TOMBA DI SETHI I
PROGETTO SELINUNTE THOURIA
SACELLI DI POMPEI
SPECIALE RITORNO A TROIA
TROIA
RITORNO A
PATRIMONIO DELL’UMANITÀ w. ar
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BASILEA
NELLA TOMBA DEL FARAONE
GRECIA
IL TEATRO DEI MESSENI
PARCHI ARCHEOLOGICI
RICOSTRUIRE SELINUNTE?
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IN EDICOLA IL 7 APRILE 2018
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2018
Mens. Anno XXXIV n. 398 aprile 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
ARCHEO 398 APRILE
SPECIALE
€ 5,90
EDITORIALE
SULLA COLLINA FATALE Si è trattato forse di un «fermo» fisiologico ma, negli ultimi anni, intorno a Troia e agli straordinari risultati delle campagne di scavo – iniziate dall’archeologo Manfred Korfmann a partire dal 1988 e proseguite fino al 2011 – era calato il silenzio. Oppure, come inesorabilmente accade a tutte le grandi questioni culturali, anche il «caso Troia» non poteva sottrarsi alla temperie politica e sociale del momento. In verità, le avventurose vicende della collina affacciata sui Dardanelli si sono da sempre intrecciate con la politica. E non alludiamo tanto all’epico scontro tra Achei e Troiani, consumatosi nella piana antistante (quello sí, fantasticamente riproposto al grande pubblico, nel 2004, con il colossal Troy), quanto alle rocambolesche circostanze che, nella primavera del 1873, hanno accompagnato gli scavi intrapresi dal grande Heinrich Schliemann, culminati nella scoperta (e nel trafugamento da parte dello stesso Schliemann!) del mitico «tesoro di Priamo»: un evento epocale, pienamente calato, tuttavia, nel contesto geopolitico dell’Europa fin de siècle. Cosí, in un’affascinante quanto impietosa indagine su quei mesi fatidici, due studiosi italiani non hanno esitato ad affermare che il geniale archeologo dilettante avesse «depredato il paese che lo ospitava (la Turchia ancora sotto dominio ottomano, n.d.r.) nella migliore tradizione coloniale» (Gianni Cervetti e Louis Godart, L’oro di Troia. La vera storia del tesoro scoperto da Schliemann, Torino 1996). E che dire, poi, della sorte novecentesca toccata ai celebri ori, dalla scomparsa durante la battaglia di Berlino del marzo 1945 fino al loro «ritrovamento» avvenuto negli anni Novanta (si vedano gli articoli apparsi su «Archeo» nn. 84 e 137, febbraio 1992 e luglio 1996)? A rileggere le cronache di allora ritroviamo gli ingredienti di una perfetta spy story, narrata sullo sfondo di due decisivi avvenimenti che segnano la storia di quegli anni, il crollo del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Ma torniamo alla nostra collina. Prendendo spunto dal ventennale dell’iscrizione del sito nella Lista del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO, la Turchia ha dichiarato il 2018 «anno di Troia», annunciando, sempre per quest’anno, l’inaugurazione di un nuovo museo, il primo mai dedicato interamente al sito scoperto da Heinrich Schliemann. Il sipario sulle mitiche rovine di Hissarlik si sta, dunque, nuovamente levando... Andreas M. Steiner In alto: due rendering del museo dedicato alle antichità di Troia, che la Turchia si appresta a inaugurare nella piana di Hissarlik.
SOMMARIO EDITORIALE
Sulla collina fatale
3
di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
6
A TUTTO CAMPO Il 2017 è stato un anno d’oro per i musei e i siti archeologici italiani. Le cifre, tuttavia, si prestano anche a qualche riflessione 16
SCOPERTE A Roma, nei pressi della basilica di S. Giovanni in Laterano, tornano alla luce i resti della prestigiosa residenza destinata al comandante della caserma già individuata nella stessa zona 6
PAROLA D’ARCHEOLOGO E se l’Isola di Atlante degli antichi fosse la Sardegna? E se gli abitanti dell’isola fossero gli antenati degli Etruschi? Ecco, in anteprima, le ultime «provocazioni» di Sergio Frau 20
ALL’OMBRA DEL VULCANO Lo studio delle pitture di giardino svela la ricca varietà di specie vegetali diffuse a Pompei e nel suo territorio 10
MOSTRE
SCAVI Indagini condotte nel territorio di Bologna gettano nuova luce sulla lunga storia del municipium romano di Claterna 12
Il risveglio di Sethi I 34
PARCHI ARCHEOLOGICI Nel parco dei giganti
46
di Mimmo Frassineti
46 SCAVI
Il teatro nascosto
66
di Maria Katsinopoulou
a cura di Stefano Mammini
34
66 In copertina il colossale cavallo di legno ricostruito per il film Troy, diretto da Wolfgang Petersen nel 2004
Anno XXXIV, n. 398 - aprile 2018 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Andreas M. Steiner Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Redazione: Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione: Davide Tesei Amministrazione: Roberto Sperti
amministrazione@timelinepublishing.it
Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale
Hanno collaborato a questo numero: Lara Anniboletti è funzionario della Promozione e Comunicazione della Galleria Nazionale dell’Umbria. Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Mimmo Frassineti è scrittore e fotografo. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Maria Katsinopoulou è archeologa. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco Archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Michael Siebler è giornalista e archeologo. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Andrea Zifferero è professore associato di etruscologia e antichità italiche e di musealizzazione e gestione del patrimonio archeologico all’Università di Siena. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: Album: copertina e pp. 82, 88-89; AKG Images: pp. 91, 104-105; Leemage: p. 111 – Cortesia Ufficio Cultura e Informazioni dell’Ambasciata di Turchia, Roma: pp. 3, 102 – Cortesia Soprintendenza Speciale di Roma Archeologia, Belle Arti e Paesaggio: pp. 6-7 – Cortesia degli autori: pp. 8, 16, 76-80, 81 (basso), 110 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 10-11 – Cortesia Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara: p. 12 – Cortesia Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Friuli-Venezia Giulia: p. 14 – Stefano Mammini: pp. 17, 22 – Cortesia Sergio Frau: pp. 20 (alto), 21, 23, 24; Gianluca Belei: pp. 20 (basso), 24/25 – Cortesia Ufficio Stampa: p. 26 (alto) – Shutterstock: pp. 26 (basso), 74/75, 96/97, 103 – Cortesia Ufficio Stampa Antikenmuseum, Basilea: pp. 34-35, 36/37, 38/39, 39 (basso), 40-43 – Doc. red.: pp. 39 (alto), 84, 85, 86/87, 90, 92-95, 96, 98-101, 106/107 – Mimmo Frassineti: pp. 46/47, 48/49, 50-51, 53 (alto), 54-57, 58/59, 60 (centro), 62-63, 64/65, 65 – Da: Selinunte. Restauri dell’antico (Fondazione Sorgente Group, De Luca Editori d’Arte-Musa Comunicazione, Roma 2016): pp. 52/53, 58, 59, 60 (alto e basso), 61 – Cortesia Università di Camerino: pp. 53 (basso), 64 – Cortesia Società degli Amici dell’antica Thouria: pp. 66/67, 69-73 – Da: Marcel Bulard, «Description des revêtements peints à sujet religieux», in Exploration archéologique de Délos, IX, Paris, 1926: p. 81 (alto) – Da: Archeologia Urbana a Borgo Terra. Muro Leccese. I (Edipuglia, Bari 2017): p. 108-109; Studio Inklink: p. 108 – Cippigraphix: cartine alle pp. 36, 47, 48, 68, 84. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
SCOPERTE
Devozione fatta in casa
74
di Lara Anniboletti
82
74
SPECIALE
Rubriche
Ritorno a Troia
QUANDO L’ANTICA ROMA... ...accoglieva i «barbari»
104
di Romolo A. Staccioli
82
di Michael Siebler
LIBRI
SCAVARE IL MEDIOEVO Un borgo e la sua storia
112
108
di Andrea Augenti
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
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Una storia d’amore e d’odio di Francesca Ceci
Editore: My Way Media S.r.l. Direttore generale: Andrea Ferdeghini Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Pubblicità Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com tel. 335 8437534 Direzione, sede legale e operativa Via Gustavo Fara 35 - 20124 Milano tel. 02 00696.352
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Errata corrige con riferimento all’articolo Quando l’antica Roma... celebrò i suoi primi mille anni (vedi «Archeo» n. 397, marzo 2018) desideriamo precisare che lo storico Zonara fu attivo nel XII e non nel V secolo, come indicato a p. 108. Dell’errore ci scusiamo con i nostri lettori.
n otiz iari o SCOPERTE Roma
STANZE DI VITA MILITARE
A
poche centinaia di metri dalla basilica di S. Giovanni in Laterano, nel cantiere per la costruzione della stazione Amba Aradam-Ipponio della linea C della metropolitana di Roma opera dal 2015 anche la Soprintendenza Speciale di Roma, per documentare le presenze archeologiche. Gli scavi per la messa in opera della nuova infrastruttura hanno offerto l’opportunità di condurre indagini a profondità considerevoli e, nel corso degli anni, hanno portato a scoperte di notevole rilevanza. Nella primavera del 2016, sono stati individuati i resti di una caserma, un edificio a pianta allungata, interpretato come dormitorio dei soldati, composto da un corridoio centrale da cui si diramavano piccoli ambienti affrontati. Piú di recente, nelle scorse settimane, è stato annunciato il ritrovamento di due nuovi edifici, collegati al dormitorio, che integrano il complesso militare.
A destra: Roma, area della costruenda stazione Amba Aradam-Ipponio della linea C della metropolitana. La domus del comandante in corso di scavo
Questi formano due ali simmetriche verso est e verso ovest, poste a una quota di 3 m inferiore al dormitorio, a circa 12 m di profondità dalla superficie. L’edificio orientale è un’ampia struttura residenziale, una raffinata domus, che si estende su un’area di 300 mq e che prosegue oltre il limite degli scavi, in direzione nord. L’ipotesi formulata dagli archeologi è che fosse la residenza del comandante della caserma, il quale, attraverso una scala, poteva anche raggiungere direttamente
l’edificio dei dormitori, nonché un’altra stanza, forse destinata a ufficio. Gli ambienti conservano resti di una ricca decorazione, consona a un ambiente di prestigio. Inoltre, l’esame dei rivestimenti ha evidenziato un rifacimento ciclico degli interni, che ha avvalorato l’ipotesi di un luogo di rappresentanza, da mantenere in buono stato nel corso del tempo. Intorno a un cortile centrale, realizzato in opus spicatum, dotato di una fontana e di vasche, gli archeologi hanno riportato alla luce
In basso: uno dei vani della domus del comandante. La dimora era una costruzione di prestigio, della quale si sono conservate in buone condizioni sia le pavimentazioni che la decorazione parietale. La loro analisi ha dimostrato che l’edificio fu piú volte ristrutturato, cosí da garantire che fosse in buone condizioni per gli ufficiali ai quali venne assegnato nel corso del tempo.
6 archeo
In questa pagina: veduta d’insieme e particolare di uno dei mosaici pavimentali della domus del comandante.
14 ambienti, pavimentati in opus sectile, con quadrati di marmo bianco e ardesia, decorati con mosaici, o in cocciopesto, mentre le pareti (per l’altezza superstite) sono affrescate con intonaci bianchi o colorati. Una delle stanze presentava anche un sistema di riscaldamento, forse un ambiente termale, con il pavimento poggiato su pile di mattoni (suspensurae), che creavano un’intercapedine per il passaggio di aria calda. L’altro edificio, nella parte occidentale, è stato invece interpretato come un’area di servizio, con funzioni di magazzino temporaneo, e si estende anch’esso oltre il limite degli scavi, verso ovest. Presenta pavimenti in opus spicatum, vasche e un sistema di canalizzazioni idriche. Una soglia delimitata da blocchi di travertino dava accesso a un tracciato viario ricoperto in basolato, disposto in direzione est-ovest. Il complesso militare è databile all’età adrianea (inizi del II secolo d.C.) e continuò a funzionare fino alla seconda metà del III secolo d.C., quando fu messo fuori uso, presumibilmente in relazione alla
costruzione delle Mura Aureliane (realizzate tra il 271 e il 275 d.C), il cui tracciato passa a poche decine di metri di distanza. La caserma, forse già in disuso, venne definitivamente distrutta, i muri rasati a 1,5 m di altezza e gli ambienti spogliati e interrati, per evitare che eventuali attaccanti potessero usarli come riparo. La scoperta è tanto piú importante in quanto inattesa, perchè non documentata dalle fonti, come invece avviene per altri castra di età imperiale. Le strutture rinvenute sono in corso di spostamento. Dopo lo smontaggio, verranno
temporaneamente immagazzinate in appositi container climatizzati, per consentire il passaggio della talpa, che andrà a scavare a 40 m di profondità. In seguito, non appena la stazione giungerà a uno stadio di realizzazione piú avanzato, le strutture verranno riportate sul luogo, per ricomporre fedelmente l’ambiente di scavo, che, secondo il progetto dell’architetto Paolo Desideri, sarà apprezzabile da tutti i passeggeri e potrà essere approfondito in dettaglio attraverso un’apposita struttura museale, che ospiterà anche tutti gli altri reperti. Paolo Leonini
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n otiz iario
SCAVI Vulci
ECHI D’EGITTO
L
a fortuna degli Egizi in Etruria ha trovato una nuova conferma nel recente ritrovamento della tomba 64 nella necropoli di Poggetto Mengarelli a Vulci. L’affascinante argomento è peraltro oggetto della mostra «Egizi e Etruschi. Dalla collezione Berman allo scarabeo dorato» (vedi «Archeo n. 388, giugno 2017), visitabile sino al prossimo 30 giugno alla ex Centrale Montemartini dei Musei Capitolini di Roma. La recente ripresa degli scavi vulcenti si è dunque aperta con l’importante scoperta di una tomba posta a pochi metri da quella dello Scarabeo Dorato (vedi «Archeo» n. 373, marzo 2016). Si tratta di una sepoltura a fossa semplice situata sul lato ovest dell’area di scavo,
proprio ai margini del settore di necropoli indagato. Rinvenuto privo di copertura, forse asportata dai lavori agricoli, il contesto – seppur in pessimo stato di conservazione – non sembrerebbe aver subito violazioni (perlomeno recenti). Al centro della fossa sono deposti gli scarsi resti ossei di un individuo inumato con orientamento E-O, il cui corredo A sinistra: Vulci, necropoli di Poggetto Mengarelli. La tomba 64 in corso di scavo. Il sepolcro è databile agli inizi del VII sec. a.C. Cerchiato in bianco è lo scarabeo di produzione egizia rinvenuto al centro del petto dell’individuo defunto (di sesso femminile), del quale, in alto, viene proposta l’immagine dopo la pulitura.
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permette di definire un genere femminile. Sotto al cranio è stata rinvenuta una collana composta da anellini in bronzo, mentre sulle due braccia erano ancora in situ due bracciali a spirale in bronzo. Al centro del petto, oltre a un vago di collana in pasta vitrea e frammenti di altri anellini, è stato messo in luce uno scarabeo in pietra verde con montatura in bronzo. La forma e le dimensioni del castone sono praticamente identiche a quello di uno dei due scarabei rinvenuti nella Tomba dello Scarabeo Dorato; varia solo nel materiale, che in quest’ultima è argento rivestito da una foglia d’oro. Solo dopo il restauro si potrà leggerne i segni incisi su un lato, al momento solo percepibili. Il corredo vascolare, molto limitato, era deposto appena sopra il cranio. È composto da una grande olla in impasto e da una ciotola monoansata. Poco piú a est, all’interno di un avvallamento nel banco naturale dovuto al cedimento della roccia, sono emersi altri reperti e frammenti in ceramica pertinenti ad altre piccole forme potorie. La tomba è databile agli inizi del VII secolo a.C. Gli scavi attualmente in corso nella necropoli di Poggetto Mengarelli si svolgono grazie al contributo dell’Amministrazione Comunale di Montalto di Castro, sotto il coordinamento scientifico di Simona Carosi della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale e dello scrivente con la collaborazione di Carlo Regoli di Fondazione Vulci. Carlo Casi
ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
ATLANTE VERDE LE PITTURE CON GIARDINO SVELANO QUALI PIANTE E SPECIE DI UCCELLI VIVESSERO NELL’ANTICA POMPEI
«S
i hortum in bibliotheca habes, deerit nihil» («Se presso la biblioteca ci sarà un giardino, nulla ci mancherà»): cosí Cicerone, in una delle sue lettere, auspicava per ogni studioso la possibilità di far riposare i propri occhi sul verde di un giardino allestito accanto alla biblioteca, quasi in una magica alternanza fra «cultura» e «coltura». Grazie alle rappresentazioni pittoriche pompeiane di lussureggianti e dettagliati «giardini di meditazione» (gli horti picti) – fra cui spiccano quelli delle case del Bracciale d’Oro, del Frutteto e dei Cubicoli Floreali – è possibile, all’occhio attento del moderno botanico od ornitologo, identificare molte delle tinteggianti piante e degli uccelli svolazzanti raffigurati sulle pareti. L’illusionistico spazio
In questa pagina: particolari delle pitture murali nella Casa del Frutteto raffiguranti un ciliegio (a destra) e alcuni limoni. La diffusione dei secondi veniva fino a poco tempo fa attribuita agli Arabi, mentre, oltre a simili documenti iconografici, sono state trovate prove della sua coltivazione nell’area vesuviana già in epoca romana.
naturale dipinto proiettava l’osservatore in un verde immersivo, contraddistinto dalla presenza di elementi di arredo, erme e mascheroni, ma, soprattutto, di specie botaniche e ornitologiche che si ritrovavano a Pompei in stagioni diverse dell’anno, e che difficilmente avrebbero potuto coesistere tutte insieme in un giardino reale. In particolare, lo studio delle piante
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dipinte ha dimostrato che queste possono considerarsi come veri e propri cataloghi botanici utili alla ricostruzione dell’antico habitat naturale: nel giardino pompeiano sono stati infatti riconosciuti oltre un centinaio di tipi vegetali documentati anche attraverso pollini, legni e semi recuperati durante gli scavi sugli antichi piani di calpestio degli spazi verdi urbani, e poi identificati in laboratorio.
PER UNA STORIA BOTANICA Le difficoltà che si incontrano nel riconoscere specie e varietà descritte in letteratura, su tutti Plinio il Vecchio con la Naturalis Historia, rendono particolarmente utili gli affreschi per ricostruire la storia botanica. Intersecando cosí letteratura, pittura e resti vegetali si ottiene una documentazione straordinaria, unica nel suo genere, che fa luce sull’ambiente pompeiano e vesuviano prima del 79 d.C. Grazie a tutte le informazioni si possono infatti verificare sia le specie spontanee che quelle introdotte dall’esterno. Le prime sono le piú rappresentate e spesso mescolate fra loro negli affreschi, come avviene nel tipico ambiente mediterraneo: fra le piante autoctone vanno annoverate, per esempio, le margherite di campo (compositae), le pervinche, l’edera, le felci, le violette, il papavero sonnifero; fra le arbustive frequenti sono il corbezzolo, l’alloro, il
viburno; fra le arboree fruttifere si riconoscono invece il fico, il pero, il melo, il susino, attestate in varietà perlopiú soppiantate da quelle attuali selezionate, certamente piú belle e produttive, ma dai sapori meno genuini. Accanto alle spontanee troviamo le specie esotiche, introdotte in tempi antichi spesso per scopi medicinali e in seguito ampiamente diffuse in Italia: come il pesco dalla Persia, l’albicocco dall’Armenia, il melograno dalla Magna Grecia, il ciliegio dal Mar Nero (da cui deriverà una pregiata produzione campana, avvicinabile al moderno «durone») e il limone, quest’ultimo ritenuto fino a poco tempo fa un’importazione araba, ma in realtà già coltivato in età romana nell’area vesuviana; oppure ancora il cocco, secondo un luogo comune arrivato nel Cinquecento dalle Americhe, il cui frutto è però raffigurato su un affresco e le foglie usate a Pompei come fibra tessile. La palma da datteri, frequente nelle scene nilotiche insieme al fior di loto, compare talvolta come simbolo connesso ai trionfi; in alcune case pompeiane sono stati trovati datteri carbonizzati da piante forse usate solo a fini ornamentali.
COME NATURE MORTE Le specie importate e ben acclimatate, tanto da permettere di avviare subito un’importante produzione locale, venivano raffigurate isolate per evidenziarne In alto: pittura raffigurante un fico nella Casa del Frutteto. A sinistra: il giardino della Casa degli Amorini Dorati.
la preziosità, oppure insieme a quelle spontanee per crearne composizioni d’effetto, sulla falsariga di quello che ritornerà nella pittura del Seicento con le «nature morte». Le pitture con giardini forniscono, inoltre, informazioni su varietà selezionate per la loro bellezza e valore ornamentale, come nel caso dell’edera variegata e le rose a piú petali, alterata da quella spontanea che ne aveva soltanto cinque. Come ebbe a sottolineare Annamaria Ciarallo, rimpianta studiosa del verde pompeiano, un ultimo aspetto singolare dell’antica città è costituito dalla vegetazione che oggi cresce nell’area archeologica, e che, da oltre 250 anni protetta in quanto proprietà demaniale, è divenuta rifugio di tutte quelle specie spontanee vesuviane o ben adattate a questo ambiente che col tempo sono state scacciate dal territorio per via dell’urbanizzazione selvaggia. Per notizie e aggiornamenti su Pompei, pagina Facebook Pompeii-Parco Archeologico.
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n otiz iario
SCAVI Emilia-Romagna
LA LUNGA VITA DI UN MUNICIPIO
R
ecenti scavi condotti in due settori dell’antica Claterna, ubicata nella frazione Maggio di Ozzano dell’Emilia (Bologna), hanno portato a rinvenimenti che gettano nuova luce sulla storia della città, imprimendo una svolta alla ricerca archeologica e al progetto di valorizzazione del municipio romano. Le indagini hanno interessato la cosiddetta Domus del Fabbro e l’area centrale di quello che doveva essere il settore pubblico della città. «Lo scavo dell’unità abitativa ha rivelato un’altra importante serie di ambienti – spiega Renata Curina, direttore dell’area archeologica di Claterna per la Soprintendenza ABAP di Bologna – che si sviluppavano verso nord,
probabilmente attorno a un cortile. Nella parte est della nuova area di scavo è venuto alla luce quello che sembrerebbe essere una sorta di piccolo settore termale privato pertinente alla domus: è stato infatti individuato un vano con suspensurae, i tipici mattoni circolari in genere associati agli ipocausti dei calidari termali. Tra il materiale di crollo sono stati trovati frammenti di un mosaico, che forse decorava il pavimento soprastante. La possibilità di scavare in profondità ha rivelato una stratigrafia che attesta le fasi di vita della domus durante un lunghissimo periodo di tempo: si sono trovate strutture murarie e pavimenti in terra battuta databili al V-VI secolo, cioè coevi alle ultime
In alto: mosaico policromo con motivi vegetali e piccoli animali, dagli scavi di Claterna (Maggio di Ozzano dell’Emilia, Bologna). I sec. a.C.
In basso: foto zenitale di uno degli ambienti della Domus del Fabbro, esplorata nel corso delle recenti indagini condotte a Claterna.
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fasi di rioccupazione: sappiamo infatti che, dopo l’abbandono della casa, qui si stabilirono artigiani che lavoravano il ferro (da cui la denominazione di «Domus del Fabbro»), dei quali abbiamo ritrovato l’officina e gli ambienti in cui risiedevano con le famiglie. Nell’area pubblica è stato indagato un settore del teatro romano, mettendo in luce le fondazioni e parte degli alzati della cavea: blocchi di pietra arenaria, connessi a formare possenti muri dall’andamento circolare, sostenevano la summa cavea, cioè le gradinate del settore piú alto su cui sedevano gli spettatori. Piú a nord, altre tracce suggeriscono che la parte inferiore delle gradinate (ima cavea) e l’orchestra possano trovarsi a una quota sensibilmente inferiore rispetto al piano di campagna coevo. Dalla datazione dei materiali raccolti (monete e ceramiche) e dai resti della decorazione architettonica si pensa che la costruzione del teatro possa risalire alla prima età imperiale. Le indagini sono state condotte dall’Associazione culturale «Centro Studi Claterna», sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara, e in collaborazione con le Università di Trieste, Udine e Venezia. Gli scavi sono stati effettuati grazie al finanziamento di CRIF Spa, con il contributo di IMA spa, che da sempre sostiene e incoraggia la valorizzazione del sito. Giampiero Galasso
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SCAVI Friuli-Venezia Giulia
CIVIDALE AL TEMPO DEL DUCATO
I
ndagini di archeologia preventiva condotte in piazza san Giovanni Xenodochio, a Cividale del Friuli (Udine), hanno fornito nuovi dati sulle fasi di trasformazione, tra l’epoca tardo-romana e l’età longobarda, del municipium di fondazione cesariana di Forum Iulii nella città sede del primo ducato longobardo d’Italia. «A soli 20 cm dal piano stradale – spiega Angela Borzacconi, funzionario archeologo e direttore del cantiere di scavo – sono emersi resti murari edificati a copertura di un sepolcreto di età longobarda. Le tombe indagate accoglievano le spoglie di individui sepolti con corredi funerari ridotti, costituiti da coltellini in ferro e pettini in osso, estremamente ricorrenti tra le deposizioni intramurarie riconducibili alla popolazione che risiedeva in città tra il VI e il VII secolo. Il cimitero era stato ricavato sopra un’area abitativa abbandonata di poco precedente con focolari, apprestamenti lignei e riadattamenti di strutture murarie preesistenti. Queste ultime sembrebbero riferibili a un edificio del quale sono stati scavati sette vani, indagati solo parzialmente in quanto sviluppati oltre i limiti dell’area di scavo. Si tratta di una costruzione di
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A destra: Cividale del Friuli. Il cantiere di scavo in piazza S. Giovanni Xenodochio. In basso: due delle tombe di epoca longobarda scoperte nel corso delle indagini.
dimensioni considerevoli, compatibile con una connotazione pubblica dell’area, verosimilmente fondata nel IV secolo, in relazione alla monumentalizzazione della città a cui si mise mano in epoca tardo-antica. Oggetto di numerose rielaborazioni – che sembrano succedersi per oltre due secoli (con l’inserimento di numerosi focolari, pavimenti in cocciopesto e sistemazioni in battuto o in laterizi che suggeriscono l’utilizzo funzionale della struttura) –, l’edificio venne progressivamente abbandonato a partire dal VI secolo, quando la destinazione funeraria si fece via via prevalente. In età longobarda quest’area rientrava nei possedimenti fiscali della corte regia, ove, alla fine del VII secolo, il duca Rodoaldo fondò uno xenodochio, ovvero una struttura di accoglienza eretta presso la chiesa di S. Giovanni – da cui prese il nome – per offrire ospitalità e assistenza ai pellegrini. La scoperta di un grande edificio
verosimilmente pubblico in un’area che anche nella successiva età longobarda confluí nei possedimenti fiscali della corte regia costituisce un elemento di conoscenza importante a sottolineare una continuità di luoghi ed edifici pubblici con l’età tardo-romana. Benché le strutture dello xenodochio non siano state individuate, confermandone la possibile ubicazione accanto all’edificio di culto e immediatamente a ridosso del lato orientale delle mura urbane, le testimonianze rinvenute rivelano un significativo palinsesto che racconta le trasformazioni del paesaggio urbano in questa fascia marginale, ma estremamente nevralgica della città». Gli scavi sono stati condotti dalla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio del Friuli Venezia Giulia con fondi del Comune e del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. G. G.
A TUTTO CAMPO Andrea Zifferero
MEGLIO UN COLOSSEO OGGI... ...O TANTI PICCOLI MUSEI DOMANI? QUALCHE RIFLESSIONE SULL’INCREMENTO DELLE PRESENZE FATTO REGISTRARE NEL 2017 DAI LUOGHI DI INTERESSE ARCHEOLOGICO E ARTISTICO DEL NOSTRO PAESE
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dati sui visitatori dei musei italiani nel 2017, raccolti dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo e recentemente diffusi, hanno fatto emergere il deciso incremento delle presenze, calcolato in 50 milioni di biglietti staccati tra musei, monumenti e aree archeologiche gestite dallo Stato. La tendenza a un rialzo rispetto al 2016 (circa 45,5 milioni di biglietti emessi, nei quali già spiccavano le aree archeologiche piú importanti e i musei dello Stato a gestione autonoma) si era prefigurata al volgere del primo semestre e aveva attirato numerosi commenti nei media di settore, ma anche sulla stampa e nei programmi televisivi. In breve, ecco una sintesi delle cifre: i cinque siti piú visitati nel 2017 sono il Colosseo a Roma, con poco piú di 7 milioni di ingressi, il Parco Archeologico di Pompei, con 3,4 milioni di ingressi, le Gallerie degli Uffizi a Firenze, comprendenti vari complessi museali, tra i quali Palazzo Pitti, con 2,2 milioni di ingressi, la Galleria dell’Accademia, sempre a Firenze, con 1,6 milioni di visitatori, e infine Castel Sant’Angelo, a Roma, con 1,1 milioni di ingressi. Oltre i primi cinque, collocati tra Roma e Firenze, spiccano i siti della
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ma anche in trasmissioni televisive che in passato, complice il diverso orientamento dei governi italiani degli ultimi vent’anni in fatto di importanza conferita alla cultura quale volano per l’economia, avevano sottolineato sempre con parsimonia il ruolo strategico del patrimonio archeologico per lo sviluppo del Paese.
QUALE TUTELA?
Campania, tra cui la Reggia di Caserta, Ercolano, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli e il Parco Archeologico di Paestum. Emerge con prepotenza il successo delle aree e dei parchi archeologici, in quanto almeno un terzo di tutti i visitatori si è distribuito tra il Colosseo e i Fori, il Parco Archeologico di Ostia, Pompei, Ercolano e Paestum. Gli annunci del mese di gennaio hanno riscosso e sollecitato l’attenzione di lettori e spettatori, con ripetuti contributi a tema archeologico su quotidiani e riviste,
Fin qui niente da dire, se non che finalmente (!) si parla quasi ogni giorno di beni culturali in termini di risorsa strutturale e ineludibile per l’Italia. Questa informazione è comunque trainata dalle polemiche sulla diminuzione dell’esercizio della tutela (intesa come vigilanza sullo stato di salute e sulla conservazione del patrimonio) da parte dello Stato per l’uso spinto (altro termine non mi viene in mente) dei monumenti, di volta in volta concessi quali scenari per spettacoli teatrali o concerti, ma anche per eventi distanti o comunque estranei al profilo originale dell’edificio, come quinte scenografiche per matrimoni di lusso o sfilate di moda. In realtà, chi lavora nel settore dei beni culturali sa bene che la polemica non è di oggi, ma si è via via acuita con l’accorpamento,
stabilito nel 2016, degli uffici periferici del Ministero, cioè le Soprintendenze, in organismi che si occupano in modo olistico di beni archeologici, architettonici e artistici (i cui effetti si iniziano a percepire e tra breve potranno essere valutati dati alla mano) e con il distacco tra Soprintendenze Archeologiche e Musei Nazionali (in sostanza, tra controllo archeologico del territorio e gestione dei musei e delle aree archeologiche), avvenuto attraverso la creazione dei Poli Museali su base regionale, a cui va aggiunta l’autonomia amministrativa concessa ad alcuni musei di rilevanza nazionale, passati sotto il controllo diretto del Ministero. Insomma, siamo ancora distanti da una visione complessiva che consenta di emettere un giudizio sereno. Mi limito perciò ad alcune osservazioni: se il consumo culturale nel 2017 è andato molto bene nelle grandi città, i dati forniti per il patrimonio cosiddetto «minore» sono trascurabili, se non preoccupanti. Non bastano, infatti, le statistiche di segno positivo per giustificare aumenti di poche centinaia o migliaia di ingressi in provincia (prendendo, per esempio, la Villa Romana del Varignano a Portovenere in Liguria, dove i visitatori sono passati da 1489 nel 2016 ai sempre trascurabili 3470 nel 2017): i numeri bassi nascondono la necessità di ripartire con progetti integrati per sviluppare reti di valorizzazione sui siti e sui musei minori, anche in funzione di una distribuzione piú sostenibile della pressione turistica sulle città d’arte. Sette milioni di visitatori al Colosseo rappresentano infatti una concentrazione di numeri pericolosa (nel senso della tutela e del decoro del monumento, messo oltretutto a dura prova dall’aumento del traffico urbano causato dai mezzi piú pesanti e
A destra: Roma, Castel Sant’Angelo. Nel 2017 il monumento è stato visitato da oltre 1 milione di persone. Nella pagina accanto: la copertina del volume satirico di Massimiliano Francia, edito da Espera nel 2008 e dedicato ai luoghi comuni sul turismo di massa a Roma.
inquinanti come i pullman turistici), che nasconde un turismo mordi e fuggi e una sempre piú evidente tendenza al consumo di massa delle opere (vogliamo ricordare la fila per ritrarsi con la Gioconda di Leonardo al Louvre, ignorando gli altri capolavori del Rinascimento italiano?), conseguenza di una visione iconica e spezzettata della cultura e simbolo di un’epoca superficiale e narcisista, come da piú parti è stata definita l’età contemporanea.
SCOPRIRE IL CONTESTO Nelle città d’arte questa tendenza si combatte solo demassificando il bene culturale e tornando a una fruizione di contesto, che riconduca il visitatore alla scoperta lenta e progressiva del monumento all’interno del tessuto urbano nel quale è collocato e della sua ragione storica d’essere in una compagine civile fatta di strade, quartieri e spazi pubblici e privati, che può essersi modificata piú volte
nel corso del tempo. Solo con la fruizione del contesto (anche delle aree archeologiche) si arriverà a costruire progetti che restituiranno il respiro e gli spazi essenziali per far vivere in modo dignitoso le città italiane, i monumenti e i cittadini che le abitano. E il patrimonio diffuso o minore? In realtà è questo il problema piú serio per il nostro Paese, ma anche la sua ricchezza, dal momento che il territorio italiano è disseminato di monumenti e di siti all’apparenza minori, adeguatamente valorizzabili con progetti d’area, che reinseriscano l’abitato protostorico, la necropoli etrusca, la villa romana o il castello medievale in una cornice storica e paesaggistica oggi non piú esistente, o visibile con difficoltà, e portino il visitatore a percepirne i valori attraverso la costruzione di una rete di fruizione che ne faccia emergere appieno i tratti distintivi. Ma di questo torneremo a parlare. (andrea.zifferero@unisi.it)
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BOLOGNA
Facce conosciute Si è aperta a Bologna, presso il Museo Civico Archeologico, la mostra «Ritratti di famiglia. Personaggi, oggetti, storie fra Bologna, l’Italia e l’Europa», che rimarrà aperta sino al prossimo 19 agosto. Al centro del progetto espositivo sono diciotto personaggi che – da Ulisse Aldrovandi a Pericle Ducati – hanno fatto la storia del museo: per ognuno di essi viene esposta un’opera simbolo di cui sono stati il collezionista, lo scopritore, il donatore o il principale studioso. Poi lo sguardo si allarga e quella singola opera viene affiancata da altre in grado di portare una luce ulteriore sulle vicende del museo e, piú in generale, sugli sviluppi dell’antiquaria e la nascita e l’affermarsi della ricerca archeologica. Nella scelta dei materiali da esporre si è cercato anche – accanto a opere note quali, per esempio, la situla della Certosa, l’Athena Lemnia di fidiaca memoria, lo specchio etrusco noto come «patera cospiana» – di proporre reperti solitamente non esposti. Tra questi ultimi si segnalano un leone scolpito in arenaria a tutto tondo proveniente da una necropoli etrusca, una mummia donata al museo da papa Benedetto XIV, gli stipi medaglieri con rarità numismatiche acquisite sempre attraverso il pontefice di origine bolognese. Alla mostra sarà dedicato un piú ampio articolo nel prossimo numero di «Archeo». Info: www.museibologna.it Giuseppe M. Della Fina
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MUSEI Lazio
ELEFANTI, CASTELLI E ALTRE STORIE...
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l 21 aprile prossimo, il Museo Archeologico del Territorio Toleriense di Colleferro (Roma) inaugura il suo nuovo allestimento. Il museo si articola in cinque principali sezioni tematiche (paleontologia, preistoria e protostoria, periodo arcaico, periodo romano, Alto Medioevo
e Medioevo) disposte su un unico piano, valorizzate da un sostanzioso apparato didattico e arricchite da numerosi plastici. Notevole risalto è stato dato alla sezione paleontologica con la ricostruzione spettacolare in scala reale di un Palaeoloxodon antiquus (elefante dalle zanne dritte).
FARNESE (VITERBO)
Lo spettacolo della natura e della storia Nella stessa sala sono esposti fossili appartenuti alla stessa specie e ad altri animali del Pleistocene medio tra cui quelli del Bos primigenius, dallo scavo del giacimento di Colle Pantanaccio. Le testimonianze della piú antica presenza umana, si riferiscono a gruppi di manufatti del Paleolitico inferiore, medio e superiore, fino al Neolitico cui appartengono quelli litici e ceramici provenienti da Colle Rampo, un importante sito sul corso del fiume Sacco. Le piú rilevanti tappe della protostoria attraversano l’età del Bronzo, con testimonianze dal territorio, fino a materiali dell’età del Ferro della In alto: testa femminile in terracotta, dalla zona di Piombinara. VI sec. a.C. Nella pagina accanto: ricostruzione in scala di un Palaeoloxodon antiquus (elefante dalle zanne dritte). In basso: una tomba a cappuccina, nella sezione romana.
cultura laziale, del I millennio a.C., da un gruppo di capanne scavate in località Coste Vicoi, ai margini dell’abitato moderno. Per le fasi arcaica e tardo-arcaica del territorio (VI-IV secolo a.C.) sono da segnalare oggetti dell’abitato dei Muracci di Crepadosso (IV chilometro): si tratta di oggetti di uso domestico e materiale votivo da un santuario dedicato a una divinità femminile. La fervente attività edilizia, conseguenza della colonizzazione romano-latina è documentata da ceramiche, icsrizioni, monete e oggetti metallici da abitati e ville rustiche la cui vitalità è accertata fino al periodo tardo-imperiale. Il passaggio tra tardo-antico e Alto Medioevo è documentato dai materiali dei cimiteri paleocristiani di S. Ilario ad Bivium e Paliano, dell’abitato di Colle Cirifalco e dai corredi della necropoli di Casa Ripi. Nella sezione medievale sono conservati, infine, i reperti rinvenuti nelle aree dei castelli del territorio, in particolare dagli scavi del Castello di Piombinara (XII-XVIII secolo) e dell’abbazia di Rossilli. (red.)
DOVE E QUANDO Museo Archeologico del Territorio Toleriense Colleferro (Roma), via degli Esplosivi,14f Orario lu-me-ve-sa, 9,00-14,00, ma-gio, 9,00-14,00 e 15,00-18,00 Info tel./fax 06 9781169; e-mail: museo@comune.colleferro.rm.it; www.comune.colleferro.rm.it; Pagina Facebook Museo Archeologico Comunale del Territorio Toleriense
Fino al prossimo 1° maggio, nel Museo Civico Ferrante Rittatore Vonwiller di Farnese (Viterbo), si può visitare la mostra «Rocce e Popoli. Trame geologiche e tracce umane nell’Alta Tuscia Occidentale»: un progetto di documentazione realizzato da Massimo Tomasini – fotografo di cui i lettori di «Archeo» e «Medioevo» hanno potuto piú volte apprezzare il talento –, che testimonia le principali emergenze naturali e antropiche in un’area caratterizzata da grande varietà e ricchezza di aspetti, dovuti a una genesi complessa e a una storia lunghissima e articolata. L’Alta Tuscia Occidentale è compresa tra la costa tirrenica e il lago di Bolsena, tra le estreme propaggini del Lazio e i primi lembi di Toscana; è solcata dal fiume Fiora e da numerosi corsi d’acqua minori, e coincide in gran parte con l’area che accoglie i siti, i percorsi e le strutture del Sistema Museale del Lago di Bolsena: comprende importanti siti archeologici e diverse riserve e aree protette di grande interesse naturalistico. Info: tel. 0761 458849; e-mail: museofarnese@virgilio.it; www.simulabo.it: pagina Facebook: Museo Ferrante Rittatore Vonwiller (red.)
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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
ECCO L’OMBELICO DEL MONDO! NEL SUO ULTIMO LIBRO, SERGIO FRAU PROPONE UNA NUOVA E RIVOLUZIONARIA TEORIA: INCROCIANDO LE FONTI ANTICHE CON LA DOCUMENTAZIONE ARCHEOLOGICA E LE OSSERVAZIONI GEOGRAFICHE, LO SCRITTORE E GIORNALISTA SI DICE CERTO D’AVER INDIVIDUATO L’ISOLA DI ATLANTE...
A
nche questa volta ha sorpreso tutti. Sergio Frau, giornalista, scrittore e instancabile appassionato di archeologia, a lungo inviato per la cultura de La Repubblica, di cui è stato tra i fondatori, prosegue la sua inchiesta sulla Sardegna nuragica con un nuovo volume, Omphalos.
Il Primo Centro del Mondo (Nur Neon, 2017) e con una mostra presso la Società Geografica Italiana, a Roma, «Omphalos. La Sardegna di Atlante, Primo Centro del Mondo». Dopo aver fatto saltare sulla sedia gran parte del mondo scientifico con ipotesi tanto provocatorie quanto In alto: Sergio Frau presso uno dei menhir di Sorgono. A sinistra: particolare dell’allineamento di menhir in località Biru ‘e Concas, nel territorio del Comune di Sorgono (Nuoro). I megaliti sono databili al III mill. a.C. Nella pagina accanto: carta di distribuzione delle tombe di giganti a oggi note in Sardegna.
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suggestive e dopo aver «spostato» le Colonne d’Ercole dallo Stretto di Gibilterra al Canale di Sicilia con un’intuizione rivoluzionaria – che ha fatto discutere, ma ha ricevuto il plauso di studiosi dell’UNESCO, dell’Accademia dei Lincei e di illustri archeologi – Frau ha battuto l’entroterra sardo, documentando con fotografie aeree inedite un centinaio di nuraghi sepolti (vedi «Archeo» n. 367, settembre 2015). Infine, arriva ora a ipotizzare la Sardegna come Ombelico del Mondo, una Delfi prima di Delfi. E lo fa offrendo spunti sorprendenti che, se ad alcuni possono sembrare curiosi o «fantarcheologici», sono tuttavia corroborati da una tale quantità di studi, ricerche e argomentazioni interessanti che, fosse anche solo per la mole dei dati raccolti, meritano di essere approfonditi. Per farlo, abbiamo dunque incontrato Sergio Frau, che troviamo – come sempre – assorto nella lettura dei classici latini e greci oppure intento a spulciare carte e mappe antiche. Già Le Colonne d’Ercole. Un’inchiesta (Nur Neon, 2002), superava le 700 pagine: l’ultima «fatica», Omphalos. Il Primo Centro del Mondo, raggiunge addirittura le 1252 pagine… «Beh, diciamo che, tra “lascia o raddoppia”, ho scelto di raddoppiare! – risponde il giornalista con la consueta ironia. Questo libro è un “verbalone”. Non sono il primo a dire che Atlante è al centro del mondo, ma lo raccontano ben quindici autori classici. Semplicemente, sono il primo che sia andato a verificare. Eschilo, per esempio, nel Prometeo Incatenato, fa disperare il protagonista, che esclama “sono affranto per le disgrazie capitate a mio fratello Atlante in Occidente, al
centro del mondo”. E non è l’unico. Da Omero fino a Diodoro Siculo, oltre una dozzina di fonti antiche colloca Atlante al centro del mondo, a reggere il cielo». E l’isola di Atlante sarebbe la Sardegna, nelle sue ipotesi? «Sí. Dal momento che sulle Colonne d’Ercole mi hanno dato ragione studiosi come Andrea Carandini, Luciano Canfora, Azedine Beschaouch o Sergio Donadoni, anche il racconto di Platone, uno dei quindici autori che parlano di Atlante, diventa realistico: il filosofo dice che 9000 anni prima di lui, uscendo dalle Colonne d’Ercole, si arrivava a una grande isola, da cui si raggiungevano altre isole e la terra che tutto circonda… Secondo i miei
calcoli, si tratta di 9000 mesi/lune, all’egiziana, e si riferisce al XII secolo a.C., quando le fonti egizie parlano degli Shardana all’attacco di Ramesse II e, poco dopo, di una straziante migrazione, nel 1175 a.C., con carri e bambini… È il periodo in cui inizia il cosiddetto Medioevo ellenico: tutti i popoli si allontanano dalle coste e, per tre-quattro secoli, non si vede nessuno in mare, fino ai Fenici, nel IX secolo a.C.». A suo avviso, quindi, gli Shardana sarebbero i Sardi di epoca nuragica, fuggiti da un’isola colpita da cataclismi e declino… «Come ho documentato nella mostra allestita presso la Società Geografica Italiana – oltre che nell’aeroporto di Cagliari-Elmas –, le rilevazioni fotografiche effettuate con il drone da Ettore Tronci provano che una sorta di maremoto deve avere colpito l’isola intorno al XII secolo a.C. Lo citano anche gli antichi: Omero parla di “schiaffo di Poseidone” e Platone dice che, in un giorno e in una notte, Zeus, per rendere migliori gli abitanti dell’isola che si erano insuperbiti, li colpí con un cataclisma marino». E qual è, secondo le sue ricerche, la prova del maremoto che avrebbe colpito la Sardegna alla fine del II millennio a.C.? «Sono i 100 nuraghe sepolti che si trovano nel Medio Campidano, la provincia che attraversa la Sardegna da sud fino a Oristano: tutti conservano la traccia del fango lasciato dal maremoto. Seguendo il racconto di Platone, usciti dalle Colonne d’Ercole del Canale di Sicilia, troviamo l’Isola di Atlante: la Sardegna, in epoca nuragica, ne ha tutte le caratteristiche: grande, con “i vecchi piú vecchi, le eterne primavere, la pianura piú bella del mondo, con vene d’argento, che governava sulla Tirrenía”. Dopo la prova del maremoto, mi mancava
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PAROLA D’ARCHEOLOGO un tassello: l’Isola di Atlante al centro del mondo». Quindi la Sardegna come omphalos, ombelico del mondo. Come è arrivato a questa sorprendente conclusione? «Ho letto un libro di Giorgio De Santillana e Hertha von Dechend, Il mulino di Amleto (Adelphi, 1983), in cui si narra la storia di questo Mulino Cosmico, che ordinava il tempo e lo spazio del primo mondo e che finisce in mare a macinare sabbia, corpi e sale. Una storia troppo simile a quella che le fonti antiche raccontano per l’isola di Atlante. Per cui mi è venuto un dubbio: vuoi vedere che anche la Sardegna è al centro del mondo? Sono andato a misurare, prima con le dita, poi con il righello e poi con un architetto amico. E sa cosa ho scoperto? Che il centro della Sardegna è perfettamente equidistante dalle coste pacifiche del Giappone e dalle coste pacifiche degli Stati Uniti: 11 350 km da una parte, 11 359 dall’altra. Il 40° parallelo, su cui ho preso le misurazioni, taglia a metà la Sardegna. Non solo. Sullo stesso parallelo – definito la Linea degli Olimpi – si trovano l’Olimpo, la capitale degli Ittiti – Hattusa – e l’intera Via della Seta. A est c’è Pechino e, a ovest ,Toledo, l’omphalos di Spagna. Il Centro del Mondo, per tutto il Novecento, è stato sempre immaginato come un archetipo nato dall’inconscio collettivo. E se invece fosse il ricordo di un prototipo? Cioè qualcosa di realmente esistito? A mio avviso, è la memoria di un prototipo degli inizi, che era la Sardegna». Non le sembra troppo azzardata, questa ipotesi «sardo-centrica»? «Questa volta parla la geometria. E non mancano le testimonianze (le fonti antiche), né gli indizi che si rintracciano in tutto il mondo (dalla Collina Primordiale degli Egizi, alla Montagna Cosmica che
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ATLANTIDE & ATLANTE
La strana coppia
Nella mitologia greca, c’è un Gigante che – secondo Sergio Frau – va riabilitato: «Bisognerebbe chiedere scusa ad Atlante per averlo sbeffeggiato per 22 secoli: da quando, cioè, Eratostene di Cirene traslocò dal Canale di Sicilia a Gibilterra le prime Colonne d’Ercole, espellendo nell’Oceano Atlantico di oggi i racconti occidentali di Omero e altri autori, rendendoli fiabeschi, incredibili. Scomparve davvero, allora, l’Isola di Atlante. E nacque cosí Atlantide, l’Isola delle Mille Fantasticherie…». Eppure, insieme alle testimonianze degli antichi, – c’è – secondo Frau – un reperto importante, che proverebbe l’antico ruolo cosmologico del gigante: è l’Atlante Farnese, copia romana di un bronzo ellenistico, che, però, sostiene sulle sue spalle una sfera celeste che deve aver richiesto millenni per essere composta cosí, con tutti i segni zodiacali al posto giusto, intorno a una Terra già sferica chissà da quanto...
esce dall’Abisso, al Loto che galleggia sull’acqua in tutto l’Oriente). Diodoro Siculo, per esempio, dice che Atlante conosceva i segreti della sfera, che trasferisce a Ercole e ai Greci. C’è un centro che sparisce – a mio avviso la Sardegna nuragica – intorno al 1200 a.C., e lascia un po’ ovunque il rimpianto di quel mondo circondato dall’acqua». Dunque la Sardegna nuragica come centro primigenio del mondo: ha trovato riscontri archeologici a questa sua idea? «Sí. Sul 40° parallelo. Proprio al centro di questo centro del mondo – nel cuore dell’isola – c’è un paese nel cui territorio si contano ben 200 menhir, databili al III millennio a.C.: si chiama Sorgono, in provincia di Nuoro. Qui, addensati attorno alla zona dei menhir, ci sono centinaia di «Tombe dei Giganti»: 700 sepolture megalitiche. Si tratta, forse, della piú grande necropoli megalitica esistente, un fenomeno che non si trova da nessun’altra In alto: Pauli Arbarei (Medio Campidano). Il nuraghe Bruncu Mannu, a 200 m di quota. A sinistra: Sorgono. Il rosone della chiesa cinquecentesca di S. Mauro. parte. Inoltre, a Sorgono, c’è una chiesa del Cinquecento, con la facciata rivolta verso i menhir (quindi non a oriente), che ha il rosone piú grande di tutta la Sardegna. Che cosa significa? Mostra, secondo me, la grande attenzione verso un luogo che dev’essere stato sacro, prima che la ricchissima Sardegna del II millennio a.C. diventasse, a causa di un cataclisma, una terra pestilente di abbandono, spopolamento e malaria». E dove sarebbero andati, a suo avviso, gli abitanti della Sardegna nuragica, dopo questo cataclisma? «Nel XII secolo a.C. finisce la Sardegna dei 20mila nuraghi,
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PAROLA D’ARCHEOLOGO A sinistra: Barumini (Medio Campidano), Su Nuraxi. Sulle due pagine: sarcofago etrusco: il defunto regge una patera ombelicata. In basso, a sinistra: Ussaramanna (Medio Campidano), il nuraghe Santa Barbara.
abitata da circa un milione e mezzo di persone. E, sopra Bologna, troviamo un popolo di profughi, ovvero i Villanoviani dell’XI secolo a.C., che bruciano i loro morti e ne conservano le ceneri in urne come quelle usate in Sardegna per tenere i metalli». Gli Etruschi, quindi, sarebbero i discendenti dei Sardi che abbandonarono l’isola intorno al 1200 a.C.? «Secondo me sí. Troviamo un popolo del mare come gli Etruschi nei posti piú distanti dal mare: Perugia, Orte, Orvieto, Arezzo, Volterra, Cortona, Chiusi, e poi fino sulle Alpi, dove c’è il salgemma
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(Hallein, Hallstatt e Salisburgo in Austria), mentre il mare lo troviamo solo dipinto nelle tombe». Il mare come paura, ma anche ricordo dei tempi d’oro? «Pensiamo solo al fatto che, nel mondo etrusco, tutti i defunti pagano un obolo a Caronte per essere trasportati in questo aldilà marino. Come si vede chiaramente nella mappa pubblicata nel mio ultimo libro, tutta l’Italia è puntellata di oboli tranne la Sardegna. Non è stato mai trovato un obolo di Caronte sull’isola. Nessuno paga per uscire dalla Sardegna… perché si trova già al centro del mondo!».
Che cosa dicono gli autori antichi e i dati archeologici sull’eventuale provenienza «sarda» degli Etruschi? «C’è una testimonianza importante di Plutarco, il quale, nella Vita di Romolo, scrive: “A Roma per celebrare la vittoria su Veio si vendevano degli schiavi sardi (…) perché Veio era città etrusca e si sa che gli Etruschi sono coloni dei Sardi”. Anche Strabone afferma che in Sardegna, prima dei Fenici, c’erano i Tirreni. E, soprattutto, la metà dei bronzetti sardi conosciuti sono stati trovati in tombe etrusche. Vetulonia, per esempio, è
ricchissima di materiale archeologico sardo. Per non dire delle domus de janas (letteralmente, case delle fate), le tombe sarde del III millennio a.C., i cui soffitti scavati nel tufo sono identici a quelli delle tombe etrusche, ma sono di due millenni piú antiche. Anche la patera ombelicata, che in molti sarcofagi etruschi il defunto stringe tra le mani, secondo me è il simbolo dell’omphalos, il ricordo della patria perduta: la Sardegna. Un altro indizio, il piatto con Prometeo, Atlante e al centro il pilastro di Delfi».
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n otiz iario
MOSTRE Milano
COSTRUIRE CON IL CUSCUS
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i inaugura in questi giorni a Milano, presso la Galleria d’Arte Moderna, «Una Tempesta dal Paradiso: Arte Contemporanea del Medio Oriente e Nord Africa», mostra che porta a compimento la Guggenheim UBS MAP Global Art Initiative e che propone le opere di tredici artisti, invitati a esplorare i temi interconnessi della migrazione, della dislocazione, dell’architettura, della geometria e della storia, grazie a strumenti tra cui lavori su carta, installazioni, fotografia, scultura e video. A motivare la segnalazione della rassegna in queste pagine è, in particolare, l’installazione realizzata dall’artista francese Kader Attia, Untitled (Ghardaïa) [Senza titolo (Ghardaïa)]. L’opera è infatti dedicata alla città algerina che viene considerata come capitale della valle dello M’Zab, i cui siti storici sono stati dichiarati Patrimonio dell’Umanità UNESCO nel 1982. Servendosi di farina di cuscus, uno dei principali prodotti culinari della regione, Attia ha dunque realizzato un modello in scala dell’insediamento, fondato
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A destra: Untitled (Ghardaïa) [Senza titolo (Ghardaïa)], l’installazione di Kader Attia che propone un modello in scala della città algerina nello M’Zab. In basso: una veduta di Ghardaïa, città fondata nel 1048.
nel 1048 e le cui architetture, in passato, servirono di ispirazione, fra gli altri, a Le Corbusier. A Ghardaïa sono tuttora ben conservate le mura che cingono l’abitato, e, tra i monumenti di maggiore rilievo vi sono i mausolei Ammi-Saïd El-Jerbi e Baba-Ouljemma. Particolarmente interessanti sono anche i sistemi messi a punto per l’approvvigionamento idrico, affidato a pozzi ai quali viene assicurata una manutenzione costante da parte della tribú
berbera dei Beni Mzab, che qui ha il suo capoluogo. Stefano Mammini
DOVE E QUANDO «Una Tempesta dal Paradiso» Milano, Galleria d’Arte Moderna (GAM) fino al 17 giugno (dall’11 aprile) Orario ma-do, 9,00-17,30; chiuso il lunedí e il 1° maggio Info tel. 02 88445943; www.gam-milano.com
n otiz iario
ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
TESORI IN VETRINA Nel 2016 la Grecia ha festeggiato i 150 anni della costruzione del Museo Archeologico di Atene, una delle piú importanti raccolte di antichità del mondo e sicuramente primo custode della memoria di noi «mediterranei» e dunque dell’intera civiltà occidentale. Tra le iniziative che hanno accompagnato la ricorrenza, vi è stata anche quella realizzata dalle Poste elleniche in occasione della mostra «Odissee», dedicata al mito di Ulisse e presentata all’interno del museo (vedi «Archeo» n. 381, novembre 2016): sono stati emessi 6 splendidi foglietti, che raffigurano altrettanti tesori della collezione ateniese. Prima di descriverli, è però opportuno ricordare che, già nel 2009, lo stesso Museo era stato ricordato con un altro francobollo, che celebrava i 180 anni dalla sua costituzione, avvenuta nel 1829; ne è prova la cartolina maximum, cioè una cartolina d’epoca con il francobollo del 2009, che raffigura il Museo e con l’annullo in tema (1). E ora i 6 foglietti. 2. Il bacio Frammento di una kylix a figure rosse, proveniente dal riempimento sull’ Acropoli di Atene e databile verso la fine del VI secolo a.C. 3. L’Ulisse di Anticitera Statua di marmo di Paro dal naufragio di Anticitera (prima metà del I secolo a.C.) raffigurante Ulisse. 4. Il Diadumeno La statua del Diadumeno di Delo, datata intorno al 100 a.C. e raffigurante un giovane atleta considerato vittorioso. Si tratta di una copia tardo-ellenistica della famosa scultura in bronzo realizzata intorno al 420 a.C. da Policleto. 5. Il Poseidone di Livadostra Statua in bronzo di Poseidone trovata nel mare a est della baia di Livadostra, in Beozia, e datata intorno al 480 a.C. Poseidone, come dio dei mari, fu principalmente adorato nelle zone del litorale. A sinistra il nome è scritto in Lineare B cosí come fu riportato sulle tavolette d’argilla dal palazzo di Pilo, datato intorno al 1200 a.C. 6. Il Giovane ateniese Lekythos attica a fondo bianco trovata a Eretria e datata al 440 a.C. circa, che raffigura la visita a una tomba. 7. La donna micenea Pittura murale da Micene, datata alla seconda metà del XIII secolo a.C., che ritrae una divinità femminile. IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
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Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure
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Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it
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LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO
L’ARTE DELLA
PREISTORIA Alla ricerca dei segni perduti di Massimo Vidale
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emplici segni schematici e grandiose teorie di animali selvaggi, strumenti poco piú che grossolani e sofisticati ornamenti, fatti con conchiglie e piume colorate… C’è tutto questo e c’è molto di piú nelle piú antiche manifestazioni estetiche della specie umana. Anche i nostri antenati vissuti in epoche ormai remote, compreso il fin troppo ingiustamente biasimato Uomo di Neandertal, seppero infatti dare vita a oggetti e rappresentazioni dietro ai quali appare evidente un pensiero capace di andare ben oltre le necessità quotidiane. È un mondo di cui noi moderni abbiamo acquisito consapevolezza solo in tempi relativamente recenti, ma della cui ricchezza e multiformità nessuno ormai dubita. Un universo di forme e colori che Massimo Vidale racconta nella nuova Monografia di «Archeo» senza limitarsi alla descrizione dei singoli contesti, ma coinvolgendoci in un vero e proprio viaggio nella mente dei primi artisti della storia, per cercare di guardare alle loro straordinarie creazioni con occhi liberi dai condizionamenti della cultura contemporanea.
GLI ARGOMENTI •P RESENTAZIONE Un mondo di segni scomparsi • I NTRODUZIONE Ragiono, dunque creo • L’ARTE PARIETALE E l’uomo si fece pittore • GROTTA CHAUVET Il serraglio delle meraviglie Montignac (Francia), Grotta di Lascaux. Raffigurazione di un bovino. Le pitture vengono datate alla cultura maddaleniana (Paleolitico Superiore), in un momento compreso fra i 17 000 e i 15 500 anni fa.
•L E TECNICHE Dare forma alle idee •V ENERI E ARTE MOBILIARE Veneri, ma non troppo
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CALENDARIO
Italia
FERRARA Ebrei, una storia italiana
ROMA Il Tesoro di Antichità
I primi mille anni Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS fino al 16.09.18
Winckelmann e il Museo Capitolino nella Roma del Settecento Musei Capitolini fino al 22.04.18
FINALE LIGURE BORGO (SV) Ad fines. 500 miglia da Roma
Egizi Etruschi
Al tempo dei Romani nel Finale Museo Archeologico del Finale fino al 03.06.18
Da Eugene Berman allo Scarabeo dorato di Vulci Centrale Montemartini fino al 30.06.18
GENOVA Dischi lunari?
Traiano
Archeoastronomia nella Liguria antica Museo di Archeologia Ligure fino al 01.04.18
Costruire l’Impero, creare l’Europa Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 16.09.18
Il Palatino e il suo giardino segreto Nel fascino degli Horti Famesiani Palatino fino al 28.10.18
Gli Orti Farnesiani in un’incisione settecentesca.
LIDO DI JESOLO Egitto. Dei, faraoni, uomini Spazio Aquileia 123 fino al 15.09.18
MILANO Milano sepolta
Dieci anni di archeologia urbana a Milano Civico Museo Archeologico fino al 13.05.18
AOSTA Pietra, carta, carbone
I frottages di stele di Ernesto Oeschger e Elisabetta Hugentobler Area Megalitica di Saint-Martin-de-Corléans fino al 06.05.18
BOLOGNA Medioevo svelato
Storie dell’Emilia-Romagna attraverso l’archeologia Museo Civico Medievale fino al 17.06.18
Ritratti di famiglia
Personaggi, oggetti, storie del Museo Civico fra Bologna, l’Italia e l’Europa Museo Civico Archeologico fino al 19.08.18 32 a r c h e o
Ricostruzione della tomba di Tutankhamon.
Testa ritratto di un principe di epoca tolemaica.
Milano in Egitto
Gli scavi di Achille Vogliano nel Fayum Civico Museo Archeologico fino al 31.05.18
MODENA Mutina Splendidissima
La città romana e la sua eredità Foro Boario fino all’08.04.18
NAPOLI Pompei@Madre
Materia Archeologica MADRE-Museo d’arte contemporanea Donnaregina fino al 24.09.18
Affresco con Venere su quadriga trainata da quattro elefanti.
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Francia
NOVI DI MODENA (MODENA) In loco ubi dicitur Vicolongo
TOURCOING Cristiani d’Oriente
L’insediamento medievale di Santo Stefano a Novi di Modena Sala EXPO del PAC, Polo Artistico Culturale fino al 25.04.18
2000 anni di storia Musée des beaux-arts Eugène Leroy fino al 16.06.18
REGGIO EMILIA On the road
Germania
La Via Emilia, 187 a.C.-2017 Palazzo dei Musei fino all’01.07.18
KARLSRUHE Gli Etruschi
ROVIGO Le mummie a Rovigo
Civiltà mondiale nell’Italia antica Badisches Landesmuseum fino al 17.06.18
Palazzo Roncale fino al 01.07.18 (dal 13.04.18)
SUTRI (VITERBO) Sutri, Vulci e i misteri di Mitra Culti orientali in Etruria Villa Savorelli fino al 13.05.18
Lussemburgo Stele lignea dipinta di epoca tolemaica.
TIVOLI (ROMA) Tivoli e la vestale Cossinia Museo della Città fino al 31.05.18
TORINO Orienti
Stele lignea dipinta di epoca tolemaica.
7000 anni di arte asiatica dal Museo delle Civiltà di Roma MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 26.08.18 (dal 20.04.18)
LUSSEMBURGO Il Luogo Celeste. Gli Etruschi e i loro dèi Il santuario federale di Orvieto Musée national d’histoire et d’art fino al 02.09.18
Svizzera BASILEA Sethi allo scanner
La ri-creazione della tomba di un faraone Antikenmuseum fino al 06.05.18
TRIESTE Nel mare dell’intimità
CHIASSO Ercolano e Pompei
VENEZIA Il mondo che non c’era
HAUTERIVE Orso
L’archeologia subacquea racconta l’Adriatico ex Pescheria, Salone degli Incanti fino all’01.05.18
L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue Palazzo Loredan fino al 30.06.18 Testa in alabastro, dallo Yemen.
VILLANOVA DI CASTENASO (BO) Villanova e Verucchio Un’antica storia comune MUV-Museo della civiltà Villanoviana fino al 10.06.18
Belgio
Scavo archeologico a Pompei, disegno su carta. 1860 circa.
Visioni di una scoperta m.a.x. museo fino al 06.05.18
Laténium, Parc et musée d’archéologie de Neuchâtel fino al 06.01.19
USA NEW YORK Regni dorati
Lusso ed eredità delle antiche Americhe The Metropolitan Museum of Art fino al 28.05.18
Mantello in lana di camelide. Cultura Paracas, 450-175 a.C.
BRUGES Mummie
Segreti dell’antico Egitto Xpo Center Bruges fino all’11.11.18 a r c h e o 33
MOSTRE • BASILEA
IL RISVEGLIO DI SETHI I LA MAGNIFICA TOMBA DI UNO DEI PIÚ IMPORTANTI FARAONI DELLA XIX DINASTIA, SCOPERTA NEL 1817 DA GIOVANNI BATTISTA BELZONI, SI PUÒ OGGI AMMIRARE... A BASILEA. NELLE SALE DELL’ANTIKENMUSEUM SONO INFATTI ESPOSTE LE FEDELI REPLICHE DEL MONUMENTO, OTTENUTE GRAZIE ALL’IMPIEGO DI TECNOLOGIE AVANZATISSIME, REALIZZATE ANCHE ALLO SCOPO DI FAVORIRNE LA CONSERVAZIONE a cura di Stefano Mammini
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l monumento funerario del faraone Sethi I (XIX dinastia, 1290-1279 a.C.) è il piú grande e il piú bello della Valle dei Re. Nel 1817, a oltre tremila anni dalla morte del sovrano, fu scoperto da Giovanni Battista Belzoni (vedi box a p. 39), che poté constatare l’eccezionale stato di conservazione delle
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pitture murali che lo decoravano. Oggi, a duecento anni da quell’impresa, la tomba si trova in condizioni assai critiche: una situazione da cui è nato il progetto congiunto a cui partecipano l’Antikenmuseum di Basilea, la Fondazione Factum di Madrid e l’Università di Basilea e che ha per obiettivo lo studio,
la conservazione e la ricostruzione di questo eccezionale bene culturale. L’esposizione ora in corso a Basilea presenta le repliche in scala di due delle stanze piú belle della tomba e del sarcofago di Sethi I. Cosí, per la prima volta, è possibile ammirare, nel suo splendore originario, il
monumento che rappresenta con ogni probabilità la testimonianza piú completa e piú significativa dell’arte, della scienza, della filosofia, della teologia, della poesia e della magia dell’antico Egitto. Già Belzoni aveva realizzato un facsimile del sepolcro, eseguendo le repliche di alcune sue parti, che furono esposte a Londra, nel 1821, presso le Egyptian Halls. L’evento suscitò grande impressione, facendo leva sull’eccitazione innescata in Europa dalla campagna napoleonica in Egitto. L’iniziativa
segnò una svolta decisiva nella passione del mondo occidentale per i faraoni e la loro civiltà e fu uno dei molti accadimenti che solleticarono l’inventiva di Thomas Cook e lo indussero a dare vita all’agenzia di viaggi con la quale offrire al grande pubblico la possibilità di recarsi in visita nel Paese del Nilo.
TURISTI D’ALTRI TEMPI Quello che all’inizio fu un fenomeno quasi pioneristico era destinato a divenire, nel XX secolo, una vera e propria industria turistica, che raggiunse la
sua massima espansione alla fine del primo decennio del XXI secolo. Le successive e convulse vicende politiche che hanno segnato la storia recente della nazione nordafr icana hanno drasticamente ridotto il numero delle presenze e anche le visite alla necropoli di Tebe si sono rarefatte, con pesanti ricadute economiche su quanti vivevano di quell’attività. Per realizzare le proprie copie, Belzoni compromise seriamente la tomba, ma non inferiori furono i danni causati dal distacco di parti del monumento,
Nella pagina accanto: la replica di una delle stanze della tomba di Sethi I in mostra all’Antikenmuseum di Basilea, realizzata grazie al progetto della Theban Necropolis Preservation Initiative. In basso: la sezione egiziana della collezione permanente del museo elvetico.
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MOSTRE • BASILEA
Necropoli di Tebe (Valle dei Re)
1 (Ramesses VII)
2 (Ramesse IV)
3
62 (Tutankhamon)
46 (Yuya e Tuya) 4 (Ramesse XI)
8 (Merneptah) 7 (Ramesse II) 5
(Ramesse VI) 9 58 56 12 (Horemheb) 57 35 10 (Amenhotep II) 48 (Amenmeses) 11 (Amenemipet) (Ramesse III) 36 (Mei-her-peri)
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(Tewosret) 14 47 (Siptah) 38 (Thutmosi I)
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30 15 (Sethi II)
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6 (Ramesse IX) 45 (Userhet) 16 (Ramesse III)
44 28 27
17 (Sethi I) 18 54 (Ramesse X)
21
60 (Hatshepsut) 20 19 (Mentu-her-khepshef)
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31 37
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Mar Mediterraneo
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ARABIA S A U D I TA ilo
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per ricavarne souvenir, e, piú tardi, dall’afflusso massiccio dei visitatori. Per questo motivo, fin dal 2009, la Theban Necropolis Preservation Initiative ha lavorato alla ridefinizione del rapporto fra turismo e conservazione, e le repliche delle stanze I e J costituiscono oggi un capitolo importante del progetto fin qui sviluppato. La speranza è che la tomba di Sethi possa nuovamente suscitare meraviglia, interesse e fascino e possa stimolare il ritorno dei visitatori in Egitto, nel segno di un turismo di tipo diverso, piú responsabile e piú sostenibile. In un’epoca in cui cresce la consa-
Valle dei Re
E G I T TO Lago Nasser
Mar Rosso
pevolezza dei rischi che gravano sul patrimonio culturale, la capacità di documentare in maniera accurata – e, ove necessario, ri-creare – gli artefatti culturali non è mai stata tanto sviluppata. L’applicazione della fotografia composita multispettrale e della scansione 3D nel campo della tutela offre opportunità
eccezionali. La Fondazione Factum ha applicato queste tecnologie sulla West Bank di Luxor, offrendo alla popolazione locale la necessaria formazione e gli strumenti. Occorreva innanzitutto dimostrare che sarebbe stato possibile documentare le superfici e i colori della tomba di Sethi I con una risoluzione tale da consentire la realizzazione di una replica fedele dell’originale. A questo scopo sono state mostrate le copie, precedentemente realizzate, delle camere funerarie di Thutmosi III e Tutankhamon. Adesso, con la replica della tomba di Sethi I, si è andati oltre, reinteA sinistra: planimetria della Necropoli tebana, con l’indicazione delle tombe piú importanti, fra cui quella di Sethi I. A destra e nella pagina accanto: due momenti della realizzazione delle repliche della tomba di Sethi I. Grazie alle tecnologie utilizzate, è stato possibile ri-creare con estrema fedeltà non soltanto le sagome dei rilievi originali, ma anche la gamma dei colori utilizzati.
grando tutti i frammenti staccati nel XIX secolo e dispersi in musei sparsi in tutto il mondo.
1821, LA PRIMA COPIA Il 16 ottobre del 1817, quando scoprí la tomba di Sethi I, Giovanni Battista Belzoni non stava certo riflettendo sui problemi della conservazione. Molti dei locali che gli avevano indicato l’ubicazione del monumento avrebbero di lí a poco scoperto che si trattava di una delle tombe piú importanti dell’area che oggi è nota come «Necropoli tebana». La gente del posto era probabilmente divertita all’idea che Belzoni
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MOSTRE • BASILEA
Sulle due pagine: ancora un particolare della replica della tomba di Sethi I, sulle cui pareti corrono scene basate sui testi dei Libri dell’Amdouat e delle Porte. Nella pagina accanto: la sezione della mostra dedicata alla storia della scoperta del monumento.
e i suoi colleghi avessero affrontato un viaggio del genere per vedere strutture sotterranee che appartenevano a un remoto passato. Il Padovano aveva una missione: era un viaggiatore e un esploratore, un uomo d’azione, ben consapevole dei benefici che avrebbe potuto ricavare da simili scoperte. E aveva bisogno di soldi per vivere. Sapeva che gli Inglesi erano interessati ad acquistare oggetti da riunire in un nuovo museo delle culture di cui si stava elaborando il progetto a Londra. Una raccolta con la quale si voleva consolidare il prestigio 38 a r c h e o
dell’impero britannico e rivelare al popolo inglese le meraviglie delle culture di altri mondi. Andava prendendo forma l’idea di quello che oggi è il British Museum.
COME UNA CORSA ALL’ORO Accomunati dall’eccitazione che accompagnava la «scoperta dell’Egitto», Francesi, Italiani, Inglesi e altri riportavano in patria casse e casse di oggetti. Se la conoscenza di quei materiali veniva affidata agli studiosi, chiamati a documentarli, si pensava che la loro conserva-
zione non potesse passare altro che attraverso la loro rimozione e la loro collocazione nei musei che si stavano formando in tutte le principali capitali europee. In un’epoca in cui il turismo di massa era ancora di là da venire, la protezione dei siti non si trovava in cima alla lista delle priorità. Per uomini come Belzoni, lo scopo era quello di trovare oggetti di valore con i quali finanziare la prossima avventura. Londra era alla ricerca di testimonianze dell’antico Egitto e l’esploratore italiano si trovò nel posto giusto al momento giusto.
IL GIGANTE DEL NILO Nato il 5 novembre 1778, a Padova, da un padre barbiere, Giovanni Battista Belzoni manifestò immediatamente l’insofferenza verso la professione che lo attendeva nella bottega paterna. Recatosi a Roma, studiò meccanica idraulica. Viaggiò in Francia, Olanda e, nel 1803, giunse in Inghilterra. Qui iniziò a lavorare nei circhi, dapprima organizzando giochi d’acqua, ma ben presto, data la sua enorme mole fisica, iniziò a esibirsi in prima persona, caricandosi sulle spalle una piramide umana. Nel 1815, durante una tournée a Malta, conobbe un diplomatico egiziano, al quale Belzoni propose una ruota idraulica di sua invenzione, in modo da aiutare il progetto di bonifiche, canali e dighe di Mohammed Ali. Giunto in Egitto, nonostante lo scarso successo della sua ruota, fu chiamato dal console inglese Henry Salt per recuperare il busto colossale di Ramesse II. La felice riuscita dell’impresa gli permise di ottenere una concessione di scavo e, tra il 1816 e il 1819, arricchí di preziose
opere il British Museum, rendendosi fra l’altro protagonista della scoperta del tempio di Abu Simbel. Nel 1820 rientrò a Londra e decise di scrivere una relazione dei suoi viaggi, che fu pubblicata nel 1825. Il libro ebbe grande successo in tutta Europa, inaugurando di fatto la divulgazione a livello popolare. Mai stanco di viaggiare, morí il 3 dicembre 1823, a Gwato, durante un viaggio lungo il corso del Niger. (red.)
Belzoni era un uomo possente, che aveva lavorato nei circhi e poi come rappresentante delle pompe idrauliche che avevano consentito la rimozione e il trasporto a Londra della statua colossale di Ramesse II, autorizzati da Muhammad Ali, pascià dell’Egitto, e condotti con successo da Henry Salt. L’Italiano faceva parte del gruppo di eminenti personalità che avevano seguito la campagna di Napoleone in Egitto: JeanFrançois Champollion, Bernardino Drovetti e Johann Ludwig Burckhardt. Quando penetrò nel sepolcro di Sethi I, dovette a r c h e o 39
MOSTRE • BASILEA
trovarlo in condizioni eccellenti, che però, già pochi anni piú tardi, non erano piú tali.
SCENE ARTICOLATE L’importanza della tomba di Sethi I appare evidente ancora oggi, nonostante le sue attuali condizioni. Il sepolcro custodisce, nella forma piú pura e condensata, la filosofia, la conoscenza e la comprensione di ciò che accade dopo la morte e prima che abbia inizio una nuova vita. Si vede un’articolata schiera di personaggi, ciascuno dei quali possiede una propria iconografia, ma al tempo stesso capace di passare da una forma all’altra, come in un sogno. Essi si muovono all’interno di una narrazione articolata su piú registri, che si snodano in fasce lungo le pareti, come una sorta di moderno fumetto, con immagini e geroglifici.
Qui accanto: la replica di una delle sale della tomba di Sethi I, con le pareti riccamente decorate da pitture e rilievi. Nella pagina accanto: statuetta del dio Amon. Regno di Sethi I, 1290-1279 a.C. Già Collezione Fritz Behrens. Hannover, Museum August Kestner. In basso: la replica del sarcofago in alabastro del faraone.
La tomba di Sethi I veniva a porsi come una sorta di Sacro Graal per chiunque fosse stato interessato a cogliere il passaggio fra la vita e la morte. Non sappiamo che cosa Belzoni abbia pensato nel momento in cui cominciò a cimentarsi con lo straordinario spazio che aveva scoperto, ma è un fatto che, pochi anni piú tardi, divenne un fervente massone. Nella sua mente si rincorrevano pensieri sui simboli, sulla trasformazione, sul tempio di Salomone, sull’alchimia, su conoscenze segrete e magia. Del resto, le tre principali religioni abramitiche sono accomunate da radici che riportano alla filosofia e alla religione dell’antico Egitto. Dopo avere riprodotto su carta tutte le pareti, Belzoni cominciò a realizzare i calchi, servendosi di cera rinforzata con fibre vegetali per aumentarne la rigidità. La cera veniva applicata direttamente sulle pitture, fino a che non raggiungeva lo stato solido.Veniva allora rimossa e utilizzata per ottenere i calchi in gesso. I risultati erano eccellenti, ma la pro40 a r c h e o
cedura aveva effetti devastanti. I calchi oggi conservati al Museum of Fine Arts di Boston e al British Museum ancora contengono resti significativi dei pigmenti originali. Il danno appare evidente nel momento in cui si osservino le pareti: le aree piú compromesse presentano una superficie quasi levigata, sbiadita, con labili tracce di colore.
UN FUTURO PER IL PASSATO Mentre la replica realizzata da Belzoni causò, come abbiamo visto, gravi danni alla tomba, l’intervento della Theban Necropolis Preservation Initiative rientra in un piú ampio progetto di salvaguardia della necropoli tebana attraverso l’impiego di nuove tecnologie di documentazione e la creazione di facsimili perfetti di monumenti che oggi sono chiusi al pubblico per esigenze di conservazione o la cui chiusura risulta indispensabile per poterli preservare per le generazioni future. La realizzazione di una replica della tomba di Sethi I fu ipotizzata per la
prima volta nel 1988 dalla Società degli Amici delle Tombe reali egiziani, che, fin dall’inizio, ha assicurato un contributo fondamentale allo sviluppo del progetto. La Factum Arte è entrata a far parte del gruppo di lavoro nel 2001, all’indomani dell’approvazione di un progetto di ricerca redatto da Gaballa Ali Gaballa al fine di mettere a punto le tecniche necessarie alla scansione della tomba. Nel 2002, Factum Arte realizzò una copia della tomba di Thutmosi III, che fu poi presentata in una mostra itinerante, «Alla ricerca dell’immortalità.Tesori dell’antico Egitto», inaugurata presso la National Art Gallery di Washington nello stesso anno. Nel 2009 fu avviata la documentazione della tomba di Tutankhamon, seguendo le indicazioni di Zahi Hawass e con il supporto dell’allora Consiglio Supremo delle Antichità (oggi Ministero delle Antichità), che ha a lungo sostenuto l’idea di produrre repliche delle tombe chiuse al pubblico. Il facsimile venne offerto al popolo egiziano nel novembre
2012 dalla baronessa Ashton, come dono dell’Unione Europea e della Fondazione Factum. Nel 2013, l’allora ministro delle Antichità, Mohamed Ibrahim, dispose l’installazione della copia in prossimità della casa di Howard Carter. L’operazione fu condotta agli inizi dell’anno successivo, e, il 1° maggio 2014, una mostra didattica e la replica furono aperte al pubblico.
IL COLORE E LA TERZA DIMENSIONE In un’epoca segnata da ripetute minacce al patrimonio culturale, la scansione 3D e la fotografia composita stanno modificando i metodi di documentazione degli artefatti culturali, ma sistemi di scansione differenti generano risultati diversi. Alcuni risultano utili per visualizzazioni basate sull’uso di uno schermo, mentre altri si prestano alla ri-materializzazione di oggetti in tre dimensioni. Oggi è possibile documentare oggetti a colori e in 3D e ricrearli in forme quasi indistinguibili dall’oria r c h e o 41
MOSTRE • BASILEA
ginale. Risultati che si possono ottenere solo a patto di far lavorare insieme artigiani «digitali» e artigiani «tradizionali», combinando tecnologie e saperi. Gli sviluppi tecnologici piú sorprendenti nel campo del patrimonio culturale si stanno attualmente ottenendo grazie a software utilizzati nella fotogrammetria (estrazione di dati 3D da immagini bidimensionali), fotografia composita (fusione di dati ricavati da molteplici immagini del medesimo oggetto) e strumenti per la realizzazione del 3D. Si sta verificando qualcosa di simile a quanto accadde nel XIX secolo, quando la fotografia, l’elettroformazione e la realizzazione di calchi modificarono l’approccio nei confronti del concetto di originalità e delle raccolte museali.
UNA SITUAZIONE INEDITA Prima dei voli low coast e del turismo di massa, trasportare copie di monumenti architettonici a Londra, Berlino o Parigi era piú semplice che portare le persone in siti diffi42 a r c h e o
cilmente raggiungibili. Oggi la situazione si è capovolta: ogni anno milioni di persone vogliono visitare siti di interesse culturale, molti dei quali, come le tombe della Valle dei Re, non furono mai pensate per essere visitate, né possono sopportare l’afflusso delle folle senza risultarne seriamente danneggiate. Il turismo, che costituisce una risorsa vitale per le economie locali, è divenuto una delle cause principali delle modificazioni e del degrado del nostro patrimonio culturale. E si fa sempre piú difficile trovare un
equilibrio fra le esigenze di conservazione e il desiderio di garantire la fruizione dei siti. Va anche detto che il turismo non è la sola minaccia che grava sul patrimonio culturale, messo ogni giorno a repentaglio da guerre, catastrofi naturali, mutamenti climatici, inquinamento, disinteresse da parte delle autorità di governo, vandalismo, danni accidentali, incendi, attacchi iconoclasti e razzie. La tutela deve dunque fare fronte a tutte queste potenziali cause di distruzione e, al tempo stesso, avere consapevolez-
In questa pagina: ancora un particolare dell’allestimento della mostra «Sethi allo scanner». Nella pagina accanto: la sezione di antichità greche e romane (in alto) e quella di antichità orientali, cipriote e pre-micenee dell’Antikenmuseum.
za dei cambiamenti che inevitabilmente interessano gli oggetti e gli edifici nel corso del tempo. La Theban Necropolis Preservation Initiative, condotta dalla Fondazione Factum in collaborazione con l’Università di Basilea per conto del Ministero egiziano delle Antichità, sta operando per creare un modello di conservazione del patrimonio della Valle dei Re di lunga durata e autosufficiente dal punto di vista economico. L’iniziativa è imperniata sulla sostenibilità e sul trasferimento delle conoscenze e si affida sia a tecnologie sviluppate a tale scopo, sia alle professionalità degli operatori coinvolti. La documentazione della tomba di Sethi I ha costituito un momento cardine di questa impresa. Le repliche delle tombe di Tutankhamon e di Sethi I sono destinate a costituire il nucleo principale del Visitor Centre situato all’imbocco della Valle dei Re. Le due strutture hanno lo scopo di informare i visitatori sul difficile compito della salvaguardia delle tombe
della necropoli tebana per le generazioni future, realizzata senza che i monumenti cessino di costituire una importante fonte di reddito per l’economia locale.
IL VIAGGIO DEL SOLE Le pareti della tomba di Sethi I sono ornate da rilievi dipinti di straordinaria raffinatezza, che rappresentano i testi funerari egiziani e scene che mostrano il faraone al cospetto di varie divinità. La camera funeraria offre ai visitatori un saggio delle concezioni profonde e piene di speranza degli antichi Egiziani a proposito dell’aldilà, della vita dopo la morte e della possibilità di una rinascita. Le raffigurazioni e i testi che descrivono il mondo dei defunti, chiamati «libr i funerar i», vengono evocati nella tomba di Sethi dal Libro dell’Amduat e dal Libro delle Porte. Entrambi descrivono ciascuna delle dodici ore del viaggio notturno del sole, altrimenti detto del Dio Sole, attraverso l’aldilà e i pericoli che lo caratterizzano, in primo
luogo Apofi, il serpente che cerca di fermare la corsa del sole. L’ipogeo può dunque essere visto come una riproduzione tridimensionale del mondo ultraterreno, che il dio sole Aton attraversa con la sua barca. Il sovrano defunto viene dunque assimilato al dio e partecipa al viaggio del sole, ciclo perpetuo di invecchiamento e rigenerazione. Gli dèi accettano il faraone come un loro pari: Sethi è entrato nella sua tomba in quanto re defunto e ne esce come dio vivente. DOVE E QUANDO «Sethi allo scanner: la ri-creazione della tomba di un faraone» Basilea, Antikenmuseum fino al 6 maggio Orario tutti i giorni, 11,00-17,00 (gio-ve, apertura serale fino alle 22,00) Info www.antikenmuseumbasel.ch a r c h e o 43
PARCHI ARCHEOLOGICI • SELINUNTE
NEL PARCO DEI
GIGANTI
LA VASTA AREA ARCHEOLOGICA DI SELINUNTE, IN SICILIA, OSPITA ALCUNE TRA LE PIÚ IMPONENTI TESTIMONIANZE DELL’ARCHITETTURA GRECA. OGGI, LE ROVINE DEL PIÚ GRANDE DI QUESTI MONUMENTI, IL COSIDDETTO TEMPIO G, SONO AL CENTRO DI UN «TITANICO» PROGETTO DI RESTAURO E RICOSTRUZIONE. SUL CUI ESITO, PERÒ, STUDIOSI E APPASSIONATI NON SONO AFFATTO CONCORDI... di Mimmo Frassineti
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Selinunte. Il tempio E, dedicato a Hera. La costruzione dell’edificio, di ordine dorico, fu avviata poco dopo la battaglia di Himera, verso il 470-450 a.C. Abbattuto da un terremoto nel Medioevo, è stato interamente ricostruito nel 1956.
S
elinunte deve il suo nome al sélinon, nome greco dell’appio (o apio, una varietà selvatica del sedano), tuttora diffuso nelle zone umide del luogo e rappresentato sul verso delle monete della zecca selinuntina, mentre sul recto compare il dio fluviale Selinos, in atto di sacrificare. La città prosperò grazie al commercio e toccò l’apice della sua potenza, testimoniata dai grandiosi templi, nel VI e nel V secolo a.C. Fu la colonia greca piú occidentale della Sicilia, l’avamposto ellenico verso Cartagine, con la quale mantenne dapprima buone relazioni. Tuttavia, dopo la battaglia di Himera (480 a.C.), che vide la disfatta degli invasori cartaginesi per opera dei Greci siracusani e agrigentini, Selinunte si alleò con Siracusa. In terra siciliana si scontrò con Segesta – la città che, secondo Tucidide, sa-
rebbe stata fondata dai profughi troiani –, situata una quarantina di chilometri piú a nord. Ragioni di confine motivarono frequenti conflitti, l’ultimo dei quali decisivo, quando, nel 409 a.C., i Cartaginesi, chiamati in soccorso da Segesta, al comando del generale Annibale Magone distrussero Selinunte dopo un breve assedio. Solo poche migliaia di Selinuntini riuscirono a riparare ad Agrigento, mentre la maggioranza fu sterminata o fatta schiava.
IL RITORNO DEI PROFUGHI Due anni piú tardi il generale siracusano Ermocrate, bandito dalla sua città, ricostruí Selinunte nella sola area dell’acropoli, e richiamò i profughi, insieme con altre popolazioni. Alla sua morte la città venne nuovamente occupata da Cartagine. Nel 250 a.C., durante la prima
guerra punica, fu conquistata e distrutta da Roma. Nel Museo del Baglio Florio si possono oggi vedere i micidiali proiettili delle catapulte romane. A cadere sotto il dominio di Roma fu una città fantasma, anche perché l’area si era fatta malsana per l’impaludamento del Cottone e del Selino. I secoli successivi videro solo occasionali insediamenti di eremiti e comunità religiose e, fra il VI e il IX secolo, un terremoto abbatté quanto restava dei magnifici templi, che divennero cave di pietra per il territorio, mentre di Selinunte si era persa la memoria. A ritrovarla fu il frate domenicano Tommaso Fazello, teologo e storico – autore, tra l’altro, del De Rebus Siculis Decades Duae, il primo libro stampato di storia siciliana – al quale si deve anche l’identificazione dei siti di Akrai (Palazzoa r c h e o 47
PARCHI ARCHEOLOGICI • SELINUNTE
lo Acreide) e di Eraclea Minoa e, ad Agrigento, del tempio di Zeus. Ma ancora nel 1756 un ponte sul fiume Belice fu consolidato con blocchi tratti dai templi orientali. Le spoliazioni cessarono solo quando lo Stato italiano stabilí una custodia permanente. Nel 2013 la Regione Siciliana ha istituito il Parco Archeologico di Selinunte e Cave di Cusa.
TESORI NASCOSTI Nel 650 a.C. i coloni partiti da Megara Iblea occuparono un promontorio a picco sul mare, lungo la costa sud-occidentale della Sicilia, spingendosi piú a occidente di quanto altri Greci avessero mai fatto sull’isola. Selinunte fu la città greca piú prossima all’Africa e a una grande – e aggressiva – potenza: Cartagine. Oggi è uno dei siti archeologici piú affascinanti del Mediterraneo, nonché tra i piú vasti. E potrebbe ancora celare segreti importanti. Un drone, dotato di termocamera ad alta sensibilità, ha fotografato il
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A destra: cartina della Sicilia con la localizzazione di Selinunte. In basso, sulle due pagine: una veduta dal mare dell’Acropoli di Selinunte.
Messina Trapani
Palermo
Cefalú
Reggio Calabria
Marsala
Selinunte Caltanissetta
Acireale
Enna
Catania Agrigento
Ma r Me d i te rra n e o
territorio, palesando l’esistenza di strutture sotterranee. La ricerca, condotta da un team di geologi dell’Università di Camerino, coordinati da Gilberto Pambianchi, evidenzia centinaia di anomalie termiche, ascrivibili a opere sepolte, ancora sconosciute. «Grazie al progetto dei geomorfologi di Camerino – afferma Enrico Caruso, direttore del Parco Archeologico – abbiamo verificato che intorno ai templi di Selinunte esiste un quartiere molto
Siracusa
Gela Ragusa
importante, una nuova Pompei. Gli scavi potrebbero portare alla luce una città immensa, che non solo va oltre l’Acropoli, ma addirittura si allarga agli spazi della collina orientale e sicuramente anche della collina occidentale, in prossimità della necropoli». L’accostamento a Pompei non è casuale, poiché Selinunte, dopo la sua distruzione per opera di Roma nel 250 a.C. fu abbandonata e dimenticata, e piú nulla coprí le rovine (vedi anche l’intervista a p. 62).
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Necropoli
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A destra: mappa del Parco Archeologico di Selinunte e delle Cave di Cusa, istituito nel 2013.
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Baglio Florio (Antiquarium)
Marinella di Selinunte
Tempio G Tempio F Tempio E
Piazzale Iole Bovio Marconi
Acropoli Necropoli
Ingresso Parco Archeologico
Tempio D
Foce del Fiume
Tempio C Tempio B Tempio A Porto Tempio O (interrato) Torre Polluce Foce del Fiume
Dune
Stazione Piazza Stesicoro
P.le Martiri Selinuntini Piazzale delle Metope
Piazzale Efebo
Piazza Empedocle
Mar Mediterraneo
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PARCHI ARCHEOLOGICI • SELINUNTE
DALLA PRIMA ZECCA DI SICILIA Un didramma di Selinunte, datato intorno al 460-415 a.C. Al dritto compare un ciuffo di sélinon, varietà selvatica del sedano che cresce nella zona e da cui la città prese nome. Al rovescio è invece raffigurato Selinos, una divinità del fiume omonimo che scorreva accanto all’Acropoli, nell’atto di sacrificare. La zecca selinuntina, la prima in Sicilia assieme a Himera, cominciò a coniare monete verosimilmente nella seconda metà del VI secolo a.C. Data l’assenza di miniere d’argento in Sicilia, i primi didrammi erano realizzati fondendo il metallo di monete importate dalla Grecia.
A destra: metope appartenenti alla decorazione del tempio E: in alto, Atteone, attaccato da tre cani e Artemide; in basso, le nozze tra Zeus e Hera. Metà del V sec. a.C. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonino Salinas». Nella pagina accanto: metopa raffigurante Perseo mentre uccide la Medusa, dal tempio C. Metà del VI sec. a.C. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonino Salinas».
Al Parco Archeologico si accede da Marinella di Selinunte, una frazione di Castelvetrano. La toponomastica evoca l’antica Grecia: Achille, Icaro, Persefone, Pitagora, Socrate, Eracle, Platone, Calipso, Teseo danno il nome a strade, piazze e alberghi. È limpido il mare, che guarda verso l’Africa. Superata la biglietteria, un paesaggio di dune costiere e macchia mediterranea lascia immaginare quello che ap50 a r c h e o
parve ai coloni, provenienti da Megara Iblea, in cerca di un luogo propizio per fondare una nuova città. Sulla collina orientale, in realtà una vasta spianata, sorge un tempio imponente, e altri due giacciono a terra, in un caos scenografico di rocchi di colonne, capitelli spezzati, architravi in frantumi. Si chiamano E, F e G, cosí nominati quando ancora se ne ignoravano le divinità titolari. Sono l’espressione della po-
tenza che la città greca toccò all’apice del suo sviluppo, tra il VI e il V secolo a.C., anche se la sua fu una parabola breve. Dedicato a Hera, il tempio E risale alla metà del V secolo a.C. Le misure (70 x 27 m) sono comparabili a quelle del Partenone, con proporzioni piú allungate, come di consueto nei templi arcaici. Di ordine dorico, ha 38 colonne – 6 e 15 per lato (quelle d’angolo si con-
tano due volte) –, alte 10,20 m, capitello incluso. La cella è preceduta da un pronao in antis (i prolungamenti delle pareti della cella) e seguita da un adyton (il vano, accessibile solo ai sacerdoti, che conteneva la statua di culto). La pietra è di tono caldo: è un calcare estratto dalle Cave di Cusa, a una dozzina di chilometri verso l’interno. La ricca policromia delle decorazioni è testimoniata da frammenti rinve-
nuti. Cinque metope scolpite, provenienti dalla cella, si possono ammirare nel Museo Archeologico «Antonino Salinas», a Palermo. Poco lontano giacciono, paralleli, i ruderi del tempio F, anch’esso, come tutti i templi greci, con orientamento est-ovest, e la facciata a est. Di età tardo-arcaica, si data intorno al 520 a.C.; è il piú piccolo dei tre santuari orientali e quello che ha subito le maggiori spoliazioni. Fora r c h e o 51
PARCHI ARCHEOLOGICI • SELINUNTE
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A sinistra: veduta aerea di Selinunte. In primo piano, i resti del tempio G, uno dei piú grandi santuari mai costruiti in Sicilia; in secondo piano, i resti del tempio F, primo tempio periptero sulla collina orientale, e, in ultimo, il tempio E. A destra: una colonna rialzata tra i resti del tempio F. In basso: immagine ripresa dal drone dotato di termocamera. Questa tecnologia ha evidenziato anomalie termiche che potrebbero corrispondere ad altrettante strutture sepolte ancora sconosciute.
se dedicato ad Atena, Eracle e Dioniso, è lungo 62 m e largo 24, con 36 colonne (6 e 14 per lato) alte 9 m. L’interno è tripartito in pronao, cella e adyton. Due preziose metope scolpite sono conservate anch’esse nel Museo «Salinas». Subito accanto, il tempio G sembra materializzare l’idea stessa di catastrofe, tanto piú simbolica perché si tratta di un tempio greco, emblema di equilibrio e di armonia. È un periptero ottastilo con 46 colonne (8 e 17 per lato), il cui diametro alla base è di 3,40 m. Se ricomposte, raggiungerebbero i 16 m di altezza e peserebbero ognuna 350 tonnellate. I capitelli monolitici sono grandi come stanze. Con una lunghezza di 109 m e una larghezza di 50 – le misure di un campo di calcio – è uno degli edifici piú colossali del mondo greco. linuntini sono vittoriosi grazie a Zeus, Fobos, Eracle, Apollo, Poseidone, i Tindaridi, Atena, Demetra, Pasikrateia e CELEBRAZIONE altri dei, ma soprattutto grazie a Zeus». DI UNA VITTORIA Ad abbatterlo fu un terremoto, o La costruzione del tempio, iniziata probabilmente piú di uno, i cui im- verso il 550 a.C., si prolungò per pulsi distruttivi sono resi evidenti molti decenni, come attestano alcudalla direzione in cui le colonne ne discontinuità stilistiche, e forse sono crollate. Nell’adyton furono non era ancora terminata quando la scoperti il torso marmoreo di un città venne conquistata dai Cartagigigante ferito, e la Grande tavola se- nesi nel 409 a.C. Numerosi sono i linuntina, un’iscrizione nella quale si rocchi in una fase di lavorazione ringraziano gli dèi per una vittoria, iniziale, la gran parte delle colonne le cui circostanze ignoriamo: «I Se- non sono scanalate e una sola appa-
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PARCHI ARCHEOLOGICI • SELINUNTE
re rifinita del tutto. Sessanta rocchi, le cui misure rendono certa la loro destinazione al tempio, si trovano all’interno delle cave, e qualcuno anche lungo la strada. Sono però elementi che l’archeologo Mario Luni, scomparso nel 2014 e che piú di altri ha approfondito la conoscenza del tempio G, non considerava conclusivi: «Si presenta piú come un edificio non rifinito che come un non finito, il tempio è divenuto operativo già in età arcaica». Quanto ai rocchi nelle cave o lungo il percorso, furono abbandonati, secondo Luni, perché difettosi: «Solo A destra e in basso: due immagini della ricostruzione parziale della facciata del tempio Y, il piú antico tempio periptero di Selinunte, datato al 550 a.C. Selinunte, Baglio Florio, Museo del Parco Archeologico. Nel particolare qui accanto, le «Piccole Metope» del tempio Y: a sinistra, Zeus trasformato in toro mentre rapisce Europa; a destra, Demetra conduce su una quadriga di cavalli bianchi la figlia in vetta all’Olimpo.
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dal quale si accede a un vastissimo ambiente con le volte a sesto acuto. Qui sono in mostra alcune fra le ultime acquisizioni degli scavi, in particolare i ritrovamenti, compiuti da una missione dell’Institute of Fine Arts della New York University, nel tempio R, il piú antico in pietra di Selinunte (590-580 a.C.), che fanno luce sui riti di fondazione della città (vedi «Archeo» n. 336, febbraio 2013). Come le tre lance infisse nel terreno, due delle quali incrociate, a significarne la presa di possesso, o un flauto in osso che evoca cerimonie dedicate alla dea titolare del santuario. I materiali votivi rimandano a un culto femminile, di Demetra o Kore. Fra le novità esposte, in quella che sembra piú una cattedrale che una cantina, spicca sulla parete di fondo la facciata di un tempio dorico, in singolare contrasto con le forme neogotiche della sala. È il tempio Y, noto per le Piccole Metope arcaiche, anch’esse conservate a Palermo. Datato al 550 a.C., è il piú antico tempio periptero di Selinunte, sor-
Il Museo del Parco Archeologico ha sede nei vasti locali del Baglio Florio, dove un tempo si produceva il vino
In basso: modello ricostruttivo del tempio G. Selinunte, Baglio Florio, Museo del Parco Archeologico. Le colossali dimensioni del monumento suggeriscono che potesse essere dedicato a Zeus.
quelli che avevano resistito a frammentazioni e fessurazioni venivano messi in opera». A due passi dai templi, il Baglio Florio ospita il Museo del Parco Archeologico. I bagli erano aziende agricole della grande proprietà terriera, generalmente a pianta quadrangolare, con una vasta corte interna, stalle e depositi per i raccolti. Il Baglio Florio, un’importante struttura ottocentesca già destinata alla produzione del vino, ne è un pregevole esempio. Inaugurato, dopo il restauro, lo scorso 22 settembre nella nuova veste di Museo Archeologico, si apre nel cortile porticato, a r c h e o 55
PARCHI ARCHEOLOGICI • SELINUNTE A sinistra: statuetta che raffigura Ecate nel suo triplice aspetto terrestre, lunare e ctonio, da una casa dell’isolato F-F1 Nord. III sec. a.C. Selinunte, Baglio Florio, Museo del Parco Archeologico. In basso: un flauto in osso, dal tempio R. 580-570 a.C. Selinunte, Baglio Florio, Museo del Parco Archeologico.
geva sull’Acropoli, ma, a oggi, non se ne conosce l’ubicazione. Venne infatti smembrato, metope incluse, con la divisione a metà di colonne e architravi, per riutilizzarne le parti nelle fortificazioni ellenistiche, come la galleria di Porta Nord. La grandiosità dei monumenti ha fortemente orientato gli studi verso l’architettura dei templi e delle fortificazioni. La mostra «Abitare a Selinunte», visitabile per tutto il 2018, è invece dedicata alle case d’abitazione e alla vita quotidiana dei Selinuntini, e si avvale soprattutto dei ritrovamenti in un isolato sull’Acropoli chiamato F-F1 nord, che include varie unità abitative appartenen56 a r c h e o
ti al primo assetto urbanistico, ma poi riutilizzate in età punica e anche medievale. Altari e altarini in terracotta, statuette femminili del IVIII secolo pertinenti a culti domestici, tubature, parti di un pozzo, una fornace, una rara statuetta di Ecate (divinità greca considerata signora delle ombre e dei fantasmi notturni, ma anche dea della magia e degli incantesimi, n.d.r.) e infine i proiettili delle catapulte romane che si abbatterono sulla città nel 250 a.C.
Dal Baglio Florio si scende nel Gorgo Cottone – una bassura dove un tempo c’erano il mare e uno dei due porti – e si volge a sinistra verso l’Acropoli, segnalata da lontano da una fila di colonne, nel suo punto piú elevato. Piú oltre, la foce del Selino ospitava il secondo porto, anch’esso ormai interrato. La conformazione del paesaggio antico è indagata dagli specialisti di Camerino: «Abbiamo ricostruito – spiega il geomorfologo Marco Materazzi – la linea di costa di 2700 anni fa, con le profonde insenature alle foci dei due fiumi, che erano parzialmente navigabili. Sappiamo che anche il Belice era navigabile per un buon tratto, rappresentando con ogni probabilità un asse viario importante ai fini commerciali, per il trasporto di merci o di legname».
RICCA E ACCOGLIENTE «Selinunte era una delle città piú potenti della Sicilia greca, ricca e accogliente – aggiunge il geoarcheologo Fabio Pallotta –, commerciava con le genti dell’interno, i Cartaginesi, gli Etruschi. Quando i coloni approdarono qui da Megara Iblea si fusero con gli Elimi, che popolavano questi luoghi, e fondarono il primo abitato su un terzo promontorio, quello del santuario della Malophoros (portatrice di melograno). Le immagini termiche mostrano come il gradiente di calore delinei nel terreno perfetti disegni geometrici, che circondano proprio i resti del cosiddetto tempio M, sulla sponda destra del Selino». S’indagano anche le eventuali criticità idrogeologiche e sismiche, che potrebbero colpire i monumenti. «Nella sua storia millenaria – spiega il geologo Pierantonio Pietropaolo – Selinunte ha subito due forti terremoti, che hanno avuto due direzioni di crollo, legate probabilmente a due sorgenti sismiche, a due faglie distinte». Poiché di tali eventi, pure cosí di-
struttivi, non si hanno riscontri storici, l’ipotesi è che non fossero tanto potenti quanto invece molto localizzati, per cui distrussero la città e i grandi santuari, ma non ebbero conseguenze altrove nell’isola.
LO STUDIO DEI TERREMOTI «La distruzione dei templi – continua Pietropaolo – non è riconducibile agli effetti delle strutture sismogenetiche tipiche della sequenza sismica del Belice del 1968. I nostri studi hanno invece individuato alcune strutture tettoniche che verosimilmente possono aver generato i terremoti di Selinunte». Una correlazione tra questi ultimi e il terremoto del Belice è invece considerata possibile da uno studio dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Catania e delle Università di Catania, di Napoli e di Palermo, basato su immagini satellitari acquisite tra il 2003 e il 2010: «Un’analisi multidisciplinare ha rivelato, grazie all’utilizzo di tecniche geodetiche satellitari (InSAR e GPS) e a una serie di profili sismici in mare ad alta risoluzione, l’evidenza di faglie inquadrabili nello stesso contesto delle strutture responsabili del terremoto del 1968 e che potrebbero anche essere legate alle due scosse (IV secolo a.C. e IV-IV secolo d.C.) che hanno distrutto l’antica città greca di Selinunte» (Mario Mattia, I.N.G.V. Catania). L’Acropoli sorge su una terrazza calcarea, a strapiombo sul Mediterraneo. È divisa in quartieri da due arterie principali che s’incrociano ad angolo retto, con orientamento nord-sud ed est-ovest, intersecate a intervalli regolari da vie minori. Quella che attraversiamo è la città del IV secolo a.C., la Selinunte punica, anche se in parte riproduce la sistemazione urbanistica di epoca (segue a p. 63)
Testa di un busto femminile in terracotta policroma, ricollegabile a Demetra, probabile divinità del tempio R, oppure a sua figlia Kore. 470-460 a.C. Selinunte, Baglio Florio, Museo del Parco Archeologico. a r c h e o 57
PARCHI ARCHEOLOGICI • SELINUNTE
RICOSTRUIRE IL TEMPIO G? PERCHÉ SÍ E PERCHÉ NO Il 28 settembre 1924 Benito Mussolini, da due anni capo del governo, scrisse all’insigne archeologo roveretano Paolo Orsi (1859-1935), instancabile esploratore della Sicilia antica, manifestando la volontà «di far rivivere, sotto la luce dell’arte, uno dei templi di Selinunte, avanzi maestosi del glorioso periodo della civiltà greco-sicula». Era disponibile la somma di 250 000 lire, donate al governo da un italiano, Felice Lora, arricchitosi in Argentina nel campo immobiliare. Il duce non precisò quale fra i templi selinuntini si dovesse riportare alla vita, lasciando la scelta agli archeologi. Furono presi in considerazione il tempio E, sulla collina orientale, e il tempio C sull’Acropoli, che venne infine scelto. Tra il 1925 e il 1927, il soprintendente ai Monumenti dell’isola, Francesco Valenti, di concerto con Orsi, innalzò sul lato nord 14 colonne. Furono integrate con mattoni e malta di cemento e rinforzate con l’inserzione di barre in rame. L’operazione ebbe ampia risonanza. Anche il grande storico e
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critico d’arte Bernard Berenson (1865-1959) approvò l’intervento, definendo Mussolini un benemerito. L’anastilosi del tempio E fu invece intrapresa negli anni Cinquanta, finanziata dalla Cassa per il Mezzogiorno. Sotto la direzione di Jole Bovio Marconi, che guidò la Soprintendenza della Sicilia Occidentale dal 1930 al 1960, e con il consenso di
numerosi fra i maggiori esperti dell’epoca, si scelse di ricostruire quasi interamente il monumento. Le parti mancanti furono integrate con cemento armato, e si perforarono verticalmente le colonne per calarvi barre di ferro e malta cementizia, in alcuni casi dallo stilobate all’architrave, in altri legando solo una parte dei rocchi.
Sulle due pagine: i resti del tempio G, ora al centro di una proposta di ricostruzione attraverso l’anastilosi. Nella pagina accanto e a sinistra: piante del tempio G nelle quali sono evidenziate la posizione assunta dopo il crollo dai blocchi della trabeazione (1) e dalle colonne (2).
2
Un intervento invasivo, che non mancò di suscitare polemiche e che, secondo l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975), fu dettato «da una cultura del turismo rozzo, spettacolare, diseducativo». Nel tempio G, al momento, si vede in piedi una singola colonna, chiamata Fuso della Vecchia, restaurata nel 1832 dallo scultore Valerio Villareale. La ricostruzione annunciata da Vittorio Sgarbi, attuale assessore ai
Beni Culturali della Sicilia, è un’idea ricorrente – come pure l’ostilità a essa manifestata da autorevoli studiosi. Alla fine degli anni Settanta se ne fece promotore lo storico catanese Rosario Romeo, appoggiato da Claudio Signorile, allora ministro per gli Interventi Straordinari nel Mezzogiorno. Il progetto incontrò l’opposizione dell’antropologo palermitano Nino Buttitta e di quarantasette docenti
dell’Università di Palermo, i quali lo bollarono di vandalismo. Fu rilanciato qualche anno fa dall’archeologo Mario Luni, dell’Università di Urbino, direttore della missione archeologica italiana a Cirene in Libia, e dallo scrittore e archeologo Valerio Massimo Manfredi. Salvatore Settis definí l’ipotizzata ricostruzione «un’opera di regime fuori tempo». Nel convegno «Restauro dell’antico. Ricerche ed esperienze nel Mediterraneo greco», dibatterono l’argomento molti fra i maggiori studiosi. L’incontro si svolse a Selinunte nel 2011, grazie al sostegno della Fondazione Sorgente Group, che finanziò anche operazioni di pulizia dell’area e di sondaggio sulle fondazioni del tempio, condotte dall’Università di
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PARCHI ARCHEOLOGICI • SELINUNTE
A sinistra: rilievo della facciata occidentale del tempio G: in grigio, i blocchi in situ; in azzurro, quelli riconosciuti a terra fra i materiali crollati. Qui sotto: rocchi di colonna del tempio G.
Urbino sotto la direzione di Luni. La rimozione della vegetazione infestante permise la completa visibilità delle rovine, favorendo, con il lavoro di archeologi e disegnatori, l’esecuzione di un rilievo grafico complessivo, nonché di prospetti e sezioni del monumento che mostrano la posizione di ogni singola pietra qualora fosse ricostruito. Gli atti del convegno, con le voci che si sono confrontate nel dibattito, sono stati raccolti nel volume Selinunte. Restauri dall’antico, edito per Sorgente Group da De Luca Editori d’Arte e Musa Comunicazione. Per Dieter Mertens, direttore scientifico dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma, «ogni alterazione del volume della rovina non è un ripristino di una configurazione antica, ma creerà invece un nuovo oggetto-monumento di propria espressività, proprio
carattere, propria storia. Il tempio G si distingue per l’irripetibile fascino della sua grande rovina storica quasi mai toccata dalla mano del restauratore moderno». Licia Vlad Borrelli, già direttore del settore archeologico dell’Istituto Centrale del Restauro, si chiede «come si può oggi pensare di rialzare un ammasso di rovine e solleticare il peggiore gusto dei
A sinistra: sezione del tempio G, in corrispondenza della facciata del pronao.
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visitatori con un falso storico farcito di vistosi rappezzi e di sostanziose integrazioni. Un paesaggio di rovine entro cui si accamperebbe prepotente ed estraneo questo nuovo monumento, come nuovi ed estranei appaiono la stoà di Attalo nell’agorà di Atene e la biblioteca di Celso a Efeso». Mario Luni e Oscar Mei criticano la contemplazione neoromantica «del rudere idealizzato» che si pretende immutabile, ma che invece si sta rapidamente degradando. Paolo Marconi, architetto e restauratore, cita, a proposito di Selinunte, Guy de Maupassant: «“un immenso accumulo di colonne crollate, ora allineate e affiancate al suolo come soldati morti, ora precipitate in maniera caotica”. (...) Rovine – continua Marconi – destinate a rovinarsi ulteriormente. L’esposizione permanente al clima e alla polluzione atmosferica, alla vegetazione infestante,
all’infestazione animale (...) garantisce che da suggestive rovine si trasformino presto in insignificanti Rottami, sbriciolati al suolo». Ne è convinto anche Valerio Massimo Manfredi: «Si è proceduto a un sopralluogo che ha constatato il pesante degrado del monumento costruito con la calcarenite delle vicine cave di Cusa. Questa roccia
In alto: rilievo del colonnato Nord della peristasi del tempio G: in grigio, i blocchi in situ; in azzurro, quelli a terra. Qui sopra: sezione est-ovest della parte interna del tempio G.
sedimentaria è costituita di strati piú duri alternati ad agglomerati di minore coesione. Finché il blocco in opera, come il rocchio di una colonna, è in posizione stante, le acque meteoriche scivolano sulla
sua superficie. Quando il blocco giace in posizione orizzontale tende a disgregarsi per il verso degli strati, offrendo facile presa alle piante infestanti. In altri termini, la rovina si trasforma in macerie». Manfredi ricorda come gli obiettivi dell’archeologia siano la conoscenza e la tutela, e che lasciare le cose come stanno significa, a suo avviso, rinunciare a entrambe. Cita le tappe iniziali dell’eventuale anastilosi: la ricomposizione del capitello del Fuso della Vecchia e delle colonne ancora in piedi prima dell’ultimo terremoto nel XVIII secolo, il sollevamento dell’angolo nord ovest del tempio, lo scavo del campo sottostante cosí liberato. Operazioni che non avrebbero nulla in comune, garantisce, con quelle del 1956 sul tempio E. Vi sarebbe un incremento del turismo e, di conseguenza, un aumento nell’area dei posti di lavoro.
UN CAPOLAVORO «NON RIFINITO» Il progetto di ricerca dell’Università di Urbino sul tempio G, diretto da Mario Luni e finanziato dalla Fondazione Sorgente Group, ha preso avvio nel 2010, su proposta di Valerio Massimo Manfredi. Per un anno si è proceduto alla «rilettura» del tempio G nella sua globalità, attraverso il rilievo di ogni membratura architettonica utile a conoscere le componenti strutturali dell’edificio e realizzando limitati saggi funzionali al rilievo, senza rimuovere alcun blocco. Tutta la documentazione grafica precedente è stata verificata e confrontata con l’esito delle nuove indagini, arrivando, talvolta, a correggere alcuni errori di interpretazione, dovuti soprattutto alla difficoltà nell’approcciarsi al monumento, coperto da uno strato di crollo che in certi punti supera i 7 m di altezza e caratterizzato da colonne alte 16 m, per un perimetro totale di 50 x 110 m. Gli studi hanno considerevolmente arricchito la nostra conoscenza del tempio, giungendo per la prima volta al riconoscimento di ogni singolo rocchio
e capitello appartenenti a ogni colonna della peristasi, del pronao e dell’opistodomo e di numerosi elementi della trabeazione dell’interno e dell’esterno del monumento. Tale mole di lavoro ha consentito di realizzare, oltre alla pianta del crollo, anche prospetti dei quattro lati dell’edificio e delle sezioni interne, che hanno quindi portato alla realizzazione di un modellino in legno dell’intero edificio, oggi conservato nel Baglio Florio di Selinunte. È stato definitivamente accertato che il tempio G era completo nelle sue parti strutturali ma «non rifinito», per esempio nelle scanalature delle colonne; aveva la cella ipetrale e gli ambulacri coperti, come dimostrano i frammenti di tegole rinvenuti nei saggi, ed era sicuramente in uso, come testimoniano le tracce di stucco e di colore nei capitelli e nel fregio, nonché il riconoscimento del pavimento, costituito da scaglie di lavorazione della pietra del tempio stesso, pressate e compattate. Oscar Mei, Università di Urbino
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PARCHI ARCHEOLOGICI • SELINUNTE
UNA NUOVA POMPEI
Incontro con Enrico Caruso, direttore del Parco Archeologico di Selinunte ◆ Direttore, lei ha paragonato la
Selinunte ancora da scoprire a una nuova Pompei, sito in cui vaste aree non sono scavate, perché si considera prioritario conservare l’esistente... Noi abbiamo lo stesso problema: per esempio, negli ultimi cinque anni è stata indagata un’area a ridosso delle fortificazioni sul Gorgo Cottone, dove è emersa la piú grande fornace dell’antichità. Uno dei forni presenta un diametro di 5 m, circostanza per ora unica nel Mediterraneo. Ma, alla fine, si è preferito interrare tutto, perché è difficile conservare una struttura di questo tipo, molto complessa, dove la manifattura aveva tutte le sue fasi, con piú di 2000 mq destinati
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alla lavorazione della creta, alla realizzazione dei vasi, all’essicazione, alla cottura e alla vendita. Le fornaci, se venissero lasciate all’aperto, sotto la pioggia, finirebbero per disintegrarsi e pertanto, finché non si trova una soluzione conservativa ottimale, è meglio interrarle. Presto sarà data alle stampe una pubblicazione esaustiva sull’importanza di questa grande fornace e poi, se si troverà una soluzione per la copertura, forse si potrà anche restaurarla e rimetterla in vista. Varrebbe veramente la pena. Negli ultimi dieci anni sono state scavate e studiate anche altre strutture, poi interrate, per proteggerle.
◆ Quale impatto ha l’archeologia
sull’economia dell’isola? Importante, perché fra i luoghi di cultura piú visitati in Sicilia vi sono i siti archeologici. Taormina, con il teatro greco e romano, Villa del Casale, Selinunte, Siracusa, Segesta, Agrigento: sono mete molto frequentate.
◆ Di recente si sono moltiplicate
le lamentele per la difficoltà di accesso a Segesta... La gente era abituata ad arrivare a Segesta e fermarsi a ridosso degli scavi. Ma avere un parcheggio davanti alla porta antica era veramente disdicevole. L’amministrazione, in accordo con il Comune, ha deciso di spostare l’area di sosta, collocandola dove non interferisca con il sito. Credo che sia bello camminare tra le rovine senza avere auto tra i piedi.
greca. Numerosi sono i luoghi di culto, denominati, anche qui, con lettere maiuscole: O, A, B, C, D e R. Il piú antico (se si esclude il tempio Y) e piú grande è il tempio C, eretto verso il 560 a.C., in posizione dominante. La pianta misura 64 x 24 m, con 42 colonne (6 e 17 per lato) alte 8,60 m. L’anastilosi, eseguita tra il 1925 e il 1927, ha ricomposto quasi interamente il colonnato Nord. Tre metope scolpite sono conservate a Palermo.
PUNICI E GRECI Subito accanto, un tempietto ellenistico, di forme tipicamente greche, suggerisce che, all’epoca del controllo di Cartagine su Selinunte, ci fosse una popolazione mista, sia punica che greca. Proseguendo sull’arteria principale, si costeggia a destra il fronte ovest del tempio D, forse dedicato ad Afrodite e, a sinistra, il già citato isolato F-F1 Nord. La strada termina alla porta principale, o Porta Nord. Le fortificazioni di Ermocrate, che reimpiegano elementi prelevati dai templi abbattuti dai Cartaginesi, si giustappongono a quelle della città greca, non piú ricostruita dopo il 409. Ancora piú a nord si trova una necropoli dei secoli VII e VI a.C., con tombe rettanNella pagina accanto: una delle vie dell’Acropoli di Selinunte. In basso: turisti nell’area del tempio G.
UN’IPOTESI IN CORSO DI VALUTAZIONE
Incontro con Vittorio Sgarbi, assessore ai Beni Culturali della Regione Siciliana ◆ Assessore, a che punto è il
progetto di anastilosi del tempio G? Abbiamo fatto una ricognizione dei vari preventivi. Nell’ipotesi di una ricostruzione pressoché integrale di tutto il peristilio siamo arrivati, mi pare con concorde convincimento, a una cifra che si aggira intorno ai 35 milioni di euro. Abbiamo sottoposto questo preventivo a un agente molto importante, che ora individuerà gli sponsor e vedremo se, per questa impresa, ci sarà un unico finanziatore, privato, ovviamente.
◆ I rilievi di Mario Luni
descrivono ogni singola pietra nella sua collocazione attuale e in quella che assumerebbe qualora il tempio fosse ricostruito: a dispetto delle spoliazioni millenarie, una parte considerevole del monumento si è salvata, sia pure con evidenti discontinuità. L’anastilosi può essere condotta in vari modi: da dove iniziare, quanto spingersi avanti, con quali integrazioni?
Tenuto conto del fatto che il progetto verrà avviato soltanto a fronte di un finanziamento privato, è preliminare dire che questa fase del preventivo è chiusa, e comincia la fase della ricerca di fondi. La ricostruzione, la piú integrale possibile, prevede un’anastilosi sul modello di quella di Cirene, dove fu fatta proprio dal gruppo di Luni. È chiaro che nelle lacune si procederà con i neutri. Non potendo prelevare dei rocchi di colonne dalla cava, si faranno delle integrazioni, vedremo come.
◆ Con quali materiali? Non è stato ancora stabilito. Quando avremo la certezza dei finanziamenti, faremo una valutazione sulla ricostruzione delle parti mancanti, che richiederà una proposta convincente. Se poi ci si renderà conto che ci sono alcune parti che non si possono ricostruire, si potrà prevedere una ricostruzione parziale, com’è stato fatto da Mussolini con il Tempio C. Quindi sussistono varie ipotesi. Quella di massima è la ricostruzione integrale. golari chiuse da lastre di pietra. Se invece si percorre la maggiore arteria trasversale dell’Acropoli, quella est-ovest, e si scende fino a superare un ponte sul Modione, l’antico Selinon, si raggiungono gli insediamenti piú antichi: il santuario della Malophoros e la necropoli arcaica. Il primo, sulla collina della Gaggera, è un recinto sacro suburbano di 60 x 50 m, che contiene un piccolo altare arcaico, un grande altare per i sacrifici e i resti di un tempio dedicato, secondo un’epigrafe, alla Malophoros, assimilabile a Demetra. Nua r c h e o 63
PARCHI ARCHEOLOGICI • SELINUNTE Sulle due pagine: l’Acropoli di Selinunte, colpita da vari terremoti (IV sec. a.C. e IV-V sec. d.C.), non tanto potenti quanto molto localizzati, con effetti distruttivi sulla città e i suoi templi.
In alto: immagine con termocamera da drone, che mostra segni geometrici regolari intorno al tempio M.
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merosi reperti, fra cui migliaia di figurine votive databili tra il VII e il V secolo a.C., si conservano al Museo Archeologico di Palermo. Lucerne con il monogramma XP indicano la presenza di una comunità cristiana, nell’area del santuario, fra il III e il V secolo. Piú oltre si trovano le rovine del cosiddetto tempio M, in realtà una fontana monumentale. A un paio di chilometri dal fiume, la necropoli di Manicalunga è la maggiore di Selinunte.
A sinistra: in questa ricostruzione della linea di costa di 2700 anni fa, elaborata dai geologi dell’Università di Camerino, si possono notare le insenature dei due fiumi, parzialmente navigabili, ai due lati dell’Acropoli.
DOVE E QUANDO Parco archeologico di Selinunte e Cave di Cusa Castelvetrano (Trapani), frazione di Marinella di Selinunte Orario Selinunte: lu-sa, 9,00-17,00; do e festivi, 9,00-13,00; prime domeniche del mese, 9,00-17,00 Cave di Cusa: tutti i giorni, 9,00-13,00 Info tel. 0924 46277; http://selinunte.gov.it/
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SCAVI • GRECIA
IL TEATRO
NASCOSTO
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LA CITTÀ DI THOURIA, NEL PELOPONNESO, ERA UNA DELLE ANTICHE «CAPITALI» DELLA MESSENIA. NUMEROSI MONUMENTI AFFIORATI NEL CORSO DI RECENTI INDAGINI ARCHEOLOGICHE TESTIMONIANO IL SUO PASSATO SPLENDORE. NE ABBIAMO PARLATO, IN UN’INTERVISTA ESCLUSIVA, CON LA DIRETTRICE DEGLI SCAVI, XENI ARAPOGIANNI di Maria Katsinopoulou
I
mmerso tra i ridenti oliveti affacciati sul Mar Ionio, una decina di chilometri a nord-ovest di Calamata, in Messenia, si trova un sito che, grazie alle indagini archeologiche che lo interessano da alcuni anni, sta rivelandosi sempre piú promettente. Stanno infatti tornando alla luce numerose strutture di una delle piú importanti città della regione nel IV secolo a.C., l’antica Thouria. Per conoscere meglio gli importanti risultati raggiunti da questo cantiere archeologico e il suo potenziale futuro abbiamo incontrato la direttrice degli scavi Xeni Arapogianni. Dottoressa Arapogianni, quali sono le caratteristiche morfologiche dell’insediamento e in quale orizzonte cronologico può essere collocato? «Thouria si estende su una collina allungata e fu abitata già nel periodo protostorico (Protoelladico II). Durante l’epoca micenea si nota qui un’esplosione culturale, testimoniata dalla presenza di una estesa necropoli, che comprende tombe a volta, nonché una tomba reale, che ha restituito preziosi corredi funebri. La località non ha mai smesso di essere abitata, fino all’avvento del cristianesimo e, prima della fondazione di Messene (369 a.C.), Thouria fu la piú grande e poTutte le immagini dell’articolo documentano gli scavi in corso a Thouria, antica città della Messenia. Le indagini nell’area del teatro di età ellenistica (III sec. a.C. circa), i cui resti sono stati riportati alla luce nel corso dell’ultima campagna di scavo. a r c h e o 67
SCAVI • GRECIA
Lamia
Eubea Lebadeia
GRECIA
Orcomeno
Delfi
Patrasso
Atene ACAIA Zacinto
Zante
ELIDE Pyrgos
Corinto Istmia Nemea CORINZIA
Pireo
PELOPONNESO
Mantineia Micene Midea Epidauro ARCADIA NauplionARGOLIDE Asine Megalopoli Tegea
Olimpia
Idra MESSENIA Messene
Mar Ionio
Thouria Kalamata
Pylos
Mare Egeo
Sparta Mistràs LACONIA
Monemvasià
Cerigo
tente città della regione, mentre in epoca ellenistica rimase seconda solo a questa». Dal punto di vista topografico, Thouria può essere identificata con città menzionate dalle fonti? «Un breve riferimento topografico è stato fatto da Pausania, durante il suo passaggio in Messenia intorno al 160 a.C. L’antico viaggiatore tramanda che la città dei thouriates (gli abitanti di Thouria) si trovava a una distanza di circa 80 stadi (equivalenti a poco meno di 15 km) dalla città di Fare e che la sua valle era solcata dal fiume Aris. Inoltre, scrive che in questa località si trovava l’omerica Antheia, una delle città che Agamennone promise ad Achille per convincerlo a tornare e partecipare alla guerra. Un’informazione importante, che ci arriva da Pausania, è che, al suo tempo, i thouriates scesero dalla loro città, che si trovava su un’altura, e si insediarono nella valle, mentre fa riferimento anche alla presenza di due templi importanti: della dea Atena e della dea Siria. Secondo Strabone, la città va identificata con l’omerica Epea. Riferimenti storici per Thouria vengono forniti anche da Tucidide, il quale, durante la narrazione delle guerre messeniche, scrive che Thouria fu vicina agli Spartani già dalla fine del68 a r c h e o
A sinistra: cartina della Grecia con, in evidenza, la localizzazione di Thouria. Nella pagina accanto: uno scorcio di un tratto delle mura della città antica, ripreso da sud-est. Fine del IV sec. a.C.
l’VIII secolo a.C., quando la Messenia fu asservita ai Lacedemoni. Altre informazioni sulla città si trovano in Polibio, nella trattazione del contesto storico generale della Messenia. Numerosi riferimenti provengono anche dalle iscrizioni rinvenute nella regione». Qual è l’origine del toponimo Thouria? «Letteralmente significa “insediamento d’altura” e il suo uso si consolida nell’ultimo quarto dell’VIII secolo a.C., quando i conquistatori lacedemoni si stabilirono in Messenia: in quel periodo cadde in disuso il toponimo omerico Antheia».
La morfologia del terreno non facilita l’accesso al sito e ha di conseguenza ostacolato il vostro intervento, non è vero? «La collina sulla quale sorgeva la città antica non è stata interessata da interventi edilizi moderni, ma le colture agricole intensive, le trasformazioni del suolo con l’uso di mezzi meccanici e la realizzazione di strade rurali hanno provocato danni significativi, soprattutto alla parte del sito che si sviluppa in cima alla collina. Inoltre, un fenomeno geologico grave, che secondo le nostre osservazioni era presente già in antico, ma che continua a costituire una minaccia, è la friabilità del terreno, che è causa di frane sulle pendici della collina (soprattutto quella orientale e quella occidentale). Tale fenomeno causò la distruzione e l’abbandono dell’Asklepieion, il tempio di Esculapio, e costituisce il problema principale per la continuazione delle indagini in questo settore». Che cosa si osserva in epoca coeva negli insediamenti vicini? Fu un periodo di generale crescita per il Peloponneso e piú in particolare per l’area di Calamata? «Dopo la ritirata degli Spartani e la fondazione dello Stato libero di Messene, seguí un periodo di prosperità, che vide crescere molte città della regione. Tra queste, Thouria fu sicuramente una delle maggiori, se non la piú importante del nuovo Stato, ovviamente dopo Messene».
Siete stati sorpresi dalla recente scoperta del teatro? «Informazioni sulla presenza di un teatro a Thouria si ritrovano nelle descrizioni di viaggiatori stranieri, che visitano la località verso la metà del XIX secolo. Tuttavia, a causa delle alterazioni geomorfologiche della zona, non avevamo potuto ricavare indicazioni utili per la localizzazione esatta della struttura. La ricerca del teatro ha costituito il mio interesse di ricerca primario negli ultimi 10-15 anni, durante i quali ho effettuato
ricognizioni di superficie, ma anche saggi di scavo su tutta l’estensione della città antica, volti alla sua individuazione. Dal 2015 le ricerche si sono intensificate e sono state svolte prospezioni geofisiche – in collaborazione con il geologo Lazaro Polimenako –, in una zona in cui gli indizi topografici e archeologici indicavano probabile la presenza del teatro. L’indagine geofisica ha ulteriormente confermato l’ipotesi iniziale. I saggi effettuati nel 2016 hanno portato alla luce testimonianze
Fra tutela e ricerca Nata ad Atene, Xeni Arapogianni ha studiato nella capitale greca e a Salonicco. Entrata nell’organico del Ministero dei Beni Culturali, ha ricoperto numerosi incarichi presso le Sovrintendenze di Delfi, delle Antichità Subacquee, dell’Attica, di Olimpia e della Messenia. Ha inoltre curato il riallestimento del Museo Archeologico di Olimpia, del Museo della Storia delle Olimpiadi nell’Antichità, del Museo della Storia degli Scavi a Olimpia, del Museo Archeologico di Ilida, del Museo Benaki di Calamata e del Museo Archeologico di Messene. Dal 2007 dirige gli scavi nell’antica Thouria.
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SCAVI • GRECIA
inconfutabili della struttura, come il muro di rinforzo settentrionale e un settore dell’orchestra circolare, seguito da una parte dei sedili della prima fila della cavea (proedria). Nel 2017, infine, lo scavo sistematico ha dato forma all’antico edificio per spettacoli: è stato portato alla luce l’intero perimetro dell’orchestra con la fossa di drenaggio che la circonda, le proedria, parte della cavea e degli ambienti dietro le quinte (in greco skinothíki)». In quale misura la romanizzazione ha influito sulle vicende della città? «L’area dell’antica Thouria non è mai stata indagata archeologicamente nel passato, tranne le tombe micenee, riportate alla luce nel quadro degli scavi di emergenza condotti dalla Sovrintendenza Archeologica. I primi scavi sistematici sono cominciati nel 2009 sotto l’egida 70 a r c h e o
della Società Archeologica di Atene e sotto la mia direzione. È ancora prematuro parlare del ruolo dell’impero romano nella vita della città, poiché non disponiamo di informazioni storiche sufficienti, né di elementi di scavo. È però certo, come indica chiaramente Pausania, che, già nella sua prima fase romana, la città fu spostata dalla collina alla vasta e fertile pianura che si espande sulle pendici occidentali. Su questa pianura non sono state ancora condotte indagini, ma, nella zona denominata “Loutra” (Terme), si sono conservati in condizioni eccellenti i resti di un ampio complesso termale, la cui prima fase di utilizzo è databile all’età imperiale e che fu in uso probabilmente fino all’epoca tardo-romana. Inoltre, piú di un’iscrizione rinvenuta a Thouria testimonia degli eccellenti rapporti dei thouriates con gli imperatori e i funzionari romani».
indagini di lungo periodo anche in altre parti della città, per avere un quadro piú completo sulla sua estensione effettiva e sulla sua articolazione, per ottenere elementi importanti sull’assetto politico e socio-economico e per chiarire il ruolo di Thouria nel piú ampio contesto della Messenia. Come ho già ricordato, lo scavo di Thouria si svolge sotto l’egida della Società Come si è arrivati alla decadenza della città e al Archeologica di Atene, in forza di una delibera del Ministero dei Beni Culturali. I fondi sono assicurati da suo abbandono? «La città ha avuto un destino comune a quello dello sponsorizzazioni di istituzioni ed enti privati, alle quaStato messenico, anche se non sappiamo fino a quan- li si aggiunge il supporto del Comune di Calamata e do sia rimasta sotto l’influenza di Sparta. Sembra, della Regione del Peloponneso». tuttavia, che il suo degrado coincida con quello di Messene, iniziato nel IV secolo d.C., all’indomani Avete allo studio anche progetti di valorizzaziodell’invasione nel Peloponneso da parte dei Goti. Dal ne del sito? VI-VII secolo, sulle rovine di Thouria si impiantò un «L’antica Thouria è un’ampia area archeologica, riconosciuta e protetta dallo Stato. Gli scavi che si susseinsediamento protobizantino». guono sistematicamente dal 2009 hanno portato Quali sono i prossimi obiettivi del vostro progetto? alla luce solo una piccola parte dell’abitato, che si estende su un territorio vasto, mai indagato prima E chi ne sta garantendo la realizzazione? «Nell’immediato futuro intendiamo riportare integral- d’ora. È dunque ancora presto per parlare, per esemmente alla luce il teatro. Stiamo inoltre pianificando pio, di un parco archeologico, la cui creazione riIn alto: frammento di grondaia in terracotta a forma di protome leonina. A sinistra: uno scorcio dei resti del tempio di Esculapio (Asklepieion), ripreso da nord-ovest. IV-I sec. a.C.
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SCAVI • GRECIA
chiederebbe anche l’esproprio di terreni privati, con costi elevati. A oggi, lo scavo dell’Asklepieion è concluso e l’area potrebbe già diventare visitabile, poiché offre un’immagine chiara del tempio e dei monumenti connessi. Si può inoltre prefigurare la
Sulle due pagine: veduta panoramica dello scavo del teatro. Nella parte inferiore, si riconoscono le prime file della cavea. Qui sopra: uno degli ambienti delle terme di epoca romana. A sinistra: l’ingresso della tomba reale micenea. Nella pagina accanto: la direttrice dello scavo, Xeni Arapogianni, assieme al gruppo di scavatori, tra i resti del teatro. Sono visibili dal basso verso l’alto, la prima fila dei sedili della cavea (proedria), l’orchestra con – antistante – la fossa di drenaggio circolare, e il basamento degli ambienti dietro le quinte (skinothíki).
realizzazione di un percorso archeologico, che colleghi l’Asklepieion con il teatro, con la necropoli micenea e con la tomba reale, offrendo al visitatore una visione dell’abitato attraverso le diverse epoche di frequentazione. Per attuare un simile programma, occorre però garantire l’accessibilità agli spazi dei monumenti, prevedendo anche la messa in opera di un’adeguata rete di percorsi carrabili, armonicamente inserita nel contesto archeologico». 72 a r c h e o
Dottoressa Arapogianni, vuole aggiungere ancora qualcosa? «Vorrei ringraziare i miei colleghi di scavo, archeologi, architetti e tecnici per l’entusiasmo e l’operosità. Ringraziamenti speciali vanno anche al Comune di Calamata (Kalamàta) e alla Regione del Peloponneso per il sostegno economico e morale, nonché ai nostri sponsor: “Istituto Vassili e Karmen Konstantakopoulou”,“Istituto Psycha”, “Anfizionia Messenica”, “Società Amici Antica Thouria”. Sono particolarmente riconoscente
all’“Istituto Giorgio e Victoria Karelia” per il fondamentale sostegno economico fornito agli scavi, fin dagli inizi, e, soprattutto, alla signora Vicky Karelia, che ha creduto nel nostro progetto e ci ha sostenuto con grande generosità. Senza il suo supporto, le ricerche nell’antica Thouria non avrebbero avuto l’estensione e gli eccezionali risultati che oggi possiamo apprezzare». Per ulteriori informazioni sulle ricerche in corso, si può consultare il sito http://ancientthouriaexcavation.gr/
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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POMPEI • IL CULTO DEI LARI
DEVOZIONE FATTA IN CASA I NUMI TUTELARI ERANO PARTE INTEGRANTE DELLA VITA FAMILIARE NELL’ANTICA POMPEI. IN QUASI TUTTE LE ABITAZIONI VENIVA RICAVATO UNO SPAZIO PER QUESTA PARTICOLARE FORMA DI RELIGIOSITÀ, IL LARARIO: UN SACELLO CHE PRESENTAVA VARIE FORMULAZIONI DECORATIVE, A SECONDA DELLE DISPONIBILITÀ FINANZIARIE DEL PROPRIETARIO di Lara Anniboletti 74 a r c h e o
Pompei, Termopolio di Vetuzio Placido. Nel larario i lares ludentes sono raffigurati ai lati del Genius patrisfamilias, intento a bruciare incenso su un thymiaterion; Mercurio con la borsa (il guadagno) e Dioniso con la patera (il vino) sono i numi tutelari della bottega.
si comuni, non solo nei templi e nella piazza pubblica, ma anche nelle vie, nelle case private e negli spazi comuni, dove avviene l’integrazione del gruppo familiare nella compagine sociale. Il larario è presente a Pompei, quasi in ogni domus e in varie formulazioni, a seconda delle disponibilità finanziarie del proprietario: dalla semplice nicchia intonacata, costituita da un incavo quadrato o rettangolare o ad arcosolium; a un’edicola piú o meno monumentale collocata sopra a un alto podio, fino a un vero e proprio affresco murale, a cui è anteposto un altarino, a volte sostituito da piccole are mobili.
N
on esiste luogo in cui la vicinanza tra gli dèi e gli uomini nella quotidianità dei riti sia piú palpabile di quanto accada a Pompei: la religione antica, a differenza di quella moderna – fondata su un rapporto trascendentale con il divino –, considera i numi tutelari parte integrante della vita familiare. Le nicchie affrescate con le divinità protettrici, i Lares,
figurano nelle botteghe aperte sulle vie; gli dèi convivono con la «famiglia» all’interno delle abitazioni, vigilando dall’alto dei sacrari domestici; presso gli incroci stradali i sacelli compitali sono luoghi di incontro del vicinato. La storia della città vesuviana è dunque quella di una comunità che vive in un’armonia garantita dalla celebrazione di rituali religio-
GIOVANI DANZANTI Presso i sacelli sono raffigurate le immagini dei numi tutelari: i Lares Familiares, in origine spiriti degli antenati, poi divenuti per estensione numi tutelari del focolare e il genius della casa, la forza generatrice del capofamiglia garante della continuità. I Lares vengono generalmente rappresentati come due giovani danzanti (ludentes), vestiti di una corta tunica e con i calzari ai piedi, che eseguono un movimento flessuoso e armonioso, simile appunto a una danza. Con il braccio sollevato sopra al capo reggono un rhyton (vaso rituale per bere, in forma di animale), dal quale scende come uno zampillo il vino, che essi attingono da una patera (o una situla), sorretta dall’altra mano. Oltre i Lari, è dipinto l’altare su cui sono deposte le offerte, quali pigne e uova, e su cui convergono uno o due serpenti affrontati, con testa barbata e crestata. I serpenti sono spiriti dotati di energia positiva (agathodaemoni) ed espressione a r c h e o 75
POMPEI • IL CULTO DEI LARI
della manifestazione del genius loci. Piú raramente, e soprattutto negli ambienti servili, troviamo l’immagine dell’animale sacrificale (il maiale) o di elementi culinari (salsicce, spiedi con parti di carni) che alludono al banchetto in onore delle divinità in cui, durante la celebrazione del sacrificio, la vittima veniva immolata e consumata.
i calchi di tali ritratti (imagines maiorum), ricavati direttamente dalla maschera in cera del defunto e tramandati poi di generazione in generazione. In epoca posteriore il progressivo ampliamento degli spazi di rappresentanza e ricevimento portò al proliferare dei larari nei peristili e nei giardini, come nel caso del ricercato apprestamento di culto del-
DÈI E ATTRIBUTI Ai Lari il proprietario di casa può associare divinità proprie del suo pantheon domestico: Fortuna, che, come garantiscono i suoi attributi (timone e corno dell’abbondanza), assicura la prosperità vegliando sulla buona riuscita degli affari; Ercole, il deus bonus garante della felicità; Vesta, per la sua intima connessione con il fuoco simbolo della dimora stessa; Bacco, il cui culto gode sempre di molto favore; e infine Mercurio, patrono del commercio e del guadagno. Le raffigurazioni di Sarno, il fiume su cui sorge la città e dispensatore della sua ricchezza, e di Venere Pompeiana, la dea protettrice di Pompei, attestano l’importanza dei culti locali nella sfera domestica. In associazione con le rappresentazioni di Lari e Penati troviamo spesso il Genius Familiaris, raffigurato con la toga e il capo velato, a volte dotato dell’attributo del corno dell’abbondanza, il quale, a differenza dei Lari e dei Penati, non è legato a un luogo, ma a persone: ciascuno è accompagnato per tutta la vita dal proprio genio! I larari delle dimore pompeiane sono ubicati principalmente negli atri e zone limitrofe (come le alae, il vestibolo o i cubicula vicini). Qui veniva posto il focolare domestico di cui i Lari sono i custodi, qui avvenivano i principali rituali della vita familiare, tra cui i pasti in comune, qui erano esposte le immagini degli antenati e collocati gli archivi della gens. Nel sacello della Casa del Menandro si conservano eccezionalmente
Nella pagina accanto: larario a edicola nell’atrio della Casa del Menandro. In basso: statuetta in bronzo di lar, che con il braccio sollevato regge un rhyton e nell’altra mano una situla, da Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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la Casa del Principe di Napoli, elegantemente posto nel giardino come una fontana ornamentale. Nelle grandi domus, come in quella del Menandro o degli Amorini Dorati, sono documentati diversi sacrari domestici, il piú solenne e tradizionale nell’atrio, uno di fattura piú corsiva nel quartiere servile presso il bancone della cucina, e un altro di raffinata fattura nel viridarium, dove, nello spirito del sincretismo religioso tipicamente romano, è consentito venerare anche divinità piú esotiche, come Iside. Il culto domestico diviene cosí preziosa testimonianza dell’organizzazione sociale degli spazi della casa e della familia, nel cui ambito ogni attività – dalla nascita alla morte, dal lavoro al teatro – è profondamente contaminata dalla presenza della religione. Polibio stesso si stupiva del fatto che nella vita privata, non meno che in quella pubblica, gli aspetti sacri avessero un ruolo cosí preponderante: agli dèi domestici si indirizza una preghiera al mattino e al momento del pasto comune della famiglia, quando una parte del cibo viene consacrata ai Lari, bruciandola sul fuoco. La patella e la saliera, oggetti funzionali all’offerta quotidiana di farro, uova, pigne, focacce, miele (e sale) fanno parte dell’arredo di ogni abitazione.
PRIMA DI COMBATTERE Una volta al mese, alle Calende, gli dèi vanno però onorati con piú fervore: occorre versare incenso sui bruciaprofumi, compiere libagioni di latte e vino e ornare i larari di ghirlande fresche. Solo eccezionalmente, in occasione di particolari circostanze della vita familiare, si immola al Lar Familiaris un maiale o un agnello. I Lari si implorano in occasione della partenza per la battaglia; a loro la sposa offre una corona di fiori per la felicità della nuova casa e, il giorno precedente il matrimonio, depone le pupattole di lana della fanciullezza che si appresta a
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STORIA • STORIA DEI GRECI/14
lasciare per sempre. Nel sacello domestico il ragazzo di diciassette anni appende la toga giovanile (praetexta) e la bulla (l’astuccio simbolo di nascita libera che portava al collo), dismessi al momento del passaggio all’età adulta, quando indosserà la toga virile e sarà iscritto alla tribú acquisendo diritto di voto; ai Lares ci si rivolge in occasione della nascita di una nuova vita o della morte, poiché, dopo i funerali, la casa torna a essere pura soltanto dopo il sacrificio di due arieti. E ancora Varrone ci ricorda che nell’unione antica celebrata sotto forma di coemptio, la sposa, secondo un’antica legge romana, arrivando nella casa del marito porta tre assi, uno nella mano per il coniuge, l’altro nella scarpa da porre nell’altare domestico del marito, il terzo in una borsa per il compitum vicinale. 78 a r c h e o
In basso: il larario rinvenuto nei primi anni Ottanta del Novecento nella Villa 6 scoperta a Terzigno, località situata pochi chilometri a nord di Pompei.
A sinistra: il larario nella cucina della Casa del Porcellino, su cui sono sono raffigurati i Lari intorno all’altare, la coppia dei serpenti agthodaemoni ed elementi culinari quali la testa di maiale e le carni negli spiedi. A destra, in alto: nel larario della Casa del Criptoportico compare Mercurio, nume tutelare della dimora. A destra, in basso: il Genius patrisfamiliae affiancato dai Lares nel sacello della Casa delle Pareti Rosse.
Questo antico costume, oltre a testimoniare la stretta relazione che intercorre tra l’abitazione romana, i Lari e il vicinato, ci informa dell’esistenza di un altro tipo di numi tutelari, i Lares Compitales, protettori delle vie, dei quartieri e della stessa collettività cittadina. Il culto dei Lari venne infatti trasferito dall’ambito familiare a quello pubblico e ancora una volta Pompei ci offre una preziosa documentazione: all’altezza dell’incrocio tra uno degli assi principali della città e una strada secondaria, si contano una trentina di compita, ossia cappelle piú o meno monumentali caratterizzate da altare, nicchia e rappresentazione religiosa. Nei pannelli è raffigurato il sacrificio destinato ai Lares Compitales officiato dai magistri vici, un collegio di quattro membri eletto dagli abitana r c h e o 79
POMPEI • IL CULTO DEI LARI
ti di ogni quartiere. In epoca augustea al culto dei Lari venne aggiunto il Genio dell’imperatore, consolidando anche l’aspetto politico di tale religiosità domestica. Una volta all’anno, in occasione dei Compitalia, festa mobile correlata alle lunazioni e celebrata in gennaio dopo i Saturnalia, le famiglie del vicus, formato un corteo, percorrono la strada principale e si uniscono nei pressi dell’edicola affrescata con i Lari, dove si celebra il sacrificio comune del maiale, seguito dal banchetto. Fegato, cuore e polmoni della vittima (exta) sono infilati su uno spiedo posto sul fuoco dell’altare e consacrati alle divinità, le carni dell’animale vengono consumate dai presenti. In alto: una veduta del larario nel giardino della Casa del Principe di Napoli. A sinistra: nell’elegante nicchia su podio che costituisce il sacrario della Casa del Menandro, situato presso il peristilio, si conservano i calchi delle cinque originarie immagini degli antenati realizzati in legno o cera. Nella pagina accanto, in basso: un’immagine del sacello compitale situato all’incrocio tra Via Vesuvio, Via della Fortuna e Via di Nola.
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La festa è accompagnata da esibizioni (ludi scenici) organizzate nei principali compita, e caratterizzate da rappresentazioni ambulanti – in cui si esibiscono lottatori, artigiani, attori –, gare di lotta, di pugilato, concorsi burleschi, sostituiti poi in età imperiale dai munera, gli spettacoli gladiatori. In età arcaica, la sera precedente la festa, era usanza appendere alle porte di casa pupattole di lana rappresentanti ciascun membro della famiglia e palle raffiguranti gli schiavi, «affinché i Lares, divinità infere, risparmiassero i vivi accontentandosi di quei simulacri».
UNA TESTIMONIANZA PREZIOSA Delo, una delle maggiori isole dell’aricpelago greco delle Cicladi, fu un importante centro di scambio di epoca ellenistica, nel quale risiedette una prospera comunità di mercanti italici, molti dei quali provenienti dalla Campania. A questa presenza vanno ricondotti alcuni apprestamenti cultuali del tutto simili a quelli presenti a Pompei. Nelle raffigurazioni ricorrono le scene del sacrificio del maiale con gli elementi già analizzati nella città vesu-
Pompeiani in trasferta? Nei quadretti sono riprodotte scene dipinte sulla facciata di alcuni edifici dell’isola greca di Delo, e, in particolare, all’ingresso del Magasin des Colonnes (in alto) e nella Maison I D nell’insula I del Quartier du Stade:
nella prima sequenza, due togati si avvicinano all’altare accompagnati da un camillo, che regge un piatto di frutti; nella seconda sequenza, i ministri del culto appaiono impegnati nel sacrificio del maiale.
viana, a testimonianza di un linguaggio culturale e figurativo comune a tutto il mondo mediterraneo: e, in aggiunta a queste, figurano atleti impegnati nella lotta al pancrazio o in gare di pugilato, che dovevano svolgersi in occasione dei ludi compitalicii. Ruolo attivo nei Compitalia avevano gli schiavi, che si occupavano personalmente del sacrificio attraverso i ministri vici, rigorosamente di estrazione servile e ai quali quel giorno erano accordate particolari libertà. Proprio la presenza significativa della plebe in tali manifestazioni e la connotazione politica dei Compitalia, fece sí che durante la guerra sociale il culto dei Lari presso i crocicchi venisse soppresso nel timore di tumulti, e che venisse ripristinato da Augusto con un nuovo spirito all’interno della riforma urbanistico-religiosa. Come il paterfamilias si prendeva cura del proprio nucleo familiare all’interno delle mura domestiche sacrificando ai Lari per ottenerne la protezione, cosí Augusto, o meglio il suo Genius, provvedeva all’intera collettività dei cives, sua grande familia.
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SPECIALE • TROIA
RITORNO A
TROIA
VENTI ANNI FA LA COLLINA DI HISSARLIK (IL «LUOGO DELLA FORTEZZA»), NEI PRESSI DELLO STRETTO DEI DARDANELLI E IDENTIFICATA CON LA LEGGENDARIA CITTÀ DI PRIAMO, FU PROCLAMATA PATRIMONIO MONDIALE DELL’UMANITÀ DALL’UNESCO. UNA MISSIONE INTERNAZIONALE, GUIDATA DALL’ARCHEOLOGO MANFRED KORFMANN, STAVA ALLORA EFFETTUANDO, NEL SITO RESO CELEBRE DAGLI SCAVI OTTOCENTESCHI DI HEINRICH SCHLIEMANN, NUOVE E SORPRENDENTI SCOPERTE. LE INDAGINI, INTERROTTE NEL 2011 E MAI PIÚ RIPRESE, HANNO RIVOLUZIONATO IL QUADRO DELLE CONOSCENZE SULL’ANTICO SITO di Michael Siebler 82 a r c h e o
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Una scena dal film Troy, diretto nel 2004 da Wolfgang Petersen e ispirato all’Iliade. Le ricostruzioni sono basate sulle ipotesi circa la reale estensione dell’antica città emerse dalle indagini archeologiche nel sito di Hissarlik, condotte sotto la direzione di Manfred Korfmann.
roia, Omero e Schliemann: ancora oggi, a circa 150 anni di distanza dai primi scavi effettuati nel leggendario sito, questa triade di nomi fa da sfondo a uno dei capitoli piú affascinanti della storia della conoscenza, nonché da trama di una delle piú grandi avventure dell’archeologia. Ma riassumiamone, brevemente, la storia. Nel 1870 Heinrich Schliemann inizia i suoi scavi sulla collina di Hissarlik, situata sulla costa occidentale della Turchia. Qui, in vista dei Dardanelli, che iniziano dall’Ellesponto, la via d’accesso al Mar Nero e, al contempo, via di collegamento tra l’Europa e l’Asia, il ricco commerciante del Meclemburgo voleva trovare Troia, la «sacra Ilio», lo scenario dell’epos omerico che conosciamo con il nome di Iliade. E ci riuscí. Sepolti sotto metri di detriti, giacevano i resti di numerosi insediamenti di epoche remote, alcuni dei quali da identificarsi con le vestigia delle dimore degli antichi dinasti. Schliemann si convinse ben presto di aver trovato realmente, sotto e tra i resti architettonici e murari, la città del re Priamo. Il ritrovamento di un grande tesoro, passato alla storia con il nome di «tesoro di Priamo», poteva esserne la conferma definitiva. L’esploratore solitario aveva smentito tutti coloro che, prima di lui, avevano cercato la fortezza, la cui fine – secondo Omero – era stata decretata dallo stratagemma del cavallo di legno. D’un tratto, il mito greco della guerra di Troia – la campagna militare degli Achei contro la roccaforte di Priamo situata sulla costa occidentale dell’Asia minore – apparve inconfondibilmente reale; lo stesso Omero si confermò narratore di avvenimenti storici e la sua Iliade una miniera di particolar i geografici e di dati stor ici. Schliemann, fidandosi delle descrizioni di Omero, aveva trovato Troia, la città alla cui esistenza, del resto, già gli antichi avevano fermamente creduto. L’archeologo aveva avuto fede in Omero: e, dunque, se il leggendario poeta aveva raccontato la verità, allora doveva esserci stata anche la guerra da lui descritta, nonché le rovine della città in cui essa si svolse. Va detto, però, che, da un punto di vista strettamente archeologico, le rovine portate alla luce nella collina di Hissarlik dimostravano – per il momento – una cosa soltanto: l’esistenza (e il declino) di un’
imponente roccaforte strategicamente situata all’imbocco dei Dardanelli. L’ironia della sorte fece il resto: pur essendo vero che Schliemann scavò nel luogo che gli stessi Greci e i Romani avevano identificato con la Troia dell’Iliade, i resti che indagò (oggi riferiti allo strato di Troia II) e che egli ritenne appartenere alla «città di Priamo», erano piú antichi di circa mille anni rispetto a quelli che oggi vengono unanimemente considerati appartenenti alla città cui si riferisce Omero (oggi denominati Troia VI e VIIa). Fu un errore di valutazione del quale Schliemann si rese conto solo poco prima della sua morte.
UN RACCONTO INFINITO In principio, dunque, era l’Iliade. I 15 693 esametri di questo poema costituiscono la prima forma di letteratura universale della cultura occidentale che ci sia pervenuta. L’Iliade è la madre della lirica, del romanzo, della tragedia e della commedia, è – in breve – la cellula embrionale di tutti i generi letterari a noi noti. Le molteplici influenze esercitate da quest’opera sulla storia della nostra civiltà non sono ancora state esplorate del tutto e, possiamo scommetterci, essa continuerà a impegnare e ispirare generazioni di studiosi, poeti, artisti, compositori e autori di opere teatrali. La fortuna dell’Iliade iniziò non appena ne fu completata la stesura, avvenuta nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. Fissando per iscritto un piccolo frammento del ciclo di leggende sorte intorno al declino della città di Priamo, Omero gettò le basi per la formalizzazione del mito di Troia. Oggi sappiamo che già prima di Omero si raccontavano storie che avevano come tema le vicende belliche svoltesi nella città di Troia. L’Iliade, però, crea un modello che – secondo l’espressione dello studioso e specialista di Omero Joachim Latacz – «richiede una presa di posizione»: la lotta tra Achille e Agamennone, il destino di Patroclo ed Ettore, il ruolo dell’astuto Ulisse, il comportamento di Paride e della bella Elena e i molti altri episodi del componimento, tutti questi episodi e molti altri ora sfidavano ascoltatori e lettori a schierarsi. Una sfida raccolta da poeti, artisti e conoscitori dell’epos, che vi risposero con la creazione dei vasi istoriati con episodi ispirati al mito, con il componimento delle antiche a r c h e o 83
SPECIALE • TROIA
tragedie che all’Iliade fanno riferimento, con la stessa virgiliana Eneide. Da sempre, però, la questione di Troia era circondata da incertezze. Cosí, già nell’antichità (sebbene i Greci stessi non avessero mai dubitato dell’effettiva storicità della guerra di Troia), non si conosceva piú l’anno esatto in cui i Greci avevano conquistato Ilio: Duride di Samo citò l’anno 1334 a.C., Erodoto optò per il 1250 a.C., altri ancora indicarono l’anno 1183 a.C. Il cosiddetto «Marmor Parium», l’annale greco scolpito nel marmo, riportava addirittura il giorno della
A destra: l’area egea con la localizzazione di Troia. Nella pagina accanto: ritratto di Heinrich Schliemann. Mosca, Museo Pushkin.
UN PIONIERE IN MATERIA DI DOCUMENTAZIONE DI SCAVO Sulla rocca di Troia, Heinrich Schliemann imparò a conoscere l’utilità della stratigrafia, il metodo che consiste nella semplice equazione secondo la quale, se si considerano vari strati archeologici sovrapposti, quello superiore deve necessariamente essere piú giovane di quelli che di volta in volta si trovano al di sotto. Egli riconobbe anche l’importanza della ceramica ai fini della determinazione e della datazione dei siti archeologici, le problematiche legate alla storia dell’insediamento, riconobbe i frammenti ceramici come
fossili-guida per una cronologia relativa e assoluta. Ciò che oggi già gli studenti di archeologia dei primi anni probabilmente considerano lapalissiano, ai tempi di Schliemann era ancora un terreno assolutamente inesplorato. Egli fu il primo archeologo che non solo documentò vasi perfettamente conservati, ma che cercò di catalogare sistematicamente anche i semplici «cocci». E riconobbe anche l’utilità e la necessità della fotografia, ancora alle prime armi, per la documentazione dei reperti e del contesto di scavo.
Ma r N er o Istanbul
Troia Grecia
Mar E geo
Micene
Itaca
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Atene Tirinto
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Sparta Rodi
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Creta
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conquista e della distruzione: il 5 giugno del 1209 a.C. E poiché, durante il Medioevo, si era persa la conoscenza della posizione geografica della città e l’epos omerico finí per essere considerato come una mera finzione poetica, si alzarono le voci di coloro che non solo contestavano al poeta l’originalità della sua opera, ma esiliavano la stessa figura di Omero nel regno della fantasia.
DUBBI E CERTEZZE Nacque, cosí, tutta una serie di dubbi: ci fu veramente la guerra di Troia come l’aveva tramandata Omero, o si trattava soltanto dell’impressionante invenzione di un narratore di talento? L’epica omerica rispecchia la civiltà micenea dell’età del Bronzo o tali poemi non riflettono piuttosto l’epoca in cui visse Omero, ovvero la nobiltà dell’VIII secolo a.C.? Ai critici si contrapponevano coloro che non dubitavano dell’esistenza di Omero come poeta dell’Iliade, né della veridicità delle storie da lui tramandate. Di questi ultimi faceva parte anche Heinrich Schliemann, sebbene, in fin dei conti, egli non avesse fornito alcuna prova inconfutabile a favore dell’identificazione di Hissarlik con il luogo cantato da Omero. Fu l’archeologo Wilhelm Dörpfeld (18531940), forte delle esperienze accumulate duA sinistra: incisione tratta dal volume Ilios di Heinrich Schliemann, rappresentante un’immagine dei primi scavi condotti dall’archeologo tedesco sotto il tempio di Atena di Hissarlik, negli anni tra il 1871 e il 1873. Si è ancora all’inizio dello sbancamento e da quello che dovevano, in origine, essere delle cantine, emergono file di grandi orci (pithoi) che servivano per conservare le derrate.
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«POVERO, GRANDE SCHLIEMANN...»
È
il 25 dicembre 1890. In Piazza della Carità a Napoli un uomo crolla a terra. Alcuni passanti lo conducono, semiparalizzato, mentre cerca invano di farsi capire, in un ospedale. Ma i medici si rifiutano di ricoverarlo, poiché l’uomo non ha con sé alcun documento. Lo sconosciuto viene trasportato al commissariato piú vicino e i poliziotti riescono a rintracciare il medico che aveva prescritto la ricetta trovata addosso al malato. Un testimone dell’epoca ricorda: «Quella sera, mentre ero seduto [nella hall dell’hotel in Piazza Umberto a Napoli], un moribondo fu trasportato in albergo. Con il capo reclinato in avanti, gli occhi chiusi, le braccia penzoloni e il volto cinereo, fu portato dentro da quattro persone. Mi passarono accanto, quasi sfiorando la mia sedia con il loro triste carico. Dopo un po’ il direttore dell’albergo mi venne incontro e mi chiese: “Signore, lo sapete chi è quel malato?” “No.” “È il grande Schliemann! Il povero “grande” Schliemann!”. Aveva riportato alla luce Troia e Micene, raggiungendo una fama immortale, e ora giaceva lí, in fin di vita…». Fu lo scrittore polacco Henryk Sienkiewicz, autore del celebre romanzo Quo Vadis, a descrivere con queste parole il suo primo, e unico, incontro con Heinrich Schliemann. Un’équipe di otto medici decide di operarlo il giorno dopo, ma non sarà in grado di salvarlo. Schliemann morirà nel giorno di Santo Stefano all’età di 69 anni, in seguito alle conseguenze di un intervento chirurgico alle orecchie, a cui si era sottoposto il 12 novembre dello stesso anno, nella città tedesca di Halle. Poco tempo dopo, tutto il mondo venne a sapere della morte di quell’uomo, nato il 6 gennaio 1822 a Neubukow (presso Schwerin, nel Meclemburgo), il quale era convinto di aver trovato e dissotterrato Troia, la città cantata da Omero nell’Iliade, e, a Micene, la tomba di
Agamennone – il comandante dell’esercito greco che si era mosso contro Troia – e della sua stirpe. Wilhelm Dörpfeld, suo fedele collaboratore da molti anni (nonché fratello maggiore di Sophia, la moglie di Schliemann) si recò nella città ai piedi del Vesuvio, per prelevare le spoglie mortali e portarle a casa, in Grecia. Il 4 gennaio 1891 Heinrich Schliemann fu portato nella sua villa ateniese, l’Iliou Melathron (il «Palazzo di Ilio»), e posto sotto il busto del sommo poeta greco Omero. Sulla sua bara giacevano due volumi, l’Iliade e l’Odissea, le due opere che erano state per lui a un tempo Vangelo, guida di viaggio e libro di storia. Il re della Grecia insieme all’erede al trono, famosi uomini di scienza e altre personalità, vennero a tributargli gli ultimi onori. Il corpo di Schliemann fu seppellito in un mausoleo ispirato a un tempio dorico, con un fregio a rilievo tutt’intorno, in cui erano riprodotte scene dell’Iliade. Sulla sua tomba Dörpfeld espresse i sentimenti dei presenti in lutto, congedandosi dal suo amico e mentore con queste parole: «Riposa in pace, hai fatto abbastanza». In seguito, lo studioso inglese di Omero Walter Leaf (1852-1927) – autore anche di un’edizione critica dell’opera di Strabone – ha efficacemente commentato l’operato di Schliemann, affermando che «un uomo capace di porre il mondo a confronto con un problema completamente nuovo, può tranquillamente affidare ai posteri la ricerca della sua soluzione». Comunque, per l’archeologia Schliemann aveva fatto veramente abbastanza. Con i suoi scavi a Troia e a Micene, a Tirinto e a Orcomeno, aveva portato alla luce – e all’attenzione della scienza – l’età mitica degli eroi greci e dei protagonisti di Omero. Le sue ricerche, inoltre, hanno posato la prima pietra per lo sviluppo dell’archeologia dell’età del Bronzo nell’area mediterranea. a r c h e o 85
SPECIALE • TROIA
rante i suoi scavi a Olimpia, a portare avanti l’opera di Schliemann. A lui dobbiamo la suddivisione – basata sulle scoperte di Schliemann ma valida ancora oggi – della successione di strati archeologici sulla collina di Hissarlik. Da questo momento in poi, la successione dei diversi insediamenti viene indicata con numeri romani da I a IX, a partire dal basso verso l’alto. Tra il 1932 e il 1938, un’équipe di archeologi americani dell’Università di Cincinnati effettuò nuovi scavi sotto la direzione di
Carl William Blegen (1887-1971). Grazie all’evoluzione dei metodi, essi poterono perfezionare ulteriormente la suddivisione degli orizzonti insediativi stabilita da Dörpfeld, individuando numerosi sottostrati autonomi, che indicarono di volta in volta con lettere minuscole. Fino a oggi sulla collina di Hissarlik sono state individuate complessivamente 47 fasi costruttive. Dopo la conclusione dei lavori dell’équipe di Blegen, la collina sembrò esplorata a sufficienza dal punto di vista archeologico. È
Sulle due pagine: la città di Troia come doveva apparire alla metà del II mill. a.C. Sullo sfondo, le isole di Imbro e Samotracia, sulla sinistra la foce dello Scamandro.
UNA «PICCOLA CITTÀ» CON VISTA SUL MARE Hissarlik Tepe – la «collina della fortezza» – è la propaggine di un altopiano calcareo, situata tra le valli del Menderes e del Dümrek, dei due fiumi, cioè, resi celebri da Omero con i nomi di Scamandro e Simoenta. Dal punto piú alto della collina si gode di una buona visuale sulla costa dell’Egeo, distante circa 6 km, e sui Dardanelli, la via d’accesso per le navi dirette nel Mar Nero, distante circa 4,5 km. Non c’è dubbio che la posizione di Hissarlik fosse molto favorevole dal punto di vista strategico. In epoca tardomicenea, inoltre, a nord, ovest e sud-ovest la linea della costa era distante da 1 a 3 km dalle mura della città, come è stato riscontrato da studi geomorfologici eseguiti con trivellazioni nella zona costiera. Chi dominava questo altopiano e la
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pianura antistante, poteva controllare l’intero traffico navale che transitava nello stretto. Non c’è da meravigliarsi, dunque, della presenza, in questa zona, di insediamenti umani già in tempi remoti. Le prime tracce risalgono addirittura al IV millennio a.C. Chi oggi visita la rocca, in un primo momento resta sconcertato per il disordine e la sovrapposizione di resti di mura di difesa, fondamenta di case, rampe di pietra, teatri e fontane variamente conservati e costruiti con tecniche differenti. Questa concentrazione di costruzioni appartenenti a un arco di quattro millenni su una superficie tanto limitata – 150 x 200 m circa– rende estremamente arduo riconoscere quale tratto di mura appartenga a quale fase di insediamento.
La risposta alla domanda su come sia possibile l’esistenza di un tale intrico in un arco di tempo cosí lungo è semplice: Hissarlik è uno di quegli insediamenti umani che gli archeologi indicano con il termine tell (in arabo), hüyük (in turco), tepe (in persiano) o macula (in macedone). I tell sono rilievi artificiali, che si formano quando gli uomini vivono a lungo in un luogo e utilizzano per le loro costruzioni prevalentemente mattoni essiccati al sole. Le mura fatte con tali mattoni resistono solo pochi decenni, e, pertanto, devono essere continuamente rifatte. Ciò comportava il continuo livellamento dei vecchi edifici, sui quali venivano poi innalzate le nuove costruzioni. Ma anche eventi violenti quali terremoti o guerre potevano causare
vero che furono trovate tracce che indicavano le molteplici e considerevoli distruzioni avvenute nell’età del Bronzo a causa di guerre e terremoti, ma neanche la spedizione americana riuscí a trovare – tra i resti di mura difensive, porte, palazzi e abitazioni, ammassati per oltre venti metri d’altezza e finiti gradualmente l’uno sopra e accanto all’altro durante i vari millenni – conferma delle indicazioni lasciateci da Omero. Eppure anche Blegen, come i suoi predecessori, era convinto che in Omero si fosse conser-
il livellamento di uno strato dell’agglomerato urbano. Tali strati di detriti contengono oggetti di vita quotidiana, come ceramica, armi, frammenti di opere d’arte danneggiate o gioielli e altri preziosi. I nuovi insediamenti sorti sul tell venivano edificati sopra costruzioni piú vecchie, e dunque sorgevano a un livello piú alto del precedente insediamento. Nello stesso tempo, le aree edificate si allargavano continuamente poiché uno strato di copertura veniva addossato a, e sul, bordo del tell. Cosí, nel corso dei secoli, gli insediamenti crescevano sia in altezza, sia in larghezza. I regnanti di Hissarlik avevano anche un porto, in cui era ancorata la loro flotta e dove le navi mercantili potevano scaricare il loro carico. Si trovava a sud-ovest, nella baia di
vato almeno il riflesso dello storico conflitto tra Greci micenei e Troiani. Mentre Dörpfeld riconobbe nello strato di Troia VI la città citata nell’Iliade, Blegen la identificò con lo strato denominato Troia VIIa. Nonostante le incertezze, il mito di Troia continuò a esercitare il suo fascino, tenendo per decenni con il fiato sospeso i numerosi appassionati di Omero. Le aspettative furono perciò grandi, quando, nell’estate del 1988, dopo mezzo secolo di calma a Hissarlik, gli archeologi iniziarono nuovamente a scavare.
Besik. Ancora vent’anni fa, in questo luogo vennero localizzate sei sorgenti che fornivano complessivamente ben 48 litri di acqua al minuto. Ma l’argomento di sicuro piú convincente per la localizzazione del porto in questo luogo è la sua importanza per tutta la navigazione dalla protostoria all’età moderna. Infatti, dai Dardanelli proviene una corrente di deriva che può raggiungere i 9 km orari. Inoltre soffia un forte vento di nord-est che raggiunge mediamente i 16,2 km orari. Entrambi, corrente e vento, rendono notevolmente difficile l’ingresso nei Dardanelli. Solo raramente e per un breve periodo – tra aprile e giugno – si può contare su venti favorevoli. Se si considera che la navigazione a vela
controvento non era ancora in uso nell’età del Bronzo, si può ipotizzare come le navi dirette verso il Mar Nero potessero gettare l’ancora solo nella baia di Besik e aspettare lí venti favorevoli. Ai mercanti non restava altra scelta che attendere sulla spiaggia di Troia con il loro carico, e in cambio di ciò, pagare il dovuto tributo ai regnanti di Hissarlik. Fu, dunque, il vento a rendere ricca la città di Troia. Un dato che spiega perché questa fortezza sulla rotta per il Mar Nero abbia occupato per millenni una posizione di spicco, costituendo, al contempo, una spina nel fianco di molte popolazioni vicine e meno vicine. E questo predominio strategico fu sicuramente alla base causa delle numerose guerre troiane, di cui troviamo le tracce tra le rovine di Hissarlik.
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SPECIALE • TROIA
LA GUERRA DI TROIA: REALTÀ O FINZIONE?
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on finiranno mai di esistere coloro che tracciano sulla cartina il percorso che portò Ettore alla morte, e neanche coloro che conservano la fede in Hissarlik, ignorando completamente la reale conformazione del terreno in questione. Non sono certo questioni per le quali vale agitarsi e neppure vale la pena di prenderle sul serio»: con questa frase, nel 1906, il grande filologo classico Ulrich von Wilamowitz-Moellendorf pronunciò il suo devastante giudizio sull’operato di tutta la vita di Heinrich Schliemann. Questi, d’altra parte, era stato sempre convinto di aver trovato la Troia di Omero e, con essa, lo
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scenario dell’omonima guerra. Anche dopo Schliemann vi furono voci importanti che non respingevano totalmente la storicità di almeno alcune parti di quella tradizione, tra
cui quella di Carl William Blegen (1887-1971), uno degli scavatori di Troia. Altri importanti studiosi, al contrario, rifiutarono nettamente tali «ardite» conclusioni.
Sulle due pagine: altre immagini tratte dal film Troy (2004) di Wolfgang Petersen. La pellicola ha riproposto, in maniera spettacolare e con ampio uso di effetti digitali, lo scontro tra Achei e Troiani e il mito di Achille (interpretato da Brad Pitt, vedi nell’immagine in basso), ispirandosi liberamente alla narrazione omerica.
Piú di recente, soprattutto in seguito ai risultati dei nuovi scavi, la schiera dei positivisti è andata aumentando. Joachim Latacz, studioso di Omero e professore all’Università di Basilea, ha sostenuto, per esempio, che una guerra troiana del tipo di quella raccontata nell’Iliade può aver avuto luogo solo durante la fioritura dell’età micenea. Ma, se per lungo tempo gli studiosi erano partiti dal presupposto che con il declino della civiltà micenea, intorno al 1220 a.C., fossero scomparsi anche i destinatari del poema eroico, i nuovi studi hanno confutato questa supposizione: al contrario, per circa un secolo e mezzo, alla scomparsa dei palazzi
micenei fece seguito, in alcune zone della Grecia, un’epoca detta «tardo-micenea», con entità statali prive dei palazzi e senza scrittura, il cui stile di vita «palaziale», però, sembra testimoniare, in qualche modo, un ritorno al periodo d’oro della civiltà micenea. Secondo Latacz il nucleo del racconto troiano è stato concepito al piú tardi nell’XI secolo a.C., verosimilmente negli ambienti che gravitavano intorno al palazzo di Micene: «L’idea romantica – sostiene lo studioso – secondo la quale i membri della dinastia di Micene si sarebbero fatti intrattenere da cantastorie con racconti fantastici sulla lontana terra di Ilios, può
essere archiviata alla luce delle piú recenti scoperte circa il coinvolgimento, documentato da fonti scritte egiziane e ittite, tanto di Micene quanto di Wilusa (termine luvio-ittita di una località che gli studi recenti propendono a identificare con Ilios, n.d.r.), nei giochi di potere all’interno della rete politico-diplomatica del Mediterraneo nella tarda età del Bronzo». In sintesi, Latacz ritiene che la presenza di un substrato storico nell’Iliade sia «piú probabile che improbabile», dal momento che l’Iliade è un poema dell’VIII secolo a.C., nel quale le vicende di Troia svolgono solo una funzione di «cornice» al racconto vero e proprio. a r c h e o 89
SPECIALE • TROIA
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UNA PROSPETTIVA ORIENTALE In seguito alle indagini condotte tra il 1988 e il 2011, l’antica città appare oggi in una luce nuova e molto diversa da quella cui eravamo stati abituati dalla narrazione omerica
L
e nuove esplorazioni a Hissarlik vennero dirette da Manfred Korfmann, studioso di preistoria a Tubinga (vedi box qui accanto). Un’équipe internazionale, della quale fecero parte sin dall’inizio anche specialisti di scienze naturali, dotata dei piú moderni strumenti tecnologici e informatici, affrontò la fatidica collina. Tali erano le questioni lasciate aperte e tante le verifiche da eseguire, che i lavori vennero intrapresi con grandi aspettative. E, in effetti, le novità non si fecero attendere. Nessuno avrebbe potuto prevedere che nell’arco di pochi anni il nostro concetto riguardo alle vicende di Troia sarebbe cambiato in maniera sostanziale, che il significato storico e culturale del millenario insediamento andava completamente ridefinito e quali sorprendenti effetti i risultati degli scavi avrebbero prodotto nelle altre discipline scientifiche, come gli studi sumerici, gli studi sulla metallurgia antica, l’ittitologia, la storia dell’economia e della scienza.
ARCHEOLOGIA E DIPLOMAZIA Alle rivelazioni degli scavi di Hissarlik si aggiunsero, poi, proprio in quegli anni, avvenimenti straordinari nell’ambito della diplomazia internazionale: nel 1993, dall’ex Unione Sovietica era giunta la notizia che l’«oro di Priamo», scomparso dalla fine della seconda guerra mondiale, era stato tenuto rigorosamente sotto chiave nel Museo Pushkin di Mosca insieme ad altri preziosi reperti trovati da Schliemann durante i suoi
UN NOVELLO SCHLIEMANN Manfred Osman Korfmann (1942-2005) è stato professore di preistoria e protostoria all’Università di Tubinga (Germania). Specializzato in archeologia dell’età del Rame e del Bronzo in Anatolia, raggiunse notorietà mondiale come direttore degli scavi di Troia, iniziati nel 1988. Nel 1996 ottenne la realizzazione del Parco Storico Nazionale di Troia e, due anni dopo, l’iscrizione del sito nella lista del Patrimonio UNESCO. Nel 2004 gli viene conferita la cittadinanza turca e, in segno di riconoscenza verso il Paese che aveva accolto le sue ricerche, adotta il secondo nome di «Osman».
Nella pagina accanto: la disputa degli eroi per le armi di Achille raffigurata su una lekythos (bottiglia per profumi) a figure nere della Magna Grecia. V sec. a.C. Taranto, Museo Archeologico Nazionale.
scavi a Troia tra il 1873 e il 1890. Oggi possiamo, a buon diritto, affermare che al momento non esiste scavo archeologico, i cui risultati abbiano tanto radicalmente confermato o anche corretto convinzioni da lungo tempo consolidate, e che abbiano fornito nuove risposte a importanti interrogativi, quanto quello di Troia. Ed è bene sottolineare che, oltre alla fortuna dello scopritore, al successo delle nuove ricerche hanno fortemente contribuito l’approccio e il metodo con cui Manfred Korfmann aveva affrontato la collina di Hissarlik. L’archeologo di Tubinga, infatti, non si era proposto di intervenire con nuove argomentazioni nel già controverso dibattito sulla storicità della guerra di Troia (come invece aveva fatto un secolo prima di lui Heinrich Schliemann). Quello che, invece, gli interessava molto di piú era indagare il luogo, situato nel punto di sutura tra Europa e Asia, che palesemente già dal III millennio a.C., e dunque già molto prima dell’arrivo dei primi a r c h e o 91
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Greci, doveva aver svolto una funzione chiave come punto di snodo all’interno di un vasto e ramificato sistema di rotte commerciali. Per la prima volta nella storia della sua esplorazione, dunque, la collina di Hissarlik fu considerata un sito archeologico come tutti gli altri, libero da ogni connotazione storica e mitica. Rimane il fatto che nessuno di coloro che lavoravano sul posto poteva resistere al suo fascino e agli effetti della sua leggenda. E furono proprio i risultati dei nuovi scavi a riportare ben presto in primo piano l’argomento «Omero», inizialmente messo deliberatamente da par te dall’équipe di Korfmann. I resti degli edifici dell’età del Bronzo, quelli relativi alle fasi di TroiaVI eVIIa (il cui declino era stato ripetutamente messo in relazione con la mitica guerra di Troia), serbavano sorprese straordinarie: anno dopo anno, tassello dopo tassello, la pianta della città prese forma. Nessuno, tra quanti si
fossero trovati sulla collina di 150 x 200 m prima dell’inizio degli scavi del 1988, avrebbe mai potuto immaginare che qui, un tempo, si trovava il centro di potere di uno dei grandi nemici di Micene. Se paragonate alle mura ciclopiche e alle dimensioni delle fortezze greche e alla loro grandezza, le costruzioni di Hissarlik finivano decisamente in secondo piano; l’estensione di Troia – cosí doveva presumere il visitatore – era chiaramente circoscritta all’area situata all’interno delle mura portate alla luce e appartenenti alla sua sesta fase di insediamento.
LA «NUOVA» CITTÀ Poi, però, si verificò una scoperta assolutamente imprevedibile: di fronte alle mura della fortezza, in direzione sud, si estendeva per circa 500 m una vasta «città bassa», munita di un fossato difensivo, di porte e di una propria cerchia muraria. Nel giro di pochi anni, il calco-
In alto: il disegno ricostruisce una giovane donna che indossa il pettorale (la cui foto è nella pagina accanto), il diadema (foto in questa pagina) e gli orecchini del «tesoro di Priamo».
Schliemann considerò l’«oro di Priamo» la conferma decisiva delle sue ipotesi
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IL «TESORO DI PRIAMO» Particolare del grande pettorale in oro trovato da Heinrich Schliemann nel 1873 e facente parte del «tesoro di Priamo». Andati perduti durante la seconda guerra mondiale, i gioielli ricomparvero in Russia nel 1993. Mosca, Museo Pushkin.
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lo della superficie dell’insediamento di Troia si decuplicò, fino a raggiungere un’estensione di circa 270 000 mq. Un piccolo insediamento di modestissime dimensioni si era cosí trasformato in una città residenziale e commerciale, che aveva il proprio quartiere di governo situato all’interno della cittadella fortificata. Secondo le stime degli archeologi, nella città vivevano fino a 10 000 persone. IX
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In alto: pianta degli VII scavi di Hissarlik, con, in evidenza, i resti appartenenti alle diverse fasi dell’insediamento. VI
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In pochi anni, quello che era un piccolo villaggio si trasformò in una città abitata da 10 000 persone ANATOMIA DI UNA COLLINA Il disegno qui accanto illustra i nove insediamenti succedutisi, nel corso dei millenni, sulla collina di Hissarlik/Troia. Dal basso verso l’alto: Troia I (età del Bronzo Antico II, 2920-2350 a.C. circa); Troia II (età del Bronzo Antico II, 2600-2450 a.C. circa); Troia III-V (Bronzo Antico III/ Bronzo Medio, 2450-1700 a.C. circa); Troia VI (Bronzo Medio/Bronzo Tardo, 1700-1250 a.C. circa); Troia VII (Bronzo Tardo/prima età del Ferro, 1250-1040 a.C. circa); Troia VIII (prima del 700-85 a.C., la Ilion di età greca); Troia IX (85 a.C.-500 d.C. circa, la Ilion o Ilium di età romana). Il disegno in alto, invece, mette a confronto la pianta di Troia VI (in rosso) con la cittadella e la città bassa circondata da un fossato e quella di Troia IX (in azzurro), con l’acropoli, il teatro e la rete viaria ortogonale.
UNA SCOPERTA SENSAZIONALE ROMPE IL SILENZIO Una scoperta effettuata nel 1995 ha segnato un capitolo chiave nella ricostruzione della storia di Troia in una visione strettamente legata alle antiche vicende dell’Ellesponto: la città di Priamo, fino ad allora incredibilmente «muta» – se si eccettua un piccolo frammento di ceramica, rinvenuto da Schliemann, iscritto in Lineare A –, fece sentire la sua voce. E, guarda caso, non era una voce greca. Il silenzio di Troia fu rotto da un piccolo sigillo di bronzo biconvesso: su un lato esso
menzionava – in geroglifici ittitoluvii (il luvio era un’antica lingua nordeuropea coeva e affine all’ittita, parlata in Asia Minore a partire dal II millennio a.C., n.d.r.) – una donna, sull’altro definiva esplicitamente un uomo come «scriba». Quello che sulla base del livello di civiltà dei signori di Troia si poteva dedurre solo logicamente, ma che, in mancanza di prove concrete, era stato dimenticato, aveva ora una conferma: anche a Troia esisteva la scrittura, nella
Nel raggio di molti chilometri, nessun altro insediamento è a oggi noto, che possa reggere il confronto con Troia: la pianta e le dimensioni della città, le sue mura di pietra e mattoni d’argilla, tutto ciò rinvia chiaramente a un modello urbano tipico dell’ambito culturale vicino-orientale. Alla luce di queste rivelazioni si dovette abbandonare quell’interpretazione «grecocentrica» di Troia che, da quasi tre millenni, era stata alimentata da un «pregiudizio» storicoculturale le cui fondamenta risalivano nientemeno che a Omero. Si incominciò, cosí, a valutare i reperti e i dati di scavo da un nuo-
Il sigillo di bronzo biconvesso rinvenuto a Troia nel 1995: forgiato intorno al 1150 a.C., è scritto in geroglifici ittito-luvii e menziona su un lato una «donna», sull’altro uno «scriba».
città e nel suo territorio avevano vissuto uomini in grado di leggere e di scrivere. Del resto, gli abitanti di Troia commerciavano con i Greci micenei, che scrivevano in greco lineare B, e confinavano con gli Ittiti. Per il momento non sappiamo con certezza se il luvio fosse o meno la lingua dei Troiani. Possiamo, però, affermare con una certa tranquillità che, in questo centro di rilevanza internazionale, tale lingua era comunque conosciuta.
vo punto di vista, appunto «ex Oriente». Un’ulteriore, sensazionale scoperta, verificatasi nel 1995, consolidò il nuovo punto di vista (vedi box in questa pagina). Il ritrovamento del sigillo ha dato nuova linfa alle supposizioni, già avanzate in precedenza, circa l’esistenza di rapporti con il retroterra anatolico, e piú esattamente con il regno degli Ittiti. Che i sovrani dei Dardanelli intrattenessero rapporti – di qualunque tipo essi fossero – con i re ittiti che regnavano a Hattusa, era piú che plausibile. Questa conclusione emerge necessariamente dall’eccezionale posizione strategica della città sulla collina di Hissarlik, a r c h e o 95
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GLI EDIFICI DELLA CITTADELLA Piantina delle mura della citta di Troia VI con il disegno ricostruttivo (1) della Porta Sud e della antistante città bassa di Troia VI e la ricostruzione del Bastione Nord (2) con le scale e i camminamenti esterni. 2
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all’imbocco del passaggio marittimo per il Mar Nero, e dalla vicinanza geografica con la capitale degli Ittiti. Improvvisamente, agli specialisti interpellati a questo proposito, alcune fonti scritte conosciute già da lungo tempo e provenienti dagli archivi dei palazzi ittiti apparvero in una luce completamente nuova, con il risultato che l’identificazione di Hissarlik come la Troia omerica poteva essere dimostrata, questa volta attraverso fonti scritte che nulla avevano a che fare con Omero. Insomma, l’Iliade non era piú
Le mura della cittadella di Troia VI, con la Torre Est (in primo piano) e la Porta Est (sulla sinistra).
soltanto un capolavoro della letteratura mondiale, ma era stata «promossa» a fonte storica. Confrontati con questi risultati, coloro che avevano sempre negato la possibilità di un substrato storico nei poemi omerici erano con le spalle al muro. Alcuni si convertirono per effetto delle prove talvolta schiaccianti. Oggi siamo in grado di riconsiderare tutto il rapporto tra Troia e Omero e possiamo riformulare le domande circa la presenza di elementi storici nell’Iliade con la fondata speranza di ottenere risposte chiare.
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In alto: anfora attica a figure nere del Gruppo di Leagros, raffigurante il trascinamento del corpo di Ettore. 510 a.C. Boston, Museum of Fine Arts.
Analizzando un’iscrizione cuneiforme ittita del XIII secolo a.C., il cosiddetto «Contratto di Alaksandu», l’ittitologo Frank Starke (dell’Università di Tubinga) riuscí a dimostrare che la città-stato di Wilusa/Wilio menzionata nell’iscrizione – con il cui sovrano Alaksandu (il corrispondente del nome in greco è Alexandros, altro nome con cui viene chiamato Paride, figlio di Priamo) il Gran Re Muwatalli II (1290-1272 a.C. circa) aveva stipulato un trattato di vassallaggio – si trovava nella parte occidentale del regno ittita e poteva essere identificata con l’Ilio dei poemi omerici. L’identificazione di Wilusa/Wilio con Ilio, oggi riconosciuta dal98 a r c h e o
A sinistra: vaso attico a figure nere sul quale è rappresentata la fuga da Troia di Enea e Anchise. 500 a.C. Basilea, Antikenmuseum.
la grande maggioranza degli studiosi, appare ancora piú plausibile, se si considera che il nome della città di Priamo iniziava originariamente con la lettera greca «digamma», che si pronuncia come una «v» e che in seguito scompare dall’alfabeto greco. Wilio, dunque, divenne «Ilio». Ma qual era l’aspetto di Troia, della «sacra Ilio» dell’epos omerico, l’ittita Wilusa? Tra tutti gli insediamenti che si sono succeduti a Hissarlik, il piú rilevante è quello denominato Troia VI, datato tra il 1700 e il 1300/1250 a.C. Insieme al livello successivo, VIIa (1300/1250-1200 a.C. circa), questo insediamento urbano rappresenta il livello
L’ILIADE, UN POEMA SU COMMISSIONE? Tra gli interrogativi suscitati dalle scoperte sulla collina di Hissarlik si impone, primo tra tutte, quello sulle premesse storiche e culturali necessarie alla nascita dell’Iliade stessa. Quando Omero, nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., fissò per iscritto la sua Iliade, la Grecia si trovava in una fase di generale fermento, caratterizzato dal consistente fenomeno della colonizzazione. Lasciati ormai alle spalle i «secoli bui» sopraggiunti al declino dei palazzi micenei, i Greci si preparavano alla grande ascesa che avrebbe fatto di loro una delle piú importanti civiltà del mondo antico. Le innovazioni in tutti i campi della vita quotidiana riguardarono tanto le colonie quanto la madrepatria e, insieme ai saperi tradizionali, costituirono le fondamenta della cultura greca classica. Elementi della tradizione micenea si fusero con elementi provenienti dall’Oriente, dando vita a una realtà nuova. I protagonisti di questa rivoluzione furono sicuramente i discendenti delle antiche famiglie nobili. Il poeta Omero, nativo della parte ionica dell’Asia Minore, deve aver percepito nettamente questi nuovi impulsi che pervadevano la sua epoca. Questa consapevolezza di sé necessitava di un fondamento ideologico, di un riferimento ideale. E il mezzo per soddisfare tale esigenza era già lí, a disposizione: era il poema eroico. In virtú della sua origine aristocratica, esso era sopravvissuto – anche se malamente – alla catastrofe. Ora, nell’VIII secolo, si profilava la possibilità di un nuovo rapporto – sebbene di tipo diverso – tra la realtà e il glorioso contenuto del poema eroico: attraverso di esso, l’aristocrazia poteva tornare a riflettersi nello specchio del suo grandioso passato. In questo contesto, Omero potrebbe essere stato anche incoraggiato, se non addirittura incaricato, di scrivere il suo poema. Ma perché, di tutto l’epos troiano, egli scelse proprio l’episodio dell’ira di Achille (attorno al quale, in verità, ruota tutta l’Iliade)? Perché soffermarsi su un periodo di appena 51 giorni, quando l’azione si protrae per circa dieci anni? Il pretesto per la lotta tra i due re, i condottieri greci Agamennone e Achille, è costituito solo in apparenza dalla schiava Briseide: in realtà, sono in ballo le norme di un’esistenza nobile, ovvero la lealtà e la resistenza, la conservazione delle strutture tradizionali e i cambiamenti, determinati dai nuovi sviluppi. Temi importanti per i nobili ascoltatori di Omero, poiché essi dovevano far fronte a nuove sollecitazioni, quali l’ascesa delle nuove classi sociali, che, arrivate – grazie all’apertura dei mercati – alla ricchezza e al potere, minacciavano il loro ancestrale diritto al comando.
All’interno della sua Iliade, Omero riuscí a contestualizzare tutte queste nuove situazioni nell’ambito di una realtà del passato, una realtà mitica. E, poiché la storia della guerra di Troia, nel suo insieme, era arcinota al pubblico, ed era da quest’ultimo considerata un avvenimento storico realmente accaduto (anche se non era riportato negli annali di alcun calendario), essa si prestava perfettamente a costituire lo scenario davanti al quale si svolgeva un’azione il cui messaggio, rivolto alla nobiltà dell’epoca, era forse proprio questo: che per la discordia di due capi risulta indebolita tutta la comunità, che le ambizioni personali devono essere messe da parte per il bene comune quando è in gioco il tutto. Busto in marmo di Omero, copia romana di un ritratto di epoca ellenistica. Basilea, Antikenmuseum.
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che possiamo descrivere come quello dell’«alta civiltà troiana». In seguito ai livellamenti eseguiti in età ellenistica e romana, gran parte dell’insediamento è andato distrutto, soprattutto la parte dell’acropoli, che Omero chiama «Pergamo». Anche la porzione settentrionale della città è andata irrimediabilmente perduta. Resti di Troia VI sono rimasti solo in corrispondenza del margine meridionale della collina. Il grandioso muro di fortificazione che racchiudeva l’antica cittadella era scandito, a una distanza di circa 8-10 m l’uno dall’altro, da poderosi avancorpi. Era realizzato con una raffinata tecnica costruttiva, impiegando blocchi di pietra squadrati, e poteva raggiungere uno spessore di 5 e un’altezza di 8 m. Su questo primo livello si innalzava un muro in mattoni d’argilla. Torri imponenti, porte e 100 a r c h e o
In alto: proiettili in pietra e punte di lancia dagli strati di Troia VI e VII. Nella pagina accanto: figurina in bronzo dallo strato di Troia VII.
postierle ne interrompevano il perimetro, che misurava 552 m. Nella parte meridionale si apriva una grande porta, fiancheggiata da una torre. Le costruzioni all’interno delle mura poggiavano su una serie di terrazzamenti semicircolari digradanti. Nella parte scavata sono emersi i resti di grandi strutture a sé stanti, talvolta di due piani, tra cui anche edifici a megaron (il termine greco designa un edificio, diffuso in Grecia e nell’Asia Minore sin dalla prima età del Bronzo, composto da un ampio ambiente principale a pianta rettangolare, munito di un atrio singolo o duplice, n.d.r.). Il piú grande di questi edifici a megaron è la cosiddetta «Casa delle Colonne», situata in prossimità della Porta Sud, che misura 26 m di lunghezza e 12 di larghezza. Come abbiamo già ricordato, Korfmann riuscí a dimostrare l’esistenza di una città bassa,
scoperta che ha fortemente contribuito a rivoluzionare il quadro tradizionale della leggendaria città:Troia, infatti, non era piú quella dei tempi di Schliemann o della spedizione di Blegen e la nuova immagine venuta a crearsi portò l’archeologo di Tubinga ad affermare che Troia non poteva piú essere definita una città «greca» o «dominata dai Greci». Per Korfmann, infatti, si doveva partire da un presupposto diverso: che, cioè, la città era inserita, senza soluzione di continuità, nel mondo delle antiche città residenziali e commerciali dell’Asia Minore.
UNA FINE VIOLENTA Ma c’è di piú. Nonostante le tante difficoltà e incertezze, esistono indicazioni che farebbero pensare a uno scontro, realmente avvenuto in epoca micenea, che aveva come oggetto il controllo della fortezza presso i Dardanelli. Quali che siano i presupposti da cui partono i diversi studiosi, a Hissarlik sono state documentate distruzioni che possono datarsi intorno al 1300-1250 e al 1200 a.C., cioè agli anni nei quali si colloca la fine violenta di Troia VI e VIIa. Mentre Troia VIIa fu distrutta come conseguenza di una sconfitta militare, per Troia VI si ipotizza un terremoto. Questa tesi ha prevalso fino a oggi, ma anche l’ipotesi di una guerra di conquista non è totalmente da respingere. Resta da chiarire, allora, perché all’interno della cittadella non siano state trovate armi, tracce di lotta e di morti. Una possibile spiegazione viene fornita dalle mura della città bassa. Un tale sistema difensivo implica, in caso di attacco, l’utilizzo di armi a lunga gittata, vale a dire di archi e catapulte. Ora, l’uso della catapulta è documentato nella cosiddetta «Casa delle Colonne», costruita nell’ultima fase di TroiaVI. Nell’ala ovest di questo edificio, situato presso un’importante e trafficata via del quartiere governativo, furono scoperti, su un pianerottolo di pietra, 15 proiettili biconici da catapulta. E se, nei periodi di crisi e di conflitto imminente, era necessario avere a disposizione una scorta sufficiente di questi proiettili, il loro accumulo nella «Casa delle Colonne» allude chiaramente a una situazione di guerra. La ragione per cui all’interno dell’acropoli (o cittadella, come viene anche chiamata) siano conservate cosí poche tracce di armi, a r c h e o 101
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LA FORTUNA DI TROIA, DALL’ANTICHITÀ GRECO-ROMANA AL MEDIOEVO Gli uomini dell’antichità greco-romana erano certi che a Hissarlik, un tempo, sorgesse il palazzo di Priamo. Qui si era compiuto il destino che gli dèi avevano deciso per Troia, raccontato dagli imponenti resti delle mura difensive e delle altre rovine. Nel corso dei secoli, Hissarlik e i suoi dintorni divennero meta di veri e propri peregrinaggi: imperatori e re, condottieri e sovrani (tra cui il persiano Serse e Alessandro Magno), ma anche viaggiatori appassionati vi ritrovavano i luoghi cantati da Omero. Ben presto il «mito» di Troia divenne strumento di autocelebrazione, utilizzato per giustificare nuove guerre e rivendicazioni di potere. Cosí, per la crescente potenza mondiale di Roma, la tradizionale discendenza dei Romani da Enea che, insieme al padre Anchise e al figlio Ascanio/Iulo, era scampato – per volere degli dèi – dall’inferno di Troia, divenne una «realtà storica». Con la città di Troia ebbero legami particolarmente stretti Giulio Cesare e suo figlio adottivo Ottaviano, il futuro imperatore Augusto. La gens Iulia, infatti, a cui apparteneva il dittatore assassinato nel 44 a.C., si diceva discendente diretta di Ilo – in latino Ilus – il leggendario fondatore di Troia, nonché nonno di Priamo. Laomedonte, padre di quest’ultimo e figlio di Ilio, aveva ingannato Eracle e Poseidone, non versando loro il compenso pattuito per la costruzione delle mura della città. La conseguenza di questa promessa non mantenuta fu
quali archi e frecce, potrebbe risiedere proprio nella funzione di baluardo che ricopriva la città bassa. Questa, infatti, costituiva un ostacolo notevole per ogni aggressore, e grazie a essa, un assalto alla possente cinta muraria dell’acropoli sarebbe stato quasi impossibile. Possiamo immaginare come nelle strade davanti alla Porta Sud della cittadella infuriasse la battaglia per la conquista di Troia VI o VIIa, e dove, infine, si decise la capitolazione; e che all’interno della cittadella non ci fu alcuna carneficina. 102 a r c h e o
una «guerra di Troia» che, sotto il comando di Ercole, si concluse con la distruzione della città. La gens Iulia venerava Venere (l’Afrodite dei Greci) come propria capostipite. Secondo il mito, la dea dell’amore era, infatti, madre di Enea. Già nel 68 a.C., l’allora trentaduenne Cesare nel corso di un’orazione funebre aveva sottolineato l’origine della sua stirpe da Venere. E dopo la battaglia di Farsalo del 48 a.C., il vincitore fece anche visita alla città dei suoi avi. Cesare, inoltre, onorò la mitica patria dei suoi antenati, ingrandendo il territorio di Ilio ed esonerando la città dal pagamento dei tributi. In età augustea, l’epopea familiare della gens Iulia divenne patrimonio nazionale, funzionale alla giustificazione del dominio mondiale di Roma. Il nuovo sovrano trovò in Virgilio l’autore piú adatto a conferire degna forma letteraria a questo diritto «voluto dagli dèi». Nell’Eneide, la storia delle origini di Roma è vista in funzione della celebrazione dell’impero mondiale, nato dalla vittoria di Augusto. Anche Augusto visitò Ilio nel 20 a.C. e vi fece restaurare il tempio di Atena. Un rimando significativo alla discendenza dei Romani da Enea e alla pace garantita dal princeps, la cosiddetta «Pax Augusta», è espresso nell’Ara Pacis, a Roma. Su uno dei rilievi dell’altare si vede Enea mentre offre un sacrificio ai Penati, gli dèi protettori del focolare domestico dei suoi avi, che egli aveva salvato dalle fiamme di Troia e
L’Odeon di epoca romana, costruito durante il regno di Augusto, riferibile allo strato di Troia IX.
Per il resto, è plausibile che i sopravvissuti abbiano rimosso i cadaveri dalle strade, li abbiano seppelliti e abbiano raccolto le loro armi, poiché, in fondo, anche una spada danneggiata aveva ancora un valore materiale, dal momento che il metallo poteva essere fuso e riutilizzato. Sarebbe poi un caso eccezionale se un giorno si trovassero tracce di combattimenti in prossimità delle mura o delle porte: gli strati in questione sono, in questo punto, troppo vicini alla superficie. Inoltre, quando i Romani costruirono gli edifici del-
portato con sé in Italia. I Penati sono presentati come divinità protettrici della dinastia giulia e, contemporaneamente, di tutto il popolo romano. Anche i successori di Augusto non dimenticarono Troia. Claudio dispensò per sempre gli abitanti di Ilio da tutte le imposte e, nel 124 d.C., il grande imperatore filoellenico, Adriano, visitò la città. In questo contesto si colloca, verosimilmente, il restauro dell’odeon di Troia. La costruzione in legno che faceva da sfondo alla scena, fu sostituita da una in pietra, alta tre piani. Della decorazione scultorea del nuovo edificio faceva parte una statua del mecenate, rappresentato in veste di condottiero. Questa statua fu rinvenuta durante gli scavi del 1993 e oggi si trova nel museo di Çanakkale. Un episodio poco edificante viene tramandato a proposito di Caracalla. Giunto a Ilio nel 214 d.C., l’imperatore dedicò un’enorme statua bronzea ad Achille,
suo modello ideale, e allestí con i suoi soldati una corsa alle armi intorno al luogo in cui era stata localizzata la tomba dell’eroe caduto davanti a Troia. Affinché il suo spettacolo non fosse da meno rispetto alle cerimonie e alle celebrazioni funebri narrate nell’Iliade in onore di Patroclo ucciso da Ettore, Caracalla, in mancanza di un proprio Patroclo, uccise senza esitare il suo amico Festo. Come Cesare prima di lui, anche Costantino, secondo numerose fonti, aveva pensato di costruire a Troia la nuova capitale dell’impero romano, un progetto naufragato solamente perché la baia di Ilio era ormai insabbiata e priva del porto, e, di conseguenza, la città aveva perso il suo ruolo chiave, commerciale ed economico. La fine dell’antichità segnò anche la fine di Troia. Ma il suo mito, il ricordo degli eroi e delle sue tragedie umane, continuò a sopravvivere durante i secoli, fino all’età moderna.
la loro Ilio, gettarono profonde fondamenta In alto: l’area del nel terreno, cancellando per sempre quanto santuario di Ilium, ancora poteva essersi conservato. di epoca romana. La domanda di fondo, però, permane ed è la seguente: sarà mai possibile identificare nei Greci micenei i conquistatori di Troia VI o VIIa? Non resta che attendere. Una cosa, però, è certa: i re micenei erano pienamente in grado di allestire una tale spedizione e ne avrebbero avuto tutti i motivi, dati i loro interessi commerciali nell’area del Mediterraneo orientale.
I testi che compongono questo Speciale sono stati pubblicati per la prima volta nel n. 202 di «Archeo», del dicembre 2001. Li proponiamo nuovamente ai nostri lettori all’indomani della decisione del governo turco di proclamare il 2018 «Anno di Troia», che, fra le varie iniziative in programma, prevede l’inaugurazione di un museo il cui allestimento si avvale degli straordinari risultati ottenuti dalle ricerche di cui si dà conto in queste pagine.
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QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli
…ACCOGLIEVA I «BARBARI» PER LUNGHI SECOLI, ROMA CERCÒ DI STABILIRE RAPPORTI DI BUON VICINATO CON LE POPOLAZIONI STANZIATE LUNGO I PROPRI CONFINI. UNA SCELTA POLITICA DI INDUBBIO SUCCESSO, MESSA A REPENTAGLIO, VERSO LA FINE DEL IV SECOLO, DA ALCUNI FUNZIONARI IMPERIALI POCO LIGI AL DOVERE. CON UN RISULTATO DISASTROSO...
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uello di accogliere – oculatamente – i «barbari» entro i confini dell’impero fu un indirizzo politico che Roma seguí con una certa continuità nel corso dei secoli, lungo il limes renano e quello danubiano. Allo scopo di alleggerire pacificamente la pressione di «vicini» (le tribú germaniche, ma non solo) sempre piuttosto irrequieti e spesso minacciosi. Un «precedente» nell’applicazione di tale politica può essere trovato risalendo fino alla fase originaria dell’impegno romano in Germania, allorché, nel 38 a.C., nel corso delle campagne militari condotte da Agrippa, fu realizzato il trasferimento della tribú degli Ubii, da tempo gravitanti nell’orbita di Roma, dai territori sulla riva destra del Reno a quelli, piú sicuri, della riva sinistra. Si trattò, peraltro, di un trasferimento del tutto anomalo, giacché esso fu voluto e promosso dai Romani, ancorché lungamente desiderato dagli Ubii al fine di sottrarsi alle continue minacce delle confinanti tribú del potente popolo dei Suebi. Riuniti dunque in quella che divenne la «Comunità degli Ubi» (Civitas Ubiorum), «amica e alleata del Popolo Romano», essi si insediarono nella regione attorno all’odierna Colonia, che deve le sue origini urbane – e il
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suo stesso nome – a una colonia di veterani romani. Questa, nel 50 d.C., prese il posto di quello che era stato fino ad allora un «villaggio» fortificato (Oppidum Ubiorum), ridenominato Ara Ubiorum dopo che Druso vi aveva innalzato un
altare dedicato al culto di Roma e di Augusto. La colonia di veterani assunse il nome di Colonia Claudia Ara Agrippinensium (abbreviata con la sigla CCAA), datole in onore di Agrippina Minore, moglie di Claudio (e madre di Nerone) che vi
Sulle due pagine: calchi del rilievo della Colonna di Marco Aurelio, innalzata a Roma, nel Campo Marzio: nella pagina accanto, un legionario cattura un fuggiasco; a destra, l’imperatore riceve una delegazione di Quadi. Roma, Museo della Civiltà Romana. Il limes danubiano era stato teatro di incursioni da parte di Quadi e di Marcomanni al punto da richiedere l’intervento di Marco Aurelio. Dopo gli scontri militari riprese una politica di apertura, permettendo a gruppi di nomadi di insediarsi nei pressi e all’interno dei confini dell’impero.
era nata, nel 15 d.C., quando il padre Germanico era al comando dell’armata del Reno. Dopo la rinuncia alla sottomissione e all’occupazione della Germania decisa da Augusto e definitivamente ribadita, nel 17 d.C., dal suo successore Tiberio, passò un lungo periodo di sostanziale tranquillità, solo interrotto al tempo dei Flavi (che vollero annettere all’impero la vasta regione dei cosiddetti Agri Decumates, tra Reno e Danubio) e poi continuato fino allo scorcio del II secolo. Fu allora, infatti, che Marco Aurelio si vide costretto a intervenire personalmente e in forze (come documentato dai rilievi della colonna coclide a lui innalzata a Roma, nel Campo Marzio) per respingere – non senza subire qualche parziale sconfitta – un’incursione di Quadi e di Marcomanni che, nel 167, avevano attraversato in massa il Danubio. Ristabilita la situazione, lo stesso Marco Aurelio pensò bene di riprendere la vecchia politica dell’«accoglienza», consentendo che gruppi di nomadi si insediassero dentro e a ridosso dei confini dell’impero. La decisione alleviò la pressione su quei confini (oltre che di arruolare soldati e... agricoltori), ma non impedí ulteriori sconfinamenti dei barbari,
incursioni e guerre che finirono per coinvolgere anche l’Italia. Tanto che, nel 270, l’imperatore Aureliano decise di dare adeguata difesa alla stessa Roma dotandola di una nuova cinta di mura.
SFAMARE I PROFUGHI Tuttavia, la vecchia politica che, a lungo andare, avrebbe provocato l’«imbarbarimento» di regioni sempre piú vaste dell’impero fu ripresa in grande, un secolo dopo, dall’imperatore d’Oriente, Valente, allorché, nel 376, Ostrogoti e Visigoti, scacciati dalle loro terre da orde di Unni provenienti dalle steppe asiatiche, si riversarono sul confine danubiano dell’impero alla ricerca di una nuova sistemazione. Valente accolse cosí la massa di «profughi», assegnando loro terre da coltivare in Tracia e arruolando molti giovani nell’esercito, dopo aver disposto, nell’immediato, la distribuzione di generi alimentari di prima necessità. Della quale i primi beneficiari furono i funzionari imperiali incaricati delle operazioni,
che, invece di distribuire gratuitamente i viveri, pensarono bene di accantonarli per rivenderli a coloro che avrebbero dovuto esserne i destinatari, i quali, privi d’ogni risorsa, per poterli acquistare erano costretti a vendere come schiavi mogli e figli. I «barbari» non sopportarono a lungo quella situazione e insoddisfatti anche per la limitata estensione delle terre che erano state loro concesse, si ribellarono, e tornarono ad agitarsi e a premere, fino a minacciare la stessa Costantinopoli. Valente decise allora di affrontarli con le armi. Ma il 9 agosto del 378 venne pesantemente sconfitto (e ucciso) in una battaglia campale presso la città di Adrianopolis (l’odierna Edirne, nella Turchia europea). Fu una delle piú gravi disfatte mai subite dai Romani. E non solo – e non tanto – per la grave perdita dei due terzi dell’esercito combattente, ma per aver dovuto subire un disastro senza avere alcuna capacità di reazione e di recupero.
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Distruzione, olio su tela di Thomas Cole facente parte del ciclo Corso dell’impero. 1836. New York, New-York Historical Society. Considerata da molti storici un’autentica svolta nella storia dell’impero e l’inizio del suo definitivo cedimento alla pressione dei barbari invasori, quella sconfitta determinò una gravissima crisi, non solo militare e politica, ma anche piú generale.
VERSO L’EPILOGO Ne risultarono infatti compromesse la stessa idea di sovranità dello Stato e la fiducia verso di esso da parte della popolazione. Nonostante tutto, il successore di Valente, Teodosio, riuscí, almeno temporaneamente, a porre un riparo alla situazione, convincendo i Goti a insediarsi pacificamente (e piú... largamente) nelle province balcaniche dove, peraltro, lungi da qualsiasi possibilità di integrazione, essi provocarono scompensi e profondi contrasti con gli abitanti. Meno di trent’anni piú tardi, nel primo decennio del V secolo – con l’impero nuovamente e definitivamente diviso in due (dopo l’ultima riunificazione compiuta proprio da Teodosio) – i barbari abbandonarono le loro sedi balcaniche alla ricerca di nuove terre, prendendo (non senza la complicità interessata dell’imperatore d’Oriente, Arcadio) la via dell’Occidente. E, mentre l’imperatore di questa parte dell’impero, Onorio (fratello di Arcadio) lasciava precipitosamente la sede imperiale, troppo esposta, di Milano, per andare a rifugiarsi nella piú sicura Ravenna, il re Alarico, alla testa dei suoi Visigoti, penetrava fin nel cuore dell’Italia centrale. E il 24 agosto del 410 entrava in Roma, dalla Porta Salaria, aperta proditoriamente, mettendo a sacco la città per tre giorni.
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SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti
UN BORGO E LA SUA STORIA CHE COSA ACCADE SE METODI E CRITERI DELL’ARCHEOLOGIA URBANA VENGONO APPLICATI AI PICCOLI CENTRI? PRENDIAMO L’ESEMPIO DELLE INDAGINI CONDOTTE NELLA CITTADINA DI MURO LECCESE, NEL SALENTO...
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el secondo dopoguerra si è diffusa in Europa una maniera di indagare il passato fino a quel momento non prevista: l’archeologia urbana. Gli studiosi di varie nazioni, preoccupati per le impellenti esigenze della ricostruzione postbellica, compresero che il sottosuolo delle città andava considerato come un vero e proprio archivio di informazioni, e che, per scongiurare la distruzione delle numerose tracce archeologiche occorreva sistematizzare le conoscenze in maniera preventiva. Di piú: l’archeologia urbana è stata concepita fin dall’inizio come un’archeologia senza restrizioni cronologiche, o senza priorità di interesse per alcun periodo. L’età romana ha dunque la medesima importanza di quella medievale, o moderna, perché l’obiettivo è ricostruire tutte le fasi di vita di una città, dalla fondazione fino a oggi. L’archeologia urbana, inoltre, non si dedica solo all’analisi delle tracce sepolte, ma considera elementi archeologici da indagare anche i In alto e a sinistra: ricostruzioni grafiche del Borgo Terra di Muro Leccese agli inizi del XVI sec. In particolare, qui accanto, è raffigurato, nell’area oggi corrispondente alla piazza del Popolo, il mercato stagionale che si svolgeva fuori dal Borgo, nei pressi di una colonna votiva o «osanna» (visibile in secondo piano, sulla destra).
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monumenti e gli edifici antichi ancora visibili. Tutto questo è stato fatto in città grandi e medie, ma solo raramente gli agglomerati «minori» sono stati affrontati con questi strumenti, con questa idea di archeologia. E invece, soprattutto l’Italia è ricca di piccoli centri, che hanno spesso un passato importante.
DIECI ANNI DI RICERCHE Partendo da tali considerazioni, Paul Arthur, docente di archeologia medievale presso l’Università del Salento, a Lecce, ha impostato uno dei progetti piú innovativi del momento: l’indagine nel borgo di Muro Leccese. Muro è un piccolo centro del Salento, fondato verso la metà del XV secolo, nel quale gli archeologi hanno lavorato per oltre dieci anni con risultati notevoli. Prima di tutto sul piano della conoscenza: oggi sappiamo, per esempio, che le origini di Muro Leccese risalgono a un passato piuttosto remoto, alla metà dell’VIII secolo a.C., per la precisione, quando in quest’area si formò un villaggio di capanne. Gli abitanti facevano parte della popolazione degli Iapigi, che all’epoca occupava la terra del Salento. Circa duecento anno piú tardi subentrarono i Messapi, e il villaggio piú antico fu sostituito da un abitato piú solido, con case in pietra, che nel IV secolo vennero circondate e difese da mura. Tutto venne distrutto verso la metà del III secolo, e per un lungo periodo la zona fu solo frequentata: le successive fasi romane e bizantine si apprezzano quasi solamente attraverso la ceramica e altri reperti. Dopo una ripresa dell’occupazione in età medievale (un villaggio di dimensioni modeste), nacque il borgo che i documenti chiamano «Terra». Siamo intorno al 1440, e conosciamo il nome del fondatore: un signore feudale, Florimonte Protonobilissimo, originario di
Casa Fiorentino, uno degli edifici piú indagati dagli archeologi dell’Università del Salento nel centro di Muro Leccese. Qui è stato possibile approfondire lo scavo sino alle fasi preromane dell’abitato.
Napoli e principe di Taranto. L’impianto dell’insediamento è regolare, pianificato a tavolino: l’abitato è circondato da una cinta di mura e difeso dal castello. Gli scavi hanno restituito importanti informazioni su questo periodo, tra cui silos per la conservazione del grano e un ricco campionario delle ceramiche in uso tra Medioevo ed età moderna.
LA COMUNICAZIONE I risultati positivi di questo progetto, però, non finiscono qui. Un fronte molto importante è quello della comunicazione: libri, innanzitutto, l’ultimo dei quali di recente pubblicazione (Archeologia urbana a Borgo Terra. Muro
Leccese, I, All’Insegna del Giglio, 2017), nonché un museo, interamente dedicato alla storia del centro. Un museo con reperti e strutture a vista, ma anche con ricostruzioni grafiche, plastici, video, che raccontano la storia in maniera semplice e comprensibile. In poche parole, si tratta di un ottimo esempio di archeologia pubblica, frutto della collaborazione tra l’Università del Salento e il Comune di Muro Leccese, grazie al quale la comunità di Muro ora conosce molto meglio la sua storia. Il progetto di Muro è una grande impresa dell’archeologia medievale di oggi, e rappresenta un modello da seguire per il futuro, utile per ricostruire le vicende dei tanti piccoli centri della Penisola.
DOVE E QUANDO Museo Diffuso di Borgo Terra Muro Leccese, piazza del Popolo Orario lunedí-sabato, 8,30-12,30 e 14,30-18,30; domenica, 9,00-12,30 e 15,00-18,00 Info tel. 0836 343824; e-mail: info@museomuro.it; https://sites.google.com/view/ museoborgoterra/italiano
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
UNA STORIA D’AMORE E D’ODIO LA TRAGICA FIGURA DELLA REGINA DIDONE, IMMORTALATA DA VIRGILIO, RICORRE SULLE MONETE DELLA FENICIA TIRO. PER RICORDARNE LE QUALITÀ DI ASTUTA REGNANTE, POI DIVENUTA NEMICA IMPLACABILE DI ROMA
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on si innalzano piú le torri già cominciate, la gioventú non si esercita piú nelle armi o non preparano piú porti o fortificazioni sicure per la guerra: restano interrotti i lavori e le grandi mura minacciose e i macchinari che si innalzano fino al cielo»: cosí, nell’Eneide, Virgilio descrive lo stallo di Cartagine, la cui costruzione è interrotta dalla regina Didone, bloccata in ogni suo agire dall’incontenibile amore per il profugo troiano Enea, il quale, opportunamente sostenuto dal volere degli dèi, è responsabile di quel sentimento devastante e portatore di morte che sarà la causa – poetica – dell’odio tra Romani e Cartaginesi. La tragica storia d’amore nacque dall’estro poetico del poeta mantovano, il quale volle in questo modo dare un afflato sentimentale alla rivalità geopolitica ed economica tra due grandi potenze sfociata nelle annose guerre puniche, donando alle regina memoria sempiterna, anche se menzognera.
della Libia (l’odierna Tunisia), dove ottiene dal re locale Iarba tanto terreno quanto possa entrarne nella pelle di un bue. Scaltra, oltre che bellissima e intrepida, la regina ne ricava striscioline sottilissime, con le quali circoscrive un’area sufficiente per edificare una sua città, che sarà tanto grande, forte e potente da divenire uno dei nemici storici di Roma: Cartagine (dal fenicio Karth Hadash, la «città nuova», rispetto a Tiro).
LE LODI DI BOCCACCIO
BELLISSIMA E ASTUTA Altre fonti letterarie (Timeo di Tauromenio, Giustino), infatti, tramandano una versione della storia della fondazione di Cartagine piú asciutta ed esemplare: alla morte del padre, Didone-Elissa, figlia del re di Tiro in Fenicia e moglie del ricchissimo zio Sicheo, sacerdote di Ercole-Melqart, assiste
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all’assassinio del marito a opera di suo fratello Pigmalione, il quale, divenuto re, vuole appropriarsi delle ricchezze del cognato. Al fine di scongiurare una guerra civile e temendo per la sua vita, Didone parte con una sua schiera di fedeli e gli oggetti sacri a Ercole appartenuti al marito, sino a giungere alle coste
Per inciso, lo stratagemma di Didone ha dato origine a un complesso problema matematico che ha preso il suo nome, incentrato sulla definizione della forma geometrica che tale strisce dovevano formare per racchiudere l’area piú ampia: la soluzione è una semicirconferenza, che permise di includere nella sua nuova città anche la costa, aperta sul Mediterraneo. Didone, la nuova sovrana capace di agire come un uomo (oltre alle fonti antiche, anche Boccaccio nel suo De mulieribus claris, ricorda il nome fenicio Didone come equivalente del latino virago), «sedeva in giudizio, rendeva giustizia e assegnava equamente i lavori da compiersi» (Eneide, I, 585-6). Ma la regina – forte, potente, giusta e senza l’ansia di trovare un
A sinistra: Didone fonda Cartagine, olio su tela di Giovanni Battista Pittoni. 1720-1722. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage. Nella pagina accanto: moneta in bronzo di Giulia Maesa Augusta. Zecca Tiro (Fenicia), 218-225 d.C. Al dritto, l’imperatrice; al rovescio, galea in navigazione con una donna (Didone?) con cornucopia al centro. nuovo marito, che inevitabilmente ne avrebbe ridimensionato il prestigioso ruolo politico – viene attaccata dal re Iarba, il quale minaccia di annientare la città se essa non diverrà sua sposa, e anche i suoi sudditi la sollecitano a nuove nozze. Allora Didone, sapendo di non poter resistere a tanta pressione, si uccide per restare indipendente e fedele alla memoria dell’amato Sicheo, divenendo cosí anche oggetto di culto e simbolo della donna casta, celebrato dagli apologeti cristiani, da Tertulliano ad Agostino e Macrobio. Quando Virgilio, con l’Eneide, volle nobilitare l’origine di Roma e della gens Iulia, alla quale apparteneva Augusto, e, nel contempo, fornire una ragione antica alla rivalità dell’Urbe con Cartagine, elaborò una nuova versione della storia (che comunque doveva essere già nota, dal momento che, nel III secolo a.C., il poeta Nevio ne parla nel suo Bellum Punicum), un romanzo sentimentale in cui Didone non si uccide per non
sposare Enea, ma perché da lui abbandonata e tradita. Cosí sul suo rogo funebre, trafittasi con la spada dell’eroe troiano, scaglierà una maledizione di eterna inimicizia tra Cartaginesi e la stirpe di Enea, ovvero Roma. Dall’amore all’odio, il passo è breve.
MEMORIA DELLE ORIGINI La monetazione delle città provinciali mira sempre a celebrare, sotto l’egida imperiale, i propri miti e figure locali di eccezione, mantenendo cosí la memoria di un passato glorioso e il ricordo delle proprie origini. Cosí, dall’età severiana, la città di Tiro, in Fenicia (provincia di Siria), scelse per il rovescio dei propri conii la regina che era dovuta fuggire dalla sua patria e divenuta l’epica fondatrice di Cartagine. In questo caso la «gloria» celebrata non era quella della città fenicia in se stessa, ma quella di una sua intrepida figlia; le monete dedicate a Didone riguardano infatti gli episodi legati alla sua partenza, alla fondazione di
Cartagine e a celebrazioni presso il tempio di Ercole-Melqart, del quale era stato sacerdote l’amato marito Sicheo. E tacciono invece del romanzo virgiliano. Sul rovescio di alcune emissioni di Giulia Maesa, Elagabalo e poi di Treboniano Gallo battute a Tiro, è raffigurata una galea con nove remi in navigazione, a bordo della quale vi sono una donna con una cornucopia e due marinai impegnati in manovre; seppure non nominata, si tratta con ogni probabilità proprio di Didone che veleggia verso la costa libica. Sulla poppa campeggia una ruota (la ruota di poppa) con un aplustre (decorazione a ventaglio). Nell’esergo possono comparire le conchiglie di murice, il mollusco dal quale i Fenici impararono da Ercole (che a sua volta lo sperimentò osservando il proprio cane mentre giocava con queste conchiglie, facendone uscire un colore rosso…) a estrarre il preziosissimo color porpora, che costituí una delle mercanzie alla base della ricchezza di Tiro.
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Francesco Maria Cifarelli e Federica Colaiacomo
DALLA CAMERA OSCURA ALLA PRIMA FOTOGRAFIA Architetti e archeologi a Segni da Dodwell ad Ashby e Mackey Edizioni Quasar, Roma, 144 pp., ill. b/n 22,00 euro ISBN 978-88-7140-819-4 www.edizioniquasar.it
«Bisogna fare di tutto per raccogliere quello che inesorabilmente sta scomparendo: ed avendo ciò fatto, si sarà sempre in tempo di studiare dopo (…) o se non si potrà fare da se stessi, si sarà almeno salvato il materiale per altri». Cosí afferma Thomas Ashby in un articolo pubblicato sulla rivista The Athenaeum nel 1928. Proprio ad Ashby e ad altri pionieri della ricerca archeologica sul campo è dedicato il volume curato da Francesco Maria Cifarelli e Federica Colaiacomo, che ha accompagnato una mostra allestita a Segni. La cittadina laziale è al
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centro dell’attenzione e la documentazione dei suoi monumenti antichi – affidata prima al disegno dal vero e poi alla fotografia – viena presa in esame per ricostruire una stagione dell’archeologia italiana particolarmente interessante e caratterizzata anche dalla riscoperta e dall’interpretazione delle mura poligonali, in un dibattito che ha oscillato tra il passato mitico dei Pelasgi e la piena romanità. Le figure di studiosi che s’incontrano sono numerose: si va da un religioso francese, Louis-Charles-François Petit-Radel, il quale, nel decennio finale del Settecento, portò l’attenzione sulla tecnica muraria poligonale, al viaggiatore e archeologo inglese Edward Dodwell, particolarmente interessato all’architettura «ciclopica» e autore, insieme all’architetto Virginio Vespignani, di numerosi disegni mai pubblicati e conservati presso l’archivio del Sir John Soane’s Museum di Londra, nell’opera Views and Descriptions of Cyclopean or Pelasgic Remains in Greece and Italy 1819-1834. Disegni rivalutati e valorizzati proprio da Ashby. Un altro personaggio degno di rilievo è il frate domenicano Peter Paul Mackey, uno studioso di san Tommaso d’Aquino, con interessi per l’archeologia e la
geologia, che insegnò presso il Collegio Angelico. Tra le sue passioni vi fu anche la fotografia e, nell’archivio fotografico della British School, a Roma, si conservano 21 suoi scatti di particolare qualità dedicati a Segni e realizzati tra il 1896 e il 1898. Tra i suoi compagni di escursioni, finalizzate alla documentazione di monumenti superstiti, vi erano Rodolfo Lanciani e Thomas Ashby. Il libro è corredato da un ricco e interessante apparato illustrativo. Giuseppe M. Della Fina Francesca Colosi, Alessandra Costantini
LA SABINA TIBERINA IN EPOCA ROMANA Ricognizioni nel territorio tra Otricoli e Magliano Sabina CNR Edizioni, Roma, 226 pp., ill. b/n e col. + 4 tavv. 56,00 euro ISBN 978-88-8080-237-2 www.edizioni.cnr.it
Il volume, di taglio specialistico, dà conto dei risultati acquisiti grazie alle ricognizioni di superficie condotte tra il 2000 e il 2005 (ma, come specificano le autrici, molti dati sono stati verificati con nuovi sopralluoghi, visto il lungo intervallo di tempo che ha separato le prime acquisizioni dalla loro pubblicazione) nel territorio compreso fra Otricoli e Magliano Sabina. Siamo dunque in un’area piuttosto ristretta
– la ricerca ha interessato una superficie di 35 kmq circa –, che si estende fra Lazio settentrionale e Umbria e che risulta fortemente connotata, innanzitutto, dalla rete idrografica e, in particolare, dall’essere attraversata dal Tevere. In termini cronologici, è stato preso in considerazione l’arco temporale che va dalla romanizzazione della regione, che ebbe luogo nel III secolo a.C., alla metà del VI secolo d.C., quando anche questa zona risente della crisi innescata dalla caduta dell’impero romano e dai successivi rivolgimenti politici, che vedono susseguirsi, fra gli altri, la guerra greco-gotica e l’arrivo dei Longobardi. Le ricognizioni hanno portato alla localizzazione di 117 siti archeologici, che vengono presentati e descritti analiticamente nei capitoli principali dell’opera, dedicati all’interpretazione dei dati. Differenti condizioni di visibilità hanno in
parte condizionato l’esplorazione e, di conseguenza, reso assai variabile la ricchezza dei dati di volta in volta acquisiti. Ciononostante, come peraltro confermano le carte di distribuzione che sintetizzano la ricerca condotta, è stato possibile definire un quadro piuttosto articolato della frequentazione del territorio, che mostra, per esempio, la sostanziale continuità di insediamento che contraddistingue molte delle località censite. Al di là di casi piú o meno rilevanti, lo studio offre una significativa riprova di quanto la ricognizione di superficie costituisca uno strumento prezioso per la conoscenza archeologica di un territorio, soprattutto quando l’obiettivo sia la ricostruzione di un quadro d’insieme e non di un singolo contesto. Fra i fenomeni attestati con maggiore evidenza, vi è senz’altro la diffusione delle ville rustiche in epoca romana, favorita da terre particolarmente adatte alla pratica agricola. Né fu da meno, ai fini dell’occupazione della regione, la presenza di un’arteria stradale di primaria importanza, la via Flaminia, e della via d’acqua costituita dal Tevere, lungo le cui sponde sorsero numerosi scali, piccoli e grandi. Stefano Mammini
Giampiero Galasso
DIVENTARE ARCHEOLOGO Formazione e professione Arte’m, Napoli, 96 pp. 10,00 euro ISBN 978-88-569-0597-7 www.arte-m.net
Come scrive lo stesso Giampiero Galasso, autore da tempo noto ai lettori di «Archeo», quello dell’archeologo è «un lavoro molto complesso (…), ma che ancora oggi conserva immutato un sottile fascino, sebbene esso richieda tanti sacrifici e studi continui e rigorosi». In questa presa d’atto sta forse la sintesi migliore del volume, che ha il pregio di offrire un quadro chiaro e ben organizzato del percorso che un
aspirante archeologo dovrebbe seguire (nella speranza che alle legittime aspirazioni faccia seguito una dignitosa collocazione professionale). Galasso non nasconde le difficoltà che tuttora caratterizzano il settore, ma sceglie un approccio pragmatico e si guarda dal comporre un pamphlet polemico. Offre dunque informazioni esaurienti sui corsi di studio e le sedi nei quali poterli seguire, cosí come indica i canali oggi praticabili per cercare di passare dalla condizione di studente a quella di archeologo professionista. Le strade, come si può constatare leggendo, sono ancora troppo poche, ma è
comunque utile avere consapevolezza della situazione, cosí da poter compiere le proprie scelte in maniera piú avveduta. Pur sapendo che, quando la passione è forte e sincera, è difficile piegarla alla razionalità. S. M.
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