Archeo n. 397, Marzo 2018

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ISRAELE

ETRUSCHI IN SARDEGNA

NELLA GROTTA DEI RIBELLI

SCOPERTE

VIVARA ISOLA DEL VINO

MITREO DI OSTIA

SPECIALE ROMA MUSEI CAPITOLINI

GROTTA DI TEOMIM

INVENTATO CHE HA

L’ARCHEOLOGIA?

E anche la storia dell’arte, il neoclassicismo e…

VIVARA

SPECIALE WINCKELMANN A ROMA

I MISTERI DELL’ULTIMO MITREO

OSTIA

www.archeo.it

IN EDICOLA L’ 8 MARZO 2018

IN

W JO M INC HA OS K N TR ELM N A A J. ww A RO NN w. a rc M he A o

2018

Mens. Anno XXXIV n. 397 marzo 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 397 MARZO

CHI ERA L’UOMO

€ 5,90



EDITORIALE

COLPO DI FULMINE Chi ricorda ancora la straordinaria vicenda di quel giovane e squattrinato studente, figlio unico di un umile calzolaio che, dalle nebbie della Sassonia, giunge nella Roma barocca, assumendo – dopo avervi soggiornato appena otto anni – nientemeno che la carica di «Commissario delle Antichità»? Se lo chiede l’archeologo – e nostro storico collaboratore – Friedrich-Wilhelm von Hase, curatore del bellissimo volume Winckelmann e il suo tempo, appena apparso in Germania, in occasione dei 250 anni dalla nascita del padre dell’archeologia classica e che, ci auguriamo, verrà presto tradotto in italiano. Il volume è dedicato… «all’Italia», alla sua arte e alla sua cultura, nonché alla «gentilezza dei suoi abitanti», a cui generazioni di studiosi tedeschi, da Giovanni Winckelmann in poi, fino all’Autore stesso, si sono sentiti, eternamente, legati. Nello speciale di questo numero, von Hase ci racconta la fulminante parabola dello studioso, quasi a scongiurare una «perdita di memoria» che il passare del tempo e l’avvento di mondi sempre nuovi e cangianti rischiano di accelerare inesorabilmente. Si tratta – lo leggerete – della «storia di vita» di un uomo geniale, alle prese con le difficoltà del quotidiano, né piú né meno come la stragrande maggioranza degli uomini e delle donne di ieri e di oggi, ma con una meta ben precisa scolpita nella mente: raggiungere la libertà, quella condizione che, da sola, gli permetterà di accedere alla sua vera vocazione esistenziale, ovvero la conoscenza dell’immenso patrimonio artistico dell’antichità. Già, perché per Winckelmann – e qui, naturalmente, le opinioni potranno divergere – «l’unica via per noi di diventare grandi (…) è l’imitazione degli antichi». Sempre nello Speciale di questo numero vi proponiamo la cronaca di una serie di «incontri fatali» inseguiti dal nostro personaggio, tra i quali quello con il primo, grande museo pubblico d’Europa, il Capitolino. Un amore a prima vista, è il caso di dirlo, di cui, in questi giorni, narra una preziosa mostra allestita proprio negli ambienti che avevano folgorato Winckelmann. Una mostra che, da sola, vale una visita a Roma… Andreas M. Steiner

Un disegnatore nella Galleria capitolina, sanguigna di Hubert Robert, 1762-1763, Los Angeles, The J. Paul Getty Museum. L’opera è attualmente esposta nella mostra «Il Tesoro di Antichità» (vedi alle pp. 74-101).


SOMMARIO EDITORIALE

Colpo di fulmine

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di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

SCOPERTE Scavi condotti sull’isola di Tavolara, al largo di Olbia, provano la presenza di genti etrusche in Sardegna

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PAROLA D’ARCHEOLOGO La missione italiana a Melka Kunture, in Etiopia, riporta alla luce le orme lasciate da uomini, donne e bambini che vissero nella regione 700 000 anni fa 20

SCAVI

Nel covo dei ribelli

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di Boaz Zissu, Eitan Klein, Roi Porat, Boaz Langford e Amos Frumkin

DA ATENE

Ritorno ad Anticitera 30 di Valentina Di Napoli

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ALL’OMBRA DEL VULCANO La tomba monumentale scoperta di recente a Porta Stabia potrebbe aver accolto le spoglie di un magistrato condannato per la sanguinosa rissa nell’anfiteatro fra Pompeiani e Nocerini 10 A TUTTO CAMPO La fruttuosa contaminazione fra archeologia e arte culinaria aiuta a svelare i segreti della cucina medievale 14

SCAVI

L’ultimo mitreo

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52 SCOPERTE

di Massimiliano David, con la collaborazione di Stefano De Togni, Paola Germoni, Alessandro Melega, Cinzia Morelli e Angelo Pellegrino

Vivara, isola del vino?

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di Massimiliano Marazzi

In copertina Ritratto di Johann Joachim Winckelmann (particolare), olio su tela di Anton Raphael Mengs. 1777 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.

Anno XXXIV, n. 397 - marzo 2018 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Redazione: Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione: Davide Tesei Amministrazione: Roberto Sperti

amministrazione@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale

Hanno collaborato a questo numero: Daniele Arobba è direttore del Museo Archeologico del Finale. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Marta Conventi è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio della Liguria. Massimiliano David è professore aggregato presso il Dipartimento di Storia, Culture e Civiltà dell’Università di Bologna. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale. Stefano De Togni è dottorando in archeologia presso l’Université de Bourgogne. Valentina Di Napoli è archeologa. Eloisa Dodero è co-curatrice della mostra «Il Tesoro di Antichità». Amos Frumkin è professore di geologia alla Hebrew University di Gerusalemme. Paola Germoni è funzionario archeologo del Parco Archeologico di Ostia Antica. Eitan Klein è ispettore archeologo presso l’Israel Antiquities Authority. Boaz Langford è geologo. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco Archeologico di Pompei. Massimiliano Marazzi è professore di filologia egeo-anatolica dell’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Alessandro Melega è dottorando in archeologia e antichità post-classiche presso «Sapienza» Università di Roma. Cinzia Morelli è funzionario archeologo del Parco Archeologico di Ostia Antica. Giovanni Murialdo è presidente della sezione finalese dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri. Claudio Parisi Presicce è Sovrintendente capitolino ai Beni Culturali. Angelo Pellegrino è stato funzionario archeologo del Parco Archeologico di Ostia Antica. Roi Porat è dottore di ricerca in archeologia. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Marco Valenti è professore associato di archeologia cristiana e medievale all’Università di Siena. Friedrich-Wilhelm von Hase è professore onorario presso l’Università di Vienna. Boaz Zissu è direttore del Martin (Szusz) Department of Land of Israel and Archaeology della Bar Ilan University di Ramat-Gan. Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio Stampa mostra «Il Tesoro di Antichità»: copertina (e p. 88) e pp. 3, 85, 90, 92, 93 (basso), 95, 96 (basso), 97, 99-101 – Cortesia Soprintendenza ABAP Sassari e Nuoro: pp. 6-7, 8 (basso) – Stefano Mammini: p. 8 (alto) – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 10-11 – Cortesia Dipartimento soprintendenza per i beni e le attività culturali della Regione Autonoma Valle d’Aosta: p. 12 – Cortesia degli autori: pp. 14-16, 17 (alto), 31 (basso), 77 (basso), 78 (alto), 80, 82-83 – Cortesia Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale: p. 17 (basso) – Cortesia Missione archeologica italiana a Melka Kunture e Balchit: pp. 20-21, 22 (centro); Kristiaan D’Août, University of Liverpool: p. 22 (alto) – Cortesia Aggeliki Simosi, Hellenic Ephorate of Underwater Anìtiquities: pp. 30, 31 (alto) – Cortesia Progetto Ostia Marina, Università di Bologna: S. De Togni: pp. 32/33, 34/35, 38/39, 43 (alto, a sinistra);


Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO

Storie di «cose artificiate» 102 di Daniele Manacorda

74 SPECIALE

Johann Joachim Winckelmann

102 QUANDO L’ANTICA ROMA...

...celebrò i suoi primi mille anni 106 di Romolo A. Staccioli

Omero, i Greci e la ricerca del bello

74

di Friedrich-Wilhelm von Hase

Alla scoperta del «Tesoro di Antichità»

88

incontro con Claudio Parisi Presicce ed Eloisa Dodero, a cura di Andreas M. Steiner

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Salvato da una cerva 110

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di Francesca Ceci

LIBRI

M. David: pp. 33, 35, 41, 43 (alto, a destra e basso), 45, 49; S. De Togni: elaborazione grafica a p. 34 (alto); M. David, S. De Togni: elaborazioni grafiche alle pp. 34 (basso), 40/41, 49; Giorgio Albertini: disegno a p. 42; ENEA Bologna: rilievo laserscanner a p. 42; A. Melega: elaborazione fotografica a p. 46 – Shutterstock: pp. 36, 62/63, 76 – DeA Picture Library: G. Dagli Orti: p. 47 – Doc. red.: pp. 48, 84, 89, 91, 93 (alto), 94, 96 (alto), 106-107, 111 – Cortesia Martin (Szusz) Department of Land of Israel Studies and Archaeology, Bar-Ilan University, Ramat-Gan, e Cave Research Center, Hebrew University, Gerusalemme: B. Zissu: pp. 52 (basso, a sinistra), 52/53, 54, 56, 57 (basso), 58, 60 (basso, a sinistra), 61; Y. Zissu: pp. 52 (basso, a destra), 59; B. Langford, M. Ullman, A. Klein: pianta a p. 55; B. Langford: p. 57 (alto); Tal Rogovski: p. 60 (alto e basso, a destra); Julia e David Rudman: disegno a p. 60 – Cortesia Archivio Missione Archeologica a Vivara: pp. 62, 63, 64, 65, 66-72; Archivio Moccheggiani: pp. 64/65 – Mondadori Portfolio: pp. 104/105; Leemage: pp. 74, 108 AKG Images: pp. 75, 77 (alto), 78 (basso), 78/79, 80/81, 103; Electa/Fabrizio Carraro: pp. 86-87 – Archivi Alinari, Firenze: p. 102 – Da: Stefano Giuntoli, Le necropoli etrusche di Macchia della Riserva a Tuscania. 1 Pian delle Rusciare (Arbor Sapientiae, Roma 2015): p. 110 – Cippigraphix: cartina a p. 53. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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n otiz iari o SCOPERTE Sardegna

ETRUSCHI IN TRASFERTA

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e prime attestazioni della complessa trama di relazioni che caratterizza i rapporti tra Etruria e Sardegna risalgono almeno alla fine dell’età del Bronzo. Solo un breve tratto di mare divide le due regioni e il movimento radiale delle correnti marine, a seconda dei vari periodi dell’anno, ne favorisce il contatto. Piú precisamente, il sistema antiorario che si sviluppa dalla costa tirrenica tra Capo Linaro (nel Comune di Santa Marinella, Roma) e l’Argentario (Grosseto) – che, con i suoi 180 km di distanza, rappresenta il punto piú vicino del continente –, rimanda quanto mai velocemente alla costa nord-orientale della Sardegna. E proprio qui, sull’isolotto di Tavolara, immediatamente prospiciente il fiordo di Olbia, è

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stato recentemente scoperto, come ci racconta Francesco di Gennaro, Soprintendente Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Sassari e Nuoro, un insediamento riferibile a una fase della «cultura villanoviana» pienamente formata. «Gli scambi tra la Sardegna “nuragica” e l’aspetto culturale della prima età del Ferro dell’Etruria detto “villanoviano” – sottolinea di Gennaro – sono ben noti e ampiamente studiati, ma finora non era documentata la presenza di una comunità

che, proveniente dalla sponda etrusca, si fosse stanziata e avesse prosperato in Sardegna. Si tratta quindi di una novità assoluta, che costituisce un balzo in avanti nella ricostruzione dei rapporti tra le due sponde del Tirreno in epoca protostorica». E se finora l’intensità delle presenze di materiali nuragici sulla costa tirrenica, a partire dalla seconda metà del IX secolo, è stata ritenuta indicativa di una presenza stabile di genti di provenienza


In alto: Isola di Tavolara (Sardegna). La spiaggia di Spalmatore di Terra, dove sono state rinvenute tracce di un sito riconducibile alla cultura villanoviana.

Nella pagina accanto in alto: fibula serpeggiante tipologicamente riconducibile all’Italia peninsulare, dal ripostiglio di S’Adde ‘e S’Ulumu a Usini, Sassari. Prima età del Ferro. Sulle due pagine: navicella nuragica in bronzo con protome taurina, dal santuario di Hera a Gravisca (Tarquinia).

sarda in Etruria settentrionale, la scoperta di Tavolara sembra capovolgere l’assunto storico. E cosí i caratteristici manufatti di provenienza peninsulare – soprattutto fibule, ma anche asce ad alette, rasoi di differenti tipi, spade – contrappunto alle piú tipiche produzioni sarde ritrovate nell’Etruria tirrenica – navicelle, faretrine, bottoni in bronzo, pendagli «a pendolo» e le cerimoniali brocchette askoidi –, possono rientrare tra gli oggetti scambiati nel «porto franco» di Olbia, certamente collegato

all’abitato «extraterritoriale» di Tavolara. Né quello dell’isolotto nella rada di Olbia dovette essere un caso isolato, dato che nello stesso periodo si assiste alla fondazione dei primi empori levantini, diretti eredi dei Micenei e dei Ciprioti, come a Sant’Imbenia. Sembra dunque giustificato l’entusiasmo del soprintendente, quando afferma che «si può finalmente, e simbolicamente, pensare di aver ritrovato l’imbarcadero da cui salpò alla volta della costa etrusca, oggi tra Toscana e Lazio, la giovane sarda che, alcuni anni piú tardi, dopo avere vissuto nella Vulci etrusca di

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n otiz iario In alto: statua nuragica in arenaria detta del «pugilatore» con scudo ricurvo sulla testa, da Mont’e Prama. Cabras, Museo Civico Giovanni Marongiu. X-VIII sec. a.C. A destra: brocchetta askoide. Cabras, Museo Civico Giovanni Marongiu.

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prima fase, venne seppellita nella necropoli di Cavalupo. Il suo sepolcro, che conteneva anche i resti di un bambino, come lei sottoposto al rito etrusco dell’epoca, l’incinerazione, è noto come Tomba dei Bronzetti Sardi perché vi sono stati appunto rinvenuti tre piccoli bronzi figurati di origine sarda, che la donna portò con sé nella terra straniera di adozione o che attestano la non interruzione dei suoi rapporti con la madrepatria. La vicenda della giovane sarda sposata con un cittadino della “Vulci villanoviana” è una delle tante storie analoghe e parallele, della quale però abbiamo avuto la fortuna di trovare le attestazioni archeologiche. Estremamente interessante è che nella sua tomba le sia stato conservato un piccolo simulacro di bronzo che rappresenta un “pugile” che imbraccia uno scudo arrotolato. Sia per alcuni tratti fisionomici – come i grandi occhi rotondi –, ma specialmente per questo scudo, appaiono evidenti le analogie con le statue di Mont’e Prama (vedi «Archeo» n. 393, novembre 2017), che consentono di stabilire un parallelo cronologico nell’ambito del IX secolo a.C.». I risultati degli scavi, supportati finanziariamente dell’ente Area marina protetta Tavolara e Capo Coda Cavallo, sono in corso di edizione da parte di Francesco di Gennaro, con il responsabile di zona Rubens D’Oriano e Paola Mancini, che li ha materialmente condotti nel 2011 e nel 2013, dopo il ritrovamento di frammenti ceramici affioranti da parte di Giuseppe Pisanu. Carlo Casi



ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

TIFO VIOLENTO L’ISCRIZIONE FUNERARIA SULLA TOMBA SCOPERTA A POMPEI FUORI PORTA STABIA RIVELA EPISODI LEGATI AGLI ULTIMI DECENNI DI VITA DELLA CITTÀ. FRA CUI LA FAMOSA RISSA ALL’ANFITEATRO DEL 59 D.C. CHE COMPORTÒ L’ESILIO DEI MAGISTRATI CITTADINI

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a recente e sorprendente scoperta della tomba monumentale fuori Porta Stabia, costruita poco prima dell’eruzione del 79 d.C. (vedi «Archeo» n. 391, settembre 2017), permette di gettare nuova luce su alcuni importanti episodi degli ultimi decenni di vita di Pompei. La lunga iscrizione funeraria, seppur silente sul nome del defunto, ci informa sulle imprese realizzate in vita dal titolare del monumento: un vero e proprio elogio che racconta dell’assunzione della toga virile e della carica di duoviro (maggiore carica istituzionale cittadina), nonché delle nozze del prestigioso personaggio pompeiano. Si tratta di momenti significativi della sua vita festeggiati con atti di singolare munificenza, come un

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generoso banchetto pubblico, l’elargizione di denaro e, soprattutto, l’organizzazione di spettacoli gladiatori con la partecipazione di bestie feroci. La citazione degli eventi che vedono come promotore il nostro personaggio – identificato da Massimo Osanna come un membro della famiglia degli Alleii,


Nella pagina accanto, in alto: affresco raffigurante la zuffa tra Pompeiani e Nocerini, da Pompei, Casa della Rissa nell’Anfiteatro. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto, in basso: l’anfiteatro di Pompei in una foto d’archivio. Nigidius Maius, uno dei pompeiani piú in vista dell’età neronianaflavia – rievocano in particolare il famoso episodio narrato dallo storico Tacito (Annali XIV, 17) avvenuto a Pompei nel 59 d.C., quando, durante uno spettacolo gladiatorio, scoppiò nell’anfiteatro una rissa, che degenerò in un violento scontro armato. L’evento richiamò addirittura l’attenzione dell’imperatore Nerone, il quale incaricò il Senato di chiarire il fatto.

PUNIZIONI ESEMPLARI In seguito alle indagini dei consoli, come riporta Tacito, ai Pompeiani fu vietato di organizzare manifestazioni gladiatorie per dieci anni; le associazioni illegali furono sciolte; l’organizzatore dei giochi e quanti altri avevano istigato l’episodio vennero esiliati. Nell’iscrizione della tomba di Porta Stabia, che completa le

informazioni di Tacito, si fa riferimento all’esilio che avrebbe colpito anche i due sommi magistrati in carica, i duoviri della città, e quindi, almeno momentaneamente, in quanto poi popolarmente riabilitato, anche il nostro Nigidius Maius? Al di là dell’affascinante ipotesi storica, l’iscrizione della tomba ci permette di tornare sul drammatico evento del 59. La cronaca di Tacito ricorda che «in quell’epoca si ebbe un fiero massacro tra Nocerini e Pompeiani, originato da una futile causa in occasione dei ludi gladiatori banditi da quel Livinieio Regolo, che ho già ricordato espulso dal Senato. Dapprima si scambiarono ingiurie con l’insolenza propria dei provinciali, poi passarono alle sassate, alla fine ricorsero alle armi, prevalendo i cittadini di Pompei, presso i quali si dava lo spettacolo. Furono, perciò, riportati a casa molti di quelli di Nocera, col corpo mutilo per ferite, ed in quella città parecchi cittadini piansero la morte dei figli e dei genitori». Sugli spalti dell’anfiteatro scoppiò quindi una furiosa zuffa, probabilmente alimentata da precedenti rancori e dissapori, in In alto: la tomba monumentale rinvenuta presso Porta Stabia. A sinistra: particolare del rilievo con scene gladiatorie e cacce di animali che con ogni probabilità apparteneva alla parte superiore della tomba scoperta presso Porta Stabia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

cui i Nucerini ebbero nettamente la peggio: furono massacrati e i superstiti violentemente cacciati fuori dalla città. Il senatore Livineio Regolo, organizzatore dei giochi, e quanti avevano fomentato la rissa vennero severamente allontanati. Il resoconto storico è peraltro di straordinaria attualità, se paragonato agli incresciosi episodi di cui gli stadi sono spesso teatro: possono cambiare i tempi, ma non le azioni facinorose e violente.

SCONTO DI PENA E come avviene all’esterno dei nostri impianti sportivi, allora come oggi, non mancavano bagarini, ambulanti, ultras schiamazzanti, slogan scritti, e, purtroppo, sfoghi incivili da libidine sportiva. Il fatto di sangue pompeiano colpí profondamente l’opinione pubblica, come testimoniano sia un affresco da una casa di Pompei che raffigura proprio quello scontro, sia un graffito, all’interno della Casa dei Dioscuri, che fa riferimento all’accaduto: «O Campani, siete morti insieme ai Nocerini in quella vittoria!». L’interdizione dell’anfiteatro venne poi ridotta a soli due anni, forse grazie all’intervento di Poppea, moglie di Nerone, che sembra possedesse una villa dalle parti di Pompei. Per notizie e aggiornamenti su Pompei, pagina Facebook: Pompeii-Parco Archeologico.

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n otiz iario

SCAVI Aosta

ACQUA PER AUGUSTA PRAETORIA

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ecenti indagini archeologiche condotte nella centralissima piazza Roncas, ad Aosta, sotto la direzione della Soprintendenza per i beni e le attività culturali della Regione Autonoma Valle d’Aosta, hanno completato il panorama, già ampio, delle conoscenze di un quartiere sviluppatosi intorno alla Porta Principalis Sinistra della città

romana dall’epoca medievale sino ai giorni nostri. «Monumentali – spiega Alessandra Armirotti, archeologo responsabile di zona per la Soprintendenza – sono i resti emersi dagli scavi della porta settentrionale della colonia di Augusta Praetoria, costruita alla fine del I secolo a.C. con un cortile interno delimitato, a sud e a nord, da una doppia fauce, ossia due strutture murarie ortogonali alle due grandi torri quadrate laterali; di queste, le strutture rivolte verso l’interno della città si trovano decisamente “sporgenti” rispetto all’allineamento degli spigoli delle torri, mentre quelle verso l’esterno (che recano i segni per l’alloggiamento della saracinesca)

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si trovano piú arretrate rispetto allo stesso allineamento. La Porta subisce importanti trasformazioni già verso la metà del I secolo d.C., quando vengono demolite le due fauci interne e raddoppiate quelle esterne. Nel corso degli scavi sono stati riconosciuti sia i segni di queste demolizioni, sia la presenza di una nuova fauce nella porzione nord della Porta, a una distanza di soli 2,35 m dalla precedente. Per rispondere alla maggiore richiesta di approvvigionamento idrico della città, ampiamente documentata archeologicamente in molti altri contesti urbani, viene inoltre costruita una torre idraulica, addossata al lato interno della torre orientale, rivestita di blocchi squadrati di travertino per mimetizzarla nel contesto.

Nel corso delle indagini appena ultimate, ne sono state individuate la base quadrata di 2,40 m di lato, nonché la traccia inequivocabile del suo canale di adduzione, costituito da un foro quadrato, passante nei muri della fauce nord. Uno dei ritrovamenti piú eclatanti è riconducibile proprio all’allestimento idrico delle fasi tarde della Porta di epoca romana: in rottura rispetto al muro della fauce nord, è stata messa in luce una fistula plumbea (tubo), lunga circa 3 m, pressoché intatta e verosimilmente reimpiegata, con una forma sinuosamente ricurva per adattarsi alla presenza di strutture murarie precedenti, recante due bolli impressi. Il reperto è stato prelevato ed è attualmente in fase di pulitura e restauro». Giampiero Galasso

A sinistra: Aosta. Il cantiere di scavo che ha operato in piazza Roncas, offrendo nuove e importanti informazioni sull’assetto del quartiere

che si sviluppò intorno alla Porta Principalis Sinistra della città romana. In basso: la fistula (tubo) in piombo scoperta nel corso degli scavi.



A TUTTO CAMPO Marco Valenti

UNA CONTAMINAZIONE GUSTOSA ARTE CULINARIA E ARCHEOLOGIA SI SONO UNITE PER RICOSTRUIRE LA CULTURA DEL CIBO NEL MEDIOEVO. SONO STATI COSÍ DEFINITI NON SOLO GLI INGREDIENTI UTILIZZATI, MA ANCHE IL LORO VALORE SIMBOLICO «Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: per la dannosa colpa de la gola, come tu vedi, a la pioggia mi fiacco» (Dante, Divina Commedia, Inferno VI, 52-54).

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a rubrica di questo mese intende descrivere un’esperienza di pura contaminazione tra alta cucina, letteratura culinaria e archeologia. Su queste basi, si è di recente svolta un’esperienza molto interessante tra un archeologo (chi scrive) e lo chef stellato Matteo Lorenzini, che ha visto compenetrarsi due mondi diversi e due modi, altrettanto diversi, di fare ricerca. Tutto ha avuto inizio in occasione del Millennials Festival 2017, organizzato da Angelo Riccaboni, docente di economia all’Università di Siena; tema della manifestazione era la sostenibilità della produzione di cibo. In quest’ottica, venivano presi in considerazione i 17 obiettivi

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presenti ne L’Agenda 2030 dell’ONU per lo Sviluppo Sostenibile e rintracciati nell’Allegoria del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti, affrescato con carattere propagandistico e programmatico nel 1338 per volere dei governanti della città nelle sale del Comune di Siena.

Nell’occasione è nata l’idea di studiare e riproporre alcune preparazioni culinarie coeve o di poco successive agli anni di Lorenzetti, per capire in cosa consistesse il cibo delle classi agiate e quale fosse la simbologia a esso legata. Un’iniziativa cosí atipica si sta trasformando in una ricerca profonda, con la realizzazione di alcuni piatti secondo gli ingredienti e le tecniche di preparazione documentate nella letteratura culinaria del periodo compreso tra la metà del XIV e la metà del XV secolo, abbinata alle sperimentazioni attuate soprattutto sullo scavo senese di Poggio Imperiale a Poggibonsi. Ha cosí preso il via un lungo lavoro, condotto tra sedute di studio sulle fonti scritte (in particolare, il Ricettario del 1338-39 in fiorentino antico, l’Anonimo Toscano, databile tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, e il Libro de arte coquinaria di Mastro Martino de’ Rossi del 1464/65), le


A sinistra: lo chef Matteo Lorenzini e l’archeologo Marco Valenti con una delle ricette riprodotte (miglio). Nella pagina accanto: la ricetta del miglio riprodotta. In basso: la copertina della rivista enogastronomica Gambero Rosso, che mostra uno dei piatti riprodotti.

cucine e il cantiere di scavo, attraverso confronti, approfondimenti, discussioni e focalizzazione di traguardi. Non si è trattato di replicare una cena medievale, né di una rievocazione storica incentrata sul cibo, né di un’operazione di archeologia sperimentale.

ALLA RICERCA DEI SAPORI PERDUTI L’obiettivo era quello di mettersi alla prova nel presente, ma con lo sguardo al passato, comprendendo e rielaborando scelte del gusto di secoli addietro, con combinazioni, preparazioni e cotture oggi scomparse o presenti solo in traccia in alcuni piatti o tecniche ancora praticate. Una ricerca di sapori perduti. Le storie personali e le capacità dei due protagonisti si sono intrecciate rispettandosi ed è stata trovata subito convergenza su alcune idee di fondo. Il cibo e l’alimentazione vanno contestualizzati storicamente, nonché ricollegati ai modelli di

riferimento vigenti nell’epoca presa in esame. Il cibo non è buono o cattivo, ma è il «gusto» che cambia nel tempo. Il cibo costituisce dunque un prodotto culturale specifico, con valore diverso nelle epoche e nelle società. Come ha evidenziato Massimo Montanari, l’obiettivo del gastronomo pre-moderno era quello di riunire insieme tutte le esperienze, di accumulare sulla propria tavola tutti i territori possibili in una sorta di grande banchetto universale, superare la dimensione del locale, oltrepassare il territorio: il «cibo del territorio» non era conveniente e soprattutto non era indicatore di potere. Infine ci ha affascinato il ruolo curativo e di prevenzione, postulati che fanno parte integrante della pratica della cucina e perpetuati dall’antichità: la cucina deve produrre alimenti piacevoli, ma trasformarne la natura, per scopi terapeutici, adattandoli alle esigenze nutrizionali degli uomini.

Sono cosí state realizzate 20 preparazioni, molto diversificate tra loro. Il risultato è stato di grande qualità, tanto che piú d’una rivista specializzata sta dando spazio all’operazione; tra queste, Gambero Rosso, oltre a parlare di archeologia in alcuni articoli nella versione web, ha proposto nel mese scorso il nostro lavoro come un modello di riferimento per la nascita di una nuova tendenza gastronomica, definita New Ancient Cuisine; in essa, come scritto nell’articolo, «viene fuori la storia, la storicità, il passato, il patrimonio culturale. Chi oggi sta proponendo avanguardia, in Italia, lo sta facendo sempre con una formidabile cognizione di causa basata su studi, indagini, approfondimenti storici»; «La New Ancient Cuisine prevede dunque lo studio delle origini, dei primordi, dell’evoluzione». Insomma un’archeologia del cibo per produrre novità nel presente. (marco.valenti@unisi.it)

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n otiz iario

MOSTRE Liguria

STORIE DI UNA TERRA DI CONFINE

A

llestita presso il Museo Archeologico del Finale, la mostra «Ad fines. 500 miglia da Roma» offre l’occasione di scoprire – attraverso materiali, installazioni e pannelli illustrativi – in che modo si vivesse ai tempi dell’antica Roma in un piccolo territorio rurale, quale doveva essere il Finale, porzione stretta tra monti e mare della Liguria di Ponente. Il titolo della mostra deriva dal fatto che in età romana il Finale era posto appunto al confine, cioè «Ad fines», tra i municipi di Vada Sabatia/ Vado Ligure e di Albingaunum/Albenga, segnato dal torrente Pora, che già separava le tribú liguri dei Sabazi e degli Ingauni. In questo territorio sono rimaste importanti testimonianze di tale periodo, con resti monumentali tra i quali spiccano i cinque ponti della Val Ponci, facenti parte del sistema stradale della via Iulia Augusta. Quest’ultima collegava Piacenza

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con la Gallia meridionale, attraversando il Ponente ligure, da Vada Sabatia all’Alpe Summa – l’attuale La Turbie (oggi in territorio francese) –, dove nel 7/6 a.C. venne eretto il maestoso trofeo di Augusto, che simboleggiava la definitiva conquista delle Gallie. La mostra esordisce con la riproduzione della grande carta geografica nota come Tavola peuntingeriana, che illustra la rete viaria riordinata da Augusto e sulla quale si svolgeva il traffico dell’impero. Il Finale è qui rappresentato da una linea spezzata in prossimità di un enigmatico corso d’acqua, denominato Flumen Lucus. Per questa zona le fonti antiche non ci hanno quindi tramandato una sicura denominazione e il toponimo Pullopice o Pollupice, una possibile stazione di sosta lungo la via Iulia Augusta, tra Finale Ligure e Pietra Ligure, viene riportato unicamente

nell’Itinerario Antonino, una descrizione delle vie romane in età imperiale risalente al III secolo d.C. Gli scrittori antichi hanno descritto i Liguri insediati sulla fascia costiera come contadini e pastori impegnati a sfruttare le poche risorse di un territorio difficile, prevalentemente montuoso e con piccole piane paludose poco idonee all’agricoltura. L’inevitabile scontro iniziale tra Liguri e Roma fu anche un conflitto di «civiltà», tra una grande potenza militare ed economica in una fase di inarrestabile espansione mediterranea e genti organizzate in gruppi etnici tribali, spesso in contrasto tra loro e fortemente ancorati a tradizioni secolari. La romanizzazione del territorio ligure fu comunque un graduale, ma inesorabile processo storico. Nel silenzio delle fonti scritte, la storia del Finale in età romana può essere letta quasi esclusivamente attraverso l’archeologia, che ci restituisce indizi sugli insediamenti esistenti sul territorio, sulle necropoli e i rituali funerari, sulla viabilità, l’alimentazione e le colture agrarie, soprattutto grazie agli oggetti della vita quotidiana. La mostra, tra i materiali esposti, presenta ceramiche, monete in argento, una statuina votiva in bronzo del dio Mercurio, materiali da costruzione e – per la prima


ROMA

L’Afrodite ritrovata A destra: la sezione dedicata al relitto navale di Albenga. Nella pagina accanto, in alto: vaso a calice. I sec. d.C. Finale Ligure, Museo Archeologico del Finale. Nella pagina accanto, al centro: statuina in bronzo raffigurante Mercurio. I-II sec. d.C., Finale Ligure, Museo Archeologico del Finale. Nella pagina accanto, in basso: un particolare dell’allestimento. volta al pubblico – alcune epigrafi funerarie provenienti dal mercato antiquario e appartenenti alle collezioni civiche. Ampio spazio è dedicato anche all’archeologia subacquea e al relitto navale di Albenga del I secolo a.C., con l’esposizione di anfore vinarie Dressel 1 di produzione centro-italica e suggestive riprese video sottomarine eseguite durante le attività di ricerca e tutela promosse dal Servizio Tecnico per l’Archeologia Subacquea della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio della Liguria. Infine, vengono riproposte immagini del mosaico in tessere bianche e nere del III secolo rinvenuto a Loano, che sicuramente costituisce uno dei piú importanti e meno noti reperti romani dell’intera Liguria.

In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca.

Completano l’offerta della mostra un fitto programma di visite guidate e attività didattiche per bambini e famiglie, oltre a itinerari Archeotrekking accompagnati sul territorio, e una guida/catalogo illustrata, con approfondimenti sui temi dell’esposizione. Daniele Arobba, Marta Conventi, Andrea De Pascale e Giovanni Murialdo

Trafugata nel 2011 dall’Università di Foggia, una pregevole statua della dea Afrodite (foto in basso) è stata recuperata dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, che l’aveva individuata fra i lotti di una vendita organizzata da una casa d’aste bavarese. Dal ritrovamento dell’opera, databile al I secolo d.C., è nata un’articolata indagine, che, grazie al contributo della polizia tedesca, ha permesso di identificare un trafficante tedesco, che era solito approdare in Italia, per visionare i reperti scavati illecitamente e scegliere quelli di migliore fattura per le sue attività illegali in Germania. Le ulteriori investigazioni hanno portato all’individuazione di tutti i soggetti coinvolti nel traffico, che, nel 2016, sono stati tratti in arresto. Sono stati cosí recuperati oltre 2500 reperti, tranne l’Afrodite, finalmente restituita al patrimonio culturale italiano a seguito della rogatoria internazionale promossa dalla Procura della Repubblica di Roma.

DOVE E QUANDO «AD FINES. 500 miglia da Roma. Al tempo dei Romani nel Finale» Finale Ligure Borgo (Savona), Museo Archeologico del Finale fino al 3 giugno Orario ma-do, 9,00-12,00 e 14,30-17,00 Info tel. 019 690020; www.museoarcheofinale.it

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

CUCCIOLI D’UOMO LE RICERCHE DELLA MISSIONE ITALIANA CHE LAVORA SUL SITO DI MELKA KUNTURE, IN ETIOPIA, HANNO PORTATO A UNA SCOPERTA DI STRAORDINARIA IMPORTANZA: SONO STATE INFATTI LOCALIZZATE LE IMPRONTE LASCIATE DAI PIEDI DI ALCUNI BAMBINI DI 700MILA ANNI FA

C

i sono anche le impronte dei piedi di alcuni bambini tra le orme di ominidi, risalenti a 700mila anni fa, scoperte nel sito di Melka Kunture, in Etiopia: si tratta di una scoperta che ha pochi precedenti, come ci spiega Margherita Mussi (foto in alto, a destra), direttrice della missione italiana a Melka Kunture – sito di 100 km quadrati nell’alta valle

del fiume Awash – e docente di preistoria e protostoria presso l’Università «Sapienza» di Roma: «Sono impronte di donne e bambini che svolgono attività quotidiane riconducibili all’Homo Heidelbergensis, l’antico antenato comune della nostra specie e dei Neandertal. Si tratta di tracce importanti, perché per la prima volta permettono di toccare con

mano un mondo che altrimenti, per il Paleolitico, si immagina al maschile e fatto di soli adulti. In altri siti sono stati rinvenuti resti ossei di bambini, ma sono molto rari. Sono documentati resti di mandibola risalenti a 1 milione e 700 mila anni fa: ma si tratta di ossa. A Melka Kunture, invece, ci sono bambini “vivi”. Le impronte, inoltre, sono le piú antiche mai venute alla luce. I siti con impronte umane anteriori ai 300mila anni fa si contano sulle dita di una mano: il nostro ha oltre 700mila anni». C’è anche un bimbo che muove i primi passi, non è vero? «Ci sono le impronte di un bambino che si appoggia sui talloni e oscilla: forse non sa ancora camminare e sta facendo i primi tentativi per rimanere in equilibrio. Le impronte dei piú piccoli sono lunghe poco piú di 10 cm e si riconoscono per il piede “piatto”: l’arco plantare, infatti, non è ancora formato». Ci sono, poi, impronte di un gruppo di adolescenti che, forse, giocava in cima al vulcano… Ci vuole raccontare, professoressa Mussi? Sulle due pagine: Gombore (Etiopia). Le impronte umane meglio conservate di un bambino (a sinistra) e di un adulto (nella pagina accanto). Le orme sono databili a 700mila anni fa circa e sono state lasciate da individui della specie Homo Heidelbergensis, l’antico antenato comune dell’Homo sapiens e dei Neandertal.

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A COLLOQUIO CON FLAVIO ALTAMURA

Ma com’è fatta la zampa di un ippopotamo? La scoperta delle improne di Melka Kunture è frutto degli scavi condotti da laureandi e dottorandi dell’Università «Sapienza» di Roma. Tra questi c’è Flavio Altamura, che segue lo scavo da quando venne ritrovata la prima orma. «La prima impronta venuta alla luce – racconta – è stata quella di un ippopotamo, nel 2012: un cuscinetto con quattro semicerchi attorno. Avevamo iniziato a scavare nel sito denominato “Gombore II-2”, poiché era noto in letteratura come uno dei piú antichi luoghi di macellazione di grossi mammiferi, in particolare di ippopotami. Quel giorno ero alla guida del cantiere come direttore degli scavi: quando è affiorata l’impronta, non sapendo come fosse fatta la zampa di un ippopotamo (nel Pleistocene erano molto diffusi, oggi no), ho chiamato la professoressa Mussi, la quale si è collegata a un internet point di Addis Abeba per controllare la zampa on line. Nel 2013 abbiamo trovato la prima impronta di bambino, lunga 11 cm circa, attribuita dai colleghi inglesi a un ominide di circa un anno. Abbiamo scavato per tre anni e messo in luce alcune centinaia di impronte, molte delle quali non diagnostiche. In gran parte appartengono a bovidi – come gnu o gazzelle –, alcune a ippopotami. In undici casi sono umane: ma solo due appartengono ad adulti, le altre sono tutte di bambini o ragazzi che giocavano nei pressi di una sorta di pozza d’acqua, dove veniva lavorata la pietra e gli animali andavano ad abbeverarsi». Uno «scatto» di vita vissuta di 700mila anni fa… «È un vero e proprio piano di vita, perfettamente sigillato dal deposito vulcanico, grazie al quale si sono conservate le impronte, che, altrimenti, sarebbero scomparse. È una fotografia esatta della situazione prima dell’eruzione: una sorta di Pompei della Preistoria. Per datare l’eruzione è stato utilizzato il metodo radiometrico “Argon-Argon”, che si basa sul decadimento dell’elemento Argon 39-40 e si usa per epoche piú antiche rispetto al metodo del C14. Al di sopra dell’eruzione abbiamo individuato una vera e propria “pista” usata dagli animali per andare al pascolo ogni notte, ma nessuna impronta di esseri umani. Questo indirettamente dimostra che gli ippopotami sono stai gli unici sopravissuti all’eruzione». Anche perché, il paesaggio, all’epoca, doveva essere molto diverso da quello attuale… «Siamo 60 km a sud di Addis Abeba, sul bordo dell’altopiano etiope, a oltre 2000 m di altezza: l’area di Melka Kunture nel Plei-

«Si riconoscono tracce molto lunghe di giovani individui, probabilmente adolescenti, impresse nel materiale vulcanico non ancora consolidato: appartengono forse a ragazzini

stocene era un ambiente montano, non una savana. Il paesaggio era molto diverso da quello che immaginiamo per sviluppo dell’evoluzione umana: una montagna a cui l’uomo dovette adattarsi, con temperature rigide, anche sotto lo zero. I terrazzamenti preistorici, che affiorano lungo le incisioni fluviali che intaccano l’altipiano, offrono testimonianze relative alle fasi piú antiche dell’evoluzione umana, che vanno dal Paleolitico Inferiore (in cui si passa dalla tecnica litica arcaica del periodo cosiddetto Olduvaiano ai bifacciali dell’Acheuleano) fino a quello Medio e Superiore. L’Homo sapiens – che in Europa arriva 40mila anni fa – in Etiopia arriva molto prima, intorno a 200mila anni fa (come documenta il sito Garba III)». Il sogno nel cassetto della prossima campagna di scavo? «A novembre amplieremo lo scavo nell’area delle impronte. Speriamo di trovare una “pista” di orme umane».

curiosi di oltre 700mila anni fa. E, soprattutto, non si tratta di una passeggiata solitaria, come a Laetoli (sito della Tanzania, nel quale Mary Leakey ha scoperto orme di australopitecine databili a

3,6 milioni di anni fa circa, n.d.r.), ma di un vero e proprio sito archeologico. Qui abbiamo tutto: le impronte degli animali (dagli uccelli agli ippopotami) e l’industria litica scheggiata,

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d’acqua: forse gli animali andavano lí ad abbeverarsi». Come si datano le impronte? «I resti archeologici sono sigillati da uno strato vulcanico, una “nube ardente” datata a 709mila anni fa (±14mila, come si usa). Subito al di sopra dello strato dell’eruzione, spesso oltre 50 cm, non si trovano piú impronte umane, ma solo di molti ippopotami: si vedono grosse zampate, che affondano nello strato anche per 30-40 cm».

successivi (in cui sono stati trovati manufatti ma non impronte).». Queste scoperte sono il risultato di anni di lavoro sul campo. La missione che lei dirige, finanziata dall’Università «Sapienza» di Roma e dal Ministero degli Affari Esteri, indaga un sito molto esteso, unico non solo per le impronte di ominidi. Perché Melka Kunture è cosí importante? «Parliamo di un insediamento che si estende su un’area di 100 kmq e

Come avete documentato queste eccezionali «zampate» di ippopotamo del Paleolitico? «Abbiamo scavato e poi riempito di gesso la cavità delle impronte, cosí da ottenere il calco della zampa. Si tratta di testimonianze davvero eccezionali: finora erano stati individuati solo resti ossei degli ippopotami di 700mila anni fa. Mai le parti molli della zampa, con tutte le dita, come a Melka Kunture». Dopo quell’eruzione di 700mila anni fa, in quale momento l’uomo torna a frequentare il sito? «Dopo qualche tempo, alcuni decenni o secoli. Subito sopra l’eruzione, infatti, non abbiamo trovato tracce umane. Mentre gli ippopotami ritornano quando il materiale vulcanico è ancora morbido, come mostrano le profonde “zampate”, l’uomo ricompare solo negli strati

che è oggetto di ricerche da oltre cinquant’anni (la missione italiana dal 1999). È un vero e proprio scrigno per ricerche di ogni tipo. I materiali archeologici coprono un arco temporale che va da 1 milione e 800mila anni fa fino a 200mila anni fa. In zona, tra le testimonianze di maggior rilievo, c’è un affioramento di ossidiana usato dall’epoca preistorica fino a oggi. I primi a utilizzarlo furono gli uomini del periodo olduvaiano, 1,7 milioni di anni fa. È uno dei grandi siti della Rift Valley etiope: la differenza è che a Melka Kunture siamo in quota, tra i 2000 e i 2200 m. Il sito è “gemello” di Olduvai, in Tanzania, ma noi siamo in montagna. Non c’è la savana. Il paesaggio è molto diverso e piove molto, tanto che noi archeologi possiamo lavorare solo nei mesi di novembre o febbraio».

In alto: due membri dell’équipe che opera a Gombore durante la campagna di scavo condotta nel 2015. A destra: impronte di ungulati rinvenute sulla paleosuperficie sigillata dall’eruzione vulcanica che colpí la zona 700mila anni fa. lavorata in loco, con tutta la sequenza operativa. Ci sono ossa di mammiferi con tracce di “scarnificazione” effettuata con strumenti di pietra. In pratica, è testimoniata tutta la vita della comunità, non solo di un gruppo limitato: con uomini, donne e bambini di uno, due e tre anni (posto che le modalità dello sviluppo infantile di 700mila anni fa fossero le stesse di oggi). Siamo di fronte a uno spaccato di vita quotidiana della società paleolitica dei cacciatori e raccoglitori. La fotografia di una scena che non doveva essere, però, di caccia: l’ippopotamo infatti – che all’epoca era molto abbondante – è un animale pericoloso, non lo si cacciava con i bambini. Forse l’animale era ferito e gli ominidi aspettavano che la situazione volgesse a loro favore». Di quali animali avete trovato tracce nel sito? «Ci sono impronte di ippopotamo, ma anche di gazzelle, gnu, suidi, piccoli uccelli. I resti ossei appartengono a ippopotami e a un equide. Accanto alle impronte c’è una zona umida, una sorta di pozza

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

ANTICHI TRAFFICI MEDITERRANEI Tra i primi coloni greci insediatisi in Italia nel corso 1 2 dell’VIII secolo a.C. ci furono nuclei provenienti da Eretria (1) che fondarono Pitecusa, sull’isola di Ischia (2); subito dopo fu la volta di Napoli (3), fondata da Cuma, diventata poi una delle piú importanti città della Magna Grecia. Ma i contatti con piú antiche genti provenienti dalla Grecia o da altre terre del Mediterraneo orientale o del Nord Africa si erano avuti 3 4 già un migliaio d’anni prima. Questa ricostruzione è ormai provata dai risultati degli scavi condotti fin dagli anni Trenta del Novecento sull’isola di Vivara (4), collegata a Procida (5-6) da un ponte e divenuta tale a causa del fenomeno di bradisismo dell’intera area flegrea (7). Scavi dei quali si parla in questo 6 numero e che hanno ispirato anche la consueta 5 rubrica filatelica. I pochi frammenti di ceramica o i piccoli frammenti di utensili metallici attestano i contatti con Avaris, sul delta del Nilo (8), con l’isola di Cipro (9) e, soprattutto, con la civiltà minoica. 7 Questi reperti sono anche la dimostrazione della 9 circolazione di materie prime, beni e oggetti di un certo prestigio, quali gioielli (10), armi di fattura minoica (11), spezie, olii profumati, ecc., a riprova di una forma di globalizzazione arcaica dell’area 8 del Mediterraneo. Questi beni, infatti, giunsero nell’area flegrea perché commerciati, o vennero fabbricati in loco, adottando le tecniche di artigiani e artisti stranieri trasferitisi a Vivara al 10 seguito dei naviganti. Una interrelazione che 12 sembra ora confermata da un frammento 14 lavorato di osso bovino (12), di forma oblunga, sul quale corrono incisioni forse interpretabili con i segni usati per indicare un vitigno o un grappolo d’uva. 13 Nato in Egitto e poi ripreso a Creta, dai 15 11 Micenei, e in Palestina (13), questo simbolo è stato infatti usato anche da altre IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere popolazioni del Mediterraneo per citare la alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai coltivazione o un bene di particolare prestigio, seguenti indirizzi: cioè la vite e il vino (14). Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, Il ritrovamento vivarese, in ogni caso, conferma Via Tavanti, 8 C.P. 17037 come la comunicazione a mezzo di segni grafici (15) 50134 Firenze Grottarossa info@cift.it, 00189 Roma. avesse fatto il proprio ingresso nel bacino occidentale oppure lcalenda@yahoo.it; www.cift.it del Mediterraneo già nel corso del XVI secolo a.C.

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A HI I AGNTIC M A LI A

LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO

L G E

D

MAGIA E DIVINAZIONE NEL MONDO ANTICO di Sergio Ribichini


L

a prima parte della nuova Monografia di «Archeo» ripercorre la storia della magia: tutte le grandi civiltà del passato, dalle culture del Vicino Oriente per arrivare alla Grecia e a Roma, diedero infatti vita a un proprio «mondo magico». Un mondo che, secondo le nostre categorie di pensiero, può risultare a volte di difficile comprensione o del quale non sempre si coglie agevolmente il confine che lo separa dal concetto di «religione» vera e propria. Seguendo l’articolata trattazione proposta da Sergio Ribichini, l’archeologia è allora in grado di fornire un valido aiuto e fa perciò da filo conduttore dell’avvincente indagine sviluppata nei vari capitoli che a essa sono dedicati. La seconda sezione della Monografia, dedicata alla divinazione, costituisce una sorta di naturale sviluppo della prima e descrive le molteplici e spesso suggestive tecniche di predizione del futuro messe a punto dalle culture della regione mediterranea e vicino-orientale. Si trattava di rituali assai eleborati, i cui operatori godevano di grande considerazione e rispetto, poiché ritenuti capaci di stabilire una speciale e diretta comunicazione con le divinità.

GLI ARGOMENTI

Il festino di Baldassarre, olio su tela di Rembrandt. 1636 circa. Londra, National Gallery. Il dipinto si ispira al banchetto allestito dal re di Babilonia, nonostante la città fosse assediata da Ciro. Baldassarre offrí vino servito nei calici sacri che i suoi predecessori avevano razziato a Gerusalemme e, in risposta all’oltraggio, apparve una mano che scrisse sul muro una frase in cui preconizzava la fine del suo regno.

•L A MAGIA Le origini Egitto Mesopotamia Israele Grecia e Roma •L A DIVINAZIONE Extispicina ed epatoscopia Segni premonitori Ornitomanzia Cleromanzia Gli oracoli Necromanzia Oniromanzia Astrologia

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CALENDARIO

Italia ROMA Il Tesoro di Antichità

Winckelmann e il Museo Capitolino nella Roma del Settecento Musei Capitolini fino al 22.04.18

Egizi Etruschi

Da Eugene Berman allo Scarabeo dorato di Vulci Centrale Montemartini fino al 30.06.18

Traiano

Costruire l’Impero, creare l’Europa Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 16.09.18

AOSTA Pietra, carta, carbone

I frottages di stele di Ernesto Oeschger e Elisabetta Hugentobler Area Megalitica di Saint-Martin-de-Corléans fino al 06.05.18

BOLOGNA Medioevo svelato

Storie dell’Emilia-Romagna attraverso l’archeologia Museo Civico Medievale fino al 17.06.18

CAPACCIO PAESTUM (SA) Le armi di Athena

Il Santuario settentrionale di Paestum Museo Archeologico Nazionale fino al 31.03.18

FERRARA Dèi senza età

Dalla culla del mito alla terra degli Etruschi Museo Archeologico Nazionale fino al 24.03.18

Ebrei, una storia italiana

I primi mille anni Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS fino al 16.09.18

FINALE LIGURE BORGO (SV) Ad fines. 500 miglia da Roma

LIDO DI JESOLO Egitto. Dei, faraoni, uomini Spazio Aquileia 123 fino al 15.09.18

MILANO Milano sepolta

Dieci anni di archeologia urbana a Milano Civico Museo Archeologico fino al 13.05.18

Milano in Egitto

Gli scavi di Achille Vogliano nel Fayum Civico Museo Archeologico fino al 31.05.18

MODENA Mutina Splendidissima

La città romana e la sua eredità Foro Boario fino all’08.04.18

NAPOLI Longobardi

Un popolo che cambia la storia Museo Archeologico Nazionale fino al 25.03.18

Pompei@Madre

Materia Archeologica» MADRE-Museo d’arte contemporanea Donnaregina fino al 24.09.18

NOVI DI MODENA (MODENA) In loco ubi dicitur Vicolongo

Al tempo dei Romani nel Finale Museo Archeologico del Finale fino al 03.06.18

L’insediamento medievale di Santo Stefano a Novi di Modena Sala EXPO del PAC, Polo Artistico Culturale fino al 25.04.18

GENOVA Dischi lunari?

REGGIO EMILIA On the road

Archeoastronomia nella Liguria antica Museo di Archeologia Ligure fino al 01.04.18 28 a r c h e o

Ricostruzione della tomba di Tutankhamon.

La Via Emilia, 187 a.C.-2017 Palazzo dei Musei fino all’01.07.18

Affresco con rilievo, dal suburbio di Mutina (Modena).


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Germania

Ego Svm Via

Via Aemilia, Via Christi Museo Diocesano fino al 04.04.18

KARLSRUHE Gli Etruschi

Civiltà mondiale nell’Italia antica Badisches Landesmuseum fino al 17.06.18

ROVIGO Le mummie a Rovigo

Palazzo Roncale fino al 01.07.18 (dal 13.04.18)

Lussemburgo

SUTRI (VITERBO) Sutri, Vulci e i misteri di Mitra

LUSSEMBURGO Il Luogo Celeste. Gli Etruschi e i loro dèi

Culti orientali in Etruria Villa Savorelli fino al 13.05.18

Il santuario federale di Orvieto Musée national d’histoire et d’art fino al 02.09.18 (dal 15.03.18)

TIVOLI (ROMA) Tivoli e la vestale Cossinia Museo della Città fino al 31.05.18

TRIESTE Nel mare dell’intimità

Olanda Stele lignea dipinta di epoca tolemaica.

L’archeologia subacquea racconta l’Adriatico ex Pescheria, Salone degli Incanti fino all’01.05.18

VENEZIA Il mondo che non c’era

L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue Palazzo Loredan fino al 30.06.18

VILLANOVA DI CASTENASO (BO) Villanova e Verucchio Un’antica storia comune MUV-Museo della civiltà Villanoviana fino al 10.06.18

Belgio BRUGES Mummie

Segreti dell’antico Egitto Xpo Center Bruges fino all’11.11.18 (dal 31.03.18)

Francia

LEIDA Ninive

Cuore di un antico impero Rijksmuseum van Oudheden fino al 25.03.18

Svizzera BASILEA Sethi allo scanner

La rigenerazione di una tomba faraonica Antikenmuseum fino al 06.05.18

CHIASSO Ercolano e Pompei

Visioni di una scoperta m.a.x. museo fino al 06.05.18

USA NEW YORK Regni dorati

Lusso ed eredità delle antiche Americhe The Metropolitan Museum of Art fino al 28.05.18

Scavo archeologico a Pompei, disegno su carta. 1860 circa. Pettorale in oro, periodo Nahuange, 200-900 d.C.

PARIGI Il Perú prima degli Inca

Musée du quai Branly-Jacques Chirac fino all’01.04.18

TOURCOING Cristiani d’Oriente

2000 anni di storia Musée des beaux-arts Eugène Leroy fino al 16.06.18 a r c h e o 29


CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli

RITORNO AD ANTICITERA A CINQUANT’ANNI DALLE IMMERSIONI DEL COMANDANTE COUSTEAU, È STATA RIPRESA L’ESPLORAZIONE DEL CELEBRE RELITTO RINVENUTO PRESSO UN ISOLOTTO A SUD DEL PELOPONNESO: UN’INIZIATIVA NATA NELL’AMBITO DI UN NUOVO PROGETTO DI RICERCA INTERNAZIONALE E CHE HA GIÀ DATO RISULTATI DI ECCEZIONALE INTERESSE

U

no splendido edificio neoclassico affacciato sul porticciolo turistico del Pireo, una delle sedi della Fondazione Aik. Laskaridi, ospita attualmente una mostra sul relitto di Anticitera. Il materiale recuperato da questa nave oneraria, studiato da molti punti di vista (della storia dell’arte, delle rotte commerciali, della tecnologia, solo per citarne alcuni), è stato già presentato in varie circostanze: ricorderemo solo una delle principali, la fortunata esposizione che ha toccato Atene e la Svizzera (vedi «Archeo» nn. 338 e 372, aprile 2013 e febbraio 2016). La nuova mostra, tutt’altro che ripetitiva, prende le mosse dai risultati del progetto «Ritorno ad Anticitera», una ricerca condotta da un team internazionale di studiosi, in collaborazione con l’Istituto Oceanografico Woods Hole del MIT (Massachusetts) e il Centro di Robotica Applicata dell’Università di Sidney, sotto la direzione di Aggelikí Simosi, Direttrice della Soprintendenza Ellenica alle Antichità Subacquee (www.antikythera.org.gr). Il progetto ha preso il via nel 2014 e si propone di indagare ancora una volta il fondale marino nell’area del relitto, dopo le immersioni degli appassionati pescatori di spugne (1900-1901) e le ricerche del comandante Jacques-Yves Cousteau (1976). Sono ancora

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molti, infatti, gli enigmi da sciogliere, poiché una quantità considerevole di materiale antico giace ancora sepolto sul fondale.

GLI ULTIMI RECUPERI Nelle sale della Biblioteca della Fondazione Laskaridi vengono presentati alcuni dei reperti recuperati fra il 2014 e il 2017, accompagnati dai diari manoscritti di Lazaros Kolonas, responsabile delle ricerche del 1976 per conto della Soprintendenza. Da allora, nessuno era piú sceso a indagare questo eccezionale relitto, che si trova a oltre 50 m di profondità. Le sorprese non si sono fatte attendere: una di esse è stata la scoperta di uno scheletro umano, effettuata nell’agosto del 2016. Si tratta del primo scheletro in assoluto recuperato da un relitto antico dopo l’avvento delle analisi scientifiche sul DNA umano; le sue buone condizioni di conservazione, nonostante i 2000 anni di riposo nelle profondità marine, potrebbero dunque permettere In basso: la mostra allestita nelle sale della biblioteca della Fondazione Aik. Laskaridi al Pireo.

In queste pagine: due momenti delle recenti ricerche condotte sul relitto di Anticitera: i recuperi del braccio di una statua in bronzo (nella pagina accanto) e di un disco, anch’esso in bronzo (a destra). d’identificare l’origine di uno dei passeggeri di questa nave, che, lo ricordiamo, naufragò nel secondo quarto del I secolo a.C. Sono stati inoltre recuperati il braccio di una magnifica statua in bronzo e un frammento di panneggio, un anello d’oro, due lance bronzee in perfetto stato di conservazione e pertinenti a statue, numerose anfore, vasi di vetro realizzati nella tecnica «millefiori», una tavola di marmo, nonché materiale della nave stessa, tra cui tegole relative a una sorta di cabina posta sul ponte, che probabilmente fungeva da cucina quando l’imbarcazione non aveva la possibilità di attraccare in porto. Eccezionale è anche un disco di bronzo, probabilmente un coperchio, decorato dalla figura di un toro che è riconoscibile grazie a radiografie effettuate sul reperto. Molti oggetti, rinvenuti durante l’ultima campagna, sono esposti all’interno di vasche d’acqua, perché sono ancora in corso di desalinizzazione.

TECNOLOGIE D’AVANGUARDIA Una delle caratteristiche principali del progetto «Ritorno ad Anticitera» è l’uso delle tecnologie avanzate: la zona del relitto è stata interamente mappata e ne è stato realizzato un fotomosaico; nel corso delle operazioni subacquee

si impiegano sonar a scansione laterale, metal detector ed ecoscandagli multibeam, e vengono approntati modelli tridimensionali di ogni manufatto. Le novità piú rilevanti riguardano però l’attrezzatura dei sommozzatori, che si servono di respiratori a circuito chiuso alimentati da una miscela di tre gas, cosa che permette loro di rimanere piú a lungo sul fondale marino. Inoltre, essi indossano l’innovativa tuta Exosuit, un brevetto all’avanguardia che offre la possibilità di immergersi fino a una profondità di oltre 300 m e di rimanere a lungo sul fondale senza poi dover attraversare, prima di riemergere, lo stadio della decompressione. Il team di archeologi e sommozzatori farà ritorno sui fondali di Anticitera – piccola isola a sud del Peloponneso, situata fra Creta e l’isola di Cerigo – alla fine dell’estate del 2018, alla ricerca di nuovi dati riguardanti la nave e il suo prezioso carico. L’avventura continua!

DOVE E QUANDO «Il relitto di Anticitera. L’avventura continua» Pireo, Fondazione Aik. Laskaridi, Biblioteca Storica fino al 18 aprile Info www.laskaridisfoundation.org

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SCAVI • PROGETTO OSTIA MARINA

L’ULTIMO

MITREO DOPO AVER A LUNGO SFAMATO E DISSETATO I SUOI AVVENTORI, UNA «TRATTORIA» DELL’ANTICA CITTÀ DI OSTIA SI TRASFORMÒ IN UN LUOGO DI CULTO. NEI SUOI AMBIENTI PRESERO A RIUNIRSI I SEGUACI DI MITRA, IL DIO IRANICO IN ONORE DEL QUALE SI CELEBRAVANO CERIMONIE CHE CULMINAVANO CON IL SACRIFICIO DI UN TORO di Massimiliano David, con la collaborazione di Stefano De Togni, Paola Germoni, Alessandro Melega, Cinzia Morelli e Angelo Pellegrino 32 a r c h e o


A sinistra: Ostia (Roma). I resti della Caupona del dio Pan, scoperta sulla via della Marciana, di fronte alle terme di Porta Marina. Nel IV sec. l’edificio fu convertito in mitreo. In basso: Caupona del dio Pan. Particolare del mosaico dell’ambiente 3, raffigurante il dio silvano.

N

uovi argomenti di studio e riflessione sullo sviluppo urbano di Ostia (vedi box a p. 36) e, in particolare, dei suoi suburbi emergono dalle indagini del Progetto Ostia Marina (vedi box a p. 38). Il quartiere fuori porta Marina si sviluppò in un quadro ambientale reso fortemente dinamico dai movimenti della linea di costa. Nel rapporto con il mare, la città sembrò trovare, nel II e III secolo d.C., una speciale condizione di equilibrio, che ha i suoi presupposti nel tracciamento di una pista costiera commutata in vero e proprio asse attrezzato in età severiana e poi nella concentrazione di una serie di impianti termali, disposti lungo il lato

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SCAVI • PROGETTO OSTIA MARINA

VIA

Ricostruzione grafica (qui accanto) e planimetria (in basso) della Caupona del dio Pan. La pianta riporta l’organizzazione funzionale degli spazi, con i numeri dei diversi ambienti (in blu i punti acqua). Sulle due pagine: foto zenitale del mosaico pavimentale dell’ambiente 3 della Caupona del dio Pan. Nella pagina accanto, in basso: uno scorcio del cosiddetto Thermopolium della via di Diana.

DELL R A MA

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CIAN A

2

1

ingresso padronale

8

3

cubicolo

sala principale ingresso

6b

corridoio

7 stanza di servizio

5

lavatoio

dispensa

settentrionale della via. La presenza delle terme favorí lo sviluppo di un terziario complementare, capace di attrarre avventori giorno e notte. Sulla via della Marciana, una strada che puntava verso il mare e che fiancheggiava le Terme di porta Marina, si distribuivano esercizi commerciali e locali pubblici di varia natura. In età severiana chiuse i battenti una piccola caupona (vedi box alla pagina seguente), che si trova34 a r c h e o

bar

6a

va al piano terreno del Caseggiato delle Due scale, e forse in conseguenza di questa chiusura venne progettata e costruita ex novo una palazzina capace di accogliere e servire una clientela esigente. Si tratta dell’edificio ribattezzato Caupona del dio Pan, dal soggetto del mosaico pavimentale della sala principale, che occupò un’area di quasi 180 mq e fu costruito in ope(segue a p. 38)


TITOLO BOX FINTO Testo box della persuasione attraverso la parola, o «retorica» (nata nella Sicilia greca e introdotta ad Atene da personaggi come Gorgia di Leontini) è gravata oggi da un forte pregiudizio. Nel tempo, infatti, questo termine ha assunto una connotazione negativa, che lo collega alla vacuità, all’ampollosità, all’inautenticità. Ma la retorica dei tempi di Pericle fu tutto il contrario: un’arte efficace, seducente, per certi versi sconvolgente. Era lo strumento che permetteva il funzionamento delle assemblee e dei consigli della polis, ove ciò che contava era saper esporre, trasmettere e far condividere ai cittadini determinate proposte o iniziative politiche. I giovani che volevano dedicarsi alla vita pubblica, e che costituivano la parte ritenuta migliore della società (chi non si interessava alla politica era definito idiotes, «privato»: oggi diremmo, un «idiota»...), dovevano apprenderla dai maestri di retorica, che ne facevano sfoggio una volta giunti in città dalle periferie del mondo greco e che si facevano profumatamente pagare per insegnarla.

DOVE E QUANDO Testo finto testo finto da fare Molina di Ledro (TN), via Lungolago, 1 Orario dall’01/07 al 31/08: tutti i giorni, 10,00-18,00; dall’01/09 al 30/11 e dall’01/03 al 30/06: ma-do, 9,00-17,00, lu chiuso; il museo è inoltre chiuso nei mesi di dicembre, gennaio e febbraio Info tel. 0464 508182; e-mail: receptionmtsn@mtsn.tn.it, museo.ledro@mtsn.tn.it; www.palafitteledro.it

Titolo finto dida box MESCITE E TRATTORIE

Mus inullacANGOLO eaquam aspellandi dicto imus, con repel iur, A OGNI DI STRADA tempedic tempos andit ulpa est et versper estions erovid essitat volodidus etur? Quibus Vivaci eecearum brulicanti attività, le cittàrehenti romaneditius doloritamet alis ipsant faceroeipsumet ellest magniet ma erano disseminate di locali ritrovi definiti exped qui volestiasit,popinae, aute idunt et explamo que perror convenzionalmente cauponae anche, molecum faccus vid es et che a nonprobabilmente nimil ipieni untis con termine grecizzante nonseque uscí reic none prerem liqui intorrum harchil isita dallatempore sfera del latino letterario, thermopolia. sequam iuscimustdilab minum quiduciendus Poteva trattarsi barint o trattorie, composti daaribuscit un aut aribus principale dolorpos sunditiam volutat qui ambiente con un bancone in coritat muratura vereperunt, ipsum que nationsequas res maevel et vita presso l’ingresso; erano dotate di ripiani scaffali corum sita volore alle pareti per la poribus. mostra dei generi alimentari e Puda vollori ipsam ni cucina. rescit acia quas sanissum quatur naturalmente di una Il locale disponeva aboria archilie gendit esti offic temos vendae. talvoltadolut di cortili di altriius ambienti accessori. Itatus, dellorehendi niam (circa faccusuna ut A Ostiacus ne corehen sono stati rinvenuti molti facipidest, oditemollest quiconosciuto officil libusa es alignih trentina). Di questi il piú è ilascosiddetto illuptati unt latemporis eicae nations errovit. in età Thermopolium della via di Diana. Costruito

adrianea, venne ristrutturato verso la metà del III secolo d.C. Era una vera e propria trattoria, composta da un ambiente principale con un bancone in muratura e ripiani alle pareti per la mostra degli alimenti. Nella parte inferiore del bancone è ricavato un bacino, coperto a volta, per il lavaggio delle stoviglie con acqua. L’edificio era dotato di una cucina e di un cortile per garantire alla clientela agio di muoversi e una certa comodità. Popinae/cauponae di una certa importanza vanno riconosciute nella Taberna dei Sette Sapienti, di età traianea, ma poi incorporata terme omonime, in Didascalia nelle da fare Ibusdae officte antesto quella delle Termeevendipsam, dell’Invidioso. Altrierupit ben noti locali taturil’elegante cum ilita aut quatiur detta restrum di questo genere erano Caupona del eicaectur, blaborenes Pavone (metà III secolo d.C) etesto la Caupona di ium quasped quosd.C.), non etur nonemin Alexander (metà del III secolo che reius fu ricavata expercipsunt quos rest magni due vani addossatiquam all’antica porta urbana apic enditibus teces. repubblicana dettaautatur Marina. Va teces inoltre ricordata la presenza delle cosiddette tabernae vinariae, piccoli chioschi in cui si potevano consumare velocemente solo bevande. A Ostia sono documentate quelle dette di Proclus e Fortunatus, presso le Terme del Nettuno. Angelo Pellegrino

NELLA PROSSIMA PUNTATA • Testo finto testo finto: testo finto da fare testo finto da fare

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SCAVI • PROGETTO OSTIA MARINA

IL PARCO ARCHEOLOGICO DI OSTIA ANTICA Fondata dal quarto re di Roma, Anco Marcio (640-616 a.C.), sulla riva sinistra della foce del Tevere, Ostia rappresenta ancora oggi – con i suoi 130 ettari di estensione – il piú organico e duraturo sistema urbano dell’antichità. Il controllo delle vie d’acqua (mare e fiume) e quello delle vicine saline, fonte di produzione primaria per l’economia antica, costituiscono i capisaldi sui quali si basa la storia della vita della città. Una città che è specchio di ampliamenti, trasformazioni e abbandoni che consentono di conoscere dal vero i luoghi pubblici e gli ambienti privati in cui donne, uomini, bambini, di diverse origini e di diverse religioni hanno trascorso la loro vita, lasciando testimonianza delle molteplici attività quotidiane e dei numerosi luoghi di aggregazione. Il Parco Archeologico di Ostia Antica, che ha raccolto l’eredità della «vecchia« Soprintendenza di

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Ostia, ha oggi il compito di gestire questo patrimonio, che va letto unitamente al territorio circostante, rappresentato dall’Isola Sacra – dove recenti indagini non invasive hanno rivelato l’esistenza di un’altra porzione urbana oltre il Tevere protetta da mura –, dai porti di Claudio e di Traiano, dalle necropoli estese lungo la via Ostiense, lungo la via Laurentina; da Pianabella, con l’importante basilica. Il nuovo istituto, di cui sono state ampliate le competenze, comprendendo anche gli ambiti architettonici e paesaggistici, ha ottenuto autonomia finanziaria. Obiettivi prioritari del nuovo organismo, in linea con le progettazioni precedenti, sono il miglioramento del sistema di accoglienza del pubblico – in via di conclusione è la nuova biglietteria con bookshop – e la divulgazione su basi scientifiche delle numerose

novità e scoperte che negli ultimi anni hanno caratterizzato le ricerche di Università e Scuole nazionali e internazionali. Lungo il decumano, su cui si affacciano gli edifici maggiormente significativi e di particolare valore monumentale, campagne di conduzione a regime della vegetazione seguite da interventi di restauro architettonico hanno consentito di rileggere volumetrie e organizzazione interna di plessi non piú visibili da oltre un cinquantennio. Tali interventi hanno di fatto «aperto» le prospettive sui due fronti della via principale della città e di inserire gli edifici piú noti e conservati, come il teatro o le terme di Nettuno, in un tessuto urbano ricco di portici, grandi complessi di magazzini, templi di collegia e tabernae, che rendono appieno la vitalità nel tempo dell’originaria colonia di Roma. Paola Germoni e Cinzia Morelli


E IL TEVERE SI GETTAVA IN MARE «CON SALTI RAPIDI»... Ostia, Roma. Veduta panoramica del parco archeologico di Ostia Antica.

Ostia nasce in funzione del mare e del Tevere. Da quest’ultimo deriva anche il suo nome: «ostium» non è altro che lo sbocco a mare del fiume. La città sorse nel VII secolo a.C. sulla stessa riva sinistra occupata da Roma, come sua estensione sul mare e come risposta alle esigenze di controllo della foce del fiume. Le piú recenti indagini geomorfologiche hanno chiarito che l’ambiente era segnato da estese zone umide semilacustri o paludose, con acque salate o salmastre, oppure dolci; sulla costa era dislocato un cospicuo bacino interno, accessibile dal mare, ma interratosi nel I secolo a.C. L’immagine poetica di Virgilio quando descrive la costa ostiense è molto nitida: «Il mare ormai rosseggiava di raggi e dall’alto etere la gialla Aurora splendeva nelle rosse bighe, quando i venti cessarono e subito ogni soffio ristette, e sulla calma superficie battevano i remi. Allora Enea dal mare vide un ingente bosco. In mezzo ad esso con corso ameno il Tevere con salti rapidi e biondo di molto limo si gettava in mare. Vari uccelli, avvezzi alle rive e all’alveo del fiume, attorno e sopra volteggiavano sul bosco, e col canto accarezzavano l’aria. Ordinò allora ai compagni di cambiare la rotta e volgere le prore alla terra e lieto si inoltrò nel fiume ombroso» (Eneide, Libro VII). Virgilio immagina dunque un ampio estuario navigabile, che sfocia in mare fiancheggiato da un folto bosco. In realtà, all’epoca del poeta mantovano (che scrive in età augustea), il paesaggio doveva essere ben diverso, sia per effetto del diboscamento, sia perché Ostia era ormai una città di notevole estensione che allungava i suoi tentacoli suburbani in prossimità del mare. Dalla prima età imperiale, sulla costa, si sviluppò un lungomare intensamente costruito e protetto dalle mareggiate. Un percorso litoraneo fu attrezzato in età flavia e lastricato in età severiana. In quell’epoca, piú di tutti, trasmette efficacemente il piacere di una passeggiata sul mare l’opera apologetica del cristiano Minucio Felice. Egli ci parla anche di barriere frangiflutti (a pettine?), che in epoca severiana dovevano evidentemente proteggere le spiagge e i quartieri suburbani (con ben attrezzati impianti termali) in caso di mareggiate: «E cosí procedendo a poco a poco tranquillamente, costeggiavamo la dolce curva del lido e alleviavamo il cammino discorrendo. Questi discorsi erano il racconto di Ottavio che parlava della navigazione. Ma quando terminammo un tratto di cammino proporzionale al nostro discorrere, ripercorrendo di nuovo la stessa via la facevamo in senso inverso. E quando giungemmo a quel luogo, dove alcune piccole imbarcazioni tirate a riva giacevano sollevate al di sopra del terriccio da travi di quercia infilate sotto, vediamo dei fanciulli che facevano a gara impegnandosi in lanci di cocci nel mare. Questo gioco consiste nel raccogliere dalla spiaggia un coccio levigato dallo sbattere delle onde e, dopo averlo afferrato di piatto con le dita, lanciarlo facendolo ruotare, disteso e radente il piú possibile sulle onde, in modo che l’oggetto lanciato o sfiori la superficie del mare o nuoti via, mentre scivola con dolce slancio; oppure balzi via, sbuchi, spuntando la cresta dei flutti, mentre si innalza con salti ripetuti. Si riteneva vincitore tra i fanciulli, quello il cui coccio arrivava piú lontano e saltava via piú volte» (Octavius, III, 3, 6). In età severiana. la vocazione portuale di Ostia ha ormai lasciato il posto a nuove funzioni e attitudini urbane: specchio di Roma, la città stava abbandonando lo storico e antico ruolo, qualificandosi sempre piú come centro marittimo per la villeggiatura, oltre che dei piaceri e delle cure termali. Massimiliano David

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SCAVI • PROGETTO OSTIA MARINA

ra listata (detta anche vittata, è la tecnica consistente nella posa in opera di filari di laterizi alternati a filari di blocchetti di tufo, n.d.r.). Gli spazi erano razionalmente ripartiti tra quelli destinati alla clientela, quelli per il personale di servizio e quelli riservati alla proprietà per riunioni esclusive.

ACCESSO INDIPENDENTE Una prima ricostruzione assonometrica della caupona mostra i caratteri di un edificio concepito con la precipua funzione di caupona/popina per i residenti e, in minor misura, per i viandanti che percorrevano la via litoranea. È inoltre possibile che la caupona avesse la funzione secondaria, e limitata alle sole festività religiose, di accogliere adepti del culto di Mitra: i saggi stratigrafici finora effettuati rivelano infatti che l’ambiente n. 1 era semisotterraneo e pavimentato a mosaico, oltre che accessibile in modo indipendente rispetto agli altri vani della struttura. Dopo circa un secolo di attività, nel corso del IV secolo, la destinazione d’uso della caupona cambiò radicalmente: vasti rimaneggiamenti strutturali compresero la (segue a p. 42) A destra: poster di presentazione del Progetto Ostia Marina. Sulle due pagine: ripresa fotografica zenitale della Caupona del dio Pan in corso di scavo.

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IL PROGETTO OSTIA MARINA Il Progetto Ostia Marina è nato nel 2007 nell’ambito di una convenzione stipulata tra il Dipartimento di Archeologia dell’Università di Bologna e il Ministero per i Beni e le Attività Culturali per iniziativa di chi scrive e di Angelo Pellegrino. Ecco dunque una sintesi delle attività finora svolte. 2007 Prima esplorazione archeologica dell’area di porta Marina e prima campagna di documentazione e studio negli archivi della Soprintendenza archeologica di Ostia Antica. 2008 Indagini ricognitive e di prospezione geofisica volta a evidenziare le potenzialità del sito. Inquadramento topografico dell’area, che si estende per 3000 mq circa. Verifica e documentazione della stratigrafia del sito, che preserva non solo gli strati di epoca romana e tardo-romana, ma anche i livelli di abbandono del periodo successivo. 2009 Asportazione degli strati superficiali (humus e arativo), da cui si ottiene una prima immagine generale delle strutture presenti nel sito. 2010 Ampliamento della visuale sulle strutture emergenti. Due saggi stratigrafici localizzano un edificio termale fino ad allora sconosciuto, databile nella tarda età adrianea e rimasto in uso per circa duecento anni, almeno sino alla fine del IV secolo. Al complesso viene dato il nome di Terme del Sileno, da un frammento di fregio con maschere dionisiache. 2011 Nuove ricerche sulle Terme del Sileno e studio delle tecniche di spoliazione adottate a Ostia in età moderna (XV-XVIII secolo). 2012 Scoperta del grande pavimento a mosaico di uno degli ambienti delle Terme del Sileno. Emergono inoltre elementi decisivi per delineare i tempi della progradazione marina e le forme di frequentazione della spiaggia nella primissima età imperiale. 2013 Proseguono le ricerche sul complesso termale. 2014 Indagini su un nuovo edificio scoperto lungo il fianco occidentale della via della Marciana (di fronte alle grandi Terme di porta Marina). Ribattezzato Caupona del dio Pan, se ne indaga la speciale trasformazione nel corso del IV secolo d.C. 2015-2016 Nuove acquisizioni sull’evoluzione del quartiere e sugli edifici a lunga durata come il Caseggiato delle Due scale ampliano il quadro delle conoscenze sul termalismo nella seconda metà del IV secolo d.C. Scavo delle Terme dello Scheletro, un piccolo complesso che funzionò per pochi decenni aprendosi sulla via Severiana. 2017 Le ricerche proseguono toccando altri punti nodali del quartiere. Le indagini sono dirette dal 2007 da Massimiliano David con la collaborazione dei seguenti archeologi: Stefano De Togni, Alessandro Melega, Maria Stella Graziano, Eleonora Rossetti, Dino Lombardo, Camilla Rosati, Cristina Pappalardo. Gli archeologi sono affiancati dai seguenti specialisti: Francesca Romana Stasolla, Andrea Gariboldi, Chiara Bianchi, Gian Luca Gregori, Jacopo De Grossi Mazzorin, Claudia Valeri, Andrea Di Miceli, Tommaso Mattioli, Matteo Rodella. Massimiliano David


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UN QUARTIERE POLIFUNZIONALE Probabilmente fin dalla seconda metà del I secolo a.C., l’area tra porta Marina e il mare assunse i caratteri tipici del suburbio polifunzionale. Sulla strada che puntava verso la spiaggia erano infatti distribuiti edifici a carattere residenziale, commerciale, religioso e funerario: un grande mausoleo monumentale, la Domus Fulminata (a dire il vero, una vera e

propria villa estiva) e il santuario della Bona dea. In posizione dominante, subito fuori dalla porta si trovava il cosiddetto Foro di porta Marina, un complesso di forma quasi quadrata (44 x 39,5 m), costituito da un recinto con ingresso tripartito, da un triportico interno con due scarselle rettangolari ai lati e un’ampia aula absidata al fondo. Nell’area

circostante sorgevano edifici in opera reticolata, forse a carattere funerario, che, quasi indifferenti ai rischi procurati perlopiú dai flutti della stagione invernale, erano pericolosamente vicini al mare. In età flavia, quando il mare si era leggermente allontanato, venne tracciata una prima pista litoranea, concepita in una visione ad ampio raggio dell’intero litorale laziale,

Planimetria generale di Ostia. La zona in azzurro indica l’area occupata dal quartiere suburbano fra l’insediamento e il mare, mentre la linea di colore rosso corrisponde al tracciato della via costiera detta Severiana.

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che creò per questo spazio suburbano le premesse per la conquista di nuovi spazi di urbanizzazione. Il quartiere ricevette allora nuovo impulso allo sviluppo, grazie al collegamento con l’acquedotto, che assicurò la fornitura dell’acqua corrente. Sotto Adriano questa fascia litoranea cambiò totalmente aspetto: venne infatti investita da una lottizzazione pianificata di vasto respiro, per la quale furono

messe alla prova le doti dei migliori architetti e le piú sofisticate tecniche costruttive. Tale opera trova il suo perno in due grandiosi edifici termali pubblici: le terme della Marciana e le terme del Sileno, le une segnate dal destino della persistenza, le altre condannate alla scomparsa e all’oblio fino alla riscoperta dei nostri giorni. Insieme alle terme, a partire dal 134 d.C., fu attuato un vero e proprio piano urbanistico, che concepiva questa zona come un vero e proprio quartiere specializzato del benessere. In epoca severiana, a ribadire l’importanza del percorso della via Flavia e sottolineare il ruolo del quartiere quale mirabile prospetto a mare, il tracciato fu probabilmente ribattuto e selciato. Alla metà del III secolo d.C. il terziario venne ulteriormente potenziato dalla Caupona del dio Pan. Nell’età di Massenzio e di Costantino l’attitudine termale del quartiere è ancora viva. Solo nel tardo IV secolo ebbe inizio per la città un inesorabile processo di contrazione, che in tempi lunghi e ritmi lenti la ridusse alla condizione di abitato fantasma. Nel giro di due generazioni, il quartiere fuori porta Marina divenne cosí uno di quei luoghi sordidi ricordati dalle fonti, dove costruzioni prestigiose come il sontuoso edificio studiato da Giovanni Becatti potevano convivere con oscure officine e remoti luoghi d’incontro. Il mare e la città si stavano allontanando, e in questa forbice il quartiere conosceva le prime forme di degrado, in stridente contrasto con le espressioni piú sfavillanti del lusso. Tra la via Severiana e l’ultimo tratto del Decumano, sorge un grande complesso residenziale a

Basamento su cui si legge della collocazione nel foro di Ostia di una statua «trasferita dai luoghi sordidi» («translatam ex sordentibus locis») della città (il testo è qui evidenziato in rosso grazie al ritocco fotografico).

carattere privato, dotato di un vasto peristilio quadrangolare (detto «Edificio con opus sectile fuori porta Marina») affacciato sulla via e in vista del mare. Con l’avanzare del V secolo il degrado prevalse e l’area imboccò la via dell’abbandono. Le prime verifiche sui materiali rinvenuti nel corso delle indagini del Progetto Ostia Marina mostrano che le fasi di vita si interrompono nei primi decenni del V secolo (scarsi materiali di epoca posteriore – VI-VIII secolo d.C. – sono pertinenti alla frequentazione sporadica degli edifici ormai in avanzato stato di degrado). Il mare si è allontanato e la Severiana non è piú una via costiera. Massimiliano David

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chiusura dell’ingresso principale verso strada, la modifica o la chiusura di porte e il rifacimento integrale della decorazione pittorica dell’interno. L’intero edificio divenne la sede di una setta religiosa (vedi box alle pp. 44-45), con uno spelaeum dotato di una particolarissima pavimentazione policroma, che ha suggerito la denominazione di Mitreo dei Marmi colorati. Questi edifici si articolavano in numerosi vani, ognuno dedicato a specifiche esigenze (l’iniziazione, la vestizione, ecc.), come si vede, per esempio, nel mitreo sotto la chiesa di S. Prisca a Roma.

FUNZIONI COMPLEMENTARI La ridefinizione degli spazi interni comportò la trasformazione degli ambienti di servizio (n. 6), mentre la sala centrale della caupona e gli ambienti nn. 5, 7 e 8 assunsero un ruolo cerimoniale complementare rispetto allo spelaeum, nel quale si concentravano le funzioni liturgiche del sacrificio e del banchetto. 42 a r c h e o

In questa pagina: assonometria ricostruttiva ipotetica (in alto) del Mitreo dei Marmi colorati ricavato dalla Caupona del dio Pan. All’elaborazione grafica sono

associate le riprese fotografiche degli alzati e del pavimento del mitreo: quest’ultimo presenta la decorazione con lastre di vario colore da cui la struttura ha preso nome.


A sinistra: il navigium Isidis graffito su una parete dell’ambiente n. 3 del Mitreo dei Marmi colorati. Qui sotto: il motivo del tridente dipinto sullo zoccolo di un ambiente secondario (n. 8) del mitreo. In basso: particolare del rilievo mitraico da Dieburg (Germania), con arbusto a tre rami. II sec. d.C.

In un ambiente secondario (n. 8) sono stati identificati elementi decorativi che hanno una probabile valenza simbolica di grande interesse: sullo zoccolo, dipinto in rosso su fondo bianco, sono ripetuti piú volte il tridente, dal quale si generano girali, e frecce. Il tridente rientra tra i motivi decorativi cari alla tradizione della pittura romana, ma in questo caso assume un senso nella teologia mitraica.

NATURA TRINITARIA Il dio stesso, infatti, era arciere e veniva accompagnato da Cautes e Cautopates, anch’essi arcieri.Al momento, sembra dunque logico intepretare il tridente come un sommesso richiamo alla natura trinitaria della divinità centrale del mitraismo. Si può al riguardo citare il rilievo di Dieburg, in Germania, che rappresenta l’arbusto a tre braccia desinente in tre teste: si tratta probabilmente di un’allusione alla concezione trinitaria del dio mitraico, ma il numero tre ha certamente un senso profondo in questa religione. Nella nuova sistemazione, l’ambiente n. 7 assume maggiore respiro occupando anche il corridoio. La decorazione delle pareti è carattea r c h e o 43


SCAVI • PROGETTO OSTIA MARINA

SETTE GRADI PER SETTE CIELI Il mitraismo è una delle molte religioni che ebbero sviluppo e successo nel mondo romano. Secondo Plutarco, il culto di Mitra sarebbe stato mutuato dai pirati cilici all’epoca di Pompeo, anche se è ben riconoscibile una matrice storica iranica. Tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., la religione passa attraverso una fase formativa, modellandosi in chiave misterica, assumendo aspetti standardizzati diffusi nell’impero romano e trovando accoglienza in quasi ogni comparto geografico dell’areale mediterraneo. In una concezione tipicamente soterica, il dio, dopo essere nato dalla roccia, compie una serie di imprese sulla Terra e scatena le forze vitali, uccidendo il potente toro bianco. Il culto si nutre di profonde conoscenze astronomiche e astrologiche risalenti alla tradizione mesopotamica. Successivamente, dopo aver felicemente banchettato sulla pelle del toro in compagnia del Sole, Mitra sale in cielo sul luminoso carro del dio. Tra il IV e il V secolo In alto: ricostruzione della policromia originaria del rilievo con tauroctonia dal mitreo di Nida-Heddernheim (Francoforte, Germania).

Nella pagina accanto, in alto: schema dei gradi di ascesi del mitraismo a partire dal mosaico pavimentale del Mitreo di Felicissimus a Ostia.

rizzata da uno zoccolo giallo intonato con quelli degli altri ambienti, ma la zona mediana – separata da una banda rossa – viene disseminata da boccioli di rosa su fondo chiaro, secondo una moda piuttosto diffusa nel IV secolo. Nello spelaeum absidato erano presenti una nicchia rettangolare, due altari mobili, un podium, un’aiuola e un pozzo rituale con vera marmorea. Quest’ultimo ha restituito materiali archeologici depositati all’in-

terno del pozzo che sembrano riflettere i due momenti di vita dell’edificio (caupona e poi mitreo). L’arredo dello spelaeum era mobile e forse in prevalenza ligneo. I due altari erano fissati a terra grazie ad alcune tacche praticate nel pavimento. Questo spazio sacro non rientra nella casistica dei mitrei ostiensi, che sono a loro volta rappresentativi della complessità e varietà delle manifestazioni architettoniche mitraiche nel mondo ro-

44 a r c h e o

mano (vedi box a p. 46). L’anomalia deriva soprattutto dalla ristrettezza dello spazio, dalla presenza di un solo letto e dalla peculiarità della pavimentazione. Sulla base dell’organizzazione geometrica del pavimento si può ipotizzare che sul lato sinistro, a fianco del letto, venisse collocata una lunga panca. Nella sala n. 3 è stata riscontrata la presenza di graffiti che rimandano al mondo religioso mitraico. Uno, in particolare, è un’invocazione al dio Mitra connesso con il gran dio Crono. Nella stessa sala, sulla parete sud, compaiono alcuni monogrammi mitraici. Al pari dei cristiani, gli adepti di questa religione


Gradi

Simboli del grado

Oggetti cerimoniali

Divinità

Attributo

PADRE Pater

Berretto Frigio

Tazza votiva e bastone magico

SATURNO

Falcetto

AURIGA Heliodromus

Corona radiata

Torcia

SOLE

Frusta dell’auriga

PERSIANO Perses

Spada persiana

Falce

LUNA

Stella della sera o mezzaluna

LEONE Leo

Paletta per la cenere

Sistro

GIOVE

Folgore

MILITE Miles

Spalla di manzo

Elmo o lancia

MARTE

Elmo o lancia

SPOSO Nymphus

Velo (?)

Lucerna

VENERE

Diadema

CORVO Corax

Corvo

Vaso ansato

MERCURIO

Caduceo

Terra Acqua delle numerose sette sparse nelle Fuoco città e nei centri minori attraverso Aria complicati rituali iniziatici. Ogni comunità era guidata da un d.C., il diffondersi del cristianesimo pater, la settima e capitale carica soffoca ogni ulteriore sviluppo della che si raggiungeva dopo sei gradi religione mitraica. Le fasi finali iniziatici. Ogni grado corrisponde a sono ancora poco conosciute. uno dei cieli che ruotano intorno Il culto di Mitra era un culto solare alla Terra nella concezione e misterico, cioè riservato agli aristotelica, segnati dalla presenza adepti che entravano a far parte di un corpo celeste (pianeta o Sole,

misterica sentivano il bisogno di simboli alfabetici che concentrassero in sé le lettere della parola Mitra o in simboli solari. Da sottolineare è anche la presenza di un’aiuola che le analisi pollini-

Luna). Il cerimoniale era imperniato sui banchetti rituali e sui sacrifici che si svolgevano in speciali ambienti (spelaea), normalmente dotati di due letti laterali (biclinium). La città di Ostia ha restituito il maggior numero di mitrei (una quindicina) trovati in ambito urbano entro i confini dell’impero romano. Massimiliano David

A sinistra: confronto tra un monogramma mitraico con lettere M, Y e A in nesso e vari tipi di cristogramma. A destra: Mitreo di Felicissimus. Particolare del mosaico pavimentale con la raffigurazione di un sistro.

a r c h e o 45


SCAVI • PROGETTO OSTIA MARINA

I MAGNIFICI QUINDICI Grazie alla sua ricchezza, il campione ostiense, frutto delle numerose scoperte susseguitesi tra il XVIII secolo e il XX secolo, permette di analizzare da vicino l’importanza del mitraismo tra l’età antoniniana e l’età costantiniana. Nella città, estesa nel III secolo su una superficie di circa 130 ettari e con una popolazione calcolata in almeno 60 000 abitanti, sono attestati almeno 15 mitrei, che pongono Ostia al primo posto per chiunque voglia studiare il mitraismo romano: il fenomeno, popolare tra i piú diversi strati sociali, appare in crescita almeno fino al III secolo inoltrato. Gli studi piú recenti collocano nell’età degli imperatori adottivi (96-193 d.C.) i mitrei delle Pareti dipinte (1), delle Sette sfere (2) e delle Sette porte (3); nell’età dei Severi

che hanno rivelato contenere tracce di Juniperus, cioè di ginepro, un’essenza del tutto estranea all’ambiente ostiense (analisi del Laboratorio di palinologia e archeobotanica G. Nicoli). La pianta, sacra nel mondo persiano, produce bacche specialmente indicate in certe pratiche religiose. Alcuni singolari reperti – sebbene siano stati rinvenuti in giacitura 46 a r c h e o

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(196-235 d.C.) il Mitreo Fagan (scavato alla fine del Settecento, è oggi perduto), quello degli Animali (4), quello Aldobrandini (5), quello del cosiddetto Palazzo Imperiale (6), quello della Planta pedis (7); nel periodo detto dell’anarchia militare (235-284 d.C.) quelli di Lucrezio Menandro (8),

secondaria – offrono motivi di riflessione sulla confluenza, accoglienza e convivenza in questo edificio di diverse espressioni religiose. Mi riferisco al gruppo di oggetti in giaietto (una pietra nera lisciabile prediletta dai cultori di Cibele), alla piccola corona isiaca in bronzo e a una testa di Iside in terracotta. A questo si aggiunge un navigium Isidis graffito sulla parete

delle Terme del Mitra (9), di Fructuosus (10), di porta Romana (11), del Caseggiato di Diana (12), di Felicissimus (13) e dei Serpenti (14). A Ostia sono ben documentate tracce archeologiche dell’azione violenta e distruttiva dei mitrei operata da frange fanatiche della montante onda cristiana tra il IV e il V secolo (si pensi alla mutilazione del gruppo scultoreo rinvenuto nel Mitreo delle Terme del Mitra), ma fino alla scoperta del Mitreo dei Marmi colorati (già Caupona del dio Pan) nessun mitreo costruito posteriormente al III secolo era stato individuato. Massimiliano David

orientale dell’ambiente n. 3. Un altro reperto speciale sembra tracciare nel Mitreo dei Marmi colorati un ponte tra cultori di Mitra e seguaci di Iside: si tratta di un singolarissimo manico d’avorio intagliato, ora in restauro, probabilmente facente parte di uno strumento rituale, forse proprio di un sistro, strumento di origine egiziana che ebbe però buona acco-


In questa pagina: gruppo di Mitra che uccide il toro, opera dello scultore Kriton. II sec. d.C. Roma, Museo Ostiense. Nella pagina accanto, in basso: un’immagine del gruppo di Mitra che uccide il toro prima della ricomposizione delle parti asportate.

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SCAVI • PROGETTO OSTIA MARINA

In alto: Ostia. Una veduta della cosiddetta basilica cristiana. V sec. d.C. Nella pagina accanto: bollo della figlina Claudiana con cristogramma, rinvenuto durante le indagini del Progetto Ostia marina. IV-V sec. d.C. Nella pagina accanto, in basso: mappa generale di Ostia con, in evidenza, gli edifici della comunità cristiana.

glienza anche nel mondo mitraico. Esso compare, per esempio, associato al grado del leone nel mosaico pavimentale del Mitreo di Felicissimus. Sembra dunque corretto pensare a un mitraismo, per cosí dire, «mimetizzato» in una periferia degradata, capace di calamitare diverse espressioni religiose. I problemi cronologici posti da questo nuovo edificio non possono dirsi ancora risolti (le indagini sono tuttora in corso), ma gli elementi disponibili suggeriscono che sia stato in funzione fino ai primi tempi del V secolo. La presenza dei mitrei era a quel tempo sempre meno tollerata: a Ostia essi venivano dati alle fiamme, distrutti da veri e propri 48 a r c h e o

raid di estremisti cristiani o semplicemente chiusi dall’autorità pubblica. A Roma, è testimone di questo clima Girolamo, il quale, in una lettera, ben riflette l’intolleranza dilagante agli inizi del V secolo.

ATTI DI PROFANAZIONE Le ricerche fin qui condotte hanno permesso di ricostruire le fasi della disattivazione di questo centro, probabilmente illegale, di aggregazione religiosa. Non vi sono prove archeologiche di vandalismo o di distruzione violenta, come nel caso clamoroso del Mitreo delle Terme del Mitra.Tuttavia, vi furono atti di profanazione, come sembra indicare la chiusura con pietrame del pozzo

rituale, e un’impresa specializzata si incaricò dell’asportazione delle tessere dei mosaici, a eccezione del settore del pavimento dell’ambiente n. 3 con la figura del Pan. L’edificio visse quindi una fase di progressivo decadimento, segnato dalle ripetute esondazioni del Tevere. Infine, dopo un crollo – forse connesso al terremoto del 442-443 –, l’area venne interdetta e murata, precludendone l’accesso dalla strada con uno sbarramento composto dai materiali edili provenienti dal crollo. L’interesse del complesso, in corso di scavo, deriva dalla sua tardività, ma anche dalla sua capacità di sopravvivenza in un quartiere di Ostia che la base iscritta di una


LA FINE Dopo lo straordinario boom edilizio vissuto da Ostia nel II secolo, gli studiosi riconoscono nel III secolo una flessione nella crescita. Tuttavia, dall’inizio del IV secolo, la città – scelta come sede di zecca e ancora concepita come un’estensione di Roma da Massenzio – manifesta una notevole vitalità. Importanti famiglie romane ristrutturano le loro residenze, garantendosi a Ostia una comoda e rigenerante alternativa al clamore della megalopoli. Ancora nel quindicennio dei Valentiniani (363-378 d.C.) la mano pubblica manifesta attenzione per la manutenzione e il restauro degli edifici, ma, negli ultimi due decenni del IV secolo, vi sono segni di contrazione e degrado dell’abitato, che contrastano con lo sfarzo di talune residenze private (si pensi al sontuoso Edificio con opus sectile fuori porta Marina) e con il prepotente sviluppo del cristianesimo, ormai solidamente installato nel centro e nel suburbio. Peraltro, durante il suo viaggio di rientro in Africa, Agostino può ancora soggiornare a Ostia, ospitato comodamente nel 387, in una serena dimora. Nel V secolo la città risente delle conseguenze delle guerre e forse anche dei cataclismi naturali che si abbattono sulla capitale (si pensi al terremoto del 442saline

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S. Ercolano Cattedrale

Basilica di Pianabella

statua indicava a ragione come «sordens», cioè sordido. Il Mitreo dei Marmi colorati – unico mitreo ostiense extraurbano – offre la possibilità di analizzare un complesso religioso mitraico nella sua interezza e non solo, come spesso succede, nel suo aspetto culminante, cioè l’aula cultuale dello spelaeum. Esso ci induce a proseguire il cammino

443 e anche alle esondazioni del Tevere), ma è ancora salvaguardato il decoro della zona forense, come indicano le attuali indagini dell’Ostia Forum Project. La lucida testimonianza di Procopio (537 d.C.) offre l’immagine di una città degna delle attenzioni dei militari nel quadro delle manovre per la riconquista di Roma: colpisce lo storico l’assenza in Ostia di un funzionante sistema difensivo murato, una condizione che la città aveva in realtà condiviso con Roma per quasi due secoli. Nel VII e VIII secolo Ostia si estingue lentamente, fino a ridursi a città fantasma, per poi essere abbandonata definitivamente nel IX secolo. Massimiliano David

conoscitivo sui sentieri oscuri delle religioni proibite dell’impero, ben oltre la fatidica data della morte di Teodosio (395), in sinergia, dunque, con i piú recenti studi sulle fasi finali del mitraismo. In quegli anni a Ostia il cristianesimo si diffondeva a macchia d’olio in tutta la città, sotto la direzione dei vescovi che risiedevano nel

complesso costruito sulla via del Sabazeo. Nel corso del V secolo il crescere del peso dei cristiani negli equilibri di potere, ma anche nella sfera economica delle gerarchie cristiane è indicato dal rinvenimento nell’area delle ricerche del Progetto Ostia Marina di bolli laterizi che portano impressi i simboli della nuova religione. a r c h e o 49


SCOPERTE • ISRAELE

NEL COVO DEI RIBELLI ESPLORATA PER LA PRIMA VOLTA SUL FINIRE DELL’OTTOCENTO, LA GROTTA DI TEOMIM, PRESSO GERUSALEMME, È ORA OGGETTO DI INDAGINI SISTEMATICHE, CHE HANNO PERMESSO DI RICOSTRUIRNE LA LUNGA FREQUENTAZIONE. GETTANDO NUOVA LUCE, IN PARTICOLARE, SULL’EPOCA DELL’INSURREZIONE ANTIROMANA GUIDATA DA SIMON BAR KOCHBA, QUANDO LA CAVITÀ FU UTILIZZATA COME RIFUGIO DAI RIVOLTOSI di Boaz Zissu, Eitan Klein, Roi Porat, Boaz Langford e Amos Frumkin

In queste pagine: grotta di Teomim (Israele). Alcune immagini dell’esplorazione: in basso, a sinistra, Ayala Amir pulisce le tracce in negativo lasciate dai blocchi cavati sulla superficie del giacimento di alabastro; in basso, a destra, Boaz Zissu e Boaz Langford esaminano due lucerne; sulle due pagine, Boaz Langford si guadagna l’uscita dalla fenditura L3064.

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der e Horatio Herbert Kitchener, per conto del Survey of Western Palestine. I due studiosi eseguirono il rilievo della grotta e notarono, alla sua estremità settentrionale, la presenza di un profondo pozzo, avente un diametro di circa 12 m. La loro descrizione del sito fornisce informazioni sulle tradizioni e gli usi della

LIBANO

Lago di Tiberiade

Haifa

Nazaret

Mar Mediterraneo

Beit She’an

Hadera Netanya

Tel Aviv Petach Tikva

Giordan o

L

a grotta di Teomim è una vasta e articolata cavità che si apre sul margine occidentale delle colline di Gerusalemme. Chiamata Mugharet Umm et Tueimin – «la grotta della madre dei gemelli» – dagli abitanti del luogo nel XIX secolo, la caverna fu esplorata per la prima volta il 17 ottobre del 1873 da Claude Reignier Con-

CISGIORDANIA Ashdod

Gerusalemme

Grotta di Teomim Ascalona

ISRAELE

Mar Morto

Deir el-Balah Beersheva

Masada

popolazione locale, che attribuiva proprietà terapeutiche all’acqua sorgiva che sgorgava all’interno della cavità. Sul finire degli anni Venti del Novecento, René Neuville, console francese a Gerusalemme, effettuò uno scavo sul fondo del vano principale del sito, recuperando vasi in ceramica, legno e pietra, che vennero datati al Neolitico, al Calcolitico, all’età del Bronzo Antico e Medio, all’età del Ferro e all’epoca romana e bizantina.

LE NUOVE ESPLORAZIONI Tra il 1970 e il 1974, il fisico e speleologo Gideon Mann studiò la grotta su incarico della SPNI (Società per la Protezione della Natura d’Israele). Mann realizzò la planimetria di una sezione della grotta, individuò passaggi che conducevano a vari ambienti interni e scoprí numerosi manufatti, fra cui vasi in ceramica e vetro. Dal 2009, la grotta di Teomim viene indagata nell’ambito di a r c h e o 53


SCOPERTE • ISRAELE

In questa pagina: il vano principale della grotta di Teomim. Nella pagina accanto: planimetria del sito, con l’indicazione dei diversi vani.

un progetto al quale partecipano il Martin (Szusz) Department of Land of Israel Studies and Archaeology della Bar-Ilan University e il Cave Research Center della Hebrew University of Jerusalem. Dall’ingresso della cavità – un’apertura naturale allargata a seguito di attività estrattive (vedi oltre) – si può discendere verso nord e accedere a un vano spazioso (50 x 70 m circa), in larga parte coperto da consistenti accumuli di roccia. Numerosi passaggi e fessure che si aprono fra i cumuli conducono a cavità e anfratti sotterranei, ricchi di materiale archeologico. Una vasca quadrangolare (di 2 m di lato) scavata nella stanza raccoglie 54 a r c h e o

l’acqua che stilla dal soffitto e che scorre quindi verso ovest, in un canale ricavato nella roccia. L’acqua viene oggi assorbita dal terreno, ma, in origine, veniva raccolta in una vasca costruita, situata piú in basso. Altri canali furono scavati in piú punti della sala d’ingresso, anch’essi allo scopo di raccogliere l’acqua in vasche o vasi.

UNA LUNGA FREQUENTAZIONE Le piú recenti indagini condotte nella grotta di Teomim hanno restituito materiali ascrivibili a piú epoche storiche, dal Neolitico all’età contemporanea. Le fasi maggiormente attestate sono l’età del Bron-

zo Medio (2000-1550 a.C. circa), la fine della rivolta di Simon Bar Kochba (132-136 d.C.; vedi box alla pagina seguente) e l’epoca tardo-romana/proto-bizantina (tra la fine del II e il IV secolo d.C.). Nell’età del Bronzo Medio, nella grotta fu attiva una cava per l’estrazione dell’alabastro: si tratta della prima attestazione del genere a oggi nota nel Levante meridionale, e, fino alla sua scoperta, si credeva che questa pregiata materia prima provenisse da cave egiziane. L’alabastro veniva impiegato per fabbricare vasi di lusso ed elaborati elementi architettonici. L’osservazione dei materiali depositatisi nella grotta ci ha permesso di stabilire che l’estra-


LOTTA ALL’OPPRESSORE Tra il 132 e il 136 d.C., durante il principato di Adriano, un conflitto durissimo oppose Romani ed Ebrei. Le ostilità furono causate da due eventi, verificatisi tra il 130 e il 132 d.C.: durante la sua visita in Giudea, l’imperatore decise di ricostruire Gerusalemme, distrutta da Tito, secondo l’urbanistica romana, inserendo il culto e il tempio dedicati a Giove, lí dove una volta si ergeva il Sacro Tempio della città. Poco dopo vietò la circoncisione dei bambini, con l’intento di eliminare una pratica estranea al mondo romano: una decisione che suscitò l’indignazione della popolazione ebraica,che vide nel provvedimento una provocazione gratuita e un’interferenza nei propri usi tradizionali. Da ciò scaturí una rivolta lunga e feroce, guidata da Simon Bar Kochba, il quale evitò gli scontri in campo aperto, che sarebbero stati certamente favorevoli alle preponderanti milizie romane. In un primo tempo l’azione di sorpresa e la determinazione dei ribelli, unite alle scarse qualità belliche del

governatore Tineio Rufo, che sottostimò la situazione, furono favorevoli agli Ebrei. In seguito, nel 133/134, Adriano assegnò il comando al governatore della Britannia, Giulio Severo, il quale, con maggiore sagacia strategica e disponendo di ben tre legioni stabili, nonché di altre inviate come rinforzo, mutò tattica e provvide a tagliare contatti e rifornimenti ai rivoltosi, inseguendoli e debellandoli con piccole unità, piú mobili delle legioni. Nell’inverno del 135 d.C. Simon fu ucciso nei pressi di Betar e la rivolta fu domata: le perdite da parte giudaica furono ingentissime e anche tra i Romani si contarono un gran numero di caduti. Seguirono esecuzioni di prigionieri, tra cui anche capi religiosi che avevano appoggiato Bar Kochba, mentre altri furono ridotti in schiavitú. Il nome di Iudaea fu dunque mutato in Syria Palaestina, mentre Gerusalemme venne ricostruita con il nome di Aelia Capitolina e ne fu vietato l’ingresso agli Ebrei, pena la morte.

varsi all’interno delle grotte, come, per esempio le stalattiti e le stalagmiti, n.d.r.) venne praticato in Israele anche in epoca romana. Nel palazzo fortificato di Cypros, nei pressi di Gerico, una vasca monolitica venne ricavata dal calidarium dell’impianto termale erodiano. Tale circostanza suggerisce che, in epoca classica, il fabbisogno locale di alabastro continuasse a essere soddisfatto da miniere

Pozzo profondo

Legenda

zione dell’alabastro ebbe inizio già in epoca preistorica. La cava produsse oltre 200 mc di materia prima grezza e, per effetto delle attività estrattive, altri materiali si depositarono sulla superficie sommitale della cava grazie al continuo scorrere dell’acqua. L’analisi di questi depositi, accumulatisi all’indomani dell’abbandono della cava, ci ha permesso di datarne l’utilizzo: i risultati preliminari ottenuti con il metodo dell’Uranio-Torio indicano che l’attività estrattiva cominciò nel corso dell’età del Bronzo, fra il III e il II millennio a.C. Lo scavo degli speleotemi (nome generico utilizzato per indicare i depositi chimici che possono tro-

Vaso per derrate Tesoretto Lucerna

Cava

Sala d’ingresso Pozzo

Pozzo

Vasca scavata nella roccia

Entrata

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SCOPERTE • ISRAELE

locali. Il fronte di cava di Teomim ha conservato una buona documentazione del paleoclima che ha caratterizzato la regione nel corso dell’ultimo milione e mezzo di anni e fra gli obiettivi delle ricerche future vi è appunto la datazione dell’intera sequenza. Al tempo della rivolta di Bar Kochba, le grotte del deserto di Giudea furono utilizzate come rifugi, ma altrettanto accadde nel caso di Teomim, che si trova invece nella parte abitata della Giudea, a ridosso di Gerusalemme.

I TRE TESORETTI Nei vani interni del sito (F e G), che sono di difficile accesso, sono stati recuperati tre tesoretti monetali, armi e ceramica, che lí erano stati nascosti da ribelli ebrei rifugiatisi a Teomim alla fine della sommossa. Il primo tesoretto (A) si componeva di 83 monete d’argento (20 tetradrammi e 63 denarii) sovrabattute (per sovrabattitura si intende la coniazione

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che sfrutta una moneta precedentemente coniata, invece di un tondello vergine, n.d.r.) dall’amministrazione di Bar Kochba e di un frammento di monile anch’esso in argento. A oggi, si tratta

dell’unico tesoretto argenteo di Bar Kochba che provenga da uno scavo archeologico regolare e le monete che ne fanno parte mostrano tracce di un’usura assai lieve. Non lontano è stata recuperata una moneta in bronzo coniata in epoca adrianea nella città di Ascalona (oggi Ashqelon). In una fenditura creatasi fra lastre di roccia staccatesi dal soffitto della grotta è stato scoperto un altro insieme, composto da 10 monete (tesoretto B), accanto al quale si trovava anche un ago in bronzo. Di questo tesoretto facevano parte 9 monete d’argento e 1 prutah di bronzo (moneta di basso valore che trae nome da un vocabolo forse di origine aramaica). I pezzi sono romani (6) e giudei (4) e sono databili fra l’epoca del Secondo Tempio e quella della rivolta di Bar Kochba: per questo motivo, il tesoretto B costituisce un’acquisizione di particolare importanza, poiché si tratta della prima attestazione di una compresenza fra emissioni di Bar Kochba e piú antiche monete giudee, suggerendo che possa esserci stata una continuità.


Nella pagina accanto, in alto: il tesoretto B dopo la pulitura. Si compone di 10 monete d’argento e bronzo e di un ago, anch’esso in bronzo. Nella pagina accanto, in basso: il tesoretto C in situ. L’insieme comprende 24 monete. In questa pagina: il tesoretto A in situ e dopo la pulitura. Ne fanno parte 83 monete d’argento (20 tetradrammi e 63 denarii).

Un altro insieme (tesoretto C) è stato individuato fra due frammenti di roccia, insieme ai resti di un probabile ago in ferro e a frammenti di un vaso per lo stoccaggio delle derrate. Del tesoretto C facevano parte 5 monete auree romane, 15 monete d’argento (13 di epoca romano-imperiale e provinciale e 2 denarii di Bar Kochba) e quattro pezzi in bronzo di Ascalona. Dal momento che il valore di 1 aureus era pari a quello di 25 denarii d’argento, il tesoretto C (composto da 24 monete) valeva 155 denarii, mentre il tesoretto A (83 monete) ne valeva solo 143. Invece di coniare nuove monete, le amministrazioni «ribelli» sovrabattevano quelle romane già in circolazione, una pratica con la quale si voleva manifestare la propria a r c h e o 57


SCOPERTE • ISRAELE

sovranità e che troviamo attestata in tutti i pezzi del tesoretto A.Verosimilmente, i proprietari di questo tesoretto sostennero la rivolta, poiché affidarono alle autorità di Bar Kochba preposte alla zecca tutte le monete da loro possedute, affinché venissero sovrabattute. I proprietari degli altri due tesoretti si dimostrarono invece piú cauti e fecero sovrabattere solo alcune monete, poiché questi pezzi avevano corso legale soltanto nelle aree controllate dai ribelli. Tale scelta suggerisce che alcuni residenti preferirono conservare le monete romane, che avrebbero sempre permesso di acquistare beni dai territori non controllati dai ribelli. Tesoretti del genere furono probabilmente accantonati in previsione del possibile fallimento della rivolta.

Tutte le monete romane furono coniate prima del 132 d.C., mentre i pezzi «ribelli» piú tardi risalgono al 134/5 d.C.: sembra perciò logico ipotizzare che i tesoretti fossero stati nascosti prima della fine del conflitto, che terminò nel 136 d.C.

IN CASO DI PERICOLO Nel vano F sono state recuperate anche due armi in ferro: un tipico pilum romano (un giavellotto pesante) e una rara lancia fabbricata dai ribelli. Entrambi erano stati accantonati, ma collocati in una posizione che avrebbe comunque permesso di poterli velocemente afferrare. La presenza delle armi prova che i combattenti dovettero rifugiarsi nella grotta, forse portando con sé altri fuggiaschi, provenienti da un vicino villaggio ebreo. Se si eccettuano i materiali sporadici riferibili alla rivolta di Bar Kochba, il vano F era vuoto: è dunque probabile che costituisse il rifugio piú nascosto, difficile da raggiungere, del

quale un gruppo di persone che ben conoscevano la grotta si sarebbe servito solo in caso di estrema necessità. Nel vano G sono state rinvenute numerose ossa umane, accumulate in una fenditura della roccia e lungo un sentiero che portava alla fenditura stessa. Il ritrovamento di queste ossa e dei tesoretti di monete suggerisce che i fuggiaschi fossero morti nella grotta. La grotta di Teomim fu in seguito frequentata per scopi ben diversi. A partire dal II secolo d.C., la cavità – e in particolare il suo profondo pozzo e la sorgente – fu utilizzata come luogo di culto, forse dedicato a una divinità ctonia o adibito ad altri rituali pagani, comunque non piú ebraici. Lo scavo del vano principale e delle sue ramificazioni – a eccezione dei vani F e G – ha restituito una considerevole quantità di lucerne e monete d’epoca tardo-romana, nonché altri materiali e ceramiche bizantini, islamici e ottomani. Nella pagina accanto: una lucerna in situ, all’interno di una nicchia. A sinistra: tre lucerne (sulla sinistra) rinvenute sotto una ciotola (al centro), accanto alla quale furono deposte altre due lucerne (sulla destra).

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Nelle cavità e nelle fessure della grotta sono state recuperate circa 120 lucerne, databili fra l’epoca tardo-romana e gli inizi dell’età bizantina (tra la fine del II e il IV secolo d.C.). Queste lucerne erano state deliberatamente collocate in fessure strette e profonde, molte delle quali accessibili solo strisciando, con difficoltà. Tanto che, per poterle estrarre, ci siamo serviti di pertiche in legno, probabilmente affini a quelle utilizzate in epoca antica per infilare i manufatti nelle fenditure della roccia. La scelta di porre le lucerne in simili recessi, difficili da raggiungere, suggerisce che esse non servissero soltanto per illuminare la grotta, ma che potessero essere legate al suo uso rituale e fossero forse offerte votive. In Grecia e a Roma, le caverne furono spesso adibite al culto di Demetra, Persefone, Ermes, Dioniso, Apollo e talvolta delle ninfe e delle muse. Il filosofo Porfirio di Tiro (III secolo d.C.) affermò che quanti credevano

negli dèi dell’Olimpo costruivano i templi al di sopra della superficie terrestre, mentre coloro che veneravano le divinità ctonie e gli eroi sotterranei praticavano i propri culti in pozzi, santuari ipogei o grotte.

L’INGRESSO AGLI INFERI Pozzi, sorgenti e caverne erano considerati come altrettanti possibili accessi agli inferi. Nella Vita di Apollonio di Tiana (scritta agli inizi del III secolo d.C.), il filosofo Flavio Filostrato scrive che le divinità degli inferi preferivano riti celebrati all’interno di profondi pozzi o in cavità sotterranee. Questi stessi luoghi venivano spesso associati a Demetra e a sua figlia Persefone, il cui culto era diffuso in epoca tardoromana. Statue, rappresentazioni su monete, iscrizioni ed elementi architettonici a esse riferibili sono state scoperte ad Acco, Beit Shean, Samaria, Nablus, Cesarea, Lod e Ashqelon, e in loro onore si svolgevano anche due grandi feste

– i Misteri Eleusini e le Tesmoforie –, durante le quali si raccontavano episodi del ratto di Persefone. Molto rinomati in epoca ellenistica e romana, i Misteri Eleusini si svolgevano sul finire dell’estate nell’area consacrata a Demetra a Eleusi (città situata 20 km a nord-ovest di Atene). Ai partecipanti venivano promesse la fertilità della terra e la prosperità e si dispensavano benedizioni per la vita ultraterrena. Non conosciamo nel dettaglio i rituali, poiché quanti vi prendevano parte erano tenuti a mantenere il segreto a riguardo, minacciandoli di morte nel caso fossero venuti meno a tale consegna. Ciononostante, alcune fonti di epoca tarda offrono informazioni di carattere generale sui Misteri. Le Tesmoforie si celebravano al di fuori delle città, nei primi tre giorni d’autunno, alla vigilia della semina e vi potevano partecipare esclusivamente le donne. Le feste evocavano il rapimento di Persefone. Secondo il a r c h e o 59


SCOPERTE • ISRAELE

mito, testimone del fatto fu Eubuleo, pastore di porci, che precipitò nello stesso baratro in cui era caduta la figlia di Demetra e, perciò, per ricordare l’episodio, nel corso delle Tesmoforie si gettavano alcuni maiali nei pozzi, come offerte alla divinità. In seguito, le donne venivano calate nei pozzi medesimi, allo scopo di raccogliere i resti dei suini sacrificati. Risalite in superficie, spargevano i resti sugli altari, mescolandoli con chicchi di grano, per auspicare la fertilità delle terre. Nei pozzi venivano riposte anche figurine di serpenti – i guardiani degli inferi – e oggetti di forma fallica, ai quali si attribuiva il potere di favorire la fertilità femminile. Come si legge in passo delle Tesmoforiazuse (o Le donne alla festa di Demetra Tesmoforos) di Aristofane, nel corso delle feste le donne portavano lucerne e torce.

UN AIUTO PER LA DEA Sebbene non sia possibile ricostruire nel dettaglio le cerimonie che dovevano avere luogo presso la grotta di Teomim, è ragionevole credere che esse fossero simili a quelle fin qui descritte. Se le divinità venerate nella grotta furono effettivamente Demetra e Persefone, le lucerne potrebbero essere state

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In alto e in basso a destra: un’ascia a occhio e due punte di lancia in bronzo rinvenute nella grotta di Teomim. In basso: lucerne rinvenute intatte durante la campagna del 2010. A destra: restituzione grafica dell’ascia a occhio, delle punte di lancia e di una brocchetta. Nella pagina accanto: due giare per derrate alimentari, dopo il restauro.

riposte in fenditure della roccia difficilmente accessibili come offerte e con lo scopo di aiutare Demetra nella ricerca della figlia. Del resto, scavi di altri luoghi di culto dedicati alle due dee hanno restituito numerose lucerne, spesso deposte all’interno di nicchie votive.Tale pratica è stata osservata, per esempio, nel temenos sacro a Demetra e Persefone a Cnido, in Asia Minore: qui sono state scoperte due celle in mattoni crudi, profonde 5 m circa, che contenevano centinaia di lucerne di epoca romana. Molte di esse vennero deposte sul pavimento dei due ambienti, ma altre sono state rinvenute all’interno di profonde fessure dei muri.


Accumuli di lucerne all’interno di pozzi situati in aree sacre in uso o anche abbandonate – spesso prossime a sorgenti o ad altre fonti d’acqua – sono attestati in siti – alcuni dei quali anche in Israele - riferibili ad altri dèi, dee e figure mitologiche del mondo greco e romano.

UN PARTO PRODIGIOSO A corroborare l’ipotesi che la nostra grotta fosse un luogo di culto di Demetra e Persefone concorre anche la sua denominazione di Umm et Tueimin («madre dei gemelli»). Secondo la leggenda, infatti, una donna sterile, dopo aver bevuto l’acqua che stillava dal soffitto della cavità, mise appunto al mondo una coppia di gemelli. L’associazione della grotta con la fertilità femminile potrebbe dunque costituire una lontana reminiscenza dei riti che si praticavano per propiziarla in epoca romana. In alternativa, il nome in lingua araba della grotta potrebbe evocare un altare dedicato ai Dioscuri (letteralmente, «figli di Zeus»), i leggendari gemelli Castore e Polluce, figli di Leda, regina di Sparta, e fratelli di Elena di Troia. Castore era nato dall’unione fra Leda e Tindareo, mentre Polluce aveva per padre Zeus: ciononostante, nacquero gemelli, ma, per via della diversa ascendenza, il primo era mortale e il secondo immortale. I due venivano spesso raffigurati a cavallo, con un copricapo a forma di uovo sormontato da una stella. Erano considerati come divini sapienti, nonché come patroni dei marinai, dei soldati e dei viaggiatori. Poiché uno degli episodi di cui furono protagonisti comprendeva la discesa agli inferi e il successivo ritorno sulla terra, i Dioscuri vennero considerati come eroi ctoni e il loro culto fu associato al naturale ciclo della vita e della morte. Tracce del culto dei Dioscuri sono state ritrovate in vari siti d’Israele. A Samaria, per esempio, nel tempio di Persefo-

ne (III secolo d.C.) sono state rinvenute alcune lastre a rilievo con l’immagine dei copricapi dei divini gemelli, sormontati da stelle a otto raggi. Ciò dimostra che in quel sito il culto dei Dioscuri si praticava accanto a quelli di Demetra e Persefone. E se altrettanto si verificò nella grotta di Teomim, è probabile che il culto dei Dioscuri avesse in questo caso un ruolo ancillare rispetto a quelli di Demetra e Persefone.

STOP AL PAGANESIMO Fin qui, dunque, è possibile suggerire due interpretazioni diverse della pratica cultuale ed è opportuno ricordare che l’assenza, a oggi, di iscrizioni, materiali iconografici o prove certe non permette di identificarne con sicurezza la natura. Secondo la piú tarda delle monete restituite dalla grotta, il regno di Arcadio (383-395 d.C.) costituisce il terminus ante quem dell’attività cultuale. Nel IV secolo d.C. la venerazione delle divinità pagane continuò, senza risentire della diffusione del cristianesimo. I culti pagani furono soppressi solo all’indomani della promulgazione del Codice

Teodosiano (391-392 d.C.), che metteva al bando tutte le forme di «superstizione» pagana. La grotta di Teomim getta quindi luce sui mutamenti etnici e culturali che ebbero luogo nel mondo rurale della Giudea dopo la rivolta di Bar Kochba, quando gli Ebrei abbandonarono la regione e l’area venne occupata da comunità pagane di varia origine. A partire dall’epoca preistorica, nella grotta si praticarono attività diverse. Lo studio dell’antica miniera e della cavità nel suo insieme hanno fornito informazioni di grande interesse al riguardo: al tempo della rivolta di Bar Kochba gli Ebrei che vivevano nella zona cercarono rifugio nella grotta, sfruttandone un settore situato alle spalle della cava di alabastro; in epoca romana le fenditure e le nicchie che si aprivano nella roccia divennero funzionali alla pratica di riti pagani; in età bizantina e poi in epoca islamica fiorirono le tradizioni sulle proprietà terapeutiche della sorgente che sgorgava nella vasca scavata nella roccia. Tradizioni che si sono tramandate fino ai giorni nostri. a r c h e o 61


SCAVI • VIVARA

VIVARA,

ISOLA DEL VINO? IL GOLFO DI NAPOLI FU UN IMPORTANTE CROCEVIA DEGLI ANTICHI TRAFFICI MEDITERRANEI. COME CONFERMANO ANCHE LE RECENTISSIME SCOPERTE COMPIUTE SULL’ISOLOTTO POSTO FRA PROCIDA E ISCHIA. DOVE SEMBRA PROBABILE CHE, GIÀ NELL’ETÀ DEL BRONZO, FOSSE STATO MESSO A PUNTO UN SISTEMA DI SCRITTURA E DI REGISTRAZIONE DEI DATI SIMILE A QUELLI DEL VICINO ORIENTE

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di Massimiliano Marazzi Sulle due pagine: l’isola di Vivara, vista da quella di Procida (Napoli), alla quale è oggi collegata dal ponte che compare al centro della foto. Le ricerche in corso da oltre un quarantennio hanno accertato la presenza stabile dell’uomo nel corso dell’età del Bronzo, intorno alla metà del XVI sec.

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Nella pagina accanto e in alto: immagini che documentano le esplorazioni subacquee condotte nell’ambito della missione che opera a Vivara: 1. individuazione di tracce delle strutture (buchi per palo e muretti a secco) associate alle grotte con funzione di magazzino, che si trovano 5 m circa sotto l’attuale livello del mare, nell’area del Golfo di Genito; 2. una grande grotta modificata in antico, forse per il ricovero dei navigli alla base del promontorio di Santa Margherita, che si sviluppa parzialmente (8 m circa) sotto il livello del mare; 3a, b, c. tracce delle scale intagliate nel tufo che, all’epoca dell’insediamento protostorico, collegavano l’area portuale e le spiagge circostanti con l’abitato sul pianoro sommitale.

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li scavi e le ricerche sull’isola di Vivara e nel comprensorio del Golfo di Genito – siamo nell’arcipelago delle Isole Flegree (Napoli) – si svolgono quasi ininterrottamente da piú di quarant’anni. Le premesse a tali ricerche furono poste da un pioniere degli studi protostorici in Italia, Giorgio Buchner (1914-2005), il quale condusse negli anni Trenta

una serie di saggi sull’estrema punta nord dell’isola (la cosiddetta Punta Capitello), rinvenendo tracce di una presenza umana stabile nel corso dell’età del Bronzo (attorno alla metà del XVI secolo a.C.), ma, soprattutto, recuperando due frammenti di ceramica dipinta e tornita provenienti dalla coeva Grecia micenea. Buchner fu anche il primo a ipotizzare, sulla base di osservazioni

A destra: Procida, Napoli. Un esempio di uso moderno delle grotte naturali affacciate sulle spiagge, adibite a magazzino e ricovero delle barche dei pescatori locali.

A sinistra: confronto tra l’assetto attuale del comprensorio di Procida-Vivara (in alto) e quello che doveva avere intorno al XVI sec. a.C. (in basso) Nella pagina accanto: ricostruzioni virtuali della Vivara dell’età del Bronzo: l’area portuale oggi coperta dalle acque del golfo di Genito (in alto) e l’insediamento capannicolo della Punta d’Alaca nella sua quotidianità (in basso). 64 a r c h e o


una catena di siti intermediari dove si procedeva già a una sua parziale lavorazione). Al seguito di questi circuiti di prodotti ricercati si verificarono trasferimenti di nuove tecniche e di limitati gruppi umani, esperti in attività specializzate, che in aree come quella pugliese e calabrese jonica, nel Siracusano e nell’Agrigentino, fino alle coste della Sardegna meridionale, portarono alla creazione di veri e propri empori internazionali, luoghi di acculturazione e sperimentazione di nuove forme di produzione. Nella seconda metà del II millennio a.C., tale sviluppo di interconnessione transmediterranea dette vita a un vero e proprio fenomeno di «globalizzazione» delle culture che si affacciavano sul Mediterraneo, dalle coste levantine fino a quelle della Spagna sud-occidentale, portando alla nascita in tutto il bacino di gruppi specializzati nella navigazione, nel commercio sulla breve e geomorfologiche, che a quell’epoca il livello del mare fosse molto piú basso (di 5 m circa), essenzialmente a causa dei fenomeni di subsidenza che caratterizzarono (e tuttora caratterizzano) l’intero comprensorio di Procida-Vivara. Secondo l’ipotesi di Buchner, quella che ai nostri giorni si presenta come un’isola poco distante dal promontorio di Santa Margherita di Procida doveva, all’origine, esserne un’appendice, proiettata sul mare verso sud.

LO STUDIO DEI TRAFFICI A cominciare da quella scoperta l’isola di Vivara è divenuta uno dei capisaldi geografici per lo studio e la comprensione dei traffici marittimi che, nel corso del II millennio a.C., dovevano collegare le aree costiere e insulari italiane con le regioni del Peloponneso e gli ambienti insulari dell’Egeo. A piú di mezzo secolo da quelle prime scoperte, grazie alle ricerche

e agli scavi condotti dalla fine degli anni Cinquanta da molti studiosi italiani – Lucia Vagnetti, Luigi Bernabò Brea, Renato Peroni, Gino Felice Lo Porto e, soprattutto, Giovanni Pugliese Carratelli –, sappiamo che i contatti fra mondo grecoegeo e Occidente mediterraneo furono intensi e regolari già dalla metà del XVII secolo a.C. e continuarono in forma articolata fino e oltre il XII secolo, quando le formazioni politico-territoriali micenee, continentali e insulari, collassarono, lasciando spazio a nuovi assetti politici, che, nel tempo, condussero alla formazione delle poleis greche. Nell’ambito di tali contatti, primariamente connessi all’acquisizione di metalli (rame e stagno), si innescò un processo di circolazione di beni di prestigio in forma di prodotti finiti (armi, gioielli, oli profumati e sostanze speziate) e materie prime rare (come l’ambra, che proveniva dalle aree nord-europee attraverso a r c h e o 65


SCAVI • VIVARA

stagno

materie prime metalliche

ceramiche e manufatti di prestigio

lunga distanza; abili mercanti e artigiani da un lato, che spesso operavano per conto di città e formazioni territoriali rilevanti, ma al contempo anche mercenari al servizio (o, in alternativa, pirati a danno) delle potenze dell’epoca. Le fonti li ricordano con il nome delle aree di provenienza, come nel caso dei «Lukka», ma anche per mezzo di etichette cariche di connotazioni di carattere socio-politico, come gli «Sherden» o «quelli della terra di Ahhijawa», fino a nominazioni generiche, quali «popoli del mare» o «genti che vivono sulle loro imbarcazioni», ecc.

UN VILLAGGIO DI CAPANNE Gli scavi e le ricerche di terra e subacquee a Vivara hanno aperto un nuovo orizzonte di conoscenza sugli inizi di questo lungo fenomeno, accertando la presenza stabile sull’i66 a r c h e o

sola di un insediamento capannicolo già dagli inizi del XVII secolo a.C. Iniziate nel 1975 e tutt’oggi in corso, le indagini hanno infatti permesso, in primis, di ricostruire l’assetto topografico e l’impatto abitativo sull’intero comprensorio di Procida-Vivara, che formavano all’epoca un tutt’uno (il livello del mare era di ben 14 m inferiore a quello odierno, confermando in parte l’ipotesi a suo tempo formulata da Giorgio Buchner).

L’intera area sommitale dell’isola e parte dei suoi pendii erano occupati da grandi abitazioni rettangolari, costruite su terrazzamenti artificiali laddove i pendii tufacei si facevano piú scoscesi, mentre un sistema di scale intagliate nel tufo (e oggi in parte sommerse) metteva in collegamento l’abitato con l’area portuale, che sorgeva dove oggi si trova il Golfo di Genito. Qui i navigli potevano essere tirati in secco e le merci scaricate e stoc-


Nella pagina accanto, in alto: i collegamenti (diretti e indiretti) di Vivara con le diverse aree del bacino del Mediterraneo e le regioni mitteleuropee. Nella pagina accanto, in basso: frammento dell’orlo di una coppa micenea decorata con motivi spiraliformi, appartenente all’arredo della Capanna 2. Qui sotto: ricostruzione virtuale tridimensionale della giara cananea rinvenuta a Vivara in un annesso della Capanna 2 alla Punta d’Alaca.

cate nelle grotte naturali che si aprivano sulla platea del pendio orientale. Alcuni di questi ambienti naturali, oggi sommersi, adattati a magazzini, dovevano possedere strutture lignee antistanti, come prova l’individuazione di una serie di muri a secco e di originarie buche per palificazione (e come l’uso che ancora oggi è testimoniato a Procida). Non mancavano d’altra parte le fonti naturali di acqua dolce per approvvigionare i navigli e l’abitato: alcune, ancora attive, sono state individuate dagli archeologi subacquei in diversi punti dell’isola, sotto l’odierno livello del mare.

LA RETE DEI RAPPORTI Al di là delle indagini sull’assetto territoriale, che hanno visto la stretta collaborazione di archeologi di terra e subacquei con geologi, topografi e tecnici specializzati nelle riprese 3D e nel monitoraggio degli ambienti emersi e sommersi, lo studio dei reperti restituiti dagli scavi ha permesso di ricostruire i collegamenti marittimi

che legavano l’isola con diverse regioni del Mediterraneo. Le tracce di attività fusoria, associata a numerosi manufatti metallici (alcuni dei quali frutto del riadattamento di manufatti «riciclati»), la vasta tipologia di vasi di tipo egeo, torniti e dipinti – spesso riferibili a piccoli contenitori per l’esportazione di oli ed essenze – accanto a una ricca presenza di grandi giare da trasporto di produzione non locale, indicano che l’arcipelago flegreo doveva, già allora (come d’altra parte accadde a Ischia/Pithecoussa in età arcaica), essere meta e allo stesso tempo luogo di snodo di traffici sulla media e lunga distanza. Diversi frammenti di giara cananea riferibili a una ben precisa tipologia che ci riconduce al porto di Avaris, sul delta del Nilo, e agli ambienti ciprioti e levantini, indicano altresí che la regione flegrea, forse attraverso la mediazione delle isole del Canale di Sicilia (dove è presente in quest’epoca una fiorente Qui accanto: parte del collo di una brocca di tipo minoico, dall’insediamento della Punta d’Alaca.

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cultura marinara sull’isola di Pantelleria) entra in contatto indiretto anche con le rotte che, lungo le coste nord-africane, conducono verso gli ambienti cretesi e levanto-egiziani.

NUOVE MODALITÀ DI PRODUZIONE Un aspetto di particolare interesse, che trascende i semplici rapporti di carattere economico-acquisitivo, è rappresentato dagli elementi che, come sopra si ricordava, possono riferirsi, se non a fenomeni di acculturazione diretta (che si affermarono pienamente fra Oriente e Occidente mediterraneo solo a partire dal XIV secolo a.C.), quantomeno al trasferimento di usi, tecniche e nuove modalità di produzione. Gli scavi di Vivara hanno fornito in questo senso spunti che solo ora, ad alcuni decenni dall’inizio della ricerca, cominciano a fornire i tasselli di un puzzle ancora lungi dall’es-

In alto, a destra: veduta del crollo degli alzati della Capanna 2, poggiante sul pavimento; sono visibili le lastre tufacee riferibili alla copertura «a tegole» del tetto. Qui sopra: resti di tegole con decorazione a fasce e rombi rinvenute nello strato di crollo della Capanna 2. 68 a r c h e o

sere veramente completo. Come si è già accennato, alcuni elementi sono pertinenti alla sfera delle attività metallurgiche; a tal proposito è da ricordare il rinvenimento di un frammento di forma di fusione riferibile con certezza a una parte di spada micenea del tipo in uso in Grecia dal XV secolo a.C. La sua presenza è indice di uno stretto fenomeno di interazione nell’ambito delle pratiche fusorie. Un secondo elemento, già da tempo individuato attraverso le analisi chimico-fisiche alle quali le ceramiche micenee di Vivara sono state sottoposte, è la presenza di alcuni pezzi (purtroppo frammentari) torniti e dipinti (quindi in qualche modo estranei alle produzioni tipiche delle ceramiche locali) che sarebbero stati fabbricati in loco. Dobbiamo forse pensare ai primi tentativi di produzione locale (che circa un secolo e mezzo dopo darà vita in varie aree dell’Italia meridionale a una vera e propria produzione italo-micenea) sotto lo stimolo e l’as-

sistenza di artigiani egei al seguito degli equipaggi elladici che giungevano a Vivara?

TEGOLE PER IL TETTO Nel 1987 iniziarono le indagini del settore sud-occidentale dell’area archeologica della Punta d’Alaca. Qui le ricerche portarono all’individuazione di una nuova struttura abitativa (definita Capanna 2), di forma rettangolare, dalle dimensioni ragguardevoli – 4 m circa di larghezza per oltre 6 di lunghezza –, incassata, con orientamento est-ovest del lato lungo, nel banco tufaceo adeguatamente terrazzato, simile a quella già messa in luce durante gli scavi del 1976-1981 collocata poco piú a nord-est (definita Capanna 1). Ciò che apparve subito distinguerla dalla Capanna 1 fu la presenza, negli strati di crollo che ricoprivano il pavimento con i suoi arredi fittili, di una massa enorme di elementi rettangolari in tufo lamellare, un materiale facilmente reperibile nel comprensorio procidano. In effetti


A destra: 1a e 1b. tokens vivaresi quadrangolari e circolari, ricavati dal riutilizzo di pareti di vasi, sia locali che micenei; 2. tokens vivaresi cotti ad hoc, in forma di cuscinetti; 3. frammento di tavoletta numerica ricavata da una lastrina di tufo locale. In basso: una tegola tufacea parzialmente ricostruita.

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ci trovavamo di fronte a un esempio di copertura a tegole di tufo, una tecnica molto diffusa nell’Egeo contemporaneo, anche se qui le tegole erano rappresentate da lastre di argilla cotta. Un modello costruttivo allogeno appariva dunque trasferito e «trasformato» in ambiente occidentale.

Una novità apportata dagli scavi del 2017, sempre lavorando sugli strati di accumulo derivanti dal crollo della Capanna 2, è stata la scoperta di un secondo tipo di «tegole», decisamente piú grandi e forse non funzionali alla copertura del tetto, bensí a quella di una struttura circolare, forse un forno. In questo caso,

però, le «tegole» recano tracce di fasce di colore biancastro che, in un punto di particolare buona conservazione, formavano una decorazione a rombi. Quanto di «intellettuale», assieme a questi elementi piú spiccatamente «tecnologici», è transitato al seguito delle interconnessioni marittime mediterranee?

CONTARE E REGISTRARE Che l’uso dei cosiddetti «tokens» (letteralmente, «gettoni») come dispositivo per contare, registrare e conservare il ricordo di transazioni e/o quantità e i tipi di beni immagazzinati fosse a quest’epoca ampiamente diffuso nell’intero bacino del Mediterraneo è cosa ormai confermata da tempo. Un token non è altro che un oggetto, o una classe di oggetti variabile per forma e dimensione, al quale è attribuita per convenzione una valenza numerica (secondo parametri di dimensione e forma) associata a una valenza semantica. A Vivara, come in quasi tutte le culture insua r c h e o 69


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na 2), molto simile a esemplari dif- connesso come quello vivarese fusi ampiamente nei siti costieri giungessero stimoli ed elementi inmediterraneo-orientali. novativi da diversi ambienti culturali che caratterizzavano il bacino del Mediterraneo a quell’epoca. LA TAVOLETTA Ciò forse aiuta a meglio inquadrare «NUMERICA» Un livello decisamente piú avanzato il significato di un recentissimo ridi pratica legata all’uso di espedien- trovamento, avvenuto durante la ti parascrittorî è tuttavia documen- campagna del settembre 2017 e che, tato dal ritrovamento, negli scavi del a prima vista, ha destato un certo 1997, sempre nel contesto archeo- disorientamento. Sempre lavorando logico della Punta d’Alaca, di una allo scavo della Capanna 2, sotto vera e propria «tavoletta numerica». una serie di vasi mantenutisi interi, Al pari di quelle diffuse nel Vicino seppur schiacciati sotto il crollo delOriente, questa «tavoletta» vivarese, le strutture portanti, a diretto

lari contemporanee (arcipelago eoliano, Pantelleria, isole maltesi, isole dell’Egeo), i tokens sono costituiti perlopiú da frammenti di vaso ritagliati per l’ottenimento di forme circolari, quadrangolari e triangolari, ma anche mezzi e quarti di cerchio.Tuttavia, a Vivara troviamo anche tokens «costruiti» ad hoc, come nel caso di un «cuscinetto» di argilla ingubbiato e lisciato (appartenente anch’esso al corredo della Capan70 a r c h e o

in forma di una lastrina di tufo di forma oblunga, porta marche circolari sulla sua superficie. Già nel 1977, era venuto alla luce, nella stessa area, un frammento simile, che, per le sue dimensioni, non era stato possibile classificare. Alla luce del ritrovamento del 1997, è molto probabile che esso appartenesse a un manufatto simile. Possiamo quindi presumere che in un ambiente cosí dinamico e inter-

contatto con il pavimento, è venuto alla luce un osso di bovino lavorato, di forma oblunga, della lunghezza di 15 cm circa e alto tra i 3 e i 4 cm. La sua superficie, lucidata e di colore scuro, mostrava, già in situ, al momento della scoperta, una serie di segni incisi intenzionalmente, non riferibili quindi alla sua giacitura nel terreno o ad accidentali tracce di lavorazione dell’osso per fini alimentari. Il lavoro di pulitura, paziente ricomposizione (il manufatto risultava spaccato in tre punti e frammentato nella sua parte destra) e consolidamento si è protratto per alcune settimane. I dati desunti dai primi esami di laboratorio hanno confermato una serie di elementi preliminari molto interessanti: la superficie era stata sottoposta in antico a un’accurata politura e al probabile trattamento con una sostanza naturale (una resina e/o un ingobbio?), sí da farle assumere levigatezza e colorito ne-


buon margine di attendibilità, una serie di prime acquisizioni. La forma del supporto ricorda molto da vicino quella delle tavolette d’argilla iscritte in scrittura lineare, correnti a quest’epoca in tutto il

Nella pagina accanto: macrofotogrammetria della tavoletta ossea con evidenza della sua parte sinistra meglio conservata. Nella pagina accanto, in alto: foto al microscopio a scansione elettronica SEM di un segno particolare nella sua parte inferiore sinistra, forse imparentato con il simbolo per «vino». A sinistra: la tavoletta incisa in osso al momento del suo ritrovamento sul pavimento della Capanna 2 nel corso della missione 2017. In basso: due immagini del modello 3D della tavoletta generato da scansione a luce strutturata. Qui sotto, modello testurizzato, per l’individuazione dei segni sulla base del contrasto dei colori. In basso, modello in nuvole di punti e mesh per lo studio dei segni sulla base della loro profondità sulla superficie ossea.

rastro. Le macrofoto effettuate con il SEM (microscopio a scansione elettronica) hanno confermato l’intenzionalità delle incisioni presenti sulla sua superficie, già rilevata al momento della scoperta.

«LEGGERE» I SEGNI Le successive rilevazioni tridimensionali, effettuate con la tecnica a luce strutturata e, parallelamente, tramite macro-ortofotografia, hanno inoltre permesso di acquisire un modello 3D ad alta definizione sul quale si potrà lavorare – anche attraverso il confronto delle visioni con e senza texture –, per determinare l’andamento e le forme derivate dal processo di incisione dei segni. Il lavoro è appena cominciato (sia sotto il profilo della determinazione chimica dei trattamenti della superficie operati in antico, sia sotto quello della difficile individuazione dei tracciati presenti), ma si può fin d’ora mettere in evidenza, con un a r c h e o 71


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bacino orientale del Mediterraneo e soprattutto in ambiente egeo di influenza minoica.

UNA SCELTA SIGNIFICATIVA La scelta materica del supporto, l’osso, conferisce all’oggetto una particolare attenzione. Sia che si pensi a un elemento importato, sia, come sembra molto piú credibile, si opti per la scelta di un qualcosa elaborato in loco, non mancavano certo la capacità, né la conoscenza per approntare un supporto in argilla sul quale tracciare i segni. Sebbene la pratica di utilizzare supporti in osso per registrazioni di carattere economico fosse diffusa in ambiente egiziano in una fase iniziale dello sviluppo del sistema scrittorio (anche se in Egitto la tavoletta d’argilla non si affermò mai come supporto scrittorio per eccellenza), e ricompaia anche nel Mediterraneo in ambiente fenicio, tutti i possibili confronti, sia di carattere storico (come in ambiente cinese, con gli oracle bones, o tardo-mesopotamico, per finire con l’ambiente nord-europeo In basso: altarino in tufo con segni incisi sulla superficie, dall’insediamento della Punta d’Alaca.

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Vari tipi di segno per «vino/vite/ pergola di vite»: 1. una pergola dipinta in una tomba egiziana di Tebe, XV sec. a.C.; 2. il glifo del sistema geroglifico egiziano: da sinistra, dalle manifestazioni piú antiche (II dinastia, 2890-2700 a.C. circa) fino all’epoca della XVIII dinastia (1543-1292 a.C.); 3. esempi del segno nel sistema geroglifico minoico (Creta, inizi del II

mill. a.C.); 4. esempi del segno nella scrittura Lineare A cretese (epoca neopalaziale XVII-XVI sec. a.C.); 5. lo stesso segno in ambiente miceneo, nel sistema detto Lineare B, derivato da quello minoico (metà del XV-fine del XIII sec. a.C.); 6. lo sviluppo del segno per «vino/ vite» in ambiente ittita, nell’ambito della scrittura cosiddetta geroglifica (XVI-XIII sec. a.C.).

legato alla scrittura runica), sia di carattere etno-archeologico (si pensi, per esempio, agli Ishangobones dall’area congolese, o alle numerose attestazioni dal continente americano, sia nordche mesoamericano) indicano nel supporto osseo un elemento connesso con pratiche scrittorie e

parascrittorie di specifica rilevanza sociale. Molto piú difficile risulta la caratterizzazione «tipologica» dei segni, sia sotto il profilo della loro organizzazione sullo spazio offerto dal supporto, sia per quanto concerne le caratteristiche che improntano le forme. Con tutte le cautele del caso,


sembra potersi individuare un andamento lineare dei segni, e forse, quanto meno nella parte sinistra, la presenza di due registri. Circa l’individuazione del tracciato dei singoli segni, il lavoro sarà lungo e arduo, e siamo appena agli inizi. La parte centrale è ancora molto «inquinata» da segni e concrezioni accidentali, mentre la destra è di difficile «lettura» a causa dello stato di conservazione. L’attenzione si è concentrata inizialmente sulla parte sinistra, dove si possono seguire con maggior sicurezza alcuni tracciati.

UN’IPOTESI AFFASCINANTE Ci sia infine permessa un’ipotesi di lavoro, che come tale va considerata, in attesa delle conferme che potranno venire da nuove analisi al SEM. Essa si fonda sulla diffusione e circolazione nel Mediterraneo dell’epoca (prima metà del XV secolo a.C.) di un preciso segno che fa riferimento a un bene/coltivazione di particolare prestigio: quello per «vino/vite». Questa tipologia di segno nasce, nella sua forma piú antica, in Egitto, e rappresenta all’origine, nella sua variante fortemente iconica, un tralcio di vite sostenuto da supporti lignei. Si diffonde, in forme variamente stilizzate, prima a Creta e poi nell’Egeo minoicizzato, fino a rappresentare il vino nelle tavolette micenee in scrittura Lineare, detta B, derivata dalla tradizione scrittoria minoica. In ambiente anatolico ittita, e segnatamente nella scrittura cosiddetta geroglifica, questo segno compare, ma nella forma iconica della pars pro toto, cioè del vitigno da cui pende il grappolo d’uva o come stilizzazione del grappolo d’uva stesso. Sulla «tavoletta» in osso vivarese, in basso a sinistra compare un segno che, sotto molti aspetti, potrebbe riportare a quello del «vino/vite» di ambiente egeo, come anche le immagini elaborate al SEM sembrerebbero confermare.

APPUNTAMENTO A ROMA Martedí 13 marzo, tra le 16,00 e le 19,00, presso il Museo Nazionale Romano, sede di Palazzo Altemps, a Roma, l’ICA (Istituto Centrale per l’Archeologia, Direzione Generale Archeologia, belle arti e paesaggio) presenta i nuovi risultati delle ricerche archeologiche sull’isola di Vivara, condotte dall’Università di Napoli Suor Orsola Benincasa. Alla manifestazione, che illustrerà non solo i ritrovamenti piú rilevanti, come la recente scoperta della tavoletta in osso incisa con caratteri grafici, ma anche l’intero «progetto Vivara», legato alla creazione di un museo multimediale nell’antico edificio storico del Collegio delle Orfane sulla Terra Musata di Procida, interverrà, insieme ai membri della missione archeologica, una rappresentanza del Comune di Procida. All’incontro, presieduto da Caterina Bon di Valsassina (Direttore Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio), partecipano, oltre a Elena Calandra (Direttore dell’ICA e dirigente ad interim del Servizio Scavi e tutela del patrimonio archeologico), Daniela Porro (Direttore del Museo Nazionale Romano), Massimiliano Marazzi (docente dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli che ha effettuato la scoperta), e Teresa Elena Cinquantaquattro (Soprintendente Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Napoli e Soprintendente ad interim Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Molise). La scoperta della tavoletta iscritta verrà introdotta da Marco Mancini, ordinario di glottologia presso l’Università «Sapienza» di Roma e specialista di antropologia della scrittura. L’Istituto Centrale per l’Archeologia (Direzione Generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio), è nato nel 2016, in seguito alla riforma del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, con la missione di promuovere gli aspetti piú innovativi in campo archeologico, in Italia e nel mondo. Tra i progetti di punta, vi è la creazione di un portale web per la consultazione dei dati territoriali (il Geoportale Nazionale dell’Archeologia), che accoglierà anche i risultati delle ricerche archeologiche, coordinate dalle Soprintendenze, nel quadro dell’archeologia preventiva e non solo. Proprio per questo l’Istituto svolge funzioni di supporto per la ricerca sul campo, definendo standard e buone pratiche per le attività di scavo, di documentazione e di edizione anche digitale. A questo scopo, l’ICA ha stretto collaborazioni con centri di eccellenza in Italia e all’estero, anche in vista di progetti europei, promuovendo lo sviluppo delle nuove tecnologie, dal 3D ai sistemi informativi territoriali: l’obiettivo è di raggiungere tutti, rendendo pienamente condivisibili i dati, per gli addetti ai lavori e per il grande pubblico. Per ulteriori informazioni: www.ic_archeo.beniculturali.it

Siamo certamente in una fase di studio ancora molto iniziale, e molti dati andranno parallelamente vagliati, come, per esempio, il ritrovamento, alcuni anni addietro, nello stesso contesto, di un’arula (di 15 cm circa di lunghezza e poco piú di 10 di altezza), che reca sulle parti conservate della sua superficie una

serie di segni grafici circolari. Un dato va tuttavia evidenziato: anche se in forma sporadica e ancora da dettagliare nelle sue implicazioni, la comunicazione a mezzo di segni grafici fa ormai, con il ritrovamento vivarese, il proprio ingresso nel bacino occidentale del Mediterraneo già nel XVI secolo a.C. a r c h e o 73


SPECIALE • WINCKELMANN

JOHANN JOACHIM WINCKELMANN (1717-1768)

OMERO,

LA GRECIA E LA

RICERCA DEL BELLO TRECENTO ANNI FA MORIVA, IN CIRCOSTANZE DRAMMATICHE, JOHANN JOACHIM WINCKELMANN, ERUDITO GENIALE E PADRE DELLA MODERNA ARCHEOLOGIA. NEL 1755 SI STABILÍ A ROMA, CITTÀ DOVE TRASCORSE GLI ANNI PIÚ FELICI E PROFICUI DELLA SUA ESISTENZA. ECCO IL RACCONTO DI UNA VITA STRAORDINARIA, SCANDITA DA SCOPERTE E INTUIZIONI EPOCALI. MA ANCHE OSCURATA DA UN VELO DI INQUIETUDINE...

di Friedrich-Wilhelm von Hase In questa pagina: ritratto immaginario del poeta Omero, dal Palazzo Caetani, a Roma. Opera romana del II sec. d.C., da un originale greco del 150 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto: ritratto di Johann Joachim Winckelmann, olio su tela di Anton von Maron. 1768. Weimar, Museo del Castello di Weimar. 74 a r c h e o


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SPECIALE • WINCKELMANN

L

a vicenda biografica dell’archeologo ed erudito tedesco Johann Joachim Winckelmann (17171768), capace di rivoluzionare lo studio dell’arte antica, è forse poco nota alla maggioranza dei lettori. Le sue opere, straordinariamente innovative per l’epoca in cui videro la luce, sono oggi conosciute perlopiú dagli specialisti e ci sembra perciò interessante ricordare in queste pagine alcuni episodi della vita dello studioso. Unico figlio del calzolaio Martin Winckelmann e di sua moglie Anna Maria, Johann Joachim nacque il 9 dicembre 1717 a Stendal, nell’attuale SassoniaAnhalt, e ricevette il battesimo, con rito protestante, il giorno successivo, nella chiesa di S. Pietro. L’umile abitazione in cui venne al mondo, situata in Lehmstraße 262 e alla quale era annessa la bottega paterna, venne abbandonata dai suoi genitori già nel 1738 e, purtroppo, non è piú conservata. L’educazione del ragazzo a casa e a scuola fu influenzata dalla dottrina luterana, professata nella piccola comunità di Stendal. Fin da giovane Winckelmann volle affrancarsi dalle tradizioni della famiglia – che da generazioni si tramandava il mestiere di calzolaio – per dedicarsi agli studi umanistici. Nonostante le condizioni modeste, i genitori non solo riconobbero le capacità intellettuali del figlio, ma lo sostennero con forza. Winckelmann, tuttavia, avrebbe poi ricordato: «Io sono

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Una veduta di Stendal, città natale di Johann Joachim Winckelmann, oggi nel Land Sassonia-Anhalt.

cresciuto come un’erba selvatica, seguendo i miei istinti». In realtà, i suoi primi anni di scuola trascorsero in maniera ordinata e regolare: all’età di cinque anni (1723) cominciò a frequentare la scuola elementare e a dieci era fra gli allievi della prestigiosa scuola cittadina di Stendal, fondata già nel 1338. Nel 1735 si trasferí a Berlino, dove si iscrisse al «Köllnisches Gymnasium», in seguito accorpato al famoso «Evangelisches Gymnasium zum Grauen Kloster», e, proprio in questo periodo, il futuro classicista approfondí lo studio della lingua e della letteratura greca. Dal novembre 1736 Winckelmann proseguí i suoi studi nel liceo della città di Salzwedel, dove affinò le sue conoscenze della lingua greca e si preparò all’Università.

GLI STUDI UNIVERSITARI Già in età scolare, Winckelmann fece dei Greci il suo modello di riferimento: secondo il suo pensiero, i creatori dell’arte e della cultura antica erano gli Elleni vissuti al tempo della loro libertà politica. Una simile visione dell’antichità si deve probabilmente all’influsso esercitato dal suo insegnante di greco Christian Tobias Damm, corettore del Köllnisches Gymnasium di Berlino. Winckelmann aveva acquisito anche una solida conoscenza teologica, poiché la lettura della Bibbia e delle opere di catechesi, in lingua originale, faceva parte del


programma scolastico. Dotato di una solida preparazione di base, si iscrisse, il 4 aprile 1738, ai corsi di teologia dell’Università di Halle, assecondando il desiderio manifestato dai genitori. Parallelamente, si dedicò anche allo studio della filosofia e delle scienze dell’antichità. Il giovane Winckelmann frequentava con assiduità la biblioteca universitaria, poiché la sua sete di sapere era insaziabile. Ciononostante, concluse i due anni a Halle, la piú rinomata università del regno di Prussia, senza ottenere un titolo di studio vero e proprio. Gli venne conferito un diploma, scritto in latino e rilasciato dal decano e da altri professori di teologia, che attestava il suo scarso rendimento. La qualità della sua fede era stata giudicata modesta, in quanto, evidentemente, i suoi insegnanti nutrivano dubbi e riserve in proposito. Quasi trent’anni piú tardi, in una lettera, lo stesso Winckelmann riconobbe la delusione provata per i risultati conseguiti a Halle: «Restandomi l’ordinario cibo accademico fra i denti, divenni ciocché si chiama un discolo, e a grande fatica potei ottenere un magro attestato di teologia che ancora conservo».

In alto: Stendal, il Museo Winckelmann. In basso: Stendal. Una casa a graticcio simile a quella in cui Winckelmann nacque nel 1717 e oggi non piú esistente. Prima metà del XVIII sec.

Osterburg, una piccola città nella quale era di stanza una guarnigione, a una ventina di chilometri da Stendal. Grazie alla moglie dell’ufficiale, una donna colta e ben introdotta in società, Winckelmann cominciò a inserirsi nella vita cittadina. Imparò con un certo successo l’inglese, il francese e l’italiano e acquisí competenze che gli furono di grande utilità nei suoi ulteriori studi, nella sua carriera professionale e nei suoi rapporti con le gerarchie dell’Ancien Régime. Dopo aver lasciato la casa dei Grollmann, Winckelmann si dedicò allo studio della medicina presso l’Università di Jena, anche se per un anno soltanto (1741-1742). Poiché a Jena la medicina era strettamente legata alla matematica, materia per la quale riconobbe di non essere particolarmente portato, non concluse nemmeno questo corso di studi. La necessità di una prospettiva professionale certa si fece allora sempre piú urgente e, per un anno (1742-1743), Winckelmann accettò ancora una volta un incarico come precettore a Hadmersleben, presso la famiglia di Christian Lamprecht, funzionario in servizio presso il vicino Duomo di Magdeburgo. Il suo allievo era il figlio maggiore di Lamprecht, Friedrich Wilhelm Peter, che Winckelmann doveva preparare all’università e al quale si legò di un’amicizia intima e di lunga durata. Lo studioso ottenne un impiego fisso per la prima volta nell’aprile del 1743, come corettore del liceo di Seehausen, una città di poco meno di 1500 abitanti a nord di Stendal, nell’Altmark. Con suo grande disappunto, fu costretto a conservare l’incarico per i succes-

UNA PAUSA DI RIFLESSIONE Non sorprende, quindi, che Winckelmann si fosse rifiutato di dedicarsi alla teologia e si fosse concesso una pausa di riflessione. Nella primavera del 1740, per mantenersi, impartí lezioni private di storia e filosofia al figlio del colonnello Georg Arnold von Grollmann, a a r c h e o 77


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sivi cinque anni, che si fecero per lui insopportabili. Ai suoi pochi allievi – la scuola contava una settantina di studenti in tutto – Winckelmann doveva insegnare le nozioni di base di numerose materie, quali greco, latino ed ebraico, nonché storia, geografia e logica. Si prendeva molta cura dei suoi ragazzi, ma, essendo privo di una formazione didattica adeguata, si dimostrò con loro troppo esigente. Cosicché non mancarono reclami da parte dei genitori, soprattutto perché il «Signor Co-rettore» affliggeva i ragazzi con il greco antico, considerato inutile.

QUASI UN «SOVVERSIVO» Ben presto apparve evidente che Winckelmann non era animato da quell’impegno spirituale e cristiano che si chiedeva a un docente. E si venne anche a sapere, che, durante le funzioni religiose, quando le omelie lo annoiavano, leggeva in segreto Omero, per lui sacro, e le opere di altri autori greci. Sul suo conto cominciarono cosí a circolare molte dicerie, alimentate anche dai colleghi che lo consideravano pericoloso per i giovani. Fino a che, per ridurre la presunta influenza negativa sugli allievi – Winckelmann era sospettato di predicare ideologie illuministe – venne sollevato dall’insegnamento agli studenti piú grandi. A differenza di quanto ci si potrebbe aspettare da un teologo, non era la fede cristiana a dare a Winckelmann sostegno emotivo e forza, bensí la lettura dei suoi amati autori

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greci, primo fra tutti Omero. Gli scritti di Erodoto, Senofonte, Platone e Sofocle – che conservava nella sua piccola biblioteca privata – ravvivavano la sua triste esistenza e gli fecero acquisire una vasta conoscenza della filologia antica, destinata ad avere un ruolo decisivo nello studio delle antichità.

In alto, a sinistra: ritratto di Heinrich Reichsgraf von Bünau, olio su tela di Louis de Silvestre. 1742. Dresda, Gemäldegalerie Alter Meister. Il conte è rappresentato con alcuni grandi volumi, a evocazione della sua attività di studioso e autore di una storia degli imperatori del Sacro Romano Impero. A sinistra: l’Università di Jena in una calcografia del XVII sec.


In alto: pianta a volo d’uccello di Jena, disegnata per il Civitates orbis terrarum, una raccolta di mappe delle città di tutto il mondo curata dai geografi tedeschi Franz Hogenberg e Georg Braun e pubblicata in sei volumi, tra il 1572 e il 1616.

L’atmosfera provinciale di Seehausen si fece sempre piú insopportabile per Winckelmann, che si vedeva preclusa ogni possibilità di scambi intellettuali con i colleghi e pativa i rigorosi regolamenti della scuola prussiana. Oggi possiamo affermare che assegnare l’incarico di co-rettore a uno studioso del calibro di Winckelmann in una cittadina come Seehausen fu un autentico errore: e infatti, non appena ebbe l’opportunità di farlo, lo studioso abbandonò l’insegnamento. I patimenti sofferti a Seehausen trovarono una fine insperata nel 1748, quando Winckelmann venne assunto come bibliotecario dal conte Heinrich von Bünau (1697-1762) nel castello di Nöthnitz. L’aristocratica dimora si trovava nelle vicinanze di Dresda, e cosí Winckelmann poté studiare le famose collezioni d’arte di questa città, la piú italianizzata della Germania. A Nöthnitz, oltre a vitto e alloggio, ottenne uno stipendio annuo di 80 talleri (si consideri che, all’epoca, una cifra equivaleva al compenso minimo per un insegnante, n.d.r.). Heinrich von Bünau, uno storico già conosciuto per le sue pubblicazioni, aveva bisogno di un collaboratore qualificato e, con le sue vaste conoscenze,Winckelmann sembrò esse-

re l’uomo giusto. Forte di oltre 40 000 volumi, la biblioteca privata del conte era allora la piú importante della Germania, soprattutto per le scienze umanistiche. Qui Winckelmann passò i successivi sei anni, lavorando e studiando alacremente. Faceva parte dei suoi compiti sia collaborare alla Storia dell’Impero e degli Imperatori Tedeschi compilata dallo stesso von Bünau, sia partecipare alla catalogazione della biblioteca.

I PRIMI SUCCESSI Nel 1755 Winckelmann pubblicò un saggio che, in breve tempo, diffuse la sua fama oltre la ristretta cerchia degli studiosi dell’antichità: Gedancken über die Nachahmung der Griechischen Wercke in der Malerey und BildhauerKunst (Pensieri sull’imitazione delle opere greche in pittura e scultura). Nella prima edizione, l’opuscolo fu stampato in sole 50 copie, ma già un anno piú tardi ne fu data alle stampe una seconda edizione, ampliata, a Dresda e Lipsia. L’autore affrontò un argomento che divenne un importante quesito artistico e spirituale per i rappresentanti del classicismo, ovvero, l’esemplarità e l’impegno estetico dell’arte greca per la propria epoca. Nel suo testo, con il quale introdusse il concetto di a r c h e o 79


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classicismo in Germania, Winckelmann affermava: «L’unica via per noi di diventare grandi e, se possibile, insuperabili, è l’imitazione degli antichi». L’interesse per l’argomento si diffuse in tutta Europa grazie alle importanti scoperte nel Golfo di Napoli. Qui, infatti, gli scavi finanziati a partire dal 1738 da Carlo III di Borbone, re di Napoli e delle Due Sicilie, avevano riportato alla luce reperti spettacolari: sia a Pompei, dal 1748, sia a Ercolano, con la scoperta della Villa dei Papiri, nel 1750. L’archeologia divenne allora un’importante componente della politica culturale del re, e la città di Napoli, con i suoi dintorni, si affermò come meta ineludibile per i Grand Tour dei nobili europei. Dopo l’uscita delle prime pubblicazioni che riproducevano i prodotti delle arti minori e gli affreschi delle città vesuviane, in Francia fu riconosciuto un nuovo stile decorativo, detto «à la grecque» o «à la Herculaneum». In merito all’effetto sortito dalle sue audaci teorie – che includevano, tra l’altro, il netto rifiuto dei ghirigori tipici dell’arte barocca e rococò –, Winckelmann notava: «Il saggio ha trovato un incredibile plauso, e i colti conoscitori, contro il gusto locale e anche quello del re, mi hanno fatto i complimenti perché io sono il precursore del buon gusto».

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A sinistra: frontespizio dell’opuscolo Gedanken über die Nachahmung der Griechischen Werke in der Malerey und Bildhauerkunst (Pensieri sull’imitazione delle opere greche in pittura e scultura). Seconda edizione, Dresda 1756.

Sollecitato dal primo contatto diretto con le importanti opere d’arte italiane conservate nei musei di Dresda, Winckelmann desiderò sempre di piú visitare l’Italia, cosí da poter vedere con i propri occhi ciò di cui fino ad allora si era occupato solo teoricamente. Di un soggiorno nella Penisola avrebbe inoltre potuto beneficiare la sua salute.


Sulle due pagine: Veduta di Dresda con lo Zwinger, olio su tela del Canaletto (al secolo Bernardo Bellotto). 1751-52. Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister.

Dopo anni di precarietà e scarso successo, la vita di Winckelmann si avviava a una svolta. Nella biblioteca del castello di Nöthnitz, punto d’incontro di molti studiosi, conobbe il nunzio apostolico di Dresda, l’arcivescovo conte Archinto (1698-1758), un diplomatico pontificio proveniente da una delle piú facoltose famiglie italiane, che presto riconobbe le doti straordinarie dello studioso e mostrò nei suoi confronti grande benevolenza e simpatia.

VANTAGGI RECIPROCI Tra i due si instaurò un rapporto molto cordiale e Archinto promise al suo protetto che l’avrebbe aiutato in ogni modo a esaudire il suo «sogno italico», se in cambio si fosse convertito al cattolicesimo. Archinto aveva intuito i vantaggi che avrebbe potuto trarre dall’eventuale conversione: condurre un ingegno cosí eclettico e internazionalmente conosciuto dall’«eresia» alla «Madre Chiesa» avrebbe infatti rafforzato la sua posizione nella Curia Romana, dal momento che il prelato si accingeva a tornare in Italia per ricoprire l’incarico di Governatore di Roma. Da quel sodalizio, dunque, ciascuno dei due sperava in segreto di ottenere qualcosa:Winckelmann si mostrava riluttante per motivi di carattere sociale piú che per scrupoli religio-

si, ma il nunzio rispose alle sue esitazioni con un argomento disarmante, e cioè che uno studioso sapeva che un simile cambiamento non avrebbe influito sulle sue piú intime convinzioni e sulla sua saggezza: «Changer la religion c’est changer la table, mais non pas le seigneur» («Cambiare religione significa cambiare tavola, ma non il padrone»). E Winckelmann pensò: «Io credo che lui voglia avere l’onore di fare di me un seguace; se non mi sbaglio egli pensa in modo ragionevole come me. Ha una bella amante che io conosco». La trattativa e la conversione stessa finirono con l’assumere contorni piuttosto prosaici, finalizzati agli aspetti pratici del progettato viaggio in Italia: le spese, la questione dell’alloggio a Roma, un impiego e il sostegno economico per Winckelmann. Il certificato di conversione, redatto in latino e sottoscritto da Archinto, porta la data dell’11 giugno 1754. Tutto era dunque in regola e il conte von Bünau – del quale Winckelmann temeva la reazione – aveva lasciato andare il suo bibliotecario senza rimproverarlo per questo «cambiamento di fronte». Lo studioso poté finalmente mettere in atto il suo programma di viaggio e, nel settembre del 1755, partí per

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l’Italia. Dopo aver fatto tappa ad Augusta, Venezia e Bologna, arrivò a Roma il 18 novembre, dove l’aspettava una borsa di studio della durata di due anni. Il Pensionnaire du Roi, cioè borsista del principe elettore di Sassonia e re di Polonia Augusto III (16961763), entrò nella capitale della cristianità cattolica per la Porta del Popolo. Appena giunto nella Città Eterna, Winckelmann, profondamente scosso, annotò: «Niente vale come Roma! Io credevo di aver

DRESDA, CITTÀ DELLE ARTI Negli anni trascorsi presso Heinrich von Bünau, fu particolarmente importante per Winckelmann la vicinanza del castello di Nöthnitz a Dresda, la fiorente residenza dei principi elettori della Sassonia e dei re di Polonia, che era allora una città di 57 000 abitanti circa. Qui ebbe per la prima volta accesso diretto al mondo dell’arte figurativa in tutte le sue forme. Tanto a Nöthnitz quanto a Dresda poté conoscere importanti personalità di tutti gli ambienti artistici e intellettuali, con i quali poté finalmente interagire. Tra i tanti, possiamo ricordare l’incontro con il famoso pittore Adam Friedrich Oeser (1717-1799), che non solo gli insegnò il disegno accademico, ma anche l’arte di saper vedere, un presupposto importante per un teorico dell’arte come lui. Dresda era famosa per la sua Pinacoteca, che raccoglieva anche importanti opere di maestri italiani. A quell’epoca solo la collezione di antichità non veniva ancora valorizzata, tanto che Winckelmann ottenne il permesso di vederla solo qualche tempo dopo il suo arrivo a Nöthnitz. Lo studioso rimase particolarmente

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studiato tutto, e guarda, una volta arrivato qui, ho visto che non sapevo nulla». Questa volta, grazie all’appannaggio garantito da Augusto III, non doveva preoccuparsi di come guadagnarsi da vivere e cosí cominciò per lui il periodo piú spensierato e, al contempo, produttivo della sua breve esistenza. Attraverso la mediazione del famoso pittore della corte sassone e teorico dell’arte Anton Raphael Mengs (1728-1779), a Roma già dal 1752, Winckelmann trovò alloggio in


Il castello di Palazzo Zuccari, un maestoso edificio presso Trinità dei Monti (oggi sede dell’Istituto teNöthnitz, presso desco di storia dell’arte, la famosa Biblioteca Dresda, residenza Hertziana). Winckelmann condivise la sua del conte prima residenza romana con un gruppo di Heinrich von cinque pittori provenienti da Inghilterra, Bünau, del quale Francia e Germania. Winckelmann fu Essendo un Pensionnaire du Roi e godendo bibliotecario dal della fama guadagnata con i suoi scritti, non 1748 al 1754. ebbe difficoltà a entrare in contatto con il Stendal, Museo nuovo ambiente culturale, anche grazie Winckelmann.

impressionato dalle statue delle Tre Ercolanesi che in origine decoravano il teatro di Ercolano. Manifestò il suo entusiasmo per quei marmi affermando che, a suo dire, essi incarnavano «nobile semplicità e quieta grandezza». Le sculture suscitarono in Winckelmann l’interesse per gli scavi e gli spettacolari ritrovamenti archeologici di Ercolano e Pompei, di cui fino ad allora aveva solo sentito parlare, come quasi tutti i suoi contemporanei in Germania. Delle sensazionali scoperte succedutesi nelle città vesuviane cominciò a occuparsi pochi anni piú tardi, quando si trasferí a Roma, e riferí i risultati dei suoi studi alla corte di Dresda nelle Lettere sulle scoperte di Ercolano (1762), e nelle Notizie sulle piú recenti scoperte di Ercolano (1764). Sulle due pagine: le statue femminili note come Grande e Piccole Ercolanesi, rinvenute nel teatro della città vesuviana dal principe d’Elboeuf. Opere del I sec. d.C., da originali greci del 330-320 a.C. Dresda, Albertinum, Skulpturensammlung.

ai rapporti che a Dresda aveva avuto con l’alto clero cattolico. La reputazione di studioso delle antichità permise a Winckelmann di inserirsi nei circoli intellettuali romani, anche per merito del prelato e illustre filologo Michelangelo Giacomelli (1695-1774).

AL SERVIZIO DEL VATICANO Durante il soggiorno romano, Winckelmann cambiò spesso residenza, ogni volta in funzione degli incarichi che si trovò a ricoprire: alloggiò nei sontuosi palazzi cittadini di diversi alti prelati e conobbe in questo modo la vita di corte dell’alto clero e della nobiltà romana. Dal 1756, l’uomo che era stato il suo mecenate a Dresda, il conte Archinto, dopo essere rientrato a Roma, aveva assunto la carica di Segretario di Stato della Santa Sede e si era insediato nel Palazzo della Cancelleria. Aveva pensato di affidare a Winckelmann la sua biblioteca, ma sarebbe stato disposto a lasciare che lo studioso tedesco lavorasse per il direttore della Biblioteca Vaticana, il cardinale Domenico Silvio Passionei (1682-1761), che cercava un esperto conoscitore del greco per curare la sua importante raccolta di manoscritti. Da un simile incarico Winckelmann avrebbe potuto trarre grande prestigio, ma si sarebbe dovuto accontentare di una retribuzione decisamente modesta: lo stipendio mensile era infatti di soli tre ducati (pari a circa otto talleri), pur comprensivi di vitto e alloggio.Winckelmann rifiutò dunque le offerte dei suoi estimatori, cercando però di non offenderli. Del resto, non voleva essere troppo vincolato, perché il suo principale interesse era quello di conoscere e studiare i monumenti di Roma e dei suoi dintorni. Winckelmann, che non era mai stato in Grea r c h e o 83


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cia – allora sotto il dominio dell’impero ottomano –, né in Sicilia, intraprese tra il 1758 e il 1767 quattro lunghi viaggi nel Regno di Napoli. Partí con l’intento di visitare gli scavi di Ercolano, Pompei e Stabiae, e di studiare le opere d’arte e i ritrovamenti esposti nel Museo di Portici, nel quale erano conservati i reperti che oggi sono il vanto del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Una deviazione a Paestum gli consentí di ammirare i monumentali templi greci e gli suggerí considerazioni importanti, che poi confluirono nell’opera Anmerkungen über die Baukunst der Alten (Note sull’architettura degli antichi), pubblicata a Lipsia nel 1762.Winckelmann riportò le osservazioni fatte durante le visite nelle città vesuviane nelle già citate Lettere sulle scoperte di Ercolano e Notizie sulle piú recenti scoperte di Ercolano, scritte appositamente per il pubblico tedesco. Nelle lettere inviate ad amici e conoscenti, lo studioso descrisse, spesso impietosamente, l’ambiente di corte e il mondo accademico di Napoli. 84 a r c h e o

Roma. L’ingresso di Palazzo Zuccari in via Gregoriana, nelle immediate vicinanze di Trinità dei Monti. Qui Winckelmann abitò all’indomani dell’arrivo nell’Urbe. L’edificio è oggi sede della Biblioteca Hertziana.

Assunse una posizione particolarmente critica sul modo in cui erano stati eseguiti gli scavi finanziati dalla corona, del cui direttore, don Roque Joaquín de Alcubierre – un ingegnere spagnolo che comandava le truppe del genio napoletane –, arrivò a dire che capiva «dell’archeologia tanto quanto la luna dei granchi». Queste e altre affermazioni del «Goto», come Winckelmann veniva chiamato con una certa derisione a Napoli, suscitarono l’irritazione della corte. Carlo III di Borbone (1716-1788), infatti, nutriva una grande passione per l’arte e, ricordato talvolta come il «re archeologo», seppe fare degli scavi che aveva promosso – i cui risultati straordinari si diffusero presto in tutta Europa – un efficace strumento della sua politica culturale.

UN INCARICO PRESTIGIOSO Ma torniamo a Roma. Nel 1758, all’indomani della morte di Archinto, Alessandro Albani (1692-1779), cardinale nonché grande collezionista, propose a Winckelmann di


entrare al suo servizio come bibliotecario. Lo studioso accettò e si trasferí nel 1759 a Palazzo Albani del Drago, in un confortevole appartamento di quattro camere situato all’ultimo piano dell’edificio ed ebbe subito modo di apprezzare il nuovo incarico, poiché il suo compito consisteva nel «far compagnia al cardinale ed essere custode della sua grande e squisita biblioteca». Il prelato lasciò a Winckelmann la massima libertà, dandogli modo di dedicarsi ai propri studi. Ne sono prova le molte pubblicazioni stampate negli anni romani. Grazie all’influente Albani, Winckelmann fece una carriera straordinaria. L’11 aprile del 1763 i suoi studi e la fama acquisita a livello internazionale gli valsero la nomina a Commissario delle Antichità di Roma. Le opere pubblicate fino a quel momento rivelavano non solo la grande competenza nei vari campi dell’archeologia, tra cui quello le fonti antiche, ma trasmettevano anche al lettore nuove conoscenze sulla natura dell’arte antica e sul suo sviluppo. Ci riferiamo, in primo luogo, alla Geschichte der Kunst des Alterthums (Storia dell’arte nell’antichità), capolavoro degli anni romani, stampato per la prima volta in 1200 copie a Dresda nel 1764. Come già ricordato,Winckelmann frequentò i piú importanti salotti di Roma e le sue vaste conoscenze impressionarono il mondo del clero e quello degli studiosi umanistici. Il suo entusiasmo per la bellezza dell’arte greca e per tutto ciò che considerava greco, corrispondeva allo spirito dell’epoca e gli artisti con i quali intrattenne a Roma stretti rapporti diedero forma concreta al suo pensiero nelle loro opere. È il caso di Raphael Mengs, il quale introdusse il classicismo nella pittura tedesca e pubblicò le sue idee nel saggio Gedancken über die Schönheit und über den Geschmack in der Malerei (Riflessioni sulla bellezza e sul gusto nella pittura), di Anton von Maron (1733-1808), a cui dobbiamo il famoso ritratto di Winckelmann realizzato a Roma nel

Tondo in travertino con il ritratto di Johann Joachim Winckelmann. Seconda metà del XIX sec. Roma, Musei Capitolini, depositi.

1768, della pittrice Angelika Kauffmann (1741-1807), che, come von Maron, ritrasse Winckelmann nel 1764, dello scultore Johannes Wiedewelt (1731-1802), e, infine, dello scultore, restauratore, antiquario e mercante d’arte Bartolomeo Cavaceppi (1716-1799). Nella vita di Winckelmann, uomo aperto a ogni forma di bellezza, le donne non ebbero alcuna importanza a eccezione, forse, della moglie italiana del suo amico Mengs, con la quale ebbe un rapporto particolare. Senza alcuna inibizione, lo stesso Winckelmann cosí scriveva in una lettera all’amico Hieronymus Dieterich Berendis, datata 29 gennaio 1757: «Ho trovato qualcuno con cui parlare d’amore: un giovane romano di 16 anni, bello e biondo, mezza testa piú alto di me: ma lo posso vedere solo una volta la settimana: la Domenica sera cena da me». Rientrava nei doveri romani di Winckelmann anche quello di fare il cicerone, vale a dire guidare i nobili che visitavano Roma durante i loro Grand Tour. Un’attività che andava ben oltre la semplice visita guidata: l’illustre studioso accompagnava i suoi ospiti anche per diversi giorni in giro per Roma e i facoltosi clienti ricambiavano la cortesia con «regali», piú che ben accetti. Ma, soprattutto, questa attività offrí a Winckelmann ulteriori opportunità per stabilire preziosi contatti con l’alta aristocrazia.

L’ULTIMO VIAGGIO Il 10 aprile del 1768, in compagnia di Bartolomeo Cavaceppi, Winckelmann partí alla volta della Germania. L’itinerario, preparato da entrambi già da mesi, avrebbe dovuto toccare numerose città, tra cui Venezia, Verona, Augusta, Monaco, Vienna, Praga e Berlino. Ma il viaggio, cominciato con grandi speranze, non nacque sotto una buona stella e finí in modo tragico, visto che già nelle Alpi tirolesi Winckelmann cadde in uno stato di forte depressione. Tutti gli sforzi di Cavaceppi per convincerlo a proseguire il viaggio verso il a r c h e o 85


SPECIALE • WINCKELMANN

Nord della Germania furono inutili: i piani vennero cambiati di nuovo e Winckelmann raggiunse con fatica Monaco, Augusta e Vienna. Nel castello di Schönbrunn lo studioso ebbe l’onore di essere ricevuto dall’imperatrice Maria Teresa e dal suo cancelliere, il principe di Kaunitz-Rietberg, che gli conferirono due medaglie d’oro e due d’argento per i suoi meriti scientifici. Tuttavia, lo stato depressivo di Winckelmann non faceva che peggiorare e lo studioso anelava a tornare rapidamente nella sua amata Italia, cioè a Roma. Cavaceppi si vide perciò costretto a continuare il viaggio da solo, lasciando che Winckelmann si dirigesse a Trieste, dove arrivò il 1° giugno e si fermò in attesa di una nave per Ancona, da dove contava di proseguire, via terra, fino a Roma. Prese alloggio nella stanza numero 10 dell’Osteria Grande (ora Grand Hotel Duchi d’Aosta) e fece amicizia con il vicino di camera, Francesco Arcangeli, un cuoco di 38 anni. Winckelmann non poteva sapere che si trattava di un individuo senza scrupoli, con vari precedenti penali, che, trovandosi in cattive acque, puntava presumibilmente alle preziose monete commemorative che lo studioso aveva ricevuto a Vienna.

OMICIDIO PREMEDITATO Conosciamo i dettagli della tragica fine di Winckelmann grazie ai registri giudiziari. Il rapporto che per qualche giorno si stabilí tra due uomini tanto diversi – il poco attraente Arcangeli e l’illustre studioso, ormai cinquantaduenne – lascia presupporre che 86 a r c h e o

le tendenze omosessuali del secondo gli siano state fatali. Arcangeli, in ogni caso, non commise l’omicidio per motivi passionali, ma a sangue freddo. Il giorno precedente il delitto acquistò una corda e un coltello, e la mattina dell’8 giugno, prese Winckelmann alle spalle: dapprima tentò di strangolarlo con la corda e poi lo colpí piú volte con il coltello all’altezza del torace. Mentre lo studioso agonizzava, l’assassino riuscí a fuggire, ma venne catturato: processato dal tribunale di Trieste, fu condannato alla pena capitale, da eseguire con il supplizio della ruota. L’agonia di Winckelmann si protrasse per oltre sei ore e, come riferirono vari testimoni, l’archeologo ricevette l’estrema unzione e dettò le sue ultime volontà, senza riuscire però a firmarle. Designò erede generale dei suoi modesti possedimenti il suo protettore, il cardinale Albani. Il 9 giugno, lo studioso venne sepolto secondo il rito cattolico, ma, ben presto, il luogo della sua ultima dimora cadde nell’oblio, in quanto le sue spoglie furono inumate in una tomba comune, senza alcun segno distintivo. Per ricordarlo degnamente, si decise perciò di erigere, nell’area un tempo occupata dal cimitero di San Giusto, a Trieste, il cenotafio realizzato dallo scultore Antonio Bosa, che fu inaugurato nel 1833 e che oggi si può vedere nel Museo Civico della città giuliana. Il mondo culturale della Germania fu scosso dalla morte tragica e prematura del grande studioso e, oggi, a 250 anni da quel triste epilogo è nostro dovere ricordare anche il prezzo pagato da Winckelmann nel corso della sua esistenza. Egli era alla ricerca della vera amicizia, ma nella sua vita fu spesso solo, la sua morte fu straziante e le sue spoglie mortali finirono confuse in un ossario. Resta la straordinaria eredità in campo accademico, di cui è custode, innanzitutto, la Società Winckelmann, fondata l’8 dicembre del 1940, a Stendal, e della quale fanno oggi parte 600 membri di 20 Paesi diversi.

A sinistra: Trieste. Il tempietto in cui è custodito il cenotafio di Johann Joachim Winckelmann. Il monumento funerario (nella pagina accanto), opera di gusto neoclassico dello scultore veneto Antonio Bosa, venne inaugurato il 1° marzo 1833. Fu voluto per onorare il grande studioso, le cui spoglie erano andate disperse: all’indomani della morte, infatti, Winckelmann fu sepolto in una fossa comune, senza alcun segno distintivo e, per di piú, il cimitero di San Giusto, che ne aveva accolto il corpo, era stato dismesso nel 1825.

PER SAPERNE DI PIÚ Friedrich-Wilhelm von Hase, Die Kunst der Griechen mit der Seele suchend. Winckelmann in seiner Zeit, Philipp von Zabern, 144 pp., ill. col. e b/n www.wbg-wissenverbindet.de


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SPECIALE • WINCKELMANN Ritratto di Johann Joachim Winckelmann (particolare), olio su tela di Anton Raphael Mengs. 1777 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.

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ALLA SCOPERTA DEL «TESORO DI ANTICHITÀ» incontro con Claudio Parisi Presicce ed Eloisa Dodero, a cura di Andreas M. Steiner

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ohann Joachim Winckelmann, nato a Stendal (Germania) il 9 dicembre del 1717, è universalmente considerato il padre fondatore dell’archeologia classica e della storia dell’arte antica. I suoi scritti, realizzati in poco piú di un decennio e tra i quali spicca la monumentale Storia dell’arte nell’antichità (Geschichte der Kunst des Alterthums) pubblicata nel 1764, raggiunsero presto fama mondiale: «Il risultato piú significativo e duraturo raggiunto dal Winckelmann – hanno affermato nel 1981 gli storici dell’arte Francis Haskell e Nicholas Penny – consistette nel fornire un resoconto cronologico esauriente, completo e lucido di tutta l’arte antica – ma della scultura soprattutto – compresa quella egizia ed etrusca» (L’antico nella storia del gusto: la seduzione della scultura classica, Einaudi, Torino 1984). È un dato incontrovertibile che, ancora oggi, l’opera di Winckelmann continui a influenzare profondamente i modi e la stessa sensibilità con cui anche noi percepiamo e ci avviciniamo all’arte degli antichi. Nel novembre del 1755 Winckelmann arriva a Roma, grazie a una borsa di studio concessa dal principe

elettore di Sassonia e re della Polonia, Augusto III. Nei successivi tredici anni, fino alla tragica morte avvenuta a Trieste nel giugno del 1768, lo studioso tedesco definisce i contenuti fondamentali del neoclassicismo e getta le basi teoriche dell’archeologia moderna, dando vita a un raffinato sistema di valutazione cronologica e stilistica delle opere antiche, fondato sull’osservazione diretta dei manufatti e sull’attenta lettura delle fonti letterarie. Fra gli «incontri» che piú influirono sulla vita e sull’opera di Winckelmann, uno ebbe senza dubbio un peso decisivo: appena tre settimane dopo il suo arrivo a Roma, infatti, il «pittore sassone» visita il Museo Capitolino nel Palazzo Nuovo in Campidoglio, rimanendone letteralmente folgorato. In questi giorni, una mostra allestita proprio nelle sale del museo romano, ci offre la possibilità di rivivere questo straordinario incontro. Ne abbiamo parlato con Claudio Parisi Presicce, Soprintendente Capitolino ai Beni Culturali, e con Eloisa Dodero, co-curatrice dell’esposizione.

Il busto di Johann Joachim Winckelmann (1781) scolpito in marmo da Friedrich Wilhelm Doell nel percorso espositivo della mostra «Il Tesoro di Antichità», visitabile a Roma, nei Musei Capitolini, fino al prossimo 22 aprile.

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SPECIALE • WINCKELMANN

IL CAMPIDOGLIO L’importanza del Campidoglio come centro religioso della Roma antica e come sede del governo civico della città medievale ha caricato di potenti implicazioni storiche la sede del Museo Capitolino. La sistemazione della piazza capitolina voluta da papa Paolo III Farnese (r. 1534-1549) e affidata nel 1538 a Michelangelo Buonarroti è realizzata in un lungo arco di tempo che abbraccia piú di un secolo. La ristrutturazione del Palazzo Senatorio, per il quale Michelangelo realizza la nuova scala a due rampe, è portata a termine da Girolamo Rainaldi al tempo di papa Clemente VIII Aldobrandini (r. 1592-1605). Per il Palazzo dei Conservatori, sede della magistratura elettiva cittadina, Michelangelo concepisce una nuova facciata, che però viene

ultimata solo nel 1628. L’edificazione del Palazzo Nuovo (futura sede del Museo Capitolino), già presente nel progetto michelangiolesco come elemento di chiusura della piazza sul versante della chiesa dell’Aracoeli, inizia nel 1603 e si protrae sotto la direzione di Girolamo Rainaldi e poi del figlio Carlo fino al 1671. L’autorevolezza del Campidoglio, sede del governo cittadino e luogo privilegiato per l’espressione della munificenza dei pontefici, è enfatizzata dalla presenza di sculture antiche al centro della piazza, sui cornicioni dei palazzi e negli appartamenti di rappresentanza. Le sculture del Campidoglio appartengono al Popolo Romano e costituiscono l’eredità della maiestas (grandezza) di Roma antica.

Veduta di Piazza del Campidoglio, olio su tela di autore anonimo. 1650-1653. Roma, Museo di Roma.

Professor Parisi Presicce, come nasce l’idea di una mostra dedicata a Winckelmann? «La nostra iniziativa si inserisce nelle celebrazioni di due ricorrenze, i trecento anni dalla nascita di Winckelmann (nel 1717, n.d.r.) e i duecentocinquanta dalla morte (avvenuta nei pressi di Trieste, nel 1768, n.d.r.). L’idea della mostra nasce dalla mia convinzione che il tema di “Winckelmann padre dell’archeologia moderna” andasse affrontato nella maniera piú completa e chiara possibile: i due anniversari, dunque, rappresentano l’occasione ideale per definire quale sia la portata dell’eredità che Winckelmann ci ha lasciato. Evidenziando, naturalmente, il legame che questa eredità deve, in particolar modo, al Museo Capitolino, un’istituzione che nasce nel 1734, pochi decenni prima dell’arrivo stesso di Winckelmann a Roma. Pur facendo riferimento al piú generale contesto delle celebrazioni winckelmanniane, la mostra privilegia dunque quegli aspetti della sua vicenda esistenziale – personale e artistica – che lo legano al nostro museo. A questo fine abbiamo colto l’opportunità per far arrivare a Roma una serie di sculture della collezione dei Musei di Dresda, opere che appartenevano al nucleo originario della collezione Albani e che rappresentano anche il primo nucleo di antichità acquistate dall’allora principe di Sassonia. Dopo quasi tre secoli, queste statue “tornano”a Roma per la prima volta». L’esposizione, però, non è solo una mostra d’arte antica… «No, certo! Noi abbiamo raccontato i luoghi abitati e frequentati da Winckelmann, quelli in cui stabilisce le sue relazioni – fondamentali – con le figure che, tra il 1755 e il 1768, rappresentavano il motore culturale del tempo: il papa, i cardinali, ma anche personaggi come l’amico pittore Anton Raphael Mengs o Bartolomeo Cavaceppi, lo scultore e restauratore romano che accompagnerà Winckelmann anche nel suo ultimo, fatidico viaggio, destinato a concludersi con la morte dello studioso.

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LA FONDAZIONE DEL MUSEO CAPITOLINO La costruzione del Palazzo Nuovo si può dire conclusa nel 1671, quando l’edificio è destinato agli uffici delle Arti della Lana e della Seta. A questa data risultano presenti nel palazzo una statua bronzea di papa Innocenzo X e 46 sculture antiche, qui trasferite dal Palazzo dei Conservatori. Dal 1698 il piano nobile è concesso all’Arte dell’Agricoltura. Negli spazi del Palazzo Nuovo il marchese Alessandro Gregorio Capponi individua il luogo ideale per ospitare le circa 400 sculture e la collezione epigrafica del cardinale Alessandro Albani. La proposta dell’acquisto è presentata a papa Clemente XII Corsini nella primavera del 1733. Il 5 dicembre il papa decreta l’acquisizione della raccolta per 66 000 scudi ottenuti dai proventi del gioco del lotto. Con due chirografi del 27 dicembre le sculture sono destinate al Palazzo del Campidoglio posto vicino alla chiesa di S. Maria in Aracoeli

– con sgombero immediato degli uffici del Tribunale dell’Agricoltura – e il marchese Capponi è nominato «libero et assoluto Custode delle antichità». Questi atti decretano la nascita del Museo Capitolino per promuover la magnicenza e splendor di Roma. Al marchese Capponi viene affidato il compito di sovrintendere alla ristrutturazione dell’edificio che, su progetto dell’architetto Filippo Barigioni, è reso idoneo a ospitare le antichità Albani. Le prime sculture arrivano in Campidoglio tra l’11 e il 12 febbraio del 1734; il Museo Capitolino apre al pubblico nell’estate del 1735.

La mostra indaga i legami – personali e artistici – stabiliti da Winckelmann con il Museo Capitolino

Busto in marmo di papa Clemente XI Albani, opera di uno scultore anonimo di ambito romano. Primo quarto del XVIII sec. Roma, Museo di Roma. Il pontefice incrementò la raccolta capitolina con numerosi doni di statue.

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Un’altra immagine dell’allestimento della mostra ai Musei Capitolini. In basso: frontespizio della Geschichte der Kunst des Alterthums (Storia dell’arte nell’antichità), l’opera piú importante di Johann Joachim Winckelmann. Dresda, 1764. Nella pagina accanto, in basso: calco in gesso dell’Antinoo-Osiride, già al Museo Capitolino e poi trasferito nel Museo Gregoriano Egizio. Roma, Museo della Civiltà Romana.

LA STORIA DELL’ARTE NELL’ANTICHITÀ Con la Storia dell’arte nell’antichità, pubblicata nel 1764, Winckelmann getta le basi della moderna archeologia: le oltre 1300 opere presentate sono utilizzate per illustrare le caratteristiche dello stile di ogni epoca storica, dalla nascita dell’arte nell’antico Egitto alla sua decadenza con la fine dell’impero romano. Argomento principale è l’arte greca, la cui superiorità è da attribuirsi al clima, alla libertà garantita dalla democrazia e alla considerazione di cui godono gli artisti. L’arte greca si evolve a partire dallo «stile arcaico»; lo «stile elevato», creato attorno alla metà del V secolo a.C. da scultori come Fidia, Policleto e

Alcamene, coincide con il momento della perfezione dell’arte; a questo segue lo «stile bello» di Prassitele, Lisippo e Apelle; con la fine del regno di Alessandro Magno ha inizio l’arte dell’imitazione che apre la via al declino dell’arte stessa. Winckelmann inizia a lavorare subito a una nuova edizione del suo capolavoro che, però, viene pubblicata postuma solo nel 1776. L’importanza della Storia dell’arte nell’antichità è testimoniata dalle traduzioni in tutte le lingue europee, tra cui spicca la versione in italiano curata da Carlo Fea (1783-1784). Sebbene molti degli assunti formulati da Winckelmann nel suo capolavoro

siano oggi del tutto superati, si deve a lui il primo tentativo di impostare su basi scientifiche lo studio della storia dell’arte.

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SPECIALE • WINCKELMANN

L’ENTOURAGE Nel corso del suo soggiorno a Roma, Winckelmann stabilisce rapporti con alcuni dei protagonisti della vita culturale e artistica della città. Sin dal 1755 può contare sul favore del cardinale Domenico Silvio Passionei (1682-1761), noto erudito e cultore di antiquaria, che gli garantisce accesso illimitato alla sua ricchissima biblioteca, costituita da oltre 32 000 volumi, nell’eremo di S. Romualdo a Frascati. Il pittore Anton Raphael Mengs (1728-1779) è tra gli amici più cari: nei primi tempi della sua esperienza romana, Winckelmann trascorre molto tempo nell’appartamento dell’artista a Trinità dei Monti. Con Mengs, inoltre, progetta un’opera sul gusto degli artisti greci, mai portata a termine.

Del cardinale Alessandro Albani (1692-1779), Winckelmann è domesticus, ma anche amico, in un rapporto complesso, fatto di veglie notturne al capezzale dell’alto prelato e lunghe passeggiate nello splendore di Villa Albani. Lo scultore Bartolomeo Cavaceppi (1715/1717-1799) collabora con Winckelmann all’elaborazione di un nuovo modo di restaurare le sculture antiche, basato sulla profonda conoscenza delle opere e delle fonti letterarie. Cavaceppi accompagna Winckelmann nell’ultimo viaggio alla volta della Germania e a lui si deve il resoconto degli ultimi giorni di vita del grande archeologo, prima della tragica morte a Trieste l’8 giugno del 1768.

nero in massima parte trasferite ai Musei Vaticani, per formare il primo nucleo del Museo Gregoriano Egizio, n.d.r.), ma al tempo di Winckelmann era ancora lí. E proprio le statue del Canopo gli suggerirono l’elaborazione della sua pionieristica periodizzazione dell’arte egizia». Le statue del Canopo, però, non sono opere egizie autentiche, ma imitazioni di età romana… «Certamente. E vale la pena ricordare, a questo punto, che proprio Winckelmann riconobbe per primo l’esistenza di statue realizzate in epoca romana, ma su imitazione di sculture egizie: tra queste figura anche il colosso che, al tempo di Winckelmann, «Qui ci si può trattenere in tutta era posto al centro del salone di Palazzo Nuovo e che veniva allora interpretato colibertà, dalla mattina alla sera» me un sacerdote egizio. Fu proprio Winckelmann a riconoscervi invece Antinoo, il giovane amante di Adriano (la statua fa In alto: i ritratti di Tesoro delle Antichità di Roma, statue sarcofagi, busti, iscrizioni, ecc. e qui ci si può parte delle opere trasferite ai Musei Vatica- Clemente XIII trattenere in tutta libertà dalla mattina alla ni nel 1838, n.d.r.)». (a sinistra) e sera». Non piú giovanissimo – ha 39 anni – Abbondio egli si definisce, innanzitutto, “artista” e, Dottoressa Dodero, può spiegarci come nasce il Rezzonico, nome scelto per la mostra? esposti in mostra. quando entra per la prima volta nel Museo Capitolino, si firma “pittore sassone”. «Il “Tesoro di Antichità”, “Der Schatz der Nella pagina Da questa suggestione nasce la nostra riflesAltertümer” nell’originale tedesco, è un’e- accanto: Ritratto sione su Winckelmann: sull’impatto che il spressione dello stesso Winckelmann. Lo di Bartolomeo primo museo pubblico d’Europa poteva eserstudioso è a Roma da poche settimane – vi Cavaceppi di arriva il 18 novembre del 1755 – e, il 7 di- Anton von Maron. citare su un personaggio partito dalle brumocembre, cosí scrive in una lettera all’amico e Ante 1794. Roma, se città tedesche per arrivare a Roma, con l’intenzione di studiare, osservare, scrivere. Un bibliotecario Johann Michael Francke, gra- Accademia museo sempre aperto, dalla mattina alla sera, zie alla quale possiamo ricostruire i primi Nazionale un luogo nel quale si poteva “vivere da artipassi di Winckelmann nell’Urbe: «Qui è il di San Luca. 94 a r c h e o


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In alto: la sezione della mostra con La lotteria in piazza Montecitorio, una tempera su tela attribuita a Francesco Panini. Metà del XVIII sec.

LA COLLEZIONE ALBANI ALLE QUATTRO FONTANE Alessandro Albani, nato nel 1692 e cardinale dal 1721, sin da giovanissimo inizia a formare una collezione di sculture antiche ed epigrafi provenienti in parte da acquisti sul mercato antiquario, in parte da scavi occasionali, soprattutto nel territorio di Anzio. Le antichità sono ospitate nel palazzo di famiglia alle Quattro Fontane. Protagonista della vita mondana di Roma e gravato da debiti

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di gioco, nel 1727 Alessandro si vede costretto a vendere 30 statue ad Augusto II il Forte, principe elettore di Sassonia e re di Polonia. Le sculture, a cui si aggiungono due leoni in granito offerti in dono al sovrano, raggiungono Dresda nel 1728. Per evitare ulteriori vendite e preservare l’integrità della collezione, nel 1733 il marchese Capponi ne propone l’acquisto a Clemente XII.


I PAPI E IL MUSEO La centralità del Museo Capitolino nella vita culturale della Roma del Settecento giustifica l’attenzione per l’istituzione mostrata da papa Benedetto XIV Lambertini (r. 1740-1758) e papa Clemente XIII Rezzonico (r. 1758-1769). Benedetto XIV accresce le collezioni capitoline con numerose donazioni e promuove interventi di restauro. A lui si deve l’apertura del cosiddetto Canopo (1748), una sala del Palazzo Nuovo dedicata a sculture egittizzanti, oltre che l’istituzione della Galleria dei Quadri (1748) e dell’Accademia del Nudo (1754). Il suo più stretto collaboratore, il cardinale Silvio Valenti Gonzaga (1690-1756), è il fautore dell’editto promulgato nel 1750 a difesa del patrimonio artistico e archeologico dello Stato Pontificio. Oltre a inasprire le pene per chi esporta opere senza la prevista licenza, l’Editto Valenti individua anche la destinazione dei beni confiscati: il Museo Capitolino e la Galleria dei Quadri. Nel 1765 Clemente XIII acquista per il Museo Capitolino i celebri Centauri e il Mosaico delle colombe, rinvenuti a Villa Adriana e transitati nella collezione del cardinale Furietti. Nello stesso anno diventa Senatore di Roma il nipote del papa, Abbondio Rezzonico (1742-1810), che a sua volta commissiona a Giovanni Battista Piranesi il programma di rinnovamento degli appartamenti del Palazzo Senatorio. Con l’apertura del Museo Clementino in Vaticano nel 1771, l’interesse e gli sforzi dei papi saranno assorbiti quasi interamente dalla nuova istituzione museale.

Ritratto del cardinale Silvio Valenti Gonzaga, olio su tela di Pierre Subleyras. 1740 circa. Roma, Pinacoteca Capitolina.

chità” – Winckelmann usa la stessa espressione sti”. Devo ricordare, infatti, che in quell’epo- Nella pagina ca non era affatto facile accedere alle collezio- accanto, in basso: che poi applicherà al Museo Capitolino –, formato in buona parte da opere provenienti ni di opere d’arte dell’antichità...». Ritratto del da Roma e, in particolare, dalle collezioni cardinale Chigi e Albani. Ma Winckelmann non poté Lei fa riferimento a quella riunita dal padre del Alessandro mai ammirarle: le statue, annota lo studioso mecenate di Winckelmann Augusto III, Albani, – che a Dresda soggiorna nei mesi precedenquell’Augusto II di Polonia, detto il Forte, che acquaforte. ti il suo viaggio in Italia –, erano inaccessibili, a Dresda aveva riunito una collezione straordi- 1721-1762 circa. “impacchettate come aringhe” e affastellate naria, composta da opere che il principe aveva Roma, Museo nei padiglioni del palazzo della città tedesca. fatto acquistare in Italia... di Roma. Ma anche in Italia la situazione non si pre«Nella capitale della Sassonia esisteva, infatti, quest’altro Schatz, quest’altro “tesoro di anti(segue a p. 100) a r c h e o 97


SPECIALE • WINCKELMANN

GLI ANNI DI WINCKELMANN... 1717-1735 Johann Joachim Winckelmann nasce a Stendal nell’Altmark di Brandeburgo il 9 dicembre 1717, da una famiglia modesta. Frequenta la Lateinschule di Stendal. 1735-1742 Anni della formazione in Germania. Frequenta il Köllnisches Gymnasium di Berlino, le Università di Halle e di Jena. Studia numerose materie e si appassiona alla letteratura greca. Per mantenersi agli studi lavora come precettore. 1743-1747 È co-rettore presso la Lateinschule di Seehausen. Sono anni infelici, resi difficili dal confronto con l’ambiente provinciale. Nel 1747 muore la madre. 1748-1754 Lavora come bibliotecario per il conte Heinrich von Bünau a Nöthnitz. In questo periodo, cruciale per la sua formazione, stringe amicizia con il bibliotecario Johann Michael Francke ed entra in contatto con il cardinale Alberico Archinto, nunzio apostolico nella vicina Dresda. Ha la possibilità di recarsi a Dresda, Berlino e Potsdam. Intanto matura la decisione di recarsi a Roma, L’11 giugno del 1754 si converte al cattolicesimo, sotto la guida del cardinale Archinto. A ottobre si trasferisce a Dresda, dove ha finalmente la possibilità di vedere la collezione di sculture antiche. 1755-1756 Pubblicazione nel giugno 1755 dei Gedanken über die Nachahmung der Griechischen Werke (Pensieri sull’imitazione delle opere greche). Uscita anonima, l’opera ha un immediato successo e viene tradotta in francese. Il 24 settembre parte per Roma e giunge in città il 18 novembre. Nei primi tempi del suo soggiorno si dedica alla perlustrazione delle grandi collezioni romane. Vive in un appartamento in Palazzo Zuccari, a Trinità dei Monti, di fronte all’amico Anton Raphael Mengs. Entra da subito in contatto con il cardinale Alessandro Albani e con Domenico Passionei. Nel 1756 esce a Dresda la seconda edizione dei Gedanken. 1757-1759 Lavora come bibliotecario per il cardinale Archinto e alloggia nel Palazzo della Cancelleria. Nel 1758 compie il primo viaggio a Napoli. Dal giugno del 1759 entra al servizio del cardinale Alessandro Albani dopo la morte di Archinto e si trasferisce nel Palazzo alle Quattro Fontane. In questo periodo pubblica cinque saggi, tra cui il Beschreibung

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des Torso im Belvedere (Descrizione del Torso di Belvedere). Intanto è iniziato il lavoro sulla Geschichte der Kunst des Alterthums. 1760 Pubblica la Description des Pierres Gravés du feu Baron Stosch, dedicato al cardinale Albani. Viene eletto «accademico d’onore» dell’Accademia di San Luca. 1761 Diventa membro dell’Accademia Etrusca di Cortona e della Society of Antiquaries di Londra. Inizia a lavorare ai Monumenti antichi inediti. 1762 Pubblica le Anmerkungen über die Baukunst der Alten (Osservazioni sopra l’architettura degli antichi). Secondo viaggio a Napoli e uscita in autunno del Sendschreiben von den Hercuianischen Entdeckungen (Epistola sopra le scoperte di Ercolano). 1763 In aprile, è nominato Commissario delle Antichità di Roma. 1764 Pubblica, presso l’editore Walther, la Geschichte der Kunst des Alterthums (Storia dell’arte nell’antichità). Terzo viaggio a Napoli e pubblicazione delle Nachrichten von den neuesten Herculanischen Entdeckungen (Notizie delle piú recenti scoperte di Ercolano). 1765 Diventa membro della Reale Accademia delle scienze di Gottinga. Inizia a lavorare alla seconda edizione della Geschichte. Intensifica l’attività di cicerone per importanti personalità in visita a Roma. 1766 Pubblica il Versuch einer Allegorie, besonders für die Kunst (Saggio di un’allegoria, specialmente per l’arte). 1767 Pubblica, in italiano, i due volumi dei Monumenti antichi inediti e le Anmerkungen über die Geschichte der Kunst des Alterthums (Osservazioni sopra La Storia dell’arte nell’antichità). Ultimo soggiorno a Napoli. 1768 Il 10 aprile parte per un lungo viaggio in Germania in compagnia dell’amico Bartolomeo Cavaceppi. Dopo essere stato ricevuto a Vienna dall’imperatrice Maria Teresa, decide di rientrare precipitosamente a Roma. Durante una sosta a Trieste, da cui avrebbe dovuto imbarcarsi per Ancona, l’8 giugno viene derubato e ucciso da Francesco Arcangeli. Prima di morire nomina il cardinale Alessandro Albani erede di tutti i suoi beni, inclusi i manoscritti rimasti a Roma. Il 9 giugno viene sepolto nel cimitero di San Giusto a Trieste.


...E DEL MUSEO CAPITOLINO 1714-1720 Papa Clemente XI Albani dona al Popolo Romano quattro statue egizie colossali rinvenute nella vigna Verospi presso Porta Salaria (1714) e il gruppo della Roma triumphans già nel giardino Cesi in Borgo (1719). Per ospitare le sculture in Campidoglio, l’architetto Alessandro Specchi progetta il portico di fondo del Cortile del Palazzo dei Conservatori, completato nel 1720. 1727-1728 Gravato da debiti di gioco, il cardinale Alessandro Albani, nipote di Clemente XI, è costretto a vendere ad Augusto il Forte trentadue sculture antiche della collezione formata nel palazzo di famiglia alle Quattro Fontane. Le sculture sono trasferite a Dresda e collocate nel Palais im Großen Garten. 1730 Lorenzo Corsini è eletto al soglio pontificio il 12 luglio con il nome di Clemente XII. 1733 A partire da aprile, il marchese Alessandro Gregorio Capponi, cameriere segreto di Clemente XII, inizia le trattative per l’acquisto delle circa 400 sculture della collezione del cardinale Albani nel Palazzo alle Quattro Fontane. Il 10 settembre il cardinale camerlengo Annibale Albani emana un editto relativo alla proibizione dell’estrazione di antichità dallo Stato Pontificio. Il 5 dicembre Clemente XII dispone l’acquisto della collezione Albani per 66 000 scudi. Le sculture sono destinate alla pubblica fruizione. Con due chirografi del 27 dicembre 1733, si individua nel Palazzo Nuovo in Campidoglio il luogo di esposizione delle sculture e si nomina Capponi «libero et assoluto Custode e Presidente Antiquario» delle antichità destinate al Campidoglio. 1734 Nel corso dell’anno iniziano i lavori di adeguamento degli ambienti del Palazzo Nuovo, liberato dagli uffici del Tribunale dell’Agricoltura. I lavori sono diretti dall’architetto Filippo Barigioni. Le prime sculture Albani, restaurate da Carlo Antonio Napolioni, arrivano in Campidoglio tra l’11 e il 12 febbraio. 1735-1736 L’allestimento del Museo Capitolino si può dire concluso nell’estate del 1735. Nella Roma nobilitata (1736) di Gaddi compare la prima descrizione del Museo, chiamato in questa fase Museo Clementino. 1737 Il Museo acquisisce una delle sue sculture piú note, il Gladiatore Ludovisi.

1740 Il 6 febbraio muore Clemente Xl; il 17 agosto viene eletto al soglio pontificio Benedetto XIV Lambertini. 1741-1742 Giovanni Gaetano Bottari pubblica il primo tomo del catalogo illustrato del Museo Capitolino. 1746 Il 21 settembre muore Alessandro Gregorio Capponi 1748 Nelle Stanze terrene di destra di Palazzo Nuovo è allestito il Canopo, uno spazio espositivo dedicato a sculture egizie ed egittizzanti. Istituzione della Pinacoteca Capitolina. Viene dato alle stampe il secondo tomo del catalogo del Museo, curato da Giovanni Gaetano Bottari. 1750 Il cardinale Valenti Gonzaga emana un Bando relativo alla proibizione dell’estrazione di opere d’arte dallo Stato Pontificio. 1752 Il Museo acquisisce la Venere capitolina. 1753 Acquisto delle sculture antiche da Villa d’Este. 1754 Istituzione dell’Accademia del Nudo. 1755 Tra novembre e dicembre, Winckelmann visita per la prima volta il Museo e ne resta profondamente colpito: «Qui è il Tesoro di Antichità di Roma». Esce il terzo tomo del catalogo illustrato del Museo Capitolino, curato da Giovanni Gaetano Bottari. 1758 Muore papa Benedetto XIV e sale al soglio pontificio ClementeXIII Rezzonico. 1765 Clemente XIII dispone l’acquisto per il Museo Capitolino dei due Centauri e del Mosaico delle colombe rinvenuti a Villa Adriana, già nella collezione del cardinale Furietti. A giugno il nipote del papa, Abbondio Rezzonico, è eletto senatore di Roma. Prospetto e pianta del portico di Palazzo dei Conservatori, da L’Antiquitée expliquée. 1719-1724.

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TITOLO BOX FINTO Testo box della persuasione attraverso la parola, o «retorica» (nata nella Sicilia greca e introdotta ad Atene da personaggi come Gorgia di Leontini) è gravata oggi da un forte pregiudizio. Nel tempo, infatti, questo termine ha assunto una connotazione negativa, che lo collega alla vacuità, all’ampollosità, all’inautenticità. Ma la retorica dei tempi di Pericle fu tutto il contrario: un’arte efficace, seducente, per certi versi sconvolgente. Era lo strumento che permetteva il funzionamento delle assemblee e dei consigli della polis, ove ciò che contava era saper esporre, trasmettere e far condividere ai cittadini determinate proposte o iniziative politiche. I giovani che volevano dedicarsi alla vita pubblica, e che costituivano la parte ritenuta migliore della società (chi non si interessava alla politica era definito idiotes, «privato»: oggi diremmo, un «idiota»...), dovevano apprenderla dai maestri di retorica, che ne facevano sfoggio una volta giunti in città dalle periferie del mondo greco e che si facevano profumatamente pagare per insegnarla.

NELLA PROSSIMA PUNTATA • Testo finto testo finto: testo finto da fare testo finto da fare

TITOLO FINTO DIDA BOX Mus inullac eaquam aspellandi dicto imus, con repel iur, tempedic tempos andit ulpa est et versper estions erovid essitat ecearum volo dus etur? Quibus rehenti ditius doloritamet alis ipsant facero ipsumet ellest magniet ma exped qui volestiasit, aute idunt et explam que perror molecum faccus vid es et a non nimil ipieni untis seque reic tempore none prerem liqui intorrum harchil isita sequam iuscimust lab int minum quiduciendus aribuscit aut aribus dolorpos sunditiam volutat qui coritat vereperunt, ipsum que nationsequas res ma vel et vita corum sita volore poribus. Puda vollori ipsam ni rescit acia quas sanissum quatur aboria dolut archili gendit ius esti offic temos vendae. Itatus, cus corehen dellorehendi niam faccus ut facipidest, oditemollest qui officil libusa as es alignih illuptati unt latemporis eicae nations errovit.

DOVE E QUANDO Testo finto testo finto da fare Molina di Ledro (TN), via Lungolago, 1 Orario dall’01/07 al 31/08: tutti i giorni, 10,00-18,00; dall’01/09 al 30/11 e dall’01/03 al 30/06: ma-do, 9,00-17,00, lu chiuso; il museo è inoltre chiuso nei mesi di dicembre, gennaio e febbraio Info tel. 0464 508182; e-mail: receptionmtsn@mtsn.tn.it, museo.ledro@mtsn.tn.it; www.palafitteledro.it

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

STORIE DI «COSE ARTIFICIATE» LA RICOSTRUZIONE STORICA CONDOTTA ATTRAVERSO LO STUDIO DEL PAESAGGIO HA AVUTO IN EMILIO SERENI IL SUO INTERPRETE PIÚ BRILLANTE. A OLTRE CINQUANT’ANNI DALLA PRIMA PUBBLICAZIONE, I SUOI SCRITTI SONO ANCORA OGGI UNA PIETRA MILIARE INELUDIBILE

P

ubblicata nel 1961, la Storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni (1907-1977) è una pietra miliare per storici e archeologi, e non solo, ancora fonte di continui ammaestramenti. A quarant’anni dalla morte, possiamo conoscere la personalità di storico fuori dal comune del suo autore attraverso il bellissimo libro che sua figlia Clara gli ha dedicato, Il gioco

dei regni (1993). Ma anche dai suoi libri traspaiono la dimensione umana e l’immagine di uno studioso ideologicamente legato a un mondo di certezze e al tempo stesso capace di valicare ogni siepe, di dissodare e arare campi inesplorati, di mescolare sementi. Un certo dogmatismo politico di Sereni è ormai consegnato agli storici, ma i suoi scritti non sono

In alto, a destra: Emilio Sereni in una foto d’archivio. In basso: Sermoneta (Latina). I resti del castello Caetani, affacciato sul bacino lacustre formato dal fiume Ninfa, in una foto Anderson del 1931.

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dogmatici: tutt’altro. Sono finestre aperte su mondi spesso sconosciuti, intuizioni che superano i confini delle discipline, corto circuiti che illuminano campi del sapere ombrosi. Guardando la mole del suo volume sulle Comunità rurali della Liguria antica, c’è da domandarsi come e quando avesse potuto essere stesa una trattazione del genere da un agronomo, studioso della storia e della politica agraria dell’Italia contemporanea, senza una particolare formazione antichistica, che aveva dedicato la maggior parte della sua vita alla lotta clandestina e alle patrie galere e poi alla militanza politica alla luce del sole. Chi legga oggi quelle pagine resta impressionato dalla modernissima percezione del senso della stratificazione storica che affiora nel dettaglio dei paesaggi e dei regimi agrari, osservati con l’occhio dello storico, dell’etnologo, del linguista, perché in lui si fondevano con naturalezza tante diverse discipline, ciascuna impegnata alla metà del secolo scorso a consolidare le proprie


Paesaggio con fiume, disegno su carta di Leonardo da Vinci. 1473. Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe. L’opera riproduce probabilmente il Valdarno Inferiore. strutture, e a volte le proprie difese. Sereni rispetta quelle discipline, consapevole della loro necessità, ma quasi le sorvola, come chi sappia di dover guardare piú in alto e piú lontano, perché consapevole di aver intrapreso a lavorare una «terra non seminata». Una terra da conoscere studiando innanzitutto il quadro geografico, il paesaggio geologico, vegetale e agricolo, e ogni fonte capace di «far trasparire le tracce» di istituzioni piú antiche; consultando certamente le fonti archivistiche, e – nei limiti dell’epoca – quelle archeologiche, dando spazio a «ogni documento della cultura materiale»: un termine allora inusuale e ideologicamente connotato, che solo vent’anni dopo di lui avrebbe trovato spazio nell’archeologia italiana. E – come lui stesso scrive –

analizzando anche «piú largamente di quanto non si soglia in genere fare in questa materia (…) le tradizioni folcloristiche, e l’etnografia comparata», nonostante «l’incuria o la diffidenza, di cui sono talora oggetto nella piú recente storiografia».

BISOGNO DI SINTESI Risulta evidente il debito di Sereni verso la Scuola delle Annales, e in particolare verso Marc Bloch, del quale apprezzava il bisogno di sintesi, «foss’anche in apparenza prematura», che gli verrà rimproverato con la definizione di Sereni «erudito» o «ultimo degli enciclopedisti». Sereni era invece all’opposto della erudizione, perché la molla delle sue ricerche era quella di «suscitare in un piú largo

pubblico un interesse o anche una semplice curiosità scientifica». Cioè a dire: il sapere non fine a se stesso, ma come lievito e carburante per ogni altra possibile ricerca; il sapere, insomma, come oggetto della piú ampia diffusione, che sola distingue l’erudizione dalla cultura, intesa come sistema di conoscenze che sempre creano nuovi modi di interpretare e modificare la realtà. Sereni, dunque, agevolato dalla sua formazione liceale, dall’ambiente colto della famiglia, dalla consuetudine con i testi e i temi della tradizione ebraica, dalla sua singolare attitudine per le lingue – che ne fece un poliglotta –, piegava le discipline all’analisi del contesto nella sua integrità: oggi lo diremmo il precursore della visione olistica del paesaggio storico. Laureatosi in agronomia nel 1927,

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con una tesi legata al suo giovanile sionismo e a una finalità pratica alimentata da una forte idealità, viene arrestato dalla polizia fascista nel 1930 per la sua militanza comunista e condannato a lunghi anni di prigione. Dopo un impegno nei primi governi dell’Italia repubblicana, quando il volume sulle comunità rurali liguri vede la luce (1955), il mondo e l’Italia sono divisi in due fronti contrapposti senza speranza. Quando esce il suo capolavoro, la Storia del paesaggio agrario italiano, l’aria sta cambiando. Il libro, solidamente ispirato al materialismo storico, non ha piú bisogno delle ingenue citazioni dei classici del marxismo.

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Sereni sa benissimo di aver prodotto qualcosa che prima semplicemente non c’era e che sta in piedi da sé.

IL PRIMO FU TIZIANO Il volume propone le storie millenarie di paesaggi raccontati attraverso le fonti iconografiche, i quadri, dunque, gli affreschi, i disegni e le stampe, raccolti e analizzati a migliaia. Né poteva forse essere altrimenti, se pensiamo che la prima attestazione italiana del termine stesso di paesaggio si trova nella lettera di un pittore, Tiziano, nel 1552. La novità del volume è figlia di una precisa scelta di metodo: «Una

ricerca come la nostra – scrive Sereni – non ha potuto essere condotta senza un largo e diretto ricorso alle fonti epigrafiche, archivistiche, archeologiche, letterarie, iconografiche». Il dato paesaggistico si presenta «come un fondamentale documento storico», e quindi come il bacino dove spazio e tempo si incontrano secondo quella che Sereni chiamava la «legge d’inerzia» del paesaggio agrario, che, «una volta fissato in determinate forme, tende a perpetuarle – anche quando siano scomparsi i rapporti tecnici, produttivi e sociali che ne han condizionato l’origine – finché


Effetti del Buon Governo in campagna, particolare dell’affresco di Ambrogio Lorenzetti. 1338-1339. Siena, Palazzo Pubblico, Sala della Pace. compito migliore della classe in questa o quella disciplina; lui sceglie consapevolmente di smarcarsi dal «disagio di una pur necessaria specializzazione della ricerca», perché l’oggetto di studio, il paesaggio, non può essere frammentato «in tanti distinti filoni: paralleli, certo, ma per ciò stesso solo all’infinito destinati a ricongiungersi». E cosí, magari un catasto o un cabreo di meno, ma un verso, un appunto di viaggio, un canto popolare in piú, con un’enfasi forse trattenuta, ma viva sotto la pelle per l’analisi della percezione come componente fondamentale della ricostruzione storica.

L’IMPORTANZA DEI NOMI

nuovi e piú decisivi sviluppi di tali rapporti non vengano a sconvolgerle». Se è cosí, tanto piú necessario si fa il ricorso alla «faticosa combinazione» dei dati di storia degli istituti giuridici con quelli risultanti dalle indagini di toponomastica e linguistica storica: «Lo specialista si meraviglierà forse – scrive nella Prefazione – di vederci far piú sovente ricorso alla citazione di un poemettto georgico, od alla piú o meno casuale testimonianza di un viaggiatore italiano e straniero piuttosto che a quella di un documento d’archivio». Perché a Sereni non interessa dimostrare di aver visto tutti i documenti della serie possibile, non deve fare il

Senso del moto storico e della sensibilità dei suoi protagonisti. Sono questi i sentimenti che animano anche la raccolta postuma dei suoi scritti inediti, dal titolo Terra nuova e buoi rossi (1981), dove i millenari incendi dei pastori e la pratica del debbio lasciano i loro segni nella degradazione della selva a macchia mediterranea in un paesaggio fatto di suoli, vegetazione, fatica umana, parole, nomi. Nella linguistica storica e nella toponomastica Sereni raggiunge il vertice, che solo un autodidatta a volte può permettersi, rispettoso sí, ma libero dalle discipline. Che si tratti del tirso delle Baccanti o della vite Lambrusca, della nomenclatura del cavallo o del fascinoso passaggio dei Napoletani da mangia foglia a mangia maccheroni, il libro è uno scrigno di idee, di collegamenti, di visioni, nei quali Sereni dallo studio delle tecniche agricole risale ai rapporti fra gli uomini e le classi sociali. Quelle letture mi conquistarono allora, e mi affascinano oggi ancor di piú, quando meglio misuro la grandezza del suo lavoro e

l’angustia di certa storiografia paurosa di tentare l’interpretazione, di volare. Sereni, invece, non teme le ipotesi, non se ne vergogna, semplicemente non può farne a meno. I nomi dei luoghi sono concentrati di memorie. E per questo oggi si considera la toponomastica un bene culturale immateriale, da tutelare come patrimonio storico di una nazione. I toponimi, le parole, la lingua, gli uomini che la parlano sono dunque tutte componenti di un paesaggio che credo di non sbagliare se dico che fosse percepito da Sereni in modo assai simile a quello che regola l’attuale «archeologia dei paesaggi», intesi innanzitutto come contesti storici stratificati. Nei paesaggi ogni cosa vive un sistema di relazioni a volte immediatamente percepibile, altre volte bisognoso di studio per essere colto. Perché i paesaggi, per quanto siano lenti nelle loro trasformazioni, cambiano continuamente nel loro aspetto, conservando le loro caratteristiche di lunga durata e prefigurando le nuove. Sereni lo sapeva, se a epigrafe della sua Storia poneva questa frase di Giacomo Leopardi: «Una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è: anzi, è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente. In modo che la vista di ogni paese abitato da qualunque generazione di uomini civili (…) è cosa artificiata, e diversa molto da quella che sarebbe in natura». I paesaggi, infatti, sono in fondo persone. Siamo noi, le generazioni che ci hanno preceduto e quelle che verranno.

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QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

...CELEBRÒ I SUOI PRIMI MILLE ANNI AL TEMPO DI AUGUSTO SI DECISE DI FISSARE AL 753 A.C. LA DATA UFFICIALE DELLA FONDAZIONE DI ROMA. DI CONSEGUENZA, IL 247 D.C. SEGNÒ IL PRIMO MILLENNIO DI VITA DELLA CITTÀ. CHE VENNE FESTEGGIATO SOLENNEMENTE, ANCHE SE IN RITARDO E DA UN IMPERATORE NON ROMANO...

L

a data della «fondazione» di Roma fu oggetto di lunghe discussioni presso gli antichi. O, quanto meno, di proposte diverse e che, per quanto ne sappiamo, abbracciavano un lasso di tempo di quattro secoli, compresi tra l’XI e l’VIII prima di Cristo. Se tutti concordavano sul giorno e sul mese, il 21 di aprile, festa delle Parilia, fu l’anno a suscitare perplessità, disparità di pareri e... ricostruzioni, anche sostanziali e quasi sempre inconciliabili, come rilevavano, per esempio, Cicerone (Bruto 18,72) e Dionigi d’Alicarnasso, (Ant. Rom. I, 74). Cosí, se Ennio poneva la fondazione attorno al 1090, lo storico greco (di Taormina) Timeo, la collocava nell’814, mentre i suoi colleghi romani propendevano per il secolo VIII (come, del resto, il greco Polibio, che indicava l’anno 750), ma Catone optava per il 751, Fabio Pittore per il 747, Cincio Alimento, con la datazione piú bassa di ogni altra, per il 729. Alla fine, al tempo di Augusto, si decise per una data «definitiva», universalmente

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Busto dell’imperatore Filippo Marco Giulio, detto l’Arabo. III sec. d.C. San Pietroburgo, Ermitage. Il caso volle che egli, originario della Traconitide, abbia regnato durante il compimento dei primi mille anni di vita di Roma, fissato per il 21 aprile 248 d.C.


accettata: fu quella alla quale, dopo ricerche accurate e calcoli minuziosi, era arrivato l’illustre erudito e scrittore Marco Terenzio Varrone, il quale faceva riferimento al terzo anno della sesta Olimpiade e quindi al 754-53 a.C. dell’anno attico (una volta trasferito il computo nel nostro sistema cronologico facente capo alla nascita di Cristo). La data varroniana è quella che ancora oggi seguiamo, almeno come punto di riferimento e, naturalmente, ben sapendo che si tratta, in ogni caso, di una data «convenzionale». Stando dunque al 753 a.C., fu naturale, per gli antichi, riconoscere il compimento dei primi mille anni di vita dell’Urbe – ovvero la fine del suo decimo secolo di esistenza: il secolo millenario – in quello che noi indichiamo come l’anno 247 d.C.

MILITARE DI CARRIERA La sorte fece sí che in quell’anno si trovasse sul trono di Roma un imperatore venuto dagli estremi confini orientali del mondo romano: Marco Giulio Filippo, piú noto come Filippo l’Arabo. Egli era infatti originario della Traconitide, uno dei distretti dell’Arabia Petrea,

Denario che commemora i Ludi Saeculares, rinnovati da Domiziano nell’87 d.C. Al dritto, il profilo laureato dell’imperatore; al rovescio, una colonna celebrativa, un incensiere e un araldo con verga e scudo. ai limiti del deserto siriaco a est di Damasco. Nato da famiglia equestre di modesta nobiltà locale in un piccolo centro (forse quello poi elevato al rango di colonia col nome di Philippopolis), Filippo si dedicò alla carriera militare e, poco dopo essere stato nominato Prefetto del Pretorio da Gordiano III, alla morte di questi – ucciso nel corso di una rivolta di soldati (alla quale il neoprefetto non dovette essere del tutto estraneo) – fu acclamato imperatore, nel febbraio del 244, a Zathra, presso l’Eufrate, mentre era in corso una guerra

Antoniniano d’argento emesso in occasione dei Ludi Saeculares celebrati da Filippo l’Arabo nel 248 d.C. Al dritto, il profilo dell’imperatore; al rovescio, un elefante guidato dal mahout, con riferimento alle processioni degli spettacoli circensi organizzati per i festeggiamenti del millenario di Roma.

contro i Persiani. Conclusa rapidamente la pace e insediatosi a Roma con il riconoscimento del Senato, Filippo provvide a nominare Cesare (e «principe della gioventú», cioè erede al trono) il figlio Filippo minore, non ancora decenne (mentre il padre, Marino, che pure aveva goduto fama di temibile predone, veniva divinizzato e la moglie Ottacilia Severa riceveva il titolo di Augusta). Verso la fine del 245, l’imperatore venuto dall’Arabia fu però costretto a lasciare l’Urbe per affrontare nei Balcani un’invasione dei Carpi che dalla Dacia avevano varcato il Danubio per riversarsi nella provincia di Mesia. E a causa di questo impegno, concluso vittoriosamente solo nel 247, fu inevitabile rinviare di un anno la celebrazione della scadenza millenaria. Questa venne perciò solennemente festeggiata il 21 aprile del 248, in un clima di esaltazione generale, con l’indizione dei famosi Ludi Saeculares, quel complesso di cerimonie sacre, giochi e spettacoli, dedicati agli dèi inferi nel momento del rinnovamento del saeculum, che erano stati introdotti nel 249 a.C. e resi famosi dalle celebrazioni augustee del 17 a.C. Rinnovati, in seguito, a intervalli alquanto irregolari, da Claudio, nel 47 d.C.,

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Mosaico con maschere teatrali, dalle Terme di Decio, imperatore acclamato nel 248, a seguito di una rivolta militare che vide Filippo sconfitto. II sec. d.C. Roma, Musei Capitolini. Domiziano, nell’87 e Settimio Severo, nel 204, essi ebbero la loro ultima edizione proprio con la celebrazione millenaria di Filippo. Ne fanno fede – ufficialmente – le diverse monete emesse, non solamente a Roma, per l’occasione, con scritte inneggianti ai due imperatori (saeculares Augg., aeternitas Augg. con l’immagine di un elefante, simbolo di longevità) o variamente allusive all’evento e, soprattutto, all’inizio del nuovo millennio (Saeculum novum, Romae aeter(nae) an(no) mill(esimo) et primo), come in quelle fatte coniare in Oriente dall’effimero usurpatore Pacaziano. Purtroppo, conosciamo ben poco delle cerimonie e delle manifestazioni celebrative con le quali Filippo intese anche sottolineare la conclusione vittoriosa delle sue imprese militari, l’inizio di quella che avrebbe dovuto essere una nuova dinastia e, sotto l’egida di essa, l’avvento di una nuova era della storia dell’Urbe.

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Sappiamo quasi soltanto che negli «eventi» spettacolari furono impiegati duemila gladiatori e un gran numero di belve già fatte affluire a Roma in previsione del mancato «trionfo persiano» di Gordiano III: in particolare, trentadue elefanti e sessanta fra leoni, tigri, leopardi e ippopotami. Le fonti danno anche notizia di una speciale gratifica distribuita ai cittadini e, in generale, di spese cospicue, nonostante i tempi di rigide economie.

SOLO QUALCHE ECO Certamente avremmo saputo di piú se fosse giunto fino a noi il testo dello storico Asinio Quadrato, attivo all’epoca, che scrisse, in greco, una storia di Roma, in quindici libri, dalla fondazione fino, verosimilmente, all’anno della celebrazione millenaria, visto che l’opera – della quale si sono salvati solo alcuni frammenti – s’intitolava Chilieterís, «il Millennio» (Romaikè

chilieterís o Chiliarchia). Per il resto, solo in autori molto piú tardi si ritrova qualche eco degli avvenimenti del 248. Verso la fine del IV secolo, san Gerolamo, nella sua Cronaca, scrive: «Mentre regnavano Filippo e suo figlio si compí il millesimo anniversario della città di Roma. In quella solenne occasione venne uccisa nel Circo una enorme quantità di animali e nel Campo Marzio si svolsero spettacoli teatrali per tre giorni e tre notti con altissima partecipazione del popolo». Zonara, storico del V secolo, accusa invece Filippo d’aver compiuto i riti tradizionali per il millennio di Roma con «scarso entusiasmo» e arriva ad attribuire a questo atteggiamento negativo una nefasta e disastrosa conseguenza: «Se le cerimonie sacre fossero state osservate religiosamente secondo i precetti della Sibilla, l’impero romano avrebbe conservato la sua potenza; ma poiché esse sono state trascurate, l’impero è caduto sotto la dominazione dei barbari». Certo è – per concludere – che l’inizio del nuovo millennio fu tutt’altro che propizio, prima di tutti, allo stesso Filippo. Proprio alla fine dell’anno 248, infatti, venne acclamato imperatore, nel corso di una delle ormai consuete rivolte militari, Caio Messio Decio. E allorché Filippo, in cattive condizioni di salute, mosse in armi contro di lui (che pure aveva manifestato l’intenzione di giungere a un accordo), nel settembre del 249, pur avendo a disposizione forze molto superiori a quelle del rivale, venne da questi sconfitto e ucciso in una battaglia campale presso Verona. Subito dopo, alla notizia di quella sconfitta, i pretoriani uccisero a Roma il giovane figlio di Filippo, ponendo cosí fine, «sul nascere», a una dinastia che avrebbe dovuto inaugurare «in gloria» il secondo millennio.



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

SALVATO DA UNA CERVA PRESENTE SU SPECCHI E MONETE, IL MITO DI TELEFO RIPROPONE UN INTRIGANTE LEGAME CULTURALE TRA IL MONDO ORIENTALE E L’ETRURIA

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a mitologia greca, con il suo affascinante bagaglio di dèi, eroi, amori, storie in cui i destini umani si incrociano e interagiscono con la capricciosa volontà divina, ebbe una diffusione straordinaria, anche e soprattutto attraverso l’iconografia. Vasellame, statue, decorazioni per eleganti domus, cosí come glittica e oggetti di toletta – quali gli specchi –, sono ricchi di raffigurazioni legate al mondo divino e all’epos dell’Ellade, che ricorrono naturalmente anche sulle monete. Il metallo e la forma avvicinano specchi e monete; cosí, un ritrovamento «etrusco» avvenuto a Tuscania (in provincia di Viterbo) si ricollega, dal punto di vista della narrazione per immagini, ad alcune emissioni greche, e poi romane di età imperiale. Lo specchio proviene da una necropoli tuscanese alquanto defilata: si tratta della verdeggiante Macchia della Riserva, in località Pian delle Rusciare, dove dal 2005 si svolgono campagne di scavo che hanno portato alla scoperta di nuclei sepolcrali di età ellenistica, di regola già violati, ma che hanno restituito, a una ripulitura attenta, preziosi elementi del corredo sfuggiti alla rapina. Per inciso, dal 2016 la zona è stata inserita in un

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percorso naturalistico attrezzato che arricchisce l’offerta culturale e turistica locale, il tutto curato, come gli scavi, dal centro CAMNES.

UNA VITA AVVENTUROSA In una di queste tombe, con tre sarcofagi in nenfro, è stato rinvenuto un pregevole specchio in

bronzo databile agli inizi del III secolo a.C. Vi è finemente incisa una scena, composta da cinque figure di divinità, al centro delle quali compaiono Hercle/Eracle e, ai suoi piedi, una leggiadra cerbiatta che allatta un bambino. Si tratta della versione etrusca del mito di Telefo figlio di Eracle, protagonista di una vita avventurosa (e di molteplici tradizioni riguardo la sua storia, talora con significative differenze), che lo vede frutto di un incontro fugace tra l’eroe e la bella Auge, figlia del re greco Aleo di Tegea. Per comprendere la complessità della vicenda, e come spesso accade nell’epos greco, va detto che ad Aleo era stato vaticinato che un suo nipote gli avrebbe ucciso i figli maschi. Votò allora a castità la figlia Auge, facendola sacerdotessa di Atena, ma egualmente essa si uní, piú o meno volontariamente, a Eracle, ebbro dopo un banchetto in suo onore. Scoperto il misfatto, il padre decise di far uccidere figlia e nascituro, ma essa fuggí protetta da vari personaggi e, dopo aver rapidamente partorito, abbandonò (confidando in una sua possibilità di salvezza) il figlio in un bosco sul monte Partenio, in Arcadia, continuando le sue peregrinazioni sino a divenire la sposa o la figlia


adottiva (secondo le varie versioni) del re di Misia. Intanto, al pari di tanti re-eroi dalle nascite semidivine salvati da animali (si pensi a Romolo e Remo), l’infante fu allattato da una cerva, poi ritrovato da pastori e infine consegnato al re del luogo, prendendo il nome di Telefo, che significa appunto «allattato da una cerva» (Apollodoro, III, 9,1). Cresciuto e divenuto forte come il genitore – non per nulla Pausania (X, 28, 8), scrive che «Auge visitò la casa di Teutrante in Misia e, di tutte le donne con cui si dice che Eracle si uní, nessuna diede un figlio tanto simile al proprio padre quanto il suo Telefo» –, egli riconobbe infine la madre, scoprí la sua discendenza e divenne re di Misia. Prese quindi parte alla guerra di Troia, insieme alla moglie Hiera (una delle tante attribuitegli dalle varie versioni della storia), intrepida comandante di uno squadrone di donne guerriere di Misia e che gli diede due figli, Tarchon e Tirreno (Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, I, 19; Filostrato, Eroi, II, 18), associandolo cosí all’origine

Moneta in bronzo (trichalkon) di Tegea (Arcadia). 250 a.C. circa. Al dritto, la testa elmata di Atena; al rovescio, Telefo e la cerva. stessa del popolo etrusco. Ucciso da Neottolemo, venne infine onorato con un grandissimo monumento a Pergamo e la sua vicenda fu scelta come tema di un fregio dell’altare pergameno di Zeus, uno dei capolavori dell’arte ellenistica (II secolo a.C.).

RITRATTO DI FAMIGLIA Visto il ruolo di rilievo della coppia padre-figlio Ercole-Telefo, dovuta peraltro al provvidenziale istinto materno della cerva certo ispirata dalla volontà divina, la nascita di Telefo si ritrova quale gloria patria nelle monete di Tegea del III secolo A sinistra: rovescio di medaglione di Antonino Pio, con Ercole, Telefo, la cerva e l’aquila. 140-143 d.C. Boston, Museum of fine Arts. Nella pagina accanto: restituzione grafica dello specchio in bronzo da Tuscania su cui compaiono, fra gli altri, Eracle e la cerbiatta che allatta Telefo. III sec. a.C.

a.C. e quindi nella monetazione provinciale romana a partire dall’età severiana. Particolarmente elegante è un medaglione di Antonino Pio, emesso a Roma intorno al 140-143 d.C., nell’ambito di una serie che celebrava il nono centenario della fondazione di Roma e dedicata anche alla figura di Ercole, legato a Roma dall’episodio di Ercole e Caco, il mostruoso pastore-predone che viveva ai piedi dell’Aventino. Il medaglione mostra un paesaggio bucolico con Ercole nudo in tutta la sua possanza che, appoggiato alla clava, osserva compiaciuto il figlioletto Telefo, nutrito da una cerva che amorosamente lo tocca con il muso, forse leccandolo mentre poppa. È probabile che i due siano entro una grotta, riparo dell’animale, significata da rocce e da un piccolo arco sopra la cerva dove poggia un’aquila, simbolo del padre di Ercole, figlio di Giove e Alcmena. L’aquila compare anche nel celebre affresco dall’Augusteum di Ercolano, composto da Ercole, le personificazioni dell’Arcadia e del monte Partenio, un satirello e un leone. A terra il piccolo Telefo con la cerva, accanto ai quali si trova l’aquila di Zeus, che osserva la scena come un vero e affettuoso nonno che si preoccupa della crescita dell’amato nipotino.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Danilo Leone, Maria Turchiano

LIBRUNA 1. ARCHEOLOGIA SUBACQUEA IN ALBANIA Porti, approdi e rotte marittime Edipuglia, Bari, 382 pp., ill. col. e b/n 65,00 euro ISBN 978-88-7228-831-3 www.edipuglia.it

Negli anni del regime comunista, l’esplorazione subacquea delle acque albanesi era stata vietata, impedendo cosí il possibile accertamento di presenze archeologiche. All’indomani dei cambiamenti politici di cui il Paese è stato teatro, quel divieto è venuto a cadere e si è aperta una nuova e proficua stagione di ricerche, di cui il Progetto Liburna ha costituito una delle realtà piú significative. Di una parte importante dei risultati scaturiti da quelle indagini, condotte fra il 2007 e il 2010, dà ora conto questo volume, rivelando una realtà di notevole interesse, che prova il pieno inserimento della regione albanese

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nella rete degli scambi e dei traffici adriatici. Dopo l’illustrazione delle metodologie adottate nel corso delle attività condotte, gli autori presentano il catalogo dei siti individuati, suddivisi secondo le rispettive aree geografiche di appartenenza. Corollario naturale di questo primo contributo sarà l’annunciata pubblicazione dei dati acquisiti grazie alle indagini condotte nella baia di Durazzo. Giulio Calegari

APERTURE ALL’IMMAGINARIO Tra archeologia africana e incertezze Fondazione PassaréQuodlibet, MilanoMacerata, 154 pp., ill. col.

18,00 euro ISBN 978-88-229-0109-5 www.quodlibet.it

Raccogliendo contributi pubblicati nel corso di un ventennio e un saggio inedito, Giulio Calegari propone la sua personale via all’interpretazione dell’arte preistorica africana e, piú in generale, alle manifestazioni visive che l’uomo ha elaborato fin dalle epoche piú antiche. Pur senza rifiutare l’approccio archeologico, che resta imprescindibile – e, del resto, Calegari stesso ha a lungo lavorato sul campo –, l’autore ci invita dunque a guardare a incisioni, graffiti e pitture con occhi diversi, cercando

di andare oltre la sola definizione di tipologie e sequenze cronologiche. Solo in questo modo, infatti, si può seguire il percorso che porta a riconoscere l’esistenza, fin da tempi remoti, di veri e propri «maestri». (a cura di Stefano Mammini)



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