GERICO MUSEO DI AOSTA LONGOBARDI A PAVIA
AOSTA
IL NUOVO MUSEO ARCHEOLOGICO PAVIA
I LONGOBARDI IN MOSTRA PAESTUM
TORMENTA NAVALIA/3 SPECIALE VIAGGIO IN TOSCANA
Mens. Anno XXXIII n. 392 ottobre 2017 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
LA XX BORSA MEDITERRANEA DEL TURISMO ARCHEOLOGICO
SPECIALE VOLTERRA
MAGIE TOSCANE
VIAGGIO ALLA SCOPERTA DEI TESORI NASCOSTI
www.archeo.it
.it
2017
5000 ANNI FA L’INVENZIONE DEL LUSSO
IN EDICOLA I L 7 OTTOBRE 2017
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ARCHEO 392 OTTOBRE
GERICO
€ 5,90
EDITORIALE
DA VOLTERRA A PAESTUM Dobbiamo confessare un piccolo insuccesso redazionale. Volevamo, infatti, dedicare la copertina all’oggetto riprodotto qui accanto. L’avrebbe davvero meritato. Abbiamo provato, per diverse ore, ma senza ottenere alcun risultato accettabile. Comunque la si metteva, la filiforme figura risultava irriconoscibile, pressoché invisibile. Alla fine, il grafico ha gettato… il mouse, ripiegando sull’immagine della bellissima pieve di S. Giovanni Battista, una delle tappe dell’itinerario toscano che proponiamo nel nostro speciale (vedi alle pp. 74-104). Ma torniamo alla snella silhouette di questa pagina. Molti dei lettori la conosceranno: è l’Ombra della Sera, uno dei capolavori dell’arte etrusca, conservato al Museo Etrusco Guarnacci di Volterra (la poetica denominazione sembra risalire a Gabriele D’Annunzio, che dalle «torri fulve e bige» della città toscana aveva tratto ispirazione per un suo celebre romanzo). Si tratta di una statuetta in bronzo, alta 57,4 cm, raffigurante un offerente, con le braccia distese lungo il corpo nudo, il sesso sporgente, i piedi uniti. Il volto è quello di un giovinetto, munito di un folto ciuffo di capelli con una scriminatura sul lato sinistro. Risale alla fine del III secolo a.C., al periodo ellenistico dell’arte etrusca. L’Ombra non è l’unica figurina del tipo cosí esageratamente allungato (vi sono anche l’Aruspice, conservato al Museo di Villa Giulia di Roma, o la dea proveniente dal santuario di Diana Nemorense, esposta al Museo del Louvre di Parigi) ma è, certamente, la piú celebre, destinata ad alimentare – con quella sua espressione enigmatica – l’eterno fascino del «mistero etrusco». Scoperta a Volterra, la statua entrò a far parte della collezione di Filippo Buonarroti, pronipote di Michelangelo. Nel 1737, l’erudito fiorentino Anton Francesco Gori la inserí nella sua opera Museum Etruscum. In seguito venne acquistata da Mario Guarnacci, il religioso appassionato e collezionista di antichità, che, nel 1761, la donò, insieme a tutta la sua raccolta, alla citta di Volterra. Nel 2014, studiosi dell’Istituto di Fisica applicata del CNR di Firenze hanno sottoposto l’Ombra alla verifica dei raggi laser, fugando cosí ogni dubbio sulla sua autenticità. Da qualche settimana, infine, è esposta in un nuovo allestimento, all’interno di una teca di vetro nella stanza 22 del Museo volterrano, interamente dedicata a lei. In attesa della vostra visita. Spostiamoci ora dalle colline della Toscana, per approdare, qualche centinaio di chilometri piú a sud, nella piana di Paestum. Qui, sotto lo sguardo severo dei maestosi santuari magno-greci, si svolgerà dal 26 al 29 di questo mese, la ventesima edizione della BMTA, la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico. Sin dall’inizio, dapprima come osservatore e poi sempre piú attivamente, la nostra rivista ha partecipato alla realizzazione di questo fondamentale appuntamento internazionale. Alle pagine 18-19 abbiamo raccolto, in occasione di questo importante anniversario, le considerazioni dell’ideatore e direttore della Borsa, Ugo Picarelli. Insieme vi invitiamo a raggiungerci nell’antica Poseidonia, dove, per quattro intense giornate, potrete incontrare l’archeologia di tutto il mondo. Andreas M. Steiner Bronzetto etrusco che raffigura un giovane e noto come Ombra della Sera, da Volterra. Decenni finali del III sec. a.C. Volterra, Museo Etrusco Guarnacci.
SOMMARIO EDITORIALE
Da Volterra a Paestum
3
di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
6
PAROLA D’ARCHEOLOGO La Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum compie vent’anni: il suo fondatore, Ugo Picarelli, ne ripercorre la storia 18
SCAVI Un intervento di archeologia preventiva presso Vienne, sul Rodano, svela i resti di quella che è stata subito definita la «piccola Pompei» di Francia 6
MOSTRE Dall’Altai la conferma: oltre a Sapiens e Neandertal, c’è un terzo uomo fra i nostri antenati 20
ALL’OMBRA DEL VULCANO I tesori delle lussuose case comprese nell’Insula Occidentalis di Pompei sono protagonisti di una nuova esposizione 10
di Valentina Di Napoli
DA ATENE
Largo ai sentimenti
Quando Gerico si dava il belletto...
36
Nel labirinto della storia
48
di Francesca Chiocci, Gaetano De Gattis, Simona Oliveti e Maria Cristina Ronc
48 MOSTRE
SCOPERTE
di Lorenzo Nigro
SCAVI Le ultime ricerche in Pakistan del Progetto ACT confermano il racconto di Quinto Curzio Rufo sulle pratiche sepolcrali dei soldati di Alessandro Magno 12
30
MUSEI
36
I Longobardi rivisitati
60
di Andreas M. Steiner
60
In copertina Sillano, Pomarance (Pisa). I resti della pieve di S. Giovanni Battista. X sec.
Anno XXXIII, n. 392 - ottobre 2017 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Amministrazione: Roberto Sperti
amministrazione@timelinepublishing.it
Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale
Hanno collaborato a questo numero: Giacomo Baldini è curatore scientifico del Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli» di Colle di Val d’Elsa. Lorenzo Benini è co-fondatore del Trust di scopo Sostratos. Maria Bernabò Brea è presidente dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria. Fabrizio Burchianti è direttore del Museo Etrusco Guarnacci di Volterra. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Chiocci è curatrice della mostra «Labirinti di memorie». Francesco Colotta è giornalista. Gaetano De Gattis è dirigente della Struttura patrimonio archeologico del Dipartimento Soprintendenza per i beni e le attività culturali della Regione autonoma Valle d’Aosta. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (Istituto Internazionale di Studi Liguri). Valentina Di Napoli è archeologa. Anna Maria Esposito è stata funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia della Toscana. Pierluigi Giroldini è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Siena, Grosseto e Arezzo. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco Archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Lorenzo Nigro è professore di archeologia fenicio-punica e di archeologia orientale presso «Sapienza» Università di Roma. Simona Oliveti è curatrice della mostra «Labirinti di memorie». Anna Revedin è Direttore dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria. Maria Cristina Ronc è responsabile scientifica del MAR-Museo Archeologico Regionale di Aosta e curatrice della mostra «Labirinti di memorie». Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Elena Sorge è funzionaria archeologa della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Pisa e Livorno. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Mara Sternini è professore associato di archeologia classica all’Università degli Studi di Siena. Illustrazioni e immagini: Mimmo Frassineti: copertina (e pp. 74/75) e pp. 76, 78-79, 81, 84, 84/85, 87-89, 91, 92 (basso), 94 (alto), 95, 98, 99 (sinistra) – Cortesia Museo Etrusco Guarnacci, Volterra: Damiano Dainelli: p. 3 – Cortesia Archeodunum: pp. 6-8 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 10-11 – Cortesia Progetto ACT: p. 12 – Giovanni Dall’Orto: p. 14 – Museo de Zaragoza, Saragozza: p. 15 – Archivio Fotografico Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze: p. 16 – Cortesia Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, Paestum: pp. 18-19 – Cortesia Ufficio Stampa RMN-Grand Palais: Mikael V. Shunkov, direttore dell’Istituto di archeologia ed etnografia, sezione siberiana, dell’Accademia delle Scienze di Russia: pp. 20 (sinistra), 21 (alto, a destra); Bence Viola, Universita di Toronto: p. 20 (destra), 21 (centro); Sergueï I. Zelenkï/ Istituto di archeologia ed etnografia, sezione siberiana, dell’Accademia delle Scienze di Russia: p.
ARCHEOTECNOLOGIA Le sentinelle dei fiumi
68
di Flavio Russo
74
SPECIALE Magie toscane
74
testi di Giacomo Baldini, Lorenzo Benini, Fabrizio Burchianti, Anna Maria Esposito, Pierluigi Giroldini ed Elena Sorge
106 68 Rubriche QUANDO L’ANTICA ROMA...
...ospitò l’apostolo Paolo in «libertà vigilata» 106 di Romolo A. Staccioli 21 (alto, a sinistra) – Ufficio Stampa Museo dell’Acropoli, Atene: pp. 30, 31 (basso); Giorgos Vitsaropoulos: p. 31 (alto) – Cortesia Missione Archeologica Italiana a Gerico dell’Università «Sapienza» (Roma): pp. 36-37, 38 (basso), 39-45 – Jacques Descloitres, MODIS Rapid Response Team, NASA/GSFC: p. 38 (alto) – Cortesia Archivio fotografico dei beni archeologici, Aosta: pp. 48-58 – Cortesia Ufficio Stampa mostra «Longobardi. Un popolo che cambia la storia»: pp. 60-67 – Bridgeman Images: pp. 68/69 – Museum für Antike Schiffahrt, Magonza: pp. 70-71, 72 (basso) – Flavio Russo: ricostruzioni grafiche a p. 72 – Giacomo Baldini: pp. 82 (alto), 83 (basso, a destra) – Studio Lensini, Siena: p. 82 (basso), 83 (alto) – Bruno Bruchi: p. 83 (basso, a sinistra) – Società Archeologica della Valdelsa, Casole d’Elsa: p. 86 – Shutterstock: pp. 90/91, 94 (basso) – Cortesia degli autori: pp. 92 (centro), 93, 96-97, 100-104, 110-111 – Doc. red.: pp. 99 (destra), 108 – Mondadori Portfolio: p. 106 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 77, 107. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
Editore: My Way Media S.r.l. Direttore generale: Andrea Ferdeghini Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Concessionaria per la pubblicità extra settore: Lapis Srl Viale Monte Nero, 56 - 20135 Milano tel. 02 56567415 - 02 36741429 e-mail: info@lapisadv.it Pubblicità di settore: Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com tel. 335 8437534 Direzione, sede legale e operativa Via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano tel. 02 00696.352
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Uccisore di giganti
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di Francesca Ceci
LIBRI
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n otiz iari o SCAVI Francia
FILOSOFI E MOSAICI SULLE RIVE DEL RODANO
A
Sainte-Colombe, Comune francese situato una trentina di chilometri a sud di Lione e confinante con la città di Vienne, proseguono le indagini di un quartiere dell’antico abitato romano, scoperto in un terreno antistante l’attuale municipio. Il ritrovamento è stato salutato come uno dei piú importanti degli ultimi decenni nell’ambito dell’archeologia romana in Francia, tanto da meritare l’appellativo di «piccola Pompei», anche in virtú delle ripetute distruzioni causate da incendi che dovettero colpire l’insediamento in epoca antica, evidenziate nelle stratigrafie di
6 archeo
scavo, che hanno creato un «effetto istantanea» in numerosi casi. Il cantiere interessa una superficie di oltre 7000 mq e, già dopo i primi mesi di lavori, è emerso un quadro articolato, che mostra aree pubbliche, resti di abitazioni private, botteghe e laboratori artigiani. Nel settore orientale sono stati isolati ben 6 livelli stratigrafici, che abbracciano un arco cronologico compreso tra la metà del I secolo a.C. e il IV secolo d.C. Innanzitutto, è stata riconosciuta un’area destinata ai traffici commerciali – coeva al ponte meridionale di Vienne sul Rodano, realizzato in età flavia (69-96 d.C.) –,
Sulle due pagine: Sainte-Colombe (Vienne, Francia). Vedute del sito: una ripresa zenitale (a destra); un’immagine a volo d’uccello con il corso del Rodano (in basso) e il peristilio di una domus con bacino quadrangolare a tre absidi e ninfeo (II sec. d.C.).
con botteghe (tabernae) e laboratori artigianali, situati dietro un imponente portico che circonda una piazza di circa 2500 mq, dotata al centro di un bacino ornamentale. Una complessa rete idrica serviva l’area e provvedeva al drenaggio dei reflui. In epoca successiva, qui viene impiantato un magazzino, distrutto da un incendio agli inizi del II secolo d.C., ancora pieno dei beni stoccati al suo interno, incluse brocche e anfore da vino che probabilmente contenevano la rinomata produzione della valle del Rodano. Si sono conservati i diversi piani dell’edificio, collassati uno sull’altro, cosí come suppellettili e frammenti di mobilio abbandonati alle fiamme. Nel livello stratigrafico soprastante, un nuovo spazio pubblico torna a occupare l’area, realizzato in una fase successiva all’incendio, con una fontana monumentale disposta al centro di una piazza, circondata da portici o
Errata corrige con riferimento all’articolo La colonia ritrovata (vedi «Archeo» n. 391, settembre 2017) desideriamo precisare che la foto a p. 53 è di Thomas Nicq, Université de Lille 3 HALMA-UMR 8164. Nello stesso numero, ma con riferimento all’articolo Restauro e vecchi biglietti..., desideriamo precisare che le foto alle pp. 58 (in basso) e 61 (in alto) sono di Antonio Gerbino. Delle mancate attribuzioni ci scusiamo con gli interessati.
archeo 7
n otiz iario Uno degli splendidi mosaici policromi venuti alla luce nel corso degli scavi condotti a Sainte-Colombe: si tratta, in questo caso, del pavimento che ornava il cubiculum di una ricca domus, il cui medaglione centrale raffigura Pan, dio dei boschi, e la musa Talia. I sec. d.C. basiliche (con un lato di 20 m) sostenuti da imponenti pilastri. Gli archeologi hanno interpretato questo complesso, che si sviluppava lungo l’argine del Rodano su una superficie di circa 7000 mq, come una schola, forse la scuola filosofica o retorica di Vienne, nota dalle fonti epigrafiche locali, ma finora mai localizzata. Nel IV secolo d.C. il complesso viene abbandonato, ma ci sono tracce di un piano elevato – realizzato in legno – nella parte nord-occidentale dell’area, che sembra collegato a un edificio piú vasto che prosegue verso nord, al di fuori dell’area di scavo. Il livello piú superficiale di questo settore è rappresentato da
8 archeo
una necropoli altomedievale, che comprende circa quaranta sepolture e costituisce l’ultima traccia di occupazione del sito. Nel settore occidentale del cantiere, dalla parte opposta rispetto al corso del Rodano e adiacente al tracciato della via Narbonensis – realizzata su iniziativa di Agrippa nella seconda metà del I secolo a.C. –, gli archeologi hanno rinvenuto un portico monumentale che si apre su spazi commerciali, che si elevavano in alzato per tre piani. Nei pressi di quest’area sono state individuate anche due domus databili al I secolo d.C., entrambe abbellite da ricchi mosaici.
La prima, ribattezzata Domus di Talia e Pan, è organizzata intorno a due peristili, e tra gli esempi migliori della sua decorazione c’è il mosaico che le dà il nome, scoperto sul pavimento di un cubiculum di 16 mq con un medaglione centrale raffigurante il dio silvano che solleva la musa. Una seconda abitazione, situata piú a nord, è ancora in corso di scavo. Distrutta anch’essa da un incendio nella prima metà del II secolo d.C. – che ha però risparmiato i mosaici e i piani elevati, collassati sulle fondamenta – era sviluppata intorno a un giardino. Il peristilio era fiancheggiato da gallerie che si aprivano sullo spazio verde – dotato di un bacino ad abside –, coperte di una terrazza dal pavimento mosaicato, crollata sul posto. Il triclinium presenta una decorazione pavimentale raffigurante un baccanale, databile al I secolo d.C., articolata in 15 scene. Dopo l’incendio, quest’area viene abbandonata e quindi trasformata in santuario, con la costruzione di un tempio a pianta italica rivolto verso la via Narbonensis. Gli scavi hanno individuato il basamento di un altare, eretto in onore di una divinità ancora da identificare, ma hanno anche recuperato una medaglia in bronzo, coniata nel 191 d.C. e donata dall’imperatore Commodo in persona. Gli archeologi ipotizzano che potrebbe essere appartenuta a uno dei sacerdoti, forse un dono in occasione della fondazione del santuario, magari dedicato al culto della famiglia imperiale. La conclusione delle indagini sul sito è prevista per il prossimo dicembre, e si attendono nuovi risultati dal completamento delle aree ancora in corso di scavo. Paolo Leonini
ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
VIVERE ALLA GRANDE L’INSULA OCCIDENTALIS ERA FRA LE ZONE RESIDENZIALI PIÚ AMBITE DI POMPEI E LA MOSTRA IN CORSO NELL’ANTIQUARIUM NE SVELA I MOTIVI
I
l piacere dell’abitare nelle lussuose case situate in uno dei settori residenziali piú ricercati di Pompei – l’Insula Occidentalis – è il tema della nuova mostra allestita nell’Antiquarium del sito. Ubicato all’estremità occidentale della città, il grandioso complesso dell’Insula è formato da un’aggregazione di «ville urbane» affacciate sulle mura cittadine – Case della Biblioteca, del Bracciale d’oro, di Fabio Rufo, di Castricio, di Umbricio Scauro – e scenograficamente organizzate su ampie terrazze panoramiche che
digradano verso la marina. Queste costruzioni offrono al visitatore una testimonianza emblematica del gusto romano di vivere in eleganti dimore ispirate al modello di casa-palazzo sulle mura, di tradizione ellenistico-orientale. «Tesori sotto i lapilli» – questo il titolo della mostra – rievoca quindi lo splendore delle case dell’Insula, abbellite da affreschi con colte rappresentazioni, ariose architetture e lussureggianti giardini, e ancora da vivaci mosaici pavimentali, oltre che da arredi alla moda e da pregiate suppellettili.
Affreschi dalla Casa del Bracciale d’Oro: le Nozze di Alessandro e Rossane (o Statira; a destra) e la pittura di giardino (attualmente esposta a Boscoreale).
10 a r c h e o
L’esposizione si concentra soprattutto sugli apparati decorativi di una delle abitazioni piú famose, la Casa del Bracciale d’Oro, oggi non visitabile per interventi in corso di restauro e di valorizzazione, che restituiranno a breve l’intero quartiere alla fruizione pubblica. I materiali esposti ricordano l’ambientazione della dimora, nella quale si poteva godere appieno il gusto del soggiornare, immersa, com’era, in una bellezza raffinata, fra pitture di III e IV stile pompeiano, con richiami letterari o vedute di lussureggianti spazi verdi, e mosaici pavimentali composti da marmi policromi provenienti da tutte le regioni dell’impero. La mostra offre però anche
A sinistra: il ninfeo della Casa del Bracciale d’Oro, rivestito da mosaici policromi in pasta vitrea, conchiglie e schiuma di lava per suggerire l’idea di una grotta. In basso: il gioiello che dà nome alla Casa del Bracciale d’Oro con il busto della dea Selene.
l’immagine della catastrofe che ha colpito questo «angolo di paradiso» urbano, cristallizzata nelle figure umane dei calchi, evento che interrompe d’improvviso l’incanto delle dimore.
UNA FUGA DISPERATA La Casa del Bracciale d’Oro prende nome da un grande gioiello in oro, del peso di 610 grammi, indossato da una delle vittime in fuga dall’eruzione. Nella parte terminale, il bracciale è caratterizzato da due teste di serpente affrontate che reggono un disco con il busto della dea Selene (Luna). La dea compare con il capo coronato da una mezzaluna circondata da sette stelle, nell’intento di sollevare le braccia per trattenere un velo rigonfio dalla brezza. Un altro fuggiasco portava invece con sé una cassettina in legno e bronzo che custodiva un tesoretto di 40
monete d’oro e 175 in argento. Fra queste, è compreso il discusso denario dell’imperatore Tito, che, secondo una suggestiva ipotesi, si daterebbe al settembre del 79 d.C., posticipando cosí di almeno un mese la tradizionale data dell’eruzione vesuviana fissata al 24 agosto. Al momento della distruzione, altri due adulti e un bambino cercarono riparo nel sottoscala di uno degli ambienti di servizio della casa: i loro calchi sono presenti in mostra. La casa era dotata di un grande triclinio con raffinati affreschi, evidenti nelle rappresentazioni delle Nozze di Alessandro e
Rossane (o Statira, figlia del re persiano Dario III) e di Arianna e Dioniso a Nasso, temi che alludono alle unioni matrimoniali felici. Nella stagione estiva, i banchetti si svolgevano al piano inferiore della residenza, in un altro elegante triclinio aperto su un ampio spazio verde rinfrescato dalle acque di un monumentale ninfeo, rivestito da mosaici policromi in pasta vitrea, conchiglie e schiuma di lava per suggerire l’idea di una grotta. La famosa parete del triclinio estivo affrescata con una vivace veduta di giardino è invece esposta, in via eccezionale, nel vicino Antiquarium di Boscoreale. La pittura può annoverarsi tra le piú accurate rappresentazioni di giardino fiorito di III stile. La cura dei dettagli con la quale è raffigurato lo spazio verde genera un effetto realistico, che permette di riconoscere alcune specie di piante dell’epoca, oltre a diversi uccelli che volteggiano o riposano sugli alberi. Interessante, infine, è la decorazione delle pareti del giardino esterno della casa, costituita da lastre architettoniche fittili del II secolo a.C., tutte con soggetti connessi al culto apollineo, circostanza che ha fatto pensare alla loro provenienza dalTempio di Apollo, dopo il suo rifacimento in seguito al terremoto del 62 d.C.
DOVE E QUANDO «Tesori sotto i lapilli. Arredi, affreschi e gioielli dall’Insula Occidentalis» Pompei, Antiquarium degli Scavi fino al 31 marzo 2018 Orario 1° nov-31 mar: 9,00-17,00; 1° apr-31 ott: 9,00-19,30 Info tel. 081 8575347; e-mail: pompei.info@beniculturali.it; www.pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico
a r c h e o 11
n otiz iario
SCOPERTE Pakistan
QUEI SEPOLCRI IN LEGNO DI CEDRO... dell’impresa di Alessandro Magno (327 a.C.), i quali menzionano, nella stessa valle, cimiteri monumentali coperti da costruzioni lignee. Lo racconta, in particolare, Quinto Curzio Rufo, scrivendo che i soldati di Alessandro, giunti sul posto in una notte gelida, «abbatterono degli alberi per accendere dei fuochi che, alimentati dal legname,
S
ono stati recentemente pubblicati i risultati delle piú recenti indagini condotte nella valle dello Swat, in Pakistan, dall’équipe del progetto ACT (Archaeology, Community, Tourism; vedi «Archeo» n. 383, gennaio 2017), diretto da Luca Maria Olivieri dell’ISMEO e al quale partecipa l’Università di Padova. Si tratta dello scavo di alcune necropoli megalitiche datate col metodo del radiocarbonio dal 1400 al 900 a.C. Allo stesso periodo si colloca la diffusione delle lingue indoarie (una branca della famiglia indoeuropea) dall’Asia centrale verso il Subcontinente IndoPakistano. I resti ossei rinvenuti sono in corso di studio per la determinazione del DNA grazie a una collaborazione con David Reich della Harvard Medical School, Department of Genetics (USA). Gli archeologi di Padova e i loro collaboratori (Massimo Vidale, Michele Cupitò, Roberto Micheli) hanno scavato le cavità tombali e i resti scheletrici in modo microstratigrafico (cioè prestando attenzione alle piú minute variazioni nella composizione del terreno), rivelando non solo complicati riti di riapertura delle tombe per deporre e togliere gli oggetti dei corredi funebri e manipolare le ossa dei defunti, ma anche resti di stoffe, canestri e vasi di legno decomposti, mai identificati prima. Inoltre, intorno alle tombe sono state scoperte le tracce di recinti e sarcofagi fatti di pali e travi lignee; ciò conferma quanto descritto molti secoli dopo dagli storici
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In alto: valle dello Swat (Pakistan). Una delle tombe della necropoli megalitica di Udegram. Qui sopra: strutture in corso di scavo nel sito di Barikot. A sinistra: statuina fittile raffigurante una dea madre, dalla tomba 1 della necropoli di Udegram. X sec. a.C. circa.
bruciarono le tombe degli abitanti locali. Costruiti in vecchio legno di cedro, i sepolcri in fiamme diffusero ampiamente l’incendio, fino a che tutti furono carbonizzati al suolo» (Storia di Alessandro, 10.8–10). Il progetto ACT è uno sviluppo della Missione Archeologica Italiana in Pakistan, fondata dal grande orientalista ed esploratore Giuseppe Tucci (1894-1984) nel 1955; si tratta della piú antica missione archeologica Italiana all’estero, ancora pienamente impegnata nell’archeologia di campo in una regione sino a poco tempo fa segnata da una grave crisi bellica. (red.)
A TUTTO CAMPO Mara Sternini
I NUMERI NON SONO TUTTO LONDRA SI APPRESTA A CELEBRARE IL TRENTENNALE DELLA MOSTRA «VETRI DEI CESARI», CHE, FRA IL 1987 E IL 1988, FU UN ENORME SUCCESSO, ANCHE NEL NOSTRO PAESE. A BEN VEDERE, PERÒ, QUEL PROGETTO EBBE IL MERITO DI SVELARE LA MAGNIFICENZA DELL’ARTE VETRARIA ROMANA, MA NON SI RIVELÒ ALTRETTANTO EFFICACE SUL PIANO DIDATTICO
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l 3 e 4 novembre prossimi si terrà a Londra, presso il British Museum, il seminario «The Glass of the Caesars @ 30: 1987-2017», che riunirà studiosi del vetro antico da tutto il mondo e con il quale si intende celebrare il trentennale di una mostra sul vetro dei Cesari allestita nel 1987 dal Museum of Glass di Corning e poi presentata al British Museum di Londra, al Römisch-Germanisches Museum di Colonia, e a Roma, presso i Musei Capitolini. L’affluenza dei visitatori era stata ovunque molto alta, decretando un successo di pubblico facilmente prevedibile, dal momento che gli oggetti esposti erano tra gli esemplari piú belli e famosi dell’arte vetraria romana. A trent’anni di distanza, oltre alle celebrazioni, è tuttavia opportuno interrogarsi sull’efficacia di quella mostra sul piano didattico-divulgativo. Sfogliandone il catalogo, emerge subito il primo limite: è una lista di oggetti, di cronologie e provenienze diverse, scelti secondo un evidente criterio estetico, dove prevale nettamente il gusto antiquario per l’oggetto raro, che deve destare stupore e ammirazione. Pochi sono gli esemplari non decorati, di uso piú comune, quindi non destinati a
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restare nella memoria dei visitatori. Una mostra cosí concepita ha dunque potuto ampliare la conoscenza del mondo romano nelle persone che l’hanno visitata?
CONOSCERE LA STORIA La domanda è fondamentale, perché, se l’obiettivo non è stato raggiunto, il progetto può dirsi fallito, nonostante i positivi risultati nella vendita dei biglietti di ingresso e di tutto il merchandising collegato all’evento. Visitare una mostra archeologica, cosí come un parco archeologico, dovrebbe
permettere al visitatore di accrescere le sue conoscenze sulla storia del luogo in cui vive, consolidando cosí il senso di appartenenza e il desiderio di proteggere e preservare le testimonianze del passato. Ma il racconto storico è un processo molto complesso, che presuppone la conoscenza approfondita di tutte le fonti disponibili, dal documento scritto ai resti architettonici, alle trasformazioni del paesaggio, ai reperti che vengono riportati alla luce negli scavi. Tutti questi studi,
A destra: triclinio di epoca imperiale romana ricostruito nel Museo de Zaragoza: sono ben riconoscibili anche alcuni vasi in vetro. Nella pagina accanto: vetri della collezione del Museo Civico Archeologico di Milano. Qui sotto: la copertina del numero di «Archeo» dedicata alla mostra «Vetri dei Cesari».
svolti nell’ambito di discipline diverse, rientrano nell’accezione piú ampia di «scienze umane, quindi di tutto ciò che riguarda l’uomo», come scriveva lo storico Marc Bloch. È quindi necessario considerare tutti gli aspetti della vita delle persone, anche quelli della vita quotidiana, all’apparenza piú insignificanti, ma che ci danno informazioni utili sugli stili di vita nelle società antiche. Il lavoro svolto nei laboratori di restauro e di archeologia per ricomporre, classificare e studiare oggetti e vasi trovati negli scavi non può esaurirsi in mostre-evento in cui vengono esposti rari capolavori.
Dal punto di vista didattico è molto piú utile visitare alcune delle domus pompeiane recentemente riaperte al pubblico, dove sono stati ricostruiti, anche se solo in parte, gli arredi di alcuni ambienti. Vedere la replica di un vaso sulla mensa di un triclinio ha un potenziale didattico assai piú elevato dell’osservare il reperto originale in un museo. Nel secondo caso il visitatore può capire quali tipi di oggetti esistessero nel mondo romano, ma nel primo può comprenderne la funzione. Questo secondo punto di vista è molto importante, perché offre l’occasione per raccontare una storia.
OLTRE IL CAPOLAVORO E proprio questo dev’essere l’obiettivo della ricerca archeologica, perseguito attraverso le sue diverse anime: ricostruire, ricorrendo all’analisi di tutte le fonti disponibili, il modo di vivere e di pensare nelle società antiche, per poi trasmettere queste conoscenze al grande pubblico. Allora, invece di scegliere solo rari capolavori dell’arte vetraria romana, sarebbe
stato piú utile realizzare altrettante ricostruzioni (procedimento reso oggi ancora piú facile dalle nuove tecnologie) e ricollocare al loro interno gli oggetti, magari confrontando ambienti di classi sociali diverse, reinserendo cosí ogni reperto nel suo contesto. I vasi in vetro, infatti, erano presenti ovunque e in grandi quantità (dai corredi funerari alle dispense delle cucine, alle mense, ai cofanetti da toletta nelle stanze da letto) e questi vasi erano apprezzati soprattutto per le caratteristiche del materiale, che non ha odore, né sapore e quindi non altera il gusto degli alimenti e delle bevande o di altri contenuti. Per questo Trimalcione, il protagonista del Satyricon di Petronio, preferiva bere vino da coppe di vetro anziché d’oro. Anche se poi, poiché il vetro è un materiale vile e fragile, nella sua famosa cena fa sfoggio di una profusione di vasi in bronzo corinzio, oro e argento per impressionare gli ospiti con la sua volgare ricchezza. Anche questo può essere un modo per raccontare la storia, e può lasciare nei visitatori di una mostra o di un museo elementi di riflessione piú duraturi perché nella Roma dei Cesari non c’erano solo i Cesari. (mara.sternini@unisi.it)
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MOSTRE Firenze
UN MONDO DA SALVARE
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ondatore dell’IIPP, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Paolo Graziosi (1906-1988) fu ricercatore dai molteplici interessi, ma si distinse soprattutto come specialista nel campo degli studi di arte preistorica. Dedicò buona parte della sua attività alle ricerche nel territorio africano dove, tra il 1933 e il 1972, portò a termine ben 20 missioni scientifiche, principalmente in Libia, ma anche in Egitto e Africa orientale (Eritrea, Etiopia, Somalia e Kenya). La documentazione della sua intensa attività di ricerca ha portato alla formazione dell’Archivio Fotografico «Paolo Graziosi», conservato presso l’IIPP di Firenze, il cui nucleo piú consistente è composto da soggetti africani. Forte di oltre 10 000 immagini, molte delle quali inedite, il fondo costituisce una raccolta unica che si configura come un prezioso, e in gran parte inesplorato, campo
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A destra: Udei el Chel (Libia). 1954. In basso: Paolo Graziosi a Ghira (Libia), nel 1938. Lo studioso italiano effettuò numerose missioni in Africa e con la sua attività ha dato un contributo fondamentale alla conoscenza dell’arte preistorica.
d’indagine nel panorama culturale dell’archeologia preistorica. Attingendo a questo autentico tesoro, è nata la mostra «La fragilità del segno. Arte rupestre dell’Africa nell’archivio dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria», con l’intento di far conoscere alcune delle piú antiche e straordinarie attestazioni artistiche dell’umanità, situate in luoghi oggi inaccessibili a causa di conflitti interni e internazionali, e porre l’attenzione sulla necessità di preservare questo inestimabile ma fragile Patrimonio dell’Umanità, presentando immagini che ne documentano lo stato di conservazione in momenti precedenti alle criticità degli ultimi decenni. È il caso, per esempio, delle testimonianze dell’arte preistorica dei «siti rupestri del Tadrart Acacus», dal 1985 sito Patrimonio Mondiale UNESCO, che nel luglio 2016 è stato inserito nella Lista del Patrimonio Mondiale in Pericolo. Sono stati selezionati per la mostra immagini e filmati realizzati fra gli anni Trenta e i Sessanta del Novecento nel corso delle missioni di studio di Graziosi sull’arte
rupestre africana, e in particolare le riproduzioni delle grandi incisioni preistoriche della Libia, attualmente inaccessibili perché in zone di guerra. La mostra si sviluppa in uno spazio immersivo attraverso quattro sezioni: un’introduzione sulle ricerche di Graziosi e sul suo archivio; le immagini e i filmati sull’arte rupestre e sulle ricerche etnografiche in Libia; la documentazione delle ricerche di Graziosi, oggi continuate da Luca Bachechi, nell’attuale Etiopia; un’ultima sezione sul tema dell’«Heritage in Danger». Maria Bernabò Brea, Andrea De Pascale e Anna Revedin
DOVE E QUANDO «La fragilità del segno. Arte rupestre dell’Africa nell’archivio dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria» Firenze, Museo Archeologico Nazionale fino al 26 novembre Orario ma-ve, 8,30-19,00; sa, do e lu, 8,30-14,00 Info tel. 055 2340765; e-mail: iipp@iipp.it; www.iipp.it
PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
PAESTUM: VENT’ANNI DI BORSA, CON PASSIONE L’APPUNTAMENTO CON LA BORSA MEDITERRANEA DEL TURISMO ARCHEOLOGICO È ALLE PORTE E IN QUESTO 2017 ASSUME UN VALORE PARTICOLARE: ABBIAMO PERCIÒ VOLUTO INCONTRARE UGO PICARELLI, IDEATORE E DIRETTORE DELLA MANIFESTAZIONE
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a Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, in programma a Paestum dal 26 al 29 ottobre, festeggia il suo ventesimo compleanno. A ideare l’evento, diventato oggi un appuntamento imperdibile per archeologi, operatori turistici e studiosi provenienti da ogni angolo del mondo, è stato Ugo Picarelli. È lui a raccontarci la genesi dell’iniziativa... «Era il 1998… ebbi questa intuizione con l’obiettivo di dare a Paestum un evento di respiro turistico-culturale che la proiettasse in un ambito internazionale. Voleva essere un’operazione di
marketing territoriale, oltre a consentire agli operatori locali di destagionalizzare le presenze: non a caso si svolge fuori stagione, nel mese di ottobre». In questi vent’anni la Borsa si è affermata come riferimento ineludibile non solo per gli operatori del turismo culturale, ma anche per studiosi e archeologi provenienti da tutto il Mediterraneo, non è vero? «La comunità scientifica internazionale, negli anni, ha trovato nella Borsa il suo momento di approfondimento e confronto sui temi della tutela, della gestione, della valorizzazione del patrimonio
culturale. Il mondo accademico a Paestum si incontra, oggi, e siamo passati da poche migliaia di visitatori a circa 10 000 presenze». Quanti paesi erano coinvolti nell’evento di Paestum, vent’anni fa, e quanti sono oggi? «Nel 1998 abbiamo cominciato con due stand dedicati a quattro Paesi esteri: Grecia, Siria, Libano e Giordania. Quest’anno a Paestum ci saranno, invece, una trentina di nazioni. Si tratta di un’intuizione lunga vent’anni che, attualmente, è a pieno titolo il solo appuntamento al mondo dedicato al turismo archeologico riconosciuto dall’UNESCO di Parigi e dalle A sinistra: una suggestiva proiezione realizzata nel corso della BMTA 2016 e avente come «schermo» il tempio di Nettuno. Nella pagina accanto: il workshop fra i buyer presenti nel 2016 a Paestum.
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Nazioni Unite del Turismo di Madrid (UNWTO, United Nations World Tourism Organization). A livello internazionale, la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico è riconosciuta anche come una best practice per il dialogo interculturale». In che modo, in questi due decenni, la Borsa di Paestum ha saputo accogliere e interpretare le mutate necessità del turismo archeologico, traducendole in un evento condiviso a livello internazionale? «Il turismo culturale in questi anni ha visto un crescente interesse da parte della domanda internazionale. Sono mutati i bisogni del turista, che oggi sceglie itinerari non tradizionali, in base alla propria cultura, esperienza e necessità. Ecco perché non si parla piú di turista, ma di viaggiatore. Una direzione che noi abbiamo saputo cogliere e interpretare. E come il turismo archeologico ha dato un contributo sempre maggiore allo sviluppo locale del territorio – in termini economici e di occupazione – cosí è cresciuta la partecipazione dei Paesi esteri alla Borsa di Paestum». Nel tempo, inoltre, l’iniziativa è stata sempre piú apprezzata per il suo significato a livello di dialogo interculturale. Ed è diventata un momento di confronto anche su temi di drammatica attualità, come il terrorismo internazionale… «Negli ultimi anni, alla luce di eventi funesti – come l’attentato al Museo del Bardo a Tunisi o la distruzione di Palmira –, la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico ha ricevuto un’attenzione particolare per il suo valore nel dialogo tra culture. Ogni anno rinnoviamo un momento di ricordo e di approfondimento a questi temi, tanto da aver dedicato a Khaled al-Asaad, ex Direttore del Museo di Palmira (dal 1963 al 2003), che ha difeso con la vita il patrimonio
culturale venendo ucciso dai terroristi, l’“International Archaeological Discovery Award”, che premia la scoperta dell’anno, in collaborazione con «Archeo», nostro main media partner, e le principali testate archeologiche internazionali. Il premio è l’unico riconoscimento a livello mondiale dedicato all’archeologia e ai suoi protagonisti: gli archeologi, che con sacrificio, dedizione e competenza affrontano quotidianamente il loro compito di studiosi del passato e di professionisti a servizio del mondo intero. Quest’anno è stato assegnato alla città dell’età del Bronzo scoperta presso il villaggio curdo di Bassetki, nel Nord dell’Iraq, nella regione autonoma del Kurdistan. Ricordiamo anche il convegno sul turismo sostenibile del 27 ottobre, moderato dal Segretario Generale dell’UNWTO, Taleb Rifai, al quale parteciperanno i ministri del turismo dei siti UNESCO di Pompei, Petra, Aksum e Tiya, Machu Picchu, Angkor Wat». E sul territorio, a Paestum, che cosa è cambiato in vent’anni di Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico? «Ho visto crescere la consapevolezza e la cultura di impresa tra gli operatori turistici del Sud Italia, ma c’è ancora strada da fare. Nel Mezzogiorno, in termini di
arrivi, il settore turistico deve ancora recuperare. Basti pensare che il Veneto conta 63 milioni di presenze l’anno (dati 2016), la Campania 19 e la Sicilia 15: sommando le due regioni citate, si supera appena la metà delle presenze della prima regione italiana». Cosa c’è da fare, ancora, per rilanciare il turismo archeologico? «La riforma del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo sta andando nella direzione giusta, ma occorre aggiungere una politica di valorizzazione del patrimonio culturale rivolta anche ai siti che non siano parchi o aree a gestione autonoma (come Paestum). Si tratta di un gran numero di siti, che non sono affatto patrimonio minore, come la Certosa di Padula o l’area di Velia, e hanno necessità di essere a pieno titolo inseriti in una politica di promozione del turismo in termini di network ed efficacia. Certo, se la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico si svolgesse nel Centro o Nord Italia, avrebbe numeri diversi, ma il fascino e la suggestione del sito UNESCO di Paestum valgono un sacrificio e uno sforzo in piú, anche per conoscere meglio l’importanza che ha avuto la Magna Grecia per tutto il Sud Italia. Inoltre, lavorare per il proprio territorio riempie di orgoglio e alimenta la passione».
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MOSTRE Francia
IL «CUGINO» SIBERIANO
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elle regioni dell’Europa occidentale, la comparsa dell’uomo anatomicamente moderno (Homo sapiens) è segnata, nel corso del Paleolitico Superiore, dall’elaborazione di una cultura materiale ben caratterizzata, che progressivamente si distingue da quella del Paleolitico Medio, i cui artefici erano stati i Neandertaliani. Con l’eccezione delle pratiche funerarie, le differenze piú significative si registrano nella sfera simbolica: l’Uomo di Neandertal (Homo neanderthalensis) aveva sí sviluppato manifestazioni riconducibili a questo ambito, ma senza raggiungere la complessità che possiamo dedurre dalle testimonianze lasciate dai suoi «cugini» moderni. Nella Siberia orientale, e in particolare nella vasta regione dell’Altai – protagonista della nuova esposizione allestita nel Museo nazionale di Preistoria di Les-Eyzies-de-Tayac –, le piú antiche manifestazioni simboliche a oggi note si datano a partire dai 40 000 anni fa e sono riferibili a un momento storico nel quale è stata accertata la compresenza di tre specie umane: oltre a Neandertal e uomo A destra: la grotta di Denisova, nell’Altai (Siberia). Qui accanto: anello ornamentale in marmo, dalla grotta di Denisova. Inizi del Paleolitico Superiore.
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A sinistra: archeologi impegnati nello scavo della galleria Est della grotta di Denisova.
anatomicamente moderno, quei territori erano abitati anche da comunità riconducibili all’Uomo di Denisova, una specie recentemente distinta sulla base dei dati paleogenetici e che prende nome dai resti ossei rinvenuti appunto nelle grotte di Denisova. Alla luce di questi dati, l’Altai sarebbe stato dunque teatro di una convivenza piuttosto prolungata, nel corso della quale – oltre a possibili ibridazioni fra le specie – potrebbero aver avuto luogo anche scambi di carattere culturale. E, del resto, anche nell’industria litica sono stati osservati elementi che, tecnologicamente, suggeriscono il perdurare, nel Paleolitico Superiore, di tradizioni piú antiche. Su queste basi e grazie all’ampia scelta di materiali provenienti dall’area dell’Altai e dai territori circostanti, la mostra propone dunque un percorso evolutivo che tuttavia non si limita alla sola regione siberiana, ma affronta uno dei temi cardine della preistoria: quello del fenomeno definito «out of Africa» (letteralmente, «fuori dall’Africa»), vale a dire la teoria secondo la quale tutte le specie umane avrebbero avuto origine da individui originari del continente africano, dal quale si sarebbero irradiati nel resto del mondo,
seguendo direttrici che sarebbero state dapprima rivolte verso l’Oriente e poi verso l’Occidente. In questo quadro, il giacimento scoperto nelle grotte di Denisova ha un ruolo di particolare rilievo, proprio perché, come già ricordato, dimostrerebbe l’esistenza, fra i discendenti dei progenitori africani, di un «terzo» uomo, evocato dal titolo della mostra. I reperti presentati sono perlopiú frutto delle ricerche condotte su siti paleolitici localizzati nel Sud della Siberia e comprendono strumenti in pietra e in osso, nonché manufatti d’arte mobiliare e ornamenti, ai quali si aggiungono le repliche in 3D di materiali appartenenti alle collezioni di vari musei russi. (a cura di Stefano Mammini)
DOVE E QUANDO In alto, a destra: cilindretti in osso forati e decorati, utilizzati come perleo, dalla grotta di Denisova. Inizi del Paleolitico Superiore. Qui sopra: il molare superiore rinvenuto nel 2010 a Denisova, la cui analisi ha confermato l’arcaicità degli individui che frequentarono il sito e la loro appartenenza a una possibile terza specie, diversa da Sapiens e Neandertal.
«Il terzo uomo. Preistoria dell’Altai» Les-Eyzies-de-Tayac, Musée national de Préhistoire fino al 13 novembre Orario settembre: tutti i giorni, 9,30-18,00; chiuso il martedí; ottobre-novembre, tutti i giorni, 9,30-12,30 e 14,00-17,30; chiuso il martedí Info http:// musee-prehistoire-eyzies.fr
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EDITORIA Roma
«VEDERE» IL PASSATO
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nnovando una formula sperimentata con successo negli ultimi cinquant’anni, gli editori Vision e Altair4 Multimedia propongono Caput Mundi, una guida alla scoperta dei monumenti della Roma antica e di quella dei papi, che si avvale per la prima volta dell’utilizzo della realtà aumentata. Il volume si basa su un metodo illustrativo brevettato, che sovrappone all’immagine del monumento nel suo stato attuale la «ricostruzione» in foglio trasparente che ne integra gli aspetti mancanti: l’obiettivo è quello di stimolare la fantasia del lettore, il quale riesce a «immaginare» l’opera in un confronto immediato e diretto fra passato e presente. I testi della pubblicazione sono stati curati da Romolo A. Staccioli, autore ben noto ai lettori di «Archeo», la cui firma costituisce la garanzia migliore dell’attendibilità scientifica dei contenuti, vista la comprovata A destra: proposta ricostruttiva dello Stadio di Domiziano dall’alto: passato e presente. In basso: una delle mappe per le quali è disponibile la visione in realtà aumentata.
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autorevolezza dello studioso, fra i massimi esperti di storia dell’antica Roma. Fra i numerosi monumenti descritti, è naturalmente compreso il grandioso Stadio di Domiziano, costruito dall’imperatore dal quale prese il nome intorno all’85 d.C., ai margini del Campo Marzio centrale, in un’area in cui, probabilmente già Cesare, nel 46 a.C., e Augusto, nel 28, avevano realizzato impianti simili, ma provvisori e costruiti in legno. Domiziano lo riservò ai giochi atletici che – assieme a quelli musicali e poetici che si svolgevano nel vicino Odeon da lui fatto costruire a sud dello stadio – facevano parte del Certamen Capitolinum (gara in onore di Giove Capitolino), istituito nell’86 d.C. Ispirato a modelli greci, lo stadio si sviluppava per una lunghezza di 275 m e una larghezza di 106 e poteva ospitare 30 000 spettatori circa. Doveva avere un esterno grandioso, costituito da Nella pagina accanto: ricostruzione virtuale dello Stadio di Domiziano, di cui l’odierna piazza Navona ha conservato la forma. L’edificio sorse intorno all’85 d.C.
due ordini di arcate sovrapposte su pilastri di travertino, ornate da semicolonne ioniche (e forse corinzie, nel secondo ordine); dietro le arcate, al pianterreno, correvano tre corridoi paralleli, con muri radiali che sostenevano la cavea, e scale che portavano alle gradinate divise in due settori sovrapposti (moeniana). Uno dei lati brevi, quello settentrionale, era curvo e aveva al centro un ingresso preceduto da un portico con due colonne di marmo, mentre altri due ingressi si trovavano al centro dei due lati lunghi. È probabile che un quarto ingresso si aprisse, a sud, nel lato corto rettilineo. Lo stadio fu restaurato dall’imperatore Severo Alessandro nel 228 d.C. e rimase in uso fino al principio del V secolo. Poi, progressivamente smantellato per riutilizzarne i materiali, il suo posto fu occupato nel
Rinascimento da una piazza che ne ricalcò esattamente la pianta e le dimensioni, conservando lo stesso lato curvo a settentrione. Il nome «Navona» probabilmente trae origine dai giochi agonali che si svolgevano nell’area: dal latino «in agone» si sarebbe passati nel tempo al volgare «nagone» e quindi alla definitiva trasformazione in «navona». In particolare, piazza Navona si estende sull’area dell’antica pista, o arena, dello stadio, mentre i palazzi circostanti occupano il posto delle gradinate sulle quali sono fondati; resti delle strutture romane sono visibili nei sotterranei di alcuni edifici e della chiesa di S. Agnese in Agone. Oltre allo Stadio di Domiziano, il viaggio proposto dalla guida tocca tutti i monumenti piú importanti dell’Urbe e per ciascun capitolo, scaricando l’applicazione gratuita Caput Mundi (disponibile per sistemi Android e Apple), si possono vedere ed esplorare i modelli in 3D delle opere descritte.
OFFERTA RISERVATA Caput Mundi. Monumenti nel passato e nel presente. La Roma dei cesari e dei papi Vision Past & Present-Altair Multimedia, Roma Info www.visionpubl.com, www.Altair4.it
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I lettori di «Archeo» potranno beneficiare di uno sconto speciale, ordinando il volume Caput Mundi dal bookshop on line: https://www.visionpubl.com/it/ guide-turistiche/roma-caput-mundi/ Al momento dell’ordine, per beneficiare dell’offerta, dovranno citare la sigla: ALTAIR4/VISION Potranno cosí acquistare il libro al prezzo di 24,90 euro (invece di 28,00), spese di spedizione incluse
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ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
LUNGA E DIRITTA CORREVA L’EMILIA... Dopo avere reso omaggio all’Appia e ricordato il progetto collettivo del CIFT «Tutte le strade parton da Roma» (vedi «Archeo» nn. 368 e 372, ottobre 2015 e febbraio 2016), torniamo a occuparci di una delle consolari dell’impero, la via Emilia, della quale si celebrano i 2200 anni dalla costruzione. E lo facciamo presentando una selezione del materiale filatelico usato dal collezionista Marco Fagioli che ha appunto curato la minicollezione sulla via Aemilia. Costruita tra il 187 e il 175 a.C. dal console Marco Emilio Lepido, seguiva un 3 antico tracciato di epoca protostorica, quasi interamente rettilineo: univa Rimini e Piacenza, toccando diverse città, rappresentate filatelicamente a piú riprese. Ariminum (Rimini: Arco di Augusto, 1; Ponte di Tiberio, 2), fondata dai Romani nel 268 a.C. dopo aver 6 sconfitto una trentina d’anni prima Galli e popolazioni locali (3), fu la prima colonia di diritto romano nella zona e importante avamposto militare. Dopo la sconfitta di Annibale, i Romani si dedicarono al consolidamento della 9 Gallia Cispadana, fondando altre città destinate a essere toccate dalla via Emila: Placentia (Piacenza, 4), Regium Lepidi (Reggio Emilia), Parma (5), Mutina (Modena, 6), Bononia (Bologna, 7) e Caesena (Cesena). Lungo quest’asse nacquero inoltre centri politico-commerciali definiti «fori», come Forum Cornelii (Imola) e Forum Livii (Forlí). La progressiva romanizzazione avvenne concedendo terreno da coltivare (8), realizzando bonifiche (9) e canalizzazioni (10) e creando una vocazione agricola (11) ancora oggi molto forte. Il declino dell’impero causò parimenti il declino e l’abbandono delle vie consolari (12), Emilia compresa, agevolando l’arrivo delle popolazioni barbariche dirette a Roma ma bloccate sul Po (San Leone Magno che ferma Attila, 13). Il tracciato della strada ha però resistito ai secoli e ha favorito, in epoche successive, il turismo e il commercio: ancora oggi è la spina dorsale della regione ed è percorsa quotidianamente da migliaia di autoveicoli e autotreni.
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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure
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Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it
IN UN DI V M IA EN G TIC GIO AB ILE
LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO
Sulla Via della Seta
Avventure e scoperte tra oriente e occidente di Marco Di Branco e Filippo Donvito
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A destra: Samarcanda. La moschea di Bibi Khanum. Sulle due pagine: Palmira (Siria). Veduta della Via Colonnata e dell’arco severiano. La fotografia è stata scattata in un momento precedente ai recenti eventi bellici che hanno visto il sito archeologico ripetutamente assediato e parzialmente distrutto.
IN EDICOLA
e storie raccontate nella nuova Monografia di «Archeo» prendono le mosse dal bozzolo di un insetto, il Bombyx mori, di cui, ben 5000 anni fa, vennero intuite le straordinarie potenzialità: qualcuno, che la leggenda identifica nella moglie di un imperatore della Cina, scoprí che dai filamenti secreti dall’animale si poteva ricavare un morbido e prezioso tessuto e diede cosí inizio alla produzione della seta. Da quel momento in poi, in un crescendo appassionante, gli eventi si susseguirono frenetici e la scoperta cominciò a fare il giro del mondo. Una diffusione che ebbe la sua arteria principale nella via che di quelle stoffe porta il nome e che è stata per secoli la direttrice piú importante degli scambi fra l’Oriente e l’Occidente. Naturalmente, le carovane che percorrevano la Via della Seta erano cariche anche di molte altre mercanzie e, soprattutto, si trasformarono in un formidabile veicolo di trasmissione di nuovi saperi, ideologie religiose e canoni artistici. Ecco perché, nella Monografia curata da Marco Di Branco e Filippo Donvito, leggerete di grandi personaggi, architetture strabilianti ed eventi che hanno cambiato il corso della storia.
GLI ARGOMENTI •L E ORIGINI Prima della via • LE GRANDI POTENZE Imperi a confronto •L E RELIGIONI Un mosaico di fedi •S AMARCANDA
E BUKHARA
Gemme d’Oriente
•G LI OCCIDENTALI IN ASIA L’età della riscoperta
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CALENDARIO
Italia
NAPOLI Il mondo che non c’era
ROMA Piranesi
L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue Museo Archeologico Nazionale fino al 30.10.17
La fabbrica dell’utopia Museo di Roma a Palazzo Braschi fino al 15.10.17
PARMA Archeologia e alimentazione nell’eredità di Parma romana
La bellezza ritrovata Arte negata e riconquistata in mostra Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori fino al 26.11.17
CAPACCIO PAESTUM (SA) Action painting Rito & arte nelle tombe di Paestum Museo Archeologico Nazionale fino al 31.12.17
Galleria San Ludovico fino al 22.10.17
Giovanni Battista Piranesi, Fondamenta del Teatro Marcello, acquaforte, 1761.
CAVRIGLIA (AR) Mithra
Un dio orientale in Valdarno Auditorium del Museo Mine fino al 31.12.17
COMO Prima di Como
Nuove scoperte archeologiche dal territorio Chiesa di S. Pietro in Atrio fino al 10.11.17
FINALBORGO (SV) Ad fines. 500 miglia da Roma Al tempo dei Romani nel Finale Chiostri di Santa Caterina fino al 31.12.17
Guttus ornitomorfo dalla Tomba 3 di Grandate.
GROSSETO, MANCIANO Marsiliana d’Albegna
Gli scavi di Achille Vogliano nel Fayum Civico Museo Archeologico fino al 15.12.17
Egitto
La straordinaria scoperta del Faraone Amenofi II MUDEC, Museo delle Culture di Milano fino al 07.01.18 28 a r c h e o
Un popolo che cambia la storia Castello Visconteo fino al 03.12.17
PONTASSIEVE (FI) L’insediamento etrusco di Monte Giovi
Dagli Etruschi a Tommaso Corsini Museo Archeologico e d’Arte della Maremma Museo di Preistoria e di Protostoria della Valle del Fiora fino al 31.12.17
MILANO Milano in Egitto
PAVIA Longobardi
3000 anni sopra le nuvole Centro Studi Museo Geo fino al 05.11.17 Testa di sovrano tolemaico.
SIRACUSA La Porta dei Sacerdoti
I sarcofagi egizi di Deir el-Bahari. Esposizione e restauro in pubblico Galleria Civica Montevergini fino al 07.11.17
SORANO (GR) Vulci e i misteri di Mitra
Culti orientali in Etruria Fortezza Orsini, Museo del Medioevo e del Rinascimento fino al 05.11.17
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
TORINO Missione Egitto, 1903-1920
Una pericolosa perfezione
L’avventura archeologica M.A.I. raccontata Museo Egizio fino al 14.01.18 (prorogata)
Antichi vasi funerari dall’Apulia Altes Museum fino al 21.01.18
TREVISO Altino-Prima di Venezia
Coppa apula con Frisso in groppa all’ariete dal vello d’oro.
Sguardi sulla città antica: Altino-Venezia-Treviso Battistero di S. Giovanni fino all’01.11.17
Gran Bretagna
VETULONIA (GR) L’arte di vivere al tempo di Roma
LONDRA Gli Sciti
I luoghi del «tempo» nelle domus di Pompei Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 05.11.17
VICENZA Le ambre della principessa
Storie e archeologia dall’antica terra di Puglia Gallerie d’Italia, Palazzo Leoni Montanari fino al 07.01.18
Francia PARIGI L’Africa delle rotte
Guerrieri dell’antica Siberia The British Museum fino al 14.01.18 Affresco pompeiano con filatrice.
Grecia ATENE εmotions
Un mondo di sentimenti Museo dell’Acropoli fino al 19.11.17
Musée du quai Branly Jacques Chirac fino al 12.11.17
Olanda
LENS Musiche!
LEIDA Ninive
LES EYZIES-DE-TAYAC Il terzo uomo
Svizzera
Echi dell’antichità Musée du Louvre-Lens fino al 15.01.18
Preistoria dell’Altai Musée national de préhistoire fino al 13.11.17
Germania BERLINO Cina ed Egitto
Placca di pettorale in oro a forma di pantera.
Cuore di un antico impero Rijksmuseum van Oudheden fino al 25.03.18 (dal 19.10.17)
SCIAFFUSA Etruschi
Una grande civiltà antica all’ombra di Roma Museum zu Allerheiligen fino al 04.02.18
Riproduzione delle pitture murali della Tomba dei Vasi Dipinti di Tarquinia.
Culle dell’umanità Neues Museum fino al 03.12.17
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CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli
LARGO AI SENTIMENTI IL MUSEO DELL’ACROPOLI OSPITA UNA MOSTRA ORIGINALE E INTRIGANTE. CHE, FORTE DI UNA SCELTISSIMA SELEZIONE DI CAPOLAVORI, PROVA A RENDERE TANGIBILI REALTÀ IMPALPABILI: L’AMORE, L’ODIO, LA VENDETTA...
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efinita «A strange and wonderful exhibition» («Una mostra bizzarra e meravigliosa») da Holland Cotter del New York Times, è arrivata ad Atene «εmotions, un mondo di sentimenti», esposizione già presentata con successo al Centro Culturale Onassis di New York e a cui ora fa da cornice il Museo dell’Acropoli. In effetti, si può concordare col giornalista del quotidiano statunitense su entrambi i punti. È senz’altro una mostra bizzarra: perché incentrata su qualcosa di molto astratto, i sentimenti, e sul modo in cui essi sono rappresentati nell’arte greca antica. Come ha dichiarato Dimitris Pantermalis, presidente del Museo dell’Acropoli, «Con mezzi inaspettatamente sobri, ma allo stesso tempo di forte impatto, gli artisti antichi hanno reso sentimenti quali il desiderio, l’amore, la passione e il riserbo, ma anche emozioni piú oscure come la follia, l’odio, la vendetta».
OPERE ILLUSTRI Ed è anche una mostra meravigliosa, perché a illustrare tali sentimenti sono stati scelti 129 pezzi che spaziano da capolavori celebri dell’arte greca antica a semplici frammenti di ceramica, laminette di piombo o rilievi funerari. Il visitatore passeggia tra il Pothos di Scopa e l’Eros con l’arco di Prassitele, nella splendida copia che ha potuto vedere solo chi abbia visitato il Louvre. Ammira da vicino
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il vaso con Achille e Aiace intenti al gioco – quest’ultimo, sconfitto, reagisce con rabbia: è destinato a restare all’ombra del suo compagno, perfino nel gioco! –, che altrimenti si trova a Basilea. E osserva il celebre vaso (anch’esso custodito nel museo svizzero) sui
A destra: lekythos a figure rosse con il suicidio di Aiace, attribuita al Pittore di Alkimachos. 460 a.C. circa. Basilea, Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig. Nella pagina accanto, in alto: un particolare dell’allestimento della mostra, con l’Eros che tende l’arco (a sinistra) e il Pothos di Scopa. Nella pagina accanto, in basso: rilievo in marmo che raffigura due orecchie, dal Serapeion di Salonicco. II sec. d.C. Salonicco, Museo Archeologico.
cui è raffigurato Menelao che, deciso a punire con la morte Elena che lo ha tradito, alla vista di quest’ultima lascia cadere la spada e corre ad abbracciarla: il potere della bellezza fa da antidoto alla rabbia e riesce a calmarla. Accanto alle storie degli eroi e degli
dèi emergono anche i sentimenti degli uomini comuni. Come il padrone di un maialino, che lamenta la scomparsa del suo animale, ucciso dalle ruote di un carro: una stele funeraria che ricorda l’incidente costituisce il tributo tangibile del dolore del padrone, mentre ostraka scandiscono il nome dell’avversario da bandire e defixiones maledicono il rivale da annientare.
I GRECI E LE EMOZIONI Affetto, amore, passione, odio, rabbia, tristezza, disperazione: i sentimenti piú positivi e quelli piú oscuri dell’animo umano si avvicendano in cinque unità espositive, accompagnate da video che raccontano i miti e le scene raffigurati sui vasi. Precisa Angelos Chaniotis, uno dei curatori della mostra, docente presso l’Institute of Advanced Studies di Princeton: «In ogni civiltà, l’uomo produce letteratura e crea arte per esprimere o suscitare
sentimenti. I Greci, però, ebbero una relazione particolare col mondo delle emozioni. Essi divinizzarono alcuni sentimenti, come l’amore (Eros), il desiderio (Pothos), la paura (Phobos) e, cosa ancor piú importante, produssero letteratura e crearono miti e arte
per esprimere, per la prima volta nella cultura occidentale, problematiche profonde circa la natura dei sentimenti e le conseguenze di passioni incontrollate». La mostra è molto diversa da ciò a cui è abituato il pubblico ateniese: non solo per l’idea che la anima, ma anche per la stessa presentazione, un sobrio fondo grigio (simbolo del mondo dominato dalla logica), sul quale spiccano elementi in diverse gradazioni del rosso (che alludono alla molteplicità dei sentimenti e alle loro differenti scale). Scelte che sottolineano la differenza rispetto alle mostre viste finora, solitamente impostate su criteri espositivi molto tradizionali. Se si può muovere una critica al progetto, è forse il labile nesso che lega alcuni pezzi in esposizione al tema centrale. Ma per concludere, e rispondere al tempo stesso a questa osservazione, scegliamo le parole di un altro dei curatori e ideatori della mostra, Ioannis Mylonopoulos, che insegna alla Columbia University di New York: «L’amore della madre anonima per la sua creatura, l’infinito dolore del padre che ha perduto il figlio, la gioia del bambino che corre e gioca per la strada, l’orgoglio dell’atleta per le sue vittorie: tutto ciò è stato affrontato dagli artisti greci antichi con la stessa sobrietà e lo stesso acume che sfoggiano quando tentano di raffigurare il mondo, altrettanto complesso, dei sentimenti degli dèi e degli eroi».
DOVE E QUANDO «εmotions. Un mondo di sentimenti» Atene, Museo dell’Acropoli fino al 19 novembre Orario lu, 8,00-16,00; ma-do, 8,00-20,00 (venerdí apertura prolungata fino alle 22,00) Info www.theacropolismuseum.gr
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SCOPERTE • GERICO
QUANDO GERICO SI DAVA IL
BELLETTO...
GIÀ 5000 ANNI FA, UNA VIA CAROVANIERA GARANTIVA INTENSI SCAMBI COMMERCIALI TRA L’EGITTO E I PRIMI INSEDIAMENTI URBANI NELLA VALLE DEL GIORDANO. LO DIMOSTRA UNA RECENTISSIMA SCOPERTA EFFETTUATA DALLA MISSIONE ITALO-PALESTINESE NEL LEGGENDARIO SITO DI TELL ES-SULTAN di Lorenzo Nigro
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a nascita della città nel Levante meridionale, in Palestina e Transgiordania, tra la fine del IV e il III millennio a.C. è un fenomeno storico che, sebbene definito «secondario» (sia in termini spaziali che cronologici), è ugualmente affascinante e complesso. Esso rivela, infatti, capacità di adattamento all’ambiente e di organizzazione sociale diverse rispetto a quelle note per le grandi coeve civiltà dell’Egitto e della Mesopotamia, ma anche rispetto ai percorsi altrettanto straordinari dei Paesi ad agricoltura non irrigua, come la Siria e l’Anatolia. Sulle due pagine: veduta generale, ripresa da nord-est, delle abitazioni e della strada portate alla luce nel quartiere settentrionale di Tell es-Sultan/anticaGerico. La collina su cui sorse l’insediamento si trova 8 km a nord del Mar Morto, a 250 m circa sotto il livello del mare. In basso: conchiglie della specie Chambardia rubens, rinvenute dalla missione italo-palestinese nel corso della campagna di scavi 2017.
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SCOPERTE • GERICO
Le comunità umane della Palestina e della Transgiordania svilupparono per la prima volta un particolare modello di città, costruito in modo da mettere a frutto le peculiarità di un territorio caratterizzato da forte varietà geomorfolica e limitate risorse produttive.Tell es-Sultan, l’antica Gerico, dove dal 1997 opera una missione archeologica italopalestinese costantemente finanziata dall’Università «Sapienza» di Roma e dal Ministero degli Affari Esteri, è uno degli esempi meglio conosciuti di questo fenomeno, grazie al la-
voro di piú generazioni di archeologi e alle straordinarie caratteristiche di conservazione del sito (vedi «Archeo» n. 293, luglio 2009).
SULLA VIA DELLE CAROVANE A Gerico il processo di formazione della città è lento e progressivo e si svolge negli ultimi secoli del IV millennio a.C. nell’età del Bronzo Antico I. I crescenti rapporti commerciali con l’Egitto, che si sviluppano durante la fase formativa dello stato egiziano (il periodo di
Fondazioni dell’età del Bronzo Antico IIIB
Fondazioni dell’età del Bronzo Antico IIIA
Fondazioni dell’età del Bronzo Antico II
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Gerico
Amman
cisgiordania
Gerusalemme
giordania
israele
Naqada III e della Dinastia 0) hanno un ruolo essenziale come volano e catalizzatore dell’esperienza urbana. Le élite palestinesi commerciano vino, sale, zolfo, bitume del Mar Morto, e, come gli Egiziani, percorrono la valle della ‘Arabah e la penisola del Sinai, ricca di materie prime, primo fra tutti il rame del Wadi Feinan e di Timnah. Le carovane dalla Palestina raggiungono il Sinai e il Mar Rosso, ma anche, a nord, il Lago di Tiberiade e, a ovest, il Mediterraneo. L’accumulo di ricchezze legate a un’agricoltura sempre piú efficiente (anche per il graduale impiego dei bovini per le canalizzazioni e l’aratura) porta diversi centri a divenire egemoni di rispettivi territori, sia nella Valle del Giordano che nella regione montuosa interna, e nella fascia collinare che delimita la piana costiera a occidente. Si formano cosí, agli inizi del III millennio a.C., nell’età del Bronzo Antico II, le prime città, la cui piú significativa caratteristica è di essere cinte da possenti mura (non sappiamo se per difendersi dalle spedizioni asiatiche di uno dei faraoni della I Dinastia, Den, che si spinse in Palestina con ogni probabilità nell’ultimo secolo del IV millennio a.C.). Si tratta di strutture difensive ampie e articolate, con mura costruite su alti basamenti di pietra in mattoni di
Nella pagina accanto, in alto: mappa satellitare del Levante meridionale con la localizzazione di Tell es-Sultan, l’antica Gerico. Nella pagina accanto, in basso: la sezione occidentale dello Square M, scavato dall’archeologa britannica Kathleen M. Kenyon (1906-1978), che diresse le ricerche a Gerico dal 1925 al 1958. Sono riconoscibili le principali fasi costruttive delle fortificazioni di Gerico nell’età del Bronzo Antico II-III (Periodi Sultan IIIb-c, 3000-2700 a.C.), da est. Nel riquadro, un particolare delle fortificazioni dell’età del Bronzo Antico II. A destra: pianta della città di Tell es-Sultan/ antica Gerico, nell’età del Bronzo Antico II (Periodo Sultan IIIb, 3000-2700 a.C.).
Quartiere settentrionale
Tempio
Palazzo Sorgente
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SCOPERTE • GERICO
fango e paglia essiccati al sole, dallo spessore di 4 m e alzato di 8, rinforzate da travi lignee e rivestite da intonaco color avorio, a cui vengono aggiunte torri semicircolari o quadrangolari, disposte a distanza regolare l’una dall’altra.
UNA GRANDE OPERA PUBBLICA Le mura sono il simbolo delle prime città palestinesi: rappresentano le capacità economiche e organizzative delle élite urbane, e dominano il paesaggio dei primi «Stati» territoriali. Allo stesso tempo, esse consentono ai governanti di impiegare una considerevole quantità di manodopera per la loro costruzione e il loro mantenimento: sono un’opera pubblica anche nel senso che servono a offrire lavoro, specialmente durante la stagione estiva, quando nella valle e nell’oasi si raccolgono le tribú seminomadi di pastori che, per la nascente città, è bene tenere impegnate. A Gerico, il territorio governato
In alto: un momento della ricognizione nell’area della sorgente di ‘Ain es-Sultan effettuata dalla missione italo-palestinese durante la campagna del 2009. Limite superiore dello strato di distruzione BA IIIB
Le fortificazioni Sezione ricostruttiva delle fortificazioni di Tell es-Sultan/antica Gerico nell’età del Bronzo Antico (BA) II-III (Periodi Sultan IIIb-c, 3000-2350 a.C.).
Ricostruzione del muro BA IIIB Livello di occupazione della città BA IIIB (fase recente) Livello di occupazione della città BA IIIB (fase antica)
Muro esterno BA IIIB
Fondazioni BA IIIB Muro esterno BA IIIA
Livello di occupazione della città BA IIIA
Scarpata BA IIIB Colmata di scaglie calcaree
Fondazioni BAIIIA Muro BA II
Fossato BA IIIB Strato di crollo del muro esterno BA IIIA Scarpata BA IIIA
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Fossato BA IIIA
Strato di crollo del muro BA II
Livello di occupazione della città BA II Fondazioni BAII
Sorgente
Area B
Edificio B1
Area B Ovest
Fortificazioni
Veduta generale da ovest dell’Area B e B Ovest scavata dalla missione italo-palestinese sul fianco meridionale del sito. In primo piano le fortificazioni della città dell’età del Bronzo Antico III (Periodo Sultan IIIc, 2700-2350 a.C.).
dalla neonata città coincide con un’oasi verdeggiante dove l’agricoltura è praticata dal Neolitico Preceramico (IX-VIII millennio a.C.), ossia da circa sei millenni, sostenuta dalla risorsa primaria dell’acqua dolce di ‘Ain es-Sultan, la sorgente che, con i suoi 5000 litri d’acqua dolce al minuto, era il vero cuore pulsante dell’oasi. E l’élite protagonista dell’ascesa del nuovo modello urbano fonda il proprio potere sul controllo di questa basilare risorsa. Le prospezioni della missione della «Sapienza» e gli scavi nel sito della piscina ottomana, dove si trova la polla d’acqua principale, hanno infatti dimostrato come questa sia stata regolata da costruzioni sin dal Neolitico e che i primi canali d’irrigazione regolati da chiuse furono costruiti agli inizi dell’èra urbana, intorno al 3000 a.C. Come le mura, i canali furono tra le prime opere
pubbliche realizzate per assicurare ricchezza alla neonata città e alla sua classe dirigente, impiegando un’ampia fetta della popolazione dell’oasi e formando una nuova classe di contadini/proprietari dipendenti dell’istituzione pubblica. Purtroppo, in assenza di fonti scritte, non siamo in grado di stabilire con certezza di chi fosse la proprietà della terra, ma è sicuro che il sistema di irrigazione fosse centralizzato e gestito dall’élite che governava la città.
CITTÀ RIGOGLIOSA E POTENTE La fiorente produzione agricola, testimoniata anche dal ritrovamento di numerosi granai, silos seminterrati che erano disseminati in tutti i quartieri abitativi, mise a disposizione dell’élite un notevole surplus agricolo, che fu reinvestito principalmente nel commercio. Orzo e frumento, ma anche olio e vino, legu-
mi e frutta essiccata venivano scambiati con materie prime: rame, pietra, legname, pietre preziose (corniola, turchese, cristallo di rocca) commerciate lungo le carovaniere che percorrevano la Valle del Giordano e della ‘Arabah, l’altopiano della Transgiordania e la regione montuosa della Giudea. Inoltre, Gerico controllava la sponda nordoccidentale del Mar Morto, dove si estraevano il sale – sostanza fondamentale per la conservazione dei cibi –, nonché fanghi sulfurei, che venivano usati come medicamento e il bitume, utilizzato come collante e impermeabilizzante. Il controllo, l’accentramento, il commercio e la redistribuzione di questi beni rese la città rigogliosa e potente nel volgere di poche generazioni. Oltre alle mura vennero costruiti edifici pubblici: un tempio sul pendio occidentale della «Spring Hill», la collina che dominava la sorgente, a r c h e o 41
SCOPERTE • GERICO
Mura della città nel Bronzo Antico IIIA-B
e un palazzo sul versante orientale, dal quale si poteva osservare la sorgente con attorno tutta l’oasi.Verso questi centri del potere affluivano i prodotti importati dal territorio e dai Paesi stranieri. Tra questi cominciarono anche ad annoverarsi status symbol, quali teste di mazza in marmo o calcare, palette da belletto in scisto, amuleti di pietra e d’osso, conchiglie pregiate di madreperla, vaghi di collana in pietre preziose e semi-preziose, armi di rame. Questi reperti, assieme a quelli che per l’antichità degli strati sono rintracciabili solo attraverso labili indizi – quali mobilio, oggetti d’artigianato artistico in legno, sigilli, tessuti decorati, tappeti, rivestimenti e calzature di cuoio, ecc. –, sono l’emblema dell’emergere di una classe dirigente che vuole essere riconosciuta e rispettata per le sue capacità economiche acquisite di recente. Ne risulta il quadro di una città fiorente e attiva, che si arricchisce ogni giorno di nuovi elementi e 42 a r c h e o
Strutture ricostruite Scavi Garstang (1930-1936) Scavi Kenyon (1952-1958) Scavi missione italo-palestinese
A sinistra: planimetria del quartiere di abitazioni dell’età del Bronzo Antico II. L’asterisco indica il luogo in cui sono state rinvenute le conchiglie con resti di belletto. In basso: le cinque conchiglie rinvenute a Tell es-Sultan/antica Gerico, dopo il restauro.
prodotti, attraverso una rete che raggiunge l’Anatolia, la Siria, la Mesopotamia, la Transgiordania, il Deserto siro-arabico, il Sinai e l’Egitto, il Mar Rosso e il Mediterraneo.
LE CONCHIGLIE NASCOSTE In questo contesto, si colloca una scoperta avvenuta proprio durante l’ultima campagna di scavi, che ha offerto nuove inaspettate informazioni. In un’abitazione dell’inizio del III millennio a.C., sono state rinvenute cinque conchiglie di madreperla di una specie d’acqua
dolce che cresce solo nel Nilo (Chambardia rubens = Aspatharia Nilotica). Le conchiglie, di dimensioni leggermente differenti l’una dall’altra in modo da costituire un vero e proprio set, erano impilate una sull’altra e disposte in una cachette (nascondiglio). Due contenevano ancora dei resti di una sostanza scura, che, prelevata nei Laboratori della «Sapienza» dalla ricerca-
Sulle due pagine: un momento degli scavi nel quartiere settentrionale delle abitazioni di Tell es-Sultan/ antica Gerico, ripreso da sud-est. Qui sopra: preziosa testa di toro in calcare, finemente scolpita, rinvenuta da Kathleen M. Kenyon nella Tomba D12, a testimonianza dell’elevato livello di specializzazione raggiunto dagli artigiani della prima città di Gerico nell’età del Bronzo Antico II. a r c h e o 43
SCOPERTE • GERICO
trice Teresa Rinaldi e analizzata dal chimico Francesco Mura presso il CNIS-Nanolab Sapienza (diretto da Ruggero Caminiti), è stata identificata come biossido di manganese, un minerale polverizzato utilizzato come principale componente del bistro o kohl per il trucco degli occhi. Le analisi hanno consentito quindi di ricostruire la funzione delle conchiglie di madreperla come portacosmetici di lusso provenienti dall’Egitto faraonico. Il belletto, con ogni probabilità, proveniva dal Sinai, dove sono state identificate le antiche vene di manganese sfruttate dagli Egiziani sin dall’epoca tinita. La casa o la bottega dove sono state trovate le conchiglie era stata scavata in parte dall’archeologo inglese John Garstang (1876-1956) nel 1935, ma il pavimento che occultava la cachette era rimasto intatto fino al nostro arrivo.
In alto: il biossido di manganese dalla conchiglia TS.17.F.1 osservato al microscopio elettronico a scansione. Qui sopra: l’interno della conchiglia TS.17.F.1 che presenta le macchie scure determinate dal biossido di 44 a r c h e o
manganese, e un particolare ingrandito della superficie interessata. La presenza di questa sostanza è la prova che la valva del mollusco venne utilizzata come contenitore per il belletto.
UNO STATUS SYMBOL Quale è il significato storico di questa scoperta? Si possono fare due considerazioni preliminari: le conchiglie si inseriscono in un gruppo di reperti egiziani o di stile egittizzante trovati a Gerico negli strati del Bronzo Antico; non rappresentano di per sé una novità assoluta; tuttavia, per la prima volta, la provenienza dall’Egitto non è solamente rivelata dalla tipologia dell’oggetto, ma anche dal fatto che le conchiglie stesse appartengono a una specie malacologica che vive solamente nel fiume Nilo; la seconda osservazione è che si tratta di beni voluttuari, importanti per soddisfare le esigenze di autorappresentazione di una élite emergente, quella che si era resa protagonista della grande esperienza urbana. Il belletto veniva infatti utilizzato per adornare gli occhi, sia maschili che femminili, dei personaggi piú importanti della comunità, esattamente
Conchiglie e reperti egiziani di provenienza egiziana esposti nel Kunsthistorisches Museum di Vienna. In basso, a sinistra, il primo degli oggetti è una valva di mollusco che conserva al suo interno resti di bistro (o kohl), proprio come nel caso delle conchiglie di Chambardia rubens rinvenute dalla missione italo-palestinese a Tell es-Sultan/antica Gerico, a conferma di una pratica evidentemente assai in voga.
come in Egitto. L’importazione del trucco e dei suoi pregiatissimi contenitori in madreperla (o forse di un set di portacosmetici) direttamente dalla terra dei faraoni era dunque un modo di indicare in modo inequivocabile il proprio rango. La cronologia dello strato di rinvenimento, datato agli inizi del III millennio a.C. ai tempi della II Dinastia (2950-2800 a.C.) egiziana, inoltre, sottolinea il rapporto che doveva esistere tra l’affermazione di questa moda egittizzante e la prima fioritura urbana di Gerico con la costruzione delle pri-
me mura, che appunto appartiene a questa stessa fase. Il riconoscimento del biossido di manganese, la sua provenienza dal Sinai, indicano come fosse già attiva la via commerciale della Valle della ‘Arabah, a sud del Mar Morto, fino al Mar Rosso e al Sinai.
LA «VIA DEL RAME» Si tratta, in realtà, della cosiddetta «Via del Rame», già resa evidente dalle scoperte nel Wadi Feinan e a Batrawy, percorsa sia dai Cananei che dagli Egiziani come valida al-
ternativa alla via che correndo lungo la sponda del Mediterraneo entrava in Palestina dal Wadi el-Arish e dal Wadi Gazzah. Questo asse interno rese possibile l’espansione del modello urbano fino al Lago di Tiberiade e, infine, consentí il contatto via terra tra la Siria Meridionale e l’Egitto. Gerico e il Ghor, l’ampio e verdeggiante ultimo tratto della valle del Giordano prima che quest’ultimo si getti nel Mar Morto, si trovano esattamente al centro di questa importante e antichissima via carovaniera. a r c h e o 45
MUSEI • AOSTA
NEL LABIRINTO DELLA STORIA CON L’APERTURA DEGLI AMBIENTI CHE SI ESTENDONO NEL SUO SOTTOSUOLO, IL MUSEO ARCHEOLOGICO REGIONALE DI AOSTA HA RADDOPPIATO IL PERCORSO ESPOSITIVO. UN AMPLIAMENTO SALUTATO DALLA MOSTRA «LABIRINTI DI MEMORIE», CHE PROPONE UN INTRIGANTE CONFRONTO FRA IL PASSATO E IL PRESENTE, SVILUPPATO FRA I RESTI MONUMENTALI DELLA CITTÀ ANTICA di Francesca Chiocci, Gaetano De Gattis, Simona Oliveti e Maria Cristina Ronc
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ondata da Augusto nel 25 a.C., Aosta rappresenta oggi una sorta di modello di visita a una «città ideale» per la comprensione dell’urbanistica romana e delle sue architetture monumentali piú rappresentative: il teatro, l’anfiteatro e il Foro, con l’eccezionale presenza di un criptoportico in uno straordinario stato di conservazione. Munita di una cinta fortificata, la colonia era dotata di quattro porte, a controllo dei due assi stradali principali, che, con la loro ortogonalità asimmetrica, definivano, in insulæ, lo spazio abitativo e pubblico. Gli interventi medievali e moderni ne hanno solo parzialmente modificato l’impianto, che rimane tuttora ben leggibile e che viene esaltato dai nuovi progetti di valorizzazione di aree archeologiche che rientrano in dialogo con la città, trasformandosi in nuovi luoghi
Sulle due pagine: la sala del Museo Archeologico Regionale di Aosta in cui è esposto il magnifico pettorale bronzeo (balteo) con scene di battaglia fra Romani e barbari che faceva parte della bardatura di un cavallo. La sua funzione è evocata dalla sagoma a grandezza naturale dell’animale. Nella pagina accanto: un’immagine dello splendido manufatto, databile tra la metà e la fine del II sec. d.C.
MUSEI • AOSTA
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In alto: il nuovo percorso di visita si avvale anche di camminamenti sospesi e apparati multimediali. A sinistra: uno degli ambienti del MAR, il cui pavimento vetrato valorizza gli spazi sotterranei, parte integrante del progetto museale.
d’incontro e recuperando, come nel caso del Foro, la loro funzione originaria. Una città sotterranea che, nel suo lasciarsi svelare, offre agli abitanti di Aosta l’opportunità di un graduale e costante recupero di uno spazio «allargato» non solo urbanisticamente, ma anche interiore nella dilatazione della propria conoscenza e nel riappropriarsi di un patrimonio che significa per alcuni identità, per tutti memoria. Una città «sotto-sopra» sempre piú consapevole, attenta e disponibile, con un museo (il Museo Archeologico Regionale, MAR, inaugurato
nel 2004; vedi box alle pp. 52-53) che le somiglia e che vuole rappresentarla nei suoi intendimenti di «crescere insieme» e che attraverso le trasparenze del suo allestimento, fa dialogare gli spazi delle sue «radici» architettoniche – dalle fondamenta della Porta Principalis Sinistra al palazzo neoclassico – con le sale in cui sono esposti i reperti accompagnati da citazioni che aprono spunti di riflessione sulla continuità del tempo. «Il passato non si ricorda, si ricostruisce» partendo dalle domande del presente: cosí il MAR è divena r c h e o 51
MUSEI • AOSTA
tato per la sua città il luogo dove le «storie» vivono e diventano materia narrante.
IL NUOVO PERCORSO Dallo scorso luglio, grazie alla mostra permanente «Labirinti di memorie», il MAR ha raddoppiato il suo percorso espositivo, con un allestimento che si basa sul valore del termine «scavo», nelle sue diverse suggestioni semantiche: per l’archeologo significa scavare nella terra alla ricerca delle tracce della storia, dell’uomo e quindi di se stesso, ma, parallelamente, il termine – in senso introspettivo – significa per ciascuno di noi scavare nelle pieghe della memoria, alla ricerca di se stessi. Questo parallelismo accompagna il visitatore lungo il percorso di «Labirinti di memorie», in un allestimento che espone significativi e inediti reperti archeologici riemersi dagli «scavi» nei magazzini o di recente scoperta e sui quali si «innesta»
Un antico ruggito Questo bronzo raffigurante un esemplare di panthera pardus proviene dagli scavi degli strati, tardo-romani, di un’abitazione (forse una villa) fuori dal tratto orientale della cinta, poche centinaia di metri a sud di Porta Prætoria. Rinvenuta in una delle fosse per la fusione di metalli, insieme a qualche decina di reperti anch’essi in bronzo, era probabilmente destinata a una rilavorazione per un riutilizzo. Nella scelta allestitiva essa è stata esposta nella sua naturale fierezza, mentre ruggisce quasi a chiamarci e a ricordarci chi era in origine e non cosa era destinata a diventare se la sua fusione fosse realmente avvenuta...
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LA «VOCE» DEL PATRIMONIO L’itinerario del MAR, Museo Archeologico Regionale, cronologico e tematico insieme, inizia nella sala in cui sono esposte alcune testimonianze provenienti dalle sue acquisizioni sul mercato antiquario durante la Grande Guerra e altri reperti del Vicino Oriente proponendo una riflessione sul collezionismo. Si tratta degli unici reperti che non siano stati restituiti dagli scavi condotti dalla Soprintendenza della Regione, istituita solo nel 1964. Il percorso archeologico prende le mosse cronologicamente dai manufatti piú antichi risalenti al Mesolitico (X-VII/VI millennio a.C.) e prosegue con l’esposizione di alcune stele antropomorfe dal sito megalitico di Saint-Martin-de-Corléans (vedi «Archeo» nn. 377 e 388, luglio 2016 e giugno 2017). Le sale successive sono
dedicate prevalentemente alla civiltà romana, rispecchiando in tale modo la situazione del territorio, nel quale le vestigia a essa riferibili sono particolarmente numerose. Le informazioni sul «mondo dei vivi» provengono essenzialmente dalle necropoli, che in Aosta costituiscono un patrimonio – particolarmente ricco e ben conservato – di oggetti che rimandano alla dimensione privata e quotidiana del cittadino romano. Nell’allestimento scenico, le epigrafi funerarie diventano le voci degli uomini e delle donne che raccontano delle loro relazioni familiari e del loro stato sociale, facendo anche trasparire aspetti psicologici e debolezze umane. I culti sono testimoniati da altari, da statuette, dalle lamine argentee, di provenienza diversificata, tra le quali emerge per importanza quella lavorata a sbalzo del busto di Giove Graio, oltre a un importante pettorale (balteo) in bronzo, allestito indosso a un cavallo in gesso reso a bassorilievo e ricostruito in dimensioni reali. Il percorso dedicato alla romanità trionfa, dal punto di vista della raffinatezza dei reperti, nella sala dedicata agli oggetti di pregio presenti nelle case delle classi piú benestanti: brocche e vasi di bronzo finemente lavorati, posate in argento ed eleganti vetri soffiati dal design sorprendentemente moderno. Chiude il percorso la ricostruzione della navatella di una chiesa ricavata nel corridoio voltato del museo in cui troneggia l’ambone proveniente dagli scavi del Battistero della Cattedrale e datato al VII-VIII secolo. Il MAR trova la sua collocazione non solo come museo
«tradizionale», che raccoglie, conserva, tutela e espone i suoi reperti, ma svolge innanzitutto il ruolo di «voce» per il patrimonio archeologico e per i suoi resti piú o meno monumentali. Il suo percorso allestitivo raccorda semplicemente le varie tracce, crea delle reti di congiunzione tra le epoche e le «cose» e rende visibile anche ciò che non lo è piú. Ma, soprattutto, il MAR esiste in quanto fucina di attività. Il suo compito è quello di mediare e di porgere nelle svariate forme dei linguaggi la memoria di «noi» e dell’origine delle soluzioni ai nostri bisogni. È stato detto che il museo è una grande «machine à lire» (letteralmente, «macchina per leggere»); e se il museo è un grande libro le sale sono i suoi capitoli, le vetrine le sue pagine, i reperti le sue parole.
Veduta d’insieme e particolare del busto di Giove Graio, in lamina argentea lavorata a sbalzo. II-III sec. d.C.
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MUSEI • AOSTA
scommessa, di cui solo il visitatore potrà decretare la riuscita.
UN INCONTRO INATTESO Entrare nel MAR scendendo delle scale e, una volta scese, immergersi nei sotterranei su cui il museo si fonda significa incontrare qualcosa di inatteso: un labirinto. Ed entrare in un labirinto è come accettare una sfida… con se stessi. Il labirinto è sinonimo di complessità, al cui fascino nessuno si sottrae, attratto irresistibilmente, perché il labirinto parla alla parte nascosta del nostro essere profondo, perché il labirinto è l’Uomo. Cercarne l’uscita, come in uno scavo archeologico, implica cercare e rovistare negli angoli di muri, pavimenti, corridoi, in cui si ritrovano le tracce di un passato collettivo, condiviso, custodito nella memoria di ciascuno e di tutti, perché il passato che riemerge da ogni
Un’immagine che sottolinea in maniera eloquente il rapporto tra i due livelli del percorso espositivo del MAR.
un suggestivo viaggio nell’ipotetica memoria del futuro. È la stessa struttura labirintica del luogo che ha consentito e facilitato l’esposizione dei manufatti generando perfetti spunti per dare spazio alle connessioni con il percorso interiore che il visitatore è invitato a intraprendere. La scelta comunicativa è stata affidata principalmente, oltre che a didascalie e brevi testi per quanto riguarda i contenuti archeologici, a scenografie, letture e citazioni allo sco54 a r c h e o
po di agevolare un approccio emozionale al percorso. Il logo stesso è stato rivisitato, con l’inserimento grafico della planimetria archeologica del sottosuolo, a rafforzare il concetto della moltiplicazione sia architettonica del volume museale, sia della relazione tra le strutture archeologiche, il museo e le «memorie di sé». Progettare e realizzare «Labirinti di memorie» è stata per tutti un’importante esperienza, non solo professionale, e una bella e interessante
Nella pagina accanto in alto: pianta degli spazi del sottosuolo: 1. lo scavo/il labirinto; 2. i semiofori/l’Io; 3. il magazzino/i ricordi; 4. i prestiti/l’ospite; 5. Minotauro; 6. la documentazione/ il diario; 7. archeologia in valle/passato al presente; 8-9. l’esposizione/la memoria organizzata; 10-12. l’alba del nuovo mondo A destra: rappresentazione schematica del Minotauro, la mostruosa creatura che è simbolo del labirinto.
Il percorso espositivo
scavo ne riemerge come storia, come patrimonio comune. Quello che si propone non è una mostra, né una descrizione, né una serie di didascalie. Quello che si propone è un percorso tra i resti monumentali della città di Aosta, sovrapposizioni intricate, che sembrano imitare le sovrapposizioni intricare della vita di ogni Uomo. Una ricerca senza fine nel passato proprio e della storia di una memoria che a volte si manifesta, a volte si compone, si sovrappone, a volte, invece, si accatasta e altre volte ancora si dipana, una memoria che può trovare nell’archeologia una delle possibili vie lungo le quali il tempo si rivela. In questo sottosuolo le memorie di una città, della sua gente e di ciascuno di noi si fondono in realtà mitiche e in metafore storiche, dove le successioni stratigrafiche dei muri e di strutture complesse si sovrappongono e si coprono, cambiandone continuamente senso. La città di Aosta diventa metafora di ogni cambiamento possibile: pareti a r c h e o 55
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struendolo, un magazzino. Spesso, infatti, nei magazzini dei musei sono conservati oggetti di grandissima importanza e di notevole bellezza, di cui si conosce talvolta solo la provenienza. «Scavare lo scavato», come viene definita l’azione di revisione di questi «archivi» di oggetti, è un’attività tra le piú emozionanti e rilevanti. Anche nella nostra memoria a volte riemergono ricordi che credevamo scomparsi, volti, persone, nomi, episodi, talvolta evocati da un oggetto, una lettera, una frase che ritroviamo per caso anche solo aprendo un cassetto.
INTRUSI E RICORDI Oppure nella sala 4, nella quale una struttura muraria di età medievale, ingloba nella sua tessitura, come un intruso, un elemento sbagliato, il frammento inservibile di un’anfora, che invece viene accolta e inserita nel muro e ne diviene parte, come un ospite e non come un intruso. In questo spazio sono accolti i prestiti di oggetti preziosi, ospiti per cronologia o per provenienza, apparentemente fuori contesto. Anche noi spesso, guardando nella messe dei che si intersecano, che si toccano, vie come vite che cambiano assi e direzioni. Ecco che l’archeologia si propone come ricerca continua, a volte fallace, dell’uomo nelle sue misurabili manifestazioni. Muoversi lungo questa storia porterà a raccogliere immagini, notizie, informazioni, persone, oggetti, frammenti di ricordi, a incontrare il Minotauro che sempre ci attende al centro di ogni labirinto. E, giunti al termine della strada nascosta, dove ciò che si è visto parla di noi e ci appartiene, risalire verso il presente, verso il Museo, luogo della memoria consapevole e ordinata, fondato su un sottosuolo, in cui ognuno di noi si costruisce e tenta di ritrovarsi. Nel percorso che si propone nel sottosuolo del MAR, le sale si susseguono, invitando il visitatore a 56 a r c h e o
una sorta di gioco di specchi: gli oggetti esposti sono stati scelti e collocati per poter suggerire in qualche modo a ciascuno la riflessione su di sé e sul proprio vissuto. Cosí nella sala 3, per esempio, dove si è cercato di riproporre, rico-
In questa pagina: schizzi di progetto e un particolare della sezione del nuovo percorso «Labirinti di memorie» che propone la ricostruzione del magazzino di un museo, sottolineando l’importanza delle scoperte che in esso si possono compiere.
In questa pagina: una pagina di un diario di scavo, un particolare dell’allestimento e uno schizzo di progetto della sezione di «Labirinti di memorie» dedicata al lavoro dell’archeologo e alla sua documentazione.
nostri ricordi, troviamo parti di altri, le cui vite, anche solo per brevi periodi, si sono incrociate con le nostre e cosí, in qualche modo, ne hanno cambiato lo svolgersi. Ma la principale suggestione che in questo percorso si vorrebbe offrire è quella di permettere al visitatore di cogliere anche lo spirito che spesso muove un archeologo verso il suo lavoro. Un momento fondamentale di ogni scavo archeologico, quello che impedisce che esso sia solo distruzione, è la registrazione di tutto quello che viene eseguito in cantiere: testi, foto, disegni. La documentazione è il solo strumento che, a distanza di anni dallo scavo, possa permettere di ricostruire o interpretare la storia di un sito o di un monumento. Simile in qualche modo è il nostro trascrivere un dia-
rio, quotidiano o casuale, di quanto ci accade, nella speranza di capire meglio, di ordinare i fatti e le azioni sia nell’immediato sia a posteriori, quando ci troveremo a rileggere le pagine della nostra vita.
UN PASSATO AL PRESENTE Tuttavia, quando si pensa al lavoro dell’archeologo e al cantiere di scavo, di solito, si portano alla mente le strutture, i reperti e i risultati degli scavi. Nel caso dell’attività di ricerca in Valle d’Aosta, questa è stata sin dalla fine del XIX secolo molto intensa e ricca di risultati. Ma… mentre gli archeologi portavano alla luce reperti a loro precedenti di migliaia di anni, la storia si stava compiendo e costruendo, in quegli stessi momenti, in quegli stessi anni. a r c h e o 57
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Il lavoro di un archeologo non è altro che un passato al presente, come in un corto circuito temporale. Da questa sorta di corto circuito, in qualche modo, nasce l’esigenza di organizzare tutti i dati e i documenti secondo un senso, che è dato dalle esigenze del nostro presente; questo senso è necessariamente quello piú socialmente, razionalmente, culturalmente e storicamente accettabile. A questo punto l’archeologia cessa di essere antiquaria o storia dell’arte e diventa storia, memoria consapevole.
BENVENUTI A HOSTA! Il viaggio nel sottosuolo non è finito, prima di riaffacciarsi sul presente si deve varcare uno stargate, che quasi di colpo ci precipita in un futuro non troppo lontano. Dal collasso del nostro mondo, rinasce con fatica una nuova società, orgaIn questa pagina: due immagini della sezione conclusiva di «Labirinti di memorie», in cui oggetti dell’età contemporanea sono visti come i reperti destinati a essere studiati dagli archeologi del futuro.
nizzata in piccoli gruppi umani, isolati tra loro. Uno di questi vive sui primi contrafforti montuosi della valle in un villaggio chiamato Hosta. L’umanità di questa Nuova Era è consapevole dell’esistenza di un mondo precedente, del quale ha sotto gli occhi le rovine delle città, ora disabitate, e le discariche, colme dei rifiuti del passato. Il MAR ha accolto in prestito dall’Istituto Italiano di Archeologia Sperimentale di Genova (IIAS) gli oggetti e il percorso di ricerca di 58 a r c h e o
Doratha, giovane archeologa del futuro, che si pone in una nuova prospettiva rispetto alle vestigia della precedente società. I «reperti» che incontra sono i relitti del nostro mondo, che in abbondanza si possono rinvenire sul territorio. Un futuro di cui noi e il nostro presente siamo il passato. Doratha recupera, analizza, dispone come in una collezione oggetti che provengono dal nostro mondo, alcuni per noi di facilissima comprensione, altri enigmatici in quanto parti o
residui di piú complessi apparati o meccanismi. La classificazione e l’interpretazione fatta dalla nostra archeologa potrà stupire per la sua ingenuità o per i grossolani errori interpretativi, ma potrà offrire uno spunto di riflessione sul margine di soggettività e di errore, quando ci si confronta con mondi del passato molto lontani da noi.
DOVE E QUANDO MAR, Museo Archeologico Regionale Aosta, piazza Pierre-Leonard Roncas, 12 Orario ott-mar: tutti i giorni, 10,00-13,00 e 14,00-18,00; apr-set: tutti i giorni, 9,00-19,00; chiuso il 25 dicembre e il 1° gennaio Info tel. 0165 275902; e-mail: mar@regione.vda.it; www.regione.vda.it
I LONGOBARDI 60 a r c h e o
RIVISITATI
UNA MOSTRA ALLESTITA AL CASTELLO VISCONTEO DI PAVIA NARRA L’EPOPEA LONGOBARDA ATTRAVERSO L’ESPOSIZIONE DI OLTRE 300 PREZIOSI REPERTI. SCANDITO IN OTTO SEZIONI, IL PERCORSO PARTE DALLA STORIA DELL’AVVENTO DELLE GENTI GERMANICHE IN ITALIA, E NE ESAMINA LE USANZE FUNERARIE, LA RELIGIONE, L’ARTE FIGURATIVA E QUELLA SCRITTORIA. PER SOFFERMARSI, INFINE, SU DUE GRANDI TEMI: QUELLO DI PAVIA CAPITALE DEL REGNO E QUELLO DEI LONGOBARDI DEL SUD
I
di Andreas M. Steiner
n grandi linee, il «racconto» dei Longobardi è entrato a far parte della communis opinio: ultimi (in ordine di tempo) fra i popoli barbarici a invadere la Penisola italica – e facilitati nel loro intento da un Paese già glorioso, ma ridotto allo stremo da vent’anni di guerra tra Goti e Bizantini – le genti dalle lunghe barbe varcarono le Alpi Giulie e, guidate dal loro re Alboino, nel fatidico anno 568, raggiunsero la Pianura Padana. Nel 572, dopo un assedio dura-
to tre anni, conquistarono Pavia, che del regno longobardo diverrà la capitale. La loro espansione proseguí per inglobare le terre dell’odierna Toscana e, nel Meridione, quelle di Spoleto, Benevento, Salerno. La parabola della Langobardia maior si concluderà nel 774, con la sconfitta inflitta al re Desiderio dalle truppe di Carlo Magno, in una località nei pressi di Susa. Quella minor (i ducati di Spoleto e Benevento), invece, godrà ancora, sebbene con alterne vicende, di lunghi anni di autonomia e indipendenza. Un dominio, quello dei Longobardi in Italia, durato due secoli; che però, se confrontato con quello degli in-
Sulle due pagine: il Castello Visconteo di Pavia, sede della mostra «Longobardi. Un popolo che cambia la storia». Qui accanto: spada in ferro damaschinato, da Nocera Umbra. VI sec. Roma, Museo delle Civiltà-Museo Nazionale dell’Alto Medioevo. Tutti gli oggetti illustrati in questo articolo sono attualmente esposti nella mostra in corso a Pavia. a r c h e o 61
MOSTRE • PAVIA
vasori germanici che li avevano preceduti (i Goti di Teodorico) e, poi, seguiti (i Franchi di Carlo Magno), ha da sempre suscitato alcuni interrogativi storici «esclusivi»: furono i Longobardi a spezzare l’unità politico-amministrativa della nostra Penisola costruita da Augusto mezzo millennio prima, determinando cosí una storia di divisioni e frammentazioni che avrebbe portato l’Italia a essere, nei secoli successivi, terra di conquista da parte di altre potenze nazionali? E fu davvero la loro venuta a scatenare una catena di effetti squilibranti nella società italiana dell’epoca, tali da configurarsi addirittura come una «grande occasione
Orecchino aureo «a tamburo» o «a disco» con decorazione cloisonné e pendente cruciforme. VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. 62 a r c h e o
La migrazione longobarda Verosimilmente originari della Scandinavia meridionale e stanziatisi nell’area del basso Elba (oggi Germania settentrionale), i Longobardi giunsero in Italia dopo una lunga migrazione attraverso l’Europa orientale e la Pannonia (l’odierna Ungheria).
mancata affinché l’Italia potesse rifondare su nuove basi la propr ia unità politica»? Nel corso degli ultimi quarant’anni – forse per affinare le risposte sollecitate da quegli interrogativi – un’attenzione altrettanto «esclusiva» è stata riservata agli eventi espositivi dedicati ai Longobardi: una prima mostra si è tenuta a Milano nel 1978, seguita dall’esposizione tenuta a Cividale del Friuli e a Villa Manin di Passariano nel 1990 (incentrata sulla lettura dei contesti
archeologici, soprattutto quelli funerari), da quella di Brescia del 2000 (volta a indagare l’ultima stagione del regno longobardo e il passaggio alla nuova era carolingia) e da quella torinese del 2008 (che collocava il fenomeno Longobardi nel piú ampio contesto degli stanziamenti barbarici in Occidente).
NELLE SCUDERIE DEL CASTELLO In questi giorni, infine, un’affascinante mostra «longobarda», curata da Gian Pietro Brogiolo e Federico Marazzi, è allestita nelle scuderie del Castello Visconteo di Pavia. Ma qual è la cifra specifica di questa quinta
La progressione della conquista longobarda L’espansione dei tre nuclei nei quali si articolò la presenza del popolo germanico: Langobardia maior, ducato di Spoleto e ducato di Benevento.
esposizione longobarda (alla quale, come vedremo, se ne aggiungerà, a strettissimo giro, una sesta)? «Raccontare l’Italia longobarda nel 2017 – spiega Ugo Soragni, Direttore Generale ai Musei – impone inevitabilmente un confronto con la contemporaneità, spinge a indagare le vicende di un popolo che ha cambiato la storia, ponendosi in una dimensione piú ampia nella riflessione sui grandi cambiamenti che stanno modificando l’Europa di oggi e il suo rapporto con l’area mediterranea. Gli ultimi anni hanno segnato un’importante stagione di ricerche sull’Italia longobarda, con l’acquisizione di un corposo quadro di nuovi dati che hanno nutrito un vivace dibattito storiografico incentrato sul concetto di identità etnica».
UNA QUESTIONE DIBATTUTA «La dialettica sull’etnicità dei popoli barbarici, l’interpretazione sulla stagione che portò queste popolazioni a spostarsi verso le province romane e il giudizio sull’impatto di questo fenomeno in relazione alla fine dell’Impero romano, dividono gli storici da centinaia di anni.
In alto: fibula a «S» in argento dorato e pietre almandine, dalla necropoli di San Giovanni a Cella. 600 circa. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale.
Fibbia di cintura gota in argento dorato e niellato, almandini, vetro bianco e verde, da Torre del Mangano. Fine del V sec. Pavia, Musei Civici. a r c h e o 63
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Il dibattito storiografico, non a caso, si è riacceso negli ultimi venti anni, riverberando nella lettura storica gli interrogativi di una società che deve rinegoziare la propria identità in chiave multiculturale, multietnica e multireligiosa e che si trova a cercare nelle storie di millecinquecento anni fa assonanze e chiavi di lettura. Questa nuova mostra sui Longobardi offre al pubblico la possibilità di entrare in rapporto dialettico con un’importante pagina della propria storia, avvicinandosi, con la mediazione della narrazione, alle nuove acquisizioni e interpretazioni della ricerca».
CAMBIAMENTI EPOCALI Ma torniamo all’anno 568: rappresenta ancora una data chiave, uno spartiacque storico, come accennato all’inizio? Per i curatori della mo-
In alto: guarnizioni di cintura multipla in ferro ageminato con decoro in stile spiraliforme, dalla tomba 356 di Sant’Albano Stura. Metà del VII sec. Torino, Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Alessandria, Asti e Cuneo. 64 a r c h e o
Qui sopra: tre brocche in ceramica appartenenti alla classe detta Forum Ware, perché definita per la prima volta sulla base dei materiali provenienti dalla Fonte di Giuturna nel Foro Romano. IX-X sec. Roma, Museo Nazionale Romano-Crypta Balbi.
sua posizione in rapporto all’impero d’Oriente. Ora, la conquista fa fallire il sogno di Giustiniano di riconquistare il Mediterraneo occidentale, mentre l’Italia perde la sua unità che, nelle regioni conquistate dai Longobardi, si frammenta in tanti ducati fortemente autonomi». Una frammentazione che favorisce il nuovo ruolo dei Franchi, che in Europa assumono una posizione egemone, spostandone il baricentro dal
Guarnizioni di cintura multipla in ferro ageminato con decoro in II stile animalistico «armonioso», dalla tomba 331 di Sant’Albano Stura. Secondo quarto del VII sec. Torino, Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Alessandria, Asti e Cuneo.
stra, Gian Pietro Brogiolo e Federico Marazzi, «la conquista ha segnato un cambiamento geopolitico epocale, e non solo per l’Italia. Dopo la fine dell’impero d’Occidente (nel 476, n.d.a.) l’Italia era rimasta, sotto il dominio dei Goti, il cuore economico, culturale e religioso dell’Europa, grazie alla sua tradizione e alla
Mediterraneo al Reno. Insomma, qualche confronto tra gli aspetti scaturiti dall’avvento dei Longobardi e l’Europa di oggi, «caratterizzata, come allora, da processi migratori che ne mettono in discussione secolari equilibri sociali e culturali» sembra lecito: solo che la marginalizzazione dell’Italia contempora-
nea, a fronte della contestuale ascesa di una Germania che – come ricordano ancora i curatori – «ha assunto un ruolo egemone analogo a quello esercitato dapprima dai Franchi e poi dagli imperatori del Sacro Romano Impero» non è certo imputabile, esclusivamente, a fattori di «migrazioni di popoli»…
UN TESORO «SOMMERSO» Due altri aspetti fondamentali contribuiscono all’importanza della mostra di Pavia: in prima istanza, il luogo stesso in cui si svolge, un tempo la capitale del regno fondato da Alboino. Forse non tutti i nostri lettori sanno che questa bellissima citta, adagiata sulle rive del fiume Ticino, ha perso, nel corso dei secoli, ampia parte delle emergenze monumentali riferibili al periodo longobardo. Come spiega Susanna Zatti – direttrice dei Musei Civici del Castello di Pavia (sede della mostra) – «non solo le devastazioni belliche e gli incendi, ma la splendida fioritura romanica dopo il Mille con la necessità di recuperare spazi e materiali pregiati per le costruzioni, e poi la crescente insofferenza estetica per espressioni d’arte “barbariche”, almeno sino al romanticismo, avevano determinato il progressivo svanire delle testimonianze materiali di Pavia longobarda; cosí, solo per ritrovamenti fortuiti e rarefatti nei secoli e per episodiche campagne recenti di scavo archeologico, sono stati riportati alla luce elementi architettonici, monili, lapidi ed epigrafi funerarie, pezzi scultorei che sono confluiti nelle raccolte civiche e allestiti nelle sale museali del castello visconteo. Sono reperti di straordinaria qualità, tali da ripagare in parte per la loro unicità ed eleganza, pur nelle ridotte dimensioni, la perdita di strutture monumentali». Ragione in piú, diremmo, per visitare la città con occhi nuovi, rivolti a scovare le a r c h e o 65
MOSTRE • NOME MOSTRA
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Qui sotto: corno potorio in vetro, dalla tomba 27 della necropoli di San Mauro (Cividale del Friuli). Ultimo terzo del VI sec. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale.
Sulle due pagine: miniatura raffigurante Arechi II, duca e poi principe longobardo di Benevento, dal Codex Legum Langobardorum. XI sec. Cava dei Tirreni, Abbazia della Ss. Trinità. A sinistra: il codice che reca l’Editto di Rotari, promulgato nel 643. San Gallo, Stiftsbibliothek.
vestigia nascoste della Pavia longobarda (a partire dalla cripta della chiesa di S. Eusebio, risalente al VII secolo, per arrivare alla tomba del re Liutprando, nella basilica di S. Pietro in Ciel d’Oro). Il secondo aspetto riguarda lo spazio dedicato ai Longobardi del Sud: un grande tema, trattato solo marginalmente nelle precedenti mostre longobarde, e che farà da protagonista d’eccezione nella seconda tappa dell’esposizione di Pavia, che si aprirà al Museo Archeologico di Napoli il 15 dicembre. Ne parleremo in un prossimo servizio sulla nostra rivista. DOVE E QUANDO «Longobardi. Un popolo che cambia la storia» Pavia, Castello Visconteo fino al 3 dicembre Orario martedí-domenica, 10,00-18,00; lunedí, 10,00-13,00 Info tel. 0382 399770; www.mostralongobardi.it Catalogo Skira Editore Note la mostra sarà presentata dal 15 dicembre 2017 al Museo Archeologico Nazionale di Napoli e ad aprile 2018 al Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo a r c h e o 67
ARCHEOTECNOLOGIA • ARTIGLIERIE NAVALI/3
LE
SENTINELLE DEI FIUMI
ANCHE I ROMANI SI SERVIVANO DI VERI E PROPRI PATTUGLIATORI. NAVI CHE AVEVANO COMPITI DI SORVEGLIANZA, MA CHE, ALL’OCCORRENZA, POTEVANO GIOVARSI DELLE ARTIGLIERIE INSTALLATE A BORDO di Flavio Russo
S
otto il profilo balistico, l’impiego delle artiglierie a torsione nelle battaglie sul mare presenta vistose differenze rispetto al loro coevo utilizzo negli assedi terrestri: le mura, infatti, non sono bersagli mobili e dunque non escono di punteria, non possono essere sfondate per via del loro rilevante spessore, né... affondano o possono essere date alle fiamme quando vengano colpite e, infine, racchiudono un abitato che, per la sua ampiezza, costituisce un facile bersaglio persino di notte! Differenze che, proprio perché tanto considerevoli, incentivarono l’installazione sulle navi da guerra di catapulte e baliste, le sole armi in grado di colpire le unità nemiche da discreta distanza, schiantandone i fragili scafi di legno con palle di pietra o incendiandoli con proietti pirofori. Spesso, poi, apposite imbarcazioni fungevano da piattaforme natanti per la messa in batteria delle grosse macchine da lancio, 68 a r c h e o
non altrimenti trasportabili, con le quali attuare gli investimenti delle città marittime. Un caso del genere sembra potersi ravvisare nell’assedio di Tiro del 332 a.C. quando ai pezzi terrestri ippotrainati di Alessandro si unirono quelli navali piazzati sui ponti delle triremi. Tuttavia, molti studiosi nutrono forti riserve circa la presenza sistematica delle artiglierie sulle unità da guerra. Eppure sappiamo che Demetrio Poliorcete, nel 307 a.C., piazzò a prua delle sue navi – un terzo delle quali quinqueremi – baliste di dimensioni non meglio precisate e catapulte da 3 spanne, quest’ultime capaci di scagliare dardi lunghi 60 cm circa, e perciò azionate da matasse di 75 mm circa di Ricostruzione ipotetica dell’assalto macedone a Tiro, durante l’assedio del 332 a.C., quando le mura della città vennero violate anche grazie all’impiego delle artiglierie navali.
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ARCHEOTECNOLOGIA • ARTIGLIERIE NAVALI/3
diametro. Le fonti tramandano anche che le perdite da loro inflitte, ovviamente prima dell’abbordaggio, furono notevoli. Sembrerebbe, pertanto, confermato trattarsi di una tattica già sperimentata, e non di un’iniziativa estemporanea. In ogni caso, se le riserve degli studiosi insistono, soprattutto, sulla scarsa capacità di carico delle navi dell’epoca, va ricordato che, oltre all’equipaggio, le quinqueremi erano in grado di imbarcare un centinaio di fanti di marina, i quali, con scudi, corazze, giavellotti e razioni, superavano il centinaio di quintali. Non poteva perciò costituire un problema l’imbarco di un paio di baliste e di tre o quattro catapulte, il cui peso complessivo, non eccedendo la decina di quintali, costituiva appena un 10% dell’eventuale sovraccarico. Stando alle fonti fu ancora Demetrio Poliorcete, nel corso dell’assedio alla città di Rodi del 305-304 a.C. a servirsi di navi dotate di artiglierie. Del resto, per nostra diretta constatazione, una catapulta da 75 mm pesa poco piú di 1 quintale, dando cosí ragione allo studioso di storia militare Eric William Marsden, che scrisse al riguardo: «Ciascuna delle sue quinquiremi avrebbe potuto ricevere (…) dieci catapulte (…) due baliste relativamente piccole (…) artiglieri e munizioni (…) ed essere ancora in grado di trasportare 40 marinai. Ovviamente navi da guerra piú grandi delle quinquiremi avrebbero potuto fare meglio». Anche le navi minori risultavano comunque idonee a imbarcare qualche pezzo d’artiglieria: emblematico è il caso delle antesignane «barche cannoniere» che Tolomeo I impiegò sul Delta del Nilo nel 306 a.C., armate con catapulte e baliste di diverse dimensioni, che riuscirono a respingere le grandi navi di Antigono e Demetrio. Circa un secolo dopo, nel suo trattato, Filone di Bisanzio considerava del tutto ovvio che le navi da guerra dispo70 a r c h e o
nessero a bordo di artiglierie a torsione, tanto che, in epoca ellenistica, la tattica degli scontri navali anticipa quella fra i vascelli in età moderna, allorquando, dopo essersi affiancati a distanza utile, si bersagliavano con bordate di cannoni.
LE FONTI Se le palle delle baliste, pur danneggiando piú o meno gravemente gli scafi, non ne provocavano automaticamente l’affondamento, l’esito dei lanci mutava del tutto quando scagliavano proietti incendiari, di gran lunga l’arma piú efficace e, perciò, piú utilizzata. Una nave, colpita in tre o quattro punti da tali pirofori non aveva alcuna possibilità di scampo, poiché sarebbe stato pressoché impossibile dimostrandosi improbo soffocare i diversi focolai continuando a combattere e a navigare. E, forse, proprio per meglio sfruttare tanta vulnerabilità, si dotarono le navi da guerra di torri per le artiglierie, riuscendo il tiro molto piú efficace se diretto dall’alto verso
il basso. I frequenti riscontri nelle fonti confer mano pienamente quanto fin qui delineato: Polibio, 228 a.C.: «In primavera Teuta mandò ambasciatori ai Romani e (...) si impegnò a (...) non navigare oltre Lisso con piú di due imbarcazioni (...) anche queste disarmate» (Storie, II 12). Tito Livio, 212 a.C.: «Piú era l’attacco dal mare, perché sulle navi c’erano macchine e arnesi bellici di ogni genere e perché l’attacco veniva dai Romani» (Storia di Roma, lib. XXVI, 26). Tito Livio, 210 a.C.: «Lanciati i ramponi di ferro, combattevano tanto da presso che non solo con armi da getto ma anche coi gladi e quasi corpo a corpo era la lotta» (Storia di Roma, lib. XXVI, 39). Tito Livio, 203 a.C.: «I Cartaginesi cominciarono a lanciare su le navi romane travi munite in cima di uncini ferrei» (Storia di Roma, lib. XXX, 10). Cornelio Nepote, 181 a.C.: «Annibale ordinò di catturare vivi il maggior numero di serpenti velenosi e li fece rinchiudere in vasi di terracotta (...) [e] cominciò a gettare (...) contro [le navi
In alto: ricostruzione di nave romana con una catapulta a ripetizione montata sul ponte di prua. Magonza, Museo della Navigazione antica.
Nella pagina accanto: uno scorcio della sala delle navi romane all’interno del Museo della Navigazione antica di Magonza.
Nessun dubbio, quindi, che l’artiglieria elastica abbia avuto un ruolo preminente a bordo delle navi da guerra, negli scontri navali e nelle operazioni anfibie. Come pure ne ebbe anche sulle unità fluviali e durante il forzamento dei fiumi, spesso effettuato sotto la copertura balistica.
nemiche] i vasi» (De viris illustribus, Vita di Annibale, capp. 10-11). Appiano, 72 a.C.: «Non si inoltrarono in alto mare, temendovi la flotta di Lucullo, ma, costeggiando (...) rimasero esposti ai colpi che provenivano da terra e da mare» (Storia romana. Guerre esterne, Libri I-VIII). Giulio Cesare, 49 a.C.: «Contro queste fortificazioni Pompeo allestiva grosse navi da carico, che aveva preso nel porto di Brindisi. Sopra vi costruiva delle torri a tre piani, dopo averle riempite di numerose macchine da guerra e di ogni sorta di armi da lancio» (Guerra Civile, lib. I, 26). Anche nelle operazioni anfibie, le artiglierie navali fecero valere il loro apporto, coprendo le fanterie nelle fasi piú critiche dell’atterraggio. Cosí Giulio Cesare rievoca lo sbarco sulla spiaggia britannica nel 55 a.C.: «Diede ordine che le navi da guerra (...) si allontanassero dalle navi da
carico e, mosse dai remi, si portassero verso il fianco destro scoperto del nemico e cercassero di respingerlo mettendo in azione le loro artiglierie: fionde dardi e baliste» (Guerra Gallica, lib. IV, 25). Né mancano menzioni di artiglierie persino su navi mercantili. In alcuni casi si trattava di mero trasporto, ma in molti altri di armamento effettivo, che le trasformava in unità da guerra ausiliarie, sia che si difendessero attivamente, sia che attaccassero di sorpresa quelle nemiche. Giulio Cesare, 49 a.C.: «I Marsigliesi avevano tirato fuori dai cantieri vecchie imbarcazioni (...) le avevano riparate e (...) provviste di coperta, perché i rematori fossero protetti dai colpi delle armi da lancio; queste riempirono di arcieri e di artiglierie». E ancora: «Nello stesso tempo un gran numero di proietti, lanciati di lontano dalle imbarcazioni piú piccole, seminava ferite fra i nostri» (Guerra Civile, Lib. II, 4 e 6).
LE ARMI AUTOMATICHE Nel Museo della Navigazione antica di Magonza, in Germania, sono custoditi i resti degli scafi di cinque battelli della flotta fluviale romana, per l’esattezza della Classis Germanica. Si tratta del fasciame prossimo alla chiglia, che abitualmente restava coperto internamente dalla zavorra. Ben quattro imbarcazioni dovettero essere verosimilmente impiegate per i rifornimenti delle guarnigioni, dislocate nei forti scaglionati lungo il limes renano. La quinta, invece – peraltro interamente ricostruita –, tradisce la sua idoneità al combattimento, dal remeggio al castello di prua per l’alloggiamento di un piccolo pezzo d’artiglieria. Sappiamo che le unità da perlustrazione fluviale erano armate, dal momento che effettuavano il loro servizio sempre a ridosso di un nemico insidioso, nascosto e sfuggente nelle boscaglie delle rive. Ed è interessante osservare che l’unico bassorilievo, trovato non lontano, raffigura un’imbarcazione armata con due pezzi disposti in batteria sul ponte e priva di remi. È pressoché impossibile dedurre di quale tipo di artiglieria elastica si tratti, se a matasse nervine blindate o a balestre metalliche verticali, come sembra piú probabile. In ogni caso, sono pezzi scudati e montati su un solido affusto a tripode. Navigando a discreta velocità, trasportato dalla corrente, il battello, per cogliere esiti balistici significativi, doveva disporre di artiglierie dalla cadenza di tiro serrata e di rapido brandeggio, mutando a ogni ansa la direzione da battere. Caratteristiche che si attagliano perfettaa r c h e o 71
ARCHEOTECNOLOGIA • ARTIGLIERIE NAVALI/3
mente alla catapulta a ripetizione di Dionisio d’Alessandria, un’arma sofisticata, azionata da un gruppo propulsore a torsione, risalente al 350 a.C. Precisa al riguardo Filone, nel Belopoeica: «Questo piccolo scorpione era di poco piú potente di uno che montava un motore [matassa da Ø 75 mm per un dardo] da un cubito [lungo 462 mm, pari a 2 spanne] e non molto piú debole di uno che ne montava un altro da tre spanne [lungo 693 mm] e lanciava dardi di un cubito e un dattilo [pari a mm 462+19,3=mm 481]». Una serie di calcoli porta a ritenere che il diametro delle matasse di questo particolare scorpione fosse pari a 60 mm e che il dardo avesse una lunghezza di 500 mm circa.
UNA SOLUZIONE INEFFICACE Sebbene del geniale progettista si sappia pochissimo, si suppone che avesse realizzato la sua arma nel contesto dell’assedio di Rodi, alla fine del IV secolo a.C. Dando per scontata la notizia, balza evidente, se non l’abbandono dell’archetipo, lo scarsissimo impiego che esso conobbe, forse per la medesima ragione che ritarderà la diffusione della mitragliatrice: in estrema sintesi, il
problema sarebbe consistito nell’eccessivo spreco di munizioni, che per quella catapulta a ripetizione risultava persino maggiore, poiché il suo brandeggio richiedeva il complesso coordinamento dei serventi, in assenza del quale i dardi finivano per conficcarsi tutti in un unico punto! Tuttavia, questa grave deficienza svaniva collocando l’arma su piattaforma mobile. I dardi, allora, pur scagliati a brandeggio fisso, si sarebbero intervallati in ragione della velocità del mezzo, restando le rispettive traiettorie sempre parallele fra loro. Con il battello trascinato da una corrente di 2 m/sec e una cadenza di tiro di un dardo ogni due secondi, tra un colpo e l’altro sarebbero intercorsi 4 m. Un interasse, peraltro, facile da ridurre, frenando la navigazione e senza alcun rischio per gli equipaggi, che si trovavano comunque fuori tiro del nemico, poiché la gittata della catapulta superava quella degli archi. Un impiego, perciò, pienamente congruo per la «mitragliera» di Dionisio. Tale conclusione ha guidato la rico-
Tiri a ripetizione In basso: vista frontale e laterale di un modello ricostruttivo di una catapulta a ripetizione semplificata.
In basso: rilievo di epoca romana che mostra una nave da guerra con artiglierie montate in batteria sul ponte. Magonza, Museo della Navigazione antica.
struzione a grandezza naturale del battello romano elaborata dagli esperti del Museo di Magonza e, soprattutto, la scelta di collocare sulla sua prora un modello semplificato della catapulta a ripetizione di Dionisio, che faceva dell’unità un antesignano pattugliatore fluviale. (3 – continua) 72 a r c h e o
MAGIE TOSCANE CON QUESTO SPECIALE VI PORTIAMO ALLA SCOPERTA DELLA STORIA E DEL PATRIMONIO MONUMENTALE DELLA VALDELSA E DELLA VAL DI CECINA, TEATRO DI VICENDE DI PRIMISSIMO PIANO FIN DALL’ANTICHITÀ. UN PAESAGGIO INCONTAMINATO E UNICO AL MONDO RACCOGLIE LA MEMORIA SECOLARE CHE DAI FASTI DELL’ARISTOCRAZIA ETRUSCA GIUNGE ALLA FIORITURA ECONOMICA E CULTURALE DEL MEDIOEVO E DEL RINASCIMENTO testi di Giacomo Baldini, Lorenzo Benini, Fabrizio Burchianti, Anna Maria Esposito, Pierluigi Giroldini ed Elena Sorge 74 a r c h e o
Sillano, Pomarance (Pisa). I resti della pieve di S. Giovanni Battista. X sec. a r c h e o 75
SPECIALE • TOSCANA
L
a Toscana è ormai universalmente conosciuta come un luogo che, piú di altri, sa dare bellezza ed emozioni. Le sensazioni che questa terra riserva al visitatore in cerca di paesaggi immensi e silenziosi sono indescrivibili quanto il suo territorio: essa sa alternare colori e sapori degni di un’immensa tavola rinascimentale. Ma forse il percorso che qui propone «Archeo», non eccessivamente frequentato dal grande turismo, è il piú ricco di piccoli tesori di arte e storia; molti monumenti di cui proponiamo la visita sono sconosciuti e sono circondati da un paesaggio pressoché incontaminato. Partendo da Colle di Val d’Elsa, troverete ad accogliervi la terra degli Etruschi; il percorso che vi porterà in luoghi lontani e, forse a torto, considerati di minore importanza, vi regalerà un’alternanza di magnifici paesaggi e di monumenti pieni di storia. Lasciate il navigatore a casa e riscoprite il gusto della carta geografica, della ricerca delle indicazioni e, perché no, delle informazioni chieste ai passanti. Dimenticate il tempo e lasciatevi trasportare dal gusto dell’avventura, dalle deviazioni su strade secondarie dove raramente incontrerete altre automobili; è un percorso da affrontare senza fretta, in due o tre giorni, con soste frequenti e non disattente, per ammirare quanto l’uomo ha lasciato in millenni di storia. Le valli del Merse e del Cecina saranno la vostra guida e la maestosa Volterra vi si offrirà con i suoi mille volti storici. Niente è fuori posto in questo paesaggio, a cominciare dai folti boschi, dalle rupi, dalle profonde vallate, per finire con i piccoli paesi arroccati sulle alture, vestigia di antichi insediamenti etruschi e poi romani. Troverete trattorie dove vi saranno offerte pietanze gustose, condite dai sorrisi di gente aperta e gioviale, sempre pronta alla battuta, alla conversazione e al consiglio di un buon vino. Vi piacerà perdervi in questo mare di panorami e perfino i fumi dei soffioni di Larderello non vi sembreranno fuori posto e, anzi, vi inviteranno a fermarvi per un bagno caldo a Sasso Pisano. Quando nell’aria frizzante dell’alta collina potrete sentire la contaminazione dell’aria salmastra, riceverete l’ultimo regalo: dal crinale di una qualche altura scorgerete il Mar Tirreno, l’Elba e, se siete fortunati, molte delle isole dell’Arcipelago Toscano. Al termine del vostro percorso vi dispiacerà constatare che il tempo è passato e non vedrete l’ora di tornare in questa terra benedetta. Lorenzo Benini Gracciano (Colle di Val d’Elsa, Siena). Un suggestivo scorcio del corso del fiume Elsa ripreso dal ponte di San Marziale.
76 a r c h e o
La Sterza
Santa Luce
Nibbiaia
Castelnuovo di Misericordia Rosignano Marittimo
Chianni
Castellina Marittima
Mazzolla
La California
Collalto
Forte di Bibbona
Bolgheri San Guido
Lanciaia
Libbiano
o
l
l i n
Serrazzano
San Vincenzo
Montingegnoli
Suvereto
Riva degli Etruschi
Solaio
Baratti N
Pievescola
La Selva
Siena
Taverne d’Arbia
Molli Malignano Rosia
Isola d’Arbia
Grotti
Frosini
Gerfalco
Carrara Massa
Pistoia Lucca
Monteroni d’Arbia
Niccioleta
Bibbiano
Prato
Firenze
Livorno
Valdelsa Val di Cecina
Arezzo
Siena
Massa Marittima Casalappi Ruschi Montioni
Pianella
Vescovado
Campiglia Marittima Cafaggio Caldana Venturina
Resta
Grosseto
Camigliano Poggio alle Mura
E
SO
SE
S
Piombino
Prato Ranieri
Rondelli
Scarlino Scalo
Follonica
Gavorrano
DALLA VALDELSA A VOLTERRA di Giacomo Baldini
In alto: carta della Toscana centrale con, in evidenza, i luoghi descritti nell’articolo.
I
Castiglione del Bosco
Tavernelle Perolla
Valpiana
Riotorto
Populonia
Monti
Quercegrossa
San Dalmazio
Scorgiano
Pisa
Montebamboli
Vagliagli
r e l i f e
Frassine
San Carlo
Strove Monteriggioni
Belforte
Larderello
Castelnuovo di Val di Cecina
e
Monteguidi
Radicondoli Montecastelli
Montecerboli
C
Meleto
Fonterutoli
Montecagnano Mensano
Pomarance
Micciano Querceto
Monteverdi Lustignano M e t a l Marittimo Lagoni Donoratico Lagoni di Sasso Rossi Castagneto Carducci Monterotondo Sassetta Marittimo
Marina di CastagnetoDonoratico
NE
Casole d’Elsa
Bibbona
Marina di Bibbona
Mensanello
Montegemoli
a
Cecin
Montescudaio
Lilliano
Quartaia Ponsano
Ponteginori
Casale Marittimo
O
Saline di Volterra
Riparbella
Castellina in Chianti
Poggibonsi
Staggia Campiglia dei Foci Colle Castellina Scalo di Val d’Elsa
Volterra
Montecatini Val di Cecina Casaglia
Cecina
NO
Ulignano
Orciatico Miemo
Vada
San Gimignano San Donato
Pomaia
Terriccio
Il Castagno
Villamagna
Lajatico
El sa
Orciano Pisano
ncastonate tra le dolci colline del Chianti, il massiccio marmifero della Montagnola Senese e l’aspro paesaggio delle Colline Metallifere, la Valdelsa e la Val di Cecina rappresentano, fin dall’antichità, un ponte straordinario tra la costa tirrenica della Toscana centrale e la Valle dell’Arno, ma, soprattutto, un bacino culturale dai caratteri peculiari. Un bacino governato, da una parte, dalla presenza vigile e austera di Volterra, dall’altra dalla spinta al particolarismo locale, che, soprattutto in età medievale, si è manifestata nella nascita e nello sviluppo di comunità indipendenti, spesso in lotta tra loro, con il vescovo di Volterra o in contrapposizione all’ingerenza del-
le nascenti potenze di Siena, Firenze e Pisa: liberi Comuni, capaci di portare guerra a Volterra o di acquisire tanta importanza da essere elevati a rango di città, come nel caso di Colle di Val d’Elsa.
IL SENTIMENTO DELLO STILE «Uno o due cipressi, alti quanto i comignoli, scortano questi fabbricati, provvisti di una loggia, d’una torre tronca, d’un portico (…). Delle reminiscenze indefinibili nobilitano questi aspetti che avete fantasticati: senz’averli veduti, v’immaginate di riconoscerli: essi infatti corrispondono a un’impressione preesistente in noi, il sentimento dello stile». Con a r c h e o 77
SPECIALE • TOSCANA
queste parole Francesco Wey (1877) presentava la campagna intorno a San Gimignano, perla della Valdelsa ed esempio mirabile della simbiosi tra storia e ambiente, lavoro dell’uomo ed elementi naturali.
COME AL TEMPO DI SIGERICO Il paesaggio non è mutato molto dal 990 d.C., quando Sigerico, arcivescovo di Canterbury, attraversò la Valdelsa di ritorno da Roma sulla Strata Francigena e, forse, non è cambiato troppo da quello che avrebbe potuto percorrere un etrusco che, da queste terre si fosse diretto verso il mare, passando per Volterra fino a Populonia. Percorrere le valli dell’Elsa e del Cecina significa incontrare resti di questo passato, dei principes etruschi, degli aristocratici e dei popolani romani o, piú semplicemente, dei fedeli e dei pellegrini che hanno battuto questi tracciati. Ma anche le impronte degli scontri e delle guerre che interessarono il territorio, nella dialettica tra poteri centrali e periferie, piccoli potentati e classi rurali. 78 a r c h e o
Posta al centro della Valdelsa, accarezzata dal fiume che le dà il nome, la Terra di Colle di Val d’Elsa sorse nel Medioevo in un territorio al confine tra Siena e Firenze, al centro delle contese tra guelfi e ghibellini. Luogo di scontri e di guerre, ma anche di incontri e di scambi commerciali, sede delle piú importanti attività produttive della regione e sorgente di spiritualità, Colle nel 1592 divenne città a seguito dell’elezione a sede episcopale. Le prime forme di occupazione del territorio risalgono all’età del Rame e sono testimoniate dalle due tombe a grotticella ritrovate in località Le Lellere riferibili alla facies del Rinaldone, ricostruite nel Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli» (vedi box alle pp. 82-83). Tuttavia, la posizione lungo importanti vie di transito e la feracità del luogo hanno promosso lo sviluppo dell’area: già con la seconda età del Ferro – quando anche questa zona è tra quelle che fanno registrare lo stanziamento degli Etruschi – forse per impulso del ceto emergente sull’acrocoro volterrano, il
Sulle due pagine: Conèo (Colle di Val d’Elsa, Siena), abbazia di S. Maria Assunta. XI sec. In alto, uno scorcio della facciata della chiesa abbaziale; nella pagina accanto, in alto, particolare di uno dei capitelli istoriati che fiancheggiano il portale d’ingresso; nella pagina accanto, in basso, uno scorcio esterno del versante absidale.
che, per l’alto numero di tombe di rango elevato e la posizione lungo importanti direttrici viarie, sono da interpretare come aree sepolcrali comuni, riferibili a fattorie sparse: ne sono esempi le necropoli di Dometaia e de Le Ville.
UNA NUOVA ÉLITE DOMINANTE Il IV secolo a.C. segna l’affermazione territoriale della città di Volterra: le strutture tombali si semplificano e conservano corredi tipici delle manifatture urbane (urne litiche, ceramica a vernice nera e dipinta, oreficerie). Le aristocrazie etrusche dell’età arcaica, pur non scomparendo del tutto, perdono progressivamente importanza a favore dei nuovi gruppi, che evidenziano stretti legami con le élite cittadine: cosí, accanto a tombe a pianta complessa – utilizzate ininterrottamente tra la fine del VI e il II secolo a.C., spesso in posizione eminente rispetto a un sistema di tombe piú modeste (vedi box a p. 85) –, sono attestate tombe a pianta circolare o rettangolare con pilastro centrale e banchina di deposizione. Tra queste ultime, spicca l’ipogeo della gens Calisna Sepu, trovato intatto nella necropoli del Casone nel 1893. All’indomani della romanizzazione, che culmina con la concessione della cittadinanza a territorio venne progressivamente occupato da piccoli gruppi che abitavano in capanne ed erano seppelliti in tombe «a pozzetto» o «a fossa», come nel piccolo villaggio di Campassini, sulle pendici del Monte Maggio (Monteriggioni).
EMERGONO I GRUPPI GENTILIZI La capacità di ricezione ed elaborazione fece dell’Alta Valdelsa un centro culturalmente e socialmente vivace: nel corso dell’età orientalizzante, al notevole incremento demografico, corrispose la nascita di gruppi gentilizi che segnarono il territorio con importanti ipogei di famiglia, dalla caratteristica pianta «a tramezzo», e, sovente, sottolinearono il loro potere con l’uso della scrittura. Proprio il ricorso alla scrittura sembra uno dei tratti salienti di questa società tra la prima metà del VI e l’inizio del V secolo a.C., al punto da ipotizzare la presenza di una scuola scrittoria locale, forse collegata a un santuario. Tra la metà del VI e il V secolo a.C., nella regione furono attivate nuove necropoli a r c h e o 79
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«IO SONO DI ARANTH...»: LA STELE ETRUSCA DI ULIGNANO Rinvenuta fortuitamente alcuni anni fa, la stele di travertino iscritta proveniente da Ulignano (presso San Gimignano) è di forma quadrangolare, risulta danneggiata nella parte inferiore e si presenta spezzata in due frammenti. Il testo, collocato sulla faccia anteriore, va da destra a sinistra e corre lungo i bordi destro, superiore e sinistro. È possibile leggervi: [---]nthial churchus m[---]ni sauchuli×[–––], che è stato integrato come: [mi ara]nthial churchus m[a? mi]ni sauchuli×[–––] = «Io (sono) di Aranth Churchu il monumento; mi (eresse) Sauchulie?». Pur con indubbie difficoltà di lettura, l’iscrizione rientra nell’amplissimo numero dei testi funerari etruschi, con il tipico schema in cui l’oggetto «parla» al lettore, indicando la proprietà (io sono di…) e, in questo caso, l’edificatore del monumento (mini = me…). Ci troviamo dunque di fronte a una stele funeraria, che dobbiamo immaginare pertinente ad Aranth Churchu ed eretta da un Sauchulie, probabilmente un parente del morto. Il manufatto non è stato rinvenuto in situ e non è stato perciò possibile individuare la tomba da cui proveniva. La lastra racconta di una storia dell’oggetto travagliata già in età antica: l’iscrizione,
80 a r c h e o
infatti, appare «tagliata» nella parte superiore. Circostanza che indica la rilavorazione del pezzo, forse legata a un suo riuso come lastra di chiusura del sepolcro. In base allo studio dell’iscrizione, la stele è stata datata al 500 a.C. circa. Oggetti simili sono stati rinvenuti in varie località della Valdelsa nel corso dell’età arcaica (VI secolo a.C.), accomunati dalle dimensioni piuttosto ridotte e dal costante uso di travertino proveniente da cave locali. Essi riprendono, in modo semplificato e «povero», alcuni caratteri delle stele che nello stesso periodo si producevano a Volterra, centro di riferimento di tutta la zona. L’area di provenienza della classe è compresa tra gli attuali comuni di Sovicille, Casole d’Elsa, Monteriggioni, Colle di Val d’Elsa. Pierluigi Giroldini In alto: restituzione grafica della stele di Ulignano, in cui è leggibile l’iscrizione in lingua etrusca corrente sul bordo.
tutte le popolazioni italiche (89 a.C.), i secoli della piena romanità sono a oggi testimoniati solo da sporadici ritrovamenti: tra questi, merita tuttavia d’essere ricordata la villa romana di Torraccia di Chiusi, nel territorio comunale di San Gimignano. Edificata alla fine del III secolo d.C. e in uso per tutta la tarda antichità, questa struttura ha restituito importanti tracce di lavorazione e recupero di età altomedievale. Soprattutto, è testimone della continuità di utilizzo dei percorsi tra l’antichità e il Medioevo, essendo posta lungo la direttrice che diverrà la Francigena tra San Gimignano e Siena, passando per il territorio colligiano. In età medievale, questo tratto, oggi attrezzato per fini turistici e di fede, era costellato di pievi e chiese, come la Badia a Conèo, mirabile esempio di architettura romanica, la cui prima edificazione è dei primi decenni dell’XI secolo, o la pieve dei Ss. Ippolito e Cassiano, caratterizzata da una singolare facciata policroma (in pietre e mattoni) e da una lunga vicenda costruttiva: recenti scavi in una navata crollata, infatti, hanno permesso di stabilire che l’edificio di culto fu fondato su una preesistente fattoria romana.
IL CULTO DELLE ACQUE Il percorso francigeno proseguiva attraverso l’attuale centro di Quartaia (dove già dal 1153 si trovava una chiesa dedicata ai santi Filippo e Jacopo e, in età etrusca, era attivo un atelier ceramico), per giungere al piccolo nucleo di Onci. Questa parte del territorio è particolarmente amena, contraddistinta da un lirismo che proietta in una visione d’antan: polle di acqua sorgiva alimentano il fiume Elsa, che proprio in quest’area aumenta la sua portata. Se la frequentazione etrusca è testimoniata dal ritrovamento di un bronzetto votivo, evidentemente collegato al culto delle acque, l’area de Le Caldane era occupata da una villa romana. Lungo uno dei tracciati per Volterra si trovava la necropoli etrusca di Dometaia, dalla quale si poteva raggiungere anche l’attuale centro di Casole d’Elsa, attraverso un territorio disseminato di testimonianze antiche, come la cisterna romana di Lucciana. Tutta questa porzione di territorio, soprattutto salendo sulle propaggini della Montagnola Senese, fu intensamente popolata in virtú della funzione di collegamento con l’area senese, come con-
Conèo (Colle di Val d’Elsa, Siena). Uno scorcio panoramico della pieve dei Ss. Ippolito e Cassiano, inserita nella splendida cornice naturalistica della campagna toscana.
fermano la piccola necropoli di tombe a pozzetto tardo-villanoviane de Le Gabbra o le tombe gentilizie de Le Poggiola, di Cerrecchia e di Mucellena: la faticosa salita sulla sommità della Montagnola è ripagata dall’incredibile panorama che si disvela sulle guglie del Duomo di Siena e sulla Torre del Mangia.
UN’AREA DI CERNIERA Il territorio di Casole d’Elsa rappresenta la cerniera tra i due distretti, essendo attraversato sia dall’Elsa che dal Cecina. Sede di frequentazione fin dall’età orientalizzante, il colle su cui sorse l’abitato è ben difeso naturalmente e permette un’ampia visuale sulle dolci colline che lo circondano. Documentato almeno dalla prima metà dell’XI secolo come dominio del presule volterrano, il castello di Casole acquisí indipendenza nel corso del XIII secolo, nonostante la progressiva ingerenza senese, che diventò dominio dopo la battaglia di Montaperti (1260). Oggi è un borgo accogliente, con importanti edifici pubblici, come la Rocca o il Palazzo Pretorio, e una suntuosa Collegiata, che ospi-
ta all’interno la Cappella funebre del Porrina e del vescovo Ranieri (intitolata a san Niccolò e impreziosita da affreschi di scuola senese dei primi anni del XIV secolo), il monumento sepolcrale del vescovo Tommaso d’Andrea, di Gano di Fazio (1303-1305) e il cenotafio del Porrina, realizzato da Marco Romano in un periodo compreso tra il 1309 e il 1313. La vicenda storica di Casole e del suo territorio è raccontata nel Museo Civico Archeologico e della Collegiata, che accoglie vere e proprie opere d’arte come la Testa in marmo Bargagli (ultimo quarto del VI secolo a.C.) o la testa di profeta di Marco Romano (vedi box a p. 86). I castelli di Mensano e di Monteguidi, arroccati su impervi speroni rocciosi, in un paesaggio che ricorda i sublimi sfondi della pittura rinascimentale, come silenti sentinelle accompagnano il visitatore in Val di Cecina. Chiusi tra le mura medievali, a Mensano si respira ancora l’aria dell’antico centro medievale, in continua lotta per la propria indipendenza da Casole, Siena e Volterra. La pieve di S. Salvatore si erge austera all’inizio del cen(segue a p. 84) a r c h e o 81
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STORIA DI UNA CITTÀ La complessa vicenda storica di Colle di Val d’Elsa dall’antichità ai nostri giorni è ora agevolmente illustrata da Colle Alta Musei, un percorso integrato che prevede la visita alle strutture museali e accompagna l’ospite attraverso le vie e i vicoli del Borgo di Santa Caterina e del Castello. È cosí possibile leggere lo sviluppo della città e della diocesi di Colle in rapporto alle opere d’arte e alle modifiche del tessuto urbano, in un dialogo continuo tra musei e centro storico, tra storia e tradizione. I due poli di attrazione sono posti agli estremi della città, rispettivamente nel Terzo di Santa Caterina e nel Terzo del Castello: il Museo San Pietro, ospitato nell’affascinante complesso del In alto: Colle di Val d’Elsa (Siena). Uno scorcio del Palazzo del Podestà (o Pretorio), divenuto sede del Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli».
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Qui sotto: corredo di ceramica a vernice nera, dalla tomba dei Calisna Sepu. Fine del IV sec. a.C. Colle di Val d’Elsa, Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli».
seicentesco monastero di S. Pietro, racconta la storia della città e della diocesi attraverso le opere d’arte, per terminare con le collezioni donate da due suoi illustri figli, il pittore Walter Fusi e lo scrittore Romano Bilenchi, mentre il Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli» (intitolato al famoso archeologo senese), illustra le dinamiche del popolamento in Valdelsa dalla preistoria all’età romana, con particolare attenzione al periodo etrusco. La collocazione del museo archeologico all’interno del Palazzo del Podestà (o Pretorio) permette, inoltre, di aprire uno squarcio sulla tematica della detenzione dal Medioevo fino all’età
In alto: cranio di donna con orecchini d’oro a bauletto dalla tomba de Le Porciglia. Fine del VI sec. a.C. Colle di Val d’Elsa, Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli».
contemporanea: già sede carceraria in età comunale, il piano terra del palazzo fu utilizzato ininterrottamente fino alle repressioni fasciste dei primi anni Venti, come attestano le poesie di lotta in ottava rima e gli affascinanti graffiti lasciati dai detenuti politici sui muri delle celle e sui tavolacci di legno che vennero usati come letti tra il 1919 e il 1924. Giacomo Baldini
Qui sopra: Colle di Val d’Elsa. Una delle sale del Palazzo del Podestà (o Pretorio), sede del Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli».
A destra: skyphos etrusco a figure rosse, dalla tomba XVII di Dometaia. Ultimi decenni del IV sec. a.C. Colle di Val d’Elsa, Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli».
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tro: qui, tra foglie di acanto e sinuose figure dei capitelli, risuona ancora il nome del Maestro Buonamico, che realizzò le decorazioni scultoree nella seconda metà del XII secolo.
L’INCASTELLAMENTO Per chi provenga dalla Valdelsa, Montecastelli, un caratteristico borgo medievale posto su un alto colle, spartiacque tra il fiume Cecina e il torrente Pavone, rappresenta la porta della Val di Cecina. L’area era già abitata in età etrusca, come dimostra la tomba gentilizia nota come Buca delle Fate, un ipogeo a pianta complessa che trova precisi riscontri nella tomba di Mucellena. Nato come castello tra il 1185 e il 1211, Montecastelli rappresenta un significativo episodio della ristrutturazione della diocesi volterrana sul finire del XIII secolo, che decretò l’abbandono di alcuni vecchi castelli e la costruzione di nuovi.Venne fondato di comune accordo dal vescovo 84 a r c h e o
In alto, a sinistra e sulle due pagine: Dometaia, Colle di Val d’Elsa. Due scorci interni di ipogei etruschi. Fine del VI-III sec. a.C. Qui sopra: Mucellena, Casole d’Elsa. Veduta esterna della tomba gentilizia etrusca, immersa nella vegetazione. VI sec. a.C.
SEPOLCRI ESCLUSIVI «Nelle tombe di Volterra invece dei sei, otto sarcofagi, furono riunite in una sola camera dalle quaranta alle cinquanta urne che hanno conservato le ceneri della famiglia per generazioni e generazioni. Secondo i fortunati che ebbero la possibilità di assistere agli scavi, queste sarebbero quadrate, qualche volta circolari, raramente triangolari. Sono tutte sottoterra, spesso chiuse in alto da una grande pietra tombale e sostenute da un pilastro posto al centro della camera funeraria». Il quadro tratteggiato da George Dennis nel suo viaggio in Etruria, edito in Inghilterra con il titolo The Cities and Cemeteries of Etruria (1848), è frutto della ricerca che ha interessato le necropoli ellenistiche volterrane tra il XVIII e la prima metà del XIX secolo. In verità, gli scavi di Gherardo Ghirardini alla Guerruccia (1898-1899) o i ritrovamenti nel territorio (Valdelsa e Val di Cecina) hanno mostrato una realtà piú articolata. Già dalla seconda metà del VI secolo a.C. e per tutta l’età classica, infatti, accanto alle tombe a camera semplice, sono diffusi sepolcri a pianta complessa, caratterizzati da un vestibolo rettangolare, sul quale si aprono dalle tre alle sei celle. Tali strutture, appannaggio delle famiglie aristocratiche, riproducono in modo fedele l’interno delle abitazioni reali: quando conservato, presentano il tetto a doppio spiovente, spesso con columen a rilievo, e cornicione a forte aggetto lungo il vestibolo. Le camere sepolcrali (cubicula) erano munite di letti di deposizione con cuscino rilevato, segno dell’utilizzo della pratica inumatoria. Con l’età ellenistica questi complessi non vengono piú realizzati e la camera ipogea semplice munita di banchina diventa quasi esclusiva in città e nel territorio, cosí come il rito incineratorio, come attestano le urne in pietra e i cinerari fittili caratteristici di Volterra. Giacomo Baldini
Ildebrando e da Guasco di Rocca Tederighi, popolandolo con gli abitanti di altri manieri di loro proprietà, forse con la volontà di razionalizzare lo sfruttamento delle risorse minerarie. L’abitato, a struttura circolare, è organizzato per strade concentriche rispetto alla torre che svetta alta sulle cima del colle; davanti si staglia la chiesa dei Ss. Filippo e Giacomo, dai caratteristici elementi romanici volterrani: sul fianco destro si trova un portale tamponato che presenta un architrave decorato con una singolare scena di caccia. Già nel XII secolo, la chiesa era la piú importante suffraganea della pieve di S. Giovanni Battista a Sillano. Questo edificio, noto dal 954 e oggi ridotto a rudere, è articolato in tre navate, con la facciata scandita da archi ciechi intrecciati, motivo piuttosto insolito nel romanico volterrano, mentre tipica è la soluzione delle absidi laterali incassate nella muratura, comune alla pieve di Mensano e alla Badia
Tavola sinottica delle tombe etrusche a pianta complessa osservate nel territorio volterrano.
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UN MUSEO PER IL TERRITORIO Nel 1968, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica della Toscana e con la neonata (ai tempi) Società Archeologica della Valdelsa, l’amministrazione comunale di Casole d’Elsa inaugurò un piccolo Antiquarium, allo scopo di ospitare principalmente i reperti provenienti da alcuni scavi svolti sul territorio. A partire dal 1996 il museo è stato trasferito nella sede attuale (affiancato da una sezione di arte medievale e moderna). La collezione esposta si è progressivamente ampliata, non solo grazie ai nuovi scavi, ma anche per l’inserimento nel percorso museale della cospicua collezione raccolta tra il XIX e il XX secolo dai marchesi Bargagli, proprietari della tenuta di Querceto, non lontana dal capoluogo. Tra i reperti piú antichi vi sono prevalentemente bronzi: fibule e oggetti di ornamento rinvenuti in località Le Gabbra nel corso dell’Ottocento e confluiti nella collezione Chigi, oltre che una serie di oggetti (morsi di cavallo, un fuso di bronzo, fibule, lance di ferro), rinvenuti tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, ma privi di notizie sulla provenienza. Il percorso museale illustra l’evoluzione del territorio. La presenza di numerosi oggetti di grande pregio mostra che l’area era popolata, a partire dall’età arcaica, da piccoli gruppi controllati da élite aristocratiche. La stele arcaica con iscrizione proveniente dalla tomba di Le Poggiola e collocata nel vestibolo della sezione archeologica, indica la presenza sul territorio di famiglie di alto rango partecipi del fenomeno di diffusione della scrittura entro il territorio dell’alta Valdelsa, legato alla città di Volterra (vedi il box sulla stele di Ulignano a p. 80).
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Anche le oreficerie, rinvenute in varie tombe e raggruppate in una vetrina della sala 2, indicano la grande ricchezza delle famiglie che controllavano il territorio tra il VI e il V secolo a.C., cosí come la presenza di vasi greci importati dall’Attica, primo fra tutti il grande cratere a figure nere con corpo decorato a scacchiera, facente parte della collezione Bargagli e proveniente dalla necropoli delle Ville (Comune di Colle di Val d’Elsa). L’opera piú importante dell’intera collezione è una testa femminile, anch’essa proveniente dalla collezione Bargagli, scolpita in marmo apuano, e dunque prodotta in Etruria. Il manufatto presenta caratteri che consentono di collocarlo entro la corrente detta «ionica», perché legata alle produzioni artistiche diffuse nel corso del VI secolo a.C. nelle città greche sorte sulle coste orientali del Mar Egeo. La scultura, di altissima qualità tecnica, doveva forse appartenere a una statua (o a un gruppo di statue) proveniente da un edificio di culto. Purtroppo non abbiamo dati sul luogo esatto di ritrovamento dell’oggetto. Numerose, infine, sono le testimonianze della fase piú recente di occupazione del territorio, che va dal IV secolo a.C. alla fine della civiltà etrusca: un’intera sala è dedicata alla necropoli di Orli, collocata nella periferia della moderna Casole e attestante la presenza nell’area di un insediamento attivo già a partire dal IV secolo a.C.; la testimonianza piú recente, infine (fine del I secolo a.C.), è costituita dal ricco corredo di una tomba a camera rinvenuta in località Escaiole, dove un individuo facente parte dell’aristocrazia terriera locale si fa seppellire in modo tradizionale, ma con un corredo ricco di oggetti già di produzione compiutamente romana. Pierluigi Giroldini
Nella pagina accanto: la Testa Bargagli. Ultimo trentennio del VI sec. a.C. Casole d’Elsa, Museo Civico Archeologico e della Collegiata. In alto: Montecastelli Pisano (Pisa). La chiesa dei Ss. Filippo e Giacomo. 1186.
di Conèo. La chiesa si trova nel Comune di Pomarance, proprio di fronte a Rocca Sillana. Il castello, che le fonti fanno risalire almeno alla fine dell’XI secolo, era composto in origine da una torre (il Guardingo) e da una prima cerchia di mura, successivamente inglobata nella possente cortina eretta da Giuliano da Sangallo in età rinascimentale, che ancora la cinge, quasi a volerne celare la parte piú intima; attorno alla rocca si sviluppava il borgo, anch’esso racchiuso da mura. Passato il centro di San Dalmazio, si arriva a Pomarance, cuore dell’Alta Val di Cecina, castello a lungo conteso tra
il vescovo e il Comune di Volterra. Rilevante è la pieve di S. Giovanni Battista, posta al centro del borgo: costruita nel XII secolo a tre navate, presenta numerosi restauri e ristrutturazioni. Significativa è la presenza, sotto la sagrestia, di una tomba ipogea etrusca a pianta complessa, tipica del territorio, a dimostrazione della continuità insediativa dell’area. Da lontano domina la vallata la figura altera di Volterra, città, per dirla con D’Annunzio, «di vento e di macigno», che ci ha accompagnato per tutto il tragitto e che attrae come il canto melodioso di un’antica sirena. a r c h e o 87
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MUSICA E SCIENZA NELL’ANTICO BORGO Nei pressi dell’abitato di Montecastelli, in un’area delineata da un piccolo corso d’acqua, alle spalle della tomba nota come «Buca delle Fate», in località Fonte Ducci, è stata individuata dall’associazione Il Botteghino, una importante cava di pietra. La pezzatura dei blocchi estratti farebbe pensare a un utilizzo della cava in epoca medievale. Nella stessa Montecastelli, grazie alla ristrutturazione della chiesa sconsacrata della Compagnia della Misericordia, il chirurgo e liutaio tedesco Philipp Bonhoeffer ha creato una liuteria sperimentale, una sala da concerti e l’associazione culturale internazionale «Il Poggio». Il principio guida è quello di riunire persone di talento provenienti da ambiti molto diversi, dal mondo della scienza e da quello della musica, passando attraverso la raffinatissima arte della liuteria. La sala da concerti viene utilizzata anche per convegni scientifici e, cosí, per esempio, neuroscienziati si sono confrontati con la musica e musicisti con la neuroscienza. Come si legge nel sito dell’Associazione: «Musica, scienza, originalità ed eccellenza ci guidano. Vogliamo mescolare talenti di discipline diverse, sperando che gli uni possano fruire degli altri e che questo possa portare a idee nuove e aperture mentali diverse». Elena Sorge Montecastelli Pisano, Castelnuovo Val di Cecina (Pisa). Uno scorcio della cava di pietra, che presenta un aspetto squadrato a causa dell’attività estrattiva, forse già in corso in epoca medievale.
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VOLTERRA di Fabrizio Burchianti
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l viaggiatore che, venendo dalla Valdera, si appresta a salire verso il Colle, «scorge all’improvviso su la sommità del monte come sull’orlo d’un girone dantesco il lungo lineamento murato e turrito, la città di vento e macigno». Questa è Volterra. La Volterra immortalata da Gabriele D’Annunzio in Forse che sí, Forse che no. Il Colle, come ancora oggi lo chiamano gli abitanti, si staglia, in uno splendido isolamento, alla confluenza di tre valli da cui partire per ogni direzione; da cui tornare ovunque si sia andati.Volterra, la città impossibile da conquistare, dove è impossibile non tornare, luogo dello spirito, in cui convivono anime diverse, in un continuo perpetrarsi di ombre e luci che tanto ha affascinato artisti, poeti, scrittori e registi come Luchino Visconti, che vi ambientò il suo capolavoro Vaghe stelle dell’Orsa. Difesa dalla pietra e scolpita nell’alabastro, plasmata dai venti, erosa dalle balze e benedetta dalle sorgenti d’acqua, Volterra sembra avere una storia lunga come quella dell’uomo. 90 a r c h e o
Il colle sul quale sorse l’etrusca Velathri mostra tracce di occupazione sin dall’Eneolitico, periodo a cui risale la tomba di Montebradoni; tuttavia è a partire dall’età del Bronzo Medio che l’insediamento umano appare piú articolato, con l’occupazione dell’acropoli e poi – durante il Bronzo Recente e Finale –, con In alto: Volterra. una diffusione degli abitati che interessa il Un’ampia veduta piano dell’attuale città e la zona delle Ripaie. del paesaggio
UNA FREQUENTAZIONE ININTERROTTA Il passaggio all’età villanoviana sembra avvenire senza apparente soluzione di continuità, come dimostrano le decorazioni di alcuni cinerari; il modello insediativo di quest’epoca rimanda a quello che è possibile scorgere nei piú importanti agglomerati protourbani dell’Etruria meridionale, con diversi nuclei insediativi sparsi in una vasta porzione della sommità della collina. In una fase avanzata del Villanoviano iniziano a emergere i segnali di una netta differenzia-
che si apre verso ovest. Sulla destra, la cattedrale di S. Maria Assunta, riconoscibile dalla cupola e dal campanile. XII sec. Nella pagina accanto: Volterra. Una veduta della Porta all’Arco. IV-III sec. a.C.
zione sociale, che si palesa in alcuni corredi tombali come quello del Guerriero di Poggio alle Croci: un fenomeno caratteristico di tutto il successivo periodo orientalizzante che scaturirà in una dialettica tra Volterra e il suo territorio, occupato da gruppi aristocratici emanati dal centro, la cui presenza porterà alla diffusione di importanti necropoli e delle tombe a tumulo della Val di Cecina.
LO SFRUTTAMENTO DELLE MINIERE In effetti, il controllo di un vasto territorio intorno a Volterra è funzionale allo sfruttamento di un ricco distretto minerario in cui, oltre al salgemma, ricoprono un ruolo di primo piano i giacimenti di rame. La quantità e qualità dei bronzetti votivi scoperti a Volterra, databili tra il VII e il II secolo a.C., e la copiosa produzione di vasellame in bronzo sono la testimonianza piú evidente di una radicata attività metallurgica, avviata forse proprio dai gruppi gentilizi che controllavano direttamente le aree minerarie, come suggeriscono le scoperte della regia orientalizzante di Casale Marittimo. In età arcaica avviene il processo di trasformazione urbana: la costruzione di una prima cinta muraria – i cui resti sono visibili, tra l’altro, nel Centro Studi della Fondazione a r c h e o 91
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Cassa di Risparmio, nell’ex Ospedale di Santa Maria Maddalena – e la prima monumentalizzazione del santuario dell’Acropoli ne sono i segni piú evidenti. È questo un momento fondamentale per la formazione di Velathri: la magnifica testa Lorenzini in marmo è forse il monumento che piú di ogni altro suggerisce l’idea della straordinaria ricettività culturale della nascente metropoli etrusca, in cui l’assimilazione di tecniche e stili nuovi, l’acquisizione di modelli greci e l’importazione di materiali di pregio si intrecciano a complesse quanto sfuggenti dinamiche sociali, appena suggerite dalla monumentale stele di Avile Tite.
LA FIORITURA Da questo periodo di formazione nacque la grande Volterra ellenistica, in un momento di fervente rigoglio economico, testimoniato dai copiosi prodotti dell’artigianato artistico, dalle ceramiche a figure rosse e a vernice nera e, soprattutto, dalla creazione di una zecca monetale autonoma agli inizi del III secolo a.C. In basso: una delle tombe comprese nella necropoli volterrana del Portone.
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ALLE ORIGINI DELLA CITTÀ Tra il 2007 e il 2010, l’ampliamento della sede della Cassa di Risparmio di Volterra ha offerto alla Soprintendenza Archeologica per la Toscana l’occasione di effettuare uno scavo in estensione in un’area interessata, intorno alla metà del secolo scorso, dalla costruzione di una nuova ala dell’antico Ospedale di Santa Maria Maddalena. La zona indagata è situata su un pianoro alle estreme propaggini occidentali del colle volterrano, in posizione dominante sulla Val di Cecina. Singolare è l’orografia del sito, caratterizzata, a est e a ovest, da due leggeri pendii naturali, che confluiscono in un ampio fossato centrale, destinato a convogliare e smaltire le acque sorgive e meteoriche. Il nucleo insediativo piú antico si sviluppa già nella tarda età del Bronzo, sui due lati del fossato centrale, con capanne e forni per la cottura di manufatti ceramici: è stato possibile individuare le capanne Alfa e Beta, di forma ovale, con pareti in argilla con incannicciato – una delle quali con portichetto d’ingresso rettangolare aperto a est –, e alcuni forni per la cottura della ceramica, come il forno 1, con camera di cottura circolare, esile canale di aerazione e praefurnium sul lato meridionale. Sul limite meridionale del pianoro, in un’area esterna al nucleo insediativo, era invece collocata un’unica sepoltura a inumazione entro fossa terragna con orientamento N-S. Il passaggio dall’età villanoviana all’orientalizzante antico è segnato da sostanziali interventi di livellamento, che comportano l’obliterazione delle capanne e dei forni e la ristrutturazione dell’area, con il progressivo riempimento del fossato centrale. A conferma della vocazione artigianale dell’insediamento, sempre legato ai cicli di produzione della ceramica, sono state scoperte buche per la decantazione dell’argilla disposte su quattro livelli sovrapposti. Sull’argilla che riempie una delle buche restano le impronte di due piedi umani, di un adulto con calzare, molto nitida, e, piú leggera, quella di un bambino. A questa fase appartengono i resti di un edificio a pianta quadrangolare, da datarsi probabilmente all’orientalizzante recente e che segna forse il passaggio da un’occupazione stagionale dell’area, legata ai cicli di produzione della ceramica, a un insediamento stabile con strutture abitative a carattere stanziale. All’epoca dell’edificazione dell’imponente cerchia muraria arcaica, risale la profonda trasformazione dell’intera area, con la
A sinistra: panoramica delle strutture individuate a Volterra, nell’area dell’antico Ospedale di Santa Maria Maddalena, grazie agli scavi condotti tra il 2007 e il 2010.
realizzazione di strutture idriche, come una grande cisterna rettangolare e una canalizzazione sotterranea e la costruzione di grandi edifici, come l’edificio rettangolare B, disposti ai lati di un asse viario che ricalca il corso dell’antico fossato. Durante tutta l’età ellenistica, il sito è oggetto di ripetute ristrutturazioni, a conferma dell’importanza di questo settore urbano a ridosso della «grande cerchia muraria». Nessun dato nuovo è rilevabile fino all’età augustea, quando, al generale riassetto urbanistico della città corrisponde, anche in questo settore, un radicale rinnovamento, di cui resta testimonianza nell’imponente muro di terrazzamento in opus cementicium, largo alla base 2 m circa, realizzato nel punto in cui il terreno iniziava a degradare verso la cinta muraria, per garantire stabilità e tenuta al pianoro. Nessuna traccia rimane, infine, di successive occupazioni dell’area in età medievale o posteriore, fino alla costruzione recente della nuova ala dell’Ospedale di Santa Maria Maddalena. Anna Maria Esposito Nella pagina accanto: ricostruzione grafica della capanna Alfa. A sinistra: una veduta zenitale della camera di cottura circolare del forno 1.
La città si dota in questa fase di una nuova cinta muraria, sorprendentemente grande, estesa per oltre sette chilometri: è una delle piú impressionanti opere di difesa urbana dell’Italia antica, monumento di grande impegno costruttivo e simbolo della forza raggiunta dalla potente classe aristocratica locale.
MAESTRANZE ABILI E FANTASIOSE E proprio da questo stesso desiderio di affermazione dei gruppi gentilizi cittadini nascerà la committenza di quella sterminata produzione di urne cinerarie in tufo, terracotta e soprattutto in alabastro, caratteristiche delle necropoli della città e del suo territorio. L’importanza di questa peculiare produzione è testimoniata dall’abilità e dalla elevata qualità delle maestranze impegnate nella realizzazione dei rilievi e dei coperchi, e da un vastissimo repertorio iconografico, talvolta elaborato, non privo di scelte personali, indicazioni e gusti dei committenti. Da questi eccezionali monumenti funerari è possibile cogliere l’immaginario collettivo, l’idea dell’aldilà, le credenze, ma, soprattutto, il complesso mondo di miti e di immagini che esprime, piú di ogni altro elemento, la ricchezza e la vastità dei riferimenti culturali di una città etrusca, racchiusa, sí, in una grande cerchia muraria, ma anche aperta e ricettiva a quella koinè culturale che dai regni ellenistici della Grecia e dell’Asia Minore si stava propagando nelle élite centro-italiche. Entrata nell’orbita di Roma già dal III secolo a.C., la florida Velathri conobbe una prosperità ininterrotta ancora per tutto il II secolo a r c h e o 93
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IL GRANDE SANTUARIO ETRUSCO L’area archeologica dell’Acropoli, inserita nel Parco Enrico Fiumi, costituisce il nucleo storico dell’antica Volterra. Gli scavi hanno portato alla luce le tracce di un’occupazione del sito sin dall’età del Bronzo Medio, fino al XV secolo d.C. La maggior parte delle strutture archeologiche oggi visibili appartiene al grande santuario etrusco, principale luogo sacro della città e di tutto il territorio. Gli scavi effettuati a piú riprese nel corso del Novecento, e tuttora in corso, hanno portato alla luce i resti di strutture sacre edificate a partire dal VII secolo a.C. Nel corso del VI secolo a.C. e della prima metà del V secolo a.C., l’area riceve la prima monumentalizzazione, con la realizzazione di un piccolo edificio sacro e poi, intorno al 480 a.C., con la costruzione di un grande tempio tuscanico ornato di una ricca decorazione coroplastica. All’età ellenistica risale la fase edilizia piú complessa del santuario. In questo periodo, infatti, vengono eretti due edifici di culto, il tempio B – una grande costruzione di tipo tuscanico databile alla seconda metà del III secolo a.C. –, e il tempio A – una struttura piú piccola affiancata al B, della seconda metà del II secolo a.C. –, oltre a recinti per gli apprestamenti cultuali all’aperto, corredati di cisterne per l’acqua. Presso il margine occidentale dell’area si trova il piú piccolo edificio cultuale, databile intorno alla metà del II secolo a.C., nel quale è stato scoperto un affresco di I Stile, opera di maestranze giunte a Volterra dall’ambiente greco insulare. Recentemente è stata riaperta alle visite e inserita all’interno dell’area del Parco archeologico la cisterna romana del I secolo d.C., una grande struttura in cementizio a pianta trapezoidale, alta 5 m, sorretta da due file di pilastri, nota anche per essere stata scelta da Luchino Visconti per alcune scene del film Vaghe stelle dell’Orsa, con Claudia Cardinale. Fabrizio Burchianti
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In basso, a sinistra: Volterra. Una veduta dell’area archeologica dell’Acropoli. In basso: Volterra. Uno scorcio interno della cisterna romana. I sec. d.C. Nella pagina accanto: Volterra. Una veduta dei resti archeologici nell’area del teatro romano. I sec. a.C-I sec. d.C.
a.C., fino allo scontro tra Mario e Silla, quando la città venne assediata per due anni, dall’82 all’80 a.C., per aver dato rifugio ai seguaci di Mario.Tuttavia la capitolazione per armistizio non pare aver avuto conseguenze estreme: pochi anni dopo, membri influenti dell’aristocrazia volterrana si trovarono a Roma in posizioni di rilievo, come Aulo Cecina, autore di un testo perduto in latino sull’Etrusca Disciplina, amico di Cicerone e da lui difeso nell’orazione Pro Cecina. A due membri della stessa gens dei Cecina, A. Caecina Severus e C. Caecina Largus, si deve anche la costruzione del teatro romano di Vallebuona, maestosa opera di evergetismo, nelle cui motivazioni non è difficile leggere il riflesso di quella politica di pacificazione, del recupero della tradizione e della propaganda culturale fortemente sostenuta in quegli anni da Augusto e di cui i due Caecina si fecero interpreti locali. Del resto – seppur messa in ombra dalla «potenza» etrusca – la ricchezza e l’importanza della Volaterrae romana – dimostrata tra l’altro anche da diverse domus individuate in varie parti della città – è confermata dall’eccezionale scoperta dell’anfiteatro non distante da Porta Diana, venuto alla luce nel 2015 e attualmente in fase di esplorazione (vedi box a p. 97).
I Caecina meritano l’applauso
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osto lungo una delle due vie principali della colonia romana che dal centro della città conduceva verso l’area che ora sappiamo essere stata occupata dall’anfiteatro, il teatro di Vallebuona venne costruito in epoca augustea, grazie alla munificenza di una grande famiglia di origini volterrane, i Caecina, come ci illustra la grande iscrizione di dedica qui rinvenuta e conservata al Museo Guarnacci. Se sin dal 1500 abbiamo notizie di indagini e ricerche nell’area, solo dagli anni Cinquanta del Novecento, grazie al deciso interessamento di Enrico Fiumi, il teatro inizia a tornare prepotentemente alla luce. La cavea, che accoglieva gli spettatori, era stata in gran parte costruita sfruttando il pendio retrostante, mentre solo le parti piú sporgenti erano state costruite su sostruzioni. Si tratta, come si può vedere ancora oggi, di un monumento di grande impegno e di notevole costo, suddiviso in tre ampi settori, dei
quali solo due, la ima e la media cavea, sono conservati, mentre la parte sommitale, o summa cavea, è andata perduta. La cavea era poi suddivisa in vari settori da scale di accesso, create in un materiale diverso rispetto ai sedili, in modo da suggerire anche un effetto cromatico agli spettatori, che potevano poi entrare al teatro da numerosi accessi, posti sia a monte che a valle. Al di sopra dei vomitoria, grandi corridoi che dovevano consentire il deflusso del pubblico ai lati della cavea, erano posti poi i tribunalia, che oggi potremmo definire palchi di proscenio, solo in parte conservati. Gli attori dovevano muoversi sulla scena, segnalata oggi da alcuni bassi basamenti quadrangolari. Alle spalle della scena, abbiamo la frons scaenae, in gran parte una ricostruzione del secolo passato; davanti alla scena, in un profondo canale, scorreva il sipario. Alle spalle della frons scaenae sono stati rinvenuti i resti di un porticato
colonnato, da collegarsi col teatro e da identificarsi come uno spazio aperto di disimpegno, e un vasto complesso termale di epoca invece molto tarda. L’edificazione del teatro è ascrivibile all’epoca augustea. Allo stesso periodo è da riferirsi il primitivo impianto del porticato dietro alla scena. A questo si aggiunse, completando un progetto evidentemente non portato a termine, probabilmente in età claudia (prima metà del I secolo d.C.), un ampio colonnato in marmo italico, con capitelli corinzi, a recingere un vasto piazzale quadrangolare porticato con esedre. All’interno di questo spazio ormai abbandonato, fra la metà del III e il IV secolo d.C., fu realizzato un impianto termale riccamente decorato, che prova come questo settore della città continuasse a essere abitato e vitale ancora in età tardo-antica, tanto da rendere necessaria la costruzione di un nuovo impianto termale. Elena Sorge a r c h e o 95
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Un problema che si trasforma in opportunità A sinistra: un’immagine del tratto di mura crollato nel 2014. In basso: ripresa dall’alto del cantiere di scavo aperto in occasione degli interventi di risanamento delle mura. Le indagini hanno documentato la frequentazione ininterrotta dell’area, dalla protostoria al Medioevo.
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al gennaio 2014 Volterra è stata interessata da numerosi crolli, causati dalle avverse condizioni metereologiche. Il 30 gennaio è crollato un tratto delle mura medievali della città, per un fronte di circa 30 m, nel settore in cui la cinta sosteneva la via Lungo le Mura della Porta all’Arco. I vari palazzi della via sono stati subito sgombrati e dichiarati inagibili. Il Comune di Volterra, la Regione Toscana e il Ministero per le Attività Culturali e per il Turismo hanno tempestivamente avviato una procedura di somma urgenza, che ha consentito di mettere l’area in sicurezza e procedere in tempi molto brevi alla programmazione delle operazioni seguenti, grazie a finanziamenti straordinari. Il progetto prevedeva – per l’intero costone e fino al raggiungimento degli strati geologici che si ritenevano piuttosto superficiali – la rimozione dei detriti, quindi il posizionamento di fasce continue di spritz beton e chiodature orizzontali profonde sino a 12 m, per sostenere
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il costone stesso, alle quali agganciare il paramento murario. Grazie alla sorveglianza archeologica, è invece stata accertata l’esistenza di una imponente stratificazione archeologica ininterrotta che, a partire dalle quote piú elevate sino al quelle di fondazione delle mura medievali, presenta una potenza complessiva di oltre 8 m, sino a giungere alle capanne protostoriche presenti al livello inferiore. Il monitoraggio strumentale attivato dall’Università di Firenze, col contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra, sin dal momento del crollo sull’intero versante meridionale della città, ha rilevato cedimenti anche nel bastione che sorregge uno degli angoli dell’Acropoli etrusca, in piazza dei Martiri della Libertà, che si è poi sviluppato nel crollo controllato dello stesso sperone il 3 marzo 2014. Nessun danno si è avuto sinora sul piano sovrastante dell’Acropoli. Dopo i sopralluoghi successivi all’evento, sono subito
iniziati i lavori di demolizione delle strutture pericolanti e lesionate e, contemporaneamente, l’asportazione del terreno in frana: questo intervento ha permesso il recupero, nel terreno smottato, di materiali archeologici riferibili a diverse epoche (dal periodo etrusco fino alla piena contemporaneità). Elena Sorge
L’anfiteatro
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perazioni di assistenza archeologica a un’opera pubblica condotte a Volterra nel 2015 hanno rivelato un ampio tratto di muratura con un andamento curvilineo. Il successivo saggio di scavo, eseguito grazie al finanziamento della Fondazione e della Cassa di Risparmio di Volterra, ha confermato l’ipotesi che si trattasse dei resti di un importante edificio di spettacolo di epoca romana, un anfiteatro, del quale si era completamente perduta la memoria, a tre ordini, interrato a notevole profondità. L’arena, infatti, che non è stata raggiunta da questo primo saggio, dovrebbe trovarsi, nel punto di minor interro, a circa - 6 m dal piano di campagna e, nel punto di maggior interro, a circa – 11 m. Il saggio ha interessato una piccola porzione della cavea dell’anfiteatro, che è stata liberata dalla terra di colluvio che la ricopriva. Le indagini geodiagnostiche non invasive, effettuate in seguito dalla
In alto: elaborazione fotografica con la sovrapposizione dello sviluppo dell’anfiteatro desunta dai resti
individuati grazie allo scavo. In basso: uno dei settori dell’anfiteatro indagati nel 2016.
ditta SOING di Livorno, partner di progetto della Soprintendenza, hanno suggerito l’ipotesi di una struttura ancora piú ampia di quanto immaginato in una prima fase, e si è dunque progettato di intraprendere nuovi saggi per delimitarne l’esatto perimetro. Una seconda campagna di indagine, finanziata dal MiBACT, é stata quindi condotta nel 2016 al fine di acquisire dati circa le reali dimensioni del monumento, la potenza dell’interro dello stesso e le
sue condizioni di conservazione. In entrambe le campagne di indagine siamo stati supportati dai tecnici del dipartimento DiCCA dell’Università degli Studi di Genova, che hanno curato la restituzione grafica del monumento. Tra l’aprile e il maggio 2016 sono stati aperti 4 nuovi ampi saggi, che hanno consentito di ipotizzare la pianta dell’intero monumento. L’anfiteatro, a tre ordini di gradinate, è stato inserito nella vallecola che precede la celebre Porta Diana, lungo il probabile percorso di un’antica via etrusca, poi ribadito dal cardo della colonia romana. La scoperta dei tagli di fondazione nella roccia prova che la tecnica di costruzione sia mista, ovvero che una parte della struttura, quella a monte, sia stata addossata alla collina, mentre quella a valle sia stata costruita su sostruzioni. Risulta notevole la potenza dell’interro nella sezione a valle, che raggiunge gli 8 m dal piano di campagna. Piú ampie, rispetto a quelle ipotizzate in prima istanza, le dimensioni complessive del monumento, che si aggirerebbero intorno agli 82 x 64 m. Di particolare interesse è stata la scoperta, nell’ultimo settore scavato, di una parte delle scalinate pertinenti al secondo ordine. Elena Sorge a r c h e o 97
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La «casa» dell’Ombra della Sera
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l Museo Etrusco Guarnacci di Volterra è una delle piú antiche raccolte pubbliche d’Europa e rappresenta una delle collezioni di antichità etrusche tra le piú importanti al mondo. Nato come Museo Civico nel 1732, dopo la
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donazione del canonico Pietro Franceschini, il Museo si arricchí in breve tempo di una enorme mole di materiali archeologici scoperti nel territorio di Volterra, in virtú del lascito testamentario della collezione di monsignor Mario
Guarnacci, che contava piú di duecento urne cinerarie, bronzi, ceramiche, oltre a un’ingente raccolta libraria. Da allora, il Museo, che prese il nome dell’illustre prelato volterrano, incrementò il proprio patrimonio di beni grazie alle elargizioni e alle acquisizioni avvenute a seguito del fervore di scavi e ricerche che si era determinato nel vivace mondo culturale dell’Italia del Settecento e dell’Ottocento, in cui Volterra occupava un ruolo di primissimo piano, in virtú delle straordinarie scoperte effettuate. Il Museo si trova oggi in Palazzo Desideri Tangassi, che lo ospita dal 1877, quando fu trasferito dall’originaria sede di Palazzo dei Priori e tutto il materiale fu riallestito secondo lo spirito
dell’epoca. Una logica tuttora visibile in alcune sale che, con il loro fascino «antico», rappresentano una sorta di «museo dei musei». Al suo interno sono conservati alcuni dei piú bei capolavori che la civiltà etrusca ci abbia lasciato: l’Ombra della Sera, il piú famoso della serie dei bronzetti allungati etruschi e simbolo stesso del Museo, la stele di Avile Tite, gli ori, le ceramiche a figure rosse, tra cui spicca il cratere di Montebradoni, l’Urna degli Sposi e le oltre seicento urne cinerarie ellenistiche. Alcune sale del Museo Guarnacci sono state recentemente oggetto di riallestimento, con il recupero delle pitture originali del Palazzo e la creazione di uno spazio espositivo interamente dedicato all’Ombra della Sera. Fabrizio Burchianti
In alto: una delle sale del Museo Etrusco Guarnacci. A destra: il bronzetto che raffigura un giovane e noto come Ombra della Sera, da Volterra. Decenni finali del III sec. a.C. Nella pagina accanto: particolare del coperchio in terracotta dell’Urna degli Sposi. I sec. a.C.
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La cura dell’anima e del corpo
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li scavi condotti dal 1985 al 2011 dalla Soprintendenza Archeologica per la Toscana hanno riportato alla luce, nei pressi del piccolo borgo di Sasso Pisano, nella località significativamente denominata «Il Bagno», un complesso architettonico pubblico, di carattere sacro-termale, a oggi unico nell’ Etruria settentrionale. L’area scelta per l’edificazione del complesso, sulla strada tra Volterra e Populonia, alla confluenza delle valli dei fiumi Cecina e Cornia, è ancora oggi caratterizzata da un ambiente naturale di grande suggestione: i vapori, ora imbrigliati, dovevano una volta sgorgare liberi dal terreno, creando, con i fanghi bollenti, le numerose sorgenti di acque calde e fredde e i piccoli ruscelli, un’atmosfera ricca di fascino e di mistero sempre carica, nell’antichità, di una forte valenza sacrale. Alla prima fase di vita del complesso, esclusivamente santuariale (i materiali piú antichi riportano alla fine del IV secolo a.C.), appartiene un monumentale portico (stoà), con due ali, che si sviluppava su due piani sorretti da pilastri rettangolari, la cui facciata era alta piú di 10 m. Posto in posizione panoramica e di dominio rispetto alla valle sottostante, l’edificio
Ricostruzione grafica della facciata del santuario di Sasso Pisano.
presuppone un’area sacra, forse in posizione ancora piú elevata. Nella prima metà del II secolo a.C., la struttura viene ampliata e trasformata, con l’aggiunta di piccoli impianti termali, che in parte sfruttano la stoà, appoggiandovisi, in parte si sviluppano piú a valle, nel settore nord dell’area e sono articolati in diversi sistemi di vasche e vani d’uso, spesso coperti da tetti di tegole, molte delle quali marcate con bollo in caratteri etruschi, non
attestato altrove. Le vasche, quadrangolari o rotonde, isolate o tra loro comunicanti, erano servite da una articolata rete di canalizzazioni, che vi convogliavano le acque calde e fredde delle vicine sorgenti. Alle vasche in muratura si associa, in una connessione cronologica e topografica ancora difficile da definire, un sistema di vaschette per il bagno individuale in terracotta, di forma ovale, collocate su un pavimento in coccio pesto, fornite di fistulae in piombo e collegate a una serie di canalizzazioni in calcare per l’afflusso e il deflusso delle acque. Il settore ovest dell’area fino a oggi indagata risulta invece interamente occupato da un vasto edificio – ancora solo parzialmente scavato –, A sinistra: particolare di una tegola con bollo in caratteri etruschi. Nella pagina accanto, in alto: una delle vasche individuate nel santuario. Nella pagina accanto, in basso: statuette raffiguranti la dea Menerva e una offerente, da strati di crollo rimaneggiati del santuario.
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suddiviso in numerosi vani, forse uno xenodocheion o comunque una struttura di carattere commerciale destinata all’accoglienza dei visitatori e dei pellegrini. Il ritrovamento, purtroppo in strati di crollo rimaneggiati, di due statuette – una Menerva in piombo e stagno e una piccola offerente in bronzo di un tipo diffuso nel II secolo a.C. in Etruria settentrionale e soprattutto in ambito volterrano – conferma che il complesso, anche in questa fase, in cui sembra prevalere l’uso «termale» e terapeutico delle acque, conservò la sua originaria valenza «sacrale». La sua continuità d’uso è garantita per tutto il II e il I secolo a.C., con una punta di massima frequentazione e notorietà nella seconda metà del II secolo a.C., in contemporanea con le grandi risistemazioni urbanistiche dell’acropoli di Volterra e Populonia, e soprattutto in età augusteotiberiana, quando la qualità dei materiali archeologici – vetri di produzione orientale, ceramiche «sigillate» e a pareti sottili, lucerne e anfore – sembrano indicare una frequentazione intensa e piuttosto qualificata. La presenza di tegole con bollo uguale, ma con diversa grafia, suggerisce che gli edifici siano stati parzialmente restaurati intorno alla metà del I secolo a.C. Tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C. l’area viene probabilmente sconvolta da un imponente movimento franoso, che trascina a valle, per una sessantina di metri circa, buona parte delle strutture. Con successive parziali ristrutturazioni e riadattamenti, talora impropri e affrettati, il complesso rimane in uso sino alla fine del III secolo d.C. Tuttavia, di poco successivo è il completo abbandono; la spoliazione dei muri in blocchi squadrati è l’unica traccia di ulteriori frequentazioni.
La monumentalità e l’ampiezza del complesso architettonico, che si estende ben oltre l’area finora indagata, rende molto probabile l’identificazione dello stesso con uno dei due impianti termali – Aquae Volaterrae e Aquae Populoniae – indicati nel segmento IV della Tabula Peutingeriana, l’antica «carta geografica», copia medievale di un itinerario completo dell’impero romano. La posizione geografica, al confine tra i territori di Volterra e Populonia, la circostanza che quest’area sia ancora oggi completamente proiettata verso Volterra – alla quale pure rimandano le scarse testimonianze archeologiche dal territorio circostante –, nonché l’esame dettagliato della cartografia storica con il conforto degli itinerari di viaggio romani ricostruiti, sulla base della Tabula Peutingeriana, da Konrad Miller, inducono a riconoscere in questo edificio un avamposto estremo al confine meridionale dello stato volterrano. Anna Maria Esposito a r c h e o 101
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LA VAL DI CECINA di Fabrizio Burchianti
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scendo da Volterra da Porta All’arco si apre «una stupenda carta spiegata, dove sono rappresentati valli, fiumi, pianure, monti e mare, promontori e isole» cosí George Dennis si esprimeva a proposito della Val di Cecina, naturale via di penetrazione che collega Volterra al mare. La strada del mare e del sale: una stretta lingua di territorio sinuoso, compressa tra due versanti collinari ricchi di risorse del sottosuolo, tra le miniere di rame di Montecatini e i filoni di Riparbella, le cave di alabastro e il sale ancora estratto a Saline. La Val di Cecina è sempre stato il naturale sbocco di Volterra, fin dall’Eneolitico.
IL CONTROLLO DEL TERRITORIO Tuttavia, le tracce di una prima occupazione pianificata del territorio non sono anteriori alla fine del IX secolo a.C., con un processo di occupazione articolata, sia sul versante meridionale della valle che su quello settentrionale; una dinamica che ebbe pieno compimento a partire dall’età orientalizzante, dalla fine dell’VIII secolo a.C. con la nascita e lo sviluppo di numerosi siti in posizioni strategiche per il controllo del territorio: Casaglia, con la necropoli di Cerreta e Belora, vicino all’attuale località di Riparbella, sul versante settentrionale del fiume; l’insediamento di Casalvecchio a Casale Marittimo, Querceto, Montescudaio e Bibbona sul versante meridionale. Una fitta trama di siti, posti direttamente a controllo della via fluviale e dei percorsi di accesso alla Valle del Cecina, che mostra un’inaspettata vivacità culturale e una grande ricchezza, ben testimoniate dalla sorprendente necropoli principesca di Casa Nocera a Casale Marittimo o dal notissimo cinerario con rappresentazione di banchetto di Montescudaio. Del resto, di lí a poco, la Val di Cecina fece registrare la straordinaria fioritura di tombe a tumulo tra il tardo Orientalizzante e 102 a r c h e o
TESORI DELL’ETÀ ORIENTALIZZANTE Riaperto al pubblico nel 2003 e ospitato nella «tradizionale» sede, restaurata per l’occasione, della settecentesca «Villa Guerrazzi», nella Fattoria della Cinquantina, il Civico Museo Archeologico di Cecina, accoglie le testimonianze archeologiche emerse dalle ricerche degli ultimi decenni in un comprensorio, la Bassa Val di Cecina, rivelatosi particolarmente significativo per la conoscenza delle dinamiche insediative dell’antico territorio volterrano. L’esposizione è organizzata secondo un criterio cronologico e topografico:
dalle piú antiche attestazioni di vita ancora in età preistorica, attraverso le scarse presenze dell’età del Bronzo e la frammentaria e discontinua documentazione dell’età del Ferro (anche per la dispersione di materiali verificatasi in passato), si giunge a uno dei momenti piú ricchi e significativi per questo territorio: l’età orientalizzante. Rivelata soprattutto dalle eccezionali scoperte degli ultimi decenni, questa facies culturale è rappresentata dalle testimonianze restituite da abitati e necropoli localizzati nell’area collinare immediatamente a ridosso
l’alto arcaismo: la tholos di Casale Marittimo, quella di Casaglia, della Ghinchia, la tomba della Aia Vecchia (Bibbona), le due tombe a camera della Torricella e quella di Querceto costituiscono l’esempio della capacità di ricezione di modelli architettonici e la loro rielaborazione secondo un sistema di occupazione territoriale definito e densamente controllato.
della fascia costiera (Casale Marittimo, con l’eccezionale necropoli di Casa Nocera, Montescudaio, Guardistallo, Casaglia). L’acme di questi insediamenti è segnata dalle tombe a camera sotto tumulo provviste di lungo dromos, cella rotonda e copertura a «tholos». Nel giardino della Villa è stata di recente ricostruita la tholos da
Nella pagina accanto: la ricostruzione della tomba a tholos scoperta in località Casaglia, collocata nel giardino del museo. In alto: il corredo funerario della Tomba A della necropoli di Casa
Nocera (Casale Marittimo), comprendente vari manufatti in bronzo e armi. Inizi del VII sec. a.C. A sinistra: ricostruzione di una sepoltura a incinerazione alloggiata in un cassone litico.
Casaglia, già rimossa dalla sua originaria collocazione agli inizi del secolo scorso. Vari cippi sepolcrali di marmo attestano l’esistenza in loco di gentes di non trascurabili possibilità economiche ancora alla fine del VI e agli inizi del V secolo a.C. Tra il V e il IV secolo a.C. si registra, nello sviluppo di quest’area, una battuta d’arresto, che appare superata soltanto con l’inizio dell’età ellenistica (fine del IV-inizio del III secolo a.C.). Tale sviluppo, nelle sue diverse componenti – abitativa, produttiva e funeraria –, è illustrato dagli insediamenti individuati a Belora e Casalvecchio, dalle fornaci di
Casalgiustri e dalle numerose necropoli sparse nel territorio (sala VIII). I segni piú evidenti della progressiva «romanizzazione» del territorio sono costituiti dalle grandi ville gentilizie, sorte a partire dell’età augustea; produzione e commercio sono attestati dal proliferare di fornaci per la produzione di anfore destinate al trasporto del vino e dai rinvenimenti subacquei, che testimoniano il pieno inserimento dell’area nelle grandi rotte commerciali della tarda età repubblicana e della prima età imperiale. Anna Maria Esposito
Questa dinamica insediativa riaffermò i suoi capisaldi territoriali in età ellenistica – dopo un V secolo a.C. piuttosto rarefatto di testimonianze –, sviluppando la presenza nei siti di fondovalle e verso la costa. Dopo l’assedio sillano di Volterra, conclusosi nell’80 a.C., il territorio si riassestò nella seconda metà del I secolo a.C., con la nascita delle grandi ville romane, come a Pieve a
Casale, San Vincenzino a Cecina e in località Segalari a Castagneto, e lo sviluppo del grande porto di Vada Volaterrana. Gli insediamenti tornarono a occupare le alture collinari in modo stabile, con il fenomeno dell’incastellamento dal X secolo, dando il la al definitivo assetto del territorio con i piccoli castelli circondati dai borghi che costituiscono il nucleo dei centri di oggi. a r c h e o 103
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DOVE E QUANDO
SEGUENDO I FILONI DELL’ORO ROSSO La Val di Cecina ha costituito per lunghissimo tempo un bacino minerario di estrema importanza. I depositi di salgemma di Saline di Volterra, la lignite e il calcedonio di Monterufoli, le solfatare, le allumiere, ma, soprattutto, il rame di Montecatini, Libbiano, Montecastelli e Micciano rappresentano alcune delle ricchezze del territorio anticamente controllato da Volterra. La miniera di rame di Caporciano, situata a circa 1 km dall’attuale abitato di Montecatini Val di Cecina, è un sito di archeologia industriale, oggi recuperato e valorizzato, di estremo interesse: nota forse sin dall’epoca etrusca – anche se non ne conosciamo tracce di sfruttamento diretto – è stata attiva sicuramente dal XV secolo fino agli inizi del 1900, con poche interruzioni; qui venivano estratti prevalentemente calcopirite, bornite e calcocite. Nel corso dell’Ottocento la coltivazione del rame ebbe una forte espansione e la miniera di Montecatini diventò uno dei piú grandi siti per la produzione di minerali cupriferi di tutta Europa. L’attività mineraria cessò agli inizi del XX secolo. L’estrazione avveniva attraverso pozzi che collegavano dieci livelli,
Museo Civico Archeologico e della Collegiata Casole d’Elsa (SI) Info tel. 0577 948705; museo@casole.it Museo San Pietro Colle di Val d’Elsa (SI) Info tel. 0577 286300; www.collealtamusei.it
Dall’alto in basso: il fabbricato all’esterno della miniera di Caporciano e alcune immagini delle gallerie e degli altri ambienti nei quali avvenivano l’estrazione e il trasporto del rame. L’impianto è ora un sito di archeologia industriale.
ciascuno dei quali si diramava in diverse gallerie, per un totale di 35 km. L’area mineraria è stata recuperata ed è divenuta un complesso museale, utilizzando l’antico Palazzo Pretorio come centro di documentazione, con un progetto dell’amministrazione comunale di Montecatini Val di Cecina realizzato con l’aiuto della Comunità Montana dell’Alta Val di Cecina, della Provincia di Pisa, della Regione Toscana, con finanziamenti dell’Unione Europea. Fabrizio Burchianti
Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli» Colle di Val d’Elsa (SI) Temporaneamente chiuso per lavori di ristrutturazione Info tel. 0577 922954; www.museocolle.it Museo Etrusco Guarnacci Volterra (PI), Palazzo Desideri Tangassi Info tel. 0588 86347 www.comune.volterra.pi.it/museoetrusco-guarnacci Civico Museo Archeologico di Cecina Cecina (LI) Info tel. 0586 680145; www.museoarcheologicocecina.it Museo delle Miniere Montecatini Val di Cecina (PI) Info tel. 0586 894563; www. museodelleminieremontecatini.it Parco Archeologico di Dometaia Colle di Val d’Elsa (SI) Info tel. 0577 920490; e-mail: musarcolle@gmail.com Museo Archeologico San Gimignano (SI) Info tel. 0577 286300; e-mail: prenotazioni@sangimignanomusei. it; www.sangimignanomusei.it Nota gli orari dei musei variano stagionalmente, si consiglia perciò di verificare rivolgendosi al museo stesso (vedi info).
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QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli
…OSPITÒ L’APOSTOLO PAOLO IN «LIBERTÀ VIGILATA» GLI ATTI DEGLI APOSTOLI RICOSTRUISCONO L’AVVENTUROSO VIAGGIO COMPIUTO DAL FUTURO SANTO PER RAGGIUNGERE ROMA E SOTTOPORSI AL GIUDIZIO DELL’IMPERATORE. MA SONO, PURTROPPO, PIÚ AVARI DI DETTAGLI SUI LUOGHI IN CUI VISSE E SULL’ESITO DEL SUO SOGGIORNO NELL’URBE
L’
arrivo a Roma nella primavera dell’anno 62, segnò la conclusione del piú lungo e fortunoso dei celebri viaggi dell’apostolo Paolo: il quarto, completo di tempeste e naufragio. Ma, soprattutto, compiuto in condizioni di «cattività» o, meglio, sotto custodia militaris, per essere sottoposto al giudizio dell’imperatore al quale egli stesso s’era appellato grazie alla sua condizione di cittadino romano. Una condizione (in virtú della quale gli era stato facile dare al suo nome Saulo la forma latina di Paulus) che gli era derivata per via ereditaria dal padre, se non addirittura dal nonno, che civis romanus potrebbe essere diventato quando, nel 41 a.C., Marco Antonio, «padrone» delle province orientali dell’impero romano, concesse la «cittadinanza» agli abitanti della Cilicia, in occasione del suo incontro, in quella regione, con Cleopatra (o quando, nel 32, egli sposò la regina d’Egitto). Paolo aveva fatto ricorso a quell’appello nella speranza di A destra: San Paolo e i naufraghi si rifugiano a Malta. XVI sec. Roma, basilica di S. Paolo fuori le Mura. Nella pagina accanto: cartina che illustra il percorso del viaggio compiuto da san Paolo prigioniero, alla volta di Roma.
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porre fine alle vessazioni e ai tormenti subiti, durante due anni, dopo il suo rientro, cinquantenne, a Gerusalemme da Corinto: accuse d’aver profanato il Tempio e tentativi di linciaggio da parte degli
Ebrei, arresti, interrogatori e processi davanti alle autorità romane e al re Erode Agrippa, torture e detenzioni di vario tipo e una lunga custodia preventiva entro la Fortezza Antonia... Fino a
M aDida r N e r o poreic tem iust et qui digendis dus eicat pratia dita que omnis nem videlessent aut ut volorat emporit P denimol onto B i t i n ialitatem a iostia quiasintiur orepero enihici dellat eicatur? Modi beribus aperior possimos reiciUcil et autectempos sunt illitas Galazia
Macedonia Roma Tres Tabernae (Tre Taverne) Terracina Forum Appii (Foro di Appio) Pozzuoli
Tessalonica
Acaia
Commagene
Adramitto
Sardegna
Antiochia di Pisidia
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Cilicia
Efeso Reggio
Corinto
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Miloro
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Buoni Porti (Kaloi Limenes) Lasea Clauda (isola di Gavdos)
Salmone
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Antiochia
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Cipro
Siracusa
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Licia
Cnido
Sicilia
Tarso
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S
320Km
che non prevalse il suo «ricorso (...) perché la sua causa fosse riservata al giudizio dell’imperatore» (come scrivono gli Atti degli Apostoli 25,11) senza il quale, peraltro – e per colmo di sventura – la tormentata vicenda avrebbe potuto risolversi con la liberazione, viste le conclusioni a cui, rivolgendosi al governatore romano Festo, giunse il re Erode: «Quest’uomo non ha fatto nulla che meriti la morte o le catene (...) poteva essere rimesso in libertà se non si fosse appellato a Cesare» (Atti 26, 31-32). S’arrivò invece alla decisione di trasferire Paolo a Roma, dove egli, durante il suo soggiorno a Efeso, aveva pur espresso il desiderio di recarsi («È necessario che io vada a Roma», Atti 19,21), sebbene in ben altra condizione. Insieme ad altri «prigionieri», egli fu infatti affidato alla custodia di un drappello di
soldati al comando di un centurione, di nome Giulio, e fatto imbarcare per un viaggio che, sempre gli Atti (27-28) raccontano con dovizia di particolari: la partenza da Cesarea Marittima (nell’autunno del 60), su una nave di Adramitto che faceva rotta per l’Asia Minore; lo scalo a Sidone (dove Giulio consentí a Paolo di andare a far visita ad alcuni amici); la navigazione contro vento al riparo dell’isola di Cipro e poi lungo le coste della Cilicia e della Panfilia fino a Mira, in Licia.
SCALO AI «BUONI PORTI» Poi, il nuovo imbarco su una nave di Alessandria diretta verso l’Italia e la lenta navigazione di molti giorni fino all’altezza della città di Cnido; quindi, sempre col vento a sfavore, al riparo dell’isola di Creta e costeggiando questa fino a una località chiamata «Buoni Porti»,
vicino alla città di Lasca. Ancora, la ripartenza verso il porto di Fenice dove poter passare l’inverno (essendo in quel periodo la navigazione sospesa), ma anche il sopraggiungere di grosse difficoltà: la bufera di vento Euroaquilone, la deriva con l’ancora galleggiante, il carico e gli attrezzi della nave gettati in mare, i molti giorni trascorsi senza riuscire «a vedere né il sole né le stelle». Poi, dopo due settimane di deriva, il tentativo dei marinai di abbandonare la nave con la scialuppa di salvataggio, stroncato dai soldati che ne recisero le corde e le parole d’incoraggiamento di Paolo, che indussero le 276 persone imbarcate a ricominciare a... mangiare. Alla fine, l’approssimarsi di un’isola sconosciuta, l’urto della nave contro un banco di scogli, il naufragio e l’abbandono del relitto
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a nuoto o con l’aiuto di tavole e altri rottami, e, una volta tutti in salvo a terra, la «scoperta» che l’isola era quella di Malta; la buona accoglienza da parte degli abitanti, ulteriormente cresciuta dopo che Paolo ebbe modo di guarire miracolosamente il padre del governatore, Publio, e molti altri che erano accorsi alla notizia. Dopo la sosta di tre mesi a Malta, l’ultimo imbarco su un’altra nave alessandrina che aveva svernato nell’isola e l’arrivo a Siracusa; una nuova sosta, quindi l’approdo a Reggio e, finalmente a Pozzuoli da dove, dopo una settimana passata con alcuni confratelli, inizia l’ultima parte del viaggio, per terra (!), diretti a Roma. Stando sempre al racconto degli Atti (28,15) i cristiani dell’Urbe furono avvertiti dell’arrivo dell’Apostolo e andarono a incontrarlo al Forum Appii e alle Tres Tabernae, presso l’odierno Borgo Fàiti sulla «fettuccia» di Terracina (il rettifilo della via Appia lungo 19 miglia e detto perciò Decennovio; vedi «Archeo» n. 381, novembre 2016). Una volta giunto a Roma, nella primavera del 61, a Paolo fu concesso «di abitare per suo conto, con un soldato di guardia»: oggi diremmo in regime di libertà vigilata. Egli dovette prendere in affitto una dimora quasi certamente in una zona della città (oggi compresa nel rione Regola) dove da qualche tempo s’erano trasferiti, dal Trastevere, alcuni nuclei familiari della comunità ebraica romana. In particolare, quelli che lavoravano alla fabbricazione delle tende, il mestiere di Paolo, il quale dovette almeno in parte tornare a esercitarlo per ricavarne di che pagarsi il cibo e l’affitto. Come già aveva fatto a Corinto, nella casa di Aquila e Priscilla (arrivati da Roma in seguito all’espulsione degli Ebrei decretata da Claudio) dove s’era stabilito e «lavorava» (Atti 18,3). Tutto ciò rende molto verosimile
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– e, in ogni caso, assai piú credibile di qualunque altra – l’ininterrotta tradizione che vuole la dimora dell’Apostolo nel luogo dove s’è conservata una sua memoria, dapprima sotto la forma di un semplice oratorio a lui intitolato, poi con la chiesa di S. Paolo alla Regola (detta popolarmente S. Paolino, anche dopo essere stata riedificata piú grande, e unica a essere dedicata all’apostolo all’interno della città), nella quale tuttora si conserva – e si venera – un locale trasformato in cappella, ritenuto la stanza abitata dall’apostolo.
PREDICHE E LEZIONI La prigionia romana di Paolo non fu dura. Tra l’altro, gli era consentito di ricevere e accogliere «tutti quelli che andavano da lui» (Atti 28,30) e già tre giorni dopo l’arrivo aveva convocato i rappresentanti e i maggiorenti della comunità, per informarli di quanto gli era accaduto a Gerusalemme e della sua decisione di appellarsi all’imperatore. Ma gli Atti e la tradizione – tramandata, questa, dall’uso, nel Medioevo, di citare nei paraggi della chiesa una schola divi Pauli – vogliono pure che in quella casa egli predicasse e istruisse i catecumeni («annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesú Cristo con tutta franchezza e senza impedimento») e scrivesse alcune delle sue lettere piú celebri: ai Colossesi, agli Efesini e ai Filippesi. Purtroppo, gli Atti degli Apostoli terminano con la notizia che «Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso in affitto» (28,30). Non sappiamo quindi come le cose siano andate a finire. Alcuni pensano che la prigionia si sia conclusa con la condanna e la morte. Ciò che spiegherebbe la fine improvvisa degli Atti. Altri, piú verosimilmente, ritengono, al contrario, che, in mancanza di un’accusa precisa, non ci sia stato
Roma. Uno scorcio della facciata della chiesa di S. Paolo alla Regola. alcun processo. E che l’apostolo, riavuta la completa libertà, si sia allontanato da Roma per qualche sua altra missione evangelizzatrice, magari anche in Spagna, dove pare che avesse avuto intenzione di andare. A Roma Paolo sarebbe tornato alla fine della sua vicenda terrena e, nuovamente arrestato, vi sarebbe stato, questa volta, processato e condannato a morte per decapitazione: la pena capitale che era riservata ai cittadini romani. Tutto ciò, sullo scorcio del principato di Nerone, probabilmente nel 67, come scrive san Girolamo nel suo De viris illustribus (5,12). Una data a cui fa riferimento la Chiesa e che è stata presa quest’anno in considerazione dal Vaticano per l’emissione, lo scorso 4 maggio, di un francobollo commemorativo del 1950° anniversario del martirio.
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
UCCISORE DI GIGANTI L’ORIGINE DELLA COSTELLAZIONE DELLO SCORPIONE È LEGATA AL SUO PRODIGIOSO INTERVENTO AI DANNI DEL CACCIATORE ORIONE. COMPIUTO PER VOLONTÀ DI GEA O, SECONDO ALTRE FONTI, DI ARTEMIDE
I
segni zodiacali hanno origini antiche, che risalgono all’osservazione scientifica della volta celeste elaborata nel mondo mesopotamico e, attraverso la mediazione egizia, codificatasi in età greco-romana nelle immagini che li simboleggiano e che tutt’oggi conosciamo. Queste figure, in cui le stelle sono idealmente unite tra loro a formare un insieme leggibile, sono il frutto dei catasterismi, ovvero della trasformazione in una costellazione e in un segno dello zodiaco di esseri viventi e anche non, a premio di qualità o vicende che li resero meritori agli occhi delle divinità olimpiche. Per ognuno dei dodici segni, e per tutte le costellazioni, i mitografi e gli studiosi di astronomia (materia strettamente connessa e spesso non distinta dall’astrologia) crearono narrazioni, perlopiú risalenti all’età alessandrina, che fecero della volta celeste un vero e proprio libro stellato, dove l’immensità degli astri visibili veniva cosí resa comprensibile agli uomini. Il potere delle immagini dava ordine all’infinità degli agglomerati celesti, fornendo una chiave di lettura utile per orientarsi
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Copia galvanica del globo celeste di Magonza. L’originale, in bronzo, si data intorno al 150-220 d.C. Magonza, Römisch-Germanischen Zentralmuseum. Forse creato nell’Egitto romano, raffigura le 48 costellazioni classiche e l’intera Via Lattea. Manca la Bilancia, le cui stelle sono incorporate nello Scorpione. e nelle attività stagionali, cosí in terra come nel cielo. Da Esiodo in poi, passando per Arato di Soli, Eratostene, Tolomeo, Igino, sino a Ovidio, astronomi, scienziati e poeti hanno alzato gli occhi al cielo stellato, componendolo in un sistema ordinato e narrativo, giunto fortunatamente sino a noi attraverso il mondo tardo-antico,
medievale e rinascimentale, e ancora oggi oggetto di studio iconografico, sociologico e anche psicoanalitico. Carl Gustav Jung, infatti, riteneva che l’astrologia potesse essere considerata come una «mappa astrale della psiche» e nella sua opera del 1944 Psicologia e Alchimia scrive: «La scienza cominciò con le stelle, nelle quali l’umanità scoprí le dominanti
Dracma in bronzo di Antonino Pio, zecca di Alessandria, 144/5 d.C. Al dritto, il busto dell’imperatore; al rovescio, lo scorpione sormontato dal busto di Marte e stella a otto punte. dell’inconscio, gli Dei, cosi come le bizzarre qualità psicologiche dello Zodiaco, proiezione completa della caratteriologia». Per inciso, la figlia di Jung, Gret, intraprese una brillante carriera di astrologa. Tra ottobre e novembre domina i cieli lo Scorpione, battagliero segno d’acqua, portatore di vita come di morte, dominato da Plutone e da Marte, che ne fanno uno dei piú forti e complessi protagonisti dello Zodiaco. Nella serie in bronzo alessandrina di Antonino Pio dedicata allo Zodiaco (144/5 d.C.), il rovescio raffigura un naturalistico scorpione, sormontato dal busto di Marte con cimiero e armatura, con a fianco la consueta stella a otto punte.
AMORE E MORTE L’arrivo in cielo dell’artropode è collegato a una vicenda – nota in piú varianti – di hybris (tracotanza) punita, violenza, amore e morte, legata alla storia del cacciatore Orione, la cui stessa origine semidivina ha nei miti greci e latini versioni differenti. Ciò che lo contraddistingue è il suo essere bello, di grandezza gigantesca e
animato da una passione insana per la caccia, sino a vantarsi di voler uccidere tutti gli animali della terra. Perciò Gea, indignata e preoccupata, inviò uno scorpione altrettanto enorme, che lo punse, uccidendolo. Nella sua imperturbabilità olimpica, Giove ammirò il coraggio di entrambi e li pose in cielo. Orione perché ammonisse gli uomini a non avere eccessiva fiducia in se stessi e lo scorpione per averlo ucciso, liberando cosí la terra da un pericolo mortale (Igino, Mitologia astrale, II, 26). In altre versioni, Orione, cacciatore provetto e sposo fedele, è amato castamente da Artemide-Diana, ma quando si invaghisce di altre giovani celesti, la dea, infuriata, lo fa uccidere dallo scorpione oppure colpendolo essa stessa con le sue frecce. Altri racconti vedono invece Artemide innamorata di Orione: il fratello Apollo, geloso di questo rapporto, con uno stratagemma fa uccidere il gigante dalle stesse frecce della sorella. Comunque sia andata, quando lo Scorpione sorge a est, Orione tramonta, fuggendo, a ovest.
La costellazione dello Scorpione si compone di numerose stelle, tra le quali spicca la rossa Antares, una tra le stelle piú brillanti e grandi del firmamento, con una inimmaginabile circonferenza di 3,86 miliardi di km.
LEGATO A MARTE Il nome stesso di questa stella, di origine greca, riporta ad Ares-Marte e viene tradotto sia come «simile a Marte» che come «rivale di Marte», in riferimento al colore rosso che caratterizza entrambi i corpi celesti. In arabo, invece, Antares è chiamata Kalb al Akrab, il «cuore dello Scorpione». Tutto ciò riporta all’immagine sulla moneta antoniniana, dove l’animale bellicoso e letale ben si associa al dio della guerra, senza dimenticare però tutta la simbologia dello scorpione legata al mitraismo e poi al cristianesimo, in un rapporto circolare di morte e rinascita universale. Non a caso, nell’«uomo astrale», ovvero la raffigurazione dell’essere umano con i segni zodiacali che lo dominano, allo Scorpione è dato presiedere alla feconda sessualità.
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Mario Vegetti
CHI COMANDA NELLA CITTÀ I Greci e il potere Carocci editore, Roma, 128 pp. 12,00 euro ISBN 978-88-430-8545-3 www.carocci.it
La prima impressione che si ricava dalla lettura del volume è che, a differenza di quanto accade troppo spesso nell’epoca in cui viviamo, nell’Atene del V e IV secolo a.C. – perché questo è il momento storico scelto dall’autore – il dibattito politico avesse uno spessore maggiore e si sviluppasse anche sui modi di definire ideologie e modi di gestione del potere. C’era, insomma, un approccio filosofico marcato, che fa del resto da cardine del saggio. La trattazione si sviluppa attraverso cinque principi fondamentali: di maggioranza, di legalità, della forza, dell’eccellenza e della competenza. Per ciascuno di essi
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Vegetti ha costruito una sorta di tavola rotonda immaginaria, ponendo a confronto le affermazioni di storici, filosofi, uomini di lettere e, naturalmente, personaggi politici. Un’operazione resa particolarmente avvincente dai frequenti richiami a realtà moderne e contemporanee, grazie ai quali balza evidente la sorprendente attualità delle considerazioni che si potevano ascoltare nella capitale dell’Attica. Stefano Mammini Sergio Fontana
MOSTRI MITOLOGICI illustrazioni di Lucia Conversi, Scienze e Lettere, Roma, 144 pp., tavv. col. 15,00 euro ISBN 978-886687-114-9 www.scienzeelettere.com
Nato dall’applicazione omonima (scaricabile all’indirizzo www. mostrimitologici.it),
il volume racconta le vicende di nove creature – Acheloo, Aracne, Centauro Chirone, Cerbero, Ecate, Medusa, Minotauro, Scilla e Tifone –, accomunate dalla loro condizione di ibridi, esseri per metà umani e per metà dotati di poteri sovrannaturali. Ciascuno di essi racconta la propria storia e ogni racconto è corredato dalle magnifiche tavole di Lucia Conversi. Il volume si indirizza al pubblico dei piú giovani e si fa forte del fascino che, per citare il caso forse piú celebre, ha garantito lo straordinario successo delle Storie della storia del mondo di Laura Orvieto (raccolta che, dall’anno della sua prima pubblicazione, il 1911, ha conosciuto una serie ininterrotta di ristampe): la mitologia, come del resto accadde fin da quando, in età antica, vennero formalizzate le
prime narrazioni, è un mondo al quale è difficile restare indifferenti e proprio nell’essere popolata di «mostri» risiede una delle chiavi della sua fortuna. Da segnalare – a beneficio dei «grandi» a cui capiterà di avere fra le mani Mostri mitologici – la scelta di realizzare le immagini sulla base delle iconografie tramandate dall’arte antica, alla quale si devono composizioni di notevole raffinatezza. S. M.