Archeo n. 393, Novembre 2017

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2017

LIBANO

RITORNO A BAALBEK

RITORNO A

BAALBEK

LUCUS FERONIAE SPECIALE AFRICA PREISTORICA

Mens. Anno XXXIII n. 393 novembre 2017 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MONT’E PRAMA OMAN ARCHEOLOGICO

RINASCE IL PIÚ GRANDE COMPLESSO TEMPLARE DELL’IMPERO ROMANO

SARDEGNA

I GUERRIERI DI MONT’E PRAMA OMAN

AVVENTURE NEL DESERTO LAZIO

NEL BOSCO SACRO DI FERONIA

SPECIALE

PAOLO GRAZIOSI E LA SCOPERTA DELLA PREISTORIA AFRICANA

www.archeo.it

IN EDICOLA L’ 8 NOVEMBRE 2017

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AR O NE CH M L D EO A ES LO N ER G ww TO IA w. ar

ARCHEO 393 NOVEMBRE

€ 5,90



EDITORIALE

UN PONTE PER IL LIBANO CHUD è l’acronimo per Cultural Heritage and Urban Development, un programma nato nel 1999 da un’iniziativa congiunta della Banca Mondiale, la Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo (facente capo al nostro Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale) e il suo equivalente francese, l’Agence Française de Développement (AFD). Il programma ha il fine di promuovere il recupero e lo sviluppo (sul piano strutturale e su quello delle infrastrutture economiche) di cinque centri storici del Libano: Baalbek (nella valle della Beqaa), Tripoli, Biblo, Sidone e Tiro (tutte città sulla costa mediterranea). Non credo sia necessario sottolineare ai nostri lettori la rilevanza storica e culturale dei centri appena elencati… Il progetto – finanziato con iniziali 70 milioni di dollari, a cui si sono aggiunti altri 50 in seguito a un recente accordo tra governo libanese e Banca Mondiale – mira in particolare «al recupero dei centri storici e alla conservazione e presentazione dei siti culturali e alla incentivazione dei proventi derivanti dal turismo, al fine di garantirne alla popolazione sia l’uso positivamente sostenibile sotto l’aspetto economico sociale e ambientale, sia la loro conservazione e trasmissione alle generazioni future contrastando il degrado ambientale e la distruzione delle risorse non rinnovabili». L’Italia svolge un ruolo indipendente - anche se integrato - nel programma CHUD, con uno stanziamento di 10,8 milioni di euro destinato a un insieme di tre diverse tipologie di interventi. La prima elabora (insieme agli urbanisti libanesi) le linee guida per la pianificazione e la salvaguardia dei suddetti centri storici, la seconda affronta piú specificamente il recupero di alcuni elementi tipici dell’urbanistica locale, quali i caravanserragli di Baalbek e Sidone, la terza, infine, riguarda esclusivamente aspetti archeologici: gli interventi nel santuario di Giove Eliopolitano a Baalbek (e che riguardano il tempio di Giove, quello di Bacco, i Propilei, la corte e il muro perimetrale), il restauro e la messa in sicurezza di alcune importanti parti dei due siti archeologici di Tiro (l’area di Al Mina, un tempo insulare e che ospita i resti dell’antico porto e quella di Al Bass, con la vasta necropoli fenicia e il celebre ippodromo romano), il consolidamento del Castello di Terra di Sidone. Abbiamo visitato i luoghi in cui operano i nostri archeologi e siamo tornati con la ferma convinzione che la cooperazione debba lavorare proprio in questa direzione: per «costruire, difendere o ricostruire ponti» come suggerisce Giandandrea Sandri nell’intervista a p. 45. E per ricordare al mondo l’immenso potenziale di bellezza e di conoscenza di un patrimonio culturale, uscito miracolosamente indenne da anni di conflitti bellici, e in attesa di essere riscoperto. Andreas M. Steiner Tiro (Libano). Una veduta dell’antico quartiere portuale di Al Mina.


SOMMARIO EDITORIALE

Un ponte per il Libano

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

6

SCOPERTE La preparazione di una mostra sull’abbigliamento dei Vichinghi ha portato a una scoperta che getta nuova luce sui rapporti fra il Nord Europa e il mondo arabo 6

A TUTTO CAMPO Un progetto didattico sviluppato presso l’Università di Siena conferma che la lingua etrusca è un mistero solo presunto 14 PAROLA D’ARCHEOLOGO La donazione della Collezione Lolli Ghetti arricchisce in maniera significativa le raccolte del Museo «Claudio Faina» di Orvieto 18

48 MUSEI

Guerrieri in parata

48

di Stefano Mammini

ALL’OMBRA DEL VULCANO L’apertura al pubblico della Casa del Marinaio rivela un complesso pompeiano unico, composto da una struttura residenziale e un quartiere commerciale 8 SCAVI Indagini condotte nella Villa Belmonte di Palermo offrono dati preziosi sulla fase punica della città siciliana 10

SCAVI

I tesori del «Quarto vuoto»

60

di Claudio Giardino

60

28 REPORTAGE

Ritorno a Baalbek

28

di Andreas M. Steiner In copertina Baalbek (Libano). Gocciolatoio a forma di testa di leone, facente parte della decorazione scultorea del tempio di Giove Eliopolitano.

Anno XXXIII, n. 393 - novembre 2017 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Amministrazione: Roberto Sperti

amministrazione@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale

Hanno collaborato a questo numero: Luca Bachechi è funzionario archeologo presso il Dipartimento di Biologia, Università degli Studi di Firenze. Giuseppina Battaglia è archeologa della Soprintendenza BB.CC.AA. di Palermo. Maria Bernabò Brea è presidente dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Andrea Ciacci è direttore del Laboratorio di Etruscologia e Antichità Italiche all’Università di Siena. Francesco Colotta è giornalista. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (Istituto Internazionale di Studi Liguri). Elena A.A. Garcea è ricercatore confermato di preistoria e protostoria presso l’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale, Cassino. Claudio Giardino è professore associato di preistoria e protostoria europea presso l’Università del Salento, Lecce. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco Archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Manuela Paganelli è archeologa. Anna Revedin è direttore dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Illustrazioni e immagini: Marco Palombi: copertina e pp. 3, 28-33, 35 (centro), 36-43, 44 (alto), 45 – Cortesia Enköpings museum, Enköping: Annika Larsson: p. 6; Therese Larsson: p. 7 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 8-9 – Cortesia Soprintendenza BB.CC.AA. di Palermo: p. 10 – Doc. red.: pp. 12, 34/35 (alto), 44 (basso), 53 (destra), 72-75, 104 – Cortesia degli autori: pp. 14-15, 66-71, 111 – Cortesia Fondazione per il Museo «Claudio Faina», Orvieto: pp. 18-20 – Stefano Mammini: pp. 48-49, 52, 53 (sinistra), 55 (basso), 57, 58 (basso), 59 – Cortesia Museo Archeologico Nazionale, Cagliari: Luigi Corda: pp. 51, 58 (alto) – Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Cagliari: pp. 54, 55 (alto); Luciana Tocco: p. 56 (alto) – Shutterstock: pp. 60/61, 63 (alto), 64/65 – Getty Images: Thomas Imo: p. 62 – Cortesia Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale: pp. 76/77, 78-82, 83 (basso), 84, 85 (basso) – DeA Picture Library: S. Vannini: pp. 83 (alto), 85 (alto) – Archivio Fotografico Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze: pp. 86-93, 94 (alto), 95-97, 98 (basso), 99-101 – Mondadori Portfolio: Leemage: pp. 102/103; AKG Images: pp. 106, 107 (alto), 110; Album: p. 108 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 34 (alto), 50 (alto), 63, 77, 94, 98, 107.


MUSEI

Storie del bosco sacro

76

di Carlo Casi e Manuela Paganelli

86 SPECIALE

Africa, la prima arte

86

testi di Maria Bernabò Brea, Elena A.A. Garcea, Anna Revedin, Luca Bachechi e Andrea De Pascale

76 Rubriche

QUANDO L’ANTICA ROMA... …portò al Danubio la sua «frontiera»

IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

di Daniele Manacorda

di Francesca Ceci

Voltarsi indietro per guardare avanti 102

106

di Romolo A. Staccioli

Il volo del toro innamorato 110

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Editore: My Way Media S.r.l. Direttore generale: Andrea Ferdeghini Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Pubblicità Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com tel. 335 8437534 Direzione, sede legale e operativa Via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano tel. 02 00696.352 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa: NIIAG Spa - Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18 ] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano

LIBRI

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AVVISO AI LETTORI In questo numero, per motivi di spazio, non compare la quarta e ultima puntata della serie di Flavio Russo dedicata alle artiglierie navali, che sarà pubblicata il mese prossimo.

Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 E-mail: collez@mondadori.it Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti casella postale 1879, 20101 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


n otiz iari o SCOPERTE Svezia

UN CORREDO... ALLO SPECCHIO

A

Enköping, città della Svezia situata un’ottantina di chilometri a ovest di Stoccolma, l’allestimento di una mostra sull’abbigliamento di età vichinga ha portato a una scoperta sorprendente, che ha aperto nuove prospettive per lo studio dei contatti tra il Nord Europa e l’area centro-asiatica e medio orientale. Autrice della scoperta è stata Annika Larsson, archeologa dell’Università di Uppsala specializzata in materiali tessili. Nel febbraio 2017, durante i preparativi per l’esposizione – che si è aperta nello scorso ottobre –, la studiosa stava esaminando alcuni reperti restituiti dagli scavi di sepolture di Birka e Gamla Uppsala e, in particolare, alcuni frammenti tessili provenienti dalla barca funeraria 36 di Gamla Uppsala, catalogati come abbigliamento tradizionale di epoca vichinga. Mentre cercava di replicarne i motivi decorativi, si è resa conto che i segni ricamati in filo d’argento le ricordavano qualcos’altro, già osservato in un contesto del tutto differente, ovvero su nastri di fattura moresca, di provenienza iberica. Si è fatta strada l’intuizione che, sotto l’apparenza geometrizzante della decorazione, potesse nascondersi dell’altro. Infatti, la consulenza di un collega iraniano ha riconosciuto in quelle forme una scrittura in caratteri cufici, che riportava il nome «Ali» (genero di Maometto, nonché quarto imam e figura altamente venerata

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Nella pagina accanto, in basso: frammento di tessuto in seta, dalla barca funeraria 36 di Gamla Uppsala. IX sec. Enköping, Enköpings Museum. Nella pagina accanto, in alto: particolare ingrandito della decorazione in caratteri cufici presente sul frammento. A sinistra: un primo piano dell’allestimento della barca funeraria 36, da Gamla Uppsala all’interno della mostra Viking Couture.

nell’Islam). Già questa è stata una scoperta sorprendente, in quanto si tratta del primo documento storico di questo tipo rinvenuto nella penisola scandinava. Inoltre, il nome era associato a una seconda grafia. che però risultava ancora illeggibile. Infine, è apparso che, osservando i caratteri in trasparenza – o allo specchio –, i segni riproducevano la parola «Allah». Larsson ha dichiarato di aver rinvenuto questa esatta associazione in almeno 10 dei 100

campioni di tessuto da lei esaminati, e di voler applicare questa chiave di ricerca anche ad altri reperti assimilabili. I contatti tra l’estremo Nord e il mondo arabo non sono una novità in epoca medievale, come testimoniato anche dai ritrovamenti archeologici di numerose monete arabe nei villaggi vichinghi. Anche nel 2015, l’iscrizione «Allah» era stata identificata su un anello proveniente da una sepoltura di Birka, databile all’VIII secolo.

Per spiegare la presenza di queste scritte sui corredi funerari di Gamla Uppsala, Larsson ha formulato varie ipotesi. Una delle piú affascinanti è quella che vede concetti religiosi come il Paradiso e la vita eterna dopo la morte raggiungere la Scandinavia attraverso le rotte commerciali dall’Asia e dal Medio Oriente, e – prima della diffusione del cristianesimo –, influenzare gli usi funerari vichinghi. Questo sarebbe coerente con l’ampio ricorso alla seta nelle sepolture, in assonanza con l’associazione di questo materiale con il Paradiso. A supporto la studiosa cita la mitologia vichinga, testi storici scandinavi del XII secolo e la testimonianza del viaggiatore arabo Ibn Fadlan, il quale, nel X secolo, lascia memoria di un funerale vichingo nella Russia orientale. Appare meno probabile, invece, che gli individui sepolti fossero di fede islamica, poiché le iscrizioni decifrate sembrano mostrare un carattere sincretico piú che una stretta aderenza dottrinale. Per ottenere maggiori dati sull’origine etnica e geografica degli individui che indossavano i tessuti, i resti umani saranno adesso sottoposti alle analisi del DNA, di cui si attendono i risultati per febbraio del 2018. Paolo Leonini

DOVE E QUANDO «Viking Couture» Enköping, Enköpings Museum fino al 3 febbraio 2018 Info museum@enkoping.se

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

CASA E BOTTEGHE IL RECUPERO DEL COMPLESSO «DEL MARINAIO» HA PERMESSO DI APRIRE AL PUBBLICO UN INSIEME INSOLITO PER POMPEI, NEL QUALE LA STRUTTURA RESIDENZIALE SOVRASTA UN QUARTIERE COMMERCIALE E PRODUTTIVO

C

on il Grande Progetto Pompei prosegue, nell’area del Parco archeologico, l’apertura di edifici meno noti e finora inaccessibili per esigenze di sicurezza e di restauro. Insieme al complesso di Championnet (vedi «Archeo» n. 390, agosto 2017), un’altra interessante casa, detta «del Marinaio» (Regio VII 15,2), è stata sottoposta a un lungo intervento di recupero che oggi consente

finalmente di apprezzare questa grande residenza, distinta da alcuni interessanti elementi funzionali e decorativi. L’edificio è ubicato in una zona panoramica della città, nei pressi del Foro, e, come molti altri edifici residenziali pompeiani, il suo primo impianto risale all’età tardo-sannitica (fine II secolo a.C.). La costruzione della casa richiese un grande impegno edilizio dal

momento che fu necessario livellare il terreno per colmare la differenza di quote che segnava questo settore, affacciato sul margine occidentale del pianoro urbano. L’andamento del terreno era infatti sensibilmente scosceso verso nord-est, e venne pertanto adottata una soluzione particolare: la casa poggia su due diverse superfici, a sud su un alto terrazzamento riempito artificialmente e ben livellato, a nord, invece di riportare un enorme quantitativo di terreno, si imposta su una serie di ambienti voltati semi-ipogei accessibili da un vicolo che fiancheggia l’intero edificio.

BELLEZZA E PRATICITÀ Al di sotto della residenza è stato cosí ricavato un vasto quartiere sotterraneo a carattere commerciale e produttivo, evidentemente controllato o gestito dai proprietari della casa. Si tratta di una configurazione Il mosaico con decorazioni di tipo geometrico che orna uno degli ambienti di rappresentanza della Casa del Marinaio, situata nella Regio VII di Pompei. La prima fondazione della struttura risale all’età tardo-sannitica, intorno alla fine del II sec. a.C. Al di sotto della residenza venne ricavato un quartiere commerciale e produttivo.

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In alto: veduta d’insieme della Casa del Marinaio. A sinistra: l’impluvium della dimora, il cui pozzo conserva i segni delle corde usate per tirare i secchi con si attingeva l’acqua. architettonica e funzionale praticamente unica nel panorama pompeiano, destinata a coniugare le bellezze di una tipica domus urbana con la praticità di un laboratorio artigianale. La dimora sovrastante si rivela estremamente elegante nella sua articolazione planimetrica e nei suoi elementi decorativi; i due piani della casa, residenziale e produttivo, sono stati raccordati mediante un ampio giardino fortemente incassato, situato nell’angolo nord-ovest della costruzione. All’interno del giardino fu allestita, dagli inizi del Novecento, una straordinaria collezione di anfore rinvenute in diversi punti di Pompei, purtroppo andata distrutta in seguito al

devastante bombardamento aereo che colpí il sito nel settembre del 1943. Di questo drammatico evento resta oggi il ricordo in un cumulo di cocci raccolto all’interno del cratere di una delle bombe.

PITTURE E MOSAICI I principali ambienti della dimora si aprono su un grandioso atrio tuscanico con apparati decorativi di Terzo stile, e numerosi mosaici pavimentali in bianco e nero con accurati motivi geometrici. L’impluvium rettangolare, in tufo di Nocera sapientemente modanato, era attrezzato con un pozzo in marmo bianco sul quale sono ancora visibili i profondi solchi lasciati dalla corda legata al secchio con cui veniva attinta l’acqua.

La sala piú interessante della casa è rappresentata dall’accogliente oecus, utilizzato come triclinio invernale, posto subito a est dell’ingresso alla casa. Pavimentato in cocciopesto, l’ambiente era fornito di due alte finestre collegate, attraverso canne fumarie interne al muro, a feritoie utilizzate per l’aerazione della stanza. Nel I secolo a.C. l’edificio fu ampliato a est con una nuova ala destinata a ospitare un piccolo impianto termale privato, mentre nell’ultima fase di vita dell’edificio gli spazi del livello inferiore vennero riconvertiti a laboratorio di un panificio con annessi magazzini; inoltre venne ricavato, stavolta a ovest della casa, un secondo atrio per accedere al settore servile a servizio della proprietà. La casa prende nome dal mosaico, parzialmente conservato, che orna il suo ingresso (fauces) nel quale sono rappresentate sei navi ormeggiate negli arsenali, possibile allusione alla tranquillità offerta dall’abitazione ai suoi occupanti oppure all’attività di armatore svolta dal suo facoltoso signore. Per notizie e aggiornamenti su Pompei, pagina Facebook Pompeii-Parco Archeologico.

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n otiz iario

SCAVI Palermo

VILLA CON ROVINE

N

ell’ambito dei lavori di ristrutturazione della Villa Belmonte – una signorile residenza neoclassica affacciata sul golfo di Palermo, e inserita in un parco all’inglese alle falde di Monte Pellegrino, che chiude a nord il Golfo di Palermo – sono in corso indagini archeologiche che hanno iniziato a fornire nuovi dati sulla fase punica della città. Già durante la costruzione della rotabile (1903-1924) – che raggiunge la sommità del Monte – si rinvennero numerosi reperti appartenenti soprattutto ad anfore puniche. Ora, malgrado condizioni di scavo non sempre facili a causa del dilavamento, sono state

biancastro, mentre probabilmente vi era una copertura straminea, data l’assenza di tegole. Questi ambienti sono interpretabili come magazzini per via della notevole quantità di anfore puniche, databili, in via preliminare, alla metà del III secolo a.C., e dunque coeve alla prima guerra punica. Oltre a questi ambienti, è stato messo in luce il tratto di una strada, larga circa 3 m, con andamento da SW a NE. Il percorso presenta una massicciata di preparazione costituita da blocchi di varia pezzatura, sui quali poggia un primo strato di calce/battuto (?) in cui vi è qualche blocchetto; la parte In alto: Palermo. Villa Belmonte vista dal porticciolo dell’Acquasanta. A sinistra: alcuni degli ambienti messi in luce grazie agli scavi condotti nell’area della villa e riferibili alla fase punica della città di Palermo.

rintracciate strutture murarie – di cui si conserva solo il primo filare – poggiate sulla roccia, che in alcuni punti è stata ribassata. Gli ambienti presentano un battuto bianco (calce?), posto a diretto contatto con la roccia, spesso utilizzato per livellare le asperità della stessa. I muri sembrano realizzati con una tecnica a «pseudo-telaio», nella quale si alternano, con un passo abbastanza regolare, blocchi di pietra squadrati a blocchetti sbozzati. Per l’alzato vennero utilizzati anche blocchi di tufo

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centrale è piuttosto convessa per favorire il deflusso dell’acqua piovana. Un altro strato di calce/battuto (?) ricopre il precedente e presenta un maggiore appiattimento della parte centrale. Sebbene non abbiano un aspetto monumentale, questi resti arricchiscono le scarse testimonianze sulla Palermo punica e assumono un grande valore storico. Sappiamo da Polibio che, nel 254 a.C., la città venne conquistata dai Romani; nel 251 Cartagine pone l’assedio per

riconquistarla, ma il tentativo fallisce; dal 247 al 245 Amilcare Barca, padre di Annibale, pone l’accampamento sul Monte Eirkte (identificabile con il Monte Pellegrino), da dove partono azioni continue contro i Romani, i quali, a loro volta, pongono un accampamento davanti a Palermo, per difenderla. Sembrerebbe quindi che questo insediamento stabile e strutturato, in una posizione strategica per il controllo del Golfo di Palermo, da cui si gode di un’ottima visuale fino a Monte Catalfano – il promontorio che chiude a sud il Golfo stesso, su cui sorge la città di Solunto (altra città punica) – sulla città antica, la piana circostante e le montagne poste a corona della stessa e dell’accesso al Monte, potrebbe essere il campo di cui narra Polibio. Alla luce dei dati fin qui acquisiti grazie allo scavo, sembra abbastanza definito il tempo dell’abbandono del sito (metà del III secolo a.C), mentre occorre ancora verificare quando ne venne avviata la fondazione. Giuseppina Battaglia



ROMA

Alta formazione on line Unitelma Sapienza, la «sorella» telematica dell’omonimo ateneo romano, ha attivato un Corso di laurea magistrale in Classical Archaeology in lingua inglese. Il corso intende fornire un’approfondita formazione nell’ambito dell’archeologia classica. In particolare, ricorrendo a una metodologia didattica nella quale si combinano risorse di tipo sia tradizionale (conoscenze storico-archeologiche, linguistico-filologiche, artistiche), sia innovativo (applicazione dei piú evoluti metodi indirizzati alla conoscenza della cultura materiale), si propone di formare laureati di secondo livello con competenze archeologiche e storiche. Il corso di laurea è interamente in lingua inglese. La didattica segue il modello di e-learning di Unitelma Sapienza ed è realizzata interamente in lingua inglese. È previsto un tirocinio obbligatorio, da svolgersi a Roma o in altro sito archeologico da concordare con la direzione del corso. Gli esami si svolgono esclusivamente in presenza, presso la sede di Unitelma Sapienza in Roma. Sono previste tre sessioni di esami, come da calendario. Le iscrizioni sono aperte tutto l’anno senza alcuna limitazione temporale. Si possono seguire le lezioni, prenotarsi agli esami, stampare certificati e connettersi con Unitelma Sapienza, 24 ore su 24, 365 giorni l’anno, da qualsiasi computer, tablet e smartphone. Per ulteriori informazioni, si può consultare il sito: www.unitelmasapienza.it

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SCOPERTE Atene

PAGNOTTE DI MARCA

I

lavori in corso ad Atene per il prolungamento fino al Pireo della rete ferroviaria metropolitana – avviati nel 2013 – continuano a gettare luce sulla storia antica della capitale ellenica. Tra le acquisizioni piú recenti, spicca, per l’ottimo stato di conservazione e per le sue caratteristiche, il ritrovamento di un piccolo oggetto, recuperato da un gruppo di 14 fosse scoperte a una profondità compresa tra i 15 e 18 m, che contenevano numerosi altri reperti, databili tra il IV e il I secolo a.C. e in maggioranza risalenti all’epoca della conquista di Silla (86 a.C.). Si tratta di un sigillo in legno, un parallelepipedo rettangolo con due facce piú larghe e due piú strette (5,7 x 4,7 x 3,4 cm), attraversato in lunghezza da un foro passante, nel quale era inserito uno stelo attorno a cui il blocco poteva ruotare. Le quattro superfici allungate sono scavate a bassorilievo ciascuna con una raffigurazione diversa. Su una delle facce piú larghe è rappresentato un grappolo d’uva assieme a un’anfora (un tema dionisiaco, in cui l’uva viene interpretata come materia prima per la produzione del vino), mentre su quella opposta si vede il profilo di un leone seduto sulle zampe posteriori, rivolto verso sinistra. Su uno dei lati stretti si trova Eracle, con pelle leonina e clava, il busto in posizione frontale, la testa e la parte inferiore del corpo tracciate di profilo e rivolte verso sinistra. Sulla faccia opposta, invece, compare un centauro dal corpo leonino con la testa umana, barbuta e con una corona passante tra i capelli, nell’atto di suonare il flauto (aulós), anche qui di profilo e orientato verso sinistra.

Una delle facce del sigillo in legno verosimilmente utilizzato per marchiare sul pane. Il reperto proviene da fosse scavate ad Atene, il cui riempimento ha restituito materiali databili tra il IV e il I sec. d.C., ma perlopiú ascrivibili all’epoca della conquista sillana della città. Nell’antica Grecia i laboratori di ceramica realizzavano sigilli in argilla con i quali imprimere sui vasi e sulle maniglie delle anfore il proprio marchio di fabbrica o il simbolo della merce contenuta. Era anche diffusa la tecnica della decorazione parietale, con rilievi in gesso o calce, ottenuti con l’ausilio di matrici. Anche per la lavorazione dei metalli venivano adoperati stampi in argilla, mentre nel campo dell’oreficeria si utilizzava il legno. Nel caso del nostro oggetto, invece, l’ipotesi è che si tratti di uno stampo utilizzato per marchiare le forme di pane. Un impasto morbido non avrebbe usurato il materiale, che infatti si presenta in ottimo stato, e le linee «aperte» delle figurazioni avrebbero reso agevole la pulitura dei residui eventualmente rimasti attaccati. Inoltre, in epoca antica, durante riti religiosi o funebri è attestata l’usanza di produrre e offrire preparati simili al pane (pópana) marchiati con i simboli propri dell’occasione, e quelli tracciati sulle facce di questo reperto ne sarebbero una testimonianza. Paolo Leonini



A TUTTO CAMPO Andrea Ciacci

L’ETRUSCO SENZA MISTERI UN RECENTE PROGETTO DIDATTICO SVILUPPATO DALL’UNIVERSITÀ DI SIENA HA DIMOSTRATO COME LA LINGUA DELLA PIÚ IMPORTANTE POPOLAZIONE DELL’ITALIA PREROMANA POSSA ESSERE LETTA E COMPRESA. ANCHE DA CHI NON SIA ARCHEOLOGO O GLOTTOLOGO

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el millennio del villaggio globale, i detrattori della cultura classica sostengono che la conoscenza del mondo classico e delle «lingue morte» non serva al successo individuale. Figurarsi l’etrusco, un dialetto non indoeuropeo, di difficile comprensione per gli stessi contemporanei, ma ampiamente diffuso nell’Italia del VI secolo a.C.: affiancato e poi sostituito dal latino, venne gradualmente abbandonato dalle comunità che lo parlavano. Nel suo bel manuale Iscrizioni etrusche: leggerle e capirle, Enrico Benelli scrive con efficacia che «gli Etruschi non sono marziani…»: questo popolo esprime infatti una cultura viva, dinamica, non isolata, ma interagente con le altre antiche comunità del Mediterraneo. Gli oltre 10 000 testi sopravvissuti sono nella maggior parte intellegibili, consistendo in brevi e ripetitive formule onomastiche, di dono, di possesso e funerarie, in analogia con le culture del tempo. Le difficoltà sussistono nei testi «lunghi», circa una trentina, che – pur comprensibili nei tratti generali – presentano molte parole estranee alla fraseologia conosciuta. In Italia – sostiene ancora Benelli – l’epigrafia etrusca

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Prove di scrittura con l’«alfabeto mobile» realizzato nell’ambito del progetto «Impariamo a leggere e scrivere l’etrusco… e a capirlo». è disciplina nella formazione universitaria: è però la mancanza di opere scientificamente rigorose ma di alta divulgazione ad alimentare il «mistero», in un mercato che pullula di manuali con speculazioni prive di fondamento. La situazione non migliora nei manuali scolastici per la scuola primaria, spesso carenti di stimoli e risorse sulla cultura etrusca e in particolare sulla lingua.

Gli Etruschi trassero i segni alfabetici dai dialetti greci in uso nell’VIII secolo a.C, soprattutto da quello euboico. Adottati anche nel latino, con la probabile mediazione degli stessi Etruschi, sono poi transitati nell’italiano. I segni degli alfabeti greci hanno subíto nel tempo adattamenti, modificazioni, integrazioni: vi sono stati processi di rifunzionalizzazione dei grafemi, per adattarli alle esigenze fonetiche


dell’etrusco e del latino (a un segno viene attribuito un suono diverso da quello che aveva nell’alfabeto originale), ma ancora quelli oggi usiamo. In particolare, e banalizzando molto i concetti, nell’etrusco le vocali erano a, e, i, u (la vocale o era segno muto, dal momento che non esisteva il suono corrispettivo e si utilizzava u), le consonanti erano prive dei suoni b e d, sostituiti dalla controparte sorda p e t, la lettera f venne «inventata» ex novo, adottando il segno 8.

SPECIALISTI E NON Lo studio della lingua etrusca è certamente un tema da specialisti e da glottologi: ciononostante si possono trasmettere le nozioni di base anche a un pubblico non esperto, fatto di adulti, ma anche di bambini in età scolare, cosí da renderli partecipi di una cultura che ha fondato le basi della nostra scrittura. In poche ore è possibile apprendere l’alfabeto base e conoscerne le proprietà fonetiche: si può poi cominciare a scrivere, per esempio, il proprio nome in etrusco. «Impariamo a leggere e scrivere l’etrusco… e a capirlo» è stato il titolo di un tirocinio di epigrafia etrusca dell’Insegnamento e Laboratorio di Etruscologia e Antichità Italiche dell’Università di Siena. Gli studenti stessi sono stati impegnati nella messa a punto di

un metodo didattico per insegnare le basi della lingua etrusca agli alunni delle scuole elementari e medie e questo è stato possibile attraverso la preparazione di una sequenza semplificata dell’alfabeto, di semplici frasi da leggere e di analisi di nomi di luoghi nel territorio senese di chiara derivazione etrusca Per la composizione delle parole da parte dei giovanissimi epigrafisti si è fatto ricorso all’uso di strumenti scrittori «tradizionali» (stilo su tavoletta di argilla e pennello su pezze di lino), senza rinunciare all’uso di tecnologie piú avanzate per realizzare un «alfabeto mobile». Le singole lettere sono state ottenute mediante l’uso di una stampante 3D presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione e Scienze Matematiche e di una macchina a taglio laser su tavole di compensato messa a disposizione dal SantaChiaraLab, sempre nell’ateneo senese. L’«alfabeto mobile», composto quindi da lettere in materiale termoplastico (dotate anche di microcalamite per aderire a superfici metalliche) e legno, oltre a rappresentare uno strumento di apprendimento divertente per i bambini (ma anche per gli adulti), si distingue anche per la sua tattilità, utile per gli ipovedenti o non

In alto: esperienza di lettura di epigrafi etrusche presso il Museo Archeologico di Siena. In basso: alcuni membri del gruppo di lavoro durante la Festa dei Musei Scientifici 2016. vedenti. Da ultimo, i bambini si sono confrontati con le epigrafi etrusche reali del Museo Archeologico del Santa Maria della Scala a Siena, con ottimi risultati. Apprendimento universitario, studio di una mappa concettuale per il trasferimento del sapere verso un’utenza diffusa, in particolare scolare, individuazione di stimoli alla comprensione, tecnologie avanzate per la produzione degli strumenti didattici hanno quindi costituito i capisaldi di un’attività che è poi entrata a far parte del Progetto ESCAC (Educazione Scientifica per una Cittadinanza Attiva e Consapevole), realizzato dall’Università di Siena (Sistema Museale Universitario Senese), dalla Fondazione Musei Senesi e dall’Ufficio Scolastico Regionale per la Toscana. Hanno collaborato Marta De Pari, Valerj Del Segato, Irene Fiorentini, Nicola Longo, Elisa Papi, Giulia Reconditi, Giulio Saltarelli.

(andrea.ciacci@unisi.it)

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CANINO (VITERBO)

Storie di sfingi ed esseri prodigiosi Si è appena inaugurata a Canino (Viterbo), nel Museo della Ricerca Archeologica di Vulci-Ex Convento di S. Francesco, la mostra «La Sfinge e altre creature fantastiche», un viaggio nell’immaginario antico, in un mondo in cui figure eroiche e racconti avventurosi sono l’espressione simbolica dei problemi esistenziali. Partendo dalla voce degli autori antichi, l’esposizione ricerca, sotto le narrazioni, il senso dell’esperienza umana narrata dal mito. A questa traccia sono affiancati i materiali archeologici, provenienti da Vulci e dal suo comprensorio, una scelta giustificata dalla circolazione di beni e di idee dei primi secoli del I millennio, che porta in Etruria prodotti e ideologie dall’Egeo e dall’Oriente e accende la passione dell’aristocrazia etrusca per il mito greco. Il percorso espositivo si sviluppa in tre sezioni: la prima è dedicata a creature metà uomini e metà animali, esseri che vivono tra il mondo umano e quello ferino, tra cultura ragionevole e natura selvaggia; la seconda è riservata ai mostri; l’ultima sezione racconta infine dei grandi felini, creature che, sebbene reali, erano scomparse dalla fauna locale e potevano essere conosciute solo grazie a immagini e racconti da paesi esotici. La mostra sarà aperta fino al 31 dicembre, con i seguenti orari: venerdí, 15,00-17,00; sabato e domenica, 10,00-12,30 e 15,0017,30. Info: tel. 391 4817164 (Barbari Sarti); www. sabap-rm-met.beniculturali.it

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INCONTRI Rimini

LA CURA DEL CORPO E DELLO SPIRITO

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iunto alla sua XIX edizione, il Festival del Mondo Antico di Rimini – manifestazione di cui «Archeo» è media partner – ha scelto di celebrare il decimo anniversario dell’apertura al pubblico della Domus del Chirurgo. Tema centrale della rassegna – intitolata «I ferri del mestiere. La cultura del prendersi a cuore» – è infatti la cultura del prendersi a cuore, ispirandosi dunque alla Domus come bene culturale e alla figura del chirurgo che per ultimo l’abitò. L’arte del prendersi a cuore l’uomo e i beni comuni verrà declinata in molteplici accezioni, da quella medica a quella rivolta al patrimonio culturale, dalla cura del corpo a quella dello spirito, da quella della res publica a quella della società nelle sue frange piú deboli ed esposte. Temi anche urgenti e portati all’attenzione quotidiana come quelli della prevenzione e della conservazione dei beni culturali, delle emergenze umanitarie e del rispetto dell’ambiente anche attraverso un’educazione alimentare. Gli incontri, spesso nella formula del dialogo a piú voci, coinvolgeranno studiosi che si occupano non solo del mondo greco e romano, ma anche di quello contemporaneo, e sono altresí previsti momenti di spettacolo. Nella Domus del Chirurgo, lo ricordiamo, visse e praticò la sua professione di chirurgo e farmacista, un personaggio giunto ad Ariminum dall’Oriente di cultura greca con la sua grande esperienza

medica. Unico al mondo per ricchezza e varietà di strumenti, il suo corredo chirurgico è composto da oltre 150 pezzi, recuperati nella taberna medica attrezzata all’interno della domus. Straordinaria era anche la sua attrezzatura farmacopeutica, comprendente mortai, pestelli, bilancini e vasetti per la preparazione e la conservazione di medicine e pozioni. Il suo era insomma un ambulatorio in piena regola, con sala d’aspetto, studio e stanza per i piccoli ricoveri, tutti decorati da mosaici e affreschi. (red.)

DOVE E QUANDO «I ferri del mestiere. La cultura del prendersi a cuore» XIX Festival del Mondo Antico Rimini, Museo della Città «Luigi Tonini» 7, 8 e 9 dicembre Info http://antico.comune.rimini.it



PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

VENTITRÉ PREZIOSI DONI PER ORVIETO IL MUSEO «CLAUDIO FAINA» DI ORVIETO ARRICCHISCE LE SUE RACCOLTE GRAZIE ALLA DONAZIONE DELLA COLLEZIONE LOLLI GHETTI

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a promessa è stata mantenuta. La collezione donata dall’architetto Mario Lolli Ghetti al Comune di Orvieto, con il desiderio che fosse esposta nel Museo «Claudio Faina», fa bella mostra di sé in tre nuove sale appositamente dedicate. La donazione comprende ventidue vasi attici del VI e V secolo a.C., che vanno a incrementare il già ricco patrimonio archeologico orvietano, come ci racconta Giuseppe Maria Della Fina, archeologo e direttore del Museo «Claudio Faina». «Ricordo che quando l’amico Mario Lolli Ghetti ci comunicò che desiderava donarci la sua collezione – esordisce Della Fina – mi disse: “L’unica certezza deve essere che la esporrete”. E cosí è stato. È infatti collocata al secondo piano, in tre nuove sale, per concludere il percorso museale. Si tratta di un nucleo di vasi attici a figure nere e rosse, comprendente un grande cratere a colonnette, tre anfore, una pelike, sette kylixes, un rython, un askos, due skyphoi e sei lekythoi. Nel loro insieme, i vasi coprono un arco cronologico che dal VI scende al V secolo a.C. Vi sono raffigurati numerosi miti e scene tratte dalla vita quotidiana, tra cui si segnalano quelle legate alla tessitura».

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Come è nata questa «sinergia» tra collezionista e museo? «L’architetto Mario Lolli Ghetti, personaggio di grande profilo e con una lunga carriera nell’ambito del Ministero dei Beni Culturali, conosceva da tempo il Museo “Claudio Faina” di Orvieto. Forse In basso: una delle opere piú note del Museo «Claudio Faina»: il cippo a testa di guerriero rinvenuto nel 1881 in una tomba della necropoli etrusca di Crocifisso del Tufo, a Orvieto.

ha apprezzato l’organizzazione del percorso espositivo, che ha come filo rosso il tema della storia del collezionismo fra la seconda metà dell’Ottocento e i primi del Novecento, e per questo ha scelto di donare a noi la sua collezione. Ci ha fatto molto piacere,


In basso: la sala del Museo «Claudio Faina» nella quale sono esposti i vasi del vasaio e ceramografo Exekias. perché si tratta un riconoscimento importante della nostra attività museale». Che cosa caratterizza la collezione, e come l’avete valorizzata all’interno del museo? «L’attenzione del collezionista si è incentrata sulla produzione ceramica greca del mondo attico, alla luce delle relazioni molto strette che all’epoca esistevano con il mondo etrusco. I vasi donati coprono due secoli – VI e V a.C. – molto importanti per il mondo greco e per quello etrusco. Nell’allestimento delle vetrine abbiamo scelto un criterio preciso. La prima sala è dedicata ai vasi piú significativi per il collezionista, i

INCONTRO CON MARIO LOLLI GHETTI

Un collezionista onnivoro Mario Lolli Ghetti è docente universitario e ha un lungo passato come Soprintendente regionale per i Beni architettonici (a Roma, in Calabria, in Toscana) e Direttore Architetto nel Ministero per i Beni Culturali, dove ha poco lasciato la Direzione Generale per il Paesaggio e l’architettura. Lo abbiamo intervistato per conoscere la genesi della collezione e i motivi per cui l’ha donata… «Avendo, dopo piú di trent’anni, riunito un insieme di vasi attici, volevo condividere con altri le gioie che questa ricerca mi aveva procurato: la soluzione piú immediata mi è parsa quella di donare tutto a un museo». Perché proprio il Museo «Claudio Faina» di Orvieto? «Ho scelto il Museo “Faina” perché è ottimamente diretto da Giuseppe Dalla Fina, è in bellissima posizione e Giuseppe è amico del mio amico di sempre Marco Olivieri. Inoltre, trovandosi il museo proprio di fronte alla facciata della celebre Cattedrale, mi era garantita un’esposizione costante di vasi che, altrimenti, avrebbero corso il rischio di finire nei depositi o – peggio – venduti. Dopo tante fatiche per riunirli!». Come è nata la collezione? «Il primo pezzo della mia raccolta è stato il grande cratere attico a colonnette, a figure rosse, proveniente con molta ceramica apula da una collezione principesca napoletana, passato poi alla raccolta di una famiglia inglese, a un membro della quale il grande Giovan Battista Piranesi dedicò una tavola con inciso un celebre vaso marmoreo. Il cratere è, poi, finito sul mercato antiquario, dove l’ho acquistato. Dopo queste prime opere, ho comprato presso case d’asta (Pandolfini a Firenze, Babuino e Antonina a Roma) molte coppe e vasi attici per averne una rappresentanza completa, con occhio attento alla qualità e al costo. La grande pelike attica a figure rosse era in importazione temporanea dalla Germania: l’ho acquisita per far sí che il reperto, sebbene privo di pro-

Cratere attico a figure rosse sul quale è dipinta una scena di banchetto in cui, sulla sinistra, si riconosce un giocatore di kottabos. V sec. a.C. venienza, diventasse definitivamente parte del patrimonio italiano. È molto raro trovare vasellame intatto, ma nella mia raccolta ho potuto giovare dell’opera di un restauratore proveniente dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze». Perché ha deciso di collezionare reperti archeologici? «Sono stato spinto dalla curiosità, dal fascino dei reperti e dalla relativa economicità, a confronto con altre categorie di oggetti antichi. Sono però un collezionista onnivoro e ho dedicato la medesima attenzione alle vedute del Grand Tour o ai disegni italiani degli anni del Novecento». Il reperto a cui è piú affezionato? «Il pezzo cui sono piú legato é il grande cratere a colonnette a figure rosse con il giocatore di kottabos del V secolo, proveniente da un’antica collezione napoletana, da me acquistato sul mercato antiquario e ora esposto nella saletta di ingresso alla mia donazione. Da qui sono nati la mia passione per il collezionismo e il mio amore per i vasi attici, con occhio sempre attento alla qualità e al prezzo. È un po’ come la Numero Uno di Paperon de’ Paperoni…».

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A sinistra: una delle sale allestite per ospitare la collezione donata da Mario Lolli Ghetti al Museo «Claudio Faina» di Orvieto. In basso: la «Venere» di Cannicella, una scultura giunta in Etruria dalle coste dell’Asia Minore e utilizzata come statua di culto in un’area sacra a Orvieto.

primi da cui è nata la raccolta, durata oltre trent’anni: un cratere a colonnette a figure rosse, della prima metà del V secolo a.C., sul quale sono raffigurati due giovani a simposio sdraiati su klinai, e una pelike a figure rosse, anch’essa del V secolo a.C. Nella seconda sala abbiamo seguito, invece, un criterio cronologico e tipologico, dai vasi a figure nere a quelli a figure rosse, infine, nella terza sala, c’è la sorpresa...». Vale a dire? «Nell’ultima sala abbiamo esposto il ventitreesimo vaso della collezione. Un vaso campano che Mario Lolli Ghetti ha donato “in piú” rispetto ai ventidue pattuiti. Lo ha portato a sorpresa quella mattina, quando è arrivato a Orvieto, il giorno dell’inaugurazione dell’esposizione... Ha detto: “Vi regalo un’altra cosa, per non lasciare sole le mie opere preferite”. E cosí i pezzi sono in tutto ventitré. Ovviamente, ha prima avvisato le Soprintendenze competenti».

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Nel Museo «Claudio Faina» di Orvieto i vasi attici donati da Mario Lolli Ghetti sono senza dubbio in buona compagnia, non è vero? «Sí, senza alcun dubbio. Questa donazione va ad arricchire la già importantissima serie di ceramica a figure nere e rosse del museo, che ha tra le sue glorie tre anfore a figure nere di Exekias, il massimo vasaio e ceramografo greco del VI secolo a.C.: furono acquistate dai conti Faina e provengono dalla necropoli etrusca di Crocifisso del Tufo, a Orvieto. Si tratta di pezzi greci trovati in tombe di signori etruschi di spicco: nel VI secolo a.C. la città era già importante, in particolare dalla seconda metà del secolo diventa una delle piú

rilevanti del mondo etrusco. Anche perché, nei pressi, doveva trovarsi il Fanum Voltumnae, il santuario federale degli Etruschi. Altri pezzi importanti del museo sono i vasi di produzione locale, come quelli del gruppo cosiddetto “di Vanth” – una bottega artigiana attiva a Orvieto negli ultimi decenni del IV secolo a.C. – e due sculture di rilievo: il cippo a testa di guerriero, pezzo unico della fine del VI secolo a.C. proveniente dalla necropoli di Crocifisso del Tufo, e la «Venere» di Cannicella, realizzata sulle coste dell’Asia Minore, l’odierna Turchia, e poi arrivata in Etruria per essere usata come statua di culto in un’area sacra a Orvieto».



n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

MIRACOLO OMAN La scoperta del sito metallurgico di ‘Uqdat al-Bakrah, nel deserto Rub’al Khali (vedi alle pp. 60-75) ci offre lo spunto per documentare filatelicamente la storia del sultanato dell’Oman. L’onore di inaugurare questa rassegna spetta all’attuale sultano Qaboos bin Said, raffigurato in un francobollo del 2008 (1), salito al trono il 23 luglio del 1970. L’area archeologica di cui si parla nell’articolo si trova a una settantina di chilometri dalla cittadina di Ibri: lo scorcio di una sua strada interna è raffigurato su un francobollo del 1970 (2). Altro sito famoso è quello di al-Ayn, riprodotto dalla cartolina cinese del 2011 (3); qui sono state rinvenute tombe preistoriche, simili a piccoli nuraghi (4), e una quantità 6 considerevole di reperti archeologici. Molte altre zone del Paese sono ricche di ritrovamenti, come prova l’iscrizione del 100 a.C. (5) trovata a Khor-Rori nei pressi di Salalah, nella regione del Dhofar. Oggi il sultanato è una meta molto ambita dal punto di vista turistico, con i suoi tanti castelli e fortezze disseminati in tante parti 7 del Paese, a partire da quello della capitale, Muscat, qui riprodotto in francobollo del 1978 insieme al volto di un giovane sultano (6), o a quello di Jabreen, raffigurato prima e dopo il restauro (7) con uno dei suoi soffitti (8), o anche a quelli di Nizwa (9) e Samail (10). 11 Molto visitata, nella capitale, è la grande moschea del sultano Qaboos: i dieci francobolli al lato riproducono altrettante porte esistenti all’interno della moschea (11-12). Infine anche le attrattive naturalistiche stanno contribuendo a incrementare il turismo del sultanato; 12 molto apprezzate sono le spiagge, alcune delle quali meta di tartarughe marine (13), e anche le zone interne, con cascatelle (14) e laghetti (15) che non farebbero mai pensare a quanto sia vicino il deserto!

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

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Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

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Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



CALENDARIO

Italia

Pretiosa vitrea

L’arte vetraria antica nei musei e nelle collezioni private della Toscana Museo Archeologico Nazionale di Firenze fino al 29.01.18

ROMA La bellezza ritrovata

Arte negata e riconquistata in mostra Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori fino al 26.11.17

GROSSETO, MANCIANO Marsiliana d’Albegna

ArchæoMusica

Dagli Etruschi a Tommaso Corsini Museo Archeologico e d’Arte della Maremma Museo di Preistoria e di Protostoria della Valle del Fiora fino al 31.12.17

I Suoni e la Musica dell’Antica Europa Parco Regionale dell’Appia Antica (ex Cartiera Latina) fino all’11.12.17

MILANO Milano in Egitto

Traiano

Costruire l’Impero, creare l’Europa Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 16.09.18 (dal 29.11.17)

Gli scavi di Achille Vogliano nel Fayum Civico Museo Archeologico fino al 15.12.17

CAPACCIO PAESTUM (SA) Action painting

Egitto

Rito & arte nelle tombe di Paestum Museo Archeologico Nazionale fino al 31.12.17

La straordinaria scoperta del Faraone Amenofi II MUDEC, Museo delle Culture di Milano fino al 07.01.18

CAVRIGLIA (AR) Mithra

MODENA Mutina Splendidissima

Un dio orientale in Valdarno Auditorium del Museo Mine fino al 31.12.17

COMO Prima di Como

Nuove scoperte archeologiche dal territorio Chiesa di S. Pietro in Atrio fino al 10.11.17

FINALE LIGURE BORGO (SV) Ad fines. 500 miglia da Roma Al tempo dei Romani nel Finale Museo Archeologico del Finale fino al 03.06.18 (prorogata)

FIRENZE Acque Sacre

Culto etrusco sull’Appennino toscano Consiglio regionale fino al 20.01.18

La città romana e la sua eredità Foro Boario fino all’08.04.18 (dal 25.11.17) Guttus ornitomorfo dalla Tomba 3 di Grandate.

Testa ritratto di un principe di epoca tolemaica.

MONTALTO DI CASTRO (VT) Egizi Etruschi Da Eugene Berman allo Scarabeo dorato di Vulci Complesso Monumentale di S. Sisto fino al 30.11.17 (prorogata)

NAPOLI Diario mitico

Cronache visive sulla Collezione Farnese Museo Archeologico Nazionale fino al 19.12.17 (dal 17.11.17)

PAVIA Longobardi

Un popolo che cambia la storia Castello Visconteo fino al 03.12.17

SEGNI (ROMA) Dalla camera oscura alla prima fotografia

Architetti e archeologi a Segni da Dodwell a Ashby e Mackey Museo Archeologico Comunale fino al 07.01.18

TORINO Missione Egitto, 1903-1920

L’avventura archeologica M.A.I. raccontata Museo Egizio fino al 14.01.18 26 a r c h e o


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

VICENZA Le ambre della principessa

Storie e archeologia dall’antica terra di Puglia Gallerie d’Italia, Palazzo Leoni Montanari fino al 07.01.18

VILLANOVA DI CASTENASO (BO) Villanova e Verucchio Un’antica storia comune MUV-Museo della civiltà Villanoviana fino al 10.06.18

Francia PARIGI L’Africa delle rotte

Musée du quai Branly Jacques Chirac fino al 12.11.17

ARLES Il lusso nell’antichità

Tesori della Bibliothèque nationale de France Musée départemental Arles antique fino al 21.01.18

LENS Musiche!

Echi dell’antichità Musée du Louvre-Lens fino al 15.01.18

Una pericolosa perfezione

Antichi vasi funerari dall’Apulia Altes Museum fino al 21.01.18

Ricostruzione dell’equipaggiamento di un cavaliere scita.

Gran Bretagna LONDRA Gli Sciti

Guerrieri dell’antica Siberia The British Museum fino al 14.01.18

Grecia ATENE εmotions

Un mondo di sentimenti Museo dell’Acropoli fino al 19.11.17

Olanda LEIDA Ninive

Cuore di un antico impero Rijksmuseum van Oudheden fino al 25.03.18

LES EYZIES-DE-TAYAC Il terzo uomo Preistoria dell’Altai Musée national de préhistoire fino al 13.11.17

Germania BERLINO Cina ed Egitto

Culle dell’umanità Neues Museum fino al 03.12.17

Svizzera SCIAFFUSA Etruschi

Una grande civiltà antica all’ombra di Roma Museum zu Allerheiligen fino al 04.02.18 a r c h e o 27


REPORTAGE • LIBANO

RITORNO A

BAALBEK DEDICATO A UNA TRIADE DIVINA CAPEGGIATA DA GIOVE ELIOPOLITANO, IL PIÚ GRANDE COMPLESSO SACRALE DELL’IMPERO ROMANO VENNE COSTRUITO SUL LUOGO DI UN ANTICHISSIMO SANTUARIO CANANEO. E LE SUE MAGNIFICHE ARCHITETTURE, DALL’INCONFONDIBILE APPARENZA CLASSICA, RIVELANO TUTTAVIA ASSONANZE SIGNIFICATIVE CON I CELEBRI SANTUARI DEL VICINO ORIENTE. OGGI LA «CITTÀ DEL SOLE» È AL CENTRO DI UN PROGETTO INTERNAZIONALE DI RESTAURO E VALORIZZAZIONE, INTESO A RICHIAMARE L’ATTENZIONE MONDIALE SU QUESTO GIOIELLO DEL PASSATO di Andreas M. Steiner, reportage fotografico di Marco Palombi


Baalbek-Heliopolis (Libano). Le sei colonne del tempio di Giove, nascoste dietro una fitta impalcatura, ai fini del loro monitoraggio statico e del restauro delle superfici lapidee. Qui sopra: il particolare di un gocciolatoio a forma di testa di leone, facente parte della decorazione scultorea del tempio. a r c h e o 29


REPORTAGE • LIBANO

Intorno al 114 d.C. l’imperatore Traiano (di cui, come i lettori sanno, quest’anno ricorrono i 1900 anni dalla morte) volle interrogare l’oracolo di Giove Ottimo Massimo Eliopolitano, la principale divinità di Baalbek, per avere lumi sul possibile esito della sua prossima campagna contro i Parti. Il principe, però, non si fidò ciecamente del dio «levantino» (con il quale condivideva, peraltro, l’epiteto di Optimus) e lo mise alla prova, inviandogli una lettera sigillata… in bianco. L’oracolo rispose con una lettera altrettanto vuota e allora Traiano, ormai convinto, si rivolse nuovamente al dio, questa volta con una lettera vera, nella quale gli chiedeva se la campagna militare sarebbe stata coronata da successo. L’oracolo replicò con l’invio di alcuni rametti spezzati di un tralcio di vite. 30 a r c h e o

Secondo Macrobio, il filosofo e scrittore vissuto nel V secolo d.C. che ci ha tramandato l’episodio, la misteriosa missiva venne interpretata negativamente, con i rametti a simboleggiare che solo le ossa dell’imperatore sarebbero tornate. Invero, Traiano si ammalò e morí a Selinunte di Cilicia nel 117, sulla via di ritorno dalla campagna. Ora, molti storici moderni ritengono la vicenda riferita da Macrobio nella sua opera principale, i Saturnalia, un’invenzione; anche, e soprattutto, in considerazione del fatto che l’autore scriveva quasi tre secoli dopo il supposto avvenimento. Rimane il fatto che il racconto dimostra come l’oracolo di Baalbek fosse ancora tenuto in alta considerazione dai pensatori (non cristiani) della tarda antichità.


L’impalcatura che ricopre le sei colonne (alte 20 m) del tempio di Giove e, sulla destra, uno scorcio del tempio cosiddetto «di Bacco», il secondo, in ordine di grandezza, del grande santuario di Giove Eliopolitano a Baalbek.

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ono tornato a Baalbek a distanza di ventidue anni. E, con sollievo, ho potuto constatare che non ci sono stati cambiamenti in peggio. Le strade sono migliorate, anche se il percorso di poco meno di due ore, dalla capitale Beirut in direzione nord attraverso la valle della Beqaa, è caratterizzato dallo stesso traffico frenetico dei decenni passati; la cittadina stessa di Baalbek mi è apparsa piú vivace, piú ridente. E, per fortuna, anche l’area archeo-

logica, con i suoi grandiosi monumenti, è intatta, immutata nella sua imperiale grandiosità. Non dimentichiamo che, meno di 200 km in via aerea da qui, distano le rovine di Palmira, la città carovaniera sfregiata dagli integralisti islamici (e a Palmira è intitolato lo storico e affascinante hotel di Baalbek, affacciato sull’intera area archeologica e, al momento, l’unico alloggio adatto per chi voglia soggiornare nella città).Tutto è rimasto uguale, salvo un piccolo dettaglio: in questi giorni, le sei gigantesche colonne del tempio di Giove risultano invisibili, ricoperte come sono dalla fitta rete di un’impalcatura.

UN PIANO AMBIZIOSO Dopo duemila anni, infatti, i sei giganti superstiti del perimetro templare un tempo scandito da 54 colonne di 20 m d’altezza, sono oggetto di un attento esame, finalizzato al restauro delle superfici e interventi di ripristino e messa in sicurezza strutturali. L’iniziativa fa parte di un vasto e ambizioso programma, nato nel 1999 da un progetto congiunto della Banca Mondiale e di due agenzie governative, l’italiana Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo (DGCS) e la francese Agenzia di Cooperazione (AFD), inteso a promuovere il recupero e lo sviluppo di cinque dei principali centri storici del Libano (Baalbek, Biblo, Sidone, Tripoli e Tiro), concentrandosi proprio sugli aspetti conservativi e gestionali del loro patrimonio storico monumentale. Baalbek, dunque, è al centro dell’attenzione e della cura di studiosi libanesi e internazionali. La presenza delle simboliche colonne è appena intuibile, eppure la visita al santuario non ne risente minimamente. Anzi, permette di concentrarsi sugli altri monumenti e su alcune questioni fondamentali che riguardano l’origine stessa di questo complesso architettonico

unico al mondo: perché il piú grande edificio templare di Roma imperiale sorgeva proprio qui? E quali culti vi si celebravano? Partiamo dal paesaggio che, nell’antichità come oggi, doveva contribuire alla soave maestosità che il luogo emana. Baalbek si trova a circa 1150 m sopra il livello del mare, nella parte centrale della Beqaa (Biqa, in arabo), l’ampio altipiano vallivo (la cui larghezza varia tra gli 8 e i 16 km) racchiuso tra le due catene montuose del Libano e dell’Antilibano che, con le loro lunghe creste alte piú di 3000 metri e innevate fino ai mesi estivi, creano una cornice scenografica di straordinario effetto. Con 120 km di lunghezza e un tracciato nord/sud, la Beqaa forma un naturale corridoio geografico che unisce la Siria centrale al Levante costiero. Sul fondovalle correva un’antica rotta carovaniera che, in direzione nord, passando per Homs (Emesa), raggiungeva il diserto sir iaco. Giunto all’oasi di Palmira, il percorso si collegava al ramo meridionale della Via della Seta che, attraversando la Mesopotamia, univa la Fenicia alle terre dell’Asia centrale. Una condizione ambientale, dunque, favorevole a un insediamento come Baalbek. Sappiamo, però, che, nei millenni precedenti alla presenza romana, le piú importanti vie carovaniere non attraversarono mai direttamente la cittadina, preferendo percorsi alternativi, sebbene non molto distanti da essa. Non sembra, inoltre, che prima dell’avvento di Roma, il luogo abbia svolto un ruolo politico o economico di qualche rilevanza. Ciò non toglie che la naturale posizione del sito, in grado di consentire un controllo visivo del territorio circostante, deve aver giocato un ruolo non secondario nella decisione di Augusto di fondare, nel 15 a.C. e proprio a Baalbek-Heliopolis, una colonia di veterani. Fu allora (segue a p. 36) a r c h e o 31


REPORTAGE • LIBANO

UN GIORNO A BAALBEK La visita al complesso di Baalbek avviene, oggi come nell’antichità, da est, attraverso i Propilei costruiti sotto l’imperatore Caracalla e composti da 12 colonne, in origine terminanti con capitelli in bronzo dorato. Da qui si entra in una corte esagonale (costruita sotto Filippo l’Arabo, nella prima metà del III secolo d.C.), che si apre sul piazzale rettangolare (110 x 135 m), chiuso sui tre lati da un portico colonnato articolato a esedre. Sul lato aperto verso ovest, un’ampia scalinata, larga piú di 40 m, conduce al podio del tempio vero e proprio, la cui fronte, costituita da 10 colonne che reggevano il timpano, raggiungeva i 40 m dal piano della corte. Il tempio di Giove è il piú grandioso edificio di Baalbek. Conserva 6 delle 19 colonne corinzie che ne ornavano il peristilio sud-occidentale. In origine, senza contare le

scalinate e le terrazze che lo circondavano, il tempio misurava circa 90 m in lunghezza e 50 in larghezza, e 54 colonne ne segnavano il perimetro. Per i muri esterni della sua enorme piattaforma, i Romani impiegarono blocchi monolitici, ognuno del peso di circa 400 t. Sopra sei di essi, posti lungo il muro occidentale del podio, sono stesi due dei tre giganteschi monoliti, dal peso di oltre 1000 t l’uno, i famosi trilithon, un termine coniato in età bizantina e, da allora, divenuto sinonimo dell’edificio. Il terzo trilithon (detto «pietra della gestante») giace ancora oggi nella grande cava di Baalbek (vedi foto a p. 44). Scendendo le scale sul lato meridionale del santuario di Giove si trova il tempio Minore, detto anche «di Bacco», il piú intatto e meglio conservato di tutti i templi romani. Ai primi del Novecento venne attribuito al dio per le

rappresentazioni di vigneti, nonché di una processione dionisiaca posta all’ingresso. In seguito, fu assegnato a Venere o, ancora, a Bacco-Mercurio. Rispetto al tempio di Giove, l’edificio ha dimensioni decisamente inferiori, eppure è notevolmente piú grande, per esempio, del Partenone. La cella misura 35 m in lunghezza per 19 di larghezza; la monumentale porta d’accesso è larga 6,5 m e alta quasi 13. Il tempio è costruito su un basamento alto 5 m e vi si accede per una scalinata di 33 gradini. In origine il peristilio era composto da 46 colonne, 15 su ogni lato lungo e 6 su quelli corti. L’aspetto piú rilevante dell’edificio è la sovrabbondante, fastosa decorazione a rilievo delle pareti e del soffitto della cella e del peristilio, una decorazione che, in origine, doveva caratterizzare l’intero complesso eliopolitano.

Una veduta del grande piazzale rettangolare, ripreso dalla scala che conduce al podio del tempio di Giove. Al centro, i resti dell’Altare Minore e, ai due lati, le due colonne isolate e i due bacini cultuali.


BAALBEK NEI MILLENNI Il terzo tempio di Baalbek, situato un centinaio di metri a est dei santuari principali, detto «di Venere», è un grazioso edificio circolare dedicato alla dea Fortuna di Heliopolis. Il nome gli venne dato dai primi viaggiatori occidentali, perché alcune nicchie esterne dell’edificio erano decorate con motivi a conchiglia e a colombe, elementi generalmente associati con il culto, appunto, di Venere. All’avvento dell’Islam, il tempio di Giove e quello «di Bacco» vennero racchiusi da potenti fortificazioni, mentre il piccolo santuario circolare, posto ormai al di fuori dell’originario perimetro sacro, fu assorbito nell’impianto urbanistico medievale. Il tempietto, cosí come lo si può ammirare oggi, è stato interamente riesumato dagli scavi tedeschi che lo hanno liberato dalle case che, nei secoli, gli erano state costruite addosso.

2900-2300 a.C. (età del Bronzo Antico). Frammenti di ceramica dipinta e strumenti e schegge in ossidiana e selce sono i primi segni di occupazione umana del sito. 1900-1600 a.C. (età del Bronzo Medio). Resti di fondamenta di abitazioni in pietra. Sepoltura di un personaggio databile al periodo della dinastia egiziana degli Hyksos (1730-1580 a.C.). Il luogo ospita un santuario dedicato alla divinità cananea Baal-Hadad. 301 a.C. La Siria diventa dominio dei Tolomei. Baalbek assume il nome di Heliopolis, la «Città del Sole». II secolo a.C. L’antico santuario di Baal viene trasformato nell’area sacra del dio Helios. 15 a.C. Augusto fonda la Colonia Iulia Augusta Felix Berytus (l’odierna Beirut). A Baalbek-Heliopolis iniziano i primi lavori di ampliamento del santuario. Fine del I secolo d.C. Il tempio di Giove Eliopolitano è già in funzione, ma continuano i lavori di decorazione. Fine del II secolo d.C. Sotto l’imperatore Antonino Pio inizia la costruzione del cosiddetto «tempio di Bacco». Inizi del III secolo d.C. Sono completati i Propilei, il monumentale ingresso al santuario. Metà del III secolo d.C. Filippo l’Arabo costruisce la corte esagonale. Viene eretto il cosiddetto «tempio di Venere». IV-V secolo d.C. Sul piazzale antistante il tempio di Giove Eliopolitano sorge una grande basilica cristiana, i cui resti saranno rimossi definitivamente nel 1935.


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A destra: veduta aerea del grande complesso sacro di Giove Eliopolitano a Baalbek.

Qurnat as-Sawda

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50 Km

Tempio di Giove Eliopolitano

Tempio di Bacco 1

LEGENDA 1. Tempio di Bacco, colonnato sud; 2. Tempio di Bacco, porta d’entrata; 3. Tempio di Bacco, cella; 4. Piazzale rettangolare; 5. Cortile esagonale

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3 2

4


1

Altare Maggiore

Gr an ret de p tan ia go zza lar le e

Altare Minore

2

Cortile esagonale 3

4

5

Qui sopra: una scorcio del tempio di Bacco. In alto: ricostruzione del santuario di Giove Eliopolitano nella sua fase piú completa. A sinistra: disegno ricostruttivo del santuario come appare oggi, con le parti degli edifici sacri tuttora conservate.

1. Tempio di Giove Eliopolitano Eretto durante il I sec. d.C. sul luogo di un antico santuario semitico. Le sue dimensioni erano enormi (90 x 50 m) e il suo perimetro era segnato da 54 colonne di 20 m d’altezza. 2. Tempio minore, detto «di Bacco» Costruito verso la fine del II sec. d.C., l’edificio, anch’esso di dimensioni gigantesche, presenta – sulle pareti, sul soffitto della cella e del peristilio – una straordinaria decorazione scolpita. 3. Propilei Entrata monumentale al santuario di Giove Eliopolitano, completata all’inizio del III sec. d.C. 4. Tempietto detto «di Venere» Innalzata nel III sec. d.C., la graziosa costruzione sorge al di fuori del recinto del santuario.

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che iniziarono i lavori per l’ampliamento di un luogo di culto locale, da cui sarebbero sorti, nel corso di oltre due secoli, i monumenti costitutivi del grande santuario di Giove Eliopolitano.

LE ORIGINI E IL MISTERO DEL NOME Per illustrare la rilevanza di questo luogo è, però, importante ricordare un altro aspetto significativo della sua topografia: la presenza in una località a sud-est della città, della ricca fonte d’acqua di Ras el- ‘Ain (letteralmente, «capo della sorgente»). Partiamo da qui per tentare di spiegare l’origine stessa del toponimo moderno e trovare qualche indizio su chi fosse l’originaria divinità venerata nel santuario. Il toponimo Baalbek è verosi-

milmente di origine cananea (le lingue cananee rappresentano un ramo delle lingue semitiche, in uso presso le popolazioni della terra di Canaan – ovvero il Levante – sino alla fine del I

L’antico toponimo del sito suggerisce la presenza di un precedente santuario semitico millennio a.C., quando si estinsero, soppiantate perlopiú dall’aramaico) e contiene il nome della divinità semitica «Baal» (il cananeo Hadad). Se in

passato si è voluto leggere il nome come la combinazione di Baal con il toponimo Biqa (Beqaa), le ipotesi piú accreditate propendono per una derivazione dal cananeo ba’al nebek (in aramaico B’al nbek), da tradurre con «Baal della sorgente», un evidente richiamo alla ricchezza d’acqua della zona. Il nome, dunque, suggerirebbe la presenza, nel luogo, di un culto dell’antico dio della tempesta. Rimane il fatto, però, che Baalbek non viene menzionata in alcuna fonte precedente al V secolo d.C.! Compare infatti per la prima volta in una copia siriana della Teofania di Eusebio di Cesarea datata al 411 d.C. e su una moneta di epoca omayyade, in cui il toponimo «Baalbek» appare associato a quello di «Heliopolis».


Quest’ultimo, invece, risale al dominio dei successori di Alessandro Magno: la prima attestazione del toponimo è del 64 a.C., ma è opinione diffusa presso gli studiosi che il cambiamento del nome sia avvenuto dopo la conquista seleucide del Levante nel 198 a.C. (rinominare città e località conquistate era una prassi comune e non comportava, automaticamente, l’oblio del nome originario: Beirut, per esempio, venne chiamata dai Greci Laodicea ma, finito il dominio seleucide, si riappropriò del suo nome semitico, Biruta). A destra: i resti delle colonne perimetrali del tempio di Giove, sullo sfondo delle vette innevate del Monte Libano. Sulle due pagine: una veduta del grande piazzale rettangolare.


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Ora, per un periodo lungo quasi mille anni, dall’età ellenistica alla presenza romana in Oriente (ovvero dal IV secolo a.C. al VII secolo d.C.), la denominazione ufficiale della località rimase quella greca di Heliopolis, «la città del Sole». Entrambi i nomi, però, sia quello che supponiamo essere il piú antico – Baalbek –, sia quello greco, suggeriscono fortemente che nella località si venerasse una delle piú importanti divinità del pantheon semitico, Baal-Hadad, il «signore delle intemperie». È noto, infatti, che l’antico dio orientale venne assimilato dai Greci a Zeus, mentre i Romani lo trasformarono in Giove, aggiungendogli però alcune caratteristiche di un’altra divinità, l’astrale Helios/Sol.

L’«ORIENTALIZZAZIONE» DEL CULTO IMPERIALE A questa «romanizzazione» di Baal-Hadad corrispondeva una significativa «orientalizzazione» del culto imperiale: il dio del Sole era ufficialmente presente a Roma con appositi santuari (senza dimenticare il celebre Colosso di Nerone che ritrae l’imperatore nelle vesti del dio Sole) e in età tardo-imperiale fioriva il culto del Deus Sol Invictus. È, dunque, lecito supporre che il nome Heliopolis, in vigore per tutti i secoli dell’influenza ellenistica e poi romana nel Levante, testimoni, senza troppo nasconderla, l’assimilazione all’interno del nuovo contesto religioso e cultuale greco-romano, di un preesistente santuario dedicato al cananeo Signore della Tempesta. Per quanto, poi, riguarda il toponimo antico di Baalbek, possiamo supporre che esso non sia mai stato completamente abbandonato dalla popolazione locale nei lunghi secoli del dominio ellenistico e romano, come testimonia, inoltre, la già menzionata moneta di epoca omayyade, che, su una faccia reca l’immagine dell’imperatore bizantino Eraclio e, 38 a r c h e o

La facciata meridionale del tempio cosiddetto «di Bacco». L’edificio, il secondo in ordine di grandezza, fu eretto verso la fine del II secolo d.C. Molto ben conservato, il monumento presenta una straordinaria decorazione scultorea.


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sull’altra, il nome greco Heliopolis insieme alla scritta «Baalbek», in arabo. Fino a oggi, però, non si hanno dati certi circa il luogo in cui si trovava il santuario del dio cananeo: negli anni Sessanta del secolo scorso, scavi condotti all’interno della vasta corte antistante il tempio di Giove hanno portato alla luce una serie di testimonianze archeologiche che documentano un’occupazione ininterrotta del sito, dall’età del Bronzo (III millennio a.C.) fino al Medioevo. In alto: l’interno del tempio di Bacco, con il resti dell’adyton.

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Sfortunatamente, tutta la documentazione di scavo è andata perduta durante la guerra civile che ha infuriato nel Libano dal 1975 al 1990; salvo una breve annotazione, redatta dall’allora architetto del Dipartimento libanese per l’Antichità, Haroutune Kalayan, in cui si riferisce di una «crepa naturale, profonda 50 metri, nel cortile rettangolare a sud del tempio di Giove» sul fondo della quale «vi è un piccolo altare scolpito nella roccia». È possibile che si trovi proprio qui, ai piedi del tempio di Giove, l’originario santuario cananeo che ha dato il nome al luogo e che ispirò la costruzione del grandioso complesso sacro di età romana?

UN SANTUARIO TRA ORIENTE E OCCIDENTE Mentre l’enigma della Baalbek delle origini forse non verrà mai risolto, rimane la certezza che il luogo fu letteralmente

reinventato da Roma, anche se Heliopolis era «città santa» già nel I secolo a.C. (come è emerso dagli scavi nella corte antistante il tempio di Giove). Sin dal II secolo a.C., la valle della Beqaa era abitata dagli Iturei, una popolazione proveniente dalla Penisola Arabica, che dai dominatori seleucidi aveva ottenuto ampia autonomia politica e religiosa. Essi scelsero la vicina Anjar (forse da identificare con la Chalcis sub Libanum menzionata nelle fonSulle due pagine: la monumentale scala d’accesso all’entrata del tempio di Bacco.

ti) come loro capitale e Heliopolis come loro centro rituale. Nell’anno 64 a.C. Pompeo conquista la Siria e, nel 15 a.C., viene fondata, sul luogo dell’odierna Beirut, la Colonia Iulia Augusta Felix Berytus. In quegli anni inizia la costruzione di quelli che sarebbero divenuti i piú imponenti edifici sacri dell’impero, superiori in grandezza e sfarzo a tutti i templi mai edificati nella stessa Roma. In seguito, durante il regno di Settimio Severo (146-211 d.C.),


REPORTAGE • LIBANO Sulle due pagine in basso e nel particolare qui a sinistra: l’elegante tempio detto «di Venere» che, grazie a recenti restauri, ha rivelato, al suo interno, tracce dell’originaria coloritura. Innalzato nel III sec. d.C., l’edificio è situato appena al di fuori dal perimetro del grande santuario eliopolitano.

Baalbek ottiene lo status indipendente con il nome di Colonia Iulia Augusta Felix Heliopolis. Ancora oggi, i templi di Baalbek hanno, a prima vista, un aspetto del tutto «romano», sia per quanto riguarda la pianta degli edifici, sia per il loro apparato decorativo. A un esame piú attento, però, l’elemento «orientale» emerge in tutta la sua rilevanza. Ricordiamo, innanzitutto, che le divinità venerate a BaalbekHeliopolis – la cosiddetta «triade eliopolitana», composta da Giove, Venere e Mercurio – erano «romane» solo di nome: Giove, infatti, è la trasposizione del cananeo Baal-Hadad, ed è spesso raffigurato in compagnia del toro, animale simbolo di quest’ultimo;Venere, accompagnata da sfingi e leoni, è la versione romanizzata di Atargatis, divinità semitica della fertilità e del benessere; Mercurio, protettore dei commerci e messaggero di Giove, è raffigurato in compagnia di arieti. Ma veniamo agli aspetti architettonici.Tutti gli edifici di Baalbek rivelano la volontà di adattarsi alle esigenze di un universo cultuale «orientale»: cosí, per esempio, i grandi templi mostrano, posti accanto all’ingresso principale, vani 42 a r c h e o

per scalinate con le quali era possibile raggiungere il tetto dell’edificio, forse per compiervi attività rituali. Estremamente ricca e elaborata appare, inoltre, la decorazione scultorea dei portali e degli stipiti, cosí diversa dai moduli austeri e lineari impiegati abitualmente nelle coeve architetture del Mediterraneo. L’adyton, la parte piú interna dei santuari, inoltre, era – similmente a quanto si può riscontrare per il «Santo dei Santi» degli edifici religiosi vicino-orientali – distintamente isolata dalla cella attraverso un’ulteriore rampa di scale. Vale, infine, soffermarsi su un’area che nell’ambito del santuario eliopolitano rivestiva un’importanza cultuale forse maggiore dello stesso tempio di Giove: ci riferiamo alla vasta piazza antistante l’accesso al podio di quest’ultimo, caratterizzata dalla presenza di una serie di elementi architettonici simmetricamente allineati: due altari, due bacini per l’acqua e due singole colonne. I due altari erano entrambi piú alti dei loro corrispettivi romani: quello Minore – posto nei pressi della scala d’accesso al tempio di Giove, nell’area dove furono trovati i resti dell’antico insediamento pro-


tostorico – risale alla fine del I secolo a.C. e figura, pertanto, tra le prime costruzioni intraprese dai Romani nel santuario. Il podio era alto 7 m, e 7 m misuravano i suoi quattro lati. Una scalinata all’interno conduceva sul tetto, dove si svolgevano i sacrifici rituali. Alla metà del I secolo d.C. risale, invece, l’Altare Maggiore, posto sullo stesso asse 5 m a est dal primo. Riccamente decorato con motivi floreali e geometrici, era composto da piú piani, a cui si accedeva attraverso passaggi e scalinate interne. Due ampi bacini idrici, posti simmetricamente lungo i lati sud e nord della piazza, fanno esplicito riferimento alle abluzioni rituali della tradizione vicino-orientale (si

tratta di elementi architettonici ignoti ai santuari greco-romani). Cosí come le due isolate colonne, rispettivamente di granito rosso e grigio, collocate ai lati dell’Altare Maggiore, richiamano quelle di biblica memoria, denominate Boaz e Yakin, poste all’ingresso del Tempio di Salomone a Gerusalemme, o anche le due «colonne d’oro e di smeraldi» del tempio del dio fenicio Melqart a Tiro, descritte da Erodoto.

ATTRAVERSO I SECOLI, FINO A OGGI Come tutti i grandi monumenti dell’antichità giunti fino a noi, anche il santuario di Giove Eliopolitano dovette piegarsi a trasformazioni e riusi e, nel peggiore dei casi, subí

distruzioni dovute alla furia dell’uomo e della natura. Curiosamente, una sorte diversa investí il santuario di Giove – di cui possiamo ancora ammirare gli immensi blocchi che compongono le sue sostruzioni, ma di cui rimangono soltanto 6 delle originarie 54 colonne del peristilio – rispetto a quel gioiello architettonico che, ancora oggi, è rappresentato dal cosiddetto Tempio di Bacco, distante solo pochi metri dal primo e, ancora, fortunatamente, in massima parte integro. Durante l’età bizantina, i due altari della grande corte antistante il podio del tempio di Giove cedettero il posto a una chiesa, interamente costruita con il riutilizzo dei blocchi di pietra degli edifici romani (nel

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REPORTAGE • LIBANO

1935 l’edificio, del V secolo, venne completamente smontato, nel corso delle indagini archeologiche volte a scoprire le fasi piú antiche della piazza). Infine, la fortuna ha voluto che le rovine siano sopravvissute indenni alla guerra civile che per quindici anni (1975-1990) ha imperversato nel Paese dei Cedri. Sin dall’antichità, e poi a partire dal Cinquecento, viaggiatori ed esploratori si sono avvicendati alla riscoperta delle meraviglie di Baalbek/Heliopolis. I primi scavi archeologici si datano alla fine dell’Ottocento, prima a opera di studiosi francesi, in seguito dalla missione tedesca guidata da Otto Puchstein. I lavori di scavo e di 44 a r c h e o

In alto: poco lontano dal santuario di Giove Eliopolitano (di cui si riconoscono i resti sullo sfondo) si trova una delle cave da cui furono tratti i giganteschi monoliti che compongono le sostruzioni del santuario, in particolare quelle del tempio di Giove. Uno dei monoliti

(soggetto di infinite foto – vedi quella storica qui sopra – sin dai tempi della moderna riscoperta di Baalbek), la «pietra della gestante» (hagar al-hubla), un blocco di proporzioni colossali il cui peso è stimato in oltre 800 tonnellate, giace ancora nella cava da cui era stato tratto.


COOPERARE PER SALVARE IL PATRIMONIO Incontro con Gianandrea Sandri «È In luoghi come questi che penso sia davvero nata la nostra civiltà. Qui popoli diversi si incontravano per scambiare merci, si conoscevano e imparavano a rispettarsi e a rispettare regole comuni». A parlare cosí è Gianandrea Sandri, da anni impegnato nella cooperazione internazionale e fino a poco tempo fa Direttore dell’ Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo. Per oggi, smessi i panni del Direttore, ci fa da guida d’eccezione al sito archeologico di Baalbek. In particolare ci accompagna a visitare il cantiere per il restauro del Tempio di Giove, di cui si sta occupando la Cooperazione Italiana. ◆ Tra le molte iniziative realizzate dalla Cooperazione Italiana in Libano perché siamo venuti a visitare proprio questa? «Questo sito, patrimonio mondiale dell’umanità per l’UNESCO, appartiene a una delle città piú antiche del Levante. Un luogo che da millenni è come una porta aperta a culture e civiltà diverse. Oggi per la comunità internazionale impegnarsi a Baalbek è una sfida. Proteggere e valorizzare questo sito, e gli altri meravigliosi luoghi archeologici del Libano, vuol dire anche difendere l’immenso patrimonio culturale di questo Paese. Un patrimonio che parla continuamente di convivenza e interculturalità, valori che sembrano essere stati messi in crisi dalla storia recente del Paese e che si possono recuperare anche

restauro sono proseguiti fino ai giorni nostri, grazie agli archeologi dell’Istituto Archeologico Germanico (a cui si deve anche l’allestimento della mostra permanente «Heliopolis-Baalbek, alla riscoperta delle rovine», allestita in un sotter-

attraverso la riscoperta del suo patrimonio». ◆ Quando si parla di cooperazione internazionale si pensa immediatamente a gravi emergenze umanitarie o alla realizzazione di infrastrutture. Invece, qui si sta lavorando per qualcosa di molto diverso… «Dalla Bosnia a Haiti, dalla Siria all’Eritrea la storia di questi ultimi anni ci ha abituato a vedere la cooperazione internazionale solo nella forma dell’aiuto. I Paesi piú ricchi si mobilitano, piú o meno efficacemente, quando una guerra o un cataclisma provocano una grande emergenza umanitaria. Ma la cooperazione internazionale non è e non deve essere solo questo. Le sue radici partono dalla solidarietà tra popoli e persone, che porta alla reciproca conoscenza e alla collaborazione per la costruzione di un mondo piú equo. Per tutto questo è fondamentale riscoprire, difendere e condividere la storia di ogni Paese e la cultura di ogni popolo. In questo sito millenario, per esempio, lavorano insieme esperti e maestranze italiane e libanesi accomunati dall’obiettivo di salvaguardare la storia e difendere la bellezza. Un impegno che si ripete in molti altri luoghi di questo Paese e degli altri dove la Cooperazione italiana è presente». ◆ Una dimensione della cooperazione poco nota al grande pubblico. Oltre al Libano esistono altri esempi di simili collaborazioni?

raneo del santuario) e agli studiosi della Direzione Generale delle Antichità del Libano. Le sei colonne del grande tempio di Giove Eliopolitano rimarranno ancora coperte, forse per mesi. Ma, come dicevamo all’inizio, non tol-

Gianandrea Sandri, già Direttore dell’AICS, con la collaboratrice Vilma Kreidy, a Baalbek.

«Certo, in molti Paesi. Nella mia personale esperienza mi sono occupato del restauro delle antiche chiese in Armenia, di progetti per la riscoperta di mestieri in Palestina, della creazione dell’Istituto Centrale di Restauro a Belgrado, della promozione dell’incontro annuale dei Ministri della Cultura del Sud-Est Europeo, ma l’elenco potrebbe continuare a lungo. Tra le iniziative legate al patrimonio culturale che ho seguito per la Cooperazione Italiana ce n’è una che ritengo particolarmente simbolica e significativa: la ricostruzione del Ponte di Mostar. Il ponte di Mostar era il simbolo della convivenza in ex Iugoslavia, la sua distruzione lo trasformò in quello della divisione. Ecco, credo che oggi la cooperazione debba fare questo: contribuire a costruire, difendere o ricostruire ponti. Impegnarsi per la salvaguardia del patrimonio culturale in quei Paesi che oggi vivono situazioni di drammatica emergenza umanitaria – o che sono usciti da conflitti laceranti – significa lavorare per la costruzione della pace e per lo sviluppo umano».

gono alcunché alla visita di questo sito unico al mondo. Rappresentano, anzi, una promessa per il suo futuro. «Archeo» ringrazia l’Agenzia per la Cooperazione allo Sviluppo, sede di Beirut, per la preziosa collaborazione. a r c h e o 45


SARDEGNA • MONT’E PRAMA

GUERRIERI IN

PARATA

IL NOME DI MONT’E PRAMA, CHE IN SARDO VUOL DIRE «COLLINA DELLE PALME», È DIVENUTO CELEBRE GRAZIE A UNA DELLE PIÚ IMPORTANTI SCOPERTE DEGLI ULTIMI DECENNI: QUELLA DELLE STATUE DI EPOCA NURAGICA CHE OGGI SI POSSONO AMMIRARE NEI MUSEI DI CAGLIARI E DI CABRAS. IL SITO DEL RITROVAMENTO È TORNATO A ESSERE OGGETTO DI SCAVI SISTEMATICI, CHE STANNO GETTANDO NUOVA LUCE SUL CONTESTO NEL QUALE LE SCULTURE VENNERO REALIZZATE di Stefano Mammini

S

oprattutto, non chiamiamole «giganti»: a poco piú di quarant’anni dalla loro scoperta, le statue di Mont’e Prama vogliono scrollarsi di dosso l’etichetta con la quale, di fatto, sono divenute 48 a r c h e o

celebri ben oltre i confini della loro terra d’origine, la Sardegna. A farsi promotori di questa revisione sono, in realtà, gli archeologi che delle statue si occupano, sottolineando come le loro dimensioni siano senz’altro


Sulle due pagine, in primo piano: tre statue di pugilatori, da Mont’e Prama. IX-VIII sec. a.C. Cabras, Museo Civico «Giovanni Marongiu». Questi personaggi sono rappresentati secondo un canone ricorrente: indossano un gonnellino che termina a punta sul retro, hanno il braccio destro proteso e protetto da un guantone (in questo caso non conservato) e il sinistro è invece portato sopra la testa, a sostenere un grande scudo ricurvo. È probabile che le figure ritraessero atleti impegnati in prove di abilità e coraggio in occasione di giochi rituali. Sulle due pagine, in secondo piano: la spiaggia di Is Arutas, località compresa nel territorio di Cabras e non lontana da Mont’e Prama.

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SARDEGNA • MONT’E PRAMA

rispettabili (l’altezza media si aggira intorno ai 2 m), ma non colossali. Resta il fatto che, se normale è la taglia, eccezionale è l’esistenza stessa delle sculture, che, a oggi, costituiscono il primo esempio noto di statuaria nell’ambito del Mediterraneo occidentale, che precede, addirittura, la produzione dei pur arcaici kouroi greci. In oltre un trentennio di studi, scavi e restauri, è stato infatti accertato che le statue vennero realizzate durante la prima età del Ferro, tra il IX e l’VIII secolo a.C., nelle fasi finali della civiltà nuragica.

L’avventura ebbe inizio nel 1974, quando un agricoltore di Cabras – il Comune dell’Oristanese nel cui territorio ricade il sito di Mont’e Prama (in sardo, la «Collina delle Palme») –, Sisinnio Poddi, arando, fu costretto a fermare il suo trattore, perché il mezzo aveva urtato contro quello che, sulle prime, sembrava solo un grosso masso. Nel tentativo di rimuoverlo, si rese invece conto che di pietra si trattava, ma lavorata, e informò del ritrovamento le locali autorità di tutela. Questo primo ritrovamento, anche

CRONOLOGIA DELLA SARDEGNA ETÀ

PERIODO

NEOLITICO

ETÀ DEL RAME

ETÀ DEL BRONZO

CIVILTÀ NURAGICA

ETÀ FENICIA 750 a.C.

ETÀ PUNICA

ETÀ ROMANA

ALTO MEDIOEVO

50 a r c h e o

5800 a.C.

Antico

4800 a.C.

4800 a.C.

Medio

4300 a.C.

4300 a.C.

Recente

4000 a.C.

4000 a.C.

Finale

3300 a.C.

3300 a.C.

Prima età del Rame

2900 a.C.

2900 a.C.

Seconda età del Rame

2300 a.C.

5800 a.C.

Antico

5800 a.C.

1700 a.C

Medio

1350 a.C.

1350 a.C.

Recente

1200 a.C.

1200 a.C.

Finale

930 a.C.

930 a.C.

Prima età del Ferro

730 a.C.

Tradizione nuragica ed età fenicia

510 a.C.

510 a.C.

238 a.C.

238 a.C.

Età repubblicana

27 a.C.

27 a.C.

Età imperiale

476 d.C.

V sec. d.C.

VIII sec. d.C.

Santa Teresa di Gallura

La Maddalena

Olbia

Porto Torres

Sassari

Alghero

Mar di Sardegna

Nuoro

Mont’e Prama Cabras

Mar Tirreno

Oristano

Iglesias

Cagliari

Quartu Sant’Elena

Sant’Antioco

grazie ad alcuni recuperi della Guardia di Finanza, non rimase isolato, ma un primo intervento di scavo, volto ad accertare la consistenza dell’insediamento, venne eseguito solo alla fine del 1975.

LE PRIME INDAGINI Si trattò di un sondaggio circoscritto e di breve durata, che fu tuttavia sufficiente ad accertare la presenza di varie sepolture e permise di postulare un collegamento tra le sculture e un contesto funerario. Ricerche piú approfondite vennero condotte tra il 1977 e il 1979, arricchendo la documentazione della necropoli e, soprattutto, recuperando migliaia di nuovi frammenti scolpiti. Questi ultimi, oltre 5000, furono trovati in un grande cumulo, che sembrava costituire una vera e propria discarica (vedi box a p. 54). Nella pagina accanto: la statua frammentaria raffigurante un guerriero, con corta tunica e corazza, e il suo scudo circolare, che veniva tenuto con la mano sinistra, mentre la destra impugnava la spada. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Si noti la particolare cura riposta nella rappresentazione della fascia che parte dalla vita e termina con una fitta frangia.


Le sculture che oggi possiamo ammirare a Cagliari e a Cabras sono frutto del complesso intervento di restauro condotto sugli oltre 5000 frammenti recuperati a r c h e o 51


SARDEGNA • MONT’E PRAMA

Dopo avere a lungo giaciuto ai piedi della Collina delle Palme, le statue, ma non solo – occorre, infatti, ricordare che le sculture di Mont’e Prama comprendono anche modelli di nuraghe e betili – trascorsero un nuovo forzato riposo nei depositi della Soprintendenza, fino a che, grazie alla creazione del Centro di Restauro a Li Punti (Sassari), non fu possibile tentare la ricomposizione di un puzzle che si presentava a dir poco impegnativo. L’intervento richiese quattro anni, dal 2007 al 2011, al termine dei quali si giunse all’assemblaggio di 28 statue, 12 modelli di nuraghe e 1 betilo. Un risultato straordinario, fatto conoscere grazie all’allestimento di

Uno dei modelli di nuraghe rinvenuti a Mont’e Prama e la sua ricostruzione grafica. Sebbene stilizzata, la rappresentazione corrisponde all’architettura reale dei nuraghi, come è stato provato dall’archeologia e dall’analisi dei crolli in cui si rinvengono i mensoloni e i conci di coronamento delle parti sommitali.

una mostra che segnò l’inizio di una nuova stagione (vedi «Archeo» n. 323, gennaio 2012). Un paio d’anni piú tardi, nel 2014, venne infatti avviato un nuovo progetto di scavo sistematico del sito e, parallelamente, le sculture furono distribuite fra il Museo Archeologico Nazionale 52 a r c h e o

di Cagliari e il Museo Civico «Giovanni Marongiu» di Cabras, dove da allora possono essere ammirate. Il 22 marzo del 2014 è stata infatti inaugurata l’esposizione «Mont’e Prama, 1974-2014», un progetto che, nei due musei appena citati, vede inseriti – in un allestimento


che presenta le medesime caratteristiche tecniche e grafiche in entrambe le sedi – i materiali restaurati, ai quali si aggiungono i reperti piú significativi tra quelli restituiti dagli scavi. Grazie a questa strategia di intervento, a Cabras sono state incluse nel percorso espositivo, già all’indomani del loro ritrovamento, due statue di pugilatore, il torso di una statua di arciere e la base di un’altra figura. Quanto appena detto offre lo spunto per riepilogare brevemente quanto finora acquisito circa la ti-

pologia delle sculture: sono state infatti distinte tre classi di personaggi, che, oltre ai già citati pugilatori e arcieri, comprendono i guerrieri.

dalla scelta, sia a Cagliari che a Cabras, di mettere a confronto le statue con quelli che sembrano i loro modelli in miniatura. Risulta piú difficile, allo stato attuale delle ricerche, ipotizzare chi fosELEMENTI RICORRENTI Si tratta, dunque, di personaggi ma- sero i personaggi raffigurati e quale schili, che appaiono ritratti secondo fosse il ruolo assegnato alle sculture: canoni ben precisi e ricorrenti, co- infatti, come accennato, i materiali me per esempio nella resa degli in- – sebbene prossimi alle tombe deldumenti e degli accessori, o anche la necropoli – sono stati in larga nella definizione delle posture. parte recuperati all’interno di una Queste ultime presentano significa- discarica e, in ogni caso, a oggi non tive affinità con i bronzetti nuragici, sono stati trovati casi in cui le statue una somiglianza sottolineata anche o almeno parte di esse fossero ancora in situ. Fra i dati certi vi sono invece l’accuratezza della lavorazione, nonché – e si tratta in questo caso di osservazioni condotte in tempi recentissimi e tuttora in corso di verifica – l’adozione di elementi e misure canoniche, con il ricorso a veri e propri moduli. Gli scultori di Mont’e Prama avevano insomma saputo affinare tecniche assai evolute non soltanto per ciò che riguarda il trattamento del calcare impiegato per le loro opere, ma anche nella definizione delle dimensioni e delle proporzioni. E va detto che i supporti metallici messi a punto per l’esposizione delle statue consentono di apprezzare al meglio questa sa-

UN CONFRONTO PUNTUALE Nel Museo Civico «Giovanni Marongiu» di Cabras si può vedere, fra le altre, questa statua di pugilatore, rinvenuta negli scavi condotti a Mont’e Prama nel 2014 e subito inserita nel percorso espositivo. La figura (al pari di un’altra simile, in corso di restauro), presenta significative affinità con il bronzetto nuragico, qui riprodotto, rinvenuto a Vulci, nella necropoli di Cavalupo, nella Tomba detta appunto dei Bronzetti sardi, databile alla metà del IX sec. a.C. e il cui corredo è oggi conservato nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. È possibile osservare la ricorrenza degli elementi tipici osservati nelle sculture di Mont’e Prama, soprattutto per ciò che riguarda il grande scudo ricurvo.

a r c h e o 53


SARDEGNA • MONT’E PRAMA

pienza, soprattutto nei casi in cui si può girare intorno ai reperti, scoprendo quanto precisa e minuziosa fosse la resa dei particolari e del dorso delle figure. Pugilatori, arcieri e guerrieri mostrano dunque un vero e proprio codice identitario, al quale si aggiunge l’attribuzione di fattezze che dovevano realmente corrispondere alle diverse specializzazioni: i corpi dei pugilatori, per esempio, risultano piú tarchiati e tozzi, rispetto a quelli altrettanto muscolosi, ma piú slanciati, dei guerrieri e degli arcieri. Sia a Cabras che a Cagliari, inoltre, l’esperienza visiva può essere utilmente integrata dall’apparato multimediale realizzato dal CRS4 (il Centro di ricerca, sviluppo e studi superiori in Sardegna), che consente di scoprire tutti i segreti delle sculture con l’ausilio di una postazione touch screen e un grande monitor (vedi box a p. 57). Non meno sorprendente risulta l’osservazione dei modelli di nuraghe. In un gioco simile al «com’era,

com’è», i reperti di Mont’e Prama hanno infatti rivoluzionato l’iconografia che di queste strutture ci è stata tramandata dai loro resti. Poiché la ricerca archeologica ha dimostrato che le miniature sono repliche fedeli degli originali, dobbiamo infatti immaginare alte torri e pinnacoli, sormontati da coperture di forma conica, che sembrano quasi trasformare i nuraghi in castelli delle fiabe.

STRUTTURE IDENTITARIE Un aspetto reso ancor piú eloquente dalle ricostruzioni grafiche e, nel Museo di Cagliari, anche da alcuni plastici. Come nel caso delle statue, anche per i modelli è difficile stabilire con certezza quale fosse la loro funzione, ma sembra logico ipotizzare che potessero essere visti come rappresentazioni attraverso le quali si voleva esprimere l’identità e la compattezza delle comunità nuragiche, dal momento che di quelle genti costituivano il piú importante elemento distintivo.

La fierezza perduta Questa foto, scattata nel corso degli scavi condotti nel 1979, offre un’idea eloquente delle condizioni nelle quali le sculture di Mont’e Prama si sono presentate agli archeologi: le statue e gli altri manufatti giacevano in pezzi, ammassati in un grande cumulo. Al termine di quelle indagini, furono recuperati oltre 5000 frammenti, grazie alla cui paziente ricomposizione, condotta fra il 2007 e il 2011, è stato possibile ricavare le opere ora esposte a Cagliari e a Cabras. A oggi, non si conoscono le circostanze in cui la distruzione ebbe luogo, ma è possibile che l’intervento abbia avuto luogo all’indomani della rioccupazione del sito da parte dei Cartaginesi, nel IV sec. a.C. In questo caso, il gesto potrebbe essere visto come espressione della volontà di cancellare la memoria del passato nuragico delle comunità locali.

A sinistra: il settore della necropoli di Mont’e Prama nel quale venne alla luce, negli scavi del 1977-79, una fila di tombe a pozzetto coperte da lastre quadrangolari. Sulla destra, coricato si riconosce anche un betilo. Nella pagina accanto: la stessa area, cosí come si presenta oggi, dopo gli interventi di ripristino effettuati nell’ambito delle nuove ricerche. 54 a r c h e o


Non diversa è la situazione dei betili, monoliti di forma tronco-conica e di notevoli dimensioni, per i quali si può senz’altro immaginare un impiego ancora una volta legato alla sfera funeraria, ma senza per il momento poterne circoscrivere in termini piú dettagliati il ruolo.

FAR «PARLARE» LE STATUE Nell’insieme, sia a Cabras che a Cagliari, si percepisce netta la sensazione di essere di fronte alle espressioni di una cultura che doveva aver elaborato un mondo ideologico e rituale assai articolato, nel quale le immagini scolpite nella pietra si facevano portatrici di un messaggio ben preciso e non rispondevano soltanto a istanze di natura estetica. Mont’e Prama, dunque, e, piú in generale, la civiltà nuragica non fanno altro che rinnovare la sfida che costituisce il motore primo della a r c h e o 55


SARDEGNA • MONT’E PRAMA

In alto: fotografia da drone del cantiere di scavo di Mont’e Prama. Al centro, in basso, sono ben riconoscibili le due strutture nuragiche esplorate negli ultimi anni, che comprendono una probabile sala adibita a riunioni (Edificio A), a cui si

56 a r c h e o

affianca un vano di servizio (Edificio B); sulla destra è invece leggibile la lunga fila di tombe coperte da lastre, allineate lungo la strada sepolcrale. In basso: la sala per riunioni (Edificio A), cosí come si presentava al termine dello scavo.

ricerca archeologica, che consiste nel cercare di far parlare testimonianze significative, ma solo in parte eloquenti, anche perché – come in questo caso - non affiancate da documenti scritti.

LA RICERCA SUL CAMPO Una sfida che, da quattro anni a questa parte, vede impegnati gli archeologi che – come ricordato in precedenza – sono tornati a operare nei terreni ai piedi della Collina delle Palme, di proprietà della Confraternita del Rosario. Le indagini hanno idealmente raccolto il testimone lasciato dai responsabili degli interventi condotti negli anni Settanta, riportando alla luce le aree allora esplorate. È stato quello il primo passo di uno scavo in estensione che sta considerevolmente arricchendo la conoscenza del sito,


con conferme importanti e altrettanto rilevanti novità. Il contesto piú significativo è quello della necropoli, la cui presenza era stata accertata fin dai primi sondaggi condotti nel 1975. A oggi sono state individuate 140 sepolture, che consistono in semplici tombe a pozzetto, scavate nel banco roccioso e coperte da cumuli di pietre oppure chiuse da lastre in arenaria di forma quadrangolare (1 x 1 m). I defunti vennero deposti al loro interno in posizione rannicchiata e, salvo pochi casi, senza alcun elemento di corredo. Fra le eccezioni, spicca una tomba indagata nel corso degli scavi condotti fra il 1977 e il 1979, da cui proviene una collanina che aveva tra i suoi i vaghi un sigillo in steatite invetriata a forma di scarabeo, di produzione egizia o levantina.

PER SOLI UOMINI Una delle peculiarità della necropoli è che, per il momento, la quasi totalità delle tombe esplorate (in misura pari al 95%) ospitava defunti di sesso maschile e di età compresa fra i 16 e i 40 anni. Fra gli obiettivi delle ricerche future c’è dunque quello di localizzare i nuclei sepolcrali riservati a donne, uomini anziani e bambini, ai quali si doveva certamente dare sepoltura. Altrettanto interessante risulta la disposizione delle tombe: se nel caso di quelle a pozzetto sembra sfruttare lo spazio disponibile in maniera piuttosto casuale, per quelle dotate della lastra di copertura risponde invece a una sistemazione regolare, descrivendo una fila, in alcuni tratti duplice, che si allinea lungo la strada sepolcrale che attraversava l’area. Ed è stato anche osservato che, in corrispondenza del margine della via sul quale le tombe si affacciano, era stata scavata una canaletta, nella quale erano alloggiate altre lastre, che creavano una sorta di muro di contenimento. Nello scenario del sepolcreto, quale poteva dunque essere il posto asse-

LE SCULTURE SENZA SEGRETI A supporto dell’esposizione delle sculture di Mont’e Prama, il CRS4 (Centro di ricerca, sviluppo e studi superiori in Sardegna) ha realizzato un’installazione che permette di esplorare le statue e gli altri manufatti in ogni loro dettaglio. Dopo avere eseguito la scansione ad altissima risoluzione delle opere, l’équipe di Visual Computing del Centro ha elaborato un prodotto multimediale (disponibile sia nel museo di Cagliari che in quello di Cabras), navigabile grazie a un totem touch screen, che consente al pubblico la visualizzazione completa e particolareggiata a grandezza naturale delle statue e dei modelli di nuraghe. La foto qui accanto documenta appunto l’immagine di uno dei pugilatori ricavata dalla scansione laser. a r c h e o 57


SARDEGNA • MONT’E PRAMA

dei Cartaginesi, nel IV secolo a.C. A quell’epoca, dopo un lungo abbandono, il sito viene infatti frequentato da genti puniche, la cui presenza è attestata dal ritrovamento di grandi quantità della ceramica di cui erano produttori. Ebbene, poiché gli studi finora condotti hanno dimostrato che Cartagine impose sulla Sardegna un dominio assai energico, non si può escludere che, desiderosi di affermare la loro supremazia culturale, i nuovi venuti avessero voluto cancellare il ricordo che le genti locali potevano conservare del proprio passato nuragico anche attraverso interventi come la distruzione delle statue di Mont’e Prama. Si tratta di un’ipotesi certamente suggestiva, che mostra però qualche limite ove si consideri che fra la messa in opera delle sculture e questa eventuale forma di iconoA sinistra: ancora due statue di pugilatori, esposte nel Museo Archeologico Nazionale di Cagliari. In basso: una statua di pugilatore rinvenuta negli scavi del 2014 ed esposta nel Museo Civico «Giovanni Marongiu» di Cabras. Come si vede, il manufatto è stato inserito nel percorso espositivo prim’ancora del restauro: una scelta che vuole esprimere il legame fra il sito e il museo e la volontà di rendere fruibili i materiali con la massima tempestività.

gnato alle statue, ai betili e ai modelli di nuraghe? Un quesito cruciale, che potrebbe tuttavia rimanere insoluto. Le sculture provengono infatti da questa zona, ma, come detto, non sono state trovate in situ e, in una percentuale assai elevata, concentrate in un’area nella quale erano state intenzionalmente accumulate dopo essere state abbattute e rimosse dalla loro posizione originaria. Questa sorta di damnatio memoriae è un altro degli aspetti di maggior interesse e potrebbe forse essere riferita all’arrivo a Mont’e Prama 58 a r c h e o


talmente rimaneggiato e trasformato in abitazione, mentre l’edificio B, la cui parte superiore era nel frattempo crollata, proprio per questo non venne toccato in quanto non si dovette rilevarne la presenza. Una circostanza che, oltre duemila anni piú tardi, ha offerto agli archeologi una situazione ideale: il vano, infatti, era stato perfettamente sigillato dal crollo e, una volta rimossi i detriti, si è presentato in condizioni eccellenti, con larga parte della pavimentazione ancora in situ e suppellettili varie, tra cui vasi in ceramica, un frammento di modello di nuraghe riutilizzato e un cumulo di ciottoli marini bianchi, trovati come se fossero caduti da un sacco. Queste e molte altre storie sono state raccontate anche nel corso dell’estate appena trascorsa, in occasione delle visite guidate organizzate sul sito, che hanno fatto registrare una vasta partecipazione di pubblico. A ulteriore riprova della bontà di un progetto che vuole restituire alle statue di Mont’e Prama la loro identità, ripartendo da dove i loro artefici avevano scelto di innalzarle.

Il volto del pugilatore visibile, a destra, nella foto alla pagina precedente. Si possono notare la forma triangolare del viso, con occhi

resi da cerchi concentrici e una linea sottile per la bocca. Tipici sono i tagli netti che caratterizzano la definizione delle orecchie e del naso.

clastia erano trascorsi circa quattro secoli, nel corso dei quali, con ogni probabilità, le comunità indigene avevano perso la memoria dei loro antenati nuragici.

circolare (denominata Edificio A), con un diametro esterno di 9 m e uno interno di 6, nel cui poderoso muro (1,5 m di spessore), sul lato sud, era stato aperto l’ingresso. Quest’ultimo venne in un secondo momento rimpiazzato da una nuova porta, questa volta orientata a nord-ovest. A questa sala fu affiancata una seconda struttura (Edificio B), probabilmente avente funzioni di servizio, che alla prima era collegata per mezzo di un atrio. In epoca cartaginese ai due nuclei toccarono sorti diverse: l’edificio A venne to-

LA SALA DELLE RIUNIONI Nell’area indagata, risalendo verso la collina, si conservano anche i resti di una grande struttura cerimoniale, con ogni probabilità una sala per riunioni, che ha offerto un’altra testimonianza importante delle principali fasi di frequentazione del sito. Si tratta di una costruzione a pianta

DOVE E QUANDO Museo Archeologico Nazionale Cagliari, piazza Arsenale 1 Orario ma-do, 9,00-20,00; lu chiuso Info tel. 070 655911 o 60518240; http://museoarcheocagliari. beniculturali.it Museo Civico «Giovanni Marongiu» Cabras, via Tharros 121 Orario fino al 31 marzo: ma-do, 9,00-13,00 e 15,00-19,00; lu chiuso Info tel. 0783 290636; e-mail: info@museocabras.it; www.museocabras.it a r c h e o 59


SCAVI • OMAN


I TESORI DEL «QUARTO VUOTO» OMAN, DESERTO DEL RUB’AL KHALI. UN GRUPPO DI TURISTI SI IMBATTE IN UNA DISTESA DI MISTERIOSI OGGETTI METALLICI. DELLA SCOPERTA VIENE SUBITO INFORMATO IL CONSIGLIERE PER L’ARCHEOLOGIA DEL SULTANATO, LO STUDIOSO ITALIANO MAURIZIO TOSI. INIZIA COSÍ L’ESPLORAZIONE DI UNO DEI SITI METALLURGICI PIÚ RICCHI DI TUTTO IL VICINO ORIENTE di Claudio Giardino

Una veduta di Muscat, capitale dell’Oman. Secondo la leggenda, la città sarebbe stata fondata da mercanti himyariti, provenienti dallo Yemen. In realtà, la prima menzione risale al X sec. e si deve al geografo arabo Ibn Al Amadani.

a r c h e o 61


SCAVI • OMAN

I

l primo aprile del 2012 una telefonata inattesa raggiunse il professor Tosi nel suo studio di Muscat, la capitale dell’Oman. Scompar so nel febbraio di quest’anno, Maurizio Tosi – oltre a essersi affermato come uno tra i piú autorevoli archeologi preistorici italiani ed essere titolare della cattedra di paletnologia all’Università di Bologna – era infatti anche Consigliere per l’Archeologia presso il Ministero del Patrimonio e della Cultura del Sultanato d’Oman. Il professore ascoltò con non poca sorpresa e curiosità le notizie che gli giungevano dall’altro capo del filo: la telefonata gli comunicava che, in modo del tutto casuale, era stato appena scoperto uno dei piú importanti siti archeologici del Medio Oriente. Il giorno precedente, durante un’escursione, due turisti inglesi e un americano, accomunati dalla passione per le bellezze del deserto, si erano imbattuti in un luogo dalle cui sabbie emergevano decine di oggetti antichi in bronzo, la gran parte in ottime condizioni di conservazione. Gli scopritori, due dei quali risiedenti per lavoro negli Emirati Arabi Uniti – Peter Rothfels e Rebecca Colestock –, intuendo l’importanza del rinvenimento, decisero di non toccare nulla e di girare un breve filmato. Appena tornati ad Abu Dhabi contattarono un loro conoscente, il quale, a sua volta, informò subito Tosi.

PARTENZA ALL’ALBA Questi decise di organizzare una breve spedizione sul sito per il 3 aprile, pregando gli scopritori di tornarvi immediatamente e di pernottare lí, in modo da potergli fare da guida al suo arrivo. Nel deserto, che per un occhio inesperto è sostanzialmente privo di punti di riferimento, è infatti assai difficile trovare un posto senza che ci sia qualcuno che possa condurvi. Tosi partí cosí da Muscat alle prime luci 62 a r c h e o

IL POTERE DELLA TOLLERANZA «Mio Popolo, procederò piú rapidamente possibile a trasformare la vostra vita, rendendola prospera e con un luminoso futuro. Ognuno di voi deve svolgere la sua parte verso questo obiettivo. Nel passato il nostro paese era famoso e forte. Se lavoriamo uniti e collaboreremo, noi faremo risorgere quel glorioso passato e occuperemo una posizione di rispetto nel mondo». Con queste parole, il sultano Qaboos bin Said (nella foto in alto) si rivolse alla sua gente al momento della salita al trono, il 23 luglio 1970. Dopo oltre quarant’anni di regno, è possibile affermare che ha mantenuto le sue promesse, trasformando un Paese povero e arretrato, agitato dalla guerra civile nella provincia del Dhofar, in una delle aree piú prospere del pianeta. Ha liberalizzato la stampa, creato scuole, ospedali, università, costruito moschee, autostrade e alberghi, sviluppato l’economia e il turismo. Oggi il Paese, rigidamente neutrale e con una politica estera prudente e realistica, è un fattore di

stabilità nel tormentato scenario medio-orientale, avendo rapporti sia con i Paesi occidentali che con l’Iran e gli altri Stati arabi. L’Oman ha una superficie di 310 000 kmq e una popolazione di 2 500 000 abitanti; l’Islam è la religione di Stato, ma è proibita ogni discriminazione su base religiosa ed è sancita la libertà di culto. La maggioranza degli Omaniti – tra cui il sultano – sono ibaditi: l’ibadismo, le cui origini risalgono alle origini dell’Islam, è una «terza via» tra sunniti e sciiti, caratterizzata da una particolare moderazione, dalla tolleranza religiosa e dal ripudio della violenza. In Oman il ruolo della donna è di sostanziale eguaglianza con l’uomo: le elezioni parlamentari sono a suffragio universale e vi sono donne membri del parlamento e del governo. In un Paese che fa dell’istruzione uno dei suoi obiettivi, il 48% degli studenti sono donne, cosí come il 56% degli insegnanti. Le donne rappresentano oltre il 30% della forza lavoro e molte di loro occupano ruoli chiave nei ministeri.


Mar Mediterraneo

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Africa

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b

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Kh

ali

Oceano Indiano

dell’alba del venerdí – giorno festivo in Oman come in ogni Paese islamico –, con due auto, assieme ai suoi piú stretti collaboratori e ad alcuni altri archeologi, in quella che, piú tardi, definí «una “gita” memorabile nel Rub’al Khali». In mattinata raggiunsero il sito, dove subito si iniziò a fotografare, rilevare, mettere in pianta e posizionare con il GPS – il sistema satellitare che consente di collocare con esattezza un punto sulla carta geografica – i reperti affioranti dalle sabbie, in seguito raccolti e imballati con cura, affinché venissero trasportati nei magazzini del Ministero.

MANUFATTI E SCARTI DI LAVORAZIONE L’avventura era iniziata e il professore tornò la sera stessa nella capitale con un centinaio di manufatti pressoché intatti – tra cui asce, pugnali, punte di freccia, vasi metallici, zappe e martelli –, nonché residui di lavorazione del metallo. Questi ultimi gli fecero subito comprendere che era di fronte a un’antichissima officina per la fabbricazione del bronzo e del ferro, conservatasi miracolosamente sotto le sabbie del deserto. Dopo la breve visita gli era inoltre

In questa pagina: cartina dell’Oman, con la localizzazione del sito di ‘Uqdat al-Bakrah; nella foto satellitare (in alto) la Penisola Arabica con, in evidenza, la vasta area desertica del Rub‘ al-Khali. Nella pagina accanto: il sultano omanita Qaboos Bin Said, che ha assunto la guida del Paese il 23 luglio del 1970. In oltre quarant’anni di regno, il sovrano ha trasformato una nazione arretrata in una delle aree dei piú prospere del pianeta, creando infrastrutture che hanno permesso lo sviluppo dell’economia e del turismo.

Iran Golfo di Oman

Golfo Per sico

Suhar Ibri

Emirati Arabi Uniti

‘Uqdat al-Bakrah

Arabia Saudit a

Muscat Sur

Ibra

al-Khalif O M A N

Duqm

Mare Arabico Yemen

Salalah

a r c h e o 63


SCAVI • OMAN

Una veduta del Rub‘ al-Khali (il «Quarto vuoto» in arabo), il deserto che si estende fra Arabia Saudita, Oman, Emirati Arabi Uniti e Yemen. Le sue dune sabbiose possono raggiungere i 300 m di altezza.

UNA DISTESA SENZA FINE Il deserto del Rub‘ al-Khali (in arabo il «Quarto vuoto») si estende attraverso quattro Stati: l’Arabia Saudita, l’Oman, gli Emirati Arabi Uniti e lo Yemen. Con una lunghezza di circa 1000 chilometri e una larghezza di 500, le sue sabbie coprono il terzo meridionale della Penisola Arabica. Il suo clima viene definito «iper-arido»: la quantità media annuale della pioggia è infatti minore di 30 mm (si consideri che a Milano la media annua è di 1000 mm, mentre a Roma è di 840 mm). Le temperature diurne sono estremamente elevate, in media intorno ai 47 °C, sebbene possano spingersi anche fino a 60 °C; di notte, invece, il termometro scende di vari gradi sotto lo zero. Questa situazione climatica rende assai difficile la vita: i pochi animali che popolano le sue sabbie sono ragni, scorpioni, serpenti e lucertole, mentre nelle parti meno aride si possono incontrare i dromedari. Fino al 300 d.C., un clima meno ostile dell’attuale induceva le carovane che trasportavano l’incenso ad attraversare almeno in parte il deserto. Oggi l’interesse economico che spinge l’uomo nel Rub‘ al-Khali è costituito dal petrolio: enormi giacimenti di greggio giacciono infatti sotto le sue dune e questo deserto è considerato la piú ricca area petrolifera del pianeta.

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chiaro che il sito era assai vasto e che i materiali permettevano di datarlo agli inizi dell’età del Ferro, un periodo che in Oman si colloca fra il 1300 e il 1100 a.C. Cominciò quindi a pianificarne lo scavo archeologico prevedendo – com’era sua abitudine – il coinvolgimento di vari specialisti, poiché solo cosí l’area avrebbe potuto svelare appieno le sue potenzialità informative: chiamò quindi topografi, geologi, archeologi, informatici e archeometallurgisti. Il sito di ‘Uqdat al-Bakrah (anche noto con il toponimo, inesatto, di al-Safah, con il quale era stato inizialmente indicato) si trova nella parte nord-occidentale dell’Oman, alle prime


propaggini orientali del Rub‘ al-Khali, il piú grande deserto di sabbia del mondo, che occupa circa un terzo dell’intera Penisola Arabica, con una superficie di 650 000 kmq (vedi box alla pagina precedente). Il suo stesso nome, che in arabo significa «Quarto vuoto», evoca l’immensità e l’inospitalità di questa enorme regione, i cui territori piú interni sono ancora oggi parzialmente inesplorati ed evitati dagli stessi beduini. L’area archeologica è posta nella regione di Al Dhahirah, tra le prime dune, 70 km circa a ovest di Ibri, la città nei cui pressi fu rinvenuto, nel 1979, il piú ricco deposito di oggetti di bronzo preistorici del Vicino Oriente antico.

Le sabbie del Rub‘ al-Khali, il «Quarto vuoto», ricoprono un terzo della Penisola Arabica ‘Uqdat al-Bakrah è situato sul bordo di antichi depositi fluviali: era quindi il posto migliore per ricercare l’acqua, elemento estremamente prezioso in quell’ambiente. Non a caso, infatti, la zona viene indicata su alcune mappe con i toponimi

locali di Tawi e di Wadi Mulayhah, cioè, r ispettivamente, «Sorgente» e «Wadi salato». Gli uidian (plurale di wadi), relativamente frequenti nelle regioni aride dell’Arabia, sono letti di torrenti nei quali, occasionalmente e in particolari condizioni climatiche, scorre l’acqua; e uno di essi si trova infatti nei pressi dell’area archeologica. Dopo alcune preliminari, brevi esplorazioni – nel maggio e nel giugno del 2012 –, fu necessario lasciar trascorrere i lunghi mesi estivi nei quali, per ragioni climatiche, era sconsigliabile operare nel deserto. Agli inizi del gennaio 2013, per esplorare la vasta area ebbe inizio l’attività di una missione italo-omanita, coordinata da Sultan Said a r c h e o 65


SCAVI • OMAN

Dune ricche di storia Sulle due pagine: un momento delle ricognizioni di superficie nell’area di ‘Uqdat al-Bakrah e alcuni dei reperti individuati: 1-3. Manufatti in bronzo di varia tipologia affioranti tra le sabbie; 4. Una ciotola in bronzo, disseppellita dalla coltre sabbiosa che la copriva. Grazie alle particolari condizioni climatiche, i materiali si presentano in uno stato di conservazione eccellente.

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al-Bakry, direttore degli scavi e degli studi archeologici del sultanato, e da Maurizio Tosi. Dirigeva i lavori sul campo l’italiano Francesco Genchi, esperto archeologo e topografo, veterano delle ricerche in Oriente. Lo scavo in un ambiente cosí particolare e infido come il deserto obbedisce a regole particolari. Dagli 66 a r c h e o

alloggi – si risiedeva in una vicina base allestita per il personale addetto alle ricerche petrolifere –, bisognava raggiungere il sito all’alba e tornare prima del buio. Il team viaggiava sempre con due auto: è infatti pericoloso avventurarsi nel deserto con una sola vettura. Si iniziava il lavoro in abiti pesanti per ovviare al

residuo, ma pungente, freddo notturno, per poi alleggerirsi progressivamente con l’alzarsi del sole e, conseguentemente, della temperatura, badando però di non lasciare esposta la pelle ai raggi diretti. L’ambiente secco e una continua brezza rendevano sopportabile il calore, sebbene quest’ultima trasportasse


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finissimi grani di sabbia, assai dannosi per le fotocamere e per le strumentazioni elettroniche. Le attività di scavo erano associate alla ricognizione di superficie sistematica del sito e delle aree limitrofe, servendosi anche dell’aiuto del metal detector, uno strumento prezioso nelle ricerche archeometallurgiche.

LA METÀ DI POMPEI ‘Uqdat al-Bakrah si compone di due vaste aree contigue di lavorazione dei metalli, separate da una grande duna di sabbia. Grazie a nuove escursioni nel deserto, gli stessi Peter Rothfels e Rebecca Colestock, la cui scoperta della prima area aveva dato avvio alle indagini, ne avevano poi individuata una seconda alcune settimane piú tardi. L’insieme del giacimento archeologico ha quindi proporzioni considerevoli, superando i 25 ettari, una superficie che equivale a oltre 35 a r c h e o 67


SCAVI • OMAN 1

Tracce di antiche fusioni 1. Lo scavo di una delle numerose fornaci scoperte a ‘Uqdat al-Bakrah. La frequentazione del sito si colloca agli inizi dell’età del Ferro, una fase che in Oman è compresa fra il 1300 e il 1100 a.C. 2. Una fornace prima dello scavo, la cui presenza è indiziata dal circolo di ciottoli visibile in superficie. In piú di un caso, grazie alle particolari condizioni ambientali, sul fondo di queste strutture sono stati trovati resti del carbone utilizzato come combustibile per la fusione. 3. Un’altra fornace, cosí come si presentava a scavo ultimato. Nell’intero sito sono state rilevate oltre 260 strutture per la fusione.

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campi di calcio, ed è pari a circa la metà degli scavi di Pompei. Oltre ai numerosi oggetti in bronzo e in pietra che giacevano in superficie, erano anche ben visibili i resti di molte decine di forni per la lavorazione del metallo: il sogno di ogni studioso di metallurgia antica. Le condizioni estreme del deserto avevano conservato in condizioni eccezionali le testimonianze del passato, sigillando le strutture sotto 4070 cm di sabbia, al di sotto dei quali, sul fondo delle fornaci, erano ancora presenti i resti del carbone utilizzato per fondere il metallo.

FUNZIONI DIFFERENZIATE Sebbene entrambe le aree di lavorazione fossero disseminate di fornaci, solo in una di esse abbondavano gli oggetti metallici, mentre nell’altra erano quasi assenti, pur non mancando strumenti in pietra come incudini e martelli, indizio probabilmente di una differente destinazione d’uso. Nell’intero sito sono stati rilevati oltre 260 forni, differenti per forma e dimensioni. Alcuni erano grossolanamente rettangolari o ovali, lun68 a r c h e o

ghi 1,5 m circa, altri, circolari, con un diametro di 60 cm circa. Altre strutture, assai piú rare delle precedenti, erano grandi fosse circolari dal diametro superiore ai 2 m, verosimilmente destinate alla produzione del carbone per le fusioni. Sebbene sia difficile rilevarla archeologicamente, la produzione di combustibile è un elemento fondamentale per l’attività metallurgica: basti pensare che solo per riscaldare un piccolo forno sono necessari circa 20 kg di carbone.

In Italia, come in passato, il carbone viene ancora oggi prodotto nei boschi di montagna nelle carbonaie, grandi e alte cataste coniche di legname ricoperte di terra battuta e accese all’interno; la legna viene lasciata bruciare lentamente affinché possa appunto trasformarsi in carbone. Tuttavia, vi è sempre stato anche un sistema alternativo – attestato sia in Europa che in Asia e in Africa –, nel quale la legna viene posta in grandi buche, perlopiú ovali o rettangolari, non dissimili per


forma e dimensioni da quelle rinvenute a ‘Uqdat al-Bakrah; il processo di carbonizzazione avviene cosí all’interno di queste fosse, preventivamente coperte di terra. Le officine di ‘Uqdat al-Bakrah erano poste ai margini del deserto, ma potevano sfruttare la vegetazione che ancora oggi cresce nei dintorni, costituta da alberi e arbusti adattatisi all’aridità dell’ambiente, come alcune specie di acacia e di mimosa. Per compensare la scarsità di piante, gli antichi fabbri omaniti potevano

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In basso: una forgia, circondata da ciottoli. Strutture come questa venivano verosimilmente utilizzate per lavorare sia il ferro che il rame. In ogni caso, l’attività principale attestata a ‘Uqdat al-Bakrah è la produzione di oggetti in bronzo.

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SCAVI • OMAN

utilizzare anche altri combustibili, come gli escrementi dei cammelli: esempi etnografici dimostrano come lo sterco animale sia tuttora usato nei tropici insieme al carbone per alimentare le forge. I forni per fondere il metallo erano strutture assai piú piccole rispetto a quelle per il carbone. Soltanto in una fornace di ridotte dimensioni si può infatti ottenere l’ambiente ben controllato, nel quale raggiungere le elevate temperature richieste per liquefare rame e bronzo, che fondono a circa 900-1100 °C. Come spesso accade negli scavi archeologici, anche a ‘Uqdat alBakrah è difficile determinare quale fosse la forma originaria delle antiche fornaci, poiché i resti giunti sino a noi si limitano di norma alla base del forno: la parte in alzato scompariva infatti già in antico, indebolita dal calore sviluppato all’interno. I forni di ‘Uqdat al-Bakrah erano circolari o irregolarmente ovoidi: verosimilmente dovevano quindi apparire all’esterno come cupolette emisferiche o, forse, come alti camini cilindrici. Le pareti erano fatte di pietre, probabilmente legate assieme con argilla utilizzata come malta; generalmente un circolo di arrotondati ciottoli fluviali provenienti dal vicino wadi sottolinea il perimetro delle fornaci.

IL SOFFIO DELL’UOMO O QUELLO DEI VENTI? Un quesito tuttora irrisolto è come venisse immessa all’interno l’aria indispensabile allo svolgimento dei processi metallurgici. In genere, nelle fornaci antiche, l’aria veniva pompata da grandi mantici muniti di ugelli in terracotta, di cui però non si è rinvenuta traccia nel sito. È anche possibile che quelle di ‘Uqdat al-Bakrah fossero fornaci a tiraggio naturale, in grado di sfruttare i venti che spirano costantemente nel deserto, e di cui non mancano esempi sia in contesti preistorici, che etnologici. 70 a r c h e o

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In questa pagina: vari esemplari di asce a occhio: la prima (1) presenta una testa umana e una leonina contrapposte; la seconda (2) è un esemplare non finito, rinvenuto cosí come si presentava dopo essere stato rimosso dalla forma di fusione, tanto che, lungo l’intero profilo del pezzo, sono ben riconoscibili le creste di metallo che normalmente venivano rimosse; in basso, infine, un esemplare simile al primo (3), ma meno elaborato.


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Dall’alto, in senso orario: ancora una campionatura dei reperti rinvenuti a ‘Uqdat al-Bakrah: 1. vaso in bronzo; 2. un pugnale e una zappa rinvenuti saldati assieme per effetto della corrosione; 3. gioiello composto da un cilindretto in corniola ed elementi in oro; 4. spada in bronzo ripiegata per essere riciclata: è uno dei reperti che provano la pratica sistematica della rifusione; 5. gocce di rame fuso; 6. ancora un vaso in bronzo.

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SCAVI • OMAN

UN PARADISO TURISTICO Dopo essere stato, sino agli anni Settanta del secolo scorso, chiuso agli stranieri, l’odierno Oman ha nell’industria turistica uno dei perni dell’economia e della cultura. Il Paese associa paesaggi di eccezionale bellezza con siti archeologici di rilevanza mondiale, congiunti al rispetto e alla tutela delle tradizioni artistiche e artigianali, ancora vive in gran parte dei villaggi. Un viaggio in Oman è senza dubbio un’avventura speciale, vissuta peraltro in uno Stato sicuro e tranquillo come pochi altri; in uno dei prossimi numeri «Archeo» dedicherà ampio spazio alle ricchezze storiche e archeologiche omanite. Spesso i siti archeologici sono localizzati in ambienti naturali di grande suggestione, come le tombe preistoriche di al-Ayn – una sorta di nuraghi in miniatura –, che hanno come sfondo le impervie e alte rupi del Jebel Misht, sepolture dalle quali gli antenati osservano da millenni il mondo dei vivi. Esse sono parte della lista UNESCO dei Patrimoni dell’Umanità, come pure i siti dell’età del Bronzo di Bat, all’interno di

un’oasi di palme, e di al-Khutm. Da non perdere è inoltre il sito costiero di Ras al-Jinz, paradiso delle tartarughe marine che qui vengono a deporre le uova, che ospita importanti testimonianze del passato plurimillenario di questo Paese. Nella capitale, Muscat, è stato inaugurato nel 2016 il nuovo Museo Nazionale (vedi box a p. 74), una struttura modernissima, che custodisce ed espone, in oltre 4000 mq, una ricca selezione delle piú importanti civiltà fiorite nell’Oman sin dalla preistoria.

di oggetti in ferro è testimoniata dal rinvenimento di semilavorati in questo metallo, anche se la principale attività è sempre stata la produzione di bronzi, testimoniata dal gran numero di resti di colata che sono stati trovati sparsi nella sabbia, come gocciole di rame e scarti di lavorazione, oltre a vari pezzi non Alcune fornaci a pozzetto, poco piú ancora finiti, appena usciti dalle forche buche scavate nel terreno e me di fusione, destinati a essere ricircondate da pietrame, dovevano ciclati a causa di qualche difetto. trovare impiego anche come forge per la lavorazione del ferro: risulta GLI ANTICHI ARTIGIANI frequente, in passato, l’uso delle stes- A prima vista, la posizione del sito ai se strutture sia nella lavorazione del margini esterni del deserto sembra ferro che del rame. La realizzazione essere inadatta a un grande centro

In alto: una veduta dello Jebel Misht, le cui cime piú elevate raggiungono i 2000 m d’altezza. Al centro: un tramonto sulla spiaggia di Ras al-Jinz, una delle piú rinomate località balneari omanite, che è anche un paradiso delle tartarughe marine, che qui vengono a deporre le uova

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produttivo metallurgico; tuttavia, esaminandola con maggiore attenzione, tale ubicazione offre in realtà non poche opportunità. Il Rub‘ alKhali, infatti, copre un vasto territorio della Penisola Arabica ed è stato per millenni attraversato sistematicamente da rotte carovaniere: è quindi paragonabile a un mare, che divide e allo stesso tempo collega diverse regioni economiche e culturali. La vegetazione è scarsa, ma abbastanza uniformemente diffusa. L’acacia, in particolare, offre un legno dall’elevato potere calorico. I venti che spirano continuamente e con direzioni costanti possono


fornire aria utile per i processi metallurgici, non solo, forse, per alimentare i forni, ma anche per disperdere i fumi velenosi generati dalle attività fusorie. Inoltre, le sabbie offrono una posizione sicura per produzioni che implicano il costante uso del fuoco. Proprio per evitare il rischio di incendi, devastanti in villaggi costruiti con mater iali infiammabili, nell’Europa preistorica le officine erano posizionate in aree umide e possibilmente isolate. La sabbia del deserto offriva agli antichi Omaniti gli stessi vantaggi forniti dall’acqua nel nostro ambiente.

Nel sito non sono stati trovati solo i resti delle strutture dedicate alle attività metallurgiche, ma anche un gran numero di oggetti legati alla metallurgia, una situazione questa molto fortunata, che si verifica assai raramente in uno scavo archeologico. È cosí possibile esaminare tutte le fasi della produzione del metallo.

CAROVANE E MERCANTI Per comprendere come si svolgesse la vita a ‘Uqdat al-Bakrah dobbiamo tornare indietro agli ultimi secoli del II millennio a.C., quando le carovane di cammelli attraversavano il Rub‘ al-Khali per portare il

Una delle tombe della necropoli protostorica di al-Ayn, che si caratterizzano per la struttura circolare in pietre aggettanti, simile a quella dei nuraghi sardi.

metallo all’officina del deserto. Queste carovane erano probabilmente composte da mercanti o forse da predoni, come i celebri «Quaranta ladroni» di Alí Babà di cui si favoleggia nelle Mille e una notte. Del resto il sito stesso doveva apparire come un’immensa «caverna dei ladroni» a cielo aperto, con le sue ricchezze costituite da accumuli di prezioso bronzo, al quale si a r c h e o 73


SCAVI • OMAN

Una vetrina per la storia Una veduta esterna e alcuni particolari dell’allestimento del Museo Nazionale dell’Oman, istituito con un decreto reale del 2013 e inaugurato il 30 luglio 2016 a Muscat. Articolato in 14 sezioni, che occupano una superficie espositiva di oltre 4000 mq, il museo documenta – attraverso poco meno di 6000 oggetti e opere d’arte – la storia del Paese dalla sua prima frequentazione in epoca preistorica fino all’età contemporanea.

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Ancora una veduta di Muscat. Situata all’interno di un fiordo, la città si affermò, fin dal Medioevo, come uno dei porti piú sicuri dell’area e conservò il suo ruolo di base navale di primaria importanza fino al Novecento.

aggiungevano oggetti d’oro, come un raffinato cilindretto di corniola e oro raccolto durante le indagini archeologiche. L’esistenza era incentrata sulla lavorazione del metallo: non sono stati rinvenuti indizi sostanziali di attività domestiche al di fuori di quelle connesse con le operazioni metallurgiche, suggerendo che qui vivessero solo artigiani specializzati, probabilmente in un insediamento a carattere stagionale. Del resto, le alte temperature che si raggiungono in estate nel deserto debbono aver scoraggiato qualsiasi tentativo di abitarvi in modo continuativo. Le genti di ‘Uqdat al-Bakrah non si limitavano a colare il bronzo negli stampi per ottenere nuovi oggetti, ma provvedevano anche a tutti i processi legati alla manifattura del metallo. Dovevano quindi esservi alcuni lavoranti addetti alla raccolta della legna e alla sua trasformazione in carbone, altri allo scavo e alla costruzione dei forni e delle varie strutture necessarie per l’efficienza degli impianti. Altri ancora raccoglievano e facevano essiccare al sole lo sterco animale che avrebbe contribuito ad alimentare i forni. Non mancavano, inoltre, uomini incari-

cati di ricevere i carichi di metallo, provvedendo a frantumare sulle incudini a colpi di mazza gli oggetti rotti o usurati, cosí da renderli piú idonei alla rifusione.

RIFINITURA E LUCIDATURA Gli artigiani facevano ampio uso sia di strumenti in bronzo che in pietra – come incudini e martelli – per spezzare gli scarti e per indurire spade, pugnali e asce tramite martellatura. Le lame di armi e utensili venivano poi rese affilate con l’impiego di coti, che pure sono state recuperate nel sito. Nel processo di rifinitura dei bronzi venivano inoltre utilizzati blocchetti di una particolare roccia costituita da polvere molto fine e abrasiva, l’argillite: polverizzata e aggiunta ad acqua o a un olio organico, questa argillite produce un’ottima pasta per lucidare, che rendeva levigati e splendenti gli oggetti metallici. Non una sola scoria legata ai processi di estrazione del metallo dal minerale è stata trovata nel sito, che era peraltro assai distante dalle miniere. Tutto il metallo che veniva qui lavorato era quindi importato, sotto forma di lingotti e di vecchi oggetti destinati al riciclo, che arri-

vavano a ‘Uqdat al-Bakrah grazie alle carovane di cammelli. Oltre ad asce, utensili di varia foggia e armi in vari stadi di lavorazione sono stati recuperati anche molti vasi metallici, indice che la produzione di tali oggetti aveva luogo proprio nel sito. In un laboratorio metallurgico era indispensabile disporre di contenitori di varie forme e dimensioni per conservare, scaldare o mescolare al loro interno sostanze come acqua, argilla o cera, quest’ultima utilizzata nella tecnica detta «cera persa», che consentiva di ottenere complessi manufatti in metallo a partire da un modello in cera. Alcuni piattelli, talora trovati in coppie, erano parti di bilance, impiegate per pesare materiali pregiati come l’oro, l’argento o lo stagno, indispensabile per produrre assieme al rame la lega di bronzo. È difficile dire come e perché sia cessata la complessa e intensa attività delle officine di ‘Uqdat al-Bakrah. Già alla fine dell’età del Ferro, le sabbie del deserto cominciarono ad accumularsi sulle fornaci ormai spente e su questo luogo, che forse era rimasto sempre segreto, scese l’oblio, da cui l’avrebbe ridestato per caso una fortunata comitiva di turisti affascinati dal deserto. a r c h e o 75


MUSEI • LUCUS FERONIAE

STORIE DEL BOSCO SACRO

FERONIA È IL NOME DELL’ANTICA DEA ITALICA PREPOSTA ALLA PROTEZIONE DEGLI SCHIAVI LIBERATI E GARANTE DELLA CONCORDIA TRA I POPOLI. NEL LUOGO CHE ACCOGLIEVA IL SUO SANTUARIO – POCHI CHILOMETRI A NORD DI ROMA – SORSE, IN ETÀ AUGUSTEA, UN INSEDIAMENTO, LA COLONIA IULIA FELIX LUCUS FERONIAE. UN LUOGO DI GRANDE SUGGESTIONE CHE OGGI POSSIAMO RISCOPRIRE… SEMPLICEMENTE IMBOCCANDO L’AUTOSTRADA DEL SOLE di Carlo Casi e Manuela Paganelli

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ove oggi l’Italia sfreccia in auto per andare dal Nord al Sud della Penisola, c’era un tempo un bosco, un bosco sacro abitato da una dea. Succede a Fiano Romano, poco piú di 30 km a nord di Roma: ed è davvero difficile immaginare questi luoghi frequentati dalle antiche genti italiche. Eppure basta varcare la soglia dell’area archeologica e visitare il nuovo allestimento dell’Antiquarium per recuperare un ancestrale sentimento di comunione con la natura e con la storia.

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L’Antiquarium di Lucus Feroniae è incentrato sul santuario dedicato alla dea italica Feronia (vedi box a p. 81) e sulla sua strategica posizione di confine, luogo d’incontro e di scambio di Etruschi, Falisci, Sabini, e Romani. Avvalendosi anche di tecnologie innovative, è stata ricostruita l’ambientazione nella quale la dea racconta le proprie suggestioni nel bosco sacro, che prendono forma e rivivono nell’immaginario dei visitatori. Il tutto è completato con reperti provenienti dai dintorni, come il magnifico ciclo di statue

onorarie rinvenuto nell’Augusteum e comprendente un ritratto di Augusto giovane, una statua togata di Agrippa e altre otto sculture acefale di altrettanti personaggi della famiglia imperiale. Fanno inoltre bella mostra di sé i materiali restituiti dalla piú antica necropoli a incinerazione rinvenuta in Etruria, scoperta sul pendio meridionale dell’area archeologica di Lucus Feroniae.

UN PERCORSO UNICO Un passaggio pedonale sopra la moderna via Tiberina riunisce in un


unico percorso di visita i resti del santuario del Lucus Feroniae, il bosco sacro di Feronia; quelli della colonia romana Iulia Felix Lucoferonensium, sorta nel I secolo a.C. in prossimità dell’antico luogo di culto e – lasciato il Comune di Capena per entrare in quello di Fiano Romano – gli ampi settori della villa dei Volusii Saturnini, un importante complesso residenziale collegato al vasto latifondo che consentiva ai proprietari di produrre olio e grano utile anche all’approvvigionamento di Roma. Le piú antiche testimonianze di

frequentazione del territorio del Lucus Feroniae risalgono all’età del Bronzo Recente avanzato (fine del XIII secolo a.C.): si tratta di una necropoli con dodici urne contenenti le ceneri di individui appartenenti ai gruppi emergenti della comunità, arricchite con ornamenti e armi appartenute ai defunti. Stando alle fonti antiche, riportate nel III-II secolo a.C., «i boschi sacri capenati furono fondati dai giovani dei Veienti con l’aiuto del Re Properzio, che li aveva mandati a Capena quando erano diventati grandi» (M.Porcio Ca-

Fiano Romano

Magliano Romano Morlupo

Capena Museo Archeologico Castelnuovo di Porto e scavi di Lucus Feroniae Riano Monterotondo Scalo

Formello E35

Monterotondo

SS4 SS2bis SS2 A90

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Mentana

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Settebagni

Colleverde

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La sala dell’Antiquarium nella quale sono esposte le statue onorarie rinvenute presso l’Augusteum prospiciente la basilica del Foro.

Tev e

Tutte le immagini che corredano l’articolo si riferiscono a oggetti e opere d’arte conservati nell’Antiquarium di Lucus Feroniae e a strutture comprese nell’omonima area archeologica.

tone, Origines, II 19). Qui, ricorda Strabone, «vi si celebra una singolare cerimonia: quelli che sono posseduti dal demone, infatti, a piedi nudi camminano su una grande superficie di carboni e ceneri ardenti senza sentire alcun dolore e una moltitudine di uomini si raccoglie qui insieme sia per l’assemblea nazionale e religiosa che si celebra ogni anno sia per il suddetto spettacolo» (Strabone, Geografia,V, 2, 9) L’organizzazione e le strutture pertinenti alle fasi piú antiche del luogo di culto sono ancora da verificare: si può tuttavia ipotizzare che, in origine, i riti venissero celebrati all’aperto, in una radura del bosco sacro, o presso una grotta, magari in prossimità di una sorgente. In ogni caso, i reperti provano che la prima frequentazione a scopo religioso dell’area risale almeno all’VIII secolo a.C. In epoca arcaica, il santuario dovette verosimilmente trovarsi sotto il controllo dei Sabini: nel I secolo a.C. Dionigi di Alicarnasso riferisce di un episodio avvenuto in tempi remoti, allorquando alcuni mercanti romani furono rapiti dai Sabini presso il Lucus Feroniae, come ritorsione per un episodio analogo, accaduto tempo prima a parti invertite, quando alcuni Sabini erano stati trattenuti a Roma, sull’Asylum (la sella tra il Capitolium e l’Arx).

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Setteville

ROMA

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MUSEI • LUCUS FERONIAE

La vocazione emporica del santuario, che poteva contare su approdi costruiti sulle sponde del vicino Tevere, è testimoniata dai restituiti da una ricca stipe votiva: la qualità e la quantità degli oggetti dedicati alla dea (bronzetti, ceramica attica e ceramica greco-orientale, vasi in bronzo) dimostrano che, sin dal

In questa pagina: fotografie d’archivio che documentano i primi scavi condotti nell’area di Lucus Feroniae. Le indagini presero il via nel 1952, in seguito a uno sterro clandestino effettuato nei terreni dei principi Massimo. Nella pagina accanto: cartina dell’Italia antica con l’indicazione delle principali popolazioni stanziate

VII secolo a.C., il Lucus Feroniae era uno dei luoghi di culto piú venerati della regione, frequentato da fedeli appartenenti a popoli diversi, alcuni provenienti anche da terre lontane.Tra i raffinati ex voto offerti a Feronia, spiccano infatti una fibula di tipo anatolico, gli anelli a quattro spirali e un pendente a gabbia diffusi in Veneto e nei Balcani, che suggeriscono la presenza di fedeli provenienti dalle coste adriatiche. Feronia proteggeva anche i liberti ed è probabile che qui, come a

sul suo territorio; nel riquadro, l’area in cui ricade il sito di Lucus Feroniae. Nella pagina accanto, in basso: il giardino dell’Antiquarium.

Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis

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Terracina, si affrancassero gli schiavi, i quali, una volta liberati, donavano alla dea anelli in bronzo e argento dai castoni incisi, rinvenuti in gran numero negli scavi del santuario. La conferma viene anche da alcune monete, sulle quali l’immagine di Feronia è associata al berretto tipico dei liberti. Nel corso dei secoli, accanto al


L’Italia prima di Roma

sul Monte Soratte. La vita brulicava al cospetto di Feronia ancora agli inizi del III secolo a.C., e nulla lasciava presagire che un giovane generale cartaginese, di nome Annibale, avrebbe presto sconvolto la sacralità del Lucus.

FLAMINIO SCATENA L’IRA DEGLI DÈI Nel 217 a.C., mentre Annibale si prepara a sferrare l’attacco a Roma, il console Flaminio, deputato alla difesa della città, si macchia di gravissime dimenticanze, e si muove contro il nemico senza celebrare i dovuti rituali: non vengono celebrate le Ferie Latine, non viene compiuto il sacrificio sul monte Albano e non viene deposta l’offerta votiva sul Campidoglio. Ricorda Tito Livio che si verificarono allora in tutta la Penisola numerosi prodigi, interpretati come dimostrazione dell’ira degli dèi. E se in Sardegna si videro fuochi lampeggiare sulle spiagge e scudi sudare sangue e a Praeneste piovvero dal cielo sassi infiammati, a Capena sorsero due lune durante il giorno. Ancor peggio capitò ad Anzio, dove le spighe di grano si macchiarono di sangue, mentre a Roma le statue di Marte e dei lupi trasudarono. Per porre fine a questi infausti segnali divini, tra le altre cose fu disposto che le matrone raccogliessero denaro da donare a tempio dedicato a Feronia, sorsero altri sacelli e strutture funzionali ai complessi rituali religiosi, come portici per contenere le offerte e officine nelle quali si realizzavano i tanti oggetti votivi, in prevalenza vasi e statuine fittili, che i fedeli potevano acquistare una volta giunti al santuario e dedicare agli dèi qui venerati. Al Lucus Feroniae, infatti, si onoravano anche altre divinità minori che, come Feronia, avevano origini sabine: i Novensides, tra i quali Numisius Martius, e il giovane Juppiter Anxurus, forse assimilabile all’Apollo del santuario a r c h e o 79


MUSEI • LUCUS FERONIAE A sinistra: foto aerea dell’area archeologica di Lucus Feroniae con l’indicazione dei principali complessi monumentali riportati alla luce. Nella pagina accanto, in primo piano: a sinistra, denario d’argento di Caius Egnatius Maximus (47 a.C.) con raffigurazione del tempio in cui compaiono Feronia e il suo paredro; a destra, denario d’argento di Publius Petronius Turpilianus (19 a.C.) con raffigurazione della dea Feronia. Nella pagina accanto, in secondo piano: cartina nella quale sono riportate le provenienze degli oggetti portati in dono al santuario della dea Feronia.

Giunone Regina, mentre le schiave Battaglia di Canne, Annibale torna a puntare su Roma, ma «si diresse al liberate ne offrissero a Feronia. bosco sacro di Feronia, tempio che era allora colmo di ricchezze. I Capenati e ANNIBALE gli altri popoli che abitavano nell’area MINACCIA ROMA Di lí a poco, tuttavia, Annibale ebbe circostante portando colà le primizie dei la meglio sul console Flaminio e raccolti e altri doni secondo le possibilità, sull’esercito romano sulle sponde lo avevano arricchito di molto oro e ardel Lago Trasimeno. Pochi anni piú gento; di tutti quei doni fu allora spotardi, reduce dall’altro trionfo della gliato il tempio. Dopo la partenza di 80 a r c h e o

Annibale vi furono trovati gran mucchi di bronzo, gettati a terra dalle truppe a ciò mosse da scrupolo religioso. Sulla spoliazione del tempio gli scrittori sono tutti concordi» (Tito Livio, Ab urbe condita, XXVI, 11, 8-10). Cosí, razziando uno dei luoghi sacri piú importanti e frequentati della regione, Annibale aveva colpito tutti i sostenitori di Roma.


UN’ANTICA DIVINITÀ ITALICA L’ampio e morbido paesaggio della valle solcata dal Tevere vedeva nella zona di Fiano Romano la confluenza di antiche vie di comunicazione – e di transumanza – provenienti dall’area umbra, picena e abruzzese. Il Tevere, allora navigabile, fungeva da arteria principale e le sue sponde ospitavano importanti approdi. Qui si incontravano Latini, Etruschi, Sabini, Falisci e Capenati e qui, immerse in una vegetazione rigogliosa e fresca, queste genti convenivano non solo per scambiare le proprie merci, ma – soprattutto – per onorare Feronia. Divinità sabina della natura, dell’acqua, della fertilità (della natura e dell’uomo), implorata dai malati, protettrice degli schiavi liberati, Feronia era anche garante di concordia tra i popoli. Nella mitologia, Feronia, unitasi con il re di Preneste, generò Erilo, essere mostruoso dalle tre anime di cui ebbe ragione solamente Evandro, il mitico eroe arcade, l’unico che riuscí a uccidere le tre vite del mostro. Venerata nei principali centri sabini di Trebula Mutuesca (Monteleone Sabino, Rieti) e Amiternum (a 11 km da L’Aquila), il suo culto raggiunse già in epoca arcaica il territorio dell’antica Capena, si diffuse in Umbria e, a sud, venne accolto dai Volsci di Terracina (Anxur). Il bosco sacro capenate divenne presto il principale santuario a lei consacrato. In ogni luogo dedicato alla dea ricorrevano le stesse caratteristiche naturali e topografiche: la presenza dell’acqua, la posizione di confine tra aree abitate da genti diverse, la collocazione lungo importanti assi

viari e, spesso, la vicinanza a una montagna sacra. Feronia, la dea «che gode del verde bosco» (cosí la ricorda Virgilio nell’Eneide), estendeva la sua protezione alle genti che, ancora lontane dal riunirsi in agglomerati urbani, vivevano in comunità sparse nel territorio; sulla montagna che delimitava la pianura sottostante, il paredro (termine che indica una divinità associata ad altra, generalmente di sesso opposto e di importanza minore) di Feronia sovrintendeva e vigilava dall’alto: sul Monte Soratte era venerato Soranus Apollo, a Terracina, invece, il giovane Iuppiter Anxur. La diffusione del culto di Feronia seguí le vicissitudini del processo di romanizzazione della Penisola.

A Roma, dove esso giunse verosimilmente dopo la sottomissione della Sabina a opera di Manio Curio Dentato (290 a.C.), fu dedicato alla dea un tempio nell’area sacra oggi detta «di Largo Argentina», nel cuore politico della città antica. Attraverso i coloni di origine sabina e italica, e lungo le direttrici che segnarono l’espansione di Roma, il culto di Feronia raggiunse poi Narni, Loreto Aprutino (Pescara) e Pesaro, fino a insediarsi presso la colonia di Aquileia (181 a.C.), ma, come accaduto a Roma, fu ovunque accolta come divinità minore, tanto che, nella letteratura latina, Feronia è citata ormai come semplice ninfa, mantenendo comunque il legame con il bosco e le acque sorgive.

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MUSEI • LUCUS FERONIAE

In alto e a sinistra: i resti e la ricostruzione grafica del tempio di Feronia eretto dal pretore Gneo Egnazio. In basso: terrecotte architettoniche che decoravano la fase post-annibalica del santuario.

Il santuario era però troppo importante per essere abbandonato dopo il saccheggio e, in pochi anni, anche l’abitato circostante venne risistemato, con la costruzione di semplici abitazioni a pianta rettangolare (i cui resti sono stati individuati sotto la piazza del Foro augusteo). Anche il tempio, che nel 196 a.C. era stato danneggiato da un fulmine, fu presto restaurato. Intorno al 130 a.C. ebbe inizio una nuova fase edilizia, sotto il pretore Gneo Egnazio, il quale – insieme a un secondo pretore rimasto sconosciuto – commissionò la costruzione di un nuovo grande tempio, forse per la prima volta completamente in muratura. Della struttura restano le fondazioni, alcuni elementi architettonici in travertino, pochi frammenti dell’apparato decorativo del tetto e un’iscrizione purtroppo mutila. Il progetto, che vedeva l’edificio sacro preceduto da un’ara e affacciato su un ampio piazzale circondato da portici, rimase però incompiuto. Sopravvennero tempi difficili e la situazione politica e sociale che an82 a r c h e o

dava delineandosi a Roma e sul Silla di distruggere il santuario e la suolo italico non lasciava presagire città a esso collegata. certo un futuro di pace e prosperità. L’antico luogo sacro perse ogni importanza e, al posto di Feronia gli LA PENISOLA DILANIATA abitanti della nuova Colonia Iulia Nelle lotte che sconvolsero la Peni- Felix Lucus Feroniae, i coloni di sola agli inizi del I secolo a.C. è assai Augusto e, piú tardi, i veterani di probabile che la comunità che face- Traiano, si diedero ad adorare una va riferimento al Lucus Feroniae si nuova divinità, la Salus Frugifera, schierasse con gli insorti italici: que- non a caso protettrice dei terreni sto spiegherebbe infatti la volontà di coltivabili. Poco dopo il 12 a.C.,


In questa pagina: resti del Foro (qui accanto) della Colonia Iulia Felix Lucus Feroniae e ricostruzione grafica del suo assetto. Nella veduta qui proposta, compare, all’estremità della piazza, il complesso del Capitolium, che comprendeva il tempio della Salus, il sacello degli Augustales, il quadriportico detto Basilica e il tempio del divo Augusto.

Lungo il muro corre un breve tratto di strada basolata, che si interrompe all’altezza dello sbarramento che impediva ai carri di attraversare il Foro, non transitabile. La piazza, di forma rettangolare molto allungata, ospitava al centro un’ara e probabilmente una statua equestre di Augusto. Prevedeva un ingresso monumentale a sud, mentre il lato settentrionale risultava occupato dal complesso del Capitolium, formato dal tempio della Salus, Augusto fece erigere nel nuovo centro il sacello del Genius Coloniae e avviò la risistemazione urbanistico-architettonica dell’abitato. La città, un centro agricolo che ospitava al massimo 1500 abitanti, lasciò che il ricordo della dea Feronia scomparisse per sempre. Il tempio dedicato alla Salus innalzava le sue slanciate forme corinzie su una gradinata lungo il lato settentrionale dell’ampio e rinnovato Foro. Alla nuova protettrice gli abitanti rimasero devoti a lungo, come dimostra la statua femminile rinvenuta negli scavi, un tempo collocata nella cella del tempio e che raffigura una sacerdotessa o una devota con molta probabilità appartenente alla famiglia dell’imperatore Traiano.

NELL’AREA ARCHEOLOGICA Passeggiare tra i resti archeologici di Lucus Feroniae significa oggi ammirare i resti della Colonia Iulia Felix Lucus Feroniae. Il nucleo centrale del sito, indagato sistematicamente a

partire dal 1952 in seguito a uno scavo clandestino effettuato nei terreni dei principi Massimo, è costituito dall’ampia piazza del Foro, che, sin dall’epoca repubblicana, occupava una parte della spianata dell’antico santuario di Feronia. La piazza e i monumenti che si affacciavano su di essa vennero ridisegnati nel periodo augusteo e subirono ulteriori trasformazioni nei secoli successivi: i resti del santuario di Feronia furono esclusi dalla nuova sistemazione e si trovano immediatamente all’esterno del Foro, separati da questo da un solido muro in opera reticolata.

dal sacello del Genius Coloniae (poi trasformato in Augustales), da un quadriportico detto «Basilica» e dal tempio Divi Augusti. Numerose terrecotte architettoniche appartenute a questi edifici sono oggi esposte all’interno dell’Antiquarium. A ovest, alle spalle del portico che fiancheggiava la piazza, si localizzano la sede dei Duoviri – i magistrati preposti all’amministrazione della città – e abitazioni che si aprivano con botteghe sul fronte principale, alcune delle quali vengono sottoposte a importanti ristrutturazioni in epoca imperiale. Nell’angolo suda r c h e o 83


MUSEI • LUCUS FERONIAE

orientale della piazza si può invece ammirare un complesso termale che, sotto Traiano, restitutor della colonia, si impiantò su un piú antico nucleo di tabernae. Camminando lungo i prati che ancora preservano l’antico tessuto urbano, poco piú a ovest del Foro si raggiunge l’area degli scavi effettuati negli anni 1961-1965, che portarono alla luce un secondo e piú piccolo impianto termale, e un piccolo anfiteatro utilizzato esclusivamente per i ludi gladiatori, dal momento che risulta privo delle galle-

rie sotterranee tipiche degli edifici in cui venivano allestiti i giochi con fiere. A questi spettacoli rimanda un monumento funerario scoperto nel 2006 nelle campagne di Fiano Romano, r icostruito all’inter no dell’Antiquarium: la struttura, che doveva essere sormontata da un tempietto o un’edicola porticata in cui si collocava la statua del defunto (ne è stata rinvenuta solo la metà inferiore), era decorata su tre lati da un raffinato fregio in marmo lunense che mostra scene di combattimento tra sei coppie di gladiatori,

tra i quali intercorrono suonatori di trombe lunghe e trombe ricurve.

LA VILLA DEI VOLUSII Tornati all’ingresso dell’area archeologica, il ponte pedonale consente di raggiungere la Villa dei Volusii. I resti delle raffinate strutture architettoniche vennero alla luce nel 1961, durante gli sbancamenti per la costruzione dell’Autostrada del Sole, proprio in prossimità del casello autostradale di Fiano Romano. In quell’occasione l’antico complesso residenziale fu tagliato in due dalla

In questa pagina: un’immagine del recupero, le restituzioni grafiche e la ricomposizione operata all’interno dell’Antiquarium del monumento funerario decorato su tre lati da un fregio in marmo lunense che mostra scene di combattimento tra coppie di gladiatori, tra i quali intercorrono suonatori di trombe. Terzo venticinquennio del I sec. a.C.

rampa di accesso all’autostrada e parzialmente distrutto. Negli anni immediatamente successivi si procedette al recupero delle strutture archeologiche, disposte su due livelli impostati su di un ampio terrazzo naturale, in posizione panoramica sulla valle del Tevere. Sul livello superiore si trovava la 84 a r c h e o


In alto: i resti dell’anfiteatro, adibito esclusivamente allo svolgimento dei giochi gladiatori. In basso: la passerella che assicura il collegamento tra l’Antiquarium e l’area archeologica.

residenza signorile, con gli ambienti dislocati intorno a un vasto atrio completato dal tablino sul lato di fondo, e da cubicoli e triclinio sul lato destro. Oltre questo settore si colloca un grande peristilio, dotato di lararium. Qui erano conservate le immagini degli antenati di Lucio Volusio Saturnino, console nel 12 a.C., amico di Augusto e proprietario della villa, costruita intorno alla metà del I secolo a.C. dalla famiglia senatoria dei Volusii Saturnini, subentrati agli Egnatii (proprietari del nucleo originario della struttura, invisi ad Augusto per essersi schierati contro di lui nel corso delle guerre civili e per questo proscritti dall’imperatore). Dell’apparato decorativo della villa stupiscono i meravigliosi mosaici pavimentali, non solo quelli realizzati con le tessere marmoree bianche e nere, ma, soprattutto, quelli che utilizzano tessere policrome per raffinati ed elaborati motivi geometrici. La villa subí nel tempo importanti restauri e anche la trasformazione di alcuni settori, adibiti a frantoio e ad altri impianti produttivi. Ristrutturazioni che testimoniano la vocazione agricola assunta dalla residenza nel quadro della gestione delle vaste proprietà della famiglia. La crisi delle strutture residenziali e produttive

si manifestò solo a partire dal V secolo d.C., quando tra le strutture piú antiche, si inserirono alcune sepolture. È ormai l’alba del Medioevo.

DALLA TORRE AL BORGO La Colonia Iulia Felix Lucus Feroniae non sembra sopravvivere oltre la tarda antichità, nonostante alcuni restauri di edifici pubblici commissionati dagli imperatori Graziano (367-383) e Valente (364-378). A poca distanza dall’antica colonia emerse, nei primi secoli dell’età di Mezzo, un nuovo polo di aggregazione urbana. Lungo la via Campana, che ricalcava l’antica strada che dai tempi remoti correva lungo il Tevere collegando Lucus Feroniae al Campus Salinarum (le vaste saline alla foce del Tevere), i ruderi di un mausoleo romano furono riutilizzati nel VII secolo d.C. per innalzare una torre di avvistamento. La nuova struttura dovette fornire agli abitanti del luogo la sicurezza di un maggiore controllo dell’asse stradale e del territorio limitrofo. Cosí, lentamente, si sviluppò attorno a essa un piccolo borgo, collegato a uno scalo sul Tevere. Citato già nei documenti del X secolo e occupato almeno fino al XV, il borgo di Scorano passerà poi in mano ad alcune delle famiglie nobili, dagli Orsini ai

Colonna, fino ai Borghese e ai Massimo. Con questi ultimi ha inizio una nuova storia, quella dell’emozionante riscoperta di un bosco sacro a una dea. Gli autori dell’articolo ringraziano il soprintendente Alfonsina Russo, il funzionario Gianfranco Gazzetti, Simonetta Massimi e tutto il personale dell’Antiquarium della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale.

DOVE E QUANDO Antiquarium e area archeologica di Lucus Feroniae Via Tiberina, km 18,500 (Capena, Roma) Orario Antiquarium: 8,30-19.30; chiuso lunedí, 1° gennaio e 25 dicembre; Area archeologica: ma-do, 8,30-tramonto Info tel. 06 9085173; www.sabap-rm-met.beniculturali.it a r c h e o 85


SPECIALE • ARTE RUPESTRE DELL’AFRICA Salvo diversa indicazione, le fotografie che corredano l’articolo sono state realizzate da Paolo Graziosi e fanno parte dell’Archivio ora conservato presso l’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria di Firenze. A sinistra: Uadi Mathendusc (massiccio del Messak Settafet, Libia). Incisione rupestre raffigurante un capride in una foto del 1962.

AFRICA, LA

PRIMA ARTE LA MISSIONE CONDOTTA IN LIBIA NEL 1933 SEGNÒ PER PAOLO GRAZIOSI L’INIZIO DI UN’ATTIVITÀ DI RICERCA CHE, IN OLTRE TRENT’ANNI, GLI PERMISE DI SCOPRIRE E DOCUMENTARE MOLTE DELLE PIÚ SIGNIFICATIVE ESPRESSIONI DELLE CULTURE PREISTORICHE DEL GRANDE CONTINENTE testi di Maria Bernabò Brea, Elena A.A. Garcea, Anna Revedin, Luca Bachechi e Andrea De Pascale 86 a r c h e o


A destra: Karkur Dris, Gebel Auenat (Libia). Incisioni rupestri raffiguranti una mandria di giraffe in una foto del 1967. Il complesso montuoso dell’Auenat si trova al confine fra Libia, Egitto e Sudan.

In basso: riproduzione in scala reale di Paolo Graziosi, su rilievo di Ludovico Di Caporiacco, delle pitture rupestri di Ain Dòua (Libia).

I

l tema della fragilità, con le sue molteplici valenze, costituisce la prospettiva dalla quale abbiamo scelto di osservare e comunicare il patrimonio dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria (IIPP). Il progetto da cui è nata la mostra «La fragilità del segno. Arte rupestre dell’Africa nell’archivio dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria» è nato dall’esigenza di salvaguardare l’archivio fotografico lasciato in eredità all’IIPP dal suo fondatore, Paolo Graziosi (1906-1988), e di renderlo accessibile al grande pubblico. Graziosi fu ricercatore e docente dai molteplici interessi in diversi settori scientifici, ma noto soprattutto come specialista nel campo degli studi di arte preistorica. In tale ambito, si dedicò in particolare alle ricerche nel territorio africano, dove, tra il 1933 e il 1972, portò a termine ben 20 missioni scientifiche. La documentazione di questa attività ha permesso, dopo la scomparsa dello studioso, la formazione dell’Archivio Fotografico «Paolo Graziosi», il cui nucleo piú consistente è composto da soggetti africani. Forte di oltre 10 000 immagini, molte delle quali inedite, il fondo costituisce una raccolta unica che si configura come un prezioso, e in gran parte inesplorato, campo d’indagine nel panorama culturale dell’archeologia preistorica. La conservazione dei documenti del patrimonio culturale, cosí come il loro studio, è un processo sempre in divenire per il continuo aggiornamento dei criteri e delle tecniche: la digitalizzazione di un’immagine di archivio

oggi richiede mezzi e produce risultati diversi rispetto a dieci anni fa, in una corsa contro il progressivo degrado dei supporti originali, intrinsecamente fragili. Ma anche l’uomo, e non solo il tempo, può contribuire al degrado, o addirittura alla distruzione, del suo stesso patrimonio culturale, nel momento in cui non ne riconosce il valore universale. È questo il caso, per esempio, delle testimonianze, documentate dalle fotografie di Graziosi nell’archivio IIPP, dell’arte preistorica dei «siti rupestri del Tadrart Acacus», dal 1985 sito Patrimonio Mondiale UNESCO, che nel luglio 2016 è stato inserito nella Lista del Patrimonio Mondiale in Pericolo. La mostra vuole quindi far conoscere alcune delle piú antiche e straordinarie attestazioni artistiche dell’umanità, situate in luoghi attualmente inaccessibili a causa di conflitti interni e internazionali, e porre l’attenzione sulla necessità di preservare questo inestimabile ma fragile Patrimonio dell’Umanità, presentando immagini che ne documentano lo stato di conservazione in momenti precedenti alle criticità degli ultimi decenni. Vengono infatti proposti immagini e filmati realizzati fra gli anni Trenta e gli anni Sessanta del Novecento nel corso delle missioni di studio di Graziosi sull’arte rupestre africana, e in particolare le riproduzioni delle grandi incisioni preistoriche della Libia, attualmente inaccessibili perché in zone di guerra. Maria Bernabò Brea e Anna Revedin a r c h e o 87


SPECIALE • ARTE RUPESTRE DELL’AFRICA

UNA VITA PER L’ARTE RUPESTRE di Luca Bachechi e Andrea De Pascale

L

a storia dell’archeologia ha tra i suoi obiettivi non solo quello di ricostruire le biografie degli studiosi del passato e di ripercorrere vicende storiche, fatti o avvenimenti del quotidiano connessi a campagne di scavo o a missioni di ricerca, ma anche quello di evidenziare il contributo che tali indagini e persone hanno dato al progredire delle conoscenze. Il «bagaglio conoscitivo» che si produce nel corso del tempo su di un sito archeologico e sugli aspetti della cultura materiale in esso conservati è in continua crescita, poiché si basa sulle ricerche pregresse, magari rilette criticamente e aggiornate – se non contraddette – dai nuovi dati nel frattempo ottenuti grazie a ulteriori indagini, analisi e metodologie di ricerca. Gettare luce sull’attività svolta dai ricercatori che ci hanno preceduto, analizzare la loro documentazione d’archivio – composta generalmente da appunti, disegni, fotografie e, a volte da filmati, da rilievi grafici e da pubblicazioni – ha un risvolto fondamentale non solo per il prosieguo dell’attività scientifica, ma anche perché – in alcuni casi – i siti e i materiali oggetto di tali passate indagini po-

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In alto: Paolo Graziosi nelle grotte della Migiurtinia (Somalia), nel 1953.

trebbero non essere piú disponibili o ad alto rischio di conservazione. È questo il caso degli studi condotti da Paolo Graziosi sull’arte rupestre di diverse aree del continente africano. Un insieme di siti con importanti testimonianze di espressioni culturali e simboliche di differenti popolazioni della preistoria delle regioni sahariane e della parte orientale dell’Africa, oggi al centro dell’attenzione sia per l’elevato rischio di danneggiamento e perdita a causa della presenza di conflitti bellici, sia per l’impossibilità di essere ulteriormente studiate poiché in gran parte di quei territori sono irrealizzabili nuove ricerche sul campo per motivi di sicurezza dovuti a locali disordini sociali (basti pensare ai «siti rupestri di Tadrart Acacus» in Libia, inseriti nel Patrimonio Mondiale UNESCO dal 1985 e, dal luglio 2016, nella Lista del «Patrimonio Mondiale in Pericolo»). Per queste ragioni l’attività svolta da Graziosi in Africa e la relativa documentazione prodotta, oggi conservata negli archivi dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria di Firenze, assumono un ruolo fondamentale per la conoscenza e la salvaguardia di tali attestazioni culturali.


Archeologo preistorico e antropologo, Paolo Graziosi dedicò gran parte della sua vita e dei suoi studi all’arte rupestre, operando sia in contesti italiani, sia all’estero, in particolare in Libia, in Etiopia e in Somalia. In Libia, lavorò tra la Grande Guerra e il secondo conflitto mondiale, nel momento in cui le prime missioni archeologiche muovevano i loro passi in questo territorio, dopo che per decenni, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del Novecento, alcuni viaggiatori e amateur avevano riportato scarne notizie e i primi disegni e fotografie dell’arte rupestre della regione sahariana. «Nel Fezzan, però, tali ricerche possono dirsi appena iniziate perché, dopo le scoperte di alcune incisioni fatte dal Barth nel 1850 e da Corrado Zoli nel 1914, il primo forte nucleo di figurazioni rupestri fu oggetto di studio soltanto nel 1931 da parte di una missione tedesca che le aveva individuate basandosi sulle vecchie osservazioni del Barth», scrisse lo stesso Graziosi.

LA PRIMA MISSIONE In quel periodo l’Italia aveva il completo dominio sulla Cirenaica e sulla Tripolitania e controllava gran parte delle oasi del Fezzan: tra il 1932 e il 1934, la Reale Società Geografica Italiana promosse sei missioni di ricerca che, sotto la direzione di Antonio Mordini (1904-1975) e di Lidio Cipriani (1892-1962), raccolsero ingenti quantità di materiali che andarono ad arricchire soprattutto le collezioni del Museo Nazionale di Antropologia ed Etnologia di Firenze. Graziosi cominciò la sua attività di ricerca in Africa partecipando alla seconda di quelle missioni, svolta nell’aprile 1933, con l’incarico di occuparsi della documentazione delle incisioni rupestri di cui si conosceva l’esistenza, ma per le quali non si disponeva di alcun dato scientifico. È lo stesso Graziosi, prossimo alla partenza per la sua prima visita in Libia, a sottolineare l’importanza dell’avvio nella regione di tali studi, in quanto «Le ricerche preistoriche in Tripolitania e particolarmente nel Fezzàn non sono state fino ad oggi numerose. Il prof. Fantoli, capo del Servizio Meteorologico della Tripolitania e della Cirenaica, iniziò per primo qualche anno fa ricerche sistematiche specie nella Tripolitania costiera mettendo in evidenza stazioni all’aperto di grande importanza. Una piccola raccolta di manufatti litici fece nel 1930 la Missione Prorok-Rosselli, finché nel 1931 la spedizione Frobenius intraprese lo studio delle incisioni rupestri di alcune

Nella pagina accanto, in basso: rilievo, realizzato durante una missione di Paolo Graziosi, delle pitture rupestri del sito di Zeba Chebsea I (Eritrea). In basso: una delle incisioni rupestri di Udei el Chel (Libia), in una foto del 1954.

zone fezzanesi, studio di cui si attende tra breve la pubblicazione. Nell’autunno scorso la Missione Cipriani-Mordini, inviata dalla Reale Società Geografica per lo studio antropometrico-etnografico del Fezzàn segnalava incisioni rupestri negli uadi Zígza e Masaúda e raccoglieva manufatti litici specialmente nell’uadi el-Agiál». Oltre a Graziosi parteciparono alle spedizioni scientifiche della Società Geografica Italiana gli archeologi Giacomo Caputo (1901-1991) e Biagio Pace (1889-1955), con l’obiettivo di approfondire le conoscenze sulla storia dell’area libica per meglio definirne i diversi orizzonti culturali. In particolare, nel 1930, Pace diresse una missione nel Tibesti libico, catena montuosa del deserto sahariano, scoprendo vari resti della civiltà dei Garamanti, antica popolazione di lingua berbera che costituí un regno nella regione del Fezzan libico tra il VI secolo a.C. e il VI secolo d.C. circa, lasciandoci anche importanti testimonianze di arte rupestre. Caputo, invece, si dedicò all’archeologia classica, divenendo, nel 1933, Soprintendente delle Antichità in Libia ed effettuando, negli anni successivi, scavi a Tolemaide, occupandosi della ricostruzione delle colonne della basilica dei Severi e del teatro antico di Leptis Magna, del teatro di Sabratha e dell’arco di Marco Aurelio a Tripoli. Piú di un

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SPECIALE • ARTE RUPESTRE DELL’AFRICA

future. Le mie ricerche erano dirette a due scopi principali: identificazione e studio di incisioni rupestri, e conseguente presa di lucidi e fotografie e identificazione e studio di stazioni preistoriche e conseguente raccolta di manufatti». L’interesse degli Italiani per la preistoria della regione non era l’unico. Negli stessi anni e nella stessa area operava una missione di ricerca tedesca diretta da Leo Frobenius (18731938), al quale si deve di fatto la pubblicazione del primo atlante sull’arte rupestre sahariana nel 1937. Attività sul campo erano svolte anche da una missione svedese che, attraverso il Museo Etnografico di Stoccolma e la direzione di Karl Gerhard Lindblom (18871969), entrò piú volte in conflitto proprio con Frobenius, in particolare per la diversa interpretazione di alcune raffigurazioni incise, quali le cosiddette «ruote raggiate», in cui complesso di arte rupestre preistorica venne scoperto nella regione anche da studiosi di altre discipline, come l’entomologo e aracnologo Ludovico Di Caporiacco (1901-1951), il quale, insieme all’esploratore ungherese Laszlo Almasy (1895-1951), individuò le pitture rupestri di Ain Dòua.

UN COMPITO IMPEGNATIVO Queste spedizioni in Libia, e piú in generale in terra africana, dovevano quotidianamente operare risolvendo difficoltà logistiche di non facile soluzione, come emerge anche dalle fotografie che ritraggono mezzi di trasporto insabbiati o campi base installati in una terra climaticamente inospitale, priva di strade e con l’ausilio di attrezzature che non sono certamente quelle odierne. Altrettante erano le problematiche strettamente connesse all’attività scientifica: «Il compito che mi era stato affidato – scrive ancora Graziosi – si presentò subito non privo di difficoltà, innanzi tutto per la vastità della regione che mi accingevo ad esplorare ed in secondo luogo, per la mancanza di precedenti ricerche e studi sulla preistoria fezzanese a cui potermi riferire nello svolgimento del mio lavoro. Mi trovavo, in fin dei conti, innanzi ad un campo completamente nuovo, specie per quanto riguardava lo studio delle industrie litiche.Tuttavia durante la mia non lunga permanenza nel Fezzàn potei studiare abbastanza esaurientemente alcune zone e segnalarne altre di notevole interesse paletnologico, stabilendo cosí alcuni «punti» dai quali potranno con piú facilità prendere le mosse ricerche 90 a r c h e o

In alto: Uadi Mathendusc (massiccio del Messak Settafet, Libia). Incisione rupestre raffigurante un elefante in una foto del 1962. Qui sopra: Jabbaren (Tassili n’Ajjer, Algeria). Pitture rupestri con immagini di animali e figure umane (foto Fantini, 1971).

Lindblom vedeva – correttamente, cosí come Graziosi – trappole per animali, mentre Frobenius le leggeva come motivi solari. Con estrema efficacia le parole di Graziosi ci fanno comprendere l’importanza delle raffigurazioni rupestri nordafricane: «In tutto il Nord-Africa, dal Marocco all’Egitto, s’incontrano graffite o dipinte entro caverne, su massi isolati, o su scoscese pareti rocciose, delle figure rappresentanti animali, uomini, cose, che riflettono l’esistenza, in altri tempi, in quei luoghi oggi desertici, di un mondo faunistico e culturale assai diverso dall’attuale. Si pensi che in regioni ove attualmente per un raggio di centinaia e centinaia di chilometri non è possibile trovare una goccia d’acqua, esistono incisioni di ippopotami, bufali, coccodrilli, elefanti, rinoceronti, ecc., animali per i quali necessitano


abbondanti risorse idriche e rigogliosa vegetazione. Queste figure sono in tale numero, disseminate su territori sí vasti, ed eseguite con un senso del vero cosí notevole, da farci evidentemente ammettere che quando esse vennero tracciate i primitivi artisti avevano davanti a sé gli animali che stavano disegnando, animali che dovevano vivere piú o meno numerosi ed in istato di perfetta libertà. L’esame delle figure nord-africane ci permette di renderci conto dei fenomeni naturali prodottisi nella regione attraverso un lunghissimo periodo che dalla preistoria giunge fino ai nostri giorni».

LA PUBBLICAZIONE DEI DATI Dopo la prima campagna del 1933, Graziosi tornò nel Fezzan nel 1938, nel 1939 e poi ancora nel 1962, nel marzo-aprile del 1967 e infine nel maggio-giugno del 1968, dando alle stampe diversi materiali, sintesi della grande quantità di documentazione raccolta. Tra le sue pubblicazioni sono da ricordare le due monografie L’arte rupestre della Libia (1942) Arte rupestre del Sahara Libico (1962). La prima è un grande compendio derivato dai risultati di tutte le ricerche effettuate da Graziosi in territorio libico e da tutte le segnalazioni che gli erano pervenute nel decennio precedente. L’opera, nella quale viene presentata la prima classificazione dell’arte rupestre libica nel suo complesso, costituisce ancora oggi una valida base di partenza per lo studio delle manifestazioni di arte preistorica dell’intera regione. La seconda è concepita come un fondamentale repertorio di

Jabbaren (Tassili n’Ajjer, Algeria). Pittura rupestre raffigurante un cacciatore (foto Fantini, 1971).

immagini provenienti dall’attività di ricerca svolta da Graziosi nello stesso anno. Fra le 20 missioni di ricerche scientifiche che Graziosi realizzò tra il 1933 e il 1972 in Africa, molte furono anche quelle dedicate allo studio della preistoria di vasti territori posti in Africa orientale (Somalia, Eritrea e Etiopia). Se ancora oggi l’area del Corno d’Africa, dal punto di vista degli studi di preistoria, rimane poco nota, all’inizio del XX secolo le informazioni specifiche provenivano solamente da poche note di carattere preliminare relative a sporadici ritrovamenti di superficie di manufatti litici o da concisi lavori dedicati a rare testimonianze di arte rupestre eritrea. Solo nei primi decenni del XX secolo – quando piú vivo si fece l’interesse coloniale dei grandi Paesi europei per i territori africani – ebbero inizio le prime ricerche scientifiche nel Corno, in gran parte per merito di scienziati italiani come i geografi Giotto Dainelli (18781968) e Olinto Marinelli (1876-1926) ai quali, tra l’altro, si deve la prima descrizione dettagliata, corredata da fotografie, di alcune delle pitture rupestri dell’Eritrea. La specifica attività di ricerca volta alla conoscenza dell’arte rupestre iniziò qualche anno piú tardi, con le ricerche dell’abate Henri Breuil (18771961), il primo archeologo professionista a documentare in modo scientifico siti con arte rupestre del Corno d’Africa, che pubblicò i risultati delle sue missioni nel 1934. Poco tempo dopo aver preso parte alla missione in Libia del 1933, già nel 1935 – nell’ambito della Terza Missione Scientifica Italiana in Somalia, organizzata dalla Reale Società Geografica Italiana e diretta da Nello Puccioni, per conto del Consiglio Nazionale delle Ricerche, del Centro di Studi Coloniali e della Reale Società Geografica – Graziosi tornò in Africa, con il ruolo di responsabile dell’indagine preistorica. Gli esiti di quelle ricerche furono pubblicati nel 1940, nel primo lavoro di sintesi di Graziosi, L’età della pietra in Somalia, opera nella quale lo studioso tracciò la prima descrizione assoluta della successione culturale della preistoria somala, dal Paleolitico Medio fino al Mesolitico. Nel volume, Graziosi dette anche notizia dell’esistenza di pitture di età attuale sulle pareti di un paio di siti dell’area dei Bur (Somalia meridionale): «Sulle pareti della grotta trovai dipinti in rosso e in nero alcuni segni e alcune figure. Si tratta di pitture di epoca attuale, rappresentanti il “billaua” e alcuni a r c h e o 91


SPECIALE • ARTE RUPESTRE DELL’AFRICA

segni di cabila […] Gli indigeni da me interrogati a proposito di quelle pitture mi dicevano che “molti anni fa” si riunivano in quella grotta i capi cabila per discutere su questioni di interesse comune e lasciavano come ricordo delle loro riunioni quelle figure e quei segni dipinti sulla roccia. Sono queste del Bur Eibi, insieme ad alcuni altri segni sempre di età attuale della valle del Gulule, le sole pitture rupestri da me trovate in Somalia. Ma non è affatto detto che in Somalia si abbia una effettiva assenza di manifestazioni d’arte rupestre. È al contrario probabilissimo che con l’intensificarsi delle ricerche anche questo paese ne riveli centri importanti come in questi ultimi anni ne hanno rivelati l’Etiopia e l’Eritrea».

La Guerra d’Africa del 1935-1936 e la conseguente fondazione dell’Africa Orientale Italiana suscitarono in Italia un rinnovato interesse per la conoscenza e la valorizzazione dei territori che facevano parte delle colonie. Pertanto, negli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale, il governo italiano promosse nuove missioni scientifiche, sia a carattere naturalistico che antropologico, etnologico e anche archeologico: nel 1937/1938 l’antropologo Lidio Cipriani segnalò l’esistenza di pitture rupestri a Karora, località posta sul confine eritreo-sudanese. 92 a r c h e o

Al centro: la copertina di Arte rupestre nel Sahara libico, una delle opere piú importanti di Paolo Graziosi, pubblicata nel 1962. Qui sopra: Graziosi nel Fezzan (Libia), nel 1967.

L’inizio del conflitto e gli avvenimenti politici che a esso seguirono causarono una prolungata interruzione delle ricerche archeologiche anche in Africa Orientale e in tale periodo il progresso delle conoscenze fu espressione dell’iniziativa di singoli studiosi e/o appassionati. Fra questi va ricordata la figura di Antonio Mordini, capo del Servizio Etnografico dell’Africa Orientale Italiana dal 1937 al 1944, al quale si deve la scoperta di un importante sito con pitture rupestri in Etiopia: Amba Focadà, localizzato nella zona settentrionale dell’acrocoro. Le riproduzioni delle pitture di Amba Focadà effettuate da Mordini consentirono a Graziosi di compilare il suo primo studio dedicato esclusivamente all’arte rupestre dell’Africa orientale. Gli eventi bellici condussero nel Levante africano anche un personaggio destinato ad affermarsi come uno dei massimi studiosi di preistoria di quel continente, John Desmond Clark (1916-2002), il quale, in qualità di ufficiale aggregato al Comando dell’Africa Orientale Britannica con sede in Somalia, ebbe modo di effettuare numerose raccolte di


materiali e diversi sondaggi archeologici, tra i quali un breve scavo in Etiopia meridionale, a Yavello, che portò anche alla segnalazione di alcune pitture rupestri. Le molteplici indagini archeologiche effettuate da Clark nel Corno d’Africa gli permisero di stabilire, all’interno della sua fondamentale opera The Prehistoric Cultures of the Horn of Africa (1954), una prima classificazione dell’arte rupestre dell’area. Nel 1945 intanto, un altro ufficiale britannico, il maggiore P.E. Glover individuò ben cinque stazioni con arte rupestre presso Berbera, nella Somalia Britannica.

LA RIPRESA DELLE RICERCHE I primi anni Cinquanta fecero registrare per le ricerche archeologiche un nuovo essenziale impulso in seguito all’istituzione, presso il Ministero della Cultura e dello Sport di Addis Abeba, dell’Istituto Archeologico Etiopico (oggi Centro per la Ricerca e la Conservazione del Patrimonio Culturale). Sotto l’egida di questo istituto venne stipulato un accordo franco-etiopico nel quale si prevedeva che lo svolgimento dell’attività scientifica di ricerca archeologica venisse affidato in esclusiva a esperti francesi e grazie a questo, fra il 1962 e il 1963, Gerard Bailloud poté indagare tredici grotte della regione di Harar per rilevarne i documenti di arte rupestre. Terminata la seconda guerra mondiale, riprese anche l’attività «africana» di Graziosi, il quale tornò ancora quattro volte nel Corno d’Africa: in Somalia, nel 1953 e nel 1958, dove effettuò scavi in sei grotte con depositi stratificati ed ebbe occasione di visitare alcune località con arte rupestre, una delle quali anche in Kenya e in Eritrea ed Etiopia, nel 1961 e nel 1965, dove svolse due missioni di studio finalizzate esclusivamente al rilevamento e allo studio delle numerose pitture rupestri che stavano emergendo grazie alle scoperte e alle pubblicazioni dell’appassionato di antichità eritree Vincenzo Franchini (1914-1995). Pochissimi anni dopo la missione del 1961, durante la quale ebbe modo di visitare alcune decine di stazioni preistoriche, Graziosi pubblicò due importanti lavori su località inedite dell’Eritrea. Si deve infine ricordare come, già nel corso degli anni Trenta del Novecento, Graziosi avesse cominciato a sviluppare uno spiccato interesse per l’etnologia, una passione che lo portò, tra l’altro, a partecipare – come respon-

Nella pagina accanto, in alto: un gruppo di tuareg esegue musiche tradizionali nell’oasi di Ghat (Libia). Scattata nel 1938, questa foto, come molte altre, documenta l’interesse sviluppato da Graziosi per gli usi e i costumi delle popolazioni con le quali venne a contatto nel corso delle sue missioni. In alto: Monai (Somalia). Un riparo abitato, in una foto del 1953.

sabile delle ricerche antropologiche e archeologiche – alla celebre spedizione italiana avviata sul Karakorum e sul K2 nel 1954, diretta dal geologo ed esploratore Ardito Desio e patrocinata dal Club Alpino Italiano, dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e dall’Istituto Geografico Militare. L’interesse di Graziosi per le tradizioni delle popolazioni locali emerge con forza scorrendo le centinaia di fotografie che realizzò nel corso dei suoi soggiorni per lo studio delle incisioni rupestri e della preistoria africane. Nelle immagini troviamo, infatti, numerosi scatti che ritraggono le comunità del luogo impegnate in attività quotidiane, scene di vita sociale quali mercati e celebrazioni per feste. Altrettanto interessanti le immagini che documentano paesaggi e animali del contesto nel quale si trovano i graffiti e i dipinti oggetto delle campagne di ricerca. DOVE E QUANDO «La fragilità del segno. Arte rupestre dell’Africa nell’archivio dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria» Firenze, Museo Archeologico Nazionale fino al 12 dicembre Orario ma-ve, 8,30-19,00; sa-do-lun, 8,30-14,00 Info IIPP: tel. 055 2340765; e-mail: iipp@iipp.it; www.iipp.it a r c h e o 93


DAI CACCIATORI-RACCOGLITORI AI GARAMANTI Oceano Atlantico

Marocco

Maghreb

Mar Mediterraneo

Tunisia

di Elena A.A. Garcea

C

hi erano e come vivevano gli autori delle opere d’arte rupestre del Sahara? L’immenso territorio sahariano, che attualmente si estende dalle coste del Mediterraneo alla fascia tropicale e dall’Oceano Atlantico alla Valle del Nilo, comprende numerosi massicci montuosi con grotte e ripari sotto roccia che sono stati spesso utilizzati dalle popolazioni antiche per istoriarne le pareti e per installare i loro insediamenti. Se da una

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parte il Sahara era un ambiente aperto, favorevole ai movimenti migratori e alle interazioni culturali – anche grazie a un articolato sistema di acque sotterranee, di laghi e di oasi –, dall’altra i suoi massicci costituivano aree chiuse e protette, che favorirono la formazione di tradizioni culturali diverse e che si distinsero attraverso i prodotti della loro cultura materiale, come la ceramica e gli strumenti di pietra. Nello stesso modo le opere d’arte

Mauritania Senegal Gambia Guinea Bissau Guinea

rt dra s Ta acu Ac

Sahara Occ.

Algeria

Tassili n’Ajjer Hoggar Mali Adrar degli Ifoghas

Air

Libia

Messak Settafet Tibesti

Niger Ciad

Burkina Faso

Benin Togo Sierra Costa Leone d’Avorio Ghana Liberia

Egitto Gebel Auenat

Ennedi

Sudan

Nigeria Rep. Centrafricana Camerun

Sud Sudan

Rep. Dem. Congo

In alto: Uadi Mathendusc (massiccio del Messak Settafet, Libia). Incisione raffigurante un coccodrillo con il suo piccolo. 1962. Qui sopra: carta dell’Africa settentrionale, con i massicci montuosi sahariani, presso i quali sono attestate le testimonianze d’arte rupestre.

rupestre, anch’esse prodotti della cultura materiale, riflettono questa dicotomia: da una parte una tendenza

comune a istoriare le pareti rocciose di numerosi massicci, tanto da caratterizzare l’arte rupestre «sahariana»


nella sua interezza, e dall’altra stili, temi e tecniche diverse nei vari massicci. Non potendo qui descrivere nel dettaglio tutte le varianti culturali degli abitanti del Sahara, è comunque possibile delineare alcuni tratti generali delle culture archeologiche a cui appartenevano anche gli autori dell’arte rupestre. L’origine della tradizione artistica sahariana può essere associata al ripopolamento umano

successivo a una lunga fase iperarida del Sahara (40 000-12 000 anni fa), corrispondente all’ultimo periodo glaciale nelle nostre zone temperate. A quell’epoca il deserto raggiunse un’estensione di circa 400 km piú a sud di quello attuale e costrinse i suoi abitanti ad abbandonarlo. A partire da 12 000 anni fa, grazie all’arrivo di piogge monsoniche da sud, ebbe inizio il cosiddetto Periodo Umido Africano, che si protrasse

fino a circa 5000 anni fa e permise il riaffioramento delle falde acquifere sotterranee. Le condizioni atmosferiche si stabilizzarono intorno a 11 000 anni fa e permisero lo sviluppo di ambienti di savana, sostituendo il deserto precedente. In questa fase gruppi di cacciatori-raccoglitoripescatori cominciarono a rioccupare il Sahara settentrionale e centrale, a partire dalle zone piú settentrionali (Maghreb),

Ancora un’immagine delle incisioni rupestri a Uadi Mathendusc (massiccio del Messak Settafet, Libia),con figure di giraffe e bovini. 1962.

seguendo la dispersione delle specie animali e vegetali, e in seguito, da circa 9700 anni fa, raggiunsero anche il Sahara meridionale nell’attuale Niger. Nei tre millenni successivi, fino a circa 7500 anni fa, si attestò un progressivo incremento della popolazione sahariana, che sviluppò graduali adattamenti tecnologici e insediamentali, con l’espansione in nuovi territori e l’intensificazione dello sfruttamento delle regioni piú favorevoli, come i massicci montuosi. In generale, queste popolazioni producevano recipienti di ceramica per conservare le riserve alimentari, strumenti scheggiati macro- e microlitici e di pietra levigata, arpioni e ami da pesca di osso. Esse s’insediarono principalmente in prossimità delle risorse d’acqua e svilupparono un sistema insediamentale semi-sedentario, che permetteva di praticare regolarmente la pesca, la raccolta di molluschi e l’utilizzo di uno strumentario fragile, come la ceramica, e pesante, come le macine e i macinelli per produrre farine di semi e cereali selvatici e di carne o pesce secchi. Questa omogeneità tecnologica ha suggerito un processo molto rapido

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SPECIALE • ARTE RUPESTRE DELL’AFRICA

dell’espansione umana, favorita da un’estesa rete di laghi, fiumi e delta interni. È possibile utilizzare un termine generico, Pre-Pastorale, per le culture archeologiche che hanno fatto proprie queste tradizioni, ma si possono anche riconoscere diverse varianti locali: Early Acacus e Late Acacus in Libia (con variazioni significative tra i due orizzonti), Kiffiano in Niger, Early Khartoum e Khartoum Variant in Sudan. Per quanto riguarda l’arte rupestre della Libia, la

fase delle incisioni della Grande Fauna Selvaggia è stata messa in relazione al periodo Early Acacus, datato tra 11 200 e 10 000 anni fa circa, mentre le pitture delle Teste Rotonde possono essere riferite al periodo Late Acacus, datato tra 10 000 e 8000 anni fa circa. Piú tardi, tra 7500 e 6500 anni fa, si manifestò una temporanea riduzione demografica in alcune parti del Sahara, seguita poi da un’altra fase di crescita con un’espansione della popolazione e l’occupazione di nuove

A destra: Tadrart Acacus (Libia). Un sito con arte rupestre in una foto del 1963. In basso: Uadi Mathendusc (massiccio del Messak Settafet, Libia). Incisioni raffiguranti i cosiddetti «gatti mammoni» o «diavolini». 1962.

nicchie ecologiche. In questo periodo è attestata una trasformazione economica di fondamentale importanza: l’adozione dell’economia di produzione del cibo, con l’introduzione dell’allevamento di animali domestici, che si differenzia dall’economia di sussistenza precedente basata sulla caccia e la raccolta di specie selvatiche. Questa trasformazione economica è accompagnata da cambiamenti evidenti anche nella produzione della cultura materiale, come la ceramica, gli strumenti di pietra e

l’arte rupestre della fase cosiddetta Pastorale, e dallo sviluppo di fenomeni ideologici basati sul culto dei bovini domestici, a volte trovati sepolti in strutture megalitiche. Anche i siti pastorali si concentrano prevalentemente nelle zone montuose, ma alcuni di essi sono localizzati nelle pianure, in prossimità di bacini lacustri. Grazie alle falde acquifere sotterranee, i massicci montuosi alimentavano la rete idrica principale e offrivano una discreta disponibilità di acqua per lunghi periodi di tempo, anche dopo l’insorgenza


delle fasi aride. Essi rappresentavano quindi zone rifugio per l’uomo e non furono del tutto abbandonati nemmeno nelle oscillazioni aride. Lo sviluppo del nomadismo pastorale come sistema di adattamento per far fronte sia alle necessità di terreni da pascolo per il bestiame, sia all’avvento di condizioni piú aride contribuí alla sopravvivenza di alcune popolazioni del Sahara centrale e sud-occidentale anche dopo la fine del Periodo Umido Africano. Infatti, lo stress ambientale può aver sollecitato alcuni cambiamenti culturali, favorendo l’adozione di nuove strategie di

Jabbaren (Tassili n’Ajjer, Algeria). Pittura rupestre raffigurante un uomo (foto Fantini, 1971).

adattamento per fronteggiare condizioni climatiche impreviste, che hanno comportato un incremento del livello di resilienza delle popolazioni sahariane e una loro organizzazione sociale sempre piú complessa e stratificata fino alla formazione di società gerarchiche. A partire da 5500 anni fa circa si registrò una nuova aridificazione del Sahara, che continuò fino alla comparsa delle condizioni desertiche attuali. I bacini idrici residuali del Periodo Umido Africano cominciarono a trasformarsi in oasi o a seccarsi completamente e l’allevamento dei bovini fu sostituito da quello dei caprovini, che meglio si adattavano alla scarsità di acqua e di pascoli. Infine, intorno a 2700 anni fa, si attestarono l’introduzione dell’agricoltura e delle relative tecniche d’irrigazione, lo sviluppo di commerci a lunga distanza con i dromedari e l’emergenza di società gerarchiche complesse, che raggiunsero il loro apice con il regno dei Garamanti in Libia, una popolazione locale di lingua berbera. Per la prima volta nella storia era sorta una società urbana nel Sahara. La città principale, Garama (nell’attuale oasi di Germa), aveva una popolazione di circa 4000

abitanti e almeno altre 6000 persone vivevano nei villaggi suburbani nel raggio di 5 km dal centro principale. Intorno al 150 d.C. il loro territorio copriva una superficie di 250 000 kmq. I Garamanti seppero fare fronte alle condizioni climatiche sempre piú aride fino a circa 1300 anni fa (700 d.C.), quando si verificò un ulteriore aumento della siccità e l’esaurimento dei bacini idrici lungo le vie carovaniere, che debilitò il loro sistema sociale ed economico e contribuí alla disgregazione della rete commerciale che collegava le oasi, causando il declino del regno dei Garamanti. Al periodo dei Garamanti corrispondono le fasi artistiche del Cavallo e del Cammello. Le prospezioni e gli scavi archeologici nel Sahara degli ultimi sessant’anni, per quanto ancora limitati e ridotti, data l’enorme estensione del territorio e le difficoltà politiche e logistiche, hanno permesso di comprendere alcuni aspetti importanti delle dinamiche culturali, dello sviluppo cronologico delle popolazioni che lo hanno occupato e dell’ambiente naturale nel quale sono vissute. I contesti che ne sono stati ricostruiti forniscono un quadro imprescindibile anche per la comprensione dell’arte rupestre.

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SPECIALE • ARTE RUPESTRE DELL’AFRICA

Ras Dashen Lago Tana

incisioni che pitture: le prime sono prevalenti o esclusive a Gibuti e nel Meridione d’Etiopia, mentre nel resto del territorio etiope e in Somalia prevalgono i dipinti. I soggetti sono sia di tipo naturalistico, che di carattere

Sudan Merid.

Etiopia

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Golfo di Aden Gibuti Hawd Hargheisa

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Altopiano somalo

Sool Hawd

Somalia

Oceano Indiano

Lago Turkana

Uganda

Mogadiscio

Africa

Kenya Lago Vittoria

schematico (simbolico) e astratto (geometrico) dal significato piú complesso, forse ideologico o religioso. Il tema privilegiato è quello dell’animale, rappresentato singolarmente o come soggetto preponderante della scena. Nelle località etiopiche, il bestiario comprende immagini di soggetti che ancora vivono nell’area, ma soprattutto animali non piú presenti. Generalmente le opere di carattere naturalistico ritraggono scene di allevamento, di coltivazione, di combattimento e di caccia, ma il tema dominante di tutta l’arte rupestre del Corno è la raffigurazione di bestiame domestico, con la netta prevalenza di bovini, che compaiono in

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Gibuti

Altopiano etiopico

o rr zu Az

L’

Yemen

Asmara

Addis Abeba

arte rupestre del Corno d’Africa (Eritrea, Etiopia, Gibuti, Somalia) è costituita da un ricco complesso di siti, distribuiti in diverse regioni e caratterizzato da splendide realizzazioni. Nell’area sono presenti sia

Mar Rosso

Eritrea

Sudan

ilo

di Luca Bachechi

Arabia Saudita

N

5000 ANNI D’ARTE RUPESTRE NEL CORNO D’AFRICA

mandrie, su file o come singoli individui che spesso mostrano attributi che ne rendono possibile l’identificazione sessuale o per età. Nelle immagini piú antiche vengono rappresentati soprattutto bovini dalle lunghe corna (Bos africanus), e in secondo luogo bovini con corna brevi (Bos brachyceros), ambedue associati o meno a figure antropomorfe. Oggi nel Corno d’Africa vivono invece alcune decine di milioni di bovini della sola varietà zebú (Bos indicus), sottospecie che ha completamente sostituito le razze preesistenti. Lo zebú viene raffigurato meno frequentemente nelle opere d’arte rupestre, ma, quando è presente, costituisce un prezioso elemento di datazione, poiché la sua


introduzione non sembra anteriore alla seconda metà del I millennio a.C. In alcuni dei dipinti piú antichi sono spesso rappresentate le pecore con lipoma caudale (pecore a coda grassa), ma anche una miriade di capre, asini, cavalli, cani e cammelli che costituiscono una quota rilevante dell’iconografia rupestre del Corno. Infine è raffigurato tutto un repertorio di faune selvagge composte da struzzi, giraffe, leoni, orici, stambecchi, iene, scimmie ed elefanti. Le rappresentazioni umane sono molto meno numerose e raramente sembrano avere valenza individuale, piuttosto sembrano essere state eseguite in funzione della rappresentazione di scene composite piú o meno articolate.

L’assenza quasi totale di contesti archeologici attendibili rende assai difficile attribuire una cronologia esatta alle manifestazioni rupestri della regione del Corno. Il metodo principe della datazione archeologica, quello stratigrafico, si è dimostrato inutilizzabile, poiché i limitati ritrovamenti in strato di reperti non risultano mai essere collegabili con certezza alle pitture e alle incisioni rupestri. Senza dubbio l’inquadramento cronologico piú attendibile potrebbe provenire dalla datazione diretta delle pitture, ma anche questa opportunità, sebbene possibile, per il momento sembra una procedura inattuabile, in quanto le preposte autorità etiopi non permettono prelievi

di campioni di pigmento finalizzati al conseguimento di datazioni al C14. Pertanto, data la

mancanza di datazioni assolute, il tentativo di stabilire una cronologia concernente l’arte rupestre del Corno

In alto: il riparo sotto roccia di Carora (Eritrea). 1961. Nella pagina accanto, in basso: la grotta di Sapeto (Eritrea), in una foto del 1961. In basso: rilievo, realizzato durante una missione diretta da Paolo Graziosi, delle pitture e incisioni rupestri di Temelje (Eritrea). 1965.

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In alto: Carora (Eritrea). Pitture rupestri con figure di animali, in una foto del 1961. Nella pagina accanto: pitture rupestri a Mebhà Eclì (Eritrea), in una foto del 1961. In basso: incisioni rupestri a Meallani (Eritrea). 1961.

d’Africa non può che fondarsi sull’analisi dell’associazione tematica dell’iconografia, sul criterio stilistico delle immagini e dei temi in esse rappresentati e, quando possibile, sul confronto con altre testimonianze culturali precedentemente datate. Seguendo tali criteri e basandosi sulle ipotesi legate all’introduzione della domesticazione dei bovini nella regione e acquisendo come corretti i paralleli iconografici con le ceramiche nubiane del Gruppo-C, è stato possibile fissare un

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attendibile indice post quem nell’ambito del III millennio a.C., anche se l’esistenza di rappresentazioni di animali selvaggi (antilopi, giraffe) non associati a specie domestiche non esclude la presenza di un’arte rupestre anteriore a quella pastorale. Sembra invece impossibile, almeno per il momento, stabilire un termine ante quem, poiché alcune delle manifestazioni artistiche sembrerebbero essere contemporanee. In conclusione, allo stato

attuale, sembra di poter attribuire al corpus artistico del Corno d’Africa una durata di alcuni millenni, a partire dal III a.C. fino almeno a tutto il I millennio d.C. e probabilmente anche oltre, un arco di tempo durante il quale si è senz’altro verificata un’evoluzione stilistica delle immagini, che è possibile distinguere dal punto di vista tipologico, ma che non può ancora essere determinata dal punto di vista cronologico. Oggi purtroppo i documenti di arte rupestre del Corno d’Africa sono gravemente minacciati, in parte dai naturali processi di degrado delle opere, ma soprattutto dal fattore umano: il vandalismo e i saccheggi che si verificano nelle aree piú

remote, i conflitti bellici, le ragioni sociopolitiche e l’aumento del flusso turistico contribuiscono in maniera esponenziale alla distruzione parziale o totale di un numero sempre piú crescente di siti con arte. Lo scopo delle missioni di studio occidentali deve necessariamente consistere, oltre che nel maggior coinvolgimento possibile di studiosi del Paese ospitante nell’ambito dello studio del fenomeno artistico antico, anche nella formazione, fra le nuove generazioni locali, di una coscienza culturale che le conduca a riscoprire i valori del loro passato e a comprendere l’importanza della tutela del proprio patrimonio culturale, di quelle preziose testimonianze cosí fragili e irripetibili.


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IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

VOLTARSI INDIETRO PER GUARDARE AVANTI DI CHE COSA PARLIAMO QUANDO DICIAMO «ARCHEOLOGIA»? UNA DOMANDA SOLO APPARENTEMENTE OZIOSA, POICHÉ LA RICOSTRUZIONE STORICA DEL PASSATO PUÒ AVERE RIFLESSI CHE VANNO BEN OLTRE LA SOLA CONOSCENZA DI COME VIVEVANO LE CIVILTÀ CHE CI HANNO PRECEDUTO

Q

uando usiamo la parola «archeologia», ci capiamo? Forse non sempre e allora proviamo a chiarirci le idee. Estremizzando, direi che l’archeologia è per me innanzitutto uno strumento, prima ancora che una disciplina. Uno strumento ecumenico, perché ne abbiamo bisogno un po’ tutti per capire chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando. Per conoscere la materia e lo spirito di cui siamo fatti e dentro ai quali viviamo. Ma non è sempre stato cosí. Alla metà del Settecento – quando si può cominciare a parlarne come di una disciplina vera e propria – l’archeologia non era questo. Tuttavia, la scoperta della preistoria e delle remote origini dell’uomo, l’espansione coloniale con l’emergere delle civiltà sepolte dell’intero pianeta, e poi l’esplosione del concetto di documento storico, l’incontro con le scienze, lo sviluppo delle archeologie dell’età medieviale, moderna, e perfino contemporanea, hanno provocato un ampliamento incommensurabile non solo dei campi, ma dei compiti dell’archeologia. Da dove veniamo? Che cosa siamo? Dove andiamo?, olio su tela di Paul Gauguin. 1897-1898. Boston, Museum of Fine Arts.

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Perché qui sta il punto. Archeologia, storia dell’arte e architettura non sono discipline sorelle, quasi tre sfere colorate appese l’una accanto all’altra sull’albero di Natale della ricerca. Lo studio della produzione artistica di un’epoca, di una regione, di una cultura è assai piú vicino alla storia della letteratura o

della musica: la Commedia di Dante e gli affreschi di Giotto sono prodotti artistici e letterari, come le sinfonie di Mozart sono prodotti musicali, e in quanto espressione del loro tempo vengono studiati, rivissuti, interpretati con i metodi delle relative discipline. L’archeologia non studia «prodotti


archeologici», semplicemente perché questi non esistono. Nulla nasce archeologico. Indipendentemente dalla loro natura e qualità, i resti delle civiltà trascorse diventano, appunto, archeologici, solo nel momento in cui vengono sottoposti ai metodi della conoscenza archeologica. L’archeologia è quindi una sorta di grande scatola, nella quale sono virtualmente conservate le memorie materiali del passaggio dell’uomo sul pianeta: i resti del lavoro umano nella sua infinita fatica di convivere con i suoi simili e con l’ambiente che tutti ci accoglie. Ecco allora che l’archeologia è qualcosa che, per dirla con Quintiliano (1.4.1), plus habet in recessu quam fronte promittit: «ha dentro di sé molto di piú di quanto non appaia». Molto di piú. E se non diradiamo le nebbie di questo secolare equivoco, rischiamo di

continuare a non capirci. L’archeologia è quindi anche una forma mentale, un modo di percepire la realtà. Attraverso la sua lente guardiamo il gomitolo delle tracce nelle quali siamo immersi e il nostro vivere quotidiano acquista uno spessore piú denso, perché le cose prendono vita e ci catturano, trascinandoci con loro nella «durata» del tempo.

LONTANANZE E VICINANZE Attraverso lo strumento dell’archeologia valutiamo la lontananza che separa la nostra vita da quella del passato, piú o meno remoto; e, al tempo stesso, ne percepiamo la vicinanza, che deriva dalla frequentazione di spazi già vissuti da altri nelle epoche che ci hanno preceduto. Questo doppio modo di percepire il passato non si limita al rapporto

spazio/tempo, ma investe tanti aspetti della nostra vita di relazione, della nostra psicologia, della nostra condizione antropologica contemporanea. Abitando le nostre case, ne intuiamo la struttura, che sopravviverà a chi le vive e a molte delle suppellettili che le riempiono, cosí come dietro la pelle del nostro corpo sentiamo il nostro scheletro come la parte materiale di noi piú duratura. La percezione archeologica di noi stessi ci colloca fisicamente e spiritualmente nella storia e ci invita ad affiancare ai resti materiali le tracce immateriali del ricordo. Ci invita a non perdere di vista l’importanza delle emozioni, che non significa dare spazio a un’archeologia piú irrazionale, ma semmai a un’archeologia piú umana, capace anche di praticare l’ironia, innanzitutto su se stessa. La ribalta del presente sembra

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Archeologi al lavoro nella necropoli dell’Osteria, a Vulci: un momento dello scavo del complesso funerario etrusco al cui interno è stata recuperata la statua che raffigura una Sfinge, databile al 560-550 a.C. suggerirci che davanti a noi ci sia solo il nuovo, qualcosa che sfugge alle nostre possibilità di conoscenza. Questo salto nel futuro può generare ansie, ma – se è ingenuo credere che la storia si ripeta e che sia possibile evitare, conoscendoli, gli errori del passato – è però vero che resta intatto il nostro bisogno di storia, come ricerca di una consapevolezza della stratificazione dell’esperienza umana e sociale e delle sue conseguenze, come un’infinita ricerca di noi stessi. «Accettarsi al passato, prendere atto del fatto che la propria vita è andata finora in un certo modo», ha scritto lo psichiatra e psicologo Giovanni Jervis (1933-2009), è una delle condizioni per non avvelenare l’esistenza a se stessi e al prossimo. L’uso che facciamo del nostro passato influisce sul nostro modo di pensarci, può cambiare gli effetti di ciò che è stato su ciò che è e sarà.

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Se questo è vero nel campo dell’esperienza personale, nella dimensione del passato collettivo «accettare» la storia non significa giustificarla, ma comprenderla, e sentire il suo peso nella costruzione del futuro di tutti e di ciascuno.

INVADERE IL CAMPO L’archeologia scava nel tempo trascorso sostenuta da un’impalcatura di teorie, metodi e procedure, che costituiscono certamente il suo bagaglio professionale, ma anche la sua dimensione etica, che consiste nella sua propensione a non alzare steccati rassicuranti, ma, anzi, a invadere il campo degli altri saperi e delle altre discipline, curiosa di tutte le culture e di tutti gli individui. L’eticità dell’archeologia sta infatti anche nella consapevolezza professionale che non esiste «il pubblico», ma tanti pubblici diversi, e che, in realtà, non esistono

neppure i pubblici quanto piuttosto le persone, ciascuna delle quali porta un mondo dentro di sé anche quando si accosta a un sito archeologico, a un museo, a un’opera d’arte, e vorrebbe allontanarsene sentendosi con qualcosa di piú in mano. Per questo pensiamo che l’archeologia, per quella sua affascinante capacità di mettere le mani negli aspetti anche piú grevemente materiali della realtà e al tempo stesso di guardarla da lontano nello spazio e nel tempo, per quel suo vizio di mettere il naso nelle discipline altrui, non nega la necessità dello specialismo, ma riconosce l’urgenza di una comprensione piú globale e piú colta del mondo in cui operiamo, di quello passato che studiamo e di quello presente per il quale studiamo, perché il fascino del passato non ha senso senza la curiosità per il moderno e il futuro.



QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

…PORTÒ AL DANUBIO LA SUA «FRONTIERA» DOPO ESSERE STATA SOTTOMESSA NON SENZA FATICA, LA PANNONIA SI TRASFORMÒ IN UNA DELLE PROVINCE IN CUI PIÚ FORTE FU IL RADICAMENTO DELLA CULTURA ROMANA. ANCHE GRAZIE AL RUOLO SVOLTO DALL’ESERCITO, MOLTI DEI CUI LEGIONARI SCELSERO DI INSEDIARVISI STABILMENTE

È

assai probabile che solo all’epoca di Augusto – tra la fine del I secolo a.C. e gli inizi del I d.C. – gli antichi si siano resi conto che il Danubio e l’Istro (Danuvius e Ister) non erano due corsi d’acqua distinti, bensí due lunghi tratti di uno stesso e unico fiume (da allora in poi chiamato Danubio, dalle sorgenti nella Selva Nera alla foce nel Mar Nero). E ciò dovette avvenire quando Roma decise di portare la sua «frontiera» proprio al Danubio o, per lo meno, al suo corso superiore, fino alla confluenza della Sava. In ogni caso, al tempo e come conseguenza delle campagne di guerra condotte da Augusto (ancora solo... Ottaviano) nell’Illirico, dal 35 al 33 a.C., allo scopo di rafforzare i limiti nord-orientali dello Stato romano e rendere sicuri i confini dell’Italia. L’operazione riguardò poi tutti i territori anche a nord delle Alpi, con la sottomissione della Retia e l’annessione, sostanzialmente pacifica, del vecchio regno del Noricum – quanto dire i territori di Svizzera, Baviera e Austria – tra il 16 e il 15 a.C., a opera dei figliastri di Augusto, Tiberio e Druso.

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Fu tuttavia la Pannonia a costituire in quel periodo, e da quelle parti, il piú importante teatro d’operazioni, ossia la vasta regione corrispondente a tutta l’attuale Ungheria e a parti della Slovenia e della Croazia, abitata, in particolare, dal popolo che le dette il suo nome, d’origine illirica, ma con larga

sovrapposizione di elementi celti. La sottomissione della Pannonia, non fu indolore come quella del vicino Norico. Ci volle quasi mezzo secolo di guerre lunghe e feroci, di aspre rivolte e di dure repressioni, dopo che Ottaviano fu costretto ad abbandonare il campo e rinunciare a piú ambiziosi progetti, nel 33 a.C. per il deterioramento dei suoi rapporti con Antonio, dopo aver occupato, sia pure in modo precario, la parte meridionale della regione, a partire dalla costa adriatica, ed essersi spinto fino a Siscia (l’odierna Sisak), sulla Sava.

L’INTERVENTO DI TIBERIO Meno di vent’anni dopo, l’«inquietudine» delle popolazioni e qualche loro incursione in Istria, nel 16 a.C., richiesero altri interventi militari che, tra il 13 e il 9 a.C., furono condotti prima da Agrippa e poi da Tiberio, il quale completò la conquista fino al Danubio. E fu allora che venne costituita la provincia dell’Illirico inferiore, comprendente la Dalmazia e la Pannonia, che qualche anno piú tardi vennero separate, mentre solamente al tempo di Claudio diventarono


A sinistra: i resti della «Porta dei pagani» di Carnuntum, città della Pannonia superiore nei pressi dell’odierna Petronell (Austria). Nella pagina accanto: replica del busto in oro di Marco Aurelio rinvenuto nel 1939 ad Aventicum (oggi Avenches, Svizzera). II sec. d.C. Avenches, Musée romain. In basso: cartina dell’impero romano con l’indicazione delle sue province.

province la Rezia e il Norico. Nel 6 a.C., però, una violenta insurrezione (almeno in parte motivata dalla pressione fiscale) sembrò rimettere tutto in discussione, prima di essere sedata, non senza difficoltà, l’anno 9, ancora una volta da Tiberio, ormai designato alla successione di Augusto. Iniziò allora una lenta, ma progressiva opera di romanizzazione di genti che con Roma non avevano avuto in passato che saltuari rapporti di carattere commerciale per iniziativa dei mercanti di Aquileia, e vivevano ancora nelle vaste pianure percorse da grandi fiumi e attorno al lago Balaton, sparse in piccoli villaggi, con una cultura da «età del Ferro» e ancora prive della scrittura. Roma, anche nei confronti della Pannonia ebbe l’abilità di attirare a sé, con vantaggi e benefici di vario tipo, le «aristocrazie» locali, i cui

esponenti furono chiamati a far parte degli organi di consulenza al servizio dei governatori.

IL RUOLO DELL’ESERCITO Il fattore determinante della romanizzazione fu però rappresentato (come altrove) dall’esercito, sempre presente in forze nella provincia, che ebbe il ruolo di «baluardo» contro la pressione delle popolazioni barbariche d’oltre Danubio: Quadi, Iazygi, Sarmati e altri. Al tempo di Traiano, ben quattro legioni erano di stanza in Pannonia, divisa in due dallo stesso Traiano (Pannonia superior a ovest e Pannonia inferior a est): la X e la XIV Gemina nella Superior, a Vindobona (Vienna, al confine col Norico) e a Carnuntum (oggi Petronell, pure in Austria), la I e la II Adiutrix, nella Inferior, ad Aquincum (Budapest) e a Brigetio (Szony). Queste legioni, oltre ai loro forti, presidiavano, con numerosi reparti ausiliari, il limes danubiano: una catena di fortini minori, di torri di controllo e postazioni di

Vallo di Adriano

BRITANNIA GERMANIA INF.

Limes germanico-retico

BELGICA LUGDUNENSE NORICO GERMANIA SUP. REZIA PANNONIA 3 AQUITANIA 2 1 NARBONENSE TARRACONENSE

DALMAZIA MESIA

TRACIA

ITALIA 4

PONTO E BITINIA

MACEDONIA

LUSITANIA

ASIA

EPIRO

5 BETICA

DACIA

SICILIA

6 7

MAURITANIA

1 2 3 4 5

ALPI MARITTIME ALPI COZIE ALPI GRAIE CORSICA SARDEGNA

NUMIDIA

EGITTO

AFRICA 6 ACAIA 7 CRETA

CIRENAICA 500 Km

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Resti di Aquincum, una delle principali città della Pannonia, situata alla periferia dell’odierna Budapest. segnalazione, tra loro collegati da una strada strategica e disseminati lungo la riva del Danubio (a sua volta perlustrato dalle navi della classis pannonica). E svolsero egregiamente la loro funzione militare. Soprattutto nel III secolo, ma già sullo scorcio del II, quando la pressione delle tribú germaniche si fece tanto forte da richiedere l’intervento dello stesso imperatore, Marco Aurelio, il quale, dopo aver respinto le incursioni di Quadi, Sarmati e Marcomanni (come è raffigurato nelle scene della Colonna coclide eretta in Campo Marzio, al centro dell’odierna piazza Colonna), morí, probabilmente di peste, mentre si trovava ancora sul posto, a Vindobona, nel 180 d.C. Ma la consistenza dell’esercito e il ruolo da esso svolto ebbero come conseguenza anche la progressiva acquisizione, da parte delle legioni danubiane, della consapevolezza della loro importanza e una crescente ambizione di potere che indusse i comandanti e i piú alti ufficiali a intervenire nelle questioni della successione al trono imperiale e non di rado a proporsi come pretendenti al trono. Ciò che fecero piú volte, da quando, nel 193 d.C. quelle stesse legioni proclamarono Augusto il proprio comandante (e governatore della Pannonia «superiore») Settimio Severo. L’esercito svolse però anche un’importante funzione... civile: tutte le principali città della Pannonia romana ebbero infatti origine militare, derivata dalle «piazzeforti» legionarie: dalle già citate Vindobona, Carnuntum e Aquincum alle minori, ma non meno importanti Emona (Lubiana), Savaria e Scarbantia (Szombathely e Sopron, in Ungheria), Siscia e Mursa (Sisak e Osijek, in Croazia),

108 a r c h e o

fino a Sirmium (Sremska Mitrovica, in Serbia), dove nacquero ben quattro imperatori – Decio, Aureliano, Probo e Massimiano – e, che dal III secolo, fu spesso residenza imperiale.

LA NUOVA VITA DEI LEGIONARI Molte di queste città ebbero come nucleo iniziale della loro popolazione i legionari (che ancora nel II secolo erano tutti italiani), i quali, al momento del congedo, preferirono rimanere nei luoghi dove avevano militato, stabilendosi nei «quartieri» civili sorti accanto ai forti militari (con i figli avuti da donne locali diventate mogli legittime, a tutti gli effetti) per dedicarsi ad attività e imprese artigianali, agricole o commerciali. Tuttavia, a contribuire all’elevato grado di urbanizzazione, fu anche la concessione dello «statuto municipale» alle comunità

indigene, trasformate cosí in civitates: ciò che, sotto molti aspetti, rese la romanizzazione piuttosto che una semplice sovrapposizione, un incontro e uno scambio. In conclusione, pur avendo esordito a un livello molto basso e in condizioni piuttosto sfavorevoli la Pannonia seppe integrarsi al meglio nella compagine dell’impero, al punto che, due secoli dopo la conquista, veniva da alcuni paragonata alla Gallia Narbonese (l’attuale Provenza) comunemente considerata come parte dell’Italia. Cosí, fino alla fine del IV secolo, quando i problemi della difesa si fecero assai gravi, nonostante l’accoglienza e lo stanziamento di forti nuclei di «immigrati» Goti nei territori alla riva destra del Danubio. Poi, intorno alla metà del V secolo, di fronte alla non piú sostenibile pressione degli Unni, fu l’abbandono...



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

IL VOLO DEL TORO INNAMORATO IL SEGNO ZODIACALE DEL POSSENTE ANIMALE DI CUI ZEUS ASSUNSE LE SEMBIANZE PER CONQUISTARE LA BELLA PRINCIPESSA EUROPA ANNUNCIA L’ARRIVO DELLA PRIMAVERA. MA, NELLE MONETE BATTUTE AD ALESSANDRIA PER ANTONINO PIO, IL MITO VIENE EVOCATO ATTRAVERSO L’IMMAGINE DI VENERE E NON DELLA SUA PROTAGONISTA FEMMINILE

I

n un periodo come il nostro, in cui religione e politica si intrecciano troppo spesso in esiti violenti e distruttivi, reca conforto ricordare prodotti culturali eccellenti dovuti ad antichi e insigni studi in lingua araba, insieme al lascito che essi apportarono nella trasmissione del patrimonio

culturale del mondo classico. Questa premessa riporta ai nomi dei crateri lunari, che derivano spesso da personaggi famosi per i loro studi di astronomia. Uno di questi crateri si chiama Azophi e lo stesso nome – in altra grafia – è stato assegnato a un asteroide, 12621 Asulfi, scoperto nel 1960. A sinistra: miniatura raffigurante la costellazione del Toro, da un’edizione del Libro delle stelle fisse di Abd al-Rahman al-Sufi. XV sec. Teheran, Malek Museum. Nella pagina accanto, in alto: il ratto di Europa su un cratere a calice pestano del ceramografo Assteas, da Saticula (Sant’Agata dei Goti). IV sec. a.C. Montesarchio (Benevento), Museo Nazionale del Sannio.

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Ma chi era questo scienziato attivo nel mondo arabo e noto in Occidente con entrambe le denominazioni? Si tratta dell’astronomo e scienziato di origine persiana Abd al-Rahman al-Sufi (903-986), attivo a Isfahan alla corte dell’emiro Adud ad-Dawla e autore di un volume celeberrimo, Il libro delle costellazioni e delle stelle fisse, noto in vari codici splendidamente illustrati e oggi conservati nelle maggiori biblioteche europee.

L’ASTRONOMIA DEI GRECI Il volume si basa sull’Almagesto (adattamento arabo del titolo con il quale era conosciuto: Megiste) redatto da Claudio Tolomeo (150 d.C. circa), al quale Azophi/Asulfi appose correzioni, precisazioni e nuove ricerche, riconsegnando al mondo medievale le conoscenze astronomiche della cultura greca – sepolte nell’oblio per quasi un millennio –, insieme alle sue personali scoperte scientifiche tuttora valide. Tra le raffigurazioni che corredano il testo, con le costellazioni e segni zodiacali, compaiono anche il Toro e le stelle che lo compongono, unite a formare un’elegante protome di animale rampante. La costellazione del Toro (21 aprile-20 maggio), che annuncia l’equinozio di primavera e la sua forza rigenerante, comprende


importanti gruppi stellari, luminosi e osservabili facilmente anche a occhio nudo, tra i quali spiccano l’ammasso delle Pleiadi e quello delle Iadi, e la stella arancione Aldebaran, considerata l’occhio del toro e apportatrice di fortuna e intelligenza. Quest’ultima, insieme alle Iadi, era chiamata a Roma anche Parilicum o Palilicium, in associazione alla festa delle Palilie del 21 aprile, data della fondazione dell’Urbe (Plinio il Vecchio, Storia Naturale, XVIII, 2). Nell’astrologia romana con i suoi catasterismi – ovvero i processi che portano un essere o un oggetto a divenire una costellazione per volontà degli dèi –, nel segno del Toro, tra le varie tradizioni mitiche (Igino, Mitologia astrale, II, 21), si riconosce il possente e candido animale in cui si trasformò Zeus per ottenerne i favori e possedere la bella principessa fenicia Europa, alla quale si presentò sulla spiaggia dove la fanciulla giocava con le sue ancelle. Attratta dalla bellezza e dalla mansuetudine del toro, Europa cominciò ad accarezzarlo e vezzeggiarlo, gli cinse le corna con ghirlande fiorite e, infine, vi salí in groppa. Prontamente Zeus-toro la rapí in cielo sino a raggiungere l’isola di Creta, dove i due si unirono. Da loro nacquero tre figli: Minosse (celeberrimo re di Creta e creatore del labirinto nel quale fu

Europa. Infine Zeus, per onorare l’animale che gli aveva permesso di possedere Europa, lo trasformò in costellazione. Il mito viene ricollegato alla designazione del continente di fronte a Creta come Europa, ma, come dice Erodoto, in effetti nessuno sa perché l’Europa si chiami cosí: «A meno che non si voglia dire che la regione abbia ricevuto il nome da Europa di Tiro, dato che prima era senza nome come le altri parti del mondo. Ma è certo che questa Europa era originaria dell’Asia e non giunse mai sino a quella regione che i Greci chiamano Europa, ma soltanto dalla Fenicia arrivò a Creta» (Erodoto, Geografia, IV, 45).

NOBILE E VIGOROSO

Qui sopra: dracma di Antonino Pio, zecca di Alessandria, 144/5 d.C. Al dritto, busto dell’imperatore; al rovescio, toro sormontato dal busto di Venere e da una stella a otto punte. imprigionato il Minotauro, e poi divenuto giudice infernale, ricordato anche da Dante), Radamanto (divenuto anch’egli giudice del mondo ultraterreno) e Sarpedone (principe ed eroe cretese). I tre furono poi adottati da Asterio, re di Creta, che sposò

Nelle monete alessandrine destinate a celebrare l’anno sotiaco e battute sotto il regno di Antonino Pio, il toro è raffigurato come quadrupede nobile e vigoroso, in cammino con la testa leggermente abbassata che mette in risalto lunghe corna, sormontato dalla consueta stella a otto punte e dal busto del pianeta che lo domina, Venere. Il busto della dea dell’amore sembra quasi poggiarsi, novella Europa, sulla groppa del toro; l’unione tra il toro e Venere non deve sorprendere, dato che l’animale rappresenta anche la gagliardia sessuale, simbolo di fertilità, e per esteso la rinascita della natura tipica della primavera, mentre Venere, patrona amorosa, ricorda dall’altro canto il ratto di Europa e l’amplesso con Zeus. Peraltro, sempre restando in ambito numismatico, sulle monete da 2 euro emesse in Grecia compare proprio questo mito, con Europa e il toro in volo e tra le stelle, e anche sulla moneta emessa dall’Italia nel 2005 per celebrare il primo anniversario della Costituzione Europea, a ribadire le antichissime radici del Vecchio Continente.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Mario Grimaldi

PICTORES. MANI D’ARTISTA Dagli affreschi pompeiani alla pittura contemporanea, con un’intervista a William Kentridge Valtrend Editore, Napoli, 206 pp., ill. col. 130,00 euro ISBN 9788888623894 www.valtrend.it

Mario Grimaldi propone un’agevole esposizione – ampiamente illustrata a colori – sulla pittura parietale d’età romana, e in particolare di quella vesuviana, vista nei suoi aspetti iconografici, tecnici e sociali, nonché sull’importante ruolo svolto dalle botteghe pittoriche, che, nonostante la fervente e ricercata attività, sono rimaste pressoché anonime. Quella delle maestranze romane è infatti una partecipazione artistica diversa, se confrontata con le esperienze greche e piú tardi rinascimentali, che l’autore puntualmente descrive anche in rapporto ai contesti civili 112 a r c h e o

ed economici in cui i decoratori si muovevano. Pompei, Ercolano, Oplonti e Stabiae costituiscono certamente un caso di studio straordinario per complessità e vastità delle opere, che permette di approfondire tutte le questioni connesse agli apparati decorativi e agli interessanti rapporti tra funzionalità dei singoli ambienti e significati delle tematiche prescelte. Nel volume emerge infatti che lo studio delle pitture non permette di identificare le mani di singoli «artisti», lasciando cosí spazio solo a ipotesi e interpretazioni basate sul riconoscimento di dettagli o di schemi iconografici replicati. Grimaldi si concentra su quattro temi fondamentali della pittura romana, analizzandone con attenzione i risvolti iconografici e concettuali: il problema dell’identificazione di maestranze operanti nell’area vesuviana; l’identificazione, la diffusione e la rielaborazione di modelli e schemi originali greci nelle tematiche mitologiche romane; le ultime acquisizioni, grazie al supporto delle indagini diagnostiche avanzate, su pratiche e restauri antichi; infine, uno dei temi piú appassionanti dell’arte antica, la questione del ritratto o, meglio, dell’intenzione ritrattistica connessa al giudizio morale che si voleva fissare nel ricordo di una

persona. Quest’ultimo aspetto è condizionato dall’atteggiamento che proprio il pittore conferisce all’immagine ritratta, che necessariamente deve riprodurre i tratti peculiari per il suo immediato riconoscimento. Per valorizzare appieno l’esperienza del pictor romano, nel libro si analizza il suo retaggio artistico nel contesto contemporaneo attraverso un’interessante intervista all’artista sudafricano William Kentridge, impegnato nella stazione Toledo della Metropolitana di Napoli, una delle piú belle d’Europa, e al quale si deve la megalografia Triumphs and Laments, realizzata nel 2016 lungo un tratto degli argini del Tevere a Roma. Alessandro Mandolesi Pierluigi Panza

MUSEO PIRANESI Skira editore, Milano, 584 pp., ill. b/n 45,00 euro ISBN 978-88-572-3547-9 www.skira.net

Le opere grafiche di Giovan Battista Piranesi sono assai note, ben oltre la cerchia degli addetti ai lavori, anche grazie alla loro frequente esposizione in mostre (ultima, in ordine di tempo, la vasta rassegna allestita presso il Museo di Roma in Palazzo Braschi, «La fabbrica dell’utopia»). È invece meno conosciuta l’attività,

a dir poco intensa, che l’incisore e architetto di origini venete – era nato a Mogliano Veneto, in provincia di Treviso, nel 1720 – svolse nel campo del collezionismo e del commercio di antichità. Inserendosi in una temperie, quella della seconda metà del Settecento, in cui la ricerca archeologica cominciava a farsi frenetica – sebbene connotata soprattutto come una caccia al tesoro condotta a scopi mercantili, piú che come un’indagine delle culture del passato –, Piranesi cominciò ad accumulare reperti nella casa di famiglia in Palazzo Tomati, nella centralissima via Sistina, a pochi passi da Trinità dei Monti, dando vita a quello che egli stesso prese a definire «museo», anzi, come scrive Pierluigi Panza, «un museo “Sagro Santo”, riprendendo un’iscrizione presente sull’Altare di Silvano che vendette a Townley nel 1768 per 4 scudi che lo fece diventare a tutti gli effetti


Ritratto di Giovan Battista Piranesi, olio su tela di Pietro Labruzzi. 1779. Roma, Museo di Roma.

uno degli artisti-mercanti presenti a Roma». Il volume ripercorre dunque l’intera parabola del Museo Piranesi, per il quale transitò un numero difficilmente calcolabile con esattezza, ma comunque elevato, di materiali, che, già allora e poi in seguito, furono acquisiti da raccolte pubbliche e private di tutta Europa. Come si può leggere nel libro, la stima dei pezzi trattati da Piranesi è almeno in parte presunta, poiché la pur copiosa documentazione d’archivio esistente e consultata dall’autore non dà certamente

conto di ogni singolo reperto e gli inventari sono spesso piuttosto generici. A ciò si aggiunga che, anche in questo caso assecondando un gusto tipico dell’epoca, Piranesi realizzò un gran numero di pastiche, nei quali assemblò originali diversi o integrò con elementi moderni le opere antiche. I primi capitoli hanno dunque il merito di ricostruire la vicenda, ma anche di evocarne il carattere, a piú riprese frenetico, in una vera e propria giostra di amateur, collezionisti, intermediari e studiosi, con i quali il nostro ebbe

rapporti. Si passa quindi alla ricostruzione del Museo Piranesi vero e proprio, elencando i reperti che a esso possono essere attribuiti, secondo le diverse collezioni nei quali sono oggi conservati. Ne risulta un catalogo composto da 270 schede, per ciascuna delle quali viene specificato il tipo di relazione intercorsa con il «Sagro Santo», che comprende anche una categoria di materiali che non ne fecero effettivamente parte, ma che Piranesi descrisse per porli a confronti con i propri, dimostrandosi, come scrive ancora l’autore, «uno scrupoloso documentatore ma anche un venditore interessato a “pubblicizzare” i suoi reperti attraverso altri che facevano da testimonial». Stefano Mammini

sarebbe in ogni caso impossibile condensare in una sola trattazione. La soluzione scelta è stata perciò quella di offrire quattro contributi su altrettante questioni chiave – come per esempio il ruolo svolto da Ostia o le incursioni saracene sulle coste laziali – che possano servire da «innesco» per i molti possibili approfondimenti. Il risultato premia la scelta compiuta, poiché il volume si legge piacevolmente e coniuga il rigore delle informazioni

Sebastiano Tusa (a cura di)

ROMA E IL MARE Viaggi e ambienti mediterranei dall’antichità al Medioevo testi di Pino Blasone, Ettore Janulardo, Mario Marazzi e Claudio Mocchegiani Carpano, Edizioni di storia e studi sociali, Ragusa, 138 pp., ill. b/n. 14,00 euro ISBN 978-88-99168-18-6 www.edizionidistoria.com

La raccolta curata da Sebastiano Tusa si cimenta con un tema potenzialmente sterminato, poiché tale è quello del rapporto fra Roma e il mare, che

riportate con il taglio divulgativo adottato dagli autori coinvolti. E ha soprattutto il merito di mettere a fuoco aspetti per molti lettori senza dubbio insospettabili, come nel caso della secolare relazione che l’Urbe ebbe con il suo fiume, il Tevere, prima che gli interventi postunitari, con la costruzione degli argini, spezzassero un dialogo che oggi si cerca con fatica di recuperare. S. M. a r c h e o 113


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