IN EDICOLA L’ 8 MARZO 2017
o. i t
2017 VASI TETRAPODI KURDISTAN PREISTORICO
LA PRIMA BREXIT DELLA STORIA
MALTA CRISTIANA SPECIALE SAMARCANDA
Mens. Anno XXXIII n. 385 marzo 2017 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
S. MARIA ANTIQUA
RIVELAZIONI
KURDISTAN
INCHIESTA SULLE ORIGINI
ROMA
SANTA MARIA ANTIQUA MALTA CRISTIANA
LE CATACOMBE DI SAN PAOLO
SAMARCANDA DA ALESSANDRO MAGNO A TAMERLANO UNA CITTÀ TRA STORIA E LEGGENDA
www.archeo.it
SA VI M AG AR GI CA O A ww ND w. a rc A he
ARCHEO 385 MARZO
€ 5,90
EDITORIALE
UNA SCUOLA ITALIANA Lo scorso 20 gennaio – il numero di febbraio era già in stampa e, pertanto, ne riferiamo solo ora – nel sito di Palmira si è consumato l’ultimo (in ordine di tempo) atto di barbarie perpetrato dal sedicente Stato Islamico. Dopo l’assassinio di alcuni militari e civili locali (secondo le ben note modalità operative), i miliziani neri hanno minato e fatto esplodere il Tetrapylon e il proscenio del vicino teatro. Lo stesso teatro in cui, ai primi di maggio del 2016, l’orchestra del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo aveva suonato per celebrare la «liberazione» dell’antica città carovaniera che, però, è stata «fatalmente» riconquistata dai terroristi dell’ISIS lo scorso 11 dicembre. L’attendibilità della notizia delle nuove distruzioni è stata documentata da un video visibile in rete. Non intendiamo commentare i fatti. Abbiamo riferito la notizia per dovere di cronaca (e i lettori possono ben immaginare quanto avremmo voluto non darla!) e per aggiornare i nostri precedenti interventi su questo argomento (vedi «Archeo» nn. 364, 365 e 368, rispettivamente giugno, luglio e ottobre del 2015). Voltiamo pagina e veniamo a una vicenda di tutt’altro segno e che ci riguarda da vicino. Ecco la notizia: due settimane fa sono state spedite a Tunisi – alla sede della Scuola Archeologica Italiana a Cartagine (SAIC) – 215 casse, contenenti circa 6000 volumi (per un peso complessivo di 4 tonnellate). Si tratta di un’ampia parte della biblioteca di Sabatino Moscati (1922-1997) dedicata all’archeologia e alla storia dell’arte, dalla preistoria al Medioevo e all’età moderna, donata dalla famiglia Moscati alla Scuola. Sabatino Moscati, lo ricordiamo, è stato il direttore scientifico della nostra rivista, dal 1985 fino all’anno della sua scomparsa. A partire dagli anni Sessanta aveva istituito e diretto campagne di scavo in Israele, Libano e, poi, in Tunisia, sul sito di Cartagine (oltreché nell’isola di Malta; vedi a p. 76). E proprio con il mondo tunisino Moscati aveva intessuto rapporti scientifici e personali particolarmente intensi. Ora i suoi libri andranno a costituire la biblioteca della SAIC, una giovanissima istituzione, fondata un anno fa da un gruppo di studiosi italiani al fine di «favorire le opportunità di ricerca, formazione e diffusione delle conoscenze e di contribuire al dialogo interculturale e alle politiche di sviluppo della Tunisia e dei paesi del Maghreb» (www.scuolacartagine.it). Andreas M. Steiner Veduta dei resti dell’antica Cartagine, nell’odierna Tunisia.
SOMMARIO EDITORIALE
Una scuola italiana 3 di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
8
SCAVI Le ultime ricerche dell’INRAP a Mont-Saint-Michel riportano alla luce un cimitero del XIII secolo annesso all’antica chiesa parrocchiale del villaggio 8 ALL’OMBRA DEL VULCANO Alcuni dei piú importanti monumenti di Pompei tornano a essere indagati dagli archeologi, cosí da fare nuova luce sulla storia della città 14 SCOPERTE Viene dall’Umbria il primo esemplare al mondo di ambra grigia fossile, la preziosa materia prima prodotta dai capodogli 16
MUSEI Il Museo Archeologico Nazionale della Siritide di Policoro si è dotato di nuove sale, dedicate agli splendidi corredi tombali degli Enotri e dei Lucani 20 PAROLA D’ARCHEOLOGO Per una pregiata raffigurazione della Bona Dea, ora in collezione privata e destinata a essere venduta all’asta, è stata avviata una raccolta fondi che mira a farne un patrimonio pubblico 22
44
PREISTORIA
Orizzonti di storia
44
di Cecilia Conati Barbaro
MOSTRE
Incanto romano
56
di Stefano Mammini
56
MOSTRE
Come una casa di fate
34
di Nadia Canu
34 MALTA
Alla riscoperta delle catacombe
70
di David Cardona In copertina Samarcanda (Uzbekistan). Una veduta del Gur i Mir, il mausoleo di Tamerlano, inquadrato attraverso il grande arco d’ingresso. XIV-XV sec..
Anno XXXIII, n. 385 - marzo 2017 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Amministrazione: Roberto Sperti
amministrazione@timelinepublishing.it
Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, enceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti,
Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Nadia Canu è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Sassari, Olbia-Tempio e Nuoro. David Cardona è archeologo. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Cecilia Conati Barbaro è ricercatore confermato di preistoria e protostoria presso «Sapienza» Università di Roma. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Marco Di Branco è ricercatore di storia bizantina e islamica all’Istituto Storico Germanico di Roma. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Daniele Moscone è dottorando di ricerca in archeologia presso «Sapienza» Università di Roma. Valentina Porcheddu è archeologa e giornalista. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Andrea Zifferero è professore associato di etruscologia e antichità italiche e di musealizzazione e gestione del patrimonio archeologico all’Università di Siena. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina (e p. 82) e pp. 3 (basso), 83, 94/95, 98-101 – Cortesia Paola Moscati: p. 3 – Cortesia INRAP: Emmanuelle Collado: pp. 8-9 – Cortesia GUARD Archaeology Ltd: p. 10 – Cortesia Segretariato Regionale per la Calabria del MiBACT: p. 12 – Cortesia Soprintendenza Pompei: pp. 14-15 – Cortesia Comune di Allerona: p. 16 – Stefano Mammini: pp. 18, 56/57, 63, 64/65, 67 (destra), 68 – Cortesia degli autori: p. 19 – Cortesia Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio della Basilicata: p. 20 – Cortesia Bertolami Fine Arts: pp. 22-24 – Cortesia EMAP: Patrick Ernaux/INRAP: p. 26 (alto); Abigail Howkins/ RCS: p. 26 (basso); Francesco Marano/UniTus: pp. 27 (alto), 28; Università di Milano: p. 27 (centro); Placido Scardina: p. 27 (basso) – Cortesia Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Sassari, Olbia-Tempio e Nuoro: Nicola Castangia: pp. 34/35, 36 (basso), 38-39, 40 (centro e basso, a destra), 41 (alto), 42 (alto), 43; Canale: disegno a p. 35; Archivio Soprintendenza: p. 36 (alto e centro); Paolo Mura: disegni alle pp. 40-41; Francesco Corni: disegno a p. 42 – Cortesia «Progetto Archeologico Regionale Terra di Ninive» (PARTeN): pp. 44/45, 46 (basso), 47, 48 (alto e centro), 48/49, 50-55 – Doc. red.: pp. 48 (basso), 88 (basso), 89, 105-109, 111 – Neandertal Museum, Krapina (Croazia): p. 49 (basso) – Cortesia Soprintendenza Speciale per il Colosseo e
Rubriche QUANDO L’ANTICA ROMA...
...dovette affrontare la secessione della Britannia 104 di Romolo A. Staccioli
SCAVARE IL MEDIOEVO Uomini e muri
108
di Andrea Augenti
108
82 SPECIALE
Appuntamento a Samarcanda
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di Marco Di Branco
LIBRI
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
Sotto la stella ardente 110 di Francesca Ceci
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l’area archeologica centrale di Roma: Electa/Gaetano Alfano: pp. 58/59, 59, 61 (sinistra, in alto), 62, 66 (alto); Andrea Jemolo: p. 60; Claudia Pescatori: pp. 61 (destra), 66 (basso); Archivio fotografico della Soprintendenza: pp. 67 (sinistra), 68/69 – Cortesia Clive Vella: pp. 70/71 – Daniel Cilia: pp. 72-77, 80 (alto e basso), 81 – Cortesia Heritage Malta: pp. 78-79 e disegno a p. 80 – Bridgeman Images: pp. 84, 86, 93, 104 – Mondadori Portfolio: Leemage: p. 87; Album: p. 91; AKG Images: pp. 92, 102/103, 110 – Marka: Philippe Michel: p. 88 (alto); Christopher Rennie: p. 90 – Giorgio Albertini: disegno alle pp. 96/97 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 37, 46 (alto), 85, 86. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
Editore: My Way Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Concessionaria per la pubblicità extra settore: Lapis Srl Viale Monte Nero, 56 - 20135 Milano tel. 02 56567415 - 02 36741429 e-mail: info@lapisadv.it Pubblicità di settore: Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com tel. 335 8437534 Direzione, sede legale e operativa Via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano tel. 02 00696.352 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI)
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AVVISO AI LETTORI In questo numero, per motivi di spazio, non compare la nuova puntata della serie di Flavio Russo dedicata ai metalli, la cui pubblicazione riprenderà regolarmente il mese prossimo.
Stampa: NIIAG Spa - Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18 ] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 E-mail: collez@mondadori.it Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti casella postale 1879, 20101 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.
n otiz iari o SCOPERTE Francia
IL CIMITERO PERDUTO E... RITROVATO
D
a ormai oltre un quindicennio, l’INRAP (Institut national de recherches archéologiques préventives) esegue indagini archeologiche a Mont-Saint-Michel, in Normandia, e l’ultima campagna ha fornito risultati di notevole interesse, rivelando la presenza di un cimitero che si pensava fosse andato distrutto nel 1913, in occasione di lavori infrastrutturali. Il sito, lo ricordiamo, non è altro che un enorme scoglio di granito, alto un’ottantina di metri e con una circonferenza di 1 km circa, esposto a maree fortissime, con oscillazioni che raggiungono i 14 m di dislivello e arrivano a scoprire (e ricoprire) una fascia di terraferma di 15 km. A farne una delle mete turistiche francesi piú visitate sono il santuario micaelico e il borgo che
A sinistra: Mont-Saint-Michel (Normandia, Francia). Un settore del cantiere di scavo nel quale l’INRAP ha condotto le ultime indagini: l’area esplorata si trova ai piedi della chiesa parrocchiale, la cui fondazione si colloca nel periodo romanico. In basso: veduta aerea del sito di Mont-Saint-Michel.
8 archeo
attorno a esso si è sviluppato: un complesso la cui prima fondazione sarebbe avvenuta nell’VIII secolo, nelle forme di un oratorio eretto a memoria di un’apparizione dell’Arcangelo. Le ricerche piú recenti hanno interessato le fortificazioni e la porta del villaggio (databile al XIII secolo), menzionate in un testo del XV secolo, nel quale si legge che «il suddetto d’Estouville e i monaci le fecero rinforzare nell’anno 1425, al tempo in cui la porta della città, che si trovava di fronte alla chiesa
A destra: lo scavo di una delle sepolture medievali del cimitero parrocchiale. Le tombe sono danneggiate da opere infrastrutturali, moderne, come per esempio le tubazioni visibili in questa foto.
A sinistra: un’altra immagine di una tomba del cimitero parrocchiale. Il sepolcreto rimase in uso fino alla metà del XIII sec.
parrocchiale venne modificata e collocata lí dove tuttora si trova». Tuttavia, come già accennato, l’acquisizione piú importante è quella del cimitero, che, all’origine, si estendeva per un raggio di 30 m circa intorno alla chiesa medesima e che venne in parte abbandonato quando, alla metà del XIII secolo, fu innalzata una nuova cinta muraria, voluta dall’abate Richard Turstin.
Quest’ultima fu innalzata per garantire una migliore difesa del sito, che già nel 1204 era stato assediato e incendiato dagli alleati bretoni del re Filippo Augusto. Nonostante i danni subíti nel tempo dal piccolo speolcreto, le tombe superstiti sono una trentina e hanno permesso il recupero di reperti significativi. In particolare, dagli esami archeo-antropologici e
dalle analisi con il 14C che verranno effettuati, si attendono risposte sulla dinamica delle deposizioni, sulla loro cronologia, sull’età degli inumati e sulle patologie di cui i defunti potrebbero aver sofferto. Dati che potranno contribuire a precisare le caratteristiche della comunità che viveva a Mont-SaintMichel prima del XIII secolo. Parallelamente, nell’area in cui sorgeva il chiostro dell’abbazia, è stato avviato un intervento che mira a localizzare i livelli originari dei piani di calpestio, che furono rialzati in una fase di restauro. Lo scavo e lo studio delle strutture realizzate nell’occasione permetteranno di ricostruire l’assetto originario del chiostro e le sue possibili evoluzioni nel corso del tempo. Stefano Mammini
archeo 9
n otiz iario
SCOPERTE Scozia
GUERRIERI TRATTATI COME EROI
U
n’eccezionale scoperta è stata di recente effettuata nel Nord della Scozia, a Carnoustie: da un ampio scavo archeologico è emersa una rara punta di lancia, rivestita in oro e databile alla tarda età del Bronzo, assieme ad altri oggetti metallici. Sul
campo c’erano gli archeologi del GUARD Archaeology, uno spin off dell’Università di Glasgow, che stavano portando avanti un intervento preventivo su un terreno destinato alla realizzazione di due campi da calcio. Quello della punta non è stato un ritrovamento isolato: sono stati infatti recuperati quasi un migliaio di reperti – databili dal Neolitico alla tarda età del Bronzo – e portati alla luce i resti di ben 12 edifici a pianta sub-circolare databili all’età del Bronzo, assieme a due ampie «case lunghe» di epoca neolitica, una delle quali si qualifica come la piú ampia mai rinvenuta in Scozia. L’intera area era inoltre disseminata di agglomerati di fosse di notevoli dimensioni, che hanno restituito
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A destra: particolare dell’innesto dorato alla base della punta di lancia. Qui sotto, dall’alto verso il basso: i resti del fodero in legno, la spada in bronzo e la punta di lancia dorata. In basso: un momento dell’estrazione del blocco di terreno contenente il nucleo di reperti.
anche scarti di ceramiche e oggetti in pietra. La punta di lancia è stata individuata proprio all’interno di uno di questi depositi, adiacente a uno degli edifici dell’età del Bronzo. Gli archeologi hanno rimosso il reperto assieme al pane di terra che lo conteneva, che hanno poi trasferito in laboratorio e sottoposto a tomografia
computerizzata e scansione ai raggi X, prima di procedere con il microscavo. Sono stati cosí recuperati anche una spada in bronzo, un pomo di spada in piombo e stagno, un fodero – di cui si sono conservati la struttura e il puntale in bronzo –, e una spilla in bronzo. La doratura della punta di lancia è stata verosimilmente aggiunta per esaltarne il valore, sia per la preziosità del metallo, sia per il suo impatto visivo; alcuni dei piú antichi miti celtici, infatti, sottolineano la brillantezza delle armi eroiche. Il ritrovamento avvalora anche le ipotesi sulla ricchezza della locale società guerriera tra l’XI e il IX secolo a.C. Infatti, se in Gran Bretagna e in Irlanda si conoscono solo pochi manufatti di questo valore, un’altra punta dorata venne rinvenuta, nel 1963, proprio a pochi chilometri da Carnoustie, nella località di Pyotdykes. L’importanza della nuova scoperta risiede anche nell’aver potuto recuperare i resti organici, estremamente rari, che accompagnano le armi, come le parti del fodero in legno, le tracce di pellame intorno alla punta di lancia e le tracce di tessuto intorno alla spilla e al fodero. Inoltre, la presenza di un contesto di riferimento con cui confrontare lo studio di questi reperti potrà gettare nuova luce sulla comunità che li ha sepolti. Paolo Leonini
n otiz iario
PARCHI ARCHEOLOGICI Calabria
PAOLO ORSI AVEVA RAGIONE
I
l Parco Archeologico di Terina, nel Comune di Lamezia Terme (Catanzaro), è diventato realtà. Il progetto di cui costituisce ora il coronamento prevedeva la completa fruizione e valorizzazione dell’area di Iardini di Renda, dove, nel 1997, l’allora Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria aveva avviato la prima campagna di scavo dando finalmente consistenza all’ipotesi, già sostenuta nel 1916 dall’archeologo Paolo Orsi, che la colonia di Crotone, Terina, si trovasse nella parte settentrionale della piana lametina. Sulla storia di questa città si hanno scarse notizie: dal ritrovamento di numerose monete si può dedurre In basso: un’altra immagine dei resti delle strutture riportate alla luce grazie agli scavi condotti nell’area di Terina (presso Lamezia Terme), città situata nella parte settentrionale della piana lametina e che, fino alla conquista da parte dei Bruzi, godette di notevole prosperità.
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A destra: uno dei settori abitativi dell’antica Terina (Lamezia Terme), ora compreso nel Parco Archeologico del sito.
che doveva essere piuttosto ricca e inserita, grazie alla sua collocazione allo sbocco della via istmica e lungo la via tirrenica, nei processi politici ed economici delle città della Magna Grecia, almeno fino alla sua conquista da parte dei Bruzi, intorno alla metà del IV secolo a.C. Negli ultimi due decenni si sono succedute altre quattro campagne di indagini archeologiche, che hanno messo in luce l’organizzazione dello spazio abitativo, articolato in una maglia di assi viari paralleli, che definiscono isolati stretti e allungati. «La parte indagata – spiega Fabrizio Sudano, funzionario archeologo e direttore scientifico del progetto
per il Segretariato Regionale del MiBACT per la Calabria – è databile tra il IV e il III secolo a.C. e deve probabilmente riferirsi a un ampliamento della città fondata tra gli ultimi anni del VI e gli inizi del V secolo a.C., quando, dopo la sconfitta di Sibari, nel 510 a.C., Crotone fu finalmente libera di aprirsi uno sbocco sul Tirreno. Le indagini hanno portato alla individuazione di un vasto quartiere con funzione residenziale con diversi ambienti riferibili a unità abitative. Questa parte dell’impianto urbano era dotata di un sistema di raccolta della acque reflue e meteoriche ben costruito. Ai lati di una delle due strade rettilinee e parallele già messe in luce in passato, sono state infatti evidenziate due canalette (funzionali alla raccolta dell’acqua piovana che scendeva dalle gronde degli edifici), di differente fattura ma costruite entrambe con grosse pietre sul fondo e sulle pareti, che denotano, ancora una volta, la realizzazione di un impianto progettato e realizzato con cura». Il neonato Parco, per la cui visita si deve contattare il Comune di Lamezia Terme (www.comune. lamezia-terme.cz.it; URP: tel. 0968 207239) è parte di un’unica area archeologica che comprende, a brevissima distanza, il complesso dell’abbazia benedettina di S. Maria di Sant’Eufemia. Giampiero Galasso
ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
IL RITORNO DEGLI SCAVATORI POMPEI SALUTA LA RIPRESA DELLE ESPLORAZIONI: È STATO INFATTI MESSO A PUNTO UN PROGRAMMA ORGANICO DI SCAVI ARCHEOLOGICI CHE PUNTA ALLA COMPRENSIONE DI SETTORI URBANI ANCORA SCONOSCIUTI
L
o scorso anno, la mostra «Pompei e l’Europa. 17481943» ha celebrato le suggestioni che le scoperte pompeiane hanno evocato sugli artisti e sull’immaginario europeo. La città che gradualmente emergeva da lapilli e ceneri costituí fin da subito una fonte inesauribile d’ispirazione, in un dialogo costante fra archeologi e ambienti colti, chiamati a raccontare la vicenda unica della sua riscoperta. A distanza di molti anni, dopo aver superato la crisi che nel recente passato ha offuscato l’immagine del sito, la Direzione di Pompei ha
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progettato e avviato una nuova campagna di ricerca che punta alla riscoperta di edifici sepolti e alla loro pronta valorizzazione.
RICERCHE SISTEMATICHE Cosí, accanto a cantieri di restauro e di messa in sicurezza del Grande Progetto Pompei, sistematiche ricerche di scavo puntano ora a fare nuova luce sull’organizzazione e sulla finzione degli spazi urbani. Gli interventi sul terreno, a carattere sia localizzato che esteso, nella prima fase hanno l’obiettivo di ricollegare strutture visibili a vecchie indagini che avevano
scoperto edifici poi rinterrati. Pompei si riapre cosí alle problematiche della ricerca archeologica piú avanzata e alla trasmissione di metodi e saperi, coinvolgendo tecnici e ricercatori delle università e degli istituti di ricerca chiamati ad analizzare la città sotto diversi punti di vista. La nuova stagione di scavi, diretta da Massimo Osanna, comprenderà vari contesti: l’Insula Occidentalis, la cinta muraria presso la Torre XI, le domus di Apollo e dell’Ara Massima nella Regio VI; il Santuario di Apollo nella Regio VII; la Schola Armaturarum nella Regio
A sinistra: il Tempio di Iside, uno dei complessi che torneranno a essere indagati dagli archeologi. Nella pagina accanto: l’area delle mura urbiche di Pompei all’altezza della Torre XI. complesso suburbano posto lungo una delle principali arterie di comunicazione con il territorio che recentemente ha restituito uno dei piú ricchi repertori di iscrizioni etrusche della Campania».
DA SPAZIO CRITICO A PALESTRA DI STUDI
III; il Foro Triangolare, il Tempio di Iside e le Terme del Sarno nella Regio VIII; il santuario extraurbano di Fondo Iozzino.
UNA GRANDE OCCASIONE Delle attività appena avviate parliamo con Paolo Mighetto, architetto della Segreteria tecnica di Pompei e responsabile dei lavori. «Sarà una grande occasione di conoscenza per Pompei, ma anche di divulgazione, perché i cantieri di scavo saranno parte integrante dei percorsi di visita del sito, ne arricchiranno l’offerta, ne renderanno singolare la visita offrendo la possibilità di partecipare all’emozione dello scavo, comunicando strumenti e metodi per leggere il passato. Si accompagneranno interventi di restauro e specifiche progettazioni per permettere la fruizione ordinaria dei nuovi rinvenimenti». Diversi quindi gli argomenti affrontati dalla ricerca archeologica.
«Un primo insieme riguarderà il tema dei luoghi di culto – prosegue Mighetto –, su cui si basa l’architettura sociale della città antica e che comprendono i due centri sacri urbani piú antichi: il santuario di Apollo e quello di Athena. Di fondazione arcaica e dal complesso palinsesto monumentale, i due santuari vengono sondati allo scopo di chiarirne le fasi di vita e le forme di frequentazione rituale. Una nuova ricerca con saggi stratigrafici tornerà inoltre sul luogo di culto che fu tra i primi spazi sacri riemersi dalla coltre dell’eruzione, il Tempio di Iside, che tanto impressionò il mondo antiquario settecentesco per la completezza delle sue strutture e che, per la prima volta, restituiva nella sua interezza lo spazio rituale di un tempio antico. Uscendo dal perimetro delle mura, il sacro continuerà a essere indagato nel santuario di Fondo Iozzino, un
Un secondo tema è quello delle mura urbiche, ampiamente discusso, ma non piú indagato. «Nella Regio VI – dice ancora Mighetto – si amplierà la ricerca sull’Insula Occidentalis, caratterizzata da abitazioni affacciate sulle mura, che si accompagnerà alla sistemazione delle pendici in una pianificazione che immerge il sito nel contesto contemporaneo e ne valuta le forme di dialogo e di impatto. Per l’universo degli spazi pubblici e di svago abbarbicati sulla linea delle fortificazioni, si tornerà a indagare il complesso delle Terme del Sarno e, ancora, la Schola Armaturarum potrà trasformarsi da spazio critico in luogo di ricerca dopo la realizzazione della copertura temporanea dei resti salvatisi dal crollo del 2010. Lo scavo riparte dal piano di restauro e dalle necessità di modellare i fronti di lapillo, riprendendolo laddove lo scavatore Spinazzola lo aveva interrotto per cercare di completarne la forma architettonica e comprendere il significato di una struttura ancora per molti aspetti problematica». Una metamorfosi, quella di Pompei, che ora passa anche attraverso un’ampia campagna di scavi che restituirà al pubblico, oltre a nuove testimonianze, inedite ed emozionanti storie di vita antica.
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n otiz iario
SCOPERTE Umbria
BECCHI INDIGESTI PER I GIGANTI DEL MARE
N
el Pleistocene (intorno a 1,8 milioni di anni fa), il mare bagnava l’Umbria e s’incuneava tra gli attuali massicci dei monti narnesi-amerini e tra quelli della catena Cetona-Rapolano. Bordato da spiagge con sabbia e ciottoli alternate a coste rocciose, le acque arrivavano a lambire un’area caratterizzata dalla presenza di laghi. Il passaggio tra le due zone avveniva tra Orvieto e Allerona. A confermare questo quadro sono
In alto: l’ambra grigia fossile rinvenuta nel territorio di Allerona (Terni). A destra: il fossile al momento del ritrovamento. le ricerche avviate nel 2011 da geologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Perugia e coordinate da Angela Baldanza. Ricerche che hanno portato a una scoperta sensazionale: il rinvenimento di resti di ambra grigia allo stato fossile che appaiono oggi come grandi «spirali di roccia». L’ambra grigia viene prodotta dall’intestino dei capodogli come difesa per l’azione irritante causata dai becchi dei calamari e dei totani, che costituiscono un cibo particolarmente apprezzato da
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questi cetacei. I capodogli, infatti, non riescono a digerire i becchi, che si accumulano, arrivando a graffiare le pareti dell’intestino e le loro mucose intestinali cercano quindi di difendersi producendo appunto l’ambra grigia, che ingloba i becchi. Nell’intestino di questi giganti del mare si vengono cosí a creare masse di ambra grigia che però essi non riescono a espellere, finendo vittime di ostruzioni che possono causarne la morte. Cosí Herman Melville descrive l’ambra in Moby Dick: «È soffice e cerosa, e cosí intensamente fragrante e speziata da essere largamente usata in profumeria per pastiglie, candele preziose, cipria per capelli e pomate». Ne fa trovare una certa quantità al secondo ufficiale Stubb: «Questa, amici miei, è l’ambra grigia, che vale una ghinea d’oro all’oncia in qualunque farmacia». Ancora oggi, è ricercata per le caratteristiche aromatiche e il suo valore commerciale si aggira intorno ai 20 000 euro al kg.
L’importanza della scoperta di Allerona sta nell’aver trovato l’ambra grigia allo stato fossile: si tratta del primo caso al mondo. La materia ha perso le sue doti aromatiche e il suo valore commerciale, ma ne ha acquistato uno rilevante sul piano della storia geologica della terra. I resti sono stati trovati in un’area ristretta (1200 mq circa) e sembrano testimoniare eventi multipli di moria di capodogli in queste acque, che dovevano avere un fondale profondo non piú di 100-150 m: troppo poco per cetacei che vivono abitualmente a circa 200 m di profondità. La ricerca di cibo potrebbe averli condotti nella stretta baia allungata, che rappresentava al tempo l’area di Allerona, e da essa non sarebbero piú riusciti a uscire. Una storia raccontata nel Museo dei Cicli Geologici istituito proprio nel cuore di Allerona (da pochi mesi inserito tra i borghi piú belli d’Italia). Giuseppe M. Della Fina
A TUTTO CAMPO Andrea Zifferero
RIPENSARE LA FORMA DELL’ACQUA LE VETRINE DI UN MUSEO O DI UNA MOSTRA NON SONO SEMPLICI CONTENITORI, MA ELEMENTI ESSENZIALI PER VEICOLARE LE INFORMAZIONI SUI REPERTI CHE IN ESSE VENGONO ESPOSTI. ECCO PERCHÉ LA LORO PROGETTAZIONE DEV’ESSERE ACCURATAMENTE PIANIFICATA
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e La forma dell’acqua, il romanzo con cui Andrea Camilleri ha inaugurato la saga del commissario Montalbano, il protagonista deve affrontare un caso nel quale la soluzione ha connotati diversi e sfuggenti, paragonati appunto alla forma dell’acqua, che assume quella del recipiente in cui viene versata. Prendendo a prestito quell’immagine, vogliamo questa volta interrogarci su chi determini e progetti la forma di una vetrina all’interno di un museo o di una mostra archeologica. Verrebbe spontaneo rispondere che l’onere spetta a chi firma il progetto di allestimento, ma la realtà è liquida, proprio come l’acqua, e si presta a diverse interpretazioni. Diamo innanzitutto per scontato
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che la vetrina sia un espositore del quale non si può fare a meno, atto a garantire la conservazione dei reperti, offrendoli all’osservatore nel modo piú adatto. La vetrina inoltre è il modulo sul quale si articola il percorso espositivo, la cui organizzazione è, a sua volta, l’obiettivo primario del progetto museografico. Ammesso che un buon progetto museale si componga di un piano museografico di qualità, a cui si è appena accennato, il problema maggiore consiste nello sviluppare (possibilmente) in modo integrato anche un piano museologico di pari qualità. In sintesi, il progetto museologico è la forma espositiva da imprimere ai contenuti del museo: un buon piano rispetta i termini originali del contesto
In alto: Adria, Museo Archeologico Nazionale. La vetrina speciale, creata per esporre i vetri romani provenienti da collezioni: la struttura è dotata di effetti illuminotecnici che esaltano le caratteristiche cromatiche e le trasparenze dei reperti. archeologico (o altrimenti artistico, antropologico e/o scientifico a seconda della natura delle collezioni) illustrato, interpretandoli e riproponendoli al visitatore. Non c’è bisogno di insistere sul fatto che in un museo archeologico l’estensore del piano museologico debba essere archeologo, cosí come una pinacoteca debba fare riferimento a storici dell’arte, un museo scientifico a storici della scienza e via dicendo. Nell’eventualità che
Ricostruzione parziale della struttura in terra e pietre del Tumulo Brizzi a Marsiliana d’Albegna, nel Museo Archeologico e d’Arte della Maremma a Grosseto.
lo specialista non sia chiamato all’elaborazione del piano museologico oppure rinunci a esercitare il suo ruolo, il danno finale è quasi inevitabile: i musei del nostro Paese sono ricchi di allestimenti archeologici suggestivi, esteticamente molto validi oltre che pregevoli dal punto di vista architettonico, ma parziali, zoppicanti o addirittura errati sotto il profilo della restituzione storica del contesto. Al momento attuale, gli aspetti della restituzione e dell’interpretazione del contesto sono dominanti nella museologia italiana e ciò si deve a una riflessione teorica sui criteri di valorizzazione dei reperti che sta facendosi lentamente spazio nella formazione universitaria degli archeologi, soprattutto al seguito di insegnamenti quali la metodologia della ricerca archeologica.
UN’IPOTESI DI LAVORO Un esempio che può illustrare la teoria che stiamo trattando è l’ipotetico allestimento di una necropoli altomedievale, con tombe a fossa scavate nel terreno, di solito collocate in prossimità di un edificio di culto. Le variabili con cui dobbiamo fare i conti sono l’ampiezza della sala (o delle sale) su cui distribuire l’esposizione, oltre che, ovviamente, i fondi a disposizione.
Una soluzione al minimo della spesa potrebbe consistere nel collocare i corredi in vetrine in forma di parallelepipedo con piú ripiani, lasciando al sistema informativo (per esempio un pannello) il compito di illustrare la planimetria della necropoli e i rapporti con la chiesa intorno a cui si è sviluppato il cimitero. Le vetrine accoglierebbero i corredi, ordinati per tipi e categorie degli oggetti e per cronologia delle tombe. Una ricostruzione ineccepibile, che, tuttavia, cancella molte delle interrelazioni originali tra spazio funerario e oggetti (per esempio posizione e tipo delle armi, spesso legati all’età o al censo del defunto), appiattendo cosí possibili sollecitazioni al visitatore per approfondire temi e aspetti del rituale funerario. In realtà, un allestimento di qualità dovrebbe sempre suggerire, nella forma delle vetrine e nel loro rapporto con lo spazio dell’allestimento, molte delle relazioni intenzionali documentabili tra gli oggetti: basterebbe scegliere un campione di due o tre tombe a fossa contigue, magari ricollocando i resti scheletrici di defunti di sesso diverso per far risaltare eventuali vincoli di parentela e/o differenze di trattamento nel rituale funerario ed esporli con i rispettivi corredi in vetrine rispettose della forma originale delle fosse, appena
rialzate dal pavimento in posizione dominante nella sala. Si potrebbe inoltre delineare sul pavimento della sala parte del perimetro dell’edificio di culto, con il profilo di parte delle restanti tombe a fossa.
STIMOLARE L’INTERESSE Se, in conclusione, una buona vetrina esalterà le relazioni spaziali rispetto al contenuto della sepoltura e alla posizione degli oggetti, una vetrina di qualità mediocre deprimerà tali relazioni, fino a renderne problematico il riconoscimento, mentre una vetrina di qualità bassa renderà tali relazioni invisibili a tutti, tranne che agli esperti. Il vantaggio di un piano museologico che suggerisca la forma espositiva dei temi da approfondire sottoponendola al vaglio critico di altre professionalità, renderà meno asettico l’allestimento museografico e contribuirà a mantenere elevate la curiosità e l’interesse del visitatore medio. Certo il primo limite di un buon piano museologico è il costo notevole di vetrine disegnate in modo artigianale e costruite in pochi esemplari, ma soltanto cosí restituiremo all’acqua la forma corretta: pensando la vetrina come un delicato strumento che contiene la forma del pensiero archeologico. (andrea.zifferero@unisi.it)
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MUSEI Basilicata
CIVILTÀ INDIGENE DI LUCANIA
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ono state aperte al pubblico le nuove sale del Museo Archeologico Nazionale della Siritide di Policoro, una delle piú importanti raccolte di antichità del Mezzogiorno, situata in prossimità degli scavi di Siris-Herakleia. Dedicati alle civiltà italiche degli Enotri e dei Lucani, gli spazi appena inaugurati accolgono gran parte del prezioso e raro materiale rinvenuto nel corso di trent’anni di indagini negli insediamenti protostorici che le vallate dei fiumi Agri e Sinni, completando il quadro storico delle culture antiche della Basilicata sud-occidentale, che interagivano con le vicine colonie greche. I reperti provengono dalle necropoli di Santa Maria d’Anglona, Aliano, Latronico, Roccanova, Guardia Perticara, Chiaromonte e Sant’Arcangelo, scoperte grazie all’attività di archeologia preventiva che ha consentito il recupero di migliaia di corredi funerari delle popolazioni indigene dei Choni-Enotri (IX-V secolo a. C) e dei Lucani (IV-III secolo a. C.). Nel corridoio di accesso alle nuove sale si trovano i simboli della cultura enotria sia di produzione
locale (copricapi bronzei di influenza balcanica, ceramiche decorate con motivi geometrici del VII-VI secolo a.C. da Roccanova, Aliano, Guardia Perticara), sia di importazione (lucerna bronzea dalla tomba 23 di Chiaromonte). Segue la sala dedicata alle popolazioni subcostiere, attestate sui terrazzi circostanti Santa Maria d’Anglona, con sepolture segnate da un rituale e da apprestamenti funerari di derivazione balcanica (inumati rannicchiati e sepolture coperte da tumuli di pietrame). Si passa quindi alle grandi necropoli enotrie di Chiaromonte, Aliano, Guardia Perticara e Roccanova, segnate dal rituale dell’inumazione supina di derivazione tirrenica. Tra l’VIII e il VI secolo a.C., oltre a ceramiche di produzione In alto: olla decorata con motivo a tenda, dalla Tomba 3 di Santa Maria D’Anglona. VIII sec. a.C. A sinistra: copricapodiadema in bronzo dalla Tomba 69 di Guardia Perticara. VIII sec. a.C.
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locale, si datano le ricche parure di ornamenti personali di bronzo (copricapo-diadema a tubuli, cavigliere a spirali, fibule a spirali) e gli elementi decorativi di vestiti in bronzo, ma anche in ambra baltica o pasta di vetro di provenienza orientale: non mancano preziosi gioielli in argento. La terza sala, infine, è dedicata all’ampia documentazione archeologica dei Lucani, che, alla fine del V secolo a.C., si sono imposti sulla scena politica delle regioni interne meridionali. Gli abitati fortificati, come Cersosimo o Monte Coppolo di Valsinni, i santuari di Armento e Chiaromonte, l’edilizia privata e le necropoli del IV-III secolo a.C. – come quella di Sant’Arcangelo – rivelano una completa adesione ai modelli urbanistici, militari, religiosi e culturali delle colonie greche costiere, alle quali i Lucani si sono contrapposti per il controllo dei territori interni almeno fino alla comparsa sulla scena politica di Roma, che alla fine impone su tutti il proprio dominio. Tra i materiali lucani è di grande interesse una corazza a «tre dischi» frammentaria proveniente da Senise (scavo clandestino), che si ritrova indossata da questi guerrieri spesso dipinti sulle lastre delle tombe di Poseidonia/Paestum. Giampiero Galasso
DOVE E QUANDO Museo Archeologico Nazionale della Siritide Policoro (Matera), via Colombo Orario me-lu, 9,00-20,00; ma,14,00-20,00 Info tel. 0835 972154; e-mail: pm-bas.museopolicoro@ beniculturali.it; www.artibasilicata.beniculturali.it
PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
BONA DEA: UN’IDEA PER DONARLA AL PUBBLICO È L’UNICA STATUETTA A OGGI NOTA CHE RITRAGGA UN’ANTICA DEA DELLA FERTILITÀ E, APPARTENENTE A UNA COLLEZIONE PRIVATA, DOVREBBE ESSERE VENDUTA ALL’ASTA. MA, GRAZIE ALL’INIZIATIVA PROMOSSA DA FIORENZO CATALLI, POTREBBE ESSERE DONATA AL MUSEO NAZIONALE ROMANO
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i siamo occupati di recente della restituzione al pubblico dei dipinti della Tomba François di Vulci, attualmente appartenenti alla Collezione Torlonia (vedi «Archeo» n. 383, gennaio 2017). Ma le celebri pitture non sono l’unico esempio di reperti archeologici rivendicati, in virtú del loro interesse storico, dai cittadini o dalle istituzioni del territorio di origine. Tra le iniziative che mirano alla fruizione collettiva di un reperto di proprietà privata, c’è anche quella organizzata a favore di una statuetta della Bona Dea rinvenuta nel XVIII secolo ed entrata a far parte della collezione di Ettore A sinistra: la statuetta della Bona Dea, rinvenuta sulla via Appia Antica, nei pressi di Bovillae. Metà del III sec. d.C.
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Roesler Franz (1845-1907), il pittore vedutista della Roma Sparita: una campagna di raccolta fondi finalizzata all’acquisto dell’opera e alla sua donazione a un museo statale. L’iniziativa è promossa da Fiorenzo Catalli, numismatico e già direttore archeologo del Museo Nazionale Romano. Dottor Catalli, perché una raccolta fondi per acquisire questo oggetto? «Si tratta dell’unica statuetta esistente che rappresenti con certezza la Bona Dea, come attesta l’iscrizione incisa alla base, che riporta una dedica alla divinità da parte di Callisto, schiavo alle dipendenze di Rufina. È un’opera in marmo bianco, alta 30 cm, databile alla metà del III secolo. Le fonti antiche riportano varie informazioni sulla Bona Dea, figura prettamente femminile legata al mondo della fertilità. Ma questa statua, per la presenza della dedica iscritta, è il solo caso noto che documenti senza ombra di dubbio
l’iconografia della dea. Il restauro antico attesta il perpetuarsi del culto in piena età imperiale, tale da meritare una destinazione pubblica. Inoltre l’opera costituisce una possibile conferma della presenza del sacrario dedicato alla divinità lungo la via Appia, presso il quale, nel 52 a.C., il tribuno Clodio trovò la morte per mano delle bande armate di Milone. La statua, infatti, venne rinvenuta là dove l’Appia Antica si approssima ai ruderi dell’antica città di Bovillae. E qui Cicerone colloca il tempio della Bona Dea, narrando dell’uccisione dello stesso Clodio. Considerato quindi l’alto interesse artistico della statuetta, abbiamo promosso una raccolta di fondi tra i cittadini per poterla acquistare allo scopo di donarla al Museo Nazionale Romano». In Inghilterra, operazioni simili sono all’ordine del giorno. In Italia, invece, le campagne di crowd founding per acquisire reperti da donare a istituzioni pubbliche sono ancora una novità… «Nel nostro Paese iniziative come questa sono in pratica inesistenti: ci sono un paio di esempi a Torino, a Palazzo Madama, e a Milano, ma siamo molto indietro. All’estero, invece, in Inghilterra e USA soprattutto, le campagne di raccolta fondi tra privati per l’acquisto di beni culturali da donare a musei pubblici sono la norma». Come è nata l’iniziativa? «L’idea è venuta a me a mio figlio. La statua della Bona Dea è un pezzo eccezionale dal punto di vista scientifico: è un vero peccato che non sia esposto. Per questo ci siamo dati da fare per permetterne la pubblica fruizione. Nel Museo Nazionale Romano esiste una bella sezione dedicata ai culti e alle divinità, nella quale la statua farebbe una bella figura.
A sinistra: denario di Tranquillina. Collezione Barry Feirstein. III sec. d.C. In basso: particolare della testa della Bona Dea.
Abbiamo creato una società, la DFRG Art Rarities, e sottoposto l’idea alla casa d’aste a cui la Bona Dea è stata affidata, la Bertolami Fine Arts, e al proprietario. Abbiamo chiesto il nulla osta al Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, per verificare che non ci fossero pendenze, e un parere alla Direzione del Museo Nazionale Romano, che si è detta felice di accettare il dono, una volta completato l’iter. L’acquisizione pubblica di questo reperto è essenziale, perché è un unicum,
non può andare in giro nelle collezioni private, ma deve essere esposto a tutti in un museo. Per le modalità delle donazioni, è possibile consultare il sito www.artrarities.it». L’Italia possiede molti «pezzi unici»: quali altri reperti archeologici di proprietà privata potrebbero beneficiare di raccolte fondi come questa? «Penso alle tante monete antiche della Sicilia, della Magna Grecia e di Roma stessa. Ci sono monete eccezionali che meritano. Per non parlare dei vasi attici, destinati all’esportazione in Italia: una parte appartiene a una produzione diciamo semi-industriale, ma altri sono pezzi unici, firmati da artisti, da pittori e ceramografi famosi. Uno su mille – non dico tutti – meriterebbe una destinazione pubblica». Sta dicendo che tra i reperti archeologici di proprietà privata ci sono migliaia di pezzi dal valore scientifico unico, mai esposti in pubblico? «Migliaia è poco. Direi decine e decine di migliaia. Io non ho nulla contro il collezionismo privato, che esiste da sempre. Augusto era un collezionista di monete. Ma bisognerebbe offrire una collezione al pubblico piuttosto che tenerla chiusa in un magazzino. Anche nel Ministero dei Beni Culturali ci sono troppi nuclei di oggetti conservati nei magazzini. Solo con quei materiali si potrebbero fare altri mille musei in Italia». In che modo si potrebbe, allora, valorizzare questo immenso patrimonio archeologico che si trova – se pur legittimamente – in mani private?
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A destra: la Bona Dea in un disegno pubblicato dal Bollettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma del 1879. In basso: l’iscrizione sulla base della statuetta che ne attesta la dedica alla dea da parte dello schiavo Callisto. «Forse la soluzione c’è: creare musei con spazi nei quali poter periodicamente far girare i materiali dei magazzini. Altri mille musei non possono essere costruiti e dobbiamo evitare di creare raccolte piene di reperti fino all’inverosimile. E, piuttosto, pensare sezioni dedicate alle esposizioni temporanee in cui, per sei mesi, presentare un vecchio scavo, un’antica collezione di reperti archeologici donata da un privato e mai esposta…». Le vengono in mente altri esempi di collezioni o reperti che potrebbero essere esposti al pubblico e invece non lo sono, per esempio nel Museo Nazionale Romano? «Per esempio la collezione Gorga, appartenuta a un tenore con la passione per il collezionismo archeologico, che raccoglie una mole enorme di materiale, adesso è esposta nel Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps. Ma ci sono voluti vent’anni per tirarla fuori dai magazzini. Probabilmente, se avessimo attivato un’iniziativa di crowd founding, saremmo arrivati allo stesso risultato molto prima». Quali altri materiali potrebbero essere esposti grazie a campagne
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di raccolta fondi tra i cittadini? «Quando ero alla Soprintendenza di Roma, dal 1979 al 2015 ho seguitogli scavi del Suburbio di Roma: sono stati recuperati reperti
favolosi, materiali eccezionali, che sono stati esposti una sola volta, in occasione della mostra “Memorie dal sottosuolo”. Poi sono tornati nel dimenticatoio». Con iniziative come questa, i cittadini possono diventare protagonisti attivi nella fruizione del patrimonio archeologico… «Se lo Stato auspica la collaborazione del cittadino, questa è una forma concreta. La generosità e il volontariato, in Italia, sono una grande risorsa. A cui le istituzioni che gestiscono il patrimonio archeologico non dovrebbero mai chiudere le porte».
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ARCHEOLOGIA SPERIMENTALE Tarquinia
L’ANTICO SUONA BENE
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li scavi archeologici ma anche le fonti letterarie e iconografiche tramandano un passato «in musica», seppur silenzioso. Dal 2011, l’EMAP (European Music Archaeology Project) raduna invece archeologi, musicologi, artigiani e scienziati con l’obiettivo di riportare all’orecchio del presente i suoni delle antiche civiltà europee. «In questi ultimi decenni – dice Emiliano Li Castro, direttore artistico dell’EMAP –, l’interesse nei confronti della musica del mondo antico è cresciuto sensibilmente. Tuttavia, al raffinamento degli studi non corrisponde un’adeguata diffusione dei risultati. Il nostro scopo, dunque, è di estendere le acquisizioni al di là dell’Accademia, affinché a beneficiarne sia un pubblico il piú vasto possibile». Primo tra gli 80 progetti valutati nel 2012 dall’Education, Audiovisual and Cultural Executive Agency (EACEA) dell’Unione Europea, l’EMAP è un
Tintignac (Corrèze, Francia). Frammenti di carnyces scoperti nel 2004 in corso di scavo.
programma di durata quinquennale coordinato dal Comune di Tarquinia e finanziato al 50% con fondi comunitari. Il resto delle risorse è garantito da istituzioni appartenenti a sette Paesi UE – oltre che dal self financing legato ad attività di diverso tipo. Tre anni di lavoro hanno permesso di intraprendere un viaggio nel tempo che, attraverso la ricostruzione di strumenti musicali rappresentativi della preistoria e delle civiltà classiche, diviene anche esperienza sensoriale. Dai flauti in osso agli auloi greci, dal lituus etrusco (vedi box a p. 25) al carnyx celtico, l’EMAP unisce
per la prima volta – sul filo della sperimentazione – i punti di contatto fra il Mediterraneo e l’Europa settentrionale. Un percorso che ben esemplifica la metodologia adottata è quello che ha visto rinascere il carnyx, la «mostruosa» tromba utilizzata dai Galli, che – secondo lo storico Diodoro Siculo – generava un suono stridulo, «in sintonia» col tumulto delle battaglie. Le fonti classiche menzionano il carnyx per esempio a proposito dell’assalto celtico di Delfi del 279 a.C. e delle campagne di Giulio Cesare in Gallia. Come si può osservare su monete galliche o romane e su rilievi relativi soprattutto a trofei di guerra, l’impressionante strumento era composto da un lungo tubo, terminante con un padiglione zoomorfo. La sua piú celebre raffigurazione compare sul calderone di Gundestrup, rinvenuto A sinistra: copia in bronzo del carnyx di Tintignac (dettaglio del padiglione zoomorfo) realizzata da Jean Boisserie. Nella pagina accanto, dall’alto, in senso orario: un momento della performance realizzata a Tarquinia nel dicembre 2014; il prototipo in bronzo del lituus da Pian di Civita (Tarquinia), realizzato da Peter Holmes; il lituus originale rinvenuto a Pian di Civita (Tarquinia).
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nel 1891 in Danimarca. Sul prezioso oggetto d’argento,infatti, si vedono tre suonatori di carnyx che seguono una processione religiosa, tenendo lo strumento verticalmente e soffiando nella sua imboccatura. Dal 2014, le performance del compositore scozzese John Kenny – membro del team EMAP – contribuiscono a valorizzare la riproduzione del «carnyx di Tintignac» (III-I secolo a.C)
realizzata dal maestro dei metalli Jean Boisserie con la collaborazione dell’archeologo Christophe Maniquet. La sorprendente scoperta dello strumento a fiato avvenne nel 2004 nel sito di Tintignac a Naves (Corrèze), in un’aerea dove un tempio gallo-romano (fanum) si sovrappone a un luogo di culto dell’età del Ferro. In questo primo santuario gallico, i 36 frammenti attribuiti alle maestose trombe di guerra erano adagiati sul fondo di una fossa, assieme ad alcuni caschi bronzei dall’iconografia unica. A differenza di ritrovamenti simili verificatisi nella stessa Francia cosí come in Scozia, Germania, Romania e Svizzera, uno dei sette carnyces identificati conservava la quasi totalità dei pezzi che dovevano comporne in origine la struttura. «Ci siamo trovati di fronte a dati eccezionali – racconta Boisserie –, che permettevano di riprodurre con precisione un
IL LITUUS DI TARQUINIA
Il timbro ritrovato Nel settembre del 2012, il trombettista e musicologo Peter Holmes ha suonato per la prima volta una copia – da lui stesso realizzata – del cosiddetto «lituus di Tarquinia». La performance si è svolta a Pian di Civita, il luogo in cui l’originale in bronzo dello strumento era stato rinvenuto nel 1985, nel corso di
una delle campagne condotte dalla missione dell’Università di Milano sui resti della Tarquinia etrusca: piegato in tre parti, il reperto era sepolto in un deposito votivo datato al VII secolo a.C., assieme a una scure e a uno scudo. Strumento dal lungo canneggio cilindrico, che termina con una campana ricurva, il lituus appartiene alla famiglia di trombe e corni ed è menzionato nelle fonti greche e latine in rapporto agli Etruschi. La documentazione archeologica, tuttavia, è piuttosto scarna mentre il lituus è ben attestato nella cultura figurativa. Una delle piú celebri rappresentazioni si trova nella Tomba degli Scudi a Tarquinia (IV secolo a.C.): una delle pitture murali che ornano la sepoltura ritrae, infatti, due coppie di musicisti, formate entrambe da un suonatore di lituus insieme a un suonatore di cornu. In questo suggestivo ambiente, due anni fa, Emiliano Li Castro ha voluto sperimentare il
suono del lituus ricostruito da Holmes, sfidando un mistero. Il lituus, in origine, era provvisto di un bocchino in bronzo simile a quello del cornu? Gli scavi archeologici non hanno mai restituito questo piccolo ma importantissimo pezzo, riscontrabile invece in altri strumenti a fiato dell’antichità, sebbene l’esemplare conservato al Museo di Cortona – che l’équipe dell’EMAP ha potuto analizzare grazie alla collaborazione di Paolo Giulierini – contenesse tracce di legno. Un dettaglio, quest’ultimo, che insieme alla posa assunta dai suonatori della Tomba degli Scudi, potrebbe far supporre l’esistenza di un diverso tipo d’imboccatura. Nel 2015, l’EMAP ha promosso presso l’Officina delle Arti e dei Mestieri «Sebastian Matta» a Tarquinia la registrazione di nuove melodie legate al lituus. In quell’occasione, Alberto Morelli ha suonato la copia del lituus di Tarquinia con l’aggiunta di un bocchino, mentre Emiliano Li Castro se ne è servito come fosse un corno con imboccatura obliqua, ottenendo cosí un suono piú morbido. È dunque lecito pensare che il timbro del lituus – di cui forma e nome ricordano il bastone degli àuguri – non fosse adatto soltanto a emettere segnali bellici, ma soprattutto ad accompagnare, con toni meno «aspri», occasioni civili quali cortei e funerali.
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oggetto di alto valore tecnico». Una prima copia dello strumento a testa di cinghiale – destinata all’esposizione sul sito di Tintignac – è stata realizzata in ottone per testarne il suono. Le analisi acustiche, basate sul calcolo computerizzato delle frequenze, si sono svolte all’Università «du Maine» (Le Mans, Laval) sotto la direzione di Jöel Gilbert. Non senza disappunto, i ricercatori di Le Mans hanno appurato che il suono non produceva le armonie attese poiché alla piú bassa delle note non corrispondevano – come dovrebbe succedere per ottenere un suono puro – dei multipli interi (doppio, triplo, quadruplo, ecc.). Ciò ha permesso di capire che la ricostruzione del carnyx era incompleta. Una simulazione informatica della tromba, allungata di circa 10 cm tra il tubo e l’imboccatura, ha infine portato ai risultati sperati e alla scoperta – nei magazzini di Tintignac – del pezzo mancante dello strumento. Una seconda replica in bronzo del carnyx è stata poi creata da Boisserie, grazie al supporto – anche finanziario – dell’EMAP. Ulteriori analisi acustiche sono state dunque eseguite all’Università di Edimburgo. Da quel momento, il soffio di John Kenny restituisce l’eco lontana dei guerrieri gallici che i carnyces immortalati sul Trofeo augusteo de La Turbie (Alpi Marittime) o alla base della Colonna Traiana a Roma, non potranno mai rievocare. Grida animalesche, secondo la suggestione di Christophe Maniquet, il quale rileva come, d’altra parte, sei dei carnyces di Tintignac fossero corredati dalla testa di un
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Replica in bronzo di un sistro anatolico realizzata da Carlo Brignola, sulla base di un originale rinvenuto a Horoztepe (Turchia) e databile al 2200-2000 a.C. cinghiale, mentre il settimo sfoggiava una protome di serpente. L’EMAP ha seguito anche il progetto di ricerca multidisciplinare «Carnyx di Sanzeno», coordinato dalla Soprintendenza per i Beni Culturali della Provincia Autonoma di Trento. Scoperti negli anni Cinquanta del XX secolo, i frammenti di lamina di bronzo di Sanzeno (Trento) sono stati classificati come oggetti misteriosi finché uno studio comparativo con i reperti di Tintignac ha consentito di riportarli alla luce una seconda volta. Con il contributo dell’archeometallurgista dell’Università di Genova Paolo Piccardo, una copia di carnyx in ottone è stata prodotta dalla fucina del fabbro Alessandro Ervas. La particolarità del carnyx di Sanzeno è che serbava il raccordo tra il bocchino e il canneggio, una delle poche lacune del reperto di Tintignac. Ci ha poi pensato il trombettista Ivano Ascari a trasformare una memoria celtica in nostalgia contemporanea. Non piú impetuose cariche di
guerra, ma afflati d’infinito. Nel 2016 l’EMAP ha inoltre promosso la mostra «ARCHÆOMUSICA», che, dopo il «debutto» a Ystad (Svezia), è attualmente visitabile a Valladolid (Spagna), presso il Museo della Scienza, fino al 21 maggio. Il tour europeo proseguirà poi a Lubiana (Slovenia, dall’11 giugno al 24 settembre, per approdare in autunno a Roma, al Parco dell’Appia Antica, dal 13 ottobre all’11 dicembre). Scopo dell’esposizione – accompagnata da un ricco programma di concerti, workshop e attività didattiche – è quello di illustrare le caratteristiche principali degli strumenti musicali dell’antica Europa attraverso diverse epoche e culture, sottolineando in particolare la diffusione e le tecniche di ricostruzione di alcuni di essi. Muovendosi tra le «isole sonore» di «ARCHÆOMUSICA», il visitatore può immergersi in un viaggio nel tempo non piú silenzioso, suonare egli stesso alcune «repliche» messe a disposizione in appositi spazi e accedere a installazioni multimediali che ricreano le condizioni acustiche in cui venivano utilizzati gli strumenti. Una versione «satellite» della mostra, con l’intero apparato virtuale e il corollario di eventi, sarà visitabile a Tarquinia (Viterbo) dal prossimo 1° aprile al 4 giugno. Valentina Porcheddu
DOVE E QUANDO «ARCHÆOMUSICA» Tarquinia, ex Sala Capitolare degli Agostiniani di San Marco fino al 4 giugno (dal 1° aprile) Info tel. 0766 856716; www.emaproject.eu
CALENDARIO
Italia ROMA Archaeology&ME
Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo fino al 12.04.17
REGGIO CALABRIA Nomisma Qui sotto: stele di Nefer. IV dinastia, 2575-2465 a.C.
All’ombra delle piramidi La mastaba del dignitario Nefer Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco fino al 28.05.17
Reggio e le sue monete Museo Archeologico Nazionale fino al 31.03.17
Ricostruzione ideale dell’incontro tra un Neandertal e un Sapiens. L’avventura archeologica M.A.I. raccontata Museo Egizio fino al 10.09.17 (dall’11.03.17)
TORINO Missione Egitto 1903-1920
TRENTO Estinzioni
Colosseo. Un’icona
Storie di catastrofi e altre opportunità MUSE-Museo delle Scienze di Trento fino al 26.06.17
Colosseo fino al 07.01.18
AQUINO (FR) Primaverile Archeologico Amore
VENEZIA Prima dell’alfabeto
Mostra di pittura di Nicola Migliozzi Museo Archeologico Khaled Al-Asaad fino al 09.04.17
Viaggio in Mesopotamia alle origini della scrittura Palazzo Loredan fino al 25.04.17
COMACCHIO Lettere da Pompei
Archeologia della scrittura Palazzo Bellini fino al 02.05.17
GENOVA Salvi in Museo!
Le lastre dei palazzi assiri riesposte in Museo Museo di Archeologia Ligure fino al 18.06.17
GROSSETO, MANCIANO Marsiliana d’Albegna
Qui sopra: affresco con giovane che legge un rotolo. Qui sotto: ritratto di Carlo di Borbone.
Dagli Etruschi a Tommaso Corsini Museo Archeologico e d’Arte della Maremma Museo di Preistoria e di Protostoria della Valle del Fiora fino al 30.04.17
VILLANOVA DI CASTENASO (BO) La Stele delle Spade e le altre Sculture orientalizzanti dall’Etruria padana Museo della Civiltà Villanoviana fino all’11.06.17
NAPOLI Carlo di Borbone e la diffusione delle antichità Museo Archeologico Nazionale fino al 16.03.17
PERUGIA Giochi da museo
Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria fino al 17.04.17
POMPEI Il Corpo del reato
Il patrimonio archeologico ritrovato Antiquarium degli Scavi fino al 27.08.17 24 a r c h e o
VICENZA Le ambre della principessa In basso: cratere apulo con satiro e menade.
Storie e archeologia dall’antica terra di Puglia Gallerie d’Italia, Palazzo Leoni Montanari fino al 07.01.18
VULCI I misteri di Mithra
Museo Archeologico Nazionale fino al 31.03.17 A destra: gruppo di Mitra che uccide il toro, da Vulci.
Qui sopra: pendaglio d’ambra in forma di protome femminile.
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Francia
Grecia
PARIGI Che c’è di nuovo nel Medioevo?
ATENE Dodona: l’oracolo dei suoni
Tutto quello che l’archeologia ci rivela Cité des sciences et de l’industrie fino al 06.08.17
Museo dell’Acropoli fino al 31.03.17 (prorogata)
L’Africa delle rotte
Odissee
SAINT-DIZIER Austrasia
Olanda
Musée du quai Branly Jacques Chirac fino al 12.11.17
Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.17
Il regno merovingio dimenticato Espace Camille Claudel fino al 26.03.17
LEIDA Regine del Nilo
Rijksmuseum van Oudheden fino al 17.04.17
Germania
Svizzera
BERLINO L’eredità degli antichi sovrani
BASILEA Arabia felix?
Ctesifonte e le fonti persiane dell’arte islamica Pergamonmuseum fino al 02.04.17
Mito e realtà nel regno della regina di Saba Antikenmuseum fino al 02.07.17
KARLSRUHE Ramesse
CHIASSO J.J. Winckelmann (1717–1768) I «Monumenti antichi inediti»
Sorvano divino sul Nilo Badisches Landesmuseum fino al 18.06.17
Storia di un’opera illustrata m.a.x. museo fino al 07.05.17
MANNHEIM Egitto
Terra dell’immortalità Reiss-Engelhorn-Museen fino al 30.07.17
Qui sopra: coppa sasanide con scena di caccia.
ZURIGO Osiride
Gran Bretagna
Misteri sommersi d’Egitto Museum Rietberg fino al 16.07.17
LONDRA Deturpare il passato
USA
Dannazione e profanazione nella Roma imperiale The British Museum fino al 07.05.17
In alto: iscrizione per un dono allo Zeus di Dodona.
In basso: medaglione con ritratto di Commodo, poi cancellato.
LOS ANGELES Ricordando l’antichità
Il mondo antico attraverso gli occhi del Medioevo J. Paul Getty Museum fino al 28.05.17
NEW YORK Un mondo di emozioni
L’antica Grecia, 700 a.C.-200 d.C. The Onassis Cultural Center fino al 24.06.17
In basso: stele funeraria in marmo, da Thera. Inizi del III sec. a.C.
COME UNA CASA DI FATE NEI PRIMI ANNI SESSANTA, L’ARCHEOLOGO ERCOLE CONTU ESPLORA UNA MISTERIOSA GROTTA NEI PRESSI DI ALGHERO. VIENE ALLA LUCE, COSÍ, LA COSIDDETTA TOMBA DEI VASI TETRAPODI, UNO DEI MONUMENTI PREISTORICI PIÙ IMPORTANTI DELLA SARDEGNA. ECCO IL RACCONTO DELLA SCOPERTA (OGGI AL CENTRO DI UNA MOSTRA) E DI UN INCONTRO PARTICOLARE… di Nadia Canu, fotografie di Nicola Castangia Salvo diversa indicazione, tutte le immagini documentano la Tomba dei Vasi Tetrapodi, nella necropoli di Santu Pedru, presso Alghero, e i materiali in essa rinvenuti. 34 a r c h e o
U
na luce brilla nei suoi occhi ogni volta che parla di archeologia: quando la vedi, capisci all’istante che per oltre settant’anni, insieme agli amori piú cari, il suo non è stato semplicemente lavoro, ma missione di una vita, vissuta all’insegna della ricerca, della didattica e al servizio del patrimonio culturale. L’abbiamo ascoltato raccontare della Tomba dei Vasi Tetrapodi, in occasione della presentazione del volume che raccoglie il quarantennale lavoro della sua allieva, Giuseppa Tanda, incentrato sulle tombe scolpite della Sardegna preistorica. Ha spiegato perché, tra le migliaia di ipogei censiti, quello da lui indagato debba considerarsi una vera e propria pietra miliare. E poco dopo ci siamo detti quanto sarebbe stato bello raccontarne la storia. Passato qualche gior-
Sulle due pagine: veduta panoramica della cella principale (o cella C) della tomba. I materiali rinvenuti nello scavo provano che l’ipogeo fu in uso dal Neolitico all’età del Bronzo Medio, cioè dal 4500 al 1800 a.C. circa. In basso: restituzione grafica di uno dei vasi con quattro piedi e ricca decorazione che hanno ispirato il nome della tomba. La loro produzione si inserisce nell’ambito della cultura del Vaso Campaniforme, che si colloca nella seconda metà del III mill. a.C.
a r c h e o 35
SCAVI • SARDEGNA
no siamo andati a fargli visita nella sua casa sassarese: a due passi dal Museo Nazionale «G.A. Sanna» da lui allestito; a due passi dal Dipartimento di Storia, nel palazzo Segni, già dimora di famiglia dello statista che lo volle chiamare a Sassari e si adoperò per istituire una Soprintendenza Archeologica nel Nord della Sardegna, nel 1958, appena pochi anni prima di diventare il quarto Presidente della Repubblica. Lui è Ercole Contu, il decano degli archeologi sardi, classe 1924 (vedi A destra: foto scattate nel corso dello scavo della tomba, condotto fra il 1959 e il 1960; in quella in basso, capovolto, si riconosce un vaso tetrapode. In basso: una veduta esterna della tomba, che permette di apprezzare il lungo corridoio (dromos) che precede il sepolcro vero e proprio.
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
36 a r c h e o
box alle pp. 38-39). Nel suo studio inondato di libri sempre spalancati, snocciola uno dietro all’altro accadimenti che hanno portato a ricerche e scoperte, con dovizia di circostanze e dettagli, citazioni bibliografiche e brani degli autori antichi.
ANEDDOTI E CARCADÈ Non mancano episodi e aneddoti, sovente spassosi, raccontati sul filo sottile dell’ironia che lo contraddistingue, o attraverso originali componimenti poetici, che prontamente recupera sul suo computer per offrirli agli ospiti insieme a un infuso rosso rubino di carcadè. E se l’ospite è una donna, è probabile che la poesia tratti temi cortesi, perché solo un amore in lui gareggia con l’archeologia, quello per l’universo femminile.
Bo cche di Boni faci o Maddalena Lu Brandali S. Teresa di Gallura
Asinara G olfo dell’Asinar a
Punta Falcone
Porto Torres
Oridda Senori
Monte d’Accoddi Sassari
Grotta Verde Alghero
Palmavera Alghero
Anghelu Ruju Alghero
Sa Turricola Muros
Nuraghe Maiore Tempio P.
Tempio Pausania
Grotta dell’Elefante Castelsardo
Sassari
Abealzu Osilo
Cartina della Sardegna con l’indicazione dei piú importanti siti e complessi monumentali di età prenuragica e nuragica.
Olbia
Monte di Deu Calangianus
Monte e S’Ape Olbia
Predio Canopoli Perfugas
Grotta Inferno Muros
Burghidu Ozieri
S. Antioco Bisarcio Ozieri
Santu Pedru Alghero Alghero
Cala Villa Marina La Maddalena
Li Mizzani Caprera Palau Li Muri Arzachena Arzachena Albucciu Li Lolghi Arzachena Arzachena Casanili Pozzo Milis Luogosanto Olbia
Mandra Antine Thiesi
San Michele Ozieri
Sos Nurattolos Alà dei Sardi Iselle Budduso
Nuraghe Pitzinnu Posada
Sa Coveccada Capo Comino Istalai Mores Nule Su Coveccu Bultei S. Andria Priu Maone Su Tempiesu Bonorva Benetutti Sa Ucca Orune Sos Furrighesos e Su Tintiriolu Riu Mulinu Orosei Anela Bonorva Mara Biristeddi Noddule Mura Cariasas Dorgali Nuoro Bonorva Motorra Molia Serra Orrios Filigosa S. Barbara Dorgali Illorai Nuoro Tamuli Dorgali Oliena Cala Gonone Macomer Macomer Macomer Orolio Sas Concas Gonagosula Silanus Nuraddeo Oniferi Dorgali Dorgali Oliena Suni Istevene S’Altare de Grotta del Bue Marino Macomer Mamoiada Ponte Sa Logula Dorgali Sedda Sos Serrugiu Dualchi Sarule Carros Cuglieri Gol fo S’ena Sa Vacca Gorthene Oliena Iloi Elighe Onna Olzai Orgosolo Sedilo Oragiana di Orosei S. Lussurgiu Cuglieri Bidistili S’Omu e S’Orcu Lugherras Fonni Urzulei S’angrone Abini S. Michele Fanne Massa Paulilatino Abbasanta Teti Fonni Cuglieri S.Pietro Golgo Losa Santa Cristina Pedras Fittas Baunei Abbasanta Campu Maiore Ovodda Paulilatino Serra Is Araus Busachi Sa Carcaredda S. Vito Milis Meana S’Urachi Villagrande S. Barbara Nolza S. Vero Milis Villanova Truschedu Pitzu e Monti Prama Ruinas Sceri Arbatax Pranu Arzana Ilbono Cabras Cuccuru Arrius Genna Corte Belvi Ardasai Cabras Laconi Perdalonga Seui Genna Seleni Tortoli Oristano Arrele Lanusei Laconi Fenosu G olfo Aiodda S. Antinu Palmas d’Arborea Motrox ‘e Bois Serbissi Nurallao Genoni Osini Usellus di Or ist ano Bruncu Roja Cannas Cuccureddi Madugui Uras Esterzili Paras Coni Is Isili Aleri Monte Arci Nuragus Tertenia Marceddi Gesturi S. Vittoria S’ Omu S’Orcu Terralba Serri Su Siddi Orrubiu Nastasi Nuraxi Barumini Cuccarada Orroli Tertenia Barumini Mogoro Su Molinu Su Pranu Orroli Villafranca Saurecci Funtana Coberta Genna Maria Guspini Ballao Villanova Forru Pranu Muteddu Genna Prunas Is Pirois Pardu e Jossu Guspini Sa Turriga Goni Monti Villaputzu Sanluri Mannu Serrenti Senorbi S. Cosimo Sa Corona Gonnosfanadiga Pranu Sanguini Villagreca S. Nicolò Gerrei Corongiu Capo Pecora Pimentel Perda Fitta Sa Grutta ‘e Ianas Su Mannau Serramanna San Vito Fluminimaggiore Matzanni M. Olladiri Sebiola Asoru Vallermosa Monastir Serdiana San Vito Buoncammino S. Gemiliano D’Omu S’Orcu Iglesias Sestu Domusnovas Su Cungiau Cuccuru Craboni de Marcu Iglesias Maracalagonis Decimoputzu Seruci Tani Monte Claro Gonnesa Is Concias Diana Carbonia Cagliari Quartucciu Quartu Su Carropu Su Moiu Cagliari Sirri-Carbonia Narcao Capo S. Elia Isola di Carbonia Cagliari Montessu Gol fo S’Arriorgiu Santadi S. Pietro Antigori Santadi Sarroch di Cagl i ari Capo Carbonara Istmo Domu S’Orcu S. Antioco Sarroch
Capo Caccia
Santu Antine Torralba
Mar Tirreno
Isola di S. Antioco
Cannai S. Antioco
Mar
S. Anna Arresi S. Anna Arresi
Tirreno
Nuraghe
Caverna funeraria nuragica
Dolmen e tomba megalitica nuragica e prenuragica
Villaggio nuragico
Caverna d’abitazione prenuragica e nuragica
Tomba dei giganti
Villaggio prenuragico
Tempio a cella nuragico (a «megaron»)
Ipogeo funerario prenuragico
Pozzo sacro
Tempio prenuragico
Santuario nuragico
Caverna funeraria prenuragica
Menhir, betilo e stele
Recinto nuragico
a r c h e o 37
SCAVI • SARDEGNA
IL DECANO DELL’ARCHEOLOGIA PREISTORICA SARDA Nato a Villanova Tulo (Nuoro) il 18 gennaio 1924, Ercole Contu, da ormai settant’anni, giganteggia nel panorama dell’archeologia sarda. Nei primi anni della carriera è stato allievo della Scuola Archeologica Italiana di Atene e assistente di
38 a r c h e o
Ranuccio Bianchi Bandinelli, che fu docente all’Università di Cagliari tra il 1947 e il 1950. Contu è stato Soprintendente Archeologo per le province di Sassari e Nuoro tra il 1966 e il 1975 ed è professore emerito dell’Università di Sassari, presso la quale ha insegnato dal 1970 fino al 1994, ricoprendo la presidenza della Facoltà di Magistero e fondando una vera e propria scuola di paletnologi dediti allo studio della Sardegna. La sua prima importante scoperta, nel 1948, è quella del Tempio di Domu de Orgía a Esterzili: la struttura, lunga ben 22 m e larga 8, presenta una planimetria rettangolare tripartita. Situata in un nodo cruciale della via della transumanza, fu costruita intorno al 1300 a.C. su un villaggio nuragico preesistente. Nelle successive indagini ha restituito numerosi bronzi figurati di arcieri, guerrieri,
sacerdotesse, offerenti e animali ora esposti nel Museo Archeologico di Nuoro. Tra il 1952 e il 1958 Contu lavora presso Monte d’Accoddi a Sassari, dove mette in luce un altare megalitico quadrangolare, delle misure di base di circa 37 x 30 m, con altezza di oltre 5 m e una rampa d’accesso lunga oltre 41 m. La frequentazione del sito ha inizio nel 4500 a.C. e si estende fino all’età del Bronzo Medio, intorno al 1800 a.C., quando il tempio era ormai ridotto in rovina. Paragonato alle ziqqurat mesopotamiche, resta un unicum per il bacino del Mediterraneo. Gli scavi di Contu hanno riguardato anche l’età romana, come quelli svolti presso le Terme Centrali di Turris Libisonis (l’odierna Porto Torres), dove ha rinvenuto un importante reperto: un’ara realizzata in marmo nel 35 d.C., con dedica del sacerdote Caius Cuspius Felix alla
dea egizia Bubastis, identificata con la dea gatto Bastet. A lui si deve inoltre l’allestimento attuale del Museo Nazionale «G.A. Sanna» di Sassari, concepito negli anni Settanta con l’utilizzo di un linguaggio semplice e comprensibile e in una struttura luminosa e accogliente. Le numerose altre scoperte di Contu e il suo amore per la didattica sono racchiusi nella sterminata bibliografia, che comprende circa trecento pubblicazioni, tra cui testi di fondamentale importanza, come La Sardegna preistorica e nuragica, edito nel 1997. Qui sotto, sulle due pagine: Esterzili (Cagliari). Il Tempio di Domu de Orgía, innalzato intorno al 1300 a.C.
A sinistra: Sassari. L’altare preistorico di Monte d’Accoddi. In primo piano, il masso con la superficie segnata da coppelle (omphalòs), la cui presenza è ritenuta una delle prove del carattere sacro del complesso. Nella pagina accanto: Ercole Contu presso il portello d’accesso alla cella C della Tomba dei Vasi Tetrapodi.
Tra un sorso e un verso, abbiamo parlato del progetto di promozione incentrato sulla Tomba dei Vasi Tetrapodi nella necropoli di Santu Pedru ad Alghero, in provincia di Sassari, e sul fenomeno degli ipogei della Sardegna preistorica, chiamati comunemente «domus de janas».
FATE CHE FILANO L’ORO Tutti hanno ben presente l’immagine del nuraghe, grazie alle migliaia di torri che ancora si stagliano nel paesaggio sardo e lo caratterizzano insieme al sole, al mare e al vento. Ma meno conosciuta è l’esistenza di migliaia di grotticelle scavate a scopo funerario nella roccia, forse proprio perché nascoste nel grembo della terra e mimetizzate nel paesaggio. Vengono chiamate «domus de janas», perché gli antichi credevano che fossero case abitate da minuscole creatuA sinistra: l’ara con dedica del sacerdote Caius Cuspius Felix alla dea egizia Bubastis, dalle Terme Centrali di Turris Libisonis. Porto Torres (SS), Antiquarium Turritano. a r c h e o 39
SCAVI • SARDEGNA
re fatate, le janas appunto, intente a intessere fili d’oro alla luce della luna, vegliare sui sonni dei bambini, castigare gli avidi e i bugiardi. Nel già citato recente studio di Giuseppa Tanda, risultano censiti ben 3500 di questi ipogei, realizzati a partire dalle fasi conclusive del Neolitico sardo, intorF no al 4000 a.C. e spesso utilizzati nel corso delle epoche successive e fino all’età contemporanea. Tra questi, circa 220 sono decorati con motivi scolpiti, incisi e dipinti, in particolare simboli come teste di
A sinistra: Tomba dei Vasi Tetrapodi. Veduta assonometrica che mostra lo spaccato dell’ipogeo, pubblicata da Ercole Contu nel 1964. È riportata la denominazione assegnata ai diversi vani che compongono la struttura.
H I G
C E
B D A
A sinistra: L’interno di molte domus de janas riproduce nella pietra, con numerosi dettagli, l’aspetto delle dimore dei vivi, come nel caso della cella B della Tomba dei Vasi Tetrapodi. A sinistra: planimetria dell’Anticella (o cella B), con il dettaglio dei reperti, cosí come vennero rinvenuti. A destra: la cella principale (o cella C). Nella parete di fondo si apre il portello d’accesso alla cella E, sopraelevato e raggiungibile grazie a un gradino di forma tronco-piramidale. 40 a r c h e o
bovino, corna, spirali. Vi sono inoltre elementi che, nella dimora dei morti, rappresentano dettagli ispirati alla casa dei vivi, come il soffitto a doppio spiovente con travature in rilievo, i pilastri, il focolare o la «falsa porta», considerata la materializzazione del passaggio per l’aldilà. Un vero universo sotterraneo, insomma, espressione della religiosità delle popolazioni prenuragiche che, con il solo ausilio di picconi di pietra, scavavano e modellavano la dura roccia per restituire i defunti al culto della Dea Madre, divinità rappresentata in decine di idoletti.
LA SCOPERTA In questo mondo nella pietra, la Tomba dei Vasi Tetrapodi non è solo uno dei casi piú interessanti e imponenti: la storia della sua scoperta e gli importanti reperti che essa ha restituito ne fanno un caso eccezionale. Sita nella necropoli di Santu Pedru, che consta di dieci tombe, fu messa in luce nel corso di lavori per la costruzione di un acquedotto. Ercole Contu, unico archeologo della Soprintendenza alle Antichità
per le province di Sassari e Nuoro, retta da Guglielmo Maetzke, intervenne tra il 1959 e il 1960 con uno scavo che interessò la Tomba I, poi ribattezzata «dei Vasi Tetrapodi». I risultati dello scavo furono superiori a ogni aspettativa, perché non solo si poté rilevare uno degli ipogei preistorici sardi piú belli e complessi, ma, poiché la tomba era rimasta sigillata, si rinvennero ben 447 oggetti in coerente successione strati-
grafica, databili dal Neolitico all’inizio dell’età del Bronzo, chiarendo il periodo di realizzazione e utilizzo delle domus de janas, allora ancora incerto. Tra i materiali, numerose sono le forme tipiche della cultura del Vaso Campaniforme – risalente alla seconda metà del III millennio a.C. – e, in particolare, i grandi vasi con quattro piedi che danno il nome alla tomba. A pochi anni dallo scavo, nel 1964, In alto: la cella principale (o cella C). Le linee essenziali e i giochi di luce contribuiscono a creare al suo interno un’atmosfera immota e rarefatta. A sinistra: sezione stratigrafica del deposito rinvenuto nell’Anticella (o cella B).
a r c h e o 41
SCAVI • XXXX XXXXXX
i risultati delle ricerche furono pubblicati nella collana dei Monumenti Antichi, pubblicata dalla Accademia Nazionale dei Lincei. Il testo, all’epoca presentato da Ranuccio Bianchi Bandinelli, costituisce un punto di riferimento imprescindibile anche per la metodologia d’indagine. Oltre alla descrizione dello scavo – dettagliata e corredata di numerose fotografie degli oggetti ancora in situ –, al catalogo dei reperti suddivisi per ambiente di rinvenimento, il volume è corredato di numerosi elaborati grafici, all’avanguardia per l’epoca: sono infatti presenti le planimetrie generali, sia degli ambienti sia della disposizione dei crolli, le sezioni (generale e di dettaglio per ciascuna cella); un’assonometria che presenta lo spaccato dell’ipogeo con tutti i suoi ambienti, i dettagli dei portelli, il rilievo della cella B, recante la posizione di rinvenimento dei materiali in pianta e in sezione, con l’individuazione di sette diversi strati pertinenti ad altrettante fasi cronologiche. Infine vi sono i disegni e le fotografie dei materiali rinvenuti. La ricca documentazione edita è inoltre passibile di integrazioni gra42 a r c h e o
Vita quotidiana nel Neolitico Il disegno propone la ricostruzione di una capanna di epoca neolitica. Le caratteristiche strutturali della dimora sono state definite sulla base dei particolari osservabili nella domus de janas di Mesu ‘e Montes a Ossi (Sassari), a cui si riferisce la foto in alto.
In basso: la cella principale (o cella C), sul cui piano pavimentale è la traccia di focolare recentemente individuata da Ercole Contu.
zie a quanto presente nell’archivio della Soprintendenza, soprattutto i diari di scavo originali e il carteggio relativo alle operazioni effettuate, che restituiscono in maniera vivida tutte le fasi della scoperta. Nel 2016, in accordo con la Soprintendenza, l’associazione Archeofoto Sardegna – che si occupa di diffondere la conoscenza dei siti archeologici sardi attraverso immagini fotografiche di alta qualità –, ha effettuato una campagna di documentazione a Santu Pedru, concentrandosi in particolare sulla Tomba dei Vasi
discreta agilità.Avevamo perciò pensato di predisporre una visita virtuale, collegando una telecamera a un monitor, ma appena arrivato alla tomba e intuite le nostre intenzioni, Contu ha esclamato: «Lei mi sta dicendo che io non entrerò nella mia tomba?»... Sarebbe stato inutile cercare di trattenerlo e lo abbiamo cosí aiutato a varcare la soglia dell’ipogeo.
IL FOCOLARE Alla parte piú interna si accede per uno stretto portello, situato a circa 1,3 m di altezza e preceduto da gradini ormai consunti. Penetrati nella cella principale, si possono raggiungere altre sette celle. Tra le numerose decorazioni scolpite nella roccia, spiccano le doppie corna
consapevolezza che un archeologo vero non smette mai di fare ricerca, anche a costo di dover integrare o correggere le sue posizioni. Dopo questa esperienza l’associazione Archeofoto Sardegna, la Soprintendenza, la Fondazione Meta che si occupa del patrimonio culturale di Alghero, la cooperativa SILT, gestore dei siti archeologici di Alghero, in collaborazione con gli esperti delle università isolane e professionisti del settore, hanno realizzato una mostra, visitabile fino al prossimo mese di maggio nello spazio di Lo Quarter e inserita nelle manifestazioni culturali promosse nell’ambito della candidatura di Alghero, piccola Barcellona di Sardegna, come Capitale Italiana della Cultura 2018. La tomba dei Vasi Tetrapodi e la Necropoli di Santu Pedru sono raggiungibili da Alghero sulla SS 127, in direzione di Uri, e sono visitabili su prenotazione, contattando la cooperativa SILT (www. coopsilt.it; tel. 329 4385947). PER SAPERNE DI PIÚ
Tetrapodi e consegnando le immagini ad alta risoluzione al professor Contu. Questi le ha attentamente analizzate, finché non ha notato qualcosa che gli era sfuggito in quel lontano 1960 e ci ha quindi manifestato il desiderio di controllare la situazione sul posto. All’ipogeo si accede tramite un dromos, cioè un lungo corridoio, che immette in una cella semicircolare; questa reca sulla volta le tracce della riproduzione del tetto a raggiera. Fino a questo punto si arriva agevolmente, ma entrare nella parte piú interna della tomba richiede una
che decorano l’ingresso alla cella L. Una volta dentro, lo studioso ha esultato: sul piano di calpestio, nel punto di incrocio degli assi che si dipartono dai due pilastri della camera principale, ci mostra il focolare che ha individuato grazie alla foto. La traccia è proprio lí, un tempo nascosta dal fango e ora visibile a un occhio attento. A 56 anni dallo scavo e a 93 di età, Ercole Contu ci ha dato la possibilità di visitare la tomba con il suo emozionante racconto, che abbiamo ripreso e registrato perché possa essere patrimonio di tutti, con la
Ercole Contu, La Tomba dei Vasi Tetrapodi in località Santu Pedru, (Alghero-Sassari), Monumenti Antichi dei Lincei, XLVII, Accedemia dei Lincei, Roma 1964 Giuseppa Tanda, Le domus de janas decorate con motivi scolpiti, Condaghes, Cagliari 2015
DOVE E QUANDO «Ercole Contu e la scoperta della Tomba dei Vasi Tetrapodi» Alghero, largo San Francesco, Lo Quarter, sala mostre (II piano) fino al 31 maggio Orario tutti i giorni, 10,00-13,00 e 17,00-20,00 Info tel. 079979054; e-mail: info@fondazionemeta.it; www.algheroturismo.it
a r c h e o 43
PREISTORIA • KURDISTAN IRACHENO
P
er un archeologo preistorico, i monti Zagros rappresentano un luogo mitico da quando, negli anni Cinquanta del secolo scorso, Robert Braidwood, professore all’Università di Chicago, vi condusse la Iraq-Jarmo Expedition, la prima, pionieristica, 44 a r c h e o
ricerca multidisciplinare volta a rintracciare le piú antiche testimonianze di quella che il grande studioso inglese di origine australiana Vere Gordon Childe aveva definito «Rivoluzione Neolitica». Le origini dell’agricoltura dovevano aver avuto luogo lungo
«the hilly flanks of the Zagros» (i pendii collinari degli Zagros), poiché qui vivono allo stato naturale i progenitori selvatici dei cereali e dei legumi che sono stati domesticati dall’uomo tra la fine del Pleistocene e l’inizio dell’Olocene, e che tuttora costituiscono le maggiori
ORIZZONTI DI
STORIA GRAZIE AL «PROGETTO ARCHEOLOGICO REGIONALE TERRA DI NINIVE» (PARTeN), LA PREISTORIA DEL KURDISTAN IRACHENO SI RIVELA IN TUTTA LA SUA STRAORDINARIA RICCHEZZA. E VENGONO COSÍ ALLA LUCE LE TRACCE DEI PRIMI UOMINI CHE MAI ABBIANO ABITATO QUELLE TERRE, SFRUTTANDONE L’ECCEZIONALE POTENZIALE DI RISORSE di Cecilia Conati Barbaro
Kurdistan iracheno. I ricercatori del «Progetto Archeologico Regionale Terra di Ninive» (PARTeN) durante un sopralluogo nella grotta Kaf Serdakni.
risorse alimentari di gran parte del globo terrestre. Dal 2015 archeologi specialisti in preistoria dell’Università «Sapienza» di Roma collaborano con il «Progetto Archeologico Regionale Terra di Ninive» (PARTeN) dell’Università di Udine, con l’obiettivo di scopri-
re le piú antiche testimonianze del popolamento umano nel Kurdistan iracheno. L’area di studio copre quasi 3000 kmq ed è caratterizzata dalla piana di Dohuk a nord, dagli Zagros a nord-est, e dalla vasta pianura delimitata dal lago di Mosul a ovest e dal Jebel Maqlub a sud.
La prima fase della ricerca prevede una ricognizione estensiva di questo ampio territorio, che ricade sotto la concessione di studio rilasciata dalle autorità irachene e curde. Si tratta quindi di un’esplorazione geoarcheologica, nella quale gli archeologi lavorano fianco a a r c h e o 45
PREISTORIA • KURDISTAN IRACHENO
fianco con Andrea Zerboni e Mauro Cremaschi, geologi dell’Università di Milano, per delineare le principali caratteristiche geomorfologiche del territorio, le modificazioni che esso ha subito nel corso dei millenni, associando le tracce
dell’occupazione umana alla ricostruzione dell’antico paesaggio. A differenza delle regioni limitrofe – quali il Levante, l’Anatolia e l’Iran –, dove una ricerca archeologica piú capillare e continuativa ha definito un buon quadro rico-
TURCHIA Dohuk
SIRIA
Kurdistan
Tell Gomel Mosul
Erbil
Kirkuk
I R A Q ri Tig
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IRAN
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e
Baghdad Regione autonoma del Kurdistan
In alto: cartina dell’Iraq con, in evidenza, il territorio della regione autonoma del Kurdistan. In basso: le pendici dei monti Zagros. Si possono vedere le numerose grotte che si aprono nei fianchi dei rilievi.
46 a r c h e o
struttivo delle fasi preistoriche a partire da circa 1 milione di anni fa, l’Iraq settentrionale – nel quale si trova la Regione autonoma del Kurdistan iracheno – è ancora pressoché inesplorato. L’instabilità politica della zona, infatti, ha profondamente influito anche sul progredire della ricerca in campo archeologico, ma negli ultimi anni, soprattutto grazie all’interesse delle autorità locali, si è registrato un rilancio delle esplorazioni sul terreno, con l’avvio di nuovi progetti di ricognizione e scavo da parte di studiosi locali e stranieri: nel 2015 ben 45 missioni erano attive nel Kurdistan iracheno.
UNA REGIONE CHIAVE Questo territorio rappresenta un nodo cruciale per la conoscenza, non solo delle società di epoca storica – tra tutti, gli Assiri –, ma soprattutto della piú remota preistoria. Sin dalla prima campagna sul terreno è apparso chiaro l’eccezionale potenziale informativo di que-
Dohuk
762 981 980 824 977
215 775 963
758 978
784 785
786
962
754
533
756
783
744 745
779
750
971
780
246
765
781
774
Ba’dreh
Tigri
514
747
727
Al-Qosh
513 752
260
755
966
778 776
761
976
772 975
Sheikhan
Lago di Eski Mosul 856
Tell Uskuf 777 951
Sito Grotta Riparo
973
Miniera di selce
Bardarash
In alto: l’area esplorata dall’équipe PARTeN, con la localizzazione dei siti preistorici finora individuati.
sta regione per la comprensione di alcuni grandi quesiti, dalla dispersione delle diverse specie di Ominini che in varie ondate sono uscite dall’Africa – universalmente riconosciuta come la culla dell’umanità – all’epocale passaggio dall’economia di caccia e raccolta a quella basata su agricoltura e allevamento, alla nascita dei primi villaggi, alla formazione della città. La sensazione che si prova camminando lungo le valli intermontane del Kurdistan iracheno, risalendo la china dei pendii per raggiungere le innumerevoli grotte e ripari che li costellano, e trovando lungo questi percorsi non sempre agevoli materiali che vanno dal Paleolitico Inferiore al Calcolitico, è quella che può avere un bambino in un negozio di giocattoli. Regione aspra e di frontiera, caratterizzata da alte montagne, strette
valli profondamente incise da corsi d’acqua che si gettano nel Tigri – il grande fiume che con il suo carico di sedimenti ha contribuito a formare nei millenni la grande pianura mesopotamica – questo territorio doveva offrire risorse preziose ai gruppi di cacciatori-raccoglitori cosí come ai primi agricoltori: acque perenni, foreste montane, aree aperte, una ricca fauna, e soprattutto abbondanti riserve di selce, una roccia facilmente lavorabile per realizzare strumenti per ogni necessità.
AL RIPARO DAL GELO La nostra ipotesi di lavoro è che questa regione possa aver costituito una sorta di area «rifugio» nelle fasi di crisi climatica che si sono piú volte succedute nel passato, durante i periodi di raffreddamento, che in Europa sono culminati con il massimo glaciale intorno a
20 000 anni fa e che, a queste latitudini, hanno comportato non tanto la presenza di una coltre di ghiacci, quanto un clima piú freddo e arido. Rifugio per uomini, animali e piante nei momenti di crisi, ma ancor di piú luogo di attrazione nei periodi piú caldi. L’impianto fortemente multidisciplinare della ricerca è indispensabile per poter raccogliere informazioni paleoclimatiche di diversa natura: speleotemi (stalattiti e stalagmiti), pollini e suoli sono solo alcuni dei cosiddetti proxies che permettono di ricostruire andamento delle temperature, regime delle precipitazioni, natura ed estensione del manto vegetale. A questo proposito, una scoperta del tutto eccezionale è avvenuta nel corso dell’ultima missione, nell’ottobre 2016: una potente stratificazione di depositi di origine lacustre è stata identificata nei presa r c h e o 47
PREISTORIA • KURDISTAN IRACHENO
si della riva occidentale dell’attuale Lago di Eski Mosul, l’invaso artificiale originatosi con lo sbarramento del corso del Tigri con la diga di Mosul, voluta e costruita durante il regime di Saddam Hussein negli anni Ottanta del secolo scorso.
UNA MINIERA DI DATI La presenza di un antico lago nella regione è stata una vera sorpresa: i sedimenti esposti, già campionati per analisi preliminari, saranno studiati sia dal punto di vista geologico che paleobotanico. I sedimenti che si accumulano sul fondo dei laghi, infatti, rappresentano il contesto ideale per lo studio del polline, che
qui si deposita in sequenze regolari e indisturbate. È facile quindi intuire la potenziale ricchezza di informazioni offerta da questo ritrovamento. Gli esiti delle prime due fasi di ricognizione sono stati piú che positivi, con oltre 30 siti attribuibili cronologicamente a un ampio arco di tempo – dal Paleolitico Inferiore al Neolitico preceramico –, 18 grotte e ripari con spessi depositi nei quali accertare la presenza di fasi di occupazione preistoIn alto, a sinistra: bifacciale rinvenuto su un terrazzo del fiume Khinis. A sinistra: una fase del campionamento dei depositi di origine lacustre nei pressi della sponda occidentale del lago di Eski Mosul. In basso: la grotta di Shanidar, frequentata dall’uomo fra i 65 000 e gli 11 000 anni da oggi. Nella pagina accanto, in basso: diorama che ricostruisce una scena di vita dei Neandertaliani. Krapina (Croazia), Neandertal Museum.
LA GROTTA DI SHANIDAR Oltre ai primi villaggi di agricoltori, negli Zagros vi sono altri siti-chiave per la piú remota storia dell’uomo: per esempio, la grotta di Shanidar – che si apre sul corso del Grande Zab, uno dei maggiori affluenti del Tigri – contiene un deposito stratificato di 14 m di spessore. Gli scavi condotti tra il 1952 e il 1960 da Ralph Solecki (Columbia University), hanno distinto quattro aspetti culturali principali succedutisi nel tempo: una prima fase di occupazione neandertaliana, con resti fossili di
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Sulle due pagine: veduta panoramica del lago di Eski Mosul.
rica e, infine, due intere valli costellate di impianti di estrazione della selce, alcune strutturate come vere e proprie miniere a camere e pilastri: la presenza di diverse aree di prima lavorazione dei blocchi ancora in posto e il rinvenimento di manufatti tecnologicamente diagnostici, permette di datare questa attività fra il Calcolitico e la Prima età del Bronzo. Il ritrovamento di alcuni strumenti litici dai caratteri morfo-tecnologici molto arcaici – bifacciali e core tools,
cioè ciottoli con due o piú distacchi usati come nuclei o veri e propri strumenti – lungo i terrazzi che costeggiano l’alto corso del Khinis suggeriscono la presenza di gruppi umani nella regione. Per il momento non è possibile datare con precisione i materiali, che potrebbero risalire a 500 000 anni fa circa: si tratta di reperti recuperati in superficie e non in sequenza stratigrafica, che potranno però essere meglio inquadrati studiando e datando i processi di formazione del sottosuo-
lo geologico. In questa parte della regione, infatti, i terrazzi incisi dal Khinis sono costituiti da una imponente successione di conglomerati, e i materiali piú antichi finora rinvenuti si trovano proprio al tetto di questa unità, che, essendo ricca di rocce scheggiabili di diversa natura e forma, costituiva anche un’ottima fonte di approvvigionamento per realizzare lo strumentario. Questa scoperta è molto importante, non solo perché si tratta della prima attestazione nella zona del Paleolitico Inferiore, ma anche perché si va a sommare ad altri recentissimi rinvenimenti analoghi effettuati negli ultimi anni in aree limitrofe da altre équipe di studiosi. Lentamente, dunque, si vanno colmando quei vuoti di conoscenza che sarebbero altrimenti inspiegabili, se non con una mancanza di ricerche sistematiche.
RELAZIONI COMPLESSE Piú documentato è il Paleolitico Medio, che in queste regioni del Vicino Oriente vede l’alternarsi di popolazioni di Neandertal e Sapiens. I Neandertaliani popolavano
11 individui datati tra i 65 000 e i 45 000 anni da oggi; una fase iniziale del Paleolitico Superiore, detta «Baradostian», che attesta la presenza di Homo sapiens tra i 33 000 e i 27 000 anni fa; una fase tardo-pleistocenica risalente a 12 000 anni fa circa, con un’industria litica epipaleolitica detta «Zarzian», e, infine, alcune sepolture risalenti a 11 000 anni circa dal presente. Dal 2014 la grotta è oggetto di nuove indagini da parte di un’équipe dell’Università di Cambridge diretta da Graeme Barker.
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UN PROGETTO A PIÚ VOCI Il «Progetto Archeologico Regionale Terra di Ninive» è un’ampia ricerca interdisciplinare condotta dall’Università degli Studi di Udine. Obiettivi delle indagini sono lo studio del paesaggio archeologico della regione di Dohuk (Kurdistan Iracheno) e la documentazione, la tutela e la valorizzazione dello straordinario patrimonio archeologico di questa regione, posta nell’entroterra dell’antica capitale dell’impero assiro, Ninive (odierna Mosul). Attraverso la ricognizione archeologica di superficie di una regione di circa 3000 kmq di estensione e lo scavo del sito di Tell Gomel (il sito dell’antica Gaugamela, dove Alessandro Magno sconfisse Dario III nel 331 a.C. e completò la conquista dell’impero persiano; vedi «Archeo» n. 360, febbraio 2015), il progetto mira a ricostruire la formazione ed evoluzione del paesaggio culturale e A sinistra: gli archeologi osservano la pianura circostante da un riparo sotto roccia. Molte di queste cavità sono state utilizzate in epoca moderna, come ricoveri per gli animali. Nella pagina accanto: una panoramica della catena montuosa degli Zagros.
diffusamente il Levante, occupando siti all’aperto e grotte – come Kebara e Amud in Israele, Dederiyeh in Siria –, grotte nelle quali sono state rinvenute diverse sepolture di adulti e bambini datate tra i 60 000 e i 50 000 anni fa. Nella famosa Grotta di Shanidar, nel Kurdistan iracheno, distante un centinaio di chilometri verso sud est rispetto alla nostra area di studio, alla metà del secolo scorso furono rinvenuti i resti fossili di otto individui adulti e due bambini neandertaliani, le cui date coprono un ampio arco di tempo, compreso tra 50 a r c h e o
naturale di una regione cruciale dell’antica Mesopotamia fra la preistoria e l’età islamica. Questa regione, mai esplorata da alcuna missione archeologica moderna, fu uno dei teatri principali della «rivoluzione agricola», che diede origine alla moderna economia produttiva e fu il centro politico e geografico dell’Assiria, il primo impero globale della storia. Il suo studio ha ricadute non solo in ambito strettamente vicino orientale, ma è anche di assoluto rilievo per l’indagine dei grandi processi culturali che hanno caratterizzato il progresso delle società umane a partire dalle piccole comunità di cacciatori e raccoglitori preistorici, fino alla formazione dei grandi centri urbani, degli Stati territoriali e degli imperi nelle età del Bronzo e del Ferro. Le campagne PARTeN condotte dal 2012 al 2016 hanno portato all’identificazione e alla verifica sul campo di poco meno di 1000 siti archeologici, quasi 600 dei quali hanno restituito in superficie materiale ceramico e/o litico e possono quindi essere classificati come antichi insediamenti. Tutte le aree di raccolta di materiale
i 65 000 e i 45 000 anni da oggi nufatti in pietra scheggiata (punte, (vedi box alle pp. 48-49). raschiatoi, nuclei e schegge centripete), ci induce a considerare soprattutto le aree pedemontane tra le NUOVI CONTESTI Negli Zagros iraniani, negli ultimi piú promettenti. anni, nuovi dati sono emersi dal ri- Nel 2015 abbiamo rinvenuto un esame di alcuni siti all’aperto e in deposito contenente materiale litigrotta scoperti negli anni Sessanta co e fauna (sito 744), consolidatosi del Novecento e dal rinvenimento in breccia per fenomeni chimici, di nuovi contesti: ciò ha permesso residuo di un antico sito posto sotto di riconoscere un’intensa frequen- un riparo roccioso che, crollando, lo tazione da parte di gruppi umani ha sigillato e protetto. Le analisi di caratterizzati dall’ampia variabilità alcuni frammenti di breccia hanno dell’industria litica e nelle strategie confermato la natura antropica del di sussistenza. Sul nostro versante deposito, che nelle prossime campairacheno la presenza diffusa di ma- gne sarà campionato per indagini
archeologico e le osservazioni fatte sul campo sono state registrate attraverso un ricevitore GPS e integrate in un Sistema Informativo Geografico (GIS). Il secondo obiettivo di PARTeN consiste nella documentazione, conservazione e gestione degli straordinari monumenti archeologici presenti nella regione di Dohuk. Attraverso la stretta cooperazione con le autorità locali (Direzione Generale delle Antichità del Kurdistan, Direzione delle Antichità di Dohuk, Governatorato di Dohuk), l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri, l’UNESCO e il World Monuments Fund di New York, il progetto dell’Università di Udine, in collaborazione con l’Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del CNR, contribuisce in maniera determinante alla tutela e promozione dello straordinario patrimonio culturale della regione. L’imponente sistema irriguo costruito fra l’VIII e il VII secolo a.C. dal re assiro Sennacherib, con i suoi monumentali rilievi rupestri, canali e i primi acquedotti in pietra della storia è stato documentato in
piú approfondite. Nelle immediate vicinanze di questo riparo vi sono anche numerose grotte, che potenzialmente rappresentano i contesti ideali di conservazione di lunghe sequenze stratificate contenenti materiali preistorici. L’utilizzo fino ai giorni nostri – come ricovero per greggi e pastori – di queste cavità, alcune delle quali particolarmente ampie e articolate in piú ambienti, ha però prodotto un consistente accumulo di paglia e sterco, che, al momento, impedisce la visibilità di eventuali materiali piú antichi. La strategia di intervento prevede,
maniera digitale e tridimensionale ed è in corso di valorizzazione mediante la creazione di un parco archeologico e ambientale. Il Progetto Archeologico Regionale Terra di Ninive (PARTeN) è estremamente grato alla Direzione Generale delle Antichità del governo regionale del Kurdistan (diretta da Abubakir Othman Zeineddin), alla Direzione delle Antichità di Dohuk (diretta da Hassan Qasim Ahmad) e al Consiglio di Stato delle Antichità e del Patrimonio di Baghdad per la concessione dei i permessi di lavoro necessari e per il loro instancabile appoggio e incoraggiamento. Un sostegno determinante al nostro lavoro è sempre venuto da S.E.
Marco Carnelos, Ambasciatore d’Italia a Baghdad, e dalla dottoressa Alessandra Di Pippo, Console d’Italia a Erbil. I finanziamenti per le campagne 2015 e 2016, nel corso delle quali è stato avviato lo studio del popolamento preistorico del Kurdistan iracheno (di cui si dà conto nel presente articolo), sono stati forniti dal Ministero degli Affari Esteri e dalla Cooperazione internazionale, dalla Regione Friuli-Venezia Giulia, dalle Università di Udine, Roma «Sapienza» e Milano, dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone e da uno sponsor privato (Giorgiutti & Associati).
quindi, la sistematica mappatura e l’indagine delle grotte visibili lungo le pendici montane e, nel futuro, la realizzazione di saggi di scavo in alcune di esse. Sarà cosí possibile identificare anche la presenza di fasi di occupazione riferibili a gruppi di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico Superiore, finora documentati solo da pochi indizi.
cia a Shanidar, intorno ai 33 000 anni fa, nella grotta di Yaftheh, in Iran, 40 000 anni fa circa, e in molte altre sequenze in grotte e ripari lungo entrambi i versanti, iracheno e iraniano, degli Zagros. La comparsa e la diffusione di Homo sapiens sono fra i temi piú dibattuti degli ultimi anni, al quale confidiamo di contribuire con nuovi importanti dati. La peculiare capacità della nostra specie ad UNA PRESENZA adattarsi a numerosi e differenti IMPORTANTE Homo sapiens, il protagonista di contesti ecologici ha dato luogo questa fase, frequentava sicuramen- anche a uno strumentario litico te questa regione: ne troviamo trac- con caratteristiche diverse: lungo a r c h e o 51
PREISTORIA • KURDISTAN IRACHENO
ALLA RICERCA DELLA PIETRA MIGLIORE Un importante approfondimento nell’ambito del progetto sulla preistoria della Terra di Ninive è costituito dall’indagine sulle materie prime litiche della regione, in particolare sulla selce. La selce è una roccia costituita da silice, possiede colore, lucentezza e tessitura variabili e si origina principalmente in ambienti sedimentari marini. Le sue proprietà meccaniche e fisiche – frattura concoide (a forma di conchiglia), durezza e possibilità di controllare la trasmissione della forza applicata in un punto specifico – insieme all’ampia reperibilità in natura, sia in giacitura primaria che In alto, sulle due pagine: il corso del Khinis e i terrazzi dove sono stati rinvenuti i manufatti del Paleolitico Inferiore. Qui sopra: un nodulo di selce. A sinistra: due core tools, ciottoli con due o piú distacchi, usati come nuclei o come veri e propri strumenti.
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alterata e rielaborata da processi post-genetici, ne hanno determinato l’impiego durante il 99% circa della lunga storia dell’umanità, prima e durante l’avvento del metallo. Lo studio della provenienza della selce si inscrive in una ricerca globale sulle modalità di sfruttamento delle risorse e sulla territorialità dei gruppi umani. Infatti, la caratterizzazione chimico-fisica della selce, cosí come di altre materie prime, in combinazione con lo studio tecnologico dei materiali archeologici, permette di identificare le distanze percorse per l’approvvigionamento, le modalità di trasporto dei blocchi grezzi o degli oggetti a diversi stadi di fabbricazione e restituisce un quadro a una risoluzione significativa delle società del passato, della loro
economia, delle risorse sfruttate e della loro mobilità. Le fonti attualmente visibili di risorse litiche verranno identificate con ricognizioni sistematiche e saranno riportate su cartografia topografica e geologica. Si procederà alla documentazione del contesto geologico, dello sviluppo e della stratigrafia di questi depositi e verranno prelevati campioni che andranno a costituire una «litoteca», cioè una collezione di riferimento delle materie prime litiche della regione. L’analisi tecnologica dei manufatti archeologici rinvenuti nei vari siti permetterà di identificare il comportamento umano sulla base di alcuni fattori: modalità di introduzione delle materie prime nel sito, preferenze per determinate risorse, scelte tecniche e obiettivi della produzione. L’ultima fase della ricerca, condotta in collaborazione con il Dipartimento di Scienze della Terra e Geoambientali dell’Università di Bari, prevede la caratterizzazione geochimica dei campioni geologici e dei manufatti archeologici, con l’obiettivo di collegare fonti e manufatti e ipotizzare antiche strategie di sfruttamento. Daniele Moscone In alto, a destra: ancora un’immagine del corso del fiume Khinis, che serpeggia tra la bassa vegetazione e brulle creste rocciose.
gli Zagros l’inizio del Paleolitico superiore è segnato dalla comparsa di aspetti tecnologici legati a un comportamento moderno, che danno il nome alla cultura «Baradostian», dalla località in cui per prima è stata riconosciuta.
UN ESPERIMENTO BEN RIUSCITO In un periodo che possiamo collocare tra i 20 000 e gli 11 000 anni da oggi, che va dall’Ultimo Massimo Glaciale alla fine del Pleistocene, le comunità di cacciatori raccoglitori epipaleolitici mostrano nuove abitudini nelle strategie insediative e nelle attività di sussistenza: sono attestati con piú frequenza siti in aree pedecollinari, in zone aperte e, con tutta probabilità, il fenomeno va posto in relazione allo sfruttamento di un ampio ventaglio di risorse vegetali e animali.
Strettamente collegata a queste attività è la produzione di strumenti di piccole dimensioni, chiamati microliti, che, montati su aste o su manici, vengono usati come armi da lancio o coltelli e falcetti per raccogliere le piante. E tra queste piante vi sono proprio i cereali selvatici, antenati del nostro grano, del farro e dell’orzo, che gli ultimi cacciatori iniziano a utilizzare, dando avvio al processo che porterà alla loro piena domesticazione. Proprio nell’area della concessione di studio si trova Nemrik, un importante sito scavato negli anni Ottanta dall’équipe guidata da Stefan Karol Kozlowski, durante gli interventi di salvataggio condotti prima della costruzione della diga di Mosul. Qui sono state messe in luce varie fasi d’insediamento, che vanno dal 10 000 all’8300 a.C. circa, con strutture in muratura, sepolture, resti a r c h e o 53
PREISTORIA • KURDISTAN IRACHENO
faunistici e botanici, e una ricchissima cultura materiale, con manufatti in pietra, oggetti simbolici, figurine zoomorfe. E proprio nelle immediate vicinanze di questo sito del Neolitico preceramico abbiamo rinvenuto i resti dell’antico lago. Se oggi è il petrolio una delle maggiori ricchezze della regione, intorno a 5000 anni fa, tra il IV e il III millennio a.C., era la selce a costituire probabilmente una delle piú importanti risorse naturali. La scoperta di vere e proprie miniere – articolate in camere e cunicoli –, di piú piccole cave scavate nelle imponenti bancate calcaree e di
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In alto: alcuni esemplari di lame e frammenti di lame in selce rinvenuti durante le ricognizioni di superficie. In basso: gli ingressi delle miniere di selce sul fianco del rilievo montuoso.
Materiale relativo alla preparazione dei blocchi di selce per la realizzazione di lame.
aree all’aperto di lavorazione dei blocchi estratti rappresenta uno dei risultati piú rilevanti dei primi due anni di lavoro sul campo. Come abbiamo visto per i periodi piú antichi, la selce è la materia prima piú comune e dunque anche quella di piú frequente utilizzo. Essendo molto abbondante in questa regione, la selce poteva essere facilmente raccolta lungo il greto dei fiumi, in giacitura secondaria, per ottenerne, dopo un’adeguata preparazione, nuclei dai quali estrarre schegge, lame e lamelle, che venivano usate tal quali o modificate tramite ritocco. La funzione degli strumenti influenzava, come abbiamo visto, anche la forma e la dimensione degli oggetti prodotti.
NUOVI STRUMENTI AD ALTA TECNOLOGIA Tra il IV e il III millennio a.C., nell’area levantina, in Anatolia e in Mesopotamia compaiono nuovi strumenti, le cosiddette «lame cananee». Il loro utilizzo è stato messo in relazione all’insorgenza di nuove esigenze nella produzione agricola, forse legate a un aumento demografico e a un nuovo, piú complesso, assetto dell’organizzazione socio-economica. Si tratta di lame di grandi dimensioni, fino a 15 cm di lunghezza, molto
regolari, realizzate con selce di ottima qualità, dalle quali si ottenevano, fratturandole in piú parti, inserti per falcetti e per tribulum (una sorta di slitta trainata da animali che serviva per trebbiare il grano). Non era quindi una produzione alla portata di tutti: era necessario conoscere una specifica tecnologia, avere le adeguate attrezzature e, soprattutto, la giusta materia prima. Nonostante le lame cananee siano strumenti molto frequenti, sono pochi i casi di rinvenimento di «officine» di produzione e ancora meno di siti estrattivi. Questo «accentramento di competenze» fa ritenere che esistessero figure specializzate nella realizzazione e nella diffusione di questi particolari oggetti. Allo stato attuale non siamo in grado di datare con precisione il nostro eccezionale ritrovamento,
ma i caratteri tecnologici dei manufatti finora rinvenuti rimandano proprio a questo cruciale ambito culturale e cronologico. La possibilità di studiare la catena di produzione fin dalla fase estrattiva nelle miniere del Kurdistan e di seguire il flusso dei manufatti dalle aree minerarie ai siti che costellano la piana permetterà di ricostruire l’organizzazione della fitta rete di scambi che metteva in connessione le comunità umane ormai giunte alle soglie dell’urbanizzazione. Desidero ringraziare Daniele Morandi Bonacossi, direttore del Progetto PARTeN, per avermi fornito l’opportunità di lavorare sulla preistoria della Terra di Ninive, Alberto Savioli per il costante sostegno e Andrea Zerboni e Mauro Cremaschi, che hanno eseguito l’indagine geoarcheologica preliminare della zona. a r c h e o 55
MOSTRE • ROMA
Roma, Foro Romano, chiesa di S. Maria Antiqua. La parete orientale della navata laterale sinistra, sulla quale corre un lungo dipinto raffigurante santi e Padri della Chiesa ai lati del Cristo. Le pitture risalgono all’epoca di papa Paolo I (757-767). In primo piano è un sarcofago con raffigurazioni cristiane, databile alla seconda metà del III sec. d.C. 56 a r c h e o
INCANTO ROMANO
A CORONAMENTO DI UN LUNGO E COMPLESSO INTERVENTO DI RESTAURO, LA CHIESA DI S. MARIA ANTIQUA, AI PIEDI DEL PALATINO, È STATA RIAPERTA AL PUBBLICO. UN RITORNO DAVVERO IMPORTANTE, POICHÉ FRA LE SUE MURA – EDIFICATE IN EPOCA IMPERIALE – SI CONSERVANO DIPINTI MURALI CHE RAPPRESENTANO UNA DELLE PIÚ SPETTACOLARI TESTIMONIANZE AL MONDO DELL’ARTE MEDIEVALE GRECO-BIZANTINA di Stefano Mammini a r c h e o 57
MOSTRE • ROMA
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iamo nel cuore del Foro Romano, ai piedi del Palatino, a pochi passi dalla Casa delle Vestali e dal Tempio del Divo Giulio, dove in questo mese di marzo può capitare di trovare gli anonimi omaggi floreali lasciati da chi ancora oggi piange il cesaricidio. In pochi metri quadrati si concentrano insomma alcuni dei luoghi che con piú forza evocano la romanità, i suoi simboli e i suoi protagonisti. Eppure, in questo stesso angolo, basta oltrepassare la soglia di quello che in origine era un settore della domus tiberiana, realizzato da Caligola e poi ampliato da Domiziano, per vedersi schiudere un angolo di Medioevo: è la chiesa di S. Maria Anti-
qua, riscoperta agli inizi del Novecento da Giacomo Boni e tornata ora visitabile dopo un ampio e complesso intervento di restauro. Le strutture nelle quali venne ricavata videro quindi la luce nell’ambito dei numerosi interventi che caratterizzarono la storia dei palazzi imperiali. Stando alle notizie riportate dalle fonti, Caligola accedeva a questa residenza attraverso il Tempio dei Castori, nel quale amava farsi adorare come un dio, sedendo fra le statue dei Dioscuri. E sappiamo anche che l’imperatore vi aveva fatto allestire una biblioteca, verosimilmente ospitata dall’atrio del complesso e dagli ambienti oggi occupati dalla chiesa. In ogni caso, la
A destra: particolare della scena dipinta nell’abisde dell’Oratorio dei Quaranta Martiri, ricavato da uno dei vani situati a sud del quadriportico realizzato dall’imperatore Domiziano. Metà del VI sec. Vittime del martirio furono alcuni soldati cristiani di stanza in Armenia.
A sinistra: particolare della Forma Urbis di Rodolfo Lanciani, il quale colloca correttamente S. Maria Antiqua, ma non può indicarne l’esatta articolazione, definita dagli scavi avviati da Giacomo Boni nel 1900, e riporta ancora come esistente la chiesa di S. Maria Liberatrice. Nella pagina accanto, in basso: veduta dall’alto di S. Maria Antiqua. 58 a r c h e o
configurazione originaria dell’edificio può ormai essere solo presunta, poiché esso venne distrutto dagli incendi del 64 e dell’80 d.C. e la successiva ricostruzione promossa da Domiziano ne modificò radicalmente l’assetto.
LA BIBLIOTECA E IL QUADRIPORTICO La nuova domus si articolava in quattro settori comunicanti: una grande Aula occidentale, uno degli ambienti piú vasti dell’architettura flavia e da alcuni identificato con il Tempio del Divo Augusto, anche se l’ipotesi è tuttora assai dibattuta; un ambiente piú piccolo, a est, che oggi funge da atrio della chiesa di S. Maria Antiqua e nel quale aveva forse sede la biblioteca ad Minervam, ricostruita da Domiziano; un quadriportico voltato; un insieme di tre a r c h e o 59
MOSTRE • ROMA
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Dal Foro al Palatino Planimetria dell’area di S. Maria Antiqua: 1. Oratorio dei Quaranta Martiri (ex Aula nord-orientale del complesso domizianeo); 2. Atrio (ex Aula orientale); 3. Chiesa di S. Maria Antiqua (ex atrio); 4. Aula occidentale (forse identificabile con il Tempio del Divo Augusto). Il tracciato in rosso indica il percorso di visita e il tratto puntinato corrisponde alla rampa domizianea (5), che saliva ai palazzi imperiali del Palatino.
In alto: S. Maria Antiqua dopo il restauro e, a destra, qui sopra, nell’attuale allestimento, con l’icona della Vergine Maria che si trovava in origine nella chiesa e fu trasferita in S. Maria Nova dopo l’abbandono che fece seguito al terremoto dell’847 d.C. Nella pagina accanto: l’icona della Vergine. Seconda metà del VI sec.
vani a sud del quadriportico. Sul lato orientale, il complesso domizianeo era chiuso da una rampa a tornanti, voluta per creare una comunicazione diretta con i soprastanti palazzi imperiali e tornata anch’essa visitabile e percorribile dopo i recenti restauri (anche se, rispetto al progetto originario, il percorso attuale si ferma poco prima di raggiungere il Palatino: una limitazione compensata dalla possibilità di godere di uno straordinario affaccio sui monumenti del Foro).
UNA SCELTA EMBLEMATICA Nel VI secolo d.C., in una Roma in cui i fasti dell’impero sono ormai un ricordo e l’autorità alla quale molti guardano come a un vero e proprio sovrano è quella della Cattedra di Pietro, il quadriportico idea r c h e o 61
MOSTRE • ROMA
ato da Domiziano viene identificato come luogo ideale per la realizzazione di una chiesa: sono infatti sufficienti minimi interventi per trasformarne gli ambienti in altrettante navate e la storia di S. Maria Antiqua ha cosí inizio. Si tratta, dopo la vicina chiesa intitolata ai Ss. Cosma e Damiano, della seconda consacrazione nell’area del Foro Romano e il gesto non può non avere avuto un importante valore simbolico: destinare alla pratica della religione cristiana un settore del cuore della Roma antica, e dunque pagana, equivaleva infatti a una presa di possesso non soltanto materiale. Tra le poche modifiche strutturali del complesso imperiale, va sottolineata la creazione dell’abside, ricavata nello spessore del muro romano. Fin dall’inizio, però, l’intervento che con piú forza connota S. Maria Antiqua e che oggi ne costituisce il motivo di maggior interesse è la 62 a r c h e o
La straordinaria «parete palinsesto» di S. Maria Antiqua, nella quale sono state identificate ben sei fasi pittoriche diverse, realizzate fra il IV-V e l’VIII sec. Nei particolari, due delle figure oggi meglio leggibili, tra cui, a destra, il cosiddetto Angelo Bello, ascrivibile al terzo strato (fine del VI sec.).
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
realizzazione delle pitture murali che, in origine, ne rivestivano l’interno. Un patrimonio che, sebbene ci sia giunto solo in parte, si conserva per oltre 250 mq e costituisce una delle testimonianze piú preziose dell’arte medievale romana e, piú in generale, di tutto il mondo greco-bizantino.
NEL LAGO GHIACCIATO Il percorso di visita ha inizio al di fuori della chiesa vera e propria: poco prima dell’atrio, si può infatti visitare l’Oratorio dei Quaranta Martiri, ricavato in uno degli ambienti che in origine si trovavano a sud del quadriportico domizianeo. Nell’abside, anche in questo caso scavata nello spessore del muro romano, si conserva la rappresentazione del martirio dei titolari dell’oratorio: si trattava di un gruppo di soldati cristiani, di stanza in Armenia, che, secondo la tradizione, essendosi rifiutati di abiurare la loro
PAPI E PITTURE La successione degli interventi promossi dai pontefici nella chiesa di S. Maria Antiqua può essere cosí riassunta e sintetizzata: Martino I (649-653). Vengono decorate le pareti del presbiterio e molte aree della navata centrale. Giovanni VII (705-707). Nuova decorazione del presbiterio, esecuzione dei cicli pittorici nella Cappella dei Santi Medici e in molte altre parti del monumento.
fede, erano stati costretti a immergersi nelle gelide acque di un lago. A quel punto, soltanto uno di loro ne uscí e si immerse nella piscina d’acqua tiepida fatta predisporre dal prefetto Agricola, mentre gli altri preferirono morire congelati pur di non rinnegare il Cristo. Alla vista di tanta determinazione, una delle
Zaccaria (741-752). Viene eseguita la Cappella di Teodoto, con il martirio di Quirico e Giulitta. Paolo I (757-767). Ultima decorazione dell’abside ed estesi cicli pittorici lungo le pareti delle navate laterali. Adriano I (772-795). Ultimi interventi, fra cui il ciclo dell’atrio, la cui porzione superstite, staccata nel 1956 è ora esposta nella navata laterale destra. In alto: particolare della pittura murale fatta realizzare da papa Adriano I (772-795) nell’atrio di S. Maria Antiqua, staccata dalla sua sede originaria e ora esposta nella navata laterale destra della chiesa. Il dipinto ritrae la Vergine affiancata da vari personaggi, tra cui lo stesso pontefice.
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MOSTRE • ROMA
guardie sarebbe entrata nel lago, morendo insieme agli altri trentanove. Si passa quindi nell’atrio, che oggi si presenta spoglio, ma nel quale era all’origine presente una grande composizione voluta da papa Adriano I – uno dei cinque pontefici che hanno lasciato il proprio segno nella decorazione di S. Maria Anti64 a r c h e o
qua (vedi box a p. 63) –, che fu staccata nel 1956 ed è ora esposta lungo la parete occidentale della chiesa. Vi si vedono la Vergine e, fra i vari personaggi, lo stesso Adriano I. Il distacco dalla sede originaria venne deciso per il degrado al quale l’opera stava andando incontro, ma, nel futuro, non si esclude – grazie all’utilizzo delle tecno-
logie conservative ora disponibili – di poterla ricollocare in situ. Va inoltre segnalato che gli scavi condotti da Boni portarono alla scoperta, nell’area dell’atrio e sotto il pavimento della chiesa, di numerose sepolture, databili tra l’VIII e il IX secolo. In alcuni casi, i defunti – verosimilmente personaggi di spicco – furono deposti in sar-
La Cappella di Teodoto, decorata negli anni del pontificato di Zaccaria (741-752). Particolare del riquadro con Maria Regina in trono con il Bambino, i santi Pietro e Paolo, i santi martiri Quirico e Giulitta, papa Zaccaria e Teodoto. Quest’ultimo, che fu primo degli avvocati della curia e amministratore di S. Maria Antiqua, è riconoscibile nel personaggio all’estrema destra, che offre il modellino della chiesa.
cofagi romani reimpiegati all’occorrenza; tra i cinque che si è scelto di inserire nel percorso espositivo, spicca quello che – realizzato nella seconda metà del III secolo d.C. da un’officina di marmorari romani – presenta scolpite a rilievo le figure di un sapiente e di una orante, il battesimo di Gesú nel Giordano e storie del pro-
feta Giona: si tratta di uno dei primi manufatti del genere con scene bibliche, che può dunque essere considerato come una testimonianza di matrice dichiaratamente cristiana.
spesa fra la navata centrale e il retrostante presbiterio. Si tratta, seppur temporaneo, di un ritorno nel ritorno: l’opera, infatti, è l’icona della Madonna con il Bambino che accolse i fedeli di S. Maria Antiqua finché la chiesa rimase in uso, cioè IL RITORNO DELL’ICONA Entrando nel corpo principale fino al IX secolo. Fu allora che, del monumento, l’attenzione dopo il terremoto dell’847 e del viene calamitata dall’icona so- conseguente abbandono, venne a r c h e o 65
MOSTRE • ROMA
Alle spalle di questa imago antiqua, è conservata, alla destra dell’abside, la «parete palinsesto», tornata alla luce il 5 agosto 1900 grazie all’intervento di Giacomo Boni (vedi foto a p. 62): si tratta di una straordinaria testimonianza della pittura medievale, nella quale sono state riconosciute – da cui il nome – ben sei diverse fasi, comprese fra il IV-V e l’VIII secolo, prima delle quali va inoltre considerato un settimo strato, costituito dai residui di una decorazione in opus sectile di epoca tardo-antica. In alto: Cristo (vedi particolare alla pagina accanto) fra santi e Padri della Chiesa d’Occidente e d’Oriente. Metà dell’VIII sec. Qui sopra: una fase del light mapping che illustra la sequenza degli interventi nella Cappella di Teodoto. Nella pagina accanto, a sinistra: S. Maria Antiqua nel quadriportico domizianeo in una foto d’epoca. 66 a r c h e o
spostata in S. Maria Nova (piú nota come S. Francesca Romana), il luogo di culto che ereditò il titulus di S. Maria Antiqua, situato fra l’Arco di Tito e il Tempio di Venere e Roma. L’opera risale alla seconda metà del VI secolo ed è forse la piú antica immagine di Maria a oggi nota, non soltanto in ambito romano ma in tutto il mondo cristiano.
MARIA E L’ANGELO BELLO A guardarla per come appare oggi, la parete propone una situazione irreale, nella quale i vari strati – e dunque le diverse fasi – appaiono come un insieme unitario, per quanto caotico. Tuttavia, basta fermarsi qualche minuto in piú e concentrarsi sulle diverse figure per cogliere le differenze e riconoscere
L’oblio e la riscoperta Dopo il terremoto dell’847, la chiesa di S. Maria Antiqua cadde in disuso, poiché il sisma aveva fatto franare alcune porzioni di muro dal soprastante colle del Palatino, rendendola in larga parte inagibile. Si procedette quindi alla costruzione, a ridosso del Tempio di Venere e Roma, della chiesa di S. Maria Nova e solo l’atrio dell’Antiqua continuò a essere utilizzato per qualche secolo, come Cappella di Sant’Antonio. Nel XIII secolo, sui ruderi della chiesa fu edificato un nuovo tempio, dedicato a Maria de Inferno, che passa poi a essere indicata come Maria libera nos a poenis inferni oppure Liberatrice. Nel 1617 la chiesa venne restaurata e qualche decennio piú tardi, nel 1702, il capomastro Andrea Bianchi, che aveva preso in affitto un appezzamento di terra nell’orto retrostante, scoprí casualmente il presbiterio di una struttura piú antica. Tornarono cosí alla luce, per la prima volta, le pitture dell’abside di S. Maria Antiqua, che però, vista l’impossibilità di procedere a un adeguato restauro, vennero minuziosamente riprodotte ad acquarello da Francesco Valesio – il quale riconobbe nell’edificio la chiesa di S. Maria de Inferno o di S. Maria de Caneparia – e poi reinterrate. Finalmente, nel 1900, sotto la guida di Giacomo Boni, si procedette alla demolizione di S. Maria Liberatrice, aprendo la strada alla riscoperta definitiva di S. Maria Antiqua e dei suoi straordinari cicli pittorici.
l’appartenenza dei vari lacerti ad altrettante composizioni. I personaggi di piú facile lettura sono: la Maria Regina col Bambino e Angeli, riferibile al secondo strato (prima metà del VI secolo); il cosiddetto Angelo Bello, appartenente a un’Annunciazione e ascrivibile al terzo strato (fine del VI secolo); e la testa di un Padre della Chiesa, dipinta in occasione del sesto e ultimo intervento, eseguito al tempo di Giovanni VII (705-707).
Lo spazio alla destra dell’abside è occupato dalla Cappella dei Santi Medici, che assolveva verosimilmente alle funzioni di diaconicon di S. Maria Antiqua, uno degli spazi di servizio adiacenti al presbiterio, tipico delle chiese bizantine. Il suo nome è stato ispirato dalle pitture in essa conservate, che, realizzate anch’esse negli anni del pontificato di Giovanni VII, hanno appunto come soggetti santi anargyroi, cioè guaritori, che non accettano
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denaro in cambio dei loro interventi. La scelta di questo tema suggerisce che la cappella potesse essere utilizzata da malati in cerca di guarigione, che vi si recavano per meditare e trascorrere la notte.
NELLA CAPPELLA DELL’AVVOCATO In posizione simmetrica, alla sinistra dell’abside, la chiesa offre un altro dei suoi gioielli, la Cappella di Teodoto, un alto funzionario della Chiesa, che nell’iscrizione che lo menziona – tracciata in corrispondenza del suo ritratto – è citato come primicerius defensor e dispensator della diaconia di S. Maria Antiqua, ovvero primo degli avvocati della curia e amministratore dell’istituto diaconale. In questo caso, il ciclo pittorico è databile al pontificato di Zaccaria (741-752) e ha come soggetto il martirio di Giulitta e del figlio Quirico, che era ancora un bambino. Il racconto viene sviluppato in otto grandi riquadri, ancora ben leggibili, e culmina con la morte del piccolo santo, che, secondo la tra-
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dizione, sarebbe stato ucciso dal governatore romano Alessandro, il quale lo scaraventò a terra dopo che, alla vista delle torture inflitte alla madre aveva esclamato «Sono anch’io un cristiano!». Di grande potenza visiva è anche la Crocifissione dipinta nella nicchia che sormonta il ciclo di Quirico e Giulitta sul lato meridionale della cappella e che mostra il Cristo in Croce affiancato da Giovanni Battista e un soldato a destra e dalla Vergine e Longino sulla sinistra. Come già per la «parete palinsesto» e la Cappella dei Santi Medici, anche nella Cappella di Teodoto le varie fasi della decorazione vengono illustrate attraverso un’installazione multimediale basata sul light mapping: a intervalli regolari, l’illuminazione dell’ambiente viene spenta e ha inizio la proiezione dei contorni delle diverse scene e figure, accompagnata da brevi testi. Una soluzione di notevole efficacia, soprattutto per le zone in cui piú difficile è la lettura delle pitture. Uscendo dalla Cappella di Teodoto, lungo la parete orientale della na-
A destra: la rampa monumentale fatta realizzare da Domiziano, che ha inizio in corrispondenza del lato orientale del quadriportico e permetteva di raggiungere i palazzi imperiali del Palatino. In basso: particolare del ciclo che narra il martirio di Quirico e Giulitta nella Cappella di Teodoto. La scena descrive il cruento epilogo della vicenda, quando il bambino viene scaraventato a terra dal governatore romano Alessandro.
vata sinistra, corre una delle sezioni meglio conservate del corpus pittorico di S. Maria Antiqua: si tratta, in questo caso, di una lunga carrellata, eseguita al tempo di papa Paolo I (757-767), nella quale, ai lati di un Cristo in trono, si vedono santi e Padri della Chiesa d’Occidente e di quella d’Oriente (vedi foto in apertura e alle pp. 66 e 67). Sopra questa teoria di personaggi severi e ieratici, vi sono riquadri con scene bibliche. All’estremità della navata, si apre il passaggio verso la già citata rampa domizianea, che merita senz’altro d’essere percorsa, anche se, a questo punto, è altrettanto opportuno riguadagnare il centro della chiesa per contemplarla nel suo insieme. E sarà allora facile intuire, immaginando le pitture nella loro interezza e nella piena vivacità delle cromie originarie, l’emozione che S. Maria Antiqua e le sue pitture dovevano trasmettere ai suoi frequentatori di un tempo. Qualcosa che anche Giacomo Boni ebbe a percepire, se, come sappiamo dai documenti d’archivio, volle che quelle straordinar ie testimonianze dell’arte medievale venissero replicate su carta, in scala 1:1, nella certezza che la fotografia non sarebbe stata in grado di assicurare riproduzioni altrettanto fedeli.
DOVE E QUANDO «Santa Maria Antiqua tra Roma e Bisanzio» Roma, Foro Romano fino al 19 marzo Orario tutti i giorni, 8,30-17,00 Info tel. 06 39967700; www.coopculture.it Catalogo Electa a r c h e o 69
SCAVI • CATACOMBE DI MALTA
Un ambiente delle catacombe di Tal Mintna, presso Mqabba, nella parte meridionale dell’isola di Malta. Le caratteristiche architettoniche di queste catacombe suggeriscono che la loro origine vada collocata intorno al IV sec. d.C. e che siano rimaste in uso almeno fino al VI sec. d.C. L’ipogeo si distingue per le ricche decorazioni scolpite (si noti, nell’immagine, il soffitto decorato a guscio di conchiglia). 70 a r c h e o
MALTA
ALLA RISCOPERTA DELLE CATACOMBE L’ARCIPELAGO AL CENTRO DEL MEDITERRANEO È FAMOSO, INNANZITUTTO, PER LE SUE STRAORDINARIE TESTIMONIANZE MONUMENTALI PREISTORICHE. MENO NOTE SONO, INVECE, LE SUE NUMEROSISSIME STRUTTURE IPOGEICHE DI EPOCA ROMANA E PALEOCRISTIANA. TRA QUESTE FIGURANO SOPRATTUTTO LA NECROPOLI DI SAN PAOLO A RABAT – CITTADINA AL CENTRO DELL’ISOLA MAGGIORE –, IL PIÚ IMPORTANTE COMPLESSO DEL GENERE AL DI FUORI DI ROMA. UN GRANDE PROGETTO DI SCAVO, RESTAURO E VALORIZZAZIONE LE HA NUOVAMENTE PORTATE ALL’ATTENZIONE DEL PUBBLICO di David Cardona
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a sempre, il vasto reticolo di cavità sotterranee situato un centinaio di metri a meridione del fossato di Mdina (l’antica Melite, capitale di Malta prima dell’arrivo dei cavalieri) aveva attirato l’attenzione della popolazione locale. Lo studioso Gian Francesco Abela (15821655), considerato il padre della storiografia maltese, riferisce che il nome dei campi sovrastanti, Tad-Dlam («dell’oscurità»), sia ispirato proprio agli spazi sotterranei, che lo stesso Abela, con altri studiosi e dignitari dell’isola, aveva piú vol-
te visitato, calandovisi attraverso i piccoli pertugi che si aprivano nel terreno. Scrive Abela che le catacombe erano ben note alla popolazione che le utilizzò anche come cave per ricavarne la calce. Non sorprende, inoltre, che intorno alle cavità sotterranee prendessero vita storie e leggende tra le piú fantasiose, tra cui quella che voleva i percorsi scavati nientemeno che da immaginari giganti. La consapevolezza della notevole lunghezza delle gallerie sotterranee è ben illustrata dalla storiella di un maiale che, caduto in una delle a r c h e o 71
SCAVI • CATACOMBE DI MALTA
fosse che vi conducono, dopo qualche tempo sarebbe riemerso a circa 4 km di distanza, nella località di Siggiewi. Da sempre, inoltre, l’immagine dei vasti ambienti sotterranei era legata alla convinzione che qui, nei secoli passati, la popolazione avrebbe trovato rifugio e protezione dalle persecuzioni anticristiane. Sebbene da tempo riconosciuta, la rilevanza archeologica dell’area fu per la prima volta pienamente accertata dallo studioso e archeologo maltese Antonio Annetto Caruana (1830-1905), il quale, nel 1894, indagò ampia parte degli ambienti sotterranei. Queste prime indagini e la contestuale rimozione dei detriti accumulatisi nei passaggi ipogei confutarono le diverse ipotesi sull’estensione delle catacombe, precisando il tracciato del principale complesso catacombale che prese il nome di San Paolo: fino a quel mo-
mento, infatti, la gente era convinta che i sotterranei fossero direttamente collegati con la Grotta di San Paolo, situata sotto la vicina, omonima chiesa parrocchiale; e anche se tale collegamento risultò infine inesistente, il nome divenne d’uso corrente, soppiantando l’originario toponimo di Tad-Dlam.
L’ESPROPRIO Le indagini di Caruana fecero sí che le catacombe di San Paolo divenissero ben presto uno dei principali siti archeologici dell’arcipelago maltese. Il riconoscimento della sua importanza risultò anche nel fatto che la restante area dei campi «dell’oscurità» (oggi nota agli studiosi come area dei Ss. Paolo e Agatha o SPC Ovest) venne espropriata su insistenza dello stesso Caruana, cosí da proteggere le strutture ipogee dalle attività edilizie nella zona.
Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis
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Oggi le catacombe di San Paolo si distinguono dagli altri complessi ipogeici essenzialmente per la loro dimensione: il settore principale, considerato singolarmente si estende su un’area di piú di 2000 mq. Cionondimeno, si tratta solo di una di almeno altre 23 catacombe sparse nell’area dei campi di Tad-Dlam, la vasta area cimiteriale alle porte dell’antica capitale Melite. Nella pagina accanto: in alto, la distribuzione delle principali tombe e catacombe di età tardo-romana e paleocristiana a Malta e Gozo; al centro e in basso, l’area delle catacombe di San Paolo al centro di Rabat; sulla sinistra, l’antica capitale fortificata di Mdina. In questa pagina: la planimetria delle catacombe elaborata da Antonio Annetto Caruana sulla base delle esplorazioni condotte nel 1894.
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
Tombe e catacombe 1. Rabat: Hal Bajjada, Parish Church, Hal Pilatu, Tac-Caghqi, Tal-Virtu 2. Mtarfa 3. Bahrija 4. Buskett 5. Ghajn Qajjed 6. Ghajn Klieb 7. Ghar Barka 8. Attard: Valetta Road 9. Ta’ Kaccatura 10. Hal-Far 11. Hal-Resqun, Tal-Kappelli 12. Gzira: Il-Fawwara 13. Kalkara: San Duminka 14. Kirkop: Sqaq il-Harruba 15. Luqa: L-inghieret, Wied il-Knejjes
16. Marsa: Jesuits Hill, Wied il-Gonna 17. Marsascala: San Tumas 18. Mellieha 19. Bingemma 20. Mgarr: Tar-Raghad 21. Mosta: Bistra, Ghammieriet, Misrah Ghonoq, Wied il-Ghasel, Torre Cumbo 22. Mqabba: TalMintna 23. Mqabba: Ta’ Kandja 24. Naxxar 25. Paola: Sammat Street 26. Qrendi: Maghlaq 27. Qrendi: San
Niklaw 28. St Julians: Tal-Ballut 29. Salini 30. Safi: Tal-Hlantun 31. Tal-Liebru 32. Safi 33. Siggiewi 34. Tarxien: St Mary Street, Rock Street, Triq id-Dejma 35. Zebbug: Wied Qirda 36. Zejtun: Botanical Gardens 37. Zejtun: Tal-Barrani 38. Torri Mamo 39. Gozo: Ghar Gerduf 40. Gozo: Marsalforn Valley 41. Gozo: Marsalforn 42. Gozo: Sannat
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Grazie alla scoperta di simboli e suppellettili rituali, nelle catacombe di San Paolo si possono oggi identificare le vestigia di culti pagani, giudaici e cristiani. Tuttavia, l’identificazione è talvolta ostacolata dal mutevole quadro dell’evoluzione religiosa nell’arcipelago, durante la tarda età romana e il periodo bizantino. Per secoli la religione romana aveva dominato nell’isola, insieme a quella giudaica; di quest’ultima si conservano ancora segni e simboli inequivocabili: il piú importante è la menorah (il candelabro a sette braccia), piú volte raffigurata negli ambienti delle catacombe di San Paolo.
L’AVVENTO DEL CRISTIANESIMO Tra il IV e l’VIII secolo il cristianesimo si afferma come una delle principali fedi nell’isola, sovrapponendosi al paganesimo romano e al 74 a r c h e o
I motivi decorativi scolpiti negli ipogei testimoniano la presenza di comunità pagane, giudaiche e cristiane giudaismo e assorbendone taluni elementi del culto e del rito: tra le manifestazioni piú significative di questo sincretismo figura, sul piano formale e rituale, la diffusa presenza – nelle catacombe maltesi – dei triclini scavati nella roccia e usati per i banchetti funerari pagani e, successivamente, anche cristiani. Spesso, però, risulta impossibile stabilire la vera «identità religiosa» di questi ultimi, salvo nei casi in cui – come nelle catacombe di San Paolo – essi non siano accompagnati da simboli inequivocabili quali la croce, rami di palma o l’ancora. L’architettura tombale, inoltre, offre informazioni importanti sulla composizione sociale di chi aveva co-
catacombe piú piccole e raccolte appartenevano verosimilmente a un’unica famiglia o a un unico, ristretto gruppo comunitario. Altre indicazioni vengono fornite dal tipo, dalla disposizione e dalla SEPOLTURE DI GRUPPO decorazione delle tombe: tombe a E PER FAMIGLIE Nel caso delle catacombe di San pavimento e a panchina e i sempliPaolo, però, sembra che fosse pro- ci loculi sono le tipologie ricorrenprio il caso contrario: il complesso è composto da una catacomba mol- Sulle due pagine: catacombe di San to ampia, con strutture minori di Paolo (Rabat). dimensioni diverse e di diversi gra- Nella pagina accanto, in alto: un di di sofisticazione; la prima, nota ambiente con tombe a cubicolo e una come «complesso principale» o «ca- lastra di chiusura decorata con gli tacomba 1», rappresenta un luogo strumenti chirurgici. di sepoltura collettivo, utilizzato In alto e nella pagina accanto, in dalla comunità intera, verosimil- basso: sepolture ebraiche decorate mente di fede cristiana, mentre le con il motivo della menorah. struito e utilizzato le catacombe: si sarebbe tentati di pensare che, piú le catacombe erano grandi, piú ricchi e potenti fossero i suoi proprietari.
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SCAVI • CATACOMBE DI MALTA
UN BALUARDO DEL CRISTIANESIMO Con circa 400 000 abitanti distribuiti su una superfice di appena 316 kmq, l’arcipelago maltese si presenta come il Paese dell’Unione Europea (di cui è entrata a far parte nel 2004) a piú alta densità di popolazione: poco meno di 1300 persone per kmq, contro le 174 del Lussenburgo e le 201 dell’Italia. Un primato significativo che, però, si accompagna a un altro dato, forse ancora meno noto del primo, ma non meno rilevante: Malta, infatti, è il Paese con la piú elevata percentuale di cattolici dell’intero continente. La presenza dominante del credo cattolico salta immediatamente all’occhio del visitatore grazie alle numerose chiese (erette perlopiú nel predominante stile barocco) che a centinaia costellano le isole (sono piú di 365, al punto che i Maltesi si vantano scherzosamente di disporre «di una chiesa per ogni giorno dell’anno»). Questo dato potrebbe far pensare a una lunga e ininterrotta tradizione religiosa delle isole, se non fosse stato per gli anni dall’870 fino al 1090, quando l’arcipelago fu conquistato dagli Arabi, la popolazione bizantina sterminata e l’Islam introdotto come religione di Stato. Un periodo di piú di due secoli che esercitò un’influenza significativa – e duratura – sulla cultura maltese, soprattutto sul piano linguistico (il maltese è una lingua semitica, strettamente apparentata con l’arabo dei Paesi nordafricani, costellata, però, da un grande numero di parole provenienti dal lessico italiano). Cionondimeno, la tradizione cristiana dell’isola ha radici antichissime. Secondo la leggenda, alimentata dalla narrazione degli Atti degli Apostoli, nel 60 d.C. sulla costa di Malta naufragò san Paolo. Scrive il suo compagno di viaggio, l’apostolo Luca: «Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta» (28, 1-10). Paolo venne accolto nella dimora di un notabile dell’isola, un tale Publio, che in seguito il santo guarí da una malattia, salvandogli la vita. La tradizione maltese vuole che il naufragio sia avvenuto sulla costa nord-occidentale di Malta, in prossimità del sito di una villa agricola romana, denominato San Pawl (San Paolo) Milqi (il sito è stato esplorato, dai primi anni Sessanta, da una missione archeologica italiana diretta da Sabatino Moscati). Per quanto non vi siano prove archeologiche che possano suffragare tale ipotesi, il luogo rappresenta il simbolo di uno dei piú importanti eventi della storia maltese: l’avvento del cristianesimo nell’arcipelago. San Paolo è il patrono dell’isola, la ricorrenza del naufragio è festa nazionale (celebrata il 10 febbraio) e Publio, convertitosi alla nuova fede, è santo nazionale. A san Paolo, infine, è dedicato il vasto complesso catacombale di cui riferisce l’archeologo David Cardona in queste pagine. Andreas M. Steiner
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ti, riservate perlopiú a neonati e defunti in età infantile. Le sepolture ad arcosolio (scavate nella parete rocciosa e sormontate da una nicchia, n.d.r.) appartenevano a un livello sociale superiore ed erano usate comunemente nelle catacombe piú antiche, dove formavano interi gruppi allineati lungo i corridoi sotterranei o sui lati di ambienti rettangolari. Le tombe a finestra (composte da una camera sepolcrale alla quale si accede da un’apertura simile, appunto, a una finestra) rappresentano una tipologia piú complessa. Essa è in grado di offrire un maggior numero di possibilità decorative, risulta molto comune tra le catacombe maltesi ed è ben rappresentata da quelle rurali, assai elaborate, nelle località di Ta’Mintna e di Salina.
A sinistra: un ambiente riccamente decorato delle catacombe di Salina, nella parte settentrionale di Malta. Nella pagina accanto: il santuario dedicato a san Paolo, ricavato nella grotta sotto l’omonima chiesa parrocchiale di Rabat.
Nessuna delle tipologie fin qui elencate, però, può concorrere, in quanto a grandiosità, con le tombe cosiddette «a baldacchino». Perfino nelle loro varianti piú semplici, queste vere e proprie architetture funerarie, munite perlopiú di elementi decorativi ricchi e articolati, erano probabilmente destinate a personaggi di elevato stato sociale: gruppi interi di tombe a baldacchino furono realizzati per costruire un vero e proprio paesaggio architettonico sotterraneo, come è ben esemplificato dai corridoi principali della piú grande catacomba di San Paolo.
sin dalla fine dell’Ottocento, non furono mai oggetto di sistematici lavori di conservazione. Mancavano, inoltre, le infrastrutture necessarie ad accogliere un piú ampio numero di visitatori: prima del 2015, infatti, si accedeva al sito attraverso una semplice saletta e solo 2 delle 23 catacombe erano accessibili. Cosí, nel corso degli ultimi anni, l’Heritage Malta (l’agenzia maltese per il patrimonio) ha affrontato i lavori di indagine, conservazione e valorizzazione di tutte le strutture ipogee, rendendo visitabili la maggior parte delle 23 catacombe. Il programma, facente parte dell’Archaeological Heritage Conservation Project, il progetto di conservazione del patrimonio CONSERVAZIONE E archeologico parzialmente finanziaDOCUMENTAZIONE Nonostante le catacombe di San to dal Fondo Europeo per lo SviPaolo fossero accessibili al pubblico luppo Regionale (FESR), è stato
svolto utilizzando un budget di poco inferiore ai 4 milioni di euro. Un progetto di tale portata necessitava, naturalmente, di accurati studi preliminari, prima di poter procedere a una qualsiasi forma di intervento sul sito. E fu proprio questo uno dei problemi principali con cui i curatori del progetto si scontrarono. Non era possibile, infatti, iniziare i lavori senza un completo e accurato survey archeologico e topografico di tutta l’area, cosí da creare una mappa di tutte le strutture ipogee e, specialmente, del rapporto esistente tra esse e gli edifici e i terreni sovrastanti. Le condizioni attuali del sito sono state anche rilevate attraverso la documentazione in 3D di sei delle piú importanti strutture catacombali. I lavori sono stati svolti tenendo conto che l’area si trova al centro di una zona cimiteriale piú vasta che, potenzialmente, nascondeva altre strutture tombali fino a oggi inesplorate. L’intera area già nota – e anche le zone circostanti – sono state cosí indagate attraverso l’uso di un radar a penetrazione sotterranea, portando all’identificazione di tre complessi ipogei fino ad allora sconosciuti.
PRIMA DELLO SCAVO Per preparare gli interventi conservativi di un sito archeologico e, al contempo, renderlo accessibile ai visitatori, è fondamentale conoscere le condizioni ambientali all’interno delle quali si è conservato fino al momento attuale. Cosí, per un anno intero, le catacombe di San Paolo sono state sottoposte al monitoraggio di umidità, temperature, presenze gassose e aria, sia all’interno degli a r c h e o 77
SCAVI • CATACOMBE DI MALTA
ipogei, sia al loro esterno, nonché al rilevamento della presenza di microrganismi biologici, al fine di identificarne quelli nocivi (e, dunque, da eliminare), sia per il monumento stesso, sia per i futuri visitatori. L’esame strutturale delle architetture ipogee scavate nella roccia circa 1500 anni fa ha evidenziato la necessità di interventi di consolidamento tramite la messa in opera di colonne portanti. L’accuratezza delle indagini preliminari ha permesso ai restauratori di individuare le modalità piú adeguate da applicare alle singole parti del monumento: un’attenzione particolare è stata rivolta alla rimozione delle efflorescenze e delle polveri, nonché al consolidamento delle superfici dell’intonaco e della roccia stessa.
INIZIA LO SCAVO Le indagini archeologiche vere e proprie si sono inizialmente concentrate nelle aree interessate dai previsti lavori di costruzione. Per quanto circo-
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In questa pagina: alcuni oggetti rinvenuti durante i recenti scavi delle catacombe di San Paolo: dall’alto, pendente in oro, una sepoltura in anfora, i resti dello scheletro di un maialino, forse residuo di un banchetto funebre.
scritti, questi scavi erano finalizzati a chiarire due aspetti preliminari: era possibile ricavare informazioni su un aspetto di cui poco è noto, ovvero il rituale funerario del periodo di passaggio tra l’età romana e l’epoca bizantina? E che cos’era accaduto nell’area sovrastante le catacombe, prima, durante e dopo il loro utilizzo? I lavori di scavo sono stati suddivisi in tre fasi e hanno riguardato le fosse di fondazione delle nuove strutture da costruire, l’area del centro visite e le catacombe vere e proprie. Lo scavo delle piccole fosse di fondazione ha evidenziato la presenza di una vasta area di cave in superficie, utilizzate per lunghi periodi, già dalla tarda età fenicia. Si tratta della prima attestazione d’uso dell’area In basso, sulle due pagine: catacombe di San Paolo. Un momento delle indagini eseguite nel settore del sito destinato alla costruzione del nuovo centro visite.
che, dal quel momento in poi, ne ha per sempre determinato la fisionomia. Data la sua collocazione appena al di fuori delle mura di cinta dell’antica Melite (l’odierna Mdina e Rabat), è lecito ipotizzare che l’area fosse collegata alle attività costruttive nella città stessa.
DA CAVA A OSSARIO Gli scavi hanno anche rivelato che, dopo l’abbandono, parti delle cave erano state colmate con frammenti ossei, detriti e altri oggetti, tra cui gioielli e piccoli recipienti, tra-
sformandosi cosí in veri e propri «ossari», contenenti materiali provenienti dai pozzi d’accesso e dalle camere funerarie della necropoli sin dall’età punica. In seguito all’identificazione, mediante il georadar, di numerose cavità fino ad allora sconosciute, il terreno destinato a ospitare il centro visite è stato liberato dallo strato di terreno in superficie, rivelando cosí le tracce di una complessa successione storica e cronologica, di cui fa parte una decina di tombe a pozzo e camera, appartenenti a un’ampia necroAltre immagini dei reperti venuti alla luce grazie agli scavi: dall’alto, una moneta da Costantinopoli (330 d.C.), un unguentario in vetro, l’area funeraria con urne ancora non scavate.
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STORIA • STORIA DEI GRECI/14
poli risalente a un periodo tra il III secolo a.C. e il III d.C., precedente cioè alla realizzazione delle catacombe. Gli scavi, inoltre, hanno portato alla luce un’area verosimilmente destinata alla deposizione di urne e recipienti da cucina usati come contenitori di ceneri, nonché di sepolture all’interno di anfore. Insieme a una di queste urne sono stati trovati i resti quasi interi di un maialino, A sinistra: l’uscita dall’area archeologica delle catacombe di San Paolo; al centro, una delle costruzioni ottocentesche a tempietto che sovrastavano l’ingresso agli ipogei. Area di scavo
Uscita
Esperienza 3D
Padiglione archeologia
Padiglione sociale
Centro visite
Qui accanto: pianta del nuovo allestimento per la visita dell’area.
Ingresso Pronto soccorso Padiglione religione e rito
Padiglione per ragazzi
Padiglione architettura
La visita come avvenimento
Padiglione conservazione
Il nuovo centro offre al visitatore una combinazione di esperienze interpretative trasmesse in primo luogo attraverso strumenti visivi, con l’esposizione di manufatti, disegni e la ricostruzione di una sepoltura all’interno di una tomba dal vero. La finalità è quella di restituire il quadro delle complesse ramificazioni sociali racchiuse negli usi funerari dell’antichità, con particolare attenzione al periodo romano. Oltre all’ambiente d’ingresso, il centro visite si allunga in cinque piccoli padiglioni, ognuno dedicato ad approfondire un particolare aspetto: la storia locale e l’impatto esercitato dalle catacombe nel corso dei secoli sugli abitanti di Rabat, le scoperte archeologiche, l’architettura tombale, la religione e il rituale, la conservazione del sito.
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Nella pagina accanto, in basso: l’ingresso al centro visite. In questa pagina: particolare delle nuove passerelle che permettono di visitare le strutture sotterranee.
note da secoli e accessibili a chiunque, ha comportato la perdita di una grande quantità di dati archeologici. Ciononostante, lo scavo di 11 complessi catacombali ha rivelato che esse conservano ancora i resti scheletrici di centinaia di individui, talvolta seppelliti l’uno sull’altro, insieme a lucerne e piccoli gioielli. La piú ricca è la catacomba 8, in cui sono stati trovati i resti di oltre 50 individui posti in 12 tombe. I manufatti sono pochi, ma includono lucerne africane, qualche esemplare di lucerna romano-maltese, una fibbia in bronzo del VI secolo, un pendente d’oro e un bracciale di perline di vetro blu e di rame.
anche ceramiche di importazione e monete databili tra il IV secolo a.C. e il IV d.C. In una camera funeraria sono stati trovati i resti di almeno quattro individui, una moneta cartaginese del IV secolo a.C., una ciotola del II secolo d.C. e, soprattutto, alcuni frammenti di legno di pino che, in origine, costituivano il sarcofago in cui era sepolto almeno uno dei quattro individui. Tra gli altri reperti figurano oggetti personali quali dadi, aghi e gioielli. Il fatto che le catacombe fossero
Oggi, alle catacombe di San Paolo si accede attraverso il primo centro visite d’Europa dedicato esclusivamente alla scoperta e alla comprensione di un’area sepolcrale dell’antichità. Per la costruzione del centro e dell’annesso museo, architetti e site manager hanno posto la massima attenzione all’antica destinazione del sito e alla stessa conformazione del terreno: le strutture costruite sopra di esso sono leggere e con fondazioni ridotte al minimo. Si tratta di costruzioni interamente
la cui parte mancante era stata forse consumata durante il banchetto funerario. Contrariamente ai resti ossei rinvenuti nelle tombe a pozzo e camera, i resti rinvenuti in queste sepolture appartenevano esclusivamente a individui di giovane età. Anche lo scavo delle tombe a pozzo e camera (sebbene già saccheggiate) ha portato alla luce numerosi ritrovamenti, tra cui piccoli recipienti in ceramica, unguentari di vetro ma
reversibili, che esercitano un impatto minimo sulla sottostante superficie archeologica. Tutte le aree percorribili all’interno delle catacombe sono state coperte da una passerella in vetroresina, materiale adatto a sopportare nel tempo le sollecitazioni di un ambiente particolarmente umido. L’illuminazione è garantita da un nuovo sistema di luci a sensori, in maniera da esercitare un impatto minimo sulle superfici archeologiche. Il centro visite risponde, inoltre, alle esigenze richieste dal principio della accessibilità a piú livelli: esso, dunque, non offre soltanto piú piani di approfondimento, ma è anche dotato di una stanza 3D, in maniera tale da consentire ai visitatori con disabilità fisiche di sperimentare la visita attraverso modelli tridimensionali ad alta risoluzione. Ai giovani (i futuri responsabili della conservazione del nostro patrimonio!) il centro dedica programmi speciali e attività volte a trasmettere il significato e l’importanza di siti archeologici come questo e dei procedimenti messi in atto per la loro indagine; oltre ad avvicinarli alla conoscenza di un mondo i cui protagonisti, nonostante i secoli trascorsi, non appaiono poi tanto lontani e distanti da noi stessi.
DOVE E QUANDO Catacombe di San Paolo Rabat, St. Agatha Street, Orario tutti i giorni, 9,00-17,00; giorni di chiusura: 24, 25 e 31 dicembre, 1° gennaio e Venerdí Santo Info http://heritagemalta.org/ museums-sites/st-paulscatacombs/ a r c h e o 81
SPECIALE • SAMARCANDA
APPUNTAMENTO
A SAMARCANDA È FORSE LA PIÚ CELEBRE E AFFASCINANTE CITTÀ DELL’ASIA CENTRALE. I SUOI MONUMENTI, RIVESTITI DI MAIOLICHE POLICROME DOMINATE DAL COLOR TURCHESE, EVOCANO I FASTI DI UN ORIENTE LONTANO E LEGGENDARIO. PER COSTRUIRE IN QUESTO LUOGO DAL NOME MISTERIOSO LA SUA NUOVA CAPITALE, TAMERLANO CHIAMÒ ARCHITETTI E ARTISTI DA TUTTO IL MONDO ISLAMICO di Marco Di Branco
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arakanda, Marachanda, Maraganda, Maracadra, Maracunda, Afrasyab, Samarkent, Semerkant, Samarqand, Samarcanda. Non importa come si scriva: il suo nome è uno slogan, una formula rituale, sentito una volta non si dimentica. C’è l’antica città conquistata da Alessandro Magno, la metropoli commerciale dei Sogdiani, la capitale di Tamerlano il Grande,
dalle cupole sfavillanti nel sole; e poi c’è la Samarcanda mentale ‒ città mitica di un regno delle favole, miraggio antipodale, simbolo del chissà dove o banale facezia. Samarcanda, come Timbuctu e poche altre città al mondo, significa «lontananza»: è il luogo dove si spera ‒ sia pure invano ‒ che neppure la morte riesca a raggiungerci. Con il nome di Marakanda, Samarcanda com-
Nella pagina accanto: una veduta del Gur i Mir, il mausoleo di Tamerlano, inquadrato attraverso il grande arco d’ingresso, una delle poche strutture supersiti del complesso. XIV-XV sec. In alto: una panoramica della Piazza del Registan e della facciata della madrasa (scuola coranica) di Tilya Kori (XVII sec.); a sinistra e a destra si distinguono le estremità, rispettivamente, della madrasa di Ulugh Beg (XV sec.) e della madrasa di Sher-Dor (XVII sec.). a r c h e o 83
SPECIALE • SAMARCANDA
UN BANCHETTO FINITO IN TRAGEDIA Alla fine dell’autunno del 328 a.C. Alessandro era riuscito a stabilire definitivamente la sua autorità sulla Battriana e sulla Sogdiana e svernava con le sue truppe a Maracanda, capitale della Sogdiana, il cui governo egli aveva affidato a Clito. Quest’ultimo era stato uno dei collaboratori piú fidati di Filippo II e aveva giocato un ruolo importante anche presso la corte di Alessandro, soprattutto da quando gli aveva salvato la vita nella battaglia del Granico (334 a.C.). Durante uno di quei banchetti faraonici in cui i generali macedoni bevevano senza posa fino al mattino, mentre tutti rivolgevano encomi al re, Clito, che, evidentemente, come racconta Arriano, «da tempo era adirato per il mutamento di Alessandro in favore di abitudini barbare e per i discorsi degli adulatori», prese a parlare in toni polemici. Era eccitato dal vino, forse troppo. Ma anche Alessandro lo era. Clito disse che la gloria del re era dovuta anche e soprattutto alle truppe, che Alessandro gli doveva la vita, dopo quanto era accaduto sul Granico, che le
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imprese di Filippo erano superiori per importanza rispetto a quelle del figlio. Mentre Clito, ormai fuori di sé, lo diffamava pubblicamente, Alessandro tentava malamente di ribattere, e intanto la sua rabbia cresceva. Clito non cedeva, al punto da monopolizzare l’attenzione degli astanti, che iniziavano a temere seriamente per l’esito di quel diverbio tra ubriachi. A un certo punto, afferma ancora Arriano, «Clito osò difendere perfino Parmenione», uno dei suoi migliori generali, che Alessandro aveva fatto uccidere con l’accusa di aver partecipato a una congiura contro di lui. Allora il re, punto sul vivo, cominciò a cercare un pugnale, a gridare al complotto. Quando poi Clito, citando un celebre verso di Euripide, esclamò «Ohimè! Che cattivi costumi ci sono in Grecia!». Alessandro, nell’impeto, strappò la lancia a uno degli scudieri e lo trafisse. Clito si accasciò a terra, moribondo. La scena lasciò tutti senza parole, mentre nella sala riecheggiava solo un lamento: era il pianto disperato di Alessandro.
L’impero di Alessandro Regno di Macedonia all’avvento di Alessandro (336 a.C.) Lega di Corinto alleata di Alessandro Territori conquistati da Alessandro (336-323 a.C.) 333
Le spedizioni in Asia (334-326 a.C.) Esercito di Alessandro in marcia verso est
Il ritorno in Occidente Esercito di Alessandro Esercito di Cratero Flotta di Nearco
Anno delle conquiste
Battaglie e data
Limite estremo dell’impero
Città fondate da Alessandro
pare nelle fonti greche come una delle città principali della Sogdiana, satrapia persiana sin dall’inizio dell’epoca achemenide. Per Sogdiana si intende una regione storica dell’Asia Centrale – oggi corrispondente all’Uzbekistan meridionale e al Tagikistan occidentale – dove, a partire almeno dal VI secolo a.C., si è sviluppata un’importante civiltà di lingua e cultura iranica, che ha raggiunto il suo acme tra il V e l’VIII secolo d.C. Alla fine del IV secolo a.C., la regione venne conquistata da Alessandro Magno e, dopo la sua morte (323 a.C.), entrò a far parte del
Nella pagina accanto: Alessandro uccide Clito, olio su tela di Daniel de Blieck. 1663. Hull, Ferens Art Gallery.
Produzioni e attività nel periodo ellenistico Au Oro
Sale
Cereali
Vetro
Ag Argento
Marmo
Vino
Lana
Cu Rame
Papiro
Legname
Tessuti
Zn Zinco
Profumi
Incenso
Fe Ferro
Cantieri navali
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regno seleucide, ma di lí a poco, dalla secessione delle regioni orientali del dominio seleucide si formò il regno detto «greco-battriano» (245-125 a.C. circa), noto soprattutto grazie alle sue emissioni monetali. In questo periodo, la classe dominante era rappresentata da Macedoni e Greci, mentre la maggior parte della popolazione era costituita da Sogdiani e, soprattutto, da Battriani. Le dinamiche che portarono agli sviluppi successivi non sono del tutto note, ma sembra che, intorno al 200 a.C. la Battriana riuscí a sottrarsi al controllo dei Greco-Battriani per a r c h e o 85
SPECIALE • SAMARCANDA
IL MAESTRO SUFI E L’ANGELO DELLA MORTE RUSSIA
Syr-Da ry a
Lago d’Aral
GEORGIA
Tbilisi
Mar Caspio
UZBEKISTAN Taskent D
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TURCHIA
Biskek
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Erevan
KAZAKISTAN
Nukus
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TURKMENISTAN Asgabat
Bukhara
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Alma-Ata
KIRGHIZISTAN
Samarcanda
CINA
TAGIKISTAN
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Mashhad T ig
Teheran
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E
Narra una storia sufi risalente, nella sua prima redazione, al IX secolo d.C., che il discepolo di un Sufi di Baghdad era seduto un giorno nell’angolo di una locanda, quando sorprese una conversazione tra due persone. A sentirle parlare, capí che una di loro era l’Angelo della Morte. «Ho molte visite da fare in questa città nelle prossime tre settimane», diceva l’Angelo al suo compagno. Terrorizzato, il discepolo si rannicchiò nel suo angolino finché i due non se ne furono andati. Poi fece appello a tutta la sua intelligenza per trovare il modo di scampare all’eventuale visita dell’Angelo, e, alla fine, decise di allontanarsi da Baghdad, affinché la morte non potesse raggiungerlo. Dopo aver fatto questo ragionamento, non gli restava che noleggiare il cavallo piú veloce e,
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Baghdad te
IRAQ
IRAN
Isfahan
spronandolo giorno e notte, arrivare fino alla lontana Samarcanda. Nel frattempo, la Morte si incontrò con il maestro sufi, col quale si mise a parlare di varie persone. «Ma dov’è dunque quel vostro discepolo?», chiese la Morte. «Dovrebbe trovarsi da qualche
parte in città, immerso in contemplazione, forse in un caravanserraglio», rispose il maestro. «È strano», disse l’Angelo, «perché è proprio nella mia lista... Ah, ecco, guardate: devo prenderlo fra quattro settimane a Samarcanda, e in nessun altro luogo».
A sinistra: un bazar di Samarcanda in una fotografia scattata intorno al 1875. Nella pagina accanto: il Mar Caspio, il Golfo Persico e le regioni circostanti in una mappa tratta dall’Atlante catalano del geografo e cartografo maiorchino Abraham Cresques. 1375. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella cornice, la città di Samarcanda.
diventare però presto l’obiettivo delle invasioni nomadiche provenienti da Est e innescate dalla formazione dell’impero nomade degli Xiongnu. Nelle testimonianze archeologiche relative a Samarcanda tra il III secolo a.C. e il III secolo d.C. sono quasi del tutto assenti materiali di matrice battriana, e ciò sembra indicare che l’influenza greco-battriana sulla città non fu particolarmente importante. Verso la metà del II secolo a.C. gli Xiognu giunsero nella regione del Bacino del Tarim e attaccarono la popolazione di origine indoeuropea che qui risedeva, chiamata dalle fonti cinesi «Yuezhi». Scacciati dalle loro terre, gli Yuezhi si trasferirono prima in Transoxiana (i territori oltre il fiume Oxus, l’odierno Syr Darya), poi in Battriana, e formarono 86 a r c h e o
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2 In alto: illustrazione artistica che ipotizza l’aspetto originario della Sala degli ambasciatori dell’antica Afrasyab. Nella pagina accanto e in alto, a destra: due frammenti della decorazione originale della sala, ad affresco. VII-VIII sec. Samarcanda, Museo Archeologico di Afrasyab.
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Nella Sala degli Ambasciatori di Afrasyab sfilano gli abitanti di Samarcanda, ma anche Cinesi, Indiani, Turchi... un grande impero, che prese il nome di impero kushana (I secolo a.C.-III secolo d.C.). La regione di Samarcanda ne entrò a far parte sin dall’inizio.
LA DIFFUSIONE DEL BUDDHISMO In questo periodo di relativa pacificazione dell’Asia Centrale, in Sogdiana si diffuse il buddhismo ed ebbe inizio una fase di grande sviluppo economico e culturale, con un notevole incremento dell’irrigazione e dell’edilizia nelle località piú importanti: Afrasyab («[la città] sul fiume Sijab», un altro dei nomi con cui Samarcanda fu conosciuta di qui e fino alla distruzione mongola del XII secolo d.C.), Pjandjikent, Varachsha, Pajkend, Tali-Barzu, Mug. Il collasso dell’impero kushana fu la conse-
guenza della politica aggressiva del primo «Re dei Re» sasanide Ardashir I (224-241 d.C.), che riuscí ad assoggettarlo intorno al 230 d.C., riportando l’Asia Centrale sotto il diretto controllo persiano. In Transoxiana, cristianesimo, giudaismo e manicheismo trovarono nuovi adepti, anche se la religione predominante tornò a essere il mazdeismo, come in epoca achemenide. Tra la metà del V e l’inizio del VI secolo d.C. la Sogdiana subisce le invasioni degli Unni Eftaliti e, per un breve periodo, entra a far parte dell’effimero impero da questi fondato. Intorno al 550 d.C., però, Cosroe I (531-579), anche grazie all’alleanza con i Turchi, riuscí a infliggere loro una sonora sconfitta e a porre nuovamente la regione sotto il controllo sasanide. È questa un’epoca di notevole espana r c h e o 89
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AL CENTRO DEL MONDO Per chi sia interessato alla storia e all’arte della Samarcanda preislamica è fondamentale la lettura della monografia di Matteo Compareti (Samarcanda centro del mondo. Proposte di lettura del ciclo pittorico di Afrasyab, Mimesi, Bologna 2009), dedicata in particolare all’analisi delle pitture ritrovate ad Afrasyab (la Samarcanda pre-islamica o, meglio, pre-mongola) negli anni Sessanta del secolo scorso dai Sovietici. Grazie al lavoro di Compareti, è ora possibile
sione sul piano commerciale: i Sogdiani divengono infatti i monopolisti dei traffici sulla cosiddetta «Via della Seta», una serie di itinerari che collegavano la Cina al Mediterraneo e, nello stesso tempo, si impongono come mediatori politici e culturali tra il mondo cinese e quello persiano.
LA SALA DEGLI AMBASCIATORI Intorno alle antiche cittadelle fortificate sogdiane, sorgono ora le residenze dei grandi mercanti e dei proprietari fondiari e si afferma la tipologia del castello (rappresentata
comprendere meglio lo straordinario ciclo pittorico in cui compaiono, oltre agli abitanti stessi di Samarcanda, anche rappresentanti delle civiltà attigue come Cinesi, Indiani, Turchi durante un periodo preciso dell’anno, mentre officiano celebrazioni specifiche. L’opera comprende un’introduzione storica e traduzioni da fonti relative all’epoca in questione, fornendo dati di prima mano e approfondimenti anche al lettore non esperto.
In alto: ossuario sormontato da testa maschile, da Afrasyab. VII sec. San Pietroburgo, Museo statale dell’Hermitage. Nella pagina accanto: veduta degli scavi di Afrasyab.
nell’area di Samarcanda e nell’alto Zerafshan). La corte di Samarcanda si trasforma in un luogo di importanti trattative diplomatiche tra ambasciatori persiani, turchi, indiani e cinesi. E una delle piú straordinarie testimonianze di questa temperie politica è certamente la cosiddetta «sala degli ambasciatori» di Afrasyab. Nel 1965, in occasione di lavori di costruzione di una strada, furono infatti scoperte pitture murali di altissima qualità, oggi conservate nel Museo Archeologico di Afrasyab, che ornavano originariamente un ambiente a pianta quadrata di circa 11 m di a r c h e o 91
SPECIALE • SAMARCANDA
lato, a sua volta parte di un palazzo. Il nome della sala è legato al soggetto principale della decorazione: l’arrivo a Samarcanda di delegazioni straniere nell’atto di presentare omaggi al sovrano della città (Varkhuman). Secondo l’interpretazione di Matteo Compareti (vedi box a p. 91), uno dei maggiori esperti mondiali di arte dell’Asia Centrale, la sala degli ambasciatori di Afrasyab presenta un ciclo pittorico articolato, nel quale sono raffigurati i rappresentanti di diversi regni in contatto con la Sogdiana (il regno di Samarcanda, la Cina dei Tang, l’India) dalla metà del VII secolo circa. Con ogni probabilità, quei personaggi stanno celebrando feste locali connesse al proprio Capodanno e al periodo estivo. Qualora tali feste non riescano a combaciare tra loro, ecco che gli artisti sogdiani avevano escogitato una serie di rimescolamenti onde ottenere occorrenze quanto piú precise possibili sul piano dell’importanza delle festività e del periodo dell’anno in cui cadevano. Le dimensioni del palazzo che accoglieva quel ciclo pittorico propendono a favore di un edificio privato, forse una sorta di tempio dedicato agli antenati del sovrano locale, dove si poteva porgere loro omaggio e, forse, conservarne le spoglie mortali. In queParticolare di una miniatura raffigurante Tamerlano che entra a Samarcanda con il suo esercito. Da una copia dello Zafar Nama, una biografia di Tamerlano voluta dal nipote Ibrahim Sultan ibn Shahrukh e compilata dallo storico persiano Sharaf ad-Din Ali Yazdi. 1424-1428 circa. 92 a r c h e o
Tamerlano era intriso di cultura persiana, ma aspirava a riedificare l’impero mongolo di Gengis Khan, del quale si proclamava discendente
In alto: I regnanti della dinastia Mughal, da Babur a Awrangzeb, con il loro antenato, Tamerlano, acquerello e foglia d’oro attribuito a Bhawani Das. Inizi del XVIII sec. Vaduz, Khalili Family Trust.
sto modo, le informazioni contenute nelle fonti cinesi relative all’VIII secolo possono ritenersi veritiere in quanto esse riportano l’esistenza di un edificio cosí decorato in Sogdiana centrale, dove il sovrano pregava ogni giorno. I risultati dello studio di Compareti non sono importanti solo per quanto concerne la cultura materiale sogdiana alla vigilia dell’invasione araba, ma riguardano indirettamente anche altre parti dell’Asia Centrale, del Caucaso e della Persia, dove, cioè, vigeva lo stesso sistema calendariale.
IN LOTTA PER L’EGEMONIA Dopo un lungo periodo di pace, la Sogdiana divenne terreno di scontro di due grandi imperi che volevano stabilire la loro influenza in Asia Centrale: quello islamico e quello cinese. Le prime incursioni arabe in territorio sogdiano avvennero nel 654 sotto la guida del condottiero Abu ‘Ubayda. I primi califfi omayyadi intrapresero attacchi e razzie in Transoxiana, senza mai riuscire a stabilire un dominio duraturo sulla regione, che era ancora, formalmente, un protettorato cinese. La
conquista vera e propria avvenne all’epoca del califfo al-Walid I (705-715), grazie alla sagacia del governatore del Khorasan Qutayba bin Muslim. I rapporti fra conquistatori e conquistati restarono però molto tesi fino alla metà dell’VIII secolo, anche perché i Cinesi fomentavano rivolte nel tentativo di scalzare gli Arabi dalle loro posizioni. Il 26 novembre, fu proclamato califfo Abu ‘l-’Abbas al-Saffah, il primo dei califfi abbasidi (749/50-754). Tra i suoi piú grandi successi – la cui portata fu pienamente compresa solo dopo qualche tempo –, v’è l’arresto dell’espansione cinese in Asia Centrale, grazie alla battaglia combattuta presso il fiume Talas (nell’odierno Kazakistan) nel 751. Qui, infatti, il comandante arabo Ziyad ibn Salih al-Khuza‘i inflisse al generale cinese Gao Xianzhi una dura sconfitta. L’evoluzione successiva della situazione cinese fece di questo evento un vero e proprio spartiacque fra due epoche: da allora in poi, il processo di islamizzazione dell’Asia Centrale non avrebbe piú incontrato ostacoli. L’aneddoto secondo cui, in tale occasione, alcuni fabbria r c h e o 93
SPECIALE • SAMARCANDA
UN NOME ENIGMATICO Può sembrare paradossale, ma il significato del nome di una delle città piú affascinanti dell’Oriente non è ancora ben chiaro. Secondo alcuni studiosi, esso deriverebbe dall’avestico «Zmar-kanta», «Nascosta nel sottosuolo»; secondo altri, dal sogdiano «Smara-kanta», «Città di pietra». Nell’XI secolo, al-Biruni, un celebre dotto musulmano pensava che il nome avesse origine dal turkic «Semizkand», cioè «Città grassa». Secondo la tradizione araba, che era solita costruire genealogie immaginarie, Samarcanda sarebbe stata cosí chiamata dal nome del suo leggendario fondatore, il re yemenita Samar ibn Afrikish (o, secondo altri, l’altrettanto mitico khan turkic Samar).
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canti di carta cinesi fatti prigionieri al Talas avrebbero introdotto gli Arabi all’uso della carta è molto probabilmente un’invenzione: tuttavia, è vero che in Asia Centrale e in Khorasan i musulmani entrarono per la prima volta in contatto con questo economico prodotto di origine cinese, che divenne presto di uso comune nell’impero islamico. Anche in questo caso, il risultato è epocale: un’efflorescenza di libri e di cultura scritta incomparabilmente piú intensa, vigorosa di quanta ne conobbe l’Europa prima dell’invenzione della stampa a caratteri mobili nel XV secolo. Nel IX secolo la Transoxiana fu amministrata, per conto del califfato abbaside, dalla dinastia iranica dei Samanidi (in realtà quasi totalmente indipendenti da Baghdad), sotto i quali la regione visse un’epoca di «rinascimento culturale»: in questo periodo, Samarcanda perde importanza nei confronti di Bukhara, nuova capitale dell’emirato. Nondimeno, all’inizio dell’XI secolo, i Samanidi furono eliminati dai Qarakhanidi, che nel 1089 si sottomisero ai Turchi Selgiuchidi. Questi ultimi, nel 1141, cedettero il passo ai Qara Kitai, provenienti dalla lontana Manciuria e che, a loro volta, tra il 1210 e il 1212, vennero sconfitti dai Khwarezmshah.
Questi ultimi dovettero sostenere l’impatto devastante dei Mongoli di Gengis Khan (1218), che diedero il colpo di grazia alla già morente cultura sogdiana. Le città principali furono rase al suolo, e con loro tutto il sistema economico (agricoltura, commercio, manifattura), politico e sociale della regione.
UN NUOVO INIZIO Tuttavia, si trattò in realtà di un nuovo inizio, poiché i Mongoli, anche grazie all’influsso delle popolazioni conquistate, seppero acculturarsi (anche attraverso la massiccia conversione all’Islam) e, dopo un periodo di assestamento, garantire, attraverso la Pax Mongolica, una nuova epoca di prosperità all’enorme distesa di territori da loro amministrati. Bukhara e Samarcanda tornarono a fiorire: non è un caso che Marco Polo le menzioni nel Milione, definendole città «grandi e nobili». Per Samarcanda, in particolare, fu questo un tempo sospeso, che potremmo definire di «incubazione»: si ponevano le basi della straordinaria vicenda politica, artistica e culturale che, circa 160 anni piú tardi, ebbe per protagonista un altro mitico sovrano mongolo: Tamerlano il Grande. (segue a p. 99) Ancora un’immagine dell’esterno del mausoleo di Tamerlano, dove il condottiero è sepolto assieme ai figli Shah Rukh e Miran Shah e ai nipoti Ulug Beg e Muhammad Sultan. XIV XV sec.
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SPECIALE • SAMARCANDA Disegno ricostruttivo di Samarcanda al tempo di Ulug Beg, nipote di Tamerlano (XV sec.). Tra i principali monumenti: 1. la moschea di Bibi Khanum; 2. la via coperta popolata di botteghe; 3. la piazza del Registan; 4. il Gok Saray, palazzo imperiale di Tamerlano; 5. il mausoleo Gur-i-Amir; 6. fuori le mura, il cimitero di Shah Zinde; 7. il cimitero di Djakardizah.
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UN SOGNO COLOR TURCHESE Nessuna città ha un nome evocativo come quello di Samarcanda: appena lo pronunci, l’Oriente t’assale. La città delle fortezze e dei sepolcri; il nodo carovaniero sulla Via della Seta, il maggior raccordo commerciale di terra fra Cina ed Europa; la sede del Gur-i Amir, centro del mondo dalla cupola turchese sotto la quale il grande Tamerlano dorme per sempre. Parla una lingua in cui coesistono e si contrappongono tre alfabeti – cirillico, latino, arabo – come specchio della lotta tra chi ancora guarda al vecchio colonizzatore russo, chi sostiene l’islamizzazione e chi vorrebbe giocare sino in fondo la carta dell’Occidente. Alla storia e alle glorie di Samarcanda, lo storico Franco Cardini ha recentemente dedicato un libro affascinante: Samarcanda. Un sogno color turchese (Il Mulino, Bologna 2016). Una lettura da consigliare a chiunque voglia conoscere qualcosa di piú sulle vicende millenarie di uno dei luoghi piú affascinanti dell’Oriente. In alto: l’interno della madrasa di Ulug Beg. XV sec. A sinistra: la moschea di Bibi Khanum, e, a destra, un particolare della sua copertura esterna, interamente rivestita in maiolica policroma. XIV-XV sec.
Timur bin Taraghay Barlas (timur significa «ferro» in turco-ciagatai), ovvero Timur-i lang, cioè «Timur lo zoppo», occidentalizzato in Tamerlano (1336-1405), fu il fondatore della dinastia timuride, che dominò l’Asia Centrale e la Persia orientale tra il 1370 e il 1507 e i cui discendenti fondarono in India l’impero Moghul. Di origine turcomongola, Timur era intriso di cultura persiana, ma aspirava a riedificare l’impero mongolo di Gengis Khan, dal quale affermava di discendere. Si considerava un «ghazi», ovvero un combattente per la Fede, ma intraprese le sue campagne militari piú importanti contro Stati musulmani. Personalmente non volle mai assumere altro titolo se non quello di Emiro («Amir»), e non si fregiò mai del titolo di «Khan». Tamerlano scelse come capitale Samarcanda, che abbellí con splendidi monumenti, di cui affidò la costruzione ad architetti, artisti e decoratori fatti giungere nella città da tutto il mondo islamico. Molti autori descrivono la città nell’epoca timuride, ma nessuno lo fa con la vividezza di Ruy González de Clavijo. Costui, membro di una nobile famiglia di a r c h e o 99
SPECIALE • SAMARCANDA
Sulle due pagine: una veduta esterna e un’immagine dell’interno dell’osservatorio astronomico fatto costruire dal re Ulug Beg, nipote di Tamerlano. XV sec.
Madrid, era ciambellano del re di Castiglia e León quando fu scelto da Enrico III per guidare una missione diplomatica a Samarcanda presso la corte di Tamerlano. Partito da Cadice nel 1403 tornò in patria nel 1406 e fino alla sua morte, nel 1412, continuò a ricoprire alte cariche sotto Enrico III e il suo successore Giovanni II.
UN DIARIO PREZIOSO Il resoconto della sua missione, scritto al ritorno in Spagna, è un documento storico di notevole importanza e, per il lettore moderno, una straordinaria avventura di viaggio. Lungo un percorso di oltre 20 000 km, tra andata e ritorno, per mare e per terra, vengono descritti con ricchezza di particolari ambienti, personaggi e fatti dei luoghi toccati nelle varie tappe. Nella tratta mediterranea il lettore viene inizialmente porta100 a r c h e o
SPECIALE • SAMARCANDA
DA TAMERLANO A LENIN, E RITORNO La crisi dell’Unione Sovietica e la sua dissoluzione in repubbliche indipendenti ha avuto quale effetto collaterale la rilettura delle vicende storiche, anche antiche, dell’Asia Centrale, in chiave spesso ingenuamente nazionalistica. Di questo e altri interessanti temi si è occupata Maria Morigi, nel saggio Il patrimonio dell’umanità: geopolitica, civilizzazioni, ricerca archeologica in Asia centrale e Afghanistan (Anteo Edizioni, Cavriago 2016), che affronta,
to da Cadice – dove Clavijo s’imbarca il 21 maggio 1403 – alla costa italiana, attraverso le Baleari, le Bocche di Bonifacio, Ponza. Dopo uno scalo a Gaeta, il percorso si dirige, passando per Ischia e Capri, verso le isole Eolie – con la descrizione dell’eruzione dello Stromboli – e Messina. Da qui prosegue per il Peloponneso, Rodi, Chio, Costantinopoli e, dopo una sosta di tre mesi nella capitale bizantina per svernare, Trebisonda sul Mar Nero. Da Trebisonda inizia la marcia via terra, lungo la Via della Seta. Clavijo costeggia il monte Ararat, attraversa l’Armenia e la Persia, toccando Soltaniye, Teheran, Nishapur, valica i deserti del Turkmenistan meridionale, e infine l’8 settembre 1404, un anno e mezzo dopo la sua partenza, arriva a Samarcanda, da cui, dopo una sosta di due mesi e mezzo, inizia il viaggio di ritorno. In un mondo in conflitto e denso di pericoli, il lettore rimane sorpreso dall’intensità dei traffici commerciali, dalla natura e dalla qualità dei prodotti scambiati per migliaia di chilometri, dalla presenza dei mercantili genovesi e veneziani nei porti piú lontani del Mar Nero, dalle carovane di centinaia di cammelli sulla Via della Seta che collegavano l’Occidente alla Cina, scambiando non solo merci, ma anche idee, culture, lingue.
per esempio, il problema della sostituzione della figura di Tamerlano a quella di Lenin come padre della patria dell’attuale Uzbekistan. Dagli splendori archeologici dell’Afghanistan, antico cuore dei regni indo-greci nati con l’arrivo di Alessandro Magno, alle suggestive testimonianze disseminate nel resto dell’Asia Centrale, nelle varie repubbliche un tempo sovietiche, Maria Morigi ci conduce attraverso un percorso affascinante e insospettato.
dotato, nonostante l’infermità e l’età avanzata, di un’instancabile curiosità intellettuale. De Clavijo si sofferma poi a descrivere la capitale di Tamerlano: «La città di Samarcanda è situata in una pianura ed è recintata da un muro di terra e da un fossato assai profondo. È poco piú grande della città di Siviglia, però fuori delle mura vi sono molte piú case raggruppate in sobborghi sparsi in ogni direzione. Infatti, tutto intorno, entro un raggio di una lega e mezzo o di due leghe, vi sono molti orti e vigneti tra i quali vi sono strade e piazze assai animate, perché ci vive molta gente.Vi si vende pane, carne e molte altre cose, di modo che la parte che si estende fuori delle mura è piú popolosa di quella che sta dentro.Tra questi orti vi sono dimore assai grandi e ricche e anche Timur Beg ha lí le sue belle residenze con i loro giardini. Tutti i grandi signori di Samarcanda hanno le loro case fra questi giardini e gli orti e le vigne che stanno intorno alla città sono cosí numerosi che, quando vi si arriva, sembra di avanzare in una foresta di alberi d’alto fusto con la città stessa adagiata in mezzo. Sia questi orti sia la città sono attraversati da molti corsi d’acqua. Si vedono molte piantagioni di cotone e di meloni che qui sono buonissimi. Ci si meraviglia nel constatare che ancora per Natale vi siano tanti meloni e tanta uva».
INVITO ALLA VISITA Samarcanda è ancora oggi ricca di monumenti che testimoniano il suo grandioso passato, POCO PIÚ GRANDE DI SIVIGLIA… sebbene il contesto urbanistico della città sia In questo quadro spicca la figura del «grande stato purtroppo sconvolto in epoca sovietica. signore Timur Beg»,Tamerlano. Conquistato- Gli archeologi russi ebbero però il merito di re spietato e crudele, creatore di un immenso restaurare molti degli edifici timuridi che all’iimpero nell’Asia Centrale, ma nello stesso nizio del XX secolo versavano in condizioni tempo grande mecenate, promotore di studi di drammatico degrado. Tra i luoghi che costorici e filosofici, ospite cortese e generoso, stituiscono una tappa irrinunciabile per il vi102 a r c h e o
Uno scorcio della necropoli dello Shah-i Zinde, con gli sfarzosi mausolei edificati dalla dinastia timuride. IX-XIV sec.
sitatore spicca la piazza del Registan (antico luogo delle esecuzioni e delle parate militari), dove oggi sorgono tre splendide scuole coraniche del XV e XVII secolo; la gigantesca moschea di Bibi Khanum, fatta costruire da Tamerlano come moschea congregazionale della città con i proventi del saccheggio di Delhi; il Gur-i Mir, cioè lo splendido mausoleo fatto costruire originariamente dall’emiro per ospitarvi i resti del suo amatissimo nipote Muhammad Sultan, e poi trasformato in mausoleo dinastico timuride alla morte dello stesso Tamerlano, il cui corpo riposa nella cripta sottostante; le vestigia dell’osservatorio di Ulug Beg, il re astronomo, anch’egli nipote di Tamerlano, che aveva fatto costruire a Samarcanda uno degli osservatori astronomici piú all’avanguardia del mondo. Ma il luogo piú suggestivo della città è probabilmente la grande e antica necropoli dello Shah-i Zinde, che risale all’epoca della conquista araba e che i Timuridi abbellirono con una strabiliante serie di splendidi mausolei dedicati ai membri eminenti della famiglia reale: con il sole al tramonto, una visione indimenticabile.
IN VIAGGIO NEI LUOGHI LEGGENDARI Dal blu di Samarcanda al deserto dell’antica Merv, tra le terre di Corasmia, lungo il corso dell’Oxus e fino alla regione storica del Khorasan, sulle orme dei mercanti, attraverso leggendari regni, seguendo il filo rosso del cammino della seta, dall’Asia Centrale all’Iran: i tour proposti da Metamondo in Uzbekistan, Turkmenistan e Persia percorrono la storia di popoli e terre intrecciati dal racconto del mito. Con itinerari da 8 a 14 giorni si parte alla scoperta delle ricche culture e delle grandi civiltà di questo immenso cuore asiatico. Samarcanda, Khiva e Bukhara tracciano l’itinerario storico dell’Uzbekistan classico, distillando immagini di bellezza tra gli antichi mercati delle rotte carovaniere, gli azzurri intensi delle architetture, gli scenari del deserto. Tutti i viaggi di Metamondo in www.metamondo.it/destinazioni/uzbekistan/tour.htm Tel. 041 8899300
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QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli
…DOVETTE AFFRONTARE LA SECESSIONE DELLA BRITANNIA RECENTEMENTE, E CLAMOROSAMENTE, RIAFFERMATA CON IL REFERENDUM SULL’USCITA DALL’UNIONE EUROPEA, LA VOCAZIONE ALL’«ISOLAMENTO» DELL’INGHILTERRA SEMBRA ESSERE UNA SORTA DI TRADIZIONE. COME PROVANO GLI EVENTI SUCCEDUTISI AL TEMPO DELL’IMPERO ROMANO
L’
uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea non è stata una novità, in assoluto. Qualcosa del genere, infatti, avvenne anche nell’antichità, quando, mille e settecento anni fa, la Britannia, entrata a far parte nel 43 d.C. dell’impero di Roma, cedette per la prima volta alla tentazione, poi ricorrente, dell’«isolamento». In realtà, una sorta di «precedente» c’era già stato, nel 259, quando l’isola aveva aderito (insieme alla Spagna) al cosiddetto Imperium Galliarum, proclamato nelle Gallie dall’usurpatore Postumo ribellatosi contro l’imperatore Gallieno e finito, nel 274, con la riunificazione compiuta da Aureliano. Nel 290, però, andò in porto un’operazione di vera e propria «secessione in proprio» che condusse la Britannia a trasformarsi, sia pure per pochi anni, in uno Stato indipendente. E, per la prima volta, essa prese coscienza dell’importanza di avere il dominio del mare per garantirsi libertà e sicurezza. Tutto cominciò nel 288 e la «colpa» fu dei pirati franchi e sassoni che imperversavano nell’Oceanus Britannicus – com’era allora chiamato il Canale della Manica –, recando seri fastidi alle navi romane e alle coste dell’una e
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dell’altra sponda. In quel tempo, Massimiano che, con il compito di «sovrintendere» alla parte occidentale dell’impero, era stato elevato al rango di «Augusto» e associato come collega dall’imperatore Diocleziano (impegnato a restituire allo Stato una sicura e ordinata unità) aveva appena sistemato le cose,
UNA TATTICA SOSPETTA
ancora una volta, nelle Gallie, domando una pericolosa rivolta di bagaudae, com’erano chiamati i contadini, e respingendo Franchi, Alamanni e Burgundi oltre la frontiera del Reno. Restavano i pirati della Manica. Contro di loro, Massimiano provvide a riarmare la Classis
Il suo comando venne affidato a un ufficiale batavo-romano (un... «olandese»), M. Aurelio Valerio Carausio, originario della regione del Brabante, nella Gallia Belgica, che già si era distinto per l’abilità e l’energia mostrate nella repressione della «rivolta dei contadini». Carausio riuscí ad avere rapidamente ragione dei pirati, anche per via della tattica usata nei loro confronti: egli li lasciava uscire indisturbati in mare e compiere le loro scorrerie, poi li attaccava sulla via del ritorno, rilassati e carichi di bottino. Non ci volle molto, però, a far nascere il sospetto che l’«audace uomo di mare» fosse interessato, piuttosto che a dar loro la caccia, ad alleggerire i pirati dei loro carichi: una sorta di archipirata, come fu definito («pirata dei pirati»). In ogni caso, apparve chiaro che Carausio mirava soprattutto a ricavare dalle sue azioni consistenti
Britannica, la flotta formalmente costituita da Claudio (potenziando un primo nucleo creato dal suo predecessore, Caligola) per l’invasione della Britannia e che aveva la sua base nel porto di Boulogne (l’antica Gesoriacum dei Galli e Bononia dei Romani).
vantaggi personali, tanto da arricchirsi vistosamente. Massimiano ne ordinò allora la rimozione e addirittura la condanna a morte, che l’«olandese», avvertito in tempo, evitò con una aperta ribellione. Sul finire dell’anno 286, si trasferí con tutta la flotta in Britannia dove, accolto come «liberatore dei mari», s’impadroní del potere. Fattosi quindi acclamare imperatore dalle guarnigioni legionarie dell’isola, trasformò quest’ultima in una sorta di «regno» personale. Massimiano cercò di reagire, ma non disponendo di una flotta, andò incontro a un clamoroso fallimento. Quindi, temendo che Carausio volesse estendere il suo dominio e pur di lasciarlo isolato in quell’estrema regione settentrionale dell’impero, preferí accettare, almeno per il momento, il fatto compiuto. Tanto piú che – come scrive Aurelio Vittore – c’erano da tenere a bada le bellicose popolazioni della parte settentrionale dell’isola rimaste fuori dal dominio romano.
«sudditi» il mantenimento di costumi e tradizioni che, del resto, erano ormai ben radicati nel territorio dopo quasi due secoli e mezzo di «romanizzazione». Rese particolari onori e benefici alle tre legioni che erano di stanza nell’isola (la II Augusta, la XX Valeria e la VI Victrix), cosí come fece – piú genericamente e sia pure a distanza – nei confronti di tutte le altre dislocate nelle varie parti
Nella pagina accanto: incisione che ritrae M. Aurelio Valerio Carausio, ripresa da The Medallic history of Marcus Aurelius Carausius (1757-59) di William Stukeley e pubblicata in Early London (1908) di Walter Besant. In basso: testa monumentale dell’imperatore Massimiano, dalla villa romana di Chiragan (Francia). Fine del III-inizi del IV sec. d.C. Tolosa, Musée Saint-Raymond, Musée des Antiques de Toulouse.
I FORTI DI CARAUSIO E proprio a quel compito si dedicò Carausio, con grande energia, dopo aver celebrato, nel 290, il trionfo che s’era da se stesso conferito. Egli dunque rafforzò le difese, sia a nord, verso la Scozia, contro i tradizionali nemici Calèdoni, sia, e soprattutto, lungo le coste orientali e meridionali, dove costruí una serie di forti (il «Saxon Shore»), che dal Norfolk andavano all’isola di Vectis (l’odierna Wight). Quanto ai pirati, finí col farseli «amici» e alleati arruolandoli nella sua flotta, mentre ne adottava l’abbigliamento. Per il resto, si comportò da vero romano, proclamandosi «restitutore di Roma» e favorendo nei suoi
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dell’impero, evidentemente nell’intento di rendersele amiche per ogni evenienza. Rivendicava, inoltre, la protezione di Giove, di Marte e di Minerva e, ovviamente, del dio del mare Nettuno ed è singolare che l’unica «citazione» del poeta Virgilio mai apparsa su una moneta romana (expectate veni, cioè «sono venuto mentre ero atteso») compaia proprio nelle emissioni di questo strano tipo di ribelle, abilmente utilizzata per celebrare il suo arrivo e la sua affermazione in Britannia.
Qui sotto: aureo della Zecca di Londinium, 287-293 d.C. Al dritto, il profilo di Carausio; al rovescio, la personificazione della Pace.
MILANO, CAPITALE DELL’IMPERO A Roma – o, piuttosto, a Milano dove Diocleziano aveva deciso di trasferire la «capitale» della Pars occidentalis dell’impero – Massimiano aspettava l’occasione per sbarazzarsi di un rivale cosí fastidioso, che continuava a sfoggiare il titolo di «Augusto» e che, per legittimarlo, almeno presso i suoi «sudditi», coniava monete con la scritta «Carausio e i suoi fratelli», collocandosi quindi in compagnia degli Augusti legittimi con i quali pretendeva di dividere il potere. L’occasione si presentò, nel 293, dopo che Diocleziano, con la sua «tetrarchia», aveva completato il riordinamento dell’impero e del suo governo. Lo stesso Massimiano, ormai consacrato Augusto dell’Occidente, affidò al suo neonominato «Cesare», Costanzo Cloro (il padre di Costantino), il compito di ridurre alla ragione il ribelle. Costanzo cominciò con l’impadronirsi, grazie a un colpo di mano, del porto di Boulogne, rimasto sotto il controllo di Carausio; questi ne fu talmente scosso nel suo prestigio da indurre il suo «prefetto del pretorio», Allecto, a eliminarlo, uccidendolo, e a prenderne il posto. Finalmente, nel 296, Costanzo, dopo essersi
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In basso: moneta della serie con «Carausio e i suoi fratelli», da Rogiet (Monmoutshire, Galles). 292 d.C. circa. Cardiff, National Museum Wales.
assicurato il fianco destro con la sottomissione dei Franchi che occupavano il paese dei Batavi (attuale Olanda), mosse all’attacco della Britannia con due squadre navali. Quella al comando dell’ammiraglio Asclepiodoto, partita dall’estuario della Senna, approfittando della nebbia, riuscí a eludere la «flotta britannica», appostata presso l’isola di Wight, e a gettare le ancore nei pressi di Southampton. Poi, fatte bruciare le navi per non lasciarsi alcuna via di fuga e togliere ai suoi soldati ogni speranza di ritirata (e per non essere costretto a lasciarvi un presidio, dividendo cosí le sue forze), Asclepiodoto andò incontro ad Allecto. Questi, che s’aspettava l’attacco da parte dell’altra squadra navale al comando dello stesso Costanzo, ne rimase disorientato al punto da perdere il controllo della situazione. Lasciata la flotta presso l’estuario del Tamigi, si ritirò verso l’interno, ma nei pressi della città di Calleva (l’odierna Silchester), fu sconfitto e ucciso mentre i resti del suo esercito in fuga riuscirono a raggiungere Londinium (cioè Londra), che fu salvata dal saccheggio appena in tempo dal sopraggiungere della squadra di Costanzo, la quale, partita da Boulogne e perdutasi per la nebbia, era riuscita a imboccare il Tamigi risalendolo fino alla città. Cosí – mentre Costanzo veniva puntualmente acclamato «Restitutore della luce eterna di Roma» – finiva, dopo appena dieci anni, l’Imperium Britanniarum. Era stata sufficiente una piccola battaglia, alla quale non dovettero prendere parte piú di 2000 uomini (quasi tutti mercenari barbari) a porre termine alla secessione della Britannia e a segnare l’ulteriore destino dell’isola. Pienamente reintegrata nell’impero, essa sarebbe rimasta romana ancora per piú di un secolo.
SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti
UOMINI E MURI LA COSTRUZIONE DI BARRIERE A SCOPO DIFENSIVO, MA NON SOLO, HA ACCOMUNATO ANTICHE CIVILTÀ, REGNI E IMPERI E LE PRIME NAZIONI. UN CASO EMBLEMATICO È L’«OPERA DEI DANESI», INNALZATA NELL’ALTO MEDIOEVO E DI CUI L’ARCHEOLOGIA STA RIVELANDO LA STORIA E LE FASI DI UTILIZZO
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a sempre, per difendere i suoi territori, l’uomo costruisce muri o comunque ampie strutture lineari. A qualsiasi latitudine, in qualsiasi epoca. Basti pensare all’esempio piú famoso: la Grande Muraglia cinese, costruita tra il 215 a.C. e il XV secolo d.C. e che si snoda per 8850 km; oppure al Vallo di Adriano, innalzato in Inghilterra nel II secolo d.C. e lungo 117 km. Durante l’Alto Medioevo, in Europa, la nascita di molti nuovi Stati – e l’esigenza di difenderli – determinò la costruzione di svariati muri, soprattutto nell’area settentrionale del continente. Per esempio, il Vallo di Offa (Offa’s Dyke), realizzato anch’esso in Inghilterra nell’VIII secolo da Offa, appunto, il re della Mercia, per difendersi dalla minaccia del vicino regno di Powys (il Galles). Una barriera che si estendeva per 240 km. E poi c’è il Danevirke (letteralmente, l’«Opera dei Danesi»): un
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terrapieno alto circa 2 m e lungo 30, sul quale si impostava una palizzata, affiancato in alcuni tratti da un fossato.
VICINI PERICOLOSI Siamo nella fascia meridionale della penisola dello Jutland (oggi in Germania, regione dello Schleswig-Holstein), e la struttura, secondo la documentazione scritta superstite, viene costruita dal re Godfred, a partire dall’anno 808, per difendere il regno dei Danesi dal pericolo dei vicini Franchi. In realtà, vari interventi di scavo
hanno dimostrato che il primo impianto della fortificazione risale alla fine del VII secolo. E, di recente, sono emerse altre novità: è stata infatti scoperta quella che finora è l’unica porta conosciuta del Danevirke, detta «Kalegat», larga 6 m. Essa permetteva il passaggio attraverso il bastione ed era situata lungo l’Hærvejen, la «Strada dell’esercito». Il suo scopo primario doveva quindi essere il transito delle truppe militari. La vita del Danevirke fu lunga, e possiamo suddividerla in tre fasi principali. La prima è quella delle
A destra: vanghe in legno rinvenute negli scavi del Danevirke. Flensburg, Danevirke Museum. In basso: un tratto del Danevirke (l’«Opera dei Danesi»), innalzato a partire dalla fine del VII sec. d.C.
la città di Hedeby, un importante centro del commercio internazionale. Precauzioni giustificate, se si considera che, nel 974, la zona subí il poderoso attacco dell’imperatore Ottone II. Poco piú tardi, verso la fine del X secolo (nel 980 circa), fu aggiunto un altro tratto di fortificazione: il Kovirke, probabilmente voluto dal re danese Harald Dente Azzurro.
UN CASO UNICO origini: dall’inizio dell’VIII secolo fino all’intervento di Godfred (808), quando viene concepito l’intero sistema difensivo, imperniato proprio sul lungo bastione. La seconda fase risale al X secolo, e segna la massima espansione e articolazione nello spazio del Danevirke. Grazie alla dendrocronologia e alle analisi del 14C sono state individuate tracce di interventi di ristrutturazione databili verso il 940/950. In particolare, in quest’epoca fu aggiunto un muro semicircolare, il cui scopo principale era difendere
L’ultima fase di vita del bastione si data all’XI-XII secolo. In questo periodo si contano vari interventi di restauro, prova del fatto che il Danevirke era almeno in parte ancora in uso. In particolare, al re Valdemaro I di Danimarca si deve l’apertura di un cantiere notevole, volto a rinforzare un lungo tratto della fortificazione con l’aggiunta di un massiccio muro in mattoni. Per l’Europa settentrionale si tratta di un fatto abbastanza straordinario: è, infatti, uno dei rari e piú precoci esempi di uso del mattone per edifici che non rientrano nella sfera ecclesiastica. Dopo questa storia plurisecolare, il
Danevirke ha avuto una seconda vita «ideologica», ancor piú lunga. A causa del suo ruolo originario di muro di separazione – una separazione di carattere principalmente militare, ma venata anche di aspetti etnici (i Danesi da una parte, tutti gli altri al di là, separati da un muro; una storia, purtroppo, straordinariamente attuale…) –, il Danevirke è stato usato come simbolo in chiave nazionalista-romantica. Per esempio, la sua immagine è apparsa come disegno di copertina in giornali di stampo nazionalista, e cosí il suo nome. E quando, nel 1920, venne bandito un referendum per decidere se la provincia della Slesia (Schleswig) dovesse far parte della Germania o della Danimarca, il Danevirke venne usato negli slogan da parte della fazione pro-Danimarca. Oggi il Danevirke è Patrimonio dell’UNESCO, è ben visibile per lunghi tratti e, a Flensburg, si può visitare il Danevirke Museum, che racconta l’evoluzione del bastione nel corso del tempo, alla luce delle scoperte piú recenti.
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
SOTTO LA STELLA ARDENTE NEL MOMENTO PIÚ CALDO DELL’ANNO, SI VIVE NEL SEGNO DEL LEONE, ILLUMINATI DA SIRIO. PRESENZE CHE ANCHE LA PRODUZIONE MONETALE REGISTRÒ PUNTUALMENTE, CON ALCUNE IMPORTANTI EMISSIONI
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ra luglio e agosto, in piena estate e quando il calore del Sole raggiunge la massima intensità, è sconsigliabile uscire nelle ore centrali del giorno, caratterizzate da un caldo che
spesso definiamo, probabilmente senza saperne il perché, «canicolare». L’aggettivo deriva da «canicola», termine che indica il momento in cui il Sole è piú ardente e nella cui radice emerge
chiaramente il riferimento al «cane»: l’origine dell’etimo risale infatti al latino caniculus, cagnolino. E «cagnolino» è anche la denominazione antica e letteraria di Sirio, la stella piú brillante del A sinistra: riproduzione delle pitture che ornano il soffitto del tempio di Hathor a Dendera (Egitto): vi compaiono il cielo e i segni zodiacali, disegno di Domenico Valeriani, per la Nuova illustrazione istorico monumentale del Basso e dell’Alto Egitto di Girolamo Segato. 1835. Nella pagina accanto: dracma di Antonino Pio. Zecca di Alessandria, 144-145 d.C. Al dritto, il profilo dell’imperatore; al rovescio, Leone sormontato dalla testa radiata di Sol-Helios.
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gruppo del Cane Maggiore, nonché del firmamento notturno. Nel nostro emisfero, durante il torrido periodo compreso tra il 24 luglio e il 26 agosto, quando il Sole ha oltrepassato le costellazioni del Cane Maggiore e di quello Minore, Sirio sorge e tramonta con il Sole (levata eliaca). Il legame tra i nomi della Canicola e del Cane e gli astri è ben spiegato nel Vocabolario etimologico della lingua italiana edito da Ottorino Pianigiani nel 1907: «Tale costellazione ebbe siffato nome dagli Egizi, perché gli avvertiva, qual vigile cane, della prossima inondazione del Nilo».
Nell’emissione antonina dedicata ai «luminari», Sol-Helios è raffigurato con il busto e la corona radiata, suo simbolo, e con una stella a otto raggi a lato, l’astro solare.
COLUI CHE RISPLENDE
SEGNI NEL CIELO L’importanza delle costellazioni e della conoscenza dei moti astrali nel mondo antico – e tanto piú in quello egizio, legato al Nilo – è da tempo acclarata e raggiunse esiti speculativi e artistici altissimi. Si pensi, per esempio, alle raffinate figurazioni dei segni zodiacali, rinvenute in Egitto perlopiú in contesti sacrali e ancora oggi in uso: immagini che fanno la loro comparsa a partire dall’epoca greco-romana, quale frutto della fusione di elementi culturali e iconografici egiziani con le eccezionali conoscenze astrologiche e astronomiche babilonesi. Il segno zodiacale che cade tra luglio e agosto è quello, possente e maestoso del Leone, animale simbolo di grandezza, forza, regalità, legato all’energia e alla spinta vitale che il Sole stesso emana e incarna. Grande costellazione dell’emisfero settentrionale, quella del Leone era nota e riconosciuta da sempre e compare già nelle mappe babilonesi; essa ospitava poi il solstizio d’estate con il conseguente solleone, sinonimo di canicola. Come il Cancro con la Luna, il
Leone è dominato esclusivamente dal Sole, laddove i pianeti, in genere, hanno una domiciliazione su due segni: qui il Sole, astro splendente «luminare» per eccellenza, rappresenta la forza generante maschile, mentre la Luna è legata al femminile. Nella serie monetale detta «dello Zodiaco» e battuta ad Alessandria nel corso del regno di Antonino Pio, tra il 144 e il 145 d.C. per celebrare l’anno sotiaco egiziano (quando Sirio toccava sull’orizzonte lo stesso punto toccato dal Sole), il dritto è riservato all’imperatore, mentre sul rovescio appare il segno zodiacale sormontato dalla divinità dell’Olimpo legata al pianeta o al luminare (Sole e Luna) corrispondente, illustrando cosí, tra l’altro, la conoscenza dei rapporti tra i corpi celesti.
Va rilevato come l’etimologia del nome latino come di quello greco del dio derivi da una radice sanscrita che indica «ardere, risplendere». Uno degli epiteti greci del Sole era appunto seírios, cioè «colui che risplende», e lo stesso aggettivo costituisce il nome di Sirio, la stella piú luminosa della notte. Seguendo ancora il Dizionario etimologico di Ottorino Pianigiani, anche Sirio deriva il nome da una radice sanscrita che indica splendore ed essa è la «splendentissima stella della costellazione della Canicola, in cui entra il Sole nel mese di Luglio, nei maggiori calori dell’anno». Al centro del campo monetale si staglia un leone possente che si slancia, in una postura che esalta la nobile e vigorosa magnificenza dell’animale. Per ciò che incarna e per la sua posizione dominante nel mondo naturale, il leone venne scelto come tipo iconografico sin dalle prime emissioni della Lidia in elettro e la sua presenza è attestata in tutta la monetazione antica, cosí come in quella moderna e contemporanea. Emblema di potenza, simbolo di prestigio imperiale, fiera da vincere o vincitrice, signore degli altri animali, il leone assurge a una nobiltà di rango cosmica, quest’ultima correlata sia alle fatiche di Ercole con la vittoria sul leone nemeo, sia perché, come asserisce il mitografo di età imperiale Igino, «Si dice che il leone venne posto tra le stelle essendo il re degli animali» (Astronomica, II, 24).
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA
costituiva uno scalo di importanza che sarebbe riduttivo definire primaria. Stefano Mammini
Enrico Felici
NOS FLUMINA ARCEMUS, DERIGIMUS, AVERTIMUS
Claude Sintes
Canali, lagune, spiagge e porti nel Mediterraneo antico Edipuglia, Bari-S.Spirito, 280 pp., ill. b/n. 50,00 euro ISBN 978-88-7228-814-6 www.edipuglia.it
I PIRATI CONTRO ROMA LEG Edizioni, Gorizia, 206 pp. 22,00 euro ISBN 978-88-6102-385-7 www.leg.it
Particolare della Tabula Peutingeriana nel quale sono indicate le Fossae marianae, i canali artificiali fatti scavare da Mario alla foce del Rodano.
Mai come in questo caso, non si può non partire dal titolo, visto che, come racconta l’autore stesso, la frase latina che lo caratterizza ha costituito il punto di partenza della ricerca ora pubblicata. Una citazione che, sarà bene ricordarlo, è tratta dal De natura deorum di Cicerone e condensa mirabilmente («noi che arrestiamo, che incanaliamo, che deviamo il corso dei fiumi…») una delle attività in cui i Romani seppero meglio distinguersi, ovvero l’ingegneria idraulica e, in particolare, lo scavo di canali. Nella prima parte del volume, Enrico Felici inquadra l’ambito in cui 112 a r c h e o
le sue ricerche si sono sviluppate, passando in rassegna le molte variazioni di un tema solo all’apparenza elementare. Al di là dell’impegno in termini di forza lavoro, la realizzazione dei canali presupponeva infatti la conoscenza dei territori nei quali si decideva di operare e la capacità di elaborare risposte tecnologicamente e strutturalmente adeguate alle problematiche che potevano derivare, per esempio, dalla natura dei suoli. Segue quindi l’ampio repertorio dei siti, che comprende anche opere non ascrivibili a Roma, che pure costituiscono il corpus piú consistente. A inaugurare la rassegna è uno dei siti piú significativi, vale a dire il Delta del Nilo, del quale già Erodoto e Strabone avevano descritto i molteplici rami e canali. Oggi, complici le mutazioni climatiche e
morfologiche, è di fatto impossibile accertare la conformazione originaria della zona, ma, al di là delle cifre – che variano da un autore all’altro – la rete doveva certamente essere molto fitta. Spostandosi in Grecia, si nota una folta schiera di istmi, guidata da quella che Felici definisce «la grande incompiuta», ovvero il taglio della lingua di terra che separava i due porti di Corinto, Kenchreai e Lechaion, e che fu finalmente portato a termine nel 1893, nonostante vi si fossero cimentati in epoca antica Periandro, Giulio Cesare, Caligola e, soprattutto, Nerone. Per quanto riguarda gli interventi compiuti nella Penisola, essi furono numerosi e spesso di notevole portata, come quelli che interessarono la foce del Tevere, attuati al fine di garantire la massima funzionalità del porto di Ostia, che per Roma
Vivo e attuale, come ricorda lo stesso Claude Sintes nelle pagine introduttive, il fenomeno della pirateria ha avuto una storia lunga e densa. L’obiettivo dell’autore, direttore del Museo Archeologico di Arles, è puntato sull’età romana, quando le lotte per debellare i predoni del mare furono una preoccupazione ricorrente. Il volume si legge gradevolmente e, al tempo stesso, offre una mole davvero considerevole di notizie, grazie alle quali ci si può davvero sentire a bordo delle navi dei pirati (o dei loro avversari). S. M.