Archeo n. 390, Agosto 2017

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2017

SPECIALE GRECIA

DORI MARE

TRAIANO A CIVITAVECCHIA

I SUL

UN’EPOPEA MEDITERRANEA POGGIBONSI

VOLTI DI PALMIRA

LA VITA QUOTIDIANA AL TEMPO DI CARLO MAGNO L’ARTE DELLA GUERRA

UNESCO

TORMENTA NAVALIA/1 SPECIALE I DORI SUL MARE

Mens. Anno XXXIII n. 390 agosto 2017 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

POGGIBONSI

TORMENTA NAVALIA I TESORI DELLA PERSIA

MOSTRE

PALMIRA AD AQUILEIA

ANNIVERSARI

TRAIANO 117 d.C. - 2017

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IN EDICOLA L’8 AGOSTO 2017

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ARCHEO 390 AGOSTO

€ 5,90



EDITORIALE

ACQUA E CIVILTÀ

In un appassionato colonnino apparso di recente sulle pagine romane del Corriere della Sera, Giuseppe Pullara rievoca la funzione civilizzatrice degli antichi acquedotti di Roma; e propone di riabilitarne la bistrattata immagine, trasferendo a quegli eleganti e chilometrici ruderi che ancora oggi dominano la campagna intorno alla capitale, un po’ dell’eccessivo credito di cui gode, invece, il simbolo per eccellenza di Roma, il Colosseo, «luogo dedicato allo spettacolo di ogni tipo di squartamento, animale e umano». Pur ammettendo che a quella meraviglia dell’antichità – purificatasi nei secoli dai suoi molteplici peccati (non ultimo quello di essere stata costruita grazie ai proventi di uno dei saccheggi piú traumatici della storia) – siamo irrimediabilmente affezionati, la proposta di Pullara ci trova pienamente d’accordo: viva, allora, gli acquedotti romani, portatori di civiltà, salubrità e benessere (paradossalmente, mentre scriviamo, incombe la minaccia di un razionamento dell’acqua corrente in molti quartieri di Roma, una misura dovuta sí alla perdurante siccità, ma, verosimilmente, anche a una ben scarsa capacità di gestione da parte dei responsabili pubblici di questo bene primario). A riprova della lungimiranza degli amministratori di un tempo, invece, giunge la notizia di una scoperta straordinaria, quella del primo acquedotto di Roma, databile al 312 a.C., denominato Appio o dell’Acqua Appia. Ben 32 m dell’antico condotto, realizzati in tufo e rivestiti internamente di cocciopesto, sono stati portati in luce lo scorso aprile nel centrale quartiere del Celio, durante la realizzazione di un impianto di aerazione per la nuova linea metropolitana. Che l’approvvigionamento idrico fosse un tema di vitale importanza anche – e particolarmente – nelle aride terre del Vicino Oriente ci viene confermato da un’altra, recentissima, scoperta, a cui si riferiscono le immagini di questa pagina. Nella località di Rosh Ha-Ayin (Israele), gli archeologi hanno portato alla luce una grande cisterna sotterranea, di 20 x 20 m circa e profonda piú di 4. Protetto in superficie da una struttura fortificata, il bacino risale alla fine dell’VIII secolo a.C. e alimentava le numerose fattorie diffuse nell’area durante il periodo della dominazione assira. Concludiamo questo rapido excursus in tema di «infrastrutture» ricordando che, esattamente 1900 anni fa, moriva l’imperatore Traiano, osannato già dai suoi contemporanei come Optimus Princeps, e non solo per gli indiscutibili meriti di comandante militare, statista e filantropo. Traiano, infatti, fu anche un grande costruttore: a lui si devono, per citare solo qualche esempio, la creazione e l’ampliamento dei porti dell’impero, tra cui quelli di Fiumicino, Terracina, Ancona e Civitavecchia (vedi l’articolo di apertura). Al romano quartiere di Trastevere, infine, regalò un nuovo acquedotto (che porta il suo nome), ampliò quello dell’Anio Novus, potenziò e rinnovò la rete idrica dell’Urbe. Fu, davvero, un Ottimo Principe! Andreas M. Steiner Rosh Ha-Ayin (Israele). In primo piano, gli scavi della cisterna dell’VIII sec. a.C. e il particolare di uno dei condotti sotterranei.


SOMMARIO EDITORIALE

Acqua e civiltà

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di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

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RECUPERI Un altro frammento del magnifico rilievo con il Mitra tauroctono rinvenuto a Tor Cervara nel 1964 è tornato al suo posto e l’opera fa bella mostra di sé nel Museo Nazionale Romano 6 SCAVI Le attività di archeologia preventiva a Cividale del Friuli gettano nuova luce sulla storia della città fra la tarda antichità e l’epoca bassomedievale

A TUTTO CAMPO Diari di scavo aggiornati in tempo reale, comunicazione dei dati immediata e condivisa: ecco alcune delle oppportunità offerte dalla live excavation 14

STORIA

Traiano, 98-117 d.C.

Magnifici quegli anni...

testi di Massimiliano David, Francesca Romana Stasolla, Rossella Zaccagnini e Andrea Paribeni

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MOSTRE

Volti di Palmira

46

di Gioia Zenoni

MOSTRE

Tra l’acqua e il deserto

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a cura di Andreas M. Steiner

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PARCHI ARCHEOLOGICI Il racconto del Medioevo

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di Carlo Casi

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Grazie al recente intervento di restauro, sono nuovamente visitabili le case pompeiane del «quartiere di Championnet» 10

ARCHEOTECNOLOGIA Acque di guerra

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di Flavio Russo In copertina Selinunte. Il tempio E. V sec. a.C.; nel riquadro: Roma, particolare del fregio della Colonna Traiana, eretta nel Foro di Traiano. 113 d.C.

Anno XXXIII, n. 390 - agosto 2017 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Amministrazione: Roberto Sperti

amministrazione@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale

Hanno collaborato a questo numero: Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Massimiliano David è professore aggregato presso il Dipartimento di Storia, Culture e Civiltà dell’Università di Bologna. Vittorio Fronza, archeologo, è tra i fondatori del Laboratorio di Informatica Applicata all’Archeologia Medievale dell’Università degli Studi di Siena. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Pompei. Andrea Paribeni è ricercatore in storia dell’arte medievale presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo. Fabrizio Polacco è coordinatore nazionale del «PRISMA». Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Francesca Romana Stasolla è professore associato di archeologia cristiana e medievale presso Sapienza Università di Roma. Rossella Zaccagnini è funzionario archeologo presso la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale. Gioia Zenoni è archeologa. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina (e p. 89) e pp. 30/31, 32, 33 (alto), 37 (basso), 84/85, 86, 88, 90-91, 95, 97, 98/99 – Yitzhak Marmelstein: p. 3 (alto) – Assaf Peretz, IAA: p. 3 (riquadro) – Stefano Mammini: pp. 6, 7 – Cortesia Soprintendenza Speciale per il Colosseo e l’area archeologica centrale di Roma: pp. 6/7 – Cortesia Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Friuli-Venezia Giulia: p. 8 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 10-11 – Cortesia degli autori: pp. 14, 16, 78, 78/79, 80 (basso), 81, 110-111 – R. Meneghini/Studio Inklink, Firenze: p. 33 (basso) – Bridgeman Images: pp. 34, 76, 106/107 – Getty Images: Peter Willi: p. 35; Blom UK: p. 39; AFP: p. 102, 103 (alto) – Da: Rodolfo Lanciani, Forma Urbis Romae, Edizioni Quasar, Roma 1988: p. 36 (alto) – Mondadori Portfolio: su concessione MiBACT: p. 36 (basso); Album: p. 87 – Doc. red.: pp. 38, 42-43, 94 (alto) – DeA Picture Library: S. Vannini: p. 40; A . De Greogrio: p. 41; A. Dagli Orti: pp. 76/77, 108 – Cortesia Ufficio Stampa «Volti di Palmira ad Aquileia»: Gianluca Baronchelli: pp. 46, 48, 50, 52 (basso), 53; Elio Ciol: pp. 46/47, 50/51, 52 (alto); Museo delle Civiltà-Collezioni d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» di Roma: p. 49 – Cortesia Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (ISCR), Roma: p. 51 – Cortesia Ufficio Stampa Bundeskunsthalle, Bonn: pp. 54-60 – Cortesia Parco Archeologico di PoggibonsiArcheodromo di Poggibonsi (Siena): pp. 62-64, 65 (alto e basso), 66-75 – Flavio Russo:


Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO

Che bello, è kitsch? 102 di Daniele Manacorda

102 QUANDO L’ANTICA ROMA...

...s’abbandonava al sollievo della «pennichella» 106 di Romolo A. Staccioli

106

84 SPECIALE

Sul mare con i figli di Eracle

84

di Fabrizio Polacco

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Signora delle messi 110 di Francesca Ceci

LIBRI ricostruzioni alle pp. 79 (alto), 80 (alto), 82 – Fabrizio Polacco: pp. 92/93, 93, 96/97, 100-101 – Erich Lessing Archive/ Magnum/Contrasto: p. 94 (basso) – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 37, 65 (centro), 86, 93. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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n otiz iari o RESTITUZIONI Roma

IL SACRIFICIO È COMPIUTO...

N

el maggio del 1964, a Tor Cervara, alla periferia di Roma, lungo la via Tiburtina, sono in corso lavori di bonifica da residuati bellici: inaspettatamente, nel cratere scavato da un ordigno cominciano ad affiorare alcuni frammenti di marmo lunense scolpito. Alla fine dello sterro, se ne contano oltre 50

e, fin dalle prime osservazioni, nonostante le lacune, se ne intuisce l’appartenenza a una sola opera: un magnifico rilievo che raffigura il dio Mitra nell’atto di sacrificare il toro. Si tratta dunque di una tauroctonia, il momento culminante dei riti che si celebravano in onore della divinità di origine iranica, il cui culto ebbe

vasta diffusione anche a Roma. Il manufatto viene assegnato al Museo Nazionale Romano ed esposto nelle Grandi Aule delle Terme di Diocleziano. Oltre vent’anni piú tardi, l’opera torna a far parlare di sé, poiché uno studioso si dice convinto che uno dei pezzi mancanti – quello che raffigura il volto di Mitra – corrisponda a un frammento conservato presso il Badisches A sinistra: i frammenti del rilievo con Mitra tauroctono recuperati dopo il ritrovamento: la testa del dio e quella del toro, da Tor Cervara. II-III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano.

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Landesmuseum di Karlsruhe, in Germania. Le successive verifiche confermano la bontà dell’intuizione e, in occasione della mostra sui culti orientali allestita nella stessa Karlsruhe, si procede all’integrazione. Nella circostanza, Katarina Horst, allora direttrice del Dipartimento Scienze e Collezioni del museo tedesco, si augurava di poter scrivere un nuovo capitolo della storia del rilievo, grazie al In alto: veduta d’insieme del rilievo con Mitra tauroctono. II-III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano. A destra: Fabrizio Parrulli, Comandante dei Carabinieri TPC, durante la presentazione del rilievo ricomposto.

ritrovamento delle parti ancora mancanti, cioè quelle che raffigurano la luna e il toro. Un auspicio in parte esaudito dall’operazione condotta nello scorso febbraio dal Nucleo TPC dei Carabinieri di Cagliari, che ha localizzato, presso un antiquario del capoluogo sardo, il frammento che rappresenta la testa dell’animale sacrificato da Mitra. Dopo il sequestro, il pezzo è stato consegnato al Museo Nazionale Romano, i cui restauratori hanno potuto ricollocarlo al suo posto. E la splendida scultura, databile al II-III secolo d.C., si può ora ammirare nella sua quasi totalità. Stefano Mammini

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n otiz iario

SCAVI Cividale del Friuli

AL TEMPO DEL DUCA RODOALDO

R

ecenti interventi di archeologia preventiva condotti a Cividale del Friuli dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del FriuliVenezia Giulia hanno portato a importanti ritrovamenti. Nell’area di piazza Garibaldi sono venuti alla luce i resti di un edificio di età bassomedievale-rinascimentale, che rielabora strutture piú antiche e che vede il XV-XVI secolo come data del suo ultimo utilizzo, sulla base della ceramica recuperata nei livelli di distruzione. A 2 m circa dal piano di calpestio della piazza attuale, le indagini hanno inoltre rivelato resti di pavimenti in cocciopesto. Si tratta di piani d’uso verosimilmente pertinenti all’età tardo-romana e riferibili a un edificio di pregio. Un secondo fronte di scavo ha permesso di mettere in vista murature pertinenti a una struttura abitativa, in uso almeno dal XIII secolo, con annesso un ambiente interrato coperto a volta che veniva usato come discarica domestica. Nella piazza attigua di San Giovanni in Xenodochio, dove le fonti documentano appunto l’esistenza di uno xenodochio, ovvero di una struttura di accoglienza fatta costruire dal duca

longobardo Rodoaldo nell’VIII secolo, è invece stata localizzata parte di una necropoli di età longobarda (il cui utilizzo dovrebbe collocarsi tra il VI e l’VIII secolo), con sepolture pertinenti a individui In alto: Cividale del Friuli. Le strutture murarie scoperte in piazza Garibaldi. A sinistra: tombe di epoca longobarda rinvenute nell’area di piazza di San Giovanni in Xenodochio.

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locali, sepolti senza corredo, in quanto non di cultura germanica. Il sepolcreto era posizionato su un’area precedentemente occupata da un focolare interrato di età tardo-romana e da probabili apprestamenti lignei sistemati in prossimità di una struttura, forse di terrazzamento, legata alla presenza delle mura urbiche. Il contesto permette di immaginare un paesaggio antico caratterizzato dalla presenza di un’area aperta adibita a cimitero, verosimilmente formatosi in relazione all’impianto piú antico della chiesa, con annesso xenodochio di fondazione longobarda, attestato già nell’VIII secolo su terreni fiscali di proprietà del duca longobardo Rodoaldo. (red.)



ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

NEL QUARTIERE DEL GENERALE SI È CONCLUSO IL RESTAURO DEGLI EDIFICI COMPRESI NELL’AREA POMPEIANA ESPLORATA PER INIZIATIVA DI JEAN-ÉTIENNE CHAMPIONNET, GIOVANE GENERALE FRANCESE. UN COMPLESSO DI EDIFICI DI NOTEVOLE PREGIO, FINALMENTE RESTITUITI AL PUBBLICO GODIMENTO

I

l complesso di Championnet, pressoché sconosciuto al pubblico perchè chiuso da tempo, comprende un insieme di eleganti edifici residenziali, disposti a terrazza sul margine sud-occidentale del pianoro di Pompei (Regio VIII, Insula 2). Il gruppo di costruzioni prende nome dal generale francese Jean-Étienne Championnet, promotore nel 1799 della Repubblica partenopea e grande appassionato delle scoperte pompeiane, a tal punto da promuovere direttamente gli scavi in questo settore della città, dove vennero alla luce due case: Championnet I presenta un tipico atrio, con impluvium in marmo e resti di tre delle quattro colonne che sostenevano il compluvium; tanto nell’atrio quanto nei cubicoli circostanti sono ben conservati mosaici pavimentali di elevata qualità, a schemi geometrici e a tessere colorate. Lo schema abitativo di Championnet II risulta invece piú articolato, composto da un atrio con impluvio e giardino con peristilio che correva su tutti i lati e del quale rimangono solo le basi delle colonne. Posizionato sul dislivello naturale che dal Foro scende verso il ciglio

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del pianoro, il cosiddetto «quartiere di Championnet» presenta un aspetto architettonico particolare, determinato dalla sequenza di composite terrazze con affacci panoramici sul mare e sulla piana del Sarno.

LA TRASFORMAZIONE IN RESIDENZE DI LUSSO L’origine delle case risale al II secolo a.C., ma gli edifici vennero in seguito piú volte rimaneggiati e ampliati – tranne Championnet I, che non vide alcun accorpamento –, fino alla formazione di grandi residenze finemente decorate e articolate in diversi atri e peristili.

Il complesso è stato appena restaurato e restituito alla fruizione pubblica. Ne parliamo con Caterina Cicirelli, funzionario responsabile dell’intervento di restauro, per il Parco Archeologico e il Grande Progetto Pompei. «Il cantiere di restauro è stato concepito come un laboratorio multidisciplinare in cui professionalità diverse (archeologi, architetti, ingegneri, restauratori, tecnici specializzati) si sono quotidianamente confrontate sulle problematiche connesse agli interventi. È stato necessario approfondire il quadro conoscitivo dell’area – spiega l’archeologa –,


mediante indagini strumentali, rilievi archeologici e architettonici, nonché scavi stratigrafici propedeutici a interventi di messa in sicurezza per sopraggiunti imprevisti. Tali interventi hanno consentito da un lato di individuare soluzioni ottimali di restauro e di fruizione, unitamente a quelle riguardanti le nuove coperture, dall’altro di approfondire la conoscenza della topografia e dell’evoluzione di questa zona centrale di Pompei. Saggi stratigrafici condotti in uno degli edifici municipali hanno rivelato la presenza di impianti artigianali e botteghe di età arcaica (VI secolo a.C.), quando Pompei visse la sua prima fase urbana di impronta greco-etrusca. Altre indagini archeologiche hanno poi riguardato gli ambienti ipogei della Casa di Championnet I, nella quale sono state individuate strutture relative a un edificio costruito al di sopra delle mura urbiche nel II secolo a.C. Uno scavo piú esteso è stato condotto nel Cortile delle Murene, un ampio giardino con vasca per la piscicoltura e peristilio, realizzato in epoca post-sismica al di sopra di edifici piú antichi e utilizzato per raccordare il complesso residenziale dei Mosaici Geometrici

In alto: l’atrio della Casa di Championnet I, ingentilito da un bel pavimento tessellato con scaglie marmoree policrome.

Nella pagina accanto: l’atrio della Casa di Championnet II. In basso: il vicolo di Championnet dietro la Basilica del Foro.

con la Casa di Championnet II». La posizione dell’area di Championnet spiega l’attenzione riservata a questo settore urbano: si tratta, infatti, di una zona di particolare interesse sia per la sua vicinanza alla principale piazza cittadina, fulcro della vita civile, religiosa ed economica, sia per la caratteristica degli edifici abitativi che la occupavano, del tipo «a pendio», un aspetto singolare dell’edilizia pompeiana.

Le residenze si adattano, addossandosi alle mura urbane, alla natura scoscesa del terreno mediante potenti gettate di sostruzioni e massicce opere di sbancamento. Gli interventi si estendono fin quasi ai piedi del declivio del pianoro, con la progressiva aggregazione di terrazze e loggiati con vista panoramica. Tutti gli ambienti sono stati fortemente danneggiati dal terremoto del 62 d.C. e sono stati restaurati o ricostruiti solo in parte, mentre molti altri, soprattutto quelli situati ai livelli piú bassi, sono rimasti abbandonati, con le volte crollate all’interno, e mai piú restaurati». Per notizie e aggiornamenti su Pompei, pagina Facebook Pompeii-Parco Archeologico.

SBANCAMENTI MASSICCI «La formazione delle residenze sul pendio – aggiunge Cicirelli – avviene dopo la fondazione della colonia (80 a.C.), quando la cinta muraria sannitica perde la sua funzione difensiva e concede spazi a nuove costruzioni civili.

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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

EDITORIA Roma

«VEDERE» IL PASSATO

I

nnovando una formula sperimentata con successo negli ultimi cinquant’anni, gli editori Vision e Altair4 Multimedia propongono Caput Mundi, una guida alla scoperta dei monumenti della Roma antica e di quella dei papi, che si avvale per la prima volta dell’utilizzo della realtà aumentata. Il volume si basa su un metodo illustrativo brevettato, che sovrappone all’immagine del monumento nel suo stato attuale la «ricostruzione» in foglio trasparente

che ne integra gli aspetti mancanti: l’obiettivo è quello di stimolare la fantasia del lettore, il quale riesce a «immaginare» l’opera in un confronto immediato e diretto fra passato e presente. I testi della pubblicazione sono stati curati da Romolo A. Staccioli, autore ben noto ai lettori di «Archeo», la cui firma costituisce la garanzia migliore dell’attendibilità scientifica dei contenuti, vista la comprovata autorevolezza dello studioso, fra i massimi esperti di storia dell’antica Roma. Nelle pagine iniziali, ampio spazio viene assegnato al Colosseo – o piú propriamente Anfiteatro Flavio –, che fu il piú significativo monumento di Roma: il nome deriva dal Colosso di Nerone, una gigantesca statua di bronzo dorato, alta 120 piedi (35 m), raffigurante l’imperatore (e poi adattata alle sembianze del dio Sole) posta vicino all’Anfiteatro. La sua mole gigantesca giustifica appieno il nome con il quale è 12 a r c h e o

universalmente conosciuto, da quando il popolo glielo attribuí a partire dall’Alto Medioevo. Delle dimensioni parlano le cifre: quasi 60 m l’altezza dell’anello esterno, 188 m la lunghezza dell’asse maggiore dell’ellisse e 156 quella dell’asse minore; oltre 100 000 mc di travertino e 300 tonnellate di ferro per le grappe che legavano i blocchi tra di loro. Iniziato da Vespasiano subito dopo il 70 d.C., l’Anfiteatro fu inaugurato da Tito, dopo dieci anni di grandiosi e dispendiosi lavori, nell’80 d.C. Costruito con il lavoro contemporaneo di quattro cantieri, l’edificio è formato da tre ordini sovrapposti di 80 arcate, tra pilastri con semicolonne addossate, e da un alto attico, diviso in scomparti da lesene, un tempo ornati con scudi di bronzo o aperti con finestre quadrate. Le arcate del pianterreno erano numerate progressivamente (e i numeri corrispondevano a quelli segnati sulle «tessere» degli spettatori) e davano accesso a un doppio ambulacro, dal quale si passava direttamente o attraverso corridoi alle scale che, mediante 160 sbocchi (vomitoria), conducevano alle gradinate della cavea. L’interno del Colosseo era costituito dall’arena, il cui piano era formato da un tavolato di legno cosparso di sabbia e s’estendeva su una superficie di 76 x 46 m, e


In alto: una delle mappe per le quali è disponibile la visione in realtà aumentata. Nella pagina accanto: ricostruzione virtuale della Valle del Colosseo, nella quale, oltre all’Anfiteatro Flavio, si riconoscono, da sinistra la statua colossale del dio Sole, la fontana conica detta Meta Sudante e l’Arco di Costantino.

OFFERTA RISERVATA Caput Mundi. Monumenti nel passato e nel presente. La Roma dei cesari e dei papi Vision Past & Present-Altair Multimedia, Roma Info www.visionpubl.com, www.Altair4.it I lettori di «Archeo» potranno beneficiare di uno sconto speciale, ordinando il volume Caput Mundi dal bookshop on line: https://www.visionpubl.com/it/ guide-turistiche/roma-caput-mundi/ Al momento dell’ordine, per beneficiare dell’offerta, dovranno citare la sigla: ALTAIR4/VISION Potranno cosí acquistare il libro al prezzo di 24,90 euro (invece di 28,00), spese di spedizione incluse a r c h e o 13

i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

dalla cavea, suddivisa in tre settori sovrapposti di gradinate, coronate da un «loggiato» che ospitava un quarto ordine di gradini in legno con i posti in piedi. Ogni settore era rigidamente riservato, in ordine d’importanza, a una particolare categoria di cittadini i quali comunque godevano tutti dell’ingresso gratuito. Complessivamente l’Anfiteatro poteva ospitare circa 70 000 spettatori, che assistevano ai combattimenti dei gladiatori e alle cacce alle bestie feroci oltre che a spettacoli minori. Gli spettatori erano protetti dal sole grazie a un enorme velarium, composto di teli ancorati a una corona di 240 pali fissati all’esterno e sporgenti dalla cornice superiore dell’edificio, manovrati da uno speciale distaccamento di marinai della flotta militare di Miseno, nel golfo di Napoli.

Dal Colosseo, il viaggio proposto dalla guida si snoda quindi attraverso tutti i monumenti piú importanti dell’Urbe e per ciascun capitolo, scaricando l’applicazione gratuita Caput Mundi (disponibile per sistemi Android e Apple), si possono vedere ed esplorare i modelli in 3D delle opere descritte.


A TUTTO CAMPO Vittorio Fronza

IN DIRETTA DAL CANTIERE L’EVOLUZIONE DEGLI STRUMENTI INFORMATICI STA AVENDO «RICADUTE» PIÚ CHE POSITIVE SULL’ARCHEOLOGIA. OGGI, I METODI DI DOCUMENTAZIONE DELLE INDAGINI POSSONO ARRIVARE A COMPRENDERE LA DIFFUSIONE DEI DATI ACQUISITI IN TEMPO REALE

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artiamo da un presupposto forse banale, ma non scontato: l’archeologia, per come è venuta configurandosi negli ultimi quarant’anni, è una disciplina perfetta per il digitale. I metodi di documentazione sempre piú puntuali e l’eterogeneità delle testimonianze generate dall’approccio multidisciplinare determinano la moltiplicazione esponenziale delle A destra: la homepage del progetto di ricerca sul castello di Miranduolo a Chiusdino, Siena. In basso: servendosi di tablet PC, due archeologi impegnati nelle indagini sul castello di Miranduolo comunicano in diretta dal cantiere gli sviluppi dello scavo.

informazioni, quasi sempre espresse sotto forma di dati strutturati da gestire ed elaborare. A cavallo del nuovo millennio, sposando in modo armonico la «rivoluzione digitale» di massa, l’informatica applicata all’archeologia si stava trasformando in una vera e propria

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disciplina. Un’occasione poi svanita, in quanto troppo fortemente condizionata da un’alfabetizzazione informatica approssimativa, per cui molte tecnologie e molte categorie di software non sono mai state alla portata di tutti i ricercatori; ne è (segue a p. 16)



derivata un’aura pionieristica, che ha lasciato molti segni positivi nella metodologia archeologica, seppur confinati entro nicchie dorate. Alcuni ricercatori hanno invece tentato di governare questi processi, veicolando l’uso del mezzo informatico come patrimonio metodologico comune. Fra questi, gli allievi di Riccardo Francovich e, soprattutto, il Laboratorio di Informatica Applicata all’Archeologia Medievale dell’Università di Siena (LIAAM) si sono spesso proposti come interfaccia fra gli specialisti «archeoinformatici» e la comunità scientifica nel suo complesso.

NUOVI TRAGUARDI Nell’ultimo decennio la situazione generale è mutata: la dimensione «social», soprattutto su Internet, è cresciuta in modo esponenziale, sostenuta sia dall’innovazione hardware (wi-fi, reti GSM, mobile computing), sia dallo sviluppo di nuovi metodi di comunicazione (Facebook, Twitter e Wikipedia). Nel piccolo della nostra disciplina, queste tecnologie forniscono il mezzo per riscrivere i metodi di produzione e disseminazione del dato archeologico, permettendoci di raggiungere una platea di potenziali fruitori impensabile anche solo fino a pochi anni fa. L’informazione archeologica, come qualsiasi forma culturale, è infatti un bene comune e come tale deve essere pubblica: dal 2009 il gruppo di lavoro del LIAAM ha sviluppato e pratica la live excavation (letteralmente, «scavo dal vivo»), un metodo innovativo di gestione e documentazione dello scavo. Il sistema è stato finora applicato con successo su due contesti importanti in Provincia di Siena: l’insediamento rurale di età romana e altomedievale di Santa Cristina in Caio a Buonconvento (http:// archeologiamedievale.unisi.it/ santa-cristina/) e il sito di

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Miranduolo a Chiusdino, con un castello impostatosi su un precedente villaggio altomedievale (http://archeologiamedievale.unisi. it/miranduolo/). Dallo scorso luglio, viene utilizzato anche a Poggio Imperiale (Poggibonsi), nello scavo di un sito frequentato dall’epoca tardo-antica al Rinascimento (http:// archeologiamedievale.unisi.it/ poggibonsi/). Con la live excavation si ribadisce ancora una volta il concetto delle tecnologie da «usare». I suoi presupposti metodologici e teorici prevedono: a) una documentazione il piú possibile globale ed esaustiva, anche a costo di rischiare un overflow informativo; b) la trasparenza assoluta, per cui il re può e deve essere nudo, mostrando pubblicamente ogni tappa quotidiana del progetto di ricerca, dalla documentazione all’interpretazione in progress; c) la democratizzazione del dato e dell’informazione, nell’ottica della costruzione partecipata della conoscenza cui si giunge dal basso, per step progressivi; d) la costruzione in proprio, da parte degli archeologi, degli strumenti di gestione e processamento del dato.

IL «DOPPIO BINARIO» Affinato nel tempo, il metodo si basa su un «doppio binario», che combina pagine web e social network/web app. I due binari sono complementari: durante la giornata di scavo si lavora sui social network e sul quaderno di scavo mediante web app, mentre la sera è dedicata all’aggiornamento del sito Internet. In particolare, Facebook e il quaderno di scavo digitale costituiscono il grande spazio telematico nel quale si annotano le riflessioni e si fa dibattito, portando lo scavo sugli schermi degli utenti. Il social network è l’agenda nella quale si mostra il divenire della ricerca: registra ogni singolo

Sui social network si aggiornano, ora per ora, i progressi delle indagini: qui la pagina Facebook dello scavo di Miranduolo a Chiusdino, Siena. passaggio del processo di costruzione «artigianale» del dato e il travaglio attraverso il quale si produce la conoscenza storica che costituisce il fine ultimo della nostra disciplina. Il quaderno di scavo, forse l’ultimo foglio di carta ancora universalmente diffuso in archeologia, è di solito uno strumento molto personale, nel quale il responsabile annota appunti e riflessioni grezze. Senza stravolgerne la natura, abbiamo provato a digitalizzare e condividere anche queste informazioni, utilizzando strumenti agili per gestire appunti multimediali. Il sito web istituzionale, infine, oltre a ospitare il quotidiano diario di scavo, contiene pagine sulle ipotesi interpretative e la documentazione di scavo (GIS e archivi alfanumerici, fotografie, elenchi dei rilievi e delle scansioni 3D, diagrammi stratigrafici), oltre ad articoli di approfondimento, video e molto altro. (scarpazi@gmail.com)



POPULONIA (LIVORNO)

Scavare in una città etrusca Considerata già dagli antichi la sola città etrusca affacciata sul mare, Populonia si caratterizza per l’eccezionale stato di conservazione dei luoghi, sia dal punto di vista archeologico, sia paesaggistico. Dal prossimo 25 settembre, questo straordinario contesto ospita la la prima edizione della «Populonia Summer School 2017. Campo scuola archeologico, strumenti di base e tecniche avanzate», organizzata dall’Università Cattolica del Sacro Cuore, in collaborazione con la Fondazione Luigi Rovati, la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Pisa e Livorno e l’ente Parchi Val di Cornia. Sono previsti due turni (25 settembre-6 ottobre e 9-20 ottobre), il cui programma propone lezioni teoriche alternate a esercitazioni pratiche. Destinatari della Summer School sono studenti, laureandi e laureati in archeologia, conservazione dei beni culturali, scienze dell’antichità. Per partecipare è necessario far pervenire, entro l’11 settembre 2017, la propria candidatura, presentando il curriculum vitae e una lettera motivazionale, a: Università Cattolica del Sacro Cuore, Segreteria Populonia Summer School 2017, via Carducci 30, 20123 Milano; e-mail: claudia. martin@unicatt.it

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MUSEI Colfiorito (Perugia)

ANTICHE GENTI DEGLI ALTOPIANI

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li altopiani di Colfiorito testimoniano la straordinaria ricchezza di un territorio considerato, ora come nell’antichità, uno snodo fra il versante tirrenico e quello adriatico. Attraverso i secoli, hanno rappresentato un passaggio obbligato lungo i sentieri della transumanza dell’Appennino A sinistra e in alto: ceramiche in impasto, manufatti in bronzo e una coppetta figurata esposti nel MAC, Museo Archeologico di Colfiorito.

centrale e vennero frequentati fin dall’epoca protostorica. Piú tardi vi si insediò il popolo umbro dei Plestini, che ebbe in Plestia il suo centro piú importante. Inaugurato nel 2011, il MAC, Museo Archeologico di Colfiorito, nasce da una idea forte, quella di creare un organismo museale vivo e attivo, aperto sul territorio, pur nelle attuali difficoltà. Esso si propone come grande raccoglitore delle testimonianze storiche e archeologiche e presenta una documentazione che permette di ricostruire quindici secoli di vita. Poco meno di millecinquecento reperti documentano la civiltà plestina dalle origini alla romanizzazione e attestano l’inserimento di Plestia nell’ampia trama degli scambi culturali tra Etruria, Magna Grecia e Grecia. Tra i materiali di età arcaica, si segnalano quelli provenienti dai santuari e, in particolare, dal tempio della dea Cupra, sorto alla fine del VII secolo a.C., uno dei

luoghi di culto d’altura piú noti del mondo umbro-piceno. Ricchi corredi funerari provano un elevato benessere e un consolidato assetto politico-sociale. Tra il 1970 e il 2006, scavi della Sovrintendenza per i Beni Archeologici dell’Umbria hanno riportato alla luce 290 sepolture in fossa terragna databili tra la fine del X secolo a.C e gli inizi dell’età romana imperiale. La romanizzazione determinò profondi mutamenti a livello politico e sociale. Alla fine del III secolo a.C. prese forma il municipium, ma Plestia divenne città romana con diritto di voto solo nel 90 a.C.: eventi ripercorsi nella sezione del MAC che prende le mosse dallo scavo di una domus. Alessandra Dominici e Federica Nizzi

DOVE E QUANDO MAC, Museo Archeologico di Colfiorito Colfiorito (PG), via Plestia Orario ve, 10,00-13,00; sa-do, 10,00-13,00 e 15,00-18,00 Info tel. 0742 681198; e-mail: archeo.colfiorito@libero.it; Facebook: MAC Museo Archeologico Colfiorito



n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

TUTTI I PORTI DELL’IMPERATORE Già in passato, questa rubrica si è occupata di Traiano (1) come «optimus princeps», rievocandone i successi civili e militari. Tra i primi, egli ebbe il merito di far costruire strade e ponti: tra questi ultimi, molto noto è quello «fortificato» di Apollodoro sul Danubio, raffigurato in un bassorilievo (2) e nella sua ricostruzione (sia sul francobollo che sull’annullo) con accanto i resti dei piloni originali (3). Fra i successi militari, che contribuirono a decretare la fama di questo imperatore, il piú ricordato è la conquista della Dacia, ampiamente documentata nella ben nota Colonna nei Fori Imperiali a Roma a lui dedicata (4). L’articolo che in questo numero di «Archeo» racconta la straordinaria parabola del princeps «provinciale» mette in evidenza anche un altro settore nel quale l’imperatore si distinse: la costruzione di porti marittimi, in varie località italiane. Il piú famoso è certamente quello esagonale di Fiumicino/Ostia, all’interno del piú ampio porto di Claudio, qui presentato in un disegno ricostruttivo su una cartolina commerciale (5). E forse non molti sanno che anche il porto di Civitavecchia sorse in età traianea. Un annullo italiano del 1990 traccia la sagoma del porto di Centumcellae (il nome latino di Civitavecchia) e cita anche l’antica cittadina etrusca di Agylla (6). Altri due annulli italiani (7-8) mostrano il Forte di Michelangelo, cosí chiamato perché uno dei bastioni sarebbe stato progettato dal Buonarroti; in realtà, il progetto fu opera del Bramante e la costruzione, sotto di lui, iniziò nel 1508 sui resti di un vasto edificio imperiale, forse una caserma, a difesa del porto di Traiano. Vi è poi il porto di Ancona, potenziato da Traiano in funzione della campagna di Dacia. Nel capoluogo marchigiano, il Senato fece erigere in onore dell’imperatore un arco trionfale, tuttora in sito, ben visibile su una cartolina d’epoca (9), nella scena 58 della Colonna Traiana (10) e riportato in un annullo del 1983 (11). Infine, è ancora Ancona che ricorda i 19 secoli dell’ascesa al trono dell’imperatore Traiano con un annullo del 1998 (12).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

RIEVOCAZIONI Modena

DUEMILA ANNI FA, SULLA VIA EMILIA...

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a venerdí 1° a domenica 10 settembre torna «Mutina Boica», la rievocazione storica a cura di Crono Organizzazione Eventi, in collaborazione con i Musei Civici di Modena nell’ambito del programma «Mutina Splendidissima». Quest’anno la manifestazione, giunta alla sua IX edizione, è infatti dedicata all’anniversario della fondazione della colonia romana di Modena, nel 183 a.C. – a pochi anni dall’inizio della costruzione della via Emilia –, che, insieme a Parma e Reggio Emilia, festeggia i 2200 anni di vita: Romani, Celti ed Etruschi, ovvero i popoli che hanno abitato il territorio di Mutina in epoca romana, saranno quindi i protagonisti dell’evento. Fra le novità di quest’anno spicca innanzitutto la durata: per un anniversario «speciale» è stata organizzata un’edizione unica, con dieci giorni di programmazione, tra grandi spettacoli di rievocazione, conferenze, concerti, living history e una proposta davvero particolare, la «Caupona Mutinensis». Da venerdí 1° settembre infatti il Parco Ferrari di Modena sarà animato dalla ricostruzione di una taverna romana in piena regola che, per l’intera durata

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di «Mutina Boica» proporrà un menú a tema storico gallo-romano, ispirato alle ricette del tempo. Un’esperienza imperdibile, per passare una serata a tavola nell’antica Roma tra gustatio, prima e secunda mensa – o meglio antipasti, piatti principali e dessert. Fra i molti appuntamenti, segnaliamo, venerdí 8, il debutto dello spettacolo dedicato alla fondazione della colonia, «Il Mito delle origini», una produzione speciale Crono Eventi in replica anche sabato 9. Nel fine settimana il programma prevede anche appuntamenti per famiglie e bambini, con l’animazione «Gioca con la Storia» che riproporrà aspetti didattici del mondo antico in chiave ludica. Altra novità 2017 è «Mutina Fecit», una serie di appuntamenti didattici dedicati alla riscoperta dell’artigianato di età romana a cura di esperti della ricostruzione storica che presenteranno produzioni tipiche di Mutina, che in epoca romana (e anche moderna) riscuotevano grande successo: lana, vino e ceramica in primis. Gli spettacoli di ricostruzione proseguiranno con «Il sacro fuoco di Vesta» e il «Ludus Mutinense», nei quali sarà raccontato il culto delle sacerdotesse Vestali e la passione dei Modenesi per i combattimenti tra gladiatori. Domenica 10 sarà la volta della lectio magistralis di Giovanni Brizzi, ordinario dell’Università degli Studi di Bologna e profondo conoscitore delle vicende della seconda guerra punica, che tratterà della scomparsa, a pochi mesi di distanza, di Annibale e Scipione l’Africano, sempre nel 183 a.C., figure chiave di quella fase storica e utili a far comprendere il quadro politico nel quale si inserí la fondazione di Modena. Alle 18.00 è previsto un gran finale della manifestazione con «Mutina Deducta Est», uno spettacolo di ricostruzione dove andranno in scena gli episodi legati alla nascita di Modena. «Mutina Boica» si inserisce nel programma «Mutina Splendidissima» (www.mutinasplendidissima.it), che a sua volta fa parte del piú ampio progetto «2200 anni lungo la Via Emilia», promosso dai Comuni di Modena, Parma e Reggio Emilia, dalle Soprintendenze Archeologiche di Bologna e Parma, dal Segretariato Regionale Beni, Attività culturali e Turismo, e dalla Regione Emilia-Romagna (www.2200anniemilia.it). Info e aggiornamenti: www.cronoeventi.it



i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

INCONTRI Paestum

RISPOSTE CONCRETE ALLE SFIDE DEL FUTURO

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aglia il traguardo dei vent’anni la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, in programma dal 26 al 29 ottobre 2017 nell’area archeologica della città antica di Paestum. E, per l’occasione, la rassegna ospiterà prestigiose iniziative, tra cui l’anteprima dell’«Anno Europeo del Patrimonio Culturale», indetto dalla Commissione Europea per il 2018 e il Convegno «Il turismo sostenibile per lo sviluppo dei siti archeologici mondiali» a cura dell’UNWTO, l’Organizzazione Mondiale del Turismo delle Nazioni Unite. A fare da contorno saranno gli appuntamenti ormai tradizionali e grazie ai quali la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico si è affermata negli anni come un evento originale nel suo genere: sede dell’unico Salone espositivo al mondo del patrimonio archeologico e di ArcheoVirtual, la mostra internazionale di tecnologie multimediali, interattive e virtuali; luogo di approfondimento e divulgazione di temi dedicati al turismo culturale e al patrimonio; occasione di incontro per addetti ai lavori, operatori turistici e culturali, viaggiatori e appassionati; opportunità di business nella suggestiva cornice del Museo Archeologico Nazionale, con il Workshop tra la domanda estera selezionata dall’ENIT e l’offerta del turismo culturale e archeologico.

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Una formula di successo, testimoniato dalle prestigiose collaborazioni di organismi internazionali quali UNESCO, UNWTO e ICCROM, oltre che da circa 10 000 visitatori, 100 espositori con 20 Paesi esteri, 70 tra conferenze e incontri, 300 relatori, 100 operatori dell’offerta, 100 giornalisti. Non va infine dimenticato che, dal 2015, si è aggiunto l’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», il Premio intitolato al Direttore del sito archeologico di Palmira, che ha pagato con la vita la difesa del patrimonio culturale: la Borsa e «Archeo», in collaborazione con le riviste media partner internazionali Antike Welt (Germania), Archéologie Suisse (Svizzera), Current Archaeology (Regno Unito), Dossiers d’Archéologie (Francia) selezionano e premiano le principali scoperte archeologiche dell’anno. Per quest’anno concorrono all’assegnazione del premio: l’edificio della barca di Sesostri III e i graffiti di 120 navi ad Abido (Egitto); la prima opera architettonica dei Neandertal in una caverna di Bruniquel (Francia); la grande città dell’età del Bronzo presso il villaggio curdo di Bassetki (Iraq); la città indo-greca di Bazira (Pakistan); e 400 tavolette di epoca romana ritrovate nella City di Londra (Regno Unito). Info: www.borsaturismoarcheologico.it



CALENDARIO

Italia

FIRENZE I pozzi delle meraviglie

ROMA I Fori dopo i Fori

Nuove scoperte a Cetamura del Chianti Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.17

La vita quotidiana nell’area dei Fori Imperiali dopo l’antichità Mercati di Traiano, Museo dei Fori Imperiali fino al 10.09.17

GROSSETO, MANCIANO Marsiliana d’Albegna

Dagli Etruschi a Tommaso Corsini Museo Archeologico e d’Arte della Maremma Museo di Preistoria e di Protostoria della Valle del Fiora fino al 31.12.17

Spartaco

Schiavi e padroni a Roma Museo dell’Ara Pacis fino al 17.09.17

MILANO Milano in Egitto

All’ombra delle piramidi

La mastaba del dignitario Nefer Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco fino al 17.09.17

Piranesi

La fabbrica dell’utopia Museo di Roma a Palazzo Braschi fino al 15.10.17

Stele del dignitario Nefer.

MONTALTO DI CASTRO (VT) Egizi Etruschi Da Eugene Berman allo Scarabeo dorato di Vulci Complesso Monumentale di S. Sisto fino al 30.09.17

La bellezza ritrovata

Arte negata e riconquistata in mostra Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori fino al 26.11.17 Colosseo fino al 07.01.18

Trasmissione e ricezione del mito greco Museo Archeologico Nazionale fino al 16.10.17

AQUILEIA Volti di Palmira ad Aquileia

CAPACCIO PAESTUM (SA) Action painting Rito & arte nelle tombe di Paestum Museo Archeologico Nazionale fino al 31.12.17

CAVRIGLIA (AR) Mithra

Un dio orientale in Valdarno Auditorium del Museo Mine fino al 31.12.17

CIVITAVECCHIA Traiano Optimus Princeps I porti dell’imperatore Porto Storico, Antica Rocca fino all’08.10.17

FINALBORGO (SV) Ad fines. 500 miglia da Roma Al tempo dei Romani nel Finale Chiostri di Santa Caterina fino al 31.12.17 26 a r c h e o

Testa ritratto di un principe di epoca tolemaica.

NAPOLI Amori divini

Colosseo. Un’icona

Museo Archeologico Nazionale fino al 03.10.17

Gli scavi di Achille Vogliano nel Fayum Civico Museo Archeologico fino al 15.12.17

Hydria etrusca attribuita al Pittore di Micali. VI sec. a.C.

Il mondo che non c’era

L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue Museo Archeologico Nazionale fino al 30.10.17

Cippo a testa di guerriero, da Orvieto.

ORVIETO L’intrepido Larth

Storia di un guerriero etrusco Museo «Claudio Faina» e Museo Archeologico Nazionale fino al 17.09.17

POMPEI Il Corpo del reato

Il patrimonio archeologico ritrovato Antiquarium degli Scavi fino al 27.08.17

PONTASSIEVE (FI) L’insediamento etrusco di Monte Giovi 3000 anni sopra le nuvole Centro Studi Museo Geo fino al 05.11.17

Cratere apulo a figure rosse. Fine del IV sec. a.C.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

REGGIO EMILIA Lo scavo in piazza

LES EYZIES-DE-TAYAC Il terzo uomo

SIRACUSA La Porta dei Sacerdoti

Germania

Una casa, una strada, una città Musei Civici di Reggio Emilia fino al 31.08.17

I sarcofagi egizi di Deir el-Bahari. Esposizione e restauro in pubblico Galleria Civica Montevergini fino al 07.11.17

SORANO (GR) Vulci e i misteri di Mitra

Preistoria dell’Altai Musée national de préhistoire fino al 13.11.17

BONN Iran

Antiche culture tra l’acqua e il deserto Bundeskunsthalle fino al 20.08.17

Culti orientali in Etruria Fortezza Orsini, Museo del Medioevo e del Rinascimento fino al 05.11.17

COSTANZA Ricostruire Palmira?

TAORMINA Ritorno alla Magna Grecia

Grecia

Reperti della Collezione La Gaipa Palazzo Duchi di S. Stefano fino al 17.09.17

TORINO Cose d’altri mondi

BildungsTURM fino al 17.09.17

ATENE Odissee

Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.17

Raccolte di viaggiatori tra Otto e Novecento Palazzo Madama, Sala Atelier fino all’11.09.17

Missione Egitto, 1903-1920 L’avventura archeologica M.A.I. raccontata Museo Egizio fino al 30.09.17

VETULONIA (GR) L’arte di vivere al tempo di Roma

Olanda

I luoghi del «tempo» nelle domus di Pompei Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 05.11.17

LEIDA Casa Romana

VICENZA Le ambre della principessa

Svizzera

Storie e archeologia dall’antica terra di Puglia Gallerie d’Italia, Palazzo Leoni Montanari fino al 07.01.18

Francia PARIGI L’Africa delle rotte

Musée du quai Branly Jacques Chirac fino al 12.11.17

Statua di Posidone, da Livadostra (Beozia). 480 a.C.

Rijksmuseum van Oudheden fino al 17.09.17

GINEVRA L’affaire del sarcofago romano Un tesoro archeologico riscoperto Salle des moulages de l’UNIGE fino al 02.09.17

ZURIGO Osiride

Misteri sommersi d’Egitto Museum Rietberg fino al 13.08.17 a r c h e o 27


STORIA • TRAIANO

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98-117 D.C.

MAGNIFICI QUEGLI ANNI... 1900 ANNI FA, MORIVA IN CILICIA MARCO ULPIO TRAIANO, IL PRINCEPS CHE FU CAPACE DI REGALARE A ROMA UN VENTENNIO IRRIPETIBILE. SOTTO IL SUO REGNO, L’IMPERO RAGGIUNSE LA SUA MASSIMA ESTENSIONE E L’«OTTIMO PROVINCIALE» INTERVENNE IN OGNI CAMPO, COMPRESO QUELLO DEL POTENZIAMENTO DELLA RETE PORTUALE di Massimiliano David

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opo le turbolenze degli ultimi anni della breve dinastia flavia (69-96 d.C.), l’impero romano imboccò una via segnata dalla stabilità e dalla sicurezza, che si protrassero per un secolo. Ucciso in una congiura Domiziano, l’ultimo dei Flavi, si voltò decisamente pagina, senza piú squilibri tra i poteri forti, cioè tra l’esercito e il Senato: fu acclamato imperatore Nerva, il quale, pur avendo governato per soli due anni, seppe interpretare e guidare magistralmente il nuovo corso, lasciando il testimone all’uomo che piú di tutti meritò il titolo di «optimus»: Marco Ulpio Traiano. Nato il 18 settembre del 53 d.C. (ma vi è chi posticipa la nascita al 56), sotto l’imperatore Claudio, a Italica, nella provincia della Betica, nel Sud della Spagna, Traiano discendeva dall’importante famiglia degli Ulpii, che aveva

origine italica. Il padre apparteneva alla classe senatoria e aveva raggiunto alte cariche: era stato console e poi governatore della Siria. Il giovane Traiano si fece strada nella vita pubblica con una brillante carriera nei ranghi dell’esercito sotto i Flavi. Fu poi console nel 91 e quindi governatore della Germania. Nerva lo adottò quasi subito come successore, col disegno di garantirsi l’approvazione delle forze armate che vedevano in lui il loro piú degno rappresentante.Traiano si sposò con Plotina quando aveva meno di 25 anni, ma non ebbero figli. Roma. Particolare del fregio della Colonna Traiana, eretta nel Foro di Traiano. 113 d.C. In alto, a sinistra, l’imperatore, con il capo velato celebra il rito dei Suovetaurilia, al quale si riferisce, in basso, la processione di un toro (taurus), di un montone (ovis) e di un maiale (sus). a r c h e o 31


STORIA • TRAIANO

Aveva quarantacinque anni, quando, nel 98, ricevette la notizia della morte di Nerva e della sua nomina a nuovo imperatore. Non si trovava a Roma in quel momento, ma sul confine renano: prima di raggiungere la capitale, dovette occuparsi delle operazioni militari, trattenendosi in Germania per altri due anni. Presentandolo al Senato nell’anno del suo consolato (100 d.C.), Plinio il Giovane gli rivolse un lunghissimo panegirico, nel quale sottolineava le enormi aspettative riversate in lui e riconosceva l’opportunità offerta dalla sua elezione di mettere alle spalle gli errori e gli orrori di Nerone e di Domiziano. Uomo dell’esercito, Traiano è l’imperatore che in effetti riuscí a mitigare la natura autocratica della carica: sua è l’istituzione di un consiglio («consilium principis») che lo affiancava nelle decisioni. Seppe dimostrarsi grande statista affrontando i problemi dell’impero: da una parte rilanciandone la dinamica espansiva, dall’altra restituendo efficienza ai gangli vitali del centro del potere. Fu inoltre capace di dotare l’Italia di nuove infrastrutture, tali da sostenere l’espansione del commercio nel Mediterraneo. Meno sviluppata fu in lui l’attenzione per i problemi del dissenso alla politica imperiale espresso attraverso la religione. Lo Stato traianeo riconosceva certamente la carica eversiva delle minoranze cristiane, ma le considerava sostanzialmente tollerabili perché ininfluenti.

L’ESPANSIONE VERSO ORIENTE Traiano pensava che fosse ancora possibile ridisegnare le frontiere dell’impero e non si sentí affatto vincolato dai grandi fiumi che attraversano il continente europeo. A partire dal 101, lanciò un’offensiva in Dacia (attuale Romania), al di là del Danubio, puntando al controllo di quel territorio e al suo accorpamento nel sistema provinciale. Le 32 a r c h e o

manovre militari si svolsero in due tempi: la prima campagna fu vittoriosa, ma solo la seconda risultò totale e definitiva. L’imperatore era interessato anche alla frontiera orientale: sul versante sud, acquisí il regno nabateo dell’Arabia, mentre a nord recuperò l’Armenia e neutralizzò le mire espansive della Persia, arrivando a toccare con le sue truppe le foci del Tigri e dell’Eufrate, nel golfo Persico. Nella sua titolatura poté perciò fregiarsi degli appellativi onorifici di germanico, dacico e partico. Proprio mentre in Cilicia si accingeva a una nuova offensiva anti-persiana, le sue condizioni di salute peggiorarono in modo irrimediabile e lí

morí nel 117.A quella data, l’impero romano aveva raggiunto la sua massima estensione territoriale. Per le opere di architettura e di ingegneria Traiano si avvalse di un grande progettista, Apollodoro di Damasco: con lui ridisegnò il centro di Roma, aprendo un nuovo, grandioso foro (300 x 180 m), inaugurato nel 113 d.C., l’ultimo della serie dei Fori Imperiali. Il complesso si presenta estremamente innovativo, combinando in un insieme armonico ed equilibrato funzioni celebrative, propagandistiche, giudiziarie, funerarie, culturali, commerciali e religiose. Collocato in posizione centrale e al tempo stesso marginale


(le Mura Serviane correvano proprio in quell’area), la sua realizzazione comportò un poderoso sbancamento della collina del Quirinale.

LIBRI GRECI E LATINI Il Foro di Traiano disponeva di una vasta piazza (120 x 90 m), di un grande tempio, di un’enorme basilica, di mercati e di biblioteche, una per i libri in latino, l’altra per i testi in greco. Su tutto svettava la colonna coclide (a spirali), sulla quale vennero scolpite le imprese di Traiano in Dacia e nel cui basamento furono deposte le ceneri dell’imperatore. La piazza vera e propria era dominata da una sua statua equestre, l’«equus Traiani». Le straordinarie proporzioni, la qualità costruttiva, il raffinato uso dei migliori marmi e il carattere polifunzionale fecero del complesso traianeo per secoli il vero cuore della città.

Nel centro di Roma, sul colle Oppio, Apollodoro ideò per il popolo romano anche un grandioso impianto termale pubblico. Non si trattava del primo complesso di questo tipo, poiché già Agrippa,

Nerone e Tito avevano voluto terme pubbliche per i cittadini della capitale. Tuttavia, mai prima di allora, si era realizzato un complesso di tali proporzioni e qualità co(segue a p. 36)

Nella pagina accanto: la Colonna Traiana, la cui altezza (40 m circa) è pari a quella della sella che univa il colle Quirinale al Campidoglio e che fu abbattuta per consentire la costruzione del Foro di Traiano. In alto: il grandioso emiciclo dei Mercati di Traiano, costruiti a ridosso della piazza del Foro, ma in origine nascosti da un alto muro perimetrale. A destra: ricostruzione assonometrica del Foro di Traiano. a r c h e o 33


STORIA • TRAIANO

LA FORTUNA DELL’«OPTIMUS» di Andrea Paribeni

«F

elicior Augusto, melior Traiano!». Il senso di questa invocazione, con la quale, stando a Eutropio, venivano solitamente acclamati gli imperatori nella tarda antichità al momento dell’elezione, esprime con tutta evidenza il prestigio e l’autorevolezza che i posteri riconoscevano all’optimus princeps; alcuni imperatori di questo periodo, anzi, fecero esplicitamente allusione all’exemplum traianeo nelle loro azioni e nelle loro committenze, come lo spagnolo Teodosio I (379-395), il quale, oltre a vantare pretese discendenze dirette da Traiano, riprese il modello della colonna coclide per il suo foro monumentale, dedicato nel 393 a Costantinopoli. Non sorprende pertanto che, intorno alla figura di Traiano, siano sorti racconti leggendari, che miravano ad accrescerne la statura morale, anche nella prospettiva di una sua riabilitazione cristiana. La leggenda piú celebre è quella

della Giustizia di Traiano, costruita su un canovaccio che, in prima battuta, aveva per protagonista Adriano, ma che poi si adattò, con ricchezze di sfumature, a Traiano: un giorno, l’imperatore, a cavallo, in procinto di muoversi per una campagna militare, venne fermato da una vedova, che implorava giustizia per il figlio, che era stato ucciso; il princeps promise di darle udienza al ritorno dalla guerra, ma l’insistenza della donna lo costrinse a sospendere la partenza e ad assolvere prima ai suoi doveri di amministratore della giustizia. Su questa base, il racconto si arricchí di ulteriori elementi, primo fra tutti l’identità del responsabile della morte del figlio della vedova, rivelatosi niente meno che il figlio dello stesso Traiano, il quale sarebbe stato affidato alla donna dal giusto imperatore, a mo’ di risarcimento. Le prime attestazioni della leggenda si ricavano dalle varie versioni della

In basso: Venezia, Palazzo Ducale. Particolare della decorazione di un capitello raffigurante una delle molte versioni della Giustizia di Traiano.

Nella pagina accanto: La Giustizia di Traiano, olio su tela di Eugène Delacroix. 1840. Rouen, Musée des Beaux-Arts.

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Vita di Gregorio Magno, redatte tra l’VIII e il IX secolo, nelle quali si ricorda che, proprio grazie alle preghiere di intercessione del papa – colpito da quell’atto di grande pietà e rettitudine di cui restava memoria nel Foro di Traiano – l’anima dell’imperatore avrebbe ottenuto la liberazione dalle pene dell’inferno. Le biografie di Gregorio e, a seguire, altre fonti tardomedievali, come i Mirabilia Urbis e il Novellino, individuano quindi in un segno tangibile presente nel Foro di Traiano – presumibilmente un rilievo che ritraeva l’imperatore col suo seguito e una figura femminile, rappresentante una nazione barbara, nell’atto di sottomettersi – la prima esposizione per immagini della Giustizia di Traiano; la metafora figurata si ripropone poi con grande evidenza nel X canto del Purgatorio, in cui Dante, osservando il fregio marmoreo, rievoca il serrato dialogo tra l’imperatore e la vedovella «di lagrime atteggiata e di dolore». La ricchezza delle fonti letterarie tardo-medievali e la potenzialità visiva insita nel racconto stesso, alla cui base vi sarebbe un archetipo iconografico di età romana, favorirono la diffusione del tema soprattutto in pittura, sia parietale che su tavola (cassoni e deschi da parto, XV secolo; tavola del Museo Pushkin di Mosca, 1570-1580), o su tela (come la tempera di Antonio e Giulio Campi, XVI secolo, nella Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, o il capolavoro di Eugène Delacroix del 1840 al Musée des Beaux-Arts di Rouen), ma anche nei tessuti (arazzo dell’Historisches Museum di Berna), nella scultura (capitello di Palazzo Ducale a Venezia) e nelle arti minori (placchetta in bronzo, XV secolo, alla National Gallery di Washington).


a r c h e o 35


A sinistra: la pianta delle Terme di Traiano riportata da Rodolfo Lanciani nella Forma Urbis Romae. 1893-1901. In basso: statua di Traiano come Ercole. 108-113 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.

struttive. Il progetto si fonda su un rettangolo termale vero e proprio (di 190 x 212 m) inserito in un rettangolo maggiore (di 330 x 315 m). Sul lato sud-occidentale si apriva una grande esedra.

SEMPRE AL SOLE La costruzione richiese l’azzeramento per un’ampia area di ogni preesistenza, a esclusione delle adiacenti Terme di Tito, e la riduzione a strutture di servizio sotterranee di quanto rimaneva di un settore della Domus Aurea neroniana. Orientato in modo da essere esposto alla luce del sole in ogni ora della giornata, il complesso ebbe una grandiosa fronte sul lato nord-est. Serviva l’edificio una grandissima cisterna – tut36 a r c h e o

tora conservata con il nome di Sette Sale –, alimentata da un acquedotto dedicato (l’Aqua Traiana). Ogni componente del complesso termale era attentamente meditata e declinata nelle forme piú svariate, con una grande natatio. La struttura, perfettamente simmetrica e speculare, rifletteva la fruibilità per i due sessi, offrendo percorsi di cura personale ritagliati sulle esigenze individuali, sia maschili che femminili, con ambienti condivisi (anche se in orari diversi) e altri esclusivi. Uno spazio verde avvolgeva su tre lati l’impianto, concepito come un concatenato insieme di edifici. Sulla linea delle scelte progettuali adottate per il polifunzionale Foro di Traiano, le Terme erano pensate


L’impero romano da Augusto a Traiano (30 a.C.-117 d.C.) Sc an di a

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Massima estensione dell’impero nel 117 d.C.

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In alto: la massima estensione dell’impero romano, raggiunta con il principato di Traiano. A sinistra: l’Arco di Traiano, nel porto di Ancona, in un’incisione del XIX sec.

come un luogo per la socializzazione, lo svago e la cura del corpo. Traiano affrontò nella capitale altre importanti opere pubbliche, e, in particolare, ricostruí e ampliò il Circo Massimo, la cui nuova struttura in muratura ne incrementò la capienza e la sicurezza. Allo stesso modo in cui dotò l’Urbe di nuovi monumenti,Traiano si preoccupò delle capacità ricettive del porto che Claudio aveva fatto sorgere sulla riva destra del Tevere, adeguandolo alla crescita esponenziale a r c h e o 37


STORIA • TRAIANO

del tonnellaggio delle navi da carico e assicurando l’attracco di un numero altissimo di natanti. Il nuovo bacino esagonale interno (ampio ben 32 ettari) disponeva di una banchina lunga 2 km. Il porto era ben protetto e fu collegato con il Tevere per mezzo di un canale attrezzato, la cosiddetta Fossa Traiana. Il sistema portuale cosí rinnovato assicurò a Roma il collegamento solido e durevole con il Mediterraneo. Negli stessi anni anche Ostia, insediamento parallelo a Portus sulla riva sinistra del Tevere, che disponeva in quel momento di un suo ben attrezzato porto fluviale, visse una fase espansiva straordinaria. L’«ottimo principe» seppe però anche guardare piú in generale alle esigenze della portualità dell’intera Italia (la Penisola non disponeva di un sufficiente numero di scali naturali protetti). Nel Lazio, l’attenzione dell’imperatore si soffermò soprattutto su Terracina, con la costruzione di nuovi moli per un porto a darsena ampio 12 ettari circa.

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La cittadina veniva riconosciuta come uno snodo decisivo non solo in quanto scalo di riferimento sulle rotte tirreniche, ma anche per la viabilità terrestre. Là dove l’Appia toccava il mare e ripiegava da Terracina verso l’entroterra, in direzione di Fondi, venne dunque affrontato il taglio della rupe del Pisco Montano. Lungo la costa tirrenica, in Etruria, nell’area di Civitavecchia, presso Centumcellae (vedi anche a p. 40), furono riconosciute le condizioni favorevoli per la costruzione di un sicuro porto artificiale. Del grande cantiere, direttamente sorvegliato da Traiano, scrive in una lettera Plinio il Giovane all’amico Corneliano.

to di riferimento migliore per l’attraversamento dell’Adriatico. Piú a nord, ci sono elementi che fanno supporre opere importanti anche a favore del porto di Rimini, mentre sulle coste adriatiche meridionali l’importanza del porto di Brindisi venne ribadita dall’imperatore con la realizzazione di un tracciato alternativo per la via Appia (la cosiddetta via Appia Traiana). Oltre alle opere a favore della piú importante arteria stradale d’Italia, si possono attribuire a Traiano lavori sul tracciato di altre consolari come l’Emilia, la Flaminia, la Latina, la Salaria, ma anche di molti altri percorsi essenziali, come la via Puteola-

IL TAGLIO DELLA RUPE Sul versante adriatico, nel Piceno, Traiano puntò su Ancona, creando un ampio porto riparato. Ancora oggi sul molo trafficato s’impone alla vista il grande arco trionfale a fornice unico che tramanda la memoria dell’imperatore. Sotto il «gomito» le navi trovarono cosí il pun-

Nella pagina accanto: veduta aerea del porto di Civitavecchia: la creazione dello scalo dell’allora Centumcellae fu promossa da Traiano, che seguí il cantiere in prima persona. In basso: la pianta della città di Civitavecchia. 1720 circa. Milano, Castello Sforzesco, Raccolta delle Stampe «Achille Bertarelli».


na, che collegava Napoli a Pozzuoli. Al principe ispanico si devono inoltre lavori tesi a regolare il deflusso delle acque dal lago del Fucino. Nei confronti degli insediamenti italici, l’imperatore si preoccupò di assicurare i servizi essenziali, risolvendo, tra gli altri, il problema dell’approvvigionamento idrico di città come Forum Clodium e Ravenna. Ma, tra il 98 e il 117, quasi ogni provincia si giovò degli interventi imperiali. Per esempio, in Sardegna sorse Forum Traiani (Fordongianus), mentre in Egitto venne portata a termine l’impresa di collegare il Nilo al Mar Rosso con un canale artificiale, un’opera comparabile per la sua utilità all’apertura del Canale di Suez; in Spagna venne costruito il superbo acquedotto di Segovia e nella Dacia conquistata l’imperatore stabilí le basi di un sistema di città e insediamenti minori oltre che una prima rete di vie di collegamento.

UNA FAMA DURATURA Una ricca congerie di fonti letterarie concorse a formare l’immagine dell’«ottimo principe». Storici e uomini di lettere suoi contemporanei, come Arriano e Plinio il Giovane, si rivelarono decisivi per la comprensione della politica imperiale. Di lui scrissero – ma dopo il suo tempo – anche autori di rilievo, come Cassio Dione, Ammiano Marcellino e Aurelio Vittore, senza che la sua fama fosse mai scalfita o pregiudicata dal giudizio dei cristiani. La tempra e l’equilibrio spirituale di Marco Ulpio Traiano, quasi un nuovo Augusto, umano e modesto – senza onori divini – filtrano anche attraverso la ricca produzione di ritratti monetali o scolpiti, che lo mostrano in vesti militari e civili. Per il decennale, venne elaborato un tipo di ritratto innovativo, teso a meglio esprimere la maestà del comando. Dopo di lui gli imperatori

furono acclamati con l’augurio di essere «piú fortunati di Augusto e migliori di Traiano» («felicior Augusto, melior Traiano!»). L’eredità del periodo traianeo è particolarmente significativa; e ancora oggi le parole ammirate di grandi archeologi – come Ranuccio Bianchi Bandinelli e Giovanni Becatti – di fronte al patrimonio di cultura architettonica e artistica, oltre che politica, che dobbiamo all’«optimus princeps» devono far riflettere. DOVE E QUANDO «Traiano Optimus Princeps. I porti dell’imperatore» Civitavecchia, Porto Storico, Antica Rocca fino all’8 ottobre Info tel. 0766 366316-236; e email: fontanella@portidiroma.it; satta@portidiroma.it a r c h e o 39


I LUOGHI

STORIA • TRAIANO

TRA LE COLLINE E IL MARE di Rossella Zaccagnini

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a città romana di Centumcellae, il cui nome è stato variamente ricondotto dagli studiosi alla presenza della struttura degli horrea (magazzini) alle spalle del porto, ai numerosi anfratti presenti lungo la costa o, forse con maggiore probabilità, alla presenza di numerose piccole capanne (assimilabili per l’appunto a cellae) poste all’epoca della sua fondazione tra i Monti della Tolfa e il Tirreno, venne fondata per volere dell’imperatore Traiano in un territorio ricco di acque sorgive e minerali posto tra le colline e il mare. Nel 107 d.C., quando Plinio il Giovane fu

In basso: stemma di papa Innocenzo XII (1691-1700). Magazzini del porto romano di Civitavecchia, nei pressi del muraglione di Urbano VIII.

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convocato nella splendida villa che l’imperatore aveva ad Centumcellas, circondata da una campagna rigogliosa e non lontana dal mare, il porto era ancora in costruzione. Posta lungo la via Aurelia, la città nacque come centro attrezzato intorno al porto, che forse si deve, come quello ostiense, alla perizia tecnica dell’architetto di Traiano Apollodoro di Damasco. L’impianto urbanistico è regolare, basato sull’incrocio ortogonale di cardo e decumanus; il centro occupava, escluso il porto, una superficie di 16 ettari circa. L’approvvigionamento idrico era garantito da un acquedotto, intercettato in piú punti e proveniente da sorgenti distanti 34 km circa, nella zona della «Cava Vecchia» presso l’odierna Allumiere. Purtroppo, ben poco si conserva della città traianea, inglobata quasi completamente nell’impianto attuale, anche se la maggiore eredità risiede proprio nella caratteristica della città moderna rispetto al centro antico:

In alto: strutture riferibili ai magazzini del porto romano di Centumcellae (Civitavecchia).

oggi come allora, intorno al porto si trovano edifici per i naviganti e i mercanti (negli anni sono state individuate strutture riferibili all’area forense, alla basilica, alle terme, oltre che gli imponenti magazzini posti alle spalle del porto). L’esempio di Centumcellae è infatti emblematico per illustrare la funzione trainante, sul piano urbanistico, della costruzione di un complesso portuale razionalmente pianificato: alle spalle di un articolato sistema di attracchi e darsene, si pianifica un centro urbano a supporto, gravitante su di esso nei sistemi viari e nella zonizzazione dei servizi, con l’area forense paracostiera. Tale simbiosi ha permesso la crescita economica e demografica della città, che non sembra aver subito flessioni fino all’età tardo-antica.


LE TERME TAURINE di Rossella Zaccagnini

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osto nell’entroterra a circa tre miglia di distanza dal centro e dal porto di Centumcellae e noto anche grazie alla descrizione che ne fece il poeta Rutilio Namaziano nel 416 d.C., il complesso monumentale delle Terme Taurine venne edificato in corrispondenza di una sorgente dalle virtú terapeutiche conosciuta e frequentata fin dalla preistoria. Il nome, che il poeta faceva discendere dalla leggenda di un toro che avrebbe fatto scaturire l’acqua raspando il terreno (in un suggestivo parallelo con l’Acheloo, divinità fluviale dalla testa taurina della mitologia greca), deriva probabilmente dalla vicinanza con il centro romano di Aquae Tauri. Indagata a partire dal XVIII secolo, l’imponente e articolata struttura termale (20 000 mq circa), che sorse in età sillana (90-70 a.C.) e fu notevolmente ingrandita in età traianea (97-117 d.C.) e adrianea

(117-138 d.C.), risulta non convenzionale nella sua articolazione, proprio grazie alla presenza dell’acqua termale che sgorga alla temperatura di 47°. Le strutture piú antiche, poste nella parte nord, si articolano in un peristilio di ingresso, un tepidarium (bagni in acqua tiepida), un laconicum a pianta circolare, un calidarium (bagni in acqua calda) e altri piccoli vani di servizio. Di età traianea è un ampliamento, caratterizzato da ambienti la cui monumentalità sottolinea l’importanza del complesso. Particolarmente imponenti sono il calidarium (23 x 10,70 m), occupato quasi per intero dalla piscina, rivestita da lastre di marmo bianco e alimentata grazie a un sofisticato sistema di tubature che conducevano l’acqua termale; il frigidarium (bagni in acqua fredda), posto all’aperto, con una piscina lunga 10 m circa; la sala con l’heliocaminus, o stufa solare, riscaldato dai raggi del sole tramite ampie vetrate e utilizzato per i bagni di sudore, grazie anche all’ausilio della sabbia riscaldata. Non mancavano una biblioteca, il criptoportico, il giardino, le sale di rappresentanza e i cubicula per

Civitavecchia (Roma). Resti delle Terme Taurine, sorte in età sillana (90-70 a.C.) e ampliate in epoca traianea e poi adrianea (98-138 d.C.).

alloggiare il personale. Vanno infine sottolineate la raffinatezza e la cura delle decorazioni, purtroppo pervenute solo in minima parte, nonché le particolarità di alcune soluzioni architettoniche: tutti elementi che attestano la presenza di maestranze specializzate e di una committenza di alto rango. La struttura presenta piú vani con la stessa funzione, probabilmente per rispondere all’alta affluenza di visitatori, e notevoli sono anche gli accorgimenti tecnici. Seppur meno frequentate, le terme furono in uso fino all’età delle guerre grecogotiche nel VI secolo d.C.; il complesso cessò quindi di funzionare in quanto tale e cominciarono i saccheggi. Le terme non sono mai state del tutto abbandonate e, fino a pochi decenni fa, la sorgente calda ha continuato a sgorgare e a riempire la vasca del calidarium: captazioni continue e incontrollate, nonché l’abbassamento della falda, hanno purtroppo oggi lasciato il sito all’asciutto. a r c h e o 41


I LUOGHI

STORIA • TRAIANO

LA CITTÀ DEL PAPA

di Francesca Romana Stasolla

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li esiti della politica traianea lungo la costa attorno a Roma durarono molto a lungo, stabilizzando la popolazione intorno ai nuovi porti; non a caso, Portus (Porto) e Centumcellae (Civitavecchia) divennero sedi episcopali molto presto, sottolineando in questo modo la loro rilevanza. Le ricerche archeologiche hanno

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dimostrato che, nella tarda antichità – a dispetto del racconto di Rutilio Namaziano, il quale, all’inizio del V secolo d.C., descrive la costa laziale a nord di Roma in termini disastrosi –, si registrarono un certa tenuta del tessuto insediativo e, soprattutto, la funzionalità del porto di Centumcellae, ammirato dallo stesso Rutilio nel suo scalo del 416. Alla metà del VI secolo, la città portuale rimase coinvolta dalle vicende della guerra di riconquista bizantina contro i Goti, e il suo porto utilizzato a scopi bellici. La lenta decadenza dell’abitato e del suo scalo, determinata dalla sottrazione della costa tirrenica alla politica

mediterranea – maggiormente concentrata verso la parte orientale dell’impero –, culminò con le incursioni saracene lungo le coste laziali tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo. Questa instabilità determinò un curioso fenomeno, con la costruzione, alla metà del IX secolo, di una nuova città nell’entroterra, sulle colline della Tolfa (nei pressi dell’odierna Allumiere): Leopoli, dal nome del papa fondatore, Leone IV. Il nuovo insediamento divenne eredità della città costiera, facendone proprio il toponimo, Centumcellae, poi corrotto in Cencelle; la ripresa del porto risolse


l’ambiguità toponomastica, definendo la città costiera Civitas Vetula, «città vecchia» rispetto alla nuova, nata secondo modalità che conosciamo per altri centri, come per esempio per Orvieto, Urbs vetus rispetto a Volsinii. L’impresa del commercio dell’allume, dalla metà del XV secolo, la costruzione della nuova fortezza (il Forte Michelangelo), lo stanziamento dell’arsenale pontificio nel XVII secolo segnarono le tappe dello sviluppo del porto vero l’età moderna, connotato dalla ripresa delle strutture volute da Traiano, come l’acquedotto e il grande impianto termale.

In alto, sulle due pagine: fotomosaico con integrazioni grafiche dei frammenti dell’epigrafe di papa Leone IV, che celebra la fondazione di Leopoli-Cencelle. La città, oggi nel territorio del Comune di Tarquinia, sorse nell’854 per accogliere gli abitanti di Centumcellae (l’odierna Civitavecchia) in fuga dalle incursioni saracene. A sinistra: la cinta muraria di Leopoli-Cencelle. A destra: veduta aerea del sito di Leopoli, con i resti delle mura, del palazzo pubblico e della chiesa di S. Pietro. a r c h e o 43


MOSTRE • VOLTI DI PALMIRA

VOLTI DI PALMIRA A sinistra: testa in pietra calcarea di sacerdote, da un sarcofago palmireno. II-III sec. d.C. Gerusalemme, Terra Sancta Museum. Sulle due pagine: Palmira. La Via Colonnata in una fotografia di Elio Ciol.

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IL CARATTERE DI PALMIRA, QUEL VIVACE CROCEVIA DI IDEE, DI USI E COSTUMI E DI CORRENTI FORMALI E STILISTICHE ORIENTALI MA ANCHE GRECHE E ROMANE, SI RIFLETTE STRAORDINARIAMENTE NELL’IMMAGINE CHE I SUOI ABITANTI HANNO VOLUTO LASCIARE DI SÉ ATTRAVERSO I LORO MONUMENTI FUNERARI, TRA LE PIÚ SIGNIFICATIVE TESTIMONIANZE DELL’ARTE PALMIRENA. GRAZIE ALLA DIFFUSIONE DI QUESTI ORIGINALI REPERTI, GLI ANTICHI CITTADINI DI PALMIRA, «CON I LORO VOLTI, I LORO ABITI E I LORO GIOIELLI», PER USARE LE PAROLE DEL FAMOSO ARCHEOLOGO FRANCESE PAUL VEYNE, SONO DIVENTATI ORA «CITTADINI DEL MONDO». LI INCONTRIAMO IN UN’AFFASCINANTE MOSTRA ALLESTITA AL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI AQUILEIA

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hi erano gli abitanti di Palmira? Le fonti letterarie, epigrafiche e archeologiche a nostra disposizione delineano un quadro a tratti molto dettagliato, a tratti lacunoso. Se in un panorama di grande contaminazione culturale le componenti etniche della popolazione risultano di difficile definizione, certo è che nel sincretistico pantheon di Palmira vi è spazio per gli dèi greci, romani, arabi, mesopotamici e fenici. Inoltre, mentre il greco è la lingua ufficiale come in tutta la parte orientale dell’impero romano, l’aramaico nella variante palmirena è la lingua piú utilizzata, associata a un peculiare sistema di scrittura. Quanto all’onomastica, accanto a nomi semitici e a nomi autoctoni spesso ispirati alle divinità locali, troviamo nomi comunemente diffusi in tutto l’Oriente di lingua greca, nomi iranici, arabi e latini, fra cui il gentilizio dell’imperatore in carica al momento dell’acquisizione

di Gioia Zenoni

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MOSTRE • VOLTI DI PALMIRA

della cittadinanza romana da parte del personaggio in questione (è il caso di Ulpii, Aelii, Septimii, Aurelii, legati a Traiano, Adriano, Settimio Severo e Caracalla, che ebbero particolare rilievo nelle vicende storiche e politiche della città).

FAMIGLIE ILLUSTRI La popolazione è organizzata in grandi famiglie facenti capo a gruppi ancora piú estesi, clan e tribú, collegati ai diversi quartieri della città e ai suoi principali santuari. Gli esponenti di spicco delle famiglie piú illustri sono ricordati, ringraziati, onorati nelle iscrizioni delle mensole che ne sorreggevano le statue sulle colonne ai lati dell’arteria principale della città, la Via Colonnata, in una celebrazione lunga oltre un chilometro. In genere, si tratta di personaggi che avevano fatto fortuna organizzando e finanziando le spedizioni commerciali in Cina, in India, nel Golfo Persico e nella Penisola arabica, oppure offrendo sicurezza e sostegno logistico, nonché diplomatico, alle carovane che attraversavano

Sguardi penetranti In alto: rilievo funerario in pietra calcarea con ritratto di Maliku. II-III sec. d.C. Gerusalemme, Terra Sancta Museum.

A sinistra: rilievo funerario in calcare grigio con busto femminile. II sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. A destra: busto muliebre in pietra calcarea, da un sarcofago palmireno. II sec. d.C. Gerusalemme, Terra Sancta Museum.

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gli ostili territori circostanti. Alti erano, infatti, i rischi, ma ancora maggiori erano i proventi del commercio di beni di lusso come pietre semipreziose o preziose, perle, profumi, spezie, tessuti (fra cui seta dalla Cina e cachemire dall’Asia Centrale): di alcuni di essi si ha anche un riscontro archeologico grazie ai ritrovamenti effettuati nelle tombe. La città traeva profitti anche dall’imposizione di dazi sulle persone, sugli animali e sui prodotti in transito, come siglato dalle leggi fiscali riportate nella stele del 137 d.C., nota come Tariffa. All’apice della società palmirena c’erano anche i sacerdoti, ben riconoscibili nell’iconografia grazie all’alto copricapo e organizzati in confraternite che presiedevano al culto della divinità tribale. Fra i riti piú caratteristici vi è il banchetto sacro in apposite sale all’interno del santuario, a cui i fedeli invitati potevano accedere esibendo un gettone, in genere una tessera in terracotta rotonda o rettangolare con raffigurazioni di carattere religioso sui due lati, talvolta accompagnate da un’iscrizione.


Rilievo funerario in pietra calcarea dorata e dipinta con ritratto di Batmalkû e Hairan. III sec. d.C. Roma, Museo delle Civiltà, Collezioni d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci». a r c h e o 49


MOSTRE • VOLTI DI PALMIRA

Infine, Palmira gioca un ruolo strategico dal punto di vista militare, sia ospitando diverse guarnigioni, sia fornendo truppe di cammellieri e di arcieri scelti, questi ultimi inviati fino in Afr ica e nei Balcani. Nell’ambito del lungo, difficile e sanguinoso conflitto che nel III secolo d.C. contrappone i sovrani sasanidi a imperatori romani dal potere sempre piú instabile ed effimero, si sviluppa l’epopea dei due personaggi piú famosi della storia di Palmira, Odenato e Zenobia. Nel 259 d.C., in seguito all’umiliante cattura dell’imperatore Valeriano da parte del re sasanide Shapur I, il palmireno Settimio Odenato – già fregiato del riconoscimento di esarca dei Palmireni, di senatore e di console romano – conquista il titolo di dux Orientis e di «Re dei Re» (prerogativa del sovrano sasanide), liberando la Siria dal nemico e incalzandolo fino in Mesopotamia. L’enorme successo guadagnato deve essere alla base del complotto che, nel 267/268 d.C.,

porterà al suo assassinio e a quello del figlio Hairan.

UN SEGNALE DI SFIDA A raccogliere posizione e titoli sono la seconda moglie Zenobia e suo figlio Vaballato, ancora bambino. Insieme intraprendono un’ambiziosa campagna di conquista della Siria e dell’Oriente, dall’Asia Minore all’Egitto, giungendo ad autoproclamarsi «Sebastoi/Augusti» nel 272 d.C.: un titolo che all’imperatore Aureliano deve essere suonato come un chiaro segnale di sfida alla propria autorità e, molto probabilmente, come tentativo di usurpazione dell’impero. In una rapida spedizione di riconquista della Siria, nello stesso anno Aureliano assedia Palmira e sconfigge Zenobia. Il successivo destino della regina è ignoto: alcune fonti la vogliono fuggita oltre l’Eufrate, altre catturata e deceduta nel viaggio per l’Italia, altre ancora partecipe del

Palmira. L’orchestra e l’edificio scenico del teatro, in una foto di Elio Ciol.

Ritratti a confronto In alto: stele in pietra calcarea con coppia di coniugi. I sec. a.C. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto, in basso: busto maschile in pietra calcarea, da Palmira. II-III sec. d.C. Si tratta di una delle opere recentemente restaurate dall’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (ISCR) di Roma.

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L’ISCR PER PALMIRA

trionfo di Aureliano a Roma, in catene d’oro, e quindi prigioniera in una villa a Tivoli. La vicenda di Zenobia ha segnato una battuta d’arresto nella fioritura di Palmira, sebbene non vi siano prove archeologiche consistenti di distruzione, ma solo indizi di abbandono di alcuni settori dell’abitato e, piú in generale, di un graduale declino. Non mancano, nella storia successiva, momenti in cui la città torna a rivestire un ruolo di prim’ordine nella regione: sotto Diocleziano, che sul finire del III secolo vi impianta un grande complesso militare, Palmira diviene uno dei luoghi-chiave del nuovo sistema difensivo dell’impero e cosí anche sotto l’imperatore bizantino Giustiniano, nel VI secolo, quando vengono restaurati il circuito delle mura, l’impianto idrico e l’insieme di basiliche cristiane sorte a partire dal IV seco-

lo nella città, che diviene anche sede episcopale. Nella prima età islamica, fra il VII e l’VIII secolo, il territorio di Palmira ospita i fulgidi palazzi dei califfi omayyadi e la città, conquistata nel 634 d.C., si trasforma nell’aspetto e nella viabilità, ospitando una moschea e un suq, le cui botteghe invadono parte della Via Colonnata.

Fra le iniziative adottate dall’Italia in favore del patrimonio palmireno, si inserisce il restauro di due busti funerari curato dall’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro di Roma (ISCR). I due altorilievi in calcare bianco locale, raffiguranti un uomo e una donna dell’aristocrazia, risalgono al II-III secolo d.C., il periodo piú florido in cui il centro, snodo carovaniero tra Occidente e Oriente, rappresentava un luogo emblematico di convivenza pacifica tra varie civiltà. Provenienti da Palmira, come l’intera città antica e molti reperti del suo museo, le opere erano state gravemente danneggiate durante l’occupazione (del sito) da parte delle milizie di Daesh. Giunte in Italia per la mostra «Rinascere dalle distruzioni. Ebla, Nimrud, Palmira», le sculture sono state quindi affidate alle cure dell’ISCR, perché potessero, almeno in parte, riacquistare la loro bellezza originale. Al termine dell’intervento, i due busti sono stati restituiti al Museo di Damasco.

L’ABBANDONO A partire dal IX secolo, il nucleo urbano viene infine abbandonato: sopravvive fino ai nostri giorni solo il santuario di Bel, trasformato in fortezza islamica e quindi occupato da un villaggio (trasferito nella sede attuale nel 1929). Alle fasi meno note della storia della città – ellenistica, bizantina e protoislamica – sono dedicate le piú recenti indagini archeologiche, in un a r c h e o 51


composito panorama di missioni straniere che, fino al 2011, hanno affiancato la Direzione Generale delle Antichità e dei Musei della Siria e il Servizio delle Antichità di Palmira e che tuttora portano avanti le loro ricerche. Oltre una decina di nazionalità differenti tra Siriani, Francesi, Polacchi, Danesi, Svizzeri,Tedeschi, Austriaci, Norvegesi, Giapponesi, Americani, Italiani: una pluralità di sguardi e di approcci che ben rispecchia la natura di Palmira.

Tra le creazioni piú caratteristiche dell’architettura palmirena nel periodo compreso fra il I secolo a.C. e i primi decenni del II secolo d.C. ci sono le tombe a torre, che con la loro mole slanciata potevano ospitare fino a 700 defunti disposti nei loculi lungo le pareti dei 3-4 piani, collegati da una scala interna. I nomi dei fondatori di alcune torri sono giunti a noi grazie alle iscrizioni: Atenatan, Kitot, Giamblico, Elahbel, Hairan, Ba’a, Moqimo. Privi di se-

LE RAGIONI DI UNA MOSTRA «Volti di Palmira ad Aquileia», la mostra allestita al Museo Archeologico Nazionale di Aquileia, è la prima dedicata in Europa alla città dopo le distruzioni recentemente perpetrate. Un’altra tappa, di quel percorso dell’«Archeologia ferita», che la Fondazione Aquileia ha intrapreso nel 2015, in collaborazione con il Polo Museale del Friuli-Venezia Giulia, con la mostra dei tesori del Museo del Bardo di Tunisi per dare conto di quanto accade, ormai da anni, nei Paesi teatro di distruzioni e violenze operate dal terrorismo fondamentalista, mostrando al pubblico opere provenienti da quei siti.

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L’esposizione – curata da Marta Novello e Cristiano Tiussi e nata dalla collaborazione tra la Fondazione Aquileia e il Polo Museale del Friuli Venezia GiuliaMuseo Archeologico Nazionale di Aquileia, grazie a prestiti concessi dal Terra Sancta Museum di Gerusalemme, dai Musei Vaticani, dai Musei Capitolini, dal Museo delle Civiltà-Collezioni di Arte Orientale «Giuseppe Tucci», dal Museo di Scultura Antica «Giovanni Barracco», dal Civico Museo Archeologico di Milano e da una collezione privata – raccoglie 16 pezzi originari di Palmira (alcuni dei quali riuniti per la prima volta) e 8 reperti provenienti da Aquileia.


gnalazioni esterne, gli ipogei consistono in gallerie sotterranee, disposte a forma di «T» rovesciata e accessibili grazie a una rampa, dotate di loculi e di nicchie per sarcofagi. Dalla fine del II secolo d.C. si costruiscono ipogei a pianta piú complessa, con gallerie destinate a diver-

se famiglie e con esedre che accolgono i sarcofagi disposti come in un triclinio, con le raffigurazioni scolpite dei defunti immortalati a banchetto. Fra gli esemplari piú celebri, vi sono quelli di Artaban, di Maliku, di Bolha, di Male, di Yarhai (ricostruito nel Museo Nazionale di Da-

Nella pagina accanto, in alto: Palmira. Veduta della Via Colonnata e dell’arco severiano, in una fotografia di Elio Ciol. Nella pagina accanto, in basso: stele in pietra calcarea con coppia di

coniugi. I sec. d.C. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale. In basso: stele in pietra calcarea di Fausto e Procula. I sec. d.C. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale.

masco) e l’ipogeo detto «dei Tre Fratelli», con una splendida decorazione ad affresco sulle pareti. Le tombe-tempio o tombe-casa, con le loro facciate monumentali, la ricchissima decorazione scolpita e l’architettura ispirata alle grandi realizzazioni che travalicano l’ambito privato – di cui sono esempio il cosiddetto Tempio funerario che chiude a ovest la Via Colonnata e la tomba n. 36 – sono l’espressione piú fastosa dello sfoggio di potere dell’élite palmirena. Ad animare per l’eternità queste inusuali «dimore» sono le raffigurazioni dei defunti, scolpite in forma di rilievo sulle lastre di chiusura dei loculi o a tutto tondo sui coperchi dei sarcofagi: molte sono rimaste in situ, altre sono esposte nel Museo di Palmira e altre ancora sono il fiore all’occhiello dei musei di tutto il mondo, dal Museo Archeologico di Istanbul al Metropolitan di New York, da Parigi a Londra, da Copenaghen a Malibu, da Gerusalemme a Roma e Milano. È attraverso questi volti che l’Europa ha conosciuto per la prima volta Palmira. Ed è grazie alle storie di questi personaggi, raccontate dall’archeologia, che si mantiene viva la memoria di Palmira, di quello che è stata e di ciò che rappresenta ancora oggi per il popolo siriano. DOVE E QUANDO «Volti di Palmira ad Aquileia» fino al 3 ottobre Aquileia, Museo Archeologico Nazionale Orario ma-do, 8,30-19,30 Info www. museoarcheologicoaquileia. beniculturali.it «Sguardi su Palmira. Fotografie di Elio Ciol eseguite il 29 marzo 1996» fino al 3 ottobre Aquileia, Domus e Palazzo Episcopale, piazza Capitolo. Orario ma-do, 9,00-19,00 Info www.fondazioneaquileia.it a r c h e o 53


MOSTRE • IRAN

TRA L’ACQUA E IL DESERTO UNA GRANDE MOSTRA A BONN FA IL PUNTO SULLE RICERCHE ARCHEOLOGICHE NELLE TERRE DELL’ANTICA PERSIA. ED ESPONE, PER LA PRIMA VOLTA IN OCCIDENTE, GLI STRAORDINARI RITROVAMENTI PROTOSTORICI DI JIROFT E IL CORREDO DELLE PRINCIPESSE TARDO-ELAMICHE DI JUBAJI a cura di Andreas M. Steiner

Nel riquadro: una vetrina della mostra con rhyta (corni potori) in ceramica a forma animale. 1200-800 a.C. A sinistra: figurina femminile in terracotta, da Tepe Sarab. 7000-6100 a.C. Tutti i reperti esposti in mostra a Bonn e riprodotti in questo articolo provengono dal Museo Nazionale dell’Iran di Teheran. 54 a r c h e o


L’

insieme del patrimonio storico-artistico e archeologico dell’Iran rappresenta uno dei piú straordinari e preziosi beni culturali del mondo. 22 sono i siti accolti nella Lista del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO: al 2016 risale l’iscrizione dell’antico sistema di irrigazione denominato Qanat e il Deserto di Lut – per il suo pregio territoriale e paesaggistico – e, a quest’anno, quella del centro storico della città di Yazd. Si tratta – vale sottolinearlo – di un elenco dal significato soprattutto simbolico. La lista dell’UNESCO rappresenta il riconoscimento «ufficiale», a livello internazionale, di realtà che, come i nostri lettori ben sanno, si presentano assai piú complesse, articolate e profonde di quanto non possa essere suggerito da una semplice lista. Ne è la riprova – ultima in ordine di tempo – la mostra in corso alla Bundes-

Recipiente in ceramica dipinta, da Haftawan Tepe. II mill. a.C.

A destra: tavoletta iscritta in proto-elamico, da Tepe Yahya. Fine del IV mill. a.C. Qui sotto: lamina d’oro a forma di leone, da Malyan. IV mill. a.C.

kunsthalle di Bonn, dal titolo «Iran, le prime culture tra l’acqua e deserto» (fino al 20 agosto), accompagnata da una seconda esposizione, dedicata a «Il Giardino persiano, l’invenzione del Paradiso» (fino al 15 ottobre). È nostro dovere ricordare, a questo punto, la straordinaria mostra «Antica Persia», allestita nell’estate del 2001 al Museo Nazionale d’Ar te Orientale di Roma e che, per la prima volta dall’inizio della rivoluzione islamica, offrí al pubblico l’occasione di incontrare una serie di capolavori d’arte mai prima esposti in Occidente (vedi «Archeo» n. 197, luglio 2001).

UNA VICENDA PLURIMILLENARIA Continue e importanti sono state le indagini archeologiche che, nei sedici anni trascorsi da quell’estate, si sono svolte nel Paese mediorientale, e oggi la mostra di Bonn ne offre una testimonianza significativa. Piú di 400 reperti, relativi a un arco cronologico compreso tra il VII e il I millennio a.C., documentano i processi sociali e culturali a partire dalle prime società stanziali fino alla nascita dei primi, grandi regni persiani e l’ascesa della dinastia achemenide. a r c h e o 55


MOSTRE • IRAN

Resti della città elamica di Samirat (Khuzestan)

Un’attenzione particolare è riservata alla «lettura culturale» del paesaggio iraniano che fa da imprescindibile e significativo contesto ai reperti esposti. Dalle vette innevate del vulcano di Demavend sul Mar Caspio, al punto piú caldo della terra, il Dasht e-Lut (il «deserto di polvere») al centro del Paese, l’Iran racchiude una varietà di paesaggi dai potenti contrasti: ai margini di queste terre estreme, però – nelle valli delle catene montagnose che lo circondano quasi per intero, ai bordi delle vaste distese desertiche e sulle rive del Mar Caspio – fioriva la rigogliosa vegetazione delle oasi. In questi luoghi di nicchia, fortunati e privilegiati, l’uomo, sin dall’VIII secolo, si era insediato, fondandovi villaggi prima

Tutti gli animali di Jiroft Nel sito di Konar Sandal, a circa 25 km dall’odierna cittadina di Jiroft (regione di Kerman), scavi iniziati nel 2001 hanno portato alla luce i resti di ricchissime sepolture (purtroppo devastate dagli scavi clandestini), contenenti frammenti di preziosi vasi scolpiti in clorite verde, intarsiati con tessere in turchese, madreperla e calcare rosso. Raffigurati sono animali fantastici, serpenti, avvoltoi e capridi.

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Cittadella di Bam (Kerman)

e città poi, e impiantando officine per la lavorazione delle ricche materie prime offerte dal territorio. In seguito, una rete di vie carovaniere intorno alle grandi distese desertiche collegava le singole oasi e


Due vetrine della mostra con alcuni gioielli del corredo delle principesse elamiche di Jubaji. Nell’immagine grande, il bracciale che reca inciso il nome del sovrano tardo-elamita «ShuturNahhunte, figlio di Indada». Prima metà del VI sec. a.C.

quest’ultime al resto del mondo. Precorritrici della «via della Seta» e della celebre via di Khorassan (che da Ctesifonte portava a Ecbatana), le rotte carovaniere dell’età del BronCittadella urartea di Bastam (Azerbaigian)

zo aprirono i primi varchi attraverso le altrimenti impenetrabili catene montuose. Il carattere isolato che connota le valli montane rappresentò, per le

società dell’antico Iran, una protezione naturale: da qui le genti iraniche riuscirono a difendersi dagli attacchi esterni, scongiurando cosí i tentativi di conquista provenienti dalla pianura mesopotamica.All’ombra delle montagne prese forma una moltitudine di entità regionali, separate tra di loro fisicamente, ma unite da un comune orizzonte interpretativo dell’universo naturale circostante e da un linguaggio mitico-religioso condiviso. L’isolamento «protettivo» esercitato dall’habitat ha cosí consentito alle antiche società iraniche di sviluppare uno specifico linguaggio iconografico, attestato sin dalla preistoria e caratterizzato da una straordinaria capacità di osservare il mondo animale e naturale. Le scene di lotta tra animali ed esseri fantastici, i serpenti e gli avvoltoi che appaiono sulla ricca decorazione dei recipienti in

Caverna di Haji Bahram (Fars)

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MOSTRE • IRAN

pietra provenienti dalle necropoli di Jiroft (risalenti al III millennio a.C.) rappresentano la testimonianza di un universo mitologico comune, cui attingeranno le culture dell’Iran nei secoli e millenni successivi. Delle straordinarie scoperte di Jiroft (avvenute tra il 2001 e il 2003, ma le indagini archeologiche sono ancora in corso) abbiamo piú volte riferito (vedi «Archeo» nn. 229 e 274, marzo 2004 e dicembre 2007). Ora, nella mostra di Bonn, alcuni esempi di questa importante e affascinante produzione artistica sono esposti, per la prima volta in Occidente (vedi box a p. 56). L’universo culturale e iconografico di Jiroft si arricchirà di nuovi elementi stilistici, tematici e tipologici, portati nelle valli dell’Iran dalle regioni contermini, grazie al consolidarsi, nel corso del II millenio a.C., di un importante percorso carovaniero, la celebre Via della Seta. La mostra di Bonn documenta, a questo proposito, un altro ritrovamento, avvenuto nel

Qui sotto: tazza in oro con decorazioni a sbalzo, da Marlik. Fine del II-inizi del I mill. a.C.

2007 e, anch’esso, per la prima volta esposto in Occidente: si tratta del corredo di due personaggi femminili di rango principesco, scoperto casualmente nei pressi del villaggio di Jubaji (provincia del Khuzestan, non lontano dalla frontiera con l’Iraq). Gli scavi hanno portato alla luce due sarcofagi in bronzo, di epoca tardo-elamica (VI secolo a.C.), contenenti i resti delle donne insieme al loro corredo, composto da preziosi gioielli, resti di cibo e recipienti cultuali. Le due donne erano membri della famiglia del sovrano tardo-elamita «Shutur-Nahhunte, figlio di Indada», come è testimoniato dal nome inciso su un bracciale d’oro del corredo. Rango, prestigio e ricchezza, ma anche affermazione sul campo di battaglia sono i nuovi «temi» che emergono dalla sintesi di elementi decorativi propriamente iranici con quelli mutuati dalle culture vicine. Cosí, l’aspetto «guerriero» è magnificamente testimoniato dal celebre vaso d’oro di Hasanlu (una località sulla costa occidentale del lago Ur-

Con l’avvento degli Achemenidi, nel VI secolo a.C., l’antico Iran raggiunse la massima fioritura culturale Ziqqurat di Choga Zanbil (Khuzestan)

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Tepe Sialk (Markazi)


Ponte di età sasanide. Gavmishan (Ilam)

mia), risalente al IX secolo a.C.: intorno all’anno 800 a.C., infatti, Hasanlu era una possente città fortificata, abitata da una popolazione di cavalieri di probabile origine indo-iranica. La città fu presa d’assalto e, durante il saccheggio del palazzo, uno degli assalitori fu travolto dal crollo di un muro, mentre stringeva in mano il grande vaso (alto 20 cm

Cittadella di Takht-i Sulaiman (Azerbaigian)

e largo 18), e in questa posizione fu trovato, nel 1958. Furono proprio tribú di nomadi provenienti dai confini settentrionali a segnare, intorno al 1000 a.C., l’inizio di un nuovo capitolo della storia dell’antico Iran. Una di queste confederazioni tribali, i Medi, si insediano nella zona di Ecbatana,

fondando quello che può considerarsi il primo, vero regno iranico. A loro volta, però, saranno sconfitti dai loro vicini della regione di Parsa. Con essi, il Paese si avvia a un periodo di massima fioritura culturale e artistica, che raggiungerà il suo apice con l’ascesa, nel VI secolo a.C., del grande regno achemenide. DOVE E QUANDO In questa pagina: due esempi (a sinistra una protome di leone, a destra quella di un grifone) degli ori di Ziwiyeh. I mill. a.C.

«Iran. Le prime culture tra l’acqua e il deserto» Bonn, Bundeskunsthalle fino al 20 agosto Orario ma-me, 10,00-21,00; gio-do e festivi, 10,00-19,00; lu chiuso Info www.bundeskunsthalle.de (informazioni generali disponibili anche in lingua italiana) a r c h e o 59


MOSTRE • IRAN

LE 22 PERLE DELL’IRAN I complessi monumentali dell’Iran degni della massima attenzione sono numerosissimi (vedi anche la Monografia di «Archeo» intitolata «Iran. Viaggio fra i tesori dell’antica Persia», n. 15, ottobre 2016). Quelli accolti dall’UNESCO nella sua Lista del Patrimonio dell’Umanità sono ventidue, e abbracciano un arco di tempo che dalla preistoria arriva all’età musulmana. Eccone l’elenco.

Rhyton (coppa per bere) in ceramica, da Kaluraz. Prima metà del I mill. a.C.

• 1. CHOGA ZANBIL (1250 A.C.) Città santa del regno di Elam.

Tre importanti monasteri armeni nell’Iran nord-occidentale.

• 2. PERSEPOLI (518 A.C.) Capitale del regno achemenide fondata da Dario I. • 3. MEIDAN EMAM, ISFAHAN (XVII SEC.D.C.) Piazza monumentale voluta da Shah Abbas I (il Grande). • 4. TAKHT I-SULAIMAN (VI SEC. A.C.) Piú importante santuario del fuoco zoroastriano. • 5. PASARGADE (VI SEC. A.C.) Capitale del regno achemenide, fondata da Ciro il Grande.

• 10. SISTEMA IDRAULICO DI SHUSHTAR (VI SEC.A.C.) Capolavoro dell’ingegneria idrica al tempo di Dario il Grande. • 11. SANTUARIO E TOMBA DI SAFI AD-DIN AD ARDABIL (XVI SEC.D.C.) Raro esempio di complesso architettonico islamico di età medievale. • 12. BAZAR DI TABRIZ (XIII SEC. D.C.) Importante centro di commercio sulla Via della Seta.

• 6. BAM E IL SUO PAESAGGIO CULTURALE (VI SEC. A.C.) Oasi fondata in età achemenide e fiorita nei secoli VII e VIII.

• 13. IL GIARDINO PERSIANO (VI SEC.-XIX SEC. D.C.) L’insieme comprende nove giardini dislocati in altrettante province.

• 7. MAUSOLEO DI SULTANIYEH (1302 D.C.) Esempio principe dell’architettura islamica in Persia.

• 14. MOSCHEA DEL VENERDÍ A ISFAHAN (IX – XIX SEC. D.C.) Prototipo dell’architettura sacra in Asia Centrale.

• 8. BISITUN (521 A.C.) Rilievo e iscrizione rupestre di Dario il Grande.

• 15. GONBAD E QABUS, PRESSO GURGAN (1006 D.C.) Mausoleo che testimonia gli scambi culturali tra i nomadi centroasiatici e le antiche culture iraniche.

• 9. INSEDIAMENTI MONASTICI ARMENI (VII-XVII SEC. D.C.)

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• 16. PALAZZO DEL GOLESTAN (XVII SEC. D.C.) Capolavoro dell’architettura di età cagiara. • 17. SHAR-I SHOKHTA (IV-II MILL. A.C.) La «città bruciata», crocevia sulle rotte commerciali dell’età del Bronzo. • 1 8. PAESAGGIO CULTURALE DI MAYMAND (I MILL. A.C.) Zona semiarida agro-pastorale e semi-nomade nel Kerman. • 1 9. SUSA (V MILL. A.C.) Imponenti resti (tell) di un insediamento ininterrottamente abitato dal V millennio a.C. fino al XIII sec. d.C. • 2 0. I QANAT PERSIANI Undici esempi dello storico sistema di approvvigionamento idrico. • 2 1. DESERTO DI LUT Esempio spettacolare di erosione eolica, con deserto di pietra e dune di sabbia. • 2 2. CENTRO STORICO DI YAZD Edifici di abitazione, bagni, moschee, sinagoghe e santuari zoroastriani conservati in un contesto architettonico integro.



PARCHI ARCHEOLOGICI • POGGIBONSI

IL RACCONTO DEL

MEDIOEVO

L’ARCHEODROMO DI POGGIBONSI RAPPRESENTA UN FORMIDABILE STRUMENTO DI INDAGINE E DI DIVULGAZIONE DELLA CONOSCENZA ARCHEOLOGICA: GRAZIE A RICOSTRUZIONI DI EDIFICI, OGGETTI E «MOMENTI DI VITA», IL VISITATORE COMPIE UN VIAGGIO NEL PASSATO, IMMERGENDOSI NEI LUOGHI E NELLA QUOTIDIANITÀ DEL TEMPO DI CARLO MAGNO di Carlo Casi

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Sulle due pagine: Poggibonsi (Siena). Alcuni momenti delle attività di rievocazione storicoarcheologica svolte presso l’Archeodromo. In alto, a sinistra, la lavorazione al tornio; a destra: la cottura del cibo all’interno di una delle capanne.

N

egli ultimi anni è andata affermandosi una nuova politica di valorizzazione, che coniuga l’archeologia sperimentale con la partecipazione del pubblico. Una strategia che è all’origine dell’Archeodromo di Poggibonsi (Siena), un Open Air Museum (Museo all’aperto) basato su una delle fasi archeologiche piú interessanti tra quelle rintracciate durante gli scavi del sito di Poggio Imperiale, che l’Università degli Studi di Siena ha condotto sotto la direzione di Marco Valenti dal 1993 al 2008: le strutture dell’insediamento del IX-X secolo. La storia di quest’area è però molto piú antica e ha inizio alla metà del V secolo, quando, nei pressi di una grande calcara (le fornaci nelle quali si produceva la calce, n.d.r.) furono realizzate cinque abitazioni monovano a pianta rettangolare, con elevati in semplice terra. Alla fine del VI secolo, venne poi fondato un a r c h e o 63


PARCHI ARCHEOLOGICI • POGGIBONSI

villaggio costituito da capanne e difeso da una palizzata lignea. Solo in età carolingia, l’insediamento si organizzò come una vera e propria curtis (termine che, nell’economia agraria dell’Alto Medioevo, designa un fondo dominante da cui ne dipendevano altri, n.d.r.), con una grande costruzione al centro di proprietà della famiglia dominante (longhouse, letteralmente «casa lunga»; vedi box a p. 70) e una serie di strutture funzionali alle attività agricole dell’azienda come il macello, il laboratorio artigiano e il granaio.

NASCE IL MONASTERO A quel periodo risale la nascita del vicino monastero di S. Salvatore a Marturi, rifondato poi da san Bonomio e dotato di alcune proprietà dal marchese Ugo di Toscana nel 998. Di conseguenza, grazie anche alla felice posizione su un importante diverticolo della via Francigena, nelIn alto, a destra: foto satellitare della periferia di Poggibonsi: in evidenza, l’area di Poggio Imperiale, nella quale hanno avuto luogo i ritrovamenti da cui è nato il progetto dell’Archeodromo. A destra: piantina dei diversi settori dell’Open Air Museum in cui si inserisce l’Archeodromo. Nella pagina accanto, in alto: un settore del Cassero di Poggio Imperiale. XVI sec. Nella pagina accanto, in basso: ricostruzione grafica del Cassero.

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la pianura sottostante si sviluppa l’insediamento di Borgo Marturi, oggi noto come Poggibonsi. La crescita demografica, parallela a quella economica, spinse, già alla metà del XII secolo, il vescovo di Firenze a una spiccata richiesta di autonomia tramite la pieve di Marturi, ben supportata anche da uno dei nobili con grandi interessi in loco, Guido Guerra, adottato da Matilde di Toscana. Firenze però non tardò a intervenire e, nel 1155, di(segue a p. 68) Emilia-Romagna Liguria Mas asssssa ass a

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Poderoso, ma inutile Il Cassero di Poggibonsi, voluto da Lorenzo de’ Medici e progettato da Giuliano da Sangallo, risulta unico in Toscana per dimensioni e tipologia: ha pianta rettangolare con bastioni agli angoli e una punta bastionata. Non sembra aver mai funzionato pienamente e fu presidiato da truppe

Pisa i a isa

fiorentine, male armate, solo per alcuni decenni. Nella «guerra di Siena» (1554-1555), ebbe un ruolo marginale, funzionando come deposito di vettovaglie per l’esercito fiorentino in Val d’Elsa. Con la definitiva annessione di Siena, perse ogni funzione strategica e, agli inizi del XVII secolo, venne disarmato.

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Poggibonsi

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Lazio

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Vita di villaggio Il villaggio del IX sec. scavato a Poggibonsi, qui ricostruito graficamente, ruotava intorno a una grande capanna (longhouse), in cui viveva il signore (vedi anche box a p. 70). Da qui partiva una strada in terra battuta, affiancata da un edificio per la macellazione e da altre capanne; inoltre era circondata da un grande granaio e da un’area artigianale, con una fornace per ceramica e una forgia da ferro. A breve distanza, uno spazio aperto con grandi contenitori infissi nel terreno, alcuni steccati e una concimaia mostrano i resti delle attività quotidiane della popolazione.

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PARCHI ARCHEOLOGICI • POGGIBONSI

strusse il castello di Marturi, riportando l’ordine nella Val d’Elsa. Conseguenza di ciò fu la costruzione da parte di Guerra di un nuovo castello sul Poggio Bonizio, sulla collina di Poggio Imperiale.

IL GRANDE INCOMPIUTO Poggio Imperiale è un’area archeologica e monumentale di 12 ettari, di forma lunga e appiattita, immediatamente a ovest di Poggi-

bonsi, a 200 m circa slm. È delimitato dalle strutture di una fortezza cinquecentesca mai completata, il Cassero, voluta da Lorenzo de’ Medici e progettata dall’architetto Giuliano da Sangallo. Fanno bella mostra di sé anche i resti del convento francescano di S. Lucchese (fine del XIII-inizi del XIV secolo) e il castello di Badia, oggetto di pesanti rifacimenti ottocenteschi. L’insieme venne piú volte restaurato

UNA FELICE POSIZIONE GEOGRAFICA Situato nel cuore della Toscana, in Alta Val d’Elsa, Poggibonsi è un Comune di quasi 30 000 abitanti, a metà strada tra Siena e Firenze e a poca distanza da Monteriggioni e San Gimignano. Una posizione strategica e baricentrica che è alla base della sua tradizionale vocazione industriale, produttiva e commerciale, ma anche delle sue vicende storiche. In epoca moderna, un momento fondamentale e di cesura è rappresentato dai bombardamenti del 1943, che danneggiarono pesantemente il centro abitato e ne stravolsero l’identità. Da allora, ha avuto inizio una fase di oltre mezzo secolo di costanti trasformazioni urbanistiche, demografiche, economiche, culturali, legate a scelte locali e a fenomeni di profondo mutamento sociale, che non hanno mai intaccato la bellezza del territorio, che, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, si sono rivolti anche al recupero della propria identità storica e del patrimonio monumentale e archeologico concentrato sulla collina di Poggio Imperiale.

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prima di cadere in abbandono all’indomani dell’annessione del territorio senese allo Stato mediceo. Alla metà del XVII secolo, l’area venne assegnata al cavaliere Alamanno de’Topi che la utilizzò a fini agricoli, una destinazione protrattasi sino ai giorni nostri. Nelle mura in laterizio, a scarpa e fortemente inclinate, si aprono quattro porte in pietra contrassegnate da un duplice ingresso. Una torre a base quadrangolare ccon un paramento esterno in conci di travertino squadrati, testimonianza certa di una cinta piú antica attribuibile alla seconda metà del XIII secolo, spunta arretrata rispetto a Porta San Francesco. L’area archeologica interessa 2 ettari di un piú vasto deposito stratigrafico, che testimonia una lunga frequentazione (dal V al XVI secolo); la successione dei livelli ha mostrato la formazione di un insediamento altomedievale e i suoi sfortunati tentativi di diventare città, dapprima tra il 1155 e il 1270 (l’antica Poggibonsi distrutta da Firenze), e poi nel 1313, quando l’imperatore Arrigo VII ottenne lo stesso inutile risultato, cercando di fondare lí un nuovo centro.


A sinistra e nella pagina accanto, in alto: alcune delle attività di rievocazione storicoarcheologica condotte nell’Archeodromo di Poggibonsi. In basso: due immagini degli allestimenti del Centro di Documentazione del Parco Archeologico.

La difficoltà di rendere comprensibili le labili tracce delle strutture tardo-antiche e altomedievali rinvenute e, per contrasto, l’enorme massa di dati e informazioni recuperati grazie allo scavo hanno imposto una soluzione forse obbligata ma non per questo scontata. Il progetto, ancora in itinere, prevede la ricostruzione completa delle 17 strutture evidenziate per la fase carolingia. Quasi un fermo immagine della macchina del tempo, bloccata tra il IX e il X secolo sulla collina di Poggio Imperiale. La scelta di incentrare l’Archeodromo di Poggibonsi sul periodo carolingio si lega all’estremo rilievo e interesse che esso riveste, avendo rappresentato uno dei casi di svolta nel dibattito scientifico sulle campa-

QUI COMINCIA L’AVVENTURA... Allestito nel Cassero, il Centro di Documentazione del Parco Archeologico racconta ai visitatori la storia dell’insediamento di Poggio Imperiale, grazie all’impiego di pannelli esplicativi che accompagnano tutto il percorso di visita ma anche e soprattutto all’utilizzo di numerose ricostruzioni in scala 1:1 di alcune porzioni delle strutture e degli arredi emersi nel corso degli scavi. Esso si pone quindi come prima necessaria tappa introduttiva alla visita del Parco e dell’Archeodromo. Qui le tre sale rappresentano altrettanti importanti momenti di vita dell’area, segnando quello sviluppo diacronico che le sequenze stratigrafiche hanno ben indicato e, di quando in quando, confermato. L’itinerario di visita comincia quindi affrontando le piú antiche frequentazioni della collina, a partire dalle poche strutture tardo-antiche in terra, per giungere sino alla curtis di età carolingia. Completano l’esposizione alcuni plastici che evidenziano le varie fasi di vita dell’insediamento e la ricostruzione, comprensiva degli arredi interni, di una capanna altomedievale. Nella seconda sala sono invece descritte le vicissitudini inerenti alla rifondazione del centro nel 1155 per mano di Guido Guerra dei Conti Guidi e sino alla sua distruzione, avvenuta nel 1270. La ricostruzione di un’officina da fabbro arricchisce l’apparato didattico dell’esposizione. In quella successiva, il tema principale trattato riguarda la costruzione della Fortezza Medicea, tra il XV e il XVI secolo. Un’altra sala vede poi le efficaci ricostruzioni di alcuni attrezzi di lavoro del Basso Medioevo.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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PARCHI ARCHEOLOGICI • POGGIBONSI

La longhouse L’abitazione del dominus del villaggio era una longhouse e si sviluppava su un’area di 16 x 7 m circa, con due accessi. Era sudddivisa in una zona domestica, un magazzino e uno spazio a uso misto. L’ambiente domestico era dotato di un focolare, di una macina in pietra per il grano, e di un telaio. Il dominus doveva dormire su un soppalco di fronte al focolare, mentre un secondo giaciglio era posto al pian terreno. Nel magazzino, liquidi e alimenti erano conservati in contenitori ceramici di grandi dimensioni; il grano era stivato in un silo scavato nel terreno, di forma cilindrica.

delle attività elencate. E proprio questi ultimi, ciascuno dei quali dà vita a un personaggio dell’epoca, spiegano, illustrano e, soprattutto, raccontano come si svolgeva la vita al tempo di Carlo Magno. Storie e microstorie che, narrate con un linguaggio comprensibile da tutti, intrigano e suggestionano il visitatore tanto da farlo calare in situazioni a lui lontanissime. Sfruttando l’aspetto emozionale, magistralmente creato, gli archeologi si fanno interpreti di una corretta divulgazione. Ognuno ha un nome, tratto da fonti archivistiche del IX-X secolo, e un mestiere che lí svolge. E cosí Bodo il conIL PRETE E IL CONTADINO tadino, il prete Magiolo e gli altri Il progetto si fonda su alcuni punti personaggi, tutti indaffarati nelle fondamentali: ricostruzione delle loro faccende quotidiane, rendostrutture, archeologia sperimentale, no ben tangibile, con i loro gesti tecnologie antiche, vita quotidiana, precisi e misurati, uno spaccato di narrazione/interpretazione, con gli vite vissute tanto tempo fa, creanarcheologi protagonisti in ognuna do quella magica interazione. gne altomedievali. È il pr imo Open Air Museum italiano sull’Alto Medioevo, che si configura come un’innovativa operazione di sperimentazione e valorizzazione. Al momento sono stati ricostruiti la grande capanna padronale (vedi box in questa pagina), una capanna contadina con aia e pollaio, la forgia del fabbro, la fornace da ceramica, un forno da pane, due pagliai e l’orto; a questi si aggiungono tettoie provvisorie per attività artigianali, destinate in un prossimo futuro a essere sostituite da altre capanne e da un magazzino granario elevato su pali.

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Nella pagina accanto, in basso e in questa pagina, a sinistra: alcune immagini degli scavi archeologici. In alto: veduta a volo d’uccello dell’insediamento di Poggio Bonizio in un’illustrazione ricostruttiva ipotetica dell’aspetto assunto nel XII-XIII sec.

L’Archeodromo consente ai visitatori di entrare fisicamente negli spazi di vita propri del periodo scelto, toccarne con mano le forme, le dimensioni e le caratteristiche, sino a percepirne le atmosfere, i suoni-rumori, gli odori, i rapporti sociali e gerarchici in atto; la casa della famiglia dominante, per esempio, documenta bene la ricchezza nell’Alto Medioevo rurale, con dimensioni piú ampie dello spazio abitato, maggiore articolazione della fattoria, aree di conserva inserite al suo interno e all’esterno, maggiori risorse alimentari. Inoltre, dentro e fuori le strutture, gli archeologi in abiti storici, ricostruiti dalle iconografie disponibili o dalla bibliografia, compiono lavori e «vivono» momenti del quotidiano effettuando attività di living history (letteralmente, «storia che vive»: viene cosí indicato l’insieme di attività capaci di offrire la sensa(segue a p. 74) a r c h e o 71


PARCHI ARCHEOLOGICI • POGGIBONSI

RAFFORZARE L’IDENTITÀ E LA MEMORIA Incontro con Marco Valenti Marco Valenti, professore di archeologia cristiana e medievale presso l’Università degli Studi di Siena, è curatore scientifico degli scavi di Poggio Imperiale e dell’Archeodromo di Poggibonsi, Gli abbiamo dunque chiesto di raccontarci la nascita e lo sviluppo di questo importante progetto.

◆ Professor Valenti, come le è

venuta l’idea di realizzare un Archeodromo? L’idea faceva già parte del master plan progettuale del parco elaborato nella seconda metà degli anni Novanta. Nasceva su mia sollecitazione, al ritorno da un viaggio di studio in Gran Bretagna e dietro il fascino per una delle prime operazioni del genere che mi era capitato di vedere e capire:

la ricostruzione del villaggio sassone di West Stow nel Suffolk. L’obiettivo era, ed è tuttora, quello di rendere tangibili le strutture pertinenti a uno dei periodi di vita della collina di Poggio Imperiale che difficilmente possono essere compresi dai non addetti ai lavori solo tramite le restituzioni di scavo; ovvero una serie di buche di palo e tagli: resti archeologici ermetici ai piú, ma capaci di raccontare incredibili storie del passato.

◆ E perché proprio a Poggibonsi? Innanzitutto per ragioni legate alla ricerca. Qui lo scavo, con i suoi risultati, ha contribuito a lanciare il dibattito sulla formazione delle campagne post-classiche in Italia. Il progetto poi, fa parte di una politica di sviluppo sostenibile, voluta dall’Amministrazione Comunale, che

mira a inserire Poggibonsi tra le mete del turismo culturale; inoltre, ma non secondario, vi è il desiderio di far sí che la comunità possa riappropriarsi della sua storia e della funzione pubblica e sociale di una spazio. Recuperare e valorizzare il passato significa rafforzare l’identità e la memoria, ma anche legare passato e futuro in un rapporto virtuoso; cultura come occasione d’incontro e come motore di sviluppo sociale ed economico; cultura che pensa al futuro e alle generazioni future.

Una veduta aerea dell’Archeodromo di Poggibonsi in corso di realizzazione. 72 a r c h e o


A sinistra: un momento della costruzione di una delle capanne. In basso: foto di gruppo del team di archeologi e ricostruttori che animano l’attività didattica all’interno del parco archeologico e dell’Archeodromo.

◆ Come vede il futuro degli

Archeodromi in Italia? Sarà un successo se riusciranno a mantenere il rigore scientifico tradotto però in comunicazione e narrazione; saper parlare alle persone e inserirle nella materialità della storia attraverso esperienze coinvolgenti ed educative. Nel caso di Poggibonsi, sono gli stessi archeologi a farlo, indossando i panni dei ricostruttori e dei re-enactors (rievocatori), gestendo interamente i 5 pilastri fondamentali dell’Archeodromo: ricostruzione delle strutture, archeologia sperimentale, tecnologie antiche, vita quotidiana del tempo, narrazione/ interpretazione. Tutto deve avere un senso nello storytelling che si intende portare avanti; altrimenti la portata innovativa e quella costruttiva del re-enactment vengono mortificate. Il legame con la ricerca è quindi indispensabile. Le faccio un esempio: in Europa, il 90% degli Open Air Museum (sono oltre 300) ha avuto un archeologo coinvolto nel progetto iniziale; il 68% ne ha ancora uno tra il personale. Dove l’interazione con il mondo accademico si è persa, iniziano interpretazioni infondate del passato.

Questo, unito alla necessità di fare cassa, ingenera il pericolo di scivolare verso l’acheo-parco, cioè un parco giochi; una scelta che si traduce nel fallimento di simili iniziative.

◆ E quale futuro potranno avere i

parchi archeologici? Avranno successo, a parer mio, se sapranno raccontare a tutti, e per tutti i tipi di utenze, l’operazione in corso; la comunicazione deve essere un volano per la crescita culturale delle persone, per dare modo alle famiglie di passare giornate utili e spensierate, in cui si impara e si cresce culturalmente e nella propria coscienza. Si tratta di un obiettivo che dovrebbe essere perseguito in tutte le strutture museali o di parco archeologico, in quanto la loro fruizione, attraverso l’esperenzialità e con l’organizzazione di eventi culturali adeguati, può farli divenire luoghi di incontro e di scambio; luoghi in cui le persone vanno volentieri a passare del tempo perché non trovano gli ostacoli di un linguaggio intellettuale e specialistico, talvolta quasi esoterico, ma, oltre a capire, effettuano esperienze di

socializzazione e di apprendimento; in ultima analisi luoghi accessibili, di svago, di apprendimento piacevole e di scambi culturali nonché interpersonali. Oggi musei e aree archeologiche devono interrelarsi e tutto ciò sta accadendo, per esempio, a Poggibonsi.

DOVE E QUANDO Parco Archeologico di Poggibonsi (Siena) Per informazioni, orari di apertura, prenotazioni: tel. 392 9209400; e-mail: info@parco-poggibonsi.it; www.parco-poggibonsi.it

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PARCHI ARCHEOLOGICI • POGGIBONSI

zione di un viaggio a ritroso nel tempo, n.d.r.) e di sperimentazione. Il visitatore può disturbare i ricostruttori per chiedere loro informazioni sulle attività svolte o addirittura provare a usare gli strumenti e ripeterne i gesti.

ARCHEOLOGI NARRATORI L’obiettivo non è quello di una ricostruzione tout court, ma consiste nel fare dell’Archeodromo un luogo in cui si ha contatto con la concretezza della storia, vivendola e sperimentandola, divertendosi e imparando. È un’operazione aperta a tutti, nella quale l’attenzione dei vi-

IL RITORNO DEL TESORO DI GALOGNANO Nel 1963, un contadino, in località Pian dei Campi (Poggibonsi), durante la costruzione di una porcilaia, scopre una pila di straordinari manufatti in argento. Si tratta di un corredo eucaristico – composto da quattro calici, un cucchiaio e una patena –, risalente al VI secolo e che fu donato alla chiesa da due signore di origine ostrogota come risulta da alcune iscrizioni sugli oggetti: HIMNIGILDA e SIVERGERNA. La quanto mai anomala posizione degli oggetti al momento del rinvenimento suggerisce il loro probabile inserimento all’interno di un sacco consumatosi con il tempo, forse occultato per impedirne il furto e la profanazione, in quel turbolento periodo che vede la Toscana subire i pesanti contraccolpi della guerra greco-gotica e della successiva discesa dei Longobardi. Dopo una serie rocambolesca di eventi, il

Tesoro, viene prima restaurato dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e poi trasferito alla Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Siena e da lí al Museo Diocesano di Colle Val d’Elsa, da dove è stato trasferito presso il Museo di Arte Sacra dello stesso paese. Chissà che in futuro, il Tesoro di Galognago, non possa andare a integrare il già straordinario patrimonio gestito dal Parco Archeologico, quale testimonianza unica e indispensabile del territorio di Poggibonsi, con chiari ed esclusivi riferimenti non solo cronologici alla fase piú antica dell’insediamento di Poggio Imperiale. È proprio qui, all’interno del recuperato Cassero, quale naturale completamento dell’esposizione del Centro di Documentazione, che il Tesoro potrebbe far rivivere le emozioni e le suggestioni della sua singolare storia, integrando il racconto della «Prima Poggibonsi».

Il Tesoro di Galognano, da Pian dei Campi, Poggibonsi. Argento. VI sec. Colle Val d’Elsa, Museo Diocesano.


In queste pagine: due immagini della ricostruzione storico-archeologica all’interno dell’Archeodromo. Nella pagina accanto, in alto, la realizzazione delle frecce; in questa pagina, la prova del tiro con l’arco.

sitatori viene catalizzata comunicando attraverso «il fare» i dati scientifici prodotti dalle indagini archeologiche, spesso coniugandoli a dati storici per fornire un’immagine del mondo che si rappresenta. Per tali ragioni gli archeologi interpretano anche ruoli narrativi seguendo tecniche di storytelling (arte di scrivere o raccontare storie), elemento fondamentale da collegare alla ricostruzione; un mezzo per ritrarre eventi reali o fittizi attraverso parole, immagini, suoni, gestualità; una forma di comunicazione efficace, in grado di coinvolgere contenuti, emozioni, intenzionalità e contesti. Propone sia la realtà del contesto ricostruito (dati provenienti dallo scavo), sia la vita e i rapporti gerarchici in essere (informazioni elaborate), ricollegandosi tanto ai grandi accadimenti (cioè a quella che gli studiosi chiamano histoire événementielle), quanto alle vicende locali. All’Archeodromo di Poggibonsi, le operazioni di storytelling descrivono uno scenario credibile ma probabilmente mai avvenuto, dando modo di parlare delle storie ricostruibili per questa area geografica e dell’Alto Medioevo a tutto ton-

do. Eventi di per sé immaginari, ambientati in una location attestata archeologicamente, che fa compiere al pubblico un’esperienza immersiva e di conoscenza all’interno di un unico racconto.

FABBRI PER UN GIORNO Tutto ciò avviene operando anche nell’archeologia sperimentale e mettendo «in scena» le attività svolte nel villaggio, quindi con una serie ulteriori di informazioni e attenzione alla didattica. A oggi, per esempio, vengono sperimentate l’intera sequenza legata alla metallurgia del ferro sino alla forgiatura di oggetti, la falegnameria, la tintoria e la tessitura sino alla filatura, la lavorazione del cuoio, la cottura di focacce nei testi e altre tecniche di cucina, la produzione di candele, la produzione di vaghi di collana in pasta vitrea, la conoscenza delle erbe e la cura di un orto legato alle erbe curative e per tingere. Attività in corso di svolgimento mentre avvengono gli atti narrativi o le storie che sono rappresentate e attraverso le quali sono fabbricati strumenti da usare e abiti da indossare. Ciò che viene proposto è dunque anche una nuova dimensione del

rievocatore-ricostruttore e narratore, molto vicina a quella di esperienze simili a livello europeo. Una figura che, se seguita, potrà partecipare a politiche di valorizzazione del patrimonio. Già da un paio di decenni, importanti istituti storici e musei, soprattutto nordeuropei, hanno mostrato la via da percorrere; si avvalgono di gruppi stabili di ricostruttori che lavorano a stretto contatto con i ricercatori (sempre piú spesso le due figure coincidono), per potenziare esponenzialmente la capacità didattica, la capacità divulgativa e creare grossi eventi con successo di presenze. L’Archeodromo di Poggibonsi rappresenta cosí anche un’operazione di «archeologia pubblica» a tutto tondo, fondata sulla progettazione di politiche di valorizzazione insite nel processo di conoscenza che, comunicando, contribuiscono alla crescita culturale ed economica della comunità del Parco. Il progetto dell’Archeodromo di Poggibonsi è stato realizzato grazie alla sinergia attuata tra l’Università di Siena, la Fondazione Musei Senesi, il Comune di Poggibonsi e le società Arké Archeologia Sperimentale e Archeòtipo. a r c h e o 75


ARCHEOTECNOLOGIA • ARTIGLIERIE NAVALI/1

ACQUE DI GUERRA I COMBATTIMENTI NAVALI REPLICARONO LE MODALITÀ TIPICHE DEGLI SCONTRI DI TERRA: LA TATTICA PIÚ DIFFUSA MIRAVA INFATTI AD ABBORDARE IL LEGNO NEMICO, COSÍ DA PERMETTERE AI MARINAI DI BATTERSI CORPO A CORPO. UNA SOLUZIONE CHE RICHIESE L’ELABORAZIONE DI ARMI SPECIFICHE, COME I TEMIBILI ROSTRI O IL NON MENO MICIDIALE «CORVO» di Flavio Russo

In alto: rilievo in marmo raffigurante una trireme romana. I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. A sinistra: rilievo raffigurante una trireme ateniese. V sec. a.C. Atene, Museo dell’Acropoli. 76 a r c h e o


I

l mare era, e continua a essere, la strada per antonomasia. Una strada capace di collegare due punti costieri qualsiasi, senza alcun limite di carico, di costrizione di sagoma, di pendenza e di usura: si tratta, in definitiva e di gran lunga, non solo della maggiore, ma anche della migliore infrastruttura per il

commercio. Dal momento, però, che il mare, proprio perchĂŠ tale, costituiva la via maestra per qualsiasi aggressione militare, sin dall’alba della storia fu evidente che, per commerciare liberamente, cosĂ­ come, per proteggersi efficamente, occorreva avere ragione di tutti gli eventuali nemici.

Ed essendo tanto i traffici che la guerra sul mare attuati mediante navi, padroneggiarvi le rotte e tenere lontano dalle proprie coste i potenziali razziatori, significava in pratica distruggere il naviglio avversario, soprattutto se da guerra. Di conseguenza, soprattutto nel passato, il millantato dominio del a r c h e o 77


ARCHEOTECNOLOGIA • ARTIGLIERIE NAVALI/1

mare si riduceva, nella migliore delle ipotesi, alla sostanziale interdizione delle rotte, per cui, a differenza degli scontri di terra, l’obiettivo dei conflitti di mare consisteva nella distruzione dei mezzi e non già dei combattenti, né, meno che mai, delle popolazioni rivierasche.

LO SCONTRO PIÚ CRUDELE Almeno in teoria, la guerra navale sembrerebbe perciò meno spietata e atroce di quella terrestre, ma, nella pratica, si rivelò spesso persino peggiore, in quanto, per distruggere le navi, sempre di legno, se ne sfondarono col rostro le carene o se ne incendiarono tramite pirofori gli scafi, con ovvie conseguenze per gli equipaggi. Scriveva perciò Renato Vegezio Flavio (scrittore latino di cose militari attivo nel IV-V secolo d.C.): «La guerra navale non soltanto pretende piú specie di armi, ma anche macchine e congegni, come 78 a r c h e o

quando si combatte sulle mura e sulle torri. Cosa è infatti piú crudele di uno scontro navale, nel quale gli uomini sono uccisi sia dalle acque sia dalle fiamme? Pertanto deve essere precipua la cura dei materiali protettivi, affinché i soldati siano ben armati e provvisti di corazza, nonché di elmi e di schinieri. Infatti nessuno deve o può lamentarsi del peso delle armi, perché combatte stando fermo sulle navi. Si prendano anche gli scudi piú robusti, in funzione dei sassi, nonché piú larghi, per la difesa dalle falci, dagli uncini e dagli altri tipi di armi navali. Si scaglino reciprocamente dardi e sassi, combattendo con frecce, giavellotti, fionde, mazzafionde, dardi di piombo, onagri, balestre, scorpioni (…) Nelle piú


grandi galee si costruiscano anche parapetti e torri affinché, come da un muro, cosí dai piú alti tavolati si feriscano o si uccidano i nemici piú facilmente. Per mezzo di balestre si infiggono nelle carene delle navi avversarie frecce ardenti avvolte di stoppa con olio incendiario, zolfo e bitume, sicché le tavole unite di cera, pece e resina, con siffatto fomento di fuoco, subito si accendono».

TATTICHE NAVALI Dal punto di vista cronologico, superate le fasi piú arcaiche – nelle quali non esisteva una distinzione netta fra navi mercantili e militari –, l’iconografia del III millennio a.C. ci ha tramandato – su tavolette d’argilla prima e lastre di marmo poi – la lunga sagoma tipica di una nave da guerra, propulsa dai suoi tanti remi. Piú dettagliate sono le unità

dipinte su vasi a partire dal XVII secolo a.C., e, in epoca omerica, si cominciò a disporre, oltre che delle immagini, anche delle prime descrizioni delle navi da guerra propriamente dette. Ai remi, per quanto se ne può dedurre, stavano dai trenta ai cento vogatori, che, alcuni secoli dopo, si collocarono su due

ordini sovrapposti, dando vita alla biremi e, a partire dal VII-VI secolo a.C., alle triremi, triremis, con tre ordini sovrapposti. Al profilarsi dell’età classica, le navi da guerra a propulsione mista – eolica nelle crociere di trasferimento e remica nei combattimenti – acquisirono le connotazioni che sostan-

Nella pagina accanto: rostro di trireme romana con bassorilievo di Nike alata. III sec. a.C. Favignana, Ex Tonnara Florio.

In alto: ricostruzione virtuale di una liburna romana in navigazione eolica: si noti il rostro bronzeo appena affiorante. A sinistra: ricostruzione ipotetica di una trireme ateniese, battezzata Olympias. Paleo Faliro (Atene), Parco Marittimo.

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ARCHEOTECNOLOGIA • ARTIGLIERIE NAVALI/1

Fuoco volante Nei combattimenti navali si faceva ricorso, fra l’altro, alle frecce incendiarie. Poco dietro la cuspide, questi dardi – dei quali si propone qui la ricostruzione – erano forgiati a triplice archetto, nel quale andava inserito e trattenuto un frammento di corda, imbevuto di liquido infiammabile. L’accensione avveniva pochi istanti prima del lancio e si protraeva ben oltre l’impatto contro gli scafi ampiamente spalmati di bitume e grasso: con la cuspide profondamente inchiodata nel fasciame vi propagavano rapidamente le fiamme.

zialmente mantennero nel Mediterraneo fino all’avvento della navigazione a vapore. La piú evidente fu la loro sagoma sfilata, con un alto rapporto tra lunghezza e larghezza dello scafo – elevato coefficiente di finezza (in architettura navale, il grado di snellezza dei vari elementi della carena, n.d.r.) delle linee d’acqua: non a caso vennero definite naves longae, in grado di fornire un’elevata velocità, a discapito, però, della tenuta al mare. Per la collocazione dei tanti remi lungo gli stretti fianchi, non si erano potuti ricavare i contenitori per l’acqua, né quelli per i viveri, costringendole perciò a frequenti scali, soprattutto per il rifornimento idrico, o acquate. Con pochissima zavorra e un insignificante pescaggio, potevano affrontare le onde solo nella buona stagione e, al di là della piú o meno ottimale costruzione, le prestazioni erano fornite essenzialmente dal «motore», ovvero dai rematori e dalla loro vigoria. L’armamento principale consisteva nel rostro prodiero, per speronamenti finalizzati a sventrare le navi nemiche, raffigurato senza equivoco a partire dall’VIII secolo a.C., e nel ponte di combattimento per la fanteria di marina destinata all’abbordaggio. In entrambi i casi, il combattimento fra le due unità avveniva accostando gli scafi bordo a bordo, l’abbordaggio, appunto. Realizzati 80 a r c h e o

in bronzo, i rostri furono posti sotto la linea di galleggiamento, in modo da penetrare la carena nemica aprendovi un’ampia falla. La manovra di speronamento presupponeva che la nave si accostasse all’avversaria lungo una rotta quasi perpendicolare alla sua fiancata, con una velocità sufficiente allo sfondamento, ma non tale da farvela restare inca-

strata.Tale manovra era complessa e presto prevedibile, per cui si deve presumere che abbia avuto efficacia solo inizialmente: in breve tempo, infatti, mostrare il fianco dovette trasformarsi in una sorta di suicidio. Nel frattempo, le macchine da lancio, cresciute in potenza e dimensioni, divennero l’armamento imprescindibile delle navi da guerra.

DAI CORVI ALL’ARPAX Fin quasi al XVII secolo, e nel Mediterraneo anche oltre, la battaglia navale si è sempre risolta in una sommatoria di scontri fra coppie di opposte unità. In poche parole, esauritasi la manovra di speronamento con i rostri, facile da eludere, ma non altrettanto da reiterare, e scadute le distanze fra gli scafi, i rispettivi equipaggi si battevano fra di loro. In sostanza, si ripeteva sul mare il combattimento terrestre, quando, conclusa la corsa di avvicinamento fra le opposte schiere, il confronto si frazionava in una miriade di corpo a corpo. La manovra di contatto fra due flotte prevedeva l’avvicinamento di prua, in modo da far incuneare le proprie navi tra le nemiche, passandovi tanto radenti da spezzarne i remi, ovviamente dopo aver ritirato i propri all’ultimo momento. La nave nemica, ormai immobile, veniva finita con il rostro. Quanto all’abbordaggio, lo si faceva precedere dal tiro di frecce e di


Nella pagina accanto, in basso: denario romano di Cornelio Lentulo. 12 a.C. Al dritto, il busto dell’imperatore Augusto; al rovescio, il busto di Marco Vipsanio Agrippa con corona murata e rostrata. In questa pagina: testa marmorea di Marco Vipsanio Agrippa. I sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano in Palazzo Massimo. a r c h e o 81


ARCHEOTECNOLOGIA • ARTIGLIERIE NAVALI/1

Arpax (scomposto) Ricostruzione virtuale ipotetica esplosa dell’arpax. Constava di una spessa asta di legno, munita posteriormente di un anello per le funi di recupero e, anteriormente, di una cuspide a forbice: trapassato lo scafo nemico, questa vi si apriva, fissandosi saldamente.

Arco elastico Ricostruzione virtuale della catapulta verosimilmente adottata per il lancio dell’arpax. Deve immaginarsi del tipo a flessione, ovvero come un grosso gastrafete, azionato da un enorme arco composito. La scelta, in apparenza anacronistica, era dettata dall’eccessiva sensibilità all’acqua delle baliste a torsione.

Gastrafete Ricostruzione virtuale del gastrafete. Costruito per la prima volta intorno al 400 a.C., presso la corte del tiranno di Siracusa, Dionisio il Vecchio, fu un’arma manesca in sostanza simile a una balestra medievale, azionata da un robusto arco composito. Si caricava spingendone la staffa anatomica posteriore con l’addome.

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lance e dall’aggancio del corvo. Stando allo storico greco Polibio (200-120 a.C. circa), quest’ultimo consisteva in un palo rotondo: «Piantato verticalmente sulla prua (…) lungo quattro orgie [7,12 m circa] e spesso tre palmi; alla sua sommità stava vincolata una carrucola. Una sorta di scala fatta di tavole trasversali, inchiodate insieme in modo da formare un tavolato largo quattro piedi e lungo sei orgie [10,60 m circa], per mezzo di un foro oblungo girava intorno al palo. Il foro poi era praticato alla distanza di due orgie dalla base inferiore della scala. Per tutta la lunghezza del tavolato da entrambi i lati della scala era piazzato un parapetto alto fino al ginocchio. All’estremità, poi, era stato adattato una specie di pestello di ferro a punta, fornito al vertice di un anello, cosí che l’insieme sembrava simile alle macchine che servono per macinare il pane. In quest’anello era stata legata una corda con la quale in caso di abbordaggio, si alzavano i corvi per mezzo della carrucola posta sul palo, e poi si lasciava cadere sulla tolda delle navi avversarie, o a prua o lateralmente per gli assalti che venivano di fianco. Quando i corvi, conficcatisi sugli assi della coperta univano anche le navi, quando queste si fossero affiancate. I Romani saltavano, allora, sulla nave nemica per tutta la sua lunghezza, se di prua essi muovevano all’assalto attraverso la passarella del corvo a due a due».

COME UNA FIOCINA Dal momento che la sorpresa costituita dai «corvi» fu tale solo per il loro debutto, la guerra navale richiese in breve armi capaci di catturare a distanza le navi nemiche, di arpionarle per poterle affiancare prima dell’abbordaggio. In ambito storico, pertanto, il complemento risolutivo del corvo di Caio Duilio (il politico e militare romano che nel corso della prima guerra punica lo aveva tenuto a battesimo, n.d.r.) fu l’arpax di Marco Vipsanio Agrippa (l’ammiraglio romano che ne è considerato l’ideatore, n.d.r.). Scagliato con una balista, a conferma

dell’ormai imperante presenza a bordo di potenti artiglierie elastiche, l’arma viene cosí descritta dallo storico greco Appiano di Alessandria: «Un legno lungo cinque cubiti [2,2 m circa] rinforzato intorno con del ferro ed avente alle due estremità due anelli. Uno dei due anelli reggeva lo stesso arpax, quasi un uncino di ferro, l’altro reggeva parecchie funi che tiravano con argani l’arpax, dopo che con un lancio di catapulta aveva afferrato la nave nemica». Si trattava, in sostanza, di una grossa fiocina, simile a quelle impiegate per la pesca dei grandi cetacei, scagliata per mezzo di un pezzo a flessione, piú idoneo a sopportare l’acqua sollevata dalla prua. Sebbene il corvo prima e l’arpax poi sembrino suggerire scontri ravvicinati – una deduzione avallata dalla medesima rarissima corona navale che ne fregiò ambedue gli ideatori –, la rispettiva tattica d’impiego fu ben diversa. Infatti, solo il corvo garantiva l’aggancio rigido tra gli opposti equipaggi, dal momento che l’arpax serviva ad arpionare intere unità nemiche. Alla tattica dell’assalto ossidionale sembra quindi subentrare quella della cattura corsara, utile, tra l’altro, a studiare le tecniche costruttive nemiche. Varie osservazioni inducono a ritenere che la macchina che scagliava l’arpax funzionasse, come accennato, a flessione, simile a un grosso gastrafete (una sorta di grande balestra). Se, infatti, dal punto di vista cronologico non si scorge alcuna divaricazione fra l’impiego in terra e quello in mare delle artiglierie elastiche, non altrettanto può dirsi per le rispettive connotazioni peculiari. Poiché per le macchine da lancio non sussistevano sul mare le stringenti limitazioni imposte sul campo dal peso e dall’ingombro, tali armi potevano essere sensibilmente piú grandi di quelle campali e, forse, persino di quelle da fortezza. Il che, però, non esaurisce affatto le diversità poiché l’impiego in ambito marino, per risultare affidabile e con prestazioni

costanti, implicava la soluzione di alcune gravi deficienze, non altrettanto penalizzanti a terra.

PROBLEMI DI TENSIONE In altre parole, mentre fra i cannoni terrestri e quelli navali, se mai esistettero differenze, lo furono soltanto nelle dimensioni – piú grandi i secondi rispetto ai primi –, per le artiglierie elastiche le differenze, prima ancora che dimensionali, dovettero essere strutturali, dal momento che l’acqua e l’umidità risultano in genere nefaste per gli organi propulsori. In ciò le artiglierie piú antiche, a flessione, si confermarono paradossalmente migliori delle piú recenti, a torsione, le cui matasse elastiche – formate da corde ottenute con fibre cheratinose d’origine animale –, essendo fortemente igroscopiche, al contatto con l’acqua o con l’umidità, si allungavano, perdendo la necessaria tensione. Una simile difficoltà tecnica penalizzante innescò allora una fioritura di proposte tese alla sua eliminazione. Di esse, alcune si dimostrarono ridicole, altre velleitarie e solo poche risolutive. Tutte costituiscono comunque la testimonianza del problema e del suo superamento. Oggi ne abbiamo scarse tracce archeologiche e qualche riferimento letterario. Nella fattispecie, sebbene nulla confermi tanto fervore inventivo intorno all’armamento navale, è difficile credere che una sperimentazione cosí prolungata, oltremodo costosa per l’epoca, che mirava a eliminare il deterioramento degli organi elastici e la rapida corrosione delle parti in ferro delle artiglierie, abbia una spiegazione e una destinazione non navale. Su questa sottile, ma affatto tenue falsariga, confermata da qualche rara raffigurazione, si dipana dunque la nostra indagine, sorretta per quanto possibile dalle fonti scritte e dai reperti, nel tentativo di restituire a entrambi un’immagine concreta. (1 – continua) a r c h e o 83


SPECIALE • DORI SUL MARE

SUL MARE CON I FIGLI DI ERACLE ESISTE DAVVERO UNO SPIRITO «DORICO» CONTRAPPOSTO A UNO «IONICO»? E COME VALUTARE L’IMMAGINE DIFFUSA DEI DORI COME POPOLO RUDE, «NORDICO» E MONTANARO? ESPLORIAMO, ALLORA, LA LORO EPOPEA MARITTIMA, PER SCOPRIRE UN CAPITOLO NASCOSTO DELLA STORIA GRECA ANTICA. E PER RIVELARE IL RUOLO FONDAMENTALE SVOLTO DAI DORI NELLA DIFFUSIONE OLTREMARE DELLA CIVILTÀ ELLENICA… di Fabrizio Polacco 84 a r c h e o


L’

eccellenza marinara rese celebri i Greci della Ionia e dell’Attica. Atene fu, nei fatti, la prima repubblica marinara imperialistica del Mediterraneo. Mileto, la polis piú celebre di quella parte costiera dell’Asia Minore in cui si parlava il dialetto greco ionico, era considerata dagli antichi madrepatria di 90 colonie d’oltremare, collocate per la maggior parte sul Mar di Marmara e sul Mar Nero. Due città-stato dell’Eubea, anch’esse di dialetto ionico, Calcide ed Eretria, aprirono le rotte dell’espansione verso occidente, dove Ischia e Cuma vennero indicate dalla tradizione come le piú antiche colonie in Italia. Dall’altra parte, nell’opinione comune, a contrapporsi alla grecità ionica, in quanto massima rappresentante del mondo «dorico», è stata soprattutto Sparta, la potenza militare terrestre per eccellenza (le Termopili e Platea insegnano). Atene poté tenerle testa solo dispiegando le forze ed espandendosi su quell’elemento marino a cui i Lacedemoni, invece, guardarono sempre con una qualche diffiden-

Datça, Turchia. Una veduta del Capo Triopio, situato sull’omonimo promontorio. Qui si conservano i resti dell’antica città dorica di Cnido, tra cui quelli del tempio dedicato ad Apollo.

za. Basta osservare una mappa storica della guerra del Peloponneso per notare come, insieme ai loro alleati, fossero concentrati sulla terraferma, nel Peloponneso in particolare («l’acropoli dell’Ellade», come la definí Strabone), mentre la sfumatura di colore che indica gli appartenenti alla lega delio-attica guidata da Atene si estende su una miriade di isole e di città costiere dell’Egeo.

SCONTRO DI «CARATTERI» Già per gli Antichi, in verità, dietro il conflitto tra Sparta e Atene si celava una contrapposizione piú profonda ed estesa: quella tra i Greci di stirpe ionica e quelli di stirpe dorica. O, estensivamente, tra un preteso «carattere ionico» e un «carattere dorico»: un criterio distintivo, quasi un’antitesi, destinato a immensa fortuna. E non solo nell’antichità. Un criterio che, in fondo, utilizziamo ancora, piú limitatamente, quando in architettura, sulla scia di Vitruvio, parliamo di «ordine dorico» e di «ordine ionico» (vedi box a p. 88). Con l’andare del tempo, la contrapposizione a r c h e o 85


Larissa

Lemno Ambracia

Delfi Tebe Elide Mantinea Olimpia

Corinto

Tegea

Mar Egeo

Calcide

NO

NE

E

SO

Pilo

Focea

Smirne

Chio Efeso

Atene Megara Samo

Argo

Megalopoli N

O

Pergamo

Mitilene

Delo

Sparta

Alicarnasso

Milo

SE

S

Thera Achei/Arcadi

Mileto

Città

Anafi

Astypaleia

Kos

Rodi

Eoli Dori

Karpathos

Migrazioni

Cnosso

Ioni

Festo

Kassos

Verso Cipro

tra le due stirpi elleniche non rimase circoscritta all’ambito culturale, né tanto meno a quello antichistico. Infatti, tra Otto e Novecento si sviluppò fino ad assumere risvolti inquietanti: dal dialetto, o dal «carattere», si passò dapprima allo «spirito» etnico, per poi degenerare, vista la temperie politica e culturale dell’epoca, in considerazioni di carattere squisitamente genetico e razziale.

ANTENATI DEI GERMANI... Basti pensare che l’ideologia nazista fece perno sulla provenienza da settentrione dei Dori nel Peloponneso (un settentrione, si badi bene, che solo ipoteticamente poteva risalire piú a nord del Pindo e dell’Illiria, vale a dire i Balcani meridionali) per creare un corto circuito intellettuale che fece dei Dori il popolo «nordico», «ariano» e «conquistatore» per eccellenza: in pratica, antenato o consanguineo degli antichi Germani (vedi box a p. 87). La storiografia moderna ha fatto giustizia di simili convinzioni, impregnate di ideologia. Al di là del travisamento storico che fece assurgere il kosmos spartano, l’ordine politicosociale della città della Laconia in età arcaica e classica, a modello del totalitarismo nazio86 a r c h e o

In alto: i territori e le principali città delle etnie greche e le direttrici delle loro migrazioni. Qui sopra: Isola di Egina, Attica. I resti del tempio di Afaia. VI-V sec. a.C.

nalsocialista del XX secolo (nonché, per assurdo, a prototipo di un comunismo ante litteram), vi è comunque una precisazione importante da fare. I Dori non furono soltanto gli Spartani. Dori erano anche la maggior parte dei loro sudditi della Laconia, privi di diritti politici (i cosiddetti «perieci»); Dori erano anche gli abitanti, da Sparta ben presto sottomessi, della vicina Messenia; sempre Dori furono gli abitanti dell’Argolide, tra cui gli Argivi, i Corinzi, e i Megaresi dell’Istmo.


UN DIBATTITO ANCORA ATTUALE Ancora nella riedizione del 1950-51 di un importante testo quale la Storia Greca di Helmut Berve – studioso espulso nel 1945 dall’Università tedesca (alla quale fu però poi riammesso) per la sua adesione al partito nazionalsocialista –, è facile trovare riferimenti a un «innato spirito guerriero dei Dori», considerati i «piú puri» tra i popoli della stirpe greca. Si comprende dunque come, soprattutto nel secondo dopoguerra, la «questione dorica» sia divenuta oggetto di attenta riconsiderazione. A tutt’oggi, i punti controversi non sono pochi, e però risultano fondamentali per la comprensione della storia greca. Proviamo quindi a sintetizzarli. 1. Genesi della civiltà greca. I caratteri della civiltà greca classica (quella uscita dai cosiddetti «secoli bui» o di transizione: XII-IX a.C.), sono significativamente diversi da quelli della civiltà «greca-micenea» o «achea». Fino alla prima metà del secolo scorso, la quasi totalità degli studiosi attribuiva alcune principali innovazioni (tra cui quelle che, sviluppatesi nel tempo, indussero piú d’uno a parlare di «miracolo ellenico») all’arrivo nella penisola dei popoli di dialetto dorico. I Dori, quindi, avrebbero segnato la vera cesura tra i Greci antichissimi (i Micenei), e quelli dell’età classica. 2. Crollo della civiltà micenea. Secondo alcuni, fu dovuto a cataclismi naturali o climatici, sollevazioni interne, carestie; secondo altri, fu invece decisiva l’invasione dorica. 3. Storicità dell’invasione dorica. Le fonti antiche sono concordi nell’affermare che i Dori, guidati dai discendenti di Eracle (gli Eraclidi), abbiano invaso il Peloponneso proveniendo dalla Grecia centro-settentrionale (sessant’anni dopo la fine della guerra di Troia, precisa Tucidide), si siano stabiliti nelle regioni conquistate (Argolide, Laconia, Messenia), e siano poi migrati in alcune A destra: testa di arciere appartenente alla decorazione del frontone orientale del tempio di Afaia a Egina. 480 a.C. circa. Monaco, Glyptothek.

isole egee, a Creta e nella Doride d’Asia minore. Ciononostante, parte della storiografia moderna ha negato la storicità di questa invasione, presentando i Dori come una popolazione già presente nel mondo miceneo (addirittura nel ceto inferiore di quell’epoca) e tagliando cosí alla radice ogni possibile connessione tra l’avvento di una nuova etnia e la nascita della Grecità classica. 4. I Dori e l’archeologia. Pratica dell’incinerazione al posto dell’inumazione; sostituzione della armi di bronzo con quelle di ferro; passaggio dallo stile pittorico submiceneo a quello geometrico: sono queste alcune delle innovazioni materiali dei «secoli bui» un tempo collegate all’avvento dei Dori. Molte obiezioni sono state sollevate da quanti negano l’invasione, sulla base della scarsità dei resti archeologici e della non costante corrispondenza dei luoghi del loro rinvenimento con le regioni poi occupate dai Dori. Dopo la comprensibile reazione alle teorie a sfondo etnico-razziale sviluppatesi nella seconda metà del Novecento, oggi, pur non facendone l’unico né il principale motivo del trapasso tra le due civiltà, si tende a confermare la sostanziale veridicità della tradizione dell’invasione dorica. La difficoltà di reperire testimonianze archeologiche dell’invasione viene spiegata con la possibilità che i Dori condividessero già prima del loro arrivo elementi materiali della civiltà micenea, nonché con l’esempio di popoli, quali i Longobardi o gli Slavi, penetrati in Italia e in Grecia nel corso dell’Alto Medioevo, che pure non lasciarono tracce archeologiche del proprio passaggio. Tuttavia, la notevole differenza, sociale, culturale e politica che si registra tra la Grecia che entra nei cosiddetti «secoli bui» (XII-IX a.C.) e quella che ne esce resta ancora difficile da spiegare. Un generale rimescolamento di popolazioni, o meglio una fusione tra etnie preesistenti (i popoli che Omero definisce genericamente «Achei») e sopravvenute (Dori), rimane a tutt’oggi un’ipotesi interessante, benché da approfondire e confermare.

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SPECIALE • DORI SUL MARE

E Dori furono, infine, i Siracusani: i quali, quando affrontarono gli Ateniesi nella battaglia decisiva della guerra del Peloponneso – un assedio combattuto sulla terra e sul mare – si reggevano anch’essi con una democrazia. Insomma, lo scontro piú cruento tra una città dorica e una ionica in quella guerra fratricida fu combattuto per due anni tra due città marinare e tra due democrazie. Un dato che smentisce, su aspetti decisivi, alcuni fondamentali pregiudizi antichi e moderni sulle presunte differenze congenite tra lo «spirito» dorico e quello ionico. Non solo: a lanciarsi nella grandiosa seconda colonizzazione del Mediterraneo dell’età arcaica (VIII-VI secolo a.C.) furono anche due poleis doriche per eccellenza; quelle che, per collocazione geografica, erano a cavallo tra i mari d’Occidente e d’Oriente: Megara e Corinto. I Siracusani stessi, del resto, erano di origine corinzia (vedi box a p. 89). Ecco perché parlare dei «Dori sul mare», lungi dall’essere una provocazione, vuole colmare quella che è una diffusa lacuna storica, e insieme abbattere un pregiudizio. Corinzi, Siracusani, Rodiesi (altra grande

In basso: disegno schematico che mette a confronto due stili di colonna adottati nell’architettura greca, dorico (a sinistra) e ionico (a destra).

repubblica marinara), e tante altre città-stato e colonie doriche dimostrano che i Dori non sono sommariamente riconducibili a nordici, bellicosi e un po’ rudi montanari discesi con le loro conquiste sulle riviere dell’Ellade, né che si trovassero a disagio sui mari e perciò prediligessero strutture economico-politiche socialmente chiuse ed economicamente autarchiche.Tutt’altro: seguire le loro avventure e conquiste sui mari vuol dire riscoprire una faccia nascosta della Grecia antica, che, tra l’altro, ebbe un ruolo fondamentale nella formazione e nella diffusione oltremarina della civiltà ellenica.

EGINA, L’ANTI-ATENE PER ECCELLENZA Cominciamo questo viaggio proprio a pochi chilometri dall’Atene paladina degli Ioni. Egina fu l’anti-Atene per eccellenza; e, se le cose fossero andate un po’ diversamente, magari verrebbe ora considerata come il centro ideale della Grecia antica, scalzando dal piedistallo la polis dell’Attica. Per ricoprire questo ruolo, l’isola che si erge montuosa al centro del golfo Saronico, tra l’Attica e l’Ar-

UNA QUESTIONE DI STILE L’arte e la musica non sono ideologicamente e moralmente neutrali: questo sembrano dirci gli antichi quando trattano di stile. «L’arte per l’arte» è una concezione moderna, figlia del decadentismo letterario, ma, nell’antichità, forse soltanto a partire dall’ellenismo si arrivò a concepire qualcosa di simile. Nel De Architectura, Vitruvio, che visse probabilmente nell’età di Augusto, cosí descrive la colonna dell’ordine dorico: essa rappresenta la «virilis corporis proportionem, firmitatem et venustatem», cioè la proporzione, la solidità e la bellezza del corpo virile. Al contrario, la colonna ionica esprime la «muliebrem gracilitatem», la delicatezza femminile. La prima è di una «nuda bellezza priva di orpelli», la seconda si richiama alla «leggerezza, all’ornato e all’armonia della donna». Nella sua utopia della Repubblica, Platone, alcuni secoli prima, aveva decisamente sconsigliato, nell’educazione musicale dei ragazzi (fondamentale, nel mondo greco), le armonie «languide e lamentose», quali la «lidia» e la «ionia», e favoriva invece quelle «violente e volitive», ma anche «temperanti e coraggiose», come la «frigia» e la «dorica».

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golide, aveva quasi tutto. Miti venerabili la nobilitavano (Eaco, il suo primo re, era il nonno tanto di Achille quanto di Aiace); sommi poeti la esaltavano (Pindaro la cantò in 11 dei suoi carmi); generava fior di atleti vincitori negli agoni panellenici; possedeva una grande flotta, sia commerciale che militare (secondo Erodoto, nella battaglia di Salamina contro i Persiani «i piú grandi elogi, tra i Greci, se li meritarono gli Egineti, e dopo di loro gli Ate-

In basso: il tempio E di Selinunte: l’edificio risale al V sec. a.C., ma il suo aspetto odierno è frutto della ricostruzione operata nel 1959.

niesi»); fu probabilmente la prima a battere moneta in Grecia. Ma, soprattutto, Egina godeva di una collocazione invidiabile. Si racconta che Pericle la definisse «una spina nell’occhio del Pireo». E davvero, ancora oggi basta salire lungo il versante nord dell’isola, sulla terrazza circondata dal verde intenso ove sorge il tempio dorico di Atena Afaia, per constatare quanto il grande stratego ateniese avesse ragione. Come da

DA ANCONA A BISANZIO Il reportage presentato in queste pagine è incentrato prevalentemente sul mare greco per eccellenza, l’Egeo. Tuttavia, enorme importanza ebbe anche l’espansione coloniale dei Dori in Occidente, lungo lo Ionio, l’Adriatico e il canale di Sicilia. Megara e Corinto distavano l’una dall’altra meno di 40 km, sull’istmo che collega la Grecia centrale al Peloponneso, e disponevano entrambe di due porti: uno sull’Egeo

e uno sullo Ionio (piú esattamente, sul golfo Saronico e su quello Corinzio). Le navi di allora, non grandi e in parte smontabili, erano trascinate su carri dall’uno all’altro versante (Corinto costruí per questo addirittura un tracciato lastricato, il diolkos), permettendo a navigatori e commercianti di evitare il periplo del Peloponneso. Dopo che Corinto ebbe fondato colonie ad Ambracia, a Corcira (Corfú), Epidamno (Durazzo),

e Siracusa sullo Ionio, i coloni procedettero da qui fino all’interno dell’Adriatico (Ancona è detta ancora oggi «città dorica»), e poi ad Acre, Casmene e Camarina (Sicilia meridionale). Sembra incredibile, ma la minuscola Megara fondò una delle maggiori città del mondo, Istanbul (prima Bisanzio, poi Costantinopoli), nonché, partendo da Megara Iblea in Sicilia, la grandiosa, potente Selinunte.

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SPECIALE • DORI SUL MARE

un belvedere, si domina con lo sguardo un’ampia estensione della costa attica e, soprattutto, anche in condizioni di ordinaria visibilità, si distingue il porto di Atene in maniera tale da controllare le navi che ne escono e vi entrano. Non per nulla, Pindaro definiva «Mare Dorico» il golfo Saronico, quello su cui si affaccia il Pireo.

LE LUNGHE MURA DI PERICLE A differenza di Atene, Egina disponeva della condizione privilegiata dell’insularità, che rendeva in pratica inespugnabili le città difese da una potente flotta. Una condizione invidiata da Pericle, il quale cercò di riprodurla artificialmente «isolando» la propria città dal resto della terraferma con le Lunghe Mura, che la difendevano dagli assalti di terra e la tenevano allo stesso tempo avvinta al Pireo. Nulla di strano, dunque, che queste due repubbliche marinare, separate da un tratto d’acqua di appena una ventina di chilometri, si affrontassero in almeno quattro conflitti: finché, nel 459/58 a.C., gli Ateniesi ebbero la meglio sulla rivale, la conquistarono e ne occuparono le terre con i propri «cleruchi» (coloni). E, all’inizio della guerra del Peloponneso (431 a.C.), arrivarono a spopolarla deportandone gli abitanti, ritenuti ancora un pericolo per le sorti del conflitto in corso contro Sparta e i suoi alleati.

LA LEGGE DEL PIÚ FORTE È uno dei dialoghi piú emblematici della letteratura classica quello in cui gli emissari dell’esercito ateniese e i rappresentanti dei Meli (gli abitanti dell’isola cicladica di Milo) trattano, discutendo serratamente, sulla scelta che questi ultimi dovranno prendere: se uscire dalla neutralità tenuta fino ad allora, per allearsi con Atene contro i «cugini» dorici di Sparta, o subire la furia dell’esercito ateniese, pronto a sbarcare sull’isola. È un saggio di eccellente arte retorica, ma, tra le righe, vi si intravede un’analisi politica: si contrappongono l’ideale dell’utile, basato sulla «legge del piú forte», e quello della giustizia, fondato sulla fede negli dèi e sul rispetto dei legami di affinità e di stirpe, quale era quello che avrebbe dovuto indurre gli Spartani a soccorrere i Meli in pericolo. Fidando nel loro aiuto, i Meli optarono per la resistenza a oltranza. Ma gli Spartani non vollero o non poterono salpare in soccorso dell’isola. La volontà di potenza dell’imperialismo ateniese ebbe la meglio, dimostrando in modo esemplare che etica e politica (estera) non vanno facilmente d’accordo.

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I TESORI DI UN ANTICO VULCANO Thera – o, come la chiamano i Greci oggi, Santorini – è nota, oltre che per la straordinaria bellezza della sua caldera (il residuo cratere vulcanico oggi riempito dal mare), anche per i resti minoici di Akrotiri, che conservano il piú antico ciclo pittorico parietale dell’Occidente. Meno visitati, ma degni di una tappa

Una sorte altrettanto terribile subí, sempre durante la guerra del Peloponneso, anche la pressoché inerme isola di Milo (Melos). Nota in tutto il mondo per il ritrovamento – avvenuto nel 1820 nei pressi del teatro cittadino – della Venere di Milo, oggi al Museo del Louvre, la città fu costretta dalla superpotenza ateniese a scegliere tra l’ingresso forzoso nell’alleanza delio-attica (una sottomissione di fatto), e la distruzione: e scelse la seconda (vedi box a p. 90). Milo è la piú occidentale di un piccolo cordone di isole colonizzate dai Dori, le Cicladi meridionali. Al di là di essa troviamo nell’ordine Folegandro (Pholegandros), Santorini (Thera), Anafi (Anaphi) e Astypaleia (la piú remota, verso oriente). Tutte queste piccole terre dell’Egeo hanno la caratteristica di essere segnate da violenti sconvolgimenti tellurici: di conseguenza, a partire dal 7000 a.C., Milo esportò ad ampio raggio, con i pionieristici mezzi di navigazione del tempo, la sua

non frettolosa, sono tuttavia i resti della città arcaica e classica che sorgono sul Mesa Vounò (il Monte di Mezzo). L’altura sporge all’esterno della caldera, verso oriente e di fronte all’isola di Anaphi (che domina l’orizzonte con la sua silhouette). La città antica è ben conservata e offre strapiombi mozzafiato sul mare.

Nella pagina accanto: la statua in marmo pario di Afrodite meglio nota come Venere di Milo, attribuita ad Alessandro di Antiochia. 130 a.C. Parigi, Museo del Louvre. In alto: Santorini. Veduta dei resti della città classica di Thera.

preziosa ossidiana (un vetro di origine vulcanica dal quale si ricavavano strumenti, in particolare lame, in grado di sostituire gli ancora ignoti metalli).

UN CATACLISMA SCONVOLGENTE Thera fu vittima della impressionante esplosione vulcanica avvenuta al suo interno nella media età del Bronzo, un cataclisma dagli effetti sconvolgenti sulle coste dell’Egeo. Assieme a Taranto, era una delle pochissime fondazioni spartane d’oltremare. In seguito, come raccontano le fonti storiche, piú per disperazione che per desiderio di espansione e di conquista, anche Thera fondò a sua volta la piú importante polis greca in terra d’Africa: Cirene (vedi box in questa pagina). Questo esile cordone delle Cicladi meridionali disegna sulla carta geografica una sorta di rotta ideale seguita dai Dori quando, dal Peloponneso, andarono a installarsi sulle coste dell’Asia Minore, nel corso della prima migraa r c h e o 91


SPECIALE • DORI SUL MARE

zione ellenica. Trovarono gli Eoli già installati nella fascia settentrionale, gli Ioni in quella centrale – la piú ricca e fertile –, e puntarono verso l’angolo sud-occidentale dell’Anatolia. Lí si allunga entro il mare quello che Pindaro definisce un «embolon (un’intrusione, un cuneo) dell’Asia immensa». Si tratta della piú estesa e articolata delle penisole che l’Anatolia protende nell’Egeo: chi la percorra per intero scoprirà di dover procedere oltre 100 km prima di giungere all’estremità, Capo Triopio. Attorno a questo centro geografico, sorsero le sei città che costituivano l’«Esapoli dorica». Due di esse si trovavano sulla terraferma: Alicarnasso e Cnido. Quattro – Kos, Lindos, Kamiros e Ialisos – erano insulari. Le ultime tre fiorirono nella maggiore isola del Dode92 a r c h e o

Datça, Turchia. Il teatro e il porto meridionale dell’antica Cnido. Nella pagina accanto, in alto: le colonie greche in Asia Minore. Nella pagina accanto, in basso: isola di Kos, Grecia. I resti del tempio dorico nel santuario di Asclepio. IV-III sec. a.C.

caneso: Rodi. L’Esapoli non costituiva soltanto un gruppo di città vicine e imparentate tra loro, ma una lega formale su base etnica, che contemplava un rapporto di alleanza e di mutuo soccorso, nonché festività e riti religiosi celebrati in comune. Si contrapponeva alla piú ampia e potente «Dodecapoli ionica», costituita dalle dodici città d’Asia di diversa stirpe che si affacciavano piú a nord. In realtà, la maggiore isola in cui si parlava il dialetto dorico in età classica fu Creta. Essa era talmente estesa da comprendere, come ricorda Omero nel XIX libro dell’Odissea, ben novanta città. Il passo omerico è importante per la nostra storia, innanzitutto poiché è l’unico in cui egli citi espressamente i Dori, e poi perché costoro non vi compaio-


La colonizzazione greca dell'Asia Minore (XI-VIII sec. a.C.)

Imbro

Eoli

Ioni

Dori

Tro a d e

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N NO

NE

O

Asso

E

SO

SE

S

Lesbo

M is i a

Adramittio

Metimna Mitilene

Mar Egeo

Pitane Elea Cuma Eolica Focea

Gyrneion

Larissa

Chio

Chio

Eritre

Ege Temnos

Aegiroessa

Smirne Clazomene Teos

Colofone

Lebedo

Efeso

Samo Icaria

Samo

L i d ia

Priene

Magnesia

C a ria

Miunte Mileto

Nasso

Iasos

Alicarnasso

Amorgo Anafi

Kos Astypaleia

Kos Cnido

Ialissos

Rodi

Kameiros Lindos

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SPECIALE • DORI SUL MARE

no come gli unici abitatori dell’isola, ma la condividono assieme ad Achei, Eteocretesi (ex minoici?) e Cidoni (da Cidonia, l’attuale Chanià). Una struttura etnica assai composita, dunque. Ciononostante, i Dori presero in qualche modo il sopravvento nell’isola, se senz’altro «doriche» vengono considerate le due potenti fondazioni siceliote che i Cretesi, assieme ai Rodii, crearono ad occidente nel corso della seconda colonizzazione: Gela e Agrigento.

LE TRE TRIBÚ Nelle loro migrazioni sia terrestri che marittime, i Dori non si stabilirono in terre disabitate: vi convissero, e talvolta si fusero, con altri Greci preesistenti, o, in taluni casi, con popoli non greci (come i Cari, ad Alicarnasso). Non solo: già in partenza, neppure dalle fonti antiche essi ci vengono presentati come etnicamente omogenei. Infatti, come afferma sempre lo stesso passo omerico, i Dori cretesi erano distinti in tre tribú. E questa suddivisione, che risulterà In alto: presente in molte altre città e fondazioni tetradramma in doriche, cosí come lo era fin dal loro arrivo argento di Rodi. nel Peloponneso, aveva un carattere anche IV sec. a.C. Al etnico (vedi box in questa pagina). dritto, Helios; al Una situazione simile troviamo a Rodi. La rovescio, una mitica dorizzazione dell’isola è legata a uno rosa, simbolo dei numerosissimi figli di Eracle, Tlepolemo. dell’isola. Lo vediamo combattere nell’Iliade, dove Qui accanto: vaso muore eroicamente per mano di un alleato attico a figure dei Troiani ritenuto figlio di Zeus, il licio rosse con Eracle Sarpedone. Ebbene, secondo Omero, Tlepobambino che lemo era giunto a Troia conducendovi nove strozza i serpenti navi cariche di guerrieri da Rodi, reclutati inviati contro di nei tre principali centri dell’isola dell’età arlui da Era, da caica (uno per ciascuna tribú?): centri che la Vulci. 480-470 a.C. rendono ancor oggi una mèta ambita per gli Parigi, Museo amanti dell’archeologia. Rodi, infatti, non del Louvre. ospita soltanto l’omonima città capoluogo, Nella pagina pur ricca anch’essa di splendide testimonianaccanto: i resti ze antiche e medievali. Questa città è sorta del tempio di solo alla fine del V secolo a.C. da un «sineci- Afrodite a Cnido. smo» (unificazione) delle preesistenti tre poDa qui proviene leis, appunto quelle di Tlepolemo e dei suoi. la celebre statua Secondo il mito, esse prendevano il nome da della dea scolpita tre discendenti, o meglio, tre nipoti del dio da Prassitele. Sole: erano Lindos, Kamiros e Ialissos. In un passo suggestivo dell’Olimpica VII, Pindaro racconta che, nei primordi, quando gli 94 a r c h e o

«PURI», MA NON TROPPO... Nella loro invasione del Peloponneso, i Dori erano guidati dagli Eraclidi, i figli e i discendenti di Eracle. Eracle stesso, però, non era «dorico», ma «acheo»: il suo padre terreno, Anfitrione (il mito lo voleva piuttosto figlio di Zeus), era re di Tirinto, in Argolide. Tanto che non si parlava di «invasione», ma piú correttamente di «ritorno» degli Eraclidi. Da un figlio di Eracle, Illo, prendeva nome una delle tre tribú doriche, gli Illei. Le altre due traevano nome dai figli di Doro, re di una regione della Grecia centrale tuttora chiamata Doride. Dimane, uno dei due, dà nome ai Dimani, appunto, e Panfilo, l’altro, ai Panfili: erano queste due tribú i Dori veri e propri. Tuttavia, il fatto che «Panfili» significhi in greco «dalle molte tribú» rivelerebbe che, nel corso delle migrazioni nella penisola e poi in quelle oltremare, i Dori fossero mescolati a etnie differenti: la purezza della stirpe vagheggiata da certa storiografia sarebbe dunque un mito. E anche la divinità che proteggeva i Dori d’Asia, e i Dori in generale, era Apollo, il quale, oltre a non avere un nome greco, proveniva probabilmente dalla Caria, in Asia Minore. A lui era dedicato il tempio di Capo Triopio, centro cultuale e sacro dell’«Esapoli dorica».


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dèi maggiori si spartirono cielo, mare e terra, il Sole (Helios) fosse assente. A seguito delle sue lamentele, gli altri dèi si accingevano quindi a ridistribuire il tutto, quando Helios «disse di vedere all’interno del grigio mare una terra levarsi dal fondo, emergere una terra propizia alle greggi e prospera all’uomo». Infatti prima di allora Rodi «ancora non emergeva sulle distese marine: l’isola restava celata negli abissi salmastri del mare». Cosí, a quel punto Helios si accordò con Zeus affinché «una volta emersa alla chiara luce del giorno, l’isola restasse la sua parte, il suo privilegio per sempre». «Quei discorsi – continua Pindaro – culminarono nel vero, e si compí la sorte: come una rosa (rhodos), germinò dal mare umido l’isola, e la possiede il dio che dà vita ai raggi incandescenti, l’auriga dei cavalli che respirano il fuoco»(traduzione di Guido Bonelli, Bompiani, Milano 1991). Chi oggi visiti Rodi, la trova circonfusa di una luminosità intensissima, infinita, che ben giuSulle due pagine: antica Rodi. Le colonne superstiti del tempio di Apollo ricollocate nella loro posizione originaria.

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stifica la sua consacrazione al Sole. Abitata in origine, secondo la leggenda, dai demoni Telchini, maestri per gli uomini delle tecniche, tra le quali la statuaria, divenne in effetti in epoca storica l’officina di alcune delle statue piú celebri dell’antichità, come il Laocoonte dei Musei Vaticani e il perduto Colosso di Rodi, una delle Sette Meraviglie del mon-

In alto: l’acropoli di Lindos, sull’isola di Rodi, ai cui piedi sorgono le case dell’abitato moderno.

do. Moderne raffigurazioni del volto del Sole, incorniciato dai suoi raggi stilizzati, ingentiliscono ancora oggi gli edifici pubblici in stile misto (un po’ razionalista, un po’ déco e arabeggiante) costruiti durante l’occupazione italiana del Dodecaneso (1912-1943).

BIANCORE ABBAGLIANTE Tappa obbligata per i turisti è l’escursione sull’acropoli di Lindos. Un interesse ben meritato, poiché gli edifici e le terrazze a piú livelli che attorniano il tempio di Atena Lindia, oggetto di un recente restauro, si esaltano sotto il sole del mezzodí, sempre battuti dal vento, per il biancore abbagliante e la purezza delle linee architettoniche. Durante l’ascesa molti si fermano ad ammirare la grandiosa e spettacolare raffigurazione di una trireme (la tipica nave da guerra ellenica) scolpita a rilievo sulla roccia: un vero e proprio emblema dei «Dori sul mare» (vedi box a p. 100). L’antica Rodi, tuttavia, non finiva a Rodi.Vi era infatti la cosiddetta Peraia (terra al di là del mare) Rodiese. Sorgeva su quella «protrusione» dell’Anatolia nell’Egeo che culmina nel Capo Triopio, ove si levano i resti dell’antica Cnido. Questo promontorio ancora in gran parte selvaggio, che si affaccia tra le isole di Kos e Tilos, era il grande spartiacque che segnava per i naviganti il passaggio tra l’Oriente del Mediterraneo e l’Egeo. Un luogo a r c h e o 97


SPECIALE • DORI SUL MARE

strategico, dotato di due porti contrapposti, uno militare e l’altro civile, collegati in antico da un canale (oggi tra di essi vi è un istmo di sabbia). Proprio qui, secondo molti, si svolgevano le feste di Apollo in cui i Dori dell’Esapoli si riunivano per gareggiare in agoni equestri, ginnici e musicali. Secondo altri, i giochi si svolgevano invece nei pressi dell’attuale cittadina turca di Datça, a circa metà altezza della lunghissima e stretta penisola (che oggi i Turchi chiamano Resadiye). Chi voglia ammirare lo spettacolo naturale e la posizione invidiabile della confederazione dorica sui mari, deve entrare nell’area archeologica e salire i terrazzamenti della Cnido classica, raggiungere la piattaforma circolare che proteggeva, come in un castone, l’Afrodite

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I resti del tempio di Atena Lindia, sull’acropoli di Lindos (Rodi).

prassitelica (la prima, scandalosa dea nuda dell’antichità) e affacciarsi su questa estremità d’Asia incuneata tra le isole. Non è un caso che, nel 394 a.C., proprio qui di fronte si svolse la battaglia in cui l’ateniese Conone pose fine alla supremazia marittima che gli Spartani, vincitori della guerra del Peloponneso, avevano detenuto per un breve lasso di tempo. Le altre due città della confederazione erano Kos, sull’isola greca omonima, e Alicarnasso, l’odierna Bodrum turca. Sono talmente famose e importanti che basta un cenno al ruolo fondamentale che hanno ricoperto nella storia. Sono ben visibili l’una dall’altra, come ho potuto constatare nell’estate del 2015, quando ogni notte centinaia di profughi dalla Siria, dall’Iraq, da altri Paesi dell’Asia sud-occiden-


tale attraversavano, a rischio della vita e pagando 1000 euro a testa, lo stesso tratto di mare che io, occidentale in regola e munito di passaporto, varcavo per 10 euro su un confortevole battello in pochi minuti di navigazione.

MONDI CHE SI SFIORANO Qui, oggi come sempre, i due continenti si sfiorano, fin quasi a toccarsi. Qui, un tempo, dalla sponda asiatica, Erodoto di Alicarnasso poneva le basi delle moderne scienze umane, raccontando, nel piú antico libro di storia dell’umanità, vicende decisive che per la prima volta non erano né arida cronaca celebrativa, né propaganda incensatrice di un monarca. Dalla contrapposta sponda di Kos, nel santua-

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SPECIALE • DORI SUL MARE

DA MINOSSE A DIAGORA Piú discreta e meno frequentata di Lindo, ma altrettanto spettacolare, è l’antica città rodia di Kamiros. Eppure qui – a differenza di Lindo, dove, a parte l’acropoli, i resti della città sono sparsi nell’abitato moderno – l’impianto urbanistico è leggibile nella sua interezza, addossato al costone di una collina su vari livelli costruttivi. Ialissos, la terza delle città arcaiche rodiesi che prendevano nome dai nipoti di Helios, collocata sulla cresta del monte Filerimos, è la piú antica e storicamente importante. Fin dal nome, dal tipico suffisso in -ssos, rivela

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una probabile origine minoica. Del resto, un secondo «ponte» di terre costituito da altre due isole doriche, Kassos e Karpathos, collegava per i naviganti di ieri e di oggi la grande Rodi all’ancor piú grande Creta, e piú esattamente alla sua estremità orientale. Sul lungomare occidentale di Rodi, sovrastato dal Filerimos, un monumento moderno ricorda il personaggio antico piú rinomato di Ialissos: il pugile Diagora. È colto nel momento in cui i suoi due figli, anch’essi atleti olimpionici, lo portano in trionfo, dopo aver emulato le vittorie paterne negli agoni panellenici.


Nella pagina accanto: Rodi. Il monumento moderno in onore del pugile Diagora. A destra: Kamiros, la zona monumentale della città; sulla sinistra, si riconoscono i resti di un santuario con numerosi altari. In basso: Kamiros, area sacra con altari. Il piú lungo, sulla sinistra, è dedicato a Helios.

rio dedicato ad Asclepio – figlio guaritore dell’Apollo-Helios venerato dei Dori – quasi contemporaneamente Ippocrate poneva le basi della scienza medica moderna, che per la prima volta non era né suggestione scandita da oscure formule magiche, né somministrazione di ataviche, improbabili pozioni.

La nostra civiltà europea non è nata in un cuore impervio e segreto del continente da cui sarebbero provenuti i Dori, ma, paradossalmente, sui frastagliati e baluginanti confini, aperti ai mari, ai popoli e ai venti, dove da sempre Asia ed Europa si confrontano e s’incontrano.

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IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

CHE BELLO, È KITSCH! LA VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO CULTURALE PASSA INNANZITUTTO PER LA DIFFUSIONE DELLA SUA CONOSCENZA. MA PER INGROSSARE LE FILE DEI FRUITORI DI MUSEI E MONUMENTI, È LECITO RICORRERE A QUELLA CHE IL CRITICO GILLO DORFLES DEFINÍ UNA «VERSIONE DEGRADATA DELL’ARTE»?

N

ei mesi scorsi, l’Università di Macerata ha ospitato un convegno sulla valorizzazione del patrimonio culturale, e quindi anche sulla gestione dei musei, che ha dato vita a un dibattito acceso e molto interessante. Dal Museo del Belvedere di Vienna (1 300 000 visitatori all’anno, 10 milioni di euro di budget provenienti dall’attività del museo stesso: biglietti, shop, affitto di sale per costosi matrimoni di chi si voglia sposare nel castello vicino al celeberrimo Bacio di Gustav Klimt) è arrivato un sasso nello stagno, che dice piú o meno cosí: «Anche noi capiamo che produrre bicchieri con il Bacio di Klimt per venderli nello shop è un’operazione kitsch, però i turisti li comprano, e se non siamo noi a venderli, lo farà un negozio dall’altra parte della strada». La provocazione ha suscitato un’immediata obiezione: «Perché dobbiamo accontentarci del fatto che, siccome gli altri vendono con profitto oggetti kitsch, e il museo deve guadagnare, anch’esso offra prodotti kitsch? Non sarebbe meglio educare il gusto del pubblico? Perché, pur di ottenere un ricavo, dobbiamo assecondare l’ignoranza piuttosto che risvegliare l’esigenza di cultura?». Domande legittime, alle quali si è replicato con altrettanta chiarezza: «Certo, sul kitsch è difficile trovare la linea giusta… Però è piú importante decidere che cosa fare con quei

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guadagni. Usiamo i soldi per pagare il lavoro scientifico serio e finanziare altri progetti di ricerca. Un museo, oggi, è ben piú di un insieme di quadri sul muro, dev’essere un luogo nel quale si può trascorrere un’intera giornata, che può prestarsi a concerti e spettacoli teatrali, in cui si possono comprare oggetti e dove è anche possibile lasciare i bambini soli per qualche ora, mentre i genitori visitano le sale».

LE MISSIONI DI UN MUSEO Insomma, chi, per esempio, entra nel Palazzo Ducale di Urbino, deve uscirne sapendo chi era Raffaello, poiché questa è certo una delle prime missioni del museo, ma il modello proposto si pone, senza

ipocrisie, in un’economia di mercato. E quindi non si scompone se il museo entra in concorrenza con il commercio del kitsch, che ormai è presente anche dentro il sistema dei beni culturali. Vogliamo usare i musei per eliminare la paccottiglia? Probabilmente non ci riusciremo, anche se molti di noi lo desidererebbero, cosí come vorremmo che i programmi televisivi di qualità riducessero la produzione di trasmissioni che ci sembrano di cattivo gusto. Il dibattito ha tirato dunque in campo un concetto, il kitsch, che merita d’essere approfondito. Mezzo secolo fa, il critico d’arte Gillo Dorfles lo definí come una versione degradata dell’arte, una


Nella pagina accanto: Vienna, Museo del Belvedere. L’utilizzo di un tablet per accedere alle informazioni sul Bacio di Klimt. A destra: la vetrina di un negozio di souvenir. In basso: taccuini facenti parte del merchandising del Parco Regionale dell’Appia Antica di Roma.

forma di suo impoverimento diffusasi nel corso del Novecento con l’avvento dei mezzi di riproduzione meccanici di carattere industriale: un fenomeno dunque strettamente connesso con le problematiche della società dei consumi. Il kitsch nacque come un surrogato della produzione artistica, una sua volgarizzazione per fini speculativi, capace di ridurre le opere d’arte a oggetti privi di valore artistico (pensate alla Torre di Pisa in forma di souvenir) per via di una mistificazione che, anziché aumentarne la carica informativa, la diminuiva. Tuttavia, nella nascita del kitsch fu visto anche il riflesso della sempre

piú diffusa incomprensione per le forme artistiche d’élite e della diffusione di nuove modalità espressive, capaci di rispondere ai gusti di settori sempre piú ampi della popolazione. Il kitsch – diceva Dorfles – è il «pasto estetico» delle maggioranze, ignorato dagli intenditori, «i quali, forti di una loro competenza esclusiva in materia, non degnano nemmeno di un’occhiata il romanzo da quattro soldi, il paesaggio dilettantesco, la canzonetta di moda, il fumetto», impegnati come erano – e come sono – a rifiutare quanto non sia elitario, in difesa del proprio status.

ARTE E NON ARTE Ma il kitsch è stato anche un modo attraverso il quale le nuove forme espressive si sono distaccate dai canoni estetici tradizionali, che facevano da fondamento alla distinzione tra arte e non arte. Nel corso del tempo le immagini proposte dalla pubblicità, dai rotocalchi, dalla fantascienza o dai

fumetti si sono trasformate in uno dei principali mezzi di comunicazione dei modelli culturali diffusi dalle televisioni, dai videogiochi, dalla rete. Rifiutato in nome di un’arte sempre piú distante dai gusti del pubblico, il kitsch ha insomma assunto un ruolo rilevante nella formazione del gusto diffuso, esprimendo la tendenza verso un cambiamento radicale della funzione stessa dell’oggetto artistico, come ha fatto per certi versi la Pop Art, svelando il quoziente estetico insito nella produzione industriale. Intendiamoci, il cattivo gusto certamente esiste e non basta condannarlo: occorre piuttosto capirne origini e motivazioni, interrogandosi su come sia possibile educare al gusto nelle società contemporanee, «con apertura e tolleranza – scrive Anna Zinelli – a prescindere da ciò che si reputa arte e ciò che si reputa kitsch». In conclusione, non c’è in sé nulla di male se dentro un museo si

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Alcuni dei prodotti che si possono acquistare nello shop del Museo Egizio di Torino. vendono merci che si trovano anche altrove; tuttavia, credo che un museo, di qualunque tipo, realizzi la sua funzione piú vera quando sa proporsi come un luogo in cui si cerca di raggiungere l’armonia che nasce dalla possibilità di percepire l’equilibrio che regola i contesti: un museo, dunque, dove sia difficile incontrare distonie, dove non dovrebbero essercene, dove il contesto riesce a rappresentarsi esteticamente. La merce venduta in un museo dovrebbe essere quindi tendenzialmente omologa alla raccolta che la propone, merceologicamente armonica. In questo senso, mi pare logico che il museo si candidi come luogo che sappia proporre prodotti di qualità. Detto in termini di economia aziendale, dobbiamo insomma fare attenzione – come suggerisce Massimo Montella – a che i prodotti

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kitsch offerti in un museo non sviliscano il prestigio del brand. L’importante è che la forma, la grafica, il colore e tutto quanto caratterizza un souvenir o quanto altro possiamo acquistare nel bookshop di un museo, non tolgano valore alla sua offerta, non ne sminuiscano il prestigio e l’immagine, anzi, la rafforzino, diffondendola nel modo piú ampio e veritiero possibile.

UN VALORE PRIMARIO Questo obiettivo serve a far sí che il pubblico del museo, e non solo quello, sappia che lí può effettivamente trovare qualcosa di meglio della solita paccottiglia, e si domandi perché mai, proprio nel museo, ci sia effettivamente qualcosa di meglio. Sí che in quel museo abbia voglia di tornare, non per comprare, ma per vedere perché mai questo luogo proponga

cose di migliore qualità. È un po’ anche questa la sfida che abbiamo di fronte. Non dobbiamo né spaventarci né vergognarci se il museo entra nell’arengo commerciale con l’irruenza che serve nel primo caso, ma dobbiamo proporci che porti con sé anche quest’altro valore aggiunto, che è un valore primario. Ed è questo il compito degli addetti ai lavori. In un Paese nel quale autorevoli direttori di celebri raccolte hanno spesso dichiarato che i musei sono belli quando sono vuoti, la mia speranza è che chi è libero da questa visione sacrale dell’arte e della cultura possa assumere un atteggiamento piú laico nella gestione dei musei, riconoscendoli come servizi pubblici e non come luoghi di culto. Porte aperte, dunque, senza paure, con maggiore fiducia nel pubblico e in noi stessi.



QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

…S’ABBANDONAVA AL SOLLIEVO DELLA «PENNICHELLA» IL RIPOSO POMERIDIANO ERA UNA SORTA DI «ISTITUZIONE» PER I ROMANI: NESSUNO SAPEVA RINUNCIARVI E VENIVA CONSIDERATO UN DIRITTO PERFINO PER I GLADIATORI E PER GLI SCHIAVI. MA NON MANCARONO I CASI IN CUI ASSOPIRSI DOPO IL PRANZO SI RIVELÒ UN TRAGICO ERRORE...

«S

e non potessi interrompere una giornata estiva con il mio naturale sonnellino pomeridiano, non potrei vivere», scrive Varrone (De re rust. I, 2, 5). E non ci potrebbe essere piú esplicita e diretta testimonianza circa l’esistenza, nell’antica Roma, di un’abitudine al riposo di metà giornata corrispondente a quella «siesta» che gli Spagnoli rivendicano come propria «invenzione» vantandola alla stregua di «un grande contributo iberico alla civiltà». Un riposo meno praticato in inverno, quando non faceva caldo e le giornate erano brevi, ma indispensabile nella bella stagione, come conferma in una sua lettera Plinio il Giovane (Ep. VII, 4, 4): «Poi, a mezzogiorno, era infatti estate, essendomi ritirato per riposare e non venendo il sonno». Per dirla in dialetto romanesco, si trattava della «pennichella» o «pennichetta» (e, piú brevemente, «pennica», oggi a molti negata dalla famigerata «pausa pranzo» che costringe a una pronta ripresa del lavoro interrotto). Per gli antichi era il somnus meridianus o meridiatio: una denominazione che riportava direttamente al mezzogiorno (meridies, donde pure il verbo meridiare o meridiari). Si trattava infatti di un «momento» a metà

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della giornata che, iniziata alle prime luci del giorno per terminare al calar delle tenebre, era divisa, secondo l’uso greco, in dodici parti, dette horae. Le quali erano di diversa durata a seconda delle stagioni e della lunghezza del giorno (o della luce diurna). Il mezzogiorno era perciò segnato dallo scadere dell’hora sexta, che cosí veniva detta – come per qualsiasi altra ora – solo al suo compimento. Cosí come si faceva – e si fa ancora – per indicare l’età di una persona (della quale si dice, per esempio, che ha ventuno anni quando questi sono stati compiuti e, mentre il ventunesimo è in corso, si dice che ne ha venti, fino al giorno del «compleanno»).

RIPOSO PER TUTTI Gli antichi dicevano dunque hora sexta per indicare il lasso di tempo che andava, per dirlo alla nostra maniera, dalle 12,00 alle 13,00. Ed era quello durante il quale la gente smetteva di lavorare, chiudevano botteghe e uffici, i bambini lasciavano la scuola e, dopo un pasto rapido (prandium), consumato spesso fuori di casa, in una popina per la strada, ci si abbandonava al riposo postmeridiano. Un riposo che, in linea di massima e salvo le inevitabili eccezioni, era concesso a tutti.

Riposo di mezzogiorno, olio su tela di John William Godward. 1910. Collezione privata.


Scrive in proposito Marziale (IV, 8, 4): «(fino) all’ora quinta Roma svolge varie attività; la sesta è di riposo per coloro che sono stanchi (sexta quies laxis)». Non lo disdegnavano nemmeno gli imperatori. Tanto per fare qualche esempio, attingendo alle biografie di Svetonio (Aug. LXXVIII e Cl. XXXIII), Augusto «si limitava a riposare appena un po’ (paulisper conquiescebat), restando vestito e calzato e riparandosi gli occhi con una mano». Claudio, invece, «si sdraiava immediatamente, supino e dormendo a bocca aperta». Vespasiano (Vesp. XXI) «dopo aver sbrigato tutte le pratiche che gli si presentavano», si faceva portare a spasso in lettiga e poi «andava a riposare» (quieti vacabat),

«facendosi sdraiare a fianco una concubina». A qualcuno, però, quell’abitudine finí col risultare nociva, poiché si trasformò nell’occasione che ne favorí l’assassinio.

SONNI FATALI Come nei due casi, ricordati dalla Historia Augusta, di Severo Alessandro, ucciso nella tenda imperiale, dopo aver consumato il pasto militare cum quiesceret post convivium hora diei ferme septima («mentre riposava dopo il pranzo circa all’ora settima»), da un soldato ingressus dormientibus omnis («entrato mentre tutti dormivano»). E di Massimino Trace, ucciso dai suoi soldati «che si gettarono su di lui e su suo figlio,

mentre si godevano il riposo pomeridiano». Del tutto normale per i membri dell’aristocrazia e delle classi agiate, ma praticata anche da artigiani e operai, la meridiatio non si negava nemmeno agli schiavi ed era concessa pure ai gladiatori, durante lo svolgimento dei ludi nell’ora in cui, del resto, molti spettatori abbandonavano, seppur temporaneamente, gli spalti. Ne godevano perfino i soldati, in... zona di operazioni. Basterebbe citare Cesare: «Mentre i nostri se ne stavano rilassati e tranquilli, d’improvviso, verso mezzogiorno (meridiano tempore), in un momento in cui alcuni s’erano allontanati e altri si stavano riposando, dopo le lunghe fatiche,

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nel luogo stesso dei lavori» (Bell. civ. II, XIV). Oppure: «Gli assediati approfittarono dell’occasione propizia del mezzogiorno (meridiani temporis)» (ibid. III, IX). Per non dire di quel che successe nella calda giornata del 24 agosto del 410, quando i Goti che la assediavano poterono entrare in Roma anche approfittando della meridiatio. Racconta infatti Procopio (Bell. vand. I, 2) che Alarico avrebbe inviato nelle case di illustri senatori trecento dei suoi uomini come (finti) schiavi che poi, «mentre i padroni dopo il pranzo riposavano», avrebbero aperto ai propri commilitoni la Porta Salaria dopo essersi agevolmente sbarazzati dei custodi.

NELLE ORE DEL POMERIGGIO A questo punto resta solo da precisare che il riposo pomeridiano, nell’antica Roma, non fungeva da semplice pausa e da «intervallo» tra gli impegni lavorativi di un’intera giornata. Esso rappresentava, di norma – e di fatto – una vera e propria «cesura»: una separazione netta tra il «lavoro», che occupava le prime sei ore del giorno (ante meridiem) – quelle che davano luogo a una normale e «buona giornata lavorativa» (solidus dies) – e il «tempo libero» che, dopo la meridiatio, significava per tutti occupare al meglio le restanti sei ore (post meridiem) del giorno. O meglio, arrivare a metà pomeriggio, alla fine dell’hora nona, cioè alle 16,00 dei nostri orologi, quando ci si preparava ad andare a cena (cena), l’unico pasto vero e sostanzioso della giornata, che cosí normalmente si

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concludeva, immediatamente prima del riposo notturno. Per occupare il tempo libero, nella Roma dell’età imperiale, non v’era alcun problema. A parte il piacere di fare una passeggiata, incontrare gli amici, conversare del piú e del Statuetta raffigurante un piccolo schiavo addormentato, rinvenuta nel 1890 nel letto del Tevere, presso il Ponte Palatino. I-II sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.

meno sotto i portici di cui la città era piena o nei giardini e nei fori, due erano le possibilità alla portata di tutti ed entrambe di grande attrattiva e soddisfazione. Tali, in ogni caso, da rappresentare un’autentica alternativa al lavoro e una «ricreazione», nel vero senso della parola: una valida tutti i giorni, l’altra talmente frequente da comportare non di rado la necessità – e l’imbarazzo – d’una scelta. Tale era il caso degli spettacoli, del circo e dell’anfiteatro (le corse dei carri e le cacce alle fiere e i combattimenti dei gladiatori) che nel corso dell’anno arrivarono a superare i centocinquanta «appuntamenti». Ma la meta quotidiana del pomeriggio erano tuttavia le terme. A esse, infatti, ci si recava non solamente per la cura del corpo, prendendo uno o piú bagni e facendo ginnastica, ma per fare molto di piú. Per passeggiare e incontrare persone e fare nuove conoscenze, discutere e trattare di affari (e di politica), commentare i fatti del giorno e fare pettegolezzi, cercare appoggi e raccomandazioni, scommettere sulle corse del circo... E anche per giocare, mangiare e bere, assistere a spettacoli, ammirare opere d’arte, ascoltare musica, conferenze, letture e pubbliche declamazioni. E magari procurarsi un invito a cena, che per molti era poi lo scopo principale della quotidiana frequentazione dei bagni.



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

SIGNORA DELLE MESSI FRA LE MONETE RAFFIGURANTI I SEGNI ZODIACALI, RARISSIME SONO QUELLE CON L’IMMAGINE DELLA VERGINE. DI CUI, PERÒ, RIVELA LO STRETTO LEGAME CON DEMETRA/CERERE, PATRONA DELLA NATURA

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uando aveva appena quindici anni, Giacomo Leopardi, in soli sei mesi, scrisse una Storia dell’astronomia dalla sua origine sino all’anno 1811, conclusa nel 1813, ma edita postuma nel 1880. Contraddistinto dall’analisi minuziosa delle fonti antiche

Cratere a campana a figure rosse del Pittore di Persefone raffigurante Persefone, Hermes, Ecate e Demetra. 440 a.C. circa. New York, Metropolitan Museum of Art.

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raccolte nella ricca biblioteca paterna e ispirato dalla luna di Recanati e da fenomeni astronomici come l’apparizione di una cometa nel 1811, questo lavoro è testimone della profondità analitica, dell’erudizione eccezionale e della modernità di

indagine che permisero al giovanissimo letterato di affrontare aspetti insoliti della scienza quali la vita extraterrestre, l’immensità dell’universo e, naturalmente l’astrologia. Quest’ultima viene rigettata senza appello da Leopardi, che la


Dracma di Antonino Pio della serie dello Zodiaco. Zecca di Alessandria, 144-145 d.C. Al dritto, la testa laureata dell’imperatore, con iscrizione; al rovescio, donna ammantata che tiene una lunga torcia nella destra e due spighe di grano nella sinistra; sulla testa ha una stella a otto raggi. Di fronte a lei, il busto di Hermes/Mercurio, con una corona a terminazione a fior di loto e caduceo. definisce «parto infelice dell’umana ambizione e follia», che anela e crede possibile avere cognizione del futuro attraverso le stelle. Il poeta giunge a tale conclusione dopo avere ben indagato l’intero Zodiaco con i suoi segni, che è parte integrante della scienza astronomica degli antichi: «La invenzione e l’origine dei segni dello Zodiaco merita anch’essa una particolare osservazione (…) La Vergine, che porta in mano spighe, esprime chiaramente la mietitura. Il nome Erigone dato alla Vergine, il quale significava in Oriente color rosso, indica le spighe, le quali nella loro perfetta maturità esser denno rosseggianti, secondo attesta Virgilio: Rubiconda Ceres medio succiditur aestu». Il prossimo 22 agosto entreremo ancora una volta nel segno della Vergine, che comincia a mitigare la calura e annuncia il piacevole clima settembrino e, una volta, i lavori agricoli della stagione. Le fonti greche e romane relative all’origine del segno zodiacale sono diverse e riportano, come si è già visto in altri casi, molteplici versioni mitiche, nelle quali vi si identifica di volta in volta la vergine divina Astrea-Dike – che abbandonò la terra disgustata dalla degenerazione degli uomini –, oppure l’infelice giovane Erigone – morta suicida per il dolore causato dall’ingiusta uccisione del

padre –, la piccola Parthenos – figlia di Apollo morta anzitempo –, o ancora Fortuna o Cerere (Igino, Astronomica, II.25 e Fabulae). La costellazione della Vergine è tra le piú grandi del firmamento e tra le sue stelle vi sono la luminosa Spica, il cui nome deriva dall’associazione del segno ai raccolti, e la Vendemiatrix, legata alla vendemmia.

LA TORCIA E LE SPIGHE Nella serie alessandrina dello Zodiaco battuta sotto Antonino Pio, Virgo viene raffigurata come una donna ammantata e con il capo velato, che tiene nella destra una lunga torcia (o forse uno scettro regale) e, nella sinistra, due grandi spighe, rivolte verso il basso. Sebbene in alcuni studi essa venga indicata come Atena, forse su suggestione del nome del segno, si tratta senza dubbio di un’immagine ispirata a Demetra/Cerere, come dimostrano gli attributi che la accompagnano. Le spighe simboleggiano il suo dono agli uomini della scienza agricola con le messi mature da raccogliere, ricordate da Virgilio e Leopardi, mentre la face richiama l’aspetto propriamente ctonio della dea, quando, a seguito del rapimento della figlia Persefone da parte di Plutone, signore dell’Ade, vagò disperata per ogni dove alla sua ricerca, illuminando l’oscurità

delle tenebre con lunghe torce resinose, aiutata anche dall’infera Ecate. E, se si tratta invece di uno scettro, esso sta a indicare la preminenza assoluta della dea nel pantheon antico. A differenza delle altre composizioni della serie dello Zodiaco, nelle quali il pianeta personificato sovrasta il segno, qui si assiste invece a un dialogo fatto di sguardi tra segno e pianeta, dato che il busto di Hermes/Mercurio è posto di fronte alla dea. Mercurio, infatti, domina il segno della Vergine, e qui potrebbe alludere alla sua qualità di psicopompo, colui che conduce le anime agli Inferi: come tale, ha familiarità con i due regnanti dell’Ade, e quindi può ben dare notizie alla madre della figlia regina, accompagnandola, una volta all’anno, dall’Oltretomba alla luce del sole. L’emissione dedicata alla Vergine è tra le piú rare della serie dello Zodiaco, ed è anche quella che iconograficamente si stacca dal motivo consueto formato dal segno sovrastato dal dio/pianeta. Ed è suggestivo ipotizzare che questa differenza sia stata volutamente realizzata dagli antichi incisori del conio per celebrare, con una piccola varietà compositiva, Antonino Pio, nato a Lanuvio (Roma) il 19 settembre dell’86, sotto il segno della Vergine.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Marcello Lupi

SPARTA Storia e rappresentazioni di una città greca Carocci editore, Roma, 222 pp., ill. b/n 17,00 euro ISBN 978-88-430-8553-8 www.carocci.it

Quella che lo stesso Marcello Lupi definisce la «rinascita degli studi spartani» è cominciata poco piú di trent’anni fa, eppure, nonostante si possa ancora considerare giovane, si tratta di un fenomeno che ha segnato un punto di svolta decisivo. La rilettura della storia di Sparta sta infatti sgombrando il campo dai non pochi stereotipi che si erano sedimentati nel corso dei secoli e in quest’ondata rinnovatrice si inserisce pienamente il saggio che l’autore pubblica ora per i tipi di Carocci. Inutile dire che Lupi, docente di storia greca all’Università degli Studi della Campania «Luigi

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Vanvitelli», non si limita a un semplice e meccanico rigetto di quanto fin qui teorizzato, ma opera un attento riesame della documentazione a oggi disponibile, per proporre un quadro degli eventi logico e verosimile. La trattazione si apre proprio con la disamina delle fonti che a tutt’oggi costituiscono uno dei nuclei essenziali nello studio del problema, trattandosi di quegli elementi che hanno contribuito in maniera decisiva a tratteggiare l’immagine (e le immagini) di Sparta che nel tempo è andata accreditandosi. Nei capitoli successivi, l’autore ripercorre la vicenda storica vera e propria, affiancando alla cronaca degli eventi l’approfondimento sui caratteri sociali, politici ed economici della società spartana. Né manca di analizzare gli aspetti che maggiormente hanno concorso a far sí che «spartano» divenisse sinonimo di un modus vivendi sobrio e austero, prima ancora che una qualifica di natura etnica. Nel IV secolo a.C. anche lo Spartan way of life entrò in crisi e, piú tardi, anche Sparta venne risucchiata nell’orbita della romanizzazione. Fino a che, intorno al 600 d.C., la città venne definitivamente abbandonata. Dopo l’oblio, venne il tempo della riscoperta, che fin da subito pose le

basi per l’idealizzazione e l’esaltazione degli Spartani e dei loro costumi (fra le quali spicca l’ipotesi, sostenuta da parte della storiografia tedesca, di considerarli antenati dei Germani). Una distorsione che Lupi contribuisce a correggere in maniera convincente e autorevole. Merita infine d’essere sottolineato come lo studioso lo faccia con un linguaggio che rende questo saggio accessibile e godibile anche per i non addetti ai lavori. Piú in generale, per tutti i lettori, il saggio offre una vasta e aggiornata bibliografia, alla quale attingere per i molti possibili approfondimenti. Stefano Mammini Toby Wilkinson

NILO L’Egitto antico raccontato dal suo grande fiume EDT, Torino, 350 pp. ill. col. 25,00 euro ISBN 978-88-5923-847-8 www.edt.it

Una storia plurimillenaria, densa di eventi e affollata da grandi personaggi

ha fatto sí che Egitto e Nilo divenissero quasi sinonimi: che si guardi all’età antica o a quella moderna e contemporanea, è impensabile parlare dell’uno senza tener conto dell’altro. Nasce da questa consapevolezza il volume di Wilkinson, che non si propone come una guida di tipo tradizionale, ma come un viaggio alla scoperta del grande Paese nordafricano compiuto sulle acque del fiume che lo attraversa e che, da sempre, è il suo straordinario «dono», come ebbe a dire lo storico greco Erodoto. L’autore del volume, egittologo di fama internazionale, propone dunque una risalita commentata del Nilo, affiancando alla descrizione dei siti e dei monumenti che via via s’incontrano notazioni che vanno oltre l’ambito strettamente archeologico e, fra le altre, non ignorano la complessa situazione politica e sociale in cui l’Egitto attualmente si dibatte. Ne risulta una lettura di grande interesse, che assegna innanzitutto il giusto risalto alla straordinaria stagione vissuta nei secoli dei faraoni, ma che offre continue occasioni di confronto e di riflessione. Un libro da leggere come auspicio di poter al piú presto ricalcare le orme di Wilkinson in piena serenità e sicurezza. S. M.



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