L’A PP M RO O DO ZI A DE I FE ww NI w. CI a rc he o. i t
ARCHEO 378 AGOSTO 2016
ESCLUSIVA
FENICI A MOZIA
IN SICILIA
GOETHE Lo scrittore Matteo Nucci ripercorre le orme del grande poeta CON
ORIGINI DI PERUGIA
tedesco, in un viaggio alla scoperta della «vera Arcadia»
PERUGIA
VULCI
IRAN AD AQUILEIA
TUTTI I MISTERI DI MITRA AQUILEIA
I TESORI DELLA PERSIA
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SPECIALE GOETHE IN SICILIA
Mens. Anno XXXII n. 378 agosto 2016 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
MITREO DI VULCI
LA QUESTIONE DELLE ORIGINI
www.archeo.it
EDITORIALE
LEGGERE, VIAGGIARE, VIVERE Duecento anni fa, nel 1816, venne pubblicato il primo volume del Viaggio in Italia di Johann Wolfgang Goethe, resoconto del viaggio che il poeta di Francoforte aveva compiuto tra il 1786 e il 1788. Il suo non fu certo il primo diario del genere: durante tutto il Settecento – vero «secolo d’oro» del viaggio in Italia –, alla volta della nostra Penisola si erano avvicendati studiosi e viaggiatori inglesi, francesi, tedeschi: basti pensare allo storico Edward Gibbon, l’autore della monumentale Storia e decadenza dell’Impero romano, che nel 1764 raggiunse Roma, raccogliendo le sue annotazioni sotto il titolo di Journey from Geneva to Rome; o al padre della moderna egittologia, Dominique Vivant-Denon, personaggio celebre per aver documentato la campagna di Napoleone in Egitto, ma al quale dobbiamo anche le Pages d´un journal de voyage en Italie; o, ancora, all’instancabile camminatore Johann Gottfried Seume che, nel dicembre del 1801, partí dalla Sassonia per raggiungere la Sicilia, rigorosamente a piedi, nell’aprile dell’anno successivo (il racconto del viaggio, intitolato Passeggiata a Siracusa, fu pubblicato nel 1803). Da non dimenticare, poi, lo stesso padre di Goethe, il giurista e consigliere imperiale Johann Caspar Goethe, autore egli stesso di un Viaggio per l’Italia compiuto nel 1740 e redatto in lingua italiana. A chi abbia desiderio di addentrarsi in questo fantastico universo di entusiastici e acuti
osservatori del nostro Paese, consigliamo la lettura di un volume dello storico Attilio Brilli, dedicato al Viaggio in Italia. Storia di una grande tradizione culturale (Bologna, 2006). Rimane il fatto che il Viaggio di Goethe si attesta, per le generazioni di viaggiatori a venire, come imprescindibile opera di riferimento. Ricalcando le orme dell’itinerario goethiano, che nel soggiorno siciliano trova il suo compimento ideale («senza la Sicilia non ci si può fare un’idea dell’Italia: qui è la chiave di tutto» annota Goethe poco dopo il suo arrivo a Palermo), scrive, ancora nel 1925, il drammaturgo viennese Hugo von Hofmannsthal: «Nell’atto di metter piede in questa terra insulare, a noi tedeschi sembra subito offrirsi a farci da guida il genio di Goethe. A ogni passo incrociamo le tracce del suo cammino; tutti questi nomi ci erano già famigliari attraverso di lui, queste insenature, questi monti li avevamo già veduti attraverso di lui…». A duecento anni dalla pubblicazione del Viaggio, la forza di quel fortunato testo, il suo vitale messaggio si sono forse esauriti? Lo abbiamo chiesto allo scrittore Matteo Nucci (vedi alle pp. 80-103), studioso del mondo antico, autore di saggi e romanzi sul pensiero greco, viaggiatore egli stesso. E che, per i nostri lettori, ha attraversato la Sicilia. Sulle tracce di Goethe, naturalmente… Andreas M. Steiner
Goethe nella sua abitazione romana mentre legge, penna e china bruna di Johann Heinrich Wilhelm Tischbein. 1786-87.
SOMMARIO EDITORIALE
Leggere, viaggiare, vivere 3 di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
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RESTAURI Fra un grande manager dell’industria informatica e Santorini è stato amore a prima vista: e cosí Akrotiri sta tornando all’antico splendore 8
PAROLA D’ARCHEOLOGO Il sito di Pietrabbondante, in Molise, scongiura il blocco delle attività di ricerca grazie al crowdfunding 20
DA ATENE
Anatomia di un massacro
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di Valentina Di Napoli
STORIA
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Perugia. Nuova luce sulle origini
ALL’OMBRA DEL VESUVIO L’Anfiteatro di Pompei apre la sua galleria e saluta il «ritorno» dei Pink Floyd 12 SCOPERTE Localizzate a Napoli, nelle acque sottostanti la fortezza di Castel dell’Ovo, tracce riferibili al primo insediamento dei coloni greci 14 A TUTTO CAMPO La produzione ceramica come specchio della storia 16
50 50
testi di Giuseppe M. Della Fina e Luana Cenciaioli
ETRURIA
Vulci e i misteri di Mitra
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di Carlo Casi e Nicola Luciani
SCAVI
L’approdo delle meraviglie di Lorenzo Nigro
36
64
In copertina Johann H.W. Tischbein,Goethe nella campagna romana (particolare). 1787. Sullo sfondo, il tempio della Concordia di Agrigento in un’incisione ottocentesca.
Anno XXXII, n. 378 - agosto 2016 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli,
Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Luana Cenciaioli è direttore del Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria, Perugia. Carlo G. Cereti è iranista e insegna lingue medioiraniche all’Università di Vienna. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Valentina Di Napoli è archeologa. Maria Katsinopoulou è archeologa. Paolo Leonini è storico dell’arte. Nicola Luciani è archeologo. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Lorenzo Nigro è professore di archeologia fenicio-punica e di archeologia orientale presso «Sapienza» Università di Roma. Matteo Nucci è scrittore. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Mara Sternini è professore associato di archeologia classica all’Università degli Studi di Siena. Illustrazioni e immagini: DeA Picture Library: p. 82 (basso); Artothek: copertina (e pp. 80/81); Archivio J. Lange: pp. 100/101 – Da: Goethe in Sicilia, Artemide Edizioni, Roma 1992: p. 3 – Cortesia Kaspersky Lab: pp. 8-11 – Cortesia Soprintendenza Pompei: pp. 12-13 – Cortesia Filippo Avilia: pp. 14-15 – Cortesia Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali, Università di Siena: pp. 16-17 – Cortesia degli autori: pp. 18-19, 64-67, 68 (basso), 110-111 – Cortesia Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte, Roma: pp. 20, 21 (centro), 22 – Soprintendenza alle Antichità dell’Attica Occidentale, Pireo e le Isole/cortesia Stella Chrysoulaki: pp. 30-33 – Cortesia «Sapienza» Università di Roma/Missione Archeologica a Mozia: pp. 36-49 – Archivio Fotografico SBAU/Valentino Pescari: pp. 50-52, 53 (basso), 54/55, 55-60, 61 (alto e basso), 62-63 – Shutterstock: pp. 53 (alto), 87-88, 91, 93 (alto), 94 (basso), 94/95
MOSTRE
L’antica Persia prima dell’Islam
70
di Carlo G. Cereti
80 SPECIALE
Il mio viaggio in Sicilia
80
di Matteo Nucci
70
SCAVARE IL MEDIOEVO
Rubriche
di Andrea Augenti
Il mondo in un chiostro
QUANDO L’ANTICA ROMA... …si riforniva d’olio dalla Spagna e dall’Africa di Romolo A. Staccioli
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
Di che segno sei?
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di Francesca Ceci
LIBRI
(e copertina, sfondo), 97 (alto), 102/103 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 70-72, 73 (basso), 74-79 – Doc. red.: pp. 73 (alto), 83 (riquadri), 86, 89, 96, 97 (basso), 98-100, 102, 106 – Foto Scala, Firenze: bpk-Bildagentur für Kunst, Kultur und Geschichte: p. 82 (alto) – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 84-85, 92, 93 (basso); The Art Archive: p. 104; Leemage: p. 105 (alto); Electa/ Sergio Anelli: p. 105 (basso) – Archivi Alinari, Firenze: Archivio SEAT: p. 90 (alto e basso) – Cortesia Eleonora Destefanis: pp. 108-109 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 54, 61, 68, 83
112 Stampa: NIIAG Spa - Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com
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n otiz iari o RESTAURI Grecia
LA SECONDA VITA DI AKROTIRI
L
a «Pompei del mare Egeo» ha trovato il suo mecenate in Eugene Kaspersky, fondatore dell’omonima compagnia europea di sicurezza informatica. Dopo anni passati in attesa, a causa della mancanza dei fondi, lo scavo archeologico del sito di Akrotiri, a Santorini, torna infatti a svelare i suoi segreti grazie alla sponsorizzazione del Kaspersky Lab, progetto che, da circa un anno, finanzia gli interventi di ricerca, restauro e manutenzione. L’imprenditore russo si è offerto di coprire tutte le spese dopo essere rimasto incantato dalla bellezza e dall’importanza del sito. Pur essendo digiuno di archeologia, ha deciso di dare il suo contributo, perché ha intuito l’importanza di questo luogo per ricostruire che cosa veramente accadde in epoca pre- e protostorica. Le prime strutture di Akrotiri risalgono al Tardo Neolitico: le origini dell’insediamento si collocano nel III millennio a.C. e il sito si sviluppa rapidamente, tanto da affermarsi come uno dei centri piú importanti dell’area egea. L’abitato possedeva una concezione urbanistica avanzata, che includeva
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palazzi a due piani – decorati con affreschi di alta qualità e ricchi arredi – e un funzionale impianto di scarico. Sono state trovate, inoltre, tracce di oggetti provenienti da altre regioni del Mediterraneo – e non solo –, che denotano relazioni con altri importanti centri dell’epoca. La vita di Akrotiri si ferma bruscamente nella seconda metà del XVII secolo a.C., a causa di un’improvvisa attività sismica e
In alto, sulle due pagine: Akrotiri, Casa Occidentale. Il grande fregio parietale noto come «Ritorno della flotta». Vi sono raffigurate imbarcazioni che si spostano tra due città minoiche. XVII sec. a.C. Qui sopra: Akrotiri, Xestè 3. Particolare dell’affresco che mostra due donne intente a raccogliere fiori di croco (Crocus sativus), pianta dalla quale, già in antico, si ricavava lo zafferano. XVII sec. a.C.
vulcanica, con una grande eruzione di cenere e lapilli che sotterra la città, sigillandola. A dirigere lo scavo fin dal 1975 è ancora oggi Christos Doumas, professore di archeologia all’Università di Atene ed ex soprintendente di varie regioni della Grecia, che esprime soddisfazione per la rapidità degli interventi già portati a termine. Dopo anni di reiterate sospensioni dei lavori a causa di problemi di ordinaria manutenzione – come le infiltrazioni d’acqua dalla tettoia che protegge il cantiere e lo rende praticabile –, adesso, dopo le ultime riparazioni, le operazioni possono procedere senza osatacoli e il sito può rimanere aperto e accessibile.
Qui sopra: l’archeologo Christos Doumas (a destra) guida Eugene Kaspersky durante una visita agli scavi di Akrotiri. In basso: imbarcazione a remi con delfini, particolare del «Ritorno della flotta». Oltre alla risistemazione del cantiere, sono stati eseguiti i restauri delle parti già scoperte negli anni Sessanta e, dopo sedici anni di intervallo, sono ripresi anche gli scavi archeologici. I restauri hanno interessato, per esempio, il consolidamento degli affreschi e il rinforzo delle vecchie impalcature di legno e dei pavimenti e sono state effettuate ricerche sulle condizioni climatiche
archeo 9
n otiz iario e atmosferiche finora mai eseguite. Anche le numerose strutture già scavate, ma ancora da studiare, sono state interessate dai nuovi cantieri. Infatti, sono stati individuati oltre trenta edifici da quando il primo direttore, Spyridon Marinatos, cominciò le ricerche nel 1967, ma, di questi, solo sei sono stati completamente indagati. Fra i reperti recuperati, vi sono oggetti di notevole pregio, come una statuetta dorata raffigurante uno stambecco, rinvenuta intatta in uno degli ambienti. «Non abbiamo fretta di proseguire velocemente con lo scavo – ha dichiarato Doumas – il terreno è come un file, che si può leggere solo scavandolo. Ma questa è una procedura distruttiva, a volte con errori irreversibili. La terra è spesso la miglior protezione, ed è come un libro pieno di informazioni. Ogni
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volta che scaviamo, ne aiutiamo la lettura, ma sicuramente creiamo anche danni, perdendo molte informazioni. Dopo tutti questi anni, vi posso dire che non ho fretta di fare scoperte sull’onda della curiosità. La mia priorità è lavorare con attenzione e pazienza». È significativo il fatto che dopo decenni di scavi, siano stati portati alla luce cinquantotto affreschi,
Nella pagina accanto, in alto: un’immagine dell’area archeologica di Akrotiri. A destra: il laboratorio di restauro sull’isola di Santorini.
Qui sopra: una veduta generale dell’area archeologica, protetta, dal 2012, da una nuova copertura. Nella pagina accanto, in basso: Akrotiri, Casa Occidentale. Affresco raffigurante un pescatore. XVII sec. a.C. A sinistra: una decorazione ad affresco viene pazientemente ricomposta a partire dai suoi frammenti.
mentre centinaia di metri quadrati di frammenti aspettano ancora di riprendere forma. Oltre ai tre progetti attualmente finanziati (i lavori di manutenzione e di scavo e la realizzazione di una mappatura), Eugene Kaspersky ha condiviso la necessità espressa da Doumas di un nuovo museo, che possa adeguatamente accogliere e valorizzare gli affreschi provenienti dal sito. Molti di questi, infatti, sono attualmente conservati in depositi speciali, che ne garantiscono la conservazione ma non la fruizione. Anche perché l’attuale Museo di Thera Preistorica non avrebbe spazi sufficienti per ospitare nuovi materiali, né si vuole che altre pitture prendano la via del Museo Nazionale Archeologico di Atene, che conserva un nucleo importante di affreschi provenienti dal sito. Maria Katsinopoulou
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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
L’ANFITEATRO SUONA BENE L’APERTURA DELLE GALLERIE DELL’EDIFICIO PER GIOCHI E COMBATTIMENTI È STATA SALUTATA DA UNA MOSTRA FOTOGRAFICA SUL LEGGENDARIO CONCERTO CHE I PINK FLOYD TENNERO NELL’ARENA NEL 1971
L’
Anfiteatro di Pompei, oltre a essere fra le prime costruzioni scoperte negli scavi settecenteschi, è anche uno dei piú antichi monumenti conservati del suo genere, precedente addirittura il primo esemplare in muratura finora noto a Roma.
L’edificio, ancora senza ambienti al di sotto del piano dell’arena, venne innalzato verso il 70 a.C. nell’angolo sud-orientale della città, in un’area periferica forse ancora sgombra da costruzioni, praticamente a ridosso delle mura di cinta per sfruttarle come sostegno della cavea, capace
di accogliere 20 000 spettatori circa. Un’iscrizione ricorda che la costruzione dell’anfiteatro, che i Pompeiani chiamavano Spectacula, avvenne a spese di C. Quinctius Valgus e Marcus Porcius, magistrati locali (duoviri) che al contempo edificarono anche l’Odeion.
Roger Waters, colonna portante dei Pink Floyd fino al 1985, in una foto scattata nel 1971, nella quale l’artista si divertí a imitare l’espressione di una maschera affrescata nella Casa del Bracciale d’oro di Pompei.
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La struttura originaria è costituita da muri in opera incerta e in opera quasi reticolata: il terremoto del 62 d.C. danneggiò le volte dei corridoi anulari, che furono quindi restaurate con arcate in laterizio. Come a teatro, anche all’anfiteatro i cittadini, ai quali erano distribuite speciali tessere d’entrata, avevano diritto di assistere gratuitamente alle rappresentazioni. Mentre il popolo si disponeva nei settori piú elevati (media e summa cavea), ai personaggi piú importanti era riservata la parte inferiore della gradinata, segnata da una prima fila di sedili (ima cavea), posta in posizione sopraelevata rispetto all’arena e protetta da un parapetto decorato con pitture di spettacoli circensi e scene di caccia, cosí che gli spettatori fossero al riparo dai pericoli derivanti dai giochi gladiatori piú cruenti. Gli animali e le attrezzature venivano introdotti dall’esterno e trasportati su carri, sfruttando ampi passaggi (vomitoria) che, dalla piazza, immettevano nell’arena. Anche gli spettatori, per accedere al settore inferiore e al mediano della cavea, utilizzavano i corridoi, che erano collegati da un passaggio coperto che girava intorno all’arena e portava alle gradinate attraverso numerose scale.
UN EVENTO LEGGENDARIO L’apertura al pubblico della galleria dell’anfiteatro offre ora l’occasione per visitare una mostra fotografica curata dalla Soprintendenza Pompei e dal regista scozzese Adrian Maben, noto per aver diretto il film sulla straordinaria esibizione dei Pink Floyd nell’arena dell’edificio. Con immagini esclusive, «Pink Floyd. Live at Pompeii, Underground» celebra infatti la storica band inglese e il video girato a porte chiuse nell’ottobre del 1971. La mostra è un suggestivo percorso visivo e di
1971. I Pink Floyd suonano a porte chiuse nell’Anfiteatro di Pompei. ascolto nella storia e nella musica dei Pink Floyd – che proprio nelle ultime settimane è tornata a risuonare negli stessi luoghi, in occasione del concerto di uno dei leader del gruppo, David Gilmour – ambientato nei passaggi sotterranei che consentivano l’accesso degli spettatori agli spalti, ambienti che tornano fruibili e diventano una nuova sede espositiva. Sono circa 80 i metri di gallerie riaperte dopo il 1984, quando furono utilizzate solo per le riprese del film Gli Ultimi giorni di Pompei di Peter Hunt, tratto dal romanzo storico ottocentesco di Edward Bulwer-Lytton. L’esposizione è divisa in due settori, dedicati a Pompei e alla musica: quella del mitico 1971 nel braccio sinistro, entrando dalla galleria occidentale di accesso all’anfiteatro, e alla Pompei dei tempi moderni (a destra), alla sua rinascita fra restauri, interventi di valorizzazione ed eventi nel sito. Piú di 250 immagini, tra foto di scena e scatti inediti raccontano i
giorni del 1971 che divennero leggenda. Riprese di Jacques Boumendil, il cameraman di allora; il filmato con le interviste che il regista Maben realizzò ai Pink Floyd, ma anche un video che raccoglie tagli di registrazione di chiacchiere in libertà della band. E a immettere nell’atmosfera di quei giorni la musica immortale del gruppo che accompagna i visitatori lungo i suggestivi passaggi sotterranei. Come afferma il Direttore di Pompei Massimo Osanna nell’introduzione del catalogo, «La mostra e la musica immortale dei Pink Floyd sono in assoluto il tramite perfetto per ridare vita e suggestione a un luogo unico e senza tempo come Pompei e il suo Anfiteatro».
DOVE E QUANDO «Pink Floyd. Live at Pompeii, Underground» Pompei, Gallerie dell’Anfiteatro Orario tutti i giorni, 8,30-18,30 Info www.pompeiisites.org
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n otiz iario
SCOPERTE Napoli
LE TRACCE DEGLI ANTICHI COLONI
I
resti archeologici sommersi scoperti da un team di ricercatori nelle acque antistanti la fortezza di Castel dell’Ovo, a Napoli, sembrano gettare nuova luce sulla topografia del litorale in epoca antica. Ai primi colonizzatori greci che approdarono su quei lidi, infatti, il paesaggio doveva apparire ben diverso da come si presenta oggi. Ne è convinto Filippo Avilia, archeologo subacqueo e direttore scientifico dell’operazione di rilievo sottomarino, nell’ambito del progetto di mappatura geo-archeologica della costa napoletana avviato da Marenostrum Archeoclub d’Italia in collaborazione con il ministero dei Beni culturali e la Soprintendenza Archeologica della Campania. L’immersione effettuata nello scorso maggio lungo il fianco occidentale della fortezza – l’unica finora mai condotta in quel braccio di mare – mostra che l’antica linea di costa era piú bassa di quella
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A destra e nella pagina accanto: alcune delle strutture localizzate nelle acque antistanti Castel dell’Ovo (Napoli), sorto sull’isolotto di Megaride (foto in basso, sulle due pagine). attuale di 8 m circa. E che l’isolotto di Megaride, su cui sorge Castel dell’Ovo, era unito alla terraferma a formare una penisola, proprio nel punto in cui si stabilí il primo nucleo di coloni greci (Pizzofalcone) e nacque l’antica Parthenope, o Paleopolis, prima della fondazione di Neapolis. A suggerirlo sono le gallerie oggi sommerse scavate dall’uomo, scoperte a una profondità compresa tra i 5 e i 7 m e che salgono dal basso verso l’alto. Un tempo erano a cielo aperto e
dovevano servire per l’estrazione di materiali edili, da caricare poi su imbarcazioni. Il loro primo utilizzo risale, secondo gli archeologi, all’epoca greca, come indica il taglio trapezoidale dei tunnel, che si ritrova in tutti i banchi tufacei dell’area di Posillipo, definiti genericamente di epoca greca. Le strutture potrebbero appartenere a cave greche, ma essere state usate per tutta l’età romana per estrarre la pozzolana, la preziosa sabbia di origine vulcanica usata per ottenere la malta.
TARQUINIA (VITERBO)
Un restauro che viene dal cuore Un banco di pozzolana è visibile, non a caso, nel masso roccioso, in prossimità delle tre gallerie. Fino a oggi nessuna struttura archeologica era nota nell’area. Non lontano è stato individuato anche un rocchio di colonna incassato nel tufo, alto circa 1 m: forse una bitta di ormeggio, quando il livello del mare era piú basso. L’ultima immersione ha messo in luce, inoltre, tratti di mura in opus
reticolatum, in parte già individuati dallo stesso Avilia negli anni Ottanta ma mai documentati, probabilmente pertinenti a peschiere. Il rilievo mostra che i tufelli sono molto piccoli, indicando una datazione in età repubblicana. L’ipotesi dell’archeologo è che si tratti dei resti della Villa di Lucullo – a oggi mai individuata –, che le fonti antiche descrivono provvista di allevamenti di murene e giardini
È stato presentato a Roma il progetto di restauro della camera centrale della Tomba degli Scudi, nella necropoli dei Monterozzi. L’intervento, reso possibile dall’iniziativa «I Luoghi del Cuore», promossa dal FAI e da Intesa Sanpaolo, permetterà di risanare i dipinti murali, le cui precarie condizioni hanno imposto la chiusura al pubblico del monumento. La Tomba degli Scudi è un’importante testimonianza della pittura etrusca d’età ellenistica (fine del IV secolo a.C.), che celebra le virtú e il rango della famiglia Velcha, immortalando la partenza del defunto per l’oltretomba e il banchetto funebre.
POPULONIA (LIVORNO)
Ultime novità dal golfo di Baratti
di pesche persiane, collocandola proprio sull’isolotto di Megaride, dove, secondo la leggenda, si sarebbe arenato il corpo della sirena Parthenope. La scoperta è per ora inedita. Gli studiosi lamentano la mancanza dei fondi necessari a completare la ricerca, circa 25mila euro, a causa della penuria di risorse destinate alla Soprintendenza. Il progetto di mappatura geo-archeologica va avanti da quattro anni su base perlopiú volontaria. A finanziare i rilievi subacquei delle gallerie di Castel dell’Ovo, spiegano gli studiosi del team, è stata una società privata, Ellessitalia srl, ma adesso i fondi sono finiti e l’indagine è ferma. Flavia Marimpietri
Si è inaugurata nel Museo Etrusco di Populonia-Collezione Gasparri la mostra «La città dei vivi», che racconta le novità acquisite in seguito agli scavi di emergenza condotti lungo la strada che sale ai resti dell’antica città. L’esposizione può inoltre essere l’occasione per visitare l’intera raccolta, che espone i materiali piú significativi fra quelli finora recuperati nel corso degli scavi condotti nell’area del golfo di Baratti. Info: https:// sketchfab.com/museopopulonia; https://www.facebook.com/ MuseoPopulonia
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A TUTTO CAMPO Mara Sternini
ARGILLA E TORNIO FANNO LA STORIA QUELLI CHE ALL’APPARENZA SEMBRANO AVANZI DI SCARSO VALORE POSSONO TRASFORMARSI IN INDIZI PREZIOSI: LO PROVANO GLI STUDI SUI MATERIALI DI SCARTO DELLA FORNACE DI GNEO ATEIO, UNO DEI MAGGIORI PRODUTTORI DI CERAMICA ARETINA A OGGI NOTI
A
Siena, nel Laboratorio di Ceramica Classica del Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università, è in corso da anni un progetto di ricerca sugli aspetti tecnologici, produttivi e commerciali dei vasi in ceramica prodotti in Italia nella prima età imperiale. In collaborazione con la Soprintendenza Archeologia della Toscana e con il Departamento de Prehistoria y Arqueología
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dell’Università di Granada, si sta studiando un nucleo piuttosto consistente di vasi trovati ad Arezzo, che erano stati gettati via perché difettosi. Si era formato cosí un deposito di frammenti, che prova la presenza nelle vicinanze di una fornace romana, attiva nell’ultimo ventennio del I secolo a.C. La scoperta fu compiuta nel 1953-54, in seguito a interventi edilizi nel quartiere tra via Nardi e via della Chimera.
Si tratta di vasi destinati alla tavola, veri e propri «servizi», composti da piatti, coppe e bicchieri di varie dimensioni, da quelli da portata a quelli per il singolo commensale. Oltre alle stoviglie scartate, le indagini hanno restituito strumenti di lavorazione, come punzoni, matrici, stecche e distanziatori, molto utili per ricostruire le tecniche utilizzate dai vasai che lavoravano in quella bottega. Sappiamo anche chi era il
proprietario della bottega, poiché il suo nome si trova impresso sul fondo di tutti i vasi: si tratta di Gneo Ateio, uno dei piú famosi produttori di vasellame a vernice rossa della prima età imperiale.
LA CATENA OPERATIVA Approfondite indagini stanno gettando luce sulle diverse fasi della produzione: la decantazione e la stagionatura delle argille, i metodi di lavorazione al tornio, le proprietà del rivestimento usato per ottenere il caratteristico colore rosso, i sistemi di cottura nei forni. Il lavoro procede attraverso una definizione dei tipi di contenitori prodotti, che prelude alla ricomposizione e al restauro dei vasi frammentati. Parallelamente, si procede alla costituzione di una banca dati informatizzata di tutti i valori archeometrici: le dimensioni e le caratteristiche di ogni singolo frammento, le analisi mineralogiche e chimiche delle argille utilizzate, dei residui vegetali e minerali presenti al loro interno e delle incrostazioni rinvenute su parte dei reperti. Un ulteriore obiettivo è la ricostruzione delle dinamiche commerciali attuate da questi artigiani della prima età imperiale: ricostruendone le vie di diffusione – terrestri e marittime –, puntiamo ad accertare la presenza dei prodotti anche fuori dell’Italia romana, nelle province dell’impero
e in particolare lungo il limes, dove i vasi aretini furono largamente utilizzati dai soldati che presidiavano il confine tra impero romano e Germania libera. Plinio il Vecchio, scienziato e naturalista del I secolo d.C., ha scritto che «la maggior parte degli uomini si serve di vasellame in terracotta». E questa, che può sembrare un’ovvietà, si traduce per l’archeologo in una preziosa opportunità. Il Mediterraneo – al centro del quale è il nostro Paese – ha favorito da sempre l’interscambio di conoscenze e tradizioni tra culture diverse, e proprio le produzioni utilitarie piú modeste, ma di uso universale, come il vasellame da tavola in ceramica, offrono un campo di indagine privilegiato allo storico della cultura materiale. Depositario di saperi e conoscenze consolidati nel tempo, l’artigiano crea oggetti in cui materia e forma sono funzionali ai bisogni della società, tanto pratici quanto estetici. In questo senso l’impero romano è stato forse il primo esempio di «globalizzazione» di saperi, tendenze e gusti in un’epoca ancora pre-industriale. Per esempio, se è vero che la conquista delle Gallie avvenne in pochi anni grazie alla superiorità militare delle legioni di Cesare, è altrettanto vero che la romanizzazione dei Galli si realizzò in modo piú graduale, attraverso l’adozione da parte dei Nella pagina accanto: il Laboratorio di Ceramica Classica dell’Università di Siena. A sinistra: vasi aretini prodotti dalla fornace di Gneo Ateio. Fine del I sec. a.C.
vinti di usi e costumi romani, di cui troviamo eco anche nei reperti di scavo. La diffusione di servizi da tavola a vernice rossa sulle mense dei popoli conquistati è un importante indizio di quanto in profondità fosse penetrato lo stile di vita romano.
PENSARE CON LE MANI Partendo dal dato tipologico e archeometrico, una ricerca come quella in corso a Siena va oltre e indaga i modelli di distribuzione nel piú ampio contesto mediterraneo. Indagini analitiche come la nostra sono oggi essenziali per ricostruire non solo l’economia di scambio ma anche i modi di vivere delle società del passato. Il passaggio da una ciotola di legno a un piatto in ceramica a vernice rossa, o da un bicchiere di ceramica a uno in vetro non sono solo indicatori di un progresso tecnologico, ma anche di un cambiamento dei gusti e delle abitudini quotidiane. L’antropologia culturale ci insegna che la tecnica non è mai neutra, ma implica aspetti cognitivi e relazionali, ha una dimensione sociale. Le mani servono anche per «pensare» e nell’abilità manuale di un artigiano moderno c’è un sapere che ha origini antiche. Anche il ceramista romano, in quanto homo faber, operava nell’ambito di un tessuto connettivo fatto di intelligenza e valori condivisi, ed è questo che ci preme riportare all’attenzione, per recuperare con esso la nostra identità storica. Ha scritto Pier Paolo Pasolini: «Quando il mondo classico sarà esaurito, quando saranno morti tutti i contadini e tutti gli artigiani, allora la nostra storia sarà finita». Ebbene, la ricerca archeologica può contribuire a salvare la memoria di questi saperi e nel Laboratorio di Ceramica Classica di Siena abbiamo l’ambizione di lavorare in questa direzione. (mara.sternini@unisi.it)
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n otiz iario
MOSTRE Liguria
RICORDI DI VIAGGIO
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li spazi del Museo Archeologico del Finale, che ha sede nel trecentesco complesso di S. Caterina in Finalborgo, ospitano attualmente una mostra ideata come un invito a scoprire, attraverso lo sguardo dell’archeologo e del viaggiatore, la storia millenaria di Paesi assai distanti tra loro, ma legati da un fil rouge che, da sempre, suscita emozione e fascino esotico già nel nome: la «Via della Seta». La denominazione, lo ricordiamo, venne coniata, nel 1877, dal geografo e geologo tedesco Ferdinand Freiherr von Richthofen (1833-1905) per indicare i percorsi che, a partire almeno dal I secolo a.C., congiungevano l’Asia e l’Europa. Da una rotta principale si diramavano molte vie secondarie, che formavano cosí, attraverso territori e popoli assai diversi, una fitta rete di scambi tra la Cina e il Vicino Oriente. Gli intensi commerci che si svilupparono tra Oriente e Occidente, lungo un percorso di circa 8000 km, snodandosi in itinerari terrestri, marittimi e fluviali, permisero di far viaggiare per secoli non soltanto la seta, ma molte altre merci, prime fra tutte le spezie. Le carovane trasportavano inoltre erbe e legni pregiati, oro e argento, avorio, pietre preziose e vetro, pellicce e piume di animali esotici, tessuti e tappeti, ceramiche, giada, bronzo e legno laccato. Lungo queste vie viaggiarono anche grandi idee e conoscenze: scoperte e concetti legati alla matematica, alla geometria e all’astronomia si mossero in entrambe le direzioni, cosí come abilità tecniche in campo architettonico, artigianale e artistico. Nei secoli, scambi e
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In alto: particolare di una scultura con Buddha e monaci, da Fayaztepe. I-III sec. d.C. Tashkent, Museo della Storia dell’Uzbekistan. A sinistra: Bhutan, il monastero di Taktsang. Comunemente noto come Tana della Tigre, è un complesso di templi del buddhismo himalayano posto su di un picco montuoso, a 3120 m di altitudine, nella valle di Paro. contatti a cosí lungo raggio hanno lasciato testimonianze suggestive e inestimabili che, oggi, formano il patrimonio archeologico e monumentale delle nazioni attraversate dalle «Vie della Seta e delle Spezie». L’esposizione presenta molte immagini fotografiche di siti archeologici e monumenti delle varie nazioni che si trovano lungo queste vie, oltre a materiali di interesse etnografico e storico, tra cui spiccano alcuni cappellini ricamati di differenti etnie dell’Asia centrale, gioielli, tessuti e abiti. Città grandiose, con resti archeologici imponenti e spesso in condizioni di conservazione sorprendenti, insieme a fastosi edifici di epoca medievale o
moderna, in molti casi legati proprio alle esigenze commerciali, come i caravanserragli, si incontrano dalla Turchia al Caucaso, in Georgia e Armenia, fino all’Asia Centrale, in Turkmenistan e Uzbekistan, e nel cinese Yunnan. Contatti e scambi raggiunsero perfino Ladakh e Bhutan, incastonati nelle montagne dell’Himalaya, per poi ridiscendere verso l’India, lasciando traccia in interessanti produzioni artistiche ed elementi decorativi che risentono di influssi culturali differenti. Anche la lontana Etiopia, grazie alla sua posizione geografica – che ne ha In alto: Ladakh. Preparazione del tè nell’oasi di Kanji. A sinistra: Samarcanda, Uzbekistan. Particolare della decorazione in maiolica delle tombe imperiali nella necropoli di Shakhi Zinda. XIV-XV sec.
nell’area himalayana, all’Islam e la sua ampia diffusione in terre lontane dall’area di origine che, soprattutto in Asia Centrale si è fuso con substrati pagani e sciamanici che ancora oggi sopravvivono nelle zone rurali dando vita ad affascinanti forme di religiosità ancestrale. La mostra «Sulle orme del passato» è promossa dalla Città di Finale Ligure, dal Museo Archeologico del Finale e dall’Istituto Internazionale di Studi Liguri in collaborazione con Kailas Viaggi & Trekking. Andrea De Pascale
DOVE E QUANDO
fatto un passaggio obbligato per le rotte marittime che dall’Asia attraversavano il Mar Rosso per raggiungere l’Europa – e alle sue risorse, soprattutto avorio e spezie, che si muovevano sia verso Oriente sia verso Occidente, rimase legata a quei commerci apparentemente cosí distanti. La mostra svela aspetti differenti non solo del patrimonio archeologico e storico
di questi Paesi, ma anche le molte usanze ancora vive. Certamente, cerimonie religiose e ritualità sono quelle che colpiscono maggiormente per la loro intensità e coinvolgimento emotivo. Dalle antiche tradizioni dell’Armenia e dell’Etiopia, prime nazioni al mondo ad adottare il cristianesimo come religione di Stato, al misticismo buddhista
«Sulle orme del passato: in viaggio con l’archeologo sulle Vie della Seta e delle Spezie» Finalborgo (Savona), Museo Archeologico del Finale fino al 2 ottobre Orario ago: tutti i giorni (tranne lunedí), 10,00-12,00 e 16,00-19,00; set-ott: tutti i giorni (tranne lunedí), 9,00-12,00 e 14,30-17,00 Info tel. 019 690020; e-mail: info@museoarcheofinale.it; www.museoarcheofinale.it
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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
SOS PIETRABBONDANTE PER QUEST’ANNO, LA CAMPAGNA DI SCAVO SUL SITO SANNITICO È STATA SALVATA IN EXTREMIS, GRAZIE A UNA RACCOLTA DI FONDI LANCIATA DAGLI ARCHEOLOGI: MA QUALE SARÀ IL FUTURO DI UN PROGETTO DI RICERCA DI STRAORDINARIA IMPORTANZA? ECCO IL PARERE DI ADRIANO LA REGINA
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ssenza di risorse pubbliche e scarsezza di fondi privati rischiano di mettere in ginocchio l’archeologia in Molise. Anche quando gli archeologi lavorano a titolo volontario, come a Pietrabbondante, in provincia di Isernia. Le ricerche che da 14 anni l’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte (INASA) conduce nel sito in cui si conserva il maestoso santuario
sannita sembravano destinate a interrompersi. Se non che, grazie alla campagna di raccolta fondi battezzata «Rock Samnium», le donazioni dei cittadini hanno scongiurato il pericolo. «I fondi che ci hanno permesso di raggiungere questi risultati adesso sono finiti, ma noi non abbiamo finito!», denunciano in un video diffuso sul web i 15 archeologi volontari che scavano nel sito dal In alto: l’équipe che ha operato sul sito di Pietrabbondante (Isernia) nel 2015. A sinistra: archeologi al lavoro nell’area del cosiddetto «Santuario orientale». Nella pagina accanto, al centro: il teatro.
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2007, sotto la guida di Adriano La Regina, Presidente dell’INASA. E, come spiega Elisabetta Corbelli, specializzanda in archeologia classica all’Università «Sapienza» di Roma, che scava a Pietrabbondante da dieci anni, «tutti i nostri sforzi andrebbero perduti se si fermassero adesso gli scavi. Si rovinerebbe tutto quello che è stato messo in luce finora: bisogna completare lo scavo e mettere un punto. Siamo quasi arrivati: fermarsi a un passo dalla fine vuol dire buttare al vento dieci anni di lavoro, peraltro a titolo gratuito. Servono dai 10 ai 30mila euro per permettere alla squadra di pubblicare i risultati di questo decennio di ricerche. Grazie alle donazioni finora raccolte con “Rock Samnium”, abbiamo potuto aprire il cantiere anche quest’anno e completare l’analisi dei materiali di laboratorio ai fini della pubblicazione. Siamo a un passo dall’apertura al pubblico della
domus… non possiamo accettare che finisca cosí. Adesso, terminata la fase della colletta via web, si apre la possibilità di fare donazioni all’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte, in qualità di concessionario dello scavo. Ma la domanda rimane: che ne sarà domani di Pietrabbondante?». Adriano La Regina, Presidente dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte, già docente di etruscologia e antichità italiche all’Università «Sapienza» di Roma e Soprintendente Archeologo della capitale dal 1976 al 2004, ha diretto per la prima volta gli scavi archeologici nel sito di Pietrabbondante nel 1959.
possibilità di scavare, dobbiamo tirare i remi in barca”. Ma loro hanno risposto “No: facciamo appello al pubblico, rivolgiamoci alle persone interessate, visto che le Istituzioni non sono piú in grado di svolgere questo ruolo”».
anche altrove, ma mai cosí ben conservate. Le spalliere dei sedili, i telamoni, le decorazioni del teatro di Pietrabbondante rientrano nell’ambito dell’architettura italico-ellenistica, che si è sviluppata anche in Campania e nel Lazio. Ma nel Molise, regione piú periferica e marginale, che non ha subito i rimaneggiamenti di epoca romana, questi tratti si sono conservati nella loro forma originaria. Il santuario tempio-teatro è stato concepito secondo un progetto unitario: il tempio B, costruito alcuni anni dopo il teatro e da maestranze diverse, è il piú grande luogo di culto italico che si conosca.
Per fare una donazione invia un bonifico bancario al conto corrente: IBAN IT23 C030 6905 0200 0529 7850 135 SWIFT BCI TIT MM intestato a Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte presso Banca Intesa, Via del Corso 226 - 00186 Roma con la causale «Donazione a favore degli scavi di Pietrabbondante»
Professore, è possibile che indagini cosí importanti si debbano fermare per mancanza di fondi, anche quando gli archeologi scavano su base volontaria? «È il dramma generale della cultura in Italia: la situazione è tragica. Finora abbiamo lavorato con finanziamenti di provenienza europea, che la Regione Molise erogava al Comune di Pietrabbondante d’intesa con la Soprintendenza, ma quest’anno non abbiamo ricevuto alcun contributo. Nonostante vi fossero fondi disponibili, la Regione ha ritenuto di non volere o non potere piú sostenere la nostra attività. Per questo avevo detto ai giovani archeologi impegnati sul campo: “Ragazzi, qui non ci sono piú le
E cosí l’INASA, con la raccolta fondi «Rock Samnium», ha sperimentato un modo nuovo per finanziare le ricerche a Pietrabbondante. Anche perché gli scavi stanno restituendo scoperte eccezionali, non è vero? «Senza alcun dubbio. Già in passato era venuto alla luce lo splendido teatro ellenistico, costruito tra gli anni finali del II secolo a.C. e i primi del successivo sui resti di un piú antico luogo di culto. Si tratta di un edificio senza pari: è conservato cosí bene da consentirci di riconoscere i caratteri architettonici del teatro preromano, con il proscenio molto alto (2,75 m, cioè 10 piedi oschi) e la cavea separata dall’edificio scenico. Caratteristiche tipiche dei teatri greco-ellenistici, che troviamo
L’architettura dell’edificio è particolare: la pianta è a tre celle, in antis, con alto podio (oltre 3,5 m) e un ampio pronao a cielo aperto, cosa inconsueta». Negli ultimi anni, sulla terrazza a sud-ovest del tempio-teatro, è stata effettuata una scoperta di particolare rilevanza, che trova riscontri importanti nella Roma repubblicana… «Con gli ultimi scavi abbiamo trovato un edificio databile al II secolo a.C. che rappresenta la prima testimonianza architettonica di domus publica a oggi nota. A Roma infatti, in età repubblicana, esisteva una domus publica, ma non ne rimane nulla da un punto di vista archeologico, se non scarsi lacerti murari di dubbia
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identificazione. Sappiamo che era la residenza del pontefice massimo e che anche Cesare, quando lo fu, andò ad abitarvi. Le fonti ci dicono, inoltre, che la domus publica della Roma medio-repubblicana era vicino alla casa delle Vestali: allo stesso modo, a Pietrabbondante, la domus publica è collegata al santuario tempio-teatro ed era la residenza del sommo sacerdote locale, come a Roma del pontefice massimo. La pianta è composta da una domus ad atrio, con impluvio, tablino e alae, secondo il modello delle residenze aristocratiche italico-romane, ma ha la peculiarità di avere, al posto del peristilio, un colonnato rettilineo aperto su uno spazio pubblico, con funzione di portico per offerte votive. Accanto c’è un sacello dedicato a Ops Consiva, che testimonia il carattere sacrale dell’edificio». E nel portico delle offerte avete trovato anche una base con dedica a Ops Consiva: perché si tratta di una scoperta straordinaria? «La presenza dell’iscrizione osca con dedica a Ops Consiva è un fatto strabiliante: richiama infatti il sacrario della dea che si trovava nella Regia di Roma, che poi non è altro che l’antenata della domus publica. È significativa questa analogia con il sacello romano dedicato a Ops, una divinità che, secondo la tradizione, fu importata a Roma da Tito Tazio: riconducibile, quindi, all’ambiente sabino e al ruolo di questo ethnos nella Roma delle origini. Ricordiamo che l’Urbe ebbe tre re sabini: Tito Tazio, Numa Pompilio e Anco Marcio. Con questa iscrizione ci troviamo di fronte, quindi, a una testimonianza unica della cultura italica, che non esiste altrove. Pietrabbondante, infatti, ha la caratteristica di fornire informazioni preziose sul contesto religioso, politico e istituzionale, non soltanto su quello monumentale e storico-artistico: indicazioni importantissime per
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Ancora un’immagine del cantiere di scavo. Le indagini stanno offrendo dati di notevole interesse sui rapporti del sito con Roma.
comprendere la storia del mondo italico che, come sappiamo, era compenetrato con Roma». Tra le ultime scoperte fatte a Pietrabbondante c’è anche una monumentale mensa che reca un’iscrizione in osco. Ci vuole raccontare? «Negli ultimi anni abbiamo messo in luce un tempio del III secolo a.C., denominato “L”, che, oltre alla funzione sacra, doveva avere anche quella di erario del santuario, cioè di banca, esattamente come l’Aedes Saturni a Roma, e poteva essere destinato alla riscossione di denaro (tributi e decime) per conto dello Stato. A queste operazioni era adibita la trapeza (tavola) modanata su supporti zoomorfi rinvenuta nel sacello all’interno del tempio. La cosa interessante è che l’iscrizione incisa lungo la lastra, databile non prima della metà del III secolo a.C., nomina il magistrato che dedicò la mensa: Enniis, forma osca del nome di Ennio, il grande poeta epico della Roma repubblicana. Nato nel Salento, a Rudiae, Ennio era di origine sannitica e si vantava tra l’altro di parlare osco. Ritrovare il nome Ennio a Pietrabbondante è molto importante: indica che la gens è quella. La famiglia dell’Ennio degli Annales era migrata nelle Puglie, dopo la conquista romana del Sannio, mentre il ramo principale era rimasto sul posto e dava i magistrati al luogo. Peraltro, il gentilizio Ennius è rappresentato
nella forma latina, a partire dall’età di Augusto, anche a Saepinum (nel mausoleo di Caio Ennio Marso), in provincia di Campobasso, e a Aesernia. Le sorprese, insomma, nel Sannio, ci sono sempre». Molte scoperte, ma pochi investimenti: in Molise, ma anche nel resto d’Italia. Oggi piú di ieri, a suo avviso? «Sí. Il momento è ancor piú drammatico di prima. Alla politica interessa il turismo e il bene culturale viene visto solo in funzione strumentale all’industria turistica. Basti pensare allo smantellamento delle Soprintendenze. L’interesse politico si concentra solo sui luoghi di grande attrazione e l’archeologia è malvista, relegata al ruolo di ostacolo alle grandi opere, come le metropolitane. Pietrabbondante è uno di quei luoghi che, seppur lontano dai grandi numeri, rappresenta la ricchezza dell’Italia: quello straordinario patrimonio diffuso che costituisce la bellezza del nostro Paese. Basterebbe puntare a una permanenza media nei luoghi della cultura di 5 e non di 2 giorni, cosí da ampliare l’offerta turistica a siti meno noti che però arricchiscono il territorio. Per farlo, però, occorre la volontà politica: non si può demandare tutto alle iniziative locali, perché le amministrazioni comunali non ce la fanno e quelle regionali rispondono a logiche differenti».
i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a
n otiz iario
INCONTRI Paestum
LE SCOPERTE DELL’ANNO
D
a giovedí 27 a domenica 30 ottobre 2016 torna a Paestum la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico. Mentre va definendosi il programma dettagliato di questa XIX edizione, sono stati annunciate le cinque scoperte archeologiche che si contenderanno il secondo International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», il Premio, organizzato in collaborazione con la rivista «Archeo», intitolato al Direttore del sito archeologico di Palmira che ha pagato con la vita la difesa del patrimonio culturale. Della cinquina del 2016 fanno parte: la tomba celtica a Lavau (Francia); i 22 relitti sottomarini nell’arcipelago di Fourni (Grecia); il monumento sotterraneo nei pressi di Stonehenge (Inghilterra); la tomba etrusca a Città della Pieve (Italia); le tombe della necropoli di Khalet al-Jam’a (Palestina).
Prima e dopo la consegna del premio, si susseguiranno gli altri appuntamenti che da anni fanno della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico un evento originale nel suo genere: sede dell’unico salone espositivo al mondo del patrimonio archeologico e di ArcheoVirtual, l’innovativa mostra di tecnologie multimediali, interattive e virtuali; luogo di approfondimento e divulgazione di temi dedicati al turismo culturale e al patrimonio; occasione di incontro per addetti ai lavori, operatori turistici e culturali, viaggiatori e appassionati; opportunità di business nella splendida cornice del Museo Archeologico, con il Workshop tra la domanda estera 24 a r c h e o
selezionata dall’ENIT e l’offerta del turismo culturale e archeologico. Una formula di successo testimoniato dalle prestigiose collaborazioni di organismi internazionali quali UNESCO, UNWTO e ICCROM, oltre che dalle cifre dell’ultima edizione: 10 000 visitatori, 100 espositori, 60 conferenze e incontri, 300 relatori, 120 operatori dell’offerta, 100 giornalisti accreditati. Nel ribadire l’importanza del patrimonio culturale come fattore di dialogo interculturale, d’integrazione sociale e di sviluppo economico, ogni anno la Borsa promuove inoltre la cooperazione tra i popoli. Numerose le sezioni speciali: ArcheoIncontri, per conferenze stampa e presentazioni di progetti culturali e di sviluppo territoriale; ArcheoLavoro, orientamento post diploma e post laurea con presentazione dell’offerta formativa a cura delle Università presenti nel Salone; ArcheoStartUp, in cui si presentano nuove imprese culturali e progetti innovativi nelle attività archeologiche; Incontri con i Protagonisti, nei quali il pubblico interviene con noti divulgatori; laboratori di archeologia sperimentale per divulgare le tecnologie antiche; Premio «A. Fiammenghi», per la migliore tesi di laurea sul turismo archeologico; Premio «Paestum Archeologia», assegnato a coloro che contribuiscono alla valorizzazione del patrimonio culturale. Ospiti del salone espositivo saranno Istituzioni, Enti, Paesi Esteri, Regioni, Organizzazioni di Categoria, Associazioni Professionali e Culturali, Aziende e Consorzi Turistici e Case Editrici. Info www.borsaturismoarcheologico.it
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ARCHEOFILATELIA
DALLA TERRA DEI RE DEI RE
Luciano Calenda
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Nell’articolo dedicato alla mostra «Leoni e Tori dall’antica Persia ad Aquileia» (vedi alle pp. 70-79) vengono riepilogate le vicende che hanno portato alla nascita dell’impero achemenide, argomento che verrà affrontato anche nella prossima Monografia di «Archeo», dedicata, appunto all’archeologia e alla storia 4 5 dell’Iran. Qui presentiamo il consueto excursus filatelico, soffermandoci sui «grandi» personaggi che hanno segnato le tappe piú importanti di questo processo, durato piú di un millennio, dalla salita al trono di Ciro II il Grande, nel 559 a.C., all’entrata in Mesopotamia delle truppe di Abu Bakr, nel 651 d.C. Di fatto, possiamo proporre soltanto i sovrani dei primi anni del 7 regno di Persia, gli unici a essere stati ricordati filatelicamente. Cominciamo dunque con Ciro il Grande (India 1971, 1), il quale, dopo aver consolidato il suo regno, entra da trionfatore a 6 Babilonia (Cuba 1997, 2), nel 539 a.C.; gli succede Cambise II (Bulgaria 1969, 3: è il primo a sinistra). Ma è il terzo sovrano, Dario il Grande (Iran 1948, 4), a dare, nel 522 a.C., un nuovo 8 assetto all’impero, diverso da quello di Ciro II. Innanzitutto, spostò la capitale da Pasargade, dove si trovava la tomba di Ciro II, a Persepoli (Persia 1915, 5-6; Mozambico 2014, 7), città nella 9 quale innalzò molti monumenti e palazzi, tra cui spicca l’edificio oggi meglio conservato, che è anche il piú maestoso: l’Apadana, ultimato dal suo successore, Serse. Esso serviva essenzialmente per le grandi cerimonie; le sue scalinate monumentali erano infatti decorate con fregi e sculture a dimostrare la potenza del «Re dei Re» (Ciad 1999, 8). Serse fu coinvolto nella guerra contro 10 Atene e la Grecia ed è ricordato per la battaglia delle Termopili (cartolina greca raffigurante il monumento in onore di Leonida, 9) e per la successiva definitiva sconfitta a opera dei Greci. 11 L’impero achemenide tramontò con Dario III, quando si scontrò con Alessandro Magno (Inghilterra 2003, 10), il quale attuò il disegno ideato, ma non realizzato, dal padre Filippo il Macedone (Grecia 1979, 11): l’invasione della Persia. Dario subí la prima importante sconfitta a Isso (Grecia 1937, 12) e quella definitiva nella piana di Gaugamela, non lontana dalla città irachena di 12 13 Arbil (Iraq 1989; 13); poco dopo morí per mano di Besso, satrapo della Battriana, a sua volta ucciso da Alessandro, il quale IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro rivendicò cosí anche il regno achemenide. Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenDopo Alessandro, la Persia è sempre stata attratta dalla ti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai cultura occidentale, pur rimanendo profondamente legata seguenti indirizzi: alle sue origini. La presenza di Roma nell’area si consolidò con la pace di Apamea, nel 188 a.C. Nei secoli che seguirono, Segreteria c/o Alviero Luciano Calenda, Batistini C.P. 17037 le lotte tra dinastie locali si protrassero di fatto fino alla morte Via Tavanti, 8 Grottarossa di Maometto, quando il califfo Abu Bakr invase la Mesopotamia 50134 Firenze 00189 Roma. annettendola all’impero islamico: si chiudeva cosí l’epoca info@cift.it, lcalenda@yahoo.it; oppure www.cift.it pre-islamica della Persia.
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CALENDARIO
Italia
FIRENZE Winckelmann, Firenze e gli Etruschi
ROMA Tra Roma e Bisanzio
Il padre dell’archeologia in Toscana Museo Archeologico Nazionale Firenze, Salone del Nicchio fino al 30.01.17
La basilica di Santa Maria Antiqua e le sue pitture Foro Romano, S. Maria Antiqua fino all’11.09.16
Capolavori della scultura buddhista giapponese
Opere dal periodo Asuka al periodo Kamakura (VIII-XIV secolo) Scuderie del Quirinale Qui sopra: statua di monaco. fino al 04.09.16 Periodo Kamakura. Qui sotto: kylix a occhioni (recupero TPC). L’Arma per l’Arte e la Legalità Opere recuperate dal Nucleo Carabinieri TPC Palazzo Barberini fino al 30.10.16
MADE in Roma
Dalla Grecia a Pompei Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.16
Micromosaici romani del XVIII e XIX secolo dalla collezione Ars Antiqua Savelli Museo Napoleonico fino al 31.12.16
PAESTUM Possessione
ADRIA (ROVIGO) L’arte della guerra
Qui sopra: tavolo con commessi di marmi e veduta del Foro.
AQUILEIA Leoni e Tori dall’antica Persia ad Aquileia Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.16
PENNABILLI (RIMINI) Antico Egitto
La vita e la morte lungo il Nilo Museo Mateureka fino al 28.08.16
Palestra Grande e itinerario negli Scavi fino al 02.11.16
Castello fino al 22.01.17
Per grazia ricevuta
ESTE (PADOVA) I suoni del Fiume Azzurro
La devozione religiosa a Pompei antica e moderna Antiquarium degli Scavi fino al 27.11.16
Meraviglie dello Stato di Chu Museo Nazionale Atestino fino al 25.09.16
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Trafugamenti e falsi di antichità a Paestum Museo Archeologico Nazionale fino al 31.12.16
POMPEI Egitto Pompei
BARLETTA Annibale. Un viaggio
in viaggio con l’archeologo sulle Vie della Seta e delle Spezie Museo Archeologico del Finale fino al 02.10.16
MILANO Il mio nome è cavallo
NAPOLI Mito e natura
Minute Visioni
FINALE LIGURE (SAVONA) Sulle orme del passato
Dagli Etruschi a Tommaso Corsini Museo Archeologico e d’Arte della Maremma Museo di Preistoria e di Protostoria della Valle del Fiora località Dispensa-Sala del Frantoio Museo Civico Archeologico e della Vite e del Vino fino al 31.01.17
Immagini tra Oriente e Occidente Studio Museo Francesco Messina fino al 25.09.16
Marchi di produzione e di possesso nella società antica Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 20.11.16
Meraviglie dello Stato di Chu Museo Nazionale Archeologico fino al 25.09.16
GROSSETO, MANCIANO, MARSILIANA D’ALBEGNA E SCANSANO Marsiliana d’Albegna
Qui sopra: affresco raffigurante Annibale. Roma, Musei Capitolini.
RAVENNA S.I.R.I.A. (Salvezza, Illuminazione e Redenzione nell’Iconografia dell’Architettura) Mosaici pavimentali siriani TAMO, Tutta l’Avventura del Mosaico fino al 06.01.17
Qui sopra: Pompei. Larario con Minerva.
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
SANT’AGATA DE’ GOTI (BENEVENTO) Stirpe di draghi Mostra archeologica Complesso Monumentale San Francesco fino al 19.09.16
Gran Bretagna LONDRA Sicilia: cultura e conquista The British Museum fino al 14.08.16
SENALES (BOLZANO) La casa di Ötzi
Città sommerse
La ricostruzione di una capanna preistorica archeoParc Val Senales fino al 06.11.16
I mondi perduti dell’Egitto The British Museum fino al 27.11.16
TORINO Il Nilo a Pompei
Grecia
Visioni d’Egitto nel mondo romano Museo Egizio fino al 04.09.16
ATENE Un sogno tra splendide rovine...
In alto: statua del dio toro Api. Età adrianea.
Una passeggiata nell’Atene dei periegeti, XVII-XIX secolo Museo Archeologico Nazionale fino all’08.10.16
TRENTO Ostriche e vino
In cucina con gli antichi romani Spazio Archeologico Sotterraneo del Sas fino al 30.09.16
Estinzioni
Storie di catastrofi e altre opportunità MUSE-Museo delle Scienze di Trento fino al 26.06.17 A sinistra: pannello con pitture preistoriche rupestri dal Tassili n’Ajjer (Sahara centrale, Algeria).
VULCI I misteri di Mithra
Dodona
L’oracolo dei suoni Museo dell’Acropoli fino al 10.01.17
Olanda LEIDA Storie affilate
Museo Archeologico Nazionale fino al 31.03.17
La spada come arma e simbolo Rijksmuseum van Oudheden fino al 02.10.16
Francia
Svizzera
QUINSON Gli Huaxtechi
GINEVRA Amazzonia
Germania
USA
BERLINO Morte a Napoli
PHILADELPHIA L’età d’oro del re Mida
Un popolo misconosciuto del Messico precolombiano Musée de Préhistoire des gorges du Verdon fino al 30.11.16
Nel 125° anniversario della morte di Heinrich Schliemann Neues Museum fino al 31.10.16
Qui sopra: il tempio di Zeus Olimpio, da Views in Greece (Londra, 1821).
Lo sciamano e il pensiero della foresta Musée d’ethnographie fino all’08.01.17
Tesori dalla Turchia antica University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology fino al 27.11.16
CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli
ANATOMIA DI UN MASSACRO LA SCOPERTA, ALLE PORTE DI ATENE, DI UN GRUPPO DI SCHELETRI CON I POLSI LEGATI ILLUMINA UNA DELLE FASI PIÚ TURBOLENTE DELLA STORIA DELLA CAPITALE DELL’ATTICA
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urante la scorsa primavera ha suscitato grande scalpore un rinvenimento effettuato ad Atene, nella zona del Falero (antico porto della capitale dell’Attica, a est del Pireo), nell’ambito degli scavi avviati nel 2012 e finalizzati alla realizzazione dell’imponente Centro Culturale Stavros Niarchos, progettato da Renzo Piano e destinato a ospitate la nuova sede della Biblioteca Nazionale di Grecia e l’Opera Nazionale, oltre a molte altre strutture. Le drammatiche immagini di scheletri tratti in ceppi hanno fatto il giro del mondo, suscitando, perlomeno in Grecia, un vivo dibattito sull’opportunità o meno di mettere in mostra il dolore umano. Abbiamo parlato di questa singolare scoperta con Stella Chrysoulaki, Direttrice della Soprintendenza alle Antichità Greche dell’Attica Occidentale, del Pireo e delle Isole e responsabile degli scavi al Falero. Dottoressa Chrysoulaki, vuole descriverci i rinvenimenti effettuati dalla Soprintendenza nell’area del Centro Culturale Stavros Niarchos? Il Falero è una zona ben nota agli archeologi: fu il porto di Atene sino alla fine delle guerre persiane (478 a.C.), quando si decise di impiegare a pieno i tre porti naturali della penisola del Pireo. Protetta da colline che evitavano le inondazioni del fiume Ilisso, l’area era la sede di estese necropoli, in uso dalla fine dell’epoca geometrica (fine Necropoli del Falero, Pireo (Atene). Un particolare degli scheletri trovati allineati l’uno all’altro e sepolti con i polsi legati da ceppi di ferro. Ai defunti erano associati vasi utilizzati per tributare loro offerte di liquidi e databili al 650-625 a.C. Se tale cronologia sarà confermata dalle analisi antropologiche, le deposizioni potrebbero essere legate ai tumulti scoppiati ad Atene, quando il nobile Cilone cercò di assumere il potere.
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A sinistra: una delle sepolture di cavallo scoperte nel corso degli scavi condotti nella necropoli del Falero. In basso: un pithos anforoide con decorazione dipinta. Produzione proto-attica, 650-625 a.C. La sua associazione con gli scheletri degli individui sepolti in ceppi ha fornito un primo e decisivo appiglio cronologico per la datazione delle deposizioni. dell’VIII secolo a.C.) sino all’età classica (IV secolo a.C.), con un picco in età arcaica. Gli scavi della Soprintendenza hanno riportato alla luce circa 2000 tombe, gran parte delle quali pertinenti a bambini e infanti sepolti all’interno di vasi; gli adulti, invece, erano deposti in tombe a cista realizzate con lastre di pietra. Sono state inoltre ritrovate sepolture di cavalli e pire funebri realizzate con muri d’argilla. La varietà dei riti funerari impiegati al Falero denuncia l’esistenza di differenti credenze circa l’aldilà e potrebbe anche dimostrare che qui erano sepolti personaggi provenienti da comunità diverse. Può dirci qualcosa di piú circa il ritrovamento che ha fatto tanto scalpore, ossia quello dei personaggi legati in ceppi? Fin dall’inizio degli scavi, in tutta l’area sono state trovate sepolture di individui colpiti da morte violenta: i defunti avevano le braccia e le gambe legate e spesso recavano segni di violenze.
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Tali sepolture non potevano essere datate con precisione a causa dell’assenza di corredi, sebbene la stratigrafia indicasse una cronologia compresa nell’età arcaica. Nel marzo di quest’anno è stato rinvenuto un gruppo di circa 80 individui, deposti con cura l’uno accanto all’altro e con i polsi legati da ceppi di ferro. A essi erano state
tributate offerte di liquidi, effettuate con vasellame databile con precisione al periodo 650-625 a.C. Quale interpretazione si può dare di questa scoperta? Questo insieme di sepolture è chiaramente diverso dalle altre. Si tratta esclusivamente di uomini, giovani e in buone condizioni fisiche. Si dovrà attendere il
In alto: resti di una pira funeraria costruita con muri in argilla. A sinistra: una tomba a cista nella quale, accanto alle gambe dell’individuo sepolto, sono state trovate numerose ossa di animali.
risultato delle analisi sul materiale antropologico, ma, fin d’ora, si potrebbe pensare che vi sia una connessione con un momento preciso della storia di Atene. Le fonti storiche narrano del cosiddetto «affare ciloniano» (Kyloneion agos), una fase drammatica, nel corso della quale fazioni diverse erano in lotta per il potere in città e si verificarono
rivolte nelle classi piú povere, oppresse dalle tasse. Le fonti narrano che il nobile Cilone, aspirando a divenire tiranno di Atene, si rifugiò sull’Acropoli con i suoi seguaci, ma fu poi sconfitto dal partito opposto e i suoi uomini andarono incontro a una tragica fine. Se effettivamente tali defunti sono in relazione, come credo, con questo momento d’inquietudine
sociale, potremmo trovarci al cospetto della testimonianza tangibile di un periodo di tensioni che, alcuni anni piú tardi, condusse al trionfo delle istituzioni democratiche e al codice di leggi redatto da Solone, quando ricoprí la carica di arconte nel 594-593. Quale sarà la sorte di questo rinvenimento? Il Consiglio Archeologico Centrale ha già deliberato: sarà costruito un museo e questi rinvenimenti saranno conservati in situ, per raccontare la storia degli Ateniesi cosí come è stata immortalata dagli scavi e dallo studio futuro della necropoli del Falero.
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L’APPRODO DELLE
MERAVIGLIE TOFET
PISCINA SACRA («KOTHON»)
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ta per iniziare la 36ª campagna scavi a Mozia condotta dall’Università di Roma «La Sapienza» congiuntamente con la Soprintendenza di Trapani (sotto la supervisione di Rossella Giglio e l’egida di Paola Misuraca), una sinergia proficua, che dura da quando il professor Vincenzo Tusa, nel 1964, invitò il nostro Ateneo a lavorare in questo splendente angolo della Sicilia e Sabatino Moscati inviò la sua allieva piú promettente, Antonia Ciasca, a dirigere le ricerche sull’isola siciliana colonizzata dai Fenici. La «Sapienza» ha rinnovato il suo impegno nel 2002, questa volta per iniziativa di Sebastiano Tusa e di chi scrive (con il fondamentale sostegno di Paolo Matthiae), adottando una prospettiva storica e una metodologia nuove.
PORTA NORD
GLI ARCHEOLOGI DELL’UNIVERSITÀ «LA SAPIENZA» STANNO PER TORNARE A MOZIA. LE NUOVE INDAGINI SARANNO VOLTE A CONFERMARE QUANTO LA CITTÀ FENICIA SIA STATA UNO DEI CENTRI PIÚ IMPORTANTI DELL’ANTICO MEDITERRANEO di Lorenzo Nigro
RICERCA E DIVULGAZIONE I risultati degli scavi condotti negli ultimi quattordici anni sono visibili a chiunque visiti Mozia: una nuova area sacra scoperta, scavata e musealizzata, con il tempio di Baal e quello di Astarte presso la piscina sacra (detta erroneamente «Kothon»); due quartieri residenziali con la casa del Sacello domestico e la casa del Corno di Tritone e la casa del Pozzo quadrato sulle pendici occidentali dell’Acropoli; il Tofet, anch’esso ripreso e musealizzato, la Fortezza Occidentale, il sacello di Astarte, la Porta NordOvest e altri tratti di mura, il tutto non solo reso fruibile a Mozia, ma anche accessibile in una vasta serie di pubblicazioni disponibili on line (www.lasapienzamozia.it). Veduta aerea di Mozia con l’indicazione di alcune delle strutture piú importanti. L’antica città venne fondata e si sviluppò sull’isola di San Pantaleo, una delle quattro che punteggiano la laguna dello Stagnone di Marsala (Trapani). a r c h e o 37
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Una nuova serie di dati e una rinnovata affascinante lettura di quella che ora sappiamo essere stata la prima fondazione fenicia in Sicilia, sorta tra l’800 e il 775 a.C., le cui vicende si intrecciano con la piú antica storia del Mediterraneo. I lavori della «Sapienza» sono stati accompagnati da una completa riconsiderazione dello straordinario contesto ambientale che fu la culla della colonia fenicia. Questo ha portato alla scoperta delle sorgenti di acqua dolce che alimentavano il bacino artificiale detto «Kothon», e ha consentito di ricostruire la configurazione dello Stagnone durante i secoli di vita della città. La famosa strada sommersa non era, ovviamente, sott’acqua e sotto le mura di Mozia si trovava una spiaggia profonda almeno 20 m utile ai pescatori e agli abitanti della città, poiché il livello delle acque marine era piú basso, al tempo, di stata chiamata la «civiltà mediterracirca 0,8 m rispetto a oggi. nea». Mozia fu occupata già in epoca preistorica da un importante insediamento, inserito nelle rotte L’ARRIVO DEI FENICI Grazie alla sua localizzazione stra- percorse da Levantini e Micenei tegica al centro delle rotte del Me- verso la Sardegna. diterraneo, Mozia svolse un ruolo Il primo stanziamento dei Fenici a fondamentale nello scambio e nel Mozia risale agli inizi dell’VIII seconfronto di idee, beni e persone colo a.C. ed è stato identificato nel nei secoli cruciali compresi fra il II 2010 sulla sponda meridionale e il I millennio a.C., quando furo- dell’isola, dove le acque dolci della no poste le basi di quella che è falda freatica emergevano in piú
punti, offrendo ai naviganti la possibilità di rifornirsi in modo facile e rapido, nelle condizioni di piena sicurezza garantite dallo Stagnone di Marsala. Lo stesso nome Mozia, Motye, in fenicio significava «approdo», dalla radice (mtw) del verbo semitico «avvolgere, attorcigliare», ossia quel rapido e quasi istintivo movimento che i marinai marsalesi compiono ancora oggi con le cime per fermare le proprie barche.
Il primo stanziamento Edificio C8
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Veduta aerea del primo insediamento fenicio sulla sponda meridionale di Mozia, con, in evidenza, l’edificio C8. Sulla base delle ricerche fin qui condotte, si può affermare che la frequentazione del sito ebbe inizio certamente già in età preistorica e che la scelta dell’isola fu dettata dalla sua posizione geografica, che ne faceva uno scalo obbligato per tutte le piú importanti rotte marittime che solcavano il Mediterraneo, reso ancor piú invitante dalla facilità con cui vi si poteva approdare.
In alto: il tempio di Baal (o «del Kothon»), scoperto dall’Università «Sapienza» e scavato dal 2002 al 2010. A sinistra: il Fondaco C8, scavato dal 2011 al 2015. L’edificio fu fondato agli inizi dell’VIII sec. a.C. e serví da base per i primi abitanti fenici di Mozia.
Gli scavi della «Sapienza» hanno identificato un notevole edificio polifunzionale, un fondaco che serviva da magazzino e, probabilmente, da centro organizzativo del primo stanziamento. A poca distanza, presso una delle sorgenti di acqua dolce e accanto al piccolo stagno da questa generato, i Fenici sbarcati a Mozia eressero il primo tempio «del Kothon», un edificio sacro caratterizzato da spazi aperti nei quali effettuare il culto e dalla presenza di un pozzo e altre installazioni che consentivano di raggiungere il mondo delle acque sotterranee.
NEL REGNO DEL «SIGNORE POTENTE» Questo era il regno di Baal ‘Addir, il «signore potente», che, come ha dimostrato un’iscrizione votiva greca ritrovata in una delle favisse, era il a r c h e o 39
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dio titolare del tempio maggiore dell’area sacra, assieme alla sua compagna Astarte. Baal proteggeva i naviganti, ma anche, assieme ad Astarte, assicurava la prosperità della città e il vincolo con la popolazione autoctona, gli Elimi, con i quali i Fenici strinsero un rapporto fecondo. Il modello fenicio era, infatti, aperto, inclusivo. I ritrovamenti di questa prima fase di occupazione dell’isola testimoniano le grandi distanze superate dai Fenici per commerciare nel Mediterraneo. Un dente di orca marina, il mammifero marino dominante – diffuso primariamente nell’Atlantico –, era conservato come amuleto testimone di una qualche straordinaria impresa di navigazione, assieme a ceramiche provenienti oltre che da Tiro e Sidone, dal Nord Africa, dalla Sardegna, da Cipro e dalla Penisola Iberica, che illustrano esemplarmente come tutte le rotte mediterranee dovessero inevitabilmente passare per Mozia. La piú importante era quella che conduceva alle miniere di ferro e stagno della Sardegna e a quelle di
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argento della Spagna. Le analisi dei reperti rinvenuti nel fondaco hanno mostrato come dal Levante i Fenici avessero portato anche grano, orzo e animali domestici, nonché le loro tradizioni alimentari, che segnarono per millenni a seguire i costumi di questa parte della Sicilia (incluse le macine di basalto, utilizzate anche come zavorra nelle imbarcazioni, o i recipienti d’impasto per la preparazione del cous cous).
PREGHIERE SCRITTE Al centro del tempio spiccava l’obelisco, ossia un blocco di pietra locale (calcarenite) progressivamente rastremato in alto, con un incavo nel quale venivano poste le preghiere dei fedeli scritte su fogli di pergamena, papiro o lamine di rame, bronzo o argento, prima di essere sepolte in un campo di offerte poco
Reperti dal Fondaco C8: 1. pugnale di corno di cervo; 2. dente di orca marina, ricordo di un’impresa marinara straordinaria; 3. lama in ossidiana (da Pantelleria); 4. ciottolo usato come distanziatore per una cima navale con i segni dell’usura.
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distante. Sempre nel tempio altre offerte venivano bruciate in appositi incavi posti nel pavimento. La prima colonia si trasformò rapidamente in una fiorente città commerciale e l’abitato si estese fino all’opposta sponda settentrionale dell’isola, dove, nel punto piú protetto e piú alto, fu costruito il tempio detto del «Cappiddazzu»: era dedicato al dio di Tiro, Melqart (poi identificato con Herakles), e aveva una funzione piú direttamente legata al potere politico. Lungo la costa nord furono localizzati anche la ne-
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Altri reperti dal Fondaco C8: 5. madreperla utilizzata come ornamento di un mobile o di un lituo; 6. pesi da rete.
cropoli (successivamente attraversata dalle mura, scavate dalla «Sapienza»), con tombe a incinerazione in ciste o inumazioni in sarcofagi, e il santuario del Tofet, il luogo sacro nel quale erano sepolti i resti combusti degli infanti che, in determinate occasioni, venivano offerti al dio Baal Hammon.
L’OFFERTA DEGLI INFANTI Il Tofet di Mozia, scavato stratigraficamente da Antonia Ciasca, è uno dei meglio conosciuti del Mediterraneo. Gli scavi recentissimi della «Sapienza» (2009-2014) hanno permesso di individuare l’ingresso al santuario e di ricostruire la serie dei piccoli edifici che circondavano il campo di urne e venivano utilizzati nei riti collegati al sacrificio chiamato «molk», l’azione rituale che accompagnava l’offerta degli infanti: un’edicola ospitava i simulacri del dio e le maschere apotropaiche e di
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Astarte; sul lato ovest era un edificio porticato, fronteggiato dal pozzo sacro (in cui ancora oggi sgorga acqua dolce), all’interno del quale si poteva scendere comodamente per effettuare i riti di purificazione. Infine, all’estremità ovest del santuario, si trovava un tempietto, con una piattaforma rialzata sulla quale era posto un piccolo «trono di Astarte» con ai lati due sfingi. Nella piattaNella pagina accanto, in basso: il Tofet dopo la musealizzazione e i piú recenti scavi della «Sapienza». In basso: vasi utilizzati come urne per i resti incinerati dei bambini sepolti nel Tofet in gruppi raccolti attorno a stele o installazioni. La ripresa dei lavori nel cosiddetto «Sacello A» ha rivelato come il piccolo edificio di culto eretto alla metà del VI sec. a.C. insista su un’installazione precedente, anch’essa funzionale al rito nel Tofet e risalente all’VIII sec. a.C.
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Sorgente del tempio
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In alto: un particolare della struttura del Kothon in una foto scattata durante il prosciugamento del bacino, realizzato nel 2013. La freccia indica il punto in cui sgorga l’acqua dolce, nei pressi dell’angolo nord-est di quella che è stata ormai riconosciuta come una grande piscina sacra. La denominazione convenzionale continua a essere utilizzata per ricordare Giuseppe Whitaker, il quale la propose al tempo delle sue pionieristiche esplorazioni del sito. 42 a r c h e o
forma è stata ritrovata, nel 2014, una punta di lancia di bronzo ripiegata con funzione apotropaica, mentre sepolte nei cavi di fondazione dei muri del sacello erano delle figurine fittili fatte al tornio. Al centro del Tofet si trovava il campo di urne, con migliaia di vasi contenenti i resti combusti dei bambini raggruppati a grappoli attorno a stele e segnacoli. Le piú recenti indagini coadiuvate dall’analisi del DNA (effettuata
dall’équipe della professoressa Laura Ottini del Dipartimento di Medicina Molecolare della «Sapienza»), puntano a stabilire se tra i diversi individui incinerati esistessero rapporti di parentela, oltre a contribuire alla mappatura dell’antica popolazione moziese.
VISIONE INEDITA Tornando all’area sacra del Kothon, con l’assoggettamento a Cartagine attorno alla metà del VI secolo
Il dio incedente A destra: statua fenicia di personaggio divino incedente, dallo Stagnone di Marsala. Palermo, Museo A. Salinas. In basso: ricostruzione grafica della statua di Baal incedente che doveva trovarsi al centro del Kothon e di cui, nel 2013, è stato trovato il basamento nel quale si inseriva il blocco con il piede sinistro.
Al centro del Kothon si stagliava una statua colossale di Baal
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a.C., questa venne completamente ricostruita in forme monumentali. La piscina artificiale con le acque dolci, collegata al tempio, venne riedificata al centro di uno straordinario recinto sacro circolare di 118 m di diametro. Nell’estate del 2013, il Kothon è stato prima prosciugato e poi scavato dalla «Sapienza», con il sostegno economico della Honor Frost Foundation di Londra, mettendo in luce le banchine costruite in grandi blocchi squadrati, sormontati da una cornice tipica delle piscine. Non appena il limo argilloso è stato asportato dall’invaso, la sorgente che lo alimentava ha ricominciato a versare acqua. Nell’angolo nord-est è stato identificato lo sbocco di una condotta proveniente dalla sorgente del tempio ed è stato chiarito che il lato sud, verso lo Stagnone, era completamente chiuso in antico.
IL RIUSO MODERNO: DA PESCHIERA A SALINA Dopo la distruzione di Mozia, nel tratto di mura corrispondente, fu realizzato un bacino di carenaggio (quando Mozia divenne area industriale di Lilibeo). Questo venne a sua volta sfruttato nel Medioevo e fino al XIX secolo per servire da parte esterna di un canale scavato per trasformare la piscina prima in vasca per allevamento ittico e poi in salina. Proprio questo canale secondario e alquanto effimero, realizzato con elementi reimpiegati alla quota
del mare d’epoca moderna, è stato all’origine dell’errata interpretazione del bacino come porto o darsena, solo accennata dal Whitaker e divenuta per quasi un secolo l’interpretazione dominante. Il Kothon (di cui conserveremo, in ricordo di questo grande pioniere, il nome), dunque, era in realtà una piscina sacra, collegata con il tempio di Baal, che vi si rivolgeva con un portico, un bacino artificiale riempito con acqua dolce, che poteva anche servire ai naviganti per velocizzare l’operazione dell’acquata, soprattutto nei primi secoli di vita della città portuale. Al centro del Kothon si trovava la statua del dio Baal incedente, posta su un alto podio a blocchi (molti dei quali sono stati ricollocati nell’angolo sud-ovest e sono ancora visibili – diversi da quelli impiegati nelle banchine), analogo per alcuni versi all’edicola presente nella vasca sacra del coevo e planimetricamente assai simile santuario di Amrit in Siria. Di questo colosso, comparabile con la statua collocata in un’edicola all’ingresso meridionale dello Stagnone, oggi al Museo «Salinas» di Palermo, resta sfortunatamente solo parte del piede sinistro su un blocco sistemato, nel nuovo allestimento dell’area, proprio davanti al bacino (vedi foto e box a p. 43). Esso però è riconoscibile nel personaggio incedente raffigurato su numerose stele del Tofet.
Per le sue dimensioni eccezionali e la sua forma che rimanda alle mappe celesti, il muro circolare (Temenos) è un monumento per molti versi unico nell’archeologia del Mediterraneo. Esso racchiudeva le tre sorgenti maggiori di acqua dolce e, oltre al bacino del Kothon di cui si è detto, il tempio di Baal e quello di Astarte a oriente e il santuario delle Acque a occidente, quest’ultimo In alto: un’immagine del tempio di Astarte nell’Area sacra del Kothon durante gli scavi. A sinistra e nella pagina accanto: matrici per terrecotte votive rinvenute nel santuario delle Acque nell’area sacra del Kothon: raffigurano una protome femminile e un’arula con una sfinge che ghermisce un giovane.
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caratterizzato dalla presenza di due grandi ancore antiche e dal ritrovamento del cratere attico a figure rosse detto di Alcimedonte, delle matrici di terracotte votive, oltre a stele, segnacoli e piccole installazioni di culto, collegate alle osservazioni degli astri celesti.
Tra i ritrovamenti piú tipici del Temenos, pavimentato con marna argillosa, sono gli astragali bruciati ritualmente, le lucerne, gli scarabei e numerosi denti umani appartenuti a individui maschili di età compresa tra i 18 e i 30 anni, probabil-
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium mente morti eroi per diquaspedsoldati quos non etur da reius nonem fendere Mozia o, quos viceversa, nemici quam expercipsunt rest magni sacrificati scopo, sparsi autatur apicallo tecesstesso enditibus teces.
apotropaicamente alla base del muro di recinzione dell’area sacra. Presso il tempio di Astarte, in un piccolo ma molto ben conservato
UN MURO PODEROSO La struttura era costruita a setti di 3-5 m di lunghezza, spartiti sulla circonferenza esterna da piedritti monolitici di calcarenite e aveva uno spessore variabile da 0,7 a 1,5 m. Nel settore meridionale, il Temenos è conservato con un’altezza di piú di 1,5 m, ma in origine doveva essere alto almeno il doppio, con la parte superiore realizzata in mattoni crudi. a r c h e o 45
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In alto: una panoramica del muro circolare (Temenos). Qui sopra e in basso: materiali provenienti dal Temenos e comprendenti una gamma assai variegata di reperti: 1. scarabeo in calcedonio con inciso Pegaso cavalcato da Zeus, ritrovato in un deposito sul lato nord; 2. scarabeo in steatite con inciso un toro atterrato da una giovane leonessa; 3. frammento di lucerna monolicne (a 1 beccuccio); 4. figurina fittile che rappresenta un grifone; 5. astragalo di bovino giovane combusto; 6. mandibole e denti umani (questi ultimi costituiscono una presenza inaspettata). 5
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edificio sacro in antis rivolto a sud e contraddistinto da una nicchia rialzata realizzata in blocchetti di calcarenite, è stato ritrovato un deposito votivo con un’iscrizione fenicia che cita la «signora» (rabat) Astarte, e un’altra greca che ci dice il suo epiteto: AGLAIA, ossia «luminosa», termine che fa riferimento sia alla natura astrale della divinità adorata dai naviganti fenici come stella del mattino, sia alla purezza delle acque che sgorgavano nel Kothon. Tra gli altri ritrovamenti si contano un cembalo di bronzo e un flauto d’osso, spezzati ritualmente, gli strumenti musicali che la dea utilizzava nel mito per risvegliare il suo sposo e riportarlo in vita dagli Inferi. Il tempio venne fondato assieme a quello di Baal all’inizio della storia di Mozia. Il recinto sacro circolare, con i suoi due ettari di estensione, includeva
diverse stele, disposte in punti significativi (forse in base alla posizione delle stelle in alcune date importanti del calendario fenicio), e numerose altre installazioni di culto, come le favisse o i depositi votivi, solitamente distribuiti nelle immediate vicinanze dei templi maggiori. Tra le stele, spicca quella posta presso l’ingresso settentrionale, che era accompagnata da un ricco deposito con uno scarabeo in calcedonio con inciso Pegaso cavalcato da Zeus. Un’immagine che doveva essere stata fatta propria anche dai Punici di Mozia. Con esso è stata ritrovata una statuetta a forma di testa di grifone. Sul lato opposto del recinto, presso la favissa di Baal, nell’ultima campagna di scavi, è stata rinvenuta una brocchetta con l’imboccatura a forma di testa d’ariete, tra i piú straordinari esempi delle capacità artistiche dei coroplasti moziesi.
UN RITO DI PASSAGGIO? Sempre presso il tempio di Astarte, un grande ciottolo segnacolo indicava il punto di deposizione di un bacino femminile, appartenuto a una fanciulla di 12-14 anni, accanto al quale erano stati raccolti i denti da latte di un infante. Appare difficile comprendere il senso di questa offerta, che rimanda da un lato ai riti di passaggio all’età fertile, dall’altro al sacrificio umano. D’altra parte, i numerosissimi astragali so-
no comuni nei contesti di passaggio, come anche l’offerta di capre o pecore che non avessero ancora generato agnelli. I lavori nel Temenos Circolare dureranno ancora diversi anni, necessari per portare alla luce e studiare le In basso: una veduta aerea dell’ingresso settentrionale al recinto sacro di Baal e Astarte a Mozia, con la stele nord.
A destra e in basso: brocchetta con imboccatura configurata a testa d’ariete, utilizzata per libagioni nell’area sacra del Kothon.
complesse e affascinanti testimo- visitatori non esperti. Pannelli in nianze del culto praticato nella italiano e inglese aiutano nella lettura del complesso sacro, che è a oggi grande area sacra di Baal e Astarte. uno dei piú grandi santuari del Mediterraneo preclassico. RESTAURO Con la campagna 2015, i lavori delREVERSIBILE Nel frattempo, tuttavia, i monumen- la «Sapienza» sono ripresi sulle muti sono stati resi fruibili attraverso il ra orientali, già esplorate tra il 1974 restauro conservativo delle strutture, e il 1992 da Antonia Ciasca. Per adottando uno stile garbato, reversi- prima cosa si è proceduto a un imbile e finalizzato a rendere i resti pegnativo lavoro di pulizia che ha architettonici comprensibili anche ai reso nuovamente visibili le mirabili
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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strutture difensive (con spessori superiori a 4 m), che costituirono per secoli una invalicabile difesa della città nel tratto compreso dalla Torre Orientale alla Posterula Whitaker e alla Porta Nord, dove i lavori continueranno anche nel 2016. Le molteplici e successive linee di fortificazione
di Mozia, con orientamenti in parte divergenti, sono state riportate alla luce e si è ripreso lo scavo all’interno della piú antica cortina difensiva, contraddistinta da torri rettangolari a doppia camera. Le mura restaurate potrebbero anch’esse contribuire a fare di Mozia un’attrazione mondiale. Esse ci
UN AURIGA D’ECCEZIONE Sebbene sottomessa a Cartagine dal VI secolo a.C., Mozia tentò in tutti i modi di integrarsi nella congerie culturale delle città greche di Sicilia. Un atteggiamento politicamente aperto e pacifico le si confaceva assai meglio di uno ostile, considerata la sua indole intrinsecamente commerciale.
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Cosí, nel V secolo a.C., essa somiglia piú a una delle tante città siceliote che a una città punica. Il potere è nelle mani di un re o tiranno (non piú di un consiglio di ricchi mercanti) che fa realizzare per il suo Tempio (il cosiddetto «Cappiddazzu») la statua del dio Melqart nelle vesti di Eracle-auriga che entra vittorioso sul carro nell’Olimpo: si tratta del capolavoro
raccontano la storia della città; una città potente, che, assoggettata a Cartagine, assume anche un ruolo militare a seguito della politica espansionistica di quest’ultima. Quelle elencate sono solo alcune delle meraviglie di Mozia, a cui se ne potrebbero aggiungere ancora molte altre: dai profumi di una flora
scoperto da Vincenzo Tusa che conosciamo come il «Giovane di Mozia» e che solo a Mozia acquista appieno il suo significato artistico, storico e archeologico. Tutto questo, tuttavia, non salvò la città dall’attacco finale di Dionigi di Siracusa che, dopo un drammatico assedio, terminato con un sanguinoso saccheggio, la rase al suolo nel 397/6 a.C.
fiorente e variegata ai colori delle vigne di uva grillo e dei cieli moziesi, al vento che sempre risveglia con l’aria di mare i sensi (e l’appetito).
TRASMETTERE IL PATRIMONIO Ciascuno di questi elementi è un valore da preservare e tramandare, e in questi anni l’impegno dell’Università di Roma «La Sapienza», in sinergia con la Soprintendenza di Trapani e la Fondazione «G.Whitaker», è stato proprio quello di far conoscere le meraviglie di Mozia. Scoprire, studiare, capire, restaurare e valorizzare le vestigia di questa antica città non è solo un grande privilegio, ma anche, per l’archeoNella pagina accanto: il «Giovane di Mozia», statua di Eracle/Melqart in veste d’auriga, dedicata nel tempio del dio detto del «Cappiddazzu», a Mozia. 475 a.C. circa. Mozia, Museo «Whitaker».
In alto: una veduta della Torre 3 e della Posterula Whitaker durante gli interventi condotti nella campagna del 2015, mirati a rendere nuovamente visibili e documentare le massicce strutture difensive di cui la città di Mozia si era dotata.
logo, un immenso piacere, che diventa dovere di tradurre muri, vasi, statue, figurine, reperti in qualcosa di sensato da trasmettere alle generazioni future, affinché anch’esse se ne innamorino. I risultati dello sforzo di generazioni di studiosi e studenti di archeologia della Sapienza si vedono: venite a Mozia e potrete gustare la storia della Sicilia assieme a un bicchiere di vino e a una fetta di indimenticabile pane cunzato (letteralmente «pane condito» era la pietanza di chi, non avendo altro che una pagnotta, cercava di renderla piú sostanziosa e saporita strofinandovi sopra, per esempio, qualche sarda, n.d.r.). a r c h e o 49
STORIA • PERUGIA
PERUGIA NUOVA LUCE SULLE ORIGINI UMBRI O ETRUSCHI? MENTRE LE INDAGINI SVELANO LA PIÚ ANTICA STORIA DELLA CITTÀ, UN IMPORTANTE RESTAURO VALORIZZA UNO DEI SUOI MONUMENTI PIÚ ILLUSTRI testi di Giuseppe M. Della Fina e Luana Cenciaioli
N
egli ultimi anni, grazie a ricerche sistematiche e fortunate scoperte, la storia di Perugia si è assai arricchita. Nuova luce è stata per esempio gettata sulle sue origini, sulle quali le fonti offrono notizie discordanti. Servio, un commentatore dell’opera di Virgilio, ricorda due tradizioni: la prima attribuisce la fondazione all’etrusco Auleste, padre o fratello di Ocno, a sua volta ecista di Mantova; l’altra sottolinea il ruolo svolto dalla tribú umbra dei Sarsinati. L’ipotesi di una fondazione etrusca venne sostenuta anche da Appiano e Stefano di Bisanzio. Sulle prime fasi di vita dell’insediamento, le novità non mancano: a valle della collina su cui sorge la 50 a r c h e o
città e lungo uno dei futuri tracciati viari verso Velzna (Orvieto), è stato infatti rinvenuto un abitato protovillanoviano, sorto in una zona paludosa e la cui cultura materiale mostra contatti con quella dell’Etruria centro-meridionale.
ANTICHE CAPANNE Dal versante opposto proviene un’ascia dell’età del Bronzo Finale riferibile al gruppo detto «del Trasimeno», che sembra indicare una frequentazione anche di quest’area, confermata da frammenti ceramici da Pieve di Campo e dal Palazzone. Piú consistenti sono le testimonianze di età villanoviana: una spada ad antenne a Fontivegge, reperti fittili a Verzaro, i resti di un abitato con
Salvo diversa indicazione, tutti gli oggetti illustrati sono esposti nel Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria di Perugia. In alto: antefissa con l’immagine di un Satiro, dal Capitolo della Cattedrale di S. Lorenzo. IV sec. a.C. Nella pagina accanto: particolare della decorazione a rilievo di una delle urne funerarie deposte nella tomba dei Cacni. III-II sec. a.C.
capanne a Piaggia Colombata, una probabile necropoli a Monteluce. A Piaggia Colombata, in particolare, gli archeologi hanno recuperato resti d’intonaco, ceramiche d’impasto e ceramiche figuline dipinte, scarti di fornace e strumenti legati alla
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STORIA • PERUGIA
La piena affermazione di Perugia come città vera e propria si colloca dopo la metà del VI secolo a.C. Urna funeraria etrusca in travertino con tracce di policromia. II-I sec. a.C. Corciano (Perugia), Antiquarium. Sul coperchio è ritratto il defunto, mentre sulla cassa è scolpita una scena di commiato di cui è protagonista una coppia di coniugi: i due, accompagnati dai rispettivi servitori, sono raffigurati nel momento del saluto d’addio.
tessitura, riferibili a un insediamento databile nell’VIII secolo a.C. L’insieme di questi dati suggerisce una fondazione etrusca per Perugia, anche se i contatti con l’area umbra, situata sulla sponda opposta del Tevere, devono essere stati intensi e non si può escludere la presenza di gentes di tale origine. In proposito, già nel 2002, Francesco Roncalli aveva proposto uno scenario suggestivo, parlando di «una Perugia città etrusca a statuto speciale», in seno alla quale la componente umbra pesava culturalmente e linguisticamente. Perugia, comunque, è una polis giunta a un pieno sviluppo solo dopo la metà del VI secolo a.C., quando i documenti piú significativi provengono ancora dal territorio con i corredi delle tombe gentilizie di Castel San Mariano e di San Valentino di Marsciano, a testimonianza del permanere di una mentalità aristocratica (superata, o in corso di superamento, nell’Etruria centro-meridionale) e della vitalità dei potentati locali.
IL PRIMO ALFABETO L’affermazione piena del modello della città-stato sembra risalire alla fine dello stesso secolo come testimoniano il celebre sarcofago dello Sperandio e un alfabetario iscritto su un fondo di coppa in bucchero che rappresenta la piú antica testimonianza scritta da Perugia. Il testo presenta caratteristiche che indicano come orizzonti di riferimento culturale del centro l’Etruria settentrionale e Velzna (Orvieto). Inoltre, alle ultime due lettere si sovrappone il lemma abat, inciso in un secondo momento, che si tende a interpretare come «alfabeto»: l’iscrizione perugina ne restituirebbe quindi il termine etrusco. In epoca antica, una città era definita dalla sua cinta muraria e quella di Perugia, nonostante le ripetute trasformazioni, è stata ricostruita per intero: risulta adeguata alla confor52 a r c h e o
mazione del suolo e mostra di essere stata progettata unitariamente. Quanto alla datazione, una serie d’indizi – quali la ricezione della volta a botte in Etruria, gli ornati delle porte e i confronti con realizzazioni analoghe – suggerisce la seconda metà del III secolo a.C. Tale inquadramento cronologico può risultare sorprendente, dal momento che la città aveva perso la sua indipendenza politica nei decenni immediatamente precedenti. Occorre comunque considerare che l’aristocrazia perugina riuscí a intessere fin da subito buoni rapporti con quella di Roma (nel 130 In alto: Perugia. Particolare della facciata della cattedrale di S. Lorenzo. Insieme al Colle Landone, la chiesa occupa l’area dell’antica acropoli. A destra: vaso plastico policromo dalla tomba degli Acsi, nella necropoli etrusca del Palazzone. IV sec.a.C.
a.C. un esponente della gens dei Perperna raggiunse il consolato) e che le mura non avevano solo una funzione difensiva, ma rappresentavano l’immagine stessa della città. In ogni caso, una cinta muraria piú antica, seppure meno possente, doveva comunque esistere: Tito Livio la ricorda in occasione di un avvenimento bellico del 310 a.C., che vide l’arrivo di Q. Fabio Rulliano ad moenia («alle mura») della città.
SOTTO LA CATTEDRALE Negli ultimi decenni, interventi di archeologia urbana hanno interessato, in pieno centro storico, piazza IV Novembre, la poco distante piazza Cavallotti e lo spazio al di sotto della cattedrale di S. Lorenzo. L’area coincideva con il settore centrale dell’abitato ed era costituita da un ampio terrazzamento, sostenuto da sostruzioni in opera quadrata di a r c h e o 53
STORIA • STORIA DEI GRECI/14
travertino. L’intervento edilizio con caratteri di spiccata monumentalità mutò profondamente l’assetto urbanistico della zona e dovrebbe essere stato avviato all’inizio del II secolo a.C., nel quadro di una riqualificazione generale della città, il cui atto iniziale fu, con ogni probabilità, proprio il riassetto delle mura. Esso comportò la distruzione di edifici templari, di cui sono state recuperate terrecotte architettoniche databili dal IV al III secolo a.C.
DEPOSIZIONE RITUALE Le indagini archeologiche hanno permesso d’individuare anche un lacerto murario, all’interno della cui fossa di fondazione era stato deposto ritualmente un servizio da banchetto composto da una decina di vasi in bucchero databili all’inizio del VII secolo a.C. Si tratta della 54 a r c h e o
In alto: un settore del percorso archeologico visitabile nell’area sottostante il Capitolo della cattedrale di S. Lorenzo. Sono qui visibili resti delle spine di contenimento in blocchi di travertino.
Arco Etrusco Piazza Morlacchi Cattedrale di Piazza S. Lorenzo Cavallotti Piazza IV Novembre
Arco della Mandorla Museo Archeologico Nazionale
sarebbe stato risparmiato dall’incendio del 40 a.C. successivo allo scontro tra Antonio e Ottaviano. Ora si tende, invece, a riconoscervi un edificio sacro dedicato a Iuno, l’etrusca Uni, il cui simulacro venne portato a Roma dopo la conquista della città per volontà del vincitore, il futuro Augusto. Sulla terrazza sorgevano anche altre strutture, tra cui probabilmente un braccio porticato da porre in con-
nessione col tempio principale e una cisterna circolare rivestita in cocciopesto.Va tenuto presente che il Foro della città era collocato nella limitrofa piazza IV Novembre. Due grandi cisterne, inoltre, erano poste sull’angolo sud-occidentale della zona forense, di fronte all’attuale Palazzo del Vescovado; collegate a una rete di cunicoli, esse costituivano uno dei primari apprestamenti idrici della Perugia romana.
In questa pagina: ancora due immagini del percorso archeologico allestito sotto la cattedrale di S. Lorenzo: un tratto di una strada basolata in uso in età etrusca e romana (qui sotto) e l’impluvium (vasca di raccolta delle acque piovane) della domus romana.
NELL’AREA DEL FORO Va sottolineato – come ha notato da ultimo Luana Cenciaioli – che gli interventi duecenteschi si adeguarono alla struttura e alla topografia della città etrusca e romana alla qua(segue a p. 60)
costruzione piú antica rinvenuta nell’area. Alla fase piú recente, legata alla realizzazione del terrazzamento, appartengono templi che sono eredi piú o meno diretti di quelli demoliti, con terrecotte del II-I secolo a.C. Essi vanno localizzati proprio nella zona occupata attualmente dalla cattedrale di Perugia: abbiamo cosí una continuità di culto che ha attraversato i millenni, le culture e le religioni. Delle strutture etrusco-romane si conserva, in particolare, l’angolo nord-ovest del podio di un tempio dalle dimensioni notevoli, posizionato in corrispondenza dell’abside della cattedrale e che probabilmente si apriva verso l’attuale piazza IV Novembre. La tradizione erudita collocava nella zona il tempio di Vulcano, che le fonti letterarie antiche ricordano come l’unico che a r c h e o 55
STORIA • PERUGIA
UNA PORTA CARICA DI STORIA di Luana Cenciaioli
L’
Arco Etrusco (o di Augusto) – noto anche come porta di via Vecchia, porta Settentrionale, porta Pulchra, porta Tezia, Arco Trionfale, ecc. – è ubicato in piazza Fortebraccio (già Grimana), affiancato dallo splendido Palazzo Gallenga Stuart, che ospita l’Università per Stranieri; è costeggiato da via Bartolo, via Pinturicchio (già Muzia e Ramerino), e da via Cesare Battisti, costruita agli inizi del Novecento, in seguito a un progetto del 1860. È l’unica delle sei porte cittadine a non aver subito forti modifiche, se non per la costruzione, nel torrione di sinistra, di una graziosa loggia rinascimentale, collegata al palazzo contiguo, oggi sede della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici dell’Umbria; anche la fontana in basso venne aggiunta nel Cinquecento. Fa parte della cinta muraria etrusca della città ed è il monumento piú imponente e prestigioso, ancora superstite, della Perugia antica. La sua imponenza lo ha fatto ammirare nei secoli; figura come porta «Pulchra» in un documento del 1306, secondo una definizione usata già nel VII secolo. L’Arco Etrusco è una delle porte principali che si aprono nella cinta muraria etrusca della città; rivolto verso settentrione, in direzione di Gubbio, è formato da due torri di forma trapezoidale, rastremate superiormente e da una facciata orna-
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mentale con uscita ad arco, impostato obliquamente rispetto alle mura. La struttura ha una luce di 4,97 m, per un’altezza di 11 m e una profondità di 6,20; l’altezza massima complessiva raggiunge 19 m. La porta è costruita con volta a tutto sesto, con duplice ghiera di conci su cui furono aggiunte in età romana le iscrizioni Augusta Perusia e Colonia Vibia. La prima venne apposta dopo l’incendio di Perugia del 40 a.C., a seguito della conquista di Perugia da parte dell’imperatore Augusto, e le lettere sono di tipo capitale con apicature, mentre la seconda fu fatta scolpire dall’imperatore umbro Caio Vibio Treboniano Gallo (251-253 d.C.), quando Perugia divenne colonia.
QUELLE TESTE CONSUNTE... Il restauro ha messo in evidenza tracce di colore rosso nelle lettere di Augusta Perusia, a indicare la presenza della rubricatura della scritta, che cosí era visibile anche da lontano. Sopra l’arco corre un fregio a rilievo, con metope e triglifi, che raffigura pilastrini scanalati, sormontati da capitelli del tipo ionico-italico e alternati a scudi. Ai lati sono inseriti due blocchi ormai informi, in arenaria, resti di due teste pertinenti a divinità protettrici della città, come documentato in altri luoghi, per esempio a Volterra e Falerii, a Perugia stessa nella porta Marzia, e in alcune urne etrusche. Sopra il fregio si apre un secondo arco, delimitato da una cornice e fiancheggiato da lesene e capitelli ionici, utilizzato per il controllo e durante gli assedi per ospitare una macchina bellica da lancio (catapulta o balista). Fiancheggiata da due enormi torri di forma trapezoidale, rastremate superiormente, la porta è costruita in opera quadrata con blocchi di travertino, proveniente dalle cave di Santa Sabina, disposti in filari regolari non uniti da malta. Le torri costituiscono un tutt’uno con
Perugia. L’Arco Etrusco (o di Augusto), la porta cittadina che si presenta ancora oggi in forme sostanzialmente immutate rispetto all’assetto originario.
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IL RESTAURO DELL’ARCO Il progetto di restauro e valorizzazione dell’Arco Etrusco è stato elaborato dal Comune di Perugia, dalla Soprintendenza Archeologia dell’Umbria, dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e del Paesaggio dell’Umbria, con fondi di uno sponsor privato, Brunello Cucinelli, per un importo complessivo di 1,3 milioni di euro. L’intervento ha interessato la facciata della porta e i bastioni, per un totale di 1400 mq circa. Sono stati eseguiti i rilievi plano-altimetrici e tematici, le indagini strutturali (endoscopiche, petrografiche, termografiche, ecc.), le verifiche statiche, le mappature del degrado e delle fasi cronologiche di costruzione e di restauro, propedeutiche all’intervento complessivo. Il restauro – comprendente la rimozione della vegetazione infestante, la pulitura delle superfici con varie tecniche appositamente testate, la rimozione delle patine e dei depositi dovuti ad agenti inquinanti, le microstuccature e cuciture, ove necessarie e le integrazioni delle grandi lacune – si è configurato come operazione manutentiva straordinaria destinata a migliorare sia la conservazione del monumento, sia il suo aspetto, senza modificarne sostanzialmente l’immagine storica consolidata nel tempo. L’intervento (iniziato nel maggio 2013) è stato diretto e costantemente seguito da funzionari del Comune di Perugia e del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.
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In alto: particolare dell’iscrizione Augusta Perusia. Qui sopra: uno dei pilastrini scanalati che compongono la decorazione del fregio a rilievo dell’arco.
l’arco, come dimostrano i blocchi d’angolo innestati gli uni con gli altri e si vedono anche i segni dell’incastro. I due possenti torrioni presentano una lavorazione differenziata e travertino di diversa consistenza: le assise nella parte superiore sono disposte in modo tale da dare alle pareti inclinate una superficie continua e liscia; nella parte inferiore, invece, i filari sono aggettanti con superficie a piccoli gradini. Infatti, fino a metà altezza, i filari sono arretrati rispetto a quelli superiori di 3 cm circa.
ESAME SISTEMATICO All’avvio dei restauri, lo stato di conservazione del monumento è risultato precario. L’esame blocco per blocco dell’arco, dei bastioni e di un tratto di via Cesare Battisti, ha permesso una verifica puntuale del degrado. Alcuni vetrini-spia, applicati a suo tempo negli interstizi dei blocchi, per sorvegliarne la sicurezza statica, sono risultati crinati o caduti. Le alterazioni riscontrate sono tipiche delle strutture monumentali costituite da grandi blocchi quadrangolari, che sono stati lesionati, in diversa maniera, da eventi sismici. La natura della pietra costitutiva del monumento, il travertino, ha comportato lesioni nette e precise; in molti blocchi si sono riscontrate varie fessurazioni, con scaglie o distacchi a lamelle di varia grandezza, oppure, crinature piú profonde e preoccupanti che hanno fratturato o diviso in profondità i blocchi stessi; in alcuni casi, i frammenti si presentavano del tutto distaccati, in fase di caduta, o già caduti. Il degrado maggiore si è riscontrato in alcuni tratti, quali i bastioni; meno lesionate risultano la facciata e la luce dell’arco. Si è notato inoltre un aggravamento delle vecchie lesioni, verificatesi gradualmente nel tempo, prima dell’ultimo sisma (1997). Questi vecchi dissesti, erano già stati oggetto di precedenti restauri
(1960-70), costituiti principalmente da stuccature in cemento degli interstizi e da cunei di legno, per rinforzare i blocchi pericolanti. Il pronto intervento sulle lesioni causate dal terremoto ha reso possibile una verifica ravvicinata sullo stato di conservazione generale del monumento, constatando una situazione di degrado tipica delle opere lapidee esposte all’aperto.Tale esposizione ha modificato traumaticamente le condizioni della struttura, provocando fenomeni distruttivi a catena, di carattere fisico, chimico e biologico. Risulta avanzata la decoesione della superficie, che in alcuni tratti appare farinosa al tatto. È stato inoltre evidenziato un degrado biologico molto esteso, dovuto all’attacco di colonie di alghe, muschi e licheni; negli interstizi e nelle porosità dei blocchi, hanno attecchito varie piante infestanti, tra cui la parietaria. Infine, l’inquinamento ambientale ha causato il deposito sulle superfici di spesse patine nerastre (croste dendritiche) molto estese e deturpanti, che, soprattutto nella luce dell’arco, hanno completamente celato il travertino e denunciano i guasti causati dall’uomo e dal tempo.
LE TRACCE DELL’INCENDIO I risultati del restauro del primo stralcio eseguito nel 2012 hanno messo in luce chiazze nerastre sulla superficie del travertino, che, all’esame chimico-fisico, sono risultate di origine carboniosa, tracce di un grande incendio, come prova anche l’esame di alcuni campioni. Le tracce di fuoco sono presenti sia sulla controfacciata che nel sottarco e sui piedritti. Nella controfacciata rimane solo parte della facciavista, caduta per il fuoco e gli agenti atmosferici. L’incendio si riferisce al bellum Perusinum del 40.a.C., che vide opporsi Lucio Antonio, fratello di Marco Antonio, ospitato da Perugia, e Ottaviano, il futuro Augusto. Legato ai dissidi della guerra tra
Immagine ravvicinata di una delle lettere dell’iscrizione che permette di apprezzare la presenza di tracce della rubricatura, vale a dire la colorazione rossa dell’interno dei segni, utilizzata per renderli meglio visibili.
Mario e Silla e come in altri centri umbri alle assegnazioni delle terre ai volontari, lo scontro fu segnato dall’assedio della città da parte di Ottaviano. Questi, data la potente fortificazione costituita dalle mura, cinse Perugia con palizzate, valli e torri, impedendo a chiunque di entrare e uscire. L’assedio si protrasse per sette mesi, finché l’esercito di Antonio, stremato dalla fame, trattò la resa. Furono risparmiati i soldati, ma venne fatta strage dell’aristocrazia perugina e decapitata la classe dirigente; la città fu quindi data alle fiamme, forse a seguito di un incidente fortuito. Ottaviano privò Perugia del suo territorio, ridotto alla stretta fascia di un miglio intorno alla città. Nel giro di alcuni decenni ricostruí la città e segnò i monumenti principali con la scritta AUGUSTA PERUSIA (Arco Etrusco, Porta Marzia). a r c h e o 59
STORIA • PERUGIA
le si sovrapposero. L’orientamento dei piú significativi edifici civili e religiosi rispetta infatti le preesistenze romane e la stessa platea communis (la piazza pubblica per eccellenza) venne posizionata sul sito del Foro romano. Il settore appena descritto della Perugia sotterranea può essere visitato: vi si accede da piazza IV Novembre e si tratta di un viaggio affascinante nella città etrusca, romana e medievale. La conoscenza delle fasi piú antiche della città continua comunque a essere nota soprattutto sulla base della documentazione proveniente dalle necropoli. Due ritrovamenti eccezionali hanno arricchito il quadro negli ultimi decenni: la tomba dei Cai Cutu, rinvenuta casualmente a Monteluce nel 1983, e la necropoli di Strozzacapponi, scoperta nel 1996 e da mettere in relazione con uno dei pagi dell’antico territorio di Perugia situato in prossimità delle importanti cave di Santa Sabina, che fornirono il travertino per la costruzione delle mura e di buona parte delle urne uscite dalle officine degli scalpellini perugini.
UN RECUPERO FORTUNATO A essi si è aggiunto, piú di recente, a seguito di un’indagine condotta dal Comando per la Tutela del Patrimonio Culturale dell’Arma dei Carabinieri in collaborazione con la Sopr intendenza Archeolog ia dell’Umbria, l’individuazione della tomba della famiglia Cacni. Nell’operazione, si è proceduto a ritroso, riconoscendo in Perugia il centro in cui era stato effettuato lo scavo clandestino e individuando la tomba monumentale in località Elce: dal sepolcro erano stati trafugati le urne e gli oggetti del corredo funerario, che comprendeva numerosi bronzi, tra cui un elmo di tipo italico senza paragnatidi, uno scudo, uno schiniere, uno strigile e un kottabos. Il monumento accoglieva al suo interno 21 urne, 21 coperchi di 60 a r c h e o
urne e 1 coperchio di sarcofago. Le iscrizioni riportate alla luce sono ben 17, 16 delle quali riferite a personaggi maschili della gens e una che ricorda sia il marito che la moglie. La famiglia dei Cacni era già attestata a Perugia, ma presente anche a Chiusi e a Tarquinia; la sua tomba perugina è databile nel III secolo a.C. Le casse delle urne erano decorate con figure e temi mitologici: Enomao, Pelope e Ippodamia; il sacrificio di Ifigenia; una Nereide su un tritone; una tauromachia; una lotta tra grifi e arimaspi; Medusa; Scilla. Inoltre, scene di combattimento, bucrani e ghirlande, scudi e bucrani, riquadri e rosette. I coperchi presentano personaggi maschili recumbenti e, in un caso, una coppia; oppure sono a fastigio A destra: un’altra urna funeraria dalla tomba dei Cacni, localizzata in località Elce. III-II sec. a.C. Sul coperchio è ritratto il defunto, mentre sulla cassa compare una scena di centauromachia. Nella pagina accanto, in alto: una sala del Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria: in primo piano, la ricostruzione di uno dei carri rinvenuti a Castel San Mariano. Nella pagina accanto, al centro: carta delle necropoli perugine.
con decorazione di pelte e rosette, o a doppio spiovente con ornamenti (rosette, anfore) o lisci. Sulle urne vi sono ancora tracce della policromia originaria e di foglie d’oro. Ritornando alla tomba gentilizia dei Cai Cutu, essa presentava una pianta cruciforme e un dromos a cielo aperto. Accoglieva un sarcofago e cinquanta urne cinerarie in travertino, in due casi rivestite di stucco; quasi tutte (48 su 50) presentavano sulla cassa o sul coperchio il nome del defunto. Le formule onomastiche ricordano solo individui di sesso maschile contrassegnati dal nome personale, dal gentilizio, quasi sempre dal patronimico e di frequente dal matronimico. Il monumento fu-
Novità al museo Perugia è sede del Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria, allestito nel convento di S. Domenico. Nel percorso espositivo si narrano la storia della città antica e quella dell’intera regione, nella quale si svilupparono altri centri significativi. La struttura è stata oggetto di ripetuti interventi, anche in anni recenti: l’ultimo (giugno 2016) è consistito nel riallestimento della sezione romana con la riunificazione dei reperti in un’unica, ampia sala. Nell’occasione è stato recuperato uno spazio per mostre temporanee, inaugurato con l’esposizione «Celti di Bratislava».
DOVE E QUANDO «Celti di Bratislava» Perugia, piazza Giordano Bruno 10 Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria fino al 31 ottobre Orario ma-do, 8,30-19,30; lu, 10,00-19,30 Info tel. 075 5727141; www.archeopg.arti.beniculturali.it
Sant’Angelo
Sperandio Santa Caterina Vecchia Elce Madonna della Neve Bulagaio S. Galgano Monteluce Monte Morcino Cimitero S. Prospero Ponte Valleceppi Porta Marzia Monterone
Frontone
Montevile Ponticello di Campo
re
San Costanzo Piscille
Fiume Teve
San Giuliano
Palazzone
Giacigli sontuosi per l’ultimo sonno Testa bronzea di cavallo (o mulo) facente parte della decorazione del fulcrum (spalliera) del letto funebre B recuperato nella tomba degli Anei marcna, in località Strozzacapponi (Perugia). Fine del I sec. a.C.
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STORIA • PERUGIA
La tomba dei Cai Cutu A sinistra: l’urna di Arnth Cutu, dalla tomba dei Cutu, 3 scoperta a Perugia nel 1983. In basso: assonometria ricostruttiva della tomba dei Cai Cutu, in uso tra il III e il I sec. a.C. 1. Il sarcofago del capostipite della famiglia Cutu, che costituisce la deposizione piú antica fra quelle alle quali il sepolcro fu riservato. 2. L’urna funeraria di Arnth Cutu (vedi anche foto a sinistra). 3. Il vestibolo della tomba custodiva frammenti in bronzo (foto qui sopra e a destra) identificati come parti di un gioco del kottabos, un esercizio di abilità praticato solitamente in occasione del convivio.
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In alto: la ricostruzione della tomba dei Cai Cutu, realizzata in un locale sotterraneo del Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria.
nerario restò in uso tra la prima metà del III e il I secolo a.C. e le ultime deposizioni avvennero dopo la concessione della cittadinanza romana (89 a.C.); in questi ultimi casi, il gentilizio etrusco appare latinizzato in Cutius e l’intera iscr izione onomastica r isulta espressa in latino; in un caso è ricordata anche la tribú Tromentina alla quale vennero ascritti gli abitanti di Perugia dopo la concessione della cittadinanza. L’utilizzazione della tomba dovrebbe essere cessata in coincidenza con il bellum Perusinum (41-40 a.C.). All’esame delle iscrizioni si è dedicata Anna Eugenia Feruglio, l’archeologa alla quale si deve la prima presentazione dell’eccezionale complesso. La studiosa ha osservato che i primi sepolti hanno il nome di famiglia composto da due elementi cai cutu, che sembra rinviare
a un’origine servile del capostipite. In seguito, precocemente, il nome cai venne eliminato dalla formula onomastica e si conservò soltanto il nome cutu. Quanto al fatto che le iscrizioni indichino soltanto defunti maschili, Feruglio ha osservato che la sepoltura d’individui solo dello stesso sesso non è un fatto isolato a Perugia. Esistono altri casi e conosciamo anche tombe dedicate esclusivamente a individui di sesso femminile.
VEILIA, FIGLIA DI ARNTH Nella celebre tomba dei Volumni, per tre generazioni, si hanno soltanto deposizioni maschili e solo in quelle di quarta generazione è presente una donna, Veilia, figlia di Arnth, che resta, oltretutto, l’unica testimonianza femminile del sepolcro. E, nel 1797, nella necropoli del Palazzone, venne scavata una tomba nella quale erano sepolte solo donne appartenenti per nascita o per matrimonio alla famiglia dei Velimnas. Feruglio ha supposto inoltre che la tomba delle donne della gens
Cutu possa trovarsi in località Madonna del Riccio dove venne rinvenuta, nel 1927, un’urna iscritta con la menzione proprio di una donna appartenente a tale casata. PER SAPERNE DI PIÙ Luana Cenciaoli (a cura di), Perugia. La città antica sotto la Cattedrale di S. Lorenzo. I risultati degli scavi, Edizioni Scientifiche ed Artistiche, Napoli 2014 Luana Cenciaioli-Marisa Scarpignato (a cura di), Etruschi di Perugia (catalogo della mostra), Beki Design, Bratislava 2014 Giuseppe M. Della Fina (a cura di), Perugia etrusca, Atti del IX Convegno Internazionale di Studi sulla Storia e l’Archeologia dell’Etruria, in Annali Fondazione Museo C. Faina, IX, Edizioni Quasar, Roma 2002 Anna Eugenia Feruglio, Le iscrizioni delle urne della tomba dei Cai Cutu di Perugia, in Studi Etruschi, LXXVI (2010-2013); pp. 199-235 a r c h e o 63
MOSTRE • VULCI
VULCI
E I MISTERI DI MITRA IL MITRAISMO, RELIGIONE I CUI ELEMENTI ORIGINARI MATURARONO NELL’ANTICO IRAN, VENNE RIELABORATO E FATTO PROPRIO DAL MONDO GRECO-ROMANO, INCONTRANDO UNA FORTUNA STRAORDINARIA.TRA I SUOI SEGUACI SI ANNOVERA ANCHE IL FACOLTOSO PERSONAGGIO, FORSE UN SENATORE, CHE VOLLE ALLESTIRE UN SACELLO NELLA SUA PROPRIETÀ VULCENTE. ORA PROTAGONISTA DI UNA AFFASCINANTE ESPOSIZIONE NEL CASTELLO DELLA BADIA di Carlo Casi e Nicola Luciani
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a storia recente del dio Mitra in Etruria appare contrassegnata dagli interventi delle forze dell’ordine. Infatti, come nel recente recupero del gruppo scultoreo di Tarquinia (vedi «Archeo» n. 376, giugno 2016), anche la scoperta di quello di Vulci è stata determinata da uno sterro clandestino, avviato nel 1975 e tempestivamente fermato dai militari. Il successivo scavo, svolto dall’allora Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale, mise in luce – sul pianoro occupato dalla città antica, nei pressi della Domus del Criptoportico – il caratteristico ambiente ipogeo costituito da un vestibolo affacciato sul lungo corridoio centrale, ai cui lati corrono i banconi riservati agli adepti durante le cerimonie. L’importante ritrovamento venne presentato per la prima volta, sul finire degli anni Novanta, presso il Comune di Montalto di Castro, e successivi interventi di scavo hanno meglio precisato le caratteristiche del monumento. Oggi il mitreo è protagonista di una mostra allestita nel Museo Archeologico Nazionale di Vulci e che ha salutato la riapertura della raccolta, all’indomani del rinnovamento del suo percorso espositivo. Già nel II millennio a.C., ben prima, dunque, di divenire protagonista del suo culto misterico in età romana, la figura di Mitra aveva un ruolo importante in India, all’interno del pantheon vedico, nel quale Vulci. La sala principale del mitreo: sui lati lunghi, si trovano i banconi (podia) destinati agli adepti; in fondo, l’abside accoglieva una delle due raffigurazioni di Mitra che uccide il toro (tauroctonia) rinvenute nella struttura: si tratta del cosiddetto Gruppo Maggiore (quello collocato nel monumento è una replica in terracotta dell’originale in marmo, riprodotto a p. 67, rispetto al quale la statua del dio è stata integrata, inserendone la testa).
incarnava il principio del rispetto dei patti e delle alleanze. Da qui, essa sarebbe poi migrata negli altopiani dell’Iran achemenide, dove sarebbe stata inquadrata nel sistema religioso zoroastriano, quale messaggero della suprema divinità Ahura Mazda e protettore dapprima dei Gran Re persiani e poi, dopo la conquista macedone dell’Asia, dei sovrani ellenistici d’Anatolia. A seguito dei rapporti fra Roma e le monarchie ellenistiche, il dio persiano giunse infine a contatto con il mondo latino, entrando a far parte del melting pot della cultura grecoromana, da cui germogliarono i misteri mitraici di età imperiale.
GLI INIZIATI A BANCHETTO Il culto di Mitra era costituito da diverse congreghe di iniziati, non legate tra loro da alcuna sovrastruttura, che avevano il proprio fulcro all’interno di ambienti, spesso ipogei, in cui si praticavano banchetti sacri e cerimonie religiose. Al centro del tempio mitraico dominava la raffigurazione del dio, sotto forma di gruppo scultoreo o di rilievo votivo, che ritraeva sempre la medesima scena: Mitra, raffigurato come un giovane abbigliato in abiti persiani e affiancato dai due aiutanti, Cautes e Cautopates, che uccide il toro primordiale, un atto che simboleggia la creazione stessa del cosmo. A tale standardizzazione dei modelli iconografici corrispondeva, inoltre, la speculare rigidità gerarchica fra gli adepti, ripartiti in sette ranghi ascendenti e corrispondenti ai diversi ruoli rivestiti nella comunità: Corax (corvo), Nymphus (sposo), Miles (soldato), Leo (leone), Perses (persiano), Heliodromos (portatore del sole), Pater (padre). Proprio a causa di tale suddivisione in gradi, nonché per il tradizionale ruolo di Mitra quale protettore del vertice politico ereditato dalla tradizione iranica, i misteri si prestarono
particolarmente bene a rivestire una funzione di garanzia dell’ordine sociale costituito, divenendo oggetto di particolare devozione da parte di funzionari statali e membri dell’amministrazione imperiale.
UN OSSERVATORIO PRIVILEGIATO Il mitreo di Vulci è uno dei rinvenimenti di maggior prestigio e interesse scientifico nel piú ampio panorama dell’Etruria, cosí ricco che, già negli anni Trenta del Novecento, Franz Cumont, padre fondatore degli studi in materia, vi dedicò un importante articolo, identificando nella regione etrusca un territorio privilegiato per lo studio dei misteri del dio. Da allora in poi, si sono succedute molte nuove scoperte e oggi, nei confini della Regio VII, si contano ben cinque luoghi di culto identificati (Vulci, Tarquinia, Sutri, Cosa, Livorno) e tredici raffigurazioni della tauroctonia mitraica (l’atto di uccisione del toro), otto sotto forma di rilievi e cinque di gruppi scultorei. Un corpus a cui vanno aggiunti numerosi altri rinvenimenti, comprendenti iscrizioni dedicatorie, arredi statuari e vasellame liturgico. Particolarmente interessante risulta la distribuzione di queste attestazioni lungo il perimetro della regione: molto piú fitte nella fascia meridionale (dove presenze mitraiche provengono anche da centri urbani di medie dimensioni) che in quella settentrionale (dove tendono a concentrarsi nelle grandi città).Tali presenze si situano soprattutto lungo i maggiori assi viari dell’Etruria, in particolare le consolari Aurelia e Cassia. Una diffusione che si spiega con l’egemonia culturale esercitata da Roma, il cui ascendente doveva ripercuotersi con maggior vigore nell’area a essa piú prossima, da dove il culto si irradiò attraverso il sistema viario imperiale. Come già ricordato, il mitreo vula r c h e o 65
MOSTRE • VULCI
cente è uno dei piú importanti dell’area centro-italica, grazie alla mole di informazioni che le sue strutture e i suoi ricchi arredi hanno restituito. A una prima occhiata, la planimetria non mostra alcuna differenza rispetto al modello canonico di questi edifici: si tratta di un ambiente allungato, composto da un vestibolo d’ingresso e da un corridoio centrale delimitato da due lunghi banconi (podia), la cui funzione era quella di ospitare gli iniziati durante i banchetti sacri e i riti iniziatici.
SFERE E LIVELLI I podia tramandano un’eco della ripartizione gerarchica all’interno della comunità mitraica, in quanto risultano sostenuti da sei piccoli archi a tutto sesto che si aprono sul lato del corridoio e probabilmente rappresentano le prime sei sfere celesti e gli altrettanti livelli dell’iniziazione mitraica, dal Corax all’Heliodromos. L’ultimo livello, invece, il Pater, doveva forse essere Olla per uso rituale decorata con motivo serpentiforme, dal mitreo di Vulci. III-V sec. d.C. Vulci, Museo Archeologico Nazionale.
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rappresentato dall’abside stessa, che accoglieva la statua tauroctona del dio Mitra. Quest’ultima, nota come Gruppo Maggiore, è solo l’elemento principale e piú voluminoso dell’opulento apparato decorativo del santuario: accanto a esso, infatti, si trovano numerose altre sculture, tra cui una seconda tauroctonia (Gruppo Minore), la scultura di Cautes, uno dei due aiutanti del dio, ed elementi architettonici e di corredo in marmo. Inoltre sono venuti alla luce un tesoretto monetale, composto da emissioni databili tra il II e gli inizi del V secolo d.C., nonché una notevole quantità di materiali ceramici, fra cui due splendidi vasi liturgici, un’olla e un cratere, probabilmente utilizzati durante le cerimonie e decorati con motivi serpentiformi e taurini. Di estrema rilevanza è il contesto in cui il mitreo si colloca: il sacello, infatti, riutilizzò alcuni ambienti di servizio, ormai in disuso, della cosiddetta Domus del Criptoportico, caratterizzata da una continuità di vita che perdura fino all’età traianea, agli inizi del II secolo d.C. Tuttavia, a nord-est della struttura, sono venuti alla luce alcuni ambienti residenziali mosaicati e intonacati, probabilmente pertinenti a una seconda domus, i cui piani pavimentali sembrerebbero essere in fase con il sacello. Se cosí fosse, il mitreo potrebbe essere stato edificato contestualmente a questa seconda villa e avrebbe fatto parte della domus di un ricco e facoltoso personaggio, come del resto suggerisce l’opulenza dell’apparato scultoreo (vedi box in queste pagine). Una conferma in tal senso potrà tuttavia essere data soltanto dall’esplorazione sistematica del sito, ma è comunque certo che a Vulci, nel III-IV secolo d.C., a diffe-
La scultura raffigurante Mitra che uccide il toro denominata Gruppo Maggiore. III-V sec. d.C. Vulci, Museo Archeologico Nazionale. In secondo piano, le statue raffiguranti un corvo e Cautes.
IL SACELLO DI UN SENATORE? Collegato a una ricca domus signorile e caratterizzato da una decorazione sfarzosa, il mitreo di Vulci appartenne verosimilmente a un membro delle classi piú agiate. Esso rimase in uso, infatti, per tutto il IV secolo, periodo in cui il culto risulta diffuso principalmente fra i grandi aristocratici, gentes senatorie in testa. La presenza di queste ultime nel territorio di Vulci è del resto ben attestata e la città
renza della maggior parte degli altri contesti mitraici d’Etruria, i frequentatori dei misteri di Mitra dovevano essere personaggi delle classi sociali piú elevate.
DISMISSIONE DEL CULTO La rilevanza del santuario vulcente è data anche dalla conservazione degli strati di abbandono della struttura, che hanno permesso di ricostruirne le modalità: le sculture,
venne scelta da molti viri clarissimi per impiantarvi le proprie residenze fuori da Roma; abbiamo cosí le gentes dei Minucii, Postumii e Sempronii, e, sebbene il materiale epigrafico superstite non offra attestazioni che vadano oltre il I secolo d.C., tali famiglie godettero di grande prestigio anche in seguito, rendendo plausibile il mantenimento delle loro proprietà nella zona. Alcuni indizi sembrano suggerire l’interesse da parte di almeno una
infatti, risultavano molto danneggiate e giacevano rovesciate nel corridoio centrale, mentre i depositi monetali e i resti ceramici sembrano aver subito una sorte analoga nel vestibolo, sigillati al di sotto di uno strato di cenere che ricopriva i livelli di abbandono. Tracce evidenti di un’azione distruttiva violenta seguita da un incendio doloso, i cui responsabili furono probabilmente in quei grup-
di queste dinastie per le devozioni solari, forse anche per il culto di Mitra: sul finire del III secolo d.C., un membro della gens Postumia, T. Flavius Postumius, ricoprí la carica di sacerdote del Sole (divinità indirettamente collegata a Mitra, che ha come epiteto proprio quello di Sol Invictus) e dedicò a Como un templum Dei Solis, in onore di Diocleziano e Massimiano. Tale tempio si potrebbe probabilmente identificare con un mitreo, considerando anche che proprio i
due Augusti della Tetrarchia sono i primi imperatori romani noti per aver allestito un antro mitraico. Si tratta ovviamente di una mera ipotesi speculativa, che apparirà però possibile esaminandola alla luce del contesto cittadino di Vulci durante il Tardo Impero, fase di vita del mitreo, quando i viri clarissimi rappresentavano certamente il gruppo sociale piú strettamente legato alla devozione di Mitra, rispetto a qualunque altro presente sul territorio vulcente.
pi di cristiani che, nel corso del IV e V secolo, si abbandonarono a simili gesti, mano a mano che il potere politico si legava sempre piú alla parola di Cristo. A suffragare tale ipotesi vi è la disparità di trattamento riservata ai diversi arredi. I danni piú vistosi sono infatti quelli subiti dalle due tauroctonie: al momento della scoperta, il Gruppo Maggiore appariva spezzato in due parti, e, in entrambi i gruppi, la testa del dio
era assente. L’asportazione e il mancato rinvenimento del capo delle due statue, che ritraevano lo stesso soggetto (in un contesto rimasto senza dubbio inviolato fino alla scoperta), testimonia l’accanimento contro la statua di Mitra; un destino affine a quello di decine di altri arredi mitraici (incluse due tauroctonie rinvenute in Etruria, un rilievo da Soriano nel Cimino e una statua da Cavriglia). a r c h e o 67
MOSTRE • VULCI
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In alto: la diffusione del culto mitraico in Etruria. A sinistra: la tauroctonia nota come Gruppo Minore. III-V sec. d.C. Vulci, Museo Archeologico Nazionale. Come nel Maggiore, la statua di Mitra è stata privata della testa. 68 a r c h e o
A giustificare tale prassi intervenne nientemeno che sant’Agostino, il quale, nel De Civitate Dei (VIII, 26,3), ci informa della diffusa convinzione presso i cristiani che gli dèi pagani non fossero altro che demoni, le cui anime corrotte trovavano nascondiglio nei simulacri, che andavano pertanto distrutti per scacciarne le malvagie entità. Un altro indizio importante scaturisce dall’esame dei reperti numismatici: seguendo un modus operandi attestato in santuari mitraici delle province settentrionali dell’impero (in particolare in Britannia), il tesoretto monetale, infatti, non fu depredato al momento dell’assalto, bensí sparso disordinatamente nel vestibolo. L’atto distruttivo, quindi, non era una semplice razzia, ma rispondeva a una precisa missione di carattere divino. È tuttavia importante sottolineare come la pratica distruttiva riscontrata a Vulci non costituisca una norma: spesso, infatti, la dismissione del culto avvenne pacificamente, come per esempio in due casi attestati nella stessa Etruria, i mitrei di Cosa e Portus Pisanus. Violenta o pacifica che fosse, sull’estinzione del culto mitraico influí comunque in maniera determinante il diffondersi del verbo cristiano, che causò una vera e propria emorragia dei fedeli di Mitra verso la religione di Cristo. Si ringraziano la coordinatrice scientifica della mostra,Alfonsina Russo, le curatrici, Simona Carosi e Patrizia Petitti, della Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell’Etruria Meridionale e Marco Feliziani per le foto. DOVE E QUANDO «I misteri di Mithra» Vulci, Museo Archeologico Nazionale fino al 31 marzo 2017 Orario ma-do, 8,30-19,30; lu chiuso Info tel. 0761 437787; http:// archeologialazio.beniculturali.it
MOSTRE • AQUILEIA
L’ANTICA PERSIA PRIMA DELL’ISLAM AQUILEIA CELEBRA I FASTI DEI GRANDI IMPERI DELL’IRAN CON UNA MOSTRA CHE RIUNISCE SQUISITE TESTIMONIANZE DELL’ARTE E DELL’ALTO ARTIGIANATO. UN’OCCASIONE PER RIPERCORRERE LE VICENDE CHE FECERO DA SFONDO A QUELLA STRAORDINARIA FIORITURA CULTURALE di Carlo G. Cereti Tutti gli oggetti illustrati sono attualmente esposti nella mostra «Leoni e Tori dall’antica Persia ad Aquileia», allestita nel Museo Archeologico Nazionale di Aquileia Rhyton (corno per bere) in oro con terminazione a protome di leone alato, dall’Hamadan, Iran occidentale. V sec. a.C. 70 a r c h e o
Nel mondo odierno, l’eredità culturale comune è uno dei piú efficaci mezzi per imbastire un dialogo costruttivo tra i vari Paesi, attraverso il quale creare amicizia e vicinanza tra i popoli. Sicuramente, proprio oggi che vengono distrutte e saccheggiate le eredità comuni dell’intera umanità, dedicare piú attenzione a questo settore ha un’importanza maggiore. Probabilmente questa importante peculiarità della nostra eredità culturale, cioè tutti i punti comuni tra le varie culture, è il motivo per cui nelle varie parti del mondo, scosse dai movimenti reazionari, la cultura e la civiltà umana sono diventate i bersagli della rabbia distruttiva dei fanatici, con l’intento di eliminare le testimonianze dei popoli residenti in quelle terre, annientando cosí la loro identità, e con ciò obbligandoli alla resa. Senza alcun dubbio, per avere un futuro migliore le società umane hanno bisogno di reciproco riconoscimento, comprensione e rispetto dei valori delle culture altrui. Come ha scritto Saadi, il grande poeta persiano, settecento anni fa: «Gli esseri umani sono membra di un corpo creati da un’unica essenza se un membro viene afflitto da un dolore le altre membra non avranno pace». Masoud Soltanifar, Vice Presidente della Repubblica Islamica dell’Iran
In alto: rhyton in terracotta con terminazione a testa taurina, provenienza attribuita all’Iran nord-occidentale. VI sec. a.C. . A destra: pugnale in oro decorato con teste leonine, dall’Hamadan, Iran occidentale. V sec. a.C. a r c h e o 71
MOSTRE • AQUILEIA
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el 559 a.C., Ciro II il Grande (559-530 a.C.) sale al trono di Persia e presto si ribella al medo Astiage, capo della potente confederazione che domina l’altopiano iranico, definitivamente sconfitto nel 550-549. Dopo un decennio, il 29 ottobre del 539, Ciro entra a Babilonia da trionfatore, fondando, di fatto, il primo impero universale e ponendo fine a quella complessa e creativa fase della storia del Vicino Oriente che vide i popoli della Mesopotamia al centro della civiltà. Inizia cosí, secondo le ricostruzioni piú comuni, la storia dell’impero achemenide, destinata a essere bruscamente interrotta dalla falange macedone condotta da Alessandro Magno. Eppure, la realtà è certamente piú complessa e l’impero di Ciro, Dario e dei loro discendenti fu, di fatto, erede tanto dell’universo vicino-or ientale quanto dello spirito persiano e indoeuropeo. In particolare, i due primi sovrani persiani, Ciro e il fi-
IL «MALEDETTO» CHE CERCAVA LA VERITÀ Il sogno di Alessandro (quello di unire in un unico impero l’Europa e l’Asia) fu a lungo osteggiato dai suoi stessi compagni e spesso il Macedone si trovò obbligato a forzare la mano per far trionfare le sue idee e la sua illuminata visione. Nella tradizione zoroastriana, Alessandro è ricordato in maniera molto negativa e a lui si attribuisce la distruzione e dispersione dell’Avesta, il libro sacro del zoroastrismo scritto su 12 000 pelli di bue con inchiostro d’oro, tanto che in essa il suo nome è costantemente accompagnato dall’epiteto «maledetto», segno certo del fatto che in periodo medievale i sacerdoti di Zoroastro consideravano gli antichi dominatori del Fars come loro correligionari. Al contrario, la piú tarda tradizione islamica, d’ispirazione alessandrina, ne fa un eroe etico ed esoterico, alla costante ricerca della verità in compimento di una suprema ricerca, giungendo sino a trasfigurare la sua spedizione militare in un viaggio gnostico, il cui obiettivo è la Verità e, dunque, l’Immortalità.
glio Cambise II (530-522), continuarono, almeno culturalmente, la storia del regno elamita di Anshan, e solo con il successivo imperatore l’impero acquista una nuova e piú autonoma fisionomia. Personaggio chiave di questa complessa sintesi fu Dario il Grande (522-486), terzo sovrano achemeni-
de, salito al trono a seguito di una complessa vicenda, che merita di essere qui sinteticamente riassunta.
IL COMPLOTTO DEL MAGO Secondo l’iscrizione di Bisutun, fatta incidere nel 522 da Dario I su una parete rocciosa tra le odierne Kermanshah e Hamadan, il giovane Dario, coadiuvato da sei altri giovani nobili, avrebbe sventato l’ardito
Base bronzea composta da tre leoni incedenti a destra, dalla Tesoreria di Persepoli, Fars, Iran meridionale. V sec. a.C. Si ignora la funzione del manufatto che poteva essere un elemento del mobilio oppure un sostegno.
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piano del mago Gaumata, il quale, grazie a un’inverosimile somiglianza fisica si era sostituito a Bardiya, chiamato Smerdis o Tanyoxarkes nei testi greci, fratello ed erede del secondo sovrano achemenide, Cambise, morto sulla via del ritorno dall’Egitto. La stessa storia è narrata da Erodoto e, in termini piú immaginosi, da Ctesia; essa si presta a due interpretazioni contrastanti: dobbiamo credere alle parole del sovrano, oppure immaginare di trovarci di fronte alla prima operazione di propaganda a noi trasmessa? Dario si erse a difesa dell’eredità dei primi sovrani minacciata dall’usurpatore, o fu egli stesso usurpatore, spodestando e
giustiziando il legittimo erede di Cambise? Certamente, tra Ciro e Dario vi fu un profondo mutamento nella dinastia. La capitale fu spostata da Pasargade a Persepoli, dove Dario diede inizio a un elaborato programma iconografico e di costruzioni, continuato ininterrottamente sino alla caduta dell’impero.
In alto: Bisutun, Iran. Bassorilievo e iscrizione celebrativi del trionfo di Dario I. VI sec. a.C. Qui sopra: lamina aurea a testa leonina, da Amarlu, Gilan, Iran settentrionale. VI sec. a.C. circa.
LO STEREOTIPO DEL NEMICO A Dario segue il figlio Serse I (486-465), vigoroso condottiero, noto ai piú per la lunga e sanguinosa campagna militare contro la Grecia che, pur avendo conosciuto vittorie anche importanti, si cona r c h e o 73
MOSTRE • AQUILEIA
cluse con una grave sconfitta. Proprio le guerre che per lunghi anni opposero la Grecia all’impero persiano hanno dato vita allo stereotipo del «nemico» orientale, i cui principi differiscono profondamente da quelli della cultura occidentale: la Grecia è rappresentata come una civiltà in cui i valori dell’individuo sono supremi, a cui si oppone un dispotismo «orientale» nel quale l’individuo, dimentico dei suoi valori, è asservito al volere del sovrano, spesso crudele e ingiusto. Uno schema poi continuato dai Romani e ancora ripetuto da 74 a r c h e o
molti storici dell’età moderna e finanche contemporanea. Dario fu autore di varie iscrizioni, una particolarmente importante per la storia religiosa del Paese. In questo testo, noto come l’iscrizione dei Daeva, il sovrano si attribuisce il merito di aver combattuto l’eresia e i falsi dèi, riaffermando il culto e la fede in Ahura Mazda. Non sappiamo quali siano i falsi dèi combattuti dal potente sovrano achemenide; potrebbero essere quelli adorati da una popolazione ribelle, oppure, molto piú probabilmente, quelli oggetto di culto da
In alto: piatto in argento parzialmente dorato con scena di caccia equestre al leone, da Sari, Mazandaran, Iran settentrionale. IV sec. d.C.
parte di un segmento specifico della popolazione iranica, rivali del culto del dio Ahura Mazda.
UN IMPERO STERMINATO L’impero achemenide si estendeva dalle coste del Mediterraneo al subcontinente indiano. I suoi sovrani regnavano su molte diverse etnie, ognuna tributaria del Re dei Re, come testimoniano i magnifici pan-
nelli della scalinata di Persepoli. L’amministrazione di un impero di cosí grandi dimensioni richiedeva l’esistenza di una classe di scribi in grado di gestire l’amministrazione, funzionari la cui esistenza è testimoniata dalle tavolette elamite e babilonesi, ma anche dai piú rari, perché piú fragili, supporti che attestano l’uso dell’aramaico come lingua di comunicazione dell’impero. L’organizzazione amministrativa prevedeva la divisione dell’impero in satrapie, ognuna governata da un personaggio di alto rango, la cui corte riproduceva in scala minore quella del sovrano. I satrapi rispondevano direttamente al Re dei Re, garantendo un costante flusso di tributi e assistenza militare in caso di guerra e governando di fatto le province in tutte le attività quotidiane. La gestione efficace di un impero le cui dimensioni superavano di gran lunga quelle delle entità statuali sino ad allora conosciute richiedeva una complessa rete viaria, amministrata direttamente dal centro e descritta nei vari periodi storici, tra gli altri, da Erodoto, Strabone, Isidoro di Charax e Tolomeo. Tutto questo giunse a un termine
IN PRINCIPIO FU AHURA MAZDA L’interpretazione della situazione religiosa dell’impero achemenide è complessa, soprattutto per la scarsità dei dati disponibili. Guardando alla religione della corte, si nota immediatamente che nelle iscrizioni di Dario e dei suoi primi successori l’unica divinità esplicitamente menzionata è Ahura Mazda, a cui segue la locuzione uta aniyaha bagaha tayai hanti («e gli altri dèi che esistono»), di discussa interpretazione. Solo in un secondo momento, nelle iscrizioni di Artaserse II (404-359) – sovrano che combatté una lunga guerra civile contro Ciro il Giovane, descritta da Senofonte nell’Anabasi – appaiono i nomi di due altre divinità: Mithra, dio solare e dei patti, e Anahita, dea delle acque, in cui confluiscono alcuni dei tratti delle antiche dee madri del Mediterraneo e del Vicino Oriente antico.
con il regno di Dario III (336-330), quando l’impero achemenide fu investito dalla furia dell’esercito macedone, guidato da un condottiero destinato alla leggenda: Alessandro Magno. Giunto al potere in seguito alla morte del padre Filippo, che già aveva progettato una campagna contro la Persia, il Macedone sconfisse le truppe del Re dei Re in tre successive battaglie, che gli aprirono le porte dell’Asia.
SCONTRI DECISIVI Dopo aver conquistato le città ioniche, Alessandro affrontò l’esercito imperiale sul Granico (334), conquistando una prima e importante
vittoria. A questa seguí la battaglia di Isso (333), dove Dario per una prima volta abbandonò il campo di battaglia, dandosi alla fuga. Lo scontro finale avvenne nella piana di Gaugamela (331), non lontana dalla città di Erbil, l’antica Arbela, nell’odierno Kurdistan iracheno. La fuga di Dario verso le satrapie orientali apre il cuore dell’impero ad Alessandro e ai Macedoni. L’ultimo sovrano achemenide muore poco dopo per mano di Besso, satrapo della Battriana, che rivendica la corona achemenide. Sopraggiunge Alessandro e sconfigge Besso e i suoi complici, rivendicando per sé la corona di Dario e con essa l’eredità achemenide. Il giovane e visionario macedone coltiva un sogno che si compí solo con i suoi succesPeso in roccia silicea verde con protome leonina, dal tempio detto «dei Frataraka» a Persepoli. Periodo achemenide, VI-IV sec. a.C. A quel tempo vigeva in Persia un sistema sessagesimale, basato sul siclo, pari a 8,33 g.
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MOSTRE • AQUILEIA
Bracciale in oro a cerchio aperto con terminazioni a teste leonine, dal Kurdistan, Iran occidentale. VI sec. a.C.
sori e anche allora solo in parte: unire l’Asia all’Europa, forgiando un impero che veda, fianco a fianco, i Macedoni e i popoli da loro soggiogati, primi tra tutti gli Iranici. Nei fatti, la conquista macedone accelerò un processo di contaminazione culturale che mutò profondamente la cultura e la civiltà del mondo iranico. Alla morte di Alessandro, i Diadochi si divisero i domini del Macedone e Seleuco acquisí il controllo dell’Oriente. Costantemente riattratti verso Occidente dalla rivalità con i Tolomei, nell’ultimo terzo del III secolo a.C. i Seleucidi subirono prima il distacco della Battriana a opera di Diodoto (239), che fondò il regno greco-battriano, poi la ribellione di Andragora, che presto cedette il passo ad Arsace, il primo sovrano del nascente impero partico (247/238 a.C.-224 d.C.), la cui era calendariale ebbe inizio nel 247 a.C. Conosciamo relativamente poco della dinastia arsacide e quel poco spesso da fonti avversarie – ellenistiche e 76 a r c h e o
poi romane –, che tutte avevano in comune l’interesse a dipingere l’impero rivale in termini negativi.
IL RECUPERO DEI VALORI In generale, l’impero arsacide segnò il progressivo riaffermarsi dei valori iranici, con una rinascita della fede zoroastriana, seppure in forme molto piú eclettiche di quelle del successivo periodo sasanide. Inizialmente il potere partico era confina-
to alle regioni nord-orientali dell’Iran, nell’antica Ircania, il cui centro era la città reale di Nisa, alla periferia di Asgabat, l’odierna capitale del Turkmenistan. Fu Mitridate I (171139/138 a.C.) a trasformare il regno in impero, conquistando Babilonia, poi ripresa brevemente dal seleucide Demetrio II Nicatore (145-141), che fu infine sconfitto e fatto prigioniero dai Parti. La pace di Apamea del 188 a.C. segnò l’inizio della presenza romana in Asia Minore, poi, con il definitivo tramonto della dinastia seleucide, Roma e l’impero arsacide diedero avvio a un duello destinato a protrarsi, con altri protagonisti, sino all’Alto Medioevo. La frontiera riconosciuta, sull’Eufrate, venne violata spesso, parimenti i due imperi si fronteggiarono con alterne fortune in Armenia e Alta Mesopotamia.Tra i molti episodi di questa lunga guerra, ricorderemo qui la sola disastrosa sconfitta del triumviro Marco Licinio Crasso a Carre (43 a.C.), in cui l’esercito partico, guidato dal principe sistanico Surena, annientò le truppe romane creando una ferita che fu sanata solo da Ottaviano Augusto, il quale, nel 17 a.C., riebbe per vie diplomatiche le insegne perdute da Crasso. All’inizio del III secolo il potere della dinastia arsacide Lamina aurea raffigurante un leone che avanza verso destra, da Persepoli, Fars, Iran meridionale. VI-V sec. a.C. Con ogni probabilità, l’alveo delimitato dalle fauci ruggenti accoglieva una gemma.
Ornamento aureo circolare con due leoni, dal Kurdistan, Iran occidentale. V sec. a.C. Realizzato in lamina e lavorato a sbalzo, presenta sul retro, cavo, sei anelli per l’applicazione, verosimilmente su indumenti. Lo stile figurativo adottato nella sua realizzazione è noto come «articolazione zoomorfa».
fermò la tendenza a centralizzare il potere, che giunse a compimento all’inizio del VI secolo con il regno di Khosrow I Anoshirvan (Cosroe I, «dall’anima immortale»; 531-579), protagonista di una profonda riforma amministrativa, iniziata forse già dal padre Kavad (488496, 499-531). Il regno di Khosrow I segna forse l’apogeo della dinastia e la sua corte rimase un leggendario modello di raffinatezza e cultura nella letteratura islamica.
SEGNALI DI CRISI Tuttavia, già da qualche tempo all’orizzonte si profilavano nubi minacciose. Da un lato l’impero sasanide combatteva una costante guerra contro Bisanzio, dall’altro aumentava la pressione delle popolavenne messo a dura prova dalle lot- fondatore del manicheismo; zioni centro-asiatiche sulle frontiere te dinastiche e dal conflitto con 216/217-276, n.d.r.) e della sua pre- orientali dell’impero. Alla morte di Roma. In quegli stessi anni Ardashir dicazione, come anche dall’insedia- Khosrow I il potere passò a OhI (Artaserse; 224 -239/240) prepa- mento di comunità cristiane nel rmazd IV (579-590), poi a Khosrow rava la sfida che avrebbe messo fine territorio dell’impero. Alla sua cor- II Abarvez («il vittorioso»), l’ultimo ai cinque secoli di dominio partico. te era presente anche il mago Ker- dei grandi sovrani sasanidi. dir, che negli anni successivi ebbe Ristabilito al trono grazie al detergrande potere, facendo dello zoro- minante appoggio dell’imperatore LE VITTORIE SU ROMA Con l’anno 224 si fa iniziare la sto- astrismo la religione ufficiale dello bizantino, nella prima fase del suo ria della dinastia, sebbene il potere Stato sasanide. Nella sua prima fase, regno Khosrow II mantenne buoni di Ardashir sia stato contestato an- l’impero sasanide mantenne molti rapporti col vicino occidentale. Quando, però, Foca spodestò Maucora per qualche tempo e solo nel tratti caratteristici della dirizio (602/603), Khosrow fu 226 il sovrano sia entrato a Ctesi- nastia precedente, svelto a passare all’azione fonte per esservi incoronato Re dei ma presto si afRe. Ardashir seguí il figlio Shabuhr I (Sapore), i cui trionfi sui Romani Lamina aurea sono narrati nell’iscrizione che egli raffigurante stesso fece iscrivere sulle pareti un leone dell’antica Ka‘ba-ye Zartosht, mo- che avanza numento di epoca achemenide po- verso sinistra, sto di fronte alle tombe di Naqsh-e forse dall’Iran Rostam. Allo stesso modo Shabuhr nord-occidentale. volle rappresentare i suoi trionfi su VI-V sec. a.C. Gordiano,Valeriano e Filippo l’Ara- L’animale presenta bo in bassorilievi tra loro diversi, il tratti naturalistici cui impianto iconografico di base è e plastici al tempo sempre identico. stesso e mostra Il regno di questo sovrano si distin- affinità con una se, inoltre, per una notevole libertà Sfinge del religiosa, testimoniata dalla tolleran- Tesoro za mostrata nei confronti di Mani dell’Oxus. (persiano d’origine aristocratica, a r c h e o 77
MOSTRE • AQUILEIA
Bronzetto miniaturistico raffigurante un leone accovacciato, da Amlash, Gilan, Iran settentrionale. VI-V sec. a.C.
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In alto: placca in bronzo con una teoria di leoni alati, dall’Hamadan, Iran occidentale. VI sec. a.C.
e già nel 604 iniziò una guerra che occupò i restanti anni del suo regno. Nel 610 Foca fu cacciato ed Eraclio, uno dei piú grandi tra gli imperatori di Bisanzio, salí al trono. Subito offrí una pace a Khosrow, ma questi rifiutò, sicuro di poter costringere l’antico nemico a un’umiliante resa.
LA RABBIA DEI CRISTIANI Nel 614 l’esercito di Khosrow conquistò Gerusalemme, portando la Vera Croce a Ctesifonte e scatenando cosí un’ondata di rabbia e sconforto nel mondo cristiano. La guerra proseguí con vicende alterne e l’impero sasanide raggiunse la sua massima estensione, paragonabile a quella del dominio achemenide. Infine Khosrow cercò la spallata decisiva: si uní agli Avari e avanzò verso la capitale nemica. I suoi eserciti giunsero alle mura di Costantinopoli, assediandola. Per tutta risposta, Eraclio si alleò con i Khazari e
rovesciò il fronte con una vittoriosa marcia che lo portò prima a Ninive, dove vinse una cruciale battaglia, poi alla conquista della piazzaforte di Darabgird, residenza di Khosrow. Il sovrano sasanide fuggí a Ctesifonte, solo per essere lí assassinato nel febbraio del 628. I due imperi escono dalla guerra spossati. L’Iran, inoltre, cade preda di una lunga e convulsa guerra civile, che terminò solo con l’elezione al trono di Yazdgard III (632-651), unico discendente maschio a sopravvivere alle guerre intestine, che viene incoronato ancora fanciullo nel santuario dinastico di Istakhr. Ma ormai è troppo tardi: la predicazione di Maometto ha forgiato una nuova forza militare lanciata alla conquista delle regioni dell’Asia occidentale e del Mediterraneo. Nello stesso anno dell’incoronazione di Yazdgard muore Maometto e gli Arabi musulmani eleggono il califfo Abu Bakr, sotto la cui guida le armate islamiche entrarono nella Mesopotamia meridionale. Si conclude cosí la storia preislamica
della Persia, pur in presenza di sacche di resistenza politica, che durarono ancora a lungo. Piú importante e duratura fu la resilienza culturale: costumi e tradizioni si conservarono, tanto che le ultime iscrizioni mediopersiane sono dell’XI secolo, dunque coeve dello Šahname, il capolavoro di Ferdosi (poeta persiano del X-XI secolo, n.d.r.) che immortalò il passato preislamico dell’Iran in un nuovo quadro, tessendo gli antichi racconti nella nuova lingua persiana, asse di un’identità culturale risorta dalle sue ceneri come la Fenice. DOVE E QUANDO «Leoni e Tori dall’antica Persia ad Aquileia» Aquileia, Museo Archeologico Nazionale fino al 30 settembre Orario ma-do, 8,30-19,30; lu chiuso Info www. museoarcheologicoaquileia. beniculturali.it; www.fondazioneaquileia.it a r c h e o 79
SPECIALE • GOETHE IN SICILIA
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IL MIO VIAGGIO IN SICILIA QUALE SEGRETO, NELLA PRIMAVERA DEL 1787, SPINSE JOHANN WOLFGANG GOETHE A RAGGIUNGERE LA GRANDE ISOLA DEL MEDITERRANEO? ALLA RICERCA DI UNA RISPOSTA, UNO SCRITTORE ITALIANO, MATTEO NUCCI, SI È INCAMMINATO SULLE ORME DEL GRANDE POETA TEDESCO... di Matteo Nucci
Goethe nella campagna romana, olio su tela di Johann Heinrich Wilhelm Tischbein. 1787. Francoforte, Städel Museum a r c h e o 81
SPECIALE • GOETHE IN SICILIA
«S
enza vedere la Sicilia, non ci si può fare un’idea dell’Italia. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto». È venerdí 13 aprile 1787. Johann Wolfgang Goethe è partito per il suo viaggio piú importante ormai da sette mesi. Ma solo ora, fra appunti di mineralogia, note sul clima e gli alimenti, osservazione di ciò che sta capitando in strada e considerazioni sul suo compagno di viaggio – il disegnatore Christoph Heinrich Kniep –, solo ora può buttar giú una delle frasi piú celebri di quello che, quasi trent’anni dopo, divenne il Viaggio in Italia (l’opera apparve in due volumi, pubblicati nel 1816 e nel 1817, seguiti da un terzo, dato alle stampe nel 1829, n.d.r.) E dire che la Sicilia non era affatto la meta scontata del percorso che aveva in mente, quando, sotto mentite spoglie, aveva lasciato Karlsbad, nella notte del 4 settembre, fuggendo da tutti gli amici che per anni gli avevano assicurato di volere partire con lui, ma non avevano fatto altro che procrastinare. Quindici giorni prima di salpare su una buona imbarcazione di fattura americana – a bordo della quale scoprí il mare e il mal di mare –, Goethe, a Napoli, scrive «Non sono mai stato tanto in forse per una risoluzione da prendere. Oggi sopraggiunge qualche cosa che mi spinge a partire, domani un’altra circostanza me ne dissuaIn alto: Goethe alla finestra del suo appartamento al Corso a Roma, acquerello di Johann Heinrich Wilhelm Tischbein. 1787. Berlino, Staatliche Museen. A sinistra: Johann Wolfgang Goethe a Roma visita il Colosseo, dipinto di Jakob Philipp Hackert. 1790. Roma, Casa di Goethe.
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Siena Perugia Assisi Foligno
In alto: ritratto di Christoph Heinrich Kniep (1755-1825), il disegnatore che accompagnò Goethe nel Meridione d’Italia e in Sicilia.
Terni Civita Castellana
GOETHE A ROMA
Roma Velletri Fondi
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La «Casa di Goethe» è un museo situato al secondo piano del palazzo di via del Corso 18, a Roma. Dedicata al poeta tedesco e al suo Viaggio in Italia, è la casa nella quale Goethe visse veramente durante la sua permanenza romana. Inaugurato nel 1997, il museo espone quadri, libri e altri documenti relativi al soggiorno di Goethe e ospita mostre temporanee legate a temi italo-tedeschi e alla tradizione del viaggio in Italia.
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DOVE E QUANDO via del Corso, 18 (piazza del Popolo) 00186 Roma Orario tutti i giorni, 10,00-18,00; chiuso il lunedì Info Info tel. 06 32650412, fax 06 32650449; www.casadigoethe.it
Palermo
Messina
Alcamo Taormina
Castelvetrano Sciacca
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Caltanissetta
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Qui sopra: Paestum. Il tempio di Hera (piú noto come Basilica) in un’incisione di Giovan Battista Piranesi. 1778. A tutta pagina: gli itinerari del viaggio in Italia di Goethe. a r c h e o 83
de. Due spiriti si contraddicono in me». Non sappiamo che cosa lo abbia infine spinto a prendere il mare in direzione di Palermo. Ma oggi, duecento anni dopo la pubblicazione di questa opera straordinaria, possiamo e dobbiamo supporlo.
IL MENO GRAVE DEI DOVERI Goethe aveva sentito fin da bambino il dovere di conoscere l’Italia. La piccola gondola che suo padre gli aveva regalato e le stampe romane che tappezzavano le mura della casa paterna avevano iniziato a scavare in lui il percorso di una necessità. Fra tutti i doveri che il dottor Johan Caspar von Goethe gli aveva trasmesso, il viaggio in Italia (raccontato in un piccolo libro in italiano) doveva essergli apparso da sempre come il meno grave. Tanto che mentre cresceva e cominciava a studiare, scrivere e ricercare, Goethe 84 a r c h e o
aveva visto in quel viaggio non piú soltanto la realizzazione di una necessità imposta dagli obblighi filiali, ma soprattutto il coronamento delle proprie ricerche. Ricerche delle origini, del luogo da cui tutto ebbe inizio, e dunque dell’antico. Chiunque abbia letto quest’opera sa quanto grande sia la sorpresa nel seguire Goethe attraverso il suo percorso di sdegno verso tutto ciò che non sia antico.Vale su tutti l’esempio di Assisi, dove lo scrittore passa poche ore, evitando Giotto e fermandosi solo a contemplare il tempio di Minerva, sul quale nel Cinquecento venne eretta la chiesa di S. Maria sopra Minerva. Goethe è in cerca di un concetto di antico nebuloso. Un antico nel quale Roma e Grecia si confondono e la norma è quella stabilita da Johan Joachim Winckelmann in una celebre definizione: «nobile semplicità e quieta grandezza». Tuttavia,
In alto: la città di Palermo nella prima metà del Settecento, in una calcografia di Joseph Friedrich e Johann Christian Leopold. 1750.
piú Goethe scende verso il Meridione e piú le sue aspettative vengono messe in dubbio. E qui sta il segreto in cui dobbiamo cercare le ragioni del viaggio in Sicilia. Innanzitutto, dominato dal senso del dovere, il Tedesco si abbandona progressivamente a uno stile di vita mai neppure concepito prima. Fino a Roma, infatti, egli si limita a osservare da fuori, spettatore esterno, la «vita spensierata» degli Italiani che lo ha colpito appena varcato il confine linguistico di Rovereto, il 12 settembre 1876. L’immagine paradigmatica del suo atteggiamento è quella dipinta da Johann Heinrich Wilhelm Tischbein nella sua stanza romana, affacciato alla finestra che dà sul Corso, in veste da camera, appassionato spettatore di quel teatro di strada che ogni giorno lo colpisce con qualche novità sorprendente.
In basso: la baia di Napoli e il Vesuvio in un acquerello non datato di Christoph Heinrich Kniep.
UNA PIENEZZA INDESCRIVIBILE Solo a Napoli tutto cambia. «Tutti vivono in una specie di ebbrezza e di oblio di se stessi. A me accade lo stesso. Non mi riconosco quasi piú, mi sembra di essere un altro uomo. Ieri mi dicevo: o sei stato folle fin qui, o lo sei adesso». Vivere la vita dei Napoletani, giorno per giorno. Felicità momentanee eppure costituite da una pienezza indescrivibile. Contemplare la natura senza sentire il bisogno di darne conto in qualche modo professionale. Goethe a tratti si preoccupa del tempo che teme di star perdendo: «Vedo meno di quel che dovrei» si ripete.
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SPECIALE • GOETHE IN SICILIA
Ma non è affatto tempo perso – e lo sa. Ciò che sta vivendo gli consente la costruzione di un nuovo sguardo sulla dimensione antica di cui è alla ricerca. Il momento decisivo arriva il 23 marzo, quando, in compagnia del disegnatore che ha sostituito Tischbein, il già citato Heinrich Kniep, Goehte visita Paestum. È la prima volta che si trova davanti a qualcosa di veramente greco, di veramente antico, e lo sconcerto è enorme. «Sbalordimento» è la parola usata negli appunti (diari e lettere) destinati a diventare libro trent’anni dopo. «Queste masse di colonne pesanti, a forma di cono, costrette l’una accanto all’altra, ci riescono in sulle prime antipatiche e c’infondono persino terrore». Goethe si costringe a fermarsi. Cerca di liberarsi dai pregiudizi. «Solo girando attorno ai templi e percorrendoli da una parte all’altra si comunica loro una vera vita, vita che par di vedere uscire da quelle pietre, cosí come l’architetto volle e creò». Questo sforzo però non basta. Mentre leggiamo della sua felicità nell’essersi costretto a trovare il modo di guardare senza antipatia quel dorico maestoso, percepiamo chiaramente l’insoddisfazione del viaggiatore. Egli ci parla della via di ritorno, del panorama che si apre su Napoli, del grido di felicità del
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In basso: ariete di bronzo, opera greca del IV sec. a.C. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas». Goethe vide l’opera nella Sala di Ercole del Palazzo Reale del capoluogo siciliano, quando ancora faceva coppia con un secondo ariete, oggi scomparso.
ragazzo che accompagna lui e Kniep nel rivedere la città natale. Tuttavia, l’anima di Goethe è altrove, lo sappiamo bene. Si sta scontrando con lo «sbalordimento». Forse è in questo momento che la decisione diventa irrevocabile. Per capire l’antico, arrivare alla vera origine, scoprire il senso dell’Italia di cui è in cerca, Goethe deve prendere il mare e sbarcare in Sicilia.
ALBERI COME LUCCIOLE Dopo quattro giorni passati per la maggior parte del tempo «in posizione orizzontale», in cabina, mentre a bordo una compagnia di teatranti rallegra l’atmosfera e Kniep già prende in giro il poeta parlandogli delle prelibatezze che vengono servite sopracoperta, lunedí 2 aprile la corvetta attracca alla Cala di Palermo e Goethe prende la prima decisione rivelatrice del nuovo stato d’animo che lo spinge al viaggio: non scende come tutti gli altri passeggeri, non corre in porto, nessun’ansia di terraferma. Resta a bordo, a contemplare uno spettacolo oggi in gran parte perduto. Solo il monte Pellegrino, «il piú bel promontorio del mondo», ha mantenuto lo stesso profilo. La spiaggia, gli alberi le cui cime ondeggiano «come grandi sciami di lucciole vegetali» non ci sono piú. Tuttavia, a noi importa l’esperienza interiore, per la quale non c’è dimensione temporale che tenga. Il primo viaggio per mare ha restituito a Goethe una dimensione che conosceva solo letterariamente, quella del viaggiatore che, come Odisseo, insegue la sua Itaca. «Se un uomo non s’è visto circondato dal mare, non può avere un’idea del mondo e della sua posizione rispetto al mondo». È una massima che vale per
A sinistra: Bagheria. La Villa Palagonia, costruita a partire dal 1715 per volere del principe Francesco Ferdinando II Gravina, Cruylas e Alliata.
ogni epoca, ma, in questo caso, le sue radici sono antiche. Lo scopriamo subito, seguendo le prime mosse in città. In un libro pubblicato nel 1905, l’etnologo palermitano Giuseppe Pitrè (1841-1916) ha determinato con grande precisione le mosse di Goethe a Palermo: per entrare in città, non attraversò Porta Felice, ma Porta della Legna, oggi scomparsa; la locanda della signora Montaigne andrebbe poi identificata nella casa Gramignani di via di Porto Salvo. Ma quel che colpisce il lettore non è questo iter, su cui molti turisti, soprattutto tedeschi, si mettono ogni anno di buona lena. Ben piú straordinario è il fatto che, il giorno dopo aver dato una prima occhiata alla città, Goethe si lasci portare a passeggio per la vallata percorsa dall’Oreto. Qui, mentre la sua guida gli racconta della battaglia di Annibale (che in verità fu la battaglia di Panormo del 251 a.C. in cui Asdrubale fu sconfitto da Cecilio Metello), egli si disinteressa anche con un certo fastidio della storia antica, per dedicarsi solo ai minerali che raccoglie in terra. Nulla di nuovo in questa passione già ampiamente testimoniata – si potrebbe pensare,
A destra: una delle curiose sculture che ornano la Villa Palagonia e che le sono valsi il soprannome di «Villa dei mostri». Goethe visitò la residenza, ma la giudicò con severità, bollandola come la creazione di un «mentecatto» che aveva dato «sfogo al suo capriccio».
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aggirandosi tra i palazzi sorti nel Novecento in quell’antica campagna dove l’Oreto compare e scompare come un rigagnolo. Ma sarebbe un errore: questa volta, infatti, le pietre trascinate dai torrenti non raccontano a Goethe soltanto la natura di una regione montuosa ma offrono anche «un’idea di quelle eterne, classiche altezze dell’antichità terrestre». La ricerca dell’antico che domina il viaggio in Italia pare dunque già completamente trasformata. E la conferma arriva il 7 aprile, quando il viaggiatore s’immerge in un giardino comunale, s’identifica con Odisseo nell’isola dei Feaci, corre a comprare un’edizione dell’Odissea e passa ore indimenticabili.
UNA TRAGEDIA PER NAUSICAA Il «piú meraviglioso angolo di questa terra», villa Giulia, era stata aperta dieci anni prima e ancora oggi, assieme al vicino giardino botanico, costituisce un’oasi di pace. «Alberi strani di paesi tropicali». «Vasche in cui pesci dorati e argentati guizzano». «Una vaporosità intensa». «L’odore tutto particolare del mare». Ogni cosa di cui ancora possiamo fare esperienza, richiama alla mente di Goethe l’arrivo di Odisseo tra le ragazze che giocano a palla e sulle quali svetta la principessa Nausicaa. E proprio a Nausicaa lo scrittore comincia a pensare come fonte d’ispirazione per una tragedia in cui il protagonista maschile, Odisseo, non è altri che il viaggiatore Goethe, come ci racconte-
In alto: Segesta in una veduta di Christoph Heinrich Kniep. Nella pagina accanto: il tempio di Segesta, la cui costruzione fu avviata dagli Elimi intorno al 420 a.C., ma venne interrotta quattro anni piú tardi, probabilmente a causa del conflitto con Selinunte.
rà esplicitamente a Taormina un mese piú tardi, definendo la struttura dell’opera: «Pellegrino anch’io, (…), anch’io a tanta distanza dalla mia patria, in condizione di essere considerato dalla gioventú come un semidio e dalla gente posata come un millantatore». Ogni ricerca dell’antico di cui leggeremo nelle prime pagine siciliane è risucchiata dentro questa profonda identificazione. Goethe sta velocemente smettendo i panni dello studioso pieno di pregiudizi, che guarda alle cose con gli occhiali di Winckelmann. Ha perso quella perenne voce della coscienza che gli intima di lavorare e non si abbandona piú alla folle gioia napoletana come contraltare del suo senso del dovere. Ha trovato una via ben piú personale per raggiungere ciò di cui è in cerca, anche perché sta soprattutto trovando se stesso. I giorni di Palermo in questo senso sono chiarificatori. Sale a Monreale eppoi fino all’Abbazia benedettina di S. Martino delle Scale per ammirare le collezioni archeologiche, ma cita solo una medaglia raffigurante una giovane dea. Visita il Palazzo Reale e, nella sala dedicata a Ercole, si stupisce del disordine e racconta soltanto di due arieti di bronzo ellenistici.Visita la collezione di medaglie del principe di Torremuzza e sottolinea la sua meraviglia, dopo la noia che ha dovuto superare, di fronte alla varietà e importanza di queste monete. a r c h e o 89
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Sono luoghi che possiamo visitare benché le collezioni antiche siano tutte confluite per la gran parte nel Museo Salinas (attualmente chiuso al pubblico). Possiamo ancora stupirci dell’ospitalità benedettina, della Cappella Palatina (Palazzo Reale) in cui Goethe neppure entrò, della magnificenza del Palazzo in cui non viveva Gabriele Lancellotto Castello principe di Torremuzza, di fronte alle trattorie della Kalsa che arrostiscono pesce a tutte le ore. Quanto a ciò che catturò l’occhio di Goethe, l’unico pezzo antico è uno dei due arieti, il solo sopravvissuto ai moti del 1848, su cui Pitrè intona una specie di canto che si apre cosí: «Oh se potesse parlare quante delle sue vicende racconterebbe questo ariete!».
IL CAPRICCIO DI UN PRINCIPE In ogni modo, mentre cerchiamo di seguire l’ufficiale rincorsa dell’antico, ci rendiamo conto che lo sforzo di Goethe è altrove. Soprattutto nella natura dell’isola che sta scoprendo (non solo a villa Giulia): è la Grecia sognata, quella che Goethe crede di ritrovare adesso. Una Grecia lontana solo in teoria e In alto, sulle due pagine: il teatro di Segesta che, secondo gli studi piú recenti, sorse nella seconda metà del II sec. a.C. In alto, a sinistra e qui accanto: una veduta d’insieme e un particolare del rilievo di un sarcofago con il mito di Ippolito e Fedra. II sec. d.C. Agrigento, chiesa di S. Nicola.
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qualcosa che lo stava spingendo agli antipodi che gli si sta dischiudendo in una primavera di Winckelmann, sulla strada della scoperta di odori, sapori, colori. Cosí, dopo due settiche fece poi Nietzsche del dionisismo intrinmane, dopo la Cattedrale in restauro, la Zisa seco alla piú profonda grecità. Ma non sono che trova meravigliosa e definisce «casa moreche pensieri o forse illusioni, animati dalla sca», le indagini su Cagliostro, quando è ora di forza di un atto di repulsione e disprezzo. lasciare Palermo con destinazione Alcamo, ci Alcamo oggi ci appare come un tempo, «tranaccorgiamo di qualcosa di straordinario. Ciò quilla cittadina di montagna» che ispiche resta piú impresso nella mente ra riposo. Come un tempo è anche del lettore, quello che ancora oggi Attraverso la strada per raggiungerla, «una bella, chiunque vi raccomanda di visitare duplice vallata, nel cui centro sorge un quando vi aggirate per Palermo alla il viaggio in alto dorso roccioso». Lentisco, biancoricerca di Goethe, non è nulla di spino, aloe, trifoglio, rododendri, Sicilia, Goethe antico. È, anzi, una villa che lo scritgiacinti, borragine, aliacee, asfodeli. tore disprezzò e di cui scrisse con Goethe è minuzioso. Come di froncosí tanto disgusto da farcela amare: fa la conoscenza la follia «di quel mentecatto di Pallago- della Grecia, con i te al tempio di Segesta che, con la sapienza dell’esperto, benché lasci nia», ossia Francesco Ferdinando II Gravina, Cruylas e Alliata, principe suoi odori, colori agli architetti la parola finale, definisce immediatamente «non finito». di Palagonia, con una sola elle. e sapori Noi oggi sappiamo che furono gli La villa dei mostri spinge Goethe a Elimi, e non i Greci, a erigerlo nell’astabilire quanto nefasto sia l’irraziorea sacra della loro città sempre in lotta contro nalismo di un individuo che «dà sfogo al suo Selinunte. Supponiamo addirittura che, nel capriccio», anche se, raccontandocela con estre416, la costruzione del tempio sia rimasta inmo puntiglio, suscita in noi una curiosità irrecompiuta a causa del conflitto con Selinunte. frenabile. E oggi, mentre ci aggiriamo tra Ancora una volta, però, nel percorso di Goethe quelle stanze, ci viene da pensare che la foga alla ricerca dell’antico, non sono le notizie e la di Goethe fosse animata da ben altro: da un’inloro piú o meno verificabile veridicità a coltuizione, forse una specie di presentimento, a r c h e o 91
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pirci. Innanzitutto, torniamo a stupirci per la nonchalance con cui lo scrittore determina le sue decisioni. «La fatica durata a percorrere le insignificanti rovine di un teatro ci fece passar la voglia di visitare quella città». Forse anche noi, inerpicandoci sotto al sole cocente verso il magnifico teatro, senza approfittare della navetta che trasporta i turisti, possiamo arrivare esausti e propensi a un giudizio simile.
L’ANTICO PENSATO NELLA NATURA Quelle rovine, però, non sono piú insignificanti come forse potevano apparire duecentotrenta anni fa. Il fatto decisivo, del resto, non sfugge a Goethe: quando ci sediamo sugli spalti a cercare un filo d’ombra, oggi possiamo godere di un panorama spettacolare e magari di un silenzio raro, in tempi di turismo di massa. Per Goethe il silenzio era scontato. Era il luogo a dominare sulla sua sensibilità: l’importanza della natura in cui gli antichi costruivano cominciava a scavare un percorso a cui il tedesco non si era preparato. «La posizione del tempio è singolare: all’estremità superiore di una vallata lunga e larga, in cima a una col92 a r c h e o
Paesaggio siciliano, matita e acquerello su carta bianca di Joahnn Wolfgang Goethe. Aprile/12 maggio 1787.
lina isolata, ma circondata di rocce, esso domina in lungo e in largo un’ampia distesa di campi, ma solo un breve tratto di mare». Ecco il punto: l’antico nella natura in cui fu pensato. Non il monumento in quanto tale, a prescindere dal suo contesto. Non l’idea architettonica di per sé, spostabile in un museo ad hoc, come sarebbe successo nei secoli successivi (si pensi all’altare di Pergamo), ma inestricabile dai luoghi in cui fu concepito. E questa idea comincia a scavare nello sguardo dello scrittore e a costringerlo a un nuovo modo di abbandonarsi a ciò di cui è in cerca. La conferma perfetta arriva tre giorni dopo, il 23 aprile. Lasciata Segesta e inspiegabilmente messa da parte Selinunte (che neppure menziona, benché passi una notte a Castelvetrano), Goethe arriva a Girgenti. Akragas. Agrigento. Qui si aprono giorni decisivi. Talmente importanti nella realizzazione del viaggio che è difficile anche solo ripercorrerli. Ma di nuovo è la nostra possibilità di tornare su quei luoghi a fare la differenza. In questo caso, poi, risulta determinante la spinta che ci dà Goethe a superare a nostra volta certi pregiudizi stantii, quelli che raccontano da decenni degli
scempi e degli abusi nella magnifica Valle dei Templi. Scempi che, in realtà, non hanno rovinato affatto la valle quanto la bella città moderna, con i suoi vicoli, le sue chiese, i suoi palazzi medievali. Goethe infatti, ci costringe a superare la barriera dei grandi palazzi degli anni Sessanta, entrare in città e dormire lí.
«UN PICCOLO ABATE DABBENE» È martedí 24 aprile. «Una primavera splendida come quella che ci ha sorriso stamane al levar del sole, certo non ci è stata mai concessa nella nostra vita mortale». Goethe si affaccia alle finestre che danno sulla via Atenea e guarda giú verso la città antica. Vede emergere il tempio della Concordia e le rovine di quello di Giunone. Vorrebbe correre giú subito.Vorrebbe gettarsi a soddisfare un’attesa di lunghezza incalcolabile. Eppure, senza opporsi, accetta di restare in città. È «un piccolo abate dabbene» a convincerlo. E lui lascia fare. Il tempo ha preso una dimensione diversa. E soprattutto – sembra ormai chiaro – è al contesto che si deve dare spazio. Cosí segue l’abate nella visita della città. Sappiamo molto di quel «Cicerone di Agrigento», anche perché ne scrissero parecchi viaggiatori, fra cui Jean-Marie Roland e Ge-
A destra: Agrigento. Il monumento noto come «tomba di Terone» (tiranno della città dal 488 al 472 a.C.), ma che, in realtà, è un mausoleo di epoca ellenistica. In basso: la medesima struttura in un disegno a penna acquerellato di Johann Wolfgang Goethe.
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org-Arnold Jacobi: si chiamava Michele Vella, vestiva da abate, ma era sposato e aveva una cultura da autodidatta. Conosceva a menadito ogni minimo aspetto della città antica e una serie di suoi disegni ci è utile per vedere quel che videro i grand tourist del tempo. Con Vella, Goethe visita soprattutto la Cattedrale, dove sono esposti alcuni magnifici esemplari d’arte. Innanzitutto «un sarcofago ben conservato, trasformato per sua salvezza in altare», e poi un «prezioso vaso di notevoli dimensioni e di perfetta conservazione». Entrambi non si trovano piú nella Cattedrale, da tempo, e si deve visitare lo straordinario Museo, che sta per compiere i suoi primi cinquant’anni (vedi box alle pp. 9697) per avere un’idea di quel che vide Goethe. Solo un’idea, però, perché il sarcofago non è custodito nel Museo, ma nell’adiacente chiesa di S. Nicola, mentre il vaso – di cui è testimoniata la presenza nel Museo fino al secolo scorso – è misteriosamente andato perduto. 94 a r c h e o
Qui sopra: Agrigento, il tempio della Concordia, di cui Goethe ammirò la forma slanciata.
Quanto al sarcofago, il mito di Ippolito e Fedra che tanto colpí Goethe, è osservabile fra gli spazi angusti di una chiesa che è, di per sé, un monumento straordinario (eretta nel XIII secolo dai Cistercensi). Si tratta di un’arca romana del II secolo d.C. e sono soprattutto i turisti tedeschi in cerca del loro Vate a chiederne notizia. Del vaso, invece, ci restano immagini che non possono competere con la
A sinistra: il tempio della Concordia di Agrigento in una tavola ottocentesca. In realtà, la divinità titolare del santuario è a tutt’oggi ignota e l’edificio prende nome da un’iscrizione scoperta nel XVI sec. nelle vicinanze e l’attribuzione alla Concordia è del tutto casuale. In basso: i resti del quartiere ellenisticoromano di Akragas, l’antica Agrigento, tuttora in corso di scavo.
descrizione che ne dà Goethe qualche giorno dopo, quando tornò apposta per salvarne il disegno dal tempo tiranno: «Vi è rappresentato un guerriero in completa armatura, dall’aspetto di forestiero, innanzi a un vecchio seduto, che corona e scettro indicano come il re. Dietro a lui è una donna, a capo chino, la mano sinistra sotto il mento, in atto cogitabondo. Dirimpetto, dietro al guerriero, un altro vegliardo pure con la corona. Questi conversa con un uomo che porta una lancia e appartiene forse alla guardia del corpo. Il vecchio, che sembra aver introdotto il guerriero, ha l’aria di dire alla guardia: “Fatelo parlare al re; è un brav’uomo”. Il rosso pare sia il fondo di questo vaso; il nero il colore sovrapposto; solo nelle vesti della donna pare rosso su nero». Goethe e Kniep passarono il resto del giorno dietro a Vella, osservando la fattura pregiatissima di una pasta a forma di chiocciole, unico svago dalla rincorsa del contesto in cui l’antica Akragas fu costruita. Benché impazienti
L’ARCHEOLOGIA SCRIVE LA STORIA La sconcertante bellezza dei templi agrigentini acceca i visitatori. Si potrebbe dire che Akragas, l’antica città greca, abbia storicamente inghiottito l’Agrigento romana, benché i resti di essa appaiano sempre piú interessanti, alla luce degli ultimi scavi, condotti da un’équipe di archeologi guidati da Maria Concetta Parello e Maria Serena Rizzo. Del resto, la città, dal 210 a.C. (quando venne definitivamente presa dai Romani) e fino al VII secolo d.C., fu viva e fiorente, soprattutto grazie ai commerci di cui l’antico porto cittadino, alla foce del fiume Akragas, fu snodo decisivo. Oltre alle ventisette domus – inserite in tre insulae delimitate da quattro assi stradali –, oltre ai magnifici mosaici, ai magazzini, al ginnasio, negli ultimi anni, grande importanza ha acquisito un piazzale, monumentalizzato fin dall’età augustea con un tempio e un porticato decorato da statue dedicate forse a membri della famiglia imperiale. L’area, di cui si offrirà la ricostruzione di un angolo, cadde in disuso nel IV secolo, divenne luogo di lavoro e nel secolo successivo fu chiusa e trasformata in discarica. Quello che a prima vista potrebbe apparire come il meno affascinante dei riusi, costituisce oggi una vera e propria miniera di informazioni. «Ci dà la possibilità di scoprire tutto un mondo – spiegano Parello e Rizzo –. Scopriamo, per esempio, quali attività produttive e artigianali dovevano svolgersi nei dintorni. Quali animali si allevassero. La cucina. I passatempi. Ci sono resti interessantissimi: stampi che venivano usati per dolci e pani; strumenti per l’abbigliamento e la toletta soprattutto femminile; arnesi per la filatura, la tessitura, il cucito. E poi giochi: dadi, pedine, gambe di bambole articolate. Tra i materiali piú pregiati, si contano sculture in marmo e calcare che probabilmente vennero frammentate per la calcinazione in fornaci provvisorie di cui c’è traccia nell’area. E questo è un caso esemplare per capire come il lavoro dell’archeologo ad Agrigento continui a essere cruciale: i resti di quattro togati e di una testa in marmo rosso che richiama i tratti giovanili di Caracalla possono avere un valore di per sé, ma è ancora maggiore il loro valore per quello che esse significano all’interno della discarica: non avevano piú importanza per il loro ruolo originario, erano pronte alla calcinazione».
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di scendere, infatti, continuarono ad arrampicarsi «sulle alture a godere nuovi punti di vista, e a farci pregustare d’un solo colpo d’occhio la posizione di tutte le cose piú notevoli che avremmo visto il giorno dopo».
COME UNA RIVELAZIONE Quella che Pindaro definí «la città piú bella dei mortali» si dischiuse a Goethe come una sorta di rivelazione. Attraversando un «paesaggio sempre piú pittoresco», visitò il tempio di Giunone, allora in rovina, poi il tempio della Concordia, di cui esaltò la forma slanciata e contestò i restauri in gesso, dunque il tempio di Giove «carcassa di uno scheletro gigantesco», che tentò sorpreso di misurare cingendo un triglifo a braccia aperte, poi ancora il tempio di Ercole, che mostrava «tracce dell’antica simmetria», il tempio di Esculapio «quasi murato in una casupola di campagna» (che fu piú tardi rimossa), e infine la tomba di Terone. Le annotazioni da studioso ci colpiscono piú che altro per quel che non possiamo piú vedere, per i restauri ormai all’avanguardia, per le ricostruzioni che ci danno la possibilità di farci un’idea molto piú completa di quei templi e, soprattutto, per quello di cui al tempo non si poteva sospettare neppure l’esi-
L’Efebo di Agrigento, statua in marmo di un giovane atleta, rinvenuta presso il tempio di Demetra. Agrigento, Museo Archeologico Regionale.
stenza, ossia gli immensi Telamoni che decoravano e sostenevano il tempio di Giove. E cosí prendono invece il sopravvento le pennellate sul paesaggio: la «lussureggiante vegetazione», le «scene da idillio», la «roccia diruta» su cui sorge il tempio di Giunone, «le mura della città che si protendono a oriente sopra uno strato di calcare che sovrasta a picco la spiaggia abbandonata in epoca piú o meno remota dal mare, dopo aver formato queste rocce e averne lambito il piede». Goethe sa compiere quello sforzo d’immaginazione che serve anche a noi per valutare la posizione originaria della città sacra: la vicinanza del mare, la roccia a picco sulla costa, una prospettiva perduta per sempre, ma decisiva per restituire ai templi la loro bellezza. A noi, oggi, per assaporare quelle atmosfere conviene evitare i momenti di maggiore affollamento e scegliere le ore prossime all’apertura e alla chiusura del sito, che sono anche quelle in cui si può godere dello spettacolo della luce obliqua che penetra la pietra calcarea, rendendola morbida come mai fu nell’antichità, quando l’intonaco e i colori la ricoprivano. Cosí come vale la pena di allontanarsi dal percorso principale: dal tempio della Concordia parte infatti un sentiero (una delle cosiddette green way) che scende in direzione mare, porta sino alla tomba di
L’EFEBO E IL GUERRIERO Nel 2017 il Museo Archeologico Regionale di Agrigento compirà mezzo secolo. Data importante per celebrarlo. Disegnato da Franco Minissi, esso è infatti il luogo sognato fin dal 1860, quando una delibera del Consiglio Comunale di Girgenti stabilí la necessità di riunire in spazi espositivi consoni le collezioni sparse e ciò che di anno in anno veniva ritrovato. I capolavori di statuaria e arte vascolare che sono qui raccolti basterebbero da soli a giustificare una celebrazione. Su tutti, l’efebo di Agrigento, un kouros dei primi decenni del V secolo, esempio raffinatissimo di plasticità ed equilibrio; e il cratere di Gela, del 470 a. C. attribuito al Pittore dei Niobidi, che raffigura
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l’uccisione di Pentesilea. Spicca poi un’opera che continua a far discutere: il torso in marmo noto come «guerriero di Agrigento». Secondo Tommaso Guagliardo, dirigente di collezioni ed esposizione del Museo, è un piccolo miracolo, che da solo racconta la storia dell’archeologia italiana del Novecento e di cui ha parlato al British Museum di Londra in occasione del convegno organizzato in parallelo alla mostra «Sicily. Culture and Conquest» dove il pezzo è stato esposto. «Si tratta di una storia complessa. Il torso vene trovato nel 1940 da Goffredo Ricci accanto al tempio di Zeus. La testa poco dopo nel fondo di un pozzo scavato accanto al tempio di Eracle da Ernesto De Miro, il frammento di gamba nel 1958 in una cisterna
Terone (che tale non fu mai, visto che si tratta di un mausoleo ellenistico di tradizione microasiatica) e sino alla strada oltre la quale, su prenotazione, è possibile visitare anche il tempio di Asclepio e immaginare il complesso del santuario in cui, con riti officiati in nome del figlio di Apollo, si curavano i malati giunti da ogni dove.
SCOPERTE DECISIVE In direzione opposta, sempre all’altezza del tempio della Concordia, una via (che è un tratto del cardo) può portarvi attraverso i campi, fino ai quartieri ellenistico-romani, fonte delle piú importanti novità archeologiche di questi anni (vedi box a p. 95). Dritto in fondo alla via principale, invece, è da due anni aperta una passerella che supera d’un balzo la strada statale e restituisce al sito l’antica unità. Potete scendere oltre il tempio di Giove, fino ai Dioscuri, fino al santuario di Demetra e Kore e ancora piú in là, superata la valle della Kolymbethra (un luogo che, grazie alle cure del FAI, è decisivo per rintracciare il contesto di natura lussureggiante che tanto colpí Goethe) e superati i binari del treno, fino al tempio di Vulcano. Tanto grande fu l’impressione prodotta dal mondo che gli si apriva penetrando l’antica
accanto al tempio di Zeus. Altri frammenti sono stati attribuiti al guerriero». Ma la ricostruzione si limita a testa, torso e coscia... «Fu De Miro a ricomporli con qualche integrazione. La testa non ha punti di attacco col tronco. Mentre la coscia parzialmente aderisce». Le discussioni piú accese riguardano però la collocazione della scultura... «Per De Miro sarebbe una decorazione frontonale e la conferma arriva da una cavità sulla scapola destra che fa pensare a un puntello di ancoraggio alla parete di un frontone, forse quello del tempio di Eracle. Marcello Barbanera ha invece sostenuto che la posizione del guerriero è diversa, semisdraiata sul fianco sinistro, e il frontone sarebbe quello del tempio di Zeus. Infine Gianfranco Adornato ipotizza un gruppo a tutto tondo, con due sculture che si fronteggiano».
In alto: il lago di Pergusa, presso Enna, in una tavola della fine del Settecento. In basso: la statua nota come «guerriero di Agrigento». 470 a.C. circa. Agrigento, Museo Archeologico Regionale.
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Akragas che Goethe, la mattina seguente, rimase in casa, affacciato al balcone, rimuginando le parole dello scritto «talismano» con cui attraversava la Sicilia: Viaggio in Sicilia e in Magna Grecia di Johann Hermann von Riedesel. Winckelmann è dietro l’angolo, ma Goethe non si accorge di essere già oltre. Il giorno prima, di fronte al tempio della Concordia, ha potuto sottolineare che esso «di fronte ai templi di Paestum, sta come la figura di un Dio di fronte a quella di un gigante», senza rendersi conto che sul cammino della rivalutazione (e comprensione) della città campana si è già avviato fin dalle ore beate passate nella villa Felice sentendosi un nuovo Odisseo, cominciando quindi a superare l’effetto dissonante provato a Paestum, fradicio di un’idea di bellezza armoniosa e perfetta, come era stato abituato da Winckelmann.
POMERIGGIO IN VALLE E infatti, nel pomeriggio, con Vella, Goethe torna a visitare la valle, si aggira fino al tempio di Demetra inglobato nella chiesa di S. Biagio (potete visitarlo anche oggi, passando dietro al cimitero, attraverso un campo di bici da cross, arrampicandovi verso le mura inondate di luce), elogia le tombe antiche, ma soprattutto si ferma sulle pietre, la vegetazione, le coltivazioni di fave e di frumento, il lino, l’acanto, la lupinella, i cavoli, i fichi, i mandorli, l’uva, i meloni, le rape, i carciofi. Oggi il «Parco Valle dei Templi» produce vino e olio, affida campi di grano a chi sa coltivarli, replica una tradizione antica con cui finanzia restauri all’avanguardia. In questi ultimi giorni agrigentini, del resto, Goethe maturò una decisione di straordinaria importanza per capire il modo in cui il viaggio lo stava trasformando. La questione girava attorno alla natura, ai luoghi, al contesto in cui il monumento era stato progettato e costruito. Una questione ormai cosí dirimente che, per svelare davvero il mistero di Demetra, Goethe non cercò piú né statue, né monumenti, ma prese di mira semplicemente il grano, i granai, per «comprendere come Cerere avesse potuto largire all’isola tanto generosamente i suoi favori». Cosí, anziché proseguire sulla costa Testa in terracotta policroma raffigurante il dio Ade, dall’area sacra in contrada San Francesco Bisconti, Morgantina (Enna). IV sec. a.C. Aidone, Museo Archeologico Regionale. 98 a r c h e o
I TESORI DI MORGANTINA Quando Goethe prese la strada della Sicilia interna, cercando Demetra nel grano, non poteva neppure immaginare che duecento anni dopo, oltre al grano, quelle stesse terre avrebbero restituito alcuni tra i piú favolosi reperti che raccontano la storia della dea, di sua figlia Persefone e di Ade, dio dell’Oltretomba. Il sito di Morgantina e il Museo di Aidone rappresentano oggi una delle mete piú ambite del turismo archeologico, nonché un esempio assoluto di recupero
e restituzione di opere trafugate e vendute al mercato nero. Dopo il ritorno, nel 2009, dei due acroliti (statue le cui parti nude sono in marmo o pietra mentre il resto è in legno o altro materiale magari ricoperto di vesti) che rappresentano probabilmente Demetra e Persefone, capolavori dell’arte arcaica realizzati fra il 530 e il 520 in marmo di Taso; e dopo il ritorno della dea (Demetra o Afrodite) realizzata in tecnica pseudoacrolitica (parti nude in marmo e veste in calcare) attorno al 430, torna ora anche
Ade. Il meraviglioso volto del dio dell’Oltretomba (IV secolo a.C.), riccioli rossi, barba blu (soprannominato appunto Barbablu), premia il lavoro e la dedizione di un’intera équipe che si è battuta per il suo ritorno alle origini (ovvero il santuario in località San Francesco Bisconti, dove si svolgevano riti e cerimonie in onore di Demetra) fin da quando l’archeologa Serena Raffiotta ritrovò tra i resti degli scavi di frodo un ricciolo di ceramica blu e lo mise in relazione alla
magnifica e del tutto irrealistica barba del volto che il Getty Museum esponeva dopo averlo comprato per 500mila dollari dal collezionista newyorkese Maurice Tempelsman (vedi «Archeo» n. 374, marzo 2016).
A destra: la dea di Morgantina, statua raffigurante una divinità femminile, forse identificabile con Afrodite. 420-410 a.C. Aidone, Museo Archeologico Regionale. In basso: assonometria ricostruttiva di Morgantina: 1. teatro; 2. ekklesiasterion; 3. area sacra; 4. bouleuterion; 5. stoà nord; 6. stoà est; 7. granaio.
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verso Siracusa, primo fra tutti i grand tourists, decise di prendere la via dell’interno. In molti ancora giudicano con ironia una simile scelta, sorridendo della scusa portata per evitare Siracusa e la sua magnificenza («seguimmo il suggerimento di lasciar da parte Siracusa, ben sapendo che di questa città magnifica non è rimasto che il superbo nome»), ma sbagliano. Goethe stava cercando l’anima dell’isola in cui si specchiava l’anima della Grecia, l’origine, e dunque la sua stessa anima. Diede perciò addio ai percorsi preconfezionati. Era venuto il momento di fare i conti con se stessi.
UNA MAGIA PERDUTA Quella scelta e la strada che prese gli diedero subito le soddisfazioni che meritava. A Caltanissetta, il 28 aprile, apre le sue riflessioni cosí: «Oggi abbiamo visto con i nostri occhi come la Sicilia abbia potuto meritare l’epiteto onorifico di granaio d’Italia». Possiamo vederlo con i nostri occhi ancora oggi, attraversando «dorsi di montagne e di colline in lieve pendio (…) che offrono allo sguardo una massa ininterrotta di fertilità». In città non avremo le difficoltà che ebbero Goethe e Kniep per individuare un posto in cui passare la notte e il giorno dopo ricominceremo a godere di Demetra, scendendo oltre il fiume Salso, fino al lago in cui, secondo il mito, Ade rapí Persefone: un
luogo magico, il lago di Pergusa (se non fosse che, nel 1958, intorno al suo perimetro è stato costruito un autodromo; vedi illustrazione a p. 97). Inseguire la magia del mito immergendosi nella Riva dei Giunchi, il cuore della Riserva Naturale, non è semplice. Goethe, comunque, non si fermò qui. Vide quella che allora si chiamava Castrogiovanni e salí su, per la «via infame», ammirò Calascibetta, attraversò le vie principali della cittadina che noi chiamiamo Enna e trovò una stanza «con imposte sprovviste di vetri» per passare la notte. Lí accanto, ci accoglie il Museo Archeologico, nel quale si conserva una minima parte dei reperti trovati nel territorio, poiché il grosso giace nei magazzini del Museo di Agrigento. In quei giorni, comunque, Goethe non poteva vederlo, avendo davanti agli occhi solo il paesaggio in cui si stava immergendo. Scese il 30 aprile sull’altro versante di Enna, ammirò il modo in cui due uomini estraevano e mangiavano il cuore dei cardi, superò il fiume San Paolo e arrivò a Molimenti, dalle parti di Catenanuova, per dormire in una locanda che aveva ospitato già Vittorio Amedeo di Savoia, re di Sicilia, e la regina Anna Maria nel 1713. Potete visitarla ancora, poco fuori il paese. Tutti la conoscono come Fondaco Cuba e vederla fa gridare di dolore; giace tra l’erba
In basso: Catenanuova (Enna). Il Fondaco Cuba, nome con cui è oggi conosciuta la locanda in località Molimenti in cui Goethe si fermò a dormire nel trasferimento verso Catania.
A destra: torso detto «di Giove» o «di Bacco», ma in realtà riferibile a un imperatore della dinastia giulio-claudia. Già Collezione Biscari. Catania, Museo Civico di Castello Ursino.
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alta, in abbandono, dotata unicamente di una targa bruciata dal sole che ne ricorda la storia. E si fatica davvero a trovare un motivo per cui non le venga data l’importanza che merita. Proprio lí, peraltro, Goethe e Kniep si trovarono di fronte a un avvertimento sinistro: «O passeggero, chiunque tu sia, guardati a Catania dall’albergo al Leon d’Oro. Peggio che cadere in una volta sola nelle grinfie dei ciclopi, delle sirene e di Scilla». Inutile dire che il giorno dopo, passata anche Paternò ed entrati a Catania, i due viaggiatori, adeguatamente accompagnati, finirono per ritrovarsi proprio al Leon d’Oro.
IL TORSO SENZA NOME Né ciclopi, né sirene, né Scilla, ma Goethe si era ormai immedesimato nell’Odisseo di fine Settecento, la cui fama lo precedeva tra i colti e la cui identità, all’inizio, egli non rivelava. La sua prima visita fu a Palazzo Biscari, ossia la residenza di quel principe che, assieme a Torremuzza di Palermo, raccoglieva le migliori antichità dell’isola: Ignazio Paternò Castello di Biscari. All’ingresso del Palazzo, oggi, ritagli di giornale ricordano le scandalose sottrazioni da parte di politici dei passati decenni di opere della collezione spostata nel museo comunale del Castello Ursino. Non ne fa parte il torso che Goethe chiama «di Giove» e Riedesel chiamò «di Bacco» e che con questi due soprannomi è giunto a noi, benché appartenga a un non identificato imperatore della dinastia giulio-claudia. Anche allora, durante le visite, andavano persi oggetti, dunque si era esaurita la liberalità dei Biscari nel mostrare le collezioni di monete. Per Goethe fu «un atto di deferenza speciale», ricambiato dal fatto che l’esperienza acquisita osservando la collezione Torremuzza gli permise di non presentarsi come un perfetto dilettante. Dopo Palazzo Biscari, Goethe visitò il convento dei Benedettini. Ci parla, però, solo del grande organo di Donato del Piano e non delle collezioni (spostate poi anch’esse nel Castello Ursino). Il 4 maggio fu il giorno dell’Etna: dopo il Vesuvio, un altro vulcano. Ma senza arrivare in cima, questa volta. Il viaggio, del resto, era ormai alla fine e Taormina fu la conferma di ogni intuizione. Qui, infatti, Goethe scrive pagine che paiono ormai conclusive. Mentre si aggira nel teatro, infatti, non dà piú conto in maniera professorale di quel che vede. Natura e arte si sono dissolti l’una nell’altra, vicendevolmente. «Doa r c h e o 101
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po aver superata l’altezza delle rocce, che si elevano a picco non lungi dalla spiaggia, si trovano due vette collegate da un semicerchio. Quale sia stata la loro struttura naturale, fatto è che l’arte è venuta in aiuto e ne ha formato quel semicerchio a figura d’anfiteatro, a comodo di spettatori (…) Ai piedi del semicerchio a gradinate si è costruito il proscenio, che congiungendo le due pareti rocciose ha completato la piú immane opera di natura e di arte». Goethe sottolinea che, dal punto piú alto degli spalti, è chiaro che «mai il pubblico di un teatro ha avuto innanzi a sé uno spettacolo simile». Da una parte, le rocce elevate. In basso la città. Poi la schiena montuosa dell’Etna. A sinistra la spiaggia, il litorale che corre fino a Catania eppoi Siracusa. Il vulcano chiude il quadro solo per chi non si volti dall’altra parte. Oltre ai corridoi che corrono alle spalle degli spettatori, infatti, si apre un altro spettacolo stupefacente: a sinistra le rocce, in basso la strada in direzione Messina, poi scogli, altro mare e, oltre il mare, la costa della Calabria. È forse il teatro greco che piú di qualsiasi altro si fonde nel territorio. Ne possiamo fare esperienza anche noi, nonostante le strutture con cui viene riutilizzato per gli spettacoli odierni. Come gli capita ogni volta che ha fatto un passo in piú nel viaggio di scoperta dell’Ita102 a r c h e o
lia, della Grecia, dell’antico e di se stesso, Goethe lascia che il suo compagno vada a «scattare fotografie» mentre lui si chiude nei suoi pensieri. A Giardini Naxos, sulla spiaggia, il 7 maggio, ci confessa di essere felicissimo per il dono che il cielo gli ha fatto di Kniep, perché un vero disegnatore assoldato per fare quel che in parte con Jakob Philipp Hackert Goethe continuava a fare (ossia, appunto, «scattare fotografie») lo ha sollevato d’un peso, restituendolo al suo temperamento naturale. Che non è quello del disegnatore, anche se solo fotografo, ma quello dello scrittore e del poeta. Cosí, davanti alle onde, nel leggero caldo che inizia a diffondersi vaporoso sull’isola, può ricominciare a pensare alla sua tragedia, Nausicaa, vivificando «mediante immagini di poesia la splendida natura attorno». Quel che lo anima infatti è l’idea che non esista «un commento all’Odissea migliore della natura vivente». È un punto di non ritorno. Solo adesso, infatti, Goethe può prendere la via di Messina, dove sa che di antico non troverà piú molto vista la furia distruttrice del terremoto di quattro anni prima, e dove resterà pochi giorni, quel che gli basta a far depositare tutto ciò che ha visto, prima di imbarcarsi di nuovo, il 14
Nella pagina accanto: i resti del teatro di Taormina in una veduta di Christoph Heinrich Kniep. In basso: Taormina. Il teatro detto «greco-romano», anche se l’impianto oggi visibile è del tutto romano. Con un diametro della cavea di 109 m, è il secondo della Sicilia, dopo quello di Siracusa; l’ampliamento di età augustea permise di accogliervi fino a 10 000 spettatori.
maggio, vedere Scilla e Cariddi, rischiare seriamente il naufragio, arrembare la folla timorosa restituendole la calma come un perfetto oratore, e arrivare a Napoli, con un Odisseo dentro di sé.
noi sembrano finzioni poetiche, ma non è a dire quanto siano naturali, per quanto tracciate con una purezza, con una profondità di sentire che fa sgomento. Gli stessi episodi piú strani e favolosi hanno una naturalezza, quale io non ho sentita mai se non alla presenza delle cose descritte». Bisogna scendere alle origini, bisogna vedere la Grecia per capire la Grecia che è in noi. Goethe è un altro uomo. Ha visto, letteralmente, l’Odissea, e solo dopo averla vista sa che non c’è nulla in essa di falso se non tutto quel che di falso c’è inevitabilmente nella letteratura. La Sicilia gli ha dato questa possibilità. Nient’altro che la sua Sicilia avrebbe potuto dargli questa possibilità. «Ora che tutte queste spiagge e i promontori e i seni e i golfi, isole e penisole, rocce e coste sabbiose, colline verdeggianti, dolci pascoli, campagne feconde, giardini di delizie, alberi rari, viti rampicanti, montagne perdute fra nubi e pianure sempre ridenti, e scogli e secche, e questo mare, che tutto circonda con tanta varietà e in tanti modi diversi – ora, dico, che tutto questo è presente nel mio spirito, ora soltanto l’Odissea è per me una parola viva».
RITORNO IN CONTINENTE Al suo ritorno sulla terraferma, il senso del viaggio in Sicilia emerse tutto insieme e con chiarezza fin dai primi giorni napoletani. In una lettera a Johann Gottfried Herder (che costituisce la pagina datata 17 maggio, ossia la prima post-Sicilia nel libro che abbiamo in mano), Goethe scrive all’amico che, appena sbarcato, ha subito voluto esaudire un desiderio: tornare a Paestum. Quell’esperienza estetica che lo aveva lasciato sbalordito, questa volta cambia segno: si tratta dell’«ultimo e piú splendido quadro che porterò interamente con me nel Nord. Il tempio centrale, secondo me, è da anteporre a tutto quanto si vede nella stessa Sicilia». Ecco: per Goethe, dopo il viaggio nella Grecia d’Italia, il tempio detto di Nettuno si è trasformato in tutt’altra opera. E il perché ci è chiaro poche righe piú tardi. «Quanto a Omero, è come se mi fosse caduta una benda dagli «Archeo» ringrazia l’editore Artemide per la preocchi. Le descrizioni, le comparazioni e cosí via a ziosa collaborazione.
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QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli
…SI RIFORNIVA D’OLIO DALLA SPAGNA E DALL’AFRICA LA COLLINA DEL TESTACCIO, A ROMA, È L’ESITO DI UN’ANTESIGNANA «RACCOLTA DIFFERENZIATA». CHE ORA OFFRE DATI PREZIOSI SUL CONSUMO DI UNO DEI RE DELLA CUCINA, MA NON SOLO...
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ll’inizio della nostra era il fabbisogno di olio, a Roma, era talmente cresciuto che non fu piú possibile soddisfarlo con la pur notevole produzione italiana (in Sabina, in Campania, in Puglia). E, continuando esso a crescere, fu necessario rivolgersi alle province dell’impero. Cosí, al sistematico rifornimento dell’Urbe provvidero, in particolare, l’Andalusia, ossia la Hispania Baetica, e, in misura peraltro assai minore, quelle che sono oggi la Tunisia e la Tripolitania, vale a dire l’Africa Proconsularis. Un singolare «archivio» di dati, in proposito, è, proprio a Roma, il Monte dei Cocci, o Testaccio (Mons Testaceus, da testa, che indica sia l’anfora che un suo frammento): l’«ottava» collina della città che, dall’età augustea e fino al 230 d.C. circa, funzionò come «discarica specializzata» delle anfore olearie. Le quali, dopo essere state scaricate dalle imbarcazioni che risalivano il Tevere dai porti ostiensi nel vicino scalo fluviale dell’Emporium e, una volta travasato il loro contenuto nelle giare conservate negli speciali magazzini degli horrea olearia, non essendo riciclabili, venivano portate, quattro per volta, a dorso d’asino, sempre nello stesso luogo, frantumate e regolarmente accatastate in «terrazzi», via via sovrapposti e digradanti.
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Rimettendo insieme quei cocci, gli archeologi hanno distinto due diverse e tipologie delle anfore: basse e panciute, quelle spagnole, alte e slanciate, quelle africane.
QUALITÀ E ORIGINE DEL PRODOTTO Molti di quei frammenti, però, ci forniscono ben altra informazione. Infatti, dipinta sulle anfore e ancora conservata, c’era assai spesso quella che potremmo definire una sorta di «bolla d’accompagno» (titulus pictus) del carico, che forniva in sintesi la denominazione dell’olio e il luogo d’origine, i nomi del produttore e del trasportatore,
la tara e il peso netto del recipiente, il funzionario addetto ai controlli e la data del trasporto. Gli studiosi hanno calcolato che il Monte Testaccio (alto una quarantina di metri, su una superficie di 22 000 mq e con un perimetro grossomodo triangolare di 1500 m) si sia formato con i frammenti di oltre 53 milioni di anfore. Partendo da questo dato e calcolando, da un lato, la durata di due secoli e mezzo della «discarica», dall’altro, la cifra di 800 000/1 milione di abitanti della Roma imperiale, s’è arrivati a stabilire un possibile consumo d’olio annuale pro capite dell’ordine di 13/24 litri.
Una cifra che induce a collocare l’olio tra i generi di prima necessità per gli antichi cittadini della capitale. Al punto da essere inserito piú volte tra quelli fatti oggetto di pubbliche distribuzioni gratuite. Come quelle che, al tempo di Settimio Severo, tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C. (a cura dell’arca olearia e attraverso 2300 mensae o punti di riferimento) toccarono a 200 000 beneficiari. A giustificare tanto consumo sta, naturalmente, l’uso che dell’olio veniva fatto: molteplice e vario, nelle case private e nei templi, nelle palestre e alle terme. S’andava infatti dalla cura del corpo e la cosmesi alla medicina, dalla cucina all’illuminazione.
CURA E COSMESI Quanto alla cura del corpo, l’olio serviva a proteggere e «nutrire» la pelle, ma anche a... profumarla. Presto, infatti, si pensò bene di «arricchirlo» con essenze aromatiche che lo rendevano piú gradito all’olfatto (e non solo). Cosí veniva usato nelle piú varie circostanze. Si potrebbe dire dalla nascita alla morte, visto che i corpi dei defunti venivano «unti» non solo prima dell’inumazione, ma anche in caso di cremazione. Plinio il Vecchio racconta (N.H. XXII, 114) che un centenario – tale Pollione Romilio – interrogato da Augusto sul segreto della sua eccezionale longevità, avrebbe risposto di aver fatto sempre uso In alto: mosaico raffigurante una pressa olearia. II-III sec. d.C. Saint-Germain-en-Laye, Musée d’archéologie nationale. Nella pagina accanto: anfore olearie, da Cartagine. Età imperiale. Tunisi, Musée national de Carthage. A destra: una lucerna e un unguentario, dalla villa romana nota come «Grotte di Catullo». Età imperiale. Sirmione, Museo Archeologico.
«dentro, di vino (mielato) e fuori, di olio» («intus mulso, foris oleo»). A Roma, gli oli profumati (unguenta) si diffusero progressivamente in tutti gli strati sociali a partire dal II secolo a.C., in seguito alle conquiste in Oriente. E nonostante talune proibizioni delle autorità, come quelle «emanate» dai censori dell’anno 188. Le botteghe nelle quali venivano prodotti e venduti (tabernae unguentariae) erano concentrate lungo una strada (e in un «quartiere») dal nome
«parlante» di vicus Unguentarius, che si trovava immediatamente a sud del Foro. Unguentarii si chiamavano i profumieri e unguentaria i piccoli vasi contenenti il prodotto – di forma globulare o piriforme –, che, un tempo di terracotta, a partire dal I secolo d.C., furono di vetro, per poi diventare vere e proprie bottiglie, di forma quadrangolare, con manico in alto, sul collo.
IN PISTA E ALLE TERME Di olio, piú o meno profumato, si ungevano – anche per proteggersi dai raggi del sole – gli atleti prima della corsa e della lotta (per poi liberarsene, insieme al sudore e alla polvere, raschiandosi con i lunghi e stretti «cucchiai» ricurvi, di bronzo, chiamati strigiles). In ogni caso, per tutti, era inconcepibile recarsi – quotidianamente – alle terme senza portarsi dietro il
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Oggetti da toletta fra cui si riconoscono due strigili (a sinistra), una catinella e un unguentario in vetro. Età imperiale. Saint-Germain-enLaye, Musée d’archéologie nationale. flacone con l’olio per i massaggi e le frizioni che costituivano l’imprescindibile coronamento del «rituale» del bagno. Nei banchetti, oli profumati (all’essenza di rosa, di mirto, di nardo, di zafferano, di maggiorana, di melocotogno) venivano offerti senza risparmio ai convitati, al punto che Marziale (III,12) critica «gli anfitrioni che si preoccupano di profumare i loro ospiti invece di farli mangiare e bere decentemente». Mentre, nel celebre banchetto di Trimalcione «giovani schiavi dai lunghi capelli recano in una bacinella d’argento olio profumato col quale ungono i piedi dei convitati, dopo averli inghirlandati di fiori» (Sat. 70). Nei templi, oli profumati venivano offerti agli dèi in occasione delle feste a loro dedicate e se ne ungevano le statue di culto (ma anche i sacerdoti e le vittime sacrificali). Né l’uso dell’olio («santo») venne meno col cristianesimo – il cui nome derivò da un appellativo che in ebraico aveva il significato di «Unto (del Signore)» –, che lo impiegò largamente nella liturgia, dal battesimo alla cresima, dall’ordinazione sacerdotale fino all’estrema unzione. Largo uso di olio genuino si faceva, naturalmente, in cucina. L’oleum cibarium era di varie qualità, a seconda del tipo di olive e del tempo della loro maturazione. In ogni caso, doveva essere capace di «mordere», come scrive Plinio
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(N.H. XXXIII,79), avere cioè una certa asprezza derivante da un grado d’acidità piuttosto elevato. L’olio figura come ingrediente di fondo in quasi tutte le ricette di Apicio: nelle salse e nelle pappe, per friggere i pesci e preparare sughi di carne, per cucinare fave e piselli e – mescolato all’aceto o al garum – per condire i legumi. Con la farina, inoltre, serviva per confezionare ogni genere di dolci. Veniva poi la medicina che usava l’olio sia da solo, sia come eccipiente: si riteneva che potesse combattere il veleno e le ulcere, calmare le coliche, cacciare i vermi intestinali, abbattere la febbre. E serviva pure come preservativo e come abortivo.
TRA FEDE E SUPERSTIZIONE I cristiani prendevano quello delle lampade accese presso le tombe dei martiri e se ne servivano – pare con notevole effetto placebo – contro ogni genere di malattie. Tra i pagani, del resto, c’era chi attribuiva virtú terapeutiche, soprattutto nel campo della ginecologia e della reumatologia, alla «raschiatura» dell’olio usato dagli atleti (e venduto con profitto dai gestori delle palestre). Un grande impiego dell’olio si faceva infine nel campo dell’illuminazione, servendosi, naturalmente, di un prodotto di bassa qualità, che, bruciato, emanava fumo nero e sgradevole, e veniva di solito mescolato con sale,
che assorbiva l’umidità e dava alla fiamma un colore giallastro. Le lampade (lucernae) generalmente di terracotta – o, piú raramente di bronzo – fabbricate in serie, a stampo da due matrici, erano semplici «contenitori» chiusi, di forma tonda od ovale, alti 3 cm circa, con un piccolo foro d’immissione e altri eventuali per l’aerazione, un piccolo manico e, dalla parte opposta, un beccuccio (rostrum) dal quale sporgeva lo stoppino (filum), di lino o di canapa, di vario spessore e regolabile con aghi o pinzette, che «pescava» all’interno e poteva ardere, in media, per circa due ore consumando 0,5 centilitri d’olio ogni ora. Lampade piú grandi erano dotate di due o piú beccucci. Fino a quattro. Il gran numero di lucerne, intere o frammentate, che si ritrova in ogni scavo archeologico dà un’idea di quello che doveva essere, in proporzione, il consumo di olio in questo settore. Basti pensare che, per rischiarare sufficientemente un ambiente, sia pur piccolo, di lampade ne occorrevano molte, magari riunite in piccoli gruppi e appese a un «lampadario», di legno o di metallo. Quelle comuni erano, peraltro, a buon mercato. A Pompei costavano appena 1 asse l’una (la quarta parte di un sesterzio). Ma, due secoli dopo, non erano rincarate di molto, visto che nel famoso «editto dei prezzi» di Diocleziano un «lotto» di 10 pezzi valeva al massimo 4 denari, ossia 16 assi.
SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti
IL MONDO IN UN CHIOSTRO LO STUDIO E L’INDAGINE ARCHEOLOGICA DEI MONASTERI RESTITUISCONO INFORMAZIONI CHE CONSENTONO DI ANDARE BEN OLTRE LA SOLA RICOSTRUZIONE DI UN SINGOLO CONTESTO. E CONFERMANO IL CARATTERE DI OSSERVATORIO PRIVILEGIATO DELLA SOCIETÀ DEI SITI CONVENTUALI
L’
archeologia medievale è una disciplina giovane, alla ribalta da circa quarant’anni, ma ha già fatto passi da gigante. Due cose, soprattutto, colpiscono chi ne segue da vicino lo sviluppo: le ricerche sono sempre piú complesse, ci poniamo domande che vanno in profondità, scandagliamo il Medioevo alla ricerca di sempre maggiori particolari e cosí uno scavo si può ormai considerare davvero completo se racconta l’evoluzione degli edifici nel dettaglio (quasi pietra per pietra), se fornisce anche informazioni sull’ambiente che circondava il sito, sulla dieta e le malattie Area Funeraria (Saggio 1/1A) Absidiola nord (saggio A)
Avancorpo Chiesa Priorale
Seconda chiesa (saggio B)
Saggio 2
Seconda chiesa
Saggio E Saggio D Chiostro (area 500)
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Comparto sud-est (saggio C)
In alto: veduta del priorato di Castelletto Cervo da ovest. Qui sopra e nella pagina accanto: frammenti di ceramica graffita a ramina e ferraccia. A sinistra: planimetria del sito, con le aree di scavo.
dei suoi abitanti; la seconda novità è che abbiamo ampliato notevolmente il ventaglio dei temi da affrontare, i settori della storia e della società medievale che possiamo interrogare attraverso le indagini archeologiche.
INDAGINI ESEMPLARI Non piú solo castelli o chiese, quindi, ma anche – per esempio – i monasteri, come è successo a Castelletto Cervo, una località non lontana da Vercelli. Qui una équipe interdisciplinare composta da archeologi, storici, geologi, storici dell’arte – egregiamente coordinata da Eleonora Destefanis, studiosa dell’Università del Piemonte
Orientale – ha lavorato a lungo sul complesso monumentale del priorato cluniacense dei Ss. Pietro e Paolo, riuscendo a ricostruirne le origini e la storia. Alessandro Barbero, uno dei piú brillanti storici del Medioevo, ha analizzato per l’occasione i documenti scritti: iniziano a parlare di questo luogo dal 1083, quando il conte Guido dona all’abbazia di Cluny una chiesa localizzata proprio a Castelletto. Il priorato ancora non esiste, evidentemente, ma lo troviamo citato pochi anni piú tardi, nel 1092, quando risulta compreso nella fitta rete di luoghi affiliati a Cluny, uno dei network piú efficienti del monachesimo europeo.
A sinistra: la sepoltura T63, appartenente alla prima fase funeraria documentata sul sito e riferibile all’età altomedievale. monaci: la sala capitolare, il refettorio, le cantine, le latrine… Molto interessanti sono anche i dati restituiti dalle indagini che hanno interessato l’area del cimitero: confermano che qui, come negli altri monasteri, esistevano spazi di sepoltura distinti per le diverse categorie di persone.
LE FASI DI VITA E DI ABBANDONO
L’UOMO CON GLI SPERONI
A questo punto entra pesantemente in gioco l’archeologia: perché i testi, anche in questo caso, sono laconici sull’evoluzione del monumento e sull’uso dei suoi spazi. E cosí, per esempio, grazie agli scavi vediamo in controluce il primo insediamento, che risale
all’età romana ed era forse un villaggio. Ciò che ne resta sono alcuni materiali riutilizzati nel monastero e alcune ceramiche ritrovate nelle vicinanze. Poi si registra una interruzione delle attività molto lunga, dal IV fino al IX secolo; seguita da una ripresa dell’insediamento, che vede prima la nascita di un cimitero e poi la presenza in pianta stabile della comunità dei monaci.
Gli scavi e l’analisi delle strutture superstiti hanno chiarito molto bene l’evoluzione architettonica del complesso: la costruzione della prima chiesa, l’aggiunta di un secondo luogo di culto alla fine del XII secolo (di cui è stata trovata l’abside, finora sconosciuta!), lo sviluppo del chiostro e degli ambienti circostanti. Quelli nei quali si svolgeva la vita quotidiana dei
Nel chiostro, per esempio, è venuta alla luce la tomba di un uomo sepolto con gli speroni: un cavaliere, o comunque un personaggio di rango, probabile benefattore del priorato; altrove trovano posto le tombe dei famuli, ovvero i laici servitori dei monaci; e, ancora altrove, i bambini. La topografia della morte, nei monasteri medievali, veniva determinata in maniera abbastanza rigida in base alle fasce sociali e anagrafiche dei defunti. Qualcuno ha detto che i monasteri sono le vere città del Medioevo. Il giudizio è forse eccessivo, perché nel Medioevo le città sopravvivono e hanno caratteristiche specifiche. Tuttavia, i monasteri sono senza dubbio un microcosmo della società medievale, luoghi in cui la dimensione del sacro e quella del quotidiano si intrecciano, cosí come succedeva nell’intera società di quel periodo. L’archeologia oggi dispone degli strumenti piú raffinati per raccontare questi luoghi con grande dovizia di particolari e le indagini condotte a Castelletto Cervo lo dimostrano.
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
DI CHE SEGNO SEI? ALL’ASTROLOGIA SI ATTRIBUIVA UN RUOLO DECISIVO NEL DESTINO DEGLI UOMINI. E, NEL CASO DI UN IMPERATORE, IL SUO RUOLO POTEVA ESSERE PERFINO CELEBRATO SULLE MONETE
L’
influenza delle stelle sull’agire umano è stata sempre considerata, nell’antichità, una vera e propria realtà oggettiva, indagata con rigore ed elevata a scienza, spesso regale (si pensi ai Re Magi), nella quale chi era preposto a interpretarla aveva ruoli preminenti nelle élite che detenevano il potere. Oltre a determinare il carattere degli uomini, lo studio dell’astrologia poteva prevedere eventi futuri o indagare su quelli passati e l’astronomo di corte era
una figura di rilievo, ascoltata prima di prendere decisioni importanti. Nulla di strano, quindi, che, anche nell’ottica della propaganda romana, venisse celebrato il segno zodiacale del principe. Ciò conferiva al regnante un’aura di fatalità voluta dal cielo che faceva di un uomo un imperatore, scelto a regnare su una città predestinata, come bene esplicita Plutarco: «Roma non avrebbe potuto assurgere a tanta potenza se non avesse avuto, in
qualche modo, origine divina, tale da offrire agli occhi degli uomini, qualcosa di grande e di inesplicabile» (Vita di Romolo, 1,8).
UN CALCOLO APPROSSIMATIVO Tuttavia, il segno dello Zodiaco (da zodía, «esseri viventi», ovvero quella parte del cosmo nella quale gli antichi posero le costellazioni che potevano vedere) non era sempre e solo quello legato alla data di nascita, come avviene oggi, poiché alcune tradizioni astrologiche volevano che gli influssi astrali sul nascituro fossero determinanti al momento del concepimento. Come si può intuire, questo secondo calcolo poteva non A sinistra: aureo di Augusto emesso dalla zecca di Tarraco (Tarragona, Spagna). 17-16 a.C. Al dritto, il profilo dell’imperatore; al rovescio, raffigurazione del Capricorno, con cornucopia, globo e timone, corredato dalla leggenda «Augustus».
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essere sempre preciso, ma, in ogni caso, il segno zodiacale si faceva risalire all’indietro e diveniva quello della persona nata sette o nove mesi dopo. Cosí avvenne con Augusto, nato Gaio Ottavio il 23/22 settembre del 63 a.C. e quindi sotto il segno della Bilancia, il quale celebrò invece sulle monete e su altri supporti – come le gemme, tra cui la famosa Gemma Augustea – un altro segno, il Capricorno. Svetonio riporta la data di nascita precisa del futuro imperatore, in settembre (Augusto, 5, 1), mentre, piú avanti, gli attribuisce il segno del Capricorno, con evidente riferimento, appunto, al concepimento (Augusto, 94, 12). Nello stesso passo, lo scrittore riporta nell’ambito sacro l’origine prima di Augusto, frutto dell’incontro carnale tra la madre, Azia, e un serpente divino inviato da Apollo, secondo una tradizione che risaliva ad Alessandro Magno, nato dall’unione tra la madre Olimpiade e un serpente sacro messaggero di Zeus (Augusto, 94). Né va trascurata la relazione tra i segni zodiacali e le divinità: la Bilancia era nel domicilio astrale – ovvero la protezione e influenza – di Venere, che, quale madre di Enea, fondatore della dinastia giulia con il figlio Iulo, era l’ava divina di Giulio Cesare e quindi, a seguito dell’adozione testamentaria, dello stesso Ottaviano.
Come testimoniano Svetonio e i ritrovamenti archeologici, sotto Augusto furono battuti aurei e denari con il profilo dell’imperatore al dritto e al rovescio il Capricorno, che nei vari conii presenta diverse leggende e attributi. Per esempio, in una emissione della zecca di Tarraco (l’odierna Tarragona, in Spagna), l’animale è un ibrido formato da una protome di ariete e resto del corpo a forma di pesce, già noto al mondo
dei, per ricompensarlo, volle rappresentarlo come costellazione con il nome Aigokeros o Aegipan (capricorno) (Igino, Astronomia, 2, 28, e Favole, 196). Il capro/pesce tiene tra le zampe un globo, insegna di comando supremo, sotto il quale si trova un timone e, sopra, una cornucopia, entrambi attributi tipici della Fortuna.
EQUITÀ E GIUSTIZIA
LA LUNA DI ROMOLO L’accento sui due segni zodiacali del principe venne enfatizzato dalla propaganda imperiale. Anche a Roma fu quindi attribuito un segno astrologico: la città era stata fondata quando la Luna si trovava nella Bilancia (Cicerone, De divinatione, II 98) e Romolo aveva nel suo quadro astrale gli stessi segni di Augusto (Plutarco, Vita di Romolo, XII 5-6), associando il destino grandioso dell’imperatore a quello del fondatore di Roma.
Nella pagina accanto in alto: Caprarola (Viterbo), Palazzo Farnese, Sala del Mappamondo. Particolare di un affresco raffigurante il segno zodiacale del Capricorno. 1575. In basso: aureo di Augusto della zecca di Pergamo. 19-18 a.C. Al dritto, l’effigie dell’imperatore accompagnata dalla leggenda «Augustus»; al rovescio, il Capricorno e la leggenda «signis receptis», che allude alla restituzione delle insegne militari perse da Crasso contro i Parti.
orientale e riferito nella mitologia greco-romana al combattimento primordiale tra le divinità olimpiche e i Titani: durante un attacco dei secondi, gli dèi fuggirono in Egitto e si trasformarono in animali, mentre Pan, dall’aspetto caprino, si nascose solo per metà in un fiume, assumendo dal busto in giú forma di pesce. Dopodiché, lanciando un urlo terribile, scatenò il panico tra i nemici, aiutando Zeus a sfuggire al titano Tifone e quindi il padre degli
Il timone, che rappresenta il retto governare della «nave» guidata dall’imperatore, potrebbe in un certo modo anche riconnettersi alla Bilancia, anch’essa simbolo di equità e giustizia e che ricorre quale attributo di diverse altre divinità romane. La leggenda, assente al dritto, è semplice e chiara sul rovescio: Augustus, solo il nome, che parla da solo e racchiude in sé tutte le caratteristiche salienti del principe, senza bisogno di ulteriore specifica. Altri esemplari con lo stesso tipo hanno invece Augustus al dritto e al rovescio la leggenda signis receptis, che allude alla riconsegna delle insegne legionarie catturate dai Parti a Marco Licinio Crasso nel 53 a.C., un episodio che aveva costituito un’onta gravissima per Roma. In questa serie, incentrata sull’esaltazione di Augusto, il successo – le insegne furono restituite all’Urbe per le vie diplomatiche – veniva attribuito anche alla sua buona stella zodiacale.
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Carlo Casi (a cura di)
LA DONNA NELL’ANTICHITÀ Archeologia e storia della condizione femminile dalla Preistoria al Medioevo Laurum Editrice, Pitigliano (GR), 298 pp., ill. col. e b/n 16,00 euro ISBN 978-88-98171-31-6 www.editricelaurum.it
Cavalcando l’onda lunga degli «studi di genere» (e della Gender Archaeology in particolare), Carlo Casi ha confezionato una raccolta che, come recita il sottotitolo, ambisce a definire la storia della condizione femminile dalla preistoria al Medioevo. Per farlo, ha dunque riunito, articolandola in due sezioni principali – Il Tempo e Le Storie –, una dozzina di contributi, di taglio eterogeneo, attraverso i quali si cerca appunto di chiarire i contorni di una vicenda plurimillenaria e a dir poco complessa.
In linea generale, i diversi autori coinvolti hanno compilato ampie rassegne di dati archeologici, integrandole con considerazioni di tipo antropologico e sociale, che, soprattutto nel caso della preistoria si avvalgono anche – né poteva essere altrimenti – dei confronti etnografici. Nell’ambito delle età storiche, invece, si fa decisivo il contributo delle fonti e non mancano perciò citazioni di passi che sono spesso divenuti altrettanti capisaldi della questione, come quello in cui Ateneo riporta le considerazioni di Teopompo sulle donne etrusche. Nell’insieme, il volume offre una ricognizione assai attenta e dettagliata, che potrà servire di stimolo per ulteriori approfondimenti, anche grazie alla vasta bibliografia. Pierre Maraval
I FIGLI DI COSTANTINO Maut srl-21 Editore, Palermo, 204 pp. 19,00 euro ISBN 978-88-99470-03-6 www.21editore.it
Essere «figlio di» può rivelarsi spesso una condanna e, dal punto di vista storiografico, è questa la sorte a cui è andata per molto tempo incontro la discendenza dell’imperatore Costantino: Costantino II, Costante e Costanzo II (il quarto fratello, Crispo, non può essere considerato, dal momento 112 a r c h e o
che scomparve quando il padre era ancora in vita). In realtà, se il confronto con un simile genitore li vede comunque perdenti, i tre eredi ebbero un proprio ruolo, soprattutto nel caso di Costanzo II, che mantenne il potere per ben ventiquattro anni, dal 337 al 361 d.C. Pierre Maraval, autorevole storico francese, ha voluto perciò analizzare le vicende umane e politiche dei figli dell’imperatore «cristiano», dedicando loro un’ampia trattazione, che viene ora pubblicata per la prima volta in lingua italiana. Un saggio di grande spessore, ma che, come sottolinea Giusto Traina nella Prefazione, ha il merito d’essere accessibile anche ai non addetti ai lavori. Valerio Massimo Manfredi
ANDARE PER L’ITALIA ETRUSCA Il Mulino, Bologna, 154 pp., ill. b/n 12,00 euro ISBN 978-88-15-26044-4 www.mulino.it
Il viaggio proposto da Manfredi prende le mosse da Spina, importante centro etrusco sull’Adriatico, nei pressi dell’odierna Ferrara, per poi fare tappa in alcune delle piú importanti città della grande civiltà preromana. Prima di «partire», l’autore offre un breve inquadramento storico, soffermandosi anche su alcuni degli aspetti che piú hanno caratterizzato lo studio degli Etruschi, vale a dire la cosiddetta «questione delle origini»
e il «mistero», ormai solo presunto, della loro lingua. Da Bologna a Volterra, da Vulci a Cerveteri, la rassegna tocca siti e musei nei quali si possono ammirare testimonianze spettacolari, che hanno come denominatore comune la straordinaria raffinatezza di una cultura fra le piú evolute del Mediterraneo antico. (a cura di Stefano Mammini)