Archeo n. 394, Dicembre 2017

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2017

BOLOGNA CIMITERO EBRAICO

ARMENIA OVIDIO

TORMENTA NAVALIA/4

SPECIALE MUTINA SPLENDIDISSIMA

Mens. Anno XXXIII n. 394 dicembre 2017 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

IL RITORNO DEI DRAGHI GIGANTI

ANNIVERSARI

OVIDIO, NOSTRO CONTEMPORANEO

ARABIA SAUDITA

IL CANE PIÚ ANTICO DEL MONDO

MUTINA SPLENDIDISSIMA

SPECIALE

L’EREDITÀ DI UNA CITTÀ ROMANA

www.archeo.it

IN EDICOLA I L 7 DICEMBRE 2017

o. i t

CI S BO M CO LO ITE P G RO ER N TO A E BR IL ww w. AI a rc CO he

ARCHEO 394 DICEMBRE

ARMENIA

€ 5,90



EDITORIALE

ANNIVERSARI È il dicembre dell’8 d.C. quando Publio Ovidio Nasone affronta la fatica del viaggio – via terra e via mare – che, dopo mesi, lo porterà ad approdare sulla costa occidentale del Mar Nero, dove sconterà l’esilio al quale lo ha condannato l’imperatore Augusto. Pare che già durante il lungo tragitto abbia scritto gli undici distici che compongono il primo dei cinque libri delle elegie dei Tristia. Questi, insieme ai quattro volumi delle «lettere dal Mar Nero», riuniscono, in un centinaio di versi, la disperazione del poeta di fronte alla prospettiva di un’esistenza destinata a concludersi in un luogo «alla fine del mondo». Generazioni di lettori, e piú di qualche esule, si sono identificati con il destino del poeta, rimanendone inesorabilmente affascinati. Di straordinaria attualità sono, poi, le Metamorfosi, il capolavoro di Ovidio, completato poco prima dell’esilio: «Di tutte le dicotomie con cui gli uomini cercano di comprendere se stessi, la piú antica – e forse piú profonda – è rappresentata dal contrapporsi del mito dell’immutabilità (stasis) a quello della trasformazione (metamorphosis). L’immutabilità, ovvero il sogno dell’eternità, di un ordine rigido applicato a tutte le vicende umane, è il mito preferito dai tiranni; il cambiamento, ovvero la consapevolezza che non esiste nulla che mantenga la propria forma, è la forza motrice dell’arte». Con queste parole, lo scrittore Salman Rushdie descrive, rendendolo universale, il conflitto tra il «tiranno» Augusto e il poeta Ovidio. E talmente «scandalosi» risultano, ancora oggi, certi miti a sfondo sessuale narrati nel poema epico-mitologico, che alcune università britanniche e statunitensi, nel rispetto dei promotori dei gender studies, fanno precedere la lettura delle Metamorfosi dall’avvertenza che il loro contenuto potrebbe risultare «lesivo dell’identità psichica». Della contemporaneità di Ovidio ci parla Roberto Andreotti (vedi alle pp. 66-80), in occasione del bimillenario della morte del grande poeta. Vorrei concludere questo editoriale di fine anno ricordando un altro, diverso, ma nondimeno importante, anniversario: nel 1217, infatti, sbarcarono ad Akko, l’antica San Giovanni D’Acri, i primi frati francescani. Degli ottocento anni della loro presenza in Terra Santa ci racconta una piccola ma raffinata mostra allestita alla Biblioteca Braidense di Milano (fino al 23 dicembre). E di alcuni, recentissimi risultati ottenuti grazie all’instancabile lavoro dei «frati archeologi» ci parla, invece, Renata Salvarani (vedi alle pp. 22-24). Buona lettura, allora. E i nostri migliori auguri per il Natale e l’Anno Nuovo! Andreas M. Steiner In alto: Ovidio fra gli Sciti, olio su tela di Eugène Delacroix. 1859. Londra, National Gallery.


SOMMARIO EDITORIALE

Anniversari

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di Andreas M. Steiner

Attualità

LA NOTIZIA DEL MESE

SCAVI La necropoli vulcente di Poggetto Mengarelli svela una nuova tomba etrusca inviolata 14

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DA ATENE

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A TUTTO CAMPO Quali regole occorre seguire per armonizzare gli interventi di scavo e quelli della conservazione, tappe indissolubili nello studio del passato? 16

SCOPERTE Incisioni rupestri scoperte in Arabia Saudita mostrano le immagini di cani impegnati in battute di caccia: potrebbe trattarsi di una delle prime prove della loro domesticazione nella regione 10

MOSTRE La ricerca fotografica di Luigi Spina sui capolavori della Collezione Farnese protagonista di un’affascinante esposizione al Museo Archeologico Nazionale di Napoli 18

di Alessandra Gilibert

ALL’OMBRA DEL VULCANO Il Parco Archeologico di Pompei «sposa» l’arte contemporanea, dando vita a una suggestiva esposizione negli spazi del Museo MADRE di Napoli 12

MUSEI Alla scoperta del Terra Sancta Museum di Gerusalemme, dove le testimonianze archeologiche si fondono con l’altissimo valore simbolico del sito 22

Scoperto a Bologna il cimitero ebraico medievale: è il piú grande attualmente indagato in Italia 6

NOTIZIARIO

Occhio alla lettera!

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di Valentina Di Napoli

SCAVI

Nella terra dei draghi giganti

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40 SCOPERTE

Il caos oltre la porta 58 di Alessandra La Fragola, con contributi di Stefano Masala e Giuseppe Carzedda

In copertina testa in marmo di Ercole tipo Farnese, dal territorio modenese. Seconda metà del II sec. d.C. Modena, Musei Civici.

Anno XXXIII, n. 394 - dicembre 2017 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Amministrazione: Roberto Sperti

amministrazione@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale

Hanno collaborato a questo numero: Roberto Andreotti è giornalista. Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Giuseppe Carzedda è studioso di numismatica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Fernanda Cavari è responsabile del Laboratorio di Restauro del Dipartimento di scienze storiche e dei beni culturali dell’Università di Siena. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Renata Curina è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Valentina Di Napoli è archeologa. Valentina Di Stefano è assistente tecnico presso la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Daniela Fuganti è giornalista. Alessandra Gilibert è ricercatore presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e dirige il Dragon Stones Archaeological Project in Armenia. Alessandra La Fragola è archeologa e storica. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Luigi Malnati è soprintendente Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco Archeologico di Pompei. Stefano Masala è archeozoologo. Francesca Piccinini è direttrice dei Musei Civici di Modena Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Renata Salvarani è ricercatore di storia del cristianesimo e delle Chiese presso l’Università degli Studi Europea di Roma. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Illustrazioni e immagini: Cortesia Musei Civici, Modena: fotografie di Carlo Vannini, Paolo Terzi, Mauro Terzi: copertina e pp. 88-89, 90-96, 97 (basso), 98-103; Riccardo Merlo: disegno ricostruttivo alle pp. 88/89 (sfondo); Altair4 Multimedia: p. 97 (alto) – Doc. red.: pp. 3, 79, 108 – Cortesia Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara: Cooperativa Archeologia: pp. 6, 9 (basso); Roberto Macrí: pp. 7, 8, 9 (alto) – Cortesia Maria Guagnin: pp. 10-11 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 12-13 – Cortesia degli autori: pp. 14-17, 22-24, 40-55, 60 (basso), 82-83, 84 (alto), 85, 86 (basso), 110 (alto), 111 – Luigi Spina: pp. 18-21 – Cortesia Ufficio Stampa dell’Institut du monde arabe, Parigi: Museo Benaki, Atene: p. 26 (alto); G. Antaki /Axia Art: p. 26 (basso); Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze: p. 27; Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 28 (alto), 29 – Cortesia Scuola Svizzera di Archeologia in Grecia: pp. 36 (basso), 37-39 – Cortesia Dragon Stones Archaeological Project: pp. 40-47, 48/49, 50-55; A. Hakhverdyan: disegno a p. 49


STORIA

Ovidio, nostro contemporaneo

66

di Roberto Andreotti

108 SCAVARE IL MEDIOEVO Dai pupazzi al tornio

108

di Andrea Augenti

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

66 ARCHEOTECNOLOGIA

La guerra del fuoco

La bellezza rapita

110

di Francesca Ceci

82

di Flavio Russo

SPECIALE

Rubriche QUANDO L’ANTICA ROMA... …diventò una città di portici

104

di Romolo A. Staccioli

Mutina – Modena L’eredità di una città romana

104 LIBRI

112

– Natalina Lutzu: disegno a p. 58 – Shutterstock: pp. 58/59 – Mondadori Portfolio: Leemage: pp. 60 (basso), 61; Electa/Sergio Anelli/su concessione MiBACT: p. 68; AKG Images: pp. 69, 108/109; Album: pp. 70/71, 78; Electa/Andrea Jemolo: p. 72; Rue des Archives/CCI: p. 73; AGE: p. 75; Electa/Sergio Anelli: pp. 76-77 – Cortesia Giuseppe Carzedda: foto e disegni alle pp. 62, 63 (basso), 65 – Giannina Granara e Alessandra Calvia: fotografie a p. 63 – Bridgeman Images: pp. 66/67 – Alamy Stock Photo: p. 74 – DeA Picture Library: Archivio J. Lange: p. 80; Vincenzo Pirozzi: p. 104; G. Dagli Orti: p. 110 (basso) – Flavio Russo: ricostruzioni alle pp. 84 (basso), 86 (alto) – Studio Inklink, Firenze: pp. 105-106 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 36.

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di Luigi Malnati e Francesca Piccinini

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LA NOTIZIA DEL MESE Renata Curina e Valentina Di Stefano

E NON RIPOSARONO IN PACE... FINO A IERI, IL «CIMITERO DEGLI EBREI» DI BOLOGNA ERA CONOSCIUTO SOLO ATTRAVERSO QUALCHE CITAZIONE IN DOCUMENTI D’ARCHIVIO. RECENTI SCAVI HANNO INDIVIDUATO IL SEPOLCRETO E NE HANNO RIVELATO LA TRAVAGLIATA STORIA, CHE EBBE INIZIO ALL’INDOMANI DELL’ACQUISTO DEL TERRENO DA PARTE DI «ELIE EBREO DEURBEVETERI»

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n’indagine archeologica avviata come tante altre nel centro storico di Bologna si è trasformata in una straordinaria opportunità per fare luce su una delle pagine piú controverse della

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storia del capoluogo nel Medioevo. Lo scavo – che ha interessato, tra il 2012 e il 2014, un’area del quadrante sud-orientale della città compresa tra le vie Orfeo, de’ Buttieri, Borgolocchi e Santo

Stefano – ha portato alla scoperta della piú vasta area cimiteriale medievale mai indagata in città, testimone di eventi che hanno radicalmente mutato la vita di una parte della popolazione bolognese


tra il XIV e il XVI secolo. Il cimitero si colloca nei pressi del monastero di S. Pietro Martire e la prima interpretazione che era stata data delle sepolture individuate era proprio in relazione al complesso cristiano. La gestione dei tempi del cantiere archeologico, che tenevano conto anche delle esigenze della committenza dell’edificio residenziale destinato a sorgere nell’area indagata, ha imposto di approfondire le ricerche storiche e archivistiche in una fase successiva alla conclusione delle indagini sul campo. Fin da una prima osservazione della distribuzione delle sepolture, sono sorti dei dubbi in merito all’attribuzione del sepolcreto al solo contesto monastico di S. Pietro Martire. Le ricerche d’archivio hanno condotto alla raccolta di documenti preziosi per l’individuazione e la ricostruzione della storia dell’area in cui il cimitero venne impiantato. Nelle fonti archivistiche, l’area oggetto dello studio viene indicata come «Orto degli Ebrei» e, nella tradizione storiografica cittadina, in via Orfeo è appunto collocato l’antico cimitero degli Ebrei. L’approfondimento delle ricerche ha consolidato questa ipotesi e la Soprintendenza ha prontamente avviato, insieme all’Università di Bologna, una proficua collaborazione con la Comunità Ebraica di Bologna, ricavando preziose informazioni sulle tradizioni religiose ebraiche e confrontandole con i dati ricavati dallo scavo archeologico. Il primo documento in cui è possibile identificare il terreno del sepolcreto è conservato presso

l’Archivio di Stato di Bologna, all’interno dei riassunti degli atti notarili del 1393, in cui si legge: «Elie ebreo deUrbeveteri habitatori in civitate Bononie acquista una petia terre ortive, arborate et vidate duarum tornaturiarum (…) in contracta sancti Petri Martiris». Il terreno venne concesso da Elia ai suoi correligionari, per istituirvi l’area cimiteriale dedicata agli Ebrei residenti a Bologna, una delle componenti piú operative e culturalmente attive della locale cittadinanza in età medievale.

L’ACCANIMENTO DEL PAPATO L’area conserva la funzione funeraria fino alla metà del XVI secolo, quando il papato emana una serie di pesanti restrizioni a danno della popolazione di religione ebraica, a cominciare dalla sottrazione di un terreno

In alto: la città di Bologna in una pianta del 1663: l’area cerchiata in azzurro indica la zona in cui è stato scoperto il cimitero ebraico medievale, impiantato in un terreno che si estende in prossimità del monastero di S. Pietro Martire. Nella pagina accanto: veduta parziale dell’area di scavo: si può osservare la regolarità dell’allineamento delle fosse di sepoltura, aventi tutte un orientamento est-ovest. In questa pagina: due anelli provenienti da tombe del cimitero ebraico medievale. detto «Il cimitero degli Ebrei», che, nel 1541, un breve di Paolo III assegna alle suore di S. Pietro Martire. Le condizioni di vita degli Ebrei bolognesi furono ulteriormente aggravate dalla bolla di papa Paolo IV Cum nimis absurdum, emanata nel 1555 e che, tra le varie prescrizioni, impose l’obbligo di portare un distintivo giallo, il divieto di possesso di beni immobili e istituirà i ghetti. Il piú crudele degli interventi dei pontefici romani contro gli Ebrei

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italiani si ebbe pochi anni piú tardi, con il breve di Pio V Hebraeorum gens del 1569, che sancí l’espulsione di tutti gli Ebrei dalle terre dello Stato Pontificio, a esclusione di Roma e Ancona. Diretta conseguenza del documento, è un altro breve, emanato da Pio V il 28 novembre del 1569, che interviene esplicitamente su Bologna e stabilisce che l’area del cimitero ebraico venga donata alle suore della vicina chiesa di S. Pietro Martire, accordando altresí alle monache la facoltà «di disseppellire e far trasportare, dove a loro piaccia, i cadaveri, le ossa e gli avanzi dei morti: di demolire o trasmutare in altra forma i sepolcri costruiti dagli ebrei, anche per persone viventi: di togliere affatto, oppure raschiare e cancellare le iscrizioni ed altre memorie scolpite nel marmo».

SEPOLTURE PROFANATE I drammatici effetti di questo provvedimento pontificio sono stati portati alla luce dallo scavo archeologico, che ha restituito circa 400 tombe a inumazione, delle quali oltre 150 mostrano segni evidenti di manomissioni volontarie esercitate per profanare la sacralità delle sepolture. Le indagini archeologiche hanno documentato la totale assenza di tracce delle lapidi e dei segnacoli che, secondo la tradizione religiosa ebraica, dovevano riportare il nome del defunto e definire lo spazio di rispetto tra le tombe. Nel complesso, il

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In questa pagina, dall’alto: una collana in pietre dure, un anello a fascia e un anello con castone. Molte tombe del cimitero ebraico medievale hanno restituito oggetti di ornamento personale di pregio, come quelli qui illustrati, con caratteristiche che li differenziano nettamente da contesti sepolcrali coevi.

cimitero di via Orfeo presenta un’organizzazione planimetrica molto rigorosa: le sepolture risultano ordinate in file parallele e le fosse sono orientate est-ovest, con il capo del defunto rivolto a occidente; molte deposizioni presentavano oggetti di ornamento personale in oro, argento, bronzo, pietre dure e ambra, realizzati con una notevole qualità tecnica, con incisioni e decorazioni a rilievo, difficilmente riscontrabili in contesti cimiteriali coevi. Nel corso delle indagini, inoltre, si è potuto osservare come in determinati settori le sepolture, pur mantenendo il medesimo orientamento, presentassero una disposizione piú disorganica e in alcuni casi anche una parziale sovrapposizione delle fosse. Una parte degli studi e

delle ricerche post-scavo si è quindi concentrata anche su questo aspetto, permettendo di determinare la verosimile presenza di sepolture cristiane in alcuni punti del cimitero, probabile esito del già citato breve di Pio V, che concedeva la proprietà del terreno alle monache di S. Pietro Martire, anche a scopi funerari. I resti umani recuperati sono attualmente in fase di studio da parte del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna, coordinato da Maria Giovanna Belcastro, che sta conducendo esami approfonditi, avvalendosi di un approccio integrato tra analisi morfologiche, microbiologiche, molecolari e tomografiche, al fine di ricostruire lo stato di salute e nutrizionale degli individui, eventuali specializzazioni nelle attività lavorative, aspetti relativi ai riti funerari e la provenienza geografica legata a possibili spostamenti da altre aree.

UN APPROCCIO INTEGRATO Nelle ricerche è stato integrato anche lo studio di antropologia culturale, condotto da Valentina Rizzo, che ha come scopo ultimo la costruzione del processo di restituzione dei resti umani alla Comunità Ebraica, cosí da garantire la loro sepoltura secondo il rito ebraico, e la ricostruzione di uno scenario storico e culturale di un periodo compreso tra il XIV e il


XVI secolo. Oltre all’analisi del cimitero come campo di sepoltura, in cui il legame tra individui/gruppi e spazio passa anche attraverso il corpo seppellito, il sepolcreto di via Orfeo è portatore di un significato simbolico. La manomissione delle sepolture e la loro dissacrazione si collocano come tentativo di destorificazione, che consiste nell’espulsione del gruppo ebraico a cui il cimitero era appartenuto e nella distruzione di tutti i riferimenti culturali di quella comunità. Il cimitero ebraico medievale di Bologna è il piú grande attualmente indagato in Italia, secondo in Europa solo a quello di York, e l’approfondimento dello studio

dell’enorme mole di dati che se ne sta ricavando sarà fondamentale per la ricostruzione della storia della comunità ebraica bolognese e del suo ruolo nella società contemporanea.

UN CASO UNICO È un caso unico in Europa, forse, non solo per la mole degli elementi informativi, poiché rappresenta uno straordinario campo di collaborazione tra discipline scientifiche, istituzioni pubbliche,

università, ricercatori indipendenti e istituzioni religiose. Il progetto di ricerca sul cimitero, coordinato dalla Soprintendenza di Bologna, non si è limitato all’applicazione dei corretti strumenti della ricerca archeologica, ma, consapevole delle incidenze culturali e sociali dell’intervento, è fondato su un approccio interdisciplinare, con l’integrazione delle metodologie archeologiche, storiche, antropologiche e demoetno-antropologiche. Il cimitero di via Orfeo è dunque il punto di partenza di un progetto piú ampio, che ha come obiettivo principale la diffusione della conoscenza e la valorizzazione del patrimonio culturale ebraico di Bologna, che, attraverso una lettura diacronica, contribuisca al processo di costruzione di una memoria cittadina attiva e partecipata. Lo scavo del cimitero ebraico medievale di via Orfeo è stato diretto dalla Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara ed eseguito da Cooperativa Archeologia. L’indagine è stata svolta in relazione alla costruzione di un nuovo complesso residenziale, in un sito che il Piano Strutturale del Comune di Bologna individua come «area ad alta potenzialità archeologica» e per il quale sono previste indagini preliminari ed eventuali scavi in profondità in accordo con la Soprintendenza per ogni intervento nel sottosuolo. Un’altra veduta di un settore del cimitero: le indagini hanno permesso di individuare 400 sepolture.

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n otiz iari o SCOPERTE Arabia Saudita

CANI DA CACCIA NELLA PREISTORIA

N

ella porzione occidentale del deserto del Nefud, in Arabia Saudita, un’équipe internazionale ha studiato numerosi rilievi rupestri nei siti di Jubbah e Shuwaymis, offrendo interessanti prospettive riguardo alla domesticazione del cane e al suo impiego per la caccia. Guidati da Maria Guagnin, del dipartimento di archeologia del Max Planck Institute di Jena, gli studiosi hanno preso in considerazione una selezione delle raffigurazioni, ascrivibili a un arco cronologico compreso fra il 7000 e il 6000 a.C. e riferibili a un orizzonte culturale pre-neolitico. Tutti i rilievi rappresentano scene di caccia, in cui numerosi canidi affiancano la presenza umana, ma, tra i due siti, i ricercatori hanno osservato alcune sostanziali differenze. In alto: cartina e fotografie satellitari della penisola araba, con, in evidenza, i siti di Shuwaymis (sulla sinistra, in basso) e Jubbah (sulla destra, in alto). A sinistra: Shuwaymis. Elaborazione grafica di un rilievo raffigurante un cacciatore con una muta di 13 cani, due dei quali trattenuti al guinzaglio.

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A Jubbah sono state rilevate 193 raffigurazioni di cani, distribuiti in 108 scene, con raggruppamenti composti al massimo da 7 esemplari. A Shuwaymis, invece, compaiono 156 disegni di cani in sole 39 scene, con gruppi che includono da 7 fino a – in un caso – 21 esemplari, rendendo dunque molto piú marcata la loro proporzione numerica in relazione ai cacciatori. Tale diversità sembra rispecchiare le differenti strategie di caccia adottate nei due ambienti. Nella pianura intorno a Jubbah il terreno, infatti, offriva ampie vie di fuga alla preda, ma non nascondigli o ripari, ed è verosimile che, per inseguirla in velocità, e, quindi, atterrarla, fosse sufficiente un numero inferiore di cani. Scenario


opposto sulle alture di Shuwaymis, che avrebbero richiesto l’impiego di piú esemplari, per stanare la preda dagli anfratti rocciosi e stringerla senza via di scampo, fino all’arrivo dei cacciatori. Un’altra caratteristica, che indicherebbe una verosimiglianza dei rilievi con reali strategie venatorie, è il fatto che l’organizzazione delle scene di caccia mostri una diretta correlazione con la tipologia di preda. Per animali di maggiori dimensioni, come nel caso di una coppia di equini o di un leone, viene raffigurato, nelle immediate vicinanze, anche il cacciatore, armato con arco e frecce, per uccidere rapidamente la preda – pericolosa per dimensioni e aggressività – e, allo stesso tempo, salvaguardare i cani. Tra l’altro,

proprio in questa tipologia di scene è rappresentato anche l’uso di una sorta di guinzaglio per trattenere i cani, assicurato intorno alla vita del cacciatore per lasciare libere le mani. Nei rilievi che raffigurano prede di taglia piu piccola, come capre o gazzelle, sono rappresentati In alto: Shuwaymis. Particolare di un rilievo che mostra un equide con prole accerchiato da numerosi cani e da un cacciatore. A sinistra: Shuwaymis. Elaborazione grafica di un rilievo (in basso, l’originale) che mostra tre gazzelle attaccate da quattro cani.

unicamente i cani, che le attaccano al collo, come per atterrarle. Infine, i ricercatori ipotizzano che Jubbah, essendo un’oasi presso la quale gli animali confluivano spontaneamente per abbeverarsi, fosse un territorio in cui la caccia poteva essere praticata con una certa continuità durante l’anno, mentre Shuwaymis sarebbe stato sfruttato stagionalmente, per cui i cacciatori si sarebbero organizzati in spedizioni meglio attrezzate (quindi con piú cani), per massimizzare il risultato in un periodo di tempo limitato. Pur non essendo possibile un’identificazione certa, è stato osservato che gli esemplari di canidi rappresentati mostrano strette affinità con i caratteri dell’odierna razza Caanan Dog. Per il futuro sono in programma ricognizioni mirate a un censimento di altri siti pre-neolitici nella regione, nonché l’esecuzione di esami genetici sui resti archeologici di canidi antichi per identificarne l’ascendenza di specie. Paolo Leonini

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

CONTEMPORANEITÀ DELL’ANTICO L’INTRIGANTE DIALOGO FRA L’ARCHEOLOGIA POMPEIANA E LE CREAZIONI DI ALCUNI DEI MAGGIORI ARTISTI DEL NOSTRO TEMPO È ALL’ORIGINE DELLA MOSTRA ALLESTITA PRESSO IL MUSEO MADRE DI NAPOLI. UN PERCORSO EMOZIONANTE, CHE FA «RIVIVERE» LA CITTÀ SEPOLTA DAL VESUVIO

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ompei e l’arte contemporanea si incontrano di nuovo. Dopo l’esperienza delle grandi sculture di Igor Mitoraj accolte in luoghi chiave degli scavi, un’originale esposizione dal titolo «Pompei@Madre. Materia Archeologica» si sposta nelle sale del maggiore polo espositivo campano d’arte contemporanea, grazie alla sinergia fra il Parco Archeologico di Pompei e il Museo Donnaregina di Napoli. Curata da Massimo Osanna e Andrea Viliani, con la collaborazione di Luigi Gallo, la mostra propone un confronto/ dialogo fra reperti archeologici pompeiani e opere d’arte moderna e contemporanea. In un gioco di potenziali connessioni fra antico e moderno, l’elemento base che accomuna i due ambiti è la «materia», un concetto coniugato nelle sue varie sfumature, dal punto di vista naturale, culturale e concettuale. L’idea che sottende all’evento è quella di offrire una rappresentazione – fra epoche, metodi e contenuti differenti – degli oltre venti secoli di

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«contemporaneità» della Campania e della cultura mediterranea in generale.

TRACCIARE IL FUTURO Si presenta un patrimonio di opere, idee ed esperienze estremamente vive nel loro contesto temporale, che non costituisce soltanto eredità, ma, soprattutto, documentazione a cui riferirsi per comprendere il presente e tracciare il futuro. La «materia archeologica» scavata a Pompei negli ultimi due secoli e mezzo ha creato una fonte d’ispirazione unica e straordinaria,

di cui si sono infatuate generazioni di studiosi e artisti: cosí come illustrano le opere di novanta artisti e intellettuali, da Johann Wolfgang Goethe a Johann Joachim Winckelmann, da François–René de Chateaubriand a Le Corbusier, fino ai grandi protagonisti contemporanei. Il percorso espositivo è pensato come una passeggiata fra manufatti, opere e strumenti connessi alla storia degli scavi pompeiani, con materiali che attestano la vita quotidiana della città antica e il ruolo che in essa rivestivano le arti e le scienze. Reperti che sono messi a confronto con documenti moderni e contemporanei provenienti dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dal Museo di Capodimonte, dal Polo Museale della Campania e da altre importanti istituzioni culturali, oltre che da collezioni private italiane e internazionali. Ogni opera artistica esposta rivendica, con la riscoperta del sito archeologico, il valore della contemporaneità della «materia» pompeiana, fungendo cosí da elemento catalizzatore fra


A sinistra: Venere su quadriga trainata da quattro elefanti, dall’Officina di Verecundus. Nella pagina accanto: contenitore d’argilla con uova conservate nella cenere, dalla Casa di Giulio Polibio. In basso: olla per la bollitura degli alimenti e situla in bronzo per attingere l’acqua, con lapilli dell’eruzione del Vesuvio.

spazi, tempi e culture, fra arti visive, letteratura, musica, teatro, fino alle attuali e aggiornate tecnologie. Il percorso ha inizio nelle collezioni storiche del museo: l’accostamento con manufatti provenienti da Pompei proietta la raccolta di Palazzo Donnaregina in una sorta di domus contemporanea. Nell’atrio di Daniel Buren, dietro a un’antica porta, compaiono vari elementi: gli estremi di un tavolo, di una cassaforte e di una cista romana. Il percorso continua nelle sale

monografiche: la stanza affrescata e decorata con maioliche di Francesco Clemente si trasforma nel fulcro della domus; lo sguardo scorre poi sulla volta celeste di Luciano Fabro, con le sue stelle e le sue mitologie, che riportano a una relazione con la dimensione astrale, e qui avviene l’apparizione del compluvium che si specchia nell’impluvium.

IL VIAGGIO DI KOUNELLIS Il tema del viaggio di Jannis Kounellis sembra invece riverberarsi in un mosaico pavimentale gremito di creature marine che, circondando una grande ancora, rievocano i peripli

mediterranei di esseri umani, di merci e di storie. Mentre il rapporto fra figurazione e astrazione, proprio delle decorazioni ambientali pompeiane, si espande nelle sale di Sol LeWitt e Jeff Koons, e i lacerti di pitture parietali e di decorazioni scultoree echeggiano nelle sale di Giulio Paolini e Richard Serra. E se la sala cosparsa di fango di Richard Long suggerisce la necessità quotidiana di un rapporto con la materia di una cucina (culina), le capuzzelle di Rebecca Horn, con la loro storia di vanitas e memento mori folklorici, riportano al culto degli antenati (Lares e Penates) e alla memoria dei defunti (sepulchra), che si approfondisce ulteriormente nella dimensione sotterranea, ctonia, del buco nero nel pavimento di Anish Kapoor. In questa sequenza di camere (oeci), la sala di Mimmo Paladino sembra ospitare, infine, il sonno di un cubiculum: dove giacciono, in un immoto fremito, i calchi di due dei tanti «dormienti» – un padre con il suo bambino – dell’antica Pompei.

DOVE E QUANDO «Pompei@Madre. Materia Archeologica» MADRE-Museo d’arte contemporanea Donnaregina fino al 24 settembre 2018 Orario lu-sa, 10,00-19,30; do, 10,00-20,00; martedí chiuso Info tel. 081 19737254; www.madrenapoli.it/PompeiMadre; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico

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SCOPERTE Vulci

ECCO LA TOMBA DELL’ANFORETTA

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a ripresa dell’esplorazione della necropoli vulcente di Poggetto Mengarelli, già nota ai lettori di «Archeo» per i ritrovamenti della Tomba dello Scarabeo Dorato e di quelle dei Guerrieri (vedi nn. 374 e 381, aprile e novembre 2016), è stata segnata dalla scoperta di un nuovo sepolcro inviolato, ribattezzato «Tomba dell’Anforetta Etrusco-corinzia». È la quarantaduesima struttura funeraria individuata nell’ambito delle ricerche avviate nel 2016 e che hanno messo in luce ben tre fasi di utilizzo dell’area sepolcrale. La piú antica, che risale a un periodo compreso tra la fine dell’VIII e gli inizi del VII secolo a.C., è caratterizzata da tombe a fossa, a volte con pozzetto interno, altre con rivestimento di lastre (a cista litica) e solo in un caso, a oggi accertato, con sarcofago (Tomba dello Scarabeo Dorato); tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C., si collocano quindi modeste tombe a camera; infine, tra il IV e il II secolo a.C., si registra la piú tarda fase di utilizzo del sepolcreto, contraddistinta da tombe a camera e da piccoli loculi chiusi da tegole.

La Tomba dell’Anforetta Etrusco-corinzia è del tipo a piccola camera funeraria a pianta pressoché quadrata, preceduta da un breve corridoio di accesso (dromos), provvisto di tre stretti gradini sul margine sud. L’accesso all’ambiente ipogeo era ancora sigillato da blocchi in tufo di In alto: Vulci, necropoli di Poggetto Mengarelli. l’ingresso della Tomba dell’Anforetta Etrusco-corinzia. A sinistra e nella pagina accanto: due immagini del corredo funerario, con i vasi ancora in situ. VII-VI sec. a.C.

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forma irregolare, attraverso i quali è penetrato nella camera funeraria un consistente strato di infiltrazione terrosa che ha preservato il corredo funerario. Quest’ultimo era composto da 19 reperti deposti per gruppi funzionali, cioè in base al loro utilizzo. I resti del defunto, cremati, erano conservati all’interno di un’anfora etrusco-corinzia a decorazione lineare che permette di circoscrivere la datazione del complesso tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C. Oltre a questo importante manufatto, si segnalano vasi in bucchero utilizzati per il consumo del vino (una oinochoe, un attingitoio, una kotyle, un kantharos e due calici), nonché vasi in impasto e in ceramica depurata acroma per contenere liquidi e derrate alimentari (una grande olla biansata, un’olletta con labbro a colletto e due coppette su piede). Il genere maschile del defunto è definito dalla presenza di una punta di giavellotto in ferro, provvista del relativo terminale (sauroter), e di due lame realizzate con lo stesso materiale, una delle quali sicuramente un coltello a lama leggermente ricurva che conservava ancora abbondanti tracce del legno dell’immanicatura. Tra gli ornamenti personali figurano una fibula e una sorta di affibbiaglio, anch’esso in ferro, insieme a un ago in bronzo. Gli scavi di Poggetto Mengarelli sono coordinati da Alfonsina Russo e Simona Carosi per la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, della provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale e dallo scrivente, con la collaborazione di Carlo Regoli, per conto di Fondazione Vulci. Carlo Casi



A TUTTO CAMPO Fernanda Cavari

UN BINOMIO VIRTUOSO SCAVANDO, L’ARCHEOLOGO DETERMINA UNA DISTRUZIONE: I SUOI STRUMENTI, INFATTI, ALTERANO UN EQUILIBRIO CONSOLIDATOSI NEL TEMPO. ECCO PERCHÉ È INDISPENSABILE CHE L’INDAGINE SUL CAMPO SIA ACCOMPAGNATA DAGLI OPPORTUNI INTERVENTI DI CONSERVAZIONE

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e piú recenti direttive nel campo della preservazione e valorizzazione dei beni culturali differenziano gli interventi conservativi dalle operazioni di restauro vero e proprio. Si definisce «conservazione» l’insieme delle procedure finalizzate a impedire il degrado di una qualsiasi testimonianza storica materiale, assicurando la sua trasmissione alle generazioni future. Il termine «restauro» deve essere invece inteso come restituzione della leggibilità e contributo alla valorizzazione del manufatto. La conservazione, quindi, è un’azione imperativa e ineludibile rispetto al restauro, che invece si configura come esigenza complementare all’interno della complessa strategia di salvaguardia dei beni culturali. La conservazione archeologica

Vignale (Livorno): intervento provvisorio di conservazione di un rivestimento pavimentale a mosaico mediante contenimento dei bordi e delle lacune. Per quanto riguarda questo genere di manufatti, devono essere attuate procedure di «primo soccorso» sin dal momento della messa in luce, in attesa dell’intervento definitivo.

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presenta una sua specificità per le particolari procedure messe in atto a tutela dei manufatti contestualmente e successivamente allo scavo.

RISCHI E PREVENZIONE In termini di salvaguardia, a ben vedere, lo scavo archeologico può ritenersi infatti un danno piú che un recupero salvifico di testimonianze materiali: parametri diversi di luce, umidità, ossigeno e sollecitazioni meccaniche di qualsiasi tipo possono infatti portare a collassi strutturali, trasformazioni fisico-

chimiche, e, in alcuni casi, anche alla distruzione di strutture e oggetti che per secoli hanno goduto di condizioni ambientali particolari e stabili. Le condizioni di seppellimento provocano, infatti, processi di trasformazione/degrado dei reperti, ma, allo stesso tempo – proprio per l’isolamento dall’ambiente aereo – ne permettono la sopravvivenza. Le trasformazioni potranno riprendere al momento della loro messa in luce e conseguente esposizione a nuove condizioni ambientali che, oltre a


Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali. La proposta fu sostenuta anche da Andrea Carandini, che in quegli anni dirigeva il cantiere di scavo della villa romana di Settefinestre e che aveva coinvolto nello scavo restauratori dell’allora Istituto Centrale del Restauro e professionisti della conservazione di provenienza anglosassone. La presenza del Laboratorio offre oggi l’opportunità, anche con tirocini specifici, di acquisire una Dall’alto, in senso orario: Monteriggioni (Siena), Prelievo di ceramiche con supporto costituito da bende gessate; Populonia (Livorno), prelievo di un frammento di stucco mediante schiuma di poliuretano dall’Edificio delle Logge; Cosa (Grosseto), operazioni di consolidamento preliminare dei mosaici nella Casa di Diana. pregiudicarne la sopravvivenza, possono causare la perdita di preziose informazioni archeologiche. Sistemi di conservazione preventiva si rendono quindi necessari, soprattutto in presenza di manufatti di notevole fragilità, per i quali il successivo intervento diretto curativo non può, da solo, assicurarne la sopravvivenza.

INTERVENTI FONDAMENTALI La conservazione non può essere considerata una scelta accessoria dell’indagine archeologica, ma una prassi contestuale di normale routine, come già messo in evidenza dalla ormai, per alcuni aspetti, superata Carta del Restauro del 1972. Durante lo scavo è fondamentale mettere in atto azioni, spesso molto semplici, che non ricadono direttamente sugli oggetti, ma che creino le condizioni ottimali per evitare e prevenire ulteriori deterioramenti. Corretti

metodi di manipolazione, trasporto, immagazzinamento sono preliminari indispensabili per i successivi procedimenti di conservazione e restauro; due regole basilari sono un prelievo che «congeli» la situazione di rinvenimento (per esempio con pane di terra) e il mantenimento, per quanto possibile, delle stesse condizioni ambientali. L’importanza del ruolo della conservazione archeologica in ambito universitario fu ben compresa da Mauro Cristofani, il quale, durante la sua carica di preside della Facoltà di Lettere di Siena dal 1978 al 1981, propose la creazione dell’attuale Laboratorio di Conservazione Archeologica del

formazione di base nel campo della conservazione archeologica per una corretta gestione dei manufatti, dal rinvenimento nel cantiere al successivo intervento di conservazione e restauro a opera di centri specializzati: l’archeologo è, di fatto, attore del processo conservativo. A questo fine, in ambito anglosassone, sono stati pubblicati manuali di conservazione archeologica rivolti non solo ai professionisti del settore, ma agli archeologi stessi, i quali, con un’adeguata formazione, possono essere in grado di mettere in atto procedure tali da garantire una corretta conservazione dei manufatti. (fernanda.cavari@unisi.it)

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MOSTRE Napoli

FOTOGRAFARE LA BELLEZZA

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ra il 2002 e il 2010, Luigi Spina – fotografo di cui «Archeo» ha già piú volte documentato l’attività – ha lavorato per 3285 giorni nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Aveva l’incarico di fotografare le opere della Collezione Farnese, in vista della pubblicazione dei loro cataloghi ragionati.

Come accade in circostanze del genere, la consegna era perciò quella di realizzare immagini sostanzialmente «asettiche», simili a foto segnaletiche delle sculture. L’occasione, tuttavia, era fin troppo ghiotta per non Tutte le immagini si riferiscono a opere della Collezione Farnese conservate presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. In alto: Afrodite accovacciata con Eros (particolare), replica del II sec. d.C. di un originale greco del III sec. a.C. attribuito a Doidalsas. A destra: statua di Afrodite, detta Callipige (particolare), riproduzione del II sec. d.C. di un originale greco di epoca ellenistica.

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coglierla e cosí, come ha detto l’archeologo e storico dell’arte antica Carlo Gasparri nel presentare il volume e la mostra che da quel lavoro sono scaturiti, Spina ha scattato «di nascosto» decine e decine di foto, con le quali ha esaltato la straordinaria bellezza delle statue e, per quanto possa sembrare un controsenso

– trattandosi di marmi –, ha colto la vitalità che i loro antichi artefici seppero conferigli. Al di là del valore dei soggetti e delle vicende che ne hanno segnato la realizzazione, tanto il libro, quanto la mostra sono una sorta di inno alla fotografia: non occorre, infatti, essere esperti in materia per intuire come quegli scatti siano la


A sinistra: Guerriero ferito, detto Protesilao (particolare). II sec. d.C. Qui sotto: Ercole Farnese (particolare), statua colossale firmata dall’ateniese Glykon, riproduzione di epoca imperiale di un originale di Lisippo.

A destra: particolare dell’allestimento della mostra «Diario Mitico». testimonianza di una sensibilità non comune e di un modus operandi che fa dei progetti di Luigi Spina altrettanti prodotti di altissimo artigianato. E che, in un’epoca nella quale il gesto fotografico va riducendosi a un momento accessorio della comunicazione, hanno potuto prendere forma solo perché realizzati con un apparecchio fotografico vero e proprio. Esposte in stampe di grande formato di altissima qualità, le foto in bianco e nero restituiscono all’osservatore tutta la tavolozza dei sentimenti che gli scultori avevano

inteso esprimere nel ritrarre i diversi soggetti: dalla pudicizia di Afrodite alla serena maestà dell’Ercole, dalla rassegnata stanchezza di Atlante alla fierezza

dei Tirannicidi. Cosí come, in maniera altrettanto sapiente, l’obiettivo (ma prima ancora l’occhio) del fotografo colgono dettagli che stupiscono per il loro

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realismo: dal sangue che cola sul fianco del Guerriero ferito alla morbidezza dei panneggi, che quasi suggerisce il fruscio dei tessuti. C’è, in tutto questo, ed è bene sottolinearlo, un implicito omaggio alla sapienza degli artisti ai quali si devono le singole opere: non a caso, del resto, si può dire che l’intera Collezione Farnese, sin dalla sua formazione, abbia costituito una sorta di manuale di scultura, diffondendo canoni che hanno fortemente influenzato la produzione successiva. Il libro, la mostra e il fatto che quest’ultima sia allestita nel museo in cui sono esposte le opere che ne sono protagoniste suggeriscono inoltre una considerazione di carattere museografico: senza la possibilità di girare intorno alle sculture, Spina non avrebbe potuto condurre la sua ricerca, né noi potremmo apprezzarle appieno e, in questo caso, metterle a confronto con le fotografie. Un’opportunità di cui tuttora, a volte, non si tiene conto, esponendo opere di questo genere a parete e dunque riducendole a poco piú che rilievi. Nell’osservare le immagini di «Diario Mitico», non si può infine fare a meno di riflettere sui capolavori che in esso si vedono sfilare: la Collezione Farnese fu infatti uno dei capitoli piú significativi nella storia delle raccolte di antichità, che ebbe nel cardinale Alessandro Farnese (poi papa Paolo III) il suo primo artefice, alla metà del Cinquecento. Era l’epoca in cui la riscoperta della Roma antica muoveva i suoi primi passi e molti dei marmi che oggi si possono vedere al MANN furono recuperati negli scavi condotti nell’area delle Terme di Caracalla.

Nella pagina accanto: un «confronto» ideale fra due versioni dell’Afrodite del tipo denominato DresdaCapitolino. Entrambe le statue sono databili al II sec. d.C. A destra: Commodo gladiatore (particolare). III sec. d.C. Il motore primo di quelle imprese aveva poco a che fare con l’indagine archeologica modernamente intesa, ma non si può negare che dal gusto, privatissimo, di riempire le proprie residenze di opere d’arte antica sia infine derivato il meraviglioso corpus del quale tutti possiamo oggi godere, anche attraverso le fotografie di Luigi Spina. Stefano Mammini

DOVE E QUANDO «Diario Mitico. Cronache visive sulla Collezione Farnese» Napoli, Museo Archeologico Nazionale fino al 9 gennaio 2018 Orario tutti i giorni (tranne il martedí), 9,00-19,30; chiuso il 25 dicembre e il 1° gennaio Info tel. 081 4422149; www.museoarcheologiconapoli.it

Offerta riservata ai lettori di «Archeo» Regalatevi o regalate una copia del volume Diario Mitico al prezzo speciale di 48,00 euro, anziché 59,00: lo riceverete comodamente a casa, senza alcun costo di spedizione (*) . Per usufruire dell’offerta, chiamate la casa editrice 5 Continents Editions al numero 02 33603276, oppure andate direttamente sul sito fivecontinentseditions.com, alla pagina del libro Diario Mitico. Basterà accedere al carrello e-commerce e inserire il seguente codice promozionale: DIARIOMITICOARCHEO. Otterrete subito lo sconto riservato ai lettori di «Archeo». Se desiderate fare un regalo, avrete la possibilità di inserire un messaggio che verrà recapitato insieme al libro al destinatario. * offerta riservata al territorio italiano.

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MUSEI Israele

NEI LUOGHI DI UNA STORIA UNIVERSALE

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o sono Gerusalemme…». Comincia cosí il racconto sensoriale del Terra Sancta Museum di Gerusalemme, che accompagna la scoperta degli scavi nel convento francescano della Flagellazione, all’inizio della via Dolorosa, a poca distanza dalla Porta dei Leoni, dalla chiesa di S. Anna e dalla piscina Probatica. La narrazione è cristiana, per impostazione e per scelte, ma abbraccia l’intera storia della città, la sua dimensione universale, il suo legame con il testo biblico. Lungo un percorso che procede per loca et per res, emergono gli spazi e i simboli della Passione di Cristo e, insieme, la complessità della stratigrafia urbana nel settore nord-orientale compreso all’interno delle mura. Infine, irrompe, nella sua materiale maestosità, la roccia

nuda, la montagna che ha preso forma accogliendo la presenza dell’uomo, una presenza che ha portato a piú riprese distruzione, rovina, violenza. Fra i segni dei colpi inferti alla città si inseriscono la memoria della presenza di Gesú, il ricordo devozionale del suo supplizio, la ricerca dell’autenticità delle sue tracce. Momenti e stazioni si definiscono nel contesto storico, lí dove emergono tratti del Litostroto, dove c’erano la Fortezza Antonia e la grande piscina adiacente, ambienti che furono teatro della condanna di Gesú. Su quelle pietre si accanirono prima le devastazioni romane del 70 d.C., poi gli interventi di Adriano, il quale, edificando la sua Aelia Capitolina, rimodellò il sistema urbano erodiano e ne appianò i dislivelli. Gli stessi ambienti della

sezione multimediale del Museo sono ricavati all’interno dei riempimenti del II secolo. Furono gli studi di Louis de Clerc a individuarvi su base archeologica la sequenza degli eventi che da secoli i pellegrini rivivevano nella via Crucis guidata dai Francescani. Da quelle premesse ha preso le mosse il percorso della scuola dello Studium Biblicum Franciscanum,

Sulle due pagine: immagini dal convento della Flagellazione a Gerusalemme. In alto, uno degli allestimenti del Terra Sancta Museum, con reperti risalenti al periodo erodiano. A sinistra, ambienti ipogei recuperati dai lavori e inclusi nel percorso museale (nella pagina accanto, in alto). Nella pagina accanto, in basso, un suggestivo scorcio di altre aree ipogee recuperate.

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che opera ininterrottamente dal 1924 e che proprio nel Museo esplicita in forma divulgativa risultati e punti fermi. Sono visibili proiettili in marmo utilizzati nell’assedio del 63 a.C, durante la campagna di Pompeo, tratti di pavimentazione romana, un gioco inciso nella pietra che si vuole identificare con quello usato dagli aguzzini che si contesero la tunica di Gesú, un bagno rituale, una colonna bizantina, strutture di età mamelucca, segni di riutilizzo in epoca crociata, capitelli, fregi. Il progetto, parzialmente attuato e che mira a creare una rete di musei nei luoghi santi di Israele, è della Custodia di Terra Santa, sotto la guida di un comitato presieduto da padre Eugenio Alliata, ed è curato dallo studio Tortelli Frassoni di Brescia. Alla parte multimediale della via Dolorosa si aggiungerà la sezione archeologica, in via di completamento, sempre nell’area

della Flagellazione. Si amplia, cosí, il precedente allestimento museale, il primo realizzato in Israele grazie alla pionieristica attività di studi e di indagini archeologiche effettuate dai Francescani dalla fine dell’Ottocento.

Lo spazio verrà piú che triplicato con strutture architettoniche nuove e con il recupero di ambienti ipogei ritrovati durante i lavori, tra cui due cisterne, appartenenti a importanti strutture romane, bizantine, fatimidi e crociate.

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CARINOLA (CASERTA)

Nel nome di un pioniere È stato assegnato a Eugenio Alliata (vedi la foto in basso), archeologo di Terra Santa, appartenente all’Ordine dei Frati Minori e professore di archeologia ed escursioni dello Studium Biblicum Franciscanum, il «Premio Internazionale per la Ricerca sui Beni Culturali Padre Michele Piccirillo», giunto alla sua terza edizione. Il premio è intitolato alla memoria del francescano e archeologo (nella foto in alto) il cui nome è legato alle scoperte del Monte Nebo, la montagna giordana dalla quale Mosè contemplò la Terra Promessa e che oggi è diventata una meta imprescindibile dei pellegrinaggi e delle visite culturali in Israele e Giordania. Luoghi dove, da secoli, i Francescani della Custodia di Terra Santa sono i responsabili della salvaguardia del patrimonio della cristianità, promuovendo la conoscenza della storia del cristianesimo e della presenza francescana in questa terra. La cerimonia ha avuto luogo a Casanova di Carinola (Caserta), nella splendida sede del convento di S. Francesco, un’architettura monumentale costruita nel XIII secolo e oggi curata e preservata grazie alla dedizione di un altro francescano, padre Giovanni Siciliano. Il premio «Michele Piccirillo» viene assegnato a studiosi di fama nazionale e internazionale che, negli ultimi dieci anni, si siano distinti nella ricerca finalizzata all’analisi, alla tutela e alla promozione del patrimonio culturale internazionale. Catia Fauci 24 a r c h e o

Attraverso reperti provenienti da scavi diversi, il percorso si articolerà in tre sezioni: i luoghi della vita di Cristo (Betlemme, Nazareth, Cafarnao, Tabga, Cana, Tabor, Dominus Flevit, Getsemani, Santo Sepolcro); il tempo di Gesú (il potere, la società, la vita quotidiana, il primo cristianesimo); le collezioni archeologiche della Custodia. La progettazione espositiva è stata accompagnata dalla catalogazione completa (e ricatalogazione) dei reperti provenienti dagli scavi condotti dai Francescani e dagli archeologi che hanno fatto capo al loro Studium Biblicum in oltre centocinquant’anni di attività. Si tratta di un database in formato elettronico, accessibile a tutti gli studiosi, di straordinario interesse per la ricostruzione della storia della città e della Terra di Israele. «Al nucleo del convento della Flagellazione – spiega l’architetto Giovanni Tortelli – si aggiungerà il Museo Storico della presenza francescana in Terra Santa, che troverà spazio in ambienti del convento di S. Salvatore, dei quali è in corso il recupero funzionale. In questa pagina: Gerusalemme, convento della Flagellazione. Alcuni momenti della risistemazione degli ambienti per l’allestimento del Terra Sancta Museum. Nella foto in basso, sulla sinistra, padre Eugenio Alliata, l’archeologo di Terra Santa a cui è stato assegnato il «Premio Internazionale Per la Ricerca sui Beni Culturali Padre Michele Piccirillo».

Attraverso preziosi materiali gelosamente conservati in otto secoli, il percorso narra la storia della Custodia, mettendone in evidenza l’origine, la missione, l’attività di conservazione e tutela dei luoghi santi, la liturgia, l’assistenza ai pellegrini». Si potrà visitare la farmacia, completamente riallestita, con oltre 400 vasi in maiolica savonese e veneziana del Seicento; saranno esposti dipinti su tavola, preziose oreficerie francesi, spagnole, napoletane; paramenti liturgici. All’interno del convento verà infine recuperata anche l’antica e suggestiva cantina francescana, che ospiterà una zona di ristoro. Ultimata la realizzazione, il percorso di visita si articolerà in due complessi distinti, poli del tessuto della Città Vecchia utilizzati senza interruzione dalla preistoria. Gli edifici stessi, con la loro stratigrafia e le loro destinazioni storiche sono oggetto di visita e di studio. I collegamenti fra una sede e l’altra passano fra i vicoli della struttura ottomana at visibile, includendo l’area del Santo Sepolcro, perno ideale della presenza francescana e cuore memoriale del valore di Gerusalemme per l’intera ecumene cristiana. Renata Salvarani

DOVE E QUANDO Terra Sancta Museum Gerusalemme, convento della Flagellazione, via Dolorosa 1 Orario ott-mar: tutti i giorni, 9,00-17,00; apr-set: tutti i giorni, 9,00-18,00 Info www.terrasanctamuseum.org



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MOSTRE Parigi

MERAVIGLIE DALL’ORIENTE CRISTIANO

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econdo i Vangeli, teatro della predicazione di Cristo furono l’allora Giudea romana e la Galilea e la nuova religione che da quell’esperienza prese le mosse si diffuse inizialmente fra il Mediterraneo e l’Eufrate, lungo il Nilo e sulle rive del Bosforo. E oggi i cristiani del Vicino e Medio Oriente sono parte essenziale di un mondo arabo che hanno contribuito a formare. Da queste premesse nasce il nuovo progetto espositivo dell’Institut du monde arabe, di cui ci parla Elodie Bouffard, curatrice della mostra. Dottoressa Bouffard, che cosa ha motivato la scelta di un tema oggi cosí impegnativo? «Nelle sale dell’IMA che accolgono la mostra abbiamo voluto ripercorrere una lunga storia, per ricordare, innanzitutto, che il cristianesimo è nato in Oriente. Per illustrare come i cristiani abbiano partecipato alla costruzione del mondo arabo con la loro fede, con il loro ruolo culturale e politico. Per mostrare come le basi del

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cristianesimo siano state gettate nei primi sei secoli della nostra era, con la frattura del mondo cristiano sulla definizione delle due nature, divina e umana, di Cristo: una questione dibattuta nei concili di Nicea (325), Efeso (431), Calcedonia (451). Sei capolavori, riuniti nella medesima vetrina – eseguiti in Libano, Giordania, Palestina, Siria, Iraq ed Egitto –, introducono in un mondo spesso poco noto».

La prima parte dell’esposizione è in effetti molto suggestiva… «Sí, è davvero emozionante poter ammirare i due rari affreschi del III secolo d.C., provenienti dalla chiesa piú antica del mondo, scoperta a Dura-Europos, in Siria, nel 1920. In uno dei due dipinti, Cristo viene per la prima volta rappresentato senza aureola, mentre compie il miracolo del paralitico. Ma ci sono altre meraviglie come il manoscritto siriano di Rabbula (VI secolo), proveniente da Firenze, nel quale troviamo la prima immagine conosciuta della Crocifissione, conservata dai maroniti: vi si vede Cristo crocifisso, vestito del suo mantello come un prete nel tempio, rappresentato con l’aureola e insanguinato, a significare la natura umana di Dio come stabilito dal concilio di Nicea del 325. Un altro reperto, unico nel suo genere, è un mosaico proveniente dalla Giordania, nel quale una scritta in arabo costituisce la sola testimonianza fino a oggi nota di cristianizzazione araba prima della conquista. Siamo


Nella pagina accanto, in alto: frammento di un’icona egiziana con rappresentazione di Cristo. Encausto su legno, VII-VIII sec. d.C. Atene, Museo Benaki. Nella pagina accanto, in basso: piatto con raffigurazione di un santo cavaliere, forse san Giuliano di Emesa, protettore della città di Emesa, odierna Homs. Argento sbalzato e inciso, VII sec. d.C. Londra, Collezione George Antaki. A destra: particolare di una miniatura dall’evangelario di Rabbula. VI sec. d.C. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

in un mondo in cui si parla l’aramaico, ma dove gli idiomi in effetti sono molti». Quali erano le lingue piú diffuse? «Grazie a san Paolo, che era un Ebreo ellenizzato, ci si apre al greco, che in seguito passerà il testimone al latino. Nei secoli, le popolazioni autoctone, in maggioranza cristiane, adotteranno la lingua araba integrandola nella celebrazione della messa, mantenendo però nei canti liturgici gli idiomi tradizionali, il copto in particolare (l’antico egizio), che scompare soltanto nel XVI secolo». Una tappa affascinante è il monachesimo. Come si spiega questo fenomeno? «Il monachesimo nasce in Egitto, nel III secolo. Pacomio sceglie di ritirarsi dal mondo e di installarsi nel deserto, per condurre una vita a immagine di quella di Cristo, nella castità e nella povertà. Fonda il primo monastero nel 323, nel Sud dell’Egitto, dove crea una comunità di monaci che seguono le sue regole: un modo di vivere che si diffonde rapidamente anche fuori dall’Egitto. Si possono, per esempio, ammirare in mostra le

immagini dei resti di una chiesa, situata a nord di Aleppo, in Siria, che fu consacrata a san Simeone lo Stilita, vissuto nel V secolo. Si racconta che il monaco rimase seduto per trentasette anni in cima a una colonna (stylos in greco), alta 17 m. Le sue doti taumaturgiche attiravano pellegrini da ogni dove, e intorno alla celebre colonna sorse un’immensa chiesa di 12mila mq».

Dopo le Crociate, la protezione dei cristiani d’Oriente costituí una posta in gioco di primo piano per le relazioni diplomatiche europee… «Con la presa di Costantinopoli da parte dei Turchi, nel 1453, i cristiani diventano sudditi dell’impero ottomano. Non ci sono piú frontiere, c’è un’unica amministrazione, e l’economia ne trae vantaggio. Nel 1528 Solimano

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rivolto ai cristiani orientali. Tuttavia, la Congregazione della Propaganda Fide, creata nel 1662 per operare nelle missioni cattoliche orientali, ebbe l’effetto di frammentare ulteriormente il cristianesimo del Levante». Ci avviciniamo ai giorni nostri… «Nel 1856 il sultano ottomano abolisce lo status di dhimmi (letteralmente, protetti: sudditi non musulmani di uno Stato islamico ai quali era accordata una relativa libertà personale e di culto, n.d.r.), ma appena quattro anni piú tardi, a

INCONTRO CON PADRE

Quasi un esodo

In alto: calice in argento e oro, proveniente dal tesoro di Attarouthi, da Attarouthi (Siria). 500-650 d.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

Nella pagina accanto: pisside in lega di rame con decorazioni incise in argento. 1225-1250 circa. New York, Metropolitan Museum of Art.

il Magnifico, con un atto (firman) presente in mostra, accorda a Francesco I, re di Francia, il privilegio di essere il protettore dei cristiani latini. Questi ultimi si impiantano cosí in Oriente, mentre i cristiani orientali svolgono il ruolo di mediatori. È un patto commerciale che rilancia il pellegrinaggio in Terra Santa, con importanti ricadute economiche».

Qual è, in questo quadro, la posizione del papa? «Il pontefice si interessa sempre piú ai cristiani d’Oriente. Favorisce l’insegnamento dell’arabo e la traduzione dei libri in questa lingua. La fondazione a Roma di un collegio greco nel 1576, e poi di uno maronita nel 1584, permettono di sviluppare un particolare insegnamento cattolico

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Nel 2014, quando Mosul cade nelle mani dell’ISIS, migliaia di cristiani fuggono dalla pianura di Ninive, nel Nord dell’Iraq. È allora che padre Michaeel Najeeb – che quell’esperienza ha raccontato nel recente Sauver les livres et les hommes (edito in Francia da Grasset) – salva migliaia di antichi manoscritti destinati alle fiamme dagli estremisti islamici. In occasione della mostra «Cristiani d’Oriente», attualmente in corso all’Institut du monde arabe, lo abbiamo incontrato, chiedendogli di raccontare la sua avventura. Padre Najeeb, dal suo convento, a Mosul, lei ha potuto osservare gli eventi di questi ultimi anni e cogliere i segnali di ciò che sarebbe accaduto…


Damasco, 12mila cristiani vengono massacrati. Ci furono in seguito altre stragi, in un disegno politico volto a sbarazzarsi di elementi considerati estranei all’impero». Come si può, oggi, essere arabi e cristiani? «Non dimentichiamo che attualmente ci sono piú credenti e praticanti in Egitto che in Francia. Abbiamo voluto esporre una serie di foto contemporanee, per mostrare i visi di chi, nonostante tutto, continua la propria esistenza quotidiana nell’ambito della

famiglia, partecipando a una festa di matrimonio, andando al bar, bevendo un caffé». Daniela Fuganti

percorro il Paese in lungo e in largo per scovare capolavori nascosti». Degli ottomila manoscritti digitalizzati, la metà non esiste piú, distrutta dall’ISIS. Quelli che rimangono sono oggi al sicuro a Erbil, nel Kurdistan iracheno. Com’è riuscito a salvarli? «Nel 2007, Mosul era diventata troppo pericolosa e allora trasferimmo la nostra preziosa biblioteca nel convento domenicano della vicina Qaraqosh, ritenuta piú sicura». Non per molto, visto che nel 2014 gli uomini dell’ISIS hanno occupato Mosul, e, subito dopo, Qaraqosh… «In effetti, alla fine di luglio del 2014, una decina di giorni prima che le due città si arrendessero, ci rendemmo conto che la situazione stava precipitando, e improvvisammo il gigantesco trasloco dei nostri tesori: quadri, manoscritti e incunaboli, da Qaraqosh a Erbil, distante 70 chilometri, ripromettendoci di fare un secondo trasferimento la settimana seguente. Si è trattato in effetti d’un viaggio compiuto nella notte fra il 6 e il 7 agosto, ma non cosí come avevamo previsto». Che cosa è accaduto in quella notte ? «Ero rimasto a Qaraqosh con altri due fratelli. Alle sei del mattino, un’esplosione svegliò la città. La sera, assordati dagli spari dei kalashnikov ormai vicini, sti-

pammo nella confusione piú totale il maggior mumero di manoscritti possibile nelle mie due macchine. Per ritrovarci, stracarichi, sulla sola strada che porta in Kurdistan, annegati nell’esodo delle popolazioni cristiane e yazide in fuga verso Erbil, in mezzo ai soldati curdi e agli ufficiali peshmerga che si ritiravano. All’ultimo si aprí la frontiera, che riuscimmo a varcare solo a piedi, con il nostro carico di incunaboli sulle braccia, fra le pallottole che ci fischiavano intorno e la bandiera nera dell’ISIS in lontananza. Ho pensato all’esodo di Mosè e del popolo ebraico». Come ha trovato Mosul dopo la liberazione dall’ISIS? «L’ISIS ha distrutto la storia di Mosul, l’antica Ninive, facendo saltare in aria la tomba del profeta Giona, simbolo della città: sotto le vestigia del XII secolo c’era una chiesa, posata su una sinagoga, a sua volta eretta sui resti del palazzo di Assurbanipal. Camminando ai piedi delle mura, ho inciampato in una lastra semisepolta, coperta di caratteri cuneiformi. Mentre la spolveravo con devozione, un vecchio mi ha detto: “Non preoccuparti, ci sono tante pietre come queste in città. Sono lí da sempre, e saranno ancora lí quando tu non sarai piú di questa terra”». D. F.

DOVE E QUANDO «Cristiani d’Oriente. Duemila anni di storia» Parigi, Institut du monde arabe fino al 14 gennaio 2018 Orario ma-ve, 10,00-18,00; sa-do e festivi: 10,00-19,00; chiuso il lunedí Info www.imarabe.org

MICHAEEL NAJEEB «Il mio convento a Mosul, dove sono rimasto fino al 2007, è sempre stato un punto di riferimento per me. Da bambino, passavo il tempo nella sala di lettura; la biblioteca, oggi distrutta, era il polmone culturale della regione, un luogo magico: alla metà del XIX secolo, i Domenicani avevano fatto venire dall’Europa la prima tipografia della regione, funzionante fino all’arrivo degli Ottomani, che hanno gettato i macchinari in fondo al Tigri. Il mio timore era che questo tesoro andasse un giorno perduto, cosí, negli anni Novanta, mi sono improvvisato bibliotecario, ho fatto un inventario e ho cominciato a digitalizzare piú di 8000 manoscritti». Lo ha fatto perché aveva un brutto presentimento? «All’inizio l’ho fatto per salvaguardare documenti di valore inestimabile. Testi di storia, di filosofia, di spiritualità cristiana e musulmana, di letteratura e musica, scritti in aramaico, siriaco, arabo, armeno, redatti fra il XIII e il XIX secolo; ma anche testi islamici, e i due libri sacri degli yazidi, la piú antica e straordinaria religione monoteista, insediata in Mesopotamia fin dal III millennio, che ha influenzato il giudaismo, il cristianesimo e l’Islam. Nel 1990 ho fondato il CNMO (Centro Digitale dei Manoscritti Orientali) e da venticinque anni

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

DALL’ABRUZZO AL MAR NERO Nel 2017 è caduto il bimillenario della morte del celebre poeta latino Ovidio; una ricorrenza che ha risvegliato l’interesse nei suoi confronti (vedi l’articolo di Roberto Andreotti alle pp. 66-80). La nostra rubrica si associa dunque alla rievocazione, presentando il materiale filatelico che riguarda l’autore delle Metamorfosi. Al poeta si riferiscono direttamente solo due francobolli, emessi entrambi nel 1957, in occasione del bimillenario della nascita: quello italiano, accompagnato da un bell’annullo rievocativo di Sulmona, città ove Ovidio nacque nel 43 a.C., in cui è riportato un suo verso «Sulmo mihi patria est» (1), e quello romeno che riprende la statua di Ovidio in piazza Indipendenza a Costanza, la romana Tomi (2), sul Mar Nero, dove morí nel 17 d.C., dopo circa dieci anni di esilio. Il poeta è però presente su un altro francobollo di Romania della serie turistica del 1960 (3) e lo stesso bozzetto illustra una cartolina postale con annullo che celebra il Congresso internazionale di studi ovidiani (4). Poi ci sono due buste postali, sempre di Romania, che riproducono la medesima statua: una turistica, che mostra piazza Indipendenza (5), e una che ricorda i 2500 anni della nascita della città di Tomi e i 2250 della sua prima citazione storiografica, anche questa con relativo annullo (6). A Ovidio possiamo anche riferire altri due francobolli. Uno è della Repubblica Popolare di Kampuchea (una volta Cambogia), che raffigura, tra gli altri, tre poeti nella parte 7 bassa a destra del Parnaso di Raffaello: da sinistra, si vedono Orazio seduto, Ovidio al centro, con la mano sul mento, e Jacopo Sannazzaro (7) a destra (l’ingrandimento – 7a – permette di apprezzare meglio il particolare). Infine, c’è un riferimento preciso all’opera piú famosa di Ovidio, insieme alla Ars Amandi, e cioè le Metamorfosi. Si tratta di un francobollo della serie «Vedere i classici», emessa dal Vaticano nel 1997, che ricorda, oltre a varie opere di Aristotele, Omero, Tito Livio e Terenzio, proprio le Metamorfosi, con l’immagine di Bacco a cavallo di un drago che si riflette in uno specchio (8).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it





CALENDARIO

Italia ROMA L’Etruria di Alessandro Morani

Riproduzioni di pitture etrusche dalle collezioni dell’Istituto Svedese di Studi Classici a Roma Istituto Centrale per la Grafica fino al 04.02.18

GENOVA Contatti con il passato Il disco lunare di Libarna Museo di Archeologia Ligure fino all’11.02.18

GROSSETO, MANCIANO Marsiliana d’Albegna

Costruire l’Impero, creare l’Europa Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 16.09.18

Dagli Etruschi a Tommaso Corsini Museo Archeologico e d’Arte della Maremma Museo di Preistoria e di Protostoria della Valle del Fiora fino al 31.12.17

AOSTA Pietra, carta, carbone

LIDO DI JESOLO Egitto. Dei, faraoni, uomini

Traiano

I frottages di stele di Ernesto Oeschger e Elisabetta Hugentobler Area Megalitica di Saint-Martin-de-Corléans fino al 06.05.18

CAPACCIO PAESTUM (SA) Action painting Rito & arte nelle tombe di Paestum Museo Archeologico Nazionale fino al 31.12.17

Le armi di Athena

Spazio Aquileia 123 fino al 15.09.18 (dal 26.12.17)

MILANO Terra Santa

800 anni di presenza francescana a Gerusalemme Biblioteca Braidense (Sala Maria Teresa) fino al 23.12.17

Egitto

Il Santuario settentrionale di Paestum Museo Archeologico Nazionale fino al 31.03.18

La straordinaria scoperta del Faraone Amenofi II MUDEC, Museo delle Culture di Milano fino al 07.01.18

CAVRIGLIA (AR) Mithra

MODENA Mutina Splendidissima

CERVETERI Il Patrimonio Ritrovato a Cerveteri

MONTALTO DI CASTRO (VT) Egizi Etruschi

Un dio orientale in Valdarno Auditorium del Museo Mine fino al 31.12.17

I Predatori dell’Arte e... le storie del recupero Case Grifoni (centro storico) fino al 07.01.18 (prorogata)

FINALE LIGURE BORGO (SV) Ad fines. 500 miglia da Roma Al tempo dei Romani nel Finale Museo Archeologico del Finale fino al 03.06.18

FIRENZE Acque Sacre

Culto etrusco sull’Appennino toscano Consiglio regionale fino al 20.01.18

Pretiosa vitrea

L’arte vetraria antica nei musei e nelle collezioni private della Toscana Museo Archeologico Nazionale di Firenze fino al 29.01.18 34 a r c h e o

La città romana e la sua eredità Foro Boario fino all’08.04.18

La stele di Leida, con Thutmosi III e Amenofi II.

Da Eugene Berman allo Scarabeo dorato di Vulci Complesso Monumentale di S. Sisto fino al 30.11.17 (prorogata)

NAPOLI Diario mitico

Cronache visive sulla Collezione Farnese Museo Archeologico Nazionale fino al 09.01.18

Longobardi

Un popolo che cambia la storia Museo Archeologico Nazionale fino al 25.03.18

SEGNI (ROMA) Dalla camera oscura alla prima fotografia

Architetti e archeologi a Segni da Dodwell a Ashby e Mackey Museo Archeologico Comunale fino al 07.01.18


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

SUTRI (VITERBO) Sutri, Vulci e i misteri di Mitra Culti orientali in Etruria Villa Savorelli fino al 13.05.18

TORINO Missione Egitto, 1903-1920 L’avventura archeologica M.A.I. raccontata Museo Egizio fino al 14.01.18

Odissee

Diaspore, invasioni, migrazioni, viaggi e pellegrinaggi Palazzo Madama fino al 19.02.18

TRIESTE Nel mare dell’intimità

L’archeologia subacquea racconta l’Adriatico ex Pescheria, Salone degli Incanti fino all’01.05.18 (dal 17.12.17)

VICENZA Le ambre della principessa

Storie e archeologia dall’antica terra di Puglia Gallerie d’Italia, Palazzo Leoni Montanari fino al 07.01.18

VILLANOVA DI CASTENASO (BO) Villanova e Verucchio Un’antica storia comune MUV-Museo della civiltà Villanoviana fino al 10.06.18

Francia PARIGI Cristiani d’Oriente

Duemila anni di storia Institut du monde arabe fino al 14.01.18

Il Perú prima degli Inca

Musée du quai Branly-Jacques Chirac fino all’01.04.18

ARLES Il lusso nell’antichità

Tesori della Bibliothèque nationale de France Musée départemental Arles antique fino al 21.01.18

LENS Musiche!

Echi dell’antichità Musée du Louvre-Lens fino al 15.01.18

Germania BERLINO Una pericolosa perfezione Antichi vasi funerari dall’Apulia Altes Museum fino al 21.01.18

In alto: coppa apula raffigurante Frisso che cavalca l’ariete dal vello d’oro, da Ceglie del Campo. IV sec. a.C. In basso: placca di pettorale scitico in oro a forma di pantera.

Gran Bretagna LONDRA Gli Sciti

Guerrieri dell’antica Siberia The British Museum fino al 14.01.18

Olanda LEIDA Ninive

Cuore di un antico impero Rijksmuseum van Oudheden fino al 25.03.18

Svizzera SCIAFFUSA Etruschi

Una grande civiltà antica all’ombra di Roma Museum zu Allerheiligen fino al 04.02.18 a r c h e o 35


CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli

OCCHIO ALLA LETTERA! LA SCOPERTA DEL SANTUARIO DEDICATO AD ARTEMIDE AMARYSIA, IN EUBEA, DA PARTE DI UNA ÉQUIPE DI RICERCATORI SVIZZERI E GRECI CONCLUDE UNA LUNGA SERIE DI RICERCHE, COMINCIATE OLTRE UN SECOLO FA

L’

archeologia richiede pazienza e costanza: l’ultima conferma viene dall’équipe di ricercatori svizzeri e greci che ha dovuto attendere oltre un trentennio prima di poter affermare di aver localizzato il santuario di Artemide ad Amarynthos, a piú di un secolo dalle prime indagini volte a individuarlo. Ma facciamo un lungo passo indietro. Siamo sull’isola di Eubea, davanti alle coste orientali dell’Attica. Le fonti antiche raccontano che a Eretria si svolgevano feste solenni in onore di Artemide Amarysia, feste che, per la loro antichità e importanza, erano una celebrazione essenziale nella storia della città: il testo di una legge del IV secolo a.C., che mirava a impedire i rovesciamenti del sistema democratico, prevedeva che in due momenti dell’anno i sacerdoti e le sacerdotesse pronunciassero maledizioni contro chiunque avesse attentato alla sicurezza pubblica; e una delle due occasioni era proprio la celebrazione delle feste in onore di Artemide. Al passaggio tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., il geografo Strabone riferisce di un’iscrizione esposta nel santuario di Artemide: durante queste feste aveva luogo una parata militare imponente, in

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Amarynthos (Eretria, Eubea). La stele sulla quale è inciso il testo di una legge del IV sec. a.C. nella quale si regolamentava lo svolgimento delle feste in onore di Artemide.

GRECIA

Mare Egeo

Amarynthos Atene

Mar Ionio

cui sfilavano perlomeno 3000 opliti, 600 cavalieri e 60 carri da guerra. La processione, la cui fama andava ben oltre l’Eubea, partiva dalla città di Eretria e, passando per una via sacra che costeggiava il litorale, giungeva al santuario di Artemide (Artemision) ad Amarynthos. Una fortunata circostanza ha permesso di rinvenire la stele contenente la legge sacra, in cui la città di Eretria, «finalmente sovrana, libera e prospera» (poiché appena affrancatasi dal giogo ateniese dopo un buio periodo di colpi di Stato e guerre civili), regolamenta le feste in onore della dea, denominata con gli appellativi «colei che si tiene nel mezzo» (Metaxy) e «custode e guardiana» (Phylake). Riacquistata la libertà, la città di Eretria


A sinistra: Amarynthos. Il cantiere di scavo aperto sulla collina di Paleoekklisies, che ha permesso di localizzare delle strutture identificabili con il santuario in onore di Artemide Amarysia. In basso: due membri dell’équipe elvetica che opera ad Amarynthos nel corso dello scavo.

ringrazia cosí Artemide, dedicandole competizioni musicali per le quali erano previsti anche premi in denaro, che attraevano artisti da tutto il mondo ellenico.

UN CULTO ANTICHISSIMO Il santuario di Artemide ad Amarynthos era forse il principale di tutta l’Eubea e Artemide la divinità piú rilevante nel pantheon di Eretria: nel II secolo a.C. l’effigie di Artemide Amarysia appare sul rovescio delle coniazioni cittadine e il suo culto ad Amarynthos potrebbe addirittura risalire al periodo miceneo, quando è attestato il nome A-ma-ru-to. Tuttavia, nonostante la sua centralità, l’identificazione di questo luogo sacro è stata a lungo argomento di dibattito. Fino al XIX secolo, vi erano pochi dubbi che l’Artemision di Amarynthos si trovasse a poca distanza da Eretria: Strabone riferisce infatti che il

villaggio di Amarynthos si trova ad appena 7 stadi (poco piú di 1 km) dalle mura cittadine. Due missioni archeologiche, agli inizi del Novecento, non riuscirono però a individuare il santuario, mentre venivano avanzate le prime ipotesi che l’Artemision potesse trovarsi piú lontano da Eretria. A questo punto entra in scena lo storico ed epigrafista svizzero Denis Knoepfler, oggi professore emerito

dell’Università di Neuchâtel, il quale, dallo studio approfondito dei dati disponibili, concluse che il testo di Strabone andava emendato a causa di un errore nella trasmissione del testo: un copista bizantino doveva aver confuso la lettera zeta (7 nella numerazione alfabetica greca) con la lettera xi (60), di aspetto molto simile, che si trovava nel suo modello manoscritto. E se gli stadi

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survey su larga scala nell’area della collina, condotto da Sylvian Fachard e Pierre Gex. I promettenti risultati portarono, nel 2006, alle prime trincee di scavo, mentre il rinvenimento, nel 2007, delle fondazioni di un grande edificio fece sperare di essere nel punto giusto. Negli anni successivi, l’acquisto di terreni, grazie al sostegno del governo elvetico, della Fondazione della Famiglia Sandoz e della Fondazione Isaac Dreyfus-Bernheim, ha permesso di estendere le ricerche su un’area di oltre 4000 mq e di inaugurare un vero e proprio programma di In alto: i muri laterali della fontana monumentale, cosí come sono apparsi, in fase di crollo. A destra: la fontana monumentale durante i lavori di scavo e sostegno delle murature. diventavano 60, ci si doveva spostare a circa 11 km da Eretria, giungendo alla regione di una collina nota come Paleoekklisies («le chiese vecchie»). L’ipotesi di Knoepfler, presentata a Parigi nel 1988, fu accolta con favore; ma, a complicare le cose, intervenne la scoperta di un deposito contenente abbondante ceramica e numerosi oggetti fittili, effettuata dal Servizio Archeologico Greco in una località a circa 800 m di distanza dalla collina. Il rinvenimento non solo distolse l’interesse dalla zona di Paleoekklisies, ma sembrò confermare che il santuario andava cercato in quell’altra località.

I PRIMI INDIZI Denis Knoepfler, tuttavia, non perse le speranze di poter investigare la collina di Paleoekklisies. In collaborazione con la Soprintendenza d’Eubea, nel 2003 la Scuola Svizzera di Archeologia ha iniziato un programma di

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scavo, oggi diretto da Knoepfler stesso, da Karl Reber, Tobias Krapf, Thierry Theurillat (Scuola Svizzera di Archeologia e Università di Losanna) e in collaborazione con Amalia Karapaschalidou (Eforia d’Eubea). I risultati sono stati sorprendenti: il sito, occupato fin dall’età del Bronzo, fu monumentalizzato già in età arcaica. In epoca classica furono costruiti un edificio in antis (un probabile oikos) e soprattutto, nella seconda metà del IV secolo a.C., un imponente porticato, della lunghezza di oltre 50 m. Questo porticato aveva un colonnato dorico in facciata, una In alto: una delle iscrizioni con dedica ad Artemide. A sinistra: il muro di fondo, in crollo, di un edificio di funzione ancora ignota: potrebbe trattarsi di un’esedra o forse di un portico.

fila di colonne centrali e un possente muro di fondo ben conservatosi; davanti a esso si apriva un vasto spiazzo, molto probabilmente il cuore dell’area. Nel III secolo a.C. al colonnato fu aggiunta una banchina di pietra sul muro di fondo, mentre in una fase successiva fu realizzato un ampio ingresso con propilo sul lato nord-orientale; il rinvenimento di basi per monumenti votivi ne sottolinea la centralità e la rilevanza. Durante la tarda età ellenistica, in uno spiazzo retrostante la corte centrale venne costruito un edificio di funzione

ignota (un’esedra? un altro portico?), i cui blocchi del muro di fondo sono crollati in maniera scenografica.

LA PROVA REGINA Il rinvenimento di frammenti di sculture, iscrizioni, ceramica e monete arricchisce questo complesso quadro, che lascia senza dubbio pensare che si è in presenza di un santuario. Ma ciò che mancava, finora, era una prova decisiva che permettesse di attribuirlo ad Artemide. La costanza dell’équipe è stata finalmente premiata nell’estate

scorsa. Durante lo scavo di una fontana di età ellenistica – che in età imperiale fu monumentalizzata con due gradinate laterali di accesso –, sono state rinvenute tegole recanti il bollo «di Artemide» e almeno due iscrizioni che menzionano, assieme alla dea, anche suo fratello Apollo e la madre Latona. Il ritrovamento non lascia spazio ad alcun dubbio: l’Artemision di Amarynthos, lo spazio sacro in cui la città di Eretria celebrava la sua storia e le sue imprese, è stato ritrovato. Il sostegno della Fondazione Svizzera per la Ricerca Scientifica permette di aprire adesso un altro importante capitolo nella storia di queste indagini. Gli scavi proseguiranno l’estate prossima e, si spera, per alcuni anni ancora. I ricercatori auspicano di riuscire a dare un volto ancora piú preciso a questo lieu de mémoire di Eretria, magari individuando il tempio della dea, e a chiarire ulteriori aspetti dei culti e della storia dell’Eubea.

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SCOPERTE • ARMENIA

NELLA TERRA DEI

DRAGHI GIGANTI

Armenia, Monti Gheghama. Arsen Bobokhyan, condirettore armeno del progetto, lavora alla documentazione di un vishap a vello caprino insieme all’autrice del presente articolo. 40 a r c h e o


L’ALTIPIANO DELL’ARMENIA È COSTELLATO DA UNA FITTA RETE DI VESTIGIA PREISTORICHE, TRA CUI SPICCANO LE MISTERIOSE E MONUMENTALI SCULTURE «A FORMA DI PESCE»: A QUANDO, ESATTAMENTE, RISALGONO E QUALE ERA LA LORO FUNZIONE? UNA MISSIONE ARCHEOLOGICA ITALIANA, ARMENA E TEDESCA INDAGA… di Alessandra Gilibert

L

e montagne del Caucaso, alle cui rocce la tradizione classica volle vedere inchiodato Prometeo, sono da sempre un luogo del mito, una regione arcaica e selvaggia, caparbiamente resistente ai grandi imperi che, a partire dal regno di Urartu nell’VIII secolo a.C.,

tentarono di domarne le genti. Leggende medievali tramandate dai codici miniati custoditi nel Matenadaran, il prezioso Museo dei Manoscritti di Erevan, narrano che le cime dei monti armeni siano popolate da draghi giganti, signori delle tempeste e custodi delle sacre sor-

genti. La tradizione popolare, ancora viva tra i pastori del luogo, vede questi esseri semidivini personificati in stele megalitiche decorate a rilievo, che si trovano in certi grandi pascoli d’alta quota e che infatti sono comunemente chiamate «vishap» («drago», in armeno).

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SCOPERTE • ARMENIA

Originariamente eretti in posizione verticale, i vishap sono imponenti monoliti di basalto lavorato alti fino a 5 m. Ne esistono essenzialmente di due tipi: nel primo, la pietra è levigata secondo la forma di un parallelepipedo irregolare. Su di esso viene rappresentato il vello drappeggiato d’un capride, completo di testa a corna ricurve e zampe pendenti. Si tratta verosimilmente della commemorazione su pietra di una pratica religiosa che prevedeva il sacrificio di un capride e l’esposizione della sua pelle scuoiata. Il secondo tipo di vishap, assai diverso, è lavorato a tutto tondo a forma di pesce, con branchie e pinne, ed è anatomicamente affine a una carpa, a un luccio o a un pesce-siluro. In questo caso, piú che della commemorazione di un atto simbolico, In alto: cartina della regione caucasica, con, in evidenza, circoscritta dal tratteggio, l’area di diffusione dei vishap. Nella pagina accanto: particolare del rilievo di un vishap a vello caprino rinvenuto nel cantiere D del sito di Karmir Sar, sul Monte Aragats.

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In basso, a sinistra: un vishap a vello caprino rinvenuto nei pressi del passo Selim (2400 m), oggi spostato nel parco di Yeghegnadzor. Si riconoscono tre strisce ondulate che si dipartono dal muso dell’animale: potrebbe trattarsi della rappresentazione stilizzata ed enfatizzata della lunga barba di un becco anziano (accanto al vishap, Pavol Hnila, condirettore tedesco del progetto). A destra: tavola tipologica riassuntiva dei vishap.


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SCOPERTE • ARMENIA

sembra trattarsi della rappresentaA destra: zione di un animale sacro, forse lel’incontro dei gato a un culto delle sorgenti mon- ricercatori con un tane. Talvolta, le due iconografie pastore locale. appaiono combinate sulla medesi- Momenti simili si ma stele, con la pelle del capride sono rivelati drappeggiata sul ventre del pesce, preziosi, poiché dimostrando cosí che si tratta di un hanno portato unico fenomeno artistico e cultura- all’individuazione le. Come si vedrà, ricerche recentisdi numerosi sime hanno dimostrato che esso rivishap. sale quanto meno al III millennio a.C., ma è forse considerevolmente

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piú antico. Si tratta, in ogni caso, di uno straordinario e misterioso esempio di arte monumentale preistorica in alta montagna, senza paragoni in tutto il Vicino Oriente.

PAESAGGI D’ALTA QUOTA Quasi sempre innalzati presso sorgenti che sgorgano tra i 2000 e i 3000 m, la distribuzione altimetrica dei vishap li rende di difficile accesso e ha a lungo scoraggiato ogni indagine sul campo. A partire dal

2012, tuttavia, una missione archeologica italiana, armena e tedesca affronta la complessa logistica organizzativa richiesta per indagini d’alta quota e conduce uno studio sistematico del fenomeno, con ricognizioni di superficie su larga scala nell’odierna Armenia centro-occidentale e con cantieri di scavo presso il sito di Karmir Sar, sulle pendici meridionali del Monte Aragats. Le ricognizioni hanno consentito di mappare con precisione la posizio-

Sulle due pagine: veduta da Nord del sito di Karmir Sar con, in primo piano, le sorgenti. In basso: una delle prime fotografie di un vishap, scattata dagli studiosi russi Nikolaj Marr e Iacov Smirnov. 1909.

LE PRIME ESPLORAZIONI L’esistenza di stele scolpite a forma di pesce nella regione che va da Erzurum al Lago Sevan fu per la prima volta menzionata nella letteratura di viaggio della fine dell’Ottocento. In quel periodo, gli eruditi armeni iniziarono a praticare un escursionismo a sfondo nazionalistico nelle montagne che, al termine delle ultime guerre russo-turche (1878), erano passate dall’impero ottomano alla sovranità russa. La svolta nella storia della ricerca avviene con Les Vishaps, pubblicato in francese a Mosca nel 1931 da Nikolaj Marr, celebre archeologo e linguista di origini georgiane. Lo illustrano diciotto preziose tavole fotografiche risalenti a domeniche d’estate del 1909-1910, quando Marr, accompagnato dal collega Iacov Smirnov, seguí le indicazioni di un guardiaboschi e documentò, durante esplorazioni a cavallo, alcuni vishap sui monti Gheghama, a est dell’odierna Erevan. Les Vishaps, oggi quasi introvabile, rimane l’unica monografia dedicata al fenomeno basata su osservazioni sul campo.

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SCOPERTE • ARMENIA

ARCHEOLOGIA E SCIENZA Le ricerche a Karmir Sar si avvalgono della presenza sul campo di una squadra multidisciplinare, che comprende, accanto ad archeologi di tre nazionalità e diversa specializzazione, un geofisico, un paleobotanico, un geologo e un architetto. Oltre a elaborare i dati spaziali in un sistema informativo territoriale digitale e a documentare lo scavo attraverso ricostruzioni 3D di ogni contesto, sul sito vengono condotte prospezioni geomagnetiche, georadar e geoelettriche per individuare strutture architettoniche invisibili all’occhio nudo. Tra queste, è stato recentemente scoperto quello che sembra essere un insediamento preistorico circolare del diametro

di oltre 100 m, che sarà oggetto di scavo nella campagna del prossimo anno. I frammenti di legno preistorico (acero, betulla, olmo, pino silvestre) vengono studiati dal Labor für Quartäre Hölzer (Svizzera) e dal Weizmann Institute of Science (Israele), dove i campioni vengono sottoposti ad analisi radiometriche. Infine, la composizione chimica dell’importante collezione di ritrovamenti in ossidiana viene rilevata con metodi non distruttivi, usando un analizzatore a fluorescenza a raggi X: i risultati delle analisi rivelano l’esatta provenienza dei materiali in questione, che originano da almeno sette giacimenti diversi, tra cui una fonte localizzata a 200 chilometri di distanza dal sito.

Karmir Sar. Un momento delle indagini geomagnetiche condotte sul sito dal geofisico Harald von der Osten.

Kamir Sar. Due archeologi armeni tentano di telefonare dalla sommità di uno dei panoramici crinali del sito, l’unico punto da cui si può comunicare con la valle.

ne di 91 vishap, la maggioranza dei quali era sinora sconosciuta. Integrando questi risultati con lo spoglio della letteratura antica e moderna, si è capito che il fenomeno aveva il suo epicentro in Armenia, nelle montagne che circondano la pianura del fiume Araks, ma si estendeva anche alle alte terre della Turchia orientale e della Georgia meridionale. In questa macroregione, i pascoli d’altura, molto al di sopra del limite degli alberi, sono liberi dalla neve solo d’estate, da fine giugno a ottobre inoltrato. In Armenia, questi luoghi sono oggi 46 a r c h e o


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

A sinistra: Karmir Sar. Una veduta del cantiere F, con, in primo piano, l’archeologo Alessandro Galli. I vishap, qui, come altrove, sono situati in punti del terreno leggermente incassati, così da essere poco visibili da lontano.

frequentati da pastori seminomadi yazidi (gli Yazidi sono un gruppo religioso di origine e lingua curda, diffuso in tutto il Caucaso e soprattutto nel Kurdistan iracheno, n.d.r.; vedi anche «Archeo» n. 359, gennaio 2015) che vivono in tende, allevano cavalli e praticano la transumanza verticale con greggi di pecore.

CONDIZIONI ESTREME È una vita in costante lotta con un clima assai variabile, con forti escursioni termiche, tempeste improvvise e violente grandinate. La grande distanza dagli ultimi centri a r c h e o 47


SCOPERTE • ARMENIA

abitati costringe a organizzarsi senza energia elettrica e senza acqua corrente, alimentando le stufe con lo sterco essiccato delle greggi e basando la dieta quotidiana quanto piú possibile sulle risorse disponibili in loco: latticini, erbe selvatiche, funghi e, in occasioni particolari, carne di pecora. Tale è stata la vita dei pastori che li hanno preceduti nei secoli passati, come dimostrano i graffiti lasciati dai nomadi di lingua turca che frequentavano la regione nell’Alto Medioevo; e non vi è ragione di credere che molto diversa sia stata la vita di chi, andando indietro nei millenni, conduceva qui le sue greggi in epoca preistorica. Eppure, mentre le tracce lasciate dall’uomo sul terreno negli ultimi tremila anni 48 a r c h e o

consistono soprattutto in grandi lavori infrastrutturali (strade, canali, bacini idrici), le genti preistoriche investirono notevoli risorse nella costruzione di monumenti ad alto valore simbolico e religioso, di cui i vishap sono di gran lunga l’esempio piú antico e significativo.

RICERCHE SUL MONTE ROSSO L’obiettivo principe della missione archeologica in corso è quello di riuscire a risalire all’orizzonte cronologico originario di questi straordinari manufatti, investigando al contempo sia il loro contesto archeologico e paesaggistico sia la storia plurimillenaria della loro successiva recezione. Conclusa una prima fase di ricognizione territoriale, la mis-

sione si è concentrata sull’esplorazione archeologica e geofisica del sito di Karmir Sar. Karmir Sar (il «Monte Rosso», con riferimento al colore di un vicino cumulo di scorie vulcaniche) si trova a 2850 m di altitudine e dista 20 chilometri di impervia strada sterrata dall’ultimo villaggio ai piedi del Monte Aragats, un vulcano spento situato di fronte al piú noto Monte Ararat. Chi intraprende l’ascesa, giunge al piú esteso pascolo d’altura dell’intera regione, quaranta ettari di prato, favorito da due importanti sorgenti e significativamente costellato da una fitta rete di tracce preistoriche. Tra di esse si contano numerosi tumuli funerari del III e del II millennio a.C., diversi petroglifi e i resti di almeno undici vishap, tutti


Sulle due pagine: Pavol Hnila, condirettore della missione, documenta un vishap in una sessione fotografica notturna: in queste condizioni è possibile catturare ogni dettaglio della decorazione, spesso di difficile lettura alla luce diurna. A destra: schizzo del «vishap 1» di Karmir Sar; tra i molti graffiti sono stati individuati due simboli tribali a forma di lambda databili al XIII sec. d.C., e l’incisione picchiettata di un capride dalle lunghe corna, di epoca preistorica.

collassati a terra, ma perlopiú in buono stato di conservazione. Il sito si presta a esemplificare una caratteristica molto particolare di questi monumenti: nonostante Karmir Sar nel suo complesso sia un luogo ampio e panoramico, i vishap sono stati posizionati evitando i crinali del grande prato, in modo tale da essere invisibili da lontano. In altre parole, questi monumenti verticali di notevoli dimensioni non furono concepiti come punti di riferimento geografico, bensí come un’apparizione improvvisa al viandante, e al tempo stesso come qualcosa di intimamente collegato alla natura del sito e non, genericamente, all’intero paesaggio. Essi si concentrano presso le sorgenti, pur non essendovi immedia-

tamente adiacenti. Ogni singola stele, a Karmir Sar come altrove, sembra disposta senza apparente relazione con altre stele circostanti. Inoltre, leggere differenze nella fattura, nei dettagli stilistici e nelle scelte iconografiche suggeriscono che i monumenti non siano stati realizzati contemporaneamente, ma da mani di- ta a terra: tra essi, molto significativerse in momenti diversi. ve sono l’incisione picchiettata di un capride dalle lunghe corna, difficilmente databile ma certamente UNA STORIA precedente l’età del Ferro, e due PLURIMILLENARIA Come nel caso dei megaliti euro- graffiti tribali databili paleograficapei, anche a Karmir Sar i vishap mente al secolo XIII d.C. funzionarono per millenni come Gli scavi confermano che simili catalizzatori di significato e palinse- manipolazioni iniziano già in pesti di segni. L’esempio piú impres- riodo preistorico, fornendo indicasionante è offerto dal cosiddetto zioni essenziali per definire l’oriz«vishap 1», su cui si affollano simbo- zonte cronologico originario dei li aggiunti in seguito alla sua cadu- vishap. Il cantiere di scavo A ha a r c h e o 49


SCOPERTE • ARMENIA A sinistra: una veduta del cantiere A, che mostra un vishap a forma di pesce, (sulla destra, in basso), inglobato tra i resti dei tumuli di un complesso funerario dell’età del Bronzo. 2100 a.C. In basso: una veduta del cantiere C al termine di una pioggia torrenziale, con un vishap parzialmente sommerso dalle acque. I pascoli d’alta quota sono regolarmente colpiti da violenti temporali estivi.

documentato il riuso di un vishap a forma di pesce al centro di un tumulo facente parte di un complesso funerario del 2100 a.C., periodo durante il quale, nel Caucaso, si osserva l’affermarsi per la prima volta di un’aristocrazia guerriera e di una forte gerarchizzazione sociale. Questa data, basata sull’analisi al radiocarbonio di frammenti organici rinvenuti all’interno di una fossa sepolcrale, prova che il fenomeno dei vishap risale quanto meno al III millennio a.C., al termine del quale il significato originario dei manufatti era già completamente mutato, consentendone la ricontestualizzazione simbolica in nella quale fu riutilizzato il vishap un nuovo ordine sociale. del cantiere A copre una fossa rotonda relativamente piccola e molto diversa dalle camere funerarie I PRIMI MONUMENTI che caratterizzano il resto del comDEL CAUCASO Una datazione al III millennio a.C. plesso. In essa non sono stati rinvefa dei vishap i piú antichi monu- nuti manufatti, ma soltanto, sul fonmenti del Caucaso. Ma potrebbe do, un frammento carbonizzato di esserci di piú. La struttura circolare betulla, datato al radiocarbonio alla 50 a r c h e o

fine del VI millennio a.C. (52155035 a.C.). Un’ipotesi è che si tratti della fossa di fondazione originaria del vishap e che il carbone, attualmente la piú antica sicura testimonianza scientifica di una presenza umana nell’alta montagna del Caucaso, sia effettivamente da correlare con l’erezione della stele.


Un momento degli scavi nel cantiere D. È stato documentato un vishap collassato presso il luogo della sua collocazione originaria, circondato da poco piú che i resti dell’evento della sua erezione.

Ulteriori indizi provengono dai cantieri C e D, dove gli archeologi hanno potuto documentare e ricostruire il contesto originario di due vishap a vello di capra. Intorno a entrambi i vishap sono state infatti rinvenute lame microlitiche di ossidiana di una tipologia diffusa esclusivamente tra la seconda metà del VI millennio e l’inizio del IV millennio. Inoltre, negli strati superiori della fossa di fondazione del cantiere D è stato rinvenuto un frammento carbonizzato di legno di acero datato al radiocarbonio alla fine del V millennio (4265-4040 a.C.). La data potrebbe segnare il momento della caduta a terra del vishap. Queste osservazioni preliminari sono al momento sottoposte al vaglio critico di diversi esperti, e verranno integrate da ulteriori datazioni al radiocarbonio. Per ora ci si può limitare a ipotizzare che i vishap siano stele a rilievo risalenti addirittura al periodo di transizione tra il Neoli-

tico e il Calcolitico, quando i primi a terra, e quindi al radicale mutagruppi di pastori specializzati inizia- mento del loro contesto originario, si intuisce – da numerosissimi resti rono a sfruttare i pascoli d’altura. di strumenti d’ossidiana, da frammenti di ceramica e da una macina UN GRANDE EVENTO spezzata – che essi furono utilizzaCOLLETTIVO? Oltre al problema della datazione, è ti come panche di lavoro per attifondamentale cercare di compren- vità quotidiane, come la manufatdere quale possa essere il significato tura di semplici strumenti in pietra, di questi monumenti. Le ricerche a la preparazione del cibo e la lavoKarmir Sar illuminano in parte la razione delle pelli. questione. Gli scavi nei cantieri C e Se ne può dedurre che il significato D hanno dimostrato che i vishap dei vishap era intimamente conneserano in origine monumenti solita- so con l’evento della loro creazione, ri, senza ulteriori appendici archi- a cui si attribuiva certamente un tettoniche, eretti con la faccia prin- significato importante. In un amcipale rivolta verso nord-est. Intor- biente accessibile solo durante una no a essi sono state trovate tracce breve stagione, senza legname a didella loro costruzione, tra cui alcuni sposizione in loco per la costruzione strumenti in pietra che servirono a di macchine, leve e rulli, la ricerca, il trasporto e la preparazione di una levigare e rifinire l’opera. Non sono state invece rinvenute stele monolitica del peso di 3-5 tracce di ipotetiche pratiche di cul- tonnellate doveva richiedere risorse to successive all’evento della loro notevolissime. E dunque la creazioerezione. Solo in un secondo tem- ne di un vishap non poteva che espo, in seguito alla caduta dei vishap (segue a p. 55) a r c h e o 51


SCOPERTE • ARMENIA Nerkin Ulgyur. Il cortile della cappelletta della Santa Vergine in cui si possono vedere due vishap a vello caprino «cristianizzati» nel XII sec. ed esposti insieme a lapidi di epoca medievale con croci commemorative.

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LA LUNGA VITA DEI VISHAP I monumenti megalitici sono difficili da erigere ma, soprattutto, quasi impossibili da distruggere: una volta creati, essi rimangono ancorati al territorio e vengono costantemente manipolati, reinterpretati e incorporati con il mutare dei sistemi simbolici. Risalire ai loro contesti originari è un esercizio affascinante e complesso, che fa ripercorrere a ritroso millenni di stratificazioni culturali, come ben dimostra il caso dei vishap. In un’epoca che potrebbe addirittura risalire alla fine del Calcolitico, i vishap, per ragioni a noi sconosciute, furono sistematicamente abbattuti, tanto che non se ne conosce nessuno rimasto eretto nella sua posizione originaria. Questo evento di portata epocale segnò la fine della loro produzione e l’inizio della lunga storia dei loro riusi. Nell’età del Bronzo, i vishap furono reimpiegati come pietre tombali nei tumuli montani, con la faccia decorata a vista. Poi, all’inizio dell’età del Ferro (ma la datazione è incerta), si diffuse la tendenza a fare dei vishap a vello di capra altrettante statue antropomorfe, trasformando le corna caprine in acconciatura, aggiungendo cinque dita agli zoccoli e tracciando una «cintura», simbolo di potere guerriero, a metà della stele, come nel vishap di Oltu (Turchia). Nell’VIII secolo a.C., quando il regno di Urartu conquistò le terre d’Armenia, il re Argishti I, a Garni, incise su un antico vishap la sua iscrizione cuneiforme. In periodo medievale, alcuni vishap furono trasformati in khachkar, le tipiche croci commemorative dell’Armenia cristiana. In epoca moderna, essi furono riutilizzati come segnacoli funerari e venerati dai pastori yazidi. Infine, negli anni Sessanta, alcuni vishap furono rimossi dalle montagne e collocati nei parchi di Erevan, allora capitale della Repubblica Socialista Sovietica Armena.


SCOPERTE • ARMENIA

In questa pagina: l’individuazione delle fosse di fondazione dei vishap permette la ricostruzione esatta dell’altezza e della direzione originaria del monumento. Nella foto, l’archeologa Andrea Valsecchi Gillmeister documenta la fossa del cantiere D, dai cui strati superiori proviene un frammento di legno carbonizzato risalente al V mill. a.C. Nella pagina accanto: la creazione e l’erezione di un vishap dovevano essere importanti eventi collettivi. Oggi sono necessarie diverse persone e un cric da camion soltanto per ruotare il monolite sul suo asse di 45° (Karmir Sar, cantiere F). 54 a r c h e o


sere un grande evento collettivo. Era necessario individuare una pietra adatta nelle vicinanze del sito, tagliarla e prepararla, trascinarla sul luogo desiderato, levigarla e sbozzarla ulteriormente, erigerla e rifinirla. Si può pensare che fossero coinvolte decine di persone per la durata di alcune settimane, con l’aggiunta di familiari e altri membri della comunità, ognuno dei quali aveva bisogno di vitto e alloggio. Nelle società megalitiche osservate in periodi storici (come quella tuttora esistente nell’isola di Sumba, in Indonesia), la costruzione di una stele monolitica a rilievo viene sempre accompagnata da feste collettive, da banchetti e da momenti spettacolari. Possiamo immaginare che qualcosa di analogo accadesse durante l’erezione dei vishap, e che la partecipazione a questi eventi fosse considerata un fatto memorabile. Ma chi promuoveva la costruzione dei vishap, e perché? È interessante notare che l’iconografia dei vishap ripete due sole tipologie con po-

chissime varianti, pur diffondendosi su un arco geografico di diverse centinaia di chilometri. Questo significa che le stele non avevano lo scopo di sottolineare la presenza sul territorio di un determinato gruppo, differenziandolo da altri, come fa un totem tribale o un simbolo araldico. Al contrario, i creatori dei vishap vollero caratterizzare le stele con immagini condivise a largo raggio, che verosimilmente erano portatori di valori comuni a piú tribú.

COMPETIZIONE PERENNE Qui è necessario ricollegarsi alla posizione geografica delle stele. Le sorgenti e i pascoli dove queste furono erette, venivano frequentate stagionalmente da comunità di pastori. Le società che praticano la pastorizia a transumanza verticale sono sempre caratterizzate da un alto potenziale di conflitto tra gruppi, in perenne competizione per i pascoli migliori. È possibile che l’erezione di un vishap fosse un evento simbolico or-

ganizzato da chi, fin dal VI millennio a.C., iniziò a frequentare regolarmente i pascoli d’altura: quando comunità diverse si trovarono a dover negoziare l’accesso alle medesime risorse, unire le forze in un’occasione particolare per costruire un vishap poteva essere una strategia per disinnescare conflitti pericolosi, condividendo mezzi e forza-lavoro in un’atmosfera festiva, generando pace sociale e materializzando su pietra un sistema simbolico e religioso comune. Il «Dragon Stones Archaeological Project» è diretto dall’autrice (Università Ca’ Foscari Venezia, Dipartimento di Studi Umanistici), da Arsen Bobokhyan (Accademia delle Scienze Armena) e da Pavol Hnila (Freie Universität Berlin). La missione congiunta è finanziata dalle rispettive istituzioni, dalla Fritz Thyssen Stiftung e dal Ministero degli Affari Esteri italiano. Pubblicazioni scientifiche sul tema sono accessibili attraverso l’archivio on line dell’Università Ca’ Foscari (https://iris.unive.it). a r c h e o 55


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IL CAOS OLTRE LA PORTA IN TUTTO IL MONDO ANTICO, LA SOGLIA SEGNA UN LUOGO DI PASSAGGIO DALLA FORTE VALENZA SIMBOLICA. COME TESTIMONIANO LE TRACCE DI UN RITO SACRIFICALE, RINVENUTE ALL’INGRESSO DI UN SANTUARIO NURAGICO NEI PRESSI DI ALGHERO… di Alessandra La Fragola con contributi di Stefano Masala e Giuseppe Carzedda 58 a r c h e o


Nella pagina accanto: disegno ricostruttivo del rito della soglia officiato presso il santuario a pozzo di età nuragica scoperto in località «La Purissima», presso Alghero (Sassari). Sulle due pagine: un ramo fiorito di biancospino (Crataegus monogyna), pianta che era l’attributo della ninfa Carna, protettrice dei bambini.

L

a soglia: margine e confine. Tutto il mondo antico è permeato dal sentimento diffuso verso ciò che fa da limite tra un luogo e un altro, un territorio e un altro, un mondo e un altro. Anche in assenza di barriere reali, esisteva un limen (termine latino che indica appunto la soglia, n.d.r.) tra il mondo civile degli umani e il mondo selvatico dei boschi, una barriera impercettibile a dividere i due luoghi come si dividono idealmente due mondi, opposti eppure attratti e dipendenti l’uno dall’altro. Nel mondo mediorientale, già in epoca protostorica, esistevano cippi di confine per delimitare luoghi di pertinenza tra un regno e l’altro, con iscrizioni a sancire proprietà e limiti. Confini esistevano anche tra una città e il territorio circostante. Una testimonianza importante e rara in tal senso proviene da Ilios/ Troia, dove cippi aniconici posti sul lato destro della porta urbica meridionale, la piú importante della cit-

tà, erano dedicati al dio Apollo nella sua valenza di protettore delle porte.Tanto per ricordare che Apollo non nasce in Grecia, ma ha tradizione molto piú antica. Avvicinandoci ai nostri luoghi, una micro-testimonianza della valenza attribuita alle soglie come luoghi di passaggio tra mondi appartenenti a sfere diverse e antagoniste, proviene da un santuario nuragico riutilizzato in età romana. Ci troviamo in località «La Purissima», nell’attuale agro di Alghero (Sassari), dove tracce di un antico rito di chiusura relativo alla colmata di un tempio a pozzo forniscono una importante documentazione storico-archeologica di questa pratica cultuale.

UN RITO DI PASSAGGIO Qui, presso lo stipite destro d’ingresso alla camera del pozzo, a una quota corrispondente alla parte alta della soglia, pressappoco all’altezza dell’architrave, un focolare definito da pietre disposte circolarmente conteneva i resti di un sacrificio rituale consistente in porzioni animali, a noi pervenute solo nella frazione ossea (vedi box alle pp. 64-65). Si tratta verosimilmente di un piaculum, vale a dire di un sacrificio in

funzione di un rito di passaggio: una soglia che viene chiusa. E nell’offerta, tra i diversi animali sacrificati prevale il cervo. Tale scelta venne forse dettata dalla facile reperibilità di questa selvaggina come preda di caccia, ma, in questa particolare circostanza, suggerisce anche un possibile nesso con il fatto che il cervo è il compagno simbolico di alcune divinità e, in particolare, di Carnea, per alcuni versi assimilabile a Diana e come lei cacciatrice. Per entrambe, il cervo era infatti l’animale totemico. Ma perché si sacrificava presso le soglie? E quale valenza assumeva questo varco? Gli studi a questo proposito stanno fornendo indicazioni sempre piú precise. In ambito romano la soglia era intesa come luogo di passaggio tra il privato e il pubblico, tra i vivi e i morti, divinità malevole e benevole. Per tale motivo era tradizione praticare riti tramite i quali si proteggevano le entrate alle abitazioni, i loci amoeni come le grotte e i luoghi d’acqua, e, ovviamente, i sancta sanctorum, i luoghi deputati per eccellenza al divino, come sacelli di templi e santuari. Tali tradizioni, loro modo, sono ancora vive in Sardegna, dove, in alcua r c h e o 59


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ni luoghi, si ha ancora l’inconscia abitudine di abbellire il fronte delle case con siepi di biancospino. Quest’ultimo era l’attributo della ninfa Carna (per sincretismo associata poi da Ovidio a Cardea, dea dei cardini e, per transitività, delle soglie: «Può aprire ciò che è chiuso; può chiudere ciò che è aperto», disse di lei il poeta). Carna presiedeva alla protezione dei piú piccoli: scuotendo un ramo di biancospino o corbezzolo sugli stipiti delle porte e sacrificando visceri di maialini, scongiurava la consunzione dei bambini malati da parte di spiriti maligni (con i quali in tempi piú arcaici si identificava), fornendo loro un contrappasso in cambio, uno scambio di anime. Dunque un primo antico esempio di entità malevole di consunzione,

A destra: Giano bifronte in un’illustrazione dell’opera Mythologie de la jeunesse, di Pierre Blanchard. 1803. Nella pagina accanto: affresco raffigurante Flora, reggente una cornucopia, che coglie dei fiori da un arbusto, da Villa Arianna a Stabia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. I sec. d.C. In basso: moneta romana con, al dritto, Giano bifronte laureato; al rovescio, la prua di una trireme e la legenda «ROMA».

«vampiresche» e succhiasangue. Cardea (dal latino cardus, cardine), da parte sua, era deputata dal dio Giano (Ianus) alla protezione delle porte (ianuae) nella loro parte alta. Era antitetica a Fauno, il quale violava e allo stesso tempo proteggeva la parte bassa di esse. Fauno, essere selvatico che rappresenta sempre la prevaricazione e l’abuso, viene a sua volta legato alla protezione di ciò che viola. Secondo alcune fonti, Cardea era coadiuvata in questo suo ruolo da due «aiutanti»: Forculus, preposto alla parte lignea delle porte, e Limentinus alla pietra di soglia (come Fauno). Dei due personaggi parlano anche Tertulliano verso l’inizio del III secolo d.C. e, piú tardi, Agostino. Come 60 a r c h e o

sempre avviene, troviamo dunque dèi e semidei che si alternano a seconda dei periodi e delle genti fondendosi in sincretismi comuni.

IL CORNO DI UN ARIETE Nei luoghi sacri non è raro trovare monete raffiguranti Giano in quanto divinità di inizio e passaggio, connotato da questa valenza molto significativa. Anche gli arieti erano animali normalmente a lui sacrificati, e un corno di ariete, forse non a caso, è presente nel piccolo olocausto afferente a questo culto di soglia, mentre invece non troviamo il cane in quest’offerta (ma non molto distante sí, in altre stratigrafie significative); cane che di norma veniva infatti offerto nei riti di fondazione


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GIANO BIFRONTE, IL GUARDIANO DEGLI INGRESSI Fra le numerose divinità del pantheon romano, Giano è senza dubbio la figura piú significativa, oltre a essere anche la piú antica. Il suo culto, infatti, affonda le radici in quell’epoca arcaica che vedeva la devozione dei popoli italici indissolubilmente legata ai cicli naturali scanditi della semina e dalla raccolta. Quanto il culto di Giano fosse oltremodo sentito anche in epoca altoimperiale, lo provano le testimonianze numismatiche, che, con puntuale precisione, riportano di quando, regnante Nerone e stipulata la pace con i Parti nel 63 d.C., fu ordinata la chiusura della porta del tempio. Una delle singolarità di Giano sta nel suo essere una divinità bicefala, motivo per cui lo si raffigura con una testa doppia, il Giano bifronte appunto. Il doppio volto – una vera e propria «ambivalenza ritratta» – rappresentava il suo ruolo di sorvegliante delle due direzioni ed essendo il preposto alle porte (ianuae), ai passaggi (iani) e ai ponti, egli ne vigilava l’entrata e l’uscita. Era dunque il custode di ogni tipo di passaggio e mutamento, il supremo difensore di tutto ciò che poteva riguardare un inizio e una fine. Non è quindi un caso se Roma decise di onorare Giano, rappresentante dei patti e delle transazioni commerciali, dedicandogli il recto della sua prima moneta. Il suo volto comparve sulle serie dell’asse per tutto il periodo repubblicano, fino ad approdare al secondo triumvirato, quando fece la sua ultima apparizione, seppur rimaneggiato, a fini propagandistici, sugli assi bronzei di Pompeo Magno Sesto (Sextus Pompeius Magnus). Proprio questa continuità illustrativa potrebbe aver tratto in inganno (o forse no) l’anonimo fedele che, attribuendo a questa moneta un valore ben diverso e trascendente quello mercuriale, decise di deporla all’esterno dell’entrata ovest del vestibolo del pozzo di Alghero. Fu un gesto dal forte significato cultuale, legato non solo al luogo in sé, ma anche, e soprattutto, al punto preciso della deposizione, ovvero in prossimità di un punto di transito. Da qui anche l’accezione simbolica di cui si carica il nominale scelto come oblazione, un’offerta

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Pseudo-asse di Pompeo Magno Sesto e sua restituzione grafica, dagli scavi del santuario de «La Purissima» (Alghero). I sec. d.C. Al dritto, Giano bifronte laureato con fattezze di Pompeo Magno, e legenda «[MA]GN»; al rovescio, prua di trireme e legenda «PIVS».

direttamente riconducibile a un rito di passaggio. Questo culto, che vede Giano onorato nel suo impegno quale guardiano degli ingressi a protezione di ogni inizio e di ogni fine, non poteva non presumere un donativo o una deposizione votiva in suo omaggio, sotto forma di moneta con la sua effigie. In questa circostanza, però, la moneta – credibilmente non selezionata a caso – reca un ritratto manipolato per le finalità propagandistiche di cui sopra. Un dettaglio questo, che, curiosamente, non dovette distogliere l’antico devoto dalla scelta di assegnare la virtú paradigmatica tipica dei doni votivi allo pseudo-asse di Pompeo Sesto, che propone un Giano bifronte dai tratti decisamente «alternativi», con lineamenti nitidi e guance sbarbate. Giuseppe Carzedda


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

o smembrato in funzione di altre precise circostanze. E sempre qui ad Alghero, nel santuario oggetto di queste osservazioni, in località «La Purissima», un asse con Giano bifronte e prua di nave spicca tra i ritrovamenti monetali in quanto custode di un altro In questa pagina: immagini dello scavo del santuario de «La Purissima». In senso orario, dall’alto: indicazione del posizionamento e quota del focolare rinvenuto nei pressi dell’ingresso della struttura; veduta dell’ingresso del pozzo sacro: rispetto all’architrave, il focolare si trovava immediatamente sotto, a sinistra; schizzo dello scavo del focolare, che evidenzia anche le prime fasi di scavo dell’intera struttura; pianta generale del sito di scavo, con, in evidenza, la localizzazione del focolare.

varco importante all’interno del santuario: venne infatti rinvenuto nei pressi della soglia secondaria a ovest (vedi box alla pagina precedente), ricavata in età romana. L’identificazione delle divinità riferibili a questo rito algherese è e resta, al momento, una suggestione, da consolidare con ritrovamenti simili e circostanziati da altri contesti.Tuttavia, non vi sono dubbi sul fatto che il sacrificio animale esprimesse la precisa volontà liturgica di offrire un dono agli dèi di fronte al varco che si chiude. Proteggere i luoghi di passaggio significava infatti evitare a r c h e o 63


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QUASI UN PICCOLO SERRAGLIO Prendendo in considerazione le specifiche degli animali presenti all’interno del focolare e nella stratigrafia immediatamente sottostante (forse sempre pertinente a esso, considerata l’elevata concentrazione di ossa rinvenute), possiamo osservare che: l’interno del focolare conteneva ben 60 resti faunistici, oltre metà dei quali non piú attribuibili a uno specifico animale; diverse risultano comunque le specie rilevate, sia domestiche che selvatiche: pecora, maiale, bue, cinghiale, cervo e un pesce, il tordo nero (Labrus merula); i resti di cervo sono i piú numerosi e appartengono perlopiú a individui adulti, costituiti principalmente da mandibole e in parte minore da porzioni di zampe posteriori. Le ossa dei bovini, in numero di sei, consistono in parti scapolari, lombari e delle zampe posteriori. Il maiale è presente con parti di cranio, di scapola e parte del muso di un giovane esemplare adulto. Altre due parti mandibolari sono attribuibili a cinghiale

maschio. Le parti anatomiche degli ovini comprendono ossa dell’arto anteriore (diafisi di omero e radio), parte di mandibola con dentatura da latte e un corno di ariete. Il tordo nero, infine, è presente nel campione con un osso del capo, il dentale. Complessivamente, le ossa maggiormente rappresentate sono quelle del capo e delle parti

che il caos si impadronisse del mondo che stava oltre la porta, in quanto streghe e demoni, spiriti maligni, erano portatori di scompiglio e sfortuna. In sintesi, si voleva evocare l’ordine contro il disordine con un sacrificio alle divinità benevole. In questo contesto di chiusura non è da escludere il significato dell’olocausto animale, cioè del piaculum come mezzo di espiazione collettiva da compiere per aver offeso gli dèi pagani che dimoravano dentro al luogo sacro. Sulla base delle osservazioni stratigrafiche, infatti, il varco

venne chiuso in età tardo-antica, un periodo in cui la nuova religione cristiana contrastava ormai, a tutti gli effetti, i riti pagani, con l’imperatore Onorio prima (384-423 d.C.) e con papa Gregorio Magno poi (durante il VI secolo d.C.).

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Ricomposizione grafica delle ossa residue di cervo rinvenute presso il focolare.

UN MOMENTO DIFFICILE Lo studio archeozoologico permette anche di andare oltre nell’interpretazione del contestuale sacrificio animale: il centro urbano di riferimento di questo santuario, probabilmente l’antica stazione itineraria

terminali delle zampe, povere di carne rispetto ad altre parti anatomiche e generalmente considerate scarti di macellazione. Le ossa delle parti superiori degli arti e del bacino, elementi con una resa carnea alta e interpretabili come resti di pasto sono esigue, ma comunque presenti; altri, come le vertebre e le parti costali, sono quasi o totalmente assenti. Su alcuni resti ossei sono ben visibili le tracce di macellazione lasciate durante lo smembramento e la preparazione della carcassa per il consumo alimentare. Su un osso del bacino di un cervo, per esempio, è evidente un taglio causato dal distacco del femore; un osso frontale di maiale risulta invece troncato longitudinalmente, forse per il recupero del cervello. Il corno di ariete presenta troncature e tagli alla base e nella parte superiore, causati dalla rimozione della parte cornea (astuccio), che riveste completamente quella ossea (cavicchia) e rappresenta la parte visibile del corno. Costituito da materiale corneo, l’astuccio può essere utilizzato per la realizzazione di manufatti. Sebbene i reperti ossei provengano

di Carbia, consisteva in un abitato che rappresentava un importante crocevia commerciale, ma tutto sommato modesto rispetto a centri limitrofi ben piú importanti (tra tutti, Colonia Iulia Turris Libisonis, l’odierna Porto Torres). È dunque plausibile che spreco e abbondanza non fossero all’ordine del giorno, soprattutto nella difficile fase storica in cui si colloca la chiusura del luogo sacro (inizi del V secolo d.C.). Nell’antichità, le offerte potevano talvolta consistere in parti non edibili di animali, ossa ormai scarnifica-


Cavicchia ossea di ariete con segni di taglio, dal santuario de «La Purissima». V sec. d.C.

da un focolare, le tracce di bruciato sono state rinvenute solo su una diafisi (parte centrale delle ossa lunghe) di tibia di cervo. La presenza della carne e dei tessuti potrebbe aver isolato le ossa dal contatto diretto con il fuoco, ma le parti distali macellate o frammentate sarebbero rimaste comunque esposte e recherebbero segni di bruciature e scottature. È probabile che le porzioni animali già preparate e consumate siano state deposte dopo che la combustione interna al focolare si era estinta e la temperatura attenuata. Le tracce causate dall’uomo durante la macellazione e la preparazione del cibo

costituiscono la quasi totalità dei segni rivenuti sulle ossa del deposito. In un caso, però, le tracce rinvenute sono da attribuirsi all’azione di un altro animale. Si tratta di un frammento di radio di pecora che reca rosicchiature provocate dall’azione degli incisivi di un piccolo roditore, probabilmente un topo, che ha lasciato una serie di incisioni parallele in una porzione dell’osso (diafisi). Questo potrebbe significare che il reperto, e probabilmente le ossa del focolare, siano rimasti per un certo tempo esposti, e non immediatamente sepolti o smaltiti. Stefano Masala

te avvolte nel grasso intestinale degli animali stessi. Questo sotterfugio aveva il doppio vantaggio di conservare le carni per il consumo comunitario e di «distrarre» la divinità con il crepitio e la fiammata provenienti dal grasso a contatto con le braci forse quasi spente. In questo modo le ossa potevano rimanere bianche, senza traccia di combustione, cosí come sono state ritrovate ad Alghero, e cosí come documenta l’archeologia sperimentale. Lo stratagemma era il medesimo della strega che aggiunge polvere pirifera al pento-

lone delle sue pozioni: una fiammata, per stupire e distogliere l’attenzione di chi guarda da ciò che viene messo realmente sul fuoco.

UNA «PROVA DI FORZA» È dunque importante non sottovalutare la valenza e la rarità di questa testimonianza, che travalica i piú conosciuti e comunque rari culti di fondazione. Spiccano, in particolare, il fatto che il rito fosse stato consumato sopra e non sotto la soglia, e la forte valenza attribuita a divinità di tramite quali quelle elencate. Il for-

te significato del liminare nel sentimento religioso di età romana è qui attestato da un culto le cui tracce si perdono e si ricompongono in una suggestiva prova di forza tra tempo che strappa e archeologia che ricuce. Dove Giano sembra per fortuna guardare ancora da entrambe le parti, quasi a voler cristallizzarne l’attimo e restituircene il ricordo in forma di storia. Lo scavo del santuario della Purissima è stato condotto con la direzione scientifica di Daniela Rovina e Pietro Alfonso, Soprintendenza Archeologica per le province di SS e NU. PER SAPERNE DI PIÚ • Pietro Alfonso, Alessandra La Fragola, Il Santuario NuragicoRomano della Purissima di Alghero (SS), Quaderni della Soprintendenza per i beni archeologici delle province di Cagliari e Oristano n. 25, Cagliari 2014, pp. 223-242; anche on line su: www.quaderniarcheocaor. beniculturali.it • Stefania Baldinotti, Oltre la soglia smarrimento e conquista. Culti e depositi votivi alle porte nel mondo italico, tesi di laurea, Università «Sapienza», Roma Roma 2007 • Jacopo De Grossi Mazzorin, L’uso dei cani nei riti di fondazione, purificazione e passaggio nel mondo antico, in Atti del Seminario di studi di Bioarcheologia (Cavallino, Lecce, 28-29 giugno 2002), Edipuglia, Bari 2008; pp. 71-81 • Sergio Ribichini, Sacrum magnum nocturnum. Note comparative sul molchomor nelle stele di N’Gaous, in Aula Orientalis, 17-18, 1999/2000; pp. 353-362 • Barbara Wilkens, Archeozoologia. Il Mediterraneo, la storia, la Sardegna, Editoriale Democratica Sarda, Sassari 2012; anche on line su: www.academia.edu a r c h e o 65


STORIA • BIMILLENARIO OVIDIANO

OVIDIO NOSTRO

CONTEMPORANEO IL 2017 HA SEGNATO IL BIMILLENARIO DELLA MORTE DI PUBLIO OVIDIO NASONE, UNO DEI MASSIMI POETI LATINI. A LUI SI DEVONO LE METAMORFOSI, UN’OPERA CHE, COME LO STESSO AUTORE S’ERA AUGURATO, HA GODUTO DI GRANDE E DURATURA FORTUNA. E, SOPRATTUTTO, SI RIVELA ANCORA OGGI STRAORDINARIAMENTE «MODERNA» di Roberto Andreotti

N

asone e nasoni: un’inedita coppia iconica. Nasone è il poeta latino Publius Ovidius Naso, del quale si è celebrato quest’anno il bimillenario della morte, avvenuta in esilio a Tomi, sul Mar Nero. Poiché il nomen «Ovidius» non entra nel metro elegiaco, ogni volta che parla di sé Ovidio è costretto a usare il cognomen (una sorta di soprannome) «Naso, -onis»: lo incontriamo diverse volte nei componimenti finali, Tristia ed Epistulae ex Ponto. All’orecchio del lettore italiano «Nasone» suona buffo, stridente con il registro alto di certe elegie e perciò alcuni traduttori preferiscono sostituirlo, come nel passo – molto patetico – in cui il poeta detta alla moglie lontana l’epigrafe che dovrà comporre sulla propria lapide: «io che qui giaccio, io, il cantore dei teneri amori // il 66 a r c h e o

poeta ovidio , morto a causa del mio talento. // chiunque tu sia a passare di qui, se hai avuto esperienza d’amore, non ti pesi // dire: “riposino in pace

le ossa di 0vidio”» (Tristia, III, 3). Basta cambiare «Ovidio» con il «Nasone» del testo originale, e per un attimo sembrerà di trovarci in un Pinocchio apocrifo.

UN’ESTATE TORRIDA Molto piú di Nasone quest’estate a Roma hanno fatto discutere i nasoni – cosí i Romani chiamano antropomorficamente le fontanelle di acqua potabile –, non già, come spesso accade agli arredi urbani della Capitale, a causa di atti vandalici (anche Ovidio si raffigura sotto il tiro costante di gente barbara e violenta, ma si trovava dopotutto ai confini dell’impero), bensí per la loro chiusura straordi-

Mercurio e Argo, olio su tela di Abraham Bloemaert. XVI sec. Collezione privata.

naria decretata dalla Giunta nei giorni del caldo africano e dell’emergenza idrica. Le fotografie delle fontanelle asciutte pubblicate sui giornali e in rete erano quanto mai generiche e anonime. Tranne una, che, un po’ a sorpresa, ci riconduce a Ovidio: quella di un nasone del quartiere di San Lorenzo interamente verniciato d’oro da qualche


romano dotato di sense of humour, che a piú d’uno ha fatto evocare il re Mida, protagonista di una delle metamorfosi piú popolari della mitologia classica. Ed è appunto Ovidio, nell’XI libro delle Metamorfosi, a narrare la vicenda del sovrano frigio, al quale il dio Bacco, in segno di gratitudine, aveva accordato la richiesta di tramutare in oro qualsiasi cosa toccasse.

Proprio le Metamorfosi, il poema in XV libri dedicato alle forme mutanti («tutto cambia, ogni cosa si trasforma in un’altra, niente resta uguale a se stesso»), assicurano al loro autore, duemila anni dopo, quella «fama» che già i versi finali preconizzavano «per omnia saecula». In un primo tempo Ovidio si era affermato a Roma come il piú moderno interprete dell’elegia erotica,

sulla scia dei poeti Gallo, Tibullo e Properzio. La sua innata propensione a esprimersi in versi – come egli stesso confessa in un celebre componimento autobiografico (Tristia IV, 10) – lo portava a comporre distici quasi involontariamente, senza dover ricorrere al labor limae oraziano. Dietro tanta disinvoltura, a lungo scambiata dalla critica per stucchea r c h e o 67


STORIA • BIMILLENARIO OVIDIANO

L’esilio a Tomi ordinato da Augusto ha fatto di Ovidio un modello per i poeti moderni perseguitati dal potere vole esibizione di luoghi comuni, si nascondeva un brillante conoscitore della macchina poetica, salito presto alla ribalta del successo mondano. Già nella raccolta giovanile degli Amores, Ovidio praticava la «maniera» elegiaca in modo spregiudicato e ironico, allo scopo di smascherarne le collaudate convenzioni compositive e parodiarne la «pretesa» totalizzante: schiavo d’amore, il poeta doveva «militare», come un soldato, al servizio della propria donna, padrona dei suoi versi e della sua vita. Tutto ciò adesso si era mutato in un divertito gioco di ruoli, come esplicitamente mostra l’Ars amatoria, il manuale 68 a r c h e o

di seduzione che divenne fonte di to negli anni Settanta – extra-testuale, cioè ininfluente per la comprennon pochi guai per il suo autore. sione dell’opera poetica. A dispetto di quel che afferma nelle AI CONFINI DI UN elegie finali, infatti, Ovidio non MONDO SCONOSCIUTO Ma torniamo alle Metamorfosi. L’am- soccombe realmente alla disgrazia bizioso progetto di un poema epico, occorsagli, o, quantomeno, prova a dopo la stagione elegiaca, può dirsi estrarne linfa per la gloria postuma: concluso intorno all’8 d.C., in pra- per esempio modellando se stesso tica alla vigilia dell’esilio – ordinato dall’imperatore Augusto – «in extre- In alto: La partenza di Ovidio per mis ignoti partibus orbis» («agli estremi l’esilio, olio su tela di Giovanni confini di un mondo sconosciuto»). Tebaldi. 1822. Milano, Accademia Nel caso di Ovidio questa vicenda di Belle Arti di Brera. sfortunata, altresí decisiva per la sua Nella pagina accanto: statua in marmo «fortuna» moderna quale archetipo di Ovidio in abiti medievali. Sulmona, dell’intellettuale inviso al potere, Complesso museale della Santissima non è affatto – come si sarebbe det- Annunziata.


UNA VITA PER LA POESIA È Ovidio stesso a darci le principali informazioni sulla propria vita, soprattutto in Tristia IV,10, «autobiografia» in distici elegiaci. Publio Ovidio Nasone nacque il 20 marzo del 43 a.C. a Sulmona, nell’odierno Abruzzo, da una famiglia di rango equestre. A Roma frequentò le migliori scuole di retorica, completando la formazione in Grecia. Alla carriera politica preferí però «le sorelle Aonie», cioè le Muse. Entrò nell’influente circolo poetico di Messalla Corvino, divenendo amico di Tibullo, e in quello di Mecenate, dove frequentava Orazio e Properzio. Intorno al 15 a.C. pubblicò la prima edizione delle sue elegie, Amores, in cinque libri poi ridotti a tre (quelli che noi leggiamo). Fra il 10 e il 3 a.C. compose le prime quindici Heroides, lettere in versi «inviate» dalle eroine del mito ai loro amanti, alle quali aggiunse in seguito altre tre epistole con le relative «risposte». Conseguito rapidamente il successo sia intellettuale, sia mondano, Ovidio passò alla «didascalica» erotica, componendo i primi due libri dell’Ars amatoria, sulle tecniche per conquistare le donne e conservarne l’amore, ai quali successivamente se ne aggiunse un terzo rivolto al pubblico femminile, a cui si indirizzano anche le ricette di cosmetica Medicamina faciei femineae. Il poemetto Remedia amoris – come guarire dalla shiavitú amorosa – concludeva il ciclo erotico. Intorno al 3 d.C. prese il via l’ambizioso progetto delle Metamorfosi, in esametri epici: poema in 15 libri sulla storia universale, dalle origini del mondo alla Roma contemporanea, completato nell’8 d.C. Nello stesso periodo Ovidio lavorò ai Fasti, calendario in distici sulle leggende e le origini (sul modello di Callimaco) delle festività romane. Dei previsti dodici libri, uno per ogni mese dell’anno, ne aveva composti sei quando, nell’8, fu colpito dal «fulmine» di Augusto, che lo condannava alla relegazione sulle coste del Mar Nero (Tomi, attuale Costanza): per quale motivo? Il poeta dall’esilio accenna a un carmen e a un error: il primo è quasi certamente la licenziosa Ars amatoria, poi ritirata dalle biblioteche pubbliche; sul secondo sono state fatte molte ipotesi, la piú credibile resta il coinvolgimento nello scandalo di Giulia Minore, nipote di Augusto. Nei quasi dieci anni trascorsi sul Mar Nero, Ovidio tornò all’elegia componendo due raccolte – i Tristia (in cinque libri) e le Epistulae ex Ponto (in quattro) – interamente centrate sulla infelice condizione di straniero in una terra remota, barbara, ostile e climaticamente impossibile, e sulle suppliche dirette ad Augusto e a personalità influenti per ottenere la revoca del provvedimento; anche il poemetto Ibis, una lunga invettiva contro un anonimo calunniatore, rientra nella produzione ultima. Neppure Tiberiò lo richiamò a Roma, cosí il poeta morí, e fu sepolto, a Tomi, nel 17 (o 18) d.C. a r c h e o 69


STORIA • BIMILLENARIO OVIDIANO Orfeo ed Euridice, olio su tela di Pieter Paul Rubens. 1636-1637. Madrid, Museo del Prado.

come personaggio letterario. Nelle frequenti situazioni di pericolo e disagio lo vediamo paragonarsi ai campioni dell’epica, Giasone, Ulisse, Enea, che però egli «supera» ogni volta in una sorta di gara a chi deve compiere l’impresa piú grande: il suo essere completamente da solo, senza compagni, lo rende ancora piú eroico. Nei Tristia, la spina dorsale di questa strategia è il confronto con Ulisse, mentre la cosiddetta notte degli addii a moglie, famiglia e amici, è la riedizione dell’ultima notte di Troia nel secondo libro dell’Eneide; e il viaggio per mare verso Tomi è una «tempesta perfetta», e cosí via.

L’ESPLOSIONE POST-MODERNA Le Metamorfosi racchiudono insomma tutti i miti possibili, ma all’insegna della non-permanenza; e quello del loro autore è un esilio per cattiva condotta, senza ritorno: la cultura occidentale del dopoguerra e, adesso, quella/e global del nuovo millennio difficilmente avrebbero potuto trovare un immaginario piú attraente di quello ovidiano. Ecco perché, accanto agli studi accademici (edizioni critiche e commentate delle opere, nuove traduzioni, libri e articoli scientifici) ha preso a crescere, come per nessun altro classico antico, una parallela produzione di fiction che si rifà soprattutto alla vicenda esistenziale e al poema. Complice l’egemonia incontrastata dell’inglese, divenuto la lingua ufficiale dei filologi classici, si sono moltiplicate le interferenze tra l’esegesi dei testi e la loro «ricreazione»; ma anche quelle tra latinisti, comparatisti – perlopiú di matrice anglosassone – e scrittori. Uno dei primi casi è in realtà tutto domestico, e riguarda Italo Calvino, il cui saggio 70 a r c h e o


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STORIA • BIMILLENARIO OVIDIANO Apollo e Dafne, scultura in marmo di Gian Lorenzo Bernini. 1622-1625. Roma, Galleria Borghese.

introduttivo all’edizione delle Metamorfosi pubblicata da Einaudi nel 1980 viene ancora oggi valorizzato dagli ovidianisti.

UNA PRESENZA RICORRENTE Non molto tempo fa Theodore Ziolkowski, già professore di germanistica e comparatistica a Princeton, ha studiato la presenza di Ovidio nella cultura letteraria del Novecento (Ovid and the Moderns, 2005). Fra i titoli recenti passati in rassegna, accanto all’opera dei poeti Josif Brodskij e Derek Walcott – entrambi insigniti del Nobel –, spiccano un paio di romanzi che anche gli ovidianisti hanno preso l’abitudine di citare nei propri lavori (persino troppo): An Imaginary Life dell’anglo-libanese David Malouf (1978) e Die letzte Welt dell’austriaco Christoph Ransmayr (1988), ambedue tradotti in italiano. A Ziolkowski si deve un censimento piuttosto rigoroso, ma il suo regesto finale appare curiosamente invecchiato in soli dieci anni; perlomeno sino alla data della pubblicazione, però, non è facile trovare defaillance. Una, italiana, potrebbe essere il Discorso dell’ombra e dello stemma di Giorgio Manganelli, pubblicato nel 1982 e ora riedito da Adelphi, al cui interno è nascosta una concettosa «dissertazione» sul mito di Eco e Narciso (dal III libro delle Metamorfosi), riletto come exemplum di «malafede del doppio». Tra coloro che Ziolkowski dovrebbe considerare in un eventuale aggiornamento del suo libro c’è di sicuro Jenny Erpenbeck, la narratrice tedesca nata e vissuta nella DDR. Non è certo casuale che i romanzi piú premiati dal pubblico, sin dai tempi di Dio è nato in esilio (1960) del romeno 72 a r c h e o


anti-comunista Vintila Hor ia (1915-1992), siano sceneggiati a Tomi, una Tomi un po’ allucinata, post-moderna e quasi «post-ovidiana» in senso manieristico. Soprattutto nel secondo Novecento, l’esilio del poeta (ma si trattò, propriamente, di una «relegatio»: non ci fu cioè la privazione della cittadinanza e del patrimonio) è divenuto un paradigma attuale, che ha portato scrittori di ogni latitudine a rispecchiarsi nell’antico «collega» spedito al confino.

TUTTO CAMBIA (SE È NARRATO) In diverse epoche il poema ovidiano ha goduto di analoghe impennate di «imitazione» (basterebbe pensare a Dante), ed è stato oggetto di interesse creativo da parte dei moderni. La grande pittura del Seicento fu attratta soprattutto dalle enormi potenzialità visive delle Metamorfosi, che nuove edizioni a stampa, illustrate, andavano diffondendo anche nel Nord Europa. Tutti abbiamo negli occhi il «fermo-immagine» marmoreo dell’Apollo e Dafne di Gian Lorenzo Bernini. Ora, i maestri a olio dovevano fare i conti esattamente con il problema della transizione da una forma all’altra. Il graduale passaggio di stato era quasi impossibile da rendere, anche per i paesaggisti come Claude Lorrain, che potevano servirsi del «campo lungo», ideale per disporre una sequenza narrativa. Da qui l’espediente delle «vignette» in scala, raffiguranti il «prima» e il «dopo» della scena principale (vedi il Ratto d’Europa del Veronese e molti altri casi analoghi). Persino nelle inquadrature piú ravvicinate poi – l’abbagliante apparizione di corpi in un Pan e Siringa del fiammingo Jacob Jordaens! –, non mancano mai gli attributi «parlanti» dei vari personaggi, simboli iconografici che hanno il compito di integrare allusivamente le parti narrate rimaste fuori cornice (Mercurio, Argo

Narciso si specchia nell’acqua, incisione tratta da un’edizione delle Metamorfosi di Ovidio. Parigi, 1651.

e Io di Pier Francesco Mola, o dell’olandese Abraham Bloemaert; Cefalo e Aurora di Nicolas Poussin, ecc.). A proposito delle trasformazioni in serie allestite da Ovidio, si è parlato giustamente di «spettacolo»: uno spettacolo in cui, alla fine, è la Natura a imitare l’Arte e non viceversa. Aggiornando le parole del poema, potremmo persino affermare che «tutto cambia nella misura in cui può essere narrato». Non c’è

nulla di piú attraente, credo, nell’epoca dello storytelling esteso ormai a ogni aspetto della convivenza sociale. Le Metamorfosi sono sempre state, per la tradizione occidentale, la piú completa enciclopedia e il piú potente serbatoio figurativo di miti classici, perfettamente assimilati – con paradossale naturalezza – anche all’interno della cultura cristiana, pur senza impegnare il lettore con pretese didascaliche o, a r c h e o 73


STORIA • BIMILLENARIO OVIDIANO

Pan e Siringa, olio su tela di Jacob Jordaens. 1625 circa. Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts. 74 a r c h e o


MIDA E UN PORTENTO ALLA ROVESCIA La vicenda di Mida è narrata da Ovidio nell’XI libro delle Metamorfosi ai vv. 85-193. Mida, re della Frigia, fa ritrovare Sileno – catturato ubriaco dai contadini delle sue terre – al dio Bacco: il quale, riconoscente, gli accorda di esaudire il desiderio di poter trasformare in oro tutto ciò che tocca. Quando però anche i cibi e le bevande a cui si accosta si mutano in metallo, Mida si accorge di essere finito in trappola e torna da Bacco per supplicarlo di liberarlo. Questi gli consente di lavarsi alle sorgenti del fiume Pattolo, che da allora scorre portando oro nelle sue acque. Nel brano seguente (Met., XI, 108-126), con la traduzione di Guido Paduano (tratta da Ovidio, Opere II, Einaudi 2000), Mida è rappresentato come una specie di apprendista stregone, che offre a Ovidio l’opportunita per esibire il suo spettacolare virtuosismo, ma molto presto conoscerà l’atroce rovescio della medaglia... vixque sibi credens, non alta fronde virentem ilice detraxit virgam: virga aurea facta est; tollit humo saxum: saxum quoque palluit auro; contigit et glaebam: contactu glaeba potenti massa fit; arentes Cereris decerpsit aristas: aurea messis erat; demptum tenet arbore pomum: Hesperidas donasse putes; si postibus altis admovit digitos, postes radiare videntur. Ille etiam liquidis palmas ubi laverat undis, unda fluens palmis Danaën eludere posset. Vix spes ipse suas animo capit aurea fingens omnia; gaudenti mensas posuere ministri exstructas dapibus nec tostae frugis egentes. Tum vero, sive ille sua Cerealia dextra munera contigerat, Cerealia dona rigebant; sive dapes avido convellere dente parabat, lammina fulva dapes admoto dente premebat; miscuerat puris auctorem muneris undis: fusile per rictus aurum fluitare videres.

[...Appena credendo a sé stesso, tirò da un leccio basso una frasca verde, e la frasca diventò d’oro; raccolse da terra un sasso e il sasso illividí d’oro, toccò una zolla e a quel magico tocco la zolla diventa una pepita d’oro. Coglie spighe secche di grano, ed è un raccolto d’oro; toglie da un albero un pomo e lo tiene in mano, diresti che gliel’hanno donato le Esperidi; se accosta la mano a un alto stipite, ecco che lo stipite splende. Se si lava le mani nell’acqua limpida, l’onda che fluisce dalle sue mani potrebbe ingannare Danae. A stento contiene le sue speranze, immaginandosi un mondo tutto d’oro: ma mentre esulta, i servi preparano la mensa imbandita, con abbondanza di pane. Ma adesso, appena la sua mano toccava i doni di Cerere, i doni di Cerere si irrigidivano; appena cerca di mordere coi denti avidi una pietanza, una lamina fulva veniva a contatto coi denti; se mischiava all’acqua la bevanda dell’autore del dono, vedevi oro liquido scorrere sulla sua bocca... ].

Mida alle fonti del Pattolo, olio su tela di Nicolas Poussin. 1627 circa. New York, Metropolitan Museum of Art. Secondo il mito, il re della Frigia aveva ottenuto da Bacco la facoltà di mutare in oro qualsiasi cosa avesse toccato: un potere del quale presto si pentí, quando scoprí che l’incantesimo trasformava nel nobile metallo anche il cibo.

tanto meno, escatologiche. Nonostante il progetto universale dichiarato nel proemio («prima (...) ab origine mundi ad mea (...) tempora», dai primordi del mondo ai miei giorni), Ovidio non propugna una visione finalistica delle

cose; non sembra credere agli dèi di Virgilio e di Augusto, né assegna alcun fine morale alla sovrana legge del cambiamento. Oggi lo definiremmo un poeta laico. Manipolazione della materia; mutilazione del corpo umano; fantasia

genetica; potere catastrofico del desiderio... Sembrano etichette da Science fiction, ma sono in realtà alcuni dei temi offerti dalle Metamorfosi, riformulati con il linguaggio corrente. Da questo punto di vista, non è poi cosí arbitrario rileggere il a r c h e o 75


STORIA • BIMILLENARIO OVIDIANO

poema, e il «mondo possibile» che esso configura, in termini «relativisti». Una delle cause piú evidenti della discontinuità con il programma ideologico augusteo è proprio il suo relativismo materialista, del quale oggi siamo portati a cogliere anzitutto il risvolto antropologico. Di fronte all’incessante trasformarsi delle forme viventi, si può immaginare che un lettore della cosiddetta net generation sia portato a riflettere, per esempio, sul concetto di identità, in tutte le sue molteplici e recenti declinazioni. Certi miti a carattere sessuale delle Metamorfosi – Tiresia, Ermafrodito e Salmacide, Ifi, Ceneo, Vertumno –, che contengono anche storie di ‘andata e ritorno’, risultano a tal punto «attuali» da poterli ormai eti-

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chettare, senza biosogno di me- ta a Giunone che astutamente d i a z i o n i c u l t u r a l i , c o m e la chiede per sé in dono). transgender o Gender fluid. Ma la tastiera ovidiana è molto ampia. Ogni volta che i mortali osano sfidarli sulle loro comLEGGEREZZA E IRONIA Al tempo stesso, è molto raro petenze specifiche, gli dèi non incontrare in una fiction «disto- fanno mancare al lettore spetpica» (o cyber) del terzo millen- tacolari vendette (Diana tessinio la leggerezza e l’ironia di trice contro Aracne; Diana e Ovidio. Se nell’epica omerica e Apollo, figli di Latona, contro virgiliana gli dèi litigavano so- Niobe e la sua prole orgoglioprattutto per il controllo del sa), talvolta piú sadiche che mondo sottostante, adesso li crudeli (Atteone trasformato in ritroviamo di continuo solleci- cervo e sbranato dai suoi stessi tati da irresistibili impulsi ero- cani). Il violento ratto della tici (Giove punta le sue prede vergine Proserpina da parte di sessuali senza alcun pudore per Plutone, invece, è sceneggiato l’imminente degradazione e, come un vero e proprio stupro, quando è colto in fallo dalla rivelato infine alla madre Cereconsorte, assistiamo a gustose re, che disperatamente la cercascenette matrimoniali: come va, dal particolare della cintura quella in cui l’amante Io, tra- galleggiante: una drammatizsformata all’istante in bellissi- zazione visiva degna di un film ma giovenca, deve essere cedu- di Hitchcock.


Si è già fatto cenno al brillante lavoro svolto dai latinisti per smontare il cliché del campione mondano di frivolezza, finito tutto solo a comporre elegie piene di lacrime e lamenti: uno stereotipo a cui argutamente si aggrappa anche Nicole Kidman in una scena dell’ultimo film di Kubrick Eyes Wide Shut, per arginare le avances di un corteggiatore che sta mettendo in pratica gli insegnamenti dell’Arte di amare. A partire dagli anni Settanta

irrompono nei seminari di filologia nuovi strumenti di analisi, si progettano edizioni ribaltanti. Sino a dieci-quindici anni prima non esisteva ancora un commento moderno alle Metamorfosi; e i Fasti, l’opera lasciata incompiuta da Ovidio al momento di abbandonare Roma, ammuffivano sotto la poco invitante etichetta di «antiquariato». Scrostati i pregiudizi romantici, il troppo a lungo incompreso Nasone viene fuori dalla cintola in su, con una ri-

trovata originalità di poeta sottile, antifrastico, ironico: un classico «per i nostri giorni», insomma. Nell’introdurre il massiccio Cambridge Companion to Ovid da lui stesso curato, il latinista inglese Philip Hardie si è soffermato in particolare su due iniziative editoriali degli anni Novanta, in cui la qualità delle «repliche creative» ha indotto gli stessi studiosi a parlare, con sincero interessamento, di «Ovidio trasformato». Si tratta

Due immagini dell’Ermafrodito addormentato. Marmo. II sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano in Palazzo Massimo. Mitologico figlio di Ermes e Afrodite, Ermafrodito figura tra i personaggi delle Metamorfosi ovidiane.

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STORIA • BIMILLENARIO OVIDIANO

UN MANIFESTO PER L’ETERNITÀ: IL FINALE DEL POEMA Le apoteosi di Enea, Romolo e Cesare, ai versi precedenti (Libri XIV-XV), preconizzano naturalmente quella di Augusto (ancora regnante); ma sopra a tutto e a tutti – rivendica maliziosamente Ovidio – sta la gloria del poeta, che con la propria opera si è guadagnata l’eternità. La parte migliore di sé sarà portata in cielo, e il suo nome resterà incancellabile in tutto il dominio di Roma (da intendersi in senso piú spaziale che temporale!). Il finale delle Metamorfosi (XV, 868 ss.) ripropone un’antica consuetudine ripresa anche da Virgilio, Orazio e Properzio: la «firma» o sigillo d’autore al termine della propria opera. La traduzione è di Guido Paduano (da: Ovidio, Opere II, Einaudi, 2000): Tarda sit illa dies et nostro serior aevo, qua caput Augustum, quem temperat, orbe relicto accedat caelo faveatque precantibus absens! Iamque opus exegi, quod nec Iovis ira nec ignes nec poterit ferrum nec edax abolere vetustas. Cum volet, illa dies, quae nil nisi corporis huius ius habet, incerti spatium mihi finiat aevi: parte tamen meliore mei super alta perennis astra ferar, nomenque erit indelebile nostrum, quaque patet domitis Romana potentia terris, ore legar populi, perque omnia saecula fama, siquid habent veri vatum praesagia, vivam. [Arrivi tardi il momento, piú tardi della mia vita, in cui Augusto, lasciato il mondo che adesso governa, salga al cielo ed esaudisca in assenza le nostre preghiere. Ho compiuto un’opera che non potrà cancellare né l’ira di Giove, né il fuoco, né il ferro, né il tempo ingordo. Venga quando vorrà il giorno che ha giurisdizione soltanto sul mio corpo, a finire il tempo incerto della mia esistenza; salirò con la parte migliore di me in eterno alle stelle, e il mio nome sarà indistruttibile. Dovunque si estende sulle terre assoggettate la potenza romana, mi leggeranno le labbra del popolo e, grazie alla Fama, se c’è qualcosa di vero nelle profezie dei poeti, vivrò per tutti i secoli.] Sulmona, piazza XX Settembre. Il monumento in onore di Ovidio, opera in bronzo di Ettore Ferrari. 1925. Il poeta nacque nella città abruzzese il 20 marzo del 43 a.C.

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Sulle due pagine: Il ratto di Europa, olio su tela di Paolo Veronese. 1570 circa. Londra, National Gallery.

delle traduzioni poetiche di alcuni miti delle Metamorfosi pubblicate da Ted Hughes, giusto un anno prima della morte (Tales from Ovid, 1997), e del volume collettivo After Ovid. New Metamorphoses (1994) – che ne aveva anticipato alcune –, in cui figurano le riscritture ovidiane di una quarantina di poeti di lingua inglese. Del secondo ero venuto a sapere la prima volta vedendolo sfogliare da uno dei suoi stessi autori: Seamus Heaney (1939-2013), il grande poeta irlandese. Tornavo a Roma da Mantova in sua compagnia e la conversazione in treno verteva su Virgi-

lio, quando Heaney, il «virgilianissimo» Heaney, tirò fuori dalla borsa questo libro per ripassarvi il proprio testo in vista di un convegno sulle Metamorfosi organizzato dall’American Academy. Era un magnifico maggio romano, e non potevamo immaginare che Seamus stesse per inoltrarsi nell’estate del congedo.

UN’OPERA NON-AUGUSTEA Questo ricordo intimo racchiude, in fondo, una superiore morale «ermeneutica»: la relazione fra Ovidio e Virgilio.Virgilio resta un eccellen-

te liquido di contrasto per illuminare la natura non-augustea delle Metamorfosi, il loro «nerbo amorale» – come lo ha chiamato il critico e filologo americano Charles Segal. Separati da poco meno di trent’anni l’uno dall’altro, mentre Ovidio componeva le prime elegie d’amore, il «massimo scrittore latino» era già tale; e soprattutto l’Eneide – cardine dell’ideologia che aveva rifondato e riformulato Roma – avrebbe agito agonisticamente sul giovane collega, risultando decisiva tanto nella presa di coscienza artistica quanto nella successiva a r c h e o 79


STORIA • BIMILLENARIO OVIDIANO

costruzione di una «autobiografia» letteraria a tavolino – modello, questo, destinato a essere imitato da Petrarca e molti altri. Quando infine Ovidio decide di mettere mano all’epica disegnando, come nessun altro prima, l’archeologia del mondo «fino a te, Augusto», le sue coordinate non sono né la pietas, né l’amor patriae del virgiliano Enea. Le Metamorfosi nulla avranno a che vedere con la filosofia della Storia veicolata dall’Eneide – il «libro di testo» della casa regnante. Anzi, la cosiddetta «Piccola Eneide» di Ovidio, inserita araldicamente nella sezione finale del suo poema, è «tagliata» con vedute e scorci anche parodici, che inducono a dubitare ancora una volta della sincerità encomiastica dell’autore – preoccupato nel frattempo di mostrarsi pentito della scandalosa Ars amatoria. Ma il principe, che a Roma non è il «recensore frettoloso» (Segal) che il poeta forse si augurava, non si lascia affatto convincere – per quanto il nuovo poema in apparenza lo glorifichi – dalle zelanti «istruzioni di lettura» che gli arrivano dal Mar Nero.

Virgilio che compone l’Eneide ispirato delle muse Clio e Melpomene, mosaico, da Hadrumetum (Susa). I sec. d.C. Tunisi, Museo Nazionale del Bardo. Ovidio compose le sue prime opere quando il poeta mantovano era già celebre.

Per saperne di piú Le opere complete di Ovidio sono raccolte in due volumi con testo a fronte nella (ormai sospesa) «Biblioteca della Pléiade» Einaudi: vol. I, Dalla poesia d’amore alla poesia dell’esilio, 1999, a cura di Paolo Fedeli; vol. II, Le Metamorfosi, 2000, introduzione di Alessandro Perutelli, commento di Luigi Galasso. Tra le numerose edizioni singole in lingua italiana, tutte con testo latino a fronte e note (l’anno è quello della prima edizione): Lettere di Eroine, a cura di Gianpiero Rosati, BUR 1989; L’arte di amare, a cura di Emilio Pianezzola, Fondazione Valla-Mondadori, 1991; Rimedi contro l’amore, a cura di Caterina Lazzarini, Marsilio 1986; I Fasti, a cura di Marco Fucecchi, Rizzoli-BUR 1998; Tristezze, a cura di Francesca Lechi, BUR 1993; Epistulae ex Ponto, a cura di Luigi Galasso, Oscar Mondadori 2008. Per le Metamorfosi, si consiglia l’edizione in sei volumi della Fondazione Valla-Mondadori, 2005-2015, coordinata da Alessandro Barchiesi. Ecco poi qualche titolo imperdibile della bibliografia critica (in costante crescita), fra quelli disponibili in italiano: Richard Heinze, Il racconto elegiaco di Ovidio, Edizioni Università di Trieste, 2010; Charles Segal, Ovidio e la poesia del mito. Saggi sulle Metamorfosi, Marsilio. 1991; Gianpiero Rosati, Narciso e Pigmalione. Illusione e spettacolo nelle Metamorfosi di Ovidio, Edizioni della Normale, 2016; Alessandro Barchiesi, Il poeta e il principe. Ovidio e il discorso augusteo, Laterza 1994. Sulla fortuna moderna e recentissima di Ovidio in particolare, si consiglia: Paolo Fedeli, «Ovidio nella critica moderna», in Ovidio, Opere I, op. cit., e Theodore Ziolkowski, Ovid and the Moderns, Cornell University Press, 2005, ampiamente citato in queste pagine di «Archeo». Da leggere infine, anche per le prospettive «social» e comparatiste che apre, la recensione di Alessandro Barchiesi al libro di Ziolkowski: «Il prossimo Ovidio», in Resistenza del Classico. Almanacco Bur 2010, a cura di Roberto Andreotti, BUR 2009.

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ARCHEOTECNOLOGIA • ARTIGLIERIE NAVALI/4

LA

GUERRA

DEL FUOCO

NELLE BATTAGLIE NAVALI SI FACEVA RICORSO A BALISTE CAPACI DI FAR PIOVERE SUL NEMICO PALLE DI PIETRA DAL PESO SUFFICIENTE A SFONDARE IL FASCIAME DELLE MURATE O IL PONTE STESSO DELLE IMBARCAZIONI. MA IL QUADRO SI FECE ANCOR PIÚ TERRIFICANTE QUANDO FURONO MESSI A PUNTO I MICIDIALI PROIETTI INCENDIARI di Flavio Russo

S

e è vero che le baliste e gli onagri potevano scagliare anche semplici sassi e che l’unico vero limite non risiedeva nella loro forma, ma nel loro peso, viene spontaneo domandarsi perché sia

invalso l’uso di palle di pietra. Perché, dunque, i Greci prima e i Romani poi spesero tempo e fatica per realizzare proietti perfettamente sferici, ovviamente costruiti a mano? Non certo, o non solo, per una

maggiore regolarità della traiettoria, dal momento che, stanti le numerose variabili del tiro, essa non rivestiva un’esigenza tanto vincolante da giustificare quella lavorazione.

PESO E DISTANZA Un discorso diverso, invece, occorre fare per la determinazione della distanza di caduta delle palle al termine della frazione quasi tesa della traiettoria, e, soprattutto, per la necessità di poter stabilire una corrispondenza biunivoca fra peso della palla e distanza battibile. In altri termini, per avere la certezza di far giungere la palla in un punto prestabilito che – a parità di condizioni, peso della palla e tensione delle matasse – fosse sempre lo stesso. Risultava agevole stabilire la dimensione della palla in base al suo peso, poiché nella sfera vi è una corriIn alto: Pompei. Primo piano di un tratto delle mura settentrionali con evidenti crateri da impatto balistico. A sinistra: ricostruzione di un onagro caricato con il suo proiettile di pietra.

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tramandataci da Filone di Bisanzio (vedi box in questa pagina). Individuato il modulo attraverso i rapporti dimensionali tramandatici da Vitruvio per la costruzione delle baliste, risulta facile ricavarne le dimensioni complessive. Queste, per semplicità, alcune delle sue prescrizioni: «La lunghezza della scaletta [cioè del fusto] sarà di 19 moduli [345 cm] (...) la slitta 11 moduli [200 cm] (...) La lunghezza dei rinforzi obliqui sarà di 3 moduli e ¼ [60 cm], (...) la lunghezza dei bracci sarà di 6 moduli [110 cm]» (De architectura, libro X). In conclusione, risulta una macchina di notevoli dimensioni, pari a 5 x 1,5 x 1,5 m circa fuori tutto, il cui

agevole trasporto poteva avvenire solo sulle navi, vantaggio del quale l’armamento navale ha da sempre goduto. Dalla penetrazione dei crateri sulle mura di Pompei, è stato possibile calcolare anche la velocità con cui le palle da 140 mm di diametro impattavano, quando a scagliarle era una balista del genere, posizionata fra i 50 e gli 80 m di distanza dalle mura: circa 90 m/s, quindi perfettamente in grado di trapassare lo scafo nemico, aprendovi falle irreparabili. I tiri, tuttavia, non avvenivano sempre con traiettorie quasi orizzontali, ma potevano essere anche fortemente parabolici, abbattendo-

Calcolo del diametro della matassa nervina, pari al modulo della balista spondenza costante fra quest’ultimo e il diametro, e si poteva cosí compensarne il costo di costruzione con una punteria piú precisa del tiro. Ma quali dimensioni doveva possedere una balista per essere in grado di sfondare il fasciame di uno scafo nemico avente uno spessore di 5 cm circa e perlopiú di quercia, posto a un centinaio di metri di distanza, con palle da 15 libre, pari a un diametro di 140 mm? La fortunata circostanza di poter osservare i crateri da impatto balistico impressi sulle mura di Pompei durante l’assedio di Silla nell’89 a.C., con diametri compresi fra i 50 e i 140 mm e penetrazioni a loro volta comprese tra i 40 e i 120 mm, ci consente di rispondere con notevole precisione alla domanda, avvalendoci di un semplice calcolo basato sulla formula di calibrazione

Diametro cratere Ø 140 mm, raggio r = 70mm Penetrazione con traiettoria perpendicolare alle mura, 120 mm Volume della sfera 4/3πr3, per r = 70mm da un volume di cmc 1436 Densità pietra lavica g/cmc 2,8: ogni centimetro cubo pesa 2,8 grammi Peso palla 1436 x 2,8 ≈ 4,0 kg Formula di Filone per il calcolo del diametro della matassa D=1,1 ³√P D espresso diametro in dita: ogni dito è pari a ≈ 19 mm P peso della palla in dracme attiche: ogni dracma è pari ≈ 6 g Conversione del peso da chilogrammi in dracme: 4 kg ≈ 666,6 dracme, per cui diventa D=1,1³√666 D=1,1 x 8,73 D ≈ 9,6 dita Conversione del diametro da dita in millimetri 9,6 dita ≈ 182 mm Diametro matassa = modulo = Ø 182 mm

A destra: Pompei. Dimensionamento del cratere da impatto rinvenuto su un concio delle mura, utile per ricostruire le dimensioni delle macchine da lancio impiegate. a r c h e o 83


ARCHEOTECNOLOGIA • ARTIGLIERIE NAVALI/4

si perciò sul ponte e sfondandolo fino alla chiglia. Al riguardo va osservato che un ponte di 5 x 50 m costituisce, con i suoi 250 mq, un bersaglio molto piú facile di una murata di 1,40 x 50 m, ovvero di appena 70 mq... La macchina preposta a quei tiri molto arcuati era un monoancon, a braccio unico, piú nota come «onagro», dalla gittata relativamente corta, ma di notevole effetto distruttivo. La sua palla, infatti, vistosamente piú grossa di quella delle baliste, una volta espulsa dalla fionda dell’arma con un angolo di fuga appena inferiore ai 45°, descriveva una parabola molto alta. Via via che ascendeva, la palla perdeva velocità, fino ad arrestarsi per una frazione di secondo al suo vertice, punto dal quale iniziava la

promessa la sincronia di voga e la conseguente governabilità della nave. Ma la vera minaccia di quei tiri era provocata dall’impiego dei proietti incendiari.

PROIETTI FIAMMEGGIANTI Non era, infatti, lo sfondamento della tolda – e meno frequentemente anche della carena – l’obiettivo dei tiri arcuati, essendo gli onagri navali munizionati in genere con pignatte ricolme di pirofori già innescati. In pratica, erano anfore in terracotta munite di un tappo acceso, una sorta di «bottiglie Molotov» ante litteram, che, piombando da un’altezza di una quarantina di metri e schiantandosi sulla coperta, aspergevano quest’ultima del loro liquido in fiamme, con A sinistra: graffito rinvenuto in Egitto nel quale si può riconoscere il lanciafiamme descritto da Tucidide. In basso: ricostruzione virtuale ipotetica del lanciafiamme navale di Tucidide.

ricaduta, con un simmetrico progressivo aumento di velocità.Trascurando la resistenza dell’aria al momento dell’impatto al suolo, sulle coperture delle abitazioni o sulla tolda delle navi la velocità era di poco inferiore a quella di partenza. L’impatto, perciò, avveniva con notevole violenza e quasi perpendicolarmente, determinando le condizioni ideali per la massima devastazione: lo sfondamento della tolda, e spesso anche della carena sotto la linea di galleggiamento, dove, prima ancora di aprirvi micidiali falle, massacrava alcuni rematori, terrorizzando gli altri. Veniva cosí com84 a r c h e o

conseguenze facilmente intuibili. Le navi, pertanto, interamente di legno calafatato e impregnato d’olio, piú che sporadiche prede dei rostri e dell’arpax, lo erano frequentemente delle fiamme. Molti storici di età classica hanno spesso fatto notare quanto il combattimento sul mare fosse, in assoluto, la forma di guerra piú atroce e terrificante poiché ambedue gli elementi antitetici, l’acqua e il fuoco, congiuravano per distruggere uomini e mezzi. Stigmatizzava, per esempio, Flavio Renato Vegezio: «Cosa è infatti piú crudele di uno scontro navale, nel quale gli uomini sono uccisi sia dalle acque sia dalle fiamme?” (L’Arte Militare, V, 14). Si moriva bruciati sulle navi che andavano a fuoco, infatti, e annegati su quelle che andavano a fondo, ma si trattava di due esiti tragici, perlopiú contigui, poiché le fiamme precedevano l’acqua. Per quanto fin qui delineato, appare estremamente probabile che il diffondersi delle artiglierie a braccio unico si debba ascrivere alla loro efficacia negli assedi terrestri e, soprattutto, nei scontri sul mare. Dagli esperimenti eseguiti con ricostruzioni accurate, si è potuto osservare che palle di 4 kg circa si abbattevano a oltre un centinaio di metri con ordinate di circa una cinquantina. Anfore caricate con appena 5 litri di


bili indicazioni, tuttavia, danno per conseguita dagli alchimisti bizantini agli albori del Medioevo, mediante l’isolamento della frazione piú leggera e volatile. In pratica, la benzina sarebbe stata in tal caso disponibile intorno al 500, o poco dopo, assumendo subito un ruolo preminente nella preparazione dei pirofori. Terrificanti erano gli effetti della combustione del piroforo a base di nafta e di olio di palma, che non a caso riecheggiano nelle loro iniziali il napalm, l’atroce miscela impiegata nell’ultimo conflitto mondiale.

Un’altra illustrazione raffigurante un lanciafiamme affine a quello descritto da Tucidide, utilizzato in questo caso in un combattimento terrestre, da un’edizione manoscritta bizantina della Poliorcetica di Apollodoro di Damasco.

miscela incendiaria innescavano incendi difficilmente domabili, che si facevano inestinguibili se appiccati da piú impatti. L’importanza di questa tattica nelle battaglie navali dell’antichità giustifica una breve digressione sulla composizione dei pirofori. Dal punto di vista meramente storico i liquidi incendiari traggono origine da sostanze combustibili vegetali presenti in natura. La fase immediatamente successiva, consistette nell’esaltarne le potenzialità infiammatorie, tramite numerose empiriche miscelazioni. Le piú antiche, per quanto siamo in grado di vagliare,

devono ritenersi quelle a base di resina colata dalle conifere e di olio, spesso di palma, in seguito sostituito dalla nafta, ottenuta dalla distillazione del bitume. Quest’ultimo, che può ritenersi in prima approssimazione il residuo solido del petrolio, lo si trova indicato già in una leggenda sumerica, molto simile alla narrazione biblica del Diluvio. Nessun dubbio, pertanto, che ancor prima del IV secolo a.C. liquidi infiammabili a base di idrocarburi, piú o meno densi, fossero perfettamente noti in tutto il Vicino Oriente. Meno nota è la cronologia della distillazione della nafta, che attendi-

LANCIAFIAMME NAVALI Che le navi fossero facile preda delle fiamme lo si era compreso ben prima del lancio di proietti incendiari, quando si elaborarono rudimentali ma micidiali lanciafiamme, collocati a prua delle navi, quasi come rostri di fuoco. Di uno di essi Tucidide ci ha lasciato una dettagliata descrizione: le fonti certificano la sua testimonianza che l’attribuiva ai Beoti per attaccare il campo trincerato ateniese di Delio, durante la guerra del Peloponneso. Cosí lo storico: «Tagliata in due una grossa trave, la svuotarono tutta e la riadattarono come fosse un flauto. A una estremità per mezzo di catene vi appesero un braciere e posero in esso un tubo di ferro che proveniva dalla trave; ed era rinforzato di ferro per gran tratto anche il resto della trave. Coi carri la accostarono alle mura da lontano, là dove esse erano costruite soprattutto con le viti e il legname. Quando la macchina fu vicina, introdotti dei grossi mantici alle estremità della trave dalla parte loro vi soffiavano. Con il soffio, arrivato violentemente al braciere pieno di carboni ardenti, zolfo e pece, fece sorgere una gran fiamma e diede fuoco al muro, sí che nessuno poté restarvi, ma dovettero abbandonarlo e darsi alla fuga: in tal modo il muro fu preso» (Guerra del Peloponneso,V, 100). Il congegno descritto, piú che un vero e proprio lanciafiamme, deve considerarsi come un gigantesco cannello ferruminatorio, del tipo di a r c h e o 85


ARCHEOTECNOLOGIA • ARTIGLIERIE NAVALI/4

quelli usati già da millenni dagli orafi egiziani. In quanto tale, poteva generare una fiamma dardiforme di altissima temperatura, capace di calcinare persino le pietre delle muraglie e di incendiare, in pochi istanti, ogni costruzione lignea. Per la sua semplice quanto terribile efficacia, trovò sicuro impiego nei combattimenti navali, ovviamente con successive, ma non stravolgenti modifiche. La trave cava divenne una sorta di bompresso che sorreggeva un grosso braciere ben al di fuori della prua, per intuibili ragioni di sicurezza, capace di incenerire qualsiasi battello nemico si fosse incautamente lasciato avvicinare a meno di una decina di metri.

DESCRIZIONI PUNTUALI Che non si tratti di una mera invenzione lo testimoniano sia alcune fonti iconografiche, sia i due brani che qui riportiamo. Appiano (160 d.C. circa) «Cinque [navi] riuscirono a fuggire aprendosi un varco tra l’agglomerato di quelle nemiche che atterrivano con il lampeggiare di fiamme; ciascuna di esse infatti portava su due pertiche sporgenti dalla prora recipienti di ferro pieni di fuoco divampante» (Storia romana,VII). Tito Livio (27/25 a.C.-17 d.C.) «Soprattutto incutevano spavento ai nemici quelle che portavano fuoco sulla

Dromone lanciafiamme Ricostruzione di un dromone lanciafiamme, provvisto di un sistema di lancio del liquido incendiario basato sull’impiego di una pompa a due cilindri.

prora: quel solo artifizio era bastato a salvarli quando a Panormo si trovavano circondati dai nemici fu ora di somma importanza per conseguire la vittoria. Le regie navi infatti per paura del fuoco opposto deviavano per non essere investite dalle prore, e cosí esse non potevano colpire con il rostro le navi nemiche e prestavano esse stesse il fianco all’offesa; che se qualcuna vi si cimentava, veniva avvolta da una pioggia di fuoco ed avevano un gran daffare piú per difendersi

Miniatura raffigurante l’utilizzo del «fuoco greco» in un combattimento navale, dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes, manoscritto che riporta la Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

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dal fuoco che dal nemico» (Storia di Roma, XXXVII-XXXVIII). Come già ricordato, a partire dal VI secolo, la distillazione del bitume forní un liquido volatile e infiammabilissimo: la benzina. Per le sue caratteristiche, essa divenne la componente ideale per la preparazione delle miscele incendiarie e dei pirofori piú efficaci, primo fra tutti il micidiale «fuoco greco» (una miscela composta da pece, salnitro, zolfo, nafta e calce viva, n.d.r.). Per ottimizzarne il lancio, si realizzarono sofisticati propulsori idraulici, utilizzando la pompa a due cilindri di Ctesibio. E fu forse quella la terribile premessa dei sifoni che, secoli dopo, furono impiegati per il lancio del fuoco greco. Resta inoppugnabile il ruolo progressivamente esclusivo che il fuoco greco assunse negli scontri navali, dove, a onta della scomunica comminata per il suo impiego, rimase praticamente in servizio fino all’avvento delle artiglierie a polvere. (4 – fine; le puntate precedenti sono state pubblicate nei nn. 390, 391 e 392, agosto-ottobre 2017).



SPECIALE • MODENA

MUTINA - MODENA

L’EREDITÀ DI UNA CITTÀ ROMANA di Luigi Malnati e Francesca Piccinini

I

l Foro Boario di Modena ospita, fino all’8 aprile 2018, la mostra «Mutina Splendidissima. La città romana e la sua eredità», curata dai Musei Civici di Modena e dalla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Bologna, con il sostegno della Regione Emilia-Romagna e della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e con il patrocinio dell’Università di Modena e Reggio Emilia. L’esposizione si inserisce nel piú ampio progetto «2200 anni lungo la Via Emilia», promosso dai Comuni di Modena, Reggio Emilia e Parma, dalle Soprintendenze Archeologia Belle Arti e Paesaggio delle sedi di Bologna e Parma, dal Segretariato Regionale del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo per l’Emilia-Romagna e dalla Regione Emilia-Romagna. Grazie a questo progetto, tre città nel cuore dell’Emilia-Romagna per la prima volta riflettono congiuntamente sulla loro storia piú antica. Modena e Parma, fondate come colonie «gemelle» nel 183 a.C., e Reggio Emilia, istituita come «Forum» negli stessi anni, condividono il fondatore Marco Emilio Lepido, il console a cui si deve la costruzione della via Emilia, destinata a diventare l’elemento unificante della regione e a svolgere un ruolo ininterrotto di asse di scambio e di comunicazione. Attraverso il richiamo alla millenaria vitalità di questa strada le tre città hanno gettato un ponte ideale fra la romanità e la contemporaneità, sviluppando ognuna un articolato programma di eventi.

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Frammento di affresco con rilievo in stucco applicato raffigurante un personaggio con ampia tunica e copricapo, da una villa del suburbio di Mutina, da Modena, cava Fossalta. Metà del I sec. d.C. Modena, Musei Civici.


Sullo sfondo: disegno ricostruttivo dell’assetto ambientale ai tempi di Mutina romana. A sinistra: bronzetto raffigurante Hermes/Mercurio, da Castelvetro (Modena). Seconda metà del I sec. a.C.-prima metà del I sec. d.C. Bologna, Museo Civico Archeologico. In basso: presa di lucerna in forma di testa di divinità femminile. I-II sec. d.C. da Modena, scavi ex Parco Novi Sad. Modena, Musei Civici.

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SPECIALE • MODENA

UN MONUMENTO DELLA CULTURA UMANISTICA La metà del Cinquecento è il momento in cui a Modena appare piú consapevole il richiamo al glorioso passato romano della città in funzione politica e sociale. Nel 1546, i Conservatori della Magnifica Comunità – come allora si chiamava il Comune – affidarono a Nicolò dell’Abate (1509 ?-1571) la realizzazione di un ciclo pittorico per la sala del Palazzo Comunale dove erano soliti riunirsi per deliberare. L’artista ricevette istruzioni ben precise: l’opera avrebbe illustrato episodi della guerra di Modena e la nascita del secondo triumvirato avvenuta «nei pressi di Mutina» tra il 44 e il 43 a.C., secondo la versione di Appiano di Alessandria suggerita dal letterato

Modena, un tempo Mutina, definita da Cicerone firmissima et splendidissima, fu una delle piú importanti colonie romane dell’Italia settentrionale. Tuttavia, chi oggi percorra le vie della città, non ne riconosce le origini romane, perché Mutina giace – come una piccola Pompei – al di sotto delle strade del centro storico, custodita non dalla lava di un vulcano, ma dai depositi delle alluvioni che si verificarono in epoca tardo-antica. Il programma promosso dal Comune di Modena e coordinato dai Musei Civici ha inteso rendere percepibile questa realtà sepolta attraverso una serie di iniziative culminate nella grande mostra «Mutina Splendidissima. La città romana e la sua eredità», che ne racconta, attraverso nuove scoperte, le origini, lo sviluppo e il lascito che essa ha trasmesso alla città moderna. Un racconto, proposto con un linguaggio accessibile a 90 a r c h e o

Lodovico Castelvetro. Il programma iconografico della sala mira a istituire un parallelismo tra la Modena del Cinquecento, raffigurata sulle pareti, e Mutina, protagonista di una fase cruciale delle guerre civili che insanguinarono il mondo romano dopo l’assassinio di Cesare. La figura di Ottaviano, che liberò la città dall’assedio di cui era oggetto a causa della contrapposizione tra Decimo Bruto e Antonio, e il successivo accordo tra il futuro Augusto, Antonio e Lepido rispecchiano dunque la ritrovata armonia della comunità modenese sotto il governo di Ercole II, dipinto sul camino nelle vesti di Ercole che uccide il leone di Nemea. Il fregio dipinto si salda alla parte

In alto: L’incontro dei triumviri Ottaviano, Antonio e Lepido, dipinto murale su tela di Nicolò dell’Abate. 1546. Modena, Palazzo Comunale, Sala del Fuoco.

tutti, fondato su dati archeologici e storici esaminati con uno sguardo pluridisciplinare, grazie alle collaborazioni di studiosi di diversi ambiti scientifici, molti dei quali appartenenti alle Università di Modena e Reggio Emilia, Bologna e Venezia.

FRA REALE E VIRTUALE I reperti e le opere d’arte, accostati a testimonianze provenienti da numerosi musei italiani, affiancano in mostra le ricostruzioni virtuali dei principali monumenti di Mutina – le mura, il Foro, l’anfiteatro, le terme, una domus – realizzate da Altair4 Multimedia e coinvolgenti videoracconti, prodotti da Intersezione, fanno da contrappunto alla descrizione delle città dal periodo precedente la deduzione della colonia romana, alla decadenza verificatasi nella tarda età imperiale fino alla contemporaneità.


lignea costituita dal soffitto a cassettoni con lo stemma della Comunità, al fregio ligneo a metope e triglifi in cui i motivi all’antica si alternano alle insegne della città e agli stalli, trasferiti agli inizi del Seicento nella sala a fianco. Il racconto per immagini sviluppato da Nicolò dell’Abate si dispiega in orizzontale riprendendo i sarcofagi romani e rivela un linguaggio personale influenzato dalla conoscenza diretta di alcune celebri imprese decorative incentrate sulla storia romana, quali il salone di palazzo Baldassini a Roma, realizzato da Perin del Vaga, ma anche la Loggia della Farnesina dipinta da Raffaello.

In alto: Musei Civici, Gipsoteca Graziosi. Uno scorcio della campata est. A destra: Monumento ai caduti di Sassuolo (Il Legionario, Il Vittorioso), scultura in gesso di Giuseppe Graziosi. 1919 circa. Modena, Musei Civici, Gipsoteca Graziosi. a r c h e o 91


SPECIALE • MODENA

Molte sono le novità presentate per la prima volta al pubblico, tra cui le decorazioni parietali con scene figurate tracciate con pigmenti pregiati e stucchi a rilievo, equiparabili per qualità a quelli provenienti da Pompei, esposte a fianco di elementi di arredo di elevato pregio artistico provenienti dalle domus di età imperiale, i cui resti sono stati rinvenuti a diversi metri di profondità in occasione degli scavi condotti negli ultimi decenni. Il percorso espositivo si apre con il racconto degli eventi che determinarono la parziale scomparsa della città. Dati geologici e archeobotanici permettono di

In basso: testa in marmo di Ercole tipo Farnese, dal territorio modenese. Seconda metà del II sec. d.C. Modena, Musei Civici.

LA CARTA ARCHEOLOGICA A Modena l’archeologia viene da sempre percepita come valore storico e identitario: dagli scavi alla ricerca delle belle prede di età romana da utilizzare nella costruzione della cattedrale, alle primordiali carte archeologiche elaborate da Arsenio Crespellani, Direttore dei Musei Civici, fino alla attuale Carta delle Potenzialità archeologiche, per i Modenesi gli scavi archeologici non costituiscono un ostacolo e un rallentamento al progresso urbanistico, bensí sono occasione di conoscenza del proprio passato. Risale agli inizi degli anni Ottanta l’elaborazione del Sistema Mutina, un programma che consentiva di gestire dati cartografici, archivistici e informativi e che ha dato vita alla carta archeologica comunale e provinciale, poi inserita all’interno del sistema delle tutele del piano urbanistico. La carta archeologica è stata concepita, fin dall’inizio, come uno strumento conoscitivo utile ai fini della tutela archeologica, ma anche per ricostruire, con il concorso di altre discipline, un quadro il piú possibile

conoscere l’assetto ambientale di 2200 anni fa. Alluvioni e terremoti, che hanno profondamente mutato il paesaggio antico, sono stati infatti interpretati anche alla luce dei fenomeni naturali che hanno colpito il territorio modenese e la Pianura Padana negli ultimi anni, in particolare il terremoto del 2012 e l’alluvione del 2014.

GLI ETRUSCHI E I CELTI Il percorso prosegue inquadrando le dinamiche di occupazione del territorio da parte degli Etruschi e dei Celti prima e durante la romanizzazione, tra la fine del III e i primi decenni del II secolo a.C. La fondazione della colonia romana, avvenuta nel 183 a.C. e ricordata da Tito Livio,viene illustrata grazie alle conoscenze acquisite attraverso l’archeologia e al confronto con situazioni analoghe. (segue a p. 96) 92 a r c h e o


integrato delle dinamiche ambientali e insediative nel territorio modenese. Compresa nel piano regolatore comunale nel 1990, già allora essa non si limitava alla tradizionale rappresentazione dei dati archeologici noti, ma conteneva anche la mappatura di aree «di rischio archeologico», introducendo il concetto di «potenzialità archeologica». La presenza della tutela archeologica negli strumenti di pianificazione territoriale ha portato a una vastissima conoscenza del territorio, tanto che la banca dati attualmente conta circa 1500 presenze archeologiche per il territorio comunale e 3200 per quello provinciale. Dal 2015 Museo Civico e Settore Pianificazione territoriale del Comune di Modena sono impegnati nella redazione della Carta delle potenzialità archeologiche, seguendo le Linee guida per l’elaborazione della carta delle potenzialità archeologiche del territorio, elaborate dalla allora Soprintendenza Archeologia dell’Emilia-Romagna e approvate dalla Regione nel 2014. In alto: distribuzione dell’insediamento di età romana in relazione agli elementi paleoidrografici e ambientali, alla centuriazione e alla rete infrastrutturale. In basso: balsamari in vetro colorato dalle necropoli orientali di Mutina. Età imperiale. Modena, Musei Civici.

In alto: statuetta di lepre in bronzo, proveniente da una lussuosa villa di Mutina. I sec. d.C. Modena, Musei Civici.


SPECIALE • MODENA

PRODOTTI RICERCATI Celebrate dagli autori latini e rinomate in tutto l’impero, le eccellenze di Mutina erano la produzione ceramica, l’allevamento ovi-suino e la viticoltura. Polibio ci informa che in Cispadana, dove il costo della vita era molto basso e si mangiava a ottimi prezzi, l’allevamento suino era cosí sviluppato che consentiva di rifornire di carne l’esercito romano. Le pecore allevate a Mutina sono ricordate da molti autori, primo fra tutti Strabone, che sottolinea la qualità delle lane mutinensi: «Nei luoghi intorno a Modena

e al fiume Panaro si produce una lana morbida e molto piú bella che in ogni altro sito». Questo giudizio è ripreso piú tardi sia da Columella sia da Plinio, che fornisce anche un’indicazione sul prezzo piuttosto elevato delle lane di questo territorio. La fama di questo prodotto è confermata dalla presenza di vesti tessute con lane di Mutina nel guardaroba della casa imperiale e dalle numerose citazioni nell’Editto dei prezzi di Diocleziano. A Modena esistevano impianti per la lavorazione e la commercializzazione In alto: presa di lucerna con marchio di fabbrica «MVTINA/ PRISCVS F(ecit)», riferibile al produttore modenese «PRISCUS», da Cittanova (Modena). I sec. d.C. A sinistra: lucerna in ceramica con bollo «MVT(ina) MENANDER F(ecit)». Brugg (Svizzera), Kantonsarchaeologie Aargau.

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In basso: frammento di coppa in ceramica. L’iscrizione dichiara la pertinenza dell’oggetto ad un proprietario di nome «[- - -]riu Mutna», da Monte Pézzola (Reggio Emilia). V sec. a.C. Reggio Emilia, Musei Civici.

della lana, documentati sia dai dati archeologici sia dalle epigrafi funerarie che menzionano commercianti, tosatori, tintori, i quali dovettero raggiungere un certo benessere economico grazie a questa attività. Mutina era fra i piú importanti centri di produzione ceramica del mondo romano. Alcuni marchi di fabbrica testimoniano esplicitamente la produzione di lucerne a Modena, esportate già a partire dal I secolo a.C. Conosciamo i nomi dei fabbricanti (Cerintho, C. Fadio, Forte, Menandro e

Prisco), che al marchio apposto sui loro prodotti uniscono l’espressione Mutinae f(ecit), evidentemente percepita dal mercato come garanzia di qualità. Secondo Plinio, a Mutina si coltivava l’uva Perusinia dagli acini neri, in grado di produrre un vino tendente a schiarire dopo quattro anni di invecchiamento. La denominazione del vitigno tradisce una chiara origine dalla città etrusca di Perugia, dalla quale questa varietà era stata importata forse in seguito alla colonizzazione etrusca della regione.

A destra: lucerna in ceramica con bollo «F(ecit) C(aius)FADI M(utina)», dal territorio veronese. Verona, Museo Archeologico al Teatro Romano. a r c h e o 95


SPECIALE • NOME

Gli scavi condotti a partire dagli anni Ottanta hanno chiarito molte fasi cruciali della storia di Modena Ampio spazio ha la descrizione della struttura della colonia, arricchitasi di importanti monumenti pubblici e di lussuosi edifici privati soprattutto nella prima età imperiale, e delle necropoli collocate lungo le vie di accesso alla città. A partire dagli anni Ottanta, infatti, Modena è stata oggetto di un’attenta opera di controllo archeologico, che ha consentito di raggiungere i livelli antichi e di ricostruirne le vicende storiche, con l’esame pluridisciplinare dei contesti di scavo e il recupero di reperti significativi, tra cui centinaia di corredi funerari. Gli studi condotti hanno consentito di ricostruire anche le abitudini alimentari dei Mutinenses, che confermano il benessere economico della città. A queste ultime la mostra dedica uno spazio significativo, cosí come alle testimonianze delle produzioni di eccellenza che le fonti attribuiscono a Modena: lucerne, laterizi, vino e quelle lane che erano tra le piú pregiate e ricercate dell’impe96 a r c h e o

In alto: Modena, Parco Novi Sad. 2010. Un momento degli scavi archeologici sul basolato della strada romana.

ro, tanto da essere ricordate ancora nell’Editto dei prezzi del III secolo d.C. Un’intera sezione è dedicata ai profili dei Mutinenses, svelati coniugando dati epigrafici e storici che consentono di ricostruire il profilo sociale multiforme e variegato della città.

SULLA TOMBA DI GEMINIANO La sezione dedicata al periodo tardo-antico e all’Alto Medioevo propone con un taglio problematico il tema della continuità della città antica e costituisce la cerniera tra le due parti di una mostra che affronta con coraggio e spirito innovativo la sfida della continuità tra dimensione archeologica e dimensione storico-artistica. Il perno è costituito dalla figura del patrono san Geminiano, il vescovo contemporaneo di sant’Ambrogio, sulla cui tomba, situata in area cimiteriale a ovest del perimetro urbano di Mutina, è sorta la cattedrale e si è sviluppato il nucleo urbano medievale.


In alto: ricostruzione virtuale della città romana di Mutina. A sinistra: Modena. L’ara di Vetilia in corso di scavo. 2007.

Il tema dell’eredità viene sviluppato nella seconda parte dell’esposizione, evidenziando alcuni momenti particolarmente significativi, attraverso opere d’arte e documenti provenienti da diversi musei e biblioteche italiane, numerosi video e due ricostruzioni virtuali dedicate alle antichità esposte intorno al

Duomo nel Rinascimento e alla perduta Galleria delle antichità di Francesco II in Palazzo Ducale, anch’esse curate da Altair. La costruzione del duomo romanico a opera dell’architetto Lanfranco e dello scultore Wiligelmo, nel quale il rapporto con l’antichità appare strettissimo, costituisce la giuntura tra la città antica e quella moderna. Il fenomeno del reimpiego di materiali lapidei provenienti dalla città romana – già documentato in epoca altomedievale e facilitato probabilmente dal parziale affiorare dei monumenti in rovina – assume infatti particolare rilievo nel momento in cui i cittadini modenesi, riuniti nel nascente Comune, decidono di ricostruire la cattedrale (1099) che sorgeva sulla tomba di san Geminiano affidando il lavoro a due personalità di eccezione, l’architetto Lanfranco e lo scultore Wiligelmo. Nella loro opera il rapporto con il passato romano diventa elemento caratterizzante e assume forme variegate, dal semplice riutilizzo di materiale al riferimento formale e iconografico. Tra il XII e il XIV secolo, con i Maestri Campionesi, attivi per piú generazioni nel cantiere che segue il completamento a r c h e o 97


SPECIALE • MODENA

UN LETTO PREZIOSO Il letto in bronzo apparteneva a un set da triclinio collocato in una delle piú lussuose domus di Mutina, e fu ritrovato nel 1967 durante scavi per la costruzione di un cinema, tra via Università e Corso Canalgrande. Del letto sono rimasti quattro piedi in bronzo decorati da una scena di combattimento tra Ercole, Teseo e un centauro, parti del listello di rivestimento orizzontale con decorazione ageminata in argento, una base

esagonale di piede. La mostra «Mutina splendidissima» è stata l’occasione per avviare un progetto di ricerca, finalizzato a determinare metodi di fabbricazione, composizione della lega metallica e aspetto originario del letto. La diagnostica è stata eseguita grazie alla collaborazione di uno dei piú importanti laboratori di analisi metallografiche d’Italia, Tec-Eurolab e del Dipartimento di Scienze Chimiche e Geologiche

In basso: osservazione al microscopio stereoscopico del decoro del letto tricliniare, rinvenuto nel 1967 in una delle piú ricche ville di Mutina. Sulle due pagine, in basso: ricostruzione del letto.

del Duomo e della torre Ghirlandina, il reimpiego assume progressivamente le forme dell’esibizione pubblica, mentre si affermano il commercio e il collezionismo di antichità.

ERCOLE E LA «RESTAURATIO» Nel periodo rinascimentale il richiamo alle origini romane della città, le cui vestigia sono pubblicamente esibite nei luoghi piú significativi già a partire dal XII 98 a r c h e o

secolo, diventa riferimento consapevole e storicamente documentato. Intorno alla metà del Cinquecento, in particolare, il governo cittadino in accordo con il duca Ercole II d’Este sembra intenzionato ad attuare quella «restauratio Mutinae civitatis», di cui è espressione emblematica la Sala del Fuoco nel Palazzo Comunale, dove Nicolò dell’Abate dipinse la Guerra di Mutina del 43 a.C., che pose fine alle guerre civili, aprendo la strada


dell’Università di Modena e Reggio Emilia. La tomografia ha rivelato l’impiego della tecnica di fusione a cera persa e le analisi metallografiche hanno evidenziato sulle superfici bronzee una patina nera, al momento del ritrovamento scambiata per uno strato formatosi a causa di un incendio e, pertanto, quasi completamente asportata. Le patine artificiali, attestate su altri letti tricliniari, seppure con composizioni differenti a seconda delle ricette impiegate dall’artigiano, permettono di ottenere una superficie nera, sulla quale far

risaltare l’ageminatura in argento: un effetto che doveva rispondere alla moda di imitare il celeberrimo «bronzo corinzio», considerato il metallo piú prezioso dopo l’oro, ancor piú dell’argento. Il letto fu prodotto da una officina dell’Italia centro-meridionale, che realizzò la seconda serie di piedi di letto tricliniare trovata nello scavo. L’identico schema della sequenza di modanature e torniture porta a supporre che i due letti fossero collocati insieme nella Didascalia da sala da banchetti e che fare Ibusdae quello istoriato fosse riservato evendipsam, al dominus. officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

all’affermazione di Ottaviano Augusto quale primo imperatore romano. Tra Sei e Settecento il tema si declina variamente tra passioni collezionistiche, richiamo a un’antichità esemplare e nascita della grande tradizione erudita legata al nome di Lodovico Muratori (1672-1750), che culmina nel primo Ottocento con la creazione del Museo Lapidario Estense voluto dal duca Francesco IV d’Austria-Este. Il percorso (segue a p. 103)

In alto, sulle due pagine: tomografia di uno dei piedi in bronzo del letto, sul quale è possibile osservare una frattura antica con riparazione.

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SPECIALE • MODENA

TRA ARCHEOLOGIA E STREET ART 3D Coniugare l’archeologia all’arte urbana è stata l’idea alla base di un evento che, unico nel suo genere, ha promosso la conoscenza della città romana attraverso un linguaggio del tutto inedito e che, per le sue caratteristiche, si adatta perfettamente a far rivivere una realtà sepolta qual è quella che Modena custodisce. La cosiddetta «street art 3D» ha infatti scelto la strada dell’anamorfismo per «ingannare» chi guarda le opere, creando sprofondamenti illusionistici nel terreno. La tecnica risale al Rinascimento ed è stato Kurt Wenner, uno degli artisti che hanno operato a Modena, ad applicare tecniche del Cinquecento, note a maestri come Leonardo da Vinci, a un’arte che utilizza la strada come una tela. In cinque diversi luoghi di Modena, dal 12 al 14 maggio 2017, altrettanti street artist internazionali, lo stesso Wenner, Leon Keer, Julian Beever, Eduardo Relero e Vito Mercurio, hanno aperto varchi nella pavimentazione della città per «svelare» i siti piú significativi della città romana, noti grazie agli scavi e alle ricerche che ne hanno

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consentito l’interpretazione e la ricostruzione: l’anfiteatro, le mura, le terme, il Capitolium e una delle domus piú note. La presenza delle opere in alcuni dei punti piú scenografici della città – piazza Grande, piazza Roma, Palazzo della Provincia, largo Porta Bologna e lo storico Palazzo Carandini – ha conferito un valore aggiunto alla performance e anche alla visibilità di Modena, veicolata in rete grazie a migliaia di visualizzazioni. L’evento si è svolto in forma di work in progress nelle cinque postazioni del centro storico cittadino e ha richiamato 30 000 persone di ogni età, incuriosite dai varchi che svelavano aspetti di Mutina Splendidissima. Individuare il punto esatto dal quale cogliere con stupore l’effetto tridimensionale, amplificato dagli strumenti ottici messi a disposizione dagli artisti, oppure ottenerlo con il proprio smartphone, scoprire di poter interagire con l’opera fino a farne parte, ha generato nell’arco delle tre giornate un sorprendente corto circuito fra archeologia, arte e dimensione social.


VERSO IL FUTURO

In queste pagine: Modena, 2017. Due opere realizzate in occasione dell’evento Varchi nel Tempo, realizzato in vari luoghi della città. Nella pagina accanto, Kurt Wenner, l’anfiteatro; sulle due pagine, Julian Beever, la domus.

A una riflessione sul passato e il presente, si affianca uno sguardo rivolto al futuro, con il progetto «Capsule del tempo. Da Mutina al futuro», che invita tutti a essere protagonisti del compleanno della città. I visitatori possono affidare a un grande contenitore trasparente oggetti, testi, fotografie, articoli di giornale a loro giudizio rappresentativi della nostra epoca. Le capsule del tempo, diffuse in tutto il mondo e spesso realizzate in occasione di fondazioni, ricorrenze, inaugurazioni, sono infatti «archivi della contemporaneità», destinati a essere ritrovati in un momento prestabilito del futuro. La time capsule modenese, che intercetta e rappresenta simbolicamente i temi che sono alla base della mostra – la memoria, la conservazione, la trasmissione al futuro – sarà aperta in un momento che, a sua volta, rappresenterà una ricorrenza importante per Modena: il 2099, mille anni dopo la posa della prima pietra del Duomo, simbolo del legame fra città romana e città medievale e moderna. L’invito è rivolto sia ai visitatori sia alle scuole, con proposte educative che accompagnano bambini e ragazzi all’elaborazione del loro messaggio per il futuro. Al termine dell’esposizione, la time capsule, accompagnata da una targa che ne ricordi la realizzazione e la data di apertura, sarà accolta nell’area del Sito UNESCO. Il progetto è realizzato in collaborazione con Biblioteca Civica Antonio Delfini.

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SPECIALE • MODENA

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UN CONTINUO DIALOGO CON L’ANTICO Oltre a celebrare la fondazione di Mutina, il 2017 ha anche segnato i vent’anni dal riconoscimento UNESCO del Sito composto dalla cattedrale romanica di Modena, dalla torre Ghirlandina e da piazza Grande, considerato un capolavoro del genio creativo umano, nel quale si impone una nuova dialettica di rapporti tra l’architettura di Lanfranco e la scultura di Wiligelmo che lo rende un’espressione altamente significativa dell’arte romanica europea. La decisione di costruire la nuova cattedrale, con la torre che la affianca, fu presa infatti dai cittadini modenesi, riuniti e concordi nelle diverse componenti sociali, in un momento di vacanza della sede vescovile, nel pieno della lotta per le investiture. Il complesso, quindi, è anche una precoce espressione dell’affermazione del regime comunale, tipica dell’Europa medievale, nella quale si esprime una significativa dialettica di rapporti tra i valori civili della società urbana e quelli della religione cristiana. L’eccezionalità del complesso è legata, inoltre, all’intensità del rapporto con il glorioso passato romano della città che in essi si esprime, attraverso il ricorso alla pratica del reimpiego, tanto che sia il Duomo che la torre risultano quasi interamente costruiti con mattoni romani e rivestiti

espositivo giunge tuttavia fino al presente, illustrando la precoce nascita, intorno alla metà del XIX secolo, di una cultura scientifico-sperimentale che inizia a promuovere il recupero archeologico di Mutina con lo scavo che identifica le terme sotto all’attuale Palazzo della Provincia e che, di lí a poco, contribuirà alla formazione del Museo Civico (1871), fino al progressivo affermarsi, nel corso del Novecento, di una coerente politica di tutela e valorizzazione.

In alto: Modena, Duomo. Particolare della facciata con la lastra in cui i profeti Enoch ed Elia reggono la tabella con l’scrizione che ricorda la fondazione del Duomo, opera di Wiligelmo. Inizi del XII sec.

da pietre di spoglio provenienti dall’antica Mutina. Non solo, la stessa struttura architettonica della cattedrale di Lanfranco presenta chiari riferimenti all’architettura dell’antichità, alla cui conoscenza potrebbe fare riferimento la qualifica di «doctus» che le fonti gli attribuiscono. E la scultura di Wiligelmo dialoga in vario modo con quella antica visibile nel territorio, mentre il ricco apparato epigrafico che accompagna le sculture ha come modelli precedenti romani, creando una continuità con il passato che rende difficoltoso stabilire quanto si tratti di riscoperta, sia pure celata dietro i toni miracolistici del rinvenimento «voluto da Dio», e quanto di continuità rispetto a un passato che non era mai stato dimenticato, come dimostrano i casi di duplice reimpiego, altomedievale e romanico, esposti nei Musei del Duomo.

Nella pagina accanto: Modena. Il protiro del Duomo, dove si trovano reimpiegati i due leoni stilofori di epoca romana.

DOVE E QUANDO «Mutina Splendidissima. La città romana e la sua eredità» Modena, Foro Boario fino all’8 aprile 2018 Orario ma-gio, 9,00-14,00; ve, 9,00-22,00; sa, do e festivi 10,00-19,00; lunedí chiuso, Info tel. 370 3234539; e-mail: mostra@mutinasplendidissima.it; www.mutinasplendidissima.it; a r c h e o 103


QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

…DIVENTÒ UNA CITTÀ DI PORTICI LE GRANDI AREE PORTICATE DELLA CAPITALE DELL’IMPERO NON ERANO SOLO UN PROVVIDENZIALE RIPARO DAL SOLE DELL’ESTATE E DALLE PIOGGE AUTUNNALI, MA EBBERO MOLTEPLICI FUNZIONI: DA SPAZI DESTINATI A SERVIZI DI PUBBLICA UTILITÀ A VERI E PROPRI MUSEI ANTE LITTERAM

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opo l’incendio che, nel 64 d.C., devastò Roma, tra i provvedimenti presi da Nerone per prevenire o, quanto meno, limitare i danni di altre possibili sciagure del genere, ci fu la prescrizione di dotare di portici le fronti degli edifici. Ce lo dice Svetonio, il quale, nella biografia dell’imperatore (Nero XVI), scrive: «Escogitò un nuovo tipo di edifici per l’Urbe in modo che domus et insulae avessero dei portici sulla fronte, dai

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cui terrazzi si potessero combattere gli incendi. E quei portici fece costruire a sue spese». Una puntuale conferma la troviamo in Tacito (Ann. XV, 43), ma non mancano le prove archeologiche. Per esempio, quella offerta dalla cosiddetta Insula dell’Aracoeli, alle pendici del Campidoglio, che mostra un portico a pilastri aggiunto a ridosso della facciata, contro gli ampi ingressi delle tabernae al pianterreno e a spese

del maenianum, il balcone che correva lungo il secondo piano. Sta di fatto che, in concomitanza con il diffondersi delle insulae, tra il I e il II secolo d.C., Roma assunse l’aspetto di una «città di portici». Lo testimonia egregiamente la Forma Urbis, la pianta marmorea della città, dell’età severiana, che mostra in gran numero le vie porticate (con pilastri, indicati da linee tratteggiate, oppure con colonne indicate con file di puntini).


Ciò detto, si deve tuttavia aggiungere che Roma già da qualche secolo era caratterizzata dalla diffusa presenza di altri tipi di portici. A cominciare da quelli... «monumentali», corrispondenti al piano inferiore degli edifici per spettacoli, dai teatri (di Pompeo, di Marcello, di Balbo) al Circo Massimo, come, in seguito, dal Colosseo allo Stadio di Domiziano. Per non dire delle «facciate» delle basiliche forensi, Emilia e Giulia.

SUGGESTIONI ELLENISTICHE Numerosi poi erano quelli svincolati da altri edifici e realizzati come elementi a sé stanti in funzione autonoma. Furono anzi proprio questi i primi, in ordine di tempo, a essere realizzati; a partire da quando, nel II secolo a.C., a seguito delle conquiste in Oriente, giunsero a Roma, tra le altre, le suggestioni architettoniche e urbanistiche provenienti dalle grandi capitali dei regni ellenistici. Tra queste suggestioni, il motivo del portico trovò nell’Urbe grande fortuna, potendo oltretutto avvantaggiarsi di un momento particolarmente favorevole. Da un lato, c’era infatti il desiderio di personaggi importanti di legare il proprio nome (e il ricordo delle proprie imprese) a nuovi grandi monumenti e a spettacolari opere pubbliche (finanziate con i bottini delle guerre vittoriose). Dall’altro, c’era l’inesauribile disponibilità di spazi offerta dalla grande pianura del Campo Marzio, proprio da allora sottoposta a un’intensa opera di urbanizzazione. Il portico greco – la stoà (col nome femminile, come sarà il corrispondente latino porticus) – arricchiva e delimitava, su uno o piú lati, una «piazza» che era quasi sempre l’agorà. A Roma, «enfatizzato» nella forma del quadriportico, esso fu impiegato per creare ex novo «piazze»

monumentali indipendenti e autonome. Tali furono le prime realizzazioni ubicate in quella parte del Campo Marzio piú vicina alla città, tra il Campidoglio e il Tevere, che prendeva nome dal Circo Flaminio. Cosí fu per il Portico di Ottavio (Porticus Octavia), costruito nel 168 a.C., attorno al tempio di Ercole Musagete, da Gneo Ottavio (e poi sostituito, nel 29 a.C., dal Portico di Filippo – Porticus Philippi – costruito da Lucio Marcio Filippo). Cosí fu per il Portico di Metello (Porticus Metelli), costruito nel 146 a.C., da Cecilio Metello Macedonico, attorno al Tempio di Giunone Regina (a cui venne affiancato quello di Giove Statore); anch’esso rifatto, tra il 33 e il 23 a.C., da Augusto che lo dedicò alla sorella Ottavia (Porticus Octaviae): il solo del quale rimangono resti visibili, soprattutto nel grande propileo d’ingresso, restaurato, nel 203 d.C., da Settimio Severo. Sempre da Augusto, furono

edificati, ancora in Campo Marzio (adiacenti al Pantheon) i Portici di Meleagro e degli Argonauti, che trasformarono in una «piazza» monumentale i Saepta, gli antichi «recinti» per le assemblee popolari, e, sul Colle Oppio, il Portico di Livia (Porticus Liviae) con al centro l’Altare della Concordia.

FUNZIONI DI RACCORDO Del tipo a un solo corpo lineare con funzioni di raccordo o, comunque, di comunicazione tra zone urbane anche piuttosto distanti tra loro, dovevano essere, invece, il Portico Vipsanio (Porticus Vipsania), fatto costruire dalla sorella di Agrippa, Vipsania, a est della via Lata e, prima ancora, il Portico dei Lentuli (Porticus Lentulorum) o «delle cento colonne» (Hekatostylum), costruito dai due consoli di quel nome, al tempo di Pompeo. Ma, già nel 193 a.C. era stato costruito il portico – citato da Livio (XXII, 36) come via Fornicata – che

Nella pagina accanto: Venditori di pesce al Portico di Ottavia, acquerello di Ettore Roesler Franz. 1880. Roma, Museo di Roma. A destra: ricostruzione grafica della Porticus Minucia Frumentaria, destinata alla distribuzione di grano al popolo, cosí come doveva presentarsi poco dopo la sua costruzione, nel I sec. d.C.

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Ricostruzione ipotetica virtuale dell’aspetto del Foro di Augusto, nel I sec. d.C., con, al centro, l’imponente Tempio di Marte Ultore, eretto per volere dell’imperatore, fiancheggiato da ampi portici.

dalla Porta Fontinalis, alle pendici del Campidoglio, conduceva all’Ara Martis del Campo Marzio. Mentre altri se ne costruirono nel tardo impero, fino ai Portici Massimi voluti, verso il 380, dagli imperatori Graziano, Valentiniano II e Teodosio attraverso il Campo Marzio fino al Ponte Elio. Per non dire dell’edilizia della prima Roma cristiana, visto che portici «lineari» conducevano i pellegrini, al riparo dal sole e dalla pioggia, dalle mura alle basiliche di S. Pietro e di S. Paolo, di S. Sebastiano e di S. Lorenzo. Quelle stesse basiliche dove si trasferiva altresí il tipo della «piazza porticata» che diventava l’atrio, collocato prima dell’ingresso. Tuttavia, la fortuna maggiore toccò sempre al quadriportico e il tema della «piazza porticata» continuò a essere replicato con progressive monumentalizzazioni, per esempio, nei Fori Imperiali, da quello di Cesare a quello di Augusto (con l’aggiunta di grandi esedre), da quello di Vespasiano (piú correttamente, Tempio della Pace) a quello di Traiano, mentre fu solo una finzione – ma, proprio per questo assai significativa – quella a cui si ricorse, per mancanza di spazio, con colonne addossate alle pareti, nel Foro Transitorio o di Nerva. Dietro al quale un portico tutto speciale ebbe un andamento a ferro di cavallo che gli valse il nome di Porticus Absidata.

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Quanto alla destinazione e all’uso, oltre a quanto detto, i portici finirono col diventare, in generale, soprattutto luoghi d’incontro e di passeggio, fuori dal caos delle strade affollate, al riparo dal sole e dalla pioggia: in ogni caso e con ogni tempo, «delizia dei nullafacenti», come scrive Seneca.

NEGLI INTERVALLI DEGLI SPETTACOLI Sempre a questo scopo, ma destinandolo in prima istanza ai frequentatori del suo teatro, Pompeo aveva fatto aggiungere, proprio dietro l’edificio scenico, un enorme quadriportico arricchito di esedre e nicchie con fontane e statue e racchiudente giardini e due boschetti di platani, dove gli spettatori potevano passeggiare negli intervalli degli spettacoli o ripararsi in caso d’intemperie. Altrettanto aveva fatto Cornelio Balbo dietro il suo teatro, con un portico che, per essere semisotterraneo (e perciò particolarmente fresco in estate), veniva indicato come Crypta Balbi. Una funzione squisitamente utilitaristica aveva invece il quadriportico che circondava i templi della cosiddetta «area sacra di Largo Argentina», se in esso è da riconoscere, come tutto lascia credere, il Portico di Minucio (Porticus Minucia), costruito nel 107 a.C. dal console Marco Minucio

Rufo per essere adibito alle frumentationes, le pubbliche distribuzioni di grano. E cosí fu poi, certamente, per il nuovo Portico di Minucio, detto esplicitamente «frumentario» (Porticus Minucia Frumentaria) sorto poco distante agli inizi dell’impero. Molti portici monumentali ospitarono opere d’arte, in particolare sculture, finendo col diventare anche veri e propri musei. Aveva cominciato Metello, che nel suo portico aveva fatto collocare i ventiquattro gruppi equestri di bronzo commissionati da Alessandro Magno a Lisippo in memoria dei «compagni» caduti al Granico (334 a.C.) e che egli stesso aveva consacrato nel santuario di Zeus, a Dion (donde Metello li aveva tratti come bottino di guerra). Lo fece quindi Pompeo con le statue e i gruppi scultorei ispirati al mondo di Venere e a quello degli spettacoli, collocati nei portici annessi al suo teatro. Quando poi il Portico di Metello fu rifatto da Augusto, ai già ricordati capolavori lisippei si aggiunsero un’Afrodite di Fidia e una di Prassitele, insieme a un Eros che lo stesso Prassitele aveva scolpito per la città di Thespiae. I Portici dei Saepta, a loro volta, erano detti di Meleagro e degli Argonauti per le opere d’arte che illustravano le due saghe della mitologia greca. Ma quegli stessi portici divennero presto anche sede di un fiorente mercato d’oggetti d’arte e d’antiquariato. Augusto, infine, utilizzò i grandiosi portici del suo Foro per una spettacolare operazione di propaganda politica, tesa a giustificare il suo inusitato potere personale, facendovi collocare una «selva» di statue, di marmo e di bronzo, raffiguranti gli antenati della gens giulia, a cominciare da Enea, i re di Alba Longa e quelli di Roma e i personaggi piú illustri della storia patria.



SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

DAI PUPAZZI AL TORNIO NEGLI ULTIMI ANNI SI SONO MOLTIPLICATI GLI STUDI AD AMPIO SPETTRO SULLA VITA QUOTIDIANA DELLE COMUNITÀ MEDIEVALI, PUNTANDO L’ATTENZIONE ANCHE SU DONNE E BAMBINI. RICERCHE CHE PERMETTONO DI RICOSTRUIRE I GIOCHI E I PASSATEMPI DEI PIÚ PICCOLI, MA CHE, AL TEMPO STESSO, NE DOCUMENTANO L’ASSAI PRECOCE INSERIMENTO NEL MONDO DEL LAVORO

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ra i dipinti del grande pittore fiammingo Pieter Brueghel il Vecchio (1526/1531-1569), ce n’è uno molto particolare: si tratta di Giochi di bambini (1560), oggi conservato presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna. Come tutte le opere di Brueghel, il quadro brulica di vita: ci sono bambini che si rincorrono, che giocano a mosca cieca, con il cerchio… In sostanza, il pittore ci apre un’interessante finestra sull’infanzia nel passato, offrendoci

un campionario delle possibilità di gioco a disposizione dei bambini all’inizio dell’età moderna. Ma che cosa c’entra tutto questo con l’archeologia medievale? È presto detto. L’archeologia (e non solo quella del Medioevo) ha a lungo insistito soprattutto su alcuni temi specifici: la sfera funeraria, quella religiosa, gli insediamenti urbani e quelli delle campagne, la produzione e i commerci…

NUOVI FILONI DI STUDIO Ma da qualche tempo le cose stanno cambiando e piú di un ricercatore ha iniziato a concentrarsi su altri temi legati soprattutto all’ambito sociale, in particolare quello della famiglia. Questo perché, troppo spesso, si è sentito parlare di ricostruzioni della vita quotidiana «dell’uomo medievale», dimenticando che l’unità di base della società Restituzione grafica di una lastrina in pietra, da Inchmarnock, Firth of Clyde (Scozia) 750-1000 d.C. Sul reperto sono incisi alcuni disegni attribuibili a uno dei bambini che frequentavano la scuola monastica scoperta nel sito.

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medievale era proprio la famiglia, e che quindi – cosí come gli storici delle fonti scritte hanno fatto già tempo – l’archeologo dovrebbe occuparsi non solo degli uomini adulti, ma anche di donne e bambini: della loro posizione nella società, dei ruoli che svolgevano, di come erano considerati e conducevano la loro esistenza. Ne consegue un approccio piú soddisfacente, che porta a una comprensione davvero ampia del mondo medievale e di tutti i suoi protagonisti, nessuno escluso. Ma è possibile un’archeologia dell’infanzia, e in particolare dell’infanzia nel Medioevo? Le ricerche piú recenti dicono di sí. E le potenzialità di questo tema


Giochi di bambini, olio su tavola di Pieter Brueghel il Vecchio. 1560. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Nel dipinto sono ben riconoscibili numerosi bambini, che si dedicano ai giochi e ai passatempi piú diffusi in epoca medievale e rinascimentale.

sono molte, tutte ovviamente legate alla «visibilità archeologica» dei bambini, non sempre elevata. Una prima possibilità la offrono i giocattoli, che ci informano sul tempo libero dei bambini dell’età di Mezzo. E qui torniamo a Brueghel, perché alcuni giochi raffigurati nel suo quadro esistevano già nel Medioevo, e si ritrovano puntualmente in molti scavi archeologici: per esempio, le piccole figurine in ceramica o in metallo che rappresentano soggetti diversi, come soldati, cavalieri, animali. Ne conosciamo molti esemplari, venuti alla luce in Italia e in altri Paesi europei. I bambini del Medioevo non passavano il loro tempo soltanto

giocando, ovviamente. Anzi, spesso entravano a far parte molto presto del mondo del lavoro. A questo proposito esistono numerose testimonianze scritte, ma da poco gli archeologi stanno iniziando a capire che c’è spazio anche per il recupero di tracce materiali.

APPRENDISTI VASAI Un settore nel quale i bambini venivano sfruttati come lavoranti è quello della produzione dei mattoni e degli oggetti in ceramica. In questi casi, per l’archeologo è possibile risalire alla presenza di bambini dalle impronte digitali: quelle lasciate accidentalmente sui mattoni, o sul corpo del vaso finito (solo se poi

non è stato ricoperto di smalto, o dipinto); ma anche quelle lasciate intenzionalmente per decorare il vaso, per esempio premendo con un dito sull’argilla quando era ancora fresca, magari su strisce di argilla applicate. Un’archeologia attenta all’infanzia può portare anche a risultati del tutto inaspettati. Durante le indagini nel sito di Tibrandsholm, in Svezia, scavando una casa in legno del XIV secolo sono venuti alla luce, tutti intorno alle pareti portanti, alcuni denti da latte. Dopo un iniziale spaesamento, gli archeologi hanno incrociato il dato con la tradizione locale e hanno capito di trovarsi di fronte ai resti materiali di una credenza molto diffusa: quella di dover conficcare i denti da latte dei bambini nelle mura in legno delle case, per evitare che se ne impossessassero gli spiriti maligni. Attraverso gli scavi si può anche illuminare un altro aspetto importante della vita di alcuni bambini: il loro apprendistato come scolari. Negli scavi presso la chiesa del monastero di Inchmarnock, in Scozia, sono state trovate molte lastre di pietra incise. Alcune erano scacchiere per giochi da tavolo, e altre erano state incise con numerose lettere dell’alfabeto. Si tratta, verosimilmente, dei resti di una scuola monastica, attiva tra l’VIII e il IX secolo. In queste scuole, infatti (frequentate soprattutto dai figli delle classi dirigenti) si insegnava non soltanto a leggere e a scrivere, ma anche il gioco: un’attività che contraddistingueva i nobili, e che quindi aveva anche il valore di uno status symbol.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

LA BELLEZZA RAPITA L’ORIGINE CELESTE DEL SEGNO DELL’ACQUARIO È LEGATA ALL’IRRESISTIBILE AVVENENZA DI GANIMEDE, IL GIOVANE CHE ZEUS SCELSE COME COPPIERE PER GLI DÈI DELL’OLIMPO

«E

rittonio ebbe per figlio Troo, sovrano ai Troiani // da Troo nacquero poi tre figli perfetti, // Ilo ed Assaraco e Ganimede simile a un dio, // che fu il piú bello fra gli uomini mortali; // gli dèi lo rapirono, perché fosse

coppiere a Zeus, // grazie alla sua bellezza, a vivere tra gli immortali»: cosí, nell’Iliade (XX, 230-235, traduzione di Giovanni Cerri), Omero introduce Ganimede, di stirpe troiana anche per parte di madre, la ninfa Calliroe.

Giovane pastore e cacciatore, con il capo coperto da un berretto frigio che ne indica l’origine orientale, trovandosi a Ilio (o sul Monte Ida) viene rapito da Zeus, sotto le sembianze di una enorme aquila, folgorato dalla sua bellezza, che lo destina, sull’Olimpo, a un servizio di prestigio ed eccezionale privilegio: quello di mescere l’ambrosia, la divina bevanda (a volte intesa anche come cibo) che rende immortali gli dèi e chiunque la gusti (dal greco ambrosía, derivato di á-mbrotos, immortale).

GIOVINEZZA E AMORE Naturalmente la famiglia fu sconvolta dalla scomparsa del ragazzo, e allora Zeus tranquillizzò il padre riguardo a quanto accaduto, comunicandogli l’immortalità ottenuta dal figlio e donandogli due velocissimi cavalli

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sempiterni e/o un aureo tralcio di vite creato da Efesto. Questo mito, con le sue varianti, conobbe grande fortuna letteraria e iconografica nel mondo antico come in quello moderno e numerose sono le sue riproduzioni su vasi, gruppi statuari, affreschi e mosaici. Esso ha poi una duplice chiave di lettura: la prima legata alla sfera omoerotica insita nel rapporto rituale, tipico del mondo greco, tra amante adulto e giovinetto da iniziare alla compagine sociale; e la seconda, invece, piú filosofica (ma meno plausibile...), secondo la quale Zeus è colpito dalla bellezza interiore del giovane e per questo lo porta con sé nell’empireo degli immortali. Tutto ciò si fonda, in ogni caso, sul concetto greco della kalokaghatia, vale a dire del bello (kalos) e del buono (agathos) visti come elementi imprescindibili e complementari alla base della perfetta armonia del cosmo. Anche la poesia latina si ispirò a piú riprese all’amore che il bel Ganimede suscitò in Giove; Ovidio, in particolare, lo menziona nelle Metamorfosi (X, 155-161), nei Tristia (II, 406) e in piú passi dei suoi Fasti (VI, 43-44 e 145-146). In quest’ultima opera il poeta ricorre a un’immagine che introduce Ganimede nel mondo dei catasterismi, destinati a dare un fondamento mitico alle costellazioni e quindi ai segni zodiacali. Nel libro dedicato al mese di febbraio, il ragazzo (definito «il giovane dell’Ida») viene infatti identificato con l’Acquario celeste (21 gennaio-19 febbraio): «Già il fanciullo dell’Ida sporge con metà del busto e versa limpide acque miste a nettare». Evidentemente il poeta riporta, codificandola, una

tradizione ben nota, che vede nell’Acquario l’immagine di Ganimede, il quale – va ricordato – vive eterno tra gli dèi, con i quali condivide la giovinezza, immagine ripresa dagli scrittori di astrologia e astronomia quali Arato (315-240 a.C. circa) ed Eratostene (276-194 a.C., Catasterismi 26), poi Igino (Poetica Astronomica, II, 16 e 29) e Manilio (Astronomica, V, 486-490), questi ultimi di età augustea. A tale identificazione si ricollega anche il nome della costellazione dell’Aquila, limitrofa a quella dell’Acquario, con un chiaro riferimento a Giove. Restando in ambito astronomico, Ganimede è il nome del piú grande satellite naturale del pianeta Giove, e, infine, la denominazione di Ganymed 1036 è stata attribuita a un satellite scoperto nel 1965.

AFFRESCHI E MONETE L’identificazione GanimedeAcquario, che però non è univoca nelle fonti antiche, diviene scontata nel mondo culturale e artistico moderno, e ricorre anche in numerosi affreschi che decorano importanti palazzi cinquecenteschi,

Nella pagina accanto, in alto: dracma di Antonino Pio, Zecca di Alessandria, 144-145 d.C. Al dritto, busto dell’imperatore; al rovescio, busto di Saturno/Cronos e Acquario sormontato da una stella a otto punte. Nella pagina accanto, in basso: Mantova, Museo di Palazzo D’Arco, Sala dello Zodiaco. Scena mitica ispirata alla caccia, raffigurante, in alto, l’Acquario. Particolare della decorazione ad affresco attribuita a Giovanni Maria Falconetto. XVII sec. In basso: cratere attico a figure rosse del Pittore di Eucarides, con Ganimede che mesce l’ambrosia a Zeus, in trono, reggente un lungo scettro sormontato da un gallo. 490-480 a.C. New York, Metropolitan Museum. dove i cicli iconografici sono strettamente legati alla riscoperta dell’antico e alla tradizione letteraria classica. Tra questi spicca, per magnificenza, la Sala dello Zodiaco di Palazzo d’Arco a Mantova, affrescata probabilmente da Giovanni Maria Falconetto intorno al 1520, con ricchi cicli iconografici di grande formato dedicati allo Zodiaco e ai temi letterari antichi. L’Acquario, che segna il mese di febbraio, è incarnato da un giovinetto in abito frigio, mentre versa del liquido da un’anfora entro una coppa; a lato ricorre il ratto di Ganimede a opera dell’aquila divina. Nella serie dello Zodiaco battuta ad Alessandria d’Egitto a nome di Antonino Pio, l’Acquario è un giovane nudo che fluttua nell’aria con la clamis svolazzante, mentre tiene tra le mani un’anfora rovesciata; sulla testa brilla la consueta stella a otto punte. Sovrastante, il busto barbato di Saturno/Cronos velato, pianeta sotto il quale il segno è posto.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA AA.VV.

CORREDI TOMBALI DELLA NECROPOLI DI MONTE ABATONE A CERVETERI Il Workshop Caere delle Università di Bonn e della Campania «L. Vanvitelli» Edizioni Quasar, Roma, 134 pp.

18,00 euro ISBN 978-88-7140-785-2 www.edizioniquasar.it

Edita in lingua italiana e tedesca, l’opera è l’esito del Workshop Caere, un progetto sviluppato congiuntamente dall’Università di Bonn, dall’Università degli Studi della Campania «L. Vanvitelli» e dall’Università degli Studi della Tuscia e finanziato nell’ambito di un piano piú ampio, promosso dal Deutscher Akademischer Austauschdienst (DAAD), che prevede lo scambio di esperienze didattiche e scientifiche tra studenti tedeschi e dell’Europa meridionale. Incentrato sui corredi funerari della necropoli di Monte Abatone, a Cerveteri, il 112 a r c h e o

workshop si è svolto in due fasi, la prima presso il Museo Archeologico Nazionale della stessa Cerveteri, la seconda nella Biblioteca dell’Istituto di Archeologia a Bonn. Il volume si apre con la presentazione del lavoro svolto da parte di Martin Bentz e Fernando Gilotta, a cui segue un breve, ma esauriente saggio a piú mani sulla necropoli ceretana. Di essa vengono tracciate le caratteristiche, partendo sia dai dati scaturiti dalle ricerche condotte dalla Fondazione Lerici, negli anni Sessanta del Novecento – al fine di segnalare le testimonianze archeologiche e tentare cosí d’impedirne la distruzione –, sia dai risultati delle indagini piú recenti. In particolare, l’analisi topografica si basa sulla cartografia, sulle foto aeree e sulla ricognizione e i dati raccolti sono stati georeferenziati e elaborati in un GIS. Un tipo di studio mai applicato in precedenza su questo sepolcreto. Nella seconda parte, l’attenzione si concentra sui corredi funerari delle tombe 100, 285, 441, 524 e 530. Per ognuna di esse vengono forniti l’inquadramento cronologico, l’analisi della pianta, il catalogo dei singoli materiali che costituivano il corredo. Ne scaturisce ogni volta un saggio che prevede sempre alcune considerazioni conclusive

e una ricca bibliografia. Giuseppe M. Della Fina Giovanni Alberto Cecconi, Andrea Raggi, Eleonora Salomone Gaggero (a cura di)

EPIGRAFIA E SOCIETÀ DELL’ETRURIA ROMANA Edizioni Quasar, Roma, 286 pp. 28,00 euro ISBN 978-88-7140-772-2 www.edizioniquasar.it

Il volume accoglie gli atti di un convegno svoltosi a Firenze e incentrato sul ruolo dell’epigrafia nella ricostruzione storica di singole realtà regionali. L’attenzione, in particolare, era posta sull’Etruria dopo la romanizzazione: un’area geografica di particolare significato nel quadro dell’Italia antica. Dai contributi emerge una realtà dinamica, che guardava al passato, alle tradizioni, agli assetti precedenti, persino a singole istituzioni di epoca etrusca, ma capace d’integrarsi con successo nel quadro nuovo che era venuto a crearsi. Dall’analisi delle epigrafi emergono resistenze,

quasi un compiacimento per abitudini secolari, ma anche la volontà di proiettarsi in un futuro, di cui almeno le classi dirigenti si sentivano coprotagoniste soprattutto con il progressivo affermarsi della romanizzazione. Un processo che, in fondo, fu rapido, come suggerisce il sostegno sostanziale dato dalle città etrusche a Roma nelle fasi piú difficili della seconda guerra punica, dopo le straordinarie vittorie riportate dal condottiero cartaginese Annibale. Un altro dato che emerge è rappresentato dalle relazioni economiche e sociali intessute da centri della regione con zone lontane dell’impero: è il caso, per esempio, del senatore Pompeius Vopiscus, originario di Volsinii (Bolsena), e proconsole d’Africa negli anni 155-156 d.C. Al personaggio, che aveva ricoperto la carica di praetor Etruriae, gli abitanti di Cartagine dedicarono una base onorifica rinvenuta nel foro della sua città natale. Un legame, quello fra Volsinii e Cartagine, documentato anche in un’iscrizione del secolo successivo, il cui dedicante, M. Helvius Clemens, risulta originario della città africana. Il convegno e la pubblicazione degli Atti rientrano in un progetto di grande respiro, che prevede la creazione di una banca


dati informatizzata del patrimonio epigrafico di età romana in Italia (EDR, Epigraphic Data-base Roma: www.edr-edr.it). G. M. D. F. Giovanni Mannino

L’ARTE RUPESTRE PREISTORICA IN SICILIA a cura di Antonino Filippi, Edizioni di storia e studi sociali, Ragusa, 299 pp., ill. b/n 20,00 euro ISBN 978-88-99168-19-3 www.edizionidistoria.com

l’instancabile attività di ricerca e di studio svolta da Giovanni Mannino. Dopo un breve inquadramento dei caratteri essenziali del fenomeno, si succedono i capitoli dedicati al catalogo ragionato dei siti, per ciascuno dei quali vengono offerte un’ampia descrizione e un ricco apparato di fotografie e restituzioni grafiche. Stefano Mammini

DALL’ESTERO Timothy Insoll (a cura di)

THE OXFORD HANDBOOK OF PREHISTORIC FIGURINES Oxford University Press, Oxford, 931 pp., 273 ill. b/n 175,00 USD ISBN 978-0-19-967561-6 www.oup.com

La vastissima ricognizione proposta da questo Oxford Handbook affronta un fenomeno che, per una volta, non è esagerato definire globale e che, a dispetto di quanto si potrebbe immaginare, viene ormai riconosciuto come una delle manifestazioni culturali piú significative della preistoria. In estrema sintesi, si può dire che non ci sia stata comunità umana che, a partire dal Paleolitico e in ogni angolo del pianeta, non abbia prodotto figurine, umane e non, realizzate con una vasta gamma di materie prime, dalla pietra all’osso, dall’argilla al legno, solo per citare le piú diffuse. Emergono dunque gli esiti tangibili

di quella che – com’è ormai accettato dalla comunità scientifica – i nostri antenati non percepivano solo come un’esigenza estetica o «artistica», ma anche come espressione di un ricco patrimonio simbolico e ideologico. S. M.

Nella piú grande isola del Mediterraneo si concentra un patrimonio davvero rilevante di testimonianze d’arte preistorica e questo volume ne propone un’ampia sintesi, la cui conoscenza si deve in larga parte all’autore stesso, che per oltre cinquant’anni ha esplorato e documentato ampie zone della regione. E, al di là degli aspetti stilistici e culturali dei contesti descritti, il libro è soprattutto l’ultima riprova, in ordine di tempo, di quanto importante sia stata a r c h e o 113


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