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AL SPEC EP IALE PO
ARCHEO 381 NOVEMBRE 2016
ALEPPO
CITTÀ ETERNA
COSA È STATO DISTRUTTO, COSA POSSIAMO SALVARE? TRES TABERNAE SCULTURE DI VILLA BORGHESE ONAGRO 3
L’ANTINOO RITROVATO
VIA APPIA
SAN PAOLO SI È FERMATO QUI
ROMA
VILLA BORGHESE: IL RITORNO DELLE STATUE
€ 5,90
SPECIALE ALEPPO
Mens. Anno XXXII n. 381 novembre 2016 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
ANTINOO
MOSTRE
www.archeo.it
EDITORIALE
SUCCESSI E FALLIMENTI I lettori di «Archeo» sanno che raramente la nostra rivista si avventura nei meandri paludosi della politica, preferendo, per programmatica vocazione, il fango e la sabbia delle trincee di scavo e, soprattutto, privilegiando la voce degli archeologi. Sanno anche, però, che la politica spesso e inevitabilmente lambisce la nostra disciplina, vuoi attraverso la sua declinazione «internazionale», vuoi per quella comunemente definita «culturale». Le cronache recenti e recentissime ne sono la prova, e non possiamo ignorarle. Nello speciale di questo numero rievochiamo le sorti di Aleppo, città-simbolo – insieme a Palmira – del tragico fallimento di una geopolitica che, abbandonate le armi del dialogo, ricorre al suo «proseguimento con altri mezzi». A confronto con le devastazioni che stanno decimando il patrimonio culturale delle terre del Vicino Oriente Antico, notizie come quella della sentenza con la quale la Corte Penale Internazionale ha condannato a nove anni di carcere l’islamista Ahmad Al Faqi Al Madi assumono i contorni di una beffa: il predicatore è stato accusato di aver preso parte, nel 2012, alla distruzione di dieci monumenti censiti tra il patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO – nove storici mausolei e la quattrocentesca moschea di Sidi Yahya – nell’antica capitale del Mali, Timbuctú. Dal punto di vista storico-legislativo, la decisione della Corte dell’Aja non ha precedenti: è la prima volta, infatti, che un tribunale internazionale emette una sentenza esclusivamente per «distruzione di beni culturali». Ci chiediamo, allora, quante altre condanne (e non solo riguardo i martoriati Paesi dell’Africa) dovrebbero conseguentemente seguire a quest’atto esemplare? Mentre scriviamo è in corso una polemica, a livello internazionale, circa la «paternità» di uno dei piú importanti e articolati complessi storico-archeologici del mondo, il Monte del Tempio a Gerusalemme. Principale protagonista dell’umiliante diatriba è la stessa UNESCO, che, in una risoluzione approvata lo scorso ottobre, enfatizza l’identità arabo-islamica del grandioso insieme monumentale, a discapito della davvero millenaria e articolata vicenda storica che, come tutti sanno, lo contraddistingue. Un ennesimo fallimento, viene da pensare, della politica «culturale». Ma concludiamo questo editoriale con una notizia di segno opposto: lo scorso 8 ottobre si è inaugurato a Beirut il Museo Nazionale, uno scrigno che raccoglie i tesori dell’archeologia libanese. Ai nostri lettori abbiamo anticipato l’evento nel servizio apparso in «Archeo» di settembre. Lo spettacolare riallestimento del piano seminterrato (vedi foto qui sotto), rimasto – insieme ai suoi tesori d’arte – inagibile sin dall’inizio della guerra civile, è stato realizzato da un’équipe italo-libanese guidata dall’architetto Antonio Giammarusti e grazie a un finanziamento di poco piú di 1 milione di euro, messo a disposizione dal governo italiano. Alla presentazione del rinato Museo erano presenti le piú alte cariche del governo libanese, insieme al ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale Paolo Gentiloni. La solenne cerimonia è stata inaugurata da un coro di bambini che ha cantato gli inni nazionali libanese e italiano… Andreas M. Steiner
SOMMARIO EDITORIALE
Successi e fallimenti
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di Andreas M. Steiner
Attualità
LA NOTIZIA DEL MESE La necropoli vulcente di Poggetto Mengarelli restituisce i ricchi corredi di due guerrieri 8
NOTIZIARIO
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A TUTTO CAMPO Fra gli obiettivi dell’archeologia dev’esserci anche quello di porsi al servizio della collettività: un principio che l’Università di Siena ha da sempre fatto proprio 24 PAROLA D’ARCHEOLOGO Adriano La Regina illustra in anteprima le ultime scoperte compiute a Pietrabbondante
MOSTRE 28
DA ATENE
ALL’OMBRA DEL VESUVIO Gli Scavi di Pompei sbarcano in rete: un’opportunità in piú per scoprire le meraviglie del sito vesuviano 20
di Nicoletta Cassieri e Vincenzo Fiocchi Nicolai
In viaggio con Ulisse 38 di Valentina Di Napoli
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ROMA
Le sculture in villa
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di Mimmo Frassineti
SCAVI
San Paolo si è fermato qui
MUSEI Il direttore del Louvre presenta le novità della grande raccolta 22
Perdere la testa di Stefano Mammini
SCOPERTE Il relitto di Anticitera torna a far parlare di sé, questa volta per il recupero di uno scheletro: che sia quello del proprietario del celebre meccanismo? 12
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62 ARCHEOLOGIA SPERIMENTALE
Il terrore vien di notte... 72 di Flavio Russo In copertina la città di Aleppo, dominata dalla Cittadella fortificata, in una fotografia aerea scattata nell’ottobre del 2008.
Anno XXXII, n. 381 - novembre 2016 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli,
Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Nicoletta Cassieri è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Frosinone, Latina e Rieti. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Marco Di Branco è ricercatore di storia bizantina e islamica all’Istituto Storico Germanico di Roma. Valentina Di Napoli è archeologa. Vincenzo Fiocchi Nicolai è professore ordinario di archeologia cristiana e medievale presso l’Università degli Studi Tor Vergata di Roma e al Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana. Mimmo Frassineti è scrittore e fotografo. Daniela Fuganti è giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Maria Katsinopoulou è archeologa. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Carmelina Rubino è giornalista e responsabile dell’Ufficio Stampa e Comunicazione della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Friuli Venezia Giulia. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Getty Images: Yann Arthus-Bertrand: copertina (e pp. 76/77) e pp. 78/79, 92 (alto); Michele Falzone: pp. 80/81; Panoramic Images: p. 81; Julian Love: p. 92 (basso); AFP: p. 93 (alto); Anadolu Agency: p. 93 (basso) – Andreas M. Steiner: p. 3 – Cortesia degli autori: pp. 8-10, 24-25, 26 (destra), 27-30, 110, 111 (basso) – Cortesia EUA/WHOI/ARGO: foto Brett Seymour: pp. 12-15 – Cortesia Soprintendenza Archeologia, belle Arti e Paesaggio del Friuli Venezia Giulia: pp. 16, 16/17 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 17, 22-23 – Cortesia Soprintendenza Pompei: pp. 20-21 – Cortesia Museo dell’Agro Veientano, Formello (Roma): p. 26 (sinistra) – ©
Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Un caffè alla turca
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di Daniele Manacorda
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SPECIALE
QUANDO L’ANTICA ROMA...
...risuonava di «acque dolcemente mormoranti» 104 di Romolo A. Staccioli
di Andrea Augenti
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di Marco Di Branco e Massimo Vidale
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Il segno del comando
SCAVARE IL MEDIOEVO «Smontare» la storia
Aleppo, città eterna
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di Francesca Ceci
LIBRI
Museo Archeologico Nazionale di Atene: pp. 38-39 – DeA Picture Library: pp. 42/43, 45 (basso); F. Gallino: pp. 50/51; A. Dagli Orti: pp. 84, 108; G. Dagli Orti: pp. 84/85; C. Sappa: pp. 96/97 – Cortesia Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Frosinone, Latina e Rieti: pp. 43, 46, 47 (basso), 48-49, 50 (alto e centro), 51 (alto) – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée de Cluny-Musée national du Moyen-Âge): Jean-Gilles Berizzi: p. 44 – Mondadori Portfolio: The Art Archive: pp. 47 (alto), 86; AGE: pp. 65 (basso), 97; AKG Images: p. 85 – Cortesia Ufficio stampa della Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma: foto Stefano Castellani: pp. 52-53, 57 (basso), 60; pp. 57 (alto), 58-59, 61 – Da: Roman Art at the Art Institute of Chicago, Chicago 2016: p. 54 – Doc. red.: pp. 55 (alto), 56, 78 (alto), 87, 99, 100 (alto), 104-105 – – Mimmo Frassineti: pp. 62-64, 66-71 – Flavio Russo: pp. 72-75 – Cortesia Kay Kohlmeyer: pp. 82-83 – Matson Photograph Collection: pp. 88, 89, 90-91 – Bridgeman Images: pp. 95, 96, 98, 111 (alto) – Da: Bere e fumare ai confini dell’impero. Caffè e tabacco a Stari Bar nel periodo ottomano, Firenze 2014: pp. 100 (centro e basso), 101 (alto e basso), 102-103 – Foto Scala, Firenze: Mary Evans: pp. 106/107 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 45, 65, 78, 88/89, 101. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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LA NOTIZIA DEL MESE di Carlo Casi
I GUERRIERI DI VULCI
LA NECROPOLI ETRUSCA IN LOCALITÀ POGGETTO MENGARELLI SVELA NUOVI TESORI. QUESTA VOLTA RIFERIBILI A DUE UOMINI D’ARME, FORSE CADUTI INSIEME E PERCIÒ SEPOLTI A POCA DISTANZA L’UNO DALL’ALTRO E CON CORREDI COMPOSTI DAI MEDESIMI OGGETTI
L
a ripresa delle ricerche archeologiche nella necropoli vulcente di Poggetto Mengarelli, proprio lí dove qualche mese fa era stata scoperta la Tomba dello Scarabeo Dorato (vedi «Archeo» n. 373, marzo 2016), si stanno rivelando estremamente interessanti. Al momento in cui scriviamo, sono state scavate 18 tombe, tra le quali, seppur parzialmente violata, spicca quella di un guerriero che, tra la fine dell’VIII e gli inizi del VII secolo a.C., fu sepolto in una profonda fossa con numerosi oggetti di corredo. Di quest’ultimo fa parte un set di pregevoli vasi in ceramica etrusco-geometrica (due piatti, due coppe, una brocca e un piccolo cratere), che denota – insieme a due A sinistra: Vulci, necropoli di Poggetto Mengarelli. La tomba di guerriero n. 16 in corso di scavo. L’uomo venne deposto con un ricco corredo, del quale, come si vede nella foto, facevano parte, oltre alle armi, numerosi vasi in ceramica. La sepoltura è databile tra la fine dell’VIII e gli inizi del VII sec. a.C.
8 archeo
In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca.
situle e a un’olla red on white dipinte con fregi geometrici e animalistici, ad alcuni vasi d’impasto, a un reggivasi in ferro, a due affibbiagli in bronzo e ad alcuni vaghi in argento – il grado di benessere raggiunto in vita.
L’INDIZIO DECISIVO Inoltre, la presenza di un’ascia in ferro e, soprattutto, di un’anomala quanto preziosa lancia polimaterica, suggerisce il ruolo guerriero del defunto. L’arma da lancio è insolitamente costituita da una bella e sviluppata punta foliata in ferro, dalla quale si diparte una lunga spirale di anelli in bronzo ed è completata da un piccolo sauroter (puntale dell’estremità posteriore della lancia), anch’esso in bronzo.
In alto: la tomba ellenistica n. 18/A, rinvenuta nei pressi della tomba n. 16, in corso di scavo Qui sopra: specchio in bronzo, dalla tomba n. 18/A
In basso: punta di lancia in ferro, dalla tomba n. 16. L’arma era completata da una spirale di anelli in bronzo (visibile nella foto) e da un sauroter (puntale posto all’estremità posteriore).
archeo 9
In alto: piedini in bronzo a forma di arpia, pertinenti a una cista deposta nel vestibolo della tomba n. 18 insieme a una coppia di ornamenti in oro. A destra: situla in ceramica «red on white», dalla tomba n. 16. A fianco, in una fossa simile, un altro guerriero dello stesso periodo ha trovato l’eterno riposo.
UN DESTINO COMUNE? La presenza di una stessa lancia, di una stessa ascia e di affibbiagli simili, insieme a vasi etrusco-geometrici e d’impasto, oltre all’estrema vicinanza fra le due tombe, sembrano indicare una stringente relazione tra i due defunti. Che forse morirono a causa del medesimo evento, come sembrerebbe suggerire la frettolosa preparazione del secondo sepolcro. E chissà che anche le inconsuete buche di palo poste ai quattro angoli del
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pavimento della fossa non siano da attribuire a un veloce rinforzo del sistema di chiusura. Il corredo è poi completato da una fibula a drago, un rasoio lunato in bronzo, un coltello e dal sauroter in ferro. La distanza di quest’ultimo dalla punta indica la lunghezza della seconda, che non sembra superare i 120 cm: sarebbe, quindi, una corta zagaglia da lancio, con alta impugnatura, indicata dagli anelli di bronzo, per ottimizzarne l’equilibrio e che armava i due fanti etruschi insieme alle asce in ferro, utili per farsi largo tra le linee nemiche. Gli scavi vengono condotti grazie al contributo dell’Amministrazione Comunale di Montalto di Castro, sotto il coordinamento scientifico di Alfonsina Russo e con la collaborazione di Simona Carosi e Patrizia Petitti della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale e di Carlo Regoli di Fondazione Vulci.
n otiz iari o ARCHEOLOGIA SUBACQUEA Grecia
ALLARME: UOMO A MARE!
A
piú di cento anni dalla sua scoperta, effettuata per caso da pescatori di spugne locali, il relitto di Anticitera – naufragato in circostanze misteriose nel I secolo a.C. e dal quale sono emersi il celebre meccanismo, la splendida statua bronzea di efebo e numerosi altri reperti eccezionali (vedi «Archeo» nn. 338 e 372, aprile 2013 e febbraio 2016) – sembra voler continuare a centellinare i suoi segreti, mantenendo viva l’attenzione degli specialisti e degli appassionati di archeologia subacquea: risale infatti alla fine della scorsa estate il ritrovamento di un nuovo scheletro umano. Di per sé, il rinvenimento di ossa
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umane nel relitto non è un fatto inedito e si era già verificato durante i primi scavi del 1900 (a una profondità minima, il massimo consentito dalla tecnologia dell’epoca) e, successivamente, nel 1976, durante la missione della
Sulle due pagine: gli operatori subacquei impegnati nel recupero dei resti ossei individuati nell’estate scorsa a bordo del relitto di Anticitera. La nave, proveniente dal Mediterraneo orientale, si inabissò nel I sec. a.C., in circostanze misteriose.
Calypso di Jacques-Yves Cousteau; e proprio l’oceanografo francese, assieme a un osteoarcheologo dell’Università di Cambridge, Argyro Nafplioti, condusse i primi studi sui reperti, concludendo che si trattava dei resti di quattro persone diverse, tra cui un uomo di giovane età, una donna e un adolescente di sesso non identificato. Tuttavia, il ritrovamento di quest’anno è di ben altra importanza. Recuperare cosí tanti resti umani su un relitto di tale
antichità è infatti un evento raro e si deve in parte anche al fatto che sono pochi i naufragi a essere stati investigati cosí a fondo. Inoltre, poiché quella colata a picco ad Anticitera era una nave imponente (piú di 30 m di lunghezza, 10 di larghezza e una capacità di carico di 300 tonnellate), con diversi ponti e con molte persone a bordo, gli archeologi ipotizzano che sia stata sbattuta con grande violenza sulle rocce dell’isola e che il rapido inabissamento abbia intrappolato gli occupanti. Dal 28 agosto al 14 settembre scorso la squadra scientifica dell’Eforato Greco per le Antichità Subacquee (EAS), in collaborazione con la Woods Hole Oceanographic Institution (WHOI) e il sostegno di numerose istituzioni e sponsor internazionali e greci – tra cui la Fondazione Aikaterini Laskaridis –, ha completato la seconda campagna di scavo del 2016. I resti sono stati trovati sepolti a circa 50 cm di profondità, sotto frammenti di ceramica e sabbia. Sono tutti riconducibili a un unico individuo e consistono in un cranio con mandibola e tre denti, due ossa del braccio, vari frammenti delle costole e due femori, mentre altre parti sono ancora nascoste sotto il fondale. È prematuro avanzare ipotesi sull’identità, tuttavia sono emersi elementi che potrebbero contribuire a tracciare un profilo, come per esempio il ritrovamento di pezzi di ferro corrosi intorno alle ossa, la cui ossidazione ha lasciato macchie rosse sulla superficie. Navi di queste dimensioni di solito imbarcavano un equipaggio di
Errata corrige con riferimento allo speciale sull’Etiopia Terra divina (vedi «Archeo» n. 380, ottobre 2016) desideriamo segnalare che, per un errore tecnico, è stata omessa la pubblicazione di una parte del testo, fra le pagine 86 e 88. Riportiamo, in evidenza, il brano mancante: «Tra le piú importanti tribú sudarabiche a trasferirsi in Africa, vanno menzionate quella degli Habasciat, da cui deriva uno dei nomi del Paese, Abissinia, e quella dei Ghe‘ez (il cui significato è quello di «immigrati» o «liberi»), che ha dato il nome alla lingua etiopica classica. Le genti sudarabiche importarono nell’area la scrittura, che diede poi origine al sillabario etiopico, alla base di quello utilizzato anche in epoca attuale. Ma, oltre alla scrittura, essi introdussero altri importantissimi elementi culturali, come la tecnica delle costruzioni elevate a vari piani (tipiche del paesaggio yemenita, dall’antichità a oggi), la moneta, l’uso dei metalli, la coltivazione del suolo, la pecora, il cavallo, il cammello, molte piante utili per l’alimentazione, armi piú perfezionate e, soprattutto, le concezioni religiose tipiche del mondo arabo preislamico. Cosí, il pantheon sudarabico si diffuse in Etiopia e una particolare venerazione venne riservata a un’antica divina triade semitica». Inoltre, il testo di pagina 96 risulta invertito rispetto a quello della pagina successiva, che lo precede invece di costituirne il seguito. Del tutto ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori.
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n otiz iario 15-20 uomini e spesso trasportavano anche passeggeri o schiavi. In caso di naufragio, per questi ultimi era piú difficile mettersi in salvo, essendo legati con catene, e forse questa potrebbe essere stata la condizione di questo individuo. «È una scoperta impressionante – ha dichiarato Brendan Foley (WHOI), archeologo subacqueo e condirettore della squadra di scavo assieme a Theotokis Theodoulou e a Dimitris Kourkoumelis (EAS) –, e non abbiamo mai visto niente di simile». Mark Dunkley, archeologo subacqueo di Historic England, conferma l’eccezionalità del ritrovamento. Di solito, degli occupanti di antichi relitti non resta traccia alcuna, poiché i corpi vengono inghiottiti per sempre dal mare. Se si hanno casi di ritrovamenti, si tratta di naufragi molto piú recenti, come per esempio quello della nave militare inglese Mary Rose, del
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XVI secolo o, in Svezia, quello della Vasa, del XVII secolo. Sarà dunque la prima volta che l’esperto di paleogenetica Hannes Schroeder, accorso sul relitto dal Museo di Storia Naturale della Danimarca, potrà esaminare materiale genetico cosí antico e incontaminato. Questa procedura
In alto e in basso: un frammento del cranio e altre ossa dello scheletro scoperto sul relitto di Anticitera. Nella pagina accanto, in alto: Theotokis Theodoulou e Brendan Foley esaminano le ossa dopo il recupero. Nella pagina accanto, in basso: il carico di anfore imbarcato sulla nave di Anticitera.
di analisi fino a oggi è stata applicata solo a reperti conservatisi in climi freddi, soprattutto del Nord Europa, ma presenta problematiche laddove i campioni antichi siano venuti in contatto con DNA piú recente. È questo uno dei risvolti piú importanti della scoperta: poter esaminare ossa in questa condizione di originalità è raro. Nel passato, infatti, ritrovamenti sua origine geografica. E non è scontato che si tratti di un Greco o di un Romano. Forse i frammenti di uno di questi scheletri appartenevano all’astronomo proprietario del famoso meccanismo. Per il momento, gli archeologi hanno ribattezzato l’ultimo arrivato «Pamphilos», dal nome trovato
scritto su una coppa recuperata. C’è ora grande attesa da parte dei ricercatori per avere maggiori informazioni sulle persone imbarcate sulla nave, che trasportava oggetti di lusso dal Mediterraneo orientale, probabilmente destinati a qualche ricco cittadino romano. Maria Katsinopoulou
simili venivano lavati dopo il recupero o conservati in ambienti con un microclima troppo caldo, compromettendone la leggibilità genetica. Questo scheletro, invece, potrebbe fornire informazioni sul sesso della persona, l’età, le caratteristiche e il colore dei capelli e degli occhi, la
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n otiz iario
SCAVI Aquileia
COME A VERONA
N
uove e importanti acquisizioni sono scaturite dalla seconda campagna di scavo nell’area dell’Anfiteatro romano di Aquileia, effettuata da un’équipe dell’Università di VeronaDipartimento Culture e Civiltà, sotto la direzione di Patrizia Basso. L’edificio per spettacoli aquileiese era stato oggetto nel tempo di diverse indagini archeologiche, a partire da alcuni scavi occasionali condotti nel Settecento e agli inizi dell’Ottocento da Girolamo de’ Moschettini, fino a piú rigorosi, ma sempre parziali scavi, realizzati tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento da Enrico Maionica e poi, nel 1934-35 e nel 1946-47, da Giovanni Brusin. Grazie a tali interventi, dell’edificio si conoscevano in via del tutto generale le dimensioni complessive (pari a circa 148 m sull’asse maggiore e a 112 m circa sul minore) e l’ubicazione nel quadro della città romana, ma rimanevano ancora da chiarire numerosi aspetti architettonico-strutturali e l’inquadramento cronologico. In particolare, dopo la metà del Novecento, questa costruzione cosí importante e monumentale della
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città non era mai piú stata oggetto di indagini. Sollecitati, pertanto, da queste motivazioni, nel 2015 l’Università di Verona, su concessione di scavo del MiBACT, ha avviato la prima campagna di indagine archeologica nella zona demaniale di Palazzo Brunner, un’area mai scavata prima e nel cui sottosuolo, almeno a quanto risultava dalla documentazione nota, doveva nascondersi circa un quarto dell’intera superficie dell’edificio. I rilevanti risultati ottenuti, con l’importante scoperta di una poderosa e fino ad allora ignota platea di fondazione dell’Anfiteatro, larga quasi 4 m, hanno posto le premesse per la seconda Campagna. Rispetto a quanto si era visto nel 2015 e a quanto si pensava in base ai già citati scavi pregressi, le indagini di quest’anno hanno rivelato che almeno parte delle murature dell’edificio si conservano in alzato anche per 1,70 m: in particolare, l’apertura di una lunga trincea di scavo, in prosecuzione di quella aperta lo scorso anno, ha permesso di verificare l’intera sezione dell’anfiteatro, a partire dalla
A destra: Aquileia. Il cantiere di scavo nell’area dell’Anfiteatro in una foto da drone. Si possono vedere le strutture murarie riportate alla luce nel corso dell’intervento. In basso: un settore dell’area indagata, con murature che, in alcuni tratti, si conservano per un’altezza di 1,70 m.
galleria esterna, da dove entrava il pubblico, fino all’arena, ossia allo spazio per i combattimenti dei gladiatori e le cacce agli animali. Si è cosí potuto accertare che l’edificio era interamente costruito su un sistema di murature autoportanti, adottando una soluzione analoga a quella sperimentata nell’Arena di Verona. Tale dato ribadisce la monumentalità e la complessità della costruzione dell’Anfiteatro di Aquileia, che dovette richiedere un importante quantitativo di materiale lapideo e maestranze altamente qualificate. In particolare, sono stati portati alla luce un tratto lungo piú di 10 m di uno dei muri ellittici e sei dei muri radiali (disposti su due raggiere concentriche), che sostenevano le gradinate. Inoltre, sono emersi un tratto della larga muratura che delimitava l’arena e sosteneva le prime gradinate, nonché alcune delle strutture murarie che costituivano le basi per le scale per
ROMA
L’Ara Pacis si fa bella
gli spettatori, ricavate all’interno dei cunei fra i muri radiali. Un altro dato di grande interesse emerso dalle ultime indagini è una calcara, larga circa 4 m, nella quale vennero bruciate per ricavare calce molte pietre prelevate dalle antiche murature. L’Anfiteatro, in effetti, conobbe massicce spoliazioni già dalla sua defunzionalizzazione, che sembra datarsi tra il IV e il V secolo d.C.: esso costituiva, infatti, una comoda cava per reperire pietre e calce da utilizzare nelle costruzioni post-classiche della cittadina. Tuttavia, in età tardo-antica, l’Anfiteatro doveva essere ancora parzialmente in uso, seppure con funzioni completamente diverse da quelle originarie: all’interno dei cunei fra i muri radiali, infatti, si impostarono modeste strutture abitative che riutilizzavano le antiche murature superstiti, con piani d’uso e focolari, di cui gli scavi hanno evidenziato alcune presenze, mentre l’area dell’antica orchestra venne ridotta a spazio rurale.
«Le scoperte di quest’anno – ha detto Patrizia Basso – costituiscono una grande novità dal punto di vista scientifico e permetteranno, con il prosieguo delle ricerche e con le analisi al C14, paleobotaniche e archeometriche, di definire in dettaglio gli aspetti tecnicocostruttivi dell’edificio e le datazioni delle diverse fasi di vita del sito nel corso dei secoli». L’intervento di scavo è stato effettuato in accordo con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Friuli Venezia Giulia (funzionario responsabile, Paola Ventura) e con la partecipazione ai lavori degli studenti della Laurea Magistrale in Quaternario Preistoria e Archeologia delle Università di Ferrara, Verona, Trento e Modena, nonché degli studenti, dottorandi e dottori di ricerca dell’Università di Verona, con il supporto logistico della ditta SAP e in particolare di Alberto Manicardi. Carmelina Rubino
Storia e tecnologia si incontrano per una visita immersiva e multisensoriale dell’Ara Pacis: è questa l’opportunità offerta dall’iniziativa «L’Ara com’era», basata su un’innovativa esperienza di Augmented Reality (Realtà Aumentata). Utilizzando visori AR (Samsung GearVR) e alla fotocamera dei device in essi inseriti, elementi virtuali ed elementi reali si fondono nel campo visivo dei visitatori. L’applicazione AR riconosce la tridimensionalità dei bassorilievi e delle sculture e i contenuti virtuali appaiono al visitatore come «ancorati» agli oggetti reali. E cosí, osservando da varie angolazioni i plastici e i modellini, i visitatori li vedono popolarsi di personaggi, intenti a celebrare il sacrificio, ascoltando suoni e voci come in uno spaccato dell’epoca, mentre i calchi raffiguranti la famiglia imperiale prendono vita e si raccontano in prima persona. Le visite hanno la durata di circa 45 minuti e sono cosí articolate: fino al 17.12, venerdí e sabato, 20,00-24,00; dal 23.12 all’08.01, tutte le sere, 20,00-24,00; dal 13.01 al 15.04, venerdí e sabato 20,00-24,00; dal 21.04 al 31.10, tutte le sere, 20,00-24,00. Info: tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-21,00); www.arapacis.it; #ARAcomera
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n otiz iario
SCOPERTE Groenlandia
IL GHIACCIO, UN NEMICO INVINCIBILE
N
el 982 d.C., Erik il Rosso, celebre condottiero vichingo, raggiunse le coste meridionali dell’isola che fu allora battezzata Grönland (Terra Verde) e che oggi conosciamo con il nome di Groenlandia. L’evento ebbe luogo durante un’epoca considerata come un optimum climatico del Medioevo, durante il quale i ghiacciai alpini, per via di temperature elevate, fecero registrare una notevole contrazione, simile a quella che si sta osservando attualmente. Per contro, nelle regioni occidentali della Groenlandia, intorno all’isola di Disko, le masse ghiacciate hanno conosciuto un’evoluzione ben diversa. Nell’ultimo millennio, infatti, si sono verificati ripetuti avanzamenti, il primo dei quali, particolarmente significativo, ebbe luogo proprio durante la fase di optimum appena ricordata, negli stessi anni della colonizzazione
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vichinga. E proprio nell’isola di Disko, che si trova circa 1000 km a nord dei siti vichinghi, ha operato un’équipe francese, che ha potuto datare queste fasi di espansione dei ghiacci basandosi sull’analisi delle morene e dei detriti rocciosi. Quando questi ultimi cominciano a ritirarsi, le morene frontali non sono piú protette dal ghiaccio e mettono in azione una sorta di «cronometro geologico»: le rocce accumulano isotopi di Cloro-36 creati dalle reazioni nucleari provocate dall’impatto delle particelle derivanti dalla radiazione cosmica, che permettono di determinare la cronologia dei vari fenomeni. Confrontando l’evoluzione di numerosi ghiacciai, è stato osservato che, a differenza di quanto rilevato per la regione alpina e altri massicci montuosi dell’emisfero nord, in epoca medievale l’estensione delle masse ghiacciate in questa zona dell’Artico
La battaglia di Svolder in un dipinto del 1900. Protagonista dello scontro fu il re Olaf di Norvegia, a bordo del suo drakkar, il Lungo Serpente. è stata almeno pari a quella della fase conosciuta come Piccola era glaciale (un fenomeno climatico occorso fra il 1550 e il 1850). Questo avanzamento dei ghiacci implica che intorno all’isola di Disko, che si trova alla medesima latitudine dell’Islanda, le condizioni ambientali, combinate a un’estensione considerevole delle masse ghiacciate galleggianti, dovettero risultare poco favorevoli all’espansione dei Vichinghi, che si basava sulla navigazione a bordo dei drakkar e sulla pratica dell’agricoltura. Ciò potrebbe almeno in parte spiegare perché non vi siano colonie vichinghe al di là di Nuuk, capitale della Groenlandia. (red.)
ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
ANCHE POMPEI È «SOCIAL» PER DIFFONDERE LA CONOSCENZA DELL’ANTICA CITTÀ E OFFRIRE UN AGGIORNAMENTO COSTANTE SULLE ATTIVITÀ DI RICERCA E RESTAURO, È STATA LANCIATA UN’AUTENTICA OFFENSIVA, GRAZIE ALLA QUALE IL SITO VESUVIANO SI AVVIA A DIVENTARE FELICEMENTE «VIRALE»
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ompei sbarca sui canali piú in voga del web. Il sito archeologico, che vanta ormai oltre 3 milioni di visitatori all’anno, non poteva mancare questa sfida. In un contesto internazionale in cui, con sempre maggiore rapidità, cambiano le dinamiche e le tecniche della diffusione dell’informazione, è fondamentale promuovere e comunicare il patrimonio al passo con l’innovazione tecnologica, che incrementa fruitori sempre piú evoluti e al tempo stesso esigenti. Attraverso il Piano di comunicazione del Brand Pompei, si è realizzato un restyling dell’immagine degli Scavi che passa anche attraverso il mondo dei social network.
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La comunicazione multimediale coinvolge un numero sempre maggiore di fasce diversificate di utenti, e, in particolare, il pubblico dei social può oggi finalmente vivere le emozioni della città
sospesa nel tempo e creare un’interazione diretta con Pompei. Con questo intento sono nate le pagine Facebook, Twitter, Instagram e il canale YouTube. Per approfondire le strategie web di Pompei abbiamo incontrato la responsabile dei Social della Soprintendenza, Lara Anniboletti, che – coadiuvata da Antonio Benforte e Biagio Ricciardiello –, ci racconta la nuova sfida che il sito sta affrontando sulla rete. «Volendo ricorrere a una metafora, gli antichi Pompeiani usavano i muri delle case, delle botteghe, degli edifici pubblici, come altrettanti blog, su cui scrivere pensieri, annunci, minacce, promesse. Blog con facoltà di
A sinistra: il post sul Tesoro di Moregine, che, a oggi, è fra quelli che hanno riscosso maggiore successo. Nella pagina accanto, in alto: l’équipe che cura i canali social di Pompei. Nella pagina accanto, in basso: foto di visitatori ripostate su Instagram.
commento, se si pensa che spesso – come accade oggi sui muri delle nostre città – intervenivano altri writer ad aggiungere risposte, sia favorevoli che contrarie al post tracciato. La comunicazione nei canali della Soprintendenza si pone su una linea divulgativa e corretta scientificamente, anche per rispondere a quella “comunicazione selvaggia” che soprattutto il mondo Social offre. Innumerevoli contenuti, parole e immagini inserite prepotentemente nei canali virtuali impongono, infatti, di scegliere riguardo a ciò cui decidiamo di dedicare il nostro tempo e la nostra fiducia». Anniboletti sottolinea il valore della comunicazione archeologica che deve essere emozionante, una sapiente armonia fra scienza e divertimento, in grado di trasportare il lettore in una sfera che alimenti immaginazione e sentimento, oltre che l’intelletto. «Lo storytelling si snoda in modo differenziato sui vari canali – precisa l’archeologa –: Facebook per informare sulle attività in corso, i restauri, le offerte di fruizione e di riapertura al pubblico degli edifici, e tante pillole di archeologia pensate come mini-video, fotografie
suggestive dagli scavi e una serie di originali rubriche concepite come appuntamenti fissi; Twitter per un contatto rapido e diretto con i media e con gli utenti che ogni giorno interagiscono e pongono domande sul sito archeologico, o ancora per divulgare le news che riguardano il sito; Instagram per diffondere la bellezza di Pompei attraverso scatti e istantanee mozzafiato. L’obiettivo della nostra strategia è quello di integrare e potenziare i contenuti, mettendo a disposizione degli utenti input che valorizzino sia l’aspetto turistico che istituzionale della Soprintendenza. Il racconto di una realtà viva, in grado di appassionare e di stimolare la crescente sete di sapere anche a una notevole distanza da Pompei». Scendendo nel dettaglio, su Facebook sono state lanciate rubriche a cadenza settimanale che stanno riscuotendo pieno gradimento: «Le iscrizioni in lingua latina che rendono il sito cosí pulsante e vivo, finalmente non piú appannaggio esclusivo degli esperti; il post “com’era, com’è”, che ripropone alcuni luoghi ed edifici di Pompei nei loro fasti antichi e nella loro attuale
situazione, creando affascinanti paralleli». E ancora anniversari di scavi e di avvenimenti accaduti nel sito in duecento anni di vita ritrovata; la rubrica dei Pompeiani doc, che restituisce momenti quotidiani di antichi personaggi che l’immaginazione vivifica, e le fotografie a 360 gradi che permettono di godere di prospettive inedite sugli scavi. Fra i primi post piú apprezzati dal pubblico, il ritorno di David Gilmour a Pompei (115mila persone raggiunte); e poi l’eccezionale ritrovamento del Tesoro di Moregine (72mila), o il video della Villa di Poppea (49mila) o ancora il post sulle strisce pedonali di Pompei (44mila). Twitter funge invece da rassegna stampa e serve a comunicare direttamente con i fruitori del sito che fanno tante domande, oppure permette di partecipare a iniziative internazionali come la recente #AskACurator, durante la quale una serie di curatori e professionisti di Pompei, perlopiú archeologi, hanno risposto per tutta un’intera giornata alle curiosità degli utenti. Instagram, infine, è il canale piú giovanile ed emozionale in cui sono le immagini a fare da padrone: suggestive, a colori o in bianco e nero, molto spesso svelano luoghi nascosti o prospettive particolari del sito archeologico. Si è scelto anche di «premiare» gli utenti, ripostando le foto piú belle provenienti dagli scavi, in una continua interazione con il pubblico. Il pubblico dei social è in maggioranza femminile (quasi il 60%) e coinvolge utenti da tutto il mondo, cosí come accade nel sito reale: europei, americani, asiatici, australiani, «visitano» infatti ogni giorno con i canali web la Pompei virtuale. Facebook: Pompeii-Soprintendenza (Ita/Eng); Twitter: pompeii_sites; Instagram: pompeiisites; YouTube: Pompeii Sites.
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n otiz iario
MUSEI Francia
BENVENUTI AL LOUVRE!
U
n cantiere discreto, quasi invisibile, nascosto da false pareti, ha lavorato per circa due anni nel cuore del Louvre. Sotto la piramide di Pei, inaugurata nel 1989, tutto è stato riorganizzato per rimettersi al passo con i tempi e con le esigenze dei dieci milioni di visitatori che ogni anno varcano la soglia del museo parigino. Adesso le file interminabili sono diventate un ricordo, pur essendo stati intensificati i controlli; è stata attivata la vendita on line
dei biglietti, con visita garantita entro mezz’ora; la biglietteria è piú agile e sono stati raddoppiati i servizi; infine, si può disporre di un guardaroba gratuito. All’ingresso di ogni ala, gigantografie delle opere piú emblematiche segnalano l’ubicazione delle collezioni e, volendo, la geolocalizzazione fornita dal sito del museo conduce in pochi minuti davanti all’opera prescelta. Abbiamo dunque voluto incontrare Jean-Luc Martinez, attuale direttore della celebre istituzione parigina e già responsabile del Dipartimento di Antichità greche etrusche e romane, per parlare delle novità e delle prospettive del Louvre. Signor direttore, come è nato questo progetto? «I miei predecessori si erano essenzialmente dedicati a portare a termine il progetto del Grande Louvre. Dal 1991 al 2014, il museo ha continuato a estendersi, occupando gradualmente tutte le sale del palazzo (fino al 1989, l’ala Richelieu era occupata dal Ministero delle Finanze): un luogo denso di storia, trasformato da
Qui sopra: ricostruzione del complesso del Louvre all’epoca di Napoleone III, sovrapposta alla topografia attuale della zona.
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fortezza medievale in residenza reale, e divenuto museo nel 1793. Il mio compito attuale è di mantenerne il livello di eccellenza». Quali sono gli elementi caratterizzanti degli interventi appena ultimati? «Ho voluto rendere il Museo del Louvre piú accogliente e leggibile, mettendomi nei panni di un normale visitatore. A questo fine ho creato un nuovo spazio nel padiglione dell’Orologio, situato simbolicamente al centro del palazzo, fra le due ali che abbracciano idealmente la dimora reale delle Tuileries – il vero “ventre” del Louvre – distrutta dai comunardi nel 1871. Nel padiglione dell’Orologio si raccontano la storia del museo, quella delle sue collezioni, nonché le vicende legate alla loro provenienza». Un Louvre piú comprensibile e pedagogico, dunque? «Molti di noi hanno visitato il museo per la prima volta con la scuola, soprattutto nel caso di chi, come me, proviene da famiglie modeste. E quella esperienza, in genere, non viene mai piú ripetuta. Io voglio valorizzare il mio Louvre, avvicinandogli anche il pubblico popolare. Il museo ha una sua missione sociale, è un luogo che aiuta a capire le dinamiche del
Il plastico del Museo del Louvre, esposto nella nuova sezione introduttiva realizzata nel padiglione dell’Orologio. mondo contemporaneo e la nostra identità. Può farci comprendere l’Europa di oggi, e dove risieda il genio delle nostre nazioni». Continuerà la tradizione, cara al suo predecessore, delle grandi mostre internazionali? «Si dice che il pubblico straniero venga a vedere le collezioni del Louvre, mentre quello francese frequenti le esposizioni provenienti da fuori. Non continuerò sulla via delle grandi mostre internazionali: le mie esposizioni saranno organizzate a partire dalle raccolte del museo e intorno al nostro programma di ricerca, con prestiti esterni sul tema trattato. Per l’arte contemporanea, il concetto è diverso: inviterò artisti dotati di una sensibilità particolare verso il fascino del Louvre». Che cosa pensa della recente riforma che ha interessato i beni culturali in Italia? «Pur conoscendola molto bene, preferisco non commentarla. Credo comunque che ci si debba lasciare alle spalle il dibattito secondo il quale da una parte ci sarebbe un modello commercial-efficientista,
con collezioni che funzionano, dall’altra l’archeologia che appartiene alla ricerca scientifica». Secondo quali criteri ha impostato la sua «politica estera»? «Ho rapporti con i Paesi dai quali provengono le raccolte del museo. In Italia scaviamo a Gabii, perché possediamo la collezione Borghese comprata da Napoleone, nella quale è compreso il primo materiale trovato sul sito nel 1790. Con Cortona, invece, abbiamo un programma scientifico legato alla scrittura etrusca, a cui abbiamo contribuito pubblicando il catalogo delle iscrizioni etrusche del Louvre. Mi sto occupando intensamente di portare a termine il progetto Louvre-Abu Dhabi, la cui apertura è prevista a fine 2016 (vedi «Archeo» n. 353, agosto 2014)». Non siete però presenti a Palmira, dopo che la città è stata liberata dall’ISIS… «Nel restauro di Palmira si sta giocando una partita di importanza geo-politica non secondaria. Non possiamo lavorare ufficialmente con la Siria – sebbene le relazioni scientifiche non siano mai state
interrotte – per non dare l’impressione di avallare l’operato di Putin e di Bashar al-Assad, con il quale il presidente Hollande ha rotto i rapporti diplomatici». Ci sveli qualche cifra: come viene finanziato il Louvre, e quanto sono costati i recenti lavori? «Su 200 milioni di euro di budget per la gestione del museo, la metà proviene dallo Stato. Per il resto, 60 milioni arrivano dai biglietti, 40 dall’affitto degli spazi commerciali e dal mecenatismo. Per quanto riguarda i lavori appena ultimati, sono stati spesi 60 milioni e la somma è stata assicurata dai proventi della nostra collaborazione al progetto di Abu Dhabi». Daniela Fuganti
DOVE E QUANDO Museo del Louvre Parigi Orario tutti i giorni, 9,00-18,00 (mercoledí e venerdí, apertura serale fino alle 21,45); chiuso il martedí Info + 33 (0)1 40205317; www.louvre.fr
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A TUTTO CAMPO Marco Valenti
IL PASSATO È DI TUTTI L’ITALIA HA RECEPITO I PRINCIPI DELL’ARCHEOLOGIA PUBBLICA CON UN CERTO RITARDO RISPETTO AL MONDO ANGLOAMERICANO, MA HA PRESTO COLMATO IL DIVARIO E L’UNIVERSITÀ DI SIENA È STATA E CONTINUA A ESSERE UNO DEI PROTAGONISTI DI QUESTO IMPORTANTE APPROCCIO
«A
rcheologia pubblica» è una definizione di grande attualità, con la quale si vuole esprimere la finalità ultima della disciplina: l’archeologia, infatti, dovrebbe sempre essere pubblica, con i risultati degli scavi disponibili per tutti, in particolare per chi risiede nell’area oggetto della ricerca, poiché interessano il patrimonio e la storia delle comunità, impiegando spesso denaro pubblico. Ma che cosa si intende quando si parla di archeologia pubblica o, meglio, di Public Archaeology, nella sua originale denominazione? La storia inizia negli anni Settanta del Novecento, con le riflessioni di due scuole archeologiche, la nordamericana e la britannica, che esprimono in modo diverso la necessità di conservare e gestire le risorse culturali per il pubblico dei non specialisti, alimentando il rispetto per i beni culturali e paesaggistici e incoraggiando la salvaguardia e la partecipazione alla ricerca e alla sorveglianza archeologica. Charles R. McGimsey (University of Arkansas) e Peter Documentazione fotografica di strutture dell’Archeodromo della Fortezza Medicea di Poggibonsi.
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Ucko (University College of London) avviano un dibattito destinato a influenzare generazioni di archeologi e giunto, con ritardo, anche in Italia: nel 2000, il secondo fonda la rivista Public Archaeology, che apre al rapporto tra archeologia pratica, teoria archeologica e modelli di gestione del patrimonio culturale, senza tralasciare il tema dell’uso pubblico della Storia.
LA VIA ITALIANA In anni recenti, Guido Vannini (Università di Firenze) ha avuto il merito di fare il punto sul dibattito internazionale, aprendo al tempo stesso una via italiana al problema.
Nel numero speciale dedicato ai quarant’anni della rivista Archeologia Medievale, Vannini approfondisce i tre temi della comunicazione, dell’economia e delle politiche archeologiche, analizzando la sostenibilità della ricerca a fronte della scarsa disponibilità di fondi pubblici. Al tempo stesso, si promuovono i principi di una buona pratica archeologica, insistendo sulla necessità di un’azione etica rispetto alle comunità e di una pratica responsabile nell’accoglierne identità e valori, e infine sull’ineludibile approfondimento degli scenari politici ed economici.
L’avvio di questa riflessione in Italia ha prodotto importanti momenti di confronto. Nel 2012, a Firenze, si è tenuto il Primo Congresso di Archeologia Pubblica in Italia – per discutere lo «studio e il rafforzamento del ruolo che l’archeologia, come disciplina storica, e l’interpretazione e la gestione del patrimonio archeologico svolgono o possono svolgere a beneficio della società e del suo sviluppo» – e, piú di recente, durante le Giornate Gregoriane 2013, è stato affrontato il tema dell’Archeologia Pubblica al tempo della crisi, incentrato sugli effetti della crisi economica attuale nel determinare alcuni esiti della Public Archaeology su scala internazionale e su come l’archeologia possa offrire un contributo misurabile a beneficio della società civile e del suo sviluppo.
Fortezza Medicea di Poggibonsi (Siena), un museo open air nel quale si persegue la ricostruzione progressiva e in scala 1:1 delle 17 strutture edilizie del IX-X secolo, individuate nell’area con lo scavo archeologico.
MEDIOEVO DA TOCCARE
fondate sulle applicazioni dell’archeologia, per apportare benessere e nuove forme di occupazione nelle aree della ricerca. Esattamente venti anni fa apriva il Parco Archeominerario di San Silvestro a Campiglia Marittima (Livorno), quale primo tassello del complesso sistema dei Parchi della Val di Cornia. In alto e a sinistra: due immagini delle ricostruzioni realizzate nell’Archeodromo di Poggibonsi (Siena), che ricrea spazi e atmosfere del Medioevo.
A Siena l’archeologia pubblica è di casa: è opportuno ricordare l’insegnamento di Riccardo Francovich che, fin dagli anni Ottanta, ha promosso progetti di ricerca nei quali la valorizzazione della conoscenza andava di pari passo con la dimensione etica del nostro lavoro; le risorse investite dovevano avere un riscontro tangibile, con il coinvolgimento delle comunità, abbinato a politiche di riconversione di un territorio in senso culturale; la costruzione di economie dei beni culturali,
A Siena, dunque, il portato dell’archeologia pubblica ha radici profonde e molti archeologi sono impegnati in questo campo: al centro si pone sempre e comunque il rapporto e l’interscambio con la comunità, l’eticità e la sostenibilità dei progetti e soprattutto la comunicazione perseguita a ogni livello: di persona, attraverso le pubblicazioni e soprattutto per mezzo della rete e le grandi potenzialità dei social media. Su queste linee, è stato creato, alla fine del 2014, l’Archeodromo della
I risultati della ricerca vengono trasmessi con un’attività di archeologia sperimentale e di story telling (narrazione di fatti ed eventi che collegano il vissuto degli abitanti del sito al piú ampio contesto storico del Medioevo): una soluzione espositiva di forte impatto, che consente di immergersi negli spazi di vita propri del periodo altomedievale e di toccarne con mano le forme, le dimensioni e le caratteristiche, sino alla percezione delle atmosfere, dei suoni e dei rumori, degli odori, arrivando alla comprensione dei rapporti sociali e gerarchici in atto. Parlando e agendo in modo comprensibile, si stimolano l’interesse e la curiosità del visitatore, fino a farlo divenire fruitore attivo di cultura; il progetto dell’Archeodromo ha cercato di conferire un valore aggiunto al dato archeologico, attraverso un piú articolato programma di diffusione delle conoscenze, fondato sull’azione e quindi sulla comunicazione visiva e verbale, cercando di dare al tempo stesso un contributo allo sviluppo economico e alla crescita identitaria della comunità locale. Una strategia condivisa tra l’Amministrazione comunale, l’Università, la collettività e il pubblico che sta davvero traghettando il patrimonio storico, archeologico e culturale al ruolo che gli compete, come dimostra il forte (e finora inusuale) incremento del turismo a Poggibonsi nell’anno 2015, dopo appena un anno di attività dell’Archeodromo. (www.archeodromopoggibonsi.it)
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FORMELLO (ROMA)
Dall’età del Bronzo alla via Francigena Il 3 dicembre 2016 il Museo dell’Agro Veientano a Palazzo Chigi di Formello inaugura finalmente le nuove sale. Le stanze, con affreschi quattrocenteschi e cinquecenteschi appena restaurati, occupano il piano nobile del Palazzo e raccontano la storia del territorio dall’età del Bronzo Finale (XII-XI secolo a.C.) all’età romana repubblicana (III-II secolo a.C.). Vetrine con una forma ispirata al loro contenuto, testi in italiano e inglese con diverse chiavi di lettura, contenuti multimediali che verranno continuamente implementati: ci sarà da divertirsi e da imparare. Completano il percorso la visita sulla torre duecentesca, nella versione «rivisitata» da Andrea Bruno, oggetto di un allestimento dedicato alla via Francigena, e la Sala Ward-Perkins, che affaccia sulla splendida Loggia seicentesca con mostre temporanee sul territorio. Info: Museo dell’Agro Veientano, piazza San Lorenzo, 7 Formello (Roma); tel. 06 90194.240 o 239; fax 06 9089577; e-mail: museo@comunediformello.it
MUSEI Campania
BENTORNATA, SIGNORA DEGLI ORI!
S
i sono riaperte le porte del Museo Archeologico Nazionale di Buccino (Salerno), che si sviluppa su una superficie di 1600 mq, articolata su due livelli, intorno al chiostro quattrocentesco del convento degli Eremitani di S. Agostino. L’ingresso è al piano terra, dove è allestita una sala didattica, dalla quale si accede al primo piano, che ospita la Sala della Preistoria, in cui, aiutati da postazioni multimediali e pannelli didattici, si ammirano materiali provenienti sia dall’insediamento di Fossa Aimone di Atena Lucana (seconda metà del III millennio a.C.) sia dalla necropoli di Sant’Antonio di Buccino, a cui si riferiscono ceramiche d’impasto e armi della cultura eneolitica del Gaudo. Da un abitato dell’età del Bronzo Medio, scoperto in località Tufariello, provengono invece numerosi contenitori fittili inornati, decorati a incisione o intagliati a motivi geometrici. L’esposizione continua con le vetrine in cui sono collocate le ceramiche, di produzione locale, a decorazione geometrica monocroma e bicroma attribuite alla corrente culturale della valle del Platano, del VII secolo a.C. Interessante è anche una fornace dello stesso periodo, esposta
Bracciale in oro dalla tomba della necropoli di Santo Stefano attribuita a una «Signora degli Ori». III sec. a.C.
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integralmente, fornita di una camera di combustione circolare e «prefurnio» funzionale alla produzione di ceramica. Al secondo piano sono riuniti i corredi funerari del VI secolo a.C., tra i quali spicca quello della tomba 117, che comprende armi da difesa e da offesa – un elmo di tipo corinzio, schinieri, spada e cinturone in bronzo –, speroni e un morso equino: elementi che sottolineano la presenza di cavalieri e principi emergenti all’interno della comunità indigena locale. Si accede quindi alla sala dei preziosi reperti recuperati in località Santo Stefano, in una necropoli che conteneva i resti di una famiglia aristocratica degli inizi del IV secolo a.C. Da una tomba a camera dipinta, che ospitava il capofamiglia, provengono resti di ceramiche a figure rosse, tra cui una lekythos di Assteas, e alcune appliques figurate in bronzo, mentre ad altre sepolture dello stesso gruppo appartengono una hydria, anch’essa di Assteas, un bracciale d’argento con testa di serpente e una cassetta che doveva contenere strumenti chirurgici. Ma su tutte emerge il corredo della tomba della «Signora degli Ori», una donna di circa 25 anni, seppellita con tutti gli oggetti tipici della sua condizione femminile: oltre alla parure di monili in oro (anelli, orecchini,
bracciali, collana), si rileva la presenza inconsueta di oggetti da banchetto, come l’olpe con colino, un bacile, una coppa d’argento e un candelabro, e alcuni manufatti tipici del mondo della palestra, tra cui uno strigile e un unguentario in argento, funzionali per versare gli oli e detergersi dopo una lotta o una corsa. Doveva trattarsi, pertanto, di una donna che deteneva una condizione speciale all’interno della comunità, forse legata al servizio che prestava nell’area sacra in cui la sua sepoltura era collocata. Al complesso monumentale sacro appartiene anche la splendida Sala del Banchetto, ricostruita integralmente con i materiali originali. La sala, di forma quadrangolare, è delimitata da una
A destra: una collana con pendenti facente parte del corredo della Signora degli Ori. III sec. a.C. bassa e massiccia struttura in blocchi lapidei e la presenza di una banchina che corre lungo i suoi lati conferma il riconoscimento di questo ambiente come sala da banchetto per le celebrazioni collettive del culto all’interno del santuario di cui faceva parte. Al suo interno, un’animazione in 3D fa rivivere la storia dei due personaggi rappresentati nella Tomba del Tuffatore di Paestum, mentre un gioco di luci sincronizzate con musica e testi descrittivi consente di apprezzarne i dettagli ambientali. Infine, ricostruzioni in tre dimensioni e grandi schermi a cristalli liquidi
accompagnano il visitatore verso una passerella multimediale lungo la quale sono esposti i reperti relativi alla fase lucana dell’insediamento di Buccino, tra la fine del IV e il III secolo a.C. Giampiero Galasso
DOVE E QUANDO Museo Archeologico Nazionale di Volcei «Marcello Gigante» Buccino (SA), piazza Municipio 1 Orario ma-do, 9,00-13,00 e 15,00-19,00; lu chiuso Info tel. 0828 952404 oppure 339 3119217; e-mail: info@volcei.net; www.volcei.net
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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
GLI «ULTIMI» SANNITI GRAZIE ALLA RACCOLTA FONDI PROMOSSA NEI MESI SCORSI, È STATO POSSIBILE TORNARE A SCAVARE NEL SITO DI PIETRABBONDANTE. E, COME RACCONTA ADRIANO LA REGINA, MOLTE E IMPORTANTI SONO LE NOVITÀ
N
ei mesi scorsi, avevamo lanciato un «SOS per Pietrabbondante» (vedi «Archeo» n. 378, agosto 2016), richiamando l’attenzione sulla mancanza di finanziamenti pubblici, che stava mettendo a rischio la prosecuzione delle ricerche nel sito molisano, dove sorge il grande santuario nazionale sannita del II secolo a.C. Qualche tempo dopo, scongiurato il «pericolo» grazie alla raccolta fondi organizzata dagli archeologi insieme all’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte, siamo tornati a Pietrabbondante per visitare il sito in corso di scavo. Il professor Adriano La Regina, che dirige le ricerche a Pietrabbondante dal 1959, ci ha accolto per illustrarci in anteprima le ultime scoperte… «Le indagini del 2016 non hanno beneficiato di sostegno economico
statale o regionale – ricorda l’archeologo –, ma si sono potute svolgere grazie alla liberalità dei privati cittadini, che hanno saputo riconoscere l’importanza storica di Pietrabbondante e il suo interesse per la crescita civile ed economica del territorio: sono stati raccolti 15 mila euro con la colletta organizzata dagli archeologi su Internet (https://youtu.be/N5iBLXhtAPs) e i versamenti sul conto dell’INASA, Il portico monumentale delle offerte, nell’area della Domus publica.
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tuttora attivo in vista della prosecuzione dello scavo nel 2017. Il Comune di Pietrabbondante ha sostenuto le spese di vitto e alloggio degli archeologi. A quanti hanno contribuito va il ringraziamento dei giovani che si dedicano allo studio del Molise antico e dell’Istituto che ne promuove le ricerche». Nella nuova area di scavo, gli archeologi – tutti volontari – documentano la base di un altare e un’iscrizione osca. Che cosa si cela qui sotto, professore? «Si tratta di un sacello, fino a oggi del tutto sconosciuto. La sua esplorazione fornisce informazioni preziose sulla piú tarda frequentazione del luogo. È un piccolo ambiente quasi quadrato, di circa 4 m di lato, come il
A destra: archeologi al lavoro sullo scavo di Pietrabbondante. In basso: una moneta battuta sotto Costanzo II (348-351 d.C.), dal riempimento del sacello. sacrario di Ops che si trova nel portico delle offerte annesso alla Domus publica. Al suo interno abbiamo scoperto la base in pietra di una grande statua di culto, asportata in antico, dinanzi alla quale sorgeva un altare. Di forma quadrangolare, la base presenta un’ampia cavità ricavata al centro del piano su cui poggiava la statua: si tratta, evidentemente, di un ripostiglio per conservare qualcosa che doveva essere nascosto e protetto dall’inviolabilità del simulacro divino. L’edificio rimase in uso anche in epoca tardo-antica, come sede di un culto pagano». Il riempimento del sacello ha restituito monete e lucerne, che offrono indizi interessanti sul rito con cui il luogo sacro fu sigillato… «Lo scavo ha rivelato la particolarità del rito di chiusura dell’edificio, avvenuto dopo il 406 d.C., in ottemperanza alle disposizioni imperiali sulla soppressione dei culti pagani e la demolizione dei relativi templi. L’epoca della distruzione intenzionale del sacello ci viene indicata dalla scoperta di circa 350 monete, per la maggior parte risalenti alla seconda metà del IV secolo (la piú recente è una siliqua in argento di Onorio, del 407-408 d.C.). Possiamo immaginare che la cerimonia si svolse cosí: vi parteciparono piú di cinquanta persone e, man mano che l’ambiente veniva interrato, ciascuno depositava una lucerna e spargeva un piccolo gruzzolo di monete nel terreno e tra le pietre accumulate sul pavimento. Entro la cavità della base per la statua di culto abbiamo trovato circa 170 monete, lucerne, un
Per finanziare la campagna di scavo del 2017, si può inviare un bonifico bancario al conto corrente: IBAN IT23 C030 6905 0200 0529 7850 135 SWIFT BCI TIT MM intestato a Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte presso Banca Intesa, via del Corso 226 - 00186 Roma con la causale «Donazione a favore degli scavi di Pietrabbondante».
coltello per sacrifici e un campanaccio di ferro. L’ambiente venne poi sepolto con terra, sassi ed elementi architettonici appartenenti ad altri edifici sacri». Chi svolse la cerimonia? E quale popolo frequentava il santuario di Pietrabbondante nel V secolo d.C.? «Le ultime scoperte dimostrano che doveva esservi rimasta una comunità di persone, che nel V secolo era pagana. Le ipotesi sono due: o questa comunità locale ricevette l’ordine di distruggere il sacello, e lo eseguí rispettando la propria ritualità pagana, oppure tornò sul posto successivamente, per compiere un rito di espiazione dopo l’avvenuta demolizione dell’edificio. Personalmente, ritengo piú probabile la prima tesi. La distruzione del sacello aveva il significato emblematico di sancire la definitiva soppressione dell’intero santuario, della cui trascorsa celebrità doveva restare ancora memoria. Abbiamo qui una testimonianza archeologica del
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grande conflitto di religioni che, nei primi decenni del V secolo, portò alla fine del paganesimo e dell’antichità classica». Le ultime ricerche hanno svelato elementi architettonici riferibili a templi piú antichi, ancora sconosciuti, risalenti alle prime fasi del sito: di che cosa si tratta? «Tra i blocchi accatastati nel riempimento del sacello abbiamo trovato parte di un altare con iscrizione in lingua osca, rocchi di colonna, due capitelli dorici e la base di una colonna ionica, tutti in pietra tufacea grigia e di provenienza forse campana. Sono parti di edifici smembrati di epoca ellenistica, che dovrebbero trovarsi nei dintorni: si tratta di almeno due templi, degli inizi del III secolo a.C., uno di ordine dorico, l’altro ionico. Siamo certi che esistono, ma non sappiamo dove si trovino». I templi individuati quest’anno si aggiungono alla già lunga lista di quelli scoperti nel santuario di Pietrabbondante dal 1959 a oggi… «Finora sono otto gli edifici sacri riconosciuti nell’ambito del santuario: il Tempio A (inizi del II secolo a.C.), scavato nell’Ottocento; il Tempio B, dietro al Teatro (fine del II secolo a.C.), scavato negli anni 1959-1976; il Tempio ionico (inizi del III secolo a.C., distrutto durante la guerra annibalica), individuato nel
1968; la Domus publica e i sacelli nel portico delle offerte votive (II secolo a.C.), scoperti nel 2005; i Sacelli G e H nell’area delle tabernae, individuati nel 2010; il piú antico Tempio L, scoperto sempre nel 2010, cioè l’aerarium del santuario (IV-III secolo a.C.), saccheggiato durante la guerra annibalica; infine il sacello scavato nell’agosto 2016». Le ultime scoperte definiscono un orizzonte cronologico molto ampio al santuario di Pietrabbondante, dal IV secolo a.C. al V d.C, a riprova della sua importanza, non è vero? «Il santuario si configura come il principale complesso religioso della nazione dei Samnites Pentri, in cui si praticavano i culti pubblici dell’intero pantheon sannitico. Le divinità maggiori hanno un alto significato ideologico: Victoria, Ops Consiva (la dea dell’opulenza), Honos (la personificazione divina dell’onore); tra le altre, compare Venus Erycina, introdotta nel Sannio, come a Roma, durante la seconda guerra punica». Quale sviluppo ha avuto il santuario nei suoi secoli di vita? «Nella parte orientale il sito doveva essere in funzione già nel V secolo a.C., come mostra il ritrovamento di oggetti votivi. Al III secolo a.C. risalgono i resti del Tempio ionico, nell’area poi occupata dal Teatro. La I resti del sacrario di Ops Consiva (la dea dell’opulenza), compreso anch’esso nell’area della Domus publica. La struttura richiama un analogo sacrario della dea che si trovava nella Regia di Roma.
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maggiore fioritura si ebbe nel II secolo a.C., con il Tempio A e il complesso Tempio B-Teatro-Domus publica. Dopo la guerra sociale finisce ogni forma di autonomia del Sannio e l’area del santuario diviene sede di attività produttive nell’ambito di un fundus privato. I templi rimangono nella proprietà dello Stato romano, ma non subiscono interventi di manutenzione: all’epoca di Traiano, il tetto del Tempio B era già in rovina, mentre nel III secolo d.C. le terrazze ai suoi lati erano usate per umili sepolture. Ancora nel III secolo d.C. sopravvivono nell’area attività produttive e forme di culto privato (come quello di Sabazio). La località decade gravemente in seguito al terremoto del 346 d.C., ma non viene completamente abbandonata, come dimostrano le indagini svolte quest’anno, che documentano la sua frequentazione fino al V secolo d.C. da parte di una modesta comunità locale, prima della persecuzione dei culti pagani avviata da Teodosio, che sancirà poi la fine del mondo antico». Recentemente lo Stato ha finanziato il restauro e la valorizzazione del sito con 1 milione di euro, destinato in particolare all’apertura della Domus publica, ma lo scavo archeologico del prossimo anno resta affidato alla benevolenza delle donazioni private, non è vero? «Sí, è cosí. Lo scavo non ha ricevuto alcun finanziamento per il 2017. Eppure ci sono due templi risalenti all’epoca ellenistica, ancora da scoprire. Devono trovarsi nei dintorni del sacello, il cui riempimento – come abbiamo visto – ha restituito capitelli e colonne in tufo databili tra la fine del IV secolo a.C e la prima metà del III: elementi architettonici che devono essere stati raccolti nelle vicinanze del sacello. L’obiettivo della prossima campagna di scavo è proprio quello di rintracciarli».
n otiz iario
ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
LA PIÚ ANTICA DI TUTTE Ancora una volta commentiamo qui, sgomenti, le ferite inferte alla civiltà dalla distruzione di antiche vestigia nelle zone oggi teatro di continui conflitti. Dopo aver parlato della Libia, di Mosul, di Ninive e di Palmira, purtroppo dobbiamo tornare ancora una volta in Siria, per ricordare Aleppo. Massimo Vidale e Marco Di Branco raccontano la storia piú che millenaria della città (vedi alle pp. 76-99), dichiarata Patrimonio Mondiale dell’Umanità fin dal 1986, e, nel 2006, scelta anche come Capitale della Cultura islamica (1), ma che, oggi, risulta quasi completamente distrutta. Da parte nostra, come sempre, procediamo con una piccola panoramica dei luoghi, vecchi e piú recenti, descritti nell’articolo. Cominciamo anche noi dall’Hotel Baron, ideale punto di partenza degli autori dello Speciale di questo mese, qui mostrato in una vecchia cartolina illustrata (2). Fin dal 1925, la Siria ha emesso molti francobolli che illustrano le piú importanti località archeologiche, tra le quali, non può naturalmente mancare Aleppo. Due di essi raffigurano la Cittadella, con ai piedi la città vecchia, vista da prospettive diverse (3-4); altri due l’ingresso piú famoso alla Cittadella, quello del Saraceno (5-6), chiamato anche Castello di Aleppo. Lo stesso soggetto è stato usato per celebrare l’acquedotto che ha portato l’acqua dell’Eufrate ad Aleppo (7); poi la Grande Moschea (8) e i minareti della città (9). Molti sono i reperti ritrovati ad Aleppo e nelle sue vicinanze, come Ebla, una volta conservati nel Museo cittadino e ora al sicuro a Damasco (10-11-12). Merita poi d’essere sottolineata la costante e importante presenza della comunità ebraica in questa città; le testimonianze piú significative sono i resti della Grande Sinagoga, costruita nel XII secolo (13) e il ritrovamento di quello che è chiamato il Codice di Aleppo, uno dei piú antichi manoscritti della Bibbia ebraica (14). Infine, nel 1983 si svolse ad Aleppo un Simposio internazionale per la conservazione della città vecchia e venne emesso un francobollo per ricordare l’evento (15): premonizione di quanto sarebbe potuto accadere e che poi è accaduto, purtroppo…
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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure
Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it
CALENDARIO
Italia
PAESTUM Possessione
ROMA MADE in Roma
Trafugamenti e falsi di antichità a Paestum Museo Archeologico Nazionale fino al 31.12.16
Marchi di produzione e di possesso nella società antica Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 20.11.16
POMPEI Per grazia ricevuta
La Spina
La devozione religiosa a Pompei antica e moderna Antiquarium degli Scavi fino al 27.11.16
Dall’agro Vaticano a via della Conciliazione Musei Capitolini fino al 20.11.16
RAVENNA S.I.R.I.A. (Salvezza, Illuminazione e Redenzione nell’Iconografia dell’Architettura)
Rinascere dalle distruzioni Ebla, Nimrud, Palmira Colosseo fino all’11.12.16
Minute Visioni
Micromosaici romani del XVIII e XIX secolo dalla collezione Ars Antiqua Savelli Museo Napoleonico fino al 31.12.16
Qui sopra: progetto di Ciro Santi per piazza San Pietro.
Un ritratto in due parti Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps fino al 15.01.17
Qui sopra: tavolo con commessi di marmi e veduta del Foro.
Il padre dell’archeologia in Toscana Museo Archeologico Nazionale Firenze, Salone del Nicchio fino al 30.01.17
GROSSETO, MANCIANO, MARSILIANA D’ALBEGNA E SCANSANO Marsiliana d’Albegna
Dagli Etruschi a Tommaso Corsini Museo Archeologico e d’Arte della Maremma Museo di Preistoria e di Protostoria della Valle del Fiora località Dispensa-Sala del Frantoio Museo Civico Archeologico e della Vite e del Vino fino al 31.01.17
MILANO Homo sapiens
Le nuove storie dell’evoluzione umana MUDEC-Museo delle Culture fino al 26.02.17 36 a r c h e o
Archeologia e storia a San Pietro in Casale Museo Casa Frabboni fino al 31.01.17
Storie di catastrofi e altre opportunità MUSE-Museo delle Scienze di Trento fino al 26.06.17
BARLETTA Annibale. Un viaggio
FIRENZE Winckelmann, Firenze e gli Etruschi
SAN PIETRO IN CASALE (BO) Villa Vicus Via
TRENTO Estinzioni
Antinoo
Castello fino al 22.01.17
Mosaici pavimentali siriani TAMO, Tutta l’Avventura del Mosaico fino al 06.01.17
VETULONIA (CASTIGLIONE DELLA PESCAIA, GROSSETO) Bentornati a casa La Domus dei Dolia di Vetulonia riapre le porte dopo 2000 anni Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino all’08.01.17 (prorogata)
VILLANOVA DI CASTENASO (BO) La Stele delle Spade e le altre Sculture orientalizzanti dall’Etruria padana Museo della Civiltà Villanoviana fino all’11.06.17
VULCI I misteri di Mithra
Museo Archeologico Nazionale fino al 31.03.17
Francia PARIGI Siti eterni
Da Bamiyan a Palmira. Viaggio nel cuore dei siti del Patrimonio dell’Umanità Grand Palais fino al 09.01.17 (dal 14.12.16)
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
MANNHEIM Egitto
L’età dei Merovingi
Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 13.02.17
Terra dell’immortalità Reiss-Engelhorn-Museen fino al 30.07.17 (prorogata)
Che c’è di nuovo nel Medioevo?
Tutto quello che l’archeologia ci rivela Cité des sciences et de l’industrie In alto: fibula merovingia fino al 06.08.17 in oro, bronzo e pietre dure. VII sec. QUINSON
Gli Huaxtechi
Un popolo misconosciuto del Messico precolombiano Musée de Préhistoire des gorges du Verdon fino al 30.11.16
SAINT-DIZIER Austrasia
Il regno merovingio dimenticato Espace Camille Claudel fino al 26.03.17
I mondi perduti dell’Egitto The British Museum fino al 27.11.16
Deturpare il passato
Dannazione e profanazione nella Roma imperiale The British Museum fino al 07.05.17
ATENE Dodona
Musée d’Archéologie nationale fino al 30.01.17
L’oracolo dei suoni Museo dell’Acropoli fino al 10.01.17
Germania La biografia di un fiume europeo Bundeskunsthalle fino al 22.01.17
LONDRA Città sommerse
Grecia
SAINT-GERMAIN EN LAYE L’orso nell’arte preistorica
BONN Il Reno
Gran Bretagna
In basso: rilievo raffigurante il Reno come creatura bicorne. II sec. d.C.
Odissee
Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.17
In alto: lamina in piombo con una domanda all’oracolo.
Olanda LEEUWARDEN Alma-Tadema: fascino classico Fries Museum fino al 07.02.17
Svizzera GINEVRA Amazzonia
Lo sciamano e il pensiero della foresta Musée d’ethnographie fino all’08.01.17
In basso: placchetta con figure di grifi, da Nimrud.
USA PHILADELPHIA L’età d’oro del re Mida
Tesori dalla Turchia antica University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology fino al 27.11.16 a r c h e o 37
CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli
IN VIAGGIO CON ULISSE IL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI ATENE FESTEGGIA I SUOI 150 ANNI CON UNA SFILATA DI CAPOLAVORI. RIUNITI IN UN ALLESTIMENTO CHE EVOCA L’ODISSEA E FA DEL RE DI ITACA UN CICERONE D’ECCEZIONE
I
l 2016 è stato un anno di festa per il Museo Archeologico Nazionale di Atene, che ha celebrato il centocinquantenario della fondazione. Per ricordare questo importante traguardo, sono state organizzate numerose iniziative – soprattutto concerti e piccole esposizioni –, che ora culminano invece nella grande mostra «Odissee», inaugurata lunedí 3 ottobre, esattamente nel giorno in cui – anch’esso un In basso: «Itache»: veduta dell’unità dell’Amore, con un gruppo scultoreo raffigurante Afrodite, Pan ed Eros, da Delo (Cicladi). 100 a.C. circa.
A destra: «Il viaggio», con la statua di Posidone da Livadostra (Beozia, 480 a.C.), nel mezzo di un mare in tempesta.
lunedí – venne posta, nel 1866, la prima pietra del Museo, in un terreno di odòs Patission, nel cuore dell’allora quartiere residenziale della capitale.
PERSONAGGIO ARCHETIPICO Il titolo dell’evento, che richiama l’omonimo poema omerico senza tuttavia raccontarne in dettaglio le vicende, annuncia al visitatore l’intento della mostra: che è quello di narrare l’avventuroso viaggio dell’uomo attraverso il tempo, osservato da un punto di vista astratto e simbolico, quello di Ulisse. L’eroe, quindi, funge da personaggio archetipico, che, come un fil rouge, collega tra loro opere piú o meno note del Museo, offrendo lo spunto per raccontare la storia dell’umanità, il tentativo costante di domare l’ambiente, di esplorare luoghi nuovi, di arricchire i propri orizzonti, di contrastare la deperibilità dell’esistenza umana con i mezzi 38 a r c h e o
dell’amore e della creatività. Le tre unità attorno alle quali sono raggruppate le opere selezionate per l’esposizione hanno titoli emblematici. La prima, «Il viaggio» presenta testimonianze dell’incessante ricerca dell’uomo di materie prime, di nuove idee e la sua sete di conoscenza; in esso, il variegato carico di un’imbarcazione e i miti antichi connessi ai viaggi per mare creano un contesto legato all’avventura e alla ricerca del nuovo. «Itache» s’ispira piú direttamente al viaggio di Ulisse e s’incentra sul tema vitale della patria; concetti universali sono richiamati da opere che simboleggiano il tentativo di ogni società, di svilupparsi, ma anche la speranza dell’uomo di riuscire a superare la propria, inevitabile mortalità. «Esodo», infine, è l’unità conclusiva in cui sono riuntiti capolavori che aspirano a richiamare i piú alti risultati dello spirito umano, chiamando il visitatore a farsi carico in prima
Qui accanto: «Itache»: in primo piano, la statua di Ulisse dal relitto di Anticitera. I sec. a.C. Qui sotto, a destra: «Itache»: veduta dell’unità del Luogo, con vasi da Akrotiri (Santorini). XVI sec. a.C. persona di proseguire questo viaggio avventuroso e creativo. Un viaggio in cui è la poesia a fare da padrona, sottolineata dalle musiche di Vangelis, Ithake e Voices-Dream in an Open Place; un viaggio simbolico, nel quale a fare da ponte verso il mondo moderno è la parola di quattro sommi poeti greci: Konstantinos Kavafis, Giorgos Seferis, Odysseas Elytis e Yannis Ritsos.
SCENOGRAFIE SPETTACOLARI Ulisse e il suo viaggio, insomma, offrono un pretesto per mettere in mostra 184 capolavori del Museo Archeologico Nazionale, ai quali se In basso: «Itache»: veduta dell’unità della Morte, con un kouros da Merenda (Attica). 540-530 a.C.
ne aggiungono altri sei ottenuti in prestito dal Museo dell’Acropoli e dal Museo Epigrafico: tutte opere di musei greci, a porre l’accento sulla grecità di quest’avventura lunga centocinquant’anni. Predominano gli elementi della poesia, del viaggio, della ricerca, resi con scenografie spettacolari e di grande effetto; il visitatore ha cosí la rara occasione di passeggiare attraverso una carrellata di opere celeberrime, ma anche di piccoli gioielli, usciti per l’occasione dai magazzini del Museo. La mostra è stata generosamente finanziata dalla Fondazione Stavros Niarchos; e, tra le istituzioni che hanno contribuito ad arricchire questa grande festa, vi sono la Fondazione Evgenidou – responsabile di un planetario all’avanguardia, che ha fornito l’attrezzatura necessaria a riprodurre un cielo stellato –, e il Teatro Nazionale, che ha prestato uno storico abito dell’Edipo Tiranno.
Anche altri Musei stranieri hanno voluto partecipare imprestando loro opere, che dialogano con quelle in mostra: dal Metropolitan Museum di New York al National Museum of Western Art di Tokyo, dal Badisches Landesmuseum di Karlsruhe al Palace Museum di Pechino; cosí, si possono ammirare, tra l’altro, il famoso Pensatore di Rodin o il celebre cratere apulo su cui è raffigurato un pittore nell’atto di decorare una statua di Eracle con la tecnica dell’encausto. La festa del piú antico museo della Grecia continuerà ancora a lungo; salvo proroghe, infatti, la mostra durerà per un anno intero.
DOVE E QUANDO «Odissee» Atene, Museo Archeologico Nazionale fino al 30 settembre 2017 Orario tutti i giorni, 8,00-20,00 Info www.namuseum.gr a r c h e o 39
SAN PAOLO
SI È FERMATO QUI SCAVI CONDOTTI LUNGO LA VIA APPIA, NEI PRESSI DI CISTERNA DI LATINA, HANNO RIPORTATO ALLA LUCE I RESTI DELLA STAZIONE DI TRES TABERNAE. SULLA VIA VERSO ROMA, FRA GLI ALTRI, VI FECE SOSTA ANCHE UN «PRIGIONIERO ECCELLENTE» di Nicoletta Cassieri e Vincenzo Fiocchi Nicolai 42 a r c h e o
A sinistra: il segmento della Tabula Peutingeriana nel quale compare la stazione di Tres Tabernae, cerchiata in rosso. La Tabula è la copia medievale di una mappa dell’impero romano disegnata alla metà del IV sec. XII sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. In alto: emblema pavimentale a mosaico raffigurante scene di caccia, rinvenuto nella sala triclinare di un edificio di prestigio a Tres Tabernae. Seconda metà del II sec. d.C.
L
a mansio romana (vedi box a p. 47) di Tres Tabernae, situata al XXXIII miglio della via Appia, è molto nota tra gli studiosi di san Paolo e gli storici del cristianesimo antico. Insieme al vicino centro di Forum Appii (al XLIII miglio), essa, infatti, fu teatro, probabilmente nella pr imavera dell’anno 61, dell’incontro tra alcuni cristiani di Roma e l’apostolo Paolo, condotto prigioniero nella capitale dell’impero per essere processato con l’accusa di aver provocato gravi disordini a Gerusalemme (Atti, 21-26). L’episodio viene raccontato in un
passo degli Atti degli Apostoli (28, 15-16): «I fratelli di là [Roma], avendo avuto notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne. Paolo, al vederli, rese grazie a Dio e prese coraggio». Le parole di san Luca (al quale viene attribuita la redazione degli Atti) sono molto importanti per la storia della prima comunità cristiana di Roma, in quanto costituiscono una delle piú antiche e incontrovertibili testimonianze dell’esistenza di gruppi di fedeli già pochi decenni dopo la morte di Gesú. Una comunità che doveva essere a r c h e o 43
SCAVI • TRES TABERNAE
consistente se, appena tre anni dopo, nel 64 d.C. – all’epoca dei tragici avvenimenti connessi con l’incendio neroniano –, a detta dello storico Tacito (Ann., XV, 44), essa era ormai una multitudo ingens. La mansio di Tres Tabernae fu raggiunta dal convoglio che trasportava Paolo da sud: gli Atti ci dicono che il gruppo proveniva da Pozzuoli (Atti, 28, 13). Come Forum Appii, essa doveva costituire un luogo di sosta importante per coloro che percorrevano la regina viarum, tra Roma e il porto di Terracina. È anzi probabile che, con l’organizzazione del servizio postale pubblico attuato da Augusto, Tres Tabernae sia entrata a far parte del sistema delle stazioni che scandivano a distanze regolari le principali strade romane, cioè del cursus publicus. Il gruppo di militari che scortava Paolo poteva dunque avere utilizzato tale servizio, in gran parte finalizzato proprio a facilitare le comunicazioni e le informazioni che riguardavano la sfera militare.
IL CANALE D’EMERGENZA È altresí verosimile che la distanza tra Terracina e Forum Appii non sia stata percorsa da san Paolo e dai suoi compagni via terra, ma navigando per alaggio il canale che correva parallelo alla via Appia per diciannove miglia (il Decennovium) e che costituiva una valida alternativa alla strada, in particolare quando questa, come accadeva di frequente, era invasa dalle acque. La notizia è riportata dai leggendari Acta Petri et Pauli, in un passo che non può risalire oltre il IX secolo, ma che probabilmente rielabora una versione piú antica assegnabile agli anni 450-550: «Partito [Paolo] da Gaeta, arrivò al vicino borgo di Terracina.Vi rimase sette giorni in casa del diacono Cesario, ordinato da Pietro. Di qui navigò attraverso il fiume [il Decennovium] e arrivò a un luogo detto Tre Taverne (...) Paolo si fermò quattro giorni a Tre Taverne». I navigli lungo il 44 a r c h e o
Il viaggio di Paolo alla volta dell’Urbe Nella cartina alla pagina accanto: l’itinerario che, stando alla narrazione contenuta negli Atti degli Apostoli, san Paolo seguí nel viaggio in cui fu scortato come prigioniero da Gerusalemme a Roma. La missione venne affidata al centurione di una coorte imperiale di nome Giulio, che mostrò simpatia e amicizia per l’apostolo, comportandosi con lui in maniera benevola. A destra: placca in avorio facente parte della copertina di un libro e raffigurante san Paolo. Produzione bizantina, fine del VI-primo quarto del VII sec. d.C. Parigi, Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge.
Mar Nero Macedonia
Po n t o
Bitinia
Roma Tres Tabernae (Tre Taverne) Terracina Forum Appii (Foro di Appio) Pozzuoli
Galazia
Tessalonica
Acaia
Commagene
Adramitto
Sardegna
Antiochia di Pisidia
Asia
Cilicia
Efeso Reggio
Corinto
Atene
Miloro
Licia
Cnido
Sicilia
Fenice (Loutro) Creta
Malta
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Salmone
Pafo Sidone Cesarea Antipatride Gerusalemme
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Buoni Porti (Kaloi Limenes) Lasea Clauda (isola di Gavdos)
Mar Mediterraneo
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Cipro
Siracusa
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Tarso
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S
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A sinistra: una pagina del manoscritto Palatinus 1564, nella quale sono raffigurate la via Appia e la centuriazione della colonia romana di Terracina (Anxur). IX sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
Decennovium erano trainati da muli, come ricorda Strabone (Geogr.,V, 3, 6); e del canale e dei traffici che vi si svolgevano abbiamo una vivida descrizione in Orazio, che lo aveva percorso partendo da Roma.
UNA STAZIONE IMPORTANTE La stazione compare negli Itinerari stradali come posto di tappa sull’Appia: nell’Itinerarium Antonini, risalente alla fine del III-inizi del IV secolo, e nei piú tardi testi della Cosmographia dell’Anonimo Ravennate e dei Geographica di Guidone. Nella Tabula Peutingeriana, una mappa dell’impero romano databile alla metà del IV secolo ma conosciuta attraverso la copia eseguita in età medievale, la mansio di Tres Tabernae è contrassegnata da una vignetta che ne sottolinea la particolare rilevanza e, probabilmente, l’esistenza di un edificio termale. Le indagini archeologiche condotte a r c h e o 45
SCAVI • XXXX XXXXXX
in piú riprese dalla Soprintendenza competente a sud di Cisterna di Latina, lungo il margine destro della moderna statale Appia che ripercorre il tracciato romano, hanno consentito di identificare il sito dell’antica stazione, fino ad allora variamente localizzata dagli studiosi. In un’area di 2 ettari circa, sono stati evidenziati resti di edifici pubblici e privati, oltre a un diverticolo della strada principale, che costituiscono solo una porzione limitata di un insediamento ben piú vasto, la cui frequentazione va dal I al IX secolo d.C., originariamente esteso su entrambi i lati della via publica. Le strutture sono scarsamente conservate in elevato, sia a causa delle consistenti trasformazioni del paesaggio pontino attuate nel secolo scorso, sia delle ripetute lavorazioni agricole, cosicché risulta problematico, al momento, determinare con sicurezza le destinazioni d’uso dei singoli nuclei edilizi portati in luce; ciononostante, si sono conservati 46 a r c h e o
numerosi pavimenti a mosaico, il cui piú tarde, in prevalente opera vittarepertorio decorativo, insolito e va- ta (tecnica muraria in cui il nucleo rio, non trova precedenti nella zona. cementizio è associato a blocchetti in pietra di eguali dimensioni e solitamente a forma di parallelepiALLOGGI E STRUTTURE pedo, disposti in file orizzontali, COMMERCIALI Gli scavi hanno finora permesso di n.d.r.): qui, accanto a un quartiere individuare vari settori interessati da di servizio, si sviluppa un gruppo di costruzioni: il primo, gravitante at- vani contigui, serviti da un lungo torno al diverticolo in basoli di cal- corridoio, tutti con pregevoli tescare, dotato di crepidini e di un sellati (pavimenti composti da tespiccolo slargo utile alla manovra dei sere, tessellae, di piccole dimensioni, carri, comprende anche resti di edi- n.d.r.) bianco-neri, in parte frutto fici di presumibile carattere com- della ristrutturazione di un edificio merciale, piú volte rimaneggiati, preesistente e in parte di una nuova oltre a un balneum (impianto terma- realizzazione. le) e ad apprestamenti per l’approv- Grazie alle indagini è stato possibile vigionamento idrico (un pozzo, una appurare che alcuni di questi tappegrande cisterna); il secondo, ancora ti musivi, databili nella tarda età della fine del I secolo a.C., è carat- antonina (intorno al 180 d.C.), venterizzato da ambienti con murature nero realizzati al di sopra di un alto in reticolato e pavimenti in battuto strato di costipazione, composto da o in mosaico monocromo bianco, materiali eterogenei frammisti a inche si alternano a un grande spazio tonaci dipinti della prima fase in stato di crollo, che poggia direttaaperto, sistemato a hortus. In direzione nord-ovest, il terzo mente sul pavimento originario, un settore presenta invece murature semplice battuto.
Non c’è strada senza mansio Il rilievo qui sopra (che ornava un sarcofago di epoca paleocristiana) raffigura l’arrivo a una mansio. Tale termine indicava una stazione di sosta, ma era spesso utilizzato anche per definire l’intero insediamento sorto intorno alla stazione stessa. Per l’impero romano, le mansiones (plurale di mansio) erano d’importanza vitale per colonizzare le nuove province ed estendere i propri
I nuovi piani – soprattutto il mosaico con raffigurazioni di uccelli e motivi floreali stilizzati entro nastri ondulati, e quello della stanza piú grande, forse una sala da pranzo, con un complesso disegno «ad arabesco» di tralci vegetali, arricchito da oggetti riferibili a un contesto dionisiaco (maschere, syrinx o flauto di Pan, kantharos, corni potori) e da un medaglione centrale con testa di Gorgone –, dimostrano l’originalità creativa e l’alto livello esecutivo delle maestranze che lavorarono nel sito. La ricomposizione e il restauro di una minima quantità dell’ingente mole dei frammenti pittorici hanno
domini. In corrispondenza dei punti nodali, sorsero strutture complesse, costituite da fabbricati per i viaggiatori (come bagni, stazioni di sosta e cambio dei cavalli), alloggiamenti per i postiglioni e insediamenti per i residenti, che allora vivevano perlopiú di attività agricole. Le stazioni principali distavano in media 40 km una dall’altra, e ogni 17 km esistevano stazioni minori per il cambio dei cavalli, corredate di ricoveri di fortuna.
restituito porzioni di affreschi relativi a soffitti e pareti di una o due stanze, che, una volta caduti o rimossi intenzionalmente, furono utilizzati come sottofondo dei rinnovati pavimenti, piú conformi al gusto dell’epoca. Lo schema decorativo, esuberante e vivacemente colo-
rato, con forti contrasti di rosso e di giallo, si basava sull’alternanza di elementi puramente ornamentali tipici del IV Stile, e di quadretti figurati a fondo nero con scene legate al mondo campestre e alla caccia. La zona centrale vede rappresentati soggetti mitologici marini, come la
Nella pagina accanto: i resti del piccolo impianto termale (balneum) scoperto a Tres Tabernae. I sec. d.C. A destra: un tratto del diverticolo della via Appia (che corre in corrispondenza del filare di pini) nei pressi della mansio in cui il basolato si allarga, creando uno spazio che consentiva le manovre dei carri. a r c h e o 47
SCAVI • TRES TABERNAE
Nereide con mantello svolazzante seduta su un Tritone. I confronti con esemplari soprattutto di area vesuviana (Stabia, Pompei, Oplontis) inducono a riferire le pitture all’età neroniana (54-68 d.C).
UN EDIFICIO PRESTIGIOSO Nel quarto settore si sviluppa un grande edificio di prestigio, non ancora indagato integralmente, composto da un’area centrale a cielo aperto – un cortile o un giardino –, circondato da ambienti, uno dei quali riscaldato, tutti dotati di mosaici bianco-neri di tipo geometrico che recano motivi di repertorio rielaborati in maniera non convenzionale e impreziositi da lastrine di marmi policromi variamente tagliate. Il piú sontuoso, da identificare con una sala triclinare, presentava ben tre riquadri, con altrettanti emblemata figurati: si tratta di mosai-
Sulle due pagine, sullo sfondo: il pavimento a mosaico bicromo con motivi floreali e uccelli della tarda età antonina (180 d.C. circa). Qui sotto: medaglione con testa di Gorgone facente parte di un altro dei mosaico. Seconda metà del II sec. d.C.
ci particolarmente raffinati, realizzati in bottega su un fondo di terracotta e poi messi in opera; purtroppo, solo uno dei tre è stato recuperato, poiché gli altri erano stati trafugati prima dell’intervento. La composizione è costituita da minuscole tessere marmoree e di pasta vitrea colorate (vedi foto a p. 43); vi compare una scena di caccia, articolata su un doppio registro: in basso, due servi caricano su un mulo la preda, un cervo ferito a morte, entro una quinta naturalistica di alberi e rocce; in alto a sinistra, due personaggi maschili, i «domini» (plurale di dominus, signore, padrone), sono colti in un momento di riposo, intenti a conversare dopo la battuta venatoria, mentre, a destra, i loro cavalli sono legati alla facciata di un edificio. Si tratta di un esemplare di fattura eccellente, da cui emerge uno spiccato gusto per gli effetti del colore e della luce, la ricerca
dei dettagli, gli scorci delle figure. Sebbene la scena sia alquanto semplificata, questo emblema, databile nella seconda metà del II secolo d.C., può essere considerato un’anticipazione delle piú complesse rappresentazioni con cacce e banchetti «all’aria aperta», tipiche dei mosaici delle residenze aristocratiche extraurbane del IV-V secolo, quali la villa del Casale di Piazza Armerina. Per l’opulenza decorativa, la sala potrebbe avere avuto una destinazione di rappresentanza, da ricondurre alla presenza di personaggi di rango collegati alla cura della strada pubblica (curatores viarum/praefecti vehiculorum) o alla gestione della mansio (màncipes). In alternativa, si può ipotizzare che fosse un edificio privato, dotato di notevole comfort, sorto nei pressi della stazione di posta, come un vero albergo per l’alloggio e il ristoro dei viaggiatori piú importanti. Col tempo, infatti, molte stazioni vennero provviste di particolari servizi (terme, presidio medico, mercato), mentre all’intorno si costruivano case di abitazione per chi lavorava nella stazione stessa. Stando ai dati archeologici e all’ubicazione in prossimità dell’impor-
tante incrocio della via Appia con l’asse trasversale tra i Monti Lepini e la costa, è da ritenere che già nella prima metà del I secolo a.C. esistesse nel luogo un’importante struttura attrezzata per la sosta e il cambio dei cavalli, come confermano le ripetute citazioni delle «Tre Taverne» da parte di Cicerone – che vi aveva sostato nel 59 a.C. – nelle lettere all’amico Attico.
LA MEMORIA DELL’APOSTOLO La vita della mansio dovette proseguire particolarmente florida nei secoli della tarda antichità, come attestano la sua menzione nei piú tardi Itinerari stradali già ricordati e, soprattutto, la raffigurazione nella Tabula Peutingeriana. Probabilmente, proprio per la «memoria» dell’antico passaggio di san Paolo, Tres Tabernae assunse un ruolo di prestigio anche nella prima costituzione di una geografia diocesana nel territorio circostante Roma. Già nel 313, all’indomani della pace religiosa, troviamo nel nostro centro incardinata una sede vescovile. Al concilio lateranense svoltosi nell’ottobre di quell’anno, tra i soli sei vescovi rap-
presentanti delle diocesi laziali, compare un «Felix a Tribus Tabernis». L’installazione di una sede episcopale cosí precoce in un insediamento secondario, oltre che al prestigio «memoriale» di Tres Tabernae e alla sua probabile notevole consistenza demografica, poteva essere funzionale anche al controllo dei numerosi possedimenti fondiari che la Chiesa deteneva in età costantiniana nella zona. D’altra parte, la presenza della sede episcopale nel borgo dell’Appia implica, sotto il profilo monumentale, che il centro disponesse almeno di una chiesa, di un battistero e di una residenza per il vescovo e il clero. La diocesi di Tres Tabernae continuò a vivere fino alla fine del VI secolo, quando le distruzioni provocate dall’invasione dei Longobardi ne fecero decretare a papa Gregorio Magno l’unione alla vicina sede vescovile di Velletri (e di fatto lo spegnimento), come documenta una lettera del pontefice dell’agosto 592 (Epist., II, 42). Da quel momento cessano le testimonianze dell’episcopato di Tres Tabernae, il quale, tuttavia, riappare sorprendentemente alla metà dell’VIII secolo, quando A sinistra: uno degli ambienti del terzo settore in corso di scavo. Si possono vedere frammenti di affreschi di età neroniana, riutilizzati come sottofondo per la nuova decorazione pavimentale degli ambienti. I sec. d.C.
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SCAVI • TRES TABERNAE
un «Parvus episcopus sanctae ecclesiae A destra: in Tribus Tabernis» viene menzionato frammenti degli in un constitutum di papa Paolo I affreschi parietali dell’anno 761. Altri vescovi di Tres di età neroniana, Tabernae risultano presenti ai conciricomposti dai li romani degli anni 769, 826, 853, frammenti 869. In quello dell’anno 769 il ve- rinvenuti durante scovo Pinis compare col titolo di gli scavi. episcopus civitate Tribus Tabernis, segno Metà del che l’insediamento romano aveva I sec. d.C. assunto dignità paragonabile a quelIn basso, sulle la di una città. due pagine:
LA RINASCITA Il grande storico del Medioevo Ottorino Bertolini (1892-1977) ha ben spiegato la ragione della ricomparsa della sede vescovile dopo il silenzio di oltre due secoli e mezzo: alla metà dell’VIII secolo, la fondazione da parte di papa Zaccaria delle vicine domuscultae (aziende agricole pontificie) di Formias (nella zona a sud-est di Aprilia) e di Anzio – funzionali all’approvvigionamento alimentare di Roma –, e la coeva donazione alla Chiesa, da parte dell’imperatore Costantino V Copronimo, delle massae (insiemi di terreni agricoli) di
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Paludi pontine (campagna romana) (particolare), olio su tela di Achille Vertunni. 1861 circa. Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna.
A destra: un’immagine degli scavi nel quarto settore, con la decorazione musiva pavimentale bicroma, di tipo geometrico, impreziosita da lastrine di marmi policromi. II sec. d.C.
Ninfa e Norma, – anch’esse situate in vicinanza dell’antica mansio romana – dovettero rivivificare il territorio, anche dal punto di vista demografico, e rendere opportuna la riattivazione della sede vescovile. Questa, tuttavia, non sopravvisse molto oltre la metà del IX secolo: l’ir reversibile impaludamento dell’area attraversata dalla via Appia, alla quale, nel settore pontino fino a
Terracina, si cominciò a preferire l’antico percorso pedemontano che passava per Norba, Sezze e Priverno, dovettero decretare il progressivo abbandono del sito. Degli antichi edifici di culto cristiani di Tres Tabernae non è mai stata ritrovata traccia. Solo nei primi anni Novanta, scavi non autorizzati eseguiti nell’area della mansio hanno riportato alla luce frammenti mar-
morei di plutei e di un pilastrino, certamente pertinenti all’arredo liturgico di una chiesa. Essi sono decorati con un motivo a intreccio di nastri di vimini, secondo la moda e lo stile degli anni compresi tra la fine dell’VIII e la metà del IX secolo. Si tratta di testimonianze importantissime di una recinzione presbiteriale, che confermano la presenza di un antico edificio di culto nell’area.
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MOSTRE • ROMA
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PERDERE
LA TESTA NEL 1756, VISITANDO LA COLLEZIONE BONCOMPAGNI LUDOVISI, JOHANN JOACHIM WINCKELMANN NOTÒ CHE IL BUSTO DI ANTINOO CHE NE FACEVA PARTE AVEVA UN «VOLTO NUOVO». NESSUNO POTEVA DIRE CHI AVESSE INTEGRATO L’OPERA E QUANDO. NÉ, SOPRATTUTTO, QUALE SORTE FOSSE TOCCATA ALLA PARTE MANCANTE. FINO A CHE, UNA DECINA D’ANNI FA, UN EGITTOLOGO STATUNITENSE... di Stefano Mammini
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ietro «Antinoo, un ritratto in due parti», la mostra allestita nel Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps, c’è una storia che vale la pena di raccontare e che è affascinante almeno quanto lo sono le magnifiche opere esposte. Anche se, forse, sarebbe piú corretto parlare di una sola opera esposta. Ma andiamo per ordine. All’origine della vicenda c’è dunque Antinoo, il giovane di Bitinia, favorito dell’imperatore Adriano, che, già all’indomani del suo tragico (e misterioso) annegamento nel Nilo (nel
A destra e nella pagina accanto: due vedute del busto di Antinoo entrato a far parte della collezione Boncompagni Ludovisi tra il 1621 e il 1623. Prima metà del II sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps.
MOSTRE • ROMA
130 d.C.), cominciò a godere di una fama straordinaria, alimentata innanzitutto dal principe stesso, che in suo onore e nel suo nome commissionò statue, fondò una città e arrivò perfino a istituire un culto (vedi box a p. 56). Celebrazioni che ebbero certamente il merito di consegnare all’eternità un personaggio che, altrimenti, sarebbe stato probabilmente dimenticato e nei cui ritratti, invece, fin dai primi studi di antiquaria, furono in molti a imbattersi. Facendone anche uno dei soggetti piú apprezzati e ricercati da parte dei collezionisti.
ANTONIO PER ANTINOO Una delle numerose sculture che lo ritraggono è appunto il busto della collezione Boncompagni Ludovisi, della quale dovette entrare a far parte con il primo nucleo di opere riunite dal cardinale Ludovico Ludovisi tra il 1621 e il
A destra: l’atto di vendita della testa di Antinoo da parte di Attilio Simonetti a Charles Hutchinson, nel quale l’opera viene definita «altorilievo». Roma, 15 aprile 1898. Qui sotto: foto della testa di Antinoo pubblicata sulla rivista Art in America nel 1913: come si può notare, la scultura è montata su una base, come se fosse il frammento di un rilievo.
Qui sopra: Ritratto di Charles Lawrence Hutchinson, olio su tela di Julius Gari Melchers. 1902 circa. Chicago, The Art Institute of Chicago.
1623 ed esposte nella magnifica villa che questi fece realizzare sul Quirinale, ampliando la proprietà degli Orsini che aveva rilevato (per inciso, si tratta dello splendido complesso che, all’indomani dell’Unità d’Italia, venne quasi totalmente demolito per lottizzare i terreni sui quali si estendeva). Della sua presenza nella raccolta, a 54 a r c h e o
oggi, è stato rintracciato un solo documento d’archivio, redatto nel 1641, nel quale andrebbe identificato con un busto definito «di Antonio», per via di un probabile errore di compilazione. È invece corretta la menzione contenuta nel Mercurio errante, di Pietro Rossini – antiquario di diverse Nazioni e Professore di medaglie antiche in Roma (come si legge nel frontespizio dell’opera) -, il quale, nel 1693, annota la presenza di un busto di Antinoo tra i marmi che il cardinale Ludovisi teneva nel Palazzo Grande della sua villa.
OCCHIO CLINICO Poco meno di un secolo piú tardi, nel 1756, il busto viene visto e descritto da Johann Joachim Winckelmann, al quale si deve la prima «notizia di reato»: lo studioso tedesco, infatti, rileva che il busto di Antinoo della collezione romana ha il «volto
nuovo», certificando la sua non appartenenza al nucleo originale dell’opera. La circostanza, tuttavia, non sminuisce il valore della scultura e, in tempi piú recenti, viene archiviata come uno degli innumerevoli casi di parziale rilavorazione di originali antichi, una prassi diffusissima e del tutto «normale», soprattutto fra Sei e Settecento. Né, del resto, si potrebbe dire molto di piú, dal momento che non esiste alcun indizio certo su quando l’operazione possa essere stata compiuta – a una tradizionale collocazione nel Settecento si oppone l’ipotesi di chi l’ha attribuita allo scultore Ippolito Buzzi († 1634), attivo fra la fine del XVI e la prima metà del XVII secolo -, né se abbia fatto seguito al distacco accidentale o intenzionale della parte originale mancante. La parte mancante, dunque, dovette vivere una vita parallela a quella del
I tesori del cardinale In alto: Ritratto del cardinale Ludovico Ludovisi, olio su tela di Ottavio Leoni. 1621 circa. Roma, Museo di Roma. Qui sopra: il giardino di Villa Ludovisi in una incisione del 1670. In primo piano, sulla sinistra, è il Palazzo Grande, uno degli edifici del magnifico complesso, nel quale il cardinale aveva riunito la sua collezione di sculture.
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MOSTRE • ROMA L’Antinoo Farnese, opera composta da una testa ritratto inserita su un torso antico non pertinente. II sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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ANTINOO PER SEMPRE Il giovane Antinoo arrivò a Roma intorno al 125 d.C. al seguito di Adriano che lo aveva conosciuto probabilmente nel 123, durante una sosta del suo lungo viaggio entro i confini dell’impero, durato due anni. Il ragazzo rimase al fianco dell’imperatore, seguendolo anche nelle missioni ufficiali, come quella intrapresa nel 128, che si concluse tragicamente con la morte di Antinoo nel 130 d.C. Sappiamo infatti dalle fonti antiche, che specularono sulla vicenda alludendo a una dinamica poco chiara degli eventi, che durante la spedizione, risalendo il corso del Nilo, Antinoo annegò misteriosamente nel fiume e Adriano, profondamente colpito dal dolore della perdita, fondò la città di Antinoopoli nei pressi del luogo dove era avvenuta la tragedia e dichiarò giorno festivo il 27 novembre, data di nascita di Antinoo. Il giovane bitinio venne divinizzato dai sacerdoti egizi e rappresentato come Osiride, la massima divinità religiosa cui erano assimilati i faraoni. Di ritorno dall’Egitto dopo il 133, Adriano progettò di onorare a Villa Adriana l’amasio perduto con un grande edificio absidato, in cui è stato riconosciuto un Antinoeion, collocato lungo l’ingresso monumentale che conduceva al Vestibolo. Sin da allora la memoria di Antinoo è stata alimentata in modo tale da attraversare indenne i secoli e l’effigie del giovinetto è stata utilizzata per ritratti in marmo oppure in bronzo e anche riprodotta in numerose pubblicazioni. Ai giorni nostri l’opera che ha contribuito al piú vasto impulso della fama di Antinoo è il romanzo Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, che scrive: «Nelle ore di insonnia, percorrevo i corridoi della Villa, erravo di sala in sala (…) mi fermavo davanti ai simulacri di Antinoo. Ogni stanza aveva il suo, ogni portico perfino. Facevo schermo con la mano alla fiamma della mia lampada; sfioravo con un dito quel petto di pietra». (red.)
La testa e il busto di Antinoo messi a confronto in una delle sequenze iniziali del video realizzato dall’Art Institute di Chicago che accompagna la mostra.
Fermo immagine del video, che mostra la lacuna esistente in corrispondenza della frattura a seguito della quale il busto è rimasto privo della testa.
busto, fino a che, nel 1898, non viene acquistata da Charles Hutchinson, primo presidente dell’Art Institute di Chicago. La vendita avviene nel contesto del vorticoso commercio di opere d’arte antica di cui Roma fu uno dei centri principali alla fine dell’Ottocento e viene effettuata da Attilio Simonetti, artista e antiquario, che identificò correttamente come Antinoo, pur presentandolo come se fosse il frammento di un altorilievo. Hutchinson aveva voluto la scultura per sé e la conservò fino alla morte, dopo la quale, nel 1924, la vedova decise di donarla all’Art Institute.
La testa dell’Antinoo, acquistata da Charles Hutchinson nel 1898 ed entrata a far parte delle collezioni dell’Art Institute di Chicago nel 1924, all’indomani della sua morte.
UN PASSAGGIO DECISIVO Una ventina d’anni prima, nel 1901, lo Stato italiano aveva acquistato la collezione Boncompagni Ludovisi e si può quindi affermare che, in questo modo, erano state poste, seppur inconsapevolmente, le premesse per gli sviluppi piú recenti della storia delle due opere, sottraendole a possibili nuove alienazioni. Al di qua e al di là dell’Atlantico i «due» Antinoo continuano a vivere le loro esistenze parallele, fino al 2005, quando W. Raymond Johnson, egittologo dell’Università di Chicago, non giunge a Roma e via r c h e o 57
MOSTRE • ROMA
Due momenti delle operazioni condotte per accertare la pertinenza della testa al busto della collezione Ludovisi. L’intervento ha avuto inizio nel 2005, dopo che l’egittologo
sita Palazzo Altemps. Giunto al cospetto del busto di Antinoo, non può che riconoscere l’acutezza dell’occhio clinico di Winckelmann, ma, con un’intuizione non meno brillante, si convince che la parte lavorata in età moderna non abbia fatto altro che rimpiazzare la testa conservata a Chicago. In quel momento, per quanto suggestiva, si tratta solo di una sensazione, ma Johnson è convinto che sia quella giusta e contatta immediatamente la
direzione del museo statunitense, Per farlo, occorre innanzitutto agper comunicare la sua scoperta. girare gli ostacoli di natura tecnica e anche filologica: la piú ovvia delle soluzioni, infatti, vale a dire ESISTENZE PARALLELE Le vite parallele del busto e della il distacco del volto moderno dal testa di Antinoo cominciano len- busto Ludovisi, non è pensabile, in tamente a convergere, perché Ka- quanto l’aggiunta è un intervento ren Manchester, direttrice del Di- ormai storicizzato. Si decide quinpartimento di Arte Greca e Ro- di di effettuare un rilievo con il mana dell’Art Institute, ritiene laser scanner di entrambe le scultuplausibile l’ipotesi di Hutchinson re, sulla base del quale ricavare e propone ai colleghi romani di altrettanti modelli in resina. Nelle operazioni viene coinvolto avviare studi e verifiche.
Altre immagini che documentano le operazioni preliminari alla realizzazione del calco finale. In una prima fase, è stato eseguito il rilievo fotogrammetrico della testa
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statunitense W. Raymond Johnson, visitando Palazzo Altemps, si era convinto dell’appartenenza delle due opere al medesimo originale.
e del busto, con l’ausilio del laser scanner. I risultati acquisiti hanno consentito di elaborare le ricostruzioni virtuali grafiche dell’opera.
Le prove di compatibilità fra la testa di Chicago e il busto di Roma sono state effettuate utilizzando altrettanti calchi in resina, in scala 1:3. Nella seconda foto, l’integrazione della
anche Jerry Podani, già Senior Conservator of Antiquities del J. Paul Getty Museum, il quale, come si può ascoltare nel video che accompagna la mostra, sostiene di essere stato inizialmente «molto scettico», ritenendo l’eventualità che la statua fosse divisa in due parti, conservate a Roma e Chicago, «non impossibile, ma altamente improbabile». I dubbi di Podani, e forse non solo i suoi, erano destinati a svanire di lí a poco: dopo aver
lacuna è stata evidenziata colorandola di verde. Il marmo mancante fu probabilmente asportato al momento dell’aggiunta della testa moderna.
realizzato le repliche in resina – in È vero che le due parti non comscala 1:3, perché fossero piú maneg- baciano perfettamente, poiché la gevoli – avviene il primo confronto. frattura è stata chiaramente lavorata, ma c’è un dettaglio che sembra senz’altro dirimente: si tratta della LA STESSA PIETRA È forse troppo presto per una con- capigliatura di Antinoo. Nell’icoclusione definitiva, ma le quotazioni nografia del giovane, proprio i ricdell’ipotesi formulata da Johnson cioli sono uno degli elementi dicominciano a salire. Anche perché, stintivi e, accostando la testa al buparallelamente, le analisi condotte sto, l’andamento delle ciocche e lo sulle materie prime utilizzate hanno stile con il quale sono state scolpite rivelato che sia il busto che la testa risultano pienamente compatibili. Ancora una volta, insomma – un po’ sono scolpiti nel marmo di Luni.
Ancora un’immagine del rilievo fotogrammetrico e, nella seconda foto, l’assemblaggio delle varie parti realizzate in resina. Parallelamente a queste operazioni,
sono state condotte anche analisi sulla pietra utilizzata per la testa e e per il busto, che, in entrambi i casi, si è rivelata essere marmo di provenienza lunense.
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MOSTRE • ROMA
com’era accaduto per il Barbablu di Aidone (la testa di Ade restituita dal Getty all’Italia; vedi «Archeo» n. 373, marzo 2016) – i riccioli sembrano essere la soluzione ideale per le controversie di carattere archeologico.
LA CONFERMA A confermare definitivamente la giustezza della ricomposizione (virtuale) è stato lo sviluppo delle operazioni condotte sui modelli in resina: dopo aver colmato lo spessore mancante, infatti, è stato possibile verificare che la testa è senza alcun dubbio pertinente al busto, poiché l’inclinazione, la movenza e ogni altro dettaglio risultano affini. Come già accennato, nonostante la scoperta, Antinoo e il suo «doppio» rimarranno separati, ma la mostra in Palazzo Altemps – che già era stata presentata a Chicago, nella scorsa primavera – offre, grazie a un calco, la possibilità di vedere l’opera cosí come era stata originariamente concepita. Un confronto che permette, anche a occhi meno allenati di quelli di Winckelmann, di individuare le anomalie del «volto nuovo» rispetto al busto antico. SOLO UN INCIDENTE? La storia, comunque, non finisce qui, poiché come ha spiegato Alessandra Capodiferro, direttrice del Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps e curatrice dell’esposizione, la speranza è quella di riuscire a trovare i tasselli ancora mancanti, magari con qualche fortunata scoperta d’archivio. Sarebbe per esempio interessante accertare la provenienza della scultura e, soprattutto, in 60 a r c h e o
quali circostanze il busto di Antinoo sia rimasto privo della testa. Il distacco potrebbe essere avvenuto per cause naturali: in opere realizzate con il marmo lunense, infatti, se la lavorazione è stata eseguita scalpellando il blocco in senso opposto a quello delle venature, si possono produrre fratture tali da determinare appunto uno o piú distacchi. Ma non si può per con-
tro escludere che la testa sia stata staccata dal busto per ricavare da un solo originale due opere appetibili per i collezionisti: un’eventualità piú che plausibile nell’ambito del commercio di antichità. Per il momento, in attesa di nuovi colpi di scena, il bell’Antinoo, nella luce soffusa della mostra, assapora silenzioso questa ennesima ventata di popolarità.
DOVE E QUANDO «Antinoo. Un ritratto in due parti» Roma, Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps fino al 15 gennaio 2017 Orario tutti i giorni, 9,00-19,30; chiuso il lunedí Info tel. 06 39967700; www.coopculture.it; http://archeoroma.beniculturali.it
A destra: l’esito finale delle ricerche e delle verifiche condotte a Chicago e Roma è questo modello, che propone il busto di Antinoo cosí come era stato concepito in origine. Nella pagina accanto: ancora un’immagine del busto Ludovisi, con il «volto nuovo». a r c h e o 61
MUSEI • VILLA BORGHESE
LE SCULTURE IN VILLA UN TEMPO IL GRANDE PARCO ROMANO CHE APPARTENNE AI BORGHESE ERA DISSEMINATO DI STATUE DI EPOCA ANTICA E MODERNA. IN SEGUITO A FURTI E ATTI VANDALICI, LE OPERE VENNERO TRASFERITE IN UN LUOGO SICURO E NELLA VILLA FURONO COLLOCATE LE LORO COPIE. ORA GLI ORIGINALI SONO DI NUOVO VISIBILI AL PUBBLICO NEI LOCALI DEL MUSEO CANONICA di Mimmo Frassineti 62 a r c h e o
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ttanta statue mai viste, almeno negli ultimi trent’anni, gremiscono il nuovo Deposito delle sculture di Villa Borghese, che la Sovrintendenza capitolina ai Beni Culturali ha allestito in uno spazio sul retro del museo dedicato allo scultore piemontese Pietro Canonica (1869-1959), la caratteristica «Fortezzuola» che fu casa e studio dell’artista dal 1919 al 1951.
L’area espositiva è stata ricavata in quelle che in origine erano le cantine del «Gallinaro», un casale nel quale si allevavano struzzi, pavoni e anatre per le battute di caccia della famiglia Borghese. L’edificio venne poi trasformato in una sorta di castelletto medievale dall’architetto Antonio Asprucci, alla fine del Settecento. Statue, a Villa Borghese, ce ne sono ovunque. Si presentano
spesso gravemente danneggiate, mutilate, senza braccia, senza testa. Ma a ladri e vandali è rimasto un misero bottino: solo Sulle due pagine: il Deposito delle sculture di Villa Borghese, realizzato in uno spazio retrostante il Museo Canonica, all’interno delle ex cantine del «Gallinaro», una struttura originariamente adibita all’allevamento di volatili destinati alle battute di caccia dei Borghese. a r c h e o 63
MUSEI • VILLA BORGHESE
qualche pezzo di cemento. Infatti, tra il 1986 e il 1999, tutte le statue sono state rimosse e sostituite con altrettante copie. La Sovrintendenza ha restaurato le opere originali e oggi il pubblico le può ammirare nel nuovo spazio accedendovi dal museo, oppure dal giardino sul retro.
Spiega Alberta Campitelli, che dirige l’Ufficio Ville e Parchi Storici di Roma Capitale: «“Deposito” evoca luoghi polverosi, di difficile accessibilità, nei quali le opere sono scarsamente visibili. In realtà, il deposito può essere la linfa vitale di un museo, che su di esso può fondare la propria identità».
UN MUSEO A CIELO APERTO «Questo, tuttavia, non è il deposito del Museo Canonica: abbiamo infatti sfruttato la raccolta per creare il deposito di Villa Borghese, che, con la sua collezione di statue, di
fontane, di arredi, è un museo a cielo aperto. Che r ischiava di scomparire: i furti e gli atti di vandalismo erano talmente inarrestabili che qualunque opera di prevenzione sarebbe risultata inadeguata. Nel 1985, quando furono rubate tre statue e una testa dalla sommità del Tempio di Esculapio, ho capito che occorrevano misure drastiche: la rimozione di tutte le opere dal parco per sostituirle con copie. E di fatto, ai fini dell’arredo della villa, che siano repliche non fa grande differenza. Soprattutto se viene offerta la possibilità di vedere anche gli originali». A sinistra: gli originali restaurati di quattro statue esposte nel nuovo Deposito delle Sculture di Villa Borghese. Da sinistra: un ritratto del dio Apollo; una figura femminile identificata come filatrice, che replica un originale di Prassitele citato da Plinio con il nome di «Katàgusa», cioè «colei che deduce il filo» (II sec. d.C.); una statua di Satiro a riposo (I-II sec.d.C.) coperto solo da una pelle di pantera e appoggiato a un tronco d’albero; un Ercole coronato, con la clava e la pelle del leone nemeo (I sec. d.C.).
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Pianta del grande giardino pubblico oggi noto come Villa Borghese, in piú punti abbellito dalle opere oggi riunite nel Deposito delle sculture. 1 Museo Pietro Canonica, Deposito delle sculture di Villa Borghese 2 Galleria Borghese 3 Casino dell’Orologio 4 Casina di Raffaello 5 Fontana dei Mascheroni e dei Tritoni 6 Tempio di Esculapio 7 Obelisco di Antinoo 8 Galleria Nazionale d’Arte Moderna 9 Fontana dei Cavalli Marini 10 Tempio di Diana 11 Propilei neoclassici 12 Arco di Settimio Severo 13 Mostra dell’Acqua Felice
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In basso: l’ingresso del Museo Pietro Canonica. Trinità dei Monti Trinità dei Monti
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MUSEI • VILLA BORGHESE
TEMPIO DI ESCULAPIO IL
«Abbiamo avviato il consolidamento della struttura destinata ad accogliere le opere con lavori di bonifica e d’impiantistica, dei quali si è occupata Bianca Maria Santese, la responsabile del Museo Canonica. Poi sono subentrati Sandro
Santolini, storico dell’arte, e Angela Napolitano, archeologa, le cui diverse competenze hanno avuto modo di integrarsi nello studio di una collezione dove sculture antiche sono state restaurate nel Seicento o nel Settecento. L’architetto Paola Marzoli ha curato l’allestimento. Un lavoro di squadra, che ha trasformato un vano senza qualità in uno spazio funzionale, non privo di suggestioni estetiche. Un po’ stipato, ma in un deposito questo è normale. Le opere sono state Statua di Apollo con lira e plettro, ricavata da un Pan di epoca romana. XVIII sec. In secondo piano, Ercole con la spoglia del leone nemeo. Fine del I-inizi del II sec. d.C.
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restaurate dalla ditta Tecnicon, che ha eseguito gratuitamente l’ultimo lotto di restauri». Le statue sono divise per nuclei di provenienza omogenei, con tabelle esplicative. Effettivamente, l’impressione è di un certo affollamento, ma la leggibilità è adeguata. L’intera operazione è costata 204mila euro.
UNA COLLEZIONE PRESTIGIOSA «Cosí – continua Campitelli –, siamo riusciti per la prima volta a mostrare al pubblico opere che furono acquistate dal cardinale Scipione Borghese, e poi dai suoi successori, che hanno un valore eccezionale nella storia del collezionismo. Non dimentichiamo che ben 695 pezzi della collezione Borghese si trovano oggi al Museo del Louvre (vedi «Archeo» n. 325, marzo 2012). A questo nucleo si aggiungono le opere che provengono dal Tempio di Esculapio, che illustrano compiutamente la saga del dio della medicina: il padre Apollo, la zia Diana, la madre Coronide (che peraltro, già incinta di Esculapio, tradisce Apollo con un mortale, anche lui raffigurato), Mercurio che consegna il piccolo Esculapio alle ninfe perché lo allevino e lo affida a Chirone – che dovrà trasmettergli la scienza –, e altre figure legate al culto della medicina, Gea e la Vittoria. Le abbiamo ricomposte nel deposito, spiegandone la storia». Viene da sorridere se paragoniamo il rigore del moderno restauro alla disinvoltura con la quale nel Sei e Settecento si procedeva a integrazioni e manipolazioni, che potevano addirittura cambiare l’identità della statua. Un Apollo, per esempio, ha il corpo antico ma la testa, la lira e il plettro sono settecenteschi. Un documento d’archivio ha rivelato come Vincenzo Pacetti, scultore, restauratore, antiquario, che, alla fine del Settecento, il principe Marcantonio IV Borghese aveva incaricato di fornirgli le sculture per decorare
Una veduta a figura intera e il particolare del volto della statua di Esculapio, originariamente posta nel Tempio omonimo.
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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MUSEI • VILLA BORGHESE
Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis
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LA
FONTANA DEL MORO
il Tempio, non avesse in quel momento una statua del dio a disposizione. Ne prese allora una di Pan e incaricò il collega scultore Luigi Salimei di trasformarla in Apollo, con gli opportuni attributi. In origine, la Vittoria era invece una ninfa, alla quale Pacetti ha aggiunto la patera, il serpente e le ali di latta dipinte a finto marmo. Anche Gea, sul corpo antico, ha una testa del Settecento. Un altro Apollo è assemblato con grandi frammenti di quattro statue diverse.
DA PIAZZA NAVONA AL PARCO Accanto alle sculture di epoca romana hanno trovato posto quelle, cinquecentesche, provenienti dalla fontana del Moro di Giacomo Della Porta a piazza Navona, che il Comune di Roma sostituí nel 1874 con copie, non per tutelarle, ma perché giudicate sconvenienti per l’eccessivo degrado. Considerati pezzi di secondaria importanza, i quattro Tritoni e i quattro Mascheroni giacquero nell’ex Semenzaio comunale di S. Sisto fino al 1909, quando furono reimpiegati a Villa Borghese (che il Comune di Roma aveva acquisito nel 1903) a comporre una nuova fontana nel Giardino del Lago. Restano opere pregevoli, a dispetto del grave deterioramento delle superfici, dovuto anche all’impiego di marmi di mediocre qualità. Molto ben conservato è invece lo stemma di papa Paolo V Borghese (1605-1621), attribuito a Erminio de’ Judici, abile scalpellino.
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
Nella pagina accanto: particolare di una delle quattro statue di Tritone, originariamente provenienti dalla Fontana del Moro di piazza Navona. Ultimo quarto del XVI sec. A destra: un’immagine odierna della Fontana del Moro. a r c h e o 69
MUSEI • VILLA BORGHESE Il giardino antistante il Deposito delle sculture di Villa Borghese. Qui sono esposti gli originali di minor pregio o non trasferibili all’interno del museo. Fra le altre, vi sono le sculture realizzate alla fine del Settecento da Giuseppe Ceracchi per un monumento destinato al governo olandese, ma mai realizzato.
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IL
GIARDINO DEL DEPOSITO
Nel giardino antistante il Deposito si trova poi un gruppo di statue della fine del Settecento, troppo grandi per essere collocate all’interno, che rappresentano Joan Van Der Capellen, un giurista e uomo politico olandese, e alcune figure simboliche: la Giustizia, la Temperanza e un leone che stringe fra le zampe un fascio di frecce. Ideate per comporre un unico monumento, sono opera di Giuseppe Ceracchi, scultore neoclassico molto apprezzato all’epoca, che le eseguí su incarico del governo repubblicano olandese, il quale non poté ritirarle perché fu abbattuto da un colpo di Stato. Le statue rimasero nello studio dell’artista in via dell’Oca, in locali di proprietà Borghese. Ceracchi fu amico e ospite di Goethe, che gli commissionò un busto di Winckelmann. Ardente giacobino, deluso da Napoleone, del quale era stato grande ammiratore, lo scultore fu accusato di un complotto contro di lui e ghigliottinato a Parigi nel 1801. A Roma lasciò due figli adolescenti e l’affitto dello studio da pagare. Ne scaturí una vertenza trentennale, conclusa da una transazione per la quale, a compenso dei canoni non corrisposti, i Borghese s’impossessarono di tutto quanto si trovava nei locali, incluse le statue, che disposero in vari punti del Giardino del Lago. Particolare popolarità, prima di essere rimosso, ebbe il Leone, cavalcato da generazioni di bambini romani. DOVE E QUANDO Museo Pietro Canonica e Deposito delle sculture di Villa Borghese Roma, Villa Borghese, viale Pietro Canonica 2 Orario ma-do, 10.00-16,00; lu chiuso Info tel. 060608 (attivo tutti i giorni, 9.00-21.00); e-mail: info@museocanonica.it; www.museocanonica.it a r c h e o 71
ARCHEOLOGIA SPERIMENTALE • ONAGRO
IL TERRORE VIEN DI NOTTE...
ULTIMATA LA RICOSTRUZIONE SPERIMENTALE, SI POSSONO VERIFICARE LE POTENZIALITÀ DELL’ONAGRO. I SUOI LANCI ERANO DEVASTANTI, MA POCO PRECISI: È PERCIÒ PROBABILE CHE FOSSERO EFFETTUATI SOPRATTUTTO AL CALAR DELLE TENEBRE, PER SEMINARE IL PANICO NELLE CITTÀ, METTENDONE A NUDO LA VULNERABILITÀ Qui sopra: ricostruzione virtuale dell’onagro, la cui prima menzione, di Flavio Russo
D
opo aver completato l’assemblaggio degli elementi statici dell’onagro (per le fasi precedenti, si vedano i nn. 379 e 380 di «Archeo», settembre e ottobre 2016), si passa a quelli dinamici, ovvero alle parti in movimento – in ferro e legno –, che sono il vero propulsore della macchina. Ad azionarle, è una sola grande matassa elastica, di 60 spire, fatte girare intorno alle due spranghe incastrate diametralmente nei modioli. La fibra prescelta per la ricostruzione è il nylon, una corda con sezione di 10 mm di diametro di tipo alpinistico, con una capacità di allungamento pari al 40% circa e un carico di rottura di 2 tonnellate scarse. Di poco inferiore è il carico di snervamento, quello al di là del quale la corda, finita la sollecitazione che l’ha allungata, invece di tornare alla sua dimensione originaria (deformazione elastica), resta dilatata divenen72 a r c h e o
con il termine greco di monoancon, compare intorno al III sec. a.C.
do inutilizzabile (deformazione permanente). L’accumulo energetico in una matassa sottoposta a torsione sta proprio nell’intervallo compreso tra la lunghezza a riposo della corda e l’adiacenza al suo carico di snervamento, un’escursione che risulta ampia per quella di nylon.
CICLI IDEALI PER LANCI DI GRANDE POTENZA Ne consegue perciò un assorbimento energetico molto rilevante (fase di caricamento), con una restituzione istantanea estremamente violenta (fase di cessione), determinando cicli ideali per una macchina da lancio di grande potenza. Del resto, per elasticità e resistenza 1. Uno dei due grandi modioli di caricamento con la sua spranghetta trasversale incastrata nella corona, nella quale è impegnata l’estremità della matassa elastica.
alla trazione, il nylon è la fibra che piú si avvicina a quella naturale a base di cheratina, sia quando costituita da capelli, sia da tendini bovini filati. Lo sviluppo massimo della matassa è di 120 m, che vengono perciò a formare una sorta di grossa gomena di 80 mm circa di diametro, in grado di sopportare un carico di snervamento prossimo alle 60 tonnellate e un carico di 1
2
e modioli si bloccano, divenendo solidali all’intero telaio. Prima di impartire la rotazione di precarica dei modioli, l’estremità inferiore – il braccio dell’arma – è stata collocata al centro delle spire della matassa. Lungo 2 m circa, per un diametro di 120 mm, il braccio è rivestito da uno stretto avvolgimento di corda, cosí da accrescerne la rigidità al momento del lancio e attenuare le conseguenze dell’urto di fine corsa. Ultimata 3. Il verricello di caricamento, con la taglia a quattro pulegge adottata per l’abbassamento del braccio dell’arma durante il caricamento, e la catena di sicurezza posteriore per impedire scatti accidentali.
3
2. Particolare dell’ammortizzatore, realizzato in pelle con imbottitura di paglia: è ben visibile nella foto l’estremità inferiore del braccio, avvolta in spire di corda e impegnata nella matassa elastica.
rottura di oltre 100 tonnellate. Oltre alla matassa, gli organi metallici, in ferro o in bronzo, preposti a questa funzione sono i due grandi modioli, le sottostanti piastre di rotolamento e le spranghette di ancoraggio della matassa.
I PERNI DI BLOCCAGGIO Nelle piastre, poi, sono praticati quattro fori del diametro di 12 mm, posti a 90° uno dall’altro e a 10 cm dal centro di quello di passaggio della matassa; nei modioli, soltanto tre fori sulla corona, di pari dimensione e separati di 30°, ma a uguale distanza dal centro. Pertanto, basta che ciascun modiolo compia una rotazione di appena 30° perché uno dei suoi fori combaci con uno della sottostante piastra, consentendo cosí l’inserimento dei perni di bloccaggio. Nella fase di precarica della matassa, infatti, dopo i primi giri ottenuti agendo con una ap-
posita lunga chiave sulle spranghette, il crescere della torsione tenderebbe a far contro-ruotare il modiolo, per cui solo detti perni riescono ad arrestarlo. L’energia fornita dalla chiave viene empiricamente raggiunta quando, nonostante la sua lunghezza, essa non è piú in grado di far girare ulteriormente i modioli: a quel punto la precarica è conclusa e, con l’inserimento dei perni, piastre
lentamente la precarica, grazie agli sforzi congiunti di due serventi, il braccio trascinato dalla torsione della matassa ha assunto una posizione verticale, con la vuota fionda che pende inerte dalla sua estremità superiore. La tensione che lo inchioda verticalmente è tale che non può essere abbassato direttamente (caricamento dell’arma), neppure con gli sforzi congiunti di piú persone, rendendo pertanto necesa r c h e o 73
ARCHEOLOGIA SPERIMENTALE • ONAGRO 4
4. L’intera ricostruzione dell’onagro, con la sua palla di pietra collocata nella fionda sorretta da tre catene. 5. L’onagro completo di ogni sua componente, ripreso al termine di un lancio con il braccio in posizione di riposo – verticale – e senza la palla. 6. Particolare del dispositivo di scatto, collocato tra la taglia e il braccio, costituito da una robusta piastra sulla quale sta incernierato un arpione mobile: liberatolo, rimuovendone il bloccaggio, il braccio scatta fulmineamente, lanciando la palla.
5
sario inserire, tra il braccio stesso e il tamburo del verricello, una taglia dotata di almeno quattro pulegge complessive, unite in due coppie, delle quali la prima solidale al braccio e la seconda al verricello. Dal momento che, abbassando il braccio, la sua inclinazione passa dai 90° a riposo ai 10° in assetto di lancio, le coppie di pulegge devono essere basculanti, cioè costruite in maniera tale da potersi adeguare a quella rotazione senza ostacolare la corda di caricamento.
COME UNO SCUDISCIO Con diverse decine di giri, facendo avvolgere la fune di caricamento sul tamburo del verricello, il braccio, una volta orizzontale, consente alla sua fionda di ricevere al suo interno la palla di pietra. Tre catene la vincolano all’estremità superiore del braccio, due delle quali fisse e una sganciabile, razionalmente ela74 a r c h e o
6
borata per l’apertura automatica della fionda. Durante la fulminea rotazione di lancio, infatti, la fionda viene trascinata verso l’alto, esattamente come uno scudiscio, facendole perciò frustare l’aria: per effetto della forza centrifuga, le catene fisse si distendono, trasformandosi in una sorta di prolungamento del braccio e provocando cosí lo sganciamento della terza, che apre la fionda, liberando la palla, che prosegue la sua traiettoria parabolica a forte ordinata. Pur avendo ceduto gran parte della sua energia iniziale, il braccio continua la rotazione per almeno altri 30-40°, abbattendosi su un apposito ammortizzatore di pelle imbottita di paglia. Tuttavia, affinché l’arma possa scagliare la palla, è indispensabile un adeguato congegno di scatto, necessariamente collocato tra il braccio e le due coppie di carrucole, un dispositivo che deve essere al contem-
po molto robusto e abbastanza delicato da azionare. La forte trazione esercitata dal braccio, infatti, tende a bloccarne le parti mobili, e proprio tale constatazione obbligò alla individuazione di una soluzione elementare. In pratica, il criterio informatore escogitato ricorda quello di una molletta da bucato: l’apertura avviene abbassandone la coda, che, nella fattispecie, è però impedita da un blocchetto di ferro posto sotto di essa. Rimuovendo il blocchetto per mezzo di una leva, si liberava la coda, consentendo al suo arpione di sollevarsi e determinando cosí il violento lancio. Nella fase di ricarica, si riportava l’arpione a catturare l’anello del braccio e lo si bloccava agendo poi sul verricello.
7. Pianta e prospetto del dispositivo di sgancio e della relativa taglia a quattro pulegge: in rosso, è evidenziato il percorso della corda fra le stesse pulegge.
8. Alcuni membri dell’Associazione LEGIO I ITALICA di Villadose (Rovigo), alla cui iniziativa va ricondotta la ricostruzione dell’onagro descritta in queste pagine.
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PRONTO PER LA CONSEGNA A questo punto la costruzione dell’onagro può considerarsi conclusa e la macchina, del peso di quasi 7 quintali, potrà essere conse-
Dispositivo di sgancio e taglia
gnata ai committenti, i rievocatori dell’associazione culturale di archeologia sperimentale LEGIO I ITALICA di Villadose (Rovigo). Da recenti calcoli balistici, si stima che una palla di pietra di 15-20 kg scagliata da un onagro poteva rag-
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giungere un’altezza massima di 6070 m circa, iniziando da quella quota la sua ricaduta con una piú breve curva verso il suolo e acquistando cosí velocità progressiva. Trascurando la resistenza dell’aria al momento dell’impatto, la velocità sarebbe stata
di poco inferiore a quella posseduta al rilascio dalla fionda. Va inoltre osservato che, per questo suo comportamento, ove fosse stato possibile dislocare una batteria di onagri sopra qualche altura limitrofa – e comunque non piú distante dall’interno della città assediata della loro gittata –, essendo la traiettoria discendente piú lunga della ascendente, la palla avrebbe colpito il bersaglio con una energia residua persino superiore a quella di partenza! La scarsa precisione che un tiro del genere poteva assicurare rendeva il campo d’impiego dell’onagro ristretto al solo «bombardamento» urbano, ovvero a far cadere, soprattutto di notte, le pesanti palle sui fragili tetti delle case, sfondandoli e terrorizzandone gli abitanti, privando cosí anche del riposo notturno i difensori e, piú ancora, della confortevole certezza di sapere i propri cari al sicuro finché le mura resistevano. (3 – fine) a r c h e o 75
SPECIALE • ALEPPO
ALEPPO
CITTÀ ETERNA
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DIVENUTA TRAGICAMENTE IL LUOGO SIMBOLO DELLA GUERRA CIVILE SIRIANA, ALEPPO HA SUBITO GRAVI DANNI AL SUO MILLENARIO PATRIMONIO ARCHEOLOGICO. LA CITTÀ, CONSIDERATA TRA LE PIÚ ANTICHE DEL MONDO, COMBATTE QUOTIDIANAMENTE UNA BATTAGLIA NON SOLO PER LA PROPRIA SOPRAVVIVENZA, MA ANCHE PER DIFENDERE LA SUA MEMORIA CULTURALE. RIPERCORRIAMO IN QUESTO SPECIALE LA STORIA DI UNA GRANDE CAPITALE DELL’ANTICHITÀ, CON UN ITINERARIO ATTRAVERSO LE STRADE DEL SUO CENTRO STORICO E UN RESOCONTO DELLE DISTRUZIONI PROVOCATE DAL CONFLITTO di Marco Di Branco e Massimo Vidale
Di queste case Non è rimasto Che qualche Brandello di muro Di tanti Che mi corrispondevano Non è rimasto Neppure tanto Ma nel cuore Nessuna croce manca È il mio cuore Il paese piú straziato (da San Martino del Carso, di Giuseppe Ungaretti, 1916)
L
a violenza della guerra costringe a riscrivere i manuali di urbanistica e storia dell’arte. È stato calcolato che, al momento in cui scriviamo, siano quasi 300 i siti del patrimonio culturale siriano toccati dalla guerra civile che sta dilaniando il Paese dal 2011. La devastazione, fotografata dai satelliti e studiata dall’UNITAR (United Nations Institute for Training and Research), ha particolarmente interessato le rovine greco-romane di Palmira, Dura-Europos sull’Eufrate, Bosra, nel Sud del Paese, e le cittadelle bizantine della Siria del Nord. Una sorte altrettanto drammatica ha toccato e sta toccando Aleppo, uno dei centri urbani piú antichi della regione: la moschea omayyade, la Cittadella e il famoso mercato (suq) hanno subito danni pesantissimi, ed è difficile stimare quante altre catastrofi umane e culturali si stiano producendo.
LA FORZA DELLA MEMORIA C’è un luogo, ad Aleppo, che può essere scelto come punto di partenza ideale per quello che vogliamo proporvi in queste pagine, ovvero per un viaggio nella memoria e nel cuore della città: è il Baron’s Hotel, l’albergo dei «baroni di Aleppo», simbolo vivente di una Siria aperta e cosmopolita, che la guerra ha cancellato dalla realtà effettuale, senza però intaccarne il ricordo. Sul palcosenico di quello che fu l’albergo piú elegante del Medio Oriente, si sono infatti alternati cento anni di avvenimenti e di personaggi, da Lawrence d’Arabia ad Agatha Christie, da Pasolini a Freya Stark. A fondarlo furono i Mazloumian, armeni, giunti in Siria dopo una drammatica fuga dalle prime persecuzioni ottomane nei confronti dei cristiani dell’Anatolia. Da questo mitico albergo, che sorge non lontano dal Museo Archeologico, dalla Cittadella e dalla moschea omayyade, prende dunque le mosse il nostro itinerario nella storia e nei monumenti di questa splendida città martoriata, nella speranza di poter presto tornare, in un tempo di pace, a camminare davvero per le sue antiche strade. Dire che le radici di Aleppo «si addentrano nella notte dei tempi» è un luogo comune, ma La città di Aleppo, dominata dalla Cittadella fortificata, in una fotografia aerea scattata nell’ottobre del 2008. a r c h e o 77
SPECIALE • ALEPPO
è anche una letterale verità. Basterà ricordare che nella grotta di Al-Dederiyeh (nella valle dell’Afrin, a nord-est della città) sono state rinvenute quattro sepolture neandertaliane, certamente intenzionali, risalenti ad almeno 100 000 anni fa, che rivaleggiano per importanza con quelle, meglio note, della grotta di Shanidar nel Kurdistan Iracheno. E sino allo scoppio del conflitto, Aleppo e il suo territorio avevano continuato a rivelare pagine e pagine di un passato ricchissimo. Il sito del Neolitico Antico di Tell Qaramel, 25 km a nord della città, compreso nel governatorato di Aleppo, era indagato dagli archeologi Ryszard F. Mazurowski dell’Università
Ailun Tell Fekheriye
Cirro Ain Dara
Ras Shamra Ugarit
Idlib
Tell Ahmar Tell Rifaat San Simeone
Yabrud
Damasco Ghoraifeh Tell Aswad Tell Salihiye Khazami Qunaitra Nawa
Suweida Tell Dara’a Bosra Ashatarat
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Chuera Al-Hasakah
Aleppo
Ebla Tell Mardikh Tbn Hani Laodicea Apamea Tell Sukas Hama Tartus Amrit Qatna Tell Kazel Homs Tell Nabi Mend Qadesh
Lib an o
In alto: il cantiere di scavo di Tell Qaramel, nel quale, fino allo scoppio della guerra civile, operava una missione siro-polacca. In basso: cartina della Siria con l’indicazione dei piú importanti siti oggetto di scavi.
Raqqa
Halabiyeh
Resafa Sergiopolis Deir ez-Zor
Sir ia
Bouqras
N NO
NE
SO
SE
O
Palmira
Mari
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S
Neolitico (10 000-4500 a.C.) Epoca di Uruk (fine del IV mill. a.C.) Età del Bronzo (III-II mill. a.C.) Età del Ferro (1200-550 a.C.) Età persiana, classica, cristiana Città moderna (capoluogo di provincia)
di Varsavia e da Youssef Kanjou del Servizio Archeologico Siriano. I due studiosi stavano mettendo in luce un villaggio permanente antichissimo (la cui frequentazione, secondo le datazioni effettuate con il 14C, sarebbe compresa tra il 10 500 e il 9500 a.C., e quindi coeva di quella di Göbekli Tepe, il sito dell’Anatolia sud-orientale nel quale è stato scoperto uno straordinario complesso cultuale; vedi «Archeo» n. 279, maggio 2008). Il villaggio era difeso da non meno di cinque «torri» a pianta circolare, di 6 m di diametro alla base, costruite a piú riprese sempre negli stessi luoghi. Con mura spesse
La Cittadella di Aleppo in una foto del 2008. In evidenza, l’area del tempio di Adad, dio della tempesta, oggetto di scavi da parte di una missione tedesca guidata da Kay Kohlmeyer.
UN BRINDISI AL FALLIMENTO Prima delle indagini della missione siro-tedesca, il sito della Cittadella di Aleppo era già stato parzialmente esplorato da archeologi francesi. La Francia, infatti, aveva occupato la Siria in base a un accordo segreto con gli Inglesi (noto come accordo «Sykes-Picot» e stilato nel 1916; vedi «Archeo» n. 368, ottobre 2015), e aveva stabilito il proprio
quartier generale sulla Cittadella di Aleppo. Negli anni Venti del Novecento, uno studioso aveva notato un bassorilievo in stile ittita, reimpiegato in un muro medievale. Gli archeologi francesi iniziarono cosí a scavare all’interno di un magazzino abbandonato, riempitosi nel corso dei secoli di rifiuti e sedimenti, ma con scarso successo.
Le loro trincee avevano sfiorato, senza trovarli, i bassorilievi scolpiti. I nuovi scavatori hanno rinvenuto all’estremità di un vecchio scavo, a pochi passi dagli ortostati, una bottiglia vuota di Champagne, forse testimonianza di un ultimo malinconico brindisi, prima di lasciare per sempre la polvere della Cittadella di Aleppo.
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1,5 m, le costruzioni di Tell Qaramel hanno spodestato, e di ben 2000 anni – almeno a parere di alcuni studiosi – il primato di Gerico come sede della «torre piú antica del mondo».
LUOGHI DI RIUNIONE Come a Gerico, queste costruzioni monumentali comparvero (inspiegabilmente) in un mondo che ancora viveva di caccia e raccolta, senza traccia alcuna del modo di produzione agricolo e pastorale. Interpretate come luoghi di riunione per assemblee e culti, piuttosto che come componenti di un sistema difensivo, le torri erano circondate da semplici abitazioni: capanne semi-interrate a pianta circolare, oppure ovale,
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Sulle due pagine: una veduta delle rovine del tempio ittita di Ain Dara. II mill. a.C.
all’esterno delle quali si trovavano pozzetti per la conservazione dei cereali e sepolture, uno dei quali conteneva lo scheletro di un uro (Bos primigenius). Come altri siti dello stesso periodo, Tell Qaramel ha restituito raffinati oggetti decorati, tra cui piastre in clorite con una scanalatura in superficie e decorate con disegni di serpenti, che venivano utilizzate per raddrizzare a caldo i fusti delle frecce; una figurina di uccello in argilla, e poi macine, pestelli e vasi in pietra finemente incisi, aghi, elementi di collana e bracciali in pietra. Tuttavia, nelle cronache mesopotamiche, Aleppo figura come importante centro di potere politico ed economico a partire dall’età del Bronzo. Tavolette
In alto: un settore dei resti dell’antica città di Ebla, situata a 35 km di distanza da Aleppo, riportati dalla missione archeologica italiana che ha lavorato sul sito dal 1964 fino allo scoppio del conflitto.
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cuneiformi indicano che, poco dopo il 2400 a.C., i signori di Ebla si recavano alla volta della città, compiendo un pellegrinaggio di 35 km, per onorarne il piccolo santuario di Adad, dio della tempesta e della pioggia, e contribuirono ad abbellirne il fabbricato. Sembra che in età accadica (seconda metà del III millennio a.C.) la città fosse sede di un potentato, vassallo dei discendenti di Sargon. Il nome di Halab o Halp compare per la prima volta in testi antico-babilonesi scritti poco dopo il 2000 a.C. «Non c’è nessun re che di per sé sia piú forte degli altri. Dieci o quindici di loro seguono Hammurabi di Babilonia, lo stesso numero segue Rim-Sin di Larsa, lo stesso numero segue Ibal-pi-el di Eshnunna, lo stesso numero segue Amut-pi-el a Qatna, e venti re seguono Yarim-Lim di Yamkhad (Aleppo)»: nella difficoltà di decifrare la logica delle titolature e di distinguere tra concetti in costante sovrapposizione come quelli della casata reale, della città e del suo territorionazione, questo testo cuneiforme, scritto poco prima della conquista di Hammurabi (1770 a.C. circa) riconosce implicitamente la superiorità politica e militare di Aleppo. Altri testi di Mari testimoniano della crescente importanza del culto cittadino dell’Adad di Aleppo e della statua di culto che vi veniva venerata. In quel tempo, Ebla, Aleppo, Qatna, Mari, Alalakh (oggi Tell Atchana) e ShubatEnlil (l’odierno Tell Leilan) erano parte di un fitto reticolo di centri rurali e insediamenti di varia grandezza che prosperavano in fertili piane agricole, retti da case di lingua amorrea (lo stesso idioma semitico del nord che parlava la famiglia di Hammurabi).
UN’ECONOMIA INTEGRATA Tra scomodi e ambiziosi vicini come quelli di Mari – nel triangolo semi-arido della Jazirah, l’«isola» formata dalla convergenza, nel centro della Mesopotamia, del Tigri e dell’Eufrate – e del regno paleo-assiro del re Shamshi-Adad (1800 a.C. circa) a est, la casa di Yamkhad aveva fatto prosperare Aleppo, grazie alla sua posizione cruciale nelle rotte carovaniere e alla fertilità dei suoi terreni. L’economia si basava sullo sfruttamento intensivo dei caprovini, e sulle culture del grano, dell’orzo e dell’ulivo. Secondo gli storici, tra il 1800 e il 1600 a.C. (per gli archeologi si parla tecnicamente di un’età del Bronzo Medio II) il potere di 82 a r c h e o
Yamkhad si era espanso, fino a sovrastare quello della piú famosa metropoli di Ebla; e ancora traspare dai ruderi di imponenti costruzioni rinvenute nei centri intermedi vassalli di Aleppo, che comprendono non solo palazzi e templi su vaste terrazze artificiali, ma anche grandi opere di muratura urbana con porte monumentali di accesso, rampe in terra e torri circolari di difesa (a Tell Touquan, Afis, Abu Danne, Umm elMarra e Tilmen Höyük).
LA CITTÀ PIÚ ANTICA DEL MONDO? Ad Aleppo, il centro dello Stato di Yamkhad, questa munificenza è nascosta dalla spessa cortina di sovrapposizioni, ricostruzioni e riuso dell’antico che l’ha fatta definire come una delle «città piú antiche del mondo», celandone, al tempo stesso, diverse identità storiche. E forse questo pesante «velo storico» si rivela, oggi, una fortunata protezione contro le incurie, le bombe e i saccheggi dei conflitA sinistra: particolare di un rilievo raffigurante Adad, dio della tempesta, rinvenuto su una parete del santuario a lui dedicato entro la Cittadella di Aleppo. XIV sec. a.C. Il luogo di culto è stato indagato a partire dal 1996 nell’ambito di un progetto di ricerca su Aleppo coordinato da Kay Kohlmeyer, professore presso l’Università di Scienze Applicate di Berlino.
In alto: gli scavi del tempio di Adad, rinvenuto sotto la parte ottomana della Cittadella. Nel riquadro: alcuni dei rilievi che ornavano il santuario.
ti in corso. Il mondo elitario della casa di Yamkhad, con le sue raffinate ceramiche di foggia mediterranea, un’arte di corte spesso egittizzante, e i suoi eleganti palazzi dalle pareti abbellite da affreschi di gusto minoico, fu annichilito, intorno al 1600 a.C., dalle armate ittite. Bruciarono cosí Aleppo, Alalakh, probabilmente Ebla, e – evento epocale - la stessa grande capitale amorrea di Babilonia. La storia seguente di Aleppo e della Siria settentrionale, tra il 1600 e il 1200 a.C., vede la regione rifiorita ma nuovamente contesa
tra gli eserciti di Mitanni (dal 1500 a.C. in poi, l’élite dominante della nazione hurrita), quelli dei faraoni egiziani, la pressione ittita sulla frontiera meridionale dell’impero e gli imperi assiri. I sovrani della XVIII dinastia si scontrarono con gli staterelli vassalli dei Mitanni in Palestina e in Siria. Gli Egiziani si sforzavano di mantenere il controllo del Levante costiero, terminale privilegiato dei ricchi traffici con il Mediterraneo orientale, e della Siria meridionale, mentre i Mitanni (segue a p. 86) a r c h e o 83
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IL MUSEO DI ALEPPO. COM’ERA Aleppo ha finora patito gli effetti dei piú pesanti scontri armati e bombardamenti del conflitto siriano. La città vecchia ha subito danni gravissimi, che hanno toccato la Grande Moschea, con la distruzione totale del minareto e l’antico suq al-Madina. Secondo alcune voci e articoli di giornale, i musei governativi di Deir ez-Zor, Raqqa, Maarat al-Numan e Qalaat Jaabar sarebbero stati attaccati e saccheggiati; altri furti sarebbero avvenuti nei musei di Homs e Hama. Il Museo Nazionale di Aleppo era forse il piú importante di tutta la Siria. La costruzione si sviluppa in due piani, con le collezioni disposte in ordine cronologico-culturale: i materiali di età classica e medievale al primo piano, e quelli pre- e protostorici (V-I millennio a.C.) al pianterreno, divisi per aree geografiche di provenienza. Dopo uno spazio espositivo dedicato alla remota preistoria, segue un ambiente dedicato ai reperti dello scavo di Tell Brak (III millennio a.C.) e ad altri siti siriani del Calcolitico e dell’età del Bronzo. Vi sono poi le stanze con le scoperte fatte a Mari, Hama, nel grande centro palatino di Ugarit, a Tell Halaf e altre località. Per ultimo, i visitatori accedono alla sala con i reperti di Ebla, l’ultimo grande progetto di archeologia urbana dell’età del Bronzo in Siria prima della rovinosa interruzione bellica. In un’intervista, il Direttore dei Musei Siriani, Hiba Shakel, ha affermato che tutte le collezioni del Museo Nazionale di Aleppo sono state temporaneamente trasferite nei bunker della banca centrale di Damasco, per sottrarli alla dispersione. A sinistra: pannello in avorio raffigurante la nascita di Horo, da Arslan Tash, Siria. Civiltà assira, VIII sec. a.C. Aleppo, Museo Archeologico Nazionale. In alto: un’immagine dell’ingresso del Museo Archeologico Nazionale di Aleppo, 84 a r c h e o
con esposte le statue provenienti da Tell Halaf, prima dello scoppio del recente conflitto. A destra: statuetta di figura maschile in terracotta, da Mari. Civiltà sumera, III mille. a.C. Aleppo, Museo Archeologico Nazionale.
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rimasero al potere nella Siria del Nord. Furono gli Ittiti a rompere questo oscillante equilibrio, sconfiggendo i Mitanni e creando una cintura di Stati minori a loro legati, tra i quali quelli di Karkemish e Aleppo. Malgrado i conflitti, l’economia rurale dell’entroterra continuava a fiorire. Il paesaggio rurale si arricchiva dello zebú e di equidi (asini, usati nelle carovane, ma anche cavalli), mentre le città costiere facevano ottimi affari con i navigli delle rotte mediterranee.
NEL CUORE DELLA CITTADELLA Del ruolo di Aleppo in questi processi e sconvolgimenti, l’archeologia, sino a poco tempo fa, non poteva dire molto. A partire dal 1966, e fino allo scoppio della guerra, una missione siro-tedesca ha scavato nel cuore della Cittadella di Aleppo, un nucleo fortificato sorto sin dalla preistoria su un rilievo roccioso alto piú di 40 m. Qui le fonti protostoriche collocavano il grande tempio di Adad (noto anche come Addu, Teshup, Tarhunta, e Adda). Gli
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In basso: statua di toro con fattezze umane, in calcite, con occhi in avorio a intarsio, da Tell Brak, Siria. Età accadica, XXIII sec. a.C. Deir ez-Zor, Museo Archeologico.
scavi, pianificati in vista della costruzione sul sito di un nuovo Museo, finanziato dal World Monuments Fund e dall’Agha Khan Trust, hanno messo in luce parte di una grande costruzione templare, probabilmente a piú piani, e rivestita di prezioso legno di cedro, le cui piú antiche fondazioni sono state datate dalla fine del IV alla fine del III millennio a.C. I resti piú consistenti si datano alla prima età del Ferro (1200-900 a.C. circa). Il tempio doveva somigliare a una grande torre, visibile da lontano, a pianta quadrata, con un altare posto sul lato destro rispetto all’entrata. I ruderi sono ancora protetti dalle statue in basalto di un leone e una sfinge, e sono adorni di ortostati in pietra con scene religiose e mitologiche «eseguite – come hanno scritto Peter Akkermans e Glenn Schwartz – in uno stile che può essere criticato per la sua crudezza, ma che mostra una notevole forza e grande dinamicità» (The Archaeology of Syria, Cambridge 2003). Nel 2005, lungo le murature del santuario si potevano vedere, perfettamente conservate, figure umane con scarpe e cappelli a punta, e uomini-tori con grandi code. L’immagine piú famosa tra quelle da poco scoperte mostra una divinità (Adad?) che sale su un carro trainato da tori, circondato da un entourage di altre divinità e creature mitologiche. Le immagini e la sintassi del progetto scultoreo ricordano scoperte simili a Tell Halaf (l’antica Gozan), a Karkemish e a Zinçirli, sedi di altrettanti potentati dello stesso periodo. Nel 2005, a scavo completato, i resti del tempio di
Adad erano stati quasi completamente esposti. In basso: Si decise allora di proteggere il monumento miniatura in situ, lasciando le sculture al loro posto. raffigurante la
DAGLI ASSIRI AI BIZANTINI Dal IX secolo a.C. in poi, Aleppo fu conquistata dagli eserciti neo-assiri, quindi da quelli neo-babilonesi, per cadere infine nell’orbita persiana nel corso del VII secolo a.C. Nel 333 a.C. la città divenne parte dell’effimero impero di Alessandro, per poi trasformarsi, con il
conquista bizantina di Aleppo nel 962. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.
nuovo nome di Beroia, in un caposaldo di cultura ellenizzante nella regione. Tuttavia, l’epoca greco romana è per Aleppo un periodo di progressiva marginalizzazione. Per circa sei secoli, alcune delle caratteristiche di lunga durata della città semitica sembrarono cancellate e accantonate dalla cultura ufficiale, anche se certamente sopravvissero a livello popolare (per esempio l’aramaico rimase sempre la lingua degli strati sociali piú bassi). (segue a p. 90)
ALLA CORTE DI SAYF AL-DAWLA Presso la corte degli emiri hamdanidi trovarono ospitalità e rifugio molti grandi artisti e intellettuali musulmani. Tra questi al-Mutanabbi, uno dei piú celebri e straordinari poeti arabi. Personaggio totalmente fuori dal comune, egli fu avventuriero, agitatore politico e persino «falso profeta». Nella sua poesia egli esprime posizioni politiche e religiose assolutamente originali, prendendo le distanze dai «dogmi» islamici, da lui considerati strumenti spirituali di oppressione. All’età di ventun anni, al-Mutanabbi si consacrò alla poesia e fu subito apprezzato da molti principi ed emiri, che lo chiamarono alla loro corte. Finalmente, dal 948 al 957, divenne il «poeta ufficiale» di Sayf al-Dawla, al quale dedicò splendide odi, che ne celebravano le gesta politiche e militari e nelle quali si insinua un tono disincantato ed elegiaco, che fa di questi componimenti veri e propri capolavori della poesia araba classica. La corte di Sayf al-Dawla ospitò anche uno dei piú importanti pensatori politici islamici, Abu Nasr Muhammad ibn Muhammad Farabi (latinizzato in Alfarabius), che visse ad Aleppo dal 942 al 950, anno
della sua morte. Al-Farabi è uno dei maggiori filosofi ellenizzanti musulmani di lingua araba. Scrisse di logica, di musica, di fisica, e soprattutto di politica: la sua Città virtuosa, che a una prima superficiale lettura sembra presentarsi come un’utopia politica ispirata alla Repubblica di Platone, costituisce, in realtà, una complessa riflessione che proietta il problema politico in una dimensione metafisica. Un altro famoso intellettuale presente alla corte hamdanide fu Abu ’l-Ala al-Ma‘arri (morto nel 1058), asceta rigoroso ma eccentrico, recluso dal mondo ma circondato di discepoli, pio predicatore, ma forse sacrilego imitatore del Corano. In lui convivono esistenzialmente il desiderio di credere e il dubbio, senza che alcuna formula superiore intervenga a fare la sintesi. Se si dovesse individuare un motore del pensiero di al-Ma‘arri, sarebbe certamente quello della messa in discussione delle religioni tradizionali, accompagnata da una severa critica del potenziale conoscitivo della ragione, che solo nell’ambito etico è in grado di approdare a conclusioni certe.
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LA CITTADELLA 1. Scarpata rivestita in pietra 2. Fossato 3. Cinta muraria e torri 4. Torre del ponte 5. Ponte 6. Ingresso monumentale 7. Suq 8. Hammam di Nur ad-Din 9. Tempio del dio della Tempesta 10. Moschea di Abramo 11. Quartieri ottomani 12. Grande Moschea 13. Caserma di Ibrahim Pasha
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In alto: l’ingresso della Cittadella di Aleppo in una foto del 1898.
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14. Pozzo di epoca ayyubide 15. Fortificazioni 16. Mulino di epoca ottomana 17. Teatro moderno 18. Cisterna di epoca ayyubide 19. Torre di epoca mamelucca 20. Palazzo ayyubide 21. Palazzo dell’hammam 22. Pozzo di epoca ellenistica 23. Arsenale 24. Palazzo Tawashi 25. Sala del trono di epoca mamelucca
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In alto: Aleppo e, in secondo piano, la Cittadella, in una foto del 1900.
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SPECIALE • ALEPPO A sinistra: un’immagine panoramica di Aleppo vista dalla Cittadella, in una foto del 1898. In basso: ancora una veduta di una porta d’ingresso di Aleppo con, sullo sfondo, la Cittadella. 1898.
Dopo la cristianizzazione dell’impero e la dismissione di una parte dell’eredità ellenistica, la Siria e Aleppo sembrarono riscoprire un fondo culturale e artistico e perfino un modus vivendi piú antico, legato al millenario substrato semitico. L’epoca bizantina fu ancora un periodo di prosperità per il Nord della Siria: le città erano numerose e Antiochia, che continuò a essere la capitale della provincia di Syria Prima, non perse il suo splendore. In quest’area, il mondo rurale era prospero e dinamico e garantiva una produzione agricola che non solamente copriva i bisogni locali, ma assicurava anche un notevole surplus. Il bilancio commerciale della regione era largamente in attivo, anche perché essa costituiva una zona di passaggio delle carovane della Via della Seta.
TRA CONTINUITÀ E CAMBIAMENTO Aleppo bizantina è ancora poco conosciuta: i testi la menzionano raramente e le vestigia archeologiche sono piuttosto scarse. Si trattava certamente di una città di secondaria importanza, che approfittava della prosperità generale della regione.Tra i pochi monumen90 a r c h e o
ti noti, la Porta dei Quaranta martiri, sita presso l’omonimo oratorio; un pavimento a mosaico scoperto nel 1936; l’antica cattedrale cittadina, ricostruita da Giustiniano dopo il 540, i cui resti, a partire dal 1124, si trovano inglobati in un monumento islamico di fronte alla Grande Moschea omayyade; la Grande Sinagoga, poi ricostruita piú volte dopo la conquista musulmana. Dalla seconda metà del VII secolo, quando gli Arabi si insediarono ad Aleppo, cosí come in centri di antica origine, proseguirono
nella tendenza, già tipica del periodo tardoantico e bizantino, all’occupazione degli spazi pubblici con strutture private quali abitazioni, botteghe, laboratori. Cosí, per esempio, a Palmira, la grande via colonnata a nord-ovest del Tetrapylon (una sorta di arco quadrifronte di forma cubica, con una porta su ognuna delle quattro facce laterali) fu bordata da una lunga linea di 45 botteghe, le piú antiche delle quali risalgono alla fine del VII secolo e che si estendevano per 180 m, formando un mercato lineare e coperto, morfologicamente molto vicino al concetto urbanistico del suq arabo-islamico, che costituiva il nucleo centrale della nuova organizzazione dello spazio urbano.
venne edificata anche la famosa moschea di Damasco), come anche il primo nucleo del grande mercato (suq) che, prima della guerra, costituiva uno degli insiemi di questo genere piú splendidi e meglio conservati di tutto l’Oriente. Secondo la tradizione, nel muro sud della sala da preghiera sarebbe racchiusa la testa di Zaccaria, il padre di Giovanni Battista, reliquia tuttora venerata dai musulmani. Della costruzione omayyade non resta praticamente traccia: essa fu infatti riedificata a piú
L’AVVENTO DEGLI OMAYYADI Aleppo, che dal momento della conquista araba tornò a chiamarsi Halab, come nel II millennio a.C., iniziò a svilupparsi quale città islamica sotto la dinastia omayyade, che prese il potere nel 661 e assunse la direzione della comunità musulmana (umma) per circa un secolo. Sono i califfi omayyadi, intorno al 715, a costruire, nel sito dell’antica agorà greca, la Grande Moschea della città (piú o meno nello stesso periodo in cui
In alto: il cortile della Grande Moschea omayyade, con il minareto sullo sfondo. 1900. A sinistra: ancora una veduta della Cittadella di Aleppo. 1936.
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SPECIALE • ALEPPO A sinistra: veduta a volo d’uccello della Grande Moschea omayyade, con il minareto ancora integro. 2008. In basso: il cortile della Grande Moschea, con, in primo piano, le fontane per le abluzioni.
UN CRIMINE CONTRO IL PATRIMONIO DELL’UMANITÀ: LE DISTRUZIONI DEL MINARETO E DEL SUQ DI ALEPPO Il minareto della famosa moschea omayyade di Aleppo, aggiunto all’edificio nell’XI secolo dai Turchi selgiuchidi, è stato distrutto nell’aprile del 2013. Lo hanno confermato sia gli organi di informazione statali siriani che gli attivisti antigovernativi, offrendo diverse versioni sulle responsabilità dell’accaduto. Secondo l’agenzia di Stato, a fare esplodere il minareto sarebbero stati i ribelli del gruppo Jabhat al-Nusra, collegato ad al-Qaeda e al cosiddetto Stato islamico (ISIS). Anche lo splendido suq cittadino è stato pesantemente danneggiato dai bombardamenti. La moschea e il vicino mercato medievale sono i monumenti piú importanti della città vecchia di Aleppo, classificata nel suo complesso come Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO.
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riprese, e la struttura attuale risale soprattutto all’XI, XIII e XIV secolo. Nel 749/50 una rivolta lungamente preparata sconvolse il califfato islamico e abbatté la dinastia omayyade, portando al potere gli Abbasidi, che spostarono la capitale dell’impero in Iraq, fondando la città-capitale di Baghdad, e regnarono fino alla metà del XIII secolo. Per la Siria, il periodo abbaside fu inizialmente un’epoca di declino, ma, ben presto, il suo ruolo di regione cuscinetto tra gli Abbasidi, i Bizantini, e i califfi fatimidi del Cairo ne fece uno spazio aperto alle ambizioni di potentati locali, legati all’impero abbaside ma dotati di ampia autonomia.
LA «SPADA DELLA DINASTIA» La prima dinastia locale ad affermarsi in Siria fu quella degli Hamdanidi, proveniente dall’Alta Mesopotamia, la cui figura di punta è l’emiro Sayf al-Dawla («La Spada della Dinastia»), signore di Aleppo dal 947 al 967. In questo periodo egli dominò tutta la Siria del Nord, da Homs a sud, con la regione di Antiochia, i confini del Tauro e una parte dell’Alta Mesopotamia. Aleppo divenne dunque la capitale di uno Stato di una certa importanza, che era in teoria vassallo o tributario di Baghdad, ma che ritrovò uno status regale che non aveva piú dai tempi degli Ittiti. Sayf al-Dawla profuse grandi energie nella lotta contro i Bizantini: inizialmente, le sue truppe ebbero
In alto: le macerie del minareto della Grande Moschea, abbattuto nel 2013. In basso: il cortile della Grande Moschea in una foto del 2014 che documenta i danni causati dal conflitto in atto.
la meglio, ma, nei primi anni Sessanta del X secolo, l’imperatore Niceforo Foca attaccò Aleppo, la assediò brevemente e la saccheggiò. Sayf al-Dawla morí nel 967, e suo figlio Sa‘ad poté tornare in città solo dieci anni piú tardi. Successivamente, gli Hamdanidi divennero alleati dei Bizantini e combatterono al loro fianco contro i Fatimidi, fino all’estinzione della dinastia, nel 1015/16. Nel 1015 Aleppo venne occupata dai Fatimidi, che la consideravano come una chiave di accesso all’Iraq, ma, nel 1024, la città fu libe-
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rata dalla tribú mirdaside, dopo un breve assedio. I Fatimidi lasciarono Aleppo, ma, piú tardi, i Mirdasidi furono costretti a pagare ogni anno un tributo a Bisanzio e al Cairo e, dal 1086, si sottomisero ai Turchi selgiuchidi. Dell’architettura di questo periodo era giunto fino a noi, fino a tre anni fa, solo un unico capolavoro: il minareto della Grande Moschea di Aleppo, alto 50 m, commissionato dal sultano selgiuchide Malikshah, realizzato in blocchi squadrati di pietra e splendidamente decorato da motivi geometrici, vegetali ed epigrafici e, nel coronamento, da un ricco motivo a stalattiti (muqarnas). Nel 1097, l’anno della conquista crociata di Antiochia, la regione di Aleppo fu interessata da un’aggressiva presenza di truppe franche e la città venne attaccata a piú riprese tra il 1100 e il 1103: non fu conquistata, ma costretta a pagare un pesante tributo alle autorità crociate, e i Selgiuchidi l’abbandonarono a se stessa. Nel 1128, di Aleppo si impossessò il principe turco di Mosul, ‘Imad al-Din Zangi. Suo figlio, Nur al-Din Mahmud, divenne atabek («reggente») della città nel 1146 e mantenne la carica fino alla morte, nel 1174.
BALUARDO DELLA RESISTENZA Con gli Zengidi, Aleppo divenne il baluardo della resistenza islamica in Siria, ma, soprattutto, si trasformò in un’autentica capitale islamica: le mura di cinta della città furono interamente restaurate, cosí come la Cittadella e le moschee.Vennero poi costruiti il palazzo di Nur al-Din, detto «il Palazzo d’oro», fontane, bagni pubblici, acquedotti, monumentali caravanserragli e splendide scuole coraniche. La nuova architettura introdotta dagli Zengidi è in linea con la tradizione regionale, che utilizza pietra da taglio finemente squadrata e limita la decorazione architettonica a zone circoscritte degli edifici, ma integra molti elementi di provenienza orientale, soprattutto persiana, come l’iwan (vedi box a p. 96), che diviene una delle forme caratteristiche dell’architettura siriana e in particolare aleppina fino al XIX secolo. Alla morte di Nur al-Din, Aleppo entrò a far parte dei possedimenti di uno dei suoi piú ambiziosi generali, Salah al-Din Yusuf ibn Ayyub, il celebre Saladino, che fondò una nuova entità statale, comprendente l’Egitto e parte della Siria e, nel 1189, riconquistò Gerusalemme, che, dal 1099, era nelle mani dei crociati. Alla sua morte, la città fu governata 94 a r c h e o
Nella pagina accanto: Aleppo in una mappa disegnata dal funzionario bosgnacco (bosniaco musulmano) dell’impero ottomano Matrakçi Nasuh (1480-1564 circa), che, oltre a distinguersi in ogni campo dello scibile umano, fu anche un valente miniatore e dette vita a uno stile singolare e innovativo nelle rappresentazioni topografiche. Come si può notare, nonostante la resa schematica e lo schiacciamento prospettico, la raffigurazione della città è assai minuziosa ed è facile individuarne le architetture piú significative, prima fra tutte la Cittadella.
da suo figlio, Malik al-Zahir Ghazi, che ne fece la capitale di un regno esteso da Hama fino al Tauro e all’Eufrate e che rimase sotto il controllo dei suoi eredi fino al 1260, quando venne conquistato dai Mongoli. Il periodo della sovranità ayyubide è certamente uno dei piú fastosi della storia di Aleppo. Come sotto Nur al-Din, si restaurarono moschee e palazzi e si costruirono numerosi edifici nuovi, tra cui soprattutto scuole coraniche per la diffusione della dottrina sunnita, e la sua superficie crebbe considerevolmente.
UN NOVELLO ALESSANDRO MAGNO L’avanzata dei Mongoli venne fermata dai Mamelucchi, i quali, a loro volta, avevano messo fine al sultanato ayyubide del Cairo. Approfittando delle vittorie conseguite, i Mamelucchi si installarono in Siria, e Aleppo divenne un capoluogo amministrativo importante del loro nuovo impero. Un simbolo eloquente del potere mamelucco sulla regione è certamente la celebre iscrizione che illustra le realizzazioni del sultano mamelucco al-Malik al-Ashraf Khalil (689/1290692/1294) posta al di sopra del grande portale d’ingresso della Cittadella di Aleppo. L’elogio piú grande riservato al sultano è quello di «Alessandro del suo tempo» (Iskandar al-zaman). Sebbene tale epiteto sia stato utilizzato in precedenza da alcuni emiri turchi e dal sultano Baybars I (1260-1277), esso ha qui un significato particolare, in ragione delle grandi vittorie riportate da al-Malik alAshraf Khalil contro i Franchi e gli Armeni e, di conseguenza, delle sue speranze di riconquistare l’Iraq, sottraendolo al dominio della dinastia mongola degli Ilkhanidi. L’Alessandro evocato dal sultano mamelucco è l’eroe leggendario che ricerca la fonte dell’immortalità e costruisce la muraglia contro i popoli di Gog et Magog, non a caso identificati spesso con i Mongoli sia dalle fonti islamiche, sia da quelle cristiane. Le imprese del sultano, che ambiva a restaurare il califfato a Baghdad, acquistavano cosí una dimensione escatologica, che ne faceva un conquistatore universale e, al contempo il fondatore di una nuova era dell’Islam. In epoca mamelucca, la città si ricoprí di un manto di nuovi splendidi monumenti. Uno dei piú significativi, che vale la pena di descrivere nei dettagli, è un edificio riservato alla cura delle malattie mentali, che, se da un
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lato è un grande capolavoro di architettura, dall’altro apre prospettive di grande interesse sugli inaspettati progressi dell’arte medica nella Siria medievale. In effetti, nel suo straordinario saggio sulla storia della follia (Storia della follia nell’età classica, Milano 1963), il filosofo francese Michel Foucault (1926-1984) notava come nel Medioevo occidentale il «pazzo», incarnando con la sua patologia devianza e trasgressione, fosse ferocemente marginalizzato: i fiumi e i mari dell’Europa settentrionale erano solcati dalle «navi dei folli», battelli in cui venivano stipati e deportati da una città all’altra soggetti considerati pericolosi; in altri casi, i malati di mente erano alloggiati e mantenuti a spese della collettività, e tuttavia non venivano affatto curati, bensí semplicemente segregati, purificando cosí della loro presenza i centri urbani di cui erano originari.
REINSERIRE IL DIVERSO Al contrario, nel mondo islamico medievale, i «pazzi» ricevevano un trattamento assai diverso, esplicitamente finalizzato al loro reinserimento nella società. Nella città islamica, la struttura preposta alla cura di chi – in vari modi – fosse stato colpito dal germe della follia era il Bimaristan (parola spesso contratta in Maristan), derivante dal persiano bimar «malato» e dal suffisso -stan, che indica un
LA SALA CHIUSA Il termine iwan sta propriamente a indicare una sala chiusa per tre lati da muri, coperta generalmente con volta a botte, e aperta sul quarto lato da un arco a tutta parete. Viene chiamato cosí anche il complesso di piú sale di questo tipo che si aprono sui lati di una corte centrale. Infine, si
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può intendere semplicemente per iwan l’arco o il vasto portale di facciata di uno di questi ambienti o di un edificio qualsiasi. Nella regione siro-irachena, nell’attuale architettura civile, l’iwan è la stanza principale della casa, con funzioni di soggiorno e rappresentanza: è
posta assialmente sul fondo della corte interna e su di essa si apre, spesso sopraelevata di pochi gradini. La vasta apertura e l’orientamento quasi sempre a nord servono ad assicurare aerazione abbondante e difesa dai raggi solari durante l’estate.
IL PAZZO SACRO NELL’ISLAM Il trattamento particolarmente umano che l’Islam riserva ai malati di mente è in parte dovuto al pensiero mistico, che tende a individuare nella follia una scintilla di origine divina. Per il sufismo, il rimprovero e il biasimo della società sono un’ottima cosa: il vero mistico deve mostrare al mondo il suo lato negativo, recitando la parte del «giullare di Dio» e celando le sue autentiche qualità; Dio, infatti, è troppo geloso dei sufi per permettere loro di rivelarsi per come sono in realtà, e, al contrario, li spinge a comportarsi come folli, affinché ricevano il biasimo degli uomini, ignari della loro natura divina. Cosí i «pazzi sacri» islamici mostrano i genitali in pubblico, offrono da mangiare ai poveri i propri escrementi, affermano di essere stati asini e cammelli in precedenti reincarnazioni, si legano con una corda al collo insieme ai cani e arrivano addirittura a dichiarare di essere Dio: la loro assurda condotta, che non di rado ne provoca la condanna a morte da parte delle autorità, serve a svelare la follia nascosta nell’apparente razionalità della vita quotidiana e ad affermare la necessità di affidarsi integralmente e «irrazionalmente» alla volontà divina. In alto: uno dei cortili del Bimaristan, l’ospedale per malati di mente voluto dal governatore mamelucco Arghun al-Saghir al-Kamili. Nella pagina accanto: l’ingresso del palazzo dell’emiro ayyubide Malik al-Aziz. A destra: uno degli ingressi secondari del Bimaristan.
luogo, termine che desgina genericamente un ospedale, ma che ha spesso l’accezione piú specifica di «ospedale psichiatrico». Al viaggiatore che abbia avuto la fortuna di concedersi una passeggiata nel cuore della città vecchia di Aleppo, attraverso i vicoli intricati che dalla porta di Qinnasrin conducono alla Grande Moschea, è potuto accadere di imbattersi nel Bimaristan di Arghun, capolavoro assoluto dell’architettura araba medievale, da annoverare fra i piú significativi monumenti storici di tutta la Siria. Il sito dove oggi sorge questo antico ospedale era la residenza di un emiro: nel 1344 (la data si evince dall’iscrizione commemorativa della fondazione che campeggia sul portale di accesso all’edificio) il governatore mamelucco di Aleppo Arghun al-Saghir alKamili, desideroso di guadagnarsi la fama di filantropo, decise appunto di trasformarla in uno dei piú splendidi Bimaristan del mondo a r c h e o 97
SPECIALE • ALEPPO
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islamico, espressamente dedicato alla cura e all’assistenza dei malati di mente. Arghun si preoccupò inoltre di assicurare all’istituzione ospedaliera un cospicuo finanziamento attraverso una serie di generose donazioni (waqf), che le permisero di esercitare le sue funzioni per piú di due secoli. Attraverso il grande portale riccamente decorato si accede a un vestibolo e, sulla sinistra, a un’ampia sala con una finestra – protetta da una grata – che si apre sulla strada: si trattava molto probabilmente della farmacia (sharabkhana), dove – in vasi e contenitori di vetro, metallo e porcellana –, erano riposte le principali sostanze utilizzate per la cura delle malattie mentali (olii aromatici per massaggi; digestivi, antiemetici, purghe e sedativi di origine vegetale, soprattutto oppiacei), delle quali i pazienti autorizzati dal farmacista potevano servirsi gratuitamente, sulla base di un’ordinanza rilasciata dall’ospedale stesso.
MUSICA E CANTI PER PLACARE I PAZIENTI Dal vestibolo si raggiunge la corte centrale, un vasto spazio rettangolare con due iwan (sale voltate aperte sul cortile) sui lati corti e due portici colonnati sui lati lunghi. L’iwan meridionale – il piú grande – era destinato a ospitare musicisti e cantanti assoldati per intrattenere i pazienti e calmarli con melodie soavi e con il dolce suono delle loro voci; in questo stesso luogo, ogni sera e ogni mattina,
In alto: un altro cortile del Bimaristan di Arghun: ciascuno di questi spazi era provvisto di una fontana, poiché si riteneva che il gorgoglio dell’acqua potesse avere un effetto benefico sull’umore dei pazienti. Nella pagina accanto: l’ingresso del Bimaristan di Damasco, in una foto scattata prima dello scoppio della guerra civile.
venivano recitate sure (capitoli) del Corano da lettori professionisti. Al centro della corte si trova una vasca circondata da vasi contenenti fiori e piante aromatiche: sembra che i malati ricevessero grandi benefici dal rumore dell’acqua gorgogliante e dal profumo dei fiori che si diffondeva in tutto l’ambiente. Lungo i lati Est e Ovest, si aprono le stanze singole che dovevano ospitare i pazienti. Nella parte orientale dell’edificio ci sono tre reparti isolati, ai quali è possibile accedere dall’entrata principale attraverso una serie di passaggi stretti e oscuri: il padiglione quadrangolare, di difficile accesso, con finestre chiuse da robuste sbarre di ferro, era probabilmente riservato ai «pazzi furiosi», che potevano costituire un pericolo per gli altri; il reparto ottagonale (anche noto come «padiglione degli uomini»), con dodici piccole stanze che si aprono intorno a una piccola corte, ospitava i malati affetti da patologie particolari, che tuttavia non si abbandonavano ad atti di violenza; infine, nel reparto rettangolare (il «padiglione delle donne») soggiornavano i pazienti che avevano solo bisogno di quiete e di tranquillità. I tre reparti hanno tutti una piccola corte interna, intorno alla quale si articolano le camere; il padiglione ottagonale e quello rettangolare sono dotati anche di vasca e di fontana. Nella zona meridionale dell’edificio si trovano gli ambienti di servizio – bagni, cucine e magazzini –, che, in alcuni casi, si aprono direttamente sulla strada. Tutte le sezioni del Bimaristan erano equipaggiate di letti, medicine e strumentazione medica, ed erano gestite da personale specializzato stabile, diretto da uno specialista, il quale, a sua volta doveva rispondere a un direttore «politico», scelto fra le personalità piú eminenti di Aleppo. Dalla semplice analisi di questa struttura emerge inequivocabilmente il notevole grado di sviluppo della «filosofia medica» araba medievale, e in particolare si evidenzia un approccio assai originale al difficile problema della malattia mentale. DA LEGGERE Ross Burns, Monuments de Syrie, Éditions Dummar, Damasco 1998 Jean-Claude David, Alep, Flammarion, Parigi 2002 a r c h e o 99
IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda
UN CAFFÈ ALLA TURCA LA STORIA SI SCRIVE ANCHE A PARTIRE DA OGGETTI LEGATI ALLA VITA DI TUTTI I GIORNI. COME DIMOSTRA LO STUDIO DELLE PIPE E DELLE TAZZINE DA CAFFÈ RESTITUITE DAGLI SCAVI CONDOTTI A STARI BAR, IN MONTENEGRO
I
l Montenegro è una regione della sponda orientale dell’Adriatico dalla lunga storia, che si è variamente intrecciata con quella della nostra Penisola. La sua principale città costiera, Antivari, sorta a riscontro della nostra Bari, fu presa nel XV secolo da Venezia, che la dotò dei suoi imponenti bastioni e la tenne fino al 1571, quando fu conquistata, nell’anno di Lepanto, dal sultano ottomano. Da allora, per oltre trecento anni,
Antivari fece parte dei domini di quell’impero, nel quale svolse un ruolo periferico ai suoi confini geografici e politici.
LA CITTÀ FANTASMA La guerra d’indipendenza del Montenegro recò ad Antivari danni irreversibili, sí che la sua parte piú antica, Stari Bar, venne abbandonata verso la fine del XIX secolo. Dopo le ulteriori distruzioni arrecate dal terremoto che colpí la regione nel 1979, la città è stata
trasformata in un grande parco archeologico aperto al pubblico, disseminato di rovine e di edifici parzialmente restaurati. Oltre dieci anni fa, nel 2004, ha preso avvio un progetto internazionale di ricerca archeologica, al quale partecipa anche un’équipe italiana dell’Università di Venezia, guidata da Sauro Gelichi. Le diverse fasi di occupazione del sito di epoca turca sono state scavate e pubblicate con cura, avendo come obiettivo la lettura della storia plurisecolare della Antivari ottomana: una storia segnata da profondi cambiamenti nella compagine sociale, che videro In alto: illustrazione raffigurante l’interno di una caffetteria in Bosnia, con personaggi che fumano lunghe pipe e, piú sotto, un frammento di pipa proveniente da Stari Bar. A sinistra: frammento di pipa con il marchio di Babalik.
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A sinistra e in basso: due frammenti di pipa con probabile marchio di Babalik. In basso, a sinistra: cartina della parte meridionale del Mare Adriatico con, in evidenza, la localizzazione di Stari Bar e dei principali centri circostanti.
l’antico porto veneziano trasformarsi in un villaggio balcanico, come punto di arrivo di un processo storico che l’archeologia per sua natura ricostruisce scandendo nel tempo le testimonianze materiali.
UNO SPECCHIO DEL MODUS VIVENDI Strumento di questa lettura sono state due categorie di oggetti archeologici: le pipe in terracotta e le tazzine da caffè. Come possono due tipi di manufatti d’uso quotidiano prestarsi a un obiettivo cosí ambizioso? Possono farlo, perché la cultura materiale ha il Belgrado
Croazia
Bosnia Er zegovina Ser bia M ontenegr o Podgorica Skopje
Antivari
Macedonia
Tirana Bari
Italia
Albania
privilegio di rappresentare, senza eccessive distorsioni, i comportamenti delle persone, e quindi le loro abitudini, le loro mentalità, la loro cultura, non solo materiale. Sulla falsariga del consumo di tabacco e caffè, è stato quindi possibile seguire le tracce di un percorso che dalla Antivari cristiana di ambiente adriatico ha condotto alla Antivari musulmana di ambiente balcanico. La cornice è quella di un angolo remoto dell’impero, nel quale agirono tutti quei meccanismi – di tolleranza e al tempo stesso di integrazione –, che furono tipici di una comunità culturalmente cosí variegata e politicamente cosí caratterizzata quale fu appunto quella di uno dei piú grandi imperi mediterranei della storia. Ci si interroga su quali furono i comportamenti di adesione o, per converso, di resistenza alla progressiva islamizzazione del centro, cosí come ce li possono raccontare specifici usi e costumi
Grecia
Podgorica
Risano Cattaro Budua
Stari Bar N NO
NE
O
Antivari E
SO
SE
Dulcigno
S
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leggibili archeologicamente, cioè attraverso i loro indicatori materiali, quali possono essere determinate stoviglie d’uso domestico o le pratiche di smaltimento dei rifiuti o, appunto, l’usanza di fumare la pipa o di bere il caffè. Alla fine del Cinquecento, una generazione dopo l’annessione di Antivari all’impero ottomano, le Seconda metà XVII secolo
Tipi
Prima metà XVIII secolo
case di cristiani censite in città erano poco meno di un centinaio. Si tratta di una situazione niente affatto anomala all’interno di uno Stato multietnico, che aveva come obiettivo politico e prassi amministrativa quella di mantenere l’ordine e la pace nei territori sottomessi, conservando le Seconda metà XVIII secolo
Prima metà XIX secolo
Seconda metà XIX secolo
XX secolo
Tipo I
Tipo II. A
Sulle due pagine: frammenti di fornelli di pipe in ceramica. In alto: frammento di pipa con marchio di Şişmanyan.
Tipo II. C
Tipo II. D
Tipo II. E
Tipo III. A/C
Tipo III. D
Tipo III. F
Tipo III. G
diversità, sia pure (l’altra faccia della tolleranza) mettendo in essere un carico di effettive diseguaglianze attraverso, per esempio, l’imposizione di divieti o di obblighi, come le pesanti tassazioni differenziate per le comunità non musulmane. Questo atteggiamento politico a due facce, una permissiva e l’altra restrittiva, favorí la progressiva islamizzazione delle famiglie cristiane, accompagnata dalle confische di proprietà riconducibili alla comunità cattolica e dalla conversione delle chiese in moschee.
TABACCO E CAFFÈ Tipo IV. A
Tipo IV. B
Tipo IV. C
Narghilè
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Questo processo storico, che si sviluppa quindi nel corpo delle prime generazioni della Antivari ottomana, può essere letto – questo è l’assunto dei ricercatori – attraverso la presenza del tabacco e del caffè: due merci destinate a essere consumate, ad andare quindi letteralmente «in fumo», eppure ancora leggibili grazie ai frammenti di pipe di terracotta e di tazzine da caffè rimasti intrappolati
nelle stratificazioni urbane. A Stari Bar, pipe e tazzine sono infatti una presenza costante negli strati risalenti al periodo turco della città, ne costituiscono per certi versi la cifra qualitativa; il loro numero è tale che è possibile quantificarne la consistenza numerica e tracciarne la scansione cronologica. Insomma, pipe e tazzine possono parlarci di sé, ma innanzitutto dei fumatori e dei bevitori che ne facevano uso in un determinato luogo, in un determinato momento storico. Per fare questo, occorre naturalmente partire dagli oggetti e conoscerli con gli strumenti propri dell’archeologia: la stratigrafia che li colloca nel tempo e nello spazio, la tipologia che li descrive nelle loro forme e funzioni con un occhio curioso dei dettagli.
UNA TIPOLOGIA PER LE PIPE Le pipe turche erano prodotte prevalentemente in terracotta. Consistevano di due parti: il fornello e il lungo stelo in legno o in metallo, che in genere differenzia le pipe ottomane da quelle occidentali. Il fornello, essendo solitamente in ceramica, è la parte che meglio si conserva, sí che è stato possibile cominciare a dare un po’ di ordine a questi manufatti, classificandoli e proponendone quelle che gli archeologi chiamano cronotipologie. Grazie a questi lavori analitici, le pipe – un oggetto apparentemente marginale – sono diventate buoni e a volte ottimi «fossili guida» nello studio dei contesti.
Cominciamo dunque a sapere molto delle pipe di Stari Bar, i cui esemplari piú antichi si datano alla fine del Seicento, un buon secolo dopo l’ingresso di Antivari nell’orbita ottomana. Si tratta in genere di oggetti piuttosto piccoli, semplici e privi di decorazioni. Solo cento anni dopo, alla fine del Settecento, sembrano fare la loro comparsa i primi fornelli ingrossati, conformati a cipolla, e soltanto in pieno Ottocento si diffondono i tipi con disco. È questa anche l’epoca in cui sono attestati i primi marchi dei fabbricanti, sigle e simboli che faranno luce sui luoghi di produzione. Se nei Balcani l’uso del tabacco compare nel XVII secolo, sappiamo che il consumo del caffè era già diffuso. La prima caffetteria fu aperta a Belgrado, in Serbia, nel 1522, e, nel 1591, ne esisteva una in Bosnia, a Sarajevo. Ma ad Antivari l’abitudine di sorseggiare una buona tazza di caffè, magari accompagnata dal fumo della pipa, non sembra esser penetrata nelle pratiche sociali prima della seconda metà del XVII secolo, epoca a partire dalla quale le tazzine e le pipe cominciano a caratterizzare gli strati di vita frugati dagli archeologi, contribuendo a delineare quell’ambientazione che ancora caratterizza l’immaginario collettivo del mondo ottomano. Se delle pipe non conosciamo con certezza i luoghi di produzione, sappiamo invece che le tazzine da caffè comprate, usate e scartate a Antivari venivano
prodotte nel cuore dell’Anatolia occidentale, a Küthaya, dove le manifatture ceramiche erano andate soppiantando il monopolio dei celebri prodotti di Iznik, l’antica Nicea di Bitinia.
MANIFATTURE DI ALTISSIMA QUALITÀ Ma le tazzine di Antivari non giungevano soltanto dal centro dell’impero; anche l’Europa ne esportava in quel remoto mercato affacciato sull’Adriatico. La scoperta del segreto della produzione della porcellana aveva fatto nascere varie manifatture specializzate di altissima qualità nei maggiori Stati europei: nessuno stupore, quindi, che gli abitanti di Antivari, o almeno quelli che potevano permettersi l’acquisto di un genere di particolare qualità, amassero sorseggiare il loro caffè nelle tazzine prodotte in Germania, a Meissen, o a Vienna. Se pensiamo che le pipe di tipo europeo sono invece quasi completamente assenti nelle stratificazioni di Antivari, ecco che questa circostanza ci aiuta a riflettere sul fatto che questi due «fossili guida», pur cosí solidali e paralleli, una qualche differenziazione sociale nell’uso di queste due derrate, tabacco e caffè, devono pur marcarla nel lungo e comune processo di islamizzazione dell’antica cittadina veneziana, dove solo con l’Ottocento – concludono i ricercatori – «la consuetudine delle due cose divenne generalizzata confermando l’accoglienza piuttosto tardiva ai confini dell’impero di uno stile di vita tradizionalmente associato agli Ottomani».
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QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli
…RISUONAVA DI «ACQUE DOLCEMENTE MORMORANTI» NELLA CAPITALE DELL’IMPERO L’APPROVVIGIONAMENTO IDRICO FU SEMPRE COPIOSO, TANTO CHE I CENSIMENTI DELLE FONTANE RIPORTANO CIFRE SBALORDITIVE. E ANCOR PIÚ SORPRENDENTI DOVEVANO ESSERE LE MOSTRE MONUMENTALI, DELLE QUALI, PURTROPPO, SI CONSERVANO IL RICORDO E, QUA E LÀ, RESTI CHE LASCIANO SOLO INTUIRE L’ORIGINARIA IMPONENZA
I
cosiddetti Cataloghi Regionari (gli elenchi di monumenti divisi per ognuna delle quattordici regioni della città, redatti nel IV secolo d.C.) forniscono un numero strabiliante di fontane diffuse per tutta Roma: 1204 o 1212 (o, addirittura, 1352), a seconda delle versioni. Non aveva dunque esagerato Properzio, il quale, già al tempo di Augusto,
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aveva scritto (El. II, 32,15): «La città intera risuona di acque dolcemente mormoranti». Mentre Cassiodoro, ancora nel VI secolo, poteva esaltare la freschezza delle acque «che sprizzano dalle fontane per tutta Roma come mammelle di donna per il benessere della città» (Var. VII, 6). In quei numeri saranno certamente da comprendere le
«fontanelle» di strada e quelle che stavano nei cortili dei grandi caseggiati d’affitto: di solito piuttosto semplici, con vasca rettangolare e un pilastrino nel mezzo o al centro del lato di fondo dal quale, attraverso un tubo di piombo (spesso sporgente da un elemento decorativo in rilievo), sgorgava l’acqua. Oppure costituite
da uno «stanzino» coperto da una volticella e dotato di una vasca su un lato aperto verso l’esterno. Ci saranno anche state le 100 «fontanelle» a parete che offrivano da bere ai frequentatori del Colosseo, equamente ripartite nei tre piani dell’anfiteatro. E cosí pure le tante altre che si trovavano all’interno delle grandi terme.
«PLURIMI ET ORNATISSIMI LACUS» Ma sicuramente numerose dovevano essere anche le fontane che, a una semplice vasca, aggiungevano elementi decorativi di tipo architettonico – fondali, prospetti, nicchie, colonnati, esedre, edicole – arricchiti (e completati) da elementi di ornamentazione plastica e pittorica o, piú comunemente, musiva. Non è possibile immaginare altrimenti le 400 colonne che, oltre a 300 statue, si trovavano nelle 700 fontane aggiunte da Agrippa, sul finire del I secolo a.C. (verosimilmente in coincidenza con
Nella pagina accanto: Vestigij del Castello dell’acqua Martia, ovvero Iulia..., incisione di Étienne Dupérac che raffigura la mostra della diramazione dell’Acqua Claudia nota come Trofei di Mario. A destra: uno dei gruppi scultorei che alludono alla vittoria e da cui la diramazione dell’Acqua Claudia ha preso il nome di Trofei di Mario. L’opera si trova oggi in cima alla Cordonata, la scalinata monumentale che sale al Campidoglio.
Disegno ricostruttivo dei Trofei di Mario, realizzato da Alberto Ridolfi sulla base dell’ipotesi elaborata dall’archeologo Giuseppe Gatteschi. 1916.
la realizzazione dell’Acquedotto Vergine), alle 500 che già risultarono esistenti al censimento indetto dallo stesso Agrippa. E quando Svetonio, nella «vita» di Claudio (XV, 20), scrive di «plurimi et ornatissimi lacus» fatti costruire dall’imperatore (anche in questo caso, in concomitanza con la costruzione dei due nuovi acquedotti della Claudia e dell’Aniene Nuovo), egli non può che riferirsi a fontane (lacus) ideate e realizzate alla stregua di «composizioni» architettoniche. Come doveva essere, per esempio, la Fontana di Orfeo (Lacus Orphaei), all’Esquilino (nella zona odierna di S. Martino ai Monti), della quale Marziale scrive (XI, 20, 6 e segg.) che era ornata di due gruppi scultorei, uno dei quali raffigurante Orfeo con le fiere ammansite dalla sua musica.
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Nessun dubbio circa la loro monumentalità può sussistere per le «mostre d’acqua» realizzate al termine degli acquedotti o delle loro diramazioni, talvolta appoggiate ai «castelli» di distribuzione, che al tempo di Domiziano, verso la fine del I secolo d.C., erano, secondo Frontino, una quarantina. Esempio eloquente ne è quella che, verosimilmente, fu la grande «mostra» della diramazione dell’Acqua Claudia e i cui ruderi – noti con il nome fantasioso di Trofei di Mario – si trovano all’angolo nord-occidentale dei giardini dell’odierna piazza Vittorio Emanuele II.
UN APPARATO GRANDIOSO Fatta costruire da Severo Alessandro, nel 226 d.C. (nell’angolo formato dalla divaricazione delle vie Labicana e Tiburtina), essa è menzionata come Oceani Solium, cioè Fontana di Oceano, per via di una statua che ne costituiva l’ornamento centrale. Tutta in laterizio, ma rivestita di lastre marmoree, aveva pianta trapezoidale e s’innalzava con tre piani per oltre 20 m (con 25 di larghezza e 15 di profondità). Il piano inferiore, oltre alla vasca, aveva tre ambienti di servizio disimpegnati da un corridoio e, sulla fronte, una serie di nove bocche d’uscita dell’acqua che andava a riversarsi in una grande vasca semicircolare. Il piano intermedio racchiudeva diversi canali, nei quali l’acqua si divideva provenendo dallo speco dell’acquedotto. Il terzo piano doveva presentarsi nell’aspetto di un grande arco trionfale, sormontato dalla quadriga imperiale e da altre statue, mentre la parte inferiore era tripartita: al centro una grande nicchia, semicircolare, doveva ospitare la statua di Oceano; ai lati, due archi contenevano al loro
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interno altrettanti trofei d’armi (i cosiddetti Trofei di Mario), tratti da un monumento smantellato (o mai terminato) che, poco piú d’un secolo prima, avrebbe dovuto celebrare le imprese militari di Domiziano. La «mostra» di piazza Vittorio è quasi certamente da identificare con quello che, nei Cataloghi Regionari viene ricordato col nome di Nymphaeum Alexandri. Cioè con un termine – ninfeo (derivato dal greco) – entrato nell’uso, a Roma, a partire dal III secolo d.C., col quale s’indicava, propriamente, un luogo
o una costruzione sacri alle Ninfe, dove le fontane – e l’acqua in generale – erano una caratteristica essenziale e qualificante. Cosí come lo erano, dal punto di vista architettonico, le nicchie e le esedre, le superfici curve e le coperture a volta alludenti alle grotte e agli anfratti naturali. Si trattava spesso di grandi ambienti, variamente articolati e talvolta anche suddivisi in «navate» da file di colonne, utilizzati come luoghi di ritrovo estivo e di soggiorno, ombrosi e freschi e quindi piacevoli e distensivi, adatti
I resti del Septizodium in una incisione di Joan Blaeu, realizzata per il Nouveau Theatre D’Italie, Ou Description Exacte De Ses Villes, Palais, Eglises, Principaux Edifices, pubblicato a L’Aia nel 1724. secondo i Cataloghi Regionari, erano quindici. Purtroppo, solo tre di essi vengono indicati col loro nome, mentre nessuno – al di fuori del Ninfeo di Alessandro – è a noi noto per una qualche sopravvivenza archeologica.
EFFETTO A CASCATA
per feste e conviti e per incontri poetici e letterari. Non diversamente vanno considerate, spesso, anche le caratteristiche «rotonde», le monumentali costruzioni a pianta circolare (o poligonale), dotate di esedre e di nicchie alle pareti, con finestroni ad arco e copertura a cupola, nelle quali la presenza dell’acqua, benché secondaria, rivestiva pur sempre un ruolo d’una certa importanza. Il nome di «ninfeo», tuttavia, dovette essere esteso, col tempo, anche alle fontane monumentali che, sempre
In ogni caso, quel nome continua oggi a essere usato non solo per edifici come, per esempio, il cosiddetto tempio di Minerva Medica, in via Giolitti – ritenuto dai piú un «ninfeo» pertinente alla villa imperiale di Gallieno –, ma anche per le grandi fontane architettoniche. Sia quelle «a esedra», come il cosiddetto Auditorio di Mecenate (al largo Leopardi), appartenuto alla villa dell’amico e consigliere di Augusto che le dette il nome, dove il lato di fondo è in forma di emiciclo con sette gradoni concentrici sui quali l’acqua doveva scendere con un suggestivo effetto a cascata. Sia – e forse ancora di piú – quelle «a facciata». Queste, già presenti nel mondo greco nella loro versione piú semplice, ebbero un grande sviluppo e una notevole fortuna nel mondo romano. Complice il gusto per gli effetti ridondanti e per i prospetti scenografici variamente e riccamente articolati, che ebbe la sua massima espressione nei grandiosi apparati architettonici delle scenae frontes, i fondali scenici dei teatri. Per ottenere una fontana monumentale non si dovette fare altro che aggiungere l’acqua a quei fondali. Un tipo di fontana come questo aveva naturalmente un preminente sviluppo in larghezza, cioè sulla
fronte, piú che in profondità, e poteva essere addossato a un edificio o essere del tutto a se stante. In ogni caso, era formato, sostanzialmente, da una «parete», a due o tre piani, mossa e articolata da nicchie eventualmente inquadrate da lesene o da semicolonne (anche con frontoncini a timpano formanti edicola) e con «loggiati» o ambulacri colonnati. L’acqua sgorgava all’interno delle nicchie e scendeva quasi sempre lungo apposite scalette, che davano l’effetto di cascata, per andarsi a raccogliere in una vasca delimitata sul davanti da parapetti o plutei, allungata alla base e per tutta la fronte della costruzione. Massimo esempio a Roma di fontana «a facciata» fu il cosiddetto Septizodium, fatto erigere da Settimio Severo, nel 303 d.C., ai piedi dell’angolo sudoccidentale del Palatino (e «scomparso» definitivamente, per quello che ne restava, con la demolizione effettuata nel 1586). Lungo una novantina di metri e tripartito in senso verticale, era articolato con tre ampie esedre semicircolari tra due brevi avancorpi rettilinei alle due estremità. Si sviluppava in altezza per tre piani di misure decrescenti che, seguendo l’andamento generale, s’allungavano con sporgenze e rientranze, formati ognuno da un ambulacro con prospetto a colonne di marmi diversi, alternati, sormontate da una ricca trabeazione di marmo bianco e con pareti rivestite di lastre degli stessi marmi delle colonne (granito, giallo antico e africano). L’ultimo piano era chiuso in alto da un soffitto cassettonato. In basso, sul davanti e per l’intera facciata, si trovava la vasca che, in corrispondenza dell’esedra centrale, era sormotata da una statua colossale probabilmente raffigurante il Tevere.
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SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti
«SMONTARE» LA STORIA PER ANALIZZARE EDIFICI ANTICHI CHE SI SIANO CONSERVATI ANCHE IN ELEVATO, L’ARCHEOLOGO APPLICA, «IN VERTICALE», GLI STESSI CRITERI CHE GUIDANO LE INDAGINI STRATIGRAFICHE. E, ANCHE GRAZIE AL CONFRONTO CON GLI ARCHITETTI, PUÒ COSÍ RICAVARE INFORMAZIONI PREZIOSE
L’
«archeologia dell’architettura» è uno dei prodotti piú importanti dell’archeologia medievale. Si tratta di un metodo di indagine che consiste nell’applicare ai monumenti sopravvissuti fino ai giorni nostri la modalità-base del metodo stratigrafico: se dunque l’archeologo dedito allo scavo «smonta» il sottosuolo – suddividendolo negli strati che lo compongono, per poi ricomporre la sequenza del sito dalle fasi piú antiche alle piú recenti –, nel caso in cui si occupi di un edificio ancora in piedi, lo smonta, virtualmente, negli elementi che lo costituiscono, per ricostruire le vicende che ne hanno caratterizzato la storia, come, per esempio, restauri, riusi o demolizioni. L’archeologia dell’architettura è quindi un metodo di lavoro che consente di riscrivere nel dettaglio la storia di ogni singolo monumento, spesso arrivando a conclusioni mai raggiunte prima
Sant’Angelo in Formis (Caserta), basilica di S. Michele Arcangelo. L’abate Desiderio offre la chiesa a Cristo, particolare degli affreschi dell’abside. Seconda metà dell’XI sec. Fondato forse dai Longobardi nel VI sec., l’edificio sacro fu donato dal normanno Riccardo I Drengot a Montecassino e al suo abate Desiderio, membro della famiglia dei principi longobardi di Benevento, che lo fece ricostruire tra il 1072 e il 1087.
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(come l’individuazione di ristrutturazioni che non hanno lasciato tracce nella documentazione scritta). Tutto questo fa sí che l’archeologia dell’architettura diventi un importante campo di interazione e di dialogo tra archeologi e architetti, poiché solo individuando tutte le fasi costruttive è poi possibile affrontare un restauro corretto, filologico. In altri termini, un intervento che non cancelli arbitrariamente alcuna testimonianza storica contenuta nel monumento e che, al contrario, le metta in luce tutte, perché tutte hanno il medesimo valore.
geopolitica) uno dei punti forti della narrazione. Comprendere le architetture vuol dire ricostruire una storia il piú possibile zonale: il Mezzogiorno italiano, lo spazio tirrenico, l’area lombarda, Roma e l’Italia centrale… Innovativo risulta anche il taglio cronologico: Tosco propone una nuova periodizzazione, che individua la prima grande svolta nella storia delle architetture italiane nel VII secolo, e arresta la sua ricostruzione subito prima
ANDARE SEMPRE OLTRE I DETTAGLI
L’IMPORTANZA DEL CONFRONTO Ma il dialogo tra archeologi e architetti viene stimolato da questo metodo di indagine anche su un altro versante degli studi: la storia dell’architettura. Ricostruire le vicende, l’evoluzione delle architetture nel corso del tempo assume infatti un altro spessore se i dati vengono avvicinati con uno sguardo che sia anche archeologico. Ne offre una conferma significativa un recente volume di Carlo Tosco, docente del Politecnico di Torino: L’architettura medievale in Italia, 600-1200 (Bologna 2016). L’autore è uno degli architetti piú aperti al confronto con gli archeologi e, in questa occasione, propone una storia dell’architettura pensata e scritta con un taglio innovativo, per piú di un motivo. Innanzitutto: non ricorre mai al concetto di stile. Per Tosco, il Romanico o il Gotico sono categorie invecchiate, rese obsolete dal suo nuovo approccio, che è di tipo fortemente contestuale e individua nella geografia (e nella
E ancora, l’attenzione dell’autore alle novità in campo archeologico è testimoniata dal repertorio di monumenti da lui stesso analizzati. Oltre ai grandi monumenti medievali, che si trovano nella maggior parte dei testi di questo genere, la galleria allestita da Tosco è molto ricca, poiché include edifici e complessi finora reputati «minori», sui quali l’archeologia (grazie agli scavi e all’archeologia dell’architettura) ha detto cose nuove, e importanti: pievi, cappelle e molti altri ancora, tra cui anche i castelli.
delle grandi innovazioni del Trecento. Piú in generale, l’intero volume è improntato a una lettura davvero contestuale del fenomeno architettonico: lo dimostrano i continui riferimenti alle vicende storiche dei singoli territori, utili anch’essi per ricostruire una storia il piú possibile completa, che tenga conto – per esempio – anche delle politiche e delle esigenze di chi ha voluto quei monumenti, e cioè i committenti (imperatori, re, vescovi, abati, conti, marchesi…).
Quella compiuta da Carlo Tosco è dunque un’operazione davvero nuova e al passo coi tempi, che dimostra come l’archeologia abbia contribuito e continui a contribuire al rinnovamento delle conoscenze nel campo dell’architettura; provando che il dialogo tra archeologi e architetti è possibile e conduce a ottimi risultati. Il volume, infine, costituisce anche un monito per gli archeologi, che, come dicevo in apertura, smontano il sottosuolo e scompongono virtualmente i monumenti… Il rischio da evitare è quello di smontare eccessivamente, di focalizzarsi troppo sui dettagli e perdere di vista il quadro piú ampio, i macrofenomeni. Analizzare il dettaglio – non si dovrebbe mai dimenticarlo – è necessario, ma è solo il punto di partenza nel processo che porta alla ricostruzione delle vicende di un sito, o di un edificio. E fra i possibili punti di arrivo ci sono libri come questo, sintesi intelligenti e a carattere interdisciplinare che fanno davvero compiere un poderoso passo in avanti alle nostre conoscenze.
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
IL SEGNO DEL COMANDO ALL’ESERCIZIO DELL’IMPERIO SI ARRIVAVA SOLITAMENTE PER VIA DINASTICA, MA, FIN DALL’ETÀ DI AUGUSTO, SI CONSOLIDÒ LA FERMA CONVINZIONE CHE L’INFLUENZA DEGLI ASTRI GIOCASSE UN RUOLO FONDAMENTALE NELLA COSTRUZIONE DEL CONSENSO
«C
hiunque averà l’oroscopo nella prima parte di Capricorno sarrà re, overo imperadore, e cosí ancora chi averà l’oroscopo nella terza parte del medesimo segno sarrà grande possente et harrà gran potestà nell’arme, onde Augusto fece gran stima di questo suo oroscopo, che lo volle nelle sue monete per memoria eterna». Cosí l’insigne studioso di antichità Pirro Ligorio (1513-1583), nel suo Libro primo delle medaglie de’ Greci (c171v), disquisisce sull’immagine del Capricorno apposta sulle monete di Augusto, che, celebrata dal primo imperatore quale suo segno celeste, figurò poi anche sulle monete di molti altri regnanti, benché nati sotto altre costellazioni. Per i contemporanei, infatti, il Capricorno divenne una delle figure rappresentative, e di immediata comprensione, del potere imperiale e di colui che tale potere deteneva per ineluttabile volontà del fato divino, che designa un eletto prescelto a governo del mondo.
VISIONI PROSPETTICHE Livia, Tiberio, Vespasiano, Tito, Caracalla, i Severi, Macrino, Gallieno sono fra coloro che fecero apporre il segno di Augusto sulle proprie monetazioni, sia come tipo unico, sia come immagine secondaria.
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Possiamo ricordare, a quest’ultimo proposito, le emissioni di Antonino Pio, Elagabalo, nonché quelle di Filippo I, detto l’Arabo, e della sua famiglia battute a Zeugma (Commagene, in Siria; oggi Balkis in Turchia): tutte, nonostante il lasso di tempo che intercorre tra i regnanti, presentano il medesimo
rovescio. Si tratta di un’ardita visione prospettica del santuario (probabilmente) di Zeus sull’acropoli della città, forse l’attuale Belkis Tepe, dove scavi archeologici hanno rivelato la presenza di un tempio con resti di statue colossali. Nel conio monetale di Zeugma l’artista ha combinato, inquadrando la composizione entro una sorta di piramide tronca, la montagna-acropoli (resa a cerchielli bombati che dovrebbero simboleggiare, come spesso avviene nelle monete provinciali, i massi che compongono un monte), il porticato, il cortile esterno e un ingresso a blocchi, il tutto sormontato dal tempio tetrastilo in alto, dove tra le colonne campeggia la statua di Zeus. L’immagine potrebbe anche essere interpretata, in alternativa, come la visione a volo d’uccello allargata e aperta di un tempio racchiuso da un porticato e un muraglione d’ingresso, in questo caso con un bosco nell’area antistante al tempio. Sotto la composizione, in esergo, compare un animale fantastico chiaramente identificabile, grazie alle corna, con il Capricorno, anche se alcuni Aureo di Augusto, coniato a Tarraco (Tarragona, Spagna), 17-16 a.C. Al dritto, testa dell’imperatore; al rovescio, il Capricorno.
editori lo interpretano erroneamente come un ippocampo.
SIMBOLO DELLE LEGIONI La presenza del segno zodiacale può avere in questo caso un duplice e analogo riferimento, che conduce però sempre allo stesso tema: celebrare la potenza di Roma. Infatti, il segno zodiacale del primo imperatore (riferito, come si è già visto, al momento del concepimento di Augusto) è di per sé foriero di forza, potenza e giustizia (quella di Roma), e diviene anche il simbolo di numerose legioni romane, che lo innalzarono sui propri vessilli, tra cui la Legio III Schytica. Fondata da In alto: rilievo raffigurante il vessillo della Legio II Augusta, affiancato dal Capricorno e da Pegaso. I sec. d.C. Londra, British Museum. A destra: moneta in bronzo di Marcia Otacilia Severa. Zecca di Zeugma, 244-249 d.C. Al dritto, il busto dell’imperatrice: al rovescio, in esergo, il simbolo del Capricorno.
Marco Antonio nel 42 a.C., in occasione della sua campagna contro i Parti (l’altro nome della legione era infatti Parthica), è probabile che venne impegnata anche contro gli Sciti. Protagonista di alterne vicende belliche, a volte sfortunate, la legione fu stanziata sotto Nerone a Zeugma, al confine tra l’impero romano e il regno dei Parti; la sua presenza contribuí a incrementare il generale benessere della città, attestato dai ricchi ritrovamenti archeologici, primi tra tutti i magnifici mosaici figurati policromi, e dalle testimonianze epigrafiche che menzionano altari votivi e cariche municipali rivestite da membri della legione. In queste emissioni provinciali la presenza del Capricorno apposto sotto il maggior tempio della città simboleggia e riunisce nel campo monetale l’indissolubile legame tra la forza militare (reale) e il favore degli dèi (e soprattutto di Tyche, la Fortuna) su cui si fondava, tutto considerato, la carriera di un imperatore.
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Maurizio Bettini
DÈI E UOMINI NELLA CITTÀ Carocci Editore, Roma, 214 pp., ill. b/n 19,00 euro ISBN 978-88-430-7776-2 www.carocci.it
Cattura l’attenzione fin dall’inizio questo saggio di Maurizio Bettini: quando infatti si legge che a ispirarne la redazione sono state una serie di «stranezze» rilevate nell’ambito della cultura romana, è difficile resistere alla tentazione di andare avanti sino alla fine, tutto d’un fiato, complice una scrittura brillante, che rende chiari e accessibili anche i passaggi piú dotti. L’autore ha scelto sei temi, tutti di estremo interesse, anche se – almeno a giudizio di chi scrive – risultano forse piú accattivanti degli altri il primo e l’ultimo, rispettivamente dedicati all’assenza di una cosmogonia nel mondo romano e alla storia del
«parto cesareo». Sono comunque argomenti di notevole rilevanza culturale, di volta in volta dibattuti offrendo disamine ampie e puntuali e che, muovendo dalle testimonianze degli autori antichi, vengono sottoposti a un vaglio critico mai assertivo, ma convincente. Nei vari capitoli, Bettini compie un’operazione in qualche modo paragonabile a un dibattimento giudiziario e, proprio come nei migliori trial movie, sottopone a noi lettori-giurati le prove sulla cui base confeziona la soluzione dei diversi casi affrontati. Nel farlo, oltre a fornire un’ampia mole di riferimenti – corroborati dalla ricca Bibliografia che correda il volume –, mette a nudo l’infondatezza di notizie poco note o del tutto sconosciute al pubblico dei non specialisti e che pure, nel tempo, hanno finito con l’acquisire i crismi della verità. Come è appunto nel caso del Miniatura raffigurante la nascita di Cesare, da un’edizione de Les Faits des Romains. Metà del XIII sec. Londra, British Library.
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parto cesareo, che, fin dalla sua definizione, era una pratica ignota ai Romani (il termine fu coniato da un medico francese attivo nel XVI secolo) e che, soprattutto, non ha tratto il suo nome dalla nascita di Giulio Cesare, il quale fu senza dubbio un personaggio straordinario, ma venne al mondo con modalità del tutto ordinarie. Al di là di simili rivelazioni, il volume ha comunque, e soprattutto, il merito di portarci là dove lo stesso Bettini scrive di essere arrivato, «ossia nel cuore stesso» della cultura romana. Stefano Mammini
PER I PIÚ PICCOLI Telmo Pievani
SULLE TRACCE DEGLI ANTENATI L’avventurosa storia dell’umanità Editoriale Scienza, Firenze-Trieste, 140 pp., ill. col. 19,90 euro ISBN 978-88-7307-705-3 www.editorialescienza.it
Un nipote curioso, di nome Luca, e un nonno disposto a raccontare: è questo l’espediente narrativo da cui prende le mosse la storia «avventurosa» dell’umanità raccontata da Telmo Pievani. Le vicende dei nostri piú antichi antenati, oltre a essere avventurose, furono piuttosto complesse, ma l’autore – che, non a caso, ha firmato negli ultimi anni alcuni importanti progetti espositivi sull’argomento – riesce a farne una sorta di grande fiaba, nel senso piú nobile
del termine, supportata da un ricco corredo iconografico. Il volume è diviso in capitoli, dedicati ai protagonisti principali di una storia che abbraccia alcuni milioni di anni: sfilano dunque Lucy (la femmina di Australopithecus afarensis rinvenuta in Etiopia), l’Uomo di Neandertal, l’Homo erectus che frequentò la grotta georgiana di Dmanisi… Tutti descritti e «intervistati» dal piccolo Luca. S. M.