Archeo n. 380, Ottobre 2016

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WINCKELMANN A FIRENZE PATMOS

L’ISOLA DELL’APOCALISSE SPECIALE

ETIOPIA TERRA DIVINA • ERODOTO E IL MITO DELLE ORIGINI • IL REGNO DI AXUM • LA LEGGENDA DELLA REGINA DI SABA

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SPECIALE ETIOPIA

Mens. Anno XXXII n. 380 ottobre 2016 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

PATMOS

8000 ANNI FA IN TURCHIA

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EDITORIALE

LO ZAMPINO DELLA REGINA DI SABA Un insieme di consuetudini peculiari caratterizza la Chiesa ortodossa dell’odierna Etiopia: i cristiani del Paese africano praticano la circoncisione dei propri figli nell’ottavo giorno dalla nascita, osservano le prescrizioni alimentari elencate nell’Antico Testamento e, sempre come gli Ebrei, al posto della domenica santificano il sabato. I regnanti etiopi, inoltre, si consideravano da sempre discendenti diretti della casata di David e, pertanto, sovrani per diritto divino. Vale la pena, a questo proposito, riportare un episodio – ricordato di recente dall’archeologo Bar Kribus (Biblical Archaeology Review, 5/201) – in cui si narra dell’incontro avvenuto nel 1908 tra l’orientalista Jacques Faitlovitch e l’allora imperatore Menelik II. Quest’ultimo, ricevuti in dono alcuni libri dello studioso scritti in ebraico, chiese di quale lingua si trattasse e, avuta la risposta, invitò l’ospite a recitarne alcuni passi, affinché potesse «udire la lingua parlata dai suoi avi». Come si spiega – e a quando risale – questa singolare forma di cristianesimo «giudaizzante»? Per rispondere alla prima domanda, dobbiamo scomodare nientemeno che la biblica regina di Saba. Del suo viaggio a Gerusalemme, al fine di verificare la leggendaria saggezza del suo re, Salomone, raccontano alcuni celebri passaggi del Libro dei Re (1,10). In cui, tuttavia, non si fa alcuna menzione di un intreccio amoroso tra i due, né, tantomeno, di un figlio nato da quella relazione. Elementi che, invece, costituiscono l’ossatura stessa del racconto contenuto nel Kebra Nagast (La Gloria dei re), testo di riferimento dell’identità religiosa dell’Etiopia. In esso si racconta come il figlio Menelik, nato dall’unione fra la bellissima regina e il saggio re, ricevette dal padre l’incarico di raggiungere la terra materna, l’Etiopia appunto, per fondarvi un nuovo regno d’Israele. E, affinché la cosa andasse a buon fine, l’intervento divino fece sí che Menelik portasse con sé l’Arca dell’Alleanza, il simbolo stesso del popolo d’Israele. Ancora oggi, infatti, i cristiani d’Etiopia affermano che il leggendario reperto sia conservato all’interno della chiesa di Maryam Tsion (Maria di Zion), al centro dell’antica capitale di Axum. Per rispondere alla seconda domanda, ovvero a quando risalga questo sequel di successo del breve episodio biblico, rimandiamo allo Speciale di questo numero, in cui lo storico Marco Di Branco ci racconta la «vera storia» dell’Etiopia (vedi alle pp. 84-104). Partendo dalla testimonianza di Erodoto, per giungere – attraverso i secoli che videro la determinante influenza dei regni sudarabici (dove archeologicamente e storicamente si colloca il regno di Saba!) – all’avvento del cristianesimo. Una vicenda che, con l’aiuto decisivo di alcuni anonimi, ma intraprendenti «inventori della tradizione», prende l’avvio dall’antichità biblica per prolungarsi fino ai giorni nostri. Andreas M. Steiner

Illustrazione realizzata in Etiopia nel XIX sec., raffigurante la regina di Saba che porta in dono a re Salomone oro, avorio e un leone.


SOMMARIO EDITORIALE

Lo zampino della regina di Saba

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

8

PAROLA D’ARCHEOLOGO Via dei Fori Imperiali e Parco dell’Appia Antica: Maria Rita Paris spiega quali ombre gravino sul futuro di questi siti 18

DA ATENE

SCOPERTE Il sito di Çatal Höyük, in Turchia, torna a stupire: questa volta con l’immagine enigmatica di una donna che potrebbe non essere una «grande madre»... 8

Il piú cruento dei sacrifici

ALL’OMBRA DEL VESUVIO Un progetto di ricerca innovativo mette a confronto alberi pompeiani antichi e moderni. Rivelando affinità inaspettate 12

di Maurizio Harari

STORIA

Nell’isola dell’Apocalisse

48

di Marco Di Branco

48

30

di Valentina Di Napoli

SCAVI

Un fermo immagine dell’età del Ferro

36

36

MOSTRE

A Firenze, finalmente! 60 di Giuseppe M. Della Fina

60

SCAVI La scoperta di un’antica curtis fa luce sull’Alto Medioevo della Tuscia meridionale 14 A TUTTO CAMPO Ecco come si fa storia studiando il paesaggio 16

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ET SPEC IO IAL PI E A

ARCHEO 380 OTTOBRE

In copertina statuetta in marmo forse raffigurante una «grande madre», da Çatal Höyük (Turchia). 6500-6300 a.C.

Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale.

ESCLUSIVA

8000 ANNI FA IN TURCHIA

BARCELLONA ROMANA

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WINCKELMANN A FIRENZE PATMOS

L’ISOLA DELL’APOCALISSE SPECIALE

ETIOPIA TERRA DIVINA • ERODOTO E IL MITO DELLE ORIGINI • IL REGNO DI AXUM • LA LEGGENDA DELLA REGINA DI SABA

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€ 5,90

SPECIALE ETIOPIA

Mens. Anno XXXII n. 380 ottobre 2016 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

WINCKELMANN A FIRENZE

Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it

DI

PATMOS

Direttore responsabile: Pietro Boroli

DEA ÇATAL HÖYÜK

LA

SCAVI A VERUCCHIO

Anno XXXII, n. 380 - ottobre 2016 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

www.archeo.it

26/09/16 11:18

Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli,

Hanno collaborato a questo numero: Josep A. Borrell è giornalista. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Franco Cambi è professore associato di metodologia della ricerca archeologica all’Università di Siena. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Marco Di Branco è ricercatore di storia bizantina e islamica all’Istituto Storico Germanico di Roma. Valentina Di Napoli è archeologa. Marco Firmati è direttore del Museo Archeologico e della Vite e del Vino di Scansano. Maurizio Harari è professore di etruscologia e antichità italiche all’Università di Pavia. Paolo Leonini è storico dell’arte. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Simona Rafanelli è direttore del Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: © Çatalhöyük Research Project: Jason Quinlan: copertina (e p. 8) e pp. 9-10 – Mondadori Portfolio: The Art Archive: p. 3; AKG Images: p. 110 – Doc. red.: pp. 11, 18-20, 56, 84/85, 106, 109 – Cortesia Soprintendenza Pompei: pp. 12-13 – Cortesia degli autori: pp. 14-15, 16 (fonte: Dimitris Roubis), 17, 22, 37, 38 (basso), 39, 41-47, 70-72, 74, 75 (basso), 76-78, 111 – Shutterstock: pp. 21, 48/49, 50/51, 52/53, 92/93, 94, 100-104, 106/107, 108 (alto) – © Mt. Lykaion Excavation and Survey Project, cortesia David Gilman Romano: Titus Frelinghuysen: pp. 30 (alto), 31 (basso); David Gilman Romano: p. 31 (alto) – Getty Images: Ullstein Bild: pp. 36/37; Jamie Marshall/Tribaleye Images: pp. 88, 90/91; Atlantide Phototravel: p. 89 (alto); Andrew Burke: p. 89 (basso); Dave Bartruff: p. 95; Ariadne Van Zandbergen: p. 96; Eitan Simanor: p. 97; Gallo Images: p. 99 – DeA Picture Library: G. Dagli Orti: p. 40; A. Dagli Orti: p. 55 (basso) – Marka: Giulio


STORIA

Augusto in Catalogna

70

di Josep A. Borrell

70 ARCHEOLOGIA SPERIMENTALE

L’avventura continua... 80

82 SPECIALE Etiopia

Terra divina

84

di Marco Di Branco

di Flavio Russo

Rubriche QUANDO L’ANTICA ROMA...

…presidiava la Siria con le sue legioni 106 di Romolo A. Staccioli

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

L’imperatore scorpione 110 di Francesca Ceci

LIBRI

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Andreini: pp. 52, 56/57, 58; Ulysses: p. 54; Chris Hellier: p. 55 (alto) – Cortesia Ufficio stampa: pp. 60-68 – Flavio Russo: pp. 80-83 – Erich Lessing Archive/Magnum/Contrasto: pp. 87, 108 (basso) – Archivi Alinari, Firenze: p. 91 – P. Wolf, Deutsches Archäologisches Institut: p. 98 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 30, 38, 50, 73, 75, 86.

Stampa: NIIAG Spa - Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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n otiz iari o SCOPERTE Turchia

UN’ANZIANA DI TUTTO RISPETTO

S

ono passati oltre cinquant’anni da quando vennero condotti i primi scavi a Çatal Höyük, il sito dell’Anatolia la cui scoperta ha costituito una delle acquisizioni piú importanti della preistoria vicino-orientale e, piú in generale, dell’intera regione euroasiatica (vedi «Archeo» n. 331, settembre 2012). Ma quella che è stata a lungo considerata la «città piú antica del mondo» – e la cui esplorazione, dopo un’interruzione trentennale, è stata ripresa nel 1993 da un’équipe internazionale guidata da Ian Hodder – continua a far parlare di sé. Risale a poche settimane fa l’annuncio della scoperta di una statuetta in marmo, che ritrae una figura femminile dai tratti simili a quelli delle «grandi madri» preistoriche, di cui la stessa Çatal Höyük aveva già restituito vari esemplari in argilla, fra cui quello di una «signora» seduta in trono, oggi esposto nel Museo delle Civiltà Anatoliche di Ankara. La figurina – che misura poco piú di 17 cm – proviene da una

Sulle due pagine: la statuetta in marmo di una figura femminile trovata a Çatal Höyük (Turchia), al momento della scoperta (nella pagina accanto) e dopo la prima ripulitura. La piccola scultura proviene da una struttura neolitica databile fra il 6500 e il 6300 a.C.

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n otiz iario

Veduta laterale della figurina femminile trovata a Çatal Höyük (Turchia). Realizzata con grande cura per i dettagli, la scultura, potrebbe forse rappresentare un’anziana che aveva acquisito un ruolo di prestigio in seno alla comunità che abitava il villaggio.

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struttura di epoca neolitica, denominata B.150, che è fra le piú antiche dell’Area 4 del sito e la cui frequentazione si può datare fra il 6500 e il 6300 a.C. La donna ha le mani piegate sotto i seni, che appaiono divaricati, come se il ritratto fosse stato eseguito mentre il soggetto giaceva. Ben evidenziati e accuratamente incisi risultano gli occhi, la bocca, il mento, il largo collo e la parte posteriore della testa; piú grossolana è la resa dell’ombelico, rappresentato da un triangolo con il vertice verso l’alto. Nell’insieme, le mani e i piedi appaiono sproporzionati rispetto al corpo. Un primo intervento di ripulitura ha permesso di accertare che la statuetta fu dapprima definita nei suoi elementi essenziali e poi levigata, per passare infine alla realizzazione dei dettagli: una lavorazione compiuta con notevole perizia e cura dei particolari. Le irregolarità che si possono oggi osservare sono l’esito della lunga giacitura, che ha in parte alterato l’omogeneità originaria della superficie del marmo, lasciando alcune concrezioni biancastre sulla statuetta, che hanno danneggiato soprattutto il braccio destro. Rispetto a quelle finora rinvenute nel sito, la nuova figurina è di particolare importanza non soltanto per essere stata realizzata in pietra, ma anche perché è stata trovata intatta a seguito della sua deposizione intenzionale, insieme a un pezzo d’ossidiana, al di sotto di una piattaforma. Circostanze che suggeriscono la natura rituale dell’azione. Alla luce di recenti teorie è stata inoltre avanzata l’ipotesi che la statuetta non rappresenti una dea della fertilità, ma un’anziana della comunità che


LA CIBELE DI ORDU

La statua nella fortezza

Affacciata sulla costa del Mar Nero, nella Turchia nord-orientale, la provincia di Ordu, custodisce le imponenti rovine di una fortezza databile al IV secolo a.C., il Kurul Kalesi. Dal 2010, qui scava un’équipe di archeologi guidata da Süleyman Yücel Senyurt, dell’Università Gazi di Ankara (anche nota alle cronache per l’arresto del suo rettore, all’indomani del recente tentativo di golpe). Negli anni passati sono stati indagati quasi tre quarti dell’intero complesso fortificato, portando alla luce una notevole quantità di reperti ceramici e metallici, ma la campagna appena ultimata è stata particolarmente proficua: agli inizi dello scorso settembre è stata infatti scoperta una grande statua di marmo della dea Cibele, rinvenuta in buono stato di conservazione. La scultura rappresenta la dea assisa in trono, è alta circa 110 cm, pesa circa 200 kg, ed è stata datata all’epoca di Mitridate VI (I secolo a.C.). Si tratta del primo esemplare di questo tipo a essere rinvenuto nella sua collocazione originale, come mostra la foto che qui pubblichiamo. I rilievi indicano che è rimasta intatta e protetta sotto il crollo delle mura dell’ingresso della fortezza, durante un’invasione di soldati romani. Gli archeologi ipotizzano che la statua provenisse da Afyon (oggi Afyonkarahisar, nella Turchia centrale), città rinomata per la produzione di marmo (da qui proveniva il pavonazzetto largamente utilizzato nella Roma imperiale) e contribuirebbe a indicare l’importanza che il sito fortificato di Ordu doveva avere nei tempi antichi. Magna Mater di origine anatolica, risalente al III-IV millennio a.C., Cibele viene nel corso dei secoli recepita dal mondo greco e infine da quello romano. È associata alla natura fertile, alle montagne, alle città e alle mura cittadine, nonché agli animali feroci, come i leoni che trainano il suo carro o che le vengono sovente rappresentati in grembo. Un importante santuario a lei dedicato si trovava nella città di Pessinunte, l’odierna Ballihisar, circa 150 km a sud-ovest di Ankara. Paolo Leonini

aveva acquisito un ruolo di particolare prestigio; una teoria che troverebbe conferma nei seni cadenti e nell’obesità della donna. I dubbi sulla possibile interpretazione, tuttavia, nulla

tolgono al fascino della scoperta, che arricchisce il quadro di un fenomeno largamente attestato in ambito preistorico e che si distingue anche per la sua lunga durata: «erede» delle grandi madri

fu per esempio la dea Cibele, di cui, nella stessa Turchia, è stata appena scoperta una nuova, pregevole rappresentazione (vedi box in questa pagina). Stefano Mammini

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

FUSTI POMPEIANI COSA SAREBBERO I NOSTRI SITI ARCHEOLOGICI SE NON FOSSERO «INGENTILITI» DA ALBERI E ARBUSTI? UN PROGETTO DELL’UNIVERSITÀ FEDERICO II DI NAPOLI INDAGA IL «PATRIMONIO VERDE» DI POMPEI

L’

area archeologica di Pompei custodisce un patrimonio culturale particolarissimo, quasi sconosciuto al pubblico. Si tratta del verde che contorna gli edifici cittadini, costituito da alberi e arbusti composti in filari, a volte perfino boschetti, e da vigneti gelosamente accuditi. Un patrimonio verde diffuso e variegato, che non si limita ai soli giardini delle domus ed è in grado di svelare storie e situazioni interessanti. Gli studiosi di botanica si sono concentrati finora sulle piante raffigurate negli affreschi pompeiani, e poi ancora sulla ricca collezione di resti di frutti, semi, legni conservati nel Laboratorio di Scienze Applicate della Soprintendenza.

CENSIMENTO SISTEMATICO Le piante vive negli scavi rappresentano un valore aggiunto e una risorsa per sviluppare nuovi percorsi culturali. Una collaborazione fra Soprintendenza Pompei e Università Federico II di Napoli (Dipartimento di Agraria) ha avviato il censimento degli alberi presenti nel sito; sono state finora registrate piú di 500 piante, per un totale di 23 specie, un vero e proprio paesaggio archeologico urbano abbellito da cipressi, pini,

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A sinistra e nella pagina accanto: alberi piantati in età moderna nella necropoli di Porta Nocera. In basso: Porta Ercolano. Il cipresso probabilmente piantato da Giuseppe Fiorelli nell’Ottocento.

lecci, fichi, mandorli, platani e viti Ma qual è la loro origine? E come mai una «città morta» pian piano si è arricchita di verde? Domande che abbiamo rivolto a Gaetano Di Pasquale, ricercatore di botanica ambientale e applicata all’Università Federico II, il quale, con un gruppo di lavoro, sta affrontando una nuova ricerca. «Durante la schedatura – spiega Di Pasquale –, ci si è resi conto che, al di là dei parametri botanici e dendrometrici, fosse necessario uno studio specifico dedicato alla storia che sta dietro a queste piante, e si stanno scoprendo vicende diverse e curiose, come quella del cipresso. Il cipresso (Cupressus sempervirens), in filari o isolato, è la specie piú diffusa a Pompei; al momento è stato rilevato almeno un centinaio di piante, di dimensioni anche ragguardevoli. Nei manuali di botanica è riportato che il cipresso è originario del Mediterraneo orientale, e sarebbe stato introdotto in Italia da Etruschi o Fenici. In realtà, uno studio genetico recente ha permesso di scoprire che questa specie era presente naturalmente nei boschi dell’Italia centro-meridionale, e va quindi considerata autoctona». Ma torniamo ai cipressi piantati a Pompei: «Sembrerebbe che la specie sia stata scelta da Giuseppe Fiorelli, direttore degli scavi fino al 1875, il quale volle all’inizio utilizzarla nell’area di Porta Ercolano. La monumentalità di alcuni dei cipressi censiti, che

superano anche i 20 m di altezza e i 90 cm di diametro, indica che parte di questi alberi potrebbe avere circa centocinquant’anni, una età compatibile con le piante risalenti all’epoca di Fiorelli, circostanza che sarà presto confermata con la dendrocronologia».

COLTURE SPECIALIZZATE Ma perché i cipressi? «Almeno nel caso della via dei Sepolcri, il nesso con il luogo è evidente; ma l’uso legato al culto dei morti non è l’unico che questo albero ha avuto nell’antichità romana; l’archeobotanica infatti ci suggerisce che fossero altri gli impieghi nell’area vesuviana. Il cipresso era soprattutto oggetto di una arboricoltura da legno specializzata; lo testimoniano i numerosi ritrovamenti di impianti ordinati in quinconce (disposizione simile alla figura 5 dei dadi) a sud del Vesuvio, nella piana del Sarno, dove i ritrovamenti di tronchi con apparato radicale sono numerosi. La funzione di queste vere e proprie piantagioni è stata compresa solo recentemente, grazie allo studio del legno utilizzato per usi strutturali a Ercolano, dove, a differenza di Pompei, le caratteristiche dell’eruzione sono state tali da consentirne la conservazione. Qui lo studio dei reperti lignei ha permesso di scoprire che il cipresso, probabilmente proprio quello coltivato nella piana del Sarno, fosse una specie ampiamente utilizzata in

architettura. Il suo impiego per travetti di tetti e solai indica una scelta molto precisa, che testimonia la conoscenza delle caratteristiche tecnologiche del legno ricavato dalla pianta, particolarmente durevole e molto resistente alle sollecitazioni meccaniche. Nel complesso, si tratta di dati che costituiscono un unicum per questa specie, scarsamente documentata dalle ricerche archeobotaniche nel resto d’Italia e nel Mediterraneo occidentale». Pompei racconta quindi due stimolanti storie verdi: quella dei cipressi viventi che nascono verso la fine dell’Ottocento con Giuseppe Fiorelli, e quella documentata dall’archeobotanica, specifica dell’area vesuviana e che descrive un paesaggio e un’economia forestale completamente scomparsi. Storie che, assieme alle vicende di tutte le specie arboree, possono essere tradotte in itinerari originali, cosí da arricchire e diversificare la visita all’area archeologica pompeiana.

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n otiz iario

SCOPERTE Toscana

LA CORTE RITROVATA

U

no scavo archeologico appena ultimato e la ricerca d’archivio a essi collegata permettono finalmente di collocare con sicurezza l’insediamento altomedievale di Lusciano, nella media valle dell’Albegna, nell’attuale territorio di Scansano (Grosseto), facendo luce su un periodo archeologicamente ancora poco documentato nel comprensorio. Ricordato nei documenti già alla metà dell’VIII secolo, Lusciano, dall’inizio del secolo seuccessivo fu uno dei primi nuclei della potenza familiare degli Aldobrandeschi nella Tuscia meridionale. La storia di questa nuova acquisizione era cominciata nei pressi del podere Macereto, sulle basse colline a fianco del fosso Sanguinaio, affluente destro dell’Albegna, in un’area nella quale sono da tempo note tracce di insediamenti antichi. Qui, nella scorsa primavera, un viticultore recupera alcuni piccoli elementi in bronzo, che si rivelano essere guarnizioni tipiche delle cinture d’età longobarda: alla casuale scoperta fa seguito l’intervento della Soprintendenza Archeologia della Toscana, che, d’intesa con il Museo Archeologico di Scansano e

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A destra: podere Macereto (Scansano, Grosseto). Un settore dello scavo che ha rivelato strutture riferibili alla curtis di Lusciano. il Dipartimento di Scienze Fisiche, della Terra e dell’ambiente dell’Università di Siena, effettua una breve campagna di scavo. Vengono indagati e documentati alcune tombe e i vicini ruderi di un antico edificio a pianta rettangolare con abside. I materiali di bronzo recuperati – guarnizioni di cinture e un pettine – permettono di datare le sepolture al VII secolo, mentre i resti dell’edificio hanno tutta l’evidenza di una chiesa di poco posteriore (VIII secolo?). Queste nuove acquisizioni, di per sé notevoli, perché documentano un periodo storico poco conosciuto, confermano l’importanza e la prolungata frequentazione dell’itinerario nord-sud lungo il fosso Sanguinaio, che conduce a un comodo guado sull’Albegna. La vitalità del percorso dall’età etrusca al pieno Medioevo è infatti

testimoniata da molti recuperi e scavi archeologici degli ultimi vent’anni, ben rappresentati nel Museo Archeologico di Scansano che, dalla sua istituzione, nel 2001, favorisce la raccolta di informazioni e materiali da parte degli abitanti e di molti appassionati frequentatori della Maremma. Ecco quindi le considerazioni che consentono adesso di riconoscere nel sito esplorato la curtis di Lusciano, piú volte citata nelle fonti antiche. Innanzitutto il nome del luogo, Lusciano, è sicuramente un toponimo «prediale» (dal latino praedium: appezzamento di terra), ossia derivato dal nome personale romano del proprietario del fondo: in questo caso sarebbe dunque derivato da Luscius. Perciò è significativo osservare che il gentilizio (nome familiare) Luscius, di origine etrusca, è documentato in area scansanese da numerose tegole sulle quali è impresso il nome del fabbricante. Tra le colline che da Scansano discendono verso l’Albegna, infatti, la villa romana di Aia Nova, soprattutto, e quella di Civitella hanno restituito molti bolli dei Lusci, evidentemente proprietari di una fornace per laterizi e, come spesso accadeva, del fondo in cui era impiantata. Della presenza dei Lusci c’è dunque una prova archeologica sicura, anche perché, almeno in terraferma, i laterizi non


Lucca Peredeo, perché questi concede in locazione a Ermicauso casa e beni «in loco maritima», a Tucciano, che si ritiene corrispondere all’odierna Pereta. Nell’809, Alperto ottiene in concessione il cospicuo patrimonio della chiesa di Lucca «in loco Tucciano», costituito da una curtis con i suoi uomini, le case massaricie e i due monasteri di S. Gregorio e S. Eusebio. Nell’862, infine, il conte Ildebrando II consolida il controllo che la famiglia Aldobrandeschi esercitava sul vasto comprensorio maremmano già dall’inizio del secolo grazie alla

sant’Eusebio. Alla ricerca archivistica di Angiolino Lorini, scansanese e appassionato storico locale, si deve infatti la scoperta in una pianta datata 1836 della «Cappella diruta di S. Eusepio», identificabile proprio con i ruderi della chiesa rilevati presso il sepolcreto altomedievale riportato alla luce a Macereto. Adesso riconoscervi Lusciano, la corte ricordata nelle carte lucchesi, non è piú un’ipotesi azzardata. L’insediamento insisteva su un luogo già durevolmente occupato in epoca romana, dal III secolo a.C. al IV d.C e aveva una significativa

concessione ottenuta da Alperto: Ildebrando permuta alcuni suoi beni con il vescovo di Lucca acquisendo casa e corte di Mucciano e la pertinente chiesa di S. Eusebio a Lusciano. Quello che ora interessa è osservare che fra la località di Tucciano, Mucciano e Lusciano, scomparse nella documentazione posteriore al IX secolo, viene ricordata per ultima l’esistenza del monasterium dedicato a

ragion d’essere nella posizione su un importante asse di comunicazione tra nord e sud, che valicando lo spartiacque OmbroneAlbegna nei pressi di Poggioferro collegava a Roselle: un itinerario strategico, come quello lungo la via Clodia, per il consolidamento del potere dei Longobardi lucchesi nell’area dell’Albegna, prima probabile linea di confine contro la presenza militare bizantina. Marco Firmati

In alto: una delle sepolture di epoca altomedievale. VII sec. a.C. A destra: l’abside della chiesa identificabile con quella dedicata a sant’Eusebio citata dalle fonti. Nella pagina accanto, in basso: laterizio con il bollo dei Lusci. erano destinati a raggiungere grandi distanze dal luogo di produzione, considerando il loro scarso valore rispetto alle difficoltà e ai costi del trasporto. Nell’Archivio Arcivescovile di Lucca, che conserva una cospicua documentazione sul dominio del ducato longobardo in Toscana, Lusciano compare piú volte: ne riportiamo qui solo alcuni esempi. La prima menzione è contenuta in una carta dell’anno 753: Pertifunso, figlio del duca Walperto, cede in sconto di un suo debito a Walprando, suo fratello e vescovo di Lucca, i beni che gli appartenevano in Tucciano e Lusciano, comprendenti case, terreni coltivati, vigneti, oliveti e selve. Pochi anni piú tardi, un documento del 762 cita la curtis di Lusciano, pertinente al vescovo di

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A TUTTO CAMPO Franco Cambi

IL RACCONTO DEI PAESAGGI L’AMBIENTE CHE CI CIRCONDA È IL PRODOTTO DI UN SUSSEGUIRSI CONTINUO DI AGGIUNTE, SOTTRAZIONI E MODIFICHE OPERATE NEL TEMPO DALL’UOMO. UN PROCESSO CHE L’ARCHEOLOGO SA RICONOSCERE E INTERPRETARE

I

l paesaggio è un prodotto della storia, che, operando sui quadri ambientali naturali attraverso le azioni dell’uomo, trasforma incessantemente le diverse geografie. Per paesaggio, diceva il geografo Lucio Gambi, si intende uno spazio di varia estensione per un tempo di varia durata: le opere dell’uomo, le strutture e le infrastrutture necessarie alla vita, all’agire economico, culturale e spirituale, si sovrappongono allo stato di natura e si inseriscono in una eredità storica in via di progressivo arricchimento. Possiamo dunque considerare il paesaggio contemporaneo come un corpo soggetto a trasformazioni del patrimonio genetico, che continuano anche dopo la morte, nelle generazioni successive.

LA GIUSTA VISIONE L’archeologia moderna concepisce i siti archeologici e gli edifici in maniera stratigrafica, ma anche i paesaggi sono i prodotti di una stratificazione, di un susseguirsi ininterrotto di aggiunte, sottrazioni e modifiche. La visione dei paesaggi deve dunque essere storica, stratigrafica e geografica al tempo stesso e l’archeologia dei paesaggi è nata quando l’archeologia è stata contaminata,

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positivamente, dal pensiero stratigrafico da un lato e dal recupero del senso degli spazi e delle geografie dall’altro. I paesaggi del passato, ora scomparsi, si ricostruiscono rintracciandone i fossili nel paesaggio contemporaneo e attivando procedure di ricerca appropriate su tipologie di fonti

Qui sopra: schema di ricognizione sul campo adottato in un progetto in Basilicata: gli operatori (1-5) esplorano il terreno, e il responsabile dell’équipe (6) documenta i dati; con un GPS palmare vengono posizionati i vertici dei quadrati e tracciati i limiti delle concentrazioni dei materiali. Nella pagina accanto: archeologi impegnati in una ricognizione.


molto diverse. Come è opportuno coniugare la globalità degli approcci con la globalità delle fonti, cosí è necessario coniugare – per dirla con Giuliano Volpe – rigore metodologico e coraggio interpretativo. L’archeologo dei paesaggi non deve essere un «tuttologo» superficiale, che sa un poco di tutto, bensí un elemento equilibratore di competenze diverse, capace di suggerire i percorsi piú appropriati per approfondire le conoscenze e munito di proprie specializzazioni.

SAPER VALUTARE Il suo compito non consiste soltanto nel portare alla luce aree archeologiche o siti sconosciuti, ma nel valutare preventivamente le potenzialità archeologiche di un contesto, cioè nel cercare di intuire, attraverso la ricerca, quanti siti possono eventualmente figurare in una determinata area geografica. Informazioni che possono rivelarsi assai utili a quanti hanno il compito di realizzare nuove opere pubbliche. Le ricerche di archeologia dei paesaggi hanno un ruolo determinante dal punto di vista della didattica archeologica e della formazione alla ricerca sul campo. Se lo scavo rappresenta un momento imprescindibile nel formare lo studente agli approcci alle diverse complessità correlate alla storia di singoli monumenti e

insediamenti, la ricerca sui paesaggi antichi, con le diverse fonti e con le diverse procedure impiegate, rappresenta un tirocinio altrettanto formidabile per chi voglia confrontarsi con la ricostruzione degli assetti e dei meccanismi di contesti oggi esistenti soltanto allo stato fossile. Quanto alla tutela, si va verso il superamento della separazione fra beni ambientali, archeologici, monumentali, storico-artistici, paesaggistici, etno-antropologici: nella stessa geografia devono potere intervenire in maniera armonica le diverse competenze, in modo da ripensare i singoli luoghi non come semplici sommatorie di occorrenze geologiche, naturalistiche e storicoarcheologiche, ma come tessuti dalla trama piú o meno unitaria e coerente, nei quali coesistono emergenze diverse. A Siena il tema della tutela viene affrontato partendo dal punto di vista della ricerca: quando opera con fini prevalentemente di tutela, l’archeologo dei paesaggi si pone il problema di quante fasi storiche, ignote, siano ancora nascoste sotto l’epidermide del paesaggio contemporaneo nei nostri campi e di quante non siano oggi piú visibili o documentabili. Per esempio, un sito cancellato dalla realizzazione di una nuova infrastruttura, se documentato e posizionato su una carta, può

rappresentare il fossile guida di un orizzonte tipologico e cronologico al quale ascrivere centinaia, o migliaia, di insediamenti analoghi, destinati all’oblio definitivo in quanto non documentati.

LA COMUNICAZIONE Sulla base delle esperienze fin qui maturate, si può dire che gli archeologi dei paesaggi stiano compiendo un grande sforzo per incrementare lo spessore pubblico del loro lavoro. Tuttavia, soprattutto con i giovani, molto si deve ancora fare in questa direzione, e creare reti di informazioni e di diffusione delle conoscenze, spazi di condivisione e di scambio fra amministrazioni, atenei, soprintendenze, associazioni, scuole e società. Il tema della comunicazione della scienza archeologica al pubblico è molto dibattuto: l’archeologia del nostro tempo o è sociale o, semplicemente, non è. Viviamo in una società desiderosa di conoscenza, ma in maniera selettiva, non disposta a prendere tutto per buono. Scolaresche, associazioni culturali, semplici appassionati pongono domande dirette e precise, pretendendo implicitamente spiegazioni anche articolate e intervenendo in maniera non banale sui grandi temi dei paesaggi del passato. Questo fa piacere ai docenti e ai giovani impegnati nella ricerca, che vedono cosí riconosciuto il nostro ruolo pubblico e la nostra efficacia sociale. Prima della comunicazione, devono però esserci conoscenze verificate e consolidate e, prima delle conoscenze, una ricerca opportunamente condotta. Fra il sole a picco del sito archeologico e la penombra del laboratorio, occorre essere sempre pronti a decodificare i molti segni che, in forma residuale, il paesaggio contemporaneo ci mostra. (franco.cambi@unisi.it)

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

QUALE FUTURO PER L’APPIA ANTICA E I FORI IMPERIALI? TORNA D’ATTUALITÀ IL DIBATTITO SUI DUE COMPRENSORI ARCHEOLOGICI ROMANI: DEI POSSIBILI INTERVENTI DI TUTELA E VALORIZZAZIONE CI PARLA MARIA RITA PARIS, CHE DA ANNI È RESPONSABILE DELLA SOPRINTENDENZA PER L’AREA DELLA REGINA VIARUM

S

i è tornato a parlare, di recente, della pedonalizzazione di via dei Fori Imperiali e del destino dell’area archeologica centrale di Roma. La questione è storicamente legata a un altro tema che ha appassionato intellettuali, archeologi e studiosi negli ultimi decenni, ovvero il progetto del «grande parco dell’Appia Antica» immaginato da Antonio Cederna a partire dagli anni Cinquanta e, a oggi, mai realizzato: il sogno di un’unica area archeologica

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pedonale, che si estenda ininterrottamente da via dei Fori Imperiali fino al Colosseo, al Circo Massimo e infine all’Appia Antica. Per fare il punto sulla vicenda, abbiamo incontrato Maria Rita Paris – Direttore archeologo della Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma –, che, in qualità di responsabile del Parco dell’Appia Antica, dal 1996 a oggi, ha vissuto in prima linea le battaglie in difesa della «regina viarum».

Dottoressa Paris, cominciamo con la pedonalizzazione di via dei Fori Imperiali: c’è chi lamenta che non sia un’area pedonale, ma solo una strada chiusa al traffico, priva di servizi, arredi urbani e cartelli illustrativi degli scavi. Qual è la sua opinione al riguardo? «La pedonalizzazione era solo un primo passo per avviare un progetto Fori: aveva lo scopo di allontanare le auto dai monumenti per poi dimostrare, gradualmente, che via dei Fori Imperiali è inutile nella sua ampiezza. Adesso si deve


iniziare a ragionare su un progetto non dico di smantellamento totale, ma almeno di riduzione dello stradone, affinché le realtà archeologiche sottostanti – che sono tra le piú straordinarie al mondo – non siano solo buchi, «vasche» sulle quali affacciarsi a guardare testimonianze antiche incomprensibili. Quelle erano piazze: erano i Fori, rappresentavano il cuore della vita pubblica. E questo oggi non lo si percepisce. Via dei Fori Imperiali è come un nastro di asfalto che ha azzerato tutto: non esiste piú il progetto urbanistico antico, né quello della città moderna, cancellato dalla demolizione mussoliniana del quartiere alessandrino». Quindi, che fare? «La necessità che sento - e che tutti i cittadini sentono - è quella di ricucire insieme le varie realtà archeologiche: i Fori Imperiali, da piazza Venezia fino al Colosseo, via di San Gregorio, il Circo Massimo, il Celio e le Mura Aureliane, infine l’Appia. Non dobbiamo parlare solo di pedonalizzazione, ma prendere in considerazione un progetto piú

COSÍ PARLAVA ANTONIO CEDERNA

Quei ruderi trasformati in «comparse»...

Questo scriveva Antonio Cederna (1921-1996) nel 1954 dei «gangster dell’Appia», contro cui avrebbe lottato per tutta la vita, con parole che risultano attuali a distanza di mezzo secolo: «L’Appia antica è diventata il luogo geometrico di tutta la cattiva architettura romana, la palestra per gli speculatori principianti, il banco di prova di tutte le piú ordinarie e impunite illegalità. I ruderi sono scaduti a miserabili comparse, hanno perduto la loro grandezza, la loro meravigliosa cornice di deserto e di silenzio, immeschiniti, corrosi, spellati. Le stupende rovine della via Appia antica vengono chiusi tra sipari male intonacati, tra muriccioli e filo spinato, come animali esotici e pidocchiosi: statue e rilievi spezzati e trafugati, le iscrizioni usate come materiali da costruzione: la via Appia antica è diventata il canale di scolo dei nuovi quartieri, tagliata, sminuzzata, sventrata».

ampio. La pedonalizzazione è diventato un modo per chiudere la questione, come se tutti i problemi fossero finiti lí. La giunta dell’ex sindaco di Roma Ignazio Marino ha fatto bene a riprendere un tema culturale e urbanistico cruciale per la città, adesso si deve andare avanti. Sento parlare solo di aree pedonali e piste ciclabili: tutte cose che do per scontato. Pensare un grande progetto è ben altra cosa». E ben altra portata, infatti, aveva l’idea di Cederna, sostenuta e portata avanti, tra gli altri, dall’architetto Leonardo Benevolo e

da Adriano La Regina, già Soprintendente di Roma: il parco dell’Appia Antica come un grande cuneo verde che unisse l’area archeologica centrale di Roma con i Colli Albani... Che cosa rimane oggi di quel sogno? «Sono passati vent’anni esatti dalla scomparsa di Antonio Cederna, il 27 agosto 1996. Il grande studioso non pensava certo alla pedonalizzazione, ma a una vera e

Sulle due pagine: una suggestiva immagine del parco archeologico dell’Appia Antica all’ora del tramonto.

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A sinistra: uno scorcio dell’area archeologica di Capo di Bove, sull’Appia Antica. Nella pagina accanto: una veduta panoramica dell’area archeologica centrale di Roma, attraversata dalla via dei Fori Imperiali. Al centro, la Torre delle Milizie e il complesso composto dal Foro e dai Mercati di Traiano, a sinistra, la Colonna Traiana; a destra, i Fori di Augusto e di Nerva.

propria ricucitura urbanistica dell’area centrale di Roma. Quelle che vediamo sono ferite moderne, sovrappostesi col tempo alle realtà archeologiche. Oggi c’è innanzitutto bisogno di un lavoro progettuale molto ponderato per capire come ricucire il tessuto archeologico, attraverso la riduzione della strada e il collegamento con le Mura Aureliane e il Celio. Via dei Fori Imperiali non è un boulevard (non è nato come tale): è un nastro di asfalto steso tra fioriere, statue finte e recinzioni moderne. Sono stati eliminati i camion bar. Iniziamo ad agire per sottrazione, togliendo, cosí da enfatizzare le rovine archeologiche che sono ai lati. Magari rendendole comprensibili ai turisti…». Su via dei Fori Imperiali, nonostante le nuove aree di scavo aperte negli ultimi anni, non ci sono pannelli esplicativi? «No. I turisti non hanno alcuna indicazione sulle testimonianze antiche. Vagano senza un perché, su uno stradone nato per parate militari: questo non è il progetto Fori- Appia Antica». Quindi, secondo lei, stiamo facendo passi indietro? «Sí. Ci stiamo allontanando,

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anziché avvicinarci a quel grande progetto. Le cose, poi, sono molto piú difficili dopo l’ultima riforma delle Soprintendenze. Oggi come oggi, da un punto di vista amministrativo, l’Appia Antica è separata dai Fori e persino dal suo primo tratto: all’interno delle Mura Aureliane, infatti, i resti archeologici sono di competenza della Soprintendenza Speciale per il Colosseo e l’area archeologica di Roma – che comprende il primo miglio dell’Appia, dal Circo Massimo a Porta San Sebastiano –, mentre al di fuori delle mura dovrebbe iniziare il nuovo Parco Archeologico dell’Appia Antica, nato dalla riforma dei musei autonomi. Peraltro, occorre sottolineare che questo ricalca esattamente il perimetro del Parco Regionale istituito nel 1988, senza vincolare le evidenze archeologiche di recente individuazione, che rimangono fuori». Vuole dire che il nuovo parco archeologico non tutela i resti emersi negli ultimi anni? «No, ripropone la situazione fissata nel 1988». Un altro tema cruciale per l’Appia Antica è il fatto che il parco si estende per il 90 per cento su suolo

privato. Un caso unico al mondo e un problema per la tutela: che cosa si può fare? «Basti pensare che tutti gli acquedotti, di competenza dello Stato, si trovano su terreni privati. L’area della Caffarella e delle Catacombe Ebraiche è di proprietà privata. Ci sono ville e ristoranti con monumenti al loro interno (grandi tenute di famiglie nobili o enti ecclesiastici, nel tempo frazionate e vendute). E ci sono importanti complessi monumentali che, incredibilmente, sorgono in proprietà privata, perlopiú in stato di abbandono o di uso sconveniente. Con qualche milione di euro la Soprintendenza potrebbe acquistarli, per restaurarli e metterli a disposizione della collettività, incrementando il patrimonio pubblico di un parco quasi tutto privato». Nel caso della Villa dei Quintili, della tenuta di Capo di Bove e di S. Maria Nova si è proceduto all’acquisizione pubblica. Una soluzione possibile per restituire alla collettività altri monumenti dell’Appia Antica? «Certo. La tomba di S. Urbano in via dei Lugari, conservata fino alla volta, è privata e i proprietari vorrebbero venderla. Il sepolcro detto “degli Equinozi”, vicino a Capo di Bove, è in proprietà privata: i padroni di casa hanno scritto al Ministro dei Beni Culturali, offrendolo in vendita. La mentalità oggi è cambiata: è passato il gusto tipico degli anni Settanta di


acquistare una proprietà con un monumento all’interno. Si è compreso che non rende, che servono soldi per restaurarlo e mantenerlo, per cui i privati vogliono vendere allo Stato». Come si realizza, in concreto, la vendita dei monumenti? «Lo Stato per legge acquista sulla base del diritto di prelazione, ma è difficile che un privato si proponga. Per questo, nel caso di S. Maria Nova, ho optato per la trattativa diretta, una procedura prevista dalla legge: il privato fa un’offerta, si valuta la congruità e si procede all’atto di vendita con Stato e Demanio. Il nuovo istituto del Parco Archeologico dell’Appia Antica

l’archeologia oggi sembra uscire sconfitta: nell’area archeologica piú vincolata al mondo si contano migliaia di abusi, in gran parte condonati dallo Stato. In barba ai vincoli urbanistici (che insistono sull’area dal 1931), paesistici (dal 1953) e archeologici, nonché a quelli imposti nel 1988 – anno in cui l’Appia divenne Parco Regionale – e nel 1965, quando lo Stato vi pose il divieto di edificare. È possibile che, da allora, sia stato costruito quasi un milione e mezzo di metri cubi di cemento abusivo? «Con il Piano Regolatore Generale del 1965 si decise con decreto che l’Appia, per un’estensione di 2500 ettari, dovesse diventare parco

Situazioni abusive sanate dallo Stato con ben tre condoni, in particolare quelli del 1985 e 1995: si è trattato di procedure regolari? «Comune e Regione dovrebbero assumere un impegno per riconsiderare tutti i condoni rilasciati non correttamente. Ciò che è stato realizzato senza alcun titolo edilizio è stato legittimato dalle leggi sui condoni (soprattutto la 47/85) e aggravato da irregolarità di attuazione delle norme procedurali, senza alcuna considerazione per i vincoli archeologici e per quelli paesaggistici che, in virtú delle deleghe e sub-deleghe, hanno assunto valore pressoché nullo».

dovrebbe rendere piú facili queste soluzioni, altrimenti a cosa serve?». Ma la riforma varata lo scorso aprile non ha portato alcun giovamento? «Non direi, l’esercizio della tutela si è fatto molto piú complicato. Allo stato attuale, siamo alla paralisi: non ho un direttore che firmi le lettere (il direttore del nuovo Parco Archeologico dell’Appia Antica deve ancora essere nominato). Alla Soprintendenza è rimasta la stretta competenza della tutela dentro le mura. Nel contempo, si sono moltiplicati i passaggi amministrativi». E poi c’è il capitolo dell’abusivismo edilizio… la famosa battaglia contro i «gangster dell’Appia Antica» avviata da Cederna mezzo secolo fa (vedi box a p. 19), da cui

pubblico e sull’area venne posto il vincolo di inedificabilità. Parco pubblico non è mai diventata, poiché la possibilità di esproprio è decaduta dopo cinque anni, ma sono rimasti in vigore i vincoli del Ministero dei Beni Culturali, quelli urbanistici e paesistici. E, soprattutto, il vincolo di inedificabilità assoluta. Quindi nessun condono per aumento di cubatura consistente poteva essere rilasciato sull’Appia. Invece hanno costruito e trasformato in modo impressionate. Ci sono ville che si sono allargate, con dependance, piscine, garage e annessi, altre che sono raddoppiate, altre ancora che sono nate dal nulla. Si tratta di nuove consistenti cubature, non di piccoli interventi».

Lei si è battuta per anni, in prima persona, su questo fronte. Che cosa può fare la Soprintendenza? «La mia battaglia è consistita nel valutare con estrema attenzione e coerenza tutti i condoni che mi sono arrivati. Nel passato il Comune li ha rilasciati senza considerare il parere della Soprintendenza. Solo in questi ultimi due, tre anni ero riuscita ad avere ascolto e definire un protocollo, in accordo con Comune e Sovraintendenza comunale, per cui stanno rivedendo alcuni pareri. Il problema va risolto con una decisione chiara. Nessuna cubatura poteva essere costruita perché c’era il vincolo di inedificabilità, prima ancora che archeologico. E nessun condono poteva essere rilasciato».

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MOSTRE Toscana

STORIA DI UNA SCOPERTA

N

el giugno del 2009, gli archeologi tornarono a scavare nell’area del quartiere ellenistico di Vetulonia e le indagini permisero di individuare una residenza fino ad allora sconosciuta, ribattezzata «Domus dei Dolia», poiché vi fu rinvenuto un nucleo significativo di orci, uno dei quali conservato in tutta la sua altezza ancora in piedi sul posto. La storia di questa casa e della sua esplorazione viene ora narrata dalla nuova mostra allestita nel Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi». Sigillata dalla terra depositatasi per oltre duemila anni al di sopra del crollo della struttura, causato dall’incendio forse appiccato all’intero quartiere nel corso delle guerre civili fra Mario e Silla, la domus rappresenta un contesto per cosí dire incontaminato, che ha offerto all’indagine archeologica un complesso di dati contestualizzati rimasti fissati nel tempo, come in un’istantanea ante litteram. Lo scavo ha consentito di ricostruire con esattezza l’intera abitazione nei suoi elementi, dalle fondamenta ai piani di calpestio e pavimentali, all’alzato in pietre legate a secco e mattoni di argilla seccati al sole, al tetto di tegole piane e coppi semicircolari montati su una trama di travi fissate da grossi chiodi in ferro. La copertura, a una sola falda, era inclinata da monte a valle, dove si doveva collocare l’accesso alla domus, aperta sulla prosecuzione della via dei Ciclopi, la strada parallela alla via Ripida sulla quale si affaccia la domus di Medea. D’altro lato, l’eccezionalità dei dati architettonici forniti da questo scavo ha offerto l’opportunità di dare un volto attendibile alla città di Vetulonia negli ultimi secoli della

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A destra: Vetulonia, Domus dei Dolia. Il grande dolio ricomposto e ricollocato nel vano magazzinodispensa-cucina della residenza, scoperta nel 2009 nel quartiere ellenistico. A sinistra: cimasa di candelabro in bronzo a forma di cavallino rampante, dalla Domus dei Dolia. IV sec. a.C.

sua storia, in termini di planimetria, elementi strutturali, elementi decorativi, nei termini di funzionalità e destinazione dei vani di una abitazione pertinente al ceto medio-alto della società. Particolarmente rilevanti sono le informazioni relative agli alimenti conservati all’interno dei grandi contenitori custoditi nella casa: ai grandi dolia del vano A si è aggiunto, nell’ottobre 2015, il rinvenimento di un dolio piú piccolo, integro e in posto, sul fondo del vano G, l’ultimo dei quattro vani schierati paratatticamente a ridosso della collina, che, simmetrico al vano A, conclude l’abitazione verso ovest. In occasione della mostra, la Domus dei Dolia è stata ricostruita nella «Sala delle Vele» del museo e,

al suo interno, nei diversi ambienti, sono stati ricollocati gli oggetti finora tornati alla luce. Una collocazione particolare è stata riservata alle statuette in bronzo, che rappresentano una mirabile espressione della bronzistica etrusca di età ellenistica. Simona Rafanelli

DOVE E QUANDO «Bentornati a casa. La Domus dei Dolia di Vetulonia riapre le porte dopo duemila anni» Vetulonia, Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 6 novembre Orario tutti i giorni, 10,00-16,00 Info tel. 0564 948058; e-mail: museovetulonia@libero.it; www.museoisidorofalchi.it



n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

LA CULLA DELL’UMANITÀ

Luciano Calenda

3

2 Nel 1973, la sensazionale scoperta in Etiopia dello scheletro di Lucy (nomignolo assegnato 1 allo scheletro di una femmina di Australopithecus afarensis), una nostra antenata vissuta intorno ai 3,5 milioni di anni 6 fa, fu la conferma del fatto che quella terra 5 faceva parte della zona «magica» che ha 4 costituito la «culla» dell’umanità, insieme alle terre limitrofe dell’intero Corno d’Africa, del Mediterraneo centro-orientale, della Penisola Arabica fino alla Mesopotamia. La scoperta, compiuta dal paleoantropologo statunitense Donald C. Johanson, fu ricordata nel 1986 con un francobollo 8 raffigurante lo scheletro e la località in cui fu ritrovato: Hadar (1). Al Paese di Lucy è dedicato lo Speciale di questo numero (vedi alle pp. 84-104) e noi 7 ci associamo, con il consueto omaggio filatelico. Siti archeologici e monumenti. Possiamo ricordare i graffiti preistorici (2) rinvenuti in una grotta nei 9 pressi della località di Harrar; la città santa di Lalibela con le sue numerose chiese rupestri: tra le piú famose quelle di Medhane Alem, del Salvatore (3), di Amanuel (4) e di S. Giorgio (5), quest’ultima ricordata anche da un francobollo francese (6). Reperti rinvenuti grazie agli scavi. La statua e il trono da Atsbe Dera (7), vasi in ceramica da Yeha del IV secolo a.C. (8), un leone del IV secolo a.C., ancora da 10 11 Yeha (9) e una statuetta del V secolo a.C. (10). La stele di Axum. La storia del monolite, raccontata con dovizia di particolari nello Speciale, può essere documentata anche con il materiale filatelico. L’Italia emise un francobollo nel 1956 per celebrare il 10° anniversario della FAO, l’Agenzia creata dall’ONU per combattere la fame nel mondo. Il francobollo raffigura la sede della FAO, affacciata sul piazzale di Porta Capena, nei pressi del Circo Massimo; lí era stato posizionato l’obelisco di portato in Italia come 12 13 14 preda di guerra nella campagna coloniale. Il tutto ben si vede da una cartolina Maximum IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere (11) creata per l’occasione (anche se nel alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai francobollo, in realtà, la stele non compare). seguenti indirizzi: Nel 1998 l’obelisco tornò in Etiopia in seguito Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, ad accordi tra i due Governi; l’Etiopia emise Via Tavanti, 8 C.P. 17037 una serie di 3 valori per ricordare le fasi dello 50134 Firenze Grottarossa smontaggio a Roma (12) e della nuova info@cift.it, 00189 Roma. sistemazione nella città santa di Axum (13-14). oppure lcalenda@yahoo.it; www.cift.it

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INCONTRI Paestum

È L’ORA DELLA BORSA!

P

rende il via giovedí 27 ottobre 2016 la XIX edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, che, fino a domenica 30, «occuperà» l’area adiacente al Tempio di Cerere, il Museo Archeologico Nazionale e la Basilica Paleocristiana. Il programma si aprirà con l’incontro «Un anno di gestione autonoma dei Musei Archeologici del Sud», moderato da Alessandro Barbano, direttore de Il Mattino, con Eva Degl’Innocenti, direttore del Museo Archeologico Nazionale di Taranto, Paolo Giulierini, direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Carmelo Malacrino, direttore del Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria e Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco Archeologico di Paestum. Nell’occasione è previsto anche l’intervento del Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Dario Franceschini. Fra gli appuntamenti di spicco della rassegna, ricordiamo anche le conferenze realizzate con il MiBACT, che patrocina la Borsa – «Archeologia e Paesaggio», «Le politiche europee per il turismo e il patrimonio culturale» e «Pubblico e privato a sistema

i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

per la promozione e la valorizzazione delle destinazioni turistico-culturali» –, la conferenza «I Musei Archeologici del Mediterraneo per il dialogo interculturale», nell’ambito dell’evento #pernondimenticare il Museo del Bardo, 18 marzo 2015 e la conferenza #Unite4Heritage for Palmyra. Venerdí 28 ottobre sarà consegnato l’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», il Premio alla piú significativa scoperta archeologica del 2015, promosso dalla Borsa e da «Archeo» e giunto alla seconda edizione, che verrà assegnato alla presenza di Walid Asaad, figlio dell’archeologo di Palmira che ha pagato con la vita la difesa del patrimonio culturale. Inoltre, sarà consegnato uno «Special Award» alla scoperta che avrà ricevuto il maggior consenso sulla pagina Facebook della Borsa. E, nello stesso giorno, si svolgerà la Presentazione Ufficiale dei «Blue Helmets of the Sea», moderata da Andreas M. Steiner, direttore di «Archeo», alla presenza di Anna Arzhanova Presidente CMAS Confederazione Mondiale Attività Subacquee, Ilaria Borletti Buitoni Sottosegretario di Stato ai Beni e alle Attività Culturali e al Turismo, Silvia Costa Presidente Commissione Cultura e Istruzione del Parlamento Europeo, Sebastiano Tusa Soprintendente del Mare della Regione Siciliana e Presidente Nazionale Gruppi Archeologici Subacquei d’Italia. Info www.borsaturismoarcheologico.it


CALENDARIO

Italia ROMA Tra Roma e Bisanzio

La basilica di Santa Maria Antiqua e le sue pitture Foro Romano, S. Maria Antiqua fino al 30.10.16

MILANO Salvare la Memoria (la Bellezza, l’Arte, la Storia) Storie di distruzioni e rinascita Museo di Sant’Eustorgio fino al 06.11.16

L’Arma per l’Arte e la Legalità

Opere recuperate dal Nucleo Carabinieri TPC Palazzo Barberini fino al 30.10.16

MADE in Roma

Marchi di produzione e di possesso nella società antica Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 20.11.16

La Spina

Dall’agro Vaticano a via della Conciliazione Qui sotto: busto di Antinoo. Prima Musei Capitolini metà del II sec. d.C. fino al 20.11.16

Rinascere dalle distruzioni Ebla, Nimrud, Palmira Colosseo fino all’11.12.16

Minute Visioni

Micromosaici romani del XVIII e XIX secolo dalla collezione Ars Antiqua Savelli Museo Napoleonico fino al 31.12.16

Antinoo

Un ritratto in due parti Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps fino al 15.01.17

BARLETTA Annibale. Un viaggio Castello fino al 22.01.17

FIRENZE Winckelmann, Firenze e gli Etruschi

Il padre dell’archeologia in Toscana Museo Archeologico Nazionale Firenze, Salone del Nicchio fino al 30.01.17 Qui sopra: affresco raffigurante GROSSETO, MANCIANO, Annibale. Roma, MARSILIANA D’ALBEGNA Musei Capitolini. E SCANSANO

Marsiliana d’Albegna

Dagli Etruschi a Tommaso Corsini Museo Archeologico e d’Arte della Maremma Museo di Preistoria e di Protostoria della Valle del Fiora località Dispensa-Sala del Frantoio Museo Civico Archeologico e della Vite e del Vino fino al 31.01.17 28 a r c h e o

Homo sapiens

In alto: Palmira. L’arco severiano e la Grande via Colonnata, in una foto del 2007.

Le nuove storie dell’evoluzione umana MUDEC-Museo delle Culture fino al 26.02.17

PAESTUM Possessione

Trafugamenti e falsi di antichità a Paestum Museo Archeologico Nazionale fino al 31.12.16

POMPEI Egitto Pompei

Palestra Grande e itinerario negli Scavi fino al 02.11.16

Per grazia ricevuta

La devozione religiosa a Pompei antica e moderna Antiquarium degli Scavi fino al 27.11.16

POPULONIA La città dei vivi

Qui sopra: Pompei. Larario con Minerva.

Museo Etrusco di Populonia-Collezione Gasparri fino al 30.10.16

RAVENNA S.I.R.I.A. (Salvezza, Illuminazione e Redenzione nell’Iconografia dell’Architettura) Mosaici pavimentali siriani TAMO, Tutta l’Avventura del Mosaico fino al 06.01.17

SENALES (BOLZANO) La casa di Ötzi

La ricostruzione di una capanna preistorica archeoParc Val Senales fino al 06.11.16

TRENTO Estinzioni

Storie di catastrofi e altre opportunità MUSE-Museo delle Scienze di Trento fino al 26.06.17

Qui sopra: Hama (Siria), Palazzo Azem. Mosaico con l’immagine del Santo Sepolcro.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Gran Bretagna

VETULONIA (CASTIGLIONE DELLA PESCAIA, GROSSETO) Bentornati a casa

LONDRA Città sommerse

La Domus dei Dolia di Vetulonia riapre le porte dopo 2000 anni Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 06.11.16

I mondi perduti dell’Egitto The British Museum fino al 27.11.16

Grecia

VULCI I misteri di Mithra

ATENE Dodona

Museo Archeologico Nazionale fino al 31.03.17

Francia

L’oracolo dei suoni Museo dell’Acropoli fino al 10.01.17

PARIGI Che c’è di nuovo nel Medioevo?

Olanda

Tutto quello che l’archeologia ci rivela Cité des sciences et de l’industrie fino al 06.08.17 (dall’11.10.16)

LEEUWARDEN Alma-Tadema: fascino classico Fries Museum fino al 07.02.17

QUINSON Gli Huaxtechi

In alto: lastra in bronzo iscritta, donata come ex voto a Zeus Dodonaios.

Un popolo misconosciuto del Messico precolombiano Musée de Préhistoire des gorges du Verdon fino al 30.11.16

SAINT-DIZIER Austrasia

Il regno merovingio dimenticato Espace Camille Claudel fino al 26.03.17

SAINT-GERMAIN EN LAYE L’orso nell’arte preistorica Musée d’Archéologie nationale fino al 30.01.17 (dal 16.10.16)

Germania

Svizzera

BERLINO Morte a Napoli

Nel 125° anniversario della morte di Heinrich Schliemann Neues Museum fino al 31.10.16 A sinistra: Morte a Napoli, tavola di Frank Nikol.

Qui sopra: La cognizione del successo (particolare), olio GINEVRA su tela di Lawrence Amazzonia Alma-Tadema. 1895 Lo sciamano e il pensiero della foresta Musée d’ethnographie fino all’08.01.17

USA PHILADELPHIA L’età d’oro del re Mida

Tesori dalla Turchia antica University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology fino al 27.11.16 a r c h e o 29


CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli

IL PIÚ CRUENTO DEI SACRIFICI I NUOVI SCAVI NEL SANTUARIO DI ZEUS SUL MONTE LICEO RESTITUISCONO I RESTI DI UNA SEPOLTURA CHE POTREBBE ESSERE LA PROVA DI UN’USANZA DESCRITTA DALLE FONTI, MA MAI ATTESTATA ARCHEOLOGICAMENTE PRIMA D’ORA

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ell’inno A Zeus, composto da Callimaco nel III secolo a.C., al padre di tutti gli dèi viene domandato se sia nato a Creta, sul monte Ida, o in Arcadia, sul monte Liceo. La risposta è inequivocabile: «I Cretesi mentono sempre». Secondo un’autorevole leggenda, quindi, Zeus era nato in Arcadia, sul monte Liceo, il cui santuario era sede delle feste dette Licee (Lykaia), note in tutto il mondo greco e, secondo Plinio, addirittura piú antiche delle Olimpiadi. Individuato alla fine dell’Ottocento dalla Società Archeologica di Atene, il santuario di Zeus sul Liceo si trova su una cima posta a un’altezza di 1382 m slm, presso il moderno

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villaggio di Ano Karyes, nel cuore dell’Arcadia. Gli scavi del secolo scorso avevano portato alla luce l’altare di Zeus e il recinto sacro (temenos), ma anche, su terrazze inferiori, altre strutture accessorie, compresi uno stadio e l’unico ippodromo greco in buone condizioni di conservazione.

UNA LUNGA FREQUENTAZIONE Dal 2004, le indagini nel sito di Zeus sono state riprese da una missione diretta da David Gilman Romano e Mary Voyatzis (University of Arizona), in collaborazione con la Soprintendenza alle Antichità dell’Arcadia, nella persona della

GRECIA

Mare Egeo

Atene Monte Liceo Mar Ionio

Soprintendente, Anna Karapanagiotou. Le ricerche di superficie e poi gli scavi di quest’ultimo decennio hanno dimostrato che il santuario di Zeus Liceo era frequentato già in epoca preistorica. Il sito dovette essere un importante santuario di vetta di età micenea: vi furono dedicati coppe bronzee e altri vasi tardo-elladici, ma anche statuette raffiguranti animali e, in un caso, un personaggio umano. Un sigillo in cristallo di rocca, raffigurante un toro e databile al Tardo Minoico II (1450-1400 a.C. circa), restituisce l’immagine di un ex voto dell’età del Bronzo. Livelli di età protogeometrica, ma


poi anche arcaica, classica ed ellenistica dimostrano una continuità di culto notevole. Gli scavi condotti nell’estate appena trascorsa hanno riportato alla luce, nell’area inferiore del santuario, una notevole scalinata di pietra databile al IV secolo a.C. e un passaggio voltato attraverso il quale, probabilmente, gli atleti accedevano all’ippodromo e allo stadio. Il rinvenimento che fa piú discutere, tuttavia, è stato effettuato nella zona alta del santuario e ha fornito un elemento nuovo che potrebbe rivelarsi di sostanziale importanza per la lettura delle pratiche rituali in quest’area. All’interno dell’altare sacrificale,

che aveva l’aspetto di una grande ara di ceneri, è stato infatti rinvenuto lo scheletro di un essere umano, molto probabilmente un adolescente, deposto tra due file di pietre e con la zona pelvica coperta da lastre di pietra.

I MICENEI SUL VIALE DEL TRAMONTO La ceramica associata alle spoglie permette di datare la sepoltura all’XI secolo a.C., cioè al periodo che coincide con la delicata fase del tramonto del mondo miceneo. I responsabili dello scavo concordano nell’affermare che è ancora prematuro trarre conclusioni, ma viene subito alla In alto: Monte Liceo, santuario di Zeus. La scalinata individuata nel corso dell’ultima campagna di scavo, databile al IV sec. a.C. A sinistra: la sepoltura di un individuo di sesso maschile, forse un adolescente, scoperta nel riempimento dell’altare sacrificale del santuario. Databile al IX sec. a.C., potrebbe forse costituire la prima attestazione, in Grecia, del sacrificio di esseri umani di cui narrano le fonti antiche.

mente che le fonti antiche – tra cui Platone, Teofrasto e Pausania – sostengono che in questo santuario avevano luogo sacrifici umani in onore di Zeus Liceo: una pratica nefasta, attestata archeologicamente molto di rado e mai, comunque, in Grecia. Secondo la leggenda, assieme agli animali veniva sacrificato anche un fanciullo e la carne, dopo essere stata cotta tutta assieme, era mangiata: chi avesse avuto in sorte quella umana si sarebbe trasformato in lupo per nove anni. Lo scavo dello spesso riempimento dell’altare (1,5 m circa) aveva finora restituito numerose ossa animali, soprattutto di capre e pecore, ma anche frammenti ceramici e dediche di vario tipo, tra cui monete e frammenti di metallo. La presenza di uno scheletro umano all’interno dell’altare, quindi in un punto in cui non ci si aspetterebbe di trovare una sepoltura, ma anche il fatto che abbia un orientamento est-ovest e l’assenza della parte superiore del cranio sono ora elementi che richiamano l’attenzione degli specialisti. Il progetto continuerà fino al 2020 e non resta che attendere gli sviluppi futuri.

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SCAVI • XXXX XXXXXX

UN FERMO IMMAGINE SULL’ETÀ DEL FERRO VERUCCHIO, NEL RIMINESE, È DA QUALCHE ANNO OGGETTO DI NUOVE RICERCHE. SCAVI CHE STANNO OFFRENDO CONFERME SIGNIFICATIVE E NOVITÀ NON MENO IMPORTANTI, CHE NE RIBADISCONO IL RUOLO DI PRIMISSIMO PIANO NELL’AMBITO DELLA CULTURA VILLANOVIANA di Maurizio Harari 36 a r c h e o


In tempo reale, durante la diretta televisiva, il goal propiziato da quel balzo prodigioso del fuoriclasse carioca passò davanti agli occhi degli spettatori come la manipolazione di carte ingannevole di un prestigiatore, e soltanto quel mirabile fotogramma permise di cogliere, l’indomani, sui giornali, la strepitosa tempestività dello slancio. Un fermo immagine che cada al momento giusto, nell’«attimo fecondo» – come diceva il filosofo illuminista Gotthold Ephraïm Lessing (1729-1781) –, esprime infatti il prima e il dopo dell’azione, ne fa sintesi e ne dà spiegazione. Questo preambolo calcistico vuole introdurre alla peculiarità della testimonianza archeologica offerta da Verucchio, un insediamento etrusco

I

lettori meno giovani ricorderanno la finale della Coppa Rimet di calcio nel 1970, giocata allo Stadio Azteca di Città del Messico: i Brasiliani, in casacca verdeoro, contro gli azzurri di Gigi Riva. L’Italia, alla fine, uscí sconfitta, con un sonoro 4-1 e dovette accontentarsi del secondo posto, peraltro onorevolissimo. Di quella partita un’immagine sopra tutte permane nella memoria, incancellabile: il fotogramma che fissò lo straordinario stacco aereo di Pelè – compatto, ritto e verticale come un fuso – a fronte della diagonale scomposta disegnata da Tarcisio Burgnich (storico terzino dell’Inter e della nazionale).

A sinistra: il borgo di Verucchio (Rimini). L’abitato medievale e poi moderno si è sviluppato su una rupe e sotto di esso, con ogni probabilità, si trovano resti dei primi villaggi di capanne riferibili alle necropoli villanoviane. A destra: un’archeologa dell’équipe dell’Università di Pavia mostra l’ansa di un vaso configurata a testa di animale.

del comprensorio alto-adriatico, posizionato su un pianoro roccioso che si eleva fino a poco meno di 400 m sul livello del mare, a dominio del fiume Marecchia, nell’immediato entroterra di Rimini.

DAL VILLAGGIO ALLA CITTÀ? In effetti, la documentazione di Verucchio blocca, in una sorta di fermo immagine archeologico, la fase piú innovativa del processo di sviluppo che, nell’Etruria propria della Toscana e del Lazio settentrionale, condusse i villaggi dell’età del Bronzo Finale a dislocarsi e a compattarsi in piú vasti organismi protourbani e, infine, in vere città, tra lo scorcio del II e l’inizio del I millennio a.C.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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SCAVI • EMILIA-ROMAGNA Lago di Garda

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In alto: carta dell’Etruria padana con, in evidenza, Verucchio e i centri piú importanti. Nella pagina accanto: foto aerea di Verucchio e del territorio circostante. A sinistra: la tomba n. 47 della necropoli Lippi, il piú importante fra i sepolcreti villanoviani di Verucchio. VII sec. a.C. Verucchio, Museo Civico Archeologico.

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Ciò che paragoniamo allo stacco di un fotogramma vi è determinato dal sostanziale esaurirsi delle testimonianze archeologiche poco oltre la metà del VII secolo a.C., cosí che la nostra finestra visiva si arresta, entro il processo di strutturazione dell’insediamento, a una fase protourbana molto avanzata e alle premesse immediate dell’istituzione monarchica. E cosí accade che l’interruzione del processo (effettiva o solo apparente che sia) permetta di guardarci dentro, con una visuale ancor piú illuminante e istruttiva. Nella letteratura scientifica, il sito è noto fin dal tempo dei sondaggi pionieristici di un paio di autentici protagonisti della paletnologia italiana al passaggio dal XIX al XX

secolo, Edoardo Brizio e Gherardo Ghirardini, indirizzati da precedenti esplorazioni proficue, sebbene amatoriali, di un possidente locale, il conte Alfonso Pecci. Ma ha incontrato l’interesse di un’audience piú ampia solo a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, soprattutto in seguito a una mostra potentemente suggestiva, «Il dono delle Eliadi», nata a Verucchio e approdata a Bologna, che esibí per la prima volta al pubblico dei non specialisti i meravigliosi oggetti d’ornamento in ambra, rinvenuti nei corredi funerari.

LACRIME PRODIGIOSE Il titolo dell’esposizione era motivato dal fatto che le Eliadi sono figlie del Sole (in greco Helios) e perciò sorelle di quell’incauto Fetonte che, incapace di governare il carro infuocato, finí i suoi giorni a capofitto dentro il fiume Erídano (da identificare col nostro Po): e fu mutandosi in pioppi, che esse si misero a versare certi lacrimoni resinosi, che andavano raggrumandosi in ambra traslucida. Cosí Ovidio, nelle sue Metamorfosi (II, 364-366): «Ne scorron lagrime, e appena stillata dai rami novelli si fa solida l’ambra nel sole, che


Rocca Malatestiana

Pian del Monte della Baldissera

Fiume Marecchia

Secondo la leggenda, le lacrime versate dalle Eliadi, figlie del Sole, avrebbero generato la preziosa ambra il fiume lucente raccoglie e porta a ornamento delle spose latine». In effetti, tra gli anni Settanta e il primo decennio dell’attuale secolo, l’indagine archeologica a Verucchio si è prevalentemente concentrata nelle aree necropolari, facili da individuare perché disposte in circolo tutt’intorno alla rupe dell’abitato medievale e moderno, sulla quale andranno piuttosto ricercate le tracce dei villaggi capannicoli – secondo un modello morfologico-insediativo canonico nell’Etruria propria. Gli splendidi materiali messi in luce da Gino Vinicio Gentili e, piú di recente, da Patrizia von Eles hanno reso il Civico Museo Archeologico di Verucchio, ospitato dal 1985 nel vecchio monastero degli Agostiniani, meta fra le piú attraenti di un turismo che cerchi arte e cultura nel

retroterra del litorale romagnolo. Una visita al Museo permette appunto di cogliere con grande chiarezza l’immagine che, compresa sostanzialmente nella cornice cronologica di tre secoli (il IX, l’VIII e il VII a.C.), viene offerta dalla selezione, religiosamente orientata, dei manufatti deposti nelle tombe. Il rituale funerario rientra nei canoni della facies culturale definita «Villanoviano» (vedi box alle pp. 40-41).

LA GRIGLIA CRONOLOGICA Sulla base dei documenti funerari, Gentili elaborò a suo tempo uno schema di periodizzazione culturale che, per il Villanoviano di Verucchio, distingueva tre fasi principali: quella del IX e della prima metà dell’VIII secolo a.C.; quella della seconda

metà dell’VIII e dei primi decenni del VII secolo; e quella dell’avanzato VII e della prima metà del VI secolo. Ora von Eles propone uno schema piú articolato e sfumato, che ne distingue cinque: Verucchio I (quasi tutto il IX secolo), II (tardo IX e inizi dell’VIII secolo), III (pieno VIII secolo), IV (fine dell’VIII secolo e primi decenni del VII) e V (avanzato VII secolo). Di particolare interesse risulta la fase Verucchio IV, per la quale si è parlato addirittura di una «esplosione» (beninteso in senso culturale), con la declinazione qui molto originale del fenomeno che, in Etruria propria come in Grecia, siamo abituati a chiamare «Orientalizzante». A Verucchio si potrebbe parlare, forse, di un Orientalizzante senza orientalia, cioè senza quella significaa r c h e o 39


SCAVI • EMILIA-ROMAGNA

tiva presenza diretta di manufatti fabbricati nel Vicino Oriente (o comunque fedelmente imitati), che conosciamo, per esempio, a Caere (Cerveteri). E tuttavia, soprattutto nella falegnameria (troni, suppedanei, tavolini, sgabelli), il gusto orientale è palese, e qualcuno ha evocato contatti con l’artigianato frigio.

«OMBRE» E «UMBRE» Nella seconda metà del VII secolo a.C., però, la testimonianza delle necropoli si rarefà sino ad annullarsi. Per ritrovare le tracce di una presenza insediativa a Verucchio, si deve attendere fino al V-IV secolo, quando peraltro – alla luce dell’etnografia antica – si avrebbe motivo di dubi-

tare di una lettura etnica delle testimonianze archeologiche fondata sul presupposto della continuità etrusca. Con riferimento alla romanizzazione, il geografo greco Strabone (V, 1, 217) scrive infatti che Ariminum, cioè Rimini – che aveva preso nome dal suo fiume, l’Ariminus (la nostra Marecchia) –, cosí come la non lontana Ravenna, erano insediamenti «umbri» (e non etruschi); e lo stesso commediografo Plauto, nativo di Sarsina (cittadina una trentina di chilometri a ovest di Verucchio, n.d.r.), mette in bocca a un suo personaggio (Mostellaria, 769-770) un arguto gioco di parole – tra un’umbra (nel senso di «ombra»), un’Umbra (nel senso di una «donna umbra») e

una Sarsinate (cioè un’Umbra di Sarsina) – che presuppone l’idea, evidentemente diffusa in età ellenistica, di un’ovvia pertinenza umbra dell’odierna Romagna. Ci sembra perciò corretto, almeno per il momento, limitare l’interpretazione etrusca del popolamento di Verucchio alle sole fasi villanoviane, dal IX al VII secolo a.C., e sospendere invece il giudizio sulle evidenze posteriori alla lacuna del VI-V secolo, quando un’etichetta «umbra» potrebbe corrispondere meglio alle testimonianze degli antichi scrittori. Viene allora spontaneo domandarsi quali siano le ragioni dell’esaurimento di un sito villanoviano in A sinistra: urna con coperchio dalla tomba n. 5 della necropoli MoroniSemprini. VIII sec. a.C. Verucchio, Museo Civico Archeologico. L’esemplare è caratterizzato da una ricca decorazione plastica e impressa.

VILLANOVIANI A VERUCCHIO Il Villanoviano prende nome da Villanova di Castenaso, la località del Bolognese dove il conte Giovanni Gozzadini, poco dopo la metà del XIX secolo, poté riconoscerne per primo le tracce e, per il consenso oggi pressoché unanime degli studiosi, viene riferito agli Etruschi dell’età del Ferro. Il rituale funerario tipico prevede la cremazione con deposito di ceneri e ossa combuste in un vaso biconico d’impasto, normalmente dotato di un solo manico e chiuso da un coperchio che, nella forma piú standardizzata, consiste in una ciotola (anch’essa monoansata) capovolta e, in casi piú sofisticati ideologicamente e di genere maschile, nella riproduzione in ceramica di un elmo crestato.

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piena espansione protourbana e giusto all’indomani di manifestazioni impressionanti rese dai suoi gruppi gentilizi, con sepolture talmente fastose – celebre è la n. 89 della necropoli Lippi – da suscitare immagini di personaggi di autentico rango regale.

UN SISTEMA FRAGILE La risposta che possiamo dare, in questo momento della storia delle ricerche, sottolinea la natura troppo conservativa e sterilmente autoreferenziale del sistema economico, che era quasi esclusivamente fondato sul controllo dell’itinerario dall’Etruria interna (valli del Tevere e della Chiana) verso il Mare Adriatico, e A sinistra: esplorazione del Pozzo Villanoviano a Pian del Monte. In basso: fibula in bronzo e ambra, dalla tomba n. 40 bis della necropoli Lippi. VIII sec. a.C. Verucchio, Museo Civico Archeologico.

A Verucchio, rinvenimenti cospicui (e altrove rarissimi) di tessuti di lana a motivi tartan sembrano attestare la pratica della vestizione del cinerario, tesa a risarcire simbolicamente la corporeità e individualità personale, dissolte dal rogo. Armi di bronzo e di ferro, finimenti di carro, bardature e morsi di cavallo, mobili di legno (anche questi sorprendentemente ben conservati) e tutta una varietà di oggetti d’ornamento – fra cui le talora gigantesche fibule di bronzo, intarsiate d’osso e ambra – entrano nei corredi a manifestare arricchimento progressivo e sempre maggiore autocoscienza identitaria di un’aristocrazia ormai formata.

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SCAVI • EMILIA-ROMAGNA

zione locali, la dice lunga sui limiti di una crescita destinata inevitabilmente a isterilirsi. Possiamo ipotizzare che gli Etruschi di Verucchio (o le componenti piú vitali della loro comunità) abbiano trasferito nuovi interessi economici in sedi litoranee, aperte allo scambio e alle relazioni internazionali, come Rimini, innanzitutto, e i due porti alle foci del Po: Adria, che conosce una fase cruciale di riorganizzazione urbana e territoriale nella seconda metà del VI secolo; e la stessa Spina, forse, fondata ex novo, oggi si pensa, già intorno al 540 a.C.

GUERRA A CUMA Poco piú tardi, all’epoca della sessantaquattresima Olimpiade, Dionigi di Alicarnasso (VII, 3, 1) ricorda una spedizione militare degli Etruschi padani, alleati con gli Umbri, contro la città greca di Cuma, affacciata al Mar Tirreno: un episodio di non semplice interpretazione, ma che deve comunque essere contestualizzato in un quadro d’insofferenza e aggressività degli Etruschi adriatici.Tuttavia va tenuto ben presente che l’esaurimento delle necropoli risale a Verucchio a non In alto: un pozzetto votivo in corso di scavo, riferibile alla fase Verucchio II (tardo IX-inizi dell’VIII sec. a.C.). A destra: giovani archeologi dell’Università di Pavia al lavoro in un vano dell’edificio tardo-classico.

doveva alimentarsi con prelievi forzosi di lana, dalle greggi transumanti, e di ambra baltica dalle carovane, che la portavano – senza rifornirsi da Eliadi lacrimose, né ricevere aiuto da divinità fluviali... – dall’Europa continentale alle regioni orientali del Mediterraneo. Il fatto che le splendide fibule d’ambra, assemblate dagli artigiani di Verucchio, abbiano conosciuto un’esportazione, tutto sommato, alquanto modesta, prestandosi piuttosto all’esibizione e alla tesaurizza42 a r c h e o


meno di un secolo prima, perciò tali fenomeni non ammettono d’essere collegati in maniera troppo meccanicamente consequenziale. Per dare risposta ad alcuni di questi interrogativi, dal 2011 un gruppo di archeologi del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Pavia sta ricercando e indagando le tracce ancora superstiti dell’abitato antico di Verucchio sul plateau della Baldissera, detto comunemente Pian del Monte, che fu risparmiato dall’espansione del borgo medievale ed è oggi occupato soprattutto da impianti sportivi. Anche il Pian del Monte è noto nella storia degli studi, in particolare per la presenza di una pittoresca cavità naturale, raggiunta da un pozzo scavato all’inizio dell’età del Ferro e spesso menzionato in letteratura come Pozzo o Inghiottitoio Villanoviano: esso ha restituito materiali notevoli, anche di carattere votivo (per esempio bronzetti) e, fra questi, una coppa di ceramica depurata, recante graffita l’unica iscrizione etrusca finora attestata nel sito (lauchmsa mi). Non lontano dall’imboccatura del Pozzo, nel 1963, furo-

In alto: tagli di canalette e fosse della prima età del Ferro, al di sotto delle fondazioni litiche dell’edificio di epoca tardo-classica. In basso: le stesse strutture in una veduta fotogrammetrica zenitale che mostra l’intera area in cui esse sono state messe in luce e nella quale si può riconoscere il limite occidentale di un villaggio di capanne.

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SCAVI • EMILIA-ROMAGNA

no inoltre recuperati tre scudi bron- gio Sani, valoroso assistente della zei dell’inizio del VII secolo a.C., Soprintendenza dell’Emilia-Rodepositati ritualmente. magna, oltre che autentico etrusco di Marzabotto (dov’era nato giusto LE NUOVE ACQUISIZIONI quarant’anni prima). Sani aveva inDal 2013 lo staff dell’Università di fatti messo in luce le fondazioni in Pavia ha concentrato i suoi sforzi pietra calcarea di un grande edifinella riapertura di uno scavo già cio, all’apparenza residenziale, di 20 diretto nel 1971 da Gentili, ma al- x 18 m circa: esse sono ancora visilora operativamente affidato a Ser- bili, in una presentazione a mo’ di

parco archeologico, secondo un restauro, tuttavia, in piú aspetti fuorviante, che propone una planimetria a tre vani allineati su cortile, con ingresso preceduto da portico. L’edificio venne allora attribuito al V secolo a.C., cioè alla fase «umbra» (e non piú etrusca) della periodizzazione Gentili: una cronologia che le piú recenti acquisizioni di cantiere (inclusa una misurazione radiocarbonica) indurrebbero a posporre nel IV secolo, piú verso la fine che all’inizio. Particolarmente interessante – e Sani e Gentili ebbero modo di osservarlo e di rilevarlo in planimetrie di precisione assai apprezzabile – risulta l’affioramento immediato, al di sotto dei muri di età classica, di un deposito antropico del periodo villanoviano, che riferirono a un insediamento di capanne. L’intervento dell’Università di Pavia si è venuto cosí a configurare, con implicazioni metodologiche niente affatto banali, come lo scavo di uno scavo, perseguendo contemporaneamente sia una ricostruzione critica della pianta e delle fasi di costruzione (purché ancora riconoscibili) del grande edificio di età «umbra», sia l’esplorazione sistematica dei livelli villanoviani sottostanti.

UN LUNGO INTERVALLO Un primo risultato, da considerare ormai certo, consiste nella conferma, almeno in questa zona del Pian del Monte, dello iato insediativo del VI e, aggiungeremmo, del V secolo a.C. La stratificazione villanoviana include infatti reperti diagnostici compresi tra la seconda metà del IX e la prima del VII secolo, con particolare addensamento allo scorcio del IX e all’inizio dell’VIII (fase Verucchio II), in consonanza puntuale con altre tre misure radiocarboniche. Colpisce soprattutto il fatto che le fondazioni in pietra dell’edificio del IV secolo siano poggiate direttamente sugli strati antropici limo-argillosi dal caratte44 a r c h e o


Un antico pomerio? In alto e a sinistra: due immagini dell’aratura scoperta nel corso delle ultime indagini. Si tratta del primo intervento dell’uomo nell’area dell’abitato e potrebbe trattarsi di un’azione compiuta a scopo rituale, quasi una sorta di «consacrazione» dei limiti dell’insediamento.

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ristico colore verdastro, ricchi di carboni, di ossi animali e di ceramica d’impasto, appartenenti alla prima età del Ferro, senza alcuna traccia di livelli riferibili ai trecento anni dell’intervallo. Appare perciò difficile mettere in dubbio la storicità di un lungo periodo di abbandono, che è il medesimo significativamente testimoniato anche dalla documentazione delle necropoli. Risulta piú complicata (e ancora suscettibile di aggiornamenti e revisioni) l’interpretazione delle evi-

A destra: il lavaggio dei reperti recuperati sullo scavo. Nella pagina accanto: le buche della palificazione allineate in senso N-S, localizzate nel corso delle piú recenti campagne di scavo. a r c h e o 45


SCAVI • EMILIA-ROMAGNA

denze relative a quello che abbiamo chiamato il fermo immagine villanoviano. I lavori del 2015 e del 2016 hanno mostrato, con chiarezza ben maggiore di quella delle campagne precedenti, come la fascia di depositi antropici della fase Verucchio II si sviluppi con un rigoroso orientamento astronomico per decine di metri, mantenendo una larghezza regolare di 7-8 m e colmando tagli di canalette dismesse, che dovevano aver risposto, verosimilmente, all’esigenza di drenare un suolo poco permeabile. Infine, la scoperta dei grandi buchi allineati di una palizzata pure orienIn alto, a destra: i resti di un arredo ligneo carbonizzato vengono umidificati per favorirne la conservazione. Qui accanto: ansa in forma di testa di animale. A destra: frammenti di ceramica decorata a falsa cordicella.

tata N-S, che costeggiava da oriente la fascia di depositi antropici appena descritta, sembra indicare che i nostri saggi abbiano intercettato l’opera perimetrale di uno dei villaggi di capanne collocati sul Pian del Monte e, piú precisamente, di quello del suo lobo sud-orientale. La perimetrazione del villaggio era dunque costituita, da monte – dove immaginiamo fossero le capanne – a valle – dove si riconosce qualche struttura di servizio (canalette, pozzetti, 46 a r c h e o

aree rubefatte dal calore) –, appunto dalla palizzata, da una sorta di camminamento limoso e da almeno una fossa (verosimilmente di drenaggio).

UN’ARATURA RITUALE? Del piú grande interesse è la presenza di una fascia rettilinea iso-orientata di suolo sostanzialmente privo di materiale antropico, che separa la palizzata dal camminamento e risulta accuratamente arata (sempre in senso N-S) e artificialmente cosparsa di ghiaia. Il fatto che questa curiosa aratura abbia senza dubbio rappresentato la piú antica azione uma-


na esercitata nell’area e la difficoltà a darne una persuasiva motivazione utilitaria inducono a non escludere un’interpretazione simbolica e cerimoniale, con richiamo a quel locus che – testimone Tito Livio (I, 44, 3-5) – «Un tempo gli Etruschi, nel fondare le città, usavano delimitare con cippi e consacrare per l’intera lunghezza delle mura, in modo da tenerne separate, all’interno, le case e da definire, all’esterno, un’area dove non fosse lecito né abitare né praticare l’agricoltura». Potrebbe dunque trattarsi del primitivo «pomerio» di un villaggio? La proverbiale fantasia dell’archeologo galoppa a briglia sciolta, ma, in attesa di saperne e di capirne di piú, sarà meglio fermarsi qui.

INDICAZIONI PRECISE Un’indicazione obiettiva, invece, viene dalla cronologia dei materiali. Come già accennato, ceramica d’impasto (anche decorata: a falsa cordicella, a graffito profondo, a impressione), fuseruole e rocchetti, figurine di animali in terracotta, provenienti dagli strati di obliterazione dell’opera perimetrale, entrano con coerenza nel quadro della fase Verucchio II e offrono un termine abbastanza puntuale per l’abbandono, da ritenere compiuto entro i primi decenni dell’VIII secolo a.C., o, al piú tardi, al principio della fase Verucchio III. Ciò comporta che l’atto fondativo e la perimetrazione del villaggio (dunque la sua attivazione) debbano risalire al pieno IX secolo a.C. Siamo perciò alle origini stesse dell’etruscità di Verucchio che – come molti studiosi hanno osservato – si radica nel suo contesto territoriale sviluppando premesse insediative dell’età del Bronzo Finale (ampiamente documentata in Romagna), e sembra stabilire una sorta di

In alto: i due lati dell’ansa antropomorfica di un vaso d’impasto. In basso: esemplare di ansa di ceramica d’impasto configurata, ascrivibile alla fase del Villanoviano I, che si può collocare nel IX sec. a.C.

ponte culturale fra il distretto protovillanoviano della bassa pianura veneta (Frattesina: altro e anteriore caposaldo della via dell’ambra) e quello della futura Etruria interna (ChiusiCetona). Questo ci tenta all’ennesimo e forse incauto sconfinamento nel campo delle fonti letterarie, e a ricordare l’antica saga dei Pelasgi, il «popolo del mare» approdato alle foci del Po e di lí penetrato, con un itinerario in parte costiero e in parte appenninico, nel paese degli Umbri, fino a Cortona, dove avrebbe dato origine alla nazione etrusca (Dionigi di Alicarnasso I, 18 e 28, riprendendo il racconto di Ellanico). Un grande maestro di cose etrusche (e non solo), Giovanni Colonna, ha del resto riconosciuto, nella suggestiva «sagoma dell’erto colle di Verucchio», un forte elemento simbolico-paesaggistico che può aver concorso, nel V secolo a.C., alla costruzione di questa memoria culturale pelasgica, nel quadro dei contatti e degli scambi commerciali greco-etruschi nell’alto Adriatico. Si tiene a ringraziare la Soprintendenza Archeologia dell’Emilia-Romagna e il Comune di Verucchio per aver promosso e sostenuto le sei campagne (2011-16) finora condotte dall’Università di Pavia. Hanno collaborato con chi scrive, fra gli altri, Manuela Battaglia (magazzino), Fabrizio Finotelli (consulenza geologica), Ruggero Pedrini (rilievo), Paolo Rondini e Lorenzo Zamboni (supervisione di cantiere). La ricerca è stata resa economicamente possibile da un finanziamento ministeriale PRIN (2010-11) e da un fondo dell’Università di Pavia, specialmente destinato al tirocinio archeologico di cantiere. Un’iniziativa di crowdfunding è inoltre attiva in rete al seguente indirizzo: https://universitiamo.eu/en/campaigns/regine-dambra-principi-ferro a r c h e o 47


STORIA • PATMOS

NELL’ISOLA DELL’APOCALISSE LA STORIA DI PATMOS, PERLA DEL DODECANESO, SI LEGA A DOPPIO FILO CON QUELLA DI GIOVANNI EVANGELISTA, CHE QUI, IN UNA GROTTA, AVREBBE COMPOSTO IL PIÚ CONTROVERSO E DIBATTUTO LIBRO DEL NUOVO TESTAMENTO di Marco Di Branco

«I

o, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesú, ero nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesú. Fui rapito dallo Spirito nel giorno del Signore, e udii dietro a me una voce potente come il suono di

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una tromba, che diceva: “Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette chiese: a Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatira, a Sardi, a Filadelfia e a Laodicea”». «Io mi voltai per vedere chi mi stava parlando. Come mi fui voltato, vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai sette candelabri, uno simile a un fi-

glio d’uomo, vestito con una veste lunga fino ai piedi e cinto di una cintura d’oro all’altezza del petto. Il suo capo e i suoi capelli erano bianchi come lana candida, come neve; i suoi occhi erano come fiamma di fuoco; i suoi piedi erano simili a bronzo incandescente, arroventato in una fornace, e la sua voce era come il


fragore di grandi acque. Nella sua mano destra teneva sette stelle; dalla sua bocca usciva una spada a due tagli, affilata, e il suo volto era come il sole quando risplende in tutta la sua forza. Quando lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli pose la sua mano destra su di me, dicendo: “Non temere, io sono il primo e l’ultimo, e il vivente. Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli,

e tengo le chiavi della morte e del soggiorno dei morti. Scrivi dunque le cose che hai viste, quelle che sono e quelle che devono avvenire in seguito, il mistero delle sette stelle che hai viste nella mia destra, e dei sette candelabri d’oro. Le sette stelle sono gli angeli delle sette chiese, e i sette candelabri sono le sette chiese”». Il brano riportato fa parte del capitolo iniziale dell’Apocalisse,

Un’immagine panoramica dell’isola greca di Patmos, compresa nell’arcipelago del Dodecaneso, vista dal monastero di S. Giovanni, situato sulla sommità di un rilievo che si eleva a poco piú di 200 m sul livello del mare.

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STORIA • PATMOS

uno dei libri piú controversi ed enigmatici del Nuovo Testamento, contenente la rivelazione di ciò che accadrà alla fine dei tempi. (vedi box a p. 54). A partire dal II secolo d.C., la tradizione cristiana ne identifica concordemente l’autore con Giovanni evangelista, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo, che nel Vangelo a lui attr ibuito viene chiamato «il discepolo che Gesú amava». Se gli Atti degli apostoli ci informano della sua attività missionaria in Palestina, altri testi affermano che egli si sarebbe in seguito trasferito a Efeso, dove sarebbe stato raggiunto da Maria. A questo proposito, i documenti piú interessanti sono alcuni atti apocrifi (vedi box a p. 51), redatti fra il II e l’XI secolo, che narrano con dovizia di particolari i principali eventi della biografia giovannea, riempiendo

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i vuoti di informazione riscontrabili nei testi canonici e sviluppando le ambigue allusioni in essi presenti. In questi testi, a partire dall’accenno contenuto nel capitolo dell’Apocalisse appena citato, viene lentamente a delinearsi la tradizione secondo la quale Giovanni evangelista, esiliato a Patmos da Domiziano, avrebbe Livadi Kalogiron Lefkes Merichas

Patmos Monastero S. Giovanni NE

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composto la sua opera in una grotta dell’isola, assistito da un diacono di nome Procoro: una tradizione che, come ora vedremo, è al tempo stesso origine e conseguenza della trasformazione di Patmos, una delle isole piú piccole dell’arcipelago del Dodecaneso, in una vera e propria «isola sacra» dalla fine dell’XI secolo.

MIRACOLI E CONVERSIONI Secondo i cosiddetti Atti del santo apostolo ed evangelista Giovanni il teologo, composti intorno alla seconda metà del II secolo d.C. e pervenutici in due versioni leggermente diverse, l’apostolo si sarebbe recato dapprima a Mileto e poi, su indicazione divina, a Efeso, dove avrebbe compiuto molti miracoli e promosso molte conversioni. Dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme, l’imperatore Domiziano (81-96


d.C.), che aveva sentito parlare dei miracoli compiuti da Giovanni, lo mandò a chiamare da Efeso a Roma. Qui egli annunciò al sovrano la fede cristiana: Domiziano gli chiese una prova e l’apostolo bevve una coppa di veleno, rimanendo miracolosamente illeso. Dubitando della sua efficacia, l’imperatore fece bere il veleno a un condannato a morte, che morí istantaneamente. Giovanni lo resuscitò, e subito dopo, riportò in vita anche un servo dell’imperatore da poco deceduto. A questo punto, Domiziano, che aveva emanato un editto contro i cristiani, ordinò che Giovanni fosse esiliato nell’isola di Patmos. Qui avvenne la «rivelazione» riguardante la fine dei tempi (Apocalypsis, dal verbo greco apokalypto, «disvelare»). A Domiziano successe Nerva (9698), che revocò le condanne all’esilio imposte dal predecessore: durante il regno di Traiano (98-117), Giovanni poté dunque tornare a Efeso. Il testo si conclude con la morte dell’apostolo nella città microasiatica. Nel VI secolo d.C., Giustiniano fece poi costruire una grande basilica sulla sua tomba.

I LIBRI APOCRIFI La parola «apocrifo» deriva dall’aggettivo greco apokryphos, «occulto, segreto», a sua volta derivato dal verbo apokrypto, «nascondere». Il termine definisce in generale libri, scritti o documenti non autentici, ma si applica in particolare ai libri che trattano tematiche sacre e che la Chiesa esclude dal canone delle Sacre Scritture, non riconoscendone l’ispirazione divina. Per quanto riguarda l’Antico Testamento, il canone, detto «ebraico» o «palestinese», venne fissato verso la fine del V secolo a.C., ai tempi di Esdra e Neemia. Secondo la

visione dei compilatori del canone, dal momento della sua chiusura non ci sarebbero piú profeti, quindi nemmeno scritti ispirati da Dio. A questo si riferisce Gesú (in Matteo 23:35), quando allude all’uccisione di tutti gli uomini retti, che furono perseguitati, da Abele a Zaccaria, il cui libro era l’ultimo del canone ebraico. I cristiani aggiunsero ai testi compresi nel canone ebraico alcuni libri contenuti nel cosiddetto «canone alessandrino», che sarebbe documentato dalla traduzione greca dell’Antico Testamento detta dei «Settanta» (o Septuaginta), sebbene

i manoscritti che contengono tale versione documentino una notevole incertezza a proposito di quanto fosse da accettare come canonico. Il canone del Nuovo Testamento ebbe anch’esso una formazione abbastanza complessa e venne definitivamente adottato dalla Chiesa cattolica a partire dal IV secolo d.C.: esso comprende i quattro vangeli di Marco, Matteo, Luca e Giovanni, gli Atti degli apostoli, le lettere di Paolo, le «lettere cattoliche» di Giacomo, Pietro, Giovanni e Giuda e, appunto, l’Apocalisse.

Veduta panoramica del centro storico di Patmos, dominato dalla mole del monastero di S. Giovanni, a cui furono conferite le sembianze di una fortezza.

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STORIA • PATMOS

Negli Atti del santo apostolo ed evangelista Giovanni il teologo, troviamo dunque già attiva la connessione tra il Giovanni autore dell’Apocalisse, il Giovanni evangelista e l’idea del suo esilio a Patmos in seguito a una persecuzione anti-cristiana: tuttavia, sul soggiorno dell’apostolo nell’isola, il testo apocrifo del II secolo è estremamente avaro di dettagli.

IL LIBRO DEI MIRACOLI A fornire maggiori informazioni è un’altra opera apocrifa, composta tra il IV e il V secolo: gli Atti di Giovanni del diacono Procoro. Si tratta di una sorta di romanzo agiografico di notevole estensione (50 lunghi capitoli), in gran parte dedicato ai miracoli compiuti da Giovanni sull’isola, che la tradizione attribuiva appunto a Procoro, diacono dell’apostolo. In questo testo il rapporto tra l’apostolo e Patmos comincia a sostanziarsi di aneddoti che, con il tempo, diedero luogo all’«invenzione della tradizione» secondo cui Giovanni evangelista avrebbe composto l’Apocalisse in una grotta dell’isola. L’autore degli Atti di Giovanni del diacono Procoro (Capitoli 40-50) racconta che quando fu revocata la

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condanna all’esilio, Giovanni volle tornare a Efeso; allora, gli abitanti di Patmos lo supplicarono di mettere per iscritto le cose meravigliose che l’apostolo aveva visto compiere dal figlio di Dio e le parole che da lui aveva udito. «Giovanni – si legge negli Atti – promise che avrebbe seguito l’ispirazione del Signore; e dopo il ritiro di tre giorni senza mangiare né bere, su di un monticello, mandò Procoro in città a prendere fogli di papiro e inchiostro, e al suo ritorno gli dettò il Vangelo iniziando da “In principio era il Verbo…”, e proseguí a dettare per due giorni e sei ore. Ritornati in città, andarono a casa di Sosipatro e Procliana ove, dopo un buon banchetto, ordinò a Sosipatro di prendere delle pergamene belle e di riscrivere accuratamente su di esse il Vangelo; fece poi radunare i fratelli, ordinò a Procoro di leggere il testo, ne fece fare copie complete da distribuire a tutte le chiese, e lasciò nell’isola la pergamena, ordinando di portare a Efeso lo scritto originale sui fogli di papiro». «Compiuto un giro d’addio in tutta l’isola, e guarito un cieco, ritornarono in città: nella piazza centrale erano stati radunati tutti i fedeli, sia quelli di origine giudaica che quelli di origine greca, ai


tavia, alcuni manoscritti dell’opera risalenti all’XI, XII e XIII secolo inseriscono qui, prima della partenza di Giovanni da Patmos per Efeso, il racconto della stesura dell’Apocalisse, che sarebbe avvenuta in una grotta con al suo interno una sorgente, dopo venti giorni di VERSIONI DISCORDANTI Gli Atti del diacono Procoro si riferi- ascesi e meditazione e dopo l’appascono evidentemente al Vangelo di rizione di un angelo che avrebbe Giovanni, affermando che egli lo spiegato a Giovanni i significati avrebbe composto su un «monticello» dell’isola, mentre tacciono del tutto sulla composizione dell’Apocalisse (la cui posizione nel canone scritturale della Chiesa greca, nel periodo della loro composizione, era assai contestata) e non parlano affatto di grotte. Tutquali l’apostolo disse: “Figli, conservate le tradizioni avute da me, osservate i precetti di Cristo ricevuti per mezzo del vangelo, e sarete figli della luce. Ho deciso di andare nella città di Efeso per visitare quei fratelli”».

Nella pagina accanto: monastero di S. Giovanni, la cappella di Cristodulo. Sulle due pagine: una suggestiva immagine dei campanili a vela costruiti sui tetti del monastero.

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STORIA • PATMOS

L’APOCALISSE DI GIOVANNI Il libro dell’Apocalisse è il ventisettesimo e ultimo tra gli scritti del Nuovo Testamento. Comincia, dopo un preambolo, con una lettera indirizzata a sette comunità cristiane d’Asia (Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia e Laodicea) e prosegue con l’esposizione delle visioni profetiche che Giovanni dichiara di aver avuto nell’isola di Patmos; visioni che riguardano il trionfo dell’Agnello, il castigo di Babilonia (simbolo di Roma), lo sterminio delle nazioni pagane e la nuova Gerusalemme, che discende dal cielo per essere la sposa dell’Agnello. L’inserimento dell’opera nel canone neotestamentario fu a lungo contrastata: almeno fino al V secolo, gran parte delle gerarchie cristiano-orientali gli furono avverse, sostenendo che esso avvalorava in maniera esagerata il millenarismo. In Occidente, invece, l’Apocalisse conobbe sempre un’enorme fortuna. Come tipologia letteraria, il testo si riconnette alla letteratura apocalittica del giudaismo e i suoi simboli si riferiscono soprattutto alla realtà contemporanea al suo autore e alle persecuzioni romane contro i

cristiani. La struttura dell’Apocalisse non è unitaria e presenta anomalie e ripetizioni e il testo, per come ci è pervenuto, è certamente frutto della fusione di fonti diverse: piú precisamente, sembra potersi ipotizzare che la sua parte centrale (4-22) sia costituita da due diverse redazioni di un medesimo autore, poi fuse insieme da un altro redattore. Quanto alla data di composizione, se si accetta l’ipotesi di un unico autore, si deve necessariamente pensare alla fine dell’epoca di Domiziano; se invece si ammettono redazioni successive, le fonti piú antiche potrebbero risalire all’età di Nerone. Il Giovanni autore (o redattore) dell’Apocalisse fu presto identificato con l’autore del quarto Vangelo; ma l’esegesi moderna, rilevando le profonde diversità stilistiche e dottrinali fra i due scritti, ritiene che essa sia opera di altro autore (eventualmente un discepolo di Giovanni evangelista). Se si vuole mantenere l’attribuzione dell’Apocalisse all’apostolo, si deve invece pensare a una rielaborazione del quarto Vangelo da parte di un suo discepolo.

Nella pagina accanto, in alto: il nartece (zona d’ingresso) del monastero di S. Giovanni. Nella pagina accanto, in basso: rovescio di un hiperpyron di Alessio I Comneno (1081-1118). XI-XII sec. In basso: la grotta in cui, secondo la tradizione, Giovanni evangelista scrisse il libro dell’Apocalisse.

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ALESSIO COMNENO Nipote dell’imperatore Isacco, Alessio Comneno, (1081-1118) fu il vero fondatore della dinastia dei Comneni. Avendo sposato una principessa imperiale, Irene Ducas, si fece proclamare imperatore in Tracia insieme a Costantino Ducas, che poi eliminò, e occupò Costantinopoli, detronizzando Niceforo III Botaniate (1081). Con l’aiuto dei Veneziani e dell’imperatore Enrico IV, lottò contro i Normanni di Roberto il Guiscardo, poi contro i Turchi e altre popolazioni nella Penisola Balcanica. Accolse e riforní i crociati, dai quali pretese un giuramento di fedeltà e la promessa di restituire tutte le terre

riconquistate che fossero originariamente appartenute a Bisanzio. Grazie alla sua politica assolutistica e di riorganizzazione economico-militare, l’impero, negli anni del suo regno, si rafforzò notevolmente.

della sua visione; il testo sarebbe stato redatto da Procoro, il quale avrebbe trascritto ogni parola uscita dalla bocca dell’apostolo nel corso di due giorni, su fogli di papiro. La tradizione concernente la scrittura dell’Apocalisse in una grotta di Patmos da parte di Giovanni evangelista in esilio nell’isola, oggi considerata un pilastro dell’ortodossia, è dunque relativamente recente. Peraltro, la sua formazione definitiva coincide, certo non casualmente, con l’epoca della fondazione sull’isola del grande monastero di S. Giovanni il Teologo e con quella che potremmo definire, nel senso etimologico del termine, l’«invenzione» della Grotta dell’Apocalisse. Per continuare la nostra indagine dobbiamo dunque lasciare i testi sacri e apocrifi e gettare a r c h e o 55


STORIA • PATMOS

uno sguardo sulla storia e la topo- Quasi nulla sappiamo della vita grafia sacra di una delle piú belle sull’isola in epoca romana e protobizantina: d’altra parte, tra il VII e isole dell’Egeo. l’XI secolo, come molte altre isole dell’arcipelago esposte ai raid navali TRA STORIA E MITO Patmos viene menzionata pochissi- arabi, Patmos era quasi totalmente me volte dagli autori antichi. Se si deserta. La svolta decisiva si ebbe eccettuano le brevi descrizioni alla fine dell’XI secolo, ancora una dell’isola fornite da Tucidide e Stra- volta sotto il segno di san Giovanni. bone, quello che ci è noto a riguar- In quest’epoca, infatti, giunse a Patdo si deve alle epigrafi e agli scarsi mos, in fuga dai saccheggi e dalle resti archeologici, che vi attestano la violenze dei Turchi selgiuchidi, un presenza dei culti di Zeus, Dioniso, santo monaco di Bitinia, igumeno Apollo e Artemide. In particolare, (carica che, tra i monaci greci, corun’iscrizione del II secolo d.C., og- risponde all’abate dei latini, n.d.r.) gi conservata nel Museo del Mona- del monastero del Monte Latros: il stero di S. Giovanni, allude a una suo nome era Cristodulo, «il servo tradizione locale secondo la quale di Cristo». Costui si stabilí dapprima Oreste, figlio di Agamennone – in nella vicina isola di Kos, ma si recò fuga dalle Erinni che lo perseguita- poi a Costantinopoli, dove chiese vano dopo l’assassinio di sua madre all’imperatore Alessio Comneno Clitemnestra –, si sarebbe rifugiato (vedi box a p. 55) di concedergli di a Patmos, dove avrebbe placato le risiedere a Patmos, facendo certadee vendicatrici erigendo una statua mente leva sulla tradizione riguardante il soggiorno di san Giovanni. in onore di Artemide Scizia.

GIOVANNI E PROCORO NELLE ICONE BIZANTINE A partire dal X secolo, nelle icone, negli affreschi e nei mosaici bizantini Giovanni viene rappresentato sull’isola di Patmos mentre detta il Vangelo o l’Apocalisse al diacono Procoro. Il luogo in cui si svolge l’azione è definito da montagne nelle quali è

scavata una grotta. L’apostolo alza il volto verso il cielo, prestando ascolto alla rivelazione che da esso proviene, e, tendendo il braccio, la trasmette a Procoro, il quale, seduto di fronte a lui, prende nota su un lungo rotolo di pergamena.

Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis

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Seguendo l’esempio di molti suoi predecessori, interessati a legare il proprio nome alla fondazione di importanti centri religiosi, Alessio esaudí il desiderio di Cristodulo e gli cedette l’isola come dono regale. La crisobolla di fondazione del monastero, datata aprile 1088, che reca in bella vista la firma dell’imperatore, fa oggi mostra di sé in una grande vetrina del Museo.

COME UNA FORTEZZA Il monastero sorse al centro dell’isola, su un’escrescenza rocciosa alta 216 m sul livello del mare: sin dalle origini, la sua conformazione fu simile a quella di una fortezza (aspetto che ha mantenuto fino a oggi), giacché esso doveva costituire un solido bastione contro gli attacchi dei pirati musulmani. Cristodulo vi si stabilí insieme a un folto gruppo di monaci, ai quali si deve senza dubbio la «riscoperta» della grotta di


san Giovanni e il rinnovato interesse per le storie del soggiorno dell’apostolo sull’isola. Essi costruirono nel monastero una grande biblioteca contenente, sin dalle origini, codici di grandissima importanza. La collezione di Cristodulo comprendeva 330 manoscritti, mentre oggi la biblioteca ne conserva piú di 1000, tra cui vanno almeno menzionati 33 fogli di pergamena di un codice purpureo, prodotto a Costantinopoli e smembrato dai crociati, con frammenti del Vangelo di Marco (VI secolo); uno splendido manoscritto miniato del Libro di Giobbe (IX secolo); un codice anch’esso miniato delle Omelie di Gregorio di Nazianzo (X secolo); un rotolo contenente il commento dello scolarca della scuola neoplatonica di Atene Proclo al Timeo di Platone (XI secolo). Nella crisobolla di Alessio Comneno, il monastero era stato definito

«autodespota e indipendente», esente da ogni tipo di tassazione. Per il suo sostentamento, l’imperatore aveva ceduto ai monaci come metochia (dipendenze di chiese o monasteri che possono trovarsi anche fuori dal loro territorio) le isole intorno a Patmos: Lipsi, Arkiooi, Pharmako, Marathi, Leveda, Chiliomodi, Stonghili, Agathonisi, Kroussous e Tragonisi.

NUOVE ACQUISIZIONI Piú tardi, il monastero acquisí nuovi metochia in Asia Minore, in Georgia e soprattutto a Creta. Il legame fra Patmos e Creta fu fondamentale per molti motivi: grazie a esso, tra l’altro, le chiese di Patmos si riempirono progressivamente di splendide icone prodotte dalla celebre scuola pittorica cretese. Pochi anni dopo la fondazione del monastero, a causa degli attacchi dei pirati, Cristodulo si rifugiò in Eu-

bea dove nel 1093 morí. Nel suo testamento mistico, egli esortava i monaci a continuare la sua opera a Patmos e a trasportarvi le sue spoglie, che in effetti vi furono traslate poco tempo dopo e deposte in una cappella del katholikon del monastero. Nel 1132 il monastero stesso fu dichiarato dipendenza del patriarca di Costantinopoli dal patriarca Giovanni IX Hieromnemon, al fine di rinforzarne l’autonomia. Malgrado raid e attacchi, il centro spirituale di Patmos continuò a espandersi: vescovi e patriarchi si formavano nella biblioteca dell’isola e alla fine del XII secolo nel monastero erano presenti ben 150 monaci. Dopo la IV Crociata e la creazione di un regno latino a Costantinopoli (1204), i Veneziani occuparono brevemente Patmos, senza tuttavia turbarne la vita monastica. Già dal 1259, l’isola tornò sotto i Bizantini, e l’imperatore Michele VIII Paleologo, che riconquistò Costantinopoli nel 1261, offrí a piú riprese il suo personale sostegno al monastero. Mentre tutta l’Asia Minore veniva sconvolta dall’avanzata dei Selgiuchidi, nel 1309/10 i Cavalieri di San Giovanni si impadronirono di Rodi e, poco dopo, di tutte le isole del Dodecaneso: il monastero conservò la sua autonomia, ma fu costretto a pagare un pesante tributo.

MAOMETTO E SAN GIOVANNI Patmos non venne mai conquistata dagli Ottomani con la forza, né sembra che alcuna guardia turca si sia mai installata nell’isola. Un’ipotesi storica probabile è che i monaci di Patmos abbiano reso visita al sultano Maometto II ad Adrianopoli due anni prima che quest’ultimo si impadronisse di Costantinopoli (1453). Nella pagina accanto: vangelo miniato in cui si vede Giovanni che detta il libro dell’Apocalisse a Procoro. A sinistra: l’antica biblioteca del monastero di S. Giovanni. a r c h e o 57


STORIA • PATMOS

LA SECONDA APOCALISSE Tra il VI e l’VIII secolo d.C. fa la sua comparsa un testo greco attribuito a Giovanni evangelista, nel quale Gesú risorto spiega a Giovanni i misteri che vuol far conoscere e alcune nuove pratiche da diffondere tra i

In questa occasione sarebbe stato firmato un trattato che accordava vari privilegi al monastero di S. Giovanni e a tutta l’isola. Il sultano, inoltre, avrebbe donato ai monaci alcuni oggetti in segno di omaggio (tra cui una lampada e un candeliere esposti nel Museo). Alcuni firmani turchi siglati da Maometto II e dai suoi successori attestano che l’attenzione e il rispetto dei sultani ottomani nei confronti dell’isola di san Giovanni rimasero sempre vivi. La quiete e il benessere di Patmos durarono fino alla prima metà del XVII secolo. A turbarli furono dapprima le truppe veneziane di Francesco Morosini (le stesse che si resero responsabili del cannoneggiamento dell’Acropoli di Atene), che sacIn alto: un’immagine dell’interno della chiesa del monastero di S. Giovanni, della quale si può apprezzare la ricchissima decorazione degli interni e, in particolare, dell’iconostasi. 58 a r c h e o

fedeli. Il grande orientalista francese François Nau (1864-1931) diede a quest’opera, in parte analoga all’Apocalisse originaria, il titolo di Seconda Apocalisse di San Giovanni.

cheggiarono l’isola e il suo monastero nel 1659, e poi il conflitto turcoveneziano per la conquista di Creta (1645-1669), che privò Patmos dei suoi metochia piú importanti.

quando fu conquistata dagli Italiani. Nel 1943 subentrarono i Tedeschi e, nel 1945, gli Inglesi. Finalmente, nel 1948, il Dodecaneso fu riunito alla madrepatria greca. Nel corso dei secoli, comunque, il monastero di S. Giovanni, con la sua splendida biblioteca, e la cosiddetta «Grotta dell’Apocalisse» hanno costituito uno straordinario elemento di continuità storica, religiosa e culturale, che ha saputo imporsi sul trascorrere del tempo e sul mutare delle condizioni politiche. Ancora oggi, viaggiatori provenienti da tutto il mondo sbarcano a Patmos alla ricerca di un frammento di questa lunga storia, ricca di fascino e di spiritualità.

UNA PRESTIGIOSA SCUOLA DI TEOLOGIA Nonostante la crisi economica, il monastero restò un centro culturale e spirituale ellenico di prim’ordine: nel 1713 il monaco Macario Kalogeras fondò, presso quella che era – ed è ancora oggi ritenuta – la Grotta dell’Apocalisse, una prestigiosa scuola teologica, che divenne nota con il nome di «Scuola di Patmos» e che contribuí a formare per duecento anni le gerarchie ortodosse della Grecia, dell’Asia MiDA LEGGERE nore e del Vicino Oriente. Durante la Rivoluzione greca del 1821, Patmos fu la seconda isola, • Ian Boxall (a cura di ), Patmos in dopo Spetses, a innalzare il vessillo the Reception History of the rivoluzionario, ma rimase sotto il Apocalypse, Oxford University dominio ottomano fino al 1912, Press, Oxford 2013.



MOSTRE • FIRENZE

A FIRENZE,

FINALMENTE! NEL 1758 JOHANN JOACHIM WINCKELMANN GIUNGE NELLA CITTÀ DEL GIGLIO E VI SI FERMA PER ALCUNI MESI. UN SOGGIORNO CHE INFLUENZÒ IN MANIERA DECISIVA IL PENSIERO CRITICO DEL PADRE DELLA STORIA DELL’ARTE ANTICA. COME RACCONTA LA RICCA MOSTRA ALLESTITA NEL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE

A destra: gemma etrusca. Berlino, Staatliche Museen. In basso: scarabeo in corniola raffigurante Tideo che si deterge con uno strigile. V sec. a.C. Già collezione Stosch. Berlino, Staatliche Museen.

di Giuseppe M. Della Fina

«I

o sto adesso ruminando col mio cervello se ho da comparire in scena fra Letterati e Antiquari d’Italia o se tornerebbe meglio starmene cheto: io sono piú per il Sí che per il No», cosí Johann Joachim Winckelmann scriveva all’amico Gian Ludovico Bianconi, medico e consigliere di corte a Dresda nell’ottobre del 1758. Ma dove maturò in lui l’idea di misurarsi con l’antiquaria italiana, sino al pun60 a r c h e o

to da arrivare a scrivere un’opera d’impegno notevole, Monumenti antichi inediti, non in tedesco, o in francese, o in latino, ma in lingua italiana? A Firenze, probabilmente. Un’ipotesi che risulta piú che plausibile visitando la mostra allestita nel Museo Archeologico Nazionale del capoluogo toscano, che, di fatto, dà il via alle iniziative programmate in vari Paesi europei per ricordare il


Ritratto di Johann Joachim Winckelmann, olio su tela di Anton von Maron. 1768. Weimar, Stadtschloss.

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MOSTRE • FIRENZE

di gemme riunita dal barone Philipp von Stosch. Come si può desumere da alcune sue lettere, si trattava di un soggiorno a lungo vagheggiato, per il desiderio di vedere da vicino le raccolte di antichità presenti in città, ma dettato anche dalla curiosità intellettuale d’incontrare proprio lo Stosch, del quale apprezzava la vasta cultura antiquaria. Questi era stato autore di un’opera particolarmente apprezzata: Gemmae antiquae caelatae, una cui edizione in lingua francese era stata contemporaneamente pubblicata, nel 1724, ad Amsterdam.

trecentesimo anniversario della nascita del grande studioso, nel 2017, e il duecentocinquantesimo della morte, nel 2018. Winckelmann giunse a Firenze nel settembre del 1758 e vi si trattenne per qualche mese, sino all’aprile dell’anno successivo. Il suo impegno principale fu rappresentato dalla stesura dell’inventario della raccolta In alto, a sinistra: scarabeo in corniola raffigurante Perseo che brandisce la testa della Gorgone. Metà del V sec.a.C. Già collezione Stosch. Berlino, Antikensammlung. A destra: scarabeo in corniola con cinque eroi dei Sette contro Tebe, noto anche come Gemma Ansidei. Inizi del V sec. a.C. Berlino, Antikensammlung. 62 a r c h e o

IL MANCATO INCONTRO Purtroppo, l’incontro tanto agognato non poté avere luogo, poiché, all’arrivo di Winckelmann a Firenze, era già morto e suo referente divenne il nipote, Heinrich Wilhelm Muzell Stosch, che volle comunque affidare allo studioso tedesco l’inventario della raccolta di gemme dell’avo. A quel tempo Winckelmann aveva compiuto da poco quarant’anni, soggiornava ormai da tre anni a

In alto: frontespizio dell’edizione italiana dei Monumenti antichi inediti spiegati e illustrati da Giovanni Winckelmann. 1767. Qui sopra: la Gemma Ansidei in una incisione di Johann Adam Schweickart. 1756.


Nelle lettere scritte agli amici, Winckelmann vede nel soggiorno fiorentino un risarcimento per la sua fin troppo misera giovinezza

Vaso attico a figure rosse attribuito alla scuola di Polignoto. 430 a.C. circa. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. a r c h e o 63


MOSTRE • FIRENZE

Roma – dove godeva della protezione del cardinale Alberigo Archinto –, poteva vantare un curriculum di rispetto e il progetto della sua Geschichte der Kunst des Altertums (Storia dell’arte dell’antichità), destinata a cambiare la storiografia artistica, era avanzato. L’opera, che iniziò a inviare all’editore proprio in quegli anni, venne poi pubblicata a Dresda nel 1764.

L’EUFORIA PER IL NUOVO INCARICO Lo studioso, tuttavia, si trovava in condizioni economiche precarie: difficoltà che emergono con chiarezza dalle sue lettere, nelle quali si alternano momenti di felicità e di amarezza, progetti da realizzare in Italia e altri che prevedevano di lasciare il Paese, mutando, in piú occasioni, idee e progetti di vita. Dallo stesso carteggio, in compenso, trapela la gioia per l’incarico ottenuto, che gli avrebbe consentito di superare le ristrettezze economiche affrontate sino ad allora. Scrive per

A destra: Ritratto di Johann Joachim Winckelmann, olio su tela di Anton Raphael Mengs. 1777. New York, Metropolitan Museum of Art. In basso: la Chimera di Arezzo. 400 a.C. circa. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: l’Arringatore, bronzo etrusco dell’80 a.C. circa, proveniente da Pila (Perugia). Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

esempio all’amico Francke, il 30 settembre del 1758: «Recupero ora tutto quello che non ho avuto, avevo ben diritto di pretenderlo dal buon Dio. La mia giovinezza è stata anche troppo misera e il mio impiego nella scuola non lo dimenticherò mai». Nell’euforia di quelle prime settimane, i programmi di studio si moltiplicarono e Winckelmann progettò un tour in Toscana per ve-

COME PARLANDO A UNA MOLTITUDINE RIUNITA... Johann Joachim Winckelmann poté esaminare la statua dell’Arringatore quando era collocata nella Galleria degli Uffizi. Dell’opera che era stata acquistata da Cosimo I de’ Medici nel 1566, fornisce una descrizione dettagliata: «Cosiddetto aruspice, di

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dere e studiare «tutte le antichità etrusche di ogni genere». Un viaggio che non poté realizzare, anche per il fatto che il quadro cambiò nei mesi successivi e il soggiorno fiorentino divenne meno piacevole: da un lato, la mole del lavoro che doveva affrontare si rivelò maggiore del previsto, dall’altro trovò difficoltà a inserirsi nella vita culturale cittadina sul cui livello iniziò a dare giudizi pesanti che arrivarono a toccarne i personaggi piú rappresentativi. Il soggiorno, che doveva essere di due mesi, si protrasse sino all’aprile del 1759. Anche perché quello che sulle prime doveva essere un semplice inventario della raccolta Stosch a uso del nipote, si trasformò in uno studio approfondito delle opere, condotto con un originale taglio storico-artistico e tipologico (Description des Pierres Gravées du feu Baron de Stosch, Firenze 1760).

MESI FECONDI Ma quale giudizio si può dare, oggi, sul soggiorno fiorentino del fondatore della storia dell’arte antica? È stato un momento importante nell’elaborazione del suo pensiero critico? Per Maria Fancelli, una delle responsabili (con Giovannangelo Camporeale e Max Kunze) del pro-

grandezza naturale, in piede, in atto di alzare un braccio e la mano, come parlando ad una moltitudine riunita. Egli ha i capelli cortamente tagliati (…) una sottoveste con le maniche corte, e sopra la medesima il mantello avvolto intorno».

getto in cui la mostra è compresa e che prevede un convegno internazionale da tenersi alla chiusura dell’esposizione, i mesi fiorentini furono particolarmente fecondi, consentendo a Winckelmann di allargare l’orizzonte di conoscenze, di

riflettere a fondo sull’arte etrusca e di dare un impulso determinante alla stesura definitiva della Geschichte der Kunst des Altertums, come sembrano suggerire alcuni brevi saggi teorici pubblicati nel corso del 1759 sulla piú importante rivista tedesca di estetica del tempo.

LIBRI E MEDAGLIE L’intera vicenda viene raccontata nelle tre sezioni della mostra (curata da Stefano Bruni, Giovannangelo Camporeale, Mario Iozzo e Barbara Arbeid): la Firenze che accolse Johann Joachim Winckelmann, il suo soggiorno in città e la fortuna che lo storico dell’arte ebbe nei decenni successivi in Toscana. Temi affrontati attraverso l’esposizione di singole opere d’arte da lui esaminate, manoscritti, volumi stampati nel Settecento e nell’Ottocento e di una serie di oggetti minori, ma particolarmente significativi. Penso, per esempio, alle medaglie commemorative in bronzo di singoli personaggi della cultura fiorentina a lui coevi, o della generazione immediatamente successiva: Filippo Buonarroti, Anton Francesco Gori, Giovanni Lami, Antonio Cocchi, Anton Maria Salvini per limitarsi a qualche nome. Oppure i calchi in gesso della collezione di gemme di Philipp von Stosch, giunti a Firenze dal WinckelmannMuseum di Stendal. Tra i volumi non poteva mancare una copia del De Etruria Regali (Firenze, 1723-1724) di Thomas Dempster, la cui pubblicazione, a un secolo da quando l’opera era stata scritta, dette vita alla stagione dell’etruscheria, che proprio Winckelmann iniziò a chiudere, demolendo il primato dell’arte etrusca nell’ambito della produzione artistica del mondo classico a favore di quella greca. Anche se va sottolineato che l’arte degli Etruschi continuava per lui ad avere il primato cronologico. Non mancano edizioni a r c h e o 65


I SEGRETI DEL TACCUINO Fra i documenti in mostra a Firenze, figura il cosiddetto «Manoscritto fiorentino» di Johann Joachim Winckelmann, un taccuino autografo con appunti, considerazioni e schizzi del grande storico dell’arte. Vi si trovano pagine con spunti per articoli poi non pubblicati; trascrizioni di passi dell’opera di Franciscus Junius (1589-1672) sulle vite di alcuni artisti nell’antichità; idee per la Geschichte der Kunst des Altertums; lettere e minute

scritte tra il 1761 e il 1762; materiali raccolti per un progetto non realizzato Von der Restauration der Antiquen. Il taccuino è il solo a essersi salvato tra le testimonianze winckelmanniane conservate presso l’Accademia di Scienze e Lettere «La Colombaria» di Firenze a seguito della distruzione della vecchia sede dell’istituzione culturale, in via de’ Bardi, avvenuta nel giugno del 1944 durante la seconda guerra mondiale.

Pagine del «Manoscritto Fiorentino». Firenze, Accademia di Scienze e lettere «La Colombaria».

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In alto: Conversazione nello studio di Zoffany, olio su tela attribuito a Joseph Mc Pherson (1726-1782). XVIII sec. Firenze, Palazzo Pitti.

preziose delle sue opere e neppure i dodici volumi che costituiscono la prima edizione italiana completa dei suoi scritti, pubblicati a Prato tra il 1830 e il 1834, per i tipi della stamperia Fratelli Giachetti, con l’intervento autorevole di Carlo Fea. Un’impresa editoriale che rese Prato uno dei centri di diffusione della cultura classicista in Italia. Quanto ai documenti, ci si può limitare a segnalare un profilo biografico di Winckelmann rimasto

A sinistra: medaglia in bronzo di Filippo Buonarroti, opera di Antonio Montaiuti. 1731. Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca.

manoscritto e redatto da Giuseppe Pelli Bencivenni (1729-1808), a lungo Direttore della Galleria degli Uffizi e la cui fama è stata in parte oscurata dal confronto con Luigi Lanzi, il fondatore dell’etruscologia scientifica. Pelli Bencivenni intuí immediatamente il livello dello studioso e della Geschichte der Kunst des Altertums scrisse: «Nulla di piú bello, di piú erudito, di piú curioso ho letto in genere di antiquaria (…) Penso che Winckela r c h e o 67


MOSTRE • FIRENZE

STRANGOLATO DA UN «RIBALDO» Giuseppe Pelli Bencivenni, a lungo direttore della Galleria degli Uffizi, negli appunti scritti in vista della stesura di una biografia di Johann Joachim Winckelmann che non riuscí a pubblicare, descrive l’assassinio dello storico dell’arte: «Si pose indi il Winckelmann a sedere al suo tavolino, e allora fu, che il ribaldo gli gettò il laccio al collo, al che essendosi riscosso l’assalito, e facendo valida resistenza, diede tosto di piglio l’aggressore al coltello e con esso gli diede tali ferite, che pessimamente il conciò ed altre pure date gle ne avrebbe da estinguerlo, se al rumore non fosse accorso il Cameriere dell’Osteria (…) Uscí pertanto il Winckelmann di camera per chiedere ajuto e scese al primo piano dell’Osteria, ma versando sangue da ogni parte fu portato in letto, ove munito de’ Santi Sagramenti della Chiesa, e fatta l’ultima Disposizione con eroica costanza, e pietà veramente cristiana perdonando al suo offensore di cuore, dopo 7 ore di spasmi verso le ore 4 del dopo pranzo placidamente morí».

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In alto: vassoio decorato all’etrusca, parte di un dejeuner realizzato dalle officine della Real Fabbrica della Porcellana di Napoli. 1790-1800. Firenze, Galleria degli Uffizi, Palazzo Pitti. In basso: la tomba di Winckelmann in una incisione inserita nel frontespizio del tomo I della Storia delle arti del disegno presso gli antichi. 1783.

mann sia stato il piú grande antiquario, al periodo piú antico dell’arte etruche abbia scritto. Se potrò avere altre sue sca; o la Minerva – rinvenuta anch’esopere io me le voglio godere». sa ad Arezzo –, della quale segnala, in particolare, la testa, riconosciuta come di stile greco; o, ancora, l’ArAPPUNTI E DISEGNI Eccezionale è il cosiddetto «Mano- ringatore, di cui offre una descrizione scritto fiorentino», un taccuino dettagliata e interpreta come «un composto da 192 pagine rilegate, in ritratto, rappresentato con fedeltà carattecarta pergamena, che contiene ristica secondo la somiglianza di una scritti autografi di Winckelmann persona determinata». databili tra l’estate del 1756 e il 1762. Lo storico dell’arte lo utilizzò DOVE E QUANDO in un verso, pagine da 1 a 146, e in quello contrario per le pagine rima- «Winckelmann, Firenze nenti. Nei fogli iniziali sono presen- e gli Etruschi. Il padre ti alcuni schizzi sulle proporzioni dell’archeologia in Toscana» del corpo umano e della testa: si Firenze, Museo Archeologico tratta di alcuni dei suoi pochi dise- Nazionale, Salone del Nicchio gni (vedi box a p. 66). fino al 30 gennaio 2017 Fra le opere esposte, meritano una Orario ma-ve, 8,30-19,00; menzione capolavori quali la cele- sa-lu, 8,30-14,00 berrima Chimera di Arezzo, che Info tel. 055 23575; e-mail: Winckelmann vide quando si trova- pm-tos@beniculturali.it; https:// va ancora nella Galleria degli Uffizi museoarcheologiconazionale e giudicò un reperto notevole («ein difirenze.wordpress.com merkwürdiges Stück»), attribuendolo Catalogo Edizioni ETS



AUGUSTO IN

CATALOGNA

SI DEVE AL PRIMO IMPERATORE ROMANO LA FONDAZIONE DI BARCINO, LA COLONIA DA CUI È DERIVATA LA MODERNA BARCELLONA. L’ANTICO ABITATO PROSPERÒ E SI DOTÒ DI MONUMENTI IMPORTANTI, I CUI RESTI CARATTERIZZANO MOLTI ANGOLI DELLA CITTÀ. AL CENTRO DI UN VASTO PROGRAMMA DI VALORIZZAZIONE di Josep A. Borrell 70 a r c h e o


A

ugusto scrisse alcune delle pagine piú importanti della storia di Roma, ma ebbe anche un ruolo centrale nella fondazione di una piccola colonia nella parte settentrionale della Penisola Iberica, che prese il nome di Colonia Iulia Augusta Faventia Paterna Barcino e che, nel corso degli anni, si trasformò in Barcino, Barchi-

non, Barchinonam, Barcinona… fino all’attuale Barcellona. Per avere un’idea di quale fosse l’aspetto della città sviluppatasi grazie al primo imperatore romano, il municipio della capitale catalana ha promosso la realizzazione dell’applicazione Barcino 3D. Disponibile in IOS e Android per tablet o PC, la app che svela il profilo della Barcel-

lona romana è scaricabile gratuitamente e risulta di facile utilizzazione. I testi sono redatti in tre lingue – catalano, spagnolo e inglese –, ma l’aspetto piú interessante sono i contenuti e la modalità di visualizzazione: veloce, visiva, quasi cinematografica, Barcino 3D consente all’utente di sorvolare l’antica città come se si arrivasse in aeroplano,

Nella pagina accanto: particolare di un plastico ricostruttivo della città di Barcellona in età medievale. In basso: uno scorcio della Porta Decumana. Appoggiato al bastione, un arco superstite dell’acquedotto romano.

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STORIA • SPAGNA ROMANA

per esempio dall’Italia, e ammirarla con una prospettiva a volo d’uccello. La «fotografia» del momento storico scelto per scoprire questa Barcellona coincide con l’epoca in cui la colonia aveva appena terminato di costruire un secondo muro di cinta, nel III secolo d.C.

COME ANTICHI TURISTI La app consente anche di scoprire quali importanti testimonianze sono sopravvissute nei secoli: le mura ancora perfettamente visibili nella Barcellona contemporanea, alcuni villaggi agricoli sviluppatisi intorno alla città, vivaci mosaici e pitture giunti fino ai giorni nostri, resti di un tempio dedicato ad Augusto, una necropoli… Parallelamente, vengono proposte le ricostruzioni dei monumenti principali e dei luoghi piú rappresentativi della colonia, suggerendo percorsi virtuali lungo le sue strade, come se fossimo autentici turisti che si godono la Barcellona romana. Come già accennato, Barcino 3D documenta la città catalana cosí come doveva presentarsi al tempo dell’imperatore Diocleziano, illustrando la vita quotidiana di un centro del Mediterraneo occiden-

Qui sotto: la lapide con l’iscrizione «Colonia Iulia Augusta Faventia Paterna Barcino». Barcellona, Museo di Storia della Città. In basso: uno scorcio delle colonne e della trabeazione

superstiti del Tempio di Augusto. I sec. d.C.

Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis

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LA LEGGENDA DEL NOME Come prova un’iscrizione oggi conservata al Museo di Storia della Città di Barcellona, il nome ufficiale della Barcellona romana era Colonia Iulia Augusta Faventia Paterna Barcino. Il primo appellativo si riferiva allo status giuridico della città, mentre Iulia Augusta e Paterna collegavano il luogo al fondatore e alla sua famiglia. D’altra parte, si ritiene che Faventia potrebbe essere un appellativo di buon auspicio, mentre Barcino potrebbe derivare dal nome del nucleo iberico originale presente sulla collina di Montjuïc.

Si tramanda inoltre una leggenda, secondo la quale anche Barcino aveva radici mitiche. Sarebbe stata legata alla famiglia cartaginese dei Barca e all’eroe greco Ercole, che si sarebbe arenato su queste coste provenendo dalla Libia – durante una delle sue famose dodici fatiche – con una delle sue navi, la nona o «Barca Nona».

tale che viveva di commercio e produzione vinicola. L’urbanistica risponde alla struttura classica delle città romane, con un perimetro ottagonale e le strade che si articolano intorno a due assi: il cardo e il decumanus che si incrociavano in uno spazio centrale, il Foro, centro politico, religioso ed economico della colonia. «Tutte le informazioni sono georeferenziate e inserite in base ai dati di cui disponiamo, per cui, a ogni nuova acquisizione, anche la app viene aggiornata», spiega l’archeologa Carme Miró, responsabile del progetto del municipio denominato «Pla Barcino», nato con lo scopo di favorire la ricerca e la divulgazione della Barcellona romana. «Scavare


I resti tuttora visibili e le ricerche condotte nel corso degli ultimi anni hanno permesso di definire con sempre maggior precisione la fisionomia della Barcino romana. La colonia fondata da Augusto replicava il modello canonico di questo genere di insediamenti, che aveva come assi portanti il cardo e il decumanus, gli assi stradali principali, rispetto ai quali era stata definita l’articolazione degli spazi pubblici e privati. Il cuore della città era costituito dal Foro, nella cui area ricadeva anche il tempio di Augusto, il monumento piú importante di Barcino. Fra le strutture di pubblica utilità si segnalano l’acquedotto e gli impianti termali. A oggi, non si conosce invece l’ubicazione di eventuali edifici per spettacoli, la cui mancata individuazione si può forse spiegare con il fatto che erano stati costruiti in legno e non in pietra. Porta Decumana Occidentale

Acquedotto

Via Laetana

Domus del Domus Domus di S. Filippo Palazzo Vescovile di S. Lucia Neri

Domus Foro di S. Onorato Porta Meridionale

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PICCOLA, MA RICCA Ma che cosa sappiamo oggi della Barcino romana? «Sicuramente molto», prosegue la studiosa. Per esempio, che era una colonia molto prospera, grazie ai commerci e alla produzione agro-alimentare (in particolare quella vitivinicola), assicurata dai villaggi situati all’esterno delle mura di cinta. Nonostante il suo potere economico, non si trattava di una città molto estesa: pur controllando una ricca pianura agricola situata accanto alla costa mediterranea, la zona prettamente urbana di Barcino occupava una superficie di soli 10 ettari, molto piccola se la confrontiamo con i 60 della vicina Tarraco (Tarragona), capitale della provincia Tarraconensis. Tuttavia, quella Barcino ricca e poco estesa era circondata da mura possenti, che sono probabilmente il motivo per cui oggi Barcellona, e non Tarragona, è la capitale della Catalogna. In realtà, i circuiti murari erano due: il primo fu edificato nel I secolo a.C., per ordine di Augusto, e aveva un valore perlopiú simbolico; il secondo, che disponeva di 76 torri e quattro porte

Un assetto ancora ben leggibile

Decumanus Maximus

qui non è semplice – continua Mirò: come molte importanti città e metropoli italiane e del Mediterraneo, anche Barcellona è cresciuta e si è sviluppata senza sosta dal Medioevo su un substrato romano, rendendo estremamente difficile l’operato degli archeologi». Per esempio, il Foro romano è situato esattamente dove oggi sorgono la sede del Consiglio municipale, il palazzo del Presidente del Governo della Catalogna, un importante istituto bancario e anche la Cattedrale. Duemila anni dopo, il potere terreno e quello divino riposano sulle stesse fondamenta. Proprio come all’epoca di Roma, ma con alcune incognite e dettagli ancora da accertare, poiché è di fatto impossibile raccogliere ulteriori informazioni, visto l’uso attuale a cui questi spazi sono adibiti.

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STORIA • SPAGNA ROMANA

LA CONQUISTA DELL’HISPANIA La conquista della Penisola Iberica fu lunga e complessa. Ebbe inizio nel 218 a.C., nel contesto della seconda guerra punica, quando le legioni di Gneo Cornelio Scipione sbarcarono nell’enclave greca di Empúries (situata un centinaio di chilometri a nord di Barcellona) con l’obiettivo di spezzare le linee di approvvigionamento di Annibale, dopo che questi aveva attraversato le Alpi. Terminò quasi trecento anni piú tardi, al tempo di Augusto. Da Empúries, le legioni di Roma si espansero rapidamente in tutto il litorale mediterraneo, penetrando verso ovest attraverso la

valle dell’Ebro e accedendo al Sud dopo aver occupato tutta la valle del Guadalquivir che – non dobbiamo dimenticarlo – sfocia sull’Atlantico nei pressi di Gades (Cadice), la città piú antica dell’Occidente. Tuttavia, in questa prima fase, estese zone del Centro e del Nord della Penisola non furono romanizzate. Successivamente, nel II e I secolo a.C., l’espansione romana proseguí, lenta, ma inesorabile. Furono occupate la Lusitania, la Meseta e l’intero litorale atlantico, dove si verificarono importanti combattimenti, come quelli di Numancia o

quelli contro il leader lusitano Viriato. Dopo avere acquisito il controllo di gran parte della penisola, il processo di romanizzazione fu sviluppato soprattutto a partire da tre grandi centri: Tarraco (Tarragona), dove l’Ebro sfocia nel Mediterraneo, e il porto piú vicino a Roma; Corduba (Cordova), alle sorgenti del grande fiume Guadalquivir; ed Emerita Augusta (Mérida), nella Lusitania, nel cuore del cosiddetto «itinerario dell’argento» o «Ruta de la Plata», una strada che attraversava la parte occidentale dell’Hispania e dove venivano sfruttate delle

importanti miniere di oro e di argento. Ma, ai tempi di Augusto, era ancora lontano il dominio del Nord peninsulare. Lí, nelle fredde e piovose montagne situate di fronte al Mar Cantabrico, varie popolazioni come gli Asturi (origine del nome Asturie), i Cantabri (Cantabria) e i Vasconi (Paesi Baschi) trovarono un ambiente propizio per resistere a Roma. Augusto trasferí la corte e il corpo centrale dell’esercito a Tarraco e, da lí, diresse quelle che gli storici hanno denominato come guerre cantabriche (29-19 a.C.), l’ultima grande conquista dell’Hispania.

di ingresso, fu costruito nel III secolo d.C., per fare fronte alla crescente instabilità dell’impero. Non c’e da meravigliarsi del fatto che, quando i Visigoti entrarono nella Penisola Iberica, avessero deciso di trasformare Barcino nella capitale dei propri possedimenti.

CONVIVENZA PACIFICA La Barcellona del III secolo disponeva anche di un acquedotto lungo 13 km, che portava l’acqua dalle vicine montagne, oltre a un tempio, piú antico, eretto per venerare Augusto, fondatore della colonia. Piú tardi, quando Barcino divenne cristiana, vi convissero vari nuclei episcopali, che riuscirono a coniugare differenti interpretazioni del rito cattolico. La fondazione di Barcino, negli ultimi anni del I secolo a.C. – probabilmente tra il 15 e il 10 a.C. – si inserisce nel quadro della politica di 74 a r c h e o

Augusto rivolta a consolidare la romanizzazione della penisola Iberica. Spiega in proposito Carme Miró: «Augusto creò Barcino con due finalità: una commerciale e un’altra di controllo del territorio e, nel primo caso, la storia finí col

In alto: veduta dell’area archeologica sotterranea della Plaza del Rei. In primo piano, un impianto per la produzione del garum. III sec. d.C. Nella pagina accanto: busto maschile in marmo. II sec. d.C. Barcellona, Museo di Storia della Città.


Portus Iuliobrigensium Lucus Augusti Lugo

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dargli ragione, poiché la città divenne uno dei porti piú importanti del Mediterraneo occidentale». Riguardo al controllo del territorio, Barcino fu l’unica colonia fondata in epoca augustea nella parte nordorientale della Penisola (oltre, naturalmente, alla capitale Tarraco). Nacque con la volontà di colonizzare una pianura lungo il mare, non molto estesa, ma molto ricca a livello agricolo, sulla quale sfociano due fiumi – il Llobregat e il Besos – e numerosi torrenti, ruscelli e corsi d’acqua minori.

LA GESTIONE DEL TERRITORIO Una terra fertile, quindi, e anche con alcune risorse minerarie e una cava nelle vicinanze. «Probabilmente Augusto – continua Miró – cercò in Barcino un porto da cui esportare queste materie prime, oltre a un punto per il controllo del territorio

Medina Sidoma

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Carmo Hispalis Carmona Siviglia Osuna Mesas de Asta

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annesso, e sappiamo che l’imperatore fece lottizzare e sistemare l’intera pianura che circondava la città, che corrisponde all’area metropolitana dell’attuale Barcellona». Anche le fonti classiche descrivono Barcino. Circa sessant’anni dopo la sua fondazione, Pomponio Mela la menzionava già nei suoi scritti, e, alcuni anni piú tardi, Plinio il Vecchio rilevava che era una delle dodici colonie della Hispania Citerior (Spagna citeriore), in cui si erano insediati i veterani che avevano preso parte alle guerre cantabriche. Tutto ciò ha spinto alcuni storici a ipotizzare che Augusto abbia creato la colonia anche allo scopo di trasferire a Barcino alcuni dei legionari che, tra il 29 e il 19 a.C., parteciparono alle campagne militari per la conquista del Nord peninsulare. Tuttavia, pur trattandosi indubbiamente di una nuova fondazioa r c h e o 75


STORIA • SPAGNA ROMANA

In questa pagina: affresco raffigurante un cavaliere e mosaico pavimentale con motivi vegetali e geometrici. IV sec. d.C. Barcellona, Museo di Storia della Città. Nella pagina accanto, in alto: un’altra immagine dei resti di epoca romana musealizzati nell’area

archeologica sotterranea della Plaza del Rei. Nella pagina accanto, in basso: un tratto della Via sepulchralis, fiancheggiata da tombe di varie tipologie. In particolare, sono molto diffuse quelle «a cupa», cioè con elementi semicilindrici posti a copertura delle fosse di sepoltura.

ne romana, non dovremmo neppure trascurare l’importanza del fattore indigeno. Abbiamo la certezza dell’esistenza di due monete che recano la scritta «Barkeno» e che, ovviamente, ci riportano a «Barcino». Non sappiamo dove siano state rinvenute, né quando, ma una di esse si trova attualmente in un museo di Copenaghen, mentre dell’altra si sono perse le tracce durante la Guerra Civile spagnola (1936-39). Inoltre, come racconta Carme Miró, sul vicino Montjuïc (una collinetta alta 173 m, situata in riva al mare e nelle immediate vicinanze della foce del Llobregat) sembra si trovassero un porto e un insedia76 a r c h e o


mento iberici che già consentivano la spedizione dei prodotti agricoli ottenuti nella zona, oltre che del sale estratto dalle vicine miniere di Cardona-Súria. «Siamo certi che la creazione di Barcino sia opera esclusiva di Augusto, tuttavia era presente una tradizione indigena che non dovremmo sottovalutare. Inoltre, sulla collina di Montjuïc sono stati ritrovati resti di epoca repubblicana, per cui non dobbiamo scartare la possibilità che in precedenza vi fosse stata edificata una città romana. Non si può quindi escludere che nel I secolo a.C. Augusto abbia deciso di trasferire questo insediamento in pianura per poter meglio organizzare il territorio». a r c h e o 77


STORIA • SPAGNA ROMANA

Il contributo piú importante di Barcino all’economia e alla società dell’impero consistette soprattutto nell’organizzazione delle importazioni e delle esportazioni, probabilmente messa a punto grazie all’eredità della precedente epoca iberica. L’importanza dei villaggi agricoli rinvenuti nella pianura barcellonese, al di fuori delle mura, completano l’immagine di Barcino come importante centro di esportazione. Il caso piú significativo è forse quello della villa di La Sagrera, venuta alla luce durante le opere di costruzione di una stazione ferroviaria per l’alta velocità, nell’estate del A destra: ritratto in marmo di matrona romana. II sec. d.C. Barcellona, Museo di Storia. In basso: un altro settore dell’area archeologica della Plaza del Rei. Le conche nel terreno erano destinate alla lavorazione del vino.

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2011. Una villa di 1100 mq circa di estensione, nei cui possedimenti si praticava la viticoltura. Quanto è stato ritrovato al suo interno dimostrerebbe l’importanza di questa attività e il valore economico assunto dal vino per i proprietari terrieri. E alcune domus scavate nell’area urbana – come quella del numero 15 dell’attuale carrer Avinyó (un angolo della città che, all’inizio del XX secolo, ispirò Pablo Picasso per le celebri Mademoseilles d’Avignon) – sembrerebbero confermarlo. Riguardo alla composizione sociale di Barcino, Carme Miró ricorda che si trattava di una città nella quale viveva un gran numero di liberti, schiavi liberati alla morte dei loro padroni e che ricevevano in eredità una parte dei loro averi.

LEGNO A VOLONTÀ Purtroppo, in questa Barcino prospera e socialmente dinamica, non sono stati ritrovati resti di edifici per lo svago, come teatro, anfiteatro o un circo. Una lacuna che, secondo Mirò, potrebbe derivare dal fatto che «non fossero stati costruiti in pietra, ma con altri materiali, come il legno. Le montagne intorno a Barcino, del resto, erano ricche di boschi». In tempi recenti, l’équipe del Plan Barcino ha proseguito i lavori intorno alle mura di cinta, oltre a iniziare un progetto di bio-archeologia per conoscere quali specie vegetali fossero presenti nel territorio e sapere che cosa si coltivava e si mangiava. Si sta inoltre lavorando all’esatta definizione del tempio di Augusto: le sue forme, le dimensioni e, soprattutto, l’orientamento, che potrebbe cambiare la struttura del Foro e la disposizione della città. E, infine, si spera di ricavare nuovi dati dalla collina di Montjuïc, la culla della città. Da lí, infatti, proveniva la pietra che contribuí a costruire Barcino (e piú tardi Barcellona), ed è il luogo in cui sono stati rinvenuti i resti storici piú antichi.



ARCHEOLOGIA SPERIMENTALE • ONAGRO

L’AVVENTURA

CONTINUA... DOPO IL LAVORO A TAVOLINO E LA SELEZIONE DEI MATERIALI, LA RICOSTRUZIONE SPERIMENTALE DELL’ONAGRO SI TRASFERISCE IN LABORATORIO. MATITA E SQUADRA LASCIANO IL CAMPO A SEGHE E CHIAVI INGLESI E LA RIPRODUZIONE DELLA MACCHINA DA LANCIO PRENDE FORMA, SEGUENDO CON LA MASSIMA ATTENZIONE TUTTE LE FASI DELLA SUA REALIZZAZIONE di Flavio Russo

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iprendiamo in queste pagine il resoconto della ricostruzione sperimentale di un onagro, una delle piú celebri macchine da guerra dell’antichità (vedi «Archeo» n. 379, settembre 2016). Dopo l’accertamento delle dimensioni piú plausibili dell’esemplare da ricostruire, si è constatato che i grandi fori necessari al passaggio della matassa nervina – avente un diametro di oltre 15 cm –, se praticati nei longheroni alti 20 cm, avrebbero lasciato, sopra e sotto, un margine di legno pieno di appena 2,5 cm e, al momento della precarica, ciò avrebbe certamente provocato la rottura dei longheroni stessi. Poiché, ora come allora, sarebbe stata un’impresa improba reperire tavoloni di quercia spessi 1 palmo e alti 2 – i soli compatibili con fori 80 a r c h e o

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Qui sopra: ricostruzione virtuale dell’onagro, la micidiale macchina da lancio la cui prima menzione, con il termine greco di monoancon, compare intorno al III sec. a.C.

del genere –, si è optato di sovrapporre ai longheroni due sopralzi di pari sezione, ma lunghi appena 110 cm. Per renderne solidale l’unione, sono stati serrati fra due spesse staffe di ferro a forma di pi greco, stret2

1. Staffa di ferro a forma di pi greco utilizzata per rendere solidali i longheroni e i sopralzi in legno. 2. Piastra e modiolo, la flangia metallica che, ruotando nella prima, permette la precarica della matassa.


te con chiavarde passanti di 18 mm di diametro, munite superiormente di un anello e bloccate inferiormente da contropiastre.

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L’ALLINEAMENTO DEI FORI Dal momento che buchi tanto lunghi in legni tanto duri non possono riuscire perpendicolari, è stato necessario trapanare separatamente longheroni e sopralzi da entrambi i lati, in modo di farne incontrare i fori al centro di ognuno, con lievi scarti di allineamento. Come già r icordava Ammiano Marcellino, i fianchi cosí ottenuti 4

presentano una vistosa gobba, al centro della quale sono state collocate le piastre di rotolamento dei modioli, aventi uno spessore di 18 mm, e, dopo averle boccate con quattro chiavarde a simmetriche contropiastre sulla faccia interna, il passaggio della matassa è stato reso circolare, asportandone le parti in eccesso.

3. Uno dei fianchi della ricostruzione dell’onagro, con la piastra in cui viene poi alloggiato il modiolo. La foto è stata scattata prima di rimuovere il legno in eccesso, per favorire lo scorrimento della matassa. 4. I longheroni assemblati da traverse complanari.

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5. La quarta traversa, sagomata a V, inserita piú in alto delle altre, al fine di irrigidire ulteriormente il telaio nel punto piú sollecitato per l’adiacenza della matassa. a r c h e o 81


ARCHEOLOGIA SPERIMENTALE • ONAGRO

La costruzione procede quindi assemblando fra loro i due longheroni mediante tre massicce traverse complanari, lunghe 120 cm e con una sezione di 15 x 18 cm. Le loro estremità sono state sagomate a tenoni, a sezione quadrata (8 x 8 cm), per entrare nelle tre mortase praticate su ciascun longherone (in carpenteria, mortasa indica l’incavo che, in particolari incastri fra due pezzi di legno, viene praticato in uno di essi per dare alloggio al risalto, detto tenone, ricavato nell’estremità dell’altro, n.d.r.). In ciascun tenone, inoltre,

sono state ricavate sottili fessure tissima trazione esercitata dalla mapassanti, nelle quali inserire le chia- tassa a tenerla in posizione. vette di serraggio, a cuneo. L’insieme è divenuto cosí un robusto telaio rettangolare, pesante circa PER IRRIGIDIRE IL TELAIO 3,5 quintali: le opposte fiancate, noUna quarta traversa, posta piú in nostante il rilevante spessore di tutalto, serve a irrigidire ulteriormente ti i componenti di legno e di ferro, il telaio nel punto piú sollecitato per al termine della precarica – la cui l’adiacenza della matassa, ed è stata sollecitazione può stimarsi di varie sagomata a V, per consentire una tonnellate – manifestano una leggemaggiore escursione al braccio nel- ra flessione, pochi millimetri, verso la fase di rientro dopo lo sgancio. La l’interno, una convergenza che si collocazione della traversa rende accentua in fase di caricamento. inutili le chiavette di bloccaggio, Sulla faccia inferiore dei longheroni risultando piú che sufficiente la for- sono stati ricavati due alloggiamenti

Gli incastri sono realizzati con mortase e tenoni 6

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6. Le ruote dell’onagro ricostruito sperimentalmente sporgono di 30 cm circa all’esterno del telaio. Sono inserite (vedi anche il disegno nella pagina accanto, in alto) nelle estremità cilindriche dei mozzi di ferro, a sezione quadrata, a loro volta alloggiati in fori quadrangolari ricavati negli assali di legno di 10 x 10 cm inchiavardati alla faccia inferiore dei longheroni. La presenza delle ruote, soprattutto negli onagri di maggiori dimensioni, doveva senza dubbio agevolare la punteria.


Le ruote e gli assali

7. Particolare dell’arpionismo, il meccanismo composto da una ruota a denti di sega che si utilizza nella fase di carica, dotato di una leva manovrabile dall’alto, inserita per evitare sganci accidentali.

costituito da un massiccio cilindro di legno di 14 cm di diametro, per meglio adeguarlo ai poderosi sforzi di caricamento e, soprattutto, per agevolarne il montaggio, termina fra due cuffie di ferro.

rettangolari, aperti in basso e destinati a ricevere gli assali di 10 x 10 cm, che, a loro volta, inglobano i robusti assi di ferro quadro da 4 x 4 cm, con le estremità cilindriche destinate ai mozzi delle ruote, che sporgono di 30 cm circa all’esterno del telaio. Ciascun assale è stato reso solidale al telaio, oltre che grazie al suddetto incastro, anche per mezzo di due chiavarde di 16 mm di diametro, che, saldate sugli assi attraver-

sando assale e longherone, debitamente ribattute su apposite piastre di ferro, li vincolano rigidamente. In prossimità dell’estremità posteriore di ogni fiancata sta un foro circolare del diametro di 8 cm, ottenuto con meticolosa attenzione per renderne i rispettivi centri allineati e orizzontali una volta serrato il telaio. In essi, infatti, va collocato l’asse del verricello utilizzato per caricare l’onagro che, pur essendo 7

LA RUOTA DENTATA Queste ultime, a loro volta sono solidali a due assi di ferro, per i quali fungono da boccole due tubi di diametro appena maggiore, collocati con piastre, contropiastre e chiavarde negli anzidetti fori delle fiancate, per consentire la rotazione del verricello. A uno dei due assi è saldata una barra quadrata, nella quale va a incastrarsi un arpionismo d’arresto retrogrado, ricavato da una piastra di 20 mm di spessore, e bloccato tramite un’apposita leva manovrabile dall’alto, il cui fulcro è fissato al longherone mediante una seconda piastra, impedendo cosí sganci accidentali in fase di caricamento. Tale operazione si compie utilizzando due spranghe di ferro da inserirsi in altrettanti fori diametrali, fra loro ortogonali, presenti su ambedue le cuffie dell’albero del verricello. Imprimendo alle stesse, alternativamente, una rotazione di circa 90°, il braccio dell’arma viene lentamente abbassato, restando pronto allo scatto dopo essere stato armato con una palla di pietra pesante 15 kg circa. La resistenza alla torsione della grossa matassa, crescendo rapidamente dalla posizione di massima precarica, col braccio verticale, a quella di massima carica col braccio orizzontale, rende tuttavia impossibile abbassarlo agendo con le sole spranghe, senza l’interposizione di una taglia a piú pulegge. (2 – continua) a r c h e o 83


SPECIALE • ETIOPIA

TERRA DIVINA NELLA STORIA DELL’ETIOPIA, IL PIÚ ESTESO DEGLI STATI DEL CORNO D’AFRICA, REALTÀ E LEGGENDA SI CONFONDONO. OGGI, TUTTAVIA, LE INDAGINI ARCHEOLOGICHE NELLA PATRIA DEL MISTERIOSO POPOLO DAL «VOLTO ARSO» RIVELANO LA VERA EPOPEA DI QUESTA TERRA ANTICHISSIMA: PARTENDO DALLE PRIME, FONDAMENTALI INFLUENZE DEI REGNI SUDARABICI, PER ARRIVARE ALLA NASCITA DI QUELLO CHE DIVENNE UNO DEI PRINCIPALI POTENTATI CRISTIANI D’ORIENTE, IL GLORIOSO REGNO DI AXUM di Marco Di Branco

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a misteriosa e splendida terra d’Etiopia compare all’orizzonte della storia grazie alla documentazione egiziana e, sin dall’inizio, mostra tutto il fascino dell’esotico. Gli Egizi la chiamavano «Terra divina» o «Kush», oppure «Terra di Punt», termini che designavano originariamente le terre a Oriente dell’Egitto e che si estesero fino a comprendere tutta la costa africana a sud dei porti egiziani. Nei testi faraonici, l’Etiopia è la terra dei profumi, dell’incenso, dei legni pregiati, dei balsami, delle resine, della gomma, degli animali esotici, dei metalli preziosi, dell’avorio e degli schiavi, il luogo in cui si svolgevano importanti missioni commerciali che avevano lo scopo di procurarsi tutte queste merci di lusso. Nella letteratura greca, il nome «Etiopia» compare per la prima volta nell’Iliade e nell’Odissea per indicare vagamente una terra abitata da uomini dal viso arso (il termine greco Aithiops, «Etiope», è composto dal verbo aitho, «ardere» e da ops, «sguardo, volto» e significa quindi «faccia arsa» o «sguardo ardente»). Il primo storico occidentale a descrivere l’Etiopia è Erodoto, nel V secolo a.C.: nella narrazione sul regno di Cambise – l’imperatore persiano che, dopo la conquista dell’Egitto (525 a.C.), ormai in preda alla follia, avanza verso sud per impadronirsi delle ricche terre degli Etiopi – è infatti inserito il «racconto etiopico», un excursus dedicato al Paese che sta per essere invaso (vedi box alle pp. 86-87).

IL «POPOLO DELL’UTOPIA» Da quel brano emerge il ritratto di una popolazione diversa da quelle che il grande storico greco conobbe direttamente (come i Persiani o gli Egiziani); un «popolo dell’utopia», relegato in una dimensione mitica, che può essere raggiunto solo attraverso la mediazione di un’altra gente dalle caratteristiche fantastiche: gli Ittiofagi, i «Mangiatori di pesce». Sono infatti questi ultimi a svolgere il ruolo di ambasciatori per conto del re persiano e a fornirgli una descrizione dettagliata degli usi e costumi degli Etiopi, in cui i valori correnti sono del tutto sovvertiti. Uno spettacolare paesaggio del Tigrai, regione dell’Etiopia settentrionale, perlopiú montagnosa, visto dalla chiesa di Daniel Korkos. a r c h e o 85


SPECIALE • ETIOPIA ERITREA YEMEN Axum

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I caratteri originali della civiltà etiopica antica cominciano a delinearsi in un’epoca imprecisata, ma in ogni caso anteriore al VI secolo a.C., quando nel Paese africano compaiono le prime iscrizioni sudarabiche, che testimoniano la presenza di genti provenienti dall’Hadramawt, l’area meridionale della Penisola Arabica. In effetti, il loro manifestarsi è strettamente associato all’immigrazione nella regione di genti provenienti dall’odierno Yemen. Si tratta di membri dell’aristocrazia commerciale dei regni sudarabici che, lentamente ma inesorabilmente, si espansero sull’acrocoro etiopico e vi si insediarono stabilmente, per meglio sfruttare le immense risorse di quelle terre, impiantandovi stazioni dove concentrare i prodotti dei commerci e delle cacce, da inviare poi agli stabilimenti marittimi e dove iniziare la coltura del suolo sul modello della madrepatria. Tra le piú importanti tribú sudarabiche a trasferirsi in Africa, vanno menzionate quella

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ETIOPIA

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Cartina dell’Etiopia con l’indicazione delle principali località citate nel testo.

ACQUA AL PROFUMO DI VIOLE E ALTRE MERAVIGLIE... RACCONTATE DA ERODOTO Ecco, qui di seguito, un ampio stralcio della descrizione che Erodoto ci ha lasciato del popolo etiope: «Cambise progettò tre diverse spedizioni: contro i Cartaginesi, contro gli Ammonii e contro gli Etiopi dalla lunga vita, che abitano la costa libica lungo il mare meridionale. Riflettendo gli sembrò opportuno mandare contro i Cartaginesi la flotta, contro gli Ammonii una parte scelta dell’esercito di terra e dagli Etiopi anzitutto esploratori, per vedere se realmente esisteva quella mensa del Sole (...) e inoltre per osservare tutto il resto delle cose, col pretesto di portar doni al loro re. Ecco come si dice che sia la mensa del Sole: c’è nel sobborgo un prato tutto pieno di carni cotte di ogni specie di quadrupedi. In esso di notte hanno cura di mettere le carni quei cittadini che sono di volta in volta in carica come magistrati, e di giorno chi vuole può accostarsi e mangiare. Gli abitanti del luogo invece affermano che la terra stessa produce ogni volta queste carni. Dunque tale si dice che sia la cosiddetta mensa del Sole. Appena Cambise ebbe deciso di inviare gli esploratori, subito mandò a chiamare dalla città di Elefantina quegli Ittiofagi che conoscevano la lingua etiopica (…). Quando giunsero da Elefantina gli Ittiofagi, Cambise li mandò presso gli Etiopi, ingiungendo loro quel che conveniva dire e dando loro da portare in dono una veste di porpora e una collana d’oro intrecciata e braccialetti e un vasetto d’alabastro pieno di profumo e 86 a r c h e o

una giara di vino di palma. Questi Etiopi cui Cambise mandava l’ambasceria si dice che siano i piú grandi e i piú belli di tutti gli uomini. Si narra che essi fra gli altri costumi differenti dagli altri uomini osservino in particolare questo riguardo al regno: stimano degno d’essere re quello dei cittadini che essi giudicano sia il piú grande e abbia forza in proporzione alla statura. Quando dunque gli Ittiofagi giunsero presso questi uomini, consegnando i doni al re dissero: “Il re dei Persiani Cambise, volendo divenire tuo amico e ospite, ci ha mandato ordinandoci di venire a colloquio con te, e ti offre in dono questi oggetti che egli stesso usa con il piú grande piacere”. Ma l’Etiope, avendo compreso che erano venuti come spie, rispose loro con queste parole: “Né il re dei Persiani vi ha mandato a portarmi doni perché tiene in gran conto di divenire mio ospite, né voi dite il vero. Voi siete venuti a spiare nel mio regno né quell’uomo è giusto, ché se fosse giusto non desidererebbe altra terra oltre la sua, né ridurrebbe in schiavitú uomini dai quali non ha ricevuto alcun torto. Perciò consegnandogli quest’arco ditegli queste parole: il re degli Etiopi dà al re dei Persiani questo consiglio, che quando i Persiani tenderanno con facilità archi cosí grandi, allora marci con forze superiori di numero contro gli Etiopi dalla lunga vita; ma fino a quel momento renda grazie agli dèi, che non mettono in mente ai figli degli Etiopi l’idea di acquistarsi altre terre oltre la loro”.


degli Habasciat, da cui deriva uno dei nomi del Paese, Abissinia, e quella dei Ghe‘ez (il cui L’ETIOPIA OGGI significato è quello di «immigrati» o «liberi»), che ha dato il nome alla lingua clas- suddivisa in nove Stati, individuati su L’Etiopia è una repubblica federaleetiopica parlamentare sica. Leetnica, genti piú sudarabiche importarono nell’abase due città autonome (Addis Abeba e Dire Daua). La popolazione totale rea la scrittura, che diede poi diorigine sillaconta poco meno di 100 milioni abitanti,aloltre 3 dei quali risiedono nella capitale, Addis bario etiopico, alla base di quello utilizzato Abeba. Il Paese si sviluppa in gran parte su un esteso altopiano, diviso al centro dalla anche in epoca attuale. depressione della frattura est-africana o fossa dei Galla.

Dal 1993, con la dichiarazione di indipendenza dell’Eritrea, ha perso lo sbocco sul Mar INNOVAZIONI RIVOLUZIONARIE Rosso. Tra i corsi d’acqua piú importanti vi è il Nilo Azzurro, il principale affluente del Nilo Ma, scrittura, introdussero altri per oltre portataalla d’acqua, che essi nasce dal Lago Tana, nella regione nord-occidendale. importantissimi culturali, comesignificative la Il clima è tropicaleelementi monsonico, con variazioni a seconda della regione. tecnica delleè costruzioni elevate (coltivazioni a vari pianidi caffè, sesamo, qat, sorgo, ricino), L’economia basata su agricoltura (tipiche del paesaggio dall’antichità allevamento e settoreyemenita, terziario, negli ultimi decenni in forte crescita. La siccità a ricorrente oggi), la può moneta, l’uso adei la coltidare luogo crisimetalli, e carestie improvvise. C’è varietà di culti religiosi: quasi vazione la pecora, il cavallo, il camla metà del dellasuolo, popolazione è ortodossa etiope e circa un terzo è musulmana, sono inoltre mello, molte pianteprotestanti, utili per l’alimentazione, presenti minoranze cattoliche e che praticano culti tradizionali. armi piú perfezionate e, soprattutto, le conceL’aeroporto internazionale si trova ad Addis Abeba. L’Etiopia è attraversata da piú zioni preidi 100religiose 000 km ditipiche strade del ed èmondo in corsoarabo di realizzazione una rete ferroviaria elettrica che la collegherà ai Paesi confinanti e al porto di Gibuti. La valuta nazionale è il Birr (ETB), che vale circa 0,04 Euro.

Ciò detto, allentò l’arco e lo consegnò agli ambasciatori. Presa poi la veste di porpora chiese cosa fosse e come fosse stata fatta. Esponendogli gli Ittiofagi la verità intorno alla porpora e alla tinta, disse che ingannevoli erano gli uomini, e ingannevoli le loro vesti. Quindi li interrogò sulla collana d’oro intrecciata e sui braccialetti. Dandogli gli Ittiofagi spiegazioni, il re deridendo i loro ornamenti e credendo che fossero ceppi disse che presso di loro i ceppi erano piú robusti di quelli. In terzo luogo fece domande sull’unguento, e quando essi esposero la fabbricazione e il modo di ungersi, disse le stesse parole che aveva usato riguardo alla veste. Poi giunto al vino si informò sulla sua preparazione, e assai compiaciuto della bevanda chiese di cosa si nutriva il re e quanto tempo al massimo viveva un uomo persiano. Quelli allora risposero che si nutriva di pane, spiegando la natura del frumento e che 80 anni sono il massimo stabilito per la vita umana. A queste parole l’Etiope disse che non c’era affatto da meravigliarsi se mangiando letame vivevano pochi anni e che neppure avrebbero potuto raggiungere quella età se non si fossero ristorati con quella bevanda – soggiunse indicando agli Ittiofagi il vino: in quello infatti gli Etiopi erano inferiori ai Persiani. Poiché gli Ittiofagi interrogavano a loro volta il re riguardo alla vita degli Etiopi e al loro regime alimentare, questi rispose che la maggior parte di loro

Frammento di un rilievo in calcare raffigurante una spedizione nel regno di Punt, con il re e la regina che ricevono doni, dal tempio funerario di Hatshepsut a Deir el-Bahari. XVIII dinastia, 1479-1457 a.C. Il Cairo, Museo Egizio.

raggiunge i 120 anni, ma che alcuni superano anche questa età, e che si cibano di carni cotte e bevono latte. E poiché gli esploratori mostravano di meravigliarsi del numero degli anni, li guidò a una fontana, lavandosi nella quale diventavano piú nitidi, come se fosse d’olio; e da essa esala un profumo come quello delle viole. Narravano gli esploratori che l’acqua di questa fonte era cosí leggera che niente era in grado di galleggiare su di essa (...). A causa di questa acqua, se davvero è quale si dice, può darsi che siano di lunga vita, poiché la usano continuamente. Narrano poi che, allontanatisi dalla fonte, li avrebbe condotti a una prigione, dove tutti gli uomini erano legati con catene d’oro (...). Dopo aver visitato la prigione videro anche la cosiddetta mensa del Sole. Dopo di questa in ultimo visitarono le sepolture, che si dice siano fatte con una pietra trasparente in questo modo: dopo aver disseccato il cadavere (...), ricopertolo di gesso lo dipingono tutto, imitandone per quanto è possibile l’aspetto e poi gli pongono attorno una stele cava fatta di pietra trasparente (...). Per un anno i parenti piú prossimi si tengono la stele in casa, consacrandole le primizie di tutti i prodotti e offrendole sacrifici. Dopo di ciò portatala fuori di casa la pongono nelle zone di periferia. Dopo aver osservato ogni cosa gli esploratori se ne tornarono indietro». (Storie III 17-24). a r c h e o 87


SPECIALE • ETIOPIA

UN TEMPIO YEMENITA E LA LEGGENDA DELL’ARCA A circa 54 km da Axum sorge uno dei siti archeologici piú spettacolari dell’Etiopia, il complesso di Yeha, che comprende un grande tempio in stile sudarabico, una chiesa, una necropoli e un altro edificio interpretato come santuario o palazzo. La costruzione piú importante e stupefacente è certamente il grande tempio, fondato in epoca pre-axumita all’inizio del I millennio a.C. (forse intorno all’VIII secolo a.C.) da genti provenienti dallo Yemen, come testimoniano sia l’architettura e la decorazione templare sia le iscrizioni sudarabiche presenti sul sito. Il missionario portoghese Francisco Alvarez, che visitò il tempio nel 1520, lo descrisse come una grandissima e bellissima torre, notevole per la sua altezza e per la raffinatezza della tecnica muraria, tipicamente

slamico. Cosí, il pantheon sudarabico si diffuse in Etiopia e una particolare venerazione venne riservata a un’antica divina triade semitica. Come ha affermato il grande etiopista Carlo Conti Rossini (vedi box alle pp. 94-95), «la civiltà etiopica non è se non un riflesso della civiltà sudarabica».

IL REGNO DI AXUM Una volta stabilitasi in Etiopia, la comunità degli immigrati sudarabici cominciò a strutturarsi. A capo delle singole tribú od organizzazioni vi erano i nagast (plurale nagashi): il termine è participio attivo di un verbo, nagasa, che significa «esigere un tributo». In origine, dunque, i nagast erano gli esattori delle imposte del reame yemenita di Saba. Col tempo, il titolo passò a indicare semplicemente il capo di ciascun gruppo o ciascuna tribú. Quando le maglie della dipendenza da Saba si allentarono, i Sud-Arabi d’Africa divennero indipendenti e alla loro testa si pose un capo supremo cui si diede il titolo di negus, un’altra forma participiale passata al senso di «comandante»: poiché alla testa delle varie tribú permanevano i nagast, egli assunse il titolo di negusa nagast, cioè «comandante dei capi» o anche, riecheggiando il titolo dei monarchi persiani, «re dei re». La costituzione del regno, che, almeno a partire dal I secolo a.C., ebbe come capitale la città di Axum, sembra essere opera della tribú degli Habasciat, poiché la fonte piú antica che riporta il titolo del re di Axum lo chiama 88 a r c h e o

sudarabica, sottolineando come l’edificio, circondato da abitazioni costruite nello stesso stile, avesse già cominciato ad andare in rovina e riportando la tradizione locale secondo cui l’Arca dell’Alleanza, sottratta a suo padre da Menelik, il figlio della regina di Saba e di Salomone, vi sarebbe stata conservata per qualche tempo prima di essere trasportata ad Axum. Il tempio fu poi analizzato e documentato dalla Deutsche Axum Expedition del 1906: in quell’occasione si comprese che esso doveva avere probabilmente tre piani e una copertura piatta, sebbene in situ non ve ne fossero piú tracce. All’edificio si giungeva attraverso un portico monumentale di 20 m circa di lato, che nel VI secolo d.C. fu trasformato in chiesa: in quell’occasione furono aggiunti un nartece e battistero.


A sinistra: blocchi recanti iscrizioni sudarabiche. Yeha, Museo del Tempio.

appunto «re degli Habasciat». Sulla base delle conoscenze attuali, l’antico regno degli Habasciat dovette principalmente constare dell’Eritrea, degli altipiani tigrini e della vallata del Barca, fino a Tocar. In epoca romana, l’Etiopia divenne terra di floridi scambi, e Adulis, il porto di Axum, si affermò come uno degli scali commerciali piú importanti dell’Africa (vedi box a p. 93). Le informazioni piú importanti sulle campagne militari attraverso le quali il regno axumita ampliò i suoi confini fino a stabilire il suo dominio su numerosi popoli africani e a controllare per un certo periodo anche gran parte dello Yemen sono fornite dalle iscrizioni in lingua greca, etiopica e sudarabica rinvenute sia in Etiopia, sia nella Penisola Arabica oppure trasmesseci per il tramite della tradizione manoscritta. Alcune iscrizioni databili nel III secolo d.C. menzionano, per esempio, «il re dei re degli Axumiti, il grande Sembrouthes», autore di una serie di campagne militari finalizzate a sottomettere tutti i popoli vicini, portando la guerra fino ai confini egiziani, forse in collaborazione con Zenobia, la regina di Palmira, che, verso la fine del III secolo, aveva invaso l’Egitto da Oriente.

Nella pagina accanto: chiesa di Yeha, Tigrai. Un sacerdote mostra una Bibbia manoscritta illustrata. In basso: il tempio di Yeha. VIII sec. a.C.

ni perpetrati dal monarca yemenita Dhu Nuwas convertitosi al giudaismo –, nel 525 egli varcò il Mar Rosso per farne vendetta, e conquistò il Paese, imponendovi il cristianesimo. La sua diretta dominazione in Arabia fu di breve durata, perché un suo generale, Abraha, vi assunse attitudini assai autonome; tuttavia la conquista valse a collocare il regno di Axum fra i grandi potentati orientali del VI secolo; per qualche tempo, sino all’avvento dell’imperatrice Teodora al trono bizantino, il re di Axum fu considerato come il naturale tutore dei cristiani monofisiti. Il ricordo di questo episodio, che riecheggia a lungo nelle letterature cristiane di Siria e d’Egitto, è probabilmente alla base della piú

ESPANSIONE E CONQUISTE Un altro monarca etiopico famoso per le sue conquiste è il re Kaleb: prendendo a pretesto alcuni gravi episodi di intolleranza avvenuti nell’Arabia meridionale, e soprattutto a Najran – che sfociarono in massacri di cristiaa r c h e o 89


SPECIALE • ETIOPIA

tarda credenza che un giorno il re d’Etiopia sarebbe venuto a distruggere la dominazione dei musulmani, dando luogo, alla famosa «Leggenda del Prete Gianni» (nome forse derivante dall’abissino gian, che è un titolo regale). Secondo tale tradizione, in Oriente, oltre i confini dei territori noti e alle spalle dei popoli nemici, sarebbe esistito il regno di uno sconosciuto re e sacerdote cristiano da cui l’Occidente avrebbe ricevuto sostegno, prima contro l’Islam e poi contro i Mongoli. La sua esistenza sembrò confermata dall’improvvisa comparsa, nel XII secolo, di una

UN DECANO DEGLI STUDI ETIOPICI Nato a Salerno nel 1872 da genitori piemontesi, Carlo Conti Rossini entrò diciannovenne nell’amministrazione statale come impiegato, mentre studiava legge all’Università di Roma, dove si laureò nel 1894. Nella sua carriera di funzionario raggiunse posti di grande responsabilità nell’amministrazione coloniale e nel governo italiano (fu, tra l’altro, direttore generale del Tesoro dal 1917 al 1925). Se i suoi interessi per il diritto e la finanza furono soprattutto legati all’attività amministrativa, i suoi studi di lingua, cultura e storia etiopiche, sistematicamente condotti ad altissimo livello per tutta la vita, rappresentarono la sua vera passione. In questo settore, fu professore incaricato per l’insegnamento della storia e lingue d’Abissinia nell’Università di Roma dal 1920 e socio nazionale

dell’Accademia dei Lincei, istituzione di cui fu anche vicepresidente e alla quale donò per testamento la sua pregevole raccolta di monete ellenistico-romane ed etiopiche antiche, insieme alla sua biblioteca. Conti Rossini fu allievo di un altro grande orientalista, Ignazio Guidi (1844-1935), e abbracciò, con eccezionale competenza, l’intero arco dell’etiopistica: lingue; studio dei manoscritti; redazione di cataloghi; archeologia; epigrafia; geografia storica; toponomastica; numismatica; etnologia; letteratura; arte; cronologia; astrologia; diritto. Tra le sue opere piú significative va menzionata la Storia d’Etiopia, la trattazione finora piú organica e compiuta della storia civile e culturale delle genti etiopiche (il secondo volume è tuttora inedito e si trova fra le carte dello studioso). Morí a Roma nel 1949.


sorta di lettera circolare – poi rivelatasi un falso – inviata in versioni differenti dal Prete Gianni all’imperatore d’Oriente, al re di Francia, all’imperatore Federico I Barbarossa e al papa. La missiva ebbe una fortuna straordinaria e la leggenda del Prete Gianni trapassò in seguito nel mito esoterico; la ricerca del misterioso sovrano soldato si spostò poi in Africa, intrecciandosi, agli inizi dell’età moderna, a quella del Santo Graal. Secondo lo storico Rufino di Aquileia (345411), l’evangelizzazione dell’Etiopia fu avviata, ai tempi di Costantino, da due giovanetti

Sulle due pagine: i dintorni del tempio di Yeha. A sinistra: il sito dove si ergeva l’obelisco di Axum in una fotografia d’epoca. 1936.


SPECIALE • ETIOPIA

di origine sira, Frumenzio ed Edesio, naufragati nel Mar Rosso e quindi portati alla corte di Axum, dove entrarono al servizio del re etiopico (Hist. eccl. I 9-10). Frumenzio, che aveva iniziato a prendersi cura dei cristiani stranieri ivi residenti, si recò a chiedere un vescovo al patriarca d’Alessandria, il grande Atanasio (295-373), il quale consacrò lo stesso Frumenzio, chiamato poi «Abuna Salama», quale primo vescovo di Axum. Anche in seUna veduta del parco archeologico di Axum. In secondo piano, visti di profilo, a sinistra, la stele di Ezana e a destra, la stele di Axum.

guito i vescovi d’Etiopia continuarono a essere scelti e inviati dall’Egitto, confermandosi per quella Chiesa la dipendenza dal patriarcato d’Alessandria; una dipendenza che, verso la fine del V secolo o ai primi del VI, passò alla Chiesa copta, di dottrina monofisita, che cioè non riconosce in Cristo la duplicità della natura, divina e umana, definita dal Concilio di Calcedonia (451 d.C.).

MONACI MIGRATORI Mentre Edesio rientrava a Tiro, ove riferí a Rufino gli avvenimenti da lui vissuti, Frumenzio diffondeva il cristianesimo, affermatosi in Etiopia già nel IV secolo, come confermano iscrizioni e reperti archeologici e numismatici dell’epoca, risalenti al re Ezana. Fra il V e il VI secolo d.C., dalle province orientali dell’impero bizantino migrarono in Etiopia


ADULIS E LA CAPITALE DEI COMMERCI I commerci greco-romani del I secolo d.C. si riflettono nel Periplo del Mare Eritreo, un vero e proprio vademecum del commerciante dai porti egiziani fino al Mozambico e fino all’India, redatto da un greco d’Egitto verosimilmente tra il 50 e il 70 d.C. Vi si legge una descrizione di Adulis e di Axum che mette appunto in evidenza l’intensità dei commerci. Viene anche citato il nome del primo re di Axum a noi noto, che nella resa greca suona «Zoskales», della quale viene sottolineata la familiarità con la cultura ellenistica: «Al di sotto di Tolemaide delle Cacce, a una distanza di circa tremila stadi, v’è, quindi, Adulis, un porto regolamentato dalle leggi, che si estende nel punto piú interno di una baia che si inoltra verso Sud. Prima del porto, si trova la cosiddetta Isola Montagnosa, circa duecento stadi

verso il mare dalla testa della baia, che ha le rive del continente vicino a essa, su entrambi i lati. Le navi fanno rotta per questo porto, oggi per approdarvi a causa degli attacchi dalla terra (…). Adulis è un villaggio piuttosto grande da cui si raggiunge in tre giorni consecutivi di viaggio Coloe, una città dell’interno che è il primo mercato per l’avorio. Da quel luogo alla città del popolo chiamato Axumiti vi sono cinque giorni di viaggio. In quel luogo viene portato tutto l’avorio dal paese oltre il Nilo, attraverso il distretto chiamato Cyeneum, e di là fino ad Adulis (…). Questi luoghi (…) sono governati da Zoskales, che è avaro nei suoi modi e sempre alla ricerca del meglio, ma per il resto è apprezzabile e ha familiarità con la letteratura greca» (Periplus Maris Erythraei, IV-V).


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LA STELE DI AXUM Il 4 settembre 2008, con una cerimonia alla quale le autorità etiopiche hanno conferito un’alta valenza simbolica e politica, la stele di Axum è stata riposizionata nel sito dove una spedizione archeologica italiana la rinvenne nel 1935, insieme con altri esemplari simili, tuttora presenti nell’area dell’antica capitale del regno axumita. Gli «obelischi» oggi presenti nel parco archeologico di Axum, dove nell’antichità sorgeva la grande necropoli reale della città, avevano la funzione di segnacoli funerari. Al momento del ritrovamento la stele era spezzata in cinque tronconi seminterrati. Trasportata a Roma nel 1937 per decisione del Governo italiano, fu quindi ricomposta e collocata nei pressi del Circo Massimo, di fronte all’allora Ministero delle Colonie (oggi sede della FAO). La restituzione della stele all’Etiopia – inserita tra gli obblighi assunti dall’Italia con il Trattato di Pace del 1947 e ribadita nell’Accordo tra Roma e Addis Abeba del 5 marzo 1956 per il «regolamento delle questioni economiche e finanziarie derivanti dal Trattato di Pace» – rimase a lungo sospesa per vari motivi, tra cui il rischio di provocare danni all’integrità del monumento e gli elevati costi che l’Italia avrebbe dovuto

comunque sostenere. L’attuale dirigenza etiopica, salita al potere nel 1991, ha riproposto con forza il tema della restituzione dell’obelisco, ottenendo la promessa formale della restituzione dall’allora presidente Scalfaro, in visita di Stato in Etiopia nel 1997. Il Consiglio dei Ministri del 19 luglio 2002 ha quindi deciso di avviare le procedure per la restituzione dell’«obelisco» di Axum. Nel novembre 2004 fu firmato un Memorandum bilaterale, con l’Etiopia in cui si stabilivano le modalità con cui effettuare le operazioni di smantellamento, trasporto e rierezione dell’«obelisco». Mentre per le prime due fu previsto un impegno esclusivamente a carico dell’Italia, per la conservazione del monumento in Etiopia e la sua anastilosi si stabilivano la responsabilità del Governo etiope e il coinvolgimento dell’UNESCO. L’International Centre for the Study of the Preservation and Restoration of Cultural Property (ICCROM) e l’italiano «Studio Croci e Associati» hanno effettuato lo studio tecnico di fattibilità sulla base del quale la stele è stata divisa in tre sezioni prima del suo trasporto in Etiopia. La segmentazione e il trasferimento sono stati eseguiti dall’impresa di costruzioni Lattanzi Srl e A sinistra: un’immagine della stele di Axum, con le strutture di sostegno che ne assicurano la stabilità.

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interamente pagati dall’Italia. La terza e ultima sezione dell’obelisco è arrivata in Etiopia nell’aprile 2005. Il Governo italiano e quello etiope hanno quindi affidato all’UNESCO il coordinamento delle operazioni di ricostruzione e riposizionamento dell’obelisco. Le stesse ditte che avevano svolto i lavori di smantellamento e trasporto si sono aggiudicate il contratto per lo studio di fattibilità e i lavori di questa seconda fase dell’operazione. I lavori di riposizionamento, cominciati nel 2007, sono terminati nel 2008. I costi sono stati coperti interamente dal Governo italiano attraverso un contributo complessivo all’UNESCO di oltre 5 milioni di dollari. Attualmente, l’Istituto Italiano per la Conservazione e il Restauro ha concluso il restauro completo e l’anastilosi della stele, che oggi i visitatori possono ammirare nello splendido parco archeologico di Axum.

In alto: una veduta panoramica del parco archeologico di Axum, in cui sono visibili le numerose stele.

gruppi di monaci che promossero la versione della Bibbia nella lingua locale, il ghe‘ez, e vi consolidarono la diffusione del cristianesimo, divenuto religione di Stato, come anche dimostra la famosa spedizione condotta dal re Kaleb in Arabia meridionale (518 o 523).

SPIRITUALITÀ ETIOPICA La vita dei cristiani d’Etiopia è caratterizzata da celebrazioni liturgiche, feste, digiuni e dalla partecipazione alle funzioni religiose. Diffusissima è la raffigurazione della croce, sia tra i laici – soprattutto fra le donne, che la portano al collo, tatuata sulla fronte e ricamata nell’abbigliamento –, sia tra gli ecclesiastici, che la recano sempre in mano, per benedire e porgerla al bacio dei fedeli che incontrano. Il culto dei santi occupa un posto rilevante nella vita religiosa: secondo la dottrina della Chiesa, la santità è difatti compiuta da Dio nell’uomo mediante la grazia per ottenerne la salvezza eterna. «Santo» (qeddus, cioè «cona r c h e o 95


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(morto nel 1313), fondatore del monastero di Dabra Libanos di Scioa, che perse una gamba, logorata dalla sua abitudine di sostenersi solamente su di essa durante i prolungatissimi tempi di orazione. Sono molto praticati i pellegrinaggi ai piú celebri santuari, quali la cattedrale di Sion (Maria Vergine) ad Axum, e le chiese scavate nella roccia di Lalibela, città che intende riprodurre gli edifici e la topografia sacra di Gerusalemme. 96 a r c h e o

La cultura e l’arte sacra si ispirano al mondo sudarabico e a quello ellenistico, che insieme a caratteristiche locali hanno dato luogo a esiti formali specifici, soprattutto con la propagazione del cristianesimo. Le chiese piú antiche d’Etiopia si trovano lungo l’itinerario che da Adulis conduce sull’altipiano, attraversando Cohaito, Toconda, Yeha, fino alla città santa di Axum. S’incontrano in questo tragitto chiese rettangolari, di pietra, con l’abside


sacrato, riservato, sacro») è propriamente solo Dio, che comunica la sua santità all’uomo, già creato a immagine e somiglianza del suo Creatore. Lo spirito e la carne, l’anima e il corpo, sono sempre in lotta tra loro nell’essere umano, composto da due elementi naturali, fuoco e vento, che salgono in alto, mentre altri due elementi, acqua e terra, scendono in basso. L’anima spirituale e immortale è prigioniera del corpo materiale e mortale, sempre incline al male, con cui essa deve combattere per sottoporlo al volere dello spirito, tendente al bene. Per raggiun-

Nella pagina accanto: un’immagine dell’ingresso della tomba del re Kaleb. VI sec. d.C. In basso: stele con iscrizione risalente al regno di re Ezana. IV sec. d.C.

gere la santità, occorre dunque indebolire e domare il corpo, che è di ostacolo e impedimento alla santificazione. Per questo la «vita» o biografia dei santi, in etiopico è chiamata gadl, che significa propriamente «combattimento, tenzone, lotta, agone». Nella Chiesa etiopica si venerano i santi commemorati nel Sinassario (la collezione di agiografie della Chiesa cristiana d’Oriente, n.d.r.), in gran parte derivato da quello copto in uso presso la Chiesa alessandrina, che fu tradotto in etiopico nel XIV-XV secolo.Tra i piú celebri ricordiamo Takla Haymanot

LINGUA E LETTERATURA La lingua scritta, il ghe‘ez, è già documentata in epigrafi del II-III secolo d.C., e, dopo l’introduzione del cristianesimo, doveva arricchirsi dei testi delle Sacre Scritture – comprendenti anche i libri di Enoc e dei Giubilei – tradotti localmente dal greco. Ben presto fecero il loro ingresso in Etiopia anche scritti patristici concernenti i misteri della

Trinità e dell’Incarnazione, come il Qerillos, con opere di san Cirillo alessandrino; le regole monastiche di san Pacomio; le vite di san Paolo eremita e di sant’Antonio abate; le omelie di san Giovanni Crisostomo. Con la presa del potere da parte della dinastia salomonide nel 1270, la produzione letteraria si intensifica, in particolare grazie

all’apporto di opere tradotte dall’arabo, come per esempio l’Insegnamento degli Apostoli e Giuseppe o Storia dei Giudei. Tra le composizioni originali va menzionato il Kebra nagast (Gloria dei re), nel quale viene narrata la storia della visita della regina di Saba a Salomone e del loro figlio Menelik (vedi box a p. 99).

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UN ALTARE PER IL DIO DELLA LUNA

Risale al 2007 la scoperta di un’importante area sacra di età sabea nella località di Meqaber Ga’ewa, presso la cittadina di Wuqro (Ugorò), nel Tigrai (Etiopia settentrionale). Negli anni successivi, le esplorazioni condotte nel sito da una missione congiunta dell’Autorità per il turismo e la

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Dall’alto, in senso orario: il Museo archeologico di Wuqro; il santuario di Almaqah in corso di scavo; la statua votiva femminile rinvenuta nel corso dello scavo del santuario e oggi esposta nel Museo.

cultura dell’Etiopia, dell’Istituto Archeologico tedesco e dell’Università di Jena hanno portato alla luce le vestigia di un santuario risalente all’VIII-VI secolo a.C., dedicato alla principale divinità sabea, il dio della luna Almaqah (vedi «Archeo» n. 287, gennaio 2009). Si tratta di uno dei piú antichi monumenti archeologici dell’Etiopia a oggi noti, la cui indagine permette di approfondire le conoscenze intorno alla storia della colonizzazione dell’altipiano etiopico da parte delle genti sabee e del rapporto di queste ultime con l’antica popolazione autoctona. Tra i reperti emersi dagli scavi (altari votivi, una statua femminile) figura un grande altare scolpito in pietra calcarea, perfettamente conservato, composto da un bacino sacrificale

munito di gocciolatoio a forma di testa di toro e accompagnato da una lunga canaletta che serviva a far defluire il sangue delle vittime sacrificali. Oggi i preziosi reperti sono esposti al pubblico nel nuovo Museo archeologico di Wuqro, solennemente inaugurato nell’ottobre dello scorso anno. Andreas M. Steiner


LA LEGGENDARIA REGINA DI SABA Il Kebra Nagast (in etiopico «Gloria dei re») è uno dei testi piú famosi della letteratura etiopica. Ha per argomento la visita compiuta dalla regina di Saba al re Salomone e l’ascesa al trono dell’Etiopia di Menelik, figlio di quei due sovrani e primo negus della dinastia dei Salomonidi sino a oggi regnante. Il libro, che gode tuttora di grande fortuna in Etiopia, è stato compilato da un tale Yeshaq, un notabile di Axum, durante il regno del negus della dinastia salomonide Amda Syon I, tra il 1314 e il 1322. Il Kebra Nagast, che non è un’opera originale, ma piuttosto un adattamento di racconti piú antichi, diede alla leggenda della regina di Saba la definitiva forma letteraria etiopica. Ne riportiamo qui di seguito alcuni brani. «La Regina del Sud sorgerà nel Giorno del Giudizio e condannerà e sconfiggerà questa generazione che non ha ascoltato la predica delle Mie parole: perché ella venne sin dai confini della terra, solo per ascoltare la saggezza di Salomone» (KN 21). «A coloro cui Salomone doveva dare ordini, parlava con umiltà e grazia, e quando questi sbagliavano, li ammoniva gentilmente. Poiché aveva costruito la propria casa nella saggezza e nel timore di Dio, sorrideva graziosamente agli stolti e li metteva sulla retta via, e trattava con gentilezza anche le serve. Apriva la sua bocca esprimendosi in parabole, e le sue parole erano piú dolci del miele piú puro; tutto il suo comportamento era ammirevole, tutto il suo aspetto piacevole. Poiché la saggezza è amata dagli uomini di comprensione, mentre è respinta dagli stolti» (KN 22). «[Salomone] continuò a parlare con la Regina, dicendo: “A che serviamo noi, prole degli uomini, se non esercitiamo la carità e l’amore sulla terra?”» (KN 27). In alto: i resti del «palazzo della regina di Saba». Si conservano scalinate, fondamenta, colonne, bagni e un forno. VI-VIII sec. d.C.

«La Regina rispose con un altro messaggio: “Da essere una sciocca, sono divenuta saggia solo seguendo la tua sapienza, e da essere qualcosa di rifiutato dal Dio d’Israele, sono divenuta una donna eletta a causa della fede che risiede nel mio cuore; d’ora in avanti non venererò nessun altro Dio all’infuori di Lui”. Salomone dunque la prese da parte, cosicché potessero essere da soli, si tolse l’anello che era nel suo mignolo, e lo diede alla Regina, dicendole “Prendi [questo] cosí non ti dimenticherai di me. E se il mio seme fiorirà in te, questo anello sarà un segno per lui; se sarà un ragazzo dovrà venire da me, e la pace di Dio sia con te!”» (KN 29).

quadrata e il resto dell’edificio costituito da tre navate con due ordini di colonne. Nel tardo Medioevo le chiese mutano la loro struttura, segnatamente nelle navate che sono divise da pilastri sostenenti arcate. Sotto il dominio della dinastia Zagwé, succeduta al regno di Axum dall’XI o XII secolo fino all’avvento dei re salomonidi (1270), vennero scavate nella roccia molte chiese, alcune delle quali hanno struttura di tipo

axumita semplice, come quelle di Libanos e di Maria a Lalibela, mentre altre sono a cinque navate, come Bet Madhane, Alam, sempre a Lalibela (che ripete l’impianto costantiniano della piú antica cattedrale di Axum), oppure ricche di arcate e munite di matronei, anche non praticabili. Nella cripta della chiesa del Golgota a Lalibela, forse databile al XIII secolo, sono scolpiti due santi in ri(segue a p. 102) a r c h e o 99


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COME IL POPOLO ELETTO La peculiarità piú evidente del cristianesimo etiopico è costituita dalla certezza degli Etiopi d’appartenere al popolo eletto, non solo per la fede in Cristo, ma anche per i comuni vincoli di sangue con la casa di Davide, e dunque anche con il Messia, attraverso Menelik I, figlio di Salomone e della regina di Saba (vedi box a p. 99). Notevoli e persistenti, molto piú che in tutte le altre cristianità, sono in Etiopia gli usi e costumi religiosi direttamente derivati da quelli israelitici: cosí la struttura delle chiese, ispirata al tempio ebraico, le modalità del servizio liturgico prestato dagli ecclesiastici, la pratica della circoncisione, le prescrizioni su cibi e impurità e il culto degli antichi patriarchi e profeti. Anche il mito della presenza in Etiopia dell’Arca dell’Alleanza è un frutto di tale stretta connessione con il mondo ebraico. La Chiesa etiopica si denomina «Chiesa Ortodossa Tawahedo d’Etiopia»: Tawahedo (termine che indica

unità, unione, unicità, unificazione) allude all’«unione» in Cristo delle nature umane e divina, che perdono cosí la loro distinzione. Incarnandosi, il Verbo forma una sola persona e una sola natura divino-umana, senza modificazione, né mescolanza. La Chiesa etiopica, inoltre, non si definisce «monofisita», ma «non-calcedoniana», perché accoglie solo i primi tre concili ecumenici, mentre non accetta quello di Calcedonia e i successivi.


A sinistra e sulle due pagine: due immagini della chiesa di Biete Giyorgis, incassata nel pozzo entro il quale è edificata, profondo 13 m.

pianta dell’area archeologica di lalibela: 1. chiese del primo gruppo; 2. chiese del secondo gruppo; 3. Biete Giyorgis; 4. torrente Giordano; 5. punto di raccordo tra il Giordano e il collettore di acqua piovana; 6. strade di uso.

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lievo, sulle pareti, e simboli dei quattro Viventi (identificati con gli Evangelisti), ai lati di un magnifico altare in pietra. A questa straordinaria fioritura di grandiosi edifici sacri succede un periodo di decadenza, in cui le chiese assumono forme nuove, tra le quali prevale sempre piú quella rotonda: sono decorate di pitture, raffiguranti episodi tratti dalla Bibbia, miracoli di Gesú e di Maria, santi guerrieri (soprattutto san Giorgio, onnipresente), gli angeli, tra i quali primeggiano Michele e Gabriele. In alcune chiese, come a 102 a r c h e o

Dabra Damo o in Asmara, vi sono anche pannelli di legno intagliati, con motivi decorativi o figurazioni di uomini o animali. Il genere artistico piú diffuso, che si può ammirare anche in alcune biblioteche al di fuori dell’Etiopia, è costituito dalle miniature, eseguite su numerosi manoscritti in pergamena. Ispirate a correnti egizie e siro-palestinesi, alle quali si aggiunsero col tempo influenze occidentali, esse illustrano il contenuto degli stessi libri: bibbie complete o parziali, Miracoli di Maria, vite di santi, testi liturgici e devo-

In alto: una processione durante la festa del Meskel, che onora il ritrovamento della vera Croce da parte di sant’Elena.


A destra: un momento di una celebrazione religiosa, presso una delle chiese scavate nella roccia nella regione di Lalibela.

zionali. In tale contesto vanno menzionate anche le raffigurazioni che decorano il genere di manoscritti etiopici piú diffuso e popolare: i rotoli magici o protettori (asmat).

DALLA CRISI ALLA RINASCITA Il regno di Axum prosperò fino al VII secolo, quando l’insediamento del potere islamico al limitare delle soglie d’Etiopia e in Egitto (un potere con il quale, inizialmente gli Etiopi intrattennero anche rapporti pacifici) ne segnò il grande tracollo, che fu accelerato dalle

invasioni di genti nomadi denominate «Begia». In seguito alle loro razzie, la popolazione fu costretta a trasferirsi piú all’interno nella regione montuosa, e il regno axumita si dissolse definitivamente intorno al 950 d.C. Le cronache etiopiche riferiscono che una regina di ceppo giudaico di nome Gudit o Yodit (che significa «Giuditta» ma anche «Demone») avrebbe distrutto il regno e bruciato tutte le chiese e le Sacre Scritture; ma se le invasioni straniere e anche i roghi dei luoghi di culto sono fatti storicamente attestati, l’ea r c h e o 103


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sistenza di questa terribile sovrana sembra appartenere alla leggenda. In Etiopia l’ordine si ristabilí solo con il sorgere della dinastia Zagwé che regnò tra il XII e il XIII secolo. Sotto gli Zagwé venne costruito lo splendido complesso rupestre di Lalibela, che prende il nome da uno dei sovrani piú importanti della dinastia, Gabra Masqal Lalibela (1181-1221 circa). Nel 1270, il principe di etnia amharica Yekuno Amlak rovesciò gli Zagwé fondando la dinastia dei Salomonidi, che rimase fino al 1974 la casa reale tradizionale dell’Etiopia. La tesi della discendenza dei sovrani d’Etiopia da Salomone e dalla regina di Saba si affermò a sostegno e sanzione della presa del potere da parte di Yekuno Amlak, il quale si proclamava restauratore di una legittimità dinastica che si rifaceva all’antico regno di Axum e alle origini dello Stato etiopico. Le successioni al trono imperiale fra il XIII e il XX secolo fecero sempre riferimento, piú o meno dimostrabile, alla linea di discendenza 104 a r c h e o

L’ingresso della chiesa di Biete Maryam con la folla di pellegrini accorsi per le celebrazioni del Natale ortodosso etiope.

avviata da Yekuno Amlak. In realtà, con la dinastia salomonide inizia per il Paese una storia totalmente nuova, tuttavia saldamente ancorata alla tradizione. E questa idea di innovazione nel tradizionalismo è ancora oggi uno degli elementi piú caratteristici della cultura etiopica. DA LEGGERE Carlo Conti Rossini, Storia d’Etiopia, Istituto d’Arti Grafiche, Bergamo 1928 Ignazio Guidi, Storia della letteratura etiopica, Istituto per l’Oriente, Roma 1932 Osvaldo Raineri, La Spiritualità etiopica, Edizioni Studium, Roma 1996 Gian Paolo Chiari, A Comprehensive Guide to Axum and Yeha, Arada Books, Addis Ababa 2009 Milena Batistoni, Guida di Lalibela, Arada Books, Addis Ababa 2008 Jacqueline Pirenne, La leggenda del Prete Gianni, Marietti, Genova 2000



QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

…PRESIDIAVA LA SIRIA CON LE SUE LEGIONI FIN DALL’ETÀ REPUBBLICANA, IL VICINO ORIENTE FU UNO DEI FRONTI «CALDI» DEL MEDITERRANEO. E ROMA DOVETTE INTERVENIRE A PIÚ RIPRESE PER GARANTIRE LA SICUREZZA E LA STABILITÀ DELLE TERRE CHE AVEVA CONQUISTATO. UN IMPEGNO CHE SI MANTENNE COSTANTE AL TEMPO DELL’IMPERO, COINVOLGENDO NUMEROSI CONTINGENTI DELL’ESERCITO

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vendo risolto a suo favore, con la vittoria riportata su Annibale a Zama nel 202 a.C., il lungo «duello» con Cartagine, e divenuta pertanto una «grande potenza» mediterranea, Roma finí con l’essere inevitabilmente coinvolta nelle vicende che, nel II secolo a.C., resero praticolarmente «irrequieto» il Vicino Oriente. A dominarne la situazione era la politica espansionistica del regno di Siria, nato, alla fine del III secolo, dalla disgregazione dell’impero di Alessandro Magno ed esteso dall’Asia Minore alla Palestina, in Mesopotamia e fino ai confini con la Persia. Le mire siriache sulla Grecia – entrata nella sfera d’influenza romana dopo la guerra vittoriosa condotta da Flaminino contro Filippo V di Macedonia –, portarono ineluttabilmente a un «incontro» che, dopo alcuni

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tentativi di intesa (come avvenne, per esempio, in occasione dei Giochi Istmici di Corinto, nel 196) e un iniziale precario equilibrio – di fatto, piuttosto «guerra fredda» –, non poté che trasformarsi in uno scontro. Tanto piú che, di fronte alla minaccia espansionistica della Siria – che con il re Antioco III il Grande aveva occupato l’Armenia, la Partia e la Battriana –, s’erano rivolte a Roma per chiedere aiuto la città di Smirne, il piccolo regno di Pergamo

A destra: una veduta di Bosra (Siria). Importante centro del regno nabateo, la città fu ampliata da Traiano (106), che la chiamò Nova Traiana Bostra, divenendo capitale della provincia d’Arabia. In basso: cammeo con i profili dell’imperatore Settimio Severo e di Giulia Domna (a sinistra) e dei loro figli Caracalla e Geta. Fine del II-inizi del III sec. d.C. Parigi, Cabinet des Medailles. e la repubblica marinara di Rodi. La guerra scoppiò quando Antioco, sollecitato dagli Etoli – i quali, a loro volta, mal sopportavano le ingerenze di Roma –, sbarcò col suo esercito in Grecia. Battuto dai Romani alle Termopili, nel 191, e costretto a ritirarsi in Asia Minore, fu lí definitivamente sconfitto, nel 190, da Lucio Scipione (detto poi Asiatico), fratello dell’Africano,


Dida digendis poreic tem iust et qui dus eicat pratia dita que omnis nem videlessent aut ut volorat emporit iostia quiasintiur alitatem denimol orepero enihici dellat eicatur? Modi beribus aperior possimos reiciUcil et autectempos sunt illitas

nella battaglia campale combattuta presso Magnesia al Sipilo. Nel 188 fu costretto ad accettare, con la pace, un vistoso ridimensionamento di territori e di potenza. Tuttavia, i rapporti rimasero a lungo conflittuali, anche per la sopraggiunta alleanza tra Roma e i Tolomei, sovrani dell’Egitto, tradizionali rivali e nemici dei Seleucidi che sedevano sul trono siriano. Tutto si concluse con la conquista romana della Siria a seguito delle guerre asiatiche condotte da Lucullo, Silla e infine da Pompeo, e con la trasformazione, nel 62 a.C., dell’antico regno ellenistico in una

provincia romana. Il suo territorio – soggetto, nel corso dei secoli, a variazioni e aggiornamenti – abbracciava un’area che dalla catena del Tauro e dall’Amano, a nord, andava al deserto d’Arabia, a sud e dalle rive del Mediterraneo, a ovest, a quelle dell’Eufrate, a est.

UN INCARICO AMBITO Trovandosi, quindi, all’estremo limite orientale dell’impero, a ridosso del regno dei Parti, ebbe sempre una rilevante importanza strategica, tanto che il suo governatore – un Legatus Augusti propretore nominato dall’imperatore e da lui

direttamente dipendente – rappresentava uno dei traguardi piú ambiti, se non il piú ambito, del cursus honorum, ossia della carriera senatoria. Ma si trattò d’una provincia notevolmente importante anche dal punto di vista economico e culturale. Ebbe, infatti, rilevanti attività industriali (come quelle della porpora e del vetro) e traffici intensi che dall’Oriente (India e Cina), per le città carovaniere, raggiungevano i terminali dei porti mediterranei. Quanto alla vita culturale, ricca e intensa, favorita dal fecondo incontro di influenze greche, romane e semitiche,

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basterebbe ricordare il grande architetto di Traiano, Apollodoro di Damasco, e scrittori, giuristi, pensatori come Luciano, Libanio e Ammiano Marcellino, Papiniano, Ulpiano e Porfirio, Giovanni Crisostomo e lo stesso san Paolo (convertito «sulla via di Damasco»), presente ad Antiochia, dove i seguaci della nuova religione furono per la prima volta chiamati «cristiani».

CONDIZIONI PRIVILEGIATE A partire dall’età augustea, nella provincia era stanziato il cosiddetto exercitus syriacus, costituito da quattro e anche cinque legioni e completato da una flotta (la classis

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Qui sopra: frammento di mattone sul quale è impresso il bollo della legione X Fretensis. Gerusalemme, Studium Biblicum Franciscanum.

syriaca) di base a Seleucia, porto della capitale Antiochia. Le legioni furono la III Gallica, la III Cyrenaica, la IV Scythica, la VI Ferrata e la X Fretensis. La loro situazione era del tutto particolare e, per certi versi, privilegiata. Esse, infatti, non erano acquartierate (come, per esempio, quelle del Reno o del Danubio) in castra fortificati, isolati lungo il confine, bensí in centri urbani o nelle loro immediate vicinanze, sulle grandi vie di comunicazione: a Cyrrus, Raphaneae, Bostra, Capacotna. Ciò che rese il servizio militare dei legionari, reclutati per lo piú in loco o nelle altre province orientali, meno pesante che altrove. Anche


A sinistra: Masada (Israele), la cittadella che, nel 72 d.C., dopo una strenua resistenza fu espugnata dalle truppe romane di cui faceva parte la legione X Fretensis. In basso: elmo romano in bronzo, dalla Giudea. Gerusalemme, Israel Museum.

perché, all’immediato contatto con ogni forma di vita cittadina e al suo «godimento» (almeno nel tempo libero), s’aggiungevano per essi il clima piacevole, la possibilità di arrotondare lo stipendium con piccoli affari, la relativa «leggerezza» del compito loro assegnato, che, di norma, era quello di mantenere la pace interna (e di svolgere lavori di pubblica utilità) piuttosto che di difendere la provincia da non troppo frequenti pericoli esterni. Non mancarono, tuttavia, impegni piú gravosi. Come quando, tutte intere e con distaccamenti, vennero coinvolte nelle varie guerre contro i Parti, in Mesopotamia (con Domizio

Corbulone, sotto Nerone; con Traiano, quando furono conquistate Ninive e Babilonia; con Marco Aurelio e con Settimio Severo) e nella repressione delle rivolte giudaiche (con Vespasiano e Tito, con Traiano e con Adriano che, avendo annesso alla Siria quella che per la prima volta fu chiamata «ufficialmente» Palestina, insediò la X Fretensis a Gerusalemme, «ribattezzata» Aelia Capitolina). Quanto a «missioni» particolari, tra le tante – in tanti secoli – se ne

possono ricordare solo alcune. Almeno una in Africa settentrionale. Quando un distaccamento della VI Ferrata fu inviato da Antonino Pio a reprimere una sommossa, nel 145, in Numidia (l’odierna Algeria), dove, dopo aver riportato l’ordine, aprí la strada che, tagliata nella roccia, dai monti dell’Aurès scendeva – e tuttora scende – fino al deserto.

Un’altra volta si trattò dei Balcani, quando un distaccamento della X Fretensis combatté, con Marco Aurelio, sul confine del Danubio. La stessa VI Ferrata, aveva partecipato, con Traiano, nel 105, alla sottomissione del regno dei Nabatei in Cisgiordania, dove tornò, nel 273, la III Gallica, con Aureliano, per la riconquista di Palmira contro la regina Zenobia.

LOTTE INTESTINE Ci sono poi da ricordare due episodi di partecipazione diretta a eventi concernenti il vertice stesso dell’impero. Nel 69 d.C., dopo la morte di Nerone, la III Gallica e la VI Ferrata, agli ordini del governatore Gaio Licinio Muciano, appoggiarono vittoriosamente Vespasiano contro Vitellio. Ma quando, nel 193, con altre legioni stanziate in Oriente, acclamarono imperatore il governatore Pescennio Nigro, furono sconfitte da Settimio Severo. Il quale, avendo sposato Giulia Domna (appartenente a una famiglia principesca di Emesa, l’odierna Homs) aprí la strada a una «dinastia siriana» che, dal 211 al 235, portò al trono di Roma – oltre a Caracalla – Elagabalo e Severo Alessandro, figli di due cugine dello stesso Caracalla, Giulia Soemiade e Giulia Mamea, a loro volta figlie della sorella di Giulia Domna, Giulia Mesa. Tutte donne che, avendo di fatto governato – non senza una certa «disinvoltura» – al posto dei loro giovanissimi rampolli, hanno fatto parlare di un «impero delle Siriane». Nel momento culminante di un costante afflusso a Roma di «immigrati» che dalle rive dell’Oronte di Siria si trasferivano a quelle del Tevere (per dirla con Giovenale).

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

L’IMPERATORE SCORPIONE TIBERIO TENEVA IN GRANDE CONSIDERAZIONE LE «PRESCRIZIONI» DEL SUO SEGNO ZODIACALE, AFFIDANDOSI A UN ASTROLOGO D’ORIGINE EGIZIANA

A

ppassionato studioso di astronomia (che nel mondo antico convergeva con l’astrologia), Tiberio, ancor prima di divenire imperatore (nel 14 d.C., succedendo ad Augusto), si circondò di uomini di fiducia, tra i quali Trasillo. Egiziano di lingua greca, erudito, filosofo neopitagorico e neoplatonico, astronomo-astrologo, questi è stato consegnato alla storia da Cassio Dione, Tacito, Svetonio, che ne parlano appunto a proposito del suo eminente ruolo alla corte di Tiberio. Ecco, per esempio, quanto scrive Tacito: «Trasillo fu condotto [al cospetto di Tiberio a Rodi]; dopo aver impressionato il suo interlocutore con delle rivelazioni sul suo futuro da imperatore, gli venne chiesto se avesse fatto anche il proprio oroscopo, quale fosse la caratteristica di quell’anno e la previsione del giorno. E alla fine Trasillo esclamò timoroso che incombeva proprio su lui stesso un pericolo che poteva essergli fatale. Allora fu subito abbracciato da Tiberio il quale, congratulandosi per quello che aveva predetto, gli disse di non temere perché stava per scampare al pericolo, accettò come verità oracolare le predizioni che egli aveva fatto e lo considerò fra i suoi amici piú intimi» (Annali, VI, 20-21). La vicenda di Trasillo e della sua famiglia risulta molto interessante e il suo successo

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Statua in marmo dell’imperatore Tiberio, dagli scavi del teatro romano di Vasio (oggi Vaison-la-Romaine, Francia). I sec. d.C. Vaison-la-Romaine, Musée archéologique «Théo Desplans». offre un importante spaccato sociale, che permette di cogliere il ruolo di questi seri professionisti della consultazione divinatoria nell’ambito della corte imperiale.

DI PADRE IN FIGLIO Lo strettissimo legame con Tiberio si evince già dal nome che volle adottare – Tiberio Claudio Trasillo –, scelto perché dal principe aveva ricevuto la cittadinanza romana insieme alla moglie Aka II di Commagene, probabilmente una principessa di stirpe reale. Il figlio, Balbillo, anch'egli astrologo e di raffinata erudizione, intraprese una fortunata carriera politica, che lo condusse sino alla nomina a prefetto d’Egitto sotto Nerone e, senza trascurare l’originaria propensione per la cultura, rivestí anche un importante incarico direttivo presso il Museo e la Biblioteca di Alessandria; sotto Vespasiano furono istituiti a Efeso in suo nome giochi ginnici e agoni musicali. La figlia di Trasillo, Ennia Nevia, sposò il futuro prefetto del pretorio Macrone, che liquidò Seiano su ordine di Tiberio. Dunque una famiglia che seppe giungere e mantenersi, attraverso


A sinistra: moneta in bronzo di Antioco IV Epifane. Siria, regno di Commagene, 38-72 d.C. Al dritto, testa con diadema del re; al rovescio, lo scorpione, segno zodiacale della nazione, entro corona d’alloro.

l’astrologia, ai livelli piú alti della classe dominante romana. Tiberio era nato il 16 novembre del 42 a.C., dunque sotto il segno dello Scorpione. Il temibile aracnide divenne un simbolo imperiale ed emblema della guardia pretoriana, addetta alla protezione dell’imperatore. Quest’ultima venne istituita da Augusto e definitivamente ratificata da Tiberio, il quale, nel 20-23 d.C., la dislocò nei Castra Pretoria, l’accampamento allestito nella zona nord-est di Roma, poi inglobato nelle Mura Aureliane. Ogni corpo militare aveva un proprio vessillo e questo gruppo d’élite scelse appunto come immagine il segno zodiacale di Tiberio, lo Scorpione, che si prestava, nello stesso tempo, a omaggiare il sovrano, a porre sotto una buona stella la guardia e a rappresentare la pericolosità di Roma per i suoi nemici.

NELLE MANI DELL’AFRICA La bestiola ricorre piú volte anche nella monetazione antica e venne sempre scelto per le sue proprietà venefiche e l’aspetto orridamente affascinante. Lo si ritrova, per esempio, sulle emissioni in elettro battute nel VI secolo a.C. nella Ionia, talvolta accompagnato sull’altro lato da una testa di leone; nella monetazione di Adriano, invece, lo si vede tenuto in mano dalla

In basso: moneta in bronzo (o tessera) probabilmente battuta a Cipro. Età augustea o tiberiana. Al dritto, il Capricorno, e, al rovescio, lo Scorpione, entrambi sormontati da una stella. Si tratta, verosimilmente, dei segni zodiacali rispettivamente di Augusto e Tiberio, mentre la stella potrebbe alludere al sidus Iulium.

personificazione dell’Africa. Al tempo di Antioco IV, principe di Commagene – Stato cliente di Roma – e cresciuto nell’Urbe sotto la protezione di Antonia Minore, sul rovescio di nominali in argento e bronzo ricorrono il Capricorno, segno zodiacale di Augusto, o lo Scorpione, simbolo astrale della Commagene, dato che anche le nazioni avevano una propria costellazione di nascita, come annota nel II secolo d.C. Claudio Tolomeo nel suo Tetrabiblos.

SOTTO LA BUONA STELLA Vi è poi un’altra interessante serie proveniente da Cipro, che gli studi definiscono monetale (una frazione in bronzo?), ma da interpretarsi meglio come un gruppo di tessere, poiché ne sono stati ritrovati esemplari anche in piombo: su un lato campeggia il Capricorno e sull’altro lo Scorpione, entrambi accompagnati da una stella. Questa tipologia si riferisce senz’altro ad Augusto per il Capricorno, mentre lo Scorpione è stato al massimo ricollegato alla Commagene. Sembra invece verosimile vedervi il segno zodiacale di Tiberio e assegnare quindi l’emissione o all’indomani della sua adozione (4 d.C.) o all’inizio del suo principato (dal 14 d.C.), per celebrare la continuità del regno dello «Scorpione» con quello del «Capricorno», entrambi posti sotto la buona stella del sidus Iulium, l’astro che segnò la divinizzazione di Giulio Cesare. (3 – continua)

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Cyprian Broodbank

IL MEDITERRANEO Dalla preistoria alla nascita del mondo classico

Grandi Opere, Einaudi, Torino, 672 pp., ill. b/n e col. 95,00 euro ISBN 9788806225629 www.einaudi.it

Per Herman Sörgel (1885-1952), architetto e filosofo tedesco, aderente al celebre movimento Bauhaus, lo spazio era una cosa molto seria. E che ai pensatori europei degli anni Trenta del Novecento non facesse difetto l’audacia emerge da uno dei suoi progetti piú immaginifici: lo sbarramento dello stretto di Gibilterra, al fine di prosciugare il Mediterraneo e creare un nuovo, unico continente che si sarebbe chiamato «Atlantropa», usando l’immensa diga tra Mediterraneo e Atlantico per generare enormi quantità di energia idroelettrica. Un sogno irresponsabile e futurista, ritenuto sovversivo dai nazisti, che, nel 1942, ne impedirono la divulgazione, forse risibile; oggi certamente sbiadito dalla realtà di inarrestabili migrazioni. Dalla preistoria piú remota, infatti, il nostro mare non separa, ma cuce insieme popolazioni, problemi, conflitti, idee e tecnologie. È lo spazio immenso di un formicolante transito tra 112 a r c h e o

Medio Oriente, Africa ed Europa, e un vero cuore pulsante del Sud, forse l’unico spazio mentale capace di unificare un’Europa che, a Nord, si dirama in temi culturali arcaici e ancora spesso incompatibili. Fa piacere scrivere, senza esitazioni, che un libro di archeologia è bellissimo: lo è per la scrittura, meditata e scorrevole, per il taglio finalmente olistico del discorso, che travalica le ritrite chiuse delle specializzazioni accademiche, come nella scelta delle abbondanti illustrazioni – aggiornate alle scoperte piú recenti – e per l’accuratezza della stampa. È un libro di sostanza, che richiede calma e attenzione, ma ripagherà il lettore con un patrimonio di riflessioni spesso inedite e sempre rilevanti. Cyprian Broodbank ci accompagna lungo 46 000 km di coste, uno spazio lineare superiore a quello della circonferenza terrestre. Sull’onda di affascinanti

sincronie accertate da nuove datazioni al radiocarbonio, si parla della piú mediterranea delle forme umane, quei Neandertal sospinti per un quarto di milione di anni contro i fronti marini dall’espansione verso sud dei fronti glaciali; dell’invenzione e diffusione dell’agricoltura; dell’ancora misteriosa origine della navigazione a vela, forse sperimentata 8000 anni fa sulle onde del Nilo, e di là diffusasi tra Mar Rosso, Golfo Persico e Mediterraneo orientale; dei traffici di materie pregiate (come ossidiana, ambra, o le pietre dure verdi usate per le asce); fino all’emergere delle multiformi società delle età dei metalli e alle globalizzazioni dell’età storica, in scenari che spaziano dalle vette alpine ai banchi del Nilo e ai laghi svaniti dei margini sahariani, dalla Costa Azzurra alle isole del Marocco. Broodbank, peraltro, non perde l’occasione di rincorrere la giostra delle idee antiche e contemporanee sul passato delle nazioni coinvolte, rintracciandone radici e motivazioni politiche odierne. Ma ci ricorda anche che un quinto delle coste è già deturpato da colate di asfalto e mostri di cemento. Incalzati dal gigantismo del turismo di massa, assistiamo allo svanire di un patrimonio archeologico e storico in cui si cela tanto della

nostra identità e del nostro futuro, proprio mentre, nelle parole dell’autore, dovremmo tirare a riva «le reti della mente, piene di sirene e di esche, in cui abbiamo intrappolato il passato del Mediterraneo». Massimo Vidale Marco Chioffi, Giuliana Rigamonti

SAQQARA I Hesi, Hetepherakhet, Metjen Editrice La Mandragora, Imola, 325 pp., ill. col. 28,00 euro ISBN 978-88-7586-474-3 www. editricelamandragora.it

Con questo volume, Marco Chioffi e Giuliana Rigamonti offrono un nuovo e prezioso contributo alla conoscenza delle fonti che possono contribuire a far luce sulla storia dell’antico Egitto, e, in questo caso, sulle sue fasi d’esordio. I materiali presentati si riferiscono, infatti, all’Antico Regno e, come sottolinea Nigel Strudwick nella Prefazione, la loro pubblicazione arricchisce


in maniera significativa il quadro delle prime attestazioni della lingua scritta. I testi provengono da tre contesti sepolcrali di Saqqara: la tomba di un personaggio di nome Hesi, in seguito riutilizzata; la tomba di Hetepherakhet, che fu un alto dignitario della corte di Neferikara, nonché sacerdote del tempio solare di Niuserra; e la cappella di Metjen, che fu anch’egli un alto funzionario di corte. Delle iscrizioni vengono presentate la restituzione grafica e le traduzioni in lingua italiana, in versione letteraria e critica. Stefano Mammini

articolati. Nel percorrere la Cornelia o la Trionfale si ha dunque modo di scoprire (o riscoprire) la densità delle presenze archeologiche e storicoartistiche, delle quali vengono fornite esaurienti notizie, corredate da un ricco e puntuale apparato iconografico. S. M.

Andrea Carbonara, Gaetano Messineo

STRADE MINORI Via Cornelia, Via Trionfale, Via Collatina, Via Lavinate, Via Laurentina Edizioni Espera, Monte Compatri (Roma), 286 pp., ill. col. e b/n 39,00 euro ISBN 9788898244249 www.edizioniespera.com

La rete stradale è, ancora oggi, una delle testimonianze piú vivide dell’antica Roma e, anche nel caso dei percorsi considerati minori – come sono quelli descritti nel volume -, quei tracciati sono chiavi di lettura preziose per conoscere la storia di un territorio. Una storia che, nel tempo, si è arricchita di nuove tappe, consegnandoci palinsesti spesso straordinariamente

Davide Nadali e Andrea Polcaro (a cura di)

ARCHEOLOGIA DELLA MESOPOTAMIA ANTICA Carocci editore, Roma, 422 pp., ill. b/n. 34,00 euro ISBN 978-88-430-7783-0 www.carocci.it

Composto dai contributi dei curatori e da quelli firmati da una dozzina di loro colleghi, il manuale ripercorre le vicende di cui la «terra tra due fiumi» fu teatro nell’arco di circa 4000 anni, dal Tardo Calcolitico all’età neo-babilonese. Al di là dell’orizzonte cronologico – comunque vasto –, si tratta di un insieme di fenomeni di portata quasi

PER I PIÚ PICCOLI Flavia Salomone

C’ERA UNA VOLTA... HOMO Edizioni Espera, Monte Compatri (Roma), 62 pp., ill. col. 11,90 euro ISBN 9788894158243 www.edizioniespera.com

sempre epocale, che fanno della Mesopotamia un caso pressoché unico nel panorama degli studi di antichità. Dopo i capitoli introduttivi – dedicati alla conformazione del territorio, alla cronologia e alle tecniche edilizie – l’opera segue lo sviluppo cronologico degli eventi e si articola in capitoli che, seguendo un criterio assai in voga negli ultimi anni, presentano una suddivisione interna costante, con tre sezioni iniziali – Inquadramento storico, Urbanistica e distribuzione degli insediamenti, Architettura pubblica – alle quali fanno seguito gli approfondimenti sulle varie espressioni della cultura materiale. Il volume è pensato innanzitutto come strumento didattico ed è quindi utile segnalare che sul sito web dell’editore (nell’area Università, materiali online) sono disponibili tavole aggiuntive, ad arricchimento del corredo iconografico pubblicato. S. M.

La storia della specie umana è un argomento di straordinario fascino e di altrettanto straordinaria complessità. Una circostanza, la seconda, che non ha però impedito a Flavia Salomone di farne un racconto vivace, capace di catturare l’attenzione dei piccoli lettori per i quali è stato pensato. Sfilano quindi tutti i protagonisti piú importanti della vicenda, che ha abbracciato alcuni milioni di anni e ha avuto il suo teatro principale nel continente africano. E, accanto alle «carte d’identità» di Lucy e dei suoi «cugini», vengono fornite anche alcune sintesi delle questioni piú dibattute in materia. S. M.

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