ABIDO
AOSTA
EGITTO A VULCI
FANUM VOLTUMNAE
MUSEO DI MURLO
OSIRIDE SPECIALE APOLLO A POMPEI
MURLO
SPECIALE
POMPEI E I GRECI
FARAONE SESOSTRI
UN MUSEO CON VISTA SUGLI ETRUSCHI
SEGRETO DEL
UNA SENSAZIONALE SCOPERTA NEL DESERTO EGIZIANO
IL PARCO ARCHEOLOGICO DI SAINT-MARTIN-DE-CORLÉANS
AOSTA
www.archeo.it
IN EDICOLA L’8 GIUGNO 2017
.it
L’E M GI O TT ST O RE A VU ww w. LC a rc I he o
2017
Mens. Anno XXXIII n. 388 giugno 2017 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
ARCHEO 388 GIUGNO
IL € 5,90
EDITORIALE
CONTAMINAZIONI Da qualche anno, Pompei vive una stagione di autentica rinascita, in grado di attenuare l’immagine di degrado e desolazione che l’aveva inesorabilmente segnata nei decenni precedenti. Di questa inversione di tendenza (che non cancella, attenzione, il ricordo delle tristi vicissitudini passate) i nostri lettori sono aggiornati, mese dopo mese, attraverso la rubrica «All’ombra del vulcano»: in essa diamo puntuale resoconto delle iniziative di scavo, restauro e riapertura al pubblico di ampie aree del piú celebre sito archeologico del mondo. Vale ricordare che questa nuova vita di Pompei, ora scandita da ritmi propriamente «cittadini», è stata premiata dalla presenza, nel 2016, di oltre tre milioni di visitatori. Quello, però, di cui non abbiamo ancora potuto rendere conto è l’intenso ripensamento a cui la storia piú antica della città è stata sottoposta, nel corso di questi ultimi anni, da parte degli studiosi (archeologi e storici) che a essa si sono dedicati. A illustrare e diffondere questo lavoro invisibile giunge ora la mostra «Pompei e i Greci», allestita nella Palestra Grande dell’antica città e accompagnata da un fondamentale catalogo. Gli ambiti e i temi affrontati sono affascinanti, soprattutto perché rispondono a interrogativi emersi da nuove prospettive metodologiche ed epistemologiche. Nello Speciale di questo numero, Massimo Osanna, soprintendente di Pompei, afferma che la mostra non intende raccontare «un incontro ideale con un mondo vagheggiato, l’Ellade», pur riconoscendo l’esistenza, nella città vesuviana, di una «nostalgia del mondo greco»; mira, invece, a individuare la piú antica «identità» di Pompei, città non fondata da Greci (come è il caso delle vicine Neapolis o Poseidonia), eppure cosí simile alle colonie della Magna Grecia. In che cosa consiste, allora, lo «specifico pompeiano»? Gli elementi che concorrono a delinearne la fisionomia suggeriscono di abbandonare categorie interpretative chiuse («l’identità»), a favore di una visione piú ampia, mobile, fluida: Pompei appare, cosí, come un luogo in cui le culture sfumano le une nelle altre. E dove «l’intreccio di somiglianze e differenze» (secondo l’espressione dell’antropologo Francesco Remotti) dischiude l’accesso a quell’area di condivisione che chiamiamo «cultura». Andreas M. Steiner
Tazza con iscrizione in greco, «Brandion», dalla necropoli di Sant’Agata sui Due Golfi. Fine del VI sec. a.C. Piano di Sorrento, Museo Archeologico della Penisola Sorrentina «George Vallet». Il reperto è attualmente esposto nella mostra «Pompei e i Greci», in corso a Pompei, nella Palestra Grande.
SOMMARIO EDITORIALE
Contaminazioni 3 di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
8
SCAVI Nuove ricerche a Barumini svelano importanti dettagli sull’articolazione del villaggio nuragico di Su Nuraxi 10 ALL’OMBRA DEL VULCANO Gli scavi avviati sulle mura di Pompei documentano i cruciali momenti dell’assedio subito dalla città nell’89 a.C. 12 MOSTRE Dal prossimo ottobre, una grande mostra celebrerà i 1900 anni dalla morte di Traiano e, in attesa dell’evento, il Museo dei Fori Imperiali offre una suggestiva anteprima dell’allestimento 18
PAROLA D’ARCHEOLOGO Nelle intenzioni di Francesco Sirano, direttore del Parco Archeologico di Ercolano, la rinascita del sito passa attraverso il «coinvolgimento» degli abitanti della città antica 20
DALLA STAMPA INTERNAZIONALE
PARCHI ARCHEOLOGICI Nei solchi della storia
42
di Stefano Mammini
MOSTRE
Due mondi a confronto
52
di Simona Carosi e Carlo Casi
La storia di Cartagine è stata spesso riletta in chiave piuttosto fantasiosa, evocando terribili riti sacrificali in onore di Moloch 26
58
SCAVI
Tutte le barche del faraone di Paolo Leonini
30
30
SCAVI
Ecco il Fanum degli Etruschi
58
di Giuseppe M. Della Fina
MUSEI
Museo con vista
68
di Giuseppe M. Della Fina In copertina Abido (Egitto), recinto funerario di Sesostri III. Il deposito di anfore rinvenuto davanti all’ingresso dell’edificio nel quale venne sepolta una grande imbarcazione.
Anno XXXIII, n. 388 - giugno 2017 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Amministrazione: Roberto Sperti
amministrazione@timelinepublishing.it
Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti,
Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale Hanno collaborato a questo numero: Sabina Antonini collabora con la archeologica ed epigrafica franco-etiopica nella provincia del Tigray (Etiopia). Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Pasquale Bucciero è specializzando in archeologia presso la Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici di Matera. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carmela Capaldi è Professore di archeologia classica all’Università degli Studi di Napoli «Federico II». Simona Carosi è funzionario archeologo presso la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Carlo Citter è ricercatore di archeologia cristiana e medievale all’Università di Siena. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Teresa Demauro è architetto. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Iwona Gajda è condirettrice della missione archeologica ed epigrafica franco-etiopica nella provincia del Tigray (Etiopia). Gian Michele Gerogiannis è archeologo. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco Archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Massimo Osanna è direttore generale del Parco Archeologico di Pompei. Carlo Rescigno è professore associato di archeologia classica presso l’Università degli Studi della Campania «Luigi Vanvitelli». Tiziana Rocco è archeologa. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Illustrazioni e immagini: Cortesia Josef Wegner, Egyptian Section, Penn Museum, University of Pennsylvania: copertina e pp. 30-41 – Cortesia Ufficio Stampa della mostra «Pompei e i Greci»: Luigi Spina: pp. 3, 80-81, 82, 84-94, 96-99; Francesco Esposito: p. 95 – Cortesia della missione archeologica ed epigrafica franco-etiopica nella provincia del Tigray (Etiopia): pp. 8 (basso), 9; X. Peixoto: p. 8 (alto) – Cortesia Soprintendenza Archeologia belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Cagliari e per le province di Oristano e Sud Sardegna: p. 10 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 12-14 – Cortesia degli autori: pp. 16-18 – Cortesia Parco Archeologico di Ercolano: pp. 20-21 – Da: Antike Welt: pp. 26-27 – Cortesia Regione autonoma Valle d’Aosta-Assessorato Istruzione e Cultura-Soprintendenza per i beni e le attività culturali, Archivi Patrimonio archeologico: pp. 42/43, 44 (alto), 45, 46, 46/47, 49, 50/51 – Stefano
108 MOSTRE
La seconda resurrezione di Osiride 74 a cura di Stefano Mammini
74
SCAVARE IL MEDIOEVO Smentire i luoghi comuni
108
di Andrea Augenti
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO
L’archeologo inconsapevole 100
Doppia identità
110
di Francesca Ceci
LIBRI
100
112
80 SPECIALE
Apollo a Pompei
di Daniele Manacorda
80
testi di Massimo Osanna, Carlo Rescigno, Gian Michele Gerogiannis, Pasquale Bucciero, Teresa Demauro, Tiziana Rocco e Carmela Capaldi
QUANDO L’ANTICA ROMA...
...chiudeva le porte del Sacello di Giano 104 di Romolo A. Staccioli Mammini: p. 44 (centro e basso), 47, 48 – Cortesia Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale: pp. 52-57 – Cortesia Simonetta Stopponi: pp. 58-59, 60 (alto e basso), 61-67 – Doc. red.: pp. 68-69, 70, 71, 83, 106-107, 108, 110 (destra), 111 – Cortesia Antiquarium di Poggio Civitate-Museo Etrusco di Murlo: p. 72 – Christoph Gerigk © Franck Goddio/Hilti Foundation: pp. 74-79 – Shutterstock: pp. 82/83, 109 – Mondadori Portfolio: Leemage: pp. 100, 110 (sinistra); AKG Images: p. 101; Rue des Archives/RDA: p. 102; Album: pp. 104/105 – DeA Picture Library: A. Dagli Orti: p. 104 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 60, 70. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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n otiz iari o SCAVI Etiopia
ASCESA E DECLINO DI UNA CITTÀ AKSUMITA
I
ndividuato nel 2004 a seguito di lavori agricoli, il sito aksumita di Wakarida si trova nella regione montagnosa del Tigray orientale (Etiopia), all’estremità degli altipiani dominanti la grande depressione della Dancalia che si estende a est verso il Mar Rosso. Questa posizione strategica ha indotto una missione archeologica franco-etiopica a farne l’oggetto delle ricerche sistematiche avviate nel 2011 sul sito stesso e nel territorio circostante. L’insediamento sorge su un pianoro roccioso nel mezzo di una fertile valle, circondata da pendii scoscesi coltivati a grano, mais, sorgo e tef (un cereale tipico dell’Etiopia e dell’Eritrea, n.d.r.), in fitti terrazzamenti; copre una superficie di 9 ettari e l’estensione delle strutture dimostra che era un
In alto: Wakarida (Tigray orientale, Etiopia). Il «palazzotto» identificato nel Settore 1, denominato Edificio D. Nella pagina accanto: il Settore 1 del cantiere di scavo. In basso: statuetta femminile acefala in calcare, dal Settore 2.
8 archeo
piccolo centro urbano, ben organizzato e densamente abitato. Nel corso dei secoli l’insediamento è stato poi utilizzato come cava per la costruzione del villaggio sorto a valle, e di qualche isolata fattoria, le cui fondazioni insistono sulle strutture antiche. Sulla cima del pianoro di Wakarida gli scavi hanno messo in luce un «palazzotto» (Settore 2, Edificio A), che, in ragione delle sue dimensioni (13,5 x 12,5 m) e della posizione, poteva essere stata la residenza di un notabile del posto. Sul lato nord-occidentale, una scalinata monumentale foderata da luccicanti lastre di scisto permetteva l’ingresso all’edificio, probabilmente a due piani, composto di ben 9 ambienti. Contiguo a questo palazzotto, a N-E sorgeva un edificio, piuttosto modesto, probabilmente un annesso di servizio. Sul pendio, lungo il limite nord-orientale del sito, lo scavo ha messo in luce altri edifici, uno
dei quali (Settore 1, Edificio D; 12 x 9 m) si compone di 6 ambienti e presenta le stesse caratteristiche costruttive dei prestigiosi palazzi aksumiti. Come il palazzotto in cima al pianoro, è provvisto anch’esso di modeste strutture annesse, utilizzate come ambienti di servizio per le attività domestiche e magazzini, come ha dimostrato il ritrovamento di focolari, diverse giare complete in situ e utensili per la lavorazione e la trasformazione dei prodotti della terra. Un terzo cantiere di scavo (Settore 3), aperto fra i due edifici, ha rivelato strutture simili, risalenti al medesimo periodo. In tutti e tre i settori sono state scoperte varie sepolture; alcune, post-aksumite, erano addossate alle murature preesistenti, con le deposizioni poggianti sulla roccia madre e coperte da lastre di scisti. Al contrario, le deposizioni di infanti in giare di terracotta trovate sotto i pavimenti delle abitazioni sono di epoca aksumita. Tra i materiali restituiti dagli scavi, le numerosissime macine, con
macinelli e pestelli di pietre, forme e grandezze differenti, dimostrano una fiorente attività agricola. Altrettanto considerevole è la quantità di ceramica, che mostra una tipologia molto diversificata nelle forme, negli impasti, nei trattamenti delle superfici e nelle decorazioni, che trovano confronti con la coeva produzione di Aksum. Vi sono ceramiche molto raffinate, a pareti sottili, ingubbiate e lustrate, con decorazioni dipinte sottolineate da lievi incisioni. E poi ceramiche di fattura piú grossolana, ma con decorazioni complesse, incise, impresse e applicate. Tra gli oggetti di ornamentazione personale, sono stati trovati bracciali e anelli in bronzo, vaghi di collane o bracciali in pietre semi-preziose, pasta vitrea di diversi colori e forme e un millefiori. Le conchiglie di Cypraea moneta erano usate come pendenti o per decorare manufatti in pelle. Legate probabilmente alla sfera cultuale sono le statuette e le figurine in pietra e in terracotta, con sembianze antropomorfe e
zoomorfe. Tra queste ultime prevalgono le rappresentazioni di buoi o tori, oltre a rari dromedari. Tra le figure antropomorfe, merita particolare attenzione una raffinata statuetta muliebre acefala scolpita nella pietra calcarea. Alta 8 cm, rappresenta una figura femminile nuda, stante, con il braccio destro disteso lungo il fianco, e il braccio sinistro piegato all’indietro ad angolo retto e appoggiato sul fondo della schiena. La testa, forse modellata a parte nell’argilla, era inserita con un perno nel foro praticato alla base del collo. I gioielli sono scolpiti a basso rilievo intorno al collo, ai polsi e alla vita. Per la tipologia in generale, ma non per i dettagli, questa scultura si avvicina a una statuetta alta 7 cm trovata a Matara in un contesto stratigrafico di VI-VIII secolo d.C. La città antica di Wakarida sembra avere avuto una vita di almeno quattro secoli (IV-VIII secolo d.C.); alcune aree del sito furono in seguito rioccupate, come dimostrano alcune strutture modeste e la rozza terracotta
grigiastra trovata in superficie, che ricorda, per forme e decorazioni, la produzione ceramica post-aksumita. Le caratteristiche del sito, l’architettura e la cultura materiale provano l’estensione dell’influenza del regno di Aksum fino all’estremità orientale dell’altopiano del Tigray. È probabile, quindi, che Wakarida dipendesse politicamente dal potere centrale di Aksum. Il ritrovamento di frammenti di anfore, perline in millefiori, monete e di un sigillo sasanide dimostra che Wakarida era integrata nel circuito del commercio interregionale e soprattutto con la capitale; ma sono evidenti anche specificità locali, soprattutto nella produzione della ceramica e nel materiale litico. La storia del sito di Wakarida, relativamente corta, riflette bene il periodo di prosperità del regno di Aksum, in particolare tra il III-IV e il VI secolo d.C., e del suo declino, dopo il VII-VIII secolo d.C. Iwona Gajda e Sabina Antonini
archeo 9
n otiz iario
SCAVI Sardegna
SACRIFICI PER UNA FONDAZIONE
I
l sito nuragico di Su Nuraxi, a Barumini, nella provincia del Sud Sardegna, è stato teatro di nuove e importanti scoperte. Iscritto nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Unesco dal 1997, il complesso è costituito da un imponente nuraghe a bastione quadrilobato, un antemurale e un intricato villaggio. Le indagini hanno interessato tre settori: l’area a nord-est dell’abitato protostorico, la capanna 197 e la cosiddetta «torre-capanna» (adiacente la Torre Nord, nel tratto sud-orientale dell’antemurale). In particolare, lo scavo della capanna 197 e della torre-capanna intendeva verificare la presenza di alcune strutture murarie pertinenti a una fase piú antica rispetto alle capanne del villaggio dell’età del Bronzo Finale, strutture forse riferibili a un primitivo antemurale. L’assenza di strutture nel primo settore ha confermato il limite nord-orientale dell’area abitativa. Nella capanna 197, lo scavo non ha evidenziato tracce di tratti murari riferibili all’ipotizzato antemurale, anche se il ribassamento intenzionale del piano roccioso naturale farebbe pensare a una risistemazione dell’area finalizzata alla costruzione della capanna. Ma la novità piú importante è scaturita dallo scavo degli strati residuali, che ha messo in luce, a ridosso del paramento settentrionale della capanna, un pozzetto analogo a quelli del Nuragico I Inferiore della vicina capanna 135, oggetto, questi ultimi, di una
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A destra: Barumini, Su Nuraxi. Lo scavo del pozzetto scoperto a ridosso della capanna 197. In basso: una veduta del cantiere di scavo. recente revisione. Al suo interno sono state trovate forme ceramiche forse databili al Bronzo Finale, tra cui un vaso calefattoio con appendici a nervature e ciotole carenate. I recipienti contenevano carboni e ossa di piccoli animali, insieme a gusci di molluschi bivalvi (Mytilus galloprovincialis). Una seconda fossa, probabilmente di combustione, ubicata presso il paramento meridionale della capanna, era riempita di pietrame e conteneva anch’essa resti di ossa animali. I materiali faunistici, analizzati dagli archeozoologi Alfredo Carannante e Salvatore Chilardi, sono riferibili a maiali (Sus domesticus) e ovicaprini (Ovis vel Capra). In particolare, i resti di suino appartengono a due individui di età perinatale (uno per pozzetto), con un’età di morte collocabile nelle primissime settimane di vita. Tutto ciò fa pensare all’offerta di animali sacrificali, di «primizie», connesse a
un rituale di fondazione della nuova struttura abitativa. Nella torre-capanna, infine, è stato scavato il deposito non asportato durante gli scavi condotti da Giovanni Lilliu negli anni Cinquanta del Novecento. È stata messa in luce la roccia basale su cui fu costruita la struttura, mentre la presenza di numerosi carboni permetterà di datare la prima fase di frequentazione del vano. La campagna di scavo è stata condotta, su concessione ministeriale, dall’Università di Cagliari, grazie al sostegno finanziario del Comune di Barumini e della «Fondazione Barumini Sistema Cultura». Le indagini e la documentazione sono state dirette dagli archeologi Riccardo Cicilloni e Giacomo Paglietti (Dipartimento di Storia, Beni Culturali e Territorio dell’Ateneo cagliaritano), d’intesa con la Soprintendenza Archeologia belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Cagliari e per le province di Oristano e Sud Sardegna e hanno visto la partecipazione di studenti e dottorandi delle Università di Cagliari e Granada. Giampiero Galasso
ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
ECHI DI ANTICHE BATTAGLIE SULLE MURA DI POMPEI SI POSSONO «LEGGERE» ALCUNE DELLE PAGINE PIÚ DRAMMATICHE DELLA STORIA DELLA CITTÀ. MA LA PODEROSA CINTA CUSTODISCE ANCHE LE TRACCE DELLA SUA VICENDA COSTRUTTIVA CHE SI RIVELA OGNI GIORNO PIÚ ARTICOLATA E COMPLESSA
A
Pompei la storia e l’archeologia spesso si incontrano. E cosí il ricordo di battaglie di oltre 2000 anni fa trova un’eco nei monumenti di questa città, come accade nel caso delle mura urbane. Lunga piú di 3 km, e in gran parte conservata per un notevole elevato, la cinta pompeiana è dotata di sette porte (Ercolano, Vesuvio, Nola, Sarno, Nocera, Stabia e Marina) e di dodici torri, numerate a partire dal lato meridionale del centro. Nella primavera dell’89 a.C., insieme ad altre città italiche, Pompei si solleva contro Roma reclamando a gran voce la piena cittadinanza ed esponendosi cosí a
conseguenze militari che non tardano ad arrivare. Al comando dell’esercito romano è il generale Lucio Cornelio Silla che attacca la città sul lato settentrionale della cerchia, tra Porta Ercolano e Porta Vesuvio. Senza dubbio è il tratto migliore della fortificazione, armato da una possente struttura a doppia cortina in blocchi rincalzata da un aggere di terra, e ben difeso da torri poste a circa 200 m l’una dall’altra. Ma dal ciglio del fossato delle mura fino alle falde del Vesuvio, contrariamente agli altri lati del pianoro urbano caratterizzati da fianchi scoscesi, si estende un’ampia pianura, idonea al dispiegamento delle catapulte e In alto: gli scavi delle mura condotti da Maiuri presso Porta Vesuvio. 1927-1929. A sinistra: la Torre di Mercurio con un tratto di cortina esterna, sul lato settentrionale della città.
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delle baliste da sfondamento. Essendo romani sia gli armamenti che le tattiche degli assedianti e degli assediati, apparve chiaro che la città sarebbe caduta solo dopo un lungo ed estenuante assedio.
UNA STRENUA DIFESA La difesa dei Pompeiani dagli spalti delle mura e dalle torri è strenua e, in un primo momento, i Romani hanno addirittura la peggio, grazie anche alla collaborazione degli alleati italici capitanati da Lucio Cluenzio. Ma all’alba di una calda giornata estiva una grandine di palle di pietra si abbatte contro le mura cittadine, sgretolando i parapetti difensivi e annientando il contrattacco delle artiglierie disposte sulle torri di guardia. Pompei e gli alleati perdono la loro guerra, Roma ristabilisce la sovranità e la città diviene prima municipium, poi, nell’80 a.C., Publio Cornelio Silla, nipote del dittatore Lucio, ne fa una colonia col nome di Cornelia Veneria Pompeianorum. E ancora oggi, nel
A sinistra: ricostruzione grafica del tratto a doppia cortina presso Torre di Mercurio, interessato dai nuovi scavi, mirati a comprendere origine e sequenza delle strutture. In basso: la Torre di Mercurio vista dal lato interno.
paramento tra Porta Ercolano e Porta Vesuvio, si possono contare centinaia di crateri lasciati dai colpi delle baliste, delle catapulte, delle fionde, i piú grandi dei quali hanno un diametro fino a 15 cm e una penetrazione di 12. Le mura, originariamente in grandi blocchi, mostrano alcuni tratti ripristinati in opera incerta di lava che probabilmente corrispondono alle brecce aperte durante l’assedio, come testimonia anche l’iscrizione che ricorda il restauro della cinta voluto dai duoviri Cuspius e Marcus Loreius, all’indomani dell’istituzione della colonia. I due graffiti con il nome «Silla», letti agli inizi del Novecento su un lembo d’intonaco al primo piano della Torre X, vicina a Porta Vesuvio, sono stati interpretati come segno di presa della città da parte di un legionario. Dentro Pompei, conservate forse per scaramanzia, sono state rinvenute, variamente sistemate, numerose palle di pietra lanciate nell’assedio dalle macchine belliche piú potenti.
Soprintendenza degli scavi archeologici iniziati a Torre di Mercurio. «La città – spiega– conserva tre circuiti difensivi, disposti all’incirca sullo stesso percorso, costruititi in tempi diversi e con materiali e tecniche differenti.
I primi due piú antichi, il muro in pappamonte (un tufo tenero e facilmente lavorabile, n.d.r.) e quello a ortostati, sono noti attraverso alcuni resti archeologici, mentre la terza cinta in calcare si estende su tutto il perimetro attualmente visibile e documenta, a sua volta, altri rifacimenti eseguiti fino alla distruzione del 79 d.C. A una prima fortificazione arcaica del VI secolo a.C si attribuiscono i tratti di muratura in blocchi di pappamonte e lava tenera sul fronte settentrionale (presso Torre XI, a Porta Vesuvio, e Torre IX) e sudorientale, vicino a Porta Nocera». La prima cinta includeva importanti spazi sacri come il santuario di Apollo e il Tempio Dorico, nonché luoghi pubblici, quali la piazza del
I TRE CIRCUITI E cosí la storia delle fortificazioni di Pompei costituisce anche un importante fil rouge per la conoscenza della sistemazione urbana. Ne parliamo con Lara Anniboletti, studiosa delle mura cittadine e responsabile per la
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mercato nell’area del successivo Foro civile, mentre l’occupazione interna doveva essere caratterizzata da quartieri abitativi sparsi.
L’AGGIORNAMENTO «Un aggiornamento del circuito murario avviene fra il VI e il V secolo a.C. – continua l’archeologa –, come si può osservare dai tratti visibili presso Porta Ercolano, Torre Mercurio, Porta Vesuvio, Porta Stabia e Porta Nocera. La nuova cinta, detta a “ortostati”, è contraddistinta da una doppia cortina in calcare e da un riempimento interno composto da terra e pietrame: si tratta di una tecnica evoluta, di chiara ispirazione greca, verosimilmente cumana, che si ritrova poco piú tardi anche a Neapolis. Alla fine del IV secolo a.C., dopo l’affermazione dei Sanniti in città, si rende necessario adeguare il sistema difensivo per l’evolversi delle tecniche murarie e militari: si adotta una fortificazione di tipo italico “ad aggere”, con un robusto terrapieno di rinforzo sul lato interno. La nuova cinta in blocchi di calcare e tufo oblitera del tutto le due precedenti strutture difensive. Allo stesso periodo sannita
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In alto: prospetto di un tratto murario ricostruito anticamente presso Porta Ercolano dopo la breccia sillana dell’89 a.C. A destra: un tratto delle mura «a ortostati» di tipo greco visibili presso Porta Vesuvio. appartiene la monumentalizzazione delle porte urbiche, costituite da un profondo passaggio attraverso l’aggere, rinforzato da due bastioni esterni con portone a due battenti. Forse con la minaccia annibalica si aggiunge una seconda cortina muraria interna, funzionale alla realizzazione di un camminamento di ronda protetto da parapetti».
NUOVE INDAGINI «Studi recenti – conclude Anniboletti – hanno messo in discussione la ricostruzione tradizionale delle mura pompeiane proposta da Amedeo Maiuri, immaginando invece un sistema
originario già a doppia cortina: e proprio per verificare questa ipotesi sono stati avviati dalla Soprintendenza Pompei e dall’Università di Roma Tor Vergata (direzione scientifica di Marco Fabbri) scavi presso la Torre di Mercurio, mirati a comprendere origine e sequenza delle strutture». E chissà se la terra, a Pompei depositaria di infiniti ricordi, non ci possa ancora rivelare nuove storie su una della città murate piú conservate dell’antichità. Per notizie e aggiornamenti su Pompei, pagina Facebook Pompeii-Soprintendenza. Alesandro Mandolesi
A TUTTO CAMPO Carlo Citter
SI PUÒ PREVEDERE IL... PASSATO? IL QUESITO, ALL’APPARENZA CONTRADDITTORIO, RIASSUME, IN REALTÀ, UNA DELLE ASPIRAZIONI DELL’ARCHEOLOGO. CHE, PER TROVARE UNA RISPOSTA, PUÒ DA QUALCHE TEMPO CONTARE SU NUOVE STRATEGIE D’INDAGINE
P
revedere qualcosa che è già accaduto può sembrare un inutile esercizio retorico, ma la predittività in archeologia non ha nulla a che fare con sfere di cristallo e magia. Lo sviluppo dell’informatica ha permesso di applicare anche al lavoro quotidiano dell’archeologo strumenti di calcolo impensabili fino a pochi decenni fa. Oggi possiamo elaborare vere e proprie analisi di scenario. Possiamo cioè chiederci quali potessero essere le scelte delle comunità umane in termini di ubicazione degli insediamenti,
mobilità e sfruttamento delle risorse in un determinato contesto ambientale e storico, con caratteristiche specifiche. La previsione è in sé una stima che può partire o dal dato osservato per estrarre delle regole generali (metodo induttivo), oppure da regole generali per simulare casi particolari (metodo deduttivo). Come ogni stima, essa non può esaurirsi nella produzione di uno scenario, ma va sottoposta a una verifica sul campo.
PRO E CONTRO Un terreno cosí scivoloso non poteva passare inosservato e neppure essere etichettato come uno dei tanti gradini dello sviluppo della disciplina archeologica. A fronte di un ristretto gruppo di accesi sostenitori, la comunità scientifica è ancora molto scettica sull’uso di strumenti basati su una componente deterministica molto forte, sia che si adotti un metodo induttivo, sia che si adotti un metodo deduttivo. Nel primo caso, infatti enfatizziamo, la componente locale a scapito di altre variabili, che pure possono Ricostruzione dei tracciati della via Aurelia vetus e della via Aemilia Scauri nel tratto della provincia di Grosseto.
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aver pesato nelle scelte umane. Nel secondo caso, diamo per scontato che le scelte siano sempre state improntate all’efficienza e alla razionalità. Il dibattito è stato molto animato e non sembra trovare un reale punto di sintesi. Ci siamo allora chiesti se fosse realmente proficuo rimanere ancorati a una discussione spesso molto, troppo teorica. Siamo cioè partiti dalla banale constatazione che i nostri strumenti non ci permetteranno mai di sapere con precisione aritmetica quanti siti di un certo tipo effettivamente coesistessero in quel preciso anno in quell’ambito geografico. Allo stesso modo non potremo mai accertare quale sia stato l’uso effettivo di ogni metro quadrato di terreno in quello stesso anno. Quindi la previsione in senso stretto non sembra poi cosí importante. All’opposto, ci è sembrato molto piú stimolante chiederci: «Perché proprio lí?». Un interrogativo che apre interessanti ambiti di ricerca e che abbiamo chiamato «postdizione», proprio per porre l’accento sulla costruzione di uno scenario capace di spiegare come mai proprio lí si collochi quel sito o perché un determinato percorso abbia un certo tracciato. Questo nuovo approccio elimina il vero
A sinistra: il tracciato della via Aurelia vetus nel tratto della provincia di Grosseto e il percorso stimato che ha i porti come attrattori principali. Qui accanto: il tracciato dell’Aemilia Scauri e il percorso che ha come attrattori le città etrusche e i santuari etrusco-romani.
punto dolente del dibattito, ovvero il determinismo. E all’opposto permette di tornare alle fonti (scritte e materiali) con nuove domande.
UN CASO DI STUDIO Abbiamo applicato questo procedimento alla viabilità storica fra Toscana e Lazio. I percorsi, quando non sono ancora ben visibili sul terreno, figurano nella cartografia storica, o sono stati ricostruiti mediante gli strumenti tradizionali. Applicare la predittività non ha quindi senso: non ci serve sapere se esista la possibilità di un collegamento fra due siti, ma vogliamo capire perché quel percorso si sia sviluppato in quel preciso modo e abbia subito quelle trasformazioni nel corso del tempo. Il primo esperimento ha interessato i tracciati della direttrice costiera tirrenica fra Roma e Pisa, realizzati a piú riprese in età romana fra il III e il II secolo a.C. con alcuni ulteriori sviluppi nel I secolo d.C. Abbiamo utilizzato il metodo della valutazione del percorso di minor
costo (least cost path), un algoritmo presente in tutti i pacchetti GIS, che, dal punto di partenza, calcola il percorso piú agevole per giungere al punto di arrivo. La facilità o difficoltà è valutata su una superficie di costo lungo la quale si sviluppa il percorso. Il costo viene generalmente calcolato sulla base delle pendenze del terreno. Noi abbiamo introdotto il concetto di attrattore. Ovvero: il percorso nasce dalle esigenze di chi si muove. Un mercante, un soldato, un pellegrino non hanno le stesse necessità. E se a muoversi è un esercito, esse saranno ancora diverse. Sorgenti, mercati, centri urbani, luoghi di culto, ma anche pendenze ripide, attraversamento di fiumi, terreni paludosi influiscono sulle scelte umane che producono i percorsi storici. Partendo da queste considerazioni costruiamo diverse superfici di costo mettendo insieme fattori differenti e facendoli pesare in modo diverso. L’algoritmo genera cosí una serie di percorsi che
possono avere anche differenze sostanziali di tracciato. L’approccio postdittivo permette di valutare, a posteriori appunto, quale dei percorsi simulati si avvicina maggiormente a quelli reali.
RISULTATI PROMETTENTI A questo punto abbiamo sollevato una serie di nuovi interrogativi. Ci siamo cioè domandati se i fattori che abbiamo preso in considerazione e il peso relativo che abbiamo loro assegnato possano effettivamente costituire la spiegazione storica dello sviluppo di quel determinato tracciato. I risultati ottenuti per la direttrice tirrenica sono estremamente incoraggianti. Siamo riusciti a modellare due percorsi che hanno un alto grado di sovrapposizione con quelli storici. La prospettiva è ora quella di studiare la mobilità nel suo divenire storico attraverso un nuovo approccio che permetta di valutarne la dinamicità. (http://unisi.academia.edu/ CarloCitter)
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GRECIA
La tomba dell’eroe Sono stati presentati ad Atene i risultati dello scavo della tomba di un guerriero di Maratona, datata alla prima epoca micenea (XVII secolo a.C.). La scoperta evidenzia l’importanza dell’area come sede monumentale per l’antica Atene, prima e dopo la grande battaglia del 490 a.C. All’interno della tomba sono state rinvenute una spada, una lancia, una lama e tredici frecce, mentre non sono state trovate tracce di ossa. I ricercatori hanno ipotizzato che intorno all’VIII sec. a.C. – circa un millennio dopo la sua costruzione –, la tomba sia stata individuata dagli abitanti di Maratona, che raccolsero e rimossero i resti del guerriero defunto. Al riguardo, Panos Valavanis – professore di archeologia classica e tra i responsabili dello scavo – ha ipotizzato che gli antichi scopritori, ritenendo che la tomba fosse il sepolcro di un eroe mitico, ne abbiano allora compiuto la transizione da luogo di sepoltura a luogo di culto – volto quindi a celebrare il defunto – erigendovi sopra altre stutture e rendendola un luogo sacro. Questo sarebbe poi stato raso al suolo – probabimente dai Persiani – lasciando al tumulo di Maratona il ruolo di unica testimonianza monumentale dell’area. Maria Katsinopoulou
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MOSTRE Roma
COSTRUIRE L’IMPERO, CREARE L’EUROPA
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osa significa costruire un impero? E quale relazione intercorre tra l’impero romano e l’Europa attuale? Politica, economia, welfare, conquiste militari; inclusione di genti diverse sotto un unico Stato; la buona amministrazione, influenzata anche da donne capaci, first ladies autorevoli; campagne
Primo imperatore non romano di nascita, bensí ispanico, Marco Ulpio Traiano segue le orme paterne e percorre velocemente i gradi della carriera militare, dimostrando doti di stratega e combattente a fianco dei suoi uomini, dei quali guadagna cosí il consenso e la fedeltà. Non solo per questo Nerva lo «adotta» come Disegno ricostruttivo e progetto di ricomposizione del rilievo con armi dalla facciata della Basilica Ulpia.
di comunicazione e capacità di persuasione per ottenere il consenso popolare attraverso opere di pubblica utilità; lusso privato, ma discreto. Non è la trama di una fiction, né il programma di qualche politico, ma la traccia della mostra «Traiano. Costruire l’Impero», organizzata per celebrare i 1900 anni dalla morte dell’imperatore che ha portato l’impero alla sua massima espansione. Un’anticipazione di questa «avventura» espositiva, che a ottobre si snoderà nei Mercati di Traiano, viene ora offerta in alcuni suggestivi ambienti del corridoio anulare del Grande Emiciclo. La mostra racconterà la vita «eccezionale» di un uomo «ordinario», significativamente racchiusa nel «titolo» coniato per lui: «optimus princeps», ovvero il migliore tra gli imperatori. Ma che cosa ha fatto di cosí diverso e innovativo Traiano per meritare un simile e incondizionato consenso?
successore, ma anche perché ne percepisce la capacità di affrontare i temi spinosi delle riforme sociali ed economiche di cui l’impero ha urgente bisogno. Ed eccoci al nostro «racconto» concreto, sviluppato attraverso statue, ritratti, decorazioni architettoniche, calchi della Colonna Traiana, monete, modelli in scala e rielaborazioni tridimensionali, filmati; una sfida a immergersi nella grande storia dell’impero e nelle storie dei tanti che l’hanno resa possibile. Lucrezia Ungaro e Marina Milella
DOVE E QUANDO Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali Roma, via IV Novembre 94 Orario tutti i giorni, 9,30-19,30 Info tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-19,00); e-mail: info@mercatiditraiano.it; www.mercatiditraiano.it
PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
PICCOLE GRANDI STORIE FRANCESCO SIRANO, NEODIRETTORE DEL PARCO ARCHEOLOGICO DI ERCOLANO, HA AVVIATO UN NUOVO PROGETTO DI VALORIZZAZIONE DEL SITO, IMPERNIATO SULLE VICENDE QUOTIDIANE DEGLI ABITANTI DELLA CITTÀ
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l fabbro, il tessitore, il fornaio: sono gli uomini di Ercolano – con le loro storie rimaste intrappolate sotto le ceneri dell’eruzione del 79 d.C. – a dover «parlare» ai visitatori. Ne è convinto il direttore del Parco Archeologico di Ercolano, Francesco Sirano, che punta al rilancio del sito. Direttore, qual è la sua idea di valorizzazione per far «rinascere» Ercolano? «Non esiste una ricetta definitiva e sarebbe poco serio averla già pronta dopo poco piú di un mese di lavoro. Il metodo che ho adottato tiene conto di quanto ci ha preceduto in chiave di comprensione storica: mi riferisco all’ultima grande proposta di presentazione globale della città, quella dell’archeologo Amedeo Maiuri (1886-1963)». Il modello a cui guarda è dunque il «museo a cielo aperto» sperimentato da Maiuri? «Esatto, un museo aperto a tutti. Senza Maiuri non avremmo mai scavato Ercolano: lui ha inseguito un’utopia, abbandonando il metodo settecentesco dei cunicoli e mettendo in luce l’intera città. Ha elaborato un vero e proprio approccio strategico, utilizzando una metodologia attuale, cioè indagando l’aspetto urbano e, allo stesso tempo, restaurando e rendendo comprensibile il sito. Per questo ricontestualizzava i reperti collocandoli dove erano stati trovati, oppure offriva un’idea di
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tipo ricostruttivo degli scavi. Per esempio, nella camera della Casa del Tessitore, Maiuri aveva collocato letto, telaio e pesi, piú reperti emersi dal piano superiore, utili per evocare l’atmosfera della bottega. Sentiva il bisogno di divulgare e far comprendere al pubblico: lo stesso problema che abbiamo noi oggi». Nel 2016 Ercolano è stata visitata da 450 mila persone. Secondo lei, che cosa hanno compreso di quanto è stato finora scavato? «Pochissimo. In questi giorni cadono i 90 anni dal primo scavo sistematico: se è stato compreso molto dal punto di vista scientifico, ben poco è stato trasmesso all’esterno. Il mio compito sarà quello di far emergere la peculiarità e la qualità di Ercolano». Il progetto può contare sulle forze – e sui fondi – dell’Herculaneum Conservation Project (HCP), la partnership pubblico-privata tra la Soprintendenza e la fondazione filantropica Packard Humanities, che dal 2001 si dedica al sito archeologico. Quante sono, a oggi, le case restaurate e quindi agibili? «Grazie a questa preziosa collaborazione, fino al 2010 è stata completata la messa in sicurezza di venti case, su un totale di 32. Un’operazione in cui sono stati investiti 30 milioni di euro. La prima cosa da fare, infatti, è rendere sicuri e frequentabili gli scavi». Su venti case agibili, però, poco piú della metà era aperta al pubblico…
«Quando mi sono insediato erano visitabili solo 12 domus. La mia prima iniziativa è stata quella di aprirne altre tre: la Casa Sannitica, la Casa del Tramezzo di legno e le Terme maschili. Le domus visitabili oggi sono 15, ma l’obiettivo è renderle tutte fruibili». Il suo progetto prende le mosse dalla bottega del plumbarius, il fabbro che lavorava a pochi passi dal Foro di Eercolano… «Era una delle installazioni meglio riuscite di Maiuri, che nella bottega aveva esposto pesi da telaio, un crogiolo, frammenti di piombo e altri metalli pronti per essere fusi,
tra cui due lingotti di piombo con sigillo di provenienza dalla penisola iberica, nonché un candelabro e una statua in bronzo. Oggetti che, in tempi piú recenti, erano stati rimossi e chiusi in magazzino e che noi, invece, abbiamo riproposto sullo scavo, con interventi capaci di far comprendere meglio quale fosse l’arredamento della bottega. Per evocare la presenza di un piano superiore, per esempio, abbiamo aggiunto due scale che in antico si aprivano sulla parete di fondo e abbiamo anche riproposto un muretto in terra cruda che sorgeva accanto al crogiolo, documentato dai disegni di scavo, ma dissoltosi con il tempo. E poi abbiamo completato la ricostruzione degli scaffali per le anfore, visibili dalle tracce lasciate sui muri». Il suo progetto per Ercolano prevede il coinvolgimento diretto del pubblico. In che modo? «Nelle settimane precedenti l’apertura della bottega del plumbarius abbiamo proposto un test ai visitatori e realizzato un allestimento partecipato. Abbiamo
cioè mostrato ai turisti una foto dell’allestimento di Maiuri e chiesto loro che cosa avessero compreso del sito e che cosa sarebbe stato utile per capire meglio. Su queste basi abbiamo elaborato una proposta che, per ora, è solo un esperimento nell’ambito del nuovo progetto di presentazione del sito». Un progetto di valorizzazione che si richiama al passato – con Maiuri – ma che ha un nome del tutto attuale: «Pop up». Che significa? «“Pop up” è una strategia elaborata dall’HCP, basata su mostre lampo che, per tutto l’anno, si apriranno come finestre virtuali sulla vita di Ercolano. Troppo spesso i turisti lasciano il sito con nozioni superficiali oppure approfondite, ma incomprensibili. Noi vogliamo offrire loro qualche curiosità e dare la soddisfazione di aver compreso. Per esempio, i visitatori possono vedere gli operai che restaurano un mosaico o una pittura. È stata infatti finanziata la manutenzione programmata di tutta l’area della città antica, per tre anni, compreso l’apparato decorativo. Dove la Ercolano, bottega del plumbarius (fabbro). Confronto tra l’allestimento realizzato da Amedeo Maiuri (nella pagina accanto) e quello attuale, che a esso si ispira. Fra le novità del secondo, vi è la ricostruzione delle mensole, resa possibile dalle tracce dei sostegni, ben visibili nella foto precedente.
conservazione lo permette, sto aprendo al pubblico i piani di calpestio, perché è meglio un pavimento calpestato che uno restaurato e dimenticato dietro a una transenna. Gli archeologi devono proporre una lettura chiara e affascinante, che renda però comprensibile anche il metodo che ha portato all’interpretazione delle rovine. Ercolano ha la peculiarità di avere il lungo periodo – dato dalla stratificazione dei livelli archeologici –, e l’attimo, il momento dell’eruzione. Se non si ricostruisce qui, dove si dovrebbe farlo? A Ercolano il valore sono le persone, non le cose. La città deve raccontare gli uomini e non gli oggetti, perché questi sono rovine e nel tempo rovineranno. Noi faremo di tutto per farli durare il piú possibile, ma finiranno». A Ercolano, quindi, il turista dovrebbe «catturare l’attimo» in cui l’eruzione ha cristallizzato le azioni quotidiane dei singoli individui? «Sí. Pensare che dalla documentazione epigrafica di Ercolano sono attestati piú di 1200 nomi. C’è il fornaio Sesto Patulcio Felice; ci sono i proprietari della bella Casa del Bicentenario, sul Decumano Massino, Caio Petronio Stefano e la moglie Calatoria Themis; e poi la folla dei liberti, come Lucio Mammio Massimo, che fu un Augustale e ricostruí il macellum della città… Ci sono piccoli archivi di famiglia che raccontano fatti quotidiani, transazioni economiche, litigi, cause e dispute estremamente vivaci: il sistema romano prevedeva infatti le testimonianze, quindi emergono veri e propri spaccati di vita vissuta. Noi archeologi, invece, abbiamo messo il bavaglio agli abitanti dell’antica città. Loro hanno lasciato segni e noi li abbiamo ridotti al silenzio, chiudendoli nelle pubblicazioni scientifiche. Il mio obiettivo, a Ercolano, è farli tornare a parlare».
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n otiz iario
ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
LA GRECIA A POMPEI Lo Speciale dedicato alla mostra «Pompei e i Greci» (vedi alle pp. 80-99), in corso nella Palestra Grande agli Scavi di Pompei fino al 27 novembre, affronta in modo articolato l’influenza che la civiltà greca, in forma diretta o per imitazione/duplicazione, ha avuto nello sviluppo della vita sociale e culturale della cittadina romana (1). Un’analisi condotta soprattutto attraverso lo studio degli oltre 600 reperti in mostra (tra i quali ceramiche, ornamenti, armi, elementi architettonici, sculture, affreschi) rinvenuti a Pompei e zone limitrofe, Stabia ed Ercolano, o provenienti da altre località anch’esse «toccate» dalla civiltà greca, tra cui Sorrento, Cuma, Capua, Poseidonia e Metaponto. Seguendo, quindi, il lavoro di artigiani, architetti, artisti e perfino dei graffiti murali si è riusciti a individuare le tante anime della città antica attraverso le fasi della sua storia. Naturalmente è quasi impossibile documentare tutto ciò attraverso la filatelia; e si può farlo solo sinteticamente, mettendo a confronto oggetti artistici o architettonici rinvenuti a Pompei o in altre località con quelli originari del mondo ellenico. Per Pompei, ecco dunque un tripode di bronzo (2), un amorino in bronzo con delfino nella Casa della Fontana grande (3); poi gli affreschi, quello dei coniugi (4), quello della Casa dei Vettii, con il sacrificio di Apollo (5), e quello del culto di Dioniso (6). Infine il tempio di Apollo, con la statua in bronzo del dio (7). Per la Grecia, abbiamo invece scelto la recente serie emessa per i 150 anni di vita del Museo Archeologico Nazionale in francobolli e foglietti: dama micenea, affresco da Micene (8); la statua del Diadumeno di Delos (9); una lekythos raffigurante un giovane ateniese (10); la statua in bronzo di Poseidone trovata nel mare di Livadostra, in Beozia (11); una statua di marmo di Paro recuperata dal relitto di Anticitera e raffigurante Ulisse (12). Infine altri due oggetti in due francobolli del Togo: una hydria attica a figure nere con donne a una fontana (13) e una kylix raffigurante la nave di Giasone (14). IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
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Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure
Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it
CALENDARIO
Italia ROMA I Fori dopo i Fori
La vita quotidiana nell’area dei Fori Imperiali dopo l’antichità Mercati di Traiano, Museo dei Fori Imperiali fino al 10.09.17
Spartaco
Schiavi e padroni a Roma Museo dell’Ara Pacis fino al 17.09.17
Colosseo. Un’icona
PARMA Archeologia e alimentazione nell’eredità di Parma romana Galleria San Ludovico fino al 16.07.17
POMPEI Picasso e Napoli: Parade
Bozzetti del pittore per il balletto, maschere africane e reperti archeologici Antiquarium degli Scavi fino al 10.07.17
Il Corpo del reato
Colosseo fino al 07.01.18
Il patrimonio archeologico ritrovato Antiquarium degli Scavi fino al 27.08.17
BAGNO A RIPOLI (FIRENZE) Santa Caterina d’Egitto-L’Egitto di Santa Caterina
REGGIO EMILIA Lo scavo in piazza
FORMELLO (ROMA) La Tomba Campana: un vero falso?
SIRACUSA La Porta dei Sacerdoti
Esposizione di papiri e reperti archeologici Oratorio di S. Caterina delle Ruote fino all’11.06.17
Raccontare l’indicibile nei musei Museo dell’Agro Veientano fino al 15.07.17
GENOVA Salvi in Museo!
Le lastre dei palazzi assiri riesposte in Museo Museo di Archeologia Ligure fino al 18.06.17
GROSSETO, MANCIANO Marsiliana d’Albegna
Dagli Etruschi a Tommaso Corsini Museo Archeologico e d’Arte della Maremma Museo di Preistoria e di Protostoria della Valle del Fiora fino al 31.12.17 (prorogata)
MILANO Milano in Egitto
Gli scavi di Achille Vogliano nel Fayum Civico Museo Archeologico fino al 15.12.17
NAPOLI Amori divini
Trasmissione e ricezione del mito greco Museo Archeologico Nazionale fino al 16.10.17
ORVIETO L’intrepido Larth
Storia di un guerriero etrusco Museo «Claudio Faina» e Museo Archeologico Nazionale fino al 17.09.17 24 a r c h e o
Rilievo in marmo con maschera comica, dalla Casa degli Amorini dorati di Pompei.
Una casa, una strada, una città Musei Civici di Reggio Emilia fino al 31.08.17
I sarcofagi egizi di Deir el-Bahari. Esposizione e restauro in pubblico Galleria Civica Montevergini fino al 07.11.17
SORANO (GROSSETO) Vulci e i misteri di Mitra
Culti orientali in Etruria Fortezza Orsini, Museo del Medioevo e del Rinascimento fino al 05.11.17 Acquerello su carta. Dinastia Qing TORINO (1644-1911). Dall’antica alla nuova
Via della Seta
MAO, Museo d’Arte Orientale fino al 02.07.17
Missione Egitto 1903-1920 L’avventura archeologica M.A.I. raccontata Museo Egizio fino al 10.09.17
Cose d’altri mondi
Raccolte di viaggiatori tra Otto e Novecento Palazzo Madama, Sala Atelier fino all’11.09.17
TRENTO Estinzioni
Storie di catastrofi e altre opportunità MUSE-Museo delle Scienze di Trento fino al 26.06.17
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
VETULONIA (CASTIGLIONE DELLA PESCAIA) L’arte di vivere al tempo di Roma
MANNHEIM Egitto
Terra dell’immortalità Reiss-Engelhorn-Museen fino al 30.07.17
I luoghi del «tempo» nelle domus di Pompei Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 05.11.17
VICENZA Le ambre della principessa
Storie e archeologia dall’antica terra di Puglia Gallerie d’Italia, Palazzo Leoni Montanari fino al 07.01.18
Affresco pompeiano con una filatrice.
VILLANOVA DI CASTENASO (BO) La Stele delle Spade e le altre
Grecia ATENE Odissee
Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.17
Statua di Posidone, da Livadostra (Beozia). 480 a.C.
Sculture orientalizzanti dall’Etruria padana Museo della Civiltà Villanoviana fino all’11.06.17
Città del Vaticano Dilectissimo fratri Caesario Symmachus
Tra Arles e Roma: le reliquie di san Cesario Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano fino al 25.06.17
La Menorà
Pendaglio in ambra a forma di protome femminile.
Culto, storia e mito Braccio di Carlo Magno e Museo Ebraico, Roma fino al 23.07.17
Olanda
Francia
Rijksmuseum van Oudheden fino al 17.09.17
PARIGI Che c’è di nuovo nel Medioevo? Tutto quel che l’archeologia ci rivela Cité des sciences et de l’industrie fino al 06.08.17
LEIDA Casa Romana
Svizzera BASILEA Arabia felix?
Musée du quai Branly Jacques Chirac fino al 12.11.17
Mito e realtà nel regno della regina di Saba Antikenmuseum fino al 02.07.17
Germania
USA
BONN Iran
NEW YORK Un mondo di emozioni
KARLSRUHE Ramesse
L’età degli imperi
L’Africa delle rotte
Antiche culture tra l’acqua e il deserto Bundeskunsthalle fino al 20.08.17
Sovrano divino sul Nilo Badisches Landesmuseum fino al 18.06.17
L’antica Grecia, 700 a.C.-200 d.C. The Onassis Cultural Center fino al 24.06.17 Arte cinese delle dinastie Qin e Han (221 a.C.-220 d.C.) The Metropolitan Museum of Art fino al 16.07.17
Statua di kouros che sorride, con dedica ad Apollo. a r c h e o 25
L’ARCHEOLOGIA NELLA STAMPA INTERNAZIONALE Andreas M. Steiner riconoscono un modello ideale o, al contrario, il prototipo stesso del nemico da combattere.
DA DIDONE A SALAMBÒ Cartagine fu un insediamento fenicio, fondato verso la fine del IX secolo a.C. da coloni provenienti dalla città di Tiro, nell’odierno Libano. L’uso del nome «Fenici» per designare le popolazioni che abitavano la costa del Levante – dall’odierna Siria meridionale al nord di Israele – e che da lí si spostarono a Cipro, nel Mare Egeo, al Mediterraneo occidentale e fino alle coste atlantiche della
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a copertina del bimestrale tedesco Antike Welt (Mondo Antico) riporta l’immagine di un pendaglio in vetro colorato raffigurante un uomo barbuto. Si tratta di un manufatto risalente al IV-III secolo a.C., che proviene da Cartagine, il grande sito archeologico sulla costa dell’Africa settentrionale, nell’odierna Tunisia. Alla leggendaria città fondata dai Fenici di Tiro è dedicata ampia parte del numero della rivista, che fa il punto su una serie di aspetti salienti delle ricerche in corso – il commercio, la religione e il culto –, nonché sul problema fondamentale dell’approvvigionamento idrico dell’antica metropoli. Introduce il numero un articolo della studiosa Marion Bolder-Boos dedicato al mito di Cartagine. La leggendaria fondazione della città e la sua fine violenta, avvenuta per mano dei Romani nel 146 a.C., hanno esercitato il loro fascino fino ai tempi moderni: nell’Ottocento, infatti, Cartagine diventa l’argomento favorito di scrittori e artisti, ma anche di politici, che nell’antica città
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A destra: Salambò, dipinto di Alphonse Mucha. 1897 circa. Nella pagina accanto: litografia colorata del 1880 raffigurante Didone che ottiene con uno stratagemma il terreno su cui erigere Cartagine, illustrazione dell’Eneide di Virgilio (I, 364-368). Didone è raffigurata davanti al re libico, mentre alcuni servi tagliano in strisce sottili una pelle di bue.
penisola iberica e del Marocco, è di origine greca. Non è possibile determinare con certezza se essi stessi si definissero «Cananei», come affermano le fonti di epoca tardo-antica, mentre sappiamo che i Romani chiamarono «Poeni» – da cui «Punici» – i coloni che si insediarono al di fuori della madrepatria sulla costa orientale del Mediterraneo. La fondazione di Cartagine viene fatta risalire agli anni 814/813 a.C., ma già molto prima insediamenti fenici – fondati perlopiú da coloni di
Tiro – erano nati lungo le coste del Mediterraneo e dell’Atlantico (secondo Strabone fin oltre le «Colonne d’Ercole»), ancor prima dell’avvento dei coloni greci. A distinguere Cartagine dagli altri insediamenti coloniali è, però, il suo complesso mito di fondazione: la principessa fenicia Elissa (che le fonti latine chiamano Didone), figlia del re di Tiro, abbandona la città per non cadere nelle mani del fratello Pigmalione, assassino di suo marito. La fuga la porta a Cipro e, da lí, sulla costa dell’odierna Tunisi, dove, nei pressi di un’insenatura a ovest del Capo Bon e a una trentina di chilometri dall’insediamento fenicio di Utica, fonda Cart Hadasht (la «nuova città»). Elissa/Didone acquista il terreno su cui sorgerà la città dal locale re libico attraverso l’inganno: sostiene, infatti, di volere un terreno di dimensioni tali da poter essere racchiuso in una pelle di bue. Il re, allora, le chiede una cifra contenuta, ma Elissa fa tagliare la pelle in lunghe strisce, cosí da circondare un territorio assai piú ampio. La principale collina di Cartagine fu denominata dai Greci «Byrsa» e forse, per il suo
significato che richiama il nome greco per «pelle di bue», aveva dato adito alla leggenda. In età moderna, l’espansione fenicia nel Mediterraneo centrale e occidentale godette di notevole considerazione, suggerendo alcuni paralleli con le grandi potenze marinare contemporanee, per esempio quella olandese. Per il pastore e studioso francese Samuel Bochart, vissuto nel XVII secolo e autore dell’opera Geographica Sacra, i Fenici erano, addirittura, gli antenati di tutti i popoli europei. Alla metà del XIX secolo, il teologo tedesco Franz Carl Movers pubblica una monumentale opera in quattro volumi dedicata alle antichità fenicie, soffermandosi sull’ordinamento politico, sulla religione, sul commercio, sulla navigazione e sulle colonie. Secondo Movers, il commercio dei Fenici rappresentava il motore dello sviluppo culturale e sociale del Levante. Furono gli Inglesi, poi, a operare un’identificazione storico-politica con i Fenici: mentre, sul lato opposto della Manica, Napoleone si autoglorificava come erede ideale di Roma e i Tedeschi
postulavano una fratellanza spirituale con l’antica Grecia, la rete economica e commerciale dell’impero, paragonabile a quella dei Punici, fece sí che gli abitanti dell’isola si considerassero alla stregua di novelli Cartaginesi. Un’identificazione condivisa anche dalle altre potenze europee, sebbene non sempre in senso elogiativo: scriveva, infatti lo storico francese Jules Michelet, nel 1830: «Quante Tiro e quante Cartagine uno dovrebbe riunire per raggiungere il livello di prepotenza della titanica Inghilterra?». Sebbene le grandi figure della storia cartaginese avessero sempre suscitato l’ammirazione dei moderni (lo stesso Napoleone aveva temporaneamente assunto il titolo di «secondo Annibale»), l’avvento dell’antisemitismo a partire dalla metà del Novecento contribuí a incrinare progressivamente l’immagine positiva dei Fenici: questi, da eroici conquistatori del mare, si trasformarono in avidi commercianti senza scrupoli, privi di ogni originalità e creatività spirituale. Gli eredi di Elissa divennero i protagonisti di atrocità e lussuria tipicamente «orientali», che si sarebbero manifestate soprattutto in ambito religioso, attraverso la pratica della prostituzione sacra e del sacrificio dei bambini. Nel 1862, Gustav Flaubert pubblica Salambò, un romanzo di successo che descrive con accenti vividi la decadenza della corte cartaginese: la drammatica vicenda dell’omonima principessa cartaginese, figlia fittizia del celebre Amilcare Barca, nonché le accurate descrizioni del sacrifico di bambini alla divinità Moloch, conquistarono non solo il pubblico francese, ma ben presto anche quello europeo in genere, offrendosi come fonte d’ispirazione per molte opere d’arte.
a r c h e o 27
SCOPERTE • ABIDO
TUTTE LE BARCHE DEL FARAONE
Abido, Egitto. Un momento dello scavo archeologico nel complesso funerario del faraone Sesostri III, in cui i disegni murali dei registri superiori vengono puliti per procedere alla loro documentazione.
B
arche a vela e deserti possono sembrare un’associazione curiosa, che però si rivela piú che legittima quando si parla di archeologia dell’antico Egitto, in particolare riguardo ad alcuni luoghi specifici: uno di essi è Abido. Situato a ovest del Nilo, ai margini della piana fertile che si estende dall’argine del fiume, si presenta oggi come NELL’ANTICO CENTRO RELIGIOSO DI ABIDO, un piccolo centro abitato periferico, custodisce le vestigia di alcuni NELL’ALTO EGITTO, UNA MISSIONE che tra i piú importanti monumenti DELL’UNIVERSITÀ DELLA PENNSYLVANIA funerari dell’antico Egitto, oggetto ripetute indagini archeologiche INDAGA L’AREA DEL RECINTO SACRO DEDICATO di nel corso degli ultimi due secoli. AL FARAONE SESOSTRI III. E SCOPRE, FRA LE Proprio qui, durante le recenti camdi scavo del complesso funeSABBIE DEL DESERTO, UN MONUMENTO DALLA pagne rario del faraone Sesostri III (XII DECORAZIONE STRAORDINARIA... dinastia), ha avuto luogo una scoperta unica, che ha visto «emergere» di Paolo Leonini dal suolo oltre cento imbarcazioni, a r c h e o 31
SCOPERTE • ABIDO
raffigurate sulle pareti di una sala sotterranea, dove un tempo era sepolta una grande barca funeraria.
LA MONTAGNA DI ANUBI Il complesso di Sesostri III ad Abido è un sito articolato in diverse aree – tra queste, anche un tempio funerario, un centro abitato e aree amministrative e produttive –, il cui fulcro è rappresentato dalla grande tomba del faraone, che si trova a ridosso delle alture (gebel) a ovest del Nilo. Scavato sotto terra, il sepolcro misura ben 180 m in lunghezza, e vi si accede da un ingresso posto all’interno di un recinto funerario dal perimetro a «T» che circoscrive un’area di circa 1,8 ettari. In epoca antica il luogo era noto come «Montagna di Anubi» e l’insediamento, costruito appositamente per le esigenze cultuali del complesso funerario, era chiamato «Wah-sutKhakaure-maa-kheru-em-Abdju», cioè «durevoli sono i luoghi di Sesostri, giustificato in Abido». Era stato indagato in precedenza solo nel 1901-1902 dagli esplorator i Arthur Weigall e Charles Currelly, che vi avevano effettuato
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ABIDO, UN GRANDE CENTRO RELIGIOSO DELL’ANTICO EGITTO Le origini di Abido risalgono all’epoca della I e II dinastia (3400-2980 a.C.), quando i faraoni che vivevano nella città di Thinis, 100 km piú a nord, decisero di costruire qui le loro tombe, in prossimità del monte chiamato Pega, «il varco nella montagna». Qui si credeva che fosse la porta del Douat, il mondo dell’Aldilà, e qui è stata rinvenuta anche la tomba del faraone Ger (I dinastia, 3000 a.C. circa), per secoli interpretata come la tomba di Osiride. Abido fu quindi un importante centro religioso, che si arricchí di numerosi monumenti, in parte visibili ancora oggi. Tra questi, il grandioso Tempio di Sethi I, costruito durante il suo regno (1324 circa-1279 a.C) e concluso dal figlio Ramesse II (1290-1224 a.C.), al cui interno è stata rinvenuta la cosiddetta Tavola di Abido, un documento di importanza capitale per l’egittologia moderna, che riporta la sequenza di tutti i regnanti precedenti. Alle sue spalle, sorge il tempio di Osiride, o
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Osireion, un cenotafio di Sethi I che si ispira nelle forme alle tombe della XVII dinastia della Valle dei Re. Poco piú distante, si trova il Tempio di Ramesse II, il cui interno conserva straordinari rilievi a colori. Verso le montagne, in direzione sud-ovest, si trova l’area di Omm el-Gaab, «la madre dei vasi votivi», cosí chiamata per via delle migliaia di piccole anfore di terracotta portate dai fedeli nei loro pellegrinaggi, il luogo di sepoltura piú antico di Abido, dove sono concentrate le tombe dei sovrani della I e della II dinastia. Degne di nota anche le aree di Shunet el Zebib, dove sono stati rinvenuti i resti di un palazzo ed edifici funerari connessi alle prime sepolture, e Kom el Sultan, che conserva monumenti funerari e un piccolo tempio di Osiride. A ridosso dei gebel meridionali, si trova il complesso funerario di Sesostri III (XII dinastia), che si sviluppa su una superficie di quasi 2 ettari, e attende ancora in larga parte di essere scavato.
SESOSTRI III AD ABIDO
Piana alluvionale del Nilo
Sulle due pagine:
3
panoramica aerea dell’area del complesso funerario di Sesostri III, vista verso nord, ripresa nel 1994 prima dell’inizio delle ricerche archeologiche. 1. ingresso della tomba di
Tempio funerario del faraone
Insediamento del Medio Regno (Wah-Sut)
Il Complesso funerario di Sesostri III a Abido
Mar Mediterraneo
N. (geografico) N. (Nilo)
Dahshur
Sinai
Menfi
Sesostri III;
2. resti di due mastabe
riempite di detriti; 3. la struttura con i disegni delle imbarcazioni; 4. tempio funerario di Sesostri III.
A destra, in alto:
una ricognizione, documentando la tomba principale e varie strutture circostanti. Da allora, il complesso funerario è rimasto abbandonato fino alla metà degli anni Novanta, quando il Penn Museum dell’Università della Pennsylvania ha ripreso le ricerche, che proseguono ancora oggi, dirette sul campo da Josef Wegner. L’edificio ipogeo all’interno della quale è avvenuta la scoperta di cui riferiamo in queste pagine fa parte di un gruppo di cinque strutture, localizzate circa 60 m a est del recinto funerario – rilevate anche dai resoconti di Weigall e Currelly – che il team dell’Università della Pennsylvania ha studiato in diverse campagne, dal 2012 al 2016. Nel 2002, prima dell’inizio degli scavi veri e propri, l’intera area è stata
pianta con indicazione dei principali elementi del complesso funerario di Sesostri III e, nel riquadro, la localizzazione di Abido.
Strada moderna
Mar Rosso ABIDO Tebe
Recinto funerario Tomba del faraone
I cataratta
Assuan
km Colline (gebel)
II cataratta
Struttura con i disegni delle imbarcazioni
Necropoli reale del II Periodo Intermedio Tomba S9
Mastabe con detriti
Tomba S10
A destra, in basso: pianta
del complesso funerario di Sesostri III. Nell’angolo a destra, le cinque strutture ipogee individuate nella recente campagna di scavo.
Recinto funerario
Indicazioni su pianta N. (geografico) N. (Nilo) Tomba del faraone
Montagna di Anubi
m
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SCOPERTE • ABIDO In questa pagina: immagini delle tre strutture minori localizzate immediatamente a sud della principale, contenente i disegni. Nella pagina accanto: ancora uno scorcio dell’interno della struttura principale, in cui oltre ai disegni, risaltano gli elementi dell’impianto costruttivo.
gandosi sulla sua funzione, è stato escluso che potesse trattarsi di una tomba, per la poca profondità nel terreno e le proporzioni poco allungate della pianta, oltre, naturalmente, all’assenza di reperti compatibili con l’uso funerario.
sottoposta a rilievi con il magnetometro: se questi hanno sostanzialmente confermato i dati dei resoconti dei primi del Novecento, alla luce delle recenti scoperte è apparso chiaro che gli strumenti avevano restituito solo una minima percezione di ciò che si celava effettivamente sotto la sabbia. Questo è anche uno dei motivi che incoraggia il team del Penn Museum a proseguire le indagini, nella convinzione che l’area possa ancora nascondere una quantità di testimonianze individuabili solo grazie allo scavo. 34 a r c h e o
Gli archeologi sono giunti alla conclusione che le cinque strutture sono coeve, sia tra di loro, sia se confrontate con il complesso funerario di Sesostri III, poiché mostrano la medesima tecnica costruttiva, con l’impiego della stessa tipologia di mattone. Tre hanno dimensioni contenute e una pianta molto semplice, formata da un accesso e un’unica camera con pareti intonacate con fango e gesso. Un quarto edificio, piú ampio, è provvisto di un ingresso seguito da una piccola camera con copertura a volta. Interro-
I PRIMI DISEGNI Le maggiori sorprese sono venute dall’esplorazione della quinta struttura. Parzialmente scavata nei primi del Novecento, già in quell’occasione vi erano stati osservati i primi disegni, presenti su porzioni superstiti della volta. All’epoca Weigall e Currelly avevano ipotizzato che si trattasse di una tomba, ma dovettero interrompere le indagini, perché la copertura iniziò a crollare, a causa del compromesso equilibrio statico. Il team del Penn Museum ha portato avanti lo scavo dal 2014 al 2016 e, a differenza di quanto riportato nei primi resoconti, la volta è stata trovata in condizioni strutturali molto precarie, con un massiccio crollo delle parti centrali lungo tutto l’asse longitudinale. È stato quindi necessario smontarla completamente al di sopra della linea d’imposta, rimuovendo le aree che mostravano raffigurazioni – dopo l’ac-
LA STRUTTURA
Quota della superfice desertica sul retro dell’edificio Pile di Massi in Quota del muro mattoni pietra a sperone sciolti calcarea (meridionale)
Muro a sperone (settentrionale)
Muro di chiusura in mattoni m
Sotto-superficie desertica compatta
Avvallamento per la chiglia
curata documentazione – una scelta inevitabile per proseguire gli scavi nei livelli sottostanti. L’edificio costituisce un eccezionale esempio di architettura faraonica della XII dinastia, che si segnala per la grande cura nella realizzazione. La volta era formata da un doppio strato di mattoni, posti inclinati rispetto alla parete di fondo, che, sopravvissuta nell’elevazione originaria, permette di dedurre le caratteristiche della copertura, che aveva uno spessore di 0,5 m, una corda di 4,2 m e una freccia di 2 m, risultando in una
Muro meridionale
curvatura a sesto ribassato. Per controbilanciare la spinta statica verso l’esterno, la volta era fiancheggiata per tutta la lunghezza da mattoni sciolti e massi di pietra calcarea, trattenuti da due muri a sperone aggettanti dall’ingresso e costruiti alla stessa quota della copertura. Quest’ultima, poggiava su robusti muri portanti, formati da due file di mattoni di fango di largo formato (20 x 40 x 12 cm), basati sulla stabile sotto-superficie desertica. L’interno misura circa 20 x 4 m e si allarga di ulteriori 20 cm vicino alla parete
È realizzata sotto il piano della superficie desertica e presenta le pareti decorate con numerosi disegni di imbarcazioni. Dopo la sua costruzione, all’interno vi fu deposta una barca solare, adagiata in un apposito avvallamento longitudinale, ricavato al centro del piano di calpestio (vedi schema della sezione, a sinistra). L’ingresso fu infine sigillato con un muro di mattoni e ben presto ricoperto dalla sabbia del deserto, spinta dai forti venti settentrionali.
d’ingresso. Le pareti laterali misurano in altezza 1,6 m nel punto in cui iniziano a convergere verso l’interno, anticipando la transizione con la copertura, e raggiungono 2,2 m alla linea di imposta. Sotto l’intonaco caduto sono visibili buchi per le impalcature, utilizzate come sostegno per la costruzione della volta e poi rimosse. Questo dava all’edificio un’altezza interna totale di circa 4,4 m a partire dal piano di calpestio. La struttura non ha un pavimento, ma, al suo posto, presenta invece un avvallamento a «V» che si sviluppa a r c h e o 35
SCOPERTE • ABIDO
per l’intera lunghezza dell’edificio, formato da due piani inclinati a circa 45°. Questa caratteristica, assieme ai ritrovamenti di tavole di legno nel fondo sabbioso, ha costituito la prova decisiva del fatto che nell’edificio era alloggiata una gran-
de barca solare, sepolta con lo scafo intero. Inoltre, all’esterno del muro d’ingresso è stato rinvenuto un piano inclinato scavato artificialmente nella sotto-superficie desertica, che risale verso la superficie in una distanza di 15 m e che appare adegua-
to per far scivolare un’imbarcazione fino all’interno della struttura.
LE 120 NAVI All’interno dell’edificio sono visibili oltre 120 disegni di imbarcazioni, graffiti nell’intonaco che ricopre le
LE BARCHE SOLARI La sepoltura rituale delle imbarcazioni era una pratica comune nelle cerimonie funerarie reali dell’Antico Egitto ed è ben documentata archeologicamente. A Dahshur, poco a sud del Cairo, alla fine dell’Ottocento, la missione francese di Jacques de Morgan riportò alla luce cinque barche in legno di cedro di circa 10 m di lunghezza e una slitta per il trasporto di una o piú di esse, sul lato meridionale del complesso funerario di Sesostri III. Quattro esemplari furono rimossi, assieme alla slitta, e possono oggi essere ammirati in diversi musei del mondo, il quinto venne lasciato in situ e risulta tuttora disperso. Due imbarcazioni e la slitta sono attualmente esposte al Museo del Cairo, mentre le altre due si trovano rispettivamente al Carnegie Museum di
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Pittsburgh e al Field Museum di Chicago. Anche altri contesti funerari reali risalenti alla XII dinastia hanno restituito sepolture di barche solari, come la piramide di Amenemhat III, ancora a Dahshur, e il complesso piramidale di Sesostri I a El-Lisht. Spingendosi indietro nel tempo, oltre la XII dinastia, si hanno i due esempi rinvenuti a Giza, nei pressi della piramide di Cheope (IV dinastia). Due grandi barche, di cui la prima, sepolta in pezzi, sembra essere stata effettivamente utilizzata per trasportare sul Nilo la salma del faraone, ed è oggi stata ricomposta ed esposta nell’adiacente Solar Boat Museum. Ad Abido Nord, all’esterno del versante orientale del recinto funerario del faraone Khasekhemwy (II dinastia) è stato rinvenuto
Sulle due pagine: due panoramiche complessive delle pareti dell’edificio della barca solare. In alto, la parete settentrionale; in basso, la parete meridionale. In basso: ancora un’immagine della decorazione dell’interno dell’edificio.
pareti. Si concentrano tutti nella zona opposta all’ingresso, lasciando i primi 5 m di pareti completamente spogli; procedendo verso il fondo, le barche iniziano a comparire nelle aree in alto, alla base della volta e nella parte superiore delle pareti
laterali, poi si espandono progressivamente verso il basso, fino a occupare l’intera superficie. Gli archeologi hanno scelto di utilizzare il termine tableau (quadro) per indicare l’opera, poiché le raffigurazioni si sviluppano senza soluzione di con-
tinuità sulla parete posteriore e sulle due laterali, a formare un insieme che misura complessivamente 8 m di lunghezza. Le incisioni iniziano poco sopra il livello del terreno e si ipotizza che originariamente si estendessero anche su tutta la volta, forse assieme a una grande raffigurazione principale, irrimediabilmente perduta. Le imbarcazioni variano per dimensioni e complessità. Si va da esemplari estremamente dettagliati – con alberi, vele, attrezzature, tughe o cabine, timoni, remi e, in alcuni casi, rematori – ad altri molto sem-
un gruppo di imbarcazioni risalenti al periodo protodinastico, databili tra il 3000 e il 2700 a.C. Infine, ad Abu Rawash, a nord di Giza, è stato rinvenuto il piú antico esempio a oggi noto di sepoltura di barca, databile alla I dinastia. Se queste barche fossero anche state impiegate in acqua o meno è ancora oggi oggetto di discussione. Per esempio, per quelle rinvenute a Dahshur, in base all’esame delle tecniche costruttive dello scafo e delle decorazioni presenti sulla chiglia, si ritiene che siano state create appositamente per l’uso rituale, mentre, al contrario, la barca di Cheope, per le sue caratteristiche, potrebbe essere stata realmente impiegata per trasportare la salma del faraone sulle acque del Nilo.
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SCOPERTE • ABIDO A sinistra: l’ingresso dell’edificio principale, ancora semisepolto, con il muro di chiusura in mattoni e il deposito di anfore all’esterno. Nella pagina accanto: un momento degli scavi del 2015-2016.
plificati, resi schematicamente come una o due linee curve che rappresentano uno scafo, sormontato da un rettangolo come cabina, privi di altri particolari. I disegni piú grandi misurano circa 1,5 m di lunghezza, i piú piccoli solo 8-10. Qua e là si trovano animali e altri elementi figurativi, come bovini, gazzelle e motivi floreali. In sintesi, le rappresentazioni possono essere suddivise in otto categorie: 1. semplici chiglie di barche rappresentate con una o due linee e un rudimentale rettangolo per cabina; 2. imbarcazioni con cabina rettangolare, e/o timone e remi, ma prive di albero; 3. imbarcazioni con cabina di forma rettangolare, alberi e sartiame, con la vela ammainata; 4. imbarcazioni con cabina di forma rettangolare, alberi e sartiame, con la vela spiegata; 5. imbarcazioni con cabina rettangolare, alberi, timoni e remi e rematori; 6. bovini; 7. gazzelle; 8. motivi floreali o a fiori di loto. Non si può parlare di una decorazione unitaria – come nel caso delle tombe o nei complessi piramidali dell’Antico Regno –, e sembrerebbe che per gli autori di queste immagini fosse piú significativo il singolo atto di lasciare incisa una barca. Tuttavia, l’uniformità del tema ha portato anche a escludere che 38 a r c h e o
si tratti di graffiti accumulatisi nel tempo in modo casuale. Le raffigurazioni condividono inoltre numerose caratteristiche: moltissime barche sono, per esempio, dotate di albero, e quasi tutte presentano una sagoma rettangolare a metà della lunghezza, raffigurante una cabina o una tuga; solo in alcuni disegni piú schematici manca questo elemento chiave.
UNO O DUE TIMONI? Numerosi esemplari mostrano anche un elemento rettangolare di dimensioni piú piccole, e di funzione non chiaramente identificata, collocato sul ponte, appena dietro la prua. Sulla poppa della maggior parte delle barche è presente un timone verticale o un montante a cui In basso: foto e sezione di una delle anfore rinvenute nel deposito.
è assicurato un remo che termina in una lunga pala a foglia. Il disegno non permette di stabilire se si tratti di un unico timone assiale, oppure di due timoni laterali resi come un’unica sagoma, secondo le convenzioni figurative dell’arte egizia. Tutti gli scafi sono raffigurati con la prua e la poppa arcuate, sormontate alle estremità da qualcosa che potrebbe essere una cimasa. In alcuni esempi, la prua ha un elemento superiore ripiegato ad angolo, talvolta somigliante a una testa di animale, con due linee sporgenti che ricordano due orecchie. In altri sono raffigurate varie attrezzature di coperta tra cui – in un caso – qualcosa che rassomiglia a un recipiente collocato su un supporto, posto immediatamente dietro la tuga. La maggior parte delle barche sembra orientata in modo casuale, senza alcuna attenzione alla direzione. L’unica eccezione si ritrova in due imbarcazioni riprodotte sulla parte inferiore della volta, documentate all’inizio della campagna di scavo del 2014. Di dimensioni simili (0,9 m), si trovavano su pareti opposte ed erano entrambe orientate verso il fondo dell’ambiente. La barca sulla parete occidentale era raffigurata con la vela spiegata, una convenzione figurativa per rappresentare la navigazione controcorrente lungo il Nilo, verso sud, sfruttando i venti settentrionali. La barca corrispondente sull’altro lato aveva invece la vela ammainata, indicazione del viaggio verso nord, discendendo il corso del fiume. L’abbinamento di barche raffigurate in navigazione verso nord e verso sud è un tema ricorrente nelle decorazioni funerarie dell’antico Egitto. Ma chi ha tracciato questi disegni? Gli archeologi hanno ipotizzato che le raffigurazioni siano state lasciate da un gruppo di individui che volevano stabilire un legame personale con la barca qui sepolta o, idealmente, con la sua memoria, e sarebbero
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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SCOPERTE • ABIDO
Inoltre, poiché la posizione di alcuni disegni rimane ben al di sopra dell’altezza media di un individuo, chi li ha fatti doveva avvalersi di una posizione elevata, per esempio salendo sull’imbarcazione stessa. In conclusione, tuttavia, è sembrato improbabile che al termine di una cerimonia funeraria sicuramente di grande importanza, si fosse data la possibilità a una moltitudine di individui di «sporcare» l’interno della sepoltura perfettamente intonacato. Piú plausibile appare dunque la seconda ipotesi. L’ambiente non era naturalmente pensato per essere accessibile dopo la chiusura, oppure l’edificio fu riaperto per asportare il prezioso legno di cedro dell’imbarcazione, abbattendo parzialmente il In basso: un’immagine che mostra l’esposizione delle tavole di legno provenienti muro d’ingresso. Poiché è da escludere che i protagonisti della ceridal fasciame della barca, associata a una pianta che ne illustra la disposizione. monia commemorativa e i saccheggiatori fossero le stesse persone, si può ragionevolmente supporre che, in un momento successivo, un seLimite della sede della chiglia condo gruppo di individui sia enTav. 4 trato nella struttura e abbia lasciato Tav. 2 la propria testimonianza sulle superTav. 3 fici piú interne e sulla volta, le uniArea non ancora scavata Tav. 1 che ormai accessibili in un ambiente parzialmente riempito di sabbia e detriti penetrati dall’ingresso (espoTav. 5 sto ai forti venti settentrionali). state disegnate tutte contemporaneamente, in un breve intervallo di tempo. La presenza di elementi comuni a tutte le immagini ha anche suggerito che non si tratti di generiche raffigurazioni di diverse tipologie di imbarcazioni in uso sul Nilo, ma che ci sia un deliberato intento di descrivere un esemplare specifico, magari in relazione a quello sepolto qui.Tra l’altro, la presenza costante della cabina rettangolare e del timone ha fatto notare anche una somiglianza con la struttura della celebre barca funeraria di Cheope, rinvenuta a Giza. Sono state formulate varie ipotesi anche sulle circostanze in cui può essere stato creato il tableau: gli ar-
cheologi hanno innanzitutto cercato di accertare se la sua localizzazione sia contemporanea alla deposizione della barca solare all’interno dell’edificio – e quindi tracciata prima che l’ambiente venisse sigillato –, oppure successiva. A favore della prima ipotesi depone l’insolita distribuzione dei disegni, che potrebbe riflettere lo stato di ingombro dell’ambiente, compatibile con la presenza di una grande imbarcazione, il cui scafo si sarebbe allargato nella parte centrale, rastremandosi alle estremità. La zona verso l’ingresso potrebbe essere stata deliberatamente evitata, nella consapevolezza che lí sarebbe stato elevato il muro di chiusura.
Limite della sede della chiglia
TAVOLA 4
TAVOLA 2 TAVOLA 1
TAVOLA 5
TAVOLA 3 40 a r c h e o
LE ULTIME NOVITÀ Nella campagna 2015-2016, la missione archeologica ha esteso le indagini oltre il muro dell’ingresso. Sulla base di confronti con gli scavi effettuati da Jacques de Morgan alla fine dell’Ottocento nel complesso di Sesostri III a Dahshur – oltre 500 km piú a nord –, gli studiosi ritenevano che questo settore potesse nascondere testimonianze archeologiche. Infatti, davanti a un edificio che ha dimensioni pressoché identiche a quello di Abido, De Morgan aveva rinvenuto cinque barche funerarie in cedro, databili alla XII dinastia. Ad Abido invece – oltre il muro, sul pendio che dall’edificio risale alla superficie desertica – si è verificata
Tav. 9
Tav. 8 Tav. 7 Tav. 6 7 x 12 cm
lunghezza 2 m circa, spessore 3-4 cm
una scoperta del tutto inaspettata: sotto la sabbia si nascondeva, infatti, una moltitudine di grandi recipienti in terracotta, intatti, utilizzati per conservare e trasportare liquidi, come birra o acqua. Per la datazione, ci si è basati sulla morfologia dei colli e delle bocche, coerente con la tarda XII dinastia (1850-1750 a.C.). Questo dato ha confermato la contemporaneità dei recipienti con l’edificio, con la barca che si trovava al suo interno (sulla base delle tavole di legno e dei frammenti rinvenuti) e con il recinto funerario di Sesostri III. Questa vicinanza cronologica permette di stabilire un collegamento certo tra la sepoltura della barca e la tomba sotterranea del faraone, che dista appena 100 m. La disposizione in cui si trovavano i recipienti è significativa: ordinati su file parallele, tutti rovesciati, con la bocca rivolta verso il terreno e lie-
In alto e a sinistra: un’immagine dello scavo dell’area dell’ingresso dell’edificio principale, con il muro di mattoni e le ulteriori tavole in legno ritrovate nel 2016, assieme a uno schema esplicativo della loro morfologia.
vemente orientata verso l’ingresso dell’edificio. Gli archeologi hanno dedotto che furono deposti iniziando vicino al muro di chiusura per poi risalire all’indietro lungo il pendio, fino alla superficie.
UN «VARO» NELL’ALDILÀ Per spiegare la presenza di questo insieme sono state formulate due ipotesi. I recipienti potrebbero essere stati impiegati per una cerimonia, per rovesciarne il contenuto contro il muro d’ingresso dell’edificio già sigillato, e cosí «varare» idealmente l’imbarcazione all’interno e farle intraprendere la sua navigazione ultraterrena. Secondo un’altra versione, piú prosaica, i recipienti potrebbero essere stati impiegati nel trasporto dell’imbarcazione già ultimata verso Abido, per bagnare e quindi compattare il terreno – cosí da facilitare lo spostamento – e, in-
fine, deposti fuori dall’ingresso conclusa la cerimonia di sepoltura. Comprensibilmente, c’è molta attesa per le indagini future.Wegner e il suo team nutrono buone speranze di trovare altre sepolture di barche, soprattutto sulla base delle affinità di questo sito con il complesso funerario di Dahshur. Nei pressi dell’edificio del tableau che avrebbe contenuto una grande imbarcazione, potrebbero perciò trovarsi altre strutture con ulteriori barche, che avrebbero fatto da scorta alla principale, similmente alle 5 barche rinvenute da De Morgan a Dahshur. Questa ipotesi sembra anche incoraggiata dall’esame di una ricognizione aerea compiuta su Abido nel 1926, che evidenzia caratteristiche del terreno indicanti, forse, la posizione di altrettante sepolture di barche. L’idea è sostenuta dal raffronto con la corrispondente disposizione del complesso di Dahshur e dalla presenza di un avvallamento dall’aspetto simile a quello che si trova sopra l’edificio del tableau.Wegner e il suo team sono inoltre favorevoli all’ipotesi secondo cui le spoglie di Sesostri III potrebbero effettivamente essere state sepolte in questo complesso funerario anziché in quello di Dahshur. Seguendo questo ragionamento, la sua tomba sarebbe successivamente divenuta il fulcro della necropoli reale di Abido, che si sviluppa sul suo lato occidentale, in cui furono deposti tre faraoni della XIII dinastia (tra cui, probabilmente, Neferhotep I e Sobekhotep IV) e altri otto anonimi regnanti del tardo Secondo Periodo Intermedio, le cui tombe sono databili alla seconda metà del XVII secolo a.C. Per le verifiche sul campo di questi possibili sviluppi si dovranno attendere le prossime campagne di scavo, in cui, oltre ad approfondire la quota delle indagini all’interno dell’edificio del tableau, le ricerche saranno estese alle aree circostanti, alla ricerca di nuove imbarcazioni. a r c h e o 41
PARCHI ARCHEOLOGICI • AOSTA
NEI SOLCHI DELLA STORIA COSÍ COME L’UOMO DEL SIMILAUN HA REGALATO A BOLZANO UNA NOTORIETÀ FORSE INASPETTATA, AOSTA PUÒ ORA CONTARE SU UNA TESTIMONIANZA PREISTORICA NON MENO SPETTACOLARE: È L’AREA MEGALITICA DI SAINT-MARTIN-DE-CORLÉANS, VISITABILE GRAZIE A UN INTERVENTO DI MUSEALIZZAZIONE CHE PERMETTE DI AMMIRARE UN SITO DALLE CARATTERISTICHE ECCEZIONALI, CREATO DA UOMINI CHE, PROPRIO COME ÖTZI, VISSERO NELL’ETÀ DEL RAME di Stefano Mammini
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hiunque conduca una visita guidata a un monumento o a un sito archeologico invita spesso i partecipanti a fare uno sforzo di immaginazione, a lasciar correre la fantasia. Sono infatti pochi i casi in cui un contesto, anche se ben conservato, si presenti in condizioni tali da
renderne evidente la funzione originaria. E se ciò accade per siti di epoca classica, ancor piú «ermetica» risulta la preistoria, le cui testimonianze, soprattutto nell’ambito della vita quotidiana, sono solitamente tracce, impronte, oppure avanzi minuti di strutture realizzate con
materiali facilmente deperibili, come legno, cuoio, intonaco… Ebbene, da un anno a questa parte, ad Aosta si può ammirare una straordinaria eccezione a questa regola non scritta: si tratta dell’area archeologica di Saint-Martin-de-Corléans che, oltre a essere stata musealizzata, ha come logico corollario
Aosta, Parco Archeologico e Museo dell’area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans. Una veduta d’insieme del sito, con, al centro, la Tomba II. È la struttura sepolcrale piú grande fra quelle riportate alla luce ed è databile nella seconda metà del III mill. a.C. La foto permette di apprezzare la grande piattaforma triangolare su cui il monumento venne eretto.
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un museo vero e proprio, che permette di ripercorrerne la lunga storia. Qui, infatti, almeno per quel che riguarda lo sfruttamento del sito come area rituale e sepolcrale – fatta di stele e tombe costruite con lastre di pietra –, tutto si è conservato in maniera quasi perfetta e offre perciò una fotografia insolitamente vivida di eventi che ebbero luogo a partire dal IV millennio a.C., in un momento che, dal punto di vista culturale, si colloca nell’ambito dell’età del Rame.
LA SCOPERTA Se oggi si può godere di questa magnifica opportunità, il merito è, innanzitutto, degli archeologi che, nell’ormai lontano 1969, per primi si accorsero che nell’area – interessata da lavori edilizi – affioravano manufatti di particolare rilevanza e intuirono le potenzialità del sito: si trattava di Rosanna Mollo, che è 44 a r c h e o
In alto: l’area nella quale si concentrano alcune stele abbattute e, in secondo piano, la Tomba I, anch’essa del tipo a dolmen, realizzata fra il 2100 e il 1900 a.C. A destra: i pannelli che corredano il percorso di visita nel suo tratto iniziale, che propongono la planimetria generale del sito e la cronistoria delle ricerche.
Un oblò come ingresso Particolare della Tomba II (in corso di scavo) che evidenzia l’oblò ricavato in una delle lastre utilizzate come pareti, al fine di consentire l’accesso al sepolcro. Le analisi condotte sui resti ossei recuperati all’interno della camera funeraria hanno provato che il DNA dei defunti appartiene a individui di origine caucasica.
stata a lungo responsabile della Soprintendenza archeologica locale, e di Franco Mezzena, che, nei successivi vent’anni, ha diretto lo scavo sistematico di Saint-Martin. Dopo aver ottenuto la sospensione del cantiere edile, fu presentata, all’allora Ministero della Pubblica Istruzione, la richiesta di porre il vincolo sull’area; richiesta che, non senza una certa sorpresa, venne accolta. Cominciava cosí la seconda vita di
quella che oggi sappiamo essere un’area megalitica fra le piú estese e importanti d’Europa. E se torniamo a parlarne ad appena un anno di distanza dall’inaugurazione del museo (vedi «Archeo» n. 377, luglio 2016), è perché quella di Saint-Martin è una storia che continua a essere scritta giorno dopo giorno, sia perché gli studi su quanto finora rinvenuto continuano, sia perché il progetto di allestimento
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del museo prevede nuove tappe, destinate ad ampliare ulteriormente le superfici espositive e ad accrescere il numero dei reperti presentati.
LA SEQUENZA CULTURALE Della lunga storia del sito riepiloghiamo dunque brevemente le tappe principali, che si possono cosí sintetizzare: tra la fine del V e gli inizi del IV millennio a.C. (anche se
A destra: la sezione introduttiva del museo, con la galleria del tempo articolata in immagini e oggetti tipici dei diversi periodi. A sinistra: la sala che riunisce le macine e i macinelli rinvenuti nei pozzi.
la datazione è tuttora dibattuta; vedi box a p. 47) viene praticata un’aratura, con ogni probabilità rituale; segue quindi lo scavo di una serie di pozzi, verosimilmente effettuato per propiziare i raccolti, dal momento che all’interno delle cavità vennero deposte macine, macinelli e semi, anche di cereali; fu quindi la volta
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dell’innalzamento di pali lignei, aventi forse valore totemico; dal legno si passò quindi alla pietra e il paesaggio di Saint-Martin-deCorléans cominciò a essere punteggiato dalle stele: alla fine se ne contavano una cinquantina; verso la metà del II millennio a.C. l’area venne quindi adibita a sepolcreto e
furono realizzate varie tombe a dolmen, la piú imponente delle quali (la Tomba II) fu costruita su una piattaforma di pietre, disposte a formare un grande triangolo. Occorre anche ricordare che, all’indomani di questa sequenza, la frequentazione del sito non si interruppe, ma visse nuove fasi in età storica e fino al Medioevo, quando venne innalzata la chiesa di SaintMartin, che tuttora si può vedere accanto all’area archeologica.
ARCHEOLOGI E ASTRONAUTI Fin dall’inizio, l’allestimento del museo di Saint-Mar tin-deCorléans fornisce al visitatore strumenti, soprattutto visivi, per collocare nel tempo gli eventi testimoniati dai monumenti che si conservano nell’area archeologica vera e propria, suggerendone il rapporto con le epoche successive, fino a quella contemporanea. Non deve perciò sorprendere di trovare, all’inizio del percorso di visita, una serie di grandi foto a colori che dall’età contemporanea risalgono fino alla preistoria. Una galleria di istantanee fra le quali si è scelto di inserire uno scatto relativo al fatidico allunaggio del 21 luglio 1969, verificatosi negli stessi giorni in cui, dopo le prime scoperte accidentali, si stavano decidendo le sorti dell’area megalitica.
Nella pagina accanto, in basso: uno degli schizzi di progetto realizzati durante la preparazione dell’allestimento del museo. In basso: l’apertura che permette di osservare un tratto dell’aratura rituale, che, grazie a particolari circostanze geologiche, si è conservata in condizioni eccellenti. Secondo le analisi radiocarboniche fu eseguita fra il 4100 e il 3900 a.C.
UN PRIMATO PROBLEMATICO L’aratura verosimilmente rituale che segna l’inizio della frequentazione di Saint-Martin-de-Corléans ha costituito, fin dal momento della sua scoperta, uno degli elementi di maggior interesse del sito. In assoluto, essa trova, a oggi, pochi confronti, anche per via dell’eccezionale stato di conservazione. Tuttavia, a farne un vero e proprio «caso» sono state le datazioni effettuate con il radiocarbonio su campioni di materiali organici a essa riferibili: il responso ha infatti indicato una «forchetta» cronologica compresa fra
il 4100 e il 3900 a.C., collocando l’aratura in un momento che precede di circa mezzo millennio le prime attestazioni finora conosciute. A Saint-Martin, dunque, l’uomo avrebbe sperimentato per la prima volta l’uso dell’aratro, ma il condizionale resta d’obbligo. Conferme decisive potranno forse venire da indagini future, ora che gli archeologi, grazie al sito valdostano, possono disporre di una preziosa chiave di lettura per eventuali stratigrafie caratterizzate dalla presenza di insolite linee ondulate…
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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Raggiunta la quota del sito vero e proprio, che si trova 6 m circa sotto quella del piano stradale moderno, le strutture megalitiche si rivelano in tutta la loro imponenza, precedute unicamente da una planimetria generale e corredate, poco piú avanti, dalla storia delle ricerche. L’approfondimento degli aspetti culturali e l’illustrazione del valore simbolico e delle funzioni delle varie strutture sono stati infatti concentrati negli spazi espositivi che si aprono al termine di questa prima parte del percorso. Un percorso lungo il quale spicca, oltre ai megaliti, la «finestra» aperta su una delle testimonianze che, a oggi,
Gli dèi di pietra Due immagini della sezione che riunisce le stele rinvenute nel corso dello scavo. Ne sono state contate 46, ma è probabile che il numero complessivo superasse le 50 unità. Particolarmente suggestiva è l’ipotesi interpretativa che le identifica come rappresentazioni embrionali di divinità che, molto piú tardi, avrebbero fatto parte del patrimonio mitologico classico.
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fanno di Saint-Martin un caso unico: si tratta dei solchi dell’aratura, praticata a scopo rituale, che, grazie alle particolari vicende geologiche dell’area, risultano ancora oggi pienamente leggibili.
CALCOLI MILLIMETRICI Non meno impressionante è constatare l’allineamento intenzionale e rigoroso delle stele, delle piú antiche fosse destinate all’alloggiamento dei pali in legno e la preminenza riservata alla grande tomba a dolmen che troneggia al centro dell’area indagata. Linee ideali, eppure rigorosamente pianificate, se si considera che l’analisi dei monumenti e soprattutto delle stele ha dimostrato
che gli uomini di Saint-Martin avevano elaborato un sistema metrico in tutto e per tutto simile a quelli che tuttora utilizziamo, con rapporti basati su unità vicine agli odierni pollici e piedi. Il percorso di visita si snoda tutt’intorno all’area megalitica – le esigenze di conservazione hanno indotto a evitare passaggi troppo ravvicinati – e vale la pena di compiere piú di una sosta, cosí da cogliere i molti particolari delle strutture: dalle stele che si presentano distese perché intenzionalmente abbattute, all’oblò aperto in una delle lastre che fanno da pareti della Tomba II (la piú imponente, in posizione centrale), affinché potesse essere
utilizzato come ingresso al sepolcro. L’osservazione lenta è peraltro raccomandabile, in quanto consente di godere appieno del sistema dinamico di illuminazione che rischiara i megaliti: i 500 faretti a LED che sovrastano il sito replicano infatti le diverse condizioni di luce che si potevano registrare nell’arco di un’intera giornata, dall’alba al tramonto, fino alla notte.
UN MUSEO DAVVERO INCLUSIVO Dopo avere descritto una sorta di periplo quasi completo del sito, il percorso accenna una leggerissima salita e conduce alle sale del museo, precedute da uno schermo sul quale viene proiettata una sequenza di immagini che illustra l’evoluzione del paesaggio di Saint-Martin-deCorléans in età preistorica. Avendo fatto cenno al leggero dislivello, è tuttavia importante sottolineare che l’intero museo è stato realizzato adottando soluzioni che ne consentono la visita anche a persone con mobilità ridotta, in ogni sua parte. Con un criterio che riprende quello della galleria fotografica iniziale, il percorso espositivo si apre con una nuova carrellata di immagini, emblematiche di altrettanti periodi
storici, che però, in questo caso, sono corredate dall’esposizione di oggetti – originali e non – che possono essere anche toccati: un segno della volontà di qualificare il Museo di Saint-Martin anche per la sua capacità di inclusione, predisponendo materiali tattili e pannelli redatti con il sistema Braille. Ampio e spettacolare è il capitolo dedicato alle arature. Fanno da corollario alla replica in scala reale di un segmento dei solchi filmati che documentano le repliche sperimentali dell’operazione e un articolato riepilogo delle piú antiche attestazioni a oggi note dell’uso dell’aratro.Testimonianze che chiamano in causa mondi solo geograficamente lontani dall’area valdostana, come la Mesopotamia o l’Egitto: alla luce delle ricerche piú recenti, appare sempre piú verosimile, infatti, che i gruppi eneolitici di Saint-Martin fossero inseriti in una vasta rete di idee ed esperienze, scambiate fra tutte le principali culture che gravitavano nell’orbita mediterranea e non solo. Un panorama che può sembrare soprattutto suggestivo, ma che invece è stato e viene costantemente corroborato da nuove acquisizioni: basti pensare, per esempio, che le
Particolare dell’allestimento della sezione dedicata alle stele. Tutti i supporti esplicativi realizzati nel museo sono stati redatti in tre lingue (italiano, francese e inglese) e, come in questo caso, vi sono anche postazioni tattili.
analisi condotte sui resti ossei degli individui sepolti nella Tomba II hanno accertato la presenza di un DNA riferibile a genti di origine caucasica.
LE PRIME FARINE Seguendo un’ideale affinità tematica (perché le arature di Saint-Martin ebbero carattere rituale), dal lavoro degli aratori si passa a quello dei raccoglitori e dei trasformatori, esponendo macine e macinelli per cereali – ritrovati sul fondo dei pozzi –, accompagnati ancora una volta da un video che mostra la replica sperimentale della procedura. I grandi pali lignei che precedettero le stele in pietra vengono invece evocati da strutture cilindriche allineate in questa sezione del museo. Questi «totem» d’acciaio sono provvisti di una piccola teca, a metà della loro altezza, nella quale sono esposti campioni dei resti di legno recuperati durante lo scavo. a r c h e o 49
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Entrano quindi in scena le stele, la cui semplice esposizione già da sola lascia intuire quanto la loro creazione abbia rappresentato un fenomeno di rilevanza assoluta, che trova confronti solo parziali con manifestazioni analoghe registrate in Italia e in Europa. A Saint-Martin-deCorléans la fabbricazione delle stele assunse caratteri eccezionali sia in termini di quantità (gli scavi ne hanno restituito 46 esemplari, ma si calcola che potessero essere piú di 50) che di qualità (le ricerche finora
condotte e quelle tuttora in corso hanno permesso di identificare almeno tre stili – primo, di transizione e secondo –, che si succedono nel tempo).
ANTICHE DIVINITÀ? Al di là delle considerazioni formali ed estetiche, resta per il momento ancora aperto l’interrogativo sull’interpretazione di questi manufatti e, anche in questo caso, le suggestioni si fanno particolarmente forti: accanto all’ipotesi che le grandi figure stilizzate ritraessero an-
tenati o personaggi di spicco della comunità, non si può escludere che questi uomini (o donne?) misteriosi non fossero altro che versioni primordiali delle divinità che, piú tardi, costituirono il pantheon ellenico. Un’ipotesi per ora sfuggente, ma che guadagna credito ove si consideri la già ricordata partecipazione di Saint-Martin a fenomeni culturali diffusi su scala continentale. Come già nel caso dell’area megalitica, merita d’essere segnalata l’accurata illuminazio-
La vicenda di Saint-Martin-de-Corléans si inserisce in un contesto culturale ben piú ampio di quello locale
La sala del museo dedicata alle tombe e ai loro corredi. Si noti la scelta di riprodurre, a terra, in scala reale, il rilievo planimetrico della Tomba III, che evidenzia il riutilizzo di numerose stele come pareti della struttura. 50 a r c h e o
ne delle stele, che permette di cogliere al meglio i vari elementi incisi sulle superfici delle lastre. Oltre alla valenza artistica, vengono naturalmente descritti il valore simbolico delle stele e le loro modalità di impiego e poi di riuso. Non va infatti dimenticato che, nella quasi totalità, i manufatti sono stati rinvenuti perché utilizzati come pareti e coperture delle tombe a dolmen. Ed è proprio l’ambito funerario a suggellare il percorso, con l’ambiente nel qua-
le è esposta una selezione dei materiali di corredo rinvenuti nelle deposizioni indagate. Dopo essersi raccontata, l’area megalitica si offre di nuovo all’ammirazione del visitatore, questa volta dall’alto: un colpo d’occhio ancor piú suggestivo del primo, ma senz’altro meno misterioso, grazie a un allestimento museale che ha fatto parlare le «grandi pietre» (ché questo è, letteralmente, il significato di megalite) e ne ha saputo evocare i loro antichi artefici.
DOVE E QUANDO Parco Archeologico e Museo dell’area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans Aosta, corso Saint-Martin-de-Corléans Orario apr-set: tutti i giorni, 9,00-19,00; ott-mar: tutti i giorni, 10,00-13,00 e 14,00-18,00; chiuso il lunedí (eccetto il 30 gennaio), il 25 dicembre e il 1° gennaio Info tel. 0165 552420; e-mail: beniculturali@regione.vda.it; www.regione.vda.it; www.lovevda.it
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DUE MONDI A
CONFRONTO
EGIZI ED ETRUSCHI EBBERO CONTATTI DI CUI L’ARCHEOLOGIA HA INDIVIDUATO A PIÚ RIPRESE LE TRACCE. UN RAPPORTO CHE, INSIEME AGLI INEDITI REPERTI RACCOLTI DAL PITTORE E COREOGRAFO RUSSO EUGENE BERMAN, FA DA FILO CONDUTTORE DI UNA MOSTRA AFFASCINANTE
di Simona Carosi e Carlo Casi
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Montalto di Castro (Viterbo), i locali dell’ex convento di S. Sisto – destinati ad accogliere il Museo Civico della Scultura e dell’Arte Etrusca – ospitano una mostra che, grazie a materiali e contesti inediti, approfondisce l’approccio degli Egizi e degli Etruschi nei confronti dell’aldilà e le rispettive aspirazioni di immortalità. In primo piano, ci sono la figura del pittore e coreografo russo Eugene Berman (1899-1972), che fu anche collezionista di antichità, e i recenti e fortunati ritrovamenti degli scavi vulcenti (dei quali «Archeo» ha costantemente dato conto), inseriti in sezioni tematiche nelle quali rari e preziosi reperti delle due culture permettono un viaggio affascinante tra i due mondi.
SCELTE INUSUALI La personalità eclettica di Berman si riflette sulla composizione della sua collezione di antichità: essa comprende infatti oggetti molto diversi da quelli ai quali siamo abituati quando si studia una raccolta privata; scelse, per esempio, numerose maschere funerarie di tutte le fasi culturali egizie, affascinato com’era dai volti e in particolare dall’espressione degli occhi, mentre acquisí un numero cospicuo di stoffe copte, probabilmente attratto dal disegno ingenuo e simbolico. Le forme lineari, che sembrano quasi anticipare il concetto di design, lo guidarono invece nella scelta di una eccezionalmente ricca quantità di vasi in pietra. Non mancano poi acquisti indirizzati a materiali che si distinguono per aspetti piú strettamente legati alla cultura egizia, dando alla sua raccolta un taglio inaspettatamente enciclopedico. Dopo questa parte introduttiva, nella quale vengono descritte la storia della collezione e la figura di Eugene Berman – anche grazie a due preziosi costumi provenienti dal
Nella pagina accanto, a sinistra: maschera funeraria egiziana dorata di epoca tolemaica. Collezione Berman. Nella pagina accanto, al centro: una foto d’epoca della collezione riunita dal pittore e coreografo russo Eugene Berman.
Teatro dell’Opera di Roma –, si apre il percorso espositivo vero e proprio, che, articolato in sei sezioni, mette in evidenza legami e differenze in alcuni dei piú importanti aspetti delle culture egizia ed etrusca. Un’appendice tecnica sottolinea come la mostra abbia rappresentato l’occasione per interventi di restauro e per indagini diagnostiche utili allo studio dei reperti.
IL METALLO DEGLI DÈI La prima sezione – dedicata all’oro, simbolo di regalità – si apre con l’esposizione di alcune maschere della collezione Berman, dando particolare risalto ai due esemplari dorati. L’osservazione delle maschere e in particolare delle ampie collane usekh (portati sia dagli uomini che dalle donne, si tratta di collari
Antefissa in terracotta policroma a testa femminile, dalla zona di Monte Abatoncino, Cerveteri. Ultimo quarto del VI sec. a.C. a r c h e o 53
MOSTRE • EGIZI ED ETRUSCHI
Un lascito prezioso La collezione Berman è una delle molte raccolte pubbliche e private, presenti sul territorio italiano, caratterizzate da reperti egizi, in questo caso compresi in un insieme di materiali eterogenei (egizi, greci, italici, romani e precolombiani) raccolti da Eugene Berman, pittore e coreografo russo che visse a lungo a Roma. Molti reperti furono
probabilmente acquistati durante i suoi viaggi in Egitto tra il 1964 e il 1965. Colpisce la composizione della raccolta, poiché in essa prevalgono tipologie di oggetti solitamente poco presenti nelle collezioni private, come le maschere funerarie e i tessuti copti. Alla sua morte, avvenuta a Roma nel 1972, Berman lasciò allo Stato italiano la composita collezione, forte di circa 3000 oggetti.
formati da numerosi giri di perle, cilindretti o altri elementi di vari materiali, legati fra loro in modo da comporre una sorta di rete multicolore, n.d.r.) su di esse rappresentate offre lo spunto per un confronto con l’oreficeria etrusca. Si affronta quindi il tema dello scambio di saperi tecnologici, che, oltre alle capacità tecniche, portò con sé anche un patrimonio immateriale legato ad aspetti formali, quali elementi iconografici e simbolici. In particolare, viene approfondito il significato che gli Egizi attribuirono all’oro come simbolo di regalità e, in ambito funerario, di divinizzazione e immortalità. Idee che contagiarono le élite aristocratiche etrusche, ma anche la nuova oligarchia mercantile alla ricerca di legittimazione della propria posizione sociale, influenzandole nell’uso dell’oro all’interno dei corredi. I pettorali raffigurati sulle maschere egizie possono essere accostati agli ori della Tomba Regolini-Galassi di Cerveteri, riprodotti fotograficamente (gli originali del prezioso corredo sono conservati nel Museo Gregoriano Etrusco, una delle racUno dei tessuti copti raccolti da Eugene Berman. IV-V sec. d.C. 54 a r c h e o
la Tomba dello Scarabeo Dorato, rinvenuta nella necropoli di Poggio Mengarelli a Vulci, con le sue preziose parure di ornamenti in oro, argento, ambra e pasta vitrea.
colte dei Musei Vaticani, n.d.r.). Il pettorale in oro si rivela particolarmente adatto per approfondire la tematica della simbologia egizia, pienamente accolta dalle aristocrazie dell’Etruria meridionale, di rigenerazione regale con la trasmutazione dallo stato umano a quello divino.
SCAMBIO DI SAPERI L’esposizione di gioielli provenienti da tombe etrusche vulcenti – in particolare quelli dalla Tomba degli Ori della Necropoli della Polledrara e dal sepolcro che ha restituito un bottone in oro decorato a filigrana e idoletti egizi – offre lo spunto per documentare la produzione artigianale e lo scambio di saperi nel bacino mediterraneo. A fare da filo conduttore del capitolo «Faraoni e principi» sono due frammenti architettonici in quarzite rossa, iscritti con i cartigli del faraone Akhenaton e della regina Nefertiti, facenti parte anch’essi della collezione Berman. Grazie ai due manufatti viene infatti sviluppata la tematica della regalità nella cultura del Vicino Oriente, recepita e diffusa con successo nel mondo etrusco. Il tema viene trattato anche attraverso il confronto tra scarabei etruschi ed egizi. A rappresentare la ricezione di esemplari egizi in corredi funerari etruschi è inoltre esposto lo scarabeo risalente al regno del faraone Bocchoris (XXIV dinastia, 720-715 a.C.), ritrovato in una tomba della Necropoli dell’Osteria di Vulci. Fra gli elementi decorativi e fortemente evocativi della regalità orientale vengono poi presi in esame il leone e le sue possibili declinazioni, dalle protomi decorative alle sfingi, ponendo a confronto modi di rappresentazione egizia, orientale ed etrusca. Nel contesto etrusco, vasi
Nel segno dell’oro Fibula aurea a disco decorata a sbalzo, dalla Tomba degli Ori della necropoli vulcente della Polledrara. Inizi del VII sec. a.C.
dalla lavorazione complessa, come quelli baccellati, sembrano diventare elementi cerimoniali essenziali nella formazione dei corredi principeschi; ancora una volta vengono posti a confronto vasi in metallo e in ceramica di produzione egizia, orientale e etrusca. Protagonista per il mondo etrusco, in questa sezione, è
SOGNARE L’IMMORTALITÀ La terza sezione è imperniata su uno dei temi cardine della mostra e dei confronti tra le due civiltà presentate: la percezione della continuità della vita oltre la morte, di cui sono testimonianza i ricchi corredi funerari e quanto è possibile ricostruire della ritualità antica, anche grazie all’ausilio delle nuove tecnologie. L’esposizione della camera centrale dell’ormai celebre Tomba delle Mani d’argento da Vulci (vedi «Archeo» n. 350, aprile 2014), con i suoi vasi rituali, da banchetto e per derrate e con gli eccezionali resti di uno sphyrelaton – una statua polimaterica di cui facevano parte la coppia di mani in argento e oro e, probabilmente, la parure di gioielli in oro, argento e pietre preziose – permette di immergersi con un solo sguardo nella ricchezza dell’aristocrazia etrusca, ma anche nei gesti e nelle ideologie che dovevano sfidare il tempo e garantire l’immortalità. L’esposizione della ricostruzione del carro della Camera B della stessa tomba costituisce di per sé un evento eccezionale. Anche in questa sezione l’esposizione dei reperti è corredata da numerosi pannelli, che consentono di integrare motivi egizi rappresentati dagli oggetti della collezione Berman con quelli diffusi in ambito italico: un esempio è il confronto fra i coperchi di canopo raccolti da Berman e i canopi etruschi, ideato per introdurre il tema delle rivisitazioni da parte della a r c h e o 55
MOSTRE • EGIZI ED ETRUSCHI
cultura etrusca di temi e usanze funerarie egiziane. Nello scambio di beni e tradizioni fra Egitto ed Etruria si inseriscono le raffigurazioni di divinità, protagoniste della quarta sezione della mostra. Spicca la statua frammentaria in granito grigio della dea Sekhmet, alla quale sono affiancati gli altri reperti della collezione Berman che hanno gli dèi come motivo centrale: fra questi ultimi, possiamo ricordare il bassorilievo con la raffigurazione di Ra-Harakhti, la stele con una scena di offerta a Osiride e alcuni coperchi zoomorfi di canopi. A essi sono
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accostati reperti etruschi con evidenti influenze egizie, come i numerosi pendenti in pietra dura. C’è quindi spazio anche per il tema della fortuna del pantheon egizio nel mondo etrusco e, piú in generale, nell’area mediterranea. La rivisitazione dei significati originali da una cultura all’altra è documentata da una selezione di amuleti da contesto etrusco (Bes, Pateco, Nefertum…), che invitano a riflet-
La statua «vestita» Le mani in argento che hanno dato nome a una tomba scoperta nella necropoli vulcente dell’Osteria. Seconda metà del VII sec. a.C. Dallo stesso contesto provengono numerose cuppelle in lamina di bronzo dorato, che, con le mani, costituivano la decorazione di una statua polimaterica (sphyrelaton).
tere su come queste divinità di origine egizia siano giunte in Etruria mediate dalla lettura fenicia o greca, che ne hanno in parte snaturato il significato originario. Sviluppando una delle tematiche guida della mostra, ovvero gli scambi e influenze commerciali come veicolo di mediazione culturale tra Oriente e Occidente, sono esposti alcuni preziosi reperti, come la statuetta in avorio e oro del dio Besdal dal tumulo in località San Paolo, a Cerveteri. Il capitolo successivo è dedicato a profumi, unguenti e cosmetici di origine orientale, considerati beni di lusso e perciò ricercati dall’aristo-
crazia etrusca come simbolo di ricchezza. I cosmetici venivano commerciati in piccoli contenitori fabbricati con materiali ricercati, quali l’alabastro, che pertanto si trasformavano essi stessi in simboli di ricchezza. Il tema di questa sezione è dunque l’occasione per ammirare i magnifici unguentari in alabastro raccolti da Berman. Inoltre, la riflessione sui percorsi delle importazioni di beni dà modo di sviluppare il tema della koinè orientalizzante, grazie al vettore fenicio che recepisce l’influenza egizia (Tiro e Sidone) e mesopotamica (Arado) e il tema delle importazioni euboiche dalla Magna Grecia, in particolare attraverso Cuma e Pitecusa, il diffondersi degli aegyptiaca (tramite le città di Naukratis, Rodi e Samo) anche in Campania e Calabria (per aegyptiaca si intendono oggetti egizi o egittizzanti provenienti da luoghi diversi dall’Egitto stesso, n.d.r.), senza trascurare il tema della presenza dei metoikoi (i meteci, cioè gli stranieri di condizione libera residenti in una città, in cui, nell’antica Gre-
cia, godevano di limitati diritti politici e civili, n.d.r.). Il capitolo finale, «Le linee del tempo», presenta un grande quadro sinottico, in cui i diversi momenti della cultura etrusca vengono messi a confronto con le fasi della cultura egizia, attraverso i reperti scelti per la mostra. Una selezione di materiali della collezione Berman si presta a documentare la linea del tempo egizia: si comincia con alcuni vasi predinastici risalenti al 4500 a.C. per terminare con i tessuti copti del VI secolo d.C.
OGGETTI ESOTICI Particolare attenzione viene riservata alla fase storica che coincide con lo sviluppo della moda orientalizzante, ma anche al III secolo a.C., grazie all’esposizione del corredo di una tomba etrusca scoperta recentemente negli scavi di Poggetto Mengarelli e da cui proviene un raro vaso di ceramica «invetriata» di produzione alessandrina. Grazie agli apparati multimediali vengono presentati suggestivi materiali, come il corredo
La «firma» del faraone Scarabeo in faïence che reca il cartiglio del faraone Bocchoris (XXIV Dinastia, 720-715 a.C.), da una tomba a fossa della necropoli dell’Osteria di Vulci.
della Tomba detta «di Bocchoris», dalla necropoli dei Monterozzi, a Tarquinia, celebre esempio di sepoltura principesca orientalizzante caratterizzata da ricchi oggetti di importazione, baluardo per la cronologia etrusca.Vengono inoltre approfonditi il ruolo fondamentale della città di Naukratis nei commerci e nella diffusione delle iconografie egizie e nella importazione di prodotti in faïence in Occidente e il tema del diffondersi degli aegyptiaca, restituiti in gran numero proprio dai corredi funerari etruschi. La mostra è stata curata da Alfonsina Russo e Simona Carosi della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale e da Massimiliana Pozzi ed è stata realizzata grazie al sostegno del Consiglio Regionale del Lazio, del Comune di Montalto di Castro e della Fondazione Vulci. DOVE E QUANDO
Lo scarabeo dorato Pendaglio in argento ricoperto da una lamina d’oro con incastonato uno scarabeo in steatite, dalla Tomba dello Scarabeo dorato di Vulci. Fine dell’VIII-inizi del VII sec. a.C.
«Egizi Etruschi. Da Eugene Berman allo Scarabeo dorato di Vulci» Montalto di Castro (Viterbo), Museo Civico della Scultura e dell’Arte Etrusca-Complesso Monumentale di S. Sisto fino al 30 settembre Orario tutti i giorni, 10,00-13,00 e 15,00-18,00 chiuso il lunedí Info tel. 0766 870179; www.vulci.it a r c h e o 57
SCAVI • FANUM VOLTUMNAE
ECCO IL FANUM DEGLI ETRUSCHI LE PIÚ RECENTI CAMPAGNE DI SCAVO CONDOTTE NELL’AREA DI CAMPO DELLA FIERA, AI PIEDI DELLA RUPE DI ORVIETO, SEMBRANO AVER DEFINITIVAMENTE SGOMBRATO IL CAMPO DAI DUBBI: LÍ, INFATTI, DOVEVA SORGERE IL FANUM VOLTUMNAE, IL GRANDE SANTUARIO FEDERALE PRESSO IL QUALE, OGNI ANNO, SI RIUNIVANO I RAPPRESENTANTI DELLE PIÚ IMPORTANTI CITTÀ ETRUSCHE di Giuseppe M. Della Fina
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l mistero della localizzazione del Fanum Voltumnae (l’area sacra dedicata a Voltumna, un appellativo di Tinia, la massima divinità del mondo etrusco), il santuario federale degli Etruschi, sembra essere stato finalmente svelato. Al complesso cultuale e agli edifici che lo caratterizzavano sarebbero infatti riferibili le strutture riporta58 a r c h e o
te alla luce in un’area di oltre cinque ettari, situata alle pendici della rupe di Orvieto e denominata, nei documenti medievali, campus fori o campus nundinarum, con riferimento ai mercati che vi si dovevano svolgere a scadenza regolare. D’altronde, anche nella toponomastica moderna la zona è nota come Campo della Fiera.
Prima di addentrarci nella descrizione delle scoperte (vedi anche i nn. 261 e 284 di «Archeo», novembre 2006 e ottobre 2008), è utile richiamare la centralità del Fanum Voltumnae per il mondo etrusco. Presso il santuario – ricordato piú volte in testimonianze letterarie ed epigrafiche romane, ma senza fornirne con precisione l’ubicazione
Tutte le immagini si riferiscono a strutture e reperti rinvenuti in località Campo della Fiera, presso Orvieto. A sinistra, sulle due pagine: mosaico con Scilla e mostri marini (vedi anche alle pp. 64-65). Qui accanto e in basso: scultura in terracotta raffigurante una divinità maschile, al momento della scoperta e dopo la pulizia. Fine del V-inizi del IV sec. a.C.
– i rappresentanti delle dodici città (la dodecapoli, n.d.r.) si riunivano per eleggere un sacerdos supremo, una sorta di primus inter pares, che doveva rappresentare l’intera Etruria, e per assumere decisioni politiche comuni. Ogni incontro aveva una spiccata valenza religiosa e si accompagnava a gare sportive e a spettacoli teatrali.
I TIMORI DI ROMA Dallo storico latino Tito Livio – che ritorna piú volte sui concilia Etruriae tra gli anni 434 e 389 a.C. – apprendiamo che le tensioni tra le diverse città-stato etrusche erano numerose e si riflettevano sullo svolgimento degli incontri. In alcuni casi le diversità di vedute portarono al blocco delle decisioni, o a scelte destinate a rivelarsi errate. Allo stesso tempo,Tito Livio suggerisce che a Roma – consapevole della forza degli Etruschi nel loro insieme – si guardava con attenzione e, in qualche caso, con preoccupazione alle determinazioni che potevano essere assunte, o alla figura di volta in volta individuata come «guida».
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SCAVI • FANUM VOLTUMNAE
Il Fanum Voltumnae era quindi uno dei luoghi piú sacri dell’intera Etruria e la sede politica della lega etrusca, l’organismo istituito per cercare di superare la suddivisione in cittàstato o, almeno, per fare fronte comune in politica estera. Ma per quale motivo le ricerche di Simonetta Stopponi (che le coordina) si sono indirizzate verso Orvieto (l’etrusca Velzna, in lingua latina Volsinii) e concentrate sull’area di Campo della Fiera? Come si è già affermato, le fonti antiche non forniscono l’ubicazione del sito, al punto che esso è stato cercato in luoghi diversi dell’Etruria anche molto lontani tra loro.
INDIZI MOLTEPLICI Tuttavia, piú di un indizio portava a Orvieto: la notizia, riportata da Festo, secondo la quale, nel tempio di Vertumno (vale a dire Voltumna) a Roma, era raffigurato Marco Fulvio Flacco, il console vincitore di Velzna, in veste di trionfatore; alcuni versi del poeta Properzio (IV, 2, 3-4), nei quali viene fatto dire a Vertumno
che non rimpiangeva di aver abbandonato i focolari di Volsinii, con un chiaro riferimento al rito della evocatio (in ambito romano, il termine designava l’azione rituale con la In alto: foto aerea dell’area di Campo della Fiera, alle cui spalle, in secondo piano, è ben riconoscibile la rupe di Orvieto. Nella pagina accanto: foto zenitale dell’area sud con i resti del tempio B, un edificio maestoso, costruito alla fine del VI sec. a.C. e distrutto nel III sec. a.C., verosimilmente in coincidenza dell’assedio e della fine di Velzna (265-264 a.C.).
Arezzo
La go Tra s i meno
Perugia UMBRIA
Orvieto La go di Bol s ena
Viterbo
Terni Rieti
IL DONO DI UNA LIBERTA La base di Kanuta presenta un’iscrizione su due righe in cui si ricorda che la donna, liberta della gens Larecena e sposa di Aranth Pinie, fece un dono alle divinità Tluschva. Probabilmente si trattava di una statua di bronzo andata perduta e inserita in origine sulla sommità della base stessa. Nell’iscrizione – secondo la ricostruzione proposta da Simonetta Stopponi – sarebbe inciso anche il nome etrusco del santuario, Faliathere, «il luogo celeste».
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quale, in prossimità della fine di un assedio, quando l’esercito stava per conquistare una città nemica, se ne invitavano le divinità tutelari ad abbandonare la loro sede di culto, con la promessa di onori uguali o maggiori nell’ambito del culto romano, n.d.r.); il numero delle statue di bronzo, pari a duemila, portate via da Velzna sconfitta nella testimonianza di Metrodoro di Scepsi ri-
portata da Plinio nella Naturalis Historia (XXXIV, 16, 34), che induce a ipotizzare la presenza di un santuario di notevole importanza nelle immediate vicinanze.
UNA TRADIZIONE ANTICA Infine il Rescritto di Spello, con la decisione dell’imperatore Costantino, presa tra il 333 e il 337 d.C., di esonerare gli Umbri dall’obbligo di
recarsi aput Volsinios per celebrare la loro festa religiosa, come facevano sulla base di un’antica tradizione che sembra riallacciarsi alle riunioni che si tenevano presso il Fanum Voltumnae, aperte anche a genti non etrusche. A quel tempo, Volsinii non si trovava piú sulla rupe di Orvieto, ma in prossimità del lago di Bolsena, dopo che i suoi abitanti, in conseguenza della rovinosa sconfitta del a r c h e o 61
Le ultime novità Fra le acquisizioni piú recenti, spicca questa fornace per la cottura della ceramica, rinvenuta nell’Area Sud della zona indagata. Databile dalla fine del III sec. a.C., la struttura conserva ancora il sostegno centrale, destinato a sorreggere il piano forato della camera di combustione, e il piccolo corridoio che immetteva nell’ambiente per il fuoco.
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ha restituito un altare, un donario, pozzi e depositi di materiali votivi. Tra i reperti piú antichi, si segnala una base in trachite che reca un’iscrizione in cui viene ricordata una donna di origine campana, Kanuta, accolta all’interno di una gens locale e sposata con Aranth Pinie, che scelse di dedicare una statua in bronzo (vedi foto e box a p. 60). Nella stessa zona è stato scoperto un sacello tripartito eretto intorno alla metà del VI e abbandonato alla fine del V secolo a.C., quando venne edificato a poca distanza e con lo stesso orientamento un tempio piú grande denominato A, di cui restano il podio costruito con blocchi di tufo. Quest’ultimo venne ristrutturato nel corso del III secolo a.C. A sinistra: veduta zenitale dell’area in cui si conservano i resti del Tempio C lungo la Via Sacra. In basso: i resti del Tempio A. La struttura venne innalzata alla fine del V sec. a.C. e fu poi ristrutturata nel III sec. a.C. Se ne conserva il podio, costruito con blocchi di tufo.
264 a.C., vi erano stati deportati. Nel testo si dice infatti «presso» e non «in» Volsinii. Accolta l’ipotesi dell’ubicazione del santuario federale etrusco nella zona di Orvieto, il toponimo stesso di Campo della Fiera, insieme al riesame di rinvenimenti effettuati in precedenza nella zona, hanno indotto Simonetta Stopponi a iniziare le sue ricerche in quell’area. I risultati non sono mancati, ed ecco dunque come essa si presenta a sedici anni dai primi scavi. Gli archeologi hanno individuato una Via Sacra, larga quasi 10 m, lungo la quale si trovavano una serie di edifici. Essa entrò in uso alla fine del VI secolo a.C., ma i basolati risalgono alla prima metà del IV secolo a.C. quando si volle monumentalizzarla ulteriormente. Dal suo limite verso nord si accedeva a un recinto sacralizzato, che a r c h e o 63
SCAVI • FANUM VOLTUMNAE A sinistra: il mosaico scoperto nell’area della domus, realizzato con tessere nere alternate a lastrine di marmo e con, al centro, un fiore a quattro petali. A destra: il mosaico a soggetto marino riportato alla luce in uno degli ambienti termali. Si riconosce Scilla, con un remo in mano, circondata da mostri marini.
MOSAICI E FORNACI Nel corso dell’ultima campagna di scavo (2016) a Campo della Fiera, è stato scoperto un nuovo ambiente nel piú recente dei due impianti termali. Il vano, che si estende per 50 mq circa, presenta un mosaico figurato di soggetto marino realizzato con tessere bianche e nere. Al centro della scena compare Scilla, armata di remo e circondata da mostri marini con lunghe code e delfini guizzanti. Il mosaico sembra risalire al II secolo d.C. e trova confronti con esemplari di Ostia.
L’opera venne danneggiata già in antico e si provò a restaurarla con l’inserimento di lastre e lastrine in marmo staccate da altri pavimenti. Nelle indagini del 2016 è stato inoltre rinvenuto un nuovo mosaico nell’area della domus, realizzato con tessere nere alternate a lastrine di marmo. Presenta al centro un riquadro che accoglie un fiore a quattro petali. Nell’area sud è stata infine scoperta una fornace per la cottura della ceramica, databile dalla fine del III secolo a.C.
In asse con il tempio era posizionato un donario monumentale, dal profilo a clessidra e, accanto a esso, si trovava un altare in tufo. Al di sotto di quest’ultimo, con il volto rivolto verso il basso, è stata scoperta l’effigie di una divinità maschile in terracotta, caratterizzata da una folta barba e da una capigliatura singolarissima. La scultura è databile tra la fine del V e gli inizi del IV secolo a.C., in un momento d’oro per la coroplastica volsiniese: siamo infatti negli
anni in cui venne rinnovata, per esempio, la decorazione architettonica del tempio di Belvedere.Va segnalato che in questo settore il culto continuò anche in età romana e, nella prima età augustea, il Tempio A venne ristrutturato, con la realizzazione di un nuovo pavimento.
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dagli scavatori. Esso ha pianta rettangolare (12,60 x 8,60 m) e venne innalzato alla fine del VI secolo a.C.; il suo abbandono risale ai decenni tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C., vale a dire in un tempo divenuto difficile per l’intera Etruria a seguito delle ripetute sconfitte e in prossimità della fine della sua indipendenza politica. AcTEMPI DIFFICILI Lungo la Via Sacra, proseguendo canto al tempio sono state rinveverso sud, si raggiungeva un altro nute alcune tombe infantili, dataedificio, denominato Tempio C bili poco tempo dopo l’abbando-
no: segno di una devozione che non si voleva perdere. La Via Sacra conduceva quindi al Tempio B, caratterizzato da un podio maestoso (12,50 x 17,50 m), alto ben 4 m, che dominava la zona sottostante. Il grande edificio, circondato da portici, fontane e vasche, era stato costruito alla fine del VI secolo a.C. e venne distrutto nel III secolo a.C., forse proprio in coincidenza dell’assedio e della fine di Velzna (265-264 a.C.).
A destra: testina in bronzo di divinitĂ su base in trachite. 490-480 a.C.
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SCAVI • FANUM VOLTUMNAE
L’area di Campo della Fiera era attraversata anche da un’altra via che costituiva un tratto della strada per il lago di Bolsena: la sua costruzione sembra risalire alla prima metà del III secolo a.C. e rimase in funzione molto a lungo. L’indagine archeologica ha inoltre permesso di individuare le tracce degli interventi successivi alle fasi etrusca ed etrusco-romana. Tra la fine del I secolo a.C. e gli inizi del successivo, molte nuove costruzioni trasformarono l’aspetto della zona. Nel settore nord-orientale venne edificata una domus, collegata a un 66 a r c h e o
impianto termale, a ridosso della parte di santuario rimasta in funzione. L’abitazione, impreziosita da mosaici, pavimenti marmorei e intonaci dipinti, toccò il suo massimo splendore tra il III e il IV secolo d.C. Tra il VI e il VII secolo un ampio vano della domus venne ripavimentato e probabilmente trasformato in chiesa.
GLI IMPIANTI TERMALI Le vicine terme si compongono di due impianti distinti: il primo, costruito agli inizi dell’età augustea, presenta i vani disposti in senso li-
neare; il secondo, edificato durante il II secolo d.C. e separato dall’altro da uno stretto corridoio, mostra gli ambienti sviluppati in senso circolare. Le terme rimasero in funzione sino alla fine del IV secolo d.C., per poi essere riutilizzate a fini abitativi. Le campagne di scavo hanno documentato un ulteriore significativo intervento, vale a dire la costruzione, alla fine del XII o agli inizi del XIII secolo, della chiesa di S. Pietro in Vetere, affidata con le sue pertinenze, tra le quali un ampio edificio a due piani interpretato come un refettorio/magazzino, all’Ordine
Nella pagina accanto: l’area nella quale sono stati individuati i resti della chiesa di S. Pietro in Vetere, la cui costruzione si colloca tra la fine del XII e gli inizi del XIII sec. In basso sono riconoscibili gli apprestamenti della zona adibita a mercato, dopo la demolizione del refettorio/magazzino annesso alla chiesa. A destra: disegno ricostruttivo della chiesa di S. Pietro in Vetere, accanto alla quale venne innalzato l’edificio a due piani interpretato come refettorio/ magazzino. In basso: disegno ricostruttivo dell’ultima fase di vita del sito, con la chiesa di S. Pietro in Vetere e lo spazio adibito a mercato. Quest’ultimo utilizzo ha dato origine ai toponimi con i quali la zona era nota in epoca medievale, cioè campus fori oppure campus nundinarum, rispetto ai quali l’odierno Campo della Fiera è prova di una significativa continuità.
dei Servi di Maria nel 1260. Ancora piú tardi il refettorio/magazzino venne demolito cosí da ottenere uno spazio aperto per i mercati che vi si dovevano svolgere. Le indagini a Campo della Fiera dirette da Simonetta Stopponi, hanno avuto inizio nel 2000 e sono state condotte dapprima dall’Università degli Studi di Macerata e poi da quella di Perugia, alla quale, dal 2009, si è affiancata l’Università di Foggia. Le ricerche si sono potute svolgere grazie al contributo finanziario della Fondazione Cassa di Risparmio di Orvieto a r c h e o 67
MUSEI • MURLO
MUSEO CON VISTA L’ANTIQUARIUM DI MURLO, A POCHI CHILOMETRI DA SIENA, RACCOGLIE GLI STRAORDINARI REPERTI TROVATI A POGGIO CIVITATE, FRA I QUALI SPICCANO LE ENIGMATICHE STATUE DEGLI UOMINI DAI GRANDI CAPPELLI. MA L’ANTICO EDIFICIO, SITUATO AL CENTRO DEL BORGO MEDIEVALE, RISERVA AL VISITATORE UN’ALTRA PARTICOLARISSIMA SORPRESA... di Giuseppe M. Della Fina
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N
el visitare un museo, viene spontaneo seguire il percorso consigliato, cosí da avvicinarsi alle opere e ai reperti seguendo il filo rosso individuato da chi di quel museo ha progettato l’allestimento. Tale filo – talvolta dichiarato, piú spesso sottaciuto – può svolgersi secondo un ordinamento cronologico o topografico. Oppure, nel caso di istituti museali costituiti da piú raccolte, adeguarsi alla sequenza delle acquisizioni. Altre volte la scelta cade su accostamenti
In questa pagina: particolare di acroterio in terracotta raffigurante un uomo seduto su un trono con copricapo, dagli scavi di Poggio Civitate. 600-550 a.C. Murlo, Antiquarium di Poggio Civitate. Nella pagina accanto: Murlo (Siena). Veduta del Palazzo Vescovile, sede dell’Antiquarium di Poggio Civitate-Museo Etrusco di Murlo.
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MUSEI • MURLO
tra singole opere, in base a criteri estetici o funzionali. Nel caso dell’Antiquarium di Poggio Civitate-Museo Etrusco di Murlo, in provincia di Siena, vale la pena di fare un’eccezione e di salire subito al terzo piano, raggiungendo la sala XII, e qui approfittare delle finestre per rivolgere lo sguardo verso l’esterno. Ai vostri occhi si dispiegherà un paesaggio di notevole bellezza, che muta seguendo le stagioni dell’anno, ma che sempre fa pensare a un’osservazione di Piero Calamandrei: «Incantati dalla benignità di questi limitati orizzonti i primitivi etruschi venuti dall’Oriente s’accorsero di avere scoperto la patria: nella misura di questi panorami è il segreto della loro pensosa civiltà» (Inventario della casa di campagna, 1938). Osservare la campagna all’intorno e meditare su tale affermazione giustificherebbe già l’infrazione al percorso di visita. Ma c’è dell’altro: la collina che vi troverete di fronte è Poggio Civitate, vale a dire la località che ospitò l’insediamento etru-
Emilia-Romagna Liguria Mas as ass a sss sa
Pist Pis Pi P i toia oi Lucc L ucc uccca
Pisa i a isa
Prato Prat o Arn
Firenz Fir enz nz ze Arez Are Ar A re rrez e ezzzo o
Liv vorn rno rn no n o Sie Sien iena
Murlo
Port rto oferrai ferraio
Isol sola a d’E d’Elba
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Umbria Go Gro Gros osssseto eto to Lag Lag Lago go go di Bo olse ols ol ls naa ls
Lazio
Nella pagina accanto: ricostruzione del tetto del Palazzo Arcaico di Poggio Civitate, con le grandi statue collocate alla sommità. 600-550 a.C. Murlo, Antiquarium di Poggio Civitate. In basso: veduta panoramica della campagna ai piedi del borgo di Murlo, arroccato sulla collina.
sco dal quale proviene la quasi totalità dei reperti riuniti nel museo. Scorci degni di nota – aperti sulla campagna o sulle case, i palazzi, le chiese di un centro storico – si pos-
sono osservare dalle finestre di molti musei, ma è decisamente piú raro che si possa osservare il sito che ha restituito gli oggetti esposti. Nel caso di Murlo, le pareti dell’edificio sembrano separare, ma non dividere. Nel museo non c’è solo il nostro presente, come in un altro luogo (piú o meno lontano) non va collocato il passato. Qui storia e paesaggio, oggi e ieri, sembrano vicini, intercambiabili, quasi sovrapponibili: è un’illusione, ma una piacevole illusione. Sembra quasi la spiegazione – certo non scientifica – a ricerche invece scientifiche che hanno indicato come gli abitanti attuali di Murlo abbiano un DNA molto simile a quello degli antenati etruschi. Nel ridiscendere e iniziare la visita vera e propria, sarà bene sostare di fronte alla ricostruzione di una porzione del tetto del palazzo arcaico (sala X): si possono facilmente intuire la monumentalità dell’edificio e l’impatto che la decorazione in terracotta doveva avere su chi si trovava a osservarla. Riusciva
La scienza ha accertato che esistono affinità significative fra il DNA degli attuali abitanti di Murlo e quello dei loro antenati etruschi
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a comunicare la forza di un potere di cui in fondo conosciamo poco, ma a cui premeva trasmettere un’immagine di sicurezza, di armonia di vita e di legami stretti con il mondo divino. La sua legittimazione derivava proprio da questi legami di cui ci si considerava detentore, oltre che dal controllo esercitato su un territorio che faceva da ponte tra l’Etruria interna e l’Etruria costiera.
QUANDO CHIUSI RIVALEGGIAVA CON ROMA Un ruolo, quest’ultimo, contestato, nei decenni finali del VI secolo a.C., dagli uomini nuovi giunti al potere nella non lontana polis di Chiusi. Uomini in grado di pensare in grande, su una scala sino ad allora nemmeno immaginata e che con Porsenna – il loro esponente piú noto e celebrato – arrivarono a concepire d’inserirsi nelle dinamiche politiche e istituzionali di Roma nei mesi cruciali del passaggio dalla monarchia alla repubblica. Sia che si voglia credere alle fonti
che ipotizzano un ruolo di Porsenna nel tentare di rimettere sul trono Tarquinio il Superbo, sia che si seguano le ricostruzioni piú recenti che propendono invece per un suo sostegno alle appena insediate e fragili istituzioni repubblicane. Sia, infine, che si voglia dare credito a chi ha ipotizzato un suo cambiamento di strategia, di politica, e conseguentemente di alleanze, mentre l’azione militare era già in corso e lo aveva portato con successo sotto le mura di Roma. Tali osservazioni non sembrino fuori luogo, poiché la divisione tra «grande storia» e «storia locale» è sempre relativa: la prima influisce sulla seconda e – seppure in misura piú flebile – la seconda sulla prima. Con ciò si vuole dire che il palazzo di Murlo e l’eventuale lega che vi si riuniva secondo alcune ricostruzioni, o, comunque, la rete di alleanze che da Murlo s’irradiava (come sono portato a ipotizzare), andava ridimensionata e distrutta nell’ottica della nuova classe dirigente di Chiusi. Cosí essa poteva avere un
BLUETRUSCO 2017 Dal 13 luglio al 1° ottobre, Murlo ospiterà la terza edizione del festival Bluetrusco, voluta soprattutto dalla locale Amministrazione Comunale. Il tema conduttore sarà rappresentato da una disamina di tutti i principali centri dell’Etruria, affidata agli archeologi che ne hanno studiato le vicende storiche e che spesso vi hanno condotto fortunate campagne di scavo. Inoltre – nello spazio dedicato agli spettacoli – sono previsti recital con letture (affidate agli attori Orsetta De Rossi e Pino Strabioli) tratte dal libro Tour to the Sepulchres of Etruria in 1839 di Elisabeth Caroline Hamilton Gray, che visitò l’Etruria alla fine degli anni Trenta dell’Ottocento, e dal racconto L’eternità etrusca, tratto da Parole di straniero di Elie Wiesel. Info: www.bluetrusco.land
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MUSEI • MURLO
ORIZZONTI LIMITATI EPPURE INCANTEVOLI Nell’ambito dell’edizione 2017 di Bluetrusco, verrà presentata l’iniziativa «“Incantati dalla benignità di questi limitati orizzonti”: dal Castello di Murlo a Poggio Civitate». Essa prende spunto da un’osservazione di Piero Calamandrei in Inventario della casa di campagna e si prefigge di valorizzare il percorso che dal castello di Murlo conduce all’area di scavo da cui provengono le opere esposte nel museo. Queste ultime sono state riportate alla luce grazie alle
controllo pieno sul territorio ed essere in grado di affrontare la sfida ambiziosa di giocare un ruolo di primo piano nelle vicende dell’Italia centrale e tirrenica del tempo. Nel museo di Murlo questa storia viene narrata dalla parte degli sconfitti, di coloro che videro abbattuto, cancellato il loro mondo. Un mondo che – camminando per le sale del museo – ci appare come chiuso, ma in equilibrio. Sulle lastre architettoniche compaiono immagini di banchetti, corse di cavalli (c’è chi ha voluto vedere in queste sfide con cavalli montati a pelo, senza sella, l’antefatto del Palio che si svolge nella vicina Siena), assemblee, processioni, cortei nuziali, scene di tessitura e di canto al suono della cetra. Nel loro insieme, tali immagini sembrano volerci parlare di un equilibrio raggiunto tra la sfera umana e quella divina, tra chi governava e chi era sottoposto, tra chi consumava e chi produceva per le necessità della corte, pur in un mondo dai confini ristretti, che si rivelarono d’improvviso troppo piccoli e angusti. Una situazione che si è ripetuta piú volte nella storia italiana: si pensi ai Comuni medievali o alle corti rinascimentali, al loro splendore, alla loro vitalità culturale e poi al loro infrangersi quasi improvviso nell’impatto con un mondo nuovo a cui non seppero adattarsi e a cui forse struttural72 a r c h e o
fortunate campagne di scavo condotte da archeologi statunitensi a partire dal 1966. Il suggerimento di concentrare gli sforzi su Poggio Civitate venne dato a Kyle M. Phillips (del Bryn Mawr College), da Ranuccio Bianchi Bandinelli (vedi «Archeo» n. 377, luglio 2016). Lungo il percorso espositivo, inteso come un «ampliamento» del museo, verranno fornite informazioni sia di carattere archeologico che naturalistico.
mente non potevano aprirsi. A questo punto, seguendo il percorso consigliato, si possono conoscere prima la fase orientalizzante (VII secolo a.C.) e poi quella arcaica (VI secolo a.C.) del palazzo. Per ognuna di esse vengono presentate le strutture esistenti di volta in volta e la vita che ogni giorno si svolgeva nella corte. Le raffinate produzioni locali, realizzate in un laboratorio artigianale poco distante dal palazzo, e quelle d’importazione.
A TU PER TU CON GLI ARTIGIANI Al laboratorio artigianale sono dedicate le sale IV e V, dal momento che si tratta di una struttura di particolare interesse che lascia intuire il vissuto degli artigiani che lavoravano per la corte. Fianco a fianco operavano coroplasti, vasai, intagliatori di osso, bronzisti, orafi: possiamo – con uno sforzo d’immaginazione – ascoltare le loro voci, sentire il rumore degli attrezzi, osservare il fumo e la polvere che uscivano dalle diverse officine riunite sotto un unico tetto. Possiamo arrivare a intuire la loro fatica, il loro sudore, a osservare la soddisfazione per un lavoro ben riuscito, o a condividere la rivendicazione orgogliosa di una capacità manuale degna di lode. Infine – e saremo tornati da dove abbiamo iniziato (sala XII) – potremo osservare le testimonianze della necropoli di Poggio Aguzzo e
In alto: la collina di Poggio Civitate vista dall’Antiquarium di Murlo.
di altre località non lontane da Poggio Civitate. Uscendo porteremo con noi la sensazione di aver visitato – forse per la prima volta – un museo nel quale è la vita a essere documentata. Una sensazione legittima, poiché la quasi totalità dei reperti esposti proviene da un palazzo e dalle strutture a esso collegate e non da una o piú necropoli, come accade quasi sempre in un museo con antichità etrusche. La visita del museo di Murlo costituisce insomma un’occasione privilegiata per avvicinarsi al popolo etrusco, capace di elaborare una cultura in grado d’interpellarci ancora oggi. DOVE E QUANDO Antiquarium di Poggio CivitateMuseo Etrusco di Murlo Murlo, piazza della Cattedrale 4 Orario giugno, luglio e agosto: me-do, 10,00-13,30 e 15,00-19,00; aprile, maggio e settembre: gio-do, 10,00-13,30 e 15,00-19,00; da ottobre a marzo: ve-do, 10,3013,30 e 14,30-17,30; è prevista anche l’apertura su appuntamento per gruppi di almeno 10 persone Info tel. 0577-814099; e-mail: poggiocivitate@museisenesi.org oppure info@museisenesi.org; www.museisenesi.org
MOSTRE • OSIRIDE
LA SECONDA
RESURREZIONE DI
OSIRIDE
LE INDAGINI SUBACQUEE CONDOTTE NELLA BAIA DI ABUKIR HANNO PERMESSO DI RECUPERARE UNA MOLE STRAORDINARIA DI REPERTI. E HANNO FATTO LUCE SULLA STORIA DELLE CITTÀ DI THONIS-HERACLEION E CANOPO, LUOGHI DI PRIMARIA IMPORTANZA PER IL CULTO TRIBUTATO AL PIÚ «UMANO» TRA GLI DÈI EGIZIANI. VICENDE PIENE DI FASCINO, RACCONTATE IN UNA ALTRETTANTO AFFASCINANTE MOSTRA, IN CORSO A ZURIGO a cura di Stefano Mammini ThonisHeracleion, baia di Abukir, Egitto. Un operatore subacqueo ripulisce la testa di una statuetta in calcare di produzione cipriota. V sec. a.C. In origine, la scultura coronava un ritratto del dio fenicio Baal e la sua presenza nelle acque di Thonis conferma l’importanza di quest’ultima come scalo commerciale e nodo di scambi. 74 a r c h e o
L
a mostra dedicata a Osiride in corso a Zurigo, nel Museum Rietberg, nasce dai ritrovamenti subacquei effettuati da Franck Goddio e dallo IEASM (Institut Européen d’Archéologie Sous-Marine) nel settore occidentale del Delta del Nilo in Egitto. In questa zona, le ricerche condotte nella baia di Abukir, pochi chilometri a est di Alessandria, hanno permesso di individuare i resti delle città di Thonis-Heracleion e Canopo, sommerse dalle acque fin dall’VIII secolo d.C., a causa di fenomeni sismici e geologici. Sui fondali sabbiosi sono state individuate fondazioni di templi e sono stati recuperati reperti che possono essere associati al dio Osiride e alla cerimonia che si teneva ogni anno in suo onore: i celebri Misteri di Osiride, appunto. Queste funzioni venivano celebrate in tutto l’Egitto e consistevano nella rievocazione di una delle
leggende fondanti della nazione egiziana: quella della triade divina composta da Osiride, Iside e Horo.
PROVE CONCRETE I risultati di vent’anni di scavo sono stati messi a confronto con il testo del Decreti di Canopo, che si data al 238 a.C. L’editto racconta di come, ogni anno, si svolgesse una processione che seguiva un percorso ben definito: dal tempio di Amun Gereb a ThonisHeracleion al sacello di Osiride a Canopo. I materiali rinvenuti nella Baia di Abukir offrono una confer ma tangibile di quanto descritto nel testo e, per la prima volta, documentano gli oggetti utilizzati nel corso della cerimonia, fornendo altresí ulteriori dettagli sulle sue modalità di svolgimento. Osiride è il piú «umano» degli dèi egiziani. Immobile e avvolto nelle bende della mummificazione, esso differisce dalle a r c h e o 75
MOSTRE • OSIRIDE
altre divinità sovrannaturali, forze per metà umane e per metà animali che componevano il pantheon dell’Egitto faraonico. Secondo la leggenda, era figlio di Nut, dea del cielo, e di Geb, dio della terra, ed ereditò dai genitori la sovranità terrena. Insegnò agli uomini come coltivare la terra, diede loro le leggi, li istruí affinché si mostrassero riverenti nei confronti degli dèi e li civilizzò. Fu dunque un benefattore, che venne tradito dal fratello Set, il quale lo spodestò, ordendo una congiura che ne causò la morte. Il suo corpo fu smembrato in numerose parti, disseminate in tutto l’Egitto. Iside, sua sorella e consorte, riuní le membra e ricompose il corpo del defunto marito. Osiride deve perciò la sua salvezza all’amore e alla pietà della moglie, grazie alla quale poté resuscitare. Insieme alla sorella Nefti e ad Anubi, il dio dalla testa di sciacallo. Osiride tornò in vita assecondando la supplica di Iside e, in questo modo, ebbe la meglio sulla morte e poté offrire al genere umano la promessa di una vita In alto: corona hem-hem di Khonsu, dio della luna, da ThonisHeracleion. In epoca tarda essa era l’attributo del dio bambino Horo, figlio di Iside e Osiride. A destra: statua del toro Api, il piú importante degli animali sacri e uno dei simboli della resurrezione di Osiride. Età adrianea. Alessandria, Museo Greco-romano. 76 a r c h e o
me re dell’Egitto. Assunse anche le fattezze del dio falco, signore delle creature celesti, che aveva conquistato l’universo e sconfitto i nemici del Paese. Horo fu il contraltare divino dei faraoni e tutti i regnanti vollero identificarsi con lui e si trovarono di fatto obbligati a farlo.
eterna. Egli divenne il signore dell’aldilà e il giudice dei defunti. Il frutto dell’unione fra Iside e Osiride dopo che questi era morto fu Horo, che nella statuaria viene spesso raffigurato come un bimbo che si succhia il dito o che chiede che si faccia silenzio. Horo vendicò la morte del padre e divenne l’equani-
L’ORDINE DEL COSMO Del mito di Iside e Osiride scrisse nel II secolo d.C. Plutarco, il quale riuní le tradizioni leggendarie egiziane perdute o frammentarie in un racconto coerente, quasi certamente rielaborato secondo i canoni della cultura greca, che offre una narrazione omogenea e sulla cui autenticità non sussistono dubbi. Uno dei fili conduttori del racconto era la resurrezione del dio. Il mito di Osiride proponeva un ordine per il quale la disgregazione costituiva una minaccia costante. Si poteva sfuggire al caos solo attraverso la celebrazione di riti che avevano la funzione di conservare l’ordine del cosmo. Riti che potevano essere praticati nei templi soltanto dai faraoni, in quanto figli ed
eredi degli dèi, e i sacerdoti, infatti, celebravano unicamente le cerimonie quotidiane, in qualità di delegati del sovrano, agendo in suo nome. In particolare, i faraoni offrivano agli dèi le preghiere per il maat, principio che nella mitologia egiziana incarna il concetto di giustizia, equilibrio e armonia. Esso garantiva l’ordine del mondo e il suo signore era Osiride. Come già accennato, i Misteri di Osiride erano la cerimonia religiosa piú importante che si svolgeva annualmente in Egitto. Almeno a partire dal Medio Regno (1850 a.C.), l’immagine del dio cominciò a essere ornata con lapislazzuli, turchesi, oro e altre preziose: un uso che prese piede ad Abido, la città sacra a Osiride, e si diffuse poi in tutti i centri piú importanti. L’immagine del dio veniva trasportata nella sua barca sacra dal tempio al luogo in cui si svolgeva il rito. I sacerdoti descrivevano quindi alcuni episodi delle sofferenze patite da Osiride, recitavano litanie funebri e inneggiavano alla vittoria del dio e la processione raggiungeva poi il suo sepolcro. I misteri comprendevano
In alto: documentazione del relitto di una barca in legno di sicomoro forse utilizzata per i riti dei Misteri di Osiride. IV sec. a.C. A destra: statua della dea ippopotamo Toeris, protettrice della fecondità e della maternità. Il Cairo, Museo Egizio.
anche altri riti – segreti, svolti in luoghi a cui solo i sacerdoti potevano accedere – con i quali si celebrava la resurrezione di Osiride.
ONORI SOLENNI Nel 1881, a Kom el-Hisn – una località situata lungo il braccio occidentale del Delta –, venne rinvenuta una stele sulla quale erano incise iscrizioni in geroglifici, demotico e greco. Il testo menziona un decreto stilato dai sacerdoti che nel 238 a.C. si erano riuniti in un tempio di Canopo per tributare onori solenni a Tolomeo III Evergete I e alla principessa Berenice e per introdurre un anno fisso in luogo del vecchio anno vago egiziano. I ministri del culto celebrarono i tradizionali riti funebri per la principessa: la sua immaa r c h e o 77
MOSTRE • OSIRIDE
gine fu mostrata nel tempio di Osiride ed ella divenne una divina compagna del dio. Berenice fu invitata ad accompagnare la divinità nella sua barca processionale per le cerimonie in onore di Osiride, per viaggiare «dal tempio di Amun Gereb» o, per usare la versione in lingua greca «dal sacello di Eracle» fino al tempio di Osiride a Canopo. Le indagini svolte da Goddio a ThonisHeracleion e a Canopo hanno riportato alla luce oggetti rituali e di culto certamente utilizzati nel corso delle processioni svolte durante i Misteri di Osiride fra i due principali luoghi di culto della città.
L’AFFINITÀ CON DIONISO I reperti suggeriscono inoltre che i seguaci di Dioniso accompagnassero la processione di Osiride nel suo ritorno al tempio. L’interazione teologica fra Osiride e Dioniso ebbe inizio nel VII secolo a.C., quando i Greci si insediarono in Egitto, soprattutto nella regione di Canopo e nell’area del Delta nord-occidentale. Erodoto, che viaggiò in Egitto nel V secolo a.C. riferisce che i sacerdoti egiziani gli avevano parlato delle correlazioni fra Osiride e Dioniso. Le due divinità, entrambe defunte e poi resuscitate, erano ritenuThonisHeracleion, baia di Abukir, Egitto. Statuetta in bronzo di Osiride e barca votiva in piombo.
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Pettorale in oro, lapislazzuli e paste vitree, dalla tomba del faraone Sheshonq I. 945-924 a.C. Il Cairo, Museo Egizio.
te capaci di garantire la redenzione. E i Misteri di Dioniso, nel corso dei quali il dio sorge per diventare una luce, mostrano una chiara affinità con misteri di Osiride, che rendono onore alla nascita solare del dio. Sia Thonis-Heracleion che Canopo
erano siti religiosi che servirono a consolidare il potere reale e a sostenere il culto dinastico dei successori di Alessandro Magno. La politica religiosa dei Tolomei, di cui lo sviluppo parallelo dei culti di Osiride e Dioniso era un riflesso, condusse infine alla promozione di un’altra divinità: Serapide. Dapprima ad Alessandria e piú tardi a Canopo – dove sono state individuate fondazioni di templi e statue di Serapide – il nuovo dio ellenico riuniva in sé tratti degli dèi egiziani Osiride e Api e dei greci Zeus, Ade e Dioniso. Egli era inoltre un simbolo della successione regale e una reincarnazione di Osiride: Serapide veniva infatti percepito come il re Osiride, marito di Iside, dea dell’universo. Accanto a Serapide, Iside era la dea «dai mille nomi». Come madre premurosa, moglie affettuosa e protettrice del popolo, essa conquistò inizialmente il cuore degli Egiziani e poi quello di tutti gli abitanti della
rella benevolente. Tutti questi personaggi sono rappresentati da statue di altissima qualità e, nel caso di Arpocrate, anche da una stele magica. Del mito fa parte anche Serapide, il dio greco, nel quale si fondono Osiride e Api e che riporta all’epoca di Tolomeo I. Poco oltre, il percorso conduce idealmente a Thonis-Heracleion e quindi a Canopo, città delle quali vengono riepilogate le principali vicende. A introdurre la prima è la stele in pietra nera sulla quale è inciso il medesimo testo della stele di UN MITO ANCESTRALE Il percorso espositivo della mostra Naucrati. Rinvenuta in condizioni zurighese si articola in tre sezioni eccellenti – la superficie iscritta giaprincipali, precedute da un prologo, ceva verso il fondale e dunque ha dedicato alla nascita del mito di Osi- resistito per secoli all’erosione delle ride, nella quale si risale fino alle correnti marine –, essa ha contriburemote epoche in cui ne germoglia- ito a risolvere un enigma che si rono le radici. E non è un caso che, protraeva da duemila anni, provansecondo la tradizione, Osiride tor- do che la famosa città di Thonis nasse ritualmente in vita nello stesso descritta dalle fonti era lo stesso momento dell’anno in cui i campi si centro descritto da Erodoto con il facevano di nuovo verdi, il frumento nome di Heracleion. Fu uno scalo cominciava a crescere e il Nilo commerciale di primaria importaninondava le sue sponde. Osiride era za, che controllava il traffico delle equiparato alle piene del grande esportazioni e delle importazioni fiume e se, celebrandone i misteri, verso e dall’impero persiano. era possibile assicurarsi l’abbondan- L’attenzione viene quindi indirizzata sui misteri, che avevano za dei raccolti, allo stesso uno dei momenti culmitempo si poteva garantire la nanti nella processione da stabilità del potere dinastiThonis-Heracleion a Canoco e dell’ordine cosmico. po. Secondo le prescrizioni Nella prima sezione vengodel culto, ogni anno ciascun no quindi passati in rassegna tempio doveva provvedere i protagonisti del mito: Osialla realizzazione di due diride e Iside, con il loro figlio verse immagini di Osiride: Horo – chiamato anche l’Osiride «vegetale», che Arpocrate – e Nefti, la sograzie al benefico effetto delle acStatua che que del Nilo raffigura il ritorno avrebbe germogliato alla vita di dentro una vasca da giarOsiride. XXVI dino in pietra, e l’Osiride dinastia, «Sokar», fatto di una 664-610 a.C. combinazione di pietre Il Cairo, Museo preziose, spezie e altri Egizio. La corona ingredienti. in oro, elettro e Il dio si mostrava bronzo cosí in due forsimboleggia i me diverse, dopo raggi del sole. regione mediterranea. Nacque cosí il culto isiaco, che si diffuse e si sviluppò gradualmente, e che, all’indomani della conquista romana, nel 31 a.C., raggiunse tutte le province dell’impero, nonché la stessa Roma. Il crescente interesse per i misteri egiziani è provato dalla creazione di comunità isiache e di templi a lei dedicati, come per esempio quello scoperto dallo IEASM sull’isola di Antirrodos nella parte orientale della baia di Alessandria.
la cui fabbricazione i sacerdoti si attenevano a protocolli rigidamente stabiliti e assai complessi, descritti in dettaglio nelle iscrizioni che si possono leggere sulle pareti delle cappelle di Osiride a Dendera.
IL CULMINE DEL RITO Le cerimonie terminavano con la sepoltura, che costituiva il momento conclusivo della processione su barche che aveva inizio a ThonisHeracleion e, muovendo verso occidente, si concludeva nel Serapeum di Canopo (dopo avere coperto una distanza di 3,5 km circa), dove le immagini della divinità venivano inumate. Le indagini nel canale utilizzato per la processione hanno restituito una mole impressionante di materiali, fra i quali spicca un’imbarcazione in legno di sicomoro, lunga 11 m, della quale in mostra è esposta la riproduzione fotografica a scala reale. Dal rito si passa all’epilogo, nel quale viene indagata l’eredità del mito di Osiride. Un’eredità di cui sono testimonianza tangibile alcuni dei manufatti di maggior pregio fra quelli selezionati per la mostra. Basterà ricordare, a titolo di esempio, la statua del bue Api di epoca adrianea, che esprime la dualità dell’animale, simbolo della successione reale e, al tempo stesso della reincarnazione di Osiride. Oppure il ritratto di Antinoo rinvenuto a Canopo: il favorito di Adriano annegò nelle acque del Nilo e venne omaggiato come un dio, poiché si riteneva che avesse patito lo stesso tragico destino di Osiride. DOVE E QUANDO «Osiride. Misteri sommersi d’Egitto» Zurigo, Museum Rietberg fino al 16 luglio Orario martedí, venerdí e sabato, 10,00–17,00; mercoledí e giovedí,10,00-20,00; domenica e festivi, 10,00-18,00; chiuso il lunedí Info www.rietberg.ch a r c h e o 79
SPECIALE • POMPEI E I GRECI
APOLLO A POMPEI
MOLTO SAPPIAMO DELLA FINE DELLA CITTÀ VESUVIANA, ASSAI MENO DELLE SUE ORIGINI. NON FU DI FONDAZIONE MAGNO-GRECA, MA ACCOLSE SANTUARI DEDICATI AD APOLLO E AL CULTO DI ATENA. UNA GRANDE MOSTRA INDAGA IL PLURISECOLARE RAPPORTO TRA POMPEI E IL MONDO GRECO E RIVELA LA SUA VERA CIFRA DI «CITTÀ APERTA», REFRATTARIA A OGNI FRETTOLOSA E RIDUTTIVA DEFINIZIONE «IDENTITARIA» di Massimo Osanna, Carlo Rescigno, Gian Michele Gerogiannis, Pasquale Bucciero, Teresa Demauro, Tiziana Rocco e Carmela Capaldi
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onsiderare Pompei una città della Magna Grecia potrebbe apparire un errore storico. Non furono i Greci a fondarla, non abbiamo consultazione di oracoli, né la trasmissione del nome degli ecisti (fondatori, n.d.r.), ma per il tramite della materia mitica si serba il ricordo dell’evento, collegandolo a Eracle, e percepiamo una tradizione malamente sopravvissuta fino a noi. Fin dall’epoca arcaica, Pompei ci appare come un centro di nuova fondazione, quasi programmata. La teoria tradizionale vuole che essa nasca dal sinecismo dei villaggi della Valle del Sarno in una temperie di profonda trasformazione urbanistica che investe la Campania e ne prepara il complesso assetto topografico arcaico: siamo tra la metà del VII secolo a.C. e gli inizi del secolo successivo e Pompei appare come città insieme a numerosi altri
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In questa pagina: statua bronzea di Apollo lampadoforo. I sec. a.C. Pompei, Depositi della Soprintendenza. Nella pagina accanto: statua in marmo di Apollo. I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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SPECIALE • POMPEI E I GRECI
Vulci Roma
Nola
Capua Neapolis
Pompei
Striano
Noicattaro Altamura
Torre di Satriano
Metaponto Chiaromonte Sibari
Cuma Pompei Baia Nuceria Ercolano Stabia Sorrento Paestum
Locri
centri, dotata di mura, forse già di una piazza, con il suo santuario – dedicato ad Apollo –, al quale rispondono, sul poggio del Foro Triangolare, l’area sacra e il culto di Atena. Come in una città magno-greca, aree sacre ne popolano il territorio, bordandone il limite subito al di fuori delle mura (Fondo Iozzino, Sant’Abbondio) o segnandone i punti forti verso la costa (santuario di Bottaro). La città sembra inoltre conoscere una significativa proiezione, almeno cultuale, verso sud, lungo la direttrice viaria che concludeva la sua corsa al promontorio di Punta della Campanella, estremo limite della penisola sorrentina e traguardo sulle bocche di Capri, porta del
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Grammichele Siracusa
Cartagine
Sulle due pagine: carta della regione mediterranea, con l’area pompeiana in dettaglio e le piú importanti città coinvolte nei fenomeni culturali descritti in questo articolo. In basso: capitello d’anta figurato con protome di Sfinge, dalla Casa dei Diadumeni II sec. a.C. Pompei, Depositi della Soprintendenza.
Pella Pergamo
Efeso
Delfi Corinto
Atene
Mileto
Olimpia Sparta
L’archeologia ha confermato quanto significativa sia stata la presenza etrusca a Pompei Alessandria
golfo o, all’interno, verso Nocera, a cui una storia piú recente la legherà in forme culturali prima ancora che istituzionali. E a ben vedere, sotto la normalizzazione dei culti di epoca romana – Atena associata ad Eracle nel Foro Triangolare, un Apollo simile a quello di Delfi, l’importante presenza di Venere, derivata da Herentas –, cogliamo inflessioni locali, storie di fondazione, di giusta crescita e integrazione dei fanciulli, di Eracle e le sue mandrie, che potrebbero testimoniare di un repertorio locale di miti e genealogie di cui la città arcaica dovette nutrirsi.
I MODI DELL’ABITARE Ignoriamo quali ne fossero le forme istituzionali di governo: le iscrizioni, provenienti perlopiú da santuari e connesse alla pratica del rito, denunciano una significativa presenza etrusca, ma non conosciamo quali fossero le sue assemblee politiche, quali i suoi sommi magistrati. In questo tessuto connettivo rico-
Qui sopra: Pompei. Veduta aerea degli scavi archeologici con, sullo sfondo, l’imponente mole del Vesuvio.
nosciamo, con la ricerca in profondità, aspetti e frammenti dei modi di abitare in età arcaica, seguiamo le tendenze della cultura materiale e vediamo muoversi saperi e artigiani. Nei due principali luoghi di culto furono all’opera maestranze diverse: nel santuario di Apollo, maestri cumani a decorare un edificio a r c h e o 83
SPECIALE • POMPEI E I GRECI
costruito in legno e pietra, con robuste modanature in pietra lavica, un set complesso e coordinato di terrecotte architettoniche a comporre un tetto di tipologia campana, diffuso cioè a partire da Cuma e successivamente Capua nei territori piú settentrionali della regione; nel tempio dorico di Atena, costruito in pietra, forse una bottega locale, che adatta a un modo originale di concepire lo spazio sacro la tradizione dorica, con un tetto che, per quanto la critica abbia provato a spiegarlo, non riesce ad essere risolto né come produzione poseidoniate, né cumana, condividendo tratti di entrambe le tradizioni. E se il punto di vista sull’edificio è per noi questo, nella riproposizione di un tetto analogo nel santuario meridionale di Poseido-
Nella pagina accanto: l’Amazzone di Ercolano, dalla Basilica Noniana. I sec. a.C. Ercolano, Deposito Archeologico. In basso: testa di acrolito in marmo, da Poseidonia. 500 a.C. Paestum, Museo Archeologico Nazionale.
UNA GRAMMATICA GRECA DI OGGETTI
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li oggetti definiscono lo spazio sociale delle persone, uniti compongono idioletti (lingue individuali, n.d.r.) all’interno di un sistema culturale; realizzati in luoghi anche lontani, parole di una grammatica straniera, sono continuamente risignificati per adattarsi alle storie individuali e ai contesti sociali. Nell’Iliade (X, 260-271), Omero racconta la storia del celebre elmo di Odisseo (rubato da Autolico ad Amintore, n.d.r.), intrecciato con strisce di cuoio e zanne di cinghiale, un concentrato di relazioni sociali, dotato di un pedigree di valore grazie a quanti lo avevano posseduto:
«A Odisseo dava Merione arco e faretra e spada, e gli mise intorno alla testa un elmo fatto di cuoio: all’interno era tirato con forza da molte cinghie; all’esterno correvano fitti da parte a parte denti bianchi di cinghiale di candida zanna messi con arte; e, in mezzo, era pressato il feltro. Autolico un giorno l’aveva rubato nella città d’Eleone forzando la solida casa di Amintore figlio di Ormeno; l’inviò quindi a Scandea, ad Anfidamante di Citera; Anfidamante poi lo dette a Molo, quale dono ospitale, e questi lo dette in uso a Merione, suo figlio; infine quel giorno fu messo a coprire la testa di Odisseo». Cimelio di battaglia, rivestito di nuovo significato quale frutto di furto da parte del nonno materno di Odisseo, da dono ospitale si tramanda di padre in figlio, giungendo, infine, all’eroe di Itaca come equipaggiamento per la sua incursione notturna nell’accampamento dei Traci al fianco di Diomede. 84 a r c h e o
nia-Paestum, documentato purtroppo da sporadici frammenti, potremmo riconoscere un intervento pompeiano, un sacello dedicato dalla città campana. Ciò che piú conta in questa lettura, non è riconoscere la forza diffusiva delle botteghe pompeiane, ma l’utilizzo in chiave identitaria, quindi politica, dello strumento stilistico e forse l’esito di un trattato, un’alleanza sancita dalla dedica di quell’edificio in un luogo di particolare rilevanza, il santuario meridionale di Poseidonia ove anche altri indizi lasciano cogliere la presenza di dediche straniere. Queste tracce di contatti, movimenti di genti, trasmissione di saperi e tecniche, che affiorano in maniera sfumata dalla ricerca archeologica, ci fanno riflettere su quanto abbiamo
perduto di una storia complessa, fatta di contatti, contaminazioni, ibridazioni di tradizioni e costumi. Una trama di relazioni, una rete di rapporti che emerge nelle fonti letterarie solo nei suoi momenti piú eclatanti e comunque deformata dagli occhi di chi osserva, interpreta, trascrive.
NUOVE DEFINIZIONI URBANE Anche da questo punto di vista, Pompei si comporta quindi come una città greca o etrusca e forse dovremmo meglio dire arcaica, con le sue specificità, ma anche condividendo, in un orizzonte ampio, tratti significativi delle nuove definizioni urbane che il VI secolo a.C. trascinava con sé in Italia meridionale e, piú latamente, nel dialogo tra Grecia e Italia.
Oggetto quindi di pregio, come il grande vaso, il cratere d’argento descritto nell’Iliade (XXIII, 740-749), prodotto dai Sidoni e utilizzato dal figlio di Giasone, Euneo, come merce di scambio per Licaone e, dopo la morte di Patroclo, deposto da Achille come premio di una gara di corsa. Manufatto non greco è pienamente inserito in una sintassi greca di manifestazione di potere. Cosí come gli oggetti prodotti dai Greci sono giunti nei luoghi piú lontani del mondo mediterraneo con il loro carico di senso e di immagini, continuamente risignificati da chi li utilizzava in spazi culturalmente vicini o lontani da quelli di partenza, altri sono stati prodotti alla greca da genti non greche, appropriandosi di parole non proprie. Nella fitta rete degli scambi, i manufatti perdono dunque la loro identità, diventano veicoli di comunicazione e contatto tra genti diverse, scavalcando limiti, rendendo permeabili i confini, e contengono un dinamismo che si oppone alla loro fissità di oggetti inanimati. I manufatti di produzione greca rappresentano parole di una grammatica nuova, spesso perduta, e per noi inattingibile se strappati ai loro contesti di deposizione, ai luoghi di rinvenimento. Da Olimpia provengono la corazza e il prometopidion (l’elemento che proteggeva la testa del cavallo, n.d.r.) oggetti donati a Zeus: da strumenti di guerra diventano cimeli della memoria. L’hydria dal sacello ipogeo di Paestum è frutto dell’artigianato magno-greco di epoca tardo-arcaica: a Poseidonia era stata utilizzata per celebrare la memoria dell’eroe fondatore, in un sacello sotterraneo che ne trasmetteva il ricordo e lo stile. Forse il suo stesso luogo di produzione rimandava a Sibari da cui la città era stata
fondata: da vaso per l’acqua a contenitore di miele a cimelio per ricordare l’eroe. Il paesaggio del Meridione di Italia si popola di storie greche, per il tramite dei miti, dei racconti dei loro dèi, che migrano con loro in Occidente, lasciando segni vistosi nella toponomastica. Le scatole dei templi si fanno cosí supporto di immagini, rivolte a quanti – greci e non greci – ne frequentavano i santuari: una testina da Paestum è quanto resta di un rilievo che celebrava nel marmo una storia divina. Dalla materia alla fisicità del paesaggio. Il patrimonio dei racconti greci viene assimilato e rivissuto nella circolazione e produzione dei vasi a figure rosse italioti. Ma il contatto con il mondo greco parte anche da un mondo pensato, articolato, suddiviso in valori per ritornare poi alla materia. La bella testa dell’Amazzone di Ercolano, dalla Basilica Noniana, è copia romana di un originale perduto del V secolo a.C., testimonianza indiretta di un concorso che coinvolse Fidia, Policleto e Kresilas nel V secolo a.C., e qui inserita in una nuova grammatica, superando le differenze tra originale e copia. Gian Michele Gerogiannis a r c h e o 85
SPECIALE • POMPEI E I GRECI
Sulla presenza di Etruschi, Opici, Greci molto si è scritto, a partire dalla tradizione ottocentesca e novecentesca di studi, e, in effetti, Pompei costituisce un esempio emblematico per saggiare i nostri strumenti di ricerca sul tema degli incontri di culture. Come quasi tutte le città della Campania arcaica, Pompei appare difficile da definire in poche parole, financo diventa arduo dire da chi fu fondata: una città di sostrato italico su cui agisce un collante istituzionale etrusco e in cui si muovono presenze greche diffuse. Una definizione complessa, forse ancora da dettagliare, ma che a oggi meglio descrive la fluidità dell’insediamento arcaico pompeiano. È proprio questa fluidità a permettere di avviare una riflessione complessa su Pompei nel suo contatto con il mondo greco.
OSMOSI E SOVRAPPOSIZIONE La Magna Grecia, o meglio l’Italia meridionale arcaica, è stata banco di prova della ricerca. L’incontro di culture è qui all’ordine del giorno e la pratica archeologica non ha potuto fare a meno di riflettere sugli strumenti utilizzati per comprendere filiere di documenti restituiti dagli scavi, fondati perlopiú su muti elementi di cultura materiale, in uno spazio caratterizzato dalla continua osmosi e sovrapposizione di tratti culturali in cui anche le iscrizioni – pure ritenute nel corso della storia degli studi talora dirimenti– si sono trasformate in oggetti muti, se interrogati dal punto di vista delle definizioni etniche, di chi cioè quegli oggetti aveva realmente usato e posseduto. Dall’ellenizzazione, all’acculturazione, ai fenomeni di ibridazione, abbiamo assistito – nei luoghi della discussione teorica – a una progressiva ridefinizione degli strumenti interpretativi. Ciò che si è spesso conservato è un senso dualistico nell’osservazione degli incontri di culture. Greci e indigeni entrano in contatto ricevendo, dando o scambiando tratti, le 86 a r c h e o
IL SACRO E IL POLITICO
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ossiamo ritrovare gli strumenti piú tipici della polis greca in un mondo di città in cui i gruppi egemoni si trasmettono le forme di contatto con gli dèi, condividono gli strumenti di alleanza e trovano forme istituzionali simili di gestione del potere. La mantica – cioè la capacità di derivare da Zeus la parola giusta per governare le cose del mondo, per ben parlare nelle assemblee, per ordinare il cosmo del sacro – arriva con Apollo, dio fondatore della città di Cuma, e la sua divina compagna, la Sibilla. Di lei erano noti i libri contenenti responsi che venivano consultati per sorteggio. Questa pratica giungerà per il tramite di Cuma fino a Roma,
ove un collegio sacrale si prendeva cura dei libri e li consultava nel rispetto di una prassi avita. Di questa antica pratica resta, a Cuma, quanto ci racconta Virgilio e, archeologicamente, un dischetto con sentenza in cui Hera, divinità che veglia sul corretto iter di consultazione oracolare, nega al consultante che abbia estratto la tessera su cui la frase è iscritta di consultare l’oracolo. Fortunosamente, dagli scavi del tempio superiore, è sopravvissuto un piccolo bronzetto, databile ai momenti iniziali della colonia, una figuretta nuda, in atto di cantare e suonare la cetra in cui è suggestivo poter identificare la Sibilla. A Pompei ritroviamo un A sinistra: dischetto in bronzo iscritto, forse da Cuma. VII-VI sec. a.C. Napoli, Collezione privata del principe Carafa. Nella pagina accanto: statuetta in bronzo della Sibilla, dall’acropoli di Cuma. Fine dell’VIII sec. a.C. Cuma, Deposito Ufficio scavi.
santuario di Apollo, decorato da artigiani cumani, culto greco forse rivissuto alla luce dei contatti che gli Etruschi, gruppo egemone nella Pompei di quegli anni, avevano istituito con la Grecia. Tra gli strumenti del rito ritrovati nel corso degli scavi nel santuario, emergono coppe e crateri che ritornano tra i doni votivi presenti anche a Delfi, luogo principe del culto apollineo nel Mediterraneo. La città arcaica è organizzata per classi di censo e di età. Il passaggio all’età adulta assume un aspetto istituzionale, uno degli strumenti tramite il quale si fissa l’appartenenza dell’individuo alla collettività. Questi passaggi avvenivano all’ombra del sacro, nel corso di feste e agoni. Tutti i centri piú importanti della Campania arcaica, tra cui spiccano Capua e Cuma, hanno restituito bacini, caldaie e calderoni in bronzo che, al consueto utilizzo nei banchetti per contenere carni o vino, aggiungono quello di premi in agoni e quindi di contenitori di ceneri nelle sepolture di rango. Questi vasi erano a Capua popolati di immagini, a rappresentare un mondo liminare governato da sirene e arpie, spazi nei quali i giovani realizzavano il loro apprendistato per diventare adulti. Un mondo selvaggio, che veniva reso culturale dalla presenza del sacro. Tra le figure in bronzo fuso che completavano i coperchi, spiccano cavalieri fermati in esercizi di destrezza tramite i quali ci si preparava alla
guerra. La cavalleria, di cui erano simbolo i Dioscuri, i divini figli di Zeus, assolve un ruolo importante in Campania, fin dall’età arcaica, unendo le classi aristocratiche nei centri greci, etruschi e poi italici. Di questo mondo multietnico e dei suoi risvolti politici documentati dagli oggetti e dal sistema della cultura materiale, abbiamo fortunati riscontri istituzionali. Una laminetta esposta a Olimpia registrava l’alleanza tra i sibariti e i Serdaioi, uno dei popoli dell’Italia meridionale, parte del suo «impero». Queste alleanze dobbiamo presupporle frequenti nell’Italia arcaica e nel golfo che sarà di Napoli: genti diverse – Etruschi provenienti dai grandi centri costieri del Lazio, Capuani, Cumani, Poseidoniati – convivevano e stringevano alleanze consumate in forme istituzionali nei grandi santuari. Anche Pompei era calata in questa dimensione politico-istituzionale. Nel grande santuario meridionale di Poseidonia, dedicato alla dea Hera, si ergeva un edificio decorato con le stesse terrecotte che completavano il fastigio del tempio dorico pompeiano, forse una dedica votata a conclusione di un trattato o un’alleanza tra i due centri. Gian Michele Gerogiannis
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SPECIALE • POMPEI E I GRECI
GLI SPAZI DELLA CITTÀ
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ompei è un contenitore in cui la dimensione immateriale del sacro accompagna il comporsi della città materiale attraverso linguaggi scaturiti da intensi contatti con un mondo multietnico: le aree sacre calibrano i propri contenuti, gli spazi, le vesti decorative nel tempo e lo schema che viene a definirsi è simile, ma mai perfettamente identico alle «fonti» da cui maestranze e committenze attingono o provengono. Emerge, e non dai lapilli, nel suo orizzonte mediterraneo, un centro in cui gli artigiani, diversi per provenienza, comunicano, organizzano spazi, ispirandosi a tradizioni già disponibili, senza aderirvi mai completamente, tendendo, al contempo, a una ricerca di unicità. La stessa città nasce in una fase della storia campana di profondo mutamento, il passaggio tra Orientalizzante recente ed età arcaica, con la formazione di nuovi centri, che comprende la fondazione dell’achea Poseidonia, accanto a centri non greci. In queste nuove città, nel corso del VI secolo a.C., i santuari divengono i luoghi in cui rinnovare e consolidare gli accordi instauratisi nel golfo, per sperimentare linguaggi comuni, valicando le differenze dei gruppi etnici: i Greci, reduci del fenomeno colonizzatorio, da Pithekoussai e da Cuma; gli Etruschi, nella doppia
modifiche teoriche si sono appuntate sempre sulla direzione del contatto mantenendo, però, un senso di dualità.
CULTURA E IDENTITÀ Oggi partiamo da una percezione diversa dei concetti di cultura e d’identità. La prima costituisce la struttura profonda, di base, composta da sottoinsiemi dai confini permeabili, in cui conoscenze e acquisizioni circolano in sistemi complessi, che travalicano i confini etnici. Queste concezioni trovano rispondenza nelle descrizioni oggi diffuse dei fenomeni culturali come reti, sottoinsiemi strutturati, articolati per nodi, facili a sciogliersi per riannodarsi altrove, ingranaggi indentati che entrano in contatto tra loro proprio lungo i margini e assicurando il passaggio d’informazioni e saperi per tratti, da un comparto all’altro. In queste strutture, il Mediterraneo diventa piccolo e facile da essere attraversato, e un elemento distintivo può apparire in luoghi lontani anche in assenza di una coscienza diretta dello scambio avvenuto. 88 a r c h e o
accezione, capuana e costiera, che certamente favoriscono crescita e sviluppo sociale promuovendo l’organizzazione delle comunità urbane di Nocera, Pompei, Stabiae, l’abitato di Vico Equense nella penisola sorrentina. Le due principali aree sacre pompeiane sono dedicate ad Apollo e ad Atena. Gli edifici sacri in esse contenuti sono decorati da artigiani diversi. Presso il santuario di Apollo riconosciamo in attività un gruppo di plastae (plasticatori, n.d.r.) cumani per decorare un edificio di cui, purtroppo, ignoriamo le forme planimetriche e gli alzati ma possiamo ricostruire il fastigio con antefisse nimbate, tegole di gronda, lastre di rivestimento, forse acroteri figurati. È un linguaggio condiviso che troviamo ampiamente diffuso su suolo campano, centrato su Cuma e Capua ma che si diffonde dalla Campania settentrionale fin nel basso Lazio e tocca, lungo vie commerciali e politiche, il basso Tirreno. Diversamente il santuario di Atena è costruito in pietra, alla maniera dorica, il suo tetto è in pesante terracotta policroma e richiama la tradizione dei tetti greco
occidentali, ma lo fa innovando, creando una propria maniera, influenzata dal versante meridionale del golfo e della Magna Grecia achea e dalla stessa scuola di plasticatori campani. Alle spalle di questa strana dialettica possiamo riconoscere il mondo degli artigiani, i circuiti delle botteghe in Italia meridionale,
In questi mondi nulla è duraturo, anche in uno stesso luogo, le reti si sovrappongono, i codici culturali possono essere continuamente risignificati da gruppi, situazioni, contesti, e si assiste a continui scivolamenti di senso. Su queste reti si sviluppano i linguaggi identitari, labili, parassitari, determinati spesso da forze e assetti politici. Negli ultimi decenni si è creduto di dover finalizzare la ricerca archeologica alla definizione di identità, stilistiche, topografiche, spesso confondendo la costruzione di facies come strumento di organizzazione del dato archeologico con il fine storico della ricerca. Queste identità sono sempre parziali, volute e quindi labili. I fatti culturali sono impiegati e piegati da esse, ma conoscono, appunto, dinamiche ben diverse. Uno stile circola al seguito dei modi di trasmissione del sapere e delle conoscenze, il vestito identitario lo impiega, ma non riesce a chiuderlo in confini definiti se non per brevi assetti. Che Pompei abbia una sua identità arcaica è assunto necessario da definire per noi che ci approcciamo al suo stu-
il comporsi di labili linguaggi identitari fondati su ingranaggi di produzione e strutture culturali dagli ampi circuiti. In queste reti, in cui greco, etrusco e italico appaiono etichette instabili, si muovono i maestri, si compongono i cantieri, si creano nuove tradizioni. Pasquale Bucciero
In alto: sima dal Tempio A di Metaponto. Inizi del V sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: antefissa a palmetta dritta e rovescia, da Capua. VI sec. a.C Capua, Museo Provinciale Campano.
dio, ma in antico, nel contesto cittadino, avremmo trovato molteplici punti di vista, spesso in collisione tra loro.
UNA PROFONDA RISTRUTTURAZIONE Lo spazio di Pompei arcaica è quello del golfo, tra gli scali cumani a nord, per esempio Partenope, e gli abitati che si snodano lungo il tratto costiero meridionale, in cui Pompei, Stabia e Sorrento costituiscono i nodi maggiori di realtà minori, come Vico Equense e l’insediamento arcaico di Piano di Sorrento. Questo mondo conosce una profonda ristrutturazione con la fondazione di Neapolis, che le recenti scoperte oggi ancorano ai decenni finali del VI secolo a.C. La tirannide di Aristodemo aveva introdotto nuovi assetti, creato alleanze; la fondazione della nuova città, di Neapolis, altera i vecchi delicati equilibri e crea la risposta militare di una parte del mondo etrusco, quello dell’Etruria costiera, presente nel golfo. Scoppia la battaglia di Cuma, combattuta nelle acque del golfo nel 474 a.C. a r c h e o 89
SPECIALE • POMPEI E I GRECI
UN NUOVO MONDO
I
l V secolo a.C., che si era aperto con la battaglia di Cuma, si chiude con l’arrivo sulla costa delle genti italiche e il sovvertimento di molti governi cittadini. Anche Pompei, uscita malconcia dagli scontri nel golfo, affronta questa nuova stagione e dobbiamo supporla in mano italica a partire dalla fine del V secolo a.C. Per la fase iniziale di questa stagione italica sono sopravvissuti pochi documenti. Il recente rinvenimento di un gruppo di tombe presso Porta Ercolano – che ha restituito corredi composti da oggetti di pregio, tra cui i quattro vasi a figure rosse attualmente esposti in mostra – costituisce pertanto una scoperta significativa. A partire dalla fine del IV secolo a.C. e nel corso del successivo, la città viene come rifondata con una riorganizzazione degli spazi pubblici e privati. Il rapporto con la Grecia diventa complesso e via via sempre piú pensato. Pompei inizia a condividere un nuovo linguaggio franco, quello dell’ellenismo che unisce, pur con accenti diversi, mondi lontani affacciati sul Mediterraneo. Il nuovo ordine macedone crea, all’inizio del periodo, un nuovo linguaggio di potere e di rappresentazione individuale, che si
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traduce in arti e artigianato specializzato. Si tratta di modelli che, introdotti con la parabola di Alessandro, non perderanno mai la loro produttività, dilatando gli orizzonti geografici e culturali. In mostra si espone una scelta di oggetti da un contesto imponente, una tomba proveniente da Altamura con un ricchissimo corredo, perlopiú vascolare. Tra i vasi figurati, spiccano esemplari riconducibili ai maestri della pittura apula. Tra di essi, un cratere frammentario con rappresentazione di una battaglia tra Persiani e Greci, in cui è facilmente identificabile lo schema che ricorre nella parte centrale del Gran Mosaico della Casa del Fauno con Alessandro e Dario in fuga, una chiara testimonianza della diffusione di questi nuovi modelli, nei quali l’impresa di Alessandro Magno viene letta e rappresentata alla stregua del mito. Nel II secolo a.C. Pompei sannitica vive nel Mediterraneo, condividendo l’utilizzo dello strumentario ordinario della vita quotidiana. Ne sono testimonianza – nonostante le differenze di produzione, due scarichi, due immondezzai – rinvenuti uno nell’agorà di Atene, il secondo presso il Foro di
L’intervento di Ierone, tiranno di Siracusa, condurrà alla vittoria dei Cumani e, da quegli anni, il mondo del commercio costiero e la vita dell’opulenta Pompei sembrano arrestarsi. Non è un caso che nelle stratigrafie pompeiane – come registra chi scava in profondità – si percepisca sistematicamente una lacuna di documentazione che va dal secondo quarto del V secolo al 400 a.C. circa. Un’inquietante assenza di documentazione materiale e di tracce di frequentazione, come se la città arcaica ricca e dinamica avesse cessato di vivere, o quanto meno di essere popolosa ed estesa. Che si tratti di una contrazione dell’abitato, o di una crisi generalizzata che porta al progressivo abbandono del centro non è dato dirlo allo stato attuale della documentazione. Certo è che tutti i santuari meglio indagati in profondità, da quello di Apollo a quello di Atena in città, fino a quelli extra-urbani di Fondo Iozzino e Sant’Abbondio, non restituiscono quasi piú ex voto, come se nessuno piú vi si recasse e la pratica cultuale normativamente scandita nel tempo del sacro avesse subíto una battuta d’arresto. Si è parlato di un nuovo mondo che si di-
Nella pagina accanto: capitello d’anta figurato con coppia di Domini. II sec. a.C. Pompei, Depositi della Soprintendenza. In basso: lastre con cavalieri, dal palazzo di Torre di Satriano. VI sec. a.C. Potenza, Museo Archeologico Nazionale della Basilicata «Dinu Adamesteanu».
Pompei. È possibile ritrovarvi strumenti e ceramiche simili, ma prodotti da botteghe locali, oppure importati: coppe a rilievo di produzione orientale, bottiglie di foggia ellenistica, bracieri configurati, piatti e coppe a vernice nera, anfore per il trasporto e per il consumo di vini pregiati. Anche l’architettura si adegua ai nuovi canoni ellenistici, attraverso un lento processo di assimilazione dei nuovi linguaggi figurati da parte delle officine locali, che reinterpretano e adeguano i registri marmorei greci ai materiali e alle tecniche locali. La scelta dei frammenti architettonici esposti pone in evidenza due distinti processi di assimilazione di questi modelli. Nei due fregi in terracotta di produzione locale, infatti, si rileva una discendenza figurativa diretta dai modelli iconografici caratteristici dell’area ionico-asiatica, rilevabili tanto nelle decorazioni floreali di ispirazione pergamena, quanto nella composizione della scena di combattimento, influenzata dall’iconografia tipica delle battaglie alessandrine. I capitelli d’anta figurati in tufo, invece, costituiscono il risultato di un processo piú lungo e indiretto di contaminazione stilistica greco italica.
schiude, di una stretta identitaria a livello urbano, le città assumerebbero ora profili piú definiti e le frontiere in parte inizierebbero a serrarsi. Ma le reti delle culture continuano a funzionare e nuovi nodi si creano.
LA «RINASCITA» Ritroviamo il confronto di Pompei con la Grecia dopo circa ottant’anni, con un fenomeno che condurrà alla composizione di un linguaggio franco, quello ellenistico, dalle ampie latitudini, che consegnerà alle soglie del primo impero le esperienze di un antico mondo fatto di città. È il momento della «rinascita» di Pompei, della cosiddetta città sannitica che, a partire dall’inizio del IV secolo a.C., ritorna progressivamente ad essere un centro importante all’interno delle dinamiche insediative del golfo. I protagonisti sono nuove genti, giunte verosimilmente da fuori, all’interno di quel rinnovato fenomeno di mobilità e migrazioni che interessa buona parte del comparto italico centro-meridionale. Di questo «mondo campano» l’archeologia sta restituendo proprio in questi ultimi anni dati (segue a p. 96)
Gli esemplari esposti rappresentano, dunque, una fase già matura dello stile tipicamente ellenistico, derivante dalla commistione tra elementi dorici, come i capitelli a sofà peloponnesiaci, ed elementi decorativi ionici. Teresa Demauro
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SPECIALE • POMPEI E I GRECI
VIVERE ALLA GRECA
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a conquista della Grecia e le vittoriose campagne di guerra nel mondo ellenizzato ebbero effetti sostanziali sulla morigerata austerità delle tradizioni romane, introducendo un lusso spropositato anche nella sfera privata, che gli scrittori latini piú conservatori e tradizionalisti definivano sprezzatamente luxuria. Come afferma Plinio il Vecchio, «fu l’Asia sconfitta che per la prima volta introdusse il lusso in Italia»: una concentrazione di un gran numero di beni di lusso, simboli della grandezza dei sovrani ellenistici, fino ad allora mai visti, sfilavano come bottino di guerra nei trionfi dei generali vittoriosi, tra lo stupore e la curiosità del popolo, determinanti nel modificare il gusto. Non solo il costume e gli ornamenti personali, ma soprattutto gli arredi e le ambientazioni delle domus e delle ville risentirono di tali effetti: Livio ricorda che «importarono per la prima volta a Roma letti con ornamenti di bronzo, preziosi copriletto, cortine ed altri tessuti, e tutto ciò che era considerato lussuoso come tavoli con un piede ed abachi». Gli esponenti delle classi economicamente piú elevate, e in particolare i nuovi ricchi, piú disponibili alle novità di moda, accolsero con plauso quanto veniva
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offerto dal contatto diretto con la cultura artistica greca, tanto che maestranze specializzate sicuramente greche e orientali si arricchirono alle dipendenze della nuova ed esigente committenza romana. L’architettura privata, in precedenza incentrata sull’atrio, emula il modello delle sfarzose residenze ellenistiche, prevedendo una dilatazione degli spazi interni con porticati, giardini e sale di rappresentanza, in cui trovano posto arredi raffinati e di prestigio. Nella Casa del Menandro, i cinque ambienti di svago e riposo, e la suite termale, disposti intorno al peristilio, a reminiscenza di un gymnasium ellenistico, attestano l’appartenenza del proprietario all’élite pompeiana di primo piano. Anche gli arredi e il mobilio di questa casa sono un’esibizione di lusso e preziosità: i raffinati letti triclinari con fulcra (testiere del letto, n.d.r.) bronzei, il braciere, lo sgabello e l’elegante monopodium (tavolo a un piede) in marmo pavonazzetto e bronzo con rilievi in argento, ispirati a modelli greci, sono materiali di una certa «antichità», forse acquistati sul mercato antiquario. La statua marmorea di Apollo, opera
In queste pagine: due immagini della statua marmorea di Apollo, opera di artisti ateniesi della prima etĂ imperiale. I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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SPECIALE • POMPEI E I GRECI
eclettica (misto di elementi classici e arcaici) di artisti ateniesi della prima età imperiale, dimostra la diffusione di un gusto rivolto all’antico, che si riscontra fortemente anche nella Casa di Giulio Polibio. In quest’ultima, la statua bronzea di Apollo – un magnifico kouros arcaizzante – è un’opera eclettica di un atelier di qualità, forse urbano, del I
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secolo a.C., che presenta riparazioni e aggiunte nel tempo, tra cui i racemi lampadofori applicati alle due mani per adattare la scultura alla funzione di porta-lampade. Al momento dell’eruzione, la statua era stata ricoverata sul pavimento del grande triclinio d’inverno insieme all’arredo da banchetto della domus: vasi in
bronzo da tavola (oinochoai, brocche) eseguiti a fusione e rifiniti ad agemina con altri metalli (rame, argento), a creare un effetto di policromia secondo la tradizione della bronzistica greca classica, quasi tutti attribuibili a una bottega (forse capuana) della prima età imperiale; oggetti di arredo e illuminazione
(sgabello, lucerne e candelabri). In un certo disordine concettuale, Giulio Polibio, nouveau riche di famiglia di non remota origine libertina, accumula tanti segni di status, a voler dimostrare gusti raffinati e apprezzamento di opere di epoca piú antica. Gli arrivò per eredità o acquistò un pezzo autenticamente greco di
stile severo (460 a.C.), un’hydria (contenitore per l’acqua) in bronzo, con attacco superiore dell’ansa configurato a busto di fanciulla con peplo dorico (vedi l’immagine a p. 99). L’iscrizione sul bordo «sono dei giochi di Hera Argiva» connota il vaso come premio per i vincitori dei giochi che si svolgevano in onore di Hera nel santuario di Argo: premi analoghi si ritrovano in tombe di atleti e perfino, come oggetto di famiglia, a Verghina nella tomba di Filippo II di Macedonia. A Pompei il pezzo probabilmente arriva dal trafugamento di qualche tomba, forse in Magna Grecia, venduto sul mercato antiquario, dove subisce trasformazioni (foro sulla pancia per probabile applicazione di rubinetto) per essere sfoggiato come centrotavola. Si distingue, nella stessa casa, anche il grande cratere in bronzo (nell’immagine a sinistra)
Nella pagina accanto: cratere con scene a rilievo in bronzo con agemina. I sec. a.C Boscoreale, Antiquarium. A destra: nove dadi da gioco in osso. I sec. d.C. Pompei, Depositi della Soprintendenza.
– replicante forme del IV secolo a.C. ma databile probabilmente all’età augustea –, la cui decorazione a sbalzo raffigura giovani eroi in atto di armarsi per un’impresa, variamente interpretata (caccia di Meleagro al cinghiale calidonio? guerra dei Sette contro Tebe? partenza degli Argonauti?). L’apice della luxuria di derivazione ellenistica si raggiunge tuttavia con l’argenteria, su cui gli
scrittori latini ironizzano con tono moralizzatore per l’amore sfrenato dei Romani visto come malcostume: le degenerazioni snobistiche di ricchezze recenti unite alla cultura inesistente di personaggi di modesta origine sono tratteggiate da Petronio nel suo Trimalcione e da Marziale. Le feste offerte dai tanti parvenu in età imperiale esibiscono lavori di manifattura greca eseguiti da raffinati cesellatori di argento tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C. Pompei e l’area vesuviana hanno
restituito importanti servizi di argenteria: tra tutti spiccano quello di Villa della Pisanella a Boscoreale (al Louvre) e il servizio d’antiquariato della Casa del Menandro. Piú piccolo è il servizio per quattro persone (20 pezzi) rinvenuto recentemente a Moregine, ma che risulta completo per le funzioni di cerimoniale conviviale delle grandi occasioni, garantendo al padrone di casa prestigio e successo di una mensa raffinata ed elegante, sul modello dei sovrani ellenistici, come quella riprodotta nell’affresco della tomba pompeiana di Caio Vestorio Prisco. Tiziana Rocco A sinistra: oggetti di ornamento personale. I sec. a.C.-I sec. d.C. (tranne l’ago crinale, III-II sec. a.C.). Napoli, Museo Archeologico Nazionale. a r c h e o 95
SPECIALE • POMPEI E I GRECI
di rilievo: due tombe a cassa dell’incipiente IV secolo – una maschile, l’altra femminile –, dal ricco corredo di ceramiche a figure rosse e a vernice nera, sono affiorate nella necropoli di Porta Ercolano, tra le piú tarde botteghe artigianali, documentando, tra l’altro, la lunga durata nella destinazione degli spazi della nuova città, che userà quest’area di necropoli fino alla sua distruzione nel 79 d.C. Anche la nuova esperienza nasce nel segno dell’ibridazione. Le tombe a cassa con cadavere supino non si distinguono da quelle di altri coevi centri italici della Campania; il corredo presenta le forme da banchetto tipiche di una tradizione greca che è divenuta pervasiva nel Mediterraneo globalizzato, le decorazioni delle ceramiche a figure rosse, di ascendenza greca, rivelano però uno scarto nella maniera artigianale, che sembra tradire ancora una volta una definizione locale, la nascita di una tradizione epicoria che costruisce temporanee identità, aprendosi e mescolando.
UN CONTATTO DIVERSO Da questo momento in poi il contatto con la Grecia sembra diverso, meditato, riflesso, spiritualmente stratificato. In realtà, piú ci inoltriamo nel pieno ellenismo, piú aumentano testi letterari ed epigrafici che ci svelano l’intenso lavorio di acquisizione culturale di linguaggi e mode che dobbiamo presupporre presenti anche per i periodi piú antichi ma che non possiamo documentare. La Grecia dei condottieri, di Filippo e Alessandro, compone un nuovo linguaggio di potere, che dalle arti di corte filtra nell’artigianato piú corrente. La Grecia è ormai ancor di piú un fatto plurale e mediterraneo e gli stimoli provengono da luoghi diversi. I modi di abitare, le forme delle città traggono ispirazione da contatti mediterranei spesso giunti tramite mille intermediazioni, in cui eventi culturali imponenti, come, per esempio, l’espansione di Roma, costituiscono un filtro. Dalle storie individuali delle tante fondazioni coloniali latine e romane, dai trattati e dalle alleanze con Roma si trasmettono modelli complessi dal lungo pedigree culturale: una soluzione urbana introdotta in Campania con le colonie greche giunge nel mondo latino; rielaborata nel sistema di potere romano, ritorna in Campania, influenzandone gli abitati locali. È un continuo succedersi di movimenti di creazione, risignificazione, consumo 96 a r c h e o
ATENE A POMPEI
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ella città sacra ad Atena, pratiche misteriche e riti propiziatori di fecondità erano rivolti ad Afrodite invocata nella sua valenza ctonio-vegetale con una pluralità di epiteti: Urania, Pandemos... I templi della dea si dislocavano lungo le pendici meridionali e settentrionali dell’Acropoli e nei sobborghi di Daphní e dell’Ilisso. Erano luoghi di culto antichissimi, che il programma edilizio varato da Pericle aveva stimolato a dotarsi di nuove immagini, opera di Fidia o dei suoi collaboratori. La fama di queste sculture, legata a quella dei loro artefici durava ancora dopo seicento anni, richiamando ad Atene visitatori eruditi affascinati dal racconto di Pausania. Non tutte le statue erano però ancora visibili. Alcune erano state trasferite a Roma per decorare spazi pubblici o impreziosire residenze private. La difficoltà di procurare originali sufficienti a soddisfare le ambizioni collezionistiche dei ceti dirigenti romani è un fattore spesso invocato per motivare quel fenomeno della produzione seriale di sculture che è un aspetto importante dell’arte romana. Nelle intenzioni della committenza, l’adeguatezza delle immagini al luogo espositivo era tenuta in conto piú della loro fedeltà all’originale. Schemi iconografici inventati nelle botteghe di scultura in età classica vengono replicati e spesso ricreati per dare forma a nuovi significati. Non si può certo sostenere che ad alimentare la produzione copistica di età romana sia stato unicamente il gusto artistico, ma si deve ammettere che all’uso ornamentale si accompagnasse spesso l’apprezzamento delle qualità estetiche. Da questo punto di vista Pompei e i siti vesuviani, costituiscono un osservatorio privilegiato per la valutazione delle produzioni figurative in contesto. Dall’esame delle opere, concepite come arredi per genera, contemporaneamente si trasmette allo spettatore quel fascino della «Grecia sottomessa e al contempo trionfante sul rude vincitore», che trova espressione nel verso di Orazio. Le sculture vesuviane occupano, inoltre, una posizione importante nella tradizione degli studi sui culti ateniesi. Carmela Capaldi
In queste pagine: due immagini della Statua di Afrodite Sosandra/Aspasia, da Baia. Inizi del III sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. a r c h e o 97
SPECIALE • POMPEI E I GRECI
e dismissione, da cui prende avvio un nuovo processo di semantizzazione su forme simili ma consumate nel senso, come nelle comunicazioni linguistiche. E anche lo studio delle lingue antiche si apre a nuove prospettive, quelle da tempo insegnate dalla pragmatica e dalla sociolinguistica. La credenza che un’attestazione linguistica, un’iscrizione, un testo potesse permetterci, mediante riconoscimento di alfabeto e lingua, di decifrare la mappa etnica del popolamento antico si è spesso, anche se non sempre, infranta contro gli utilizzi disinvolti della lingua in chiave sociale. Ancora una volta sono le storie del Mediterraneo contemporaneo a insegnarci la dimensione del multilinguismo e a illustrarci un fenomeno come l’utilizzo mimetico delle lingue, per situazioni e registri comunicativi. In un luogo come il golfo di Napoli in età antica, possiamo scoprire le lingue, in piú situazioni, utilizzate in senso tecnico: l’etrusco a Pompei, come strumento dominante di comunicazione alta; il greco, in alcuni contesti, come comunicazione nelle pratiche del sacro e del rito; il latino, al momento della fondazione del porto puteolano, come lingua franca nelle transazioni commerciali; ancora il greco, come lingua della comunicazione letteraria.
LINGUA DELL’AMORE Ma Pompei da questo punto di vista insegna ancora di piú: negli spazi delle case ritroviamo eco delle terminologie riportate nelle fonti per descrivere le stanze, utilizzando parole greche anche quando gli ambienti definiti con il mondo greco nulla avevano a che fare; il mondo latino rimodella e sviluppa il suo mondo greco. In questa stessa prospettiva, il greco a Pompei è anche la lingua dell’amore e della cura del corpo femminile. Non possiamo quindi stupirci di trovare tracce d’insegnamento della lingua greca a Pompei, in un contesto che non può fare a meno di ricorrere a questa lingua per descrivere oggetti e idee anche sue proprie. Il mondo greco diventa immagine culturale al plurale, non supinamente ereditata, ma vitalmente accresciuta e declinata nel proprio mondo. A Pompei, il mondo greco diventa anche patrimonio da collezionare, ma con forme culturali ben diverse da quelle che attribuiamo oggi a questo termine. Ritroviamo piccoli originali greci, in numero davvero limitato, in 98 a r c h e o
sculture e rilievi riadoperati, per esempio, negli arredi da giardino, ma anche forse nei bronzi acquisiti dal mondo greco, se greco ellenistiche dobbiamo considerare le statue di Apollo e Diana esposte nel santuario di Apollo, immerse in una nuova rete rituale. Ancora un originale greco è la preziosa hydria (vaso per acqua, n.d.r.) del V secolo a.C., premio dei giochi argivi, che componeva, con altri vasi, il corredo lussuoso della Casa di Giulio Polibio. Proprio in questo oggetto potremmo riconoscere una specificità: non sappiamo come sia giunto a Pompei, se per il tramite di vendite d’asta, come premio di guerra, acquisizione da mercanti d’arte o se recuperato scavando casualmente nei propri poderi e imbattendosi in tombe antichissime; in ogni caso cogliamo una risemantizzazione dell’oggetto. La conoscenza dei contesti pompeiani permette di restituire ai cimeli significati specifici, ma il meccanismo non appare diverso da quello che, in società diverse per assetti economici, avevano condotto l’elmo di Autolico a viaggiare fino ad essere posto sul capo di Odisseo (Iliade X, 260-271; vedi box alle pp. 8485). Simili oggetti si arricchiscono di senso nei diversi passaggi, che ne aumentano il valore comunicativo, tanto da essere tesaurizzati per rango nei corredi di tombe di essi piú recenti o, come nel caso dell’hydria di Giulio Polibio, da essere inseriti in un servizio composito, in cui quasi ogni singolo oggetto ha la sua biografia, che può giungere fino a rinnegare o appannare il suo contesto di origine. Ritroviamo questo modo di leggere i fatti culturali del passato applicato anche a documenti fondanti nella tradizione degli studi archeologici. La pittura pompeiana, con il suo carico di miti e la sua forte iterazione di immagini, può aiutarci a comporre la mappa da cui risalire agli originali greci perduti, ma il copiare e la rete di derivazioni può significare molto di piú. Un tema greco viene utilizzato in luoghi diversi, in uno spazio culturalmente e politicamente forte può assumere una nuova identità. Di quello schema, di quella tavola perduta o lontana e copiata si crea una nuova immagine. Con queste nuove forme, può giungere in un centro nuovo, ove, nel suo essere osservata e consumata, l’immagine assume una nuova (o nuove) identità, da recepita diventa tema che si offre all’imitazione, dando avvio a un processo di semiosi illimitata. Cosí i racconti iliadici utilizzati nella pittura di spa-
zi sacri a Roma arrivano nel peribolo del santuario pompeiano e qui iniziano la loro vita rituale. Copie di originali lontanissimi, sono vissuti come nuovi originali generando la fortuna pompeiana del tema. Cosí per le sculture. La presenza nel luogo ameno del golfo di Napoli di botteghe di copisti crea i presupposti per la diffusione delle copie degli originali in bronzo del mondo greco e delle immagini sacre di Atene. Nel contesto pompeiano questi oggetti sono rivissuti e risemantizzati, in un processo ormai da tempo oggetto di studio della ricerca contemporanea. In basso: particolare di una hydria (vaso per acqua) in bronzo. V sec. a.C. Pompei, Depositi della Soprintendenza.
LE RAGIONI DI UNA MOSTRA Con la mostra «Pompei e i Greci», non abbiamo voluto provare a raccontare un incontro ideale con un mondo vagheggiato, l’Ellade. Che Pompei contenga la nostalgia del mondo greco era già noto. Né abbiamo inteso mettere al centro società ibride e me-
ticce, un approccio che resta nella sostanza duale. Abbiamo invece cercato di indagare i meccanismi tramite i quali la cultura si muove, per restituire al grande pubblico il rumore degli ingranaggi che facevano funzionare il Mediterraneo tramite reti locali dai confini permeabili, continuamente in contatto, dai nodi mobili e stratificati, in cui le informazioni viaggiano. Abbiamo voluto mettere al centro dell’esposizione quel mondo fluido del Golfo di Napoli, fatto di accentuata mobilità, migrazioni, incessanti processi di contatti e trasformazioni, dove i porti marittimi e gli scali fluviali hanno per secoli generato una cultura estremamente dinamica, impedendo il radicarsi stabile di logiche identitarie monolitiche: città aperte, dove anche lo scontro militare non ha impedito il transitare incessante di tradizioni artigianali e modi di pensare. La rete straordinaria di queste vicende si legge attraverso la materialità, gli oggetti che il passato ci ha trasmesso, carichi di biografie che ci parlano ancora oggi di chi li ha prodotti, usati, caricati di significati, scambiati e persi. Abbiamo voluto creare una occasione per riflettere su quanto, come ha scritto magistralmente Francesco Remotti, le identità chiuse appaiano parassitarie rispetto ai fenomeni culturali. Di come sia possibile leggere gli oggetti e appassionarsi alla loro storia, di come la divulgazione possa diventare occasione per riflettere sul nostro contemporaneo. Massimo Osanna e Carlo Rescigno I testi scelti per questo Speciale sono tratti dal catalogo della mostra «Pompei e i Greci» e qui compaiono per gentile concessione di Electa. DOVE E QUANDO «Pompei e i Greci» Pompei, Palestra Grande fino al 27 novembre Orario tutti i giorni: 20 aprile-31 ottobre, 9,00-19,30; 1-27 novembre, 8,30-17,00 Info www.pompeiisites.org Catalogo Electa a r c h e o 99
IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda
L’ARCHEOLOGO INCONSAPEVOLE A BEN VEDERE, LE FULMINANTI INTUIZIONI DI SHERLOCK HOLMES, IL DETECTIVE PIÚ FAMOSO DELLA STORIA, SI DEVONO A UNA CIRCOSTANZA SINGOLARE E MOLTO «ARCHEOLOGICA»: L’AVER VISSUTO A POCHI PASSI DAL BRITISH MUSEUM...
L
e storie della letteratura inglese riservano solitamente poco spazio a Sir Arthur Conan Doyle (1859-1930) e al suo personaggio, il mitico Sherlock Holmes, beniamino invece di un numero sterminato di appassionati del «giallo». Ma è solo il «genere letterario» che affascina nelle sue storie? E stiamo davvero parlando di letteratura di secondo ordine? Sembra di no. C’è infatti chi ritiene che il valore delle storie di Holmes non abbia molto a che vedere con la «giallistica». Per cogliere tutto il senso e la portata della sua figura occorre rompere schemi, varcare confini, guardare oltre la siepe. Sherlock Holmes non è peraltro particolarmente simpatico e comunicativo, come il suo amico Watson, al quale dobbiamo un ritratto dell’amico niente affatto lusinghiero: «Una mente priva di un cuore, tanto manchevole di calore umano quanto ricco di intelligenza. La sua avversione per le donne e la riluttanza a stringere nuove amicizie erano tipici del suo temperamento freddo e indifferente». D’altra parte, lo confessa lo stesso Holmes: «Non sono mai stato un tipo molto socievole, Watson, e ho sempre avuto la passione di chiudermi in camera mia a rimuginare». Temprato da una carriera di militare in India, il carattere lo rende un
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«duro», uno che non si spaventa, affidando semmai le sue fragilità «all’uso occasionale di cocaina, come antidoto alla monotonia dell’esistenza, quando non si verificavano avvenimenti di rilievo e i giornali non presentavano niente di interessante». Holmes, però, si trasforma di fronte alla sfida dell’indagine e al piacere della scoperta di ogni minimo indizio, che – racconta ancora Watson – accende «un bagliore nel suo sguardo e una certa eccitazione soffocata nei suoi modi». Sherlock Holmes trova quel che cerca («Non poteva vederlo, – dice – era sepolto nel fango. Io l’ho visto unicamente perché lo stavo cercando»), ma sa anche cercare quello che trova, perché «piú che cercare nuovi indizi, – osserva – è necessario vagliare attentamente quelli già disponibili». E quindi capisce l’importanza delle assenze, come quando accenna «al curioso incidente del cane durante la notte – Ma durante la notte il cane non ha fatto niente, replica Watson – È questo l’incidente curioso, osservò Holmes».
PANTOFOLE E PIPE... L’indagine di Holmes è basata su un’attenzione spasmodica, quasi maniacale per i dettagli. «Come ha fatto a saperlo?», gli chiede ancora Watson. «Dalle sue pantofole». Come fa a capire quale sia il migliore di due studi medici vicini? «Dai gradini, ragazzo mio. I suoi sono molto piú consumati di quelli del suo collega». «A volte le pipe sono interessantissime – dice – Nessun oggetto presenta caratteristiche individuali piú marcate tranne, forse, gli orologi e i lacci da scarpe». Gli indizi che sfuggono ai piú sono la via maestra del metodo di Holmes, che prevede una conoscenza vasta e variegata, studio e applicazione, altrimenti non potrebbe trarre conclusioni da un indizio cosí erudito come quello offerto da un’ortografia tipica del
XVII secolo. Ma anche il tasso di scientificità delle sue procedure è molto alto: Holmes non tira a indovinare. Con il distacco dell’anatomopatologo Holmes seziona i comportamenti umani, agendo a cavallo tra scienze naturali e scienze umane. E quindi elabora ipotesi, perché anche sbagliare ipotesi serve: «Watson – mi disse – se mai lei dovesse accorgersi che ripongo un po’ troppa fiducia nelle mie capacità…». Ma senza facilonerie, «Io per principio non do mai niente per scontato – confessa – e non seguo mai docilmente la strada che i fatti indicano». «Sospetta di qualcuno? – gli chiede Watson – Sospetto di me stesso. – Come? – Di giungere troppo rapidamente alle conclusioni». Holmes ha bisogno di tempo, anche se a volte le sue conclusioni sono fulminanti, ma solo dopo aver
In alto: Sherlock Holmes (a destra) e Watson in un’illustrazione del 1893. Nella pagina accanto: Basil Rathbone nei panni del detective nel film Le avventure di Sherlock Holmes (1939). saputo «vagliare, da un cumulo di fatti, quelli che sono accidentali e quelli che invece sono essenziali». Certo, dopo, perché «come tutti i ragionamenti di Holmes anche questo, una volta spiegato, era semplicissimo». Ma occorre, appunto, spiegare, il che non è solo un obbligo morale, è parte stessa del metodo d’indagine: «Il modo migliore per chiarirsi le idee è quello di spiegarle a un’altra persona». Spiegare, farsi capire, significa anche entrare in sintonia con l’ascoltatore. Si spiega bene qualcosa che si è capito bene, e viceversa, grazie a un atteggiamento empatico, che sembra contrastare con il carattere
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schivo del personaggio, che è invece connaturato al suo metodo. «Lei conosce i miei metodi, Watson. Mi misi nei panni di quell’uomo e, dopo averne calcolato l’intelligenza, cercai di immaginare come avrei agito io in circostanze analoghe». Holmes lo definisce «il valore dell’immaginazione (…) Noi abbiamo immaginato cosa poteva essere accaduto, abbiamo agito di conseguenza, e i fatti ci hanno dato ragione». D’altra parte ha sangue d’artista nelle vene: la nonna era sorella del pittore francese Vernet.
IL «PARADIGMA INDIZIARIO» A questo punto avrete intuito perché Sherlock Holmes sia entrato da molto tempo nel raggio d’interesse degli archeologi, da quando, nei trascorsi anni Ottanta, si accese il dibattito sul «paradigma indiziario». L’espressione, coniata dallo storico Carlo Ginzburg, definisce un modello di conoscenza storica basato sulla ricerca e interpretazione degli indizi, figlio di un «antico sapere venatorio e della capacità sviluppata dall’uomo preistorico di decifrare le tracce delle prede». Nella discussione che ne seguí Andrea Carandini osservò che il paradigma indiziario, piú intuitivo, e quello scientifico, piú razionale, «si incontrano e scontrano in ogni campo del sapere». L’indagine stratigrafica opera in modo rigoroso, affine a quello del chirurgo, ed è anch’essa una forma di ricerca storica, dove l’abilità del cacciatore o del divinatore servono, ma occupano ruoli marginali. D’altra parte, c’è indizio e indizio. C’è quello unico e irripetibile e quello che si dispone in serie, diffuse nel tempo e nello spazio. Questo genere di indizi coinvolge necessariamente l’ambito dell’archeologia, che si basa sull’osservazione di tracce, di frammenti, apparentemente
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scollegati fra di loro, che ha il compito di ricondurre a un sistema, a un contesto, a una complessità di relazioni che renda gli indizi «comprensibili». Certo, attraverso quella capacità propria del metodo tipologico di riportare le singole individualità come i singoli eventi all’interno di gruppi, forme, tipi secondo regole dichiarate e condivise, che permettono ad apparenti inezie di diventare enormità (Carandini). Se a Sherlock Holmes basta una semplice pipa per risalire al colpevole, all’archeologo serve ogni indizio riportato a sistema per compensare le tante tessere mancanti dal puzzle che cerca di ricostruire. Per provare a collegare quel che resta a quel che può essere andato perduto: la fragilità delle presenze alla mole delle assenze. Per questo l’archeologo ha bisogno di empatia con il mondo che ricrea, per giocare sul crinale che distingue il vero dal verosimile, come nelle migliori fiction, provando a «inventare il vero» come suggeriva genialmente Giuseppe Verdi. Insomma, l’archeologia è una forma di conoscenza dai forti connotati creativi, che formula ipotesi a partire da una sequenza di indizi scientificamente osservati per giungere a definizioni difficilmente provabili, anche se probabili. Che cosa ne avrebbe pensato Conan Doyle? La sua idea di archeologia appare a prima vista piuttosto antiquata: «È una specie di rito, proprio della nostra famiglia, – fa dire a uno dei suoi personaggi – una cosa di interesse privato e, forse, di una certa importanza per un archeologo, ma priva di ogni valore pratico». Eppure Holmes ha passato la vita a studiare gli esseri umani, tanto da essersene quasi stancato, quando aspirava a dedicarsi finalmente per intero alle sue ricerche chimiche, apparentemente cosí lontane dall’uomo e dalla natura. Studiando
Sir Arthur Conan Doyle nel 1910. i dettagli, Holmes ha «scavato esseri umani», come disse di sé, mezzo secolo piú tardi, il grande archeologo Mortimer Wheeler. Come ogni archeologo o storico, Sherlock Holmes non solo «aveva in orrore il solo pensiero di distruggere un documento», ma usava il metodo archeologico per controllare l’apparente contraddittorietà delle fonti, come quando modernamente osserva che «al centro della parte vecchia, sul portone basso, è incisa la data 1607, ma gli esperti concordano nel ritenere che le travature risalgano, in realtà, a molti anni prima». D’altra parte, come poteva essere diversamente? «Nei primi tempi in cui ero a Londra – ci dice – abitavo a Montague Street, proprio dietro l’angolo del British Museum». Le citazioni nel testo sono tratte dai seguenti racconti di Arthur Conan Doyle: L’enigma di Reigate, La faccia gialla, L’impiegato dell’agenzia di cambio, L’interprete greco, Il mistero della Gloria Scott, Il paziente interno, Il rituale dei Musgrave, Silver Blaze, Il trattato navale, L’ultima avventura, editi in Le memorie di Sherlock Holmes (Milano, RCS 2002).
QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli
... CHIUDEVA LE PORTE DEL SACELLO DI GIANO AL DIO BIFRONTE ERA DEDICATO UN LUOGO DI CULTO DI CUI ANCORA OGGI SI IGNORA L’UBICAZIONE. È INVECE CERTO CHE ESSO ACCOGLIEVA UN RITRATTO DELLA DIVINITÀ, FISSATA IN UNA POSA ALL’APPARENZA SINGOLARE E CHE INVECE NE RIBADISCE LA NATURA DI SIGNORE DEL TEMPO E DELL’ETÀ
A
gli abitanti dell’antica Roma capitò assai di rado di vedere chiuse le porte del Sacello di Giano. Esse, infatti, come succedeva in tempo di guerra, erano normalmente aperte. Al punto che Augusto, nelle sue Res gestae (part. III), poté vantarsi di averle fatte chiudere con la stessa enfasi usata per altre «imprese»: «Per tre volte, durante il mio principato, il Senato decretò che si dovesse chiudere il Sacello di Giano Quirino, che i nostri avi vollero fosse chiuso quando per tutto l’impero del Popolo Romano, in terra e in mare, fosse assicurata, con le vittorie, la pace». Lo stesso Augusto non mancò di precisare come, prima che lui nascesse, «a partire dalla fondazione della città», quelle porte fossero state chiuse solo due volte. A dire il vero, Tito Livio ne ricorda una soltanto (I, 19), quella del 236 a.C., durante il consolato di Tito Manlio e Caio Atilio, dopo la fine della prima guerra punica, e dà come seconda quella successiva alla vittoria di Ottaviano su Antonio e Cleopatra, ad Azio, nel 31 a.C., della quale fu egli stesso testimone: «E questa gli Dèi hanno concesso di vedere ai nostri tempi». Poi, però, stranamente, lo storico ignora la chiusura del 25 a.C. e anche la terza, non meglio indicata, sicché gli
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studiosi moderni hanno ipotizzato che Livio le abbia considerate tutte e tre, cosí ravvicinate tra loro, come un unico evento.
DIO DEL PASSAGGIO Il Sacello di Giano era un «monumento» del tutto speciale. Non si trattava di un tempio nel senso tradizionale (come invece talvolta si ripete), bensí di due grandi porte ad arco a due battenti (donde il nome di Ianus Geminus), contrapposte a una certa distanza e tra loro collegate da due pareti, dotate in alto di lunghe e basse «finestre» chiuse da grate, che racchiudevano uno spazio aperto percorribile occupato da una statua del dio che presiedeva ogni «passaggio», di stato, di tempo e di luogo. Qui accanto: rovescio di un sesterzio neroniano con la raffigurazione del Sacello di Giano. 66 d.C.
A destra: Augusto ordina la chiusura delle porte del Tempio di Giano, olio su tela di Louis Boullogne il Giovane. 1681 circa. New York, Rhode Island School of Design Museum.
Nell’accurata descrizione lasciataci da Procopio (Bell. Goth. I, 25) e relativa all’ultima fase di vita del sacello, quello spazio era quadrangolare, grande quanto necessario a ospitare il sacro simulacro, «in tutto simile a un uomo, tranne che ha una doppia faccia». Le porte erano rivolte, rispettivamente, a est e a ovest, e l’intera costruzione era rivestita di
lastre di bronzo. Forse piú volte restaurato, mantenendo verosimilmente sempre lo stesso aspetto, fino al VI secolo d.C., noi, comunque, il Sacello di Giano, lo conosciamo com’era di sicuro nella prima età imperiale. E ciò, attraverso la raffigurazione che ne appare su alcune monete commemorative (aurei e sesterzi) emesse negli anni 65/66 d.C. da
Nerone, uno dei pochi che poté permettersi la chiusura delle sacre porte avendo «assicurato la pace in terra e in mare» («pacem per terram marique parta»), come sta scritto su quelle monete, con la stessa formula usata da Livio. È singolare poi che lo stesso aspetto del sacello cosí documentato sia stato dato a una urnetta cineraria ritrovata a Chiusi
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In basso: bronzetto etrusco del dio Culsans. III-II sec. a.C. Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona. L’atteggiamento delle mani e delle dita è la prova del sistema di conto descritto da vari autori romani.
In alto: urna cosiddetta «a palazzetto», la cui sagoma riproduce l’aspetto del Sacello di Giano, da Chiusi, I sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.
(ora al Museo Archeologico di Firenze), che viene comunemente – ma erroneamente – ritenuta la «riproduzione» di un peraltro inesistente tipo di casa «a palazzetto» e che – a prescindere dal coperchio (indispensabile nell’urnetta), a forma di tetto displuviato (che nel sacello non c’era) – si spiega invece facilmente, in una suppellettile funebre, con il richiamo a un monumento dedicato al dio delle porte e all’idea del «passaggio» dalla vita terrena a quella dell’aldilà.
I GIORNI DELL’ANNO Quanto alla statua, essa era di bronzo, alta «non meno di cinque cubiti», come scrive Procopio, cioè poco piú di 2 m. Plinio il Vecchio c’informa (N.H. XXXIV, 33 segg.) che essa aveva le mani atteggiate in modo da indicare
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i 365 giorni dell’anno e da qualificarsi, pertanto, come il «dio del tempo e dell’età». Macrobio, d’altra parte (Sat. I 9, 7), precisa che la mano destra della statua indicava il numero 300 e la sinistra il 65. Sembrano, queste ultime, notizie di fantasia e molti studiosi, pur riconoscendo del tutto plausibile che un simulacro di Giano, dio dell’inizio e della fine, indicasse in qualche modo la durata di un anno, come tali le hanno prese. Invece esse sono degne di fede. Il singolare atteggiamento delle mani di cui parlano i due autori si spiega rifacendosi alla pratica della indigitatio, molto diffusa presso gli antichi e usata normalmente (fin dai banchi di scuola) per fare calcoli e indicare i numeri con le mani e le dita (e qualche particolare atteggiamento del corpo).
Le fonti sono esplicite al riguardo. Basterebbe citare il passo del Miles gloriosus di Plauto (atto II, scena II) in cui si parla di un tale che «conta con le dita della mano destra mentre la sinistra è poggiata sull’anca corrispondente». O un brano della Vita di Claudio, di Svetonio (XXI), in cui si legge che l’imperatore, in occasione dei pubblici giochi, «contava le monete d’oro offerte ai vincitori a voce alta e con le dita della sinistra protesa, come tutti».
IL BRONZETTO CHE SVELA IL MISTERO Della indigitatio non sappiamo molto altro. Solo informazioni frammentarie (come quella riportata da Giovenale, secondo la quale le centinaia e le migliaia venivano indicate con la mano destra) e quanto si apprende da un trattato di epoca altomedievale, che però si rifà certamente a fonti piú antiche. E si conoscono anche gettoni d’avorio che su una faccia recano inciso un numero in cifre e sull’altra la raffigurazione di una mano con le dita poste in posizioni diverse. Ma c’è, soprattutto, uno straordinario bronzetto etrusco, che sembra l’«illustrazione» di quanto affermano Plinio e Macrobio. Ritrovato nel 1849 a Cortona (nei pressi di una delle porte urbane della città), alto una trentina di centimetri e databile tra il III e il II secolo a.C., esso raffigura il dio Culsans (come è scritto in una dedica incisa sulla coscia sinistra), che corrisponde al Giano romano, compresa la caratteristica doppia faccia. Ebbene, il dio ha le mani atteggiate in modo del tutto singolare: la destra è protesa in avanti, con il dito indice disteso orizzontalmente e il pollice appoggiato sulle restanti tre dita,
In basso: profilo del bronzetto di Culsans che ne evidenzia la caratteristica doppia faccia, analoga a quella del Giano romano. III-II sec. a.C. Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona.
chiuse a pugno; la sinistra, invece, mostra il pollice, l’indice e il medio vistosamente, ma anche... innaturalmente, distesi e divaricati e appoggiati a sfiorare il fianco della figura, mentre le altre due dita sono ripiegate su se esse. È davvero qualcosa di molto simile (anche se in parte rovesciato) a quanto descritto per la statua romana che nel bronzetto cortonese trova, quindi, se non una replica, almeno uno stringente parallelo e un inatteso, ma puntuale richiamo.
AI PIEDI DELL’ESQUILINO Recuperato in tal modo anche l’aspetto che doveva avere il simulacro divino, resta aperto il problema dell’ubicazione del Sacello. Sappiamo infatti che esso doveva trovarsi vicino al Foro Romano, dietro la Curia, come scrive Cassio Dione (LXXXIV 13, 3); «sub radicibus collis Viminalis», come assicura Macrobio (che parla di Porta Ianualis: Sat. I 9); «ad infimum Argiletum», come attesta Tito Livio (I, 19), cioè nei pressi della parte «piú bassa» dell’Argileto, il «quartiere» che si estendeva proprio ai piedi dell’Esquilino (e del Quirinale), tra la Suburra e il Foro (e a spese del quale furono realizzati i Fori di Cesare e di Augusto). Lí lo aveva fatto costruire, ai primordi di vita della città, il re Numa Pompilio, nel luogo che un tempo aveva segnato il confine tra il territorio abitato dai Latini del Palatino e quello occupato dai Sabini del Quirinale. Purtroppo, quel luogo non siamo in grado di precisarlo ulteriormente, dal momento che, a oggi, nessun resto attendibile è stato mai ritrovato dell’antico monumento. Né risulta convincente qualche proposta avanzata in proposito dagli studiosi. Sicché quello della localizzazione del Sacello di Giano resta un problema aperto.
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SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti
SMENTIRE I LUOGHI COMUNI LA PUBBLICAZIONE DEGLI ATTI DI UN CONVEGNO DEDICATO ALL’ARCHEOLOGIA DELLA PRODUZIONE A ROMA HA CONTRIBUITO A DEFINIRE MEGLIO IL QUADRO STORICO E CULTURALE DELL’URBE NELL’ALTO MEDIOEVO, NON SENZA SORPRESE...
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a rivoluzione informatica ha fornito e fornisce alla ricerca strumenti nuovi e importanti. Tra questi c’è sicuramente la possibilità concreta di creare e gestire banche-dati di grandi dimensioni, magari collegate con un sistema informativo territoriale (e quindi ancorate alla cartografia). Naturalmente l’indagine archeologica è un settore privilegiato per l’applicazione di questa novità, che sta prendendo sempre piú piede, e con risultati notevoli. Un esempio recente è la banca dati sull’archeologia della produzione nella Roma medievale, allestita da docenti e studenti delle Università di Roma-Tor Vergata e RomaTre, in collaborazione con le Soprintendenze (comunale e statale) di Roma. È un grande progetto, questo, innanzitutto per quanto riguarda la sua mole: finora sono state raccolte piú di seicento notizie sulle attività produttive
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svolte a Roma tra il V e il XV secolo, dei tipi piú disparati. Per intenderci, si va dalle spoliazioni e dal riuso dei materiali edilizi dei monumenti antichi, alla produzione di oggetti in ceramica, vetro, metallo, osso, e molto altro ancora.
VERIFICARE I DATI E poi, si tratta di un grande progetto per come è stato ben concepito e realizzato: perché se è vero che viviamo nell’epoca dei «big data», e che l’accumulazione dei dati per grandi numeri è sicuramente utile a far progredire la ricerca, è altrettanto vero che i dati, mentre vengono accumulati e archiviati, devono essere accuratamente verificati, per evitare equivoci, informazioni dubbie e altri possibili inconvenienti che porterebbero a elaborazioni errate. E in questo
progetto la qualità è altissima, come ha dimostrato un convegno tenutosi a Roma nel 2014, del quale sono stati di recente pubblicati gli atti. Il libro è una vera e propria miniera di informazioni, che ci conduce attraverso un lungo arco di tempo a toccare con mano, e nel dettaglio, le modalità del lavoro artigianale in una delle città piú grandi e importanti del Medioevo europeo. Grazie ai dati archeologici emersi in piú di cento anni di ricerche seguiamo per esempio l’evoluzione delle produzioni della ceramica, dalla cosiddetta Forum Ware (l’invetriata altomedievale) fino ai contenitori rivestiti di smalto e dipinti, come la splendida maiolica arcaica. Oppure è possibile sfatare alcuni luoghi comuni consolidati, come il fatto che le tintorie (fulloniche) non potevano trovarsi in città perché generavano cattivi odori… Piú in generale, due aspetti – collegati tra
A destra: Roma. Veduta di piazza Venezia: sulla destra, si vede l’area in cui sono stati rinvenuti i resti della biblioteca di Adriano denominata Athenaeum. Nella pagina accanto: esemplari di ceramica invetriata (Forum Ware) provenienti dal Foro Romano. VIII-X sec. d.C.
loro – emergono in maniera molto chiara. Il primo è che Roma non ha mai smesso di essere una grande città, con una popolazione sempre numerosa, continuamente accresciuta dall’afflusso dei pellegrini. Il che ha sempre generato una sostanziosa domanda di produzioni artigianali. E il secondo elemento è che gli abitanti della città si sono sempre ben differenziati tra loro, nell’ambito della scala sociale: in poche parole, non hanno mai smesso di esistere – neanche nei periodi piú difficili – un’aristocrazia, un ceto medio e uno inferiore. Ecco perché non è mai cessata, accanto a una produzione di oggetti a basso e medio costo, un’industria dedicata a realizzare oggetti di alta qualità e di lusso. Questo si vede molto bene nel settore dell’oreficeria, per esempio, cosí come nel campo della produzione delle iscrizioni (funerarie e non). E poi c’è il reimpiego, una costante a Roma anche piú che altrove, un’industria molto redditizia: del resto, con una eredità del passato cosí cospicua, fatta di monumenti, marmi, mosaici, statue e tegole in bronzo e
molto, molto altro ancora, non avrebbe potuto essere altrimenti. Inoltre, il fatto che i dati raccolti siano in relazione con la topografia della città, con il suo tessuto, è veramente fondamentale per il progresso della ricerca.
DAI LIBRI ALLE FORNACI Ne sono un esempio efficace gli ultimi ritrovamenti avvenuti presso piazza della Madonna di Loreto, accanto a piazza Venezia. Lí dove c’era una grande biblioteca fatta costruire dall’imperatore Adriano, l’Athenaeum, gli scavi hanno rivelato qualcosa che non sapevamo altrimenti: nel corso del VI secolo viene installata una grande officina che ospita numerose fornaci per la lavorazione del metallo. Siamo molto probabilmente (direi quasi sicuramente) in presenza della nuova sede della zecca di Roma: un edificio statale, di grandissimo rilievo istituzionale. E questo è un dato importante per capire cosa succede nella città dopo la fine del mondo antico: evidentemente il riuso dei monumenti antichi era molto spesso programmatico, e
organizzato. A volte diventavano cave a cielo aperto, per il recupero dei materiali edilizi, mentre in altre occasioni venivano reimpiegati, cambiandone radicalmente le funzioni. Ed ecco che si attenua sensibilmente l’idea di un Alto Medioevo come regno del «Do it yourself», una sorta di regime di anarchia, nel quale ognuno si appropria come e quanto può dei resti del passato; e capiamo che invece le scelte erano molto spesso indirizzate, volute dalle autorità preposte, e anche bene organizzate, pianificate a tavolino.
PER SAPERNE DI PIÚ Alessandra Molinari, Riccardo Santangeli Valenzani, Lucrezia Spera (a cura di), L’archeologia della produzione a Roma (secoli V-XV), Atti del Convegno Internazionale di Studi (Roma 27-29 marzo 2014), Collection de l’École française de Rome 516, Edipuglia, Bari 2017
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
DOPPIA IDENTITÀ LA DUPLICITÀ INSITA NEL SEGNO ZODIACALE DEI GEMELLI NON È DOVUTA SOLTANTO ALLA PRESENZA DI UNA COPPIA DI PERSONAGGI, MA ANCHE ALLA PROPOSTA DI DUE DIFFERENTI IDENTIFICAZIONI
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ell’opera dell’umanista e filosofo toscano Marsilio Ficino (1433-1499), personaggio di spicco nella temperie culturale fiorentina dell’età medicea, occupa un posto di rilievo lo studio degli astri e della loro influenza sull’esistenza umana. Il De vita, dedicato a Lorenzo il Magnifico e composto fra la primavera e l’estate del 1489 in tre tomi, propone una visione del
mondo nel quale la salute fisica e psichica dell’uomo si amalgamano con la filosofia, la magia e l’astrologia: tutte concorrono a realizzare il benessere spirituale dell’essere umano, inserito in un contesto cosmico che lo influenza e che la conoscenza può tentare di rendere favorevole. Lo scritto, che si rivela ancora oggi di grande interesse, procurò a Ficino non A sinistra: particolare di una stampa raffigurante il segno dei Gemelli, ripreso da un monumento mitraico del II sec. d.C.
pochi problemi con la Chiesa: contro di lui venne infatti sollevata presso la Curia l’accusa di essere un mago. Nel terzo libro dell’opera, il De vita coelitus comparanda (Come ottenere vita dal cielo), l’autore propone la sua visione
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sull’influsso degli astri sui destini umani e la possibilità di volgerli al meglio attraverso lo studio e la padronanza dell’astrologia, che può rendere l’uomo sapiente veramente libero.
L’ANIMA DEL MONDO Il tutto inserito entro un esemplare sincretismo rinascimentale tra conoscenze antiche, ermetismo, filosofia neoplatonica e cristianesimo, nel quale emerge il concetto platonico dell’Anima del Mondo, afflato universale e cosmico che riunisce in sé tutti gli esseri: «L’Anima mundi infatti ha costruito in cielo, oltre gli astri, le figure astrali e le parti delle figure, tali che esse stesse diventano figure [i segni zodiacali]; e ha impresso in tutte queste figure determinate proprietà» (De vita coelitus comparanda, 1). La sapienza che Marsilio Ficino racchiude nella sua opera, al pari di quella che si può ritrovare fra gli intellettuali del suo tempo che s’ispiravano al neoplatonismo – entusiasmati dalla riscoperta ampia e ammirata del mondo classico –, derivava, dal punto di vista filologico, da ciò che si era salvato dell’antica letteratura specifica e certo anche dal materiale archeologico che copioso ritornava alla luce. In particolare, a partire dal XIV secolo, suscitò grande interesse la numismatica antica e si può supporre che la serie alessandrina dello Zodiaco, battuta sotto Antonino Pio, fosse conosciuta agli umanisti-astrologi, magari suggestionandoli nei loro studi. Il mese di giugno è dedicato ai Gemelli, costellazione distinta da due stelle brillanti di quasi pari intensità, che già lo scienziato greco Eratostene (276-194 a.C. circa) aveva denominato Castore e Polluce (Catasterismi, 10), i divini gemelli che la tradizione identifica perlopiú come figli di Giove e Leda,
A destra: pagina di un esemplare del De vita di Marsilio Ficino. XVII sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Nella pagina accanto, a destra: dracma in bronzo di Antonino Pio. Zecca di Alessandria, 144 d.C. circa. Al dritto, il busto dell’imperatore; al rovescio, Apollo con la lira ed Eracle con la clava sormontati dal busto di Mercurio.
Dida digendis poreic tem iust et qui dus eicat pratia dita que omnis nem videlessent aut ut volorat emporit iostia quiasintiur alitatem denimol orepero enihici dellat eicatur? Modi beribus aperior possimos reiciUcil et autectempos sunt illitas
donna mortale alla quale il dio si era unito sotto forma di cigno e dalla cui unione nacque anche Elena, la bellissima, involontaria causa della guerra di Troia. Il loro esemplare amore fraterno fu premiato da Zeus con la trasformazione dei giovani in astri.
appaiono dominati dal pianeta Mercurio, che sovrasta due personaggi in nudità eroica, che non sono però i Dioscuri, bensí Ercole, con la sua clava, e Apollo, con la sua cetra. Esiste, infatti, una versione alternativa, che identifica nella coppia astrale le due divinità, anch’esse figlie di Giove, ma di madre diversa: Ercole, infatti, era nato dalla mortale Alcmena, mentre Apollo, con la sorella Artemide era il frutto dell’amore con Latona, della stirpe dei Titani. Nel suo Astronomica (II, 22, Gemelli), il mitografo Igino riporta entrambe le versioni riguardo l’origine del segno celeste, e Claudio Tolomeo (II secolo d.C.), nel suo Tetrabiblos (9), rigoroso testo alla base dell’astrologia classica, denomina le due stelle splendenti della costellazione come «Apollo» ed «Eracle», e cosí rappresentati compaiono anche in alcune moderne carte del cielo.
PROTETTORI DEI CAVALIERI Le fonti antiche specializzate nei catasterismi (l’origine mitica delle stelle e costellazioni) riferiscono ampiamente del segno dei Gemelli, con le sue due stelle vicine e luminose che si guardano, e di regola le ricollegano ai divini fratelli, protettori dei cavalieri e simbolo stesso della perfetta gagliardía classica. Essi ricorrono sovente nella monetazione romana, nella consueta iconografia in nudità eroica, con manto sulle spalle ed eventuale cavalcatura a fianco. Nella serie alessandrina battuta sotto Antonino Pio, i Gemelli
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Massimo Vidale, Alessandra Lazzari (a cura di)
LAPIS LAZULI BEAD MAKING AT SHAHR-I SOKHTA Edizioni Antilia, Treviso, 380 pp., ill. b/n 35,00 euro ISBN 978-88-97336-56-3 www.edizioniantilia.it
La scoperta e la successiva esplorazione del sito di Shahr-i Sokhta, nel Sistan-Baluchistan (Iran orientale), costituiscono uno dei maggiori meriti dell’archeologia italiana. L’avventura, avviata agli inizi degli anni Settanta, ha coinvolto anche Massimo Vidale – autore ben noto ai lettori di «Archeo» –, che ora, con Alessandra Lazzari, presenta i risultati della ricerca condotta su una delle categorie di reperti piú signifcative fra quelle restituite dal sito: gli strumenti e le perle in lapislazzuli. Il volume, di taglio specialistico (e redatto in lingua inglese), corona un lavoro che si è protratto per molti
anni e che, come si legge nelle pagine introduttive, ha dovuto superare non poche difficoltà, molte delle quali legate, purtroppo, alle travagliate vicende dell’IsMEO, l’istituto a cui si devono le prime ricerche a Shahr-i Sokhta. In una dozzina di capitoli vengono quindi esaminati tutti gli aspetti legati al reperimento, alla lavorazione, all’uso e alla diffusione dei manufatti. Ne emerge un quadro assai articolato e affascinante, anche perché la problematica affrontata implica un’analisi non soltanto archeologica e coinvolge, per esempio, questioni di carattere etnologico o paleotecnologiche. Da segnalare, infine, la breve appendice dedicata ai piú recenti ritrovamenti di lapislazzuli che hanno avuto luogo nel sito. Luigi Todisco
PRASSITELE DI ATENE Giorgio Bretschneider Editore, Roma, 148 pp. + XXVI tavv. b/n 45,00 euro ISBN 978-88-7689-301-8 www.bretschneider.it
Scrive Luigi Todisco che dell’opera di Prassitele, uno dei massimi maestri dell’arte antica, in assenza di originali e dovendosi perciò basare su copie posteriori e sulla documentazione epigrafica, si è arrivati a una «ricostruzione ipertrofica». Un fenomeno scaturito anche dal fatto 112 a r c h e o
Oxford, 839 pp., ill. b/n 30,00 GBP ISBN 978-0-19-968647-6 www.oup.com
Quella dell’archeozoologo non è piú una figura misteriosa, poiché lo studio dei resti animali è divenuto prassi abituale nelle indagini sul campo e in laboratorio. Una realtà confermata dalla mole di questo nuovo Oxford Handbook che, in oltre che, per esempio, fra il III secolo a.C. e il I secolo d.C. hanno lavorato almeno altri quattro artisti di nome Prassitele, ma che con il piú celebre predecessore non hanno evidentemente nulla a che fare e che invece sono stati con lui spesso confusi. Muovendo da questo presupposto, l’autore ha dunque riesaminato l’intera documentazione a oggi nota, nel tentativo di stabilire cosa possa essere effettivamente assegnato al grande scultore e bronzista. La trattazione si apre con il profilo biografico del personaggio, per poi passare all’esame sistematico dei lavori a lui ascrivibili e delle testimonianze epigrafiche e letterarie. Il tutto, si potrebbe dire, cercando di «separare il grano dal loglio».
DALL’ESTERO Umberto Albarella (a cura di)
THE OXFORD HANDBOOK OF ZOOARCHAEOLOGY Oxford University Press,
800 pagine, offre una ricognizione sistematica dello stato dell’arte della materia. La trattazione è stata suddivisa in aree geografiche e, in ogni sezione, i contributi abbracciano un orizzonte cronologico molto ampio, che dalla preistoria spazia fino al Medioevo. Una rassegna ricca di spunti, nella quale non manca una finestra sull’Italia, grazie all’intervento di Jacopo De Grossi Mazzorin e Claudia Minniti sui mutamenti nel modus vivendi tra l’età del Ferro e la romanizzazione. (a cura di Stefano Mammini)