2018 IL SIGILLO DEL GUERRIERO
L’ENIGMA DEI VOLTI SFREGIATI CHI RAFFIGURANO QUELLE MISTERIOSE STATUETTE DI 5000 ANNI FA?
BALAFRÉ
PENISOLA CALCIDICA
L’INTERVISTA
ARISTOTELE IN CALCIDICA SPECIALE NINIVE
Mens. Anno XXXIV n. 396 febbraio 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
SICILIA ANTICA
IN VIAGGIO CON ARISTOTELE
«COME HO SCOPERTO LA SICILIA ANTICA» INCONTRO CON GIUSEPPE VOZA RIVELAZIONI
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UNA LEGGENDA SULLE RIVE DEL TIGRI
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IN EDICOLA L’ 8 FEBBRAIO 2018
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ARCHEO 396 FEBBRAIO
BALAFRÉ
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EDITORIALE
DALLA TERRA DEI LEONI In un volume appena pubblicato dall’editore Tauris, Massimo Vidale, professore di archeologia del Vicino Oriente all’Università di Padova e nostro collaboratore sin dai primi numeri, ricostruisce l’identikit di un’antica civiltà perduta. E lo fa riannodando i molteplici fili di una memoria, interrottasi non tanto come conseguenza inevitabile del trascorrere del tempo, quanto per la sorte traumatica abbattutasi nel «secolo breve» su un territorio vastissimo e selvaggio che, per secoli, quella memoria aveva gelosamente custodito. «La rapina delle necropoli dell’età del Bronzo dell’Afghanistan e dei paesi vicini – scrive Vidale – iniziò nei primi anni Sessanta, come testimonia la comparsa, sul mercato antiquario, delle prime statuette composite (…) dopo l’invasione sovietica del 1979, inoltre, le già deboli istituzioni preposte alla protezione del patrimonio culturale nelle regioni orientali dell’Asia centrale avevano completamente cessato di funzionare (…) Centinaia se non migliaia di siti, appartenuti a una civiltà di stupefacente ricchezza e creatività, sono stati devastati dagli scavi clandestini e i tesori, nascosti nelle necropoli dell’élite, saccheggiati…». Il lungo percorso intrapreso da Vidale per misurarsi con questa «tragedia archeologica» lo ha condotto lontano, dalle necropoli dell’Iran sud-orientale – devastate e poi abbandonate dagli scavatori clandestini – ai confortevoli salotti dei collezionisti occidentali, dove l’odore della polvere dei siti archeologici appare solo «come un lontano ricordo». Nelle pagine di questo numero, l’autore – in esclusiva per i nostri lettori – muove da una serie di oggetti misteriosi e unici, noti esclusivamente grazie alla loro sopravvivenza in collezioni private e museali, per suggerirci la via di un’indagine straordinaria: piccole statuette, raffiguranti uomini dal volto sfregiato e leonesse dai muscoli possenti, che sul mercato antiquario hanno raggiunto prezzi iperbolici (la statuetta raffigurata qui accanto, alta poco piú di 10 cm, è stata venduta per oltre 57 milioni di dollari) cominciano a parlare di sé, di quel loro mondo che, tra il III e II millennio a.C., fiorí tra le pianure dell’odierno Turkmenistan, l’antica Margiana, e gli altipiani afghani che i Greci chiamarono Battria. Una terra attraversata dal piú grande fiume dell’Asia centrale, l’Oxus (oggi Amu Darya), che a quel mondo scomparso ha prestato il nome… Andreas M. Steiner La Leonessa Guennol, statuetta tradizionalmente datata agli ultimi secoli del IV mill. a.C.
SOMMARIO EDITORIALE
Dalla terra dei leoni
3
di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
6
SCOPERTE Lo studio dei reperti recuperati nella ricca tomba di un guerriero scoperta nel 2015 a Pilo, nei pressi del Palazzo di Nestore, svela un sigillo miceneo 6 ALL’OMBRA DEL VULCANO Nel quartiere pompeiano di Porta Nocera sono ora visitabili case e botteghe che restituiscono un altro vivido spaccato della vita quotidiana della città 10
PAROLA D’ARCHEOLOGO Dopo il trasferimento all’EUR e l’inserimento nel Museo delle Civiltà, il Museo Orientale «Giuseppe Tucci» torna a presentare una prima selezione dei suoi capolavori 20
DALLA STAMPA INTERNAZIONALE
52 INCONTRI
«Come ho scoperto la Sicilia antica»
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intervista a Giuseppe Voza, a cura di Sergio G. Grasso
Lo scavo di una grotta alle pendici del Monte Carmelo resitituisce un frammento di mascella che getta nuova luce sulla diffusione dell’uomo moderno 26
DA ATENE
Un tesoro sotto il tetto
32
di Valentina Di Napoli
MUSEI I laboratori didattici allestiti a Villa Adriana e a Villa d’Este, a Tivoli, svelano i segreti delle grandi biblioteche dell’antichità 12
ESCLUSIVA
La lunga marcia degli «sfregiati» di Massimo Vidale
34
34
In copertina statuetta composita raffigurante un personaggio con una profonda cicatrice sul volto, perciò definito «balafré» (sfregiato). 2000 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
Anno XXXIV, n. 396 - febbraio 2018 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Redazione: Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione: Davide Tesei Amministrazione: Roberto Sperti
amministrazione@timelinepublishing.it
Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale
Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Carlo Citter è ricercatore di archeologia cristiana e medievale all’Università di Siena. Francesco Colotta è giornalista. Michele Cupitò è professore associato di preistoria e protostoria all’Università degli Studi di Padova. Valentina Di Napoli è archeologa. Sergio G. Grasso è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco Archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Daniele Morandi Bonacossi è professore ordinario di archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente antico all’Università degli Studi di Udine. Annarita Martini è archeologa. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Donato Tamblé è stato Soprintendente Archivistico per il Lazio. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/ René-Gabriel Ojéda: copertina (e p. 35) e p. 34; RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Hervé Lewandowski: p. 51 (basso) – Doc. red.: pp. 3, 26, 33 (sfondo), 49, 60-61, 65, 104-107, 111 – Cortesia Department of Classics, University of Cincinnati: J. Vanderpool: pp. 6/7 (foto); T. Ross: pp. 6/7 (disegno); Pylos Excavations: p. 8 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 10-11 – Cortesia Associazione Fannius: pp. 12-15 – Cortesia degli autori: pp. 16-17, 67, 68-69, 70 (riquadro), 72/73, 73, 74-75, 108-109 – Cortesia MuCiv-Museo delle Civiltà, Roma: pp. 20-23 – Cortesia Gerhard Weber, Università di Vienna: p. 27 – Cortesia David Scahill: p. 32 – Stefano Mammini: p. 33 (riquadro) – Valerio Ricciardi: pp. 36-39, 41, 42-47 – Cortesia I.B. Tauris, Londra: fotoelaborazione alle pp. 40/41 – Cortesia Museo Nazionale del Kuwait: pp. 48, 50 – Mondadori Portfolio: Leemage: pp. 51 (alto), 64, 110 – Antonio Gerbino: p. 52 – Cortesia Archivio Giuseppe e Cettina Voza: p. 53, 54-58, 59 (alto) – Shutterstock: pp. 59 (basso), 62-63, 70/71, 72, 76/77 – Cortesia Ufficio Stampa Rijksmuseum van Oudheden, Leida: pp. 78/79, 80, 82-87, 88, 90-101 – DeA Picture Library: C. Sappa: pp. 88/89 – Getty Images: AFP/Dimitar Dilkoff: pp. 102-103 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 26, 64, 66, 81. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
ITINERARI
Sulle tracce di Aristotele
62
di Carlo Casi
62 Rubriche QUANDO L’ANTICA ROMA...
...fu costretta a crescere in altezza 104 di Romolo A. Staccioli
78 SPECIALE
Ninive, una leggenda sulle rive del Tigri
78
di Daniele Morandi Bonacossi
LIBRI
SCAVARE IL MEDIOEVO Coltivare la memoria
112
108
di Andrea Augenti
104
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
Signori del tempo
110
di Francesca Ceci
Editore: My Way Media S.r.l. Direttore generale: Andrea Ferdeghini Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Pubblicità Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com tel. 335 8437534
110
Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 E-mail: collez@mondadori.it Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti casella postale 1879, 20101 Milano
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n otiz iari o SCAVI Grecia
UN ENIGMA IN MINIATURA
L
o scavo archeologico è una procedura analitica che disseziona il deposito nelle parti riconoscibili: strati, ambienti di un edificio, contesti di vario genere, ecc. Poi si deve cominciare a ricomporre il tutto in una narrazione storica comprensibile. Per questo, a trincee chiuse, ha inizio un vero e proprio scavo dentro lo scavo; piú si è stati ordinati e meticolosi nel registrare i reperti sul campo e meglio sono stati compresi i processi di
6 archeo
formazione del deposito, piú rapida ed efficace sarà questa seconda fase di ricerca. Molte scoperte inattese hanno cosí luogo dopo la chiusura delle attività di campo, quando si torna ad aprire sacchetti e scatole, a ispezionare scaffali pieni di ceramiche e ossa, a pulire ciò che era stato inventariato sotto un velo d’argilla. Lo straordinario sigillo miceneo – ma di manifattura molto probabilmente cretese – che compare in queste pagine è un caso
Sulle due pagine: foto e restituzione grafica del sigillo (largo meno di 4 cm) rinvenuto nella tomba del guerriero scoperta a Pilo, nei pressi del «Palazzo di Nestore» nel 2015. Sulla pietra, di produzione micenea, è incisa una scena di combatttimento della quale sono protagonisti tre guerrieri.
del genere. Caso eccezionale, data la qualità del prezioso oggetto, che già di per sé ci è giunto da un contesto straordinario: la tomba di un aristocratico o principe guerriero seppellito nei pressi della reggia di Pilo – il celebre «Palazzo di Nestore» –, nel Peloponneso, intorno al 1500 a.C., della quale «Archeo» ha dato notizia (n. 370, dicembre 2015). Al protagonista è stato dato il nome di «Guerriero del Grifone», da una piastra d’avorio con l’immagine di questa creatura mitologica deposta nella sepoltura. Il sigillo, una piastrina di agata bruna di forma ovale, faceva parte di un gruppo di una cinquantina di altri raffinati sigilli deposti nella tomba del signore insieme a un tesoro di circa altri 1350 oggetti, tra i quali una spada in bronzo – con elsa in avorio ricoperta d’oro –, un pugnale, anch’esso con
Errata corrige ● C on riferimento all’articolo Ovidio nostro contemporaneo (vedi «Archeo» n. 394, dicembre 2017), ripubblichiamo nel verso corretto la riproduzione del dipinto Mercurio e Argo di Abraham Bloemaert; nello stesso articolo, la foto di p. 78 si riferisce al monumento in onore di Ovidio realizzato da Ettore Ferrari nella città romena di Costanza (l’antica Tomi) nel 1887 e non alla replica, eseguita dallo stesso Ferrari a Sulmona nel 1925. Del tutto ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori. ● I nfine,
nell’articolo Göbekli Tepe e il mistero dei crani incisi (vedi «Archeo» n. 395, gennaio 2018), un disguido tecnico ha reso incomprensibile la cronologia pubblicata a p. 44. Ne riproduciamo qui sotto il particolare corretto:
archeo 7
n otiz iario
L’archeologa dell’Università di Cincinnati Sharon Stocker durante lo scavo della tomba del guerriero.
impugnatura d’oro e un elmo rivestito di zanne di cinghiale; e ancora, vasi da banchetto in bronzo, argento e oro, un grande coltello, uno specchio in bronzo, pettini e piastre in avorio; infine, anelli e appliques in oro, una lunga collana di fili d’oro intrecciati e pietre preziose; piú di mille elementi di collana in ametista, cornalina, agata e diaspro. Incrostato di dura terra, il sigillo era stato messo da parte, in attesa di un trattamento successivo. Proprio durante la pulizia in laboratorio di elementi di collana e sigilli incisi con le immagini piú care al mondo minoico e miceneo – tra altari, possenti tori in corsa e atleti, grifoni e leoni – sotto lo strumento del restauratore è gradualmente affiorato qualcosa di straordinario: un gruppo di tre guerrieri armati, i corpi allacciati in uno scontro mortale. In questa scena, l’equilibrio formale e il naturalismo dell’arte minoica si combinano, in modo forse mai visto prima, con la fascinazione per le armi, le cacce cruente e gli scontri militari cari all’immaginario delle corti reali micenee, che è gloriosamente riflesso nei racconti della successiva tradizione omerica.
8 archeo
Un guerriero dai lunghi capelli fluenti, vestito di un gonnellino che copre il pube e le terga e di una cintura alla quale è saldamente fissato il fodero della spada, si avventa contro un nemico che indossa un elmo coronato da un lophos – l’ornamento sommitale a cresta ricurva – di forma lunata, e, protetto da un grande scudo a due lobi, spinge la lancia in un ultimo gesto di offesa. Sotto il guerriero in assalto, un terzo combattente è caduto, dopo aver perso a terra spada e fodero; nell’abbandono della morte, le membra si adagiano sulle pieghe del terreno accidentato. Le spade che compaiono nel sigillo, peraltro, sono identiche a quelle deposte nella tomba del «Guerriero del Grifone». La piccola immagine – meno di 4 cm di larghezza – celebra l’eroismo del vincitore, che si abbatte come un’onda muscolosa sul nemico, piegandolo indietro e travolgendolo; afferrando con la sinistra il lophos dell’elmo, ne piega all’indietro la testa, scoprendo la base del collo, nel quale la spada penetra di punta, in profondità, fino al cuore, in una ferita subitanea e mortale.
L’immagine, in realtà, non è affatto un caso unico. Altri sigilli micenei mostrano scene simili, nelle quali il comune denominatore è l’eroe senza elmo e scudo che con un balzo supera le difese del suo avversario ben armato, e gli sferra il colpo mortale. Altre scene, sbalzate o incise sul metallo, mostrano una guerra ben organizzata, con armati specializzati in diversi ruoli: guerrieri con lunghe lance nascosti da pesanti scudi «a torre» o «a otto», per tenere la posizione; agili arcieri pronti a colpire; altri armati che, pronti ad avanzare, colpire e tornare nei ranghi con il dorso coperto dal grande scudo gettato sulle spalle, compiono veloci scorrerie. Il sigillo propone uno scontro idealizzato, nel quale non è difficile ravvisare le suggestioni di diversi passi di Omero; di qui, i richiami alle gesta di Achille, Ettore, Aiace e Diomede già da molti evocati. Ma andare oltre su questa via non sarà facile, perché se è certo che queste immagini e i passi omerici hanno origini comuni nell’ideologia guerriera delle aristocrazie greche del II millennio a.C., le connessioni sono probabilmente indirette; e la scena stessa non manca di ambiguità. Chi è infatti il guerriero caduto al suolo? Un nemico già abbattuto, come suggerirebbe il gonnellino a rombi identico a quello dello sconfitto? Oppure, come Patroclo, un compagno da vendicare? Nelle scene di battaglia micenee, infatti, non è facile distinguere gli armati di una parte e dell’altra, proprio come Achei e Troiani, nell’Iliade, parlano la stessa lingua, venerano le stesse divinità... e amano le stesse donne. Michele Cupitò e Massimo Vidale
ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
CASE E BOTTEGHE I COMPLESSI RESIDENZIALI E COMMERCIALI DELL’AREA INTORNO A PORTA NOCERA OFFRONO UNO SPACCATO DI VITA PARTICOLARMENTE VIVIDO, RESTITUENDOCI UN RITRATTO DELLA «PICCOLA BORGHESIA» POMPEIANA
I
l quartiere circostante Porta Nocera, nel settore sud-orientale di Pompei, si sviluppò in relazione a un trafficato accesso urbano, privilegiato da quanti dal suburbio affluivano in città per assistere agli spettacoli nel vicino anfiteatro. Era abitato in prevalenza da quella che potremmo definire la «piccola borghesia» pompeiana: le famiglie residenti, di ceto medio, possedevano capacità economiche diverse, in parte assicurate dalle attività commerciali svolte nel vivace rione, e in parte dalla partecipazione politica e sociale cittadina. La topografia dell’area rivela un carattere fortemente commerciale e l’interessante
A destra: Casa del Larario fiorito. Uno dei quadretti a soggetto mitologico dell’oecus che si affaccia sul giardino. In basso: Casa del Larario fiorito. La nicchia del larario decorata con motivi floreali e amorini in volo che dà nome alla residenza.
coesistenza all’interno degli edifici di attività sia abitative che commerciali.
UN OSSERVATORIO PRIVILEGIATO La conoscenza di questo borgo pompeiano offre cosí un’occasione straordinaria per ripercorrere la crescita di una zona benestante e la sua evoluzione demografica fino al momento della distruzione della città. In particolare, lo studio degli edifici permette di valutare le differenti
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condizioni di vita fra un vicino e l’altro: emergono, pertanto, informazioni sia sui rapporti economici e sulla concorrenza commerciale all’interno del quartiere, sia sulle risposte e sugli adattamenti delle famiglie residenti in rapporto agli sviluppi socio-economici della città. Oggi la visita al quartiere di Porta Nocera è arricchita dall’apertura di strutture private, fortemente connesse all’economia dell’area. L’edificio «Domus e Botteghe» e le case «del Larario Fiorito» e «del Triclinio all’aperto» furono scoperte da Amedeo Maiuri negli anni Cinquanta del Novecento, ma il loro scavo si completò solo negli anni Ottanta. La denominazione «Domus e Botteghe» sintetizza la funzione di questo primo edificio casa-bottega: all’esercizio della vendita erano infatti destinati gli ambienti fronte strada, mentre il settore propriamente residenziale era interno e incentrato su una corte scoperta, dotata di un triclinio e di un portico, sul quale si aprivano altre stanze della casa. Queste ultime sono decorate con pitture in IV stile pompeiano che, al momento dell’eruzione, erano ancora in rifacimento, come
In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca.
dimostrano alcune anfore piene di calce rinvenute durante lo scavo.
NUCLEI INDIPENDENTI La Casa del Triclinio all’aperto, invece, nasce dell’accorpamento di precedenti nuclei edilizi indipendenti: la modesta abitazione affacciata su via di Nocera mostra infatti un impianto planimetrico piuttosto ristretto. Cinque ambienti, fra cui un piccolo viridarium (giardino), sono disposti in successione sul lato di un corridoio di passaggio che immette in un peristilio a due bracci. Agli angusti spazi abitativi si contrappone la vasta area aperta posta a nord di essi, oggi piantata a vigneto, cosí come doveva essere in antico. In alto: Domus e botteghe. Il triclinio, ornato da pitture in IV stile; alcuni decori erano in corso di rifacimento al momento dell’eruzione. A sinistra: Casa del Larario fiorito. Un altro quadretto dell’oecus.
Tra i vitigni è situato il grazioso triclinio estivo che dà il nome alla casa, abbellito da due fontane a nicchia rivestite di vivaci mosaici. Il complesso doveva costituire una sorta di osteria a giardino, a uso dei frequentatori del vicino anfiteatro. Infine, la Casa del Larario fiorito, la piú ampia fra gli edifici appena aperti, frutto della fusione di due unità abitative indipendenti e caratterizzate da uno stesso schema planimetrico, che vedeva il settore residenziale da un lato, su via di Nocera, e un ampio spazio a giardino dall’altro. Probabilmente il complesso doveva avere anche una funzione commerciale o, comunque, essere aperto al pubblico, come suggeriscono le iscrizioni elettorali dipinte in uno degli ambienti interni. La grande abitazione conserva molte pitture parietali, fra cui spiccano quelle della grande sala (oecus) affacciata sul giardino, con quadretti mitologici al centro di pannelli giallo-ocra. Singolare è anche il raffinato larario (per il culto domestico) da cui la domus prende nome: allestito all’interno di un piccolo cubicolo, decorato con amorini in volo e fiori sparsi. L’area dell’hortus (giardino) è invece provvista di un grande triclinio in muratura su un pavimento in cocciopesto con inserti di marmo. Per notizie e aggiornamenti su Pompei, pagina Facebook: Pompeii-Parco Archeologico.
a r c h e o 11
n otiz iario
DIVULGAZIONE Tivoli
ALLA SCOPERTA DELLE ANTICHE BIBLIOTECHE
N
ella splendida cornice di Villa Adriana a Tivoli è attivo da molti anni il Laboratorio di Archeologia libraria e bibliotecaria, fondato e gestito dall’Associazione culturale Fannius. Si tratta di un centro didattico unico nel suo genere, un luogo polivalente, che coniuga didattica, valorizzazione e fruizione dell’arte libraria antica, con particolare riferimento alla biblioteca dell’imperatore Adriano e alla scrittura nel mondo antico. La sua collocazione nella residenza imperiale extraurbana voluta da Adriano a pochi chilometri dall’antica Tibur è particolarmente significativa. Si tratta, infatti, del luogo in cui l’imperatore si dedicava alle riflessioni culturali, all’otium, alla filosofia. Qui aveva posto la sua personale biblioteca, forse nella vicina Sala dei Filosofi, attigua al Teatro Marittimo. È ben nota la sensibilità intellettuale dell’imperatore, che lo portò a fondare la monumentale biblioteca ad Atene che porta il suo nome. Il Laboratorio di Archeologia libraria e bibliotecaria segna quindi la continuità e la permanenza della cultura libraria romana e ne
In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca.
permette la riscoperta e la conoscenza a tutti coloro che ne seguono le proposte. Fondata nel 1987 da Antonio Basile, che ne è tuttora il presidente, l’Associazione
Fannius, aveva già realizzato, sempre a Tivoli, a Villa d’Este, il Museo didattico del Libro antico, con annesso Laboratorio, che, nel 1991, ottenne il patrocinio del Comune di Tivoli. Riconosciuto dalla Regione Lazio nel 2002 come Museo di interesse locale e successivamente inserito nel 2016 fra le eccellenze delle offerte culturali del territorio regionale, il Museo svolge da circa trent’anni un’intensa attività didattica, espositiva e seminariale, con riconoscimenti a livello universitario e da parte di istituzioni italiane e straniere. Da questa esperienza, nel 2004, si origina, come naturale prosecuzione e A sinistra: il Museo Didattico del Libro Antico allestito dall’Associazione Fannius a Villa d’Este.
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A sinistra: il Laboratorio di Archeologia Libraria e Bibliotecaria realizzato dall’Associazione Fannius a Villa Adriana. In basso: ricostruzione al vero di una biblioteca privata romana. realizzata sulla base della biblioteca di Adriano. Roma, Museo della Civiltà Romana.
l’edificio del plastico della stessa Villa, per il quale nel 2008 l’associazione Fannius, in collaborazione del Comune di Tivoli, presentò un progetto di allestimento, recupero e restauro attraverso il Programma Straordinario di Investimenti Regionali per lo sviluppo dei Comuni del Lazio. La ristrutturazione dei locali e il completamento dell’allestimento sono terminati nel 2016 e il Laboratorio ha subito ottenuto il riconoscimento del proprio ruolo formativo dalla Direzione Generale per le Biblioteche, gli Istituti Culturali e il Diritto d’Autore, che ha dato il patrocinio a una serie di incontri specialistici rivolti alle scuole superiori sul tema della valorizzazione dei beni culturali, della conservazione e del restauro. Negli ultimi dieci anni si sono svolte attività di formazione e di sensibilizzazione alla conoscenza
dell’arte scrittoria e libraria dell’antichità, dall’evoluzione dei supporti scrittori alle diverse forme di scrittura, dalla storia del libro nell’antica Tibur alla storia degli archivi e delle biblioteche nella civiltà romana (in collaborazione con la Soprintendenza archivistica del Lazio). Degno di nota è anche un progetto triennale di alternanza scuola lavoro che, a partire dall’anno scolastico 2015-2016 ha coinvolto i due laboratori dei siti UNESCO di Villa d’Este e Villa Adriana con obiettivi formativi molteplici, ognuno dei quali necessario a completare il quadro delle competenze tecniche, storiche, artistiche, umanistiche e manuali che caratterizzano le professionalità dei beni culturali. L’intervento formativo si propone come naturale prosecuzione e migliore presa di coscienza dell’importanza di creare, all’interno delle aree
ampliamento nel settore dell’antichità, il suddetto Laboratorio di Archeologia libraria e bibliotecaria. L’iniziativa si fonda sull’accordo quadro tra il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali e il Ministero della Pubblica Istruzione del 20 marzo 1998, che si impegnarono a mettere a disposizione strutture, risorse e attività per favorire la migliore conoscenza e l’uso responsabile del patrimonio culturale attraverso le sezioni didattiche e il loro rapporto con le istituzioni scolastiche, invitando gli uffici periferici ad attivare nuovi spazi da adibire a servizi educativi del territorio e ai relativi laboratori. Il progetto di archeologia libraria, partito a Villa Adriana inizialmente presso la Palazzina Triboletti, proseguí nei locali adiacenti
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n otiz iario Ricostruzione tecnico-scientifica del papiro di Kha, il cui originale si conserva nel Museo Egizio di Torino. archeologiche e monumentali, spazi dedicati alle attività rivolte alle scuole, nei quali l’educazione formale e l’esperienza di lavoro si combinano in un unico progetto formativo, pensato, realizzato e valutato, sin dall’origine, in cooperazione tra la scuola e il mondo del lavoro. Altre iniziative sono state rivolte con grande successo a un pubblico piú generale, con visite guidate, attività pratiche di laboratorio, conferenze, seminari. Nella sezione didattica di Villa Adriana si ha modo di compiere, come in una macchina del tempo, un vero e proprio viaggio alla scoperta dei libri e della scrittura nel mondo romano, di cui l’antica Tibur è parte integrante. Il percorso si articola in nove itinerari, ciascuno dei quali rappresenta uno strumento indispensabile per conoscere aspetti caratteristici della cultura libraria antica: 1. i supporti scrittori; 2. il papiro; 3. il libro per eccellenza, il volumen; 4. gli
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strumenti usati per la scrittura; 5. la scuola nel mondo romano; 6. un mondo dal visibile parlare: le scritture esposte; 7. le biblioteche nell’antica Tibur (quella di Villa Adriana e quella del Tempio di Ercole Vincitore d’epoca romana e quelle delle successive epoche, medievale, rinascimentale, moderna e contemporanea); 8. la produzione libraria e le pratiche di lettura; 9. il passaggio dal rotolo al codice. I frequentatori del Laboratorio vengono guidati a ripercorrere la storia della scrittura e dei diversi supporti e materiali scrittori, dalla civiltà mesopotamica caratterizzata dalle tavolette d’argilla, a quella egiziana, con i papiri e le scritture di tipo pittografico, ideografico, fonetico nelle loro diverse espressioni (geroglifica, ieratica, demotica); dall’alfabeto fenicio a quello greco – su ostraka, papiri, pergamene (diphtherai) e supporti epigrafici – alle scritture etrusche, dalle lamine metalliche ai teli lintei, per concludere con un particolare riferimento al mondo romano con tabulae e papiri e alle sue biblioteche.
L’arredamento del Laboratorio ricostruisce un ambiente di una biblioteca romana antica, alludendo proprio a quella privata di Adriano, suggerita dalla ricostruzione di una piccola aula, le cui pareti accolgono nicchie e armadi per custodire i rotuli di papiro o pergamena e i volumina, muniti dei relativi tituli), su cui gli allievi, come i monaci negli scriptoria medievali, si esercitano a ricopiare testi antichi in diverse lingue oppure nuovi componimenti nelle remote scritture. Si utilizzano in proposito strumenti d’epoca (stili e kalami) e inchiostri del passato, filologicamente riprodotti nei loro impasti originali e contenuti nell’atramentarium, aiutandosi, per tracciare sui fogli le linee guida, con rondelle di piombo e con il compasso (circinus) e correggendo gli errori con la spongia officinalis. Vengono inoltre illustrati i luoghi di conservazione e utilizzo delle scritture. Il percorso di approfondimento storico e tecnico sull’arte libraria e bibliotecaria in epoca romana è articolato in tre sezioni. La prima sezione, dedicata alla
ROMA
Annibale, il nemico numero uno
Biblioteca di Adriano imperatore, espone ricostruzioni tecnico scientifiche di volumina, codices, tabulae ceratae e ogni altro elemento che caratterizzava le biblioteche di età imperiale. La seconda accoglie le postazioni didattiche progettate per accogliere gruppi di studenti provenienti dalle scuole di ogni ordine e grado, completa di sistemi audio-video e pannellatura in italiano, inglese e cinese. La terza sezione è dedicata al laboratorio scientifico, che vanta una strumentazione tecnico scientifica all’avanguardia nella diagnostica e conservazione del patrimonio storico e artistico. È possibile svolgere percorsi didattici specialistici in collaborazione di università ed enti di ricerca. Inoltre, seguendo il principio dell’accessibilità universale al patrimonio culturale, è stata creata una sezione didattica per ipovedenti, mediante un apposito percorso tattile sensitivo. La struttura è aperta gratuitamente al pubblico e si svolgono periodicamente, su prenotazione, visite guidate per scuole, università, associazioni culturali.
Personale altamente qualificato, coordinato da Alessandro Basile, esperto di arte libraria antica e restauratore presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, accoglie i visitatori, li introduce ai temi trattati nelle attività didattiche e formative, e crea un filo conduttore tra le bellezze delle ville e il territorio. Il Laboratorio di Archeologia libraria e bibliotecaria di Villa Adriana e il Museo didattico del Libro antico di Villa d’Este sono dunque luoghi deputati a conservare e trasmettere una tradizione che risale all’epoca romana, con evidenti richiami alla biblioteca del Santuario di Ercole Vincitore – che era ancora fruibile nel IV secolo d.C. –, alla biblioteca privata dell’imperatore Adriano e alla libraria del cardinale Ippolito II d’Este. Donato Tamblé
INFO Associazione Fannius Info e-mail: associazionefannius@ gmail.com; www.fannius.it; Facebook: Museo Didattico del Libro Antico, Laboratorio di Archeologia Libraria e Bibliotecaria
Proseguono con successo gli incontri della IV edizione di «Luce Sull’Archeologia», rassegna che si svolge presso il Teatro Argentina di Roma e che quest’anno ha come filo conduttore le relazioni fra Roma e il Mediterraneo. Domenica 18, alle ore 11,00, è in programma la conferenza intitolata «Roma e Annibale. Una storia in movimento», con interventi di Luciano Canfora, Annalisa Lo Monaco e Claudio Strinati: Annibale fu di gran lunga l’avversario piú temibile per la repubblica romana. Nel 211 a.C., cinque anni dopo la vittoria di Canne (216 a.C.), giunse alle porte di Roma e si spinse fino al tempio di Ercole a Porta Collina, per osservare da vicino la città e le sue mura. Dispose il campo sull’Aniene e preparò il suo esercito allo scontro con i Romani, guidati dal console Fulvio Flacco. Aveva 36 anni, ed era un genio di tattica militare. La mancata presa di Roma fu forse il suo errore piú grande. Cosa si pensava in quei frangenti in città? Come il Senato e la popolazione cercarono di reagire a un terrore sempre piú diffuso? Info: www.teatrodiroma.net a r c h e o 15
A TUTTO CAMPO Carlo Citter
L'IMPORTANTE È COOPERARE RECENTI RICERCHE SMENTISCONO O RIDIMENSIONANO IL LUOGO COMUNE SECONDO IL QUALE, ALL’INDOMANI DEL CROLLO DELL’IMPERO ROMANO, SI SAREBBE PERSA LA CAPACITÀ DI GESTIRE LE RISORSE IDRICHE. ANCHE NELL’ALTO MEDIOEVO, INFATTI, NON MANCARONO INTERVENTI DI REGIMAZIONE IMPORTANTI, FRUTTO DI SIGNIFICATIVI SFORZI COLLETTIVI
L
a storiografia costruisce spesso modelli interpretativi basandosi su postulati e non su solide basi di dati. È il caso dell’Europa post-romana e del rapporto con la tecnologia. Schiacciata fra i mirabilia romani e le grandi opere tardo-medievali e rinascimentali, la tecnologia disponibile ed effettivamente utilizzata dalle popolazioni che continuarono a vivere nelle stesse regioni e continuarono a sfruttare le stesse risorse viene spesso considerata pari a zero. Tuttavia, a una macroscala, solo con l’introduzione della macchina a vapore alimentata da combustibile fossile nel XVIII secolo si registra un cambio di passo significativo rispetto a un sistema che, pur con le dovute distinzioni care agli studiosi, era rimasto inalterato dal Neolitico. Pensiamo, per esempio, alla gestione delle acque, uno dei capolavori indiscussi della romanità e dei geni del Rinascimento, e per questo, cruccio di ogni storico o archeologo che si sia occupato di Alto Medioevo. La vulgata è che, all’arrivo dei barbari, tutto il complesso sistema di drenaggio delle campagne, costituito da reti di canali ortogonali
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inseriti all’interno della centuriazione, sia saltato piú o meno rapidamente. Incuria, incapacità di gestione, assenza di una regia, invece che variazioni climatiche, sono state evocate in letteratura come le cause principali, pur senza prove specifiche. Un primo importante risultato, oggi, è la consapevolezza che i Romani non usarono riga e squadra su tutto il loro vasto impero, a
prescindere da reali considerazioni sulla morfologia dei luoghi e sulle potenzialità produttive dei suoli.
UN ASSIOMA DA CORREGGERE Nessuno nega l’esistenza della centuriazione, ma certo essa fu meno estesa e, soprattutto, meno uniformemente applicata a ogni singolo territorio. Tuttavia, i Romani tagliarono in modo sistematico
Nella pagina accanto: paesaggi tipici della Sierra Nevada (Spagna meridionale). Sfruttando i ghiacciai, le genti islamizzate elaborarono in queste aree sistemi di gestione delle
acque che ottimizzavano l’irrigazione per la coltivazione a terrazzi. In alto: un’area umida del Fenland (Inghilterra sud-orientale), oggetto di un recente studio.
vaste aree boschive anche in pianura per soddisfare le loro crescenti necessità sia di combustibile che di materia prima per la carpenteria. A tutto ciò dobbiamo aggiungere un periodo di peggioramento climatico che, grosso modo fra il 400 e il 600 d.C., ebbe il picco di inverni freddi e piovosi. L’insieme di questi fattori ha costituito una pesante eredità per le popolazioni che continuarono ininterrottamente a vivere e lavorare in quelle stesse terre in assenza di un governo centrale forte. Ciononostante, il numero di casi di studio che mostrano un’ininterrotta gestione delle acque, o una ripresa già nell’VIII secolo sono sempre piú numerosi
e non possiamo piú relegarli nel novero delle eccezioni.
EQUILIBRI DELICATI Una recente rircerca condotta da Susan Oosthuizen sulle aree umide dell’Inghilterra sud-orientale (Anglo-Saxon Fenland) mostra che il delicato equilibrio fra uomo e ambiente si regge su una serie di attività che devono essere svolte, con tempismo perfetto e in piena sintonia, da membri di comunità che trovano la base della loro stessa sussistenza proprio nella cooperazione. Lo studio mostra che vi fu una sostanziale continuità dal periodo romano a quello sassone nelle pratiche quotidiane e nel ritmo del lavoro stagionale. Un sistema che per certi versi è
speculare a quello studiato da José María Martin Civantos sulla Sierra Nevada, nella Spagna meridionale. Qui le popolazioni islamizzate elaborarono un meccanismo di sfruttamento delle acque, che dal ghiacciaio scendevano a valle, per ottimizzare l’irrigazione di coltivazioni su terrazzi. Anche qui la cooperazione fra le diverse comunità contadine è stato un prerequisito essenziale per la sopravvivenza. Questi due esempi mostrano che non è necessario ipotizzare la presenza di uno Stato centralizzato, forte, con ampia capacità di coercizione: il complesso meccanismo di gestione delle acque poteva essere gestito, ed era nella pratica gestito, da comunità altamente specializzate che si tramandavano un elevato sapere tecnico di generazione in generazione, adattandosi alle mutazioni dell’ambiente e del clima. Tuttavia, non possiamo affermare che non vi furono azioni pianificate. Ne è un tipico esempio la cosiddetta Fossa Carolina, studiata da Peter Ettel: un canale che metteva in comunicazione Reno e Danubio mediante due affluenti minori. Promossa da Carlo Magno, l’opera è visionaria e frutto di un pensiero geopolitico globale: consentire il collegamento diretto fra il Mar Nero, e quindi l’impero bizantino e il califfato degli Abbasidi, e il cuore dell’impero franco. Fra i due estremi si collocano iniziative dell’autorità centrale volte a promuovere il recupero di aree potenzialmente produttive, ma dissestate a seguito del peggioramento climatico e della mancanza di manutenzione, come era avvenuto nella metà dell’VIII secolo nel territorio dell’abbazia di Nonantola (in provincia di Modena), recentemente riesaminato da Gérard Chouquer. (http://unisi.academia.edu/ CarloCitter)
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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
NEL SEGNO DELL’INDIVIDUALITÀ E DELLA TRADIZIONE IL MUSEO D’ARTE ORIENTALE «GIUSEPPE TUCCI» È ORA COMPRESO NEL POLO MUSEALE CHE HA SEDE NEL QUARTIERE ROMANO DELL’EUR. IL SUO DIRETTORE, FILIPPO MARIA GAMBARI, CI SPIEGA I MOTIVI DELL’ACCORPAMENTO E LE MODALITÀ DELLA SUA ATTUAZIONE
T
ornano in esposizione le collezioni d’arte orientale del Museo «Giuseppe Tucci» di Roma, all’indomani del suo trasferimento dalla sede di Palazzo Brancaccio nel Museo delle Civiltà (MuCiv), il polo museale realizzato nel quartiere dell’EUR, accorpando quattro importanti raccolte museali: oltre al «Tucci», ne fanno parte il Museo preistorico ed etnografico «Luigi Pigorini», il Museo delle arti e tradizioni popolari «Lamberto Loria» e
il Museo dell’Alto Medioevo «Alessandra Vaccaro». Con l’occasione abbiamo intervistato il direttore del MuCiv, Filippo Maria Gambari, al quale abbiamo chiesto, innanzitutto, di parlarci della collezione d’arte orientale, che si può ora ammirare grazie all’allestimento della mostra «Aperti per lavori». «Il Museo delle Civiltà – spiega Gambari – nato con sede all’EUR in forza dei decreti istitutivi emessi nel 2016, si è fortemente impegnato nel
trasferimento – e nel riallestimento molto rapido – del Museo d’arte orientale “Giuseppe Tucci”. Un compito complesso, poiché è la prima volta che a Roma, dallo spostamento un po’ tumultuoso all’EUR del Museo «Pigorini», tra il 1975 e il 1977, si rilocalizza un grande museo nazionale. Ben consapevoli di questo, dopo un’approfondita fase di progettazione, abbiamo costruito un programma di lavoro che tutto il personale del MuCiv, insieme a A sinistra e nella pagina accanto, in basso: reperti della collezione del Museo d’arte orientale «Giuseppe Tucci», esposti nella mostra temporanea «Aperti per lavori». La raccolta del Museo «Tucci» è stata accorpata nel nuovo polo museale denominato MuCiv, Museo delle Civiltà.
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In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca.
A destra: il palazzo del quartiere romano dell’EUR nel quale ha sede il Museo Preistorico ed Etnografico «Luigi Pigorini», una delle quattro raccolte ora comprese nel MuCiv, Museo delle Civiltà. quello dell’ex Museo Nazionale d’arte orientale, ha affrontato con grande professionalità e senso di responsabilità. Con lo slogan “Aperti per lavori” abbiamo esposto al pubblico, in una mostra temporanea allestita negli spazi del Museo “Pigorini”, i materiali piú rappresentativi delle diverse sezioni del museo di Palazzo Brancaccio. La scelta di un’esposizione provvisoria, work in progress, a solo un mese dalla chiusura al pubblico dei locali di via Merulana – insieme all’esposizione temporanea di un’altra serie di reperti al Museo d’Arte Orientale di Torino, a primavera – nasce proprio dalla volontà di non interrompere, ma anzi ampliare, la fruizione pubblica delle collezioni di arte orientale, mentre prende forma il nuovo allestimento al MuCiv, che avrà metodologie aggiornate di
comunicazione museale e una superficie piú che doppia rispetto alla precedente. Il percorso espositivo risulta gradevole e intrigante: finora il pubblico, spesso incredulo di un riallestimento cosí rapido, ha manifestato apprezzamento e un senso piacevole di sorpresa. Si tratta di un allestimento provvisorio, che occupa una superficie uguale rispetto a quella di via Merulana, in cui sono esposti anche reperti custoditi in settori che erano stati chiusi a causa del
principio di incendio del 2016. La sede definitiva, che sarà aperta nel 2019, è in alcuni locali in corso di acquisizione dall’INAIL, a fianco del museo “Pigorini”». Quale nuova lettura assume la collezione di arte orientale, collocata all’interno del MuCiv? «La mission del Museo delle Civiltà è coniugare ricerca, didattica e formazione ad alto livello, con una comunicazione e una valorizzazione museale inclusive. Il nostro obiettivo è far conoscere, a partire dalla cultura artistica e materiale, mondi apparentemente lontani nel tempo e nello spazio, ma in realtà vicini al nostro modo di essere e di vivere, creando i presupposti per favorire dialogo, integrazione e relazioni interculturali in una società globalizzata, e centrando una delle fondamentali esigenze di questo tempo. Con l’accorpamento ad altri musei, l’ex Museo Nazionale d’Arte Orientale, non solo è potenziato in strutture, servizi, spazi, ma viene inserito in una lettura piú trasversale e complessiva che, senza escludere l’apprezzamento estetico degli oggetti (tipico di un museo “d’arte orientale”), cerca maggiormente di avvicinare e far conoscere la civiltà che li ha prodotti». Migliorerà l’esperienza del pubblico, nella nuova sede?
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PAROLA D’ARCHEOLOGO «Si potranno sfruttare i maggiori spazi e i minori condizionamenti dell’immobile, rispetto ai saloni storici di Palazzo Brancaccio – non sempre facilmente compatibili – per sviluppare con inventiva la multimedialità e l’interattività. Renderemo piú ampio il multilinguismo e avvieremo il riallestimento globale dei reperti che, a partire dalle collezioni d’arte orientale e africane, investirà progressivamente i diversi settori del museo». Dunque, dal «museo degli oggetti» al «museo delle civiltà»… E come? «Senza perdere la tradizione e l’individualità dei singoli musei, la comunicazione dovrà essere ricca di collegamenti trasversali e sviluppare un “linguaggio” comune tra le diverse collezioni, centrato soprattutto sui metodi e sugli strumenti dell’antropologia culturale. Le mostre temporanee favoriranno rimescolamenti e “contaminazioni” che aiutino a percepire tangibilmente il fil rouge unitario del museo. Va ricordato che, per l’eccezionale numero di oggetti e l’ampiezza degli spazi, la visita attenta dell’intero museo comporterà un impegno superiore a una giornata. Già oggi il biglietto è valido per tre giorni. Soprattutto per chi vive a Roma, ma non solo, confidiamo in particolare sulla diffusione degli abbonamenti annuali che, a un costo di 18 euro, consentono la visita con un numero illimitato di ingressi per un intero anno, avvantaggiandosi delle diverse esposizioni temporanee». Dal 2 febbraio, al Museo delle Civiltà hanno preso il via due nuove mostre. Di che cosa si tratta? «Dopo la presentazione delle collezioni orientali del Museo “Tucci” del 21 dicembre, il work in progress “Aperti per lavori” continua con esposizioni temporanee, realizzate con collezioni conferite dall’ex Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente,
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tramite il Ministero degli Affari Esteri. Negli spazi del Museo delle arti e tradizioni popolari “Lamberto Loria”, abbiamo inaugurato due importanti mostre: “Impressioni d’Africa” e “Città, palazzi e monasteri. Le avventure archeologiche dell’IsMEO/IsIAO in Asia”. La prima, partendo dai materiali dell’ex Museo Coloniale Africano, vuole raccontare attraverso dipinti, sculture e oggetti d’artigianato, una raccolta ricca e particolarissima, sulla quale le vicende storiche e culturali seguite alla seconda guerra mondiale e alla fine del colonialismo hanno calato un imbarazzato e frettoloso sipario. La mostra “Città, palazzi, monasteri. Le avventure archeologiche dell’IsMEO/IsIAO in Asia” è dedicata invece ai reperti delle missioni archeologiche italiane in Pakistan, nella Valle dello Swat, in Afghanistan, nella regione di Ghazní, e in Iran, nella regione orientale del Sistan». La chiusura del Museo Nazionale d’arte orientale «Giuseppe Tucci» in via Merulana a Roma ha scatenato non poche polemiche: possiamo definirle superate? «Lo scorso anno, con motivazioni varie e non sempre chiare, che perlopiú non sembrano avere nulla a che vedere con una corretta informazione e seria partecipazione a un dibattito sulla politica culturale della pubblica amministrazione, A destra e nella pagina accanto: ancora due immagini dell’allestimento della collezione d’arte orientale del Museo «Tucci» nella mostra «Aperti per lavori».
sono state diffuse plateali fake news. Siamo molto spiacenti di questa situazione, perché ha cercato di mettere in cattiva luce un progetto ambizioso, innovativo e teso a un forte rilancio del ruolo e dell’importanza dell’ex Museo d’Arte Orientale. Sono state irresponsabilmente mobilitate con l’inganno – in Italia e all’estero – persone in buona fede che, in futuro, saranno diffidenti a schierarsi su questioni magari autentiche e importanti, secondo il principio del grido “al lupo, al lupo!”. Il clima da campagna elettorale ha amplificato il tutto, portando addirittura a picchettaggi davanti alla sede di Palazzo Brancaccio e alla diffusione di volantini nei quali si chiedeva di non spostare l’Istituto per il Medio e l’Estremo Oriente, che in realtà non esiste piú come ente dal 1995. Via Merulana non era adatta come sede di un Museo Nazionale e, non a caso, essendo in affitto da privati, non poteva essere sede permanente di un museo. Peraltro, è bene ricordare che, nel 1957, Palazzo Brancaccio venne scelto come collocazione provvisoria del museo solo perché sede dell’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente (ISMEO), oltre che di una parte della Soprintendenza di Ostia. Con il trasferimento, verso la fine degli anni Novanta, di quest’ultima
e dell’IsMEO – proprio per l’improponibilità del protrarsi della locazione – era cessato ogni legame strutturale per la permanenza del Museo Nazionale di Arte Orientale in affitto in una sede privata. Palazzo Brancaccio è una sorta di condominio, in cui i servizi comuni indispensabili per il museo (portineria, scale, ascensore), ormai con evidenti problemi gestionali e di sicurezza, sono condotti da privati. I problemi strutturali sono notevoli: i passaggi tra le sale sono tipici di una residenza e non adatti all’affluenza del grande pubblico, manca un montacarichi, manca l’ascensore (quello storico, per poche persone, è completamente fuori standard per il servizio al pubblico, e categoricamente proibito a qualsiasi trasporto di materiali anche leggeri). Il corto circuito creato dal principio d’incendio del 2016 ha messo in evidenza i limiti impiantistici e obbligava, per la concessione ex novo della certificazione di legge, all’adeguamento di impianti agli standard attuali, che mal si adattano, per costi e per impatto sull’apparato murario e decorativo, all’intervento in una delicata struttura residenziale antica, di alto pregio, in proprietà privata, che non ha mai potuto essere acquisita al patrimonio pubblico proprio per i suoi evidenti difetti strutturali e per
l’impraticabilità di un’acquisizione parziale. Già lo stesso Giuseppe Tucci, quando aveva spinto l’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente (ISMEO) a realizzare all’EUR, negli anni Settanta, il monumento a Gandhi, aveva pensato alla collocazione del Museo Nazionale d’Arte Orientale in Piazza Marconi, dalla parte opposta del Museo “Pigorini”. Speriamo che, con gli attuali allestimenti e con l’avvio degli appalti per la nuova collocazione, a fianco del “Pigorini”, queste polemiche siano superate. I fatti hanno la forza di diradare la nebbia delle chiacchiere». Quali sono i prossimi appuntamenti che il MuCiv proporrà al pubblico, oltre alle due mostre in corso? «Nel prossimo mese di maggio inaugureremo, nel Salone delle Scienze del Museo “Pigorini”, una mostra di costumi cinesi, in occasione degli scambi Italia-Cina nell’ambito del progetto Via della Seta 4.0. E in ottobre, in occasione del centocinquantenario dell’avvio delle relazioni tra Italia e Thailandia, si inaugurerà una mostra in cui esporremo, con altri in prestito, i reperti provenienti da quest’area delle collezioni del Museo d’arte orientale e del “Pigorini”. Nel 2019 saranno aperti i nuovi allestimenti delle sezioni d’arte
orientale, aggiornati secondo i principi piú avanzati della museografia europea e collocati nei nuovi spazi INAIL, a lato dello sviluppo delle sezioni preistoriche. Avranno caffetteria, bookshop, oggettistica e tutto quanto è indispensabile per un museo nazionale contemporaneo, concepito come aperto e inclusivo, non come un salotto antiquario. Tutto questo ovviamente non era e non sarebbe mai stato possibile in Via Merulana». Quali sono le sfide piú difficili da superare, per il neonato MuCiv? «Molte sfide ci attendono, siamo consapevoli, preoccupati, ma non spaventati. Posso citare: la creazione di un nuovo rapporto con il pubblico e la fidelizzazione di una platea che oggi in gran parte ignora l’esistenza del nuovo Museo; la partecipazione al rilancio del ruolo dell’EUR nella città di Roma; il coinvolgimento di realtà del mondo economico come veri partner, non solo come sponsor delle strategie museali; l’organizzazione di laboratori e poli di ricerca tali da fornire riferimento concreto alle difficoltà in cui operano molte Soprintendenze territoriali. Non ultima, la sfida organizzativa per rendere il Museo, se non autosufficiente nel bilancio economico, in grado di intercettare risorse aggiuntive esterne che riducano l’esposizione del Ministero dei Beni Culturali per il suo funzionamento».
DOVE E QUANDO Museo delle Civiltà Roma EUR, piazza Guglielmo Marconi 14 Orario ma-do, 8,00-19,00; lu chiuso Info tel. 06 549521; e-mail: mu-civ@beniculturali.it; www.museocivilta.beniculturali.it; Facebook: Museo delle Civiltà
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n otiz iario
ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
I LUOGHI DI ARISTOTELE Nel numero dello scorso dicembre (n. 394), questa rubrica si è associata alle celebrazioni dell’UNESCO per Aristotele nell’ambito della Giornata della Filosofia. Torniamo adesso sulle tracce di Aristotele (1), per parlare della sua terra, la Penisola Calcidica, 3 1 2 dal punto di vista storico, archeologico e turistico. Grazie al materiale filatelico, è possibile documentare alcune della località citate nell’articolo che trovate alle pp. 62-77, seguendone il medesimo percorso. La breve rassegna non può non ripartire dal francobollo greco del 1987 (2) in cui vengono raffigurate la Macedonia e la Penisola Calcidica con la posizione di Stagira, la città che 4 5 diede i natali al grande filosofo, e la data della sua morte (322 a.C.). Il primo trasferimento fu al seguito del padre a Pella, famosa per i suoi mosaici (3); a 17 anni era ad Atene, presso la scuola di Platone, alla cui morte, vent’anni piú tardi, andò in Turchia, ad Assos, vicino a Çanakkale (4), aprendo una scuola di studi platonici, e poi a Mitilene (5), 6 sull’isola di Lesbo (6), ove ne aprí un’altra. Tornato ad Atene, alla morte di Alessandro, si ritirò 7 con la famiglia sull’isola di Eubea (7), dove morí a sessantadue anni. L’articolo prosegue parlando delle tre «dita» della penisola, da est verso ovest. La prima è la Repubblica Teocratica di Monte Athos, ricca dei suoi tanti monasteri bizantini (8-9), e interdetta ai visitatori salvo speciali permessi; il primo di questi monasteri fu eretto da sant’Atanasio (10) nel 963 d.C., nel luogo in cui 8 9 sorge oggi il Monastero della Grande Lavra (11). Viene citata anche l’isoletta di 10 Ammouliani, di fronte al Sacro Monte, pochi minuti di navigazione verso la costa, abitata inizialmente da alcuni monaci ribelli provenienti dal Monastero di Vatopedi raffigurato dal francobollo 11 12 jugoslavo del 2001 (12) e poi ceduta ai rifugiati politici dall’Asia Minore. 13 Lasciato il Monte Athos, si procede verso Sithonia, IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT la penisola centrale; il francobollo di Grecia del (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per 1979 (13) raffigura uno scorcio delle sue belle e ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o frastagliate coste. Ancora piú a ovest si arriva nella al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai pianura di Vassilika e si va verso l’ultima penisola, 14 seguenti indirizzi: Kassandra, per la quale i riferimenti filatelici Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, possibili sono dati da annulli e non da francobolli. Via Tavanti, 8 C.P. 17037 Qui ne citiamo uno, che recita: «Kallithea50134 Firenze Grottarossa Kassandra-Calcidica» (14). info@cift.it, 00189 Roma. oppure
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lcalenda@yahoo.it; www.cift.it
FORMAZIONE Campania
SCHELETRI E MUMMIE SENZA SEGRETI
Achenheim (Alsazia, Francia). Un silos per derrate adibito a fossa comune, nel quale sono stati rinvenuti i resti scheletrici di ben 10 individui. 4400-4200 a.C..
S
acquisiti dall’osservazione diretta di alcuni reperti, che da quelli ottenuti indirettamente, da fonti storico-documentarie e architettoniche. Qui di seguito, la lista degli argomenti che saranno affrontati: I resti umani in ambito archeologico e forense: uno sguardo alla legislazione, Anatomia muscolo-scheletrica, Tafonomia: il processo di decomposizione, La sepoltura: tipologia e forme, Dallo scavo al laboratorio, Lo studio dei reperti: umano o non umano?, La determinazione del sesso, La determinazione dell’età alla morte, Lo studio dei soggetti subadulti, Antropometria: misurare le ossa, La paleopatologia, Traumatologia, Malattie degenerative, Malattie metaboliche, Malattie infettive, Malattie genetiche, Il cancro, Lo stress aspecifico, Patologie dentarie, Patologie dei tessuti molli, La mummiologia, Mummie del mondo, Metodi analitici applicati allo studio di scheletri e mummie, Musealizzazione dei reperti, La bioetica dei resti umani. Termine ultimo per le iscrizioni: 28 febbraio 2018. Info: www.formedcampania.com
i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a
arà presentato il prossimo 12 marzo, al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il Corso di Alta Formazione in «Bioarcheologia Umana» organizzato dal Formed-Ente di Formazione Didattica e Cultura, in convenzione con l’Università della Campania «Luigi Vanvitelli». Il corso, che ha la durata di 160 ore (tra lezioni frontali e visite guidate), si rivolge a laureati in archeologia, antropologia ed etnologia, conservazione dei beni culturali, scienze naturali e biologia. Alla luce delle piú recenti acquisizioni antropologiche, il corso fornisce gli strumenti per poter condurre uno studio di materiali bio-archeologici umani, sia scheletrizzati che mummificati. Attraverso la disamina delle varie problematiche teoriche e metodologiche, e approfondendo gli aspetti contestuali e culturali, sarà possibile rivelare aspetti della vita e della morte di gruppi umani antichi. Particolare attenzione verrà inoltre rivolta agli aspetti tafonomici e tanatologici a cui il corpo va incontro. Infine, verranno valutati, in maniera critica, studi scientifici sull’argomento, e verrà compilata una relazione tecnico-scientifica usufruendo sia dei dati
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L’ARCHEOLOGIA NELLA STAMPA INTERNAZIONALE Andreas M. Steiner
UNO COME NOI? La grotta di Misliya si trova ai piedi di una falesia situata alle pendici occidentali del Monte Carmelo, in Israele, 15 km a sud della città di Haifa. Posta a circa 95 m sul livello del mare, è oggi composta essenzialmente da tre nicchie nella
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frammento del lato sinistro di una mascella superiore, di cui si sono conservati parte dell’osso palatino e ben otto denti, da quelli del giudizio ai canini, insieme alla radice di un incisivo. I denti del fossile di Misliya, nettamente diversi da quelli dell’Uomo di Neandertal, appartenevano a un essere umano anatomicamente
LIBANO
Haifa Mar Mediterraneo
Lago di Tiberiade
Nazaret
Grotta di Misliya
Beit She’an
Hadera Netanya
Tel Aviv Petach Tikva
Giordan o
C
he l’uomo moderno (o Homo sapiens) sia arrivato nel continente eurasiatico dall’Africa, passando attraverso il corridoio del Levante, è un dato comunemente accettato. Su tempi e modalità di questa preistorica migrazione, però, continuano a persistere dubbi e incertezze, alimentate – piú che risolte – da una serie di nuove scoperte, alcune relative proprio al «nostro» passato piú prossimo. A complicare il quadro hanno contribuito anche le indagini genetiche, eseguite sul DNA dei reperti paleoantropologici e confrontate con i dati della popolazione mondiale. Quello di Homo sapiens fu davvero un unico, grande esodo – avviato circa 100 000 anni fa – alla conquista delle terre del Levante e, successivamente, dell’Europa e dell’Asia, e ancora, del Continente Americano e dell’Australia? Una conquista che soppiantò le altre specie di Homo, come quello di Neandertal o, ancora, quello del siberiano Uomo di Denisova? Un recente ritrovamento, annunciato lo scorso gennaio dalle pagine della rivista Science, aggiunge un ulteriore, rilevante tassello alla complessa vicenda delle nostre origini.
roccia calcarea, profonde pochi metri, ed estesi terrazzamenti antistanti, formatisi dal crollo di quello che un tempo doveva essere la copertura di una cavità molto piú ampia e profonda. La grotta è nota sin dalla fine degli anni Venti del secolo scorso, mentre la sua esplorazione scientifica è iniziata nel 2001. I reperti paleontologici e archeologici rinvenuti in superficie indicano una frequentazione del sito da parte dell’uomo preistorico per un periodo che si estende dai 400 000 anni ai 150 000 anni fa. Tra questi ha provocato un certo scalpore la pubblicazione del ritrovamento (avvenuto nel 2002, ma reso pubblico solo ora) di un
CISGIORDANIA Ashdod
Gerusalemme
Ascalona
ISRAELE
Mar Morto
Deir el-Balah Beersheva
Masada
moderno, ovvero a un rappresentante dell’Homo sapiens, a un esponente, dunque, di quei nostri progenitori che dall’Africa si sono irradiati nel continente eurasiatico circa 90/120 000 anni fa, passando per il «corridoio» del Levante. Il reperto non sarebbe altro che una nuova conferma di quel processo, se non fosse che
A destra: il fossile Misliya-1, dall’omonima grotta nella falesia a sud di Haifa (Israele). Si tratta del frammento di una mascella di Homo sapiens, datata tra 177 000 e 194 000 anni fa. In basso: ricostruzione digitale del fossile Misliya-1. Nella pagina accanto: una veduta della grotta di Misliya, alle pendici del Monte Carmelo.
accurate procedure di datazione (termoluminescenza, metodo Uranio-Torio, spettrometro a risonanza paramagnetica elettronica) hanno stabilito una sua datazione a un periodo compreso tra 177 000 e 194 000 anni fa. La mascella rinvenuta nella grotta di Misliya – all’incirca
contemporanea ad altri fossili relativi ai primi uomini moderni rinvenuti in due siti dell’Africa orientale (Omo 1 e Omo 2) e in quello dell’Homo sapiens idaltu, in Etiopia – rappresenterebbe, cosí, la piú antica traccia dell’Homo sapiens al di fuori dell’Africa, e suggerirebbe una nuova datazione per quel preistorico esodo dalla terra madre, antedatando il suo inizio a ben 50/60 000 anni prima di quanto si ritenesse fino a oggi.
«Il ritrovamento della grotta di Misliya – afferma Israel Hershkovitz, il paleoantropologo dell’Università di Tel Aviv che ha scoperto e studiato il reperto – ci rivela che l’uomo moderno abbandonò l’Africa non 100 000, bensí 200 000 anni fa». Altri studiosi, però – tra cui Jean-Jacques Hublin, direttore del dipartimento di evoluzione umana del Max Planck Institut – invitano a valutare la scoperta con cautela. Non è detto, infatti, che il fossile appartenesse a «uno di noi»: certo, il suo proprietario era piú simile all’uomo moderno che non all’Uomo di Neandertal; non si può escludere, però, che potesse trattarsi dell’esponente di una popolazione di Homo sapiens fino a oggi sconosciuta che, una volta abbandonata l’Africa, si sarebbe, in seguito, estinta. Per stabilire se la mascella di Misliya sia pertinente a un nostro diretto antenato servirebbero campioni del DNA. Che, dai fossili provenienti dalle aride terre del Levante, sono difficili da ottenere.
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CALENDARIO
Italia
MILANO Milano in Egitto
ROMA Il Tesoro di Antichità
Winckelmann e il Museo Capitolino nella Roma del Settecento Musei Capitolini fino al 22.04.18
Egizi Etruschi
Gli scavi di Achille Vogliano nel Fayum Civico Museo Archeologico fino al 31.05.18 La Galleria Capitolina in un disegno del 1765.
Da Eugene Berman allo Scarabeo dorato di Vulci Centrale Montemartini fino al 30.06.18
Traiano
MODENA Mutina Splendidissima La città romana e la sua eredità Foro Boario fino all’08.04.18
NAPOLI Diario mitico
Costruire l’Impero, creare l’Europa Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 16.09.18
Cronache visive sulla Collezione Farnese Museo Archeologico Nazionale fino al 20.02.18 (prorogata)
AOSTA Pietra, carta, carbone
I frottages di stele di Ernesto Oeschger e Elisabetta Hugentobler Area Megalitica di Saint-Martin-de-Corléans fino al 06.05.18
BOLOGNA Medioevo svelato
Storie dell’Emilia-Romagna attraverso l’archeologia Museo Civico Medievale fino al 17.06.18 (dal 17.02.18)
In alto: testa di sfinge, da Medinet Madi. II sec. a.C.
CAPACCIO PAESTUM (SA) Le armi di Athena
Qui sopra: affresco con rilievo, dal suburbio di Mutina (Modena).
Il Santuario settentrionale di Paestum Museo Archeologico Nazionale fino al 31.03.18
Longobardi
FERRARA Ebrei, una storia italiana
I primi mille anni Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS fino al 16.09.18
FINALE LIGURE BORGO (SV) Ad fines. 500 miglia da Roma Al tempo dei Romani nel Finale Museo Archeologico del Finale fino al 03.06.18
GENOVA Dischi lunari?
Archeoastronomia nella Liguria antica Museo di Archeologia Ligure fino al 01.04.18
LIDO DI JESOLO Egitto. Dei, faraoni, uomini Spazio Aquileia 123 fino al 15.09.18 30 a r c h e o
Un popolo che cambia la storia Museo Archeologico Nazionale fino al 25.03.18
Pompei@Madre
Materia Archeologica» MADRE-Museo d’arte contemporanea Donnaregina fino al 24.09.18
PAVIA Africa tra immaginario e realtà Riproduzione della tomba di Tutankhamon.
La «Scoperta» del Regno del Benin Residenza Universitaria Biomedica del Collegio Universitario S. Caterina fino al 24.02.18
REGGIO EMILIA On the road
La Via Emilia, 187 a.C. – 2017 Palazzo dei Musei fino all’01.07.18
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
VENEZIA Il mondo che non c’era
Ego Svm Via
Via Aemilia, Via Christi Museo Diocesano fino al 04.04.18
SUTRI (VITERBO) Sutri, Vulci e i misteri di Mitra Culti orientali in Etruria Villa Savorelli fino al 13.05.18
L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue Palazzo Loredan fino al 30.06.18 Gruppo raffigurante Mitra che uccide il toro. III-V sec. d.C.
VILLANOVA DI CASTENASO (BO) Villanova e Verucchio
Un’antica storia comune MUV-Museo della civiltà Villanoviana fino al 10.06.18
Francia PARIGI Il Perú prima degli Inca
Musée du quai Branly-Jacques Chirac fino all’01.04.18
Germania TORINO Odissee
Diaspore, invasioni, migrazioni, viaggi e pellegrinaggi Palazzo Madama fino al 19.02.18
KARLSRUHE Gli Etruschi
Civiltà mondiale nell’Italia antica Badisches Landesmuseum fino al 17.06.18
Olanda LEIDA Ninive
Cuore di un antico impero Rijksmuseum van Oudheden fino al 25.03.18
Svizzera BASILEA Sethi allo scanner
La rigenerazione di una tomba faraonica Antikenmuseum fino al 06.05.18
TRIESTE Nel mare dell’intimità L’archeologia subacquea racconta l’Adriatico ex Pescheria, Salone degli Incanti fino all’01.05.18
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CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli
UN TESORO SOTTO IL TETTO DA SEMPRE AMMIRATO COME UNO DEI CAPOLAVORI DELL’ARTE ANTICA, IL PARTENONE POTREBBE AVERE AVUTO ANCHE UN RUOLO FINORA INSOSPETTATO. IL SUO ATTICO AVREBBE INFATTI ACCOLTO LE INGENTI RISERVE MONETARIE DELLA LEGA DELIO-ATTICA
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e finanze pubbliche dell’Atene classica sono state dettagliatamente registrate in numerosi decreti, molti dei quali sono giunti fino a noi. Ciononostante, persistono interrogativi sulla gestione di queste somme e, soprattutto, su dove fossero fisicamente collocati e custoditi questi tesori. Nei decreti si fa menzione di alcuni luoghi dell’Acropoli in cui essi erano depositati; in particolare, il Tesoro della Lega Delio-Attica era senz’altro distribuito tra diversi spazi ed edifici sacri, quali, per esempio, la Chalkotheke e l’Eretteo. Nelle fonti, questo importante tesoro viene inoltre associato al cosiddetto opisthodomos: un La ricostruzione dell’attico del Partenone proposta da David Scahill: lo spazio sottostante il tetto potrebbe aver accolto il Tesoro della Lega Delio-Attica.
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termine, però, abbastanza problematico e che ha suscitato vivo dibattito tra gli studiosi. Di recente, Spencer Pope (McMaster University, Canada), David Scahill (American School of Classical Studies at Athens) e Peter Schultz (North Dakota State University, USA) hanno cercato di prospettare una possibile soluzione a questo mistero ancora irrisolto.
BENI D’OGNI GENERE I tre studiosi sottolineano che il completamento del Partenone, nel 432 a.C., offrí un nuovo luogo nel quale depositare beni preziosi. Inventari di proprietà sacra e pubblica, compilati su base annuale, dimostrano che nel
Partenone erano custoditi oggetti di varia natura: da beni pregiati come corone e coppe d’oro o gioielli, fino a manufatti a piú umili o di dubbio valore, come casse di frecce spezzate o un trono spaccato. Il Tesoro della Lega doveva certamente essere costituito non solo da oggetti preziosi, ma anche da monete e lingotti d’oro e d’argento. Esso fu di vitale importanza per Atene, poiché non soltanto le permise di realizzare le principali spedizioni militari del V secolo a.C., ma anche di portare a termine ambiziosi programmi edilizi, come quello pericleo sull’Acropoli. Senza dubbio gli spazi principali del Partenone erano utilizzati per depositare il tesoro di Atena; d’altronde, la maggior parte degli studiosi concorda sul fatto che i templi potevano essere impiegati anche come banche. Inoltre, stando ai dati ricavabili dai decreti, si può concludere che questo enigmatico opisthodomos doveva essere uno spazio chiuso, sigillato da porte che potevano essere aperte solo dai tesorieri e abbastanza ampio da poter ospitare non solo il tesoro della Lega, ma anche quello delle altre divinità. La proposta dei tre studiosi si concentra su un altro spazio finora trascurato del Partenone: l’attico,
collocato al di sopra degli elaborati cassettoni marmorei e delle possenti travi che sorreggevano il tetto. L’idea è nata dallo studio dei templi siciliani e magno-greci di età arcaica e classica, almeno otto dei quali avevano un attico accessibile tramite una doppia scala: tra di essi, solo per nominarne alcuni, il tempio di Ercole ad Agrigento, il tempio di Atena a Siracusa e il tempio della Vittoria a Himera.
Atene. Due immagini del Partenone ripreso dal versante orientale. V sec. a.C.
UNO SPAZIO SICURO Nel Partenone, una scala costruita nel muro della cella orientale conduceva a uno spazio vasto (90 x 43 m circa) e molto sicuro, collocato al di sopra della cella del tempio, che ricorda proprio gli attici dei templi della Sicilia. Il famoso decreto di Callia (terzo quarto del V secolo a.C.) specifica che nel tesoro di Atena erano stati depositati 3000 talenti. Se si vuole supporre che l’attico del Partenone custodisse le monete di questo tesoro, monete che dovevano essere tetradrammi, i tre studiosi calcolano che all’incirca 4 milioni e mezzo di monete potessero far parte a quell’epoca del tesoro della dea, per un peso totale di oltre 68 000 kg d’argento. Un peso che, a quanto pare, poteva essere distribuito con sicurezza sull’attico del tempio. Sicuro, facilmente accessibile e controllabile, ma anche reso sacro dalla presenza di Atena, questo ampio spazio sarebbe proprio il luogo in cui veniva deposto l’argento coniato del Tesoro della Lega. Secondo un aneddoto riportato da
Plutarco, nella Vita di Lisandro, Gilippo aveva nascosto un’ingente somma di denaro sotto il tetto della sua casa, sicché il suo servitore ebbe a dire che il suo padrone aveva «molte civette (termine con il
quale si designavano le monete ateniesi) che dormono sotto le tegole». E forse, concludono i tre studiosi, anche sotto le tegole del Partenone dormivano tante, tantissime civette...
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ESCLUSIVA • IL MISTERO DEI BALAFRÉ
LA LUNGA
MARCIA DEGLI «SFREGIATI» Quella qui riprodotta è una delle prime statuette a cui è stato dato il nome di balafré (letteralmente «sfregiato», in francese) che siano comparse sul mercato antiquario. Databile intorno al 2000 a.C., proviene con ogni probabilità dall’Asia centromeridionale e si trova al Museo del Louvre di Parigi. Il lato destro è incrostato di carbonato di calcio; le viste di profilo rivelano la muscolatura poderosa del personaggio raffigurato, sotto una pelle coperta da scaglie di rettile. 34 a r c h e o
NEGLI ULTIMI CINQUANT’ANNI, SUL MERCATO ANTIQUARIO, HA FATTO LA SUA COMPARSA UNA SERIE DI MISTERIOSE STATUETTE. RITRAGGONO PERSONAGGI CON IL VOLTO SEGNATO DA UNA PROFONDA CICATRICE, UN OCCHIO SOLO E DALLA PELLE SIMILE A QUELLA DI UN SERPENTE... RIBATTEZZATI BALAFRÉ, CIOÈ «SFREGIATI», SONO A TUTT’OGGI UN ENIGMA. DEL QUALE PRESENTIAMO IN ESCLUSIVA LA POSSIBILE E AFFASCINANTE SOLUZIONE testo di Massimo Vidale, fotografie di Valerio Ricciardi
Fino a poco tempo fa, erano note solo da tre esemplari in mostra nei musei di Parigi, Berlino e New York. Oggi, molte altre enigmatiche statuette di questo tipo, provenienti da vecchi scavi clandestini in Asia Centrale, destano stupore e nuovi interrogativi tra gli specialisti di archeologia orientale. Che cosa significano la pelle scagliosa, il taglio sul volto e i piercing sulle labbra? a r c h e o 35
ESCLUSIVA • IL MISTERO DEI BALAFRÉ
Sulle due pagine: un altro esemplare di balafré. A oggi, ben poco si sa dei luoghi, del tempo e delle civiltà a cui assegnare la loro fabbricazione. Le immagini evidenziano come il corpo, fatto di una roccia cloritica di colore verde (per il corpo) e di una pietra bianca (per l’unico occhio e la gonna) sia assemblato in tre parti, che ora si reggono in equilibrio instabile. Si ignora se in antico fossero fissate con un collante.
Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis
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ove l’archeologia svela e illustra, il mercato antiquario cela e confonde. Una delle grandi regole degli scavi illegali e del mercato antiquario di manufatti archeologici e d’arte consiste nel non rivelare i veri luoghi d’origine dei reperti. L’informazione, infatti, condurrebbe gli archeologi ufficiali (quelli veri) sulle tracce del sito – abitato o necropoli – che ha subito i saccheggi, mettendo potenzialmente sotto i riflettori proprietari e ladri, funzionari dal comportamento non integerrimo, nonché mercanti per i quali la parola «scrupoli» non ha il minimo significato; e il flusso delle opere rubate – e con esso i profitti – sarebbero ben presto interrotti. Qualcosa del genere dovette probabilmente verificarsi nell’ormai lontano 1961, quando un antiquario iraniano ricevette da qualcuno – e mise immediatamente in vendita a Teheran – sei statuette composite in pietra (alcune complete, altre conservate solo in parte) dalla foggia decisamente inconsueta. Nella circostanza, si disse che erano state rinvenute per caso da un contadino nel proprio campo, presso la cittadina di Faza, tra le alture sud-occidentali dell’altopiano iranico, circa 75 km a sud-est di Shiraz.
INFORMAZIONI FUORVIANTI L’archeologia iranica di età preislamica si identificava allora con le grandi e notissime rovine di età achemenide, con gli sterri francesi a Susa, con i bronzi del Luristan (anch’essi, purtroppo, dispersi da scavi clandestini sul mercato antiquario) e da pochi e limitati scavi effettuati su monticoli di età preistorica sparsi sull’altopiano. Indicare l’Iran occidentale come origine delle statuette dava ai possibili acquirenti l’idea gratificante di possedere qualcosa di molto vicino al mondo mesopotamico e alle sue
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ESCLUSIVA 1
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Come illustrano queste immagini, che si riferiscono a una statuetta facente parte della Collezione Aron (Londra), quasi tutti i balafré a oggi noti si compongono di tre parti che si incastrano l’una nelle altre. 1. veduta frontale del torso e del volto; 2. veduta posteriore del torso; 3. veduta laterale della gonna in calcare bianco, di regola percorsa da incisioni verticali che finiscono, in basso, in una cavità circolare o «cuppella»; 4. la terza parte con le tozze gambe del personaggio; 5. la faccia superiore e quella inferiore (6) della stessa gonna, con gli alloggi per gli incastri del busto e gambe.
La cicatrice e l’occhio vuoto dominano il volto del personaggio barbuto, che regge un vaso dalla bocca rivolta verso il basso meraviglie archeologiche, nascondendo allo stesso tempo la reale provenienza delle opere. È quasi certo che la provenienza da Faza sia stata un’informazione fumosa quanto ingannevole. Oggi, 38 a r c h e o
per varie ragioni, sospettiamo che queste enigmatiche immagini provenissero, in realtà, dai territori compresi tra i confini settentrionali dell’Afghanistan (l’antica Battriana), dalla Margiana (delta
interno del Murghab, nell’attuale Turkmenistan) e forse, piú oltre verso settentrione, da altre regioni dell’Asia centro-meridionale, che al tempo costituivano un saldo dominio sovietico.
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6 Le parti corporee della figura sembrano coperte da un fitto reticolo di incisioni, che danno l’illusione visiva delle scaglie di un grande rettile.
Sono le terre nelle quali, 5000 anni fa, si diffuse la civiltà dell’Oxus (l’odierno fiume Amu Darya), mal venuta in luce grazie alle controverse ricerche dell’archeologo greco-russo Viktor Sarianidi, e spesso chiamata con l’acronimo BMAC (BactriaMargiana Archaeological Complex; vedi «Archeo» n. 376, giugno 2016). La datazione piú probabile per queste opere sono gli ultimi secoli del III millennio a.C. Il fatto è che nessuno, quando furono messe in
A destra: un’altra statuetta della stessa tipologia mostra quanto fossero standardizzate le tre parti (busto, gonna e gambe). In questo esemplare (oggi in collezione privata), tuttavia, gli incastri sono quadrangolari. Alcuni balafré indossavano scarpe fatte di calcare bianco, spesso perdute dagli scavatori clandestini. Scarpe a parte, la completezza delle statuette fa ritenere che provengano da corredi di tombe, piuttosto che dalle rovine di abitati.
circolazione, avrebbe accettato l’idea di una provenienza centro-asiatica, e gli oggetti, se ne fosse stata divulgata l’origine, sarebbero stati considerati dubbi, perdendo buona parte del loro potenziale valore. Al problema irrisolto della provenienza se ne aggiungono però molti altri. Le sei statuette dell’originario lotto persiano, come quelle affiorate in seguito dalle spire del mercato, non sono grandi (in genere, l’altezza oscilla tra i 15 e i 20 cm), ma hanno tratti talmente forti che le si immaginerebbe facilmente di proporzioni monumentali. Rappresentavano tutte personaggi della medesima tipologia: figure maschili stanti, nerborute e muscolose, dall’espressione quasi brutale, con una folta barba e la pelle interamente a r c h e o 39
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ESCLUSIVA • IL MISTERO DEI BALAFRÉ De se r t o de l K y z y lkum Urg en ch
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I misteriosi «sfregiati» potrebbero essere i protagonisti dimenticati di ancestrali mitologie centro-asiatiche coperta da un impressionante reticolo di scaglie da rettile. La pesantezza sproporzionata delle membra si apprezza soprattutto nella visione laterale. Tutte le statuette a oggi note indossano una gonna conica, decorata con serie di sottili incisioni verticali che terminano in altrettanti fori circolari. Inoltre, tengono sotto a un braccio una sorta di giara a collo cilindrico, saldamente serrata, in posizione orizzontale, come nell’atto di versarne il contenuto. Si sta diffondendo l’uso di chiamare 40 a r c h e o
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queste immagini balafré, che, in francese, significa «sfregiato»: un termine usato spesso per indicare gli appartenenti alla malavita cosí segnati in volto. Ognuna delle nostre statuette, infatti, presenta uno o piú profondi tagli obliqui, solitamente estesi dalla radice del naso alla base della mandibola, e a volte riempiti ed evidenziati da intarsi bianchi. Un altro enigma sono le labbra, di regola attraversate, al centro, da una coppia di minuti fori cilindrici, come se gli antichi scultori avessero in men-
te una sorta di piercing, oppure come se qualcuno avesse voluto mettere a tacere l’ingombrante personaggio con una grappa metallica sulla bocca (della quale, tuttavia, non è mai stata trovata traccia: i fori sono sempre risultati vuoti, salvo che nella statuetta di Parigi, in cui uno dei fori reca un’incrostazione bianca; vedi foto a p. 35). Infine, dopo la recente comparsa di diversi nuovi esemplari, risulta ormai certo che l’essere rappresentato era immaginato con un occhio solo,
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PERCHÉ APPARTERREBBERO ALL’OXUS L’attribuzione dei balafré alla regione dell’Oxus è tutt’altro che certa, in quanto nessuna delle statuette è mai stata rinvenuta in uno scavo regolare. Un indizio a favore potrebbe essere che le piccole sculture sono quasi sempre composte di parti separatamente scolpite e applicate l’una sull’altra con semplici innesti a incastro: le parti corporee sono solitamente fatte di clorite (una roccia metamorfica ricca di talco e ossidi di ferro di colori variabili dal nero, al grigio e al verde), mentre la spessa gonna tronco-conica è fatta con pietre calcaree bianche e rosse; anche per le scarpe, se realizzate a parte per essere applicate alle caviglie, si utilizzano pietre calcaree di colore piú chiaro. Ora, come ha fatto notare lo studioso francese Henri-Paul Francfort, in un’altra enigmatica serie di piccole sculture composite ormai note come «Principesse battriane» – la cui provenienza dall’Asia centro-meridionale e dalla regione dell’Oxus è certa – le pietre Statuetta composita in clorite e calcare bianco di una cosiddetta «Principessa battriana». Civiltà dell’Oxus, 2200-1800 a.C. circa. Collezione privata. L’ampia veste coperta di ciocche di lana ondulate è stata accostata a una delle piú tipiche vesti indossate in Mesopotamia da sacerdoti e fedeli. Nella grande necropoli di Gonur (Turkmenistan) queste statuette comparivano nelle tombe piú ricche.
usate sono le stesse, ma il ruolo rappresentativo è rovesciato: nelle «Principesse» sono di pietra bianca le parti corporee visibili, mentre quelle coperte dalle vesti sono in clorite. Secondo Francfort, l’inversione avrebbe un valore fortemente simbolico, sottolineando un’opposizione netta tra le entità in tal modo rappresentate. Il secondo indizio a favore dell’origine battriana dei balafré è il trattamento delle capigliature in clorite dei «mostri» scagliosi e delle «Principesse», che risulta pressoché identico. Infine, nella necropoli di Gonur Nord, anch’essa quasi totalmente saccheggiata (ma in antico), sono state rinvenute almeno due scarpine in pietra appartenenti ad altrettante piccole sculture antropomorfe, sottratte alle sepolture già alla fine dell’età del Bronzo e oggi perdute. Forse un giorno, come nella fiaba di Cenerentola, sfregiati e scarpette verranno ricomposti, svelando parte della loro storia misteriosa.
certamente dopo essere stato accecato in uno scontro mitologico la cui narrazione è forse perduta. Si converrà, quindi, che siamo ben lontani dalla pacata imperturbabilità che tante raffinate immagini di sovrani, sacerdoti e dignitari mesopotamici continuano a trasmettere dalle vetrine dei musei... Ma torniamo alla prima comparsa delle statuette in pietra, in una bottega di Teheran. Una, forse la piú bella e meglio conservata, malgrado alcuni danni al capo, fu immediatamente acquistata dal Museo del Louvre, dove oggi è uno dei vanti della Galleria delle Antichità Orientali. Le altre entrarono a far parte di collezioni private, passando poi di proprietario in proprietario, e affacciana r c h e o 41
ESCLUSIVA • IL MISTERO DEI BALAFRÉ
dosi episodicamente nelle sale di vendita delle case d’asta. Uno dei balafré – conservato solo nel torso, avendo perduto copricapo, gonna e gambe – ha trovato la sua collocazione definitiva nelle vetrine del Museum für Vor- und Frühgeschichte (Museo di Pre- e Protostoria), a Berlino. Nel 2010 un altro esemplare facente parte dell’originario gruppo comparso a Teheran nel 1961, dopo contorti e continui passaggi di proprietà (ereditato da Matilde de Goldsmith Rotschild, rivenduto da Sotheby’s a Londra nel 1989, come proveniente dalla collezione di madame Marion Schuster, Losanna… e via dicendo) sembra essere finalmente approdato al Metropolitan Museum of Art di New York, dove può godere di un meritato riposo.
TRA MERCANTI E ASTE I prezzi? Incontrollabili, e, all’apparenza, del tutto irrazionali: basti pensare che un altro dei sei esemplar i di Teheran, conser vato
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Sulle due pagine: un balafré dalla gonna rossa, fatta con un diverso calcare di questo colore. Collezione privata. Questo esemplare condivide con gli altri le caratteristiche piú importanti: muscolatura possente, scaglie di rettile, cicatrice, fori per il piercing delle labbra, acconciatura accurata e fitta barba ben acconciata, il vaso stretto sotto il braccio. L’espressione del personaggio è sempre grave, quasi addolorata.
anch’esso solo nel torso, è stato venduto dalla Sotheby’s, nel dicembre 2010, per piú di 1 200 000 dollari, partendo da una base d’asta di «soli» 300 000-500 000 dollari... il che la dice lunga sull’incidenza dello smodato desiderio del collezionista di accaparrarsi un pezzo raro, negandolo allo stesso tempo ai propri colleghi-concorrenti. Di quest’ultima statuetta si ignora attualmente la collocazione. Ma la marcia dei balafré non si esaurisce affatto con le peripezie dei primi sei. Chi scrive ha avuto la possibilità di rintracciare la comparsa – e di intercettare ulteriori avvistamenti, che potremmo definire «mercantili» – di almeno altre 10 statuette dello stesso tipo. Un gruppo consistente è stato studiato presso una collezione londinese. È però giunto il momento di tralasciare le ambigue vetrine dell’antiquariato di lusso, per chiederci chi
fosse il personaggio rappresentato in modo cosí particolare, e di quali storie, e di quali costruzioni ideologiche, la sua identità fosse partecipe.
UN’IDENTITÀ SCOMPARSA Nel 1963, poco dopo l’acquisto del Louvre, i primi a tentare di spiegare l’immagine furono due grandi orientalisti francesi, André Parrot (1901-1980) e Roman Ghirshman (1895-1979). A loro avviso, lo scaglioso personaggio rappresenterebbe un eroe leggendario di natura contigua al mondo animale, simile all’Enkidu dell’epica sumero-akkadica di Gilgamesh (Ghirshman, in realtà, pensava che le scaglie indicassero pelo animale). Che si trattasse di un animalesco gigante simile a Humbaba (altro personaggio, questa volta terrificante, del mito di Gilgamesh) sarebbe rimasto convinto in seguito anche Pierre Amiet, celebre studioso francese specialista dell’an-
tico Iran. In alternativa, si propose anche che lo sfregiato rappresentasse un eroe storico caro alla propria comunità, protagonista di atti eroici, rappresentato realisticamente con le sue ferite per qualche generazione, ma presto caduto in oblio. Studiosi tedeschi, pochi anni dopo Parrot e Ghirshman, proposero una opposta e piú «militaristica» visione: il balafré sarebbe stato un prigioniero sconfitto e ferito al volto in battaglia, costretto a marciare in fila con altri e a suonare il tamburo (cosí veniva interpretato il vaso stretto sotto l’ascella) in onore dei vincitori (questa curiosissima versione, peraltro, ancora ispira la presentazione del pezzo al summenzionato Museo di Berlino). Nei primi anni Novanta del secolo scorso emersero idee radicalmente nuove. Sull’onda dell’archeologia «post-processuale» – che anteponeva la considerazione degli apparati a r c h e o 43
ESCLUSIVA • IL MISTERO DEI BALAFRÉ Sulle due pagine: un balafré diverso dai precedenti: fu scolpito in un unico blocco di clorite grigio-bluastra, quindi si ruppe, per essere poi pesantemente restaurato, reintegrandone alcune parti con materiali moderni. Londra, Aron Collection. La visione del lato destro (qui accanto) prova che il personaggio sorregge un vaso in ceramica (e non un tamburo, come da alcuni ipotizzato). Questo balafré presenta i segni di un’intensa ri-lavorazione, verosimilmente causati dal suo riutilizzo come incudine; la figura aveva probabilmente perso il suo carattere sacrale.
personaggio potesse avere a che fare con un arcaico sfondo mitologico euroasiatico, molto diffuso presso le comunità linguistiche indoeuropee (ma non solo): la battaglia tra un eroe divino o semidivino e un dragone celeste che imprigiona le nuvole e impedisce alla pioggia di vivificare stagionalmente la terra.
simbolici e degli aspetti immateriali delle civiltà antiche a studi prettamente scientifici –, ma anche dell’antropologia «strutturale» di Claude LeviStrauss (1908-2009), l’archeologo Henri-Paul Francfort ipotizzò che si trattasse di un ibrido e malvagio avatar, a metà fra uomo e dragone, rappresentante le forze piú ferocemente distruttive della natura. Le feri44 a r c h e o
te del demone, e le sue labbra perforate (per essere sigillate?), erano i segni espliciti della sconfitta subita dal «mostro» nella sua lotta con una grande Dea della fertilità, che sarebbe stata rappresentata in Battriana dalle statuette composite delle «Principesse Battriane» (vedi box a p. 43). Incidentalmente, tuttavia, Francfort suggerí anche che il
INGHIOTTITO DAL DRAGO A mio giudizio, tutte le teorie sinora avanzate, tranne l’ultima intuizione di Francfort, sono fuorvianti. L’idea del mostro o gigante animalesco, come quella del malvagio avatar uomo/ dragone, non spiegano né le cicatrici sul volto, né il vaso sotto il braccio, come quella del «tamburino prigioniero» non spiega certamente le scaglie da rettile. E dato che le statuette, molto probabilmente, vengono da antiche sepolture depredate, che senso avrebbe avuto deporre figure tanto sinistre nelle tombe dei propri cari? Credo, piuttosto, che si tratti di un’immagine sinottica – ossia di una raffigurazione i cui particolari compendiano diversi momenti della stessa narrazione mitica – effettivamente lega-
dio-eroe da parte del drago/ serpente, avvenuto nelle fasi precedenti del mito. Allo scontro sono, poi, da ricondurre le ferite riportate al volto, nel quale possiamo sí riconoscere – come in tutte le fattezze del personaggio – una sorta di forza brutale, ascrivibile però, piú che a una sinistra e diabolica malvagità, alla sofferenza per le torture subite (a riprova dell’inevitabile soggettività e della scarsa affidabilità di simili percezioni «artistiche»). Dei «piercing» sulle labbra non saprei dire, se non che potrebbe trattarsi di un arcaismo teso a collocare la narrazione visuale in un remoto passato o in uno spazio culturale esotico, dato che ornamenti labiali perforanti erano usati nell’altopiano iranico tra il V e il IV millennio a.C. Ma ciò implicherebbe che gli scultori del tempo conoscessero un modello ornamentale davero remoto.
ta al mito dello scontro tra un eroe o dio che combatte e distrugge – tra inverno e primavera – il Serpente dell’aridità, per liberarne le acque prigioniere: un gesto che sarebbe riassunto nell’atto di riversare la giara colma d’acqua al suolo. In questa luce, le scaglie da rettile non apparterrebbero tanto al personaggio, ma «racconterebbero» l’inghiottimento del
ESCLUSIVA • IL MISTERO DEI BALAFRÉ Sulle due pagine: a differenza di altri, in questo balafré (oggi in collezione privata), le eleganti scarpe furono scolpite nello stesso blocco del resto degli arti inferiori. Secondo l’ipotesi sviluppata nell’articolo, le scaglie di rettile non alludono alla natura dell’eroe, ma al suo precedente inghiottimento da parte del drago cosmico dell’aridità stagionale; e il vaso versato al suolo rappresenterebbe la liberazione primaverile delle acque. Inoltre, confrontando un numero consistente di statuette, appare chiaro come esse ritraggano un personaggio con un occhio solo. Entrambi i temi (la lotta col drago cosmico, e l’eroe con un occhio solo) potrebbero far pensare ad antiche mitologie indoeuropee.
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Una versione ben nota di questo mito arcaico traspare da piú di un passo della tradizione religiosa ed epica indiana. Si tratta di non pochi brani del Rigveda (la parte piú antica e prestigiosa dei testi sacri induisti) e dell’epica del Mahabharata, che, in alcune parti, sono presumibilmente molto antichi, ma che, a giudizio degli esperti, furono anche molto rielaborati in epoche successive.
PELLE DELL’EROE O DEL NEMICO? Nei testi indiani, l’eroica divinità che combatte il mostro è Indra, dio guerriero, signore della folgore e del tuono, che cavalca il suo soprannaturale elefante. Indra raccoglie l’eredità ideologica di divinità proto-indoeuropee della guerra. Il Serpente suo nemico si chiama Vrtra, nome nel quale si nascondono significati affini al concetto di avviluppare, coprire, avvolgere, rivestire. Le nostre statuette, infatti, «raccontano» chiaramente che le scaglie rettiliane si fermano ai polsi della figura; possono coprire la barba, ma non il volto. In altre parole, la pelle mostruosa non appar-
tiene all’eroe, ma al suo mortale nemico, che lo ha fagocitato. Alcuni passaggi dei testi indiani, sebbene piuttosto tardi rispetto alle statuette degli sfregiati, potrebbero alludere alle ferite al volto dell’eroe-dio (anche se la cosa non è del tutto certa); comunque, indicano chiaramente che Indra, nel corso dello scontro, fu interamente ingoiato dal drago, e riemerse solo quando le altre divinità vennero in suo soccorso, creando una nuova, giovane dea di nome Jrmbhika («La Sbadigliatrice»). Quando il drago sbadigliò, Indra riuscí a riemergere dalle sue fauci, annientandolo e liberando le acque cosmiche dalla cavità oscura nella quale il drago le tratteneva. In questa luce, l’eroe o divinità ritratto nelle statuette, data la sua probabile antichità, rappresenterebbe un antenato e precursore della figura di Indra: una figura dominante in quel substrato culturale, mitologico e religioso e probabilmente linguistico che gli studio(segue a p. 52)
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ESCLUSIVA • IL MISTERO DEI BALAFRÉ
DUE LEONESSE E MOLTI ENIGMI
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na creatura demoniaca che si volge, d’un tratto, allo spettatore, fissandolo con grandi occhi spalancati; una forza brutale che pulsa sotto muscoli possenti, a stento trattenuta dalle zampe strettamente incrociate sul petto; una pietra candida come porcellana che riflette la luce del giorno. Sono questi gli elementi di fascinazione che hanno fatto della «Leonessa Guennol» (dal nome di una delle collezioni alle quali la scultura è appartenuta) uno dei capolavori piú celebri dell’antica arte della Mesopotamia. Su tutto, aleggia un’ambiguità intrinseca, difficile da spiegare: la statuetta, forse per la forza estetica di cui è intrisa, potrebbe sembrare di
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proporzioni monumentali, quando invece è alta poco piú di 10 cm. Il suo «albero genealogico» è del tutto sconosciuto. Apparve sul mercato antiquario come dal nulla, accompagnata dalle voci diffuse dai venditori secondo i quali sarebbe stata trovata in un luogo imprecisato della Mesopotamia meridionale, forse nei pressi di Baghdad. Da allora, è stata considerata come uno degli indiscussi capolavori dell’arte vicino-orientale del tardo IV millennio a.C., soprattutto grazie all’interpretazione di una grande orientalista e storica dell’arte antica, Edith Porada. La studiosa, infatti, aveva ravvisato nel soggetto – un «grande» felino in atteggiamento umano – e nella postura una convincente somiglianza con scene incise su una serie di sigilli a cilindro trovati nelle regioni sud-occidentali dell’altopiano iranico appartenenti alla sfera culturale detta protoelamica. Spesso, infatti, i sigilli proto-elamici dello stesso periodo recano teorie di animali che imitano esseri umani intenti ad attività ludiche o lavorative; in qualche caso, stringendo le braccia al petto in un gesto molto simile a quello della Leonessa Guennol. E in questa luce, e nelle quinte cronologiche descritte, la nostra Leonessa figura in quasi tutti i manuali di archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente antico. Al fascino di questa figura contribuiscono anche le sue piú recenti vicende: acquistata da Joseph Brummer nel 1931 e poi dai coniugi Alastair Martin ed Edith Bradley, nel 1948, fu da questi ultimi concessa in prestito al Brooklyn Museum of Art di New York, che l’ha esposta per piú di cinquant’anni. Allo scadere del prestito, è tornata
In questa pagina: la Leonessa al-Sabah, una statuetta composita raffigurante appunto la femmina di un leone facente parte dell’omonima collezione, esposta presso il Museo Nazionale del Kuwait.
ai legittimi eredi, i quali l’hanno affidata alla Sotheby’s, che, il 5 dicembre 2007, a New York, l’ha venduta per 57 milioni e 160mila dollari, cifra che è considerata la piú alta mai pagata per una scultura (vedi «Archeo» n. 275, gennaio 2008). Tuttavia, quando i manufatti antichi sono stati privati del loro originario contesto di appartenenza dagli scavi clandestini, non è raro che idee, prospettive di studio e interpretazioni archeologiche possano cambiare d’un tratto, e in modo radicale. Un’altra inaspettata generazione di antiche statuette dal pedigree tutt’altro che impeccabile, ma di straordinario impatto visivo, e di indiscutibile interesse
archeologico e storico, pone infatti la nostra Leonessa in una luce molto piú controversa. Mentre i balafré (le statuette dal volto sfregiato che affollano queste pagine) proseguono la loro marcia dalle sconosciute località di rinvenimento in Asia centro-meridionale alle collezioni private occidentali, una seconda leonessa, nella medesima postura, con gli stessi attributi muscolari, anche se piú marcatamente stilizzati, è comparsa nella Collezione al-Sabah, in Kuwait, una importante raccolta di magnifiche opere d’arte orientale di varie epoche e provenienze. L’aspetto piú sorprendente è che questa seconda leonessa (anch’essa di provenienza ignota) indossa la stessa gonna decorata a righe verticali terminanti in fori circolari dei balafré. Ma l’inversione è palese: nei balafré, il corpo è in clorite e la veste in calcare bianco, mentre nel nuovo demone felino il corpo è in una fine pietra candida, mentre la veste è in nerastra clorite. Come ha notato ancora Henri-Paul Francfort, l’inversione potrebbe suggerire che i due esseri mitologici fossero immaginati come opposti e nemici. La cosa avrebbe senso, se è vero che in buona parte dell’arte del Vicino Oriente antico serpenti, leoni e leopardi sono spesso associati all’idea dell’aridità e del deserto, mentre i balafré – se la lettura sviluppata in queste pagine fosse corretta – risulterebbero eroi cosmici della fertilità e dell’acqua. Ora, gli stessi archeologi e storici dell’arte che, seguendo l’originale idea di Edith Porada, accettano la datazione della piú celebre Leonessa Guennol agli ultimi secoli del IV millennio a.C. (quindi all’arte mesopotamica del tardo periodo di Uruk), datano i balafré alla fine del III millennio a.C., attribuendoli alla
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
La Leonessa Guennol, statuetta comparsa sul mercato antiquario agli inizi del Novecento e indicata come proveniente da una località della Mesopotamia, forse nei pressi di Baghdad. Nel 2007 è stata messa in vendita all’asta da Sotheby’s e acquistata per 57 milioni e 160mila dollari.
Civiltà dell’Oxus (l’antico nome dell’Amu Darya) sviluppatasi, al tempo, tra le pianure del Turkmenistan e le fertili distese della Battriana (Afghanistan
settentrionale). In realtà, basta confrontare la nuova Leonessa al-Sabah con la sua piú celebre e super-valutata «cugina» per constatarne le profonde a r c h e o 49
ESCLUSIVA • IL MISTERO DEI BALAFRÉ
somiglianze. Le possibilità sono perciò molteplici. In primis, non si può escludere, almeno in teoria, che la Leonessa al-Sabah sia un falso ispirato alla Leonessa Guennol (anche se l’impressione è che sia autentica). Una seconda possibilità è che gli scultori antichi abbiano continuato a riprodurre forme e stilemi della stessa creatura mitologica per un millennio abbondante, con poche variazioni (oltre ad averla rivestita della vistosa gonnella). Anche questa ipotesi, per l’identità nella resa volumetrica del volto, delle zampe e dei poderosi muscoli, presenta non poche difficoltà. La terza e ultima possibilità è che la Leonessa Guennol sia in realtà un’opera non mesopotamica, ma centro-Asiatica, che, come i balafré, fu creata mille anni dopo quanto, sino a ora, non si sia supposto. Se cosí fosse, la provenienza della piccola scultura da una località ignota nei pressi di Uruk sarebbe stata l’ennesima informazione di comodo fornita dai trafficanti agli acquirenti, per rendere il piccolo capolavoro maggiormente appetibile. Al tempo della sua comparsa sul mercato antiquario, infatti, nessuno avrebbe seriamente considerato plausibile o degna di nota un’opera di tale indiscusso tenore artistico proveniente dalla terra incognita dell’entroterra afghano (a proposito della quale, sarebbe veramente il caso di ripetere l’adagio latino «Hic sunt leones»). È sicuramente presto per riscrivere una pagina dei manuali piú prestigiosi della storia dell’arte del Vicino Oriente antico. La Leonessa Guennol, e la sua cugina approdata chissà come in Kuwait, sono veramente opere di artigiani dell’età del Bronzo Medio dell’antica Battriana e Margiana? 50 a r c h e o
E – come ultima e marginale curiosità – gli acquirenti, se avessero sospettato una provenienza e una cronologia diverse da quelle ufficiali, avrebbero sborsato la stessa incredibile somma di denaro? Se mai lo capiremo, ciò avverrà in futuro, e solo grazie a imprevedibili, e forse improbabili, colpi di fortuna. Al momento, possiamo accontentarci della doppia «morale» che questa narrazione trasmette: i pezzi provenienti dal mercato antiquario, se privi di provenienza – pur autentici, preziosi e intriganti –, rischiano di creare all’archeologia e alla storia piú problemi di quanti non ne risolvano (ma non per questo devono essere ignorati); e quanto sappiamo della storia delle civiltà dell’età del Bronzo dell’Asia centrale, dell’Iran e del Subcontinente Indo-Pakistano, ancor oggi, è un bicchiere d’acqua posato sulla battigia di un mare.
si chiamano Proto-Indo-Iranico e collocano nella seconda metà del III millennio a.C. Nei secoli successivi, tale substrato si sarebbe trasformato dando origine a due componenti diverse: l’una, sul versante dei rilievi dell’Hindukush e del Subcontinente Indo-Pakistano, chiamata Proto-Indo-Aria, e l’altra, rivolta all’altopiano iranico, chiamata Proto-Indo-Iranica.
CON UN OCCHIO SOLO Alle mitologie indoeuropee, studiate e ricostruite dallo storico delle religioni Georges Dumézil (18981986), rimanda anche il particolare dell’occhio perduto, emerso solo dopo che la serie di figure disponibili si è fatta piú consistente: una sola, tra tutte quelle note, sembra avere entrambi gli occhi. E ciò non può essere dovuto al caso. Lo sfregiato potrebbe quindi appartenere al novero degli eroi o divinità che, nell’affrontare scontri con pericolose entità mostruose o demoniache, avrebbero sacrificato o ceduto un occhio, o, in altri casi, una mano, per avere in cambio conoscenze sovrannaturali o poteri magici garanti della vittoria. Cosí fece Odino per avere accesso al sapere di Mímir, una nebulosa creatura che custodiva il sapere universale in un pozzo inaccessibile; secondo Dumézil, anche Orazio Coclite – nome che indica, appunto, l’avere un unico occhio – e Muzio Scevola – che sacrificò la propria mano per sfidare il nemico – appartengono alla stessa famiglia di cicli leggendari. Ma forse non dobbiamo cercare tanto lontano per tentare una spiegazione di queste curiose statuette emerse da scavi clandestini ancora ignoti, e per riabilitare il personaggio che ritraggono, trasformandolo da «sinistro demone ibrido» a divinità che si sacrifica ogni anno per salvare il mondo. Il personaggio e le sue storie potrebbero essere molto piú vicini a noi di quanto non im-
A destra: La costellazione dell’Aquario, tavola illustrata. 1825. L’immagine tradizionale del segno zodiacale (un vecchio dalla barba fluente che rovescia le acque alla fine dell’inverno) conserva forse alcuni degli aspetti di eroi primordiali delle perdute mitologie dell’età del Bronzo. Il balafré potrebbe esserne un dimenticato protagonista.
maginiamo. Nelle raffigurazioni vascolari del mito di Cadmo della Grecia classica, per esempio, il Serpente, l’eroe nelle sue fauci, il vaso
e la fonte avvelenata dal mostro che vi si annida furono variamente combinati in diverse iconografie. E ai nati nel segno dell’Acquario non sarà sfuggita una singolare somiglianza tra i balafré e le immagini piú comuni del proprio emblema zodiacale: una figura barbuta e muscolosa che riversa dall’alto dei cieli le acque cosmiche sul nostro piane-
ta. E ben sanno che il Sole transita nell’Acquario approssimativamente fra il 21 gennaio e il 19 febbraio, alla fine dell’inverno, proprio quando le cime innevate dei grandi rilievi dell’Asia interna iniziano a sciogliersi, liberando l’acqua dal ghiaccio e rinnovando cosí la vita di uomini, piante e bestie nelle sue sconfinate pianure.
Per saperne di piú
Anfora a figure nere con scena raffigurante Cadmo che uccide il drago, dall’Eubea. 560-550 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
All’intrigante schiera degli «sfregiati» e, piú in generale, alla cultura materiale della regione dell’Oxus, Massimo Vidale ha dedicato questo ricco volume, pubblicato per i tipi di I.B. Tauris. Forte delle pregevoli fotografie di Valerio Ricciardi, il volume, in lingua inglese, dà conto di tutte le piú importanti acquisizioni a oggi note e ha nel capitolo sui balafré una delle sue sezioni piú ampie e significative. Per l’acquisto, si può utilizzare l’e-shop dell’editore: www.ibtauris.com
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INCONTRI • GIUSEPPE VOZA
«COME HO SCOPERTO LA
SICILIA
ANTICA»
L’ARCHEOLOGIA DELLA PIÚ GRANDE ISOLA DEL MEDITERRANEO È STATA, PER OLTRE MEZZO SECOLO, INDISSOLUBILMENTE LEGATA AL NOME DI GIUSEPPE VOZA. IN UN INCONTRO CON «ARCHEO», LO STUDIOSO, CLASSE 1937, RIPERCORRE LE TAPPE PIÚ SIGNIFICATIVE DEL SUO APPASSIONATO IMPEGNO PROFESSIONALE. NON RISPARMIANDO CRITICHE E ACCUSE… incontro con Giuseppe Voza, a cura di Sergio G. Grasso
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Patti (Messina). Uno scorcio dell’area archeologica.
G
iuseppe Voza è fra i piú autorevoli archeologi italiani. Decisivo è stato, soprattutto, il suo contributo alla conoscenza della Sicilia antica. Nell’isola ha infatti operato per oltre cinquant’anni, ricoprendo, fra gli altri, l’incarico di Soprintendente di Siracusa, di cui è prima reggente e, dal 1979 al 2004, titolare. Vasta è stata la sua attività di ricerca, tutela e valorizzazione di numerosi siti archeologici siciliani: Patti, Milazzo, Messina, Taormina, Naxos, Catania, Megara Hyblaea, Thapsos, Siracusa, Eloro, Acre, Casmene e Pantalica. Ha inoltre promosso il potenziamento di diversi musei (Lipari, Tindari, Naxos, Taormina, Lentini, Noto, Camarina, Patti) e ha organizzato e diretto l’allestimento del Museo Archeologico «Paolo Orsi» di Siracusa. Nel nostro incontro abbiamo ripercorso le tappe piú significative di una carriera piú che brillante e ragionato sul possibile futuro della tutela e della valorizzazione.
passato la mia infanzia in una casa a circa 100 metri di distanza dal tempio detto di Nettuno, il piú bel tempio dorico della Magna Grecia, che ho avuto dimestichezza di frequentazione, nella mia prima gioventú, con Umberto Zanotti Bianco, che mi insegnò a usare la piccozza dell’archeologo, e con Paola Zancani Montuoro, dalla quale ho imparato a redigere le prime schede di materiali archeologici. Con questi personaggi usavo andare alle foci del Sele dove essi avevano scoperto il famoso santuario di Hera Argiva. Che cosa dire di piú? Forse che quando, alla fine degli studi liceali, l’unica facoltà per me esistente era quella che mi permetteva di studiare archeologia? Fu proprio cosí e quando all’Università fui folgorato da Luigi Bernabò Brea e gli chiesi di fare un’esperienza di lavoro con lui in Sicilia me lo concesse: i due mesi dell’esperienza sono diventati piú di cinquant’anni di attività senza tregua».
Professor Voza, come è nata in lei la passione per l’archeologia? «C’è una responsabilità “nell’anima dei luoghi”? Non mi piace raccontarmi, ma visto che mi ha posto la domanda le dico subito che sono nato a Paestum, che ho
Lei ha raccolto l’impegnativa eredità di Luigi Bernabò Brea e, prima ancora, di Paolo Orsi, gli archeologi che hanno dato un volto nuovo alla preistoria del Mediterraneo e non solo. Quanto è stato condizionato il suo lavoro da queste figure a r c h e o 53
INCONTRI • GIUSEPPE VOZA
«Avvenne quello che molto spesso avviene nelle Soprintendenze per chi fa archeologia con la continua, quasi quotidiana attenzione alle scoperte fortuite o clandestine che siano. Per la Villa del Tellaro l’impegno fu particolarmente lungo e oneroso, per un duplice ordine di motivi. Il primo dipese dalla constatazione che, sul corpo centrale della villa, era stato costruito un caseggiato rurale di età sette-ottocentesca, le cui strutture si erano non solo sovrapposte a quelle antiche, ma in piú punti le avevano tranciate o brutalmente cancellate. La seconda grave difficoltà, ai fini dell’esplorazione vera e propria, riguardò la salvaguardia delle opere musive evidenziate sia, inizialmente, dallo scavo clandestino, sia dagli accertamenti eseguiti dalla Soprintendenza i quali dimostrarono che la villa romana, probabilmente nella seconda metà del V secolo d.C., era stata interamente distrutta da un disastroso incendio. Tutto ciò rese le operazioni di ricerca lunghe e complesse, non assistite, tra l’altro, da risorse puntuali e adeguate e ritardate dalle procedure giudiziarie a carico degli scavatori clandestini e da quelle espropriative. Ma questo che hanno anticipato la moderna concezione non ha impedito di condurre, in circa due decenni, una dell’archeologo e del museo? ricerca rigorosa e di realizzare un progetto di fruizione «Non si tratta assolutamente di condizionamento. basato sulla decisa volontà di evitare qualsiasi opera di Paolo Orsi e Luigi Bernabò Brea sono basilari e del musealizzazione dei mosaici della villa». tutto inevitabili per chiunque voglia occuparsi di archeologia e non solo, anche se oggi qualcuno, spinto da particolari esigenze di “riesami critici”, mostra una sorta di insofferenza, di avvertire come stanco e ripetitivo il riferimento ai due grandi maestri. Per quanto mi riguarda, posso serenamente dire di avere avuto per lunghi anni una sorta di “convivenza” culturale e di funzioni con Luigi Bernabò Brea, facendo la grande esperienza di “un’intesa” senza confini e senza tempo. Tutto ciò che ho potuto realizzare nella Sicilia Orientale è strettamente dovuto e ispirato all’insegnamento di Bernabò Brea». A sinistra: la copertina di una delle numerose pubblicazioni di Giuseppe Voza. In basso: Villa del Tellaro (Noto, Siracusa). Un mosaico pavimentale raffigurante l’episodio omerico del riscatto del corpo di Ettore, incluso entro un riquadro delimitato da fregi a motivi vegetali. IV sec. d.C.
Una mattina d’estate del 1971 le giunse una telefonata della Guardia di Finanza, che annunciava di aver interrotto uno scavo clandestino vicino a una masseria settecentesca nei pressi di Noto.Vuole raccontare ai lettori di «Archeo» che cosa successe dopo? 54 a r c h e o
Villa del Tellaro (Noto, Siracusa). Ancora un particolare della decorazione pavimentale a mosaico, raffigurante un leone. IV sec. d.C.
Qual è oggi il valore di quella scoperta? «C’è, prima di tutto, la soddisfazione di aver salvaguardato una testimonianza archeologica che arricchisce un territorio che continua a dare rilevanti contributi alla conoscenza dell’assetto della Sicilia antica, questa volta di età imperiale romana. La Villa del Tellaro è, con quella di Patti Marina (anch’essa sottratta miracolosamente alla distruzione per la costruzione delle pile dell’autostrada Messina-Palermo), il terzo principale punto di riferimento che ha consentito di dimostrare come i criteri costruttivi a cui esse si ispirarono e che le accomunarono, fanno fondatamente credere che simili residenze non compaiono nel IV secolo d.C. per caso o per il capriccio, per l’ozio di un imperatore, ma sono funzionali a una classe sociale, in rapporto a un fenomeno socio-economico ampio e complesso che riguarda tutta l’isola nel momento in cui è costante e progressiva la scomparsa della piccola e media proprietà per l’affermazione del latifondo. Ciò fu favorito da un lungo periodo di pace che fece dell’isola un’area privilegiata che incoraggiò l’interesse del patrimonio imperiale, ecclesiastico e dei grandi latifondisti.Vennero, cosí, realizzate, in punti strategici del territorio, dimore magnifiche, costruite con rilevante impegno architettonico e arricchite di splendide opere in mosaico, riconducibili a esperienze di maestranze dell’Africa Settentrionale».
Lei ha diretto la Soprintendenza di Siracusa tra il 1973 e il 2004 e, ad interim, anche quella di Ragusa dal 1991 al 1999. Quante volte si è dovuto scontrare con interessi politici, di sviluppo industriale o addirittura di malaffare per salvare e difendere il patrimonio culturale della Sicilia orientale? «Sempre, costantemente, a causa di un fenomeno che coscientemente o incoscientemente è molto diffuso e coinvolge larga parte del corpo sociale. Mi spiego. Un noto urbanista, il Bruno Gabrielli, redattore del Piano Regolatore Generale di Siracusa, ha affermato che “il giudizio di valore che i cittadini hanno delle aree archeologiche nasconde l’idea che esse rappresentino un ingombro, qualcosa di cui ci si vorrebbe liberare e che viene accettata come punizione della storia”. Se questa è l’opinione del comune cittadino, si pensi agli effetti dell’opinione di coloro che, per interessi di varia natura, hanno avuto e hanno modo di usare il territorio, ignorando i valori archeologici e paesaggistici di cui è dotato, valori che “ingesserebbero e musealizzerebbero ulteriormente le città” vanificando il coraggio di grandi gruppi imprenditoriali “benefattori” di Siracusa. La lotta è impari contro una posizione spesso sostenuta anche dalla stampa. Si sa cosa è avvenuto nel recente passato: tutta la parte nuova della città, tra Ortigia e la zona monumentale della Neapolis, ha praticamente travolto la città antica. Qui la ricerca archeologica non ha potuto salvare che pochi brani del tessuto antico, rincorrendo freneticamente scavi per nuove costruzioni, sottoservizi, fognature, linee elettriche e telefoniche. Non si è fatto altro per decenni che correre dietro a queste operazioni, “inseguendo continuamente attraverso le reliquie superstiti l’ombra dell’antica città”, per dirla con Gesualdo Bufalino. Non parliamo poi quando i danni al patrimonio culturale sono conseguenza della speculazione edilizia radicata e fisiologicamente estesa, ma anche del drammatico caso di progetti proposti da pubbliche amministrazioni! Cosí fu per un progetto che mi venne proposto qualche decennio fa da un ente regionale e che prevedeva la realizzazione, al centro del Porto a r c h e o 55
INCONTRI • GIUSEPPE VOZA
Grande di Siracusa, di un molo mostruoso, della lunghezza di piú di 1 km. Se approvato, quel progetto avrebbe completamente sfigurato l’aspetto della piú bella rada del Mediterraneo. Fu questo il motivo fondamentale per cui si provvide all’emissione di un decreto di vincolo su tutta l’area del Porto Grande. E che dire quando si presentò concretamente la prospettiva di estendere, con iniziative pubbliche e private, l’apparato urbano di Siracusa sul pianoro dell’Epipole, la vasta area triangolare unica di tutto il territorio urbano di Siracusa antica che conservi, dal V secolo a.C. a oggi, gli originali connotati fisici e lunghi tratti delle mura dionigiane, che culminano nel famoso complesso fortificatorio di castello Eurialo? Fu allora che ci prefiggemmo di salvaguardare integralmente tutta questa vasta area, con gli interventi di vincolo previsti dalla legge e con espropriazioni dei terreni che contenevano resti archeologici, per circa 1 500 000 mq di estensione. Le zone vincolate costituirono l’ossatura principale di quel fantomatico parco archeologico di Siracusa proposto alla Regione Siciliana già nel 2004, ma che non ha ancora visto la luce!
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Si è trattato di lotte lunghe, doverose, logoranti, spesso sostenute con la sensazione di combattere a vuoto. Eppure io credo in una “dinamica economica” che passa per la salvaguardia attiva del nostro patrimonio culturale, che può trasformare i beni protetti in un formidabile potenziale di sviluppo e di crescita. E credo fermamente alla possibilità di una convivenza fra patrimonio culturale e sviluppo. Approfitto ancora una volta delle parole di Gabrielli, il quale, a proposito del sempre istituendo parco archeologico di Siracusa, scrisse che “attraverso la realizzazione del parco si assicurano le condizioni di vita per l’intera città”»! Qual è lo stato attuale dell’archeologia siciliana e soprattutto di quella siracusana? «In grave crisi e non da adesso, ma da lunghi decenni. Nel lontano 1982, nel rendere conto dell’attività della Soprintendenza alle Antichità A sinistra: due esemplari di coppa in terracotta su alto piede tubolare. Età del Bronzo, cultura di Thapsos, XIII sec. a.C. Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi». Nella pagina accanto, in alto: l’area del sito di Thapsos in una foto scattata all’epoca degli scavi, con l’impianto industriale alle spalle dell’area indagata. Nella pagina accanto, in basso: il sito cosí come si presenta oggi.
della Sicilia Orientale, rilevavo come le carenze di personale, per numero e qualità, erano gravi, soprattutto di quello di custodia. Ricordavo che musei come quelli di Lipari, Naxos, Lentini, Siracusa sarebbero dovuti rimanere chiusi per insufficienza di personale. Cosí zone archeologiche come Pantalica, Thapsos e, in parte, Leontinoi, Akrai e Casmene, erano assolutamente sprovviste di turni di custodia. Lamentavo che i finanziamenti erano privi di coordinamento e di finalizzazione secondo una seria programmazione che, ieri come oggi, si impone per stabilire le reali priorità, senza dispersioni come per particolari iniziative, “eventi”, sagre, ecc., che sono rivoli robusti capaci di deviare le “acque” da quello che dovrebbe essere l’alveo naturale delle fonti di finanziamento. Per non parlare della grave mancanza di personale tecnico-scientifico, gestito – quello che c’è – secondo criteri non appropriati e certamente non corrispondenti, per la maggior parte, alle figure professionali che determinate funzioni richiederebbero. La situazione si è aggravata sempre di piú, perché si è realizzata una frantumazione delle istituzioni e delle funzioni che, fino a una determinata epoca, avevano una relazione con territori omogenei dal punto di vista culturale e amministrativo che consentiva una efficace linea programmatica e operativa. Oggi tra Soprintendenze, Musei, mega- e miniparchi, unità operative e poli regna sovrana la confusione nella gestione complessiva, che meriterebbe sempre piú attenzione, coordinamento, competenza e, naturalmente, risorse che sembrano sempre piú diventare un sogno. Questa “frantumazione” è sempre piú preda allettante della politica locale, della visione miope delle problematiche di fondo della valorizzazione e di un “uso sociale” dei beni culturali. Staremo a vedere, ma sono sempre piú pessimista». L’insediamento protostorico di Thapsos anticipò di almeno cinque secoli la fondazione delle piú antiche colonie greche in Italia. Fu lei a scavarlo negli anni Ottanta creando scalpore per l’eccezionalità della scoperta, che portò alla luce – sono sue parole – «la vera capitale della Sicilia e dell’intero Occidente Mediterraneo nell’età micenea». Perché oggi Thapsos è drammaticamente abban-
donata a se stessa nell’assoluta indifferenza di studiosi e forze politico-culturali. «L’operazione Thapsos è stata una delle piú impegnative della mia attività di archeologo. Fu un gravissimo problema di salvaguardia conseguente alla necessità di bloccare l’espansione di un impianto industriale che, già alla fine degli anni Cinquanta del secolo passato, si era impunemente impiantato su una parte di quell’istmo della penisoletta di Thapsos che Tucidide descrive puntualmente: “Thapsos è una penisola che si protende in mare con uno stretto istmo che dista poco dalla città di Siracusa”. La situazione descritta dallo storico greco nel V secolo a.C. era rimasta inalterata fino alla metà del secolo scorso. Solo per questo il sito avrebbe meritato, al di là delle scoperte archeologiche verificatesi successivamente, un adeguato tipo di salvaguardia storicoambientale. Eppure, negli anni Sessanta, si iniziarono i lavori di espansione dell’impianto industriale di cui ho detto che non produceva “integratori” di storia locale, ma bromuri estratti dalle acque marine antistanti alla zona dell’istmo. Informati del rinvenimento di materiali archeologici affiorati durante i lavori di costruzione degli impianti industriali, iniziò un’autentica battaglia fra chi si rese conto dell’importanza di quanto era stato portato alla luce (resti di capanne preistoriche della media età del Bronzo) e coloro che ne minimiza r c h e o 57
INCONTRI • GIUSEPPE VOZA
zavano l’importanza per realizzare le opere di ampliamento, con l’incredibile sostegno anche delle forze sindacali, che temevano che la mancata realizzazione dell’industria avrebbe fatto perdere posti di lavoro! Sarebbe lungo e penoso raccontare le vicende di questa battaglia, che alla fine ebbe un inatteso esito positivo. I lavori di scavo protrattisi per anni nell’area hanno portato all’identificazione di un autentica città preistorica, che, nel quartiere centrale, ha rivelato come questo sito, per la prima volta in Sicilia, fosse dotato di un impianto protourbano con complessi abitativi organizzati intorno a cortili aggregantisi lungo una strada principale intercettata da strade minori, dimostrando chiaramente l’applicazione di un criterio pianificatorio dell’area abitata dal XV al IX secolo a.C. con una successione di fasi mai prima documentata in stanziamenti della cultura di Thapsos. Questi ritrovamenti hanno fatto dire a Luigi Bernabò Brea che Thapsos si poteva definire la “capitale” della Sicilia nella media età del Bronzo. Non dico dei reperti mobili portati alla luce, soprattutto di quelli scoperti nelle tombe nei cui corredi, oltre a ceramiche di produzione locale sono state recuperate ceramiche di importazione micenea, cipriota e maltese rendendo, cosí, la prova che la penisola rappresentasse un emporio di prim’ordine nei traffici commerciali inter-mediterranei. Oggi, come lei dice, questo che rappresenta uno dei piú importanti stanziamenti preprotostorici della Sicilia e del Mediterraneo è “drammaticamente abbandonato”, obliterato da vegetazione spontanea, con intuibili gravi danni alle strutture murarie antiche costruite senza malta e soprattutto alle pavimentazioni di strade e ambienti abitativi. Lei mi chiede ancora come gli enti pubblici valorizzano oggi Thapsos. Ho appreso dalla stampa di progetti di riqualificazione del sito da lungo tempo annunciati e dell’istituzione di un collegamento marittimo fra Siracusa e il sito antico di Thapsos! Per vedere cosa?». Che cosa dobbiamo ancora imparare sul fronte della valorizzazione dei beni culturali? E da chi? «Dobbiamo imparare prima di tutto da noi stessi. La domanda che gli antichi Greci ponevano allo straniero era: chi ti vanti di essere? La tradizione, la storia, la discendenza era considerata un euchos, un vanto! Oggi abbiamo noi un’idea chiara della nostra identità, del tipo di storia, di vicende, di saperi, di tradizioni che sono alla base della nostra vita, e della loro immensa importanza per il nostro futuro? Diciamo tutti che abbiamo contribuito molto alla formazione del mondo civile di oggi, ma rileviamo quotidianamente gli atti di inciviltà che esprimiamo nei comuni modi di fare, il peso relativo o spesso mancato che diamo al rispetto di ciò che è comune, la manchevole considerazione di quello che denominiamo patrimonio culturale e am58 a r c h e o
bientale del Paese e non ricordiamo che l’uomo non può fare a meno della sua storia. Con Benedetto Croce, ripetiamo che l’uomo muore perché non può riattaccare il suo inizio alla sua fine, e che la storia non muore perché riattacca sempre la fine all’inizio. Se tutto questo non è seriamente riconsiderato, insegnato, adeguatamente seguito e perseguito, non c’è speranza. L’invito a guardarsi intorno, vicino o lontano che sia, serve relativamente se non si passa attraverso un processo di personale rigenerazione che deve essere sentita e seriamente pensata e proposta da parte di coloro che hanno la responsabilità della vita pubblica». Professor Voza, è importante che gli archeologi si dedichino anche alla divulgazione presso il grande pubblico? «Certamente. Per quanto mi riguarda, soprattutto per avere successo nella pericolosa lotta per la salvaguardia del patrimonio culturale, ho avuto bisogno di contatti e rapporti con l’opinione pubblica, con il “grande pubblico”, come lei dice, attraverso i tradizionali mezzi di comunicazione, cioè, stampa, radio, televisione, mostre, dibattiti ecc., ma soprattutto mostrando e cercando di far capire il significato e, se si vuole, il valore di un’attività considerata sovente come una mania pseudointellettuale. Le faccio solo due esempi. La piú impegnativa opera di ricerca che ho condotto a Siracusa, alla fine del secolo scorso, fu l’esplorazione della piazza del Duomo, epicentro di tutta la città dall’età della fondazione greca a oggi. L’operazione fu malvista e “maltrattata” da gran parte dei cittadini, dalla stampa e dalle pubbliche autorità. Il recinto del cantiere di scavo venne ribattezzato “mannera”, termi-
ne che in dialetto designa il recinto in cui si riunisce il gregge a fine giornata. Feci in modo di trasformare la mannera in un luogo di attrazione e comunicazione. Come? Dotando le pareti del recinto di finestre sulle zone sottoposte a scavo, esponendo sul cantiere quotidianamente i reperti che venivano alla luce, redigendo quotidianamente un rapporto sull’esito dei lavori e sul significato delle scoperte, rapporto affisso su un tableau leggibile all’estremità di una passerella latistante al cantiere che portava al punto piú alto per osservare tutta l’area sottoposta a esplorazione. Fu la piú efficace esperienza di comunicazione diretta e immediata di un lavoro in itinere. Secondo esempio. Quando ho realizzato il Museo «Paolo Orsi» di Siracusa, tre furono gli obiettivi fondamentali che mi proposi. Il primo era che le esposizioni potessero essere lo specchio delle ricerche archeologiche sul territorio di provenienza dei materiali esposti. Il risultato che si voleva ottenere era non solo quello di fare intendere il piú possibile il valore di materiali come Nella pagina accanto e in alto: Siracusa. Due immagini del cantiere per gli scavi archeologici in piazza Duomo. A sinistra: rilievo degli scavi archeologici in piazza Duomo che evidenzia le strutture emerse dalle indagini.
Siracusa. Uno scorcio di piazza Duomo e della facciata della cattedrale della Natività di Maria Santissima.
INCONTRI • GIUSEPPE VOZA Sulle due pagine: reperti esposti nel Museo «Paolo Orsi» di Siracusa. Da sinistra, in senso orario: pithoi, da Thapsos (XV sec. a.C.); korai, da Megara Hyblaea (VI sec. a.C.); la cosiddetta Venere landolina (II sec. d.C.); frammento di fregio raffigurante un leone che abbatte la preda.
“portatori di storia”, ma anche come tramite con il territorio di provenienza, come punto di riferimento per le finalità conoscitive. Il secondo obiettivo riguardava la modifica del rapporto tra materiali esposti e visitatori.Volevo che i materiali, soprattutto quelli importanti e famosi come statue, mosaici, pitture non fossero esposti su “altari” offerti in venerazione, ma a portata di occhio e di mano, senza barriere e senza “gerarchia” di carattere espositivo. Il terzo impegno, conseguente a quanto prima detto, fu quello di riesaminare tutti i materiali già prima esposti, cercando di ricomporre il piú possibile i contesti di ritrovamento e di esporli per intero, per far percepire, attraverso tutta la gamma dei reperti restituiti dalla terra, il modo di produrre, costruire, realizzare, creare in un determinato ambiente, per una determinata epoca senza distinzione fra pezzo bello e importane e oggetto comune. L’esempio piú riuscito e apprezzato fu l’esposizione dei materiali trovati nelle stratigrafie del sottosuolo di Ortigia, proposti in diverse vetrine e dando conto, con i materiali esposti dei resti lasciati nel “libro della terra” dalla pre-protostoria a oggi». Quale fu l’esito di tutta questa operazione? «Il piú facile a dirsi riguarda il numero dei visitatori che prima, nel Museo Nazionale di piazza del Duomo, mensilmente era di circa 800, mentre nel Museo “Paolo Orsi” raggiunse presto le 25-30mila unità. Ma la soddisfazione che piú ricordo mi fu data, dopo alcuni giorni dall’inaugurazione del museo, da un gruppo di comuni 60 a r c h e o
cittadini di Siracusa, che chiesero se esistesse la possibilità di sottoscrivere un “abbonamento al museo”»! Uno dei piú importanti musei archeologici europei, il «Paolo Orsi» di Siracusa, è una sua creatura: a distanza di trent’anni lo riprogetterebbe identico? Come giudica le tecniche di musealità virtuale e di realtà aumentata? «Come ho detto, i musei sono laboratori, corpi vivi, luoghi di sperimentazione, sia di tipo museologico che museografico. Soprattutto in Magna Grecia e in Sicilia, i musei archeologici sono o, meglio, dovrebbero essere specchio della ricerca sul terreno. Questo è uno dei principali motivi per cui aggiornamento dei materiali, criteri espositivi, di illuminazione, di offerta di “lettura” devono essere in continuo divenire soprattutto in relazione ai risultati delle nuove scoperte. Per quanto concerne, invece, le tecniche di “musealità virtuale” e di “realtà aumentate”, ho qualche riserva se non seguo male le piú recenti esperienze. Ho l’impressione che le “soluzioni integrate”, finalizzate alla fruizione e alla didattica – come le ricostruzioni virtuali, le tecnologie interattive, ecc. –, siano spesso “sovraccariche” di elementi visivi, sonori, e di contenuti che mi paiono standardizzati, e che superano, credo, la soglia del loro essere elementi ad adiuvandum nella fruizione, rischiando di distorcerne le finalità. A me sembra importante salvaguardare, nel momento della fruizione, quella discrezione di indicazioni “imposte” per privilegiare il rapporto “personale”, diretto fra visitatore e oggetto».
I fondi destinati ai beni culturali sono modesti e le soprintendenze sempre piú povere. È dunque meglio continuare a scavare o studiare e valorizzare ciò che è già nei magazzini? «Quella di scavare, per chi opera nelle soprintendenze, non è una scelta, ma un dovere da compiere quando c’è una scoperta fortuita, quando bisogna completare la conoscenza di un contesto antico che corre il pericolo di essere danneggiato o quando si ha in itinere una ricerca indispensabile non solo per motivi scientifici, ma anche per risolvere questioni di utilizzazione delle aree di riferimento per usi che potrebbero essere incompatibili con l’importanza delle scoperte. Sono naturalmente d’accordo sul fatto che vale sicuramente la pena di studiare e valorizzare quello che è depositato nei magazzini. Quanto alla “povertà” delle Soprintendenze, nulla da dire: è impensabile che non si provveda a mettere a dispo-
sizione risorse che, per lo meno al minimo, consentano di svolgere i compiti istituzionali per i quali le soprintendenze sono state create». È favorevole all’istituzione di un albo professionale degli archeologi? «Perché no? L’argomento è in discussione da diversi decenni, senza che nulla di concreto si sia fatto per vari tipi di problemi, soprattutto, credo, per stabilire le norme riguardanti le due grandi categorie interessate all’operazione e, cioè, gli interni all’Amministrazione dei beni culturali e i cosiddetti esterni, i precari, ecc. Ma certo la creazione dell’albo professionale non risolverebbe i problemi di fondo che riguardano, in generale, la crisi di gestione dei beni culturali del Paese. Ciò di cui si sente il bisogno urgente è di avere la possibilità di disporre di professionisti seri, preparati, reclutati secondo precise regole, senza o con raccomandazione, che provvedano e con urgenza a svolgere le funzioni discendenti dall’applicazione dell’art. 9 della Costituzione». Dopo sessant’anni di scavi, studi, convegni, lezioni, libri e incontri, che cosa le ha insegnato davvero questo mestiere e quanto questo insegnamento è stato importante nella sua vita? «Ho dedicato la mia vita al mondo dell’archeologia. Che cosa mi ha insegnato? Forse a scavare anche in me stesso, ma questo è uno scavo che non finisce mai, incalzato dalla pretesa di volerne sapere di piú». a r c h e o 61
ITINERARI • PENISOLA CALCIDICA
SULLE TRACCE DI
ARISTOTELE
Le prime luci dell’alba rischiarano l’inconfondibile sagoma del Monte Athos, vista da Sarti, località che lo fronteggia sulla costa orientale di Sithonia, il «dito» centrale della Penisola Calcidica. Nella pagina accanto: particolare di un monumento in onore di Aristotele innalzato all’Università di Salonicco.
DUEMILAQUATTROCENTO ANNI FA, A STAGIRA, IN CALCIDICA, NACQUE ARISTOTELE, UNO DEGLI INGEGNI CHE HANNO FORGIATO LA CULTURA UNIVERSALE. POCO PIÚ CHE QUARANTENNE, IL FILOSOFO FU CHIAMATO ALLA CORTE DI MACEDONIA PER EDUCARE IL FUTURO ALESSANDRO MAGNO: RICALCANDO QUEL VIAGGIO, VI PROPONIAMO UN ITINERARIO ALLA SCOPERTA DEL RICCO PATRIMONIO ARCHEOLOGICO CHE SI CONSERVA NELLA TERRA DELLE «TRE DITA»
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hissà se aveva previsto che sarebbe andata a finire cosí, in un giorno d’inizio primavera dell’anno 322 a.C. in quel di Calcide, terra dei suoi avi materni, mitici fondatori delle città calcidiche. Lui che era stato allievo di Platone e che aveva istituito il Liceo di Atene, l’uomo «logico» che ancora oggi è uno dei pilastri del pensiero occidentale. Aristotele era nato nel 384 a.C. a Stagira, cittadina appollaiata su un promontorio lambito dal cristallino mare del Golfo Strimonico. Era figlio di Nicomaco, medico del re Aminta III di di Carlo Casi Macedonia, e proprio dal vil-
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laggio calcidico prese inizio il movimentato viaggio che lo vide dapprima giungere a Pella, al seguito del padre, e poi, alla precoce morte di quest’ultimo, ad Atarneo per raggiungere il suo tutore Prosseno. Questi lo mandò nel luogo destinato a diventare il piú importante per la sua formazione, l’Accademia, fondata vent’anni prima da Platone ad Atene. Aristotele aveva 17 anni e cominciò la sua vita da «meteco» (straniero), che culminò con la cacciata dalla città di Pericle, nel 323 a.C., alla morte del suo piú illustre allievo, Alessandro Magno. Ma già nel 347 a.C.,
alla morte di Platone, aveva deciso di riparare nuovamente ad Atarneo, dove l’allora tiranno Ermia gli diede in moglie una nipote, Pizia. Insieme ad altri ex allievi dell’Accademia, fondò poi una scuola platonica ad Assos. Da qui si spostò a Mitilene, sull’isola di Lesbo, dando vita a un’altra accademia, ispirata ai canoni platonici. E poi, nel 342 a.C., la grande chiamata, quella di Filippo II, nuovo re di Macedonia, che lo volle come precettore di suo figlio a r c h e o 63
ITINERARI • PENISOLA CALCIDICA
Alessandro e solo dopo che «il piú grande» fu nominato re a sua volta, nel 336 a.C., ritornò ad Atene, fondando una sua scuola, il Liceo, dal nome del vicino tempio dedicato ad Apollo Licio. Qui gli insegnanti vennero soprannominati «peripatetici», in quanto avevano l’abitudine di tenere le proprie lezioni passeggiando nel Peripato, il passaggio coperto del Liceo e finirono col mettere seriamente in dubbio, per ben dodici anni, il primato culturale che l’Accademia aveva avuto sino ad allora ad Atene. Poi, nel 323 a.C., alla morte di Alessandro, in città andò sempre piú riemergendo il mai sopito odio verso la Macedonia, che costrinse anche Aristotele a ritirarsi prudentemente 64 a r c h e o
nella tenuta di famiglia in Eubea, dove morí l’anno dopo all’età di sessantadue anni.
IL FILOSOFO E IL CONDOTTIERO Il piú grande dei filosofi e il piú grande dei condottieri: uno maestro e l’altro allievo. Il loro incontro ha segnato la storia del loro tempo, ma ha anche influenzato la cultura occidentale sino a oggi. Intellettuale a tutto tondo, Aristotele spicca nella storia del pensiero greco quale mente capace di affrontare tutti i rami del sapere. Eseguí studi sulla «fisica», la natura, che comprendevano la biologia e la psicologia, si occupò di metafisica, di etica e di politica, e, ancora, studiò la poetica, la retorica; mise comunque alla base di ogni sapere la logica, supportata dal sillogismo, che è for-
se la piú importante conquista del pensiero aristotelico. D’altro canto, di Alessandro resta il mito indiscusso del grande conquistatore che ha dominato per secoli l’immaginario collettivo quale principe-filosofo, imbattibile sul campo di battaglia e nella politica di integrazione fra i popoli, nel rispetto delle rispettive culture e tradizioni. Ma quale fu il rapporto tra Aristotele e Alessandro? Che cosa successe in quei tre anni nel palazzetto del Ninfeo di Mieza, vicino Pella, dove Filippo «segregò» i due insieme ad altri giovani compagni?
dedicato, nel quale ne vengono esaltate la memoria e la virtú eroica. Purtroppo non abbiamo notizie dirette del rapporto tra i due e anche l’unica opera dedicata al futuro conquistatore, Sulla monarchia, non è mai arrivata a noi. Nelle Vite Parallele, Plutarco racconta che il giovane principe si dimostrò un allievo cosí brillante da essere iniziato alle segrete dottrine acroamatiche. E chissà se, come raccontano alcune fonti tarde, Alessandro sentí davvero il bisogno di scrivere dall’Oriente al suo vecchio precettore sulle meraviglie incontrate in India?
LA SCELTA DI FILIPPO All’epoca dei fatti, nel 343 a.C., Alessandro aveva appena tredici anni e Aristotele quarantuno, quando il re della Macedonia, da poco vincitore sulla lega ellenica a Cheronea, nel 338 a.C., e quindi padrone assoluto della Grecia, chiamò lo Stagirita. Aristotele non era ancora all’apice della fama, ma Filippo, che per suo figlio desiderava una formazione esemplare, basata sulla cultura greca, forse per la conoscenza personale e perché anch’egli macedone, lo preferí a tutti gli altri possibili precettori. Probabilmente, a favorire Aristotele fu anche l’amicizia con Ermia, del quale era diventato anche parente stretto, visto il suo ruolo di informatore e alleato dei Macedoni sul confine dell’impero persiano. Cosa questa che purtroppo non giovò al tiranno di Atarneo e Asso, il quale dovette subire la vendetta di Artaserse III, che lo torturò atrocemente e lo crocefisse. E magra dovette essere la consolazione dei parenti quando lessero il seppur splendido Alla virtú, unico grande poema scritto da Aristotele e a lui
Nella pagina accanto, in alto: cartina dell’impero di Alessandro Magno. Nella pagina accanto, in basso: testa di Alessandro Magno, da Pergamo. Marmo. II sec. a.C. Istanbul, Museo Archeologico. In basso: ritratto di Aristotele, copia romana di età imperiale (I-II sec. d.C.) di un originale greco del IV sec. a.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum.
Di certo sappiamo che quando partí da Anfipoli alla volta dell’Asia, dopo essersi raccomandato alle divinità nel santuario di Dion, portò con sé scienziati e studiosi. E dalle lontane regioni conquistate inviò, per diverso tempo, ai filosofi del Liceo, piante e animali «strani», cosicché potessero essere da loro studiati.
UN POEMA È PER SEMPRE L’impronta di Aristotele sembra cosí evidente e traspare nettamente anche dall’interesse di Alessandro per la medicina e la geografia. Ma anche la sua eroica ossessione nei confronti del «pelide Achille» fu sicuramente indotta dall’amore insegnatogli dal grande filosofo per l’Iliade; esemplificativo è l’aneddoto nel quale Alessandro usa una preziosa urna saccheggiata al re persiano Dario per conservare il papiro del testo omerico che lo seguí per tutta la vita e che da quel momento prese il nome di «Iliade della cassetta». Da lui, però, certamente non apprese la brama di conquista e la voglia innata di scoperta, la chiara e indistruttibile fame di avventura e il desiderio di innovazione. Aristotele immaginava il ruolo del re in maniera molto diversa, come ben si evince nella Politica, ancorato a una visione conservatrice legata ancora alla centralità della polis greca. Alessandro disattese completamente al suggerimento di trattare i Greci come i suoi familiari e i barbari come schiavi, dal momento che per i primi era la guida e per i secondi avrebbe dovuto essere un monarca assoluto. Come sappiamo, preferí invece trattare tutti alla pari, superando di getto provenienza e tradizione, dimostrando di avere la capacità di porsi a capo di un impero vastissimo, quale quello che stava costruendo quando fu colto da morte prematura. a r c h e o 65
ITINERARI • PENISOLA CALCIDICA
IL MARE DENTRO
macedone, deve il suo nome ad arcaici fondatori partiti dalla città di Calcide, in Eubea. La scura piramide del Monte Athos (2033 m slm) si erge prepotentemente da quel mare tumultuoso che si insinua fra le tre sporgenti dita, arrivando a lambire il cuore interno della regione. Un mare che non entra solo tra le rocce verdeggianti e ripide, ma anche, e soprattutto, nei costumi e nell’animo della gente. Le frastagliate coste sono infatti tappezzate di insediamenti, a volte minuscoli, che spesso si sovrappongono a piú vetuste presenze, con l’unica grande eccezione rappresentata dal territorio amministrato dalla Repubblica Teocratica del Monte Sacro (o Athos). La visita ai suoi celebri monasteri
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he cosa avrà visto Aristotele attraversando la sua Penisola Calcidica per raggiungere Pella? In queste pagine, vi proponiamo un itinerario «aristotelico», alla scoperta delle realtà archeologiche presenti in un mondo in larga parte incontaminato e praticamente identico a quello del IV secolo a.C. La Penisola Calcidica è un fantastico gioco di scatole cinesi, dove il mare si alterna d’improvviso alla terra e dove la storia s’incrocia con il mito. Antico e privilegiato molo
In basso: cartina della Penisola Calcidica con, in evidenza, i luoghi principali. Nella pagina accanto: Stagira. Resti di una casa ellenistica disposta sul pendio ad est della collina sud. Lo stesso Aristotele potrebbe essere nato in una struttura simile a questa. Nigrit Nig r ta rit a
Kav K av a vala ala a la a
Maced Ma do o ni nia Asprovalt Asp alta
Laa o di Ko Lag L orro oro r nei n a ne
Laag Lag ago Volv lvi lv
Sal S Sa a oni on n cco co o
Golfo Gol f Strimonico
Olympiada (Stagira) Arnea Arn ea a
Str Str St ttrat rat ato a ton ni Pa Pal alleo a eo eoc occhor hori oi
Anthemous Ne ea e aK Ka ali lik iikkrat ra attia a ia
C a llc Ca c id ic i ca a
errakiin e nii Olinthos Ger Flogit Flo git gita ita it Nea ea Mo M uda udaniu niu iua iu Golfo Termaico
Potidea
Ka assan san ndri d a Siv virri Fo ourk ka
A os Afit Afi Sarrtii
Kallithea
Ke elifo i s P ic Pol ich hron rono
Mende
Sykia
Pef P Pe efkoc k hori
Pal Pa Pal a iiou ouri Agia Agi a Para Paraske ske k vii
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Our O urano u anoupo oupo up pollii
Ammouliani
P ko Psa kkou oudia a Agios s Niiikkiti Nik iitti ti Mam amas as Orm Or O mos Pa Panagias Met etamo amorfo rfossi ssi Vou V Vo ourv o rvo vou uro ou
Sani
Possidi
Akanthos Py P Pyr yr yrg rg ga gad ad adiki ikkia
Toroni
Kar K arie a ies Daf affnii Mon M onte o te Atth At hos s
GLI ANNI DI ARISTOTELE 384 a.C. A ristotele nasce a Stagira, polis della Calcidica, da una facoltosa famiglia. È figlio di Nicomaco, medico e amico del re macedone Aminta. Il futuro filosofo viene educato da Prosseno di Atarneo. 367 a.C. A diciassette anni Aristotele viene mandato ad Atene per studiare all’Accademia fondata da Platone e vi rimane vent’anni. 347 a.C. D opo la morte di Platone, Aristotele si imbarca alla volta dell’Asia Minore. Giunge ad Asso, dove è ospite del suo amico e governatore Ermia. Qui conosce e sposa Pizia (parente di Ermia) che gli dà due figli. 345 a.C. I l filosofo si trasferisce nell’isola di Lesbo e nella piccola città di Pirra sviluppa gran parte delle sue ricerche filosofiche e soprattutto zoologiche. 343 a.C. A ristotele torna in Macedonia e viene scelto dal re Filippo per educare il figlio Alessandro. 336 a.C. A lessandro sale al trono dopo l’uccisione del padre. 335 a.C. A ristotele rientra ad Atene e fonda il Liceo (che guiderà fino al 322 a.C.). 323 a.C. M orte di Alessandro Magno. 322 a.C. A ristotele si trasferisce a Calcide (Eubea), forse per sfuggire all’odio antimacedone divampato ad Atene dopo la morte di Alessandro. Qui muore, forse per malattia o per aver bevuto del veleno.
MULINELLI, STRUMENTI MUSICALI E UN TELEFONO ANTE LITTERAM A pochi chilometri dalla città natale di Aristotele, sorge la piú moderna Nea Stagira, circondata da foreste lussureggianti. Fondato in epoca bizantina, il borgo prese il nome di Siderokafsia (altoforno), per via della sua importante funzione metallurgica. Qui ha trovato spazio un parco tematico dedicato al grande filosofo, nel quale sono riproposti in maniera interattiva alcuni strumenti realizzati seguendo le indicazioni tratte dalla sua Fisica. E cosí, tra bussole, prismi e telescopi, riprendono vita le intuizioni e le invenzioni di Aristotele, che sembra guardare divertito gli incuriositi visitatori dall’alto della sua statua (moderna) che domina il parco. Quest’ultimo si sviluppa in lunghezza per alcune centinaia di metri su di un prato nel quale sono poste le strumentazioni aristoteliche. Il percorso comincia con un cilindro trasparente, nel quale, agitando l’acqua che vi è contenuta, grazie a un’apposita manovella, si genera un gorgo simile a quello dei venti permettendo cosí la
comprensione del principio dei motori a turbina idraulica. Una serie di dischi ottici che muovendosi sembrano emergere dal pannello circolare creando un effetto 3D, sono alloggiati subito dopo, mentre, poco distanti, si trovano gli specchi parabolici, prodromi del telefono senza fili: se due persone si mettono di fronte ad altrettanti specchi ben distanziati tra loro, possono facilmente comunicare, pur parlando a bassa voce, grazie alla riflessione delle onde sonore. E ancora, un pendolo ricorda che l’energia dell’ampiezza di oscillazione aumenta progressivamente, mentre un pentafono composto da cinque grandi pezzi di granito – ciascuno dei quali, se battuto, produce una nota diversa – ci riporta alla scala musicale pentatonica. Si prosegue cosí alla riscoperta di fenomeni fisici naturali sino al bordo della collina, dal quale si gode un panorama che spazia sino al mare e, grazie all’ausilio di alcuni telescopi, lo sguardo può raggiungere i monasteri del Monte Athos.
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ITINERARI • PENISOLA CALCIDICA
FESTE, GARE (E FIORI) PER IL PIÚ CELEBRE FRA GLI STAGIRITI Nel 1996, ricerche condotte nell’area della città di Stagira portano all’individuazione di una struttura muraria, abbellita da un pavimento in marmo lacunoso presso quello che potrebbe sembrare l’imposto per la base di un altare (1,30 x 1,70 m) e prossima a una struttura ad arco del periodo ellenistico. La costruzione semicircolare è stata individuata fra il tempio arcaico di Zeus e Atena (VI secolo a.C.) e la galleria del V secolo a.C., e il suo arco, di quasi 10 m, avvolge una torre bizantina a pianta quadrata. Gli archeologi greci che indagano il sito interpretano la struttura come un edificio pubblico a uso funerario, caratterizzato da un tetto di tegole in ceramica, forse opera dei vasai reali. Vi si poteva accedere grazie a un’ampia strada pavimentata, mentre la datazione al tempo di Alessandro Magno è comprovata dal ritrovamento di ceramiche e monete del periodo. Ma, se si tratta di una tomba, chi può essere il personaggio di cosí grande caratura pubblica per gli abitanti di Stagira da essere stato sepolto lí dentro? Per l’archeologo Costas Sismanides e la sua équipe ci sono pochi dubbi: quella struttura in pietra a forma di ferro di cavallo
bizantini è consentita solamente per motivi di studio o religiosi e per pochi giorni; alle donne, ancora oggi, è interdetto l’accesso. Ma l’alone mistico che circonda il monte ormai da piú di mille anni si percepisce facilmente anche dal ponte dei numerosi battelli che quotidianamente ne inseguono il profilo. Risale infatti al 963 la fondazione da parte di sant’Atanasio della prima comunità (lavra) nel luogo in cui oggi sorge il monastero della Gran68 a r c h e o
custodiva le ceneri di Aristotele, che sarebbero state riportate dai suoi concittadini nella terra d’origine. Un vero e proprio monumento commemorativo, in cui gli Stagiriti avrebbero onorato il loro piú grande figlio. Alcune fonti, come il manoscritto n. 257 della Biblioteca Marciana e una biografia di Aristotele in arabo, sembrerebbero confermare che il popolo di Stagira fosse riuscito a traslare i resti di Aristotele, contenuti in una hydria di bronzo, dopo la sua morte, avvenuta in Calcide nel 322 a.C., e a seppellirli definitivamente in una tomba
realizzata all’interno della loro cittadina. Accanto a essa avrebbero innalzato un altare in un punto poi chiamato Aristoteleion, che sarebbe diventato il loro luogo di riunione. In suo onore avrebbero anche istituito grandi feste e gare, chiamate Aristoteleia. Purtroppo non esistono dati certi per attribuire una funzione sepolcrale/sacrale alla struttura. Di sicuro, però, l’emozione per il grande filosofo è ancora viva a Stagira, tanto che alcuni romantici visitatori portano fiori freschi su quella che per loro è senza dubbio la Tomba di Aristotele.
de Lavra, e solo 9 anni piú tardi thonía al centro e Athos a est. La sua venne emanata la prima costituzio- visita non può che cominciare da Stagira, nell’alta costa orientale. ne teocratica. Meta straordinariamente evocativa per aver dato i natali ad Aristotele LE TRE DITA La Penisola Calcidica si estende a (384 a.C.) e, secondo le ultime risud-est di Salonicco, tra i golfi Ter- cerche, forse anche il suo luogo di maico e Strimonico, a sud dei laghi sepoltura, essa presenta comunque di Koroneia e Volvi, ed è dominata una lunga storia, che comincia già dai monti Chortiatis e Cholomon, alla metà del VII secolo a.C. quando indicati nell’antichità con il nome venne fondata da coloni provenienKissòs, con tre punte che formano ti dall’isola di Andros. un tridente: Kassandra a ovest, Si- Prima distrutta e poi ricostruita in
onore del grande filosofo da Filippo II, Stagira sorge in posizione arroccata, nella Penisola di Liotopi. Gli scavi hanno messo in luce alcuni edifici e varie porzioni dell’imponente cinta muraria, rendendo la visita, insieme alla posizione quasi a strapiombo sul mare, particolarmente suggestiva. La cinta muraria, eretta intorno al 500 a.C. e lunga 2 km circa, risulta ancora oggi un eccezionale esempio di architettura difensiva: spessa 2 m e ben conservata, presenta, nella porzione sud, grandi torri, a base circolare o quadrata, collocate a intervalli regolari.
Akanthos, necropoli. Una tomba a inumazione a fossa, con il corredo ancora in posto del quale sono riconoscibili un’anforetta a figure rosse, un piattello acromo ed alcuni frammenti di ceramica. V-IV sec. a.C.
MURA E TORRI Altre mura di fortificazione costruite da Filippo II dopo il 349 a.C. si trovano sul lato nord-orientale della collina nord. Tracce di opere difensive bizantine, sovrapposte a mura del VI secolo a.C., si ritrovano sulla collina nord, sulla quale si staglia una grande torre a pianta quadrata, che interrompe a metà i circa 250 m di lunghezza delle mura che si sviluppano in linea retta, da mare a mare. Altre opere murarie difensive bizantine sono state rinvenute nell’ampia area piatta in cima alla collina settentrionale, dove spicca una torre vicina a una profonda cisterna. L’acropoli invece, che occupa il pianoro in cima alla collina sud, è a pianta triangolare e il suo lato sud coincide con la fortificazione classica, mentre la stoa dello stesso perioA sinistra: Akanthos. Resti di un edificio con colonne ed altare, emersi nel corso di recenti scavi condotti dalla XVI Soprintendenza alle Antichità Preistoriche e Classiche. La città si estende su cinque colline raggiungendo un’estensione supposta di 560 ettari. Già frequentata durante l’antica età del Bronzo resta sicuramente in vita almeno a tutto il periodo bizantino come ben dimostrato dalla chiesa di Nostra Signora.
do – un edificio pubblico al centro della città che misura 6 x 26 m e dove gli abitanti di Stagira si riunivano per i dibattiti pubblici – è sita alla base della collina. Tutti i luoghi di culto (oltre alla presunta Tomba di Aristotele; vedi box alla pagina precedente) sono riferibili alla fase arcaica del VI secolo a. C.: parte di un grande tempio si trova sulla cima della collina nord; un santuario dedicato a una divinità femminile è posto sul bordo a r c h e o 69
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nord-est della collina nord. A poca distanza, a sud-est del santuario, è stato scavato un edificio circolare dello stesso periodo che si suppone fosse un Thesmophorion dedicato alla dea Demetra. Abbandonata Stagira, in direzione sud, verso l’onnipresente Monte Athos, incontriamo il moderno centro di Ierissos, sviluppatosi
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sull’area della necropoli dell’antica città di Akanthos. Dall’alto di un’ondulata collina, essa domina l’area funeraria, disposta su uno dei pochi tratti di costa bassa e sabbiosa e interrotta, a sud, da un allungato promontorio roccioso, che raggiunge ripidamente il mare. Nel piccolo golfo si è impiantato l’odierno porticciolo, principalmente a servizio dei pescatori locali. Fondata anch’essa da coloni provenienti da Andros nel VII secolo a.C., Akanthos assunse una certa
importanza nella regione. Molti scrittori antichi la citano – Erodoto, Tucidide, Senofonte, Plutarco, Strabone, Diodoro – e ne raccontano dell’avvenuta sottomissione ai Persiani, prima grazie a Mardonio e poi a Serse, che la scelse come base per lo scavo dell’omonimo canale. Successivamente, nel 424 a.C., durante la guerra del Peloponneso, la città si arrese allo spartano Brasida e la sua indipendenza fu poi garantita da Sparta e da Atene con la pace di Nicia nel 421 a.C.Venne in Sulle due pagine: Stagira. La stoà (portico), che misura 6 x 49 m. Posta all’interno dell’agorà (la piazza principale della città, a Stagira localizzata tra due colline) e prossima a negozi e magazzini pubblici, presenta uno dei lati lunghi aperto e colonnato.
seguito incorporata dal regno di Macedonia e, nel 200 a.C., durante la seconda guerra macedonica, fu saccheggiata dai Romani.
UN MUSEO ALL’APERTO Lo scavo sistematico della necropoli, che si estende per piú di 60 ettari, ha consentito il recupero di oltre 13 000 tombe, databili tra il VII secolo a.C. e l’epoca romana imperiale; sicuramente d’effetto è il recente allestimento, quale museo all’aperto, di una piccola ma significativa porzione del sepolcreto. Un guscio di metallo e vetro protegge le 163 tombe presenti, eccezionalmente esposte in situ con i preziosi corredi. Dalle comuni tombe a fossa, scavate nel bancone sabbioso e che presentano le tracce di scomparse casse lignee, alle meno diffuse sepolture entro vaso (anfore e
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Stagira. Una delle torri facenti parte del circuito di mura realizzato in epoca bizantina.
hydriae per i bambini e grandi pithoi per gli adulti); e ancora, i molto piú rari sarcofagi in terracotta, a volte dipinti, e le piú tarde tombe a cista litica risalenti al periodo romano. Sono segnalate anche alcune incinerazioni, in vaso, ma piú spesso direttamente a terra, in pozzetti rivestiti di mattoni crudi. Preziosi vasi, gioielli, statuine, monete e altri reperti accompagnano i defunti nella posizione originaria in cui sono stati rinvenuti, colmando la visita di antiche suggestioni. A pochissima distanza, in prossimità di Nea Roda e in direzione di
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Tripiti, è ancora facilmente riconoscibile a occhio nudo la depressione del cosiddetto Canale di Serse, opera di ingegneria militare persiana descritta da Erodoto e confermata da recenti studi, che, probabilmente, permise nel 480 a.C. la navigazione della flotta persiana, evitando le insidie del pericoloso periplo del promontorio di Athos che avevano precedentemente causato il disastroso naufragio della spedizione guidata dal generale Mardonio nel 492 a.C. Comunque, già allo stesso Erodoto dovette sembrare sproporzionata
l’idea di tagliare l’istmo piú orientale per consentire il passaggio in sicurezza delle navi, tanto che attribuí il fatto alla smisurata mania di grandezza del re persiano. Forse l’ipotesi piú credibile è quella che vede, come nel caso del ponte di barche sull’Ellesponto, il tentativo di Serse di attuare una sorta di guerra psicologica preparatoria all’invasione della Grecia. Continuando in direzione di Ouranoupolis, ultimo porto prima del confine con il Monte Athos, si apre la splendida baia dominata dall’elegante Isola di Ammouliani (vedi
Ouranopolis, Monastero di Zygou. Una delle decorazioni pavimentali in marmo policromo. La prima notizia della località risale a un documento del 942, mentre il monastero viene fondato nel 991 e dedicato al Profeta Elia. Nel 1206 diventa fortezza franca e raggiunge un’estensione di 5500 mq, comprendendo ben 11 torri.
box in questa pagina) e dai suoi isolotti satellite. A Ouranoupolis, proprio in prossimità dell’imbarco, fa bella mostra di sé una torre bizantina perfettamente conservata, costruita nel XII secolo e conosciuta anche con il nome di Phosphori.
DA MONASTERO A FORTEZZA Superata la cittadina, si segue la costa sino alla frontiera con la Repubblica Teocratica e proprio qui è possibile visitare il Monastero di Zygou, recentemente restaurato. Fondato prima del Mille e dedicato al profeta Elia, venne trasformato nel 1206 in una fortezza franca. Tornati a Ierissos, ci lasciamo alle spalle la penisola del Monte Athos per quella di Sithonia, dirigendoci
quasi sulla punta, in località Toroni. Qui gli scavi iniziati nel 1975 sullo splendido promontorio poggiato su di una lingua di spiaggia bianca hanno messo in evidenza una frequentazione che ha inizio almeno a partire dall’antica età del Bronzo. Una grande necropoli a incinerazione, in uso tra l’XI e il IX secolo a.C., e strutture murarie di età classica ed ellenistica, bizantina e post-bizantina sono appunto la prova della lunga vita del sito. Nel piccolo e suggestivo promontorio di Lekythe, al di sotto di strutture post-bizantine, sono stati individuati i resti di un abitato dell’antica età del Bronzo. Alle spalle di Toroni, sulla sommità del monte Koukkos, si segnala lo scavo, iniziato nel 1987, dell’antica città di Sykia e della relativa necropoli. I muri delle case erano costruiti in pietra fino all’altezza di 1 m. Il muro di cinta raggiunge invece lo spessore di 1,5 m circa, mentre l’altezza doveva in origine aggirarsi intorno ai 2 m. Caratterizzata dal rito dell’incinerazione, la necropoli, databile tra il X e l’VIII secolo a.C., annovera tombe a cista e grandi pithoi che contenevano numerose urne funerarie e ricchi corredi. Lasciando la penisola di Sithonia, in
L’ISOLA DEI GABBIANI La piccola e verde Ammouliani, fronteggia l’imponente profilo del Monte Athos, dal quale è separata da uno stretto quanto a volte irrequieto braccio di mare, punteggiato da alcune isolette disabitate (Isole dell’Asino o Drenia). L’estrema vicinanza alla Repubblica Teocratica del Monte Sacro ne ha caratterizzato la storia di immota tranquillità, movimentata solo dall’isolato popolamento di pochi monaci disobbedienti o peccatori, provenienti dal monastero di Vatopedi, proprietario di Ammouliani sino al 1925, anno in cui cedette ai profughi dell’Asia Minore questa minuscola terra emersa. Tracce di quel momento sono tangibili nel Museo del Folklore, allestito in un edifico in pietra del 1907, dove – fra abiti tradizionali, strumenti e cimeli – la popolazione locale rievoca con feste e originali rappresentazioni la sua esotica identità culturale. Spiagge bianche e isolate circondano l’isola straripante di fitta macchia mediterranea che si aggrappa alle assolate scogliere, regno incontrastato di numerose colonie di gabbiani reali. Sulle due pagine: una delle piccole isole dell’arcipelago di Drenia del quale fa parte anche quella di Ammouliani, l’unica abitata e collegata alla terraferma da un servizio continuo di traghetti.
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FIGLIO DI AMMONE
S
orprendendo tutti, Alessandro Magno, dopo la conquista di Tiro, non attaccò Dario, impedendogli cosí di riorganizzare l’esercito, ma deviò verso l’Egitto. Qui venne accolto come un liberatore e addirittura incoronato faraone a Menfi. Sino ad allora i mercanti greci venivano appena tollerati, a beneficio di quelli fenici, i quali, grazie alla protezione persiana, detenevano il monopolio dei traffici. La sostituzione quale grande porto sul Mediterraneo di Naucrati con la nuova città di Alessandria – fondata nel gennaio del 331 in un luogo apparentemente inospitale, alla foce del braccio occidentale del delta del Nilo e su un sottile tombolo terroso tra il mare e la palude Mareotide – e l’apertura dell’Egitto ai Greci furono cosa unica e immediata. Il mai sopito odio degli Egiziani nei confronti dei Persiani, non tanto per i 700 talenti di tasse annuali che venivano versati al Gran Re, ma per l’assoluta mancanza di attenzione e rispetto alle loro divinità, sfociò e prese corpo grazie ad Alessandro. Questi, invece, profondo conoscitore degli usi locali, arrivando in Egitto, per prima cosa rese omaggio al Toro
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Api, dopodiché si diresse verso l’oracolo di Ammone, che sorgeva nel deserto Libico, presso l’attuale oasi di Siwa. L’oracolo riceveva visitatori e offerte fin dall’antichità ed era degnato dai Greci di una considerazione quasi a pari a quella riservata a Delfi. Ammone era originariamente un dio tebano delle forze riproduttive, rappresentato come un ariete, (dall’egizio, Amòn, «nascosto»), la sua sposa Mut («la madre») e il loro figlio, il dio lunare Khonsu («attraversare il cielo»), formavano la triade divina di Tebe. Ammone venne in seguito identificato con la divinità solare Ra di Eliopoli, ed era conosciuto come Amon-Ra, «il padre degli dèi, colui che creò gli uomini e diede vita agli animali, il signore di tutte le cose». Il piú imponente di tutti i templi egiziani in suo onore fu costruito a Karnak. Ammone era però venerato nella colonia greca di Cirene, dove veniva identificato con Zeus e successivamente a Roma, dove fu associato a Giove. E chissà se Alessandro partendo da Paretonio, sulla costa libica, si perse davvero nel deserto rischiando di morire e salvandosi solo grazie al provvidenziale intervento di Ammone, che gli inviò dapprima una pioggia abbondante e poi due corvi a indicare la giusta via. Giunto finalmente presso l’oracolo, fu salutato come un figlio e ricevette alcune segrete rivelazioni sulla sua nascita e il suo destino. Per gli Egizi, il faraone era un’incarnazione di Horo e quindi figlio di Ammone, ed era egli stesso venerato come dio dal popolo. La studiata conferma da parte di un santuario cosí importante del
ruolo divino di Alessandro rafforzò l’autorità del sovrano macedone nei confronti di un popolo a lui totalmente estraneo e sul quale voleva trovare un altro modo di governare, che non seguisse il diritto di conquista. Inoltre, cosa non secondaria, l’identificazione fatta dai Greci tra Zeus e Ammone implicava che Alessandro fosse anche figlio di Zeus. Il Macedone, infatti, dette ampia diffusione a questo viaggio tramite la circostanziata descrizione che ne fece il filosofo Callistene, creando di fatto un eroico confronto con i pellegrinaggi al tempio di altri figli di Zeus, come Eracle e Perseo, e incoraggiando cosí anche gli stessi Greci a considerarlo figlio del dio.
Kallithea. I resti del tempio dorico di Zeus Ammone. Seconda metà del IV sec. a.C. Il tempio venne realizzato nella prima metà del IV sec. a.C., vicino al santuario di Dioniso (VIII sec. a.C.), forse in ricordo dell’assedio dello spartano Lisandro. Solo piccole parti degli edifici di questa fase sono sopravvissuti. Nella seconda metà dello stesso secolo, dopo l’incorporazione della Calcidica nel regno macedone, fu costruito l’imponente tempio dorico e, a est di esso, furono realizzate due file parallele di basi monumentali, di chiaro influsso egiziano, che dovevano sostenere preziose sculture.
direzione di Kassandra, appena superato l’istmo si entra nella fertile pianura di Vassilika. Già frequentata nel Neolitico Medio, è punteggiata da numerosi monticoli, detti toumbe, formatisi per l’accumulo dei detriti delle case in mattoni crudi e che ricordano i piú famosi tell mediorientali. Anche a occhio nudo si possono riconoscere quelli di epoca preistorica, databili tra la fine del Neolitico Medio e gli inizi dell’Età del Bronzo, che sono di forma conica, mentre quelli appartenenti a
epoca storica sono piatti, come quello situato nelle vicinanze di Galatitsa, ipoteticamente identificato con la città di Anthemous.
SABBIA CANDIDA E MARE CRISTALLINO Lasciamo Sithonia e ci spostiamo sulla Penisola di Kassandra, in località Kallithea, dove, a seguito dei lavori per l’edificazione di un albergo, sono riemerse, nel 1969, le fondazioni del Tempio di Zeus Ammone, erette nel IV secolo a.C.
e piú volte rimaneggiate. La stupenda cornice ambientale, nella quale una lussureggiante vegetazione riveste un’area ricca di acqua sorgiva e occulta parzialmente l’ingresso a una grotta calcarea, il tutto calato sulla bianca riva sabbiosa del mare cristallino, non poteva certo passare inosservata. Già frequentata nell’età del Bronzo, verso la fine dell’VIII secolo a.C., all’indomani della fondazione della colonia di Etretria, Aphytis, l’area venne incorporata nella chora (terria r c h e o 75
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torio) della città e lí venne dedicato a Dioniso un primo santuario. Il tempio di Zeus Ammone, di ordine dorico, fu eretto nel IV secolo a.C. e rimaneggiato nel III, nonché in epoca romana. Dinnanzi al tempio era stato posto un altare semplice, a due gradini. Qualche decina di metri a sud del tempio, una scalinata tagliata nella roccia conduceva alla grotta sacra a Dioniso e alle Ninfe. Sembra che il tempio fosse tra i principali di tutto il mondo ellenico dedicati a Zeus Ammone, il cui nome è proprio di una divinità 76 a r c h e o
sincretistica, frutto della fusione re- tracce di frequentazione risalenti ligiosa tra dèi greci ed egizi. già all’età del Bronzo. La città si estende dall’altopiano al mare dove quest’ultimo lambisce vari edifici PER IL DIO DEL MARE Scavata nel 1990, un’altra struttura monumentali, di alcuni dei quali templare, dedicata a Poseidone e sono visibili le fondazioni sotto il affacciata sul mare, si trova a Capo livello delle acque. Gli scavi effetPossidi, sull’altra costa, quella occi- tuati a partire dal 1986 hanno indidentale. In una piccola area attrez- viduato, sulla sommità dell’altopiazata, tra le sabbie, sono ancora visi- no, le tracce dell’impianto piú antibili le tracce di due edifici di culto co, che dovrebbe risalire al Tardo Elladico III B-C, come suggerisce la databili al VI secolo a.C. Nelle vicinanze si trova l’antico in- presenza di fosse utilizzate come sediamento di Mende, fondato da depositi di derrate o per lo scarico coloni provenienti da Eretria con dei rifiuti. Altre tracce risalenti agli
Un’altra veduta dei resti delle strutture residenziali dell’antica Stagira.
Sulla costa occidentale della penisola di Kassandra, tra Mende e Potidea, Erodoto situa Sane, probabilmente da identificare con l’abitato antico del Capo San Giorgio. Anche qui i lavori di costruzione di un albergo hanno intaccato i resti di alcuni edifici risalenti al periodo geometrico e all’età arcaica. Nelle vicinanze del sito sono stati rinvenuti un gran numero di statuette in terracotta, frammenti di ceramica fine del VII e VI secolo a.C., associati a piccoli cumuli di pietre, ceneri e ossa animali, riferibili probabilmente a un santuario rupestre dedicato ad Artemide. Quasi all’attacco della penisola di Kassandra (l’antica Pallene) è situata Potidea, una colonia greca fondata dagli abitanti della città di Corinto verso il 600 a.C. per facilitare il commercio con il regno di Macedonia. La città entrò a far parte della Lega di Delo e, durante la guerra del Peloponneso, venne assediata e conquistata da Atene, nel 430 a.C. Nel 356 a.C. Filippo II la distrusse, ma in seguito Cassandro di Macedonia vi costruí una nuova città che battezzò Cassandria.
inizi del VII secolo a.C. hanno evidenziato che la superficie dell’altopiano era stata terrazzata ed erano stati interrati in queste fosse detriti di capanne in mattoni crudi e un gran numero di frammenti ceramici databili dal XIII al VII secolo a. C. Muri di contenimento del VI e del V secolo a.C., a forma di pi greco, che trattenevano il sottosuolo sabbioso per facilitare la costruzione delle case, sono stati rinvenuti direttamente sulla linea di costa, dove sono state ritrovate anche numerose tombe riferibili al VII-V secolo a.C.
IL TAGLIO DELL’ISTMO Risale probabilmente a questo momento anche la realizzazione del canale, forse nel 315 a.C., in coincidenza con la rifondazione urbana. Il canale incide l’istmo della penisola di Kassandra nel suo punto di massimo restringimento, appena a nord della città, separando in questo modo il «dito» piú occidentale dal «palmo» della Penisola Calcidica e mettendo cosí in comunicazione diretta il Golfo Termaico di Salonicco con quello di Toroni. Il canale esisteva già nel I secolo d.C., dal momento che Strabone lo cita nella sua Geografia.Tuttavia, nel V secolo a.C., Erodoto – che pure si dilunga sul Canale di Serse – non fa alcun cen-
no dell’opera quando descrive l’assedio portato a Potidea dall’esercito persiano di Artabazo, nel 480-479 a.C., durante le guerre persiane. Né lo menziona Tucidide, quando, nella sua Guerra del Peloponneso, dà conto dell’assedio di Potidea condotto dagli Ateniesi nel 432-430 a.C. Nei pressi della città sono state rinvenute numerose tombe, tra le quali se ne segnalano alcune della fine del V secolo, poste 2 km a sud, che hanno restituito ben otto pietre tombali recanti i nomi di altrettanti coloni ateniesi, insediatisi a Potidea dopo la presa della città. Un’altra sepoltura, purtroppo saccheggiata nel 1984, è stata ritrovata a 4 km da Potidea. Si tratta di una piccola tomba macedone risalente al 300 a.C. (2,75 x 3 m; alt. 3,30 m), nella quale si sono salvate due klinai (letti tricliniari) che imitano, in marmo dipinto, la decorazione degli equivalenti manufatti in legno e avorio. La scena principale raffigura un temenos (recinto sacro) con divinità maschili e femminili, tra le quali si distinguono Afrodite, Dioniso e un vecchio Sileno dagli alti calzari rossi. Lasciata alle spalle Kassandra, si risale nell’interno sino a giungere a Olinthos. La felice posizione dominante sull’incontaminata baia ha fatto di questa città, sin dall’epoca della sua fondazione per mano calcidiese, nel VI secolo a.C., merce ambita per gli Ateniesi, per gli Spartani e per i Macedoni. Citata anche da Demostene nelle Olintiche, pronunciate inutilmente un anno prima della sua distruzione per convincere Atene a intervenire in sua difesa, fu poi rasa al suolo nel 348 a.C. da un inferocito Filippo II, che ridusse in schiavitú tutti i sopravvissuti. Il benessere raggiunto da Olinthos, soprattutto nel periodo in cui fu a capo della Lega Calcidica, filtra ancora oggi tra le rovine che occupano le due piatte colline, affacciate sull’omonimo fiume in prossimità della foce. a r c h e o 77
SPECIALE • NINIVE
NINIVE, UNA LEGGENDA SULLE RIVE DEL TIGRI
FU UNA DELLE METROPOLI DEL VICINO ORIENTE ANTICO E LA CAPITALE DELL’IMPERO ASSIRO. LA SUA FAMA, IMMORTALATA DAL RACCONTO BIBLICO, HA ATTRAVERSATO I MILLENNI, DALL’ANTICHITÀ FINO ALL’ETÀ MODERNA. ESPLORATA A PARTIRE DALLA METÀ DELL’OTTOCENTO – E DIVENUTA BEN PRESTO UNO DEGLI EMBLEMI DELL’ARCHEOLOGIA VICINO-ORIENTALE – NEL 2014 VIENE COLPITA DALLA FURIA ICONOCLASTA DEL TERRORISMO ISLAMISTA. OGGI LA GLORIOSA CITTÀ È PROTAGONISTA DI UNA GRANDE MOSTRA AL MUSEO DI ANTICHITÀ DI LEIDA, IN OLANDA di Daniele Morandi Bonacossi
L
e rovine di Ninive, l’ultima capitale dell’impero assiro, si estendono su di una superficie immensa (750 ha), sulla riva sinistra del Tigri, nei quartieri orientali della moderna città di Mosul, nell’Iraq settentrionale. Prima dell’inizio degli scavi archeologici guidati dal console francese a Mosul, l’oriundo italiano Paul-Émile Botta, nel 1842, il nome dell’antica Ninive – metropoli dell’Oriente, tragica capitale del primo impero globale della storia – risuonava nella memoria dell’Occidente solo attraverso le potenti immagini costruite dai profeti d’Israele. Nella sua furia contro il popolo d’Israele, che non manteneva la propria fede in un solo dio, Isaia cosí evocava l’Assiria: «Guai all’Assiria, verga della mia ira [di Yahweh]! Il bastone che ha in mano, è lo strumento della mia indignazione». Pur essendo uno strumento del disegno divino, i profeti d’Israele punirono l’Assiria attraverso la distruzione di Ninive a causa della sua arrogante certezza nella propria invincibilità, la sua idolatria, la crudeltà e lascivia dei suoi sovrani e la sua enorme ricchezza.
LA MANO DEL SIGNORE Per questi peccati e le devastazioni arrecate nei regni di Israele e Giuda e la deportazione dei loro popoli in Assiria, il profeta Sofonia profetizzava l’irrevocabile condanna di Ninive: «Egli [il Signore] stenderà la mano anche al settentrione e distruggerà l’Assiria, farà di Ninive una desolazione, arida come il deserto. Si accovacceranno in mezzo ad essa, a frotte, tutti gli animali del branco. Anche il gufo, anche la civetta si appollaieranno sui suoi capitelli (...) Questa è la città gaudente, che se ne stava sicura e pensava: “Io e nessun altro!”. Come mai è diventata un deserto, un rifugio di animali?». E il profeta Nahum cosí ammoniva Ninive: «Guai alla città sanguinaria, che è tutta piena di frode e di violenza e che non cessa di far preda! (...) Seducente prostituta, maestra nelle arti magiche che vendeva le nazioni con le sue prostituzioni e i popoli con le sue arti magiche. “Ecco, io sono contro di te”, dice l’Eterno degli eserciti, “io alzerò i lembi della tua veste fin Sulle due pagine: in primo piano, testa in bronzo di un re accadico, probabilmente Manishtushu o Naram-Sin, rinvenuta a Ninive negli scavi del 1930-1931. 2250 a.C. circa. Baghdad, Iraq Museum. Sullo sfondo, le mura della città. a r c h e o 79
SPECIALE • NINIVE
della capitale assira continuò fino al XIX secolo. Botta, per esempio, riteneva che Ninive dovesse essere cercata sotto le rovine di Khorsabad, la capitale dell’Assiria che precedette Ninive, ubicata una dozzina di chilometri a nord-est di quest’ultima e da lui scavata nel 1843-1844. Pochi anni dopo, nel 1847, un giovane diplomatico e avventuriero inglese di origini ugonotte, Austen Henry Layard, scopriva il «Palazzo senza rivali», la grande residenza reale costruita nel 703 dal sovrano assiro Sennacherib sulla cittadella principale di Ninive, Kuyunjik. Gli scavi successivi portarono alla luce le sale e i rilievi che decoravano il magnifico palazzo e parte della famosa biblioteca di Assurbanipal (vedi box alle pp. 94-95). Fra le tavolette scoperte da Layard e, piú tardi, dal suo assistente, Hormuzd Rassam – un ricco e spregiudicato cristiano di Mosul –, si trovava anche la redazione assira del Poema di Gilgamesh, che narra la storia del celebre re di Uruk e della sua ricerca dell’immortalità e contiene una narrazione del mito del diluvio universale cosí sulla faccia e mostrerò alle nazioni la tua nudità e ai regni la tua vergogna”». Gli autori greci dell’età ellenistica e romana scrissero di Ninive come di una città grande e superba, ma perduta, il cui nome nessuno piú ricordava, che aveva pagato un prezzo elevato per la depravazione e corruzione dei suoi sovrani. Queste rappresentazioni di Ninive e dei suoi re, pervase da una condanna morale e storica ispirata dai peggiori stereotipi greci contro l’Asia e la sua cultura e dall’attitudine anti-assira della tradizione giudaica, alimentarono nei secoli un mito di Ninive antistorico e deteriormente romantico, fatto di immense ricchezze, lascivia, violenza e decadenza.
PREGIUDIZI DURI A MORIRE Simili pregiudizi orientalistici, propri soprattutto della critica storica europea di età romantica, poterono essere confutati solo alla metà dell’Ottocento dalla scoperta delle rovine di Ninive, che giacevano dimenticate sotto la collina di Kuyunjik, di fronte a Mosul, sulla riva opposta del Tigri. Nonostante l’ubicazione di Ninive fosse stata correttamente individuata già dal rabbino spagnolo Beniamino di Tudela poco dopo il 1165 d.C., l’incertezza sull’esatta collocazione 80 a r c h e o
In alto: Ninive, Iraq. Veduta a volo d’uccello della collina di Kuyunjik, ripresa dall’aviazione inglese nel 1933. Si vedono le trincee di scavo delle missioni archeologiche ottocentesche attive sul sito. Sullo sfondo, si distingue la città di Mosul, al di là del fiume Tigri. A destra: cartina che mostra il sito archeologico di Ninive circondato e in parte coperto dalle abitazioni della moderna città di Mosul.
Bo azk Bog azzkö öy
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Külpet Kül Kü pet ette/K Ka ane an n nes
TITOLO FINTO DIDA BOX
TITOLO BOX FINTO
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U rar r arttu tu Mus inullac eaquam aspellandi dicto imus, con repel iur, Cii lliiic C cii a c Tusshpa T Tu pa tempedic tempos andit ulpa est et versper estions erovid Testo box della persuasione attraverso la parola, o Tar arso so Harrran Har ra an essitat ecearum «retorica» (nata nella Sicilia greca e introdotta ad Karkm Kar km mi m is sh h Ciz izre re volo dus etur? Quibus rehenti ditius Atene da personaggi come Gorgia di Leontini) è Til Tiil Ba T Barsi rsip rsi p doloritamet alis ipsant facero ipsumet ellest magniet ma Has Ha H asanl a u an exped qui volestiasit, gravata oggi da un forte pregiudizio. Nel tempo, infatti, Khors Kho rsa rs abad b aute idunt et explam que perror ba Tel e l Bra rak k Ninive molecum faccus vid es et a non nimil ipieni untis seque questo termine ha assunto una connotazione negativa, Kit itio ion n Arb bela la a Telll tempore none prerem Tel reic liqui intorrum harchil isita che lo collega alla vacuità, all’ampollosità, Nim N i rud d She S eikh eikh Qatna Qat na Media Hat H at r ra a sequam all’inautenticità. Ma la retorica dei tempi di Pericle fu Ham amad mad a iuscimust lab int minum quiduciendus aribuscit A s s iri ir a aut aribus dolorpos sunditiam volutat qui coritat tutto il contrario: un’arte efficace, seducente, per certi Ass As ssurr Mar Mediterr rran a eo vereperunt, ipsum que nationsequas res ma vel et vita versi sconvolgente. Palmir Pal mira a Sid idone ne corum sita volore poribus. Era lo strumento che permetteva il funzionamento Tiro o Puda vollori ipsam ni rescit acia quas sanissum quatur delle assemblee e dei consigli della polis, ove ciò Es nu Esh unna un n aboria dolut archili gendit ius esti offic temos vendae. che contava era saper esporre, trasmettere e far Sam maria Seleuc Sel eucia Itatus, cus corehen dellorehendi niam faccus ut condividere ai cittadini determinate proposte o Ba ab a bilo ilonia nia elon n Ge Ge errus u salem mme dedicarsi facipidest, oditemollest qui officil libusa as es alignih iniziative politiche. AI shkel giovani che volevano Sussa Borsi Bor sip ssi i pa Ale essa ssandr n ria ia Lac L ac chis hish illuptati unt latemporisNip eicae alla vita pubblica, e che costituivano la parte ritenuta Nippur pur nations errovit. Sais Sai s migliore della società (chi non si interessava alla Babilonia politica era definito idiotes, «privato»: oggi diremmo, Menfi Men fi U Ur DOVE E QUANDO un «idiota»...), dovevano apprenderla dai maestri di E du Er Eri retorica, che ne facevano sfoggio una volta giunti in città dalle periferie del mondo greco e che si facevano Testo finto testo finto da fare Didascalia da profumatamente pagare per insegnarla. Molina di Ledro (TN), fare Ibusdae via Lungolago, 1 evendipsam, Orario dall’01/07 al 31/08: tutti i Golfo officte erupit giorni, 10,00-18,00; P sico Per NELLA PROSSIMA PUNTATA antesto taturi cum dall’01/09 al 30/11 e dall’01/03 al ilita aut quatiur 30/06: ma-do, 9,00-17,00, moderna chiuso restrum • Testo finto testo finto: testo finto lu chiuso; il museoCittà è inoltre Teb ebe eb e Sito archeologic o eicaectur, testo da fare testo finto da fare nei mesi di dicembre, gennaio e Mar L’impero assiro nel X sec. a.C. blaborenes ium febbraio Rossso quasped quos non Info tel. 0464 508182; L’imperoe-mail: assiro nel IX sec. a.C. N receptionmtsn@mtsn.tn.it, L’impero assiro nel tardo VIII sec. a.C.etur reius nonem quam museo.ledro@mtsn.tn.it; L’impero assiro nel VII sec. a.C. 0 250 Km expercipsunt www.palafitteledro.it quos rest magni autatur apic teces vicina a quella della Genesi da rendere fin da Cartina che enditibus teces. villaggio preistorico fondato nella seconda subito plausibile l’ipotesi di un debito cultu- illustra lo metà del VII millennio in una fertile e ben rale della cultura giudaico-cristiana nei con- sviluppo e irrigata area alla confluenza dei fiumi Tigri e fronti del racconto mesopotamico. La grande l’estensione Khosr. Per migliaia di anni questa comunità avventura della scoperta di Ninive e della ci- dell’impero assiro di agricoltori condusse una vita semplice, viltà assira aveva inizio (vedi box alle pp. 82-85). (X-VII sec. a.C.). basata sulla coltivazione di cereali e l’alleva-
LE ORIGINI E LA NASCITA DELL’IMPERO Alla fine dell’VIII secolo a.C., quando il re assiro Sennacherib (704-681 a.C.) trasferí la capitale dell’Assiria da Khorsabad a Ninive, la città esisteva già da quasi sei millenni. Sotto le rovine dei templi e palazzi costruiti dai sovrani dell’età del Bronzo e del Ferro sull’acropoli di Ninive, Kuyunjik, si trovano i resti del
mento di caprovini, fino a quando, nel IV millennio, il villaggio si trasformò gradualmente in un centro urbano. Ninive era ubicata all’incrocio di due importanti vie commerciali: dall’Assiria un itinerario risaliva la valle del Tigri e conduceva a nord, in Anatolia orientale, una regione estremamente ricca di risorse e materie prime pregiate (metalli, legname, cavalli), (segue a p. 86) a r c h e o 81
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SPECIALE • NINIVE
ARCHEOLOGIA, POLITICA, SPIONAGGIO E... CATTIVE MANIERE
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a ricerca archeologica a Ninive e in Mesopotamia inizia ai primi dell’Ottocento nel segno dei tentativi delle potenze europee di stabilire avamposti nel corpo dell’impero ottomano ormai in crisi. Particolarmente profonda fu la rivalità fra Francia e Inghilterra per il controllo della Mesopotamia come via strategica per le Indie britanniche. Nel 1808 la British East India Company inviò a Baghdad un suo rappresentante, Claudius James
Rich, il quale si rivelò un valente topografo ed esploratore e condusse ricerche a Babilonia e, successivamente, a Ninive, di cui disegnò le prime affidabili piante, prima di morire di colera a 34 anni nel 1821. La rivalità tra Francia e Inghilterra iniziò alla metà degli anni Quaranta dell’Ottocento, quando il console francese a Mosul, Paul-Émile Botta (1802-1870) e, poco piú tardi, l’esploratore inglese Austen Henry Layard (1817-1894)
In basso: Austen Henry Layard nel suo studio veneziano a Palazzo Cappello Layard, olio di Ludwig Johann Passini. Londra, National Portrait Gallery. 1891.
A destra: illustrazione dalla rivista inglese The Illustrated London News raffigurante l’arrivo al British Museum di un colossale lamassu rinvenuto a Nimrud. 28 febbraio 1852. Nella pagina accanto: ritratto di Claudius James Rich, olio su tela di Thomas Phillips. 1852. Londra, The British Museum.
iniziarono scavi nelle due capitali assire di Khorsabad/Dur-Sharrukin e Nimrud/Kalhu, ritenendo entrambi di aver scoperto Ninive. Gli straordinari ritrovamenti dei due archeologi a Khorsabad e Nimrud (tavolette cuneiformi, rilievi, sculture di colossali tori androcefali, ecc.) furono trasportati su chiatte lungo il Tigri fino a Basra (non senza perdite) e, da qui, imbarcati per il Louvre e il British Museum, dove arrivarono quasi contemporaneamente nel 1847. Il Louvre batté sul tempo il British Museum nell’esposizione delle prime antichità assire, ma quest’ultimo prevalse largamente per la popolarità che la sua esposizione assira raggiunse rapidamente a Londra e in Inghilterra. Ma la rivalità anglo-francese divampò in tutta la sua virulenza soprattutto negli anni successivi (1852-1855), quando i due primi 82 a r c h e o
protagonisti della ricerca in Assiria si erano già ritirati dalla scena. Tra ripetuti battibecchi e recriminazioni sui diritti di scavo, una nuova generazione di diplomatici-archeologi – rappresentata dal nuovo console francese a Mosul, Victor Place (1818-1875) e dall’ex assistente di Layard, il cristiano assiro di Mosul Hormuzd Rassam (1826-1910) – riprese gli scavi a Khorsabad e Kuyunjik. Un accordo fra gentiluomini negoziato fra Place e l’assiriologo e console inglese Henry Rawlinson consentí ai Francesi di iniziare uno scavo sul versante nord della collina di Kuyunjik (dove, nel 1842, aveva, per poco tempo, scavato Botta stesso, senza però ottenere apprezzabili risultati), mentre gli Inglesi avrebbero continuato a scavare sul lato sud. Tuttavia, l’accordo raggiunto venne subito
disatteso da Rassam, il quale, contrariato dalla generosità con la quale Rawlinson aveva concesso ai Francesi di iniziare uno scavo a Kuyunjik e approfittando del fatto che Place non era ancora giunto a Ninive, si fece montare una tenda nell’area negoziata dai Francesi e, in segreto, iniziò uno scavo notturno del sito. Già nella seconda notte di scavo affiorarono i primi rilievi assiri e, la terza notte, tra l’incontenibile gioia degli operai, vennero portati alla luce i primi meravigliosi rilievi della caccia al leone di Assurbanipal. Rassam aveva scoperto il Palazzo Nord, con i suoi rilievi e le tavolette della biblioteca di Assurbanipal (vedi box alle pp. 94-95). Grande fu il disappunto di Place nell’apprendere che Rassam aveva iniziato uno scavo nell’area di Kuyunjik destinata ai Francesi. Da buon negoziatore orientale, a r c h e o 83
SPECIALE • NINIVE Rassam rispose alle proteste francesi affermando che Rawlinson non aveva alcun diritto di offrire ai transalpini ciò che non gli apparteneva e che il proprietario della collina di Kuyunjik era già stato indennizzato da Rassam stesso. Per placare gli animi, Rawlinson offrí come risarcimento a Place alcuni materiali portati alla luce nelle trincee di scavo clandestino inglesi e quest’ultimo si guardò bene dal rifiutare il risarcimento proposto. Una tregua finale fra i contendenti portò, infine, nel 1855, a un trasporto congiunto dei materiali rinvenuti su una nave francese. Sfortunatamente, a seguito di un attacco avvenuto nello Shatt el-Arab da parte di membri di una tribú araba ribelle, l’imbarcazione affondò con tutto il suo prezioso carico destinato soprattutto al Louvre. Dopo questa tragedia, i Francesi non fecero piú ritorno in Assiria e gli Inglesi solo in maniera irregolare fino al 1949.
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A destra: Ritratto di Hormuzd Rassam, olio su tela di Arthur Acklant Hunt.1869. Londra, The British Museum. In basso: tavola ottocentesca raffigurante Layard che sovrintende alla rimozione di un toro androcefalo. Nella pagina accanto: lo scavo di una galleria a Kuyunjik in un disegno acquerellato di Frederick Charles Cooper. 1850. Londra, The British Museum.
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SPECIALE • NINIVE A sinistra: ricostruzione virtuale ipotetica della cittadella di Kuyunjik a Ninive con, in primo piano, il «Palazzo senza rivali» di Sennacherib e, sullo sfondo, il Tempio di Ishtar con la ziggurat e il Palazzo Nord di Assurbanipal. In basso: frammento di rilievo assiro con scene di battaglia che, nel registro superiore, raffigura la città di Ninive, dal Palazzo Nord di Assurbanipal. Londra, The British Museum. Nella pagina accanto: frammento di rilievo assiro raffigurante il re Sargon II (722-705 a.C.) in abito cerimoniale. Fu scoperto da Paul-Émile Botta nel 1842, durante i suoi scavi a Khorsabad. Torino, Museo Archeologico.
Le tavolette rinvenute negli archivi provano l’esistenza di un’autorità centrale, alla quale era affidata l’amministrazione dell’impero mentre un secondo percorso portava a ovest, fino alla Siria e al Mediterraneo. L’inserimento di Ninive nella rete delle relazioni commerciali e culturali sovraregionali che univano l’area siro-mesopotamica e l’Anatolia nel IV millennio a.C. costituí sicuramente uno dei fattori determinanti per lo sviluppo di un centro urbano di 40 ha di dimensioni, corrispondente all’intera superficie del monticolo di Kuyunjik. Il rinvenimento nel sito di tavolette con annotazioni numeriche della fine del IV millennio e di cretule d’argilla con impronte di sigilli indica la presenza a Ninive di un’autorità centrale con funzione economico-amministrativa. Probabilmente Ninive rimase un centro urbano anche nella successiva prima metà del III millennio. A questo periodo risalgono le tipiche ceramiche dipinte e incise della cultura Ninive 5, rinvenute, assieme a sigilli e impronte di sigilli, in un profondo sondaggio stratigrafico scavato nel 1931-1932 dall’archeologo britannico Max Mallowan (1904-1978) a Kuyunjik. L’emergere di un centro urbano dalla fine del IV millennio a.C. dovette sicuramente favorire anche lo sviluppo della città come polo religioso. Almeno a partire dal periodo acca86 a r c h e o
dico, Ninive è nota come centro di culto della dea Ishtar. Nella prima metà del XXIII secolo il sovrano Manishtushu costruí infatti il primo tempio della dea dell’amore e della guerra noto dalle fonti cuneiformi. Solo con la conquista della città da parte di SamsiAddu I (1809-1776 a.C. circa) – un sovrano amorreo che ricostruí il tempio di Ishtar e integrò Ninive in un regno territoriale che si estendeva dalle pianure a est del Tigri all’Eufrate –, la città divenne però un importante centro religioso. Il tempio di Ishtar e la sua ziggurat furono in seguito restaurati da tutti i piú importanti sovrani assiri e la fioritura del culto di Ishtar di Ninive conferí alla città un ruolo speciale nel regno a partire dall’epoca medio-assira (1300-1000 a.C. circa). Sovrani come Salmanassar I (1263-1234 a.C. circa) e Tiglath-pileser I (1114-1076 a.C.) costruirono palazzi e giardini a Kuyunjik, anche se la capitale dell’Assiria allora si trovava ancora nell’antico centro cultuale di Assur, nella media valle del Tigri iracheno. Il favore regale e il sostegno allo sviluppo di Ninive garantito dai sovrani della fine del II millennio fece da volano al successivo sviluppo urbano della città e ai grandi lavori edilizi intrapresi dai re assiri del I millennio, quando Ninive si estese a occupare anche la città bassa a nord dell’acropoli di Kuyunjik.
«AMATA DA ISHTAR» Per il viaggiatore che fosse arrivato da occidente, Ninive si delineava oltre il corso del Tigri con i suoi bastioni muniti e il profilo di due alte colline: Kuyunjik, l’acropoli principale con la sua altezza di 40 m sulla piana circostante e una superficie di oltre 40 ha, e, circa 1 km piú a sud, la piú bassa collina di Nebi Yunus, che prese il nome dal profeta Giona (Yunus nella Sura X del Corano), la cui tomba era custodita all’interno della grande moschea medievale distrutta dall’ISIS nel luglio del 2014 (vedi box alle pp. 102-103). Mura di cinta che si snodavano per 12 chilometri – e nelle quali si aprivano ben 18 porte urbiche – unirono le due acropoli in un centro urbano di dimensioni enormi, ben a r c h e o 87
SPECIALE • NINIVE
superiori a quelle della città di 200 ha dei primi secoli del I millennio a.C. La superficie di 750 ha di Ninive era doppia rispetto a quella delle precedenti capitali dell’Assiria: Nimrud (antica Kalhu) e Khorsabad (antica Dur-Sharrukin). Il creatore di una simile metropoli, che superava per vastità ogni città mai costruita fino ad allora in Mesopotamia, fu Sennacherib, figlio di Sargon II. Alla morte del padre, avvenuta nel 705 in una scaramuccia di confine nella remota Anatolia – a seguito della quale il corpo del grande sovrano assiro non poté essere recuperato e ricevere regale sepoltura –, Sennacherib abbandonò Dur-Sharrukin e trasferí la capitale
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In alto: ricostruzione ipotetica dei giardini pensili forse ubicati nel Palazzo Sud-Ovest di Sennacherib e non a Babilonia.
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
Ninive. Un tratto della cinta muraria esterna ricostruita dagli archeologi iracheni.
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SPECIALE • NINIVE
dell’impero a Ninive, costruendo una nuova città a sua immagine e somiglianza. Centro della capitale e dell’impero era la collina di Kuyunjik, dove il sovrano fece radere al suolo un palazzo preesistente, costruí una massiccia terrazza di 190 corsi di mattoni e su di essa eresse un nuovo, smisurato palazzo che chiamò il «Palazzo senza rivali». L’edificio, denominato dagli archeologi Palazzo SudOvest per la sua ubicazione sulla sommità di Kuyunjik, doveva in origine occupare l’enorme superficie di 5 ha e fu costruito fra il 703 e il 692 a.C. Un rilievo dal Palazzo Nord di Assurbanipal mostra la cittadella di Kuyunjik con il Palazzo Sud-Ovest sulla sommità e i prospetti delle doppie mura di cinta viste dal Tigri. Nel rilievo si vede un primo muro, piú basso, esterno, che Sennacherib chiamò «Il muro che terrorizza i nemiCorte della sala del trono ci» (i dati di scavo indicano una larghezza di 11 m e una probabile altezza di 4,5 m), seguito da un secondo muro, interno («Il Sala del trono muro il cui fulgore sopraffà i nemici»; larghez-
Il Palazzo Sud-Ovest In alto: ricostruzione virtuale del Palazzo Sud-Ovest di Sennacherib. A destra: pianta del Palazzo Sud-Ovest di Sennacherib.
Muro documentato archeologicamente Corte
Muro ricostruito Sala del trono
Corte
Appartamenti della sala del trono Terrazza Sud
Vano scala Corte Appartamenti Sala di ricevimento
Corte
Bagno (?) Archivio Corridoio Corridoio ricostruito
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Terrazza Ovest
In alto: ricostruzione virtuale della corte principale del Palazzo Sud-Ovest di Sennacherib e della facciata della sala del trono.
za 15-16 m, altezza probabile 25 m). Dietro a quest’ultimo, infine, compare un terzo muro, che costituiva la cinta difensiva della cittadella di Kuyunjik, sulla quale svetta la facciata del «Palazzo senza rivali». A partire dal 691 a.C., Sennacherib edificò un secondo palazzo sull’acropoli minore della città, Nebi Yunus. I testi descrivono un edificio monumentale e sontuosamente decorato, utilizzato come luogo di abitazione ed educazione dei principi di sangue reale e di bambini appartenenti a élite straniere inviati alla corte assira e come luogo di raccolta e rassegna delle truppe assire prima della partenza per le annuali campagne militari.
I GIARDINI PENSILI Del «Palazzo senza rivali», di cui è conservata solo la parte occidentale, che doveva essere preceduta da tre vaste corti in sequenza, facevano parte anche scenografici giardini pensili, costruiti su terrazze digradanti e irrigati artificialmente attraverso l’acqua portata alla capitale da una rete regionale di canali, che la raccoglieva nella regione pedemontana della catena dello Zagros. In questi giardini il sovrano raccolse piante e animali provenienti dalle regioni dell’Oriente conquistate dai suoi eserciti. Una recente ipotesi suggerisce che i famosi giardini pensili di Babilonia, una delle sette meraviglie del mondo antico, siano in realtà da identificare proprio con i giardini reali del palazzo di Sennacherib e siano stati
successivamente collocati a Babilonia per errore dagli autori greci di età ellenistica e romana che, come si è già avuto occasione di ricordare, non conservavano memoria dell’esistenza di Ninive. La porzione occidentale del palazzo di Sennacherib giunta fino a noi corrisponde al tratto di ricevimento principale del palazzo. Esso si articolava in una grande corte, sulla quale si affacciava la monumentale sala del trono, e in un sistema di tre corti minori (6, 19 e 64), sulle quali ugualmente si aprivano sale di ricevimento. Molte sale erano decorate con bassorilievi che narravano le conquiste e le gesta del sovrano nel corso delle campagne militari che egli conduceva, solitamente su base annuale, su ordine del dio Assur stesso. Le pareti di un piccolo vano (36), ubicato sul fondo di due sale di ricevimento (29 e 34) dell’ala ovest della corte 19, erano decorate da lastre di calcare alabastrino che celebravano l’assedio, conquista e saccheggio della città di Lachish, nel regno di Giuda, da parte di Sennacherib, a seguito della rivolta contro gli Assiri di Ezechia del 701 a.C. Nelle sue iscrizioni reali relative alla campagna contro Giuda, il re assiro cosí si esprimeva: «Per quanto riguarda Ezechia, io assediai 46 delle sue forti città murate (...) portai via e contai come bottino 200 150 persone, grandi e piccoli, maschi e femmine, cavalli, muli, asini, cammelli, bestiame e pecore senza numero». A nord del Palazzo Sud-Ovest e dei templi di Ishtar e Nabu, il nipote e secondo successore di Sennacherib, Assurbanipal (668-631), fece costruire un nuovo palazzo, noto come Palazzo Nord, un edificio palatino significativamente piú piccolo del primo, che era ancora in uso e fu rinnovato durante il regno di Assurbanipal. Molto si è discusso sulla funzione del Palazzo Nord. Il fatto che quando esso fu costruito fosse ancora in uso il Palazzo SudOvest rende improbabile che un nuovo edificio fosse stato concepito per sostituirlo. Il nome del palazzo, bit reduti, «Casa della successione», fa pensare che fosse stato voluto come palazzo del principe ereditario. Anche il Palazzo Nord, come tutti quelli delle capitali assire, fu decorato con rilievi di gesso alabastrino che celebravano le conquiste militari del sovrano, come, per esempio, la serie di rilievi che narrava la grande vittoria di Assurbanipal contro gli Elamiti sul fiume a r c h e o 91
SPECIALE • NINIVE Ninive, Porta di Nergal. Primo piano di un lamassu (toro androcefalo alato) in marmo di Mosul.
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A destra: ricostruzione virtuale della porta di Nergal. In basso: una fotografia d’epoca documenta i lavori di ricostruzione della porta di Nergal. 1950 circa.
Ulai. Particolarmente straordinari, tuttavia, sono i rilievi scoperti nel 1854 nelle sale C ed S del palazzo, che descrivono con grande realismo e in toni drammatici le cacce al leone (ma anche a onagri e cervi) praticate dal sovrano in una speciale arena dedicata alla dea Ishtar di Ninive ubicata all’interno o immediatamente all’esterno delle mura nord della città, mentre gli abitanti di Ninive assistono alla scena da una collina alberata. Il re viene rappresentato a piedi, a cavallo e sul carro mentre trafigge i leoni con la spada o la lancia oppure li abbatte con l’arco. Grandiose sono le immagini del sovrano trionfante e drammatiche quelle delle fiere uccise o morenti, veri capolavori del vibrante realismo di cui erano capaci gli scultori reali assiri dell’età di Assurbanipal. I palazzi di Kuyunjik e Nebi Yunus e le mura di cinta rappresentavano gli elementi certo
piú monumentali e visibili della Ninive di Sennacherib e dei suoi successori, ma la parte piú estesa della città era senz’altro costituita dalla città bassa racchiusa nelle mura urbiche. La maggior parte degli abitanti della capitale viveva qui. Nelle sue iscrizioni, Sennacherib descrive grandi vie monumentali dal corso rettilineo e vaste piazze. Gli scavi archeologici hanno effettivamente provato l’esistenza di viali lastricati nella città bassa di Ninive. Una via monumentale pavimentata con lastre di pietra doveva entrare in città da nord attraverso la Porta di Nergal, protetta da figure colossali di tori alati, e raggiungeva l’estremità nord di Kuyunjik. Resti di abitazioni appartenute all’élite assira sono stati portati alla luce dagli scavi a nord della collina di Kuyunjik, mentre nell’angolo nordovest della città, presso la Porta di Sin, l’elevata concentrazione di scorie osservata indica che la zona ospitava probabilmente quartieri artigianali specializzati nella produzione di mattoni cotti e ceramica.
L’EPILOGO La tragica fine di Ninive arrivò nel mese di Abu del quattordicesimo anno di regno del re babilonese Nabopolassar (626-605 a.C.), cioè nel luglio/agosto del 612 a.C., dopo tre mesi di assedio da parte di una coalizione di truppe babilonesi, mede, cimmerie e scite guidata da Nabopolassar stesso e dal re della Media, a r c h e o 93
SPECIALE • NINIVE
LA PRIMA BIBLIOTECA DELLA STORIA
S
ennacherib fece di Ninive non solo la capitale dell’Assiria, ma anche il centro della sua vita spirituale e religiosa. A Ninive si trasferirono scribi e studiosi provenienti da tutto l’impero; medici, sacerdoti, astronomi, esperti di arti divinatorie ed esorcisti originari dell’Assiria e di Babilonia affluirono alla corte imperiale, facendo di Ninive «il centro di culto esaltato, la città amata da Ishtar, in cui tutti i rituali degli dèi e delle dee sono presenti (...) un sito di conoscenze segrete in cui sono riunite ogni tipo di abilità artigianale, tutti i rituali e i segreti del Lalgar [abisso delle acque cosmiche sotterranee, dimora
di Ea, dio della saggezza]» (iscrizione di Sennacherib sul «Cilindro Rassam»). Fu tuttavia suo nipote, Assurbanipal, un sovrano che si vantava di aver appreso «il segreto nascosto della scrittura (...) di saper risolvere complicate divisioni e moltiplicazioni (...) di aver esaminato segni cuneiformi su pietre incise prima del Diluvio, il cui significato è sigillato, inaccessibile e confuso», a creare la leggendaria biblioteca, rinvenuta dagli archeologi sulla collina di Kuyunjik sparsa fra il palazzo di Sennacherib, i templi degli dèi Nabu e Ishtar e lo stesso palazzo di Assurbanipal. In alto: tavoletta in argilla, iscritta in caratteri cuneiformi, con colophon con il nome di Assurbanipal tracciato a inchiostro, da Ninive. VII sec. a.C. Londra, The British Museum. A sinistra: tavoletta iscritta in cuneiforme, con inni bilingui e preghiere al dio sole Shamash, dalla biblioteca di Assurbanipal. VII sec. a.C. Londra, The British Museum.
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Circa 31 000 tavolette e frammenti di tavolette sono sopravvissuti alla distruzione di Ninive nel 612 a.C. Della biblioteca dovevano far parte anche numerosi dittici, coppie di tavolette (perlopiú di legno o di avorio) unite da una cerniera la cui parte interna ricoperta di cera era utilizzata come superficie per scrivere (un registro della biblioteca datato al 647 a.C. ricorda l’aggiunta di 1469 tavolette d’argilla e 137 dittici di legno alla collezione di testi reale). Le tavolette che entravano nella biblioteca venivano contrassegnate con il nome del sovrano scritto con l’inchiostro. La maggior parte dei testi della biblioteca di Assurbanipal è costituita da composizioni letterarie (miti, poemi epici, fra cui la versione assira del famoso Poema di Gilgamesh redatta su dodici tavolette), religiose (rituali, inni, preghiere, scongiuri), divinatorie (presagi celesti e terrestri, presagi fisiognomici, presagi derivati dall’esame delle viscere degli animali, dei sogni o di eventi straordinari o mostruosi), lessicali
Qui sopra: tavoletta in argilla con lista di presagi astrologici, da Ninive. 669-627 a.C. Leida, Nederlands Instituut voor het Nabije Oosten.
(serie lessicali e sillabari) e scientifiche (testi medici e magici per il trattamento di malattie, testi matematici). Questa vasta e variegata raccolta di «cultura cuneiforme assiro-babilonese», che per la sua composizione si presenta
non come un archivio, ma come la prima biblioteca raccolta in maniera sistematica nota, fu assemblata dal sovrano a partire grosso modo dal 660 a.C., anche chiedendo agli studiosi piú illustri di Babilonia e Borsippa, i due maggiori centri
culturali della Mesopotamia meridionale, di inviargli copie di ogni testo cuneiforme da essi giudicato importante. Circa 3000 tavolette e frammenti di tavolette, infine, comprendevano testi di tipo archivistico piú che bibliotecario, come corrispondenza destinata ai sovrani assiri e testi amministrativi. La distribuzione percentuale dei testi della biblioteca di Assurbanipal rivela come la sua finalità fosse certamente quella di raccogliere copie di ogni composizione nota nel I millennio a.C., ma anche e soprattutto di garantire il benessere e il potere del sovrano attraverso la raccolta di testi divinatori atti a conoscere e influenzare il futuro e di rituali religiosi e testi medici e magici per curarne la salute. a r c h e o 95
SPECIALE • NINIVE A sinistra: Ninive. La Porta di Halzi in corso di scavo. In basso: Ninive. Un primo piano degli scheletri dei difensori assiri rinvenuti nello scavo della Porta di Halzi.
Ciassarre (625-585 a.C. circa). Ninive fu saccheggiata e, come raccontano le Cronache Babilonesi, una raccolta di tavolette che narra la storia della Babilonia dalla metà dell’VIII secolo a.C. all’epoca partica, i vincitori raccolsero «un vasto bottino» e fecero della città «un cumulo di rovine». Il re d’Assiria, Sin-sharru-ishkun (627-612 a.C.), successore di Assurbanipal, morí, probabilmente in battaglia. La guerra fra Babilonia e Assiria era iniziata anni prima, nel 615, quando Nabopolassar, dopo essersi liberato del giogo assiro, mosse contro l’Assiria nel suo stesso territorio, mentre Ciassarre nel 614/613 prendeva la città santa di Assur.
UNA STRENUA RESISTENZA La Cronaca Babilonese che descrive la caduta di Ninive ricorda che il re di Babilonia e Ciassarre s’incontrarono ad Assur, dopo la sua conquista da parte dei Medi, e stipularono un’alleanza. Tuttavia, il sacco di Ninive del 612 non pose fine all’impero assiro, che per anni continuò a opporre una strenua 96 a r c h e o
resistenza alla conquista. Lettere scritte nei capoluoghi dell’impero rivelano che funzionari provinciali raccoglievano truppe per difendere le città dell’Assiria. Nel 609, l’ultimo re assiro, Assur-uballit II (612-609 a.C.), con l’appoggio dell’Egitto, riusciva
In alto: La morte di Sardanapalo, olio su tela di Eugène Delacroix. 1827. Parigi, Museo del Louvre. A destra: Ninive, Porta di Halzi. Rilievo raffigurante un arciere assiro il cui volto fu asportato dai saccheggiatori di Ninive.
ancora a riconquistare territori in Siria. L’Assiria cessò di esistere solo attorno al 605 a.C., all’indomani della sconfitta inflitta dal nuovo re babilonese, Nabucodonosor II, all’ultimo alleato assiro, l’Egitto del faraone Necao II, nella battaglia di Karkemish, in Anatolia sud-orientale. L’assedio di Ninive nell’estate del 612 dovette essere molto cruento. Scavi condotti negli anni Novanta del secolo scorso alla Porta di Halzi, una delle porte urbiche di Ninive, nella regione sud-orientale della cinta muraria, hanno rivelato come la struttura, larga originariamente 7 m, fosse stata ridotta a soli 2 m per ostacolare l’irruzione in città delle forze nemiche. Simili restringimenti, riscontrati anche in altre due porte urbiche di Ninive, non valsero tuttavia a risparmiare alla città la caduta e il massacro della sua popolazione. Gli scavi della porta esterna hanno restituito gli scheletri di dodici individui, fra cui alcuni maschi adulti, un ragazzo adolescente, due bambini e un neonato, sicuramente uccisi (segue a p. 102) a r c h e o 97
SPECIALE • NINIVE
NEL CUORE DELL’IMPERO
L
a mostra «Ninive. Cuore di un antico impero» ci riporta ai tempi d’oro della capitale assira sorta per volere del re Sennacherib intorno al 700 a.C. All’epoca Ninive era la città piú importante del mondo assiro e aveva una popolazione di oltre 100 000 abitanti; le sue mura si estendevano per chilometri e, punteggiate da maestose porte, circondavano la città con i suoi imponenti palazzi, templi e monumenti, le sue innumerevoli vie cerimoniali e stradine e i parchi lussureggianti. Da questa città, re dai nomi esotici, come Esarhaddon e Assurbanipal, governarono un impero immenso. Nella mostra in corso a Leida si possono ammirare oltre 250 oggetti, tra cui rilievi, statue, tavolette d’argilla e sigilli cilindrici. L’esposizione ripercorre la storia di Ninive, dalla fondazione sino alla distruzione del 612 a.C. Una sezione è dedicata all’appassionante riscoperta dei resti della città nel XIX secolo e, un’altra, ne ricorda l’ultima drammatica distruzione ad opera delle milizie dell’ISIS. Di particolare interesse sono i rilievi provenienti dai muri dei palazzi della città assira e la ricostruzione di una delle stanze del
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In alto: manico di uno scacciamosche, da Ninive. Oro, bronzo, ferro e vetro. IX-VIII sec. a.C. Bruxelles. Musées royaux d’art et d’histoire.
Nella pagina accanto, in basso: rilievo raffigurante un soldato barbato accanto a un carro, dal Palazzo Nord di Ninive. Parigi, Museo del Louvre. In basso: pannello in avorio con bassorilievo, da Ninive. IX-VIII sec. a.C. Bruxelles, Musées royaux d’art et d’histoire.
In alto: pomo di scettro assiro in bronzo, da Khorsabad. VIII sec. a.C. Bruxelles, Musées royaux d’art et d’histoire.
palazzo del re Sennacherib. I rilievi hanno un ruolo di primo piano nella mostra, non solo come esempi mirabili di arte scultorea a bassorilievo, ma anche come elementi portanti di informazioni preziose sulla storia di Ninive e sulla vita di tutti i giorni nella città. Si stima che nei palazzi reali di
Ninive i rilievi murali si sviluppassero per oltre 15 km! I pannelli raffigurano perlopiú episodi storici in cui fa da protagonista-eroe il re. Oltre alle animazioni computerizzate a grandezza naturale della città antica, la mostra offre anche una serie di rilievi proveniente da un a r c h e o 99
SPECIALE • NINIVE
A sinistra: maschera funeraria in lamina d’oro, da Ninive. II sec. d.C. circa. Londra, The British Museum. In basso: ritratto di un regnante assiro, dall’Iraq. IX sec. a.C. Leida, Rijksmuseum van Oudheden. Nella pagina accanto: bassorilievo su gesso raffigurante un soldato e due prigionieri deportati, dal Palazzo Sud-Ovest di Ninive. VII sec. a.C. Leida, Rijksmuseum van Oudheden.
interno del palazzo che è stato ricostruito con precisione, utilizzando tecniche 3D e una proiezione dei colori originali. A tale ricostruzione si è dedicato un gruppo di ricerca internazionale, che si è avvalso anche delle fotografie scattate prima della recente devastazione. Due repliche a grandezza naturale di altrettanti tori alati all’ingresso di una sala rievocano al visitatore la vita di un re a Ninive. DOVE E QUANDO «Ninive. Cuore di un antico impero» Leida, Rijksmuseum van Oudheden fino al 25 marzo Orario ma-do, 10,00-17,00; lu chiuso Info www.rmo.nl 100 a r c h e o
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SPECIALE • NINIVE
NINIVE DOPO NINIVE
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inive sopravvisse al sacco del 612 a.C. pur se come insediamento di minore importanza. A eccezione di limitati restauri ai templi di Nabu e Ishtar e al Palazzo Sud-Ovest e di alcune tracce di frequentazione nella città bassa, esistono finora scarse prove dell’occupazione della città negli anni immediatamente successivi alla sua distruzione. Senofonte, che nel 401 a.C., dopo la sconfitta di Ciro il Giovane a Cunassa, passò
per Ninive (allora nota come Mespila) con i resti di un esercito di 10 000 mercenari greci, menziona solo una città deserta e in rovina. Durante il successivo periodo greco-partico, Ninive e la regione circostante divennero parte dell’Adiabene, uno Stato che emerse quando il regno seleucide iniziò a frammentarsi. La scoperta di monete ellenistiche e due iscrizioni, oltre a ceramiche ellenistiche rinvenute nella città
il volto o asportandone gli occhi e il naso o, se presente, rimuovendo l’iscrizione cuneiforme che descriveva la scena rappresentata. Gli obiettivi di queste distruzioni mirate documenta il furono le figure dei sovrani e delle loro redanno arrecato gine, ma anche soldati assiri, come nel caso all’area della porta di Nergal da del soldato rappresentato mentre decapita il parte delle milizie re dell’Elam, o Elamiti al soldo degli Assiri. È possibile che i soldati medi ed elamiti che dell’ISIS. avevano partecipato alla conquista di Ninive si siano concentrati sulla mutilazione rituale delle figure dei rilievi di Assurbanipal, il conquistatore di Susa, capitale dell’Elam (Iran sud-occidentale), mentre i Babilonesi rivolsero probabilmente la loro furia
dalle truppe mede e babilonesi, come testi- In alto: Ninive, moniano le punte di lancia e freccia rinvenu- gennaio 2017. te sulla scena della strage. Un’immagine
DISTRUZIONI MIRATE Dopo la conquista, la distruzione di Ninive dovette protrarsi a lungo. I rilievi dei sovrani assiri che decoravano il «Palazzo senza rivali» di Sennacherib e il Palazzo Nord di Assurbanipal furono accuratamente studiati dai conquistatori, i quali, prima di incendiare i palazzi, individuarono alcune figure chiave delle narrazioni celebrative dei cicli scultorei e le distrussero ritualmente per spogliarle magicamente della loro forza, sfigurandone 102 a r c h e o
bassa a nord di Kuyunjik, testimonia l’occupazione di Ninive fra il III e il II secolo a.C. Dopo la dissoluzione del regno dei Seleucidi, nella seconda metà del II secolo a.C. Ninive fu conquistata dal re partico Mitridate I. Tracce di un’occupazione partica sono state individuate a Kuyunjik, dove è stato portato alla luce un possibile complesso templare. Una piccola statua in pietra calcarea di Eracle è stata rinvenuta nel Palazzo Sud-Ovest e una statua di Hermes nella città bassa, a nord della collina di Nebi Yunus. A Ninive non sono state individuate tracce di un’occupazione romana, ma la scoperta di un consistente numero di monete dell’inizio del III secolo d.C. rivela le relazioni economiche della città con gli avamposti militari romani lungo la frontiera orientale del Tigri. Il cristianesimo si diffuse in Mesopotamia già dal I secolo d.C. e si sviluppò rapidamente, soprattutto dopo che, nel VI secolo, fu fondata la Chiesa d’Oriente. Ninive divenne sede della diocesi di Ninive e Mosul. Nel IV secolo, sulla collina di Nebi Yunus venne fondato un monastero dedicato al profeta Giona.
L’arrivo dell’Islam nel 637-640 d.C., infine, portò a un rapido aumento dell’importanza di Mosul sulla sponda occidentale del Tigri, che continuò a essere il principale centro urbano della regione fino al periodo ottomano. La conquista di Mosul e delle rovine di Ninive da parte dell’ISIS, il 10 giugno del 2014, è stata seguita da una vasta e drammatica ondata di distruzioni che non ha risparmiato la città e il suo patrimonio storico, archeologico e religioso. Il Museo di Mosul e la biblioteca della città sono stati gravemente danneggiati o interamente demoliti; santuari islamici, moschee, chiese e monasteri sono stati distrutti. Ninive stessa non è sfuggita a questa terribile devastazione: sono stati gravemente danneggiati o interamente demoliti due porte della città (le Porte di Nergal e Mashki), le coperture protettive e l’architettura ricostruita del Palazzo Sud-Ovest di Sennacherib, sezioni delle mura della città restaurate, la moschea medievale di Nebi Yunus e il sottostante palazzo assiro costruito da Sennacherib e completato da Esarhaddon come arsenale e luogo delle parate
militari. Tunnel scavati da saccheggiatori attraverso le mura della città hanno rapidamente fatto la loro comparsa a Ninive, mentre l’abrogazione delle leggi di protezione del patrimonio culturale da parte dell’ISIS ha determinato la progressiva diffusione di nuove costruzioni in aree del sito archeologico precedentemente non edificate. Ora, dopo la sua liberazione, avvenuta nel gennaio del 2017, l’ultima capitale dell’impero assiro attende la sua rinascita. Iniziative internazionali portate avanti da Italia, Spagna, Germania e Stati Uniti, oltre che dalle autorità
contro le immagini di Sennacherib, il distruttore di Babilonia. Il sacco di Ninive e la caduta dell’impero assiro dovettero lasciare una drammatica eco nella Mesopotamia del I millennio a.C. Nahum, uno dei profeti minori dell’Antico Testamento, dedicò un intero libro alla terribile profezia della caduta di Ninive, mentre lo storico greco Ctesia, nei suoi Persiká – una storia dell’Oriente dall’impero assiro a quello achemenide –, descrive la morte di Sardanapalo, l’ultimo grande re assiro Assurbanipal, anziché quella del piú oscuro Sin-sharruishkun, morto nell’assedio di Ninive. In una stanza del suo palazzo, Sardanapalo fece innal-
In alto: Ninive, gennaio 2017. Ancora un’immagine della devastazione che si è abbattuta sui resti delle antiche mura della città.
irachene, mirano attualmente a monitorare e documentare il danno causato al patrimonio culturale di Ninive e della sua regione. Una piattaforma di crowdfunding open source sarà utilizzata per restituire digitalmente i monumenti perduti di Ninive e Mosul attraverso ricostruzioni virtuali. Ma profondi interventi di restauro e, ove possibile, di ricostruzione dei monumenti distrutti dall’ISIS saranno necessari con il sostegno della comunità internazionale per riportare al loro splendore Ninive e le altre capitali assire, Nimrud e Khorsabad, devastate dalla furia iconoclasta jihadista.
zare una pira costruita con le sue ricchezze, i suoi carri, cavalli e le concubine del suo harem e la fece incendiare, morendo tra le fiamme. La tragica fine dell’ultimo re assiro, simbolo della ricchezza, corruzione, arroganza e decadenza dell’Assiria, suggestionò la fantasia dei romantici europei, che, ben prima che Ninive iniziasse a essere conosciuta attraverso gli scavi archeologici di Austen Henry Layard, la rappresentarono o misero in scena attraverso i dipinti di Eugène Delacroix (La morte di Sardanapalo, 1827) e John Martin (La caduta di Ninive, 1828), la tragedia Sardanapalus di Lord Byron (1821) e l’omonima e incompiuta opera di Franz Liszt. a r c h e o 103
QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli
…FU COSTRETTA A CRESCERE IN ALTEZZA LA FORMIDABILE CRESCITA DEMOGRAFICA DELL’URBE EBBE TRA I SUOI EFFETTI LA MESSA A PUNTO DI NUOVE TIPOLOGIE EDILIZIE, PRIME FRA TUTTE LE INSULAE, CASEGGIATI A PIÚ PIANI CHE QUASI ANTICIPARONO I MODERNI GRATTACIELI
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itruvio – che scriveva al tempo di Augusto – aveva visto giusto. Nel suo De Architectura (II, 8,17), infatti, dopo aver rilevato come Roma, grande e popolosa quale era diventata, avesse bisogno di uno sterminato numero di abitazioni, e come non ci fossero a
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disposizione terreni edificabili a sufficienza per costruirle (tenuto anche conto dei problemi delle distanze e delle comunicazioni), riconosce come la situazione stessa (res ipsa) avesse costretto ad affrontare il problema ricorrendo all’altezza degli edifici (ad auxilium
altitudinis aedificiorum): una sorta di anticipazione del concetto di... grattacielo! Nacque cosí quella che, per primo a quanto ne sappiamo, Cicerone – che altrove parla di Roma come di una città «sospesa nell’aria» – chiamò insula, una costruzione abitativa a piú piani con appartamenti d’affitto. In verità, Tito Livio (XXI, 62,3) accenna già, per l’anno 218 a.C., a un edificio di tre piani, ma la diffusione delle insulae si ebbe soprattutto negli ultimi due secoli della repubblica e raggiunse il massimo nel II secolo d.C., al tempo dell’imperatore Adriano. Al punto che il retore Elio Aristide poteva affermare, nel suo famoso Panegirico di Roma: «Se le abitazioni di Roma fossero improvvisamente portate tutte al
Nella pagina accanto: l’area del Campidoglio nel plastico ricostruttivo della Roma imperiale realizzato dall’architetto Italo Gismondi nel 1937. Roma, Museo della Civiltà Romana. A destra: Roma. Uno scorcio di resti dell’insula dell’Aracoeli, ripresa da via del Teatro di Marcello, in cui si può distinguere il piano rialzato della struttura. L’edificio si trova oggi in un angolo delimitato dal fianco dell’Altare della Patria e dalla scalinata della chiesa di S. Maria in Aracoeli. II sec. d.C. livello del pianterreno, esse arriverebbero fino ad Hatria sull’Adriatico superiore». Tutto ciò, peraltro, senza che il problema della casa venisse risolto. Senza, cioè, che si fosse potuto porre fine alla crisi endemica generata dalla sproporzione tra la domanda e l’offerta, tra la necessità e la disponibilità degli alloggi occorrenti per fronteggiare l’incessante crescita demografica alimentata da un’immigrazione «selvaggia». Le testimonianze archeologiche sulle insulae, a Roma, sono piuttosto scarse, essendo ridotte a poco piú che i ruderi, pur significativi, esistenti ai piedi dell’Aracoeli, in Campidoglio, e a quelli conservati sotto la chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo, sul Celio (ma non mancano apprezzabili resti relativi alla planimetria del livello terreno degli edifici, come, per esempio, quelli ritrovati per la costruzione della Galleria Colonna, lungo l’antica via Lata – l’odierna via del Corso – o quelli, tuttora visibili, sotto la chiesa di S. Anastasia, tra il Palatino e il Circo Massimo). La documentazione è invece del tutto soddisfacente – per non dire ottimale – a Ostia dove l’influenza dei modelli della capitale fu certamente assai forte e diretta. È inoltre di grande importanza quanto si può ricavare – anche dal punto di vista statistico –
dall’esame di numerosi frammenti della cosiddetta Forma Urbis, la pianta marmorea di Roma antica dell’età severiana.
SOLUZIONI AVVENIRISTICHE Nel complesso – e pur in presenza di importanti varianti (e di soluzioni che talvolta, come a Ostia, appaiono... «avveniristiche», di tipo modulare e seriale) –, è dunque possibile delineare lo schema comune dell’insula: un fabbricato a se stante, coperto con tetto di tegole, a spioventi, largamente «affacciato» con grandi finestre verso l’esterno su strade che ne delimitavano il perimetro, spesso con un cortile interno (anche porticato), un pianterreno di solito occupato da botteghe (tabernae)
con soppalchi (pergulae) a formare un «mezzanino» ed eventualmente da altri impianti di carattere commerciale o manifatturiero (e magari da luoghi di culto, bagni pubblici, ecc.), e piú piani superiori, serviti da un’unica scala, suddivisi in appartamenti d’affitto (cenacula), spesso dotati, soprattutto al primo piano, di lunghi balconi (maeniana), in legno (sostenuti da travi o mensole pure di legno o di travertino) oppure in muratura (poggiati su arcatelle). Fatta eccezione per gli appartamenti del pianterreno (che potrebbe considerarsi alla stregua del «piano nobile» dell’edificio), comodi, ben articolati e dotati dei servizi essenziali, la situazione dei piani superiori era tutt’altro che confortevole, e peggiorava di piano
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In alto: ricostruzione grafica ipotetica dell’aspetto complessivo dell’insula della Casa di Diana a Ostia Antica, e immaginata in un momento di vita quotidiana al suo interno. Sulle due pagine: Ostia Antica, Roma. La via dei Balconi, che fiancheggia l’insula della cosiddetta Casa di Diana. La buona conservazione di quest’area ha permesso di osservare direttamente l’aspetto di un quartiere urbano del II sec. d.C. in piano, soprattutto per la mancanza dell’acqua e dei servizi igienici, fino alle soffitte (tabulata) e alle soprelevazioni (pergulae), perlopiú precarie e abusive. Ciò in contrasto con le disposizioni di legge che, almeno a partire dalla fine del II secolo a.C., furono promulgate per limitare l’altezza degli edifici. Cosí, una legge di Augusto (de modo aedificiorum) stabilí, pena l’abbattimento dell’edificio, un’altezza massima di 70 piedi, pari a circa 21 m (20,85), che consentiva uno sviluppo di cinque o sei piani. La stessa legge venne ribadita da Nerone dopo il devastante incendio dell’anno 64, a seguito del quale furono anche prescritti, per ogni costruzione, muri perimetrali indipendenti e portici in facciata. In seguito, un ulteriore provvedimento legislativo voluto da Traiano
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abbassò il limite a 60 piedi, cioè a poco meno di 18 m (17,75). Questi limiti, tuttavia, riguardavano le facciate sulle strade. Potevano quindi essere facilmente aggirati con soprelevazioni che, su linee appena arretrate, si spingevano molto al di sopra del consentito. Come si potrebbe pensare per quella insula di Felicula (insula Felicles) costruita nel Campo Marzio, assunta come termine di paragone nei discorsi relativi a iperboli ed eccessi.
I FATTORI DI RISCHIO Le leggi miravano, comunque, a contenere sia il rapido diffondersi degli incendi, sia il pericolo, assai frequente, dei crolli, causati, oltre che dagli incendi stessi, dall’impiego nelle costruzioni di materiali scadenti e, non di rado, dall’esiguità della superficie (rispetto all’altezza) sulla quale si costruiva. Due fattori di rischio, questi, legati, almeno in parte, alla speculazione edilizia, che procurava buoni investimenti e altrettanto lauti guadagni in un settore che già di per sé era piuttosto redditizio. Cicerone, tanto per fare un esempio, ricavava dall’affitto di
alcuni appartamenti che possedeva nel quartiere della Suburra 80 000 sesterzi l’anno: una cifra che gli consentiva di mantenere il figlio agli studi ad Atene. Lo stesso Cicerone, tuttavia, in una lettera all’amico Attico (ad Att. XIV 9,1) si lamentava per il crollo di due taberne, «mentre nelle altre – aggiungeva – i muri sono tutti lesionati e non solo se ne vanno gli inquilini, ma anche i topi». A proposito della speculazione, c’era chi, approfittando proprio degli incendi e dei crolli, riusciva a procurarsi, senza troppa fatica, il terreno di una piccola casa andata distrutta, in cambio di una somma modesta versata, sul momento, al malcapitato proprietario ridotto sul lastrico, e poi, a tempo di record, faceva tirar su con materiali di seconda mano un caseggiato a piú
piani da mettere sul mercato. Con questo sistema aveva, per esempio, costruito la sua enorme fortuna finanziaria il triumviro Crasso, collega di Cesare e di Pompeo. La speculazione, peraltro, continuava alla grande quando il proprietario di un’insula cedeva questa, in blocco o in parte, a un intermediario il quale provvedeva a vendere separatamente i singoli piani a diversi acquirenti che, a loro volta, affittavano i singoli appartamenti (per non dire dei loro locatari, i quali, non di rado, ne subaffittavano singoli vani). Naturalmente, all’interno della catena, ognuno, a ogni passaggio, faceva in modo di ricavare piú di quanto aveva speso ed è facile immaginare come crescessero proporzionalmente i canoni delle locazioni che, già alla fine della
repubblica, erano a Roma quattro volte piú cari che in qualsiasi altra parte d’Italia.
MOBILITÀ FORZATA Di aspetti negativi, di inconvenienti e di contraccolpi ve ne erano però molti altri, sia dal punto di vista urbanistico, sia dal punto di vista sociale: dall’addensamento delle costruzioni al sovraffollamento, dalla promiscuità alla precarietà e ai disagi delle «sistemazioni», alla forzata mobilità (ciò che favorí una vita vissuta per quanto possibile fuori di casa e la frequentazione di luoghi di ristoro e di svago e dei servizi pubblici come i bagni e le latrine). E questo, per non dire dei difficili rapporti tra proprietari, intermediari e inquilini e dei grattacapi per gli amministratori degli immobili che
dovevano provvedere al regolare andamento delle transazioni, ai lavori di manutenzione, alla riscossione degli affitti e al mantenimento della pace tra tanti inquilini ammassati in spazi ristretti. Anche se gli stessi amministratori sapevano egregiamente far fruttare le loro ingrate incombenze, magari risparmiando sui lavori. Come chiaramente fa capire Giovenale quando scrive (III, 193 e segg.): «Noi abitiamo una città che si regge in gran parte su travicelli malfermi (tenui tibicine fultam magna parte sui) visto che l’amministratore pone cosí rimedio alle mura cadenti e, quando ha tappato la fenditura di una vecchia crepa, invita a dormire sonni tranquilli (pendente ruina) mentre la rovina continua a incombere sulle nostre teste».
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SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti
COLTIVARE LA MEMORIA LO SCAVO DEL MONASTERO DI S. SEVERO, A CLASSE, PRESSO RAVENNA, HA OFFERTO LA RIPROVA DI UN FENOMENO TIPICO DEL MEDIOEVO. QUELLO CHE VEDE NEI LUOGHI ABITATI IN ANTICO – E POI ABBANDONATI – ALTRETTANTI SITI PRIVILEGIATI PER LA FONDAZIONE DEI COMPLESSI CONVENTUALI
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iamo a Ravenna, sul finire del VI secolo. La città è un luogocardine dello scacchiere politico del Mediterraneo. È, infatti, il centro del potere bizantino in Italia: il governatore della provincia, l’esarca, risiede nel palazzo che era stato degli imperatori e poi del re goto Teoderico. E la Chiesa, guidata dagli arcivescovi, è una delle piú potenti in assoluto, sul piano religioso ma anche su quello economico. La città è già molto ricca di
monumenti: S. Apollinare Nuovo, S. Vitale, il Mausoleo di Galla Placidia, quello di Teoderico… Ma non è finita qui. Con un gesto grandioso, l’arcivescovo Pietro decide di costruire una chiesa di proporzioni colossali nella vicina città portuale di Classe: la basilica dedicata a san Severo, uno dei primi vescovi di Ravenna.
UN TRIBUTO AGLI «EROI FONDATORI» È l’ultimo santo del pantheon locale da onorare, dopodiché il tributo agli «eroi fondatori» della comunità potrà dirsi concluso. La costruzione della basilica
viene portata a termine nel giro di pochi anni e la sua realizzazione completa un paesaggio monumentale già straordinario. Poco dopo, però, la situazione cambia: l’economia dell’intero mondo mediterraneo entra in crisi, le merci circolano sempre meno, il porto di Classe perde progressivamente la sua ragione di esistere e la città stessa verrà lentamente abbandonata. Tanto da essere data per morta già nel corso del IX secolo, anche se sappiamo che alcune centinaia di persone abitavano ancora tra i suoi ruderi. Ma proprio in questo momento avviene qualcosa di davvero A sinistra: ricostruzione ipotetica della basilica e del monastero di S. Severo, a Classe. Nella pagina accanto: veduta aerea degli scavi dei resti del monastero di S. Severo. IX-XV sec. In evidenza, l’indicazione delle diverse aree funzionali.
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interessante: nel IX secolo, in un paesaggio urbano che va disgregandosi, accanto alla basilica di S. Severo viene fondato un monastero, dedicato allo stesso santo. Quel monastero – che chi scrive ha avuto la fortuna e il privilegio di riportare alla luce nel corso degli scavi condotti a partire dal 2006 – sopravvisse a lungo alla scomparsa della città di Classe: fino al XV secolo. Dobbiamo perciò immaginare questo grande complesso, dotato di un chiostro, di una sala capitolare, di refettorio, cucine, cantine e tutti gli altri ambienti caratteristici, ambientato in un vero e proprio «paesaggio con rovine». La comunità monastica scelse dunque una città abbandonata come luogo elettivo
per crescere e prosperare. Una scelta compiuta, del resto, in molti altri luoghi d’Italia e d’Europa, nei quali i monasteri e le abbazie si pongono come ultimi sostituti, eredi di una città antica, o anche di una fortezza o di una villa.
I VANTAGGI DEL RIUSO Solo per fare due esempi, è quanto accade nei pressi di Roma, a Gabii (località situata al XII miglio della via Prenestina, n.d.r.) dove, nell’XI secolo, viene fondato un monastero, mentre la città, entrata in crisi già durante la tarda antichità, ormai è quasi scomparsa. E succede a Pedona, antico centro abbandonato del Piemonte (oggi in provincia di Cuneo), dove, nel corso del IX
secolo, viene fondata l’importante abbazia dedicata a san Dalmazzo. Che cosa poteva dunque ispirare simili scelte? La prima risposta è piuttosto ovvia e rientra nel grande tema del riuso dell’antico nel Medioevo. Scegliere un luogo del genere significava infatti avere a disposizione una quantità enorme di materiale da costruzione: i mattoni degli edifici antichi, i marmi da bruciare per ricavarne la calce, il piombo da fondere, e molto altro ancora; persino tratti di muri antichi sui quali impostare quelli nuovi, senza bisogno di scavare grandi fosse di fondazione. Il reimpiego è prettamente strumentale, quindi; ma questa spiegazione non sembra sufficiente, non ci basta. Per esempio, non chiarisce per quali motivi, molto spesso, in questi monasteri, le iscrizioni e le sculture antiche vengano esibite nelle murature in posizione di rilievo, ben visibili a tutti i visitatori (come succede, per esempio, nel grande complesso di S. Vincenzo al Volturno, in Molise, uno dei luoghi fondativi dell’archeologia medievale italiana). La risposta piú soddisfacente dev’essere dunque ricercata fra le righe di tutto questo: un elemento che gioca un ruolo fondamentale nella scelta dei luoghi antichi abbandonati, per la fondazione dei monasteri, è, evidentemente, l’eredità del passato. Un passato remoto, quasi mitico e molto simbolico, che dà grande forza a chi se ne appropria; ne legittima il potere e le ambizioni. Per interpretare correttamente fenomeni come questo, l’archeologo deve fare un salto: prendendo spunto dalla cultura materiale, deve arrivare a occuparsi anche degli aspetti immateriali del passato. Soltanto cosí si possono comprendere i significati dei contesti che riportiamo alla luce grazie agli scavi.
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
SIGNORI DEL TEMPO POTENZA COSMICA RICONOSCIUTA COME PERSONIFICAZIONE DEL TEMPO, AION DIVENTA, OLTRE CHE UN TEMA ICONOGRAFICO, IL SIMBOLO DI UNA DELLE MASSIME AMBIZIONI DELL’UOMO, E DEI POTENTI IN PARTICOLARE
C
apita spesso che gli archeologi siano appassionati di fantascienza e che abbiano quindi familiarità con i «Signori del Tempo» che abitano il pianeta Gallifrey, il piú celebre dei quali è il Dottor Who, protagonista di una serie televisiva della BBC iniziata nel 1963 e ancora in corso. Oltre a poter viaggiare nello spazio e nel tempo, salvando diversi pianeti ed evitando la fine del mondo in piú occasioni, il Signore del Tempo possiede numerosi
superpoteri. Tra questi, può percepire il «tessuto» di cui è formato l’universo, distinguere i punti nel tempo e nello spazio e addirittura modificare il corso degli eventi; in alcune occasioni, si definisce «padre» dell’umanità, nel senso di protettore e difensore degli uomini. Egli assomma in sé doti decisamente sovrumane, che gli consentono di padroneggiare lo spazio, il cosmo e i destini umani. Simili caratteristiche, adattate alle tematiche della moderna science fiction, rappresentano temi importanti dell’immaginario collettivo mondiale riferiti non soltanto agli dèi, ma anche ai regnanti
dell’antichità e non solo, per i quali la propaganda politica e l’apparato di corte predisponeva tutta una serie di atti rituali e oggetti che miravano a esaltare l’onnipotenza del signore al governo.
NATURA DIVINA E se nel mondo orientale ciò era piú facile a realizzarsi (si pensi all’imperatore del Giappone considerato divino sino alla fine della seconda guerra mondiale, quando nel 1946 Hirohito dichiarò ufficialmente la sua natura umana), in quello occidentale, e in particolare nella pragmatica Roma, si riconosceva una natura divina solo agli imperatori defunti e che non avessero subito la damnatio memoriae a causa di un comportamento considerato empio e contrario al bene del popolo romano. Nel corso dei secoli la centralità e la potenza autocratica dell’imperatore crebbero, in particolare con il concetto di dominus et deus coniato per sé da Domiziano, anche se il titolo non fu riconosciuto ufficialmente dal Senato in quanto considerato Particolare della patera di Parabiago, piatto in argento dorato e lavorato a sbalzo di epoca tardo-imperiale rinvenuto nell’omonima cittadina del Milanese nel 1907. IV sec. d.C. Milano, Museo Archeologico. Nel riquadro, la raffigurazione di Aion, potenza cosmica identificata come personificazione del Tempo.
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trasgressivo rispetto alla concezione romana dell’autorità. Anche nella ritrattistica si possono cogliere i segni del fenomeno, come l’espressione del volto imperiale che non guarda piú davanti a sé ma in alto, a significare l’intimo colloquio del principe con il mondo divino. Le fonti letterarie definiscono l’imperatore come parens mundi, garante del Fato e dell’ordine cosmico, e in quanto tale è avvicinato ad Aion, il giovane signore del tempo eterno e del susseguirsi delle stagioni nel loro percorso solare, il cui simbolo è una ruota sulla quale possono essere raffigurati i segni zodiacali, parte integrante del ciclo celeste e regolatori dei destini umani.
MOSAICI E MONETE Mosaici celebri e magnifici come per esempio quelli ritrovati a Sentinum, Arles, Silin a Leptis Magna, e la splendida patera in argento di Parabiago, tutti di piena e tarda età imperiale, raffigurano Aion entro la ruota del tempo. Questo tema compare anche sulle monete di Adriano, Antonino Pio, Giulia Domna, dove protagonista è la divinità cosmica con il suo cerchio. Su altre emissioni, invece,
Aion e la ruota dello Zodiaco in un mosaico policromo da Sentinum (presso l’odierna Sassoferrato, Marche). 200-250 d.C. Monaco di Baviera, Glyptothek.
campeggia la figura imperiale nella sua accezione di cosmocratore, signore del cosmo, il quale siede sul globo e regge con una mano il cerchio cosmico (monete medaglioni di Severo Alessandro e Giulia Mamea, Gordiano III, Tacito, Filippo, Costantino). È possibile poi che dell’apparato dei sacri oggetti che l’imperatore esibiva in particolari occasioni celebrative, come, per esempio, i globi e gli scettri di Massenzio ritrovati anni fa ai piedi del Palatino e oggi esposti al
Solido aureo di Costantino I, Zecca di Ticinum (Pavia), 316 d.C. Londra, British Museum. Al dritto, il profilo dell’imperatore: al rovescio, Costantino, in abito militare seduto su corazza e scudo, poggia la mano destra su uno Zodiaco; a destra una Vittoria lo incorona.
Museo Nazionale Romano, facesse parte anche la ruota dello Zodiaco. In una serie di solidi in oro battuti a Ticinum (Pavia) da Costantino, l’imperatore, seduto su un trofeo, è affiancato a volte da una piccola Vittoria che lo incorona, e poggia la mano sulla ruota zodiacale, circondato dall’esplicita leggenda Rector totius orbis. Aion è ora scomparso, e si può pensare volutamente, favorendo cosí la sua assimilazione a Costantino. Questo gruppo di emissioni in oro, datato al 315-316 e destinato a celebrare i decennalia di regno insieme al quarto consolato imperiale, era riservato a donativi da elargirsi nella particolare occasione. Il messaggio propagandistico che queste monete dovevano veicolare era stato attentamente studiato e caricato di significati pregnanti, incentrati sul potere del principe, un potere che in queste iconografie assume un carattere universalistico. L’imperatore è signore del tempo e dei destini umani, ma non solo, dato che la Vittoria stessa è significativamente piú piccola di Costantino, quasi ad apporlo in una posizione che oltre a essere senz’altro sovrumana, è superiore anche a quella degli dèi.
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Donato Labate e Luigi Malnati (a cura di)
PARCO NOVI SAD DI MODENA: DALLO SCAVO AL PARCO ARCHEOLOGICO Archeologia, antropologia, storia e ambiente di un insediamento periurbano di età romana e medievale All’Insegna del GiglioCooperativa Archeologia, Sesto Fiorentino-Firenze, 261 pp., ill. b/n 40,00 euro ISBN 978-88-7814-818-5 www.archeologia.it www.insegnadelgiglio.it
Il volume dà conto dei dati acquisiti grazie all’intervento di archeologia preventiva eseguito a Modena, nell’area del Parco Novi Sad. Un’operazione che si distingue dalla prassi consueta, in quanto, all’indomani degli scavi, è stata avviata la realizzazione del parco archeologico Novi Ark, che permette oggi di vedere i resti piú significativi riportati alla luce nel corso delle indagini. Per una volta,
dunque, gli esiti del lavoro svolto dagli archeologi si sono trasformati in un bene offerto alla fruizione pubblica, ribadendo il valore sociale insito nello studio del nostro passato. A questo importante risultato si aggiunge ora la pubblicazione scientifica dello scavo, che evidenzia la ricchezza del contesto esplorato: nell’area del parco, infatti, è stata accertata una frequentazione che copre un arco temporale assai ampio, dall’età etrusca sino al XVII secolo. I contributi confluiti nell’opera riflettono questa sequenza temporale, offrendo i quadri di sintesi delle diverse fasi, ai quali si aggiungono approfondimenti su classi specifiche di materiali e analisi archeometriche. Ne risulta un resoconto articolato ed esauriente, che documenta con grande cura un capitolo importante della storia di Modena. Stefano Mammini Astrid Capoferro e Stefania Renzetti (a cura di)
L’ETRURIA DI ALESSANDRO MORANI Riproduzioni di pitture etrusche dalle collezioni dell’Istituto Svedese di Studi Classici a Roma Edizioni Polistampa, Firenze, 318 pp., ill. col. 48,00 euro ISBN 978-88-596-1779-2 www.leonardolibri.com
Pubblicato in occasione della mostra omonima, 112 a r c h e o
DALL’ESTERO Attilio Mastrocinque
THE MYSTERIES OF MITHRAS Orientalische Religionen in der Antike 24, Mohr Siebeck, Tubinga, 363 pp., 81 ill. 99,00 euro ISBN 978-3-16-155112-3 www.mohr.de
il volume ripercorre l’intervento di documentazione di alcune tombe etrusche dipinte – a Tarquinia, Orvieto, Chiusi e Veio – affidato alla fine dell’Ottocento dalla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen al pittore Alessandro Morani (1859-1941). Sotto la supervisione di Wolfgang Helbig, l’artista lavorò all’impresa, con alcuni aiuti, fra il 1897 e il 1910, realizzando oltre 150 acquerelli e 400 lucidi. Quel patrimonio, acquisito dall’Istituto Svedese di Studi Classici di Roma, ha un valore considerevole, soprattutto perché, al di là della qualità artistica delle riproduzioni, ci permette di «vedere» molte pitture oggi fortemente degradate o addirittura scomparse. Il catalogo vero e proprio è affiancato da contributi che descrivono l’ambiente nel quale Morani operò e da interventi di carattere tecnico e metodologico sulla documentazione e il restauro. S. M.
Da tempo oggetto di un rinnovato interesse, il culto di Mitra ha tra i suoi maggiori conoscitori Attilio Mastrocinque, che in questo volume – di taglio specialistico – propone un’interpretazione totalmente nuova del fenomeno. Inserito nel contesto storico, sociale e culturale in cui è nato e si è diffuso, il mitraismo romano appare infatti non tanto assimilabile al cristianesimo, come è stato sempre evidenziato, fin dall’antichità, quanto piuttosto vicino all’ideologia e alla religione imperiale. Il mitraismo romano è anche lontano dall’Avesta e dal culto del dio persiano al quale Mitra si riconnette, e nel quale, per esempio, non è contemplato il sacrificio del toro. Per comprendere l’iconografia mitraica è piú importante Virgilio, e Mitra viene visto da Mastrocinque come l’alter ego di Augusto. In epoca augustea venne usata una profezia, probabilmente di Zoroastro, che preconizzava la fine
dell’epoca infame, cioè delle guerre civili, il ritorno di Saturno, la nascita di un bimbo divino, capace di imprese incredibili e l’inizio di una nuova generazione. Nella profezia zoroastriana, il bambino divino doveva essere Mitra, nella realtà fu Augusto. L’iconografia mitraica mostra infatti la Gigantomachia (intesa dai poeti augustei come metafora delle guerre civili), Saturno (allusione al ritorno dell’età dell’oro), la nascita di Mitra, la nascita di uomini dagli alberi (la nuova generazione). Il sacrificio del toro è l’atto culminante della vicenda e può riallacciarsi nella realtà al trionfo degli imperatori, e, soprattutto, al fondamentale trionfo su Cleopatra: un trionfo triplice, che pose le basi dell’impero. Segue poi la disputa fra Mitra e il Sole, che appare inginocchiato davanti al dio supremo, poi riceve la corona radiata e si riconcilia con lui, sale al cielo sul carro, sul quale sale anche Mitra alla fine del soggiorno terreno. Nella storia Tiberio ebbe una lunga disputa con Augusto, si riconciliò con lui e ricevette i poteri imperiali, si inginocchiò davanti a lui e, alla fine, ne curò l’ascesa al cielo, cioè l’apoteosi. Augusto, in cielo, occupò lo spazio della Libra, sulla linea degli equinozi, esattamente come Mitra,
ed era anche nato il giorno dell’equinozio di autunno. Il culto di Mitra quindi si presenta sotto una connotazione profondamente romana e imperiale. Questo Mitra nuovo e storicizzato, compagno del sole e signore del cosmo viene presentato con minuziosa attenzione a tutti gli aspetti devozionali. Le fonti, le origini e il rapporto con il culto imperiale e con l’imperatore stesso, ma anche il rapporto con Aion, signore del tempo, con le divinità dei pianeti e l’oroscopo in generale vengono trattati in modo attento e innovativo. In particolare, viene dato spazio all’importanza delle arti magiche
durante le cerimonie e alla drammatizzazione riservata alle iniziazioni. L’analisi comprende inoltre una riflessione sui fenomeni definiti come para-mitraismo, tra cui rientrano anche le testimonianze di una sua diffusione tra le donne, anche se alle iniziazioni erano ammessi solo gli uomini. L’opera si chiude con una riflessione sulla fine del mitraismo stesso e sui suoi ultimi seguaci. I temi trattati, l’attenzione minuziosa per tutte le testimonianze del culto – in cui trovano ampio spazio anche oggetti apparentemente minori, come gemme magiche e monete –, la ricchezza di osservazioni in nota, la bibliografia pressoché
esaustiva e l’apparato fotografico fanno di questo libro una sorta di manuale sul mitraismo. Un’opera dunque imprescindibile per chi voglia accostarsi a questo culto anche attraverso un’angolazione nuova e particolare. Annarita Martini
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