Archeo n. 377, Luglio 2016

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ARCHEO 377 LUGLIO 2016

I MISTERI DI MURLO

I MISTERI DI MURLO

L’ ENIGMA

DELL’ ETRUSCO COL CAPPELLO DA

BETLEMME

COWBOY

MARCHI DI FABBRICA

BETLEMME

LE RIVELAZIONI DELLA MISSIONE ITALIANA SPECIALE SUDAN

NEL RECINTO DEI MISCREDENTI

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SPECIALE MISSIONE IN SUDAN

Mens. Anno XXXII n. 377 luglio 2016 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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EDITORIALE

UN LUOGO IN CUI TORNARE Ingrid Edlund-Berry è un’elegante signora svedese, di professione archeologa. Vive ad Austin, nel Texas, dove ha insegnato studi classici nella locale Università, della quale è oggi Professore emerito. In Italia viene ogni anno, a Roma – con tappa obbligata all’Istituto Svedese di Studi Classici –, ma, soprattutto, a Murlo, un minuscolo borgo medievale nella campagna senese: «Mio marito, che ama molto viaggiare – spiega nell’intervista che pubblichiamo alle pp. 48-51 –, mi chiede il motivo per cui torno sempre in Italia e negli stessi luoghi invece di andare in Paesi non ancora visitati. Gli rispondo che la novità del viaggio è data dal fatto che vi scopro ogni volta aspetti diversi». In verità – come confessa – Ingrid Edlund non ha mai dimenticato le stagioni trascorse a Murlo una cinquantina di anni fa, a scavare il sito di Poggio Civitate. Un’esperienza epica – come ci racconta – in coincidenza cronologica con la rivoluzione che stava scuotendo le coscienze giovanili dell’Occidente, eppure da essa – in apparenza – cosí lontana. Questo luogo antico, isolato, con i suoi abitanti di allora e quelli – invisibili – del suo antichissimo passato, aveva catalizzato l’attenzione di un mondo… Anche quest’anno la professoressa Edlund è tornata a Murlo, accolta, ancora una volta, da una novità: la celebrazione del 50° anniversario dalla scoperta degli Etruschi di Poggio Civitate, nell’ambito del Festival Bluetrusco, la manifestazione diretta da Giuseppe M. Della Fina, quest’anno alla sua seconda edizione (il programma completo, con gli appuntamenti di luglio, agosto e settembre, si può consultare sul sito www.bluetrusco.land). Da quel lontano 1966, infatti, gli scavi sulla collina poco distante dal borgo non si sono mai interrotti: ce ne parla Anthony Tuck, direttore della missione archeologica dell’Università del Massachusetts, in apertura di questo numero (vedi alle pp. 32-47). A chi dei nostri lettori non conosca Murlo – con, al centro del borgo, il museo etrusco allestito nell’antico Palazzo Vescovile – rivolgiamo l’invito a compiere questo «viaggio nel passato»; certi del fatto che anche loro, come la professoressa Edlund, non potranno dimenticarlo. A destra: una statua in terracotta con il cappello «da cowboy» trovata a Poggio Civitate, Murlo. 600-550 a.C. In basso: il borgo toscano durante uno degli spettacoli organizzati in occasione del Festival Bluetrusco (entrambe le foto sono di Fabio Cappelli).

Andreas M. Steiner


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SOMMARIO EDITORIALE

Un luogo in cui tornare

SCOPERTE 3

di Andreas M. Steiner

LA NOTIZIA DEL MESE Una tavoletta in legno rinvenuta nel cuore di Londra offre la prima attestazione di Londinium, il nome della città in età romana 8

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SCOPERTE Se necessario, anche gli uomini del Neolitico combattevano: la conferma giunge dall’Alsazia 14 A TUTTO CAMPO Una nuova rubrica per parlare d’archeologia soprattutto a chi pensa di affrontarne lo studio 18 PAROLA D’ARCHEOLOGO Archeologi chini sul tavolo da disegno: un’immagine che il progetto ArchAIDE vuole trasformare in un ricordo

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di Anthony Tuck, con un’intervista di Giuseppe M. Della Fina a Ingrid Edlund-Berry e Jean MacIntosh Turfa

Attualità

NOTIZIARIO

L’enigma di Poggio Civitate

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Lo spettacolo della preistoria

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di Stefano Mammini

MOSTRE

SCAVI

Betlemme prima di Davide

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L’invenzione della tracciabilità

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di Lorenzo Nigro

a cura di Stefano Mammini, con testi di Lucrezia Ungaro e Simone Pastor

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RESTAURI

Un naoforo per due 20

PARCHI ARCHEOLOGICI

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di Daniela Picchi In copertina particolare di un acroterio in terracotta raffigurante un uomo seduto su un trono con copricapo, da Poggio Civitate (Murlo). 600-550 a.C.

Anno XXXII, n. 377 - luglio 2016 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli,

Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Eugenio Fantusati è membro dell’ISMEO-Associazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Danilo Mazzoleni è rettore del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana. Lorenzo Nigro è professore associato di archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente Antico e archeologia fenicio-punica presso «Sapienza» Università di Roma. Daniela Picchi è conservatore della sezione egiziana del Museo Civico Archeologico di Bologna. Filli Rossi è archeologa. Anthony Tuck è professore associato di archeologia alla University of Massachusetts. Andrea Zifferero è professore associato di etruscologia e antichità italiche e di musealizzazione e gestione del patrimonio archeologico all’Università di Siena. Illustrazioni e immagini: Cortesia The Poggio Civitate Archaeological Project: copertina e pp. 32-33, 34, 35 (destra), 36-47 – Fabio Cappelli: p. 3 – Cortesia MOLA (Museum of London Archaeology): pp. 8-10 – Cortesia Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell’Etruria Meridionale: p. 12 – Cortesia Soprintendenza Archeologia delle Marche: p. 13 – Cortesia Inrap: Philippe Lefranc: pp. 14 (alto), 15 (alto); Michel Christen: p. 14 (basso) – Doc. red.: pp. 15 (basso), 92 (alto e centro), 93 (centro), 107, 109 – Cortesia Soprintendenza Pompei: pp. 16-17 – Cortesia Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali, Università di Siena: p. 19; Enrico Zanini: p. 18 (basso) – Stefano Mammini: pp. 20 (basso), 21, 23 (alto), 72-73, 78, 80/81 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 22, 23 (basso), 70/71, 74-77, 79, 81, 82-87 – Cortesia Göran Söderberg: pp. 35


Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Parole per un dialogo

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di Daniele Manacorda

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SCAVARE IL MEDIOEVO Quando l’edilizia è virtuosa

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di Andrea Augenti

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Magistrati o incisori?

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di Francesca Ceci

LIBRI

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SPECIALE Sudan

Nel recinto dei miscredenti

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di Eugenio Fantusati

(sinistra), 48 (sinistra), 49-51 – Cortesia «Sapienza» Università di Roma: pp. 52-54, 54/55, 56-60 – Andreas M. Steiner: p. 61 – Cortesia Museo Civico Archeologico di Bologna: pp. 63 (secondo piano, in alto), 64 (alto), 67 (alto), 68; foto M. Ravenna: pp. 62, 63 (primo piano), 64 (basso), 65, 66, 67 (basso, sinistra e destra); E. Canè: disegni alle pp. 64 (basso), 65 (basso) – Cortesia Missione archeologica ad Abu Erteila: P. Muretti: pp. 88/89, 104 (alto); S. Malykh: p. 91; E. Fantusati: pp. 94-98, 100 (basso), 101, 103, 104 (basso); M. Lebedev: p. 99; R. Lobban: p. 100 (alto); M. Baldi: p. 102 – Foto Scala, Firenze: pp. 92 (basso), 93 (basso) – Studio Inklink, Firenze: p. 108 – Cortesia dell’autore: p. 110 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 34, 55, 73 (da un originale pubblicato in Rivista Environnement, n. 4, 1997), 90. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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LA NOTIZIA DEL MESE Paolo Leonini

LA PRIMA VOLTA DI LONDINIUM NEL CUORE DI LONDRA, DURANTE UN RECENTE INTERVENTO DI ARCHEOLOGIA PREVENTIVA, È AFFIORATA UNA TESTIMONIANZA ECCEZIONALE: LA PIÚ ANTICA MENZIONE A OGGI NOTA DEL NOME CON CUI LA CAPITALE INGLESE ERA CONOSCIUTA AL TEMPO DEI ROMANI

A

Londra, a poche centinaia di metri dalla cattedrale di Saint Paul, nel centro nevralgico della finanza internazionale, la Bloomberg L.P. ha avviato nel 2010 la costruzione della sua nuova sede europea, il cui completamento è previsto nel corso del 2017. Il lotto di terreno prescelto, non lontano dalla sede precedente, si trova in Walbrook Square, un’area di estremo interesse archeologico. Qui, infatti, nel 1954, in occasione di un analogo intervento edilizio, fu scoperto un importante mitreo, databile al II-III secolo d.C.: un ritrovamento cosí entusiasmante da spingere molti Londinesi a mettersi in fila per entrare nel cantiere e ammirare i resti allora rinvenuti. Dovendo proseguire i lavori, il tempio venne poi smembrato e rimosso, per essere ricomposto a poche decine di metri di distanza. Con l’avvio del progetto edilizio di Bloomberg, nel 2011 il mitreo è stato nuovamente smontato e messo in sicurezza, con l’impegno

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Otto lettere per la storia

50 mm a ricollocarlo nella posizione originaria all’interno del nuovo complesso di uffici, in un ambiente che ne consentirà la conservazione e la valorizzazione al pubblico. Comprensibilmente, c’era quindi grande attesa per le potenzialità archeologiche dell’area, che non ha deluso le aspettative. Le indagini archeologiche preventive sono state condotte dagli specialisti del Museum of London Archaeology (MOLA), che hanno lavorato fino al 2014 nel cantiere, per poi procedere allo studio dei reperti, pubblicati in un recente volume. Dallo scavo sono emerse testimonianze importantissime, risalenti al I secolo d.C., tra cui oltre 400 tavolette da scrittura in legno, rinvenute in ottimo stato di conservazione. Grazie al terreno argilloso, infatti, reso umido dal fiume Walbrook – un corso d’acqua, oggi sotterraneo, che anticamente dominava l’area –, si sono preservate dal contatto con l’ossigeno e salvate dal decadimento. Dopo un bagno di pulitura preliminare, sono state trattate con glicole polietilenico per consolidarne la struttura in vista dell’asciugatura, ottenuta per liofilizzazione. Per quest’ultimo trattamento, i reperti sono stati

In alto: una delle botti rinvenute nell’area di Walbrook Square e dalle cui doghe si ricavavano le tavolette. Nella pagina accanto: gli archeologi del MOLA sul cantiere di scavo.

Foto e restituzione grafica della tavoletta in legno con l’iscrizione «Londinio Mogontio» in lettere capitali. Datata al 65-80 d.C. è tra le piú antiche attestazioni del nome dell’insediamento.

sottoposti a variazioni controllate di temperatura in un ambiente sottovuoto, provocando l’espulsione del contenuto acquoso dai materiali, senza metterne a repentaglio l’integrità. Sulla superficie, le tavolette presentano spesso un groviglio di segni, tracce della scrittura che veniva incisa sullo strato di cera soprastante, con uno stilo appuntito. Le tavolette erano riutilizzate piú volte, raschiando via lo strato già scritto e stendendone uno nuovo. Se questo rende oggi difficoltoso orientarsi in questo labirinto di linee – oltretutto trattandosi di scrittura in corsivo e non di lettere capitali –, consente anche di ricostruire diversi messaggi accumulati su un singolo reperto. Incaricato della decifrazione è stato Roger Tomlin, classicista dell’Università di Oxford ed esperto di grafia latina corsiva, che ha studiato approfonditamente i reperti, anche fotografati a luce radente, in laboratorio, per esaltarne ogni minimo particolare. È emozionante leggere queste parole d’uso quotidiano, che proiettano nei primi anni di vita di un insediamento romano fiorente di commerci e artigianato. Alcune iscrizioni, spiccano per importanza.

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Provviste per Londinium Foto e restituzione grafica di un’altra tavoletta in legno rinvenuta nello scavo condotto a Londra, nell’area di Walbrook Square. Datata al 62 d.C., riporta in questo caso una richiesta di provviste indirizzata da Londinium al vicino insediamento di Verulamium.

50 mm

È il caso, per esempio, di una tavoletta su cui si leggono le parole «Londinio Mogontio» («a Londra, a Mogonzio»: un indirizzo e un destinatario), che, essendo stata datata al 65-80 d.C., è diventata il piú antico riferimento alla città di Londra, che anticipa di circa 50 anni gli Annales di Tacito, assieme anche

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a un’altra, datata 62 d.C., in cui si richiede che alcune provviste vengano portate dalla vicina Verulamium a Londinium. Questa seconda testimonianza, tra l’altro, è di circa un anno posteriore alla distruzione della città causata dai ribelli guidati dalla regina Budicca, e pertanto dimostra anche

la rapidità con cui i Romani si ripresero dal colpo sofferto. Altre iscrizioni riportano i nomi di oltre 100 abitanti, tra cui bottai, mastri birrai, giudici, schiavi e soldati. Tra questi anche Iulius Classicus, un militare che capeggiò la rivolta dei Batavi (69-70 d.C.) e fu prefetto della VI Coorte dei Nerviani nei primi decenni di Londinium. Gli oltre 700 oggetti emersi dal cantiere, tra cui le tavolette, saranno allestiti nel nuovo edificio di Bloomberg assieme al mitreo ricomposto, in una mostra programmata per la fine del 2017.



n otiz iari o SCOPERTE Lazio

DALLA DEPORTAZIONE ALLA RINASCITA

N

el 265 a.C. un contingente militare inviato da Roma, su richiesta degli aristocratici di Velzna (Orvieto) che erano stati estromessi dal potere, assediò la città. L’assedio durò alcuni mesi e, nel corso degli scontri, morí il console che guidava le operazioni. Quando gli assalitori riuscirono ad avere la meglio, presero la città e la saccheggiarono. Inoltre – secondo lo storico di epoca bizantina Zonara, che aveva a sua disposizione fonti poi andate perdute – uccisero i ribelli e deportarono i cittadini superstiti e i servi in un altro luogo. Fu uno degli interventi piú duri di Roma nell’Italia centrale, deciso per vendicare la morte dal console, ma, soprattutto, al fine di terrorizzare gli Etruschi mentre i Romani si accingevano ad affrontare Cartagine nella prima guerra punica, iniziata nel 264 a.C. Gli abitanti superstiti di Velzna furono

A destra: Bolsena. I resti della torre recentemente rinvenuta, riferibile al circuito difensivo di Volsinii, la città sorta all’indomani della deportazione degli abitanti di Velzna (Orvieto). trasferiti nei pressi del lago di Bolsena, dove iniziarono a ricostruire la loro città che, all’indomani della romanizzazione, prese il nome latino di Volsinii. L’insediamento andò assumendo progressivamente una vera immagine urbana, affermandosi come centro di riferimento politico, economico e culturale per tutta l’area. La città fu dotata di mura, e scavi diretti da Enrico Pellegrini (Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell’Etruria Meridionale), con la collaborazione del Gruppo A sinistra: una foto del 1960 che mostra la poderosa muratura affiorata a seguito di un violento nubifragio che colpí Bolsena il 18 settembre di quell’anno. Si possono vedere alcune lettere incise sui blocchi.

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Archeologico Velzna, hanno recentemente riportato alla luce i resti di una torre monumentale eccezionalmente ben conservata. Già nel 1960, nella stessa area, un violento nubifragio, aveva fatto affiorare tratti di mura possenti, con segni di lettere. La torre presenta una forma quadrangolare (5,50 x 5,50 m) e risulta collegata a un muro di 10 m di lunghezza; ne sono stati recuperati 13 filari, composti da conci di tufo lunghi 80 e alti 50 cm: l’altezza complessiva è perciò pari a ben 6,50 m. Vale la pena di ricordare che, in precedenza, un’altra torre quadrangolare (7 x 7 m) era stata rinvenuta in località La Pescara, ma si conservava soltanto sino al piano basamentale. Lo studio dei materiali ritrovati è solo all’inizio: al momento, sembra verosimile che la torre sia stata eretta tra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C. e che sia rimasta in funzione sino alla metà del I secolo a.C., quando venne obliterata nell’ambito di un riassetto urbanistico generale dell’area. Non lontano, stando ai resti recuperati, doveva trovarsi un’officina in cui si lavorava l’osso. Giuseppe M. Della Fina


SCAVI Marche

ALLE ORIGINI DI SENA GALLICA

P

iazza Garibaldi, nel cuore dell’antico nucleo urbano di Senigallia (Ancona), è stata oggetto di recenti sondaggi archeologici, condotti nell’ambito del progetto Archeologia Urbana a Senigallia, che mira allo studio complessivo della realtà urbana della piú antica colonia di diritto romano fondata in Adriatico, Sena Gallica, dalla nascita, agli inizi del III secolo a.C., fino alle grandi trasformazioni urbanistiche avvenute tra Sette e Ottocento. «Dopo l’eliminazione dei primi livelli di interro – spiega Maria Raffaella Ciuccarelli, della Soprintendenza Archeologia delle Marche – sono emerse alcune semplici strutture in mattoni, riferibili a età tardo rinascimentale: l’area della piazza, come risulta anche dalle fonti documentarie dell’XI-XII secolo, dal Medioevo in poi era occupata dai cosiddetti “Prati della Maddalena”, una vasta area suburbana, coagulata intorno alla chiesa della Maddalena, occupata da orti e pascoli, con pochissime e semplici abitazioni

(come sono appunto quelle rinvenute). Piú in basso sono emersi i primi livelli attribuibili a età altomedievale e forse tardo-antica: si tratta di rioccupazioni «tarde» di edifici piú antichi, riferibili a età pienamente romana, in cui sono anche state ricavate alcune sepolture (come spesso succede quando viene meno il controllo centrale delle aree pubbliche). Le sottostanti fasi romane si sono rivelate di grandissimo interesse: è stata messa in luce la porzione di un edificio, probabilmente di grandi dimensioni, impostato su colonne. Davanti a questa struttura, verosimilmente pubblica, è stato rinvenuto un tratto di basolato stradale, intaccato da interventi di età rinascimentale, ma sufficiente a ricostruire l’andamento della sede stradale antica, obliqua rispetto In alto: Senigallia. Il cantiere di scavo aperto in piazza Garibaldi. A sinistra: un momento delle indagini, che, come mostra la foto, hanno intercettato anche alcune sepolture.

all’attuale piazza Garibaldi. Ma il dato forse piú straordinario è emerso proseguendo lo scavo verso il basso: al di sotto di queste strutture, dopo un riporto di materiale spesso almeno 1 m, sono state rinvenute le fasi piú antiche del sito, attribuibili ai primi momenti della città (III secolo a.C.). Si tratta proprio del momento “fondativo” della colonia che, come già immaginavamo, è stata fondata in un ambiente umido e instabile, su una platea di poco rialzata sul livello del mare e interamente circondata dalle acque (il fiume Misa e il torrente Penna). Tra queste primissime tracce dell’arrivo dei Romani spicca un canale di drenaggio in blocchi di arenaria gialla, vera e propria “infrastruttura” destinata a bonificare e rendere praticabile l’area prescelta per l’insediamento». Giampiero Galasso Errata corrige con riferimento all’articolo Nella valle del vino etrusco (vedi «Archeo» n. 376, giugno 2016) desideriamo precisare che le foto alle pp. 70 (centro e in basso, in secondo piano), 70/71 e 79 sono di Carlo Bonazza. Della mancata attribuzione ci scusiamo con l’interessato.

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n otiz iario

SCOPERTE Francia

VIOLENZA CIECA

P

astori, agricoltori, ma, all’occorrenza, anche guerrieri: è ormai questa la «nuova» immagine degli uomini del Neolitico. L’ultima testimonianza, in ordine di tempo, giunge dalla Francia: nel sito di Achenheim, localizzato una ventina di chilometri a ovest di Strasburgo, indagini condotte da una équipe dell’Inrap (Institut national de recherches archéologiques préventives) hanno infatti portato alla scoperta di una grande fossa

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In alto: Achenheim (Alsazia, Francia). Il silos adibito a fossa comune, con i resti di 10 individui. 4400-4200 a.C.. A destra: particolare del cranio di un uomo adulto vistosamente fratturato.


TOSCANA

Poker per Marsiliana

In alto: Achenheim. Ossa di un arto superiore con molteplici fratture. di forma circolare, al cui interno giacevano i resti di sei individui (cinque adulti e un adolescente), che vi furono gettati senza particolari riguardi e sono dunque interpretabili come una sepoltura. Inoltre, a conferma delle prime impressioni, è venuta l’analisi degli scheletri, che seppure completi, conservano tracce di numerose fratture, patite da mani, piedi, costole, clavicole, crani e mandibole. I malcapitati furono dunque vittime di una furia cieca, che non risparmiò anche altri quattro individui, dei quali sono state invece recuperate solo parti dello scheletro. Questa sorta di ossario si inquadra nel contesto di un vasto abitato, protetto da un poderoso fossato, nel quale sono stati localizzati oltre 300 silos, perlopiú utilizzati come depositi di derrate alimentari. La frequentazione dell’insediamento si colloca tra il 4400 e il 4200 a.C. (periodo che, in questa zona, corrisponde al Neolitico Medio) e la presenza della struttura difensiva conferma che doveva trattarsi di un momento di particolare instabilità, che indusse gli abitanti del villaggio a proteggersi. I corpi furono dunque ammassati in uno dei silos, una struttura di forma circolare (il

diametro è pari a 2,5 m circa), senza curarsi, come già detto, della loro deposizione: alcuni giacevano sul dorso, altri sul fianco e non mancano i casi in cui le membra di questi disgraziati finirono con l’intrecciarsi. Particolari che possono forse essere spiegati con la volontà di accanirsi anche sui cadaveri dei rivali uccisi. È peraltro interessante osservare che le nuove testimonianze restituite dallo scavo di Achenheim si inseriscono in un contesto nel quale già si conoscevano attestazioni simili, come per esempio a Talheim, nella vicina Germania, dov’era stata trovata una fossa comune contenente i resti di una trentina di individui (vedi «Archeo» n. 281, luglio 2008). Se non vi sono dubbi sulla violenza dell’episodio, appare al momento piú difficile stabilire se si sia trattato di un evento isolato o di un episodio maturato nell’ambito di un conflitto piú vasto. Sarebbe insomma azzardato ipotizzare che già nel Neolitico si combattessero guerre vere e proprie, ma appare altrettanto difficile alimentare il mito di un’epoca in cui la scoperta dell’agricoltura e dell’allevamento, consentendo un formidabile balzo in avanti nelle strategie di sopravvivenza, avrebbe favorito l’indole pacifica dell’uomo. Stefano Mammini

Dal prossimo 23 luglio, una piacevole occasione estiva per approfondire le radici etrusche della Maremma toscana e, al contempo, apprezzarne le bellezze del territorio è senz’altro quella offerta dalla mostra «Marsiliana d’Albegna. Dagli Etruschi a Tommaso Corsini». Un progetto espositivo sviluppato in quattro sedi, per raccontare al pubblico i risultati di oltre un decennio di ricerche condotte nell’importante sito archeologico. Nel tempo di uno o due giorni i visitatori potranno seguire un itinerario che li porterà da Grosseto (Museo Archeologico e d’Arte della Maremma di Grosseto) a Manciano (Museo di Preistoria e di Protostoria della Valle del Fiora), passando per Scansano (Museo Civico Archeologico e della Vite e del Vino) e Marsiliana (Sala del Frantoio, entro la proprietà Corsini in Località Dispensa). Le mostre rimarranno aperte fino al 31 gennaio 2017. Qui sotto: Marsiliana d’Albegna, necropoli dei Piani di Perazzeta. Il tumulo Brizzi 2 in corso di scavo.

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

PAESAGGI SOTTO CENERE L’ANTIQUARIUM DI BOSCOREALE ESPONE REPERTI DAVVERO UNICI, PROVENIENTI DAI MAGGIORI SITI VESUVIANI E CONSERVATISI «GRAZIE» ALL’ERUZIONE DEL 79 D.C., TRA CUI SEMI, FRUTTI, CESTI IN FIBRA VEGETALE...

I

resti di un fusto di cipresso d’età romana recuperato presso le rive del fiume Sarno, impiantato per regolarizzare il paesaggio fluviale, sono eccezionalmente conservati, con il loro fitto intrico di radici, all’inizio del percorso espositivo di un museo tanto unico, per classi di reperti custodite, quanto poco conosciuto. L’Antiquarium di Boscoreale si trova accanto alla villa rustica «della Regina», la sola realtà produttiva agricola interamente conservata del territorio pompeiano – ora in restauro –, e spiega la vita e le attività svolte in un ambiente particolarmente favorevole allo sfruttamento umano.

Tutti i reperti illustrati sono esposti nell’Antiquarium di Boscoreale «Uomo e ambiente nel territorio vesuviano». A destra: resti di melograni, dalla villa di Oplontis. Boscoreale. In basso: frammento di anfora con resti di garum, salsa a base di pesce. All’interno del museo il visitatore si immerge fra contesti e reperti di ogni genere, molti di natura organica, straordinariamente conservati sotto la coltre di cenere e di lava e recuperati durante gli scavi effettuati tra Otto e Novecento in alcune case di Pompei, nelle ville rustiche e signorili di collina e in altri centri, come Ercolano e Stabiae. Un’esposizione nella quale si concentrano testimonianze che illustrano il tenore di vita, le condizioni economiche, gli usi e i costumi degli abitanti di questo variegato comprensorio. Piú che in ogni altro sito vesuviano,

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a Boscoreale possiamo osservare la ricostruzione di una stratigrafia che chiarisce l’azione dei flussi piroclastici dell’eruzione che si è abbattuta nell’area nel 79 d.C.: a testimonianza della furia distruttiva del vulcano resta anche il calco di un albero (forse un noce) situato davanti all’ingresso della villa «della Regina», violentemente piegato dall’evento distruttivo. Il sito costituisce quindi un luogo privilegiato per tutti coloro che sono interessati alle vicende del vulcano – in particolare per sismologi e vulcanologi –, per studiare i processi dell’eruzione


A sinistra: pigne e pinoli carbonizzati. In basso: campione di un cumulo di fieno ritrovato nella villa di Oplontis. alternati a colture. Infine i monti, con i loro fitti boschi (Vesuvio e Lattari) popolati da animali selvatici quali cervi, caprioli, cinghiali, uccelli e piccoli mammiferi. Il loro sfruttamento forniva soprattutto legname, frutti selvatici e piante medicinali. Un notevole esempio di legno antico (acero) è una tavoletta cerata con un’ordinanza arbitrale di fissazione di un’udienza presso il foro di Puteoli-Pozzuoli, rinvenuta pliniana e delle sue devastazioni verso la città di Pompei. Un progetto di valorizzazione del complesso di Boscoreale, diretto da Anna Maria Sodo, prevede ora collegamenti con la nuova stazione della Circumvesuviana e la realizzazione di una passeggiata archeologica di raccordo con la Villa dei Misteri di Pompei. Il percorso espositivo dell’Antiquarium, denominato «Uomo e ambiente nel territorio vesuviano», si articola in due capitoli principali: il primo è dedicato alla ricostruzione del paesaggio e dell’economia dell’area prima dell’eruzione, il secondo alle numerose ville e fattorie costruite nella zona. La prima sezione si rivela interessante per la qualità e la suggestione dei resti connessi alle attività quotidiane di sfruttamento delle risorse naturali disponibili. Qui troviamo la ricostruzione dei diversi contesti ambientali caratteristici della fascia meridionale del Vesuvio: dal pescoso mare di quest’angolo di golfo alla costa, con la foce del fiume Sarno, documentati da resti di fauna marina (mitili, patelle, ricci di mare, cipree, pesci) utilizzata come cibo, utensili e amuleti; e poi arnesi da pesca, un’anfora con garum (la salsa a base di pesce di

cui i Romani erano grandi consumatori) all’interno e avanzi botanici quali pini, giunchi e canne. Si passa poi alla fertile pianura fluviale, le cui acque erano popolate da molluschi eduli, con attrezzi agricoli, un cesto di vimini perfettamente conservato e un campione di cumulo di fieno ritrovato nella villa di Oplontis. La fascia collinare è invece rappresentata dai resti di varie colture, su tutti i rinomati vigneti con acini d’uva e anfore vinarie, ma anche residui di olive e di frutta; un campione di erba da Terzigno rivela invece la presenza di estesi prati

nel complesso extraurbano pompeiano di Moregine, all’interno di un vero e proprio archivio privato appartenente alla agiata famiglia dei Sulpicii.

DOVE E QUANDO Antiquarium Nazionale «Uomo e ambiente nel territorio vesuviano» Boscoreale, via Settetermini 15 Orario dal 1° aprile al 31 ottobre: tutti i giorni, 8,30-19,30 dal 1° novembre al 31 marzo: tutti i giorni, 8,30-17,00; chiuso il 1° gennaio e il 25 dicembre Info www.pompeiisites.org

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A TUTTO CAMPO Andrea Zifferero

L’ARCHEOLOGIA CHE VERRÀ DIAMO VOLENTIERI INIZIO A UNA NUOVA SERIE, CURATA DAL DIPARTIMENTO DI SCIENZE STORICHE E DEI BENI CULTURALI DELL’UNIVERSITÀ DI SIENA. PER RIFLETTERE SULLE PROSPETTIVE DELL’INSEGNAMENTO E DELLA RICERCA, SOPRATTUTTO A BENEFICIO DEGLI ASPIRANTI ARCHEOLOGI

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l cortese ma insistente invito del direttore di «Archeo» non mi ha lasciato scelta. Da tempo Andreas Steiner mi invitava a scrivere su temi che introducessero nella teoria, nell’evoluzione e nel futuro possibile delle discipline archeologiche, partendo dalla formazione che si riceve nell’Università. Ho rifiutato piú volte, accampando il fatto che sono approdato tardi all’insegnamento universitario, che le mie radici affondano nell’associazionismo e non nel mondo accademico, che tutta la mia storia di archeologo è stata spesa tra scavi, allestimento di musei, progettazione e costruzione di parchi. L’occasione però è arrivata e questa volta non mi posso sottrarre: gli archeologi del Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena mi hanno affidato il coordinamento del Corso di Laurea Magistrale in Archeologia, un’esperienza di grande impegno, che mi ha proiettato dalle lezioni in aula e dall’assistenza per le tesi alla gestione complessiva della didattica e del corpo docente, al contatto quotidiano con le necessità degli studenti, alla costruzione e alla promozione dell’offerta formativa del Corso.

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La prima conseguenza è un confronto continuo con chi in aula introduce i principi delle teorie archeologiche, portandole con gli allievi fino ai livelli piú avanzati.

UNA PROFESSIONE CHE CAMBIA Ne è nata una positiva discussione con i colleghi che ha prodotto molte riflessioni e un’idea. Perché non offrire a chi legge «Archeo» una visione a piú voci sul mondo dell’insegnamento, rispetto alla necessità di formare i futuri archeologi? Perché non tentare di proporre al lettore una professione che cambia, perché cambia, o almeno si modifica, il metodo archeologico, anche rispetto alle esigenze del mondo di oggi? Come sono sollecitati dalla società contemporanea gli archeologi che lavorano negli Atenei a contatto con gli studenti e come si mettono in gioco per rinnovare le discipline insegnate? Se di nuovo richiamo l’esperienza personale, almeno la metà degli insegnamenti dell’odierno Corso di Laurea senese non esistevano quando ero studente alla «Sapienza» di Roma: io stesso oggi insegno una materia, Musealizzazione e Gestione del Patrimonio Archeologico, di cui

non ho potuto seguire alcun corso da studente, semplicemente perché non c’era. L’Università di Siena è senza dubbio un osservatorio privilegiato: qui, negli anni Settanta, si è sviluppato il metodo dello scavo archeologico, sostenuto dal contatto fecondo con l’ambiente anglosassone; qui è cresciuta la ricerca di superficie, con la finalità di capire la struttura e le forme dei paesaggi archeologici; qui è nata l’archeologia medievale, dalla fusione tra la ricerca storica e il metodo archeologico dell’archeologia classica; qui si è


A destra: Marsiliana d’Albegna (Manciano, Grosseto): la camera di una tomba etrusca a circolo in corso di scavo. Nella pagina accanto, in basso: Vignale (Piombino, Livorno): studenti di archeologia fanno pratica con le riprese zenitali dello scavo, che interessa un insediamento collegato alla via Aurelia occupato dalla metà del II sec. a.C. al VI-VII secolo d.C. sviluppata l’informatica applicata all’archeologia. Solo per citare alcune delle linee che hanno per lungo tempo innervato il mondo archeologico italiano e che alimentano ancora oggi la discussione sul metodo. Gli ultimi trent’anni del Novecento hanno rappresentato una fase di crescita dell’archeologia nel nostro Paese. I cantieri archeologici hanno indagato come mai prima la complessità delle stratificazioni nelle città italiane; molti e complessi cantieri di restauro hanno monitorato lo stato di salute dei monumenti assediati dal traffico; persino i mari italiani sono diventati oggetto di ricerca, con il recupero di relitti di navi cariche di merci pregiate; sono stati aperti i primi parchi archeologici e sono stati riallestiti i grandi musei; sono riprese, con nuovi obiettivi, le missioni archeologiche nei Paesi del Mediterraneo, ma anche in Oriente e nell’Asia, numerosi e affollati convegni hanno affrontato i grandi temi dell’archeologia. Negli stessi anni le associazioni culturali hanno moltiplicato i soci, sensibilizzandoli alla conoscenza e alla conservazione del patrimonio culturale e le prime riviste di divulgazione dell’archeologia sono arrivate nelle edicole. Poi, sottile e penetrante, con l’avvio del nuovo secolo, il manifestarsi progressivo della crisi che ha colpito il nostro settore: il crollo del sistema di finanziamento delle banche e delle fondazioni, da

In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca.

sempre panacea della ricerca universitaria; le difficoltà delle Università, con l’invecchiamento del corpo docente e il mancato ricambio generazionale; i tagli del finanziamento pubblico alle Soprintendenze archeologiche, con la drastica diminuzione dei cantieri affidati alle cooperative di archeologi e al folto numero di collaboratori a contratto, solo per citare alcuni dei problemi piú sentiti nel settore, in parte avvertiti anche nel resto d’Europa.

NUOVI ORIZZONTI Meno di dieci anni difficili hanno di fatto ridimensionato e ridisegnato il tradizionale campo di applicazione dell’archeologia. La formazione universitaria deve tenere presenti queste difficoltà e reagire con gli strumenti di cui dispone: la responsabilità è quella di formare giovani che abbiano piena consapevolezza di interagire con il passato in funzione del presente, a tutti i livelli, e siano capaci di aprire nuovi orizzonti alla professione, fatta non piú soltanto, o in prevalenza, di scavi, studio in biblioteca e pubblicazioni. Con i colleghi senesi, e con Mara Sternini in particolare, ci siamo cosí cimentati nel costruire una rubrica che accompagnerà i lettori di

«Archeo» per alcuni mesi all’interno dell’Ateneo: apriremo con lo studio della ceramica romana e proseguiremo con il ruolo dell’archeologia nella pianificazione del paesaggio contemporaneo; con la divulgazione e la comunicazione; con l’analisi della sostenibilità dell’ambiente attraverso la prospettiva archeologica; con l’uso delle applicazioni tecnologiche e molto altro ancora. L’idea è di creare un filo diretto soprattutto con i lettori piú giovani, perché possano essere stimolati e coltivare un interesse verso i temi dell’archeologia senese, cogliendone gli aspetti innovativi: gli autori dei singoli contributi potranno essere contattati attraverso la posta elettronica e/o la pagina Facebook di «Archeo» e forniranno in calce al contributo qualche lettura selezionata. Secondo l’archeologo americano Kent Flannery, l’archeologia è la cosa piú divertente che si può fare con i vestiti addosso: mi permetto di aggiungere che è anche la disciplina che consente di avvicinarsi e di operare in ogni settore delle scienze, innovando metodi, conoscenze e prospettive, senza mai annoiarsi. Io, almeno, mi sono sempre divertito. (andrea.zifferero@unisi.it)

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

DALLA MATITA AL TABLET L’INFORMATICA RINSALDA IL SUO LEGAME CON L’ARCHEOLOGIA E PROPONE UN RIVOLUZIONARIO SISTEMA DI DOCUMENTAZIONE E CATALOGAZIONE DEI REPERTI CERAMICI. FAVORENDO LA CONDIVISIONE DELLE CONOSCENZE

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a documentazione dei reperti, uno dei momenti essenziali della ricerca archeologica, è un lavoro lungo e minuzioso. Mira a ridurne sensibilmente i tempi (e i costi) il progetto ArchAIDE (Archaeological Automatic Interpretation and Documentation of cEramics), finanziato dalla Comunità Europea nell’ambito del programma Horizon 2020, con circa 2,4 milioni di euro. Il progetto, avviato in questi giorni con durata triennale, è coordinato dal Dipartimento di Civiltà e forme del sapere dell’Università di Pisa e coinvolge cinque Paesi. Ce ne parla Francesca Anichini, archeologa del laboratorio di metodologie digitali applicate all’archeologia (MAPPA)

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dell’Università di Pisa. «Partner dell’iniziativa – spiega l’archeologa – sono il CNR-ISTI (Istituto di scienze e tecnologie dell’informazione) di Pisa, le Università di Tel Aviv, York, Barcellona e Colonia, nonché tre imprese, una italiana (Inera) e due spagnole (Baraka e Elements). Svilupperemo una App altamente innovativa, accessibile su tablet, che riconosce automaticamente i frammenti ceramici sullo scavo. L’obiettivo è ridurre tempi e costi di una parte fondamentale del lavoro degli archeologi, attraverso uno strumento utilizzabile con facilità, direttamente sul campo e in ogni parte del mondo». Potrebbe, quindi, svanire per sempre l’incubo di ogni archeologo,

cioè quello di passare ore a disegnare frammenti e sfogliare pile di libri? «Scopo del progetto è proprio quello di semplificare la vita degli archeologi, in particolare di quelli che operano sul campo. Con la metodologia tradizionale servono tempi molto lunghi per avere informazioni su un frammento. Le conoscenze disponibili sono esclusivamente cartacee: per stabilire dove un reperto sia stato prodotto o quale viaggio abbia fatto, si devono sfogliare centinaia di cataloghi. Una ricerca che si svolge in biblioteca, dunque post scavo, con tempi biblici. Per non parlare del disegno e della schedatura dei pezzi. ArchAIDE vuole velocizzare i processi dello


A COLLOQUIO CON MARIA LETIZIA GUALANDI

L’archeologia fa il verso a CSI Maria Letizia Gualandi insegna metodologia della ricerca archeologica presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa ed è responsabile scientifico del progetto ArchAIDE. Abbiamo raccolto anche il suo parere. Professoressa, con il vostro progetto è in arrivo una rivoluzione per l’archeologo? «Si può certo parlare di rivoluzione, ma non dal punto di vista del metodo. La metodologia rimane quella: lo studio della ceramica è il caposaldo a cui agganciare l’interpretazione storica e la datazione dei contesti archeologici. L’idea non è creare uno strumento che complichi ulteriormente la vita, già complicata, dell’archeologo, ma un mezzo innovativo che possa velocizzare compiti ingrati, che oggi richiedono una quantità enorme di tempo e competenze altamente specializzate. Con ArchAIDE, il riconoscimento della ceramica potrà essere fatto sul campo, in modo da guidare le operazioni di scavo». Qualcosa di simile al sistema di riconoscimento automatico degli individui reso popolare dalla serie televisiva CSI? «L’idea è proprio quella dei film polizieschi americani, in cui basta inserire l’impronta digitale di una persona per conoscerne tutto, dal numero di scarpe al segno zodiacale. Abbiamo pensato un sistema che permetta all’archeologo, ovunque si trovi, dal deserto del Maghreb all’Anatolia, di immettere la foto di un pezzo e ottenerne in tempo reale l’identificazione». Il progetto è anche un modo per mettere in comune il sapere su scala globale, diffondendo una piú ampia cultura della condivisione delle risorse, della ricerca e della conoscenza… «Esatto. Il sistema, infatti, è open data: è pubblico e utilizzabile in tutto il mondo da chiunque vi acceda. Inoltre, si auto-alimenta con i nuovi scavi in corso: ogni archeologo, inserita la foto nel database e valutate le possibilità offerte dalla macchina, se accetta l’identificazione del frammento, un minuto dopo la rende visibile a chiunque si connetta. È possibile, inoltre, inserire informazioni per creare una specie di “carta di identità” del reperto, che rimarrà nel sistema a nome dell’archeologo che l’ha generata. Ogni scheda, nel tempo, può essere affiancata dalle annotazioni di altri studiosi, in modo da ripercorrere le tappe che hanno portato al processo decisionale. Questo vuol dire condividere e innovare, ma senza sconvolgere la metodologia».

studio della ceramica attraverso l’ausilio della tecnologia». Come funziona? «Con una App utilizzabile anche da uno smartphone, l’archeologo fotografa il frammento cosí come lo trova sullo scavo e poi, grazie a una tecnologia touch, ne traccia il profilo con il dito sul tablet e immette le informazioni in un database. Il sistema contiene tutti i cataloghi ceramici editi, che verranno scansionati in modo semiautomatico passando dalla

forma cartacea a quella digitale. Quando immagine e disegno del pezzo vengono inseriti, si attiva un processo di matching, cioè di ricerca dei reperti confrontabili, e il sistema fornisce un primo range di risultati, indicando classe, tipologia e datazione del frammento, oltre che la sua distribuzione geografica». Poi, però, sta all’archeologo dire se la macchina ha ragione? «Certo. L’archeologo può validare o meno i risultati. Se li conferma,

In alto e nella pagina accanto, in basso: un colpo d’occhio tipico di molti scavi archeologici: frammenti ceramici lasciati ad asciugare nei setacci dopo il lavaggio, prima d’essere avviati ai laboratori, nei quali si procederà alla loro documentazione e catalogazione. avrà automaticamente una scheda del pezzo. Questo vuol dire rivoluzionare il lavoro sul campo, non sul fronte della metodologia, ma su quello dei tempi e dei costi. Le informazioni contenute nel sistema, poi, sono accessibili a tutti. Se l’archeologo accetta l’identificazione del frammento, arricchisce il database e l’utente successivo ha accesso in tempo reale a quella scheda. Ogni reperto, inoltre, è geo-referenziato: gli archeologi, infatti, con il Gps, possono localizzare i frammenti direttamente dallo scavo, creando una mappa della distribuzione delle classi ceramiche su scala globale. ArchAIDE vuole fornire un unico strumento a tutti gli archeologi del mondo, ma anche a curatori di musei, studenti e professori universitari».

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ZUGLIO (UDINE)

Una lunga frequentazione Un intervento di archeologia preventiva condotto dalla Soprintendenza Archeologia del Friuli-Venezia Giulia in località Ruvine, presso Zuglio, ha evidenziato ripetute fasi di frequentazione. In età protostorica, il sito fu utilizzato come punto di avvistamento; successivamente, in età romana, vi furono costruiti edifici di un certo rilievo, testimoniati dal ritrovamento di vasellame fine da mensa e intonaco affrescato, finora inediti al di fuori del centro di Iulium Carnicum.

ROMA

I ricami del guerriero L’Istituto Superiore Centrale per il Restauro ha ultimato l’intervento sui 70 frammenti di tessuto rinvenuti nel 2012 nella tomba 382 della necropoli in località Cavallerizza, nell’area dell’abitato daunio a nord-est della città romana di Herdonia (Puglia). In lana, decorata con filo di lino, la stoffa (foto qui sotto) proveniva dalla veste da parata di un nobile: databile al IV secolo a.C., è il piú antico ricamo mai rinvenuto in Italia. Dopo una breve esposizione, i reperti faranno ritorno nella loro terra d’origine.

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MUSEI Napoli

ETRUSCHI A POSILLIPO

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razie all’accordo tra le Soprintendenze archeologiche della Toscana e di Napoli e l’Ordine dei Chierici di San Paolo, Barnabiti, è approdata nella città partenopea la prestigiosa collezione di archeologia di padre Leopoldo De Feis. La raccolta era precedentemente esposta nello storico collegio «Alla Querce» di Firenze, retto dai Barnabiti fiorentini, fino a quando la sorte dell’istituto, chiuso definitivamente nel 2000, ne ha causato il trasporto nella casa barnabita di Firenze, dove per carenza di spazio non era piú fruibile. Gli Enti di tutela e l’Ordine religioso, proprietario della collezione, hanno individuato nell’Istituto Denza, retto sempre dai Barnabiti, gli ambienti idonei a ospitare i materiali. L’esposizione dei 900 reperti si snoda in tre sale, con un importante corridoio di ingresso, nel quale ha trovato posto il sarcofago etrusco-ellenistico di produzione tuscaniese, acquistato da padre De Feis sul mercato antiquario fiorentino. Nella prima sala sono riuniti i reperti del nucleo orvietano della collezione, consistenti in ceramiche appartenenti a corredi tombali del VI-IV secolo a.C.: buccheri e vasi di importazione greca, ionica e lidia. Il percorso orvietano prosegue nella seconda sala del museo dove sono raggruppate le testimonianze etrusco-ellenistiche orvietane e quelle epigrafiche etrusche, nonché il gruppo di reperti donati dalla famiglia D’Avalos durante il periodo di convitto dell’erede Francesco, feudatario di Montesarchio. Ai reperti provenienti dagli scavi della necropoli di Montesarchio, l’antico centro proto-sannita, appartiene un gruppo di ceramiche a figure rosse di produzione

In alto: cratere con scena bacchica attribuito al Pittore di Altavilla, da Montesarchio. Napoli, Museo Archeologico Etrusco «De Feis». campana, tra le quali spiccano un cratere con scena bacchica attribuito al Pittore di Altavilla, un cratere della seconda fabbrica di Capua (Pittore della Libagione), una kylix (piatto a due manici) con frigio a cavallo e una grande fibula maschile in bronzo del tipo con arco «a ghiande» espanse. Concludono l’allestimento i raggruppamenti di materiali delle donazioni minori, provenienti da altri siti dell’Etruria come il gruppo di strigili da Talamone e gli specchi in bronzo di Sovana; non mancano, infine, materiali eterogenei da vari siti dell’Italia meridionale, come i reperti provenienti dal Napoletano, affini ai tipi noti nella Fossakultur campana dell’ultima fase dell’età del Ferro. Giampiero Galasso

DOVE E QUANDO Museo Archeologico Etrusco «De Feis» Napoli, Istituto Denza, via Coroglio 9
 Orario lu-ve, 10,00-13,30 (apertura su prenotazione) Info tel. 081 5757533


MOSTRE Puglia

QUELLA BATTAGLIA EPOCALE...

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rae spunto dal libro pubblicato nel 2008 da Paolo Rumiz (Annibale. Un viaggio) il titolo della mostra promossa e organizzata dal Comune di Barletta e che si inaugura il 2 agosto negli spazi del Castello, in occasione dell’anniversario della battaglia di Canne (2 agosto 216 a.C.): l’evento vuole rievocare la vita e l’impresa del generale punico Annibale Barca, uno dei piú grandi condottieri dell’antichità, mitica figura di riferimento nel contesto mediterraneo del III secolo a.C. La mostra è pensata come un viaggio per immagini attraverso i luoghi percorsi dal generale e filtrati attraverso la sua personalità e la sua cultura, luoghi che segnano le tappe fisiche e insieme simboliche del percorso espositivo. Il personaggio Annibale viene raccontato nella sua fisionomia di storico avversario di Roma, ma soprattutto come l’artefice di uno In basso: ritratto di Annibale, particolare dell’affresco, attribuito a Jacopo Ripanda, raffigurante la spedizione del condottiero cartaginese in Italia. XVI sec. Roma, Musei Capitolini, Sala di Annibale.

straordinario ed epico viaggio tra l’Africa e l’Europa; temi centrali del racconto sono il suo rapporto con la guerra, con i soldati, con le popolazioni italiche e, soprattutto, con i luoghi attraversati. Otto sezioni costituiscono il percorso espositivo, tra testi di approfondimento, immagini, reperti e videoinstallazioni immersive: si comincia con lo scenario mediterraneo nel III e II secolo a.C., con il ruolo di Cartagine e Roma sullo sfondo; segue un approfondimento sulla città di Annibale, Cartagine, prima tappa ideale del suo «viaggio»; di seguito il suo giuramento da bambino, un episodio destinato a segnare il suo destino; il suo epico viaggio dalla Spagna all’Italia, attraverso una lunga serie di straordinarie imprese; il drammatico scontro di Canne; gli ultimi anni in Italia e l’inizio del declino; poi la sosta nel santuario di Hera Lacinia, presso Crotone, con la dedica alla dea in greco e punico che segnò la fine di un viaggio e della sua avventura, e, infine, l’imbarco verso l’Africa e la sconfitta definitiva a Zama. Tra i reperti presenti in mostra, concessi in prestito da importanti musei italiani ed esteri, ha un ruolo importante il busto di Annibale delle Gallerie del Quirinale, per la prima volta in Puglia dopo la sua recente esposizione a Tunisi nel Museo del Bardo. Filli Rossi

DOVE E QUANDO «Annibale. Un viaggio» Barletta, Castello fino al 22 gennaio 2017 (dal 2 agosto) Orario tutti i giorni, 10,00-20,00; lunedí chiuso Info tel. 0883 578621

VULCI

Ritorno al castello Il Museo Archeologico Nazionale di Vulci e il Ponte della Badia sono stati finalmente riaperti al pubblico. Erano stati chiusi entrambi, anche se per motivi diversi: il primo per realizzare il nuovo progetto di allestimento, il secondo per risolvere gli annosi problemi causati dalle piene del fiume Fiora. Valorizzazione e tutela si sono dunque coordinate per rispondere alle esigenze del patrimonio e delle persone che possono tornare a usufruirne, condividendo le ragioni e le identità di un territorio per certi aspetti unico come quello vulcente. Superato il ponte e varcata la soglia del museo, si visitano le sale in cui regnò Luciano Bonaparte, fratello di Napoleone, ci si imbatte in ricostruzioni affascinanti, che illustrano la storia di quella che fu forse la piú florida delle città etrusche: Vulci. Non mancano elementi di novità, come il corredo di una giovane principessa etrusca vissuta intorno alla fine dell’VIII secolo a.C., caratterizzato dai gioielli che l’avevano accompagnata nella sua breve vita e rinvenuto solo pochi mesi fa nella Tomba dello Scarabeo Dorato (vedi «Archeo» n. 373, marzo 2016). Inoltre, fino al 31 gennaio 2017, il museo ospita la mostra «I misteri di Mithra», incentrata sul Mitreo di Vulci. Info: http://archeologialazio. beniculturali.it In alto: Vulci. Il Ponte e il Castello della Badia, sede del Museo Archeologico Nazionale.

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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

INCONTRI Paestum

LA «MACCHINA»DELLA BORSA È RIPARTITA

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a giovedí 27 a domenica 30 ottobre 2016 è in programma a Paestum la XIX edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico: l’area adiacente al Tempio di Cerere (salone espositivo, laboratori di archeologia sperimentale, ArcheoIncontri, ArcheoVirtual), il Museo Archeologico Nazionale (conferenze, Workshop con i buyer esteri), la Basilica Paleocristiana (conferenza di apertura, ArcheoLavoro, Incontri con i Protagonisti) saranno ancora una volta le sedi della manifestazione. La BMTA si conferma un evento originale nel suo genere: sede dell’unico salone espositivo al mondo del patrimonio archeologico e di ArcheoVirtual, l’innovativa mostra di tecnologie multimediali, interattive e virtuali; luogo di approfondimento e divulgazione di temi dedicati al turismo culturale e al patrimonio; occasione di incontro per addetti ai lavori, operatori turistici e culturali, viaggiatori e appassionati; opportunità di business nella splendida cornice del Museo Archeologico con il Workshop tra la domanda estera selezionata dall’ENIT e l’offerta del turismo culturale e archeologico. Una formula di successo testimoniato dalle prestigiose collaborazioni di organismi internazionali quali UNESCO, UNWTO e ICCROM, oltre che dalle cifre dell’ultima edizione: 10 000 visitatori, 100 espositori, 60 conferenze e incontri, 300 relatori, 120 operatori dell’offerta, 100 giornalisti accreditati. Nel sottolineare sempre piú l’importanza del patrimonio culturale come fattore di dialogo interculturale, d’integrazione sociale e di sviluppo economico, ogni anno la Borsa promuove la cooperazione tra i popoli attraverso la partecipazione e lo scambio di esperienze. Numerose le sezioni speciali: ArcheoIncontri, per conferenze stampa e presentazioni di progetti culturali e di sviluppo territoriale; ArcheoLavoro, orientamento post diploma e post laurea con presentazione

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In alto e in basso: due immagini dell’edizione 2015 della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum. Anche nel 2016 la rassegna avrà come sedi l’area adiacente al Tempio di Cerere, il Museo Archeologico Nazionale e la Basilica Paleocristiana. dell’offerta formativa a cura delle Università presenti nel Salone; ArcheoStartUp, in cui si presentano nuove imprese culturali e progetti innovativi nelle attività archeologiche; Incontri con i Protagonisti, nei quali il pubblico interviene con i noti divulgatori della TV; International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», il Premio, in collaborazione con la rivista «Archeo», per la scoperta archeologica dell’anno, intitolato al Direttore del sito di Palmira che ha pagato con la vita la difesa del patrimonio culturale; laboratori di archeologia sperimentale per la divulgazione delle tecnologie antiche; Premio «A. Fiammenghi», per la migliore tesi di laurea sul turismo archeologico; Premio «Paestum Archeologia», assegnato a coloro che contribuiscono alla valorizzazione del patrimonio culturale. Ospiti del salone espositivo saranno Istituzioni, Enti, Paesi Esteri, Regioni, Organizzazioni di Categoria, Associazioni Professionali e Culturali, Aziende e Consorzi Turistici e Case Editrici. Info www.borsaturismoarcheologico.it



n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

SEGUENDO LA STELLA... La cittadina palestinese che per la tradizione cristiana ha visto nascere Gesú è indagata, da Lorenzo Nigro (vedi l’articolo alle pp. 52-61) dal punto di vista archeologico; la recente scoperta di un’antica necropoli fa infatti risalire l’insediamento a un’epoca ben piú lontana, all’età del Bronzo, sul finire del III millennio a.C. Per il nostro comune sentire, tuttavia, Betlemme è associata alla Natività, per cui le molte emissioni filateliche che raffigurano scorci o monumenti della cittadina sono state realizzate quasi esclusivamente in un’ottica religiosa. Ciononostante, cercheremo di mostrare anche pezzi, per cosí dire, «laici», e cominciamo proprio con una cartolina tedesca della fine dell’Ottocento, che offre una veduta della cittadina in una luce suggestiva (1). Sempre in tema di paesaggio, ecco un francobollo del Vaticano del 1999 (2) il cui soggetto (tratto da un libro della Biblioteca Vaticana) era già stato usato dall’Autorità Nazionale Palestinese nel 1994 (3). Scorci del centro abitato sono invece ben rappresentati da un altro valore di Palestina (4) e da uno di Israele per distributori automatici (5). Ma passiamo ai francobolli quasi tutti dedicati alla Natività che hanno sfruttato il paesaggio di Betlemme. L’Australia l’ha fatto due volte: nel 1959, con i Re Magi in primo piano (6), e nel 1968, con in primo piano una finestra della basilica della Natività (7). Anche l’Inghilterra, nel 1981, ha emesso due francobolli realizzati da ragazzi, entrambi con Betlemme sullo sfondo (8-9); Malta, nel 1970, ha mostrato i pastori sullo sfondo della basilica (10) e St. Vincent con la stella cometa (11). L’ultimo è del Canada, del 1984: ancora disegni di bambini con Betlemme sotto la neve e con l’annullo primo giorno che mostra lo skyline della cittadina (12). Ora i francobolli piú «archeologici», sebbene la componente «cristiana» sia pur sempre presente. Il primo è un piccolo valore ordinario emesso dalla Palestina nel 1927, con la Tomba di Rachele (13); poi il francobollo del Vaticano del 1964, che raffigura la chiesa di Betlemme (14), e altri due dell’Autorità Palestinese del 1994, che mostrano, rispettivamente, l’ingresso della basilica della Natività (15) e un particolare dell’interno (16). IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

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Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



CALENDARIO

Italia

FIRENZE Winckelmann, Firenze e gli Etruschi

ROMA Tra Roma e Bisanzio

Il padre dell’archeologia in Toscana Museo Archeologico Nazionale Firenze, Salone del Nicchio fino al 30.01.17

La basilica di Santa Maria Antiqua e le sue pitture Foro Romano, S. Maria Antiqua fino all’11.09.16

NAPOLI Mito e natura

Capolavori della scultura buddhista giapponese Opere dal periodo Asuka al periodo Kamakura (VIII-XIV secolo) Scuderie del Quirinale fino al 04.09.16 (dal 30.07.16)

Dalla Grecia a Pompei Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.16

Qui sotto: affresco dalla Casa del Bracciale d’Oro di Pompei.

MADE in Roma

Marchi di produzione e di possesso nella società antica Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 20.11.16

ADRIA (ROVIGO) L’arte della guerra

Meraviglie dello Stato di Chu Museo Nazionale Archeologico fino al 25.09.16

Qui sopra: Shaka Nyorai (Sakyamuni). Periodo Asuka.

AQUILEIA Leoni e Tori dall’antica Persia ad Aquileia

La vita e la morte lungo il Nilo Museo Mateureka fino al 28.08.16

Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.16

BARLETTA Annibale. Un viaggio

Castello fino al 22.01.17 (dal 02.08.16)

Qui sopra: piccolo leone in oro. VI-V sec. a.C.

BOLOGNA Egitto. Splendore millenario Museo Civico Archeologico fino al 17.07.16

CORTONA Gli Etruschi, maestri di scrittura

Società e cultura nell’Italia antica MAEC, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 31.07.16 Qui sopra: affresco ESTE (PADOVA) raffigurante I suoni del Fiume Azzurro Annibale. Meraviglie dello Stato di Chu Roma, Museo Nazionale Atestino Musei fino al 25.09.16 Capitolini. A sinistra: FINALE LIGURE (SAVONA) yong Sulle orme del passato (strumento in viaggio con l’archeologo musicale). sulle Vie della Seta e delle Spezie V-III sec. Museo Archeologico del Finale a.C. fino al 02.10.16 (prorogata) 28 a r c h e o

PENNABILLI (RIMINI) Antico Egitto

Qui sotto: testa di una statua di Sekhmet.

POMPEI Egitto Pompei

Palestra Grande e itinerario negli Scavi fino al 02.11.16

Per grazia ricevuta

La devozione religiosa a Pompei antica e moderna Antiquarium degli Scavi fino al 27.11.16

RAVENNA S.I.R.I.A. (Salvezza, Illuminazione e Redenzione nell’Iconografia dell’Architettura) Mosaici pavimentali siriani TAMO, Tutta l’Avventura del Mosaico fino al 06.01.17

SANT’AGATA DE’ GOTI (BENEVENTO) Stirpe di draghi Mostra archeologica Complesso Monumentale San Francesco fino al 19.09.16

TORINO Il Nilo a Pompei

Visioni d’Egitto nel mondo romano Museo Egizio fino al 04.09.16


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Svizzera

TRENTO Ostriche e vino

GINEVRA Amazzonia

In cucina con gli antichi romani Spazio Archeologico Sotterraneo del Sas fino al 30.09.16

Francia QUINSON Gli Huaxtechi

In alto: un’immagine ispirata alla mostra di Trento.

Lo sciamano e il pensiero della foresta Musée d’ethnographie fino all’08.01.17

USA NEW YORK Pergamo e i regni ellenistici del mondo antico

Un popolo misconosciuto del Messico precolombiano Musée de Préhistoire des gorges du Verdon fino al 30.11.16

The Metropolitan Museum of Art fino al 17.07.16

Qui sotto: Friedrich (von) Thiersch, L’Acropoli di Pergamo. 1882.

Germania BERLINO Morte a Napoli

Nel 125° anniversario della morte di Heinrich Schliemann Neues Museum fino al 31.10.16

Gran Bretagna LONDRA Sicilia: cultura e conquista

PHILADELPHIA L’età d’oro del re Mida

The British Museum fino al 14.08.16

Tesori dalla Turchia antica University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology fino al 27.11.16

Città sommerse

I mondi perduti dell’Egitto The British Museum fino al 27.11.16

Grecia ATENE Un sogno tra splendide rovine... Una passeggiata nell’Atene dei periegeti, XVII-XIX secolo Museo Archeologico Nazionale fino all’08.10.16

Olanda LEIDA Storie affilate

La spada come arma e simbolo Rijksmuseum van Oudheden fino al 02.10.16 Qui accanto: spade esposte a Leida.

Qui sopra: altare in terracotta con tre figure femminili, da Gela. 500 a.C. circa.

In basso: placchetta in avorio con figure di grifi, da Nimrud.


SCAVI • MURLO

L’ENIGMA DI

POGGIO CIVITATE SU UNA COLLINA NEI PRESSI DEL BORGO TOSCANO DI MURLO, AGLI INIZI DEL VII SECOLO A.C., PRENDE FORMA UN ABITATO CHE SI CARATTERIZZA PER LA COSTRUZIONE DI UN GRANDE PALAZZO E DI UN TEMPIO IN ONORE DELLA DEA UNI. POI, IMPROVVISAMENTE E IN CIRCOSTANZE DRAMMATICHE, LA VITA SI INTERROMPE E IL SITO VIENE ABBANDONATO PER SEMPRE. DA CINQUANT’ANNI, LA VICENDA È NEL MIRINO DEGLI ARCHEOLOGI CHE, ANNO DOPO ANNO, STANNO RIUNENDO I TASSELLI DI UN PUZZLE DAVVERO AVVINCENTE di Anthony Tuck, con un’intervista di Giuseppe M. Della Fina a Ingrid Edlund-Berry e Jean MacIntosh Turfa

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S

ulla collina boscosa di Poggio Civitate, situata vicino al borgo medievale di Murlo (Siena), aleggiano da tempo leggende ed enigmi. Per mezzo secolo, gli archeologi hanno cercato di svelare i misteri che, 2600 anni fa, qualcuno aveva cercato di occultare. Il 2016 segna infatti il cinquantesimo anniversario dell’inizio degli scavi a Poggio Civitate diretti dall’archeologo statunitense Kyle Meredith Phillips (Bryn Mawr College), che li avviò su suggerimento di Ranuccio Bianchi Bandinelli, lo studioso che – per primo – negli anni Venti del Novecento aveva intuito le potenzialità dell’area (vedi box a p. 35). Le prime campagne di scavo consentirono di ritrovare le tracce di mura massicce, resti della copertura di tetti e curiose sculture in terracotta. Scoperte che diedero inizio alla lenta, ma affascinante ricostruzione della vita delle genti etrusche di Poggio Civitate svelandone aspetti sempre piú sorprendenti. E, ancora oggi, il quadro continua ad arricchirsi di nuove rivelazioni.

Sulle due pagine: una suggestiva panoramica della collina di Poggio Civitate. A destra: particolare di acroterio in terracotta raffigurante un uomo seduto su un trono con copricapo. 600-550 a.C. Murlo, Antiquarium di Poggio Civitate.

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SCAVI • MURLO

Solo dopo le prime quattro campagne di scavo Phillips poté apprezzare appieno la portata della scoperta. L’edificio era costituito da quattro ali, ciascuna delle quali misurava oltre 60 m di lunghezza. A quel tempo gli studiosi erano convinti che solo i templi fossero ornati con sculture in terracotta, ma qui si trattava di un edificio civile e quindi completamente diverso da qualsiasi santuario mai visto prima. Vennero ritrovati fregi che rappresentavano banchetti, corse di cavalli, processioni, figure in piedi o sedute e venne recuperato un sofisticato sistema di sime (cornici terminali, n.d.r.) decorate con la raffigurazione della dea etrusca Uni e di antefisse a forma di Gorgone. Le piú sensazionali sculture di Pog-

Emilia-Romagna Liguria Mas as ass a sss sa

Pist Pis Pi P i toia oi Lucc L ucc uccca

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Lazio

In alto: cartina della Toscana con, in evidenza, la localizzazione di Murlo. In basso: una suggestiva panoramica della campagna ai piedi del borgo di Murlo, arroccato sulla collina.

gio Civitate risultarono però le statue di persone con un copricapo simile a quello dei cowboy. Queste immagini evocative sedevano su troni e avevano le mani modellate in modo da tenere in mano qualcosa, che, oramai, era andato perduto. L’insieme dei reperti suggeriva una data sorprendentemente precoce per un edificio cosí monumentale e complesso.

UNA FINE IMPROVVISA Non era questo, comunque, l’unico aspetto sorprendente della struttura. Oltre alle enormi dimensioni dell’edificio e alle sue enigmatiche decorazioni, le prove raccolte sembravano testimoniare la fine improvvisa e violenta della vita sull’altura di Poggio Civitate. Le sculture che deco-

Murlo, un profilo Sul ruolo svolto da Murlo nei quasi due secoli in cui l’insediamento fu attivo e fiorente, si è discusso e si continua a dibattere. Oggi – soprattutto da parte di chi ha condotto gli scavi – s’ipotizza che il luogo possa essere stato la sede di una lega minore dove i rappresentanti piú in vista delle comunità locali si sarebbero riuniti per incontri politici e religiosi. Occasioni, durante le quali, si potevano svolgere anche giochi atletici e vere e proprie gare. Altri ritengono che possa essere stata

la residenza privata e ufficiale di un dinasta locale. Certo invece è che, verso il 530-520 a.C., l’insediamento fu distrutto: gli assalitori con ogni probabilità provenivano dalla città-stato di Chiusi che intendeva estendere il suo controllo sull’area. Nello scontro, sullo sfondo, possiamo vedere anche i contrasti sorti tra l’aristocrazia tradizionale e una nuova classe emergente che, nel capoluogo della Valdichiana, era destinata a trovare il suo campione in Porsenna. (G.M.D.F.)

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis

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L’INIZIO DELLE RICERCHE A Ranuccio Bianchi Bandinelli e Kyle Meredith Phillips venne mostrata una località sulla collina di Poggio Civitate nota agli abitanti del luogo come Piano del Tesoro, che sembrava suggerire la possibilità di scoperte significative. Proprio lí, ai margini dell’altopiano, alcuni boscaioli segnalarono una strana buca, presumibilmente scavata da un contadino alla ricerca di oggetti preziosi. Con l’assistenza e il sostegno di Bianchi Bandinelli, Phillips avviò le prime indagini proprio a Piano del Tesoro. Ciò che venne alla luce rivoluzionò le conoscenze sulla civiltà etrusca nella regione delle Crete Senesi.

ravano il palazzo erano state rimosse e ridotte in pezzi, i loro frammenti sparsi a nord e a ovest e sepolti in fosse lungo il perimetro dell’altopiano. Nonostante la collina si trovasse in una posizione vantaggiosa dal punto di vista della difesa, Poggio Civitate non venne mai piú abitato. Sulla base dei materiali recuperati, la distruzione avrebbe avuto luogo nell’ambito del terzo venticinquennio del VI secolo a.C. La vera natura di questo gigantesco In alto: Kyle Meredith Phillips in una fotografia scattata nel 1968. A destra: particolare di un acroterio in terracotta raffigurante una Sfinge. 600-550 a.C. Murlo, Antiquarium.


SCAVI • MURLO

edificio è tuttora oggetto di discussione: Phillips ha suggerito che potesse aver accolto riunioni a scopo politico, mentre altri hanno sostenuto che fosse un palazzo. Scavi ulteriori hanno rivelato una fase di frequentazione del sito che consente d’ipotizzare entrambe le funzioni. Sotto il pavimento dell’ala ovest delle strutture riferibili alla fase arcaica, gli archeologi hanno scoperto un’altra costruzione, dotata di

un tetto anch’esso provvisto di decorazioni in terracotta e che può verosimilmente essere interpretato come una residenza. La presenza di eleganti ceramiche di produzione locale o importate, calderoni in bronzo, statuette e intarsi in corno e avorio, oro e gioielli d’argento, assieme a oggetti di uso domestico piú comune, riflette la vita quotidiana dell’aristocrazia etrusca tra la metà e la fine del VII secolo a.C.

Pochi metri piú a sud di questo primo palazzo si trovarono tracce di un secondo edificio, che aveva un tetto decorato in maniera simile, ma presentava una pianta con una sala centrale grande esattamente il doppio della dimensione delle due camere che la fiancheggiavano. Purtroppo, questa seconda costruzione venne danneggiata dalla fase successiva, ma la planimetria sopravvissuta rinvia all’architettura religiosa etrusca. Se l’edificio tripartito di Poggio Civitate era un tempio, le ceramiche e gli altri reperti che da esso provengono suggeriscono che sia stato costruito nel secondo trentennio del VII secolo a.C. circa, collocandolo cosí tra i primi esempi di architettura religiosa etrusca.

IL LABORATORIO Ben presto sono emerse prove della presenza di un vasto ambiente posizionato ai margini di Piano del Tesoro, dedicato e decorato con un programma scultoreo simile agli altri due edifici di questa fase. Allungandosi per 54 m lungo l’asse est/ovest, la struttura era frequentata da artigiani specializzati nella produzione di oggetti in bronzo,

L’uomo con il cappello

A destra: ancora un’immagine dell’acroterio in terracotta raffigurante un uomo seduto su un trono con copricapo. 600-550 a.C. Murlo, Antiquarium. 36 a r c h e o

Gli scavi condotti a partire dal 1966 sull’altura di Poggio Civitate a Murlo (Siena) hanno dato risultati di grande interesse, che hanno consentito di conoscere le vicende storiche, in epoca etrusca, di un distretto territoriale rimasto in ombra durante le ricerche e gli studi del Settecento e dell’Ottocento. La loro notorietà è affidata, comunque, soprattutto al ciclo statuario che ornava la sommità dei tetti degli edifici. Tra le statue in terracotta, il tipo che ha attirato maggiormente l’attenzione degli studiosi è una figura maschile con una lunga barba e un caratteristico cappello a falde


LA SPOSA DIVINA Caratteristica principale della dea etrusca Uni, cosí come della Giunone del mondo latino (Iuno), è l’essere consorte del padre degli dèi (Tinia per gli Etruschi e Giove per i Latini) e, di conseguenza, figura esemplare di madre e di regina. Da questa condizione derivano varie attribuzioni della divinità, posta a tutela della fertilità e del matrimonio, ma anche dell’aspetto eroico e regale di principi e condottieri e perfino invocata a protezione dell’integrità di alcune importanti città d’Etruria.

nella lavorazione di osso e corno, nella filatura e tessitura della lana, nella macellazione di animali, nella conservazione e trasformazione di cereali, legumi, uva e olive, cosí come nella realizzazione di terrecotte architettoniche e ceramiche. Sebbene questo laboratorio fosse in grado di assicurare una produzione copiosa, sembra che quasi nulla di quanto prodotto a Poggio Civitate

Qui sotto: kyathos (tazza attingitoio a un manico) con l’immagine di Uni la dea etrusca della fertilità. 675-600 a.C. Murlo, Antiquarium. In basso: disegno ricostruttivo di un banchetto nel complesso palaziale di Poggio Civitate.

abbia lasciato l’insediamento. Tranne alcuni esempi di placche ossee intagliate e recuperate presso i tumuli di Montecalvario di Castellina in Chianti, tutto quel che si produceva a Poggio Civitate veniva utilizzato e consumato localmente. Un incendio improvviso e inaspettato distrusse tutti e tre questi edifici attorno alla fine del VII secolo a.C. In seguito alle distruzioni e alla successiva volontà di ricostruzione, il centro dell’altura venne livellato e preparato per un nuovo e ambizioso progetto edilizio.

I RESTI DEL VILLAGGIO Nei lunghi scavi condotti a Poggio Civitate sono state ricercate anche le prove della presenza di una popolazione di rango non aristocratico. E finalmente, dopo anni di indagini, nel corso delle campagne piú recenti sono venuti alla luce i resti di un villaggio che preserva non solo la testimonianza della vita quotidiana della gente comune che abitava a Poggio Civitate, ma anche le prove della violenza che segnò la distruzione del sito e del suo abbandono definitivo.

ampie. Un tipo di copricapo che ricorda – in effetti – quello dei cowboy, come è stato osservato, ma che è raffigurato invece anche su altre, seppure limitate, testimonianze dell’artigianato artistico etrusco. Si è discusso su chi riconoscere nel personaggio: in un primo tempo si era pensato a una divinità, poi a una figura di spicco nell’ambito della gens che controllava l’insediamento, o a un antenato divinizzato o, ancora, a un sacerdote. In proposito si può ricordare che – a quell’epoca, in Etruria – era difficile scindere l’esercizio del potere politico dallo svolgimento di funzioni a carattere sacro. (G.M.D.F.)

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Questo agglomerato di case si trovava a ovest di Piano del Tesoro su una porzione della collina gravemente danneggiata dall’erosione. Gli scavi condotti in questa zona hanno permesso di individuare varie aree nelle quali si concentrano materiali di scarto e un pozzo riempito con centinaia di frammenti di tegole. Tuttavia, fino a quando non sono state scoperte le case, non è stato possibile confrontare lo spazio nel quale vivevano gli aristocratici etruschi e quello occupato dalle persone che essi governavano. Sebbene vi fosse qualche segno di lusso, si trattava di abitazioni modeste, il cui spazio abitabile era pari a 12 mq

circa. Una modestia confermata dal confronto con lo spazio domestico del palazzo del VII secolo a.C., che risulta quindici volte superiore a quello delle case per i lavoratori e i servitori e, soprattutto, con il massiccio edificio della fase del VI secolo a.C., che a tali funzioni riservava superfici ancora piú vaste: differenze che riflettono il divario tra il potere e la ricchezza degli aristocratici di Poggio Civitate e quelli delle popolazioni circostanti.

mento politico per le regioni centrali della Penisola. L’interazione sociale ed economica con le popolazioni del bacino orientale del Mediterraneo risulta da nuovi prodotti e nuove idee d’impronta appunto orientale incorporate nel mondo materiale e spirituale degli Etruschi. Un’influenza importante è l’annessione nel pantheon etrusco di una specifica divinità, Astarte. Gli elementi di decorazione architettonica di Poggio Civitate sono legati da una tematica che concerne l’iconografia della fertilità. Le imINFLUENZE ORIENTALI In Italia, il periodo orientalizzante magini raffigurate sul tetto della (725-580 a.C. circa) rappresenta fase orientalizzante mostrano figure una fase di significativo cambia- femminili affiancate da felini con


Un incendio improvviso e le impronte sulle tegole Nel laboratorio rinvenuto sull’altura di Poggio Civitate, gli artigiani che fabbricavano le tegole di copertura, le posizionavano sul pavimento ad asciugare all’ombra del tetto. Quando il fuoco iniziò a svilupparsi, essi si precipitarono fuori per salvare se stessi e ciò che potevano. Mentre fuggivano, calpestarono la creta ancora umida. Il calore del fuoco fece cuocere l’argilla, conservando cosí le loro impronte impresse sulle tegole, che ora ci offrono una testimonianza eccezionale sui momenti finali dell’edificio e sul panico generato dalla sua distruzione.

palmette di loto fissate alla trave di colmo sovrastante. Attraverso questa combinazione di motivi decorativi si voleva rappresentare una divinità conosciuta come Uni dagli Etruschi. Uni era una dea della sessualità e

A destra: particolare di una tegola in terracotta su cui è rimasta impressa l’impronta di uno degli artigiani in fuga da un incendio. In basso: veduta di Murlo dal vicino borgo di Lupompesi.


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della fertilità, la cui iconografia nel mondo etrusco viene presa in prestito da vicine fonti orientali che tradizionalmente usavano Astarte per rappresentare la dea, con la quale Uni veniva alle volte equiparata. Una dea che è forse la piú importante nel primo pantheon etrusco. Per i primi aristocratici del Centro Italia, il tentativo di forgiare il mito di una discendenza divina era un importante strumento per giustificare la loro posizione sociale rispetto alla comunità. Allo stesso modo, era politicamente essenziale che le famiglie aristocratiche avessero un erede. E una dea come Uni, raffigurata in maniera molto visibile sui tetti degli edifici monumentali di Poggio Civitate, rispecchia entrambi questi aspetti.

MATRIMONI SACRI Alcune famiglie etrusche assimilarono la mitologia dello hierogamos, il matrimonio sacro tra un mortale e una dea della fertilità. Questa tradizione, proveniente dal Vicino Oriente, fu introdotta tra gli Etruschi alla fine dell’VIII secolo a.C. e divenne ben presto un aspetto importante dell’iconografia politica, permettendo cosí agli aristocratici di presentarsi come discendenti diretti dell’unione tra il leader e la dea, che ne consolidava l’autorità all’interno della comunità. In effetti, una simile narrazione era cosí potente ed efficace da durare nel tempo. Per esempio, fu uno degli argomenti a cui fecero ricorso Giulio Cesare e Ottaviano Augusto durante la loro ascesa al potere nella Roma repubblicana: la famiglia giulio-claudia, infatti, ri40 a r c h e o

Gli elementi architettonici Il complesso palaziale di Murlo si caratterizza per la ricchissima decorazione in terracotta. Non soltanto le celebri statue maschili e femminili posizionate originariamente sulla sommità dei tetti, ma una serie di lastre in

etrusca del tempo e, in particolare, a quelli della gens che doveva esercitare il potere locale. Le lastre erano realizzate facendo ricorso a matrici, che ne assicuravano la riproducibilità, e svolgevano due funzioni: una estetica e l’altra pratica. Esse, infatti, avevano anche la funzione di impedire il contatto diretto dell’impalcatura

terracotta di rivestimento architettonico. Su di esse sono raffigurate scene di caccia, corse a cavallo, banchetti, processioni nuziali, assemblee di famiglia. Soggetti che rinviano ai valori e all’immaginario dell’aristocrazia

lignea del tetto con gli elementi atmosferici: pioggia, gelo e neve soprattutto, cosí da assicurare la maggiore durata possibile alle travi. La loro sostituzione – come è facile intuire – sarebbe stata decisamente piú difficoltosa di quella delle lastre


architettoniche. Va rilevato che le maestranze locali sembrano muoversi avendo consapevolezza piena delle innovazioni tecnologiche e degli accorgimenti tecnici elaborati o, comunque, utilizzati nelle poleis (città-stato) maggiori dell’Etruria. Appaiono anche consapevoli dell’ideologia dei committenti arrivando ad accettarla e, almeno in parte, a condividerla. Un mondo di valori rifiutato invece da coloro che, verso il 530-525 a.C., distrussero l’insediamento e ne impedirono piú tardi la ripresa. (G.M.D.F.)

Nella pagina accanto, dall’alto: sima laterale del periodo orientalizzante, 675-600 a.C.; sima laterale con immagini scolpite della dea Uni. 600-550 a.C. In alto: ricostruzione del tetto del Palazzo Arcaico di Poggio Civitate. 600-550 a.C. A sinistra: acroterio raffigurante una palmetta di loto del periodo orientalizzante. 675-600 a.C. Tutti i reperti sono conservati nell’Antiquarium di Poggio Civitate.

vendicava la propria discendenza dall’eroe troiano Enea, a sua volta nato da un padre mortale, Anchise, e dalla dea Venere. In Etruria, Uni, come dea etrusca con i suoi riferimenti alla fertilità, rappresentava la forza divina responsabile sia della valorizzazione della discendenza che della proiezione di autorità verso il futuro assicurato da una progenie. Poggio Civitate ci offre uno dei primi e meglio conservati esempi di tali idee, espresse nella stessa architettura monumentale di Piano del Tesoro. Tali edifici erano tra i piú rilevanti conosciuti in tutta la regione a quel tempo e i messaggi che comunicavano erano strumenti essenziali nel formare e mantea r c h e o 41


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In questa pagina: fregi architettonici raffiguranti un banchetto (in alto) e una processione. 600-550 a.C. Murlo, Antiquarium.

nere i valori sociali e politici di cui si facevano veicolo. I resti archeologici di Poggio Civitate suggeriscono diversi contesti: il sito, infatti, permette di confrontare corredi funerari e abitazioni, industria e credo religioso. Consente, inoltre, di farlo con materiali attribuibili a uno dei periodi socialmente piú dinamici dell’Etruria. La ricchezza delle testimonianze, inoltre, fornisce molteplici punti di osserva-

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zione sulle esperienze di vita quotidiana. Il laboratorio artigianale del VII secolo a.C. ha restituito materiali che non solo documentano settori produttivi diversi, ma fasi differenti della lavorazione. Gli oggetti rinvenuti offrono la possibilità di osservare da vicino il lavoro e le tecniche di maestranze specializzate, capaci di realizzare oggetti d’impareggiabile eleganza e raffinatezza.

BANCHETTI SONTUOSI L’abbondante presenza di ossa di maiali e agnelli macellati fa pensare a banchetti organizzati in periodi di particolare abbondanza agricola, e

ad altri tipi di feste (forse legate ai cicli solari o lunari, alle nascite, ai rituali di raggiungimento dell’età adulta e ai matrimoni), che avrebbero potuto essere celebrate con grandi momenti conviviali comunitari sulla cima di Piano del Tesoro. Basti pensare che lo scavo condotto in prossimità dell’opulenta residenza di epoca orientalizzante ha restituito un servizio per banchetto sufficiente per oltre 200 persone. È possibile che simili eventi pubblici costituissero altrettante occasioni importanti per presentare e mostrare le immagini che descrivevano il rapporto speciale tra le famiglie


dell’élite di Poggio Civitate e la dea Uni. Quest’ultima viene a volte ritratta con ali e trecce che le cadono sulle spalle; in altre rappresentazioni viene invece raffigurata mentre tiene animali. La sua identificazione appare certa anche in questo caso, sebbene, in tale occasione, venga associata all’atto della consumazione del vino. Uno degli stereotipi sugli Etruschi, trasmesso da autori greci e latini, li voleva amanti del lusso e sessualmente molto liberi. Tuttavia, il moralismo impedí a questi osservatori di comprendere l’ambiente politico e sociale nel quale quei costumi

erano maturati. L’ostentazione della ricchezza da parte dell’aristocrazia etrusca fu un meccanismo importante per mostrare ed enfatizzare il proprio status sociale, e la lascivia che turbò gli scrittori greci e romani, era, in realtà, solo presunta.

schi non ricercavano l’ostentazione esagerata, ma si sforzavano di celebrare il meccanismo attraverso il quale il loro lignaggio avrebbe continuato a prosperare. Il tavolo del banchetto condiviso dagli aristocratici di Poggio Civitate con la loro comunità era certamente ricco e consentiva di fare IL VALORE POLITICO sfoggio della ricca produzione agriDEL SESSO Nel contesto politico delle famiglie cola della regione. A questa esibiaristocratiche, l’atto sessuale aveva zione di ricchezza si univa poi l’iminfatti un valore intrinsecamente politico. Autori come Teopompo o In questa pagina: fregi raffiguranti un Tito Livio non riuscirono a com- gruppo di figure sedute e in piedi prendere che, nel rappresentare la (in alto) e una corsa di cavalli. loro sessualità, gli aristocratici etru- 600-550 a.C. Murlo, Antiquarium.

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magine di Uni. Decine di kyathoi e kantharoi (rispettivamente, tazze a uno e due manici, n.d.r.) fabbricati e utilizzati a Poggio Civitate avevano manici sui cui era raffigurata la dea (vedi foto a p. 37). Né è un caso che le immagini di quella divinità fossero impiegate come ornamento in brocche destinate specificatamente al consumo di vino. In tutta l’Etruria e in altre aree del Mediterraneo antico, i popoli riconoscevano una relazione tra l’ebbrezza e il comportamento libidinoso. Invece di giudicare la sessualità etrusca come scandalosa, vanno considerate le implicazioni sociali dei banchetti. Il collegamento tra il vino e la

dea della fertilità serviva agli interessi degli aristocratici coinvolti non solo nella venerazione dei propri antenati, ma anche nella procreazione di un erede, attraverso il quale il loro potere politico si sarebbe potuto protrarre nel tempo.

LA DISTRUZIONE Fin dalle prime campagne di scavo a Poggio Civitate, era apparso evidente che qualcosa di strano doveva essersi verificato sul sito. Associate alla fase arcaica, vennero recuperate numerose terrecotte decorate, la cui disposizione suggeriva che il luogo non fosse stato semplicemente abbandonato. I frammenti erano stati

raggruppati assieme, spesso gettati nei pozzi o in buche situate a nord di Piano del Tesoro. Ciò portò il primo scavatore, Kyle M. Phillips, a sostenere che l’insediamento di Poggio Civitate non fosse stato solamente abbandonato, ma che fosse stato smontato metodicamente – o, forse, anche «ritualmente» –, prima dell’abbandono. L’idea venne accolta con un certo scetticismo, ma scoperte recenti indicano che, in effetti, non soltanto si procedette allo smontaggio della struttura monumentale della fase arcaica, ma che la distruzione del sito fu piú ampia e violenta di quanto inizialmente ipotizzato.

Nella pagina accanto: resti di ossa di animali macellati a Poggio Civitate. 675-600 a.C. Murlo, Antiquarium.

Gli animali macellati Le campagne di scavo svolte a Murlo hanno restituito testimonianze sulle attività degli abitanti e sulla loro vita quotidiana: acquisizioni non irrilevanti, poiché consentono di entrare nel vissuto di una comunità. La macellazione degli animali, per esempio, fornisce indicazioni sull’alimentazione di chi viveva nella In alto: ossa e corna intagliate provenienti dal laboratorio artigiano di Poggio Civitate. Murlo, Antiquarium. 675-600. A sinistra: scena di macellazione degli animali a Poggio Civitate, in una ricostruzione ipotetica.

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reggia e della classe subalterna che gravitava intorno a essa. Va considerato, inoltre, che nel laboratorio artigianale riportato alla luce venivano lavorati l’osso e il corno per realizzare utensili e decorazioni a intarsio. Di conseguenza, la macellazione degli animali aveva risvolti nella stessa attività produttiva dell’insediamento. Si tenga presente, inoltre, che nel palazzo dovevano svolgersi banchetti sontuosi con un numero alto di commensali, come ha suggerito la scoperta di un servizio da banchetto per oltre 200 persone. (G.M.D.F.)


L’esplorazione a ovest di Piano del Tesoro ha progressivamente rivelato tracce di una comunità che vi aveva abitato nei decenni compresi tra l’inizio del VII secolo a.C. e l’abbandono definitivo dell’area. Le case raggruppate nelle vicinanze dei pozzi erano modeste, anche se lo scavo di una di esse ha riportato alla luce il frammento di una statuetta in ceramica, forse una modesta immagine ancestrale venerata da una famiglia di un’estrazione sociale di gran lunga piú umile rispetto a quella che abitava sulla cima di Piano del Tesoro. Nel 2015, lo scavo di uno dei pozzi ha prodotto risultati sorprendenti.

La struttura era stata colmata con detriti scultorei appartenenti all’edificio monumentale della fase arcaica, inclusi fregi che conservano delicati dettagli dipinti, elementi delle sime laterali e anche porzioni della veste di una delle famose statue dei cowboy.

L’ALTARE NEL POZZO Ancor piú sorprendente è stato il ritrovamento compiuto al di sotto di questa scultura volutamente abbandonata: negli ultimi giorni della campagna 2015, è infatti affiorato un altare in travertino, gettato nel pozzo prima del restante materiale architettonico. L’altare era stato rot-

to prima di essere scartato e la sua posizione suggerisce che anche gli oggetti di natura piú sacra siano stati distrutti in occasione della demolizione di Poggio Civitate. Inoltre, appena fuori dal pozzo, gli archeologi hanno recuperato resti di un teschio umano. Le precedenti ricerche condotte nell’area non avevano rivelato tracce di tombe dalle quali il reperto potesse accidentalmente provenire. Piú probabilmente, le ossa testimoniano uno scenario diverso: potrebbero essere appartenute a uno degli ultimi difensori della comunità, ucciso e lasciato senza degna sepoltura, proprio come furono rasi al suolo gli edifici

Gli scavi suggeriscono che, prima dell’abbandono, il palazzo di Murlo fosse stato smontato, forse ritualmente

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SCAVI • MURLO

In alto: ricostruzione di Poggio Civitate in età orientalizzante. 675-600 a.C. A destra: disegno ricostruttivo del palazzo del periodo arcaico di Poggio Civitate. 600-550 a.C.

dell’insediamento, fatte a pezzi le immagini delle sue divinità e dei suoi governanti, e rese inutilizzabili le fonti di acqua. La singolare fine di Poggio Civitate si può forse spiegare con una sorta di damnatio memoriae, ovvero con l’atto che consisteva nell’annientare il nemico e nel cancellarne il ricordo. Una pratica adottata dai Romani, che la riservarono a città come Cartagine e Falerii (nei pressi dell’odierna Civita Castellana, Viterbo, 46 a r c h e o

Gli edifici ricostruiti L’insediamento di Murlo sorse sull’itinerario che collegava la Valdichiana con l’Etruria costiera: vale a dire che si trovava sulla via che metteva in comunicazione Chiusi con Vetulonia e Roselle.

Questa felice posizione geografica, insieme alla possibilità di sfruttare le vicine miniere di Casenovole e Poggio Abbú, spiega il rigoglio del centro e l’interesse dei Chiusini a esercitare un pieno controllo sul sito e sull’area circostante.


A destra: strumenti per tessere, dall’area industriale di Poggio Civitate. 675-600 a.C. Murlo, Antiquarium. Nell’iscrizione si legge un nome di donna.

analoghe – che erano state distrutte da un incendio intorno alla fine del VII secolo a.C. Nelle immediate vicinanze del palazzo è stato scoperto un vasto ambiente di forma rettangolare nel quale si è riconosciuto un laboratorio artigianale dove – fianco a fianco – lavoravano artigiani con

In alto e a destra: due fotografie di Alvaro Galluzzi, in uno scatto odierno e durante un momento di scavo, nel 1972. Gli scavi degli archeologi statunitensi hanno rivelato un complesso architettonico imponente, articolato su quattro lati e costituito da ben 18 vani, affacciati su una corte colonnata. La stratigrafia suggerisce che sia stato costruito tra il 600 e il 575 a.C. L’edificio era impostato al di sopra di strutture di epoca precedente – probabilmente con funzioni

n.d.r.). La fine di un centro come Poggio Civitate – che possiamo immaginare occupato da una comunità molto legata alla famiglia regnante – potrebbe essere stata scritta da chi sperava di cancellare per sempre qualsiasi informazione sul passato e sull’importanza dell’insediamento e dei suoi abitanti. E se non fosse stato per gli sforzi profusi in mezzo secolo di esplorazione archeologica, quell’obiettivo sarebbe stato raggiunto, lasciandoci soltanto il ricordo di un’antica presenza, evocata dal nome stesso di Poggio Civitate. DOVE E QUANDO

specializzazione differente: vasai, coroplasti, fabbri, intagliatori di osso e corno. Piú di recente, sono state esplorate alcune case modeste di cui sono state trovate le tracce di fondazione. Erano le abitazioni degli uomini e delle donne che vivevano intorno al palazzo e lavoravano, con ogni probabilità, per le esigenze del dinasta locale. (G.M.D.F.)

Antiquarium di Poggio Civitate-Museo Archeologico Murlo, piazza della Cattedrale, 4 Orario da aprile a settembre: gio-do, 10,30-13,30 e 15,00-19,30; da gennaio a marzo e da ottobre a dicembre: ve-do, 10,30-13,30 e 14,30-17,30; nei vari periodi è prevista l’apertura su appuntamento per gruppi di almeno 10 persone. Info tel. 0577 814099; e-mail: poggiocivitate@museisenesi.org; info@museisenesi.org; www.museisenesi.org a r c h e o 47


SCAVI • MURLO

LA SCOPERTA DI MURLO a colloquio con Ingrid Edlund-Berry e Jean MacIntosh Turfa In occasione dei primi appuntamenti dell’edizione 2016 del Festival Bluetrusco, Giuseppe M. Della Fina ha incontrato per «Archeo» Ingrid Edlund-Berry, archeologa svedese che ha preso parte alle prime campagne di scavo a Poggio Civitate, e Jean MacIntosh Turfa, che, pur avendo lavorato a Murlo per un anno soltanto, ha conservato un forte legame con il borgo toscano. Ecco i loro ricordi di questa straordinaria avventura archeologica e del contesto in cui si svolsero le prime ricerche.

◆ Professoressa Edlund-Berry,

quando è arrivata a Murlo per la prima volta? Sono arrivata nel 1967 ed ero una giovane studentessa. Ero stata invitata a prendere parte agli scavi

da Kyle M. Phillips, che aveva già lavorato con gli Svedesi in Sicilia, a Morgantina. Lí aveva conosciuto Carl Eric Östenberg e insieme avevano deciso che un archeologo svedese prendesse parte alle ricerche a

Murlo. Venni scelta io e, da allora, hanno avuto inizio i miei contatti con questa realtà. Ho partecipato alle campagne di scavo dal 1967 al 1971, ma ricordo – per inciso – che le indagini avevano avuto inizio già nel 1966, lasciando intuire le potenzialità dell’area indagata. D’altronde, Kyle M. Phillips era stato indirizzato a Murlo da Ranuccio Bianchi Bandinelli, il quale, già negli anni Venti del Novecento, dopo una serie di ricognizioni, aveva compreso che l’altura di Poggio Civitate avrebbe potuto riservare non poche sorprese.

◆ Quali furono i risultati

dei primi scavi? Ricordo ancora con piacere ed emozione la scoperta dei primi frammenti delle statue in terracotta che sono diventate poi quasi il simbolo degli scavi. Devo confessare che non comprendemmo subito di cosa si trattasse e ci confrontavamo sull’interpretazione da dare a quei primi, frammentari resti. Nel 1968, nuovi frammenti, anch’essi in terracotta, tornarono alla luce: si trattava di pezzi di barba, di piedi e dell’insolito cappello che caratterizza le sculture, che, inizialmente, scambiammo per possibili gambe di tavoli. Nei giorni e nelle settimane successive tutto divenne piú chiaro, sebbene non fossero state avviate le operazioni di restauro: intuimmo che doveva trattarsi di un eccezionale ciclo statuario.

◆ In seguito, lei pubblicò quelle statue. Chi le affidò lo studio?

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spesso sullo scavo, aveva interesse per le scoperte che si andavano compiendo e mostrava un atteggiamento aperto. Si poneva verso i piú giovani tra noi senza fare pesare la sua cultura e il suo ruolo accademico. A lui, per esempio, e non agli archeologi statunitensi, si deve la definizione scherzosa di «cowboy» per le statue. Bianchi Bandinelli mi chiese di preparare un articolo sui ritrovamenti per la prestigiosa rivista Dialoghi di Archeologia che dirigeva: fu per me un grande onore e un’opportunità importante. E mi piace ricordare, a questo riguardo, l’atteggiamento di apertura del professor Phillips verso i giovani studiosi: ci aiutava molto e – se sbagliavamo – se ne assumeva la responsabilità.

In alto: piazza della Carceri, a Murlo, in una fotografia del 1968. Nella pagina accanto: Ingrid Edlund-Berry e Hans Lindén in uno scatto del 1970. In basso: foto di gruppo con Ingrid Edlund-Berry a cavallo. 1967.

Lo studio mi venne affidato da Phillips, sapendo che ero allieva del grande archeologo svedese Arvid Andrén, autore di un’opera fondamentale sulla coroplastica etrusca (Architectural Terracottas from Etrusco-Italic Temples, Lund-Lipsia 1939-1940), che si consulta ancora oggi. Inizialmente, lo studio costituí l’argomento della mia tesi di laurea. Il lavoro si presentava complicato e, prima di tutto, le statue andavano ricomposte. L’assemblaggio non era semplice proprio per via della loro originalità. A tal proposito, mi fa piacere ricordare il lavoro dello stesso Phillips e dei restauratori della Soprintendenza Archeologica della Toscana, che collaborarono con noi ed erano di una straordinaria capacità.

◆ A Ranuccio Bianchi Bandinelli

si deve l’indicazione di scavare a Poggio Civitate. Frequentava lo scavo in quei primi anni? Ranuccio Bianchi Bandinelli veniva

◆ Qual era l’atmosfera? Bella, anche se il lavoro era intenso: la giornata iniziava alle cinque del mattino, ma il risveglio era reso piacevole dal profumo del caffè che Armida – la cuoca della missione – aveva preparato. Seguiva la colazione con pane e marmellata di susine. Quindi dal castello di Murlo, nel quale eravamo ospitati, ci si trasferiva sullo scavo: si utilizzavano una Fiat Cinquecento e una Fiat Seicento, ma alcuni di noi facevano il percorso a piedi. Raggiungevamo gli operai che erano già sul posto e, alle


SCAVI • MURLO sette, iniziava il lavoro vero e proprio, che proseguiva fino a mezzogiorno. Quindi si pranzava: zuppe di verdura, uova, prosciutto. Alle 14,00 si riprendeva a scavare, sino alle 16,00. Terminato lo scavo, ci si trasferiva nei magazzini per ordinare i materiali rinvenuti. Si cenava presto, verso le 18,00, per liberare la cuoca. Armida era una persona eccezionale ed è rimasta nel ricordo di tutti coloro che l’hanno conosciuta. Con poco denaro riusciva a preparare i pasti per tutti i membri della missione, che era composta da sedici persone. Era capace di dividere un pollo in sedici parti e sapeva cucinare il coniglio in una maniera tale che gli studenti americani, non abituati a mangiarlo, non lo riconoscessero. Era un segreto confidato solo ad alcuni di noi. Capitava poi di essere invitati a Geggiano, nella villa di Ranuccio Bianchi Bandinelli, e in

quella della famiglia Neri, molto legata al grande storico dell’arte antica (il pittore Dario Neri era stato un suo amico di gioventú) e a Kyle M. Phillips.

◆ Ha qualche ricordo particolare? Piú di uno. Posso raccontarle di quando uno degli operai condusse un cavallo sullo scavo e io vi salii sopra. Conservo ancora una foto di quella mia «impresa». Proprio in quel

In alto: il re di Svezia Gustavo VI Adolfo visita gli scavi di Murlo nel 1968. Il sovrano scandinavo fu un grande appassionato e studioso d’archeologia. In basso: la porta d’accesso al borgo di Murlo, in una fotografia del 1968.

giorno, però, attendevamo la visita di un illustre collega del professor Phillips, l’archeologo Frank E. Brown, e il direttore non gradí affatto la mia iniziativa: temeva – e forse aveva ragione – che il collega avrebbe potuto avere un’idea distorta del nostro modo di operare.

◆ La sua scoperta piú bella? La feci insieme a Ottavio, un operaio che non sapeva leggere, né scrivere, ma che era uno scavatore attento e consapevole: lo ricordo, mentre accanto a me, estrae dal terreno, il volto di una delle statue con la barba. ◆ Come appariva Murlo ai vostri

occhi? Al professore stava molto a cuore che avessimo un atteggiamento di rispetto verso gli abitanti del paese e dei loro modi di vita. A noi ragazze, per esempio, consigliava d’indossare la gonna e non i pantaloni quando andavamo in paese: le donne italiane allora portavano prevalentemente la gonna e noi non dovevamo apparire eccentriche. Nel circolo, frequentato soprattutto da uomini, potevamo entrare solo accompagnate da lui o dal sindaco di Murlo, Maurizio 50 a r c h e o


anche battezzato come un contradaiolo.

◆ Qual è il suo ricordo dell’Italia

Morviducci, che seguiva da vicino il nostro lavoro e faceva il possibile per favorirlo. Era consapevole del fatto che gli scavi contribuivano all’economia del paese attraverso l’assunzione di una ventina di operai per un paio di mesi e tramite quello che noi potevamo spendere durante il soggiorno a Murlo. Credo che avesse intuito anche le potenzialità culturali e turistiche dei ritrovamenti che andavamo facendo. Fu lui a battersi, circondato da un certo scetticismo, affinché il Comune acquistasse il palazzo divenuto poi la sede del museo. Rispetto a oggi la situazione era molto diversa: la luce

e l’acqua, per esempio, non erano ancora in tutte le case. Ricordo il suo impegno nel cercare di migliorare la situazione. Devo dire che eravamo integrate nella vita locale: spesso venivamo invitate a cena nelle case degli operai ed era l’occasione per conoscere i loro familiari. In quegli anni ebbi l’opportunità di assaggiare per la prima volta l’ottima cucina toscana. Sono andata anche ad assistere al Palio, nella vicina Siena: avevo in simpatia la contrada dell’Istrice. Phillips, che aveva invece amici molto cari nell’Oca, parteggiava per quella contrada, e suo figlio venne In alto: Armida Soldani, che fu la cuoca della missione archeologica che operava a Murlo, ricordata con affetto da tutti i componenti dell’équipe. A sinistra: un gruppo di operai impegnati nella campagna di scavo a Poggio Civitate del 1969.

di quegli anni? Era un Paese meraviglioso, nel quale era piacevole soggiornare per l’autenticità della vita che vi si conduceva, per l’ospitalità e la cortesia dei suoi abitanti. L’Italia, la Toscana, Murlo non riesco a dimenticarle, ancora oggi vi torno tutti gli anni. Mio marito, che ama molto viaggiare, mi chiede il motivo per cui torno sempre in Italia e negli stessi luoghi invece di andare in Paesi non ancora visitati. Gli rispondo che la novità del viaggio è data dal fatto che vi scopro sempre aspetti diversi e nuovi. Mentre la conversazione andava avanti, mi rendevo conto di quanto Ingrid Edlund-Berry e Jean MacIntosh Turfa fossero legate a Murlo. Quest’ultima aveva partecipato a una sola campagna di scavo (i suoi interessi di studio si erano spostati subito verso la Grecia), ma ha continuato a tenere rapporti con alcune persone del luogo e, in particolare, con la cuoca Armida finché è vissuta raggiungendo quasi i cento anni. Con lei condivideva la passione per i gatti. Capivo la forza del loro legame con la realtà locale: mi avevano comunicato, tra l’altro, che sarebbero andate a pranzo in casa di Emilia, figlia del signor Paolo, il giornalaio del paese, che da giovane frequentava lo scavo (Emilia ha restaurato molti reperti dallo scavo di Poggio Civitate e, per alcuni anni, fu anche responsabile dello stesso museo di Murlo, n.d.r.). Finita la conversazione, mi hanno detto che, prima di recarsi a pranzo, dovevano andare al cimitero del paese per salutare – hanno usato proprio tale espressione – le persone che avevano conosciuto e che oggi non ci sono piú. (a cura di Giuseppe M. Della Fina) a r c h e o 51


BETLEMME PRIMA DI DAVIDE


UN’ÉQUIPE ITALO-PALESTINESE È IMPEGNATA IN UN INTERVENTO D’EMERGENZA NELLA CITTÀ DELLA NATIVITÀ. E GETTA NUOVA LUCE SULLA SUA STORIA PIÚ ANTICA, IN UN CONFRONTO COSTANTE TRA TRADIZIONI STORICO-LETTERARIE E DATI ARCHEOLOGICI di Lorenzo Nigro

Q

In alto: una bulla rinvenuta a Gerusalemme, che reca il nome di Beth Lehem. VII sec. a.C. Il reperto conferma l’appartenenza della città al regno di Giuda. A sinistra: Betlemme, necropoli di Khalet al-Jam’a. L’interno della Camera 2 della Tomba A2.

uando, nell’aprile del 637 d.C.,‘Umar ibn al-Khattab conquistò Gerusalemme per la resa del patriarca bizantino Sofronio, anche la vicina Betlemme passò sotto il controllo del secondo successore del Profeta. Il califfo vi si recò presto in visita e si premurò di lasciare libertà di culto nella basilica della Natività, riservando solo una parte della navata meridionale ai musulmani, come peraltro aveva fatto, nella stessa Gerusalemme, per la basilica del Santo Sepolcro. Da allora e per piú di tre secoli cristiani e musulmani pregarono fianco a fianco, condividendo il loro luogo di culto. Ricordare questo esempio di tolleranza in un’epoca come quella in cui viviamo può forse servire a riaccendere la speranza nel dialogo: Betlemme è la città piú adatta a farlo. Certo non possiamo dimenticare che oggi è circondata da un muro di cemento e che nella stessa condizione vivono anche i pittoreschi villaggi che lo circondano (el-Khadr, Battir, Beit Jala). Tuttavia, Betlemme ha già superato tantissime difficoltà e ce la farà anche questa volta. Nonostante le dimensioni inducano a definirla piuttosto una cittadina o un paese, Betlemme ha svolto a r c h e o 53


SCAVI • BETLEMME

un ruolo importante nell’antichità e ha avuto una storia lunga e intricata, la cui ricostruzione non passa soltanto attraverso lo studio delle fonti su almeno tre dei suoi piú illustri cittadini (Davide, Gesú e san Girolamo), ma anche per la condivisione della memoria tra-

smessa dall’archeologia ai suoi attuali abitanti. Nel maggio di un anno fa, una piccola équipe dell’Università di Roma «La Sapienza», coordinata sul campo da Daria Montanari, è stata chiamata dal Ministero del Turismo e delle Antichità (MOTA) dell’Autorità Nazionale Palestinese a collaborare al salvataggio di una necropoli, scoperta accidentalmente circa 2,2 km a sud-est della basilica della Natività, nel sito di Khalet al-Jam’a.

DANNI E RAZZIE Durante i lavori di costruzione di una fabbrica condotti da una impresa francese, alcune tombe scavate nella roccia erano state scoperchiate e tagliate e i materiali in esse contenuti in parte trafugati. La notizia, riportata dalla polizia palestinese al locale ufficio del MOTA, indusse Mohammed Ghayyada, ispettore delle antichità, a intervenire. La si54 a r c h e o

tuazione era complessa: molte tombe, quando non erano state completamente asportate o tagliate, erano crollate e i lavori di emergenza furono condotti con molto impegno e tra grandi difficoltà. Compresa l’importanza dei ritrovamenti, tuttavia, il Dipartimento di

DAVID A BETLEMME SECONDO LA BIBBIA Il ruolo attribuito a Betlemme dalla fonte yahwista nella storia di David è fondamentale per ricostruire la storia proposta dalla Bibbia. Il Libro di Ruth e il I Libro di Samuele pongono le basi di questa ricostruzione, descrivendo le premesse e lo scenario in cui presentare l’unificatore del regno. Ovviamente sono informazioni che discendono interamente dalla lettura e interpretazione dei testi e che non hanno una relazione diretta con i dati archeologici. La fonte biblica colloca la vicenda di David nel X secolo a.C.: Betlemme non era una città israelita (Giudici 17:7-9; 19:1-18) e, anzi, avrebbe ospitato una fortezza dei Filistei (2 Samuele 23:14-16), fatto peraltro plausibile. Due ufficiali di Davide rischiarono la vita per portare al re dell’acqua presa dalle cisterne situate presso la porta nord della città. Da un lato l’aneddoto ribadisce l’importanza strategica di Betlemme come cittadina che controllava importanti risorse idriche, dall’altro sembra testimoniare l’estensione del dominio filisteo fino allo spartiacque interno della Palestina. In quest’area David costruisce la sua ascesa come capo di una banda che riesce a estendere il suo controllo su tutta la regione di Giuda attorno a Betlemme fino a conquistare la capitale meridionale di Hebron e, dopo avere acquistato il favore dei Beniaminiti, assurge al rango di re di Israele, ottenendo l’alleanza delle tribú del nord. Segue la presa di Gerusalemme, allora chiamata Gebus e abitata dai Gebusiti.


Nella pagina accanto: gli archeologi dell’équipe coordinata dall’Università Sapienza di Roma durante una ricognizione. A sinistra: una veduta del sito di Khalet al-Jam’a; sullo sfondo, a destra, l’Herodion. Il sito archeologico è stato scoperto in seguito ad attività edilizie, che hanno anche causato danni alla necropoli. In basso: cartina di Betlemme e dei siti compresi nel suo territorio.

64,6X50,8

Tomba di Rachele

Porta Nord Pozzi di Davide Al-Baten

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Battir

Wadi el-Jamal

Beit Jala

Betlemme

Basilica della Natività Grotta del Latte

Betlemme

Siyar el-Ghanam

Beit Sahur Wadi Abu Sa’ada

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Khalet al-Jam’a

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Mar Morto

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Salvataggio in extremis

Planimetria del sito di Khalet al-Jam’a con l’indicazione delle aree che in esso sono state distinte e delle 30 tombe individuate nel corso delle ricognizioni e degli scavi. È stato calcolato che la necropoli dovesse in realtà contare oltre 100 deposizioni. Nella foto in alto, l’autore dell’articolo, Lorenzo Nigro, si trova davanti alla Tomba A1, danneggiata dall’azione dei mezzi meccanici e della quale si riconoscono le quattro camere di sepoltura.

Archeologia e Patrimonio Culturale chiese aiuto alla missione archeologica della Sapienza, con cui collabora da diciotto anni a Gerico. Fu costituita un’équipe congiunta italopalestinese e i giovani archeologi partirono per documentare la scoperta. Sul terreno venne per prima cosa riconosciuta l’intera area occupata della necropoli e, successivamente, a seguito di un’accurata prospezione, furono identificate piú di 30 tombe ancora intatte delle oltre 100 che dovevano costituire originariamente il sepolcreto. Oltre alla pianta complessiva della necropoli, suddivisa in quattro settori (A-D) e due cimiteri maggiori, uno dell’età del Bronzo sulla terrazza inferiore del pendio collinare, l’altro dell’età del Ferro, sulla terrazza superiore, le indagini archeologiche hanno rivelato una torre del Ferro II e una pressa per il vino


In alto: archeologi della «Sapienza» impegnati nella documentazione davanti alla Tomba B9 (sulla destra).

In basso: alcune olle facenti parte del corredo funerario rinvenuto all’interno della Tomba A2.

d’epoca bizantina. I ricercatori della Sapienza, assieme ai colleghi palestinesi, hanno poi iniziato il restauro, la documentazione e lo studio dei ricchi corredi delle tombe, costituiti da centinaia di vasi in ceramica e da altri pregiati reperti.

dalla coeva necropoli di Gerico. Tuttavia, nel caso di Khalet al-Jam’a, colpisce che la quasi totalità delle tombe fossero state poi reimpiegate nel successivo Bronzo Medio, suggerendo che essa servisse una comunità relativamente numerosa e divenuta stanziale. Nel Bronzo Medio II-III, tra 1800 e 1550 a.C., le tombe hanno carattere familiare e si articolano in piú camere, sempre costituite da cavità naturali riadattate. I pozzetti sono generalmente quadrangolari e, sopra le tombe, sono state individuate installazioni dette cup-marks, destinate alle libagioni. L’accesso alle tombe era bloccato da grosse pietre collocate in corrispondenza del passaggio tra il pozzetto e l’ipogeo. I defunti erano disposti su lettighe o piattaforme realizzate con pietre o mattoni crudi. I corredi erano raccolti in alcuni punti delle camere sepolcrali, evidentemente in relazione con le varie inumazioni. Il repertorio vascolare è caratterizzato da alcune forme ricorrenti: i grandi piatti da portata con piedi ansati, le ollette a spalle marcate e orlo svasato, le brocche ingubbiate, ma anche le grandi giare

CAMERE PICCOLE E SEMPLICI CORREDI La caratteristica principale della necropoli di Khalet al-Jam’a è la sua notevole estensione temporale. Le tombe piú antiche risalgono agli ultimi secoli del III millennio a.C. (Bronzo Antico IV o età del Bronzo Intermedia, 2300-2000 a.C.) e sono costituite da pozzetti con piccole camere ipogee di dimensioni ridotte. Gli inumati giacevano per lo piú su un fianco o distesi; i corredi erano molto semplici, comprendendo di solito una lucerna tetralicne (a quattro ugelli, n.d.r.), una coppa e alcune olle e, a volte, una daga di rame. Si tratta di una tipologia funeraria assai comune per l’epoca, adottata da popolazioni semi-nomadiche che vivevano nei diversi wadiat (corsi d’acqua a regime torrentizio, n.d.r.) affluenti del Giordano e del Mar Morto, e ben nota

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SCAVI • BETLEMME

cananee con due o quattro anse e gli attingitoi, uno dei quali è stato ritrovato proprio nell’imboccatura di una di queste giare.

1

In alto e qui accanto: pugnali in bronzo (1) e un vaso gemello (2) facenti parte del corredo rinvenuto nella Camera 1 della Tomba A1 della necropoli di Khalet al-Jam’a. In basso: gli archeologi della Sapienza di fronte all’ingresso delle tombe A1 e A2.

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DAGHE E SCARABEI Anche le tombe del Bronzo Medio hanno restituito armi, in questo caso di bronzo: pugnali, punte di lancia e asce. Le daghe cananee sono caratterizzate dai pomelli sferici realizzati in calcite o in calcare gessoso di qualità e fissati all’estremità dell’elsa. Diversi sono anche gli scarabei in steatite del tipo detto «Hyksos», che i membri della élite dominante nelle città cananee usavano come sigilli personali. Alcune tombe rimasero in uso an-

2

che nel Tardo Bronzo I-II (15501300 a.C.), come suggeriscono oltre che alcuni vasi e ornamenti personali, anche una daga micenea, caratterizzata dalle grandi dimensioni della testa dei chiodi di fissaggio della lama all’immanicatura. Anche le tombe dell’età del Ferro (1200-650 a.C.) sono ipogei articolati in piú camere e ospitano numerosi defunti inumati. La tomba meglio nota di quest’epoca, denominata «Barmil Tomb» dal nome della famiglia proprietaria del terreno nel quale è stata identificata, è un ampio ipogeo, che ha restituito materiali databili al X secolo a.C., tra cui una brocca di tradizione cipro-fenicia, piatti e coppe in Red Slip, una serie di brocchette miniaturistiche in ceramica nera lustrata. In assenza di dati dall’abitato, che è attualmente coperto dalla città moderna, sono proprio le diverse necropoli a permettere di ricostruire la storia di Betlemme. Ma dove si trovava la città cananea del II millennio a.C.? Come scrisse il grande archeologo francescano di Terra Santa, Padre Bellarmino Bagatti: «Il villaggio di Betlemme è sempre stato nello stesso posto, dal momento che i fianchi scoscesi della collina costituivano una difesa naturale». In realtà, la prima occupazione stabile di questo distretto risale al Calcolitico (4200-3600 a.C.), seguita


La Tomba A2

1

Pozzetto 1

2 N

Camera 1

Camera 3 Pilastro centrale Qui sopra e in alto: scarabei in steatite (1) e un vaso tripode (2) facenti parte del corredo rinvenuto nella Tomba A2 della necropoli di Khalet al-Jam’a. A destra: pianta e sezione della Tomba A2, con l’indicazione delle camere di sepoltura e dei pozzetti di accesso.

Camera 2

Pozzetto 3

Tomba A1

Pozzetto 3 Camera 2

Pozzetto 2

Camera 3

da un paesino di contadini, localizzato presso il «Campo dei Pastori» a Beit Sahur, occupato nel Bronzo Antico (3300-2300 a.C.). La prima cittadina cananea sorse invece sulla collina a ovest di «Manger Square» e della basilica della Natività solo a partire dal Bronzo Medio. A quell’epoca Betlemme controllava la principale via verso la capitale del Sud, Hebron, che correva lungo lo spartiacque interno della Palestina. La città era sorta alla biforcazione tra il Wadi Tamireh, che scendeva al Mar Morto, e il Wadi Khareitun che si indirizzava verso Tequ’a. Una

serie di sorgenti, in particolare nel sottostante Wadi ‘Artas, garantivano la necessaria riserva d’acqua alla città stessa e ai dintorni. Le numerose sovrapposizioni e l’assenza di scavi sistematici non consentono di chiarire l’estensione della cittadina del Bronzo Medio; tuttavia, i corredi e il numero delle tombe di Khalet al-Jam’a suggeriscono una situazione simile a quella di altri centri coevi, come la vicina Gerusalemme, che non superava i 5 ettari: ridotte dimensioni dell’abitato e mura che correvano sui pendii. Inoltre, alcuni reperti databili al successivo Bronzo

Tardo indicano come Betlemme avesse continuato a esistere anche in questo periodo, forse incentrandosi sul tempio di una divinità femminile, la cui esistenza è testimoniata da ritrovamenti di epoca successiva.

LE FRECCE DI EL-KHADR Tra il 1954 e il 1980, nel sobborgo meridionale di el-Khadr furono rinvenute (forse in una tomba o in un deposito votivo) cinque punte di freccia di bronzo, di una tipologia nota dal Bronzo Tardo, iscritte con nomi di dedicanti in un ductus alfabetico considerato tra i piú antichi. a r c h e o 59


SCAVI • BETLEMME

Lettere antichissime Fotografie e disegni delle frecce in bronzo rinvenute a el-Khadr (Governatorato di Gerusalemme), tra il 1954 e il 1980, probabilmente in una tomba, e datate alla seconda metà dell’XI sec. a.C. Sono tra i primi documenti con scrittura alfabetica trovati in Palestina.

Nella pagina accanto in alto: Betlemme ai primi del Novecento: al centro, la basilica della Natività e, sulla destra, l’Herodion. In basso: un’immagine e il rilievo (a destra) di una pressa per il vino di età bizantina, individuata nell’Area A di Khalet al-Jam’a. Sullo sfondo, a sinistra, si distingue l’Herodion.

suggerisce che la città fosse ancora occupata, in un’area in cui doveva trovarsi la porta settentrionale. Poco sappiamo della successiva cittadina del Ferro II, la cui esistenza è testimoniata dal ritrovamento di una bulla a Gerusalemme con iscritto il nome di Beth-Lehem (vedi foto a p. 53), e da alcune anse di anfore con impresso il marchio reale di Giuda (le cosiddette «lemelek jars»). La fonte biblica ci informa poi che dopo la divisione del regno (2 Cron. 11:6), Reoboamo, re di Giuda, fortificò Betlemme. I resti di queste mura furono forse identificati nella sella tra «Manger Square» e la basilica della Natività. In ogni caso, le prospezioni piú recenti degli archeologi inglesi suggeriscono che nell’età del Ferro il centro dell’insediamento si trovasse proprio sull’altura piú orientale della cresta montuosa che ospita la città, ossia sulla collina sulla cui sommità sorge oggi la basilica della LA CITTÀ D’ETÀ Natività e dove forse sorgeva un ISRAELITA... Gli scavi francescani presso i cosid- antico luogo di culto. Quando l’imdetti «pozzi di Davide» (per via di peratore Adriano decise di interveun aneddoto narrato in 2 Sam 23:14-16; vedi box a p. 54), in realtà cisterne d’epoca romana, hanno tuttavia recuperato ceramica del Ferro I, incluse due giare del tipo a colletto, contemporanea alle punte di freccia di el-Khadr: la circostanza Le iscrizioni collocano le frecce nell’XI secolo a.C. e sono tra i primi esempi di scrittura alfabetica, tanto da suggerire che proprio la Palestina sia stata la culla di questa straordinaria invenzione. Inoltre, in due frecce si fa riferimento a una dea: in una il dedicante si dice «bn ‘Anat», «figlio della dea Anat» (una dea del Levante, nota dai testi di Ugarit), nell’altra «‘Abd Labiat», ossia «servo della [dea] leonessa». Potrebbe trattarsi di una divinità a cui era dedicato un tempio a Betlemme, una dea che è attestata successivamente anche da figurine in terracotta e che è certamente riflessa nella tradizione biblica di Rachele (sepolta vicino Betlemme; Gn 35:19) e della chiesa del Riposo (Khatisma) della Vergine scoperta recentemente presso il monastero di S. Elia a Ramat Rahel, sulla strada verso Gerusalemme.

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Betlemme prima di Gesú

Situata a una decina di chilometri a sud di Gerusalemme, a 775 m slm nella parte meridionale dei Monti della Giudea, Betlemme (in arabo Bayit Lahm, «casa della carne», in ebraico Bet Lehem, «casa del pane») è oggi una cittadina di circa 25 mila abitanti. La sua piú antica menzione, sebbene l’identificazione del nome sia ritenuta incerta, risale al XIV secolo a.C.: in una delle «Lettere di Amarna» (l’archivio di tavolette con iscrizioni cuneiformi rinvenute nell’omonima capitale del faraone «eretico»

nire anche in Palestina con una piú severa politica di assimilazione, dopo la seconda rivolta giudaica del 135 d.C., in questo luogo fu eretto, secondo quanto ci ha tramandato san Girolamo (Ep. 58,3), un tempio di Apollo-Adonis (il dio che nasce e risorge della tradizione fenicia).

...E CRISTIANA Sulla stessa collina orientale, nel luogo in cui sant’Elena aveva riscoperto la grotta della Natività, tra il 326 e 330, fu eretta da Costantino una grande basilica con un’abside ottagonale costruita sopra la grotta. Attorno alla basilica si sviluppò subito un monastero con altre chiese e il luogo santo divenne mèta di pellegrini che descrissero Betlemme come una pittoresca «villula». Dalla fine del IV secolo d.C. Betlemme divenne la residenza di Girolamo (Eusebius Sophronius Hieronymus), un asceta intellettuale ac-

Akhenaton) il re Abdihipa di Urusalimmu (Gerusalemme) scrive al re dell’Egitto, perorando l’invio di arcieri per riconquistare la città di Bit-Lahmi (Betlemme), presa dai nomadi Apiru. Alla fine dell’XI secolo a.C. la tradizione colloca a Betlemme la nascita di Davide, primo re di Israele (vedi box a p. 54). Nel VII secolo a.C. Betlemme appare nell’elenco delle città sotto il dominio di Giosia, re di Giuda. Il nome della città sarà poi indissolubilmente associato alla vicenda della nascita di Gesú.

compagnato e sostenuto da nobili matrone romane (Paula, Marcella), che tradusse la Bibbia in latino, la Vulgata, e visse nella sua cella (o grotta) di eremita presso la basilica (oggi monastero di S. Caterina), fino alla morte, nel 420 d.C. Girolamo diede un contributo fondamentale alla ricostruzione della storia (biblica) della Palestina, definendo la localizzazione di numerosi Luoghi Santi identificati da Elena e, con la Vulgata, segnò per piú di un millennio la storia culturale e religiosa dell’Oriente e dell’Occidente. Nel 529 d.C. la basilica venne distrutta durante la rivolta dei Samaritani e fu ricostruita nel 531 d.C. da Giustiniano che la dedicò a santa Maria Theotokos (genitrice) con cinque navate e tre absidi, come la conosciamo ancora oggi. Anche le grotte sante furono restaurate in quella occasione e le mura della città ricostruite, unendo la collina

orientale con la basilica e la grotta del Latte al resto dell’abitato, che si era nel frattempo arricchito di chiese, monasteri e ostelli per i pellegrini che affluivano numerosi.Tuttavia, Betlemme non era allora sede episcopale, il che potrebbe forse spiegare la minore rilevanza attribuitale dalla mappa musiva di Madaba. Agli inizi del VII secolo, il re persiano Cosroe II invase la Palestina. Dei tanti monumenti eretti da Costantino, i soldati sasanidi risparmiarono da una violenta distruzione solo la basilica della Natività. La tradizione vuole che questo fu dovuto al fatto che essi si imbatterono in un mosaico con la rappresentazione dei Re Magi in vesti persiane. Nel XII secolo la basilica fu poi arricchita da splendidi mosaici per iniziativa di Manuele I Comneno (1143-1180) e rimane fino a oggi uno dei piú straordinari esempi dell’architettura bizantina. a r c h e o 61


RESTAURI • ANTICO EGITTO

UN NAOFORO PER DUE AMENMES E RESHPU, FUNZIONARI VISSUTI AL TEMPO DELLA XIX DINASTIA, FECERO REALIZZARE UNA SQUISITA SCULTURA PER IL SANTUARIO DI OSIRIDE AD ABIDO, FORSE PER LA LORO CAPPELLA FAMILIARE. UN’OPERA ESTREMAMENTE DELICATA, CHE UN RECENTE RESTAURO HA SALVATO DAL DEGRADO di Daniela Picchi

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a diciassettesima edizione di Restituzioni. Tesori d’arte restaurati (il programma di restauri di opere appartenenti al patrimonio artistico pubblico promosso da Intesa Sanpaolo, n.d.r.) ha fornito l’occasione per il restauro di una scultura egiziana di età ramesside, un naoforo – letteralmente, «portatore di tempio» – dedicato agli dèi Osiride, Iside e Horo da una coppia di alti funzionari del tempio di Amon a Tebe, Amenmes e Reshpu. Appartenente alle collezioni del Museo Civico Archeologico di Bologna, la statua è di particolare interesse non soltanto dal punto di vista tipologico, stilistico e testuale, ma anche per le vicende antiquarie che l’hanno portata dall’Egitto a Bologna e per gli interventi Qui accanto: il naoforo voluto dai funzionari Amenmes e Reshpu, prima e dopo l’intervento di restauro. XIX dinastia, 1292-1186 a.C. Bologna, Museo Civico Archeologico. 62 a r c h e o

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In alto: il pittore bolognese Pelagio Palagi (1775-1860), secondo proprietario del naoforo e dalla cui collezione, donata alla città di Bologna, è nato il Museo Civico Archeologico del capoluogo emiliano. A destra: il volto del naoforo dopo il restauro.

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RESTAURI • ANTICO EGITTO

conservativi succedutisi nel tempo, allo scopo di interrompere il progressivo deteriorarsi del calcare in cui è scolpita. Il restauro è stato preceduto dallo studio del monumento e da una ricerca d’archivio finalizzata a ricostruire le tappe di un processo degenerativo che interagisce con la storia sia del collezionismo, sia delle tecniche e delle sostanze utilizzate negli anni a fini conservativi. Le informazioni cosí ottenute sono state fondamentali per definire le modalità del nuovo intervento di restauro di cui si possono ammirare A destra: efflorescenze di cloruri e solfati, la cui cristallizzazione ha determinato esfoliazioni e microlesioni superficiali del calcare. Qui sotto: veduta posteriore del naoforo prima del restauro. A destra, in basso: disegno che documenta le fessurazioni della statua, ad andamento parallelo. PRIMA

i risultati nella mostra La bellezza ritrovata. Caravaggio, Rubens, Perugino, Lotto e altri 140 capolavori restaurati, ospitata sino al 17 luglio a Milano presso le Gallerie d’Italia.

UN PRIVILEGIO RARO La statua di Amenmes e Reshpu appartiene a un tipo scultoreo con destinazione prevalentemente templare che rappresenta una persona inginocchiata e recante dinnanzi a sé un naos (tempietto/edicola) con immagini divine. Le statue di questo tipo compaiono verso la metà della XVIII dinastia – durante il regno della regina Hatshepsut (1479-1458 a.C.) – e attestano la devozione dei loro dedicanti nei confronti di varie divinità. Il privilegio di deporre una statua in un’area sacra, riservato solo ad alcune categorie di Egiziani di rango molto elevato, permetteva all’offerente di partecipare al culto giornaliero del tempio e all’eterno ciclo cosmico di rinascita divina. La statua di Bologna, in calcare e con labili tracce della policromia originaria, ne rappresenta una delle possibili varianti. Il naoforo indossa una lunga tunica dalle maniche svasate, a cui è sovrapposta una gonna vaporosa, che ricopre il corpo sino alle caviglie. All’abito privo della tradizionale plissettatura si contrappone la resa accurata della parrucca, dell’ampio collare usekh e dei tratti anatomici dell’offerente. Il naos, un parallelepipedo senza modanature o cornici, è arricchito sul lato anteriore dalle figure di Osiride, Iside e Horo. Le iscrizioni in geroglifici sul pilastrino dorsale e ai lati della base, per quanto danneggiate, corrispondono alle tradizionali formule di offerta e tramandano nome e titoli dei dedicanti: il «grande sovrintendente alle mandrie di Amon» Amenmes e lo «scriba reale e grande maggiordomo» Reshpu. Il confronto con una stele del British Museum, appartenente agli stessi personaggi, permette di circo-

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A sinistra: veduta posteriore del naoforo dopo il restauro. In basso: ancora un disegno che documenta le fessurazioni.

scrivere l’area di provenienza e il periodo di esecuzione della scultura di Bologna, oltre a definire meglio la relazione parentale tra Amenmes e Reshpu, che si ipotizza potessero essere zio e nipote, oppure cugini, facenti parte entrambi del personale del tempio di Amon a Tebe.

IL FETICCIO DI OSIRIDE Al centro della lunetta della stele, infatti, è raffigurato il cosiddetto feticcio o reliquiario di Osiride con la dea Iside seguita da Reshpu, a sinistra, e il dio Horo seguito da Amenmes, a destra.Tale iconografia rimanda con sicurezza al santuario di Osiride ad Abido – forse a una cappella familiare edificata nei pressi del tempio, nella cosiddetta «terrazza del dio» –, a cui potrebbe essere stata destinata anche la statua di

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RESTAURI • ANTICO EGITTO

Bologna, che reca la medesima triade osiriaca sulla fronte del naos. La titolatura dei molti personaggi raffigurati nel campo inferiore della stele, strettamente connessa al tempio tebano di Amon, conferma invece l’ambito alto-egiziano del nucleo familiare e dei due monumenti. La menzione del titolo di «capostalliere della grande stalla di Ramesse-miamun», che include il nome del sovrano Ramesse II (1279-1213 a.C.), e lo stile di esecuzione datano la stele, e di conseguenza la statua, alla XIX dinastia.

DALL’EGITTO A BOLOGNA La prima descrizione dell’opera si deve a Giuseppe Nizzoli († 1858), cancelliere presso il consolato d’Austria in Egitto dal 1818 al 1828, che la inserí nel suo Catalogo Dettagliato della Raccolta di Antichità Egizie, stampato ad Alessandria d’Egitto nel 1827. Pochi anni piú tardi, nel 1831, il cancelliere vendette la raccolta al PRIMA

pittore bolognese Pelagio Palagi (1775-1860). Nel Catalogo di Nizzoli non si fa alcun cenno a uno stato conservativo precario della scultura, che rimase esposta nella casa-museo milanese di Palagi sino alla sua morte. Altrettanto può dirsi per l’inventario Elenco degli oggetti d’arte e di antichità e mobiliare esistenti nel Museo di Pelagio Palagi, redatto nell’agosto del 1860 allo scopo di predisporre il passaggio di proprietà dell’intero patrimonio palagiano alla città di Bologna, come da suo legato testamentario. Il primo a segnalare un degrado della scultura fu l’egittologo François J. Chabas (1817-1882). Incaricato dal Ministro dell’Istruzione pubblica francese di studiare le collezioni egiziane dei musei italiani, Chabas, nel settembre 1869, visita Bologna rimanendo stupefatto dalla ricchezza inaspettata di un «Musée ignoré» e, al contempo, dall’inappropriata sistemazione dei materiali

palagiani in un corridoio di accesso ad alcune sale della Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio. Chabas attribuisce all’umidità e alle temperature non controllabili di questo ambiente i problemi conservativi di alcuni monumenti in pietra, e in particolare del naoforo. Nel 1871 la statua trova migliore collocazione in una sala interna della biblioteca, piú protetta, per poi essere trasferita definitivamente nell’attiguo Palazzo Galvani, dove, nel 1881, si inaugura il Museo Civico di Bologna e vengono esposte tutte le antichità del Museo Palagi, assieme ai reperti di civiltà etrusca rinvenuti nel territorio. Oltre un secolo dopo, nel 1994, in occasione del riallestimento della collezione egiziana, la scultura viene ricoverata nei depositi del museo a causa del precario stato conservativo. Per quanto il degrado lapideo del naoforo desti molta preoccupazione sin dall’Ottocento, un vero e pro-

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Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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prio restauro della scultura risale solo ai primi anni Sessanta del Novecento. I materiali e le tecniche allora utilizzati per pulire e consolidare il calcare non interrompono il processo degenerativo, tanto che, nel 1994, si deve intervenire nuovamente. Anche in questo caso la pulitura, il consolidamento, le integrazioni e le stuccature, che ne migliorano con efficacia l’aspetto estetico, non daranno risultati permanenti.

INTERVENTO D’URGENZA L’attuale restauro, curato da Cristina Del Gallo, ha quindi costituito un estremo tentativo per salvare una delle sculture maggiori della collezione bolognese. L’insorgere di efflorescenze biancastre e lanuginose sul pilastrino dorsale e sulla metà inferiore della scultura – sia in aree attigue alle integrazioni di restauro, sia in aree apparentemente non interessate a precedenti fenomeni di degrado –, cosí come il manifestarsi

A destra: una zona che mostra opacizzazioni grigie e ingiallimenti dovuti ai protettivi usati nei restauri precedenti. In basso, sulle due pagine: vedute laterali prima e dopo il restauro.

di nuove e profonde fessurazioni ad andamento parallelo, esfoliazioni superficiali, lesioni, microfratture, distacchi e crolli di scaglie hanno reso urgente questo intervento. Il restauro è stato preceduto da indagini diagnostiche eseguite da alcuni rinomati centri di ricerca italiani. L’Opificio delle Pietre Dure si è occupato della mappatura delle DOPO

sostanze utilizzate in occasione dei precedenti interventi conservativi, nel tentativo di definirne la stratificazione, ma soprattutto i fenomeni di interazione con il calcare. Le analisi condotte dal Laboratorio LAMA dell’Università IUAV di Venezia hanno invece permesso la caratterizzazione petrografica del calcare, al cui interno è stata rilevata sia la PRIMA

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RESTAURI • ANTICO EGITTO

In alto: durante il restauro, si è verificato il distacco di alcuni grandi frammenti alla base della scultura, adesi in precedenza con adesivo vinilico e gesso. Qui sopra, da sinistra: rimozione delle stuccature superficiali e profonde dei vecchi restauri, risarcimento delle lacune e lesione del restauro attuale.

presenza consistente di cloruri (di sodio e potassio) – la cui cristallizzazione e solubilizzazione originano importanti fenomeni degenerativi della pietra –, sia quella di solfato di calcio bi-idrato, a cui sono correlabili gran parte delle efflorescenze biancastre e lanuginose superficiali. Il naoforo è stato inoltre sottoposto a indagini ultrasoniche dal Laboratorio ENGEL del Politecnico di Torino, per verificare se le fratture visibili in superficie proseguissero anche all’interno del corpo della scultura, individuandone e quantificandone le fragilità. Sulla base delle informazioni ottenute, si è deciso di rimuovere per 68 a r c h e o

quanto possibile le sostanze non traspiranti e igroscopiche utilizzate nei vecchi restauri – bonificando la scultura dai materiali in grado di favorire e accelerare il degrado del calcare – e di sperimentare un restauro che potremmo definire antico e/o «debole». Esso ha implicato l’utilizzo di consolidanti, adesivi e integrativi dalle caratteristiche meccaniche e chimiche simili a quelle della roccia originaria e tali da non interagire con i sali presenti nel calcare. Dopo il restauro, al fine di prevenire ulteriori fenomeni di degrado, la statua è stata trasferita in un ambiente rigorosamente controllato da un punto di vista igro-

metrico – UmiditàRelativa nell’intervallo 50±5% –, cosí da evitare la solubilizzazione dei cloruri di sodio che avviene al 75% di UR. Il tutto per per mettere ad Amenmes e Reshpu di continuare a raccontare la propria storia alle generazioni future, che dovranno comunque prendersi cura di un manufatto cosí delicato. DOVE E QUANDO «Restituzioni 2016. La bellezza ritrovata. Caravaggio, Rubens, Perugino, Lotto e altri 140 capolavori restaurati» Milano, Gallerie d’Italia fino al 17 luglio Orario ma-do, 9,30-19,30 (giovedí apertura serale fino alle 22,30); lunedí chiuso. Info numero verde 800167619; e-mail: info@gallerieditalia.com; www.gallerieditalia.com Museo Civico Archeologico Bologna, via dell’Archiginnasio 2 Orario ma-ve, 9,00-15,00; sa, do e festivi, 10,00-18,30 Info tel. 051 2757211; www.museibologna.it/archeologico



PARCHI ARCHEOLOGICI • AOSTA

LO SPETTACOLO DELLA PREISTORIA SI È INAUGURATO AD AOSTA IL PARCO ARCHEOLOGICO E MUSEO DI SAINT-MARTIN-DE-CORLÉANS. UN COMPLESSO CHE PERMETTE DI VEDERE DA VICINO UNO DEI PIÚ STRAORDINARI SITI PREISTORICI D’EUROPA, NEL QUALE, GRAZIE A OLTRE VENT’ANNI DI SCAVI, SONO STATE RIPORTATE ALLA LUCE TESTIMONIANZE DI PRATICHE RITUALI FORTEMENTE SENTITE DALLE COMUNITÀ CHE UTILIZZARONO L’AREA TRA IL NEOLITICO E L’ETÀ DEL BRONZO di Stefano Mammini

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I

l Parco Archeologico di Saint-Martin-de-Corléans, ad Aosta, è finalmente una realtà. E la sua inaugurazione segna la vittoria di una duplice scommessa: quella della musealizzazione di un sito archeologico eccezionalmente vasto e con caratteristiche strutturali particolar mente delicate e quella contro la ricorrente convinzione che la preistoria ci abbia lasciato testimonianze solitamente poco spettacolari. Adesso si può visitare quel che oltre vent’anni di scavi hanno portato alla luce alla periferia del capoluogo valdostano e intuire, fin dal primo sguardo, perché il sito megalitico di Saint-Martin-de-Corléans debba essere considerato come un caso finora unico nel panorama

culturale dell’Europa e con po- altre sepolture megalitiche. chi confronti possibili anche al Una sequenza a cui fecero di fuori del Vecchio Continente. quindi da corollario l’impianto di nuove strutture funerarie nel corso dell’età del Ferro e in UN PALINSESTO UNICO I circa 10 000 mq dell’area epoca romana e, nel Medioevo, esplorata dagli archeologi han- la costruzione della chiesa rono restituito un palinsesto stra- manica di Saint-Martin, che dà ordinariamente ricco e artico- nome all’intera area e che per lato, nel quale – tra la fine del secoli ha vegliato su quello che, VI e la metà del II millennio concettualmente, può essere a.C. – si succedettero e in alcu- considerato una sorta di suo ni casi coesistettero: un’aratura illustre antenato. verosimilmente rituale; lo sca- L’avventura ebbe inizio nel vo di pozzi con funzioni 1969, quando nell’area era stata anch’esse rituali; la posa in autorizzata la costruzione di opera di pali lignei aventi forse alcuni complessi condominiali. un valore totemico; l’innalza- I lavori procedevano speditamento di oltre cinquanta stele mente e, dopo aver già ultimaantropomorfe in pietra; lo to la realizzazione dei previsti sfruttamento del sito a scopo garage sotterranei, la benna di sepolcrale, con la costruzione un mezzo meccanico intercetdi tombe a dolmen e poi di tò una lastra in pietra di note-

Aosta, Saint-Martin-de-Corléans. La Tomba II, del tipo a dolmen. È la struttura sepolcrale piú grande fra quelle scoperte nel sito e la sua costruzione, nella seconda metà del III mill. a.C., determinò l’interruzione dell’allineamento delle stele antropomorfe. L’impianto originario fu in parte alterato da successive riutilizzazioni.

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PARCHI ARCHEOLOGICI • AOSTA

voli dimensioni. Non era la prima, tanto che frammenti simili erano stati in precedenza rimossi e avviati in discarica, ma questa colpiva per le dimensioni (nell’ambito della successiva catalogazione, è stata poi etichettata come Stele 6) e la segnalazione del suo ritrovamento indusse la Soprintendenza a compiere ulteriori accertamenti: il cantiere venne sospeso e, nel mese di giugno, ebbero inizio i primi scavi, affidati a Franco Mezzena, archeologo veronese che ha poi guidato tutte le campagne successive, fino al 1991. Gli sbancamenti fino a quel momento operati avevano sicuramente cancellato eventuali stratigrafie medievali (piú che probabili, vista la vicinanza con la chiesa di Saint-Martin) e romane, ma, al tempo stesso, ebbero il «merito» di rivelare un

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A destra: la chiesa romanica di Saint-Martinde-Corléans, a ridosso della quale si estendeva il giacimento preistorico, ora musealizzato all’interno della struttura visibile sulla destra.

sito che, altrimenti, sarebbe ri- mento preistorico. L’ecceziomasto per sempre sconosciuto. nalità del sito apparve ben presto evidente, tanto che tra il 1970 e il 1971 la Regione Valle IL SITO È SALVO! Si deve infatti considerare che d’Aosta acquisí l’intera area, il ritrovamento della stele era permettendo che si trasformasavvenuto a circa 6 m di profon- se in uno dei piú vasti cantieri dità rispetto al piano di campa- di scavo archeologico attivi in gna attuale e che dunque, in Europa, nel quale si sono nel superficie, non erano mai stati tempo avvicendati archeologi e osservati indizi che potessero studenti di numerose universisuggerire la presenza del giaci- tà, fra cui, nel 1982, chi scrive.


Pozzi Pali

Stele Tomba I

Tomba II Tomba III Stele

N NO

NE

O

E SO

SE

S

Tomba IV Tomba VI

Limite aratura Piattaforma

Tomba VII

Muratura megalitica

Tomba V 0

10 Km

In alto: planimetria generale del sito megalitico di Saint-Martin-de-Corléans, con l’indicazione delle diverse strutture rinvenute e dell’estensione dell’aratura effettuata prima dell’utilizzo dell’area, probabilmente con l’intento di «consacrarla». A sinistra: la Tomba I, realizzata tra il 2100 e il 1900 a.C., servendosi di stele antropomorfe riutilizzate come pareti e copertura della struttura.

Fin dall’inizio lo scavo è stato condotto in estensione e tale strategia ha progressivamente rivelato le peculiarità del sito, la cui prima frequentazione si colloca nel Neolitico Antico, intorno al 4100 a.C., quando la comunità che lo scelse ne arò il terreno. L’operazione venne compiuta seguendo un orientamento ben preciso, nord/estsud/ovest, e recenti osservazioni hanno permesso di stabilire che fu praticata servendosi della trazione animale, e in particolare di buoi. Un dato che ne fa una delle piú antiche attestazioni del genere a oggi note. Ma, soprattutto, non dovette trattarsi di un intervento finalizzato allo sfruttamento agricolo dell’area, poiché dallo scavo non sono emersi reperti che lo provino, come per esempio resti di semi. L’ipotesi è che si sia trattato piuttosto di una sorta di consacrazione del sito, preliminare al suo utilizzo.

L’IMPRONTA DELL’ARATRO Un evento speciale, che gli archeologi hanno potuto «leggere» grazie a una fortunata coincidenza: quando l’aratura venne praticata, sotto il terriccio giaceva l’ultimo strato tardi-glaciale, che aveva ancora una consistenza morbida e in parte acquosa, cosicché la punta dell’aratro poté facilmente inciderlo e il suo successivo consolidamento ha di fatto creato una straordinaria impronta. Di cui oggi sono visibili alcune porzioni lungo il percorso di visita attrezzato e che potrà essere ulteriormente rivelata da scavi futuri. All’aratura fece seguito lo scavo di vari pozzi, che potrebbero essere stati utilizzati come silos o avere avuto anch’essi un valore simbolico. Questa seconda ipotesi è stata avanzata sulla a r c h e o 73


PARCHI ARCHEOLOGICI • AOSTA

Un simbolo enigmatico Fra le stele di Saint-Martin, quella qui illustrata presenta una sorta di pendaglio a doppia spirale. Si tratta di un motivo ampiamente attestato in ambito pre-protostorico, per esempio in area germanica, ma la sua interpretazione è tuttora oggetto di discussione. Come si vede dalla foto in basso, anche questo monolite fu rimosso dalla sua posizione originaria e, dopo essere stato privato della testa, utilizzato come parete di una delle sepolture, la Tomba III.

scorta dei materiali recuperati sul fondo di queste fosse, vale a dire macine, macinelli e resti di cereali (farro) e legumi (pisello).

«TOTEM» AI PIEDI DELLE ALPI Assai piú certo è il carattere rituale dell’intervento successivo, praticato nel corso dell’età del Rame – fra il 2900 e il 2500 a.C. – e consistente nell’innalzamento di numerosi pali in legno, perfettamente allineati. In questo caso, la natura «religiosa» è suggerita sia dai confronti etnografici (si pensi, per esempio, ai totem 74 a r c h e o


attestati presso i nativi americani), sia dal fatto che nelle buche in cui i pali vennero alloggiati sono state trovate ossa di bue, talvolta bruciate, che sembrano essere appunto l’esito di una deposizione rituale. Purtroppo, non si è invece trovato alcun indizio certo sul possibile aspetto – forma, altezza, eventuali decorazioni o coloriture – e, sulla base di alcuni frammenti, si è potuto unicamente accertare che si utilizzò legno di larice o di pino silvestre. Con maggiore cautela sono infine al vaglio le ipotesi sull’eventuale funzione astronomica dell’allineamento, tuttora in corso di studio.

UNA SCHIERA PERFETTA Nello stesso arco temporale, la comunità che fece del sito di SaintMartin un luogo decisamente speciale avviò la creazione di un altro allineamento, in questo caso composto da stele in pietra, che nella maggioranza dei casi riproducono, con fattezze stilizzate, la figura umana. Gli scavi hanno permesso di individuarne 46, ma si stima – sulla base dei frammenti comunque riconducibili a questo genere di manufatti – che fossero in tutto 52. Non è dunque difficile immaginare il colpo d’occhio che un simile plotone potesse offrire… I monoliti avevano dimensioni comprese fra 1,7 e 3 m e hanno fin dall’inizio costituito uno dei maggiori motivi di interesse offerti dallo scavo. Franco Mezzena e i suoi collaboratori ne hanno avviato lo studio, tuttora in corso, giungendo a conclusioni di notevole rilievo. È stato per esempio osservato che le stele seguono due diversi stili, che si succedono nel tempo e che le loro dimensioni rispettavano un vero e proprio canone, con rapporti proporzionali costanti fra le varie parti delle sculture (sezione superiore, sezione inferiore e piede, destinato a essere infisso nel terreno). Dopo una lunga militanza, questi guardiani di pietra conobbero un

destino assai meno nobile: l’area di Saint-Martin-de-Corléans cominciò infatti a essere sfruttata come sepolcreto e sorsero le prime tombe megalitiche. In particolare, la costruzione del dolmen piú grande (Tomba II) interruppe l’allineamento e, piú tardi, nell’età del Bronzo (intorno al 2200 a.C.) il trattamento riservato ai monoliti fu ancor piú sbrigativo: molti furono abbattuti e lasciati sul posto, ma con la faccia decorata verso il terreno, cosí da nasconderla, ma altri furono divelti e spesso spezzati in piú parti per ricavarne lastre da costruzione.

Le tombe erano infatti del tipo a cista, una sorta di grande cassa, alla cui realizzazione le stele e le porzioni di stele si prestavano ottimamente come pareti e coperture. Il sito si era dunque trasformato in una vasta necropoli, il cui ricordo dovette mantenersi nel tempo, considerando che tra la fine del III e la metà del II secolo a.C. la parte sommitale della Tomba II accolse una nuova deposizione. Il libro della storia di Saint-Martinde-Corléans, che gli archeologi hanno sfogliato in oltre un ventennio di ricerche (e che intendono

Bianco per i defunti e denti per i cercatori d’oro La Tomba II sorse su una vasta piattaforma triangolare composta di ciottoli di varie dimensioni sui quali è stato individuato uno strato di cristalli di quarzite: è stato ipotizzato che il loro colore bianco intendesse segnalare la funzione funeraria della zona. In un’altra piattaforma sono stati invece ritrovati numerosi denti umani, perlopiú incisivi: la loro presenza può essere spiegata con una sorta di semina rituale, che potrebbe essere legata al patrimonio mitico delle comunità che, come quelle stanziatesi a SaintMartin, percorrevano l’Europa alla ricerca di metalli, fra cui l’oro.

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PARCHI ARCHEOLOGICI • AOSTA

continuare a sfogliare nei prossimi anni con nuovi interventi mirati) si può oggi leggere all’interno di una vasta struttura, che protegge i resti riportati alla luce sotto una navata che, grazie alle soluzioni ingegneristiche adottate, si sviluppa per oltre 45 m senza sostegni intermedi, offrendo cosí una vista d’insieme capace di restituire con buona approssimazione l’impatto che il sito offriva in origine.

DALL’ALBA AL TRAMONTO Inoltre, per avvicinarsi ancor di piú alle condizioni di un tempo, sono stati installati 500 faretti a LED che offrono un’illuminazione dinamica: nell’arco di circa mezz’ora, infatti, rischiarano il sito con una luce che imita in sequenza quelle dell’alba, del mezzogiorno, del pomeriggio, del tramonto e della notte. Nel passeggiare intorno al dolmen, alle stele e agli altri monumenti (per ragioni di sicurezza e di conservazione si è scelto di non permettere l’attraversamento dell’area) si ha dunque l’opportunità di sperimentare le sensazioni che si potevano provare

A destra: uno dei pozzi in corso di scavo. Come si vede nella foto, sul fondo della buca giacevano una macina con il macinello: la loro presenza suggerirebbe, anche in questo caso, una possibile funzione rituale.

trovandosi qui in un qualsiasi giorno di 5000 o 4000 anni fa. Dall’area dello scavo, il percorso si snoda negli ambienti del museo (che con il sito mantiene un rapporto visivo costante), assecondando uno degli auspici di Franco Mezzena, cioè la creazione di un complesso integrato, in cui la strut-

TERAPIA O RITUALE MAGICO? Lo scavo della Tomba II ha restituito anche crani umani con tracce di trapanazione. Si tratta di una pratica attestata in età preistorica, ma la cui interpretazione non è univoca: le ipotesi oscillano, infatti, da operazioni di tipo prettamente terapeutico (per esempio per la cura di forti dolori di testa) a interventi che avevano scopi magico-rituali. In ogni caso, chi praticava simili perforazioni doveva avere acquisito una notevole padronanza in materia, poiché riusciva spesso a garantire la sopravvivenza del «paziente». Nel caso dell’individuo a cui apparteneva il cranio qui illustrato, sottoposto a ben due trapanazioni, gli studi antropologici hanno provato che si trattava di un uomo adulto, che visse per alcuni mesi dopo aver subito il trattamento. I fori, in questo caso, furono praticati per abrasione, utilizzando verosimilmente uno strumento in pietra. La Tomba II ha restituito altri due crani trapanati e la presenza contemporanea di tre reperti del genere è un caso finora unico in Europa.

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tura per la documentazione non fosse separata dal contesto d’origine. Poco prima dell’ingresso, è stato allestito uno «strappo» della sequenza stratigrafica e questa sorta di proiezione in parete di oltre 6 m di terreno non solo offre un’ulteriore testimonianza dell’entità del lavoro compiuto, ma consente anche di


Un settore dell’area nella quale, intorno al 4100 a.C., il terreno di Saint-Martin-de-Corléans venne arato. In assenza di resti paleobotanici, si ipotizza che l’atto fosse stato compiuto per consacrare il sito, scelto come luogo di culto della comunità stanziatasi nella zona. Recenti studi hanno provato che l’aratro fu trainato da buoi.

cogliere il rapporto esistente tra il livello del sito megalitico e quello della città moderna. Dell’esposizione vera e propria, merita d’essere segnalata la scelta di renderla fruibile a ogni tipo di pubblico, con accorgimenti che facilitano l’accesso delle persone non deambulanti e apparati esplicativi in Braille, uniti, questi ultimi, a numerosi oggetti e repliche che possono essere toccati e maneggiati.

Vengono dunque ripercorse le tappe della storia del sito, dall’aratura ai pozzi, dalle buche di palo alle tombe, riservando una piú che giustificata enfasi al capitolo dedicato alle stele. Al momento ne sono esposte 19, ma la seconda fase di allestimento prevede la presentazione degli altri 26 monoliti recuperati. Considerando la damnatio memoriae di cui furono oggetto, le stele possono essere ammirate in condizioni ottima-

li, seguendone lo sviluppo e, grazie all’accuratezza dell’illuminazione, cogliendone ogni dettaglio.

STILI E TECNICHE Gli studi fin qui condotti hanno permesso di distinguere due stili diversi, che si succedono nel tempo. In un primo momento le stele hanno l’aspetto di grandi monoliti, che riproducono la figura umana in maniera estremamente stilizzata: la tea r c h e o 77


PARCHI ARCHEOLOGICI • AOSTA

sta non è altro che una piccola proIn alto: la tuberanza, le spalle sono ben segnastruttura te, ma, per il resto, non ci sono altre realizzata come caratterizzazioni particolari e, soatrio e ingresso prattutto, manca qualsiasi decoradella Tomba II. zione. Un’impostazione che trova Anche in questo confronti nelle regioni del Mar Necaso, è facile ro, in Ucraina e in Crimea. riconoscere una In una seconda fase si registra una stele decorata in netta evoluzione tecnica e stilistica: una delle lastre le stele vengono realizzate con utilizzate per la grande cura, arricchendo i persocostruzione. naggi di ornamenti, nella cui elaboA destra: il razione si coglie una ricerca quasi settore del sito in esasperata del geometrismo. Sono cui si succedono invece assenti particolari che possaalcune stele no definire il sesso del personaggio abbattute e raffigurato e l’attribuzione dei sincoricate con la goli manufatti può essere tentata faccia decorata a soltanto con i medesimi criteri di terra e la Tomba I. distinzione desunti dai corredi tomNella pagina bali: in particolare, si può ipotizzare accanto: la che le stele in cui sono rappresentaStele 3, che te armi siano riferibili a uomini e presenta una quelle che ne sono prive a donne. delle decorazioni Anche se, nei casi in cui è raffigurapiú ricche fra to un arco, potrebbe trattarsi delle quelle attestate a immagini di divinità femminili che Saint-Martin. 78 a r c h e o


«VESTIRSI» CON LA PIETRA La Stele 3 sud è uno degli esemplari migliori del secondo stile distinto nel corpus dei monoliti aostani. La testa è del tipo detto «a cappello di gendarme» e presenta soltanto sopracciglia e naso, mentre sono assenti gli occhi e la bocca. Dalle spalle, insellate, scende una decorazione a semicerchio che presenta nella parte superiore una collana a piú fili, con un ornamento a «V» al centro, e, nella parte inferiore, sei fasce di triangoli, alternativamente riempiti da puntini e vuoti, ma leggermente ribassati rispetto agli altri. Ancora al di sotto si riconoscono le braccia, che si piegano ad angolo retto sul ventre, e le mani, dalle dita sottilissime. Si può quindi distinguere una cintura, chiusa al centro da quella che sembra essere una placca decorata e una nuova successione di fasce campite da triangoli uguali a quelli della patre superiore. L’interpretazione di questi elementi è tuttora dubbia, poiché recenti studi sperimentali hanno dimostrato che nessun telaio avrebbe potuto consentire la realizzazione di un tessuto ad andamento semicircolare; potrebbe perciò trattarsi di un abito ottenuto a intreccio o di una pelliccia (i triangoli sarebbero i ciuffi di pelo).

lo avevano come attributo e, del resto, che le stele siano effigi di personaggi divini è una delle ipotesi a tutt’oggi sostenute.

IL GRAN FINALE Dopo le sezioni dedicate ai materiali recuperati nelle tombe, tra i quali meritano d’essere segnalati i crani con tracce di trapanazione (vedi box a p. 76), il percorso si dirige verso la terrazza che permette di tornare ad abbracciare il sito con lo

sguardo, questa volta dall’alto: la suggestione si fa ancora piú forte, poiché, naturalmente, si coglie l’insieme delle varie strutture e si percepiscono ancor meglio alcune delle caratteristiche salienti, come gli allineamenti o le piattaforme di ciottoli (vedi box a p. 75). Sembra quasi di poter respirare l’antica sacralità di Saint-Martin-de-Corléans, mentre non è certo una suggestione la sensazione di trovarsi al cospetto di un sito unico e straordinario.

DOVE E QUANDO Parco Archeologico e Museo di Saint-Martin-de-Corléans Aosta, corso Saint-Martin-de-Corléans Orario fino al 30.09.16: tutti i giorni, 9,00-19,00; dal 01.10 al 31.12.16: tutti i giorni, 10,00-13,00 e 14,00-18,00; chiuso 25 dicembre e 1° gennaio Info tel. 0165 552420; e-mail: beniculturali@regione.vda.it a r c h e o 79


MOSTRE • ROMA

L’INVENZIONE DELLA TRACCIABILITÀ DA TEMPO AFFERMATOSI COME UN ELEMENTO DISTINTIVO DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA, IL MARCHIO HA ORIGINI ANTICHE. APPOSTO SU MATTONI, ANFORE, OGGETTI IN VETRO E PERFINO ESSERI UMANI (!), ERA INFATTI UNA PRESENZA COSTANTE, COME RACCONTA UNA MOSTRA ALLESTITA A ROMA, NEL MUSEO DEI FORI IMPERIALI a cura della redazione, con testi di Lucrezia Ungaro e Simone Pastor 80 a r c h e o


Sulle due pagine: Roma. I Mercati di Traiano. Qui accanto: bollo laterizio di Cn. Domitius Daphnus. Età domizianea. Roma, Antiquarium Comunale.

S

ede di uno dei complessi commerciali piú importanti dell’antica Roma, i Mercati di Traiano – che ora accolgono il Museo dei Fori Imperiali – ospitano una mostra legata a doppio filo a quelle antiche transazioni: argomento centrale della rassegna sono infatti le molteplici forme con cui si esplicitava la proprietà di un bene (che, nel caso degli schiavi, poteva anche essere rappresentato da esseri umani in carne e ossa!). Una prassi che, dunque, costituiva il presupposto di ogni compravendita. Illustriamo in queste pagine i contenuti dell’esposizione, avvalendoci di ampi stralci dei testi elaborati per l’occasione da due dei curatori del progetto, Lucrezia Ungaro e Simone Pastor.

A destra: stampo in marmo bianco per bottiglia rettangolare, da Salonae. Fine del I-inizi del II sec. d.C. Spalato, Museo Archeologico.

Il segno, il marchio, il simbolo, sono sistemi di riproduzione di valori e di esperienze che risalgono alle nostre origini. Dai pittogrammi ai segni divinatori, apotropaici e iniziatici, fino ai marchi di produzione e di possesso, queste forme di rappresentazione sono legate alla storia dell’uomo, costituendo an-

cora oggi presupposti della comunicazione in numerose etnie. A metà strada fra parola e disegno, alla frontiera fra marchio e simbolo, questi segni esplicitano il piú delle volte la necessità dell’uomo di uscire dalla dimensione individuale, rivestendo grande importanza come forme di auto-rappresentazione. a r c h e o 81


MOSTRE • ROMA

Il mondo romano non è esente da questo sistema di simboli. Una società «pre-industriale» come quella romana, che occupava nel cosiddetto «terzo settore» gran parte della forza lavoro e delle risorse – e il cui sviluppo fu favorito dalla pax romana garante della sicurezza delle linee di traffico –, permise il moltiplicarsi di botteghe, di aziende produttive e commerciali all’ingrosso e al dettaglio, di depositi, di magazzini, di corporazioni, di artigiani e trasportatori in tutto l’impero. La congerie di oggetti arrivati fino a noi è il risultato di questo sforzo economico; una vasta gamma di testimonianze a documentazione delle numerose produzioni seriali delle officine romane. Reperti che, tuttavia, non sono l’unica testimonianza materiale di questo complesso sistema: su ciascun prodotto, su ciascun oggetto, compare una traccia distintiva della loro storia, un marchio – il protagonista di questa mostra – un segno, composto da una sequenza di lettere o da uno o piú simboli, di riconoscimento delle officine dove erano stati prodotti o del commerciante che li aveva distribuiti. Simboli di una «società 82 a r c h e o

In alto: la sala nella quale sono stati riuniti esemplari di anfore appartenenti a varie tipologie che presentano bolli (come quella della foto qui sopra) e altre annotazioni relative al tipo e alla quantità di derrate contenute (vedi anche la foto nella pagina accanto, in basso).

pre-industriale» il cui compito era di scoprire diversi aspetti della vita quello di comunicare e codificare la economica e sociale del mondo propria identità. romano. Il percorso espositivo si apre con l’aspetto «industriale» del marchio e si fa particolare riferiLA VITA ECONOMICA mento allo studio e all’analisi dei E SOCIALE La mostra riunisce oggetti prove- marchi e dei signa di officinatores nienti da musei romani, italiani ed (impresari) e di mercatores (commereuropei. Si tratta, nell’insieme, di un cianti) lasciati su numerose categonumero cospicuo di reperti, molto rie di prodotti. Ne ricordiamo qui eterogenei tra loro, che permettono alcune delle piú singolari.


I BOLLI LATERIZI All’epoca di Augusto, si diffuse a Roma l’uso dei laterizi (mattoni) cotti in fornace. L’impermeabilità e la facilità di produzione e di posa in opera di questi materiali permisero l’imponente sviluppo edilizio di Roma e Ostia a partire dalla seconda metà del I secolo d.C. Molti importanti personaggi possedevano nel territorio a nord di Roma e lungo l’alta valle del Tevere estesi fondi (praedia), che disponevano di giacimenti di argilla e di boschi per la legna usata come combustibile: queste condizioni permisero lo sviluppo di grandi impianti (figlinae) per la fabbricazione dei laterizi, che producevano tegole (tegulae) e mattoni di forma quadrata e di dimensioni standardizzate: bipedales, di due piedi (circa 60 cm di lato), sesquipedales, di un piede e mezzo (45 cm) e bessales (23 cm). In ciascuna figlina, con una o piú fornaci, lavoravano schiavi-operai diretti da un capo-officina (officinator), che spesso era un ex schiavo, legato al padrone del fondo (dominus) da un contratto: questa organizzazione era rispecchiata dalle formule dei bolli laterizi. I bolli si imprimevano con un timbro in legno o in bronzo sull’argilla durante l’essiccazione del mattone formato, prima della sua cottura.

Numerosi bolli laterizi (vedi box in questa pagina) testimoniano la fervente attività delle dominae officinatrici, un fenomeno poco conosciuto a causa del silenzio quasi totale delle fonti letterarie. Le donne imprenditrici erano impegnate soprattutto nella produzione e nel commercio di generi alimentari, e nella filatura e tessitura su scala artigianale, trasposizioni all’esterno delle tradizionali attività femminili. I bolli laterizi esposti aiutano a completare il quadro del ruolo delle donne nell’economia: i marchi di fabbrica dell’opus doliare attestano una notevole presenza femminile nelle figlinae, un settore fondamentale in età imperiale, grazie allo sviluppo della grande edilizia pubblica urbana. Assai apprezzati e diffusi erano i

In alto: bollo doliare di Calventia Maxima, dai Mercati di Traiano. 198-200 d.C. Roma, Museo dei Fori Imperiali. A sinistra: bollo laterizio di L. Lurius Blandus. Età domizianea. Roma, Antiquarium Comunale.

Le iscrizioni riportano l’oggetto prodotto, il nome del padrone del fondo, che dava in gestione l’attività, il nome del fondo stesso (ex praedis), quello del capo-officina o del conduttore, o, ancora, l’unità di produzione (con le formule ex figlina/figlinis, o ex officina). Le forme dei bolli mutano nel tempo: inizialmente rettangolari, dal I secolo d.C. i bolli sui mattoni destinati a Roma furono orbicolari e circolari. Un elemento ricorrente fu il signum, un’immagine simbolica (stella, freccia, palma), che inizialmente aveva un valore esclusivamente decorativo, ma poi divenne distintiva del capo-officina o del padrone del fondo o della figlina.

vetri provenienti da Roma e dalle province di Dalmatia e Germania Superior, le cui città – in particolare Salonae (Spalato) e Colonia (Köln) – erano famosi centri di produzione

di oggetti in vetro «imitati», un processo che ben conosciamo anche nel mondo moderno, per la loro bellezza, per la loro qualità, da molte officine dell’impero.

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MOSTRE • ROMA

Fra gli oggetti d’uso quotidiano, possiamo quindi ricordare le lucerne col marchio di fabbrica (Firmalampen). Si tratta di un gruppo di esemplari non decorati, perlopiú in argilla rossa, che si distinguono perché sul fondo recavano impresso il marchio della ditta che li aveva fabbricati, vere e proprie imprese familiari, come quella degli Oppi, una famiglia di fabbricanti urbani. Testimonianze dell’attività produttiva di ceramisti sono inoltre i reperti in terra sigillata – coppe e piatti –, i cui fondi restituiscono impressi i marchi dei produttori; e in terracotta, come due splendidi mortai e una lista graffita sul fondo di un vaso. Quest’ultima attesta l’intensa attività di un mastro fornaciaio che aveva messo a cuocere un totale di 1540 piatti, 300 coppe e 790 scodelle o coppette, fabbricati

In alto: ghianda missile (glans), probabilmente da Perugia. Seconda metà del I sec. a.C. Perugia, Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria. Reca un’iscrizione, mal conservata, Angus // te Anto[ni] («o meschino Antonio») che alluderebbe sia alle difficoltà del console, assediato nella città umbra nel corso del bellum perusinum, sia alla sua grettezza.

da sei diversi vasai. I bolli impressi su ciascuno degli oggetti servivano a restituire i vasi, una volta cotti, ai loro proprietari e la registrazione del carico a ripartire in modo equo i costi della cottura tra di loro. Botti e anfore sono protagonisti di un’altra sezione legata alla produzione e al commercio marittimo romano. I marchi su questi reperti documentano l’attività produttiva e commerciale di alcuni officinatores, come Marcus Tattius Blandius, cittadino romano, padrone di un’officina che fabbricava le anfore da trasporto in cui era commercializzato il vino prodotto nella regione. Sul collo di molte anfore ritroviamo impresso il suo nome completo.

LETTERE SUL MARMO Vi sono poi i marmi segnati dai cavatori, la cui storia è giunta fino a noi. Tra quelli selezionati per la mostra, di particolare importanza è il retro di un capitello di semicolonna impiegato nel Foro di Augusto. Casualmente, sulla superficie sbozzata in cava, si è conservata parte dell’iscrizione tracciata sul blocco: nella prima riga troviamo un numerale, relativo alla contabi-

COLLIRI E OCULISTI Per renderne piú facile la conservazione e il trasporto, alcuni medicamenta (farmaci) venivano triturati e mescolati con sostanze oleose o acquose, impastati in forma di bastoncino ed essiccati. Al momento dell’uso venivano nuovamente ammorbiditi e diluiti. I marchi si imprimevano prima dell’essiccazione riportando il nome del medico, del farmaco e della malattia che dovevano curare. Un vasetto di terracotta in miniatura,

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lizzazione della produzione di blocchi della cava e, al di sotto, la scritta CAES, abbreviazione forse per Caesaris, «di Cesare». La mostra presenta inoltre una sezione relativa ai medicamenta, cioè ai farmaci. Ieri come oggi, tali prodotti dovevano essere facilmente identificabili. In mancanza di un controllo statale, i marchi e le iscrizioni attestavano l’autenticità e l’efficacia del farmaco, garantendo altresí la qualità del prodotto, grazie al nome del medico/farmacista o del preparatore, impressi sui contenitori o direttamente sui prodotti. Per esemplificare la categoria dei contenitori con marchio impresso è stato scelto un vasetto in miniatura di terracotta (alto 3,8 cm e con un diametro massimo di 4,21 cm), in cui era contenuto un collirio (vedi box in basso, sulle due pagine). Nella sezione «il marchio della guerra» – che portiamo tristemente con noi da migliaia di anni – sono esposte alcune glandes (proiettili) marchiate. Questi prodotti mostrano come alcuni fabbricanti, tra cui il famoso Fabricius, ottenessero commesse statali per fabbricare proietti utilizzati dalle legioni di Roma. Su questi oggetti non solo ritroviamo i nomi dei produttori,

ma vere e prorie frasi di ingiuria contro i nemici come, per esempio, l’invettiva contro Lucio Antonio, fratello del triunviro Marco Anto-

proveniente da Pompei conteneva il lykion, ovvero il collirio «licio», dalla Licia, una regione dell’odierna Turchia. Il contenitore è cosí piccolo (è alto meno di 4 cm e ha un diametro massimo di poco superiore), perché il farmaco era molto prezioso e ricercato. La scritta lykion è accompagnata ai lati dai simboli di Apollo e di Asclepio, divinità protettrici della medicina. Sotto la scritta, un monogramma indicava

probabilmente la sigla dell’ingrediente base del collirio. Cosí tante indicazioni fanno del contenitore un oggetto unico. Nella mostra è esposto anche il sigillo dell’oculista Epagato: sulle quattro facce minori ci sono iscrizioni a lettere rovesce in direzione sinistrorsa, ciascuna con la menzione di un farmaco specifico e della malattia per cui era indicato.

In alto: fondo di un vaso sul quale un mastro fornaciaio annotò la quantità e il tipo di oggetti infornati il 21 luglio di un anno compreso fra il 60 e il 150 d.C. Pisa, Soprintendenza Archeologia della Toscana. In basso: contenitore per il collirio lykion, da Pompei, Foro Triangolare. Fine del IV-inizi del II sec. a.C. Nella pagina accanto, in basso: calco di un rilievo raffigurante un medico che cura una donna, da Ravenna. Seconda metà del III sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà Romana.

nio, oppostosi al giovane Ottaviano e causa del Bellum Perusinum. Un’usanza diremmo mai persa, se ricordiamo le recenti scene di guerra che mostrano aerei armati di bombe sulle quali si leggono offese contro il nemico. Il marchio della guerra si esprime però anche sulla pelle dei legionari. Le fonti ricordano i signa delle legioni impressi sui soldati, simboli di orgogliosa appartenenza, ma anche di proprietà, mezzi per scoraggiare la diserzione. E ancora stigma e signa, marchi sulla pelle, risultato della volontà di determinare il possesso di un oggetto o di una persona o l’appartenenza (voluta o meno) a una categoria: cosí i collari degli schiavi (vedi box a p. 87), e le numerose fonti che testimoniano come i condannati per calunnia fossero puniti con un marchio, una «K» sulla fronte; e ancora Svetonio che racconta di come Caligola amasse tatuare, per diletto, le persone.

ANTENATI DEL LOGO In questo viaggio dall’antico al contemporaneo un’ultima sezione analizza in che modo il concetto di marchio sia arrivato fino a noi. Quando abbiamo iniziato ad associare un prodotto a una forma rico-

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MOSTRE • ROMA

alla tradizione, alla competenza superiore, allo spirito stesso di un popolo e di una terra, alla ricerca di un sistema di valori unico, ma, ancor di piú, alla volontà di partecipare a un sistema produttivo e culturale comune. Un percorso reso possibile, da un lato, dalla mercantilizzazione dell’economia attivata dall’esistenza di un organismo politico unitario come l’impero, dall’altro da un processo di acculturazione reciproca tra centro e periferia, tra «Romani» e «romanizzati».

LE TRADIZIONI E LA STORIA Per i cittadini dell’impero, essere «Made in Roma» significava infatti aver saputo amalgamare le tradizioni e la storia degli eterogenei territori assoggettati dall’Urbe e delle relazioni dei numerosi sostrati con quello «romano» a sua volta sempre meno denoscibile? Vengono cosí analizzati i marchi di forma di ambito commerciale, dalle forme riconoscibili dei primi prodotti artigianali al design del logo industriale, fino all’uso della forma del prodotto come veicolo di memoria del suo creatore. È dunque una mostra di oggetti e di concetti quella allestita nei Mercati di Traiano. «Made in Roma», infatti, non intende solamente descrivere il mondo produttivo e commerciale dei Romani, ma aprire a nuove prospettive di ricerca e di analisi legate

In alto: triade di matrone in terracotta utilizzata dal mastro vasaio Fabricius per farsi pubblicità, da Colonia. Seconda metà del II sec. d.C. Colonia, RömischGermanisches Museum.

Alimentata da sempre nuovi cittadini, la popolazione dell’impero diede vita a una cultura materiale «meticcia» 86 a r c h e o

finibile – poiché anch’esso sempre piú alimentato da nuovi cittadini. Il risultato è una cultura materiale «meticcia» negli stili, nelle tecniche, nei valori. Queste produzioni materiali, su cui si costruisce soprattutto la romanizzazione delle élite, non restituiscono un significato univoco, ma sono legate alle singole procedure di identità culturale. Per fare un esempio, una coppa di terra sigillata rappresenta un processo di acculturazione completato, in cui un gruppo non necessariamente elitario dimostra di aver accolto il gusto romano: tuttavia, in particolari contesti culturali – come le Gallie – quella coppa può essere usata per bere birra, e non vino. Allo stesso modo, in numerosi casi è evidente un vero cultural change in senso sincretistico: la produzione di terra sigillata aretina trova una nuova patria

Qui accanto: busto virile in marmo lunense firmato da Zenas. Prima età adrianea. Roma, Musei Capitolini.


GLI SCHIAVI

Nel mondo romano esisteva un enorme numero di schiavi, alimentato dai prigionieri catturati durante le numerose guerre. Non tutti erano trattati bene, in particolare quelli impiegati come contadini nelle fattorie delle grandi proprietà fondiarie, la cui produzione si basava principalmente sulle prestazioni della manodopera servile. I tentativi di fuga e le relative punizioni dovevano essere frequenti, poiché le fonti antiche ci parlano di «cacciatori» specializzati nel recupero degli schiavi fuggitivi, detti «fugitivari». Segni di proprietà e precauzioni per evitare le fughe erano i collari in metallo, che, saldati al collo degli schiavi, riportavano una scritta, sul collare

stesso o su una medaglietta, con le istruzioni per ricindurre il fuggitivo al padrone e la promessa di una ricompensa. In alcuni casi, poiché il collare poteva ostacolare i movimenti, si preferiva l’applicazione di un marchio a fuoco, tanto che sappiamo dell’esistenza di professionisti specializzati nel marchiare gli schiavi. Come punizione per la fuga poteva inoltre essere tatuata sulla fronte o sulla testa dello schiavo fuggitivo la sigla FHE (per «fugitivus hic est», ovvero «questo è un fuggitivo») o altre lettere indicanti il crimine commesso: per quest’uso il commediografo Plauto chiama uno schiavo fuggitivo «litteratus» (letterato), giocando sulle lettere che portava impresse sulla fronte.

Qui sopra: pendaglio di collare di schiavo. Fine del IV sec. d.C. Roma, Antiquarium Comunale. L’iscrizione

segue una formula molto diffusa e invita a riportare il fuggitivo nel luogo dal quale è fuggito.

produttiva in Gallia, ma acquisisce originalità di decoro, dimostrandosi veicolo di nuove idee su natura, mito, divertimento. Questa reciprocità dei fenomeni di acculturazione generò una società gradualmente sempre piú complessa. Dal Domo Roma («nato a Roma») orgogliosamente espresso sugli epitaffi ritrovati in tutto il mondo romano di coloro che era-

no nati nell’Urbs, si passò ben presto a un impulso piú ecumenico, che potremmo sintetizzare con il termine moderno «made in Roma» in cui, per «Romano», non si intende uno status legale, ma un insieme di comportamenti che definiscono un singolo come parte di una comunità organizzata secondo usi e costumi romani. Questa esigenza, questa determina-

A sinistra: collare di schiavo, da Roma, piazza Cairoli. V sec. d.C. Roma, Antiquarium Comunale. Nell’iscrizione vengono specificati il destinatario del manufatto (servus sum), il nome e il titolo del padrone (Scholasticus vir spectabilis) e il luogo in cui il servo doveva essere consegnato (domo pulverata).

zione fu la base del processo chiamato romanizzazione, che trasformò differenti popoli e territori in una communis patria, sancita universalmente con la Constitutio Antoniniana del 212 d.C. (editto che concedeva la cittadinanza romana, n.d.r.), una patria comune nei confini, nella lingua, negli usi e nei costumi, nel commercio.

DOVE E QUANDO «MADE in Roma. Marchi di produzione e di possesso nella società antica» Roma, Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 20 novembre Orario tutti i giorni, 9,30-19,30 Info tel. 06 06 08 (tutti i giorni, 9,00-21.00); www.mercatiditraiano.it www.zetema.it #madeinroma Catalogo Gangemi Editore a r c h e o 87


SPECIALE • SUDAN

NEL RECINTO DEI

MISCREDENTI

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SUDAN, LOCALITÀ DI ABU ERTEILA: UNA MISSIONE ITALO-RUSSA INDAGA UN SITO ARCHEOLOGICO A POCHI CHILOMETRI DALLE LEGGENDARIE PIRAMIDI DI MEROE. IN ANTEPRIMA PER «ARCHEO», IL RACCONTO DI UNA SCOPERTA DI STRAORDINARIA IMPORTANZA

A

bu Erteila è una località del Sudan situata nel bacino del Butana, circa 200 km a nord di Khartoum e ad appena 9 dall’antica città di Meroe, lungo la sponda orientale del tratto del Nilo compreso tra Abu Hamed e Shabaloka, ovvero tra la quinta e la sesta cateratta. Posizionato alle porte del deserto, di fronte al moderno insediamento di Kabushia, il sito dista dal fiume meno di 5 km. Nei suoi pressi, il 19 gennaio del 1885, si svolse la sanguinosa battaglia di Abu Kru, in seguito alla quale le forze mahadiste riuscirono ad arrestare la marcia della colonna di soccorsi inglese inviata a Metemma per ristabilire i contatti con Charles Gordon da mesi assediato a Khartoum, (l’episodio si inscrive nel quadro della rivolta capeggiata dal mahdi, Mohamed Ahmed, che mirava a liberarsi della dominazione anglo-egiziana; vedi box alle pp. 90-91). A volte indicato dai suoi abitanti anche nella variante Ritela, il toponimo prende nome da sciami di insetti che si accaniscono con particolare virulenza sul bestiame e che, secondo i di Eugenio Fantusati locali, periscono e rapidamente dopo aver punto le loro vittime.

Abu Erteila. L’autore dell’articolo, Eugenio Fantusati, posa, insieme al capo operaio, accanto al sostegno in basalto sul quale sono stati letti i cartigli del re Natakamani e della regina Amanitore.

DUE PICCOLE COLLINE Abu Erteila è collocata in corrispondenza dell’imbocco del wadi (corso d’acqua a regime torrentizio, n.d.r.) el Hawad – percorso che conduce all’antica Basa dopo essersi addentrati lungo tale direttrice in pieno deserto per non meno di 40 km – e si caratterizza per la presenza di un minuscolo villaggio di pastori che fa da cornice all’insediamento antico, un sito multistratificato, del quale rimangono in vista due kom, piccole colline artificiali, di altezza non superiore ai 2 m, formatesi in seguito all’accumulo di materiali di riporto. La natura del suolo circostante, essenzialmente pianeggiante, è costituita in prevalenza da sabbia, ghiaia e sedimenti di arenaria giallastra. Gli abitanti, interrogati sulla zona archeologica, la definiscono in arabo «Howsh al-Kufur», che significa il «recinto dei miscredenti», un evidente riferimento alle tradizioni religiose delle genti che lo popolarono con discontinuità nel passato: i Meroiti prima (almeno dal II secolo a.C.) e i cristiani poi (a partire dal VI secolo), quando l’intero territorio esteso dall’odierna Khartoum a Meroe entrò a far a r c h e o 89


SPECIALE • SUDAN

parte dei possedimenti del piú meridionale dei regni di Nubia, cioè quello di Alwah. A questo secondo periodo di vita di Abu Erteila si possono ascrivere i resti, piuttosto superficiali, di ambienti absidati riferibili a una chiesa e oltre trenta sepolture rinvenute nelle piú antiche strutture meroitiche, che, intorno al XII secolo, furono trasformate in area cimiteriale. I corpi d’età cristiana, nella quasi totalità dei casi privi di corredo, erano deposti nelle fosse supini, in posizione distesa, avvolti in un sudario di lana, con le mani congiunte in corrispondenza della zona pelvica e le teste spesso orientate verso est, in direzione del sorgere del sole, a simboleggiare la loro ideale rinascita dopo la morte.

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Nilo Bia nco

Sennar Città attuali Cateratte

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Giuba Ke nya

Assuan

Sai Sedeinga Kerma

A sinistra: cartina della Repubblica del Sudan e dello Stato, formatosi nel 2011, del Sud Sudan. In basso: cartina dei territori attraversati dal Nilo fra la diga di Assuan e le cateratte.

Etiopia

Seyala Abu Simbel Amada Aniba Faras Wadi El-Sebua Buhen Aksha Ellesiya Qustul Mirgissa a Wadi 2 Halfa Semna

3a

Eritrea

Khartoum

Nilo

1a

Sudan

Ciad

0

Diga Sadd al Ali

E g i tt o

Kosti

IL SUDAN OGGI Fin dal Cinquecento, il Sudan costituiva uno Stato indipendente e tale rimase fino al 1820, quando fu assoggettato dall’Egitto, che ne fece un proprio governatorato. Qualche decennio piú tardi, scoppiò la rivolta guidata da Mohamed Ahmed Ibn el-Sayyid Abdullah, autoproclamatosi mahdi, «il ben guidato», il quale, dopo un anno d’assedio, riuscí a entrare trionfalmente a Khartoum il 26 gennaio del 1885. L’indipendenza ebbe però vita breve: il califfato mahadista sopravvisse, di fatto, per meno di tre lustri. Il 1° settembre del 1898 la capitale fu infatti riconquistata dalle truppe inglesi guidate da Lord Horatio Herbert Kitchener, il quale, nella circostanza, aveva tra i suoi ufficiali un giovanissimo Winston Churchill. Governato da quel momento come condominio anglo-egiziano, il Sudan dovette attendere il 1° gennaio del 1956 per ottenere l’indipendenza. Il Paese, che sino al 2011 è stato la nazione africana con la maggiore estensione territoriale dell’intero continente, risulta oggi bipartito – in seguito a una sofferta separazione – in due ben differenziate realtà geografiche e politiche, create all’indomani dei risultati del referendum del 9 luglio 2011. Si tratta della Repubblica del Sudan, comprendente diciassette distretti regionali e del Sudan del Sud, suddiviso in dieci


province. Di cultura islamica, la Repubblica presidenziale del Nord si caratterizza per paesaggi in gran parte desertici e per un confine, quello orientale, interamente bagnato dalle acque del Mar Rosso. Assai piú vicina all’Egitto rispetto al Sudan del Sud, risulta, per evidenti ragioni, detentrice di un ampio e variegato patrimonio archeologico. Khartoum, la capitale, che in arabo significa «proboscide», venne edificata in corrispondenza della confluenza tra il Nilo Bianco e quello Azzurro. La città, una volta riconquistata dalle truppe vittoriane, fu riprogettata da Kitchener seguendo l’intersecarsi delle linee della Union Jack, la bandiera inglese. Il tessuto urbano, popolato da oltre 10 milioni di abitanti, ha oggi interamente assorbito altri due centri limitrofi: Khartoum Nord, polo industriale, e Omdurman, l’antico presidio d’epoca mahadista. Il meno esteso Sud secessionista, una delle nazioni piú giovani del mondo, guidato da un governo di unità nazionale, è, al contrario, animista e cristiano: a economia prevalentemente rurale e privo di sbocchi sul mare, la sua realtà geografica appare contraddistinta da ampie regioni montuose, vaste foreste tropicali e diffuse zone paludose. La capitale, Giuba, conta 300 000 abitanti circa.

Abu Erteila. Il settore settentrionale del complesso palaziale di epoca meroitica denominato K 800.

Le indagini archeologiche svolte in alta Nubia negli ultimi anni, hanno evidenziato lo sviluppo, a partire dal II secolo a.C., di rilevanti centri urbani e cultuali collocati in corrispondenza della riva orientale del Nilo, a sud di Meroe, all’interno della vasta steppa semiarida che occupa un’ampia porzione del Sudan centro-orientale. Si tratta, seguendone la distribuzione geografica da nord a sud, di: Hamadab,Awlib,Abu Erteila, el-Hassa e Mouweis che fiorirono parallelamente ai piú noti insediamenti di Soba, Musawwarat es-Sufra, Naga e Wad ben Naga. La loro creazione conferma un’organizzazione territoriale del Paese incentrata in una vera e propria programmazione urbanistica basata su realtà rispondenti all’efficace decentramento regionale dei distretti piú meridionali del regno. Le datazioni dei materiali ceramici e la condivisa diffusione di raffinati oggetti di cultura materiale e prassi costruttive hanno permesso di accertare uno sviluppo culturale coevo e, soprattutto, la frequentazione dei vari centri da parte di esponenti di spicco della corte di Meroe.

UN SITO DA SCOPRIRE Nonostante si trovi nel cuore di quella che Diodoro e Strabone definirono «Isola di Meroe» – la realtà geografica collocata lungo il tratto subfluviale del Nilo delimitato a nord dall’Atbara e a sud dal ramo del Nilo Azzurro – e sia stata, come già detto, non soltanto uno dei punti nodali di un assetto statale ben definito, ma anche un centro satellite dell’antica

UNA CHIESA SINGOLARE La chiesa di Abu Erteila era un impianto basilicale a tre navate, con altrettante absidi semicircolari. Il modesto spessore delle murature perimetrali, fatte in jalous, argilla miscelata con acqua, paglia e sterco, confermerebbe l’altezza contenuta dell’edificio, realizzato con materiali poveri. La copertura lignea era piatta e vi si accedeva tramite una botola

comunicante con l’interno per mezzo di una scala. Un addetto saliva sul tetto negli orari prestabiliti e da lí, percuotendo uno strumento ricavato da un tronco scavato, il naqus, richiamava i fedeli alle celebrazioni. Un espediente tanto complicato quanto efficace, se si considera che, al pari delle altre chiese nubiane, anche quella di Abu Erteila era priva di campanile.

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SPECIALE • SUDAN Meroe. Le piramidi

Una breve storia degli studi La riscoperta del patrimonio archeologico del Sudan, uno dei piú ricchi del continente africano, ha origini antiche. Risale al 1772, infatti, l’esplorazione di James Bruce, il primo a identificare le rovine di Meroe. A partire dal 1820, all’indomani della conquista del Paese da parte di Mohamed Ali, governatore d’Egitto, la presenza di viaggiatori occidentali inizia a farsi piú intensa: nello stesso anno George Waddington e Barnab Hanbury furono i protagonisti di un epico viaggio a Gebel Barkal, e Frédéric Cailliaud, che aveva seguito in Sudan l’armata egiziana, una volta rientrato in patria, tra il 1826 e il 1827, diede alle stampe quanto aveva visto pubblicando il celebre Voyage a Méroé. La prima opera di taglio realmente scientifico sulle antichità nubiane è posteriore di circa un ventennio. Va riferita al prussiano Karl Richard Lepsius autore, negli anni a cavallo tra il 1849 e il 1859, del Denkmäler aus Aegypten und Aethiopien. Per l’attuazione di indagini sistematiche sul terreno si dovette attendere il biennio 1896-1898; in quel momento il Sudan era un condominio anglo-egiziano. Dalla fine dell’Ottocento e sino al 1960, quando sul Nilo venne

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capitale, Abu Erteila risulta saltuariamente citata nelle fonti moderne. Nel 2003 il sito fu oggetto di una campagna di scavo archeologico, che ebbe però esiti deludenti e indusse ad abbandonare le ricerche. Eppure i motivi di interesse e le potenzialità archeologiche non mancavano. Durante l’antichità l’insediamento intratteneva infatti strette relazioni con il vicinissimo complesso templare di Awlib, facilmente raggiungibile a piedi, e aveva condiviso con quello non solo l’hafir – un grande bacino circolare collocato nel mezzo del wadi, indispensabile per gli approvvigionamenti idrici –, ma anche il medesimo orizzonte devozionale, consistente in uno sviluppo cultuale parallelo e, forse, in un comune percorso processionale. In virtú della sua strategica posizione geografica strettamente connessa con le due principali rotte commerciali utilizzate dai Meroiti,

Nella pagina accanto, in basso, a sinistra: bracciale in oro e smalti della candace Amanishakheto. I sec. a.C. Nella pagina accanto, in basso, a destra: Naga. Pilone del tempio di Ammone edificato dal re Natakamani e dalla regina Amanitore sul finire del I sec. a.C.

In alto: il Gebel Barkal. Sulla destra, si vede il picco al quale attribuirono grande rilevanza dapprima gli Egiziani e poi i Nubiani. innalzato lo sbarramento di Assuan, le ricerche si moltiplicarono e furono condotte da nomi ormai mitici per l’archeologia sudanese: John Garstang, Ernest Alfred Wallis Budge, Francis Llewellyn Griffith, John Winter Crowfoot, Frank Addison, Anthony John Arkell, George Andrew Reisner, Peter L. Shinnie, Jean Vercoutter. Nel solco di una tradizione ormai ben consolidata e nell’attuale emergenza legata alla creazione di una nuova diga all’altezza della quarta cateratta, sono oggi impegnate sul campo numerose missioni archeologiche: gli Inglesi operano a Dongola, Amara ovest, Kawa, Kurgus, Gabati, Dangeil e nelle regioni della quinta cateratta e del Bayuda; i Tedeschi a Wadi abu Dom, Mograt, Meroe, Hamadab, Naga e Musawwarat es-Sufra; i Francesi a

ovvero quella di Bayuda diretta a Napata e quella di Korosko che da Abu Hamed raggiungeva la bassa Nubia, Abu Erteila doveva inoltre essere stato un crocevia importante e avere rivestito un ruolo considerevole durante la dominazione dei re cusciti.

UNA FINE VIOLENTA Quando la missione congiunta italo-russa che oggi lavora nel sito ha ottenuto dalla National Corporation for Antiquities and Museums of the Sudan (il servizio delle antichità di Khartoum), una concessione di scavo pluriennale riferibile a una superficie di 60 000 mq circa e vi ha iniziato le sue attività con cadenza annuale, la prima deduzione è stata quella di una fine violenta dell’insediamento, alla quale sono stati subito ricondotti gli abbondanti quantitativi di scaglie di mattoni combusti sparsi ovunque sui kom e negli spazi limitrofi.

Qui accanto: anello araldico con la testa di ariete di Amon davanti ad un tempio, da Meroe. Berlino, Aegyptisches Museum. Sai, Sedeinga, Soleb, Kadada, Mirgissa, el-Hassa e Mouweis; gli Svizzeri a Kerma; gli Americani a el Kurru e presso la quarta cateratta; i Canadesi a Meroe; i Polacchi a Dongola e Banganarti e i Cechi a Wad ben Naga. La presenza italiana è concentrata nei siti di Gebel Barkal, Sanam, Abu Erteila, Omdurman e del deserto orientale. Nel 1902, in concomitanza con l’avvio dell’attività archeologica, venne creato il primo Servizio delle Antichità del Sudan, ora National Corporation for Antiquities and Museums. Due anni dopo fu aperto un primo polo museale nel Gordon College dell’Università di Khartoum. L’odierno Museo Nazionale, eretto sul Nilo Azzurro all’altezza della sua confluenza con il Nilo Bianco, è stato inaugurato nel 1971.

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SPECIALE • SUDAN

LE INDAGINI CON IL RADAR Lo strumento di fabbricazione russa utilizzato ad Abu Erteila, un «Loza V», concepito per lo studio di superfici sotterranee è un radar in grado di investigare, a seconda del modello e dell’antenna, da pochi a centinaia di metri di profondità. L’operazione si basa sull’irradiazione di impulsi elettromagnetici che, una volta intercettato un oggetto, riflettono un segnale contestualmente registrato da un computer. L’indagine ha richiesto l’accurata, preliminare rimozione di pietre e frammenti dalle superfici interessate che avrebbero altrimenti ostacolato l’aderenza al suolo dell’antenna, compromettendo il risultato finale. Il radar ha quindi investigato i due kom di Abu Erteila per una superficie totale di 3864 mq. I profili, lunghi 46 m ciascuno e distanti 1 m l’uno dall’altro, sono stati percorsi dal GPR da nord a sud, mentre il computer registrava i segnali rilevati di 10 in 10 cm, per l’intera lunghezza di ciascuna direttrice. In corrispondenza del Kom 1, la prospezione ha accertato la presenza di una vasta struttura rettangolare di superficie pari a circa 300 mq e, in corrispondenza del Kom 2, di due installazioni sovrapposte disposte su differenti livelli.

L’evento fu il verosimile risultato di una delle ripetute incursioni arabe che, nel corso del XIII secolo, spazzarono via il regno di Alwah, trasformandolo in sultanato. Dopo il tragico epilogo, le macerie furono coperte dalla sabbia del deserto e condannate a un oblio che si è protratto sino all’arrivo degli archeologi e all’avvio di indagini sistematiche. L’iniziale percezione della brutale devastazione è stata presto corroborata da quanto emerso dagli esami stratigrafici: un altro incendio, assai piú antico, avvenuto in circostanze ancora imprecisate, aveva in realtà già divorato l’insediamento, devastando e radendo al suolo anche i complessi meroitici. Prima di avviare indagini invasive, la missione ha provveduto a una prospezione orientativa del sottosuolo, eseguita con un radar di profondità (GPR; vedi box in questa pagina), secondo metodologie e protocolli finora poco 94 a r c h e o

utilizzati dagli archeologi in Nubia. Lo scavo operato sul Kom 1, sulla base dei dati forniti dal radar, ha restituito un complesso palaziale di epoca meroitica a pianta quadrangolare, denominato K 800, di cui, a oggi, sono stati messi in luce 19 ambienti, sebbene l’osservazione degli andamenti murari consenta di percepirne un’estensione piú ampia.

LE CUCINE DEL PALAZZO Le prime stanze poste in successione lungo il perimetro nord-orientale dell’edificio erano adibite a cucine. Oltre a residui di cenere e consistenti quantitativi di ossa animali riferibili a erbivori di grande e piccola taglia, si è infatti rivelato particolarmente indicativo il ritrovamento in situ di otto recipienti ceramici in impasto grossolano. Come ben attestato nel contesto archeologico regionale, tali vasi

In basso: la raffigurazione del dio Hapy sul tamburo di colonna rinvenuto ad Abu Erteila.


sono stati rinvenuti impilati l’uno nell’altro, cosí come prevedeva il singolare sistema di preparazione dei cibi: nel recipiente inferiore venivano depositate le braci ardenti e, in quello superiore, le pietanze da cuocere. Se lo sviluppo planimetrico del settore settentrionale del palazzo è riconducibile a funzioni domestiche, il settore sud-orientale, caratterizzato dalla presenza di un ampio accesso, sembrerebbe invece aver ospitato attività a carattere prettamente ufficiale. Poco può essere detto circa il sistema di copertura, oggi totalmente scomparso; tuttavia, la presenza di pareti interne di notevole spessore e, in quanto tali, in grado di contenere agevolmente le spinte, suggerisce l’originaria presenza di volte, elementi ben attestati In alto: Abu Erteila. I resti dell’edificio K 900, nel quale sono stati nell’architettura domestica meroitica. reimpiegati elementi provenienti da un tempio, fra cui un tamburo di Alla formale accuratezza costruttiva fanno colonna che reca iscrizioni in geroglifico egiziano (in basso).

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SPECIALE • SUDAN

riscontro i significativi rinvenimenti effettuati sia nel palazzo, sia lungo le sue propaggini occidentali: grani cilindrici di collana in faïence, la base di una statuetta zoomorfa, un incensiere e frammenti di ceramica caolinica recante raffinate decorazioni ottenute a stampo. Reperti che sono senz’altro riconducibili a un impianto particolarmente rilevante. La cronologia dell’edificio, che già nel corso dello scavo era stata fissata, in via preliminare, agli inizi del I secolo d.C. sulla base del materiale ceramico rinvenuto, ha trovato puntuale conferma nelle analisi al radiocarbonio eseguite su campioni del carbone di legna raccolto nelle cucine.

UNA RESIDENZA REALE? Come si è detto, la combinazione tra la qualità della costruzione e i ritrovamenti induce a escludere che il manufatto fosse destinato a gente comune; il palazzo di Abu Erteila va piuttosto attribuito a un classe sociale elevata, probabilmente alla famiglia reale stessa, che occasionalmente sostava nel sito prima di intraprendere l’impegnativo viaggio per raggiungere i santuari di Basa e i centri piú meridionali del regno. Le ricerche avviate sul Kom 2 hanno rivelato

due periodi d’occupazione riferibili a un edificio di epoca tarda, denominato K 900, quasi interamente realizzato con materiali di reimpiego, sovrapposto a un’altra vasta struttura piú antica, K 1000, coeva del palazzo sul Kom 1, rivelatasi, poi, un annesso del tempio, forse destinato ai membri del clero. Le novità emerse dall’esplorazione di K 900 consistono nei numerosi elementi architettonici di provenienza templare riutilizzati nelle murature oppure semplicemente adagiati in terra in attesa di essere inseriti, una volta fatti a pezzi, in un erigendo edificio d’epoca cristiana che, per nostra buona sorte, venne solo 96 a r c h e o

TECNICHE COSTRUTTIVE ANTICHE E «MODERNE» Il palazzo di Abu Erteila fu interamente costruito con mattoni cotti e crudi ricoperti da uno strato finale di intonaco calcareo di colore bianco del quale si possono ancora vedere ampi lacerti. Gli esami di laboratorio, effettuati a Roma, hanno accertato che

l’argilla con la quale essi furono realizzati proveniva dai vicini depositi diffusi nel Wadi el Hawad. Grazie al loro superiore grado di resistenza, i mattoni cotti, di misura standardizzata (30 x 17 x 7 cm), erano i piú utilizzati nelle cortine dei muri perimetrali;

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Qui sopra: Abu Erteila. Il settore sud-orientale del palazzo K 800. In alto: planimetria del complesso palaziale denominato K 800.

parzialmente costruito. Questo doveva essere il destino riservato a due rocchi di colonna in arenaria posizionati sottosopra nelle vicinanze di un muro a secco interamente composto da elementi di spoglio. I fusti collocati sottosopra, alti 40 cm e con un diametro di 47, presentano l’uno una raffigurazione del dio nilotico Hapy circondato da piante di loto, l’altro tre linee di iscrizione geroglifica egiziana disposta verticalmente.Vi si legge: «Egli ha eretto questo monumento (…), vive l’eccellente dio, signore della vittoria, re delle due Terre (…), gli dona vita e le sembianze di un re». Considerata l’estrema deperibilità dell’arena-


quelli crudi, di poco piú piccoli (30 x 15 x 7 cm), venivano impiegati soprattutto nelle tramezzature. La prima tipologia appare indicata in letteratura sotto la denominazione di «red brick» («mattone rosso»), giacché l’argilla, durante il processo di cottura, assume una caratteristica colorazione rossastra; la seconda è ancora oggi largamente diffusa nei villaggi circostanti per l’estrema economicità della sua fabbricazione: una volta tolto dalla forma ed essiccato dal sole, il mattone d’argilla è pronto per essere posto in opera. Non solo i mattoni, ma anche le stesse tecniche costruttive osservate nel palazzo di Abu Erteila e note come adobe,

ovvero l’impiego di file di soli mattoni crudi, e ghisra, l’uso combinato di mattoni crudi e cotti allettati nella malta in corsi di taglio e di testa, sopravvivono ai nostri giorni. Tradizioni antiche eppure integrate appieno in uno scenario che pare conservarsi in continuità con il passato: paesaggi desertici arroventati dal sole, disseminati qua e là di casupole d’argilla, bassi recinti fatti di materiali eterogenei, nei quali i pastori raccolgono i loro ovini dalle lunghe code e personaggi intenti a estrarre pazientemente l’acqua dai pozzi, sono il teatro di una realtà ignara dello scorrere del tempo, indifferente ai suoi ritmi frenetici, ai suoi sconvolgimenti.

ria, le eccellenti condizioni dei rilievi presenti sulle due colonne provano che il luogo d’origine di queste ultime non doveva essere lontano e hanno fornito utili elementi cronologici desumibili dalla lettura dei testi. La titolatura «re delle due Terre», infatti, risulta particolarmente diffusa tra i sovrani di Meroe che, durante l’epoca tolemaica, continuavano a fregiarsi di questo titolo altisonante, ma ormai privo di ogni contenuto reale. Sebbene sulla colonna non compaia il nome del re al quale l’attribuzione era rivolta, un’eccezionale scoperta – di cui parleremo tra poco – consente ora di riferirla a Natakamani.

In alto: Abu Erteila. Il cavetto in arenaria in origine ricoperto da uno strato di pigmento rossastro e sul quale campeggia un disco solare alato, recuperato capovolto in un gradino di K 900.

I ritrovamenti riconducibili alla presenza di un tempio ad Abu Erteila non si fermano qui. Un terzo tamburo di colonna, contenente un’altra immagine di Hapy, ha infatti reso plausibile l’originaria esistenza di scene raffiguranti la processione nella sala ipostila del complesso cultuale. Un cavetto in arenaria di 41 cm è stato recuperato capovolto in un gradino dell’edificio K 900; sul pezzo, originariamente ricoperto da un pigmento rossastro, campeggiava il disco solare alato fiancheggiato da urei. La sua perfetta corrispondenza iconografica con quanto può essere osservato sull’architrave dell’accesso occidentale della cappella hatorica di Naga è sorprendente e conferma che nel suo momento di massima fioritura qualcosa di assai affine era stato eretto anche ad Abu Erteila.

OFFERTE VOTIVE Riutilizzate come corredo in due sepolture d’epoca cristiana collocate negli ambienti di K 1000, sono state recuperate altrettante statuette di leoni in arenaria assisi. I due leoncelli ripropongono un’iconografia ampiamente diffusa nell’area meridionale del regno di Meroe ove venivano abitualmente realizzati in onore della leontocefala divinità Apedemak, che aveva i suoi luoghi di culto piú importanti a Basa, Musawwarat es-Sufra e Naga. Le piccole dimensioni delle sculture chiariscono come le stesse fossero offerte votive al dio. Collocata a nord est di K 1000, una piccola cappella quadrangolare (2 x 4,5 m) con apertura rivolta a est e denominata K 1100, si caratterizza per l’elegante pavimentazione in lastre di basalto; il suo scavo ha restituito un raffinato anello in rame sul quale risulta inciso un grifone alato, nonché numerosi grani di a r c h e o 97


SPECIALE • SUDAN

collana di varia tipologia: pietre dure, faïence e esterni occidentale e meridionale. Entrambi dischetti ottenuti dalla sapiente lavorazione presentano una zoccolatura affrescata che lascia intravedere come l’edificio, prima di esdel guscio di uovo di struzzo. sere abbattuto e divorato dalle fiamme, fosse intonacato e dipinto con vivaci colori, sia PIANTE DI SORGO Immediatamente a nord della cappella il rin- all’esterno, sia internamente. venimento di altri otto rocchi di colonna in Quasi addossato al muro occidentale, è stato arenaria concentrati in un piccolo spazio è localizzato un ambiente interno a pianta quastato il segnale decisivo per ritenere ormai drata (5 x 5 m circa), il naos, pavimentato con vicinissimo il complesso templare. Uno di lastre in basalto. Al centro della stanza vi era essi spicca per eleganza e per l’accurata deco- un altare, sempre in basalto, privato della sua razione fitomorfa, che ripropone piante di parte superiore, ma recante, ancora ben leggisorgo, una graminacea diffusissima in Sudan e bili, i cartigli in geroglifico egiziano del re che era parte integrante della dieta dei Me- Natakamani e della candace Amanitore. Il roiti, ben attestata anche nel loro apparato monumento era preceduto da una tavola iconografico quale attributo caratteristico dei d’offerta deposta al suolo in corrispondenza del lato orientale, segno inequivocabile del membri della famiglia reale. Le prime strutture del tempio, K 1200, che suo ruolo essenziale nei culti del tempio. sin dall’inizio delle attività sul Kom 2 non Dalle immediate vicinanze provengono due erano state ritenute molto distanti, sono ve- doccioni con terminazioni a protome leoninute finalmente alla luce nel 2014, pochi na; una praticamente integra, la seconda, assai metri piú a nord di K 1100. La missione ne deteriorata, riutilizzata come riempimento di ha finora parzialmente investigato i perimetri una irregolare muratura d’epoca molto piú 98 a r c h e o

In alto: Abu Erteila. Lo scavo della struttura denominata K 1000.


A sinistra: Abu Erteila. Doccione del tempio con terminazione a protome leonina. In basso, a destra: Abu Erteila, tempio K 1200. L’altare ancora in situ nel naos, preceduto da una tavola d’offerta. In basso, a sinistra: planimetria della struttura con la posizione dell’altare.

tarda. Entrambi erano in origine collocati, con altri esemplari simili, sul tetto ligneo del tempio, ove erano utilizzati per il deflusso delle acque meteoriche. Nello stesso settore di scavo è stato infine ritrovato un ennesimo frammento di colonna, che conserva la raffigurazione parziale del sovrano, affiancata da ciò che rimane del busto di una divinità ignota che serra un ankh nel pugno della mano destra. Vicinissima all’altare, nell’area piú sacra e im-

penetrabile del tempio, la missione ha compiuto quella che può essere considerata, a oggi, la scoperta piú importante: si tratta di un sostegno in basalto, costituito da quattro facce scolpite, destinato a sorreggere un piccolo modello di barca oppure un naos.

UNA SCOPERTA SENSAZIONALE Il manufatto è venuto alla luce il 26 novembre del 2015, vicino all’altare: si presentava riverso sul fianco occidentale e abbattuto, ma

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non spezzato, da chi rase intenzionalmente al suolo l’edificio. Il sostegno consiste in un parallelepipedo ad andamento rastremato – alto 140 cm e misurante 26 x 20 cm alla sommità e 31 x 35 alla base –, che è rimasto in buona sostanza integro, a eccezione della sommità danneggiata in piú punti. Il posizionamento prova che non solo venne spinto a terra dalla sua sede limitrofa all’altare nella quale era infisso per una profondità di circa 25 cm – una misura che equivale alla parte inferiore del manufatto volutamente non lavorata a tale scopo –, ma anche che volgeva il lato principale, quello est, verso oriente, seguendo l’andamento E-O dell’asse templare. Proprio su questo lato, infatti, compare un disco solare alato fiancheggiato dagli urei, scolpito al di sopra della cornice con motivo a toro che corre senza soluzioni di continuità lungo le quattro facce.

costituisce un ulteriore motivo di interesse, giacché non si conoscono testimonianze analoghe in Sudan. Ogni figura è fiancheggiata da due registri contenenti testi redatti in geroglifico egiziano. Sebbene la decifrazione sia ancora in corso, una prima, sommaria, lettura pare evidenziare la reiterazione da parte della cancelleria del sovrano di invocazioni rituali ben attestate, formulate in onore dei componenti della famiglia reale. Soprattutto, però, è apparsa evidente, già du-

LE DEE CHE REGGONO IL CIELO Su ogni lato risultano incise altrettante divinità femminili che poggiano su false porte e hanno i palmi delle mani rivolti verso l’alto, nell’atto di sorreggere una fila di stelle, otto ciascuna. Costituiscono la rappresentazione delle dee Tuayet, Ahayet, Khayet e Fayet, che, nella cosmogonia egiziana, sopportavano il peso del cielo stellato. Le prime due sono poste rispettivamente sui fianchi settentrionale e meridionale del basamento, le seconde al centro di quelli orientale e occidentale. La loro contemporanea presenza ad Abu Erteila

A sinistra, qui sotto: una delle due statuette di leone rinvenute negli ambienti dell’edificio K 1000. In basso: frammento di un amuleto in faïence sul quale sono raffigurati due urei addossati a un disco solare. Si tratta di un pendente che appartiene a una tipologia assai diffusa tra i dinasti napatei prima e meroiti poi, almeno fino al regno di Natakamani e Amanitore. La veduta di taglio e quella posteriore evidenziano il foro praticato per consentire il passaggio di un laccio.

TESTIMONIANZE DELLA PRESENZA REALE Sono due i ritrovamenti riconducibili a un passaggio del re di Meroe ad Abu Erteila. Il primo è un frammento di amuleto in faïence sul quale sono raffigurati due urei addossati a un disco solare. Il cobra collocato a sinistra indossa la corona rossa del Basso Egitto, quello a destra la corona bianca dell’Alto Egitto. Cosí come nel caso della titolatura «neb-tawy», «signore delle due terre», già riscontrata su una colonna, il riferimento all’Alto e Basso Egitto appare riproposto anche nell’amuleto, nonostante i

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Cusciti avessero ormai da secoli già perduto il controllo sull’Egitto. I due serpenti sormontavano in origine una testa d’ariete, di cui rimane solo l’attaccatura delle corna. Un foro tubolare sul retro consentiva il passaggio di un laccio.

L’oggetto è dunque identificabile con un pendente appartenente a una tipologia assai diffusa tra i dinasti napatei prima e meroiti poi, almeno fino al regno di Natakamani e Amanitore e, proprio in virtú dell’associazione dell’ariete con il


mente egittizzante dei realizzatori del sostegno, costituisce un’ulteriore conferma del ritorno alla lingua e alle tradizioni faraoniche, peculiare dell’età di Natakamani e Amanitore, a cavallo tra la fine del I secolo a.C. e gli inizi dell’era cristiana. Ultimato lo scavo e dopo una laboriosa e delicata opera di sollevamento, il reperto è stato messo in sicurezza per evitare possibili danneggiamenti e trasferito al Museo Nazionale di Khartoum.

In alto: anello in rame sul quale si distingue la raffigurazione di un grifone alato.

rante lo scavo, la presenza di quattro cartigli ben leggibili, uno per lato, indispensabili per risalire all’identità del re Natakamani e della regina Amanitore che commissionarono la creazione di questo pezzo straordinario. Il nome del sovrano compare due volte; lo si osserva, infatti, sia sul lato orientale, sia su quello occidentale, ove si legge Kheperkare, il suo titolo di intronizzazione. Il nome di Amanitore figura invece sul lato meridionale. Un terzo personaggio appare sul fianco settentrionale: è Shorkaror, il figlio minore della coppia reale, il cui cartiglio ad Abu Erteila costituisce la prima versione in Nubia del suo nome redatto in geroglifico egiziano. Il monumento risale dunque a una fase tarda del regno di Natakamani. I suoi figli maggiori, Arikankharor e Arkhatani, erano già morti e Shorkaror era l’unico erede alla successione al trono. La scoperta, che prova il gusto decisa-

dio Amon, supremo signore del pantheon cuscita, era un attributo distintivo dell’abbigliamento reale. In buona sostanza, il collo del re era cinto da un laccio al quale erano generalmente fissati tre di questi pendenti: uno al centro della gola e gli altri in corrispondenza delle due terminazioni della stringa all’altezza del petto. Il secondo reperto è un elegante anello da arciere in granito, la cui fattura sembra farne un oggetto destinato a essere esibito piuttosto che realmente utilizzato. Le fonti

IL BINOMIO PALAZZO-TEMPIO L’esistenza di un complesso palaziale e di un tempio ad Abu Erteila conferma, ancora una volta, come la struttura amministrativa meroitica fosse incentrata proprio sulla combinazione palazzo-tempio, elementi imprescindibili dall’assetto politico, economico e religioso del regno: la loro ricorrente associazione, attuata attraverso la contestuale presenza, nasce da questa motivazione ideologica di fondo. E ora il moltiplicarsi di tale binomio nella regione estesa a sud della capitale – lungo il percorso che da Meroe raggiunge la moderna città di Shendi –, già verificato a Hamadab, Awlib, el-Hassa e Mouweis, è stato accertato anche ad Abu Erteila. I sovrani amavano dunque muoversi con la loro corte, potendo contare su luoghi di sosta adeguati durante i loro spostamenti, nei quali poter disporre di un palazzo e di un santuario. Una consuetudine a cui sembrano dunque rispondere le distanze regolari tra le varie (segue a p. 104)

egiziane descrivevano le regioni al di sotto della prima cateratta del Nilo come «Ta-Seti», «la terra dell’arco», un riferimento alla riconosciuta capacità degli arcieri indigeni di cui i faraoni arruolavano interi reparti durante il Medio Regno (2064-1797 a.C.). La diffusione in Nubia di questa disciplina, destinata a protrarsi fino all’età medievale – durante la quale gli Arabi descrivevano i tiratori d’arco locali come «gli accecatori delle pupille», per via della strabiliante mira e precisione dei loro tiri –,

risulta naturalmente attestata anche durante l’età meroitica. Vigorosa divinità guerriera, il dio Apedemak impugnava l’arco nei rilievi dei suoi complessi templari e gli stessi sovrani amavano farsi raffigurare sovente con il dito indice della mano destra infilato in un anello da arciere, seguendo un’impostazione iconografica che, al di là dell’evidente riferimento all’arma nazionale, rivestí, oltre alla volontà di ribadire la possanza fisica del re, anche una palese valenza cultuale e ideologica.

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SPECIALE • SUDAN

UNA COPPIA INDISSOLUBILE Natakamani e Amanitore furono contemporanei di Augusto e, durante il loro regno (collocabile fra il 12 a.C. e il 20 d.C.), il Paese attraversò un periodo di eccezionale benessere interno riuscendo a mantenere, a livello di relazioni diplomatiche, eccellenti rapporti persino con la Roma imperiale. A questa coppia di instancabili costruttori vanno ricondotte scoperte archeologiche e documentazioni epigrafiche fondamentali per le nostre conoscenze sull’epoca meroitica. Il programma costruttivo non riguardò soltanto il Butana, a sud della quinta cateratta del Nilo, ma raggiunse anche Faras in bassa Nubia, assai piú a nord. Nei loro edifici si riscontrano nuove tendenze ideologiche e, soprattutto, la ricezione di influenze ellenistiche penetrate in Nubia all’indomani della conquista romana dell’Egitto. A seguito del ritrovamento di un altro basamento per barca sacra operato da Karl Richard Lepsius (1810-1884) a Wad ben Naga nel lontano 1844, sul quale i due regnanti apposero un’iscrizione

bilingue recante i loro nomi redatti sia in geroglifico egiziano sia in geroglifico meroitico, iniziarono gli studi di Francis Llewellyn Griffith (1862-1934) per la decifrazione della antica lingua indigena di Meroe. Entrambi i personaggi si caratterizzano per avere nomi teofori: il suffisso «amani» presente nel caso del re e reiterato come prefisso in quello della regina, costituiscono in effetti un indiscutibile richiamo al dio Amon. Figlia di Amanishakheto e incoronata con il nome di Merkare, Amanitore, come le altre regine cuscite, una volta salita al trono, assunse il titolo di kdke, candace. La quasi completa assenza di fonti scritte relative ai suoi anni di regno impone di far riferimento essenzialmente alle conoscenze archeologiche e, soprattutto, ai rilievi nei quali venne ritratta. Le immagini a nostra disposizione la mostrano nel ruolo di guerriera. Sul pilone settentrionale del tempio N 300 a Naga, Amanitore è infatti raffigurata mentre uccide con una spada, sovrastandoli con la sua mole gigantesca, un gruppo di

nemici imploranti. Quando l’ottocentesco esploratore francese Linant de Bellefonds, vide tale figura, la commentò con queste parole: «Non è una donna come quelle alte e snelle raffigurate in Egitto, ma mostra esagerate fattezze e fianchi enormi». D’altra parte, non deve stupire l’aggressività esibita dalla regina in questa rappresentazione: Strabone, che viaggiò personalmente in bassa Nubia al seguito del prefetto Elio Gallo nel 24 a.C., un periodo forse coincidente con gli anni di regno della candace, descrisse l’incontro con una sovrana priva di un occhio, perduto nel corso di uno scontro armato. L’esame dei rilievi di Naga presenti sia in N 300 sia in N 100, evidenzia altresí come Amanitore detenesse, con il marito Natakamani, uguale dignità da una parte nel controllo politico e militare dello Stato, dall’altra, rivestita con pelli di pantera, persino in quella di officiante nell’esercizio di funzioni religiose. È stato ipotizzato che la regina possa essere stata la stessa candace menzionata negli Atti degli Apostoli, il cui eunuco venne convertito al cristianesimo e battezzato da Filippo. Al pari degli altri monarchi, Amanitore fu titolare di una piramide, la n. 1, nel cimitero Nord dell’antica capitale di Nubia: i rilievi sulle pareti della cappella mostrano la processione funebre dei sacerdoti che recano insegne e immagini della regina. La sottostruttura della tomba, alla quale si accedeva per mezzo di una A sinistra: esame dei rilievi sul sostegno in basalto nei magazzini del Museo Nazionale di Khartoum. Nella pagina accanto: una fase della rimozione del sostegno, poi trasferito nel Museo di Khartoum.

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scalinata composta di trenta gradini irregolari, è costituita da due ambienti affrescati nei quali il suo corpo non è stato però mai ritrovato. Il nome di incoronazione di Natakamani, come conferma anche la recentissima scoperta di Abu Erteila, fu Kheperkare. In quanto regnante gli spettò il titolo di qore, l’attribuzione tipica dei re di Meroe. Sebbene la durata del suo regno sia ancora oggetto di dibattito, è certo che il sovrano rimase al potere per molti anni, in coreggenza con la moglie. Il suo nome compare in numerose testimonianze epigrafiche rinvenute a Meroe, Naga, Gebel Barkal, Amara e ora Abu Erteila. A esse deve aggiungersi una stele di origini ignote conservata nel Museo Pushkin di Mosca. L’ossessiva associazione del re e della regina in tutte le documentazioni disponibili, è un evento unico nella storia di Meroe e ha fatto pensare che Natakamani potesse non essere di sangue reale. Il re, in questo caso, sarebbe stato costretto ad avvalersi della continua presenza di Amanitore per giustificare e, soprattutto, legittimare la presenza sul trono a dispetto delle sue origini plebee. Nel 1998, la missione archeologica impegnata a Naga scoprí, al di sotto del pavimento di N 100, alcune statuette raffiguranti Natakamani in aspetto mummiforme: le piccole immagini furono intenzionalmente seppellite nel tempio dopo essere state distaccate dalle zampe anteriori degli arieti in arenaria che ne fiancheggiavano il viale d’accesso. Al pari della moglie, Natakamani venne inumato nella stessa necropoli. La sua piramide, la n. 22, contenente un’immagine di Iside alata benedicente il sovrano assiso in trono, fu però singolarmente eretta a notevole distanza da quella di Amanitore. a r c h e o 103


SPECIALE • SUDAN

LA CERAMICA L’analisi delle tipologie degli impasti e la ricostruzione delle forme dei recipienti d’epoca meroitica rinvenuti ad Abu Erteila è in gran parte riconducibile a contenitori di uso domestico, realizzati al tornio. Le lunghe giare tubolari e le olle restituite dallo scavo, che ripetono forme ben attestate nel contesto archeologico locale, rientrano in una classe prodotta per la conservazione di cibarie. Se si tiene presente la loro destinazione, si comprende perché questi manufatti, privi di decorazioni significative, siano stati raramente rinvenuti integri. Piú raffinato, quanto a impasto ed esecuzione, è invece il vasellame da mensa la cui superficie esterna, caratterizzata dalla presenza di un ingobbio rossastro, appare, a volte, arricchita da motivi decorativi a impressione e linee dipinte parallelamente all’orlo. Certamente riconducibile a una produzione ad altissima specializzazione risulta infine la cosiddetta produzione ceramica «egg shell», «a guscio d’uovo», una denominazione derivata dalla sua sottigliezza, che raramente superava i 3 mm di spessore. Questa tipologia, ottenuta da un raffinato impasto a base di caolino, presenta pareti eccezionalmente lisce e uniformi, sovente contraddistinte da decorazioni di figure geometriche o zoomorfe dipinte oppure stampate sulle superfici esterne. A causa degli alti costi derivanti dall’approvvigionamento della materia prima e per la sua particolare raffinatezza esecutiva, ben lontana dalla domanda legata alle esigenze quotidiane, era ovviamente destinata a un’utenza altamente elitaria.

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tappe di un itinerario accuratamente prestabilito e che rimanda al cosiddetto «viaggio dell’incoronazione», il percorso che il re di Meroe, una volta salito sul trono, compiva attraverso i maggiori centri religiosi del Paese per ristabilire l’ordine nel regno piombato nel caos in seguito alla morte del predecessore e rivendicare il suo diritto a regnare.

QUESITI E PROSPETTIVE Piace pensare che tale viaggio abbia potuto interessare anche le numerose località meridionali nelle quali stanno concentrando da anni i loro sforzi varie missioni archeologiche, come quella che opera ad Abu Erteila. Molto è stato fatto, ma moltissimo rimane ancora da indagare sul campo per dare una risposta definitiva a questo e ad altri quesiti, al momento insoluti. Sebbene i cartigli che abbiamo descritto poc’anzi chiariscano definitivamente chi fossero i costruttori del tempio di Abu Erteila, restano infatti ancora da accertare molti altri aspetti non irrilevanti relativi alla storia del sito e del suo principale edificio di culto. Eccone alcuni: il ruolo rivestito dal complesso durante un momento storico rispondente a una vera e propria età dell’oro per la Nubia meroitica e la sua regalità, l’identificazione della divinità in onore della quale il complesso fu innalzato, la reale estensione planimetrica delle strutture e le circostanze che ne determinarono la brutale distruzione. Spetterà alla missione trovare delle risposte a partire dalle prossime campagne di scavo. Ad Abu Erteila opera dal 2008 una missione congiunta italo-russa patrocinata dall’Ismeo (Associazione internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente) e dall’Accademia russa delle Scienze, condiretta da chi scrive e da Eleonora Kormysheva.

In alto: il team italiano e gli operai di Abu Erteila. In basso: alcuni esemplari delle giare tubolari impiegate come contenitori di derrate alimentari.



IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

PAROLE PER UN DIALOGO LA TUTELA E LA VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO CULTURALE – E DUNQUE ANCHE ARCHEOLOGICO – NON POSSONO PRESCINDERE DAL CONFRONTO. PER IL QUALE OCCORRE ADOTTARE UN LINGUAGGIO COMUNE

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gni disciplina ha il suo linguaggio, quando non un gergo. Si tratta di una necessità, anche se non è necessariamente un bene. Diviene un male quando il linguaggio garantisce la comunicazione «interna», ma si fa incomprensibile per i non addetti ai lavori. Per comprendere i linguaggi altrui, e quindi capirsi meglio e magari lavorare insieme, occorre un dizionario: un’idea semplice, che ha ispirato il volume che vede ora la luce (Economia e gestione dell’eredità culturale. Dizionario metodico essenziale), coordinato da Massimo Montella, docente di Economia e gestione dei beni culturali all’Università di Macerata e già progettista di uno dei piú avanzati sistemi museali d’Italia, quello della Regione Umbria. In un momento in cui le riforme avviate nel campo dei beni culturali rendono sempre piú evidente la necessità di una maggiore capacità di dialogo – non solo fra archeologi, architetti o storici dell’arte, ma fra tutti i professionisti del patrimonio culturale, giuristi, sociologi, economisti –, la possibilità di condividere lessici e concetti diviene un’arma in piú per le sfide del presente. Non per combattersi fra discipline, ma per garantire al nostro patrimonio culturale un futuro e uno sviluppo possibili. Il dizionario parte da una constatazione banale, ma non scontata: il concetto di eredità culturale, con i paradigmi che lo accompagnano, muta in relazione

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ai tempi. Ma la nostra tradizione culturale, con il suo corredo disciplinare, non sembra congruente con il contesto planetario in cui viviamo da almeno settant’anni a questa parte. Per esempio, rispetto al modo di affrontare le questioni epocali che riguardano proprio il patrimonio culturale, cosí come emerge dalle convenzioni internazionali, prima fra tutte quella di Faro, che ha sancito il passaggio dal «diritto del patrimonio culturale» al «diritto al patrimonio culturale» e quindi dal valore in sé dei beni culturali al valore che debbono poterne conseguire le persone.

OLTRE GLI STECCATI Una di queste incongruenze, che ci fa lavorare in distonia con il mondo contemporaneo, è il mancato superamento della presunta separatezza, e anzi inconciliabilità fra economia e cultura. Un dizionario può aiutare a rompere almeno qualcuno dei tanti schemi disciplinari autoreferenziali che ci bloccano? Sperabilmente sí, se ci permette di orientarci – come suggerisce Pietro Petraroia – tra alcune false certezze, come la pretesa universalità dei valori d’arte contrapposta a una falsa percezione dell’economia come disciplina interessata solo a massimizzare gli interessi individuali. È questa una visione paradossale dell’economia, percepita e divulgata come scienza indirizzata

alla soddisfazione dei bisogni primari. Nulla di piú lontano dal vero, solo se pensiamo che l’economia moderna, prima della rivoluzione industriale, «era la branca della filosofia che si occupava della felicità umana» (Montella) e che solo una sua riduzione a interessi individualistici ha permesso che, dal canto suo, la cultura sia stata, e sia tuttora troppo spesso percepita, come una sfera dell’agire umano basata sul materiale disinteresse: due mondi dunque incomunicanti, che si ignorano a vicenda, quando non si combattono. Il fatto è che l’economia, e il pensiero economico che l’accompagna, lungi dal circoscriversi alla soddisfazione dei bisogni materiali di immediata utilità, si occupa a pieno titolo dei bisogni universali, individuali e collettivi degli esseri umani. Sono bisogni basilari, come il sostentamento (mangiare, bere, dormire…), e bisogni piú elevati, che attengono alla realizzazione di sé come essere sociale, quali l’istruzione, il piacere, insomma, la qualità piena della vita. Se questa pretestuosa contrapposizione tra economia e cultura, di cui abbiamo continua eco nei media, persiste, ciò è dovuto al fatto che – è questa la tesi «non neutrale» di Montella – ancora hanno vigore alcune certezze ideologiche di un’epoca ormai tramontata, che fanno magari da supporto, piú o meno consapevole,


all’intreccio degli interessi corporativi dei professionisti del patrimonio culturale. Di fronte all’incapacità di elaborare risposte efficaci alla domanda su come salvaguardare e anzi espandere il valore del patrimonio culturale, molti addetti ai lavori, impotenti di fronte a evidenti situazioni di degrado che operano su scala planetaria, si aggrappano a concetti vaghi di sacralità dell’arte o di astratta bellezza, contrapponendo una tutela difensiva e perdente a ogni forma di valorizzazione del patrimonio culturale, come se ciò che abbiamo ereditato dai nostri padri avesse un valore in sé, fuori del tempo e dello spazio. La conseguenza di questo atteggiamento, che segna una parte non indifferente del mondo della cultura italiana, «è la scarsa percezione sociale del valore del patrimonio storico e pertanto il forte rischio che questo non venga tutelato. Sono infatti sopravvenute le democrazie di massa».

E il patrimonio non si tutela solo con l’amore e la dedizione, come il troppo amore per i figli non li mette al riparo dalle difficoltà della vita, quasi anzi li mette a nudo.

IL VALORE IDEALE NON BASTA D’altra parte, non è forse questo il ragionamento che trent’anni fa faceva Giovanni Urbani, inascoltato direttore del celebre Istituto Centrale del Restauro, che tutto il mondo ci invidiava? «Lo scandalo – scriveva – è che la condizione prima della sopravvivenza di questo patrimonio stia nel puro e semplice riconoscimento del suo valore ideale, non accompagnato da nessuna azione intesa a integrare questo valore nei nostri modi di vita». Ecco quindi che ricucire la separatezza tra economia e cultura, alleandole l’una con l’altra, potrà servire a far meglio percepire il reale valore della nostra eredità culturale da parte di comunità sempre piú vaste, perché questa, e

Firenze. Un momento del restauro delle formelle della Porta Nord del Battistero di S. Giovanni. Interventi come questo sono parte di un’operazione piú ampia, il cui buon esito è legato al confronto e allo scambio fra discipline diverse. solo questa, è la condizione «per aumentare la disponibilità della collettività a destinare al settore della cultura risorse prelevate dalla tassazione» (Montella), a investire dunque in istruzione e cultura per la soddisfazione dei nostri bisogni piú veri e piú umani, materiali e spirituali, quelli che misurano la qualità della vita nostra e dei nostri figli. Per costruire questo terreno d’incontro anche un buon dizionario può essere utile, anzi molto utile.

PER SAPERNE DI PIÚ Massimo Montella (a cura di), Economia e gestione dell’eredità culturale. Dizionario metodico essenziale, CEDAM, Padova 2016

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SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

QUANDO L’EDILIZIA È VIRTUOSA DA SEMPRE, L’ARTE DEL COSTRUIRE SI È ESPRESSA ANCHE ATTRAVERSO IL RIUSO. UNA PRATICA DIFFUSISSIMA NEL MEDIOEVO, CON SOLUZIONI CHE, A BASSO COSTO, GARANTIVANO STRUTTURE SOLIDE E DURATURE

C

ome in altre epoche storiche, anche nei cantieri edilizi medievali si è fatto uso allo stesso tempo di molti materiali differenti: pietra, legno, metallo, malta… E anche di recipienti in ceramica, sotto varie forme. A pensarci bene, si tratta in molti casi di operazioni che oggi definiremmo di «riciclaggio»; un modo di sfruttare

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oggetti realizzati per tutt’altro scopo, magari danneggiati o riusciti male al momento della fabbricazione. E mai come in età medievale tale prassi era davvero all’ordine del giorno! Il caso piú diffuso è quello dei contenitori in ceramica, piú o meno grandi, allo scopo di alleggerire le volte degli edifici monumentali. Un esempio

particolarmente significativo in tal senso è il mausoleo di Elena, la madre di Costantino, costruito lungo l’antica via Labicana, nel suburbio di Roma. Il monumento risale al IV secolo ed è un tipico mausoleo a pianta centrale della dinastia imperiale, simile a molti altri nel mondo romano. Qui le murature del tamburo e della


cupola ospitano tre file di anfore, disposte su due livelli distinti; nella fattispecie, si tratta di grandi contenitori che gli archeologi attribuiscono al tipo denominato «Dressel 20» (da Heinrich Dressel, lo studioso tedesco che mise a punto la classificazione delle anfore tuttora in uso, n.d.r.), adibiti al trasporto dell’olio e fabbricati in Spagna tra il I e il III secolo.

A TESTA IN GIÚ Le anfore sono inserite nella muratura capovolte, in modo da occupare spazio, ma, al tempo stesso, da non accogliere al loro interno la colata di conglomerato cementizio che costituisce la volta. La struttura veniva cosí dotata di contenitori ingombranti, che facevano «massa», ma rimanevano vuoti, rendendo la muratura che li accoglieva piú leggera (e quindi piú solida dal punto vista statico). Nel caso del mausoleo di Elena, poi, questa soluzione ha perfino suggerito il nome con cui la struttura è tuttora nota: quando la volta è crollata, probabilmente già nel Medioevo, i Romani hanno visto le anfore («pignatte») portate allo scoperto e hanno ribattezzato il monumento «Tor Pignattara».

La medesima soluzione è stata ampiamente adottata anche nei secoli seguenti. Un caso piuttosto noto è quello della chiesa del convento del Carmine, a Siena, indagato da una équipe diretta da Riccardo Francovich. Scavando con attenzione, si è scoperto che i rinfianchi delle volte erano stati alleggeriti grazie al riuso di una nutrita serie di boccali, anfore e altre ceramiche. Si tratta perlopiú di contenitori mal cotti o rotti: scarti di fabbrica, insomma, grazie ai quali, indirettamente, si è potuta documentare l’attività di una bottega di artigiani ceramisti della Siena del Trecento. Le ceramiche e l’architettura sono legate anche dalla produzione di oggetti destinati all’industria edilizia. È il caso dei tubuli in terracotta: manufatti a forma cilindrica, con il corpo coperto da scanalature, e una sorta di puntale che permette di infilarli l’uno nell’altro. Questo materiale da costruzione è diffuso fin dall’antichità, ma si diffonde notevolmente in alcune zone dell’Occidente soprattutto nel V e VI secolo, e in particolare a Ravenna. Con questi elementi sono infatti costruite le calotte delle absidi di

Nella pagina accanto: disegno ricostruttivo del cantiere della chiesa senese del Carmine: sulla sinistra, è evidenziato l’uso dei vasi in ceramica per i rinfianchi delle volte. In basso: Roma. Il mausoleo di Elena, sulla via Labicana, popolarmente ribattezzato «Tor Pignattara», per via delle anfore (pignatte) visibili nella muratura della cupola. molte chiese e le volte dei battisteri della capitale d’Occidente; cosí come la cupola di una delle piú famose e importanti chiese d’Europa: S. Vitale.

TUBULI E BACINI Io stesso, durante gli scavi condotti a Classe per ritrovare la piú grande basilica del porto ravennate (la Basilica Petriana, fondata nel V secolo), non ne ho individuata l’abside, perché i suoi mattoni erano stati asportati in età medievale; tuttavia, in un sondaggio, sono venuti alla luce piú di 10 000 frammenti di tubuli, che ne segnalavano chiaramente la posizione originaria. La ceramica poteva inoltre avere funzioni decorative. È quel che succede nel Medioevo piú inoltrato, soprattutto dalIa fine del X secolo, quando si diffonde l’abitudine di inserire i bacini nelle facciate delle chiese e nei campanili. I bacini non erano altro che grandi piatti in ceramica dipinta, sia di importazione (all’inizio) che prodotti localmente, come nel caso delle maioliche arcaiche. Oggetti pregiati e di grande impatto visivo: vere e proprie macchie di colore che movimentavano le superfici delle murature. Essi trovavano un posto d’onore nei monumenti che costituivano l’orgoglio delle comunità urbane – prime fra tutti le cattedrali –, aumentandone il valore simbolico con la loro stessa presenza. Ancora oggi, molte chiese del nostro Paese conservano queste decorazioni.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

MAGISTRATI O INCISORI? LE MONETE GRECHE RIPORTANO TALVOLTA SIGLE E NOMI LA CUI INTERPRETAZIONE NON È UNIVOCA. PRENDIAMO L’ESEMPIO DI FARSALO, IN TESSAGLIA

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ella monetazione greca, come poi in quella romana, sono rari i casi di conii firmati dai loro incisori. A oggi, si ignorano le ragioni del fenomeno e, quando compaiono, i nomi risultano spesso difficilmente identificabili: infatti, l’oscurità che avvolge questi artisti è pressoché totale e, a complicare la questione, interviene il fatto che le firme possono essere non solo quelle degli incisori, ma anche dei magistrati preposti alla coniazione, tanto piú se i nomi sono abbreviati. Un caso del genere si verifica nelle emissioni di Farsalo, in Tessaglia (Grecia centrale), dove un nome e alcune sigle sono variamente interpretati dagli studiosi. Il nome di Farsalo si è legato a una delle grandi battaglie della storia, combattuta nei suoi pressi il 9 agosto del 48 a.C. tra Giulio Cesare e Gneo Pompeo Magno: vinta dal primo, ne segnò definitivamente l’ascesa al potere assoluto nella Roma dell’ultima età repubblicana. Ma la storia della città è ben piú antica, quasi mitica: abitata sin dal Neolitico, fu uno dei maggiori centri della Tessaglia, solitamente identificato – ma senza certezza – nell’omerica Phtia, patria di Achille e dei Mirmidoni, guerrieri coraggiosi e implacabili, fedelissimi al volere del loro principe. Capitale della Tetrade Ftiotide e in rivalità per l’egemonia regionale con Larissa, nella seconda metà del V secolo a.C. ebbe il predominio; nel secolo successivo raggiunse il

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massimo splendore con Filippo II, che la ricompensò per l’aiuto prestato nel sottomettere la Tessaglia. Durante le guerre macedoniche combattute dai Romani contro la Macedonia (215-146 a.C.) la cavalleria tessalica, riconoscibile dall’abbigliamento e composta perlopiú dai rinomati cavalieri di Farsalo, ebbe un ruolo rilevante.

LA DEA E IL CAVALIERE La valentia di questo gruppo militare doveva rappresentare una gloria patria, tanto che cavalli e cavalieri divennero il tipo-simbolo delle emissioni di Farsalo, contraddistinte al dritto dalla testa di Atena, dea guerriera, con un elmo variamente e riccamente ornato e, al rovescio, dal cavaliere. L’abbigliamento contribuisce a identificare quest’ultimo come originario della Tessaglia, con un cappello di feltro a larghe falde (petasos), un corto mantello e di tessuto leggero adatto per cavalcare (clamide) e un abito altrettanto corto e aperto sul fianco (chitone); come arma, un bastone nodoso, poggiato sulla spalla. Con queste emissioni, databili dal V sino alla metà del IV secolo a.C., la città volle affermare a livello regionale una propria autonomia iconografica, alla quale certo corrispondeva anche quella politica all’interno della Lega Tessala. Molte monete, sempre in argento, riportano alcune lettere

Dracma in argento, Tessaglia, Farsalo, 424 circa-405/404 a.C. Al dritto, testa di Atena; al rovescio, cavaliere tessalo e firma TELEPHANTO, retrograda (che si sviluppa al contrario) e molto abrasa. dell’alfabeto di regola apposte dietro l’elmo di Atena, che possono leggersi come abbreviazioni di nomi, probabilmente sigle di magistrati, a volte accompagnate da piccole contromarche. In rari casi compare in esergo, sotto il cavaliere, il nome Telephanto[s] e ancora si dibatte se si tratti dell’incisore o del magistrato responsabile. La bellezza e la profondità dell’incisione, la massa muscolare di cavallo e cavaliere, le particolarità del cimiero di Atena, inducono a riconoscere in Telephantos un artista del conio; se fosse invece un funzionario preposto all’emissione, gli va senz’altro attribuito uno spiccato senso del bello.



I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Vincenzina Castiglione Morelli, Ernesto De Carolis e Claudio Rodolfo Salerno (a cura di)

CAIO GIULIO POLIBIO Storie di un cittadino pompeiano IDSN-Regione Campania, Assessorato Agricoltura, Napoli, 612 pp., 268 ill. col. e 96 ill b/n per richiedere il volume: salerno.idsn@alice.it ISBN 978-88-95230-25-2

Il volume racconta la storia di un gruppo di ricercatori, coordinato dalla compianta Annamaria Ciarallo della Soprintendenza di Pompei, che indagò sulle ultime ore di vita di una famiglia che, al momento dell’eruzione del 79 d.C., alloggiava nella domus di Caio Giulio Polibio, affacciata su via dell’Abbondanza. Non è possibile sapere se queste vittime abitassero in quella casa o vi avessero soltanto cercato riparo dalla pioggia di lapilli. Di certo, lo studio del DNA rivela che si trattava di una famiglia intera. Grande commozione, in particolare, suscita il ritrovamento dei resti di una giovane donna,

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probabilmente all’ultimo mese di gravidanza; sicuramente una patrizia, visto che portava agli avambracci due preziosi bracciali d’oro. La descrizione della dimora e delle attività domestiche fa da sfondo ai risultati scaturiti dalle ricerche multidisciplinari susseguitesi negli anni. L’impatto esplosivo dell’eruzione sulla domus, la caratterizzazione del paesaggio, il piccolo giardino, le pietre colorate, i resti biologici sono solo alcune delle linee di ricerca che è possibile trovare nel libro. Il testo affianca ai contributi scientifici interdisciplinari una ricca iconografia, ottenuta con le moderne tecnologie. Il lavoro ha comunque carattere divulgativo ed è disponibile per le istituzioni scientifiche che ne faranno richiesta, nonché per professionisti e studenti del settore. L’opera editoriale è stata coordinata da Claudio R. Salerno, presidente dell’Istituto per la Diffusione delle Scienze Naturali, che da anni sperimenta nuovi modelli per la fruizione della cultura scientifica e dei beni culturali. La prima parte del volume è infatti dedicata a questa importante esperienza sulla domus pompeiana, impostata sulla multimedialità e sulla sensorialità come opportunità per formule di conoscenza innovative non piú verbali

e descrittive, ma sonore, olfattive e tattili. Alessandro Mandolesi Marisa Ranieri Panetta

MESSALINA e la Roma imperiale dei suoi tempi Salani Editore, Milano, 238 pp. 15,90 euro ISBN 978-88-6918-549-6 www.salani.it

Se dovessimo prestare fede alle testimonianze degli storici, in poco piú di vent’anni di vita, Valeria Messalina avrebbe stabilito un «primato» davvero poco invidiabile, fatto di dissolutezza ed efferatezze d’ogni genere. Ma proprio perché la stigmatizzazione del personaggio è cosí unanime, appare legittimo dubitare della veridicità di quanto è stato narrato, come ha fatto Marisa Ranieri Panetta, che alla consorte dell’imperatore Claudio ha dedicato la sua ultima fatica. Nell’ampia introduzione, si può dunque leggere come autori quali Svetonio, Tacito o Cassio Dione non abbiano speso una parola a favore della donna, indugiando piuttosto sulle sue discutibili, quando non abominevoli inclinazioni. Al tempo stesso, viene sottolineato come questi giudizi senza appello sono destinati a rimanere tali, perché, con un accanimento che ha pochi eguali nella storia romana, ogni possibile indizio o documento riconducibile

a Messalina è stato cancellato, operando una damnatio memoriae da cui si sono salvati un solo ritratto scultoreo e qualche cammeo. Ranieri Panetta traccia il profilo dell’Augusta ricostruendo il contesto in cui visse la sua breve parabola, dal 25 circa al 48 d.C.: anni nei quali l’impero andava consolidandosi non senza torbidi e tensioni. Basti

pensare all’avvento del marito di Messalina, Claudio, acclamato imperatore dopo l’assassinio del nipote, Caligola. Il matrimonio tra i due si celebrò nel 39, quando Valeria era poco piú che un’adolescente e dovette accettare un consorte che aveva allora quarantotto anni. Le nozze proiettarono la ragazza nell’ambiente della corte imperiale e, forse, proprio l’essersi ritrovata «sotto i riflettori» contribuí a far nascere le dicerie che, col tempo, crebbero a dismisura, travolgendo, come una valanga, anche il suo ricordo. Stefano Mammini



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