Archeo n. 389, Luglio 2017

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ROMA

SPOLETO UMBRA E ROMANA

LA MENORAH UN SIMBOLO SENZA TEMPO CERVETERI

GLI ETRUSCHI MAESTRI DI IDRAULICA

LE STATUE DI MALTA

SPECIALE

MISSIONE

MENORAH

EGITTO

UNA GRANDE MOSTRA A TORINO

CERVETERI SPECIALE MISSIONE EGITTO

FASCINO DELL’ARTE NEOLITICA

MALTA

www.archeo.it

IN EDICOLA L’8 LUGLIO 2017

eo .it

L’A RT M E N AL EO TA ww LIT w. IC a rc h A

2017

Mens. Anno XXXIII n. 389 luglio 2017 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 389 LUGLIO

CITTÀ TRA SPOLETO UNA UMBRI E ROMANI

€ 5,90



EDITORIALE

UN’ESTATE ITALIANA Suggerisco ai nostri lettori di considerare questo numero come una piccola guida per i mesi estivi. Prendiamo allora il via dal Nord della Penisola – e dallo Speciale di questo numero, alle pp. 80-103 –, per visitare il Museo Egizio di Torino (massima istituzione egittologica d’Europa e forse del mondo, non dimenticatelo!) per ripercorrere, non senza un pizzico di nostalgia, la grande epopea italiana delle prime missioni di scavo nel Paese del Nilo. Procediamo, poi, verso Spoleto e visitiamo – articolo alle pp. 30-42 alla mano – il Museo Archeologico Nazionale e il Teatro romano, protagonista, quest’ultimo, del Festival dei Due Mondi, che annualmente si svolge nella splendida città umbra. Dal cuore verde dell’Italia possiamo dirigerci poi verso la costa tirrenica, a Montalto di Castro, dove il Museo Civico della Scultura e dell’Arte Etrusca accoglie la mostra «Egizi Etruschi», di cui abbiamo riferito il mese scorso: il Museo si trova a pochi chilometri dal Parco Archeologico e Naturalistico di Vulci e colgo l’occasione per anticiparvi che la nuova guida al Parco, curata da «Archeo» in collaborazione con la Fondazione Vulci, sarà disponibile dal prossimo mese di agosto. Rimaniamo in terra etrusca e spostiamoci qualche decina di chilometri piú a sud, per entrare nella leggendaria Cerveteri, oggetto di recenti indagini che riguardano un tema di grande attualità: i sistemi escogitati dagli Etruschi per l’approvvigionamento idrico della loro città (vedi alle pp. 68-79). È giunto il momento di fermarsi a Roma, dove i gloriosi monumenti del suo passato imperiale fanno da cornice a una mostra di grande fascino, allestita ai Musei Vaticani e al Museo Ebraico di Roma e dedicata a un reperto archeologico «virtuale», scomparso per sempre piú di millecinquecento anni fa, ma oltremodo presente grazie a innumerevoli raffigurazioni che, nei secoli, ne hanno mantenuto la memoria (vedi alle pp. 60-67). Lasciamo il Vaticano e rechiamoci ora alla stazione Termini per prendere il treno in direzione Napoli, dove al Museo Nazionale Archeologico (per gli amici MANN, vedi anche l’intervista al suo direttore Paolo Giulierini, alle pp. 16-18) andiamo a visitare le due mostre in corso: quella intitolata «Amori divini» (ne parleremo diffusamente in un prossimo numero) e il bellissimo racconto di un «Mondo che non c’era», offerto dagli spettacolari reperti precolombiani della Collezione Ligabue, arricchita di importanti novità, rispetto alla prima tappa espositiva fiorentina (vedi «Archeo» n. 369, novembre 2015). A chi dei nostri lettori abbia la tempra per sfidare un caldo ancor piú «africano» di quello che imperversa mentre scriviamo, consigliamo davvero di prendere il traghetto o l’aereo e raggiungere la vicina isola di Malta. Lí potrà immergersi in un incredibile universo mitico e archeologico, popolato da un vero e proprio «esercito» di misteriose statue neolitiche. Per convincersene basta sfogliare l’articolo di Isabelle Vella Gregory, alle pp. 44-59. Buona lettura, buon viaggio e buona estate! Andreas M. Steiner

Cerveteri, necropoli della Banditaccia. Una tipica tomba etrusca a tumulo: simili monumenti funerari erano appannaggio delle classi piú abbienti della comunità.


SOMMARIO EDITORIALE

Un’estate italiana 3 di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

Napoli: ne parliamo con il direttore, Paolo Giulierini

MOSTRE 16

MUSEI

Fra Umbri e Romani 30 8

RESTAURI Aperta al pubblico dopo il restauro la Tomba dei Demoni Azzurri di Tarquinia, uno dei piú enigmatici monumenti della pittura etrusca 8 ALL’OMBRA DEL VULCANO Il fregio dipinto proveniente dai praedia di Giulia Felice restituisce una vivida «fotografia» della vita che ogni giorno animava il Foro di Pompei 10 PAROLA D’ARCHEOLOGO Una replica in scala dello Zeus di Olimpia è stata restituita dagli USA all’Italia e verrà esposta nel Museo Archeologico Nazionale di

a cura di Maria Angela Turchetti, con testi di Maria Angela Turchetti, Joachim Weidig, Nicola Bruni e Anna Riva

30

«Farai un candelabro d’oro puro» 60 di Andreas M. Steiner

60 ETRURIA

Maestri di idraulica

68

di Vincenzo Bellelli

MALTA

La forma e lo sguardo

44

di Isabelle Vella Gregory

44 68 In copertina cartellone pubblicitario della compagnia ferroviaria Paris-Lyon-Méditerranée. 1927. Torino, Collezione Soleri.

Anno XXXIII, n. 389 - luglio 2017 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Amministrazione: Roberto Sperti

amministrazione@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti,

Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Vincenzo Bellelli è ricercatore presso l’ISMA (Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico) del CNR. Pio Bersani è geologo. Nicola Bruni è archeologo. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Angelo Canalini è geologo presso il Dipartimento SIMU, Roma Capitale. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Walter Dragoni è professore di idrogeologia all’Università di Perugia. Roberto Farinelli è ricercatore e professore aggregato di archeologia cristiana e medievale all’Università di Siena. Alessia Fassone è curatore del Museo Egizio di Torino. Daniela Fuganti è giornalista. Christian Greco è direttore del Museo Egizio di Torino. Maria Cristina Guidotti è direttore del Museo Egizio di Firenze. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Egle Micheletto è soprintendente Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Alessandria, Asti e Cuneo. Beppe Moiso è curatore e responsabile dell’Archivio del Museo Egizio di Torino. Federico Poole è curatore del Museo Egizio di Torino. Anna Riva è archeologa. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Maria Angela Turchetti è direttrice del Museo Archeologico Nazionale di Spoleto. Isabelle Vella Gregory è dottore di ricerca in archeologia. Joachim Weidig è ricercatore presso l’Albert-Ludwiges Universität di Friburgo, Germania. Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio stampa Museo Egizio, Torino: copertina (e p. 80) e pp. 80-87, 90-99, 100/101 (alto), 102/103 – Doc. red.: pp. 3, 61, 62, 65 (alto e p. 60), 100, 100/101 (basso), 103, 104 (alto), 105-106 – Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale: pp. 8-9; foto Rita Cosentino: p. 79 (alto) – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 10-11 – Cortesia degli autori: pp. 14-15, 30-42, 110-111 – Cortesia Museo Archeologico Nazionale di Napoli: p. 16 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 18, 20, 60/61, 63, 64, 65 (basso), 66-67, 108-109 – Daniel Cilia, Heritage Malta: pp. 44-59 – Archivio CNR-ISMA: pp. 68, 71, 74 (basso), 75 (sinistra e destra); foto Marcello Belisario: pp. 70 (basso), 74 (alto), 77, 79 (basso) – Archivi Alinari, Firenze: Folco Quilici: p. 69 – Vincenzo Bellelli: pp. 70 (alto), 72-73, 76 – Getty Images: DeA Picture Library: p. 75 (centro) – Cortesia Maria Antonietta Rizzo: pp. 76/77 – Cortesia Walter Dragoni: p. 78 –


Rubriche QUANDO L’ANTICA ROMA... ...arrivò con le sue legioni in Georgia

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di Romolo A. Staccioli

80 SPECIALE

Rivelazione Egitto

80

testi di Alessia Fassone, Christian Greco, Maria Cristina Guidotti, Egle Micheletto, Beppe Moiso e Federico Poole

104 SCAVARE IL MEDIOEVO

Il racconto dell’archeologia 108 di Andrea Augenti

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Il granchio di Giunone

LIBRI

Mondadori Portfolio: Leemage: pp. 88-89 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 104. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Editore: My Way Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Concessionaria per la pubblicità extra settore: Lapis Srl Viale Monte Nero, 56 - 20135 Milano tel. 02 56567415 - 02 36741429 e-mail: info@lapisadv.it Pubblicità di settore: Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com tel. 335 8437534 Direzione, sede legale e operativa Via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano tel. 02 00696.352 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa: NIIAG Spa - Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo

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di Francesca Ceci

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Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18 ] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 E-mail: collez@mondadori.it Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti casella postale 1879, 20101 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, Via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


n otiz iari o RESTAURI Tarquinia

UNA NUOVA VISIONE DELL’ALDILÀ

L

a ricca offerta turistica di Tarquinia si è arricchita ulteriormente con l’inserimento, nel percorso di visita della necropoli etrusca di Monterozzi, della Tomba dei Demoni Azzurri, scoperta accidentalmente nel 1985 durante i lavori per la posa dell’acquedotto comunale. Già all’indomani del ritrovamento, il monumento era entrato nel dibattito scientifico per l’interesse e la complessità delle pitture presenti al suo interno. Per contro, a causa dei complessi interventi di cui necessitava l’area all’intorno, non era stato ancora reso visitabile. La tomba è dotata di un lungo dromos (corridoio di accesso) ed è costituita da un’unica camera di sepoltura, scavata nel terreno e decorata da pitture che sorprendono per la loro qualità e originalità. In esse si alternano temi trattati di frequente, come il banchetto o il viaggio del defunto

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Sulle due pagine: Tarquinia (VT), necropoli di Monterozzi, Tomba dei Demoni Azzurri. Decenni finali del V sec. a.C. A destra: un demone dalle carni azzurre che tiene due serpenti nelle mani. In basso: i due musici che accompagnano il defunto nel viaggio ultraterreno.

verso l’aldilà, ad altri piú innovativi. Vi è raffigurata, infatti, la prima rappresentazione etrusca dell’oltretomba introdotta da un

Caronte che traghetta le anime governando, con un lungo remo, una barca rossa che si muove lentamente sulle acque azzurre dell’Acheronte. La Tomba dei Demoni Azzurri rappresenta una scelta rivoluzionaria nella pittura etrusca per ragioni iconografiche e ideologiche e di conseguenza la sua datazione è stata complessa: le proposte hanno oscillato tra la metà del V secolo a.C. e la seconda metà del successivo. Ora un (quasi) accordo sembra essersi trovato su una collocazione nei decenni finali del V secolo a.C. Sulla parete a sinistra dell’ingresso è raffigurato il defunto in viaggio: sta in piedi, su una biga tirata da una coppia di cavalli; dietro di lui sono due danzatori, mentre lo precedono un altro danzatore e due


musici. Sembra chiudere questa scena e, al contempo, annunciare la successiva, un giovane coppiere nudo, raffigurato accanto a una tavola imbandita. La parete di fondo ospita una scena di banchetto: quattro sono le coppie di convitati, tre delle quali esclusivamente maschili, mentre la quarta mostra un uomo e una donna, nei quali si possono con ogni probabilità riconoscere il titolare della tomba e sua moglie mentre si scambiano una carezza affettuosa. La parete di destra è la piú innovativa: la introduce Caronte, quindi, appena approdati sulle sponde dell’Ade, sono due defunti: una donna ammantata e un giovinetto. Ad attenderli c’è un’altra donna, forse una parente morta in precedenza, preceduta da un demone dalla carne azzurra e seguita da un altro piú giovane e dall’incarnato bruno, che le cinge la vita e sembra trattenerne con forza lo slancio verso la defunta in arrivo. Altri due demoni sono presenti nella scena: uno, anch’esso con le carni azzurre, ha alcuni serpenti nelle mani; l’altro, con un incarnato nerastro, appare come il piú minaccioso. Su questa parete l’aria di attesa tranquilla, quasi di

riunione di famiglia, che si può osservare nelle tombe di epoca precedente, è assente: l’oltretomba è spaventoso. Le pitture della parete d’ingresso risultavano purtroppo danneggiate già al momento della scoperta: vi dovrebbero essere stati raffigurati o giochi funebri in onore del defunto, oppure una scena di caccia ambientata in un paesaggio roccioso. Lungo le pareti sono state notate tracce di chiodi che hanno fatto supporre la presenza di oggetti appesi e di ghirlande e festoni vegetali. Va segnalato che, nel corredo funerario, figurava un carro a due ruote. Maria Cataldi, l’archeologa protagonista della scoperta e del recupero del monumento, ha segnalato che le pitture appaiono tracciate quasi senza un disegno preparatorio su un intonaco molto spesso. Sono stati analizzati anche singoli personaggi: per il demone con i serpenti si è pensato al terrificante Eurinomo (un demone sotterraneo che divorava i cadaveri) e per l’altro alato e piú giovane a Hypnos (il Sonno). Le due donne sono state ricollegate a Demetra, la piú anziana, e a Persefone la piú giovane.

In alto: un’inquadratura piú allargata della pittura murale che raffigura il demone azzurro con i serpenti, in cui si vede anche il genio alato a cui è affrontato. Qui sopra: particolare della coppia di cavalli che traina la biga del defunto. Le pitture della Tomba dei Demoni Azzurri segnalano che le credenze religiose etrusche rispetto alla morte stavano cambiando e aprendosi a influenze religiose ed escatologiche di ordine dionisiaco ed eleusino. Giuseppe M. Della Fina

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

SCENE DAL FORO DA MENO DI UN ANNO MASSIMO OSANNA GUIDA LA SOPRINTENDENZA A CUI SPETTANO LA TUTELA E LA VALORIZZAZIONE DELLA CITTÀ VESUVIANA: CON LUI ABBIAMO TRACCIATO UN PRIMO BILANCIO E, SOPRATTUTTO, PASSATO IN RASSEGNA LE INIZIATIVE MESSE IN CANTIERE

«N

ella proprietà di Giulia Felice, figlia di Spurio, si affittano un bagno caldo degno del tocco di Venere e per gente di riguardo, poi si affittano tabernae con alloggi sovrastanti, appartamenti al primo piano (cenacula), dalle idi di agosto (13 agosto) fino a quando ricorrerà la stessa data per la sesta volta, cioè per cinque anni consecutivi». Con questo vero e proprio spot pubblicitario, dipinto sull’ampia proprietà affacciata su via dell’Abbondanza, l’astuta imprenditrice ante litteram Giulia Felice promuove la bellezza del luogo e la locazione di parte della sua splendida «villa urbana», ubicata in prossimità dell’anfiteatro di Pompei. Forse discendente da un ramo di liberti imperiali, Giulia

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aveva infatti pensato di ricavare una bella rendita dallo sfruttamento di diversi ambienti non utilizzati, soprattutto dopo che il violento terremoto del 63 d.C. aveva duramente colpito la città, mettendo fuori uso molti edifici e servizi pubblici, come le tanto amate terme.

QUATTRO NUCLEI Le proprietà di Giulia si formano alla fine del I secolo a.C. dall’accorpamento di precedenti costruzioni in un unico grande complesso, caratterizzato all’interno dalla prevalenza di spazi verdi. I praedia di Giulia Felice si organizzano intorno a quattro diversi nuclei, con ingressi indipendenti: una lussuosa casa ad atrio, un grande giardino su cui si

In alto: un settore dell’impianto termale nei praedia di Giulia Felice. In basso: il fregio con scene di vita nel Foro. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


aprivano vari ambienti residenziali, un impianto termale dotato di tutti i comfort e un parco lussureggiante. Giulia si dedicò cosí agli affari, affrettandosi ad attrezzare nel suo contesto alloggi e, in particolare, un bagno custodito, destinato a un pubblico selezionato.

PAN E IL SAPIENTE E, per abbellire locazioni e servizi, fece realizzare un raffinato porticato, scandito da esili colonne in marmo, un giardino con euripo (canale idrico), che creava una magica sensazione idillico-sacrale per la presenza In alto: l’elegante portico dei praedia di Giulia Felice, ora praticabile grazie alla passerella realizzata per assicurarne la fruizione. A sinistra: l’euripo che abbelliva il giardino della domus.

dalle immagini di Pan e del sapiente greco Pittaco di Mitilene – connesso com’era anche a una nicchia dedicata al culto orientale di Iside, oggi ricomposta al Museo Archeologico di Napoli, che, insieme al giardino, rievocava le atmosfere delle feste svolte lungo le rive del Canopo di Alessandria d’Egitto –, comodi quartierini per ospiti benestanti; il tutto arricchito da un unitario e vivace ciclo pittorico di IV stile. Dalle iscrizioni incise sui muri, si sa per esempio che alcuni frequentatori del complesso appartenevano al sodalizio dei giovani pompeiani che proprio lí

avevano il loro ginnasio con tutte le attrezzature per l’attività fisica. L’ingresso principale della residenza di Giulia Felice mostrava invece un’altra particolarità di questa proprietà. Sulle pareti dell’atrio era stato dipinto un lungo e originale fregio, nel quale si succedono scene di vita ambientate nel Foro di Pompei. La sequenza quasi «fotografica» delle attività quotidiane svolte nella principale piazza cittadina è anch’essa conservata al Museo di Napoli, dove fu trasferita dopo la scoperta, avvenuta durante i primi scavi condotti alla metà del Settecento. Le pitture forniscono

un’informazione autentica sulle professioni della Pompei del I secolo d.C. Fra gli ariosi portici del Foro, ornati da statue equestri, i cittadini si muovono fra venditori ambulanti di stoffe, bestiame, scarpe, utensili in ferro, stoviglie domestiche, pane e ortaggi, e poi le attività didattiche con maestri e scolari. Un lungo rotolo è affisso alla base di alcune statue e probabilmente esponeva le proposte di leggi per il periodo del trinundinum, ossia le tre settimane necessarie prima della loro approvazione. Il fregio di Giulia ci restituisce una straordinaria rappresentazione del Foro negli anni precedenti l’eruzione, con la piazza qualificata dagli edifici monumentali, per i quali si è proposto di riconoscere per esempio l’edificio di Eumachia e il Macellum, che appaiono ormai completamente restaurati dopo il rovinoso sisma che colpí il centro vesuviano. Un intervento di valorizzazione ha reso fruibile il complesso di Giulia Felice attraverso una passerella che si snoda dall’ingresso al portico, dalle terme al giardino. Per notizie e aggiornamenti su Pompei, pagina Facebook PompeiiParco Archeologico.

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CAMPANIA

Nuove tecnologie per terra e per mare L’isola di Procida torna a ospitare, dal 10 al 24 settembre, la Scuola di Formazione Estiva «Archeologia e Beni Culturali di terra e di mare. La pratica dello scavo archeologico e le nuove tecnologie di studio, documentazione ed esibizione». Fra le novità del programma, il modulo sui sistemi innovativi di monitoraggio dei beni monumentali in area sismica, condotto dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia che, insieme all’Ateneo Suor Orsola di Napoli e al Comune di Procida, ha dato vita al bando. Collaborano altresí numerose altre istituzioni, come il Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Ambiente e delle Risorse dell’Università Federico II di Napoli, il Dipartimento di Beni Culturali dell’Università del Salento e la Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana. Un nuovo gruppo di studio, formato da Istituti del CNR (INSEAN, IREA, ISSIA e IFAC), tratterà le nuove frontiere per il rilevamento e la ricerca in ambienti marini e costieri. L’iscrizione alla scuola, aperta a studenti, specializzandi e operatori di diversi settori, è gratuita (le spese di soggiorno sono state minimizzate grazie ad accordi con le strutture di accoglienza procidane), proprio per diffondere le conoscenze sulle tecnologie avanzate nel settore dei Beni Culturali. Info e iscrizioni: www.unisob.na.it/ universita/dopolaurea/ formazione/archeologia

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INCONTRI Murlo

L’ETRUSCO È SEMPRE PIÚ BLU

P

rende il via il 13 luglio, a Murlo, la terza edizione del festival Bluetrusco, di cui «Archeo» è media partner e che si avvale della direzione scientifica di Giuseppe M. Della Fina, collaboratore della rivista fin dalla sua fondazione. Quest’anno la rassegna ha come tema conduttore la disamina dei principali centri dell’Etruria, affidata agli archeologi che ne hanno studiato le vicende storiche e che spesso vi hanno condotto fortunate campagne di scavo. Fra le novità in programma, ricordiamo l’iniziativa «“Incantati dalla benignità di questi limitati orizzonti”: dal Castello di Murlo a Poggio Civitate», che prende spunto da un’osservazione inserita da Piero Calamandrei nel libro Inventario della casa di campagna (1941) e si prefigge di valorizzare il percorso che dal castello di Murlo conduce all’area di scavo da cui provengono le opere esposte nel museo. La prima parte del festival si svolge fino al 30 luglio, cosí da offrire anche la possibilità di visitare i resti dell’insediamento etrusco di Poggio Civitate, che negli stessi giorni è oggetto dell’ormai consueta campagna di scavo condotta dalla missione dell’Università del Massachusetts Amherst.

Luglio è anche il periodo di svolgimento delle «Notti dell’Archeologia», il cartellone regionale toscano del quale il festival Bluetrusco costituisce ormai un punto di riferimento consolidato. Meritano d’essere inoltre ricordate le sperimentazioni sonore e quelle legate alla tessitura. Nella seconda parte della manifestazione, da venerdí 29 settembre a domenica 1° ottobre, ci si soffermerà su un progetto, lanciato dal Comune di Murlo, sulla ricerca di antichi vitigni e oliveti, prefigurando la ricostruzione di un paesaggio antico. Il programma completo di Bluetrusco e tutti gli aggiornamenti sono disponibili sul sito ufficiale del festival: www.bluetrusco.land



A TUTTO CAMPO Roberto Farinelli

PAROLE COME PIETRE IL PATRIMONIO CULTURALE IMMATERIALE È UNA RISORSA PREZIOSA: NE È UNA PROVA ELOQUENTE LO STUDIO DEI NOMI ASSEGNATI A CITTÀ E TERRE, CHE SPESSO CONSERVANO TRACCIA DI ANTICHI PAESAGGI E FUNZIONI DEI QUALI SI SONO INVECE PERSE LE TESTIMONIANZE MATERIALI

D

a sempre, le testimonianze del passato colpiscono la fantasia delle persone: la presenza di ruderi e macerie – come il ritrovamento fortuito di oggetti, sepolture o veri e propri «tesori» – si fissano nella memoria collettiva, dando un nuovo nome al luogo del rinvenimento. Cosí, nel paesaggio rurale e in quello urbano, si sono diffusi nomi di luogo (i toponimi) che evocano strutture antiche, a destinazione abitativa (casa, capanna, cella), o produttiva (canova, figlina, mulino, forno, pozzo), oppure ruderi non meglio determinati (muraccio, colonna, rovina). Un profondo impatto sulla percezione culturale dei paesaggi è stato prodotto dai principali centri di popolamento, anche se abbandonati. In particolare, i resti di cinte difensive e le semplici sommità fortificate hanno impresso un segno pressoché indelebile nella morfologia del territorio. Lo studio storico sul popolamento può dunque giovarsi anche di testimonianze onomastiche riconducibili a questi siti, come, per esempio, i toponimi derivati da civitas, castellum (-vetus)/ Castelione, motta, castellare, oppure quelli che associano

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l’attributo veterum/vecchio allo stesso nome proprio di un centro abitato collocato nelle vicinanze.

IL PESO DELLE TRADIZIONI Tuttavia, per avvicinarsi alla fisionomia originaria di un sito archeologico, occorre andare oltre la registrazione dei nomi che a suo tempo gli sono stati imposti. Infatti, tanto è comune l’uso di strutture antiche come punto di riferimento territoriale quanto lo fu il fraintendimento della loro reale natura, come mostrano molti nomi, che a noi appaiono spesso bizzarri. Nella formazione di questi nomi, infatti, hanno pesato le credenze

delle comunità locali, il cui universo simbolico era popolato da fate, maghi (come Merlino e Virgilio), streghe, demoni, oltre a una miriade di santi, beati e altri esseri in contatto con il soprannaturale. Per esempio, i nomi di luogo sono indicativi del percorso di vie e strade poi cadute in disuso, anche se spesso in modi inattesi: dal Friuli alla Campania, dal Piemonte alla Sicilia, esistono almeno tredici ponti chiamati «del Diavolo», località nelle quali sono esistite strutture piú o meno antiche indispensabili per superare ostacoli naturali. Parallelamente, un buon numero di toponimi utili alla ricostruzione dei paesaggi cristianizzati consiste proprio nei nomi dei santi (o agionimi). Essi traggono talvolta origine dalla memoria locale di episodi reali o leggendari che avrebbero coinvolto uomini di fede, ma, piú spesso, testimoniano solo la presenza patrimoniale di enti ecclesiastici a essi dedicati. A volte, si è persino giunti a curiosi fenomeni di interscambio tra nomi di luogo e di santo, che nella lunga durata conducevano a intitolare una chiesa con il toponimo del sito in cui era stata edificata, piuttosto che con il nome di un santo del calendario


religioso. Per esempio, la pieve di S. Genziano a Caminino (Grosseto) sorse in località Feriolo, un toponimo originato dalla presenza di scorie metallurgiche, ma dopo un paio di secoli è documentata come dedicata a san Feriolo, il cui culto come protettore dalla siccità è vivo ancor oggi.

ANTICHE CENTURIAZIONI Ogni nome originato dall’indicazione del proprietario del terreno aiuta a comprendere le forme di costruzione sociale dello spazio umano, benché non rispecchi la distribuzione dei siti archeologici. Toponimi che terminano in «-ano o -ana», oppure «-ate» (è il caso di Galliano o Albiate), derivano spesso da un nome personale o gentilizio latino e indicano la presenza di beni appartenuti a questi soggetti; pertanto su tali basi si è ipotizzata l’estensione della colonizzazione in età romana, come pure la presenza di antiche centuriazioni, che hanno lasciato sul terreno anche nomi derivati da centuria o da Terminus. Per il periodo preromano, il riconoscimento della collocazione geografica (la georeferenziazione) di nomi riconducibili alla presenza patrimoniale di determinate famiglie (come nei toponimi di etimologia etrusca Cecina o Porrona), ha concorso a definire l’ambito di influenza di ciascuna città. Per tale periodo, inoltre, la registrazione di nomi indicanti la presenza di confini, quali Tular/ Terminus (Tolli, Poggio al Termine), oppure i piú ambigui Sasso e Pietra (Sassoforte, Castel di Pietra), concorrono a identificare le frontiere tra diversi territori urbani. L’etimologia si trasforma in un valido strumento di ricostruzione storica quando queste informazioni vengano correlate allo spazio geografico, tramite sistemi informativi territoriali informatici. Nei Laboratori di Archeologia

Nella pagina accanto: la prima pagina del registro della Tavola delle possessioni. 1318. A destra: Roccastrada (Grosseto). L’interno della pieve di S. Genziano a Caminino.

dell’Università di Siena si stanno da tempo costruendo questo genere di banche dati territoriali (SIT o GIS), in grado di porre in relazione reciproca gli elementi geografici, i siti archeologici e i nomi di luogo. Questi vengono reperiti sia nelle antiche mappe, sia nei documenti d’archivio, sia raccolti sul campo dalla viva voce degli anziani, ultimi depositari di una secolare tradizione locale.

UN ANTICO CATASTO Per condurre proficuamente studi linguistici e storici sul patrimonio toponomastico, occorre infatti basarsi su repertori ampi e sistematici, realizzati – nel caso senese – nell’ambito di progetti di cartografia archeologica di impianto regionale. Un apporto prezioso, per l’antico Stato di Siena, è rappresentato dalla cosiddetta Tavola delle Possessioni, un catasto particellare descrittivo del primo Trecento, estremamente ricco di informazioni, anche di tipo toponomastico. Per esempio, per il campione d’indagine rappresentato dal territorio di Castelnuovo dell’Abate (Montalcino) è stato sperimentato un confronto tra le carte a scala 1:25 000 dell’Istituto

Geografico Militare (IGM) e la Tavola del XIV secolo, che per il medesimo territorio annovera un numero di nomi quasi doppio: 6,4 toponimi/Km contro i 3,5 nei catasti moderni e nelle tavolette IGM. Mentre la cartografia tende a registrare i nomi secondo una distribuzione spaziale tendenzialmente omogenea, i registri della Tavola, privi di supporto cartografico, rispecchiano fedelmente la maggior densità di toponimi nelle aree piú intensamente frequentate dalla popolazione contadina rispetto a quelle incolte e marginali. La mappatura e la valutazione del patrimonio toponomastico costituiranno sempre piú in futuro una parte integrante delle attività conoscitive preliminari agli interventi di pianificazione urbanistica e paesaggistica, nel quadro complessivo di azioni di archeologia preventiva. Una raccolta georeferenziata di toponimi offre una serie preziosa di indizi da incrociare con quelli prodotti tramite remote sensing, scavi e ricognizioni topografiche, allo scopo di riconoscere i segni delle trasformazioni insediative avvenute nel passato. (roberto.farinelli@unisi.it)

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

IL RITORNO DEL RE UNA SCULTURA CHE RITRAE IL SIGNORE DELL’OLIMPO SEDUTO IN TRONO È STATA RESTITUITA DAL GETTY DI MALIBÚ ALL’ITALIA E STA PER ESSERE ESPOSTA NEL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI NAPOLI: DI QUESTO IMPORTANTE RIENTRO CI PARLA PAOLO GIULIERINI, DIRETTORE DELLA RACCOLTA PARTENOPEA, AL QUALE ABBIAMO ANCHE CHIESTO UN BILANCIO DELL’ATTIVITÀ FINORA SVOLTA E UN’ANTICIPAZIONE DEI PROGETTI FUTURI

I

l Paul Getty Museum di Malibú, a Los Angeles, ha restituito all’Italia l’ennesima opera d’arte antica acquisita in circostanze poco chiare: lo Zeus in trono, una pregiata scultura in marmo del I secolo a.C. Grazie all’accordo siglato tra il Getty, il Ministero dei Beni Culturali e la Procura di Napoli – che ha coordinato le indagini di Carabinieri e Guardia di Finanza e fatto luce sul traffico illecito del reperto –, lo Zeus è rientrato in Italia e verrà esposto nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli (MANN). Sulla vicenda abbiamo intervistato Paolo Giulierini, Direttore del MANN. Direttore, quando sarà possibile ammirare lo Zeus in trono nella sua nuova «casa»? «La statua è rientrata a Napoli il 16 giugno scorso e stiamo predisponendo l’apparato per l’allestimento, cosí da poterla presentare al pubblico». La scultura venne rinvenuta dai trafficanti nelle acque di fronte a Baia e doveva abbellire una delle splendide ville in cui i Romani si dedicavano all’otium, non è vero? «Sí, proviene da quel tratto del litorale flegreo e dev’essere stata trovata in mare poiché è coperta da concrezioni calcaree. Ne è stata ricostruita la provenienza da una

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delle grandi ville d’otium di Baia. L’opera, alta 75 cm, è una replica in scala minore dello Zeus di Olimpia scolpito da Fidia. Si tratta probabilmente di una statua votiva, destinata a decorare la cappella privata di una ricca domus». Nel 1992 l’opera fu acquistata per la collezione Fleischman, ma è stato un ritrovamento recente a provare che era stata trafugata dal mare campano… Ci vuole raccontare? «Le indagini hanno avuto inizio nel 2012, in seguito al ritrovamento, da parte di alcuni archeologi italiani, al

largo di Capri, di un frammento del trono. Le successive perizie e i sopralluoghi della Soprintendenza hanno permesso di accertare che il resto del trono era in esposizione permanente a Los Angeles: seguendo una prassi abituale, i ladri avevano appositamente trattenuto una parte della statua, per invogliare l’acquirente ad acquistare il frammento mancante dell’opera. In questo caso, gli “attacchi” tra i due pezzi combaciavano perfettamente, confermando la provenienza dello Zeus dalle acque campane». Lo Zeus in trono è solo l’ultima delle restituzioni di reperti archeologici risultati acquisiti in maniera illecita dal Getty: qual è, adesso, il tenore delle relazioni con il museo californiano? «I rapporti sono estremamente migliorati, e al MANN il Getty è legato da un protocollo quadriennale, che prevede interventi di restauro di reperti importanti nei laboratori statunitensi: è stato già restaurato l’Apollo Saettante di Pompei, che proviene dal tempio in onore del Lo Zeus in trono restituito all’Italia dal J. Paul Getty Museum e destinato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. II sec. d.C.



TAORMINA

Capolavori recuperati «Ritorno alla Magna Grecia», la mostra che Collezione La Gaipa presenta, dal 4 agosto, nel Palazzo Duchi di Santo Stefano di Taormina, rappresenta la tappa fondamentale di un progetto di recupero e di valorizzazione di reperti archeologici originari della Magna Grecia che nei secoli scorsi sono andati dispersi nel mondo. Un progetto che mira a riacquistare, presso case d’asta, antiquari e collezionisti privati, questi oggetti, al fine di consentirne il ritorno nel territorio di origine, lo studio e la pubblica fruizione. Tra i materiali selezionati per l’esposizione, vi sono vasi di uso comune, ma anche manufatti di pregio, tra i quali spicca una lekythos (vaso di forma allungata per oli profumati o unguenti; vedi foto qui sopra) del Pittore di Haimon (uno dei 117 esemplari attribuiti a questo maestro esistenti al mondo). I fondi che verranno raccolti grazie alla mostra, visitabile fino al 17 settembre, si affiancheranno a un progetto di crowdfunding lanciato su internet e serviranno a finanziare altre acquisizioni e progetti di studio e fruizione. Info tel. 333 4954433; www.collezionelagaipa.it (red.)

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dio, mentre ora si sta lavorando sul Vaso di Altamura (un colossale cratere a figure rosse, n.d.r.). Al termine degli interventi, l’intesa prevede l’esposizione temporanea dei reperti restaurati e quindi il loro ritorno in Italia. Inoltre, stiamo organizzando alcune mostre: nel 2019 ne è prevista una a Los Angeles, sulla Villa dei Papiri di Ercolano. Si tratta di raggiungere un equilibrio tra la restituzione e la fruizione, un obiettivo reso possibile, tra l’altro, dall’accordo quinquennale tra MiBACT, Getty e Metropolitran Museum di New York, finalizzato a una politica di restituzioni definitive o temporanee di oggetti il cui acquisto non era risultato regolare». Si tende quindi a restituire i reperti all’Italia, in modo – però – da permetterne il godimento da parte del pubblico americano: funziona questo meccanismo virtuoso? «Personalmente, sostengo che sia piú conveniente conservare un bel reperto archeologico negli Stati Uniti, dove viene ampiamente reclamizzato, che tenerlo al chiuso in un deposito in Italia». Qual è, invece, la sua idea per valorizzare la collezione del Museo Archeologico di Napoli? «La mia politica è quella di riaprire tutto, come nell’immediato dopoguerra, quando il MANN era il piú grande museo di archeologia classica del mondo. Lo stiamo facendo a tappe forzate, aprendo ogni anno una sezione. Nei depositi si conservano opere di straordinaria importanza. Basti pensare alla collezione dei vasi magno-greci: un numero esorbitante, che mostreremo nuovamente tra il 2018 e il 2019». Lei è alla guida di questa istituzione dall’ottobre del 2015. In quasi due anni, quali nuove sezioni ha aperto? «Nel 2016 la sezione dei culti orientali in Campania e la sezione egizia. Pochi giorni fa, invece, l’intera sezione epigrafica, che

conserva testimonianze uniche. Le prossime tappe saranno l’apertura della sezione magno-greca, di quella italica, di quella dedicata alla statuaria campana e, infine, il raddoppio delle collezioni pompeiane. Metro quadro dopo metro quadro, riapriremo tutto!». Parlando di metri quadrati, quanti sono oggi visitabili, e quanti invece sono ancora interdetti? «La superficie potenzialmente visitabile è di 20 000 mq. Adesso siamo al 70 per cento di superficie esposta: il 30-35 per cento dev’essere riaperta con i reperti del sottotetto o grazie alle numerose mostre che realizziamo all’estero. L’obiettivo è reinvestire le cifre derivanti dai prestiti nella ricerca e creare una macchina capace di autoalimentarsi. Fino al prossimo ottobre, inoltre, è in corso la mostra “Amori divini”, dedicata al tema delle metamorfosi nel mondo antico. E, con la Fondazione Ligabue, abbiamo inaugurato “Il mondo che non c’era”, dedicata alle civiltà maya e azteca: gli stessi uomini che con il re Carlo III, fondatore del museo di Napoli, scavarono a Pompei ed Ercolano, parteciparono a scavi e rilievi nel Messico, a Palenque». Un’ultima battuta: come commenta la sentenza del Consiglio di Stato che l’ha reintegrata come Direttore del Museo Archeologico di Napoli, dal 16 giugno scorso, dopo che il TAR del Lazio l’aveva sollevata dall’incarico? «Siamo fiduciosi, ma rispettosi di tutti i verdetti: lo siamo stati del primo, che ci ha sollevato dall’incarico, dal 24 maggio al 16 giugno, lo siamo del secondo. Personalmente sono felicissimo, piú del primo giorno in cui ho messo piede a Napoli. Perché quando arrivai non sapevo a cosa andavo incontro, quando sono andato via invece sapevo cosa stavo per perdere».



TOSCANA

Vetulonia chiama Pompei Il Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia (Castiglione della Pescaia, Grosseto) propone un’esposizione temporanea sull’arte del vivere, documentata attraverso una ricca e significativa selezione di materiali provenienti da Pompei. Come scrive nella presentazione Simona Rafanelli, direttrice del museo tocano, il tema «si dispiega, all’interno dell’esposizione, attraverso i diversi linguaggi dell’arte (la pittura a fresco, la scultura in pietra, la toreutica, le forme vascolari in ceramica in vetro), i quali, dialogando, creano la trama del racconto che si articola, nell’arco di una giornata-simbolo, entro i confini di una residenza immaginaria, ripartita, al pari di un’abitazione reale, nei due spazi-simbolo, l’uno interno e, l’altro, interesterno, riservati rispettivamente alle attività pratiche e speculative». «L’arte di vivere al tempo di Roma. I luoghi del “tempo” nelle domus di Pompei» sarà aperta fino al 5 novembre. Info: tel. 0564 948058; e-mail: museovetulonia@libero.it; www.museoisidorofalchi.it (red.)

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MOSTRE Parigi

TESORI DALL’ISLAM

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li stretti legami, passati e presenti, fra il mondo arabo musulmano e l’Africa subsahariana sono il tema di una mostra allestita all’Istituto del Mondo Arabo di Parigi. Dal Marocco al Senegal, passando per l’Etiopia, il Kenya e il Mali, l’esposizione percorre tredici secoli nei quali l’adesione all’Islam progredisce gradualmente, malgrado gli ostacoli frapposti dai Paesi controllati da sovrani cristiani, come la Nubia (l’attuale Sudan), dove le prime tracce della presenza islamica risalgono al IX secolo. La nuova religione si diffonde fin dall’inizio del VII secolo, sulle orme dei mercanti berberi che solcavano il deserto con le loro merci. Una rete di strade trasportava il prezioso sale dal Maghreb verso il sud del Sahara, e permetteva di raggiungere le ricchissime zone aurifere dell’Ovest. Famoso, a questo proposito, il re del Mali Mansa Mussa, che, nel 1324, si reca in pellegrinaggio a Mecca, si ferma al Cairo, e vi spende tanto oro da farne crollare le quotazioni. Anche grazie a lui l’Islam si diffonde in Mali, nelle moschee costruite in

argilla cruda, e all’interno delle biblioteche che custodiscono i preziosi manoscritti da lui raccolti durante il viaggio. Se l’Islam si diffonde fin dall’VIII secolo in alcune regioni dell’Africa subsahariana, soltanto con le guerre sante del XVIII e XIX secolo le popolazioni vengono massicciamente convertite. L’islamizzazione forzata porta con sé profonde trasformazioni nella società, e le conquiste territoriali si accompagnano a uno sviluppo finanziario basato sulla schiavitú. Si diffonde il sufismo, con la nascita delle confraternite, che spesso servirono come rifugio morale e politico di fronte alla colonizzazione. Daniela Fuganti

DOVE E QUANDO «Tesori dell’Islam in Africa, da Timbuctu a Zanzibar» Parigi, Institut du Monde Arabe fino al 30 luglio Orario ma-ve, 10,00-18,00; sa-do e festivi, 10,00-19,00; lu chiuso Info www.imarabe.org

In basso: Corano manoscritto e rilegato, di provenienza somala. 1793. Collection Constant Hamès.



n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

ITALIANI D’EGITTO Il Museo Egizio di Torino ospita attualmente «Missione Egitto, 1903-1920» l’interessante e innovativa esposizione temporanea a cui è dedicato lo Speciale di questo numero (vedi alle pp. 80-103). La mostra racconta gli anni iniziali della costituzione della collezione che ha fatto la fortuna del museo torinese, che ha avuto l’onore dell’emissione di un francobollo italiano il 31 agosto del 1991 (1-2). L’impostazione della rassegna è molto originale, perché affianca ai singoli reperti la documentazione d’archivio che fa rivivere i momenti delle loro scoperte. È, in effetti, la storia della Missione Archeologica Italiana (M.A.I.) in Egitto, e del suo fondatore Ernesto Schiaparelli, una vicenda che visse i suoi anni d’oro appunto tra il 1903 e il 1920. Con la nostra rubrica rendiamo omaggio al secondo piú importante museo egizio al mondo presentando materiale filatelico relativo ad alcuni importanti avvenimenti che ne hanno riguardato la vita. Il primo è l’annullo speciale che ha ricordato il VI Congresso Internazionale di Egittologia, tenutosi a Torino (1-8 settembre 1991), e che costituí l’occasione per l’emissione del francobollo (3). Il secondo annullo riguarda la mostra filatelica organizzata, proprio nel Museo Egizio, durante il Congresso (4). Il Congresso è stato ricordato anche da un foglietto erinnofilo (non postale), stampato dal Poligrafico dello Stato che riproduce la statua di Ramesse II (5) e contiene tre chiudilettere che hanno lo stesso soggetto del francobollo (il «femmineo alato», rilievo tratto dal gruppo statutario di Horemheb e Mutnegemet). L’ultimo annullo per la Mostra di Egittologia del 16 dicembre 1995, «Nefertari luce d’Egitto» (6), è l’occasione per rendere il giusto omaggio a Ernesto Schiaparelli, vera «anima» del Museo di Torino, per la sua forse piú eccezionale scoperta: la tomba della regina Nefertari, una delle piú belle e meglio conservate, avvenuta nel 1904. Ecco, quindi, vari francobolli, tutti egiziani, che ricordano la «grande sposa reale» di Ramesse II in una pittura murale (7), la sua incoronazione (8), la sua statua del tempio maggiore di Abu Simbel (9) e l’altrettanto famoso tempio di Hathor, che era stato dedicato dal grande faraone anche alla moglie Nefertari (10).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

INCONTRI Paestum

SE VENT’ANNI VI SEMBRAN POCHI...

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aglia il traguardo dei vent’anni la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, in programma dal 26 al 29 ottobre 2017 nell’area archeologica della città antica di Paestum. E, per l’occasione, la rassegna ospiterà prestigiose iniziative, tra cui l’anteprima dell’«Anno Europeo del Patrimonio Culturale», indetto dalla Commissione Europea per il 2018 e il Convegno «Il turismo sostenibile per lo sviluppo dei siti archeologici mondiali» a cura dell’UNWTO, l’Organizzazione Mondiale del Turismo delle Nazioni Unite. A fare da contorno, saranno gli appuntamenti ormai tradizionali e grazie ai quali la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico si è affermata negli anni come un evento originale nel suo genere: sede dell’unico Salone espositivo al mondo del patrimonio archeologico e di ArcheoVirtual, la mostra internazionale di tecnologie multimediali, interattive e virtuali; luogo di approfondimento e divulgazione di temi dedicati al turismo culturale e al patrimonio; occasione di incontro per addetti ai lavori, operatori turistici e culturali, viaggiatori e appassionati; opportunità di business nella suggestiva cornice del Museo Archeologico Nazionale, con il Workshop tra la domanda estera selezionata dall’ENIT e l’offerta del turismo

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culturale e archeologico. Una formula di successo, testimoniato dalle prestigiose collaborazioni di organismi internazionali quali UNESCO, UNWTO e ICCROM, oltre che da circa 10 000 visitatori, 100 espositori con 20 Paesi esteri, 70 tra conferenze e incontri, 300 relatori, 100 operatori dell’offerta, 100 giornalisti. Non va infine dimenticato che, dal 2015, si è aggiunto l’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», il Premio intitolato al Direttore del sito archeologico di Palmira, che ha pagato con la vita la difesa del patrimonio culturale: la Borsa e «Archeo», in collaborazione con le riviste media partner internazionali Antike Welt (Germania), Archéologie Suisse (Svizzera), Current Archaeology (Regno Unito), Dossiers d’Archéologie (Francia) selezionano e premiano le principali scoperte archeologiche dell’anno. Per quest’anno concorrono all’assegnazione del premio: l’edificio della barca di Sesostri III e i graffiti di 120 navi ad Abido (Egitto); la prima opera architettonica dei Neandertal in una caverna di Bruniquel (Francia); la grande città dell’età del Bronzo presso il villaggio curdo di Bassetki (Iraq); la città indo-greca di Bazira (Pakistan); e 400 tavolette di epoca romana ritrovate nella City di Londra (Regno Unito). Info: www.borsaturismoarcheologico.it



CALENDARIO

Italia

GROSSETO, MANCIANO Marsiliana d’Albegna

ROMA I Fori dopo i Fori

Dagli Etruschi a Tommaso Corsini Museo Archeologico e d’Arte della Maremma Museo di Preistoria e di Protostoria della Valle del Fiora fino al 31.12.17

La vita quotidiana nell’area dei Fori Imperiali dopo l’antichità Mercati di Traiano, Museo dei Fori Imperiali fino al 10.09.17

MILANO Milano in Egitto

Spartaco

Schiavi e padroni a Roma Museo dell’Ara Pacis fino al 17.09.17

All’ombra delle piramidi

La mastaba del dignitario Nefer Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco fino al 17.09.17

Piranesi

La fabbrica dell’utopia Museo di Roma a Palazzo Braschi fino al 15.10.17

La bellezza ritrovata

Arte negata e riconquistata in mostra Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori fino al 26.11.17

Colosseo. Un’icona Colosseo fino al 07.01.18

AQUILEIA Volti di Palmira ad Aquileia Museo Archeologico Nazionale fino al 03.10.17

CAPACCIO PAESTUM (SALERNO) Action painting Rito & arte nelle tombe di Paestum Museo Archeologico Nazionale fino al 31.12.17

CAVRIGLIA (AREZZO) Mithra Un dio orientale in Valdarno Auditorium del Museo Mine fino al 31.12.17

FIRENZE I pozzi delle meraviglie

Giovanni Battista Piranesi, Mausoleo di Cecilia Metella. Acquaforte, 1762.

Gli scavi di Achille Vogliano nel Fayum Civico Museo Archeologico fino al 15.12.17

MONTALTO DI CASTRO (VITERBO) Egizi Etruschi Da Eugene Berman allo Scarabeo dorato di Vulci Complesso Monumentale di S. Sisto fino al 30.09.17

NAPOLI Amori divini

Trasmissione e ricezione del mito greco Museo Archeologico Nazionale fino al 16.10.17

Il mondo che non c’era

L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue Museo Archeologico Nazionale fino al 30.10.17

ORVIETO L’intrepido Larth

Storia di un guerriero etrusco Museo «Claudio Faina» e Museo Archeologico Nazionale fino al 17.09.17

PARMA Archeologia e alimentazione nell’eredità di Parma romana Galleria San Ludovico fino al 16.07.17

POMPEI Il Corpo del reato

Nuove scoperte a Cetamura del Chianti Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.17

Il patrimonio archeologico ritrovato Antiquarium degli Scavi fino al 27.08.17

FORMELLO (ROMA) La Tomba Campana: un vero falso?

REGGIO EMILIA Lo scavo in piazza

Raccontare l’indicibile nei musei Museo dell’Agro Veientano fino al 15.07.17 26 a r c h e o

Una casa, una strada, una città Musei Civici di Reggio Emilia fino al 31.08.17

Maschera funeraria egiziana dorata di epoca tolemaica.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Germania

SIRACUSA La Porta dei Sacerdoti

BONN Iran

I sarcofagi egizi di Deir el-Bahari. Esposizione e restauro in pubblico Galleria Civica Montevergini fino al 07.11.17

Antiche culture tra l’acqua e il deserto Bundeskunsthalle fino al 20.08.17

SORANO (GROSSETO) Vulci e i misteri di Mitra

MANNHEIM Egitto

Culti orientali in Etruria Fortezza Orsini, Museo del Medioevo e del Rinascimento fino al 05.11.17

TAORMINA Ritorno alla Magna Grecia

Reperti della Collezione La Gaipa Palazzo Duchi di S. Stefano fino al 17.09.17 (dal 04.08.17)

Terra dell’immortalità Reiss-Engelhorn-Museen fino al 30.07.17

Affresco con una giovane filatrice, da Pompei.

TORINO Cose d’altri mondi

Grecia ATENE Odissee

Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.17

Raccolte di viaggiatori tra Otto e Novecento Palazzo Madama, Sala Atelier fino all’11.09.17

Olanda

VETULONIA (CASTIGLIONE DELLA PESCAIA) L’arte di vivere al tempo di Roma

Rijksmuseum van Oudheden fino al 17.09.17

LEIDA Casa Romana

Svizzera

I luoghi del «tempo» nelle domus di Pompei Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 05.11.17

ZURIGO Osiride

Misteri sommersi d’Egitto Museum Rietberg fino al 13.08.17 (prorogata)

VICENZA Le ambre della principessa

Storie e archeologia dall’antica terra di Puglia Gallerie d’Italia, Palazzo Leoni Montanari fino al 07.01.18

Francia PARIGI Che c’è di nuovo nel Medioevo?

Coppa in clorite, da Jiroft. III sec. a.C.

USA Pendaglio in ambra a forma di protome femminile.

NEW YORK L’età degli imperi

Bronzetto dorato di rinoceronte. Dinastia degli Han Occidentali.

Arte cinese delle dinastie Qin e Han (221 a.C.-220 d.C.) The Metropolitan Museum of Art fino al 16.07.17

Tutto quel che l’archeologia ci rivela Cité des sciences et de l’industrie fino al 06.08.17

L’Africa delle rotte

Musée du quai Branly Jacques Chirac fino al 12.11.17

LES EYZIES-DE-TAYAC Il terzo uomo Preistoria dell’Altai Musée national de préhistoire fino al 13.11.17

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MUSEI • SPOLETO

TRA UMBRI E ROMANI IL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI SPOLETO DOCUMENTA LA STORIA DELLA CITTÀ E DEL SUO TERRITORIO. AFFIANCANDO L’ESPOSIZIONE DEI REPERTI ALLA VISITA DELLO SPETTACOLARE TEATRO ROMANO, CHE OGNI ANNO «RIVIVE» GRAZIE AL FESTIVAL DEI DUE MONDI a cura di Maria Angela Turchetti, con testi di Maria Angela Turchetti, Joachim Weidig, Nicola Bruni e Anna Riva

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A sinistra: il Teatro romano di Spoleto, la cui costruzione si colloca nel I sec. a.C. Tutti i materiali inseriti a corredo del presente articolo sono conservati ed esposti nel Museo Archeologico Nazionale di Spoleto.

territorio attraverso i reperti provenienti dalla collezione civica o dai numerosi scavi effettuati a partire dalla seconda metà dell’Ottocento.

SCAMPATI AL DILUVIO Tra le popolazioni che abitarono la Penisola nell’età del Ferro prima del predominio romano, gli Umbri, a detta dello storico romano Plinio il Vecchio (Storia naturale, III 14-15), dovevano essere il popolo piú antico – «gens antiquissima Italiae» – e avrebbero tratto il proprio nome dal greco ombros (pioggia) «per essere sopravvissuti alle piogge del diluvio universale». Le poche fonti scritte sono concordi nell’assegnare agli Umbri il ruolo degli indigeni, di coloro che erano già presenti al momento dell’arrivo di nuove genti: Erodoto ricorda che anche gli Etruschi «dopo aver oltrepassato molti popoli, giunsero presso gli Umbri, dove costruirono città

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l Museo Archeologico NazioA destra: nale e il Teatro romano di Spoparticolare di un leto occupano oggi un ampio affresco isolato compreso tra via Sant’Agata, realizzato via delle Terme e piazza della Liber- nell’ex monastero tà che ricalcano il tessuto viario di S. Agata (oggi della città romana. Inaugurato nel sede del Museo), 1985, il museo utilizza gli spazi nel quale dell’ex monastero di S. Agata (edifi- compare la santa cato tra il XIV e il XV secolo), titolare del adibito a carcere dopo le demaniaconvento, con la zioni postunitarie. palma del Il percorso espositivo ripercorre la martirio e i seni storia del centro urbano e del suo recisi. a r c h e o 31


MUSEI • SPOLETO

che abitano tutt’ora» (Storie, I 94), mentre Dionigi di Alicarnasso, parlando degli Aborigeni, dice che si insediarono nella zona della Sabina «dopo averne scacciati gli Umbri» (Antichità romane, I 16 I). Gli storici e i geografi antichi ci forniscono anche l’estensione del territorio di occupazione umbra, che andava dalla valle del Tevere (il cui corso corrispondeva al confine orientale con gli Etruschi) fino alle coste dell’Adriatico, da Ancona a Ravenna; mentre il corso dei fiumi Nera ed Esino segnava il limite meridionale. Gli stessi confini furono ripresi all’inizio del I secolo nell’ordinamento politico augusteo, che assegnò all’Umbria la Regio VI. Il controllo di entrambi i versanti dell’Appennino, unito a un’economia agricolo-pastorale particolarmente prospera, fece ricordare gli Umbri come un popolo ricchissimo: Polibio ci informa che Annibale, saccheggiando l’Umbria, vi aveva raccolto un bottino cosí abbondante «che le truppe non riuscivano né a reg32 a r c h e o

In alto: cartina con l’estensione della Regio VI, Umbria, secondo la divisione augustea della Penisola. In basso: vaso biconico decorato con protomi ornitomorfe. Età del Bronzo Finale, XI sec. a.C.

gere né a trasportare le masserizie» (Storie, III 86 9), mentre Aristotele, in un passo riportato dal grammatico greco Stefano di Bizanzio, affermava che «il loro bestiame genera tre volte l’anno, la loro terra produce raccolti molteplici e le loro donne sono particolarmente feconde: di rado partoriscono un solo figlio per volta, perlopiú hanno parti gemellari o di tre figli». Le stesse fonti ci raccontano delle scelte insediative della civiltà umbra, dislocata in una miriade di centri fortificati medio-piccoli (oppida) ubicati prevalentemente sui rilievi, riflesso della mancanza di una forte identità unitaria e di un progetto «politico» complessivo. Questa frammentazione insediativa, che ha origine dalle antiche dinamiche tribali dell’età del Bronzo, permane ancora alle soglie del V secolo a.C., quando invece, nella vicina Etruria, è già pienamente compiuto il processo di urbanizzazione attorno alle grandi città-stato.


Delle prime frequentazioni del colle su cui sorge Spoleto abbiamo poche testimonianze risalenti all’età del Bronzo Medio, mentre piú consistenti sono le tracce ascrivibili all’età del Bronzo Finale. In quest’epoca, concordemente con altre situazioni documentate in Umbria e Toscana, sembra che la zona di abitato fosse distinta da quella cultuale.

UNA SCELTA OCULATA La scelta insediativa in età protostorica è giustificata dalla posizione particolarmente felice del Colle S. Elia, che chiude a sud la Valle Spoletina, dominandola visivamente fino ad Assisi e nello stesso tempo controllando sul lato opposto la stretta via di comunicazione con la conca ternana (tracciato poi ripreso dai Romani per la via Flaminia di età repubblicana). Inoltre qui la viabilità principale nord-sud incrociava le vie di transumanza est-ovest che collegavano i Monti Martani all’Appennino e alle Marche. A differenza dei colli circostanti, l’altura di Spoleto può inoltre vantare un massiccio montuoso alle spalle che

In alto, sulle due pagine: veduta di Spoleto che permette di apprezzare la posizione dominante dell’abitato sul territorio circostante. In questa pagina: bronzetto umbro raffigurante un guerriero, da Monteleone di Spoleto. V sec. a.C.

ne facilita la difesa (Monteluco) e pendici piuttosto dolci che determinano ampie aree sfruttabili dall’uomo, disseminate anche di acque sorgive. Ignoriamo quali fossero le aree deputate all’insediamento (o al sistema di insediamenti) a cui facevano capo

le necropoli che nell’età orientalizzante circondavano il colle S. Elia, ma sappiamo che, ancora nel V secolo a.C., la sommità del colle era riservata a uso cultuale.Tale destinazione perdurò in età romana, quando la città occupò il pendio, regolarizzandolo tramite terrazzamenti e cingendolo di possenti mura poligonali di cui rimangono ancora oggi numerosi tratti visibili. Il periodo orientalizzante (fine dell’VIII-VII secolo a.C.) è un’epoca di grande fervore per i popoli italici, che fa registrare profonde trasformazioni socio-culturali, quali la fondazione delle prime «città» come Roma (753 a.C.) o, volendo rimanere in ambito umbro, come Terni (672 a.C.). Ciò che conosciamo di Spoleto per questa fase proviene quasi esclusivamente da cinque necropoli orientalizzanti poste a circondare la città attuale. Due furono individuate alla fine del XIX secolo da Giuseppe Sordini, noto archeologo locale, presso la chiesa di S. Pietro e lungo il fosso Cinquaglia, una terza venne alla luce negli anni Venti in via Cerquiglia, mentre un quarto piccolo nucleo di sepolture è stato recentemente scoperto in località Cortaccione. Tuttavia è la necropoli di Piazza d’Armi, alla periferia nord di Spoleto, che ha riservato i dati piú interessanti. Scoperto nel 1982 e scavato in piú riprese fino al 2011, il sepolcreto si compone di diversi nuclei, il piú antico dei quali, databile tra la fine dell’VIII e la prima metà del VII secolo a.C., è caratterizzato da inumazioni in circolo di pietre sormontate da piccoli tumuli. Ai piedi del defunto o sotto di esso, in una piccola fossa-deposito, sono presenti set di vasi in ceramica che testimoniano il costume del banchetto e del simposio alla maniera etrusca e italica. Tra gli individui deposti spicca la figura di una anziana tessitrice che, oltre a rocchetti, fuseruole, ago e a r c h e o 33


MUSEI • SPOLETO A sinistra: necropoli di Piazza d’Armi. Veduta aerea del nucleo piú antico, in uso tra la fine dell’VIII e la prima metà del VII sec. a.C., caratterizzato da inumazioni in circolo di pietre sormontate da piccoli tumuli. In basso: coperchio con presa in forma di animale, dalla necropoli di via Cerquiglia. VII sec. a.C.

coltello, possedeva una conocchia a dischi in bronzo molto rara, di produzione etrusca. Tra gli uomini, compaiono invece guerrieri-falegnami, con corredi che prevedono, oltre alle armi, strumenti per intagliare e lavorare il legno: asce, scalpelli, pialla e scortecciatore. L’alta considerazione riservata alla carpenteria, tanto da risultare alla pari con quella del combattimento, non è una novità tra le società antiche e ha il suo primo illustre «testimone» in Ulisse. La sua figura di re-eroe va di pari passo con l’abilità di 34 a r c h e o

progettare e realizzare opere in legno, dal cavallo di Troia all’accecamento di Polifemo, con un palo sapientemente indurito e appuntito, all’imbarcazione per scappare dall’isola di Calipso fino al talamo nuziale intagliato nel tronco di un ulivo secolare.

UNA FAMIGLIA ARISTOCRATICA Durante gli scavi del 20082009 è stata esplorata la porzione piú settentrionale della necropoli di Piazza d’Armi, che appartenne a un nucleo familiare di altis-


LA COLLEZIONE CIVICA Il Museo Civico fu fortemente voluto dall’archeologo spoletino Giuseppe Sordini (1853-1914), che lo allestí, a partire dal 1904, nelle sale del Palazzo della Signoria, in piazza Duomo, con l’idea piú ambiziosa di realizzare un Museo Nazionale UmbroSabino e candidare la città a capitale culturale dell’Umbria meridionale. Inaugurato nel 1910, alla presenza del Presidente del Consiglio dei Ministri Luigi Luzzatti, rimase nei locali sottostanti il Teatro Caio Melisso fino al 1985, quando i reperti vennero trasferiti nel neonato Museo Archeologico Nazionale presso il convento di S. Agata. I materiali raccolti da Sordini provenivano dall’attività di ricognizione e di monitoraggio dei lavori per la costruzione di edifici, ferrovie e strade, ma anche da scavi che egli stesso aveva condotto negli anni in cui ricoprí la carica di ispettore alle Belle Arti (a partire dal 1888). Si ricordano soprattutto le scoperte del teatro (1891) e della casa romana nella piazza del Comune (1885), l’identificazione delle prime necropoli orientalizzanti di Spoleto e Campello, gli scavi in via Cecili per la messa in luce delle mura poligonali (1897). Affluirono al museo anche donazioni di privati o rinvenimenti fortuiti, tra cui, per esempio, i circa mille pezzi di industria litica provenienti dal territorio eugubino appartenuti alla collezione Pagliari.

evi. Si distingue, per esempio, la tomba 17 del «piccolo principe», che, morto a 10 mesi circa, aveva due dischi-corazza di piccola misura (un tipico armamento italico da difesa, al solito riservato solo ai capi adulti piú importanti), due punte di lancia in ferro, un pugnale a stami con fodero in ferro e avorio, un coltellino in ferro e un piccolo kantharos (tazza a due manici) realizzato appositamente per lui in un’unica lamina di bronzo e allusivo del simposio etrusco. La scoperta di queste sepolture attesta, dato eccezionale per l’Umbria, la presenza di una famiglia reale a Spoleto, contemporanea ai primi mitici re di Roma, con tombe infantili che dimostrano come il bambino, già dalla nascita e in virtú delle origini aristocratiche, rivestisse simo rango vissuto tra la seconda un ruolo determinato nell’ambito metà del VII e gli inizi del VI secolo militare, politico o sacerdotale. a.C. La «famiglia» era composta da La struttura tombale e i corredi sedue donne adulte, sei bambini e due polcrali di Spoleto sono molto siuomini adulti. In questi ultimi casi mili a quelli scoperti a Matelica e a mancavano però i resti scheletrici, Pitino di San Severino, tanto da far probabilmente a causa di un preciso pensare che anche alcuni dei siti rituale funebre conosciuto nell’Italia delle Marche appenniniche rientriappenninica che prevedeva la depo- no culturalmente in ambito umbro. sizione dell’individuo accanto o al Inaspettati confronti con l’Etruria di sopra della grande fossa-deposito settentrionale fanno inoltre riflettecontenente il corredo e per questo re sulla complessità della storia poverosimilmente asportato dai suc- litico-culturale di questa epoca, che non può essere spiegata solo ipotizcessivi lavori agricoli. Eccezionale è il ritrovamento di zando «influssi culturali» o «comtombe di bambini che conteneva- merciali» ma che rivela anche rapno armi e oggetti fortemente sim- porti diretti tra regioni lontane atbolici e di insolita ricchezza, non traverso matrimoni e alleanze policonfrontabili con altri contesti co- tiche e militari. In alto: l’archeologo spoletino Giuseppe Sordini (1853-1914), artefice del primo Museo Civico. In basso: fibula in argento proveniente da una delle tombe gentilizie rinvenute negli scavi della necropoli di Piazza d’Armi condotti nel 2008-2009. Fine del VII-inizi del VI sec. a.C.

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MUSEI • SPOLETO

Quando venne fondata la colonia latina di Spoletium (241 a.C.) i coloni rispettarono i culti preesistenti e i luoghi considerati sacri, affiancandogli nello stesso tempo il modello topografico e cultuale dell’Urbe. La sommità del colle S. Elia, dove la cinquecentesca Rocca Albornoziana ha obliterato le testimonianze precedenti, è verosimilmente un luogo di culto fin dall’età del Bronzo Finale. In epoca romana l’area doveva ospitare recinti sacri ed edifici templari dedicati a divinità di cui non si conosce l’identità: è probabile che vi si praticassero il culto della triade capitolina e forse quello di Saturno, per via di un cippo inscritto reimpiegato nei restauri antichi delle mura poligonali. Un culto a Ercole è documentato in un’area pianeggiante esterna alla città, lungo una via destinata alla transumanza, probabilmente mercato di greggi e luogo di scambio con le popolazioni limitrofe.

NESSUNO PROFANI IL BOSCO SACRO... Di grande rilevanza è la Lex luci, la legge «del bosco sacro», rinvenuta in due versioni quasi identiche, iscritta su cippi ritrovati da Giuseppe Sordini ai margini del territorio spoletino tra il 1876 e il 1914. Il testo recita: «Questo bosco sacro nessuno profani, né asporti su carro o a braccia ciò che al bosco appartiene, né lo tagli se non nel giorno in cui avverrà il sacrificio annuale. In quel giorno, in quanto a causa del sacrificio, sarà lecito tagliarlo senza frode. Se qualcuno lo profanerà, a Giove farà espiazione con un bue; se qualcuno lo profanerà consapevolmente e con cattiva intenzione, a Giove farà espiazione con un bue e 300 assi saranno di multa. Della sua espiazione e della multa al “Dicator” spetterà l’esazione». Redatta in latino arcaico, la legge risale agli anni immediatamente successivi alla fondazione della colonia e ne testimonia il progetto di pianificazione territoriale legato al36 a r c h e o

SCETTRI REGALI I ritrovamenti di scettri nelle tombe etrusche e italiche sono piuttosto rari. Antichi simboli di potere di origine egiziana e vicino orientale vengono introdotti, a partire dell’Orientalizzante, in Etruria (Veio) e nel Lazio (Roma, La Rustica) e quindi utilizzati dai principi italici (Spoleto, Matelica, Numana, Pitino di San Severino, Campovalano). La tomba 8 di Piazza d’Armi ha restituito ben quattro esemplari che risultano anche i piú antichi scettri dell’Umbria. Ciascuno di essi simboleggia forse una diversa funzione, rituale e sacerdotale, militare e politica. Due scettri, in bronzo fuso, sembrano piú antichi di almeno mezzo secolo rispetto alla sepoltura e potrebbero perciò essere stati ereditati. Gli altri due

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esemplari non conoscono finora confronti nel mondo antico: ciascuno presenta due valve formate da una spessa lamina di ferro lavorata a giorno, con una successiva colata in bronzo che ne va a riempire i vuoti. Raffigurano un cavaliere sul dorso di un cavallo, inseguito da un grande uccello acquatico; un guerriero elmato, a braccia alzate, sopra il quale appare un cavallo bicefalo, che potrebbe essere interpretato come il «signore dei cavalli».

SONAGLI PER LE SACERDOTESSE

la conquista romana e la volontà di disciplinare l’uso dei boschi attraverso regole scritte, forse già in uso presso le popolazioni umbre. Il Teatro romano venne individuato nell’area del monastero di S. Agata da Giuseppe Sordini nel 1891 a se-

Sonagli di forma particolare sono stati rinvenuti in due sepolture di Piazza d’Armi, appartenenti verosimilmente a due sacerdotesse, un’adulta e una bambina. Il primo, realizzato completamente in bronzo, è costituito da un manico tubolare cilindrico di lamina piegata e da un corpo sonoro a forma di ciambella bivalve riempita con sassolini. È stato trovato nella tomba a fossa n. 15, nella quale era seppellita una bambina di 2 anni, accompagnata da un ricchissimo corredo, composto, fra l’altro, da una patera baccellata in bronzo, cinque fibule in argento ad arco figurato a leone alato e due piccoli dischi di


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Sulle due pagine: gli scettri rinvenuti nella Tomba 8 della necropoli di Piazza d’Armi. Tra le decorazioni si riconoscono: un cavaliere sul dorso di un cavallo inseguito da un grande uccello acquatico (1) e un guerriero elmato, a braccia alzate, sopra il quale appare un cavallo bicefalo (2).

Uno dei sonagli in bronzo provenienti da Piazza d’Armi.

ornamento femminile in ferro. Nonostante il sonaglio sia stato trovato in una tomba infantile, la sua funzione non può essere soltanto quella di un giocatolo, ma piuttosto quella di un elemento rituale nell’ambito di cerimonie religiose, appartenente a una bambina destinata a cariche sacerdotali fin dalla nascita per diritto ereditario. Questa ipotesi viene confermata dal ritrovamento di un secondo sonaglio, di forma e misura identiche al precedente ma realizzato in lamina di ferro, nella sepoltura di una donna morta intorno ai 35 anni d’età, abbigliata allo stesso modo della bambina.

guito di un disegno cinquecentesco di Baldassarre Peruzzi rintracciato agli Uffizi, ma fu completamente indagato solo tra il 1954 e il 1960 da Umberto Ciotti e il suo rinvenimento convinse a chiudere il carcere giudiziario e a trasformare il complesso di S. Agata in museo.

SORGE IL TEATRO La costruzione dell’edificio, nella porzione meridionale dell’abitato, si inserisce nel programma di monumentalizzazione del municipium di Spoletium, attuato nel corso del I secolo a.C. che ha previsto la realizzazione di muri di contenimento e terrazzamenti artificiali del declivio anche poco piú a monte, nell’area di piazza del Mercato, dove sorgeva il Foro della città romana.

A partire dalla seconda metà del I secolo a.C. il teatro è stato costruito su un terrazzamento artificiale e ha svolto in parte funzione di contenimento dello spazio sovrastante occupato oggi da piazza della Libertà: per una lunghezza di oltre 28 m l’ambulacro che corre sotto la cavea in questa zona è infatti privo di finestre. La cavea ha un diametro di 70 m circa e poggia su muri radiali e un ambulacro concentrico all’orchestra da cui si accedeva ai vomitoria mediante scale, che consentivano agli spettatori di prendere posto sulle gradinate (si calcolano 27 gradini, al dodicesimo era l’accesso dai vomitoria). Del paramento esterno della cavea non si ha notizia, se non che non possedesse particolare decorazione, mentre si conserva un tratto della facciata rettilinea, scana r c h e o 37


MUSEI • SPOLETO

Per regolare l’uso dei boschi Il cippo su cui è incisa la lex luci (la legge «del bosco sacro»), promulgata all’indomani della creazione della colonia di Spoletium, nel 241 a.C. Qui sotto: restituzione grafica delle prime righe del testo.

In basso: ancora il Teatro romano, alla cui scoperta si deve la nascita del Museo Archeologico.

dita da arcate inquadrate da semicolonne tuscaniche. L’ambulacro, con volta a botte in calcestruzzo era aperto verso sud con un ingresso secondario che consentiva l’accesso degli spettatori che provenivano dalle campagne, mentre i corridoi voltati (versurae) ai lati del palcoscenico permettevano ai personaggi

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piú in vista di accedere all’ima cavea, direttamente a contatto con l’orchestra, pavimentata nel tardo impero con marmi policromi. Poco rimane del palcoscenico e del frontescena a causa della costruzione del complesso di S. Agata. Si può ancora ricostruire la dimensione della scena (45 x 8,50 m), il

murus pulpiti che la delimitava verso gli spettatori, decorato a nicchie e rientranze e rivestito di pannelli figurati in marmo, individuare lo stretto corridoio dove erano riposti il sipario e le travi che servivano a innalzarlo, presso il quale una cavità circolare indica l’alloggiamento degli argani che azionavano il meccanismo. Il frons scenae doveva essere decorato con un doppio ordine architettonico, con lesene ioniche e colonne corinzie e arricchito da stuccature policrome e sculture solo in minima parte conservate. Al momento dello scavo si è


LE SCULTURE DEL TEATRO Efficace mezzo di propaganda politica potevano essere i cicli decorativi di teatri e luoghi di spettacolo dove per ore, piú o meno consapevolmente, gli spettatori dovevano «subire» le «immagini del potere», in primis le statue ritratto di imperatori e di importanti personaggi locali che avevano fatto costruire l’edificio o ne sponsorizzavano le attività. Dal teatro di Spoleto vengono due raffinate teste in marmo inserite in altrettante statue, andate perdute, raffiguranti l’imperatore Augusto, secondo il modello giovanile elaborato dopo la battaglia di Azio (31 a.C.) e un individuo maturo simile, nei tratti fisiognomici, a Giulio Cesare, ma verosimilmente un personaggio locale della sua cerchia. Potrebbe trattarsi di Caio Calvisio Sabino, che tentò di difendere Giulio Cesare al momento della sua uccisione e intraprese un’importante carriera politica a Spoleto e a Roma. A Spoleto, nel museo, è presente una base onoraria dalla località Trignano, con dedica allo stesso personaggio, ricordato, tra l’altro, come patronus (carica onorifica concessa per meriti riconosciuti verso la città). Forse collocata in origine entro una nicchia e parte della decorazione architettonica del teatro è invece una splendida figura femminile in marmo, un’opera greca della fine del V secolo a.C., riutilizzata in epoca romana, che riprende un tipo iconografico ideato dallo scultore attico Kallimachos per raffigurare la dea Afrodite. A sinistra: statua femminile in marmo, dal Teatro romano. Si tratta di un’opera greca della fine del V sec. a.C., riutilizzata in epoca romana, che riprende un tipo ideato dallo scultore attico Kallimachos per raffigurare la dea Afrodite. A destra: ritratto di personaggio locale (forse Caio Calvisio Sabino) rappresentato come Cesare. I sec. a.C.

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MUSEI • SPOLETO

IL LUSSO OLTRE LA MORTE A partire dal II secolo a.C. dall’Oriente mediterraneo si diffonde in Italia l’uso di deporre il defunto sopra un letto raffinato e prezioso, che ne esalta la figura, ostentandone il prestigio e la posizione sociale già durante il rito funebre, prima della collocazione all’interno della camera funeraria. Molto numerosi nella Sabina antica (suddivisa oggi tra Abruzzo, Lazio e Umbria), in Valnerina i letti funebri sono stati rinvenuti soprattutto a Norcia, che ha dato gli esemplari piú appariscenti, tanto da far ipotizzare che la città fosse un centro di produzione di questi manufatti. I letti si componevano di elementi in legno variamente sagomati, montati a incastro o raccordati da una intelaiatura in ferro, rivestiti di lastrine di osso o avorio, lavorate separatamente e applicate con collanti naturali. Negli esemplari piú modesti le decorazioni sono in terracotta. Alle estremità del letto i

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In questa pagina: elementi in osso che facevano parte della decorazione di un letto funebre rinvenuto a Norcia. Età augustea.

cuscini erano trattenuti da un rialzo/sponda (fulcra), la cui sagoma laterale si prestava a essere decorata con teste umane e animali. La scelta dei soggetti era legata al mondo ultraterreno, connesso anche al mito di Dioniso/Bacco. Ricorrono cosí pantere, muli e Menadi che facevano parte del corteo dionisiaco, cigni, leoni, cavalli alati e mostri marini. I letti piú antichi hanno decorazioni di modesta entità e di dimensioni contenute, quelli di età augustea sono pesantemente ornati con motivi debordanti dalla sagoma del letto stesso, con raffinati decori vegetali ed elementi figurati a tutto tondo, impreziositi da paste vitree applicate.


constatato che la porzione occidentale della cavea era pessimamente conservata, piú bassa di 90 cm probabilmente per uno smottamento o un movimento tellurico avvenuto nel I secolo d.C.A seguito di questo evento furono effettuati restauri antichi in opera reticolata, mentre dopo lo scavo si decise per la riproposizione della parte mancante della cavea con gradini in opera cementizia. Le dimensioni complessive dell’edificio sono simili a quelle del contemporaneo teatro di Gubbio, di poco inferiori al teatro fatto costruire da Lucio Cornelio Balbo nel 13 a.C. in Campo Marzio, a Roma. Quindi, da or mai sessant’anni, la funzione originaria di edificio per spettacoli viene riproposta dal Festival dei Due Mondi.

PAROLE DI PIETRA Numerose sono le iscrizioni latine conservate nel Museo, in gran parte provenienti dalla raccolta civica, quasi un imponente libro di pietra disseminato nelle sale espositive che consente di ricostruire molte pagine della storia del centro urbano e del suo territorio e di immaginare talvolta spaccati di vita e di affetti quotidiani. Iscrizioni pubbliche e private, onorarie, cultuali, funerarie affidano alla pietra messaggi civili, religiosi o volti a mantenere vivo il ricordo del defunto, delle sue virtú o delle dimensioni dello spazio assegnato al sepolcro. Una di esse, fatta trasportare alla fine del Cinquecento dal vescovo Paolo Sanvitale da S. Gregorio Maggiore nel Palazzo Comunale, è una dedica, scolpita su un blocco di travertino scorniciato, a Marco Settimio Settimiano della tribú Orazia, Cavaliere, Quattuorviro Iure dicundo, e Prefetto del Genio a Roma, da parte della quarta decuria degli Scamillarii, dei quali è detto patrono. Gli Scamillarii, e piú comunemente Scabillarii, erano musici e pantomimi riuniti in corporazioni, cosí chiamati da uno stru-

La lapide recante la dedica a Marco Settimio Settimiano, della tribú Orazia, Cavaliere, Quattuorviro Iure dicundo, e Prefetto del Genio a Roma, da parte della quarta decuria degli Scamillarii, dei quali è detto patrono. II sec. d.C.

mento a percussione, composto probabilmente da tavolette in legno incernierate, che, sollevate e abbassate con il piede, facevano da accompagnamento ritmico al suono delle tibie. Il monumento a cui appartiene l’iscrizione doveva essere la base di una statua onoraria collocata in un luogo pubblico concesso dai magistrati cittadini (L.D.D.D. loco dato Decurionum decreto). Si può verosimilmente supporre che la statua fosse dedicata in occasione di spettacoli teatrali sponsorizzati da Marco Settimio Settimiano forse nell’anno del suo quattuorvirato e che fosse in origine collocata proprio nell’area del Teatro romano dove gli Scamillari

potevano esibirsi. In base alle cariche rivestite dal patrono, dovrebbe risalire al II secolo d.C. inoltrato.

SPOLETO E LA VALNERINA Geograficamente e culturalmente, la Valnerina appare strettamente collegata, in direzione est, con i territori spoletini. La stretta vallata, percorsa dal Nera e dai suoi affluenti, che scorrono tra gole selvagge e brevi pianure, si apre nelle conche di Norcia, Cascia e Monteleone di Spoleto. La zona è abitata fin dalla preistoria (Paleolitico, Neolitico), mentre tra l’età protostorica e storica si struttura in un sistema articolato di abitati d’altura, talora fortifia r c h e o 41


MUSEI • SPOLETO

UNA DONNA DI CARATTERE Dal pozzo dell’atrio della domus di via Visiale a Spoleto, scavata tra il 1886 e il 1913, proviene un frammento di dedica a Caligola da parte di una donna verosimilmente identificabile con Vespasia Polla. L’iscrizione è incisa su una lastra di marmo alta 17 cm circa e, in base alla titolatura imperiale, doveva essere lunga almeno 80 cm. È pertanto probabile che fosse la base di una statua onoraria dedicata a Caligola dalla madre del futuro imperatore Vespasiano come ringraziamento per la carica di pretore concessa al figlio nel 40 d.C.

Svetonio ci informa del piglio autoritario e delle ambizioni della donna, originaria di Norcia e figlia di Vespasio Pollione, la quale, dopo la morte del marito e della nonna paterna di Vespasiano, si dovette far carico dell’educazione dei figli. Con pressanti sollecitazioni, rimproverava spesso Vespasiano, inizialmente poco incline alla carriera politica. Risulta suggestivo e plausibile ipotizzare che la ricca domus, presso il Foro della città, fosse stata ereditata da Vespasia dal padre e che, dopo l’uccisione di Caligola, la statua, divenuta inutile

oltre che scomoda, fosse stata eliminata, con l’iscrizione fatta a pezzi e finita in fondo al pozzo in cui è stata ritrovata.

In alto: frammento della dedica a Caligola da parte di Vespasia Polla, madre di Vespasiano. In basso: situla bronzea proveniente dalle necropoli di Norcia. III sec. a.C.

cati, a controllo delle vie di transumanza e delle fertili vallate agricole. Le alture principali, insieme ai fontanili, posti lungo i percorsi delle greggi e in posizione strategica rispetto ai percorsi battuti, sono spesso luoghi di culto, in genere caratterizzati da fosse votive con offerte costituite da bronzetti schematici che rappresentano guerrieri in armi, devoti e offerenti maschili e femminili, animali. Alcuni di questi luoghi si dotano di strutture in muratura e si monumentalizzano con la conquista romana del territorio, a partire dagli inizi del III secolo a.C. La romanizzazione dell’Alta Sabina prevede la creazione di centri urbani (prefetture e poi municipi) e santuari e comporta un arrivo massiccio di coloni che determina una crescita demografica e una notevole prosperità economica almeno fino al I secolo d.C., testimoniata dalle ricche necropoli nursine del piano di santa Scolastica. Tra i materiali esposti a Spoleto 42 a r c h e o

sono quelli provenienti dagli scavi di Cesare Colizzi nel 1889 a Norcia in località Aia Zitelli, passati prima al Museo di Villa Giulia e poi al Museo Nazionale Romano. Sono tombe a cassone ligneo e in muratura e a camera, con volta a botte. Eccezionalmente una tomba in muratura era di notevoli dimensioni (12 x 3,70 m) e presentava l’ingresso sovrastato da una iscrizione (Salvio Titedieno Titi Filio). All’interno tre vani con almeno cinque deposizioni inquadrabili tra il secondo quarto del II secolo a.C. e l’età tiberiana, due delle quali su letto funebre con decorazione in osso. DOVE E QUANDO Museo Archeologico Nazionale e Teatro romano Spoleto, via S. Agata, 18/A Orario tutti i giorni, 8,30-19,30 Info tel. 0743 223277; http://polomusealeumbria. beniculturali.it; FB: www.facebook. com/museoarcheologico.spoleto.3/



MALTA • L’ARTE PREISTORICA

Insieme di statuette neolitiche provenienti dal tempio di Hagar Qim (altezza variabile dai 19,4 ai 38,2 cm). Nonostante la somiglianza, nessuna di esse è identica all’altra. Caratterizzate dalle proporzioni esageratamente ampie del corpo, in contrasto alle dimensioni piccole di mani e piedi, alcune di esse recano una fessura in cui inserire, volta per volta, teste con volti dalle diverse espressioni facciali. 44 a r c h e o


LA FORMA E LO

SGUARDO QUAL È IL MESSAGGIO DELLE ENIGMATICHE STATUE PREISTORICHE MALTESI? di Isabelle Vella Gregory; reportage fotografico di Daniel Cilia

L

e sculture neolitiche di Malta rappresentano un fenomeno unico, per quantità e particolarità stilistica, nel panorama dell’arte preistorica del Mediterraneo e del mondo. Un’unicità condivisa con i grandi monumenti megalitici dell’arcipelago, del cui arredo facevano parte e nei quali sono stati rinvenuti (vedi anche «Archeo» n. 353, luglio 2014). Nonostante la loro apparente serialità, il corpus di questi «ritratti» umani abbraccia una varietà tipologica straordinaria, diversa sia per le dimensioni (vi sono sculture alte quasi 3 metri e altre, quasi miniaturistiche, che misurano pochi centimetri) sia per la cifra stilistica e il «messaggio» che esprimono. La domanda su chi rappresentino queste affascinanti figure, quale sia stata la loro funzione nell’ambito della cultura del Neolitico maltese, è il grande interrogativo suscitato dai misteriosi manufatti. In questo articolo, Isabelle Vella Gregory, autrice di un esaustivo studio sulla raffigurazione umana nella preistoria maltese, offre ai lettori di «Archeo» una prima traccia interpretativa; rivolgendovi, al contempo, l’invito a incontrare dal vivo un patrimonio storico-artistico e archeologico di rara suggestione. Andreas M. Steiner Due vedute di una figurina in alabastro (6,4 x 3,1 cm), dall’Ipogeo di Hal Saflieni. a r c h e o 45


MALTA • L’ARTE PREISTORICA

S

guardi enigmatici, nasi prominenti e corpi voluminosi: le statuette neolitiche di Malta sono tanto imponenti quanto i monumenti megalitici che li ospitavano. Nascoste sotto terra o esposte in superficie, ognuna delle statuette svolgeva la sua parte nell’ambito di una complessa narrazione vigente migliaia di anni fa. Di quel racconto oggi sopravvive una parte soltanto e ricomporne gli elementi rappresenta una sfida affascinante. È una facile tentazione perdersi all’interno dei particolarismi di queste immagini, laddove la chiave per la loro comprensione risiede in un contesto piú ampio. I templi megalitici in superficie e le necropoli sotterranee rappresentano, verosi-

CRONOLOGIA

Fase Ghar Dalam

Anni a.C. Eventi principali 5000-4500 Inizio della colonizzazione su navi provenienti dalla Sicilia, formazione Neolitico di comunità agricole. Antico Skorba Grigio 4500-4400 Vita di villaggo. Skorba Rosso 4400-4100 Prosecuzione della vita di villaggio. Zebbug 4100-3800 Considerato l’inizio del periodo dei templi. Non sono ancora effettivamente presenti costruzioni, Neolitico ma c’è un’attenzione nuova per Medio l’identità collettiva. Inizio della pratica delle sepolture collettive in grotta. Mgarr 3800-3600 Fase poco conosciuta. Ggantija 3600-3000 Inizio della costruzione dei templi. L’estensione del ciclo della vita diventa sempre piú elaborata. Attenzione alla Neolitico comunità e alla memoria. Tardo Saflieni 3300-3000 Fase di transizione, di sovrapposizione. Tarxien 3000-2500 Apice e successivo declino dei templi. Riduzione delle aree interne dei templi.

Qui sopra: tre vedute di una statua in pietra calcarea (48,6 x 11,5 cm), da Hagar Qim. A

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Per cercare di comprendere il significato delle statuine occorre guardare al di là del semplice valore estetico In alto: pianta con la distribuzione dei principali complessi megalitici dell’arcipelago maltese. In basso, sulle due pagine: ripresa zenitale di alcuni dei principali complessi monumentali preistorici di Malta e Gozo. Da sinistra a destra: A. Hagar Qim; B. Mnajdra; C. Ggantija. B

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MALTA • L’ARTE PREISTORICA

milmente, il tratto distintivo del periodo. Sarebbe piú corretto definire questi monumenti come luoghi di aggregazione, nei quali la popolazione si recava con una certa regolarità. Al loro interno si svolgevano attività che definiremmo «profane», come la realizzazione di strumenti d’uso quotidiano, ma vi si tenevano anche imponenti rappresentazioni e recite riguardanti la vita e la morte. Documentata per un periodo di oltre 1100 anni, questa funzione raggiunse il suo apice durante la cosiddetta fase di Tarxien.

LUOGHI DI AGGREGAZIONE Durante il Neolitico Tardo, il paesaggio dell’arcipelago maltese è segnato dalla presenza di monumenti megalitici. Oggi li chiamiamo «templi», ma, come già accennato, sarebbe piú corretto parlare di «luoghi di aggregazione in superficie»: la loro costruzione iniziò intorno al 3600 a.C., e da 48 a r c h e o

quel periodo la popolazione maltese si impegnò per 1100 anni a ingrandire ed elaborare questi spazi. Mentre non ve ne sono due uguali, tutti i «templi» condividono elementi comuni: sono tutti dotati di un’ampia corte antistante (verosimilmente vi si adunava la popolazione), piccole absidi (alcune provviste di altari su cui sono stati rinvenuti i resti di animali bruciati). L’estensione di questi spazi cresceva con il passare del tempo e richiedeva la presenza e l’attenzione continue da parte della comunità. Contestualmente, sotto terra vennero scavati veri e propri paesaggi sotterranei, destinati ad accogliere i defunti. La domanda che ci poniamo oggi è la seguente: che cosa ci raccontano le statuette rinvenute in questi imponenti luoghi di aggregazione, sia in quelli di superficie, sia in quelli sotterranei, della vita delle persone che abitavano le isole maltesi nel periodo compreso tra il 3600 e il 2500 a.C.? La prima


Nel Tempio di Tarxien Il frammento, alto 1,4 m, di una gigantesca statua scolpita in pietra calcarea venne trovato all’interno del complesso megalitico di Tarxien (vedi la sua collocazione originaria nella foto della pagina accanto). L’immagine di questa pagina mostra la colossale statua con le parti mancanti integrate a disegno.

Nella pagina accanto, in basso: un’altra statua proveniente da Tarxien, questa volta realizzata in argilla, anch’essa con le parti mancanti integrate in grigio. Da notare l’espressione solenne del volto, con il naso pronunciato e gli occhi chiusi. a r c h e o 49


MALTA • L’ARTE PREISTORICA

NATURALISMO PERFETTO La cosiddetta «Venere di Malta», una figurina modellata nell’argilla e alta circa 13 cm, rappresenta un esempio perfetto di naturalismo, reso dall’accurata proporzione delle parti del corpo e dei punti di curvatura. Scoperta nel 1839 all’interno del grande tempio megalitico di Hagar Qim e risalente alla prima metà del III millennio a.C., questo capolavoro dell’arte preistorica rappresenta un’eccezione se confrontata con le numerose altre raffigurazioni femminili tipiche del periodo «dei grandi templi»: la «Venere», infatti, non riproduce i tratti stereotipati di quelle statue che, un tempo e con termine inutilmente dispregiativo, furono dette fat ladies (le «signore obese») maltesi, mentre rivela una resa straordinariamente naturalistica. Come nel caso delle numerose altre sculture maltesi, è impossibile definire con certezza la funzione – religiosa, rituale, simbolica – di questa antichissima opera d’arte, oggi conservata nel Museo Nazionale di Archeologia di Valletta.

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impressione che ricaviamo è quella di una sproporzionata grandezza: gli edifici megalitici sono enormi, i corpi raffigurati nelle statuette lo sono altrettanto; e tutto ciò sparso su un minuscolo arcipelago. Si tratta di un’immensità che colpisce l’osservatore e lo ammalia: nel Neolitico Tardo gli abitanti delle isole erano in grado di plasmare proporzioni e sensi con consapevole complessità; usavano il paesaggio e il corpo umano con le sue forme per creare un articolato percorso che costituiva un richiamo alla memoria, alle comuni origini e

Due teste per una statua

Questa scultura in calcare (alt. 39 cm) è stata trovata all’ingresso dell’ipogeo di Hal Saflieni. Nelle sue immediate vicinanze sono state trovate due piccole teste, anch’esse in calcare, destinate a essere inserite sulle spalle della figura, mediante un espediente che permetteva alle teste di muoversi.

alla continuità, un percorso incentrato sull’aspetto comunitar io dell’esistenza e rimasto in funzione per 1100 anni. Per quanto riguarda i corpi, per esempio, sappiamo che, dopo la morte, essi venivano metodicamente frammentati e le singole parti riposte in gruppi accuratamente selezionati. Cosí facendo, i vivi assicuravano i defunti alla memoria dell’intera collettività. Allo stesso modo, nei templi venivano scolpiti grandi corpi, simboli dell’intera collettività piuttosto che del singolo individuo: sculture in pietra o plasmate nell’argilla, deliberatamente prive di connotazioni di genere, intese a trasmettere un messaggio di stabilità e continuità, di completezza e immutabilità. Ma vi è un altro aspetto che aggiunge complessità al «messaggio» di queste statue: le varie teste, maschili o femminili, differenti per la foggia dei capelli e l’espressione facciale, che venivano di volta in volta inserite sulle gigantesche statue. Un modo per «creare» protagonisti delle piú diverse storie e rappresentazioni.

DIMENSIONI ESAGERATE Ma chi erano questi antichissimi abitanti di Malta? Osserviamo piú da vicino alcune delle statuette per azzardare qualche ipotesi: in genere, lo spettatore viene colpito dal contrasto tra le dimensioni davvero immense e i tratti molto naturalistici dei corpi; un’eccezione significativa è forse rappresentata da una delle piú celebri statuette, quella della cosiddetta «Venere di Malta», rinvenuta nel tempio di Hagar Qim (vedi alla pagina precedente). Molto spesso, alcuni aspetti del tutto naturalistici sono combinati con l’enfatizzazione di un aspetto particolare del ciclo della vita, come per esempio quello della maternità. Una statuetta rinvenuta nel tempio di Tarxien (vedi a p. 52) offre una rappresentazione molto naturalistica di una partoriente: la vulva è ri(segue a p. 55) a r c h e o 51


MALTA • L’ARTE PREISTORICA

FETI IN ARGILLA All’interno del complesso megalitico di Mnajdra furono rinvenute, non lontano dalla figurina raffigurata nella pagina accanto, alcuni grumi di argilla attorcigliati, verosimilmente la raffigurazione di feti nei diversi stadi di sviluppo.

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I quattro lati della figurina in argilla (alt. 5,9 cm) da Tarxien, raffigurante una donna in procinto di partorire.


I quattro lati della figurina in argilla (alt. 5,2 cm) da Mnajdra, raffigurante una donna con, enfatizzate, le parti del corpo associate al parto.

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MALTA • L’ARTE PREISTORICA

IL MISTERIOSO SONNO DELLA «SIGNORA» Distesa su una struttura simile a un letto o a una branda, la Sleeping Lady, la «Signora dormiente» di Hal Saflieni, è uno dei capolavori dell’arte preistorica maltese e, come tale, non ha confronti con alcuna manifestazione dell’arte neolitica europea. Lunga 12,2 cm e alta 6,8, la piccola statua in terracotta rappresenta una donna

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poggiata sul fianco destro, con gli occhi chiusi, la mano destra inserita sotto la testa, i seni scoperti e la parte inferiore del corpo coperta da un’ampia gonna dall’orlo plissettato. La «Dormiente» fu scoperta nel 1905 da padre Emmanuel Magri, nella cosiddetta «camera dipinta», uno degli ambienti sotterranei di Hal Saflieni.


tuetta di Mnajdra, raffigurano molto probabilmente altrettanti feti in vari stati di sviluppo, dalla decima alla quattordicesima settimana di gestazione. La nascita costituiva un rischio per tutte le donne, senza distinzione di status sociale: queste statuette colgono l’immagine di questa esperienza, riferendola non a una donna in particolare ma a tutte le donne della comunità. Tuttavia, come abbiamo visto, anche la «Venere di Malta» presenta eccezioni significative: naturalismo ed esagerazione si fondono, per dar luogo a statuette uniche nel loro genere, come quella rinvenuta

gonfia e l’ombelico disteso. Non vi è, invece, alcuna attenzione posta a rendere in maniera naturalistica il volto o le altre parti del corpo. Un aspetto interessante è, invece, rappresentato dall’inserimento di frammenti di conchiglie in varie parti del corpo, forse con funzioni curative o correlate al parto. In maniera simile, una statuetta rinvenuta nel tempio di Mnajdra (vedi a p. 53) enfatizza le parti del corpo associate al parto, senza mostrare alcuna caratterizzazione identitaria. Tutto ciò non deve sorprendere: la nascita rappresenta un evento traumatico e particolarmente significativo, tanto essenziale alla sopravvivenza della comunità quanto carico di rischi. Infatti, una serie di piccoli grumi d’argilla attorcigliati, rinvenuti nello stesso contesto della sta-

In questa pagina: due particolari della celebre «Dormiente» dell’ipogeo di Hal Saflieni, oggi conservata al Museo Nazionale di Archeologia a Valletta. A sinistra, il particolare del volto dormiente e, in basso, un’immagine dall’alto.

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MALTA • L’ARTE PREISTORICA

nell’Ipogeo di Hal Saflieni (vedi a p. 51). L’ipogeo è una vasta area cimiteriale scavata nella roccia e composta da oltre 40 ambienti, distribuiti su tre piani sotterranei, per una superficie complessiva di 500 mq circa. Il livello inferiore si trova a 11 m circa dalla superficie, mentre il livello superiore era stato forse ricavato adattando alcune cavità naturali preesistenti. Un caso simile di cavità naturali adattate a necropoli ipogea è il cosiddetto circolo di Xaghra, situato a Gozo, la seconda isola dell’arcipelago (qui, però, la mancanza di strutture scavate in profondità è stata compensata dall’aggiunta di strutture megalitiche, quali altari e triliti). La celebre statuetta rinvenuta a Hal Saflieni, nota anche come «La Signora dormiente», fu trovata in una fossa all’interno dell’ipogeo: raffigura una donna corpulenta con braccia, seni e fianchi pronunciati e una vita relativamente sottile. Le dimensioni eccessive che – insieme al pronunciato «anonimato» – caratterizzano le altre sculture maltesi, sono qui mitigate dalla resa di piccoli dettagli, quali le mani dalle dita fini, l’espressione distesa del volto e un generale senso di delicata «fragilità». Quattro vedute di una figurina in argilla (5,9 x 3,5 cm), raffigurante una donna seduta, dal Circolo di Xaghra (Gozo).

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Le vedute di un’altra figurina femminile in argilla (7,8 x 5,3 cm), dal Circolo di Xaghra (Gozo).

Un messaggio completamente diverso emana, invece, dalle altre statue, rinvenute numerose nei templi di Hagar Qim e a Tarxien (vedi alle pp. 48-49): le grandi figure mostrano corpi maestosi, solenni, quasi immobili. La solidità che promana da queste sculture incute timore e al contempo rassicura. Sono l’espressione di una comunità che, con esse, afferma la propria presenza esistenziale. Figure impassibili, composte da imponenti masse di carne e piccole mani e piedi, cui l’apposizione di teste, ogni volta diverse, conferiva, per un breve attimo, vitalità. Rappresentazioni e narrazioni rituali dovevano essere parte integrante della vita nella tarda età neolitica. A questo proposito risulta assai suggestivo un insieme di particolarissime statuette rinvenute al centro della già menzionata area cimiteriale del Circolo di Xaghra, a Gozo. Si tratta di nove piccole figure scolpite nella pietra calcarea, sei personaggi dai tratti molto stilizzati, due teste umane – poste su una colonna e su un semiarco – e il muso di un cinghiale posto su una colonna. La parte finale delle figurine (la cui altezza massima raggiunge i 18 cm) è piú stretta e a r c h e o 57


MALTA • L’ARTE PREISTORICA

LE CURIOSE FIGURINE DI XAGHRA Nel Circolo di Xaghra (sull’isola di Gozo), venne in luce un deposito di nove figurine in pietra, con tracce di ocra gialla in superficie. Le statuette giacevano l’una accanto all’altra, come se fossero state contenute in una scatola o in una borsa. Sei di esse, asessuate, alte fra i 15 e i 18 cm, rappresentano personaggi con tratti fortemente stilizzati; una sembra un abbozzo non finito. Un’altra ancora rappresenta la

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testa di un cinghiale. Si tratta di oggetti unici, senza alcun confronto noto, sia per la forma generale, sia per lo stile. Poiché la parte posteriore e quella inferiore delle figurine appaiono lisce e poco dettagliate e le statuette, da sole, non si reggono in piedi, si può ipotizzare che fossero destinate a essere poste contro un muro, o esibite – come piccoli burattini – nel corso di una qualche rappresentazione.


A sinistra, in alto: veduta degli scavi nel Circolo di Xaghra (Gozo). A destra: frammento di una scultura in argilla (2,3 x 3,2 cm) raffigurante due persone nel gesto di abbracciarsi.

semiarrotondata, tale da suggerire che le statuette potessero essere state inserite nel terreno. Alcune di esse appaiono appena abbozzate o, comunque, incomplete. Anche queste piccole sculture, rinvenute nei primi anni Novanta del secolo scorso, vanno interpretate evocando il contesto di una società preistorica fortemente concentrata sulla propria identità collettiva, una società in cui i corpi dei defunti venivano sezionati e frammentati in maniera tale da rendere ogni singola parte del corpo sociale. Le statue di Malta sono la rara e preziosa rap-

presentazione materiale di questa idea costitutiva dell’identità esistenziale della società maltese nel Neolitico Tardo. Una società costantemente chiamata a narrare gli accadimenti della vita e della morte, a confrontarsi con la memoria e con il senso della propria identità. Ancora oggi, dopo millenni, le statue preistoriche di Malta ci aiutano nel nostro tentativo di penetrare un mondo di credenze e rappresentazioni tanto lontano nel tempo. «Archeo» ringrazia Daniel Cilia per la preziosa collaborazione.

DOVE E QUANDO Museo Nazionale di Archeologia Valletta, Auberge de Provence, Republic Street Orario tutti i giorni, 8,00-19,00 Info tel. +356 21 221623; http://heritagemalta.org Note tutti i reperti illustrati sono esposti nel Museo Nazionale di Archeologia a Valletta e, a Gozo, nel Ggantija Interpretation Centre a r c h e o 59


MOSTRE • MENORAH

«FARAI UN CANDELABR D’ORO PURO» UNA MOSTRA IMPERDIBILE, ALLESTITA CONTEMPORANEAMENTE AI MUSEI VATICANI E AL MUSEO EBRAICO DI ROMA, RICOSTRUISCE L’AVVENTUROSA STORIA DI UN OGGETTO-SIMBOLO SENZA TEMPO di Andreas M. Steiner Nella pagina accanto, in alto: Roma. Particolare di uno dei rilievi dell’Arco di Tito che mostra il trasporto del bottino saccheggiato dai Romani a Gerusalemme, del quale fa parte la Menorah, il candelabro a sette bracci in oro massiccio. I sec. d.C. A destra: frammento di lastra in marmo che reca l’epitaffio di Salutia, con Menorah. III-IV sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. 60 a r c h e o

A sinistra: medaglione in oro con la Menorah e altri simboli ebraici (vedi descrizione completa a p. 65).


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arai anche un candelabro d’oro puro. Il candelabro sarà lavorato a martello, il suo fusto e i suoi bracci, i suoi calici, i suoi bulbi e le sue corolle saranno tutti di un pezzo. Sei bracci usciranno dai suoi lati: tre bracci del candelabro da un lato e tre bracci del candelabro dall’altro lato…». Inizia cosí la meticolosa descrizione, che Mosè, recatosi sul Monte Sinai, riceve dal Signore, accompagnata dall’immagine stessa dell’oggetto che egli dovrà far rea-

lizzare dalle sue maestranze, insieme agli altri oggetti cultuali del nuovo santuario del deserto: l’Arca dell’Alleanza, il tavolo per il Pane di proposizione e l’altare per l’incenso.

NELLA «TENDA» DELL’INCONTRO A questo primo, celebre passo biblico (Esodo 25, 31-40), se ne aggiungono molti altri (tra cui, ancora, Esodo 37, 17-24 e Numeri 8,4), grazie ai quali è possibile (seppure in maniera ipotetica, poiché non mancano teorie divergenti riguardo alla sua forma) ricostruire materiale e elementi compositivi della Menorah (o Menorà, secondo una grafia che elimina l’incertezza della pronuncia), il leggendario candelabro a sette bracci che, al tempo delle peregrinazioni nel deserto del popolo d’Israele, nel Tabernacolo (la «tenda» dell’incontro) illuminava l’area antistante il Santo dei Santi e, in seguito – in epoca «storica», – quella del Tempio di Gerusalemme. Secondo queste descrizioni, dunque, il candelabro doveva essere «d’oro puro», del peso di 1 talento (equivalente a circa 34 kg), decorato con rilievi a sbalzo raffiguranti fiori di mandorlo con bulbi e corolle. Le sette lampade d’oro, munite di «smoccolatoi e portacenere d’oro puro», ardevano continuamente e, come

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MOSTRE • MENORAH

risulta dalle norme elencate nel Levitico (24, 2-4), il candelabro era posto davanti alla tavola dei pani dell’offerta nella «tenda del convegno, fuori del velo che sta davanti alla Testimonianza»: ovvero, e come già ricordato, nell’ambiente antistante il Santo dei Santi (da cui era separato, appunto, da un velo) in cui era conservata l’Arca dell’Alleanza. Nel primo Tempio di Gerusalemme, quello leggendario costruito da Salomone, davanti alla porta che conduceva al Santo dei Santi erano collocati addirittura dieci candelabri, cinque per ogni lato. Successivamente, del candelabro si torna a parlare in età post-esilica, quando gli Ebrei dopo i decenni trascorsi

sulle rive dell’Eufrate tornarono nella loro patria e a Gerusalemme ricostruirono il Tempio andato distrutto da Nabucodonosor nel 587 a.C.: nel I Libro dei Maccabei si legge come l’odiato sovrano seleucide, Antioco IV Epifane, «entrò con arroganza nel santuario e ne asportò l’altare d’oro e il candelabro dei lumi con tutti i suoi arredi» e come, dopo la vittoria ottenuta dalla resistenza anti-ellenistica guidata da Giuda Maccabeo, gli Ebrei «restaurarono il santuario e consacrarono l’interno del tempio e i cortili; rifecero gli arredi sacri e collocarono il candelabro e l’altare degli incensi nel tempio». Com’è noto, fu Erode il Grande (73-4 a.C.) a dare nuova e grandio-

sa forma al Santuario. Pochi decenni dopo il suo completamento, però, una nuova e, questa volta, definitiva distruzione si sarebbe abbattuta sul sacro edificio: nel 70 d.C., le legioni romane, guidate dal futuro imperatore Tito, misero a ferro e fuoco Gerusalemme, dando alle fiamme il Tempio erodiano e saccheggiandone gli arredi; tra questi, il celebre candelabro a sette bracci, che fu portato nell’Urbe ed esposto durante il trionfo per la vittoria di Roma sui Giudei. Un evento epocale, immortalato dal celebre bassorilievo scolpito all’interno dell’arco eretto nel 81 d.C. in onore di Tito. E del quale fu testimone oculare lo storico

Una testimonianza preziosa Nel 2009, a Magdala, lo scavo di una sinagoga del I sec. d.C. ha restituito questa sorta di piccolo podio (1 x 1 m circa) finemente inciso con numerosi elementi decorativi, tra cui una Menorah. A oggi, sarebbe l’unica raffigurazione del famoso simbolo realizzata quando il grande Tempio di Gerusalemme (quello frequentato da Gesú) era ancora in uso: l’artista che scolpí la pietra di Magdala, pertanto, potrebbe essersi ispirato all’arredo cultuale del santuario, perduto dopo il saccheggio di Gerusalemme perpetrato dalle legioni di Tito nel 70 d.C., e poi portato in trionfo a Roma.

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A destra: lastra marmorea con l’epitaffio di Primitiva e di suo nipote Euphrainon. III-IV sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. In basso: lucerna con l’immagine della Menorah. 80-150 d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

ebreo Giuseppe Flavio, che cosí descrive l’apparizione della Menorah durante il corteo trionfale: «Fra tutto spiccavano gli oggetti presi nel Tempio di Gerusalemme, una tavola d’oro del peso di molti talenti e un candelabro fatto ugualmente d’oro (…) Vi era (…) al centro un’asta infissa in una base, da cui si dipartivano dei sottili bracci simili nella forma a un tridente e aventi ciascuno all’estremità una lampada; queste era-

no sette, dimostrando la venerazione dei giudei per quel numero (…). Dopo aver celebrato il trionfo (…), Vespasiano decise d’innalzare un tempio della Pace (…). Qui ripose anche la suppellettile d’oro presa al tempio dei giudei» (Guerra giudaica, libro VII; cap. 5, 124-162). Delle rocambolesche vicende che hanno segnato la vicenda della Menorah, a partire da quella data fino alla sua definitiva scomparsa, abbiamo raccontato ai nostri lettori in un recente articolo firmato da Fabio Isman (Il candelabro scomparso, in «Archeo» n. 373, marzo 2016). Al di là delle avventurose ipotesi circa la supposta sparizione (fu depredata dai Visigoti di Alarico durante il sacco di Roma del 410? O fu il vandalo Genserico ad appropriarsene, quando mise a fuoco la città nel 455?) o, anche, sopravvivenza del prezioso oggetto, possiamo affermare un dato certo: la Me-

norah, proprio grazie alle sue infinite, successive declinazioni, è diventata uno dei piú noti e indagati reperti archeologici «virtuali», insieme allo stesso Tempio di Gerusalemme, anch’esso scomparso per sempre. E non potremmo azzardare l’ipotesi che sia stata proprio quell’immagine «iconica» all’interno dell’Arco di Tito ad avere avviato – e consolidato – la fortuna postuma del sacro oggetto, dal 1949 assurto a emblema stesso dello Stato di Israele?

IL VALORE SIMBOLICO DI UN PROGETTO La storia antica e moderna della Menorah rappresenta il filo conduttore di una straordinaria mostra, aperta fino al 23 luglio, ai Musei Vaticani e al Museo Ebraico di Roma, curata da Alessandra Di Castro, Direttore del Museo Ebraico di Roma, Francesco Leone, Professore di Stor ia dell’Arte a r c h e o 63


MOSTRE • MENORAH A destra: frammento di mattone sul quale si vedono il bollo della fabbrica e una Menorah dipinta. III-IV sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. Nella pagina accanto, in basso: vetro verde in due strati e dorato con raffigurazione di oggetti simbolico-rituali ebraici. IV sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. In basso: frammento di marmo con raffigurazione della Menorah. V-VI sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Contemporanea presso l’Università Gabriele D’Annunzio ChietiPescara e da Arnold Nesselrath, Delegato per i Dipar timenti Scientifici e i Laboratori di Restauro dei Musei Vaticani. L’evento rappresenta, di per sé, un’iniziativa dalla potente connotazione simbolica: sia per i luoghi in cui si svolge (Roma, i Musei Vaticani, il Museo Ebraico), sia perché l’argomento della mostra, la prima del genere realizzata in collaborazione tra i due enti museali, è l’icona per eccellenza dell’ebraismo. Circa 130 opere sono articolate in tre grandi sezioni: la prima documenta la storia (e l’iconografia) della Menorah dalla sua presenza nel 64 a r c h e o

Tempio di Gerusalemme fino alla sua dispersione a Roma: qui, tra i reperti esposti piú preziosi e straordinari, figura la pietra scolpita rinvenuta nel 2009 a Magdala (Lago di Tiberiade, Israele), su cui appare incisa una Menorah: il piccolo podio, di 1 x 1 m circa, faceva parte dell’arredo di una sinagoga databile al I secolo d.C.: potrebbe trattarsi, dunque, della piú antica immagine del candelabro a oggi nota, direttamente ispirata al candelabro conservato nel Tempio di Gerusalemme, che all’epoca della realizzazione del rilievo di Magdala non aveva ancora subito il saccheggio del 70 d.C. (vedi box e foto a p. 62). La seconda sezione affronta la dif-

fusione, nel tempo e nello spazio, del mito della Menorah, dalla tarda antichità fino all’età moderna. E, qui, il discorso riparte, inevitabilmente, da Roma. Nell’Urbe, che a partire dal II-IV secolo vede l’affermarsi dei simboli del cristianesimo, la comunità ebraica individua nel candelabro a sette bracci, approdato sulle rive del Tevere direttamente da Gerusalemme, un simbolo in cui riporre la propria identità religiosa e culturale. Il candelabro – come ricordano i curatori della mostra –, già emblema «dell’ordine cosmico tra cielo e terra», diventa il messaggero «di un’indipendenza nazionale perduta con la distruzione del Tempio nel 70 d.C. e con l’avvio della Diaspora».

UN «ANTIDOTO» CONTRO L’ICONOFILIA E proprio negli anni in cui l’imperatore Costantino intensifica la diffusione del cristianesimo attraverso il suo imponente programma di costruzioni di chiese, «il valore iconico del candelabro si impose universalmente propagandosi da oriente a occidente come “antidoto” alla iconofilia della cultura pagana e del cristianesimo che intendeva imporsi come nuova Gerusalemme». A


Roma la Menorah si afferma come simbolo ebraico, facendosi «testimonianza del Signore cui tendere attraverso la riflessione, la preghiera, lo spirito e una quotidiana ortoprassi che metteva al riparo da quelle figure bibliche che il cristianesimo aveva trasformato in messaggeri di fede, il cui culto per l’ebraismo sfociava nell’idolatria». A partire dal IV secolo, e proprio da Roma dunque, l’immagine/simbolo dell’ebraismo si diffonde in tutto il Mediterraneo. La Menorah compare ovunque, in Oriente e Occidente, raffigurata sui supporti piú vari, monete, vetri decorati in oro e monili, ma, soprattutto, come iscrizione tombale, graffita, scolpita e dipinta su sarcofagi. Di questa straordinaria fortuna testimoniano numerose opere esposte in mostra, provenienti in ampia parte dalla stessa Roma, ma anche dalla patria della Menorah, Gerusalemme: citiamo qui soltanto il magnifico penda-

Il tesoro dell’Ophel Questo magnifico medaglione in oro fa parte di un tesoretto della tarda età bizantina scoperto nel 2013 nell’Ophel, un’area archeologica che si estende sulla parte Nord della collina sud-orientale di Gerusalemme. Sul manufatto, che ha un diametro di 10 cm, sono incise le raffigurazioni di una Menorah, dello shofar (un corno di montone, usato come strumento musicale nelle cerimonie religiose) e di un rotolo della Torah (i «rotoli della Legge», ovvero i primi cinque libri della Bibbia ebraica). Il medaglione era appeso a una catenina d’oro e, verosimilmente, ornava un rotolo della Torah. Il prezioso monile era stato accuratamente nascosto con un altro medaglione piú piccolo, due pendenti, un bracciale a serpentina d’oro e un fermaglio d’argento.

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MOSTRE • MENORAH

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A destra: il me’il Fiano, un mantello della Torah in raso di seta ricamato. 1764. Roma, Museo Ebraico di Roma.

glio, rinvenuto nel 2013 ai piedi del Monte del Tempio (vedi «Archeo» n. 344, ottobre 2013 e in questa pagina), e per la prima volta esposto (come anche il podio di Magdala) al di fuori da Israele. Ampio spazio è inoltre dedicato alla ricezione nel mondo cristiano dell’immagine del candelabro, a partire dall’età medievale. L’arte cristiana, infatti, si appropria delle forme della Menorah per la creazione di candelabri a sette bracci da collocare nelle chiese. Questo fondamentale aspetto è documentato in mostra dalla presenza di oggetti di grandis-

simo pregio, come la Bibbia di San Paolo (di epoca carolingia) e reperti di età successiva, risalenti al XIV e al XV secolo, come i monumentali candelabri del Santuario della Mentorella, del Duomo di Prato e di quello di Pistoia, della Busdorfkirche di Paderborn, fino a due enormi candelabri del XVIII secolo provenienti da Palma di Maiorca. Una serie di celebri dipinti, alcuni originali (tra cui il Sacco di Roma di Genserico del 455, di Karl P. Brjullov, vedi anche la copertina di «Archeo» n. 373, marzo 2016) e altri in riproduzione (tra cui La distruzione A sinistra: Menorah, litografia di Ben Shahn. 1965. Città del Vaticano, Musei Vaticani. Nella pagina accanto: pagina miniata dell’edizione dell’Antico e Nuovo Testamento nota come Bibbia di San Paolo fuori le Mura. IX sec. Roma, Abbazia di S. Paolo fuori le Mura, Biblioteca.

del Tempio di Gerusalemme, di Francesco Hayez, conservato alle Gallerie dell’Accademia di Venezia), narrano la fortuna della Menorah in epoca moderna. Chiudono il percorso di questa imperdibile mostra le raffigurazioni della Menorah per mano di grandi artisti del XX e del XXI secolo. Segnaliamo, infine e doverosamente, che la seconda sede della mostra raccoglie una serie di tesori inestimabili, resi ancora piú preziosi dallo scrigno che gelosamente li conserva, il piccolo Museo Ebraico di Roma.

DOVE E QUANDO «La Menorà. Culto, storia e mito» Città del Vaticano, Braccio di Carlo Magno Roma, Museo Ebraico di Roma fino al 23 luglio Orario Braccio di Carlo Magno: lu-ma-gio-ve-sa, 10,00-18,00; me, 13,00-18,00; do chiuso; Museo Ebraico di Roma: do-gio, 10,00-18-00; ve, 10,00-16,00; sa chiuso Info www.museivaticani.va www.museoebraico.roma.it Catalogo Skira a r c h e o 67


ETRURIA • CERVETERI

MAESTRI DI

IDRAULICA

CERVETERI, UNA DELLE PIÚ FIORENTI METROPOLI ETRUSCHE, È NOTA INNANZITUTTO PER LE SUE GRANDIOSE NECROPOLI. MA NEL SUO TERRITORIO SI CONSERVANO ANCHE SPETTACOLARI TESTIMONIANZE DI INGEGNERIA GRAZIE ALLE QUALI LA CITTÀ POTÉ ASSICURARSI LA PIÚ PREZIOSA DELLE RISORSE: L’ACQUA di Vincenzo Bellelli

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elle Antichità Romane, lo storico greco Dionigi di Alicarnasso, attivo fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., descrisse Cerveteri – l’antica Caere – come la piú popolosa e prospera città dei Tirreni. Sebbene retrospettivo, mai giudizio storico su una città etrusca, fu piú veritiero: l’archeologia ha infatti confermato pienamente che Caere, dall’inizio alla fine della sua storia, fu una metropoli antica di rango mediterraneo, fiorente e popolosa, proprio come l’aveva descritta duemila anni fa lo storico di Alicarnasso.

Di questa città le scoperte archeologiche hanno riportato alla luce soprattutto le eccezionali necropoli monumentali, che l’UNESCO ha inserito nel 2004 nella lista dei siti Patrimonio Mondiale dell’Umanità, mentre ancora troppo poco conosciamo della città dei vivi.

ATENE D’ETRURIA Come dobbiamo allora immaginarci questa metropoli antica, al di là dell’immagine romantica e idealizzata – quella di una sorta di Atene etrusca – che ci ha lasciato l’architetto Luigi Canina nell’Ottocento,

con le sue splendide tavole ricostruttive? Dove e come vivevano tutti quegli abitanti – circa 25 000, secondo le stime piú accreditate – che popolavano il centro urbano nel suo periodo di maggior sviluppo? E ancora: quali erano i «servizi» di cui questa consistente popolazione urbana poteva usufruire, inclusi in primo luogo quelli che rientravano nella sfera di controllo dello Stato? Se cerchiamo di rispondere a questo fascio di domande, uno degli aspetti piú urgenti da chiarire è quello dell’approvvigionamento idrico e della gestione dell’acqua

Nella pagina accanto: Cerveteri. Panoramica della necropoli della Banditaccia con, sullo sfondo, la città odierna. In basso: veduta della parte occidentale dell’antica città di Cere, disegno di Luigi Canina. 1846.

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nell’area urbana e nel suo territorio. Come gestivano gli abitanti di Caere questa risorsa naturale preziosa, che oltre duemila anni fa condizionava, molto piú di oggi, la vita delle comunità antiche? Nel tentativo di rispondere a questa domanda, presentiamo in queste pagine i primi risultati di una ricerca di «Archeologia dell’Acqua» che l’istituto di studi sul Mediterraneo antico (ISMA) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) conduce da alcuni anni sul sito urbano di Cerveteri, con il sostegno prezioso della Soprintendenza archeologica, a latere delle attività che esso svolge sul pianoro cerite dagli anni Ottanta del secolo scorso.

«PAESAGGIO D’ACQUA» La città di Cerveteri venne fondata agli inizi dell’età del Ferro in un contesto ambientale ricco di risorse idriche, un vero e proprio «paesaggio d’acqua». Forse non a caso, una delle «leggende di fondazione» tramandate dalle fonti antiche con

riferimento a Cerveteri ci presenta i futuri conquistatori della città – i Pelasgi – alla ricerca di acqua nel territorio in cui erano appena sbarcati. La sede individuata dagli abitanti della regione per la fondazione urbana era infatti un esteso pianoro tufaceo, posto fra la costa tirrenica e il lago di Bracciano, delimitato da due corsi d’acqua a regime torrentizio, il Manganello a nord e il Vaccina a sud. 70 a r c h e o

Benché nelle fonti letterarie latine solo quest’ultimo venga ricordato come il «fiume di Cerveteri» – e in effetti tale è l’aspetto del Vaccina anche oggi, mentre il Manganello è poco piú di un rigagnolo – tutto fa credere che le sorgenti naturali che alimentavano la popolazione urbana di Cerveteri fossero poste nel Fosso del Manganello, a nord della città. Nel 1878, allo sbocco della Via degli Inferi (la strada scavata nel tufo che


una rete capillare di oltre 400 tra pozzi, cunicoli e cisterne, con una concentrazione rilevante di opere lungo il perimetro del pianoro. La tecnologia di queste opere idrauliche è semplice e sofisticata al tempo stesso: gli antichi abitanti di Cerveteri sfruttavano l’alto coefficiente di lavorabilità della pietra locale (il tufo vulcanico), realizzando opere ipogee e gallerie di grande ampiezza ed estensione, dovunque ci fosse

Nella pagina accanto, in basso: veduta aerea del Fosso del Manganello (a sinistra), uno dei corsi d’acqua che delimitano l’area dell’abitato e del versante nord-occidentale del pianoro dei Vignali (a destra).

Nella pagina accanto, in alto: ingresso moderno della sorgente etrusca scoperta nel 1878. In basso: panoramica aerea del territorio di Cerveteri con indicazione delle principali aree d’interesse. Porta Coperta

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Valle Zuccara

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Tempio di Hera Vigna Tempio del Parrocchiale Vigna Ramella Manganello Vigna Marini Terreno Vitalini Vigna Renzi Grande Casaccia

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UNA RETE CAPILLARE Nell’area urbana di Caere propriamente intesa, di cui va ricordata la ragguardevole estensione (150 ettari circa), la ricerca archeologica non ha segnalato la presenza di sorgenti

d’acqua importanti, ma in compenso ha rivelato l’esistenza, fino a qualche anno fa insospettata, di tratti anche notevoli di condutture idriche sotterranee (sia nel cuore dei Vignali, che nel sottosuolo dell’acropoli, nel nucleo medievale della città moderna). In particolare, le esplorazioni condotte per conto del CNR da Giuliana Nardi a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso hanno permesso di censire

Via

collegava l’area urbana alla piú importante delle necropoli, n.d.r.), al piede dell’altopiano della Banditaccia, fu identificata la principale di queste sorgenti d’acqua: una grotta naturale in cui erano state convogliate, attraverso canalizzazioni sotterranee, acque sorgive che sono state utilizzate fino alle soglie della contemporaneità. La scoperta, di cui il segretario comunale Francesco Rosati diede notizia nell’opera Cere e i suoi monumenti (1890), destò entusiasmo patriottico e orgoglio municipale: dopo aver fatto analizzare l’acqua in laboratorio dall’esimio professor Balestra, le autorità municipali decretarono infatti l’adduzione dell’acqua potabile nel centro abitato, con opere che furono realizzate in pochi anni. In questo modo la città di Cerveteri rivendicava con fierezza una ideale linea di continuità con l’epoca etrusca dimostrando la lungimiranza degli antichi abitanti del luogo in materia di approvvigionamento idrico. Che l’impianto originario risalisse a epoca etrusca, come sosteneva Rosati, sarebbe stato dimostrato dall’iscrizione monumentale in alfabeto etrusco incisa su una parete della cavità rupestre – oggi purtroppo scomparsa – che ricordava il nome del magistrato cittadino (forse un marone?) che aveva realizzato l’opera. Almeno altre due sorgenti erano localizzate sul versante opposto del Fosso del Manganello, lungo i fianchi scoscesi della rupe dei Vignali: una fu individuata nel 1885, piú o meno di fronte a quella posta presso lo sbocco di Via degli Inferi, l’altra si trovava presso il santuario del Manganello, laddove oggi c’è un fontanile utilizzato come abbeveratoio.

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la possibilità di catturare, conservare e stoccare l’acqua piovana e quella che si trovava nel sottosuolo. Se l’aspetto delle cisterne è quello tipico di questi manufatti in tutte le culture (ambienti ipogei a pianta quadrangolare con soffitti eventualmente sostenuti da pilastri e scale laterali di accesso, con pareti provviste di rivestimenti a tenuta idraulica), del tutto peculiare era l’aspetto dei pozzi idrici: costruzioni a canna cilindrica verticale di straordinaria perfezione tecnica, a volte profondissime, in grado di raggiungere i 30-40 m di profondità, con «pedarole» sfalsate scavate lungo le pareti cilindriche, che, dopo essere state utilizzate durante la fase di escavazione, servivano poi per la manutenzione della struttura. Degna di nota è anche la forma dei cunicoli. Si tratta di gallerie sotterranee, a volte molto brevi (poche decine di metri), altre volte piú lunghe, scavate nel sottosuolo, anche a

grande profondità, intervallate da pozzi verticali che garantivano la comunicazione con l’esterno. Le gallerie avevano fondo piano e volta arcuata; erano larghe circa 1 m e alte circa 1,60/1,80 m: dimensioni sufficienti per consentire agli antichi operai di muoversi e lavorare. A che cosa servivano tutti questi cunicoli sparsi sul pianoro urbano di Cerveteri? Si tratta di canali di drenaggio, oppure di impianti di captazione di acqua potabile che sfruttavano il principio fisico del percolamento e della filtrazione? L’esperienza ceretana suggerisce che la funzione dei cunicoli vada determinata caso per caso e che, per farlo, oltre alla tecnologia di realizzazione e alla forma del manufatto, a Cerveteri come ovunque, debbano essere tenuti in debito conto i seguenti fattori: posizione topografica della galleria (conca valliva, collocazione periferica urbana o d’altro tipo, prossimità dei cigli, presenA sinistra: veduta di un pozzo etrusco posto sul bordo del pianoro cerite, sezionato accidentalmente. Al suo interno si possono notare le pedarole scavate nella parete. A destra: un’immagine dell’interno di un cunicolo. La funzione originaria di questi spazi, che formano una estesa rete sotterranea, non è stata ancora determinata in modo assoluto.

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In alto: pozzo idrico con pedarole emerso dagli scavi archeologici del santuario del Manganello.

za di corsi d’acqua da irregimentare, ecc.), vicinanza di ambienti ipogei (cisterne), estensione del condotto sotterraneo. Se davvero si trattava, come è stato accertato in alcuni casi, di impianti idraulici finalizzati alla raccolta dell’acqua potabile, avremmo una suggestiva analogia con la tecnologia dei qanat iranici (sistemi composti da file di pozzi collegati a un canale sotterraneo, n.d.r.). Non per caso, soprattutto fra gli orientalisti, si è fatta strada l’idea che la tecnologia

idraulica etrusca, e in particolare quella sottesa alla realizzazione dei cunicoli, sia stata introdotta per via culturale dall’Oriente nel corso del VII secolo a.C. Dobbiamo dunque pensare che dietro l’aquilex etrusco – il rabdomante specializzato nella ricerca dell’acqua, di cui la trattatistica romana aveva grande rispetto (Varrone, Satire Menippee, 448; Plinio ilVecchio, Storia Naturale, XXVI, 16) – si celasse la sapienza orientale dei qanat centro-asiatici, veicolata da ingegneri idraulici immigrati in a r c h e o 73


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Etruria in età orientalizzante? Comunque stiano le cose, e qualunque sia l’origine del know-how, quello che stupisce di questi cunicoli idraulici etruschi sono la frequenza e la pluralità di funzioni, in ambito sia urbano che extraurbano. I numerosi esempi segnalati lungo il perimetro del pianoro di Cerveteri, con sbocco sui cigli, vanno ricollegati a operazioni di drenaggio dei terreni e prevenzione idrogeologica (secondo una ingenua ipotesi ottocentesca, invece, si trattava di vie d’accesso segrete, percorse furtivamente in caso di assedio per attin-

gere l’acqua nel fondovalle); i cunicoli ciechi in pieno contesto urbano, con cisterna adiacente, avevano invece piuttosto funzioni di captazione dell’acqua potabile; quelli di maggior ampiezza dislocati nei fossi e nelle vallate fluviali avevano funzione di drenaggio e bonifica dei terreni soprastanti. La ricerca archeologica documenta dunque per le infrastrutture idriche di Cerveteri una situazione complessa: lo sfruttamento sistematico e razionale delle sorgenti fa pensare a un uso dell’acqua centralizzato e sotto controllo pubblico,

da ricollegare anche a fattori come la crescita demografica; inoltre, l’ampia distribuzione diatopica di pozzi, cisterne e cunicoli, fa pensare a un sistema capillare e puntuale di sfruttamento e gestione delle risorse idriche, replicato ovunque ci fosse la necessità di intervenire, con accorgimenti tecnici standard, collaudati nel tempo.

CANALI DI SCOLO E DI DRENAGGIO Un’altra categoria di opere idrauliche ricorrenti nell’area urbana di Cerveteri è quella dei canali di sco-

STORIE INTERROTTE La ricerca archeologica documenta l’intensa «seconda vita» dei pozzi e delle cisterne di Cerveteri. L’esplorazione di questi manufatti ha infatti evidenziato che, quasi senza eccezione, tutti furono defunzionalizzati

e riempiti di detriti già nell’evo antico. Queste cavità, che in origine servivano per scopi idrici, hanno finito per assumere il ruolo di discariche e ricettacoli di cumuli di detriti edilizi e di stoviglie. I casi piú eclatanti a Cerveteri sono il «pozzo» (forse una cisterna) in località Vigna Grande, nella proprietà di Paolo Calabresi, in cui nel 1840 furono trovate le statue di marmo della famiglia imperiale oggi conservate nel Museo Gregoriano Etrusco e quello del pozzo trovato negli anni Cinquanta del Novecento nelle vicinanze del vecchio campo sportivo di Cerveteri, colmo di lastre dipinte arcaiche, rotte in pezzi. A sinistra: canalizzazione realizzata in blocchi di tufo. In basso: assonometria isometrica ricostruttiva del sistema di canalizzazione.

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lo. In tutti i quartieri urbani esplorati per via archeologica e con la geofisica sono venute alla luce canalizzazioni di vario tipo e veri e propri canali di scolo. Nei casi meglio noti, come nel quartiere arcaico della Vigna Parrocchiale, si tratta di sofisticati sistemi di canalizzazione – vere e proprie fogne con sezione a «U», realizzate con blocchi di tufo di forma parallelepipeda e coperte con pesanti lastre orizzontali. Il sistema doveva garantire lo smaltimento di acque impure derivanti dalle lavorazioni artigianali che avvenivano in loco prima che l’intero

quartiere, con tutti gli impianti idrici e gli apprestamenti di ogni tipo, venisse raso al suolo per costruire un gigantesco tempio tuscanico. Ancora piú articolato era l’impianto idrico messo in luce poco distante,

In alto: fronte della rupe urbana con sbocco di cunicolo. Qui accanto: statua marmorea dell’imperatore Claudio in trono, dagli scavi in località Vigna Grande a Cerveteri. I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Etrusco. A sinistra: pozzetto di ispezione del canale di scolo.

In queste pagine: alcune immagini dallo scavo archeologico in località Vigna Parrocchiale.

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SCOPERTE • XXXX XXXXXX

nel mezzo del pianoro dei Vignali, nel sito battezzato «tempio di Hera». Qui, gli scavi condotti nel 19121913 da Raniero Mengarelli portarono alla luce un intero quartiere «industriale», che oltre a una fornace, comprendeva diversi impianti di uso idrico: cisterne, pozzi, canalizzazioni e vasche di vario tipo.

UN PROGETTO URBANISTICO ORGANICO Fra le innumerevoli opere idrauliche disseminate nel territorio di Cerveteri, oltre ai ponti «sodi» (vedi box a p. 78), una menzione speciale merita la Galleria di Via degli Inferi, uno spettacolare tunnel artificiale (lungo 30 m circa, alto circa 2 e largo 2,5) incluso nel catasto delle cavità del Lazio (CA 217 La, cat. A3), ben noto agli speleologi, ma 76 a r c h e o

ancora sostanzialmente inedito dal punto di vista archeologico. La galleria, in corso di studio da parte dell’ISMA CNR, si trova presso lo sbocco di Via degli Inferi nel Fosso del Manganello, a poche decine di metri di distanza dalla già citata sorgente scoperta nel 1878. Frutto di un sofisticato progetto di ingegneria idraulica, presumibilmente contemporaneo alla creazione del fossato difensivo, la galleria doveva far confluire l’acqua piovana nel letto del fiume, allontanandola dalle fortificazioni e dalla viabilità di circonvallazione che serviva il tratto compreso fra le porte urbiche degli Inferi e della Bufolareccia, e oltre. L’impianto aveva sul lato a monte un ampio bacino di raccolta dell’acqua piovana, e con un tratto in galleria sotterranea di circa 30 m sca-


Dal tempio alle terme A sinistra: veduta aerea del complesso termale (e precedente area templare) sul terrazzo affacciato sul Fosso della Mola. Nella pagina accanto, in basso: scorcio dell’interno della galleria di drenaggio del Fosso del Manganello. In basso: planimetria e sezioni delle opere idrauliche in località Valle Zuccara.

ricava a valle l’acqua direttamente nel fiume, a pochi metri di distanza dal punto in cui gli ingegneri etruschi avevano regolarizzato un salto di quota che faceva cadere l’acqua in basso, a mo’ di cascatella, rallentandone il flusso. La realizzazione della galleria faceva parte di un progetto urbanistico organico e razionale, mirato alla sistemazione della rupe urbana e del relativo fondovalle, in corrispondenza della Via degli Inferi ed è il segno piú evidente, a Cerveteri, di un controllo pubblico della gestione dell’acqua in epoca etrusca.

IL SACRO E L’ACQUA L’acqua, infine, aveva un ruolo di primo piano anche nell’organizzazione del sacro. La dislocazione delle aree di culto, infatti, privilegiava – oltre che l’acropoli e l’area centrale del pianoro dei Vignali – le posizioni strategiche, ovvero le vie di accesso alla città e la prossimità di sorgenti e corsi d’acqua. Il caso meglio noto è quello del santuario fontile di Valle Zuccara, che fu monumentalizzato in età tardo-arcaica nei pressi di una sorgente naturale

presso la quale venne costruita anche una articolatissima opera idraulica sotterranea, costituita da cunicoli e cisterne, posta circa 25 m sotto il ciglio della rupe affacciata sul Fosso della Mola. Altri santuari urbani e sub-urbani avevano al loro interno cisterne e fontane monumentali funzionali al culto e alle attività di ‘servizio’ dell’area sacra. Il grande santuario di Hercle in località Sant’Antonio, per esempio, comprendeva un fons monumentale poi inglobato nel podio del tempo di Hercle. A questa divinità, una delle principali del pantheon cerite, è stato ricondotto anche il complesso monumentale scoperto negli anni Novanta del secolo scorso su uno dei terrazzi che dominano, in splendida posizione, l’aperta vallata del fosso della Mola. Con il passare del tempo il sito non perdette la sua connotazione di complesso edilizio legato all’acqua, perché in epoca romana sulle rovine del tempio sorse un impianto termale. Secondo una recente ipotesi, qui dovrebbe collocarsi il fons herculis – la fontana di Ercole – menzionato nelle fonti letterarie

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OPERE POLIVALENTI In Etruria sono conosciuti con il nome di «Ponti Sodi» quei tunnel che, deviando o ribassando il letto di un piccolo corso d’acqua, costituiscono un ponte e, al contempo, un’opera di regolazione idraulica. Il nome proviene dalla piú famosa di queste opere, il Ponte Sodo di Veio, che George Dennis, in Cities and Cemeteries of Etruria, definí «una delle piú pittoresche opere d’ingegneria». Nei pressi di Cerveteri esiste un altro «Ponte Sodo», noto come «Ponte Coperto». Pur essendo meno noto, è notevolmente piú lungo del ponte veiente, misurando 170 m circa, e in origine, prima che una porzione dell’imbocco di monte crollasse in epoca sconosciuta, si snodava per un’altra trentina di metri. Ponte Coperto incanala l’omonimo fosso, il cui alveo è stato abbassato artificialmente per raccordarlo all’originale quota di fondo del tunnel. A monte di Ponte Coperto il fosso ha una lunghezza di 7 km circa, e una pendenza notevole; a valle del tunnel il corso d’acqua si innesta su un versante ancora piú ripido, aumentando di pendenza e smaltendo facilmente le acque provenienti dal tunnel stesso. Questa situazione implica che, durante le piene, l’acqua del fosso ha una grande velocità e una conseguente forte capacità erosiva: il fondo del tunnel è stato eroso e ribassato di un paio di metri, e le pareti hanno subito numerosi crolli. A causa di queste azioni, la forma originaria dell’opera è oggi pesantemente alterata. Particolarmente impressionante è l’ultimo tratto di valle, dove l’erosione e numerosi crolli della volta hanno formato un enorme camerone, nel quale vi sono i resti di uno sbarramento in muratura, di epoca incerta: è presumibile che servisse a immagazzinare l’acqua, da usare per abbeverare il bestiame o per l’irrigazione in estate, quando il fosso è praticamente asciutto.

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Sul Ponte Coperto passava la via che univa Cerveteri a Veio e oggi sostiene una strada comunale asfaltata, percorsa anche da mezzi pesanti. Il ribassamento artificiale del fondo del fosso, a monte del tunnel, ha permesso di drenare il bacino del corso d’acqua che, in origine, doveva essere una sorta di pianura paludosa, in cui le acque ristagnavano e l’agricoltura non era possibile. L’assetto idraulico dato dai maestri etruschi al fosso di Ponte Coperto ha inoltre consentito di incanalarvi, tramite un altro breve tunnel di collegamento, le acque di un corso d’acqua parallelo, il Fosso dei Santi, che quindi è stato a sua volta bonificato. Come per gran parte delle opere di bonifica piú antiche dell’Etruria meridionale, l’epoca di costruzione di Ponte Coperto non è nota. Tuttavia, si può ipotizzare che risalga all’età arcaica, periodo della massima potenza di Cerveteri. Ponte Coperto è un’opera eccezionale da vari punti di vista: fa parte di un progetto unitario che comprende la sistemazione di due corsi d’acqua e la bonifica idraulica dei relativi bacini ed è integrato in una rete viaria che collega, in un territorio collinare e topograficamente complesso, città fra loro indipendenti. Soprattutto, a oltre duemila anni dalla costruzione, assolve ancora alle funzioni per cui fu costruito. Un’altra importante opera idraulica del territorio ceretano è «Ponte Vivo», un tunnel lungo 20 m circa, che incanala il Fosso del Marmo. Al di sopra del tunnel, anche in questo caso, passava un’importante via di comunicazione regionale, che collegava Cerveteri con i territori a nord-ovest della città, verso Tarquinia e Vulci. Il Ponte Vivo è collegato alla città da due strade: una che proviene dalla Porta settentrionale, l’altra dalla zona della Necropoli della Banditaccia-Via degli Inferi. Walter Dragoni, Pio Bersani e Angelo Canalini


latine. Questa ipotesi presenta tuttavia qualche difficoltà, perché richiede che il complesso venga dissociato dalle altrettanto famose aquae caeretanae, l’impianto termale che nelle fonti letterarie (Livio, Storie, XXII 1, 10; 36, 7-8) è sempre associato al fons herculis e che però, grazie alle indagini della Soprintendenza, è stato localizzato con certezza in località Pian della Carlotta. L’intero versante meridionale della rupe urbana di Caere – quello che guardava verso Roma e verso Veio – appare in ogni caso plasmato nel segno di Ercole (eroe-dio civilizzatore, signore delle fonti) e sembra aver avuto una relazione preferenziale con l’acqua. Benché manchi il riferimento a Ercole, lo stesso legame preferenziale con l’acqua si riscontra sul versante settentrionale della città, affacciato sul fosso del Manganello. Prova migliore non potrebbe esserci del rapporto speciale che gli Etruschi di Caere ebbero con le acque della zona, a confer-

ma del fatto che la gestione del territorio e delle sue risorse idriche pervadevano tutti gli aspetti della vita della comunità antica. Concludendo con le parole di Plinio il In alto: una veduta del complesso delle Aquae caeretanae in località Pian della Carlotta. A sinistra: veduta a volo di uccello del tempio di Hercle in località Sant’Antonio, con fontana monumentale inglobata nel podio templare. Nella pagina accanto: scorcio interno della camera all’uscita del tunnel presso il Ponte Coperto.

Vecchio, che si attagliano alla perfezione a Cerveteri, potremmo dire che «(l’acqua) fa aumentare il numero degli dèi e fa fondare le città» (Storia Naturale, XXXI, 2,2). PER SAPERNE DI PIÚ Giuliana Nardi, La viabilità di una metropoli, in AA.VV., Strade degli Etruschi. Vie e mezzi di comunicazione nell’antica Etruria, Silvana Editoriale, Milano 1985; pp. 157-166 Mauro Cristofani, Giuliana Nardi, Maria Antonietta Rizzo, Caere 1, Il parco archeologico, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma 1988 Margherita Bergamini (a cura di), Gli Etruschi. Maestri di idraulica, Perugia, Electa 1991 Manuela Cascianelli, Gli Etruschi e le acque, Edizioni Ebe, Roma 1991 Rita Cosentino, Cerveteri e il suo territorio, Quasar, Roma 1995 Stefania Quilici Gigli, Sui cosiddetti Ponti Sodi e Ponte Terra, in Lorenzo Quilici, Stefania Quilici Gigli (a cura di), Strade romane, ponti e viadotti, L’«Erma» di Bretschneider, Roma 1996; pp. 7-28 a r c h e o 79


SPECIALE • EGITTO


RIVELAZIONE N

EGITTO

ato nel 1824 per volontà di Carlo Felice di Savoia, il Museo Egizio di Torino ebbe, settant’anni piú tardi, una «seconda fondazione», quando ad assumerne la guida fu chiamato Ernesto Schiaparelli. L’insigne studioso, del quale troverete il profilo biografico all’interno di questo Speciale (vedi alle pp. 90-91), ebbe infatti un ruolo determinante nell’arricchimento delle collezioni, grazie agli acquisti e alle numerose campagne di ricerca in Egitto. E ora, proprio quella fortunata stagione costituisce il cuore della nuova mostra realizzata nel museo torinese, pensata per ripercorrere un’autentica epopea, ma, soprattutto, per sottolineare l’importanza del lavoro di scavo, che il direttore stesso della raccolta, Christian Greco, non esita a definire come uno «degli aspetti fondamentali per la vita dell’Egizio». Il percorso offre dunque l’opportunità di scoprire i piú che proficui risultati ottenuti dalla Missione Archeologica Italiana (M.A.I.) e di rivivere, seppur virtualmente, le emozioni, ma anche le esperienze di vita quotidiana dei suoi membri. Uno degli aspetti che maggiormente connotano l’esposizione è infatti l’ampio utilizzo del ricco archivio fotografico del museo, che, accanto alle immagini realizzate per documentare le ricerche, propone scatti che evocano le atmosfere della vita degli scavatori e il contesto nel quale si trovarono a operare. Immagini d’epoca, alle quali si accompagnano non meno suggestive pagine ingiallite di taccuini e diari di scavo. «Missione Egitto» documenta dunque una sorta di archeologia dell’archeologia, raccontando le imprese compiute dal Museo Egizio nei primi decenni del Novecento con lo stesso piglio che accomunò i protagonisti di quelle campagne nella riscoperta della civiltà egiziana. Nella pagina accanto: cartellone pubblicitario della compagnia ferroviaria Paris-Lyon-Méditerranée. 1927. Torino, Collezione Soleri. a r c h e o 81


SPECIALE • EGITTO

L’EGITTO DI INIZIO NOVECENTO di Alessia Fassone

I

rapporti tra l’Egitto e Torino iniziano dopo la campagna militare napoleonica del 1799; infatti, è di origine piemontese Bernardino Drovetti, il generale che lo stesso Napoleone vuole come rappresentante della Francia ad Alessandria, dove resta fino al 1829. Durante la sua permanenza, Drovetti stringe rapporti ufficiali e personali con Muhammad ‘Ali, un generale turco di origini albanesi, che governa il Paese per conto dell’impero turco. La loro collaborazione porta all’introduzione in Egitto di numerose innovazioni tecniche in campo agricolo, burocratico, militare e sanitario; il modello di riferimento è il sistema amministrativo francese, che apre la strada a un’evoluzione del Paese in chiave industriale e commerciale. Numerosi professionisti europei giungono al Cairo e ad Alessandria per realizzare progetti urbanistici e infrastrutturali, installare attività economiche, gestire l’apparato statale e formare i quadri dirigenti locali. Inoltre, Muhammad ‘Ali ottiene che i suoi discendenti godano della sovranità ereditaria sull’Egitto, regnando come khedive (viceré). Tra i suoi successori, Sa’id Pasha è colui che avvia lo scavo del Canale di Suez, terminato sotto il regno del figlio Isma’il, nel 1869; le due città che si trovano lungo il percorso, Porto Sa’id e Isma’iliya, ricordano nei loro nomi i rispettivi fondatori. Ai lavori partecipano anche maestranze italiane, con l’impiego di un gran numero di operai provenienti in particolare da Piemonte,Toscana e Veneto. Grazie alla nuova rotta marittima creata dal Canale, le relazioni commerciali ed economiche vivono una fase di grande impulso e l’Egitto diventa il perno dei collegamenti via mare; perciò Isma’il avvia anche la costruzione di una moderna rete ferroviaria e di un servizio postale, oltre a riformare il sistema doganale. In occasione dell’inaugurazio-

ne del Canale, il khedive commissiona la composizione di un’opera lirica degna dell’evento: l’incarico verrà assegnato a Giuseppe Verdi, che compone Aida, rappresentata per la prima volta all’Opera del Cairo nel 1871. La presenza di europei in Egitto diventa massiccia, apporta investimenti e innovazioni, ma al contempo condiziona la vita politica e culturale del Paese, suscitando il malcontento tra i nazionalisti. La rivolta guidata dall’ufficiale egiziano ‘Urabi Pasha, di umili origini, sfocia nel 1882 in un attacco alla comunità straniera di Alessandria, a cui gli Inglesi rispondono con il bombardamento dei bastioni della città e con la sua occupazione; il conseguente controllo britannico imposto al Paese, governato da Abbas Hilmi II, si traduce in un vero protettorato nel 1914, destinato a terminare nel 1922 dopo le rivolte anticoloniali guidate dall’ex ministro Sa’ad Zaghlul. Sale dunque al potere Fu’ad, che in gioventú ha frequentato l’Accademia Militare di Torino, stringendo un forte rapporto di amicizia con il futuro re Vittorio Emanuele III. In virtú di questo legame privilegiato, il re d’Italia trova ospitalità in Egitto dopo la sua abdicazione nel 1946, accolto dal nuovo re Faruk; morto l’anno successivo, è tuttora sepolto nella cattedrale di S. Caterina ad Alessandria. Infine, lo stesso figlio di Fu’ad, deposto dalla rivoluzione dei colonnelli nel 1952, ripara in Italia, dove diventa uno dei protagonisti della «dolce vita» di Roma; lí muore nel 1965.

GLI ITALIANI SUL NILO Le relazioni commerciali, culturali e politiche tra l’Italia e l’Egitto hanno un’origine lontana, che affonda le sue radici nell’età medievale, quando i mercanti delle Repubbliche Marinare collegavano regolarmente le sponde del Mar Mediterraneo con una fitta rete di

Nella pagina accanto: una merenda-picnic organizzata da un gruppo di turisti europei nella sala ipostila del tempio di Karnak a Luxor. 1900 circa. Firenze, Roger-Viollet/Alinari. 82 a r c h e o


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scambi. La costante presenza lungo le coste del Levante e dell’Egitto settentrionale di basi commerciali europee si traduceva fin dal XII secolo in una serie di contratti stipulati tra l’impero ottomano e le potenze europee, chiamati «capitolazioni», che regolavano diritti e doveri degli stranieri presenti sui territori posti sotto il controllo della Sublime Porta. In particolare, ai cittadini delle Repubbliche Marinare era riconosciuto il diritto di rispondere alle norme giuridiche degli Stati di provenienza, godendo altresí di particolari forme di immunità giurisdizionale e personale, che si estendevano fino all’inviolabilità del domicilio privato e al diritto di libero stabilimento. Tali privilegi rimangono in vigore in Egitto fino al 1937, e per questa ragione la giustizia è amministrata fino ad allora nei cosiddetti Tribunali Misti; in particolare, l’italiano era una sorta di «lingua franca» per le questioni commerciali e diplomatiche. Nonostante questi antichi rapporti, una vera e propria comunità italiana in Egitto si costituisce soprattutto durante l’Ottocento, a seguito dei contatti successivi alla Campagna Napoleonica e alla rifor ma dello Stato attuata da Muhammad ‘Ali, che si avvale della consulenza di molti professionisti europei. Tra questi, sono numerosi gli amministratori, incaricati di riorganizzare il territorio e il catasto, gli ingegneri per la modernizzazione degli impianti idraulici e industriali, e gli architetti, addetti alla progettazione di impianti urbanistici razionali e moderni al Cairo e ad Alessandria. Risalgono a questo periodo le opere di assetto urbanistico del centro di Alessandria, nella zona della Piazza dei Consoli, dove trovano posto anche il Palazzo dei Tribunali Misti e il Palazzo della Borsa, o nel centro del Cairo, dai quartieri di Garden City a quello di Ezbekiya.

In basso: fotografia stereografica che ritrae una cosiddetta «nave del deserto» nei pressi delle tombe musulmane costruite fuori delle mura del Cairo. 1896. Firenze, Raccolte Museali Fratelli Alinari.

che attrae numerosi lavoratori italiani (è il caso, per esempio, della famiglia del poeta Giuseppe Ungaretti). Oltre all’emigrazione di manodopera specializzata e artigianale verso l’Egitto dettata dalle nuove possibilità di lavoro offerte dalle grandi opere, dal Risorgimento in poi si assiste anche alla partenza di INGEGNERI E LETTERATI Un primo trasferimento di artisti, architetti e molti intellettuali, soprattutto di stampo anaringegneri italiani avviene verso la metà chico, che cercano realizzazione dei loro dell’Ottocento: sono chiamati a intervenire ideali lontano dal sistema politico sabaudo, dal nella modernizzazione dell’economia e clericalismo e – successivamente – dalla deridell’urbanistica egiziane, in particolare nel va dittatoriale fascista. periodo della costruzione del Canale di Suez, Le due maggiori comunità italiane si stabili-

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tidue, delle quali oggi sopravvive soltanto la Società Italiana di Beneficenza. A queste istituzioni si affiancano all’epoca anche centri di assistenza ed enti scolastici, come le Scuole Littorie, l’Ospedale Italiano, la Casa di Riposo «Vittorio Emanuele III» e l’Associazione Dante Alighieri. La vita culturale è sostenuta anche da numerosi bollettini e giornali di lingua italiana, mentre gli studenti italiani raggiungono addirittura il numero di 1500 unità in ben 15 scuole. La comunità italiana spicca per l’alta qualità intellettuale dei suoi componenti: annovera importanti architetti, come Francesco Mancini, Mario Rossi, Ernesto Verrucci, Alessandro Loria. La compagine dei letterati vede attivi Giuseppe Ungaretti, Enrico Pea, Filippo Tommaso Marinetti, Fausta Cialente; artisti, cantanti, musicisti e giornalisti contribuiscono a diffondere la cultura italiana anche presso la popolazione locale, come testimoniano i numerosi termini italiani tuttora usati nella Nel corso parlata colloquiale egiziana di Alessandria. Le solide relazioni tra Italia ed Egitto all’inidell’Ottocento, in zio del Novecento sono confermate anche Egitto si costituisce dalla già menzionata amicizia personale sorta tra i futuri re Vittorio Emanuele III e Fu’ad una vera e propria all’Accademia Militare di Torino. La presenza italiana raggiunge il suo apice comunità italiana poco prima della Seconda Guerra Mondiale, con oltre 60 000 membri (stabiliti tra Alessanscono ad Alessandria d’Egitto e al Cairo, ma dria e Il Cairo) che costituiscono il terzo quest’ultima è meno consistente; altri conna- gruppo etnico del Paese, dopo quello egiziazionali si trovano nelle città del Canale di no e greco. Dopo la guerra, e soprattutto Suez e nel Delta, dove prosperano industrie dopo la Crisi di Suez del 1956, la presenza e commerci. La prossimità della costa alessan- delle comunità straniere si riduce sensibildrina con la frontiera libica senza dubbio mente. Da quel momento, infatti, non solo il incentiva l’emigrazione verso le coste egizia- Canale e i suoi proventi sono nazionalizzati, ne di numerosi mercanti e artigiani, ai quali ma tutti i beni e le attività economiche degli si va ad aggiungere col tempo un numero stranieri sono confiscati e gli Ebrei cacciati crescente di lavoratori dovuto all’arretratezza dal Paese; con loro partono in massa anche economica italiana; tra questi spicca una forte altri stranieri, ormai minacciati dall’instabilità presenza di donne e ragazze provenienti dal politica, dalla disoccupazione e dalle sempre Nord-Est italiano, che trovano impiego come crescenti tensioni sociali. Gli eventi politici cameriere, commesse, operaie. Il Nord Africa che segnano gli anni Cinquanta e Sessanta in diviene per molti emigranti «l’America dei Egitto e in Libia costringono la gran parte dei poveri», in virtú soprattutto della relativa vi- residenti stranieri a rientrare in Europa, riducinanza alle coste italiane e del basso costo cendo drasticamente la presenza italiana in Egitto alle scarse 3000 unità attuali. Inoltre, il della vita in loco. Ad alleviare le talora precarie condizioni di Consolato Italiano di Alessandria ha cessato la vita dei nuovi immigrati dall’Italia operano sua attività nel 2013, nel quadro della riorganumerose associazioni filantropiche, molto nizzazione delle sedi diplomatiche per il attive soprattutto durante il periodo fascista; contenimento delle spese delle pubbliche nella sola Alessandria se ne contano ben ven- amministrazioni. Infine, ha contribuito al A sinistra: un altro esempio di fotografia stereografica, che ritrae una veduta dei Templi di File (Philae), sull’isola omonima nel fiume Nilo. 1904. Firenze, Raccolte Museali Fratelli Alinari.

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progressivo abbandono dell’Egitto da parte degli Italiani anche l’incerta situazione politica ed economica seguita alla rivoluzione del 2011, che ha intaccato le pur fiorenti aziende italiane prima presenti sul territorio.

L’INDUSTRIA TURISTICA Viaggiare in Egitto e in Oriente prima del XIX secolo non era una pratica comune, a causa dei lunghi tempi di trasporto, della pericolosità delle traversate e – non da ultimo – delle insopportabili condizioni climatiche e igieniche. A partire invece dalla riscoperta della civiltà egizia all’inizio dell’Ottocento, a seguito della spedizione napoleonica e delle informazioni che andavano diffondendosi in Europa a mezzo stampa, la terra del Nilo diventa meta di un turismo sempre piú curioso e invadente. In principio, sono soprattutto uomini d’affari e politici inglesi, che si spostano verso i territori coloniali indiani, a far tappa in Egitto e in Terra Santa, sovente accolti e supportati dai rappresentanti diplomatici sul posto; la via marittima attraverso il Mediterraneo e il Mar Rosso si rivela infatti piú rapida ed economica di quella terreste, corrispondente all’antica Via della Seta. Il potenziamento dei collegamenti via mare rende piú agevole l’arrivo ad Alessandria, dove verso la metà del secolo sbarcano oltre 2000 passeggeri britannici all’anno. Il loro numero è tale da suscitare vibrate reazioni da parte di consoli e ambasciatori, soverchiati dalle richieste di ospitalità. Anche le scoperte archeologiche e la sensazione suscitata in Europa dalla presenza delle antichità egizie spingono studiosi, artisti e collezionisti a visitare il Paese. In Egitto, intanto, le infrastrutture sono in fase di rinnovamento, grazie all’opera di modernizzazione voluta da Muhammad ‘Ali, che porta al potenziamento delle strade, dei trasporti e della sicurezza. In questo contesto si inseriscono anche le iniziative di sviluppo turistico promosse da compagnie private, come quella di Thomas Cook, l’inventore del tour operator. Un viaggio organizzato libera il cliente dall’incombenza di ricercare alloggio, trasporti e guide, permettendo di compattare le visite in poco tempo e con minori costi. Dal 1870 circa la Thomas Cook & Son gestisce un servizio di navi a vapore che percorrono il Nilo tra Il Cairo e Assuan, ha un ufficio al

Nella pagina accanto: ancora una foto della merenda-picnic nella sala ipostila del tempio di Karnak a Luxor. 1900 circa. Firenze, RogerViollet/Alinari. In basso: cartello pubblicitario della compagnia James Moss & Company, che ebbe nell’esportazione del cotone egiziano una delle sue principali fonti di profitto. 1900 circa. Torino, Collezione Soleri.

Cairo presso lo Shepheard’s Hotel e organizza un flusso di viaggiatori che raggiunge le 11 000 presenze nel 1890. Indubbiamente, anche la sfarzosa inaugurazione del Canale di Suez, nel 1869, attira un gran numero di stranieri: è presente anche l’imperatrice di Francia Eugénie – che viaggia sul Nilo a bordo di una dahabiya – per la quale viene ampliato l’hotel Mena House Oberoi a Giza e si costruisce una strada che porta dalla città alle piramidi. Due anni dopo, al Cairo debutta l’opera Aida di Giuseppe Verdi, composta appositamente per l’occasione. L’edilizia alberghiera subisce quindi un deciso impulso in tutte le località toccate dal turismo e dal commercio: Alessandria, la Valle del Nilo, il Canale di Suez; sorgono il Winter Palace a Luxor, il Cataract ad Assuan, lo Shepheard’s al Cairo. I grandi alberghi diventano anche centri di aggregazione per gli stranieri residenti in Egitto e offrono servizi esclusivi e prodotti d’importazione europei. L’Egitto diventa anche una meta privilegiata per chi vuole svernare lontano dal clima freddo e

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umido del Nord Europa, in un Paese relativamente vicino, abituato alla cultura occidentale, dal fascino esotico e relativamente sicuro. I clienti trovano cosí sistemazioni in hotel di prima categoria dotati di ogni comfort, trasporti comodi e talora persino refrigerati (come i convogli di prima classe della compagnia belga Wagons-Lits), imbarcazioni con arredi alla moda e decori in materiali pregiati. Parallelamente, inizia anche una produzione di guide turistiche che hanno lo scopo specifico di accompagnare i viaggiatori nelle loro escursioni; tra queste, la piú longeva è quella del tedesco Karl Baedecker, la cui prima edizione risale al 1878. Ai testi per uso pratico si affiancano anche numerosi resoconti di viaggio, corredati di illustrazioni e farciti di aneddoti curiosi e sorprendenti, romanzi e racconti ispirati all’Egitto antico e moderno. Dopo una battuta d’arresto del flusso turistico nel periodo della Prima Guerra Mondiale, gli anni Venti del Novecento vedono un’affermazione della crociera sul Nilo come un must imprescindibile per i ricchi borghesi, creando cosí un rilancio degli investimenti stranieri nel settore turistico egiziano. Negli anni successivi al 1922, l’incremento maggiore in termini di presenze è dovuto alla scoperta della tomba di Tutankhamon, che attira frotte di curiosi e di giornalisti, al

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punto da rendere difficoltoso il lavoro degli archeologi nella Valle dei Re. La crisi mondiale degli anni Trenta e il successivo nuovo evento bellico causano un crollo netto delle presenze di viaggiatori in Nord Africa.Tuttavia, gli alberghi non restano vuoti ma diventano i quartier generali dei comandi militari delle forze impegnate sul fronte africano. Finita la guerra, è però l’instabilità della situazione politica in Medio Oriente e in Egitto a tenere lontani i turisti: si assiste alla cacciata di re Faruk e alla proclamazione della Repubblica Egiziana nel 1952, alla nazionalizzazione del Canale di Suez nel 1956, ai conflitti contro Israele nel 1967 e nel 1973. Tuttavia, è ancora l’archeologia a sostenere il mercato turistico: la sensazionale operazione di salvataggio dei templi nubiani dalle acque del Lago Nasser, formatosi dopo la costruzione della diga di Assuan, richiama nuovamente gli appassionati nella terra dei Faraoni. Il fenomeno dei viaggi di massa che caratterizza gli ultimi anni del Novecento subisce un brusco e improvviso arresto nel 2011, a causa delle rivolte che portano alla deposizione del presidente Mubarak. Sperando in un ricorso ciclico della storia, è da augurarsi che siano nuove scoperte archeologiche a riportare un’altra volta gli stranieri in viaggio nella Valle del Nilo.

Nella pagina accanto: la copertina de La Domenica del Corriere del 12 agosto 1956, che illustra con un disegno la notizia della nazionalizzazione del Canale di Suez. Gamal Abdel Nasser, allora Presidente della Repubblica egiziana, è raffigurato mentre appunta la bandiera egiziana su una carta geografica,in corrispondenza del Canale di Suez, dopo aver rimosso quella inglese. In basso: L’arrivo di Sua Maestà l’Imperatore d’Austria a Port Saïd, litografia di Gustave Nicole tratta dalla serie Inauguration du Canal de Suez. 1869.


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DALLE MONTAGNE AL DESERTO di Beppe Moiso, Maria Cristina Guidotti, Federico Poole ed Egle Micheletto

Ernesto Schiaparelli nacque il 12 luglio 1856 a Occhieppo Inferiore, un paesino ai piedi delle montagne, a pochi chilometri da Biella. Nel 1878, dopo il conseguimento della laurea in lettere all’Università di Torino con una tesi intitolata Del sentimento religioso degli antichi Egiziani secondo i monumenti, sotto la guida dell’ottimo professore di egittologia Francesco Rossi, si trasferí a Parigi per un corso di specializzazione all’École Pratique des Hautes Études della Sorbona, dove seguí le lezioni di Eugène Revillout e di Gaston Maspero. Con quest’ultimo, di origine italiana, instaurò una salda amicizia, che molto lo sostenne durante le sue ricerche in Egitto, visto che Maspero, dopo la morte di Auguste Mariette (1881), fu chiamato a sostituirlo alla direzione del Service des Antiquités de l’Égypte. Schiaparelli rientrò in Italia sul finire del 1879 assumendo, per un breve periodo, l’incarico di Ispettore della Pubblica Istruzione a Roma; poi si trasferí a Firenze al Museo Archeologico, prima come assistente della collezione egizia ed etrusca e poi, alla fine del 1881, come direttore della sezione egizia. Qui, al fine di ampliare le collezioni, organizzò due campagne di acquisti di antichità in Egitto, nel 1884-1885 e nel 1891-1892. Nel 1894, con la morte di Ariodante Fabretti, Ernesto Schiaparelli fu chiamato a Torino per sostituirlo alla direzione del Regio Museo di Antichità ed Egizio e interruppe cosí la sua preziosa esperienza con l’ambiente fiorentino. Giunto a Torino nell’autunno del 1894 – la nomina a direttore è del 30 settembre – Schiaparelli si dedicò con energia al riassetto del museo che, rimasto a lungo inattivo, rischiava di perdere quel primato che lo aveva reso celebre nel mondo. Occorreva rinnovare gli allestimenti con nuove e piú luminose vetrine, sul modello di quelle adottate per Firenze, e occorreva farlo entro la primavera del 1898, data in cui si sarebbe svolta a Torino l’Esposizione Generale Italiana. Inoltre, per tornare a competere con i principali musei d’Europa e d’America, era necessario incrementare le collezioni, colmando le lacune della Collezione Drovetti. I nuovi allestimenti del museo vennero inaugurati il 21 maggio del 1898, con la sistemazione della «manica» a chiusura del cortile verso vicolo Eleonora Duse che ospitava, al piano terra, la statuaria greco-romana. Terminati i gravosi impegni derivanti dall’Esposizione, 90 a r c h e o

In alto: ritratto di Ernesto Schiaparelli in età avanzata. È una delle pochissime fotografie del grande egittologo, che è ricordato anche per l’estrema riservatezza. Nella pagina accanto: parti del mobilio e degli oggetti dello studio di Ernesto Schiaparelli.

anche con il riordino delle collezioni, Schiaparelli si attivò prontamente, come già aveva fatto per il museo fiorentino, programmando una importante campagna di acquisti e il 15 ottobre del 1900 sollecitava l’allora Ministero dell’Istruzione Pubblica, per ottenere il finanziamento di una campagna che si sarebbe svolta nei mesi di gennaio e febbraio dell’anno seguente. Schiaparelli percorse l’Egitto fino ad Assuan e il 23 febbraio 1901, già rientrato al museo, comunicava al Ministero l’esito positivo della missione, con le antichità acquistate già in viaggio per Torino e piú tardi, il 23 novembre, stilando un rapporto dettagliato degli acquisti e definendoli «molti e preziosi». Tuttavia Schiaparelli aveva ben compreso che le campagne di acquisti in Egitto non rappresentavano la strada migliore per arricchire le collezioni, sia per gli elevati costi che comportavano, sia per l’acquisizione di materiali decontestualizzati e spesso di provenienza ignota. Occorreva invece intraprendere ricerche direttamente sul campo, cosí come facevano altri musei,


programmando piú stagioni di scavo e individuando preventivamente i siti che avrebbero potuto restituire materiali interessanti. Inoltre, le procedure per l’ottenimento delle necessarie concessioni di scavo erano assai semplici e le regole allora vigenti consentivano ancora ai ricercatori di trattenere anche piú della metà degli oggetti scoperti, in base alla loro importanza e rarità. Per di piú Schiaparelli poteva anche contare sul suo maestro parigino, Gaston Maspero, promosso alla direzione del Service des Antiquités de l’Égypte, e sulla presenza delle numerose stazioni missionarie francescane disseminate sul territorio che avrebbero potuto fornirgli il supporto logistico. Sarebbe però stato necessario trovare i fondi, certo fuori dalla portata delle misere finanze del museo, per sostenere anche lunghi soggiorni in Egitto, con l’assunzione di numeroso personale indigeno, e infine bisognava affrontare i costi dei trasporti. Per Schiaparelli, che già meditava una intensa attività archeologica, si stava delineando un futuro faticoso e denso di impegni, una situazione che poi lo accompagnerà per tutta la vita. Ai compiti derivanti dai doveri istituzionali, legati alla direzione del Museo di Antichità ed Egizio, si aggiunsero infatti presto quelli legati alla creazione di tre istituzioni assistenziali che, come vedremo piú avanti, si irradieranno, con una frenetica attività, in Europa, Africa, Asia e Americhe. Intanto, con la riorganizzazione amministrativa del territorio italiano in fatto di tutela archeologica, il Ministero della Pubblica Istruzione, tramite la legge n. 386 del 1907, istituí le Soprintendenze Archeologiche, definendone i ruoli e le aree di influenza. Ernesto Schiaparelli venne nominato Soprintendente, il 15 marzo

del 1908, di un’area molto vasta, comprendente, oltre al Piemonte e la Valle d’Aosta, anche la Liguria e, piú tardi, parte della Lombardia. Saranno sotto la sua responsabilità gli scavi archeologici e i musei di tutto il territorio, compreso quello egizio fino al 1927, quando gli succederà Pietro Barocelli. Poco dopo, nel 1909, Francesco Rossi lasciò per raggiunti limiti di età l’insegnamento di Egittologia all’ateneo torinese ponendo fine alla cattedra. L’insegnamento venne proseguito da Ernesto Schiaparelli, in qualità di direttore del Museo Egizio e già libero docente dal 1898, inaugurando una tradizione proseguita fino al 1990. Il 23 febbraio del 1923, Schiaparelli partí l’ultima volta verso l’Egitto per recuperare il materiale archeologico raccolto nel corso dell’ultima sua campagna di scavi a Gebelein e depositato presso la Missione Francescana di Luxor, da dove tutto aveva avuto inizio, quasi quarant’anni prima. Il 18 settembre del 1924 venne nominato Senatore del Regno e, appena un mese dopo, il 17 ottobre, alla presenza di Vittorio Emanuele III, suo primo mecenate, venne inaugurato il nuovo allestimento del museo a cui aveva collaborato anche Pietro Barocelli, con l’apertura di tre nuove sale, dedicate alle scoperte compiute a Gebelein e Assiut. L’uomo schivo, dal carattere determinato e autoritario che aveva dominato la scena per decenni, era oramai stanco e malato e a chi gli consigliava di prendersi maggiore cura della sua persona rispondeva: «Lo farei se fossi giovane, ma oramai la macchina è usata, non vuol piú saperne di funzionare». Il Senatore Ernesto Schiaparelli veniva meno alle prime luci dell’alba del 14 febbraio del 1928, nella sua casa torinese di corso Oporto 40 (oggi Giacomo Matteotti).

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LA MISSIONE ARCHEOLOGICA ITALIANA IN EGITTO di Beppe Moiso

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differenza degli altri Paesi, l’Italia si attivò nella ricerca archeologica in Egitto solo nel 1903 con la nascita della Missione Archeologica Italiana (M.A.I.). I precedenti viaggi in Egitto per acquistare antichità al fine di arricchire le collezioni dei musei di Firenze e Torino avevano definitivamente convinto Ernesto Schiaparelli sulla inopportunità di procedere in tal senso, anche a causa dei numerosi elementi negativi che erano emersi. Innanzitutto i materiali provenivano in larga misura da scavi clandestini e il loro acquisto, oltre a incentivarne l’illecita ricerca, era mal tollerato dalle autorità delegate alla tutela delle antichità, che assistevano impotenti al totale sconvolgimento delle aree archeologiche. Intere famiglie si dedicavano da oltre un secolo alla ricerca di antichità, mantenendo segreti i luoghi da cui periodicamente prelevare gli oggetti da vendere, per affrontare le necessità quotidiane. L’area tebana, con le sue oltre quattromila tombe, permise la vita a intere generazioni;

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In basso: fotografia storica che ritrae l’interpretazione moderna della dea egizia Iside, realizzata come chiave di volta dell’arco dell’ingresso principale del Museo Egizio del Cairo. 1900 circa. Firenze, Raccolte Museali Fratelli Alinari.

sono entrate nella letteratura le scoperte e i sistematici saccheggi di intere necropoli, i cui corredi funerari si trovano oggi sparsi nelle collezioni museali e private di mezzo mondo. Questa pratica era già viva in epoca faraonica, come dimostrato dai furti acclarati e dal riutilizzo delle tombe devastate. A questo riguardo è significativa la narrazione fornita dai due frammenti dello stesso papiro, Papiro Amherst e Leopoldo II, dove si legge la confessione di uno degli otto ladri catturati che, durante il regno di Ramesse IX, erano dediti al saccheggio delle tombe. Dopo una esaustiva descrizione dell’accaduto, certo favorita dall’uso del bastone, lo sciagurato terminava dicendo: «Cosí io, insieme con gli altri ladri che erano con me abbiamo continuato fino a ora nella pratica di derubare le tombe dei nobili della terra che sta a occidente di Tebe. E molti degli abitanti di questo territorio fanno di professione i ladri come noi e sono nostri buoni compagni». Riferendoci invece a uno dei due papiri Mayer, che contengono gli


atti dei processi contro i violatori delle tombe di Ramesse II e Sethi I, si legge la drammatica ammissione della vedova di uno dei ladri, che dice: «Egli aveva portato via un po’ di rame appartenente a questa tomba, lo abbiamo venduto e divorato». Andava inoltre considerato, come già detto, che i reperti acquistati erano privi del loro contesto di provenienza, il che riduceva di molto il loro valore scientifico, mentre il loro prezzo era in continuo aumento a causa delle crescenti richieste. Infine vi era il problema dei falsi che le buone scuole locali erano in grado di produrre a ritmi sorprendenti.

COLMARE LE LACUNE Schiaparelli aveva pertanto maturato la convinzione che era tempo di intraprendere ricerche direttamente sul campo, pianificando una serie di scavi in quelle località che, oltre a promettere buoni risultati, avrebbero potuto fornire quei materiali utili a colmare le numerose lacune di cui soffriva la collezione Drovetti. Altri Paesi da tempo avevano operato in tal senso, appoggiati, anche finanziariamente, dai rispettivi governi e istituzioni private. Infine, come sappiamo, Schiaparelli poteva contare sul suo professore parigino, Gaston Maspero, ora alla direzione del Service des Antiquités de l’Égypte, e sull’assistenza delle Stazioni Missionarie Francescane disseminate in Egitto. Uno dei primi segnali circostanziati di questo intendimento lo raccogliamo in una lettera di Schiaparelli inviata il 23 novembre 1901 al Ministero della Pubblica Istruzione, dove si legge: «Ebbi già occasione di richiamare l’attenzione del R. Governo sul vantaggio che poteva ricavarsi per le collezioni dello Stato dall’esecuzione di scavi a conto nostro in quel suolo ricchissimo di antichi cimeli». Sulla medesima lettera espone «il programma che avrei vagheggiato, per una Missione archeologica italiana in Egitto», comprendendo anche i suggerimenti di Giuseppe Botti (primo), che lo invitava a «tentare saggi di scavo in qualche località bene scelta della Provincia del Fayum, nella quale si sono trovati pregevoli papiri greci». La lettera termina con queste indicazioni: «Secondo il mio parere la

In basso: fotocamera a banco ottico in legno di noce con soffietto in pelle, montata su treppiede in legno con manovellismo per regolare altezza e inclinazione. Fine del XIX sec. Torino, Museo Egizio.

missione dovrebbe prolungarsi per un triennio e per la durata di un quadrimestre ogni anno, importando per le spese di scavo, una spesa annuale di £ 15.000, a cui potrebbero forse contribuire col Regio Governo, alcuni Enti Morali e Scientifici». Contemporaneamente Schiaparelli si attivava astutamente nei confronti dell’amico Gaston Maspero, chiedendo suggerimenti sulle località nelle quali avrebbe ben visto l’inizio delle ricerche, richiesta che venne prontamente accolta e, con lettera del 20 aprile 1902, accordava l’autorizzazione per intraprendere scavi a Eliopoli e a Tebe nella Valle delle Regine. Prontamente Schiaparelli, che probabilmente non aspettava altro, comunica al Ministero l’interesse riposto dall’Egitto per l’intervento italiano sul territorio e il 29 aprile, tornando a chiedere la pianificazione e la copertura finanziaria delle attività, tra l’altro dice: «Ora mi pregio rimettere copia a V.E. di una lettera, col rispettivo allegato, ricevuta dal Marchese Salvago Raggi, Regio Agente Diplomatico in Egitto (Ministro della Legazione Italiana al Cairo); dalla quale risulta che, memore di un mio antico desiderio, e con singolare deferenza per questo Museo, il Maspero, Direttore Generale delle Antichità in Egitto, avrebbe riservato al Museo di Torino la ricerca e lo scavo della necropoli di Eliopoli, e di tombe reali nella Valle delle Regine. Lo scavo che, forse per l’ultima volta, ci viene proposto è di tale importanza, esso può tanto largamente contribuirci alla storia dell’Egitto e all’incremento del materiale archeologico di questo Museo, che non può, io ritengo, non essere accettato con gratitudine. Per quanto concerne la parte finanziaria, non vi sarebbero difficoltà tali, che non possano essere superate».

UNA STRUTTURA AUTONOMA Nel corso di una udienza personale del 2 giugno 1902, concessa dal re Vittorio Emanuele III, Schiaparelli ebbe modo di esporre al sovrano il suo progetto di ricerca, mediante la creazione di una struttura finanziariamente autonoma dalle casse del museo, la M.A.I. (Missione Archeologica Italiana), in grado di gestire scavi in

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L’ATTIVITÀ ARCHEOLOGICA Le ricerche avviate da Schiaparelli in Egitto si protrassero per circa un ventennio a partire dal 1903, interessando undici località disseminate lungo il Nilo, quali espressione di importanti centri politici e religiosi, a cui si affiancarono modesti insediamenti provinciali: un progetto elaborato da Schiaparelli, nel tentativo di riunire il materiale documentario mancante al museo torinese. Le località interessate dagli scavi furono: • Giza nel 1903 • Valle delle Regine nel 1903, 1904 e 1905 • Eliopoli nel 1903, 1904, 1905 e 1906 • Ashmunein nel 1903, 1904 e 1909 • Deir el-Medina nel 1905, 1906 e 1908 • Qau el-Kebir nel 1905 e 1906 • Hammamiya nel 1905 e 1906 • Assiut nel 1906, 1908, 1910, 1911, 1912 e 1913 • Gebelein nel 1910, 1911, 1914 e 1920 • Bahnasa nel 1910, 1911 e 1912 • Assuan nel 1914

Egitto, nell’interesse del nostro Paese. Al vivo interesse manifestato dal sovrano seguí, il 12 dello stesso mese, una ulteriore dettagliata relazione di Schiaparelli, contenente la pianificazione dei lavori e la somma necessaria. L’accoglimento della Real Casa non si fece attendere accordando un contributo Reale annuo di 15 000 lire per la durata di quattro anni, nel contempo si auspicava anche il sostegno economico del Governo, di Corpi morali, di Società e Accademie al fine di contenere l’esborso Reale. A questo appello risponderà prontamente il Ministro della Istruzione Pubblica (poi Pubblica Istruzione), Nasi, deliberando uno stanziamento annuo di 4000 lire, piú altre 1000 lire a incremento dell’assegno annuo riservato al museo, per finanziare i maggiori oneri. Restava infine il problema della ricerca dei papiri greci, già caldeggiata nel 1901 da Giuseppe Botti e ufficialmente sostenuta dal Presidente dell’Accademia dei Lincei, il Senatore Pasquale Villari; questo altro gravoso impegno, al quale Schiaparelli non poteva sottrarsi, lo costrinse a chiedere al Ministero, ancora nel luglio del 1902, un aumento annuo di 5000 lire del finanziamento già accordato. 94 a r c h e o

Questi primi finanziamenti permisero alla In alto: foglio di M.A.I. di svolgere le prime quattro campagne una lettera di ricerca nelle seguenti località: indirizzata al 1902-1903: Eliopoli, Ermopoli, Giza e Valle delle Regine 1904: Eliopoli, Ermopoli e Valle delle Regine 1905: D eir el-Medina, Eliopoli, Hammamiya, Qau el-Kebir e Valle delle Regine 1905-1906: Assiut, Deir el-Medina, Eliopoli, Hammamiya e Qau el-Kebir

A eccezione della località di Eliopoli, dove le ricerche furono meno fruttuose a causa del terreno archeologico notevolmente sconvolto e per la presenza di acqua freatica nello scavo, le altre indagini consentirono il recupero di materiale archeologico molto importante, «circa 400 casse giunsero a Torino», ricordava Schiaparelli, che venne esposto, anche a

Ministero per la Guerra in cui si richiedono 500 cartucce a salve per la Missione Archeologica Italiana, in quel momento impegnata negli scavi a Deir el-Medina e nella Valle delle Regine. 1906. Torino, Archivio di Stato, fondo Museo Antichità Egizie.


scopo dimostrativo, in alcune sale del museo già nel 1907. La tomba di Kha e della consorte Merit, ritrovata intatta a Deir el-Medina nel 1906 aveva, con il suo straordinario corredo, dimostrato la persistente ricchezza di molte aree archeologiche suscitando, specie negli ambienti culturali, la necessità di proseguire le ricerche. Del resto Schiaparelli, oramai rimasto privo di fondi, non mancava di enfatizzare le scoperte e, relazionando al Ministero alla fine di settembre del 1906, si esprimeva in questi termini: «Ora commercialmente parlando, tutto il materiale archeologico sopraccennato rappresenta un valore notevolmente superiore [Schiaparelli conosceva bene i prezzi del mercato antiquario], poiché la somma di 130 000 lire occorsa in un quadriennio per tutte le spese della Missione, potrebbero riprendersi immediatamente colla sola suppellettile della tomba di Kha».

LE ESIGENZE DEL BILANCIO Contestualmente, presentava un nuovo ambizioso programma di lavori per gli anni futuri, richiedendo una adeguata copertura finanziaria prospettando, se necessario, la riduzione dell’attività di ricerca e la durata degli scavi, indicando soltanto le priorità che si sarebbero dovute mantenere. Un mese dopo, il Ministero accordava la cifra di 4000 lire annue, con la precisazione che i lavori si potevano proseguire soltanto «anno per anno in base ai limiti consentiti dalle condizioni del bilancio». Le successive campagne del 1907 e del 1908, a cui partecipò soltanto Schiaparelli, furono molto ridotte; la prima non fu neppure una campagna di scavi, bensí un sopralluogo sostanzialmente esplorativo, utile per meglio pianificare l’attività della M.A.I. in una situazione di notevoli ristrettezze. La seconda poté beneficiare soltanto di un contributo ministeriale ulteriormente ridotto, poiché delle 8700 lire stanziate in bilancio per le esplorazioni all’estero, la maggior parte erano già state impegnate per gli scavi di Creta e (segue a p. 99) A destra: due pagine di un taccuino di Francesco Ballerini, il primo collaboratore a tutto campo di Enresto Schiaparelli, con relazione e rilievi sulla tomba di Pareherumenef (QV42) nella Valle delle Regine. 1904. Torino, Archivio di Stato, fondo Museo Antichità Egizie. a r c h e o 95


SPECIALE • EGITTO

L’ORGANIZZAZIONE DELLO SCAVO I lavori potevano essere iniziati soltanto dopo aver ottenuto le necessarie concessioni di scavo, rilasciate dal Service des Antiquités de l’Égypte, con l’aiuto del nostro personale diplomatico al Cairo. Per Schiaparelli questo primo passaggio fu sempre agevolato dalla personale amicizia con Gaston Maspero, a capo dell’istituzione, che vide sempre con interesse e benevolenza la presenza italiana in Egitto. Le ricerche si svolgevano principalmente nella stagione

invernale, per evitare le eccessive calure estive. Quando i siti interessati dagli scavi erano piú d’uno nel corso della medesima campagna, fatto abituale per l’attività di Schiaparelli, si iniziava da quelli piú meridionali, per risalire verso nord, con l’approssimarsi della stagione estiva. La preparazione dei cantieri e il susseguirsi delle operazioni di scavo venivano pianificate prima della partenza, preavvisando per tempo sia il fidato Bolos Ghattas, che i frati francescani, che

dovevano preventivamente occuparsi degli aspetti logistici e delle assunzioni, anche di centinaia di operai. I preparativi e il trasferimento dei ricercatori e dei materiali in Egitto avvenivano tra i mesi di novembre e dicembre, con vapori partenti da Genova, Napoli o Messina, e per i quali la Compagnia Italiana di Navigazione applicava eccezionalmente la riduzione del 50%. Nell’organizzare le partenze del personale Schiaparelli prevedeva sempre un primo contingente di collaboratori che lo

Due pagine di un taccuino di Francesco Ballerini con rilievi di Eliopoli (missione del 1904) e della tomba di Kha (missione del 1906), annotati a matita. XX sec. Torino, Archivio di Stato, fondo Museo Antichità Egizie.

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In alto: fotografia d’epoca che ritrae Francesco Ballerini a Qau el-Kebir. 1905. Como, Archivio CEFB-Centro di Egittologia Francesco Ballerini. La fotografia è scattata all’interno dell’antica cava di pietra dove venne installato l’accampamento della Missione per gli scavi a Qau el-Kebir e del quale si riconoscono le tende sullo sfondo. Insieme all’archeologo sono probabilmente riconoscibili il rais Kalifa, il capo degli operai che regge il bastone di comando, e il giovane Buhus, uno dei più fidati operai e collaboratori che partecipò anche alle missioni a Tebe.

precedevano, per prendere contatto con le autorità locali, in particolare con l’ispettore del Service che avrebbe seguito i lavori. Raggiunta Alessandria e poi in treno il Cairo, si procedeva agli ultimi approvvigionamenti, in particolare generi alimentari, necessari per affrontare lunghi mesi di lavoro in località anche remote e disagiate. I materiali e le attrezzature, specie per i primi anni, furono sempre molte, anche oltre quaranta casse, per disporre di quanto serviva:

materiali che venivano depositati a fine lavori presso le stazioni missionarie o nella casa di Ghattas a Luxor. Il campo veniva allestito normalmente con quattro tende militari coniche, per la notte, fornite dal Distretto Militare di Torino. A questo proposito, Alessandro Barsanti, rappresentante italiano nel Service des Antiquités, aveva raccomandato a Schiaparelli: «Una delle cose piú essenziali, è quella d’aver delle buone tende. Se gli è

possibile ottenerle dall’armata. Per ogni accampamento ce ne vogliono almeno quattro». Un grazioso bozzetto di Ballerini documenta l’allestimento del campo nella Valle delle Regine nel 1903. Completavano l’accampamento una serie di strutture leggere per i servizi e una piccola costruzione in muratura, per ospitare il laboratorio per lo sviluppo fotografico e le antichità scoperte, prima che fossero trasferite in luogo maggiormente sicuro.

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SPECIALE • EGITTO

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restavano soltanto 3700 lire, che comunque servirono a Schiaparelli per svolgere una breve missione nella località di Assiut. La preoccupazione di Schiaparelli nel constatare il calo di interesse del governo per le ricerche in Egitto, in favore di altri siti archeologici piú in linea con il sentire politico del momento, lo indussero a chiedere un nuovo incontro con Vittorio Emanuele III, che acconsentí a un contributo di 7000 lire annue, per la durata di tre anni. A questo rinnovato segnale di attenzione da parte del Sovrano, si aggiunse lo stanziamento ministeriale di 10 000 lire, che permisero una pronta ripresa delle ricerche nei siti di: 1908-1909: Deir el-Medina e Ermopoli 1909-1910: Assiut, Gebelein e Bahnasa 1910-1911: Assiut, Gebelein e Bahnasa

Nel corso di queste ultime campagne Schiaparelli aveva voluto completare le ricerche a Deir el-Medina, per intraprenderne di nuove a Gebelein. Il sito di Bahnasa, l’antica Nella pagina accanto: la maschera funeraria di Merit al momento del ritrovamento. Torino, Archivio Museo Egizio. A sinistra: la parrucca di Merit, da Deir el-Medina, tomba di Kha (TT8). Nuovo Regno, XVIII dinastia (regni di Amenofi II e di Amenofi III, 1428-1351 a.C.). Torino, Museo Egizio. In alto: Virginio Rosa nel castello di Mombarone poco prima della sua partenza per l’Egitto. 1910. Torino, Archivio del Museo della Sindone.

Ossirinco, era stato scelto, in sostituzione di quello di Ermopoli, per favorire la ricerca di papiri per conto della neonata «Società Italiana per la ricerca dei papiri greci e latini in Egitto», che sosteneva i lavori anche con un proprio contributo ministeriale. Le ricerche, anche se ridotte, proseguirono ancora negli anni successivi, con l’interruzione dovuta allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, fino al 1920, con i soli finanziamenti ministeriali del consueto importo di 10 000 lire annue. Inoltre erano state riconosciute 2000 lire per il trasporto in Italia delle antichità. Gli ultimi cantieri si svolsero nelle località di: 1912: Assiut e Bahnasa 1913: Assiut 1913-1914: Assuan e Gebelein 1920: Gebelein

Per l’ultima campagna del 1920, Schiaparelli si attivò presso il Ministero per ottenere la revisione del finanziamento; sulla base della reale situazione monetaria, la richiesta venne accolta e gli fu concessa la somma di 40 000 lire. Dopo una pausa di tre anni, nel 1923, Schiaparelli otterrà gli ultimi fondi da impiegarsi per il trasporto a Torino delle tante antichità ancora depositate in Egitto. a r c h e o 99


SPECIALE • EGITTO

FARE ARCHEOLOGIA IN EGITTO: IERI, OGGI E DOMANI di Christian Greco

A

fronte dell’importanza con cui il Museo Egizio si è presentato nello scenario internazionale all’atto della sua nascita, si oppone – nell’arco di pochi anni – l’impossibilità di competere per mezzi e impegno con le grandi potenze internazionali. Nel 1852 Pier Camillo Orcurti, direttore del museo, lamenta nell’introduzione al primo volume del catalogo il ritardo acquisito dalla istituzione torinese nella pubblicazione della collezione, contrariamente al governo nederlandese per la collezione di Leiden e al governo prussiano, che istituisce la cattedra di Egittologia e ordina la spedizione di Lepsius in Egitto. È proprio Ernesto Schiaparelli, divenuto direttore nel 1894, a rendersi conto che lo studio sistematico delle collezioni, tramite una loro contestualizzazione archeologica e un’attività sul campo, è fondamentale per ridare slancio al ruolo del museo. In quegli anni si assiste a sviluppi molto interessanti circa la concezione e il ripensamento dell’attività archeologica. Figura fondamentale e protagonista indiscusso di questa esperienza nella Valle del Nilo è Sir William Matthew Flinders Petrie, a cui dobbiamo le prime sistematiche organizzazioni di dati delle culture preistoriche. Già nella seconda metà dell’Ottocento l’opera di Pitt Rivers e la comprensione dell’importanza del deposito archeologico e delle sequenze stratigrafiche avevano rivoluzionato le tecniche di indagine e di documentazione archeologica. Nel 1860 Fiorelli a Pompei e Rosa a 100 a r c h e o

Roma avevano gettato le basi dello scavo scientifico in Italia. L’austriaco Conze a Samotracia e il tedesco Curtius a Olimpia documentano con attenzione la stratigrafia durante lo scavo, segnando lo sviluppo della ricerca archeologica nell’Egeo. Anche in Egitto Petrie introduce un metodo di indagine rigoroso. Comincia a disegnare in modo sistematico le piante dei siti che scava, a registrare accuratamente il luogo preciso in cui gli oggetti sono rinvenuti, a dare importanza al contesto di reperti che, benché piccoli e di poco valore esteticoartistico, sono tuttavia fondamentali testimoni della vita quotidiana. Sviluppa lo studio della ceramica, tassello fondamentale nell’indagine archeologica, arrivando alla definizione di successioni cronologiche (pottery sequence dating). Anche Schiaparelli appartiene alla generazione di studiosi In alto: Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino. In basso: la Galleria dei Sarcofagi del Museo Egizio di Torino nel nuovo allestimento.


trovamento degli oggetti contenuti nella cassetta portante N. 10». Per far comprendere meglio il valore del reperto nel suo contesto, Schiaparelli decide di esporre in museo, accanto alle vetrine, un album fotografico che mostra i siti e i luoghi da cui gli oggetti provengono. Il ricorso alla fotografia per documentare sistematicamente le attività di scavo testimonia una grande attenzione dello studioso ai progressi della tecnica e alla loro applicazione nell’ambito della documentazione archeologica. Schiaparelli si avvale dell’approccio multidisciplinare e dell’indagine scientifica, che oggi definiremo archeometrica, per meglio comprendere quanto rinvenuto. Vengono cosí fatti analizzare gli oli e gli unguenti del corredo funerario di Kha, cosí come un preparato di polpa di carrube e i legni dei bastoni dell’architetto, mentre i resti fossili rinvenuti durante gli scavi a Qau el-Kebir vengono affidati per studio al geologo e paleontologo Fabrizio Parona. L’attenzione al fermento culturale dell’epoca, agli studi scientifici e alla loro possibile applicazione in campo archeologico è attestata anche dall’interesse che Schiaparelli manifesta per l’antropologia fisica. A partire dal 1913 partecipa alle missioni archeologiche Giovanni Marro, fondatore dell’Istituto e del Museo di Antropologia ed In alto: l’allestimento di una delle sale del Etnografia di Torino. L’attività di scavo viene Museo nella prima metà del Novecento. quindi concepita da Schiaparelli come un’oTorino, Archivio Museo Egizio. perazione multidisciplinare dove l’archeoloche si confrontano con lo scavo in modo go è accompagnato dal fotografo, dall’archiscientifico, ponendosi domande di carattere tetto e, appunto, dall’antropologo. metodologico. Per comprendere il suo approccio, è interessante una lettera dello stesso Schiaparelli a Virginio Rosa, in cui sottolinea LA CONSERVAZIONE l’importanza fondamentale del contesto, in- Un aspetto di notevole interesse è anche quelsieme all’attenzione per l’organizzazione del lo della preservazione dei siti e della loro materiale in casse per il trasporto, che avrebbe conservazione. A questo riguardo risulta parpermesso una loro piú agevole catalogazione ticolarmente importante l’opera del restauraal momento dell’arrivo in museo: tore lucchese Fabrizio Lucarini, che attua in«Norme per gli scavi. terventi conservativi e di fissaggio della pelliLavorare sempre raccolti, in un luogo solo, per piú cola pittorica nella tomba di Nefertari. L’attiattiva sorveglianza: tenere sempre tutto separato vità sul campo viene quindi considerata in tomba per tomba, e il materiale disperso distinto fra tutti i suoi aspetti, dalla necessità di definire regione e regione: il tutto in cassette separate di una metodologia corretta di indagine, che uaraga, da essere numerate con numero progressivo permetta di identificare e studiare in modo da 1 in su, e da essere poi raggruppate in casse piú unitario il contesto, alla documentazione, con grandi di bondung. [...] Tenendo diligentemente il ricorso sistematico anche alla fotografia, allo conto di tutte le circostanze del ritrovamento, sopra studio multidisciplinare, per ottenere tutte le apposito registro, in modo che, per es., sotto il nu- informazioni possibili a inquadrare il ritrovamero 10 siano ricordate tutte le circostanze del ri- mento, fino alla sua musealizzazione. In questo a r c h e o 101


SPECIALE • EGITTO

ambito va inserito il modello della tomba della regina Nefertari, realizzato da Edoardo Baglione e don Michelangelo Pizzio utilizzando i rilievi planimetrici lasciati da Ballerini. Purtroppo all’attività sul campo non segue la puntuale e sistematica pubblicazione di tutti i risultati di scavo.Videro la luce solo due volumi, uno dedicato alle ricerche nella Valle delle Regine, l’altro al ritrovamento della tomba intatta di Kha. Perciò, il compito del museo è ora quello di dar voce alla documentazione manoscritta e cartacea ancora conservata in archivio, per permettere un lavoro di contestualizzazione dei reperti della collezione. La consapevolezza che l’attività di scavo sia distruttiva, che i monumenti vadano studiati e documentati a causa della loro deperibilità, è già ben presente nelle parole di James Henry Breasted, fondatore dell’Oriental Institute of the University of Chicago (1919) e dell’Epigraphic Survey a Luxor (1924). All’inizio del secolo scorso, egli afferma che i monumenti dell’Antico Egitto hanno sofferto notevoli danni dal momento della loro prima scoperta, e vede come missione imprescindibile per la generazione degli egittologi a lui contemporanei quella di operare uno sforzo collettivo per salvare l’enorme corpus di materiale iscritto sui monumenti, in rapido deperimento. L’esemplare attività svolta ancora oggi dalla missione permanente dell’Oriental Institute rappresenta una delle piú preziose eredità ricevute in dono da quegli inizi pionieristici.

CONDIVIDERE I DATI Le sfide che l’attività archeologica in Egitto si trova a dover affrontare oggi sono molteplici: restano infatti imprescindibili la continua ridefinizione degli aspetti metodologici (scavo stratigrafico, documentazione dell’intera sequenza, studi multidisciplinari), la necessità di pubblicare e di condividere rapidamente i dati con la comunità scientifica, oltre a quella di diffonderli a chiunque sia interessato. Inoltre, gli egittologi si trovano ora ad affrontare anche importanti cambiamenti ambientali, demografici e politici. La costruzione della diga di Assuan e la formazione del lago Nasser hanno notevolmente aumentato il tasso di umidità dell’area, alterandone, di fatto, le condizioni climatiche. L’effetto visibile sui monumenti consiste nell’attivazione dei sali minerali, imprigionati nelle pareti dei templi, che migrano in su102 a r c h e o

perficie, si cristallizzano e distruggono l’arenaria, attaccando al contempo le fondamenta dei templi stessi. La necessità di documentazione diviene quindi ancora piú stringente, e risulta ancora piú urgente la disseminazione dei dati, affinché diventino patrimonio comune. Ahmad Kamal, all’inizio del secolo scorso, affermava con forza che gli Egiziani dovevano essere formati per comprendere, lavorare e amministrare l’archeologia del loro paese, lottando per ottenere questo risultato; similmente, oggi si deve allargare il bacino di utenza dell’archeologia, rendendola davvero un’attività pubblica, compresa e sostenuta dal tessuto sociale; è questo infatti l’unico modo per poter poi esercitare una qualche forma di tutela. In questo contesto, il museo potrebbe rivestire un ruolo fondamentale, vista la sua naturale vocazione al coinvolgimento di pubblici e comunità diverse. Un’istituzione museale che oggi decida di intraprendere scavi in Egitto non ha piú come fine quello di accrescere ulteriormente le proprie collezioni, ma quello di ampliare le conoscenze specifiche sulla cultura materiale che ha il privilegio di custodire, quello di comprendere il contesto da cui provengono i monumenti esposti nelle sue gallerie e quello, infine, di costruire dei legami, reali o solo virtuali, fra le comunità che popolano il territorio nel quale le ricerche sono condotte e quello nel quale l’istituzione stessa è radicata. Nel quadro di una simile visione e in piena continuità con la storia dell’Egizio, la colla-

In alto: ancora una foto dell’allestimento del Museo Egizio nella prima metà del Novecento. Torino, Archivio Museo Egizio


borazione stabilita con il Museo Nazionale di Antichità di Leiden ha permesso di riprendere nel 2015 l’attività archeologica sul campo. Gli scavi sono condotti in una delle piú importanti necropoli del Nuovo Regno comprese nella vasta area archeologica di Saqqara, situata a trenta chilometri circa dal Cairo, presso il sito dell’antica capitale Menfi.

IL GENERALE DI TUTANKHAMON Le indagini del museo di Leiden sono qui state avviate fin dal 1975, con l’obiettivo di localizzare la tomba di Maia, un alto ufficiale dell’epoca di Tutankhamon di cui erano già presenti in museo alcuni splendidi reperti. La prima campagna portò tuttavia all’individuazione di una sepoltura ancora piú importante: quella di Horemheb, generale dell’esercito di

consolidamento e messa in sicurezza delle strutture riportate alla luce, in modo da renderle, il piú velocemente possibile, fruibili da parte dei flussi turistici, le nuove ricerche avviate in collaborazione con il Museo Egizio sono ora incentrate sull’estensione dell’area indagata e sullo studio del «funzionamento» della necropoli nel suo insieme, sia per quanto riguarda l’analisi delle sequenze costruttive delle tombe, sia per quanto attiene al suo «ripopolamento» e alla ricostruzione delle pratiche cultuali che in essa venivano svolte anticamente. Ma come potrà essere dunque l’archeologia egiziana del futuro? Al di là di un incremento esponenziale delle numerose applicazioni tecnologiche che già oggi facilitano la ricerca, la documentazione o anche il restauro, uno degli sviluppi maggiormente auspicabili dovrebbe senza dubbio prevedere un piú ampio coinvolgimento delle comunità che da sempre sono radicate e vivono nel paesaggio, fortemente modificato dall’archeologia dell’Egitto. La via è stata tracciata da alcuni pionieristici progetti di Community Archaeology realizzati in Egitto e in Sudan, ora bisogna perseguirla, perché in Egitto, come nel resto del mondo, è sempre piú la rilevanza che l’archeologia può possedere per la società moderna a essere sottoposta ad attento scrutinio. I testi scelti per questo Speciale sono tratti dal catalogo della mostra «Missione Egitto, 1903-1920» e qui compaiono per gentile concessione di Franco Cosimo Panini Editore.

In alto: ushebty (a sinistra) e vasi canopi. Nuovo Regno, 1593-1076 a.C. Torino, Museo Egizio.

Tutankhamon poi salito al trono come faraone. Intorno al suo prestigioso complesso funerario si raggrupparono nei secoli altre tombe di importanti dignitari e ufficiali, fra le quali anche quella di Maia, ritrovata poi dalla missione olandese nel 1986. Numerose tombe, costruite perlopiú con spessi muri in mattoni crudi rivestiti internamente da lastre di calcare decorate con rilievi finissimi, sono state scoperte, ma molte altre giacciono ancora sepolte sotto le sabbie del deserto. Accanto alle continue attività di restauro,

DOVE E QUANDO «Missione Egitto, 1903-1920. L’avventura archeologica M.A.I. raccontata» Torino, Museo Egizio via Accedemia della Scienze, 6 fino al 30 settembre Orario lunedí, 9,00-14,00; martedí-domenica, 8,30-19,30 Info tel. 011 5617776; e-mail:i nfo@museoegizio.it; www.museoegizio.it a r c h e o 103


QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

…ARRIVÒ CON LE SUE LEGIONI IN GEORGIA ROMA GUARDÒ SEMPRE CON GRANDE ATTENZIONE ALLA TERRA RESA CELEBRE DALLE GESTA LEGGENDARIE DEGLI ARGONAUTI. SIA PER LE SUE FAVOLOSE RISORSE, SIA PER GARANTIRE LA STABILITÀ DELLE FRONTIERE ORIENTALI DELL’IMPERO

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ul finire del 66 a.C. le legioni romane raggiunsero la regione del Caucaso meridionale che oggi si chiama Georgia e che, nel suo versante occidentale, era conosciuta nell’antichità come Colchide (Cholkís, in greco). Questa era celebre per il ricordo a essa legato della leggendaria impresa degli Argonauti, gli eroi greci che vi sbarcarono dalla nave Argo guidati da Giasone, che era stato investito da Ercole del comando della spedizione, per la conquista del «vello d’oro»: la pelle dell’ariete alato che, portandolo in cielo, aveva salvato Frisso (destinato dal padre Atamante a essere sacrificato in

onore di Zeus) e che, consacrata ad Ares, era sorvegliata da un drago. E, in aiuto dei Greci era intervenuta la maga esperta di veleni, Medea, figlia del re della Colchide, che, dei veleni, era detta «la Terra». La saga degli Argonauti (che allude all’esistenza nella regione di miniere d’oro) attesta l’interesse dei Greci per le sponde orientali del Mar Nero. E la storia – e l’archeologia – lo confermano. Nel VII e nel VI secolo a.C., quelle sponde furono effettivamente toccate dalla grande espansione mercantile di Mileto, la metropoli della Ionia che lungo di esse fondò gli scali commerciali di Pityus,

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Dioskurias (l’odierna Sebastopoli) e Phasis, presso la foce del fiume omonimo (l’odierno Rion), il cui nome si conserva in quello del fagiano (Phasiana avis) portato in Europa da quella regione.

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In alto: collana con vaghi di lamina d’oro decorati, e pendente centrale in agata, dal kurgan n. 8 di Trialeti. Inizi del II mill. a.C. Tbilisi, Museo Nazionale Georgiano. I kurgan erano tumuli funerari tipici delle popolazioni nomadi delle steppe centro-asiatiche. A sinistra, in basso: l’area occupata dalla Colchide, antica regione nella Georgia occidentale.

Entrata in rapporto diretto con il mondo ellenico, la Georgia continuò a gravitare verso l’Occidente, pur essendo esposta alle mire della Persia, mentre da nord la proteggeva la massiccia catena del Caucaso. A parte questo confine «naturale», essa non era però circoscritta da limiti chiari e, anche per questo, la sua popolazione era


assai composita e varia. Col tempo, tuttavia, si mise in moto un sia pur lento processo di identificazione e di unificazione che, favorito anche dall’introduzione, nel IV secolo a.C., di un particolare alfabeto (che è quello ancora in uso), ebbe un momento decisivo quando si costituirono due Stati che si divisero un territorio rimasto poi, nel suo complesso, quello storico: a occidente, il regno di Cholchis, nel bacino del Phasis e sul Ponto Eusino (Mar Nero); a oriente, il regno di Iberia, lungo il fiume Kyros (l’odierno Kura), verso il Mar Caspio. Questa era la situazione quando vi arrivarono le legioni di Roma, al comando del «grande» Pompeo, il quale, dopo aver sbaragliato i pirati che infestavano il Mediterraneo, tra il 68 e il 67 a.C., in virtú di una legge speciale dell’anno 66 (lex Manilia), aveva rilevato Lucullo nel comando delle operazioni belliche che, dal 74, erano in corso contro il re del Ponto, Mitridate VI, colpevole di aver invaso la Bitinia appena diventata provincia romana. In due anni di guerra, Pompeo aveva condotto a termine vittoriosamente il suo mandato; quindi, rinviata la resa dei conti col re fuggito in Crimea, si spostò verso l’Armenia, il cui re Tigrane s’affrettò a fare atto di sottomissione, permettendogli di compiere qualche altra operazione.

In particolare, e senza esserne stato provocato, contro la popolazione nomade degli Albani, nella regione affacciata sul Caspio, detta Albània. E proprio lí si fermò per passare l’inverno del 66/65 (lasciandovi anche un ponte, costruito sul Kyros, dove ancora oggi un ponte viene indicato col nome di Pompeis khidi, o «Ponte di Pompeo»).

UNO SPLENDIDO TRIONFO Nella primavera del 65, fatti accordi coi Parti, Pompeo si volse nuovamente verso occidente e, attraversato il Paese degli Iberi, si riportò sulle rive del Mar Nero. Tuttavia, di fronte all’impossibilità di giungere in Crimea passando per il territorio dell’attuale Russia meridionale, sbarrato dalle montagne del Caucaso, tornò nuovamente a oriente in direzione del Caspio. La sua marcia però s’interruppe presto (anche per la stanchezza dei soldati) e, tornato nel Ponto, si decise a deporre le armi e a mettere ordine in quel vasto comprensorio del Vicino Oriente che ormai, direttamente o indirettamente, aveva inserito nei domini del Popolo Romano. E quando, nel 61, rientrò a Roma, carico di bottino, vi celebrò uno splendido trionfo.

In alto: fronte di sarcofago in marmo con scene del mito degli Argonauti, da Napoli. IV sec. a.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum. In basso: fermaglio in oro per capelli, da Vani. Fine del IV sec. a.C. Tbilisi, Museo Nazionale Georgiano. Tornando alla Georgia, c’è da dire che gli avvenimenti di quegli anni provocarono, di fatto, l’ulteriore e definitivo passo verso l’unità, con il prevalere del regno di Iberia divenuto da allora, con il re Aristarco, uno Stato «cliente» (oggi diremmo «vassallo») di Roma. In tale condizione, tutta la regione

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Batumi, Georgia. I resti della fortezza di Gonio, caposaldo romano nella regione della Colchide. II sec. d.C. poté godere di lunghi periodi di pace e di prosperità. Roma, nei primi tre secoli della nostra era, vi rivolse piú volte le sue attenzioni, in modo diverso, a seconda delle piú generali vicende della sua irrequieta frontiera orientale, in relazione alla mai definitivamente risolta «questione armena» e ai continui conflitti, prima con i Parti e poi con i Persiani, secondo le alterne sorti delle conquiste e delle annessioni (della stessa Armenia e anche della Mesopotamia, come con Traiano, nel 115 d.C.), oppure delle ritirate e degli abbandoni. Negli ultimi anni del suo principato, Nerone, molto attento alle questioni riguardanti la «politica orientale», parve addirittura riprendere il disegno espansionistico di Pompeo cominciando con il proposito di trasformare in una sorta di grande «lago» romano il Mar Nero per il quale fu istituita un’apposita flotta imperiale (Classis Pontica). Ma gli storici riferiscono anche di suoi preparativi per un’azione militare da condurre oltre i confini nord-orientali dell’impero, nel territorio compreso tra la catena del Caucaso e il Mar Caspio. Svetonio (Ner. XIX) scrive esplicitamente di una spedizione contro gli Albani. A tale scopo, a partire dal 66, l’imperatore aveva arruolato in Italia (ex Italicis) una nuova legione – la futura I Italica – con reclute che dovevano essere alte non meno di 6 piedi (1,77 m circa), e che egli stesso chiamò «Falange di Alessandro Magno» («quam Magni Alexandri phalanga appellabat»): un’espressione che denunciava la suggestione e il fascino derivanti in lui dalla figura del grande conquistatore e il malcelato desiderio di emularne le gesta. Ma gli scopi piú immediati erano

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intanto quelli di mettere sotto controllo l’importante pista carovaniera che correva lungo il Caspio e lo sbocco dell’antica via commerciale che dall’India andava all’Asia Minore. La morte di Nerone, nel 68, cancellò ogni progetto.

APPOGGIO E AIUTI Vespasiano si limitò a tenere in efficienza i presidi di controllo, come il forte di Apsaros menzionato da Plinio il Vecchio, sul Mar Nero, tra Colchide e Iberia (ora in corso di scavo da parte di una missione dell’Università di Ferrara). E, quanto a interventi, preferí fornire appoggio e aiuti, anche militari, ai re locali del momento, come, per esempio, nel 75, per la fortificazione del Passo di Daria (le cosiddette Portae Caspiae ). Tutto ciò, del resto, secondo quelli che erano gli interessi di Roma, che contava sugli Stati cuscinetto «georgiani» per arginare la continua pressione e le pericolose incursioni delle popolazioni provenienti dalle pianure della Russia meridionale: i Sarmati e gli Alani, in particolare, che, attraverso il «ponte» della regione caucasica, miravano a ripercorrere gli itinerari delle antiche migrazioni dei «popoli delle

steppe» verso la Mesopotamia, l’Asia Minore e il Mediterraneo. Lo stesso Vespasiano (insieme ai figli Tito e Domiziano) ebbe in cambio grandi onori, come attesta una lunga iscrizione in greco ritrovata nell’Ottocento, vicino a Tiflis, l’odierna Tbilisi. I rapporti tra la «Georgia» e Roma continuarono a essere, sostanzialmente, sempre di «buon vicinato». Furono addirittura idilliaci al tempo di Adriano, amico personale del re Farsman II (113-122), che l’imperatore ebbe ospite a Roma e giunse a onorare con una statua equestre eretta nel Campo Marzio. Col tempo, tuttavia, il «protettorato» romano s’andò affievolendo, riducendosi infine a qualcosa di poco piú che simbolico (quale poteva essere, per esempio, la partecipazione di un legato imperiale alle cerimonie d’incoronazione di ogni nuovo sovrano). Fino a che, al posto di Roma, non subentrò Costantinopoli con l’impero bizantino, quando nella regione s’era già affermato e diffuso il cristianesimo portatovi, agli inizi del IV secolo, da santa Nino, venuta dalla Cappadocia. L’invasione degli Arabi, verso la metà del VII secolo, segnò l’inizio di una nuova storia.



SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

IL RACCONTO DELL’ARCHEOLOGIA GRAZIE ALLE INDAGINI PREVENTIVE CONDOTTE SU CONTESTI MEDIEVALI FRANCESI, PARIGI OFFRE UNA MOSTRA DI STRAORDINARIO INTERESSE, CHE RICOSTRUISCE MOLTI DETTAGLI FINORA INEDITI DELLA VITA QUOTIDIANA

C’

è tempo fino al 6 agosto prossimo per visitare, a Parigi, una mostra affascinante. Si intitola: «Quoi de neuf au Moyen Âge?» («Che c’è di nuovo nel Medioevo?») ed è accompagnata da un manifesto spiazzante, nel quale si vede un cavaliere immaginario che indossa un paio di cuffie sopra l’elmo dell’armatura. E qui è già racchiuso tutto lo spirito della mostra, che è quello di raccontare il Medioevo, anche nei minimi dettagli; ma un Medioevo aggiornato, affrontato con nuovi strumenti, e attualizzato, reso vivo grazie a un approccio piú spregiudicato del solito. Insomma, un Medioevo liberato dagli stereotipi piú stantii, come «I Vichinghi erano dei giganti biondi e sanguinari» oppure: «I castelli erano tutti costruiti in pietra»... Luoghi comuni che ci hanno a lungo portato fuori strada e dei quali ci siamo potuti liberare grazie all’archeologia, che è la vera protagonista di questa mostra: un’archeologia di ottima qualità, pensata e fatta in maniera davvero intelligente. È l’archeologia dei tecnici dell’INRAP, l’Istituto nazionale francese per l’archeologia preventiva, che sta letteralmente riscrivendo la storia della Francia grazie a un numero impressionante di nuovi scavi. Visitando questa mostra, si possono dunque conoscere le nuove idee, le nuove interpretazioni e le tendenze piú seguite dagli

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archeologi del Medioevo (in Francia come altrove, direi). Per esempio, colpisce il rilievo dato al mondo funerario, la cui analisi non si limita piú alla sola tomba: la nuova sfida consiste nel tentare di ricostruire l’intero rituale funebre, dal lavaggio del corpo all’avvolgimento del sudario, fino alle cerimonie e ai riti che venivano messi in atto durante il funerale.

«CIVILTÀ DEL LEGNO» O, ancora, l’esposizione racconta molto bene la dedizione degli archeologi nel mettere in luce i villaggi e le strutture in legno, delle quali restano quasi soltanto i buchi lasciati dai pali. Si può cosí entrare sempre piú in contatto, e in


maniera concreta, con quel Medioevo «civiltà del legno», secondo l’ottima definizione del grande storico Jacques Le Goff. Un altro tema di grande interesse è il rapporto tra l’uomo e il paesaggio: la mostra aiuta a superare un altro vecchio stereotipo, quello secondo il quale i contadini medievali erano messi nell’angolo da una natura ostile. Al contrario, le scoperte piú recenti indicano le mille modalità con cui essi aggredivano il paesaggio per modificarlo, sfruttarlo: per esempio disboscando, scavando miniere, o anche – come ha testimoniato lo scavo in località Servel-Lannion – costruendo peschiere. Quest’ultima ricerca, dagli esiti davvero straordinari, ha rivelato i resti dello sbarramento in legno della peschiera, costruita intorno al 615.

L’ATTENZIONE PER I PIÚ PICCOLI L’allestimento è notevole, molto aiutato dalle tecnologie piú avanzate: diorami, ricostruzioni di tombe a grandezza naturale, video didattici, facsimili di oggetti che si possono anche toccare. E colpisce la grande attenzione riservata ai piú

A destra: foto zenitale dei resti della chiesa altomedievale scoperta a Saleux (Somme), intorno alla quale furono inumati quasi 2000 individui. In basso: una postazione interattiva della mostra allestita a Parigi. Nella pagina accanto, a sinistra: una delle figurine realizzate nella sezione dedicata alle attività rurali.

piccoli, che possono montare e smontare mulini ad acqua e volte a ogiva, ricomporre in forma di puzzle la pianta di una città, o seguire le circonvoluzioni dello stile animalistico altomedievale, cioè quello in cui le membra degli animali si scompongono e si

intrecciano tra loro fino a formare un groviglio apparentemente inestricabile. «Quoi de neuf...» dimostra come il Medioevo si possa (e si debba) raccontare con strumenti efficaci, cosí da risultare piú comprensibile e degno di attenzione anche per il pubblico dei non addetti ai lavori. E segnala come, oltre a quelli piú spesso proposti in Italia (i barbari, i Goti, i Longobardi...), esistano anche molti altri argomenti da affrontare. Il Medioevo è un periodo lungo, diversificato al suo interno e ricco di temi di grande interesse. Basta rimboccarsi le maniche e raccontarli con i mezzi piú adatti al nostro tempo.

DOVE E QUANDO «Che c’è di nuovo nel Medioevo?» Parigi, La Villette, Città delle Scienze e dell’Industria fino al 6 agosto Orario ma-sa, 10,00-18,00; do e festivi, 10,00-19,00; lu chiuso Info www.cite-sciences.fr

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

IL GRANCHIO DI GIUNONE L’ESTATE HA INIZIO SOTTO IL SEGNO DEL CANCRO, CHE, SECONDO IL MITO, FU ASSUNTO IN CIELO DALLA CONSORTE DI GIOVE, DESIDEROSA DI RIPAGARLO PER AVER CERCATO DI NUOCERE A ERCOLE

N

el 1482, a Venezia, Arhard Ratdolt stampò la prima edizione illustrata del Poeticon Astronomicon dell’erudito latino Igino, detto «l’Astronomo» dai moderni. Si tratta di un manuale di astronomia redatto in quattro volumi nel I secolo d.C., incentrato sulla conformazione della Terra, dello Zodiaco con le costellazioni e sul catasterismo, ovvero l’origine di tutti gli astri legata a trasformazioni con le quali gli dèi premiarono, innalzandoli al cielo, uomini, animali e anche oggetti particolarmente meritevoli.

Un’opera preziosa che, insieme alle 277 Fabulae dello stesso autore, ha conservato e trasmesso al mondo moderno importantissime fonti greche relative alla scienza astronomica classica e varianti di numerosi miti altrimenti perduti.

GLI ASINELLI E IL PRESEPE Nell’Astronomicon non manca la costellazione del Cancro, che è di dimensioni medie e di difficile percezione, ma si compone di vari corpi celesti, interessanti e luminosi, che completano lo

schema figurativo del segno. Oltre alle chele, le stelle vanno a delineare gli «occhi» dell’animale, denominati Aselli (asinelli), Borealis e Australis, e la parte centrale del corpo, un ammasso nebuloso di stelle chiamato «Presepe». Quest’ultimo nulla ha a che vedere con la nascita di Gesú in una greppia e con il placido animale che, insieme al bue, riscaldò il Bambino con il suo fiato. È Plinio il Vecchio, infatti, a parlare di queste stelle cosí denominate e già menzionate dall’astronomo greco Arato di Soli: «Trovansi nel segno del Cancro due piccole stelle, chiamate Aselli (asini) separate da un piccolo spazio nel quale scorgesi una nebulosa chiamata Praesepia» (Storia Naturale, XVIII, 353). Quest’ultima costituiva inoltre anche un indicatore di pioggia, se non era visibile quando il cielo era sereno (Arato, Pronostici, 210-234). L’etimologia del nome «presepe» deriva dal latino ed è composta da prae= davanti e saepe= chiuso, recinto: quindi un luogo delimitato da un recinto o da una siepe, che diviene poi in senso lato stalla e anche greppia e mangiatoia. In un rarissimo codice medievale dei Fenomeni di Arato che riproduce l’intero Zodiaco, sul dorso del Cancro sono raffigurate le Disegno dello Zodiaco con «Aselli et Praesepe» sul guscio del Cancro, da un codice dei Fenomeni di Arato. 1000 circa. Aberystwyth, The National Library of Wales.

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A sinistra: vaso attico a figure nere con Ercole che, in lotta con l’Idra di Lerna, viene attaccato dal granchio inviato da Atena. 500-480 a.C. Parigi, Museo del Louvre. In basso: dracma di Antonino Pio della serie dello Zodiaco. Zecca di Alessandria, 144 d.C. circa. Al dritto, la testa laureata dell’imperatore; al rovescio, cancro sormontato da Selene su crescente e stella a otto raggi. Gli Asinelli del Cancro hanno anch’essi un’origine mitologica, tramandata in due versioni sempre da Igino: la prima vuole che Dioniso, figlio di Giove e Semele, reso folle anch’egli dall’ira gelosa di Giunone per i frutti incolpevoli degli amori del marito, avrebbe ritrovato la ragione solo recandosi dall’oracolo di Zeus Dodoneo.

I GIGANTI ATTERRITI teste di due asinelli che si rifocillano da una mangiatoia. Ogni segno zodiacale ha un’origine mitologica e cosí anche il Cancro, con il quale si apre il periodo estivo tra la fine di giugno e luglio. Igino racconta con dovizia di particolari l’arrivo nei cieli di questo crostaceo dalle chele vigorose (in latino cancer, granchio, derivato dal greco karkinòs, gambero), ingresso favorito da Giunone e legato alle vicende di Ercole. Questi, nato da Giove e Alcmena, fu oggetto della gelosia vendicativa della sposa divina: nel corso della seconda delle sue fatiche – l’uccisione dell’Idra nascosta nelle paludi della città argolide di Lerna –, durante il terribile combattimento, fu attaccato alle gambe anche da un granchio di spaventosa grandezza, fuoriuscito dalle acque per compiacere Giunone e che l’eroe prontamente eliminò con un colpo di mazza. Per premiare l’aiuto, seppure inutile, del crostaceo, la dea «lo volle porre in cielo a far parte delle dodici costellazioni che

sono occupate principalmente dal percorso del sole» (Igino, Poeticon Astronomicon, II, 23).

Di fronte a una palude invalicabile, venne aiutato da due asini, che prontamente lo trasportarono al tempio, salvandolo. Gli asini furono ricompensati con la trasformazione in stelle, e l’equide divenne anche parte integrante del corteggio dionisiaco. L’altra storia che Igino riporta attribuendola a Eratostene, vede invece gli dèi cavalcare gli asini durante la Gigantomachia: con il loro raglio potente e imprevisto, gli animali gettarono scompiglio e terrore tra i Giganti, che fuggirono scomposti. Nella serie monetale alessandrina con i segni dello Zodiaco battuta a nome di Antonino Pio, un bel granchio, segno d’acqua, è sovrastato dal pianeta che lo domina, la luna, composta dal crescente su cui poggia il profilo della dea Selene, che la personifica, e a lato la consueta stella a otto raggi. In questa immagine si uniscono l’acqua e il cielo, sempre sotto lo sguardo lontano dell’imperatore, il cui profilo si staglia sull’altra faccia della moneta.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Davide Mastroianni

TOPOGRAFIA DELL’ABRUZZO TERAMANO Il territorio di Campli dalla Preistoria al Medioevo (Carta Archeologica d’Italia-Abruzzo) Arbor Sapientae Editore, Roma, 150 pp., ill. col. e b/n 35,00 euro ISBN 978-88-94820-27-0 www.arborsapientae.com

al Medioevo, dello sviluppo insediativo nel territorio di Campli, il piú rappresentativo dell’area pretuzia e conosciuto ai piú per la necropoli italica di Campovalano. Viene cosí colmata l’ampia lacuna cronologica di una sequenza finora definita per la sola fase arcaica. Francesca Ceci Rosa Roncador

A oggi, l’Abruzzo non dispone di una vera e propria tradizione di carta archeologica e l’opera di Davide Mastroianni si configura come il primo esempio in tal senso. Il volume segue il modello originario della serie Carta Archeologica d’Italia-Contributi (1923) e della collana Forma Italiae (1963), rifacendosi alla tradizione di studi dell’Istituto di Topografia Antica dell’Università di Roma «La Sapienza». La raccolta sistematica e la lettura analitica dei dati consentono di delineare un quadro organico e articolato, dalla preistoria

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CELTI E RETI Interazioni tra popoli durante la seconda età del Ferro in ambito alpino centro-orientale BraDypUS, Roma, 366 pp. ill. b/n 50,00 euro ISBN 978-88-98392-45-2 http://bradypus.net

Il volume, di taglio specialistico, nasce dagli studi condotti dall’autrice nel corso del proprio dottorato di ricerca e indirizzati in particolare ai materiali della cultura celtica di La Tène. Questi ultimi, primi fra tutti le armi, sono stati infatti scelti come chiave di lettura dell’incontro e della successiva interazione fra le genti che ne erano portatrici e le popolazioni stanziate nell’area in esame – il settore centro-orientale delle Alpi –, vale a dire i Reti. Al di là degli aspetti tipologici e funzionali, il tema si rivela di notevole interesse e, al contempo, di particolare complessità, proprio perché, come si legge nelle Conclusioni, il «quadro delineato»

risulta composto da «molte sfaccettature che rispecchiano le differenti identità». Una complessità della quale Roncador ha il merito di proporre un’analisi minuziosa e convincente. Merita inoltre d’essere segnalato il testo introduttivo firmato da Daniele Vitali, la cui lettura non farebbe male ai molti che, oggi, dipingono le migrazioni di cui l’Italia è il terminale come una pericolosa minaccia: ancora una volta l’archeologia può essere un’eccellente maestra di vita. Stefano Mammini

DALL’ESTERO Elizabeth Fentress, Caroline Goodson e Marco Maiuro (a cura di), con Margaret Andrews (graphics) e J. Andrew Dufton (web publication)

VILLA MAGNA An Imperiale Estate and its Legacies. Excavations 2006-10 The British School at Rome, London, 516 pp., ill. col. e b/n 90,00 GBP ISBN 978-0-904152-74-6 www.oxbowbooks.com

Il corposo volume dà conto dei risultati acquisiti grazie alle campagne di scavo condotte sul sito di Villa Magna, presso Anagni. Si tratta di un insediamento di notevole importanza – la sua prima menzione è contenuta in due lettere scritte da Marco Aurelio –, nel quale è stata messa in luce una sequenza che abbraccia un vasto orizzonte

cronologico, compreso fra l’età imperiale romana e il Medioevo. Questa vicenda plurisecolare viene dunque ripercorsa grazie ai numerosi contributi confluiti nella pubblicazione, che affrontano sia gli aspetti piú tecnici, sia le problematiche storiche piú generali. Una mole di dati davvero cospicua, dalla quale Elizabeth Fentress distilla le articolate conclusioni che coronano l’opera, auspicando interventi di restauro che possano permettere la fruizione del sito. S. M.



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