Archeo n. 384, Febbraio 2017

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2017

NARRARE PER IMMAGINI

RECUPERI ECCELLENTI

MUSEO DI CHIUSI

MINIERE

SPECIALE PRIMA DELL’ALFABETO

Mens. Anno XXXIII n. 384 febbraio 2017 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

QUANDO ROMA FU «INVASA» DAI SIRIANI

eo .it

UN MUSEO PER LA CIVILTÀ ETRUSCA

CHIUSI

PRIMA DELL’ALFABETO

COME E PERCHÉ NACQUE LA SCRITTURA CUNEIFORME? UNA SPETTACOLARE MOSTRA A VENEZIA

www.archeo.it

IN EDICOLA L’ 8 FEBBRAIO 2017

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ARCHEO 384 FEBBRAIO

RIVELAZIONI

€ 5,90



EDITORIALE

LA CIVILTÀ MESOPOTAMICA RINASCE A VENEZIA Venezia, già sede di mostre archeologiche entrate a far parte della nostra «memoria storica» (ricordiamo quella sui Fenici, del 1988, o quella sugli Etruschi, del 2000/2001, allestite in Palazzo Grassi), ci sorprende con una nuova iniziativa: nelle sale della settecentesca biblioteca di Palazzo Loredan (in Campo Santo Stefano, a pochi passi dal Ponte dell’Accademia), sede dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, è da pochi giorni allestita una collezione mai esposta al pubblico. Si tratta, ecco la prima sorpresa, di una raccolta «locale», nel senso che fu riunita, in decenni di appassionati acquisti, da Giancarlo Ligabue (1931-2015), imprenditore e paleontologo veneziano, fondatore dell’omonimo Centro Studi e Ricerche confluito, l’anno scorso, nella Fondazione Giancarlo Ligabue, promossa e oggi presieduta dal figlio Inti. La seconda sorpresa è rappresentata dalla categoria dei reperti: sono sigilli e tavolette cuneiformi, originari della Terra tra i Due Fiumi, di inestimabile valore storico e artistico, esposti insieme ad alcuni capolavori dell’arte mesopotamica concessi in prestito da grandi istituzioni museali italiane. La dimensione dell’esposizione è inversamente proporzionale alla sua rilevanza, al suo fascino. Come ama ribadire il suo curatore, l’assiriologo Frederick Mario Fales (autore dello Speciale di questo numero, alle pp. 70-101), si tratta di una mostra «da meditazione». I reperti riuniti nelle cinque sale della biblioteca non «sopraffanno» il visitatore, ma lo accolgono e lo invitano a conoscere: la storia delle origini della scrittura, la primitiva funzione dei simboli impressi su «buste» e tavolette d’argilla, il rapporto di quei segni con le piú antiche lingue parlate dagli abitanti della terra di Sumer e Akkad, il manifestarsi delle prime «lettere» alfabetiche negli archivi di Ugarit… Una terza sorpresa ci riservano, poi, gli oggetti riuniti nella grande vetrina dell’ultima sala: quanti di noi sapevano, infatti, che l’esploratore delle leggendarie città mesopotamiche di Nimrud e Ninive, l’inglese Austen Henry Layard, si ritirò – dopo una intensa carriera da archeologo, politico e diplomatico – proprio a Venezia, in un antico palazzo affacciato sul Canal Grande? E che nella città lagunare, fu tra i fondatori della «Compagnia di Venezia e Murano», adoperandosi cosí per il recupero delle tecniche dell’arte vetraria antica? Se, dunque, come ci ricorda Fales «oggi il Vicino Oriente si è allontanato in maniera impressionante» e drammatica, quell’universo di antica civiltà rinasce, inaspettatamente, proprio a Venezia. Un evento da accogliere con consapevole gratitudine. Andreas M. Steiner

La sezione della mostra «Prima dell’alfabeto» in cui sono riuniti alcuni oggetti che evocano lo studio di Austen Henry Layard. Fra gli altri, con la copertina rossa, si riconosce una copia del suo volume su Ninive.


SOMMARIO EDITORIALE

La civiltà mesopotamica rinasce a Venezia

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

8

SCAVI Prosegue con risultati lusinghieri l’esplorazione della necropoli di Guado di Sferracavallo, a Norchia, nell’Etruria interna 8 ALL’OMBRA DEL VESUVIO Gli ultimi interventi del Grande Progetto Pompei riaprono le porte della Casa dei Vettii e di altre lussuose dimore della Regio VI 10 SCOPERTE Dalle ultime indagini condotte dal Progetto GaVe la conferma del ritrovamento di un tratto della via Claudia Augusta 12 A TUTTO CAMPO Lo studio della sostenibilità in età

antica amplia e arricchisce le prospettive di indagine sulla frequentazione del territorio

ARCHEOTRAFFICO 14

(Archeo)romanzo criminale

42

di Maurizio Pellegrini

MOSTRE Giocattoli in uso fra i bambini e le bambine vissuti in età etrusca e romana sono di scena a Perugia, nel Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria 16

MUSEI

Chiusi, città etrusca 50 di Maria Angela Turchetti

50

PAROLA D’ARCHEOLOGO L’operazione «Tempio di Hera» ha sgominato una banda di scavatori clandestini che da tempo saccheggiavano il sito di Capo Colonna, in Calabria 18

DA ATENE

Il destino è scritto nei suoni

LA METALLURGIA/2 26

E venne il tempo delle miniere

di Valentina Di Napoli

di Flavio Russo

STORIA

30

Fotogrammi di storia

64

30

di Andrea Augenti e Christian Greco In copertina tavoletta con registrazione di derrate alimentari, da Fara/Shuruppak o Nippur. Periodo Proto-dinastico III a, XXV sec. a.C.

Anno XXXIII, n. 384 - febbraio 2017 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda,

Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Carlo Citter è ricercatore di archeologia cristiana e medievale all’Università di Siena. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Valentina Di Napoli è archeologa. Frederick Mario Fales è professore ordinario di storia del Vicino Oriente antico all’Università degli Studi di Udine. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Christian Greco è direttore del Museo Egizio di Torino. Maria Katsinopoulou è archeologa. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Maurizio Pellegrini è archeologo direttore della Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell’Etruria meridionale. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Simona Sterpa è archeologa. Maria Angela Turchetti è direttrice del Museo Nazionale Etrusco di Chiusi. Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio Stampa: copertina e pp. 20-21, 48 (alto), 70-71, 80-86, 88-96, 98-99, 100/101 – Andreas M. Steiner: pp. 3, 101 – Cortesia degli autori: pp. 8, 9 (sinistra), 14, 42-46, 47 (alto), 48 (basso), 66 – Doc. red.: pp. 9 (destra), 12 (basso), 32, 35, 36-37, 39 (sinistra), 40/41, 47 (centro e basso), 61 (basso), 64, 72/73, 74, 76/77,103-108, 110-111 – Cortesia Soprintendenza Pompei: pp. 10-11 – Cortesia Progetto GaVe: pp. 12 (alto; foto Studio Fracaroli, Nogara), 13 – Cortesia Paolo Nannini: p. 15 – Cortesia Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria, Perugia: p. 16 – Cortesia Polo Museale della Calabria: p. 18 – Cortesia Comando Carabinieri TPC: p. 19 – DeA Picture Library: p. 97 (alto); G. Dagli Orti: pp. 30/31, 32/33; C. Sappa: pp. 66/67; G. Nimatallah: p. 69; A. Dagli Orti: p. 97 (basso) – Bridgeman Images: pp. 34/35, 38 – Shutterstock: pp. 39 (destra), 41, 65 – Cortesia Museo Nazionale Etrusco di Chiusi: pp.


110 Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Il paesaggio siamo noi

102

di Daniele Manacorda

102

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Il granchio e la luna 110 di Francesca Ceci

LIBRI

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SPECIALE

In Mesopotamia, alle origini della scrittura

QUANDO L’ANTICA ROMA... ...fu «invasa» dai Siriani

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di Romolo A. Staccioli 50, 51, 52 (basso), 53, 54-55, 56 (sinistra), 57, 58-60, 61 (alto), 62, 63 (alto) – Stefano Mammini: pp. 50/51, 52 (alto) – Da: Mario Iozzo, Materiali Dimenticati. Memorie Recuperate, Chiusi 2007: p. 56 (destra) – Erich Lessing Archive/Magnum/Contrasto: p. 68 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 63, 75. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Editore: My Way Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Concessionaria per la pubblicità extra settore: Lapis Srl Viale Monte Nero, 56 - 20135 Milano tel. 02 56567415 - 02 36741429 e-mail: info@lapisadv.it Pubblicità di settore: Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com tel. 335 8437534 Direzione, sede legale e operativa via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 00696.352 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI)

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Prima dell’alfabeto 70 di Frederick Mario Fales

Stampa: NIIAG Spa - Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18 ] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 E-mail: collez@mondadori.it Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti casella postale 1879, 20101 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


n otiz iari o SCAVI Etruria

NORCHIA: UNA SORPRESA TIRA L’ALTRA...

S

i è conclusa nell’agosto scorso la terza campagna di scavo nella necropoli di Guado di Sferracavallo, a Norchia (Viterbo). L’esplorazione di questo settore prende il via dalla fortunata scoperta della Tomba a Casetta di Vel, avvenuta nel 2010 (vedi «Archeo» n. 365, luglio 2015) e che ha portato alla formulazione di un progetto non solo di ricerca e scavo, ma anche e soprattutto di conservazione, recupero e valorizzazione delle numerose strutture funerarie che caratterizzano l’intera area di Guado di Sferracavallo. Le ultime indagini hanno portato al ritrovamento di due nuove tombe, denominate GDS 03 e GDS 04. La prima, che appariva violata, ha in facciata la tipica porta finta etrusca, in parte però scomparsa. Accanto vi è un masso crollato, dove resta una piccola scaletta

8 archeo

In questa pagina: Norchia, necropoli di Guado di Sferracavallo, tomba GDS 03. L’interno del sepolcro (a destra), dove sono state contate ben 55 sepolture, e una veduta esterna della struttura. scavata nel tufo, probabilmente l’accesso alla parte superiore della tomba, destinata alle cerimonie funerarie. L’interno consiste in un grande vano raggiungibile tramite un dromos (corridoio) e chiuso originariamente da blocchi di tufo litoide, di cui resta una sola pietra. La camera è formata da un primo ambiente squadrato e prosegue

con un lungo corridoio rettangolare, il tutto contraddistinto da una serie cospicua di sepolture, ben 55, ricavate scavando direttamente nel banco tufaceo e disposte perlopiú lungo le pareti. Alcuni loculi ubicati in prossimità dell’entrata appartengono probabilmente a un’epoca successiva rispetto alla costruzione originaria del complesso funerario e furono realizzati utilizzando lastre di chiusura appartenente alle sepolture piú antiche. La tomba, già violata, è stata accuratamente ripulita e l’operazione ha permesso il recupero di una considerevole quantità di materiale pertinente ai corredi sconvolti, il cui studio fornirà importanti dati per stabilire la cronologia della sepoltura, che, come testimoniano alcune monete in bronzo, continua in età romana. A pochi metri di distanza, è stata scavata un’altra sepoltura (GDS 04), contraddistinta dal grosso foro creato dai ladri per accedere direttamente alla camera funeraria,


CRETA

La signora venuta dalla pioggia

come dimostrano i resti di strutture tufacee semidistrutte, di difficile interpretazione e rinvenute all’interno dello stesso vano. Ma la vera e importante sorpresa è scaturita dallo scavo del dromos: nell’ultimo strato di riempimento, accanto alla grossa pietra di chiusura della camera, sono stati ritrovati uno specchio in bronzo e 21 vasi in terracotta, tra i quali spiccano due bellissime situle con beccuccio a volto di Sileno barbato, tipiche della fine del IV secolo a.C. Una oinochoe (brocca da vino) con becco a cartoccio recuperata nell’ultima campagna di scavo condotta nella necropoli di Guado di Sferracavallo a Norchia (Viterbo).

Gli interventi fin qui descritti, ai quali faranno seguito altre due campagne annuali, già programmate, stanno arricchendo in maniera significativa la conoscenza di questo settore della necropoli di Norchia, dopo decenni durante i quali gli unici scavi sono stati quelli clandestini. E lo scopo di tutti coloro che partecipano al progetto «NorchiaSferracavallo» è quello di valorizzare e studiare le differenti strutture funerarie in maniera piú chiara, precisa e dettagliata, tanto delle tombe già violate che di quelle ancora intatte, e di restituire a tutti, attraverso il restauro e l’esposizione museale, il patrimonio che tanto generosamente ci hanno lasciato (forse immeritatamente…) gli antichi abitanti di una delle piú suggestive città dell’Etruria meridionale interna. Gli scavi nella necropoli di Guado di Sferracavallo sono frutto dalla sinergia e cooperazione tra la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’Area Metropolitana di Roma, la Provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale (Funzionario Responsabile Alessia Argento), il Trust di scopo Sostratos con Kostelia srl, e l’associazione archeologico-culturale viterbese Archeotuscia; le indagini si svolgono anche grazie alla disponibilità dei proprietari dell’area, che hanno accolto favorevolmente il progetto. Francesca Ceci e Simona Sterpa

Era il 4 gennaio scorso quando Michalis Mpachlitzanakis, un agricoltore di Ierapetra (località sulla costa sud-orientale dell’isola di Creta), dopo una fortissima pioggia, intravide sul terreno qualcosa che attirò la sua attenzione. Come ha poi raccontato: «Affacciandomi sul piccolo torrente formato dalla pioggia, ho scorto una testa in marmo dalle forme bellissime, che affiorava dal terreno. Ho subito contattato la Sovrintendenza archeologica e, poco dopo, il custode del museo locale l’ha presa in consegna. Sono contento – ha quindi aggiunto – di aver fatto il mio dovere e di sapere che, dopo le operazioni di ripulitura, la statua potrà essere esposta nel Museo Archeologico di Ierapetra». La sovrintendente della regione cretese di Lasithi, Chrysa Sofianou, ha confermato l’importanza del reperto, una testa in marmo di epoca romana raffigurante un personaggio femminile, verosimilmente databile al III secolo d.C., in ottimo stato di conservazione (vedi foto in basso). La tecnica scultorea con cui è resa l’acconciatura non è molto diffusa in Grecia. Ierapetra ha dimostrato già in passato un notevole interesse archeologico, e adesso alle sue collezioni si aggiunge la nuova scoperta. Maria Katsinopoulou

archeo 9


ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

UNO SPLENDIDO RIONE È FINALMENTE VISITABILE UNA DELLE ZONE RESIDENZIALI POMPEIANE PIÚ RICERCATE DALLA NOBILTÀ CITTADINA

S

picca, fra gli ultimi interventi del Grande Progetto Pompei, il recupero della Regio VI, situata, con il suo tessuto urbanistico regolare suddiviso in 17 insulae, nel settore nord-occidentale del pianoro urbano (vedi «Archeo» n. 360, febbraio 2015). Il quartiere comprende edifici di rilievo, come le celebri domus del Fauno, del Poeta Tragico e dei Vettii, quest’ultima riaperta alle visite. L’asse stradale principale del quartiere è via di Mercurio, che con la sua notevole ampiezza (7 m circa) corrisponde al cardo maximus del centro arcaico: la Regio è delimitata a est da via del Vesuvio, che ricalca un tracciato del IV secolo a.C., e, a ovest, dalla via Consolare, una strada di origine antichissima; a nord e a ovest, il quartiere è invece compreso dalle mura urbiche, nel cui angolo nord-occidentale si apre uno dei principali accessi alla città, Porta Ercolano, da dove si raggiungevano le saline, situate a poche miglia di distanza (nella zona dell’odierna Torre Annunziata). Sin dal II secolo a.C., l’area assunse una vocazione residenziale preferita dall’aristocrazia sannitica che vi costruí agiate dimore, poi

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inglobate nelle case romane di Pansa, della Fontana Grande, dei Dioscuri, dell’Ancora, di Sallustio e, in particolare, del Fauno, che occupa un’intera insula.

DIMORE LUSSUOSE La zona conservò la sua vocazione anche dopo la deduzione della colonia e nella prima età imperiale, con la costruzione di altre

Affresco della Casa dei Vettii raffigurante Dedalo che dona a Pasifae, moglie di Minosse, la vacca di legno da cui nascerà il Minotauro. importanti domus, fra cui quelle del Labirinto, delle Vestali, degli Amorini Dorati e dei Vettii. La Regio VI è stata sottoposta a un impegnativo intervento di messa in sicurezza e di restauro che ha


A sinistra: una delle casseforti rinvenute nella Casa dei Vettii. In basso: particolare dell’affresco noto come «Toletta di Ermafrodito», nella Casa di Adone Ferito.

interessato 56 000 mq circa. Molti lavori hanno riguardato aree poco note ed escluse dai principali itinerari di visita, rimaste a lungo quasi abbandonate. Gli interventi conclusi hanno risolto i principali problemi di deterioramento strutturale degli edifici.

PIANTA A DOPPIO ATRIO Fra i casi piú significativi, si può ricordare la domus del Labirinto, cosí chiamata dal soggetto presente su un mosaico di uno dei cubicula padronali, che venne edificata nel tardo II secolo a.C., unendo edifici precedenti. La residenza presenta una pianta a doppio atrio – il principale tetrastilo e il secondario tuscanico – e un ampio peristilio, oltre a un settore termale privato e a uno spazio per la produzione interna del pane. Dopo aver subito danni nell’assedio sillano dell’89 a.C., la domus divenne proprietà della potente famiglia dei Sextilii; riportò notevoli danneggiamenti ancora col terremoto del 62 d.C., come evidenziano sui muri perimetrali le diverse ammorsature in laterizio e le cuciture in opera quadrata nelle lacune dell’opera incerta, mentre nel peristilio furono ricostruite alcune colonne. Fra i complessi restituiti al pubblico si segnala poi la Casa di Adone Ferito, notevole per gli affreschi a soggetto mitologico: grazie a una

erogazione liberale (proventi dalla vendita del libro su Pompei di Alberto Angela), sono stati restaurati i due dipinti con la grande composizione sulla parete nord del giardino che dà il nome alla casa (Adone morente soccorso da Venere e circondato da amorini) e con la «Toletta di Ermafrodito», in un ambiente a sud della casa. E ancora la Casa dell’Ancora, su via di Mercurio, con un’originale planimetria abitativa; prende il nome dalla raffigurazione presente sul mosaico del vestibolo ed è articolata in settori disposti su due livelli: ambienti di rappresentanza e privati intorno all’atrio e all’ariosa terrazza, e il grazioso giardino sottostante racchiuso da nicchie absidate e da un elegante portico. Interessanti dati sulle fasi costruttive dell’edificio provengono dagli scavi di un triclinio e dal giardino porticato che, secondo l’archeologo Maiuri, sembra essere un prototipo dei giardini delle ville rinascimentali italiane.

SOTTO L’EGIDA DEL DIO PRIAPO Ma la maggiore novità è sicuramente la riapertura parziale della Casa dei Vettii. La signorile dimora, per anni chiusa, oggi svela gli ambienti d’ingresso – posti sotto la protezione di Priapo, dio dal grande fallo dipinto a destra del portone e simbolo della prosperità

dei proprietari della casa, i fratelli commercianti ex liberti Aulus Vettius Conviva e Restitutus – con l’atrio e i suoi cubicula, e il pregevole triclinio con affreschi a tema mitologico. Il legame dei proprietari con Priapo è confermato dalla presenza di una statua in marmo (a lungo «nascosta» nei depositi e adesso esposta temporaneamente nell’atrio), che originariamente decorava lo scenografico giardino e che fu accantonata, al momento

dell’eruzione, in una stanza della casa. Sempre nell’atrio è stata sistemata una delle due casseforti in bronzo riccamente decorate a sbalzo e cesello, appena restaurate e in origine posizionate ai lati di questo spazio. Altro ambiente visitabile è il triclinio abbellito da ricercati quadri policromi, in antico tenuto poco illuminato affinché la troppa luce non alterasse i colori e la godibilità delle scene, come in una vera e propria pinacoteca. Le raffigurazioni mitologiche mostrano al centro delle tre pareti Arianna abbandonata da Teseo sull’isola di Nasso; Dedalo che dona a Pasifae, moglie di Minosse, la vacca di legno dalla quale nascerà il Minotauro; Mercurio, invitato da Zeus, che lega Issione su una ruota di fuoco che gira continuamente nel cielo per punirlo di aver concupito Giunone.

a r c h e o 11


DANIMARCA

Il ritorno di Odino Sul finire della scorsa estate, Odino, grande e potente dio della guerra e della poesia, si è reso protagonista di un’inaspettata «apparizione»... In Danimarca, nei pressi di Mesinge, sull’isola di Fionia, un appassionato munito di metal detector, Søren Andersen, ha rinvenuto una minuscola figura maschile a tutto tondo, che gli archeologi hanno ipotizzato essere una rappresentazione del dio, alta appena 5 cm. Come hanno dichiarato Claus Frederik Sørensen e Malene Refshauge Beck, dei Musei Orientali del Funen, il reperto è databile all’VIII-IX secolo d.C. e faceva parte di una collana. Malgrado le dimensioni, le sembianze sono molto ben definite: il personaggio è rappresentato con una corta barba a pizzetto e indossa un elmo, sotto il quale si distingue un’acconciatura a paggetto. Dalla fronte si dipartono due estremità, che gli archeologi indicano non essere due corna, ma la rappresentazione stilizzata dei corvi Huginn e Muninn, fedeli compagni di Odino. In altri reperti, tali estremità terminano con teste di uccello, probabilmente perdute in questo esemplare. La statuetta è ora esposta nel Viking Museum di Ladby. Paolo Leonini

12 a r c h e o

SCAVI Veneto

SULLA VIA CLAUDIA AUGUSTA

S

i è da poco conclusa, a Gazzo Veronese (Verona), la terza campagna di scavo nell’ambito del Progetto GaVe, finalizzato alla riscoperta delle antiche realtà insediative della zona attraverso indagini archeologiche. Quello di Gazzo è un settore peculiare del territorio della Bassa Pianura veneto-lombarda, in quanto ubicato alla confluenza nel Tartaro di diverse aste fluviali di risorgiva e in prossimità del Po: in particolare, le aste fluviali tracciano un percorso di comunicazione verso l’alta pianura, l’area gardesana e la valle dell’Adige, un percorso che sembra avere avuto una ricorrente importanza per l’occupazione

era costruita su un largo terrapieno (10 m circa), formato da riporti di sabbia locale e coperto in origine da ghiaie, provenienti dal bacino dell’Adige a qualche decina di chilometri di distanza. Poiché queste erano in gran parte distrutte dai lavori agricoli e sparse sulla superficie dei campi, è stato possibile seguire il tracciato per alcuni chilometri, osservandone la relazione con l’ambiente naturale: si è capito cosí come la strada non corresse rettilinea, ma a linea spezzata, per sfruttare i dossi che caratterizzavano l’antico territorio, ai lati di una valle/depressione fluvio-palustre. Solo sul lato della strada verso il dosso era aperto un ampio canale (9 m circa), mentre

umana, come testimonia il ritrovamento di reperti che vanno dal Neolitico all’età moderna, senza soluzione di continuità. Le ultime ricerche si sono concentrate sull’importante via romana che da Hostilia (Ostiglia) portava a Verona e poi da qui a Trento e all’Oltralpe: del tracciato, mai indagato in precedenza con puntuali indagini di scavo, si sono raccolti importanti dati topografici, tecnici e cronologici. «Grazie a due trincee aperte perpendicolarmente a un’evidente traccia aerofotografica – spiega Patrizia Basso, che dirige il progetto scientifico –, la strada è stata sezionata, evidenziando che essa

dall’altro lato le acque erano scaricate direttamente nella depressione naturale. La sponda del canale ospitava una necropoli, di cui sono stati finora portati alla luce una trentina di tombe a cremazione – del tipo a cassetta di embrici o ad anfora segata –, allineate su due file parallele lungo la strada, nonché numerosi frammenti lapidei di un monumento funerario, fra cui la testa, i seni e le zampe di una sfinge. Le altre necropoli evidenziate con le ricognizioni e i numerosi monumenti funerari reimpiegati nelle chiese locali attestano la forza attrattiva che il tracciato viario giocò nel paesaggio


In questa pagina: Gazzo Veronese (Verona). Due tombe della necropoli scoperta nell’area attraversata da una strada identificabile con la via Claudia Augusta. Nella pagina accanto: immagine da drone di una delle due trincee aperte lungo la via Claudia Augusta.

rurale del tempo per le deposizioni di quanti vivevano nel territorio. Grandi sorprese hanno rivelato i corredi, in ottimo stato di conservazione: le tombe hanno restituito bottiglie e coppette, balsamari vitrei, lucerne, monete,

ma anche una pedina da gioco, un coltellino in ferro e un paio di orecchini d’oro. Lo studio di tali manufatti e le analisi paleobotaniche, osteologiche e chimiche faranno luce su aspetti importanti del rituale funerario».

La necropoli ha anche permesso di datare alla fine del I secolo a.C. la realizzazione della strada, che quindi sembra riconoscibile nella via Claudia Augusta, menzionata in due cippi miliari rinvenuti presso Merano e Feltre, che la dicono aperta da Druso al tempo delle conquiste alpine (16-15 a.C.) e poi monumentalizzata dal figlio, l’imperatore Claudio. Gli scavi sono stati condotti da una équipe del Dipartimento Culture e Civiltà dell’Università di Verona, d’intesa con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Verona, Vicenza e Rovigo e l’Università «Sapienza» di Roma, con il supporto logistico della ditta SAP e in particolare di Alberto Manicardi. Vi hanno partecipato studenti, dottori di ricerca e dottorandi delle Università di Verona, Ferrara, Trento e Modena, nonché studenti del Liceo Cotta di Legnago, impegnati in un Progetto scuola-lavoro. Giampiero Galasso

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A TUTTO CAMPO Carlo Citter

PAROLE NUOVE PER UN PROBLEMA ANTICO «SOSTENIBILITÀ» E «RESILIENZA» NON SONO PROBLEMI ESCLUSIVI DEL TERZO MILLENNIO. DA SEMPRE, INFATTI, LA GESTIONE DELL’AMBIENTE È UN ELEMENTO CRUCIALE NELL’ESISTENZA DELLE COMUNITÀ UMANE. COME DIMOSTRA IL CASO DEL TERRITORIO DI ROSELLE E GROSSETO…

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a parola sostenibilità risuona ormai quasi ogni giorno, per indicare il principale problema che il nuovo millennio deve affrontare, non senza pregiudizi. Ne segnalo due: il primo è che debba riguardare soltanto la sfera ambientale, il secondo che vada declinata solo al futuro. Ma perché studiare la sostenibilità nel passato? Perché le comunità umane hanno affrontato questo problema da quando sono diventate stanziali, nel Neolitico (fra i 10 000 e i 4000 anni fa, a seconda delle zone), e hanno dovuto misurarsi con risorse, ambiente naturale, tecnologie. Studi recenti mostrano che, pur in assenza di una riflessione teorica, si era sviluppato un livello di conoscenza della sostenibilità di certi comportamenti, diffuso in tutti i continenti, anche in ambienti estremi (deserti e zone artiche). Sostenibilità è inscindibile da resilienza, cioè la capacità di reagire a cambiamenti climatici e ambientali, sia repentini (un’eruzione vulcanica), che di lunga durata (innalzamento del livello del mare). Ma la sostenibilità non è solo attenzione all’ambiente.

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E qui entra in gioco l’approccio storico-archeologico. Dal punto di vista ambientale, per esempio, il sistema curtense dell’Europa altomedievale risultava pienamente sostenibile, ma non lo era sotto il profilo sociale ed economico, se proiettato su un ampio arco temporale. L’azienda agricola (curtis) non era coesa, ma sparsa in piú nuclei, raggruppati in una parte a conduzione diretta (il

dominicum) e una data in affitto a contadini liberi (massaricium). I contadini che toglievano giornate di lavoro ai propri lotti di terra in affitto non lavoravano con la stessa intensità la terra del proprietario. Sulla lunga durata, ne conseguirono il fallimento e la necessità di eliminare il dominicum. Prima del 1000, il sistema curtense, strutturatosi in area franca nei primi decenni


dell’VIII secolo e in Italia poco dopo, era già in crisi. Per questo motivo l’archeologia della sostenibilità non è un goffo tentativo delle scienze umane di rimanere agganciati ai temi caldi del mondo occidentale contemporaneo. Al contrario, essa

La nascita e lo sviluppo di Grosseto, da modesto villaggio a maglie larghe del VII e VIII secolo d.C. a città vescovile e comunale fra il XII e il XIII secolo, trovano una spiegazione piú convincente se collocati in questo quadro. Tale approccio, che contestualizza il sito

Nella pagina accanto: l’area di Roselle e Grosseto: in evidenza, i contorni della laguna e l’andamento dell’Ombrone in età romana (azzurro) e nel 1823 (arancio); il terrazzo geologico (rosso). In questa pagina: l’antica laguna vista dalle colline di Roselle.

vuole essere il contributo che lo studio della cultura materiale può fornire nell’elaborazione di progetti di sviluppo sostenibile, ancorando la sostenibilità nel futuro alle sue profonde radici nel passato.

nell’ambiente naturale, ha permesso di studiare la trama della parcellizzazione agraria registrata per la prima volta nel catasto del 1823-25 come un formidabile palinsesto di azioni umane e naturali su un arco di tempo lunghissimo. Ma ha permesso anche di ipotizzare le trasformazioni della laguna, del fiume, della rete viaria, dello sfruttamento delle risorse, mettendo le vicende storiche a confronto con gli aspetti geografico e geologico. Nel momento di massima espansione, la città poteva sostenere la popolazione di circa 4000 abitanti suggerita dalle fonti: molti per un villaggio medio del periodo (con una media fra 250 e 500 abitanti), ma decisamente pochi per competere con una delle vicine grandi città comunali come Siena o Pisa (che avevano una popolazione oltre dieci volte superiore). Lo studio delle potenzialità produttive della bassa valle dell’Ombrone ha mostrato che l’ambiente naturale poteva sostenere lo sviluppo di una città di grandi dimensioni, attraverso lo sfruttamento integrato della laguna

(sale, pesca), degli spazi fertili del terrazzo (cereali) e delle colline circostanti (pascolo, bosco). Pertanto il mancato sviluppo di una città comunale di proporzioni paragonabili a quelle degli altri coevi centri toscani dipende innanzitutto da fattori politici, nel complesso rapporto fra i detentori del potere che lo ostacolarono. Ma la ricerca ha anche mostrato come la regimazione delle acque sia sempre un problema centrale, che si acuisce nei periodi di maggiore piovosità e innalzamento del livello del mare (come fra il V e il VI secolo d.C.), o durante la cosiddetta piccola era glaciale, fra il XVI e il XIX secolo. Lo sviluppo sostenibile di questo, come di ogni altro contesto, deve quindi passare per il recupero consapevole e sempre piú approfondito del suo divenire storico, che cancella l’immagine di un ambiente naturale immutabile fino alle recenti devastazioni. In questo quadro l’archeologia della sostenibilità può fornire strumenti utili per uno sviluppo realmente sostenibile. (http://unisi.academia.edu/ CarloCitter)

VIVERE SULLA LAGUNA Un caso emblematico è rappresentato dal rapporto fra uomo e ambiente naturale nel territorio di Roselle e Grosseto, nella Toscana meridionale. Qui, da sempre, le comunità umane si sono misurate con la laguna salata, il fiume Ombrone e il terrazzo geologico. La laguna è rimasta accessibile per la raccolta del sale fino al XIV secolo e ha interagito con un terrazzo di origine idrotermale che, dalle colline di Roselle, discende a valle e ha costituito la base su cui si è sviluppata la maglia dell’insediamento umano, fino alla completa colmatura della laguna negli anni Trenta del secolo scorso. Tutti i siti sul terrazzo e a una quota sopra i 10 m slm sono infatti al riparo dalle esondazioni del fiume Ombrone, che era navigabile almeno per un certo tratto.

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MOSTRE Umbria

GIOCATTOLI D’ALTRI TEMPI

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giochi e i giocattoli dei bambini e delle bambine dell’Italia etrusco-italica e poi romana sono al centro della mostra «Giochi da museo», allestita nel Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria, a Perugia. Lungo il percorso espositivo si possono osservare sia giocattoli che immagini di giochi raffigurati, per esempio, su vasi e su specchi: un insieme che riesce a restituire la rilevanza che già nell’antichità gli aspetti ludici avevano nella formazione dei piú piccoli. Diversi giocattoli rinviano ad alcuni ancora presenti nel nostro tempo: è il caso di bambole, oggetti miniaturistici, trottole, sonagli, dadi, palline, animaletti.

In alto: dadi in osso. Perugia, Collezione Bellucci. A sinistra: trottola in ceramica, da Orvieto. Fine del IV-inizi del III sec. a.C. Tra i reperti selezionati, spicca, per esempio, una trottola in ceramica figurata che proviene da via della Cava a Orvieto. Essa presenta una forma biconica schiacciata ed è decorata da linee, tralci vegetali con foglie d’edera e palline. Indagini radiologiche hanno mostrato che, al suo interno, sono presenti otto sassolini che avevano la funzione di assicurare effetti sonori mentre la trottola era in movimento. Può essere datata tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C. Una testimonianza di età romana particolarmente A sinistra: oinochoe attica a figure rosse con la raffigurazione di un bambino e di un dono (un chous) fatto a lui in occasione di una festa dedicata a Dioniso. 425-420 a.C. Torgiano, Museo del Vino. A destra: bambola snodabile in osso. Decenni iniziali del III sec. d.C. Milano, Collezione Sambon.

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significativa è rappresentata dagli oggetti di una casa per bambole appartenuta alla piccola Iulia Graphis. Essi provengono dal corredo funerario della sua tomba rinvenuta in una delle necropoli di Brescello (l’antica Brixellum). I tredici oggetti in piombo, databili nella prima metà del II secolo d.C., riproducono elementi del mobilio, suppellettili e stoviglie: si possono segnalare una cathedra supina, ovvero una sedia per una donna di rango, un tavolino per il banchetto (mensa tripes), un appoggio per contenitori delle vivande (repositorium), o, ancora, un tegame con coperchio, una brocchetta, una lucerna. Singolare è anche un bronzetto proveniente da Cascia e raffigurante un bambino che tiene una palla appoggiata sul fianco, in attesa d’iniziare a giocare: il manufatto sembra potersi datare nel I secolo a.C. Giuseppe M. Della Fina

DOVE E QUANDO «Giochi da museo» Perugia, Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria fino al 17 aprile Orario tutti i giorni, 8,30-19,30 Info tel. 075 5727141; http://polomusealeumbria. beniculturali.it



PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

LA BANDA DEL PROFESSORE UNA RECENTE OPERAZIONE CONDOTTA DAI CARABINIERI DEL COMANDO TUTELA PATRIMONIO CULTURALE HA MESSO FINE ALLE IMPRESE DI UN GRUPPO DI SCAVATORI CLANDESTINI. I QUALI OPERAVANO SOTTO LA GUIDA DI UN MAESTRO E DI UN DOCENTE IN PENSIONE

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on l’operazione «Tempio di Hera», i Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale hanno sgominato una banda di trafficanti, cogliendoli in flagranza di reato mentre a Crotone, armati di piccone, infierivano impietosamente nel sito archeologico di Capo Colonna. Sulla vicenda abbiamo intervistato Mario Pagano, che dirige la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Catanzaro, Cosenza e Crotone.

«In piú occasioni – racconta il Soprintendente –,avevamo notato macchine sospette e scavi clandestini all’interno del sito di Capo Colonna, soprattutto da lato del mare. Sapevamo che le importanti stipi votive del santuario – dalle quali proviene, per esempio, la splendida corona d’oro conservata al Museo di Crotone – erano nel mirino dei tombaroli». Nel video dei Carabinieri, si vedono due individui che si accaniscono con un piccone sull’unica colonna In alto: Capo Colonna (Crotone). La colonna superstite del tempio di Hera. A sinistra: l’area archeologica di Capo Colonna in una foto satellitare. Nella pagina accanto: alcuni dei reperti sequestrati dai Carabinieri grazie all’operazione battezzata «Tempio di Hera». superstite del tempio di Hera, uno dei luoghi simbolo della grecità d’Occidente. Possibile che accadano queste cose in un sito, come Capo Colonna, che ospita uno dei santuari piú importanti della Magna Grecia ed è tra i piú famosi della Calabria? «Sono luoghi frequentati dagli scavatori clandestini, che dopo le mareggiate si aggirano con i metal detector per la scogliera, alla ricerca dei tesoretti di monete contenuti nelle stipi. Adesso c’è maggiore vigilanza, per la presenza

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del parco archeologico e del museo sul posto. Ma ci sono aree di Capo Colonna, come tutto il lato mare, che sono alla mercé dei tombaroli. Soprattutto nelle ore notturne. L’area del santuario, inoltre, non è del tutto indagata, ci sono vaste zone inesplorate». Soprintendente, che effetto le fa sapere che, secondo la Procura di Crotone, a indicare ai tombaroli le aree ancora non scavate da saccheggiare, sarebbe stato un professore in pensione, Giuseppe Attianese? «È uno studioso molto noto, autore di alcuni volumi sulla monetazione magno-greca della Calabria, stimato perito anche in ambienti giudiziari. Destava sospetto il fatto che ogni tanto pubblicasse monete inedite. Era considerato un collezionista un po’ ambiguo, ma non pensavo che fosse il punto di riferimento dei tombaroli come ipotizzato dalla magistratura». Che cosa cercavano a Capo Colonna i tombaroli? «Il sito è ricco di materiale numismatico: il tempio di Hera – narrano le fonti – era uno dei piú facoltosi, poiché si trovava lungo rotte portuali dello Ionio. Qui correva il confine del trattato con i Cartaginesi: le navi romane non potevano superare Capo Colonna. Il sito è un fronte caldo, ospita una quantità enorme di tesoretti e di stipi, che diventano bersaglio dei tombaroli. A Crotone, infatti, si svolse tutto l’ultimo periodo della seconda guerra punica: da qui Annibale si è imbarcato per l’Africa prima della battaglia di Zama (202 a.C.). Le stipi restituiscono materiali pregiati, databili tra il VI secolo a.C. e l’età romana, tra cui metalli e vasi attici a figure rosse e nere. Sul territorio ci sono anche delle necropoli molto ricche e in gran parte intatte». Per quale motivo, a suo avviso, a Crotone sono cosí diffusi gli scavi clandestini?

LA PAROLA AL TPC

Un appello alla collaborazione Lunghi appostamenti, intercettazioni, pedinamenti e riprese video dei tombaroli in azione hanno portato all’emissione di misure cautelari per dodici persone e 47 decreti di perquisizione a carico di altrettanti indagati. A guidare l’operazione, con il coordinamento della Procura di Crotone, il Capitano Carmine Gesualdo, Comandante del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri della Calabria, che ci ha aggiornato sull’ultimo arresto: quello di un maestro. «Abbiamo notificato una misura di arresti domiciliari a uno degli indagati, Raffaele Monticelli, tarantino: il ricettatore della banda, che si occupava di rivendere i reperti trafugati da Capo Colonna. È un personaggio piú che noto alle cronache giudiziarie nell’ambito del traffico illecito di beni archeologici, già arrestato e condannato in passato e soggetto a una confisca di beni da ben 22 milioni di euro. Monticelli – come emerge da altre inchieste – aveva rapporti con Gianfranco Becchina, il famoso trafficante che deteneva in Svizzera il caveau segreto dove era conservato il cratere di Euphronios». La banda, dunque, era composta da un professore settantenne, un maestro elementare e una squadra di tombaroli, coordinati da un personaggio soprannominato «l’archeologo»… «Si tratta di Vincenzo Godano, cosí chiamato per la sua esperienza negli scavi clandestini. Anche lui faceva capo al professore Attianese, che in base alle sue competenze scientifiche dava istruzioni su dove trovare i reperti. Quest’ultimo a casa aveva una collezione, di cui è stata messa in discussone la legittima provenienza». Le intercettazioni a carico del «professore» rivelerebbero che, in passato, avrebbe imbracciato il piccone in prima persona per trafugare i reperti da Capo Colonna… «Lo racconta lui stesso nelle intercettazioni con Ernesto Palopoli e Raffaele Malena, citando i tempi in cui erano giovanotti e usavano fare scavi clandestini, circa trent’anni fa. Da quando l’età non gli permette piú di scavare, ha dovuto assoldare nuove leve di tombaroli che, però, dice, non sono bravi come lui. I traffici sono andati avanti, probabilmente, per decenni». Sulla vicenda abbiamo ascoltato anche il Generale di Brigata Fabrizio Parrulli, Comandante del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri, che cosí si è espresso: «Vorrei sottolineare innanzitutto l’importanza, ai fini della prevenzione, della cultura della tutela. Bisogna diffondere il concetto della non dispersione del patrimonio culturale, perché questo fa parte dell’identità del popolo e della comunità. La Calabria è una terra difficile, dove siamo costretti a operare senza grande aiuto da parte della cittadinanza. Ci sono realtà culturali dove c’è poco autocontrollo sociale, poca partecipazione al sistema sicurezza. Quello che vorremmo è maggiore collaborazione da parte dei cittadini: sono parte integrante di questo sistema, anzi ne sono il primo elemento. Non ci sono solo polizia e magistratura».

«In Calabria c’è una fortissima disoccupazione giovanile, intorno al 60%. La zona di Crotone è quella piú delicata, per cui le attività illecite trovano spazio. Gli scavi clandestini ci sono sempre stati, ma sono aumentati negli ultimi anni, per effetto della

chiusura delle fabbriche e della soppressione della cassa integrazione per inattività dopo la stagione turistica. C’è una sofferenza sul territorio, è lí che si dovrebbe intervenire. L’idea della Soprintendenza è migliorare l’economia della zona».

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MOSTRE Napoli

IL SENSO DI CARLO PER L’ANTICO

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rutto di un progetto realizzato in collaborazione con l’Accademia Reale di Belle Arti di San Fernando di Madrid e la Facoltà di Arte e Disegno dell’Università di Città del Messico, la mostra allestita dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli celebra Carlo III di Borbone, nel trecentesimo anniversario della nascita, ricordando il ruolo all’avanguardia svolto dall’illuminato sovrano nella trasmissione della conoscenza e della passione per le antichità. Carlo – che trascorse la giovinezza a Napoli e che qui volle erigere un edificio per accogliere la ricca collezione Farnese ereditata dalla madre – non si limitò solo a recuperare, anche contro la volontà e il parere della corte, le straordinarie opere d’arte che Ercolano, Pompei e Stabia rivelavano, ma volle esporre al pubblico i frutti di quelle esplorazioni e trasformò la sua passione per le antichità in strumento di propaganda del suo regno e delle sue virtú personali, promuovendone la conoscenza con i mezzi all’epoca

In basso: ritratto di Carlo di Borbone, olio su tela di Giuseppe Bonito. 1740 circa. Capua, Museo Campano.

A destra: affresco con Achille e Chirone. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Qui sotto: Pseudo Seneca, busto in bronzo, dalla Villa dei Papiri. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. all’avanguardia: preziosi volumi a stampa realizzati a Napoli; calchi in gesso dei bronzi rinvenuti nella Villa dei Papiri a Ercolano, portati a Madrid (Carlo fu re di Spagna dal

1759) per poter rivedere quanto lasciato nell’Herculanense Museum e, infine, copie di questi per l’Academia de San Carlos di città del Messico, perché anche nel Nuovo Mondo gli allievi delle accademie di arte e di disegno potessero conoscere le antichità. Napoli dunque con gli originali, Madrid con i gessi settecenteschi, Città del Messico con i disegni sono legate da un comune patrimonio di «antichità», che viene ora presentato contemporaneamente nelle tre sedi, fulcro di percorsi espositivi capaci di dialogare tra loro anche a distanza grazie alle moderne tecnologie. (red.)

DOVE E QUANDO «Carlo di Borbone e la diffusione delle Antichità» Napoli, Museo Archeologico Nazionale fino al 25 marzo Orario tutti i giorni, 9,00-19,30; chiuso il martedí Info tel. 848 800 288; da cellulari e dall’estero: tel. +39 06 399 67 050; www.museoarcheologiconapoli.it

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MOSTRE Svizzera

L’ULTIMA FATICA DI UN BIBLIOTECARIO ILLUSTRE

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esposizione ruota intorno ai Monumenti antichi inediti, opera fondamentale di Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), erudito raffinato e innovativo, tra i piú grandi studiosi della cultura classica, ma, soprattutto, teorico e padre della disciplina della storia dell’arte. Per l’occasione, vengono presentate tutte le tavole dell’editio princeps dei Monumenti, a cui si aggiungono 20 matrici in rame, 14 prove di stampa, ritratti di Winckelmann, dipinti e tre reperti provenienti dal Museo Archeologico di Napoli: una gemma che ritrae Zeus che fulmina i giganti, un rilievo in marmo bianco con Paride e Afrodite e un lacerto di una pittura rinvenuta a Pompei, nella casa di Cipius Pamphilus, con il cavallo di Troia. Monumenti antichi inediti (1767), è l’ultima opera pubblicata da Winckelmann, di cui si riconosce la grande influenza sul mondo del

neoclassicismo e ben oltre; l’autore, infatti, per la prima volta in maniera cosí rilevante, accompagna le descrizioni dei Monumenti con le immagini grafiche degli stessi. Si tratta di 208 splendide tavole incise, tutte siglate, affidate ad artisti di chiara fama che Winckelmann sceglie e paga di tasca propria, convinto della bontà, anche teorica, dell’operazione. I Monumenti antichi inediti descritti sono «oggetti dell’antico», ovvero bassorilievi, opere d’arte, suppellettili, vasi, gemme che catturano l’attenzione dello studioso tedesco durante le In alto: Ritratto di J.J. Winckelmann, incisione di Jacques-Louis Copia ripresa dal dipinto di Antoine Raphael Mengs. Forlí, Raccolta Piancastelli, Biblioteca Comunale «A. Saffi». meticolose ricerche sulle antichità che ha occasione di ammirare nelle collezioni della sua cerchia – prima fra tutte, quella del cardinale Alessandro Albani, di cui è bibliotecario e stretto collaboratore dal 1758 e a cui dedica il volume –, ma anche nel corso di numerosi viaggi che intraprende a Roma e dintorni, Firenze, Napoli, Portici, Pompei, quasi sconosciuta all’epoca, Caserta e Paestum. (red.)

DOVE E QUANDO

A sinistra e qui sopra: l’incipit e le tavole 50, 51 e 52 dell’editio princeps dell’opera Monumenti antichi inediti. 1767. Napoli, Biblioteca Nazionale.

«J.J. Winckelmann (1717–1768). I Monumenti Antichi Inediti, storia di un’opera illustrata» Chiasso, m.a.x. museo fino al 7 maggio Orario ma-do, 10,00-12,00 e 14,00–18,00; chiuso il lunedí Info e-mail: info@maxmuseo.ch; www.centroculturalechiasso.ch

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

PRIMA DELL’ALFABETO... ...è il titolo di una mostra che non si può non definire eccezionale (e alla quale è dedicato lo Speciale di questo numero). In Palazzo Loredan, a Venezia, sono esposte, per la prima volta e fino al prossimo 25 aprile, circa 200 opere provenienti dalla Collezione Ligabue; tra di esse, tavolette e sigilli risalenti a oltre 5000 anni or sono, che rievocano la grande civiltà della Mesopotamia, la terra che, quasi in contemporanea con l’antico Egitto, tenne a 4 battesimo la scrittura già intorno al 3200 a.C. Ed è proprio la scrittura il segno distintivo dell’esposizione veneziana. I Sumeri (1) hanno adottato per primi i pittogrammi proto-cuneiformi (2-3-4), che si trasformarono ben presto, con l’introduzione della fonetizzazione (cioè col passaggio dai «segni-parola» ai «segnisillaba»), in scrittura cuneiforme, giunta a noi grazie alle tavolette di argilla (5-6). Questa nuova scrittura, con le sue evoluzioni, si sviluppò e si diffuse con estrema rapidità anche in aree lontane. Le tavolette e i sigilli trovati nei siti archeologici dell’odierno Iraq, della Siria orientale, della Turchia sud-orientale e dell’Iran sud-occidentale ne sono la dimostrazione concreta. Oltre a quelle già mostrate un’altra è raffigurata dal francobollo di Venda (7). Un’altra ancora, riprodotta nel francobollo siriano (8), è anche una interessante dimostrazione di come gli studiosi abbiano interpretato i pittogrammi cuneiformi trasferendoli in parole arabe; quest’ultima tavoletta viene proprio dal sito di Ebla, insieme a molte altre testimonianze dell’epoca sumera (9-10). Ma nella «terra tra i due fiumi» sono nate altre grandi civiltà oltre a quella dei Sumeri. I Babilonesi, il cui re Hammurabi realizzò il famoso Codice, una fra le piú antiche raccolte di leggi scritte che ci sia pervenuta (11); gli Assiri, nella parte settentrionale dell’odierno Iraq, che diedero vita a un vasto impero, oltre a sviluppare una propria scrittura (12); gli Ittiti, una delle piú antiche civiltà indoeuropee, la cui capitale Hattusa è riprodotta da una cartolina postale cinese (13). E fa riflettere, in conclusione, sapere che tutto ciò che si vede a Palazzo Loredan riguarda un’epoca storica durata circa 3500 anni e che ha preceduto la nascita del primo alfabeto, ormai comunemente attribuito ai Fenici (14) e risalente a «solo» 2500 anni fa!

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it


CALENDARIO

Italia

GROSSETO, MANCIANO Marsiliana d’Albegna

ROMA Dall’antica alla nuova Via della Seta

Dagli Etruschi a Tommaso Corsini Museo Archeologico e d’Arte della Maremma Museo di Preistoria e di Protostoria della Valle del Fiora fino al 30.04.17 (prorogata)

Palazzo del Quirinale, Galleria di Alessandro VII fino al 26.02.17

Santa Maria Antiqua tra Roma e Bisanzio

Qui sopra: rilievo funerario, da Palmira.

Foro Romano fino al 19.03.17

Qui sotto: stele di Nefer. IV dinastia, 2575-2465 a.C.

Archaeology&ME

Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo fino al 12.04.17

MILANO Homo sapiens

Le nuove storie dell’evoluzione umana MUDEC-Museo delle Culture fino al 26.02.17

NAPOLI Carlo di Borbone e la diffusione delle antichità Museo Archeologico Nazionale fino al 16.03.17

All’ombra delle piramidi

Qui sopra: una delle matrici in rame dell’opera Antichità ORVIETO di Ercolano esposte. Etruschi «à la carte» Libri e documenti dal Settecento all’Ottocento Museo «Claudio Faina» fino al 26.02.17

La mastaba del dignitario Nefer Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco fino al 28.05.17

Colosseo. Un’icona

Colosseo fino al 07.01.18 (dal 23.02.17)

PERUGIA Giochi da museo

Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria fino al 17.04.17

POMPEI Il Corpo del reato

Il patrimonio archeologico ritrovato Antiquarium degli Scavi fino al 27.08.17

REGGIO CALABRIA Nomisma COMACCHIO Lettere da Pompei

Archeologia della scrittura Palazzo Bellini fino al 02.05.17

Qui sopra: Colosseo, olio su tela di Ippolito Caffi. 1857.

FIRENZE La Tutela tricolore

I custodi dell’identità culturale Galleria degli Uffizi, Aula Magliabechiana, fino al 14.02.17

FRATTA POLESINE (ROVIGO) Storia del profumo, profumo della storia Museo Archeologico Nazionale fino al 26.02.17

GENOVA Salvi in Museo!

Le lastre dei palazzi assiri riesposte in Museo Museo di Archeologia Ligure fino al 18.06.17 24 a r c h e o

Reggio e le sue monete Museo Archeologico Nazionale fino al 31.03.17

TRENTO Estinzioni

Storie di catastrofi e altre opportunità MUSE-Museo delle Scienze di Trento fino al 26.06.17

Qui sopra: cratere a campana apulo con satiro e menade.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Gran Bretagna

VENEZIA Prima dell’alfabeto

Viaggio in Mesopotamia alle origini della scrittura Palazzo Loredan fino al 25.04.17

VILLANOVA DI CASTENASO (BO) La Stele delle Spade e le altre Sculture orientalizzanti dall’Etruria padana Museo della Civiltà Villanoviana fino all’11.06.17

VULCI I misteri di Mithra

LONDRA South Africa

L’arte di una nazione The British Museum fino al 26.02.17

Deturpare il passato

Dannazione e profanazione nella Roma imperiale The British Museum fino al 07.05.17

Museo Archeologico Nazionale fino al 31.03.17

Grecia

Francia

ATENE Odissee

Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.17

PARIGI L’età dei Merovingi

In alto: la Coldstream Stone, un ciottolo con figure in ocra. 7000 a.C.

In basso: statua di Posidone, da Livadostra (Beozia). 480 a.C.

Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 13.02.17

Che c’è di nuovo nel Medioevo?

Tutto quello che l’archeologia ci rivela Cité des sciences et de l’industrie fino al 06.08.17

L’Africa delle rotte

Musée du quai Branly Jacques Chirac fino al 12.11.17

In alto: fibula circolare merovingia. VII sec. d.C.

SAINT-DIZIER Austrasia

Il regno merovingio dimenticato Espace Camille Claudel fino al 26.03.17

Germania BERLINO L’eredità degli antichi sovrani

Ctesifonte e le fonti persiane dell’arte islamica Pergamonmuseum fino al 02.04.17

KARLSRUHE Ramesse

Sorvano divino sul Nilo Badisches Landesmuseum fino al 18.06.17

MANNHEIM Egitto

Terra dell’immortalità Reiss-Engelhorn-Museen fino al 30.07.17

Olanda LEEUWARDEN Alma-Tadema: fascino classico Fries Museum fino al 07.02.17

LEIDA Regine del Nilo

Rijksmuseum van Oudheden fino al 17.04.17

Svizzera CHIASSO J.J. Winckelmann (1717–1768) I «Monumenti antichi inediti» Storia di un’opera illustrata m.a.x. museo fino al 07.05.17

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CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli

IL DESTINO È SCRITTO NEI SUONI IL MUSEO DELL’ACROPOLI RIPERCORRE LA STORIA DELL’ORACOLO EPIROTA DI DODONA: UNO DEI PIÚ FAMOSI DI TUTTA LA GRECIA, DOVE I FEDELI SI RIVOLGEVANO A ZEUS AFFIDANDOSI A MESSAGGI SCRITTI SUL PIOMBO

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l Museo dell’Acropoli è ormai il piú visitato in Grecia, facendo registrare una media giornaliera di 4000 presenze. Per conservare il primato e, se possibile, migliorarlo, organizza varie iniziative, come, per esempio, l’esposizione, per alcune settimane, di rinvenimenti eccezionali: fino alla fine di marzo, sono di turno uno splendido ritratto di Adriano – rinvenuto durante scavi di emergenza nel centro di Atene – e una rarissima statua equestre di bronzo, recuperata dalla Soprintendenza alle Antichità Subacquee nelle acque antistanti l’isola di Calimno. Inoltre, nel 2015 il Museo dell’Acropoli ha inaugurato una serie di mostre temporanee, che portano ad Atene frammenti di aree periferiche della Grecia, lontane dalla capitale. Il fine non è solo quello di presentare opere spettacolari, ma anche di spingere i visitatori a scoprire i luoghi lontani da cui esse provengono.

RISCOPRIRE DODONA L’ultima esposizione, «Dodona: l’oracolo dei suoni», vuole far conoscere al pubblico il piú antico santuario oracolare greco, un luogo in cui trovava espressione il A sinistra: statuetta di oplita, forse pertinente alla decorazione di un lebete bronzeo. 530-520 a.C. A destra: aquila bronzea, simbolo di Zeus; fungeva forse da decorazione dello scettro di una statua del dio. Fine del VI-inizi del V sec. a.C.

desiderio atavico dell’uomo di poter prevedere il proprio futuro. La mostra si apre con rinvenimenti provenienti dalla Dodona dell’età del Bronzo Finale; oggetti fittili e bronzei illustrano l’identità dei primi abitanti del posto, l’antichissimo culto della Madre Ge (Terra) e la nascita del culto di Zeus. Si passa quindi al nucleo centrale, che illustra la storia, i monumenti e i ritrovamenti di questo santuario oracolare dell’Epiro, di cui fu Zeus a divenire ben presto la


A sinistra: laminetta di piombo con la quale un certo Ermonas chiede a quale divinità debba rivolgersi, affinché sua moglie Kretaia abbia una buona progenie. 525-500 a.C. In basso: ritratto di Adriano recentemente rinvenuto durante scavi in odos Syggrou, ad Atene.

divinità principale. I responsi ai fedeli che interrogavano il dio venivano dati dai sacerdoti in vari modi: interpretando il suono di lebeti bronzei o il tubare delle colombe, ma, soprattutto, tramite la quercia sacra e il fremito delle sue foglie, che oscillavano al vento. Cosí, accoglie il visitatore una riproduzione schematica della quercia sacra a Zeus, vicino alla quale un video illustra il sito di Dodona e l’ambiente naturale.

DOMANDE DI OGNI GENERE Gli scavi di Dodona, intensificatisi dopo la seconda guerra mondiale grazie agli sforzi dell’archeologo Sotirios Dakaris, sono celebri soprattutto perché hanno restituito migliaia di laminette di piombo, alle quali i fedeli affidavano le domande che stavano loro a cuore. Una sala della mostra presenta numerosi esemplari di queste laminette, che recano le interrogazioni piú disparate: c’è chi

chiede se avrà successo negli affari, altri se riusciranno a pagare i debiti («Cosa è piú conveniente, che io estingua tutto il debito adesso o che lo paghi piú tardi?») o se risolveranno questioni legali, altri

ancora si interrogano sulla salute («O Zeus, Naia e Dione, i miei occhi si sono ammalati perché vi ho trascurati?»), sulla possibilità di avere figli, sul matrimonio imminente, sulla vedovanza e su temi che dovevano per loro rivestire grande importanza. Un’altra unità presenta ex voto rinvenuti nel santuario: elementi di calderoni bronzei, spallacci, spade, statuette di bronzo e fittili, stele di marmo, dediche di fedeli che chiedevano il consiglio di Zeus in questo antichissimo santuario. Infine, una selezione di monete mette in risalto l’aspetto politico dell’oracolo, al quale fu legato anche il re epirota Pirro. Accompagnata da un catalogo scientifico, la mostra, è stata realizzata grazie alla collaborazione del Museo dell’Acropoli con la Soprintendenza alle Antichità di Ioannina. E, per tutta la sua durata, il ristorante del Museo offre piatti speciali, ricavati dalla cucina tradizionale dell’Epiro, per completare al meglio questo viaggio in un angolo remoto della regioone, che fu sede di un antichissimo e importantissimo santuario.

DOVE E QUANDO «Dodona: l’oracolo dei suoni» Atene, Museo dell’Acropoli fino al 31 marzo Orario lu-gio, 9,00-17,00; ve, 9,00-22,00; sa-do, 9,00-20,00 Info www.theacropolismuseum.gr

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STORIA • NARRARE PER IMMAGINI

FOTOGRAMMI DI STORIA FIN DA EPOCHE MOLTO ANTICHE, L’UOMO AVVERTÍ IL DESIDERIO DI TRAMANDARE LE VICENDE PERSONALI E, SOPRATTUTTO, LE GRANDI IMPRESE COLLETTIVE. LA SOLUZIONE FU SPESSO INDIVIDUATA IN COMPOSIZIONI CHE RIPERCORREVANO I FATTI IN LUNGHE SEQUENZE ILLUSTRATE. NACQUERO COSÍ VERI E PROPRI CAPOLAVORI «PARLANTI», NEI QUALI NON È DIFFICILE INTRAVEDERE IL GERMOGLIO DELL’ARTE CINEMATOGRAFICA di Andrea Augenti e Christian Greco 30 a r c h e o


C

i sono occasioni in cui il semplice riquadro, la tela, la porzione di muro o altri supporti poco estesi «stanno stretti» all’artista. I motivi di questa insofferenza possono essere molti, ma uno ricorre piú degli altri: la quantità e il tipo delle raffigurazioni da riprodurre, o – se vogliamo – la quantità delle cose da dire, da raccontare. Questo problema, che si è verificato spesso nel passato, è stato di volta in volta risolto in modi diversi. Un problema che, a nostro avviso,

può essere affrontato anche con uno sguardo archeologico ed è per questo che abbiamo voluto proporre un percorso che si snoda attraverso oggetti ed epoche differenti: dall’Egitto dei faraoni al Medioevo; con un finale ambientato ai giorni nostri, perché la stessa esigenza non ha smesso di riproporsi. Questo viaggio nel tempo si apre con una testimonianza tra le piú affascinanti: i Libri dei Morti dell’antico Egitto. Lo storico greco Diodoro Siculo (che visitò l’Egitto fra il

60 e il 56 a.C.) scrisse: «Gli abitanti dell’Egitto non hanno considerazione alcuna del periodo della loro vita, ma danno un incredibile valore al periodo dopo la morte, quando saranno ricordati per le loro virtú e, mentre danno il nome Papiro sul quale è riportata una versione figurata del Libro dei Morti, da Tebe. XXI dinastia, 1069-1043 a.C. Torino, Museo Egizio. La vignetta mostra la defunta che, in ginocchio, presenta il cuore al serpente alato posto accanto alla fenice. a r c h e o 31


STORIA • NARRARE PER IMMAGINI

di alloggio provvisorio alle abitazioni dei vivi intendendo però che ci vivranno per un breve periodo, essi chiamano le tombe dei defunti case eterne, dato che i morti trascorreranno infinite ore nell’Ade; di conseguenza, essi dedicano meno pensieri agli arredi delle loro case, ma non rinunciano ogni eccesso di zelo nell’adornare le loro sepolture». Spesso chiamata «casa dell’eternità», la tomba fungeva anche da complesso rituale, che assicurava la trasfigurazione e il benessere eterno al morto, e serviva da monumento per proiettare l’identità del proprietario verso il mondo ultraterreno e per commemorare la morte nel mondo terreno. Il fine ultimo del defunto era quello di entrare nel regno divino equipaggiato con gli attributi degli dèi creatori. Questo stato esaltato veniva chiamato akh, termine che ha connotazioni di luminosità e possiede il potere creativo. Per raggiungere tale condizione dovevano essere raggiunti diversi prerequisiti: il trattamento appropriato del cadavere (inclusa la mummificazione), la creazione di un luogo adibito al riposo eterno con una sistemazione per il culto del morto (la cappella

La figlia del faraone La mummia di Ahmose, figlia del faraone Seqenenra Ta, penultimo sovrano della XVII dinastia, 1650-1543 a.C. Torino, Museo Egizio. Le iscrizioni geroglifiche sul lenzuolo funerario che avvolgeva le spoglie della principessa rappresentano una delle testimonianze piú antiche del Libro dei Morti.

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funeraria o il monumento funerario reale), e l’istituzione e il mantenimento di un culto funerario. Quando tutte queste attività erano state svolte, la persona morta poteva essere assimilata con Osiride e Ra, e poteva entrare nell’Aldilà.

L’INNO PER OSIRIDE Una meravigliosa preghiera o inno a Osiride, riportata a sinistra della nicchia della statua nella tomba tebana di Menkheper (TT 258), dona una chiara spiegazione dell’intento del defunto: «Voglio cantarti una canzone propiziatoria in tutti i tuoi nomi Osiride Khentimenty (il primo degli Occidentali, cioè il primo dei defunti). E voi divinità dell’Aldilà ascoltatemi, perché vi sto chiamando volgete il vostro cuore alla mia supplica, Non c’è nessun dio che dimentichi la sua creazione Possa il vostro respiro vitale entrare nel mio corpo, Possa il vostro vento da nord essere dolce nelle mie narici Sono venuto dal bel sentiero della rettitudine Per preservare tutti i miei lembi Possa il mio ba vivere, il mio akh essere divino Possa il mio nome essere eccellente nella bocca delle persone». Prima del Nuovo Regno (15431069 a.C.), i piú importanti testi


per i defunti erano iscritti sulla superficie di sarcofagi lignei rettangolari. Le iscrizioni sulle pareti esterne dei sarcofagi erano connesse alla liturgia funeraria e riportavano le parole che le divinità dovevano pronunciare per assicurare la resurrezione del defunto. Il repertorio di formule derivava dai Testi delle Piramidi, con molti adattamenti e aggiunte. Conosciuti oggi come «Testi dei sarcofagi», essi costituiscono i diretti precursori del Libro dei Morti. I Testi dei sarcofagi erano generalmente iscritti in lunghe colonne con la formula «djed medu» (parole da pronunciarsi) alla testa di ogni colonna. I Testi includevano raramente delle illustrazioni, ma generalmente, sopra le colonne di testo vi era un registro iconografico con la rappresentazione di vestiario, gioielli, utensili, armi, materiale scrittorio.

TUTTO COMINCIÒ A TEBE Per «Libro dei Morti» si intende una serie di formule funerarie pensate per la protezione e l’accompagnamento del defunto. Il centro di redazione del testo fu Tebe, dove la creazione del nuovo corpus si sviluppò a partire dal Secondo Periodo Intermedio (1797-1543 a.C.). La prima attestazione è probabilmente il sarcofago della regina Mentuhotep, databile alla XIII dinastia (17971650 a.C.). Fu trovato a Tebe e fortunatamente copiato dall’egittologo John Gardner Wilkinson (17971875), poiché è purtroppo andato perduto. Le iscrizioni erano composte sia da Testi dei Sarcofagi, sia da formule del Libro dei Morti. Un altro oggetto frammentario, il sarcofago del principe Herunefer, documenta l’inizio dell’uso dei testi del Libro dei Morti per membri della A sinistra: Saqqara, Menfi. Particolare della decorazione della sala del sarcofago all’interno della piramide di Unas. V dinastia, 2510-2502 a.C. Sulle pareti sono riportati brani dei Testi delle Piramidi. a r c h e o 33


STORIA • NARRARE PER IMMAGINI

famiglia reale. Appare comunque evidente che, in questa fase iniziale, il Libro subí un lungo processo di composizione e redazione e non era ancora completamente definito. I testi cominciarono a essere scritti su sudari di lino avvolti molto stretti sui corpi dei defunti: cosí facendo, si mettevano a disposizione del morto le formule magiche qualora ve ne fosse stata la necessità. A questo proposito ricordiamo che il Museo Egizio di Torino conserva la mummia della principessa Ahmose, figlia del re Seqenenra Ta, della XVII dinastia (16501543 a.C.): fu ritrovata in un lenzuolo funerario le cui iscrizioni geroglifiche rappresentano una delle testimonianze piú antiche del Libro dei Morti.

L’AVVENTO DEI ROTOLI All’inizio del Nuovo Regno si assiste a un mutamento significativo nei costumi funerari: i sarcofagi rettangolari vengono sostituiti da casse antropomorfe, che non fornivano spazio sufficiente per ospitare tutte le formule funerarie, e questo potrebbe avere contribuito alla diffusione dei rotoli di papiro come supporto materiale per i testi del Libro dei Morti. Papiri di dimensioni diverse, con un numero variabile di formule potevano cosí essere arrotolati e posti dentro il sarcofago. Il numero di formule era stato definito, ma non vi erano un canone stringente né un ordine a cui un Libro dei Morti si doveva attenere e nemmeno la sequenza delle formule era obbligatoria. Ogni manoscritto era unico e conteneva la propria selezione e ordinamento. Di conseguenza, anche la lunghezza poteva variare considerevolmente e raggiungere, negli esemplari piú completi, anche i 20 m. Le 34 a r c h e o

illustrazioni o vignette cominciarono ad accompagnare il testo, in genere in stretta correlazione tematica con le formule corrispondenti. Nel Terzo Periodo Intermedio (1069-715 a.C.), mentre i Libri dei Morti in corsivo geroglifico continuano a seguire l’antica tradizione e tipologia, i manoscritti in ieratico non presentano illustrazioni, se si esclude la vignetta introduttiva. Molti di questi papiri avevano un’altezza dimezzata e contenevano meno formule del Libro dei Morti. Il loro ruolo magico/protettivo rimaneva e molti si munivano, oltre a un rotolo del Libro dei Morti, anche di un secondo papiro funerar io, l’Amduat. Nel Nuovo Regno quest’ultimo costituiva una prerogativa regale e descriveva il periplo del dio Sole nelle dodici ore notturne. Nel Terzo Periodo Intermedio, questo testo funerario esclusivo fu adottato dall’influente casta sacerdotale tebana. L’Amduat è generalmente visto come il primo esempio di un nuovo genere di testi, quello dei «Libri dell’Aldilà», che descrivono il mondo sotterraneo con una combinazione di testo e immagini. I Libri dell’Aldilà forniscono al sovrano defunto la conoscenza necessaria per sopravvivere in compagnia degli dèi. Le cosmografie religiose del Nuovo Regno non sono composte da collezioni variabili di formule magiche come i Testi delle Piramidi, i Testi dei Sarcofagi o il Libro dei Morti, ma hanno contenuti fissi e invariabili. Le raffigurazioni non sono vignette separate, ma, anzi, formano una solida unità con


Sulle due pagine: sarcofago di Neskhons. XXI dinastia, 1069-945 a.C. Cleveland, Cleveland Museum of Art. Si tratta verosimilmente di un sarcofago esterno, che ne racchiudeva un altro a sua volta contenente la mummia del defunto. In basso: particolare dal Libro dei Morti dello scriba Hunefer, con il rituale dell’apertura della bocca. XIX dinastia, 1275 a.C. circa. Londra, British Museum.

il testo. Negli altri corpora, solitamente, teorie di divinità e simboli sono a se stanti, mentre le scene dei Libri dell’Aldilà sono accompagnate da un testo che descrive le azioni che coinvolgono le figure.

UNO SPAZIO MITICO Testi e immagini nei Libri dell’Aldilà hanno cosí ruoli complementari. L’immagine rappresenta ciò che non potrebbe essere espresso in parole, mentre i concetti astratti, che non potrebbero essere rappresentati con un’immagine, viceversa vengono descritti a parole. Le illustrazioni sostengono differenti affermazioni contemporaneamente. L’immagine e il testo, combinati, erano il sistema per rappresentare lo spazio mitico in cui il Sole compiva il suo viaggio. In altre parole, i Libri dell’Aldilà descrivono, organizzano ed esprimono il modo in cui gli Egiziani intendevano l’universo. Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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STORIA • NARRARE PER IMMAGINI

Questi mezzi iconografici in contesti funerari compaiono con i sarcofagi del Medio Regno (2064-1797 a.C.). Illustrazioni e fregi completano un numero crescente di formule magiche. I primi passi verso una composizione funeraria piú lunga sono stati compiuti con il Libro delle due vie. Anche se non tutte le sue formule sono illustrate, una trentina di esse è raggruppata intorno allo schema grafico delle due vie.

Tuttavia, non è facile ricostruire l’evoluzione dai Testi dei Sarcofagi ai Libri dell’Aldilà. Tra gli egittologi ci sono diverse scuole di pensiero riguardo la datazione e l’origine dei Testi Funerari del Nuovo Regno. Erik Hornung data la prima composizione, l’Amduat, al regno di Hatshepsut (1479-1457 a.C.), asserendo che una descrizione cosí dettagliata dell’Aldilà fosse inimmaginabile per l’Antico Regno (2700-

A sinistra: particolare della cassa interna del sarcofago antropoide di Butehamon, da Deir el-Medina. XXI dinastia, 1069-945 a.C. L’interno è dipinto in bianco e iscritto con il testo ieratico del rituale dell’apertura della bocca. Torino, Museo Egizio. A destra: particolare dal Libro dei Morti di Ani, raffigurante il rituale della pesatura del cuore. XIX dinastia, 1275 a.C. circa. Londra, British Museum.

2195 a.C.) e altrettanto inverosimile per il Medio Regno. Jan Assmann, invece, ritiene che le cosmogonie del Nuovo Regno vedano la loro origine a Eliopoli. Gli Antichi Libri dell’Aldilà, con le loro composizioni divise in dodici ore, sono un adattamento per le usanze funerarie reali dei testi originariamente intesi per il culto solare. Lo studioso tedesco, cosí, considera la differenza tra l’Amduat e il Libro delle due vie, solitamente considerato il suo predecessore, e assegna entrambi i testi a due distinti generi. Secondo lui, il Libro delle due vie è un testo funerario, mentre l’Amduat è una cosmografia derivata dal culto solare eliopolitano. L’evoluzione dei libri funerari nell’antico Egitto ci per mette quindi di seguire da vicino il passaggio cruciale da semplici raccolte di formule (i Libri dei Morti) a oggetti piú complessi (i Libri dell’Aldilà), nei quali scrittura e raffigurazioni si affiancano e si integrano. Siamo comunque nel campo della ritualità funeraria e l’uso di papiro di forma estremamente allungata risponde all’esigenza di contenere un intero repertorio, del quale non si poteva omettere neanche una virgola.

LA COLONNA TRAIANA Con un deciso salto in avanti, ci spostiamo nell’antica Roma, al tempo in cui l’impero era all’apice della sua grandezza, durante il princi36 a r c h e o


pato di Traiano. È quella l’epoca in cui, all’indomani della guerra vittoriosa contro i Daci (cioè dopo la conquista del territorio dell’attuale Romania), Traiano fa realizzare per il suo Foro monumentale la Colonna Traiana. Collocata tra due biblioteche che custodivano l’archivio imperiale, la Colonna aveva uno scopo simbolico, legato alla sua stessa struttura: quello di segnalare con la sua altezza le dimensioni originarie del rilievo che era stato raso al suolo per costruire il Foro con i suoi monumenti. Ma soprattutto, dietro alla Colonna c’era un intento storico e celebrativo: mostrare a

tutti le campagne vittoriose dell’imperatore, raccontandole per filo e per segno in forma di raffigurazioni scolpite sul suo stesso fusto. Sulla Colonna Traiana sono state scritte migliaia di pagine: sullo stile delle sculture, sull’identificazione delle singole scene, sull’artista che l’ha realizzata e su molto altro.

UN’IMMAGINE SUGGESTIVA Tuttavia, solo di recente Salvatore Settis ha proposto un’interpretazione convincente del monumento. Secondo alcuni, il modello del «rotolo illustrato» che avvolge la

colonna sarebbe derivato dai papiri. Insomma, dai libri antichi.Tanto piú che, come scrive lo stesso Settis, «questo modello sembra a molti specialmente adeguato alla Colonna per la sua prossimità alle due biblioteche, quasi che uno dei volumina che vi erano conservati ne fosse uscito, avvolgendosi attorno al fusto». È un’immagine suggestiva, ma, in realtà, non sembra essere andata proprio cosí. Secondo Settis, è molto piú probabile che la struttura della Colonna rievochi qualcosa che nel mondo antico si vedeva spesso, nei templi, nei palazzi e in altri monumenti: le a r c h e o 37


STORIA • NARRARE PER IMMAGINI

ne, un dato è comunque certo: nel caso della Colonna Traiana, la scelta di narrare su una lunga striscia è stata imposta proprio dalla lunghezza e dalla complessità della storia da raccontare. Si tratta di una guerra, con tutti i suoi episodi: preparazione di accampamenti, assedi, battaglie e molto altro ancora. Del resto, i resoconti delle guerre – e delle battaglie – sono da sempre uno dei soggetti piú ricorrenti di queste narrazioni su supporto allungato. Quest’ultima considerazione apre la strada al nostro prossimo oggetto: il cosiddetto Arazzo di Bayeux, che, in realtà, è una tela di lino ricamata. Chi si reca a visitare il museo della città francese dove l’opera è meravigliosamente esposta e valorizzata, si trova di fronte a uno degli esempi piú complessi e avvincenti di striscia narrativa mai realizzati.

colonne avvolte in lunghi drappi di stoffa, a scopo decorativo e a volte anche liturgico. Queste stoffe potevano essere decorate con temi di vario genere: da semplici motivi vegetali a raffigurazioni piú complesse, come per esempio scene dionisiache. Ne è una testimonianza la cosiddetta Tappezzeria di Dioniso, una stoffa del IV secolo conservata a Riggisberg, in Svizzera. Inoltre, sostiene ancora Settis, le scene della Colonna Traiana trovano il loro modello nelle pitture trionfali piú antiche: fin dal III secolo a.C., a Roma si fa largo la tradizione di raccontare al popolo, in una sorta di flashback, il motivo del trionfo del condottiero di turno (i cittadini potevano vedere solo 38 a r c h e o

quello, l’atto conclusivo…). E quindi, nelle pitture trionfali, trovavano posto gli episodi-chiave della campagna militare appena terminata, primi tra tutti le battaglie. Queste pitture erano realizzate su pannelli mobili, e lo scrittore Flavio Giuseppe ci informa che i pannelli erano almeno in parte in stoffa. Quando guardiamo la Colonna Traiana dobbiamo quindi pensare a una enorme, accuratissima pittura trionfale, su stoffa, avvolta intorno a una colonna, che racconta le imprese militari dell’imperatore e dell’esercito romano in Dacia. Cosí doveva percepirla, probabilmente, un Romano del II secolo d.C. Rispetto al tema, piú generale, che stiamo sviluppando in queste pagi-

ALLA CONQUISTA DELL’INGHILTERRA Nei 70 m del telo viene raccontata la storia della conquista d’Inghilterra da parte dei Normanni. Siamo tra il 1042 e il 1066 e si comincia con l’invio in missione di Harold, conte del Wessex, da parte del re d’Inghilterra, Edoardo il Confessore, per poi proseguire con la traversata della Manica, l’arresto e la liberazione di Harold per mano dei Normanni; quindi il rientro in patria di Harold, poi la morte di Edoardo e l’incoronazione dello stesso Harold. E, finalmente, lo sbarco in Inghilterra dei Normanni guidati da Guglielmo il Conquistatore e la battaglia di Hastings (1066), che vede la sconfitta dell’esercito inglese e il trionfo dei Normanni. Una delle caratteristiche piú sorprendenti dell’Arazzo di Bayeux è il peso dato ai dettagli del quotidiano, alla cultura materiale, e la cura nella riproduzione dei luoghi e dei monumenti. Non a caso, esso è da sempre una fonte di informazioni preziose per archeologi e storici dell’arte. Basti guardare alla


resa accurata dei palazzi loggiati di Rouen e di Bosham; ai funerali e ai riti di sepoltura, al momento della morte del re Edoardo; alla costruzione di una motta, una collina artificiale su cui fondare un castello; al cantiere navale dell’esercito normanno; e a molto altro

ancora… L’Arazzo è una vera e propria miniera di dati, anche per gli storici: tanto per fare un esempio, è la sola fonte a riferire che re Harold morí in battaglia a Hastings, a causa di una freccia che gli trafisse un occhio. E poi, è un oggetto ancora almeno

Nella pagina accanto: Portatori di insegne, prima scena dei Trionfi di Cesare, tempera su tela di Andrea Mantegna. 1484-1492. Londra, Hampton Court Palace. In basso: particolare della scena XXXII della Colonna Traiana (i Daci

attaccano i Romani rifugiati in una fortezza) nella ricostruzione cromatica fatta realizzare da Ranuccio Bianchi Bandinelli nel 1972. A destra: Roma. Uno scorcio della Colonna Traiana in cui si può cogliere il fregio continuo a spirale.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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STORIA • NARRARE PER IMMAGINI

in parte misterioso, su cui ci si continua a interrogare. Chi è Aelfigyva, una delle poche donne raffigurate? Forse una delle figlie di Guglielmo il Conquistatore, promessa in sposa a Harold? E chi sono gli altri personaggi menzionati soltanto in questa stoffa, come Turold, Wadard e Vital? Altrettanto indecifrabile è l’intento che ha portato gli esecutori dell’Arazzo a popolare i due piccoli registri che inquadrano quello centrale, nel quale si srotola la narrazione storica. In queste fasce marginali sono raffigurati animali fantastici e selvaggi, favole antiche, scene di vita quotidiana campestre e di caccia; e – anche qui – personaggi misteriosi, perfino scene di sesso. Forse non sapremo mai se siano semplici riempitivi o se esista una relazione, magari di natura metaforica, simbolica, con la storia principale. Di certo, nell’Arazzo di Bayeux ci sono un gran movimento, molto colore e molta accuratezza, che ne Sulle due pagine: particolare di The Great War, striscia narrativa del disegnatore Joe Sacco. 2013. Per la sua realizzazione, l’autore ha dichiarato di essersi ispirato alla tecnica narrativa adottata nell’Arazzo di Bayeux.

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fanno un’opera unica, stupefacente. Secondo gli ultimi studi fu realizzata in Inghilterra intorno al 1069, per volere di Odone di Conteville, vescovo di Bayeux e fratellastro di Guglielmo il Conquistatore. Per quanto ci riguarda, è un esempio straordinario di striscia narrativa, che riprende il discorso della Colonna Traiana e lo sviluppa ulteriormente, tornando al supporto su stoffa e arricchendolo di contenuti.

LA STRISCIA, OGGI Come forse avrete a questo punto intuito, l’erede moderno della striscia narrativa è il cinema. Nel tempo, l’evoluzione della tecnologia ha permesso di risolvere l’esigenza di narrare storie lunghe e articolate su pellicola, e oggi in digitale. Il cinema e il documentario sembrano essere la risposta ultima a questa volontà «cronistica» dell’artista, che da pittore si è quindi fatto regista. Pensate a quanti paragoni si possono fare tra opere come la Colonna Traiana, l’Arazzo di Bayeux e film come Salvate il soldato Ryan, o La battaglia di Algeri. Tuttavia, la settima arte non si è fatta interamente carico di questo bisogno e se nel campo della pittura e della scultura le grandi strisce narrative sono un genere ormai quasi

scomparso, dobbiamo rivolgerci al disegno per scovare le sopravvivenze del genere che ci interessa. Scopriamo allora che uno dei piú grandi disegnatori del nostro tempo, Joe Sacco, autore di importanti reportage in forma di graphic novel – come Palestina e Gorazde area protetta –, si è ispirato per sua stessa ammissione proprio all’Arazzo di Bayeux per realizzare la sua opera piú ambiziosa: The Great War. Unità di tempo: il 1° luglio del 1916, nel pieno della prima guerra mondiale; e unità di luogo: l’offensiva dell’esercito anglo-francese si svolge a ridosso del fiume La Somme. Un attacco in forze della fanteria contro le truppe dell’imperatore Guglielmo, che si risolverà solo verso la fine di novembre dello stesso anno. Un conflitto sanguinoso: nel primo giorno, solo da parte britannica, si contano circa 60 000 tra morti e feriti; e un episodio importante dal punto di vista bellico: a settembre fanno irruzione sul campo di battaglia i primi esemplari di carri armati. Sacco racconta tutto questo in una lunga striscia narrativa di 8 m, dettagliatissima, che porta il lettore a rivivere quasi in prima persona quella giornata tragica e confusa. L’opera è una graphic novel silenzio-


A sinistra: particolare del cosiddetto Arazzo di Bayeux (in realtà si tratta di un telo di lino ricamato), raffigurante l’invasione normanna dell’Inghilterra. XI sec. Bayeux, Musée de la Tapisserie de Bayeux.

sa, nel senso che non ci sono fumetti di alcun genere (a differenza dell’Arazzo di Bayeux, dove svariate scritte accompagnano le scene), ma proprio quel silenzio assoluto ha una forza spaventosa: e, alla fine, sembra di sentire il rombo dei cannoni e le urla dei feriti. Joe Sacco ha dichiarato che oltre all’Arazzo di Bayeux, un altro modello di ispirazione è stato Manhattan Unfurled, il lungo, splendido panorama di New York dell’italiano Matteo Pericoli (poi seguito anche da London Unfurled), il racconto di una intera città.

E qui chiudiamo, sottolineando un’altra prerogativa della striscia narrativa: tra le possibilità che offre, fin dalle sue prime testimonianze archeologiche, c’è proprio quella di raccontare i luoghi, talvolta con ampie panoramiche.

UN FUTURO RADIOSO Succede nella Colonna Traiana, dove i luoghi non sono soltanto un fondale per le scene; e poi nella grande carta geografica del IV secolo chiamata Tabula Peutingeriana, che riproduce il territorio dell’impero romano. Ma accade in tempi suc-

cessivi anche in luoghi a noi lontanissimi, come la Cina: al XII secolo risale il rotolo dipinto dal titolo La festa di Qingming lungo il fiume, dell’artista Zhang Zeduan; e all’epoca della dinastia Ming (XIVXVII secolo) si data l’eccezionale Diecimila miglia del fiume Azzurro. Di fronte a testimonianze del genere, opere come quelle di Joe Sacco e Matteo Pericoli ci dicono che la striscia narrativa – che ha solide origini archeologiche – è viva e ancora attuale; sta molto, molto bene e sembra avere un radioso futuro davanti a sé.

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ARCHEOTRAFFICO • RECUPERI ECCELLENTI

Sulle due pagine: Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek. L’esposizione dei frammenti del carro da guerra di cui è stata accertata la provenienza dalla tomba XI della necropoli di Colle del Forno, presso Eretum (Montelibretti, Roma). Restituiti all’Italia, i materiali sono attualmente esposti a Firenze, nella mostra «La Tutela Tricolore. I Custodi dell’Identità Culturale». In basso: una pagina del memoriale di Robert Hecht, scritto dal trafficante d’arte come brogliaccio per un romanzo.


(ARCHEO) ROMANZO

CRIMINALE

ACCORDI RAGGIUNTI FRA BOCCALI DI BIRRA E PIATTI DI ARINGHE, REPERTI CHE DIVENTANO «BAMBINI»: SONO SOLO ALCUNI DEI PITTORESCHI RISVOLTI CHE SI CELANO DIETRO AI TRAFFICI CHE PER ANNI HANNO COINVOLTO UNO DEI PIÚ PRESTIGIOSI MUSEI DANESI, LA NY CARLSBERG GLYPTOTEK. CHE, DOPO AVER SCELTO DI CAMBIARE STRATEGIA, HA RAGGIUNTO L’ACCORDO GRAZIE AL QUALE È TORNATO IN ITALIA, FRA GLI ALTRI, LO SPLENDIDO CARRO DA GUERRA TRAFUGATO DA UNA TOMBA SCAVATA IN SABINA di Maurizio Pellegrini

«U

n altro memorabile acquisto da GM è stato il gruppo di 85 frammenti di carro: placche in rilievo e incise con leoni plastici recumbenti.Vi erano anche varie porzioni delle ruote. GM me li ha lasciati per 65 000 dollari. DvB inviò Norbert Schimmel a esaminarli, ma io ero già in parola con Copenaghen. Mogens Gjodesen, il direttore, è venuto a vederli insieme con Briling, anch’egli della fondazione. Ho chiesto 1 milione e mezzo di franchi svizzeri e mi è stato chiesto di portarli a Cop[enaghen]. Dopo un paio di drink danesi, aringhe in salamoia e qualche birra, ci siamo accordati per 1 200 000 franchi svizzeri (pari a 240 000 dollari). Notizie del pagamento arrivarono a maggio, mentre giocavo a tennis al Club Parioli.A quel tempo, quand’ero a Roma, passavo circa 4 ore al giorno sui campi. Stupidamente, ho a r c h e o 43


ARCHEOTRAFFICO • RECUPERI ECCELLENTI

8 anni di reclusione e in attesa di giudizio civile per danni allo Stato italiano; «DvB» è DietrichVon Bothmer (1918-2009), uno storico dell’arte statunitense, di chiare origini tedesche, per molti anni curatore presso il Metropolitan Museum di New York, un personaggio piú volte apparso nelle documentazioni sequestrate e molto discusso; Norbert Schimmel è invece un collezionista di antichità che, nel 1985, ha ceduto un importante gruppo di rilievi egiziani al Metropolitan

lasciato che 3 oggetti buoni da GM mi sfuggissero tra le dita: uno skyphos del pittore di Tript[olemos], con Menelao che insegue Elena, ora a Berlino, uno psykter a figure nere ora nella Collezione Menil a Houston e una kylix di Onesimos». Ecco alcuni stralci tratti dal «memoriale» Hecht, un manoscritto di un’ottantina di pagine sequestrato nel 2001 a Parigi.

TRAFFICANTE E ASPIRANTE SCRITTORE Erano appunti per un futuro romanzo scritti in inglese, con linguaggio malavitoso, da Robert Emanuel Hecht, il trafficante internazionale che vendette il cratere di Eufronio al Metropolitan Museum negli anni Settanta e che è stato poi processato insieme a Marion True, curatrice del Paul Getty Museum, e prosciolto pochi mesi prima della sua morte, nel 2012, per decorrenza dei termini grazie alla «legge Cirielli», che ha ridotto i tempi di prescrizione da 22 anni e mezzo a 10. Per non interrompere il filo del racconto, la traduzione rispecchia fedelmente il testo originale, ma si impongono alcune precisazioni utili alla nostra storia: «GM» sta per Giacomo Medici, inquisito per traffico di reperti archeologici, condannato a 44 a r c h e o

In alto: Copenaghen. La Ny Carlsberg Glyptotek. A destra: frammenti di antefisse con Menadi e Sileno, trafugati da un tempio etrusco che la Ny Carlsberg Glyptotek acquistò da Giacomo Medici nel 1976. Nella pagina accanto: la lettera di Robert Hecht al direttore della Ny Carlsberg Glyptotek, Mogens Gjodesen, in cui prende accordi per la spedizione dei reperti e li indica con il termine «children» (bambini).


Museum di New York; Mogens Gjodesen è stato direttore della Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, fondata dal magnate della birra Carl Jacobsen; John de Menil è un noto collezionista di arte primitiva, la cui moglie, Dominique, alla sua morte, ha incaricato Renzo Piano di progettare un museo a Houston destinato a ospitarne la collezione. Infine, la kylix di Onesimos è la coppa attica firmata da Eufronio e modellata dal ceramista suo allievo Onesimos, scavata illegalmente a Cerveteri, venduta in frammenti e in piú ondate al Getty Museum e che è fra i primi oggetti restituiti all’Italia dal museo statunitense. Nel luglio 2016, il Ministero dei Beni e delle Atti-

vità culturali e del Turismo ha annunciato un accordo di cooperazione culturale con la Ny Carlsberg Glyptotek, che rafforza lo scambio accademico di reperti archeologici.

I PRIMI RIENTRI Raggiunto a seguito di indagini che provavano come i reperti fossero stati dissotterrati nel contesto di scavi illegali in Italia ed esportati senza autorizzazione, l’accordo sembra essere il risultato del dialogo accademico intrapreso a partire dalla primavera del 2012 tra il MiBACT e la Glyptotek, ed essere stato favorito dai buoni uffici dell’Ambasciata d’Italia a Copenaghen. Esso prevede la restituzione all’Italia di circa 500 reperti archeologici che hanno fatto parte

della collezione di antichità del museo danese sin dagli anni Settanta. Un primo lotto di materiali è stato restituito nei mesi scorsi ed è attualmente esposto nella mostra «La Tutela Tricolore. I Custodi dell’Identità Culturale» (vedi box a p. 48). Si tratta del corredo proveniente dalla Tomba XI della necropoli di Colle del Forno dell’antica Eretum (nei pressi di Montelibretti, Roma) in Sabina, devastata negli anni Sessanta, ritrovata nel corso di una campagna di scavo condotta nel 1972 e studiata da Paola Santoro, del CNR. Nel sepolcro sono stati recuperati frammenti che si uniscono non soltanto con quelli del sontuoso carro da guerra esposto per piú di trent’anni a Copenaghen, ma anche con un pettorale

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ARCHEOTRAFFICO • RECUPERI ECCELLENTI

d’oro e due scudi di bronzo pertinenti allo stesso corredo. Paola Santoro era cosí riuscita a ricostruire il corredo nella sua interezza attraverso lo studio della tomba a camera e dei pochi frammenti scampati alla distruzione dei tombaAntefissa con Menade e Sileno di cui è stata accertata la provenienza da Cerveteri. Già nelle collezioni Fleischman e Hunt, il reperto venne acquisito dal Getty Museum, che lo ha poi restituito all’Italia.

roli. La stessa guida del museo danese indicava che tutti i materiali esposti nella stanza n. 20 provenivano da un’unica tomba a camera, fornendo una generica provenienza dall’Etruria meridionale. L’accordo prevede la restituzione,

entro il 2017, di tutti gli altri oggetti, tra i quali decine di frammenti architettonici provenienti da piú di un tempio etrusco-italico e che comprendono due antefisse con Menade e Sileno danzanti, probabilmente provenienti da Cerveteri. Le antefisse – protomi figurate in argilla, fabbricate da matrici, che costituivano gli elementi terminali nelle gronde dei templi classici – meritano un’analisi piú approfondita. Un esemplare analogo, confluito nella collezione Fleischman – acquistata negli anni Novanta dal Getty Museum –, è stato restituito all’Italia, perché riconosciuto oggetto di scavo clandestino. Esaminandolo, è facile rilevarne la frammentarietà originaria: in particolare, l’antefissa appare ricomposta da due porzioni dopo un accurato restauro, ma restano evidenti le lacune della terracotta e tracce di bruciatura.

DALL’ETRURIA A GINEVRA Nella documentazione fotografica sequestrata nel 1995 a Ginevra nei magazzini riconducibili a Giacomo Medici, è stata rintracciata una polaroid che mostra la parte inferiore della medesima antefissa, accostata a una parte superiore non pertinente. Nella stessa documentazione in sequestro, sono state individuate altre polaroid che mostrano analoghe antefisse, appena estratte da uno scavo clandestino. Sebbene nessuna delle antefisse corrisponda alla parte superiore di quella restituita dal Getty, tutti i frammenti raffigurati nelle suddette polaroid, di identica tipologia, provengono da uno stesso sito dell’Etruria meridionale, come peraltro indicato nel catalogo della collezione Fleischman. Le ricerche compiute su questi materiali e attraverso le documentazioni sequestrate negli ultimi anni ci hanno portato a individuare e ricomporre i vari frammenti: infatti, la parte superiore di antefissa, che 46 a r c h e o


nella polaroid è accostata alla parte inferiore dell’esemplare della ex collezione Fleischman, si trova tuttora a Copenaghen e corrisponde al frammento raffigurato nella polaroid scattata subito dopo lo scavo clandestino, insieme a un’altra esposta nella Ny Carlsberg.

I MILLE RIVOLI DEL TRAFFICO E non è tutto, perché nel sequestro eseguito a Zurigo nei confronti di un restauratore svizzero, famoso per aver restaurato il cratere di Eufronio prima che fosse venduto al Metropolitan e molto vicino a Hecht e Medici, è stata rintracciata una foto che raffigura il Sileno che ora è accostato a una delle due antefisse esposte nel museo danese insieme ad altri frammenti appartenenti allo stesso gruppo: una base e un piede. Va sottolineato che l’antefissa restituita dal Getty faceva in precedenza parte della nota collezione Hunt, che, nel corso del processo contro Marion True, curatrice del Getty Museum e Robert Hecht, trafficante internazionale, è stato dimostrato In alto: la base dell’antefissa Fleischman e la parte superiore, dopo lo scavo clandestino e prima del restauro. A sinistra: Giacomo Medici (in alto) e Robert Hecht posano accanto al Cratere di Eufronio, quando era ancora esposto al Metropolitan Museum di New York.

essere stata formata grazie alla collaborazione dei trafficanti indagati. Dalla documentazione fornita dal Getty Museum e depositata presso il Tribunale di Roma durante il procedimento penale nei confronti della True e di Hecht – purtroppo assolti per scadenza dei termini –, emerge che l’antefissa ex Hunt, ex Fleischman e acquisita dal Getty proveniva da Cerveteri sulla base di informazioni sul suo rinvenimento avute direttamente dal trafficante americano. Nei documenti d’archivio del museo danese, invece, le antefisse – acquisite insieme a centinaia di altri frammenti – risultano provenienti da Veio. Tutti i frammenti furono venduti alla metà degli anni Settanta direttamente da Giacomo Medici, nel cui deposito di Ginevra – sottoposto a sequestro – sono state trovate decine di altre polaroid raffia r c h e o 47


ARCHEOTRAFFICO • RECUPERI ECCELLENTI

guranti molti dei reperti del museo danese e che appartengono a un unico santuario etrusco. Come già ricordato, il trafficante italiano è stato condannato in via definitiva a 8 anni di reclusione e nei suoi confronti è in corso un procedimento civile per valutare i danni arrecati al patrimonio italiano.

UNA LUNGA RESISTENZA Durante il processo True/Hecht, per il quale, insieme alla collega Daniela Rizzo, siamo stati testi per la procura, abbiamo espresso per la prima volta la tesi che, oltre al corredo funerario di Colle del Forno, anche un ingente quantitativo di reperti provenienti dall’Etruria fosse illecitamente esposto alla Ny Carlsberg Glyptotek. Come per gli Stati Uniti, la pressione degli organi di stampa e la richiesta di rogatoria da parte del magistrato Paolo Ferri, hanno fatto sí che il museo, dopo una lunga resistenza, fornisse alla Procura di Roma la documentazione di acquisto dei reperti. A destra: hydría etrusca a figure nere attribuita al Pittore di Micali (510-500 a.C.), restituita nel 2014 dal Toledo Museum of Art (Ohio, USA) e attualmente in mostra a Firenze. In basso: frammenti delle antefisse poi acquistate dalla Ny Calsberg subito dopo lo scavo clandestino.

RECUPERI ECCELLENTI L’esposizione che accoglie i materiali di Colle del Forno restituiti dalla Ny Carlsberg Glyptotek si articola in otto sezioni che rendono conto dei crimini contro il nostro patrimonio – da quelli di guerra a quelli terroristici, fino ai furti con scopo di lucro e agli scavi clandestini con conseguenti esportazioni illecite – e dell’opera meritoria del Comando Tutela Patrimonio Culturale dell’Arma dei Carabinieri. Nella sezione «Beni archeologici e diplomazia culturale», sono confluiti recuperi archeologici, perlopiú provenienti da scavi clandestini e poi esportati illegalmente. Insieme al lavoro di ricerca e individuazione dei beni artistici da parte dei Carabinieri, la «diplomazia culturale» ha consentito ritorni di opere di grande importanza. In mostra alcuni esempi: la statua di Vibia Sabina, rientrata da Boston nel 2007, il cratere del celebre pittore Assteas, rientrato da Los Angeles nel 2005, e, infine, l’hydría etrusca sulla quale è rappresentata la metamorfosi dei pirati in delfini, tornata nel 2014 dal Toledo Museum of Art nell’Ohio. (red.)

DOVE E QUANDO «La Tutela tricolore. I Custodi dell’Identità Culturale» Firenze, Galleria degli Uffizi, Aula Magliabechiana fino al 14 febbraio Orario martedí-domenica, 10,00-18,00; chiuso il lunedí Info e prenotazioni Firenze Musei, tel. 055 290383; e-mail: firenzemusei@ operalaboratori.com; www.uffizi.beniculturali.it

Dallo studio di tale documentazione abbiamo finalmente trovato conferma della nostra ipotesi: l’intero corredo della tomba di Colle del Forno è risultato infatti acquisito nei primi anni Settanta, direttamente da Robert Hecht, con tanto di carteggio con l’allora direttore, contenente la cronistoria del restauro e nel quale i reperti vengono chiamati «bambini» dal trafficante. Anche l’intero complesso proveniente da un tempio etrusco, comprendente le Menadi con sileno, risultava interamente acquistato nel 1976, direttamente da Giacomo Medici. 48 a r c h e o



MUSEI • CHIUSI

CHIUSI, CITTÀ ETRUSCA IL MUSEO NAZIONALE ETRUSCO DEL CENTRO TOSCANO È UN’ISTITUZIONE PRESTIGIOSA, CHE, GRAZIE AL COSTANTE ARRICCHIMENTO DELLE SUE COLLEZIONI, DOCUMENTA LA LUNGA STORIA DI UN TERRITORIO FIORENTE ED EVOLUTO. UN INVITO ALLA VISITA...

di Maria Angela Turchetti

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Salvo diversa indicazione, tutti gli oggetti riprodotti in queste pagine sono esposti presso il Museo Nazionale Etrusco di Chiusi.


I

l Museo Nazionale Etrusco di Chiusi vanta, come non molti in Toscana, una storia secolare: istituito nel 1871, nel 1901 è stato inaugurato nella sede attuale, in via Porsenna 93; nel 1963, da Museo Civico è divenuto, con legge dello Stato italiano, Museo Nazionale. L’idea della sua istituzione risale al 1831, quando Federigo Sozzi, uno dei ricercatori e mercanti di antichità piú attivi in loco, propose di istituire un museo pubblico in grado di raccogliere le testimonianze archeologiche di Chiusi e del suo territorio, già all’epoca da secoli disperse tra musei italiani e stranieri. Il Museo divenne cosí il luogo privilegiato in cui riunire i numerosi materiali archeologici che le famiglie locali piú in vista rinvenivano nelle varie proprietà, reperti che continuavano spesso a prendere le vie del mercato antiquario, ma che costituivano anche cospicue collezioni oggetto di lasciti e donazioni.

Alla raccolta comunale, formatasi grazie all’opera di una Commissione Archeologica istituita nel 1860 con lo scopo di arginare la diaspora delle antichità chiusine, si sono aggiunte le donazioni, nel 1907 e nel 1934, delle Collezioni Paolozzi e Mieli Servadio.

RACCOLTE STORICHE E NUOVE SCOPERTE Attraverso 2000 reperti, il Museo racconta la storia di Chiusi e del suo territorio, dalla protostoria all’Alto Medioevo. A lungo ordinato per collezioni, nel 2003 è stato oggetto di un elegante riallestimento, che ha diviso i materiali secondo un percorso cronologico e tipologico, inserendo anche una sezione topografica che dà conto dei rinvenimenti piú recenti, una piccola sezione epigrafica e una dedicata alle raccolte Paolozzi e Mieli Servadio. Infine, nell’adiacente Laboratorio di Restauro è predisposto uno spazio per

Nella pagina accanto: il Canopo di Dolciano, in bronzo e terracotta. VII sec. a.C. In alto: la sfinge in pietra fetida simbolo del Museo Nazionale Etrusco di Chiusi. 530 a.C. circa. A sinistra: uno scorcio dell’allestimento del Museo, con alcune delle numerose urne funerarie che fanno parte delle collezioni.

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MUSEI • CHIUSI A sinistra: Chiusi. Una veduta dell’ingresso del Museo Nazionale Etrusco. In basso, a sinistra: l’allestimento del Museo in una fotografia del 1901. Nella pagina accanto: statua virile, parte del monumento della gens Allia. Nella pagina accanto, in basso: lastra in bronzo con dedica di Sentius [L]ucilianus alle Nimphae aq(uae) Ogulniae.

mostre e allestimenti temporanei (attualmente ospita la mostra «La Passeggiata Archeologica a Chiusi»). Lo stesso Laboratorio è aperto al pubblico in speciali occasioni. Percorrendo le sue sale, si resta affascinati dalla qualità e quantità dei reperti, in gran parte etruschi, e, attraverso il ricco apparato didattico e una app-guide, si possono ripercorrere le principali tappe che hanno 52 a r c h e o

portato alla formazione del Museo e delle sue collezioni e conoscere la storia antica del luogo. Un percorso di visita arricchito dalla possibilità di entrare nelle piú importanti tombe etrusche a oggi note nel Chiusino, quali quelle della Scimmia e del Colle (vedi anche «Archeo» n. 364. giugno 2015), del Leone e della Pellegrina. Un itinerario che può essere ulteriormente ampliato dalla

eventuale visita al Museo della Cattedrale, alle catacombe e alla sezione epigrafica del Museo Civico. Un Museo dunque, quello Nazionale Etrusco, oggi afferente al Polo museale della Toscana, che nasce per «interesse e decoro della città, della storia e della scienza stessa», secondo quanto ebbe a scrivere Angelo Nardi Dei nella Deliberazione del Consiglio Comunale del 19 aprile 1870 e che ben corrisponde all’attuale orgoglio dell’Amministrazione e dei cittadini, che considerano proprio e «familiare» quello che la stessa città e le istituzioni dell’epoca, per sottolinearne l’importanza, vollero diventasse un museo nazionale.

UNA STORIA MILLENARIA Un Museo che racconta una storia fatta per reperti e oggetti, alcuni universalmente noti e di grande impatto estetico e artistico, altri apparentemente meno significativi e di piú modesto aspetto, che però concorrono a r icostruire 3000 anni di civiltà. Il visitatore distratto attraversa il


NEL NOME DEL FONDATORE Secondo Servio, commentatore dell’Eneide, Chiusi sarebbe stata una delle piú antiche città etrusche, fondata da Cluso, figlio di Tirreno, il re lidio che guidò il suo popolo in Italia per fondare la nazione etrusca, o da Telemaco, figlio di Ulisse. Servio nella sua ricostruzione si basò probabilmente sul nome latino della città Clusium, che Ranuccio Bianchi Bandinelli nella sua monografia su Chiusi dice derivare dalla stretta (o chiusa) della valle del Clanis (Chiana). Polibio e Livio ci documentano il nome Camars, che trova forse un riscontro nella non lontana Saturnia. Il frammento di un piede con alto stelo in ceramica a vernice nera, esposto nella sezione epigrafica del Museo, databile probabilmente nel III secolo a.C. e appartenente con ogni probabilità a un kantharos, riporta il nome etrusco della città nella forma dell’aggettivo Cleusins (chiusino), documentato anche nella tomba Golini I di Orvieto. Cleusi doveva essere dunque il nome etrusco di Chiusi.

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MUSEI • CHIUSI

portico colonnato del Museo prestando poca attenzione ai materiali collocati a terra e nelle nicchie. Tra questi, vi sono cinque statue marmoree donate da Giovanni Paolozzi e provenienti da un edificio romano tardo-repubblicano venuto in luce nel 1876 in prossimità della via Cassia, vicino a Montevenere. Oltre a statue frammentarie (maschili e femminili), lo scavo restituí colonne con capitelli corinzi, pilastri, numerosi elementi architettonici in marmo e travertino e frammenti di iscrizioni recanti i nomi di esponenti della gens Allia. Fin dalla scoperta, fu difficile comprendere la natura dell’edificio, interpretato come monumento sepolcrale a edicola o come sacello per il culto delle acque eretto dalla gens. A favore di quest’ultima ipotesi è il rinvenimento, nella stessa località, di una piccola lastra di bronzo, esposta al piano interrato del Museo, con dedica di Sentius [L]ucilianus alle Nimphae aq(uae) Ogulniae. A sinistra: oinochoe in bucchero pesante. A destra: particolare del coperchio di un vaso cinerario, con impugnatura modellata in forma di due figure umane.

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I personaggi maschili, effigiati probabilmente con rotolo (andato perduto) nella mano sinistra e capsa (cassetta per i rotoli) ai piedi devono essere stati personaggi di spicco della Clusium tardo-repubblicana e avere rivestito cariche pubbliche.

IL PORTICO E I RESTAURI Prima di lasciare l’atrio, si può leggere l’iscrizione che ne celebra la realizzazione a cura di Pietro Nardi Dei, membro della Commissione Archeologica e insigne esponente della nobiltà chiusina, che aveva versato una cospicua donazione, ma che, scomparendo improvvisamente nel 1899, non poté presenziare all’inaugurazione di porticato e Museo: Museum hoc perystilium Petrus Nardi Dei ære sua f(ecit) f(ieri). A destra invece l’iscrizione ricorda i restauri eseguiti dopo i danni subiti nella seconda guerra mondiale.

Le testimonianze piú consistenti del popolamento del territorio risalgono agli inizi del I millennio a.C. Non lontano dal Museo, nel Parco pubblico dei Forti, una cisterna di epoca romana ha in parte cancellato le tracce di un villaggio di capanne ovali, delimitato da una recinzione e attribuito all’età del Bronzo Finale. Qui, come attestano i reperti esposti nel Museo, si intagliavano osso e corno, si tesseva e filava, si trattavano e cucinavano i prodotti dell’agricoltura (cereali, vite) e dell’allevamento. Ma è a partire dal IX-VIII secolo a.C. che conosciamo piú approfon-


LA TELA DI PENELOPE La raccolta civica, il nucleo piú antico del Museo, si è formata grazie agli acquisti e alle donazioni promosse dalla locale Commissione Archeologica a partire dalla metà dell’Ottocento, esposta per la prima volta pubblicamente a Chiusi in via Mecenate dal 28 ottobre 1871. L’inaugurazione del Museo suscitò un grande entusiasmo e un nuovo fervore di acquisizioni e ricerche, documentate dai verbali delle adunanze della Commissione Archeologica. L’acquisto piú importante del 1872 fu senz’altro lo skyphos attico a figure rosse attribuito al Pittore di Penelope, che proprio da questo vaso prende il nome. Lo skyphos rappresenta anche il vaso greco a figure rosse di maggior rilievo oggi al Museo. Rinvenuto nei terreni di proprietà del conte Pietro Ottieri della Ciaja posti in località S. Lazzaro-Badiola,

ditamente abitati e necropoli di Chiusi, disseminati sui colli circostanti la città attuale. Le necropoli villanoviane hanno restituito tombe a pozzetto a incinerazione con il vaso biconico coperto da una ciotola e contenente i resti cremati del

non era forse parte del corredo di una tomba ma dono votivo legato a un edificio sacro, dal momento che fu portato alla luce «al sommo di un pozzo ripieno di terra» comunicante con una sottostante galleria. Il vaso è decorato con scene dell’Odissea: su un lato Telemaco comunica alla madre la decisione di partire alla ricerca del padre Ulisse, mentre Penelope ascolta,

tristemente assorta, davanti al telaio verticale dove sta tessendo la famosa tela. Sul lato opposto il celebre epilogo della vicenda: Ulisse viene riconosciuto dall’anziana nutrice Euriclea, che gli lava i piedi per dovere di ospitalità dopo il suo arrivo a Itaca sotto le mentite spoglie di un mendicante, in presenza del porcaro e fedele amico Eumeo.

In alto: skyphos attico a figure rosse attribuito al Pittore di Penelope. V sec. a.C. In basso: foculo (vassoio di uso funerario, con funzione simbolica) in bucchero pesante, con un corredo di suppellettili. VI sec. a.C.

defunto. Oggetti di corredo accompagnano il cinerario, fuseruole e rocchetti per tessitura e filatura nel caso di sepolture femminili, armi e rasoi per gli uomini. Un singolare coperchio di vaso cinerario presenta il pomello di presa sagomato nella forma di due figure umane, forse maschile e femminile, una delle piú antiche creazioni plastiche rinvenute a Chiusi, insieme al piccolo torello da Montevenere. È suggestivo e commovente leggervi il legame familiare che unisce due individui vissuti 2800 anni fa in un ultimo e appassionato saluto, da riconnettersi senz’altro alla dea r c h e o 55


MUSEI • CHIUSI A sinistra: dinos attico, da Fonte Rotella. Metà del VI sec. a.C. circa. In basso: particolare della restituzione grafica della decorazione del dinos. Nella pagina accanto, in basso: urnetta in pietra fetida con scena di banchetto.

stinazione funeraria del vaso: un addio e un abbraccio destinati a durare per l’eternità.

UN ESEMPLARE UNICO NEL SUO GENERE Tra i reperti del Museo spicca il celebre Canopo di Dolciano, costituito da un trono e un ossuario di bronzo coperto da una testa fittile. I canopi, tipici del territorio chiusino, mutuano il nome dai vasi funerari che gli Egiziani usavano per la conservazione delle viscere estratte dai corpi da mummificare. A Chiusi, a partire dagli inizi del VII secolo a.C., si usa seppellire gli individui incinerati in vasi globulari, spesso collocati su un trono, con la copertura conformata a testa umana piú o meno stilizzata. Davanti al trono era spesso una tavola in bronzo. Il ricco defunto era dunque immaginato a banchetto, chiuso con il suo corredo entro un grande recipiente in terracotta (zi56 a r c h e o

Come il suo piú celebre «gemello», anche il secondo vaso François presenta scene legate alla guerra di Troia ro) sigillato da una lastra di pietra e inserito in un grande pozzetto, raramente in una camera. Il canopo di Dolciano appartiene al cosiddetto tipo «evoluto», caratterizzato da capigliatura a treccine e tratti naturalistici del volto, databile a partire dalla fine del VII secolo a.C. Siede su un trono bronzeo decorato a sbalzo con ampia spalliera semicircolare formata da due lamine ricurve congiunte verticalmente

da chiodi prima di essere decorate, fissate alla base mediante bulloni. Mentre il trono è decorato superiormente con rosette eseguite a compasso, la spalliera presenta file di quadrupedi incorniciati da archetti intrecciati coronati da palmette. Un unicum, nel caso del canopo di Dolciano, appare l’associazione tra il cinerario in bronzo e la testa in terracotta, tanto che fin dal momento della scoperta, avvenuta negli anni Sessanta dell’Ottocento, si dubitò del rinvenimento. Cosí, nel 1881, il canonico chiusino Giovanni Brogi rassicurava l’allora Soprintendente d’Etruria Luigi Adriano Milani: «Il canopo di cui Ella ebbe il disegno è tutto intero quale fu estratto dal sepolcro a pozzo dentro il ziro ov’era contenuto. Il vaso cinerario appartiene al seggio sul quale si trova collocato ed aveva pure quella testa in terracotta, che pare non gli si adatti perché formata di materia diversa. Ma tant’è fu ritrovato a quel modo e cosí bisogna apprezzarlo».


Come già nel periodo precedente, la società chiusina del VI secolo a.C. gode di notevole floridezza e utilizza per i propri monumenti funerari una pietra locale calcarea dall’odore penetrante a causa della presenza di particelle di zolfo, nota come pietra fetida.

COME FEDELI GUARDIANI Insieme a Vulci, da dove forse giunsero le prime maestranze, ha restituito il maggior numero di testimonianze a tutto tondo, databili a partire dalla fine del VII secolo a.C. Leoni, sfingi, figure umane in forma di busti femminili con le mani incrociate al petto o in atto di reggere le lunghe trecce, in gesto di compianto funebre, sono le iconografie piú diffuse. Collocate probabilmente al di fuori delle tombe, come fedeli guardiani, segnacoli o temibili creature mitologiche, dovevano piangere il defunto e proteggerlo o forse anche accompagnarlo nel suo viaggio verso l’oltretomba.

La sfinge alata, simbolo del Museo, databile intorno al 530 a.C., è una di queste figure enigmatiche, donata alle raccolte civiche nel 1874 dal conte Pietro Ottieri della Ciaja. Ha un volto allungato con grandi occhi a mandorla e palpebre plastiche. I capelli, raccolti in trecce che anteriormente terminano in volute, sono trattenuti sulla fronte da una benda sotto cui sporgono riccioli a forma di gocce. Una collana a vaghi cilindrici incornicia il collo. Grosse ali falcate unite con penne a ventaglio e bordo a losanghe completano l’imponente figura dal corpo felino, accucciata sulle zampe posteriori. Nella seconda metà del VI secolo a.C. si diffondono invece cippi, sarcofagi e urnette in pietra fetida con scene a rilievo di danza, commiato funebre, banchetto, matrimonio, conversazione che restituiscono vivide scene di vita quotidiana e consentono di immaginare gesti e cerimonie funebri legate alla morte e alla ritualità religiosa.

Chiusi ha restituito i piú raffinati e antichi vasi attici rinvenuti in Etruria, testimonianza di una società, ricca, aperta e ricettiva, in grado di acquistare dalla Grecia oggetti di lusso, come il celeberrimo cratere a volute a figure nere noto, dal nome del suo scopritore, come vaso François (oggi conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Firenze) e rinvenuto nella necropoli di Fonte Rotella. Non tutti, però, sanno che, dallo stesso sepolcreto proviene un altro grande recipiente, di poco piú recente del cratere attribuito a Kleitias ed Ergotimos, frutto degli scavi condotti dallo stesso Alessandro François nel 1843-44.

AL CENTRO DEL BANCHETTO Rocambolesco fu il recupero del grande dinos attico a figure nere, con parte del suo sostegno, della capacità di 66 litri, che dobbiamo immaginare, colmo di vino prelibato, al centro di un aristocratico Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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MUSEI • CHIUSI A sinistra: copia della pisside dalla tomba della Pania. 630-580 a.C. circa. La pisside era un contenitore dotato di coperchio, destinato a raccogliere cosmetici e oggetti propri della toletta femminile. In basso: frammento di un monumento a gradoni, da Poggio Gaiella. Nella pagina accanto: il cosiddetto cinerario Paolozzi, da Dolciano. Seconda metà del VII sec. a.C.

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banchetto della metà del VI secolo a.C. circa. Documentato fin dal 1858 nella Collezione Lunghini di Sarteano, il dinos era passato nella raccolta del barone francese Pierre Amédée Foucques de Vagnoville, ridotto in frammenti e ignorato dagli studiosi. Il caso ha voluto che nel 2003, Luciano Landucci, un cacciatore umbro in trasferta a Chiusi, ritrovasse presso Fonte Rotella un frammento dello stesso recipiente, che ne completava parzialmente la forma. Si acquisiva cosí la certezza della provenienza dei frammenti e se ne riscopriva l’importanza. Il recipiente, purtroppo molto lacunoso, oggi restaurato ed esposto a Chiusi, è stato attribuito da Mario Iozzo al pittore di Londra B 76, un artista del quale si ignora il nome, ma tanto vicino a Kleitias da esserne influenzato e da utilizzare il medesimo soggetto, il corteo divino per le nozze di Peleus e Thetis, genitori di Achille, l’uccisore di Ettore, il vincitore di Troia. Non può essere un caso che due


grandi recipienti attici, con le stesse raffigurazioni e nello stesso lasso di tempo siano giunti a Chiusi. Si tratta probabilmente di vasellame pregiato richiesto dai principes chiusini, prima ancora che per essere deposto nelle ricche sepolture, per occasioni sociali importanti e particolari come, se si considera il soggetto dipinto, una cerimonia nuziale. In ogni caso un’ostentazione dello status aristocratico e dell’autorità politica dei proprietari.

I PIÚ CURIOSI FRA I BUCCHERI Il Museo di Chiusi vanta un’ingente collezione di buccheri prodotti localmente, definiti dagli studiosi «buccheri pesanti» per via delle pareti dei recipienti particolarmente spesse, decorati con motivi applicati a cilindretto o a stampo (con l’uso cioè di un cilindro intagliato in negativo, fatto rollare sulla superficie del vaso prima della cottura, oppure attraverso l’impiego di matrici). «The most curious articles in this bucchero ware are the focolari» scriveva il viaggiatore-diplomatico-archeologo inglese George Dennis nel suo fortunato libro The Cities and Cemeteries of Etruria, pubblicato a Londra in prima edizione nel 1848, e in effetti, tra i vasi di bucchero pesante attribuiti a botteghe chiusine, i foculi si distinguono per l’originalità della forma e per i problemi legati alla loro utilizzazione. Sono definiti bracieri o foculi, con una predilezione per quest’ultimo termine di origine latina, legato a un probabile ipotizzato uso come scaldini o scaldavivande. Hanno forma rettangolare o circolare, poggiano su un numero di peducci che varia da quattro a sei, sono muniti di manici orizzontali e presentano un’ampia apertura anteriore. Sono decorati con motivi ornamentali applicati a stampo sul bordo e sulle pareti e contengono un set di piccoli vasi e utensili. Solo di recente la necropoli di

DONAZIONI ECCELLENTI Il Museo di Chiusi non sarebbe quello che è senza la donazione di oltre un migliaio di reperti da parte di Giovanni Paolozzi e di oltre 700 da parte di Enrichetta Mieli Servadio, reperti che incrementarono significativamente l’esposizione del 1901. All’interno del lascito Paolozzi è il cosiddetto cinerario Paolozzi, proveniente da Dolciano, dove fu rinvenuto nell’aprile del 1873 in una tomba a ziro insieme a vasellame di impasto passato al Museo di Chiusi, mentre i bronzi dello stesso corredo furono venduti al collezionista milanese Amilcare Ancona. Il cinerario Paolozzi appartiene a una classe di elaborate e rare urne cinerarie con complesse scene di rituali funerari, databili nella seconda metà del VII secolo a.C. Rappresenta l’immagine della defunta eroizzata sul coperchio, circondata da piccole figure di piangenti e da minacciose teste di grifo che, con il terrificante becco spalancato, sembrano segnare il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

Un recente restauro ha restituito una migliore lettura del reperto, oggetto di interventi ottocenteschi che, con l’aggiunta di parti posticce e integrazioni, secondo il gusto dell’epoca, avevano ricreato un cinerario apparentemente integro ma profondamente falsato rispetto al suo aspetto originario.

Tolle, presso Chianciano Terme, ha restituito foculi contenenti braci all’interno tanto da far supporre l’utilizzo per la cottura o il riscaldamento di cibo. Ma la maggior parte dei foculi proviene da collezioni ed è priva ormai del dato di scavo, tanto che è difficile ipotizzarne l’utilizzo. Non si può neppure escludere che la varietà documentata, anche in riferimento ai pochi contesti di scavo noti e al set relativamente standardizzato di vasi e utensili all’interno, possa far ipotizzare un recipiente che abbia svolto funzioni diverse e con piú di un significato (altare portatile, vassoio, braciere con uso esclusivaa r c h e o 59


MOSTRE • NOME MOSTRA

mente simbolico, ecc..) e dunque forse ben corrispondente alle esigenze materiali e spirituali della gente chiusina.

In alto: l’allestimento della tomba delle Tassinaie all’interno del Museo. II sec.a.C. Qui sopra: pianta e sezione della tomba dell’Iscrizione, corredate dalla restituzione grafica del testo inciso nella camera di fondo. VI-V sec. a.C. 60 a r c h e o

LE NECROPOLI Se il tessuto urbano della città etrusca non è facilmente definibile nel dettaglio, piú approfondite sono le conoscenze delle numerose necropoli documentate intorno all’abitato attuale. Percorrendo l’ala di fondo del piano superiore del Museo, plastici ricostruttivi e reperti archeologici consentono di conoscere l’architettura tombale e i corredi funebri tra VII e II secolo a.C. La tomba della Pania (630-580 a.C. circa), tra le piú antiche a camera, con tramezzo a partire dalla parete di fondo, doveva contenere tre deposizioni, a incinerazione e inumazione, una delle quali, forse appartenente a una donna, ha restituito un piccolo contenitore cilindrico in avorio, una pisside finemente intagliata, oggi a Firenze. La pisside, riprodotta fedelmente nel Museo di Chiusi, è decorata a fasce con scene del mito di Ulisse (la fuga dall’antro di Polifemo e il mostro Scilla) alternate a file di armati, animali fantastici e intrecci floreali. Ricco di fascino e di mistero è il tumulo di Poggio Gaiella, di circa 90 m di diametro e 15 di altezza, perimetrato in origine da un alto tamburo di blocchi di travertino e contenente almeno una trentina di tombe, disposte su piú livelli. La piú antica, della fine del VII secolo a.C., è una struttura circolare con pilastro centrale. Tortuosi cunicoli, forse scavati dagli stessi Etruschi, collegano tra di loro alcune delle camere e creano la suggestione di un complesso e labirintico sistema che ha restituito anche elementi architettonici in pietra fetida appartenenti a strutture monumentali, esposti nel Museo. Questi elementi, decorati con cavalieri, sfilate di figure femmini-


UNA PRESENZA INSOLITA La Passeggiata Archeologica, un percorso anulare di 8 km circa, che parte e fa ritorno alla città e al Museo, tocca alcune delle principali tombe chiusine oggi visitabili. Se suggestiva è la tomba ellenistica della Pellegrina, che conserva al suo interno anche parte delle urne e dei sarcofagi originari, notevole è la tomba dipinta del Colle, nella quale spicca la vivace rappresentazione di una corsa di bighe, e celeberrima è la tomba della Scimmia, una tra le sepolture dipinte meglio conservate della necropoli di Poggio Renzo, databile al 480-470 a.C. Rinvenuta nel 1846 da Alessandro François, ha pianta cruciforme, con atrio centrale che dà accesso a tre camere. Quest’ultima deve il suo nome all’insolita raffigurazione di una scimmietta nascosta in un

cespuglio che assiste ai giochi funebri, alle gare atletiche e agli spettacoli musicali in onore della defunta dipinti a tempera sulle pareti dell’atrio. Le pareti scavate nell’arenaria locale, furono allo scopo regolarizzate attraverso la stesura di un sottile strato di argilla, opportunamente levigata per fornire una superficie liscia e idonea ad accogliere i pigmenti colorati, che

venivano applicati utilizzando l’uovo come legante. La defunta va probabilmente identificata con la figura femminile protetta da un parasole dipinta a destra dell’ingresso. George Dennis nel 1848 scrive: «Una signora è la sola spettatrice: con un rosso mantello sulla testa, se ne sta seduta all’ombra di un ombrello-parasole, proprio come quelli in uso oggi e che, probabilmente è indicativo del rango e del grado».

In alto: Chiusi, la tomba della Pellegrina. In basso: particolare delle pitture murali che ornano la tomba della Scimmia in cui si vede, in basso, a destra, la scimmietta che dà nome al sepolcro.

li e armati, oltre che con complicati intrecci floreali, dovevano decorare strutture circolari o semicircolari, forse basi per sculture o coperture gradonate di ricche sepolture.

UN DIVIETO PERENTORIO Un unicum è rappresentato dalla tomba dell’Iscr izione, per via dell’iscrizione incisa (riprodotta nel Museo) sulla parete della camera di fondo, al di sopra di una nicchia scavata forse in un secondo tempo: ein thui ara enan. Il testo, databile tra la seconda metà del VI e gli inizi del V secolo a.C., non contiene termini onomastici, come la gran parte delle iscrizioni funerarie, ma una prescrizione negativa: non fare (o non porre) nulla a r c h e o 61


MUSEI • CHIUSI

GLI ETRUSCHI DI PORSENNA Pochi sono i personaggi noti della storia etrusca: tra questi è Porsenna, re di Chiusi e di Orvieto, secondo quanto raccontano Titio Livio e Plinio il Vecchio. Sovrano di grande potere e generosità, visse tra il VI e il V secolo a.C., e, nonostante la potenza dell’esercito romano, rappresentò una delle piú terribili minacce per Roma e il suo popolo. Dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo, infatti, a capo di un forte esercito attaccò e forse conquistò Roma stessa, accorrendo in aiuto del re etrusco spodestato. Nel 504 a.C. l’esercito etrusco si scontrò contro i Latini presso Ariccia, vicino Roma. Nella battaglia, Arunte, figlio di Porsenna, perse la vita. Da questo momento in poi non si hanno piú notizie del re chiusino. Plinio descrive però l’enorme mausoleo e il

qui, forse con riferimento al divieto di utilizzare lo spazio funebre (disponibile solo per il proprietario?) o a una definitiva chiusura della camera sepolcrale.

UNO SPACCATO DI VITA La tomba delle Tassinaie, suggestivamente ricostruita nel Museo grazie alle riproduzioni delle pareti eseguite dal pittore Guido Gatti nel 1911, appartiene verosimilmente al II secolo a.C. È l’unica tomba dipinta (con scudi tra festoni) conservata di epoca ellenistica e racconta anche uno spaccato di vita di 2200 anni fa. Le iscrizioni rinvenute ci dicono infatti che appartenne alla famiglia di Tiu (luna in etrusco) Vetus, che fu deposto nel sarcofago di fondo, mentre sulle banchine laterali si legge che vi furono sepolti il piccolo Tiu, figlio di Tiu Vetus e Thana Tlesnei, e una Fasti Hermnei, pure moglie di Tiu Vetus. Fasti Hermnei fu evidentemente la pr ima moglie, morta senza aver dato eredi a Tiu Vetus, che dovette poi sposare Thana in seconde nozze. Da Thana nacque Tiuza (il piccolo Tiu) morto tredi62 a r c h e o

labirinto che il sovrano avrebbe fatto erigere come sepoltura. A Porsenna e al suo mausoleo, a oggi non identificato, si ispirarono i Medici e Cosimo I che si proclamò Magnus Dux Etruriae e numerosi artisti, eruditi e architetti del Rinascimento che tentarono di immaginare e disegnarono la tomba del re. Per far conoscere l’età di Porsenna e il leggendario sovrano, il Museo propone ai piú piccoli un libro gioco, realizzato dal personale del Museo stesso (Cristina Balducci, Elisa Salvadori, Maria Angela Turchetti) e disponibile gratuitamente, su richiesta.

In alto e nella pagina accanto, in alto: alcune pagine tratte dalla guida per bambini del Museo Nazionale Etrusco di Chiusi. In basso: testa ritratto in marmo dell’imperatore Augusto velato capite, dall’Orto Vescovile. Inizi del I sec. d.C.

cenne. La seconda moglie non è presente nella camera sepolcrale e appare verosimile supporre che si sia risposata dopo la morte di Tiu Vetus e sia stata quindi sepolta nella tomba del suo successivo marito.

IL RITRATTO DEL PRIMO IMPERATORE Nel corso del III secolo a.C. Chiusi entra definitivamente nell’orbita di Roma come civitas foederata (alleata), divenendo municipio nel I secolo a.C. I rinvenimenti archeologici consentono di ipotizzare la presenza di un assetto urbano importante sotto la città attuale e di numerosi apprestamenti nel territorio, di cui si dà conto nel piano interrato del Museo, attraverso testimonianze epigrafiche, funerarie, cultuali e contesti abitati databili tra il III secolo a.C. e l’età tardo antica. Di particolare pregio è il ritratto di Augusto velato capite (inizi I secolo d.C.) rinvenuto nell’Orto Vescovile di fronte al Duomo, considerato uno dei migliori dell’imperatore. Nello stesso luogo la scoperta di strutture murarie, porticati e pavimenti di varia


natura ed epoca fece supporre a Gian Francesco Gamurrini la presenza del Foro della Chiusi romana.

Mosaico raffigurante una duplice caccia: al cinghiale (forse quello mitico di Calidone) e a tre cervi, da Montevenere. 80-60 a.C.

CACCIA AL CINGHIALE Da Montevenere, proviene il raffinato emblema, in tessere policrome di 3-4 mm alloggiate su un supporto in travertino, di un pavimento musivo a tasselli colorati, appartenente a un grande complesso romano. Il mosaico, datato 80-60 a.C., rappresenta una duplice caccia, al cinghiale da parte di due personaggi maschili armati di lancia e bipenne, accompagnati da un cane, e a tre cervi, da parte di un uomo armato di tre giavellotti. Il soggetto potrebbe alludere alla caccia al cinghiale che devastava la città e il territorio di Calidone, ma anche alle cacce reali alessandrine, per la presenza

Come arrivare Dall’Autostrada A1, uscita ChiusiChianciano Terme, o con il treno (stazione ChiusiChianciano Terme), si arriva comodamente in macchina o con l’autobus a Chiusi, posta a 375 m s.l.m., al limite meridionale della Valdichiana. Presso la Cattedrale di S. Secondiano è Il Museo Nazionale Etrusco, in via Porsenna 93.

dei cervi e l’assenza di alcuni personaggi chiave del mito calidonio. Vale la pena ricordare che, alla fine del VI secolo d.C., Chiusi divenne uno dei piú importati ducati longobardi del centro Italia. Tra le numerose tombe note per l’epoca, nel Museo sono esposti i corredi di

Pistoia

Lucca

Firenze

E 76

Livorno San Gimignano

E 78

Arezzo

Città di Castello

Siena

Cecina

Gubbio

E 80

San Vincenzo

Perugia

Chianciano Terme

Chiusi

Piombino

Museo della Cattedrale e Labirinto di Porsenna Chiusi, piazza Carlo Baldini 7 Orario gli orari variano stagionalmente Info tel. 0578 226490; e-mail: museocattchiusi@alice.it

Grosseto Orvieto

Castiglione del Pescaia

Civita E 80

Orbetello Porto Santo Stefano

Viterbo

Civitavecchia Santa Marinella

Museo Nazionale Etrusco Chiusi, via Porsenna 93 Orario tutti i giorni, 9,00-20,00: per la visita alle tombe, è necessario rivolgersi al personale del Museo Info tel. 0578 20177; e-mail: pm-tos.museochiusi@ beniculturali.it; pagina FB: https://www.facebook. com/Museoetrusco.diChiusi

E 45

E 35

Follonica Portoferraio

Si ringraziano per la collaborazione il Comune della Città di Chiusi e il personale del Museo DOVE E QUANDO

Prato

Pisa

cinque sepolture dalla località Arcisa, nota per il rinvenimento di una tomba con un corredo aureo di eccezionale valore, disperso sul mercato antiquario e solo parzialmente rintracciato (la cosiddetta tomba del Longobardo d’oro). Spatha, armi in ferro e umboni di scudo appartengono a sepolture di guerrieri, mentre una grande fibula in argento con decorazioni plastiche e i pendaglietti di collana in lamina d’oro sono da riconnettersi a una deposizione femminile.

E 35 E 80

Fiumicino

Roma

Museo Civico «La città sotterranea» Chiusi, via Il Cimina 2 Orario visite su prenotazione Info tel. 0578 20915; e-mail: info@clanis.it a r c h e o 63


STORIA • LA METALLURGIA

E VENNE IL TEMPO DELLE MINIERE COSÍ COME LA «SCOPERTA» DELL’AGRICOLTURA RIVOLUZIONÒ LA VITA DELLE COMUNITÀ UMANE, L’INTUIZIONE CHE I METALLI SI POTESSERO RECUPERARE NELLE VISCERE DELLA TERRA RISCRISSE LA STORIA DELLA TECNOLOGIA E DELLA PRODUZIONE di Flavio Russo 64 a r c h e o


F

In questa pagina: frammenti di minerali del rame: un’azzurrite (in alto) e una malachite. In entrambi casi, il colore delle pietre differisce da quello del metallo contenuto, che è rosso.

orse fu seguita con timore, forse con curiosità: di certo, quella luminosa stella cadente che solcava il cielo abbattendosi al suolo costituí un evento straordinario, e quando gli abitanti del villaggio piú prossimo riuscirono a raggiungerne il punto di caduta e ne attesero il completo raffreddamento, ai loro occhi apparve una pietra stranissima, del tutto priva di analogia con le altre. Pesava molto, e anche percuotendola, non si frantumava, suggerendo cosí di ricavarne qualche utensile, sia pure rudimentale, ma neppure quel semplice lavoro fu possibile. L’episodio ipotizzato avvenne probabilmente prima della scoperta e della lavorazione dei diversi metalli, che secondo alcuni studiosi si colloca intorno al X millennio a.C., assegnando comunque al ferro, seppur indiretta-

mente, il piú remoto rapporto con l’uomo. Ciononostante, il ferro fu l’ultimo metallo a essere lavorato dopo quella scoperta casuale, quando, secondo il nostro computo, correva il XIII secolo a.C. Risulta invece piú agevole ipotizzare la scoperta degli altri sei metalli allo stato nativo, che attrassero col loro luccichio l’attenzione umana, e che ebbero probabilmente l’oro per capofila. Metallo splendente quanto inutile, pesante quanto rarissimo, che però non perdeva col tempo la sua lucentezza suggerendo il concetto d’incorruttibilità.

IL COLORE NON È UN INDIZIO A differenza del ferro meteorico, però, la reperibilità dei metalli nativi non ammetteva ulteriori apporti per cui in breve essi si esaurirono, stimolando a ricercarne la presenza nelle formazioni che piú sembravano contenerli. Ma i minerali di qualsiasi metallo, tra cui i sette in questione, si presentano diversissimi Nella pagina accanto: particolare di un vaso raffigurante il lavoro all’interno di una miniera: si può notare, fra l’altro, la rappresentazione di una lucerna. V sec. a.C.

a r c h e o 65


STORIA • LA METALLURGIA

dagli stessi, e sono simili a curiose pietre. Basti pensare al rame, che è di colore rosso, ma si trova in discreta abbondanza nella malachite, una pietra verde, o nell’azzurrite, una pietra appunto azzurra. È arduo stabilire quanto tempo abbia richiesto il passaggio dalla raccolta dei metalli nativi all’estrazione dai rispettivi minerali, ma dovette certamente trattarsi di un periodo molto lungo e il fenomeno non ebbe luogo ovunque nel medesimo ambito cronologico.

LA FUSIONE COME VERIFICA A far distinguere i minerali metallici, ovvero ricchi di metallo, dalle comuni pietre fu esclusivamente la loro densità: le seconde, infatti, pesano meno della metà dei primi, che perciò, anche in un’incetta di curiosità naturali, si imposero per quella loro anomala connotazione. Per restare ancora al rame, sia la malachite che l’azzurrite hanno una densità di 4 kg/dmc, ovvero pari a quattro volte quella dell’acqua e quasi due volte quella delle pietre calcaree. Ma affinché lo stretto legame fra peso e contenuto metallico fosse evidente occorreva

A destra: Saqqara (Egitto), mastaba di Mereruka. Particolare di un rilievo raffigurante alcuni operai che attizzano il fuoco di una fornace con cannelli ferruminatori. VI dinastia, 2340 a.C. In basso: Israele, valle del Timna. Resti di una fornace per la fusione del rame. Le miniere del metallo rosso presenti nella zona sono state sfruttate dal VI mill. a.C. al Medioevo.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

una verifica basilare: la fusione che permetteva di far colare da quelle strane pietre un rivolo di incandescente metallo, piú o meno puro. Compreso il rapporto tra metallo e minerale di provenienza, s’iniziò la ricerca dei secondi, ovviamente sulla superficie del suolo, nelle formazioni rocciose e, soprattutto, lungo il corso dei torrenti.Tuttavia, la raccolta si arrestava inevitabilmente quando si giungeva di fronte a una formazione rocciosa o piú in generale montuosa. Per continuare l’approvvigionamento si sarebbe dovuto penetrare nelle viscere dell’altura, un’attività che venne presto intrapresa, dando vita ai cunicoli delle prime miniere preistoriche. In realtà, l’attività mineraria nel sot66 a r c h e o


tosuolo iniziò molto prima dell’estrazione, quando si cominciò a cercare nelle formazioni rocciose le vene di silice da cui prelevare i frammenti di selce da utilizzare per la produzione litica. Tale procedura – di cui, per fare un esempio di ambito italiano, la miniera neolitica della Defensola (Gargano) ha fornito una testimonianza spettacolare – consentí il formarsi di un’antesignana cultura mineraria e, al contempo, evidenziò nei cunicoli – brevi all’inizio – formazioni di vario colore e consistenza, sul momento inspiegabili per gli scavatori. Le miniere, allora come ora, si distinguono fondamentalmente in due tipologie, a cielo aperto e in sotterraneo: ancora oggi le prime

sono di gran lunga le piú numerose, anche per la maggiore facilità di coltivazione. Le condizioni indispensabili per l’attivazione sono la diffusa presenza del minerale in superficie, per cui, attraverso la raccolta progressiva, si approfondisce lo scavo estrattivo, che assume perciò la forma di un grande imbuto. Esso non richiede opere di sostegno, né di drenaggio, e risulta perciò compatibile con le piú remote e arcaiche capacità di estrazione.

FRA SABBIA E GHIAIETTO Tuttavia, la rimuneratività di tali miniere decresce vistosamente con l’approfondirsi dello scavo, occorrendo un maggior lavoro per sollevare i minerali a discapito della ra-

pidità estrattiva. Tra le piú agevoli del genere, sono le miniere costituite da giacimenti alluvionali, in cui il minerale è disperso tra strati di sabbia e ghiaietto di facile rimozione e separazione. Sebbene di attivazione piú complessa e rischiosa, le miniere sotter ranee vantano anch’esse un’adozione che si perde nella preistoria, ritrovandosene alcune utilizzate per l’estrazione della selce durante il Paleolitico. In età classica, in una raffigurazione vascolare dell’attività mineraria, compare una lucerna di grandi dimensioni, quasi a voler sottolineare l’oscurità e quindi la lunghezza e la profondità della galleria. In realtà, sin dai primi scavi, quell’umile accessorio divenne la compagna ima r c h e o 67


STORIA • LA METALLURGIA

prescindibile dei minatori, e, sia pure in versione elettrica, continua a esserlo. In larga massima consisteva in un piccolo contenitore, piú che altro una scodella munita di una leggera scanalatura sul bordo: al suo interno si versava il liquido combustibile, in genere grasso sciolto, e, nel secondo, uno stoppino ricavato da una scheggia di legno poroso. Nei modelli piú sofisticati veniva appesa mediante funi alla volta dello scavo o contenuta in apposite nicchie.Va ricordato che il consumo di ossigeno di queste

lampade era pari a quello di un uomo a riposo, per cui contribuivano in modo sensibile a rendere irrespirabile l’aria nei piú angusti cunicoli minerari, in genere larghi 60-70 cm e alti al massimo 1 m.

L’AERAZIONE Per restare all’aerazione una certa cura vi si pose con l’incrementarsi della profondità dei pozzi e della lunghezza delle gallerie, avendo sperimentato l’imprescindibile esigenza di rinnovarvi l’aria. Nei casi piú efficaci, alla base di un pozzo

veniva acceso un fuoco che creava una corrente d’aria ascensionale, che, a sua volta, ne risucchiava un’altra di pari volume ma discendente da un secondo pozzo appositamente realizzato. Con ogni probabilità, gli antesignani forni fusori per minerali metallici furono simili a quelli utilizzati per la cottura della ceramica: inizialmente perciò molto piccoli, capaci forse di far gettare semplici cuspidi di frecce o di zagaglie. Di forni del genere sono state ritrovate le tracce e, a volte, persino buona parte

Ricostruzione dell’interno di una fornace, con fornello e mantice realizzato con pelli cucite assieme, del tipo di quelle attestate all’epoca della cultura di La Tène (V-II a.C.). Asparn an der Zaya, Musem für Vorgeschichte.

68 a r c h e o


soffio di aria compressa innalzandone cosí vistosamente la temperatura. Circa il funzionamento di quei «bassi forni», si deve presumere che il minerale vi fosse stipato a strati alternati con il carbone di legna, un impianto rudimentale dal quale derivò il cosiddetto «forno a tino», con struttura in pietra e rivestimento di argilla, il cui avvento in Europa si fa risalire all’età del Bronzo.

dell’intera struttura, abbastanza ben conservata. Consistevano, in pratica, in bassi accumuli circolari di pietrame, con un modesto vano inferiore – dal quale era possibile alimentare il fuoco – e un foro superiore per la fuoriuscita del fumo. Insufflando aria al loro interno, prassi che divenne rapidamente canonica, era possibile farvi salire la temperatura fino al punto di fusione del rame prima e del bronzo poi, per non parlare degli altri metalli in genere, con temperature di fusione piú basse, eccezion fatta per il ferro.

SIMILI AGLI OTRI Il suggerimento derivò, forse, dall’osservare l’attizzarsi delle fiamme soffiandovi sopra e piú ancora il farlo mediante una canna (strumento che in epoca recente prese il nome di cannello ferruminatorio), un apporto ben presto sostituito dal soffio di rudimentali mantici non diversi dai tradizionali otri caprini.Via via divennero piú sofisticati ed efficaci, muniti di valvole di non ritorno per evitare che l’aria espulsa venisse risucchiata nel ciclo successivo dal medesimo ugello, e soprattutto con l’accoppiamento di due, azionati alternativamente, si rese continua l’immissione del getto di aria nel forno. Un modello meno primitivo di mantice alternativo di indubbia validità è tutt’oggi in uso presso alcune popolazioni africane. Consiste in due cilindri di bambú all’interno dei quali scorrono due stantuffi di legno il cui moto è alternato manualmente dal servente. Muniti di valvole alla base, immettono nel piccolo forno un cospicuo

Fusione «porta a porta» In epoca pre- e protostorica, la fusione veniva praticata anche da artigiani itineranti. Ne è testimonianza questa forma per la realizzazione di pugnali, proveniente dall’insediamento in località Coriano (Forlí), databile tra gli inizi del Bronzo Medio e le soglie del Bronzo Finale. Forlí, Museo Civico Archeologico «Antonio Santarelli».

PRODUZIONE DI SERIE La maggiore novità del procedimento fusorio consisteva nel poter dare al metallo colato la forma del recipiente in cui veniva gettato, una matrice che rapidamente si preparò con cura, consentendo cosí l’avvio delle produzione seriale. Volendo datare quel basilare salto evolutivo è sensato porlo intorno al IV millennio a.C. In precedenza, il metallo nativo veniva lavorato per semplice percussione, con un procedimento che, sia pur marginalmente, rimase in auge a lungo, anche dopo la fusione, suggerendo una gamma di importanti osservazioni. Infatti, sottoposta a martellatura, la massa metallica diviene progressivamente piú dura e solo riscaldandola di nuovo torna a divenire plastica (ricottura): alternando i due procedimenti, si possono cosí ottenere sottili lame e utensili di rilevante durezza e cospicua resistenza. All’indomani della scoperta della fusione, la lavorazione dei metalli venne agevolata dalla disponibilità sia dei minerali in discreta abbondanza e a scarsissima profondità, sia, soprattutto, dei boschi di quercia e faggi, capaci di favorirne la fusione. Tuttavia, per un paradosso tecnologico, laddove si avevano i maggiori giacimenti non vi erano foreste, per cui si avviarono scambi commerciali tra produttori di minerali e fonditori, che immisero sul mercato lingotti grezzi che venivano poi lavorati nelle diverse città, soprattutto del Vicino Oriente. (2 – continua) a r c h e o 69


SPECIALE • ALLE ORIGINI DELLA SCRITTURA

PRIMA

DELL’ALFABETO LA CITTÀ DI VENEZIA È NUOVAMENTE PROTAGONISTA DI UNO STRAORDINARIO EVENTO ARCHEOLOGICO: NELLE MAGNIFICHE SALE DELLA SETTECENTESCA BIBLIOTECA DELL’ISTITUTO VENETO DI SCIENZE, LETTERE E ARTI SONO ESPOSTI, IN ANTEPRIMA ASSOLUTA, LE TAVOLETTE CUNEIFORMI E I PREZIOSI SIGILLI MESOPOTAMICI DELLA COLLEZIONE LIGABUE, INSIEME A UNA SERIE DI CAPOLAVORI DELL’ARTE MESOPOTAMICA. UNA MOSTRA «DA MEDITAZIONE», CHE ILLUMINA LA PIÚ ANTICA STORIA DELLA TERRA TRA I DUE FIUMI. NELLE PAGINE CHE SEGUONO, IL CURATORE, L’ASSIRIOLOGO FREDERICK MARIO FALES, CI CONDUCE IN UN AFFASCINANTE VIAGGIO ALLE ORIGINI DELLA SCRITTURA… di Frederick Mario Fales

A destra: punta di freccia in bronzo con iscrizione in cuneiforme accadico che menziona Nabû-mukin-apli, re dell’VIII dinastia di Babilonia (978-943 a.C.). 950 a.C. circa. 70 a r c h e o

Tavoletta in argilla con caratteri pittografici divisa in «caselle», da Uruk o Ur. IV mill. a.C. Data la sua arcaicità, il testo non è suscettibile di una traduzione precisa. Si tratta probabilmente di una lista di razioni, con numerali (le impressioni circolari) presenti in quasi ogni casella unitamente a elementi lessicali.

Tutti gli oggetti illustrati sono attualmente esposti nella mostra «Prima dell’alfabeto. Viaggio in Mesopotamia alle origini della scrittura» in corso a Venezia.


a r c h e o 71


SPECIALE • ALLE ORIGINI DELLA SCRITTURA

NELLA TERRA DI SUMER E AKKAD Il binomio rappresenta la denominazione piú antica della «terra tra i due fiumi». In uso sin dal III millennio a.C., continuò a indicare la regione anche nei millenni successivi, quando i nomi degli Stati erano mutati in Babilonia e Assiria…

72 a r c h e o


I

l nome Mesopotamia, o «terra tra i due fiumi», è greco e risale allo storico Arriano (II secolo d.C.); forse nato sulla falsariga di antecedenti in lingua aramaica, il termine indica l’intera area tra i bacini idrografici dei due maggiori fiumi Eufrate (a ovest) e Tigri (a est). La regione, che geologicamente è un bacino tettonico creatosi dal contatto tra lo scudo arabo e la massa asiatica, poi riempito da immense quantità di sedimenti fluviali apportati dai due fiumi stessi, è deli-

mitata a nord dalle catene montagnose del Tauro e dell’Anti-Tauro, a sud dal Golfo Arabo-Persico in cui i due fiumi sfociano, a ovest dal basso rialzo del vasto deserto sassoso della Shamiya (o deserto siro-arabo) e a est dalle molteplici catene parallele in senso NOSE dei monti Zagros, che si concludono infine con una zona depressa e pianeggiante, detta Khuzistan. La Mesopotamia antica corrisponde dunque alle realtà politiche odierne dell’Iraq e del Kurdistan iracheno per interi,

Un’immagine dei paesaggi paludosi dell’Iraq meridionale (l’antica «terra di Sumer» che si stende fra i bassi corsi del Tigri e dell’Eufrate), nei pressi di Nasiriya. Le fibre dei canneti, la cui presenza abbonda in questa vasta area acquitrinosa servono ancora oggi, come nell’antichità , da materiale di costruzione per le tipiche abitazioni. Le capanne dei villaggi odierni, infatti, non si discostano troppo dalle dimore che sorsero in questa zona alle origini della storia. a r c h e o 73


SPECIALE • ALLE ORIGINI DELLA SCRITTURA

ma anche della Siria nord-orientale e in misura piú ridotta della Turchia meridionale, dell’Iran occidentale e del Kuwait. Gli abitanti della Mesopotamia designavano questa regione soprattutto con riferimento a due territori della fase storica piú antica (2700-2000 a.C.), in cui il paese di Sumer – nella parte meridionale della valle alluvionale creata dai due fiumi – si confrontava con quello di Akkad, posto piú a settentrione. In questo senso, la Mesopotamia propone l’esempio piú antico di una regione culturale riconosciuta e coscientemente definita dalla cultura locale stessa. Il binomio «Sumer e Akkad» rimase nella tradizione dei millenni successivi a indicare nell’insieme la Mesopotamia e la sua fondamentale unità di 74 a r c h e o

lingua e di cultura, anche quando i nomi degli Stati principali erano ormai cambiati: a sud sorgeva dal 1900 a.C. la Babilonia, con la sua omonima capitale religiosa e politica sul fiume Eufrate, mentre a nord nella stessa epoca nasceva l’Assiria, incentrata nella capitale religiosa e politica di Assur e successivamente in altri centri politici (tra cui Ninive) sul Tigri. La civiltà assiro-babilonese, come insieme di comuni tradizioni culturali, nei loro riflessi politici, religiosi e sociali, fu gestita ininterrottamente da sovrani nati in loco fino al VI secolo a.C.; sopravvisse poi ancora come semplice insieme linguisticoculturale sotto padroni stranieri (i Persiani, i Seleucidi, i Romani) per sparire definitivamente nel I secolo d.C.

In alto: veduta delle rovine di Uruk (Tell Warka). Nella pagina accanto: cartina della regione mesopotamica con, in evidenza, la localizzazione dei principali insediamenti e la distribuzione delle diverse popolazioni sul territorio.


Kh

Urartu u r riti

Lago di Van Lago di Urmia

anni t i M Tell Halaf

Khorsabad Ninive

Mossul

Balawat

Kh abu r

Hassuna

Nimrud

Monti Zagros

Assiria Hatra

Nuzi

Assur

i

r Tig

Amo rre i Mari

Tikrit

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Samarra Dur Kurigalzu

Eufr

Deserto siro-arabico

ate

Ak

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Baghdad

Kerbala

Ctesifonte Seleucia

Ukhaidir

d

siti

Eshnunna

Babilonia

Tigr i

Kish

Najaf

Elam Susa

Nippur

Su

Umma

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Uruk

Eufr

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Girsu (Tello) Lagash

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Larsa Nasiriya Ur

Al' Ubaid Eridu

Acquitrini lagunari Basra

(Bassora)

De

s e rto

Golfo Persico

arabico

a r c h e o 75


SPECIALE • ALLE ORIGINI DELLA SCRITTURA

La società proto-urbana che, attorno al 3200 a.C., produce la prima forma di scrittura in Mesopotamia, si configura già come un insieme sociale ed economico di notevole articolazione e sviluppo. Essa porta a compimento una vasta serie di trasformazioni tecniche e sociali sviluppatesi nel corso del Neolitico (VII-IV millennio): dai primi risultati dell’agricoltura irrigua, all’addomesticamento di numerose specie animali a uso domestico, alla creazione di un artigianato per scopi pra-

76 a r c h e o

tici e cerimoniali differenziati, alla formazione del villaggio come sede dell’identità comunitaria e nucleo della collettività lavorativa e cultuale, con le sue piccole abitazioni a pianta semplice tripartita – in mattoni crudi rettangolari d’argilla mista a paglia – disposte secondo schemi di mutua protezione. La prima e principale città di questa fase è proprio Uruk sul Basso Eufrate, che si estendeva su una superficie di 250 ettari e poteva contenere fino a 50 000 abitanti. Essa era or-


ganizzata in due quartieri ufficiali al proprio centro: a ovest l’area del cosiddetto «Tempio Bianco», a est quella che sarà piú tardi denominata «Eanna», separata da alte mura dal resto del complesso urbano. Gli edifici dell’Eanna erano vasti, con piante assai diverse; tecniche di costruzione innovative e decorazioni eleganti vennero a impreziosire il complesso, che riuniva molte strutture adiacenti di data diversa, spesso rifatte o ampliate. L’Eanna fu all’inizio identificato con pura e semplice

sede di culto, ma oggi si tende invece a vedere in esso la prima espressione di un potere politico distinto, ovvero il piú antico edificio palatino della Mesopotamia. Gli spazi urbani di Uruk suggeriscono dunque tutte le caratteristiche di un agglomerato incentrato sull’amministrazione e sull’economia locale e mercantile; in esso si può in sostanza vedere il prototipo di molte successive città «regali», o capitali, del mondo mesopotamico.

NEL SANTUARIO DI URUK Ricostruzione virtuale di una cerimonia nel santuario di Eanna, nella città di Uruk, intorno alla fine del III millennio a.C. Il sovrano e i sacerdoti del tempio sfilano in processione per rendere onore alla dea Inanna-Ishtar.

a r c h e o 77


SPECIALE • ALLE ORIGINI DELLA SCRITTURA

Avanti Cristo

4500

FASI ARCHEOLOGICHE

ALTA MESOPOTAMIA

BASSA MESOPOTAMIA

3900 TARDO CALCOLITICO 1-5

Tepe Gawra

3100

2900

BRONZO ANTICO I

BRONZO ANTICO II

2750

2000 BRONZO ANTICO III

Ninive 3

Ninive 4

Ninive 5

Chagar Bazar 5

Uruk Antico-Medio

Uruk Tardo

Jemdet Nasr

Protodinastico I

Protodinastico II

(3300-3100 a.C.)

(3100-2900 a.C.)

(2900-2750 a.C.)

(2750-2600 a.C.)

XII-VIII

Post Ubaid

SIRIA PALESTINA

Colonie Uruk

ANATOLIA

Colonie Uruk

IRAN

Colonie Uruk

78 a r c h e o

3300

(2500-2300 a.C.)

Shakkanakku a Mari

Amuq

Amuq J

Ebla Amuq G Amuq Q

Periodo proto-elamico (dal 2700 a.C.)


0

2000/1950 BRONZO ANTICO III/IV

Ninive 5 Tardo

1600/1550

1200/1150

1100/500

BRONZO MEDIO

BRONZO TARDO

Periodo paleo-assiro

Periodo mittanico

Periodo neo-assiro

(1950-1750 a.C.)

(1550-1360 a.C.)

(1050-612 a.C.)

«Età oscura»

Periodo medio-assiro

Periodo neo-babilonese

(1750-1550 a.C.)

ETÀ DEL FERRO

(625-539 a.C.)

(1360-1050 a.C.)

Protodinastico III A

Paese del Mare II din.

(2600-2450 a.C.)

Protodinastico III B

Isin/Larsa

(2450-2350 a.C.)

Periodo accadico (2350-2200 a.C.)

Periodo guteo

(2000-1800 a.C.)

Periodo paleobabilonese

Dominio assiro

(1025-1005 a.C.)

Periodo cassita

Isin II

(1600-1150 a.C.)

(1150-1025 a.C.)

Dinastia di Bazi (1005-985 a.C.)

(1800-1595 a.C.)

Tribu caldee

(2200-2120 a.C.)

(725-625 a.C.)

Periodo neobabilonese (625-539 a.C.)

(dal 700 a.C.)

Ur III

Periodo achemenide

(2112-2004 a.C.)

Yamkhad Amorrei

Mari

(2000 a.C.)

(1850-1750 a.C.)

(1800-1600 a.C.)

Alalakh VII -Hyksos-

Condominio egizio-ittita

Condominio (1370-1190 egizioa.C.) mittanico (1550-1370 «Popoli del a.C.) Mare»

(dal 550 a.C.)

Stati aramaici

Dominio assiro

(1100-720 a.C.)

(725-625 a.C.)

Stati neo-ittiti

Dominio neo-babilonese

(1100-720 a.C.)

(625-539 a.C.)

(XII sec. a.C.)

Antico regno ittita (1650-1550 a.C.)

Impero ittita Periodo (1370-1190 a.C.) Nairi medio ittita (circa Kizzuwatna (1550-1370 «Popoli del 1000 a.C.) a.C.) Mare»

Urartu

Dominio medo

(800600 a.C.)

Frigi

(XII sec. a.C.)

Awan ed Elam

Dinastia dei Sukkal-makh

Regno Medio-Elamico

Regno neo-elamico

(2350-2200 a.C.)

(1900-1750 a.C.)

(1500-1100 a.C.)

(750-650 a.C.)

Media e Persiani (650550 a.C.)

a r c h e o 79


SPECIALE • ALLE ORIGINI DELLA SCRITTURA

LA SCRITTURA Nacque una volta sola o, contemporaneamente, in piú luoghi? E qual è il suo rapporto con l’altro sistema comunicativo, quello orale?

S

in dall’inizio dell’epoca proto-urbana (3700 a.C.) – detta anche «di Uruk» dal sito-guida in Bassa Mesopotamia – mutamenti tecnologici sostanziali portarono la valle tra Tigri ed Eufrate all’avanguardia delle società dell’Asia. Questi mutamenti, che Gordon Childe descrisse unitariamente co-

80 a r c h e o

me «rivoluzione urbana», comprendevano in primo luogo la formazione di città come sedi centralizzate di potere, marcate da edifici monumentali di vaste dimensioni a scopi di culto, ma anche come evidenze di un controllo sociale e politico che veniva creandosi internamente e rispetto al vasto universo di villaggi agricoli circostanti. Attraverso il potere politico incentrato nelle città, potevano organizzarsi i progetti di grandi canalizzazioni per debellare l’aridità e aumentare la superficie

Cono d’argilla con iscrizione in cuneiforme sumerico, da Lagash. Periodo guteo, 2140 a.C. circa. Il testo celebra il sovrano Gudea e ricorda la costruzione di un tempio per il dio Nindara a Girsu, il quartiere templare di Lagash. Nindara è chiamato «signore possente» (lugal-en), fin dall’epoca dei primi re di Lagash a noi noti.


Tavoletta in argilla iscritta in cuneiforme accadico, da Kanesh. XIX sec. a.C. Si tratta di una lettera in dialetto assiro relativa a vicende di affari, verosimilmente connessi ai traffici carovanieri tra Assur e l’Anatolia. Si menziona un processo in svolgimento nella capitale assira, da dove il mittente scrisse a due suoi sodali o parenti nel «fondaco» mercantile di Kanesh.

coltivabile della piana alluvionale, basati sugli elementi-cardine della divisione del lavoro e delle gerarchie sociali, ovvero di un sistema di poteri e di gestione dei beni fondato sulla presenza di gruppi e classi differenziati dal punto di vista politico ed economico. Le primissime manifestazioni della scrittura, definibili come proto-cuneiforme (attraverso disegni che rappresentavano oggetti diversi e numeri), sono stati rinvenuti negli strati piú recenti di Uruk (livelli IV e III dell’Eanna, 3200 a.C. circa). Le caratteristiche della società, dell’amministrazione

e dell’economia di questo periodo «Tardo Uruk» parrebbero in sé sufficienti per postulare, senza difficoltà, l’avvio della scrittura in Mesopotamia come dettato da ragioni primarie e pratiche di contabilità e di amministrazione quotidiana. Questa idea-base può essere ancora ritenuta valida in via generale.Tuttavia, essa si fonda su una prospettiva che pone al centro la continuità con i periodi successivi, quando la scrittura sarà evoluta in sistema compiuto; e non inquadra l’effettivo meccanismo della «nascita della scrittura» nella Terra dei Due Fiumi a r c h e o 81


SPECIALE • ALLE ORIGINI DELLA SCRITTURA

– della scrittura nel suo farsi – sotto l’aspetto comparativo e funzionale.

UNA O PIÚ ORIGINI? Intanto, va ricordato che la scrittura – come ideazione e come realizzazione pratica – si generò piú o meno in contemporanea in Mesopotamia e in Egitto. Da questo epicentro complessivo nelle due valli alluvionali dell’Asia occidentale e del Nord Africa, la scrittura si sparse altrove a vasto raggio: nell’Elam (Iran sud-occidentale) dove – sempre attorno al 3000 a.C. – troviamo i caratteri proto-elamiti; nella seconda metà del III millennio, nella cultura dell’Indo (Pakistan odierno); alla fine del III millennio, a Creta (scrittura minoica) e in larga parte dell’Anatolia (cuneiforme ittita), poi in Cina alla fine del II millennio (cultura Shang), infine in Mesoamerica (I millennio a.C.). 82 a r c h e o

Questa distribuzione di forme diverse di scrittura nel tempo e nello spazio, che per alcuni mostrerebbe tratti di una lenta ma decisa diffusione tecnologica, in realtà pone in evidenza la mancanza di qualsiasi connessione – formale o tipologica – tra i sistemi di scrittura creati in questi diversi ambienti. Quasi del tutto abbandonata, dunque, è l’idea di un’origine monocentrica del fenomeno della scrittura nell’antichità, mentre al contrario si tende ad affermare che i sistemi di scrittura della Mesopotamia (ed Egitto), della Cina e del Mesoamerica siano stati del tutto indipendenti e che – soprattutto – siano nati in risposta a necessità locali particolari e del tutto diverse. In secondo luogo, si trova oggi messa in serio dubbio la connessione tra le forme piú primitive di scrittura e il linguaggio orale. Già pochi secoli dopo il Tardo Uruk, la scrittura in Mesopotamia prese a rappresentare una lingua

A sinistra: tavoletta con registrazione di derrate alimentari, da Fara/Shuruppak o Nippur. Periodo Protodinastico III a, XXV sec. a.C. Testo di natura amministrativa, verosimilmente un’uscita di prodotti alimentari: per esempio gú (forse «piselli») e ku -izi («pesci affumicati»). A destra: tavoletta in argilla con contratto per l’acquisto di una casa, da Shuruppak o Nippur. Periodo Protodinastico III a, XXV sec. a.C. L’atto prevede una doppia modalità di pagamento: una somma in metallo, divisa a sua volta nel «prezzo della casa» e in un «supplemento», e un quantitativo di beni vari in natura (prodotti a base di orzo, quantità di grasso e lana, abiti).


Sin da un’epoca antichissima, la scrittura cuneiforme fu il veicolo per l’espressione della lingua sumerica

a r c h e o 83


SPECIALE • ALLE ORIGINI DELLA SCRITTURA

LE PIÚ ANTICHE TAVOLETTE CUNEIFORMI NASCONO DA ESIGENZE ECONOMICO AMMINISTRATIVE? Esaminiamo la documentazione tradizionalmente classificata come antecedente alla scrittura; si tratta dei cosiddetti «gettoni» e delle bullae di argilla. I «gettoni» o contrassegni (tokens in inglese), che sono stati ritrovati in circa diecimila esemplari in vari contesti archeologici del Vicino Oriente in età neolitica (dall’8000 al 3000 a.C.). Essi erano fatti in argilla o altri materiali (per esempio pietra) e rappresentavano, in dimensioni molto ridotte, forme geometriche o naturalistiche, quali coni, sfere, dischi, tetraedri, cilindri, triangoli, recipienti, animali, e altro; alcuni gettoni erano segnati da linee o punti incisi. È stato detto, in passato, che i gettoni rappresentano «l’adattamento di un arcaico modo di contare», il cosiddetto «contare concreto», che precedette l’invenzione dei numeri astratti», nel senso che, per esempio, il contrassegno a forma di testa di bue avrebbe rappresentato «un bue», cioè l’oggetto e la sua numerazione insieme. Le bullae (o «buste») di argilla si sarebbero invece affermate piú tardi, con la nascita dell’urbanizzazione e di società piú complesse: all’interno di forme tondeggianti o quadrangolari di argilla grezza, cave all’interno, sarebbero stati rinchiusi gruppi omogenei di «gettoni». Per ricordare il contenuto delle «buste» senza rompere l’involucro, i gettoni stessi sarebbero stati quindi 84 a r c h e o

Tavoletta in argilla con testo di natura amministrativa, con pittogrammi, dalla Mesopotamia meridionale. Periodo Tardo Uruk. È possibile distinguere una serie di numerali (centrodestra), affiancati dal segno per «spiga». A sinistra in alto troviamo verosimilmente il segno per «malto», «pane da birra». Sotto a esso, si potrebbe leggere ŠÁM, «prezzo, acquistare». L’ultimo segno sulla sinistra è BA= «dare (fuori); uscita (amministrativa)».

impressi, nella quantità richiesta, sulla superficie degli oggetti. In un passaggio teorico ulteriore, questa sorta di doppia rendicontazione sarebbe sembrata ridondante: i gettoni sarebbero divenuti obsoleti, la bulla avrebbe perso la sua voluminosità tridimensionale, divenendo una tavoletta piatta e compatta con bordi ridotti, su cui si sarebbe impresso il contenuto comunicativo previsto. Questa ricostruzione evolutiva – dal «gettone» alla bulla alla tavoletta proto-cuneiforme arcaica – è oggi posta largamente in discussione. Senza dubbio, in alcuni casi questi oggetti saranno serviti a numerare o individuare determinate categorie merceologiche; ma in altri (e certo piú frequenti) casi, potevano essere materiali di valenza simbolicoreligiosa, o «rituale». Quanto alle

bullae, se è vero che in numerosi contesti archeologici esse sembrano precedere le tavolette protocuneiformi, questo non è d’altra parte vero nella città di Uruk, dove esse appaiono provenire dagli stessi strati delle tavolette arcaiche. Insomma, le bullae risulterebbero un espediente ancora in uso contemporaneamente alle prime attestazioni di scrittura, magari da parte di classi sociali diverse. E infine, una terza categoria di documenti è emersa da Uruk stessa e da alcune delle «colonie» di questa città: le «tavolette numericoideografiche», composte da segni numerici e uno o due segni che rappresentavano oggetti vari. Che fosse questo dispositivo l’«anello mancante» tra i gettoni, le bullae e le successive tavolette in scrittura cuneiforme?


Mattone in argilla con iscrizione in cuneiforme accadico. Periodo neo-assiro, 830 a.C. circa. L’iscrizione presenta la titolatura reale di Salmanassar III d’Assiria (859-824 a.C.), con la menzione del padre Assurnasirpal II e del nonno Tukulti-Ninurta II.

soggiacente (il sumerico) con un insieme organizzato di simboli e segni – il sistema di scrittura cuneiforme – come continuò a fare nei millenni successivi, anche applicandolo a lingue diverse. Tuttavia, non è piú credibile uno schema evolutivo lineare, che conduce in maniera diretta dalle rappresentazioni di vocaboli con rudimentali disegni alle successive scomposizioni delle parole in realtà fonologiche attraverso segni-parola e segni-sillaba. Oggi, anche grazie a studi sui sistemi cognitivi dell’uomo antico, si ritiene che la scrittura abbia spesso rappresentato un modo della comunicazione umana parallelo al linguaggio e non asservito a quest’ultimo. Per chiarire questo punto, noteremo anzitutto che le scritture proto-cuneiformi non seguono in alcun modo la struttura delle lingue orali: i testi di quest’epoca sono soprattutto organizzati in gerarchie spaziali, non sequenziali. I testi piú arcaici sono suddivisi in colonne verticali e all’interno di esse in caselle piú o meno «orizzontali», dove però tutti i

diversi segni vanno sistemati non secondo un ordine di lettura di tipo linguistico, bensí secondo gli spazi a disposizione. Inoltre, i testi piú arcaici hanno il loro fulcro in numeri, piú che in altre entità (persone, istituzioni, luoghi). Insomma, le sfere di significato dei segni diversi dai numeri sono poche e non chiaramente individuabili. Questo apre a una possibilità ulteriore: le tavolette piú arcaiche non possedevano ancora un codice interno preciso, ma dovevano essere accompagnate da una spiegazione orale a latere. Insomma, anche se manterremo l’idea che le tavolette mesopotamiche proto-cuneiformi avessero soprattutto impiego economico-amministrativo, sembra che il loro uso fosse per lo piú limitato agli «addetti ai lavori», che conoscevano nel dettaglio il contesto delle transazioni o delle movimentazioni di beni che venivano registrati. A costoro probabilmente bastava solo un minimo «promemoria» iscritto per comprendere o ricordare il messaggio veicolato dalle tavolette.

a r c h e o 85


SPECIALE • ALLE ORIGINI DELLA SCRITTURA

LA NASCITA DEL SISTEMA CUNEIFORME Quando avvenne il passaggio da una forma di scrittura «logografica» ai primi segni «fonetici»?

I

primi segni attestati sulle tavolette di Uruk IV e III o di altri siti piú o meno coevi come Jemdet Nasr (per un totale di circa 6000 documenti) sono sostanzialmente pittorici. Cosí, per esempio, un pesce è rappresentato in una visione di profilo, i sessi maschile e femminile sono resi con tratti schematici ma precisi, la palma da dattero è delineata nel suo fusto, foglie e rami; d’altra parte, sono molto numerosi in questa fase i segni che non risultano interpretabili. Definita piú volte come «pittografica» o «ideografica», tale forma scrittoria della Mesopotamia arcaica presenta, in realtà, una sola e precisa caratteristica strutturale: essa si basa, infatti, sulla corrispondenza di ogni segno con una parola – si tratti di un oggetto, di un numerale, o di un nome di persona – ed è dunque, in essenza, «logografica». Il passaggio dalla forma piú rudimentale di logografia – ovvero l’espressione di soli dati concreti attraverso la scrittura – alla resa di elementi associativi di vario genere, parrebbe già avvenuto nella stessa civiltà di Uruk (2800

86 a r c h e o

a.C. circa). Infatti, in un nome di persona di quest’epoca, en-lil-ti, troviamo il primo esempio di un uso dei segni su argilla a rendere dei valori fonetici (per esprimere la parola sumerica per «vita», ti, difficilmente rappresentabile dal punto di vista grafico, viene usato il segno con valore omofono ti(l), «freccia»). In concreto, questo primo «gioco di parole» costituisce la dimostrazione che, fin da questo momento, la lingua sottostante alle tavolette iscritte della Mesopotamia era una forma di sumerico. Una volta introdotto, il principio della fonetizzazione nella scrittura dovette diffondersi con estrema rapidità anche fuori della Mesopotamia meridionale e persino in aree remote: dalla città di Mari sul medio Eufrate, a Ebla nella Siria occidentale, a Tell Beydar e Tell Brak nella steppa siro-mesopotamica settentrionale e a Mari sul medio Eufrate. E non v’è dubbio che a questa vasta diffusione della scrittura mesopotamica vadano connesse ulteriori importanti modifiche del sistema grafico stesso, sia di natura tecnica che concettuale.

Calco cilindrico d’argilla (l’originale è conservato presso il British Museum di Londra). Periodo achemenide. Iscrizione reale di Ciro II di Persia (559-529 a.C.), in cui il sovrano legittima la propria conquista di Babilonia nel 539 a.C. Ciro si presenta come prescelto dal dio babilonese Marduk per restaurare la pace in Mesopotamia. Infine il re chiede a Marduk protezione e aiuto anche per il figlio Cambise.


SCHEMA DI EVOLUZIONE DAL PITTOGRAMMA AL CUNEIFORME Date approssimative

3300 a.C.

2800 a.C.

2400 a.C.

1800 a.C.

700 a.C.

LA STELLA segno del cielo e del Dio

L’APPEZZAMENTO DI TERRA

L’UCCELLO

IL PESCE

LA TESTA DI MUCCA

LA SPIGA D’ORZO

L’UOMO la sagoma umana

LA DONNA il triangolo pubico

LA DONNA + LE MONTAGNE = la donna straniera, la schiava

a r c h e o 87


SPECIALE • ALLE ORIGINI DELLA SCRITTURA

LO SCRIBA Se in Mesopotamia, come in altri e paralleli ambienti (Elam, valle dell’Indo, Creta), la scrittura si sviluppò per agevolare la registrazione di merci o beni fondiari, è d’altronde indubbio che la classe dei tecnici della scrittura comprese e utilizzò rapidamente le potenzialità dello strumento grafico per la creazione di testi di altra e varia natura, per esempio religiosi o celebrativi, fino a quelli decisamente letterari. E da qui nacque l’esigenza di disporre di un numero crescente di individui in grado di maneggiare la nuova tecnica, fornendo loro un’istruzione adeguata alla complessità dei testi: gli scribi di professione. La professione di scriba iniziò ad affermarsi socialmente fin dall’età delle prime stesure di testi. Tuttavia, sino alla fine del III millennio a.C., il titolo sumerico «dubsar» sembra aver designato un burocrate di basso o medio livello, sia pure formato da

88 a r c h e o

giovane nell’é-dubba, la «scuola» o forse meglio (con termine medievale) lo scriptorium. Per esempio, nelle tavolette della III dinastia di Ur, vari personaggi risultano avere avuto la funzione di «funzionario sigillante», ma le iscrizioni dei loro sigilli, impressi sulle medesime tavolette, li designano semplicemente come dub-sar. In ogni caso, per converso, si osserverà che la capacità di leggere e scrivere era estremamente diffusa in questo orizzonte amministrativo, specie sotto il re Shulgi, che aprí scuole a Nippur e Ur. Comunque, l’é-dubba di Ur III sembra essere stata soprattutto una sede di formazione del suddito destinato al funzionariato, dove una base comune di idee e di atteggiamenti venivano appresi e scambiati con docenti o tra compagni. In epoche successive, dub-sar, poi reso in accadico con l’equivalente tupsharru, indica lo «scriba».

In alto: tavoletta in argilla iscritta in cuneiforme sumerico, da Umma. Periodo di Ur III. Il documento è relativo alla serie mensile di Umma. Esso è concepito come una lista di razioni (queste ultime indicate dalla misura di capacità per il grano gur) con partizioni interne, secondo la sequenza dei mesi.

I SEGNI DIVENTANO ASTRATTI La prima di tali modifiche attiene alla forma dei segni, nel senso di una progressiva «denaturalizzazione». Alle linee curve o sinuose dei segni primitivi vennero man mano sostituendosi una serie di segmenti (orizzontali, verticali, obliqui): a questi ultimi, la pressione sull’argilla dello stilo di canna forniva delle terminazioni di forma piú allungata, di angolo o cuneo. Ben presto, linee e angoli divennero d’impiego sistematico in questa piú agile forma scrittoria – il cuneiforme – destinata a influenzare di sé vaste aree e culture assai differenziate del Vicino Oriente preclassico. Sempre durante il protodinastico si attuò un mutamento di direzione della scrittura medesima, che dall’originaria disposizione in caselle successive entro colonne verticali, condusse attraverso una rotazione di 90° alla creazione di vere e proprie righe orizzontali, leggibili da sinistra verso destra, con i segni «coricati sul fianco« rispetto alla loro forma e concezioni originarie.

Nella pagina accanto, dall’alto, in senso orario: intarsio in conchiglia raffigurante un personaggio maschile abbigliato con il tipico kaunakes (gonna a balze di lana). Questo tipo di oggetti veniva applicato a scopo decorativo su mobili o stendardi. Periodo protodinastico III. Placchetta in lamina d’oro raffigurante un genio alato. Provenienza incerta, forse da Ziwiyé (Iran). Periodo neo-assiro, VIII sec. a.C. Intarsio in conchiglia raffigurante un pesce. Periodo protodinastico III. Giara in terracotta. La decorazione dipinta è di tipo geometrico, nella parte centrale è raffigurato uno stambecco o una capra selvatica con corna molto accentuate. Periodo di Susa I, 4200-3800 a.C. circa.


LA MESOPOTAMIA RACCONTATA DALLA COLLEZIONE LIGABUE Se, alla fine dell’Ottocento, l’assiriologo inglese Henry Austen Layard ha inaugurato in ambito veneziano la tradizione e il gusto del collezionismo di reperti dell’Oriente pregreco, altri, veneziani, hanno continuato – secondo canoni e sapienza vicini a quelli dello scopritore di Ninive – a raccogliere testimonianze del Vicino Oriente Antico. Come Giancarlo Ligabue, prima, e il figlio Inti, adesso, che – diventando interprete e continuatore del maestoso viaggio culturale del padre attraverso la «Fondazione Giancarlo Ligabue» – espone per la prima volta la collezione di sigilli e tavolette mesopotamiche. Poiché per noi occidentali non è piú possibile pensare di organizzare un viaggio in Iraq come avvenuto per secoli, l’unico modo che ora abbiamo di poter percorrere le antiche piste della Terra tra i Due Fiumi è quello di andare (tornare) a Venezia, sempre piú porta e di quell’Oriente di cui si fa ancora piú portavoce culturale e anche custode. È proprio questo il filo rosso di una mostra straordinaria per l’Italia ma anche per l’Europa. La Collezione Ligabue – come spiegano gli esperti – per qualità e completezza non ha niente da invidiare alle collezioni dei grandi musei europei, solo, certamente, piú ampie per quantità di oggetti conservati. Dell’esposizione «Prima dell’Alfabeto, viaggio in Mesopotamia alle origini della scrittura» il curatore, l’assiriologo Frederick Mario Fales, docente a Udine dice: «Una collezione di altri tempi straordinaria per entità, qualità e importanza storica dei

materiali, ma anche in quanto testimonianza di un collezionismo diretto a preservare la memoria e non a defraudare le culture». Da Layard, che ha lasciato alla città di Venezia alcuni degli oggetti da lui scavati in Mesopotamia (visibili in mostra), a Giancarlo Ligabue, che in decenni colleziona attraverso un mercato leale – lo stesso a cui facevano riferimento i musei di tutto il mondo – centinaia di oggetti mesopotamici; fino a Inti Ligabue, che decide di rendere visibile la grande raccolta che lui sta continuando, passano circa 150 anni. Un lasso di tempo brevissimo per una storia culturale millenaria le cui basi documentarie sono state in parte distrutte da furie iconoclaste che non sembra abbiano intenzione di cessare la

devastazione. Ciononostante di quelle terre si può ancora tornare ed esplorare la bellezza nella mostra di Venezia, ricordando quello che lo storico francese Jean Bottéro (19142007) scriveva: «Nel mondo mesopotamico s’incontra il primo abbozzo serio di quello che, ripreso, amplificato, approfondito e organizzato piú tardi dai pensatori greci, diventerà lo “spirito scientifico”: il primo abbozzo di quella scienza e di quella ragione cui ancora oggi teniamo molto». «Questa collezione – ha spiegato Inti Ligabue – cominciò a formarsi circa quarant’anni fa quando mio padre acquistò nei primi anni Settanta, alcune tavolette della famosa collezione Erlenmeyer. Ogni oggetto in mostra riproduce infatti segni e gesti (anche) di un vivere quotidiano che ancora pratichiamo ed elaboriamo. Da quelle terre, adesso difficili e contrastate, vengono molti dei nostri modi e stili dell’esistere. Solo oggi, anche attraverso questa mostra, capisco quanto la rivoluzione umana della parola scritta – oltre a essere figlia di un processo intellettuale e di un bisogno – sia stata anche scelta d’identità che ha portato ordine, civiltà e certezza del diritto. La rivoluzione in un segno». Adriano Favaro

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SPECIALE • ALLE ORIGINI DELLA SCRITTURA

DAL SUMERICO ALL’ACCADICO Le lingue parlate nella Valle tra i Due Fiumi erano due, di cui una di chiaro stampo semitico. E l’altra?

La cosiddetta «tavoletta dei messaggeri», da Lagash. Periodo di Ur III, 2065-2005 a.C. Manufatto in argilla, iscritto in cuneiforme sumerico, riporta una lista molto dettagliata di razioni alimentari (tra cui birra, pane, grasso, olio d’oliva e farina) destinate a individui o gruppi, appartenenti alla classe funzionariale dei «messaggeri». 90 a r c h e o


L

In basso: busta d’argilla con tavoletta racchiusa all’interno, da Kanesh. Epoca paleo-assira, XIX sec. a.C. La busta contiene un promemoria relativo ad un quantitativo di rame raffinato, certificato da piú individui, di cui è altresí fornito il patronimico.

a scrittura cuneiforme dimostra di avere rappresentato, fin da epoca antichissima, il veicolo per l’espressione della lingua sumerica. Questa è una lingua di tipo agglutinante (come il turco, il finlandese, il coreano e il giapponese), con prevalente struttura monosillabica (udu = pecora, a = acqua, eme = lingua, du = andare). Le parentele precise del sumerico rimangono tuttora ignote (ciò vale anche per varie altre lingue, per esempio l’Ainu in Giappone, l’antico Etrusco, il Basco o il Burushaki del Pakistan); oggigiorno si è riproposta con nuovi strumenti una possibile origine uralica, cioè nel gruppo linguistico da cui derivarono storicamente le lingue ugro-finniche (ungherese, finlandese, estone) e una serie di parlate in Lapponia e nella Russia settentrionale. Come che sia, qualsiasi ipotesi di un’origine nonmesopotamica per i Sumeri (altri pensano all’India, per esempio) implicherebbe un arrivo in massa dall’esterno nella valle tra i Due Fiumi: come e quando questo presunto arrivo dei Sumeri abbia avuto luogo rimane però un mistero, come anche è ignoto se essi si sovrapposero a una popolazione di sostrato (detta per ipotesi «proto-tigridica»), cui si riferirebbero i nomi– decisamente non sumerici – delle principali città mesopotamiche (Ur, Uruk, Eridu, Shuruppak, ecc.).

La seconda lingua antica della Mesopotamia fa invece chiaramente parte del gruppo semitico (come l’ebraico antico e l’arabo): la chiamiamo lingua accadica, perché divenne lingua ufficiale sotto la nuova dinastia portata al potere da Sargon di Akkad (2350 a.C. circa). L’accadico è, al contrario del sumerico, polisillabico (im-me-ru = pecora, li-ša-nu, lingua, ecc.) Ora, è stato dimostrato che nomi propri linguisticamente accadici erano presenti accanto a quelli sumerici in Mesopotamia fin dai piú antichi archivi: dunque, la prevalenza del sumerico per l’età protodinastica fu di tipo culturale e forse anche dovuta a fattori demografici, ma agiva su una base di popolazione bilingue.

NON VI FU INVASIONE La prevalenza dell’accadico come lingua ufficiale per scelta di Sargon e i suoi successori si creò dunque per fattori politici e sociali, ma non fu dovuta a invasioni esterne o altro, come si credeva un tempo: i Semiti erano abitanti della Mesopotamia da gran pezza e facevano parte della popolazione alla pari dei Sumeri, con particolare prevalenza nelle zone piú a nord. Anche il mantenimento della scrittura esistente, pur applicandola a una lingua molto diversa da quella originaria, non fu – come si credeva un tempo – un fenomeno che si generò esclusivamente per l’accadico; piú o meno alla stessa epoca di Sargon, gli scribi di Ebla in Siria avevano adottato la grafia cuneiforme per rendere la lingua semitica locale (l’«eblaita») che è – peraltro – una lontana parente dell’accadico stesso. Nel corso del II e del I millennio a.C., poi, la scrittura cuneiforme fu applicata a lingue ancora diverse e assai varie. Insomma, il cuneiforme è una forma di scrittura – come sarà poi l’alfabeto in tutte le sue diverse manifestazioni, dal nostro di ultima origine latina alle grafie orientali come l’etiopico Ge’ez o le fiorite scritture Brahmi – e non è una lingua. Nato per il sumerico, esso ebbe il primo adattamento secondario per le lingue semitiche, ma questo processo d’adattamento fu lungo e complesso, frutto peraltro di piú tradizioni, necessità, interessi culturali, anche parzialmente contrastanti tra loro. L’accadico venne lentamente a imporsi in tutta la Mesopotamia, pur se fino al 2000 (segue a p. 95) a r c h e o 91


Sulle due pagine: alcune immagini di un sigillo cilindrico in goethite con iscrizione. Periodo paleobabilonese. Un particolare della superficie (sulle due pagine), in cui si distingue l’iscrizione cuneiforme su tre linee; nella pagina accanto, in alto, il sigillo nella sua interezza; in basso, la relativa impronta. Al centro della scena è rappresentata la cosiddetta «dea nuda», alla cui destra si trova la dea supplicante Lama, mentre a sinistra è raffigurato un sovrano in postura marziale con una mazza in mano. A destra della dea Lama compare un «uomo-toro», che reca in braccio un capride. 92 a r c h e o


I PRIMI SIGILLI L’uso dei sigilli a cilindro si sviluppò in parallelo alla nascita della civiltà urbana e appare parzialmente connesso alla tecnologia della scrittura. Secondo i dati disponibili oggi, i sigilli cilindrici incisi su pietre di vario tipo (spesso importate) e i segni proto-cuneiformi vergati su argilla nacquero nella medesima epoca; e parallelo fu anche il successo e il declino nel loro uso. Gli studi sulla glittica possono rivelarci come, perché, quando e da chi furono utilizzati e permettono di acquisire preziose informazioni circa l’organizzazione amministrativa e giuridica delle civiltà mesopotamiche. A volte, è anche possibile determinare la funzione di un particolare sigillo, ma anche – grazie alla grande quantità di materiale disponibile – monitorare le variazioni della funzione dei sigilli nel tempo. Le impronte dei sigilli su cretule, su bullae, su tavolette d’argilla o su etichette, inoltre, ci informano sulla pratica della sigillatura in sé. A quanto ne sappiamo, i diritti di proprietà furono inizialmente registrati da sigilli incisi con una raffigurazione peculiare che permetteva un facile riconoscimento di chi li utilizzava. Ovviamente, i diritti di proprietà esistevano ben prima che la scrittura venisse inventata. In età preistorica e protostorica ben piú numerosi sono i ritrovamenti delle cretule d’argilla su cui i sigilli venivano impressi. Le cretule erano globuli di argilla apposti in vario modo a chiusura di vasi e altri tipi di contenitori (ceste, sacchi di stoffa o di pelle) atti al trasporto di mercanzie o allo stoccaggio temporaneo di beni di vario tipo, assolvendo cosí al ruolo odierno della ceralacca o della chiusura a legaccio piombato.

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SPECIALE • ALLE ORIGINI DELLA SCRITTURA

L’ACCADICO: UNA LINGUA INTERNAZIONALE I secoli finali del II millennio a.C. (tra il 1500 e il 1200 a.C.) sono marcati da un fenomeno culturale particolare: l’adozione dell’accadico (in scrittura cuneiforme) come lingua di comunicazione diplomatica tra le diverse potenze sullo scenario politico internazionale dell’epoca: Egitto, Mittani, Ittiti, con i loro rispettivi vassalli, segnatamente nell’area siro-palestinese. A monte di questa diffusione si pone la solida tradizione della scuola scribale mesopotamica, nel suo curriculum piú o meno fisso formatosi in epoca paleo-babilonese con modifiche successive, che venne esportato in diverse regioni esterne alla Mesopotamia stessa. Procedendo da composizioni con segni elementari fino a redazioni vieppiú complesse in lingua accadica, ma senza escludere il sumerico – lingua delle conoscenze piú antiche e strumento indispensabile per dominare il complesso sistema di scrittura del cuneiforme – scribi da tutto il Vicino Oriente appresero le tecniche scribali mesopotamiche e, con esse, i testi della cultura tradizionale di quest’area (attraverso la ricopiatura di proverbi, narrazioni letterarie, lettere, testi religiosi ecc.). L’adozione dell’accadico e del cuneiforme per le relazioni internazionali avvenne liberamente, come scelta di convenienza pratica di comunicazione tra lingue molto diverse, sviluppandosi anche in fasi in cui gli Stati mesopotamici (Babilonia e Assiria) erano in un certo declino di prestigio. El-Amarna, in Egitto (a metà strada tra Menfi e Tebe sul Nilo, l’antica Akhetaton, capitale di Amenofi IV/ Akhenaton), è soprattutto nota per un archivio epistolare che documenta al massimo grado l’affermazione pratica dell’accadico come «lingua franca» delle 94 a r c h e o

cancellerie internazionali nel Tardo Bronzo: vi si trovano infatti circa 300 lettere scritte da una quarantina di «piccoli re» siro-palestinesi al Faraone come anche lettere dai «Grandi re» dell’epoca, dalla Mesopotamia, da Mittani,

dall’impero ittita e da Cipro e, infine, alcune bozze di missive in accadico in partenza dall’Egitto stesso. Dal materiale in accadico di El-Amarna, relativo a fatti di guerra, alla sorte di carovane in partenza/arrivo e a matrimoni interdinastici, è possibile


ricostruire a grandi linee il complesso reticolo di rapporti politici dell’epoca, fatto di interessi contrastanti travestiti dai panni del linguaggio cortesemente formale della diplomazia. In parallelo, scoperte piú o meno recenti indicano che l’accadico era regolarmente in uso in vari centri del Levante. Gli archivi maggiori di testi «quotidiani» redatti in cuneiforme provengono da Ugarit, Alalakh presso lo sbocco dell’Oronte nel Mediterraneo e da Emar. Ugarit si scambiava informazioni con Carchemish ed Emar a nord-est, e poi sulla costa con Alalakh, Tiro, Birutu (l’odierna Beirut), Sidone, Biblo, fino al sud con Qadesh; mentre le città palestinesi ricevevano lettere da varie parti – alcune delle quali non rappresentate nel vasto archivio di El-Amarna – come Qatna sul’Oronte, e ancora Biblo, Beirut, Sidone, Tiro, Hazor, Acri, Megiddo, Sichem, Gezer, Gerusalemme, Ascalona e Lachish. In sostanza, l’uso dell’accadico aveva portato in quest’epoca a un fiorire della corrispondenza scritta per scopi politici o commerciali, quale non troviamo neppure nell’età successiva, quando l’alfabeto giunse a rendere lo scrivere piú immediato e accessibile. Nella pagina accanto: tavoletta in argilla iscritta in cuneiforme accadico. L’argomento complessivo è il parto, ma il contenuto è diviso in due metà distinte e di carattere diseguale. A un testo di prescrizioni mediche per una partoriente afflitta da coliche seguono un incantesimo per le doglie del parto e un secondo incantesimo, di taglio mitologico, che veniva recitato al momento del parto stesso come supporto magico per la nascita. Periodo medio-assiro.

In alto: ciotola in bronzo con iscrizione, proveniente dal corredo o tesoro del re urarteo Ishpuini (828-810 a.C.), figlio di Sarduri I. IX sec. a.C. A destra: particolare della ciotola. L’iscrizione è incisa entro due cerchi concentrici nella parte centrale interna. Vi si leggono i nomi del re Ishpuini e del principe ereditario Menua.

a.C. il sumerico rimase in uso come strumento burocratico e amministrativo nell’impero della terza dinastia di Ur. Si crearono con il tempo due insiemi dialettali dell’accadico, l’uno al sud (che chiamiamo «babilonese»), l’altro al nord («assiro»): la loro relazione può, in via assai generale, confrontarsi con quella dell’inglese britannico e dell’inglese americano per vicinanza e per la presenza di usi particolari. Ambedue i dialetti ebbero significative evoluzioni nel tempo, sí da consentire una precisa suddivisione in parallelo, a partire dal 2000 a.C. circa fino alla caduta dell’impero assiro (612 a.C.); in seguito, sopravvisse il solo babilonese, progressivamente in ribasso di fronte alla vasta diffusione dell’aramaico e del greco, fino alla sua sparizione definitiva poco prima del 100 d.C. La percezione collettiva di quanto era stato scritto sulle tavolette della Mesopotamia antica rinacque solo diciassette secoli piú tardi, alla metà dell’Ottocento. a r c h e o 95


SPECIALE • ALLE ORIGINI DELLA SCRITTURA

LA NASCITA DELL’ALFABETO Cosa distingue il primo alfabeto ugaritico da quello fenicio, aramaico ed ebraico?

I

l primo alfabeto nacque a Ugarit. In questo sito, Ras-Shamra («il promontorio del finocchio») sulla costa mediterranea dell’odierna Siria, la scoperta fortuita di alcuni blocchi di pietra da parte di un contadino portò alla decisione delle autorità francesi di aprire scavi archeologici nel 1929, che si sono svolti con quasi perfetta puntualità fino al 2011. Fin dall’inizio dell’impresa archeologica, vennero alla luce testi in argilla con una grafia cuneiforme fino a quel momento sconosciuta: solo 30 grafemi venivano impiegati, rispetto ai quasi 600 del sumero-accadico. Già pochi anni dopo le scoperte, questi testi – chiariti nel loro aspetto formale – furono assegnati ipoteticamente (ma correttamente) al ceppo linguistico semitico e, in particolare, al gruppo nordoccidentale di cui fa parte l’ebraico antico. Trovata questa chiave, le letture non tardarono a venire; e nel 1931 la decifrazione della nuova lingua, detta «ugaritico» fu annunciata. In anni successivi, tendenze a considerare l’ugaritico un «antenato» dell’ebraico – al punto da fungere da chiave interpretativa cruciale per molti passi difficili nell’Antico Testamento – furono portate avanti con vigore. Come che sia, in via generale, vari aspetti, specie religiosi e teologici, della Bibbia possono trovare illuminazione dai testi di Ugarit: è certo, per esempio, che nel periodo che precedette la monarchia, la religione di Israele spartiva vari aspetti con quella «cananea» di Ugarit. Ugarit cadde per mano dei «Popoli del Mare» verso il 1180 a.C. e non fu piú ricostruita. Tuttavia, una simile sorte non sembra essere toccata ad altre città che punteggiavano la costa mediterranea, svolgendo attività commerciali parallele a quelle del centro siriano. (segue a p. 100)

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Fronte e retro del calco in gesso di una tavoletta aramaica. 670 a.C. circa. Rinvenuta nello scavo di Tell Shiukh Fawqani, nella Siria settentrionale, reca un testo giuridico in aramaico alfabetico, in cui tre militari assiri residenti a Til Barsip sull’Eufrate prendono in pegno un individuo. L’iscrizione, con le sue 21 righe, è la piú lunga attualmente conosciuta su una tavoletta aramaica.


DALL’ASSIRIA A VENEZIA: LE SCOPERTE DI LAYARD E BOTTA La storia della scoperta ottocentesca delle maggiori capitali assire – e della conseguente nascita degli studi storici e archeologici sul Vicino Oriente antico – va inquadrata entro la profonda rivalità tra la Francia di Napoleone e l’impero britannico per il controllo territoriale della Mesopotamia. In quest’ambito, un primo rappresentante della Compagnia delle Indie Orientali, Claudius James Rich, venne inviato nel 1808 a Baghdad per valutare i rapporti francesi con le autorità locali. In quanto geografo di professione, Rich condusse ampie esplorazioni a Babilonia e in seguito a Ninive, di cui tracciò le prime piante topografiche affidabili, prima di morire di colera, all’età di 34 anni nel 1821. Ma la presenza di Rich fu solo l’inizio di una lunga «partita di scherma» anglo-francese in Mesopotamia, anche se condotta con sfumature gentili, che avrebbe segnato i decenni successivi. Fu cosí che, all’inizio del decennio 1840-50, si incontrarono a Mosul il giovane console francese Paul-Emile Botta (di nascita italiana e figlio dello storico Carlo Botta) e l’ancora piú giovane esploratore Austen Henry Layard, inglese di origini ugonotte, dalla solida educazione cosmopolita. Al di là della politica dei propri governi, tra i due nacque una solida amicizia, fondata sulla comune percezione che le vaste colline che solcavano la piana di Mosul e dintorni non fossero di In alto: particolare di una stampa ottocentesca che illustra gli scavi archeologici presso Kuyungik. A sinistra: Sir Austen Henry Layard, olio su tela di Charles Vigor. 1885. Londra, British Museum.

origine naturale, ma che dovessero celare i residui della civiltà piú antica della regione. In particolare, la vasta collina prospiciente a Mosul al di là del Tigri, nota come Kuyungik, ma anche chiamata dai locali Nuniya, prometteva di celare le reliquie della città di Ninive, celebrata nella Bibbia e dagli autori classici come vasta e potentissima. La diffidenza delle autorità del governo ottomano e in specie del pascià locale non autorizzavano a sperare in possibilità agevoli di scavo. Ciononostante, Botta tentò uno scavo sul sito, che però risultò infruttuoso. Tuttavia, i suoi operai gli segnalarono un altro vasto monticolo (in arabo tell), situato qualche decina di chilometri di distanza a nordest, noto come Khorsabad, e qui il francese ebbe fortuna, rinvenendo, a partire dal 1844, una cittadella assira, piena di palazzi e templi, con statuaria monumentale, bassorilievi di stile naturalistico e di tipo narrativo e, infine, una prima serie di testi cuneiformi. a r c h e o 97


SPECIALE • ALLE ORIGINI DELLA SCRITTURA

Nel frattempo, Layard aveva passato due anni viaggiando in maniera perigliosa tra le selvagge tribú del Khuzistan e Luristan (Iran sud-occidentale) e, al suo ritorno nella capitale ottomana Costantinopoli, i suoi resoconti attirarono l’attenzione dell’ambasciatore inglese Stratford Canning, che lo assunse come assistente. A Canning, Layard esternò i propri sogni di poter condurre uno scavo in Assiria; e, anche per la possibilità di contrastare le mire francesi sulla Mesopotamia dopo i successi archeologici di Botta, il diplomatico lo sostenne nelle sue iniziative. Anche per Layard, Kuyungik era esclusa; ma egli tentò la sorte in una località sul Tigri piú a sud, nota come Nimrud. Qui Layard, tra il 1845 e il 1847, operando con i piú crudi metodi di scavo possibile (cioè perforando il tell con tecniche quasi minerarie) duplicò se non superò i successi del collega francese; si apriva anche in questo sito una vastissima città reale dell’impero assiro, ricolma non solo di architettura e statuaria monumentale, ma altresí di iscrizioni cuneiformi su pietra e argilla. In pratica, nel giro di pochissimi anni, erano state portate alla luce due diverse capitali assire, che ambedue gli scavatori (erroneamente, come si dimostrò) ritenevano dovessero essere la biblica Ninive. Nello stesso 1847, dunque, le due squadre provvedevano a rimuovere i rispettivi monumenti e gli oggetti rinvenuti, trasferendoli su chiatte per farli giungere in fondo al Tigri, a Bassora, dove capaci bastimenti le recarono per mare in Europa, per la gloria dei rispettivi musei nazionali, il Louvre e il British Museum. La «gara» fu vinta dal Louvre per pochi mesi, ma ben maggiore fu la popolarità fornita alle scoperte in ambiente britannico, dove folle oceaniche si recarono a contemplare i monumenti di un impero antico che il «loro» impero, quello della regina Vittoria, aveva portato alla luce. Inoltre, mentre nel 1848 Parigi divenne sede di una vasta rivoluzione e il monarca Luigi Filippo dovette Frammento di rilievo assiro in calcare, scoperto da Austen Henry Layard intorno al 1875, da Ninive, odierna Kuyunjik (Iraq). Età di Sennacherib, 704-681 a.C. Venezia, Museo Archeologico Nazionale. Si tratta della parte superiore di un ortostato a rilievo su due registri, raffigurante soldati, un carro e cavalieri.

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lasciare il trono (e il suo protetto Botta venne relegato al consolato di Gerusalemme), Layard godeva del meritato successo e preparava Nineveh and Its Remains (1849), il doppio volume riccamente illustrato che sarebbe divenuto il primo best seller archeologico della storia (basti pensare che precedette Trojanische Altherthümer, il famoso resoconto di Schliemann su Troia, di 25 anni!). Intanto, corrispondeva con Rawlinson, che si era messo all’opera sulla vasta messe di documenti iscritti che provenivano da Nimrud, mentre le sue scoperte iniziavano a sfidare l’educazione tradizionale britannica, basata sull’accettazione letterale della Bibbia e, nel frattempo, si accendevano dispute tra storici dell’arte sui valori estetici delle sculture assire rispetto ai marmi del Partenone, recati a Londra nel lontano 1811.


Layard tornò a Mosul nel 1849, con il giovane iracheno cristiano (di fede «assira») Hormuzd Rassam come suo assistente; qui si concentrò sul sito di Kuyungik, e finalmente poté scavare il sito, forte dell’autorizzazione ottomana, mettendo in luce gli immensi tesori del «Palazzo senza rivali» del re assiro Sennacherib. Intanto i suoi lavoratori compivano ulteriori scoperte a Nimrud, come il tempio del dio assiro Ninurta, in cui figuravano numerose iscrizioni cuneiformi; tuttavia, varie liti con il British Museum sui finanziamenti e un tentativo fallito di scavo a Babilonia, fiaccarono alla fine l’entusiasmo di Layard per l’archeologia orientale. Cosí, nell’aprile 1851, all’età di soli 34 anni, lo scopritore delle antichità assire abbandonò per sempre la Mesopotamia, per dedicarsi a una lunga, polemica e frastagliata carriera politica e diplomatica che lo portò, infine, a una vecchiaia serena a Venezia. L’ultimo capitolo nell’annosa partita anglo-francese sul prestigio nazionale ambientata in Mesopotamia avrebbe avuto luogo alcuni anni dopo (1852-1855). Tra numerosi litigi e recriminazioni sui diritti di scavo, che coinvolsero anche la popolazione nomade locale, una nuova generazione di archeologi (il console Victor Place per i Francesi, e Hormuzd Rassam per i Britannici) riprese le attività rispettivamente a Khorsabad e a Kuyungik: e sotto Rassam emersero le prime prove che quest’ultimo tell rappresentava la sede della vera, e unica, Ninive. Con l’aiuto dello storico Rawdon Brown, allora decano della comunità inglese in laguna, Layar acquistò negli anni Settanta dell’Ottocento Palazzo Cappello a San Polo, affacciato sul Canal Grande – un tempo affrescato anche da Veronese e Zelotti – e vi si stabilí, accompagnato dalla giovane moglie e portando con sé le sue importanti collezioni. Palazzo Cappello divenne uno dei salotti piú in voga, anche grazie all’instancabile signora Layard. Diplomatici, politici, poeti, scrittori internazionali si davano qui appuntamento e i Layard vennero presto riconosciuti come i principali esponenti della piccola ma influente comunità inglese in laguna, anche grazie all’impegno per l’edificazione della chiesa anglicana di S. Giorgio. Straordinaria era soprattutto la collezione che la coppia inglese aveva raccolto in vita, donata poi per la maggior parte alla National Gallery di Londra. Alcuni oggetti significativi della raccolta Layard – tra cui alcuni rilievi assiri che Henry aveva portato dai suoi viaggi e che aveva incastonato a fianco della scalinata nel Palazzo veneziano – furono poi donati alla città nel 1892 e ora sono conservati presso il Museo Archelogico di Venezia ed esposti in parte nella mostra «Prima dell’alfabeto».

Frammento di rilievo assiro raffigurante il re Sargon II (722-705 a.C.) in abito cerimoniale. Fu scoperto da Paul-Emile Botta nel 1842, durante i suoi scavi a Khorsabad.

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SPECIALE • ALLE ORIGINI DELLA SCRITTURA

Questo punto lascia aperta la questione di una possibile coesistenza parziale dell’alfabeto ugaritico con la scrittura sviluppata nelle città fenicie sull’attuale costa del Libano. In ogni caso, va tenuto presente che i confronti interni al gruppo linguistico semitico che si possono stabilire a partire dall’alfabeto ugaritico non corrispondono sempre con quelli degli alfabeti lineari successivi. Peraltro, ben diverso è l’inventario fonologico dei due sistemi: mentre l’ugaritico presenta una parziale vocalizzazione, attraverso l’uso dei tre segni [’a], [’i], [’u], il sistema alfabetico fenicio («cananaico») ha solo il segno consonantico [ ’ ] (=aleph), senza vocali annesse.

estese rapidamente, fin dai primi secoli del I millennio a.C., alle popolazioni circostanti di lingua semitica, sia a sud (Ebrei e popoli della Transgiordania), sia all’interno (Aramei). Quanto profondo sia stato il grado di diffusione di questa forma di scrittura è impossibile sapere, poiché i segni alfabetici lineari potevano essere vergati con un semplice pennellino su qualsiasi superficie; e gran parte di questi supporti della scrittura (papiro, pergamena, legno, ecc.) potrebbero essersi persi per l’usura del tempo. Dalla Fenicia stessa e dalla Palestina e regioni adiacenti, ci restano dunque testimonianze alfabetiche essenzialmente incise su pietra, oppure vergate su pezzi di ceramica (ostraca). Invece, l’aramaico, per la sua prossimità «situazionale» con l’impero assiro – di cui era diventato la lingua vernacolare – venne anche a utilizzare le tavolette d’argilla per la redazione dei propri testi; sia in parallelo alla scrittura cuneiforme, sia come documenti monolingui. Dalla Mesopotamia e dalla Siria, dunque, ci sono giunte tavolette con testi in aramaico dipinti con il pennellino sull’argilla ormai indurita, come testimonianze tangibili, pur se ancora sui supporti di «prima dell’alfabeto», di un profondo passaggio tecnico e culturale.

L’INVENZIONE FENICIA Se poi teniamo presente che l’ugaritico, seguendo la prassi del cuneiforme accadico, era redatto da sinistra a destra, mentre il fenicio si scriveva da destra a sinistra (come tutti gli alfabeti semitici fino ai nostri giorni), e che i segni fenici non derivano dal cuneiforme, ma sono lineari, si dovrà ritenere che l’«invenzione» fenicia dell’alfabeto abbia compiuto un percorso assai diverso da quello maturato dagli scribi «internazionali» di Ugarit. Si ritiene normalmente che un precursore dell’alfabeto fenicio («proto-cananaico») potesse esser già stato inventato nella prima metà del II millen- A destra: Venezia. nio a.C. da genti che avevano una qualche Una veduta di conoscenza del geroglifico egiziano (dove Palazzo Loredan, esistono segni con valore fonetico); che esso sede storica avesse in origine un numero di fonemi attorno dell’Istituto a 27, poi ridotti nel tempo a 22; che i segni Veneto di fossero inizialmente pittografici, per lo piú con Scienze, Lettere il valore derivante dal disegno rappresentato ed Arti, nei cui (valore acrofonico: per esempio «n» per nun, ambienti è «pesce», per un segno a forma di pesce); e che allestita la la concezione pittografica – come già nel sumostra. merico piú arcaico – permetteva di scrivere Nella pagina liberamente in ogni direzione, da destra a sini- accanto, dall’alto: stra o viceversa o bustrofedicamente, o in verla copertina del ticale. L’alfabeto fenicio si porrebbe alla fine di catalogo; questa lunga catena di tentativi, che ha lasciato il curatore testimonianze nel Sinai e in vari siti del LevanFrederick te, ma anche in area mediterranea, con la fissaMario Fales; zione di 22 segni consonantici, da leggersi da due immagini destra a sinistra, verso l’XI secolo a.C. dell’allestimento. La realizzazione dell’alfabeto fenicio venne comunque a coniugarsi con un rilevante prestigio commerciale delle città-stato fenicie lungo tutta la costa levantina e fino alla Cilicia nel Nord, talché questo sistema di scrittura si 100 a r c h e o


UN «TEMPIO DEL SAPERE» La scelta di allestire la mostra «Prima dell’alfabeto» nelle sale di una biblioteca settecentesca – quella prestigiosa di Palazzo Loredan a Venezia – non è stata casuale: per una civiltà che quasi 6000 anni fa aveva compreso l’importanza e il potere della scrittura, quale migliore sede espositiva allora e quale scenografia piú adatta di una biblioteca storica, di uno dei tanti «templi del sapere» destinati a tramandare i testi scritti? La mostra prende avvio nella grande Sala della Polifora, con uno spazio introduttivo ai luoghi dell’esposizione (La Mesopotamia dove e quando), narrati attraverso mappe e suggestioni e con la biglietteria e il bookshop. Nella seconda sala ecco i «capitoli» Dal disegno al segno e Varietà di testi, lingue e scritture. Un sistema di proiezione racconta l’evoluzione nei secoli dei segni: dal pittogramma al cuneiforme. La terza sala ha come temi Il lavoro dello sfragista, I materiali dello sfragista e dello scriba e I sovrani e le loro gesta. La quarta sala racconta L’uomo e gli dèi in Mesopotamia e L’uomo comune: vita, prosperità e salute. La quinta sala, infine, è dedicata a La decifrazione delle scritture in Mesopotamia; un tavolo ospita oggetti scientifici, antichi tomi sono affiancati a volumi digitali sfogliabili dal visitatore.

DOVE E QUANDO «Prima dell’alfabeto. Viaggio in Mesopotamia alle origini della scrittura» Venezia, Palazzo Loredan, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti fino al 25 aprile Orario martedí-domenica, 10,00-17,00; chiuso il lunedí Info tel. 041 2705616; e-mail: info@fondazioneligabue.it Catalogo Giunti Editore

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IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

IL PAESAGGIO SIAMO NOI L’AMBIENTE CHE CIRCONDA LE NOSTRE CITTÀ È UNA SORTA DI GRANDIOSO ARCHIVIO: IN ESSO, INFATTI, SI SONO SEDIMENTATE TRACCE DI ATTIVITÀ UMANE CONDOTTE FIN DALLA PREISTORIA. UNA RISORSA PREZIOSA, ALLA CUI TUTELA NON POSSONO CONCORRERE SOLTANTO LE NORME DI LEGGE, MA DEVE CONTRIBUIRE ANCHE L’IMPEGNO DELLA COLLETTIVITÀ

U

na celebre litografia realizzata dall’artista olandese Maurits Cornelis Escher (1898-1972) nel 1956, Prentententoonstelling (Galleria di stampe), raffigura una persona che, osservando la veduta di una città portuale, vede, tra i vari edifici, la galleria in cui si trova in quel momento: egli è dunque osservatore e osservato a un tempo, esterno e al tempo stesso interno al paesaggio urbano rappresentato. Una certa retorica del paesaggio tende piuttosto ad assimilarlo alle vedute idilliache di monti, fiumi, colline e scogliere ancora intatte, rispetto a tante brutture che ci circondano, quasi che il paesaggio coincida con la nostra cattiva coscienza di maldestri abitatori del pianeta. Ma, in fondo, che cos’è il paesaggio se non l’aspetto culturale, cioè storico, dell’ambiente in cui viviamo, che del paesaggio rappresenta dunque l’aspetto naturale? I paesaggi, infatti, sono veri e propri organismi, sistemi complessi, in cui le forme degli insediamenti umani sono andate sovrapponendosi nel corso dei secoli. Sono il risultato del lavoro e dell’immaginazione di generazioni e generazioni, che hanno dato alla natura un ordine riconoscibile per venire incontro alle proprie necessità di sussistenza. Il paesaggio è dunque il prodotto di un’attività collettiva, nella quale

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natura, storia, lavoro e arte si sono intrecciati come immagine riconoscibile della vita di intere comunità nel corso di lunghi e talora lunghissimi periodi di tempo. Incontriamo questo intreccio alle scale piú diverse: nei nostri panorami, nei monumenti che li punteggiano, in un ambiente architettonico, perfino in uno strato archeologico.

OGNI COSA HA UN SENSO I paesaggi, dunque, sono in primo luogo contesti, nei quali ogni cosa vive un sistema di relazioni con ciò che le sta accanto, sopra o sotto; dove ogni cosa ha un senso, a volte immediatamente percepibile, altre volte bisognoso di studio per essere interpretato. Perché i paesaggi, per quanto lenti nelle loro trasformazioni, cambiano nel loro aspetto, conservando le loro caratteristiche di lunga durata e prefigurando le nuove. Lo constatiamo ogni volta che scorgiamo nelle nostre campagne edifici rurali abbandonati o in stato di crollo o in restauro, che ci ricordano regimi agricoli ormai desueti, lo spopolamento delle terre, lo sviluppo delle seconde case per gli abitanti dei paesaggi urbani. O quando vediamo una boscaglia informe prendere il posto di campi o vigneti un tempo ben coltivati, e magari la scambiamo per natura, e la proteggiamo anche,

Nella pagina accanto: Galleria di stampe, litografia di Maurits Cornelis Escher. 1956. quando è in verità soltanto il segno dell’abbandono, della perdita di un equilibrio. Per questo, a volte ci domandiamo se certo ambientalismo fondamentalista non perda di vista il senso storico dei paesaggi naturali (in Italia non esistono piú i paesaggi interamente naturali), cosí come certo benculturalismo (mi si passi il termine), innamorato del bello artistico in sé e dei capolavori separati dal loro contesto, non riesce a cogliere il ruolo della natura nei paesaggi storici. Perché il bello dei contesti è che contengono in sé la normalità dell’utile e l’eccezionalità del superfluo, ma proprio perché vivono di relazioni danno al primo l’estetica dell’utilità e al secondo l’utilità della bellezza. Ancora oggi, il dibattito sul destino del nostro patrimonio culturale deve misurarsi con un atteggiamento che mira a isolare i singoli contenuti di un contesto, selezionando le manifestazioni dell’arte dai paesaggi che le contengono, quasi a voler recidere i legami che uniscono quei particolari prodotti del lavoro umano che sono le cose d’arte al sistema di relazioni che le ha rese possibili. Che cosa sono in fondo i


musei (mi si passi anche questa provocazione), se non luoghi di lunga degenza protetta, nei quali sono stati ricoverati i «tesori» presenti un tempo all’interno di un paesaggio? E non è quindi quest’ultimo – per definizione – l’opposto di ogni possibile museo? Da un paio di

secoli gli studi condotti da noi, addetti ai lavori, e le leggi, sempre piú estese e penetranti, dedicate al patrimonio culturale hanno illuminato gli oggetti, ammassandoli nei musei, e lasciato in ombra i territori e i loro paesaggi, non percepiti come contesti vitali. Ogni disciplina ha lavorato per sé

(arte, architettura, archeologia…), ma i contesti paesaggistici non sono né l’una, né l’altra: sono tutto insieme allo stesso tempo e qualcosa di piú, perché rappresentano non solo il mondo dei prodotti (i famosi beni culturali) ma anche quello delle relazioni. Per questo abbiamo ormai capito che

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Roma, Parco della Caffarella. I resti del ninfeo di Egeria. II sec. d.C. L’area della Caffarella si trova a ridosso delle Mura Aureliane, tra la via Latina e la via Appia, ed è un contesto di altissimo valore paesaggistico e storico-archeologico. non può piú bastare la protezione di un monumento o di un sito recintato all’interno di un paesaggio degradato e lasciato al suo destino. Soltanto la Puglia e la Toscana si sono dotate sinora dei Piani paesaggistici territoriali (PPTR) voluti dalla legge, che chiede alle Regioni di redigere congiuntamente al Ministero per i Beni e le Attività Culturali piani urbanistici, volti alla tutela e alla valorizzazione di specifiche categorie di beni territoriali. Nessuna sanzione è però prevista per le regioni inadempienti. E questo è un male, poiché la recente e opportuna riforma, che ha unificato le Soprintendenze territoriali, svincolandole al tempo stesso dalla gestione dei musei, sarebbe proprio la necessaria premessa per una tutela condotta alla scala dei paesaggi, dove ogni emergenza monumentale trova la sua qualità nel riconoscimento e

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nella salvaguardia della rete di forme e significati in cui è inserita. Se i Piani paesaggistici venissero approvati e attuati sull’intero territorio nazionale, il lavoro delle nuove Soprintendenze ne sarebbe enormemente facilitato e ci si potrebbe concentrare sulla redazione di quei catasti del nostro patrimonio culturale (fatto di paesaggi, di monumenti, di arredi e corredi), che mancano tuttora, e alla quale potrebbero essere chiamate a partecipare le amministrazioni pubbliche, le università, i cittadini singoli od organizzati nelle loro associazioni culturali.

SPERARE È LECITO I contesti paesaggistici non vivono senza le persone, che ne testimoniano l’anima piú profonda, grazie a quella «coscienza di luogo» che anche in Italia sta lentamente sviluppandosi e che ci fa sperare in una prospettiva in cui la mano

pubblica e l’impegno dei privati cittadini collaborino per curare la buona salute dei paesaggi passati e di quelli futuri. Come? Favorendo, per esempio, la gestione di siti storici e aree abbandonate da parte di chi ha la passione e la capacità di proporne nuove forme di socializzazione e di uso, oppure il recupero degli abitati spopolati, rivissuti in una dimensione economica e sociale nuova – ma non per questo meno vitale – oppure la riattivazione di pratiche agricole o di allevamento tradizionali – ma economicamente sostenibili –, nelle quali la sensibilità ambientalista, quella storica, antropologica e artistica e quella attenta al progresso civile e sociale si trovino impegnate nella comune difesa e rivalutazione del senso umano dei contesti che ci accolgono, affinché possano accogliere anche le generazioni future.



QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

…FU «INVASA» DAI SIRIANI L’URBE ACCOLSE GENTI PROVENIENTI DA OGNI PARTE DEL MONDO. FRA LE TANTE COMUNITÀ DI STRANIERI, SI DISTINSE SOPRATTUTTO QUELLA VENUTA DALLE TERRE BAGNATE DALL’ORONTE. E CHE, PER ALCUNI ANNI, ARRIVÒ PERFINO A REGGERE LE SORTI DELL’IMPERO

S

crivendo, agli inizi del II secolo della nostra era, la sua celebre «satira III», Giovenale se la prese aspramente, tra l’altro, con il fenomeno dell’immigrazione. Un fenomeno certamente non nuovo per l’antica Roma da sempre «città aperta», che sull’apporto degli immigrati aveva fondato una parte cospicua della sua potenza e del suo dinamismo, ma che, divenuto «selvaggio» (come oggi si

direbbe) in età imperiale, indusse il poeta a esclamare, fatta sconsolatamente ogni debita considerazione: «A Roma non c’è piú posto per i romani» (v. 19). «Non conta piú nulla che la nostra infanzia abbia respirato l’aria dell’Aventino e si sia nutrita delle olive della Sabina» (vv. 84-85). Quindi, scendendo al particolare, a osservare, con una suggestiva immagine (vv. 62-65), come già da un pezzo il fiume Oronte di Siria fosse venuto a riversare le sue acque nel Tevere «portando con sé lingua e costumi, suonatori di flauto, corde oblique ed esotici tamburi e ragazze costrette a prostituirsi dalle parti del Circo Massimo». Un flusso continuo di gente, paragonabile a quello delle acque di un fiume. E, nel caso, del fiume siriano per antonomasia! In realtà, gli immigrati si riversavano su Roma giungendo da tutte le province del grande impero, ma, in particolar modo, da quelle orientali – o «greche» –, com’era appunto la Siria. Tanto A sinistra: testa-ritratto di Elagabalo. 221 d.C. circa. Roma, Musei Capitolini. A destra: Giulia Domna come Cerere, dal Portico della Fontana con lucerna di Ostia. III sec. d.C. Ostia Antica, Museo Ostiense.

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che, poco piú avanti (vv. 74-78), il poeta parla di Graeculi: «E chi credi che siano? Ognuno di loro porta con sé un uomo tuttofare, maestro, retore, geometra, pittore, massaggiatore, indovino, funambolo, medico, mago; tutto sa fare il Greconzolo affamato». Avendo tuttavia evocato proprio l’Oronte per la sua efficace «invettiva», Giovenale non può non aver voluto esplicitamente sottolineare come una delle province che piú di altre alimentava il flusso ininterrotto degli immigrati fosse, in ogni caso, la Siria, entrata a far parte dell’impero romano nel 62 a.C. (e a quel tempo tanto estesa da comprendere anche i territori che oggi corrispondono alla Palestina, alla Giordania e al Libano).

UNA REGIONE INSTABILE Benché fosse una regione nel suo insieme piuttosto ricca, essa era gravata da un forte squilibrio, economico e sociale, tra le città, dall’alto livello di vita, e le campagne, dove si sfiorava la miseria. Inoltre, trovandosi a ridosso del regno dei Parti – gli eterni rivali dei Romani – pativa ricorrenti momenti di instabilità e di crisi. Non mancavano dunque motivi per abbandonarla. Quanto alla comunque diffusa presenza a Roma dei Siriani (o, per dirla piú correttamente, in latino, dei Syriaci), non mancano altri indizi. E precisi riferimenti, anche di alto livello. Basterebbe ricordare il nome del grande architetto Apollodoro di Damasco – se di immigrato è lecito parlare nel suo caso – attivo nella prima metà dello stesso II secolo, soprattutto sotto l’imperatore Traiano, per il quale seppe realizzare veri e propri «monumenti», di ingegneria militare (come, nell’anno 98, il celebre ponte in pietra, lungo oltre

Testa di una statua in bronzo di Severo Alessandro, da Ryakia. III sec. d.C. Dion, Museo Archeologico. un chilometro, sul Danubio) e di architettura civile (come, tra il 107 e il 113, il grandioso complesso del Foro di Traiano, a Roma). La migrazione siriana raggiunse il culmine – almeno dal punto di vista qualitativo (ma non solo) – nel 193 d.C., quando una donna della regione raggiunse i vertici dello Stato arrivando a sedersi, col marito, sul trono di Roma: Giulia Domna, moglie dell’imperatore Settimio Severo. Una siriana illustre, appartenente a una famiglia principesca di Emesa (l’odierna Homs), che si

tramandava per diritto di nascita il sacerdozio del dio locale Baal al Gamal. Con lei ebbe inizio una vera e propria dinastia di imperatori di sangue siriano, già col figlio Caracalla (succeduto al padre nel 211 e morto nel 218). Ma, se questi aveva nelle sue vene anche il sangue africano del padre, veri e propri siriani furono i due imperatori che seguirono Caracalla (dopo la breve parentesi dell’africano Marco Opellio Macrino). Prima Elagabalo, dal 218 al 222, e poi Severo Alessandro, dal 222 al 235, figli di due sorelle – cugine di Caracalla –, Giulia Soemiade e Giulia Mamea, a loro volta figlie di Giulia Mesa, sorella di Giulia Domna. In verità, furono piuttosto queste donne – «le Siriane», come, con malcelata sufficienza, dovettero essere indicate – che, per oltre un quindicennio, finirono per reggere, di fatto e non senza una certa... disinvoltura, le sorti dell’impero romano. I loro rampolli, infatti, arrivarono al trono entrambi all’età di 14 anni (il che giustificava anche formalmente la reggenza delle rispettive madri) e tutti e due morirono, di morte violenta, assai giovani: Elagabalo a diciott’anni e Severo a ventisette.

LE TRAME DI UNA NONNA Si può aggiungere che, a tenere le fila della loro vicenda fu soprattutto la nonna dei due, Giulia Mesa. La quale, piú accorta e calcolatrice delle figlie, cominciò facendo letteralmente «carte false» per riportare in auge la famiglia, dopo il temporaneo ostracismo decretatole da Macrino, e per «riconquistare» il trono di Roma, fino a far passare per bastardo di Caracalla il nipote Elagabalo e quindi imporlo come il di lui erede e successore (con l’apporto determinante della III Legione

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La dinastia dei Severi

Gaio Giulio Bassiano

Settimio Severo = Giulia Domna (193-211)

Giulia Mesa = Giulio Avito Alessiano

Fulvio Plauziano Prefetto del pretorio Giulia Soemiade = Sesto Vario Marcello Fulvia = Caracalla Plautilla (198-217)

Geta (209-211)

Giulia Paola = Elagabalo Aquila Severa = (218-222) Annia Faustina =

Gallica, che era di stanza proprio a Emesa). Poi, divenuta troppo «invadente» e persino pericolosa la reggenza ufficiale della figlia Soemiade – la quale, tra l’altro, con le sue confuse e velleitarie idee rivoluzionarie, non cessava di farsi nemici –, portò avanti la candidatura dell’altro nipote, Severo Alessandro, figlio della seconda figlia, Mamea. A lui assicurò presto la successione, dapprima facendolo adottare e nominare Cesare dal cugino, poi mettendolo letteralmente sul trono, previa eliminazione violenta di Elagabalo e della madre, fatti uccidere, nel marzo del 222, dai pretoriani schieratisi con lei. Fino a che la medesima sorte non ebbe lo stesso Severo, ucciso, anch’egli insieme alla madre, presso Magonza, nel marzo del 235, dai soldati dell’armata del Reno, che si erano ribellati. Finivano cosí la «dinastia» dei Severi e l’impero dei Siriani o, meglio, delle Siriane (e dei loro liberti e amanti), la cui connotazione «regionale» era stata ulteriormente ribadita dalle nomine ad alcune delle piú alte cariche e «dignità» dello Stato e a uno speciale – e spregiudicato – organo di consiglio, tutto al femminile (una sorta di «senatino delle donne») di

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Giulia Mamea = Gessio Marciano

Barbia Orbiana = Severo Alessandro (222-235)

Qui sopra: dritto e rovescio di un denario in argento fatto coniare da Elagabalo per Giulia Mesa. persone native della Siria, tra le quali va peraltro annoverato l’insigne giureconsulto Ulpiano, che fu prefetto del pretorio. E finiva anche il tentativo o, forse, solo la presunzione, di sovrapporre

una civiltà provinciale alla forma romana della civiltà classica. A ricordare gli imperatori siriani, rimasero a Roma due importanti monumenti. Elagabalo aveva fatto erigere, infatti, nell’angolo orientale del Palatino, a ridosso dei palazzi imperiali, un grande tempio (di 60 x 40 m) al dio del quale portava il nome, identificato con il Sole e con la cui religione si proponeva, da un lato, d’introdurre a Roma il culto orientale del sovrano vivente, dall’altro di unificare in esso tutte le «confessioni» del paganesimo (al punto da riunire gli oggetti sacri piú venerati della città, dal Palladio di Enea al simulacro aniconico della Grande Madre, dal fuoco di Vesta agli scudi di Marte). Severo, invece, aveva fatto ricostruire le terme volute da Nerone nel Campo Marzio, vicino al Pantheon, con un intervento cosí radicale che, non a caso, furono ribattezzate Thermae Alexandrinae. E, per rifornirle d’acqua aveva provveduto a costruire (pure lasciandogli il suo nome) l’ultimo dei grandi acquedotti della città, ancora in gran parte conservato, con la lunga sequenza di arcate che ha dato nome all’odierno Quartiere Alessandrino.



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

IL GRANCHIO E LA LUNA UN’EMISSIONE BATTUTA DALLA ZECCA DI ALESSANDRIA AL TEMPO DELL’IMPERATORE ANTONINO PIO PROPONE UN’ASSOCIAZIONE CHE RIFLETTE LO STRETTO LEGAME FRA ASTRONOMIA E ASTROLOGIA. UN RAPPORTO CHE MOLTI ERUDITI, COME IL GRANDE TOLOMEO, AVEVANO POSTULATO GIÀ IN EPOCA ANTICA

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F

ra i molti Italiani illustri dell’Ottocento, figura il napoletano Francesco Maria Avellino (1788-1850), poliedrico uomo di cultura e giurista, archeologo responsabile degli scavi di Pompei e numismatico raffinato, creatore anche di un corpus numorum dell’Italia antica. Tra i suoi scritti – raccolti nel volume intitolato Opuscoli diversi, edito nel 1826 –, lo studioso tratta anche di una bella emissione di Antonino Pio battuta in Egitto e raffigurante al rovescio un granchio sovrastato da un crescente solare


con un busto femminile, intitolando questa dissertazione Di una spiegazione astrologica, che può avere il tipo del granchio con la luna, e di una medaglia egizia dell’anno II di Antonino Pio. A proposito di questa immagine, lo studioso ricorda come «gli antichi assegnarono a ciascuno dei pianeti il suo domicilio in uno dei segni dello Zodiaco, che era quello in cui, giusta la loro credenza, si trovava quel pianeta nei principij del mondo», e continua ricordando che la Luna occupa il segno del Cancro, corredando l’asserzione con il novero delle relative fonti letterarie antiche.

sormontato dalla testa di una divinità, che rappresenta i pianeti e le stelle astrologicamente connessi; tali accoppiamenti rispecchiano le conoscenze dell’astronomia antica a proposito dei moti planetari e del rapporto tra gli astri, sia quelli reali, sia

OGNI STELLA HA IL SUO DIO L’emissione appartiene alla serie monetale in bronzo coniata ad Alessandria in Egitto per commemorare degnamente e dare enfasi all’inizio dell’anno sotiaco, (quando la stella Sothis-Sirio toccava sull’orizzonte lo stesso punto toccato dal Sole; vedi «Archeo» n. 382, gennaio 2017) ricorso nel 139 d.C. sotto Antonino Pio e celebrato sulle monete nell’ottavo anno del suo regno, tra il 144 e il 145. Assecondando, verosimilmente, il suggerimento dei funzionari locali ai quali era delegata la scelta dei tipi poi approvati a Roma, i responsabili della zecca alessandrina proposero una serie celebrativa dell’anno sotiaco, in cui a ogni segno fu dedicata una moneta. Cosí, e certo utilizzando anche altri mezzi di propaganda per immagini, Roma dava il giusto riconoscimento a una delle piú antiche e sentite tradizioni astronomiche e calendariali egiziane, la cui origine si perdeva nel V millennio a.C. I rovesci delle emissioni sono formati da un segno zodiacale

quelli che, figurativamente, andavano a formare gli esseri mitici delle costellazioni zodiacali. Il ciclo zodiacale della zecca di Alessandria comprende i dodici segni, raffigurati secondo la consueta iconografia in uso nel mondo antico e che viene in larga

Nella pagina accanto: calco di una lastra con calendario astrologico lunare con le personificazioni dei pianeti e i segni zodiacali. Roma, Museo della Civiltà Romana. In questa pagina: dracma della serie dello Zodiaco, coniata ad Alessandria d’Egitto. 144-145 d.C. Al dritto, busto di Antonino Pio; al rovescio, granchio sormontato dal busto di Selene su crescente lunare e stele e, ai lati, la data espressa in lettere LH. parte utilizzata ancora oggi. Nell’emissione legata al Cancro, al dritto compare il busto di Antonino Pio e al rovescio un granchio, sormontato da una falce di Luna sulla quale si trova un busto femminile, rappresentante Luna/Selene e due lettere L e H, relativa all’anno 144-45. La Luna, che ricorre sia come personificazione che come astro, indica la domiciliazione del segno, ovvero il rapporto tra quest’ultimo e il pianeta che lo governa, o domina, secondo la posizione astrale. Mentre i pianeti hanno in genere una domiciliazione diurna o notturna, signoreggiando su due segni, il Sole e la Luna (detti «luminari», gli astri splendenti) hanno il governo di un solo segno, rispettivamente il Leone, maschile, e il Cancro, femminile. Le caratteristiche di pianeti e luminari, secondo la scienza astrologica (astronomica) antica e moderna, si manifestano con maggior enfasi quando essi si trovano nel loro domicilio, influenzando al massimo i segni che governano, come sottolineò già il poliedrico scienziato Tolomeo (100-175 d.C.), grande geografo nonché padre dell’astrologia classica e moderna intesa in senso scientifico (Tetrabiblos, I, 17). (2 – continua)

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA SELINUNTE Restauri dell’antico De Luca Editori d’Arte-Musa Comunicazione, Roma, 494 pp., ill. col. e b/n 80,00 euro ISBN 978-88-6557-273-3 www.delucaeditori.com

Il volume dà conto dei contributi (rivisti e aggiornati in occasione della loro pubblicazione) presentati nel convegno «Selinus 2011. Restauri dell’antico. Ricerche ed esperienze nel Mediterraneo d’età greca». Se i magnifici monumenti selinuntini – e in particolare il tempio G – costituiscono, dunque, il punto di partenza, il discorso, come si può intuire dal sottotitolo del simposio, si amplia poi a un ambito ben piú vasto, includendo, oltre alla Sicilia, la Grecia e la Libia. I circa cinquanta studiosi italiani e stranieri coinvolti nell’iniziativa offrono un vasto repertorio di temi e problemi, spaziando da questioni strettamente

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tecniche a riflessioni di carattere piú ampio, per le quali il restauro costituisce, per cosí dire, l’innesco. Molti sono i casi di studio presentati – oltre ai templi di Selinunte, sfilano, fra gli altri, la stoà di Segesta, il tempio di Apollo a Bassae, l’Acropoli di Atene, il tempio di Zeus a Cirene, solo per citare alcuni dei contesti piú noti – e altrettanto numerose le declinazioni metodologiche, che vanno dall’anastilosi agli interventi eseguiti virtualmente, grazie all’uso delle tecnologie digitali. Ci piace anche ricordare l’intervento di Mario Torelli, Il tempio, la festa, il passato, che tocca vari e stimolanti aspetti, dalla fortuna dell’antico in epoca moderna, fino alle motivazioni che risiedevano dietro alla scelta di erigere un tempio: un’analisi ricca e articolata, sostenuta da riferimenti cronologici e geografici di notevole ampiezza. Piú d’uno dei contributi, inoltre, affronta in chiave critica alcune delle esperienze condotte nel passato, ponendosi come prodromo alla sezione conclusiva del volume, che riunisce le Riflessioni finali. Fra queste, segnaliamo le brevi, ma incisive, considerazioni di Licia Vlad Borrelli, che si sofferma sui contrasti che hanno spesso caratterizzato i rapporti fra archeologi e architetti.

funerario di Sabu, detto Ibebi, che si definisce «Il piú grande dei direttori degli artigiani» di Unis (nono e ultimo sovrano della V dinastia).

PER I PIÚ PICCOLI Arianna Capiotto, Elena Sala, illustrazioni di Luca Tagliafico

LA FRECCIA PERDUTA

Marco Chioffi, Giuliana Rigamonti

SAQQARA II Ankhmahor, Khenet(i) ka, Kaiaperu, Iput, Neferseshemra, Ptahshepeses, Sabu detto Ibebi Editrice La Mandragora, Imola, 248 pp., ill. col. 28,00 euro ISBN 978-88-7586-198-9 www. editricelamandragora.it

Marco Chioffi e Giuliana Rigamonti aggiungono un nuovo tassello alla conoscenza del patrimonio epigrafico tramandato dai monumenti dell’antico Egitto e di Saqqara in particolare. Seguendo una formula collaudata con successo, per ogni iscrizione gli autori presentano la restituzione grafica e le traduzioni in lingua italiana, in versione letteraria e critica. Il repertorio spazia dal testo che correda la scena di circoncisione conservata nella mastaba di Ankhmahor al ricco patrimonio letterario custodito nel monumento

I Cercastoria 4, Ante Quem, Bologna, 48 pp., ill. col 9,50 euro ISBN 978-88-7849-113-7 www.antequem.it

Per questo nuovo titolo, l’espediente narrativo che caratterizza la collana, vale a dire la macchina

del tempo battezzata Saltacronos, trasporta i giovani protagonisti nella preistoria, facendoli incontrare con la comunità di un villaggio dell’età del Rame. Le avventure di Miriam e Adam si dipanano cosí fra sciamani, punte di freccia e usi e costumi ai loro occhi decisamente stravaganti… (a cura di Stefano Mammini)



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