Archeo n. 379, Settembre 2016

Page 1

eo .it ch

ww

w. ar

BE SPECI IR ALE UT

ARCHEO 379 SETTEMBRE 2016 PANI LORIGA MUSEO DI VERONA

RITORNO A BEIRUT • TUTTI I TESORI DEL NUOVO MUSEO NAZIONALE • IL RESTAURO DELLA TOMBA DI TIRO

ONAGRO

VERONA

IL MUSEO DEL TEATRO ARCHEOLOGIA SPERIMENTALE

COME RICOSTRUIRE UNA MICIDIALE MACCHINA DA GUERRA

DOV’È NASCOSTO IL MEDIOEVO? SARDEGNA

SULLA COLLINA DEI BEVITORI DI VINO € 5,90

SPECIALE IL MUSEO NAZIONALE DI BEIRUT

Mens. Anno XXXII n. 379 settembre 2016 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ROMA MEDIEVALE

ROMA

www.archeo.it



EDITORIALE

LA VISIONE DELL’EMIRO Nella primavera del 1995 mi recai per la prima volta in Libano, con l’intento di documentare le condizioni dei grandi siti storici del Paese (Tiro, Sidone, Biblo e Baalbek) e, in particolare, l’avanzamento delle indagini nel sottosuolo di Beirut, condotte da missioni di scavo di tutte le nazionalità e finalizzate a portare alla luce le piú antiche vestigia della capitale libanese. Un’impresa unica – quello di Beirut fu il piú grande cantiere di archeologia urbana che la storia avesse mai conosciuto –, nata in seguito alla necessità di ricostruire la città devastata dai quindici anni di guerra civile (1975-1990). Fu in quell’occasione che visitai quanto rimaneva del Museo Nazionale, lo scrigno che, dal 1942, aveva accolto i tesori archeologici del Libano. Fervevano i lavori di ricostruzione: a guidarmi attraverso le ampie sale vuote e appena liberate dai detriti fu l’allora direttore del Museo, Camille Asmar. Sul pavimento erano ancora visibili le tracce di reperti metallici, ridotti ad agglomerati di fusione in seguito all’esplosione di una bomba. A un tratto mi trovai davanti ad alcuni enormi «sarcofagi» di cemento: «Ecco il nostro vero tesoro» commentò Asmar. Mi spiegò che le casse contenevano i reperti piú voluminosi del Museo, quelli che non potevano essere spostati in un luogo al riparo dai combattimenti che imperversarono in particolare proprio qui, lungo la cosiddetta «Linea Verde», il confine che divideva i quartieri musulmani da quelli cristiani. L’iniziativa di racchiudere i grandi oggetti (tra cui il celebre sarcofago del re Ahiram di Biblo) in una protezione di cemento fu presa dall’emiro Maurice Chehab, il primo direttore della DGA, la Direzione Generale delle Antichità del Libano. Gli oggetti piú piccoli, invece, furono censiti, fotografati, posti in casse sigillate e nascoste. Grazie alla lungimiranza del grande archeologo e studioso, scomparso ottantanovenne un anno prima della mia visita al Museo, i reperti sopravvissero indenni al conflitto. Oggi, Beirut è una vivace metropoli vicino-orientale e mediterranea, letteralmente rinata dalle ceneri della guerra, costellata da nuovi grattacieli che hanno ricoperto ampia parte delle vestigia dell’antica Berytus. La cui memoria, però, sopravvive nelle bellissime sale del rinnovato Museo Nazionale, a cui dedichiamo lo speciale di questo numero (vedi alle pp. 82-104). L’istituzione rappresenta un grande regalo di civiltà che, in tempi cosí poco rassicuranti per quanto riguarda il patrimonio archeologico in particolare di quest’angolo del Mediterraneo, dobbiamo apprezzare con ancora piú urgente consapevolezza. Andreas M. Steiner

La facciata del Museo Nazionale di Beirut, oggi.


SOMMARIO EDITORIALE

La visione dell’emiro 3 di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

8

ARCHEOLOGIA SUBACQUEA Le nuove indagini a Marina di Zea, al Pireo, confermano che proprio lí doveva avere la sua base la temibile flotta di Atene 8 ALL’OMBRA DEL VESUVIO Aperta al pubblico per la prima volta, la Villa Imperiale sfoggia il lusso dei Pompeiani piú ricchi 12 VALORIZZAZIONE La Villa Romana di Desenzano sul Garda si è dotata di un impianto di illuminazione che ne fa risplendere i mosaici 16 A TUTTO CAMPO Lo scavo urbano è per l’archeologo una prova impegnativa, ma avvincente

MUSEI Il Museo Civico di Mondolfo saluta il ritorno della panoplia di un condottiero celtico 20

MUSEI

PAROLA D’ARCHEOLOGO Il Museo Egizio di Torino ha aderito a MicroPasts, un innovativo progetto di «archeologia pubblica»

La «democratizzazione» dell’aldilà 56

48

di Margherita Bolla

ANTICO EGITTO di Sergio Pernigotti

22

56

DALLA STAMPA INTERNAZIONALE Dalla riscoperta di Merv, in Turkmenistan, agli scavi di un porto fenicio sulla costa del Levante

32

STORIA

Roma sparita

66

di Andrea Augenti

36

66

SCAVI

Sulla collina dei bevitori di vino 18

Museo con vista

36

di Massimo Botto In copertina il Museo Nazionale di Beirut, con, in primo piano, la fronte del sarcofago del re Ahiram, trovato nella tomba V di Biblo. X sec. a.C.

Anno XXXII, n. 379 - settembre 2016 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli,

Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Davide Aquilano è archeologo. Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Margherita Bolla è direttrice del Museo Archeologico al Teatro romano di Verona. Massimo Botto è Primo Ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche, presso l’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico (ISMA). Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Amalia Faustoferri è archeologa della Soprintendenza Archeologia dell’Abruzzo. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Maria Katsinopoulou è archeologa. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Sergio Pernigotti è professore emerito di egittologia all’Università di Bologna. Mauro Pompili è giornalista. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Enrico Zanini è professore associato di metodologie della ricerca archeologica all’Università degli Studi di Siena. Illustrazioni e immagini: Mauro Pompili: copertina – Doc. red.: pp. 3, 8/9, 11 (basso), 32-33, 63, 66/67, 68, 70, 72-73, 86-87, 91-93, 96, 100-101 – Cortesia degli autori: pp. 10, 11 (alto), 40 (sinistra), 42 (basso), 111 – Cortesia Soprintendenza Pompei: pp. 12-14 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 16 (alto, a sinistra), 21 – Cortesia Soprintendenza Archeologia della Lombardia: pp. 16 (alto, a destra, e basso), 17 – Getty Images: Evening Standard: p. 18; Sakis Mitrolidis: p. 19 – Cortesia Soprintendenza Archeologia delle Marche: p. 20 – Cortesia Ufficio Stampa Museo Egizio, Torino: pp. 22, 23 (basso), 24 – https://sketchfab.com: Vlad [ssh4]: p. 23 (alto) – Gianni Alvito, Teravista: pp. 36-38, 43 (alto), 44 (alto), 45 (basso) – Federica Candelato: elaborazioni grafiche alle pp. 39 (basso), 45 (alto) – Soprintendenza Archeologia della Sardegna: foto C. Buffa: pp. 40 (destra), 41, 42 (alto), 43 (basso) – Martina Zinni: pp. 44 (basso), 46 (basso) – Manuela


ARCHEOLOGIA SPERIMENTALE

A volte rinascono 76 di Flavio Russo

76

Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Ribaltare le prospettive

106

di Daniele Manacorda

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Sotto una buona stella 110 di Francesca Ceci

LIBRI

112

82 SPECIALE

Il tesoro di Beirut

82

di Mauro Pompili

Bonadies: p. 46 (alto) – Cortesia Museo Archeologico al Teatro romano di Verona: pp. 48-50, 51 (basso), 52-55 – Shutterstock: pp. 51 (alto), 62, 69, 82/83, 84/85, 94/95 – DeA Picture Library: S. Vannini: pp. 56/57, 58, 60/61; G. Dagli Orti: p. 59; A. Dagli Orti: p. 64 – Studio Inklink, Firenze: p. 71 – Foto Scala, Firenze: bpk-Bildagentur für Kunst, Kultur und Geschichte: p. 73 – Mondadori Portfolio: The Art Archive: pp. 76/77 – Flavio Russo: pp. 78-81 – Marco Giallonardo: pp. 88-90, 97 – Cortesia Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo: pp. 98/99, 102-104 – Cortesia Progetto Archeologico Bassa Valle del Bussento: pp. 106-109 – Virtual World Heritage Laboratory, Indiana University e IDIA Lab, Ball State University: p. 110 – Cippigraphix: rielaborazione grafica a p. 39 (alto; da una base elaborata da S. Finocchi, G. Carta e U. Virdis), cartina a p. 85. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Editore: My Way Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 00696.346 Direzione, sede legale e operativa via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 00696.352 Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. - via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1

Stampa: NIIAG Spa - Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18 ] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


n otiziario ARCHEOLOGIA SUBACQUEA Grecia

DA MARINA DI ZEA CONTRO I PERSIANI

A

d Atene, nuove ipotesi emergono dallo scavo della base navale di Marina di Zea, al Pireo (vedi «Archeo» n. 284, ottobre 2008). I ricercatori al lavoro sul sito ritengono che si tratti di un luogo chiave per la vittoria della battaglia navale di Salamina (480 a.C.), che portò al tramonto dell’influenza persiana nel Mediterraneo. Il cantiere si trova nella zona del porto e vi lavorano archeologi greci in collaborazione con il dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Copenaghen. L’analisi dei reperti rinvenuti nello scavo subacqueo indica la presenza di un grande arsenale risalente al 493 a.C.: un luogo fortificato, con

A destra: particolare del rilievo attico, detto «di Lenormant», con raffigurazione di una trireme. V sec. a.C. Atene, Museo dell’Acropoli.

spazi cosí ampi da poter ospitare centinaia di triremi. Sommerso nelle acque portuali dell’odierna Marina di Zea, oggi attraversate da pescherecci e natanti da diporto, il sito è stato individuato con difficoltà dai ricercatori. Nel 2010,

gli archeologi avevano potuto ricavare un indizio prezioso dalla testimonianza di un anziano pescatore locale, il quale aveva indicato loro una colonna semisommersa, secondo lui antica, che da bambino usava per pescare. A sinistra: Atene, Pireo. Un momento dello scavo subacqueo nel porto di Munichia. Nella pagina accanto, in alto: disegno ricostruttivo ipotetico degli edifici di ricovero per le navi. Nella pagina accanto, in basso: archeologi eseguono rilievi topografici delle strutture affioranti intorno a Marina di Zea.

8 archeo


Parlando delle condizioni di scavo, Bjørn Lovén, l’archeologo che guida le ricerche – e che dal 2001 si dedica alla localizzazione di antichi insediamenti navali –, ha dichiarato: «Ci sono state giornate nelle quali la visibilità sott’acqua era inferiore

ai 20 cm. Abbiamo lavorato in condizioni veramente difficili». E ha poi aggiunto: «Siamo riusciti a localizzare sei enormi edifici coperti, che proteggevano le imbarcazioni quando non erano in mare. I blocchi quadrati su cui

poggiavano le colonne che sorreggevano la copertura misuravano 1,4 m di lato, mentre gli ambienti erano alti 8 m e lunghi 50, dimensioni che fanno di questa base una delle piú grandi del mondo antico». Lovén e i suoi collaboratori ritengono che la la costruzione di questo imponente complesso sia stata avviata per iniziativa del politico e militare ateniese Temistocle (530/520 a.C.-459 a.C.), il quale, a dieci anni dalla battaglia di Maratona (490 a.C.), progettò e mise in atto un piano di difesa contro la minaccia rappresentata dai Persiani – guidati da Serse I – basato esclusivamente sulle forze navali. La flotta greca – che, all’apice della democrazia ateniese, contava 400 triremi e 80 000 marinai – affrontò e sconfisse le navi persiane nello scontro di Salamina, ed è plausibile che due terzi delle navi che presero parte alla battaglia fossero salpate proprio dalla base scoperta a Marina di Zea. Maria Katsinopoulou

archeo 9


n otiz iario

SCAVI Abruzzo

ANTICHI MERCENARI?

U

n insieme di dodici sepolture è stato recentemente scoperto in località Rigatella di Atessa (Chieti), sul versante sinistro dell’alta valle del fiume Osento, che nasce alle pendici di Monte Pallano, noto per le poderose mura in opera poligonale relative all’abitato di Pallanum, sorto nel IV secolo a.C. Il ritrovamento è avvenuto nel corso dell’attività di sorveglianza archeologica svolta dalla Soprintendenza Archeologia dell’Abruzzo durante la costruzione dell’elettrodotto Villanova-Gissi e, grazie all’azione congiunta della Soprintendenza stessa e di Terna S.p.A., è stato possibile indagare dodici tombe: undici a inumazione e una, la n. 10, a incinerazione. Otto delle sepolture scavate si datano in epoca tardo-arcaica (fine del V-inizi del IV secolo a.C.), due nel II secolo a.C. e una in età

10 a r c h e o

A destra: Rigatella di Atessa (Chieti). Prelievo di parti di una sepoltura In basso: un’olla e un vaso miniaturistico schiacciati dal peso dei materiali soprastanti. incerta, ma le ultime tre risultavano distrutte dai lavori agricoli in quanto collocate a poca profondità dall’attuale piano di campagna. I corredi, nei quali spicca un’olla contenente un vaso miniaturistico con funzione di attingitoio risultavano fortemente danneggiati dai grandi ciottoli accumulatisi all’interno delle fosse: le pietre dovevano trovarsi su strutture, probabilmente tavolati lignei, che

hanno ceduto, facendole rovinare sulle ossa e sui materiali che accompagnano le deposizioni. In un caso si è conservata una spada corta in ferro, mentre in un altro è stato recuperato un cinturone a fascia in bronzo. L’unica tomba femminile, almeno a giudicare dalla presenza di una collana con vaghi in pasta vitrea, era distante e separata dal gruppo. Il pessimo stato di conservazione dei reperti, oltre che alla giacitura, è imputabile al terreno nel quale sono state ricavate le sepolture: uno strato di argilla grigia compatto e duro che però, se da una parte ha fortemente compromesso ossa, ceramica e metalli, dall’altra ha preservato alcuni manufatti di materia organica, come l’elemento individuato sotto il torso dell’individuo sepolto nella tomba 3, la cui presenza ha reso necessario il distacco e il trasporto in blocco della sepoltura nei laboratori dell’Università di Camerino, dove sono in corso gli accertamenti del caso. Ciò che colpisce in queste sepolture, tuttavia, sono soprattutto le numerose anomalie riscontrate sui resti ossei: alcuni scheletri sono incompleti e, in altri, le ossa sono collocate anche a notevole distanza dalla loro posizione originaria. Nella tomba 9,


OLANDA

Cercasi salmone disperatamente

In alto: Monte Pallano (Chieti). La «Porta del Piano», una delle due superstiti, delle quattro che si aprivano nelle mura dell’antica Pallanum. IV sec. a.C. In basso: miniatura raffigurante una pescheria, dal Tacuinum sanitatis. XIV sec. per esempio, la testa era poggiata sull’avambraccio destro dell’inumato, e tale fenomeno assume particolare rilevanza considerando che si trattava di una sepoltura a fossa terragna per la quale sembra difficile ipotizzare un «galleggiamento» causato dalla presenza di acqua. I femori dell’individuo sepolto nella tomba 6 erano poi ruotati di 180° attorno all’asse longitudinale. In attesa dei risultati delle analisi antropologiche, affidate a Isolina Marota e Stefania Luciani dell’Università di Camerino, e di una auspicata ripresa delle indagini, si può ipotizzare che le sepolture del gruppo piú antico di Rigatella appartenessero a individui morti in battaglia.

Rafforzerebbero tale ipotesi la presenza di una sepoltura a incinerazione, visto che nell’antichità era comune trovare nei gruppi militari organizzati mercenari ovvero individui allogeni impiegati come guerrieri o servi, e la collocazione stessa delle tombe. Queste ultime, infatti, si trovavano al di là di una strada con pavimentazione in ciottoli dismessa, al piú tardi nel III secolo a.C., se alcuni frammenti di piatto databili nel II secolo a.C. appartenevano al corredo della tomba 11, realizzata appunto in seguito, quando il tracciato aveva perso la sua funzione ed era stato coperto da uno strato di sedimenti. Davide Aquilano, Amalia Faustoferri

Il preoccupante calo nella popolazione di salmone atlantico (Salmo salar) sembra essere un problema antico. Secondo un gruppo di ricercatori olandesi coordinati da Rob Lenders (Institute for Water and Wetland Research, Radboud Universiteit di Nimega), le cause non sarebbero, come finora si riteneva, l’irreggimentazione su larga scala delle acque, l’inquinamento e la pesca incontrollata in epoca moderna. Le conclusioni raggiunte dimostrano che, nell’Europa nord-occidentale, gli esemplari di salmone atlantico erano già diminuiti di oltre il 90% nei 1200 anni intercorrenti tra il V e il XVII secolo Il motivo sarebbe da ascriversi all’introduzione del mulino ad acqua e delle dighe a esso associate, e alla loro progressiva e capillare diffusione. Questo avrebbe modificato significativamente l’ecosistema fluviale, per esempio rallentando la velocità dell’acqua, abbassando i livelli di ossigeno in essa contenuti e contribuendo al progressivo insabbiamento dei letti di ghiaia, creando condizioni sfavorevoli alla riproduzione dei salmoni.

a r c h e o 11


ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

VITA DA SIGNORI LA VILLA IMPERIALE CHE SI CONSERVA SOTTO L’ANTIQUARIUM DI POMPEI È STATA APERTA AL PUBBLICO PER LA PRIMA VOLTA. E OFFRE UN’ESPERIENZA DI VISITA «IMMERSIVA» NELLA VITA DI UNA CASA SIGNORILE SUBURBANA

C

on la crescita del centro in età giulio-claudia (fine del I secolo a.C.-prima metà del I secolo d.C.), il lato occidentale della cinta muraria di Pompei, quello piú scenografico e apprezzato perché fronteggiava direttamente la marina, vede la progressiva acquisizione degli spazi pomeriali – i terreni sacri e liberi che correvano lungo le mura della città –, ora necessari alla realizzazione di infrastrutture e allo sviluppo architettonico di lussuose abitazioni con l’aggiunta di terrazze e piani ricavati nei bastioni. Si creano cosí nuove soluzioni di dimore, sul modello della casapalazzo sulle mura, con l’aggiunta di eleganti portici e giardini affacciati sul golfo di Stabiae. Dopo il pesante bombardamento alleato che nel 1943 colpí l’Antiquarium ideato da Giuseppe Fiorelli, Amedeo Maiuri avviò importanti lavori di ricostruzione e di ampliamento della struttura espositiva. Questi furono anche l’occasione per esplorare archeologicamente i livelli sottostanti l’edificio: e vennero

Pompei, Villa Imperiale. Una veduta dell’allestimento museale del triclinio. Si notano la decorazione parietale ad affresco e la ricostruzione tematica dell’ambiente.

12 a r c h e o


subito alla luce i resti di un esteso complesso residenziale – già intercettato dagli scavi borbonici –, distrutto dal terremoto del 62 a.C. e in seguito abbandonato e spoliato fino alla fatale eruzione vesuviana.

UN PANORAMA INVIDIABILE La vasta dimora, appoggiata alle mura su piú livelli digradanti, si sviluppava accanto a Porta Marina. Su questo lato si allungava un comodo portico ornato in III stile (quadretti di paesaggio e figurine di eroi e dèi), con antistante giardino, che anticipava le sale interne sull’esempio delle ville ad ambulatio (portico aperto) dell’area flegrea (Baia, Miseno) e di Capri (Villa Iovis). I primi ambienti della casa erano caratterizzati da una straordinaria vista panoramica e da una raffinata decorazione dipinta di III e IV stile e pavimentale in eleganti intarsi marmorei (opus sectile). Colpisce la presenza del

In alto: una veduta del salone della villa (oecus), interamente affrescato. Qui sopra: un particolare degli affreschi parietali del salone: il riquadro raffigurante l’abbandono di Arianna sulla spiaggia di Nasso.

grande salone voltato a cassettoni – un oecus per rappresentanza o, all’evenienza, una ricercata sala da pranzo – con anticamera e corridoi laterali, dalle dimensioni insolite per Pompei. Interamente affrescato, l’ambiente è dominato, al centro delle pareti, da tre grandi riquadri con scene tratte dal «mito cretese»: a sinistra, Teseo che abbandona Arianna sulla spiaggia di Nasso, sullo sfondo si vede la prua d’una nave; al centro, Teseo e il Minotauro, con la dea Atena a guardare; a destra, invece, il momento piú drammatico della storia di Dedalo in volo, con il figlio Icaro che precipita per essersi avvicinato troppo al sole. Le riproduzioni del salone, oltre a rivelare la grande qualità delle maestranze impegnate nella decorazione, con l’ultima scena assai vicina al modello ellenistico, denotano il gusto dei committenti e la loro sensibilità per la cultura greca dilagante nella prima età

a r c h e o 13


imperiale. Una conferma è data anche dalla presenza, nel quadro di Dedalo e Icaro, di didascalie scritte in greco. Accanto al salone troviamo una camera da riposo diurna (diaeta, caratteristica dei soggiorni estivi), con due ariose finestre e letto sopraelevato sotto una volta a botte; qui le pareti sono dipinte con pannelli in bianco marmoreo fra eleganti architetture con vari elementi, come tettoie, candelabri con funzione di colonne, una campanella in oro e argento, gemme inserite nelle cornici. Nella nicchia dell’alcova si trovano invece varie immagini, fra cui il mito di Meleagro, Atalanta e la contesa sulla caccia al cinghiale calidonio. Un breve corridoio immette poi in un accurato triclinio che si apriva sul peristilio interno.

UN «MUSEO DIFFUSO»

Ancora un particolare della decorazione parietale del salone: Teseo abbandona Creta dopo avere ucciso il Minotauro.

14 a r c h e o

La villa era inoltre dotata di un complesso di cisterne in opera reticolata, situato proprio sotto l’Antiquarium e da questo in parte ancora visibile, funzionale alla residenza e allo smaltimento delle acque provenienti dall’adiacente terrazza del Tempio di Venere. Grazie agli interventi di valorizzazione del Grande Progetto Pompei, curati da Massimo Osanna e Adele Lagi, il complesso residenziale è stato aperto al pubblico per la prima volta in occasione dell’inaugurazione dello storico Antiquarium degli scavi, con il quale si collega tramite un organico percorso di visita. La Villa Imperiale costituirà un punto focale del «museo diffuso» impostato su allestimenti museografici distribuiti in vari punti dell’area degli Scavi per raccontare i vari aspetti della vita di allora, mettendo in mostra, come nel caso di Villa Imperiale, signorili ambienti domestici con arredi e oggetti della quotidianità, dai triclini ai bracieri fino alle ricercate stoviglie.



PALOMBARA SABINA (RM)

Storia e archeologia di un territorio

AREE ARCHEOLOGICHE Lombardia

LUCE SUI MOSAICI

È

A Palombara Sabina (Roma), il 1° e 2 ottobre è in programma la manifestazione «Palombara Sabina e il suo territorio tra storia e archeologia», volta a valorizzare, promuovere e far conoscere la storia, l’archeologia e il patrimonio monumentale della cittadina laziale. Si tratta di un’occasione per scoprire tesori minori, ma non per questo meno preziosi. Basti pensare alla splendida abbazia di S. Giovanni in Argentella dichiarata monumento nazionale nel 1895 eppure poco nota. Lo scopo dell’Associazione Culturale «Insieme Scopriamo e Difendiamo il nostro Territorio», che ha promosso l’iniziativa, è quello di rendere questo incontro un appuntamento annuale, facendone un momento di scambio di idee, informazioni, proposte, studi per far rinascere questo territorio e rendere fruibili i beni storici, artistici, archeologici del territorio di Palombara Sabina. Info e prenotazioni: tel. 339 1036684; e-mail; insiemeassociazione2013@ gmail.com

16 a r c h e o

stato inaugurato l’impianto di illuminazione dell’area archeologica della Villa Romana di Desenzano del Garda (Brescia), che permette di leggere e apprezzare i magnifici mosaici scoperti a partire dal 1921-23: grazie alla collaborazione tra la Soprintendenza Archeologia della Lombardia e il Rotary Club Salò, l’intero settore residenziale del complesso si può ora ammirare in una luce davvero nuova. «La villa romana di Desenzano del Garda – spiega Maria Fortunati, direttore del complesso per conto della Soprintendenza Archeologia della Lombardia – è, a oggi, la piú importante testimonianza, nell’Italia settentrionale, delle grandi ville tardo-antiche. L’edificio era situato poco a nord della via

Gallica – l’arteria che collegava Verona, Brixia, Bergomum, Mediolanum –, in una splendida posizione lungo la riva meridionale del Lago di Garda. I resti, riportati alla luce a partire dal 1921-1923, sono riferibili a piú momenti di In alto, a destra: l’area archeologica della Villa Romana di Desenzano sul Garda nella nuova illuminazione. In alto, a sinistra: l’abbazia di S. Giovanni in Argentella, presso Palombara Sabina (Roma). A sinistra: particolare di uno dei mosaici pavimentali della villa romana di Desenzano del Garda. Età imperiale.


centrale del triclinio, si apriva una finestra che si affacciava sul viridario, affiancato da tre vani di soggiorno e chiuso sul fondo da un ninfeo. Sul lato opposto, una serie di piccoli vani di servizio e un pozzo. Nel settore B vi sono alcuni locali con pavimentazione a mosaici geometrici e vari ambienti disposti attorno a un’abside, con pavimentazione romboidale, risalenti alla fine del IV secolo d.C. I settori C e D presentano vani con pavimentazione in lastre marmoree e con impianto di riscaldamento». All’ingresso della villa è allestito l’Antiquarium che, in tre sale, espone materiali provenienti dagli scavi: fra questi vi sono reperti in ceramica, bronzo, vetro, monete, pannelli con affreschi, statue e ritratti del II secolo d.C., ancora in uso nella villa tardo-antica, che rappresentano il piú ricco complesso di sculture relative a un edificio privato di età romana dell’Italia settentrionale. Giampiero Galasso

frequentazione, databili tra la fine del I secolo a.C. e il V secolo d.C., e si distinguono appunto per l’eccezionale complesso delle pavimentazioni a mosaico. I resti della villa, che ebbe piú fasi costruttive, tra la fine dell’età repubblicana e la fine dell’età imperiale, si estendono per circa un ettaro. Si tratta di un edificio di grande estensione, con un orientamento unitario, i cui settori residenziali si alternavano a strutture piú rustiche. Il complesso che, come già ricordato, si affaccia sul lago, è costituito da due blocchi principali: A, a sud, e B,C,D, a nord. Il settore A si compone di un vestibolo ottagonale; seguono il peristilio, l’atrio a forcipe e quindi il triclinio. I pavimenti a mosaico presentano molteplici motivi decorativi che spiccano per la varietà dei colori delle pietre musive impiegate: amorini vendemmianti, amorini su bighe in corsa con menadi e satiri, belve che assalgono animali selvatici, allegorie delle quattro stagioni, paesaggi bucolici e una serie di composizioni geometriche. Con ogni probabilità, nell’abside

In alto: statua di Ercole. II sec. d.C. Desenzano sul Garda, Antiquarium. A sinistra: un’altra immagine dell’area archeologica.

DOVE E QUANDO Villa Romana di Desenzano del Garda via Crocefisso, 22 Orario estivo (fino al termine dell’ora legale): ma-do, 8,30-19,30; giorno di chiusura settimanale: lunedí non festivo Info tel. 030 9143547; e-mail: villaromana.desenzano@ beniculturali.it

a r c h e o 17


A TUTTO CAMPO Enrico Zanini

BELLO E POSSIBILE LO SCAVO URBANO IMPONE SCELTE IMPEGNATIVE, DAL MOMENTO CHE NON È FACILE CONIUGARE LE ISTANZE DEL MONDO MODERNO CON LA TUTELA DELL’ANTICO. AL TEMPO STESSO, PERÒ, È UNA DELLE SFIDE PIÚ AVVINCENTI FRA QUELLE CHE L’ARCHEOLOGIA È IN GRADO DI OFFRIRE

I

l rapporto tra archeologia e città è davvero complicato, perché, per definizione, una città è il luogo privilegiato dell’archeologia. Se si vogliono conoscere gli uomini attraverso le cose (le tracce materiali che hanno lasciato), non c’è osservatorio migliore: perché nelle città gli uomini vivono concentrati in uno spazio limitato e le tracce della loro esistenza si moltiplicano esponenzialmente. Non a caso, nella seconda metà del Novecento, il grande rinnovamento metodologico e operativo dell’indagine archeologica è cominciato proprio dall’archeologia

urbana, prima in Inghilterra e poi in Italia, a partire dai grandi scavi della metropolitana milanese e della Crypta Balbi di Roma, quest’ultimo gestito dagli archeologi dell’Università di Siena, diretti da Daniele Manacorda.

STORIE GRANDI E PICCOLE Scavare in città significa quindi avere a che fare con tante storie di «scala» diversa: momenti piccolissimi della vita quotidiana e vicende grandissime, come quelle legate, per esempio, alle trasformazioni vissute al passaggio

tra l’antichità e il Medioevo. E orientarsi in questo labirinto di storie, le cui tracce materiali si intrecciano nel sottosuolo dei centri urbani, non è affatto semplice. Ma scavare in città è complicato anche perché si tratta del luogo in cui mondo del passato e mondo della contemporaneità entrano in contatto piú diretto e talvolta in contrasto stridente. Uno scavo urbano altera gli spazi e i ritmi, già caotici, di un organismo vivo, chiudendo strade, limitando la circolazione delle automobili, creando disagi ai cittadini. Da questo punto di vista, ogni indagine in città è teatro di un potenziale conflitto di interessi: da un lato quelli dei cittadini, che hanno il diritto a nuove infrastrutture che migliorino la loro vita quotidiana, come una nuova metropolitana o una piú efficiente rete distributiva di servizi essenziali quali acqua, gas, luce, comunicazione. Dall’altro il desiderio di vedere tutelato e Londra, 1975 circa. Archeologi al lavoro nel cantiere di scavo di Trig Lane Site. La costruzione di un nuovo complesso di edifici si trasformò nell’occasione per studiare le fasi di vita dell’antica Londinium fra l’età romana e il XVI sec.

18 a r c h e o


valorizzato il patrimonio storico e archeologico del luogo in cui gli stessi cittadini vivono e lavorano: un patrimonio che può diventare una risorsa, se ben sfruttato a fini turistici e che è certamente una ricchezza ancora maggiore in termini di qualità della vita. Scavare in città, insomma, è un’operazione complessa, ma molto intrigante; un lavoro indispensabile, ma tremendamente complicato. Se ne accorsero già gli Inglesi, a partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, quando le grandi opere di rinnovamento urbano, imposte dalle devastazioni operate nelle città britanniche dai bombardamenti aerei della seconda guerra mondiale, rischiavano di compromettere per sempre la conoscenza archeologica del sottosuolo di quasi tutti i centri storici. Le ruspe dei costruttori dovevano fare il loro lavoro, ma il passato delle città rischiava di scomparire per sempre.

GLI EROI DI HOBLEY Una generazione di giovani archeologi seppe allora gestire al meglio il problema: una nuova idea di scavo archeologico, nuove procedure operative, nuovi strumenti concettuali furono la spina dorsale di un grande progetto, che mirava a rendere compatibili le esigenze degli agglomerati contemporanei con quelle delle città del passato nascoste nella terra. Il frutto piú famoso di questo nuovo modo di intendere l’archeologia fu il grande progetto The future of London’s past («Il futuro del passato di Londra», con quel genitivo sassone che rimarca il concetto di «proprietà» del passato da parte dei Londinesi), che per decenni ha rappresentato un punto di riferimento. L’idea era semplice: gli archeologi si proponevano come esecutori degli

Salonicco. Una foto scattata nel 2013 nel cantiere della metropolitana: si riconosce, perfettamente conservato, un tratto dell’antica via Egnatia, con la pavimentazione originaria. scavi necessari ai progetti di sviluppo edilizio, garantendo ai costruttori la possibilità di fare il proprio lavoro e ai cittadini un controllo scrupoloso, trasformando cosí gli scavi in fonti di conoscenza sul passato. Da quell’epoca «eroica» è passato quasi mezzo secolo e i giovani archeologi di allora sono ormai maturi signori alle soglie dell’età della pensione (le loro «gesta» sono però immortalate in vari siti web e pagine Facebook dedicati ai cosiddetti «Eroi di Hobley», dal nome del primo responsabile degli scavi londinesi), ma il problema del rapporto tra scavo archeologico e città contemporanea è rimasto. Ne sanno qualcosa i cittadini di Salonicco, dove gli scavi per la realizzazione della metropolitana sono stati rallentati dall’eccezionale scoperta di un lungo tratto dell’antica via Egnatia, perfettamente conservata nel sottosuolo con tanto di pavimentazione in lastre di pietra, colonnati laterali e botteghe. O gli abitanti di Istanbul, dove la realizzazione del grandioso tunnel ferroviario sottomarino che attraversa lo stretto del Bosforo per riunire Europa e Asia ha dovuto fare i conti con il ritrovamento altrettanto eccezionale di decine e decine di navi da carico, affondate nella melma dell’antico porto di Teodosio. E ne sanno qualcosa i cittadini di Roma, dove i cantieri per

la nuova linea C della metropolitana subiscono frequenti rallentamenti a causa dei ritrovamenti archeologici. Ma, anche in questo caso, occorre trasformare una difficoltà innegabile in una grande opportunità di conoscenza: la metropolitana di Salonicco, il tunnel di Istanbul e la metro C di Roma sono infrastrutture indispensabili; ma l’antica via Egnatia, il Porto di Teodosio o le decine di siti in corso di scavo nella Capitale sono un patrimonio a cui l’umanità non può rinunciare.

GUARDARE AL FUTURO Occorreranno investimenti importanti e archeologi capaci, che siano in grado di analizzare le difficoltà e prospettare soluzioni efficaci. Il mondo ha ancora bisogno di archeologi «eroici» , che sappiano adattare le pratiche dell’archeologia urbana alla realtà dei tempi attuali e che, soprattutto, sappiano trasmettere, nelle forme proprie della comunicazione contemporanea, la straordinaria importanza del loro lavoro. Che è quello di rendere sempre piú sostenibile l’archeologia urbana, trasformando l’archeologia «della città» (intesa come studio del passato) in una archeologia «per la città»: che si mette al servizio dei cittadini, per aiutarli a costruire insieme uno spazio di vita migliore per sé e per i propri figli. (enrico.zanini@unisi.it)

a r c h e o 19


MUSEI Marche

IL RITORNO DEL GUERRIERO

I

n occasione dell’inaugurazione del Museo Civico di Mondolfo (provincia di Pesaro e Urbino), allestito nel Complesso Monumentale di S. Agostino, la Soprintendenza Archeologia delle Marche ha restituito alla cittadina un corredo funerario di eccezionale valore archeologico e storico. Si tratta della ricca panoplia di un potente condottiero militare di rango aristocratico, posto al piú alto grado della scala sociale della comunità stanziata nei dintorni di Mondolfo nel IV secolo a.C., che, sulla base dei racconti degli storici antichi, va identificato con un capo gallico e la cui sepoltura fu scoperta sul finire dell’ottobre del 1930 durante lavori agricoli eseguiti nella località Bastia. Pregevoli sono le componenti dell’armamento difensivo, tra cui un elmo in bronzo a calotta, con paranuca rilevato e paragnatidi

mobili – abbelliti ognuno da tre borchie rotonde –, e una corazza a tre dischi (due posti sul petto il terzo sul ventre) di tradizione italica: quest’ultima è accompagnata da un cinturone, molto lacunoso, costituito da una fascia di bronzo che cingeva e proteggeva il guerriero sui fianchi e sul ventre. A suggerire la probabile appartenenza di questo guerriero a popolazioni galliche è però la spada, ancora infilata nel fodero e concrezionata con esso, che appartiene a un tipo ben noto in diverse aree d’Italia, dove si data tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C.: la spada lunga a due taglienti, infatti, è estranea alla tradizione italica, di cui è invece tipica la spada corta. «La presenza di questo tipo di spade lunghe in Italia settentrionale a partire dal V secolo – spiega Maria Gloria Cerquetti, In alto: corazza anatomica trilobata in bronzo. IV sec a.C. Mondolfo, Museo Civico. A sinistra: elmo con paragnatidi mobili trilobate in bronzo. IV sec. a.C. Mondolfo, Museo Civico.

funzionario archeologo responsabile di zona – viene associata ai gruppi celtici che presero possesso di vaste aree del Nord della Penisola e si spinsero in successive ondate migratorie verso sud, fino a comparire anche nell’area centro-adriatica nel IV secolo a.C., quando, secondo i racconti degli storici, l’ultima delle tribú giunte d’oltralpe, quella dei Senoni, si insediò tra il fiume Esino a sud e il Montone a nord. Questo rinvenimento arricchisce pertanto il quadro del popolamento gallico del territorio marchigiano e costituisce, a oggi, la scoperta di manufatti di cultura gallica piú settentrionale nelle Marche, situata in un luogo di grande importanza strategica per il controllo della viabilità del territorio, nei pressi di un guado a monte della foce del Cesano, proprio lí dove dall’Adriatico si dipartiva la rotta che, attraversata la valle del Cesano, permette di affacciarsi verso gli Appennini e l’area tirrenica della Penisola». Giampiero Galasso

DOVE E QUANDO Museo Civico Mondolfo, Complesso Monumentale S. Agostino, via Cavour Info tel. 0721 959677; e-mail: biblio@comune.mondolfo.ps.it; www.comune.mondolfo.pu.it

20 a r c h e o


MOSTRE Trento

PADOVA

EVENTI EPOCALI A CONFRONTO

L

a nuova mostra proposta dal MUSE, il Museo delle Scienze di Trento, tiene a battesimo un progetto che confronta le ricerche e le riflessioni sulla sesta estinzione di massa – ovvero la crisi ecologica che stiamo vivendo – attraverso le dinamiche delle cinque grandi estinzioni paleontologiche succedutesi negli ultimi 500 milioni di anni. Il progetto nasce da un importante lavoro di ricerca e selezione dei piú significativi reperti originali di vertebrati che si sono estinti in tempi storici e sono

Il repertorio dei reperti selezionati per la rassegna – tutti originali – con le storie che si celano dietro ognuno di essi, permette di conoscere il destino delle specie piú carismatiche ormai scomparse e di addentrarsi fra le pieghe di vicende meno note, ma altrettanto illuminanti. Il percorso della mostra è arricchito da installazioni multimediali, video e animazioni originali, interviste e spazi interattivi. Queste testimonianze sono il filo narrativo di un progetto che ambisce a offrire un’analisi

Pittura rupestre del Tassili n’Ajjer, l’altopiano dell’Algeria sud-orientale: è una delle oltre 15 000 testimonianze d’arte censite nell’area, riferibili a gruppi neolitici presenti dal 6000 a.C.

lucida e lontana dalla retorica delle dinamiche che rendono pericolosamente assimilabili i grandi eventi di crisi del passato all’epoca che stiamo vivendo. (red.)

oggi conservati nei musei italiani: dallo scheletro di un grande dinosauro sauropode (l’unico di questo tipo custodito in Italia), che accoglie il pubblico all’ingresso dell’esposizione, al celebre cranio di Homo neanderthalensis denominato «Guattari I», il piú completo preservato nel nostro Paese, rinvenuto nel febbraio del 1939 all’interno di una grotta del Monte Circeo.

Una biografia scritta dalle monete Dal 23 settembre al 23 ottobre, il Palazzo della Gran Guardia di Padova ospita la mostra «La moneta incontra Tito Livio». Promossa e organizzata dal Circolo Numismatico Patavino e dal Comune di Padova, Assessorato alla Cultura, l’esposizione apre di fatto il ciclo di eventi dedicati al bimillenario della morte dello storico padovano, programmati nel 2017. Il percorso espositivo è suddiviso in tre sezioni, precedute da una introduzione storico-geografica e letteraria e da una chiusura sui luoghi ed eventi. La prima sezione è dedicata alla nascita della moneta romana e alla sua evoluzione sino a Ottaviano Augusto; la seconda percorre idealmente, attraverso le monete, la vita dello storico padovano; la terza sezione è dedicata ad alcuni tra i piú importanti personaggi vissuti all’epoca di Tito Livio. Grazie ai prestiti concessi da enti e collezionisti privati, la mostra riunisce oltre 120 monete romane circolanti al tempo di Tito Livio. Info: tel. 049 8761524; www.padovanumismatica.it

DOVE E QUANDO «Estinzioni. Storie di catastrofi e altre opportunità» Trento, MUSE fino al 26 giugno 2017 Orario ma-ve, 10,00-18,00; sa-do, 10,00-19,00; lu chiuso Info tel. 0461 270311; e-mail: museinfo@muse.it; www.muse.it

a r c h e o 21


PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

AL MUSEO EGIZIO, SIAMO TUTTI ARCHEOLOGI GRAZIE A MICROPASTS, LA PIATTAFORMA IDEATA IN INGHILTERRA ALLA QUALE LA RACCOLTA TORINESE HA ADERITO, CHIUNQUE PUÒ PROVARE L’«EBBREZZA» DELLA DOCUMENTAZIONE DEI REPERTI. CE NE PARLA L’EGITTOLOGO PAOLO DEL VESCO

A

rchiviare un reperto archeologico, trasformare un diario di scavo in un file digitale, realizzare il modello 3D di un manufatto egizio: d’ora in poi, chiunque voglia, potrà farlo comodamente anche da casa, grazie a una nuova iniziativa avviata dal Museo Egizio di Torino. Ce ne parla l’egittologo Paolo del Vesco, curatore del Museo torinese e referente del progetto... «Il Museo Egizio è il primo museo italiano ad avere aderito alla piattaforma MicroPasts, sviluppata dall’Istituto di Archeologia dell’University College London (UCL), offrendo la possibilità di testare questo innovativo strumento di partecipazione del pubblico anche in Italia». Il sistema rappresenta un modo concreto per accorciare le distanze – a volte siderali – tra l’archeologia e il pubblico... «Gli archeologi, fino a oggi, si sono spesso disinteressati di ciò che la gente potesse pensare e sono rimasti distanti dalla società. L’archeologia tradizionale si è chiusa in se stessa, finendo in mano ai film e alla letteratura: eppure è una disciplina che ha una rilevanza notevole per la società. Il problema è far comprendere questa rilevanza al pubblico».

22 a r c h e o

Statuetta in legno dipinto raffigurante la dea Taueret, di cui è prevista la realizzazione di un modello 3D. XIX dinastia (1292-1190 a.C.). Torino, Museo Egizio.

Aderendo a MicroPasts, il Museo Egizio ha scelto appunto di coinvolgere il pubblico e di farlo interagire con i reperti delle proprie collezioni. In che modo? «La piattaforma MicroPasts, sviluppata in Inghilterra dal 2013, è la prima forma di crowdsourcing dedicata all’archeologia. Basta registrarsi via web (anche con un nickname o in forma anonima, in modo da lasciare la piattaforma piú aperta possibile), per dare un contributo fattivo alla digitalizzazione degli archivi o alla realizzazione di modelli 3D dei reperti archeologici del museo. I cittadini possono cosí essere protagonisti della ricerca: producono infatti nuovi contenuti, che entrano a far parte del circuito della ricerca scientifica e vengono usati dagli archeologi. I documenti della piattaforma MicroPasts sono open access, cioè pubblici e privi di diritti: quindi scaricabili e utilizzabili da chiunque». Cosí tutti, pur non essendo archeologi, possono disegnare o documentare un reperto, contribuendo a velocizzare e alleggerire la ricerca scientifica. Ma se l’utente sbaglia? Come si considera – o si corregge – la naturale percentuale di errore umano?


In alto: la ricostruzione virtuale del cofanetto per ushabti dello Scriba Regale e Sovrintendente al Palazzo, Djehuty-hotep, riprodotta all’interno della piattaforma MicroPasts (https://sketchfab.com/models/b51da3e1f0db4f50945c75bf8b7ff46f) In basso: il reperto originale, in legno e stucco dipinto. XIX dinastia (1292-1186 a.C.). Torino, Museo Egizio. «Nella trascrizione dei documenti cartacei di archivio, per esempio, il sistema fa in modo che ogni singola pagina venga digitalizzata da tre utenti diversi, cosí da permettere il confronto fra le diverse soluzioni elaborate e minimizzare l’errore». Chi si occupa di effettuare questa «scrematura» dei contributi forniti dagli utenti? «Un archeologo, che ha a disposizione la documentazione prodotta on line. È piú importante la quantità, cioè il contributo che il pubblico offre attraverso la gran mole di dati digitalizzati, piuttosto che la precisione assoluta. Basti considerare che ci sono migliaia e migliaia di documenti di archivio completamente inutilizzabili poiché cartacei». In Inghilterra, grazie al sistema MicroPasts, il contributo del pubblico ha permesso di digitalizzare 30 000 oggetti dell’età del Bronzo (a partire dal XVIII secolo a.C.), che prima erano custoditi nei depositi…

«Sí. Trentamila reperti dei quali esisteva solo una documentazione cartacea, inaccessibile agli studiosi. È stata completata, inoltre, la digitalizzazione degli scavi condotti negli anni Trenta presso Tell el-Amarna: cosí una mole infinita di documenti, mai resa disponibile prima, mai pubblicata e mai utilizzata dai ricercatori, è divenuta oggetto di nuovi studi». L’iniziativa, però, ha anche altri scopi, non è vero? «Oltre alla catalogazione e trascrizione, la piattaforma permette di realizzare un modello 3D del reperto a partire da una fotografia. L’utente può “scontornare” l’immagine e renderla disponibile per la creazione di un modello tridimensionale dell’oggetto. Questo potrà essere scaricato via web e riprodotto con una stampante 3D in qualunque parte del mondo, da chiunque acceda alla piattaforma». Cosí facendo, però, non si creano migliaia di falsi?

a r c h e o 23


Torino, Museo Egizio. Una veduta d’insieme della sala del Nuovo Regno (1543-1069 a.C.). «No, i modelli non possono essere considerati come falsi, perché, a parte l’aspetto esteriore, non hanno nulla in comune con l’originale: il materiale è diverso e non sono ricostruzioni». Per quali scopi possono essere impiegati i modelli 3D dei reperti archeologi cosí realizzati? «A scopi didattici, dentro e fuori dal museo, nelle scuole e negli ospedali: possono essere maneggiati dal pubblico, offrendo un’esperienza conoscitiva diversa, piú sensoriale. Per questo si rivelano adatti per categorie di utenti particolari, come i bambini o le persone malate. A breve termine, nel Museo Egizio di Torino vorremmo realizzare un percorso tattile per ipovedenti». Quale è stato il primo reperto archeologico del museo riprodotto in 3D dal pubblico? «Un cofanetto porta-ushabti (le statuine depositate nelle tombe con funzione di servitori del defunto) appartenente allo Scriba Regale e Sovrintendente al Palazzo DjehutyHotep, vissuto nel Nuovo Regno, con la XIX dinastia (1292-1186 a.C.).

24 a r c h e o

Il modello 3D sarà utile a scopo di documentazione, ma anche per realizzare video e comunicare i significati della cultura materiale del Nuovo Regno. Il prossimo oggetto che riprodurremo, invece, sarà una statuina di Taueret in legno stuccato e dipinto, risalente alla XIX dinastia (1292-1190 a.C.): una divinità protettrice della nascita, della fertilità e dei bambini, venerata in culti domestici». Questi modelli tridimensionali possono essere utili anche alla ricerca scientifica, oltre che alle attività museali e didattiche? «Possono servire alla ricerca archeologica sul campo. Nello scavo dei siti egizi, per esempio, si rivela fondamentale avere un modello 3D dei frammenti delle sculture, in modo da verificare se esistano “attacchi” con le statue già arrivate nelle collezioni europee all’inizio del’Ottocento. L’Egitto in passato ha visto una lunga serie di scavi archeologici incontrollati: i reperti sono confluiti nelle grandi collezioni vendute ai musei europei. Cosí, oggi, scavando un sito egiziano già

esplorato nell’Ottocento, è molto facile trovare frammenti di statue presenti nelle nostre collezioni. Avere un modello 3D del frammento vuol dire poter controllare se “attacca” e quindi appartiene a quella statua. Chiunque, dall’altra parte dell’oceano, può farlo, con una stampante 3D. Il modello poi rimane in rete e, girando tra gli utenti, viene arricchito continuando a far progredire la ricerca». È questa la cosiddetta «archeologia pubblica»? «Sí. Il Museo Egizio è impegnato in un programma di “archeologia pubblica”, disciplina nata in Inghilterra negli anni Settanta e sviluppatasi in Italia solo negli ultimi anni, che studia la relazione esistente fra archeologia e società contemporanea, cercando di fornire nuove possibilità di incontro attraverso attività mirate. Con questa iniziativa, in sostanza, intendiamo sviluppare dei metodi per ampliare e diversificare il coinvolgimento dei cittadini nelle attività di ricerca e produzione dei dati archeologici».



INNSBRUCK

INCONTRI Emilia-Romagna

Quando il ghiaccio si scioglie...

SPARTACO È TORNATO...

A causa del riscaldamento globale, i ghiacciai stanno progressivamente ritirandosi e il fenomeno apre nuovi campi di attività per l’archeologia. Il ghiaccio, infatti, offre condizioni ottimali per la conservazione dei manufatti organici. E questi ultimi possono fornire nuovi dati sulla vita degli uomini, dalla preistoria all’età moderna. Prende le mosse da questi presupposti Frozen Pasts, il IV Convegno internazionale di archeologia glaciale, in programma dal 12 al 16 ottobre presso l’Università di Innsbruck e al quale è prevista la partecipazione di oltre quaranta studiosi, provenienti da 13 nazioni. I contributi annunciati abbracciano un orizzonte geografico e cronologico assai ampio; a titolo di esempio, ecco i temi di alcuni degli interventi: l’archeologia del sacro nelle Alpi, le architetture lignee dei siti medievali fortificati della Siberia occidentale, le ricognizioni nelle Absaroka Mountains (Wyoming, USA), il progetto di ricerca e valorizzazione dei resti riferibili alla prima guerra mondiale nel massiccio dell’Ortles, l’analisi dei materiali paleobotanici associati alla mummia inca di Monte Ampato (Perú). Info www.uibk.ac.at/ urgeschichte/projekte_ forschung/ gletscherarchaeologie/ gletscherarchaeologie.html

26 a r c h e o

V

i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

isitare gli accampamenti ricostruiti come all’epoca dei Romani, assistere a battaglie campali e giochi equestri realizzati con il coinvolgimento di centinaia di rievocatori e stuntmen, seguire conferenze a tema, didattiche, laboratori, oltre a grandi spettacoli di ricostruzione storica: questo e tanto altro sarà possibile nel corso dell’ottava edizione di Mutina Boica, che si svolge da giovedí 8 a domenica 11 settembre, presso l’area del Parco Ferrari e il Novi Ark di Modena. La manifestazione è a ingresso gratuito e prevede un programma con una media di dieci appuntamenti al giorno tra incontri, laboratori didattici e rievocazioni.

visitare gli accampamenti storici allestiti presso il parco Ferrari a cura delle associazioni di rievocazione storica e assistere agli spettacoli di ricostruzione, con battaglie campali e giochi equestri. D’intesa con i Musei Civici, alcuni importanti appuntamenti si terranno presso Palazzo dei Musei e il Novi Ark: tra gli altri, sabato 10 settembre, alle ore 17,00, si terrà la conferenza di Laura Parisini dal titolo «Servi sunt, immo homines. Riflessioni sul tema della schiavitú nel mondo romano». A seguire, al Novi Ark, si potrà assistere al tradizionale arrivo del corteo storico e a una visita guidata che illustrerà testimonianze di vita servile a Mutina narrate dalle

L’edizione 2016 di Mutina Boica, ormai consolidatasi come uno dei principali appuntamenti a livello nazionale di rievocazione storica di epoca romana, avrà come filo conduttore la figura di Spartaco, il quale, nel 72 a.C., durante la sua lunga marcia verso le Alpi, proprio nei dintorni di Modena affrontò vittoriosamente le legioni romane intenzionate a sbarrargli la strada. A partire dalle ore 18,30 di giovedí 8 settembre, prenderà quindi il via un ricco programma di appuntamenti, accompagnati da musica, concerti, stand gastronomici e da un mercatino artigianale a tema storico. Durante le giornate della manifestazione sarà possibile

iscrizioni funerarie. Dal Novi Ark, la visita proseguirà attraverso monumenti conservati nei Lapidari al piano terra di Palazzo dei Musei. Mutina Boica è un’iniziativa di Crono organizzazione eventi, realizzata con il contributo del Comune di Modena e in partenariato con i Musei Civici di Modena, grazie al sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e al coinvolgimento di oltre 30 associazioni di volontariato italiane ed estere, di Istituti culturali quali MiBACT, IBC, SBAER e di personalità del mondo accademico Info: tel. 388 2529796; e-mail: info@cronoeventi.it; www.cronoeventi.it


INCONTRI Paestum

i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

NEL SEGNO DELLA VALORIZZAZIONE E DEL DIALOGO

D

a giovedí 27 a domenica 30 ottobre 2016, Paestum ospita la XIX edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico: l’area adiacente al Tempio di Cerere, il Museo Archeologico Nazionale e la Basilica Paleocristiana saranno ancora una volta le sedi della manifestazione. La BMTA si conferma un evento originale nel suo genere: sede dell’unico salone espositivo al mondo del patrimonio archeologico e di ArcheoVirtual, l’innovativa mostra di tecnologie multimediali, interattive e virtuali; luogo di approfondimento e divulgazione di temi dedicati al turismo culturale e al patrimonio; occasione di incontro per addetti ai lavori, operatori turistici e culturali, viaggiatori e appassionati; opportunità di business nella splendida cornice del Museo Archeologico con il Workshop tra la domanda estera selezionata dall’ENIT e l’offerta del turismo culturale e archeologico. Una formula di successo testimoniato dalle prestigiose collaborazioni di organismi internazionali quali UNESCO, UNWTO e ICCROM, oltre che dalle cifre dell’ultima edizione: 10 000 visitatori, 100 espositori, 60 conferenze e incontri, 300 relatori, 120 operatori dell’offerta, 100 giornalisti accreditati. Nel sottolineare sempre piú l’importanza del patrimonio culturale come fattore di dialogo interculturale, d’integrazione sociale e di sviluppo economico, ogni anno la Borsa promuove la cooperazione tra i popoli attraverso la partecipazione e lo scambio di esperienze. Nella pagina accanto: Modena. Figuranti impegnati nella rievocazione storica in costume Mutina Boica. In alto: Paestum, Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico. Un laboratorio per la lavorazione della ceramica.

Numerose le sezioni speciali: ArcheoIncontri, per conferenze stampa e presentazioni di progetti culturali e di sviluppo territoriale; ArcheoLavoro, orientamento post diploma e post laurea con presentazione dell’offerta formativa a cura delle Università presenti nel Salone; ArcheoStartUp, in cui si presentano nuove imprese culturali e progetti innovativi nelle attività archeologiche; Incontri con i Protagonisti, nei quali il pubblico interviene con i noti divulgatori della TV. È inoltre in programma la consegna del secondo International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», il Premio intitolato al Direttore del sito di Palmira che ha pagato con la vita la difesa del patrimonio culturale e che, in collaborazione con la rivista «Archeo», viene assegnato alla scoperta archeologica dell’anno. Per il 2016 sono in gara: la tomba celtica a Lavau (Francia); i 22 relitti sottomarini nell’arcipelago di Fourni (Grecia); il monumento sotterraneo nei pressi di Stonehenge (Inghilterra); la tomba etrusca a Città della Pieve (Italia); le tombe della necropoli di Khalet al-Jam’a (Palestina). Ospiti del salone espositivo saranno Istituzioni, Enti, Paesi Esteri, Regioni, Organizzazioni di Categoria, Associazioni Professionali e Culturali, Aziende e Consorzi Turistici e Case Editrici. Info www.borsaturismoarcheologico.it

a r c h e o 27


n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

MAGNIFICO CROCEVIA Lo Speciale di questo numero è dedicato al Museo Archeologico di Beirut (vedi alle pp. 82-104), alla sua storia, alle sue terribili vicende di guerra, alla sua rinascita e ai capolavori che custodisce. Vicende che non possono naturalmente prescindere da ciò che il Libano tutto significa dal punto di 3 vista storico e archeologico. Esso ben si presta, dunque, a un breve viaggio «filatelico», attraverso il quale mostrare i tesori custoditi da questo angolo di terra «all’incrocio di tre continenti», come scrive Mauro Pompili, che è stato culla e crocevia dell’intera civiltà mediterranea. Iniziamo proprio con il Museo Nazionale di Beirut, raffigurato tre anni dopo la sua nascita da un francobollo del Libano del 1945 (1) e come appare oggi in un altro bollo libanese del 2005 (2). Seguendo il percorso di visita suggerito nell’articolo, al pian terreno si trova lo spettacolare sarcofago del re Ahiram di Biblo, che reca la piú antica iscrizione in caratteri fenici a oggi nota (3); viene peraltro ricordato come ai Fenici sia attribuita l’invenzione del primo alfabeto (4), poi «esportato» nel Mediterraneo occidentale (5). Al pian terreno c’è anche una statua acefala dell’imperatore Traiano, trovata a Tiro (6), e, nel salone che porta al primo piano, molte teche espongono ceramiche (7) e pugnali in oro lavorati provenienti da Biblo (8), nonché monete (9). La caratteristica principale del Museo Nazionale di Beirut è quella di 12 raccogliere solo opere scoperte in Libano ed è naturale, quindi, che esse provengano dai suoi siti principali, noti a livello mondiale, quali Biblo (10), da dove proviene un mosaico di Europa rapita dal toro/Zeus (11), Tiro (12), con gli affreschi della famosa Tomba di Tiro, restaurata da tecnici e archeologi italiani e 14 libanesi, Sidone (13) e Baalbek, con il Tempio di Bacco (14). Un’ultima curiosità; il nome latino di Beirut era Berytus ed esiste un francobollo del Libano del 1948 (15) sul quale si legge Berytus Legum Nutrix («Berytus, madre delle leggi»), che era il motto della scuola di diritto fondata dai 16 Romani verso la metà del III secolo d.C.

28 a r c h e o

1 2

4

5

6

7

8

9

10 11

13

14

15

IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



CALENDARIO

Italia

FIRENZE Winckelmann, Firenze e gli Etruschi

ROMA Tra Roma e Bisanzio

Il padre dell’archeologia in Toscana Museo Archeologico Nazionale Firenze, Salone del Nicchio fino al 30.01.17

La basilica di Santa Maria Antiqua e le sue pitture Foro Romano, S. Maria Antiqua fino all’11.09.16

GROSSETO, MANCIANO, MARSILIANA D’ALBEGNA E SCANSANO Marsiliana d’Albegna

L’Arma per l’Arte e la Legalità Opere recuperate dal Nucleo Carabinieri TPC Palazzo Barberini fino al 30.10.16

Dagli Etruschi a Tommaso Corsini Museo Archeologico e d’Arte della Maremma Museo di Preistoria e di Protostoria della Valle del Fiora località Dispensa-Sala del Frantoio Museo Civico Archeologico e della Vite e del Vino fino al 31.01.17

MADE in Roma

Marchi di produzione e di possesso nella società antica Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 20.11.16

MILANO Il mio nome è cavallo

La Spina

Immagini tra Oriente e Occidente Studio Museo Francesco Messina fino al 25.09.16

Dall’agro Vaticano a via della Conciliazione Musei Capitolini fino al 20.11.16

Homo sapiens

Minute Visioni

Micromosaici romani del XVIII e XIX secolo dalla collezione Ars Antiqua Savelli Museo Napoleonico fino al 31.12.16

Qui sopra: progetto di Ciro Santi per piazza San Pietro.

ADRIA (ROVIGO) L’arte della guerra

Trafugamenti e falsi di antichità a Paestum Museo Archeologico Nazionale fino al 31.12.16

Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.16

POMPEI Egitto Pompei

BARLETTA Annibale. Un viaggio

Palestra Grande e itinerario negli Scavi fino al 02.11.16

Castello fino al 22.01.17

ESTE (PADOVA) I suoni del Fiume Azzurro

Per grazia ricevuta

Qui sopra: rhyton in oro, dall’Hamadan (Iran). V sec. a.C.

in viaggio con l’archeologo sulle Vie della Seta e delle Spezie Museo Archeologico del Finale fino al 02.10.16 30 a r c h e o

NAPOLI Mito e natura

PAESTUM Possessione

AQUILEIA Leoni e Tori dall’antica Persia ad Aquileia

FINALE LIGURE (SAVONA) Sulle orme del passato

Le nuove storie dell’evoluzione umana MUDEC-Museo delle Culture fino al 26.02.17 (dal 30.09.16)

Dalla Grecia a Pompei Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.16

Meraviglie dello Stato di Chu Museo Nazionale Archeologico fino al 25.09.16

Meraviglie dello Stato di Chu Museo Nazionale Atestino fino al 25.09.16

Qui sotto: ricostruzione della possibile «Eva nera». In basso: affresco con natura morta e vaso, da Ercolano.

La devozione religiosa a Pompei antica e moderna Antiquarium degli Scavi fino al 27.11.16

POPULONIA La città dei vivi

Museo Etrusco di Populonia-Collezione Gasparri fino al 30.10.16

In basso: testa di una statua di Sekhmet.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

RAVENNA S.I.R.I.A. (Salvezza, Illuminazione e Redenzione nell’Iconografia dell’Architettura) Mosaici pavimentali siriani TAMO, Tutta l’Avventura del Mosaico fino al 06.01.17

SANT’AGATA DE’ GOTI (BENEVENTO) Stirpe di draghi Mostra archeologica Complesso Monumentale San Francesco fino al 19.09.16

SENALES (BOLZANO) La casa di Ötzi

La ricostruzione di una capanna preistorica archeoParc Val Senales fino al 06.11.16

Qui sotto: ricostruzione ideale dell’incontro tra un Neandertal e un Sapiens.

TRENTO Ostriche e vino

In cucina con gli antichi romani Spazio Archeologico Sotterraneo del Sas fino al 30.09.16

Estinzioni

Storie di catastrofi e altre opportunità MUSE-Museo delle Scienze di Trento fino al 26.06.17

VULCI I misteri di Mithra

Museo Archeologico Nazionale fino al 31.03.17

Francia QUINSON Gli Huaxtechi

Un popolo misconosciuto del Messico precolombiano Musée de Préhistoire des gorges du Verdon fino al 30.11.16

Gran Bretagna LONDRA Città sommerse

I mondi perduti dell’Egitto The British Museum fino al 27.11.16

Grecia ATENE Un sogno tra splendide rovine... Una passeggiata nell’Atene dei periegeti, XVII-XIX secolo Museo Archeologico Nazionale fino all’08.10.16 L’oracolo dei suoni Museo dell’Acropoli fino al 10.01.17

Olanda LEIDA Storie affilate

La spada come arma e simbolo Rijksmuseum van Oudheden fino al 02.10.16

Svizzera GINEVRA Amazzonia

Germania

USA

BERLINO Morte a Napoli

PHILADELPHIA L’età d’oro del re Mida

Nel 125° anniversario della morte di Heinrich Schliemann Neues Museum fino al 31.10.16

Qui sotto: lamina in piombo con la domanda all’oracolo di un visitatore.

Dodona

SAINT-DIZIER Austrasia

Il regno merovingio dimenticato Espace Camille Claudel fino al 26.03.17 (dal 16.09.16)

In alto: un subacqueo nelle acque della baia di Abukir, ad Alessandria.

Qui sopra: esemplari di spade esposti nella mostra di Leida.

Lo sciamano e il pensiero della foresta Musée d’ethnographie fino all’08.01.17

Tesori dalla Turchia antica University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology fino al 27.11.16 a r c h e o 31


L’ARCHEOLOGIA NELLA STAMPA INTERNAZIONALE Andreas M. Steiner

N

ello scorso giugno abbiamo dedicato la copertina di «Archeo» alle scoperte di Viktor Sarianidi a Gonur, nel delta del fiume Murghab, in Turkmenistan. Un altro sito di grande fascino, posto una sessantina di chilometri a sud di Gonur, domina invece la copertina dell’ultimo numero del bimestrale britannico Current World Archaeology: è Merv, città-oasi fondata nel VI secolo a.C. dai satrapi achemenidi della Margiana.

UNA MERAVIGLIA SULLA VIA DELLA SETA Il Turkmenistan – scrive l’archeologo Tim Williams del London Institute of Archaeology – è tra i luoghi piú inospitali dell’Asia Centrale, con

32 a r c h e o

temperature che, durante l’estate, si attestano intorno ai 50 gradi, mentre, d’inverno, raggiungono i 15 gradi sotto zero. Eppure, le sue terre conservano le tracce di molte, grandi civiltà – Achemenidi, Seleucidi, Parti, Sasanidi, Omayyadi, Abbasidi e Selgiuchidi – e, per giunta, ospitarono una delle piú grandi città che il mondo antico abbia mai conosciuto: Antiochia Margiana, la città degli Infedeli, Sultan Kala, Marv al-Shahijan, la regina delle città, Marv, Mary, Merv. Sono i tanti nomi di un luogo oggi dimenticato, ma che per due millenni era conosciuto ovunque. Avamposto orientale degli imperi che si sono succeduti al potere in Asia Centrale, nel X secolo, la città sulla Via della Seta era considerata, in ordine di grandezza, la terza o quarta al mondo, mentre la sua fama era pari a quella di Baghdad, di Damasco e del Cairo. Nelle sue nutrite biblioteche si formarono studiosi celeberrimi, come il poeta-astronomo Omar Khayyam (1048-1131) o il geografo del X secolo al-Muqqadasi, che descrisse Merv come un luogo «delizioso, fine, elegante, brillante e piacevole».

In basso: il Grande Kiz Kala o «Castello delle Vergini», una residenza reale nell’oasi di Merv, in Turkmenistan. VIII-IX sec. d.C. Merv, però, era una città di frontiera e, pertanto, vulnerabile. Nel 1221 vi giunsero i Mongoli e un figlio di Gengis Khan,Tolui, la conquistò, saccheggiandola e massacrando la popolazione. L’evento segnò l’inizio della fine per la gloriosa città: vennero ricostruite le fortificazioni, ma il declino era segnato. Eppure, anche se i Mongoli avevano cancellato la storia di Merv, ne avevano, involontariamente, preservato la memoria: i resti monumentali dell’antica città si sono straordinariamente preservati, con depositi archeologici alti svariati metri ed estesi su una superficie di oltre 1000 ettari. Un vero paradiso per gli archeologi del Ancient Merv Project, diretto da Tim Williams.


La stretta lingua di costa che corre tra i monti del Libano e il Mediterraneo, all’altezza dell’antica città portuale fenicia di Sidone e quella di Sarepta (l’odierna Sarafand) è oggetto di indagini archeobotaniche condotte da un’équipe tedesco-libanese. Quali furono i prodotti agricoli coltivati dai Fenici in questa terra, che oggi ospita rigogliose coltivazioni di guava, arance, avocado e banane? E quale è stata la reale importanza attribuita dai Fenici al territorio della grande città portuale intorno al 600 a.C.? Alcune risposte emergono dagli scavi di Tell el-Burak, una collina artificiale poco a nord di Sarepta. Sul lato meridionale del tell è stata portata in luce un’ampia cisterna, profonda 1,50 m e larga 2,50 x 1,50, in grado di contenere circa 5500 litri d’acqua. Un dato che sembra escluderne l’utilizzo «privato», indicando, piuttosto, una sua destinazione «produttiva». Una funzione simile sembra appartenere alle numerose anfore da trasporto rinvenute in due grandi ambienti adibiti a «dispensa». Ma i dati piú sorprendenti derivano

In alto: la costa libanese all’altezza dell’insediamento portuale di Tell el-Burak. Qui sopra: cartina topografica dell’insediamento. dall’esame archeobotanico eseguito su un campione di 6500 semi carbonizzati, di cui 2700 appartenenti a piante da coltivazione. Tra questi ultimi spiccano gli acini

d’uva, per un 40% dell’intero campionario. Il vino, come pare, fu dunque il principale prodotto coltivato nelle campagne intorno a Sidone, almeno per quanto riguarda i secoli dal 725 al 350 a.C.

a r c h e o 33


SULLA

COLLINA

DEI BEVITORI DI VINO


LE ESPLORAZIONI IN CORSO SU UN’ALTURA DEL SULCIS, IN SARDEGNA, RIVELANO LA VITA (E LE CONSUETUDINI ALIMENTARI) DI UNA COMUNITÀ DI EPOCA FENICIA E PUNICA. DI RECENTE APERTO AL PUBBLICO, IL CANTIERE DI SCAVO OFFRE LA POSSIBILITÀ DI VISITARE UNO DEI LUOGHI PIÚ AFFASCINANTI E RICCHI DI STORIA DELLA REGIONE di Massimo Botto

Veduta aerea della collina di Pani Loriga (presso Santadi, Sardegna sud-occidentale).


SCAVI • SARDEGNA

E

ra il 5 maggio del 1965 quando l’insediamento fenicio e punico di Pani Loriga (presso Santadi, Sardegna sud-occidentale), recentemente aperto al pubblico, venne scoperto da Piero Bartoloni, Vittorio Pispisa e Antonio Zara, nell’ambito di un progetto congiunto di ricognizioni del territorio sulcitano avviato dalla Soprintendenza alle Antichità di Cagliari e dall’Istituto di Studi del Vicino Oriente dell’Università di Roma, sotto il coordinamento scientifico del compianto Ferruccio Barreca. All’acume e alla caparbietà di In alto: una veduta del Nuraghe Diana. Età del Bronzo Medio. A sinistra: domus de janas ubicate nel settore sud-orientale della collina di Pani Loriga. Facies archeologica di Ozieri, 4000-3500 a.C. circa.

quest’ultimo si devono anche le prime indagini sul sito, che portarono a una breve ma intensa stagione di scavi iniziata nel 1969 e conclusasi nel 1976.

I PRIMI FENICI In quest’arco di tempo si collocano alcune fondamentali scoperte che riguardano lo scavo della necropoli fenicia e la localizzazione dell’insediamento punico, composto, quest’ultimo, da un abitato, una necropoli rupestre e un’area sacra. In breve furono raggiunti obiettivi importanti: innanzitutto, fu possibile stabilire la datazione del primo stanziamento fenicio, fondato alla fine del VII secolo a.C. Inoltre, venne chiarita la natura strategica dell’insediamento: è probabile, infatti, che la scelta del sito fosse motivata dalla posizione della collina, «a cerniera» fra la linea di costa e le aree piú interne della regione, unita alle ingenti risorse agropastorali e minerarie del territorio circostante. Questi fattori, del resto, stimolarono la frequentazione dell’altura sin da epoche molto antiche. Grazie 38 a r c h e o


Portoscuso San Giorgio Monte Sirai N. Sirai San Vittorio Sirimagus

N. Tratalias Pani Loriga

Sulky Porto Botte

Reception

Porto Pino

«Valloncello»

Area sacra Area B

Nuraghe

Necropoli punica

Casematte Acropoli

Necropoli fenicia Domus de janas

Area A

L’antico Sulcis In alto: elaborazione grafica che mostra il Sulcis in epoca fenicia e punica, con i principali insediamenti. A sinistra: rilievo della collina di Pani Loriga, con le principali aree archeologiche.

a r c h e o 39


SCAVI • SARDEGNA

Un caso eccezionale: la Tomba 33

alle indagini condotte agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso da Enrico Atzeni, con la collaborazione di Remo Forresu, è stato possibile individuare una necropoli a domus de janas (letteralmente, «case delle fate», n.d.r.), di cui sono stati individuati otto ipogei, attribuibili, nel loro impianto originale, alla facies archeologica di Ozieri (4000-3500 a.C. circa). La continuità di vita sulla collina durante l’età del Bronzo Medio è

Brocca con orlo espanso facente parte del corredo funebre deposto nella Tomba 33. Inizi del VI sec. a.C.

In alto: pianta della Tomba 33 elaborata al momento dello scavo. A oggi, si tratta dell’unica sepoltura della necropoli di Pani Loriga nella quale sia stato adottato il rito dell’inumazione. 40 a r c h e o


attestata dal Nuraghe Diana, posizionato nel punto piú alto del rilievo (183 m slm), da dove è possibile avere un vasto controllo territoriale. Il nuraghe, completamente crollato, non è mai stato indagato, ma gli specialisti sono concordi nell’affer mare che si tratti del tipo «a corridoio» in funzione dal XVI secolo a.C.

LA RIPRESA DELLE RICERCHE Dopo un lungo periodo di stasi, le indagini a Pani Loriga sono riprese nel 2005 per merito dell’attuale Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico (ISMA, già ISCIMA) del Consiglio Nazionale delle Ricerche, che ha concentrato le indagini sulla fase fenicia e quella punica dell’insediamento. L’abitato fenicio non è stato ancora localizzato con precisione, a causa della fitta vegetazione che interessa tutta la collina e probabilmente per la natura stessa delle costruzioni. Non è escluso, infatti, che almeno una parte dell’insediamento fosse composto di capanne in materiale deperibile. Molto verosimilmente, l’abitato doveva svilupparsi in modo sparso, interessando un’ampia porzione di collina, dalla sua sommità sino al versante settentrionale, dove è stato individuato uno dei possibili accessi al sito. L’abitato, quindi, era nettamente distinto dalla necropoli, collocata sul lato occidentale dell’altura, secondo modalità tipiche del mondo fenicio sia di madrepatria sia coloniale. Riguardo a quest’ultima, le indagini di Barreca portarono all’individuazione di oltre 140 tombe in cui è dominante il rituale dell’incinerazione. Dagli

scavi è emersa infatti la presenza di ustrina, cioè di strutture collettive destinate all’incinerazione dei corpi dei defunti. Spenta la pira, si procedeva a una raccolta parziale delle ossa, sparse successivamente sul fondo della sepoltura, costituita da una fossa di forma lenticolare scavata nella terra e in parte nella roccia. Del tutto eccezionale è il rituale dell’inumazione, attestato solo nella Tomba 33, che si differenzia dalle restanti deposizioni anche per le Brocca bilobata, dalla Tomba 23. Inizi del VI sec. a.C.

dimensioni della fossa (2,70 x 1,60 m), scavata in profondità nella roccia e ricoperta da lastre di pietra alloggiate in ampie riseghe ricavate sui lati lunghi. Altrettanto singolare risulta il corredo ceramico, composto da ben sei vasi, a testimonianza del fatto che il defunto era un individuo di rango elevato nell’ambito della comunità di appartenenza.

SEPOLTURE ECCELLENTI La Tomba 33 è sicuramente una delle piú antiche di tutta la necropoli e risulta fondamentale per l’inquadramento del primo impianto fenicio, dal momento che il ricco corredo vascolare è inquadrabile nei decenni iniziali del VI secolo a.C. A questo livello cronologico si colloca anche la brocca bilobata della Tomba 23, rinvenuta in associazione con tre pendenti in argento: due del tipo «a cestello» e uno raffigurante un «idolo a bottiglia» fra urei (decorazioni a forma di serpente, n.d.r.) discofori su base altare. Essi potrebbero far parte di una collana, indossata dal defunto nell’atto della cremazione, come ben documentato in Sardegna da esemplari rinvenuti nei centri coloniali di Bithia e Monte Sirai. Sul finire del VI secolo a.C., quando Cartagine raggiunse con i suoi eserciti la Sardegna, procedendo a una rapida occupazione degli insediamenti fenici presenti sull’isola e delle aree economicamente piú fertili e ricche di minerali, anche la collina di Pani Loriga subí una profonda trasformazione. L’acropoli venne fortificata grazie alla creazione di un possente edificio addossato al lato settentrionale del nuraghe, definito da Barreca «grande mastio». La struttura presenta pianta quadrangolare e impressiona per lo spessore dei muri e per la grandezza dei monoliti angolari, ancora saldamente infissi nel terreno. Anche in a r c h e o 41


SCAVI • SARDEGNA

assenza di dati di scavo, la natura difensiva e di controllo dell’impianto appare certa, considerata la posizione dominante e le dimensioni degli elementi struttivi. Il versante orientale dell’acropoli, invece, risulta protetto da grandi strutture, articolate in serie di vani paralleli, definite da Barreca «casematte». Anche per questi edifici è probabile una funzione difensiva, tuttavia, le evidenti analogie con l’edificio messo in luce nell’Area B, di cui ci occuperemo a breve, unite al rinvenimento in uno dei vani di una testina fittile femminile di fattura greca, avvalorano l’ipotesi che si tratti di un complesso polifunzionale destinato anche al culto e ad attività produttive. L’iniziativa cartaginese non si limitò alla difesa dell’acropoli, ma si estese ad ampie porzioni della collina. Il versante nord-occidentale, caratterizzato da un’impervia parete a strapiombo, fu scelto per la realizzazione della nuova necropoli rupestre. In breve furono apprestate almeno cinque ampie camere

funerarie, a cui si accedeva tramite un corridoio in leggera pendenza e attraverso un portello chiuso all’origine da una grossa lastra.

TOMBE DI FAMIGLIA Nella tomba meglio conservata la camera funeraria risulta rinforzata da un pilastro centrale di forma quadrangolare, di cui è rimasta solo la base. Nelle pareti, furono ricavate due nicchie per deporvi il corredo funebre oppure le offerte, come ben testimoniato dalle indagini condotte nella necropoli della vicina Sulky. Nel settore settentrionale della camera funeraria, infine, sono ancora evidenti alcuni scassi praticati sia sul pavimento sia sulla parete e destinati ad alloggiare assi di legno pertinenti a strutture mobili sulle quali era adagiato il sarcofago con all’interno il corpo inumato del defunto. A differenza delle fosse di epoca fenicia destinate prevalentemente a una sola sepoltura, queste tombe erano costruite con lo scopo di ospitare i numerosi membri delle

Un’interpretazione da correggere? Planimetria delle strutture, articolate in vani paralleli, localizzate sul versante orientale dell’acropoli e definite da Ferruccio Barreca «casematte». Le nuove ricerche suggeriscono come il complesso potesse avere molteplici funzioni ed essere in parte destinato anche al culto e ad attività produttive.

N

42 a r c h e o


In alto: tomba punica scavata sul versante nord-occidentale della collina. Nella pagina accanto, in alto e a sinistra: pendenti in argento, il primo «a cestello» e il secondo raffigurante un «idolo a bottiglia» fra urei discofori, dalla Tomba 23. Databili agli inizi del VI sec. a.C., potrebbero aver fatto parte di una collana fatta indossare al defunto prima della cremazione.

potenti famiglie cartaginesi trasferitisi a Pani Loriga. Ogni camera funeraria doveva quindi contenere molte deposizioni, con i relativi corredi, andati purtroppo perduti a causa delle ripetute spoliazioni perpetrate già in antico.

UN ABITATO VASTO E ARTICOLATO L’abitato doveva essere particolarmente grande e suddiviso in quartieri con funzionalità diverse. Sul pianoro a sud dell’acropoli (Area A), gli scavi ISMA – diretti da Ida Oggiano con la collaborazione di Tatiana Pedrazzi – hanno interessato un’abitazione privata composta da due vani, uno parzialmente coperto e l’altro scoperto, in funzione fra la fine del VI e la metà circa del IV secolo a.C. A seguito del suo repentino abbandono, l’edificio ha subito il a r c h e o 43


crollo del tetto e della parte alta degli elevati. Tale situazione ha permesso il completo recupero dei materiali pertinenti alle ultime fasi di vita dell’abitazione. Fra questi si distinguono numerose anfore commerciali, che attestano una capacità di accumulo di prodotti alimentari del tutto eccezionale, riscontrata del resto anche nell’edificio scavato da chi scrive con Federica Candelato nel settore settentrionale della collina (Area B) e al primo contemporaneo. Il dato risulta di estremo interesse, in quanto attesta lo sfruttamento intensivo del territorio, anche per colture specializzate quali la vite e l’olivo, attuato molto verosimilmente tramite spostamenti giorna44 a r c h e o

In alto: l’abitazione punica a due vani scoperta nell’Area A. L’edificio fu in uso tra la fine del VI e la metà circa del IV sec. a.C. In basso: kotyle (coppa per bere vino), dal Vano 8 dell’Area B. Produzione corinzia, ultimo quarto del VI sec. a.C.

lieri di manodopera dal centro fortificato alle campagne. La struttura riportata alla luce nell’Area B è un grande complesso, articolato in oltre dieci vani, fra loro solidali e disposti su due file parallele. A giudicare dai materiali r invenuti nei singoli ambienti e dalla str utturazione degli stessi, è possibile affermare che all’interno dell’edificio si svolgevano molteplici attività. Il Vano 1, per esempio, è stato interpretato come sacello, grazie alla presenza di una banchina, realizzata sul fondo dell’ambiente, sulla quale erano stati deposti alcuni ex voto rinvenuti ai piedi della stessa in connessione con ossa


Il grande complesso polifunzionale Planimetria e foto (in basso) dell’edificio punico messo in luce nell’Area B. Si tratta di un grande complesso, articolato in oltre dieci ambienti: i materiali rinvenuti al loro interno e l’articolazione degli spazi suggeriscono che la struttura fosse adibita a molteplici attività. Il Vano 1, per esempio, accoglieva probabilmente un sacello, mentre nei Vani 2 e 5 si preparavano e immagazzinavano prodotti alimentari, fra cui il vino, bianco e rosso.

animali pertinenti a sacrifici o resti di pasto. I Vani 2 e 5, invece, sono stati considerati spazi destinati alla preparazione e stoccaggio di cibi, a seguito del rinvenimento quasi esclusivo di ceramica da cucina e trasformazione, in associazione con numerose anfore riutilizzate per conservare alimenti.

TRACCE DI ANTICHE VINIFICAZIONI Tali considerazioni risultano avvalorate dalle analisi biochimiche condotte da Nicolas Garnier su numerosi campioni ceramici nell’ambito di un programma congiunto di ricerche fra ISMA e Université de Bretagne Sud, coordinato da Dominique Frère. Dalle analisi emergono infatti evidenti tracce di oli vegetali, in particolare d’oliva, di grassi animali e di vino, prodotto sia con una «vinificazione in bianco», ottenuta separando il mosto dalle vinacce – le parti solide dell’uva, quali raspi, bucce e vinaccioli –, sia con una «vinificazione in rosso», che prevede invece una fermentazione con macerazione, ovvero in presenza delle vinacce. L’importanza del vino nell’insediamento fenicio e punico di Pani Loriga è confermata dal rinvenimento di «servizi» per degustare la bevanda alcolica, composti da anfore da tavola di varia foggia dipinte in colori vivaci e da brocche bilobate utilizzate per versare il liquido nelle caratteristiche coppe a calotta, oppure nelle coppe carenate con il bordo e la vasca interamente verni-

N

a r c h e o 45


SCAVI • SARDEGNA

ciati di rosso. Di grande interesse risultano infine alcuni pregiati pezzi d’importazione destinati a servizi di lusso, come la kotyle (coppa per bere vino) prodotta a Corinto nell’ultimo quarto del VI secolo a.C. e il frammento di skyphos (coppa a due anse orizzontali) con menade danzante e palmetta «a cuore risparmiato» di produzione attica, attribuibile all’officina del Pittore di Haimon (500-480 a.C.).

IMPRESA COLLETTIVA In definitiva, l’importanza dell’edificio, da ritenersi con tutta verosimiglianza il risultato di uno sforzo collettivo della comunità di Pani Loriga, è confermata non solo dall’articolazione della pianta e dalla monumentalità degli elementi struttivi, ma anche dalla ricca documentazione ceramica, che include pezzi d’importazione molto rari sull’isola, e dalla presenza di un sacello (Vano 1) e di un deposito di fondazione con evidenti resti di pasto opportunamente selezionati (Vano 7), che sottintendono cerimonie pubbliche con consumo rituale di cibi e probabilmente di vino. Gli scavi ISMA hanno evidenziato un repentino abbandono delle strutture indagate intorno alla metà

Qui sotto: reperti rinvenuti nell’Area B, Vano 1. A destra, skyphos (coppa a due anse orizzontali) con menade danzante e palmetta «a cuore risparmiato» di produzione attica attribuibile all’officina del Pittore di Haimon (500-480 a.C.); a sinistra, supporto del tipo a clessidra a sostegno della coppa.

del IV secolo a.C. Le future ricerche dovranno chiarire se l’abitato punico abbia continuato a vivere in altri settori dell’altura, oppure se la comunità di Pani Loriga si sia trasferita altrove. Grazie alle ricognizioni effettuate nel settore orientale della collina, nella cosiddetta area sacra, sappiamo che l’altura continuò a essere frequentata anche durante la fase romana, ma solo per scopi cultuali e funerari. Il progres-

In basso: restituzione grafica (qui sotto) e foto di uno scarabeo in pasta vitrea color cobalto con inciso il motivo della caccia al cervo, dall’Area B, Vano 7. Sotto allo scarabeo sono due frammenti di un vaso in pasta vitrea.

46 a r c h e o

sivo abbandono del sito favorí lo sviluppo di una rigogliosa vegetazione, che per molti secoli ha custodito inalterato l’immenso patrimonio storico-archeologico che con determinazione e tenacia gli studiosi stanno mettendo in luce e il grande pubblico sta gradualmente incominciando ad apprezzare. La recente apertura al pubblico della collina di Pani Loriga è il risultato di un grande sforzo collettivo che ha visto in prima linea istituzioni scientifiche, come il Consiglio Nazionale delle Ricerche, ma anche realtà locali quali il Comune e il Museo di Santadi, nonché di controllo e tutela regionali, come la Soprintendenza Archeologia della Sardegna. A questi «storici» protagonisti recentemente se ne sono aggiunti altri, come la Cooperativa Sémata, che organizza le visite guidate al sito, e ATiIfras, che attraverso un cantiere permanente diretto da Simona Ledda cura la manutenzione delle aree archeologiche. La possibilità offerta al grande pubblico di visitare uno dei luoghi piú affascinanti e ricchi di storia di tutto il Sulcis premia quindi l’operato di tutti coloro che, nell’arco di oltre un cinquantennio, si sono dedicati con passione alla valorizzazione del sito.



MUSEO

CON VISTA

Tutti gli oggetti illustrati sono esposti nel Museo Archeologico al Teatro romano di Verona. Sulle due pagine: veduta di Verona e dell’Adige dal Museo Archeologico al Teatro romano. Nella pagina accanto: sfinge in marmo, dal Teatro romano.

48 a r c h e o


VERONA SI RIAPPROPRIA DEL MUSEO ARCHEOLOGICO: DOPO LUNGHI LAVORI DI RISTRUTTURAZIONE L’EDIFICIO NEI PRESSI DEL TEATRO ROMANO PRESENTA OGGI UN ALLESTIMENTO RICCO E ARTICOLATO. E VALORIZZA LA SEDE STESSA DELLA RACCOLTA, L’EX CONVENTO DEI GESUATI, ESALTANDONE L’ARMONIOSA INTEGRAZIONE CON I MONUMENTI E IL TESSUTO URBANISTICO DELLA CITTÀ di Margherita Bolla

a r c h e o 49


MUSEI • VERONA

I

l Museo Archeologico al Teatro romano di Verona ha riaperto i battenti, al termine di un intervento di ristrutturazione condotto nell’arco di tre anni e preceduto da quasi due di preparazione progettuale e amministrativa (vedi box alle pp. 52-53). L’operazione (costata circa 5 milioni di euro e realizzata con finanziamenti della Regione del Veneto, della Fondazione Cariverona e del Comune) ha consentito la riqualificazione del palazzetto Fontana, che immette nell’area archeologica del Teatro romano, e l’ampia risistemazione del vero e proprio edificio museale, che si erge a picco sopra il teatro stesso. In precedenza, gli ultimi interventi architettonici nel Museo, inaugurato nel 1924, erano stati effettuati negli anni Settanta del secolo scorso e la sua particolare ubicazione, in un’area ricca di acque sul fianco di una collina, ha imposto la completa revisione statica delle murature. L’edificio che ospita il Museo Archeologico sorse nel Quattrocento, come convento dei Gesuati, inglobando alcune parti dell’antico teatro, la cui articolata struttura si estendeva in altezza fin quasi alla piattaforma sommitale. Questa peculiare collocazione rende eccezionale il complesso dal punto di vista

Antiche operazioni Nel marzo del 1910, durante i lavori per l’ampliamento di un edificio scolastico veronese, venne alla luce una sepoltura a cremazione di epoca romana (fine del II-inizi del III sec. d.C.) che, per la presenza di vari strumenti chirurgici, è oggi nota come «tomba del medico». Ecco, qui accanto, due bisturi in bronzo con lama in ferro e una pinzetta che facevano parte del corredo funerario rinvenuto al suo interno.

turistico: lo splendido panorama della città dall’alto, magnificato già dai viaggiatori del Grand Tour, consente infatti di collegare visivamente ciò che è esposto nel Museo con il contesto esterno, in un dialogo stimolante.

VISTA MOZZAFIATO Lo spettacolo del fiume con il romano Ponte Pietra e della città che si estende sulla riva di fronte, la relazione con l’antico edificio teatrale, l’importanza dei materiali esposti e l’eleganza dell’allestimento, rendono imperdibile

la visita al Museo per chiunque si rechi a Verona. Ad arricchire l’esperienza è poi il continuo passaggio da un’epoca all’altra, in particolare da quella romana al mondo rinascimentale. L’ingresso all’area archeologica avviene dal palazzetto Fontana, cosí chiamato dalla famiglia che vi abitò nel Settecento e che condusse for50 a r c h e o


In alto: la cavea del teatro romano (I sec. a.C.-I sec. d.C) sullo sfondo del quattrocentesco convento dei Gesuati, sede del Museo Archeologico. A sinistra: una veduta del cinquecentesco palazzetto Fontana, con l’ingresso del museo. Nella pagina accanto, in basso: la sala del museo in cui è esposto il plastico dell’anfiteatro di Verona, noto come Arena. Fine del XVIII sec.

tunati scavi, grazie ai quali si ebbe una prima «riscoperta» del teatro antico (è peraltro in progetto la ristrutturazione della piazzetta esterna, che consentirà una migliore accoglienza di scuole e gruppi). I due piani superiori del palazzetto, interamente restaurati, sono forniti di aule didattiche per le attività di laboratorio delle scolaresche; il Museo e il Teatro offrono infatti numerosi e diversificati percorsi didattici, che da tempo incontrano il gradimento delle scuoa r c h e o 51


MUSEI • VERONA

UN PROGETTO DI AMPIO RESPIRO L’intervento compiuto sul Museo Archeologico al Teatro romano di Verona non è isolato, ma si inserisce nel piú vasto progetto di revisione del colle di San Pietro, condotto in sinergia fra l’Amministrazione Comunale e la Fondazione Cariverona. Il colle, che domina l’Adige, è ricco di verde e di pregevoli testimonianze archeologiche e storiche; la sommità, che ospita la grande caserma austriaca di Castel San Pietro, fondata nel 1854 e ora in corso di trasformazione in museo, fu sede del primo insediamento romano di Verona, con un tempio che si ritiene dedicato a una divinità protettrice della città, i cui resti sono stati di recente riportati alla luce dalla locale Soprintendenza. Nella complessiva riqualificazione del colle rientra anche l’inserimento di un ascensore (ex funicolare) per agevolare la salita alla cima dalla riva del fiume. Il progetto, sia per l’ex caserma di Castel San Pietro sia per il Museo Archeologico al Teatro romano, è stato realizzato dallo Studio Grisdainese di Padova,

le. Il palazzetto, che si presenta in forme rinascimentali, ha inglobato cospicui tratti di murature romane dell’edificio scenico teatrale, lasciati a vista, e, alla conclusione definitiva dei lavori, ospiterà al piano terra, una sala espositiva di introduzione alla visita del Teatro.

I PERCORSI DI VISITA Usciti da palazzetto Fontana e salite le gradinate della cavea, si può raggiungere il Museo servendosi di un ascensore o per uno scalone laterale, che offre un primo magnifico panorama del monumento sottostante, del fiume e della città. L’articolazione del convento consente diversi percorsi di visita: quello privilegiato inizia dal quinto livello, con una introduzione alla Verona romana e agli edifici che la caratterizzavano, talvolta forniti di arredi lussuosi. Una sezione è dedicata alla «città dei morti», che presenta, fra le altre, la notevole «tomba del medico», rinvenuta nel 1910, ma esposta in passato solo in occasione di una mostra temporanea (vedi box a p. 50). 52 a r c h e o

Segue il settore dedicato agli Edifici pubblici, nel quale vengono illustrate le strutture piú note della città, in quanto ancora visibili. L’Arco dei Gavi è rappresentato da un bel modello degli inizi dell’Ottocento, realizzato dopo la demolizione attuata sotto il dominio francese e in vista della sua ricostruzione (avve-

nuta solo nel 1932), e da vari documenti, che testimoniano anche la ricezione dell’antico nel Rinascimento veronese. La parte restante del quinto livello è dedicata ai principali edifici da spettacolo della città romana: la notissima Arena e il teatro. L’anfiteatro è illustrato da uno splendido plastico


designato dalla Fondazione Cariverona. Il progetto scientifico per il riallestimento del Museo Archeologico è dell’autrice del presente articolo, curatrice della collezione dal 1994; i lavori hanno comportato un complesso e quasi totale svuotamento del Museo dalle opere ivi conservate. Fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi prefissati il costante supporto, amministrativo e organizzativo, del settore Edilizia monumentale del Comune. Data l’estrema eterogeneità dei reperti esposti, dalla grande statuaria a testimonianze importanti ma minute, nel progetto di allestimento del Museo si è scelto di non interferire con la loro lettura utilizzando per ampi fondali e grandi basi il bianco e il grigio chiaro. Per la grafica e per alcuni supporti puntuali, ispirandosi ai colori dei tetti veronesi dei quali si può godere una vista spettacolare dalle finestre del Museo, è stato scelto il colore rosso mattone, associato al piú contemporaneo rosso «ciliegia» per alcuni testi. Come per i colori anche per i materiali si è percorsa la

del tardo Settecento, dalle sculture che lo ornavano – in parte connesse ai giochi che vi si svolsero – e da un bel mosaico del III secolo d.C., proveniente da una domus, nel quale, come in una sequenza fotografica, sono raffigurate scene di duelli gladiatori. Il teatro viene analizzato sotto molteplici aspetti: la struttura architettonica, il suo ricordo nel tempo, reperti connessi agli spettacoli dal Veronese e le sculture celebrative e decorative. Fra i raffinati arredi scultorei, si segnala una sfinge, che forse chiudeva una fila di sedili nella zona riservata agli spettatori «privilegiati», diversi oscilla – elementi marmorei destinati a essere sospesi all’architettura e appunto a oscillare lievemente al vento – e una serie di magnifiche erme, una delle quali è stata scelta come immagine guida del rinnovato Museo. Il percorso su questo piano (uno spazio quadrato che contorna il chiostro del convento) si conclude con la sezione dedicata al santuario di Iside e Serapide, che si trovava nella zona del teatro. La struttura

linea della semplicità e pulizia utilizzando legno laccato e per l’interno delle vetrine esclusivamente acciaio verniciato e cristallo.

architettonica non è stata individuata, ma ne restano interessanti sculture, anche in materie prime di origine egizia, e significative iscrizioni. Il tema, come tutti quelli legati ai culti di origine orientale, ha affascinato studiosi e curiosi, che ora possono finalmente osservare dal vero queste testimonianze, rinvenute nei secoli scorsi, ma in precedenza esposte solo in occasione di una mostra temporanea.

LE SCULTURE NEL REFETTORIO Scendendo al piano sottostante, attraverso la curva di un elegante scalone in pietra che ricalca in parte un percorso romano, si entra nel nuovo cortile coperto, nel quale sono state collocate sculture in pietra e bronzo che ornavano i luoghi pubblici della città. Anche l’ex refettorio del convento è dedicato alle sculture romane rinvenute a Verona, con statue di notevole impatto visivo, fra cui una grande figura femminile panneggiata, forse una statua di culto, e una figura femminile seduta.

In alto: particolare dell’ex refettorio del convento, nel quale si possono vedere tracce degli affreschi originali. Nella pagina accanto, in alto: uno scorcio del chiostro del museo. Nella pagina accanto, in basso: un’altra immagine dell’ex refettorio, nel quale sono esposti, fra gli altri, una grande figura femminile panneggiata, forse una statua di culto, e un pregevole mosaico.

Dal refettorio si accede alla sezione riservata alla Scultura di collezione, testimonianza del gusto, della passione per l’antico e dell’amore per la propria città di personaggi veronesi eminenti, le cui raccolte giunsero nel tempo al Museo. Sul corridoio di collegamento si aprono tre celle monastiche che accolgono reperti di piccole dimensioni, provenienti dal territorio e di collezione: bronzetti preromani e romani, poiché il Museo possiede una raccolta di bronzi antichi fra le maggiori dell’Italia settentrionale; oggetti legati alla vita quotidiana, come vetri dagli affascinanti colori, a r c h e o 53


MUSEI • VERONA

54 a r c h e o


lucerne, recipienti. Nella sala affac- A destra: mosaico ciata sul teatro, che conclude l’espoproveniente da sizione delle sculture di collezione, Verona (via Diaz), una sezione è destinata alle mostre raffigurante una temporanee; in occasione della riaNereide che pertura al pubblico, è stata inaugucavalca una rata «L’Egitto a Verona», che sarà creatura marina visitabile fino al settembre 2017. fantastica.

LA GRANDE TERRAZZA La visita prosegue nel chiostro del Museo, nel quale sono state risistemate iscrizioni e stele, con numerosi esempi di scultura funeraria, opera di botteghe di lapicidi che in epoca romana lavoravano il calcare locale, tratto dalle cave site in Valpolicella. Dal chiostro si entra nella chiesa del convento (con affreschi e un pregevole soffitto ligneo cinquecentesco), che ospita i mosaici, in bianco e nero e policromi, da Verona e dai dintorni. La chiesa si apre sulla Grande Terrazza, riaperta al pubblico nel 2002; vi sono esposte,

Nella pagina accanto: erma in marmo raffigurante un Satiro giovane.

all’aperto, lapidi funerarie (nell’area verso il colle) ed elementi architettonici (nell’area verso il teatro), a integrazione di quanto visto all’interno del Museo. Il percorso si chiude con la sala al piano inferiore, già portineria del

Echi d’Egitto La riapertura del Museo Archeologico è stata accompagnata dall’inaugurazione della mostra «L’Egitto a Verona». Fra i materiali selezionati, vi sono vari ushabti, figurine che rappresentavano i «servitori» sostituti del morto, pronti a rispondere al dio dei morti Osiride, quando avrebbe chiamato il defunto al lavoro nei propri campi.

convento dei Gesuati, che accoglie are e lapidi dedicate agli dèi romani venerati nel Veronese, oltre a elementi architettonici di grande raffinatezza rinvenuti in città. Grazie al nuovo allestimento, il Museo Archeologico al Teatro romano offre dunque la possibilità di approfondire diversi aspetti della vita di Verona in epoca romana e permette ai visitatori italiani e stranieri di accostarsi a testimonianze antiche di notevole interesse, in un contesto di innegabile bellezza. In occasione della riapertura, chi scrive ha realizzato un volume divulgativo, Il teatro romano di Verona (pubblicato da Cierre Edizioni in collaborazione con i Musei Civici), che illustra la storia antica e moderna del Teatro e degli edifici sorti su di esso nel tempo, fino al nuovo allestimento del Museo Archeologico. DOVE E QUANDO Museo Archeologico al Teatro romano Verona, Regaste Redentore 2 Orario lunedí, 13,30-19,30; martedí-domenica, 8,30-19,30 Info tel. 045 8000360; e-mail: museoarcheologico@ comune.verona.it; http://museoarcheologico.comune. verona.it a r c h e o 55


STORIA • STORIA DEI GRECI/14

LA «DEMOCRATIZZAZIONE» DELL’

ALDILÀ

56 a r c h e o


U

no degli aspetti piú sconcertanti nella storia dell’Antico Egitto, anche per chi se ne occupa da studioso, è il constatare come, almeno in apparenza, essa sia rimasta sempre «immersa» nella religione. Una religione rappresentata e resa visibile ai mortali da un numero incredibilmente alto di divinità (ne sono state contate circa ottocento) al vertice delle quali non stava un singolo dio, padre o signore degli altri – come, per esempio lo Zeus dei Greci –, ma quello che potremmo definire piuttosto «un» o «il» sovrano. Una somma autorità che, come vedremo, si esplica essenzialmente sul piano politico piú che su quello spirituale. Al di fuori dei centri urbani, piú o meno importanti, che si svilupparono attorno ai singoli templi, non vi era una vera gerarchia tra gli dèi. E i santuari, dal canto loro, non somigliavano affatto ai templi del mondo classico (o a quelle che furono in seguito le chiese cristiane), ma erano veri e propri organi dello Stato, al quale facevano capo non solo e non tanto il culto degli dèi locali, ma una quantità di funzioni amministrative (come la riscossione delle imposte) e culturali (per esempio l’insegnamento e la gestione delle biblioteche) che con difficoltà possiamo ricondurre all’ambito religioso.

Il compito di reggere l’intero Paese, geograficamente molto vasto e assai complesso dal punto di visto economico e sociale, spettava a un’entità umana e divina a un tempo, che, a partire dalla XVIII dinastia (1543-1292 a.C.), chiamiamo per tradizione «faraone», un termine autenticamente egiziano, ma giunto a noi in questa forma un po’ esotica attraverso il greco e il copto.

IL PERNO DEL SISTEMA Intorno a questa complessa figura – di cui possediamo innumerevoli raffigurazioni in ogni epoca della storia egiziana – ruota l’intero «sistema» dell’Egitto antico, sia dal punto di vista politico che da quello religioso. Senza scendere troppo nei particolari – talvolta difficili da cogliere per i problemi di interpretazione delle fonti –, si può affermare con relativa sicurezza che il sovrano in Egitto era comunque un dio e, di conseguenza, divina era la funzione esercitata sul Paese; in quanto dio e in quanto re, egli aveva un compito del tutto particolare e che solo a lui competeva: quello di assicurare che l’ordine universale – che non è stato lui Sulle due pagine: Luxor. Particolare di un affresco nella tomba di Nefertari, che mostra la dea Maat con le ali spiegate in atteggiamento protettivo. XIX dinastia, 1290-1224 a.C.

NELL’ANTICO EGITTO, L’ACCESSO AL MONDO ULTRATERRENO NON ERA SEMPRE UNA PREROGATIVA REGALE: ANCHE SEMPLICI FUNZIONARI, PARTICOLARMENTE MERITEVOLI NEI CONFRONTI DEL SOVRANO, POTEVANO GUADAGNARSI L’IMMORTALITÀ. UNA «PROSPETTIVA» CHE SCATENÒ UNA COMPETIZIONE ACCANITA E SPIETATA... di Sergio Pernigotti

a r c h e o 57


STORIA • ANTICO EGITTO

a creare, ma che ha trovato di fronte a sé per opera del demiurgo o dei demiurghi – e l’Egitto vivano tra di loro in perfetta consonanza. Tale ordine, che gli Egiziani indicavano con il termine per certi aspetti ambiguo di Maat (che, in realtà, designava anche la «verità» e la «giustizia», a loro volta divinità) può essere garantito soltanto da colui che, a sua volta, si presenta di fronte agli uomini come un essere che appartiene al mondo degli uomini e, al contempo, a quello degli dèi. Gli Egiziani appaiono (e vogliono apparire) come un popolo eletto, che ha il privilegio di essere governato da un dio al quale appartiene, per cosí dire, la gestione materiale dei rapporti con il resto dell’univer-

so e della natura in cui il Paese si colloca. Una gestione in cui rientrano, per esempio, la regolarità delle piene del Nilo e la possibilità per gli uomini di dominare il deserto: due aspetti di un unico problema, cioè quello di rendere possibile la vita nella Valle del Nilo e nel Delta.

CON I PIEDI NEL FANGO In quanto autorità politica, il sovrano è perciò il «signore delle Due Terre»: tutto l’Egitto gli appartiene ed è suo compito curarsene, anche negli aspetti piú minuti. In una delle sue piú antiche raffigurazioni, il faraone è rappresentato mentre scava un canale e uno dei suoi funzionari gli porge un cesto in cui raccogliere il terreno scavato, i piedi ben

piantati nel fango; nulla vi è di piú esplicito del rapporto tra il sovrano e la materialità della sua terra. Dal punto di vista storico vorremmo sapere di piú su come il faraone arrivava al potere, sulla famiglia da cui proveniva (quella che chiamiamo «dinastia»), di come trasmetteva il potere ai suoi successori, o del modo, infine, in cui vi era il passaggio dall’una all’altra. In alcuni momenti, forse sempre, si combatterono lotte politiche piú o meno latenti e si registrò il prevalere di alcuni centri di potere su altri: ma nulla sappiamo di preciso e la mancanza di fonti esplicite ci permette di conoscere i cambiamenti che si sono prodotti, ignorandone le ragioni: vediamo insomma i risultati (altri sovrani, altre famiglie), ma non lo svolgersi degli eventi. Tuttavia, un dato appare sicuro: fin dalle origini della civiltà egiziana, si affermò saldamente il principio secondo il quale il sovrano è comunque un dio e ciò lo pone in una posizione qualitativamente diversa da quella degli esseri umani. La funzione che egli esercita nel Paese, «la benefica funzione» per esprimersi come facevano gli Egiziani, permette di considerarlo contemporaneamente partecipe del mondo degli uomini e degli dèi e si tratta dunque di una funzione divina (anche se alcuni studiosi non condividono completamente questa visione delle cose).Tale ideologia è cambiata nel corso dei millenni, ma non si può negare il suo ruolo fondamentale, soprattutto per il periodo piú antico della storia egiziana. Sebbene non vi siano enunciazioni esplicite nei testi scritti, molti dati concordano sul fatto che il sovrano è «il dio buono», il sovrano è il dio Luxor, Valle dei Re. Pittura murale della camera funeraria della tomba di Ramesse I (KV16), raffigurante il faraone che viene accolto nell’aldilà dagli dèi Harsiesi e Anubi. XIX dinastia, 1292-1291 a.C.

58 a r c h e o


«Horo vivente» che governa sull’Egitto. Le piramidi esprimono questo ruolo in maniera grandiosa e lontana dalle dimensioni umane, e un importantissimo testo religioso, i Testi delle Piramidi, si riferisce, questa volta in maniera esplicita, al destino del faraone dopo la sua dipartita dal mondo degli uomini che aveva governato su questa terra. Per il sovrano la morte non è dunque la fine di tutto, ma solo un’esperienza temporanea, destinata a rinnovarsi con il suo successore, mentre egli starà per sempre in cielo insieme agli altri dèi, suoi fratelli, che aveva abbandonato per esercitare sulla terra la «benefica funzione». La morte del re, dunque, è solo un passaggio da questo mondo – suo

soggiorno temporaneo – al mondo degli dèi, che sarà la sua residenza per l’eternità: la presenza dell’eterno nella vicenda umana e celeste degli dèi spiega molto bene la quasi ossessiva presenza dell’espressione «vivente per l’eternità» che si trova ogni volta che il nome di un sovrano viene scritto.

L’ULTIMO TRAGHETTO Gli Egiziani esprimevano questa concezione con un termine particolare e a prima vista sorprendente: il sovrano «traghettava» nell’aldilà, dove «traghettare» – che sta evidentemente per «morire» – si spiega molto bene con l’esperienza di un popolo che viveva sulle sponde di un grande fiume e che ogni giorno

Luxor, Valle dei Re. Ancora una pittura murale della tomba di Ramesse I, raffigurante il viaggio del sovrano nell’aldilà. XIX dinastia, 1292-1291 a.C.

attraversava un numero sterminato di canali che solcano la campagna per portare l’acqua fin nei campi piú lontani. Malgrado la parvenza di un destino comune a quello degli uomini, dunque, gli dèi non muoiono, ma salgono in cielo: e, tra le altre cose, i Testi delle Piramidi ci narrano come ciò avveniva, secondo modalità a volte bizzarre per il nostro modo di vedere, come il salire lungo una fune o una colonna di fumo oppure una scala celeste che gli uomini non possono cogliere, ma resa visibile, per esempio, a r c h e o 59


STORIA • ANTICO EGITTO

dalla piramide «a gradoni» che l’architetto Imhotep costruí a Saqqara per il re Gioser, e che forse proprio a quello allude con la sua possente struttura ascensionale che si colloca tra terra e cielo. Ammesso che quanto fin qui esposto corrisponda al pensiero egiziano cosí come si era andato formando nel V e IV millennio, rimaneva da risolvere un problema non da poco: se l’immortalità era una prerogativa dei sovrani e corrispondeva alla loro intima natura di divinità che governavano l’Egitto pro tempore, quale destino attendeva dopo la morte i 60 a r c h e o

tanti uomini che ogni giorno faticavano nei campi, accudivano gli animali e lavoravano come operai alla costruzione di opere colossali, come le piramidi, o piú modeste, come i canali e le dighe che rendevano possibile la vita?

SIMBIOSI PERFETTA Il meccanismo perfetto dell’agricoltura egiziana nasceva dalla «collaborazione» tra la natura e il lavoro dell’uomo. Una sinergia che si poteva spiegare solo con l’intervento degli dèi e, in particolare, di quello che, chiuso nella suo palaz-

zo, vegliava sul buon andamento dell’inondazione e sul succedersi delle stagioni, nonché sul lavoro degli uomini che operavano come funzionari presso la sua corte. La risposta al quesito era semplice: la vita nell’aldilà era una prerogativa regale che spettava dunque solo al sovrano e ai membri della sua famiglia, che lo seguivano nel suo traghetto tra la terra e il cielo. Quando il re giungeva in cielo con questa eletta compagnia, riprendeva il posto che aveva lasciato per salire sul trono d’Egitto e, in cielo, costruiva la sua corte celeste in cui avrebbe


Fotomosaico dell’affresco che si sviluppa nella camera funeraria della tomba di Ramesse I, situata a Luxor, nella Valle dei Re. XIX dinastia, 1292-1291 a.C. La barca di Ra, raffigurato con testa di ariete all’interno di un’edicola circondata dal serpente Mehen, avanza nell’aldilà trainata da quattro dèi.

continuato a vivere per sempre nel «paradiso» dal quale a suo tempo era disceso. E gli altri? Per loro, nulla. La morte segnava la fine di tutto: non vi era un aldilà nel quale continuare l’esistenza terrena, non una tomba che permettesse, come ombra o anima, di condurre una vita simile alla precedente, neanche in una maniera attenuata come accadde poi nelle concezioni funerarie del mondo classico. Nel periodo piú antico della storia della civiltà egiziana non vi era un «dopo» di cui preoccuparsi: per le persone normali vi era solo il nulla;

lo stesso corpo non subiva un trattamento speciale, ma andava incontro allo stesso destino delle carcasse degli animali: spoglie che raggiungevano il deserto e lí erano abbandonate, in balia dei predatori che se ne sarebbero cibati.

POTERE DISCREZIONALE In questo panorama desolante vi era però un’eccezione che si collocava accanto al destino del sovrano e forse ne era in qualche modo la conseguenza consolatoria, anche se rara e ben difficile da raggiungere. Tra i funzionari che durante il suo

soggiorno sulla terra sedevano al suo fianco e lo aiutavano nell’esercizio del potere, il sovrano poteva infatti sceglierne alcuni, del cui operato fosse rimasto particolarmente soddisfatto, che lo avrebbero accompagnato nell’aldilà e ne avrebbero costituito la corte celeste, condividendone il destino. L’immortalità, dunque, era sí un privilegio regale, ma il re poteva decidere, secondo un giudizio che solo a lui spettava, di condividerla. Questa concezione dell’aldilà, di per sé semplice e priva di implicazioni di carattere spirituale – dal a r c h e o 61


STORIA • ANTICO EGITTO

momento che si configurava come una concessione fondata su una sorta di premio che presupponeva uno stretto rapporto personale se non familiare – comportava però varie di conseguenze, per noi non prive di interesse, poiché ci consentono di comprendere la struttura stessa della società egiziana e delle idee su cui si fondava, mostrando anche come, almeno nella fase piú antica della sua storia, essa fosse ben lontana dalle concezioni dell’universo religioso sviluppate dalle grandi civiltà del Vicino Oriente prima e del mondo mediterraneo poi. La possibilità di seguire il sovrano in cielo e quindi di condividerne l’immortalità passava attraverso due momenti distinti, ma tra loro intimamente legati: in primo luogo, attraverso il giudizio del re, che, in maniera piú o meno esplicita, esprimeva il suo parere positivo sul suo funzionario (e sulla sua famiglia); poi, ed era il passaggio decisivo, la concessione della tomba e del relativo corredo funerario. Solo con questo particola62 a r c h e o

rissimo dono, che giungeva al momento culminante della sua carriera, il seguace del faraone aveva la sicurezza di seguirlo in cielo e di condividerne il destino. Tale procedura, se cosí possiamo definirla, si può facilmente seguire ricostruendo la vita e la carriera dei piú importanti funzionari dell’Egitto, i quali non hanno mancato, spesso, di raccontare, nelle iscrizioni che hanno fatto tracciare nelle tombe, le fasi salienti del loro progredire nel favore del re e del loro salire la scala del potere che doveva portarli presso colui che sedeva sul trono.

QUASI COME BIOGRAFIE Queste iscrizioni si riducono talvolta a puri e semplici elenchi di titoli, molto chiari per gli Egiziani che conoscevano bene la struttura del loro Stato, ma per noi di piú difficile interpretazione.Tuttavia, gli autori di questi testi hanno talvolta composto vere e proprie «autobiografie», che ci chiariscono molti aspetti della vita pubblica e privata

di coloro che costituivano la vera e propria classe dirigente egiziana, pronta a proseguire anche in cielo il proprio lavoro accanto al re. Tali testi hanno per noi una grande importanza anche dal punto di vista storico, perché ci fanno conoscere personaggi e avvenimenti che, altrimenti, ci sarebbero rimasti preclusi anche per la mancanza di narrazioni storiche vere e proprie. Uno di essi è stato trovato nella necropoli di Abido, nella tomba di un alto funzionario di nome Unj, vissuto all’inizio della VI dinastia (2350-2195 a.C.), che percorse una carriera come pochi nell’Antico Egitto, iniziando come magazziniere e terminando come governatore dell’Alto Egitto, una carica creata appositamente per lui e che gli conferiva poteri che lo rendevano secondo solo al sovrano. Tutto ciò accadde perché i sovrani sotto i quali aveva servito (Teti, Pepi I e Merenra) avevano in lui la massima fiducia. È logico che, dopo avere molto servito, egli si attendesse di


ricevere il suo premio pur non essendo ancora giunto al massimo della carriera. Cosí si esprime nella sua autobiografia, conservata al Museo del Cairo: «Il cuore di Sua Maestà di me si fidava piú che di ogni suo funzionario, piú di ogni suo dignitario, piú di ogni suo servo. Pregai la Maestà del mio signore che mi si portasse un sarcofago di pietra bianca di Troia [=nome di una cava nei pressi di Menfi]. Sua Maestà fece che un portasigilli del dio, insieme a una squadra di marinai al suo comando, traversasse il fiume per portarmi questo sarcofago da Troia. Arrivò per suo mezzo, in una zattera grande della Residenza, col suo coperchio, una falsa porta, un architrave, gli stipiti e la soglia. Mai era stata fatta in passato una cosa simile per nessun servitore, tanto ero pregiato nel cuore di sua Maestà» (traduzione di Edda Bresciani).

UN CASO FORTUNATO Il caso ha voluto essere benevolo con gli archeologi, e la tomba di Unj che è stata trovata ad Abido corrisponde alla descrizione contenuta nel testo. La concessione del sepolcro chiudeva il cerchio dei rapporti tra Unj e il suo re: il giudi-

zio sul suo operato gli apriva le porte delle necropoli e, con esse, quelle dell’aldilà, dove egli avrebbe raggiunto il suo signore in compagnia della sua famiglia. Questo testo conferma ciò che anche altri documenti dello stesso genere ci confermano e cioè che gli Egiziani dell’Antico Regno (27002195 a.C.) sembrano animati innanzitutto, per non dire sempre, da quello che un grande egittologo statunitense, John A. Wilson (18991976), definí come una forma di «materialismo»: una fede sterminata nelle proprie capacità e nella convinzione che tali capacità sarebbero state riconosciute dal sovrano e avrebbero assicurato il successo nella vita su questa terra e la vita eterna dopo la morte. Un funzionario egiziano vissuto in questa fase storica ambiva unicamente a percorrere una brillante carriera e a segnalarsi agli occhi del sovrano per la sua efficienza e l’impegno nel lavoro. L’autobiografia di Unj non ci appare animata da altro ideale che il successo mondano e gli avanzamenti di una carriera che lo avrebbero portato ad avvicinarsi sempre piú al sovrano, il quale lo avrebbe debitamente compensato. Il dono della tomba costituiva il coro-

namento di una vita di lavoro e di fedele servizio nei confronti del dio che regnava sull’Egitto e che era l’unico a giudicare chi dovesse entrare nella sua corte celeste. Occorre inoltre sottolineare un elemento molto importante e che non cessa di stupire quando ci si occupa di questo periodo della storia egiziana: i personaggi che conosciamo – funzionari, sacerdoti, artisti – non obbediscono a una legge morale generale e astratta, ma solo a quello che appare come la volontà del sovrano. Nelle vicende della vita (che qui si identificano con quelle della carriera) gli Egiziani non sono guidati da comandamenti, ma solo dalla conformità al volere del sovrano. Non temono un giudizio dopo la morte nel corso del quale dovranno rispondere delle loro azioni e dal quale riceveranno un premio o una punizione da scontare nell’aldilà: tutto si esaurisce su questa terra nel giudizio formulato dal dio che siede sul trono d’Egitto.

IL COLLOQUIO DECISIVO In realtà, esisteva una valutazione, ma essa si risolveva, in questo mondo e in base a princípi puramente umani, in un colloquio tra il sovrano e i suoi funzionari: non vi è neppure il modo di addolcire o di rendere favorevoli i verdetti del re, il quale ha sotto gli occhi la carriera dei suoi uomini e, chiuso nel suo palazzo, deciderà del loro destino. Se il giudizio sarà positivo (e coinvolgerà l’intera esistenza del suddito), si apriranno le porte dell’aldilà, rese visibili da quelle della tomba che gli verrà concessa; altrimenti sarà un Nella pagina accanto: Saqqara. La piramide a gradoni di Djoser, fulcro del complesso funerario del re, progettato dall’architetto Imhotep. III dinastia, 2680-2660 a.C. A sinistra: stele con autobiografia del funzionario Unj, rinvenuta ad Abido dentro la sua tomba. VI dinastia, 2350-2195 a.C. Il Cairo, Museo Egizio. a r c h e o 63


STORIA • ANTICO EGITTO

destino crudelmente materialista: «il nulla eterno» per esprimersi con le parole del poeta. Tutto ciò può sembrare in contraddizione con alcuni testi letterari, i primi che ci siano giunti dall’Antico Regno, la cui redazione cominciò già a partire dalla III dinastia (2700-2609 a.C.), se è vero che il piú antico risale probabilmente al grande architetto Imhotep, al quale dobbiamo il già ricordato progetto del complesso funerario del re Djoser a Saqqara, il cui centro ideale è costituito dalla piramide a gradoni. Purtroppo tale testo non ci è giunto, ma ne possiamo leggere altri, piú tardi: si tratta dei cosiddetti Insegnamenti, raccolte di massime morali indirizzate di padre in figlio nelle quali erano contenute le regole di vita che un genitore consegnava (o fin-

geva di consegnare) alla propria discendenza, affinché si potesse districare in una società dura e spietata, quale era quella del III millennio a.C. A quel tempo, si poteva emergere e «salvarsi» solo affidandosi all’unico principio che contava davvero: farsi largo nella vita, seguendo un’unica regola, il successo, perché null’altro contava veramente. Regole di convivenza (e di convenienza) sociale, non di morale.

REGOLE ELITARIE Vale la pena di osservare che tali testi provengono dagli strati piú alti della società, se non da componenti della stessa famiglia regale, a riprova di quanto poco valessero e fossero diffusi tra le persone normali. Tuttavia, a ben vedere, anche in un mondo cosí particolare

esisteva un giudizio non rinviato all’aldilà – dove un dio o una assemblea di dèi avrebbero fatto un bilancio delle azioni compiute –, ma formulato in questo mondo da un dio che sedeva sul trono e che, come s’è visto, giudicava in base a un solo criterio: l’efficienza nel lavoro e la partecipazione alla vita dello Stato accanto al re. Un mondo terribile e che poteva giustificarsi in una società monolitica in cui l’individuo era schiacciato da un meccanismo al quale poteva forse sottrarsi partecipandovi con tutte le proprie energie, animato da una sorta di entusiasmo per la riuscita del lavoro comune: cosí, un giorno, avrebbe ricevuto un premio; altrimenti, il nulla, come accadeva a quasi tutti gli abitanti della Valle del Nilo.

Particolare del rilievo di Ptahotep e di Tauseret, raffigurante i due coniugi che ricevono offerte dal loro primogenito e dagli altri figli e figlie, da Saqqara. XIX dinastia, 1292-1190 a.C. Bologna, Museo Civico Archeologico.

64 a r c h e o



STORIA • RIUSO DEI MONUMENTI

ROMA SPARITA DEL GLORIOSO PASSATO MONUMENTALE DELL’URBE FANNO PARTE ALCUNE TESTIMONIANZE DI ETÀ MEDIEVALE. DIVENUTE RARE – PERCHÉ SACRIFICATE SULL’ALTARE DI UNA«ROMANITÀ» DI RECENTE INVENZIONE – CI PARLANO DI UN PARTICOLARE E AFFASCINANTE MODO DI SOPRAVVIVERE E RINASCERE. CHE VALE LA PENA DI RISCOPRIRE di Andrea Augenti

Veduta del Campo Vaccino, olio su tela di Claude Lorrain. 1636. Parigi, Museo del Louvre. Il dipinto mostra il Foro Romano cosí come si presentava prima che ne fosse intrapreso lo scavo e documenta anche la presenza di molte strutture che riutilizzavano i monumenti dell’età imperiale. 66 a r c h e o


D

a tempo sappiamo che la nostra visione di Roma è falsata dai molti restauri effettuati sui monumenti della città, in particolar modo durante l’epoca fascista. Erano, queste ultime, operazioni ideologicamente marcate, attraverso le quali si cercava di riportare «allo splendore originario» le strutture antiche e, per farlo, si cancellavano le tracce lasciate dalle epoche successive, a cominciare dal Medioevo. Si è cosí venuto a creare un vero e proprio falso storico, un fermoimmagine che congela i diversi monumenti dell’Urbe in un unico periodo, mentre uno degli aspetti piú affascinanti della storia sono i mille modi in cui gli edifici possono essere modificati, riutilizzati e trasformati. Il risultato di questi interventi è che, se si eccettuano le chiese, oggi si può vedere ben poco delle architetture medievali di Roma.

a r c h e o 67


STORIA • RIUSO DEI MONUMENTI

Fra le poche eccezioni, il Teatro di Marcello. Chi da piazza Venezia scende verso il Foro Boario, in direzione del Tevere, s’imbatte facilmente in questo grandioso monumento, simile al Colosseo, rispetto al quale, però, presenta una differenza sostanziale: nel primo, infatti, sono state conservate le aggiunte successive, dell’età medievale e moderna. Sopra le arcate in travertino di età romana, articolate su due piani (ma in origine erano tre), è dunque possibile vedere la struttura di uno dei piú importanti palazzi-fortezza dell’aristocrazia romana, costruito interamente in mattoni. Ne furono proprietari prima la famiglia Savelli, dal XIII secolo, e poi gli Orsini, nel XVI. Ecco, il Teatro di Marcello può essere considerato l’icona ideale per illustrare in modo sintetico il destino e le trasformazioni dei monumenti di Roma nel Medioevo. La sua struttura evoca

68 a r c h e o

perfettamente l’idea di una città che cresce su se stessa, che recupera e rivisita il suo passato per piegarlo ai suoi bisogni e, letteralmente, ci si appoggia. Tuttavia, come abbiamo già detto, il caso del Teatro di Marcello costituisce un’eccezione; sono le piú recenti indagini archeologiche, invece, a gettare nuova luce sulle possibilità di uso e trasformazioni alle quali i monumenti dell’antica Roma, grandi e piccoli, andarono incontro nell’età di Mezzo.

LA TARDA ANTICHITÀ Nel IV secolo l’Urbe gode ancora di ottima salute. Con una popolazione forse equivalente a quella della piena età imperiale, cioè un milione di abitanti circa, la città mantiene quasi intatte le sue caratteristiche: le infrastrutture e la maggior parte dei monumenti sono ancora in funzione e, all’occorrenza, vengono anche restaurati. Il tessuto ur-

A destra: Roma, il Teatro di Marcello. La sua costruzione fu avviata da Giulio Cesare e ultimata da Augusto, che lo dedicò nel 13 (o 11) a.C. In età medievale, l’edificio fu trasformato in fortezza. In basso: il monumento in una incisione di Giovan Battista Piranesi che documenta la tamponatura delle arcate, rimosse negli anni Trenta del Novecento.


bano è piuttosto compatto e non si notano particolari vuoti o diradamenti del costruito; l’unica differenza, rispetto al passato, è il progressivo aumento di un nuovo genere di monumenti: le basiliche cristiane, che proliferano soprattutto dopo la costruzione della cattedrale dedicata al Salvatore (oggi S. Giovanni in Laterano). Un vero mutamento di carattere generale si registra invece nel V secolo. La crisi economica dell’impero si fa sentire e persino nella grande metropoli non si riesce piú a investire nella manutenzione e nel restauro dell’apparato monumentale. I grandi complessi iniziano a crollare, a sgretolarsi, in parte o del tutto, e nessuno si preoccupa di ristrutturarli, ma neanche di rimuovere i detriti, che restano al loro posto, creando notevoli ingombri. Si diffondono allora nuovi comportamenti rispetto a questa antichità fatiscente, incombente e, tutto sommato, inutile: il riuso dei monumenti come discariche.

Piú di uno scavo ha messo in luce ambienti di edifici adoperati come immondezzai fin dal V secolo. Tra questi figura la sede degli araldi del Circo Massimo (già nota, erroneamente, come Schola Praeconum), alcuni dei cui ambienti furono letteralmente riempiti da cumuli

Dopo la caduta dell’impero venne meno il divieto di seppellire all’interno delle mura cittadine di immondizia e ceramiche rotte, e quindi sepolti: evidentemente, già allora, l’edificio non serviva piú a nessuno. La Schola, oggi, si è trasformata in un paradiso per gli archeologi: essa ha infatti restituito materiali che hanno permesso di studiare nel dettaglio la cultura

materiale della tarda antichità, prime fra tutti le ceramiche importate dall’Africa; al tempo stesso, il suo ritrovamento ha rivelato che il tessuto urbano inizia progressivamente a smagliarsi, ad allentare la sua compattezza. Un’altra soluzione molto praticata in questo periodo consiste nell’adibire i monumenti antichi a luoghi di sepoltura. Tombe singole, o in piccoli gruppi, talvolta vere e proprie necropoli, vengono impiantate in edifici e complessi ormai in disuso. Se ne trovano un po’ ovunque, a Roma e non solo. È il segno che qualcosa di molto antico, anzi di veramente ancestrale, è cambiato: la morte non viene piú rimossa, marginalizzata fuori delle aree urbane. L’antica legge delle Dodici Tavole (il corpo di norme compilato alla metà del V secolo a.C. e contenente regole di diritto pubblico e privato, n.d.r.) – che recitava «Nessuno sia sepolto né cremato dentro la città» – non è piú in vigore; prevale un rapporto diretto e di vicinanza a r c h e o 69


STORIA • RIUSO DEI MONUMENTI

Roma. I resti della fornace per la produzione di manufatti in vetro impiantata nel V sec. d.C. nell’esedra della Cripta di Balbo, il portico monumentale del Campo Marzio annesso al Teatro di Balbo. L’analisi dei materiali restituiti dallo scavo prova che l’officina rispondeva alla richiesta del mercato locale.

tra i vivi e i morti, spesso sepolti nei pressi delle case. È una vera mutazione antropologica, rispetto alla quale si tornò indietro solo all’inizio del XIX secolo, con un editto napoleonico che sancisce nuovamente il divieto di seppellire entro le mura, favorendo cosí la nascita di molti cimiteri monumentali. Nella tarda antichità, i grandi complessi monumentali possono diventare anche uno dei luoghi preferiti per l’insediamento degli impianti produttivi.Tale fenomeno è attestato un po’ ovunque, come per esempio a Brescia, il cui Capitolium ospita nel VII secolo una fornace in cui si produce ceramica longobarda. Ed è quanto accade anche a Roma, nella Cripta di Balbo – il grande portico del Campo Marzio annesso al Teatro di Balbo –, scavata dagli anni Ottanta del secolo scorso. Qui, nel V secolo, viene costruita 70 a r c h e o

una fornace per la produzione del vetro, e dobbiamo, quindi, immaginare artigiani specializzati che lavorano tra le rovine del monumento antico. Niente di trascendentale dal punto di vista della quantità: si trattava probabilmente di un impianto che soddisfaceva una domanda «di quartiere», piuttosto ridotta. Ma intanto, lí dove un tempo i cittadini romani si incontravano e discutevano negli intervalli tra un atto e l’altro delle rappresentazioni teatrali, ora si producono manufatti in vetro.

LA FORNACE PER LA CALCE Ormai completamente inutile e con grandi spazi ora disponibili per qualunque uso, questo portico mantiene a lungo una sorta di «vocazione artigianale»: nell’VIII secolo ospiterà anche una fornace per la produzione della calce, for-

tunosamente ritrovata dagli archeologi con l’ultimo carico di marmi ancora al suo posto. Quest’ultima scoperta ci permette di segnalare anche un altro uso dei monumenti antichi, forse il piú semplice e immediato di tutti. Come molte altre a Roma e fuori, la calcara della Cripta di Balbo veniva sfruttata per bruciare marmi e pietre provenienti dallo stesso monumento in cui era stata costruita. I grandi complessi dell’antichità potevano dunque trasformarsi in cave a cielo aperto: con i loro mattoni o blocchi di pietra si potevano costruire nuovi edifici, oppure – come nel caso appena citato – le decorazioni in marmo (colonne, capitelli, architravi) venivano semplicemente asportate e bruciate lí, seduta stante, per produrre la calce che serviva poi (mescolata con acqua e sabbia) a preparare la malta. Insomma, la città tardo-antica e medievale «cannibalizza» letteralmente il suo passato, lo divora, lo ricicla e lo metabolizza nel presente, per creare novità e procedere nel suo sviluppo. Da questo punto di vista, un trattamento speciale – perché prolungato nel tempo – lo subiscono le Mura Serviane, che avevano difeso Roma in età arcaica e repubblicana ed erano diventate ben presto uno dei monumenti piú inutili della città, sostituite poi nel III secolo d.C. dalle Mura Aureliane. I loro blocchi di tufo, ripetutamente saccheggiati, furono usati per costruire chiese, case, gli argini del Tevere e persino altre mura: quelle della Città Leonina, il circuito innalzato attorno alla basilica di S. Pietro in Vaticano verso la metà del IX secolo. Ridotti a discariche, crivellati da fosse sepolcrali, costellati di impianti artigianali; oppure semplicemente lasciati andare in rovina, e i loro mater iali da costruzione asportati per costruire altrove. Molti monumenti antichi vengono gradualmente assorbiti dalla città,


cambiando funzione e destinazione. L’antropologo francese Marc Augé ha coniato un termine che ben si attaglia alla loro condizione: sono «non luoghi», cioè luoghi di passaggio e, al tempo stesso, di servizio, utili solo per alcune attività, nei quali non si sosta piú di tanto e che quindi non hanno piú una propria identità specifica. Tuttavia, non è sempre stato cosí e fra le modalità di riuso ce ne sono altre, maggiormente indirizzate, per quanto possibile, allo sfruttamento delle architetture superstiti. Innanzitutto, la costruzione delle chiese: la progressiva affermazione del cristianesimo porta alla moltiplicazione degli edifici di culto, che non è

sempre possibile costruire ex novo. E, del resto, perché farlo, quando ci sono a disposizione strutture già edificate e pronte all’uso?

POCHI ELEMENTI PER RICAVARE UNA CHIESA Una delle soluzioni piú diffuse, soprattutto tra il IV e il V secolo, consiste dunque nell’impiantare le chiese dentro le case dell’aristocrazia. A tale scopo si utilizzano soprattutto le grandi aule dotate di abside, le sale di rappresentanza nelle quali il dominus gestiva i suoi affari e riceveva i suoi interlocutori, edifici che si rivelano ideali per essere trasformati in chiese, e cosí in effetti accade. È infatti sufficien-

te aggiungere pochi elementi: recinzioni presbiteriali in marmo o in muratura per separare la zona del clero da quella dei fedeli; decorazioni pittoriche e sculture; un altare, un ciborio, un pulpito. Simili interventi sono assai frequenti a Roma: accade per la chiesa dei Ss. Quattro Coronati, oppure per la piccola chiesa di S. Balbina, vicina alle Terme di Caracalla (un gioiello poco conosciuto, che vale davvero la pena di visitare). Altre volte è un intero monumento, di tutt’altro genere, a essere convertito: come nel caso della Curia, la sede del Senato, che diventa la chiesa di S. Adriano per volere di papa Onorio I (625-638). Il gesto della

Il Foro di Nerva alla fine del IX secolo I muri di delimitazione del monumento romano sono ancora sostanzialmente intatti, mentre la piazza è occupata da strutture residenziali, affacciate su un percorso stradale acciottolato. La prima casa a destra è a due piani, con un portico antistante. Sul lato opposto

della strada è in costruzione una struttura analoga. Si tratta di dimore aristocratiche, che le fonti chiamano «domus solarate», cioè case a due piani. Quello superiore era riservato ai proprietari, mentre l’inferiore serviva da stalla, magazzino e per il personale di servizio.

a r c h e o 71


STORIA • RIUSO DEI MONUMENTI

trasformazione può anche avere una valenza fortemente ideologica, per voltare simbolicamente pagina: è quanto succede all’inizio del VII secolo con il Pantheon (il tempio «di tutti gli dèi»), che diventa la chiesa di S. Maria ad Martyres («di tutti i martiri»). Le religioni si avvicendano e i monumenti sono spesso il tramite di questa sequenza. Un’altra pratica molto diffusa è quella di ricavare abitazioni all’interno delle strutture antiche. Per esempio utilizzando i muri ancora esistenti, come succede nel IX secolo nel Foro di Nerva, a Roma. Qui gli scavi hanno portato alla luce due dimore dell’aristocrazia romana dell’Alto Medioevo, costruite sfruttando gli spessi muri

72 a r c h e o

perimetrali dell’antico Foro (e realizzate entrambe in materiale di reimpiego, tra l’altro: blocchi di tufo e mattoni).

CASE NELL’ANFITEATRO Altri complessi si prestano bene a questo scopo: è il caso dei teatri e degli anfiteatri. Come testimoniano molti monumenti romani e non, tra cui il Colosseo, per ricavare una casa è infatti sufficiente chiudere con due muri lo spazio delimitato da una arcata. Si tratta di una pratica che, peraltro, perdura nel corso dei secoli: alcune foto degli inizi del Novecento testimoniano come il A destra: la chiesa di S.Balbina, eretta nel IV sec. sulla casa del console romano Fabio Cilone.

Teatro di Marcello si trovasse esattamente in queste condizioni, con gli archi del piano terra occupati da case e botteghe. Si tratta, d’altronde, del destino a cui sono andati incontro, per esempio, anche l’Arena di Verona e l’Anfiteatro di Lucca. Anzi, in quest’ultimo caso è interessante osservare come le abitazioni abbiano progressivamente invaso l’intero monumento, fino ad assorbirlo completamente nel tessuto urbano, con l’arena che poi è diventata una piazza; tanto che la sua struttura originaria si può oggi apprezzare esclusivamente grazie alle foto aeree. Che è poi quan-


to succede con lo Stadio di Domiziano a Roma, divenuto Piazza Navona. Insomma, almeno per quel che riguarda la loro struttura piú essenziale, le case costruite al loro interno dal Medioevo in poi hanno «traghettato» i complessi monumentali dell’antichità a oggi.

FORTEZZE E TORRI Un’ultima forma di recupero dei monumenti è quella che li vede trasformarsi in fortezze. In realtà, conosciamo alcuni precedenti sporadici: già nel 537, durante l’assedio di Roma da parte dei Goti, il Mausoleo di Adriano viene usato come avamposto dall’esercito bizantino. Ma il fenomeno diventa molto diffuso soprattutto a partire dal X secolo, quando Roma è attraversata

In alto: Roma. La sede degli araldi del Circo Massimo, situata sul Palatino. Caduto in disuso, l’edificio venne utilizzato come immondezzaio. In basso: Roma. La Torre della Moletta, innalzata in età medievale in corrispondenza del lato curvo del Circo Massimo.

a r c h e o 73


STORIA • RIUSO DEI MONUMENTI L’Arco di Tito in un’incisione di Maarten van Heemskerck. 1532-1536. Berlino, Staatliche Museen. Sopra l’iscrizione incisa sull’attico del monumento e soprattutto ai lati del fornice si vedono i resti delle murature riferibili alla torre che fu innalzata sulla struttura, seguendo un uso attestato nel corso del Medioevo per questo e altri archi romani.

da pesanti frizioni interne e molte famiglie se ne contendono il dominio. E non è un caso, perché i grandi complessi, soprattutto quelli di forma circolare o semicircolare, con la loro compattezza e la loro – nonostante tutto – ancora notevole consistenza monumentale, si prestano benissimo a essere recuperati come fortificazioni.

FAZIONI IN LOTTA Succede cosí al Mausoleo di Augusto, al Mausoleo di Cecilia Metella sulla via Appia, ai Teatri di Balbo, di Pompeo e di Marcello, e allo stesso Colosseo, che viene occupato e a lungo presidiato dalla potente famiglia dei Frangipane. Tutto questo accade in un paesaggio urbano che tende a militarizzarsi sempre di piú, perché fazioni e famiglie sono spesso in conflitto tra loro, dando anche luogo a episodi di vera e propria guerriglia urbana: assedi in piena regola, come quello condotto contro il Colosseo nel 1214, di cui è rimasta una testimonianza scritta. In questo paesaggio militarizzato, si diffondono e si moltiplicano le torri, status symbol e, al tempo stesso, postazioni attrezzate per il controllo del territorio. Le torri non solo affiancano le fortezze, ma vengono spesso collocate al di sopra dei monumenti antichi, per ottenere una posizione dominante. La soluzione piú vantaggiosa consiste nel costruirle sopra gli archi di trionfo. A partire dal XVI secolo, disegni e incisioni ci mostrano numerose torri in cima a quasi tutti gli archi onorari 74 a r c h e o

di Roma: quello di Tito, di Settimio Severo, di Costantino… Queste strutture sono sopravvissute per secoli, indisturbate, finché non ha iniziato ad affermarsi un concetto di archeologia che escludeva completamente il Medioevo e che non riconosceva dignità ai suoi monumenti, perché li considerava in qualche modo «parassitari». E allora si è iniziato, agli inizi del Novecento, a distruggerli. Come nel caso della Torre Cartularia, presso il Palatino, rasa al suolo con la dinamite.

Da allora, si è dovuto aspettare quasi un secolo perché maturasse la disciplina dell’archeologia medievale, che finalmente ci aiuta a capire l’importanza di quei monumenti e, piú in generale, a comprendere quanto possa essere piú ricca e avvincente una storia che non si ferma come un orologio rotto a un dato momento (il simbolico 476 d.C.), ma prosegue anche dopo, in molti modi diversi. Che vale la pena di raccontare, attraverso i loro resti materiali.



ARCHEOLOGIA SPERIMENTALE • ONAGRO

A VOLTE RINASCONO SEBBENE MOLTO DIFFUSO, LE FONTI LO CITANO RARAMENTE. PARLIAMO DELL’ONAGRO, LA MICIDIALE MACCHINA DA GUERRA CHIAMATA CON IL SINGOLARE NOME DELL’ASINO SELVATICO. IL NOSTRO COLLABORATORE FLAVIO RUSSO, POLEMOLOGO ED ESPERTO DI TECNOLOGIA ANTICA, LO HA RICOSTRUITO. E, IN UNA NUOVA SERIE DI ARTICOLI, CI SPIEGA PERCHÉ E COME... di Flavio Russo

L’

archeologia «sperimentale» ha tra le sue finalità la riproduzione degli antichi manufatti, allo scopo di verificarne le potenzialità, cosí da fornire quelle informazioni che la ricerca sul campo non è sempre in grado di restituire. Anche la piú attenta del76 a r c h e o

le indagini sistematiche, infatti, deve misurarsi con la rarità dei reperti, piú o meno danneggiati, e con l’avulsione degli stessi dal contesto originario. Senza contare che la loro preziosità ne impedisce spesso qualsiasi vaglio conoscitivo, al di là della mera fotografia.

Ne consegue che le deduzioni materiali fin qui acquisite siano perlopiú esiti dell’archeologia sperimentale, ottenuti secondo alcuni rigidi criteri. Il primo prescrive che materiali e tecniche impiegati siano perfettamente identici a quelli in uso nell’epoca in esame; il secondo è


che, a loro volta, le nozioni tecnicoscientifiche fossero allora note; il terzo che le fonti, scritte e iconografiche, provino con sicurezza l’esistenza del manufatto in studio. In quest’ultimo ambito rientrano i mezzi bellici e, piú in generale, le armi collettive e individuali, che

compongono una categoria densa di conseguenze sul piano scientifico e polemologico e ben rappresentato dalle macchine da lancio di età ellenistico-romana, definite anche artiglierie «elastiche», «neuro balistiche» o «nevrotone». A questa classe appartiene la rico-

L’assedio di Alesia, olio su tela di Henri-Paul Motte (1846-1922). Le-Puy-en-Velay, Musée Crozatier. Nel dipinto compaiono le macchine da guerra utilizzate da Cesare nel 52 a.C. contro i Galli, e, al centro, nella torre, alcuni legionari armano un onagro.

a r c h e o 77


ARCHEOLOGIA SPERIMENTALE • ONAGRO

struzione di un onagro romano che presentiamo in queste pagine. Se la deformazione elastica – per compressione, trazione, flessione e torsione – costituí la risorsa energetica reversibile per antonomasia, fu l’ultima – la torsione – a fornire il massimo rendimento e perciò la piú utilizzata nelle macchine da lancio. Non a caso, dal verbo torcere derivò la loro generica definizione di tormenta, con esplicito riferimento alla torsione delle matasse elastiche che ne garantivano il funzionamento. Pur essendo unico il criterio informatore delle artiglierie elastiche, quale che fosse la loro dimensione, non altrettanto ne fu l’architettura strutturale, soprattutto in quella tramandata da una vicenda storica singolare e che potrebbe definirsi di tipo «carsico», per l’avvicendarsi, nell’arco di sei secoli, di

laconiche menzioni e prolungate rimozioni: il lanciasassi monobraccio, dal tiro molto parabolico, ricordato dai Greci come monoancon e dai Romani come onagro.

PIETRE PESANTI E «GROSSISSIME» Nessuna sua immagine suffraga una qualsiasi raffigurazione moderna, ma le menzioni e le tracce relative non mancano, a partire dallo scrittore e inventore greco Filone di Bisanzio, vissuto tra il 280-220 a.C. che cosí lo ricordò nel V libro della sua Sintassi Meccanica: «Allo stesso

2

scopo, fanno cadere delle grossissime pietre pesanti un talento (palla di pietra del peso di 26 kg, e del diametro di 25-30 cm, n.d.A.) ( …) per mezzo di petroboli e di monoancon». Sulle mura settentrionali di Pompei si possono tuttora vedere numerosi crateri prodotti dall’impatto delle palle delle baliste di Silla durante l’assedio dell’89 a.C., i piú grandi dei quali hanno un diametro di 140 mm circa, con una penetrazione di 120 mm circa, secondo una direttrice normale al bersaglio. Dentro la città sono state inoltre rinvenute numerose palle in pietra, risalenti al medesimo episodio, ma il loro diametro oscilla fra i 200-250 mm, di gran lunga eccedente quello dei crateri, e, per giunta, si tratta di proietti caduti dopo avere scavalcato le mura. Un esito che, per diametro e

3

1

Potente e preciso L’onagro romano era una macchina da lancio funzionante con un’unica matassa centrale (1), al centro della quale stava inserito il braccio di lancio (2), munito all’estremità

78 a r c h e o

opposta di una fionda (3) a sgancio automatico. Il criterio informatore ricordava l’antica sega da falegname, la cui lama era messa in tensione dalla torsione di una corda tramite un tenditore.


parabola, poteva essere garantito solo dai tiri del monoancon, peraltro l’unica macchina d’età classica in grado di battere direttamente l’interno di una città assediata. Anche l’architetto militare e civile Apollodoro di Damasco, vissuto tra il 50 e il 130 e a lungo al servizio dell’imperatore di Traiano, allude di sfuggita al monoancon, al paragrafo 188 del trattato Poliorketika (L’arte dell’assedio) che scrisse in greco, tra il 101-106: «Questi, una volta forati, saranno forniti di boccole e di cinghie di nervi e di un braccio lungo nel mezzo; sono simili ai lancia pietre, che alcuni chiamano “onagri”».

LEGNO DI QUERCIA O DI LECCIO Una menzione talmente laconica e lacunosa da fare invece ritenere quasi esaustiva l’esposizione dello storico latino Ammiano Marcellino, vissuto fra il 330-397 circa, che 2,40

si può leggere nel XXIII libro del suo trattato Le Storie, cosí tradotta da Francesco Ambrosoli nel 1830: «La forma dello “scorpione” (ora chiamato “asino selvatico”, onagro) è invece questa. Due assi di legno di quercia oppure di leccio vengono sgrossati con l’ascia e un po’ arrotondati in modo che sembrino sporgere in forma di gobbe: questi due assi vengono congiunti come nelle macchine per segare (su entrambi i lati subiscono perforazioni abbastanza larghe e attraverso questi fori passano funi robuste che collegano gli assi e tengono compatta la macchina in modo non si frantumi)». «Dalle funi poste al centro [degli assi] spunta obliquo uno stilo di legno (eretto come un timone di un carro); avvolto nei piccoli nodi formati dalle corde (in modo che sia possibile alzarlo e abbassarlo), alla sua sommità vengono applicati uncini di ferro. Di fronte a questo stilo di legno [all’estremità della macchina] viene steso un grosso PIANTA

1,00

PROSPETTO LATERALE 115°

sacco fatto di pelle di capra, pieno di paglia minuta: legato con nodi forti, viene posto su zolle di terra accumulata oppure su mucchi di mattoni: infatti una mole [come è questa macchina], posta sopra un muro fatto di sassi, scompagina tutto ciò che trova sotto di sé, non con il suo peso, ma per i violenti scuotimenti che imprime».

QUATTRO SERVENTI PER LATO «Venuti a battaglia, è immessa nella fionda una pietra rotonda; quattro giovani da ognuno dei due lati girano in senso inverso le sbarre cui sono incorporate le funi [che trattengono lo stilo di legno], piegando lo stilo all’indietro fin quasi alla sua posizione orizzontale e a questo punto il direttore della macchina, posto su un podio, apre la chiavetta che contiene i legami di tutto il meccanismo, percuotendola con un forte colpo di martello: lo stilo viene sciolto da quel colpo assestato veloce e andando a picchiare contro il morbido sacco di pelle di capra, scaglia il sasso che spezzerà tutto ciò in cui s’imbatterà». «Ed è chiamato tormentum perché ogni suo svolgersi avviene per “tormenti” [girate]; e anche “scorpione” perché nella parte alta ha un aculeo eretto; ma gli è stato dato anche il nome di “asino selvatico” in età moderna, perché gli asini selvatici, incalzati dai cacciatori, calciando scagliano sassi alle loro spalle, tanto lontano da trapassare il petto degli inseguitori oppure da ridurne in pezzi le teste frantumandone le ossa». Sostanzialmente contemporaneo fu anche l’erudito latino Renato Vegezio Flavio, vissuto fra la seconda metà del IV e la prima metà del V secolo, che cosí scriveva al riguardo nell’Epitoma rei militaris, qui nella traduzione di Bono Giamboni (1815): «E l’onagro, cioè mangano, o altro dificio manda le pietre, ma come forte di nervi e come grande, pietre pesanti cosí gittano (…) I grandi sassi per gli onagri, cioè per gli grandi dificj gittati, non solamente gli uomini, e cavalli magagnano, ma de’ nemici ancora i grandi edifici fiaccano». a r c h e o 79


ARCHEOLOGIA SPERIMENTALE • ONAGRO

Per procedere alla ricostruzione di un’antica macchina, totalmente o in gran parte perduta, il primo problema da superare è quello delle sue dimensioni effettive. Nel caso dell’onagro, si può contare oltre che sulla connotazione generica descritta da Ammiano Marcellino e sulle menzioni piú antiche, soprattutto sui proietti pompeiani. La formula d=1.1 3√p, tramandataci da Filone lega, infatti, il peso dei proietti, -p, espresso in dracme, pari ciascuna a 6 g, al diametro delle matasse elastiche, -d, espresso in dita, a loro volta pari a 1,8 cm, che li doveva scagliare: una dimensione che assurge a modulo dell’intera macchina, permettendone perciò il corretto dimensionamento.

LA MATASSA E IL TELAIO Nel caso di una matassa unica, il suo diametro è ovviamente doppio, per cui, a conti fatti, per l’onagro destinato a scagliare palle di 20-25 kg esso sarà di 140 mm, per una lunghezza di 90 cm circa, pari a 6 mo80 a r c h e o

In alto, a sinistra e a destra: palle in pietra rinvenute nella città di Pompei che, per dimensioni e dal confronto con i segni osservati sulle mura, dovettero essere scagliate con un monoancon. Qui accanto e in basso: fori da impatti balistici sull’estradosso delle mura settentrionali di Pompei. Il loro diametro è di molto inferiore a quello delle palle rinvenute nell’abitato (vedi foto in alto).


Il recupero delle traversine Il legno di quercia è una delle essenze piú dure e tenaci, ideali, quindi, per costruzioni sottoposte a forti sollecitazioni. Un tempo si adoperava nei cantieri navali per le chiglie delle navi e, piú in generale, per la loro opera morta, anche in virtú della buona resistenza all’acqua. Per la sua rilevante resa termica, il legno di quercia fu a lungo utilizzato nelle fonderie e nelle ferriere, determinando gravi disboscamenti, peggiorati ulteriormente dall’avvento delle ferrovie, per le quali forní milioni di traverse. Utilizzi che hanno reso problematico l’approvvigionamento di travi con adeguata stagionatura indispensabili per le ricostruzioni piú fedeli. TELAIO

duli. Sempre per analogia con le normali artiglierie elastiche a due bracci, anche la matassa dell’onagro si deve immaginare inserita in una sorta di telaio di dimensioni modulari appena superiori, ricavato tra i due longheroni spessi 1 modulo (15 cm circa), che fungono da peritreti, distanziati di 4 moduli (60 cm circa), tramite due traverse parastatiche, spesse a loro volta 5/8 di modulo (10 cm circa), con interasse di 1,5 moduli (30 cm circa).

UN’AGGIUNTA INDISPENSABILE Considerando, inoltre, che il braccio dovrà essere il doppio dei canonici 7 moduli, esso avrà una lunghezza di 200 cm circa, poco meno della lunghezza dell’intera macchina, pari a 240 cm circa. Un’ultima osservazione va fatta in merito alle ruote: le fonti non ne fanno parola, ma esse furono senza dubbio adottate per ragioni di mobilità anche in fase di brandeggio, verosimilmente sfilabili al momento del tiro, con un diametro di 3 moduli (42 cm circa). A questo punto, eseguiti i disegni esecutivi, la fase successiva contempla il reperimento dei materiali idonei, nella fattispecie legno di quercia stagionato di adeguate dimensioni, provenienti da alberi abbastanza giovani. Una sommaria osservazione rivela che le dimensioni dei longheroni della macchina sono di poco piú piccoli di quelli delle traverse ferroviarie, 260 x 20 x 15 cm, per cui un agevole punto di partenza è consistito nel procurarsene un certo numero fra quelle mai utilizzate e non impregnate di olio di creosoto (una sostanza derivata dal petrolio che serviva a renderle impermeabili agli agenti atmosferici, n.d.r.). La fase immediatamente successiva è stata la loro sgrezzatura, eseguita in segheria sulla base dei precisi grafici di progetto. (1 – continua) a r c h e o 81


SPECIALE • BEIRUT

IL TESORO DI BEIRUT

NONOSTANTE UN VENTENNIO DI VERA E PROPRIA RINASCITA, ALCUNI PALAZZI DELLA CAPITALE LIBANESE PORTANO ANCORA I SEGNI DELLA GUERRA CHE PER QUINDICI ANNI HA SCONVOLTO IL PAESE. UNA SORTE DRAMMATICA, CHE AVEVA COLPITO ANCHE LA PRINCIPALE ISTITUZIONE CULTURALE DELLA CITTÀ, IL MUSEO NAZIONALE. OGGI, CON IL DETERMINANTE CONTRIBUTO DELLA COOPERAZIONE ITALIANA, IL MUSEO TORNA AD ESPORRE I SUOI CAPOLAVORI IN UN ALLESTIMENTO SPLENDIDO, PER ILLUSTRARE CON RINNOVATA EFFICACIA LA STORIA PLURISECOLARE DEL PAESE DEI CEDRI di Mauro Pompili 82 a r c h e o


Veduta di Beirut, capitale del Libano dal 1920. La cittĂ si affaccia sul Mar Mediterraneo da un ampio promontorio ai piedi degli ultimi contrafforti della catena del Libano.

a r c h e o 83


SPECIALE • BEIRUT

C

on la modernissima Bank Street, che si snoda tra le rovine delle terme romane e il Gran Serraglio, il campanile della cattedrale di S. Giorgio, che rivaleggia in altezza con i minareti della contigua moschea di al-Amin – e l’elenco potrebbe continuare a lungo – Beirut è l’immagine delle contraddizioni del Libano. Contrasti architettonici che raccontano le divisioni culturali, politiche e religiose che hanno fatto la ricchezza e la storia, spesso dolorosa, di questo Paese. Nel cuore della capitale, c’è però un luogo in cui si riesce a trovare un filo conduttore che tiene insieme questa straordinaria avventura: il Museo Nazionale. Qui sono conservate le testimonianze di una storia iniziata su questa sponda del Mediterraneo piú di un milione di anni fa e non ancora conclusa. Sulle coste

84 a r c h e o

Sulle due pagine: Beirut. Un’immagine emblematica di piazza dei Martiri, con, in primo piano, le rovine di età romana e bizantina e, sulla destra, la moschea di al-Amin.

e sulle montagne libanesi hanno vissuto, si sono incontrate e si sono date battaglia le civiltà del mondo antico, le culture e le religioni del Medioevo e le potenze mondiali dell’età moderna. La visita al Museo è un viaggio lungo la storia della civiltà umana. Dai primi semplici attrezzi in pietra, realizzati nel Paleolitico dai nostri antenati che si erano stabiliti qui grazie al clima mediterraneo, allo splendore opulento dell’età ottomana.

DAL CAOS AL SILENZIO Il grande edificio del Museo Nazionale, che ricorda le architetture dell’antico Egitto, accoglie il visitatore con un’ampia scalinata, che sembra avere l’effetto di una macchina del tempo: fuori il caos frenetico di una metropoli mediorientale, all’interno un’oasi di si-


d

SO

SE

S

0

500 mt.

hd

Rue

Boule vard S

aeb S alem

Pia P ia iazzza za za Hab Ha H ab a bib ib Abb Chha Abi ah ahl hl hla

u

e

E

Rue

NE

lger

Roc

de Ga u

lle

NO

O

Rue d’A Ibn

Rép de la

ubli q

Charle

s Helo

Misssio Mi si n ne e dei dei de Laazzza La za arrist sstti ti

as am eD ed Ru Rue SBechara El Khoum

én é uG

r al

N

Rue

Seli mS

venu e

Sco S cogli gl deel piccci cioone e

Ja Jar ardin dinn Saa San annay aye eh

A

Avenu e

alam

S di Sta diioo dio All Mannara A ara

Maa ina Mar M inna na Rue de Palla Pa Pal azz zz zzo de ell Trieste Par arla arlam lam ament am ent en n o Pia Piazza iaazza zza Gra G rran deeei M dei Ma aarti rttiri rti ri ri S raag Se Ser agli llio io io Cat Caattte Ca tted eeddra raale le Tou T ouur dii S. S. Gio Gio Gi i rgi giio all Mou M ur

u

el Ge may el

Uni Un U niiver n vve ersit er ssiit ità Ame A meeric iiccana ana an na

Piia Pia P iazza zzza Avenue Alias Sarkis

Sasssi Sas sin i e

rr e

Rue Ibn Sina

Ras Be Beyro yroouthh Far Fa arro a

Par Pa P arc ar du Boord du de Mer

A sinistra: cartina di Beirut con l’indicazione di alcuni dei siti di maggior interesse, fra cui il Museo Nazionale.

Pi e

ue de Pari s Aven

Porto Por to

Paa Pal alla azz zzo dii Gi d Giu G iiusti sttizzi zia i

Co rn ich e

Mar Mediterraneo

IIpp pp p podr d omo Ru Ip Museo e Om Nazionale ar Be yh um Foresta dei Pini

Pia Piazza iaazza z za Om Oma O m r Beyhum Bey eyyh hum um m

a r c h e o 85


SPECIALE • BEIRUT

86 a r c h e o


Tutti gli oggetti illustrati sono esposti nel Museo Nazionale di Beirut. A sinistra: il piano terra del Museo, nel quale sono collocate opere di epoca romana e bizantina. Fra gli altri, nello spazio antistante la scala che conduce al piano superiore, è esposto il magnifico mosaico con la musa Calliope e i sette saggi, proveniente da una villa romana di Baalbek e databile al III sec. d.C. In basso: l’edificio che ospita il Museo Nazionale, la cui facciata si ispira all’architettura dell’antico Egitto.

lenzio e di bellezza. Appena entrati, l’attenzione viene catturata dal grande, e molto ben conservato, mosaico di Calliope e i sette saggi. Nel III secolo d.C. decorava la sala da pranzo di una villa romana a Baalbek, nel Nord del Paese, e raffigura appunto la musa della filosofia circondata da Socrate e sette dei filosofi piú autorevoli della Grecia antica. Distolto lo sguardo dalla grande composizione, ci si accorge che l’intero piano terra del Museo è dedicato a statue, sarcofagi e mosaici, alcuni davvero monumentali. Vicino al mosaico di Calliope sono esposte varie statue della stessa epoca, tra cui risulta particolarmente affascinante quella, purtroppo senza testa, dell’imperatore Adriano, trovata a Tiro.

AMORINI, BATTAGLIE E LA LEGGENDA DI ACHILLE Ai lati della sala centrale si trovano quattro sarcofagi romani del II secolo d.C., che sono tra i reperti piú interessanti esposti in questa parte del Museo. Provengono dalla necropoli di Tiro e sono riccamente decorati, uno con amorini ubriachi, mentre su un altro si trovano scene di battaglia e gli ultimi due raccontano la leggenda di Achille. Molta parte del piano terra è dedicata alle opere del I millennio a.C.Vari reperti fanno riferimento a Eshmoun (Esculapio), dio fenicio della guarigione, il cui tempio è ancora visibile nei pressi di Sidone, nel Sud del Libano. Da lí proviene la tribuna in marmo (IV secolo a.C.), decorata con immagini di alcune divinità e figure danzanti. Qui ci so-

a r c h e o 87


SPECIALE • BEIRUT

In alto: sarcofago romano sulla cui cassa è scolpito un rilievo che raffigura amorini ebbri. A sinistra e in basso: altri particolari dello spazio che accoglie il mosaico di Calliope.

no anche diverse statue di neonati, soprattutto maschi, commissionate da aristocratici genitori di Sidone come ex voto per Eshmoun, per ringraziarlo di aver salvato i loro figli. Nella stanza accanto la splendida statua di Igea, la dea della salute, trovata a Biblo e risalente al II secolo d.C. A sinistra della sala centrale ci sono un altare monumentale e altri sei piú piccoli dedicati alla dea Astarte (Venere). Protetti da sfingi alate, provengono da vari siti in Libano e risalgono all’epoca persiana e romana. L’imponente colosso di calcare in stile egiziano, all’estrema sinistra della sala, è stato trovato a Biblo e dimostra la continua influenza dell’Egitto sulla città portuale libanese durante il I millennio a.C. La fattura non è particolarmente pregiata, ma racconta una parte della sua storia: le tracce di bruciatura sulla metà inferiore narrano del suo coinvolgimento in un incendio. Nella stessa sala si trova un sarcofago in marmo con iscrizioni fenicie, scoperto a Biblo, databile al IV secolo a.C. Tuttavia, il capolavoro piú importante conservato nel Museo Nazionale è senza dubbio il sarcofago del re Ahiram di Biblo (X secolo 88 a r c h e o


a.C.), che riporta la piú antica iscrizione in caratteri fenici a oggi nota. Il sarcofago si distingue per l’importanza dei rilievi e per l’iscrizione. Come dice il testo, appartenne ad Ahiram, re di Biblo, e conteneva vasi con il nome di Ramesse II e oggetti d’avorio con decorazione ispirata all’arte micenea. I rilievi che coprono la superficie del coperchio e della cassa sono fra i piú importanti dell’arte fenicia e raffigurano Ahiram seduto in trono fiancheggiato da sfingi davanti a una tavola carica di cibi, mentre riceve gli omaggi e le offerte di una lunga fila di uomini e di donne. Il sarcofago fa corpo unico con quattro leoni che lo sostengono (vedi box a p. 91). Tornando all’iscrizione, incisa sul coperchio e sulla cassa in quell’alfabeto fenicio che fu il prototipo di tutti i successivi alfabeti, essa ci informa che il sarcofago venne realizzato appunto per Ahiram, re di Biblo, dal figlio Ithobaal e formula molte minacce per qualsiasi re o governatore che voglia violarlo. Purtroppo, l’anatema sulla tomba di Ahiram non è bastato a proteggere le opere del Museo durante la lunga guerra civile libanese. Lo testimonia il bellissimo mosaico del Buon

In questa pagina: tribuna in marmo dal santuario di Eshmoun di Bustan esh Sheikh, nei pressi di Sidone. 350 a.C. Da alcuni interpretata come un altare, è un esempio di arte greca realizzata in Fenicia. I fregi corrono su due registri: il superiore mostra l’assemblea degli dèi, con Apollo al centro che tiene la cetra; l’inferiore raffigura un corteo di musici e danzatori.

a r c h e o 89


SPECIALE • BEIRUT

La ricchezza delle collezioni del Museo Nazionale di Beirut si apprezza pienamente salendo l’ampio scalone che conduce al secondo piano. Si lascia, cosí, la galleria delle grandi statue, dei sarcofagi e dei mosaici e si entra nel regno delle forme d’arte piú raffinate che la storia dell’umanità abbia creato nel corso dei millenni. Passeggiando tra le teche il cammino della storia sembra rallentare. Le ceramiche, i gioielli e gli oggetti di vetro soffiato mostrano una continua ricerca del bello. Le collezioni si susseguono cronologicamente, dalla preistoria alla conquista araba e al periodo ottomano. Reperti preistorici e protostorici, risalenti al Paleolitico, proven-

Pastore, del V o VI secolo d.C., che mostra ancora il foro praticato da un cecchino per posizionare la sua arma e colpire rimanendo al coperto. «Non abbiamo voluto ripararlo e nascondere i danni della guerra e dell’occupazione del Museo da parte delle varie milizie. Non abbiamo voluto cancellare la memoria della distruzione», ha detto Isabelle Skaf, la restauratrice che al termine del conflitto si è occupata dei mosaici del Museo. 90 a r c h e o

In alto: statua di Igea, dea della salute, da Biblo. II sec. d.C. A destra: statua colossale in calcare in stile egittizzante.


A

IL SARCOFAGO DI AHIRAM Il grande sarcofago del re Ahiram venne rinvenuto nel febbraio del 1922 nella tomba V di Biblo. Su un lato, Ahiram siede in trono, con un fiore di loto nella mano sinistra, tra sfingi alate e donne disperate dal dolore. Sul lato opposto, sfila un corteo sacrificale. Sul coperchio si legge:

«La bara che Ittobaal, figlio di Ahiram, re di Biblo, fece per suo padre come sede eterna. E se qualunque re, o governatore, o comandante attaccherà Biblo e aprirà questa bara, che si infranga il suo scettro del giudizio, che si rovesci il suo trono reale, e che la pace abbandoni per sempre Biblo; e quanto a lui, che un vagabondo sfiguri le sue iscrizioni!».

D

B E

C

A. Il lato del sarcofago con il re Ahiram in trono. B. Figure di uomini e leoni decorano il coperchio. C. Un lato breve, con quattro donne piangenti. D-E. L’iscrizione, nella quale si legge «Ahiram, re di Biblo». a r c h e o 91


SPECIALE • BEIRUT A destra: due asce fenestrate con decorazioni zoomorfe, dal tempio degli Obelischi di Biblo. Età del Bronzo Medio.

A sinistra: statuetta di divinità in bronzo e foglia d’oro, dal Tempio degli Obelischi di Biblo. Età del Bronzo Medio. La piccola scultura fa parte di un nutrito gruppo, i cui esemplari presentano caratteristiche ricorrenti, tra cui il copricapo di forma conica, che evoca la corona egiziana.

92 a r c h e o

gono soprattutto dalle grotte di Abou Halka e dal riparo di Ksar Akil, mentre gli scavi di Biblo hanno restituito numerosi oggetti, armi, strumenti, vasi e sculture databili al Neolitico. Dallo stesso luogo provengono giare, scheletri, vasi, armi e oggetti di abbigliamento, di cui alcuni in oro e soprattutto in argento. Si possono quindi ammirare vasi dell’età del Bronzo Tardo trovati a Kamid el-Loz, nella Valle della Bekaa, ceramiche funerarie dell’età del Ferro recuperate a Khalde, a sud di Beirut, splendide ceramiche romane e islamiche, nonché un vasto assortimento di oggetti in avorio provenienti anch’essi da Kamid el-Loz.

UNO SCALO DI PRIMARIA IMPORTANZA Come si può constatare, molti di questi tesori provengono da Biblo, a nord di Beirut. Porto fondamentale del Mediterraneo antico è stata una delle piú importanti città fenicie e intrattenne stretti rapporti economici con l’Egitto già dal I millennio a.C. (vedi «Archeo» n. 355, settembre 2014). Nelle sue tombe reali sono stati ritrovati, e sono ora esposti nel Museo, diademi, corone, pettorali, scettri e pugnali in oro cesella-


to. Uno splendido vaso di ossidiana e una cassetta riccamente ornata sono doni dei faraoni Amenemhat II e IV. Dal Tempio degli Obelischi provengono asce lavorate in avorio, oro e bronzo, un vaso e un pugnale in oro, argento e avorio. Lo stesso santuario ha restituito le statuette in bronzo, rivestite con lamine d’oro, che sono diventate il simbolo della lunga storia del Paese. Si tratta di un gruppo di piccole sculture a carattere votivo, che ritraggono figure maschili nude, con un copricapo conico che ricorda la corona egiziana, a conferma della stretta relazione tra l’Egitto e Biblo. Per bellezza e modernità, si resta senza fiato davanti alle bacheche che conservano le collezioni di gioielli. Le collane dell’età del Bronzo e gli ornamenti d’oro del V secolo a.C. potrebbero figurare nelle vetrine di una moderna gioielleria. Il tesoro dell’epoca bizantina, trovato in un vaso di creta a Beirut, è ricco e composito. Di ottima fattura e qualità sono anelli, bracciali con teste di animali, pendenti ornati con pietre semi-preziose e dure e orecchini. Monili altrettanto belli risalgono al periodo mamelucco (1289-1516). Da Sidone provengono gioielli ritrovati in tombe di epoca persiana: realizzati in oro, con pietre preziose e smalti, sono decorati a filigrana. Appartengono invece a corredi rinve- A destra: un’altra nuti in tombe di età romana maschere fune- delle statuette di rarie, orecchini, anelli e braccialetti. divinità in bronzo

LA PORPORA CHE VIENE DAL MARE Di particolare interesse sono anche due piccoli frammenti di tessuti tinti con la porpora ricavata dalla secrezione del Murex (un mollusco di colore giallo o grigiastro dotato di una conchiglia di forma oblunga, n.d.r.), testimoni dell’antica industria che contribuí, insieme all’arte del vetro – molto presente nelle teche del Museo –, a fare la fortuna del popolo fenicio nell’antichità. Al termine del percorso sono esposti alcuni oggetti danneggiati durante la guerra civile. Masse di vetro fuso, pietre annerite e metalli contorti riescono a dare un’idea degli effetti devastanti del conflitto sul patrimonio libanese e dell’enorme sforzo per il recupero e il restauro portato avanti da centinaia di specialisti. Nel piccolo bookshop del Museo si possono

A sinistra: pugnale e fodero in oro, avorio e argento, dal Tempio degli Obelischi di Biblo. Età del Bronzo Medio.

e foglia d’oro trovate nel Tempio degli Obelischi di Biblo. Età del Bronzo Medio.

trovare souvenir e qualche volume interessante. Vale, però, la pena acquistare il DVD del documentario che racconta come gli uomini e le donne del Museo, negli anni bui della guerra hanno difeso il patrimonio che era sotto la loro tutela. È emozionante vedere letteralmente rinascere dalle protezioni in cemento il sarcofago del re Ahiram o il mosaico di Calliope. Un segno di speranza in un momento storico segnato piú dalla voglia di distruggere il passato che dall’amore per la storia, la bellezza e la cultura. a r c h e o 93


SPECIALE • BEIRUT

FIGLI DI UN PASSATO COMUNE Incontro con Anne-Marie Maïla-Afeiche, direttrice del Museo Nazionale di Beirut

L

a Corniche di Beirut, tre chilometri di lungomare che proiettano la capitale libanese sul Mediterraneo, è una lunga passeggiata, capace di sintetizzare un Paese piccolo, ma ricchissimo di storia e di cultura. Davanti il mare, alle spalle il traffico caotico e un’incredibile trama architettonica, tessuta

dall’intreccio di vecchie case e grattacieli moderni, di intonaci scrostati e palazzi che portano ancora i segni della guerra civile che per quindici anni ha sconvolto il Paese. Grande quanto il nostro Abruzzo, il Libano è in una posizione centrale del Mediterraneo e le sue coste si trovano all’incrocio di tre continenti: Europa, Asia e Africa. Per questo è sempre stato al centro del cammino delle molte civiltà che sono nate o si sono incontrate sulle sponde di questo mare. Oggi l’antica Berytus è una metropoli moderna e caotica, nella quale convivono con fatica diciotto confessioni religiose e dove modernità e memoria spesso si scontrano invece di incontrarsi. Nel cuore della città, custode e testimone di questa lunga storia, sorge il Museo Nazionale di Beirut. Uno scrigno pieno di tesori inestimabili: «Il Museo – ci dice Anne-Marie MaïlaAfeiche, che ne è la direttrice – raccoglie esclusivamente opere che sono state trovate in Libano.

Anne-Marie Maïla-Afeiche, direttrice del Museo Nazionale di Beirut.


Sulle due pagine: il lungomare di Beirut al tramonto.

ammirare una ricca esposizione di statue, sarcofagi, mosaici e di oggetti (gioielli, monete, ceramiche, terrecotte, armi, utensili, ecc.), che abbracciavano un orizzonte compreso tra l’età preistorica e il XIX secolo, l’epoca della dominazione ottomana. Ad appena trent’anni dall’inaugurazione, le collezioni del Museo si erano notevolmente arricchite. Questo avviene tuttora, grazie ai reperti che arri• Il Museo, quindi, non è soltanto il luogo vano dagli scavi e dalle ricerche condotti dalla Diche ospita e conserva i tesori della storia rezione Generale delle Antichità del Libano, di cui millenaria del Libano, ma è esso stesso il Museo è parte integrante». parte della storia moderna del Paese? «Certamente. L’idea di conservare ed esporre in un • Dottoressa Maïla-Afeiche, lei ha ricordato l’inizio della guerra civile, il periodo unico luogo i reperti trovati in Libano risale agli piú buio della storia recente del Libano. anni Venti del secolo scorso, quando Raymond Oggi, in altri Paesi della regione travolti Weill, un ufficiale francese con la passione per l’arda conflitti interni, assistiamo con dolore cheologia, decise di realizzare un’esposizione puballa barbarie che distrugge e fa razzia di blica dei manufatti che aveva raccolto. Quella piccoun patrimonio inestimabile. Come furola mostra ebbe successo, divenne permanente e fu la no difese le opere del Museo Nazionale? prima sede del museo. Alla metà degli stessi anni Venti inizia la lunga fase di progettazione e costru- «Il Museo sorge lungo la centralissima rue de Dazione che si conclude con l’apertura del Museo mas, che, sin dall’inizio della guerra, si trasformò Nazionale nel 1942, un anno prima che il Libano nella “Linea Verde”, la frontiera che per quindici si affranchi dal protettorato francese. Sin dalle sue anni ha diviso la città. Cosí, da custode della storia, origini, i responsabili del Museo, oltre a cercare di il Museo si è trasformato in testimone, vittima e conservare e difendere un patrimonio immenso, si attore di quegli anni drammatici. La strada che sono impegnati affinché dalla scoperta e dalla cono- costeggiava l’edificio divenne famosa con il nome di scenza di una storia e di un’eredità culturale comu- «Museum Alley», perché, anche se pericolosa da ne nascesse un’idea di unità nazionale, al di là attraversare, era la principale via di comunicazione tra Beirut Est e Ovest. Ancora oggi, tra quanti delle divisioni confessionali e politiche». hanno vissuto quegli anni, c’è chi ha timore di • Che cosa potevano ammirare in quegli passare per quella strada, il ricordo dei cecchini e dei check point è per loro ancora troppo vivido. anni i visitatori? «Fino al 1975 (anno d’inizio della guerra ci- Poco dopo l’inizio delle ostilità, si decise di chiudevile libanese, n.d.r.), chi veniva al Museo poteva re temporaneamente il Museo, nella convinzione Una scelta che accompagna il Museo dalla sua nascita. Già allora si pensava che il patrimonio archeologico e storico del Libano potesse contribuire alla nascita e al rafforzamento dell’identità nazionale del Paese. Un obiettivo fondamentale negli anni in cui il Libano diventava indipendente, ma ancora drammaticamente attuale».

a r c h e o 95


SPECIALE • BEIRUT A destra: il Museo Nazionale di Beirut in una foto che documenta i danni subiti nel corso della guerra civile libanese (1975-1990). Per la sua posizione centrale, l’edificio fu coinvolto negli scontri e divenne perfino base per i cecchini.

chiusi in strutture di legno e poi ricoperti di calcestruzzo, una colata che, oltre a proteggerli, li rendeva solidali con il pavimento».

che il conflitto non sarebbe durato a lungo. Invece, Qui sopra: le ci vollero quindici anni prima che le armi tacessero. casse in legno e A causa della sua posizione cosí centrale, il Museo cemento divenne rapidamente un acquartieramento per le apprestate per fazioni in lotta. Colpi di mortaio e bombe lo ragproteggere i giunsero diverse volte e il piano piú alto venne sarcofagi del trasformato in una postazione per i cecchini. Museo Da subito il personale, sotto la guida di Mauri- all’indomani dello ce Chehab, allora Direttore Generale delle Antiscoppio della chità, iniziò a prendere le prime misure per guerra civile. proteggere i reperti, anche se nessuno era preparato per questo. Gli oggetti piú piccoli e vulnerabili furono raccolti in casse che vennero nascoste nel seminterrato. L’accesso ai sotterranei fu murato per nasconderlo e per difendere i reperti dal rischio di furti. I mosaici, che erano stati inseriti nella pavimentazione, furono ricoperti con uno strato di cemento, le statue e i sarcofagi piú grandi, che non potevano essere spostati, furono rac96 a r c h e o

• La creatività e il coraggio di Maurice Chehab e dei suoi collaboratori sono stati sufficienti a salvaguardare il patrimonio del Museo? «Sí, quasi tutti i manufatti si salvarono, ma le loro condizioni e quelle del Museo erano terribili. Quando il conflitto ebbe fine, iniziò il lungo e complesso lavoro di recupero. Il Museo era stato inondato dall’acqua piovana, perché le bombe avevano distrutto il tetto e le finestre, la facciata era crivellata di colpi e le sale all’interno portavano i segni lasciati dalle milizie che a lungo vi avevano bivaccato. La situazione era ancor piú drammatica per i reperti. Gli oggetti piccoli erano rimasti immagazzinati per piú di quindici anni in condizioni del tutto inadeguate, mentre le grandi statue e i mosaici erano rimasti nei loro involucri di cemento senza ventilazione. Inoltre, un’infiltrazione dalla falda sotterranea su cui sorge l’edificio aveva provocato un incremento del tasso di umidità e dell’acqua al piano seminterrato, quello dei magazzini. Questo aveva danneggiato i reperti nelle casse e in particolare i meravigliosi affreschi della Tomba di Tiro, che lí era conservata. Non tutto, purtroppo, si era salvato e una parte delle collezioni è andata perduta per sempre. Do-


cumenti e reperti archeologici unici, contenuti in quarantacinque casse che non era stato possibile spostare nel sotterraneo, bruciarono in uno dei tanti bombardamenti». • Visitando oggi il Museo Nazionale, è difficile immaginare i danni che ha subito. La sua rinascita è stata complessa? «Alla conclusione della guerra iniziarono quasi subito i lavori di riabilitazione e di restauro. Le condizioni, come è facile immaginare, erano estremamente difficili, Tutte le attrezzature dei laboratori erano andate perdute e l’emozione di vedere riemergere dal cemento il sarcofago del re Ahiram o la statua di Venere si accompagnava alla preoccupazione per le loro condizioni. Nonostante tutto, e grazie all’impegno delle istituzioni libanesi e alla partecipazione di diversi soggetti internazionali, tra cui la Cooperazione Italiana, nel 1997 si riuscí a riaprire una parte del Museo al pubblico. L’obiettivo principale era di ricreare dopo la guerra un contatto tra i Libanesi e il loro passato comune. Un anno dopo, il Museo riapre, completamente restaurato e rimodernato, cosí come lo vediamo oggi. Recentemente, grazie a un progetto dell’architetto italiano Antonio Giammarusti e al finanziamento della Cooperazione Italiana (vedi box alle pp.

In basso: la lapide che ricorda l’inaugurazione del Museo Nazionale, il 27 maggio 1942. L’idea di creare una raccolta delle antichità libanesi si deve a Raymond Weill, un ufficiale francese con la passione per l’archeologia, che volle allestire un’esposizione dei materiali di sua proprietà.

100-101), è stato riaperto al pubblico anche il piano sotterraneo. Qui sono esposti alcuni dei capolavori piú preziosi e belli del Museo: la restaurata Tomba di Tiro; la piú grande collezione di sarcofagi antropomorfi del mondo e alcune delle mummie della Val Kadisha. • Oltre al lavoro di recupero di quanto era già conservato, in questi anni le collezioni del Museo hanno continuato ad ampliarsi con nuovi reperti? «Certamente. Oggi i visitatori possono ammirare 1400 pezzi e moltissimi altri, circa 100 000, sono nei laboratori di restauro e nei magazzini. Non si deve, però, dimenticare che il Libano è una terra ricchissima dal punto di vista archeologico e la Direzione Generale delle Antichità continua a effettuare ricerche e scavi anche con molte collaborazioni internazionali. Questo lavoro costante arricchisce continuamente il fondo di questo Museo e degli altri del Paese. Contemporaneamente, sta crescendo la cultura della conservazione della nostra eredità. Un esempio concreto è rappresentato dal fatto che ormai – ogni volta che durante lavori di costruzione, di strade o palazzi, si trovano siti o reperti archeologici – si è obbligati a contattare la Direzione delle Antichità. Spetta a questa stabilire cosa fare e in un paio di casi, per la ricchezza dei ritrovamenti, i lavori sono stati bloccati definitivamente». • Quale ruolo vede oggi e nel prossimo futuro per il Museo Nazionale? «Prima di tutto quello di conservare e difendere un patrimonio che è di tutta l’umanità e non solo libanese. Un impegno che, in questa fase storica, vede la Direzione Generale delle Antichità Libanesi e il nostro Ministero della Cultura impegnati nel contrastare il traffico dei reperti dalla Siria e dall’Iraq. I contrabbandieri, per farli arrivare sul mercato nero, cercano di far passare i capolavori depredati anche attraverso le nostre frontiere. Poi, penso che un museo moderno possa e debba essere uno strumento che aiuti tutti, ma soprattutto le nuove generazioni, a scoprire e ad apprezzare la storia unica e comune dell’umanità e la sua grande bellezza. Nello specifico del nostro Paese, ritengo che serva a comprendere che prima di essere cristiani o musulmani, di Tiro o di Sidone siamo libanesi, tutti figli di uno stesso passato di cui dobbiamo essere orgogliosi. Per questo la cosa piú bella che ho la fortuna di vedere spesso nei saloni del Museo Nazionale sono le scolaresche e i tanti giovani che vengono a visitarlo». a r c h e o 97


LA TOMBA DI TIRO Un progetto dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo riporta allo splendore originario il celebre monumento funerario

98 a r c h e o

C’

è un pezzo d’Italia al Museo Nazionale di Beirut. A poco piú di quarant’anni dalla sua chiusura per la guerra civile, ha riaperto al pubblico anche l’ultima parte dell’edificio. Grazie a un progetto, ideato e finanziato dalla «Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo», nella primavera del 2016 il piano seminterrato è tornato ad accogliere i visitatori ospitando alcuni dei pezzi piú prestigiosi della collezione del Museo. Nei locali rinnovati sono riuniti la Tomba di Tiro, la piú grande collezione di sarcofagi antropomorfi del mondo e alcune delle mummie rinvenute nella Val Kadisha, sulle montagne libanesi. In Libano Roma ha lasciato la sua immagine indelebile e il Paese ha conservato molti esempi mirabili di arte romana, ma la Tomba

Sulle due pagine: la Tomba di Tiro, un magnifico sepolcro del II sec. d.C., che venne trasferito nel Museo Nazionale nel 1939. Il monumento è stato ricomposto nei sotterranei dell’edificio ed è stato restaurato con il contributo dell’Italia.


di Tiro è certamente uno dei piú spettacolari monumenti ritrovati nei siti archeologici libanesi. L’incredibile storia moderna del sepolcro ha inizio nel maggio del 1937, quando venne casualmente scoperto da un pastore nei campi vicino a Burj el-Shemali, presso Tiro, nel Sud del Libano.

IL TRASFERIMENTO Due anni piú tardi, l’intera tomba, le cui pareti sono affrescate con temi della mitologia greco-romana, fu trasportata a Beirut da una squadra coordinata dall’architetto inglese Henry Pearson, che aveva già curato il trasferimento, nel Museo Nazionale di Damasco degli affreschi della Sinagoga di Dura Europos. La Tomba di Tiro venne accolta nei locali del Museo, ma nei quindici lunghi anni della

guerra civile libanese (1975-1990), a causa della parziale distruzione dell’edificio, il monumento, collocato nei sotterranei, fu allagato e gli affreschi subirono gravi danni. Nel 2009 la Direzione Generale delle Antichità libanese chiese la collaborazione italiana per realizzare un progetto di restauro finanziato dalla «Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo». Condotti sotto la direzione di Giorgio Capriotti, in collaborazione con restauratori italiani e libanesi, i lavori hanno permesso di riportare alla vita gli affreschi che rappresentano vari miti dell’aldilà. La tomba, che misura 6,30 x 5,40 m e raggiunge un’altezza massima di 3,40 m, risale al II secolo d.C.; apparteneva a una famiglia nobile mai identificata e conteneva una ventina di scheletri quando fu trovata. Sulle sue a r c h e o 99


SPECIALE • BEIRUT

pareti le immagini di Achille che restituisce le spoglie di Ettore al padre Priamo, Plutone che rapisce Proserpina ed Ercole impegnato nella sua dodicesima fatica, con la clava e Cerbero al guinzaglio. Al restauro si è accompagnata la realizzazione del già citato progetto museografico dell’architetto Antonio Giammarusti, finanziato anch’esso dalla «Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo».

A fare da corona alla meravigliosa Tomba di Tiro è la piú grande collezione mondiale di sarcofagi antropomorfi, composta da trentuno arche, tutte recuperate sul territorio libanese. I re di Sidone Tabnit ed Echmounazar, di ritorno dalla campagna di Egitto a fianco del re persiano Cambise II (VI secolo a.C.), portarono alcuni sarcofagi egizi e, ispirandosi a quel modello, i borghesi di Sidone fecero scolpire i loro sarcofagi nel marmo prove-

Qui sotto: Antonio Giammarusti e Anne-Marie Maïla-Afeiche (di fronte a lui), con l’équipe che ha lavorato al riallestimento del Museo Nazionale.

UN LAVORO ESEMPLARE Nel 2010, nell’ambito delle attività di cooperazione tra Italia e Libano, si è deciso di procedere alla riabilitazione del piano interrato del Museo Nazionale di Beirut. Questi lavori facevano seguito al restauro degli splendidi affreschi romani della Tomba di Tiro (II secolo d.C.), che qui era ospitata dopo il suo trasferimento nel 1939. Avevo già lavorato con la Cooperazione Italiana allo Sviluppo e fui scelto per seguire l’intero progetto. Gli affreschi di Tiro furono trasferiti nel museo per salvarli dalle infiltrazioni di acqua, ma purtroppo il lavoro riguardò solo la pellicola pittorica, mentre il contesto architettonico venne abbandonato in situ. Pur essendo specializzato in questa tipologia di lavori ho sempre avuto dubbi su simili interventi, anche se necessari. Soprattutto quando comportano la perdita del loro contesto. Per questa ragione proposi alla DGA (Direzione Generale delle Antichità Libanesi), di ricontestualizzare la tomba, con linguaggio moderno, e ricostruire nel museo il vestibolo di accesso alla camera sepolcrale. È cosí iniziata una felice collaborazione con la DGA e con la direttrice del Museo, Anne-Marie Maïla-Afeiche, assistita da archeologhe e conservatrici (Nathalie Al Alam, Marie Lamaa, Grace Homsy-Gottwalles). La collaborazione è continuata poi nel 2013, quando la Cooperazione Italiana mi ha incaricato di curare anche l’allestimento di tutto il piano interrato del museo. Il gruppo di lavoro composto da museologhe, conservatrici e architetti ha operato, sotto il profilo metodologico, con grande correttezza e, dal mio punto di vista, rappresenta un esempio da ricordare come si debba procedere nella museografia moderna. Il giudizio finale spetta ovviamente al pubblico che visita la nuova ala del museo. Le principali linee guida museologiche, definite dalla DGA, hanno indicato che il tema dell’esposizione riguardava l’arte funeraria libanese, con una mostra che evidenzia i riti funerari succedutisi durante le varie epoche, capace di presentare le sepolture delle diverse culture. Infine, l’allestimento doveva avere continuità 100 a r c h e o

con il piano terreno del museo e permettere il massimo coinvolgimento del pubblico. Il team interdisciplinare ha discusso gli obiettivi da raggiungere e un piccolo studio di progettazione è stato allestito nell’adiacenza dello spazio dedicato alla mostra. Lavorando insieme, archeologi e architetti hanno stabilito che il percorso di visita fosse cronologico (dalla preistoria all’Islam); che i punti nodali della mostra fossero rappresentati dalla Tomba di Tiro, dalla collezione dei sarcofagi antropomorfi e da altri reperti di grande rilievo artistico e storico. Le archeologhe del team si sono quindi dedicate alla selezione delle collezioni da esporre e chi scrive, con l’architetto Rita Nakhle, si è dedicato allo studio del percorso, nella consapevolezza che il museo moderno deve saper parlare e attrarre un vasto pubblico non solo di specialisti ma anche e soprattutto di studenti che verranno qui a riscoprire le origini della loro identità. La continuità formale con il piano terra del museo, dal quale il seminterrato si differenzia comunque per le altezze del soffitto, è stata ricercata riproponendo gli stessi colori – bianco e giallo senape – e definendo uno spazio espositivo il piú aperto possibile con prospettive sull’allestimento. Grandi lastre di pietra con il colore tipico degli edifici storici di Beirut costituiscono il nuovo pavimento. Il percorso di visita è stato organizzato «senza equivoci», ovvero facile da seguire e in modo che il


niente dalla Grecia. Essi hanno la forma di casse da mummie e sono frequenti nella Fenicia vera e propria e nelle colonie della parte occidentale del Mediterraneo. I sarcofagi del Museo risalgono al V e al IV secolo a.C. e mostrano l’evoluzione dell’arte fenicia che va distaccandosi sempre di piú dall’impronta egizia per trarre ispirazione dall’arte greca. Provengono perlopiú dalle necropoli reali di Magharat Abloun, Ayyaa e Ain el-Halwi.

pubblico non debba mai passare nello stesso punto: Ingresso, Preistoria, età del Bronzo e del Ferro, area delle iscrizioni fenicie, galleria dei sarcofagi antropomorfi, Tomba di Tiro, periodo romano, bizantino, medievale con le mummie di Assi el-Hadath, e islamico. Definito il percorso, abbiamo progettato le dimensioni degli spazi destinati ad accogliere i reperti e le tipologie delle vetrine. Per esempio, nella zona dell’epoca del Bronzo e del Ferro, d’intesa con i curatori, è stato deciso di esporre collezioni di ceramiche provenienti da dodici tombe distribuite su tutto il territorio libanese. Una vetrina lunga 10 m è stata organizzata «geograficamente», separando le diverse collezioni con elementi verticali in vetro stratificato. Il visitatore ha cosí una visione della grande varietà e bellezza del design libanese in questa epoca. Superata la sezione delle epigrafie fenicie, si entra nella galleria, che ospita trentuno sarcofagi antropomorfi. Al di là del suo valore, la collezione, unica al mondo, conferma che il Libano, sin dall’antichità, è stata una terra multietnica e che dall’incontro di diverse culture ha saputo esprimere caratteri propri. Il marmo proviene dalla Grecia, la tipologia è quella egizia e i volti scolpiti mostrano i viaggiatori antichi che scelsero il Libano come loro terra. La galleria, lunga 32 m, è completamente buia; solo luci nascoste nel soffitto illuminano i volti e debolmente il corpo. Con un gioco di specchi i volti vengono proiettati sulla parete di fondo, in modo da far apprezzare la finezza delle sculture. Usciti dalla galleria, si sale sul vestibolo della Tomba di Tiro, da dove, prima di entrare nella camera sepolcrale affrescata, si può avere una vista dei sarcofagi e della collezione di arte funeraria romana con la vetrina delle statuette di Harabta. La dimensione della camera sepolcrale con gli affreschi di Tiro richiede che la visita sia effettuata da un ridotto numero di visitatori. Il vestibolo, quindi, ha anche la funzione di filtro prima

Nella rinnovata ala espositiva, dedicata completamente all’arte funeraria, si possono ammirare anche tre della nove mummie scoperte nella Val Kadisha. Era il 1990, quando un gruppo di speleologi scoprí la mummia di una bambina di circa quattro mesi nella grotta Asi-al Hadath in Val Kadisha, nel Nord del Libano. La bambina fu chiamata Yasmine e, dopo due anni di ricerche, nella grotta furono (segue a p. 104)

dell’ingresso e offre un momento di relax con «panorama» sull’allestimento. Dopo i materiali riferibili al periodo romano, si possono visitare le mummie maronite di Assi Al-Hadath, separate dal resto dell’esposizione da una porta a vetri. Qui, all’interno di speciali teche, sono conservati i corpi di Miriam con la figlia Sadqah e della piccola Yasmine, che si rifugiarono nella grotta per sfuggire all’attacco delle milizie mamelucche. La nuova sezione del Museo garantisce, naturalmente, l’accesso a chiunque, senza barriere architettoniche. La riapertura di questo piano ha permesso di concludere la fase di rinascita del Museo che fu chiuso a causa della guerra civile. Rimane solo da sottolineare con tristezza che lo scempio subito dal patrimonio culturale libanese, non ha impedito che la tragedia si ripeta oggi nella vicina e parimenti amata Siria. Antonio Giammarusti Sarcofagi antropoidi in marmo, da Sidone. VI-IV sec. a.C.


SPECIALE • BEIRUT Ancora un’immagine delle pitture murali che ornano la Tomba di Tiro.

SALVARE LA STORIA E L’IDENTITÀ DI UN POPOLO Incontro con Massimo Marotti, Ambasciatore italiano in Libano La presenza italiana in Libano è la migliore testimonianza del lungo e costruttivo rapporto che lega i due Paesi. L’Italia assicura alla missione UNIFIL, la forza d’interposizione dell’ONU al confine con Israele, il contingente piú numeroso; è tra i principali partner commerciali; e gli interventi della nostra cooperazione spaziano dalla realizzazione di infrastrutture alla difesa e alla valorizzazione del patrimonio storico e culturale. Ne abbiamo parlato con Massimo Marotti, Ambasciatore italiano nel Paese dei cedri.

◆ Ambasciatore, quando si parla

di cooperazione internazionale si pensa immediatamente a interventi in ambito umanitario o per lo sviluppo economico. Perché si realizzano attività anche in ambito culturale? «La collaborazione per la difesa e la valorizzazione del patrimonio archeologico e culturale è da

102 a r c h e o

sempre uno dei pilastri della cooperazione italiana. In tutti Paesi nei quali siamo presenti e dove questo patrimonio è parte della cultura e della storia cerchiamo di sviluppare progetti in questo ambito, potenziando lo scambio e l’incontro con il nostro Paese, cosí ricco di storia, di arte e di esperienza nella conservazione e nella gestione.

Questi progetti hanno almeno due obiettivi principali, oltre naturalmente alla difesa di beni che appartengono a tutta l’umanità. Il primo è mantenere viva la storia e l‘identità comune di un popolo, e lo ritengo particolarmente significativo in questo Paese che non molti anni fa è stato travolto da una sanguinosa guerra civile. Il secondo è contribuire


allo sviluppo di un’economia sostenibile. Attraverso la valorizzazione del patrimonio si sviluppano professionalità diverse e si potenzia l’offerta turistica. In questo modo si partecipa alla crescita di un indotto che va dalle strutture di accoglienza ai servizi, dalla manutenzione del patrimonio all’accompagnamento dei turisti, fino al commercio e ai trasporti. Settori che possono offrire molte opportunità di lavoro, soprattutto ai giovani».

◆ Tra i molti interventi possibili

in questo settore perché è stata scelta la riabilitazione di una parte del Museo Nazionale?

«La nostra cooperazione realizza molti interventi in diversi siti archeologici del Paese. La scelta di riabilitare anche il piano seminterrato del Museo Nazionale viene in primo luogo dalla volontà espressa dalle autorità libanesi. Si tratta della sola ala del Museo che ancora non aveva riaperto al pubblico dopo la chiusura dovuta al conflitto. Oggi, grazie alla cooperazione italiana, l’intero edificio è a disposizione dei visitatori, un segno della distanza che il Libano vuole mettere con il suo passato di guerra. Per noi è stata anche la naturale prosecuzione di un’attività che avevamo realizzato negli anni scorsi: il restauro della Tomba di Tiro.

Molto importante è anche la scelta dei reperti che il nuovo piano accoglie. Nel ricostruire attraverso l’arte funeraria la storia del Paese i curatori libanesi, accompagnati dagli esperti italiani, hanno scelto di raccontare il cammino delle comunità che nel corso dei millenni qui si sono sviluppate. Percorsi che si sono declinati in modi e con religioni diverse, ma che hanno un forte elemento comune: il Libano e la sua gente. Il visitatore non apprezzerà solo la bellezza di una collezione di sarcofagi unica al mondo o dei dipinti della Tomba di Tiro, scoprirà che questo piccolo Paese nella sua storia trova la sua unità e la sua identità».

a r c h e o 103


SPECIALE • BEIRUT Ancora un suggestivo scorcio della Tomba di Tiro, casualmente scoperta da un pastore.in località di Burj el Shemali. Le pitture murali che la decorano hanno come soggetto personaggi e luoghi del mondo infero e il recente restauro ha risanato i danni patiti nel corso della guerra civile: la parziale distruzione dell’edificio del Museo Nazionale aveva infatti causato l’allagamento dei sotterranei e l’umidità aveva compromesso i dipinti.

scoperte le mummie di altri quattro bambini, tre donne, un neonato e diversi resti di scheletri umani. Nella grotta furono trovate monete, ceramiche, manoscritti e suppellettili casalinghe, oggetti che hanno permesso di datare i corpi al XIII secolo d.C. A quel tempo la regione era abitata in maggioranza da cristiani maroniti. Durante le invasioni e le persecuzioni dei mamelucchi, i cristiani cercavano rifugio nelle numerose grotte della valle. Si ritiene che le donne ritrovate nella grotta Asi-al Hadath siano morte durante un assedio che, grazie all’incrocio con altri documenti storici, può essere datato con precisione nel 1283. L’aria secca e la scarsa umidità della grotta hanno permesso ai corpi di mummificare naturalmente e gli abiti, i manoscritti e gli oggetti ritrovati insieme alle mummie rappresentano uno strumento preziosissimo per ricostruire gli usi e le tradizioni delle antiche comunità libanesi e la loro storia.

LA GUERRA È FINITA! Yasmine e le mummie di altre due donne hanno trovato posto nella nuova sezione del Museo, e questo è stato possibile grazie a un altro capitolo della cooperazione culturale tra Italia e Libano. Sono stati, infatti, gli specialisti dell’Istituto per le Mummie e l’Iceman dell’EURAC di Bolzano a occuparsi dello studio e della corretta esposizione delle mummie. «È stata un’emozione grandissima», racconta Abdallah Youssef, giovane archeologo del Museo all’inizio della guerra. «Non entravo in quei locali dal 1975, da quando portammo lí le casse con gli oggetti e murammo le entrate. Oggi non li riconosco, sono finalmente diventati quello che noi sognavamo tanti anni fa. Sono felice di sapere che tutto questo è possibile anche grazie a quello che noi abbiamo fatto allora. Ora per me la guerra è davvero finita». 104 a r c h e o



IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

RIBALTARE LE PROSPETTIVE LA CONVENZIONE DI FARO SI PROPONE DI FARE DEL PATRIMONIO CULTURALE NON SOLTANTO UN OGGETTO DA TUTELARE, MA ANCHE UNA RISORSA PER LA COLLETTIVITÀ: PRINCIPI CHE GUIDANO IL PROGETTO DI RICERCA IN CORSO A POLICASTRO BUSSENTINO, NEL CILENTO

P

olicastro Bussentino è un antichissimo centro della provincia di Salerno, posto sul mare, all’estremità di quella meravigliosa regione che è il Cilento. È un borgo che affonda le sue radici in un’età lontana da noi quasi tre millenni: nel V secolo a.C., vi approdarono le navi di coloni che parlavano greco, da cui nacque Pyxous, poi le genti lucane e quindi quelle romane. Sorse allora Buxentum, prendendo il nome dal fiume che la lambiva, o meglio, come il corso d’acqua stesso, dalla vegetazione che caratterizzava questa sponda tirrenica, ricoperta ancora oggi di bosso.

106 a r c h e o

Siamo all’inizio del II secolo a.C., quando la guerra contro Annibale aveva devastato il Sud della Penisola e quell’esperimento fu faticoso e difficile: dieci anni piú tardi, la piccola colonia era già in abbandono. Poi la vediamo vivacchiare e crescere, godendo della sua posizione strategica fra mare, fiume e vie verso l’interno.

AVVICENDAMENTO DI POTERI Diventa un piccolo borgo dell’Italia imperiale, con un Foro e un bel complesso termale; vi sorge quindi una cattedrale, emblema del nuovo potere del vescovo cristiano che si

sostituisce ai vecchi luoghi del potere antico. Diventa in seguito un sito fortificato, perché i tempi si fanno duri nei secoli del primo Medioevo, e poi durissimi, se i Normanni lo distruggono quando conquistano il loro nuovo regno. Per farlo poi risorgere a sede forse di contea nell’età felice di Ruggero II, a cui fanno ancora seguito la lunga vita di un borgo marinaro e la sua rapida morte, che veniva dal mare, con i saccheggi del Barbarossa e con quello definitivo del pirata Dragut Rais nel 1552. Dopo quel disastro, buona parte dell’abitato non fu piú ricostruita e restò come cristallizzata al


momento dell’attacco: una manna per gli archeologi, che hanno il pregio di trasformare in tesori di conoscenza anche le tracce delle disgrazie umane. Da qualche anno l’Università di Genova, sotto la guida di Silvia Pallecchi, e l’associazione Etruria Nova onlus, animata da Elena Santoro e Lara Marelli, conducono scavi a ridosso delle mura antiche e medievali del borgo, riportando alla luce le diverse fasi delle città.

ESPERIENZE DA CONDIVIDERE I risultati di quelle indagini – che si spera possano ampliarsi – sono stati raccolti in un recente volume, la cui pubblicazione è stata accompagnata da un convegno programmaticamente intitolato «Raccontare l’archeologia». Nelle pagine di quel libro, in tutt’altra situazione e contesto, ho ritrovato l’atmosfera che avevo Nella pagina accanto: foto aerea dell’area del Parco Pinto a Policastro Bussentino (Salerno). A destra: l’area archeologica del Parco Pinto ripresa da pallone aerostatico, come si presentava al termine della campagna 2013. In basso: un’archeologa al lavoro. vissuto quando, all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, avviammo il progetto di scavo della Crypta Balbi, a Roma, e sentimmo l’esigenza, dati i primi colpi di piccone, di mettere per iscritto il senso di quel progetto, perché fosse letto e discusso, perché tutti sapessero che cosa avevamo intenzione di fare, come volevamo farlo e perché. Il convegno tenuto a Policastro si riallaccia idealmente a quell’esperienza, con una scelta innanzitutto di carattere etico, che parte dalla consapevolezza che la ricerca archeologica si fa prevalentemente – anche se ogni

a r c h e o 107


Ma questi non sono alternativi, opposti, o, addirittura, avversi alla vita di una città. Al contrario, possono essere molto consonanti e quasi indicare la strada: una strada possibile per la crescita, non solo culturale, di una comunità locale (oltre che, naturalmente, di una comunità di studenti). In questo caso di Policastro Bussentino. Le prime ricerche archeologiche a Policastro, condotte nel corso del

Novecento, furono prive di una strategia unitaria. Ma i recenti scavi nell’Area del Parco di proprietà comunale, che sorge ai piedi delle rovine del castello che domina il paesaggio, hanno invece riportato ordinatamente alla luce le fasi piú tarde della Buxentum romana, ma anche le tracce della vita medievale e non solo, fino a quella data fatidica della metà del Cinquecento. Anche se non mancarono altre frequentazioni sporadiche di chi forse si aggirava tra i muri diroccati delle case, per recuperare qualche mattone o qualche tegola o anche solo per gettare rifiuti. Riemergono cosí pagine di storia, che l’archeologia ci permette di scrivere, rendendo i suoi racconti accessibili a un pubblico vasto ed

A destra: un’archeologa mostra un frammento di ceramica rinvenuto nel corso degli scavi.

In basso: Policastro Bussentino. Un settore dell’area archeologica del Parco Pinto.

anno sempre di meno –, con risorse pubbliche, e che queste vanno rendicontate; e si pratica nei contesti in cui la gente abita, dove la vita si svolge e a volte impatta con gli obiettivi, le procedure e i progetti dell’archeologia.

UNA CRESCITA POSSIBILE

108 a r c h e o


eterogeneo, perché – scrivono gli scavatori – «i risultati vanno certo condivisi con l’ambiente scientifico, ma soprattutto divulgati all’interno dell’intera comunità». È cosí che l’archeologia entra in sintonia con quanto suggerisce la Convenzione di Faro – cioè un importante documento del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per le nostre società –, stipulata in Portogallo nell’ottobre del 2005, che ha innovato profondamente l’approccio alle testimonianze del passato. E ha portato aria fresca, spostando in modo inequivocabile l’attenzione su un passaggio concettuale che ci traghetta dalla dimensione, in cui siamo ancora calati, del «diritto del patrimonio culturale» a essere individuato e protetto, quasi fosse una persona fisica, al «diritto al patrimonio culturale», ovvero al diritto, individuale e collettivo, di trarre beneficio da questo patrimonio. Non è retorica, ma sostanza, perché implica un radicale ribaltamento di prospettive e di comportamenti, nonché una riflessione sulla natura di questi benefici.

RICOSTRUIRE L’IDENTITÀ STORICA Poiché il fine non ultimo dell’archeologia – scrivono gli scavatori di Policastro – consiste nel ricostruire l’identità storica della comunità, rivalutando le peculiarità geografiche e culturali del contesto, nasce cosí anche l’idea di progettare un museo all’aperto, racchiuso per ora in un’area circoscritta all’attuale perimetro del Parco.

Ma questo museo-passeggiata potrebbe estendersi a tutto il centro storico della cittadina, lungo un viaggio nel tempo che lega tra di loro Pyxous, Buxentum e Policastrum, attraverso una serie di itinerari imperniati su un Centro Visita. Qui si progetta la possibilità di creare laboratori, seminari e campi-scuola internazionali dedicati alla ricerca archeologica e al suo rapporto con la comunità locale e con l’ambiente. È bello pensare che Policastro, con il patrimonio prezioso delle sue

Una brocca ricomposta dai frammenti trovati nel quartiere cinquecentesco. potenzialità archeologiche, possa diventare un luogo d’elezione, dove si pratica una formazione condivisa, che coinvolge giovani studenti di archeologia e di architettura, che fa scuola all’Italia intera. Ed è bello pensare che Policastro possa diventare uno di quei luoghi-laboratorio, nei quali l’archeologia stimola nella comunità locale il piacere di scavare nel proprio passato, e il

gusto di recuperarne le tracce nel presente. La valorizzazione di quel meraviglioso «museo diffuso» su tutto il territorio italiano, di cui Policastro è una perla da scoprire, può dunque prendere le mosse da singoli siti o monumenti, ma per cercare le relazioni che li collegano e l’insieme che li accoglie, con la cultura materiale e immateriale, le tradizioni, i riti, le feste, i saperi e anche i sapori, compresi quelli dei prodotti tipicamente italiani, che possiedono anch’essi un valore culturale costruito attraverso i secoli. E se questo patrimonio di memorie e conoscenze, che è la cultura, esprime anche un valore economico e occupazionale, ci darà un motivo in piú per sostenerne la tutela, che dunque non è l’antitesi della valorizzazione, come qualcuno va dicendo in giro, ma ne è semmai la premessa e la conseguenza, in un circolo virtuoso che dà senso al valore della ricerca. Mi auguro che il cammino intrapreso in sordina a Policastro porti lontano, molto lontano, per il bene di tutti.

PER SAPERNE DI PIÚ Andrea Giachetta, Fausto Novi, Giovanni Paolo Rava, Silvia Pallecchi (a cura di), Idee per Policastro. ARCH_LAB: laboratori congiunti di Archeologia e Architettura, All’Insegna del Giglio, Firenze 2016

a r c h e o 109


L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

SOTTO UNA BUONA STELLA L’ASTROLOGIA COME STRUMENTO DI PROPAGANDA: UNA PRATICA DIFFUSA GIÀ NELL’ANTICA ROMA E DI CUI SI FECE PRIMO INTERPRETE L’IMPERATORE AUGUSTO, DECISO AD ACCREDITARE L’IDEA CHE LA SUA ASCESA AL POTERE FOSSE STATA UN SEGNO DELLA VOLONTÀ CELESTE

«F

inalmente non mancò sotto Leone X (1475-1521) nel Ginnasio Romano anche la cattedra d’Astrologia, onde neppur’ di questa, che in altre università già da quasi un secolo indietro erasi aperta, esso fosse sfornito»: cosí il professor Filippo Maria Renazzi racconta nella sua storia dell’Università di Roma «La Sapienza» (1804) l’istituzione di questa materia, che oggi, come è facile immaginare, non viene piú insegnata. Andando a ritroso nel tempo, quasi tutti i papi tennero in gran conto l’astrologia e altrettanto avevano fatto, nei secoli precedenti, il mondo greco-romano e l’Oriente. Data l’importanza assegnata per tradizione al quadro astrale dei

110 a r c h e o

regnanti, anche la propaganda imperiale romana seppe servirsene, inserendolo in un complesso sistema nel quale scienza e credenza, astrologia e astronomia svolgevano un influsso determinante sull’agire umano e sulle sorti del mondo.

GIULIO CESARE COME UN ASTRO BENIGNO Basti pensare al complesso ed elaborato programma politico di esaltazione semidivina imbastito per (e da) Augusto in vita, iniziato con la divinizzazione di Giulio Cesare – divenuto il sidus Iulius, ovvero una nuova benigna stella del cosmo –, passato attraverso la pubblicazione del suo oroscopo e

culminato nell’allestimento della zona dell’Ara Pacis con il limitrofo orologio solare. Lo gnomone di questa meridiana (un obelisco del faraone Psammetico II, 595-589 a.C.) indicava una serie di avvenimenti astrali legati alla nascita dell’imperatore il 22 o 23 settembre del 63 a.C., al passaggio del sole e ai solstizi traguardati da questo complesso monumentale e celebrativo. Come abbiamo già raccontato nella puntata precedente (vedi «Archeo» n. 378, agosto 2016), il segno che Augusto celebra come suo è quello del Capricorno, rendendolo pubblico con la diffusione del suo splendido oroscopo, redatto dall’astrologo


Teogene, a conferma della ineluttabile volontà delle stelle riguardo alla sua presente e futura grandezza (Svetonio, Divo Augusto, II, 94). E forse andrebbe anche considerato che il titolo di «Augusto», che da allora rientrò nella titolatura ufficiale romana, fu conferito a Ottaviano il 16 gennaio del 27 a.C., giorno posto sotto il segno del Capricorno, attribuendo cosí una «data di nascita» al concetto stesso di autorità imperiale.

SEGNO DI GLORIA Da qui deriva una nutrita serie di monete celebranti il Capricorno astrale con il globo tra le zampe, un’immagine di potenza cosmocratica che non fu usata per il solo Augusto, ma che venne ripresa, quale inequivocabile segno di gloria, da molteplici imperatori e regnanti affiliati a Roma. Un gran numero di principi usarono infatti il Capricorno come tipo del rovescio delle loro emissioni monetali, sia nell’iconografia già usata per Augusto (e dai successivi imperatori da Nerone in poi, nonché da altri sovrani, quali Giuba II, e in altri regni, come quelli della Commagene, di Tracia, e dei Cantiaci, nel Kent), sia in altre immagini piú innovative, nelle quali l’ibrido animale è sempre il solo protagonista, e ancora altri tipi dove invece costituisce un attributo di raffigurazioni piú complesse. Tra queste ultime, si distinguono i sesterzi battuti per il divo Augusto da Tiberio: al

Nella pagina accanto: ricostruzione dell’area del Campo Marzio con la meridiana di Augusto e l’Ara Pacis allineati con la posizione del sole. In basso: sesterzio di Tiberio emesso per il Divus Augustus. Zecca di Roma, 35-36 d.C. Al rovescio, evidenziata dalla cornice, è impressa la contromarca NCAPR.

dritto, vi è la corona civica di quercia che circonda lo scudo sul quale corre l’iscrizione Ob cives servatos, un’onorificenza conferita ad Augusto sempre nel 27 a.C. dal Senato per avere riportato pace e stabilità, salvando i cittadini romani dalla guerra civile.

MARCHIO DI GARANZIA La corona è retta, alla base, da due piccoli capricorni contrapposti, che sovrastano un globo, quasi a formare il fiocco che unisce i due rami. Sul rovescio dell’esemplare qui presentato, con leggenda relativa a Tiberio e sigla SC (Senato Consulto), c’è la contromarca NCAPR. Le contromarche erano sigle impresse su monete precedenti da regnanti successivi a garantirne il valore corrente nella loro epoca, nei casi in cui potevano esserci state svalutazioni o riforme del potere di acquisto dei nominali. A volte si compongono di una abbreviazione del nome dell’imperatore in carica, altre volte sono di piú ambigua lettura, come questa. Gli studi sono ancora incerti nello scioglimento NCAPR, da riferirsi con buona probabilità a Nerone (letto come Nero Cesar Augustus Populo Romano, o Probatum, «approvato»). È invece una semplice coincidenza il fatto che proprio in questa moneta la contromarca compaia in coppia con il Capricorno di Augusto, quasi in assonanza con un ipotetico riferimento al segno zodiacale del primo imperatore. (2 – continua)

a r c h e o 111


I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Alessandra Molinari, Riccardo Santangeli Valenziani, Lucrezia Spera (a cura di)

L’ARCHEOLOGIA DELLA PRODUZIONE A ROMA (SECOLI V-XV) Atti del Convegno Internazionale di Studi, Roma 27-29 marzo 2014 École française de RomeEdipuglia, Bari, 658 pp., ill. b/n nt + XXXXVIII tavv. ft + 1CD Banca dati 100,00 euro ISBN 978-88-7228-778-1 www.edipuglia.it

Segue quindi una nutrita serie di relazioni di sintesi, che definiscono una sorta di «tabella merceologica», spaziando dall’emissione delle monete allo sfruttamento degli animali domestici, o dalla produzione laniera alla realizzazione dei rivestimenti pavimentali. Amplia e arricchisce il quadro l’altrettanto ricca sezione dedicata ai confronti con altre realtà italiane ed europee. Giovannangelo Camporeale

GLI ETRUSCHI Il volume, di taglio specialistico, dà conto dell’omonimo incontro tenutosi a Roma e offre un panorama aggiornato alle acquisizioni piú recenti del ruolo e delle categorie di attività produttive esercitate nell’Urbe fra la tarda antichità e il Medioevo. A tale quadro hanno fornito un contributo decisivo alcuni dei cantieri di scavo che hanno operato nella città, come per esempio quelli della Cripta di Balbo o del Celio, i cui dati vengono illustrati nella prima parte del volume, dopo gli interventi introduttivi.

Storia e civiltà (quarta edizione) UTET, Bari, 650 pp., ill. b/n 39,00 euro ISBN: 978-88-6008-451-4 www.utetuniversita.it

Sebastiano Tusa

PRIMO MEDITERRANEO

Questo manuale di Giovannangelo Camporeale può ormai essere considerato un «classico» e la positiva accoglienza che gli è stata finora riservata è testimoniata dalla scelta del suo autore di proporne una nuova edizione, aggiornata, ad appena cinque anni dalla precedente e a soli 112 a r c h e o

quindici dalla prima, che vide la luce nel 2000. L’impianto generale è rimasto invariato, ma, ove necessario, Camporeale ha inserito le novità emerse dalle ricerche piú recenti, perché, come scrive nella Premessa, «Nel pur breve periodo di quattro anni (…) non sono mancati gli eventi in grado di allargare il campo di conoscenze sul mondo etrusco». L’opera si articola in due parti: nella prima, La civiltà etrusca, vengono riepilogati i grandi temi della materia, dalla storia dell’etruscologia alle sopravvivenze della grande civiltà preromana; la seconda sezione, Le città, offre una rassegna sistematica dei siti e dei loro monumenti, dall’Etruria propria (cioè l’area tosco-laziale) a quella campana.

Meditazioni sul mare piú antico della storia Edizioni di storia e studi sociali, Ragusa, 178 pp., ill. b/n, 14,00 euro ISBN 978-88-99168-12-4 www.edizionidistoria.com

Il mare nostrum, come scrive Sebastiano Tusa, è davvero «il piú antico della storia»? Il quesito è intrigante, ma, al tempo stesso, si può senz’altro lasciare in sospeso la risposta, perché, se anche ci fossero state acque nelle quali l’uomo si è

avventurato in epoche ancor piú remote, l’archeologia ha ripetutamente provato che quelle del Mediterraneo sono state attraversate già nella preistoria. Presenze che hanno dunque contribuito a scrivere una storia straordinariamente ricca e lunga, di cui l’autore ha voluto isolare alcuni momenti particolari, spaziando da considerazioni di carattere metodologico al racconto di alcune delle maggiori scoperte di cui questo mare è stato testimone. Una lettura piacevole e non priva del confronto con i piú recenti fatti di cronaca, che vedono il Mediterraneo al centro di un autentico esodo. Barbro Santillo Frizell

TRA TERRA E CIELO Cupole e obelischi nella cultura mediterranea Mauro Pagliai Editore, Firenze, 176 pp., ill. col. e b/n 22,00 euro ISBN 978-88-564-0337-4 www.mauropagliai.com


Il volume nasce dalle ricerche e dai viaggi compiuti dall’autrice insieme al marito, lo scomparso architetto Raffaele Santillo, e, in particolare, dalle riflessioni scaturite nel corso degli studi sulla tomba a cupola di Berbati, presso Micene. Quell’esperienza innescò il desiderio di approfondire la conoscenza delle tecniche costruttive che avevano permesso la realizzazione delle false cupole e, di conseguenza, di

ricostruirne le modalità. Si spiega cosí l’articolazione del libro, che presenta nella prima parte un ampio excursus dedicato alle tombe reali di Micene, al quale fa seguito una storia dell’obelisco, considerato come una delle espressioni piú tipiche dell’architettura monumentale. Fa da corollario il capitolo sul trullo pugliese, scelto da Barbro Santillo Frizell come «confronto etnografico»: come scrive nella Premessa, le

sembrò infatti che l’analisi di queste strutture le avrebbe permesso di «approfondire le conoscenze sulla cupola in ambito mediterraneo».

avventure, condite da divertenti retroscena della vita quotidiana in epoca romana.

PER I PIÚ PICCOLI

Stefano Medas

REX IUBA

Bruno Cantamessa

Arianna Capiotto, Elena Sala, illustrazioni di Luca Tagliafico

Mondadori, Milano, 368 pp. 20,00 euro ISBN 978-88-04-66169-6 www.librimondadori.it

ROMA BRUCIA!

SOTTO IL SOLE DI ERCOLANO I Cercastoria 3, Ante Quem, Bologna, 48 pp., ill. col 9,50 euro ISBN 978-3-7849-109-0 www.antequem.it

Una macchina del tempo programmaticamente battezzata Saltacronos, due ragazzini pieni di curiosità, una mamma archeologa e altri buffi personaggi animano questa nuova realizzazione della serie con cui Ante Quem viaggia nel passato a beneficio dei piú piccoli. Questa volta, il teatro della vicenda è una villa ercolanese, quella di Lucio Calpurnio Pisone, nella quale i protagonisti del racconto, Miriam e Adam, e di conseguenza i lettori, vivono le proprie

NARRATIVA

da quello del padre e, protetto da Augusto, poté tornare sul trono di Mauretania. Eventi che fanno da trama sulla quale Medas imbastisce il suo racconto.

Città Nuova Editrice, Roma, 144 pp. 12,00 euro ISBN 978-88-311-6454-2 http://editrice.cittanuova.it

La sterminata letteratura sull’incendio neroniano del 64 d.C. si arricchisce di un nuovo contributo, in questo caso romanzesco,

Già noto ai lettori di «Archeo» per i suoi contributi sull’archeologia navale, Stefano Medas si cimenta questa volta con il romanzo storico e costruisce una vicenda ambientata negli anni cruciali che videro il passaggio dalla dittatura di Giulio Cesare all’avvento di Augusto, primo imperatore di Roma. Ne è protagonista Giuba II, figlio dell’omonimo re di Numidia che si diede la morte dopo essere stato battuto dai cesariani. Portato nell’Urbe quand’era ancora bambino, visse un destino ben diverso

che prende le mosse dall’interrogativo che, ancora oggi, molti si pongono: fu davvero l’imperatore a volere le fiamme? In attesa di una risposta, Cantamessa fa muovere il protagonista del racconto, Lucio Verginio Rufo e gli altri personaggi nello scenario dell’evento, ricostruito in maniera credibile. (a cura di Stefano Mammini). a r c h e o 113


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.