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M IO O O E ST V RA O
IL T M O IN E RI D N
ARCHEO 383 GENNAIO 2017 TOMBA FRANÇOIS BAZIRA
ESCLUSIVA
I ROMANI A BOLOGNA
ARCHEOLOGI
SENZA FRONTIERE
I MAGNIFICI SETTE
SPECIALE
KENYA
CULLA DELL’UMANITÀ L’INTERVISTA
QUALE FUTURO PER I DIPINTI DELLA TOMBA FRANÇOIS?
€ 5,90
SPECIALE KENYA
Mens. Anno XXXIII n. 383 gennaio 2017 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
GUALA BICCHIERI
LA MISSIONE ITALIANA IN PAKISTAN RISCOPRE UNA ANTICA CITTÀ INDO-GRECA
www.archeo.it IN EDICOLA IL 9 GENNAIO 2017
EDITORIALE
ARCHEOLOGIA POST... Che cos’è l’archeologia? A chi appartiene il passato? Sono questi i due interrogativi principali – solo in apparenza scontati – attorno ai quali si articola una bella iniziativa promossa dal progetto europeo NEARCH (acronimo per New Scenarios for Archaeology) e confluita in una mostra allestita al Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, a Roma, intitolata Archaeology & me. In essa sono esposte 87 opere – disegni, video e fotografie –, scelte fra le centinaia che hanno partecipato all’omonimo concorso internazionale, volte a esprimere le infinite associazioni che il termine «archeologia» evoca nei nostri concittadini europei. Ne riproduciamo una, scelta tra quelle a nostro avviso piú suggestive. Del progetto e delle sue molteplici - e fondamentali - implicazioni parleremo prossimamente. Qui ci soffermiamo solo su un aspetto, strettamente legato anche al tema che sottende all’articolo di apertura di questo numero (in cui Massimo Vidale illustra lo straordinario scavo della città indogreca di Bazira, condotto da una missione italiana): la necessità di elaborare un importante passato della nostra disciplina - quello dell’archeologia di età coloniale – in funzione del suo superamento e dell’acquisizione di una nuova consapevolezza deontologica e metodologica. Scrive Maria Pia Guermandi, curatrice – insieme a Rita Paris – della mostra romana: «La nostra disciplina aiuta a riconoscere gli usi e abusi di un passato deformato per usi propagandistici (…) Superare quella storia è compito di oggi, attraverso progetti di collaborazione in cui gli archeologi europei sappiano mettere in gioco il loro apparato ideologico e culturale, decostruendo i processi di appropriazione del passato cui hanno partecipato e ricostruendo un concetto di patrimonio culturale diverso, inclusivo e per questo piú sostenibile». Segnaliamo, infine, l’intervista pubblicata alle pp. 20-23: non vi si parla – beninteso – di archeologia orientale, né coloniale. Ma pur sempre di un passato (nostro? europeo? universale?) nuovamente alla ricerca, come vedrete, di un suo legittimo proprietario… Andreas M. Steiner Alessandra Ruozi, Work in progress: la fotografia è esposta nella mostra Archaeology & me, in corso a Roma, nel Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo.
SOMMARIO EDITORIALE
Archeologia post...
3
di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
8
SCOPERTE Viene dal Museo Egizio la conferma che a volte non serve scavare per scoprire reperti straordinari: al centro dell’inatteso ritrovamento ci sarebbero addirittura le gambe della regina Nefertari! 8 SCAVI Grazie alle ricerche di una missione internazionale torna alla luce, nella Grecia del Nord, una città sconosciuta, abbandonata in età tardo-romana 10 ALL’OMBRA DEL VESUVIO L’Antiquarium degli Scavi di Pompei mette in mostra i lusinghieri risultati dell’attività svolta dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale 12
PAROLA D’ARCHEOLOGO La Fondazione Vulci ha lanciato una campagna per il rientro «a casa» dei magnifici dipinti della Tomba François: riuscirà nell’impresa? 20 MUSEI La civiltà messapica fa bella mostra di sé nel rinnovato Museo Civico di Alezio, che ne espone le produzioni di maggior pregio 24
DA ATENE
L’età delle Cicladi
MOSTRE
Nell’agro di Bononia
46
di Tiziano Trocchi, Raffaella Raimondi ed Eleonora Rossetti
MOSTRE
In viaggio con il cardinale
58
di Andrea Augenti
58
28
di Valentina Di Napoli
SCAVI
Cosí risorge l’antica Bazira 32 di Massimo Vidale
LA METALLURGIA/1
32
di Flavio Russo
I magnifici sette
68
68 In copertina particolare di una stele raffigurante la dea Hariti, una delle divinità legate ai culti della fertilità della tradizione induista, da Bazira (Barikot, Pakistan).
Anno XXXIII, n. 383 - gennaio 2017 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda,
Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Stefano Campana è professore aggregato in topografia antica all’Università di Siena. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Valentina Di Napoli è archeologa. Daniela Fuganti è giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Maria Katsinopoulou è archeologa. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Luca M. Olivieri è direttore della Missione Archeologica Italiana (ISMEO) in Pakistan e del progetto ACT-Field School. Raffaella Raimondi è archeologa e vicesindaco del Comune di San Pietro in Casale. Eleonora Rossetti è archeologa. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Giuseppe Salemi è professore associato di rilievo 3D per l’archeologia all’Università degli Studi di Padova. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Tiziano Trocchi è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la Città Metropolitana di Bologna e le Province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Cortesia Missione Archeologica Italiana in Pakistan (ISMEO): copertina e pp. 32/33, 34 (centro e basso), 35-45 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 3, 18, 58-59, 60 (alto), 62-67, 71 – Da: Habicht M.E. et al., Queen Nefertari, the Royal Spouse of Pharaoh Ramses II, PLoS ONE 11(11): pp. 8-9 – Cortesia SIA/EFAK/YPPOA: pp. 10, 11 (alto e centro) – Cortesia Soprintendenza Pompei: pp. 12-13 – Cortesia degli autori: pp. 16-17, 22, 24, 46-47, 48 (basso), 48/49 (su concessione del Museo Archeologico Ambientale di San Giovanni in Persiceto, Bologna), 49, 50-52, 53 (sinistra), 53 (destra, da immagine satellitare GOOGLE Earth, elaborazione grafica S. Cremonini-Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali-Università di Bologna),
Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO La disfida di Siponto
100
di Daniele Manacorda
100 76 SPECIALE Kenya
Grande madre Africa
QUANDO L’ANTICA ROMA... ...veniva scossa dai terremoti
104
di Romolo A. Staccioli
SCAVARE IL MEDIOEVO
La rivincita della Mary Rose 108 di Andrea Augenti
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Tutto dipende da Sothis
LIBRI
Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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di Francesca Ceci
54-56 – Doc. red.: pp. 20 72, 73, 78, 79, 87-89, 94-95, 100-103, 106-109, 111 – Stefano Mammini: pp. 21, 23, 80 (alto e centro), 82-85, 90-93, 96-98 – Museo di Arte Cicladica, Atene: pp. 28, 29 (basso) – © Robert McCabe: p. 29 (alto) – Shutterstock: pp. 60 (basso), 70, 72/73, 76/77, 78/79 – DeA Picture Library: p. 80 (basso); C. Sappa: p. 61; M. Carrieri: p. 74; A. Dagli Orti: pp. 104/405, 105 – Erich Lessing Archive/Magnum/Contrasto: p. 68 – Mondadori Portfolio: Leemage: p. 69 – Bridgeman Images: p. 110 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 34, 48, 81, 86.
Editore: My Way Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa
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di Stefano Mammini
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n otiz iari o SCOPERTE Torino
QUATTORDICI SÍ PER NEFERTARI
I
l Museo Egizio di Torino è una delle realtà espositive piú importanti d’Italia, ma anche un primario punto di riferimento per l’egittologia a livello mondiale, secondo solo alle raccolte egiziane. Alla fine dell’anno appena passato, uno dei suoi reperti è salito agli onori della cronaca non solo per il nome «reale» al quale è accostato, ma soprattutto per le indagini a cui è stato recentemente sottoposto, che hanno confortato un’ipotesi di appartenenza a lungo dibattuta. Si tratta di due gambe
8 archeo
In alto: pomolo con iscrizione Khep er-Kheperu-Ra, il nome regale di re Ay, parte del corredo della tomba di Nefertari. Torino, Museo Egizio.
mummificate, rinvenute nella Valle delle Regine nella tomba della regina Nefertari (la QV66 nella schedatura dei sepolcri a oggi noti nella Valle delle Regine) consorte di Ramesse II (XIX dinastia, 1279-1212 a.C.), e a lei attribuite in via ipotetica, sulla base di osservazioni e del contesto del ritrovamento ma in assenza di esami o indagini diagnostiche. L’occasione per procedere in questo senso è stata fornita anche dallo spostamento dei resti, diretti al Rijksmuseum van Oudheden di Leida (Olanda) per
Nella pagina accanto: le gambe mummificate esposte dentro la vetrina presso il Museo Egizio di Torino. In alto, a destra: i sandali rinvenuti all’interno della tomba di Nefertari. Torino, Museo Egizio. essere esposti nella mostra «Regine del Nilo» (in programma fino al 17 aprile 2017). Sono state effettuate scansioni a raggi X e prelevati minuscoli frammenti interni da sottoporre agli esami di laboratorio, tra cui analisi chimiche e genetiche, radiocarbonio, gas cromatografia e spettrometria di massa. Le indagini sono state condotte da un nutrito team di studiosi internazionali di cui sono capofila Michael E. Habicht dell’Università di Zurigo e Raffaella Bianucci dell’Università di Torino. Pur non potendo giungere a una conclusione definitiva, lo studio ha comunque decretato la netta conferma dell’ipotesi iniziale. Dei quesiti posti dai ricercatori, ben quattordici su sedici, hanno
Qui sopra e in alto, a sinistra: due immagini delle scansioni a raggi X effettuate sulla gamba sinistra e sulla gamba destra.
ottenuto una risposta affermativa e scientificamente soddisfacente. I restanti, ovvero la determinazione genetica del sesso dell’individuo a cui appartenevano i resti e il suo profilo genetico, hanno fornito risultati non determinanti, il primo per il mancato rilevamento del cromosoma Y nel campione (circostanza che non consente di escludere il sesso maschile) e il secondo per l’impossibilità di rintracciare eventuali discendenti della regina che possano essere esaminati per fornire un raffronto definitivo. A favore, invece, sono risultate, tra le altre, la misura degli arti inferiori, compatibile con l’uso dei preziosi sandali di fattura regale rinvenuti nel corredo della tomba, l’età alla data del decesso (tra i 40 e i 50 anni) e lo stile di mummificazione, coerente con il periodo del Nuovo Regno per gli unguenti utilizzati e di qualità adeguata a un personaggio di lignaggio regale. Paolo Leonini
archeo 9
n otiz iario
SCAVI Grecia
FATTI, NON CLAMORE INTORNO A VLOCHÒS
L
a stampa internazionale, e in particolare quella anglosassone, ha recentemente rilanciato con notevole clamore la notizia della scoperta di una straordinaria città sepolta, in una piccola provincia settentrionale della Grecia. Abbiamo perciò contattato il direttore sul campo Robin Rönnlund (Università di Göteborg), il quale, pur confermando l’importanza delle ricerche, ha sottolineato la necessità di smorzare i toni iperbolici di alcuni resoconti, per riportare la notizia nei confini della realtà dei fatti archeologici. La scoperta è maturata nell’ambito della prima campagna di ricerca condotta dall’équipe del Vlochòs Archaeological Project (VLAP), un
I risultati acquisiti hanno confermato la presenza di una città di epoca classico-ellenistica a Stronghilovoúni, nei pressi di Vlochòs. «Già dopo questa prima stagione di indagini – ha dichiarato Rönnlund –, quelli che pensavamo fossero resti di un insediamento di scarsa rilevanza sono invece riferibili a una città importante. Sono state scoperte torri, mura e ingressi principali sulla sommità e sui pendii della collina sulla quale il sito si estende». L’insediamento vanta una lunga storia di ricerche, che inizia nel 1835. Nel 1964 è stato dichiarato ufficialmente sito archeologico e, piú recentemente, nel 2015, è stato investito di un rinnovato interesse da parte dello Stato greco, come
Qui sotto, a destra: Vlochòs. Una veduta aerea delle testimonianze archeologiche affioranti dalla superficie del terreno sulla sommità della collina. In questo caso, si tratta dei resti di mura, torri e di un varco d’accesso. In basso: l’équipe del Vlochòs Archaeological Project.
Inoltre, due filoni di mura fortificate sostengono quest’ultimo da ovest a est, fermandosi alla pianura, nella località nota come Patoma. Si sono conservati resti di strutture architettoniche poste entro un recinto di funzione incerta, e basamenti di altri palazzi. I primi risultati delle ricerche mostrano che il sito è stato frequentato in tre fasi cronologiche distinte. Alla prima (in epoca tardo-arcaica) risalgono le mura sulla collina e sul versante meridionale. In seguito, nel periodo classico-ellenistico, l’insediamento viene ristrutturato progetto internazionale (ne fanno parte l’Eforato per le Antichità di Karditsa, l’Istituto Svedese di Atene, SIA, e le Università di Göteborg e Bournemouth), che mira ad approfondire l’importanza del sito archeologico di Vlochòs durante le sue diverse fasi di trasformazione.
10 a r c h e o
confermato dalle dichiarazioni della sovrintendente di Karditsa, Maria Vaiopoulou, e testimoniato dai lavori del progetto internazionale in corso. L’abitato è formato da un insediamento con mura rinforzate e ben conservate che si sviluppano sulla sommità della collina e sul pendio sud.
ROMA
Archaide.eu è on line!
In alto: una veduta panoramica del ripido pendio della collina di Stronghilovoúni. L’ubicazione del sito archeologico in una posizione poco accessibile ha contribuito alla sua salvaguardia. Qui sopra: frammento di ceramica attica a figure rosse, attribuibile al pittore attico Paseas. Tardo VI sec. a.C.
e acquista caratteri urbani piú marcati. La maggior parte della fortificazione viene realizzata in questo secondo periodo, e copre un’estensione di 50 ettari circa. La città di Vlochòs venne verosimilmente abbandonata al tempo delle guerre macedoniche (i quattro conflitti combattuti tra il 215 e il 146 a.C. e che ebbero come esito finale il rovesciamento del regno di Macedonia e la conquista romana della Grecia), rinascendo in epoca tardo-romana ed è a quest’ultima fase che risalgono la ristrutturazione delle mura, nuovi lavori di fortificazione e numerose sepolture. Il progetto VLAP avrà durata triennale e prevede la realizzazione della planimetria del sito, la documentazione fotografica dei resti localizzati e dei reperti, e la loro catalogazione, utilizzando tecniche fotografiche e droni per il modello fotogrammetrico, e radar e magnetometro per la prospezione geofisica. Maria Katsinopoulou
Il percorso triennale del progetto Archaide (Archaeological Automatic Interpretation and Documentation of cEramics), fa registrare un significativo progresso con la messa on line del sito web (www.archaide.eu), seguita dalla sua presentazione alla stampa. Come già avevamo raccontato (vedi «Archeo» n. 377, luglio 2016), l’obiettivo dei ricercatori è quello di realizzare un agile strumento da mettere al servizio dell’archeologia di campagna, che, a partire da un frammento appena rinvenuto, consenta di ottenerne in brevissimo tempo una prima catalogazione, semplicemente scattandone la foto con uno smartphone o un tablet collegati a internet. Frutto di un partenariato internazionale in cui un ruolo chiave è svolto dal laboratorio MAPPA dell’Università di Pisa, il progetto, sta riscuotendo vivo interesse in Italia e all’estero.
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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
SRADICATI, MA SALVI! UNA MOSTRA ALL’ANTIQUARIUM DI POMPEI ILLUSTRA LA FATICOSA LOTTA DELLE FORZE DELL’ORDINE CONTRO LA DISPERSIONE CLANDESTINA DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO ITALIANO
A
l prezioso lavoro delle Forze dell’Ordine, svolto in Campania nell’impegnativo recupero di oggetti archeologici trafugati, è dedicata la nuova mostra allestita nell’Antiquarium di Pompei, che testimonia emblematicamente la grande razzia subita dal patrimonio culturale italiano negli ultimi cinquant’anni: una lunga stagione di saccheggio a cui in particolare il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale ha cercato di porre un freno mediante una decisa azione di controllo del territorio arrivando a sequestrare migliaia di reperti, una quantità che dobbiamo comunque immaginare
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limitata rispetto al numero complessivo di opere depredate. Fra i primati italiani va orgogliosamente annoverata – ancor prima della sottoscrizione della Convenzione UNESCO di Parigi, che invitava gli Stati membri a istituire specifici servizi di protezione del patrimonio culturale nazionale – la costituzione, nel 1969, del Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Artistico in seguito alla preoccupante crescita delle esportazioni clandestine di opere antiche, rubate o scavate illecitamente nel nostro Paese, destinate a collezioni di tutto il mondo. La mostra ospita materiali selezionati fra i 45 sequestri
custoditi nei depositi della Soprintendenza: si tratta di una novità assoluta, costituita dalla presentazione di reperti recentemente svincolati dal Tribunale di Napoli, cosí da renderli visibili per la prima volta al pubblico. I sequestri sono stati eseguiti principalmente a Pompei e dintorni (Boscotrecase, Gragnano e Sant’Antonio Abate). In alcuni casi possiamo pensare a materiali dissotterrati da scavi clandestini svolti in zona, mentre per altri possiamo solo presumere una derivazione da spoliazioni di siti dell’Italia meridionale, come il gruppo di ceramica daunia proveniente da necropoli della Puglia settentrionale. I reperti sono stati sequestrati a piccoli ricettatori non inseriti nella ramificata trama del commercio internazionale (che in passato finí ad alimentare anche prestigiose collezioni di musei internazionali), dediti perlopiú a rifornire il livello «basso» del mercato, quello dei piccoli antiquari e delle collezioni private. Oggetti quindi destinati a soddisfare il solo desiderio personale ma che oggi tornano, seppur silenti, a essere patrimonio di ogni cittadino del mondo. L’esposizione raccoglie materiale databile in un ampio arco cronologico, compreso fra la tarda età del Ferro e il periodo imperiale romano. Fra le ceramiche si segnalano, in apertura, tre bei crateri a campana a figure rosse di produzione magno-greca (seconda metà del IV secolo a.C.) con figure ispirate alle cerimonie dionisiache; seguono anfore da vino (pelíkai) sempre di ideazione italiota di cui una, di
dubbia autenticità, con Ermes ammantato e Sirena. Si segnalano poi altri crateri di fattura apula con menadi e tirso (bastone rituale sacro a Dioniso), eroti e satiri in vari atteggiamenti; coperchi di lekanis (piccola coppa per contenere unguenti od oggetti) decorati con volti femminili; coppe apule dello stile di Gnathia con tralci di edera e foglie (IV secolo a.C.); volti e statuette votive in terracotta con tracce di policromia (II-I secolo a.C.).
SIMBOLO DI VIOLAZIONE Inoltre servizi d’impasto della tarda età del Ferro dall’area indigena campana e ceramiche a decorazione geometrica di produzione daunia (VI-V secolo a.C.); infine parti di stipi votive di età ellenistica; antefisse e resti di lastre architettoniche
Nella pagina accanto, in alto: una delle vetrine della mostra allestita all’Antiquarium degli Scavi di Pompei. Nella pagina accanto, in basso: anfora (pelike) a figure rosse di dubbia autenticità con testa di negroide. In basso: cratere a campana apulo a figure rosse. Pittore di Lucera, ultimo quarto del IV sec. a.C. Sulla faccia qui illustrata, due giovani affrontati a colloquio, di cui uno con bastone. decorate a rilievo (età romanaimperiale) e una statua falsa di ermafrodito in marmo. I reperti riuniti nell’Antiquarium simboleggiano quindi la violazione a cui sono sottoposti i nostri beni culturali: gli oggetti si presentano privi del loro significato storico e sociale, perché strappati dal loro contesto originario. A quale divinità sono state offerte le decine di statuine fittili e i piedi e le testine votive esposte? Chi erano i loro devoti dedicanti? Erano uomini o donne quelli che portavano nella loro eterna dimora i vasi con vivaci scene figurate? Queste informazioni sono purtroppo perse per sempre, e resta cosí un vuoto che soltanto la bellezza e il fascino degli oggetti e delle immagini esposte permettono blandamente di colmare. radici antiche.
DOVE E QUANDO «Il Corpo del reato. Il patrimonio archeologico ritrovato» Scavi di Pompei, Antiquarium degli Scavi fino al 27 agosto Orario fino al 31.03: tutti i giorni, 9,00-17,00; dal 01.04: 9,00-19,30 Info www.pompeiisites.org
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n otiz iario
INCONTRI Roma
SI RIACCENDE LA LUCE AL TEATRO ARGENTINA
I
l Teatro di Roma presenta la terza edizione del ciclo di incontri «Luce sull’Archeologia» al Teatro Argentina, che riparte da gennaio 2017 con sei appuntamenti sino ad aprile, la domenica mattina alle 11,00, che avranno come filo conduttore il tema: «Roma oltre Roma». Il percorso vuole offrire una riflessione storica, artistica e spirituale, con la quale cittadini e visitatori potranno continuare un viaggio emozionante nella millenaria storia di Roma, creatrice di un bacino culturale che ha unito tra loro culture diverse. Pompei, Atene, le ville di lusso dell’aristocrazia romana, Roma e Costantinopoli, sono solo alcuni dei temi che saranno approfonditi da storici, archeologi, storici dell’arte per trasmettere l’immagine di una società antica vicina a noi nelle emozioni e negli obiettivi. Solo attraverso la condivisione e la conoscenza si potrà ritrovare il senso di appartenenza al nostro Patrimonio Culturale con l’obiettivo di tornare a casa piú ricchi di stimoli, confermati dal desiderare il bello, aperti alla disciplina mentale. Qui di seguito, riportiamo il calendario degli appuntamenti.
15 gennaio Roma fondatrice di città: da Ostia alle colonie e ai municipi in tutta Italia (Carlo Pavolini, Paolo Sommella): «Ostia prima colonia romana?», l’esistenza e l’eventuale ubicazione di una Ostia arcaica risalente al quarto re di Roma, Anco Marcio, e descritta come la piú antica colonia dell’Urbe, sono tuttora discusse, ma è certo che la prima Ostia documentata archeologicamente è il cosiddetto castrum, una cittadella fortificata probabilmente della seconda metà del IV secolo a.C., sorta sulla riva sinistra del Tevere come colonia maritima e composta da un piccolo numero di cittadini romani (forse 300). 22 gennaio Pompei: storia, leggenda e mito di una città romana (Massimo Osanna, Claudio Strinati, Fausto Zevi): la vita quotidiana, i commerci, le interazioni con i popoli del Mediterraneo, l’architettura, la pittura sono i tanti aspetti del mondo antico che Pompei, testimonianza unica dell’antichità, custodisce. Grazie al Grande Progetto Pompei, intervento globale di restauro e messa in sicurezza del sito, si può affermare che Pompei è libera da grandi rischi A sinistra: Ostia Antica. Il Piazzale delle Corporazioni visto dal Teatro.
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e vive una seconda vita, premessa delle attività di oggi. 26 febbraio «Le tranquille dimore degli Dei», Ville di delizia dell’aristocrazia romana in età imperiale tra Lazio e Campania (Eugenio La Rocca, Stefano Tortorella): nel corso del II secolo a.C., dopo le vittoriose spedizioni militari compiute nel Mediterraneo orientale, Roma si trova a diretto contatto con il mondo ellenistico ed ellenizzato e l’impatto che tale incontro provoca, in particolare negli strati piú alti della società romana, è enorme; si diffonde il gusto per il vivere «alla greca». 19 marzo Roma e Atene. Memoria, conoscenza, immaginario (Luciano Canfora, Annalisa Lo Monaco, Elena Korka): due capitali a confronto. L’analisi della contaminazione culturale, lo statuto speciale per la città di Atene, la terribile esperienza della guerra mitridatica e della riconquista di Atene da parte di Silla. Nel II secolo a.C., l’incontro con la Grecia e l’Asia Minore cambiò per sempre l’aspetto della città di Roma, ormai divenuta la vera potenza incontrastata del Mediterraneo. Ma che cosa vuol dire in quegli anni «Roma» agli occhi di un greco? Come immaginarono i Greci la città di Roma prima di conoscerla dal vivo?
26 marzo Schiavi di Roma (Andrea Giardina, Orietta Rossini): la schiavitú romana aveva due volti. Allo sfruttamento di esseri umani ridotti alla funzione di «strumenti parlanti», che il padrone usava a proprio piacimento, si associava infatti la straordinaria propensione a liberare una parte degli schiavi e a integrarli nel corpo civico. Questa apparente contraddizione, come già capirono gli antichi, era il segreto della potenza romana. La condizione degli schiavi a Roma, in periodo tardo repubblicano e imperiale, viene raccontata attraverso l’analisi di reperti archeologici particolarmente significativi delle loro condizioni di vita. Una serie di oggetti appartenuti a schiavi e raffigurazioni su mosaici, affreschi
e rilievi – contemporaneamente in mostra presso il Museo dell’Ara Pacis – saranno il punto di partenza per ricostruire la quotidianità di uomini, donne e bambini, che privati dei loro diritti, si trovarono a operare nelle condizioni di vita piú diverse. 23 aprile La fine del mondo antico: da Roma a Costantinopoli (Alessandro Barbero, Massimiliano Ghilardi): Costantino è noto come l’imperatore che spostò a Bisanzio la capitale dell’impero romano; dopo di lui, Roma accoglierà sempre piú raramente gli imperatori e finirà per identificarsi piuttosto come capitale della Chiesa cattolica. Ma quali furono i veri motivi di questa decisione epocale? E che rapporto ebbe Costantino con la città di Roma?
Con la fondazione e la successiva ascesa di Costantinopoli, la città di Roma conobbe un lento ma inarrestabile declino, solo in parte mitigato da mirate campagne di restauro ad architetture templari e costruzioni di nuovi edifici per il culto cristiano. Saccheggi ripetuti, ben tre solo nel corso del V secolo, e il conflitto greco-gotico segnarono la fine della città antica. Catia Fauci
DOVE E QUANDO «Luce sull’archeologia» Roma, Teatro Argentina largo di Torre Argentina, 52 Orario gli incontri si svolgono la domenica mattina, alle 11,00 Info biglietteria, tel. 06 684000.311-314
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A TUTTO CAMPO Stefano Campana
DIGITALI, MA CON GIUDIZIO LE RICERCHE ARCHEOLOGICHE CONDOTTE DALL’UNIVERSITÀ DI SIENA HANNO FATTO PROPRIA UNA VISIONE ALLARGATA DELLE METODOLOGIE D’INDAGINE, SFRUTTANDO CON SUCCESSO LE NUOVE TECNOLOGIE
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ra le scienze storiche, l’archeologia si distingue almeno per un aspetto: mentre la storia dell’arte, la storia o l’epigrafia nelle loro diverse declinazioni di tempi, temi e culture hanno definito i propri metodi di indagine e si muovono in un quadro di riferimento relativamente stabile, la nostra disciplina offre un quadro piú fluido. Nel corso del tempo, infatti, cambiamenti a volte repentini hanno modificato in modo sostanziale la capacità di esplorare e comprendere il passato. Basti pensare, per esempio, all’impatto generato dall’introduzione, a partire dagli anni Sessanta, della datazione con il radiocarbonio o allo sviluppo degli studi archeometrici, accompagnato dalla progressiva introduzione delle tecnologie digitali, ormai presenti in ogni segmento della ricerca archeologica.
STRUMENTI NON NEUTRALI Gli strumenti informatici non sono semplici «elettrodomestici», cioè dispositivi inerti, e, sin dalla fine degli anni Settanta era chiara ad alcuni filosofi della scienza, in particolare allo statunitense Don Ihde, la non neutralità degli strumenti tecnologici. Oggi tale
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principio è ampiamente condiviso e le tecnologie vengono considerate come «strumenti culturali» che non sono mai neutrali, come non lo sono le domande, le strategie e i metodi applicati nella ricerca archeologica. Dobbiamo essere quindi consapevoli del fatto che domande, strategie, metodi e di conseguenza le tecnologie applicate, sebbene entro certi limiti, condizionano quando non addirittura predeterminano i risultati della ricerca sul campo.
Come l’archeologo oggi non delega l’attività di scavo o di ricerca di superficie a tecnici od operai, allo stesso modo non può affidarsi a tecnici diversi per guidare il processo di sperimentazione e sviluppo di nuove tecnologie applicate alla ricerca archeologica. Criteri analoghi si applicano alla didattica: non è sensato affidare l’insegnamento delle tecnologie applicate all’archeologia a un informatico, per gli stessi motivi per cui non si delega a un
In questa pagina: il transetto fra Roselle e Grosseto che è oggetto di uno dei progetti di ricerca di «Emptyscapes» e ha comportato l’acquisizione dei 420 ettari di misure magnetiche. Nell’immagine a destra, il dettaglio delle misure e relativa cartografia in cui emergono tumuli (ciano), una motta (verde), edifici (rosso), viabilità (arancio), partizioni agrarie (marrone), paleoalvei (azzurro). ingegnere la lettura di un’ecografia o la spiegazione di come utilizzare un braccio robotico per un intervento chirurgico. A tal proposito, sebbene l’Italia si ponga tra i Paesi da sempre all’avanguardia nella sperimentazione e sviluppo delle tecnologie informatiche per l’archeologia, poche sono le opportunità di alta formazione e ancor meno gli insegnamenti di archeologia digitale incardinati nei corsi di laurea del nostro Paese.
UN POLO D’ECCELLENZA L’Università di Siena ha svolto un ruolo pionieristico fin dai primi anni Novanta del secolo scorso nello sviluppo e nell’impiego sistematico degli strumenti digitali per la ricerca, stimolando il dibattito nazionale e internazionale e continua a rappresentare oggi un centro di eccellenza, tramite i suoi laboratori mirati all’applicazione e allo sviluppo di nuove applicazioni tecnologiche, formando competenze avanzate di GIS e database, remote sensing, geofisica, tecnologie mobili e ubique, acquisizione, modellazione e analisi 3D e 4D di scavi e monumenti, attraverso gli insegnamenti di Archeologia Digitale e di Tecnologie e Diagnostica per l’Archeologia.
Nella pagina accanto: un drone impiegato anch’esso nel transetto fra Roselle e Grosseto. L’apparecchio è equipaggiato con il sensore LiDAR; con l’obiettivo di superare il classico «buco nero» nella conoscenza del territorio, cioè le aree boschive, che in Italia come negli altri Paesi del Mediterraneo arrivano a occupare fino al 45% della superficie. Tra i lavori di ricerca attivi presso l’Ateneo senese, segnaliamo «Emptyscapes» un Progetto interdisciplinare che mira a creare nuovi paradigmi per lo studio dei paesaggi archeologici, spostando il baricentro dalla consueta attenzione ai siti verso una prospettiva contestuale: i paesaggi pregressi vengono visti come continuum archeologico. Il quadro metodologico è ampio e si fonda sull’interazione di quattro assi della ricerca: la topografia archeologica, il telerilevamento, la geoarcheologia e la bioarcheologia. I contesti di applicazione in area tirrenica sono due campioni di natura urbana (la città etrusca di Veio) e rurale (un transetto di 24 kmq circa tra il centro etrusco di
Roselle e Grosseto). Il lavoro si appoggia sull’acquisizione estensiva e continua di misure geofisiche (in prevalenza magnetiche, ma anche geoelettriche e radar), che a oggi ha raggiunto un’estensione complessiva di 610 ettari circa. Tale attività ha permesso l’individuazione di un considerevole numero di elementi archeologici sepolti, dal periodo etrusco al Medioevo, spesso del tutto invisibili ai metodi di prospezione tradizionale (dai quali non si può comunque prescindere), influenzando in modo sostanziale l’elaborazione critica e la ricostruzione storica dei contesti indagati. Tra gli elementi di interesse spicca l’individuazione di necropoli monumentali, motte medievali, fortificazioni, sistemi agrari e di viabilità e strutture produttive. (www.emptyscapes.org)
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n otiz iario
MOSTRE Parigi
PER NON DIMENTICARE
I
n occasione della mostra «La storia comincia in Mesopotamia», capolavori celebri e pezzi inediti si fiancheggiano nelle vetrine del Museo del Louvre-Lens (la sede distaccata del museo parigina inaugurata nel 2012 nel Nord-Est della Francia) per narrare la storia di due popoli, i Sumeri e gli Accadi, che hanno messo in comune il loro genio e la loro cultura per gettare le basi di un impero che dominò il Vicino Oriente, e del quale Babilonia – la città di Hammurabi, e poi di Nabucodonosor – incarnò la potenza e la gloria. Abbiamo incontrato Ariane Thomas, conservatrice delle collezioni mesopotamiche del Louvre e commissario della mostra. Come è nata l’idea di questa esposizione? «Dopo le immagini delle distruzioni compiute a Ninive, Nimrud e Hatra, e dei saccheggi a Mari in Siria, o a Khorsabad al nord di Mosul, il direttore del Louvre Jean-Luc Martinez ha voluto organizzare un evento destinato sensibilizzare un vasto pubblico sul dramma che sta sconvolgendo l’Iraq». La mostra si propone dunque come evento scientifico, ma anche come gesto politico... «Esattamente, considerando soprattutto che da tempo non si facevano mostre sulla Mesopotamia, questo ci è sembrato il momento giusto per attirare l’attenzione sulla sua storia millenaria». Quale carattere ha voluto dare all’esposizione? «Spero di essere riuscita a renderla al tempo stesso scientificamente rigorosa e facilmente accessibile.
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Comprensibile a chi di questa materia non sa nulla, ma utile anche agli esperti che qui possono scoprire qualcosa di inedito. Per farlo, ho utilizzato video e disegni, testi brevi e musica. Ho recuperato nelle riserve materiali mai visti, come i sessanta mattoni smaltati provenienti dagli scavi di Paul-Émile Botta, console di Francia a Mosul, che nel 1843, cercando Ninive, si era invece imbattuto nell’antica Dur Sarrukin (717-706 a.C.), l’attuale Khorsabad. Per la prima volta i mattoni sono Stele in calcare detta «della musica», poiché raffigura appunto una cerimonia religiosa accompagnata da musiche. Epoca neosumerica, II regno di Lagash, 2140-2100 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
montati insieme su un grande pannello, come un puzzle monumentale, per restituire almeno una parte della policromia delle decorazioni assire che ornavano muri alti piú di 10 m». Ricostruzioni di opere monumentali, ma anche oggetti di dimensioni ridottissime… «Sí, reperti piccolissimi e bellissimi, come i sigilli cilindrici. Realizzati in pietre dure, erano incisi con raffigurazioni mitologiche, simboliche o rituali e venivano commissionati da membri dell’apparato statale. Testimoniano l’eccelso livello artistico raggiunto in Mesopotamia dalle botteghe degli incisori, fin dal terzo millenio. Per poterne ammirare ogni dettaglio, abbiamo realizzato fotografie ad altissima definizione che ricoprono un’intera parete. Ci sono poi le tavolette cuneiformi. Per permettere di capirne il significato, abbiamo messo a disposizione del pubblico un iPad, sul quale si può scegliere la traduzione di un intero testo. Il mio scopo è di rivelare un universo che in definitiva è assai vicino al nostro, con contratti, invenzioni, preoccupazioni. E piaceri! Come quelli legati al cibo, attraverso tre eccezionali tavolette provenienti da Mari, in Siria, risalenti al 1800 a.C., che raccolgono le ricette piú antiche del mondo». Daniela Fuganti
DOVE E QUANDO «La storia comincia in Mesopotamia» Lens, Museo del Louvre fino al 23 gennaio Orario tutti i giorni, 10,00-18,00; chiuso il martedí Info www.louvrelens.fr
PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
VULCI: IL RITORNO DI VEL SATIES IL CELEBRE CICLO PITTORICO DELLA TOMBA FRANÇOIS, OGGI CONSERVATO NELLA ROMANA VILLA ALBANI DI PROPRIETÀ DEI PRINCIPI TORLONIA, DEVE TORNARE NEL SUO LUOGO D’ORIGINE. LO CHIEDE LA FONDAZIONE VULCI ATTRAVERSO LA VOCE DEL SUO PRESIDENTE, CARMELO MESSINA
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estituiteci i dipinti della Tomba François»: è questo l’appello lanciato dalla Fondazione Vulci, che, come ente gestore del Parco Naturalistico Archeologico di Vulci, si occupa della tutela, valorizzazione, manutenzione e gestione del patrimonio dell’antica città etrusca. In prima fila nella battaglia per il ritorno «a casa» delle celebri pitture, c’è il presidente della Fondazione Vulci, Carmelo Messina, che abbiamo incontrato. «Riportare a casa il ciclo pittorico della Tomba François (che, lo ricordiamo è un sepolcro databile al 350-325 a.C. e prende nome dal suo scopritore, Alessandro François, n.d.r.) – spiega Messina – è uno degli obiettivi strategici della Fondazione. Gli affreschi vennero strappati dalle pareti dell’omonima tomba nel 1863 e portati a Roma dai principi Torlonia, proprietari dei terreni su cui insisteva la sepoltura. Crediamo sia giunto il momento Una delle scene dipinte nella Tomba François, che hanno come soggetto principale le imprese degli eroi vulcenti. 350-325 a.C. Roma, Villa Albani. In questa scena compare Vel Saties, titolare del sepolcro, mentre osserva un uccello lanciato dallo schiavo Arnza per trarne auspici.
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che i nobili Torlonia dimostrino di avere anche “nobiltà d’animo”, dando a Vulci – che tanto ha dato loro – la possibilità di costruire attorno ai dipinti l’identità culturale di questo territorio». Come vorrebbe valorizzare Vulci e i dipinti François? «Vorremmo che Vulci si ispirasse a Salisburgo, dove la figura di Mozart segna il grande sviluppo della città, attraverso l’onnipresenza della sua immagine. Cosí potrebbe essere per i dipinti François. Per farlo, è però necessario coinvolgere la popolazione attorno alla rivendicazione di queste opere. Per questo stiamo attuando un “piano di battaglia” rivolto alla cittadinanza dei tre Comuni (Montalto di Castro, Canino e Ischia di Castro) che insistono nel parco con diverse iniziative: dal passaparola all’appello via Facebook, dai manifesti ai gazebo, fino alla maratona nel Parco, in cui centinaia di persone hanno corso indossando magliette con la scritta “Restituiteci i dipinti François”». Come immagina, concretamente, di ottenere il ritorno dei dipinti, attualmente conservati a Roma, nella Villa Albani? «Informalmente, attraverso il nostro azionista, abbiamo fatto pervenire alla famiglia Torlonia la nostra richiesta, ottenendo una generica disponibilità a discuterne. Occorrerà capire anche il ruolo dei Cesarini Sforza, che vanterebbero anch’essi pretese sulla titolarità dei dipinti. Secondo i Torlonia bisognerebbe attendere l’esito della contesa. La soluzione piú equa, in attesa della definizione dei diritti, sarebbe quella di dare in fruizione a Vulci i dipinti stessi per metterli immediatamente in mostra. Noi non sappiamo in quali condizioni i dipinti siano conservati, e l’affidamento a Vulci sotto questo aspetto potrebbe essere un elemento di maggiore garanzia. Nei prossimi giorni, in ogni caso,
Un’altra scena, raffigurante un personaggio indicato come Larth Ulthes (nome di origine chiusina), vestito di una tunica bianca orlata di rosso mentre affonda la spada nel fianco di Laris Papathnas Velznach (di Volsinii). verrà inviata una lettera a doppia firma – mia e della Soprintendente ai Beni Archeologici del Lazio e dell’Etruria Meridionale, Alfonsina Russo –, in cui chiederemo ai principi Torlonia l’affidamento in custodia dei dipinti, che subito esporremo a Vulci». Oltre al rientro dei dipinti François, quali sono gli altri obiettivi strategici della Fondazione Vulci? «Vogliamo ottenere dalla Regione Lazio e dal MiBACT il giusto flusso di finanziamenti per l’avvio di nuovi scavi. Il territorio di Vulci può essere paragonato al Qatar e all’Arabia Saudita, dove basta scavare per trovare gas o petrolio. Nel nostro
caso, le risorse si chiamano necropoli, templi e abitazioni e, per giunta, non sono effimere – come il petrolio –, ma eterne. Crediamo sarebbe opportuno concentrare gli sforzi su alcuni bacini culturali – e Vulci è sicuramente tra questi – cosí da avere una massa critica da vendere al turismo mondiale, con significative ricadute economiche sul territorio, sull’occupazione e sulle attività ricettive. I contributi a pioggia non servono a nulla se non a sperperare ricchezza!». La chiave, dunque, è il coinvolgimento del territorio: con quali strategie?
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A COLLOQUIO CON CARLO CASI
Ultimissime da Vulci
Si sono appena concluse le ricerche archeologiche nella necropoli di Poggetto Mengarelli, a Vulci, della quale ci siamo già piú volte occupati. La campagna di scavo ha dato risultati di estremo interesse, ai quali torneremo presto a dedicare ampio spazio. Nel frattempo, abbiamo incontrato Carlo Casi, Direttore scientifico della Fondazione Vulci, per avere da lui qualche anticipazione sulle nuove acquisizioni. Direttore, quante sono, a oggi, le tombe riportate alla luce? «Abbiamo scavato complessivamente una quarantina di tombe, distribuite su una superficie di circa 100 mq. Le ultime indagini sono partite in seguito alla scoperta della Tomba dello Scarabeo Dorato (vedi «Archeo» n. 373 marzo 2016), con l’intento di individuare altre sepolture relative al gruppo clientelare a cui quel sepolcro si riferisce. In collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio e dell’Etruria Meridionale e il Parco di Vulci, e grazie al contributo del Comune di Montalto di Castro e della Regione Lazio, abbiamo deciso di impiantare uno scavo sistematico a ridosso di questa sepoltura. L’area è occupata da tombe a fossa databili tra la fine dell’VIII e l’inizio del VII secolo a.C., alcune violate, altre integre, altre parzialmente intaccate da una fase successiva. La necropoli vive infatti una seconda fase in età ellenistica, tra la fine del IV e la metà del III secolo, che taglia le tombe piú antiche». A Poggetto Mengarelli sono venute alla luce anche le tombe di due guerrieri (vedi «Archeo 381, novembre 2016). Quali altre sepolture di rilievo avete individuato? «Abbiamo trovato la tomba che abbiamo ribattezzato “del Cinerario Crestato”, anch’essa databile tra la fine dell’VIII e gli inizi del VII secolo a.C., contenente un biconico con coperchio a elmo in bonzo, uno stamnos in bronzo decorato a sbalzo e fibule di ogni tipo. C’è poi la tomba che abbiamo chiamato “dei Bes” (divinità egizie portafortuna), che prende il nome da alcuni pendenti che ripetono lo schema iconografico tipico del dio, ritrovati insieme ad altri che invece raffigurano i pataikoi (nani amuleto con la testa calva come il dorso dello scarabeo), scolpiti in faïence e di dimensioni piccolissime, con cui è adornata una collana in bronzo parte del corredo. Questi pendenti portafortuna, che si alternano ad altri con saltaleoni, sono molto rari».
Avete trovato anche una sepoltura che è stata chiamata «Tomba del Chirurgo Egiziano»: ci vuole raccontare? «In questo sepolcro abbiamo trovato, tra gli altri, un bisturi in bronzo, pinze per denti in ferro, un mortaio per realizzare le essenze e un vaso a cui era collegata una collana in ferro, con un ciondolo in bronzo a forma di giovane leone di notevoli dimensioni, nonché un vaso tolemaico dipinto, realizzato ad Alessandria d’Egitto, che trova un confronto con un reperto conservato al Museo del Louvre. Per questo abbiamo scelto di chiamarla Tomba del Chirurgo Egiziano». Come si sviluppano le sepolture, nel tempo? «C’è un’evoluzione strutturale: prima si realizzano tombe a pozzetto, poi tombe a fossa con pozzetto dentro, quindi c’è il passaggio alla tomba a fossa senza pozzetto, infine ci sono le prime tombe a camera, nella seconda metà del VII secolo a.C. Segue la ricchissima fase di epoca ellenistica, di cui abbiamo già parlato su queste pagine, come la tomba 18, da cui provengono piedini in bronzo a forma di arpie, pertinenti a una cista, anelli in oro e orecchini. I materiali che abbiamo rinvenuto sono già in corso di restauro e di studio e verranno esposti in una mostra a Zurigo che sarà inaugurata il 2 giugno prossimo». In alto e a sinistra: due immagini della tomba scoperta nella necropoli vulcente di Poggetto Mengarelli e ribattezzata «del Cinerario Crestato». Fine dell’VIII-inizi del VII sec. a.C.
Una delle scene dipinte nella Tomba François, che hanno come soggetto imprese degli eroi vulcenti. 350-325 a.C. Roma, Villa Albani. Aiace Oileo conduce al sacrificio un prigioniero troiano, al quale sono stati recisi i tendini delle gambe, per impedirne la fuga.
«Un altro dei nostri obiettivi, per rispecchiare la realtà dei territori che ricadono nel Parco di Vulci, è quello di allargare l’azionariato della Fondazione – che attualmente vede Montalto di Castro come azionista esclusivo – ai Comuni di Canino e Ischia di Castro. Le procedure amministrative per l’inserimento sono in fase molto avanzata e la popolazione sta accantonando le posizioni campanilistiche che quasi sempre costituiscono il principale ostacolo all’aggregazione e allo sviluppo». Quali sono le novità introdotte dalla Fondazione, sul piano del metodo operativo? «Il nuovo CdA si è focalizzato sulla necessità di darsi una organizzazione efficiente ed efficace. Abbiamo ribaltato completamente l’impostazione usuale nelle società controllate da comuni minori, impedendo agli amministratori locali di intromettersi nella gestione se non per quanto riguarda gli obiettivi da perseguire. Nel caso di Vulci, ciò è stato possibile anche grazie al supporto del sindaco di Montalto di Castro, che ha condiviso e promosso l’adozione di politiche meritocratiche e il rifiuto di metodi clientelari. Vogliamo svolgere un ruolo di eccellenza, e quindi di esempio, per tutti gli operatori pubblici del territorio, adottando criteri di trasparenza e di onestà, nel rispetto delle aspettative di snellezza burocratica e di efficacia delle azioni. In sostanza, accettando l’incarico di amministratori, abbiamo anche accettato la “sfida” di essere leader e modello di riferimento nel settore». Come vive questa sfida? «Noi, nel CdA, non percepiamo compensi e, nonostante ciò, lavoriamo con impegno. Personalmente, sono animato da un grande entusiasmo e mi considero un lottatore che difficilmente si arrende».
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n otiz iario
MUSEI Puglia
I MESSAPI AD ALEZIO
È
stato recentemente riallestito il prestigioso Museo Civico Messapico di Alezio (Lecce), centro salentino dell’entroterra gallipolese sviluppatasi sui resti dell’antica Aletía, città messapica, poi romanizzata, ubicata sulla via Sallentina, che collegava Taranto con il Capo di Leuca. Istituito nel 1982, dopo la scoperta di un’importante necropoli di età messapica (VI-II secolo a.C.) in località Monte d’Elia, il museo è ospitato in Palazzo Tafuri, nel cui giardino furono già allora collocate alcune tombe messapiche rinvenute nel centro abitato. All’ingresso, nella sala della biglietteria, è collocato un manufatto unico nel panorama messapico: una struttura funeraria realizzata in mattoni crudi che ha restituito materiali databili nell’ambito del IV secolo a.C. Entrati nel museo, ci si trova in una sala ottagonale al centro della quale è collocato un plastico della necropoli di Monte d’Elia. Lungo le pareti, seguendo un percorso di visita circolare, è possibile ammirare alcuni dei piú importanti reperti provenienti dalla stessa necropoli: corredi funerari che coprono un arco temporale compreso tra il VI e il IV secolo a.C. e raccontano le dimensioni maschile, femminile e infantile del mondo messapico. Al primo gruppo appartengono i tipici vasi da simposio con crateri con ansa a fungo di produzione locale, spesso associati a coppe di tipo ionico di importazione. Il vaso iconico del mondo messapico, normalmente rinvenuto nelle tombe femminili, è sicuramente la trozzella, un vaso per l’acqua che
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A sinistra: una delle iscrizioni messapiche conservate nel lapidario. VI sec. a.C. Alezio (Lecce), Museo Civico Messapico. In basso: un esemplare di trozzella messapica. IV sec. a.C. Alezio (Lecce), Museo Civico Messapico. prende il nome dalle «trozze», dischi di terracotta applicati alle anse che richiamano la carrucola del pozzo. Altri oggetti sono invece tipici delle tombe infantili come i guttus (una sorta di biberon) e una serie di gusci d’uovo spesso connessi con il culto di divinità ctonie e auspicio di rinascita. Dalla sala ottagonale, si accede alla sezione del museo dedicata a una tomba a semicamera nella quale fu rinvenuto lo scheletro di una ragazzina, ribattezzata Poldanova, vissuta nel II secolo a.C. e sepolta
con il suo ricco corredo: sono esposti i suoi gioielli in oro e pietre preziose, i suoi giochi e il contenuto del suo cofanetto per i cosmetici. In una sala piú piccola, oscurata, si trovano quattro vetrine multimediali, che espongono alcuni dei corredi piú rappresentativi della società messapica aletina raccontati attraverso applicazioni ologrammatiche e un audio multilingua.Tornando nella sala ottagonale si può accedere al lapidario, dove troviamo alcune delle piú significative iscrizioni in lingua messapica rinvenute nel territorio di Alezio. Completa l’allestimento una sala multimediale che ospita uno spazio per i piú piccoli. Il museo organizza periodicamente open day con attività ludico-didattiche per adulti e ragazzi, volte a offrire una visita dinamica e divertente. Queste attività coinvolgono anche il giardino retrostante il contenitore culturale dove è allestito uno spazio per lo scavo archeologico simulato. Giampiero Galasso
DOVE E QUANDO Museo Civico Messapico Alezio (Lecce), via J. F. Kennedy 4 Orario ma e gio, 16,00-20,00; me e ve, 9,00-13,00; sa, 9,00-13,00 e 15,00-19,00; do, 9,30-13,30; lu chiuso Info tel. 0833 282402
Luciano Calenda
ARCHEOFILATELIA
STORIE DI DÈI ED EROI La rubrica di questo mese prende spunto dalla Monografia di «Archeo» Nel mondo dei miti, ora in edicola. Quasi tutti i numerosi personaggi citati sono documentabili con francobolli, soprattutto di Grecia, ovviamente, per cui si è imposta una selezione tra i piú noti, seguendo l’ordine delle quattro sezioni della pubblicazione. Gli dèi prima dell’Olimpo. Il mondo divino, secondo quanto ci racconta Omero, era organizzato con Zeus sul trono piú alto con accanto Era (1), sorella e consorte, con i fratelli Poseidone e Ade e poi tutti gli altri dèi. Ma chi c’era prima di loro? C’erano i progenitori, Urano (2) e Gaia (3), che ebbero numerosi figli, l’ultimo dei quali Crono, padre di Zeus. Il quale, per conquistare il potere, fu costretto a cacciare dal mondo Crono, a fulminare i Titani (4), a sconfiggere i mostruosi Giganti (5) e infine a scaraventare nel Tartaro il dragone Tifeo (6). Creature celesti. Zeus regnava sul Monte Olimpo (7) con tutta la schiera delle divinità di «ultima generazione», tra cui Eros (8), Artemide (9), Dioniso (10), Efesto (11) Ermes (12) e Atena (13), la figlia prediletta. Fatiche e avventure. Fra le leggende citate, parliamo di Eracle e delle sue 12 fatiche – scegliendo fra queste la cattura del toro di Creta (14) –, di Teseo che uccise il Minotauro (15), di Giasone e della sua ricerca del vello d’oro (16), di Achille (17) – l’eroe acheo che quasi da solo sconfisse Troia –, di Ulisse (18) e delle sue incredibili avventure, per finire a Enea progenitore della stirpe romana qui riprodotto in fuga da Troia con il padre Anchise e il figlioletto Ascanio (19). Storie senza tempo. Infine, alcuni dei miti «senza tempo»: l’oracolo di Delfi (20), la Sfinge (21) e la Medusa (22).
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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
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Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure
Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it
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CALENDARIO
Italia ROMA Antinoo
Un ritratto in due parti Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps fino al 15.01.17
Dall’antica alla nuova Via della Seta Palazzo del Quirinale, Galleria di Alessandro VII fino al 26.02.17
Qui sopra: busto di Antinoo. Prima metà del II sec. d.C.
Archaeology&ME
Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo fino al 12.04.17
BARLETTA Annibale. Un viaggio
ORVIETO Etruschi «à la carte»
Castello fino al 22.01.17
Libri e documenti dal Settecento all’Ottocento Museo «Claudio Faina» fino al 26.02.17
COMACCHIO Lettere da Pompei
Archeologia della scrittura Palazzo Bellini fino al 02.05.17
POLIGNANO La scoperta di Mons. Santoro dal Mito alla Realtà
FIRENZE Winckelmann, Firenze e gli Etruschi Il padre dell’archeologia in Toscana Museo Archeologico Nazionale di Firenze fino al 30.01.17
Qui sopra: affresco con giovane che legge un rotolo.
I custodi dell’identità culturale Galleria degli Uffizi, Aula Magliabechiana, fino al 14.02.17
Archeologia e storia a San Pietro in Casale Museo Casa Frabboni fino al 31.01.17
TRENTO Estinzioni
Museo Archeologico Nazionale fino al 26.02.17
Qui sopra: hydria etrusca a figure nere del Pittore di Micali. 510-500 a.C.
Dagli Etruschi a Tommaso Corsini Museo Archeologico e d’Arte della Maremma Museo di Preistoria e di Protostoria della Valle del Fiora Sala del Frantoio (località Dispensa) Museo Civico Archeologico e della Vite e del Vino fino al 31.01.17
Le nuove storie dell’evoluzione umana MUDEC-Museo delle Culture fino al 26.02.17 26 a r c h e o
POMPEI Il Corpo del reato
SAN PIETRO IN CASALE (BO) Villa Vicus Via
FRATTA POLESINE (ROVIGO) Storia del profumo, profumo della storia
MILANO Homo sapiens
Esposizione straordinaria del «Gran Vaso di Capodimonte» Palazzo San Giuseppe fino al 20.01.2017
Il patrimonio archeologico ritrovato Antiquarium degli Scavi fino al 27.08.17
FIRENZE La Tutela tricolore
GROSSETO, MANCIANO, MARSILIANA D’ALBEGNA E SCANSANO Marsiliana d’Albegna
In alto: le iscrizioni della necropoli etrusca di Crocifisso del Tufo (Orvieto) in un disegno di Adolfo Cozza.
Storie di catastrofi e altre opportunità MUSE-Museo delle Scienze di Trento fino al 26.06.17
VETULONIA (CASTIGLIONE DELLA PESCAIA, GROSSETO) Bentornati a casa La Domus dei Dolia di Vetulonia riapre le porte dopo 2000 anni Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino all’08.01.17
VILLANOVA DI CASTENASO (BO) La Stele delle Spade e le altre Sculture orientalizzanti dall’Etruria padana Museo della Civiltà Villanoviana fino all’11.06.17
Qui sopra: anfora magno-greca a figure rosse raffigurante due giovani con maschere. IV sec a.C.
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Gran Bretagna LONDRA South Africa
L’arte di una nazione The British Museum fino al 26.02.17
Deturpare il passato
VULCI I misteri di Mithra
In alto: gruppo scultoreo raffigurante Mitra che uccide il toro, da Vulci.
Museo Archeologico Nazionale fino al 31.03.17
Dannazione e profanazione nella Roma imperiale The British Museum fino al 07.05.17
Grecia ATENE Odissee
Francia
Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.17
PARIGI L’età dei Merovingi
In alto: iscrizione sulla quale sono cancellati i nomi di Geta e Plautilla.
Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 13.02.17
Che c’è di nuovo nel Medioevo?
Tutto quello che l’archeologia ci rivela Cité des sciences et de l’industrie fino al 06.08.17
SAINT-DIZIER Austrasia
Il regno merovingio dimenticato Espace Camille Claudel fino al 26.03.17
Olanda
SAINT-GERMAIN-EN-LAYE L’orso nell’arte preistorica
LEEUWARDEN Alma-Tadema: fascino classico
Musée d’Archéologie nationale fino al 30.01.17
Fries Museum fino al 07.02.17
Germania
Qui sopra: Amo Te Ama Me, olio su tela di Lawrence Alma-Tadema. 1881.
LEIDA Regine del Nilo
BERLINO L’eredità degli antichi sovrani
Ctesifonte e le fonti persiane dell’arte islamica Pergamonmuseum fino al 02.04.17
Rijksmuseum van Oudheden fino al 17.04.17
KARLSRUHE Ramesse
Sorvano divino sul Nilo Badisches Landesmuseum fino al 18.06.17
MANNHEIM Egitto
Terra dell’immortalità Reiss-Engelhorn-Museen fino al 30.07.17
In alto: coppa sasanide con scena di caccia. VII-VIII sec. a r c h e o 27
CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli
L’ETÀ DELLE CICLADI AD ATENE, UNA MOSTRA SULL’ANTICA CIVILTÀ DELL’EGEO CELEBRA I TRENT’ANNI DI ATTIVITÀ DEL MUSEO D’ARTE CICLADICA. UNA RASSEGNA DI GRANDE FASCINO, CHE AFFIANCA A CELEBRI ICONE DELLA CULTURA FIORITA NELLE ISOLE DELL’ARCIPELAGO MOLTI E IMPORTANTI MATERIALI INEDITI, RESTITUITI DA RECENTI SCAVI
L’
8 dicembre scorso, per festeggiare i 30 anni di attività, il Museo di Arte Cicladica di Atene ha inaugurato la mostra «La società cicladica 5000 anni fa»: un tema attuale nella Grecia di oggi, dal momento che gli studi preistorici hanno una parte preponderante nel panorama delle ricerche sulle culture antiche. La società cicladica, inoltre, è di fatto ancora poco conosciuta: pochi sono gli insediamenti scavati sistematicamente, a oggi, non si dispone di testimonianze scritte di età protocicladica e anche le statuette, uno dei simboli di questa civiltà, sono state rinvenute perlopiú fuori contesto.
In basso: particolare di un idoletto femminile. 2700-2400/2300 a.C. circa. Nella pagina accanto, in basso: una delle vetrine della mostra, nella quale, sulla sinistra, è esposta una delle tipiche «padelle» cicladiche.
loro vita, la musica, la danza e il bere? Interrogativi ai quali il percorso espositivo risponde servendosi di poco meno di 200 reperti, provenienti non solo dalla ricchissima collezione del Museo di Arte Cicladica stesso, ma anche da quelle della Soprintendenza alle Antichità delle Cicladi (98 reperti dai Musei di Nasso, Apeiranthos, Siro e Paro), dal Museo Archeologico Nazionale di Atene e dal Museo P. & A. Kanellopoulos. In parallelo, è stata anche allestita una mostra fotografica di Robert McCabe, con immagini molto belle, che illustrano momenti della vita delle isole dell’Egeo.
DOMANDE E RISPOSTE
IL SIMBOLO DI UNA CIVILTÀ
La mostra cerca dunque di narrare, in modo semplice e chiaro, quali caratteristiche avesse la cultura che si sviluppò su alcune isole dell’Egeo durante la Prima Età del Bronzo (3200-2000 a.C.). In quale ambiente vivevano gli uomini di quell’epoca? A quali attività s’interessavano? Vi era una stratificazione sociale? Come soddisfacevano le loro necessità quotidiane? Conoscevano e praticavano la navigazione? In che cosa credevano, quali riti e cerimonie praticavano? Quale ruolo avevano, nella
Il visitatore attraversa cinque unità, che illustrano le tematiche principali dell’esposizione. Dapprima, per raccontare la società protocicladica, sfilano gli idoletti cicladici maschili e femminili: figure che con le loro caratteristiche rappresentano la fertilità, la riproduzione e le relazioni familiari. La seconda unità presenta le attività degli abitanti delle Cicladi nel III millennio a.C.: statuette di volatili, vasi plastici, raffigurazioni di pesci e di caccia, ami bronzei provano la pratica dell’allevamento,
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A destra: un particolare della struttura del tempio di Poseidone al Sunio, in una fotografia di Robert McCabe. della caccia, della pesca e dell’agricoltura. Lame, coltelli, attrezzi seghettati, asce bronzee, seghe e raspe, vasi per preparare e conservare i pigmenti colorati, pesi da telaio, idoletti e vasi di marmo, sono la traccia lasciata dagli artigiani che si occupavano di filatura, ceramica, lavorazione del marmo, navigazione.
UNA SOCIETÀ STRATIFICATA Piú avanti, sono riunite statuette che suggeriscono quale potesse essere la vita sociale e religiosa degli abitanti delle Cicladi: statuette di musici, il celebre «Arpista» e il «Suonatore di Flauto», la statuetta del personaggio che brinda, figure femminili sedute o gruppi di figurine abbracciate e danzanti testimoniano l’importanza dei riti e delle cerimonie. E, come evidenzia la quarta unità, la civiltà cicladica era socialmente stratificata: lo dimostrano simboli del potere e contrassegni per personaggi di alto rango, come diademi, fasce d’argento, gioielli, pugnali di bronzo argentato, sigilli. Infine, l’ultima sezione presenta manufatti
che sono stati messi in relazione con la pratica di rituali e con l’esistenza, in età protocicladica, di credenze religiose e metafisiche: kernoi, una lastra decorata con spirali, il «vaso delle colombe» e una «padella cicladica» che reca
raffigurazioni di onde, di simboli astrali e del triangolo pubico. Una delle novità principali della mostra è la presenza di oggetti provenienti da contesti scavati sistematicamente, che in qualche modo colmano le lacune ricordate all’inizio e che sono state aperte, nello studio della civiltà cicladica, dagli scavi clandestini, ai quali comunque la mostra fa riferimento: proprio perché gli scavi clandestini hanno lacerato, in maniera a volte irreparabile, i contesti antichi di questa singolare civiltà preistorica.
DOVE E QUANDO «La società cicladica 5000 anni fa» Atene, Museo di Arte Cicladica, fino al 31 marzo Orario lu-me-ve-sa, 10,00-17,00; gio, 10,00-20,00; do, 11,00-17,00; chiuso il martedí Info www.cycladic.gr
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SCAVI • PAKISTAN
COSÍ RISORGE
L’ANTICA BAZIRA PAKISTAN, DISTRETTO DELLO SWAT. LA MISSIONE ARCHEOLOGICA ITALIANA SCAVA I RESTI DELL’ANTICA CITTÀ INDO-GRECA LOCALIZZATA NEI PRESSI DI BARIKOT. UN PROGETTO ESEMPLARE, GRAZIE AL QUALE LA RICERCA DIVENTA IL MOTORE DI UNA VALORIZZAZIONE CONCRETA E SOSTENIBILE di Massimo Vidale
L’
archeologia or ientale è morta: affermarlo mentre ci accingiamo a raccontare di una eccezionale avventura archeologica tutta italiana, alle lontane pendici dell’Hindukush – il Paropamiso degli antichi geografi Greci, oggi in Pakistan– può sembrare un paradosso, ma, come vedremo, esso si fa rivelatore di intricati precedenti storici. L’archeologia orientale odierna, infatti, fatica a distaccarsi dalle sue radici coloniali, sviluppatesi nel periodo in cui, nel tramonto del XIX secolo, la disgregazione della Sublime Porta, l’impero ottomano insie-
diato a Istanbul, scatenava gli appetiti imperialisti delle potenze occidentali. Allora, i grandi archeologi passati alla storia per pioneristiche imprese di scavo – come Paul Émile Botta, lo scavatore di Ninive e Khorsabad (1842-1843), Austen Henry Layard, a Ninive e Nimrud (1845-1851), Marcel and Jane Dieulafoy (tra i primi scavatori di Susa, in Iran, tra il 1885 e il 1886), e, se vogliamo, lo stesso Heinrich Schliemann (scavi di Troia dal 1872 e il 1873), per citare solo i piú famosi – erano diplomatici, consulenti di intelligence, avidi mercanti d’arte antica, uomini d’affari facoltosi e
influenti, comunque legati in varia misura a grandi interessi strategici e commerciali dell’Occidente. Il «gioco» era semplice e consisteva nello sfruttare l’ignoranza e la grettezza dei corrotti governatori locali, nonché l’indifferenza della corte di Istanbul, per palesare al mondo, con scoperte epocali, la veridicità storica della Bibbia, umiliando cosí indirettamente la cultura islamica del tempo. E in patria, nel frattempo, si poteva accumulare un considerevole prestigio accademico. Gli enormi, caotici cantieri di scavo erano resi possibili non solo dall’assenza di una cultura scientifica della
Pakistan. Una veduta generale del sito archeologico di Barikot. Gli scavi hanno portato alla luce le strutture di una grande città.
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SCAVI • PAKISTAN N NO
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LA FINE DI UN’EPOCA Questa grande stagione – alla quale si deve la nascita dei principali musei europei a Parigi, Berlino e Londra, sorti grazie a «saccheggi» di opere d’arte oggi impossibili – si chiuse alla fine del primo conflitto mondiale (cioè ai tempi del crollo dell’impero ottomano) e ricevette il colpo di grazia definitivo alla fine degli anni Venti, quando una crisi economica di proporzioni mondiali tagliò inesorabilmente i fondi ai Musei e alle grandi campagne di scavo d’Oriente. Oggi, l’attacco al patrimonio culturale del Medio Oriente effettuato
A destra: cartina nella quale sono indicati alcuni dei maggiori siti archeologici del Pakistan. In basso: due immagini del Museo Archeologico dello Swat a Saidu Sharif. Qui sotto la facciata e, in basso, una delle sale.
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prassi archeologica, ma anche dai salari irrisori pagati alle maestranze di scavo locali.
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Nella pagina accanto, in alto: Gumbat. Un momento degli scavi nell’area sacra. Nella pagina accanto, in basso: Amluk-dara (Swat). Una delegazione di monaci del Bhutan in pellegrinaggio all’area sacra.
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dagli estremisti religiosi fa quasi apprezzare le politiche di rapina messe in atto due secoli fa dalle accademie europee. Tuttavia, non sono il fondamentalismo religioso, né la guerra, né il saccheggio ormai generale di tombe e rovine a condannare per sempre l’archeologia orientale, e neppure il taglio dei finanziamenti alle iniziative culturali; la causa, paradossalmente, va cercata nello sviluppo economico dei Paesi del Medio Oriente. Per quanto prosaico possa sembrare, è sempre piú arduo, considerando le desolanti risorse economiche dei progetti occidentali, scavare grandi estensioni di città e monumenti antichi, quando agli operai locali si corrispondono salari equi, cioè sempre piú vicini agli standard europei, in Paesi in cui non solo le risorse petrolifere, ma anche ricerche tecnologiche avanzate e competitive guidano un incontenibile aumento del benessere.
UN’«ARCHEOLOGIA OCCIDENTALE»? Che cosa avremmo compreso dell’antica Ninive, se fosse stato possibile scavare ogni anno una trincea di 100 mq? Per quanto possiamo ricorrere a una micro-archeologia sempre piú scientifica – studiando quindi semi, pollini e cristalli, invece di palazzi, templi e biblioteche – alla lunga, in Oriente, sono destinati a sopravvivere solo pochi progetti «miliardari». Forse, in un Oriente destinato alla lievitazione economica, sorgerà in futuro un’«archeologia occidentale», come quella delle accademie giapponesi, sempre piú attive, in tempi recenti, in India e Pakistan. Ma perché queste riflessioni iniziali, si chiederanno i lettori? Perché la recente avventura della Missione Archeologica Italiana in Pakistan e del suo direttore Luca Maria Olivieri a Barikot (valle dello Swat, provincia del Khyber Pakhtunkhwa), sigilla, quasi simbolicamente, gli antichi modi di fare archeologia, aprendo a r c h e o 35
SCAVI • XXXX XXXXXX
In questa pagina e nella pagina accanto, in basso: nelle foto, Livia Alberti e Danilo Rosati che, con Fabio Colombo e Giuseppe Salemi, hanno lavorato – in due fasi – al volto del Buddha di Jahanabad (VII-VIII sec.), tra il 2012 e il 2016. La scultura era stata gravemente danneggiata dagli estremisti religiosi. 36 a r c h e o
allo stesso tempo prospettive di lavoro, studio e collaborazione internazionale completamente nuove. Nella valle dello Swat, l’antica Uddiyana, alla frontiera nord-occidentale del Pakistan con l’entroterra afghano, opera ininterrottamente, sin dal 1955, la Missione Archeologica Italiana voluta, in origine da Giuseppe Tucci (1894-1984). «La valle – racconta Olivieri – è considerata una sorta di Svizzera del Pakistan: a 1000 m di quota, circondata da alberi di pino e ruscelli, gode di un invidiabile clima temperato, ed è coperta da floride piantagioni di alberi da frutta come cachi, albicocchi, mandorli e meli.Vi si coltivano anche riso, grano e sorgo». Celebre è il miele che gli apicoltori ottengono da campi tempestati da fiori.
CULLA DEL BUDDHISMO Da sempre, lo Swat è una terra ospitale di spiritualità e d’arte, essendo stato uno tra i principali centri propulsivi del buddhismo. Le ricognizioni rivelano che, ai tempi della massima espansione dell’impero kushana (I-III secolo d.C.), le sue valli erano letteralmente disseminate di monasteri e stupa (monumenti devozionali buddhisti) rivestiti di foglie d’oro e abbelliti da innumerevoli e raffinate sculture. Malgrado secoli di saccheggi, quel che oggi si conserva è ancora impressionante. Prima delle recenti crisi, gli alberghi e i resort turistici dello Swat (spesso costruiti con leggerezza nello stesso letto del fiume) erano affollati da famiglie pakistane ghiotte delle spinose trote del fiume, o semplicemente in cerca di frescura nei mesi piú caldi dell’anno, come da viaggiatori provenienti dall’Europa, dal Giappone, dall’Asia sud-orientale e da regioni In alto: stele con il Bodhisattva riassemblato dalla missione archeologica. Anche questo manufatto stele (alto 150 cm circa) era stato danneggiato dagli estremisti religiosi. a r c h e o 37
SCAVI • PAKISTAN
UOMINI NUOVI PER UN’ARCHEOLOGIA NUOVA Luca Maria Olivieri (classe 1962) è un archeologo dell’ISMEO (Associazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente), sorto dalle ceneri dell’IsIAO (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente). È uno studioso di solida formazione topografica e stratigrafica, allievo di Domenico Faccenna. Opera da trent’anni nello Swat e, tra il 2011 e il 2016, ha diretto il progetto ACT (Archaeology, Community, Tourism, vedi «Archeo» n. 340, agosto 2013) finanziato con piú di 2 milioni di euro, un progetto del Ministero Affari Esteri, ex Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo, in virtuosa collaborazione con l’esperienza dell’agronomo Marco Marchetti, a lungo Direttore del PIDSA
(Pakistan Italian Debt Swap Agreement). Avere tanta disponibilità finanziaria può, paradossalmente, costituire un problema, oltre a rappresentare una possibilità: spendere correttamente il denaro è una sfida a volte quasi impossibile, tanto piú in sede di cooperazione internazionale, quando cioè si devono seguire allo stesso tempo le leggi e i protocolli di diversi Paesi. Nessun progetto archeologico Italiano ha avuto e speso tanto, in un tempo cosí breve, e con risultati di simile eccellenza. Nel 2014 Olivieri ha ricevuto il titolo di Ufficiale dell’Ordine della Stella d’Italia (Presidenza della Repubblica) e, nel 2016, è stato nominato per la Sitara Imtiaz dal Presidente della Repubblica Islamica del Pakistan.
dell’arco himalayano attratti dalle radici storiche del buddhismo. Prima del progetto ACT (Archaeology, Community,Tourism, vedi box qui accanto), questa idilliaca regione era stata colpita da una sequenza impressionante di eventi catastrofici: un terremoto devastante nel 2005, gravi alluvioni nello stesso anno e nel 2010, e, nel 2009, un sanguinoso anno di guerra dovuto alla formazione in loco di un emirato talebano, e alla riconquista della valle da parte dell’esercito pakistano. In cinque anni di lavoro, il progetto ha usato l’archeologia e la cura di una minima parte dell’immenso patrimonio culturale dello Swat per rivificare il turismo nazionale e internazionale e risollevare l’economia della valle.
L’IMPEGNO ITALIANO In questi anni, i fondi italo-pakistani sono stati usati per ricostruire (con aggiornati criteri antisismici) il Museo Archeologico di Saidu Sharif, danneggiato dalla bomba di un attentato terroristico; per scavare due aree sacre monumentali buddhiste (II-V secolo d.C.) e due necropoli protostoriche (XIV-X secolo a.C. circa); per mantenere la storica casa della Missione Archeologica Italiana (60 anni di vita), per 38 a r c h e o
In alto: veduta dei quartieri scavati dell’area sud-occidentale della città di Bazira. Nella pagina accanto: le mura indo-greche e i livelli esterni di Bazira. A sinistra: le stratigrafie profonde (a 7 m dal piano di campagna) con i livelli «achemenidi» e protostorici di Bazira. Nella foto si vedono, in piedi, Syed Niaz Ali Shah, rappresentante archeologico governativo, Luca Maria Olivieri e gli operai Kamin Khan (a sinistra) e Umar Wahid (col casco di protezione).
ALESSANDRO E I MACEDONI NELLO SWAT
restaurare il grande stupa di Saidu Sharif, e il volto del colossale Buddha di Jahanabad, «ferito» al volto da estremisti religiosi nel 2007; per organizzare percorsi turistici nelle alture circostanti, alla scoperta del ricco patrimonio di arte rupestre; per organizzare una scuola per guide turistiche che rilascia i necessari patentini, garanzia di un’informazione e di un’assistenza di qualità. Ma, soprattutto, per trasformare le rovine della città indogreca e kushana di Barikot – l’antica Bazira degli storiografi di Alessandro Magno – nel polo centrale del reticolo turistico della visita
I principali storiografi dell’impresa di Alessandro, Arriano (95-180 d.C. circa) e Curzio Rufo (II-III secolo d.C.?) descrivono in dettaglio, seppur con qualche divergenza, la penetrazione del condottiero nello Swat, alla volta delle pianure dell’Indo. Nella primavera del 327 a.C., l’esercito macedone attraversò il territorio afghano, giungendo nell’autunno di quell’anno in una regione chiamata secondo Curzio Rufo Daedala, forse «il paese dei Dardi», dove ebbe frequenti scontri con armate locali. Il nome si sovrappone a quello sanscrito dell’Uddiyana, dove Massaga, Ora e Bazira erano i centri fortificati piú importanti del regno degli Assaceni («quelli dei cavalli»). La localizzazione di Massaga è incerta (forse a nord di Barikot, nel luogo dell’attuale Mingora), mentre Ora e Bazira corrispondono rispettivamente agli odierni Udegram e Barikot. Alessandro si dedicò personalmente all’assedio di Massaga, una città fortificata con possenti mura fondate su pietra, con elevato in mattoni crudi. Un’impresa difficile nella quale usò, con esiti alterni, macchine da guerra e rampe in terra, fino alla resa della città. Poi Alessandro mandò Ceno, uno dei suoi piú fidati comandanti, ad assediare le mura di Bazira (definita dallo stesso Curzio Rufo urbs opulenta, cioè città ricchissima), e altri comandanti all’attacco di Ora. Non potendo resistere, gli abitanti lasciarono deserte le tre città per rifugiarsi nelle alture e nelle boscaglie del monte Aornos, quasi certamente l’attuale monte Ilam. La montagna è ancora oggi un luogo remoto e sacro a diverse tradizioni popolari e religiose. Per i Pashtun la vetta è Jogiano-sar, la «cima degli yogin», cioè degli asceti, mentre per gli Hindu essa è Takht-e Ram, «Il trono di Rama». È probabile che alcune leggendarie narrazioni di tradizione zoroastriana identifichino l’Aornos come la sede di un titanico scontro tra un eroe armato di clava o mazza e un mostro primordiale, trasfigurato nelle leggende greche come un’impresa (questa volta fallita) di Eracle. Alessandro diede l’assalto all’altura, sorprendendovi i rifugiati, impresa che gratificò il conquistatore come superiore allo stesso semidio. Completata la conquista, i Macedoni avrebbero cercato di consolidare il controllo della regione, sia con le consuete alleanze tribali, sia con il deterrente delle fortificazioni dei centri principali, inclusa la stessa Bazira. Il dominio macedone sotto la sacra montagna fu comunque del tutto effimero. Il sistema di fortezze fu lasciato nelle mani di un alleato chiamato Sisikottos o Sandrakottos (deformazione del sanscrito Shahsigupta, ossia «Protetto dalla luna»; in una involontaria ritorsione, le fonti indiane deformarono poi il nome del conquistatore macedone come «Alikashandula»). Chissà se Shashigupta fosse lo stesso Chandragupta che avrebbe fondato l’impero maurya (320-180 a.C. circa), o se si trattasse di due personaggi diversi. Dal 180 al 10 a.C., la regione tornò a far parte dei regni greci ed ellenistici sorti originariamente in Battriana, ai quali si devono le possenti mura oggi scavate a Barikot. Delle fortificazioni assaltate e ricostruite dai soldati di Alessandro, al momento, non vi sono resti evidenti.
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SCAVI • PAKISTAN
della valle. Lo scavo è condotto dalla Missione e dal Directorate of Archaeology and Museums della Provincia del Khyber-Pakhtunkhwa. In tutto ciò, il progetto, formando maestranze di scavo e studenti delle locali università, ha creato una generazione di operatori specializzati nello scavo, nel restauro e nella promozione turistica: una promessa per tempi meno problematici. E gli effetti di tanto impegno sono tangibili: a pochi anni dalla fine degli scontri armati, i frutteti sono nuovamente rigogliosi, le case distrutte dai proiettili sono quasi scomparse, e gli hotel sono risorti in massa. Dal 2013, oltre 100 000 turisti sono tornati a visitare la valle ogni anno, il suo museo e i suoi monumenti, con un impatto consistente sull’economia locale. La lezione conferma anche che oggi la piú grande industria del mondo rimane il turismo,
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Qui sotto e nella pagina accanto: monete maurya (Chandragupta?) e indo-greche (Antialkidas?). In basso: un momento dello scavo della necropoli protostorica di Udegram (fine II-inizi I mill. a.C.).
e che, alla lunga, le necessità di vita materiale della gente, al di là del rigore degli ideologismi, possono ispirare delle scelte razionali e consolidarne la società civile.
VANTAGGI RECIPROCI In questo nuovo contesto, dove non si scava sfruttando il lavoro delle comunità locali, ma sostenendole economicamente e culturalmente con vantaggio reciproco, che cosa è rimasto dunque delle antiche forme dell’archeologia coloniale evocata all’inizio? Un solo, ma cruciale aspetto: l’estensione della grande area di scavo di Barikot (in pashtu, Bir-kot-gwandai, antico nome sanscrito Vajirashtana, semplificato dagli storiografi greci in Bazira). La città, dove gli Italiani avevano già scavato per 30 anni e 16 campagne successive, si arrampicava, con l’acropoli, verso la vetta di una erta
collina di calcare e micascisto, a dominare la sponda sinistra del fiume. Qui Olivieri ha esposto quasi un ettaro dell’antico abitato, il che significa una trincea di 80 x 100 m. Si è scelto di scavare in estensione, esponendo le mura turrite della città indo-greca (II-I secolo a.C. circa), il reticolo delle strade e dei viottoli, che corrono tra 6-8 distinti isolati di abitazioni di età imperiale kushana (I-III secolo d.C.); ma non in profondità, limitando l’esplorazione alle fasi piú tarde. In tal modo, le rovine esposte non crollano, risparmiando degrado e spese conservative, ma suggeriscono, al tempo stesso, l’idea di una città affollata di costruzioni e abitanti. Il periodo messo in luce per gli odierni visitatori corrisponde all’apogeo dell’impero kushana, un vasto sistema di potere imperiale esteso al tempo, sulle tracce del precedente Stato maurya, dalle piane gangetiche all’Afghanistan e, verso sud-ovest, alle sponde dell’Oceano Indiano. L’estensione dell’impero e dei suoi orizzonti linguistici e culturali ben spiega la natura poliedrica profonda dell’arte del Gandhara, che usò un lessico formale ellenistico, ed elementi di religiosità centro-asiatica e iranica, per cicli narrativi essenzialmente indiani, come quelli della vita del Buddha e delle sue precedenti manifestazioni terrene. ll visitatore di Bar ikot-Bazira sale cosí al ciglio delle mura e gode la vista dei torrioni, parzialmente ricostruiti in una diversa A destra: Barikot, gli scavi nei livelli indo-greci (trincea K 105). a r c h e o 41
SCAVI • PAKISTAN Tra le abitazioni di epoca tardo-kushana (III sec. d.C.) sono state ritrovate strutture templari buddhiste con sculture e stele votive in situ nelle nicchie.
Spazi sacri e cucine I palazzi della cittĂ kushana fino al suo abbandono (fine del III sec. d.C.) avevano sacelli domestici buddhisti riccamente decorati, spesso posizionati nei cortili accanto alle cucine. Gli archeologi hanno potuto recuperare macine e forni, ma anche lampade votive e pannelli gandharici, come quello qui illustrato, che raffigura la partenza di Siddharta dal palazzo.
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opera di pietre a secco, per visualizzarne l’imponenza nel rispetto e nella protezione delle costruzioni originali. Percorre poi le strade verso monte, apprezzando l’impressionante qualità e spessore delle murature di età kushana, fino a raggiungere il margine opposto della trincea, dove la terra dello scavo è stata impilata a formare una vasta terraz-
za artificiale. Da qui si vede tutta l’area di scavo, sullo sfondo delle case di oggi e delle lontane pendici del monte Ilam, che domina il passo di Karakar e l’accesso alla valle dell’Indo. Gli scavi della fase finale di vita dell’antica Bazira hanno portato in luce una serie di abitazioni private, di murature imponenti, certamente ap-
partenenti agli strati sociali piú elevati della popolazione urbana.Tra il I e il III secolo d.C., Bazira fu un importante centro dell’impero kushana, in un periodo che sembra essere stato di grande prosperità e relativa tranquillità – alcuni studiosi, al proposito, hanno parlato di una Pax Kushanica – se è vero, come palesato dagli scavi, che alle vecchie mura urbane, nello stesso periodo, non veniva prestata grande attenzione.
UN SISMA DEVASTANTE Gli archeologi hanno anche rilevato che un grave terremoto, datato in base al radiocarbonio intorno al 260 d.C., fu certamente una delle cause del suo abbandono. È molto probabile che il cataclisma abbia avuto un ruolo importante nel tramonto del potere kushana, che all’incirca nello stesso periodo fu oscurato dall’espansionismo dei re sasanidi. Le grandi case scavate avevano cortili interni, nei quali, addossati alle mura, o in apposite nicchie, erano stati eretti sacelli privati. Gli archeologi della Missione Italiana ne hanno trovato i resti, caduti in blocco dei cortili, in modo che facciate, porte (testimoniate da cardini e chiusure in ferro) e immagini di culto (stupa in miniatura, stele con immagini del Buddha o di varie divinità) sono stati rinvenuti ancora in stretta connessione spaziale. I sacelli, cosí, sono stati ricostruiti in
Il tempio, la dea e l’uva Una delle strutture templari urbane di Bazira, un tempio con veranda a quattro pilastri, ha rivelato tra le sue dotazioni forni in argilla e un distillatore per bevande. La stele con la dea Hariti (si noti il grappolo d’uva) proviene dal tempio. Nelle campagne intorno a Barikot sono state trovate dozzine di palmenti (vasche per la spremitura dell’uva) di età kushana o successiva.
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SCAVI • PAKISTAN
I CONTRIBUTI SPECIALISTICI Allo studio archeologico di Barikot-Bazira, e dell’archeologia della media valle dello Swat, ha dato uno stimolo importante il Dipartimento dei Beni Culturali dell’Università di Padova. Massimo Vidale e Michele Cupitò sono stati coinvolti nel Progetto ACT e nei relativi progetti di scavo e documentazione per la loro competenza nello scavo stratigrafico e microstratigrafico dei complessi tombali protostorici (senza dimenticare il contributo di un altro raffinato scavatore, Roberto Micheli, della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Friuli Venezia Giulia). Coadiuvato da Emanuela Faresin, lo scrivente ha messo a disposizione di ACT le competenze e la strumentazione avanzata dello stesso Dipartimento, procedendo alla documentazione mediante laser scanning 3D dell’intervento di conservazione e restauro del Buddha di Jahanabad, condotto da Fabio Colombo,
dettaglio, anche grazie alla cura e all’acume del disegnatore della Missione, Francesco Martore. Alcune delle stele cultuali in pietra si riferiscono a culti della fertilità, come la dea Hariti della tradizione induista, mentre altre hanno attributi di chiara ispirazione dionisiaca, il che suggerisce un sincretismo di idee e pratiche cultuali tra la venerazione delle bevande inebrianti proprie di un antichissimo substrato ideologico indoeuropeo con temi greci propagati dall’ellenismo. Tutto ciò sembra suggerire che nell’antica Bazira
Il dio sconosciuto In una cista presso una cucina, a Bazira, si conservava questa stele (III sec. d.C.) raffigurante un dio sconosciuto, dalle fattezze di un Dioniso anziano, con, nelle mani, la coppa del vino e la testa di capro. Due simboli molto cari alla cultura delle popolazioni dardiche (vedi box a p. 39), che abitavano l’antico Hindukush e lo Swat.
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Livia Alberti e Danilo Rosati, ma anche alla registrazione tridimensionale di altre sculture e altorilievi databili agli ultimi secoli del culto buddhista nello Swat, già studiati in dettaglio da Anna Filigenzi (L’Orientale di Napoli). L’obiettivo è il rilievo tridimensionale sistematico di un ampio repertorio di sculture, privilegiando quelle che, danneggiate o in condizioni ambientali non sicure, o di scarsa visibilità, necessitano piú di altre di essere riprodotte nei minimi dettagli con le nuove tecnologie. La lista dei contributi specialistici messi a disposizione della Missione Archeologica Italiana è lunga: le analisi archeometriche delle ceramiche di Barikot a Geoscienze a Padova (Lara Maritan), la campagna di analisi al radiocarbonio delle fasi antiche di Barikot (CIRCE, Napoli 2, Filippo Terrasi), lo studio del DNA umano antico dello Swat e delle colonne di campioni archeobotanici di Barikot (David Reich della Harvard Medical School e
vivessero, in condizione e luogo privilegiati, i membri di gruppi aristocratici alleati dei Kushana. Il collasso, alla fine del III secolo, dell’impero kushana sotto i Sasanidi trascinò nel declino sia questi gruppi che la loro città.
LE MONETE DEI RE I saggi stratigrafici hanno portato alla raccolta di numerose monete dei re kushana, chiarendo per la prima volta – grazie alla collocazione stratigrafica e alle nuove datazioni assolute – aspetti spinosi della loro controversa sequenza dinastica, e dei sovrani indo-greci e saka-partici dei secoli precedenti. Nelle stesse stratigrafie urbane – una testimonianza particolarmente impressionante – sono stati trovati due frammenti di ceramica che recavano graffiti altrettanti nomi greci. Piú in basso, nel 2016, all’interno di un’unica trincea scesa a una profondità di ben 7 m dalla superficie, è venuta in luce una moneta attribuibile a Chandragupta, f o n d a t o re d e l l ’ i m p e ro
Nicole Boivin del Max Planck Institute), ecc. Alla lista sta per aggiungersi un’altra importante iniziativa: lo studio archeometrico di un importante laboratorio per la fabbricazione di ornamenti in vetro, scoperto da Luca Maria Olivieri e Elisa Iori negli strati profondi della trincea già menzionata nel testo. I resti di lavorazione artigianale del vetro – frammenti di crogioli vetrificati dal calore, e incrostrati di gocce policrome, scorie e centinaia di perline di vetro, difettose e non, di svariati colori – si datano preliminarmente ai secoli a cavallo della nostra era (II secolo a.C.-II secolo d.C.) e costituiscono a tutt’oggi il piú antico laboratorio vetrario mai scoperto in Pakistan. Lo studio è stato affidato a Ivana Angelini, del nostro stesso Dipartimento, uno dei piú esperti della produzione del vetro antico attivi oggi nel nostro Paese. Giuseppe Salemi
Qui sotto: Barikot: fasi maurya. Un problema di stratigrafia discusso tra Luca Maria Olivieri (a sinistra), Massimo Vidale (a destra) ed Elisa Iori.
Nascita e rinascita Mentre era in corso lo scavo del santuario buddhista di Amluk-dara, tra i pochi strati risparmiati dagli scavatori clandestini, riemergeva questo meraviglioso pannello con la nascita di Siddharta (II sec. d.C.). Quasi tutte le sculture illustrate in questo articolo, sebbene scavate solo tra il 2012 e il 2016, sono oggi esposte nelle vetrine del Museo dello Swat.
maurya, in uno strato contenente anche frammenti delle cosiddette baroque ladies – figurine femminili nude in terracotta, fortemente stilizzate e ricoperte di intricati ornamenti personali modellati e applicati al corpo. Al di sotto di questo strato, vi sono altri depositi che contengono ceramiche di chiara ispirazione persiana, che sembrano visualizzare – la cautela è d’obbligo, poiché lo studio del materiale si sta tuttora svolgendo – la presenza a Bazira di gruppi legati all’espansione achemenide sul fronte orientale. La sequenza stratigrafica di Bazira sembra concludersi (o iniziare, se procediamo da un punto di vista storico) da ulteriori livelli sepolti, con resti di grandi costruzioni di età protostorica (XV-X secolo a.C. circa). «Siamo molto emozionati – ci dice Elisa Iori, la giovane studiosa dell’Università di Bologna, alla quale è stato dato il compito, sempre gravoso, di scrivere la storia della prima città dal punto di vista del mutare delle ceramiche –, per la prima volta sarà possibile osservare uno spaccato completo di questo importantissimo centro di scambio culturale». a r c h e o 45
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NELL’AGRO DI BONONIA SALITO AL POTERE, AUGUSTO RIORGANIZZA I DOMINI DI ROMA E, FRA LE VARIE INIZIATIVE, INVIA UN NUCLEO DI VETERANI DELL’ESERCITO IN EMILIA, NEI TERRITORI DELL’ODIERNA BOLOGNA. LE VASTE PIANURE CAMBIANO VOLTO E NASCONO NUOVI INSEDIAMENTI. COME IL VICUS ORA AL CENTRO DI UNA MOSTRA ALLESTITA A SAN PIETRO IN CASALE di Tiziano Trocchi, Raffaella Raimondi ed Eleonora Rossetti
B
ononia, 31 a.C. La battaglia di Azio si è appena conclusa, ma il vincitore, Ottaviano, futuro Augusto di Roma, non è quello che il Senato locale spera: da sempre Bononia e i suoi abitanti sono fedeli ad Antonio, patronus della città. Che, a quel punto, è certa di andare incontro a una punizione esemplare e invece la reazione del primo imperatore di Roma è nettamente diversa. In pochi anni Bononia (l’odierna Bologna) cambia volto: in questo centro di antica fondazione etrusca, passato ai Galli Boi prima di divenire colonia latina nel 187 a.C., si lastricano strade, si sistemano quartieri, si costruiscono un nuovo acquedotto e un grande impianto termale. Inizia un’era di pace e prosperità, che si estende alle campagne circostanti. Qui il
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«novello Romolo» manda alcuni veterani del suo esercito, con le proprie famiglie, a trovare compenso e riposo dopo anni di fedeltà e dure lotte civili.
UNA CAMPAGNA STERMINATA Il territorio circostante l’attuale centro di San Pietro in Casale è una delle porzioni di pianura bolognese scelte a questo scopo. Davanti agli occhi dei soldati si apre una campagna sterminata, a cui non sono abituati, ricca di campi fertili da coltivare, favorita dalla vicinanza di un ampio corso fluviale – il Reno antico – e costellata da fattorie e ville padronali di personaggi illustri; lungo la via che, attraversando queste terre, congiunge Bononia alle città del Veneto, si ergono i monumenti funerari.
Salvo diversa indicazione, i reperti e le immagini riprodotte in queste pagine sono esposti nella mostra «Villa, Vicus, Via. Archeologia e storia a San Pietro in Casale», allestita presso il Museo Casa Frabboni di San Pietro in Casale (Bologna). In alto: bronzetto con Mercurio, da una villa rustica di San Giorgio di Piano. II sec. d.C. Nella pagina accanto, in alto: puteale con dedica ad Apollo e al Genius Augusti. Nella pagina accanto, in basso: applique in bronzo con raffigurazione del Ratto di Europa.
Saltopiano, da anni impegnato accanto a istituzioni, Comune e Soprintendenza nella valorizzazione di questo significativo patrimonio. Il percorso espositivo approfondisce la vita in età romana degli abitanti di questo territorio tra la fine del I secolo a.C. e la fine del III-inizi del
IV secolo d.C., raccontandone la vita, la morte, le credenze e la quotidianità attraverso i reperti archeologici provenienti dagli scavi locali. Uno degli oggetti piú monumentali e significativi esposti in mostra è un puteale con dedica ad Apollo e al Genius di Augusto, importante
Il Ratto di Europa
Un secolo piú tardi, questa parte di pianura non era piú la stessa. Lungo la strada, oltre alle piccole fattorie, sorgeva allora anche un vicus, un villaggio non fortificato, luogo di sosta per i viaggiatori in cerca di ristoro nel tragitto verso Bononia e luogo di scambio e compravendita per i mercanti. Questo quadro storico e insediativo è il fulcro del percorso della mostra Villa, Vicus, Via.Archeologia e storia a San Pietro in Casale organizzata nei locali del Museo Casa Frabboni.
La campagna di scavo condotta nel 2000 nell’area dell’abitato di Maccaretolo ha portato in luce un’applique in bronzo in cui è raffigurato un toro su cui siede una figura femminile panneggiata. Di quest’ultima si conservano solamente le gambe e la mano destra aggrappata a un corno dell’animale, presumibilmente con andamento al trotto visto il dettaglio della zampa alzata, cosí come della coda attorcigliata. Sebbene il reperto sia in parte lacunoso, la rappresentazione è stata identificata come Europa (la giovane seduta sull’animale) e Zeus (in sembianze di toro) nella raffigurazione del mito greco del «Ratto di Europa». La resa stilistica del frammento, la pregiata lavorazione del metallo, l’attenzione ai dettagli e la delicatezza delle forme e del movimento, portano la sua datazione alla seconda metà del I secolo d.C. La vicenda racconta che il dio, invaghitosi di Europa, giovane figlia del re fenicio Agenore, decise di trasformarsi in un toro bianco e di rapire la ragazza portandola con sé sull’isola di Creta. Dall’unione dei due nacquero tre figli tra cui Minosse, futuro re di Creta. La rappresentazione di questo mito nella produzione artistica mediterranea ha avuto un largo successo sin dal VII secolo a.C., come attestano le numerose riproduzioni su bronzo, terracotta, pietra e mosaico.
ACQUISIZIONI RECENTI Negli ultimi decenni, questo territorio ha restituito numerose e significative testimonianze archeologiche, oggetto di indagini dirette dalla Soprintendenza. Nella maggior parte dei casi si è trattato di rinvenimenti fortuiti collegati alla realizzazione di edifici, infrastrutture o servizi, e, piú raramente, di scavi programmati o di campagne di ricognizione di superficie condotte con l’aiuto del Gruppo Archeologico Il a r c h e o 47
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prestito frutto della preziosa collaborazione con il Museo Civico Archeologico di Bologna.
DESIDERIO DI AUTOCELEBRAZIONE Alla fine dell’età repubblicana l’agro bononiense appare costellato da insediamenti produttivi sparsi, fattorie e ville strategiche per il controllo del territorio e lo sfruttamento della fertilità della terra, opportunamente bonificata e centuriata. Ricchi proprietari terrieri – che vivono la campagna e gestiscono direttamente le attività economiche connesse – scelgono di autocelebrarsi e di consolidare lo status sociale ed economico raggiunto all’interno
Pieve di Cento
San Pietro in Casale
SP4 A13
Argelato
SS64
SP3
A13
Bagnarola Cadriano Granarolo Corticella dell’Emilia SP5 E45
Bologna
Castenaso Villanova
Sulle due pagine: disegno ricostruttivo della centuriazione romana nella pianura bolognese. A sinistra: disegno della Stele dei Cornelii, monumento funerario pertinente alle necropoli del vicus, rinvenuto nel XVI sec. ed edito da C.C. Malvasia nel 1690. Nella pagina accanto: San Pietro in Casale, Museo Casa Frabboni, sede della mostra.
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della comunità incaricando scalpellini e lapicidi di realizzare imponenti monumenti funerari, che vengono posizionati in relazione ai terreni e ai fabbricati di proprietà. L’effetto particolarmente scenografico dei grandiosi monumenti a cuspide diffusi in Romagna a partire dalla metà del I secolo a.C. ne determina il successo anche nella piatta campagna bononiense sulla quale questi manufatti svettano maestosi: le loro proporzioni e dimensioni soddisfano il desiderio di esibizione inseguito dalle familiae, le iscrizioni incidono sulla pietra i loro nomi, ne celebrano carriere e incarichi pubblici. I Cornelii, familia di antica tradizione con proprietà in queste terre, decidono di affidare ai monumenti funerari la testimonianza dell’affermazione sociale ed economica raggiunta alla fine del I secolo a.C. Lucio Cornelio Glabra e la moglie Iulia Severa, quest’ultima esponente
della gens Iulia, commissionano un monumento a cuspide; tre liberti della familia scelgono invece di farsi ricordare da una stele alta quasi 3 m, in cui un uomo con toga e due donne ammantate sono effigiati all’interno di un’edicola templare. Anche un anonimo magistrato, che la tradizione locale ha rinominato «il Togato», sceglie una sepoltura monumentale a cuspide in cui fa inserire la propria statua.
LA PACE AUGUSTEA Nel I secolo d.C. il territorio di San Pietro in Casale vede l’arrivo di nuove genti, militari in congedo che ottengono uno spazio coltivabile e un’abitazione per sé e le proprie famiglie. A loro è affidato il progressivo potenziamento degli insediamenti prediali, l’amministrazione dell’area, il controllo del fiume Reno e della strada che collega Bononia con i centri transpadani. Questo sistema fa parte di una riora r c h e o 49
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SULLA VIA DEL NEGOTIUM Il termine latino negotium designa tutte le attività quotidiane economiche, commerciali e politiche che caratterizzavano la vita pubblica di un cittadino romano. Negli autori antichi il termine è spesso contrapposto a quello di otium, ovvero il riposo del cittadino romano dalle attività quotidiane, per dedicarsi ad attività letterarie e filosofiche, lontano dalla città e dai suoi affari. In tutto l’impero romano si conoscono innumerevoli attività produttive legate a officine di lavorazione: sono ampiamente attestate la fabbricazione di vasellame piú o meno fine, di contenitori per la conservazione e il trasporto dei cibi, la realizzazione di materiali da costruzione come mattoni, coppi e tegole, la lavorazione del ferro e del vetro. A partire dall’età imperiale, artigiani e commercianti delle città e dei grossi centri si riuniscono spesso in corporazioni di mestieri. Non è sempre facile individuare all’interno di un sito archeologico la presenza o meno di una produzione in loco di manufatti senza opportune ricerche; alcuni fattori, tuttavia, come il rinvenimento di attrezzi da lavoro, di scorie di produzione o scarti di lavorazione ritrovati in grande quantità, possono indiziare la presenza di forni o fornaci. Per comprendere l’organizzazione delle officine di produzione dei
ganizzazione territoriale che gravita intorno a un centro extraurbano di grosse dimensioni a vocazione produttivo-commerciale, un vicus che si insedia lungo l’antico argine del Reno presso Maccaretolo. Un nuovo abitante di queste terre è Quinto Manilio Cordo, soldato di una legione augustea giunto al rango di praefectus equitum che, al culmine della propria carriera, viene nominato da Roma esattore delle tasse nelle civitates della Gallia: il suo cursus è riportato in una stele monumentale alta piú di tre metri che non omette, nella decorazione, di alludere ai temi tipici della propaganda augustea. L’ager si popola di nuove genti arrivate per coltivare la fertile terra di pianura, si arricchisce di officine e botteghe artigiane, offre opportunità a nuovi commercianti, vede sorgere luoghi sacri. La religiosità ri50 a r c h e o
sente in modo evidente della nuova politica imperiale e delle condizioni sociali di questo periodo storico. Cosí, a poca distanza dalla città simbolo di Antonio, il magister (vici? pagi?) Lucio Apusuleno Eros, di origini servili, fa realizzare a proprie spese un pozzo e un elegante puteale incorniciato da un boschetto di lauro: un recinto sacro, un luogo in cui la celebrazione di Augusto passa attraverso il culto del suo genius, associato a quello di Apollo, nume tutelare del princeps.
In alto: gemma in diaspro verde ovale, decorata a intaglio con scena di genere, raffigurante una figura femminile stante, resa con tratto schematico e con il viso profilato in posa plastica. Ritrovamento sporadico nell’area del vicus. I-II sec. d.C.
FIORITURA E DECLINO DI UNA PIANURA Nel corso del II secolo d.C., un’importante continuità insediativa caratterizza sia il vicus che le fattorie dei ricchi proprietari, che individuano nei sarcofagi iscritti un nuovo ed efficace strumento di celebrazione personale e familiare,
manufatti, importanti informazioni vengono dallo studio e dall’analisi dei bolli (analoghi agli attuali «marchi di fabbrica») impressi a fresco sui prodotti durante la lavorazione. La loro funzione non è però tanto quella di garantire la qualità del prodotto o di segnalare la semplice proprietà dell’oggetto, quanto di rispondere a esigenze legate all’attività produttiva e di commercializzazione del prodotto stesso. Le indagini effettuate nel 2000 nel vicus di Maccaretolo hanno attestato numerosi bolli presenti sia sul vasellame da mensa fine, soprattutto quello della classe della ceramica a terra sigillata, sia su lucerne, che sul vasellame in vetro, anfore e laterizi. Particolarmente interessante è l’attestazione nel sito di un’elevata quantità di scorie in ferro e vetro; queste testimonianze, unitamente a scarti di lavorazione in piombo e bronzo, confermano il ruolo di centro commerciale e di smistamento di merci attribuito a insediamenti rurali di questo tipo. È dunque verosimile che venissero lavorati in loco oggetti in ferro e vetro, ma è altrettanto plausibile che il centro di Maccaretolo svolgesse una funzione di compravendita e smistamento di materia prima proveniente da altri centri di produzione, da far poi confluire nelle officine presenti presso Bologna. In alto: la sezione della mostra dedicata al negotium, dove si espongono reperti provenienti dal vicus riconducibili alle attività produttive, come le scorie della lavorazione dei metalli e del vetro, o al commercio, come le anfore o le ceramiche e i laterizi recanti i bolli delle officine di produzione.
secondo un usus tipico dei territori orientali dell’impero. È il caso di Tito Attio Massimo e di sua moglie Rubria Semne, che commissionano ancora in vita un sarcofago dalla decorazione semplice, proveniente dalle cave di Verona, a doppio alveo, cosí da poter dimorare insieme nei campi elisi. In questo periodo osserviamo anche la significativa intensificazione delle testimonianze religiose, che rimandano a divinità tradizionali, seppure con epiteti parti-
In basso: ara in marmo a Libero Patri et Lib(era?). Da Cinquanta di San Giorgio di Piano.
colari, venerate in sacelli domestici o entro spazi sacri che racchiudono in sé culti arcaici, naturali e personali. Tra questi, il culto delle forze della natura, in particolare dell’acqua, e il conseguente timore degli eventi atmosferici in relazione alla vita quotidiana tipica di un territorio agrario.
IL LEGAME CON L’AGRICOLTURA Tre are, dedicate rispettivamente a Iovis Tempestati, Liber Pater et Lib(era?) e Neptunus, raccontano le storie delle genti romane dell’agro di epoca imperiale, fortemente legate alla coltivazione della terra, ma anche alla trasformazione dei suoi prodotti e al loro commercio. A Mercurio, nume tutelare del commercio, fanno riferimento un bronzetto e un disco di lucerna. Questo assetto territoriale, ben ora r c h e o 51
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In alto: sarcofago di Tito Attio Massimo e Rubria Semne, rinvenuto nelle vicinanze del vicus negli scavi diretti nel 1988 dalla Soprintendenza Archeologica di Bologna. In basso: l’antica via che da Bononia conduceva al Veneto, messa in luce in una recentissima campagna di scavo diretta dalla Soprintendenza di Bologna presso l’Interporto di Bentivoglio. Sopra uno spesso strato preparatorio, la sede carrabile di 8 m di ampiezza era realizzata in ciottoli fluviali, mentre su entrambi i lati sono stati riconosciuti i fossi di scolo, per un’opera di complessivi 12 m.
ganizzato e solido, viene in parte compromesso verso la fine del II secolo d.C., in seguito a una grande alluvione del Reno, che provoca la scomparsa di alcuni insediamenti produttivi sparsi, senza compromettere del tutto la continuità di vita del vicus. La contrazione demografica che si registra nel corso del III secolo d.C. indica l’inizio di un’irreversibile crisi del sistema di controllo territoriale e idrogeologico che coinvolge l’interno territorio regionale. Le uniche testimonianze di frequentazione al momento note provengono dal vicus, a cui si aggiunge la continuità d’uso della vicina area sepolcrale. Un secondo evento alluvionale, probabilmente inquadrabile tra la fine del III e gli inizi del IV secolo d.C., testimonia la difficoltà nella manutenzione e nel controllo della 52 a r c h e o
PER VIE D’ACQUA E VIE DI TERRA In epoca romana, il paesaggio di questa porzione della pianura bolognese era profondamente determinato dal corso del fiume Reno che, con le sue anse piú o meno profonde, disegnava l’aspetto del territorio, creando dossi che continuamente modificavano il proprio profilo. Il modello naturale del fiume era molto diverso da quello arginato artificialmente che osserviamo oggi: alveo piú ampio, meno profondo e, soprattutto, ricco di meandri, carattere questo completamente assente nel fiume odierno. La sfida che la pianura emiliana propone alla ricerca archeologica è quella della
notevole profondità di giacitura dei siti, spesso sepolti sotto imponenti strati di depositi alluvionali. Negli ultimi trent’anni non si erano avute a disposizione fotografie aeree adeguate, vanificando ogni tentativo di riconoscimento dei dettagli del corso del Reno e della sua relazione con il vicus di Maccaretolo. La svolta nelle indagini aerofotografiche è stata determinata dalla ripresa satellitare GOOGLEEarth 2011: l’inquadratura ha rivelato chiaramente come il vicus sorgesse esattamente sulla riva destra del Reno antico, appena a monte dell’inizio di una profonda
In basso: bronzetto con una salamandra dall’area del vicus, forse ricollegabile come offerta ad attività di culto e testimonianza del pregio delle lavorazioni metalliche certamente realizzate in loco.
via fluviale, che forse causa il definitivo abbandono dell’area e della funzione commerciale ricoperta dal sito fino a quel momento.
IL TEMPO E LA LUCE Emozionare: la mostra fotografica che completa il progetto espositivo di Villa,Vicus,Via è stata realizzata con questo preciso intento. Gli oggetti monumentali che, fin dal Cinquecento, si sono scoperti nel territorio hanno sempre siste-
maticamente preso la via della città di Bologna. Si doveva trovare una sede appropriata e decorosa, si doveva poterli opportunamente studiare: cosí la grande Stele dei Cornelii, quella di Manilio Cordo e la statua del Togato, con gli apparati decorativi del monumento a cui apparteneva, non sono piú a San Pietro in Casale da qualche secolo. Né è pensabile tornare indietro, perché, nel frattempo, la loro storia si è intrecciata con
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
curva dell’alveo, talmente stretta da rendere inevitabili i fenomeni di rotta degli argini. La vita del centro appare poi abbastanza lunga da non essere stata particolarmente influenzata dalle ripetute alluvioni che si sono periodicamente verificate. Non è quindi un caso che, proprio dall’altezza del villaggio, comincino a manifestarsi alte pendenze del piano di campagna, traccia della presenza di un sistema di argine artificiale già attivo in età antica. Il vicus di Maccaretolo era anche servito da una viabilità stradale che
lo metteva in comunicazione con i principali centri vicini, in primis Bononia. Le indagini finora eseguite nel sito non hanno chiarito il tracciato di questa direttrice nel territorio comunale di San Pietro in Casale, individuata invece in piú punti, nell’area tra Bologna e San Giorgio di Piano. L’ultimo ritrovamento, avvenuto nei pressi dell’Interporto in Comune di Bentivoglio, conferma sostanzialmente quanto già si conosceva sulla strada: una glareata di ampiezza variabile, ad andamento sostanzialmente
rettilineo, orientata nord nord-est, ma disassata rispetto alle linee centuriali note nella pianura a nord di Bologna. La presenza di un piccolo sepolcreto di età repubblicana, in relazione con il tratto individuato, conferma la continuità di una direttrice antica che metteva in relazione Bologna con le principali città alleate del Nord-Est: una via legata a un particolare contesto che dunque si conferma spina dorsale e tracciato ancora funzionale rispetto alle nuove esigenze commerciali e sociali del territorio in età imperiale.
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MOSTRE • EMILIA-ROMAGNA
VIVERE IN CAMPAGNA AL TEMPO DI MARCO AURELIO Il territorio di San Pietro in Casale ha restituito diverse informazioni sulla tipologia degli edifici abitativi distribuiti in età romana in questo settore delle campagne centuriate a nord della colonia di Bononia. Per la conoscenza dell’insediamento romano in questo settore di pianura si è rivelato fondamentale lo scavo della villa rustica rinvenuta presso il Centro Sportivo di San Pietro in Casale nel 1988. I resti dell’edificio si trovavano a circa 1,80-2,00 m dal piano attuale ed erano coperti da uno spesso deposito di limi e sabbie dovuti a un’esondazione del fiume Reno – che in età romana scorreva nelle vicinanze –, che causò l’abbandono del sito. Della villa si conservavano due ambienti di differenti dimensioni, con pavimenti in terra battuta, su cui si impostavano vari focolari. I muri erano realizzati con fondazioni di pezzame laterizio disposto obliquamente nel terreno e corsi di mattoni in grossi frammenti, nella
maggior parte materiale di reimpiego. Le murature in elevato erano invece costruite nella parte bassa con frammenti laterizi disposti in piano a formare corsi regolari, legati da sottili mani di argilla. L’abbandono repentino dell’edificio ha permesso di rilevare un’altra particolarità tecnicocostruttiva, riconosciuta, attraverso piú recenti indagini, non solo in numerosi altri edifici rurali sparsi nel territorio centuriato, ma anche nella costruzione di domus cittadine: al di sopra della zoccolatura in laterizio, che non superava i 30 cm in altezza ed era Sulle due pagine e nella pagina accanto: disegno ricostruttivo ipotetico dell’esterno (A) e dell’interno (B) di una villa rustica da Calderara di Reno (BO), assimilabile a quella rinvenuta presso i campi sportivi di San Pietro in Casale.
verosimilmente a vista, doveva svilupparsi la parete vera e propria, costituita da materiale deperibile; tracce di fibre legnose disposte sulla cresta delle murature hanno fatto pensare alla presenza di travi o assi disposte in orizzontale a formare il marcapiano per un alzato In alto, a sinistra: particolare della sezione della mostra dedicata al vicus e in particolare agli oggetti di uso quotidiano: accumulo di frammenti di vari materiali – a testimonianza della quantità e varietà dei reperti provenienti dal sito – e macina per cereali. A sinistra: base di torcular per la spremitura dell’uva, dalla villa rustica di San Pietro in Casale.
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che doveva alternare il legno – montanti verticali come struttura portante o assito ligneo per i divisori interni – all’argilla. All’esterno dell’edificio si è rinvenuta una base in muratura rivestita probabilmente in legno, affiancata da un grande vaso (dolio), interpretabile come torchio a vite (torcular) del tipo verticale. Il prodotto derivato dalla spremitura doveva confluire nel vicino dolio. L’edificio si caratterizza dunque come un impianto artigianale per la lavorazione dei prodotti agricoli e si può ragionevolmente supporre di essere in presenza di processi di torchiatura e vinificazione. L’edificio, che poteva costituire il
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto A taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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settore utilitario di un complesso piú ampio dotato forse anche di una parte residenziale, viene realizzato nell’arco del I secolo d.C; la fase principale di vita e attività produttiva dovette attuarsi nel pieno II secolo d.C. I materiali in dispersione sugli ultimi piani di frequentazione della villa – tra cui
una moneta di Marco Aurelio – indicano come momento di chiusura dell’area la media età imperiale (fine del II secolo d.C.), forse a significare l’inizio di un cedimento dell’impianto centuriato in questo territorio, in cui ampi settori cominciano già da questo momento a essere abbandonati.
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MOSTRE • EMILIA-ROMAGNA
quella del Museo Civico Archeologico di Bologna, diventando icone e vetrine per i visitatori che ne affollano l’atrio. Ma una mostra che parla di archeologia del territorio non poteva privarsene completamente, non poteva prescindere dalle storie di vita che quei personaggi raccontano. Si è dunque pensato di ritrarne alcune immagini e organizzare una «mostra nella mostra», per offrire al pubblico la possibilità di percepire
l’imponenza dei monumenti che si stagliavano nella pianura, di leggerne i dettagli voluti, di osservarne da vicino i volti e le parole incise. Questo paziente lavoro – organizzato dal Circolo Fotografico Punti di Vista, costola dell’Associazione Culturale Artistigando, in collaborazione con il Museo Civico Archeologico di Bologna – ha dato vita alla mostra fotografica «Il tempo e la luce». Sono immagini «calde», che incuriosiscono l’osservaIn alto, a sinistra: particolari della mostra fotografica «Il tempo e la luce», che completa il percorso espositivo con le immagini in grande formato di tutti i reperti monumentali provenienti dal vicus oggi conservati al Museo Civico Archeologico di Bologna. In alto, a destra: la sezione della mostra dedicata alla villa, dove si espongono diversi reperti restituiti dallo scavo di una villa rustica individuata presso il Centro Sportivo di San Pietro in Casale, testimonianza, insieme ad altri rinvenimenti dal territorio circostante, di un insediamento capillare legato allo sfruttamento delle risorse agricole. A sinistra: lucerna a volute con figura di gladiatore caduto o in fuga, dal recente scavo di un edificio rustico presso San Vincenzo di Galliera. II sec. d.C.
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tore, diventano punto di partenza per andare alla ricerca dell’oggetto originale e per viverlo, consapevoli dei messaggi che porta con sé. Una storia a parte ha invece il pastiche ottocentesco realizzato componendo i frammenti di un grande monumento a cuspide voluto da Lucio Cornelio Glabra: l’oggetto ha seguito la collezione privata cui è pertinente. Ancora una volta, un monumento che lascia il territorio di origine; ancora una volta, la fotografia fornisce l’occasione per riportarlo nel suo contesto. La mostra «Villa, Vicus, Via» è promossa dall’Unione Reno Galliera e dal Comune di San Pietro in Casale in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la Città Metropolitana di Bologna le Province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. DOVE E QUANDO «Villa, Vicus, Via» San Pietro in Casale (Bologna), Museo Casa Frabboni fino al 31 gennaio Orario martedí, 10,00-12,00; giovedí e venerdí, 15,00-19,00; sabato e domenica, 10,00-12,00 e 15,00-19,00 Info tel. 051 8904821; e-mail: musei@renogalliera.it; www.archeobologna.beniculturali.it Catalogo All’Insegna del Giglio
MOSTRE • TORINO
IN VIAGGIO CON IL
CARDINALE
DIPLOMATICO E GLOBETROTTER, IL PRELATO VERCELLESE GUALA BICCHIERI FU PROTAGONISTA INDISCUSSO DELLA VITA POLITICA EUROPEA DEL DUECENTO. LA SUA AVVENTUROSA ESISTENZA E IL MONDO IN CUI VISSE SONO NARRATI DA UNO STRAORDINARIO REPERTO, FORTUITAMENTE RISCOPERTO NELL’OTTOCENTO E OGGI ESPOSTO IN UNA RAFFINATA MOSTRA A TORINO di Andrea Augenti
A
lcune delle piú straordinarie scoperte di ogni tempo sono avvenute per caso e l’archeologia medievale non fa eccezione a questa regola non scritta. Ne sono un esempio i fatti accaduti nel 1823, durante i lavori di restauro
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della chiesa abbaziale di S. Andrea, a Vercelli: nel corso della demolizione di un muro nella zona del presbiterio viene alla luce un cofanetto, che era stato murato in una nicchia e poi dimenticato. L’oggetto è in legno e si presenta
In basso: il cofano di Guala Bicchieri. 1220-1225 circa. Torino, Palazzo Madama, Museo Civico di Arte antica. Nella pagina accanto: particolare della piastra della serratura, con una decorazione in rame dorato che mostra la lotta tra due creature fantastiche.
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MOSTRE • TORINO
piuttosto malridotto, ma conserva le preziose finiture in metallo decorate con smalti. Al suo interno, custodisce le ossa di un individuo di sesso maschile e una pergamena. Il documento è il risultato di una ricognizione condotta nel 1611 dall’abate di S. Andrea, Piero Francesco Malletto, e riferisce a chiare lettere che le ossa nel cofanetto sono quelle del cardinale Guala Bicchieri, un importante e famoso ecclesiastico vissuto tra il XII e il XIII secolo (1160-1227). Insomma, come un vero eroe fondatore, il cardinale era stato sepolto nella chiesa da lui stesso fatta costruire, nella sua città natale.
LA TRASLAZIONE In realtà la storia è piú complessa: il corpo di Guala era stato originariamente deposto nella stessa chiesa, ma in un sarcofago di mar mo, dentro il quale aveva trovato collocazione anche il cofanetto. Solo dopo la ricognizione del Seicento, in un momento imprecisato, le ossa furono tolte dal sarcofago e trasferite nello scrigno, subito murato. Il motivo della traslazione non è certo, ma è probabile che l’intervento fosse stato deciso del clero di S. Andrea subito dopo la Rivoluzione francese, per proteggere le spoglie del cardinale (all’indomani del 1789, il patrimonio artistico ecclesiastico patí ripetute distruzioni, come testimonia, per esempio, la rimozione delle statue dalla facciata di Notre Dame, a Parigi). 60 a r c h e o
A sinistra: capolettera miniato, dalla Bibbia di Maulbronn. 1225 circa. Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria In basso: Vercelli. La facciata della basilica di S. Andrea.
A questo punto, l’abate della chiesa vercellese regala il cofanetto al direttore dei lavori di restauro, il conte Carlo Emanuele Arborio Mella, il quale sostituisce la cassa in legno originale – davvero in pessime condizioni, a causa dei tarli e dell’umidità – con una nuova, sulla quale fa però rimontare tutti i preziosi elementi in metallo che lo decoravano. E cosí prende forma l’oggetto come lo possiamo vedere oggi, nel museo di Palazzo Madama a Torino, dove è allestita la mostra «Lo scri-
In alto: la lunetta del portale sinistro della basilica di S. Andrea a Vercelli. Nella nicchia è raffigurato il cardinale Guala Bicchieri che offre al santo il modello della chiesa, mentre la fascia arcuata che racchiude la nicchia è occupata da un motivo decorativo a racemi vegetali fioriti. Scuola di Benedetto Antelami. XIII sec.
gno del cardinale». È una piccola esposizione, che occupa solo una sala del grande palazzo, ma vale davvero la pena visitarla: perché è stata realizzata con grande cura e intelligenza da uno dei conservatori del museo, Simonetta Castronovo, che a Guala Bicchieri e al suo cofanetto ha dedicato molti studi e ricerche, e perché racconta la storia, bella e avvincente, di un personaggio straordinario, un vero cittadino dell’Europa, e di alcuni tra gli oggetti a lui piú cari.
UNA VITA INTENSA Guala Bicchieri nasce a Vercelli intorno al 1160 da una famiglia piuttosto in vista: suo padre, Guala I, che era stato console di Vercelli, aveva preso parte alla terza crociata e proprio in quella occasione era morto durante l’assedio a San Giovanni d’Acri, nel 1189. Guala studia prima a Vercelli, e poi si perfeziona in diritto canonico presso l’Università di Bologna. Ma il punto di svolta della
sua vita è il 1205, anno in cui papa Innocenzo III lo consacra cardinale della chiesa di S. Maria in Portico. Iniziano allora i rapporti molto stretti con Roma, ma, soprattutto, prende il via una carriera di altissimo livello, che porta Guala Bicchieri a diventare un protagonista indiscusso della vita politica e religiosa dell’Europa medievale. Nel 1207 viene nominato legato pontificio – cioè una sorta di ambasciatore/rappresentante del papa all’estero – e si trova a viaggiare per l’intero continente, in maniera quasi frenetica: nel 1208 è in Francia; un anno piú tardi torna a Vercelli; tra il 1210 e il 1214 lo troviamo a Roma; nel 1215 è di nuovo a Vercelli; nel 1216 è a Parigi e poi raggiunge l’Inghilterra. I suoi interventi in questi luoghi sono spesso determinanti, nel quadro della politica internazionale. Per esempio, in Francia predica la crociata e si occupa della causa di divorzio del re Filippo Augusto, che aveva ripudiato la mo-
glie, Ingeborg di Danimarca. Ma è in Inghilterra che Guala Bicchieri diventa protagonista assoluto della scena. I baroni del regno rifiutano la sovranità di Giovanni Senza Terra – che aveva dichiarato nulla la Magna Charta – e si schierano al fianco del principe di Francia Luigi VIII, che aspirava alla corona inglese. E cosí, mentre l’esercito francese guidato da Luigi VIII sbarca in Inghilterra e inizia la sua avanzata, il re Giovanni, prima di morire nel 1216, affida il regno proprio a Guala, perché l’erede designato, Enrico III, è ancora troppo giovane.
ALLA GUIDA DELLA CORONA INGLESE Guala regge le sorti dell’Inghilterra fino al 1218, affiancato da William, conte di Pembroke. Si dimostra un politico sopraffino, perché compie un gesto tanto dirompente, quanto inaspettato: l’11 novembre del 1216 ripristina la validità della Magna Charta, avviando cosí a r c h e o 61
A sinistra: particolare della serratura in posizione chiusa con uno dei due battenti zoomorfi, esempio del ricco bestiario che popola la decorazione del cofano. A destra: il lato superiore del cofano.
la riconciliazione tra la corona e i nobili ribelli. La missione si compie e, nel 1218, il cardinale può tornare nel continente. Si fer ma a Par igi e l’anno successivo può finalmente fare tappa nella sua Vercelli, dove fonda l’abbazia di S. Andrea (il suo ritratto si può vedere scolpito in una lunetta della chiesa, mentre offre il modellino dell’edificio al santo).
IL PRESTIGIOSO INCARICO ROMANO Tra il 1219 e il 1224 Guala è poi a Roma, dove risulta proprietario di un palazzo nella zona della basilica di S. Maria Maggiore; in quegli anni gli viene attribuita dal pontefice la titolarità di S. Martino ai Monti, 62 a r c h e o
una delle chiese piú antiche della città. E non è finita: nel 1225 Guala è in missione in Campania, per incontrare Federico II e tentare di convincerlo a organizzare una nuova crociata. L’imperatore resta cosí ben impressionato dall’incontro che prende sotto la sua protezione l’ab-
Qui sopra: medaglione con decorazione in smalto champlevé raffigurante una scena cortese con due amanti che si tengono per mano. A destra: veduta del lato destro del cofano.
chiesa gotica del nostro Paese. A Guala, inoltre, interessano anche i prodotti Didascalia da fare Ibusdaedell’artigianatoofficte artistico, deiantesto quali dievendipsam, erupit viene unquatiur vero restrum e proprio taturi cum ilita aut collezionista. Neium è prova eicaectur, testo blaborenes quasped l’elenco quos nondei eturbeni reiusdonati nonem dal cardinale al priore dell’abquam expercipsunt quos rest magni
bazia di S. Andrea di Vercelli, il fiore all’occhiello di Guala Bicchieri. La fine della turbinosa esistenza del prelato sopraggiunge il 30 maggio del 1227: Guala si spegne a Roma e viene sepolto a S. Giovanni in Laterano; solo successivamente le sue spoglie saranno traslate a Vercelli.
LA SCOPERTA DEL GOTICO Durante una vita cosí inquieta, una persona colta e curiosa come Guala deve avere accumulato una conoscenza che andava ben al di là della sola politica. Di sicuro i soggiorni presso alcuni dei centri piú importanti dell’arte gotica, come Parigi, Londra e Oxford, devono avere arricchito il suo bagaglio culturale. E la frequentazione delle architetture gotiche di quei luoghi fu certamente all’origine dell’idea di portarne lo stile in Italia: S. Andrea di Vercelli è, a tutti gli effetti, la prima
autatur apic teces enditibus teces.
Qui sopra: medaglione con decorazione in smalto champlevé raffigurante un cacciatore di lepri A destra: veduta del lato sinistro del cofano. a r c h e o 63
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re blu e turchese. Sono decorate con smalti anche le guarnizioni che incorniciano gli spigoli del cofanetto, e i battitori della serratura. Quest’ultima è l’unico medaglione senza smalti, leggermente piú grande degli altri. Conosciamo bene la provenienza di questo oggetto prezioso: è la città di Limoges, dove nel Medioevo si sviluppa un artigianato artistico di altissimo livello, specializzato proprio nella produzione di oggetti in metallo e decorati a smalto. Una ma-
bazia di S. Andrea di Vercelli, redatto nel 1224. La pergamena, molto dettagliata e miracolosamente giunta fino a noi (fa parte della mostra di Torino), è un documento di grande fascino: mentre si legge il lungo inventario, sembra quasi di entrare dentro il palazzo, anzi, di aprire gli armadi di un alto prelato del Trecento. Nel testo sono nominati bacili in bronzo, posate per l’uso liturgico (coltelli, cucchiai), testi sacri riccamente miniati, turiboli, calici, cofani e scrigni… Una fonte di informazioni di inestimabile valore, anche rispetto alle terminologie usate per individuare gli oggetti.
DALLA CAPITALE DEGLI SMALTI La mostra di Torino è incentrata su uno in particolare di questi beni: il già citato scrigno nel quale erano state traslate le ossa del cardinale, un manufatto davvero straordinario. Si tratta di una cassetta a forma di parallelepipedo – di 38 x 82 x 34 cm –, originariamente decorata su quattro lati (anteriore, laterali e superiore) con preziosi medaglioni in rame dorato, inquadrati da una cornice decorata a smalto di colo64 a r c h e o
In questa pagina: particolari di una coppia di candelieri in rame dorato e smalto champlevé con motivo a leoni affrontati. Manifattura di Limoges, 1190-1210 circa. Torino, Palazzo Madama, Museo Civico di Arte antica.
nifattura di grande prestigio, nota in tutta Europa e dunque scelta da committenti di rango, e che nell’età di Mezzo arriva a detenere il primato di questa produzione. Sui medaglioni del cofanetto si vedono immagini molto diverse tra loro, saldamente tenute insieme dalla multiforme cultura del XIII secolo. Innanzitutto, un ricco bestiario composto da creature fantastiche e non; come nel caso della serratura, dove due personaggi, per metà uomini e per metà uccelli, si affrontano in duello, con tanto di scudi e mazze di legno. E poi: combattimenti tra draghi e aquile, un’aquila che artiglia un pesce, serpenti che si azzannano… Ma ci sono anche scene di ambiente cortese, come nel caso della dama e del suo amante che si abbracciano, o del cavaliere che affronta un leone (una composizione che sembra uscita da un romanzo cavalleresco di Chretien de Troyes…); oppure le attività di svago delle élite, come quella del falconiere a cavallo; e scene di vita quotidiana, come l’immagine del cacciatore di lepri.
QUASI COME FOTOGRAFIE Le varie raffigurazioni sono del massimo interesse, perché ci raccontano le caratteristiche di un intero mondo, di un vero e proprio ecosistema culturale; ma, in piú, possiamo considerarle anche come importanti fonti iconografiche, perché realizzate con grande attenzione ai dettagli: basta soffermarsi, per esempio, sulla fattura della gabbia in vimini del
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
A destra: particolare dell’impugnatura del coltello eucaristico di Guala Bicchieri. Legno di bosso intagliato, ferro, argento con tracce di doratura e paste vitree colorate in cabochon. 1200-1225 circa. Milano, Civiche Raccolte di Arte Applicata. a r c h e o 65
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cacciatore di lepri, o sulle armi dei cavalieri, gli scudi le staffe… Gli smalti del confanetto di Guala fanno quindi luce anche su alcuni aspetti della cultura materiale dell’Europa del Duecento. Il manufatto, oltre che prezioso, è unico: fabbricato tra il 1220 e il 1225 circa, è infatti uno dei pochi superstiti al mondo di una tipologia molto speciale, quella dei contenitori di lusso per oggetti di pregio di una committenza molto elevata. Ma che cosa conservava Guala Bicchieri nel suo scrigno? Lo dice chiaramente l’inventario dei beni redatto dopo la morte del cardinale: un turibolo d’argento, alcuni calici d’oro e d’argento, una croce d’alta-
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re d’oro, ampolline d’oro e di cristallo, una croce pettorale, una statuetta-reliquiario in argento, piú di trenta anelli in oro e pietre preziose, quindici cucchiai eucaristici e altro ancora. Si tratterebbe dei fastosi arredi liturgici della cappella del palazzo di Guala a Roma.
In basso: una veduta del lato superiore del cofano.
UNO SCRIGNO PIENO DI STORIE La mostra di Torino presenta al meglio lo scrigno del cardinale Guala, ricostruendo un intero contesto di oggetti a esso collegati, o comunque affini. Si possono per esempio ammirare alcuni medaglioni che probabilmente ne facevano parte in origine e poi ne furono staccati; altri medaglioni simili,
con soggetti profani, conservati a Parigi e a Limoges. E poi alcuni oggetti di fattura analoga, come quattro candelieri, il tutto per documentare la produzione artistica di Limoges, che tanto aveva fatto breccia nel gusto personale di Guala. Assieme a questi, vengono presentati un altro cofanetto piú piccolo, anch’esso di proprietà del cardinale, conservato a Vercelli; una Bibbia «da viaggio» prodotta in Germania, molto piccola ma splendidamente miniata (forse donata a Guala da Federico II); e un coltello eucaristico con un preziosissimo manico in legno, intagliato con le raffigurazioni dei mesi, probabilmente fabbricato in Francia o in
Inghilterra; una tradizione interna all’abbazia di S. Andrea identificava la lama con la spada impiegata per assassinare l’arcivescovo di Canterbury Thomas Becket: una reliquia che Guala avrebbe riportato dall’Inghilterra.
Nella pagina accanto in alto e qui sopra: medaglioni decorati con una scena di lotta tra un cavaliere e un drago e con un leone. Manifattura di Limoges, 1190-1210 circa. Torino, Palazzo Madama, Museo Civico di Arte antica. In basso: medaglione con due piccoli draghi che mordono un pesce. Manifattura di Limoges, 1200-1210 circa. Parigi, Musée de Cluny.
GLI OGGETTI RACCONTANO Ci sono occasioni in cui la storia, anzi la macrostoria (quella dei re, delle regine, dei papi e dei cardinali) si intreccia con l’archeologia, e con la storia dell’arte. Sono quelle circostanze fortunate che permettono di ricostruire un racconto piú dettagliato del solito, dove lo sguardo si può soffermare non solo sugli atti e sugli eventi, ma anche sulle persone e sull’ambiente a esse circostante, e persino sugli oggetti usati nel quotidiano o in occasioni particolari. I testi scritti ci consentono di ricostruire la vita di Guala Bicchieri, vero e proprio globetrotter della politica e della diplomazia a livello internazionale, fino nei minimi dettagli. Ma vedere con i propri occhi gli oggetti di cui si circondava e poter ricostruire attraverso di essi il suo gusto personale e l’ambiente in cui si muoveva, arricchisce quella narrazione in maniera davvero straordinaria. E pensare che se non ci fossero stati i restauri ottocenteschi della chiesa di S. Andrea a Vercelli e il ritrovamento fortuito del cofanetto, oggi tutto questo potremmo solo immaginarlo… DOVE E QUANDO «Lo scrigno del Cardinale» Torino, Palazzo Madama fino al 6 febbraio 2017 Orario lu-do, 10,00-18,00; chiuso il martedí Info www.palazzomadamatorino.it a r c h e o 67
STORIA • LA METALLURGIA
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I
metalli possiedono caratteristiche che li rendono facilmente riconoscibili, persino a occhi chiusi: per esempio, la pesantezza, la sensazione di freddo al contatto con la pelle e, aprendo gli occhi, la lucentezza. È perciò probabile che gli uomini vissuti in età preistorica ne raccogliessero i piú brillanti, assecondando uno stimolo affine a quello delle gazze ladre. Finirono tesaurizzati, forse persino divinizzati, come nel caso delle meteoriti di ferro, e solo in un secondo momento – sotto l’azione del fuoco e del tutto casualmente – rivelarono la loro capacità di passare dallo stato solido al liquido, per tornare, raffreddandosi, a quello di partenza. A conferma dell’importanza dei metalli nell’evoluzione delle civiltà antiche, basterà ricordare la suddivisione della mitologia in quattro ere, basate su altrettanti metalli, e poi la partizione della storia in tre età, definite anch’esse da altrettanti metalli (per l’esattezza, due e una lega).
I MAGNIFICI
SETTE
ORO, ARGENTO, RAME, STAGNO, PIOMBO FERRO E MERCURIO ACCESERO L’INTERESSE DELL’UOMO FIN DALLA PREISTORIA, TRASFORMANDOSI IN GIOIELLI, ARMI, UTENSILI E MONETE. MA PERCHÉ I PRIMI MASTRI FONDITORI SCELSERO SOLO ALCUNI DEI QUASI CENTO METALLI ESISTENTI IN NATURA? di Flavio Russo
POTENZIALITÀ INFINITE Il perché appena 7 fra i 92 elementi abbiano svolto un ruolo tanto importante fin quasi al XVII secolo, va ricercato in alcune potenzialità che il loro impiego inizialmente consentí, poi suggerí e infine impose nelle produzioni piú svariate, dalle armi agli utensili, moltiplicando, grazie al loro impiego, forze e raccolti in modo esponenziale, con esiti immaginabili. Tuttavia, al di là delle precisazioni chimico-fisiche, che cosa deve intendersi per metallo e, soprattutto, che cosa per esso si intendeva in età classica? In alto: disegno raffigurante un soldato romano che controlla il lavoro dei forzati impiegati in una miniera di stagno della provincia britannica. Nella pagina accanto: Sifno (Cicladi, Grecia). L’imbocco di una miniera d’argento, la cui estrazione ebbe inizio sull’isola nel II mill. a.C. a r c h e o 69
STORIA • LA METALLURGIA
Per i Romani, metalla erano le cave e le miniere: significativa è la damnatio ad metalla, una pena, frequentemente irrogata dai tribunali romani, che contemplava il lavoro forzato nelle miniere, traducendosi in una condanna a morte... rateizzata. Dal momento che negli angusti cunicoli delle miniere sarebbe però risultato impossibile estorcere il lavoro, si deve piuttosto propendere per l’impiego nelle cave a cielo aperto, lasciando la coltivazione mineraria a uomini liberi, attratti dal guadagno, come del resto conferma il naturalista Plinio il Vecchio. Di certo il vocabolo è già presente nel greco metallon, la cui etimologia risulta però alquanto incerta, spaziando da «ciò che si trova nella terra» a «ciò che si trova cercando». Implicito risulta dunque il concetto dello scavare, piú evidente nel verbo latino ex trahere, «tirare fuori», che costituisce peraltro un riferimento cronologico, poiché l’estrazione dei metalli nelle miniere cominciò sul finire del III millennio a.C., cioè in un’epoca molto posteriore alla loro casuale raccolta, che sembra risalire
al X millennio a.C. Quanto a «miniera», fra le probabili etimologie, vi è un altro verbo latino, minuo, «sottraggo», «tolgo» e persino «violo»: mine, del resto, si chiamarono le gallerie scavate fin sotto le mura assediate, che, con l’incendio dei loro puntelli, ne provocavano il crollo.
ADATTI AL RIUSO Volendo invece fornire una definizione meno remota di metallo, occorre rifarsi alle loro accennate peculiarità organolettiche, quali la lucentezza, la pesantezza e la freddezza. Tra i piú brillanti e dalla colora-
In alto: una pepita d’oro nativo, che venne inizialmente sfruttato per monili e altri ornamenti di pregio. In basso: rame allo stato nativo, metallo che fu largamente utilizzato, anche come componente del bronzo, frutto della sua unione con lo stagno.
zione vivida vi sono l’oro e il rame, che, non a caso, avviarono la relazione umana con i metalli, rivelando ben presto oltre alla durezza, resilienza, malleabilità e duttilità l’idoneità al riuso, previa rifusione. Per noi, oggi, metallo è ogni elemento solido cristallino, tranne il mercurio, di rilevante densità che riflette la luce e conduce bene il calore, ragioni dell’accennata lucentezza e dell’apparente freddezza, di cospicua resistenza meccanica, non di rado già presente puro in natura, sia pure in quantità modeste, definendosi allora nativo. Tutti i sette metalli si rinvennero dapprima solo allo stato nativo, e la loro lavorazione sembrerebbe essere iniziata molto piú tardi, intorno al V-IV millennio a.C.
I PRIMI NATIVI Come accennato, i metalli nativi sono pochi e per giunta scarsissimi: oro, rame e argento sono fra quelli relativamente piú abbondanti; di gran lunga piú rari, invece, risultano il piombo, lo stagno, il mercurio e il ferro. Per oltre cinque 70 a r c h e o
Cusano Mutri (Benevento). Un cunicolo minerario realizzato agli inizi del secolo scorso per l’estrazione della bauxite. Strutture come questa hanno caratteristiche assai simili alle gallerie scavate nelle miniere di epoca antica.
millenni, ovvero fino a quando non se ne avviò l’estrazione mineraria, la loro disponibilità rimase perciò talmente marginale da non poter influire sull’evoluzione tecnologica dell’uomo. Causa di tanta rarità è la comune reattività dei metalli con l’ossigeno, dalla quale vanno esenti l’oro e, parzialmente, l’argento. Emblematiche sono le pagliuzze auree disperse nei corsi d’acqua, le minuscole formazioni di rame o d’argento e, soprattutto, le masse meteoriche di ferro che tradiscono la provenienza extratellurica. Si tratta di appena quattro metalli su di un’ottantina, che però si rivelarono sufficienti ad attrarre l’attenzione dei primi metallurghi preistorici, fino a fargli innescare, del tutto casualmente, la fusione. Non vi è accordo fra gli studiosi su quale sia stato il primo del gruppo a essere utilizzato – se l’oro, il rame o l’argento –, pur propendendo la gran parte per l’oro, in virtú del suo colore giallo, simile a quello del Sole, e della sua rilevante densità, pari a 19 kg per un volume di 1 litro. La datazione con il metodo del C14 ha collocato quei rudimentali manufatti metallici – realizzati esclusiva-
mente con metalli nativi – intorno al VII millennio a.C., nella regione compresa fra l’Anatolia, la Mesopotamia e la Persia, che incluse per alcuni millenni anche i Balcani. È significativo che le piú antiche aggregazioni urbane, risalenti perlopiú al IV millennio a.C., coincidano con la comparsa del bronzo, una lega ottenuta fondendo insieme al rame un 10% di stagno, anch’esso reperibile allo stato nativo. Aumentandone il titolo, la durezza del bronzo cresce, al punto da risultare persino maggiore di quella del ferro, per cui la preferenza accordata a quest’ultimo va ascritta alla difficoltà di approvvigionarsi di stagno.
CRONISTORIA DEI SETTE METALLI La propensione dei metalli a combinarsi con l’ossigeno trasformandosi in ossidi non è uguale per tutti, tanto che, come accennato, alcuni ne sono esenti, mentre nei restanti l’ossidazione ne modifica a tal punto l’aspetto da nasconderne le connotazioni attrattive. Tale fenomeno porterebbe a ipotizzare una successione cronologica della loro scoperta, e piú ancora del loro utilizzo,
basata sulla decrescente passività. Oro e rame nativi furono raccolti certamente in un ristretto lasso di tempo, ma mentre l’oro resisteva inalterato agli agenti atmosferici, non altrettanto poteva dirsi del rame che, privato del velo protettivo, in breve tempo si trasformava in una crosta verdastra, perdendo la sua lucentezza rossastra. L’oro e, per analoghe ragioni, l’argento sembrerebbero perciò precedere il rame, che a sua volta dovette precedere lo stagno, il piombo e quindi il ferro, che è senza dubbio il piú facile a ossidarsi, ma, per contro, piú frequentemente si è avvicendato nella litosfera proprio grazie alla sua provenienza extratellurica. Dal 1800 a oggi sono cadute al suolo oltre 600 meteoriti litoidi e una trentina ferrose, rendendo perciò disponibile ferro puro con cadenza quinquennale. Al di là del permanere della brillantezza, occorre comunque elaborare una cronologia piú corretta, in base alla lavorazione dei manufatti metallici: pur essendo i piú antichi, gli ornamenti in oro di minime dimensioni non possono però essere considerati l’esito di una metallura r c h e o 71
STORIA • LA METALLURGIA
gia propriamente detta, con i suoi complessi processi di fusione e forgiatura, per la fabbricazione sistematica e seriale di utensili, come invece avvenne con il rame. Sotto tale aspetto, quindi, fu il rame il primo metallo, seguito dallo stagno per formare il bronzo e poi, dall’oro, dall’argento dal piombo e dal ferro, che quand’anche noto da tempo per essere lavorato richiese il superamento di notevoli difficoltà. Ecco dunque in che modo si può riepilogare la cronologia dell’impiego dei metalli: 8000 a.C. Rame 3550 a.C. Stagno 3000 a.C. Oro 3000 a.C. Argento 1500 a.C. Piombo 1400 a.C. Mercurio 1200 a.C. Ferro sebbene noto da vari millenni prima di Cristo
Un criterio che trova una riproposizione nella cronologia vigente, basata a sua volta su tre metalli: 3000-2300 a.C. 2300-1200 a.C.
Età del Rame Età del Bronzo
1200-750 a.C.
Età del Ferro
(che tuttavia suppone l’utilizzo dello stagno)
(le date indicate si riferiscono alla regione italiana e a gran parte dell’Europa, anche se occorre considerare che le cronologie possono variare localmente, anche in maniera sostanziale, n.d.r.)
L’ETÀ DEL RAME... A differenza del bronzo e del ferro, l’impiego del rame sembra essersi dipanato contestualmente, e a lungo, con l’utilizzo della pietra. Molteplici sono le ragioni del fenomeno, prima fra tutte la sporadicità dei ritrovamenti di rame nativo, poi la sua alta temperatura di fusione
Anche la cronologia mitologica fu basata sui metalli e, in particolare, sul loro valore mercantile: Età dell’Oro Età dell’Argento Età del Rame Età del Ferro
L’insidia nascosta Schema ricostruttivo della mina condotta dai Romani nel 189 a.C. sotto le mura di Ambracia. Lo scavo veniva avviato al di fuori del tiro degli assediati, realizzando un cunicolo che raggiungeva le fondazioni dei bastioni. Ultimata l’impresa, si appiccava il fuoco ai puntelli, causando il crollo della struttura e, di conseguenza, delle opere difensive soprastanti.
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Sulle due pagine: l’altopiano di Las Medulas (Spagna), sfruttato in epoca romana per l’estrazione dell’oro. Qui sopra: l’ascia in rame trovata con i resti dell’uomo del Similaun. 3300 a.C. circa. La lama è incollata con catrame di betulla e assicurata con stringhe di pelle su un manico in legno di tasso.
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
prossima ai 1000 °C e, non ultima, la sua infima durezza, che lo rendeva inadatto alla fabbricazione di raschiatoi, coltelli e asce. Un metallo, quindi, utile per le armi e gli utensili da urto, ma non per quelli da taglio. È comunque significativo che tra i materiali che facevano parte dell’equipaggiamento dell’uomo del Similaun, vissuto intorno al 3300 a.C., sia stata trovata un’ascia di rame, uno strumento il cui avvento è stato ulteriormente retrodatato dal ritrovamento, in
Serbia, di un esemplare simile, databile al 5500 a.C. circa. In ogni caso, un vero e proprio artigianato del rame non si ebbe prima della metà del III millennio a.C.
...E QUELLA DEL BRONZO Dal punto di vista cronologico (e sempre con riferimento al territorio italiano ed europeo) l’età del Bronzo abbraccia un orizzonte compreso dal 2300 al 1200 a.C. Per renderla aderente al piú rapido evolversi della società è stata suddia r c h e o 73
STORIA • LA METALLURGIA
visa in quattro periodi: Antico (2300-1700 a.C.), Medio (17001350 a.C.), Recente (1350-1200 a.C.) e Finale (1200-700 a.C.). Poiché il bronzo è una lega di rame e di stagno, metallo rarissimo allo stato nativo, appare ragionevole supporre che l’invenzione abbia goduto di un «suggerimento» asiatico, e che solo con lo sviluppo delle rotte marittime lo stagno della Cornovaglia abbia potuto raggiungere il rame di Cipro, isola da cui non a caso trasse il nome di Cuprum. Il bronzo si impose rapidamente, poiché era molto piú duro e fondeva a una temperatura inferiore a quella del rame, risultando perfettamente in grado di resistere alla corLingotto in rame del tipo «a pelle di bue» prodotto a Creta e rinvenuto in Sardegna, in un ripostiglio scoperto nel sito nuragico di Serra Ilixi, presso Nuragus. Cagliari, Museo Nazionale.
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rosione persino a quella dell’acqua marina. Ne scaturí un fiorente commercio mediterraneo a partire dalla seconda metà del II millennio a.C., testimoniato dal ritrovamento di numerosi lingotti dalla curiosa forma a pelle di bue, adottata forse per standardizzarne la quantità e facilitarne il trasporto.
AL TEMPO DEGLI EROI OMERICI Al pari delle precedenti, anche l’età del Ferro non insiste su di una datazione assoluta, oscillando per le regioni europee settentrionali dall’VIII-IX secolo a.C. e per le meridionali mediterranee dal XII secolo a.C. L’avvicendamento tra bronzo e ferro è testimoniato dai due massimi poemi dell’antichità: le vicende dell’Iliade si svolgono infatti nel tardo scorcio del primo e quelle dell’Odissea nel preludio del secondo. Sebbene la
conoscenza del ferro, per quanto accennato, si faccia risalire al IX millennio a.C., la sua effettiva lavorazione poté avviarsi solo sul finire del II millennio a.C., dopo aver superato i complessi problemi legati alla sua difficoltosa fusione, peraltro imperfetta, ed elaborato valide tecniche di forgiatura. A differenza del rame e dello stagno, dopo un primo approccio col ferro meteorico, i minerali da cui lo si poteva estrarre erano, e sono, abbondantissimi e di facile approvvigionamento, rendendo quel metallo molto economico. Scadenti e meno dure di quelle di bronzo, le lame di ferro si imposero inizialmente solo per il loro basso costo e per la facilità di affilarle, una situazione che mutò nettamente con l’adozione della forgiatura che ne sancí l’assoluta preminenza. (1 – continua)
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TERRA DI PAESAGGI EMOZIONANTI ED ESPERIENZE DIFFICILMENTE DIMENTICABILI, IL KENYA È ANCHE UNO DEI PALCOSCENICI SUI QUALI SI È DIPANATA LA STORIA DELLA SPECIE UMANA. IN PARTICOLARE, NEI TERRITORI DELLA RIFT VALLEY, CHE ATTRAVERSA DA NORD A SUD L’INTERO PAESE, SONO STATI SCOPERTI SITI CHE HANNO SCRITTO PAGINE DECISIVE DELL’AFFASCINANTE LIBRO DELL’UMANITÀ E NEI QUALI VISSERO I NOSTRI PIÚ ANTICHI ANTENATI di Stefano Mammini
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ome una grande cicatrice, la Rift Valley dell’Africa Orientale – la fossa tettonica piú grande del pianeta (dalla Siria corre fino al Mozambico) –, disegna una striscia lunga oltre 6000 km e larga, mediamente, tra i 45 e i 65 km. Questa immensa fossa è la testimonianza tangibile del processo di separazione in due blocchi del continente africano, che ebbe luogo nel Miocene (periodo compreso tra i 22,5 e i 5 milioni di anni fa) e sarebbe il risultato della frattura a seguito della quale l’Africa si staccò dall’Asia. Il braccio orientale della Rift Valley attraversa da nord a sud il Kenya, marcando la divisione fra la sua regione costiera e quella degli altopiani interni, ed è un osservatorio privilegiato per lo studio della storia piú antica del grande Paese africano e, piú in generale, della specie umana. Insieme alle regioni contigue dell’Etiopia a nord e della Tanzania a sud, infatti, i territori della Rift Valley sono da decenni una delle aree chiave per la conoscenza dei nostri piú lontani antenati e hanno contribuito in maniera determinante ad accreditare la teoria che vede nell’Africa la culla dell’uomo moderno. Basti ricordare che
Una veduta panoramica della Rift Valley, fra i monti Suswa (sulla sinistra) e Longonot (a destra, sullo sfondo), entrambi di origine vulcanica. La grande fossa tettonica attraversa l’intero territorio keniano, dividendo la regione costiera da quella degli altopiani.
fra i molti ominidi che abitarono la Rift Valley vi fu anche l’ormai celebre Lucy, un esemplare di australopiteco di sesso femminile (vedi box alle pp. 94-95), scoperto dal paleoantropologo statunitense Donald Johanson nel 1974 nella regione etiopica dello Hadar.
COME UNA STELLA DI PRIMA GRANDEZZA Alla popolarità di Lucy contribuí il volume nel quale lo studioso raccontò quell’avventura (pubblicato in Italia nel 1981, con il titolo di Lucy, le origini dell’umanità) e che, oltre a rendere accessibile una materia assai complessa, contiene un passaggio che illustra alla perfezione le straordinarie potenzialità della grande fossa africana. Rievocando le ricerche nella valle dell’Omo (il fiume etiopico che dopo una corsa di oltre 700 km sfocia nel lago Turkana, nel Kenya settentrionale), Johanson scriveva: «Il grande trionfo di Omo è la sua geologia, congiunta alle sequenze di fossili animali. Insieme brillano come una stella di prima grandezza (…) Omo è un prodigio. Esso preserva una continuativa registrazione di eventi che resta unica nella storia
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dell’evoluzione ominide. La sua unicità è la combinazione di speciali qualità». Qualità poco oltre ribadite, nello stesso volume, da un altro protagonista degli studi sui nostri progenitori, F. Clark Howell (19252007): «Il sito [Omo, n.d.r.] è piuttosto grande. Non è una gola come Olduvai (sito della Tanzania nel quale sono state effettuate importanti scoperte paleoantroplogiche e archeologiche; vedi box alle pp. 86-89), ma un guazzabuglio di affioramenti erosi che hanno una estensione superiore ai duecentocinquanta chilometri quadrati. Secondo, è profondo. I depositi sono spessi mille metri, il che significa che quelli in fondo sono estremamente antichi; depositi di mille metri non si formano nel giro di un giorno. Terzo, è fratturato a faglia. Il che significa che non c’è bisogno di scavare a una profondità di mille metri per arrivare allo strato piú profondo. La crosta terrestre lí ha subito uno scorrimento e un piegamento e gli strati emergono angolati, sicché persino i piú vecchi risultano esposti qua e là sulla superficie del terreno. Di conA destra: ricostruzione del possibile aspetto di Lucy, una femmina di Australopitechus afarensis vissuta intorno a 3,5 milioni di anni fa e il cui scheletro è stato rinvenuto nel 1974 nella regione etiopica dello Hadar.
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seguenza non c’è affatto bisogno di scavare. Basta continuare a camminare. Via via che si procede, a ogni passo che si fa, ci si muove avanti o indietro nel tempo». Sul versante keniano, altrettanto clamorose sono state le scoperte succedutesi nell’area del bacino del lago Turkana, soprattutto nella sua parte orientale. Qui, a partire dal 1968, si concentrò l’attività di Richard Leakey, figlio di Louis e Mary Leakey, due dei pionieri del-
In basso, sulle due pagine: il lago Turkana, sulle cui sponde hanno avuto luogo importanti ritrovamenti di ossa fossili dei primi antenati dell’uomo.
la ricerca archeologica e paleontologica in Africa. L’area che ha restituito le testimonianze piú importanti è quella dei giacimenti di Koobi Fora, composti da una successione di livelli che abbracciano un orizzonte temporale compreso tra circa 2 e 1,2 milioni di anni fa. Oltre a resti di fauna e abbondante industria litica, vi sono stati recuperati fossili attribuiti a una forma robusta e una gracile di Australopiteco, a Homo habilis e a Homo erectus.
IL «SEGRETO» DEL SUCCESSO La Rift Valley (letteralmente, fossa tettonica) è divenuta l’area piú propizia per le ricerche mirate alle fasi piú antiche della storia della specie umana grazie ai fenomeni che ne hanno determinato la formazione e a quelli succedutisi dopo il primo assestamento. In una prima fase (a sinistra) si è avuta l’attivazione delle grandi faglie che hanno dato vita alla fossa; in seguito, si sono avuti ulteriori fenomeni di faglia, interni al sistema principale. Tutto questo ha spesso determinato l’esposizione di stratigrafie molto profonde, che raggiungono perciò epoche molto antiche e nelle quali i resti fossili si sono conservati grazie ai ripetuti episodi vulcanici, che li hanno sigillati sotto coltri di depositi lavici. Altopiano
Scarpata tettonica Rift Valley
Altopiano Rift Valley
Faglie interne
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Uno dei piú famosi è il cranio 1470, identificato come Homo habilis, rinvenuto pressoché integro, nel 1972, in un livello datato intorno ai 2 milioni di anni fa. Il cranio – il piú completo tra quelli di habilis a oggi scoperti – aveva una capacità di circa 750 cc e, inizialmente, creò scompiglio nel mondo scientifico, poiché venne datato a circa 3 milioni di anni da oggi. La successiva correzione ha ristabilito il corretto rapporto cronologico che lo separa dalle australopitecine, e, soprattutto, ne ha piú logicamente inquadrato i caratteri di modernità che, fin dall’inizio, avevano attirato l’attenzione degli studiosi. Negli ultimi
TUTTO IL KENYA IN UN MUSEO La storia, la cultura e la natura del Kenya sono ben documentate dal Nairobi National Museum, la cui visita può essere un’utile
In alto e a destra: due immagini del Nairobi National Museum. In basso: cranio di Homo habilis ritrovato nel 1972 a Koobi Fora, sul lago Turkana. Etichettato con la sigla KNM-ER 1470 è il piú completo a oggi noto per questa specie e viene datato intorno a 1,9 milioni di anni fa.
introduzione alla conoscenza del Paese. La raccolta nacque nel 1910, per iniziativa di un gruppo di naturalisti, desiderosi di poter disporre di un luogo in cui conservare le loro collezioni. Come prima
sede fu scelta la Nyayo House che poi, rivelatasi insufficiente per le accresciute necessità del museo, fu rimpiazzata nel 1929 da un nuovo edificio, costruito ex novo e inaugurato nel 1930 con il nome di Coryndon Museum, in onore di Robert Coryndon, già governatore delle province di Uganda e Kenya per conto dell’impero britannico. All’indomani dell’indipendenza, nel 1963, l’istituto assunse la sua denominazione attuale. Nelle sue sale sono riunite collezioni che spaziano dai materiali etnografici ai documenti d’archivio, dalle raccolte di animali – fra cui spicca la sezione dedicata agli uccelli – a foto e cimeli che documentano il cammino compiuto dalla nazione africana per affrancarsi dalla condizione di colonia. Tuttavia, una delle sezioni piú importanti è quella dedicata alla preistoria, alla quale appartiene, fra gli altri, lo scheletro di un giovane Homo ergaster rinvenuto sulla sponda occidentale del lago Turkana, nel 1984, e ribattezzato Turkana Boy.
anni, proprio per la specificità di alcuni suoi tratti, si è diffusa la tendenza a classificarlo come una specie a se stante, denominandolo Homo rudolfensis (da lago Rodolfo, nome «coloniale» del Turkana). Grande interesse hanno destato anche i fossili catalogati con le sigle KNM-ER (acronimo che sta per Kenya National Museum80 a r c h e o
Todenyang Banya
Lokichokio
ETIOPIA Sabarei
Koobi Fora
Banissa
Lago Turkana
Kakuma
Mandera
Ramu
Lokwa Kangole
Moyale
North Horr
Takaba
Lodwar El Wak
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Loiyangalani
Buna
Lokichar Marsabit
U G A N DA
Tarbaj
Girito
Lokori Baragoi
Wajir
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Laisamis
Kitale
Maralal Lorule
Lago Vittoria
Homa Bay
Kisii
Molo Kericho
Kisima
Dif Habaswein
Archer’s Post
Lago Baringo
Eldoret Busia Webuye Marigat Butere Lago Kakamega Bogoria Solai Londiani Kisumu Nakuru
SOMALIA
K E N YA
Tot
Mado Gashi Nanyuki Hyrax Hill
Meru
Hagadera Ta n
Kariandusi
Gilgil Naivasha
Lago Naivasha
Nyeri Murang’a
Nguni Mwingi
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Nairobi Olorgesailie
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Lago Natron
Kajiado
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Lago Magadi
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Garissa
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Lamu Namanga Lago Amboseli
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Kibwezi Mtito Andei Tsavo
Malindi Taveta
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100 Km
SPECIALE • KENYA A sinistra e in basso: Olorgesailie. Due immagini dell’area del sito denominata Catwalk, dove, nel 1942, Mary Leakey effettuò i primi ritrovamenti di strumenti, affiorati in seguito all’erosione del deposito nel quale giacevano. L’insediamento si inquadra nel Paleolitico Inferiore e la sua frequentazione fu molto lunga, da 1,2 milioni a 490 000 anni fa circa.
East Rudolf) 3733 e 3833, rinvenuti rispettivamente nel 1975 e nel 1976, sempre a Koobi Fora. Il primo è il cranio, assai ben conservato, di un individuo di sesso femminile, morto in età matura (circostanza desumibile dal fatto che le ossa della calotta sono perfettamente saldate e i denti risultano assai usurati e comprendono anche il terzo molare, la cui eruzione è fenomeno tipico dell’età adulta); il secondo è la parte superiore di un cranio, attribuito invece a un individuo di sesso maschile, sulla base della maggiore robustezza della struttura.
UNA SCOPERTA RIVOLUZIONARIA La comparsa di questi fossili sulla scena degli studi sull’evoluzione della specie umana ha avuto il carattere di una fragorosa irruzione: i reperti sono infatti databili intorno a 1,7-1,5 milioni di anni da oggi e, poiché se ne è accertata l’appartenenza alla specie dell’Homo erectus, essi hanno sensibilmente retrodatato l’epoca in cui questo nostro antenato fece la sua prima comparsa nel continente africano. Attualmente, sulla base di una riclassificazione delle specie umane attestate in Africa, questi e altri fossili vengono spesso indicati come Homo ergaster. Alla medesima specie apparten82 a r c h e o
gono anche il cranio e parte dello scheletro rinvenuti, tra il 1984 e il 1987, sulla sponda occidentale del bacino del Turkana, nel sito di Nariokotome III. Sebbene gli studi di paleontologia e paleoantropologia abbiano avuto maggiore eco, non
Zebre e giraffe nel Nairobi National Park, la riserva naturale creata a ridosso della capitale del Kenya. È in scenari di questo tipo che possiamo ambientare la vita delle comunità preistoriche che vissero nei territori della Rift Valley.
si deve dimenticare il contributo che i territori della Rift Valley hanno offerto e continuano a offrire anche per epoche piú vicine alla nostra. Sono stati infatti localizzati siti che documentano la presenza di comunità che basavano la propria sussistenza su attività di caccia, pesca e raccolta, e, successivamente, anche sull’allevamento e sull’agricoltura. Nell’area compresa tra Kenya ed Etiopia, sono stati rinvenuti molti dei piú antichi strumenti in pietra fino a oggi conosciuti. Databili a oltre 2,5 milioni di anni fa, questi utensili furono fabbricati da creature che gli studiosi definiscono con il nome di Australopitecine e sono la prova che, forse fin da allora, erano state elaborate vere e proprie strategie predatorie finalizzate al procacciamento del cibo. L’ipotesi deve essere formulata in chiave dubitativa, poiché non si può escludere che gli strumenti venissero adoperati soltanto per facilitare il consumo del cibo, costituito, per esempio, dalla carne di animali morti per cause naturali. Le armi e gli utensili approntati dai piú antichi cacciatori erano di fattura abbastanza grossolana: nella maggior parte dei casi si tratta di grossi ciottoli, ai quali, con pochi colpi («ritocchi», in gergo tecnico), si cerca-
va di conferire una fisionomia appuntita. Ben presto, tuttavia, la lavorazione si fece piú accurata e presero forma strumenti differenziati, la cui fabbricazione era evidentemente stimolata dalla volontà di eseguire piú rapidamente e con maggiore precisione le varie operazioni legate al consumo del cibo: si pensi, per esempio, alla necessità di spezzare le carni o a quella di separarle dalla pelle o dalle penne dell’animale cacciato.
STAGNI E PALUDI COME ARMI DI CACCIA La selvaggina disponibile era abbondante e, di pari passo con l’evoluzione tecnologica, crebbe anche la diversificazione della dieta. Le bande di cacciatori, come dimostrano i resti di fauna ritrovati in occasione di scavi e ricognizioni di superficie, rivolgevano la propria «attenzione» sia ad animali di piccola taglia, sia ai grandi inquilini delle savane e delle foreste, come dimostra il frequente rinvenimento di ossa di elefante o ippopotamo. Tuttavia, è opinione diffusa che, soprattutto per la cattura della selvaggina di grossa taglia, fossero spesso adottate tecniche «indirette» e cioè basate sullo sfruttamento delle caratteristiche del territorio: a r c h e o 83
SPECIALE • KENYA
NASCITA DI UNA NAZIONE A Nairobi, una delle attrazioni che valgono la visita è senz’altro il Museo Storico delle Ferrovie. Inaugurato nel 1974, esso documenta infatti quella che per il Kenya fu una vera e propria epopea, tanto da indurre sir Charles Elliot, ufficiale e funzionario coloniale dell’impero britannico, ad affermare: «Non è raro che una nazione dia vita a una ferrovia, ma è raro che una ferrovia crei una nazione». Quelle parole suggellarono, nel 1903, l’apertura della Uganda Railway, la linea che collegava il lago Vittoria alla città costiera di Mombasa – costruita fra il 1896 e il 1901 – e che, di fatto, posero le basi per la nascita del Kenya, anche se quest’ultimo assunse tale denominazione solo nel 1920. Il Museo Storico delle Ferrovie ha dunque un valore documentario rilevante e la sua collezione costituisce anche un significativo esempio di archeologia industriale. L’edificio che ne è sede raccoglie una mole eterogenea di materiali, tra cui documenti d’archivio, fotografie, attrezzature, arredi, mentre all’esterno sono esposti motrici e vagoni che hanno viaggiato lungo la rete ferroviaria del Paese in oltre un secolo di attività. In alto: lo stemma della East African Railways Corporation e una locomotiva introdotta nel 1944 nei territori coloniali britannici. Nairobi, Historic Railway Museum. A sinistra: Kariandusi. Una parete rocciosa in cui sono ben visibili i livelli di diatomite, una roccia bianca che si forma dalla silice del guscio delle diatomee, microscopiche alghe unicellulari di ambiente marino e lacustre.
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tipico in questo senso è il caso dei grossi mammiferi che venivano spinti verso le zone di palude e dei quali si poteva piú facilmente avere la meglio una volta che l’animale era rimasto impantanato. Le ricerche fin qui condotte provano che anche nella Rift Valley i cacciatori consumavano sul posto una parte della preda e riportavano la parte restante all’accampamento di partenza, per sfamare i componenti del gruppo che non partecipavano alle battute, cioè le donne e i bambini.Tali accampamenti non erano stabili, ma, generalmente, si spostavano al seguito degli animali, in modo da avere sempre a portata di mano la fonte primaria del sostentamento. Col tempo, tuttavia, oltre alla specializzazione delle industrie, crebbe anche il livello di articolazione sociale: è infatti molto probabile che le comunità di cacciatori-raccoglitori, pur perpetuando un modello di vita basato sul nomadismo, avessero scelto di riunirsi periodicamente, per esempio al termine della stagione secca. In questo senso sembra si possano interpretare i numerosi siti nei quali sono stati trovati materiali par-
Kariandusi. Una delle aree indagate e oggi musealizzate. Vi si concentra una notevole quantità di strumenti, perlopiú asce e bifacciali, realizzati in prevalenza in ossidiana. La frequentazione del sito è databile fra 1 milione e 700 000 mila anni fa.
ticolarmente abbondanti e perciò difficilmente attribuibili a una singola banda.
LA «FABBRICA» DEGLI STRUMENTI Uno dei contesti piú importanti per lo studio degli strumenti riferibili alle fasi piú antiche del Paleolitico è Olorgesailie situato una settantina di chilometri a sud di Nairobi e scoperto nel 1942 da Louis e Mary Leakey, che vi effettuarono in seguito i primi scavi (1943-45). Nuove esplorazioni si ebbero nei primi anni Sessanta e, dal 1986, è in corso un progetto di ricerca condotto dalla Smithsonian Institution in collaborazione con il National Museums of Kenya, l’ente che gestisce le raccolte museali e le aree archeologiche del Paese. Il sito è stato attrezzato per la visita e vi è stato allestito anche un piccolo museo, che ne ripercorre le vicende geopaleontologiche e archeologiche. Olorgesailie è spesso ricordato come la «fabbrica degli strumenti di pietra», poiché ha in effetti restituito una quantità impressionante di utensili, in prevalenza asce e bifacciali, molti dei quali sono stati lasciati in situ. Al-
Disegno che ricostruisce una scena di vita quotidiana inserito nell’allestimento del museo del sito di Kariandusi.
trettanto consistente è il patrimonio di fossili, riferibili a numerose specie animali, fra cui babbuini, zebre, iene, elefanti, ippopotami e una varietà – oggi estinta – di suide, simile al moderno facocero. Quanto ai resti degli uomini che occuparono il sito, sono stati recuperati vari frammenti di cranio di Homo erectus. Nell’insieme, i materiali prova(segue a p. 90) a r c h e o 85
SPECIALE • KENYA
LA VALLE DOVE TUTTO EBBE INIZIO 5-4 milioni di anni fa Nei pressi del villaggio di Aramis, in Etiopia, vengono scoperti, nel 1992, resti fossili in un primo tempo attribuiti ad Australopithecus afarensis. Successive analisi inducono gli studiosi alla distinzione di una nuova specie, alla quale viene dato il nome di Ardipithecus ramidus. A oggi, l’ardipiteco è uno dei piú antichi antenati della specie umana. 4-2,7 milioni di anni fa Vengono collocate in questo arco di tempo la comparsa e la diffusione dell’Australopithecus afarensis. La specie è una delle piú note nella storia degli studi sull’evoluzione dell’uomo, poiché la sua distinzione
AFRICA
PLACCA EUROASIATICA
PLACCA AFRICANA (Nubiana)
Valle dell'Omo
PLACCA INDIANA
Koobi Fora
West Turkana Gamble's Cave
Allia Bay Lothagam
Olduvai Laetoli
PLACCA AFRICANA (Somala) N NO
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Placche tettoniche Faglia est africana
è basata sulla scoperta dello scheletro di un giovane individuo di sesso femminile, ribattezzato Lucy, avvenuta nel 1974 nella regione dello Hadar in Etiopia. 3-2 milioni di anni fa In varie regioni del continente africano è attestata la presenza dell’Australopithecus africanus. Il riconoscimento della specie, proposto da Raymond Dart, si basa sulla scoperta, nel 1924, del cranio di un individuo di età infantile a Taung, nella Repubblica Sudafricana. Importanti testimonianze provengono anche da un altro sito sudafricano, quello di Sterkfontein. 2,2-1 milioni di anni fa Il clima dell’Africa attraversa una fase di generale inaridimento e diviene, nel contempo, meno temperato. Fanno la loro comparsa due nuove specie di australopitechi: l’Australopithecus robustus e l’Australopithecus boisei. In questa stessa fase ha inoltre luogo uno degli eventi cardine nella storia dell’evoluzione umana: si diffondono infatti i primi rappresentanti della specie che gli studiosi hanno battezzato Homo habilis. Sulla genesi di questa prima forma del genere Homo esistono, a oggi, due ipotesi: la prima considera l’Homo habilis e le australopitecine piú «moderne» come sviluppi paralleli di un ceppo comune, identificato nell’Australopithecus afarensis; la seconda teoria ipotizza invece che il genere Homo sia l’esito di una linea evolutiva indipendente da quella degli australopitechi. 2-0,4 milioni di anni fa L’evoluzione dell’uomo fa segnare una tappa fondamentale: compare infatti Homo erectus, ampiamente attestato nel continente africano, ma anche in Europa e in Asia. Homo erectus dimostra una notevole padronanza nelle tecniche di lavorazione della pietra (e certamente di altri materiali deperibili dei quali non si è conservata traccia, come per esempio il legno) e con lui si hanno le prime prove certe dell’assoggettamento del fuoco. Cartina della Rift Valley, con l’indicazione dei piú importanti siti citati nel testo, teatro di scoperte paleontologiche e archeologiche.
Qui sotto: ricostruzione dell’aspetto di un Homo erectus, di cui la Rift Valley ha restituito numerose ossa fossili.
Valle dell’Omo
La valle attraversata dal fiume Omo (che sfocia nel lago Turkana) è uno dei giacimenti preistorici piú importanti del continente africano e ha restituito testimonianze fondamentali per la conoscenza delle australopitecine e delle piú antiche specie di Homo. Nella regione sono state localizzate decine di siti, la cui esplorazione ha permesso di acquisire tracce della presenza dell’Australopithecus afarensis, dell’Australopithecus
aethiopicus e dell’Australopithecus boisei, nonché di Homo habilis e Homo erectus. Di eccezionale importanza è il fatto che molti dei fossili attribuiti alle varie specie sono stati rinvenuti in associazione con industria litica: gli utensili, quindi, provano che lo sfruttamento funzionale della pietra ebbe inizio almeno intorno ai 2,5 milioni di anni fa.
Koobi Fora
Il sito si trova sulla sponda orientale del lago Turkana
A destra: un’altra ricostruzione di Lucy, la femmina di Australopithecus afarensis che visse nello Hadar etiopico. a r c h e o 87
SPECIALE • KENYA e la sua esplorazione venne avviata da Richard Leakey. Le ricognizioni di superficie e gli scavi (che sono tuttora in corso) hanno fornito risultati eccezionali, sia per la quantità dei reperti, sia per la loro qualità. A oggi sono state recuperate migliaia di ossa fossili di ominidi; fra i ritrovamenti piú importanti vi sono quelli designati dalle sigle KNM-ER 406, 1813, 3733 e 1470. KNM-ER 406 è un Australopithecus boisei, scoperto da Leakey nel 1969, nei pressi di Ileret. Il cranio KNM-ER 1813, databile tra 1,9 e 1,8 milioni di anni fa, è invece attribuibile a una specie affine all’Homo habilis e all’Homo erectus. Alla specie Homo erectus appartiene KNM-ER 3733, rinvenuto nel 1975 e datato a 1,78 milioni di anni fa. KNM-ER 1470, ritrovato nel 1972, è il piú famoso degli antichi abitanti di Koobi Fora: si tratta infatti del cranio di Homo habilis piú completo finora noto; viene oggi datato intorno a 1,9 milioni di anni fa e negli ultimi anni è invalsa da piú parti la tendenza a definirlo come Homo rudolfensis.
West Turkana
Sulla sponda occidentale del lago Turkana, nel 1984, ha avuto luogo una delle piú importanti scoperte nella storia della paleoantropologia. Sono stati recuperati i resti dello scheletro di un individuo venuto a morte in un’età compresa fra i 9 e 12 anni, attribuibile alla specie detta Homo ergaster. Si è trattato di un ritrovamento 88 a r c h e o
eccezionale, in quanto lo scheletro, ribattezzato Turkana Boy, è stato recuperato in misura pari al 90% (applicando il criterio per il quale si considerano acquisite anche quelle parti mancanti che hanno un corrispondente simmetrico nell’organizzazione dell’ossatura, come per esempio l’omero).
Allia Bay
Allia Bay, sulla sponda orientale del lago Turkana, è uno dei giacimenti fossiliferi piú ricchi dell’intera Rift Valley. I resti si sono accumulati per uno spessore di diversi metri e si ritiene che la loro concentrazione sia il Cranio rinvenuto sul lago Turkana da Meave Leakey nel 1999 e assegnato a una nuova specie, battezzata Kenyanthropus platyops, che si stima abbia vissuto intorno ai 3,5 milioni di anni fa.
risultato dell’azione di trascinamento esercitata dai corsi d’acqua che formavano l’antico bacino idrografico del fiume Omo. Una delle aree piú ricche è stata individuata in corrispondenza di quello che era verosimilmente uno dei rami secondari di tale sistema: vi sono stati rinvenuti abbondanti resti di fauna acquatica, tra cui pesci, coccodrilli e ippopotami, ma anche ossa attribuibili a specie faunistiche che vivevano in prossimità dell’acqua o che vi si recavano per abbeverarsi, come scimmie o antilopi. Ma Allia Bay è importante anche per il ritrovamento di numerosi resti di Australopithecus
anamensis, una specie che frequentò il sito in un’età fissata intorno ai 3,9 milioni di anni fa. Altri resti di Australopithecus anamensis sono stati rinvenuti nel vicino sito di Kanapoi.
Lothagam
Ricco giacimento fossilifero situato sulla sponda occidentale del lago Turkana. Le ricerche condotte dapprima negli anni Sessanta e Settanta e poi tra il 1989 e il 1993 hanno permesso di recuperare una quantità enorme di reperti faunistici, che, unitamente alle osservazioni di carattere geologico e sedimentologico, hanno
fornito informazioni essenziali per la ricostruzione dell’ambiente di quel tratto della Rift Valley nel tardo Miocene. Nella stessa area sono state individuate tracce di frequentazione umana databili intorno ai 9000 anni fa e riferibili a comunità che basavano la propria sussistenza soprattutto sulla pesca ed erano già in grado di fabbricare vasellame in ceramica.
Lomekwi
L’omonimo fiume scorre nell’area del lago Turkana e qui, nel 2001, sono stati ritrovati il teschio completo e varie ossa di una nuova specie, denominata Kenyanthropus platyops («Keniantropo dal volto schiacciato»). La caratteristica distintiva dell’ominide, vissuto intorno ai 3,5 milioni di anni fa, è infatti la piattezza del volto.
Peninj
Nel 1964, il sito ha restituito una mandibola di Australopithecus boisei (da alcuni studiosi indicato come Paranthropus boisei), databile intorno a 1,5 milioni di anni fa. Le caratteristiche del reperto, in particolare la sua robustezza e le grosse dimensioni dei molari, provano che l’individuo doveva cibarsi di una dieta della quale facevano parte alimenti duri e fibrosi che richiedevano una lunga masticazione.
Olduvai Gorge
La Gola di Olduvai si trova nella parte orientale della
Un’équipe di archeologi al lavoro sul sito di Ileret, scoperto a est del lago Turkana, nel quale sono state recuperate ossa fossili di Homo habilis e Homo erectus.
piana di Serengeti, nella Tanzania settentrionale. Si tratta di una sorta di canyon, nei cui depositi stratigrafici sono stati recuperati resti fossili di fauna, resti di ominidi e industrie che attestano una frequentazione lunghissima, compresa tra 2,1 milioni e 15 000 anni fa. Una delle scoperte piú importanti ha avuto luogo nei livelli piú antichi: qui sono stati scoperti resti attribuibili all’Australopithecus boisei e all’Homo habilis, in associazione con strumenti in pietra. Tale circostanza ha indotto gli studiosi a definire Olduvaiano l’insieme delle piú antiche industrie litiche del continente africano.
Laetoli
Località della Tanzania dove le ceneri prodotte da un’eruzione vulcanica verificatasi oltre 3,5 milioni di anni fa hanno sigillato un paleosuolo, che ha restituito una delle piú impressionanti testimonianze di tutto il continente africano. Si tratta delle orme, messe in luce nel 1974-75 da Mary Leakey, lasciate da almeno due individui identificati come Australopithecus afarensis. Le tracce di quella antichissima passeggiata, che provano come la stazione eretta e l’andatura bipede fossero state acquisite già allora, sono state in seguito ricoperte per evitarne la distruzione da parte degli
agenti naturali e oggi si trovano sotto una coltre formata da strati alternati di sabbia e ciottoli. Ed è di poche settimane fa l’annuncio della scoperta di nuove orme, individuate da una missione italiana invitata a collaborare al progetto di realizzazione di un museo del sito.
Gamble’s Cave
Riparo sotto roccia situato lungo un’antica linea di riva del lago Nakuru. Vi sono state distinte tre fasi di frequentazione databili intorno agli 8500-8000 anni fa. I gruppi che occuparono il sito fabbricavano strumenti selce, arpioni per la pesca e, nella fase piú recente, vasi in ceramica decorata. a r c h e o 89
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no che la frequentazione dell’area fu piuttosto prolungata e si protrasse da 1,2 milioni a 490 000 anni fa circa. A Olorgesailie sono state localizzate numerose concentrazioni di ossa fossili e strumenti in pietra: nel corso del tempo, i materiali furono coperti dalle acque del grande lago che occupava l’area e dai depositi portati dalla corrente. In seguito, intorno ai 200 000 anni da oggi, il bacino scomparve, per effetto di fenomeni geologici che causarono l’innalzamento delle terre e i depositi che contenevano i reperti cominciarono a essere erosi da pioggia e vento, che li fecero affiorare. Gli esiti del fenomeno sono ben visibili nei settori del sito attrezzati per la visita, che offrono un colpo d’occhio spettacolare, con paleosuoli nei quali si conservano centinaia di strumenti e notevoli quantità di resti faunistici. Ne è un esempio l’ampia area denominata Catwalk, che è quella in cui, nel 1942, Mary Leakey effettuò i primi ritrovamenti, resi appunto possibili dai fenomeni di erosione. In un’altra zona sono invece esposte le ossa di un elefante che, 990 000 anni fa circa, morí dopo essere stato intrappolato dal terreno limaccioso di uno degli stagni che circondavano il lago. A oggi, non è stato possibile accertare se si sia trattato di un incidente o se, adottando la tecnica poc’anzi descritta, il pachiderma fosse stato sospinto da un gruppo di cacciatori; è però certo che questi ultimi si munirono di strumenti con i quali tagliarono la carcassa dell’animale per consumarne la carne. È inoltre interessante osservare che esso appartiene alla specie denominata Elephas recki (che si estinse intorno ai 600 000 anni fa), le cui caratteristiche sono piú affini all’odierno elefante indiano che non a quello africano.
UN ABBANDONO IMPROVVISO Di notevole importanza è anche il sito di Kariandusi, localizzato nel 1928 da Louis Leakey. Si tratta di una delle prime acquisizioni per il Paleolitico Inferiore dell’intera Africa Orientale e l’osservazione delle stratigrafie – unitamente allo studio dei materiali – ha permesso di fissare la frequentazione dell’insediamento fra 1 milione e 700 000 anni da oggi. Analizzando la successione dei livelli sedimentatisi nel corso del tempo, è stato possibile stabilire che il livello dei ba90 a r c h e o
Una mandria di gnu e, in primo piano, una gazzella di Thomson (Eudorcas thomsoni), nel Parco Naturale del lago Naivasha.
cini lacustri che un tempo occupavano la zona era notevolmente piú alto di quello degli attuali laghi Nakuru ed Elementaita. È stato altresí ipotizzato che un improvviso innalzamento delle acque avesse messo in fuga i gruppi stanziati nella zona e che i reperti recuperati grazie agli scavi fossero stati abbandonati in tutta fretta e poi sepolti, prima dal lago stesso e poi dai suoi detriti. Lo stesso Leakey identificò il giacimento come un sito di lavorazione, nel quale, servendosi prevalentemente di ossidiana, vennero fabbricati strumenti di tipologia riconducibile all’Acheuleano (una cultura del Paleolitico Inferiore che prende nome dal sito francese di Saint-Acheul). Come Olorgesailie, Kariandusi è visitabile e le aree musealizzate sono precedute da un piccolo museo, che introduce alla storia del sito. I paleosuoli di Kariandusi sono molto ricchi e, anche in questo caso, si possono contare decine e decine di strumenti, in prevalenza asce; si tratta, quasi sempre, di giaciture secondarie, in quanto i cumuli di manufatti messi in luce grazie agli scavi sono stati trasportati dalle acque a distanze piú o meno considerevoli dal punto in cui erano stati effettivamente fabbricati e utilizzati. Tuttavia, l’aspetto piú spettacolare del sito è
A CONFRONTO CON LA NATURA Riserve e parchi naturali costituiscono una delle principali attrattive del Kenya. La loro superficie equivale all’8% circa del territorio nazionale, distribuita in vari tipi di ecosistema: foresta, paludi, savana, parchi marini e aree aride o semiaride. Nel complesso, si tratta di poco meno di 60 strutture, coordinate dal Kenya Wildlife Service, che ne ha fissato le modalità di gestione: nei parchi sono ammesse soltanto attività turistiche e di ricerca, mentre nelle riserve sono per esempio consentite, sotto stretto controllo, la pesca o la raccolta della legna.
dato dalle stratigrafie che si possono vedere in piú punti e che offrono una sorta di fotografia degli eventi naturali prodottisi nell’arco di centinaia di migliaia di anni. In particolare, sono ben riconoscibili i candidi livelli di diatomite, una roccia che si forma dalla silice del guscio delle diatomee, microscopiche alghe unicellulari di ambiente marino e lacustre: e la presenza di quegli strati ha permesso di ricostruire la successione e l’entità dei fenomeni di innalzamento e abbassamento delle acque del lago. Vale la pena di segnalare che i responsabili dell’area archeologica hanno anche attrezzato una struttura per attività di archeologia sperimentale – rivolte in primo luogo ai piú giovani –, durante le quali viene per esempio insegnata la scheggiatura della pietra e il cui fine vuole essere quello di diffondere una migliore conoscenza della preistoria del Kenya e di farne comprendere l’importanza per la definizione dell’identità culturale del Paese.
NUOVI STILI DI VITA Il modello culturale legato all’economia di caccia e raccolta si protrasse per molti millenni, prima d’essere gradualmente rimpiazzato da quello imperniato sull’economia produttiva, che viene tradizionalmente considerato
Femmine di impala nel Parco Naturale del lago Nakuru.
La storia di questi santuari della natura iniziò nel 1946, con la creazione del Nairobi National Park. Il primo parco del Kenya occupa un’area di 117 kmq e si trova a pochi chilometri dal centro della capitale; ecco perché, nel visitarlo, è facile vedere animali che si stagliano sullo skyline dei grattacieli di Nairobi. Immagini forse stranianti, ma che ben sintetizzano il valore di queste istituzioni, alle quali è affidata la speranza di salvare dall’uomo moderno quegli esseri viventi che, un tempo, incutevano timore e rispetto ai suoi predecessori.
l’elemento diagnostico piú tipico dell’età neolitica (e si deve inoltre tenere presente che, in molti casi, poiché non si trattò di un passaggio brusco e immediato, si verificò una compresenza dei due diversi stili di vita). Concettualmente omologhe alle comunità dei cacciatori sono le culture africane che basarono la propria sopravvivenza in primo luogo sulla pratica della pesca. La differenza principale sta nell’ampiezza del fenomeno, poiché, mentre i gruppi di cacciatori-raccoglitori sono i protagonisti di oltre 2 milioni di anni di storia della specie umana, quelli che a r c h e o 91
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individuarono nella pesca la fonte primaria di sussistenza occuparono una fase cronologicamente ben piú circoscritta.Tale fase si colloca tra i 10 000 e gli 8000 anni da oggi, quando il clima del continente aveva caratteristiche diverse da quelle attuali ed era segnato, innanzitutto, da una maggiore umidità. I bacini lacustri erano uno degli elementi piú diffusi nel paesaggio del continente e quelli ancora oggi esistenti, come per esempio il Turkana, occupavano superfici assai piú ampie. Frequenti erano le aree paludose, i fiumi avevano una portata maggiore di quella che si registra oggi e, infine, il ciclo delle precipitazioni stagionali era generalmente piú regolare, con un apporto d’acqua piú abbondante. L’insieme di tali condizioni favorí, in un’area 92 a r c h e o
molto vasta – il fenomeno interessò una fascia compresa tra la costa atlantica e il bacino del Nilo –, l’affermazione di gruppi che adottarono un modus vivendi strettamente legato a una simile abbondanza d’acqua. Si svilupparono comunità che avevano nella pratica della pesca la fonte primaria di sussistenza e che seppero dotarsi di imbarcazioni realizzate con tecniche di carpenteria assai avanzate per un’epoca cosí antica.
SULLE RIVE DEL LAGO Testimonianze ascrivibili a questo genere di gruppi provengono da numerosi siti, molti dei quali concentrati nella regione keniana, oltre che lungo le antiche linee di riva del Turkana, sulle sponde del lago Nakuru. Uno dei piú
A destra: un irace (o procavia) impagliato, esposto nel Museo del sito di Hyrax Hill, il cui toponimo deriva appunto dal nome inglese dell’animale, hyrax.
A sinistra: Hyrax Hill. I resti della torre di guardia e della fortezza risalenti all’età del Ferro che si conservano sulla sommità dell’altura, dalla quale si poteva agevolmente controllare il territorio circostante. In secondo piano, sulla sinistra, si riconosce il profilo del lago Nakuru. Nel sito sono state anche accertate fasi di frequentazione piú antiche: si tratta, in particolare, di aree sepolcrali databili al Neolitico.
noti è Gamble’s Cave, un riparo sotto roccia scoperto e indagato negli anni Venti del Novecento da Louis Leakey. Il grande studioso distinse nove livelli successivi di occupazione, compresi tra gli 11 000 e i 9000 anni fa. La fase di frequentazione piú recente è caratterizzata, oltre che dall’uso di strumenti in pietra, dalla comparsa della ceramica, che fu una delle caratteristiche distintive delle popolazioni di pescatori dell’antica Africa. Le analisi sui resti di fauna recuperati in molti dei siti attribuibili a queste culture di pescatori hanno provato che la dieta era assai variegata: oltre a lische di varie specie di pesci e valve di molluschi, sono state infatti recuperate ossa di aguti (un grosso roditore, tipico delle zone paludose), di tartaruga e talvolta perfino di ippopotamo e coccodrillo. La pesca e la caccia agli animali acquatici venivano integrate con la raccolta di piante commestibili. L’analisi dello strumentario dimostra una elevata specializzazione: tipici erano per esempio gli arpioni in osso, predisposti per essere fissati all’estremità di una lancia in legno a mezzo di corde ricavate da fibre vegetali. Armi di questo genere, simili alle moderne fiocine, venivano utilizzate a bordo di canoe oppure, grazie alla loro lunghezza e alla possibilità di essere lanciate (in questo caso erano molto probabilmente legate a una fune che ne poteva consentire piú agevolmente il recupero), anche per la cattura da terra. Nelle fasi piú recenti, questi gruppi fecero proprio anche l’uso della ceramica, sfruttata (segue a p. 96)
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STORIE DI SCIMMIE, RADICI E SCHIACCIANOCI Il termine australopiteco (dall’aggettivo australe e dal vocabolo greco píthekos, scimmia) venne coniato per designare i resti fossili di ominide ritrovati nel 1924, a Taung (Botswana), dall’antropologo e paleontologo australiano Raymond A. Dart (1893-1988), che furono appunto classificati come resti di Australopithecus africanus. Oggi alla denominazione di Australopithecus viene preferita quella di Australopitecine, nome che indica l’intero genere della famiglia Hominidae, del quale fanno parte le diverse specie di australopiteci. L’area della valle dell’Omo e del lago Turkana e, piú in generale, l’intera regione della Rift Valley dell’Africa Orientale sono una delle «riserve di caccia» privilegiate per lo studio di questi antichi progenitori dell’uomo e anche i piú recenti ritrovamenti hanno piú volte ribadito questa realtà. Tra il 1992 e il 1994, nei pressi di Aramis, un villaggio situato 230 chilometri a nord-est di Addis Abeba, sono state rinvenute ossa fossili di una creatura vissuta 4,4 milioni di anni fa, inizialmente classificata come Australopithecus ramidus (ricavando l’appellativo ramidus da ramid, termine che in dialetto locale significa «radice»). Successivamente, un piú approfondito esame dei reperti, e in particolare dell’apparato dentario, ha evidenziato caratteristiche tali da indurre gli studiosi alla definizione di una nuova specie, battezzata Ardipithecus ramidus. L’ardipiteco aveva già acquisito la deambulazione bipede e aveva un’altezza stimata intorno ai 120 cm. Il fatto che fosse in grado di camminare in posizione eretta ha determinato la scelta del nome che gli è stato dato: il termine Ardipithecus è stato infatti ricavato unendo al suffisso di origine greca -píthekos, la parola ardi, che nella lingua afar – cioè quella dell’area della scoperta – vuole dire «terra» o «terreno». 94 a r c h e o
Ricostruzione ipotetica di una coppia della specie Australopithecus afarensis, immaginata in cammino nell’area del sito di Laetoli, in Tanzania, dove è stata scoperta una straordinaria traccia di questa antichissima «passeggiata» (vedi foto alla pagina accanto).
A sinistra: calco delle orme scoperte a Laetoli (Tanzania). Le impronte, assegnate ad Australopithecus afarensis (la stessa specie di Lucy) sono state sigillate dai depositi accumulatisi in seguito a un’eruzione vulcanica prodottasi 3,5 milioni di anni fa. Nel novembre 2016, la missione italiana che svolge attività di studio e valorizzazione dei siti paleoantropologici della Tanzania settentrionale ha annunciato la scoperta di una nuova serie di impronte, attribuibili anch’esse ad Australopithecus afarensis.
Nel 1995, Meave Leakey e i suoi collaboratori hanno annunciato la scoperta di una nuova specie di australopiteco, che è stata chiamata Australopithecus anamensis. Si tratta anche in questo caso di una creatura che aveva sviluppato l’andatura bipede, ma che, come l’ardipiteco, aveva una dentatura ancora vicina a quella delle scimmie che non a quella della specie umana. I resti di australopiteco anamense descritti da Leakey sono stati rinvenuti nella località di Kanapoi, in Kenya, e sono databili fra i 4,2 e i 3,9 milioni di anni fa.
Nel 1997 è stata invece annunciata la scoperta del primo cranio completo di un Australopithecus boisei, trovato a Konso, in Etiopia. Il cranio apparteneva a un individuo che visse intorno agli 1,4 milioni di anni fa ed è perciò l’esemplare piú giovane di Australopithecus boisei a tutt’oggi conosciuto (la specie visse fra i 2,3 e gli 1,4 milioni di anni fa). La completezza del cranio, e dunque la presenza della mascella inferiore, ha fornito un termine di riscontro ottimale per le ipotesi finora elaborate circa i tratti somatici distintivi e le abitudini alimentari di questo ominide, che, già in passato, si era guadagnato l’appellativo di «uomo schiaccianoci». L’Australopithecus boisei aveva infatti muscoli della mandibola molto sviluppati e una dentatura, soprattutto posteriore, molto robusta; viveva in zone di savana alberata e, appunto in virtú del suo possente apparato masticatorio, poteva cibarsi anche di vegetali molto coriacei. L’équipe alla quale si deve la scoperta del boisei di Konso, a seguito di ricerche condotte tra il 1996 e il 1999, ha messo a segno un altro importante risultato: nella regione desertica dell’Afar (la stessa in cui erano venuti alla luce i primi resti di ardipiteco) sono stati rinvenuti resti fossili attribuibili a un individuo che potrebbe costituire l’anello di congiunzione tra le australopitecine e l’uomo. Le analisi condotte sull’insieme dei reperti hanno fornito una datazione oscillante intorno ai 2,5 milioni di anni da oggi. I fossili appartenevano a un individuo che aveva già sviluppato parte delle caratteristiche strutturali tipiche dell’uomo (tra cui, per esempio, l’allungamento dell’osso femorale) e al quale si deve la piú antica attestazione finora conosciuta del consumo intenzionale di carne, provata dalla presenza, in associazione con i resti dell’ominide, di ossa di grandi mammiferi (antilopi, cavalli). I resti della nuova specie sono stati localizzati nei pressi del villaggio di Bouri, e il loro esame ha rivelato tratti palesemente diversi da quelli delle australopitecine già note e al tempo stesso inaspettatamente moderni per un essere vissuto intorno ai 2,5 milioni di anni fa: per questo alla nuova specie è stato attribuito il significativo nome di Australopithecus garhi, desunto dal vocabolo che nel dialetto della regione dell’Afar significa «sorpresa». a r c h e o 95
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per la realizzazione di numerose forme, molte delle quali erano probabilmente ispirate ai grandi contenitori fabbricati con fibre vegetali e impiegati per il trasporto del pesce e degli altri alimenti. La fattura del vasellame è accurata e, fin dalle attestazioni piú antiche, si hanno prove della diffusione di molti tipi di decorazione: una delle tecniche piú diffuse consisteva nel praticare impressioni sulla pasta argillosa ancora fresca, con spine di pesce o con i margini delle conchiglie.
LA «CULTURA DEI PESCATORI» Come si è già detto, la pesca costituiva l’attività primaria di questi gruppi, che, pur essendosi insediati in aree potenzialmente favorevoli, non sperimentarono alcun tipo di coltivazione e vanno quindi distinti dalle culture neolitiche, con le quali si svilupparono le prime forme di economia produttiva. Simili ai modelli di vita del Neolitico 96 a r c h e o
sono tuttavia altri aspetti, primo fra tutti quello della strategia di insediamento. Sebbene lo studio dei siti attribuibili a quella che per semplicità si potrebbe definire la «cultura dei pescatori» dimostri che non esistevano abitati occupati in permanenza e per lunghi periodi (e si è dunque lontani dalle forme di sedentarizzazione vera e propria), è altrettanto vero che dovevano esistere forme di aggregazione sociale assai piú evolute e strutturate di quelle delle bande di cacciatori-raccoglitori dell’età paleolitica. In particolare, lo sviluppo di una cultura materiale evoluta – come emerge dall’analisi degli strumenti in pietra e in osso e, soprattutto, della ceramica – suggerisce l’esistenza di un patrimonio di conoscenze condiviso e costantemente arricchito e che, con ogni probabilità, aveva come protagonisti artigiani specializzati. A un’epoca compresa tra il IX e il VII mil-
Una veduta del lago Elementaita, un altro dei grandi bacini che, nella Rift Valley, sono il residuo di distese d’acqua che un tempo coprivano gran parte della fossa. Insieme a quelli di Bogoria e Nakuru, l’Elementaita è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO nel 2011.
lennio di anni fa risale la frequentazione dei siti GaJj 11, FxJj 12 (Turkana orientale), Lowasera (Turkana sud-orientale) e Lothagam (Turkana occidentale). Ricognizioni di superficie e scavi hanno permesso di recuperare strumenti litici (tra i quali prevalgono i microliti geometrici), nella maggior parte dei casi ricavati da ciottoli di selce, pietre di origine vulcanica e, piú raramente, quarzo e ossidiana. Frequenti sono anche vari tipi di arpione in osso, che venivano impiegati per la pesca. Grazie alle ricche risorse offerte dalle foreste e dalle savane circostanti, la dieta era integrata dalla selvaggina cacciata, che comprendeva equidi, bovidi, facoceri, elefanti, rinoceronti. In un’epoca successiva, secondo molti studiosi, il bacino del Turkana fu interessato dall’arrivo di gruppi di origine cuscita e dunque provenienti dall’area nubiana. Secondo tale ipotesi, la crescente aridità dei territori d’ori-
gine spinse queste comunità a cercare terre piú propizie all’insediamento determinando un flusso migratorio che introdusse nelle regioni etiopiche e keniane della Rift Valley l’allevamento di specie animali domesticate e la coltivazione dei cereali. Numerosi siti attestano la comparsa dell’economia produttiva, tipica del Neolitico: in queste località, a partire dal V millennio da oggi, sono state trovate testimonianze dell’allevamento di bovini e caprovini, attività che veniva integrata dalla pesca e, in misura minore, dalla caccia.
SULLA COLLINA DELL’IRACE Un esempio particolarmente interessante è quello di Hyrax Hill, una piccola altura che oggi domina il lago Nakuru e che prende nome dagli iraci (hyrax in inglese e chiamati anche procavie in italiano) che un tempo vivevano in gran numero nei suoi anfratti rocciosi. Qui, nel 1926, Louis Leakey accertò a r c h e o 97
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la presenza di materiali archeologici e, nel 1937, Mary Leakey condusse ricognizioni e scavi che furono poi ripresi, nel 1965, da Ron Clarke. Le indagini, tuttora in corso, hanno permesso di localizzare contesti riferibili a epoche differenti. La testimonianza piú antica è un’area sepolcrale utilizzata nel corso del Neolitico, intorno ai 5000 anni fa. Sulla sommità della collina sono stati invece identificati i resti di una torre di guardia e di una sorta di fortezza databili all’età del Ferro e, in altri settori, resti di capanne e di compound. Nel suo insieme, il sito rappresenta ancora oggi uno dei contesti in cui meglio si è potuta analizzare la transizione dall’economia di caccia e raccolta a un sistema di vita imperniato sulla produzione di cibo e, in particolare, sui modelli messi a punto dalle comunità pastorali di queste regioni, ricche di pascoli. Di grande rilevanza sono le informazioni che Hyrax Hill ha offerto sull’etnia dei Siriwka, un gruppo di cui sono oggi eredi i Masai e i Kalenjin e che basava la propria sussistenza sull’allevamento del bestiame (bovini, capre, pecore e asini). I Siriwka scavarono nei fianchi della collina ricoveri per gli animali aventi una larghezza media di 15 m, chiusi da
Una veduta del lago Magadi, situato nel sud del Kenya, a ridosso del confine con la Tanzania. Il bacino ricade anch’esso nella Rift Valley e si caratterizza per acque molto basse e calde, dalle quali affiora la soda, che viene raccolta e sfruttata dall’industria chimica.
robuste palizzate e da un cancello accanto al quale venivano apprestate strutture che permettevano di sorvegliarle agevolmente. Inoltre, accumulando fango, letame e altri materiali di risulta, i pastori creavano collinette artificiali con cui nascondevano alla vista gli ingressi dei ricoveri, in modo da proteggerli da eventuali tentativi di furto.
«VEDERE» LA PREISTORIA Quelle fin qui riepilogate sono dunque le tappe piú significative della lunghissima storia del Kenya e della Rift Valley, cosí come l’archeologia ha finora permesso di definirle. Ma per avere un’immagine viva e verosimile di quei lontani eventi si può senz’altro ricorrere alla risorsa che ancora oggi costituisce una delle attrazioni principali del Paese, vale a dire la rete dei suoi parchi naturali (vedi box a p. 91). Pur con tutte le differenze del caso – specie animali estinte, mutate condizioni geomorfologiche, ecc. –, il colpo d’occhio di una savana che si estende a perdita d’occhio e nella quale decine di specie diverse pascolano, corrono, si nascondono, tendono agguati o si contendono brandelli di carcasse è quanto di piú vicino possiamo immaginare all’ambiente in cui lottarono per sopravvivere sia i nostri piú antichi antenati, sia le comunità delle specie affini all’uomo anatomicamente moderno. Una suggestione che resiste, nonostante l’andirivieni dei fuoristrada e gli scatti a raffica delle macchine fotografiche, perché lo spettacolo delle grandi faune in libertà riesce ancora a trasmettere quel senso di libertà e potenza con il quale l’uomo dovette imparare a misurarsi per garantirsi la sopravvivenza. DOVE E QUANDO Attraversato dall’Equatore, il Kenya si trova sulla costa orientale del continente africano, occupando una superficie di 582 646 kmq (pari all’estensione della Francia). Il Paese è una destinazione ideale per tutto l’anno, anche se la stagione migliore va da dicembre a marzo, mesi in cui il clima è piú caldo e asciutto. È anche il momento in cui, in Kenya, gli uccelli si riversano in stormi sui laghi della Rift Valley. Per organizzare un soggiorno, il sito del Kenya Tourism Board (l’ente nazionale del turismo), www.magicalkenya.com, offre tutte le informazioni del caso, anche in lingua italiana.
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IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda
LA DISFIDA DI SIPONTO LA BASILICA PALEOCRISTIANA DELL’ANTICA CITTÀ PUGLIESE HA VIRTUALMENTE RIACQUISTATO LA SUA VOLUMETRIA ORIGINARIA, GRAZIE ALLA STRUTTURA METALLICA REALIZZATA DALL’ARTISTA MILANESE EDOARDO TRESOLDI. UN INTERVENTO CHE HA SOLLEVATO UN ACCESO DIBATTITO, MA CHE, AL DI LÀ DELLE DIVERGENZE DI VEDUTE, INVITA A RIFLETTERE SU QUALE POSSA ESSERE LA STRADA DA PERCORRERE PER FAR CONVIVERE – E INTERAGIRE – L’ARCHEOLOGIA E L’ARTE CONTEMPORANEA
A
Siponto, l’antica città romana a poca distanza da Manfredonia (Foggia), sulla costa pugliese, si può da qualche tempo ammirare la ricostruzione dell’antica basilica paleocristiana adiacente alla piú celebre chiesa medievale di S. Maria Maggiore. Dell’antica basilica – riportata malamente alla luce alla metà del secolo scorso e che conobbe varie
fasi fino al XII secolo – restano oggi quasi solo le fondamenta, ma la sua immagine è tornata come per incanto visibile nello skyline del sito, specialmente all’imbrunire, quando le ombre della sera si illuminano a delinearne le nuove forme. È successo, infatti, che l’inaugurazione del parco archeologico di S. Maria di Siponto ha offerto l’occasione a un
In basso: un’immagine in notturna dell’installazione che ricostruisce la basilica paleocristiana di Siponto.
Nella pagina accanto: un momento dei lavori nel cantiere, durante la realizzazione della struttura.
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giovanissimo artista milanese, Edoardo Tresoldi, di sperimentare sui resti di quella chiesa perduta le sue scenografie, che da alcuni anni realizza in Italia e altrove mediante l’allestimento di imponenti strutture in rete metallica alla guida di una squadra di tecnici anche loro ventenni (vedi anche «Archeo» n. 374, aprile 2016).
ARCHITETTURA IMMAGINARIA Una struttura dall’apparenza assai leggera (ma ci sono volute 7 tonnellate di metallo) e trasparente ridisegna nell’aria, con lo stile della grafica digitale, i volumi della chiesa scomparsa, pilastri, arcate, capitelli, animati da corpi umani, che si scoprono qua e là, immersi in questa immaginaria architettura alta ben 14 m, al tempo stesso vera e fantastica. 4500 mq di rete zincata elettrosaldata con grande perizia e cura dei dettagli disegnano un leggerissimo ricamo, quasi un ologramma, che, attraversato dalla luce artificiale, propone la ricostruzione di ciò che non esiste piú se non nelle planimetrie dei muri di fondazione, restituendo la terza dimensione alle tre navate della chiesa e integrandosi con l’ambiente circostante, di cui cambia, arricchendola, la percezione.
L’intervento è stato voluto dalla locale Soprintendenza archeologica d’intesa con il Segretariato regionale del MiBACT. Si tratta quindi – e questo merita di essere segnalato – di una committenza pubblica, sollecitata dal direttore dei lavori, Francesco Longobardi, al quale va riconosciuta (e vedremo perché) una buona dose di coraggio. Il progetto, infatti, è nato per proteggere i mosaici della basilica paleocristiana e valorizzare al tempo stesso l’intera area archeologica, rendendone piú comprensibili i resti ed evocando, a fianco della chiesa medievale ancora esistente, la presenza della basilica scomparsa da molti secoli. Questa architettura virtuale, eppure ben reale e concreta, segna fortemente il paesaggio e incanta lo spettatore e merita di essere vista per farsi una propria idea dei risultati del difficile intervento.
Naturalmente non sono mancate le critiche, quelle argomentate e quelle dettate dalla cultura del «No», che nel campo dei beni culturali in Italia non è difficile incontrare non appena ci si confronti con qualche gesto o idea innovativa.
SACRALITÀ DELL’ANTICO E DUBBI LEGITTIMI Qualcuno (Teodoro De Giorgio su L’Huffington Post), infatti, ha subito richiesto l’immediata rimozione dell’installazione artistica, non solo perché il progetto non garantisce la protezione dei resti dalle intemperie (critica che coglie certamente nel segno), ma anche perché le forme ricostruite sono del tutto ipotetiche, e quindi potrebbero costituire un falso (rischio dal quale non sarebbe difficile liberarsi solo orientando al meglio la comunicazione sul sito e on line). Secondo i dettami di una
certa cultura «purista», contraria a ogni forma di ricostruzione o anastilosi dell’antico sacralmente inteso come intoccabile (figuriamoci se la ricostruzione vuole essere soltanto evocativa e non filologicamente provata o provabile!), si sostiene anche che l’installazione limiterebbe la leggibilità dell’intera area archeologica. Insomma, il progetto di Tresoldi, privo di validità scientifica, sarebbe una semplice «attrazione», palesemente lesivo dell’articolo 9 della Costituzione, che il nostro Ministero avrebbe fatto male a realizzare, «in nome e per conto del Popolo italiano»! Il fondamentalismo di simili reazioni intransigenti naturalmente non può entrare in sintonia con le parole del direttore dei lavori, Francesco Longobardi, che ha attribuito al progetto l’intenzione di trasferire in un sito archeologico «la terza dimensione (…) ricreando le
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suggestioni, le emozioni di chi viveva al tempo questa basilica». Né, tanto meno, con le osservazioni di chi pensa che «allo stupore che in un primo momento suscita nel visitatore l’articolato volume della struttura, si sostituisce presto la piacevole sensazione di essere trasportati indietro nel tempo», sí che «l’opera realizzata da Tresoldi nel sito archeologico di Siponto ne rende piú agevole e certamente affascinante la fruizione, capace com’è di porsi in relazione con il contesto e di sollecitare l’immaginazione dei visitatori. E se il metallo molto probabilmente finirà per deteriorarsi con il trascorrere del tempo, se gli uccelli troveranno asilo sui capitelli, se i semi di piante selvatiche potranno infilarsi all’interno delle maglie della rete, l’opera non perderà comunque la sua funzione: continuerà a parlare del passato agli uomini di oggi, a ribadire la continuità ideale tra storia e attualità» (Lia de Venere in Artribune).
Ancora un’immagine della ricostruzione della basilica, qui ripresa dal versante absidale. Nella pagina accanto: l’artista Edoarto Tresoldi, autore dell’opera,
VEDERE PER VALUTARE Come si vede, si tratta di approcci apparentemente inconciliabili, che giungono entrambi tuttavia da studiosi di storia dell’arte moderna e contemporanea. De Giorgio bolla l’operazione come «un pericoloso precedente per altre strampalate profanazioni di luoghi e monumenti del nostro fragile patrimonio culturale». De Venere la definisce invece «una scelta originale, che potrebbe servire da precedente per futuri progetti di restauro, non solo di siti archeologici». Io lascerei ai lettori di «Archeo» la possibilità di farsi una propria idea di questa realizzazione, certamente suggestiva e invasiva al tempo stesso, andando a visitare Siponto e il suo parco, che nel frattempo vorremmo veder dotato delle
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risorse e del personale necessari a una gestione dell’area che renda il luogo piú accogliente e ne garantisca l’apertura anche nelle ore serali (oggi affidata al volontariato). Come è stato giustamente osservato (Giuliano De Felice in Archeostorie) «il punto di reale interesse è altrove, lontano dalla
spettacolarizzazione che svanisce presto, dopo l’emozione di una vista mozzafiato, e spenti i fari dell’illuminazione suggestiva». La domanda riguarda il futuro di questo come di tanti altri parchi archeologici, quando «verrà anche per il Parco di Siponto il momento della gestione quotidiana, in cui l’installazione artistica sarà sempre
Siponto (non è ancora risolto il problema conservativo), l’installazione di Tresoldi mi è piaciuta molto nel suo aspetto estetico e comunicativo, efficace, emozionante e intrigante.
UN INVITO ALLA RIFLESSIONE Non penso che si tratti di un’alternativa al rapporto spesso forzoso, che sta dietro alle tante esposizioni di opere d’arte nei siti archeologici; né penso che debba diventare un’indicazione da seguire per quanti lavorano alle ricostruzioni filologiche tridimensionali dei resti archeologici con l’intento di proporre soluzioni comprensibili e
meno un elemento di attrazione e sempre piú un fattore di costo». Valorizzare significa anche investire risorse, creare ricchezza e lavoro, garantire la sostenibilità economica degli interventi. Detto questo, si discute da tempo sulle possibili forme di convivenza dell’arte contemporanea con i siti archeologici. Invece che attestarsi
su posizioni di principio, favorevoli o contrarie a questo tipo di commistioni, ritengo che il giudizio vada sempre espresso nel merito di ciò che si fa, piuttosto che sulla sua legittimità in omaggio a regole rigide, che nel campo culturale producono di solito piú danni di quanti vorrebbero evitarne. Fermi restando i limiti dell’operazione di
argomentabili delle architetture perdute. Insomma, non auspico tanto un fiorire di reti metalliche «alla Siponto» in omaggio a una moda piú o meno effimera a cui Tresoldi potrebbe aver dato avvio. Ma mi auguro che questa felice realizzazione sia l’occasione per riflettere sulla funzione che l’arte contemporanea, con il suo bagaglio culturale e tecnico, può avere nella valorizzazione del patrimonio monumentale, affrancandosi dal ruolo apatico di semplice ospite in terra altrui per assumere quello di componente creativa partecipe del processo di avvicinamento del senso dei luoghi antichi alla mentalità e al sentire contemporanei.
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QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli
…VENIVA SCOSSA DAI TERREMOTI SALVO CASI SPORADICI, I FENOMENI TELLURICI NON EBBERO MAI EFFETTI PARTICOLARMENTE DEVASTANTI NELL’URBE. I CUI ABITANTI POTEVANO FARE AFFIDAMENTO SU UN CURIOSO «SISMOGRAFO»...
A
ll’inizio dell’anno 193 a.C. arrivarono a Roma inquietanti notizie di terremoti, con una frequenza tale da consigliare alle autorità competenti di indire una speciale e lunga serie di cerimonie religiose di scongiuro, che finirono con l’irritare il popolo. Scrive infatti Tito Livio (XXXV, 55) «che la gente si stancò non tanto della cosa in sé, quanto delle giornate di cerimonie sacre indette al riguardo» che intralciarono gravemente il normale svolgersi della vita quotidiana in ogni suo aspetto. «Infatti – prosegue lo storico – non si potevano tenere sedute del Senato né assolvere ai doveri del governo, essendo i consoli occupati in sacrifici ed espiazioni». Alla fine, i magistrati incaricati ebbero l’ordine di consultare i Libri Sibillini e, «in base al loro responso ci fu un triduo di pubbliche suppliche. Cinti da In alto: ricostruzione ipotetica della Regia. Sulla destra, sono visibili le lance che, oscillando, segnalavano alla popolazione i terremoti (disegno di Riccardo Merlo).
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A sinistra e in basso: particolari del calco di un rilievo raffigurante gli effetti del terremoto del 63 d.C a Pompei, dal Larario della Casa di Cecilio Giocondo a Pompei. Roma, Museo della Civiltà Romana. Il crollo di Porta Vesuvio (a sinistra) e quello del Tempio di Giove.
corone, i cittadini elevarono le loro preghiere in ogni tempio e fu stabilito che tutti i membri di una stessa famiglia pregassero insieme». E, affinché non si diffondesse il panico «per volontà del Senato i consoli ordinarono che nessuno, nel giorno in cui, per l’annuncio di un terremoto, erano state indette delle preghiere, desse notizia di un altro terremoto». Tutto questo avvenne in una circostanza in cui la città era stata «colpita» solamente dall’arrivo di
notizie di terremoti evidentemente verificatisi altrove.
UNA CITTÀ SICURA Ma ci furono casi, invece, in cui Roma venne colpita da scosse sismiche vere e proprie. Anche se non furono di origine locale, poiché la città non si trova sopra una faglia attiva, ma è tuttavia vicina a possibili epicentri nell’area dei Colli Albani e non troppo lontana da quelli della fascia appenninica. In cambio, le onde sismiche
tendono a essere amplificate dal suolo alluvionale delle zone urbane pianeggianti. In quelle circostanze, a fare da «sismografo» era il brusco vibrare e oscillare delle lance conservate (insieme agli ancilia, gli scudi di bronzo, uno dei quali «caduto» dal cielo) nel sacrario di Marte all’interno della Regia, nel Foro Romano, che si trasformava cosí in una sorta di rustico osservatorio. E, tanto importante era considerato quel movimento, che esso veniva incluso nel novero dei «prodigi» (prodigia), ossia di quegli eventi straordinari attraverso i quali si credeva che gli dèi manifestassero il proprio corruccio e la propria
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collera. Esso, pertanto, veniva registrato negli Annali dei pontefici (ai quali poi attingevano gli storici) con una formula piú o meno fissa, che accompagnava la menzione del giorno (hastae Martis motae, oppure hastae Martis in Regia motae, o anche hastae Martis in Regia sua sponte motae) e comunicato alle autorità competenti. Come attesta Aulo Gellio quando scrive, nelle sue Noctes Atticae (IV 6, 1-2): «Ho letto che negli antichi annali sta scritto che, come si è soliti notificare quando la terra ha tremato e quali espiazioni si debbano compiere,
cosí pure fu notificato al Senato che nel sacrario della Regia le lance di Marte s’erano agitate».
QUANDO IL CIELO SEMBRÒ INCENDIARSI... A quanto pare, i terremoti avvertiti direttamente dai cittadini furono, tutt’altro che frequenti: nell’arco degli otto secoli compresi tra il 461 a.C., quando ne viene ricordato il primo, e il 443 d.C. quando viene citato l’ultimo, le fonti ne attestano, variamente e quasi sempre solo con un breve accenno, una ventina. Proprio il primo viene ricordato da Livio (III 10, 6) con la semplice frase:
«In quell’anno il cielo parve incendiarsi e la terra fu scossa da un violento movimento». Soprattutto, quei terremoti non furono mai gravi per la città e per i suoi abitanti. Specie se messi a confronto a quelle che furono le due vere e proprie «piaghe» dell’antica Roma, le ricorrenti piene del Tevere e gli incendi, all’ordine del giorno e, in particolare, della notte. Per non dire dei continui crolli di edifici, specialmente d’abitazione, costruiti male, affrettatamente e con materiale scadente. Sintomatico, al riguardo, è un altro passo di Livio (XXXV 40), che sembra volutamente contrapporre alle innocue (anche se prolungate) scosse sismiche avvertite l’anno 192 a.C., i danni, ingenti, provocati, piú o meno contemporaneamente (per idem tempus), da un grave incendio: «A Roma, nello stesso periodo, ci furono due enormi paure. Una, durata piú a lungo, ma meno intensa. La terra tremò per trentotto giorni di seguito. Per altrettanti giorni ci fu sospensione dal lavoro in un clima di apprensione e di timore, e a causa di quell’evento si fece una supplica di tre giorni. L’altra non suscitò vano terrore, ma vera rovina, per molti. Per via di un incendio scoppiato nel Foro Boario durante il quale gli edifici rivolti verso il Tevere bruciarono per un giorno e una notte e tutte le botteghe, con merci d’ingente valore, andarono distrutte». Di particolare rilievo fu il terremoto dell’anno 51 della nostra era, che si segnala, tra l’altro, per la notizia raccolta da Dione Cassio (LX 33, 2) secondo la quale esso sarebbe stato originato da un diretto Roma. Base marmorea che ricorda il restauro dell’Anfiteatro Flavio da parte di Decio Mario Venanzio Basilio. L’intervento si colloca nel 484 o piú probabilmente nel 508, ed è l’ultimo documentato nella storia del Colosseo.
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Veduta del Colosseo da ovest, penna e inchiostro su carta di Jan Gossaert detto Mabuse. 1509 circa. Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie.
intervento divino in funzione di infausto presagio: «Proprio nel giorno in cui Nerone (...) vestí la toga virile, la divinità scosse lungamente la terra e, di notte, seminò il panico, indistintamente, tra tutta la gente».
PRESAGI DI SVENTURA Tacito, da parte sua (Ann. XII 43, 1), oltre a inserire, anche lui, l’evento sismico tra i «molti prodigi» di quell’anno (compresa la discesa sul Campidoglio di uccelli del malaugurio!), scrive di «scosse ripetute», del crollo di molte case e di vittime: «Mentre si temeva il peggio, i piú deboli, a causa del panico, morirono calpestati». Si può aggiungere che proprio a quel terremoto potrebbe essere riferita un’iscrizione relativa al restauro di un’edicola fatta costruire cinque anni prima presso il Circo Massimo dal Collegium Augustianum Maius Castrense. Piuttosto violento era già stato il terremoto dell’anno 15, visto che, sempre secondo Dione Cassio (LVII 14, 7), esso «fece crollare un tratto delle mura della città» (le vecchie mura urbane dell’età repubblicana).
Ma il piú grave di tutti i movimenti sismici dell’antichità sembra essere stato, per la Città Eterna, quello del 443. Per quella volta, una tarda fonte letteraria (i Fasti Vindobonienses Posteriores) c’informa della caduta di statue e di «portici nuovi» (ceciderunt statuae et portica nova), forse identificabili in quelli (detti Iovia ed Herculia) pertinenti al complesso del Teatro di Pompeo, nel Campo Marzio, rifatti, alla fine del III secolo, da Diocleziano e Massimiano (donde il nome). Iscrizioni lapidee frammentarie e altri indizi potrebbero inoltre riferirsi a restauri eseguiti dopo quel terremoto nei portici dell’Area sacra di Largo Argentina e, forse, anche al Colosseo. Mentre allo stesso terremoto (che potrebbe aver danneggiato anche la basilica costantiniana di S. Paolo fuori le Mura) si pensa di poter attribuire i crolli documentati dai recenti scavi nelle domus ritrovate nei sotterranei di Palazzo Valentini, nell’area della Crypta Balbi, alle Botteghe Oscure e all’Athenaeum di Adriano, presso piazza Venezia. Altre tracce di crolli riscontrate in
scavi del passato (per esempio, nei Fori di Cesare e di Augusto, ai templi di Venere Genitrice e di Marte Ultore, ma anche al tempio di Apollo Sosiano e nell’area del Templum Pacis) vanno invece riferite a epoca postantica, quando s’era accentuata la vulnerabilità degli edifici monumentali, ormai vecchi di secoli, privi di manutenzione e anzi perlopiú in abbandono; quindi in completo degrado, esposti agli agenti atmosferici, privi di coperture, depredati di elementi anche di tipo strutturale (come le grappe metalliche di congiunzione dei blocchi lapidei).
LA PROFEZIA DI BEDA Poco piú di trent’anni dopo, nel 476, l’evo antico terminava probabilmente con un nuovo terremoto che dovette danneggiare il Colosseo. Anticipazione di quello, disastroso, che si verificò nel 508 (piuttosto che nel 484, come altri pensano, per via di una documentazione non priva d’incertezze), quando un abominandus terrae motus provocò seri danni all’arena e nel podio dell’Anfiteatro. Come attestano i successivi restauri menzionati in ben quattro epigrafi gemelle, due delle quali si trovano ancora sul posto. Questa, però, è già... storia che ha a che fare col Medioevo, al quale appartiene anche la celebre «profezia» apocalittica del venerabile Beda: Quamdiu stabit Colyseus stabit et Roma; cum cadet Colyseus cadet et Roma; cum cadet Roma cadet et mundus. Ossia: «Fino a quando resiste il Colosseo resiste anche Roma; quando crollerà il Colosseo crollerà anche Roma; quando crollerà Roma crollerà anche il mondo».
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SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti
LA RIVINCITA DELLA MARY ROSE IMPONENTE E DOTATA DI QUASI 100 CANNONI, UNA DELLE NAVI PIÚ TEMIBILI DELLA FLOTTA INGLESE OPERÒ PER SOLI 34 ANNI. MA, GRAZIE AL RECUPERO, SI È TRASFORMATA IN UNA AUTENTICA MINIERA DI NOTIZIE ED È ORA UNA DELLE IMBARCAZIONI PIÚ AMMIRATE AL MONDO
F
acendo nostro ancora una volta il concetto di «lungo Medioevo» teorizzato dal grande storico francese Jacques Le Goff (1924-2014), affrontiamo una straordinaria scoperte archeologica del XX secolo. La storia ha inizio nel 1511, quando viene varata una delle piú importanti navi da guerra della flotta inglese: la Mary Rose. Si trattava di una «caracca», cioè di un grande veliero a quattro alberi,
che venne impiegato in numerosi scontri contro la flotta francese.
TEMIBILE GIÀ NELL’ASPETTO La sua prerogativa principale era la potenza di fuoco: in un secondo riallestimento, datato al 1536, la Mary Rose fu dotata di ben 91 cannoni. Lo scafo misurava circa 38 m ed era largo quasi 12. Questa grandiosa macchina da guerra Qui accanto: la Mary Rose, in una illustrazione tratta dall’Anthony Roll, un registro delle navi inglesi in servizio al tempo dei Tudor compilato da Anthony Anthony. 1546. Londra, British Library. In basso: materiali recuperati a bordo della Mary Rose, colata a picco il 19 luglio del 1545. Portsmouth, The Mary Rose Museum.
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doveva incutere terrore alla sola vista, non soltanto per via dei cannoni: all’occorrenza, infatti, i marinai-soldati potevano usare anche i temibili grandi archi (longbows), gli stessi che avevano decretato la vittoria inglese nella battaglia di Agincourt (1415). La Mary Rose, però, ebbe una breve carriera: affondò il 19 luglio del 1545, al largo di Portsmouth, in circostanze poco chiare. Secondo alcuni fu un problema legato al peso eccessivo della nave – pari a ben 700 tonnellate –, che avrebbe giocato un ruolo determinante durante una manovra, piegando il veliero su un fianco, fino a rovesciarlo. Per ironia della sorte tutto avvenne sotto gli occhi (piuttosto increduli, dobbiamo immaginare) del re d’Inghilterra, Enrico VIII, che si trovava nel castello di Southsea. Alcuni secoli piú tardi, la storia della Mary Rose diventa archeologia. Viene avvistata nel 1836 e identificata grazie al recupero di alcuni oggetti; ma si deve attendere il 1982 perché sia completato il recupero dello scafo. All’indomani del complesso intervento, la Mary Rose si guadagna alcune delle sue piú note definizioni: «Pompei d’Inghilterra» e «macchina del tempo». Soprannomi non proprio originali, ma giustificati dallo straordinario stato di conservazione del relitto, favorito dalle condizioni
In alto: un particolare dell’interno dello scafo della Mary Rose. In basso: Portsmouth. Il Mary Rose Museum, inaugurato nel 2013.
quotidiana, perché, assieme alla nave, affondò e perse la vita l’intera ciurma, composta da 185 soldati, 200 marinai e 30 fucilieri.
anaerobiche in cui si è trovato per secoli. Sono stati contati circa 20 000 oggetti, tra cui le scotte della nave, i vestiti dei membri dell’equipaggio e perfino i loro accessori in cuoio. La Mary Rose, insomma, è un vero e proprio trattato sull’ingegneria navale del XVI secolo, sull’equipaggiamento dei marinai e sulla loro vita
ARCIERI E BARBIERI In tutto sono stati recuperati 179 scheletri, le cui analisi hanno fornito importanti informazioni. Si trattava di uomini tra i 16 e i 30 anni, in maggioranza provenienti dall’Inghilterra occidentale. Grazie allo studio delle ossa, in alcuni casi è stato possibile riconoscerne le attività prevalenti:
come per gli arcieri, identificati per la medesima deformazione nella zona delle spalle. I reperti hanno anche permesso di risalire alle professioni di alcuni membri dell’equipaggio: come il barbierechirurgo, figura fondamentale a bordo (era anche dentista e farmacista!). E poi, i passatempi: strumenti musicali, giochi… Tutto ciò che era permesso e possibile per alleviare le fatiche di una vita dura e intensa, che iniziava alle sette del mattino, andava avanti fino a tardi e trovava nei pasti momenti fondamentali di pausa e di recupero delle energie. La dieta era a base di molta carne e pesce, gallette, burro, formaggio, innaffiati da quantità considerevoli di birra, preferita alle altre bevande per il suo elevato apporto calorico. La Mary Rose si può oggi visitare nello splendido museo allestito a Portsmouth. Un’opportunità unica al mondo per compiere un viaggio nel tempo a bordo di una nave da guerra del XVI secolo. Info: www.maryrose.org
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
TUTTO DIPENDE DA SOTHIS NELL’ESTATE DEL 139 D.C., SOTTO IL REGNO DI ANTONINO PIO, SI VERIFICÒ UN’ECCEZIONALE CONVERGENZA ASTRALE: UN EVENTO CHE VENNE COMMEMORATO DA UN’EMISSIONE SPECIALE, INCENTRATA SULLO ZODIACO
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el mondo antico, l’astronomia e l’astrologia costituivano un campo unico di indagine le cui origini risalgono alle civiltà che per prime le elaborarono tramandandole, quali quella babilonese, l’egizia e poi quella greco-romana (senza dimenticare la «disciplina etrusca»): la loro conoscenza era considerata fondamentale non soltanto per fini pratici – dalla navigazione alla
coltivazione –, ma costituiva anche il grande «meccanismo» universale entro il quale si muoveva la storia delle nazioni, dei regnanti e dell’uomo comune.
SPECIALISTI DI RANGO Lo studio di tale scienza era dunque un campo di grande rilevanza politica e sociale, riservato a specialisti che spesso erano un tutt’uno con i corpi sacerdotali, e a
volte anche con gli stessi governanti. Visibili semplicemente a occhio nudo sulla sfera celeste, le costellazioni diedero progressivamente origine allo Zodiaco, dal greco zodiakos (da zodion, «figura, segno celeste», diminutivo di zoon, «animale» e poi di «immagine, figura»), al quale si aggiunge, sottinteso, il termine kyklos «(circolo) delle figure celesti». Dunque lo Zodiaco è la rappresentazione in forma circolare e figurata – animali e altri esseri – della zona della sfera celeste che il Sole percorre in 12 mesi, entro la quale si muovono la Luna e i pianeti. L’origine babilonese dello Zodiaco è provata Frammento di medaglione in pietra calcarea raffigurante il busto della dea Atargatis-Tyche circondato dai segni dello Zodiaco, da Petra (Giordania). I sec. d.C. Cincinnati, Cincinnati Art Museum.
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A sinistra: moneta in bronzo di Antonino Pio. Zecca di Alessandria, 144-145 d.C. Al dritto, il busto dell’imperatore; al rovescio, busto di Serapide, circondato dai sette pianeti (Giove, Saturno, Marte, Sole, Luna, Venere, Mercurio) e dai segni dello Zodiaco. In basso: tetradracma di Antonino Pio. Zecca di Alessandria, 142-143 d.C. Al dritto, busto dell’imperatore; al rovescio, la Fenice. dalle figurazioni che compaiono sui cippi di confine (kudurru) e su alcune gemme, il tutto risalente al XIV secolo a.C.; naturalmente, tali conoscenze furono poi riprese e sviluppate dalle altre popolazioni mediterranee.
UNA SCIENZA COMPLESSA La cartografia del cielo e quella con i personaggi zodiacali – legati, questi ultimi, ai miti di origine delle varie culture che li produssero – venivano riportate sui supporti piú diversi, dalla pietra alle fasce da usarsi per le mummie, né mancano immagini dell’intero cerchio zodiacale riprodotte sulle monete. Gli Egiziani, poi, portarono lo studio dei moti celesti a esiti scientifici di grande complessità e raffinatezza, esplicati nella suddivisione dell’anno e sulle sequenze delle inondazioni del Nilo. Tale scienza influiva sensibilmente sulla vita quotidiana del faraone, cosí come dell’uomo comune.
Connessi alle fasi celesti sono i calendari: quelli egiziani, vari ed estremamente complicati, si basano su diverse modalità di calcolo che prendono a riferimento le stelle, i pianeti e le inondazioni. Uno di essi si fonda sul Grande Ciclo della stella Sothis (era la dea della rigenerazione Sopedet, assimilata anche a Iside), identificata con Sirio della costellazione del Cane, stella connessa ai movimenti del Sole, della Luna e all’attività del Nilo, e dalla quale dipendevano i cicli del Grande e del Piccolo Anno. Sothis-Sirio toccava sull’orizzonte lo stesso punto toccato dal Sole una volta ogni 1461 anni e questo momento dava inizio a una nuova era: il ciclo sotiaco. Orbene, il 19 luglio del 139 d.C., sotto il regno di Antonino Pio si verificò questa convergenza millenaria, che segnava, come è facile immaginare, un momento di grandi festeggiamenti popolari, auspicio di prosperità e fortuna e da
assegnarsi, in un certo senso, alla figura dell’imperatore regnante, voluto dal fato proprio in questo periodo. E anche a Roma furono celebrati, sempre sotto Antonino Pio nel 148 d.C., i Ludi Saeculares, festa giubilare di Roma che si teneva ogni 100 anni circa.
TRIPUDIO ICONOGRAFICO L’allineamento Sothis-Sole fu commemorato dalla zecca di Alessandria con un’emissione senz’altro speciale incentrata sullo Zodiaco, databile all’anno VIII del regno di Antonino Pio (144/5 d.C.) e contraddistinta dal programmatico tripudio iconografico dei segni zodiacali, racchiusi tutti nel tondello di una moneta intorno alla testa centrale – sola o in coppia – di importanti divinità egizio-romane quali Serapide, Iside e Serapide, Helios e Selene. Ogni segno ebbe in seguito la sua moneta, come vedremo prossimamente. Ad aprire la serie dell’era millenaria di Sothis è però una moneta dedicata, al rovescio, alla Fenice. Infatti, in questo eccezionale momento di allineamento degli astri si riteneva avvenisse anche un evento prodigioso e beneaugurante, la rinascita della Fenice dalle sue ceneri: immagine della continuità eterna della rigenerazione vitale, una palingenesi cosmica che annunzia l’avvento di una nuova età di pace e prosperità, sempre sotto il segno dell’impero di Roma. (1 – continua)
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Giovanni Brizzi
CANNE La sconfitta che fece vincere Roma Il Mulino, Bologna, 198 pp., con carte b/n 15,00 euro ISBN 978-88-15-26416-9 www.mulino.it
Duemila anni fa, in Puglia, in un luogo che ancora oggi non è stato identificato con assoluta certezza, si combatté uno degli scontri campali piú celebri della storia: era il 2 agosto del 216 a.C. e le truppe di Romani e confederati italici guidate da Gaio Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo si misurarono con l’esercito cartaginese di Annibale nella battaglia di Canne, riportando una sconfitta disastrosa. Come si può immaginare, considerandone il clamoroso epilogo, l’episodio, fin dall’antichità, è stato raccontato, commentato e analizzato infinite volte,
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ma, come dimostra brillantemente Giovanni Brizzi, esistono ancora ampi margini di indagine. Perché Canne non fu soltanto una battaglia, ma si trasformò – a seconda delle prospettive – in un ricordo glorioso, in un incubo da dimenticare, in un affronto che non poteva restare impunito, ma, soprattutto, in un passaggio che avrebbe forse potuto cambiare il corso della storia di Roma. Il saggio si articola in un breve Prologo, al quale seguono due ampi capitoli che aiutano a inquadrare il contesto nel quale maturarono le condizioni che portarono alla battaglia e offrono un ritratto puntuale e articolato del trionfatore di Canne. Forti di questo bagaglio, si possono quindi ripercorrere i fatti che si svolsero in quella lontana estate e appaiono subito evidenti due elementi preponderanti: la sagacia bellica di Annibale, che a Canne fu artefice di un autentico capolavoro tattico, e l’immane violenza dello scontro. Basti pensare che, secondo i resoconti piú noti della battaglia, i Romani avrebbero lasciato sul campo 45 000 (Tito Livio) o addirittura 70 000 (Polibio) caduti. Deposte le armi, si apre la fase forse piú interessante, sia dal punto di vista del vincitore, che da quello degli sconfitti. Brizzi, infatti, affronta una delle questioni che da sempre animano il
dibattito storiografico, vale a dire le ragioni per cui Annibale, forte del successo conseguito, scelse di non sfruttare la situazione, rifiutandosi di puntare direttamente verso Roma. Quest’ultima dal canto suo, seppe trasformare la disfatta in un insegnamento e costruí quella vittoria evocata dal sottotitolo del libro e che giunse, quattordici anni piú tardi, a Zama. Alessandro Moriccioni
BEHIND THE MUSEUM Le vita segreta dei musei Edizioni Espera, Monte Compatri (Roma), 376 pp., ill. col. 24,00 euro ISBN 9788894158205 www.edizioniespera.com
È ricco di spunti interessanti questo viaggio «dietro le quinte» dei musei e ha il merito di accendere i riflettori su un numero considerevole di realtà grandi e piccole, confermando la vitalità di un mondo che, soprattutto in Italia, ha spesso faticato a scrollarsi di dosso lo stereotipo di luogo antiquato per definizione e adatto soprattutto agli addetti ai lavori. Fortunatamente, negli ultimi decenni si sono registrate significative inversioni di tendenza, di cui Moriccioni dà conto a piú riprese nella sua ampia trattazione. Il volume scaturisce, come spiega l’autore stesso, dalla sua curiosità di profano, che lo ha spinto
a conoscere collezioni di varia natura, in Italia e all’estero, cercando sempre di raccogliere i commenti e i pareri di chi ha il compito di gestirle. Il risultato, dunque, non è un manuale di museologia o museografia, ma la fotografia aggiornata di un campione significativo del patrimonio museale. Robin Waterfield
NUVOLE A OCCIDENTE La conquista romana della grecia 21 Editore, Palermo, 318 pp., ill. b/n 18,00 euro ISBN 978-88-99470-14-2 www.21editore.it
Come dichiara nell’Introduzione, Robin Waterfield si è cimentato con questa storia della conquista romana della Grecia nella convinzione che fosse ancora attuale la celebre affermazione dello storico Polibio di Megalopoli, il quale, all’inizio delle sue Storie, si chiese se potesse esistere al mondo qualcuno «di vedute cosí
ristrette o di cosí scarsa curiosità» da non voler sapere in che modo Roma fosse stata capace di porre le basi del suo impero in poco piú di mezzo secolo, grazie al rovesciamento del regno
psicologici e ideologici di quella conquista, mirabilmente sintetizzati da Orazio, quando disse che «la Grecia conquistata conquistò il suo selvaggio vincitore». Alessandra Grimaldi, illustrazioni di Laurie Elie e Forough Raihani
HATSHEPSUT La figlia del sole L’Asino d’oro Edizioni, Roma, 72 pp., tavv. col. 25,00 euro ISBN 978-88-6443-389-9 www.lasinodoroedizioni.it
di Macedonia. A meno di voler passare per bigotti o indifferenti, si sarebbe dunque tentati di pensare che leggere questo libro sia quasi un obbligo, ma, in realtà, ci sono ottime ragioni per farlo e che nulla hanno a che vedere con la propria personale reputazione. Waterfield, infatti, si dimostra capace di ripercorrere la complessa vicenda con piglio sicuro e, soprattutto, confeziona un saggio chiaro e ben leggibile, ma mai banale, riuscendo in pieno nell’intento di rivolgersi, come scrive ancora nelle pagine introduttive, non solo agli studiosi, ma anche agli studiosi universitari e a chiunque sia interessato alla storia antica. Né manca di analizzare i risvolti
quanto le concessioni all’immaginazione mantengono sempre una solida verosimiglianza e lasciano intuire una solida documentazione. Se ne giova la lettura, che risulta scorrevole e accattivante anche nei passaggi piú «tecnici», che hanno il merito di definire in maniera puntuale il contesto storico e sociale nel quale Hatshepsut visse e operò.
Un operato che lasciò il segno non soltanto per la sua condizione di donna di potere, ma anche perché negli anni in cui poté governare, promosse imprese importanti e, fra l’altro, commissionò la realizzazione del maestoso tempio funerario di Deir el-Bahari che tuttora possiamo ammirare. (a cura di Stefano Mammini)
Impostato come un racconto, questo volume, del quale meritano d’essere sottolineate l’eleganza della veste grafica e la gradevolezza delle illustrazioni realizzate da Laurie Elie e Forough Rahiani, ripercorre la straordinaria vicenda di Hatshepsut, che, rimasta vedova del faraone Thutmose II, assunse la coreggenza dell’Egitto per via della giovane età del nipote e figliastro Thutmose III, ma, di lí a poco, divenne a tutti gli effetti la sovrana del Paese. Quella di Alessandra Grimaldi è una biografia romanzata nel senso migliore del termine, in
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