Archeo n. 391, Settembre 2017

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2017

MUSEO DELTA DEL PO

CASTRUM NOVUM

ICONA COLOSSEO

TORMENTA NAVALIA/2

SPECIALE GUBBIO ROMANA

Mens. Anno XXXIII n. 391 settembre 2017 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ETERNITÀ DI UN SIMBOLO

SPECIALE UN MUSEO PER LE ANTICHE CIVILTÀ DEL PO

CERVETERI

IL PORTO DEGLI ETRUSCHI

MERAVIGLIE DI GUBBIO ROMANA COMACCHIO

www.archeo.it

IN EDICOLA L’8 SETTEMBRE 2017

.it

GU S BB PE IO CI RO AL E ww M w. AN a rc A he o

ARCHEO 391 SETTEMBRE

COLOSSEO

€ 5,90



EDITORIALE

MOSAICI E DIRUPI In origine, il magnifico leone riprodotto in copertina faceva parte di un pavimento musivo del Teatro Romano di Iguvium, l’antica Gubbio, dove venne scoperto intorno alla metà del Cinquecento. L’opera, risalente al II secolo a.C., è di grande qualità artistica, tanto che, nel 1664, lo storico dell’arte Giovan Pietro Bellori ebbe a definirlo «un mosaico antico del miglior secolo de’ Romani». Ma dove è conservato il prezioso reperto? Non in Italia, come si potrebbe supporre, ma in un luogo piuttosto lontano dalla sua terra d’origine; fa bella mostra di sé in una sala di Holkham Hall, nobile residenza in stile palladiano situata sulla costa orientale dell’Inghilterra. Un nome, in verità, che ai nostri lettori non dovrebbe suonare nuovo: qualche anno fa – e precisamente nel maggio del 2014 –, ne parlammo in un articolo dedicato a una raffinata mostra tenutasi al Museo Archeologico di Cortona, «Seduzione Etrusca» (vedi «Archeo» n. 351, maggio 2014). Argomento dell’esposizione era la passione per la civiltà dell’antico popolo italico, nata in Gran Bretagna tra Sette e Ottocento; e la residenza di Holkham Hall – insieme ai suoi nobili padroni e alle numerose e preziose testimonianze che di quell’epoca custodisce – ne era uno dei protagonisti principali. Per scoprire, però, come l’iguvino leone giunse nelle brumose terre del Norfolk, dovete andare al nostro Speciale (vedi alle pp. 82-104). Veniamo, ora, all’immagine di questa pagina, che ritrae la veduta, a volo d’uccello, di un antico borgo secentesco. Dove è situato e perché ne parliamo? Per rispondere dobbiamo, ancora una volta, «autocitarci». Il luogo si trova nella Maremma laziale – come abbiamo riferito in un nostro numero, sempre del 2014 (vedi «Archeo» n. 352, giugno 2014) – anzi, si trovava. Perché l’antica Castro, ecco il suo nome, è una «città fantasma», un affascinante luogo di rovine medievali e antiche nascoste da una vegetazione impenetrabile. Il viaggiatore e archeologo inglese George Dennis (1814-1898) scrive nella monumentale opera Città e necropoli d’Etruria che «in nessun luogo il bosco e piú buio e piú denso, (…) i dirupi piú neri e minacciosi». Agli inizi dello scorso agosto è stato ufficialmente inaugurato il Parco Archeologico Antica Castro. Un evento che avevamo preannunciato e che, nelle parole del suo direttore scientifico Carlo Casi, «segna, finalmente, la rinascita della «Cartagine di Maremma». Per prenotare la visita: tel. 0766 89298 o 870179 (www.vulci.it, e-mail: info@vulci.it) Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE Mosaici e dirupi

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

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SCOPERTE Un’iscrizione funeraria scoperta nei pressi di Porta Stabia, a Pompei, offre una testimonianza inedita sulle sanzioni adottate dopo la celebre rissa fra Pompeiani e Nucerini nell’anfiteatro 6 A TUTTO CAMPO Un importante progetto multidisciplinare ricostruisce la storia della produzione mineraria e metallurgica della Toscana 14 PAROLA D’ARCHEOLOGO Civitavecchia rende omaggio a Traiano, l’imperatore che per primo la dotò di un porto 18

MOSTRE Approda a Napoli «Il mondo che non c’era», la mostra che presenta una ricca selezione dei materiali precolombiani appartenenti alla Collezione Ligabue 26

MOSTRE/1

Restauro e vecchi biglietti

56

di Sergio G. Grasso

DA ATENE

Bentornati, ragazzi! 30 di Valentina Di Napoli

MUSEI

Dove il fiume incontra il mare

34

di Stefano Mammini

56 MOSTRE/2

34

Il piú potente dei simboli

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a cura di Stefano Mammini

SCAVI

La colonia ritrovata di Flavio Enei

46

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In copertina emblema a mosaico con l’immagine di un leone ruggente, dal Teatro Romano di Gubbio. II sec. a.C. Holkham Hall (Norfolk, Inghilterra), Long Library.

Anno XXXIII, n. 391 - settembre 2017 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Amministrazione: Roberto Sperti

amministrazione@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale

Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Luisa Dallai è archeologa e coordina il Laboratorio di Topografia dei Territori Minerari dell’Università degli Studi di Siena. Valentina Di Napoli è archeologa. Flavio Enei è direttore del Museo del Mare e della Navigazione Antica (Museo Civico di Santa Marinella, Roma). Federico Fioravanti è giornalista e ideatore del Festival del Medioevo. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Massimo Osanna è direttore generale del Parco Archeologico di Pompei. Giuliana Rigamonti è egittologa. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Illustrazioni e immagini: Alamy Stock Photo: Lebrecht Music and Arts Photo Library: copertina (e p. 93) – Doc. red.: pp. 3, 64 (alto), 108 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 6-9 – Cortesia degli autori: pp. 10 (basso), 11, 12, 14-15, 46-47, 48, 48/49, 50-55, 81 (basso), 84-88, 90-92, 98-101, 104, 106, 111 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 16, 26-27, 56-61 – Cortesia Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno Centro-Settentrionale: pp. 18-20 – Valentina Di Napoli: pp. 30-31 – Stefano Mammini: pp. 34/35, 36, 40, 42 – Cortesia Museo Delta Antico, Comacchio: pp. 35, 38-39, 41, 43 – DeA Picture Library: S. Vannini: p. 49 – Cortesia Ufficio Stampa «Colosseo. Un’icona»: pp. 65 (basso), 66 (basso), 69 (basso), 70, 72/73; cortesia Antichità Alberto Di Castro, Roma: pp. 62/63; Andrea Jemolo: pp. 63, 65 (alto), 66 (alto), 67 (alto), 68, 69 (alto); Bruno Fruttini: pp. 64 (basso), 71; restituzione grafica di Emanuel Demetrescu: p. 67 (basso) – Flavio Russo: pp. 74, 77, 78, 80, 81 (alto) – Bridgeman Images: pp. 74/75, 96 – Mondadori Portfolio: AKG Images: p. 76; AGE: p. 89; Archivio Magliani/Mauro Magliani & Barbara Piovan: p. 110 – Carlo Vitiello: p. 79 – Marka: Frank Fleischmann/ImageBROKER: pp. 82/83 – Cortesia Lord Leicester and the Trustees of the Holkham Estate: pp. 94/95 – Shutterstock: pp. 97, 107 – Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria, Perugia: pp. 102-103 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 10, 43. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.


ARCHEOTECNOLOGIA Scatti vincenti

74

di Flavio Russo

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74

SPECIALE

Iguvium, alleata fedele

Rubriche

di Federico Fioravanti

IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Appartengo, dunque sono

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LIBRI

SCAVARE IL MEDIOEVO 106

di Daniele Manacorda

Tutti i colori del duca

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di Andrea Augenti

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

106

Fra giustizia e bellezza

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di Francesca Ceci

Editore: My Way Media S.r.l. Direttore generale: Andrea Ferdeghini Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Concessionaria per la pubblicità extra settore: Lapis Srl Viale Monte Nero, 56 - 20135 Milano tel. 02 56567415 - 02 36741429 e-mail: info@lapisadv.it Pubblicità di settore: Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com tel. 335 8437534 Direzione, sede legale e operativa Via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano tel. 02 00696.352 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa: NIIAG Spa - Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18 ] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano

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Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 E-mail: collez@mondadori.it Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti casella postale 1879, 20101 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


n otiz iari o SCOPERTE Pompei

NIGIDIUS, UN MISTER BARNUM AI PIEDI DEL VESUVIO Le attività di scavo connesse alla ristrutturazione degli edifici demaniali prevista dal Grande Progetto Pompei, nell’area di San Paolino (presso Porta Stabia, uno degli accessi all’antica città), hanno portato alla scoperta di una tomba monumentale in marmo, con la piú lunga epigrafe funeraria finora ritrovata nella città vesuviana. Pubblichiamo dunque volentieri le prime considerazioni di Massimo Osanna, Direttore Generale del Parco Archeologico di Pompei, sull’importante acquisizione. La nuova tomba monumentale di Porta Stabia, realizzata poco prima dell’eruzione (motivo per cui si conserva in maniera eccezionale), rivela nuovi rilevanti dati sulla

storia degli ultimi decenni di Pompei. Si tratta di un’iscrizione sepolcrale nella forma delle res gestae (ovvero recante la descrizione delle imprese realizzate in vita). Le iscrizioni sepolcrali contengono solitamente il nome del defunto, possono o meno indicarne l’età, la condizione sociale e la carriera o altre notizie biografiche. Per i magistrati, la citazione delle attività svolte si riassume nel cursus honorum (la carriera pubblica); altri riferimenti sono piuttosto rari. Nel nostro caso, invece, viene fatto l’elogio del defunto, cosa che a Pompei non ha confronti. Sono ricordate azioni e attività realizzate in occasione di momenti importanti della sua biografia: l’assunzione

A destra: la tomba monumentale rinvenuta presso Porta Stabia, che probabilmente accolse l’impresario Cn. Alleius Nigidius Maius. In basso: un particolare dell’iscrizione del sepolcro, che ha fornito la prima conferma dei provvedimenti adottati dal Senato romano dopo la rissa nell’anfiteatro del 59 d.C. della toga virile e le nozze. Eventi celebrati con atti di munificenza: un banchetto pubblico, elargizioni di danaro in argento; di monete ai magistrati delle associazioni, e, soprattutto, grandiosi giochi con combattimenti tra gladiatori e con bestie feroci. Si tratta di una pratica diffusa tra i possidenti per acquisire prestigio e promuovere la propria carriera politica e non è un caso che, come l’iscrizione riporta, il defunto abbia poi rivestito la carica di duoviro. Grazie alla citazione di eventi topici della vita del defunto, apprendiamo dati importantissimi sulla storia pompeiana anche con riferimenti al famoso episodio narrato da Tacito (Ann. XIV, 17), avvenuto nel 59 d.C., quando, durante uno spettacolo gladiatorio, scoppiò nell’anfiteatro una rissa che degenerò in uno

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scontro armato. L’evento richiamò l’attenzione dell’imperatore Nerone, che da Roma incaricò il Senato di indagare sul fatto. A seguito delle indagini dei consoli, come riporta Tacito, ai Pompeiani fu vietato di organizzare altre manifestazioni gladiatorie per 10 anni; le associazioni illegali furono sciolte; l’organizzatore dei giochi, l’ex senatore di Roma Livineio Regulo, e quanti avevano istigato il fatto furono esiliati. Fin qui il passo di Tacito, che però non è esplicito sulla sorte dei duoviri, asserendo solo, in maniera generica, che tutti quelli coinvolti furono banditi. Nella nostra iscrizione, che completa le informazioni di Tacito, si fa riferimento, per la prima volta, all’esilio che avrebbe colpito addirittura i due sommi magistrati in carica, ossia i duoviri della città.

In basso: la ripulitura dell’iscrizione della tomba, rinvenuta in eccellente stato di conservazione, poiché realizzata poco prima dell’eruzione del 79 d.C.

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L’iscrizione fornisce dunque dati inediti su un momento importante della storia politica e istituzionale di Pompei, restituendo lo scenario di un intrigo solo adombrato da Tacito. Altro dato straordinario è la possibilità, offerta dalla scoperta, di ricontestualizzare un pezzo importante, finito al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (MANN), alla metà del XIX secolo. In considerazione di quanto resta e delle tracce visibili, oltre che delle ricerche di archivio tuttora in corso, è piú che verosimile che la parte superiore della tomba, danneggiata dalla costruzione dell’edificio di San Paolino nell’Ottocento, fosse completata con un rilievo conservato appunto al MANN. Se si

In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto do dolorest lorest, ut exereca taspisci.

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Sulle due pagine: fotomosaico e due particolari del rilievo con scene gladiatorie e cacce di animali che con ogni probabilità apparteneva alla parte superiore della tomba scoperta presso Porta Stabia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. valuta il ruolo che gli spettacoli gladatori e le venationes hanno nell’elogio, si può ipotizzare che fosse ivi collocato il rilievo con scene gladiatorie e di cacce con animali conservato a Napoli. Il rilievo ha infatti dimensioni compatibili con il monumento, essendo lungo 4 m circa, e risponderebbe bene, nel tema, al ruolo del defunto come straordinario organizzatore di giochi. Del resto il rilievo, scoperto dal soprintendente Francesco Maria Avellino negli anni Quaranta del XIX secolo, fu rinvenuto fuori posto (per i danni evidentemente subiti dal monumento, a causa della costruzione di San Paolino), proprio nell’area di Porta Stabia. Ma chi era, dunque, il defunto? L’iscrizione, purtroppo, è priva

dell’elemento fondamentale, che ipotizziamo fosse collocato nella parte sommitale della tomba, quella non piú conservata. Data la tipologia del sepolcro, un quadrilatero dai lati concavi sormontato da un dado, infatti, poteva ben trovarsi su un blocco a parte, a caratteri piú grandi. Un indizio potrebbe essere fornito

dall’ubicazione del sepolcro in prossimità di quello già noto di M. Alleius Minius. Agli Alleii appartiene Cn. Alleius Nigidius Maius, uno dei personaggi piú in vista dell’età neroniano-flavia. Esponente della nuova classe dirigente che si afferma in quegli anni, Nigidius risulta acclamato piú volte a Pompei proprio come prodigo dispensatore di giochi, anzi si può dire sia stato il piú noto tra gli impresari di spettacoli gladiatori della città. Il personaggio poté affermarsi grazie all’estrema mobilità sociale di quegli anni e all’adozione da parte della importante famiglia degli Alleii. A lui apparteneva l’Insula Arriana Polliana (di cui fa parte la Casa di Pansa), di cui affitta tabernae cum pergulis suis et cenacula equestria et domus, come riporta un’altra epigrafe a lui riferita (CIL IV 138). Se l’identificazione col personaggio è corretta, abbiamo per la prima volta un titolo monumentale, poiché la sua carriera era finora nota solo attraverso le iscrizioni dipinte sui muri. Massimo Osanna

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SCOPERTE Egitto

MISTERIOSI RITRATTI SULLA ROCCIA

R

maschili, stanti e rivolte verso sinistra (la destra per chi guarda; si userà pertanto sempre questo orientamento) indossano un gonnellino lungo al ginocchio. Definirò «A» il primo personaggio Mar Mediterraneo

Cairo

Sinai

ARABIA S A U D I TA N ilo

ivolta a est e illuminata dal sole del mattino, la faccia liscia di un grande blocco domina la cava sottostante. È una cava di granito e granodiorite i cui massi lisci, disposti in circolo, determinano una conca centrale. Si trova su un’isola di forma allungata dalla conformazione biforme: a nord rigogliosa, a sud roccia pura. Poco distante da Assuan e protetta nella parte meridionale da alti canneti e da stretti bracci del Nilo, introduce ai successivi isolotti della Prima Cateratta. Sulla parete del grosso blocco, chi scrive ha di recente scoperto la presenza di tre graffiti: nell’angolo in alto, a destra, due figure

E G I T TO

Assuan Lago Nasser

Mar Rosso

di destra e «B» il secondo di sinistra. Mentre il gonnellino di A sembra presentare piú chiaramente lo sbuffo triangolare anteriore, quello di B è meno visibile dato il lieve danneggiamento della figura. I due personaggi impugnano nella mano sinistra un bastone del comando; quello di A, piú lungo, è sormontato da una presunta insegna che, indistinta poiché rovinata, assume la forma di un ventaglio semiaperto, mentre quello di B sembrerebbe una mazza con testa sferica. In relazione al contesto, i due personaggi rivestivano una carica di una certa importanza. In casi come questo – cioè in mancanza di geroglifico, incisioni e graffiti non chiaramente conservati e che probabilmente anche all’origine non erano perfettamente definiti –, è difficile fissare una cronologia precisa. Tuttavia, una figura simile per abbigliamento ad A è presente, fra altre, su un masso dello Wadi el-Hudi (35 km circa a sud-est di Assuan) e viene collocata nel Predinastico. In ogni caso, il confronto iconografico evidenzia similitudini e differenze fra le due figure, che qui riportiamo. 1. Entrambe le figure sono state realizzate a graffito pieno. 2. Si potrebbe ipotizzare che i due personaggi appartenessero alle categorie di capi/soprintendenti o ispettori delle phyle che lavoravano nella cava. Entrambi indossano il gonnellino con sbuffo anteriore, mentre il busto sembra nudo e privo di collana. A sinistra: Assuan (Egitto). L’egittologa Giuliana Rigamonti indica il masso roccioso sul quale sono state scoperte le figure graffite. Nella pagina accanto: una veduta ravvicinata dei graffiti.

10 a r c h e o


3. I due personaggi non indossano copricapi, né parrucche, e il profilo ondulato del capo di A farebbe pensare a una capigliatura corta e riccia. Quello di B, meglio definito, a una capigliatura cortissima o, addirittura a un capo rasato. In B si può intravvedere il profilo dell’orecchio destro. Il capo di B poggia su un collo lungo e snello e ciò induce alla sensazione che B possa essere piú giovane di A. 4. Il pessimo stato di conservazione del bastone di A suggerisce, infine, le seguenti ipotesi: se fosse stato uno stendardo con l’emblema del Distretto, avrebbe dovuto essere molto piú alto, invece termina all’altezza del volto di A; generalmente, il bastone del comando era privo di ornamenti in alto; non sembra che «l’emblema» sul bastone abbia subito scalpellature a causa di una damnatio memoriae, ma solo per l’usura del tempo; B impugna una mazza con testa tonda. Sotto i graffiti che ritraggono i due presunti funzionari, nell’angolo destro, si può vedere un secondo

gruppo, composto da 2/3 individui. Le figure sono tracciate in modo grossolano e solo nei contorni essenziali: testa e spalle da cui scendono lunghissimi arti inferiori. Il personaggio di destra impugna nella mano sinistra un bastone leggermente arcuato, che potrebbe essere un abbozzo di arco. Fra due personaggi, e piú vicino a quello di destra, una terza figura, incompleta, risulta di dubbia interpretazione. Potrebbe essere un individuo privo di capo, spalle e braccia; due linee laterali convergenti alla vita determinerebbero il busto, chiuso in basso da un tratto orizzontale (che prosegue oltre la vita verso destra) da cui scendono gli arti inferiori. Oppure potrebbe trattarsi della parte anteriore di un animale con lunghe corna, zampe anteriori e un breve tratto del dorso. Come si è detto, il personaggio di destra forse impugna un arco. Dalla qualità del disegno, sembra poco probabile che la mano che ha tracciato questo graffito sia la stessa del graffito superiore; inoltre

si può supporre che questo secondo graffito sia stato realizzato in un secondo tempo rispetto a quello superiore poiché i due personaggi raffigurati piú in alto, ricoprendo una carica, non avrebbero di certo consentito di farsi rappresentare sopra un graffito di bassa qualità artistica o addirittura non terminato. E ancora: gli Egiziani usualmente scrivevano, disegnavano o incidevano partendo sempre dall’alto. Un terzo graffito appare in alto, nell’angolo sinistro del masso. È inciso piú superficialmente dei precedenti gruppi e l’immagine ne risulta sbiadita. Rappresenta un personaggio stante e rivolto a destra (per chi guarda), impugna nella mano sinistra una mazza e indossa un gonnellino con sbuffo anteriore. In testa potrebbe portare un copricapo con un alto ornamento sulla parte anteriore. Questo graffito, per soggetto e qualità del disegno potrebbe essere coevo a quello dell’angolo superiore destro del masso. Giuliana Rigamonti

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MUSEI Sicilia

FENICI DI LAGUNA

I

l Museo Archeologico «G. Whitaker» nasce per accogliere i ritrovamenti della colonia fenicio-punica di Mozia ed è stato realizzato nel primi decenni del Novecento da Giuseppe Whitaker, nobile di nazionalità inglese, che acquistò l’isola di San Pantaleo, nella laguna di Marsala, dove iniziò le prime campagne di scavo per riportare alla luce l’antico centro. I materiali esposti sono solo una selezione di quelli ritrovati in un secolo d’indagini archeologiche, scelti per offrire una panoramica completa sulle dinamiche sociali dei Fenici che qui dimorarono tra l’VIII e il IV secolo a.C. L’esposizione si apre con la statua marmorea del Giovane di Mozia, capolavoro dell’arte greca della metà del V secolo a.C., rinvenuta nel 1979 nell’«Area K», un quartiere artigianale a nord del Santuario di Cappiddazzu: la scultura raffigura un giovane dal corpo slanciato e atletico in posizione eretta vestito con un chitone fittamente pieghettato e aderente che scende fino alle caviglie. Segue la sezione preistorica, che presenta reperti ceramici d’impasto databili tra l’Antica e la Media età del Bronzo. Si passa quindi ai corredi funerari provenienti da necropoli del VII-VI secolo a.C., con oggetti legati alla vita quotidiana, tra cui spicca il vasellame da mensa di produzione fenicia di tipo red slip, con forme di derivazione orientale, come le brocche con orlo a fungo, talvolta associate a ceramiche di produzione corinzia. Al V-IV secolo a.C. si datano vasi attici a figure nere e figure rosse. L’allestimento continua con gli spazi dedicati ai materiali provenienti dal santuario del Tofet, luogo nel quale i Moziesi offrivano

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Maschera ghignante a protome femminile. VI sec. a.C. Mozia, Museo «G. Whitaker». Realizzato a stampo, il manufatto aveva funzioni apotropaiche. alla divinità piccoli animali e, forse occasionalmente, sacrificavano esseri umani. Nell’esposizione è stata qui operata una selezione tra i tanti reperti ritrovati, che offre un quadro esaustivo della lunga e articolata vita di questo complesso e misterioso santuario: olle fittili contenenti le ceneri delle offerte, statuette votive (protomi femminili e maschere) di tipologia greca e fenicia, ma, soprattutto, numerose stele lapidee del VI-V secolo a.C., sulle quali sono presenti non solo raffigurazioni umane ma anche simboli aniconici. Tra i materiali ceramici, spicca una maschera «ghignante» del VI secolo a.C., avente funzioni apotropaiche e destinata evidentemente ad allontanare gli spiriti maligni dal santuario. Le stele, invece, che contrassegnavano il luogo di

deposizione dell’incinerato, mostrano una facciata a forma di sacello con all’interno un betilo (casa del dio) o un simbolo religioso (idolo a bottiglia, corpo umano schematizzato), ma anche figure con lunghe vesti e uomini-sacerdoti rappresentati frontalmente nello stile egizio. Non mancano grandi «cippi-trono con incensiere» dalla complessa simbologia e spesso dotati di iscrizioni in fenicio con dediche al dio Baal Hammon. Dalle indagini condotte nell’area urbana provengono un’arula decorata da un centauro, dadi da gioco, statuette egittizzanti, anfore di tipo fenicio-punico, monete di bronzo (didrammi, tetradrammi), gioielli in pasta vitrea, orecchini, pendenti, mentre da ogni settore urbano sono emerse tracce del terribile assedio del 397 a.C., quando i Siracusani conquistarono la città, come le tante punte di freccia spesso rinvenute piegate a testimonianza della violenza dei combattimenti. L’ultima sala del museo ospita la collezione Whitaker, che mantiene pressoché inalterato l’aspetto conferitole dal suo ideatore nel primo ventennio del secolo scorso: vetrine di legno dipinte di bianco, didascalie scritte a mano con l’aggiunta di commenti personali, oggetti esposti secondo un criterio collezionistico. Giampiero Galasso

DOVE E QUANDO «Museo G. Whitaker» Isola di San Pantaleo, Marsala (Trapani) Orario 1° aprile-31 ottobre, 9,30-13,30 e 14,30-18,00; 1° novembre-31 marzo, 9,00-15,00 Info tel. 0923 712598; www.fondazionewhitaker.it



A TUTTO CAMPO Luisa Dallai

IL RACCONTO DELLE ROCCE STUDIANDO LA COMPOSIZIONE DEL TERRENO E LE TRACCE LASCIATE DALLE ATTIVITÀ DI ESTRAZIONE, L’ARCHEOLOGIA È IN GRADO DI RICOSTRUIRE LA STORIA DELLA PRODUZIONE MINERARIA E METALLURGICA

«G

li antichi pozzi si trovano in cosí gran numero, che spesso i mucchi di sterile, estratti dall’uno o dall’altro, si mescolano in superficie. Il suolo è perforato come un colino e sopra una mappa di queste miniere che mi ha mostrato il geometra, i pozzi erano cosí vicini, benchè la mappa fosse disegnata in scala molto grande, che ogni complesso di detti pozzi era simile a quelli ammassi di stelle che si vedono rappresentati sulle carte astronomiche». Nelle parole di Louis Simonin (1830-1886), celebre geologo

francese, viaggiatore curioso e fine osservatore del paesaggio e dei costumi delle località visitate, vi è tutto lo stupore per la «scoperta» di un patrimonio storico di enorme valore, quello delle antiche miniere della Maremma toscana, di cui erano visibili nel 1868, anno di pubblicazione del suo testo La Toscane et la Mer Tyrrhénienne (qui nella traduzione italiana di Tiziano Arrigoni), numerosissime tracce. Ai pozzi e alle gallerie si accompagnavano allora imponenti ammassi di materiale sterile estratto e resti delle fusioni che agli

occhi degli esperti geologi e naturalisti del tempo (quali Giovanni Antonio Rovis, Teodoro Haupt, Amédée Burat e Henri Coquand, per citare i piú noti) erano non soltanto testimonianza della ricchezza delle industrie del passato, ma anche promessa di un nuovo sviluppo. Uno sviluppo che, in effetti, nei distretti minerari di Massa Marittima-Montieri, Monterotondo Marittimo, Gavorrano e Campiglia Marittima si realizzò concretamente in ripetute iniziative di nuove estrazioni nel corso del XIX secolo.

UN PATRIMONIO PREZIOSO Oggi molte testimonianze sono andate perdute, cancellate dallo sviluppo delle attività di scavo e dalla ripresa di iniziative di coltivazione mineraria che hanno interessato in modo continuato le aree di antico sfruttamento. Una parte di questo prezioso patrimonio è tuttavia ancora visibile: se l’accesso al sottosuolo è in molti casi impraticabile, lo studio delle aree di discarica prodotte dallo scavo dei filoni e delle masse metallifere, degli accumuli di scorie metallurgiche, cosí come l’analisi del contesto paesaggistico, possono rivelarsi essenziali per la ricostruzione dei processi

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A sinistra: Montieri (Grosseto). Una galleria mineraria moderna le cui pareti mostrano alterazioni cromatiche generate dai solfuri misti, tipici dell’area. Nella pagina accanto: Massa Marittima (Grosseto): imbocco di miniera in località Serrabottini. In basso: Montieri. Misurazioni geochimiche con l’uso della fluorescenza a raggi X portatile (hhXRF). produttivi piú antichi e del loro impatto sul territorio circostante. A partire dal 2009, il distretto delle Colline Metallifere grossetane, interessato sin dall’Eneolitico da significative attività di sfruttamento dei solfuri misti di rame, piombo/argento e ferro, e in particolare i comprensori di Massa Marittima e Montieri, sono al centro di una ricerca multidisciplinare integrata e innovativa, che unisce le competenze archeologiche a quelle geologiche e geochimiche, al fine di acquisire nuove informazioni per arricchire il quadro relativo alle antiche attività di estrazione e trasformazione dei solfuri misti di epoca pre-industriale. Coordinata dai Dipartimenti di Scienze Storiche e dei Beni Culturali e di Biotecnologie, Chimica e Farmacia dell’Università di Siena, la ricerca ha avuto il sostegno degli Enti Locali e il supporto finanziario

della Regione Toscana (www.archimin.unisi.it). Lo studio dei resti archeominerari e archeometallurgici condotto nel corso degli anni attraverso la combinazione di analisi di superficie, survey sotterranei, approfondimenti cartografici, analisi chimiche on site, con l’uso di fluorescenza a raggi X (XRF), ha

prodotto un modello di gestione integrata dei risultati, interrogabili attraverso una piattaforma GIS. Ciò ha permesso di acquisire nuove conoscenze di natura tecnica e organizzativa, inerenti aspetti propri dell’archeologia del paesaggio e dell’archeologia della produzione.

RICONOSCERE LE «FIRME» Lavorando sulle aree di antica estrazione mineraria, si sono messi a fuoco dettagli relativi all’organizzazione del lavoro e alla cernita del minerale «a bocca di miniera», primo fondamentale step del complesso ciclo produttivo del rame e dell’argento a partire dai solfuri misti. La raccolta sistematica delle informazioni ha consentito di proporre una ricostruzione topografica complessiva delle funzioni assolte da spazi di lavoro fortemente interconnessi, come quelli tipici dei territori minerari,

dove molte e diverse funzioni (come per esempio la gestione del bosco, la produzione del combustibile, l’organizzazione della rete viaria, l’utilizzo delle risorse idriche per le attività metallurgiche) si intrecciano e lasciano chiare «firme» di carattere geochimico nel suolo. (luisa.dallai@unisi.it)

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SAN GIOVANNI VALDARNO

Geotecnologie per l’archeologia È stato pubblicato il bando del Master Universitario di II livello in Geotecnologie per l’Archeologia (GTARC) in programma per l’A.A. 2017/18 presso il Centro di GeoTecnologie dell’Università degli Studi di Siena con sede in San Giovanni Valdarno (Arezzo). Nato dalla collaborazione tra il Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali (sezione Archeologia) e il Centro di GeoTecnologie (CGT) dell’ateneo senese, il Master GTARC fornisce competenze specifiche in ambito archeologico dei seguenti temi: 1. rilievo, gestione ed elaborazione informatica dei dati; 2. Sistemi Informativi Geografici; 3. fotogrammetria digitale; 4. telerilevamento; 5. modellazione 3D; 6. geofisica. Le lezioni del Master avranno inizio il 24.01.2018, con le seguenti modalità: attività didattica: • 384 ore di lezioni frontali ed esercitazioni (gennaio-giugno 2018) • 300 ore di tirocinio, stage e preparazione dell’elaborato finale (luglio 2018-gennaio 2019) Per informazioni, ci si può rivolgere all’Ufficio Coordinamento delle Attività di Formazione del Centro di GeoTecnologie: tel. 055 9119449; e-mail; master.cgt@unisi.it. Sito web: www.cgt-gtarc.it Facebook: www.facebook. com/ArcheologiaGTARC La scadenza del bando è prevista il 29.12.2017.

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MOSTRE Milano

IL RITORNO DI AMENOFI

F

iglio di Thutmosi III e sovrano di una corte sfarzosa, Amenofi II visse tra il 1427 e il 1401 a.C., durante la XVIII dinastia (1550-1295 a.C.), e fu protagonista di un’epoca storica ricca. Ciononostante questo importante faraone non è mai stato oggetto di una mostra monografica ed è poco noto al grande pubblico, forse perché messo in ombra dal celebre padre, ma, soprattutto, perché, fino a una quindicina di anni fa, i documenti relativi al ritrovamento della sua tomba nella Valle dei Re, compiuta nel 1899 da Victor Loret, erano sconosciuti. Quei documenti sono oggi proprietà dell’Università Statale di Milano, che li conserva negli Archivi – tra i piú ricchi al mondo – della Facoltà di Egittologia e per la prima

Stele in calcare dipinto di Henutneferet sulla quale compaiono i ritratti di Thutmosi III (a sinistra) e Amenofi II, seduti l’uno di fronte all’altro. XVIII dinastia, regno di Amenofi II (1428-1397 a.C.). Leida, Rijksmuseum van Oudheden.

volta vengono esposti al pubblico, in un contesto «teatrale». Attraverso una ricostruzione in scala 1:1 della sala a pilastri della tomba reale di Amenofi II, infatti, i materiali d’archivio fanno rivivere l’emozione della scoperta. Un’esperienza immersiva, che accompagna il visitatore invitandolo a entrare, attraverso un approfondimento sulle credenze funerarie e la mummificazione, nella sala sepolcrale, per ammirare i tesori che accompagnavano il faraone nel suo viaggio verso l’aldilà. Fra i reperti conservati nella tomba, Victor Loret portò alla luce non solo la mummia di Amenofi, ma anche quelle di alcuni celebri sovrani del Nuovo Regno, che erano state nascoste per evitare che potessero essere razziate, insieme ai loro corredi, dai tanti che si dedicavano al saccheggio delle tombe. Tra questi corpi, vi furono anche quelli della madre e della nonna di Tutankhamon. La mostra racconta quindi una doppia «riscoperta»: quella della figura storica del faraone Amenofi II, spesso ingiustamente oscurata dalla fama del padre Thutmosi III; e la «riscoperta» archeologica del ritrovamento del suo monumento funerario nella Valle dei Re. (red.)

DOVE E QUANDO «Egitto. La straordinaria scoperta del Faraone Amenofi II» Milano, MUDEC, Museo delle Culture fino al al 7 gennaio 2018 (dal 13 settembre) Orario lu, 14,30‐19.30; ma-do, 9,30‐19,30 (gio e sa, apertura serale fino alle 22,30 Info e prenotazioni tel. 02 54917; www.ticket24ore.it



PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

TRAIANO TORNA A CIVITAVECCHIA LA CITTÀ LAZIALE CELEBRA L’IMPERATORE CHE LA DOTÒ DEL SUO PRIMO SCALO MARITTIMO. NE PARLIAMO CON IL PROMOTORE DELL’INIZIATIVA FRANCESCO DI MAJO, PRESIDENTE DELL’AUTORITÀ DI SISTEMA PORTUALE DEL MAR TIRRENO CENTRO-SETTENTRIONALE

A

1900 anni dalla morte dell’imperatore Traiano, Civitavecchia, l’antica Centumcellae, gli rende omaggio con la mostra «Traiano Optimus Princeps. I porti dell’imperatore», visitabile fino al prossimo 8 ottobre nell’Antica Rocca del Porto Storico della città (vedi «Archeo» n. 390, agosto 2017). L’esposizione è dedicata alla riscoperta dell’antico scalo civitavecchiese, che Traiano fondò nell’ambito della sua ampia opera di potenziamento della rete portuale romana. Sul tema abbiamo intervistato il Presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno Centro-Settentrionale, Francesco di Majo, che ha ideato e fortemente voluto l’iniziativa. Ci vuole raccontare il perché di questa mostra su Traiano a Civitavecchia? «Da otto mesi, in qualità di presidente della nuova Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno Centro- Settentrionale, tra i compiti che mi spettano – oltre a quelli relativi agli aspetti commerciali e amministrativi –, c’è la

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valorizzazione degli immobili a carattere storico-artistico che ricadono all’interno del territorio. E il porto di Civitavecchia ha una componente storica importantissima, con le presenze di età traianea, dagli imponenti magazzini alle spalle del porto (horrea) all’articolato sistema degli attracchi. La darsena romana è stata progettata dal celebre architetto di Traiano, Apollodoro di Damasco, ed è rimasta pressoché invariata nel corso del tempo: la A destra: un tratto della costa in località La Frasca, a nord di Civitavecchia, oggetto delle indagini e del progetto di valorizzazione dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno CentroSettentrionale.

IL PROGETTO FRASCA

Un piano integrato

Una recente campagna di scavi in località «La Frasca», a nord-ovest del porto di Civitavecchia, ha messo in luce testimonianze archeologiche di epoca protostorica, etrusca e romana. Questi siti saranno resi fruibili grazie al progetto di recupero e valorizzazione dell’area promosso dall’Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno CentroSettentrionale. Ne abbiamo parlato con l’architetto Enza Evangelista, che ha curato l’intervento sul campo. «Ho seguito personalmente gli scavi archeologici e il progetto di valorizzazione del sito, che si estende per 3 km di costa, a nord del porto di Centumcellae. Si tratta di un’area particolarmente interessante, con un’ampia stratigrafia storica: a ogni mareggiata, affioravano reperti archeologici. Sono emersi villaggi villanoviani, testimonianze archeologiche di epoca etrusca (databili al VII secolo a.C.), di età romana (che vanno dal I secolo a.C. al II d.C.) e tardo-medievale (Torre Bertalda o S. Agostino, del XVI secolo). Il progetto ha come obiettivo la tutela e la valorizzazione delle aree archeologiche e paesistiche presenti, attraverso la realizzazione di un itinerario naturalistico-archeologico a scopo didattico e ricreativo. È un tratto di costa vincolato dal punto di vista archeologico e, ancor prima, già dal


1975, naturalistico. In tutto abbiamo individuato 24 emergenze archeologiche e selezionato tre aree in accordo con la Soprintendenza competente. In due di queste sono state avviate indagini archeologiche: in località “Cappelletto” e “Columna-Porto Canale”, cosí chiamato per via delle possenti colonne in granito tuttora visibili nell’acqua poste all’imboccatura del porto». Che cosa avete scoperto grazie alle recenti indagini? «Nel sito di Columna è stato trovato un importante impianto di epoca romana, con diversi ambienti riscaldati, come indicano le suspensurae (le colonnine di mattoni che rialzavano il pavimento e consentivano la circolazione dell’aria calda, n.d.r.) e le tubazioni in cotto. Ma la cosa piú interessante sono i meravigliosi mosaici policromi, risalenti al II secolo d.C. I soggetti sono principalmente marini, e in una delle composizioni è raffigurata un’aragosta. Doveva trattarsi probabilmente di una struttura di ricezione appartenente al porto di Columna. È visibile infatti il bacino di un porto, ancora non scavato, che fini-

sce nell’acqua. E si intravedono giacere sul fondale delle colonne in granito, lunghe 7 m e dal diametro di 1 m circa, che potrebbero aver segnato l’ingresso al canale (ne sono state rinvenute 4, due vicino alla battigia e altre due a quote piú profonde). Il sito doveva essere dunque, probabilmente, un porto canale, accanto a quello di Civitavecchia». In alto: foto zenitale dei resti di un impianto individuato in località Columna: doveva trattarsi probabilmente di una struttura ricettiva legata al vicino porto di Centumcellae. A sinistra: uno dei mosaici policromi scoperti nella struttura in località Columna.

In che cosa consiste il vostro progetto di valorizzazione? «Visto l’alto valore storico e ambientale del sito, abbiamo predisposto lungo questi tre chilometri di costa un percorso naturalistico-archeologico ciclo-pedonale a scopo didattico e ricreativo, in modo da valorizzare l’area degli scavi e offrire servizi ai turisti. Si tratta di opere di compensazione previste dal piano regolatore approvato con la variante del 2014: tra queste c’è la valorizzazione del sito di Frasca. Abbiamo collocato lungo il percorso strutture in legno, smontabili e integrate nel contesto, per ospitare punti ricettivi e informativi, poli didattici ricreativi, luoghi di ristoro, bookshop, laboratori didattici di archeologia sperimentale, ambienti polifunzionali, nonché un servizio di bike-sharing. Inoltre, vista la ricchezza dei reperti e la diversità delle varie epoche rappresentate, per rendere piú comprensibile il sito, abbiamo realizzato pavimentazioni diverse a seconda delle epoche: una per l’epoca romana, un’altra per quella protostorica. In corrispondenza dei villaggi villanoviani, infatti, il pavimento presenta inserti circolari che rievocano le capanne conservate sotto terra. Cosí i turisti, passeggiando, otterranno facilmente informazioni su ciò che calpestano».

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sua sagoma è perfettamente visibile e conserva ancora oggi intatta la forma di epoca romana. Quest’anno ricorrono i 1900 anni della morte del grande imperatore Traiano, nato in Spagna e caduto in Cilicia, nel 117 d.C. Per questo abbiamo pensato che fosse doveroso ricordare questa importante figura storica e quello che ha dato alla città di Civitavecchia, realizzando un porto le cui tracce sono ancora oggi molto evidenti. La mostra è una mia idea personale: volevo celebrare Traiano all’interno del porto da lui realizzato. Ho poi condiviso il progetto con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale, guidata da Alfonsina Russo, per tutto quello che ha riguardato lo spostamento dei reperti archeologici in esposizione a Civitavecchia. L’iniziativa si inserisce in un percorso piú ampio di eventi, in programma fino al prossimo ottobre, previsti anche nel sito di Portus, a Ostia e presso i Mercati di Traiano a Roma». Nonostante l’importanza rivestita in passato, l’antico porto di Traiano a Centumcellae è ancora poco conosciuto dal pubblico… «Per questo abbiamo deciso di puntare sulla sua valorizzazione con la mostra “Traiano. Optimus Princeps”. Il moderno porto di Civitavecchia ha una forte vocazione turistica: è il primo in Italia per numero di crociere e il secondo in Europa. Conta quasi due milioni e mezzo di crocieristi l’anno, ma la maggior parte dei visitatori non si sofferma

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e va subito a Roma. Bisogna dunque valorizzare i beni culturali del territorio, facendo conoscere la storia e l’origine di questo porto. Questo è l’obiettivo della mostra: valorizzare la componente storica del porto di Civitavecchia, per renderla fruibile dai tanti crocieristi che vi sbarcano. Nell’esposizione è visibile anche la ricostruzione a dimensioni reali di una liburna, un’antica nave della flotta romana usata per navigare il Danubio e il Reno, il cui modello si

basa sulla raffigurazione che compare in uno dei fregi della Colonna Traiana. Quale luogo migliore del porto per collocarla, in omaggio a quello che è stato l’impero romano sul mare?» Dalle sue parole si percepisce una forte passione per l’archeologia, sebbene come avvocato lei abbia una formazione molto diversa... Sua madre era invece archeologa: è lei che l’ha contagiata? «Beh sí, ho sentito parlare di Traiano fin da piccolo! Anche per questo mi anima una grande passione per la storia antica. La mostra è allestita nell’antica rocca della città, proprio a ridosso della darsena romana e delle mura di epoca traianea. È molto suggestiva poiché tutto si svolge nel cuore del mondo romano di Civitavecchia. Grazie alla collaborazione con «Archeo», con l’Università «Sapienza» di Roma e con la Soprintendenza Archeologica, abbiamo creato un forte gioco di squadra, che spero porterà i sui frutti e che in futuro potremo ripetere». Quali altre iniziative ha in mente per il porto di Civitavecchia, in tema di archeologia? «Stiamo finanziando l’indagine del patrimonio archeologico nella zona de “La Frasca”, lungo un tratto della costa a nord-ovest del porto di Civitavecchia. Qui realizzeremo un nuovo parco archeologico naturalistico, che prevede un percorso ciclo-pedonale attraverso le varie testimonianze archeologiche emerse lungo la costa. Nei prossimi mesi daremo impulso alla valorizzazione dei reperti archeologici rinvenuti (vedi box alle pp. 18-19)».



n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

PRIMA DEL LUPO Gubbio conserva pressoché intatto il suo volto medievale e questa antica «nobiltà» ha fatto sí 3 che la cittadina umbra sia stata spesso 1 ricordata dalla filatelia. Il centro storico, con il 2 magnifico Palazzo dei Consoli, è raffigurato su un bel francobollo italiano del 1978 (1) e sul relativo annullo 1° giorno di emissione (2); lo stesso Palazzo compare anche, con il Palazzo Ducale di Urbino, su un francobollo (3) in onore di Federico di Montefeltro, duca di Urbino, ma originario di Gubbio. Alla tradizionale «Corsa dei ceri» sono stati dedicati un altro francobollo del 5 1983 (4) e molti annulli (5, emesso nel 1971 è uno 4 6 dei piú vecchi); mentre la passione per la balestra ha ispirato due francobolli di San Marino (6-7). Gubbio, però, non è solo Medioevo: le sue origini risalgono a molti secoli prima di Cristo e la cittadina vanta una storia importante in epoca romana, quando era considerata tra le piú fedeli a Roma. Purtroppo, non esistono ricordi filatelici direttamente riferiti alla Gubbio 9 8 7 romana, salvo un accenno di colonne in un annullo del 1977 (8); e, a tutt’oggi, non è stato emesso alcun pezzo dedicato alle Tavole Eugubine. Lo Speciale di questo numero (vedi alle pp. 82-104) affronta proprio la storia romana di Gubbio, con riferimenti a siti archeologici e antichi templi, a ritrovamenti di mosaici e affreschi e a episodi di natura storica. Attraverso la filatelia tematica, possiamo in questo caso 10 segnalare qualche pezzo che può comunque collegarsi agli 11 argomenti trattati nelle varie sezioni dell’articolo. A proposito di Guastuglia, la «Gubbio sommersa», si cita una testa di Marco Vipsanio Agrippa trovata vicino a una scarpata ed ecco quindi il francobollo italiano che riproduce il Pantheon, fatto appunto costruire da Agrippa (9). Con riferimento al Teatro 12 Romano, è possibile ricorrere a uno dei numerosi pezzi che raffigurano edifici per spettacoli di questo tipo (10). Un ampio capitolo è dedicato allo splendido mosaico del leone ruggente, trovato nei pressi del Teatro Romano. Il mosaico è stato acquistato dal conte di Leicester, che lo custodisce nella sua residenza di Holkham Hall, insieme ad altre preziose opere, 13 come il Codice Hammer (o di Leicester), di Leonardo (11). 14 Prendendo spunto dalla descrizione dell’Antiquarium e della Domus di Scilla, ecco un IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere mosaico della lotta tra Ulisse (12) e Scilla, alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai rappresentata come un serpente marino (13). seguenti indirizzi: Infine, nell’articolo si citano le molte necropoli Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, che circondavano Iguvium, alcune delle quali Via Tavanti, 8 C.P. 17037 scoperte nella zona in cui la leggenda vuole che 50134 Firenze Grottarossa san Francesco abbia in seguito ammansito il lupo info@cift.it, 00189 Roma. che terrorizzava Gubbio (14). oppure lcalenda@yahoo.it; www.cift.it

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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

INCONTRI Paestum

ARIA DI VIGILIA

T

aglia il traguardo dei vent’anni la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, in programma dal 26 al 29 ottobre 2017 nell’area archeologica della città antica di Paestum. E, per l’occasione, la rassegna ospiterà prestigiose iniziative, tra cui l’anteprima dell’«Anno Europeo del Patrimonio Culturale», indetto dalla Commissione Europea per il 2018 e il Convegno «Il turismo sostenibile per lo sviluppo dei siti archeologici mondiali» a cura dell’UNWTO, l’Organizzazione Mondiale del Turismo delle Nazioni Unite. A fare da contorno saranno gli appuntamenti ormai tradizionali e grazie ai quali la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico si è affermata negli anni come un evento originale nel suo genere: sede dell’unico Salone espositivo al mondo del patrimonio archeologico e di ArcheoVirtual, la mostra internazionale di tecnologie multimediali, interattive e virtuali; luogo di approfondimento e divulgazione di temi dedicati al turismo culturale e al patrimonio; occasione di incontro per addetti ai lavori, operatori turistici e culturali, viaggiatori e appassionati; opportunità di business nella suggestiva cornice del Museo Archeologico Nazionale, con il Workshop tra la domanda estera

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selezionata dall’ENIT e l’offerta del turismo culturale e archeologico. Una formula di successo, testimoniato dalle prestigiose collaborazioni di organismi internazionali quali UNESCO, UNWTO e ICCROM, oltre che da circa 10 000 visitatori, 100 espositori con 20 Paesi esteri, 70 tra conferenze e incontri, 300 relatori, 100 operatori dell’offerta, 100 giornalisti. Non va infine dimenticato che, dal 2015, si è aggiunto l’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», il Premio intitolato al Direttore del sito archeologico di Palmira, che ha pagato con la vita la difesa del patrimonio culturale: la Borsa e «Archeo», in collaborazione con le riviste media partner internazionali Antike Welt (Germania), Archéologie Suisse (Svizzera), Current Archaeology (Regno Unito), Dossiers d’Archéologie (Francia) selezionano e premiano le principali scoperte archeologiche dell’anno. Per quest’anno concorrono all’assegnazione del premio: l’edificio della barca di Sesostri III e i graffiti di 120 navi ad Abido (Egitto); la prima opera architettonica dei Neandertal in una caverna di Bruniquel (Francia); la grande città dell’età del Bronzo presso il villaggio curdo di Bassetki (Iraq); la città indo-greca di Bazira (Pakistan); e 400 tavolette di epoca romana ritrovate nella City di Londra (Regno Unito). Info: www.borsaturismoarcheologico.it



n otiz iario

MOSTRE Napoli

TESORI DI UN MONDO PERDUTO

I

l fortunato tour della mostra «Il mondo che non c’era. L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue» (vedi «Archeo» n. 369, novembre 2016) fa tappa al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (MANN). Un’ulteriore occasione per ripercorrere la storia delle grandi civiltà meso- e sudamericane e scoprire reperti di pregio eccezionale. Tra la fine del XV e gli albori del XVI secolo, l’Europa viene scossa da una scoperta epocale: le «Indie», «Il mondo che non c’era». Un fatto che scardina la visione culturale del tradizionale asse Roma-Grecia-Oriente; l’incontro di un nuovo continente e, secondo l’antropologo Claude LéviStrauss, l’evento forse piú importante nella storia dell’umanità. Fu il grande esploratore Amerigo Vespucci a comprendere per primo che le terre incontrate da Cristoforo Colombo nel 1492 non erano isole indiane al largo del Cipango (Giappone) e neppure le ricercate porte dell’Eden, ma un «Mundus Novus», un

A destra: statuetta in ceramica raffigurante un personaggio maschile seduto. Cultura Veracruz, Remojadas, Costa del Golfo. Messico Classico, 600-900 d.C.

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nuovo continente che pochi anni dopo alcuni geografi che lavoravano a Saint-Denis des Voges vollero chiamare, in suo onore, «America». Da quelle terre giunge il corpus di capolavori straordinari

esposti per la prima volta grazie alla mostra, appartenenti a una delle raccolte piú complete e importanti in quest’ambito in Italia: la Collezione Ligabue. Negli spazi del MANN si può dunque ammirare un campionario ricco e variegato: dalle maschere in pietra di Teotihuacan, la piú grande città della Mesoamerica, primo vero centro urbano del Messico Centrale, ai vasi maya d’epoca classica, con le loro decorazioni e iscrizioni; dalle statuette antropomorfe della cultura olmeca, che affascinarono anche i pittori Diego Rivera, la moglie Frida Kahlo e gli artisti surrealisti alle enigmatiche sculture mezcala. E poi, sempre dal Messico, statuette policrome di ceramica cava della cultura di Chupicuaro, il cui apogeo si situa tra il 400 e il 100 a.C., urne cinerarie (dal 200 a.C. al 200 d.C.) della cultura zapoteca, sculture azteche, esempi pregevoli delle Veneri ecuadoriane di Valdivia, oggetti inca, tessuti e vasi della regione di Nazca, manufatti dell’affascinante cultura moche, straordinari oggetti in oro. Si tratta, in realtà, di Nella pagina accanto, in alto: maschera in onice verde. Cultura Teotihuacan. 450-650 d.C. Firenze, Museo degli Argenti. Nella pagina accanto, in basso: urna funeraria con effigie del dio Cocijo. Cultura zapoteca, Monte Albán, Oaxaca. 450-650 d.C.


culture che in molta parte devono ancora essere studiate e comprese: annientate, annichilite e ignorate per lunghi anni dopo la scoperta di quelle terre da parte dei conquistadores, ammaliati solo dalle ricchezze materiali, autori di stragi e razzie. In pochi decenni dall’arrivo di

Colombo (nessuno degli oggetti da lui riportati si è conservato) le culture degli Aztechi e degli Inca saranno schiacciate con le armi e con la schiavitú e quella dei Taino praticamente annientata: già verso il 1530, secondo gli storici, non esisteva piú un solo Taino vivente. Milioni di indio morirono anche a causa delle malattie arrivate dal Vecchio Mondo. Dovranno passare almeno quattro secoli prima che l’Europa prenda nuovamente coscienza della grandezza dell’arte dell’America antica. «Gli occidentali, distratti anche dalla loro storia e dalla loro cultura – ricorda Inti Ligabue – non riescono ad immaginare quasi niente di quei mondi che hanno comunicato con glifi scolpiti, dipinti e cordicelle annodate o che hanno realizzato insuperati capolavori di idraulica, usando le loro energie per dialogare con l’ambiente e l’aldilà. Per cinque secoli il tesoro dell’antica Mesoamerica e del Sudamerica è stato visto solo come un’eredità misurata da quelle tonnellate d’oro e d’argento arrivate in Europa sui galeoni». (red.)

DOVE E QUANDO «Il mondo che non c’era. L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue» Napoli, Museo Archeologico Nazionale fino al 30 ottobre Orario mercoledí-lunedí, 9,00-19,30; chiuso il martedí Info tel 081 4422149; www.museoarcheologiconapoli.it www.ilmondochenoncera.it

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CALENDARIO

Italia

FINALBORGO (SV) Ad fines. 500 miglia da Roma

ROMA I Fori dopo i Fori

Al tempo dei Romani nel Finale Chiostri di Santa Caterina fino al 31.12.17

La vita quotidiana nell’area dei Fori Imperiali dopo l’antichità Mercati di Traiano, Museo dei Fori Imperiali fino al 10.09.17

FIRENZE I pozzi delle meraviglie

Nuove scoperte a Cetamura del Chianti Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.17

Spartaco

Schiavi e padroni a Roma Museo dell’Ara Pacis fino al 17.09.17

GROSSETO, MANCIANO Marsiliana d’Albegna

All’ombra delle piramidi

Dagli Etruschi a Tommaso Corsini Museo Archeologico e d’Arte della Maremma Museo di Preistoria e di Protostoria della Valle del Fiora fino al 31.12.17

La mastaba del dignitario Nefer Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco fino al 17.09.17

Piranesi

MILANO Milano in Egitto

La fabbrica dell’utopia Museo di Roma a Palazzo Braschi fino al 15.10.17

La bellezza ritrovata Arte negata e riconquistata in mostra Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori fino al 26.11.17

AQUILEIA Volti di Palmira ad Aquileia Museo Archeologico Nazionale fino al 03.10.17

CAPACCIO PAESTUM (SA) Action painting Rito & arte nelle tombe di Paestum Museo Archeologico Nazionale fino al 31.12.17

CAVRIGLIA (AR) Mithra

Un dio orientale in Valdarno Auditorium del Museo Mine fino al 31.12.17

Giovanni Battista Piranesi, Mausoleo di Cecilia Metella. Acquaforte, 1762.

Gli scavi di Achille Vogliano nel Fayum Civico Museo Archeologico fino al 15.12.17

Egitto

La straordinaria scoperta del Faraone Amenofi II MUDEC, Museo delle Culture di Milano fino al 07.01.18 (dal 13.09.17)

MONTALTO DI CASTRO (VT) Egizi Etruschi

Da Eugene Berman allo Scarabeo dorato di Vulci Complesso Monumentale di S. Sisto fino al 30.09.17

NAPOLI Amori divini

Trasmissione e ricezione del mito greco Museo Archeologico Nazionale fino al 16.10.17

CIVITAVECCHIA Traiano Optimus Princeps

Il mondo che non c’era

I porti dell’imperatore Porto Storico, Antica Rocca fino all’08.10.17

L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue Museo Archeologico Nazionale fino al 30.10.17

COMO Prima di Como

ORVIETO L’intrepido Larth

Nuove scoperte archeologiche dal territorio Chiesa di S. Pietro in Atrio fino al 10.11.17 (dal 30.09.07) 28 a r c h e o

Storia di un guerriero etrusco Museo «Claudio Faina» e Museo Archeologico Nazionale fino al 17.09.17

La stele di Leida, con Thutmosi III e Amenofi II.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Francia

PAVIA Longobardi

PARIGI L’Africa delle rotte

Un popolo che cambia la storia Castello Visconteo fino al 03.12.17

Musée du quai Branly Jacques Chirac fino al 12.11.17

PONTASSIEVE (FI) L’insediamento etrusco di Monte Giovi

LENS Musiche!

3000 anni sopra le nuvole Centro Studi Museo Geo fino al 05.11.17

Echi dell’antichità Musée du Louvre-Lens fino al 15.01.18 (dal 13.09.17)

REGGIO EMILIA Lo scavo in piazza

LES EYZIES-DE-TAYAC Il terzo uomo

Una casa, una strada, una città Musei Civici di Reggio Emilia fino al 31.08.17

Preistoria dell’Altai Musée national de préhistoire fino al 13.11.17

SIRACUSA La Porta dei Sacerdoti

Germania

I sarcofagi egizi di Deir el-Bahari. Esposizione e restauro in pubblico Galleria Civica Montevergini fino al 07.11.17

COSTANZA Ricostruire Palmira? BildungsTURM fino al 17.09.17

SORANO (GR) Vulci e i misteri di Mitra Culti orientali in Etruria Fortezza Orsini, Museo del Medioevo e del Rinascimento fino al 05.11.17

Gran Bretagna

TAORMINA Ritorno alla Magna Grecia

Guerrieri dell’antica Siberia The British Museum fino al 14.01.18 (dal 14.09.17)

Ricostruzione dell’equipaggiamento di un cavaliere scita.

LONDRA Gli Sciti

Reperti della Collezione La Gaipa Palazzo Duchi di S. Stefano fino al 17.09.17

Grecia

TORINO Cose d’altri mondi

ATENE Odissee

Raccolte di viaggiatori tra Otto e Novecento Palazzo Madama, Sala Atelier fino all’11.09.17

Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.17

Statua di Posidone, da Livadostra (Beozia). 480 a.C.

Missione Egitto, 1903-1920

L’avventura archeologica M.A.I. raccontata Museo Egizio fino al 30.09.17

VETULONIA (GR) L’arte di vivere al tempo di Roma

I luoghi del «tempo» nelle domus di Pompei Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 05.11.17

VICENZA Le ambre della principessa

Storie e archeologia dall’antica terra di Puglia Gallerie d’Italia, Palazzo Leoni Montanari fino al 07.01.18

Affresco con una giovane filatrice, da Pompei.

Olanda LEIDA Casa Romana

Rijksmuseum van Oudheden fino al 17.09.17 a r c h e o 29


CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli

BENTORNATI, RAGAZZI! IL RINNOVAMENTO DEL MUSEO ARCHEOLOGICO DELL’ANTICA CORINTO HA AVUTO COME PRIMO RISULTATO L’INAUGURAZIONE DI UNA SEZIONE DEDICATA AI DUE MAGNIFICI KOUROI RECUPERATI NEL 2010. DEI QUALI È STATO POSSIBILE RICOSTRUIRE IN OGNI DETTAGLIO L’AVVENTUROSA STORIA

A

lcuni anni fa, ebbe grande risonanza, ben oltre i confini ellenici, la vicenda dei due kouroi (plurale di kouros, termine che indica le statue maschili in posizione eretta, tipiche dell’arte arcaica greca, n.d.r.) che, dopo essere finiti nelle mani di una squadra di scavatori clandestini, furono intercettati dalla polizia greca, che, nel 2010, riuscí a sequestrarli (vedi «Archeo» n. 305, luglio 2010). Subito dopo il sequestro, forse sperando in una maggiore clemenza nei loro confronti, i tombaroli indicarono il luogo di rinvenimento dei due capolavori. Il Ministero Ellenico della Cultura dispose allora

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kouroi, ma anche di parte di un’estesa necropoli arcaica. Dopo essere stati ospitati provvisoriamente nel Museo Archeologico Nazionale di Atene, per un periodo di 15 mesi, nel 2011 i due kouroi sono stati trasferiti al Museo Archeologico dell’antica Corinto, proprio in ragione della loro provenienza.

DAL RESTAURO ALL’ESPOSIZIONE l’esecuzione di una campagna di scavo nell’area, che venne condotta dalla Soprintendenza di Corinto; l’intervento portò al ritrovamento non solo delle due tombe riferibili ai

Qui sono stati oggetto di operazioni di pulizia e restauro e sono ora gli indiscussi protagonisti della nuova ala della raccolta, inaugurata un paio di mesi fa: un’ala moderna, creata anche


grazie a fondi europei, che costituisce il primo passo della ristrutturazione dell’intero Museo di Corinto, un edificio organizzato attorno a due cortili e costruito nel 1932, allo scopo di ospitare i numerosi rinvenimenti provenienti dagli scavi nel sito dell’antica Corinto. Oltre ai reperti che illustrano la storia di Corinto e della Corinzia, la nuova sezione dedica un ampio settore alla storia dei due fratelli di marmo.

LA CITTÀ CHE NON C’ERA Si apprende cosí che gli scavi hanno intercettato una vasta necropoli da riconnettere senz’altro all’antica Tenea, una città che finora non era stata individuata con certezza e che, grazie a queste indagini, ha finalmente trovato la sua collocazione. Gli scavi hanno inoltre permesso di localizzare le tombe gemelle sulle quali erano state apposte, come segnacolo funerario, le statue dei kouroi. Realizzate in marmo pario attorno al 530-520 a.C., le sculture erano disposte l’una accanto all’altra, al di sopra di un piccolo tumulo che ricopriva due sarcofagi, realizzati in pietra calcarea locale. I sarcofagi contenevano le ossa di due uomini, che, come ha rivelato l’analisi delle rispettive dentature, morirono intorno ai 35 anni di età. I due kouroi gemelli, cosí, si distinguono anche per un’altra particolarità: dal momento che sono pertinenti ad altrettante tombe, chiaramente connesse tra loro, formano l’unico gruppo statuario a destinazione funeraria

Nella pagina accanto: la nuova ala del Museo Archeologico dell’antica Corinto, dominata dai due kouroi, e, nel riquadro, un mosaico proveniente da una villa romana di Corinto, con testa di Dioniso (II sec. d.C.). A sinistra: statua panneggiata esposta nel secondo cortile del museo, da Corinto. Età imperiale romana. di età arcaica che sia stato finora rinvenuto in Grecia. Le rimanenti sezioni dell’ala rinnovata espongono oggetti che raccontano la storia della cittàstato di Corinto e illustrano le vicende e la topografia della Corinzia. Si tratta di reperti che erano in gran parte già in esposizione prima delle operazioni di ristrutturazione; ora, tuttavia, la nuova disposizione e i chiari pannelli esplicativi, utilissimi al visitatore, rendono la visita non solo piú piacevole, ma anche molto piú agevole, sia per lo specialista, sia per il turista meno informato. Il Museo di Corinto ha ora attivato anche un suo sito internet (www. corinth-museum.gr/, disponibile anche in lingua inglese) e la nuova ala ci racconta senz’altro una storia di speranza: ci insegna il valore dello scavo archeologico, che permette di recuperare preziose informazioni. Senza gli scavi della necropoli, i kouroi gemelli di Tenea sarebbero rimasti capolavori muti, privi del loro contesto originario, incapaci di fornirci altre informazioni se non di dichiarare con orgoglio la propria bellezza. Ora, invece, possono raccontarci molto di piú.

DOVE E QUANDO Museo Archeologico dell’antica Corinto Archea Korinthos 20007 Orario 11 apr-30 set: 8,00-20,00; 1-15 ott: 8,00-19,00; 16-31 ott: 8,00-18,00; 1 nov-10 apr: 8,00-15,00 Info www.corinth-museum.gr

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TR NEL A I LA DU TE E F RRA IU M I

LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO

MESOPOTAMIA ALLE ORIGINI DELLA CIVILTÀ • • • • •

Vita quotidiana nella terra tra i due fiumi Prima dell’alfabeto • Religione, arte e scienza Hammurabi, l’uomo del mistero Uruk, una megalopoli dell’età del Bronzo Ur, la leggenda continua • Ritorno a Babilonia

di Massimo Vidale 32 a r c h e o


L

a terra compresa fra il Tigri e l’Eufrate e perciò detta Mesopotamia («in mezzo ai fiumi») fu la culla di civiltà che hanno scritto pagine cruciali nella storia del mondo. Qui, solo per fare qualche esempio eloquente, sorsero molte delle piú antiche città a oggi note e qui furono elaborati i primi sistemi di scrittura. Un mondo lontano nel tempo, ma straordinariamente vicino in piú d’una delle sue espressioni, delle quali oggi si conservano monumenti poderosi e spettacolari opere d’arte, ma che abbiamo ancor meglio potuto conoscere grazie all’archeologia. Un racconto avvincente, di cui Massimo Vidale tratteggia i momenti e i protagonisti principali e come sempre arricchito da un ampio e puntuale repertorio di fotografie, mappe e disegni.

Sulle due pagine: pittura murale con scena di sacrificio, dal palazzo di Zimri-Lim a Mari. XVIII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. In basso: i resti della ziqqurat di Assur. XVIII sec. a.C.

GLI ARGOMENTI • I L TERRITORIO La terra tra i due fiumi •C ITTÀ, RE E DINASTIE Gli artefici del miracolo •L A SCRITTURA Prima dell’alfabeto • I LUOGHI DELLA VITA Scene di vita quotidiana • I LUOGHI DEL POTERE Il tempio e il palazzo •L A RELIGIONE Religione, arte e scienza • HAMMURABI L’uomo del mistero • URUK Una megalopoli dell’età del Bronzo •U R La leggenda continua

IN EDICOLA

•B ABILONIA La porta degli dèi

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MUSEI • COMACCHIO

DOVE IL FIUME INCONTRA IL MARE L’AREA DEL DELTA DEL PO RAPPRESENTÒ, FIN DALL’ANTICHITÀ, UNO SNODO CRUCIALE. IN EPOCA ETRUSCA, VIDE FIORIRE SPINA, CITTÀ PORTUALE RICCA E FIORENTE. SONO LE VICENDE CHE COSTITUISCONO IL CUORE DEL MUSEO DELTA ANTICO, RECENTEMENTE INAUGURATO A COMACCHIO, RECUPERANDO IL MAGNIFICO EX OSPEDALE DEGLI INFERMI, AUTENTICO GIOIELLO DELL’ARCHITETTURA NEOCLASSICA di Stefano Mammini

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L

a torrida estate che sta per concludersi lo ha reso meno maestoso, ma non ha scalfito la nobiltà della sua storia. Il Po, perché è del grande fiume che parliamo, è stato la spina dorsale di vicende che hanno avuto inizio già in epoca preistorica, poiché, fin da allora, l’uomo ne intuí le potenzialità e le prerogative. Riserva d’acqua, preziosa fonte di sussistenza – sia per la fertilità dei suoli attraversati dal suo corso, sia come area di pesca privilegiata – via di comunicazione, confine: il Po è stato (e spesso è ancora) tutto questo e molto altro, in un succedersi di eventi che l’archeologia ha aiutato

a ricostruire grazie alle indagini che si sono succedute e si succedono da almeno un paio di secoli. Una realtà composita e articolata, che ha assunto caratteri particolarmente significativi nelle zone in cui

il fiume, frastagliandosi in una miriade di rami e canali secondar i sfocia nell’Adriatico: l’area del Delta ha visto nascere e svilupparsi insediamenti di primaria importanza, che proprio dalla loro collocazione in una zona naturalmente strategica hanno tratto il proprio benessere. Uno dei casi piú eloquenti in proposito è quello di Spina, la città etrusca fondata intorno al 530 a.C. su un antico ramo del Po e che si affermò come scalo nevralgico, accreditandosi in breve tempo come partner commerciale privilegiato di Atene, da dove giunsero le migliaia di vasi che, duemila anni piú tardi,

In alto: askos attico a figure rosse con geni alati, dalla necropoli di Valle Pega (Spina). Comacchio, Museo Delta Antico. Sulle due pagine: il tipico paesaggio lagunare delle Valli di Comacchio. Tutti i reperti illustrati nell’articolo sono esposti nel Museo Delta Antico di Comacchio.

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MUSEI • COMACCHIO

Comacchio. L’ex Ospedale degli Infermi, divenuto sede del Museo Delta Antico. Il prestigioso edificio fu realizzato tra il 1778 e il 1784 su impulso di papa Clemente XIV e vi lavorarono gli architetti Antonio Foschini e Gaetano Genta.

hanno ripagato il lavoro degli archeologi che si sono avvicendati nello scavo delle necropoli dislocate intorno all’area urbana. Spina prosperò per circa tre secoli, ma le tracce della sua fioritura sono oggi pressoché invisibili: nel III secolo a.C., per cause sulle quali ancora oggi si sta cercando di fare chiarezza in maniera definitiva, la città, di fatto, scomparve. Dovettero intervenire eventi traumatici, come la calata delle popolazioni galliche – che interessò l’intera Italia settentrionale –, ma vi furono anche fattori naturali, come l’arretramento della linea di costa, che, secondo le stime piú recenti, regredí di circa 15 km. Se il quadro generale risulta ancora parzialmente incompleto, è però certo che, all’indomani della fine di Spina, nel suo territorio – in 36 a r c h e o

epoca romana e poi tardo-antica – sopravvissero solo piccoli insediamenti. Le modifiche nell’assetto geomorfologico della regione fecero il resto, e quel che rimaneva dell’antica città fu inghiottito dalle acque di nuove lagune oppure sepolto dal fango.

LA BONIFICA E I PRIMI SCAVI Come accennato, la riscoperta scaturí dall’avvio delle ricerche archeologiche, nella seconda metà degli anni Sessanta del Novecento. Indagini che ebbero inizio in occasione degli interventi di bonifica effettuati nella Valle del Mezzano e che hanno portato all’individuazione di parte dell’area urbana e di numerose necropoli. Gli scavi hanno restituito una mole enorme di re-

perti, confluiti nel Museo Archeologico di Ferrara (vedi «Archeo» n. 322, dicembre 2011), che ne ha dirottato una vasta selezione a Comacchio, cosí da consentire la creazione del neonato Museo Delta Antico. Si è trattato di un piú che logico ritorno a casa, dal momento che il sito di Spina si trova nel territorio comacchiese. Il nuovo museo, inaugurato nello scorso marzo, ha sede in uno degli edifici piú prestigiosi di Comacchio, vale a dire l’antico Ospedale degli Infermi, che vide la luce grazie all’interessamento diretto di papa Clemente XIV e venne edificato fra il 1778 e il 1784. Al nosocomio lavorarono gli architetti Antonio Foschini (1741-1813) – che realizzò la facciata e il corpo principale dell’edificio – e Gaetano


Primo piano Spina

Tarda antichità

Prima di Spina

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1

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Alto Medioevo

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Spina crocevia del mondo antico

Comacchio emporio sulla sabbia

Il carico della nave romana

Un territorio senza città

Piano terra

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L’età romana

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Le sezioni del Museo Delta Antico 1. Le trasformazioni del territorio 2. Prima di Spina 3. Le culture dello scambio 4. Le importazioni 5. Le produzioni locali 6. La cucina 7. Il contesto domestico

8. Il simposio etrusco 9. Il cielo di Spina 10. I corredi eminenti 11. Sepolture di Valle Pega 12. Le sepolture 13. La ceramica autica 14. La fine di Spina 15. La macchina del tempo

16. Ville e fattorie 17. Galleria dei personaggi 18. Il carico e la vita quotidiana 19. Ricostruzione della nave 20. Il culto imperiale 21. La vita a bordo

22. Il carico della nave 23. La struttura della nave 24. S. Maria in Padovetere 25. L’economia del Delta 26. Le strutture ecclesiastiche 27. Sarcofago di Stefano 28. Le aree produttive

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MUSEI • COMACCHIO

ma l’intervento – unito alla qualità dell’allestimento museale, decisamente elevata – permette oggi di godere di uno spazio architettonicamente mirabile, che si è rivelato particolarmente funzionale alla nuova destinazione dell’edificio. Visitando le sale, si possono peraltro cogliere alcuni degli elementi che connotarono l’Ospedale degli Infermi come una struttura concepita con criteri sorprendentemente moderni, sia nella suddivisione e nell’organizzazione degli spazi, sia con l’intento di tutelare la dignità dei malati e favorirne la cura, come dimostra, per esempio, la scelta di creare sale di degenza ampie, luminose e ben arieggiate.

In alto: cratere attico a figure rosse con il mito di Teseo e il Minotauro, dalla tomba di Valle Trebba (Spina). Attribuito al Pittore dei Porci, 470 a.C.

Genta (1750-1837), che nel 1780 sostituí Foschini nella direzione dei lavori e nel completamento della struttura, di cui disegnò la parte posteriore. Al di là del valore archeologico della collezione esposta, la nascita del Museo Delta Antico ha peraltro rappresentato un traguardo significativo nella storia dell’ex ospedale, se si considera che, negli scorsi decenni, dopo essere caduto in disuso alla fine degli anni Settanta del Novecento, ne era stata ipotizzata la demolizione. Scongiurato il pericolo, il restauro è stato lungo e impegnativo, protraendosi dal 1997 al 2013, 38 a r c h e o

In basso: kylix (coppa a due manici) attica, con una figura femminile che regge a sua volta una kylix e un mestolo, da Valle Pega. 510 a.C. circa.

QUASI UNA VENEZIA ETRUSCA Il percorso espositivo si articola in sezioni tematiche e cronologiche e, dopo un’introduzione sulla natura del territorio e sui suoi mutamenti nel corso del tempo, si può iniziare il viaggio alla scoperta di Spina. La piú ampia delle sale che ne espongono i materiali si impone innanzitutto per l’espediente scelto per evocare una delle caratteristiche salienti della città etrusca, vale a dire quella d’essere composta da nuclei abitati realizzati su altrettan-


La copiosa presenza di materiali importati è la cartina al tornasole del benessere economico raggiunto da Spina fra il VI e il III secolo a.C. ti isolotti: si deve insomma immaginare Spina come una sorta di Venezia ante litteram. E questa sua natura «acquatica» è stata resa creando un percorso leggermente sopraelevato, al di sotto del quale il piano pavimentale è coperto da sabbia, circondata da un serpente luminoso di colore blu, come l’acqua appunto. Seguendo questo bagnasciuga virtuale, si possono ammirare i materiali scelti per offrire un saggio della ricchezza raggiunta dagli Spineti piú abbienti. E non si fatica a cogliere la testimonianza concreta dell’intenso rapporto con Atene e la Grecia: i materiali di importazione sono infatti copiosi e di qualità elevata, con un gran numero di vasi figurati, spesso firmati da gran-

di maestri della ceramografia attica. Va però detto che l’esposizione non punta a sbalordire con una sequenza di forme e colori eleganti: il bello c’è, senza dubbio, ma altrettanto forte e costante è la volontà di presentare i reperti anche alla luce della loro funzione, con insiemi che, di volta in volta, documentano, per esempio, la pratica del simposio o la vita domestica. Com’è logico attendersi, ampio è comunque il risalto dato alle necropoli, di cui si cerca comunque di documentare anche il ruolo di specchio della composizione sociale della comunità, presentando per esempio alcuni dei corredi definiti «eminenti» oppure sottolineando il ruolo del vasellame importato come attestazione dello status dei de-

In alto: particolare della stele di Tito Atilio. Età giulio-claudia, 27-64 a.C. Raffigura Atilia, in posizione centrale e leggermente arretrata che tiene in mano una melegrana, simbolo del legame tra la vita e la morte; a sinistra lo stesso Tito Atilio, e, a destra, Pinnia Febe, che trattiene con la destra un lembo del mantello.

funti. Né mancano le ricostruzioni di alcune sepolture, che offrono un’immagine veritiera delle condizioni in cui i reperti si presentarono agli scavatori al momento della scoperta. Presenza altrettanto importante è quella dei materiali recuperati dal relitto della nave mercantile romana scoperta in località Valle Ponti nel 1981. Fin dall’inizio, si ebbe la cona r c h e o 39


MUSEI • COMACCHIO

In alto: il Trepponti o Ponte Pallotta, simbolo di Comacchio. La struttura fu edificata intorno al 1638, su disegno dell’architetto Luca Danese di Ravenna per volere del cardinale legato Giovan Battista Pallotta: era all’epoca la porta fortificata della città per chi proveniva dal mare lungo il canale navigabile. Nella pagina accanto, in basso: la sala del Museo Delta Antico nella quale è esposta una piroga monossile (ricavata da un unico tronco) databile al IV-V sec. d.C.

sapevolezza dell’importanza del ritrovamento: il carico si presentava infatti pressoché completo, ma, soprattutto, le condizioni di giacitura dell’imbarcazione, rimasta per duemila anni in un ambiente privo di ossigeno, avevano garantito la conservazione di oggetti realizzati con materie prime che solitamente non si conservano nei contesti archeologici, come il legno, il cuoio o le fibre vegetali. La nave fece naufragio con ogni probabilità tra il 19 e il 12 a.C. e trasportava merci di diversa provenienza: piombo spagnolo, ceramica alto-adriatica, vino od olio dalla costa adriatica, dalle isole greche, dall’Asia Minore, ceramica da tavola o da cucina, legname, carne, profumi, piccoli oggetti di devo40 a r c h e o

zione. Gli scavi hanno inoltre permesso di recuperare oggetti di uso a bordo, dall’attrezzatura per il governo e la manutenzione della nave ai corredi personali dei marinai e dei viaggiatori, fra cui scarpe, borse, ceste, parti di abiti e custodie impermeabili in cuoio per il bagaglio; nonché dadi e pedine, contenitori per medicinali, accessori per l’igiene personale.

OGGETTI DEVOZIONALI Di particolare interesse sono anche alcuni tempietti miniaturistici trovati a bordo del mercantile. Si tratta di oggetti che, stando alla testimonianza delle fonti, venivano fabbricati in oro o argento, come ex voto e per pratiche personali di devozione. Nel caso di quelli recupe-

rati a Valle Ponti, che riproducono modelli generici di tempio su podio con colonnine ioniche, si tratta di esemplari realizzati in serie, con lastrine stampate di piombo argentifero, montate con punti di saldatura o a incastro. Per quanto riguarda la nave vera e propria, nei primi anni Novanta, ne è stato effettuato il recupero e lo scafo è tuttora in restauro, all’interno di un padiglione allestito nei pressi di Palazzo Bellini, oggi sede della Biblioteca Civica e dell’Archivio Comunale di Comacchio. È però previsto che, al ter mine dell’intervento, il padiglione possa essere attrezzato per le visite, creando un logico corollario alla visita dei materiali della nave conservati nel museo.


Piú umile, ma pienamente godibile è invece una piroga monossile (ricavata da un unico tronco d’albero) di epoca altomedievale, scelta come biglietto da visita della sezione che documenta le fasi comprese fra l’epoca tardo-antica e, appunto, l’Alto Medioevo. Si tratta di un momento cruciale, poiché in quest’epoca si registra la nascita del primo nucleo di quella che, nel tempo, sarà poi l’odierna Comacchio.

DAZI E PEDAGGI Ancora una volta, è il Po a decretare le sorti dell’insediamento: il documento noto come Capitolare di Liutprando (databile al 715 o al 730) – che contiene la prima menzione a oggi nota della città – stabilisce i rapporti tra i Longobardi e gli abitanti di un nuovo centro, Comacchio, per regolare i commerci lungo il fiume e i suoi affluenti. I Comacchiesi sono autorizzati a trasportare le loro merci nell’interno fino alla capitale del regno longobardo, cioè Pavia, ma con l’obbligo di pagare dazi e pedaggi in una serie di stazioni o punti di approdo lungo i fiumi. Il Capitolare prova dunque che, agli inizi dell’VIII secolo,

Il culto del Po Nella sezione del Museo Delta Antico che documenta la storia del territorio in epoca romana sono esposte le due antefisse in terracotta riprodotte in questa pagina e caratterizzate dalla curiosa rappresentazione di un essere per metà uomo e metà toro. Sono state ritrovate nell’area di una villa d’epoca romana localizzata nei pressi di Agosta e costituiscono una delle testimonianze piú importanti e significative del culto che si tributava al Po. Il fiume era venerato con il nome di Eridano lungo tutto il

suo corso, per assicurarsene i favori. Come scrive Virgilio, «Le sue acque irrigano infatti pingui campi e selve amene, / ma portano anche rovina perché il re dei fiumi / straripa e travolge pe’ campi stalle e armenti» (Virgilio, Georgiche, I, 481-83). E, piú avanti, è ancora il poeta mantovano a permetterci di decifrare le insolite immagini scolpite sulle antefisse: «E dorato le corna col volto taurino Eridano, / di cui non c’è fiume che si riversi violento / per fertili vaste campagne nel mare purpureo» (Virgilio, Georgiche, IV, 371-73).

era attivo, alle foci del Po, uno snodo commerciale che assicurava lo smistamento per beni di produzione locale (sale), ma anche di importazione mediterranea (spezie, forse olio e garum, cioè una salsa di pesce). Dal testo si può inoltre desumere che gli abitanti di quella Comacchio costituivano una comunità già socialmente organizzata, rappresentata da individui che si fregiavano di qualifiche specifiche, come un presbitero (prete), un magister militum (comandante militare) e due comites (conti). A un presbitero vissuto nel IX secolo, di nome Stefano, è legata anche a r c h e o 41


MUSEI • COMACCHIO

una delle opere di maggior pregio confluite nella sezione dedicata all’età medievale: si tratta del sarcofago realizzato per accoglierne le spoglie e che è stato concesso in deposito al Museo Delta Antico dall’Arcidiocesi di Ferrara. L’arca fu ritrovata nel 1659, quando furono avviati lavori che miravano ad ampliare la chiesa cattedrale comacchiese: come scrisse lo storico locale Gian Francesco Ferri, «ecco adun-

que un gran vaso sepulcrale di marmo, che come porta la sua incrittione fu di Stefano Priore, con due Croci dall’uno e l’altro lato» (da Istoria dell’antica città di Comacchio, Ferrara 1701). Piú tardi, nel 1714, il «gran vaso sepulcrale» venne riutilizzato per il vescovo di Comacchio Nicolò d’Arcano, e, nel 1904, in occasione di nuovi rimaneggiamenti, fu collocato alla base della seconda lesena dell’abside del Duomo, da dove è

stato quindi rimosso, per essere destinato al Museo Delta Antico. Storie di usi e riusi, di epoche storiche che si succedono, popolate da qualche uomo o donna di cui s’è tramandato il nome e da una moltitudine destinata a rimanere anonima, in un palinsesto, come quello di Comacchio e del suo territorio, ricco e composito, che nei saloni dell’ex Ospedale degli Infermi è stato raccontato con efficacia. Il

ALLA SCOPERTA DELLE VALLI Come detto nell’articolo, il Museo Delta Antico è imperniato sulla storia di un territorio dai caratteri fortemente peculiari. La visita delle collezioni archeologiche trova dunque il suo complemento naturale in un’escursione nell’area delle Valli di Comacchio – compresa nel Parco Regionale del Delta del Po dell’Emilia-Romagna –, dove sono ben leggibili le tracce del rapporto che ha da sempre legato le comunità locali all’ambiente lagunare del Delta. Una gita in barca è la modalità di visita ideale, per vedere da vicino le particolarità dell’ambiente dell’area e scoprire le testimonianze, fra le altre, dell’attività che è stata a lungo la risorsa economica principale di Comacchio: la pesca alle anguille. Va infine segnalato che l’escursione consente di ammirare numerose specie animali, uccelli innanzitutto, fra i quali non manca il fenicottero, di cui le Valli di Comacchio accolgono una delle colonie piú numerose del Mediterraneo. Info: www.parcodeltapo.it; www.vallidicomacchio.info

42 a r c h e o

Immagini tipiche delle Valli di Comacchio. L’edificio qui sotto è uno dei casoni che venivano utilizzati dalle squadre di pescatori che, stagionalmente, si dedicavano alla pesca delle anguille.


In alto: il sarcofago del presbitero Stefano (IX sec.), riesumato da una parete del lato destro dell’abside del Duomo di Comacchio e riutilizzato per custodire le spoglie del vescovo Niccolò D’Arcano (1637-1714).

Solesino

San Martino di Venezze

Ad ig

e

Ad ig

Trecenta

A 13

Rovigo

Stellata

Po

Porto Viro

Isola d’Ariano Ariano

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SS16

Mesola Copparo

Bondeno A 13

San Martino Poggio SS64 Renatico

Isola della Donzella

Lido di Velano Migliarino

Voghiera

Lagosanto Lido delle nazioni

Ostellato

Santa Maria Codifiume

San Pietro in Casale

Goro

Codigoro

Tresigallo

Cona

Parco Regionale Veneto del Delta del Po

SS309

Pomposa

Ferrara

Vigarano Mainarda

SS16

Comacchio

Portomaggiore

Lido di Spina Baricella

Molinella

Funo

Argenta

SS309

Longastrino

Lavezzola

A 13

Unigrà Conselice

Budrio

Bologna San Lazzaro di Savena

Rosolina

Adria

Po

Polesella

SS64

Villadose

SS434

Po

Argelato

Rosolina Mare

e

Badia Polesine Lendinara

Museo Delta Antico è dunque la piacevole conferma di come la divulgazione di qualità possa rendere chiari e leggibili anche contesti molto complessi: agli argomenti difficili non giova la banalizzazione, basta trovare le parole giuste.

Chioggia

SR104

Casale di Scodosia

Medicina E 45

Casalborsetti Marina Romea Alfonsine

Fusignano Massa Lombarda Lugo

SS16 A 14

Marina di Ravenna

Ravenna

DOVE E QUANDO Museo Delta Antico Comacchio (Ferrara) via Agatopisto, 3 Orario settembre-ottobre: ma-do, 9,30-13,00 e 15,00-18,30; novembre-febbraio: ma-sa, 9,30-13,00 e 14,30-18,00; do e festivi, 10,00-17,00 marzo-giugno: ma-do, 9,30-13,00 e 15,00-18,30; luglio-agosto: tutti i giorni, 9,30-13,00 e 15,00-18,30 Info tel. 0533 311316 oppure 0533 314154; e-mail: info@museodeltaantico.com; www.museodeltaantico.com a r c h e o 43


SCAVI • CASTRUM NOVUM

LA COLONIA RITROVATA SUL LITORALE A NORD DI ROMA, NEL TERRITORIO DELL’ODIERNA SANTA MARINELLA, UNA MISSIONE ITALO-FRANCESE INDAGA SUI RESTI DI CASTRUM NOVUM, CITTÀ FONDATA DA ROMA NEL III SECOLO A.C. E UNO DEI CENTRI ABITATI PIÚ IMPORTANTI DELLA ZONA

L

a città romana di Castrum Novum, importante colonia maritima e scalo portuale tirrenico, venne dedotta nella prima metà del III secolo a.C. sul litorale nord di Roma, a controllo della costa etrusca che era un tempo di pertinenza di Cerveteri. Dal 2010, un progetto 46 a r c h e o

di Flavio Enei

di ricerca indaga l’antica colonia, i cui resti sono oggi compresi nel territorio del Comune di Santa Marinella (al km 64,4 della via Aurelia). Le ricerche vengono condotte a quasi quarant’anni dalle importanti osservazioni di Piero Alfredo Gianfrotta, molte delle quali hanno

coinciso con alcuni fondamentali interventi di salvaguardia curati dalla Soprintendenza: scavi preventivi e di recupero, che hanno impedito la cementificazione dell’area e protetto una cospicua porzione dell’insediamento. I resti dell’abitato, parzialmente sal-


vati dall’operato della Soprintendenza al tempo delle speculazioni edilizie che interessarono il litorale romano negli anni Settanta del Novecento, meritano d’essere riscoperti e valorizzati, per restituire ai cittadini e ai visitatori di Santa Marinella una memoria del passato ormai quasi dimenticata. Alcune strutture superstiti rimangono sparse nell’area compresa tra la Torre Chiaruccia e il Casale Alibrandi e molti altri resti emergono dalla lunga sezione del terreno, visibile sulla spiaggia al di sotto delle caratteristiche moderne «palafitte» di legno che bordeggiano il litorale. Pochi sanno che, con molta probabilità, sotto l’area incolta antistante l’ingresso del vecchio Casale Alibrandi giace il cuore della colonia romana di Castrum Novum, una città cinta di mura, che ebbe proprie istituzioni, un Foro, un teatro, grandi portici, un tempio di Apollo, un archivio, acquedotti, impianti termali e certamente molti altri edifici pubblici e privati ancora da scoprire.

LA TRAMA DELLA STORIA Con le nuove ricerche, si vuole ritessere la memoria, per riallacciare il nostro tempo a quello passato, ricollegando i fili della complessa trama che attraverso i secoli e i millenni unisce le generazioni. Un lavoro condotto nella consapevolezza che il cemento ideale di una comunità sia costituito dalla memoria storica e dalla capacità di quella comunità di accrescerla e conservarla. Chi scrive e tutti coloro che partecipano al progetto stanno investendo risorse perché ritengono che la cultura sia l’unico antidoto ai mali del nostro tempo e che la crescita civile, democratica, nonché, soprattutto, economica del nostro Paese sia legata alla valorizzazione delle risorse offerte dai giacimenti culturali e

naturalistici, che da sempre attendono di essere messi al centro delle politiche di sviluppo. Come logo del nostro progetto, abbiamo scelto il rilievo con scene gladiatorie proveniente da Castrum Novum (vedi box a p. 49), poiché ci è sembrato il simbolo ideale della lotta perenne tra la memoria e l’oblio, la conoscenza e l’ignoranza, tra chi opera per la cultura e la crescita

Nella pagina accanto: Castrum Novum (nel territorio dell’odierna Santa Marinella, Roma). Foto aerea della porzione meridionale della grande peschiera delle Guardiole: si riconoscono i canali di adduzione dell’acqua, oggi utili per lo studio dell’avvenuto sollevamento marino. In alto: statuetta votiva di divinità femminile di fattura magno-greca (forse una Hera pestana), dal fondale di Castrum Novum (Capo Linaro).

civile e chi la distrugge, togliendo risorse e gettando cemento sui nostri paesaggi e sulla storia di tutti.

LA COLONIA ROMANA Secondo la testimonianza di Velleio Patercolo (I, 14, 8), la fondazione della colonia romana di Castrum Novum, una colonia civium romanorum, sarebbe avvenuta nel 264 a.C., in coincidenza con le vicende storiche legate alla prima guerra punica; di certo dopo il 273 a.C., quando la fascia litoranea dell’antico ager caeretanus fu confiscata da Roma, in seguito all’avvenuta sconfitta della coalizione etrusca capitanata da Tarquinia. Per controllare il Tirreno centro-settentrionale e gli interessi strategici e commerciali che su di esso gravitavano, nel territorio acquisito con la confisca, oltre a Castrum Novum (264 a.C.), furono dedotte le colonie di Pyrgi (pr ima metà III secolo a.C., presso Santa Severa), Alsium (247 a.C., presso Palo Laziale) e Fregenae (245 a.C., presso la località omonima). L’insediamento di Castrum Novum venne posto in posizione strategica di controllo al limite settentrionale del territorio ceretano, presso il sito di Torre Chiaruccia a Santa Marinella, non lontano dall’antico confine con l’ager di Tarquina, forse da individuare nell’attuale corso del fosso Marangone. La posizione dell’abitato è ben indicata dall’Itinerarium Antonini e dall’Itinerarium Maritimum a otto miglia di distanza da Pyrgi e cinque da Centumcellae; leggermente diversa risulta invece l’indicazione della Tabula Peutingeriana, che, da Centumcellae a Castrum Novum, indica una distanza di sole a r c h e o 47


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quattro miglia. Il centro antico viene menzionato nei testi dell’Anonimo Ravennate (Cosmographia IV, 32), di Guidone (Geografica 34), di Pomponio Mela (De Chor. II, 72) e di Plinio il Vecchio (N.H. III, 51) che lo colloca sulla costa etrusca. Da ultimo è Rutilio Namaziano a ricordarne la presenza intorno al 416 d.C. (Rut Nam I, 231-235).

teriali (vedi box alle pp. 50-51). Di tali campagne di scavo, intensive e sistematiche, non ci resta purtroppo alcuna descrizione che consenta di posizionare le aree indagate e di conoscere le strutture e i contesti di provenienza dei reperti. Tuttavia, la presenza di basi di statue con dediche a vari imperatori insieme a quella di iscrizioni pubbliche relative alla costruzione e al restauro di monumenti cittadini, lasciano supSOTTO L’EGIDA PAPALE In alto: la sezione della Tabula Per la sua posizione rilevata sul ma- Peutingeriana comprendente Castrum porre che «le cave» volute da papa Pio VI abbiano intercettato anche re e facilmente accessibile, l’area Novum. XIII-XIV sec. Vienna, luoghi ed edifici localizzabili all’inurbana dell’antica Castrum Novum è Biblioteca Nazionale. Il sito è terno dell’area urbana (come il Fostata interessata dagli scavi pontifici localizzato sulla via Aurelia, tra ro, l’Augusteum e il teatro). del XVIII secolo, curati dalla Reve- Punicum (oggi Santa Marinella) e Nuovi importanti scavi furono inrenda Camera Apostolica, iniziati Centumcellae (Civitavecchia) a 4 trapresi nella seconda metà dell’Otsotto la direzione di Giovanni Cor- miglia di distanza da quest’ultima. radi nel 1776 e conclusi nel 1796, In basso: le colonie marittime dedotte tocento da Raffaele Alibrandi Vacon Giuseppe Alibrandi. In partico- da Roma nel III sec. a.C., lungo l’antico lentini, subentrato nella proprietà del terreno. Salvatore Bastianelli, lare, fra il 1776 e il 1779, vennero litorale ceretano: Castrum Novum nella sua opera edita nel 1954 dedirecuperate sculture di grande pre- (264 a.C.), Pyrgi (prima metà del cata a Centumcellae e Castrum Nogio, oggi nei Musei Vaticani, nonché III sec. a.C.), Alsium (274 a.C.), vum, insieme al ricordo di queste marmi, metalli, monete e altri ma- Fregenae (245 a.C.).

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I DUELLANTI

esplorazioni, segnala anche la presenza dei ruderi del teatro situato a sua detta «sopra una breve altura, poco lontano dal Casale Alibrandi». Le ricerche nell’area urbana di Castrum Novum, sembra siano riprese soltanto quasi cento anni dopo gli scavi Alibrandi, a eccezione del ritrovamento fortuito del dito di bronzo di una statua colossale e di una testa in marmo dell’imperatore Traiano a grandezza naturale, avvenuto nel 1891 e di alcune ricognizioni di Bastianelli, svolte negli anni Trenta del Novecento.

Nel Museo Nazionale di Civitavecchia si conservano due lastre di calcare con scene chiaramente riferibili a ludi gladiatori, con ogni probabilità provenienti dall’area di Castrum Novum e databili, secondo Piero Alfredo Gianfrotta, nei primi decenni del I secolo d.C. Si tratta di scene relative al confronto tra uomini appartenenti a due note classi gladiatorie dell’antica Roma i parmularii e gli scutati. La prima lastra potrebbe rappresentare il momento iniziale dello scontro tra due mirmilloni armati in maniera identica, con elmo, scudo ricurvo, spada corta e un solo schiniere (foto in basso); la seconda lastra sembra invece proporre l’ultimo atto dell’avvenuto confronto tra un gladiatore trace e un mirmillone. In entrambe le lastre, sui lati superiori e in quelli laterali, sono ben riconoscibili i classici fori da grappa destinati al fissaggio degli elementi e sul lato posteriore sussistono tracce di calce. È molto probabile che i due elementi architettonici facciano parte del ciclo decorativo di un monumento funerario, forse situato lungo l’antica via Aurelia, appartenuto a qualche ricco personaggio della colonia di Castrum Novum, attivo nell’organizzazione di spettacoli gladiatori. La presenza del sepolcro nell’area prossima al centro urbano potrebbe anche segnalare in via indiretta l’esistenza di un possibile anfiteatro tra gli edifici monumentali della città.

LE NUOVE SCOPERTE Nella seconda metà del Novecento, l’esplosione edilizia della nuova città balneare di Santa Marinella riportò il sito archeologico al centro dell’attenzione, soprattutto degli organi di tutela che già ne avevano predisposto il vincolo. I terreni furono interessati da scavi di recupero curati dalla Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale: nel 1972, vennero pubblicati la carta archeologica e il lavoro di ricerca di Piero Alfredo Gianfrotta, il cui volume sull’antica Castrum Novum e il suo territorio, costituisce una pietra miliare nella storia degli studi. Molte novità sono emerse grazie alle ricerche svolte negli ultimi anni sul sito di Castrum Novum dal gruppo di lavoro italo-francese guidato a r c h e o 49


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La munificenza di un duumviro Veduta dall’alto dei resti delle sostruzioni della cavea del teatro di Castrum Novum. In una delle iscrizioni rinvenute nel corso degli scavi settecenteschi, si legge che la scena e i gradini dell’edificio vennero costruiti grazie a L. Ateius M. f. Capito, duumvir, che fu promotore di molte altre iniziative edilizie.

I PRIMI RITROVAMENTI Tra le sculture recuperate durante gli scavi settecenteschi, quasi tutte oggi visibili in Vaticano, nel Museo Pio Clementino, ricordiamo: un’erma di Aspasia velata con iscrizione greca (prima metà del II secolo d.C.); la statua loricata con testa non pertinente dell’imperatore Lucio Vero (testa, 161-169 d.C.; corpo, metà del II secolo d.C.); una statua di Bacco giovane (II secolo d.C.; testa adattata da un rilievo di sarcofago della metà del II secolo d.C.); la statua, con testa non pertinente, di un giovane personaggio togato con una bulla appesa al collo (si tratta forse di un ritratto di Tiberio Gemello; il corpo è del 30-50 d.C.; la testa del 20-40 d.C.); una statua di cane molosso seduto (prima età imperiale); una statua di Priapo, divinità romana della

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fertilità (II secolo d.C.). I numerosi materiali rinvenuti comprendono inoltre iscrizioni, a carattere pubblico e religioso, che forniscono informazioni sulla vita municipale, economica, sociale e religiosa dell’antica colonia, in un periodo compreso tra il I secolo a.C. e il III secolo d.C. I testi delle iscrizioni ci informano sull’esistenza a Castrum Novum del Senato locale, formato dai decurioni, ricordano la presenza dell’edificio della Curia sede del Senato medesimo e di un’ara sacra al dio Apollo; è anche attestata la presenza in città di un archivio della colonia (Tabularium) e di un teatro pubblico. Impressi sulla pietra, vi sono poi i nomi di

dallo scrivente insieme ai colleghi Sara Nardi Combescure e Grégoire Poccardi. Ci si avvia finalmente alla conoscenza di alcuni aspetti topografici e monumentali dell’abitato, fino a oggi del tutto sconosciuti. Gli scavi stanno cominciando a documentare sul piano archeologico la nascita e la fine dell’insediamento coloniale, vissuto per almeno ottocento anni, tra il III secolo a.C. e il V-VI secolo d.C., gettando nuova luce anche sulle fasi di frequentazione preromane, relative all’età del Bronzo e all’epoca etrusca arcaica e tardo-arcaica. Sporadici indizi emersi dagli scavi segnalano anche una possibile continuità di vita in epoca altomedievale, ben oltre la fine, quindi, del mondo antico. Decisiva è l’individuazione certa del In basso: statuetta di Bacco giovane, con kantharos e pantera, da Castrum Novum. II sec. d.C. Città del Vaticano, Museo Pio Clementino.


sito del castrum della colonia, che le prospezioni magnetometriche – incrociate con quelle georadar e con i risultati dello scavo – consentono finalmente di identificare al di sotto del leggero rilievo affacciato sul mare, antistante il Casale Alibrandi. Si riconosce il perimetro di un’area rettangolare, cinta di mura in opera quadrata, di almeno 126 x 62 m, per un’areale di circa 7880 mq, simile come impianto al castrum ostiense e a quello di Pyrgi, sebbene di dimensioni minori (vedi box alle p.p 52-53). Una città presumibilmente suddivisa in quattro settori uguali da due assi stradali principali in posizione mediana, corrispondenti alle porte. Per la prima volta sono affiorati i resti di una probabile caserma del III secolo a.C., collocata nella fascia immediatamente a ridosso delle mura, emerse per un lungo tratto in tutta la loro monumentalità. E si tratta di un caso piú unico che raro nel panorama della

personaggi celebri e appartenenti a un elevato ceto sociale, che avevano scelto Castrum Novum come residenza; è il caso di L.

conoscenza delle piú antiche fasi di vita e di organizzazione interna delle colonie marittime di epoca medio-repubblicana. Sulla sommità del rilievo sono tornati in luce altri resti interessanti, forse identificabili con quelli di un teatro avente una cavea di 25 m circa di larghezza, che i bolli laterizi sembrano inquadrare in epoca imperiale, a partire dal II secolo d.C.

UNA GRANDE PIAZZA Di notevole interesse sono anche i dati sulla topografia dell’area extraurbana, al di là del lato meridionale della cinta muraria. L’indagine stratigrafica ha evidenziato la presenza di un’ampia piazza basolata, forse con un lato semicircolare a cui erano addossate strutture riferibili ad almeno due edifici distinti. Fuori dalle mura dell’antica Castrum Novum, lungo la costa e in direzione nord, le ricerche sono proseguite sia nell’area del balneum detto delle

Ateius M. f. Capito, duumvir, promotore di numerose iniziative edilizie, come la ricordata costruzione di una Curia, della scena e dei gradini del teatro, di archivi, un portico e sale per banchetti. Di particolare interesse risultano le iscrizioni della piena e tarda epoca imperiale, relative alle basi di statue onorarie erette dai coloni in onore degli imperatori Adriano (117-138 d.C.), Gallieno (253-268 d.C.), della moglie Salonina († 268 d.C.) e del figlio Valeriano (250-258 d.C). Altre basi sono pertinenti agli imperatori Aureliano (270-275 d.C.) e Numeriano (283-284 d.C.). L’iscrizione piú tarda a oggi nota è una dedica dei castronovani all’imperatore Flavio Valerio Severo, rimasto in carica per un solo anno, tra il 306 e il 307 d.C.

Guardiole e del cosiddetto «Edificio quadrato», sia sulla sezione esposta dal mare per un tratto di almeno 300 m a ridosso di Capo Linaro. L’impianto termale – che l’iscrizione su una fistula in piombo ricorda costruito (o restaurato), forse tra la fine del I e gli inizi del II secolo d.C., da Marco Clodio Lunense, console suffecto del 105 d.C. – ha rivelato una complessa storia edilizia, protrattasi per almeno un secolo. Proprio alle spalle della spiaggia, al di sotto delle già citate «palafitte» moderne, lo studio ha rivelato in forma definitiva la presenza di un’ampia fascia di costruzioni, articolate in vari edifici, che comprendono ambienti residenziali, pavimentati a mosaico con rivestimenti e colonne marmoree e pareti dipinte ad affresco, inseriti in un tessuto regolare, orientato est-ovest. Tali costruzioni, tra le quali si individuano i resti di

Ancora due reperti recuperati nel corso degli scavi condotti nel XVIII sec. a Castrum Novum e oggi conservati in Vaticano, nel Museo Pio Clementino. A sinistra: ara con dedica ad Apollo da parte di membri della gens Statilia, che che ne curarono il restauro. I sec. d.C. A destra: statua di Priapo. II sec. d.C.

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LE MURA E LA CASERMA La scoperta delle mura urbane di Castrum Novum è un passo decisivo nella ricostruzione della storia e della topografia dell’antica colonia. La fortificazione, segnalata dalle prospezioni magnetometriche del 2011, ha dimensioni notevoli: al livello di fondazione, il muro raggiunge uno spessore di 2,80-3,00 m. Lo scavo ha permesso di documentare un tratto lungo 40 m circa, con la relativa stratigrafia di distruzione e di spoglio, antico e moderno. Il muro è costruito con grandi blocchi in pietra di scaglia, disposti a formare filari di opera quadrata posti alternativamente di taglio e di testa. Rimangono in opera i resti di almeno due filari ancora ben riconoscibili. Da segnalare è il rinvenimento di una moneta (una litra

romano-campana probabilmente databile tra il 312 e il 290 a.C.) avvenuto sul banco naturale in scisti argillosi sul quale poggia il muro. Tale presenza sui livelli di fondazione della struttura, insieme alle ceramiche a vernice nera, sembra confermare la datazione della deduzione coloniale nella prima metà del III secolo a.C., finora attestata solo dalle fonti scritte per l’anno 264 a.C. (Vell. Pat. I, 14, 8). Alla struttura difensiva si appoggiano direttamente gli ambienti del vasto complesso edilizio che solo in piccola parte è stato possibile esplorare. In particolare, i dati emersi dallo scavo dell’Ambiente 2 confermano – con le anfore greco-italiche e la ceramica a vernice nera – l’avvenuta costruzione del A sinistra: il settore D I in corso di scavo, con le mura del III sec. a.C. e i resti della probabile caserma a esse addossata. Nella pagina accanto, in alto: l’area urbana, con il muro di fortificazione del lato meridionale del castrum del III sec. a.C.

probabili ambienti termali, di fogne e condutture d’acqua, si affacciavano direttamente sul mare, di fronte agli impianti di itticoltura, con ampia vista sulla rada portuale.

L’ABBANDONO E IL RIUSO In epoca tardo-antica, l’area, in via di abbandono, venne senza dubbio utilizzata per fini sepolcrali come testimoniano i resti di tombe del tipo a cappuccina presenti nella sezione, alcune delle quali risultano purtroppo saccheggiate in passato da scavatori clandestini. Anche nello specchio di mare antistante la città antica, protetto dal 52 a r c h e o

promontorio di Capo Linaro, sono proseguiti gli studi e le ricerche sottomarine che, oltre ad approfondire la conoscenza dei fondali e della topografia dell’insediamento prospiciente la spiaggia, hanno riguardato soprattutto le grandi peschiere semisommerse che con la loro notevole estensione occupano un’ampia fascia del litorale. Sulle peschiere di Castrum Novum, si è concentrata l’attività del Centro Studi Marittimi del Gruppo Archeologico del Territorio Cerite (GATC), che ha realizzato una nuova documentazione dei complessi, utile per la conoscenza della loro cronologia, dell’antico

funzionamento, nonché del livello marino in età romana. Sono ormai acquisite la costruzione avvenuta in piú fasi a partire dall’epoca repubblicana e la presenza di un lungo antemurale difensivo delle strutture, che scherma dal libeccio la peschiera principale, creando una sorta di darsena protetta funzionale agli impianti. Siamo dinnanzi a uno dei piú antichi e vasti complessi di peschiere del Mediterraneo. Le indagini hanno portato alla scoperta di altri interessanti elementi cronologici e strutturali anche nella peschiera absidata, che risulta a sua volta protetta da


In basso: Ricostruzione grafica ipotetica degli edifici adibiti a caserma addossati alle mura del castrum nel III sec. a.C.

complesso nella prima metà del III secolo a.C., in un momento contemporaneo o di poco successivo all’innalzamento delle mura. La prospezione magnetometrica ha evidenziato la notevole estensione del fabbricato, formato da numerosi ambienti rettangolari contigui, organizzati secondo uno schema regolare. Tale sequenza di camere, che risale alla fase di fondazione della colonia, è forse da interpretare con i resti degli alloggiamenti dei militari addetti al presidio del castrum nel III secolo a.C. Sembra trattarsi di un lungo edificio, una caserma, forse articolata in piú blocchi edilizi, addossata direttamente alle mura per motivi logistici e di spazio.

una notevole massicciata di pietre posta a schermare le mareggiate. I ritrovamenti subacquei di numerosi frammenti di dolia (plurale di dolium) avvenuti nel tempo nello specchio di mare antistante le palafitte segnalano la probabile presenza del relitto di una nave doliaria, da identificare, forse, data la sua possente struttura costruttiva, con quello scavato dalla Soprintendenza nel 1996/97 nell’area portuale antica. Tra i materiali che documentano l’ultimo periodo di vita della città, si segnala la presenza di prodotti in ceramica sigillata africana decorata a stampo con motivi vegetali stiliz-

zati, rami di palma, motivi geometrici con cerchi concentrici dentellati. Sono ben attestate le forme Hayes 61, 67, 68, 91A/B, lucerne, anfore e diverse monete di epoca tardo antica databili nel IV e V secolo, con particolare concentrazione nel periodo compreso tra il 350 e il 500 d.C.

UN TERRITORIO CONTESO Tra le monete, spiccano alcuni follis emessi dall’imperatore Valentiniano III tra il 425 e il 455 d.C. e, soprattutto, un mezzo follis bizantino dell’imperatore Giustino II, databile tra il 565 e il 578 d.C. Quest’ultima

presenza, purtroppo a oggi quasi isolata nel contesto, attesta in ogni caso una frequentazione, seppure sporadica, dell’area urbana ancora nel VI secolo d.C., forse in coincidenza e subito dopo l’epoca delle guerre greco-gotiche, che videro l’antico litorale ceretano fino a Centumcellae aspramente conteso tra gli eserciti goti e bizantini. Sulla base dei dati a oggi disponibili possiamo affermare con buona sicurezza che la città di Castrum Novum sia rimasta ancora attiva e frequentata per tutto il IV secolo d.C. e che soltanto nel secolo successivo sia iniziato l’abbandono, a r c h e o 53


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LA SPADA IN FONDO AL MARE I fondali di Castrum Novum hanno restituito una spada in bronzo, rinvenuta nello specchio d’acqua protetto dalla punta di Capo Linaro subito antistante l’area occupata in epoca storica dalla colonia romana: si tratta di un’arma corta, con lama a doppio taglio, di forma rastremato-cuspidata, in buono stato di conservazione. La scoperta riveste una particolare rilevanza, perché la spada è ascrivibile all’età del Bronzo, sia per il tipo di manifattura, sia per la tipologia, confrontabile con quella di un esemplare rinvenuto nel Lago di Mezzano (situato nei pressi di Valentano, in provincia di Viterbo) e datato nell’età del Bronzo Recente. La «Spada di Capo Linaro» costituisce a oggi una delle piú antiche, se non la piú antica in assoluto, arma rinvenuta in mare nel Tirreno centrale. La sua presenza a ridosso della spiaggia potrebbe essere facilmente collegata ad attività di navigazione di cabotaggio praticate dagli abitanti dei villaggi costieri esistiti – a partire almeno dall’età del Bronzo Medio – nell’area poi occupata dal territorio della città di Castrum Novum. Potrebbe trattarsi di un’arma caduta in mare accidentalmente, in seguito a un possibile naufragio oppure gettata in acqua in maniera deliberata per fini rituali. Tuttavia, in considerazione di quanto indicato dai recenti

studi condotti sull’innalzamento marino, vale la pena considerare anche la possibilità che, in realtà, l’oggetto in origine facesse parte di un contesto (sepoltura?) situato sulla terraferma, in prossimità della spiaggia antica, e che soltanto l’ingressione marina degli ultimi cinquemila anni lo abbia di fatto portato in acqua, su un fondale di 2-3 m.

vasi etruschi a figure rosse, un coperchio con iscrizione graffita (vedi box nella pagina accanto), tegole e una moneta punica in bronzo. Questi reperti, inquadrabili tra il VI e il IV secolo a.C., suggeriscono che anche nel caso di Castrum Novum la colonia romana sia stata collocata su già segnalato da Rutilio Na- un sito etrusco preesistente, a conmaziano intorno al 416 d.C., trollo della rada portuale e di un ma che si fece definitivo soltanto punto di approdo d’interesse strategico, utilizzato da secoli. verso al fine del secolo. Per quanto riguarda le preesistenze preromane nell’area urbana di CaPRIMA DELLA COLONIA strum Novum, grande interesse ha La frequentazione etrusca costitususcitato il ritrovamento, sebbene isce quindi un fenomeno di noteancora sporadico, di ceramiche re- vole rilievo: soprattutto perché la sidue di epoca etrusca arcaica tra le presenza preromana era stata fino a quali si segnalano frammenti in oggi ben documentata solo dai impasto rosso bruno, bucchero, ba- ritrovamenti subacquei avvenuti cini in impasto chiaro sabbioso, nello specchio d’acqua antistante A sinistra: la spada dell’età del Bronzo dalle acque antistanti Castrum Novum (Capo Linaro). A destra: subacquei del Centro Studi Marittimi del GATC in attività di rilievo sui fondali di Castrum Novum.

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la città, protetto dal Capo Linaro. I materiali che anche la terraferma comincia a restituire, propr io nell’area occupata dal castrum romano, autorizzano a ipotizzare l’esistenza di un insediamento costiero attivo già in epoca etrusca, sito a ridosso della rada portuale, necessario per ovvi motivi di controllo, di assistenza e di gestione delle attività marittime. Si rafforza dunque l’ipotesi che anche a Castrum Novum, cosí come a Pyrgi e Alsium, la colonia romana sia stata dedotta esattamente sul luogo di un preesistente scalo portuale ceretano, a cui potrebbero aver fatto riferimento, piú o meno direttamente, i versi di Rutilio Namaziano, il quale, giungendo a Castrum Novum, ne ricorda l’antico


QUATTRO NOMI PER TRE PERSONAGGI? Nel corso della campagna condotta nel 2016, è stata rinvenuta un’interessante iscrizione etrusca, graffita su di un coperchio in rozza terracotta, subito all’intorno del pomello. L’iscrizione – studiata da Enrico Benelli, dell’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico del CNR – è stata graffita dopo la cottura, con tratto profondo e sicuro, intorno alla faccia superiore del coperchio, in scriptio continua, e la sua lettura non presenta problemi: titianuseiesucius. Databile verso la fine del IV secolo a.C., il testo lascia aperte varie possibili interpretazioni. È probabile che si tratti di tre individui Titi, Anu e Seie, schiavi di un personaggio di nome Suciu (oppure, eventualmente, che Titi e Anu fossero schiavi di un Seie Suciu, vista l’attestazione della forma Seie come gentilizio). Resta da spiegare che cosa significhi esattamente una sequenza di due o tre nomi incisi sul coperchio di un vaso di uso

nome di Castrum Inui «cancellato dal tempo» (Rut.Nam. I, 223). Prima ancora dell’epoca etrusca il rilievo risulta già frequentato. Durante lo scavo sono stati rinvenuti numerosi frammenti di ceramiche in impasto non tornito, alcuni con tracce di lucidatura a stecca (olle, scodelle, fornello, doli), ritrovati sparsi su tutta l’area esplorata, nella terra rimossa dalle arature.Tali materiali, alcuni dei quali possono forse essere datati nell’età del Bronzo, Recente e/o Finale, indicano con certezza l’esistenza di un insediamento pre-protostorico situato anche sull’altura di Castrum Novum e non solo a ridosso della spiaggia, come finora noto. La frequentazione dell’area r imonta quindi almeno alla seconda metà/

comune; formulari analoghi si ritrovano fra le iscrizioni di possesso oppure fra quelle di dono sacro (nelle quali il donatario non veniva espresso), dal momento che la sua funzione risultava dalla collocazione fisica dell’oggetto iscritto in un santuario. La presenza di piú nomi rende quest’ultima opzione forse preferibile rispetto alla precedente, anche se le circostanze del ritrovamento non permettono, per ora, alcuna conferma.

In basso: iscrizione in lingua etrusca graffita su un coperchio in ceramica. Fine del IV sec. a.C.

fine del II millennio a.C. epoca alla quale appartiene l’eccezionale spada di bronzo rinvenuta nelle acque subito antistanti l’abitato (vedi box alla pagina precedente). Il progetto di ricerca a Castrum Novum, nato su iniziativa del Museo Civico di Santa Marinella-«Museo del Mare e della Navigazione Antica», è reso possibile dalla proficua e stretta collaborazione tra enti italiani e francesi, attivi nella ricerca, tutela e valorizzazione del patrimonio culturale: la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale (nelle persone di Alfonsina Russo, Rossella Zaccagnini e Valeria D’Atri), le Università francesi di Picardia «Jules Verne» (Sara Nardi Combescure) e di Lille 3 (Grégoire Poccardi), il Laboratoir D’Archéologie dell’École Normale Supérieure di Parigi, il Comune di Santa Marinella e l’Associazione di volontari per i beni culturali Gruppo Archeologico del Territorio Cerite con il relativo Centro Studi Marittimi.

PER SAPERNE DI PIÚ Piero Alfredo Gianfrotta, Castrum Novum. Forma Italiae, Regio VII, De Luca Editore, Roma 1972 Flavio Enei, Marie-Laurence Haack, Sara Nardi Combescure, Grégoire Poccardi, Castrum Novum. Storia e archeologia di una colonia romana nel territorio di Santa Marinella, Quaderno 1, Santa Marinella 2011 Flavio Enei (a cura di), Castrum Novum. Storia e archeologia di una colonia romana nel territorio di Santa Marinella, Quaderno 2, Acquapendente 2013 Flavio Enei, Sara Nardi Combescure, Grégoire Poccardi, Jaromir Benes, Massimiliano Galletti, Katerina Kodydkova, Aurelia Lureau, Klara Paclikova, Michal Preusz e Alessandra Squaglia, Castrum Novum (Santa Marinella, prov. de Rome), Chronique des activités archéologiques de l’École française de Rome, Italie centrale 2015: http://cefr.revues.org/1364 Flavio Enei (a cura di), Storia e Archeologia di una colonia romana nel territorio di Santa Marinella, Quaderno 3, Acquapendente 2016 I Quaderni di Castrum Novum e la Chronique dell’EFR sono disponibili anche on line: https://independent.academia.edu/FlavioEnei

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MOSTRE • SIRACUSA

RESTAURO E VECCHI BIGLIETTI... di Sergio G.Grasso

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces. 56 a r c h e o


UNA MOSTRA ALLESTITA A SIRACUSA PERMETTE DI ASSISTERE IN DIRETTA AL RESTAURO DI UNA SERIE DI MUMMIE EGIZIANE PROVENIENTI DALLA NECROPOLI DI DEIR EL-BAHARI. GLI OPERATORI DELL’ISTITUTO EUROPEO DEL RESTAURO, PERÒ, NON SONO I PRIMI A CIMENTARSI NELL’IMPRESA... Un’operatrice specializzata nel corso dell’intervento su una delle mummie attualmente esposte nella mostra «La Porta dei Sacerdoti», allestita nella Galleria Civica Montevergini di Siracusa. I materiali riuniti nella città siciliana provengono da Deir el-Bahari, nei pressi di Luxor, e sono databili al Terzo Periodo Intermedio (1069-715 a.C.).

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MOSTRE • SIRACUSA

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na ricca selezione di sarcofagi e mummie egiziani si può attualmente ammirare a Ortigia, l’isolotto – oggi unito alla terraferma – su cui, nel 733 a.C., sorse il primo nucleo abitativo greco-corinzio di Siracusa. La mostra «La Porta dei Sacerdoti», allestita nella Galleria Civica Montevergini, riunisce 139 preziosi reperti di proprietà della collezione egizia di una delle piú importanti e ricche istituzioni museali d’Europa, i Musées Royaux d’Art et d’Histoire (MRAH) di Bruxelles. I materiali – in molti casi mai esposti prima – provengono da una tomba collettiva, la cachette di Bab el-Gasus («Porta dei Sacerdoti», da cui il titolo scelto per la mostra), scoperta a Deir el-Bahari, nei pressi di Luxor (vedi box a p. 60).

TESORI IN CONVENTO Curato dell’egittologo belga Luc Delvaux, il percorso espositivo si snoda nelle sale della Galleria Civica Montevergini, che ha sede in un ex convento del XIV secolo, a due passi dal Duomo e da Castello Maniace, e illustra con efficacia, pun-

tualità e un ricco apparato didattico-informativo, gli usi funerari e la concezione del mondo dei defunti durante il Terzo Periodo Intermedio (1069-715 a.C.). Per l’occasione i MRAH hanno concesso in prestito anche la mummia di un bambino, che per la prima volta ha lasciato la raccolta belga. Di estremo interesse è la sala che ospita i sei sarcofagi splendidamente decorati dei Grandi Sacerdoti del tempio, oltre a preziose tavole di mummia e numerosi oggetti funerari.

RESTAURI INVISIBILI... Durante la rimozione delle superfetazioni ottocentesche, un sarcofago in corso di restauro a Siracusa ha rivelato sorprendenti testimonianze sul precedente intervento. Le scansioni diagnostiche del laboratorio mobile avevano evidenziato gli elementi metallici e lignei aggiunti per il consolidamento del sarcofago, ma si erano lasciate sfuggire tre

In basso: intervento di ripulitura su una mummia proveniente da Deir el-Bahari. A destra: la busta di una lettera indirizzata al restauratore Armand Bonn, ritrovata in uno dei sarcofagi restaurati.

foglietti di carta infilati dal restauratore con un pizzico di vanità tra il legno e la ri-stuccatura della cassa interna (in prossimità dell’acconciatura) e nel piede del coperchio della cassa esterna. Si tratta di due biglietti da visita e di una nota trascritta su una busta affrancata, indirizzata allo stesso restauratore (parigino, ma residente a Bruxelles) Armand Bonn, che operava per i MRAH e aveva lavorato per i musei di Londra, Parigi e New Orleans. Uno dei biglietti è datato 1894 e reca la firma di Bonn, mentre nella nota autografa, trascritta su una busta affrancata e indirizzata allo stesso Bonn, egli dichiara di aver ultimato

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il restauro dei 6 sarcofagi della collezione nel 1896. Che cosa si intendesse nell’Ottocento per «restauro» appare evidente dall’intestazione delle carte da visita di Bonn, che si dichiara esperto in «Riparazioni Invisibili», collocandolo nel nutrito novero dei restauratori-mimetici, il cui primo obiettivo era di ripristinare l’integrità dei reperti anche a costo di aggiunte, inserimenti e integrazioni di carattere puramente cosmetico. In questa pagina: radiografie eseguite sul sarcofago prima del restauro e, in basso, un biglietto da visita di Armand Bonn, restauratore che aveva lavorato sul manufatto alla fine dell’Ottocento.

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MOSTRE • SIRACUSA

IL NASCONDIGLIO DELLE SORPRESE Con la morte violenta di Ramesse III (1185-1153 a.C.), l’ultimo grande faraone della XX Dinastia, il Nuovo Regno si spense fra congiure di palazzo ed effimeri successori, fino a Ramesse XI (1106-1069 a.C.). La lunga fase di degrado che seguí, definita dagli egittologi «Terzo Periodo Intermedio» (1069-715 a.C.), fu caratterizzata dal cedimento dei legami tra la XXI Dinastia, che governava ormai solo il Delta del Nilo, i principati centrali amministrati da principi libici e il territorio tebano, saldamente nelle mani del Primo Sacerdote di Amon. Mentre latitava ogni legge e l’ordine sociale collassava, gli operai si dedicavano alla profanazione e al saccheggio delle tombe che avevano costruito nella vicina Valle dei Re. Lo Stato teocratico tebano, preoccupato di garantire il riposo eterno dei sovrani, prelevò le mummie reali dalle sepolture ufficiali per spostarle fuori dalla Valle, in una cavità su una ripida gola montagnosa della regione di Luxor, in un luogo detto Djeseru Djeseru («Santa delle Sante»), noto oggi come Deir el-Bahari («Monastero del Nord»), dove avrebbero trovato un piú sereno riposo. Che tale fu fino al 1871, quando i predatori di tombe iniziarono la metodica razzia del nascondiglio. Le autorità egiziane posero fine allo scempio dopo dieci lunghi anni e in soli due giorni svuotarono l’intero contenuto della «tomba» (nota come DB 320) che annoverava oltre 40 mummie, tra cui quelle di Ramsete II, Sethi I, Tuthmosi III. Ma le sorprese a Deir el-Bahari non erano finite. Dieci anni dopo, grazie alla confessione di un profanatore di tombe, fu scoperto un secondo nascondiglio oggi noto come «cachette di Bab el-Gasus», la piú grande tomba collettiva non violata d’Egitto, scavata nella XIX Dinastia e riutilizzata come nascondiglio per i membri del corpo sacerdotale di Amon succedutosi a Tebe tra il 1070 e il 900 a.C. Al tempo del ritrovamento, la cachette racchiudeva oltre 250 tra sarcofagi, tavole e coperchi funerari di sacerdoti e sacerdotesse, 200 statue, una quantità eccezionale di ushabti, stele, canopi, panieri, fiori, frutti essiccati e oltre 70 papiri. Com’era nei costumi del tempo, il recupero venne effettuato in modo a dir poco sbrigativo, piú con l’assillo del collezionista che con il discernimento dell’archeologo, e anche lo studio e la classificazione dei materiali fu di fatto superficiale. La vastità del ritrovamento spinse tuttavia il governo egiziano a trattenerne solo una parte, oggi al Museo Egizio del Cairo, mentre destinò una cospicua porzione di quel tesoro alle 17 nazioni che avevano una rappresentanza consolare in Egitto. Nel 1894 dieci sarcofagi e numerosi altri reperti di Bab el-Gasus raggiunsero i MRAH di Bruxelles.

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In alto: ushabti provenienti dalla cachette di Bab el-Gasus a Deir el-Bahari. Bruxelles, MRAH. In basso: una delle mummie attualmente esposte a Siracusa.

Valore aggiunto della mostra è tuttavia la presenza di un avveniristico laboratorio mobile espositivo, il «Modulo Europa», una teca in vetro di 16 x 3,5 m, progettata e realizzata dall’Istituto Europeo del Restauro per gli interventi in pubblico. All’interno di questa «camera operatoria trasparente» i tecnici dell’Istituto, coordinati da Teodoro Auricchio e coadiuvati da un gruppo internazionale di stagisti-specializzandi, eseguono ogni giorno davanti agli occhi dei visitatori operazioni di estrema delicatezza e responsabilità. Lo fanno utilizzando laser d’ultima generazione, microscopi, apparecchiature diagnostiche, telecamere ma contano so-


ALTA FORMAZIONE L’Istituto Europeo del Restauro è un polo internazionale di alta formazione per il settore del restauro e della conservazione dei beni culturali. Nato dall’intesa e dalla collaborazione di importanti partner del mondo della cultura e dell’industria, l’Istituto opera nel campo della formazione, ricerca e specializzazione professionale, per favorire la crescita culturale nel settore del restauro, trasmettendo ai giovani i valori dell’etica professionale. L’Istituto offre un articolato programma didattico di corsi specialistici e monotematici, oltre a una Summer School, un corso di restauro subacqueo e due Master di Alta Formazione sul restauro ligneo e delle pitture murali. Importanti partner del mondo imprenditoriale offrono il contributo economico, scientifico ed etico a sostegno delle iniziative svolte dall’Istituto e dei giovani che vi partecipano. La sede è al Castello Aragonese nell’Isola di Ischia – tel. 081 3334536; sito web: www.istitutoeuropeodelrestauro.it/it/

In questa pagina: due momenti degli interventi di restauro compiuti nel «Modulo Europa», il laboratorio mobile espositivo realizzato dall’Istituto Europeo del Restauro.

prattutto sulla propria perizia e sensibilità, sulla delicatezza del tocco delle mani e sull’alta specializzazione raggiunta. Il pubblico ha la possibilità di vedere dal vivo e in diretta il lavoro dei restauratori e di interagire con gli operatori. Un modo concreto e efficace di esaltare il concetto di fruizione educativa dello spazio museale e di far conoscere al pubblico l’intenso lavoro conservativo e interdisciplinare che si cela dietro l’esposizione di un’opera d’arte, di un reperto antico, di un’emozione del tempo. DOVE E QUANDO «La Porta dei Sacerdoti. I sarcofagi egizi di Deir el-Bahari» Siarcusa, Galleria Civica Montevergini, via Santa Lucia alla Badia fino al 7 novembre Orario ma-ve, 10,00-18,00; sa-do e festivi, 10,00-20,00; chiuso il lunedí Info tel. 392 6608013; e-mail: info@laportadeisacerdoti.com; www.laportadeisacerdoti.com a r c h e o 61


MOSTRE • ROMA

IL PIÚ POTENTE DEI SIMBOLI a cura di Stefano Mammini

«Poi sono andato al Colosseo. L’enorme massa, il lato crollato, il lato in piedi con le sue aperture sul blu. Si aprono ovunque corridoi a volta, in cui le scale consumate sono come pendii. Il colosso è come un pizzo di pietra, con tutte le sue aperture sull’azzurro del cielo. (…) Una rovina cotta dal sole, dorata, maestosa e ancora gigantesca pur se semicrollata» (Émile Zola, Diario di viaggio, 1894) 62 a r c h e o


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accontava, un’amica, guida tur istica a Roma, che qualche tempo fa, aspettando i clienti che avrebbe condotto in visita, ha visto scendere da via delle Terme di Tito (per i non Romani, è una delle strade che, dal Colle Oppio, portano al Colosseo) una giovane coppia di turisti: arrivati al punto in cui l’Anfiteatro Flavio si svela in tutta la sua magnificenza, si sono fermati e lei, commossa, ha cominciato a piangere. L’episodio m’è tornato alla mente visitando la mostra «Colosseo. Un’icona» e credo che la reazione di quella ignota ragazza incarni alla perfezione il senso dell’operazione condotta al primo piano dell’anfiteatro: l’esposizione, infatti, mette innanzitutto a fuoco la potenza simbolica del monumento, sottolineando la capacità che esso ha avuto di affascinare uomini e donne d’ogni origine ed estrazione, dagli artisti ai letterati, dai molti che vi si recavano in pellegrinaggio e pregavano per le anime dei cristiani che

lí avrebbero subito il martirio (anche se, è bene ricordarlo, non esistono testimonianze certe del fatto che il Colosseo sia stato effettivamente utilizzato a tale scopo) a tanta gente comune.

EMOZIONE SENZA TEMPO Uno stupore mai come in questo caso trasversale e dal quale dovrebbero farsi contagiare tutti coloro che tendono spesso a considerarne normale la presenza, primi fra tutti quelli che hanno la fortuna di vivere nella città di cui l’anfiteatro è divenuto l’emblema. Basterebbe poco: per esempio ricalcando le orme della turista, perché quando, come lei, dal Colle Oppio si scende verso il monumento. L’emozione s’avvicina a quella che dovevano provare i tanti che, prima della demolizione della Spina di Borgo, sbucando da uno dei suoi vicoli, venivano letteralmente storditi dalla grandiosità della basilica di S. Pietro, che appariva d’un tratto, immensa, preceduta dall’abbraccio maestoso

In alto: Il Colosseo e l’Arco di Costantino, olio su tela di Gaspar van Wittel. Anni Trenta del XVIII sec. Roma, Antichità Alberto Di Castro. A destra: l’allestimento di una delle sezioni della mostra «Colosseo. Un’icona», visitabile al primo piano dell’Anfiteatro Flavio fino al 7 gennaio 2018.

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MOSTRE • ROMA

del colonnato disegnato da Gian Lorenzo Bernini. In un viaggio temporalmente lunghissimo, dal momento che abbraccia oltre quindici secoli ed è tuttora in corso, «Colosseo. Un’icona» non si pone dunque l’obiettivo di ripercorrere la storia del monumento nei secoli in cui esso prese forma e venne utilizzato per il suo scopo originario. La mostra vuole invece raccontare quel che il Colosseo ha vissuto dopo che ne era venuta meno la sua funzione di edificio per spettacoli, l’ultimo dei In basso: l’iscrizione relativa al restauro del Colosseo effettuato da Rufus Caecina Felix Lampadius, dopo il sisma del 443 d.C. La presenza dei fori per il fissaggio delle lettere metalliche prova che il blocco riutilizza l’iscrizione piú antica (vedi il disegno qui accanto) con la quale si commemorava la costruzione dell’anfiteatro da parte di Vespasiano, poi corretta inserendo la «T» del prenome di Tito, che inaugurò il monumento dopo la morte del padre.

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IL GIGANTE IN VETRINA Carlo Lucangeli, architetto ed ebanista, lavorò al modello in scala 1:60 del Colosseo, per 22 anni, dal 1790 al 1812, effettuando anche anche vari saggi di scavo nell’anfiteatro, cosí da poterne ricostruire esattamente le strutture. Nel 1812, venne anche nominato «custode» del monumento, ma, nello stesso anno, morí prematuramente, cosicché il plastico fu completato dal genero, Paolo Dalbono. Il modello – che figura in mostra all’indomani della conclusione del restauro, avviato nel 2000 – è costituito da 60 settori, distinti e autonomi, assemblati in 5 fasce concentriche, di legni

diversi: le sezioni portanti sono in pioppo; le colonne, gli architravi e le cornici in faggio; invece i capitelli sono in stucco estruso; le transenne e gli abachi sui capitelli sono lamine di piombo ritagliate; gli archivolti sono fusioni di piombo; le carrucole di osso. Il plastico di Lucangeli appartiene a quella serie di riproduzioni tridimensionali che si affermò tra Roma e Napoli nella seconda metà del Settecento insieme con l’interesse per i monumenti antichi, diventando, grazie anche alla sua pubblicazione nel 1827, una fonte iconografica importante in Italia e in Europa.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

quali, stando alle fonti, venne organizzato nel 523 d.C. Ciononostante, l’esordio del percorso è affidato a una ricostruzione in scala del monumento, cosí come doveva presentarsi in origine: infatti, sebbene l’Anfiteatro Flavio sia giunto fino a noi in uno stato di conservazione eccezionale, molti

Nella stessa sezione, è esposta l’architrave, rinvenuta nel 1813, sulla quale è incisa l’iscrizione che commemora i restauri promossi dal Prefetto di Roma, Rufius Caecina Felix Lampadius, all’indomani del terremoto del 443 d.C. Il documento è di particolare interesse, poiché sul marmo sono tuttora ben visibili i fori utilizzati per i perni di fissaggio delle lettere metalliche che componevano una piú antica iscrizione: quella che celebrava l’inaugurazione, nell’80 d.C., dell’amphitheatrum novum, costruito con il bottino (ex manubiis) della conquista di Gerusalemme nel 70.

LO «SDOPPIAMENTO» Nel Medioevo il Colosseo si fa protagonista di una sorta di sdoppiamento: il monumento ha perso la sua funzione originaria ed è stato variamente occupato e riutilizzato, ma è ancora ben vivo il suo valore simbolico. Quest’ultimo è testimoniato dalla frequenza con cui l’anfiteatro ricorre in raffigurazioni di ogni genere: il suo profilo è divenuto sinonimo di Roma e della romaA sinistra: la vetrina in cui è esposto il modello in scala 1:60 del Colosseo realizzato da Carlo Lucangeli. In basso: sigillo aureo di Federico Barbarossa, con la città di Roma Berlino, Staatliche Museen, Münzkabinett. L’edificio al centro raffigura probabilmente il Colosseo.

dei suoi elementi strutturali e, soprattutto, ornamentali non possono che essere immaginati. Il plastico in scala 1:60 realizzato dall’architetto ed ebanista Carlo Lucangeli in oltre vent’anni di lavoro, dal 1790 al 1812, ne offre dunque una «fotografia» realistica e completa (vedi box in questa pagina). a r c h e o 65


MOSTRE • ROMA

nità e non è perciò un caso che compaia, per esempio, sulle «bolle» imperiali di Federico Barbarossa (XII secolo) e Ludovico il Bavaro (1328). Appare anche evidente come in quell’epoca ne sia stata progressivamente messa a punto una vera e propria immagine standardizzata – è forse questo il momento in cui il Colosseo si trasforma nell’«icona» evocata dal titolo della mostra –, testimoniata da una miniatura inserita dai fratelli Limbourg nel Libro d’Ore del duca di Berry (1411-12) e dalla veduta a volo d’uccello di Roma (1413-14), che Taddeo di Bartolo realizza a Siena, nel Palazzo Pubblico. Il plastico ricostruttivo (in alto) e il progetto elaborato da Carlo Fontana nel 1696, per la costruzione di una chiesa nel Colosseo, simbolo della «Ecclesia Triumphans», che sarebbe stata intitolata ai Martiri Cristiani.

Sul fronte di quelle che oggi sarebbero definite «modifiche della destinazione d’uso», le fonti e, negli anni piú recenti, le indagini archeologiche hanno definito un quadro piuttosto variegato. A partire dall’XI secolo, alcuni documenti d’archivio mostrano come molti ambienti dell’anfiteatro fossero ormai occupati da strutture funzionali, definite cryptae, due delle quali (databili tra il XII e il XIII secolo) sono state localizzate grazie a scavi condotti dal 2011. E la mostra è stata scelta come occasione per presentarne per la prima volta i risultati.

ANCHE UNA MACELLERIA La presenza di una grande quantità di frammenti ceramici, relativi sia a recipienti utilizzati nella cottura dei cibi, sia a vasi da mensa, ha inoltre confermato la presenza di edifici residenziali, anche di alto livello. Mentre il ritrovamento, tra le ossa animali, di una notevole quantità di parti di scarto documenta il probabile impiego di alcuni degli am66 a r c h e o


Diciassette o diciotto secoli fa, il Colosseo era il teatro di Roma e l’Urbe era padrona del mondo. Vi si eseguivano giuochi straordinari in presenza dell’imperatore (...) Era il teatro di Roma, del mondo e di grande lustro sociale, tanto che l’uomo che non poteva alludere, in modo del tutto casuale, “al suo palco privato al Colosseo”, si vedeva preclusa la possibilità di muoversi nelle alte sfere» (Mark Twain, Gli innocenti all’estero. Viaggio in Italia dei nuovi pellegrini, 1869)

bienti del monumento come macelleria. La significativa attestazione di monete testimonia invece l’utilizzo del Colosseo anche per attività commerciali, mentre un sigillo in piombo di Urbano IV (1261-1264) è probabile testimonianza della presenza dell’archivio di una famiglia aristocratica o di un ente ecclesiastico. Né mancò l’utilizzo dell’anfiteatro come fortezza: nel XII secolo vi si insediò infatti una delle prime grandi famiglie baronali romane, quella dei Frangipane, che aveva già edificato fortificazioni e complessi residenziali lungo la Via Sacra e nei pressi dell’Arco di Tito (vedi box in questa pagina).

PROPRIETÀ DEL SENATO Nel 1143 il Colosseo divenne proprietà del Senato Romano, che rivendicava i diritti del popolo sul monumento, confiscando tutti i possedimenti dei baroni ostili al governo popolare, ma già nel 1159 rientrò in possesso dei Frangipane. Successivamente passò agli Annibaldi, che nel 1244 ottennero dall’imperatore Federico II la cessione di metà del monumento. Con un breve di papa Innocenzo IV dello stesso anno, su istanza del popolo romano, tale concessione venne però dichiarata nulla. Ciononostante, gli Annibaldi continuarono ad abitare nell’anfiteatro, nella sua parte piú interna.

LA FORTEZZA SCOMPARSA La prima notizia di un complesso fortificato dei Frangipane nel Colosseo è relativa al 1130. Nel 1204 la fortezza viene coinvolta negli scontri tra gli stessi Frangipane e un’altra famiglia aristocratica romana, gli Annibaldi, che a lungo contese loro il possesso del monumento. In occasione della mostra, è stato realizzato un modello della fortezza Frangipane, che sorgeva lí dove oggi c’è lo sperone Stern. La struttura inglobava parte del monumento, di cui furono tamponate alcune arcate dei primi due ordini. Le tracce emerse dai recenti lavori di pulitura hanno portato alla luce lungo l’intero prospetto meridionale del Colosseo – fronte Celio – le tracce della presenza di un camminamento difensivo di legno. Si tratta di una scoperta straordinaria che conferma l’avvenuta scomparsa delle gallerie perimetrali.

Il ballatoio si affacciava sia all’esterno, sia all’interno del monumento. Con il terribile terremoto del 1349 la fortezza crollò e venne abbandonata.

Plastico ricostruttivo (in alto) e restituzione virtuale della fortezza che i Frangipane realizzarono nel XII sec., sfruttando parte delle strutture del Colosseo. a r c h e o 67


MOSTRE • ROMA

Sotto il pontificato di Clemente V (1305-1314), l’anfiteatro tornò sotto la giurisdizione del Senato e del popolo romano; nel 1312, infatti, Arrigo VII costrinse gli Annibaldi a restituirlo al Comune di Roma. Durante l’esilio dei papi ad Avignone (1309-1377), il Senato romano incaricò l’Arciconfraternita del Ss. Salvatore ad Sancta Sanctorum di sorvegliare e ripulire la zona del Colosseo, divenuto dimora di

ladri e prostitute. Nel 1332, in occasione della visita in città di Ludovico il Bavaro, l’anfiteatro ospitò per l’ultima volta uno spettacolo: un combattimento di tori, offerto dal Senato e accolto con entusiasmo dal popolo. Negli anni successivi, nel monumento si impiantò una chiesa, S. Salvatore in Rota Colisei, ricordata in un breve di Pio II del 1461. Secondo l’archeologo Mariano Ar-

«Roma, 11 novembre 1786. Verso sera, arrivammo al Colosseo, mentre si stava facendo buio. Quando lo si contempla, ogni altra cosa sembra piccola; è cosí grande che la sua immagine non si può contenere tutta nello spirito» (Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia, 1787)

mellini (1852-1896), nei pressi dell’anfiteatro sorgevano altre piccole chiese dedicate al Salvatore: una forse addossata al monumento nel lato verso S. Giovanni in Laterano (S. Salvatore de Insula), l’altra presso l’Arco di Costantino (S. Salvatore de Arcu de Trasi), di cui non rimane piú alcuna traccia. Tra il 1366 e il 1369, la Confraternita del Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum cominciò ad acquistare case nel Colosseo e, nel 1381 (o 1386), il Senato Romano donò alla stessa Confraternita, che gestiva il vicino ospedale di S. Giacomo con annessa chiesa (riprodotta in un’incisione dell’Anonimo di Fabriczy del 1568-1572), la terza parte del Colosseo. In questa occasione, su alcuni archi lungo l’asse maggiore, vennero apposti lo stemma del Senato Romano e l’insegna della Confraternita con l’immagine del Santissimo Salvatore, in versione sia dipinta (arco LXV) che scolpita (arco LXIII e arcata centrale orientale) tuttora visibili.

L’OSPEDALE Aperto nel 1383 all’estremità orientale dell’asse maggiore e, stando a un documento del 1435, riservato alle donne, l’ospedale era collegato a una strada selciata che passava all’interno dell’anfiteatro, lungo l’asse maggiore. La chiesa di S. Giacomo, ancora funzionante nel XV secolo, fu trasformata in fienile nel XVII secolo, dopo il trasferimento del nosocomio al Laterano, e demolita nel 1816, per realizzare lo sperone orientale; nel 1895 se ne trovarono le fondazioni, che furono subito smantellate. La chiesa era decorata con dipinti murali documentati tra Sei e Ottocento in acquarelli e disegni. Queste pitture furono il frutto di varie iniziative dei membri della confraternita, scandite tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo. Nella seconda metà del XVI secolo, nel clima di affermazione della 68 a r c h e o


FRONDOSE ARCATE Nel Medioevo e nel Rinascimento, il Colosseo perde pezzi, subisce crolli, viene spogliato di una parte delle sue pietre. Il vento ricopre di terra ogni ripiano e ogni arcata, ognuno con uno speciale microclima, e in questa sorta di giardini pensili e selvaggi si depositano semi di ogni genere. L’anfiteatro si trasforma in «orto botanico”, nel quale crescono arbusti e sterpi, muschi e fiori; rami e liane pendono dalle arcate come in una giungla, la luce filtra attraverso le foglie. L’effetto è strano e incantevole. I botanici si accorgono presto di questa stranezza scientifica – il primo trattato sulla flora del Colosseo è del 1643, e altri seguono fino a tutto l’Ottocento – e con il prevalere della sensibilità romantica la metamorfosi vegetale dell’architettura affascina definitivamente i pittori. Specialmente i Francesi dipingono le vedute cavernose e le arcate orlate di erba e fiori attraverso le quali si sbircia il cielo; lo ritraggono illuminato dalla luna, ombre e luci suggestive ne confondono i profili architettonici antichi e lo trasformano in un luogo dell’immaginazione.

Chiesa di Roma promosso dalla Controriforma, venne avanzata con rinnovato vigore l’idea di consacrare l’Anfiteatro Flavio che già si era diffusa già nel Medioevo. Una temperie nella quale si inserí, per esempio, il progetto di Gian Lorenzo Bernini di edificare una cappella al centro dell’arena.

UN SANTUARIO PER I MARTIRI E ancora oltre si spinse un suo allievo, Carlo Fontana, il quale, nel 1696, firmò un progetto che avrebbe potuto avere gli effetti piú vistosi sull’aspetto del Colosseo e che prevedeva la costruzione di un Santuario dedicato ai Martiri Cristiani. Il monumentale edificio, a pianta centrale, era impostato sull’asse maggiore dell’ellisse ed era integrato da un portico perimetrale. In mostra ne vengono presentati i disegni preparatori e, soprattutto, il plastico che offre una visione tridimensionale all’ambizioso progetto.

Nell’ambito delle ripetute riconversioni a carattere religioso si colloca poi la realizzazione, disposta da papa Benedetto XIV in vista del Giubileo del 1750 e affidata all’architetto Paolo Posi, delle quattordici edicole della Via Crucis, collocate sul perimetro dell’arena. Durante l’occupazione napoleonica, nel corso degli sterri del piano dell’arena, le edicole furono rimosse, e, nel 1814, furono costruite nuove edicole, smontate nel 1874 da Pietro Rosa per riprendere lo scavo dei sotterranei dell’anfiteatro. Finalmente, nel XIX secolo, si cominciò a guardare all’Anfiteatro Flavio con la lente dell’archeologia, grazie agli interventi promossi dallo Stato Pontificio (1805-1806), dal Governo francese (1811-1813) e dal Regno d’Italia (1874-1875, 1895). Le prime indagini furono condotte sul piano dell’arena, nell’intero monumento e lungo l’area circostante, ove gli interri avevano nei secoli (segue a p. 72)

Nella pagina accanto: il modello in scala del Palazzo della Civiltà Italiana (il «Colosseo Quadrato») progettato in occasione dell’Esposizione Universale di Roma programmata per il 1942. In basso: Benito Mussolini in posa con il Colosseo sullo sfondo. 1940 circa.

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MOSTRE • ROMA

I NUMERI 52 m Altezza totale 188 m Asse maggiore 156 m Asse minore 3357 mq Area complessiva che occupava l’arena 527 m Perimetro 2,5 ettari Superficie occupata, inclusa l’area di rispetto delimitata da cippi in travertino 100 000 mc Travertino impiegato 45 000 mc Travertino utilizzato per la sola facciata 73 000 Persone che occupavano la cavea 4 Ordini realizzati in opera quadrata di travertino 80 Arcate nei primi tre ordini, inquadrate da semicolonne con capitelli tuscanici nel primo ordine, ionici nel secondo e corinzi nel terzo 80 Riquadri scandiscono il quarto ordine, intervallati da 40 finestre 8 Gli anni impiegati per costruirlo (dal 72 all’80 d.C.) 100 Giorni consecutivi di giochi per l’inaugurazione, sotto Tito 5000 Le fiere uccise in un solo giorno durante l’inaugurazione

«Hébert aggiungeva che, se necessario, si poteva dormire anche tra le rovine del Colosseo... poiché i benefici del “brivido storico” che vi si provava compensavano il rischio di prendersi una febbre» (Claude Debussy, Il signor Croche antidilettante)

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LE DATE 69-79 d.C. È imperatore Vespasiano. Progetta e avvia la costruzione dell’anfiteatro. 80 Tito, figlio di Vespasiano, inaugura l’anfiteatro con spettacoli che si protraggono per 100 giorni. 81-96 È imperatore Domiziano. A lui di deve la costruzione dei sotterranei dell’anfiteatro e del «quartiere anfiteatrale», di cui fanno parte le caserme per i gladiatori: i Ludi. 217 Incendio. Il Colosseo rimase inagibile per 5 anni e venne nuovamente inaugurato nel 222 d.C. 408-410 Anfiteatro chiuso durante l’assedio e il saccheggio dei Visigoti di Alarico. 523 Regnante Teodorico, si allestisce l’ultimo spettacolo. Ha inizio lo smantellamento delle gallerie che si snodano sul fronte Celio. 847 Un terremoto causa il crollo delle gallerie fronte Celio. IX secolo Il nome Amphiteatrum-Colyseus compare per la prima volta a designare l’edificio, in precedenza denominato Amphiteatrum Caesarum. Il nuovo nome deriva dalla statua bronzea colossale di Nerone che si trovava nelle immediate vicinanze e che Vespasiano trasformò in simulacro del Sole. XI-XIII secolo Colosseo abitato: case a uno o due piani, orti, strade interne. 1130 Il monumento è fortezza della famiglia Frangipane. 1349 Un violento terremoto provoca il crollo della fortezza e l’abbandono dell’abitato. 1397 Bonifacio IX concede un terzo del Colosseo alla Confraternita del Ss. Salvatore ad Sancta Sanctorum per bonificare la zona dai malviventi. In cambio, la Confraternita ha il diritto di vendere le pietre crollate. 1540 Ospedale nel Colosseo, gestito dalla Confraternita. 1750 In vista dell’anno giubilare, Benedetto XIV fa costruire 14 edicole per la Via Crucis sull’arena. 1806 Terremoto: rischio di crollo del fronte orientale. 1806-1807 L’architetto Raffaele Stern costruisce lo sperone in laterizio per rafforzare le strutture perimetrali orientali.

In alto: uno scorcio delle gallerie del Colosseo. Nella pagina accanto: il Colosseo nella seconda metà del Settecento, in una incisione di Giovanni Battista Piranesi.

1810-1813 Primi sterri dei sotterranei, scoperti per 4 m. 1814 Reinterro dei sotterranei causa allagamenti e ricostruzione delle edicole della Via Crucis. 1827 Giuseppe Valadier restaura sul lato opposto l’alzato del monumento costruendo un altro sperone. 1874-75 Pietro Rosa, archeologo e primo soprintendente, scava metà dei sotterranei fino al pavimento. 1938-39 Giuseppe Cozzo completa lo sterro dei sotterranei. 2000 Parziale ricostruzione del piano dell’arena in occasione del Giubileo. 2016 Completamento del restauro della facciata esterna del Colosseo. a r c h e o 71


MOSTRE • ROMA

raggiunto i 6 m d’altezza. Nel 1812 fu rinvenuta la già citata iscrizione di Lampadius, mentre sull’esplorazione dei sotterranei si concentrò Pietro Rosa, nel 1874-1875, guidando quella che può essere definita la prima ricerca archeologica sistematica. Rosa scavò la metà orientale dei sotterranei fino al pavimento e dall’enorme interro emersero gli elementi di marmo della cavea: colonne e capitelli del portico sommitale, parapetti dei vomitoria, gradini, epigrafi. Nel 1895 furono sterrati, 72 a r c h e o

all’esterno del monumento, i versanti Labicano e Colle Oppio, a cura del Ministero della Istruzione Pubblica e del Comune di Roma: testimonianza di queste indagini sono la pregevole statua di Hestia, nonché reperti e frammenti scultorei.

NOSTALGIE IMPERIALI Nel Novecento, l’Anfiteatro Flavio torna a essere strumentalizzato come teatro delle nostalgie imperiali mussoliniane. La maestà del Colosseo si impone sullo sfondo di even-

ti da immortalare o da impiegare in fotomontaggi a uso propagandistico del simbolo piú potente dell’impero, fra gli altri di cui il fascismo andava appropriandosi nella costruzione di una nuova grande Roma. Si apriva l’era del «piccone risanatore»: il paesaggio urbano della Capitale stava cambiando, come rivelano roboanti aeropitture, e la superba Via dell’Impero riallacciava l’anfiteatro al cuore di Roma, con un fuoco prospettico ideale per le parate militari.


Per saperne di piú In occasione della mostra «Colosseo. Un’icona», l’editore Electa ha realizzato due pubblicazioni. La prima, Colosseo, è una monografia nella quale i contributi riuniti provano come il monumento sia stato sempre al centro di una Roma che cambia, non solo dal punto di vista urbanistico, ma anche sociale, divenendo protagonista della cultura contemporanea in tutte le sue espressioni, anche di massa. Il secondo titolo, The

L’interno del Colosseo in un disegno di William Pars. 1775 circa. Londra, Tate Gallery. Si notano la croce al centro dell’arena, la cappella di S. Maria della Pietà e le edicole della Via Crucis, fatte realizzare da papa Benedetto XIV per il Giubileo del 1750.

Colosseum Book, illustra alcuni dei tanti itinerari percorribili alla scoperta della fortuna post-antica dell’anfiteatro, sulla scia del percorso espositivo della mostra stessa. Chi sia interessato a ripercorrere l’intera storia dell’Anfiteatro Flavio potrà naturalmente avvalersi anche della Monografia di «Archeo» Il Colosseo. Biografia di un capolavoro (n. 13, giugno 2016).

la folla esultante. Durante la seconda guerra mondiale il Colosseo fu utilizzato come rifugio e deposito di armi dei paracadutisti tedeschi. Dopo aver svolto la funzione di spartitraffico fino agli anni Settanta del Novecento, epoca a cui risalgono le prime indagini archeologiche condotte con metodo scientifico e interventi di restauro con criteri moderni, l’Anfiteatro Flavio, negli ultimi decenni dello stesso secolo, grazie alla sistemazione a verde e a isola pedonale dell’intera valle del Colosseo, è tornato a essere il simbolo di Roma, di cui è da anni il monumento piú visitato.

gli ipogei, anche se, contestualmente, vennero demolite molte strutture ritenute non pertinenti. Nel 1940 venne realizzato il solaio in cemento armato nell’ingresso occidentale che tuttora consente il transito e l’affaccio sui sotterranei, e, pochi anni piú tardi, furono costruiti, al I e II ordine alle estremità interne degli assi, i belNel ventennio fascista l’arena ospitò vedere che permettono di osservare DOVE E QUANDO le adunate avanguardiste, che causa- le strutture ipogee. rono danni a capitelli e colonne. E, negli stessi anni, furono realizzati LA VERSIONE «Colosseo. Un’icona» vari interventi arbitrari, come l’erra«QUADRATA» Roma, Colosseo ta ricostruzione, nel 1933, di una Mussolini assegnava inoltre al «Co- fino al 7 gennaio 2018 porzione dell’ima cavea nel settore losseo Quadrato», il Palazzo della Orari fino al 30 settembre, tutti i nord-orientale, ripristinando una Civiltà Italiana, un ruolo eminente giorni, 8,30-19,00; 1-28 ottobre, successione di gradini, là dove, in nel cantiere dell’Esposizione Uni- tutti i giorni, 8,30-18,30; dal 29 realtà, erano collocati i sedili in legno versale di Roma. Ma l’ambizioso ottobre 2017 al 7 gennaio 2018, destinati ai senatori. Si dovettero at- progetto era iniziato quando già il tutti i giorni, 8,30-16,30 tendere gli scavi condotti da Luigi regime volgeva al tracollo. Nel giu- Info tel. 06 39967700; Cozzo, tra il 1938 e il 1939, per poter gno del 1944 mezzi corazzati ame- www.coopculture.it liberare interamente le strutture de- ricani sfilano accanto al Colosseo tra Catalogo Electa

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ARCHEOTECNOLOGIA • ARTIGLIERIE NAVALI/2

SCATTI

VINCENTI LE ARTIGLIERIE NAVALI SVILUPPATE DAI ROMANI FUNZIONAVANO COME GIGANTESCHE FIONDE, SPRIGIONANDO UNA POTENZA BEN SUPERIORE A QUELLA DEI MUSCOLI DI UN FROMBOLIERE... A PATTO CHE ACQUA E SALSEDINE NON COMPROMETTESSERO L’ELASTICITÀ DELLE FUNI CHE NE GARANTIVANO IL FUNZIONAMENTO di Flavio Russo

L

a possibilità di scagliare un proietto a una determinata distanza dipende dalla sua velocità al momento del rilascio: piú è elevata, maggiore sarà la gittata, una potenzialità che si dimostrò presto fondamentale nella guerra sul mare. Colpire a distanza al di là dello sporadico speronamento, difficile da eseguire e non privo di rischi (vedi la puntata precedente, in «Archeo» n. 390, agosto 2017), costituí da allora l’essenza del combattimento navale, con un progressivo incremento del raggio d’intervento delle artiglierie di bordo, neurobalistiche prima, a polvere pirica poi. Poiché l’accelerazione fornita dai muscoli dell’uomo è sempre scarsa,

sin dalla preistoria, si escogitarono, semplici quanto efficaci congegni di lancio, propriamente definiti propulsori, ma piú noti come archi, fionde e cerbottane. Per accrescere ulteriormente la gittata, furono realizzate macchine da lancio azionate In basso: disegno che illustra in maniera schematica le quattro modalità di deformazione elastica di un solido: A. flessione; B. torsione; C. trazione; D. compressione.

C

B

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In alto: incisione ottocentesca nella quale si immagina la battaglia combattuta dai Siracusani contro gli Ateniesi nell’inverno del 415-414 a.C. Dieci anni piú tardi, al governo della città siciliana salí il tiranno Dionisio il Vecchio, che operò piú volte sul mare e, secondo Diodoro Siculo, contribuí in maniera decisiva allo sviluppo delle artiglierie navali.

dallo sforzo concomitante di piú uomini, lentamente accumulato e fulmineamente restituito su comando. Tra le piú antiche applicazioni, vi furono le trappole, ottenute perlopiú flettendo un sottile fusto d’albero. Si intuí anche che, dopo alcuni cicli, la maggioranza delle piante non tornava piú diritta e solo alcune sembravano conservare inalterata

quella singolare proprietà. Per contro, altre ancora, spezzandosi, dimostrarono di non possederla affatto: per la fisica è definito elastico il comportamento reversibile e anelastico, o plastico, quello contrario. La deformazione elastica di un solido si manifesta in sole quattro modalità: la flessione, quando viene piegata una lamina di discreta lunghez-

za; la compressione, quando un oggetto viene schiacciato simultaneamente da due forze uguali e contrapposte; la trazione, quando lo stesso è invece tirato simultaneamente da due forze uguali e contrapposte; e, infine, la torsione, quando si fanno ruotare inversamente le sue opposte estremità (vedi disegno alla pagina precedente). a r c h e o 75


ARCHEOTECNOLOGIA • ARTIGLIERIE NAVALI/2

Secondo Diodoro Siculo, lo zelo degli operai incaricati della costruzione della catapulta fu incentivato dalla «rilevanza dei salari» e dalla «quantità di premi» Stando a vari testi redatti in caratteri geroglifici, le quattro modalità appena accennate trovarono, già nel II millennio a.C., utilizzo corrente in utensili e armi. È dunque plausibile che, nel V-IV secolo a.C., la vasta esperienza maturata fosse messa a profitto per sfruttarla in macchine da lancio collettive. Tra le deformazioni suddette, la flessione – presto sostituita dalla torsione – si confermò come la piú idonea allo scopo, dal momento che alcuni materiali si dimostrarono capaci di mantenere abbastanza a lungo la loro elasticità. In particolare, la torsione si rivelò cosí efficace da essere nel giro di pochi anni la piú adottata in assoluto, per cui si costruirono gruppi propulsori a torsione: sia in allestimento a due matasse verticali, con bracci a fulcro interno o esterno, che a matassa singola orizzontale. 76 a r c h e o

Le fonti collocano la loro invenzione tra la fine del V e gli inizi del IV secolo a.C., nell’ambito dei preparativi bellici del tiranno di Siracusa Dionisio il Vecchio, il quale, stando a Diodoro Siculo, «riuní operai qualificati, alcuni venuti per requisizione dalle città che gli erano sottomesse, altri attratti dall’Italia e dalla Grecia, e anche dall’impero cartaginese, dalla prospettiva di alti salari. In effetti aveva intenzione di costruire una grandissima quantità di armature e ogni sorta di armi da getto, oltre a navi a quattro e cinque file di rematori, un tipo di navi che fino ad allora non era ancora mai stato messo in cantiere (…) Di certo proprio allora a Siracusa fu inventata la catapulta, in seguito al concentrarsi in un luogo solo di eccellenti operai qualificati venuti da ogni dove, fece da incentivo al loro zelo la rilevanza dei salari e la quantità di premi offerti a chi fosse giudicato il migliore».

Secondo fonti meno laconiche ed enigmatiche, l’arma segreta di Dionisio – nonché complemento ideale delle sue navi da guerra e piú nota come gastrafete – consisteva in un arco fissato a un teniere di legno, munito di un elementare congegno di scatto: in sostanza un’antesignana balestra medievale. Quanto al nome, lo derivò dalla procedura di caricamento, che si effettuava spingendo con l’addome una staffa posteriore arcuata, dopo aver bloccato la parte anteriore di una slitta contro un rigido ostacolo. Realizzata anche in varianti piú grandi, da posta, la nuova arma debuttò con successo nel 397 a.C., durante l’assedio all’isolotto di Mozia, trasformato dai Cartaginesi in munita base navale. Secondo la tradizione, l’avvento e l’evolversi delle macchine da lancio ebbero come sfondo preminente gli


investimenti ossidionali. Sembra tuttavia piú verosimile che si trattò di macchine che, per peso e ingombro, vennero destinate innanzitutto all’impiego navale, non caso confermato dal loro esordio contro una piazzaforte marittima. Del resto, la constatazione della facilità con cui schiantavano tavolati e scudature fece subito prefigurare il ruolo dirimente che avrebbero potuto fornire nei combattimenti navali, nei quali i bersagli erano uno scafo fatto di sottili tavole e un equipaggio protetto da leggeri scudi disposti lungo la murata. Già all’indomani della loro invenzione, le macchine da

lancio trovarono perciò ampia ospitalità sulle navi da guerra, restandovi, sia pure con i debiti aggiornamenti, fino all’età moderna.

VANTAGGI E LIMITI Alla luce di quanto fin qui esposto, il primo impiego dell’artiglieria nella guerra sul mare si colloca agli inizi del IV secolo a.C., e l’evoluzione dell’arma venne naturalmente influenzata dai vantaggi che garantiva negli scontri. Liberi dal condizionamento del peso e dell’ingombro, i costruttori ne aumentarono le dimensioni, incrementandone vistosamente le pre-

stazioni, soprattutto dopo l’adozione del propulsore a torsione. Molteplici indizi suggeriscono che quelle nuove artiglierie siano state messe a punto per la prima volta presso la corte di Filippo II di Macedonia, sul finire della prima metà del IV secolo a.C. Normalmente si componevano di due matasse elastiche verticali, nelle quali vennero impegnati tozzi bracci, alle cui opposte estremità si fissò la corda arciera. L’immediata diffusione dei propulsori a torsione sancí l’abbandono di quelli a flessione, testimoniando, sia pur implicitamente, il ruolo sostenuto dalla tecnologia

Nella pagina accanto: Pompei, Casa dei Vettii. Particolare di un affresco raffigurante navi da guerra che lasciano il porto. I sec. d.C.

Lanciasassi a flessione Ricostruzione virtuale del grande gastrafete lanciasassi da posta, attribuito a Isidoro d’Abido. La potenza dell’arma è implicitamente confermata dall’utilizzo del suo robusto verricello di coda non solo per caricarla, ma anche per riportare la slitta in posizione di riposo.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

Gastrafete Ricostruzione virtuale del gastrafete inventato a Siracusa sul finire del V sec. a.C. per iniziativa del suo tiranno Dionisio il Vecchio nel suo allestimento originario, senza il verricello di caricamento.

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ARCHEOTECNOLOGIA • ARTIGLIERIE NAVALI/2

navale nella loro elaborazione. Infatti, chiunque si fosse trovato a bordo di una qualsiasi imbarcazione era consapevole della terribile energia accumulata in una corda sottoposta a tensione, e della sua istantanea e violentissima cessione al termine della sollecitazione; tutti sapevano che, torcendo una fune, se ne esasperava talmente la tensione da farle serrare con un paio di spire l’intero scafo! Del resto, le corde si producevano da secoli, principalmente per l’impiego navale e il ricorso ai cordai

costituisce già un significativo indizio della stretta contiguità fra l’artiglieria elastica e le costruzioni navali. La vera diversità risiedeva nelle fibre adottate che, a differenza delle gomene – ottenute con fibre vegetali ritorte –, erano in questo caso materie d’origine animale, per l’esattezza tendini bovini filati, crini di cavallo e, spesso, capelli femminili. Ed essendo ottenute, come le gomene, torcendone le fibre, le artiglierie elastiche assunsero la definizione generica di tormenta. Quanto ai motivi dell’impiego di

fibre cheratinose, quali che fossero, esso dipese dalla loro straordinaria elasticità, che risultava ideale per allungamenti spinti e reiterati, mantenendo quasi inalterata la connotazione iniziale. Unica e non irrilevante deficienza dei motori a torsione era la natura igroscopica delle matasse: se bagnate o esposte all’umidità, accusavano una drastica perdita di potenza. Quando si cominciò a farne uso nei climi nordici e forse prima ancora in ambito navale, esse vennero racchiuse in appositi contenitori cilindrici se-

Gruppo propulsore Gruppo propulsore romano del I-II sec. d.C., realizzato con telaio di ferro, ad ampia visibilità, e cilindri di rame per la protezione delle matasse dall’acqua.

La catapulta di Traiano Ricostruzione virtuale della catapulta a telaio di ferro e cilindri di rame, volgarmente ribattezzata «scorpione», utilizzata da Traiano nelle campagne daciche e ampiamente raffigurata sulla Colonna Traiana.

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A sinistra: ricostruzione dello scorpione di Ampurias. In basso: il gruppo propulsore dello scorpione di Ampurias.

mi-stagni.Tuttavia, poiché, sia nelle fortificazioni che in mare, la stagione degli assedi e della navigazione era quella estiva, le piogge risultavano un evento eccezionale, rendendo tollerabili le controindicazioni appena descritte.

LE ALTERNATIVE Ciononostante, il problema esisteva, soprattutto in alto mare, quando lo spruzzo di un’onda era sufficiente a mettere fuori uso l’armamento di una nave.Tra le proposte piú sofisticate per abolire le matasse nervine, spicca quella dell’ingegnere e inventore greco Ctesibio di Alessandria (III secolo a.C.), che suggeriva la costruzione di una catapulta a molle di bronzo. Somigliava a quelle che oggi definiamo molla composta a foglie e volgarmente solo balestra. Spianate e curvate con precisione, le foglie venivano levigate accuratamente, per farle scorrere liberamente fra loro: due coppie di foglie, unite per le concavità opposte, formavano a r c h e o 79


ARCHEOTECNOLOGIA • ARTIGLIERIE NAVALI/2

Scorpione Ricostruzione virtuale di uno scorpione a molle di bronzo, la cui invenzione fu attribuita a Ctesibio. Impiegava come elementi elastici due coppie di molle ad arco, o a «balestra», di bronzo a due foglie sovrapposte ciascuna, bloccandole dentro un apposito telaio.

Balista Ricostruzione virtuale di una balista a molle d’aria. Nei due cilindri sottostanti al fusto, accoppiati fra loro, veniva compressa da due stantuffi l’aria, lasciandovela in pressione fino al momento del tiro, quando si sbloccava il ritegno. 80 a r c h e o


un’unica molla, quasi identica a quelle dei vecchi calessi. E quando, scrive Ctesibio (i cui commentari ci sono stati tramandati dai suoi discepoli Filone di Bisanzio ed Erone) «il suddetto meccanismo era a punto, tirando indietro la corda arciera, il braccio ruotava intorno al perno di ferro e pressava una squama con il suo calcagno. Essendo questa pressata sulla sua convessità ed essendo vincolata con entrambe le estremità contro l’altra squama, si raddrizzava e raddrizzava pure l’altra squama che per metà andava ad aderire alla staffa di ferro del telaio che la supportava. Cosí, caricando l’arma come si è descritto, le squame erano costrette a raddrizzarsi perché compresse insieme; ma nella fase di rilascio assumevano nuovamente la loro originale configurazione, impressagli dalla matrice di legno. Liberandosi perciò con notevole forza spingevano il calcagno del braccio violentemente».

LA POTENZA DELL’ARIA Sempre a Ctesibio va ascritta una balista a molle pneumatiche, l’unica a utilizzare la deformazione per compressione, nella fattispecie dell’aria. L’arma non scagliava la palla mediante un getto d’aria, compresso in due cilindri privi di valvole, tramite gli stantuffi accoppiati: spingendoli verso il fondo, l’aria aumentava la sua pressione fino a raggiungere quella necessaria per azionare i bracci. Restava però sempre la stessa, indipendentemente dal numero dei tiri. L’assenza di ogni allusione al boato, che la violenta espansione dell’aria all’esterno avrebbe dovuto produrre – proprio come quando si stappa una bottiglia di spumante – conferma l’ipotesi. Quanto ai cilindri, somigliavano ai vasi per medicinali – rinvenuti in buon numero a Pompei e a Ercolano –, fusi a cera persa in bronzo, al pari degli stantuffi e poi regolarizzati rispettivamente con un’alesatriA destra: cilindri di protezione degli scorpioni romani di età imperiale.

Propulsore a molle Ricostruzione virtuale in dettaglio del propulsore a molle di bronzo ad archi contrapposti e a due foglie sovrapposte, simili a quelle un tempo utilizzate come balestre sotto i calessi.

ce, una sorta di trapano, e con un tornio. Completate le preparazioni, cilindri e stantuffi venivano levigati e lucidati, in modo da contenerne la tolleranza in un decimo di millimetro, a sua volta eliminata con guarnizioni a base di colla di pesce. Quindi, come dice ancora Ctesibio, «colpendo con una mazzola un apposito braccio fece penetrare lo stantuffo con grandissima violenza. Fu possibile os-

servare lo stantuffo scendere rapidamente ma quando l’aria che era stata premuta all’interno fu compressa essa esercitò sul braccio una spinta non minore della piú potente matassa elastica. Liberato il rinvio e cessata la spinta lo stantuffo fu espulso con forza dal cilindro. Successe però che venne fuori anche del fuoco dall’aria che aveva strofinato contro il cilindro nella velocità del suo moto». Quello che l’ingegnere greco, al pari dei colleghi che vennero dopo di lui, non immaginava neppure era il fortissimo riscaldamento dell’aria, quando veniva sottoposta a rapida compressione: oggi, per effetto di tale fenomeno, nei cilindri dei motori Diesel s’incendia il gasolio; in età antica, prendevano fuoco le guarnizioni organiche della sua balista! Un fenomeno che prova l’esistenza della balista pneumatica e, implicitamente, anche di quella a molle di bronzo: è perciò possibile che entrambe abbiano effettivamente combattuto sul mare. (2 – continua) a r c h e o 81


SPECIALE • GUBBIO

IGUVIUM

ALLEATA FEDELE

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GUBBIO FU IL PRIMO CENTRO UMBRO AD ALLEARSI CON ROMA. UN LEGAME SANCITO DALLA CONCESSIONE DI NUMEROSI PRIVILEGI, TRA I QUALI FIGURAVA LA REALIZZAZIONE DI EDIFICI DI PREGIO E GRANDI MONUMENTI, PRIMO FRA TUTTI IL MAESTOSO TEATRO di Federico Fioravanti

Gubbio. Veduta panoramica aerea dell’abitato. Sulla sinistra, sono ben riconoscibili i resti del Teatro Romano, la cui costruzione risale al I sec. a.C.


SPECIALE • GUBBIO

GUASTUGLIA LA CITTÀ SOMMERSA

G

uastuglia è il curioso nome della Gubbio romana, una città sommersa e, per molti versi, ancora misteriosa. Venne edificata in pianura, ai limiti dell’antico insediamento degli Umbri, dalla riva destra del fiume Camignano fino alla fertile valle che si stende sotto il monte Ingino, e fu abitata per oltre quattrocento anni, dalla fine del I secolo a.C. Assunse il nome di Guastuglia solo a partire dall’Alto Medioevo: era la deformazione dialettale della parola vastulia, un termine che in latino volgare indicava un’area vasta, incolta e spopolata e disseminata di rovine, proprio come doveva apparire Gubbio al tempo delle invasioni barbariche. Nei primi anni del V secolo d.C., la città venne letteralmente devastata dai Visigoti. Nel 552, Narsete, generale di Giustiniano, constatò la completa rovina del centro abitato e ne 84 a r c h e o

In alto: una veduta aerea della periferia di Gubbio: si distinguono il Teatro Romano (a sinistra) e l’area archeologica della Guastuglia (al centro). A destra: ricostruzione virtuale ipotetica del tempio dedicato a una divinità femminile nell’antica Guastuglia.


LA CITTÀ ROMANA

attribuí la causa all’esposizione in pianura: la mancanza di difese naturali rendeva il centro abitato vulnerabile agli assalti dei nemici. Cosí, nella Cronica della città d’Ugubbio, redatta nel XVI secolo, fra Girolamo Maria da Venezia descrisse una città «del tutto depredata e quasi dalli fondamenti riversata o rovinata, per modo che li nobili e cittadini, essendo stati per la maggior parte occisi, e li restati fuori d’Italia fuggiti, li poveri plebei rimasti nelle caverne e monti ad habitare si ridussero».

DALLA ROVINA AL RIUSO Nei secoli successivi, le pietre abbandonate, fatte rotolare dai terremoti, sbrecciate dal tempo e dai ripetuti saccheggi, servirono a ricostruire, l’alta e severa Gubbio medievale: una città maestosa, che oggi ammalia il viaggiatore e appare, simile a una scenografica

1. Domus dell’Antiquarium 2. Teatro Romano 3. Muro del Vallo 4. S. Biagio: scarico e fornace 5. Mausoleo romano 6. Area della Guastuglia: Domus 7. Palazzo Vispi: strutture 8. Porta degli Ortacci e Ospedale: strutture 9. Logge dei Tiratori

AREA URBANA 10. Ponte Romano – S. Martino 11. Chiesa di S. Giuliano 12. Palazzo dei Consoli 13. Palazzo Ranghiasci 14. Palazzo Ducale 15. Museo Diocesano 16. Rocca Monte Ingino 17. Arco di S. Marziale – Porta Veia 18. Porta Marmorea – Porta Tessenaca 19. Monastero di S. Ambrogio

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SPECIALE • GUBBIO

quinta dietro i resti del grande Teatro Romano, edificato alla fine del periodo repubblicano, tra il 55 e il 27 a.C. (vedi alle pp. 90-91). Quest’ultimo non fu solo un monumento, ma il simbolo stesso di un legame speciale: Iguvium era stato il primo centro umbro ad allearsi con Roma, alla quale, come ricordava Cicerone, era «congiunta con giustissimo e santissimo patto». Rimasta neutrale nella guerra tra Roma e i Sanniti – che si concluse nel 295 a.C., con la battaglia di Sentino (presso l’odierna Sassoferrato, nelle Marche, n.d.r.) –, la città, in seguito, non ebbe piú bisogno di mura di difesa: la pax romana garantiva i federati. Silio Italico, poeta vissuto nel I secolo d.C., annoverava gli Eugubini fra gli alleati piú fedeli dell’Urbe durante le sanguinose vicende che opposero Roma ad Annibale. Un’alleanza che

permise alla città umbra di avere una zecca e anche di battere una propria moneta: l’ikuvins. Nell’89 a.C., Iguvium ottenne la cittadinanza, venne eretta a municipium e iscritta alla tribú Clustumina. Fu anche scelta per tenere prigioniero, fino alla morte, Genzio, l’ultimo re degli Illiri. E parteggiò per Giulio Cesare nella guerra civile contro Pompeo. Queste e molte altre vicende nasconde ancora Guastuglia, sepolta da almeno quindici secoli sotto i moderni quartieri residenziali, cresciuti dopo l’espansione edilizia dell’ultimo dopoguerra. Una lunga serie di scavi, coordinati dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici dell’Umbria, ha fatto emergere i contorni di un articolato quartiere residenziale di almeno 25 ettari, circondato da un anello quasi ininterrotto di necropoli (vedi alle pp. 102-103). La Gubbio romana era tagliata in due da un’am-

Le piú recenti indagini archeologiche hanno notevolmente accresciuto il quadro delle conoscenze sulla storia della città romana

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In basso, a sinistra: i resti della Domus del Banchetto. IV sec. d.C.


In basso: un primo piano del mosaico con scena di banchetto, che dà il nome alla domus omonima. IV sec. d.C.

pia strada basolata che portava al grande teatro, uno dei piú capienti della sua epoca. Le indagini hanno riportato alla luce un’area sacra – con un tempio destinato al culto di una divinità femminile –, e poi domus, ponti, strade e preziosi mosaici. Insieme a terme, cisterne, iscrizioni e i resti di grandi edifici pubblici. Testimonianze preziose, che si aggiungono agli itinerari conosciuti: l’imponente Teatro Romano, l’Antiquarium (vedi alle pp. 98-101), il Mausoleo di Pomponio Grecino (vedi box a p. 89), le tre antichissime porte – Trebulana, Tessenaca e Veia –, ricordate a piú riprese nelle Tavole Iguvine, il Muro del Vallo, la raccolta archeologica del Museo Civico allestita nel palazzo dei Consoli e i sarcofagi conservati nel Museo Diocesano. Fra le domus, la piú significativa è quella detta «del Banchetto», scavata intorno al 1970 e

restaurata nel corso degli ultimi decenni. Del grande edificio, sono state esplorate soltanto sei stanze, caratterizzate da eleganti decorazioni pavimentali in opus signinum e a mosaico.

PER BACCO, CHE MOSAICO! Di particolare eleganza è un pavimento figurato del IV secolo d.C. realizzato con tessere bianche, nere e rosse. Al centro dell’opera emergono due figure femminili semisdraiate, l’una vestita e l’altra coperta soltanto da un mantello: una Venere marina porge a un Bacco nudo una coppa sulla quale la divinità è pronta a versare il vino; sullo sfondo, spunta un altro personaggio, forse un cacciatore, munito di arco e faretra. Si tratta di un’iconografia inconsueta per quest’area e solitamente attestata in spazi legati all’acqua, come in un mosaico trovato a

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SPECIALE • GUBBIO

Ostia. Sembrerebbe quasi una nostalgia del mare tra i monti dell’Appennino. Frutto dei desideri di una committenza colta e, di certo, ricchissima. La stessa che, nella prima età imperiale, volle a Iguvium una straordinaria scultura: una testa di Agrippa, ritrovata da uno studente nel 1975 vicino a una scarpata e oggi conservata nel museo cittadino. Spartaco Capannelli, architetto della Soprintendenza, ha curato di recente un ambizioso progetto di riqualificazione dell’intera area archeologica: una cerniera in grado di unire la zona del Teatro Romano e dell’Antiquarium con l’altra parte della città sommersa. Nel cuore della Guastuglia è già stata inaugurata una nuova strada di accesso, insieme a un impianto di illuminazione, un’area verde e un 88 a r c h e o

parcheggio. Una rete di percorsi riservata ai visitatori potrà valorizzare l’intero quartiere imperiale. È un primo, importante passo verso la realizzazione del Parco Archeologico, capace di svelare, attraverso nuovi scavi, la storia della Gubbio romana. DOVE E QUANDO Teatro romano, Antiquarium e area archeologica della Guastuglia Gubbio, via del Teatro Romano Orario aprile-ottobre: tutti i giorni, 10,00-19,30; novembre-marzo: tutti i giorni, 9,00-18,30 Info tel. 075 9220992; www.sabap-umbria.beniculturali.it

In alto: mosaico pavimentale con scena marina proveniente da una delle domus della Guastuglia. IV sec. d.C. Gubbio, Antiquarium. Nella pagina accanto: una veduta del Mausoleo di Pomponio Grecino. I sec. d.C.


IL MAUSOLEO DEGLI EQUIVOCI Nella seconda metà del I secolo a.C. le famiglie piú importanti di Iguvium iniziarono a seppellire i propri morti in un gruppo di tombe ipogee costruite a poche decine di metri dal centro abitato del quartiere della Guastuglia. Il Mausoleo di Pomponio Grecino, alto 9 m, è il piú importante di questi sepolcri. Fu riportato alla luce nel 1910. In realtà, l’attribuzione è un errore: Pomponio Grecino era il figlio di un console romano in carica nel 16 d.C. La costruzione della tomba risale invece a un periodo compreso tra il 50 e il 30 a.C. L’aspetto originario del mausoleo è ben visibile nella veduta prospettica secentesca di Gubbio di Ignazio Cassetta, stampata nel 1663 da Mortier: due corpi cilindrici sovrapposti, che poggiano su un dado quadrangolare di base, con un tetto a forma di cono che serviva a facilitare lo scorrere dell’acqua. Il sepolcro ricorda gli ipogei etruschi di età ellenistica con copertura a volta, ancora visibili a Orvieto,

Perugia, Chiusi e Cortona, simile a un altro monumento funerario riemerso dagli scavi archeologici di San Rufino, nei pressi di Assisi. Una porta, sormontata da una piccola finestra a bocca di lupo, dà accesso alla camera sepolcrale. Il rivestimento di lastre di marmo è andato perduto, ma l’interno è molto ben conservato. Lungo le pareti si possono ancora osservare i fori di fissaggio che servivano per le decorazioni bronzee. Intorno all’edificio nacque una leggenda, supportata da Tito Livio e da altri storici romani: quella che il mausoleo eugubino fosse stato in origine il carcere di Genzio, il re dell’Illiria, che fu prigioniero a Gubbio dopo la sua resa ai Romani. Un sovrano famoso anche perché, secondo Plinio il Vecchio scoprí per primo le proprietà curative del liquore che poi, in suo onore, fu chiamato genziana. Ma Genzio morí intorno al 165 a.C. piú di un secolo prima che fosse edificato il mausoleo.

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SPECIALE • NOME

TUTTI A TEATRO!

I

l Teatro Romano di Iguvium venne costruito in pianura, ai limiti settentrionali della città antica, vicino alle mura e a poca distanza dalle terme. È il piú antico edificio per spettacoli dell’Umbria, ricordato e descritto, da varie cronache, fin dal Quattrocento. Risale agli anni centrali del I secolo a.C. – gli ultimi della repubblica –, come testimonia un’epigrafe monumentale incisa su blocchi squadrati di calcare, ma i lavori furono completati intorno al 20 a.C. Lo documentano due iscrizioni gemelle, all’origine collocate come balaustre all’ingresso delle basilicae e oggi conservate nel Museo Civico: raccontano che Gneo Satrio Rufo, quattuorvir iure dicundo, vale a dire il piú importante magi90 a r c h e o

strato della città antica, «fece a sue spese il tetto delle basiliche, fissò con ferro le travi del tetto, fece il pavimento di pietra, rivestí le pareti con uno zoccolo e diede per la nomina a decurione 6000 sesterzi, per l’approvvigionamento delle legioni 3450 sesterzi, per il restauro del tempio di Diana 6200, per i giochi della vittoria di Cesare Augusto 7750 sesterzi».

22 GRADINATE PER 6000 SPETTATORI L’edificio venne costruito in opera quadrata con grossi blocchi calcarei lavorati a bugnato rustico. La grande cavea, divisa in quattro cunei, misurava 70 m di diametro e poteva ospitare fino a 6000 persone. La struttura originale, della quale quasi nulla si è conser-

In alto: una veduta a volo d’uccello del Teatro Romano di Iguvium, uno dei piú capienti dell’epoca. I sec. a.C.


In alto, a destra: particolare di una pianta di Gubbio disegnata da Ignazio Cassetta che registra la presenza del Teatro Romano. 1640 circa.

vato, poggiava su due file di archi: in quello superiore, spiccava un colonnato dorico, mentre in basso si aprivano gli accessi voltati per le gradinate, rivestite di bianchi gradini in pietra calcarea. Ventidue scalinate, in quattro cunei, scendevano verso il piano dell’orchestra, costruito in lastre squadrate e leggermente concavo per permettere il deflusso delle acque piovane verso una cisterna scavata proprio sotto il pulpitum. Pochi resti sono rimasti del frontescena, ma sappiamo che raggiungeva i 14,5 m di altezza.Tre nicchie inquadravano l’ingresso verso il palcoscenico. Sul fondo di quella centrale, di forma semicircolare, emergeva la porta regia, con gli stipiti, i fregi e le cornici realizzate con il pregiato marmo di Luni. Le due basiliche laterali avevano invece forma rettangolare. Lo spazio era completato da un prospetto architettonico su due ordini (ionico e corinzio), sul quale spiccavano altre nicchie, rivestite di intonaci neri, rossi e azzurri, che accoglievano statue rivestite di

marmi colorati. Il pavimento del pulpitum era abbellito dai mosaici ricchi di riquadrature a fogliami e figure. Per almeno quattro secoli, la grande costruzione fu il cuore della vita sociale della città e il simbolo stesso dell’importanza raggiunta da Gubbio in età romana. Poi gli incendi e i terremoti ne segnarono la decadenza. Dopo l’invasione longobarda, il Teatro Romano divenne una cava a cielo aperto e le sue pietre vennero utilizzate per la costruzione della città medievale, che nacque e si sviluppò piú protetta e piú in alto della Gubbio romana.

LE PRIME ESPLORAZIONI I primi scavi archeologici cominciarono nel XVI secolo, per inziativa della famiglia Gabrielli, che nel tempo aveva acquisito tutti i terreni circostanti. E proseguirono, a fasi alterne, spesso sotto lo stimolo della Chiesa, ma gran parte di ciò che venne trovato finí in collezioni private o fu venduto. Gli studi dell’archeologo Francesco Marcattili ci ricora r c h e o 91


SPECIALE • GUBBIO

dano che il Teatro Romano, nel corso dei secoli, cambiò piú volte destinazione d’uso. In età bizantina fu convertito in castello a difesa del versante meridionale della città, lungo la via strategica che collegava Roma con Ravenna. Del teatro, fu cancellato anche il nome: il presidio fortificato venne infatti denominato Palatium, Parilasio e poi Rocca.

LA FORTEZZA E IL MONASTERO Nel Settecento, il marchese Sebastiano Ranghiasci Brancaleoni, appassionato archeologo, scoprí sul piano dell’orchestra imponenti strutture murarie, resti umani e tracce di un grande incendio e si disse convinto che l’«Edificio ne’ bassi tempi fosse convertito in una Fortezza». Forse distrutta, in modo definitivo, nel 772 d.C. quando Desiderio sottomise Gubbio. Altri scavi, nei secoli successivi, permisero il ritrovamento di preziose maioliche e di una colonna, ora scomparsa, nonché di parte del loggiato di un edificio religioso: la traccia di un monastero, sorto sulle rovine del grande teatro e dedicato fino al Cinquecento al culto di Maria, non a caso detta «del Palla-

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gio» per indicare il luogo di quello che ormai appariva come un castello. Giovanni di Lorenzo de’ Medici, salito al soglio pontificio nel 1513 con il nome di Leone X, ordinò il trasferimento del culto e progettò di edificare una nuova fortezza poco lontano. Le difficoltà economiche e la morte del pontefice fermarono i lavori, ma l’importanza archeologica dell’area era tornata evidente, come dimostrò la nomina a «soprastante dei rinvenimenti archeologici» di Pierreale di Suppolino. Ciononostante, dopo appena un secolo, i fornici e la cavea del teatro erano già stati trasformati in abitazioni, come dimostra una veduta seicentesca del cartografo pesarese Francesco Mingucci. Solo con gli scavi del 1900, guidati dagli architetti Giuseppe Sacconi e Dante Viviani, il grande monumento venne liberato dall’assedio delle case. Altri cantieri vennero aperti nel 1954 e nel 1961. I lavori e le indagini archeologiche dei nostri giorni hanno riportato il Teatro Romano a quella che per secoli fu una delle sue principali funzioni: plastico simbolo della gloria della città romana.

In basso: Gubbio. Uno scorcio delle arcate superstiti della galleria superiore del Teatro Romano, con, sullo sfondo, il Palazzo dei Consoli e il centro storico della città odierna. Nella pagina accanto: il mosaico del leone ruggente, rinvenuto nella decorazione pavimentale del Teatro Romano di Gubbio. II sec. a.C. Holkham Hall (Norfolk), Long Library.


IL DANDY E IL LEONE Perché questo «mosaico antico del miglior secolo de’ Romani» è finito dal Teatro Romano di Iguvium nella biblioteca della sontuosa villa di una nobile famiglia inglese?

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SPECIALE • GUBBIO

U

n leone ruggente, dalla grande criniera, attacca un leopardo sulla riva di un fiume: è la scena che anima un magnifico mosaico della Gubbio romana che fa ancora oggi bella mostra di sé sopra il camino della biblioteca di Holkham Hall, la residenza privata di ispirazione palladiana dei conti di Leicester, edificata nel Norfolk, la regione dell’Inghilterra orientale che si affaccia sul Mare del Nord. Il raffinato emblema, un motivo figurativo decorato, si trovava in origine al centro di un pavimento del Teatro Romano di Iguvium, proprio vicino al proscenio. Affiorò poco dopo la metà del Cinquecento, durante la campagna di scavi che i conti Gabrielli promossero nei terreni di loro proprietà. Quasi un secolo prima, nel 1444, nella stessa area, la contadina Presentina sostenne di aver ritrovato le sette Tavole Iguvine, straordinaria testimonianza della civiltà degli antichi Umbri (vedi «Archeo» n. 386, aprile 2017).

L’AMMIRAZIONE DEI POETI Il mosaico del leone fu ritrovato insieme ai primi frammenti dell’iscrizione con la quale il quattuorvir Gneo Satrio Rufo rivendicava il suo ruolo nei lavori di ampliamento del Teatro Romano. L’eccezionale bellezza dell’opus vermiculatum, ottenuto con tessere di minuscole dimensioni, venne subito celebrata dai versi elegiaci di Andrea Palazzi di Mondavio,Angelo Giannini da Cingoli e Felice Andreoli da Gubbio, tre poeti di solito pronti alle voglie di adulazione della famiglia Gabrielli, ma questa volta con molte, obiettive ragioni. L’emblema è un vero capolavoro: si tratta di un tappeto musivo quadrato, di 88 x 87,5 cm, con ben 25 minuscoli «vermicelli» policromi assemblati nel piccolo spazio di 1 centimetro quadrato. Altre tessere (14 per ogni centimetro quadrato) formano la cornice, arricchita a sua volta da una elegante decorazione a doppia guilloche su fondo scuro. Secondo l’archeologo Bernard Andreae il mosaico è piú antico del teatro stesso: risalirebbe infatti al II secolo a.C. e doveva in origine appartenere alla decorazione di una villa romana. È molto simile a un’altra opera, scoperta a Pompei e conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Entrambi i mosaici presentano la medesima scena e lo stesso paesaggio, basati su un unico modello pittorico. Secondo Francesco Marcattili, do94 a r c h e o


Holkham Hall (Norfolk, Inghilterra), Long Library. Alla parete, sopra il caminetto, è esposto il mosaico del leone ruggente, proveniente dall’antica Iguvium.

cente all’Università di Perugia e autore di uno studio sull’argomento, il prototipo dell’emblema eugubino va ricercato in ambito alessandrino: lo proverebbero la resa degli occhi «tolemaici» dei felini: grandi, tondi e ben delimitati dalla linea intensa delle ciglia, secondo una tradizione figurativa consolidata. Il leopardo, ferito al ventre, giace a terra con le fauci spalancate. Il leone lo ha sorpreso mentre si stava dissetando in riva al fiume. E adesso lo blocca con le possenti zampe anteriori. I colori e le luci sprigionate dall’opera sembrano quasi separare il vincitore dal vinto: forti e luminosi nel leone, piú chiari, neutri e delicati nella raffigurazione del leopardo, del quale spiccano soprattutto le macchie del mantello. Il leone sembra disinteressarsi della sua vittima. Piuttosto guarda, per ammonire, chi osserva la scena. L’emblema, infatti, rappresenta con ogni probabilità una vendetta dopo un tradimento.

AMORE O POLITICA? Già Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia, riprendeva alcuni temi esotici trattati nella Historia animalium di Aristotele. E si soffermava sull’immagine di una leonessa che si era accoppiata con un leopardo e che veniva quindi punita dal leone tradito mentre si lavava da quella ingombrante colpa nel fiume: «Odore pardi coitum sentit in adultera leo» (Naturalis Historia, 8, 42). Nel mosaico di Iguvium, la vendetta si consuma invece, in modo diretto, proprio contro il rivale in amore. Forse per questo, l’autore dell’opera enfatizza la visione del sesso del felino sconfitto. Ma c’è anche una seconda lettura, piú politica, e forse piú funzionale al contesto pubblico dell’età augustea. Il leopardo, cosí simile alla profumata e dionisiaca pantera, poteva raccontare al pubblico che affollava il teatro di Iguvium l’immoralità del triumviro Marco Antonio, compagno dell’adultera Cleopatra, la figlia d’Africa che lo indusse a generare con lei anche dei figli. La parte del leone, come è ovvio, spetta all’imperatore Augusto, ormai padrone del mondo, che ha schiacciato chi è stato cosí folle da voler abbandonare Roma. Ma come finí in Inghilterra lo splendido mosaico? L’eugubino Girolamo Gabrielli, un giurista molto considerato dai pontefici Gregorio XIII e Sisto V, proprietario del terreno del teatro, trasferí l’emblema a Roma, là dove era famoso anche per aver finanziato la coa r c h e o 95


SPECIALE • NOME A sinistra: Thomas William Coke, futuro I conte di Leicester, olio su tela di Pompeo Batoni. 1774. Holkham Hall (Norfolk), Long Library. Alle spalle del giovane, la statua dell’Arianna dormiente è, in realtà, un ritratto della contessa d’Albany. Nella pagina accanto: uno scorcio esterno della residenza di Holkham Hall, dimora dei conti di Leicester, realizzata in stile palladiano nel XIX sec.

struzione di due celebri residenze cinquecentesche: Palazzo Gabrielli-Mignanelli, nei pressi di piazza di Spagna, e Palazzo GabrielliBorromeo, in via del Seminario, a due passi dal Pantheon. Il colorato mosaico eugubino fu sistemato prima nel giardino e poi in una sala interna di palazzo Mignanelli. Alla metà del Seicento, il conte eugubino Giovanni Battista Cantalmaggi, uno dei primi studiosi delle Tavole Iguvine, in un manoscritto oggi conservato presso l’Archivio Comunale di Gubbio, affermò di aver visto proprio nel 96 a r c h e o

giardino del signorile palazzo romano quello che era da tutti stimato come «uno dei piú belli mosaici antichi». Qualche anno piú tardi, nel 1664, lo storico dell’arte Giovan Pietro Bellori, a proposito dei conti Gabrielli, annotò: «Nel loro palazzo sotto la Trinità de’ Monti conservano nel muro di una camera un mosaico antico del miglior secolo de’ Romani, bellissimo: rappresenta un leone, il quale preme et isbrana una tigre; et in detto palazzo vi sono altri degni ornamenti». L’emblema doveva certamente trovarsi a Ro-


ma anche nei primi anni del Settecento: venne infatti riprodotto da Francesco Bartoli, figlio del perugino Pier Santi, a sua volta allievo di Nicolas Poussin, in un disegno a penna e acquerello ora alla Eton College Library. La didascalia recita: «Musaico Antico nel Palazzo Mignanelli». E ancora nel 1752, Giuseppe Alessandro Furietti, cardinale archeologo, grande studioso di Villa Adriana, nel suo De musivis cita, ammirato, il colorato emblema di Palazzo Mignanelli.

UN GRAND TOUR MEMORABILE L’uomo che portò via il mosaico dall’Italia fino a Holkham Hall era un vero dandy, con il vezzo di vestire sempre di bianco: Thomas William Coke, ricchissimo primo conte di Leicester, che giunse a Roma ventenne, dopo aver visitato Torino, Napoli e Firenze. Era il nipote di un altro Thomas Coke, come lui bulimico collezionista dell’arte italiana, famoso per aver guidato nel 1731 la prima gran loggia massonica d’Inghilterra. Ma soprattutto per aver dato vita, di fatto, alla moderna etruscologia, grazie alla pubblicazione in sette libri (1726) del manoscritto di Thomas Dempster, il De Etruria Regali, in cui la storia degli Etruschi veniva ricostruita sulla base delle fonti letterarie greche e latine. Il Grand Tour di Thomas William Coke «il giovane» registrò momenti fiammeggianti, di cui si parlò a lungo anche in patria. Accadde infatti che a Roma il gentleman fosse invitato a un ballo mascherato offerto da Luisa di Stolberg, contessa d’Albany, moglie di Carlo Edoardo Stuart, ultimo pretendente cattolico al trono inglese. E che la nobildonna perdesse la testa per lui. Tanto che quando il ragazzo partí, l’avvenente Luisa, che anni dopo diventò l’amante del poeta Vittorio Alfieri, ne ordinò il ritratto a Pompeo Batoni, il piú accre-

ditato tra i pittori dell’epoca: il giovane Coke è raffigurato in piedi e, alle sue spalle, si scorge una scultura, che è in realtà la contessa d’Albany, la quale volle essere raffigurata, vicino a lui, come un’Arianna dormiente. Thomas lasciò Roma con molti, preziosi souvenir d’Italie, tra cui il leone ruggente di Gubbio, che certo dovette costargli una fortuna. A Holkham Hall, il mosaico fu sistemato nella biblioteca, sopra il camino, a poca distanza da altre meraviglie: il Codice Hammer (già Leicester) di Leonardo di Vinci, una copia del Cartone di Pisa di Michelangelo, il cartone per La belle Jardinière del Louvre di Raffaello, molte preziose miniature e il manoscritto originale del De etruria Regali di Dempster. Quanto alla presenza di un mosaico cosí importante in uno dei pavimenti perduti del Teatro Romano di Gubbio, ancora Marcattili ha avanzato nuove, interessanti ipotesi. Lo studioso fa notare che l’orgogliosa iscrizione di Gneo Satrio Rufo registra la sponsorizzazione di ludi victoriae Caesaris Augusti, con la bellezza di 7750 sesterzi. Si tratta di una cifra considerevole, superiore a quella necessaria per il completamento del teatro stesso e molto piú alta della somma che il quattuorvir investiva per il vettovagliamento delle legioni. A quell’epoca, a Iguvium, come in altre città della Penisola, negli spettacoli teatrali venivano esibiti molti animali esotici, la cui caccia e il successivo trasporto in Italia richiedevano non solo importanti investimenti economici, ma anche influenti appoggi politici. Un altro segno del privilegio che la capitale del mondo antico riservava a Iguvium, che nel 49 a.C., proprio durante la costruzione del grande teatro, aveva appoggiato con forza e lealtà la causa di Cesare nella guerra civile contro Pompeo. E che andava premiata come la piú antica e fedele alleata umbra di Roma.

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SPECIALE • GUBBIO

L’ANTIQUARIUM E LA DOMUS DI SCILLA

L’

emozione per la scoperta della Gubbio romana si coglie appieno in un piccolo, straordinario Antiquarium, ricostruito dalla Soprintendenza alle Antichità dell’Umbria all’interno di una casa colonica, nelle immediate vicinanze del Teatro Romano. Articolato su due piani, il casale venne edificato sui resti di una domus, abitata per almeno trecento anni, dal I secolo a.C. al II secolo d.C. La già ricordata pianta della città di Gubbio disegnata intorno al 1640 da Ignazio Cassetta, e poi stampata da Pierre Mortier (1663), mostra l’isolato edificio rurale proprio di fronte al grande monumento deputato agli spettacoli pubblici. Si trattava di una dimora signorile, non solo per l’ampiezza dell’impianto architettonico

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A sinistra: Gubbio, Antiquarium. veduta della sala ricostruttiva del tablinum della Domus di Scilla, con la proposta di ricomposizione della decorazione pavimentale. In basso: Gubbio, Antiquarium. Una veduta esterna dell’edificio.

Nella pagina accanto: pianta di Gubbio disegnata da Ignazio Cassetta, in cui si possono distinguere il teatro romano e il casale antistante, oggi sede dell’Antiquarium. 1640 circa.

ma anche per il gusto e la cura che gli antichi proprietari dedicarono alla scelta dei magnifici pavimenti a mosaico, un’arte paziente e costosa. Quattro ambienti, tre dei quali allineati e comunicanti, si affacciano sul peristilio, il cortile circondato da porticati.

dra, cinti ai quattro lati da rappresentazioni di armi: elmi, scudi, pelte e insegne della gloria di Roma. Al centro della composizione spicca un raffinato emblema (II secolo a.C.), molto piú antico del tappeto musivo, che descrive uno dei piú celebri episodi dell’Odissea: la lotta di Ulisse contro Scilla. La rapECHI OMERICI E GLORIA DI ROMA presentazione era diffusa nell’antichità (basti Nel tablinum, la stanza di rappresentanza in pensare al gruppo scultoreo di Sperlonga). asse con l’ingresso, la cornice del mosaico Ma il mosaico conservato a Gubbio, ispirato presenta una decorazione a meandri nella a modelli pittorici di età ellenistica, è l’unico quale si alternano quadrati e motivi a clessi- a oggi noto in cui siano presenti, in modo a r c h e o 99


SPECIALE • GUBBIO

MOSTRUOSA CREATURA Il frammento di emblema musivo con la rappresentazione della lotta fra Ulisse e Scilla, narrata nell’Odissea. La composizione proviene dal tablinum della Domus di Scilla ed è databile al II sec. a.C. In basso, nel tondo, viene proposta la ricostruzione grafica delle parti mancanti: l’opera ha un’importanza particolare, in quanto si tratta dell’unica raffigurazione dell’episodio che contenga tutti gli elementi descritti da Omero.

minuzioso, tutti gli elementi descritti da Omero. Minuscole tessere di pietra e di pasta vitrea, disposte in maniera asimmetrica, seguono il contorno delle immagini, secondo la tecnica dell’opus vermiculatum. Scilla, figlia della dea Crateide, guardiana degli abissi e metafora della morte, è al centro di una vivida scena, che si staglia su un fondo scuro: dal nudo torso di donna fuoriescono lunghe spire in forma di serpenti marini che avvolgono i corpi dei compagni di Ulisse, mentre le teste dei cani feroci che emergono dal corpo della ninfa azzannano gli atterriti marinai. Ulisse, appena difeso da uno scudo, ha la forza di scagliare una lancia contro il mostro. Dietro l’eroe, appare un timoniere: il suo sguardo, atterrito, è puntato su Scilla, il destino di morte dal quale fuggire. All’interno dell’Antiquarium, il racconto 100 a r c h e o

della città romana si dipana attraverso pannelli esplicativi e reperti archeologici provenienti dagli scavi della città e delle vicine necropoli. Altri mosaici policromi raffigurano animali marini. Colpiscono tre recipienti usati per mescolare l’acqua con il vino: crateri a vernice nera in metallo prezioso. E un altro vaso attico del V secolo a.C., con la raffigurazione del mito di Borea, l’alato e barbuto vento del Nord, che rapisce Orizia, personificazione della brezza leggera che arriva dopo le freddi correnti settentrionali. Sono stati invece restituiti dalla tomba di Iside, di età imperiale, alcuni incensieri e un sistrum, lo strumento per la musica usato nelle mascherate cerimonie isiache. E, poco lontano, sono esposte una piccola stadera, la bilancia in bronzo basata sul principio della leva, e un’antica moneta della zecca, la cui legenda testimonia l’orgoglio dell’appartenenza: Ikuvins.


Ricostruzione grafica dello sviluppo complessivo del tappeto musivo che ornava il tablinum della Domus di Scilla, al centro del quale era inserito l’emblema con l’episodio omerico. Gubbio, Antiquarium. a r c h e o 101


SPECIALE • GUBBIO

LE MAGNIFICHE DIECI

A

lmeno dieci necropoli circondavano Iguvium, disposte sul principale percorso di lungovalle che ancora cinge i confini della città moderna. Portano nomi noti agli Eugubini di oggi: San Benedetto, Fontevole e Fonte Arcano, San Biagio, Pomponio Grecino, Madonna del Prato, via Perugina,Vittorina, Zappacenere e San Felicissimo. Comprendono sepolcri di varie tipologie, che raccontano secoli di storia e che, negli ultimi anni, hanno portato a eccezionali scoperte archeologiche. Come la conferma che, nella Iguvium del II secolo d.C., era ancora vivo il culto di Iside, la dea egiziana della maternità e della fertilità, di solito alimentato da processioni ricche e festose. Lo testimonia il ritrovamento di un piccolo sistro in bronzo (un oggetto consistente in una lamina metallica a ferro di cavallo, con fori per il passaggio di asticciole mobili trasversali, ripiegate all’estremità, e con manico diritto assicurato alla base:

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agitandolo, le asticciole, urtando contro la lamina, producevano un suono, n.d.r.), che si pensava avesse il potere di tenere lontane le influenze malvagie, che accompagnò l’ultimo viaggio di una donna sepolta nella necropoli di via Vittorina.

BENDE E SUDARI Nell’area circostante, i lavori condotti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Umbria hanno portato alla luce 237 tombe, sia di età repubblicana (tra il III e il I secolo a.C.) che di età imperiale (tra il I e il II secolo d.C.). I defunti venivano inumati con bende strette o fasciati da un sudario e poi deposti in sepolcri «alla cappuccina», su tegole accostate. Altre tegole, poggiate le une a mo’ di triangolo e integrate da coppi e pietre, coprivano i cadaveri. In alcuni casi si praticava il rito della cremazione, come testimoniano alcuni sepolcri, chiamati «a ziro», dal nome dei vasi di terracotta che ospitavano le ceneri, al modo degli Etruschi. Proprio alla


A sinistra: urna biconica in impasto con coperchio consistente in una ciotola, dalla necropoli dell’età del Bronzo di via dei Consoli a Gubbio. XIII sec. a.C. Perugia, Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria.

lontano dal Teatro Romano, all’interno di un sepolcro databile al VI secolo a.C., è stata scoperta la tomba detta «del Carro», con resti di cerchioni in ferro usati nei mezzi di trasporto da parata. Resti della decorazione in bronzo di una kline, una preziosa lettiga del II secolo a.C., sono invece affiorati nel nucleo piú antico della necropoli di Fontenevole, il piú vicino alla città, in una prestigiosa tomba risalente alla prima metà del II secolo a.C. Una spalliera della testata mostra una testa di mulo finemente cesellata. Un’altra rivela una testa di Artemide con le ciocche di capelli divise a metà.

Nella pagina accanto, in alto: ciotola in ceramica d’impasto, dalla necropoli dell’età del Bronzo di Via dei Consoli. XIII sec. a.C. Perugia, Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria. Nella pagina accanto, in basso: letto in bronzo (kline), dalla necropoli di Fontenevole. II sec. a.C. Perugia, Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria.

Vittorina gli scavi hanno portato alla luce lo straordinario cratere attico a figure rosse, ora esposto nell’Antiquarium: da un lato dell’oggetto emerge l’elegante figura di Borea che rapisce Orizia, dall’altro spuntano figure di giovani nudi.

FRANCESCO COME PORSENNA Nel 1208, nella stessa zona occupata dalla necropoli romana, san Francesco ammansí con il segno della croce e le parole il lupo che terrorizzava Gubbio. L’episodio richiama la leggenda etrusca, riportata da Plinio il Vecchio (Nat. Hist. II,140) di Porsenna, re di Chiusi, il quale, con l’aiuto dei fulmini, sconfisse il monstrum Uoltam, che distruggeva le campagne intorno a Volsinii (Bolsena). Una finta porta d’epoca tardo-repubblicana, scolpita a bassorilievo – a simboleggiare il mistero del passaggio dalla vita terrena all’aldilà –, è stata trovata in via Perugina, l’attuale, principale punto d’ingresso stradale della città moderna. A nord dell’abitato, nella necropoli di San Benedetto, gli scavi hanno restituito raffigurazioni di scene legate al culto di Dioniso. E in via Leonardo da Vinci, non

I RICORDI DI UNA VITA La necropoli di San Biagio, la piú antica e importante di Iguvium, ospita circa settanta tombe di epoche differenti e di diversa tipologia. Tre grandi circoli, delimitati da lastre di arenaria squadrate e verticali, raccontano i metodi di sepoltura piú antichi, in uso nel VII e nel VI secolo a.C. I defunti, appartenenti allo stesso gruppo familiare, venivano deposti in fosse, sopra uno strato di breccione e accompagnati nel loro ultimo viaggio da piccoli oggetti in ricordo della vita perduta: gocce d’ambra, manufatti in osso lavorato, olle, piattelli e ciotole d’impasto. Duecento anni piú tardi (IV secolo a.C.) i sepolcri, piú volte abbandonati e distrutti, furono occupati di nuovo da molte altre tombe, singole, a fossa e «alla cappuccina». Sette tombe, riservate ad altrettanti bambini, hanno svelato ricchi corredi e preziosi oggetti di importazione. Un’altra necropoli è venuta alla luce durante i lavori di pavimentazione di via dei Consoli, l’affascinante arteria medievale che oggi dal quartiere di San Martino porta alla pensile e scenografica piazza Grande. È un sepolcreto antichissimo, che risale a 1200 anni prima di Cristo, alla fine dell’età del Bronzo. Le ossa combuste dei defunti sono state trovate raccolte in vasi di ceramica d’impasto bruno e liscio, coperti da ciotole e disposti su piú livelli, in piccole e strette fosse, rincalzate da scaglie di pietra e sommerse da uno strato di terra scurissima e argillosa. a r c h e o 103


SPECIALE • GUBBIO

STORIE PERDUTE DI SANTUARI DI CONFINE

Q

uattro templi, quattro santuari di confine, furono innalzati ai margini del territorio di Iguvium, collocandoli strategicamente in prossimità delle principali vie di comunicazione. Per due di loro non rimangono che le parole: resoconti, dati epigrafici e descrizioni antiquarie. Il leggendario tempio di Giove Pennino, lungo la Flaminia, era meta di continui pellegrinaggi. Si trovava nelle vicinanze dell’antica Ad Ensem, l’attuale Scheggia. La Tabula Peutingeriana ci informa che il centro a nord di Iguvium era allora una mutatio, vale a dire una stazione di posta nella quale i veicoli che viaggiavano per interesse dello Stato romano potevano cambiare i cavalli. La stessa Tabula, poco oltre (segm IV,3) riporta un’altra indicazione: «Iovis Penninus id est Agubio». Il santuario è descritto da Claudiano (370-404), poeta e senatore romano sostenitore di Stilicone, che, nel 404, seguí il viaggio compiuto da Onorio, primo imperatore romano d’Occidente, da Ravenna a Roma. Lo scrittore spiega che il tempio si trovava lungo il percorso della strada consolare: «exuperans delubra Iovis». E osserva stupito che i pastori continuavano a sacrificare agli dèi, come gli antichi Umbri, loro progenitori («saxoque minantes Appenninigenis cultas pastoribus aras»). Il tempio è citato anche in due distinti passi della Historia Augusta, la raccolta delle biografie degli imperatori romani redatta da sei differenti scrittori: si parla delle «sorti Pennine» e dell’imperatore illirico Claudio il Gotico (213-270), che proprio lí avrebbe consultato un oracolo. Al culto della divinità si riferiscono anche due epigrafi, scoperte nei pressi di Scheggia insieme ad alcune statue, durante il restauro della via Flaminia disposto da papa Clemente IX (1667-1669). Un’iscrizione dedicatoria a Giove Pennino è ancora visibile al Museo di Verona.

Statua di Marte Ciprio, dal tempio omonimo nei pressi di Iguvium, oggi perduto. I sec. d.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

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Qualche decina di chilometri piú a sud del tempio di Giove Pennino, alla fine del I secolo d.C., un notabile romano, L. Iavolenus Apulus, fece costruire un altro tempio, dedicato a Marte Ciprio. Nello stesso luogo, a distanza di tredici secoli, venne edificata l’abbazia di S. Pietro in Vigneto, lungo il percorso francescano tra Gubbio e Assisi. Dell’antico tempio del dio Marte non sono rimaste tracce, con l’eccezione di una statua, in marmo bianco, ritrovata nel Settecento dal nobile eugubino Sebastiano Ranghiasci: il Marte Ciprio rivestito della sua corazza con il clamide sulle spalle ora è conservato a Firenze, in una sala del Museo Archeologico Nazionale. Un altro calco, in gesso, si può ammirare nel Museo Comunale di Gubbio, ospitato all’interno del Palazzo dei Consoli. Nel II secolo a.C., un altro tempio in onore di Diana fu innalzato ai margini occidentali del municipium, come confine ideale della città di Iguvium. Gli scavi archeologici hanno messo in luce il terrazzamento che sosteneva il grande santuario, affacciato in posizione scenografica sulla valle, nei pressi del paese di Monteleto, lungo la bella strada che oggi unisce Gubbio a Umbertide. L’imponente edificio poggiava su blocchi di calcare lavorati a bugnato e non legati da malta. Come il Teatro Romano eugubino, fu restaurato in età augustea dal quattuorvir Gneo Satrio Rufo. Nel corso dei secoli venne però saccheggiato a piú riprese e i grandi blocchi che lo sostenevano, furono impiegati per le fondamenta di molte case dei dintorni. Poco lontano, lungo la stessa direzione, a nord del borgo di Nogna – toponimo che richiama il gentilizio Nonia ricordato anche dalle Tavole Iguvine –, gli scavi archeologici hanno riportato alla luce un tempio del tipo italico ad alae, costruito alla fine del II secolo a.C. su un’altura, con grandi blocchi di arenaria. Cento anni dopo, l’intero complesso venne distrutto da un incendio e le rovine rimasero a lungo abbandonate, finché ripetute frane, unite allo smottamento a valle della collina, nascosero ogni traccia del santuario, che è riemerso, in tempi recenti, grazie ai nuovi scavi archeologici.



IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

APPARTENGO, DUNQUE SONO IL CONTESTO, CHE PER L’ARCHEOLOGO COSTITUISCE UNA SORTA DI TOTEM, HA UN VALORE CHE, IN REALTÀ, VA BEN OLTRE I CONFINI DEGLI STUDI DI ANTICHITÀ. È QUESTA LA LEZIONE CHE POSSIAMO TRARRE DALL’ULTIMA FATICA EDITORIALE DI UNO DEI PIÚ AUTOREVOLI SPECIALISTI DELLA MATERIA

P

er gli archeologi il contesto è un po’ come l’acqua per i pesci: indispensabile. E, forse, un mondo piú attento al contesto, in tutte le sue forme, sarebbe probabilmente un mondo migliore, se non altro perché piú consapevole. Nei suoi aspetti stratigrafici, il contesto è un concetto fondamentalmente statico; nei suoi aspetti funzionali è piuttosto un evento dinamico, un meccanismo complesso; nei suoi aspetti culturali, infine, si carica anche di valori estetici ed etici. E presume comunque una componente quantitativa, che misuriamo nello spazio e nel tempo, e una qualitativa, da cui il contesto trae senso storico e umano. Distogliendo lo sguardo dai singoli oggetti avulsi dai loro contesti e andandone invece a cercare lo stile nelle relazioni che li legano, la cultura del contesto può interpretare la realtà, riconciliando piacere estetico e piacere storico, spostando l’attenzione da ciò che è unico e eccezionale a ciò che trae motivo di attenzione – cioè di trasmissione al futuro, proprio dalla sua natura contestuale – dal superamento della sua apparente casualità. Per questo non possiamo fare a meno del contesto, e, quando lo perdiamo di vista, ci sentiamo in dovere di recuperarlo. Perché i lacci visibili e invisibili che legano mutevolmente tra di loro gli esseri

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animati e le cose danno un senso alle nostre esistenze: sono i colori e le forme della trama tessuta lungo l’ordito della vita.

SUL FILO DEI RICORDI Un recente libro di Andrea Carandini (La forza del contesto, Laterza, Roma-Bari 2017) ci aiuta a mettere a fuoco le linee di un’etica del contesto, fornendo una infinità di spunti, condotti spesso sul filo dei ricordi intrecciati con l’attualità. Il testo, infatti, è anche una pagina di storia dell’archeologia italiana, godibile per chi ne abbia vissuto le diverse stagioni o per chi, piú giovane, desideri la testimonianza diretta di uno dei suoi massimi protagonisti. Proviamo qui di seguito a sintetizzare alcuni di questi spunti, che ci invitano alla riflessione. – La confessione liberatoria che

tutti noi siamo e al tempo stesso non siamo piú quello che un tempo siamo stati: non è un’ovvietà, ma è il senso stesso del movimento e del futuro, della pienezza dell’esistenza di ciascuno. – Lo sforzo che l’autore fa di liberarsi dalla sua stessa professionalità, sperando di liberare anche gli altri dalle loro: è il crinale affascinante su cui corre il cammino tra specialismi e visione olistica della realtà e di sé. – L’enfasi sui piccoli valori della vita privata contenuti nelle case e negli arredi, senza i quali le stesse architetture non hanno né vita, né senso; e sull’arte di vivere, forse la piú importante delle arti, perché – scrive Carandini – sommamente contestuale. – Il continuum ideale che tiene uniti valore storico e valore estetico, inseparabili l’uno dall’altro, e l’enfasi sulla bellezza degli oggetti buoni e ben fatti. L’arte – mi viene da dire - non è «una cosa bella», ma è «una cosa fatta bene».


La Villa del Balbianello, a Lenno (Como). Costruita all’inizio del XVIII sec., è uno dei beni di cui il FAI assicura la fruizione.

– Il senso dell’unica forma possibile di eternità che ci è concessa attraverso la trasmissione dei ricordi di cui sono intrisi gli oggetti, e quindi – sullo sfondo – il rapporto tra felicità e serenità. – La consapevolezza che la fortuna sta pur sempre nelle nostre mani: esemplare la lezione del FAI (Fondo Ambiente Italiano), che da anni Carandini presiede. Una lezione che ci dice come pochissime persone possano fare molto e moltissime persone, sul loro esempio, possano risollevare anche una nazione in difficoltà. – L’enfasi quindi sulle persone, dopo che un amore esclusivo per l’oggetto culturale ha fatto dimenticare il soggetto, cioè gli individui che lo percepiscono o non lo percepiscono, e quindi le comunità che danno senso e anima ai luoghi, e li proteggono arricchendoli o li sciupano degradandoli. – La critica coraggiosa e volutamente provocatoria alla parola e al concetto stesso di «museo», un museo-zoo, che ricovera in istituti di lunga degenza tutto ciò che viene strappato, come gli animali esotici, al suo contesto di

appartenenza (senza nulla togliere alla enorme funzione di diffusione della cultura che i musei hanno svolto e continuano a svolgere sin dalla loro prima istituzione). – E anche l’importanza dell’arte della valorizzazione come un mestiere specifico e promettente, tutto da immaginare e da costruire. – L’enfasi, poi, sulla natura e lo spirito dei luoghi, in presenza di tante valorizzazioni e gestioni uniformate e omologate, esterne alle logiche dei siti e alle loro vocazioni, che invece vanno scoperte, alimentate e fatte vivere.

LA PRECISIONE DEL DATO Di qui anche una serie di spunti preziosi sul tema del paesaggio, sede regina del concetto stesso di contesto, dove ogni cosa vive un sistema di relazioni con ciò che le sta accanto, sopra o sotto, dentro il quale riconosce il proprio stesso senso (un aspetto sul quale ci siamo di recente intrattenuti su queste stesse pagine, vedi «Archeo» n. 384, febbraio 2017). «Ricordo – scrive Carandini – gli albori nel Cantinone della Facoltà di Lettere alla Sapienza di Roma (il «Cantinone» è un deposito-

laboratorio ricavato al piano seminterrato della facoltà citata e utilizzato da docenti, tecnici e studenti delle cattedre di archeologia classica, n.d.r.)». «Lí sotto classificavamo ceramica, metalli e ossi con spirito positivo, concentrato sulla precisione del dato, mentre sulle nostre teste infuriava il Sessantotto (…). Nella generazione successiva frustrazione e stanchezza hanno impantanato ogni pensiero interessante e ogni riforma utile, finché un fango immobile e senza ossigeno ha seppellito le idee, conservandole immote, ché senza ossigeno nulla vive ma neppure alcunché si corrompe (…). Ma l’immobilismo è sicuramente un male, soprattutto quando una società e il suo modo di intendere la cultura si trasformano alla velocità frenetica che contrassegna questi decenni». Perché questo libro guarda avanti, come un vero Giano, curioso del passato e del futuro. E per questo motivo un sentimento lo percorre in ogni sua pagina: il valore della mitezza, dell’ottimismo e del buon umore! Tre Grazie che rendono migliore la nostra vita e quella degli altri.

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SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

TUTTI I COLORI DEL DUCA È POSSIBILE ELABORARE UNA «STORIA ARCHEOLOGICA DELL’ARTE»? SI POSSONO CIOÈ UTILIZZARE APPROCCI E METODOLOGIE DI TAGLIO ARCHEOLOGICO NELL’INDAGARE UN REPERTO, O UN OGGETTO, CHE ABBIA UN VALORE ARTISTICO? UNA RECENTE RICERCA SULL’ALTARE DI RATCHIS, CONSERVATO A CIVIDALE DEL FRIULI, NON LASCIA DUBBI IN PROPOSITO

C

ividale del Friuli è stato uno dei luoghi piú importanti d’Italia, perlomeno dal VI fino all’VIII secolo: duecento anni nel corso dei quali questa cittadina fondata in epoca romana (Forum Iulii, si chiamava) si trovò alla ribalta della storia. Proprio Cividale fu infatti il primo centro urbano conquistato dai Longobardi al loro ingresso in Italia, nel 568 (o 569, ci sono ancora dubbi sulla data). Il re Alboino vi insediò Gisulfo, un suo nipote, che fu il primo duca longobardo del regno, e proseguí poi in direzione di Verona, che divenne la capitale. Da allora, i duchi di Cividale ebbero un peso davvero notevole nelle vicende della Langobardia, e alcuni di loro divennero addirittura re. Cosicché, per renderla degna del nuovo ruolo di sede ducale, a Cividale si concentrarono alcune delle piú importanti imprese

In questa pagina: due immagini dell’altare del duca longobardo Ratchis, scolpito nell’VIII sec. Cividale del Friuli, Museo Cristiano.

architettoniche di quel periodo, primo tra tutti il famoso Tempietto di S. Maria in Valle. Nel corso del tempo sono poi venuti alla luce svariati cimiteri con tombe ricche di corredi, sculture e altro ancora. Insomma: se per avere la percezione di cosa fosse l’Italia bizantina, occorre recarsi a Ravenna, per avere un’idea dell’Italia longobarda, la meta non può che essere Cividale del Friuli.

DALLA CORONA AL SAIO In una sala del locale Museo Cristiano, presso il Duomo, è conservata una delle opere di scultura piú complesse e famose di quel periodo: l’altare di Ratchis, che risale all’VIII secolo. Ratchis era uno dei duchi di Cividale, membro di una illustre famiglia locale: anche suo padre, Pemmone, era stato duca della stessa città. Ratchis fu in

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carica come duca dal 737 fino al 744; poi fu eletto re, ma per poco: nel 749 abdicò e scelse di vivere il resto della sua vita da monaco, nell’abbazia di Montecassino. Ratchis e Pemmone sono ricordati nell’iscrizione che corre sulla cornice superiore delle lastre dell’altare di Cividale, un manufatto a forma di parallelepipedo: si tratta di una sorta di grossa scatola di marmo, riccamente scolpita su tutti i lati. Sulla faccia lunga anteriore si vede una Maestà: Cristo, in una ghirlanda, compie il gesto della benedizione attorniato da angeli. Su uno dei lati corti abbiamo l’Adorazione dei Magi, mentre sul lato opposto è raffigurata la Visitazione: un abbraccio simbolico (e quasi commovente) tra Maria ed Elisabetta. Infine, sulla faccia lunga posteriore, sono scolpite due croci, affiancate. Fin qui, le notizie


essenziali, da tempo a nostra disposizione, su una delle sculture piú complete ed elaborate dell’Alto Medioevo europeo. Nel corso degli anni gli storici dell’arte hanno discusso sul suo stile, sugli influssi culturali che sono dietro la sua ideazione e realizzazione, sul significato di alcune scene, sull’identificazione di alcuni personaggi…

NOVITÀ DECISIVE Ma ora, finalmente, abbiamo delle novità, concrete. Grazie al lavoro di una équipe interdisciplinare coordinata dalla storica dell’arte Laura Chinellato, l’altare è stato studiato nuovamente fin nei minimi dettagli, analizzato, passato al setaccio anche con gli strumenti dell’archeometria. Test chimici, indagini con sonde elettroniche, prelievi di campioni poi analizzati al microscopio hanno chiarito definitivamente che l’altare era un oggetto policromo. Come è stato da tempo accertato per molte sculture antiche (per esempio, l’Augusto di Prima Porta o le sculture del frontone del tempio di Egina) anche questa magnifica scultura altomedievale era multicolore. Sopra un sottilissimo strato di calce bianca venne steso un secondo strato di biacca, e, su di esso, i pigmenti: cinabro, minio, ocra gialla, impasti di terra rossa e arancio, indaco, azzurrite, una speciale lacca rosso-violetta… E persino la foglia d’oro, per l’aureola di Cristo! I risultati delle indagini e del nuovo studio della scultura sono confluiti in un bel libro, curato proprio dalla stessa Laura Chinellato, L’ara di Ratchis a Cividale. Accanto al quale va sottolineato il grande sforzo compiuto in direzione della comunicazione: le ricostruzioni dell’altare nelle sue forme originali sono diventate un’installazione multimediale. E cosí, visitando il Museo Cristiano di Cividale, si

possono apprezzare i nuovi dati, proiettati direttamente sul manufatto, in una sorta di restauro virtuale. Il risultato è, sulle prime, spiazzante, poiché siamo talmente abituati al bianco delle sculture, cosí come sono giunte fino a noi, che questa nuova immagine ci sembra davvero innaturale, con tutti quei colori… Eppure proprio quello era l’aspetto originario dell’altare. A Laura Chinellato e alla sua équipe va dunque il merito di avere osato e di averci consegnato una nuova visione del Medioevo,

molto piú filologica e quindi veritiera. Un’operazione che dimostra come una «storia archeologica dell’arte» non sia solo possibile, ma necessaria. E capace, come in questo caso, di riservare sorprese davvero inaspettate.

DOVE E QUANDO Museo Cristiano-Tesoro del Duomo Cividale del Friuli (Udine), via G.B. Candotti 1 Info tel. 0432 730403; www.mucris.it

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

FRA GIUSTIZIA E BELLEZZA SETTEMBRE È IL MESE DELLA BILANCIA, SEGNO CHE SIMBOLEGGIA L’EQUITÀ, MA CHE È ANCHE STELLA NATALE DI AUGUSTO E DELLA STESSA ROMA, FONDATA, SECONDO I CALCOLI DEL MATEMATICO LUCIO TARUZIO FIRMANO, PROPRIO MENTRE LA LUNA SI TROVAVA NELLA SUA COSTELLAZIONE...

«I

l nesso tra i segni zodiacali e i temperamenti individuali è questione che si perde nelle nebbie del piú remoto passato»: cosí, nella sua Tipologia psicologica (1929), Carl Gustav Jung sintetizzava l’atavico rapporto che lega l’astrologia all’essere umano. Ogni segno zodiacale possiede una storia e un’evoluzione tipologica, frutto di elaborazioni scientifiche e mitico-religiose, che si conclusero

nelle iconografie che oggi conosciamo. Nate con le speculazioni assiro-babilonesi, tali immagini si codificano in Occidente con la mediazione ellenistica e con la dottrina astronomico-astrologica di età romana, ereditata poi dal mondo medievale e moderno. Questo percorso – che fonde l’astronomia alla matematica, alla filosofia, alla religione e alla medicina – lega con un filo rosso Arazzo Trivulzio dedicato al mese di Settembre, nel cui angolo in alto, a destra, lo Scorpione regge la Bilancia con una delle sue chele. 1503-1509. Milano, Castello Sforzesco. l’evo antico a quello contemporaneo: segno del millenario desiderio di trovare speranza e fortuna nel futuro tramite lo studio degli astri.

OSSERVARE L’ORA Con la formulazione di un oroscopo (dal greco horoskópos, «che osserva l’ora»), parola che indica il punto in cui sorge una stella in un determinato momento (di regola quello della nascita), il sapiente sa delineare una mappa degli eventi che riguarderanno il soggetto indagato. E come gli uomini vengono al mondo sotto un segno zodiacale, cosí anche le città e le nazioni sono poste, nella cultura antica, sotto una loro buona stella. La costellazione della Bilancia,

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Libra in latino, è un segno recente, «creato» a Roma intorno al I secolo a.C.; prima le sue stelle erano parte dello Scorpione, formando le chele dell’artropode. Il primo scienziato a farne espressa menzione quale costellazione autonoma è Gemino da Rodi, matematico e astronomo greco fiorito intorno al 70 a.C., descrivendola nell’opera Introduzione ai fenomeni (Isagoge, I, 1-2) dove però la definisce iugum, giogo, sulla base di un’altra lettura dell’immagine formata dalle sue stelle. La costellazione assunse infine l’aspetto e il nome di una bilancia a due piatti (Quinto Tullio Cicerone, fratello di Marco Tullio, in Ausonio, Eclogarum liber, 25). Da allora il segno divenne canonico, il dodicesimo dello Zodiaco e unico oggetto inanimato, tra gli altri in forma umana e animale. La Bilancia è governata da Venere e domina i cieli autunnali tra settembre e ottobre, quando il sole è all’equinozio di autunno: la stessa durata del giorno e della notte ben si associa all’equilibrio perfetto di una bilancia. Essa è poi simbolo di giustizia, personificata nella figura della greca Dike, che in astrologia diviene la Vergine, costellazione limitrofa alla Bilancia. Le stelle che formano i due piatti hanno in astronomia un nome arabo: Zubenelgenubi e

A sinistra: busto di Venere e giovane che tiene una bilancia, rovescio di una dracma in bronzo della serie alessandrina dello Zodiaco di Antonino Pio. 144/5 d.C. In basso: un’altra dracma della serie alessandrina dello Zodiaco. 144/5 d.C. Al dritto, l’imperatore; al rovescio, Venere in Bilancia: busto di Venere e, sotto, un giovane in «volo» che, con la bilancia in mano, si volge verso la dea.

Zubeneschamali («chela nord» e «chela sud»), mantenendo ancor vivo il riferimento alla costellazione dello Scorpione, dal quale, come detto, la Bilancia proviene.

ASTROLOGIA DI STATO Il pragmatismo di Roma mise l’astrologia al servizio dello Stato, legittimandola e usandola a fini politici e di propaganda, in particolar modo di quella imperiale. Ottaviano Augusto nasce il 23 settembre del 63 a.C. sotto il segno della Bilancia (il segno a lui attribuito comunemente, il Capricorno, è relativo al momento del concepimento), e Roma stessa – non a caso – è posta sotto questa costellazione. Lucio Taruzio Firmano, matematico, astrologo e senatore amico di Cicerone e Varrone, venne incaricato da

quest’ultimo, quasi per celia, di redigere gli oroscopi di Romolo, nato in base ai suoi calcoli il 21 settembre, dunque in Bilancia, e di Roma, fondata quando la luna si trovava in Bilancia (Cicerone, De divinatione, II, 98; Plutarco, Romulus, 12, 4; Manilio, Astronomica, IV, 773). Dunque, il segno della Bilancia glorificava Roma e i suoi padri fondatori di ogni età, simbolo di giustizia e di equilibrio cosmico. Ponendola sotto il dominio di Venere, divina progenitrice della gens giulio-claudia quale madre di Enea, nonna del figlio Ascanio-Iulo e legata tramite quest’ultimo a Giulio Cesare, che adottò Augusto come figlio, la propaganda augustea uní abilmente cielo e terra nell’esaltazione della nascente dinastia imperiale. Nella serie alessandrina riservata allo Zodiaco e battuta intorno al 144/5 d.C. sotto Antonino Pio, il rovescio delle dracme in bronzo dedicate al segno si compone del busto di Venere, una stella e il segno, in due varianti. La bilancia è retta da un «portatore», che non è la dea della Giustizia, bensí un personaggio maschile, che può essere stante, a busto nudo e con un mantello intorno al corpo, oppure raffigurato come fosse in volo e si volge a guardare Venere, in un muto, ma eloquente colloquio fatto di sguardi divini, inframmezzati da una fulgida stella.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Luciano Frazzoni

SORANO Il parco archeologico Città del Tufo Historia, Viterbo, 72 pp., ill. col. 10,00 euro ISBN 978-889576971-4 www.historiaweb.it

Situato immediatamente al di là del confine con il Lazio, Sorano è un paese di poco piú di 3000 abitanti oggi in provincia di Grosseto. Tuttavia, al di là dell’odierna collocazione amministrativa, la cittadina rientra innanzitutto nella Maremma e, storicamente, nell’Etruria delle grandi architetture rupestri. Non a caso, infatti, è oggi il cuore del Parco Archeologico Città del Tufo, che ne ha ora realizzato questa guida. Si tratta di un agile volumetto – redatto in lingua italiana con traduzioni in inglese –, che ripercorre la storia dell’insediamento, concentrandosi in

particolare sulle fasi medievali e rinascimentali, alle quali si devono i principali monumenti che vi si possono ammirare. Presenze di pregio – come la Fortezza (che è anche sede del Museo del Medioevo e del Rinascimento) o il Palazzo Orsini –, la cui presenza non deve stupire, in quanto Sorano ebbe una notevole rilevanza soprattutto all’epoca in cui si trovò sotto il controllo degli Aldobrandeschi prima e degli Orsini poi. Vicende di cui la guida dà conto in maniera puntuale, anche grazie al ricco apparato fotografico. La seconda parte della pubblicazione è dedicata ai principali siti del circondario, che potrannno costituire altrettante mete delle escursioni a proposito delle quali i punti informativi del Parco (segnalati nella guida) forniscono tutte le informazioni logistiche. Il volume è in vendita presso il Parco archeologico Città del Tufo di Sorano (Grosseto). Stefano Mammini Simone Beta

IO, UN MANOSCRITTO L’Antologia Palatina si racconta Carocci Editore, Roma, 175 pp. 14,00 euro ISBN 978-88-430-6821-4 www.carocci.it

L’Antologia Palatina è un monumento della letteratura greca: si 112 a r c h e o

Franco D’Agostino

GILGAMEŠ Il re, l’uomo, lo scriba L’Asino d’oro edizioni, Roma, 233 pp. 20,00 euro ISBN 978-88-6443-414-8 www.lasinodoroedizioni.it

Secondo la tradizione orientale sumerica e assiro-babilonese, Gilgamesh fu un antichissimo sovrano della Mesopotamia,

tratta, infatti, della silloge piú articolata e ricca dell’antichità, nella quale sono riuniti ben 3700 epigrammi, appartenenti a circa 340 poeti greci dall’età arcaica all’età bizantina, ed è stata cosí battezzata, poiché il codice manoscritto che la riporta venne scoperto nel 1607 presso la biblioteca dell’elettore palatino di Heidelberg. Quella che Simone Beta ha confezionato per i tipi di Carocci non è però un’esegesi dell’opera, ma la sua «biografia». La storia dell’Antologia, infatti, è a dir poco avventurosa e l’autore del volume, docente di filologia classica all’Università di Siena, la trasforma in una brillante autobiografia: un’operazione originale e che può dirsi pienamente riuscita, poiché il volume cattura fin dalle prime pagine e viene voglia di riporlo soltanto dopo avere scoperto come è andata a finire… S. M.

che regnò su Uruk. Soprattutto, però, sarebbe stato un essere semidivino, figlio della dea Ninsun e del re Lugalbanda. Il leggendario personaggio deve la sua notorietà al Poema che porta il suo nome e che Franco D’Agostino invita a conoscere attraverso questo nuovo volume (versione riveduta e aggiornata di un testo del 1997). Un «compagno di viaggio» prezioso, per scoprire un’opera che è anche una testimonianza sulla vita nell’antica Terra fra i due Fiumi. S. M.



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