Archeo n. 395, Gennaio 2018

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2018 ANTENATI DI GÖBEKLI TEPE

ROMA

GLI SCAVI SOTTO LA RINASCENTE

TRAIANO RISCOPERTO

MISTERO DEL BISSO SPECIALE TRAIANO

Mens. Anno XXXIV n. 395 gennaio 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SCAVI SOTTO LA RINASCENTE VAL DI NON

SPECIALE

VAL DI NON

UN ANTICO VILLAGGIO ALPINO SARDEGNA

LA LUNGA STORIA DEL BISSO RIVELAZIONI

QUANDO ROMA RINUNCIÒ ALLA GERMANIA

GÖBEKLI TEPE IL MISTERO DEGLI ANTENATI

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 9 GENNAIO 2018

.it

M TR OS A TR IAN A O A ww RO w. a rc M he A o IN

ARCHEO 395 GENNAIO

€ 5,90



EDITORIALE

MESSAGGI DALL’ALDILÀ Dieci anni fa fummo i primi a presentare al pubblico italiano i risultati di quella che – ancora oggi e forse a maggior ragione – potremmo definire la scoperta del secolo: i monumentali circoli di pietra rinvenuti a Göbekli Tepe (la «collina panciuta») nelle campagne intorno alla città di Urfa, in Anatolia sud-orientale. L’impressionante teoria di pilastri scolpiti a forma di «T» e recanti raffigurazioni animali – scavati dall’archeologo tedesco Klaus Schmidt a partire dagli anni Novanta – fece subito breccia nell’immaginario occidentale, ancora reduce, forse, delle suggestioni esercitate da un’altra stele, quella protagonista del film di Stanley Kubrick 2001 Odissea nello Spazio, del 1968: un singolare caso di vera science fiction, rivolto, in questo caso, al passato. Similmente alla misteriosa intelligenza creativa della stele cinematografica, anche quella delle sculture riunite nei circoli di Göbekli Tepe stenta a rivelarsi nel suo significato piú profondo. È la sorte comune, si sa, a tutte le manifestazioni monumentali e artistiche della preistoria, inesorabilmente destinate a concedersi, unicamente, a suggestioni e ipotesi, difficili – se non impossibili – da verificare. Eppure, gli interrogativi circa la funzione di questi «primi templi» dell’umanità e del significato racchiuso nelle fantastiche (talvolta in senso letterario) decorazioni animali continuano a rappresentare la principale sfida per archeologi e storici delle religioni: nell’articolo di apertura di questo numero, riferiamo di recentissime indagini che aprono uno spiraglio su quello che – con termini convenzionali – chiamiamo il «contesto sociale, religioso e rituale» di questa comunità preistorica. A una seconda ricerca, eseguita su alcune particolari raffigurazioni incise sulle stele, possiamo qui solo accennare. Due archeologi della missione di Göbekli Tepe – Jens Notroff e Oliver Dietrich – sono partiti da un’osservazione a suo tempo fatta notare da Klaus Schmidt: ovvero che le immagini di gru, ripetutamente raffigurate sulle stele, sono tutte caratterizzate da una particolare incongruenza anatomica che riguarda le zampe degli uccelli, la cui curva – all’altezza del ginocchio – è simile a quella di una gamba umana; è piegata in avanti, mentre le zampe degli uccelli sono piegate all’indietro. Escludendo l’eventualità di un errore da parte dell’artista preistorico (tutti i tratti anatomici degli animali raffigurati sono resi con estrema accuratezza), Notroff e Dietrich ipotizzano la possibilità che le zampe delle gru fossero, effettivamente, umane, suggerendo cosí l’eventualità di un «travestimento» rituale. Gli antichi frequentatori del santuario di Göbekli Tepe, addobbati come uccelli e impegnati in rituali danze collettive, a imitazione delle danze di accoppiamento delle gru? È solo un’ipotesi. Ma potrebbe essere uno dei numerosi messaggi in codice tramandatici da quel mondo dell’aldilà che è la preistoria. Göbekli Tepe. Il pilastro 2, con, in basso, la raffigurazione di una gru e, nel riquadro, due gru scolpite sul pilastro 33.

Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE

Messaggi dall’aldilà

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di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

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SCAVI Due sepolcri compresi nel gruppo delle Tombe dei Nobili, nei pressi di Luxor, svelano magnifiche pitture e iscrizioni 6

PAROLA D’ARCHEOLOGO Le indagini subacquee nel golfo di Napoli svelano i resti di un porto dell’antica Parthenope 24

SCAVI

Il racconto dell’acqua 54 di Marta Baumgartner, con un contributo di Nicoletta Saviane

INCONTRI Prende il via la IV edizione di «Luce sull’Archeologia», ciclo di conferenze organizzato al Teatro Argentina di Roma, che quest’anno indaga il rapporto fra Roma e il Mediterraneo 27

SCOPERTE A lungo venerata come immagine della Madonna, una statuetta conservata a Villasimius è invece la prima attestazione del culto di Igea in Sardegna 14

DALLA STAMPA INTERNAZIONALE

A TUTTO CAMPO Il riesame della documentazione di scavo, condotto con l’ausilio delle nuove tecnologie, ridisegna la fisionomia di Sala/Chellah 20

SCOPERTE

Nella sostanziale indifferenza, la città-stato cananea di Tell es-Sakan, presso Gaza, è stata quasi interamente distrutta 32

Göbekli Tepe e il mistero dei crani sospesi di Massimo Vidale

54 SCAVI

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Storie di un villaggio alpino

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di Lorenza Endrizzi In copertina ritratto dell’imperatore Traiano. 98-117 d.C. Roma, Musei Capitolini.

Anno XXXIV, n. 395 - gennaio 2018 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Redazione: Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione: Davide Tesei Amministrazione: Roberto Sperti

amministrazione@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale

Hanno collaborato a questo numero: Marta Baumgartner è funzionario archeologo presso la Soprintendenza speciale archeologia, belle arti e paesaggio di Roma. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Stefano Camporeale è professore associato di archeologia classica all’Università di Siena. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Lorenza Endrizzi è funzionario dell’Ufficio beni archeologici della Soprintendenza per i beni culturali della Provincia autonoma di Trento. Catia Fauci è responsabile del progetto «Luce sull’Archeologia» del Teatro Argentina di Roma. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Alessandra La Fragola è archeologa e storica. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco Archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Maria Milvia Morciano è archeologia. Rossella Pansini è archeologa. Claudio Parisi Presicce è Sovrintendente capitolino ai Beni Culturali. Nicoletta Saviane è archeologa. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Simona Sterpa è archeologa. Lucrezia Ungaro è responsabile della Direzione Musei-Servizio I della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio Stampa della mostra «Traiano. Costruire l’Impero, creare l’Europa»: copertina (e p. 84) e pp. 82/83, 85, 88-99, 101 – Doc. red.: pp. 3, 29, 42/43, 46-53, 59, 77, 79, 80 (basso), 81, 102 (basso), 103 – Getty Images: AFP Photo/Stringer: pp. 6-8 – Cortesia Soprintendenza ABAP per le province di Brindisi, Lecce e Taranto: p. 10 – Cortesia degli autori: pp. 12-13, 16 (destra), 24-25, 110, 111 (centro) – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 14-15 – Giuseppe Carzedda: disegni alle pp. 16, 17, 18 – Museo Civico Archeologico di Villasimius: p. 16 (centro) – Archivi del Centre Camille Jullian, Aix-en-Provence: p. 20 – Rossella Pansini: p. 21 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 26 – Cortesia Teatro Argentina, Roma: pp. 27, 28 – AP Photo: pp. 32-33 – Cortesia Deutsches Archäologisches Institut, Berlino: pp. 38-41, 42 (alto), 43 (alto), 44/45 – Cortesia Soprintendenza speciale archeologia, belle arti e paesaggio di Roma: pp. 54, 56/57, 58, 60-61; Mario e Tommaso Letizia: pp. 55, 64; Studio Katatexilux: pp. 57, 62-63 – Cortesia Archivio Soprintendenza per i Beni culturali della Provincia autonoma di Trento: pp. 66, 67 (alto), 68, 70-75 – Cortesia Archivio ApT Val di Non: p. 69 – Luigi Garavaglia: pp. 76/77 – ANSA: p. 78 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 80 (alto), 106, 107, 109, 111 (alto); AGE: p. 108 – Studio Inklink, Firenze: p. 100 (basso) – Shutterstock: pp. 102 (alto), 104 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 51, 67, 86/87, 106. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.


MISTERI

Come fili d’oro dal mare

76

di Maria Milvia Morciano

82

76

SPECIALE

Traiano e la costruzione dell’impero

Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO

Le vite degli altri

82

testi di Claudio Parisi Presicce e Lucrezia Ungaro

102

di Daniele Manacorda

QUANDO L’ANTICA ROMA...

...rinunciò alla Germania 106

LIBRI

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di Romolo A. Staccioli

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

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Piú forte della ragione

Editore: My Way Media S.r.l. Direttore generale: Andrea Ferdeghini Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Pubblicità Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com tel. 335 8437534 Direzione, sede legale e operativa Via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano tel. 02 00696.352 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa: NIIAG Spa - Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9,00/18,00] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 E-mail: collez@mondadori.it Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti casella postale 1879, 20101 Milano

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di Francesca Ceci

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n otiz iari o SCOPERTE Egitto

TRAPASSATI NOBILI

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ella necropoli di Dra Abu el-Naga, sulla riva occidentale del Nilo – di fronte a Luxor – circa 3 km a sud-est della Valle dei Re, una missione egiziana ha esplorato per la prima volta l’interno di due sepolture facenti parte delle cosiddette «Tombe dei Nobili», un insieme di sepolcri di alti ufficiali dell’esercito, sacerdoti e dignitari della corte del faraone. Denominate «Kampp 161» e «Kampp 150» le due sepolture erano note già dagli anni Novanta, quand’erano state localizzate dall’archeologa tedesca Friederike Kampp, ma non erano mai state scavate. La scoperta è stata comunicata dal ministro delle antichità egizie Khaled El-Anany, nello scorso dicembre, sottolineando l’impegno dell’attuale governo nel rilancio culturale del Paese, perseguito anche con l’intento dichiarato di risollevare le sorti del turismo locale. La «Kampp 161», consiste in un recinto sacro delimitato da mattoni crudi e muri in pietra, da cui si diparte un pozzo funerario lungo 6 m, che si apre sul lato sud e conduce a quattro camere disposte lateralmente. All’interno, gli archeologi hanno rinvenuto la parte inferiore di un sarcofago osiriaco in legno – su cui compare la raffigurazione della dea Iside che leva le mani –, una grande Dra Abu el-Naga (Egitto), Tomba «Kampp 150». Intervento di primo restauro su una mummia rinvenuta all’interno del sepolcro, datato tra la fine della XVII dinastia (1650-1543 a.C.) e l’inizio della XVIII (1543-1292 a.C.).

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archeo 7


n otiz iario Mustafa al-Waziri, Direttore delle Antichità di Luxor, mostra le pitture scoperte all’interno della Tomba «Kampp 161». Il monumento funerario è stato datato tra il regno di Amenofi II (1424-1398 a.C.) e quello di Thutmosi IV (1397-1387 a.C.). maschera funeraria in legno (originariamente pertinente a un sarcofago osiriaco) assieme ad altre due, una di minori dimensioni e una seconda, dorata, in cattive condizioni di conservazione, e, infine, quattro gambe di sedia in forma di zampa leonina. Le iscrizioni si concentrano sulla parete occidentale e mostrano due scene di banchetto: nella prima, compare il defunto, assieme alla sposa, nell’atto di ricevere offerte da un individuo – forse il fratello del defunto –, mentre nella seconda, appena sottostante, è raffigurato un gruppo di ospiti disposti su quattro file, tra i quali è stato riconosciuto anche il custode dei magazzini reali. Sulla base di osservazioni stilistiche, la tomba sembra databile tra il regno del faraone Amenofi II (1424-1398 a.C.) e quello di Thutmosi IV (1397-1387 a.C.).

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La «Kampp 150» presenta cinque ingressi che conducono a un vestibolo rettangolare, da cui si dipartono due pozzi funerari, situati nell’area settentrionale e meridionale della tomba. Nella camera principale è stata trovata una mummia avvolta in bende di lino, probabilmente un alto ufficiale, con le mani raccolte sul petto in posizione osiriaca. Del corredo sono stati recuperati 100 coni funerari, maschere in legno dipinto, vasi in terracotta, 450 ushabti in argilla, legno e faïence, e una piccola scatola lignea, dotata di coperchio, verosimilmente utilizzata per contenere anch’essa una statuetta speciale. In una camera secondaria, è stata trovata la sepoltura di una donna di nome Isis Nefret, forse la madre del defunto. Il suo corredo comprendeva un sarcofago ligneo

dipinto, assieme a 36 ushabti; tra queste, una (alta 60 cm, con decorazione policroma), riproduce la defunta nelle sembianze di Osiride. L’identità del titolare della tomba è ancora incerta, ma sono state formulate due ipotesi: la prima si basa su un frammento di geroglifico decifrato sull’ingresso, che riporta la dicitura «Djehuty Mes» e propone un individuo di nome Thutmosi. In alternativa, potrebbe trattarsi dello scriba Maati, il cui nome, assieme a quello della consorte Mehi, compare sulla metà dei coni funerari rinvenuti nella camera principale. La tomba è stata datata a un periodo compreso tra la fine della XVII dinastia e l’inizio della XVIII, interpretando un cartiglio del faraone Thutmosi I (1497-1483) rilevato sul soffitto della camera principale. Paolo Leonini



n otiz iario

SCAVI Puglia

UNA SENTINELLA NEL TAVOLIERE

N

uove e significative scoperte hanno caratterizzato la seconda campagna di scavi nel sito archeologico in località Li Schiavoni, nel territorio di Nardò (Lecce). Situato in posizione subcostiera sul versante ionico del Tavoliere salentino, il Comune è già noto per la presenza nel suo territorio delle Grotte del Distretto Archeologico di Portoselvaggio, frequentate fin dal Paleolitico Medio, e del sito di Serra Cicora, risalente al Neolitico antico. Il sito, un esteso pianoro sopraelevato, dal quale si domina un ampio tratto del litorale ionico, conserva i resti di un insediamento fortificato di età messapica. Il tracciato delle mura antiche, in parte visibili sotto un muretto a secco moderno che circonda l’area, ha una lunghezza di 650 m circa e delimita una superficie di 3 ettari. L’esistenza di un fossato che fiancheggia parte del circuito murario denota la vocazione difensiva dell’insediamento, sottolineata anche dalla scelta del luogo, naturalmente protetto grazie alla posizione dominante, a controllo del territorio. Le indagini si sono concentrate all’interno di un terreno agricolo di proprietà privata e sono state finalizzate a comprendere le modalità e le fasi di occupazione del sito e a intercettare i resti delle mura di cinta. «L’apertura di un saggio a ridosso del muretto a secco che delimita il pianoro sul lato ovest – chiarisce Giovanna Cera, che dirige gli scavi – ha permesso di documentare le caratteristiche delle fortificazioni, forse realizzate in due fasi successive. È venuta in luce una poderosa struttura, caratterizzata da due paramenti realizzati in grandi blocchi lapidei di forma

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A destra e in basso: località Li Schiavoni (Nardò, Lecce). Due immagini dei resti del sito fortificato di epoca messapica in corso di scavo da parte di una missione dell’Università del Salento.

irregolare e da un riempimento interno di notevole spessore, costituito da pietre calcaree e tufacee, coppi e frammenti ceramici. Lo studio dei materiali recuperati dai livelli associati a queste strutture è ancora in corso. Essi sembrano comunque attestare un’assidua frequentazione dell’area, perlopiú nell’ambito dell’epoca arcaica e classica, pur comprendendo piú antichi reperti inquadrabili nell’età del Bronzo e del Ferro e anche testimonianze di età ellenistica. È stata indagata al contempo un’area piú interna

rispetto alle mura, nella quale sono stati documentati reperti – purtroppo decontestualizzati e rimescolati – riferibili alla presenza di sepolture (blocchi e lastre di pietra leccese e tufo, frammentario vasellame da corredo). Anche se l’attività degli scavatori clandestini ha danneggiato per sempre il contesto archeologico, risultano in ogni caso di particolare interesse, tra i materiali rinvenuti, alcuni frammenti di vasi di importazione attica e corinzia e di produzione coloniale, indizio dei contatti commerciali che interessarono questo insediamento, soprattutto tra il VI e il V secolo a.C. Contatti certamente favoriti dalla felice posizione del sito, interna, ma non lontana dal litorale ionico e a controllo di un vasto comprensorio». Le indagini a Li Schiavoni, condotte sotto la direzione scientifica di Giovanna Cera (Università del Salento) su concessione di scavo della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Brindisi, Lecce e Taranto, sono state finanziate dal Comune e dall’ateneo salentino. Giampiero Galasso



n otiz iario

SCAVI Norchia

ULTIME SORPRESE DALLA NECROPOLI

L

a seconda campagna di scavo triennale in località Guado di Sferracavallo, nella magnifica necropoli rupestre di Norchia (Viterbo), ha portato alla scoperta di una nuova sepoltura (denominata GDS 5), che, sebbene fosse stata già parzialmente violata da scavatori clandestini, ha restituito una sorpresa inaspettata. All’interno della stanza sepolcrale, accessibile tramite un breve dromos (corridoio) e devastata dai tombaroli, sulla banchina di sinistra, è stata recuperata una parte del corredo funerario, composta da 20 oggetti, comprendenti materiale ceramico e uno specchio in bronzo, databile tra la fine del IV e il III secolo a.C. Interessanti sono anche i risultati delle indagini condotte nell’area esterna antistante la tomba, dove è stato rilevato un percorso viario ancora in corso di studio.

È stata poi indagata un’altra tomba (GDS 6), contraddistinta da un dromos lungo e molto profondo, al cui interno vi sono 21 sepolture, realizzate scavando piccole fosse nel banco naturale o costruendo le banchine; si conservano ancora In alto: una visita guidata alla necropoli etrusca di Norchia, organizzata nell’ambito delle iniziative volte a diffondere la conoscenza dell’importante area archeologica. A sinistra: una delle tombe esplorate nell’ultima campagna di scavi in località Guado di Sferracavallo, nella necropoli rupestre di Norchia.

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vari coperchi in tufo, alcuni anche in buono stato, nonostante siano stati aperti dai tombaroli. Poiché anche questa sepoltura era stata depredata, il materiale archeologico rinvenuto in seguito alla sua ripulitura è scarso, ma alcuni frammenti di ceramica a vernice nera, insieme ad altri di sigillata, permettono di datarla tra il III secolo a.C. e l’età romana. In concomitanza con il prosieguo delle indagini archeologiche, che continueranno anche nell’estate del 2018, sono state realizzate iniziative di valorizzazione ed eventi culturali che mirano a promuovere la necropoli di Norchia e a sensibilizzare le istituzioni locali riguardo la sua conservazione. Per la sua vastità e per la complessità delle tombe che in esso sono comprese, il sito presenta infatti pesanti difficoltà di fruizione e di mantenimento. Va ricordato, a questo proposito, che sono stati avviati i restauri delle sepolture monumentali note come «Tombe Doriche», in un’operazione che vede coinvolta la Soprintendenza e la proprietà del sito, dal momento che la necropoli


In alto: una delle camere funerarie in corso di scavo. A sinistra: una coppetta in ceramica a vernice nera subito dopo il recupero.

ricade in terreni privati. La virtuosa collaborazione tra associazionismo, Stato, proprietà e finanziatori dello scavo lascia ben sperare per il futuro della bellissima e delicatissima necropoli rupestre, inserita in un contesto naturalistico ancora selvaggio, ma vittima delle razzie degli scavatori clandestini e

minacciato dai progetti infrastrutturali che interessano questo residuo lembo a verde del territorio viterbese. Gli scavi in località Guado di Sferracavallo vengono condotti in regime di concessione dall’Associazione Archeotuscia onlus di Viterbo e dal Trust di scopo

Sostratos. Negli anni passati, le indagini hanno portato alla scoperta di una tomba a forma di casa con relativa iscrizione (ribattezzata Tomba della Casetta) e una estesa area funeraria sino ad allora mai indagata archeologicamente. Le esplorazioni hanno permesso il recupero di importanti e interessanti corredi, cosí come di nuove tipologie architettoniche funerarie, che stanno sensibilmente arricchendo le nostre conoscenze su una delle principali necropoli rupestri del Viterbese, i cui ultimi scavi ufficiali si erano interrotti circa vent’anni fa. Il corredo della Tomba a Casetta è già esposta al Museo Nazionale della Rocca Albornoz a Viterbo e presto sarà possibile ammirare anche gli altri ritrovamenti, una volta effettuato il loro restauro. Simona Sterpa

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

LA SECONDA VITA DELLA SCHOLA GLI SCAVI NEGLI AMBIENTI RETROSTANTI LA SCHOLA ARMATURARUM, IL DISCUSSO EDIFICIO AFFACCIATO SU VIA DELL’ABBONDANZA, HANNO SVELATO UN DEPOSITO DI ANFORE CHE CI INFORMA SULLE SUE FUNZIONI

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ue anni fa (vedi «Archeo» n. 370, dicembre 2015), raccontavamo dell’avvio dei restauri e degli interventi di valorizzazione alla Schola Armaturarum, tristemente nota per il crollo avvenuto nell’autunno del 2010 che tanto scalpore destò in tutto il mondo. Situata all’incrocio fra via dell’Abbondanza e un vicolo diretto a nord, verso Porta Nolana, la piccola costruzione era probabilmente la sede di

una vivace associazione di stampo militare impegnata in attività pubbliche e ludiche nella vicina Palestra Grande o nel piú spettacolare anfiteatro. Non è peraltro da escludere, secondo un’ipotesi di Massimo Osanna, che possa trattarsi addirittura di una delle associazioni temporaneamente sciolte dal Senato romano – e in seguito ricostituita – all’indomani della famosa rissa scoppiata nel 59 d.C.

nell’anfiteatro, fra Pompeiani e Nocerini, e ricordata da Tacito. La Schola si è trasformata oggi in simbolo di rilancio di Pompei, grazie a un progetto di recupero che, oltre a prevederne in tempi brevi la fruizione, attraverso il restauro degli affreschi e l’apprestamento di un percorso di visita, intende anche approfondire la sua conoscenza e la sua esatta funzione con il completamento dello scavo. Della Schola, infatti, è Pompei, Schola Armaturarum. Veduta dall’alto degli scavi con i tre ambienti scoperti. Quello a sinistra conserva il deposito delle anfore; la tettoia copre la grande aula.

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scoperte, erano certamente previste cerimonie conviviali basate sul banchetto, con consumo di pasti e bevute. Nell’ambito del progetto di valorizzazione del «museo diffuso» di Pompei, articolato in allestimenti museografici distribuiti in vari punti del Parco archeologico, con oggetti ricollocati negli originari luoghi di scoperta – cosí come ideato da Amedeo Maiuri –, anche la Schola Armaturarum e le sue anfore ricollocate costituiranno un punto focale connesso alle attività sociali e ricreative cittadine. Lo scavo della Schola rappresenta noto l’impianto planimetrico, incentrato su un’ampia sala aperta su via dell’Abbondanza con annessi di servizio retrostanti, questi ultimi non del tutto esplorati al momento della scoperta dell’edificio avvenuta negli anni 1915-1916. Sulla parete principale di fondo, ben visibili dalla strada principale, fra pareti affrescate in IV stile con motivi di tipo militare e scaffalature destinate probabilmente

all’esposizione di armature e trofei, si aprono queste stanze secondarie: in particolare, in uno dei tre ambienti individuati, è venuto alla luce un deposito di anfore formato da almeno una quindicina di esemplari che contenevano olio, vino e salse di pesce (garum). Un’anfora mostra ancora le

In alto: la Schola al termine dei primi scavi, in una foto del 1916. A destra: lo scavo dell’ambiente che custodiva le anfore. A sinistra: alcuni esemplari delle anfore rinvenute.

iscrizioni, in cui si leggono i numeri destinati a indicarne il quantitativo e le caratteristiche del prodotto. La provenienza delle anfore svela inoltre alcuni contatti mediterranei che Pompei intrattenne nel I secolo d.C., come per esempio la presenza di contenitori fabbricati a Creta e destinati a trasportare il tanto apprezzato vino locale, oppure quelli siciliani, di cui però occorre attendere le analisi per conoscerne l’esatto contenuto. L’utilizzo della stanza come deposito è confermato dai graffiti visibili su una delle sue pareti, tracciati per segnalare l’attività di stoccaggio. Ma l’osservazione piú significativa che emerge dallo scavo del deposito è connessa a una delle funzioni praticate nella grande aula o sala riunioni della Schola, dove, alla luce delle recenti

però solo l’inizio di un grande cantiere di scavo, appena avviato, denominato «cuneo» della Regio V: si tratta di un’area di oltre 1000 mq, posta fra le case delle Nozze d’Argento e di Lucrezio Frontone, un settore a nord di via di Nola mai indagato e dal quale gli archeologi attendono di scoprire nuove costruzioni e nuovi reperti sepolti dall’eruzione vesuviana. E proprio per questi ultimi, sul pianoro sovrastante, sarà allestito un laboratorio di studio archeologico dei manufatti che verranno alla luce, nonché un deposito per la loro temporanea conservazione. Siamo quindi agli esordi di un nuovo capitolo della storia delle scoperte pompeiane. Per notizie e aggiornamenti su Pompei, pagina Facebook PompeiiParco Archeologico.

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n otiz iario

SCOPERTE Sardegna

IGEA, FAUSTINA E QUEI CAPELLI RACCOLTI SULLA NUCA...

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uali significati profondi porta con sé il riconoscimento di una statua marmorea (la prima) di una divinità salutare «minore» in Sardegna, già attestata nella coroplastica funeraria? E la plausibile identificazione di un’altra, altrove ma sempre nell’isola? Che cosa comporta l’accertata presenza del piccolo dio Telesforo, sempre nella media statuaria marmorea ma anche, di nuovo, nella terracotta? Effigi mai attribuite prima a questi numi che, d’un tratto, vediamo comparire e costellare la regione in maniera sommessa, ma emblematica: l’antica Hygieia greca divenuta poi Salus in età romana, il fratello medico

Statua marmorea di Igea/Salus, da Villasimius (Cagliari), con ipotesi ricostruttiva del braccio destro basata sull’impostazione della figura. Sulla destra, per confronto: profilo di Igea dal Museo Archeologico di Atene e recto di un denario di Faustina Minore.

Telesforo, e l’Ercole a valenza guaritrice (costui già noto). Anche Asclepio/Esculapio, capostipite tra gli dèi guaritori e loro padre, compare già da tempo, in varie località con dediche o statue. Tutti, in sostanza, risultano presenti in Sardegna. Per motivi di spazio, rimandiamo ad altra sede le possibili risposte a queste e altre domande, ma qui vogliamo comunque presentare, in anteprima, il riconoscimento della

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Mappatura delle attestazioni di Igea e Telesforo in Sardegna (in verde, Villasimius); con le principali attestazioni statuarie di età romana a oggi note in Italia.

piú certa delle rappresentazioni statuarie di Igea: l’effigie marmorea di Villasimius di Cagliari, un’opera dalla storia davvero particolare. Si tratta di una figura di medie dimensioni (70 cm circa di altezza) a lungo venerata in una piccola chiesa e salvatasi – come il Marco Aurelio equestre di Roma, confuso per secoli con Costantino – per essere stata scambiata per una Madonnina dai tratti giovanili e sereni. Un errore, certo, che però non stupisce piú di tanto, se si considerano le valenze protettrici di entrambe, e osservando che la maggior parte dei luoghi in cui ricompare Igea è attualmente dedicata alla Vergine. Dalla chiesetta, la statua venne poi spostata, in tempi recenti, nell’attuale Museo Civico Archeologico della città, dov’è indicata attualmente come figura

muliebre del I secolo d.C. Ora sappiamo di poter andare oltre. La dea, in questa riproduzione, è rappresentata con i capelli raccolti a nodo sulla nuca, il volto leggermente rivolto a sinistra, la doppia veste (chitone e hymation) a fasciare il corpo come di prassi. Le braccia, intuibili dall’impostazione della figura residua e da ciò che rimane dell’arto, si presentano una a tenere amorevolmente il serpente attorno al braccio (Igea viene sempre rappresentata nell’atto suo proprio di nutrire il serpente medico, o in quello, piú raro, di far da coppiera al padre Asclepio), mentre l’altra sosteneva verosimilmente la coppa con il latte da cui l’animale era pronto ad attingere. Anche la tipologia rientra tra modelli noti del repertorio iconografico della dea. Di questa classica impostazione

rimane a noi, unico dato indelebile, parte del serpente avvolto attorno al braccio destro. Una traccia oggi poco evidente, realizzata a bassorilievo, ma incontrovertibile. Vediamo dunque perché la scultura si possa identificare con Igea e perché possa essere collocata in questo periodo (vale a dire nel II e non nel I secolo d.C., in base a diverse motivazioni). Il II secolo d.C. fu caratterizzato, nella sua seconda metà, da quella che fu conosciuta come «peste antonina» (165-180 d.C.): una quindicina d’anni segnati da una pestilenza (oggi forse riconosciuta come vaiolo) scoppiata a causa delle guerre di confine condotte dall’imperatore Marco Aurelio (in carica dal 161 al 180 d.C.) e proseguite almeno col successore Commodo. In simili momenti di crisi cresceva l’attenzione verso

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n otiz iario

Restituzione grafica della statua marmorea conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Cagliari in cui è plausibile riconoscere Telesforo in posizione recumbente. Il personaggio compare nella versione servus lanternarius, con gli occhi socchiusi in fase di sonno «di attesa» (sonno incubatorio, che facilita la guarigione), stringe a sé la lanterna o forse la cista del padre, e si appoggia a un’anfora. Il soggetto, riutilizzato come spesso avviene quale elemento di fontana, presenta anche un intervento di realizzazione della barba che ne rende meno immediata l’identificazione. In basso, per confronto, il disegno di un soggetto analogo dalla Necropoli Vaticana.

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cure e rimedi medici, una profilassi per la quale Esculapio e famiglia, dèi guaritori per eccellenza, diventavano i numi ai quali affidarsi. Per tale motivo i santuari, in tali frangenti, prendevano nuovo slancio nell’intensificarsi della devozione popolare e nel rifiorire del restauro architettonico, sempre coordinato a livello ufficiale. Ciò avvenne innanzitutto nei centri di maggiore cura salutare: Asia Minore, Tracia, Grecia. Accanto al marito Marco Aurelio, è sempre presente Faustina Minore, la quale «dedica» il rovescio delle raffigurazioni monetali alla

personificazione della Salus, che ricompare, dopo una lunga pausa, a partire dall’imperatore Adriano. Con Salus, l’imperatrice entra verosimilmente in una sorta di sincretismo, una simbiosi fra divinità e personaggio regale che, esplicitamente o meno, spinge la popolazione ad assimilare il regnante stesso con la divinità, guaritrice in questo caso. Perché gli imperatori «amano il popolo» e si autorappresentano, acutamente, come suoi difensori; soprattutto quando non navigano in buone acque, per motivi personali, politici o sociali. Ebbene, la nostra dea da Villasimius presenta la caratteristica acconciatura, pur con qualche distinguo, che sarà anche l’acconciatura per eccellenza di Faustina Minore durante la sua vita: la crocchia piú o meno ribassata. Quell’acconciatura con cui l’imperatrice è raffigurata in quasi tutte le effigi ufficiali con piccole varianti e che, anche per questo motivo, induce a collocare la realizzazione della statua e delle ragioni che hanno indotto a dedicarla in quei luoghi nella seconda metà inoltrata del II secolo d.C. Da una statua di medie dimensioni, apparentemente poco indicativa, un mondo di significati e sincretismi, che gettano nuova luce sull’entità dei culti salutari nell’isola di Sardegna durante l’età romana. Le indagini archeologiche nel santuario, liminare al sito di rinvenimento della statua di Igea, sono attualmente riprese dall’Università degli studi di Sassari, cattedra di archeologia fenicia e punica nella persona del titolare Michele Guirguis e del suo staff, in collaborazione con la direttrice del Museo Civico Archeologico di Villasimius (Cagliari), Elisabetta Gaudina. Alessandra La Fragola



A TUTTO CAMPO Stefano Camporeale e Rossella Pansini

ECCO IL CAPITOLIUM DI HOSIDIUS GLI ARCHEOLOGI DELL'UNIVERSITÀ DI SIENA HANNO AVVIATO UN PROGETTO SULLA DOCUMENTAZIONE REALIZZATA NEL CORSO DEGLI SCAVI CONDOTTI DA UNA MISSIONE FRANCESE NEL SITO DELL’ANTICA SALA, IN MAROCCO. E COSÍ, ANCHE GRAZIE AL CONTRIBUTO DELLE NUOVE TECNOLOGIE, I MONUMENTI DELLA CITTÀ SVELANO PARTICOLARI INEDITI

S

iamo a Chellah, su una collina che domina la valle del fiume Bou Regreg, poco oltre le mura almohadi di Rabat, capitale del Marocco. Chellah è una cittadella fortificata sotto la dinastia merinide, nel 1339. All’interno si trova una necropoli reale, insieme ad altri resti: una moschea e una scuola coranica, oratori, sale per

abluzioni, un hammam (edificio per bagni), tombe a koubba (con tetto a cupola), qualche traccia di strade e di abitazioni. La cittadella merinide nacque sul sito occupato dall’antica Sala, un abitato di epoca maura – cosí viene definita la cultura locale indigena – poi ricostruito in età romana (a partire dal 40 d.C.). In questo luogo,

Fotografia scattata il 5 luglio 1962 durante gli scavi del Capitolium di Sala/Chellah (Marocco), visto da sud.

all’estremo confine dell’impero di Roma, l’architettura parla un linguaggio ibrido, poiché gli schemi monumentali romani furono adattati a nuove esigenze e gusti estetici. Uno slargo nella strada principale sul quale affacciano i maggiori edifici era forse il Foro della città. La morfologia degli edifici a volte è nota e familiare (si riconoscono le terme e i piloni di un arco monumentale), altre volte, a causa degli adattamenti locali, si presenta del tutto originale e senza confronti. Anche oggi Sala/Chellah è un luogo di contaminazioni fra i piú suggestivi del Marocco. Le rovine si mescolano a una vegetazione lussureggiante, i turisti locali e stranieri camminano in un paesaggio fatto di elementi di diverse epoche. Alcuni dei resti piú imponenti appartengono al Capitolium, il tempio dedicato a Giove, Giunone e Minerva, sul modello di quello che sorgeva sul colle del Campidoglio a Roma.

I PROTAGONISTI C. Hosidius Severus fece costruire il Capitolium intorno al 120 d.C.; il suo nome è ricordato nell’iscrizione dedicatoria in marmo, ritrovata in

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A destra: ricostruzione 3D del Capitolium di Sala, vista da sud. Nello spaccato prospettico è stato sezionato il lato sud del portico, in modo da visualizzare il tempio al centro della piazza. In basso: ricostruzione di uno dei capitelli del tempio.

frammenti. Rimase in uso fino al IV secolo, quando l’area fu riutilizzata come immondezzaio e necropoli. La carriera del personaggio si ricostruisce grazie ad altre due iscrizioni onorarie: cittadino di Sala di rango equestre, militò nell’esercito agli inizi del II secolo, fu comandante di truppe ausiliarie di stanza nella parte orientale dell’impero o lungo il confine danubiano, tribuno nella legione VII Claudia pia fidelis nella Mesia superiore, infine ufficiale imperiale per le operazioni del censo in Britannia. Jean Boube è l’archeologo francese che ha scavato il complesso agli inizi degli anni Sessanta del XX secolo, Gilbert Hallier l’architetto che lo ha rilevato. Gli scavi di Sala iniziarono dopo l’indipendenza del Marocco e l’istituzione del nuovo Service des Antiquités du Maroc. Fu aperta un’area di circa 1,2 ettari rimuovendo quasi tutti i resti di epoca post-classica per arrivare alla fase maura e romana. Il Capitolium venne restaurato mentre gli scavi procedevano per mettere in sicurezza le strutture, per cui il tempio, oggi, è il risultato delle

rimozioni e reintegrazioni operate all’epoca. I rilievi e le fotografie realizzate da Hallier durante lo scavo si trovano negli archivi del Centre Camille Jullian a Aix-en-Provence. Documenti – ancora inediti –, che mostrano l’edificio prima e durante la rimozione delle terre e delle strutture crollate. Gli archeologi dell’Università di Siena da anni studiano, rilevano, ricostruiscono gli edifici di Sala/ Chellah anche con l’ausilio delle nuove tecnologie. Soprattutto quando gli scavi del passato sono rimasti inediti, le architetture superstiti svolgono un ruolo di primo piano come fonte di storia urbana, sociale, economica.

LO STUDIO E LA RICOSTRUZIONE 3D L’analisi delle murature, le decorazioni, le epigrafi, i documenti di archivio sono serviti per la ricostruzione della fase originaria del Capitolium. Il complesso occupava un’area di 48 x 26 m circa, il lato lungo sud era sostruito su taberne affacciate sul Foro. La piazza del tempio era circondata da un portico colonnato su almeno due lati, quelli conservati, o forse tre, se il portico correva anche sul lato sopra alle taberne. Qualche incertezza permane riguardo al

tempio, anche a causa degli adattamenti locali: doveva avere quattro colonne corinzie sulla fronte; il pronao (l’ambiente che precede la cella del tempio) era molto profondo e dietro la cella esisteva un piccolo ambiente dalla funzione sconosciuta. Nell’iscrizione, Hosidius Severus dichiara di aver costruito il tempio dalle fondamenta, e il complesso risulta infatti omogeneo dal punto di vista tecnico. La facciata verso il Foro e forse quella del tempio sono in blocchi squadrati, il resto in una tecnica chiamata opus africanum, composto da una sorta di «telaio» fatto di pilastri di grandi blocchi e riempito di pietre piú piccole. La ricostruzione 3D, eseguita con l’applicazione Blender, permette di comprendere a pieno la tipologia del complesso, finora mai considerata negli studi sul Marocco romano, quella cioè dei templi in area porticata di tradizione italica, diffusi in altre regioni nordafricane in età imperiale. Forse Hosidius Severus, di ritorno dai suoi incarichi nell’impero, volle costruire un edificio conforme alle mode circolanti, piú imponente rispetto a quelli esistenti a Sala, lasciando una traccia indelebile di se stesso nella propria città di origine. (stefano.camporeale@unisi.it, rossella.pansini@gmail.com)

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

PARTHENOPE COME AFRODITE LE NUOVE ESPLORAZIONI SUBACQUEE CONDOTTE NELLE ACQUE DI NAPOLI HANNO AVUTO RISULTATI SORPRENDENTI: SONO STATI INFATTI LOCALIZZATI I RESTI DI UN PORTO FINORA SCONOSCIUTO E RIFERIBILE ALL’EPOCA IN CUI LA CITTÀ ERA UNA COLONIA GRECA. CE NE PARLA FILIPPO AVILIA, RESPONSABILE DEL PROGETTO DI RICERCA

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e avevamo dato notizia su queste pagine, nell’estate del 2016, quando, a Napoli, nelle acque antistanti la fortezza di Castel dell’Ovo, erano emersi i primi resti archeologici sommersi (vedi «Archeo» n. 378, agosto 2016). Ma quanto è stato scoperto in questi giorni, grazie alla prosecuzione delle indagini subacquee, sembra davvero eccezionale. Le nuove acquisizioni si devono agli studiosi dell’associazione Marenostrum Archeoclub d’Italia onlus, che, sotto l’egida della Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio del Comune di Napoli, e grazie ai finanziamenti dell’Università IULM di Milano, ha recentemente condotto una serie di prospezioni subacquee nell’area di fronte a Castel dell’Ovo. Sulle ultime novità abbiamo intervistato Filippo Avilia, archeologo subacqueo e direttore scientifico del progetto. Un tratto della galleria sottomarina individuata nel corso delle piú recenti esplorazioni subacquee condotte nelle acque di Napoli. Si tratta di un percorso probabilmente sfruttato per il controllo dell’approdo.

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«Si è trattato – racconta Avilia – della scoperta piú emozionante della mia vita. Non ce lo aspettavamo. Nello scorso ottobre abbiamo ripreso gli scavi archeologici subacquei e – a sorpresa – è venuto alla luce un porto finora sconosciuto, che doveva appartenere all’antica Parthenope. Si è sempre pensato che questa prima colonia di Greci avesse un unico approdo, situato a oriente dell’area di Pizzofalcone,

dove sorge l’attuale porto di Napoli, presso il Maschio Angioino. Invece ne abbiamo scoperto un secondo sull’altro lato, a Occidente. E questo è un tratto comune di molte colonie greche del VII secolo a.C., come Cuma, Selinunte, Megara Hyblaea: avevano un doppio approdo, nella loro fase originaria. Si tratta di un sistema rudimentale, che potremmo definire approdo». Quali resti archeologici sommersi avete individuato?


«Già nel 2016 avevamo trovato tracce dell’insediamento greco, con i tre tunnel sottomarini rintracciati nel banco di tufo a Castel dell’Ovo (vedi «Archeo» n. 378). A ottobre abbiamo ripreso le prospezioni subacquee, sulla base delle fotografie aeree, e abbiamo scoperto, oltre a una quarta galleria, un’antica strada sommersa tagliata nel banco di tufo, presumibilmente databile al VI secolo a.C., con tracce di solchi di carro. Quando abbiamo presentato le immagini in occasione di un convegno, il professor Luis Godart, Consigliere per la Conservazione del Patrimonio Artistico della Presidenza della Repubblica Italiana, che era tra il pubblico e che oggi partecipa al progetto, è rimasto senza parole.

quelle della grotta della Sibilla a Cuma, che erano poste a difesa del porto. Essendo alte solo 1,5 m, dovevano avere la stessa funzione militare, di controllo dell’approdo, sul versante occidentale di Pizzofalcone». Le ricerche subacquee rischiavano di interrompersi per mancanza di fondi, fino a pochi mesi fa. Poi cosa è successo? «Devo ringraziare Mario Negri, Rettore dell’Università IULM di Milano, e Giovanna Rocca, direttore del Dipartimento di Studi umanistici della stessa IULM, che erano tra il pubblico quando presentavo i risultati del nostro studio sulla linea di costa napoletana. Quando ho detto che le prospezioni archeologiche non sarebbero potute andare avanti

Qui sopra: pianta delle strutture localizzate nel corso delle indagini. Le nuove ricerche provano che la colonia greca di Parthenope disponeva di due approdi, situati a ovest e a occidente di Pizzofalcone.

A destra, in alto: un’altra immagine di una delle gallerie. A destra, in basso: un’immagine della strada tagliata nel banco di tufo, che sembra potersi datare al VI sec. a.C. e conserva tracce di solchi di carro.

Pensiamo che la strada faccia riferimento alle strutture dell’approdo di Parthenope: doveva salire dal mare verso l’interno, poiché la quota va da -6 a -2 m di profondità rispetto al livello del mare. Alla fine della via, c’è un bacino semicircolare scavato nel tufo, forse un deposito, visto che in epoca greca l’area non era sommersa. Le quattro gallerie individuate nel banco di tufo, invece, trovano un confronto con

per mancanza di fondi, mi hanno proposto di finanziare le ricerche. E pensare che in un anno di campagna di raccolta fondi nessuno si era interessato al nostro progetto: a loro è bastata un’immagine per decidere di finanziarlo. Hanno stanziato una prima tranche da 10mila euro e forse in futuro arriveranno altri fondi, grazie al partenariato che la IULM ha stretto con Marenostrum Archeoclub d’Italia onlus e con la

società Ellessitalia, che si occupa dei rilievi sottomarini. Il progetto si chiama “Searen” e comprende sia lo scavo subacqueo, sotto la mia direzione scientifica, sia lo studio filologico di documenti, fotografie e stampe d’epoca, per un’analisi storica dell’area di Pizzofalcone. La IULM vuole realizzare percorsi subacquei da regalare alla città di Napoli per incentivare l’afflusso turistico. Non dimentichiamo che siamo nel cuore della città. Per me, infatti, questa scoperta è stata come un regalo alle origini. Un dono venuto dal ventre di Napoli, che fa rivivere il mito della genesi della città e della sirena Parthenope».

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n otiz iario

MOSTRE Firenze

FRAGILI SPLENDORI

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a piú antica industria del vetro colorato con ossidi metallici è attestata in Egitto, ma soltanto a partire dal I secolo a.C. si inizia a conoscere il processo della soffiatura. Ispirato a un passo del Satyricon di Petronio, «Pretiosa Vitrea» è il titolo della prima mostra organizzata in Toscana per valorizzare il patrimonio di arte vetriaria antica conservato in gallerie statali o civiche e in raccolte private della regione. Sede del percorso espositivo è il Museo Archeologico Nazionale di Firenze, che ha permesso di allestire una panoramica su un autentico tesoro, rappresentato da 325 vasi e frammenti in vetro, di cui 12 faraonici, 11 etruschi, 73 greci e 218 romani di varia epoca e provenienza. È l’Egitto faraonico – con una selezione di intarsi, collane e unguentari dalle collezioni della Sezione Egizia del MAF, databili dal II

millennio a.C. in poi – che apre l’esposizione, ripercorrendo le fasi antiche della lavorazione di un materiale che interessò immancabilmente le altre culture del Mediterraneo, proprio come l’Etruria, tra le prime a subirne il fascino, sin dall’VIII secolo a.C. La ricchezza dei corredi rinvenuta in quest’area permette di ricostruire l’evoluzione delle successive tecniche di trattamento del vetro, simbolo di appartenenza a uno status sociale elitario. Illustrano lo sviluppo di quest’arte preziosa fusuerole e fusi in vetro, un raro amphoriskos con coperchio che imita l’agata, insieme a contenitori per oli In alto: unguentario in vetro cammeo blu traslucido e bianco opaco, da Torrita di Siena. Ultimi decenni del I sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. A sinistra: aryballos in vetro soffiato azzurro con catenella e piccolo coperchio in bronzo. I-II sec. d.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

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profumati, provenienti da tombe di Marsiliana, Vetulonia e Tuscania e a produzioni siropalestinesi dell’epoca rinvenute in alcuni relitti come quelli di Pozzino e Populonia. Ai reperti regionali si aggiungono quelli scavati in Siria, Cipro e Iraq, insieme a pezzi ritrovati sulle Navi di Pisa, che testimoniano la creatività di artisti che realizzarono minuscoli capolavori, tra cui vetri soffiati liberamente o a matrice, coppe a reticelli, nastri, millefiori, bicchieri intagliati a favo d’ape o rari vetri cammei, come quello da Torrita di Siena. Degno rappresentante della qualità artistica raggiunta nelle produzioni di lusso è la crisografia dal Museo Archeologico Nazionale di Arezzo; il valore economico, spesso assai elevato, era dovuto proprio all’utilizzo di materiale pregiato come l’oro delle crisografie, o ai procedimenti virtuosistici di esecuzione, come l’incisione. (red.)

DOVE E QUANDO «Pretiosa vitrea» Firenze, Museo Archeologico Nazionale fino al 29 gennaio Orario lu e sa, 8,30-14,00; ma-ve, 8,30-19,00; prima e terza domenica del mese, 8,30-14,00 Info www.polomusealetoscana. beniculturali.it


INCONTRI Roma

ROMA E IL MEDITERRANEO

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rende il via la IV edizione di «Luce sull’Archeologia», il ciclo culturale di maggiore successo al Teatro Argentina. In continuità con le edizioni precedenti, anche gli incontri del 2018 hanno un filo conduttore: questa volta si indagano le relazioni fra Roma e il Mediterraneo. Il Mare Nostrum è un susseguirsi di mari, di paesaggi, di popoli, un crocevia antichissimo dove persone, merci, idee e diverse forme dell’estetica generarono la diffusione di civiltà, culti, costumi e leggende.

Alla metà del II secolo a.C., la definitiva vittoria romana contro i Cartaginesi, la presa di Corinto e l’eredità del regno di Pergamo consegnarono alla repubblica il dominio del Mediterraneo e tutti i territori di quest’area passarono sotto la sua autorità, favorendo l’assimilazione giuridica, linguistica e l’ellenizzazione della cultura romana. Ma quello dei Romani è un popolo che ha le sue radici e le sue origini negli dèi, e dice infatti Omero: «Dalla guerra di Troia Enea si salverà per volere degli dèi»;

l’ultimo degli eroi greci diventa cosí il capostipite dei Romani. Approccio scientifico ed esperienza emozionale sono l’obiettivo dei 7 appuntamenti in programma la domenica mattina alle ore 11,00 per raccontare una storia densa di eventi e di grandi personaggi. Ogni incontro sarà preceduto dalle «Anteprime dal passato», notizie su ritrovamenti, scoperte e mostre, a Roma e non solo, a cura di Andreas M. Steiner, direttore dei mensili «Archeo» e «Medioevo». Si comincia il 14 gennaio con i miti

La facciata del Teatro Argentina di Roma, che ospita gli incontri del ciclo «Luce sull’Archeologia».

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n otiz iario Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Particolare di un mosaico nel quale sono raffigurate alcune navi nel porto di Classe. sulle origini di Roma e il viaggio di Enea, che dalla Troade attraverso il Mediterraneo raggiunge i lidi laziali, predestinato a diventare il progenitore del popolo romano. A differenza degli Ateniesi, che dicevano di essere «nati dalla terra», cioè autoctoni, i Romani raccontavano che i loro lontani antenati erano giunti da una città lontana e scomparsa, Troia. La rivendicazione di questa origine esotica favorí una politica dell’integrazione nella quale già gli antichi individuavano l’elemento fondamentale della potenza romana. L’incontro prosegue documentando come a Roma, i miti delle origini si ambientano e si materializzano in luoghi e monumenti che si fanno testimoni dei primordi della città e

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semantizzano lo spazio urbano. Il mito troiano e la figura di Enea sono uno dei cardini di questo sistema, che coinvolge anche diversi luoghi e città dell’Italia antica e, specialmente, del Lazio, dove assurge, nel contesto di una complessa geografia leggendaria, a mito collettivo identitario del popolo latino. Nel secondo appuntamento, il 4 febbraio, si esplora la nascita e lo sviluppo delle grandi città portuali dell’Italia antica; si parte da Ostia, appendice portuale di Roma alla foce del Tevere, che con le sue merci arricchiva i mercanti e incrementava le botteghe ancora in sito a testimonianza concreta del benessere raggiunto. Il mare ci trasporta poi a Pozzuoli, affacciata su un magnifico golfo naturale del

comprensorio flegreo; divenne ben presto l’approdo italiano per i commerci di ogni genere che, in un Mediterraneo ormai dominato da Roma, avevano nell’isola di Delo il loro emporio internazionale. Si arriva quindi a Ravenna, capitale dell’impero romano d’Occidente nel 402 d.C. e maggiore centro politico e culturale alla fine dell’antichità; una città ponte tra Occidente e Mediterraneo, e illustre testimone che i grandi porti del Mediterraneo sopravvivono a lungo anche nel tardo antico. Il 18 febbraio si prosegue con le guerre puniche e il viaggio di Annibale, l’avversario di gran lunga piú temibile per la repubblica romana, che, nel 211 a.C., giunse alle porte di Roma e in quei frangenti, sorprendente fu la reazione dei Romani. E poi, comprenderemo perché, per otto secoli, Roma parve imprendibile. Nell’incontro dell’8 aprile si parlerà del lusso e del gusto per il bello che la società romana eredita a partire dalla metà del II secolo a.C. in seguito alle vittorie militari sulle popolazioni greche e sui regni ellenistici; ma si parlerà anche delle enormi ricchezze conquistate da Roma con le proficue campagne militari di Traiano, il cui complesso forense riassume ed esplicita i valori collettivi di un popolo. Il 15 aprile si prosegue il racconto con la conquista romana dell’Egitto, quando Cleopatra l’ultima regina della terra dei faraoni, sarà sconfitta assieme a Marco Antonio da Ottaviano e da Agrippa ad Azio nel 31 a.C.; l’ultimo dei regni nati dalla dissoluzione dell’impero di Alessandro entra cosí nella sfera di Roma. Si dimostrerà che i grandi protagonisti di questa storia, Cesare, Antonio e Ottaviano, a loro volta erano sposati oppure parenti di


PERÚ

«LUCE SULL’ARCHEOLOGIA»

Il calendario degli appuntamenti Domenica 14 gennaio Il viaggio di Enea Le origini troiane: un mito per l’impero Relatori: Andrea Giardina, Domenico Palombi, Claudio Strinati Domenica 4 febbraio Da mare a mare. I grandi porti dell’Italia antica Relatori: Andrea Augenti, Carlo Pavolini, Fausto Zevi Domenica 18 febbraio Roma e Annibale. Una storia in movimento Relatori: Luciano Canfora, Annalisa Lo Monaco, Claudio Strinati Domenica 8 aprile Il lusso dall’Oriente. Commerci e bottini che fecero grande Roma Relatori: Stefano Tortorella, Lucrezia Ungaro, Alessandro Viscogliosi Domenica 15 aprile Roma verso l’Egitto. Protagonisti e vicende Relatori: Francesca Cenerini, Alessandro Pagliara, Claudio Strinati Domenica 22 aprile Popoli del mare nel Mediterraneo antico Relatori: Maamoun Abdulkarim, Massimiliano Ghilardi, Alessandro Naso Domenica 13 maggio Matera lucana tra Greci e Romani Relatori: Pietro Laureano, Massimo Osanna, Giuliano Volpe, Raffaello Giulio De Ruggiero

eccezionali matrone romane, che hanno rappresentato l’antitesi al modello Cleopatra. Il 22 aprile verrà illustrato l’universo composito del Mediterraneo, navigato da popoli diversi per la ricerca di materie prime fin dal I millennio a.C. e che produssero una significativa interazione tra le genti insediate sulle coste, quali Fenici, Greci, Etruschi. Si narrerà della città di Palmira e del ricco commercio carovaniero fatto di prodotti pregiati come spezie, profumi, avorio, perle, seta. L’incontro si chiuderà con uno sguardo su Roma alla fine dell’età antica, quando grazie anche a una rete ancora fiorente di commerci, l’Urbe si trasformerà nella Roma medievale.

L’ultimo incontro è un fuori programma: il 13 maggio ci sarà infatti un omaggio alla città di Matera, come prologo a Matera Capitale Europea della Cultura 2019, un’occasione di riflessione e dibattito su un patrimonio culturale universale a cui è affidata la memoria individuale e collettiva. Catia Fauci

DOVE E QUANDO «Luce sull’Archeologia, IV edizione: Roma e il Mediterraneo» Roma, Teatro Argentina dal 14 gennaio al 13 maggio Orario ogni domenica, ore 11.00 Info www.teatrodiroma.net

La seconda morte del cervo? In Perú, intorno alla metà dello scorso novembre, un grave incendio ha colpito il complesso archeologico Ventarrón, nella vallata di Lambayeque, antico tempio e monumento tra i piú importanti dell’America Latina, risalente al III millennio a.C. e precedente di circa 2000 anni lo sviluppo della vicina cultura di Sipán. È stata gravemente compromessa anche un’inestimabile pittura murale che si trovava all’interno – ritenuta la piú antica d’America –, raffigurante un cervo intrappolato in una rete. L’incendio si sarebbe propagato da un terreno agricolo adiacente al sito, adibito alla coltivazione della canna da zucchero, dove era in corso una combustione controllata di residui vegetali; le fiamme avrebbero attecchito sulla sterpaglia circostante raggiungendo quindi i resti del tempio. La struttura di riparo dell’area, ritenuta ignifuga, è stata invece avvolta dal fuoco, lasciando il sito cosparso di residui carbonizzati. Il direttore del Proyecto Arqueológico Cerro Ventarrón, Ignacio Alva Meneses, ha denunciato danni gravissimi, una distruzione pari al 95% del sito. Piú ottimista il ministro dei Beni Culturali del Perú, Salvador del Solar, che dopo un sopralluogo ha dichiarato di nutrire speranze per il recupero, sebbene con l’impiego di enormi investimenti. (P. L.)

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

UN BESTIARIO FANTASTICO Nell’ultimo numero, avete potuto leggere dei 2 3 1 rilievi scoperti a Shuwaymis, in Arabia Saudita, che rappresentano una scena di caccia in cui un gruppo di canidi è affiancato alla figura di un cacciatore, armato di arco e freccia, che ne tiene due al guinzaglio (vedi «Archeo» n. 394, dicembre 2017). Grande è stata la sorpresa perché la 5 raffigurazione, qualora dovesse esserne 4 confermata la datazione tra il 7000 e il 6000 a.C., farebbe risalire all’indietro di un migliaio di anni la prima attestazione di un guinzaglio per cani, finora attribuita a un’immagine egiziana del 5500 a.C. Da quella notizia abbiamo preso spunto per proporvi una selezione del materiale filatelico che rappresenti immagini preistoriche di animali, 7 6 domestici e non, realizzate in varie parti del mondo. Tra le emissioni piú vecchie vi è una serie della Spagna del 1967 di ben 10 valori; tra questi, sono raffigurati alcuni Cervidi (1) e due scene di caccia ai cervi (2) e alle antilopi (3); le immagini provengono dalle grotte di Castellon e Santander. Spagnolo è anche un valore del 1975, che presenta un cavallo (4), dalla grotta di Tito Bustillo. 8 9 In alcuni valori delle due serie emesse nel 1967 e 1968, il Ciad ha raffigurato una scena di caccia con uomini e un cane che inseguono una lepre (5), due giraffe preistoriche (6) e un cammello che trasporta uno struzzo (7), tutte dal sito di Ennedi nel 10 11 12 Sahara. Dall’altopiano di Tassili, in Algeria, vengono due immagini raffiguranti Bovidi (8) e struzzi (9) su francobolli del 2013. Nel 1982, lo Zimbabwe ha emesso una serie di 6 valori per ricordare graffiti e disegni trovati in varie località del Paese; uno di essi riproduce giraffe preistoriche ed è stato rinvenuto nella grotta di Gwamgwadza, nella regione di Mtoko 13 14 (10), e l’altro un facocero, proveniente dalle grotte di Mucheka nella regione di Msana (11). IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere Infine, il particolare di una delle raffigurazioni alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai scoperte nella celebre grotta francese di Lascaux, seguenti indirizzi: la «Cappella Sistina» della preistoria (12), i Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, mammut di Rouffignac, un altro importante sito Via Tavanti, 8 C.P. 17037 scoperto in Francia (13), e le sagome di un cavallo e 50134 Firenze Grottarossa info@cift.it, 00189 Roma. due capre, risalenti quasi a 25 000 anni fa, scoperte oppure lcalenda@yahoo.it; www.cift.it a Foz Coa in Portogallo (14).

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L’ARCHEOLOGIA NELLA STAMPA INTERNAZIONALE Andreas M. Steiner sono valse le proteste messe in atto dai giovani residenti della zona…

MORTE DI UNA CITTÀ CANANEA

L

a notizia risale ai primi d’ottobre dell’anno appena trascorso. Prima di diffonderla, però, abbiamo voluto aspettare l’eventuale smentita. L’attesa, purtroppo, è stata vana: varie fonti hanno confermato che un importantissimo sito archeologico protostorico, situato nella striscia di Gaza e da quasi vent’anni indagato da un’équipe internazionale, è stato distrutto. Ma non, come si potrebbe pensare, sull’onda di qualche mal diretto fanatismo ideologico o religioso. Ad agire, questa volta, sono state l’avidità e l’indifferenza. E a niente

La collina di Tell es-Sakan, situata sulla costa mediterranea, 5 km a sud di Gaza, ospitava le vestigia di una città dell’età del Bronzo, posta lungo la via carovaniera che univa l’Arabia e l’Egitto faraonico alla piú settentrionale terra di Canaan. Gli scavi del sito, scoperto casualmente nel 1998, sono stati condotti a partire dal 2000 a opera dell’archeologo palestinese Moain Sadeq in collaborazione con il collega francese Pierre de Miroschedji: nella vasta area di circa 10 ettari sono emersi i resti di un vasto insediamento, databile tra il 3500 e il 2350 a.C., il primo nella zona a essere circondato da un

muro di cinta. Le indagini hanno individuato tre strati insediativi: inizialmente nato forse come una colonia fortificata egiziana nel Levante meridionale, il sito fu abbandonato all’inizio del III millennio a.C. Qualche secolo piú tardi, Tell es-Sakan fu nuovamente occupato e trasformato in una potente città-stato cananea, in grado di resistere alle ripetute incursioni militari egiziane. Dal 2002, con lo scoppio della seconda Intifada e le conseguenti tensioni politiche e militari, le indagini archeologiche si sono interrotte. A partire dal 2007, con la presa di potere da parte del partito Hamas, il sito è stato progressivamente insidiato da questo nuovo, imprevedibile «nemico»: fino ad arrivare allo scorso mese di ottobre, quando le

Tell es-Sakan (Gaza), settembre 2017. Un bulldozer rimuove parte dei resti della città-stato di epoca cananea.

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ruspe hanno spianato ampia parte dell’area archeologica per fare spazio alla costruzione di immobili destinati ai funzionari del movimento islamista. Secondo Jean-Baptiste Humbert, archeologo dell’École Biblique di Gerusalemme e uno dei primi a poter testimoniare dell’accaduto, «tutta la porzione meridionale dell’antica cinta muraria è stata demolita». Un giudizio confermato anche dallo scavatore di Tell es-Sakan, l’archeologo Moain Sadeq, per il quale «le antiche strutture abitative di questo sito – che forse rappresenta l’unica città cananea fortificata nel Sud della Palestina – e parte delle sue fortificazioni sono distrutte». Al momento, le proteste degli archeologi e di alcuni attivisti hanno fermato l’opera delle ruspe. Ma non è affatto sicuro, afferma il professor Sadeq, «che la tregua duri per sempre».

In alto: il sito di Tell es-Sakan in una foto scattata durante la campagna di scavo del 2000. A destra: il funzionario dell’UNESCO Junaid Sorosh-Wali nel corso di un sopralluogo compiuto a Tell es-Sakan per verificare l’entità dei danni arrecati al sito.

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IM PE TU RA T TO T RI I G DI LI RO M A

LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO

IMPERATORI Vita, intrighi e potere nella Roma dei Cesari


Germanico davanti alle legioni di Varo, olio su tela di Lionel Royer. 1896. Le Mans, Musée de Tessé.

N

el 27 a.C., il Senato di Roma conferí il titolo di Augusto a Caio Giulio Cesare Ottaviano: veniva cosí sancito l’imperio che, di fatto, il figlio adottivo già esercitava da ormai due anni. Quella nomina segna dunque l’inizio ufficiale della lunga parabola dell’impero romano, che, nei successivi cinque secoli, detenne il controllo di gran parte del mondo allora conosciuto. Una vicenda straordinaria, i cui attori principali sono ora protagonisti della nuova Monografia di «Archeo»: dallo stesso Augusto, fino a Romolo Augustolo, ultimo ed effimero titolare del principato occidentale. In una carrellata vivace e articolata, c’è spazio, oltre che per le note biografiche dei singoli personaggi, per approfondimenti sul contesto culturale, politico e sociale in cui ciascuno di essi si trovò ad agire. Né mancano inserti che invitano a leggere con occhi nuovi, per esempio, le imprese di Nerone, al quale la tradizione assegna una connotazione luciferina almeno in parte da rivedere. Il tutto, come sempre, corredato da un ricco apparato di illustrazioni, disegni ricostruttivi, alberi genealogici e cartine storiche.

GLI ARGOMENTI •A UGUSTO E nulla fu piú come prima • GIULIO-CLAUDI E FLAVI Da Cesare ai Cesari • ANTONINI Quando Roma dominò il mondo • PRINCIPI D’AFRICA Verso l’anarchia • IMPERATORI SOLDATI Il gigante barcolla

IN EDICOLA

•N EL SEGNO DI CRISTO Una croce per insegna

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CALENDARIO

Italia ROMA L’Etruria di Alessandro Morani

Riproduzioni di pitture etrusche dalle collezioni dell’Istituto Svedese di Studi Classici a Roma Istituto Centrale per la Grafica fino al 04.02.18

Il Tesoro di Antichità

Winckelmann e il Museo Capitolino nella Roma del Settecento Musei Capitolini fino al 22.04.18

GENOVA Contatti con il passato Il disco lunare di Libarna Museo di Archeologia Ligure fino all’11.02.18

LIDO DI JESOLO Egitto. Dei, faraoni, uomini Spazio Aquileia 123 fino al 15.09.18

Egizi Etruschi

Da Eugene Berman allo Scarabeo dorato di Vulci Centrale Montemartini fino al 30.06.18

Traiano

Costruire l’Impero, creare l’Europa Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 16.09.18

AOSTA Pietra, carta, carbone

I frottages di stele di Ernesto Oeschger e Elisabetta Hugentobler Area Megalitica di Saint-Martin-de-Corléans fino al 06.05.18

CAPACCIO PAESTUM (SA) Le armi di Athena

Il Santuario settentrionale di Paestum Museo Archeologico Nazionale fino al 31.03.18

COLLEFERRO (ROMA) Le terre dei Conti

Nelle carte topografiche antiche Sala Aldo Ripari (ex Sala Konver) fino al 21.01.18

FINALE LIGURE BORGO (SV) Ad fines. 500 miglia da Roma Al tempo dei Romani nel Finale Museo Archeologico del Finale fino al 03.06.18

FIRENZE Acque Sacre

Culto etrusco sull’Appennino toscano Consiglio regionale fino al 20.01.18

Pretiosa vitrea

L’arte vetraria antica nei musei e nelle collezioni private della Toscana Museo Archeologico Nazionale di Firenze fino al 29.01.18 36 a r c h e o

MILANO Milano in Egitto

Gli scavi di Achille Vogliano nel Fayum Civico Museo Archeologico fino al 31.05.18 (prorogata)

Riproduzione della tomba di Tutankhamon.

MODENA Mutina Splendidissima

La città romana e la sua eredità Foro Boario fino all’08.04.18

NAPOLI Diario mitico

Cronache visive sulla Collezione Farnese Museo Archeologico Nazionale Affresco con rilievo, fino al 09.01.18 da una villa del suburbio di Mutina (Modena). Longobardi Un popolo che cambia la storia Museo Archeologico Nazionale fino al 25.03.18

Pompei@Madre

Materia Archeologica» MADRE-Museo d’arte contemporanea Donnaregina fino al 24.09.18

PAVIA Africa tra immaginario e realtà La «Scoperta» del Regno del Benin Residenza Universitaria Biomedica del Collegio Universitario S. Caterina fino al 24.02.18

REGGIO EMILIA On the road

La Via Emilia, 187 a.C. – 2017 Palazzo dei Musei fino all’01.07.18


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

SUTRI (VITERBO) Sutri, Vulci e i misteri di Mitra

LENS Musiche!

TORINO Missione Egitto, 1903-1920

Germania

Culti orientali in Etruria Villa Savorelli fino al 13.05.18

L’avventura archeologica M.A.I. raccontata Museo Egizio fino al 14.01.18

Odissee

Diaspore, invasioni, migrazioni, viaggi e pellegrinaggi Palazzo Madama fino al 19.02.18

TRIESTE Nel mare dell’intimità

L’archeologia subacquea racconta l’Adriatico ex Pescheria, Salone degli Incanti fino all’01.05.18

Echi dell’antichità Musée du Louvre-Lens fino al 15.01.18

KARLSRUHE Gli Etruschi

Civiltà mondiale nell’Italia antica Badisches Landesmuseum fino al 17.06.18

Gran Bretagna LONDRA Gli Sciti

Ricostruzione dell’equipaggiamento di un cavaliere scita.

Guerrieri dell’antica Siberia The British Museum fino al 14.01.18

VENEZIA Il mondo che non c’era

L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue Palazzo Loredan fino al 30.06.18 (dal 12.01.18)

VICENZA Le ambre della principessa

Storie e archeologia dall’antica terra di Puglia Gallerie d’Italia, Palazzo Leoni Montanari fino al 07.01.18

VILLANOVA DI CASTENASO (BO) Villanova e Verucchio Un’antica storia comune MUV-Museo della civiltà Villanoviana fino al 10.06.18

Francia PARIGI Cristiani d’Oriente

Duemila anni di storia Institut du monde arabe fino al 14.01.18

Il Perú prima degli Inca

Olanda LEIDA Ninive

Cuore di un antico impero Rijksmuseum van Oudheden fino al 25.03.18

Musée du quai Branly-Jacques Chirac fino all’01.04.18

Svizzera

ARLES Il lusso nell’antichità

SCIAFFUSA Etruschi

Tesori della Bibliothèque nationale de France Musée départemental Arles antique fino al 21.01.18

Una grande civiltà antica all’ombra di Roma Museum zu Allerheiligen fino al 04.02.18 a r c h e o 37


SCOPERTE • GÖBEKLI TEPE

Un momento di archeologia sperimentale in cui un cranio artificiale viene inciso con un frammento di selce, per ricreare un effetto analogo alle evidenze archeologiche rinvenute sui teschi umani di Göbekli Tepe. 38 a r c h e o


GÖBEKLI TEPE E IL

MISTERO DEI

CRANI INCISI

IL SITO NEI PRESSI DELLA CITTÀ TURCA DI URFA, GIÀ NOTO PER I SUOI TEMPLI, CONSIDERATI COME I «PIÚ ANTICHI DEL MONDO», RIVELA NUOVE E AFFASCINANTI TESTIMONIANZE LASCIATE DALLE COMUNITÀ CHE LO FREQUENTARONO. MA QUALE POTEVA ESSERE IL SIGNIFICATO DI QUELLE «TESTE»? di Massimo Vidale

G

li enigmatici recinti megalitici di Göbekli Tepe (10 500-9500 a.C.), oggi da molti considerati «i primi templi dell’umanità» – come amò battezzarli il loro scopritore, l’archeologo tedesco Klaus Schmidt – non hanno smesso di rivelare i loro oscuri segreti. Julia Gresky, antropologa dell’Istituto Archeologico Tedesco a Berlino ha da poco annunciato una scoperta che può apparire di ridotta entità, se vista all’ombra delle masse scolpite dei pilastri a forma di «T», delle sculture di bestie e uomini, delle grandi vasche cuppellate ricavate da enormi massi; ma che ha invece conseguenze straordinarie sull’interpretazione archeologica dei monumenti. Si tratta di un gruppo di frammenti trovati in due diverse trincee di scavo, che in origine appartenevano a tre diversi crani umani di individui adulti, intenzionalmente modificati a r c h e o 39


SCOPERTE • GÖBEKLI TEPE

segni di insistenti raschiature, come se lo scopo fosse stato quello di rimuovere dalla testa umana parti residuali dei tessuti molli; e almeno un frammento apicale di cranio umano mostra il margine di un foro superiore, che gli scopritori ritengono fatto, insieme alle incisioni, per sospendere il cranio stesso nel vuoto. Le cordicelle sarebbero state cosí collocate nelle profonde incisioni, garantendo una buona presa e tenendo le mandibole ben ancorate al resto del cranio.

La posizione dei frammenti e le incisioni Rappresentazione schematica dei frammenti di teschi rinvenuti, collocati nella loro posizione originaria nei rispettivi crani di pertinenza. In evidenza, sono indicati i segni di incisione rilevati sulla superficie, praticati da un utensile affilato. Nel caso del teschio «A», nel disegno al centro, è indicata la posizione del foro praticato in prossimità della sutura sagittale, forse per sospendere il cranio per mezzo di una cordicella.

con profonde solcature praticate con taglienti lame in selce. I tagli hanno una sezione a «V», come se fossero stati destinati a ospitare alcune cordicelle; si tratta, come ha sottolineato Julia Gresky, del primo caso noto di crani umani modificati per incisione nell’arche40 a r c h e o

ologia del Vicino Oriente. Una delle incisioni correva lungo l’asse sagittale del cranio, cioè dalla fronte alla nuca. Un’altra conserva tracce di ocra rossa, materiale ricorrente in innumerevoli casi di pratiche cultuali preistoriche. Alcune parti delle teche craniche, inoltre, presentano

UN’IPOTESI SUGGESTIVA La scoperta, insomma, suggerisce che nelle grandi costruzioni a pianta ovale di Göbekli Tepe, davanti ai giganti-pilastri vagamente antropomorfi, costellati di immagini stilizzate di animali, che salivano verso l’oscurità del tetto, pendessero nel vuoto teste umane dalle orbite vuote. Vien da pensare che – se gli archeologi tedeschi hanno ragione – questi crani durante le cerimonie apparissero, al baluginio incerto dei focolari, innaturalmente sospesi nel nulla, un po’ come i grandi lampadari in ferro calano dalle volte nella penombra delle cattedrali gotiche. L’immagine è forse macabra, ma stabilisce un inequivocabile e del tutto inatteso legame tra le cerimonie che avevano luogo nei «templi» di Göbekli Tepe e i rituali dei crani umani rimodellati in intonaco, ocra e bitume, tipici dei millenni successivi del Neolitico aceramico (VIIIVII millennio a.C. circa). Una nota «da archeologo»: ben si sa che nel materiale di scavo è difficile trovare qualcosa che non ci si aspetta per nulla; e i frammenti di cranio incisi appena scoperti, esperienza insegna, possono essere stati fraintesi come ossa animali, specialmente come parti di piastre di tartarughe. È possibile che nell’immediato futuro un riesame attento dei sacchetti contenenti i resti faunistici riveli altri reperti dello stesso tipo. Prima di addentrarci in interpretazioni e


Veduta sud-orientale della struttura D in corso di scavo (ottobre 2009). I due pilastri centrali sono preparati per essere riposizionati.

congetture sarà utile rinfrescare i lettori sulla descrizione e la natura dei grandi complessi monumentali di Göbekli Tepe e di altri simili complessi, ancora in buona parte non scavati, della valle di Urfa. Il complesso archeologico di Göbekli Tepe non è il solo di questo

tipo. Non se ne è parlato molto, ma gli archeologi tedeschi e turchi che hanno esplorato il territorio circostante parlano e scrivono di altre colline dalle quali le piogge e l’erosione dei pendii fanno affiorare le sommità di decine e decine di altri «giganti» eretti all’interno di nume-

rose sale preistoriche. È quindi l’intero territorio che in antico doveva essere considerato come una «terra sacra». Le rovine di Göbekli Tepe si estendono su uno spazio di forma ovoidale, con un diametro massimo di non meno di 300 m. Al momen(segue a p. 48) a r c h e o 41


SCOPERTE • GÖBEKLI TEPE

LA MANIPOLAZIONE DEI CRANI NEL NEOLITICO DEL LEVANTE Nel Vicino Oriente e nel Levante, le pratiche di estrazione dei crani umani dalle sepolture, apparentemente a scopi rituali, sono piuttosto rare prima del VII millennio a.C. La fascinazione per la decomposizione dei resti corporei, la comparsa e la manipolazione delle ossa è già

percepibile in alcune necropoli tardo-paleolitiche del Levante, nelle quali parti umane e animali venivano estratte e spostate, mescolandole, da una sepoltura all’altra. In età natufiana (12 5009500 a.C. circa) l’attenzione sembra sporadicamente concentrarsi sui crani, ma è nelle fasi centrali del Neolitico che questi riti funerari acquistano piena visibilità. Alcuni morti, che avevano acquisito – qualsiasi

fosse il motivo – una particolare rilevanza agli occhi dei contemporanei, erano sepolti in camere o contenitori vuoti (spesso all’interno delle abitazioni). Le tombe venivano poi riaperte, a quanto pare non molto tempo dopo la sepoltura, per rimuovere il cranio. Questo veniva ripulito, forse purificato, quindi rivestito di strati di intonaco a base di calce e gesso; si aggiungevano ocra rossa, pigmenti, conchiglie, bitume per A sinistra: frammento di teschio con incisione (qui accanto la localizzazione su una ricostruzione grafica del cranio). Sulle due pagine: veduta panoramica dalla collina di Göbekli Tepe.

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A sinistra: due frammenti di teschio con incisioni. A destra ricostruzione grafica dei frammenti con, in evidenza, le linee di incisione.

ottenere, in modo quasi illusionistico, impersonali volti umani. Niente si sa delle cerimonie che seguivano, se non che queste teste artificiali poggiavano su piattelli di stuoie per essere spostate; e che, dopo

l’uso, i crani venivano sepolti in modo abbastanza rispettoso e ordinato nei pressi delle abitazioni. Oggetti sacri per culti degli antenati o della fertilità, oppure trofei di nemici uccisi, i crani rimodellati sfidano ancora

l’acume degli archeologi. Interpretazioni piú recenti sottolineano invece che, forse, l’aspetto piú importante, al di là del puntuale significato simbolico, era la cerimonia in sé, durante la quale la collettività, oltre a riconoscere la perdita del defunto, recuperava risorse e tempo per stare insieme, e rafforzare cosí i propri legami identitari di gruppo.

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SCOPERTE • GÖBEKLI TEPE

Scavando la «collina panciuta» Göbekli Tepe. Un’ampia panoramica aerea della cosiddetta «collina panciuta». Qui nel 1995, Klaus Schmidt ha iniziato le indagini archeologiche che hanno portato alla scoperta del fondamentale sito neolitico. Sulla destra si distingue la grande area circolare della struttura D.

Cronologia dei grandi monumenti preistorici 2,5 milioni – 200 000 a.C. circa Paleolitico Inferiore 120 000 – 36 000 a.C. circa Paleolitico Medio 36 000 – 10 000 a.C. circa Paleolitico Superiore (35 000/30 000 Aurignaziano, 25 000 Gravettiano, 15 000 Magdaleniano) 12 000 – 11 000 a.C. circa EpipaleoliticoMesolitico (Natufiano, Wadi Hammeh) 10 000 a.C. circa Fine dell’era glaciale 9500 a.C. Neolitico aceramico A: Göbekli Tepe III, Gerico 8500 a.C. Neolitico

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aceramico B: Nevali Çori, Göbekli Tepe II, Ain Ghazal 9000 – 5000 a.C. circa Neolitico 6500 a.C. Çatal Höyük 5000 – 4000 a.C. circa Calcolitico 4000 – 3000 a.C. Periodo di Uruk, recinto sacro dell’Eanna 3000 – 2000 a.C. Stonehenge 3000 – 1300 a.C. Età del Bronzo, piramidi e ziggurat in Egitto, Mesopotamia e Iran 1600 – 1300 a.C. Cittadelle micenee, palazzi Ittiti


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SCOPERTE • GÖBEKLI TEPE

Una «foresta» di figure e simboli Edificio con le stele dei leoni STRATO II A STRATO II B STRATO III PILASTRI - STELE

1 Muro terrazzato (STRATO II) con scala

A sinistra: pianta schematica dell’area di scavo di Göbekli Tepe, con l’indicazione delle strutture circolari e il posizionamento dei pilastri rinvenuti. 1. In alto: il pilastro 18, nella struttura D, con raffigurazione di una volpe e di un braccio umano. 2. In basso: il pilastro 27, nella parte occidentale della struttura C. Nel 2006 è venuta in luce, nella parte bassa della stele, la scultura di un felino. L’animale è parte del blocco monolitico scolpito. 3. In basso, a sinistra: una veduta della struttura B.

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STRUTTURA D 33

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STRUTTURA A 4 5

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Uno scorcio della struttura B con, al centro, il pilastro 10, una delle due stele collocate, in posizione affrontata, al centro del circolo megalitico. Entrambe recano l’immagine di una volpe. a r c h e o 47


SCOPERTE • GÖBEKLI TEPE

Sulle due pagine: alcune immagini del cantiere archeologico della struttura circolare D, in cui sono emersi numerosi pilastri a «T», decorati con rilievi zoomorfi.

to, sono state portate in luce otto ampie sale recintate da grossi elementi litici a pianta ovale, che sembrano soprattutto raccogliersi verso il nucleo centrale delle costruzioni; ai margini, si trovano, fittamente addensate, altre costruzioni minori, soprattutto a pianta quadrata o rettangolare. Le prospezioni geofisiche sembrerebbero indicare la presenza nello stesso complesso di almeno un’altra dozzina di sale colonnate ancora sepolte. Le sale ovali di regola contengono, affrontati al centro, due enormi monoliti centrali a forma di «T», con tratti e attributi antropomorfi stilizzati al punto da es48 a r c h e o

sere irriconoscibili. Dovrebbe trat- to minori, erano eretti e inseriti tarsi dei pilastri che reggevano il all’interno delle murature perimecolmo di un tetto ligneo. trali dei recinti; probabilmente sorreggevano le estremità dei pali della copertura lignea che convergevano QUASI UN’ARCA DI NOÈ I pilastri maggiori sembrano sfiora- verso il colmo centrale. re le 10 tonnellate di peso; alcuni Per comprendere lo sconcerto gehanno le superfici lisce e vuote, nerale del mondo archeologico, bamentre su altri si stagliano nitide sti pensare che, dal punto di vista grandi immagini animali (volpi, le- cronologico, le straordinarie archioni, tori, scorpioni) e altri ancora tetture e sculture di Göbekli Tepe letteralmente brulicano di sagome apparterrebbero a un orizzonte stilizzate di altre creature (scorpioni, tardo-mesolitico (o, per usare il noserpi intrecciate, uccelli, insetti), ad- me della piú nota e importante culdensate le une sulle altre al punto di tura mesolitica del Levante, tardoessere irriconoscibili. Pilastri con le natufiano). I dati archeologici distesse forme, ma di dimensioni mol- mostrano che tutto ciò fu immagi-


LA SCOPERTA MANCATA A volte l’archeologia può essere straordinariamente miope, e commettere errori clamorosi. Non tutti sanno che il sito di Göbekli Tepe era stato vistato negli anni Sessanta da una missione congiunta dell’Oriental Institute di Chicago e dell’Università di Istanbul. A quel tempo gli archeologi, specialisti di preistoria, diedero un’occhiata distratta ai blocchi e alle lastre di calcare che affioravano in

superficie. Nei manuali di preistoria del Vicino Oriente non vi era nulla del genere, e le incisioni con figure animali che si intravedevano qua e là, allora prive di qualsiasi confronto, dovettero apparire piatte e grossolane. «È solo un altro cimitero di età medievale» si dissero, dimostrando scarsissima immaginazione e perdendo cosí l’occasione di passare alla storia.

nato e realizzato, con impressionanti sforzi collettivi, da tribú di cacciatori-raccoglitori ancora non coinvolti in pratiche di domesticazione di piante e animali, cioè ancora ignari dell’agricoltura, a meno che, ipotesi forse improbabile ma affascinante, il cibo prodotto non fosse stato intenzionalmente escluso, come regola ineludibile, dal complesso rituale dei recinti. Sino ad allora, l’idea dominante era stata che l’arte preistorica dell’XI e X millennio a.C., in Oriente come in Europa e altre parti del mondo, fosse in sostanza confinata nella cosiddetta «arte mobiliare» – la decoa r c h e o 49


SCOPERTE • GÖBEKLI TEPE

razione con fitte figure, perlopiú geometriche e fortemente ripetitive, su oggetti mobili di dimensioni molto ridotte (soprattutto ossa animali e ciottoli). Era stata forse questa apparente povertà estetica originaria a sostenere le convinzioni dell’archeologo francese Jacques Cauvin (1930-2001). Nel 1994, solo un anno prima delle scoperte di Klaus Schmidt, Cauvin aveva pubblicato Naissance des divinités, naissance de l’agriculture (Nascita degli Dèi, Nascita dell’Agricoltura), un volume nel quale si sosteneva che le drammatiche trasformazioni del

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Neolitico fossero dovute non all’interazione tra uomo e ambiente, ma a una sorta di improvvisa «mutazione mentale», nel corso della quale simbolismo, religione e economie produttive apparivano strettamente interconnessi. Göbekli Tepe, invece, dimostrava quasi simultaneamente che l’emergere di un esasperato simbolismo era del tutto indipendente dall’affermazione delle economie produttive del Neolitico; quanto alla genesi della religione, l’argomento, come i lettori possono facilmente intuire, si faceva ben piú intricato e controverso di

quanto lo stesso Cauvin non avesse mai sospettato. Oggi, in contrasto con precedenti teorie di natura economica, molti abbracciano l’ipotesi che siano nati prima la politica e i leader, cioè la capacità di aggregare e organizzare grandi masse di persone, facendo loro accettare inediti principi di autorità; e solo in un secondo tempo, grazie a questa evoluzione, sarebbe stato possibile usare le gerarchie cosí stabilite per dar vita al modo di produzione agricolo. Göbekli Tepe e gli altri siti della transizione al Neolitico


della valle di Urfa occupano ora un posto cruciale in quella che si preannuncia come una difficile e nuova riflessione. Fu Klaus Schmidt, che aveva già visto frammenti di grandi sculture e simili grandi pilastri a «T» nei precedenti scavi condotti a Nevali Çori insieme a Harald Hauptmann, a intuire che si trattava di qualcosa di completamente diverso. Almeno all’inizio delle sue scoperte, l’archeologo, riteneva – come disse una volta a chi scrive – che i recinti di blocchi e pilastri fossero le basi di grandi tumuli funerari in-

Suberde Musular Hacilar Çatal Höyük

Asikli Höyük Cafer Höyük

Mar Caspio

Cayönü

Kösk Höyük

Gritille Hallan Çemi Nevali Çori Hayaz Göbekli Tepe Gürcutepe Tell Abr Tell Qaramel Assouad Qermez Nemrik Shanidar Zawl Chemi Sabi Abyad Dere Haloula Dja’de Shimshara Mureybet Abu Hureyra Magzalia Zarzi Ras Shamra Karim Shahir El Kown

CIPRO

Mar Mediterraneo

Bouqras

Byblos

Jarmo

Palmyra

Tell Ramad Hayonim Mallaha Nahal Orem El Wad Wadi Hammeh Kebara Jawa Shuqba Jericho Ain Ghazal Nahal Hemar

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Basta

Mar Rosso

Golfo Persico

La Mezzaluna Fertile Nella cartina sono indicati i principali siti archeologici della Mezzaluna Fertile, databili tra il X e l’VIII millennio a.C. Sono evidenziati i siti di Nevali Çori e Göbekli Tepe, situati nelle «propaggini collinose», le montagne tra gli alti corsi dell’Eufrate e del Tigri. L’immensa area rappresenta la zona piú ricca di precipitazioni di tutto il Vicino Oriente, una condizione che ha permesso all’uomo di svolgervi l’attività agricola senza il bisogno di irrigazioni artificiali. Lo storico e egittologo James H. Breasted gli diede, nel 1938, il nome di «Mezzaluna Fertile». Insieme a quello di «Rivoluzione neolitica» coniato dall’archeologo Gordon Didascalia da fare Vere Ibusdae Childe, questo concetto ha accompagnato (e condizionato) studi della evendipsam, officte gli erupit antesto neolitizzazione del Vicino Oriente. Ai due termini è poi quello taturi cum si ilita aut aggiunto quatiur restrum di Hilly Flanks, «propaggini collinose»,eicaectur, con cui glitesto studiosi Robert eium Linda blaborenes Braidwood hanno portato al centro dell’attenzione degli l’Alta nonem quasped quos nonstudi etur reius Mesopotamia, la terra montagnosa tra l’Eufrate e il Tigri, posta margini quam expercipsunt quosairest magni settentrionali della Mezzaluna Fertile, individuata d’origine autatur apiccome teceszona enditibus teces. delle piante alimentari selvatiche da cui emersero le specie domestiche.

L’area collinare nei pressi di Urfa, in cui si inserisce il sito di Göbekli Tepe. a r c h e o 51


SCOPERTE • GÖBEKLI TEPE

UNO STUDIOSO VERSATILE E CREATIVO Archeologo e orientalista tedesco, Klaus Schmidt è stato uno studioso dai vasti interessi, versatile e creativo. È diventato famoso per aver condotto scavi a Göbekli Tepe (Turchia sud-orientale) dal 1996 al 2014, che hanno rivoluzionato idee stabilite da oltre un secolo sulla preistoria e sull’evoluzione sociale del Vicino Oriente antico. Dopo aver studiato preistoria, protostoria, archeologia classica alle Università di Erlangen e Heidelberg (Germania), Schmidt completò il dottorato nel 1983 a Heidelberg, sotto la direzione di Harald Hauptmann, altro grande archeologo autore di importanti scoperte nei vicini siti del Neolitico Antico dell’alto bacino dell’Eufrate. Con il suo tutor, Klaus partecipò agli scavi del sito neolitico di Nevali Çori. Venne quindi assunto dall’Istituto di Ricerche Pre-Protostoriche dell’Università di Heidelberg. Nel 1995, divenne direttore degli scavi dei siti di Gürcütepe e Göbekli Tepe, quest’ultimo una collina circa 50 km a nord del confine siriano (per dirla nelle parole della rivista Antiquity, Klaus «si addentrò, scalando i gradini, nei rigori del sistema accademico tedesco»). Mentre i clamorosi risultati dei suoi scavi salivano alla ribalta dell’attenzione del mondo accademico, come dell’attenzione dei media di tutto il mondo, Schmidt divenne professore a Erlangen e responsabile dell’archeologia preistorica presso

tenzionalmente riempiti da immensi scarichi di ghiaia e ciottoli, nei quali recinti e sculture sarebbero stati sepolti di proposito. Oggi si tende piuttosto a immaginare le costruzioni come grandi sale semi-sotterranee, frequentate dai clan di cacciatori e raccoglitori, probabilmente provenienti da territori e percorsi di sfruttamento delle risorse locali di vasto raggio, per cerimonie particolari, forse di iniziazione dei giovani maschi. Questa ipotesi è rafforzata dalla quasi totale assenza, nelle immagini scolpite in pietra, di simboli e immagini femminili, che invece, con l’affermazione del mondo degli agricoltori neolitici, sarebbero divenute dominanti. Gli studiosi Kent Flannery e 52 a r c h e o

l’Istituto Archeologico Tedesco. Negli stessi anni, si legò a Göbekli Tepe e alla Turchia in modo sempre piú stretto, sposando Çigdem Köksal-Schmidt, un’archeologa turca, e acquistando una casa a Urfa, il centro piú vicino ai suoi scavi. Purtroppo Klaus è mancato prematuramente, a 60 anni, colpito da un attacco di cuore mentre nuotava in Germania. Lo si ricorda come una persona comunicativa e generosa, abile conferenziere dalle vaste visioni storiche, innamorato del suo mestiere e delle sue fortunate scoperte. Schmidt era convinto del carattere funerario dei grandi recinti megalitici di Göbekli Tepe; una volta confidò a chi scrive di essere certo che, una volta raggiunte le basi dei grandi pilastri antropomorfi, vi avrebbe portato in luce sepolture a cremazione (un po’ come a Stonehenge, in Inghilterra, le cosiddette «Buche di Aubrey» ospitavano resti di cremazione di individui particolarmente importanti ai piedi di uno dei circoli di blocchi megalitici che rappresentano la storia del complesso). Sino a ora, le sue previsioni non sono state confermate dagli scavi: gli edifici sembrano sempre essere stati destinati ai vivi piú che ai defunti. Ma la recente scoperta dei frammenti dei «crani sospesi» dispersi nelle rovine dei maggiori edifici di Göbekli Tepe lo avrebbe certamente affascinato oltre ogni dire.

In alto: l’archeologo Klaus Schmidt (1953-2014), scopritore di Göbekli Tepe. In basso: una suggestiva veduta d’insieme del grande circolo megalitico D.


In queste costruzioni, i giovani, mentre sono istruiti sui riti e i doveri del passaggio allo stato di adulti, vivono e dormono in contatto con le ossa e i crani degli antenati. Un limitato gruppo di sculture, nei repertori del sito – per la verità, non particolarmente esplicite – sembra insistere sulla manipolazione e sull’uso rituale delle teste dei defunti: tra essi, un pilastro scolpito in cui un personaggio sembra sorreggere una testa umana, e un altro pilastro con terminazione a «T» sul quale una specie di avvoltoio figura presso un possibile cranio (la predazione di cadaveri privi del cranio da parte di avvoltoi, forse simbolici vettori di un viaggio celeste e ultraterreno, appartiene anche il repertorio figurativo dell’altrettanto celebre sito preistorico turco di Çatal Höyük).

Lo scorpione e l’uomo senza testa Il pilastro n. 43, rinvenuto all’interno della struttura circolare D nella campagna di scavo dell’autunno 2005. Alto quasi 4 m, è una delle piú spettacolari stele rinvenute a Göbekli Tepe: vi sono raffigurati avvoltoi, un gigantesco scorpione e, nell’estremità inferiore, un uomo privo della testa, forse vittima di una morte violenta.

Joyce Marcus, in un altro importante libro intitolato The Creation of Inequality (La Creazione della Disuguaglianza, 2012), sostengono che simili sale di riunione, destinate alla segregazione rituale e all’istruzione rituale dei giovani adolescenti maschi, riaffiorano in forme e materiali differenti in momenti e luoghi diversi della preistoria umana (per esempio, in altri siti del Neolitico antico della Turchia, oppure nei kiva delle società segrete maschili dei Pueblo delle culture del Sud-Ovest degli Stati Uniti e in Messico).

UN MESSAGGIO DEI MITICI FONDATORI? I crani sospesi di Göbekli Tepe oggi danno ulteriore credito a queste suggestioni. Come ha detto Julia Gresky a proposito dei frammenti di cranio appena scoperti, gli antichi «pensavano che il potere dei morti, in tale modo, si trasmettesse ai vivi». Dobbiamo forse immaginare che nei recinti megalitici di Göbekli Tepe questo potere, o importanti conoscenze trascendentali, si trasmettessero magicamente dai fondatori mitici dei clan, giganti di pietra coperti dalle immagini di animali totemici, ai resti visibili degli antenati umani dei quali i clan conservavano memoria storica? È difficile dirlo. Certo è che Göbekli Tepe sembra sempre piú materializzare un vasto e arcaico immaginario appartenente al mondo, ormai evanescente, degli ultimi cacciatoriraccoglitori, e alla venerazione degli antenati fondatori dei clan, piuttosto che a una sfera di religiosa contemplazione di eteree divinità superiori. Come è certo che lo straordinario sito turco rivelerà, in futuro, altre «incredibili» sorprese. a r c h e o 53


SCOPERTE • ROMA

IL RACCONTO DELL’ACQUA LA RICONVERSIONE DI UN PALAZZO SITUATO NEL CUORE DI ROMA, A POCHI PASSI DALLA FONTANA DI TREVI, HA OFFERTO L’OCCASIONE PER ESEGUIRE UN’AMPIA E APPROFONDITA INDAGINE ARCHEOLOGICA. GLI SCAVI HANNO RIVELATO UN PALINSESTO RICCHISSIMO, NEL QUALE SONO EMERSI TRATTI DI DUE MAESTOSI ACQUEDOTTI, UN SEGMENTO DELLA VIA SALARIA AFFIANCATO DA SEPOLCRI, UNA LUSSUOSA RESIDENZA, NONCHÉ UN RAFFINATO IMPIANTO TERMALE di Marta Baumgartner 54 a r c h e o


Le immagini che corredano l’articolo documentano le indagini archeologiche eseguite a Roma, in occasione della riconversione di un immobile situato fra via del Tritone e via Due Macelli, per la creazione di un nuovo store Rinascente. A sinistra: frammento di rilievo in marmo con figura femminile arcaizzante. Fine del I sec. a.C. Nella pagina accanto: le arcate dell’acquedotto Vergine oggi visibili al piano seminterrato dello store Rinascente.

L’

isolato compreso tra via del Tritone e via Due Macelli, nel centro di Roma (siamo a poca distanza dalla Fontana di Trevi, n.d.r.), è stato oggetto di una grande operazione di scavo archeologico in occasione dei lavori per la riconversione funzionale di un complesso edilizio da adibire alla nuova sede di Rinascente. L’indagine ha interessato un’area di 4000 mq circa e ha portato risultati eccezionali, come la scoperta di un tratto di acquedotto Vergine, l’impianto che Agrippa, genero di Augusto, fece costruire tra il 25 e il 19 a.C. per alimentare le prime terme pubbliche di Roma nel Campo Marzio. Lo scavo ha inoltre riportato alla

luce parte di un secondo acquedotto, di poco precedente al Vergine e fino a oggi ignoto, e un intero quartiere della città antica di cui sono state individuate le fasi di frequentazione a partire dal I secolo a.C.

I PRIMI RITROVAMENTI Alcune preesistenze archeologiche erano state viste già negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando furono demoliti i palazzi del XVIIXIX secolo per costruire un nuovo complesso edilizio. Le strutture di epoca romana vennero allora demolite per creare un piano interrato e fu possibile documentare solo una minima parte dei rinvenimenti. Cosicché, nel 2010, quando sono ini-

ziate le nuove ricerche, nessun elemento poteva far immaginare che al di sotto della quota raggiunta negli anni Cinquanta si conservasse ancora un intero settore urbano. Le prime indagini miravano a verificare l’esistenza e lo stato di conservazione dell’acquedotto Vergine, il cui percorso, ampiamente noto, costituisce il limite settentrionale del lotto di proprietà Rinascente. In seguito, tramite carotaggi e trincee ubicate in corrispondenza dei primi rinvenimenti, si è iniziato a comprendere l’entità e la densità delle consistenze archeologiche in tutta l’area, nonostante gli ostacoli posti alle indagini dalla tenuta delle fondazioni dell’edificio e dalla presenza dell’acqua di falda. La ricostruzione del paesaggio naturale che precedeva l’urbanizzazione è stata elaborata tramite lo studio dei risultati dei carotaggi. L’area è caratterizzata dalla presenza di una propaggine della collina del Pincio, che digrada verso due incisioni vallive: nella parte meridionale, si apriva la valle Sallustiana, una piana ricca di sorgenti compresa tra Pincio e Quirinale e pressoché coincidente con l’attuale via del Tritone, dove scorreva un piccolo fiume dea r c h e o 55


SCOPERTE • ROMA

finito fosso Sallustiano e interpretato spesso come la Petronia amnis nominata dalle fonti antiche; nella parte settentrionale, si trovava un’incisione valliva secondaria, probabilmente attraversata da un corso d’acqua che si immetteva nel fosso principale. Tale ambiente naturale ha condizionato l’assetto urbanistico dell’area, in primo luogo nel passaggio di due strade e degli acquedotti, che, a loro volta, hanno determinato sia la disposizione planimetrica degli edifici, sia la presenza di attività produttive correlate allo sfruttamento idrico. Le testimonianze piú antiche si in-

quadrano in epoca tardo-repubblicana, quando l’area è situata all’esterno delle mura cosiddette «serviane» (la piú antica cerchia di Roma, che la tradizione attribuisce al re Servio Tullio, ma che, in realtà, risale IV secolo a.C., n.d.r.) e del pomerio, il limite sacro della città. È questo il momento in cui fuori dal circuito difensivo, che aveva ormai perso la sua funzione originaria, vengono realizzati ricchi horti suburbani come, quelli di Sallustio e Lucullo, residenze di lusso costituite da varie strutture e padiglioni circondati da giardini lussureggianti. Nell’area di scavo sono state indivi-

In alto: ortofoto dei resti dell’acquedotto Vergine messi in luce dagli scavi. In basso: pianta della zona fra via del Tritone e via Due Macelli, con, in rosso, l’area dell’immobile interessata dalle indagini archeologiche.

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duate due strade che si congiungono sul versante occidentale in prossimità del punto in cui si sovrappongono anche i due acquedotti. Nella strada situata piú a nord si è riconosciuto un tratto della via Salaria vetus, uno degli assi principali di questo settore della città, il cui nome è legato al commercio del sale; la via è definita vetus per distinguerla da un tratto urbano piú recente della Salaria. Il felice rinvenimento del tracciato stradale permette oggi di definire in questo punto il confine tra due delle quattordici unità amministrative della città istituite da Augusto nel 12 a.C., le regiones VI Alta Semita e VII Via Lata.

COMMEMORAZIONE E PROPAGANDA Come per le altre grandi arterie romane, anche lungo la Salaria vetus era invalso l’uso di costruire monumenti funerari come strumento di propaganda celebrativa oltre che di commemorazione del defunto. Se ne è avuta conferma dal rinvenimento dei resti di tre sepolcri monumentali allineati sul lato settentrionale della strada e databili tra la seconda metà del I secolo a.C. e la prima metà del I secolo d.C., con alcuni interventi successivi. I tre edifici erano rivestiti esternamente da blocchi di tufo, travertino e marmo. Due di essi sono del tipo «a dado», ovvero dotati di un basamento privo di camera funeraria e talvolta decorati sulla sommità da statue, sarcofagi o altri elementi. Uno dei sepolcri è invece «a camera»: sebbene esternamente avesse


dimensioni e struttura simili ai precedenti, disponeva all’interno di una camera funeraria realizzata in opera reticolata e in origine affrescata, come suggeriscono i frammenti di intonaco dipinto rinvenuti nell’interro che la obliterava. Ai sepolcri possono essere riferiti, oltre ad alcune decorazioni architettoniche di alto livello, due frammenti della stessa iscrizione che

doveva rivestire la fronte di uno dei mausolei: vi si nomina un Pomponius, che fu senatore e iniziò la carriera con Augusto, proseguendola con il suo successore, Tiberio. Tutti i frammenti architettonici, che probabilmente rivestivano gli edifici funerari, sono stati rinvenuti in fosse scavate allo scopo di recuperare materiale per le calcare, dislocate in prossimità degli edifici funerari e lungo la via Salaria vetus. In particolare, una di esse – databile a partire dal VII secolo d.C. – fu costruita impostandosi sulla camera funeraria del sepolcro.

in opera da Agrippa. I due condotti nella porzione occidentale del cantiere si sovrappongono e proseguono sostenuti da arcate a blocchi di tufo. Il piú antico ha andamento est-ovest ed è forse uno dei rami secondari di età augustea dell’aqua Marcia, l’acquedotto attivo dal 144 a.C. che prendeva acqua dalle sorgenti dell’Aniene e di cui è possibile ammirare numerosi tratti nella campagna orientale di Roma. Il secondo è l’aqua Virgo, il cui percorso è ampiamente conosciuto: dalle sorgenti di Salone, in zona Ponte di Nona, lungo la via Collatina, viaggiava in un condotto quasi esclusivamente sotterraneo fino a I DUE ACQUEDOTTI In età augustea, nell’area furono via Capo le Case/via Due Macelli, costruiti due acquedotti, ricondu- da dove proseguiva su arcuazioni e, cibili alla sistemazione del Campo oltrepassando la via Lata (attuale via Marzio voluta da Augusto e messa

I sepolcri lungo la strada Questa ricostruzione ipotetica si riferisce dell’assetto dell’area indagata nella sua prima fase di frequentazione (I sec. a.C.-metà del I sec. d.C.); si noti, oltre alle ben riconoscibili strutture degli acquedotti, l’utilizzo a scopo sepolcrale degli spazi adiacenti il tracciato della via Salaria vetus, con vari di tipi di monumenti funerari.

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SCOPERTE • ROMA A sinistra: il pavimento in opus sectile dell’ambiente 8 della domus. Dopo l’inizio del IV sec. d.C. Sulla sinistra, si riconosce parte dell’emblema che figurava al centro della composizione. Nella pagina accanto: lo store Rinascente allestito nell’immobile tra via del Tritone e via Due Macelli.

del Corso), giungeva fino alla zona del Pantheon, in cui si trovava il castello terminale di distribuzione. Il tratto messo in luce a Rinascente presenta imponenti arcate in blocchi di tufo che sostengono un piano in lastre di travertino su cui si imposta il condotto vero e proprio, in opera reticolata. Come è possibile oggi osservare al piano interrato del nuovo store Rinascente – dove si può vedere l’acquedotto –, numerosi sono gli interventi che dall’età antica all’età contemporanea si susseguono sulla struttura. Il maggiore riguarda il suo innalzamento, con la creazione di un corridoio superiore coperto da una volta ogivale, databile probabilmente nel Quattrocento. In un cortile di via del Nazareno, in prossimità dell’area di indagine, sono visibili le arcate in travertino dell’acquedotto Vergine, nelle quali è inserito un arco monumentale eretto da Claudio e la cui iscrizione ricorda il restauro del Vergine nel 46 d.C., dopo che Caligola ne aveva distrutto un tratto per poter costruire un anfiteatro in Campo Marzio. La presenza degli assi stradali e degli 58 a r c h e o

acquedotti condiziona l’assetto urbanistico dell’area. A partire dalla seconda metà del I secolo d.C., infatti, con l’espandersi della città e l’intensificarsi dell’attività edilizia, tutti gli spazi liberi iniziano a essere occupati da edifici a carattere commerciale, produttivo e abitativo. I nuovi fabbricati sembrano rispettare i tre sepolcri preesistenti, mentre non è chiaro se vengano obliterati altri possibili monumenti funerari posti alle loro spalle, a cui potrebbero appartenere piccoli lacerti di strutture in opera reticolata.

LE TABERNAE Tutti i nuovi edifici, sette in totale, sono realizzati in opera laterizia e presentano al piano terra ambienti affacciati sulle strade, probabilmente tabernae. I piani pavimentali sono costruiti in opera spicata e in laterizi, perlopiú mattoni bipedali. Alcuni vani-scala testimoniano la presenza di piani superiori, forse adibiti ad abitazioni, secondo l’assetto tipico delle cosiddette insulae imperiali. Gli edifici addossati agli acquedotti sembrano sfruttarne la presenza per

un utilizzo dell’acqua a scopo produttivo, come suggeriscono, per esempio, le vasche realizzate al di sotto delle arcate del Vergine, che in alcuni casi sembrano sfruttare le perdite del condotto. A Roma la costruzione di edifici a carattere abitativo di tipo intensivo subisce un’interruzione a partire dal III secolo, momento in cui aumenta la richiesta di case di lusso da parte dell’alta aristocrazia. Nel cantiere di via del Tritone/via Due Macelli questa tendenza si riscontra nell’impianto di una domus caratterizzata da ambienti di rappresentanza affacciati su uno spazio aperto e decorati con pavimentazioni musive e marmoree. Nel IV secolo la residenza signorile è oggetto di un significativo ampliamento, che include almeno parzialmente l’edificio limitrofo; sostanziali modifiche vengono apportate all’impianto strutturale, con la creazione di una grande aula di rappresentanza absidata pavimentata con differenti tipologie di opus sectile. Il passaggio verso l’aula avviene dal giardino, in cui viene aggiunto un


portico abbellito con un canale rivestito in marmo, attraverso un ambiente absidato che racchiude una vasca con fontana. Linee curve nelle architetture, marmi preziosi e colorati disposti con differenti geometrie, giardini e giochi d’acqua sono elementi caratteristici delle lussuose domus tardo-antiche. Tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, ulteriori modifiche interessano l’ala orientale della domus: all’interno della cenatio, la sala dei banchetti, viene realizzato uno stibadium in muratura, divano tricliniare semicircolare rivestito in marmo (vedi anche alle pp. 61-64). Lo stibadium era dotato di un complesso sistema idraulico: al suo interno racchiudeva probabilmente una piccola vasca, mentre due bacini rettangolari si trovavano ai lati dell’ambiente, nei quali l’acqua creava suggestive trasparenze e giochi di luce.

MARMI E MOSAICI In età tardo-antica importanti modifiche interessano un complesso edilizio, che nella fase precedente doveva verosimilmente essere un caseggiato a piú piani. Il fabbricato viene riadattato per ospitare un impianto termale, organizzato da est verso ovest secondo lo schema canonico della disposizione degli ambienti: frigidarium, tepidarium, calidarium e laconicum. Sono stati individuati nella parte occidentale anche il praefurnium e una latrina. La decorazione parietale e pavimentale, con rivestimenti musivi negli ambienti freddi e marmorei negli ambienti riscaldati, si presenta ricca e di pregio; spicca un mosaico a tema marino che occupa gli ambienti di ingresso. Nel IV-V secolo gli edifici commerciali e abitativi della prima e media età imperiale vengono mantenuti in uso con modifiche piú o meno consistenti. Un cambiamento si riscontra invece dalla fine del V sino al VI-VII secolo, quando tutti i fabbricati continuano a essere frea r c h e o 59


SCOPERTE • ROMA

quentati in modo discontinuo, anche se alcuni ambienti sembrano mantenere il loro carattere produttivo accanto ad altri vani probabilmente abbandonati. Nello stesso periodo si registra un cambio nella destinazione d’uso di domus e balneum, spogliati dei rivestimenti marmorei e delle tubature plumbee che alimentavano i sistemi idraulici. A partire da questo momento i pavimenti dei vani vengono coperti da piani di calpestio in terra battuta. Inizia ora l’interro degli ambienti, sebbene non sia

chiaro se questo fenomeno avvenga in maniera unitaria o progressiva. Ultima attestazione di utilizzo, connessa probabilmente alla persistenza del tracciato della via Salaria vetus, è l’impianto di due fornaci: la prima è una calcara realizzata nell’area dei sepolcri; la seconda, situata a sud della strada, potrebbe essere stata adibita alla cottura di altri materiali, di cui tuttavia, allo stato attuale della ricerca, non è possibile stabilire la tipologia. Nel corso del VII secolo tutti gli ambienti dei diversi edifici risultano

interrati. L’area, ormai periferica, viene probabilmente dedicata a colture fino a quando, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, inizia una nuova fase di urbanizzazione che porterà alla definizione della topografia attuale. Le indagini archeologiche di cui si dà conto nell’articolo si sono svolte con la direzione scientifica della Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma, gli scavi e i restauri sono stati eseguiti da Land srl e le ricostruzioni da Progetto Katatexilux.

Un vano dell’edificio E in corso di scavo. Fine del II- III sec. d.C. Si può notare l’intervento attuato per rialzare il pavimento, che fu sopraelevato di 40 cm circa rispetto al piano di calpestio originario.

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UN DIVANO PER GLI OSPITI E LE TERME PER IL QUARTIERE di Nicoletta Saviane

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resso il limite meridionale dello scavo per la Rinascente è stata messa in luce una domus di cui si conserva parte della zona di rappresentanza, che doveva affacciarsi su un giardino porticato e occupava una superficie di 670 mq circa. Il suo ingresso principale va collocato fuori dell’area di cantiere, probabilmente a sud se si vuole immaginare un percorso assiale canonico ingresso-corte-sale di rappresentanza. Nella prima fase della residenza, databile al III secolo d.C., spicca per dimensioni e ricchezza decorativa un grande ambiente rettangolare rivestito in marmo e utilizzato probabilmente come triclinio e aula di rappresentanza. Affacciato sul giardino attraverso passaggi colonnati, l’ambiente sembra strettamente legato a un vicino cubicolo decorato da un mosaico geometrico a pelte in bianco e nero, forse utilizzato

durante lo svolgimento dei banchetti per l’esigenza di avere a disposizione uno spazio destinato a conversazioni «private» o dedicato al riposo e a momenti di intimità.

NUOVE FORME ARCHITETTONICHE Nella fase tardo-antica (IV-V secolo), la domus viene ristrutturata e sembra acquisire maggiore pregio. Il riassetto rispecchia le trasformazioni che avvengono nello stesso periodo nell’edilizia abitativa romana nell’ambito di un momento di rigenerazione creativa delle forme architettoniche: tra le novità, si diffondono l’uso di ambienti di rappresentanza absidati al posto di quelli rettangolari, dei rivestimenti marmorei al posto dei mosaici e un frequente impiego dell’acqua come elemento decorativo. Nella domus di via del Tritone si aggiunge in questo momento

un’aula absidata, che doveva spiccare in altezza sugli ambienti circostanti per essere illuminata scenograficamente da un alto finestrato. Il vano era accessibile da un ingresso colonnato situato al centro del lato lungo meridionale a seguito del passaggio dal giardino porticato in un ambiente dotato di vasca/fontana semicircolare. Del giardino è stato documentato solo l’angolo nord-occidentale, dove si riconoscono un portico con un canale marmoreo che corre lungo il muro di fondo. Il triclinio rettangolare del III secolo viene ora impreziosito dall’aggiunta di un divano semicircolare (stibadium) in muratura rivestito in marmo, che racchiudeva una piccola vasca nella parte frontale; l’ambiente viene dotato anche di due basse vasche rettangolari ai lati. Questo tipo di letto tricliniare è piuttosto raro nella documentazione archeologica: dei pochi esempi a r c h e o 61


SCOPERTE • ROMA

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in muratura noti solo uno proviene A destra: ipotesi da Roma, dall’area delle cosiddette ricostruttiva della terme di Elagabalo alle pendici cenatio della nord-orientali del Palatino. domus, con il Sul divano venivano stesi, in occa- grande stibadium sione dei banchetti, materassi di semicircolare forma trapezoidale e il caratteristico riservato agli cuscino cilindrico disposto a semiospiti. Sulla cerchio, il vero e proprio stibadium. struttura in Lo spazio retrostante doveva essere muratura del riservato ai movimenti degli inserdivano venivano vienti, mentre la struttura poteva adagiati i ospitare, sistemati a semicerchio, da materassi e cinque a nove commensali, la cui collocato il disposizione presentava un carattere cuscino fortemente gerarchico, con il domicilindrico nus in margine dextro, ovvero alla sisemicircolare nistra dell’osservatore. (lo stibadium

IL CONVIVIO COME STATUS SYMBOL In questo senso, lo stibadium rappresenta uno dei piú eloquenti documenti materiali del ruolo svolto dai riti conviviali nelle ricche dimore dell’aristocrazia, in occasione dei quali venivano rispettate precise convenzioni sociali che evocavano il cerimoniale della corte imperiale e dove il proprietario ostentava il proprio status nei confronti di amici e clienti grazie ai cibi raffinati, agli elementi di arredo pregiati e alle esibizioni di attori e musici. Durante i banchetti, la vaschetta semicircolare dello stibadium doveva contenere una mensa a sigma, su cui erano collocate le pietanze, sebbene alcuni studiosi ipotizzino che la vasca servisse anche a far galleggiare i cibi con effetto scenografico. In linea generale, la presenza dell’acqua era fondamentale durante i banchetti, sia per l’igiene che per garantire frescura in estate, ed era parte integrante della decorazione architettonica della sala: il velo d’acqua che ricopriva i rivestimenti marmorei delle vasche ne metteva in risalto i colori, offrendo uno straordinario gioco di riflessi, mentre il giardino visibile attraverso le colonne dell’ingresso completava la visuale dei commensali.

vero e proprio). Nella pagina accanto: ipotesi ricostruttiva della grande aula di rappresentanza realizzata nella domus nel corso del IV sec. d.C. L’ambiente era impreziosito dalla raffinata pavimentazione in opus sectile.

A tutto ciò vanno aggiunti e immaginati un apparato scultoreo e gli elementi di arredo in materiale deperibile: mobilio in legno, tappeti, tendaggi.

SORGONO LE TERME In età tardo-antica viene realizzato anche un impianto termale, del quale è stato possibile mettere in luce l’intero assetto planimetrico, per un totale di 330 mq. Gli ambienti di ingresso sono situati a est e uno di essi conserva un mosaico bianco e nero con scene marine, motivo ampiamente noto negli edifici termali: al centro due personaggi, in uno dei quali si può forse riconoscereVenere, cavalcano coppie di animali marini fantastici e sono circondati da eroti, pesci e mostri marini; lo spazio tra le

figure è solcato da linee nere parallele che evocano le onde del mare. Gli ambienti riscaldati si trovano a ovest, tutti decorati da rivestimenti marmorei. I pavimenti (suspensurae) erano sospesi, sostenuti da pilastrini in mattoni per creare un’intercapedine che permetteva la diffusione del calore generato dal forno, che si propagava anche lungo le pareti attraverso tubi in ceramica (tubuli). Il balneum era alimentato dall’acquedotto che si propone di identificare con un ramo dell’aqua Marcia, il cui speco viene interrotto per accumulare l’acqua in una cisterna di nuova realizzazione da cui veniva distribuita ai vani attraverso condutture in piombo. Il balneum rispecchia la predilezione tardo-antica per le forme curvilinee, in particolare nelle piscine, e rientra a r c h e o 63


SCOPERTE • ROMA

CERAMICHE E SPICCIOLI Oltre alla documentazione dei resti archeologici lo scavo per la Rinascente di via del Tritone ha permesso il recupero di un’ingente quantità di reperti, per un totale di circa 10 500 frammenti. Di essi, piú della metà sono ceramici, una grande quantità è costituita da marmi mentre per il resto si tratta di monete e metalli in genere, vetri e ossi lavorati. Tra i reperti ceramici meglio conservati vi sono numerose anfore, alcune riutilizzate per il restauro di fogne, e lucerne. Delle piú di 300 monete rinvenute, la maggior parte è di piccolo modulo: il loro ritrovamento è collegato alla presenza di attività artigianali e commerciali che giustificano l’utilizzo di moneta «spicciola», che veniva smarrita facilmente e il

cui valore era talmente basso da non sentire la necessità del suo recupero. Pezzi di pregio dovevano appartenere alle decorazioni architettoniche in marmo della domus e dei sepolcri: capitelli, colonne, basi e fregi decorati a rilievo mostrano la ricchezza e l’importanza di questi edifici. Numerosi sono inoltre i frammenti epigrafici, la maggior parte dei quali riferibili a contesti funerari, oltre a una base di statua con dedica a Venere. Infine alcuni frammenti scultorei, tra cui spicca una testa di filosofo, probabilmente il greco Carneade, scolpito in dimensioni piú grandi del vero. In alto: testa in marmo bianco che ritrae un filosofo, forse identificabile con Carneade. Età tardo-repubblicana. A sinistra: cornice angolare in marmo in stile ionico, dall’interro a ridosso del Sepolcro 3. I sec. d.C.

nella tipologia con itinerario retrogrado: il bagnante dagli ambienti di ingresso passava nel frigidarium senza utilizzarne le vasche, entrava nei tepidaria per una pulizia preliminare e per permettere al corpo di abituarsi gradualmente al calore, poi si recava nel laconicum per la sauna, che, col suo calore secco, consentiva alla pelle di traspirare eliminando le impurità. In seguito tornava sui propri passi, immergendosi prima in una delle due vasche riscaldate del caldarium, poi in quella fredda del frigidarium. Il trattamento poteva essere poi concluso con l’unzione con oli profumati e massaggi. Non è chiaro se l’impianto termale 64 a r c h e o

possa essere messo in relazione con la vicina domus. È noto infatti che nelle dimore di pregio di grandi dimensioni come quella documentata sotto Rinascente era solitamente presente un balneum privato. Nel nostro caso, tuttavia, i due edifici sembrano indipendenti, costruiti in momenti diversi e divisi da una strada. Potrebbe trattarsi quindi di un impianto pubblico, come farebbe pensare anche la latrina messa in luce all’estremità ovest dell’edificio, per la quale si possono calcolare 11 sedute. L’ambiente era accessibile dalla strada attraverso gli ambienti di servizio adibiti al riscaldamento del complesso.

L’impianto potrebbe quindi far parte degli 850 balnea riportati negli elenchi dei Cataloghi Regionari, un documento amministrativo redatto nel IV secolo in cui sono elencati i monumenti principali che definivano i limiti delle regioni e il totale per ogni regione di alcune tipologie di edificio (balnea, domus, insulae, ecc.). Si tratta di impianti termali cosiddetti «di quartiere», di proprietà privata aperti al pubblico, realizzati a fini speculativi. Essi rappresentavano un’alternativa in senso piú individuale e riservato rispetto alle grandi terme collettive. Questi balnea soddisfacevano le necessità basilari per l’igiene quotidiana della popolazione e probabilmente appartenevano per la maggior parte a famiglie aristocratiche che potevano affidarli in gestione ad appaltatori. È però possibile che, in un secondo momento, in connessione con una delle ristrutturazioni della domus, il balneum entri a far parte della residenza, forse inglobando nella proprietà anche parte della strada che divideva i due edifici.

Shopping con visita L’acquedotto Vergine, interamente restaurato, si può oggi ammirare al piano interrato dello store Rinascente. La superficie del monumento è valorizzata da proiezioni che attraverso linee di luce ne spiegano le geometrie, il funzionamento e le fasi di vita (vedi foto a p. 54). L’esperienza virtuale racconta in ultimo lo scavo, con ipotesi ricostruttive del quartiere della città antica nel suo sviluppo nei secoli, guidando il visitatore a comprendere l’evoluzione del paesaggio antico.


PER SAPERNE DI PIÚ Uno spaccato di Roma antica nella valle tra Quirinale e Pincio dalla fine dell’età repubblicana all’età tardo-antica. Un paesaggio percorso dalla via Salaria Vetus, fiancheggiata da monumenti funerari, il passaggio dell’Acquedotto Vergine e di un secondo acquedotto finora ignoto, destinati a rifornire il Campo Marzio. L’urbanizzazione di età imperiale, quando gli spazi vengono occupati da caseggiati a carattere abitativo e commerciale, tra cui si inseriscono successivamente una residenza di lusso e un impianto termale. In ultimo, il progressivo abbandono dell’area, a partire dalla fine dell’impero. Tutto questo è raccontato nel volume Roma Rinascente,

I materiali rilevati dalle indagini sono stati classificati per tipologia: elementi architettonici, scultorei, sarcofagi, ceramica, iscrizioni, ossi lavorati, metalli e vetri, monete, quasi tutti recuperati in giacitura secondaria. Diverso è il discorso per i frammenti ceramici e numismatici: questi, pertinenti per la maggior parte a strati del V e del VI-VII secolo, hanno fornito un quadro della frequentazione per queste epoche. La quarta sezione è, infine, dedicata ai temi del restauro e della valorizzazione dell’Acquedotto Vergine, che, un accurato intervento di restauro conservativo ha permesso di recuperare in tutta la sua magnificenza. Il volume è completato da tavole fuori testo, che rappresentano l’evoluzione topografica dell’area dal I

Particolare di una delle tavole del volume, con il prospetto dell’acquedotto e la mappatura delle murature.

dove la storia della città inizia con il paesaggio naturale, e, attraverso lo scavo archeologico, lo studio dei reperti, il restauro e la valorizzazione dell’Acquedotto Vergine, porta alla restituzione di un contesto urbano di straordinario interesse. L’ampio volume è organizzato in quattro sezioni: dopo un inquadramento generale dell’area sotto l’aspetto morfologico, idrogeologico e topografico, sono presentati i dati relativi allo scavo, ai materiali rinvenuti e infine alla valorizzazione delle strutture superstiti dell’acquedotto. La documentazione dello scavo è distinta per contesti funzionali e tipologici: sepolcri, acquedotti insulae e tabernae, domus e balneum, quindi frequentazione e abbandoni dal IV all’VIII secolo. Gli apparati decorativi, in particolare quelli pavimentali, sono trattati in un contributo specifico, per rendere meglio testimonianza del loro stato di conservazione.

secolo a.C. al VII secolo e il rilievo archeologico dell’Acquedotto Vergine, con le fasi edilizie. Un volume di grande interesse, che si fa apprezzare per l’impianto rigoroso e la trattazione specialistica, e anche per la chiarezza espositiva dei testi e la felice impaginazione, di agile consultazione per lo studioso o il ricercatore, ma al tempo stesso senz’altro appetibile anche per un pubblico piú ampio. (red.) Marta Baumgartner (a cura di) Roma Rinascente La città antica tra Quirinale e Pincio De Luca Editori d’Arte, Roma, 295 pp., ill. b/n e col. + 6 tavv. col. f.t. 80,00 euro ISBN 978-88-6557-320-4 www.delucaeditori.com

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SCAVI • XXXX XXXXXX

STORIE DI UN

VILLAGGIO ALPINO

Orecchini a poliedro in bronzo, dalla necropoli altomedievale. VI-VII sec.

I NUOVI SCAVI A SAN MARTINO DI VERVÒ, PICCOLO CENTRO DELLA VAL DI NON, GETTANO NUOVA LUCE SULL’ANTICO POPOLAMENTO DI UNO DEI TERRITORI CULTURALMENTE PIÚ VIVACI DELLE ALPI ORIENTALI di Lorenza Endrizzi 66 a r c h e o


Salvo diversa indicazione, le immagini che corredano l’articolo si riferiscono agli scavi nel sito di San Martino di Vervò (Valle di Non, TrentinoAlto Adige) e a reperti conservati nel Museo Retico di Sanzeno. A sinistra: scavo degli edifici di età tardo-romana. In alto: graffione (attrezzo per infilzare la carne). V sec. a.C. A destra: fibule in bronzo, dalla necropoli altomedievale. VI-VII sec.

L

Tassullo Coredo Sfruz

Tuenno Taio

Tres

San Martino di Vervò

SS43

Flavon

Denno Vigo di Ton SS43

Sporminore Mezzocorona

Spormaggiore

A 22 SS421

Faedo

Cavedago Andalo

Fai della Paganella Zambana

SS612

Lavis

e

UN LUOGO DELLA MEMORIA In questo senso grande interesse hanno suscitato le ricerche effettuate tra il 2008 e il 2016 sul dosso di San Martino di Vervò grazie al sostegno, anche economico, della locale amministrazione comunale, intenzionata a riqualificare e valorizzare, da un punto di vista storico-culturale, un sito a lungo identificato solo attraverso la frammentarietà di vecchi, seppur rilevanti, recuperi e per questo rimasto sempre piuttosto marginale. In effetti quello di San Martino, in posizione culminante a oriente del centro storico del paese (886 m slm), è uno straordinario luogo della memoria, dove uno scenario ambientale di spettacolare bellezza fa da sfondo a un complesso religioso di notevole suggestione, raggiungibile percorrendo una panoramica stradina con le stazioni della via Crucis. All’estremità di uno sperone roccioso affacciato sulla forra del torrente Pongaiola, a 890 m slm, sorge infatti la chiesa dedicata al santo vescovo di Tours, affiancata da un piccolo cimitero, dalla quattrocentesca cappella dei Ss. Fabiano e Sebastiano e da un campanile affrescato con un’immagine devozionale di san Cristoforo.

Adig

a Val di Non, nel Trentino nord-occidentale, conserva eccezionali testimonianze del suo piú antico popolamento, occupando un posto di assoluto rilievo nel panorama archeologico dell’arco alpino. Gli interventi sistematici di sorveglianza condotti in questi ultimi anni dall’Ufficio beni archeologici della Provincia autonoma di Trento hanno contribuito a incrementare il quadro delle conoscenze relative a un territorio noto soprattutto per gli importanti ritrovamenti riconducibili alla cosiddetta cultura di Fritzens-Sanzeno o retica, sviluppatasi nella seconda età del Ferro, tra la metà del VI e il I secolo a.C., in un’area corrispondente agli attuali Trentino-Alto Adige, bassa

Engadina, valle Tirolese dell’Inn e Tirolo orientale. I dati emersi dalle indagini piú recenti forniscono elementi di conferma ma anche di novità sia rispetto ai contesti abitativi e di culto – dove è dimostrata una continuità di frequentazione dalla pre-protostoria all’età tardo-romana e oltre –, sia a quelli funerari, con particolare riferimento all’epoca altomedievale.

Terlago

A 22

Cadine

Trento

a r c h e o 67


SCAVI • TRENTINO-ALTO ADIGE A sinistra: iscrizione sacra con dedica a tutti gli dèi e alle dee per la salvezza degli abitanti del castellum di Vervò. II-III sec. d.C. Verona, Museo Lapidario Maffeiano. Nella pagina accanto: il paesaggio della Val di Non, oggi modificato dal lago artificiale di Santa Giustina, è caratterizzato da rilievi montuosi e altipiani terrazzati che si affacciano su forre profonde, dove scorrono il torrente Noce e i suoi affluenti.

Occasionali scavi eseguiti nei terreni circostanti tra la fine dell’Ottocento e gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, avevano documentato tracce di presenza umana dalla preistoria all’epoca altomedievale, ma già nei primi decenni del Settecento il luogo era noto agli studiosi per la scoperta di diverse iscrizioni sacre di epoca romana, sette delle quali acquistate a suo tempo dal marchese Scipione Maffei per il suo Museo Lapidario di Verona, che ancora oggi le custodisce.

ABITATO D’ALTURA Tra queste, se ne distingue una con dedica a tutti gli dèi e alle dee pro salute castellanorum Vervassium, e cioè per la salvezza degli abitanti del castellum di Vervò. Se da un lato è curioso osservare la sopravvivenza 68 a r c h e o

dell’antica denominazione nell’odierno toponimo, dall’altro richiama l’attenzione il termine castellum, generalmente usato nella valenza di insediamento fortificato di tipo militare, ma che, nel nostro caso – anche sulla base degli esiti delle ultime indagini archeologiche –, potrebbe indicare piú semplicemente e con maggiore probabilità, una forma di «abitato su altura». Tali indagini, che hanno portato all’individuazione di testimonianze riconducibili a distinte fasi cronologiche di frequentazione, dall’età del Bronzo Recente e Finale (XIII-XI secolo a.C.) al Basso Medioevo (XIII-XV secolo), confermano l’importanza e il ruolo di controllo che questo sito dovette acquisire anche grazie al suo strategico posizionamento lungo una delle vie di collegamento tra la Val di Non e la

Valle dell’Adige. Gli interventi eseguiti hanno evidenziato una realtà insediativa molto articolata e complessa, caratterizzata dalla presenza di contesti sia abitativi che funerari, non sempre di facile lettura nel loro sviluppo spaziale, in quanto parzialmente compromessi da sistemazioni agrarie e da azioni di spoglio di epoca moderna.

L’ABBANDONO DOPO L’INCENDIO Il lato settentrionale del dosso era perimetrato dai resti di un’imponente struttura in muratura a secco, conservata per un’altezza massima di 1 m circa e per una larghezza massima di base che raggiungeva gli 8,50 m. Tale cinta, dislocata a protezione del settore di piú facile accesso, venne realizzata in epoca protostorica, presumibilmente nelle fasi recenti dell’età del Bronzo (XIII-XII secolo a.C) e mantenuta con interventi di ristrutturazione ancora nel corso della seconda età del Ferro. In quest’ultimo periodo nell’area si sviluppa un villaggio riferibile alla cultura di FritzensSanzeno o retica, il cui arco di vita compreso tra la metà del V e il IV secolo a.C., venne interrotto a causa di un violento incendio, che ne causò l’abbandono. Gli edifici individuati, seppur in condizioni di rasatura, rispecchiano la tipologia edilizia della casa di ambito alpino centro-orientale, definita per convenzione «retica», le cui caratteristiche ricorrenti consistono in una forma quadrangolare con piani interni seminterrati, perimetro di base in muratura a secco o scavato nella roccia, pareti in legno, tetti a falda unica o a doppio spiovente in paglia o tavolette di legno. Tra tutti si distingue, per la particolarità dei ritrovamenti, un ambiente che sembra aver avuto un’importanza speciale. Tale ambiente, le cui dimensioni raggiungono i 21,50 mq complessivi, presenta murature di lastre e ciottoli legati con impasto


argilloso-sabbioso, caratterizzate da alloggiamenti per pali di sostegno degli alzati ricavati, a una distanza di 1,50 m l’uno dall’altro, con la predisposizione di nicchie interne alla muratura stessa all’atto della sua costruzione. Al di sotto delle colmature di abbandono è stato individuato uno strato di incendio con resti di travi e assi lignee carbonizzate, in parte riferibili al pavimento. Nei pressi della probabile soglia di ingresso, segnata dal rivestimento argilloso di una lastra della muratura, è stato isolato un rettangolo di assi carbonizzate accostate orizzontalmente l’una all’altra, che misura 1,80 x 0,80 m, interpretabile come una porta crollata verso l’interno del vano, vista anche la presenza di una maniglia in ferro e di un frammento di chiave. Lungo il lato orientale della struttura, al di sotto

del piano pavimentale, è stata ritrovata una piccola deposizione, che sembra avere un significato ritualepropiziatorio, forse connessa alla fondazione dell’edificio: si tratta di parte di un corno di cervo con evidenti segni di taglio sotto al quale era posizionato un ciottolo calcareo di forma ovale allungata, con segni incisi in caratteri dell’alfabeto retico, derivato da quello nord-etrusco.

UNA SOCIETÀ APERTA E RICETTIVA Inducono a ipotizzare una funzione particolare per questo ambiente soprattutto l’assenza di un elemento caratterizzante quale il focolare e i reperti conservati nel livello di incendio, collegabili al cerimoniale del banchetto e del simposio. Sono stati recuperati un «graffione» in ferro, ossia un attrezzo uncinato

utilizzato per infilzare pezzi di carne, e due brocche-attingitoio in lamina di bronzo, decorate con motivi simbolici di uccelli acquatici e dotate di ansa a protome taurina. Questi raffinati recipienti, databili al V-IV secolo a.C., sono da considerare imitazioni locali di prodotti di origine centro-italica, diffusi fino in Europa centrale. Si configurano come beni di lusso, espressioni di rango e prestigio di figure sociali eminenti nell’ambito delle comunità della cultura di Fritzens-Sanzeno, aperte agli influssi esterni provenienti dal mondo etrusco-italico, mediterraneo, ma anche, soprattutto dal IV secolo a.C., da quello celtico. In questo senso è verosimile pensare che l’edificio non fosse destinato a un uso domestico, bensí a una frequentazione collegata a momenti di aggrea r c h e o 69


SCAVI • TRENTINO-ALTO ADIGE

gazione dell’élite locale. Al suo fianco è stato individuato un secondo ambiente, sempre seminterrato, che, date le ridotte dimensioni e la presenza massiccia di semi carbonizzati – cereali, ma anche legumi come lenticchie e cicerchie – sembra potesse avere una funzione di magazzino per conservare scorte alimentari (vedi box a p. 71).

IL VILLAGGIO TORNA A VIVERE L’area del villaggio protostorico venne rioccupata in epoca romana e altomedievale, secondo modalità di frequentazione tipiche dell’ambiente montano, dove gli spazi disponibili alla collocazione degli insediamenti erano inevitabilmente limitati.Tra gli edifici indagati se ne distingue uno molto ampio, parzialmente seminterrato, risalente all’epoca romana (probabile II-IV secolo d.C.) e riutilizzato, dopo l’abbandono, in epoca successiva 70 a r c h e o

(tardo-antica/altomedievale) con una nuova ripartizione degli spazi interni e l’impostazione di alcuni focolari con presenza di frutti carbonizzati, soprattutto pere, che suggeriscono, in via preliminare, la pra-

tica di particolari attività produttive. A fianco di tale struttura sono stati messi in luce altri due edifici piú piccoli e dotati, come il precedente, di soglie d’ingresso in pietra che ancora portano tracce di usura


LA «FOTOGRAFIA» DI UN DEPOSITO DI GRANAGLIE Molti dei materiali botanici analizzati provengono dagli edifici della seconda età del Ferro e, in particolare, da un piccolo vano probabilmente destinato a conservare scorte alimentari. L’incendio dell’abitato retico ha prodotto la carbonizzazione di un accumulo di granaglie. Tra i chicchi prevalgono nettamente quelli dei frumenti vestiti, in particolare il farro (Triticum dicoccum), ma anche il farricello (Triticum monococcum) e lo spelta (Triticum spelta). È presente anche un frumento nudo: grano tenero o grano duro (Triticum aestivum/durum). Oltre ai cereali a chicco grande sono attestati i cereali cosiddetti «minori», il paníco (Setaria italica) e il miglio (Panicum miliaceum). Nell’accumulo sono stati rinvenuti pochi elementi delle spighe e pochi semi di infestanti, a

indicare che i chicchi, mondati con cura, erano pronti per il consumo. Nel magazzino sono bruciati anche un certo quantitativo di lenticchie (Lens culinaris) e rari semi di cicerchia (Lathyrus sativus/cicera) e favino (Vicia faba minor). Le granaglie erano verosimilmente stivate separatamente, ma non è possibile stabilire di che tipo fossero i contenitori (sacchi? madie? scaffali?) bruciati con le strutture dell’edificio. L’incendio ha «fotografato» un aspetto dell’economia della seconda età del Ferro in Val di Non, caratterizzato da una cerealicoltura decisamente variegata, accompagnata dalla coltivazione della lenticchia, il legume piú adatto alle quote montane. Insolita appare l’assenza dell’orzo, il cereale che in genere viene piú frequentemente seminato nelle Alpi, fino al limite delle colture. Nella pagina accanto, in alto: i resti del sepolcreto altomedievale, affiancato da ambienti della seconda età del Ferro e di epoca tardo-romana. Nella pagina accanto, in basso: la cinta muraria di epoca protostorica. A sinistra: alloggiamenti per pali di sostegno degli alzati in legno, ricavati nella muratura perimetrale.

lasciate da porte in legno a doppio battente, di cui uno fisso e l’altro mobile, totalmente perdute. Proseguendo nelle fasi di occupazione del dosso di San Martino, risale all’epoca altomedievale (VI-

VII secolo) un nucleo funerario riferibile a una comunità rurale autoctona, di cui si conosceva l’esistenza grazie al ritrovamento ottocentesco di due tombe, ma che si pensava non piú rintracciabile a

causa di passate attività di spoglio e di sistemazioni agricole che hanno asportato almeno 60 cm di stratigrafia. Questo nucleo cimiteriale, la cui reale estensione non è piú definibile, comprendeva nove sea r c h e o 71


SCAVI • TRENTINO-ALTO ADIGE

polture a inumazione, disposte in fosse delimitate da pietre su due file parallele e probabilmente organizzate per gruppi familiari, senza particolari distinzioni di tipo gerarchico. Prevalgono i soggetti femminili – sei –, tra cui due di età infantile e un’adolescente, accompagnati da ornamenti e accessori del costume tradizionale, prodotti serialmente da artigiani attivi in ambito locale. Si tratta di orecchini a cappio e cestello floreale, di orec-

chini del tipo a poliedro, di anelli con castone in pasta vitrea, di fibule del tipo a staffa, ancora posizionate sul costato e destinate a chiudere le vesti o il mantello, tutti attualmente esposti presso il Museo Retico di Sanzeno.

In alto: focolare di fase tardo-antica/ altomedievale, con pere carbonizzate. A destra: una pera carbonizzata. I frutti piú integri, una decina, di forma tipica, conservano porzioni del picciolo. Nella pagina accanto: una brocchettaattingitoio in bronzo. V sec. a.C.

Si tratta dell’imitazione locale di una tipologia di recipienti di origine centro-italica, che testimonia la molteplicità dei contatti che il mondo retico intratteneva con le culture circostanti.

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INDIVIDUI PROVATI DA LAVORI FATICOSI Lo studio sui reperti ossei, affidato ad Alessandra Mazzucchi, dell’Associazione Osteoarc, ha permesso di

IL TEMPO DELLE PERE In relazione ai focolari della fase di riutilizzo (tardo-antica/ altomedievale) del grande edificio di epoca romana, sono stati rinvenuti numerosissimi resti carbonizzati di pere (Pyrus communis). I frutti piú integri, una decina, di forma tipica, misurano circa 3 cm e conservano porzioni del picciolo. I resti di torsolo


(l’«endocarpo»), con disegno pennellato regolare, i semi dalla superficie puntinata e un po’ scabra e i frammenti di polpa (il «mesocarpo»), con cellule a struttura stellata (sclereidi), indicano che anche i frammenti piú piccoli sono tutti riferibili a pere. Nell’insieme, si tratterebbe di almeno una cinquantina di frutti, bruciati ancora freschi. Resti, in genere limitati, di pere selvatiche sono presenti anche in siti preistorici, ma quasi mai i frutti si conservano interi. La coltivazione della pera, avviata probabilmente nel I millennio a.C., era ampiamente diffusa in età

tardo-romana; già Plinio ne elenca numerose varietà coltivate, a raccolta precoce o tardiva. I frutti di Vervò sono particolarmente piccoli, ma ancora oggi vengono coltivate alcune varietà (come la pera di San Giovanni) di forma e dimensioni del tutto paragonabili. La presenza di questi frutti presso i focolari è difficilmente spiegabile; l’essiccazione e la cottura venivano solitamente effettuate in forno e di norma si preferiva prima dimezzare i frutti. L’abbondanza di torsoli, piccioli e residui del calice, rispetto alla polpa, fa ritenere che una parte delle pere fosse già stata consumata o

preparata per la conservazione e che nei focolari siano stati eliminati gli scarti. Questa ipotesi è rafforzata dalla presenza, tra i carboni dei focolari, di pochi resti di frutta (noci, nocciole, uva, corniole), cereali (farro, farricello, paníco e miglio), leguminose (lenticchia ed ervo) e infestanti. Il ritrovamento documenta una coltivazione specializzata che si è protratta a lungo in Trentino prima che, nel secolo scorso, acquistasse sempre piú importanza la coltivazione delle mele. (a cura di Elisabetta Castiglioni e Mauro Rottoli, ARCO Cooperativa di Ricerche Archeobiologiche, Como)

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SCAVI • TRENTINO-ALTO ADIGE

DOVE E QUANDO Museo Retico Sanzeno, via Rezia, 87 Orario 20/06-10/09: tutti i giorni, 10,00-13,00 e 14,00-18,00, lunedí chiuso; 11/09-31/10 e 01/03-19/06: sa, do e giorni festivi, 14,00-18,00; chiuso nei mesi di gennaio, febbraio, novembre e dicembre Info tel. 0463 434125 o 492161; www.cultura.trentino.it/Temi/ Archeologia

IL MUSEO RETICO DI SANZENO Il Museo Retico di Sanzeno, in Val di Non, si colloca in un’area particolarmente significativa per la storia dell’archeologia trentina. Qui, infatti, negli anni Venti e Cinquanta del secolo scorso, sono stati effettuati i primi, importanti scavi, che hanno messo in luce alcuni gruppi di abitazioni seminterrate riferibili a uno degli insediamenti piú noti della cultura Fritzens-Sanzeno o retica sviluppatasi nella Seconda età del Ferro, tra la metà del VI e il I secolo a.C. L’idea di questo Museo muove dall’esigenza di incentivare una corretta fruizione dei beni archeologici locali e di creare un valido strumento per favorire un approccio concreto e coinvolgente con il lontano passato di un territorio che, fino a pochi anni fa, non forniva tracce tangibili della sua ricchezza. Il percorso espositivo, inaugurato nel 2008, propone un itinerario suggestivo, che accompagna il visitatore in un ideale viaggio nella profondità del tempo, dove si susseguono le testimonianze dei cacciatori-raccoglitori paleolitici, quelle dei primi agricoltori neolitici, dei metallurghi dell’età del Rame e dei luoghi di culto dell’età del Bronzo. Un ruolo importante è riservato alle testimonianze lasciate dal popolo dei Reti, di cui si possono ammirare le splendide produzioni artistiche, i misteriosi oggetti legati al 74 a r c h e o

mondo del culto, ma anche gli attrezzi da lavoro e i semplici oggetti della vita domestica. Le tappe della romanizzazione della Val di Non sono scandite da realizzazioni statuarie, da ricchi corredi funerari, da documenti epigrafici e dai segni di nuovi culti provenienti da oriente. Infine, il tragico epilogo della morte dei santi martiri di Anaunia, che anticipa la definitiva affermazione del cristianesimo. Realizzato con lo scopo di valorizzare il rilevante patrimonio del territorio, il Museo Retico di Sanzeno si offre dunque come un veicolo di conoscenza, ma, al tempo stesso, di promozione turistica, aperto al vasto pubblico e soprattutto in dialogo con il mondo della scuola, luogo di incontro attento alle realtà locali, destinato a rivestire un ruolo di primo piano nell’offerta culturale di tutta la valle.


In alto: una tomba maschile (al centro) e due sepolture femminili della necropoli altomedievale. VI-VII sec. Nella pagina accanto, in alto: Museo Retico: particolare dell’esposizione degli oggetti votivi della cultura retica. Di grande effetto la riproduzione a tutta parete del cosiddetto Cavaliere di Sanzeno (V sec. a.C.). Nella pagina accanto, in basso: anelli in bronzo e pasta vitrea colorata, dalla necropoli altomedievale. VI-VII sec.

evidenziare in alcuni degli individui adulti la presenza di artrosi da associare, oltre che all’età, a una degenerazione per attività che prevedevano il sollevamento di pesi. Una seconda ampia area a destinazione cimiteriale, compresa tra due muri paralleli legati con malta, è stata localizzata anche sulla sommità del dosso. Si sono individuate 14 sepolture a inumazione all’interno di fosse, delimitate da pietre, orientate lungo la base del muro perimetrale oppure perpendicolarmente a questa. Poiché i defunti, regolarmente in posizione supina, con le mani raccolte sul ventre, sono risultati sempre privi di corredo e di accessori dell’abbigliamento, si è proceduto con alcune analisi radiometriche su quattro

campioni di ossa, che hanno riportato datazioni comprese tra il IX e l’XI secolo d.C. Il procedere degli studi e delle analisi porterà a chiarire i molti interrogativi ancora aperti e ad arricchire il quadro delle conoscenze per ora delineato in via preliminare.

CONOSCENZA E VALORIZZAZIONE La volontà di conservare e di restituire all’intera collettività queste antiche tracce messe in luce a San Martino di Vervò ha coinvolto le amministrazioni comunale e provinciale in un progetto di valorizzazione del sito, che comporterà un importante intervento di restauro dei resti murari e l’allestimento di un adeguato apparato il-

lustrativo, all’interno di un itinerario di visita da pensare in logico collegamento con il Museo Retico di Sanzeno (vedi box alla pagina precedente), ma anche con i percorsi naturalistici recentemente ripristinati nell’ambito del territorio della Predaia e con la splendida residenza nobiliare di Castel Thun. Un’occasione in piú per la promozione culturale e turistica di un territorio ricco di storia, nella consapevolezza che la conoscenza del proprio passato rappresenta un elemento essenziale per consolidare quel senso di identità e di appartenenza indispensabili per una corretta tutela del bene comune. Si ringrazia la ditta CORA Società archeologica di Trento, che ha eseguito le indagini e curato le attività di post scavo. a r c h e o 75


MISTERI • BISSO

FILI D’ORO MARE

COME DAL

NELL’ISOLA DI SANT’ANTIOCO SI PRODUCONO, ANCORA OGGI, PREZIOSI TESSUTI DI BISSO, IL FILAMENTO RICAVATO DAL PIÚ GRANDE MOLLUSCO DEL MEDITERRANEO, LA PINNA NOBILIS. RINNOVANDO COSÍ UNA TRADIZIONE ANTICHISSIMA, MA DALLE ORIGINI MISTERIOSE di Maria Milvia Morciano

Un gomitolo grezzo di bisso marino, che si ricava dai filamenti secreti dalla pinna nobilis, il piú grande mollusco del Mediterraneo, noto anche come nacchera. 76 a r c h e o


S

ant’Antioco è una piccola isola a sud-ovest della Sardegna. Qui vive Chiara Vigo, una donna che dimostra come mito e storia possano ancora sopravvivere e materializzarsi nelle trame sottili e fantastiche del bisso marino, la fibra ricavata dal piú grande bivalve del Mediterraneo, la pinna nobilis, detta anche nacchera. Il mollusco secerne filamenti serici, lunghi dai 10 ai 20 cm, Chiara Vigo, depositaria dell’arte del bisso, davanti alle acque dell’isola di Sant’Antioco, in Sardegna.

che gli servono per ancorarsi al fondo marino e resistere alle correnti. Questa conchiglia è oggi specie protetta e la sua tutela è regolata da leggi molto severe. In passato era diffusa in tutto il Mediterraneo e testimonianze consistenti della sua presenza e quindi della raccolta e lavorazione dei suoi filamenti sono attestate in mo-

do particolare in Puglia, Sicilia e Sardegna, ma dichiarate esaurite già sullo scorcio del secolo scorso, come arte completamente estinta. Cosí non è: Chiara Vigo è la piú conosciuta tra i maestri di Sant’Antioco e pratica un’arte corale e antichissima, che nella sua isola si è miracolosamente conservata non come un fossi-

le, ma come espressione viva e presente di una grande civiltà mai morta. La leggenda che vede la fatale Berenice, figlia di Agrippa I, re di Giudea, e amante dell’imperatore Tito – e poi eroina di molte celebri tragedie e opere barocche – venire esule nell’isola di Sant’Antioco e insegnare a tessere il bisso è priva di a r c h e o 77


MISTERI • BISSO

fondamento. Non esiste alcuna fonte storica che possa provarlo e la Beronice ricordata in un’iscrizione della necropoli ebraica dell’isola corrisponde a un nome assai diffuso e risale a un periodo piú tardo, tra la fine del IV e il V secolo. Ciò non esclude che nell’isola si lavorasse la seta del mare in epoca antica, forse anche antecedente a quella della principessa di Cilicia, sebbene la prima menzione del bisso in Sardegna risalga al IX secolo con papa Leone IV, il quale richiese l’invio di pinnikon detto anche pinnino, la lana-penna. Nell’isola la lavorazione della seta del mare è tuttora viva e vanta una tradizione che vede come grande capostipite Italo Diana (1890-1967) e che prosegue con la sua scuola, da Efisia Murroni a Iolanda Sitzia, e giunge fino ai nostri giorni, con le sorelle Assuntina e Giuseppina Pes, curatrici della sezione dedicata al bisso del Museo etnografico di Sant’Antioco, e Marianna Pischedda, per citarne solo alcune.

«PRENDIMI L’ANIMA» Anche la famiglia di Chiara Vigo rappresenta una tradizione ininterrotta che si tramanda da generazioni. I bisnonni erano tessitori e sarti, e la nonna, Rosina Mereu, detta Leonilde, è colei che le ha insegnato le antiche tecniche di tessitura e l’ha iniziata a una vita che richiede un darsi completamente e senza condizioni, aderire anima e corpo a una missione che trasforma e lega la persona. «Prendi la mia anima e gettala nel fondale», recita un versetto del suo giuramento del bisso. Chiara Vigo si immerge in acqua anche a notevole profondità, in alcuni periodi dell’anno, a una determinata temperatura marina e con particolari gradi di salinità per tagliare non piú di 3 cm di barba e non uccidere il mollusco. Per raccogliere 300 grammi di grezzo, ci si deve immergere un centinaio di volte e ottenere 30 grammi di pulito, quan78 a r c h e o

tità sufficiente per filare 12 m di ritorto. Con 12 m di filo si ricavano quadrati di soli 3 x 3 cm. Dopo la cardatura, che serve a districare e liberare dalle impurità i filamenti, con un piccolo fuso in legno di ginepro si esegue manualmente la torsione del filo, che viene poi immerso in una soluzione di alghe e succo di limone per renderlo elastico e ottenere il particolare colore bronzo dorato. Il filo può essere tessuto o ricamato.Tra le tec-

niche, quella dell’unghiato consiste nell’usare le unghie per far passare il bisso nella trama del lino. I motivi decorativi sono quelli tramandati in famiglia ed eseguiti a memoria, senza alcun disegno preparatorio. Sono ricami che intrecciano la tradizione sarda con quella antica dell’iconografia punica o classica: le coppe da cui germina l’albero della vita, colombe, pavoncelle, il celebre e diffuso schema della dea Tanit, lo spinato del costume tradizionale maschile e


piú ricercato e difficile da ottenere, il porpora, riservato alla tintura dei tessuti sacri e dei paramenti. La natura materica del bisso marino, senza consistenza né peso, e la sua origine tratta dal fondo del mare, cosí come le sue rarità e preziosità, hanno favorito la proliferazione di racconti mitologici, false credenze, ipotesi talvolta ancora non dimostrabili.

LA SUA STORIA IN UN FILM L’arte che Chiara Vigo custodisce e pratica nell’isola di Sant’Antioco è stata raccontata nel 2016 dal film Il filo dell’acqua, diretto da Rossana Cingolani, trentacinque anni passati nell’industria del cinema, anche accanto a registi come Pasquale Festa Campanile, Pupi Avati e Marco Ferreri. Il suo documentario offre l’opportunità di «incontrare» Chiara Vigo, nella sua isola, dove vive, assieme al marito, in una casa semplice e fatta di poche cose. Chiara è nipote di Leonilde Mereu, l’ultimo maestro che negli anni Sessanta insegnava gli antichi

segreti della lavorazione del bisso. Da bambina trascorreva lunghi periodi con la nonna, percependo ben presto la forza della sua grande spiritualità e della preziosità del suo sapere. È cominciata cosí una vera e propria iniziazione, che ha permesso a Chiara di fare proprio quell’immenso e profondo mondo di sapere e quella particolare sensibilità che sono condizioni indispensabili per lavorare il bisso.

le piccole stelle del corsetto femminile. L’opera piú rappresentativa è il cosiddetto «leone delle donne», ricamato in unghiato a due fili e tessuto in modo da rivolgere le fibrille verso l’alto cosí da brillare al sole proprio come fosse oro.

tecniche del tutto naturali, ottenute a freddo, senza ricorso all’allume di rocca per il finissaggio. I colori sono tratti dalla bava del murice o da fiori, frutta, cortecce. Ogni conchiglia dona il suo colore, cosí come per ottenere il rosso scuro si usa l’uva di Alicante, per il violaceo il mirto, per il verde le foglie di fico. Il murice rilascia una bava che poi diventa il colore

PIGMENTI NATURALI Chiara Vigo ha profonde conoscenze anche per ciò che riguarda la colorazione di fibre tessili come lino, cotone e lana. La tintura riflette

LA PRIMA CITAZIONE Nell’Historia animalium (V 15) di Aristotele, una traduzione errata di bisso – che in greco, con diversa accentazione, significa abisso – ha dato origine a un malinteso: «Le pinne crescono erette dalle profondità del mare» questa è la traduzione esatta, e non «dal suo bisso» come si era pensato. Il termine zoologico, collegato alla barba della pinna nobilis, appare in un’epoca molto piú recente, nel 1555, quando il naturalista Guillaume Rondelet (1507-1566) lo utilizza per primo nella sua opera l’Universae aquatilium historiae. Fino ad allora, il termine bisso ricorre sovente, ma non c’è mai nulla che permetta di associarlo in modo inequivocabile alla grande conchiglia mediterranea. Bisso deriva dall’ebraico bus e significa lino finissimo. Lo si ritrova in greco come byssos e in latino come byssus. Ne consegue che nella Bibbia, soprattutto nell’Esodo, dove appare ripetuto molte volte per le prescrizioni del Tempio e In alto, sulle due pagine: due immagini di Chiara Vigo, con due manufatti in bisso da lei realizzati. La sua attività discende da una tradizione sicuramente molto antica, anche se, a oggi, si ignora quando la lavorazione dei preziosi filamenti abbia effettivamente avuto inizio. a r c h e o 79


MISTERI • BISSO A sinistra: particolare di uno degli arazzi dell’Apocalisse raffigurante il cavaliere bianco che sospinge le fiere nel fuoco. L’opera fu commissionata intorno al 1375 dal duca Luigi I d’Angiò per il castello di Angers, dov’è tuttora conservata.

dei sacerdoti, tutte le attestazioni sembrano riferirsi a un’altra fibra e con maggiore verosimiglianza al lino piú fine, specialmente quando si allude al bisso candido «splendente e puro» citato dall’Apocalisse (19, 8), perché esso «infatti, è le giustificazioni dei santi», cosí come in un passo successivo, poco piú avanti, parla di eserciti celesti che cavalcano cavalli bianchi e «sono vestiti di bisso bianco puro» (19, 14; traduzione da L’Apocalisse di Giovanni,a cura di Edmondo Lupieri, Fondazione Valla, Mondadori, Milano 1999). L’ambiguità del nome che divide il bisso di terra da quello di mare e che nel tempo identifica anche la seta di gelso rende la questione spinosa. Una ricerca avviata alla fine degli anni Ottanta in Svizzera, da Felicitas Maeder, raccoglie tutte le testimonianze possibili, arrivando, tra le altre, ad alcune constatazioni importanti: che il termine bisso non viene mai riferito a quello marino, e che se mai è menzionato attraverso parafrasi. Compaiono anche termini che al80 a r c h e o

cuni fanno risalire al bisso: nel Periplus Maris Erythreai, risalente al I secolo d.C., il termine pinikon è simile al pinnikon e pinnino che si rintraccia nell’VIII secolo in Sardegna e che ha una chiara assonanza con il diffuso e popolare lanapenna.Tertulliano passa in rassegna

le fibre tessili piú importanti e, dopo aver menzionato il lino, con il suo peculiare candore, scrive: «Come se non bastasse quasi piantare e coltivare le tuniche, capita perfino che gli indumenti si possano pescare. Infatti, pure dal mare vengono ricavati fiocchi di lanugine abbastanza soffice, che formano la chioma di certe muscose conchiglie» (De Pallio III 6).

UN ABITO LEGGENDARIO Il leggendario tarantinidion, la veste leggera e impalpabile indossata dalle danzatrici e dalle etere di una Taranto all’acme della sua potenza, nel III secolo a.C., viene descritto piú tardi da Marziale di «colore simile a quello del vino addolcito con miele» e potrebbe effettivamente alludere al bisso, ma senza una vera certezza. Anche il vello d’oro rubato da Giasone, che nell’iconografia e nel mito si identifica in modo unanime con le spoglie dell’ariete Crisomallo, viene ritenuto talvolta essere bisso. E ancora il Volto Santo di Manoppello, su cui sarebbe impresso il volto di Cristo, riconosciuto come il Velo della Veronica, è ritenuto di bisso da Chiara Vigo a causa della particolare caratteristica di diventare luminoso alla luce e opaco e scuro al buio. Un’opinione plausibile, ma che per ora è destinata a rimanere nel limbo delle ipotesi, poiché al momento non è possibile rimuovere la reliquia dalla sua teca e sottoporla a indagini approfondite. La natura degli oggetti in bisso finora rinvenuti pone dubbi sulle loro funzioni che magari potevano avere solo scopo dimostrativo o da collezione. Si tratta di manufatti di piccole dimensioni, tessuti in modo semplice, a maglia rasata, come il piú antico a oggi disponibile, una cuffietta degli inizi del XIV secolo e ora


A destra: il Volto Santo di Manoppello (Pescara). Si tratta di un panno sul quale compare l’effigie del Cristo, visibile da entrambi i lati. Chiara Vigo ha ipotizzato che il tessuto utilizzato per fissare l’immagine sia bisso, poiché la reliquia possiede la caratteristica di diventare luminosa alla luce e opaca e scura al buio. Nella pagina accanto in basso: Cuffietta in bisso. Inizi del XIV sec. Saint-Denis, Museo di arte e storia.

nel Museo di arte e storia di SaintDenis, a nord di Parigi. È noto anche un frammento piú antico proveniente da Aquincum e databile al IV secolo ma è andato distrutto. A confermare tali perplessità, contribuisce il fatto che fino a oggi non sono stati trovati oggetti liturgici, anche se le fonti ne parlano di continuo, lasciando pensare che questi fossero piuttosto in lino, secondo l’or iginar io significato ebraico del termine «bisso».

SFUMATURE NATURALI Altro problema è la possibilità o meno di poterlo tingere, visto che la sua ricercatezza deriva proprio dalle sfumature naturali, splendide dopo la sbiancatura. La tintura sembra invece sottrarre lucentezza e rendere opache le fibre. Questo è uno dei problemi piú controversi, anche perché finora non sono stati trovati tessuti in

bisso tinti. Nelle Metamorfosi di Ovidio (VI 55-145), la lunga descrizione delle tele tessute e ricamate dalla dea Atena e Aracne sono sempre dette di lana ed effettivamente i ricami sono troppo fitti e pittorici per non essere di un materiale facilmente colorabile e lavorabile. Cosí il bysso della tunica multicolore della dea Iside, descritto da Apuleio nelle Metamorfosi o L’asino d’oro (XI 3), mostra riflessi cangianti dal «bianco come il brillar della luce, al giallo come il fiore di zafferano, ora fiammeggiante come il fulgore delle rose» che sembrano descrivere le caratteristiche del lino. Inoltre non è la tunica a destare ammirazione in Lucio, quanto un mantello intessuto di stelle «nero come l’ebano, che splende di una lucentezza tenebrosa», lasciando intendere come fosse questo l’indumento piú prezioso indossato dalla dea, la cui fibra non è dato sapere.

PER SAPERNE DI PIÚ • Felicitas Maeder, Ambros Hänggi, Dominik Wunderlin, Bisso marino. Fili d’oro dal fondo del mareMuschelseide. Goldene Fäden vom Meeresgrund (catalogo della mostra, Basilea 19 marzo-27 giugno 2004), 5 Continents Editions, Milano 2004 • Susanna Lavazza, Chiara Vigo. L’ultimo maestro di bisso, Carlo Delfino Editore, Firenze 2014 • Eduardo Delehaye, Il bisso. Una fibra misteriosa tra storia e letteratura, Carlo Delfino Editore, Roma 2016 • Małgorzata Biniecka (a cura di), I Maestri del bisso, della seta, del lino-The Masters of Byssus, Silk and Linen (catalogo della mostra, Roma, 13-22 maggio 2017), Editrice Sapienza, Roma 2017 • www.muschelseide.ch/it.html a r c h e o 81


TRAIANO E LA COSTRUZIONE DELL’IMPERO NEI BELLISSIMI AMBIENTI DEI MERCATI DI TRAIANO A ROMA, UNA MOSTRA MOLTO PARTICOLARE RICORDA IL GRANDE IMPERATORE, A 1900 ANNI DALLA MORTE. UN SUGGESTIVO ALLESTIMENTO, SCANDITO DA CAPOLAVORI D’ARTE, MODELLI RICOSTRUTTIVI E INSTALLAZIONI MULTIMEDIALI, RIPERCORRE LA STRAORDINARIA PARABOLA DEL PRINCIPE VENUTO DALLA SPAGNA, RACCONTANDONE LE VICENDE DI GUERRA E DI PACE. E NE METTE IN LUCE LE MOLTE, E SPESSO SORPRENDENTI, AFFINITÀ CON L’ETÀ CONTEMPORANEA con testi di Claudio Parisi Presicce e Lucrezia Ungaro 82 a r c h e o

Roma, Museo dei Fori Imperiali. Particolare di uno degli allestimenti della mostra «Traiano. Costruire l’impero, creare l’Europa». In primo piano, il calco di un rilievo della Colonna Traiana (1861-1862).



SPECIALE • TRAIANO

IL SOVRANO PERFETTO Affermare che un comune mortale possa avere incarnato la perfezione è una scelta ardita. Ma Traiano, al di là dell’adulazione, fu senza dubbio un personaggio di levatura tutt’altro che ordinaria di Claudio Parise Presicce

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raiano è imperatore a tutto tondo, incarnazione ideale del sovrano perfetto, «Princeps Optimus» perché migliore di tutti quelli che lo avevano preceduto. È questa, in estrema sintesi, l’essenza della figura di Traiano, il cui carisma comincia a irradiarsi già al suo primo ingresso ufficiale a Roma, significativamente a piedi, uomo tra gli uomini di una folla che lo accoglie. È un carisma la cui eco si protrae fino ai nostri giorni, attraversando l’arco temporale dei 1900 anni che ci separano da quei giorni in cui una nuova atmosfera, di riconquistata fiducia, avvolse i sudditi intorno al loro principe. Scelto da Nerva con il beneplacito del Senato, come primo imperatore adottivo non italico, ma della provincia (ispanica), diede a Roma e allo status di civis romanus quel carattere di globalizzazione ante litteram che veicolava il senso del potere invincibile e lo estendeva da Roma alle province, garantendo loro il diritto di una maggiore rappresentatività con conseguente percezione reciproca di forza e coesione. Tra le innumerevoli virtú a lui attribuite da Plinio il Giovane nel noto Panegirico, sono forse la moderatio e la simplicitas quelle che meglio spiegano la facilità con cui Traiano seppe conquistare la fiducia dei sudditi, cosí come dei senatori, messa a dura prova dai suoi predecessori: Domiziano non meno di Nerone. Emersero doti con le quali il nuovo imperatore seppe «giocare» anche per temperare la spiccata attitudine al comando militare: da un lato riorganizzò l’esercito in modo strutturale, in termini di addestramento e di imposi84 a r c h e o


zione di una nuova e piú ferrea disciplina e, Nella pagina dall’altro, trasmise ai soldati, guerriero tra i accanto: busto di guerrieri, l’entusiasmo della conquista. Traiano. Marmo.

IL RISANAMENTO ECONOMICO Le campagne daciche (101 e 102, 106 e 107) e la conquista di quella regione (l’odierna Romania) ricca di giacimenti auriferi rimpinguarono le sofferenti casse dello Stato, ponendo fine, contestualmente, al potenziale pericolo per la sicurezza dell’impero costituito dalla minaccia della Dacia e del suo fiero e indomito Decebalo, che rifiutò l’onta della resa definitiva togliendosi la vita. Il successo di tale impresa conferí ulteriore prestigio e fiducia all’homo novus, il quale ne seppe fare il miglior uso condividendone i frutti con il popolo, sia materialmente, attraverso la distribuzione di viveri, che in chiave comunicativa, con la rappresentazione di spettacoli, l’emis-

98-117 d.C. Roma, Musei Capitolini. In questa pagina: frammento di fregio con amorini e candelabri vegetali, dalla facciata della basilica Ulpia nel Foro di Traiano. II sec. d.C. Roma, Museo dei Fori Imperiali.

sione di monete e l’erezione della Colonna Traiana, decretate dal Senato a celebrazione della importante vittoria. Le capacità mostrate sul campo di ottimo condottiero e stratega militare con le quali Traiano si spese fino alla fine dei suoi giorni per portare l’impero alla sua massima espansione, avendo sempre cura di consolidarne la tenuta, non fanno passare in secondo piano le sue qualità di statista e amministratore giusto e generoso nel governo della cosa pubblica. L’istituzione degli alimenta per sostenere economicamente i figli di cittadini romani rimasti orfani costituisce solo un esempio dell’articolata politica sociale traianea e del rapporto di vicinanza che egli volle e seppe instaurare con il popolo; in chiave pratica, soprattutto, ma anche simbolica, come per esempio l’abbattimento nel Circo Massimo di quella loggia che Domiziano aveva fatto costruire

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SPECIALE • TRAIANO

L’impero romano da Augusto a Traiano (30 a.C.-117 d.C.) le Ca

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GLI ANNI DELLE GUERRE DACICHE I territori di Roma alla vigilia della battaglia di Azio (31 a.C.)

Conquiste e annessioni di Ottaviano Augusto (27 a.C.-14 d.C.) degli imperatori giulio-claudi (14-68 d.C.) degli imperatori flavi (69-96 d.C.) di Traiano (98-117 d.C.) Massima estensione dell’impero nel 117 d.C. Province senatorie Province imperiali

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L’impero romano al tempo di Traiano (98 d.C.-117 d.C.)

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18 settembre 53 d.C. Marco Ulpio Traiano nasce a Italica (Spagna). 89 d.C. Traiano presta servizio nell’esercito romano a Magonza (Germania Superior). 96 d.C. Assassinio dell’imperatore Domiziano, elezione di Nerva; Traiano diventa governatore della Germania Superior. 98 d.C. Muore Nerva, Traiano diventa imperatore. 85-89 d.C. Guerre daciche di Domiziano. 86 d.C. Divisione della Moesia nelle due province di Moesia Superior e Moesia Inferior. 88 d.C. Tettius Iulianus ottiene una importante vittoria contro i Daci a Tapae. 89 d.C. Si conclude la pace fra Domiziano e Decebalo. 99 d.C. Visita di Traiano nelle province danubiano-balcaniche. 101-102 d.C. Prima guerra dacica di Traiano. 102 d.C. Sconfitta dei Daci nella battaglia di Adamclisi. Si conclude la pace fra Roma e il regno dacico. 105-106 d.C. Seconda guerra dacica di Traiano. Conquista definitiva della capitale Sarmizegetusa Regia. Suicidio di Decebalo. La Dacia diventa provincia romana. 108-110 d.C. Fondazione della capitale Ulpia Traiana Augusta Dacica. 117-118 d.C. Attacchi di Sarmati, Iazigi e Rossolani ai confini orientali e occidentali della Dacia. Adriano, successore di Traiano, visita la provincia.

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per poter assistere agli spettacoli senza essere visto e l’aumento, invece, della capienza di circa 5000 posti con la costruzione di una ulteriore, grande facciata, sul lato del Palatino. Al benessere dei cittadini era finalizzata anche l’accresciuta disponibilità di acqua potabile, resa possibile dalla realizzazione di un nuovo acquedotto che dal lago Sabatinus (Bracciano) arrivava al Gianicolo, attraversava il fiume e finiva sul colle Esquilino, dove sorgevano le grandi terme, fatte costruire da Traiano sopra l’ala principale della neroniana Domus aurea, aperte nel 109, pochi giorni prima dell’inaugurazione dell’Aqua Traiana. L’intero sistema infrastrutturale è arricchito e potenziato: strade, edifici pubblici per spettacoli, complessi termali di grandi proporzioni, a r c h e o 87


SPECIALE • TRAIANO

ponti come quello di Alcantara o il ponte sul Danubio, miracolo ingegneristico di Apollodoro di Damasco che apre una nuova via di comunicazione tra Occidente e Oriente. È un imperatore, dunque, che «spese grandi somme di denaro nelle guerre – scrive Dione Cassio – e grandi somme nelle opere di pace; e mentre provvedeva affinché fossero

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eseguite molte riparazioni urgenti a strade, porti ed edifici pubblici, per queste iniziative non succhiava il sangue a nessuno». Traiano fu un grande costruttore, ma non solo di infrastrutture urbane, territoriali, transprovinciali, ma anche di integrazione e inclusione di popoli, attraverso cui rese i confini stabili, le strade sicure, i commerci senza ostacoli.

Testa-ritratto frammentaria maschile colossale, dal Foro di Traiano. Marmo bianco lunense. 112 d.C. Roma, Museo dei Fori Imperiali.



SPECIALE • TRAIANO

L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI TRAIANO La propaganda fu un’arma formidabile nelle mani degli imperatori. Ma Traiano, piú di altri, seppe servirsene abilmente, accreditandosi come principe giusto e capace di Lucrezia Ungaro

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a diffusione dell’immagine del princeps, uomo scelto per le sue capacità di leader delle truppe, per il consenso raccolto intorno alla sua designazione anche a Roma pur non avendola neanche visitata: questo obiettivo condizionerà per tutto il suo cursus imperiale Traiano, un uomo «nuovo» senza dinastie alle spalle, ma con una solida famiglia di origine italica, poi radicata in una delle piú importanti province senatorie dell’impero, la Betica. Per questo in tutta la sua carriera di uomo di Stato, avrà costantemente grande attenzione per i suoi due padri, quello naturale e quello adottivo. Traiano e il suo entourage sia militare sia «civile» devono aver avuto chiara la necessità di diffondere l’immagine dell’imperatore attraverso i mezzi di comunicazione ampiamente diffusi, alcuni legati proprio alle legioni sparse in tutto l’ampio territorio, portatrici di insegne e stendardi, tabulae pictae, di ritratti veri e propri, insieme agli altri due mezzi di comunicazione per eccellenza, le monete e le sculture collocate nei luoghi pubblici di maggior importanza e frequentazione per la vita collettiva. Un imperatore non ha bisogno di «propaganda» nel significato contemporaneo del termine, ma piuttosto, nel caso di Traiano – divenuto tale con l’appoggio delle sue legioni e del Senato –, parleremo di 90 a r c h e o


Nella pagina accanto: testa maschile in bronzo con i tratti di Traiano. Inizi del II sec. d.C. Nijmegen, Museum Het Valkhof. Sulle due pagine: scorcio dell’allestimento della mostra presso il Museo dei Fori Imperiali, in cui è esposta la testa maschile. a r c h e o 91


SPECIALE • TRAIANO

L’autorappresentazione di Traiano punta su tre cariche supreme: capo militare, pontefice massimo e magistrato capacità di «persuasione» e coinvolgimento della «platea» globale nel suo programma. Le opere pubbliche sono il volano della sua azione: danno lavoro, sfruttano le cave di marmi pregiati che con lui diventano tutte «cave di Stato», segnano il territorio con interventi di pubblica utilità che sono però anche «manifesto» del suo governo e della sua presenza, applicano innovazioni tecnologiche che condizioneranno l’evoluzione di sistemi costruttivi.

LA RELAZIONE CON LA FAMIGLIA Inaugurazioni da presenziare ed emissioni monetali ad hoc per celebrare le maggiori realizzazioni nella e per la capitale segnano il suo operoso regno e sono caratteristiche precipue del capo di Stato. Le iniziative quasi rivoluzionarie nel welfare a beneficio delle classi e delle categorie piú disagiate generano un effetto positivo moltiplicatore del consenso. Tutto questo complesso «sistema» di governo necessita di vedere consolidata l’immagine di Traiano e la stretta relazione 92 a r c h e o

con la sua famiglia, perno fondamentale della sua vita: non ha discendenza dinastica e non ha discendenza divina, deve costruirsi…un passato, un presente e anche un suo futuro, guardando alla sua apoteosi. Lo fa di certo diffondendo con grande rispetto le immagini dei due padri in tutto l’impero, ma anche lavorando su se stesso e sulle donne della sua famiglia. Punta decisamente all’autorappresentazione nelle tre cariche supreme, come capo militare che indossa la lorica dalle decorazioni simboliche, come pontefice massimo che presiede le piú importanti cerimonie sacre, e come magistrato che garantisce la giustizia per tutti gli abitanti dell’impero. Traiano deve aver avuto una sua personale attenzione alla creazione dell’immagine ufficiale, il suo ritratto ha un’evoluzione molto controllata, inizia con tipi fisiognomici per evolversi verso quelli piú idealizzati, ma l’aspetto importante è sempre quello della diffusione (oggi diremmo disseminazione) del messaggio, la sua presenza «fisica» non solo virtuale ovunque.


SOMIGLIANZA STRAORDINARIA Nella pagina accanto: impronta gemmaria in vetro con ritratti di Traiano imperatore, Plotina, Marciana e Matidia. 1880-1850. Roma, Museo di Roma. In questa pagina: testa maschile con copricapo orientale, forse un sacerdote, che mostra sorprendente affinitĂ con il ritratto di Traiano. II sec. d.C. Roma. Musei Capitolini, Centrale Montemartini.

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SPECIALE • TRAIANO

COM’ERANO BRAVI QUESTI ROMANI! Una delle domande ricorrenti, quando si visitano i Mercati di Traiano è: «Ma l’edificio è davvero antico? E come mai non è crollato?». Studi, indagini e restauri degli ultimi 15 anni hanno cercato di dare risposte concrete a queste domande. Il massiccio complesso in laterizi è una scommessa (vinta) dal punto di vista ingegneristico e dal punto di vista della trasformazione del paesaggio urbano: protagonisti l’uso dell’opera cementizia e i sistemi di copertura a volte di ogni genere! L’eliminazione di un declivio tra il colle Quirinale (il percorso attuale di via della Salita del Grillo) e il Campidoglio (verso l’attuale Foro di Cesare) per fare posto al piú esteso impianto forense dell’impero, comporta il rafforzamento delle pendici del Quirinale fortemente regolarizzate e la tenuta statica di un salto di quota ragguardevole tra i 36 e i 40 m! I progettisti e costruttori romani foderano questa parete con una struttura ad arco rovesciato, quello che chiamiamo il Grande Emiciclo con due grandi aule semicircolari ai margini: una struttura che regge perfettamente la spinta delle terre e permette anche di articolarne gli spazi in modo utile. Una strada pedonale basolata mette in comunicazione col contiguo Foro e con una scala urbana che sale alla Suburra. A mezza costa un percorso viario che mette invece in comunicazione il Campo Marzio e la Suburra, la sua denominazione tardo latina sarà via Biberatica: sotto il suo basolato un’ampia, alta intercapedine assicura la struttura sottostante dall’umidità del terreno! La parte superiore del complesso cambia registro: infatti la via cammina tra alti edifici e noi oggi vediamo l’alta fabbrica a piú piani, finestrata, che doveva ospitare gli uffici pubblici del funzionario preposto alla gestione amministrativa e pratica del sottostante Foro.

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Da ultimo, si dispone verso nord lo stabile della Grande Aula, che arditamente raccorda con i suoi piani sfalsati il livello della Biberatica con quello dell’attuale percorso di via della Torre, dalla presenza della piú alta Torre medievale di Roma. L’Aula è coperta da un sistema di sei volte a crociera che distribuisce il peso su piedritti in travertino e opera muraria, sulle pareti degli ambienti sottostanti, su mensoloni ora scomparsi: un sistema sofisticato, innovativo, che darà il via alle grandi costruzioni termali! Le analisi effettuate grazie a laboratori statunitensi e varie équipe di ricercatori, dimostrano che i Romani conoscevano profondamente e sperimentavano la combinazione di materiali da costruzione diversi provenienti da cave differenti a seconda delle necessità, e addirittura avevano individuato una componente, la strälingite, che «arma» l’opera cementizia e l’avevano infatti utilizzata solo dove lo scarico dei pesi esigeva il rafforzamento. La grande volta ha subito pesanti danni durante i gravi e rovinosi terremoti che hanno colpito la città, due gravissimi nel 1349 e nel 1703, ma non è crollata! Non solo: i nostri avi si erano anche posti il problema di presidi antisismici! Gli archetti di raccordo tra la volta centrale e gli ambienti laterali del primo piano non hanno semplicemente carattere estetico ma svolgono un’azione di tenuta in caso di evento sismico! Tutto il complesso vede l’applicazione di coperture a volta di ogni genere a seconda della necessità, con la sperimentazione di centine armate in diversi modi.


Un particolare del plastico ricostruttivo del tempio di Traiano a Pergamo (II sec. d.C.), realizzato da Italo Gismondi. 1955. Roma, Museo della CiviltĂ Romana. a r c h e o 95


SPECIALE • TRAIANO

LE DONNE DI TRAIANO L’imperatore Traiano era circondato da donne: la sorella Marciana, la moglie Plotina, la nipote Matidia, che visse con la coppia imperiale come una figlia. Tutte e tre ricevettero il titolo onorifico di Augusta. C’erano poi le pronipoti, Matidia Minore e Sabina. Marciana viaggiò spesso con il fratello e fu onorata con statue, monumenti e iscrizioni in tutto l’impero. Traiano la divinizzò insieme al padre nel 112, subito dopo la sua morte. Le dedicò due città: Marcianopolis nella Moesia (Tracia), nei pressi dell’attuale Devnja, in Bulgaria e Colonia Marciana Ulpia Traiana Thaumagadi, oggi Timgad, in Algeria. Plotina, moglie di Traiano, fu donna lodata per la modestia e la riservatezza ma ebbe grande influenza sia sull’imperatore sia sul figlio adottivo Adriano, che la fece divinizzare nel 123. Era anche molto colta, e probabilmente aderiva alla filosofia epicurea. Salonia Matidia, l’unica figlia di Marciana, divenne Augusta alla morte della madre nel 112. Fu molto amata dal genero Adriano, che scrisse per lei un commovente elogio. Le figlie di Matidia, Matidia Minore e Sabina, costituirono il legame dinastico con Traiano per gli imperatori che vennero dopo di lui, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio. Grazie alle sue ricchezze, Matidia Minore fu promotrice a Sessa Aurunca di opere pubbliche, tra cui la ristrutturazione del teatro, la costruzione di una strada extraurbana di almeno 7 miglia e di una biblioteca, detta Matidiana. Visse a lungo e continuò a rivestire una posizione importante all’interno della famiglia imperiale anche durante i principati di Antonino Pio e di Marco Aurelio. Nelle iscrizioni viene definita matertera (zia) di Antonino Pio, a sottolineare il legame dell’imperatore, figlio adottivo di Adriano, con la famiglia di Traiano. Il matrimonio di Sabina con Adriano, fortemente voluto da Plotina e Matidia, forse non fu molto felice, ma è innegabile l’importanza del suo ruolo ufficiale: Sabina In alto: ritratto di Solonina Matidia. 120 d.C. circa. Roma, Musei Capitolini. A sinistra: denario di Traiano per Marciana Divinizzata. 112-117 d.C.

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accompagnò Adriano nei viaggi in tutto l’impero, e le vennero dedicate numerose statue. Emergono con forza, anche dagli scarsi accenni degli storici, la partecipazione e il coinvolgimento delle donne della famiglia di Traiano nelle scelte ideologiche e politiche, potere confermato dagli alti onori loro tributati, dalla presenza in occasioni ufficiali, dalla monetazione, dalla divinizzazione dopo la morte. Risalta poi il ruolo significativo delle esponenti della casa imperiale come modelli di comportamento per le altre donne, non solo riguardo alle tradizionali virtú femminili, attribuite loro nei testi e dalla monetazione (fedeltà, devozione, riservatezza, modestia, pudicizia), ma soprattutto in nuovi ambiti, quello imprenditoriale e quello della beneficenza. Tutte avevano estesi possedimenti in Italia e in Africa, alcune erano proprietarie di fabbriche di laterizi: questa grande ricchezza permise loro una consistente opera a sostegno della collettività.


L’esempio delle donne della casa imperiale fu seguito nel II e III secolo dalle numerose sacerdotesse del loro culto e anche da tante matrone delle élite municipali in tutto l’impero, che dotarono le comunità cittadine di edifici e monumenti e sostennero il programma assistenziale dell’Istituzione alimentaria con donazioni a bambine e bambini. Il loro esempio fu seguito anche nel campo della moda e delle acconciature: statue e rilievi ci permettono di constatare che le caratteristiche pettinature di Marciana, delle Matidie e di Sabina furono adottate dalle donne in tutto l’impero, che copiarono i loro diademi di capelli, le trecce e le strutture di riccioli. Ogni donna della casa imperiale aveva una propria immagine ufficiale, che cambiava negli anni, diffusa da monete e statue, e l’elemento caratterizzante era proprio l’acconciatura. C’era quindi la necessità di inventare un look sempre nuovo e riconoscibile, e in

A destra: dritto di aureo di Traiano per Plotina. Zecca di Roma, I sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.

questo campo le donne della casa imperiale erano vere e proprie trendsetter. Loro dettavano lo stile e schiere di matrone le imitavano, avvalendosi di professioniste, le ornatrices, specializzate nell’applicazione di posticci, toupet, fermagli e spilloni. Con orgoglio poi le matrone fissavano la propria immagine in ritratti, statue e rilievi, nei quali l’adesione al modello imperiale diventava un’ostentazione di status.

In questa pagina: ancora uno scorcio di uno degli allestimenti della mostra con, in primo piano, il profilo del ritratto di Solonina Matidia. 120 d.C.

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SPECIALE • TRAIANO

A TU PER TU CON LA STORIA: LA COLONNA TRAIANA Un racconto a puntate attraverso due campagne belliche e 2600 figure circa, percorsi per terra e per mare, scene di battaglie ma anche di atti di clemenza e di eroismo, soldati-costruttori, popolazioni inglobate in un grande impero mandate a combattere per l’impero, la descrizione dettagliata dell’evoluzione della tecnologia navale e dell’ingegneria civile… dove tutto questo? Nel Foro di Traiano, oggi all’inizio di via dei Fori Imperiali, a due passi da piazza Venezia: stiamo parlando della Colonna Traiana, una delle meraviglie dell’antichità e dell’architettura romana! In numeri: 100 piedi di altezza del fusto per 29,78 m, col piedistallo e la statua 39,86 m; 18 blocchi in marmo greco insulare dall’isola dell’Egeo di Paro, ogni blocco del peso di 40 tonnellate e del diametro di 3,83 m, ben 200 m di fregio scolpito arrotolato lungo il fusto per 23 giri, suddiviso secondo una lettura convenzionale in 114 riquadri. La Colonna doveva assolvere a funzioni straordinarie: onorare l’imperatore e il suo esercito, esaltati dal valore del popolo dacico e del suo re Decebalo vinti dopo 200 anni di contrasti; scrivere quindi la gloria imperiale per i contemporanei come per i posteri; ma, soprattutto, elevare Traiano agli dèi, attraverso l’apoteosi al cielo e la sua sepoltura insieme alla moglie nel basamento della Colonna stessa. La mostra ai Mercati di Traiano è dedicata anche a questa meraviglia, parte integrante del piú grande e maestoso dei Fori costruiti a Roma e nell’impero, e non a caso è stata intitolata «Traiano. Costruire l’Impero, creare l’Europa», il «costruire» materico e sociale, politico ed economico, il «creare» forme di convivenza e integrazione.

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Ma come si può vedere da vicino la Colonna? Attraverso alcuni dei 125 superbi calchi in gesso realizzati dai Maestri formatori dei Musei Vaticani nel lontano 1861, calchi che oggi testimoniano parti conservate, modellato delle figure, dettagli tecnici e tecnologici spesso non piú visibili, calchi che ci permettono di cogliere sguardi di complicità e rispetto tra i protagonisti della storia, ribellione e disperazione di fronte alla sconfitta, solennità nelle funzioni pubbliche in vari luoghi del percorso via terra, ambienti naturali che mutano con le stagioni, segnali della penetrazione del territorio che non sarà temporanea ma definitiva. I calchi ottocenteschi risentono dell’età, ma conservano intatto il loro fascino e la loro restituzione del capolavoro di scultura che tutt’oggi è la Colonna, permettendoci di avvicinarla. La riproduzione del patrimonio è un argomento di grande attualità, purtroppo accresciuta negli ultimi anni dai ripetuti eventi bellici traumatici che attaccano e distruggono il patrimonio culturale in quanto memoria e integrità delle popolazioni da sottomettere, o meglio eliminare. La tecnologia applicata ai beni culturali permette la riproduzione digitale delle opere, la creazione di depositi virtuali a salvaguardia della memoria e della conservazione delle opere stesse: se i calchi hanno assolto a questa funzione nei secoli passati, oggi possiamo valorizzarli e attualizzarli

Sulle due pagine: immagini dell’allestimento della mostra riferite alla Colonna Traiana, della quale vengono presentati alcuni dei calchi delle scene scolpite sul fregio elicoidale eseguiti alla metà dell’Ottocento dai maestri formatori dei Musei Vaticani.

ponendo al loro fianco la documentazione digitale. La mostra permetterà infatti di apprezzare calchi del fusto e basamento originale della Colonna ripresi con tecniche fotogrammetriche e altre applicazioni, avviando una rete di confronti tra reale e virtuale con le varie sedi europee nelle quali sono conservati calchi della Colonna: Parigi, Londra, Bucarest e la stessa Città del Vaticano. a r c h e o 99


SPECIALE • TRAIANO

IL TRIONFO DI MARMO Il Foro di Traiano è l’esito di un programma ideologico e visuale ben preciso, di una grande scenografia tradotta in ordini architettonici colossali e decorazioni complesse. La gigantesca piazza è dominata verso sud dal monumento equestre posto in diretta relazione con il fronte meridionale e quindi in collegamento ideale e materiale col Foro di Augusto. Sugli altri tre lati, sugli attici delle facciate dei portici e della Basilica Ulpia, mostra la ripetitiva distribuzione dei motivi decorativi ricorrenti delle figure di barbari – Daci – e, come sui basamenti dell’equus Traiani e della Colonna, delle cataste di armi: la materializzazione del trionfo che, sul lato settentrionale, culmina nella Colonna. Il Foro traianeo è monumento statale per eccellenza, concepito con tematica iconografica unitaria per il trionfo di Traiano e del suo esercito. Nella sua interezza rappresenta simbolicamente e materialmente la trasposizione visiva del mitico oro dei Daci: era considerato tra le meraviglie del mondo antico e suscitava ammirazione e stupore. I suoi edifici erano grandiosi nei volumi e preziosi nelle decorazioni marmoree: tutto concorreva a esaltare l’optimus princeps, insieme alla virtus dell’esercito da lui guidato; colui che aveva ristabilito l’ordine e che dedicava agli dèi quanto conquistato, come autentico mediatore tra il mondo degli uomini e quello divino. Dopo gli scavi degli ultimi anni, appare evidente il richiamo all’adiacente Foro di Augusto: nella pianta, condizionata dall’accogliere specifiche funzioni giudiziarie e culturali; nella decorazione degli attici, dove al posto degli scudi con teste applicate, troviamo i pannelli con le cataste di armi o vere e proprie imagines clipeatae (scudi che contengono ritratti imperiali), mentre al posto delle korai in processione sacra al dio Marte 100 a r c h e o

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A sinistra: planimetria del Foro di Traiano. In basso: assonometria ricostruttiva del medesimo complesso forense, il cui progetto venne elaborato da Apollodoro di Damasco, celebre architetto nabateo. La colossale impresa sarebba stata portata a termine in soli dieci anni.

D E A. Equus Traiani B. Portici C. Esedre

D. Sala trisegmentata E. Corte porticata F. Basilica Ulpia

G. Biblioteche H. C olonna di Traiano


È evidente che non è stata direttamente finanziata dal leggendario bottino dacico, ma la strategia economico-finanziaria di Traiano, la prospettiva di acquisire tesori e, soprattutto, di mettere a regime lo sfruttamento delle miniere del quadrante aurifero, permettono la realizzazione di una delle meraviglie dell’antichità, e di materializzare il concetto di magnificentia publica. Nell’ambito del complesso traianeo, i motivi conduttori piú vicini alla celebrazione della vittoria bellica sono le già ricordate armi e le statue dei Daci. A proposito delle seconde, occorre innanzitutto ricordare che all’inizio del II secolo d.C. ormai era molto diffusa l’immagine del «barbaro» in abiti assai diversi da quelli del «romano»: l’ampio mantello, frangiato e non, trattenuto sulla spalla destra con una fibbia, ricade e si ammassa di solito sul braccio sinistro, sopra la tunica fermata in vita dalla cinta (cingulum), i morbidi pantaloni trattenuti da calzari in cuoio, il copricapo tipico, il pileus, segno distintivo della classe sociale civile nobile. Ultore, troviamo le figure dei Daci in varie fogge e collocazioni. Tutto concorre a rappresentare il potere imperiale nel massimo fulgore raggiunto con Traiano e a prefigurare la sua possibile futura apoteosi. Rispetto al Foro augusteo è profondamente cambiata l’organizzazione del «cantiere», dove schiere di «scalpellini» eseguono complesse lavorazioni all’unisono, poiché le maestranze romane sono ormai padrone del «mestiere» della lavorazione della pietra e, con ogni probabilità, guidate da un «maestro», uno dei pochi nomi pervenuti dall’antichità romana,il nabateo Apollodoro di Damasco, ingegnere militare, architetto e progettista di fiducia dell’imperatore. Nel contempo, le cave dalle quali provengono i piú disparati marmi colorati sono tutte di proprietà del fisco imperiale; l’opera titanica è portata a compimento in meno di dieci anni (accettando l’ipotesi che la vera e propria costruzione sia iniziata nel 106 d.C.), veramente pochi.

In alto: una delle sale dei Mercati di Traiano, oggi sede del Museo dei Fori Imperiali, nella quale sono riunite alcune delle statue raffiguranti i Daci vinti.

DOVE E QUANDO «Traiano. Costruire l’Impero, creare l’Europa» Roma, Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 16 settembre Orario tutti i giorni, 9,30-19,30 Info tel. 06 06 08 (tutti i giorni, 9,00-19,00); www.mercatiditraiano.it; #mostratraiano Ente organizzatore Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali Sovrintendente Claudio Parisi Presicce Curatori della mostra e del catalogo Claudio Parisi Presicce, Marina Milella, Simone Pastor, Lucrezia Ungaro; tra i principali autori dei testi in catalogo: Claudio Parisi Presicce, Alessandra Balielo, Maria Paola Del Moro, Marina Milella, Simone Pastor, Lucrezia Ungaro; collaborazione alla mostra e al catalogo: Paolo Vigliarolo con Luca Dal Monte e Maria Caterina Schettini Catalogo De Luca Editori d’Arte a r c h e o 101


IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda Il calco di una delle vittime dell’eruzione di Pompei, realizzato grazie alla tecnica messa a punto da Giuseppe Fiorelli nel 1863. Il risultato può ben esprimere il concetto di morte nell’archeologia.

LE VITE DEGLI ALTRI IL TEMA (SOLO ALL’APPARENZA FUNEREO) DI UN RECENTE CONVEGNO HA OFFERTO LO SPUNTO PER UNA RIFLESSIONE SUL SENSO DELLA PRATICA ARCHEOLOGICA. E DEI SUOI INNEGABILI RIFLESSI SULLA COMPRENSIONE DEL MONDO IN CUI VIVIAMO

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n occasione di un recente convegno dedicato all’archeologia e all’antropologia della morte, l’archeologo Roberto Sirigu, con grande onestà, ha confessato, innanzitutto a se stesso, di non essersi mai chiesto perché avesse deciso di praticare questo mestiere, «almeno fino a qualche tempo fa». Poi un giorno si è posto la domanda

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fatidica: «Perché fai l’archeologo?». La sua risposta – «Per dialogare con i morti» – può sembrare ai piú stravagante, ma in realtà non lo è. «Ciascuno di noi – osserva Sirigu – convive con la morte di familiari, amici, conoscenti», che sono i «nostri» morti. Ma se riusciamo


a superare i confini angusti del «nostro» mondo, tutti i morti diventano potenzialmente «nostri», e quindi tutti ci riguardano. Ecco dunque il grande compito dell’archeologia: un mestiere che ci mette in comunicazione con chi non c’è piú, ci permette di instaurare un ponte tra la vita e la morte. La riflessione di Sirigu trae spunto da alcuni passi del classico manuale di scavo, Storie dalla terra, scritto da Andrea Carandini ormai quasi quarant’anni fa, dove si legge: «In fondo l’archeologo (…) isola quel che si è salvato e i suoi nessi per riorganizzarlo, come se si trattasse di reidratare un fiore essiccato», di far rinascere – potremmo dire – quasi tornando indietro, ciò che ha finito il ciclo della sua esistenza. «Invertendo la direzione dell’esperienza che compiamo ogni giorno nel nostro mondo “intero” – osserva Carandini – riusciamo a capire anche la discesa agli Inferi, salvando dalla rimozione, dall’alterazione e dall’illeggibilità quanto un tempo era saturo di contorni ed è poi stato condannato ai processi dissolventi e unificanti della rovina».

UNA RISPOSTA DELLA PSICHE Rilevando le tracce materiali sepolte, quindi, l’archeologo vi riconosce anche alcuni aspetti profondi del nostro vivere psicologico: la rimozione, la illeggibilità, la dissoluzione, la rovina: l’archeologia – conclude Sirigu – è in fondo lo strumento che usiamo per esorcizzare l’umana paura della morte. «L’indagine archeologica è un atteggiamento di risposta della psiche umana all’angoscia della morte: un tentativo di annullarne l’esistenza e i conseguenti effetti invertendo la

accingo a visitare un museo»), ma – a guardar bene – il richiamo della voce dei morti non è molto diverso da quello che siamo abituati a definire il richiamo della voce delle cose: attraverso le cose, gli oggetti rotti, perduti, scartati, il passato torna infatti a parlarci e le cose danno voce alle persone che le realizzarono, le usarono, le scartarono. Per questo consideriamo l’archeologia, pur scientifica in molte sue procedure, come una scienza essenzialmente umanistica.

VOCI DAL PASSATO

In alto e nella pagina accanto, in basso: brocchette in terracotta di tipo sardo, provenienti da Cerveteri (in alto; Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco) e dal recinto nuragico di Monte Cao (Sassari, Museo Archeologico «G.A. Sanna»). direzione dell’esperienza. L’illusione di poter ripercorrere il tempo a ritroso per tornare a dare vita, a “reidratare” il “fiore essiccato” della realtà materiale spezzato nella sua integrità vitale dalla morte». Quella di Sirigu è naturalmente una lettura personale, del tutto legittima, anche se non estendibile necessariamente alle mille altre esperienze possibili. Ma dobbiamo ringraziarlo per il coraggio e la sincerità con la quale ha espresso e condiviso questa dimensione. Non siamo costretti a condividere la sua pregnante sensazione («Da tempo – scrive – sento il richiamo della voce dei morti ogni volta che metto piede in cantiere, o che mi

L’archeologia presuppone dunque una predisposizione all’ascolto. E anche per questo – osserverei per inciso – è scuola di tolleranza. Ascoltiamo cosí «la voce di un ceramista, di un contadino, di un regnante vissuti decine, centinaia, migliaia di anni fa, di cui rileviamo le tracce fisiche ancora leggibili nel terreno». Se ascoltiamo con empatia, ci rendiamo conto che quelle voci sono anche le nostre, perché dei morti condividiamo la condizione della mortalità. Che non è una condizione di sconfitta e di annullamento, quanto piuttosto di vita e di vitalità. Quando il girovago Ulisse lasciò sola Calipso nella lontana Ogigia, insoddisfatto e insofferente dell’amore atarassico che la dea poteva offrirgli, che cosa in fondo provava se non la condizione necessaria di tutti gli umani, che per sentirsi vivi devono essere e sapersi mortali? Vita e morte sono certamente separate da un confine, che – riflette Sirigu – in certe situazioni qualcuno deve farsi carico di profanare, «per consentire, a tutti, di continuare a vivere elaborando il lutto suscitato dalla morte: dei nostri cari, degli estranei, degli oggetti, di noi stessi (…). Un archeologo – conclude – deve sapere che il compito che lo

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attende è quello di medium sacerdotale tra mondi». Potete immaginare quale dibattito possa suscitare una simile concezione della pratica archeologica. Qualcuno confessa di aver rinunciato al nostro mestiere proprio per non doversi sentire profanatore di tombe, qualcun altro ritiene, al contrario, che la maggior parte degli archeologi abbiano piú o meno consapevolmente accantonato questo problema, altri suggeriscono che la funzione narrativa dell’archeologia tragga valore proprio da quella possibilità di parlare che chi non c’è piú ha irrimediabilmente perduto. Quel che conta è che l’archeologo trovi e comunque non perda il gusto di

interrogare se stesso: quale che sia la risposta che ciascuno vuole o può dare al perché della sua scelta professionale, è quella la domanda che indirizzerà il suo modo di lavorare e di produrre conoscenza per tutto l’arco della sua attività.

DOMANDE SPONTANEE A volte la risposta può sembrare banale nella sua umana semplicità. Come in ogni bambino nasce spontanea a un certo punto la domanda su chi ci fosse prima che lui nascesse, cosí è spontanea la domanda – che è alla base della ricerca storica – di chi si interroga su come fossero le cose, come siano andate le cose nel mondo quando noi non c’eravamo ancora.

Particolare di una delle pareti della Grotta delle Mani (Patagonia, Argentina), cosí chiamata per le pitture realizzate fra i 13 000 e i 9500 anni fa. A oggi, si ignora il significato delle raffigurazioni, e gli archeologi sono appunto chiamati a formulare ipotesi plausibili su cosa abbia indotto l’uomo a eseguirle.

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A queste domande l’archeologo prova a rispondere con gli strumenti che ha, cioè gli oggetti, che hanno un particolare privilegio, quello di appartenere nella loro consistenza materiale a due dimensioni temporali: il passato in cui sono stati creati e il presente in cui persistono o sono tornati a sussistere, testimoni di se stessi pur avendo mutato il proprio ruolo. Quando entriamo in un museo leggiamo infatti i resti delle società passate con la nostra visione di contemporanei, né piú, né meno di quanto una compagnia teatrale metta in scena un dramma antico comunque e necessariamente visto e rappresentato con gli occhi dei moderni. Qualcuno infatti potrebbe osservare che l’archeologo non vuole in tal senso dare voce ai morti, quanto piuttosto ai vivi. Personalmente, sentendomi in grande sintonia con Sirigu per la difficile sincerità del suo ragionamento, ritengo che le «cose» del passato ci parlino indubbiamente delle persone perdute, ma che in tal senso ci aiutino a capire noi stessi, e le «cose» del presente che si fa incessantemente passato, in un flusso ininterrotto, che conserva i frammenti di un puzzle infinito, che una volta ricomposto, se fosse ricomponibile, ci restituirebbe l’immagine fantastica del nostro essere di ieri, di oggi e di domani. Scriveva Umberto Eco una frase bellissima: «Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito (…) perché la lettura è un’immortalità all’indietro». Ecco, vorrei dire che in questo senso l’archeologia è lo strumento che ci permette di vivere le vite degli altri: un modo per attingere l’infinito e non morire.



QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

…RINUNCIÒ ALLA GERMANIA PERCHÉ AUGUSTO E, DOPO DI LUI, TIBERIO SI CONVINSERO AD ACCANTONARE LE MIRE SULLE TERRE ATTRAVERSATE DAL RENO? LA TRAGICA SCONFITTA PATITA DA VARO NELLA SELVA DI TEUTOBURGO EBBE CERTAMENTE IL SUO PESO, MA NON FU LA SOLA MOTIVAZIONE...

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tra l’8 a.C. e il 5 d.C. Operazioni che sembravano aver assicurato un certo dominio almeno fino al fiume Visurgis (il Weser). E ciò nell’ambito della politica tipicamente augustea, che mirava al miglioramento delle frontiere e ad assicurarsi nuove possibilità di esazione di tributi e di arruolamento di militari; ma,

uemila anni fa – era il 17 della nostra era – Roma rinunciò al progetto di fare della Germania, dal Reno all’Elba, una provincia dell’impero. Il progetto era stato accarezzato da Augusto dopo il successo delle operazioni condotte da Agrippa, nel 38 e nel 35 a.C.; da Druso, che, tra il 12 e il 9, arrivò fino all’Albis (l’Elba), sulla cui riva elevò un «trofeo» alla Vittoria; quindi da Tiberio e poi da Domizio Enobarbo,

In alto: maschera in ferro ricoperta d’argento, già parte di un elmo cerimoniale romano, dall’area in cui si combatté la battaglia della Selva di Teutoburgo. Kalkriese, Museum und Park Kalkriese. A sinistra: cartina dell’impero romano con l’indicazione delle sue province.

Vallo di Adriano

BRITANNIA GERMANIA INF.

Limes germanico-retico

BELGICA LUGDUNENSE NORICO GERMANIA SUP. REZIA PANNONIA AQUITANIA NARBONENSE TARRACONENSE

DACIA

DALMAZIA MESIA ITALIA

PONTO E BITINIA

MACEDONIA

LUSITANIA

EPIRO BETICA

MAURITANIA

TRACIA

ASIA

SICILIA

NUMIDIA

EGITTO

AFRICA CIRENAICA 500 Km

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soprattutto, a garantire una fascia di sicurezza attorno alle regioni periferiche dell’impero. Lo stesso Augusto si convinse dell’impossibilità – e, forse, dell’inopportunità – di realizzare quel progetto dopo la strage di Teutoburgo: l’imboscata organizzata da Arminio, nel settembre dell’anno 9, in cui, vittima della sua avventatezza, era caduto il legato imperiale Publio Quintilio Varo e nella quale, come


scrive Svetonio (Aug. XXIII), «erano andate distrutte tre legioni con il loro comandante, gli alti ufficiali e tutte le milizie ausiliarie». Era stato, quello, un tale colpo che l’imperatore, nell’apprenderne la notizia, era caduto nella piú cupa disperazione. Sempre Svetonio scrive (Aug. XXIII): «Dicono inoltre che rimase a tal punto sconvolto che per molti mesi, lasciatisi crescere barba e capelli, talvolta abbassava la testa per sbatterla contro gli stipiti delle porte mentre gridava “Quintilio Varo, legiones redde (restituisci le legioni)” e il giorno della strage considerò a ogni anniversario triste e lugubre».

UNA PARZIALE VENDETTA Tre anni dopo la morte di Augusto, il suo successore, Tiberio, ribadí il disimpegno e accantonò definitivamente il progetto. Nonostante le insistenze, in senso contrario, del nipote (e figlio adottivo) Germanico. Questi, infatti, negli anni tra il 14 e il 16, pur tra difficoltà e ostacoli d’ogni genere, problemi di trasporti e di rifornimenti, era riuscito in qualche modo a vendicare la Variana clades, recuperando anche una parte del «bottino di Varo»

(compresa l’aquila della legione XIX). Nel 15, poi, alla testa di otto legioni, s’era inoltrato per i territori percorsi dalla Lupia (la Lippe) e dall’Amisia (l’Ems) e nella Selva di Teutoburgo, aveva potuto dare sepoltura ai resti dei caduti recuperati pur dopo tanti anni e raccolti in un grande tumulo. L’anno successivo, imbarcato il grosso dell’esercito su una flotta appositamente

In alto: Magonza: la «Pietra di Druso» (Drususstein), nome con il quale è noto un monumento funerario romano del I sec. d.C. che viene tradizionalmente associato al generale romano. Qui sopra: punte di lancia, dall’area in cui si combatté la battaglia della Selva di Teutoburgo. Kalkriese, Museum und Park Kalkriese.

allestita (mille navi di vario tipo, secondo Tacito, Ann. II, 6), s’era mosso dal Lacus Flevus (lo Zuiderzee), nel paese dei Batavi, e navigando per il Mare del Nord era sbarcato alla foce dell’Ems, aveva raggiunto la valle del Weser e per due volte – presso Idistaviso e sul Vallo degli Angrivari – aveva affrontato Arminio in campo aperto

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Xanten, Parco Archeologico. La ricostruzione moderna del tempio portuense, basata sui resti effettivamente rinvenuti nel sito dell’antica Colonia Ulpia Traiana. Nella pagina accanto: basamento di colonna con rilievo raffigurante due prigionieri, dalle mura di Mogontiacum. Età imperiale. Magonza, Landesmuseum.

senza tuttavia batterlo decisamente. Dopo di che, sopraggiunto l’inverno, fece rientrare l’esercito nelle sue basi, convinto di poter concludere vittoriosamente le operazioni nell’anno seguente.

DECISIONE DEFINITIVA Ma non fu dello stesso avviso Tiberio, il quale pensò bene di esonerarlo dal comando dell’armata del Reno (suddivisa in una serie di guarnigioni sulla riva del fiume) e di trasferirlo in Oriente! La risoluzione fu definitiva. L’unica deroga si ebbe allorché i Flavi, a partire dall’anno 74, decisero di

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occupare i vasti territori incuneati tra l’alto corso del Reno e l’alto corso del Danubio, che furono detti Agri Decumates (forse perché suddivisi in dieci «distretti» oppure perché sottoposti al tributo della «decima»). A giustificare la rinuncia alla Germania non furono, per Augusto e ancor piú per Tiberio (certamente piú risoluto anche a motivo della propria indole), ragioni di carattere militare: gli insuccessi e le perdite dolorose, le solamente parziali, temporanee e, di fatto, inconcludenti affermazioni, e nemmeno le difficoltà intrinseche di carattere pratico e tecnico (dalla mancanza di una decente viabilità

alla difficoltà di organizzare efficienti servizi logistici). Determinanti dovettero essere considerazioni di carattere piú generale e... di fondo. Quelle che rendevano del tutto palese quanto onerosa e sostanzialmente priva di ragioni e, soprattutto, di «ritorni» una eventuale conquista (e il suo mantenimento). Soprattutto a confronto con quanto era accaduto con la Gallia.

TROPPO BELLICOSI E... PROLIFICI! Quelli occupati dai Germani erano territori troppo vasti e impervi, ancora largamente selvaggi, disseminati di foreste e di acquitrini, con una popolazione estremamente mobile, dispersa in piccoli villaggi e dall’accentuata vitalità demografica: Tacito, nella sua Germania, scrive: «[Essi] ritengono delitto limitare il numero dei figli o sopprimere qualcuno di quelli nati dopo il primo». Poi, sottolineandone la propensione alla guerra piuttosto che all’agricoltura, lo storico aggiunge: «Non sarebbe tanto facile convincerli ad arare la terra e ad aspettare il raccolto quanto a sfidare il nemico e a guadagnarsi ferite». Ma, soprattutto, i Germani non avevano nemici alle spalle dai quali difendersi e quindi non si trovavano nelle condizioni di dover sopportare interventi d’aiuto stranieri. Cosí come, invece, era stato per gli abitanti della Gallia, acconciatisi ad accettare il dominio romano in cambio di una piú efficace difesa della frontiera e quindi di una maggiore sicurezza – e tranquillità – nei confronti delle minacce, delle incursioni e delle devastazioni provocate proprio da parte dei vicini d’Oltrereno. Per i Germani, la supremazia romana avrebbe rappresentato la cessazione di qualsiasi possibilità di scorrerie e di saccheggi (mentre, ancora Tacito assicura che «essi ritengono pigri e ignavi


coloro che acquistano col sudore ciò che potrebbero procurarsi col sangue»!). Inoltre, l’assunzione di obblighi gravosi, dal pagamento del tributo alle prestazioni militari. Né esistevano, all’interno delle loro comunità, gruppi sociali ed élite di notabili dotati di un qualche effettivo potere, sui quali Roma avrebbe potuto contare e far leva – come avvenuto in Gallia – per ottenere appoggio e accettazione e per assicurarsi fedeltà in cambio di concessioni e privilegi, a cominciare dal diritto di cittadinanza. Sola eccezione era stata, già nel 38 a.C., al tempo delle campagne militari di Agrippa,

quella degli Ubii. I quali, perennemente attaccati dalle tribú confinanti, a est e a sud, dei Suebii, preferirono entrare nell’orbita di Roma, dalla quale furono trasferiti, consenzienti, dal territorio sulla riva destra del Reno a quello, piú sicuro, della riva sinistra.

LA «GRANDE» E LA «PICCOLA» Nonostante tutto, nello stesso anno della rinuncia alla «grande» Germania, veniva annessa all’impero una «piccola» Germania. Anzi, due! Due «distretti» militari, in funzione prevalentemente strategica, presidiati dalle legioni e

destinati a diventare province a tutti gli effetti: Germania inferior e Germania superior, con i territori abitati da tribú germaniche, peraltro largamente celtizzate (come gli stessi Ubii), a ovest, ossia in riva sinistra, del Reno. Germania Inferiore a nord, fino alla confluenza con la Mosella (dove sorse la città di Confluentes, odierna Koblenz, Coblenza). Germania Superiore – alla quale verranno poi aggiunti gli Agri Decumates – a sud. Città capoluogo, della prima, fu Ara Ubiorum, poi diventata Colonia Agrippina (l’odierna Köln, Colonia), in onore di Agrippina Minore, figlia di Germanico, seconda moglie di Claudio e madre di Nerone, che vi era nata; della seconda Mogontiacum (odierna Mainz, Magonza). Altre città importanti furono quelle derivate dai forti legionari, come (Castra) Vetera, Bonna e Novaesium, che dettero vita, rispettivamente, a Xanten, Bonn e Neuss, quando alle abitazioni precarie di artigiani e mercanti sorte presso gli stessi forti e al loro servizio, finirono per sostituirsi agglomerati stabili e strutture sempre piú di carattere urbano. Quanto sia stata profonda – e duratura – l’impronta lasciata da Roma nelle sue due «piccole» Germanie è appena il caso di accennarlo. A documentarlo, oltre alle stesse città e a quello che di esse fu scoperto o «visto» in passato al di sotto degli abitati moderni, stanno monumenti o parti di essi ancora variamente superstiti: dal Praetorium, sotto la nuova Rathaus di Colonia alla Colonna e all’Arco di Giove, e al cenotafio di Druso, di Magonza, fino al Parco Archeologico di Xanten, con resti delle mura, delle porte, del Foro, delle terme e dell’anfiteatro. Ma, quel che piú colpisce è sentir dire, oggi, a Colonia, che al Reno finisce l’Europa e al di là di esso comincia l’Asia!

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

PIÚ FORTE DELLA RAGIONE LA CERTEZZA CHE I SEGNI ZODIACALI PRESIEDESSERO ALLE VICENDE TERRENE SPIEGA LA LORO DIFFUSIONE PRESSO LE CIVILTÀ DI OGNI TEMPO

D

a sempre, l’inizio di un anno nuovo apre le porte a un proliferare di raffigurazioni beneauguranti e ricerca di auspici futuri, incentrati sullo Zodiaco e sui pronostici piú o meno favorevoli per ogni segno. La fascinazione suscitata dall’influenza degli astri sui destini umani, ma anche su quelli delle nazioni (ognuna delle quali aveva un proprio segno zodiacale) ricorre in tutta la storia dell’umanità e perdura felicemente ancora oggi, nonostante la messa in guardia dai pronostici derivati dalle stelle perorata con forza dal cristianesimo. Tommaso d’Aquino, per esempio, afferma, nella sua Summa Theologiae (1265-1274, parte II-II, questione 95, articolo 5), che gli astri «possono inclinare ad agire in dato senso come predisposizioni: perché influiscono sul corpo umano, e quindi sulle facoltà sensitive, che, attuandosi in organi corporei, influiscono come inclinazioni sugli atti umani. Siccome però le potenze sensitive ubbidiscono alla ragione, come il Filosofo insegna, questa inclinazione non impone nessuna necessità al libero arbitrio, ma l’uomo può agire contro l’inclinazione dei corpi celesti». Lo Zodiaco compare con grande frequenza in monumenti egiziani, greco-romani e giudaici, quali tombe, templi, mosaici, affreschi, e ancora su gemme, vasellame di

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Restituzione grafica delle raffigurazioni che si possono vedere sulla volta di un mitreo scoperto nell’isola di Ponza (Latina), sotto il Palazzo Tagliamonte: si tratta di un soffitto «cosmico», con, al centro, l’Orsa Maggiore e l’Orsa Minore, poi il serpente, i segni zodiacali e, forse, le divinità dei venti. prestigio, e naturalmente le monete. A contraddistinguere quasi tutte queste immagini è la circolarità con cui si susseguono i segni racchiusi entro fasce, nel cui centro compare di regola una divinità, spesso Elios, Aion (il tempo circolare) o altri numi, comunque legati alle costellazioni.

IL CIELO IN UNA GROTTA Lo Zodiaco è strettamente collegato anche a Mitra (il dio di origine iranica), come è facilmente immaginabile considerando la complessa cosmogonia del suo

culto, nel quale convergono molteplici riferimenti all’astrologia legati al ruolo del dio quale ordinatore e creatore dell’universo. Tra i tanti mitrei decorati con variopinte fasce zodiacali, ve ne è uno nell’isola di Ponza (Latina), scoperto nella seconda metà dell’Ottocento sotto il Palazzo Tagliamonte, decorato sulla volta da un’immagine suddivisa in tre cerchi concentrici. In quello interno campeggiano due orsi – da leggersi come l’Orsa Maggiore e quella Minore –, nel secondo cerchio compare un serpente – simbolo di eterna rigenerazione – e nell’ultimo cerchio sono racchiusi in caselle i segni zodiacali. Due figurine ai lati sono forse ciò che resta dei quattro venti che spirano dai punti cardinali, oppure le quattro stagioni. Affascinante e quasi naif è la vivace decorazione della tomba egiziana di Petosiris, nell’oasi di Dakhla, databile nel I-II secolo d.C. Sul soffitto della seconda camera campeggia al centro Arpocrate con due serpenti nelle mani e i piedi poggiati su due coccodrilli, mentre intorno si sviluppa un variopinto corteo di divinità egiziane, segni zodiacali occidentali e personificazioni di pianeti. Circolari sono anche i numerosi mosaici che prescelgono come tema i segni zodiacali, in particolare nel mondo giudaico; tra questi, particolarmente suggestivo è quello di età bizantina (VI secolo)


In alto: Qarat el-Muzawwaqa (oasi di Dakhla, Egitto), tomba di Petosiris. I-II sec. d.C. Pitture raffiguranti Arpocrate, lo Zodiaco, divinità egiziane e personificazioni di pianeti. A destra: moneta in bronzo di Erennia

Etruscilla, zecca di Aigeae (Cilicia). 249-250 d.C. Al dritto, il busto dell’imperatrice; al rovescio, un caprone circondato dalla fascia zodiacale con nome della città.

ritrovato nella sinagoga di Beth Alfa (Israele) nel 1928, nel quale, accanto a temi iconografici di carattere biblico – come il sacrificio di Isacco e arredi pertinenti alla sinagoga –, venne realizzato al centro, con forte impatto e in un evidente sincretismo iconografico greco-romano-giudaico, un magnifico Zodiaco, con i nomi dei segni in caratteri ebraici.

Le monete con lo Zodiaco presentano lo stesso schema compositivo e ricorrono nelle emissioni provinciali d’età imperiale a partire dal II secolo d.C.: la fascia con i segni zodiacali si svolge nel bordo della moneta, mentre al centro vi sono varie divinità, come Zeus, Hera, Selene, Iside, Serapide (Antonino Pio ad Alessandria; Giulia Maesa, Eliogabalo e la moglie Iulia Paula, Severo Alessandro). Stessa iconografia è riproposta nei coni di Massimino, mentre Valeriano inserisce al centro l’immagine apotropaica della testa

IL SOLE E I CAVALLI Al centro campeggia il Sole in quadriga, in una composizione stilizzata e quasi ipnotica, dove il forte rilievo del volto del dio e dei cavalli attraggono potentemente l’attenzione dell’osservatore.

di Medusa (Aigeae in Cilicia). Chiude la serie una moneta emessa sempre ad Aigeae a nome di Etruscilla, moglie dell’imperatore Decio (249-253), dove al centro, circondato dallo Zodiaco, compare un bel caprone accovacciato, uno dei simboli monetali della città, ma che forse potrebbe aver anche alluso all’ariete, il segno zodiacale sotto il quale era stato concepito, alcuni secoli prima, il padre dell’impero Ottaviano Augusto.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Francesca Radina (a cura di)

PREISTORIA E PROTOSTORIA DELLA PUGLIA Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze, 615 pp., ill. b/n + 1 DVD 90,00 euro ISBN 978-88-6045-060-9 www.iipp.it

Il volume, di taglio scientifico, raccoglie, rielaborati, i testi degli interventi presentati in occasione della XLVII Riunione Scientifica dell’IIPP, che, nel 2012, fu l’occasione per una ricognizione delle conoscenze sulla preistoria e la protostoria della Puglia e sulle piú recenti acquisizioni in materia. Non può dunque stupire che quell’incontro abbia dato origine a un’opera cosí ponderosa: la regione pugliese, infatti, è uno degli osservatori privilegiati per lo studio delle piú antiche culture succedutesi nella Penisola e annovera manifestazioni – come, per esempio, il diffondersi dei villaggi trincerati nel corso del 112 a r c h e o

Neolitico –, che hanno avuto un’ampiezza, non solo geografica, eccezionale. L’opera segue lo sviluppo cronologico delle diverse fasi (dal Paleolitico alla prima età del Ferro) e ogni sezione presenta un’ampia introduzione che riepiloga i tratti distintivi dei singoli periodi, alla quale fanno seguito i contributi su problematiche e contesti specifici. In questa sede sarebbe impossibile dare conto, seppur brevemente, di ogni singolo intervento e si possono tuttavia cogliere alcuni denominatori comuni. Da un lato, emerge la tendenza a proporre analisi tipologiche estremamente minuziose, talvolta a scapito di considerazioni di piú ampio respiro; dall’altro, si coglie l’altrettanto accentuata propensione per disamine che cercano di andare oltre la pur indispensabile elencazione dei dati per offrire ricostruzioni di momenti di vita, usi e costumi. Si cerca, insomma, di non dimenticare la lezione secondo la quale compito dell’archeologo dovrebbe sempre essere quello di scoprire chi sia l’uomo che si «nasconde» dietro uno strumento in selce o un vaso in ceramica. Molti sono, in ogni caso, gli spunti di particolare interesse, come, solo per fare un esempio, lo studio sulle componenti proteiche della dieta seguita dalle

comunità neolitiche pugliesi che induce i suoi autori a postulare l’esistenza di una sorta di «globalizzazione» alimentare. È anche importante segnalare come piú d’uno degli studiosi che hanno partecipato all’incontro abbia presentato contributi nei quali sono stati riesaminati i dati di ricerche condotte nel passato: proprio per la ricchezza del suo patrimonio, la storia degli studi sulla preistoria pugliese è infatti assai lunga, ma è innegabile che spesso la documentazione di ricognizioni e scavi eseguiti molti decenni fa richieda revisioni e aggiornamenti.

intuire quanto complesse siano le tematiche scelte dall’autrice, a cominciare dall’esordio, che propone una rilettura dell’arte preistorica. Per essere piú precisi, Maggiorelli non si cimenta con questioni di carattere stilistico, ma offre all’attenzione del lettore le prese di posizione che, anche in tempi recenti, hanno fatto sí che le espressioni figurative dei nostri piú antichi antenati fossero archiviate come altrettanti segnali di una sostanziale rozzezza. L’archeologia ha da tempo dimostrato l’esistenza di un pensiero creativo, fin da tempi

Simona Maggiorelli

ATTACCO ALL’ARTE La bellezza negata L’Asino d’oro Edizioni, Roma, 160 pp. 18,00 euro ISBN 978-88-6443-357-8 www.lasinodoroedizioni.it

A Simona Maggiorelli sono bastati quattro capitoli, in poco piú di 150 pagine, per suscitare una serie di riflessioni e interrogativi di portata la cui possibile ampiezza è inversamente proporzionale alle dimensioni del volumetto: in poche parole, nello stagno, questa volta, finiscono veri e propri macigni e non i proverbiali sassi. Basta, del resto, scorrere l’indice, per

assai remoti, ma resta ancora molta strada da fare. Nei capitoli successivi, si passa ad ambiti a noi ben piú vicini, dalle tragiche vicende che hanno visto i fondamentalisti dell’ISIS accanirsi contro il patrimonio artistico e ucciderne molti suoi custodi alle dinamiche che caratterizzano il mercato dell’arte contemporanea. Nel mezzo, toccando le


cosí definiti i contorni del fenomeno, che si rivela tutt’altro che minore anche alla luce della possibile utilizzazione dei vasi in ceramica a rilievo in occasione di cerimonie. Segue quindi il catalogo sistematico dei reperti studiati, a cui fa da corollario un’appendice sulla natura e sulla provenienza delle materie prime utilizzate. note forse piú dolenti, c’è spazio per una lunga e impietosa analisi delle scelte di politica culturale compiute nel nostro Paese negli ultimi decenni. Maria Cristina Leotta

LA CERAMICA ELLENISTICA A RILIEVO DELL’ITALIA CENTRALE

DALL’ESTERO Romain Pigeaud

LASCAUX Histoire et archéologie d’un joyau préhistorique CNRS Editions, Parigi, 190 pp., ill. col. e b/n 22,00 euro ISBN 978-2-271-11580-5 www.cnrseditions.fr

La Grotta di Lascaux, in Francia, gode di una notorietà che pochi monumenti, preistorici e non, possono vantare. Le ragioni di tanta fama sono presto dette: nella cavità scoperta nel 1940 pesso Montignac, in Dordogna, si conserva una straordinaria testimonianza dell’arte preistorica, risalente a un periodo compreso fra i 17 000 e i 15 000 anni da oggi e che comprende un favoloso «serraglio», animato da tori, vacche, cervi e cavalli. Al sito Romain Pigeaud dedica ora questo prezioso volume, che ripercorre la storia della scoperta – giustamente definita dall’autore come una sorta di fiaba –, il vivace

dibattitto scientifico che, già all’indomani del ritrovamento, si è acceso sull’interpretazione delle pitture e la descrizione puntuale di queste ultime, supportata da una vasta documentazione grafica e fotografica. (a cura di Stefano Mammini)

Produzione e diffusione Scienze e Lettere, Roma, 166 pp., ill. col. e b/n 28,00 euro ISBN 978-88-6687-123-1 www.scienzeelettere.com

Come scrive Archer Martin nell’Introduzione, Maria Cristina Leotta cerca di strappare alla sua «triste sorte» la ceramica ellenistica a rilievo, altrimenti nota come «italo-megarese», una produzione che già fin dalla data del suo esordio è ancora oggetto di dibattito. Il volume analizza dunque l’intera questione, a partire dalla ricognizione dei materiali a oggi noti nell’ambito dell’Italia Centrale, che si concentrano in particolare fra l’Etruria e il Lazio antico. Vengono a r c h e o 113


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