Archeo n. 399, Maggio 2018

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ANCHE LE STATUE MUOIONO

TORINO

ANCHE LE STATUE MUOIONO…

Il futuro dei musei secondo Christian Greco

MUSEO DI BOLOGNA

SERBIA AD AQUILEIA

AQUILEIA

IMPERATORI SUL DANUBIO

ANTICA CASTRO

GROTTE DEL FIORA

ALLA SCOPERTA DELLE GROTTE PREISTORICHE

SPECIALE CAMBOGIA

CAPITALI NELLA GIUNGLA www.archeo.it

IN EDICOLA L’8 MAGGIO 2018

CA C PI AM TA LI B DI O M G EN I ww TIC A w. a rc AT E he o. i t

2018

Mens. Anno XXXIV n. 399 maggio 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 399 MAGGIO

CAMBOGIA

SPECIALE

€ 5,90



EDITORIALE

PRIMAVERA AL MUSEO Che cosa hanno in comune istituzioni celebri come il Louvre, il British Museum o i Musei Vaticani, con realtà dai nomi assai meno roboanti, il Museo Archeologico di Murlo, per esempio, noto anche come Antiquarium di Poggio Civitate? Se ne è parlato – e se ne parlerà ancora – proprio a Murlo, nel corso di una serie di incontri che si terranno quest’estate, all’ombra dell’antico Palazzo Vescovile del borgo e nell’ambito di Bluetrusco, il festival dedicato agli Etruschi giunto, quest’anno, alla sua quarta edizione. Tra gli ospiti, i rappresentanti dei principali musei dedicati all’antico popolo italico, da quello Gregoriano Etrusco (parte dei sopramenzionati Musei Vaticani e custode di tesori di inestimabile valore) al primo museo «virtuale» dedicato all’etruscologia (si chiama T.Arch.H.N.A., acronimo per Towards Archaeological Heritage New Accessibility, ispirato all’etrusco Tarchna, nome dell’antica Tarquinia), passando per il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, l’Archeologico di Firenze e molti altri. Venerdí 20 luglio sarà la volta della collezione etrusca del Museo Civico Archeologico di Bologna: a presentarla sarà Anna Dore, curatrice, insieme a Paola Giovetti, di una originale mostra, di cui parliamo alle pagine 42-53. E che ci riporta alla nostra domanda iniziale: che cos’è, veramente, un museo? Secondo una definizione «ufficiale» – a formularla è stata, nel 2006, un’organizzazione internazionale e non governativa, l’International Council of

Museums (ICOM) – il museo è «un’istituzione permanente senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali e immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e specificamente le espone per scopi di studio, istruzione e diletto». In tempi recenti, tuttavia, a tale descrizione – valida seppur generica – se ne sono aggiunte altre, insieme a un nuovo, inquietante, interrogativo: perché, in questi anni, a essere colpiti dal delirio distruttivo e autodistruttivo del terrorismo internazionale sono, soprattutto, i musei archeologici? La mente corre al saccheggio dei musei iracheni (primo fra tutti quello di Baghdad), ma anche all’attentato del 18 marzo 2015 compiuto al Bardo di Tunisi – tra i musei archeologici piú importanti del Mediterraneo – costato la vita a 23 persone, tra cui 4 di nazionalità italiana… Alla memoria dell’antico a cui queste istituzioni sono preposte si aggiunge forse quella «di sé», in quanto storici baluardi di conoscenza e di civiltà? Leggiamo, allora, in apertura di questo numero, le illuminanti considerazioni di Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino. E andiamo noi stessi, poi, «a caccia» di musei: scopriremo che molti di essi possiedono una vita loro, degna di essere raccontata e rivissuta.

Allegoria del mese di Maggio, particolare del mosaico con calendario agricolo, da Thsydrus (El Jem). Prima metà del III sec. d.C. Sousse, Museo Archeologico.

Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE

Primavera al museo

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

6

SCOPERTE Nel Valdarno, nei pressi di Arezzo, sono tornati alla luce i resti di un Mammuthus meridionalis, pachiderma preistorico vissuto oltre 1,5 milioni di anni fa 6 ALL’OMBRA DEL VULCANO Molte pitture parietali pompeiane fanno somigliare le domus piú ricche ad altrettante, coloratissime voliere, nelle quali sembra quasi di poter sentire il canto dei loro occupanti... 10 MOSTRE Dopo lunghe ricerche e un intenso dibattito scientifico, l’ubicazione del Fanum

Voltumnae è ormai certa: una vicenda avvincente, raccontata ora nel Lussemburgo 12

MOSTRE/1

A TUTTO CAMPO Le ricerche condotte in due siti medievali del Senese confermano l’importanza dei rifiuti, e dei resti di pasto in particolare, ai fini della ricostruzione del tessuto sociale degli usi delle comunità 14

di Christian Greco

Torino

I mille volti della memoria

30

30 MOSTRE/2 Bologna

SCAVI Nuovi e importanti dati sull’abitato etrusco di Adria

18

Tutti gli uomini (e una donna) del museo

42

di Anna Dore e Paola Giovetti

DA ATENE

Come a Eleusi

28

di Valentina Di Napoli

28

42 In copertina Angkor Thom, Bayon (Cambogia). Rilievo raffigurante il re Indravarman I, sovrano del regno khmer fra l’877 e l’890 circa.

Comitato Scientifico Internazionale Anno XXXIV, n. 399 - maggio 2018 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale Hanno collaborato a questo numero: Giovanni Antonio Baragliu è dirigente tecnico della Riserva Naturale «Selva del Lamone». Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Caterina Ciccopiedi è curatrice del catalogo della mostra «Anche le statue muoiono» (Torino). Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Valentina Di Napoli è archeologa. Anna Dore è curatrice della sezione etrusca-villanoviana del Museo Civico Archeologico di Bologna. Elena Facchino è direttore del Museo Paleontologico di Montevarchi. Daniela Fuganti è giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paola Giovetti è curatrice della sezione numismatica del Museo Civico Archeologico di Bologna. Christian Greco è direttore del Museo Egizio di Torino. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco Archeologico di Pompei. Arnaldo Marcone è professore ordinario di storia romana all’Università Roma Tre. Paul Mazza è professore associato di paleontologia e paleoecologia all’Università degli Studi di Firenze. Ivana Popovic è archeologa. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Marco Valenti è professore associato di archeologia cristiana e medievale all’Università di Siena. Ursula Wierer è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Siena Grosseto e Arezzo.


MOSTRE/3

Rubriche

Dalla terra degli imperatori 54

QUANDO L’ANTICA ROMA...

testi di Arnaldo Marcone e Ivana Popovic

di Romolo A. Staccioli

Aquileia

...conquistò Aden

102

54 102 PARCHI ARCHEOLOGICI

Il sacro e le tenebre 64 di Carlo Casi, con la collaborazione di Giovanni Antonio Baragliu e un reportage fotografico di Massimo Tomasini

64

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Uno stratagemma di successo

106

di Francesca Ceci

74 SPECIALE Cambogia. Il ritorno degli dèi

106 LIBRI

Illustrazioni e immagini: Cortesia rivista Archéologia: copertina (e p. 100, in alto), 80/81; Carlo Blasi: pp. 84-85; Erika Pineros: p. 89; Sambor Prei Kuk Conservation Project: p. 98 (basso) – Doc. red.: pp. 3, 32-35, 76-77 – Cortesia Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Siena Grosseto e Arezzo: pp. 6-7 – Cortesia degli autori: pp. 8, 14-15, 69, 70, 71 (alto e basso), 72-73, 106-107 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 10-11 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 12, 16 – Cortesia Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Verona, Rovigo e Vicenza: pp. 18-19 – Cortesia Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Biella, Novara,Verbano-Cusio-Ossola e Vercelli: p. 20 – Cortesia Ufficio Stampa Museo dell’Acropoli, Atene: pp. 28-29 – Cortesia Ufficio Stampa «Anche le statue muoiono»: pp. 30/31, 36-38 – Cortesia Comune di Bologna, Museo Civico Archeologico: pp. 42, 43, 48 (basso), 49 (basso), 52; Giorgio Bianchi: pp. 42/43, 44-47, 48 (alto), 49 (alto), 50-51; Elena Cané: p. 53 – Cortesia Ufficio Stampa «Tesori e imperatori»: pp. 56-57, 58 (centro e basso), 59 (basso), 60 (alto), 62-63; Gianluca Baronchelli: pp. 54/55, 58 (alto), 59 (alto), 60 (basso), 61 – Massimo Tomasini: pp. 64/65, 67, 68, 68/69, 71 (centro) – Philippe Lafond: pp. 74, 78-79, 81-83, 86/87, 88, 90-93, 94, 95, 96-97, 98 (alto), 99, 100 (basso), 101 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 102, 104/105; AGE: p. 104, 105 – Cippigraphix: cartine alle pp. 66, 74, 78, 87, 95, 103. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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74

di Daniela Fuganti

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Press-Di Abbonamenti SPA c/o CMP BRESCIA Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia BS L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da Timeline Publishing Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, Timeline Publishing Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: Timeline Publishing Srl, via Calabria 32 - 00187 Roma – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a Timeline Publishing Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


n otiz iari o SCOPERTE Toscana

QUANDO IL VALDARNO ERA UNA SAVANA...

E

ra l’autunno del 2016, quando alcuni cacciatori, durante una battuta a Terranuova Bracciolini (Arezzo), notarono due elementi affiorare dalla terra. Non erano legni – uno di loro lo capí subito – ma le difese di un elefante fossile. Ci troviamo nel Valdarno superiore, nel singolare paesaggio delle «Balze», imponenti stratificazioni di sabbie, argille e conglomerati, interrotte da profonde incisioni.

Terranuova Bracciolini (Arezzo). I resti del cranio e delle difese di un esemplare di Mammuthus meridionalis, probabilmente maschio, che visse in questa zona oltre 1,5 milioni di anni fa.

6 archeo

I processi di fossilizzazione hanno favorito la conservazione di numerosi resti fossili, perlopiú appartenenti a mammiferi, il cui recupero è iniziato fin dal XVIII secolo. La scoperta del 2016 ebbe luogo su un ripido versante sottoposto a erosione, rendendo indispensabile un intervento immediato. Ottenuta la collaborazione dell’Accademia Valdarnese del Poggio di

Montevarchi e del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze, fu avviato lo scavo paleontologico sotto la direzione della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Siena. Paleontologi e archeologi poterono cosí portare alla luce il cranio con le difese, purtroppo troncate, e l’ulna di un esemplare di Mammuthus meridionalis risalente al Pleistocene inferiore. Considerando


In questa pagina: due immagini delle operazioni di scavo e consolidamento preliminare dei resti di Mammuthus meridionalis scoperti a Terranuova Bracciolini (Arezzo). le dimensioni generali e in particolare la circonferenza delle difese, è possibile che si tratti di un maschio. Mammuthus meridionalis, questo il nome scientifico dell’elefante meridionale, è una specie di derivazione africana, che raggiunse il nostro Paese passando presumibilmente per il Caucaso e l’Europa orientale. Era un animale di taglia notevole, alto circa 3,5 m al garrese, pesava circa 8-9 tonnellate ed era dotato di difese tipicamente spiralate. Analogamente agli elefanti delle savane africane attuali, era un mangiatore d’erba, dotato di denti lamellari, a corona alta e a sostituzione orizzontale. Da questa specie, mediante un discendente intermedio, derivò il piú noto mammut, Mammuthus primigenius, che era piú piccolo e coperto di una folta pelliccia. I resti dell’elefante, che non si presentavano in connessione anatomica, giacevano nei sedimenti di un antico torrente. È presumibile che l’individuo fosse

morto piú a monte del punto di rinvenimento, e che la carcassa fosse stata ridotta a uno scheletro disarticolato e infine che i vari elementi ossei fossero stati rimossi dalla corrente. Secondo la lettura stratigrafica, l’animale visse in un momento collocato a oltre 1,5 milioni di anni da oggi. All’epoca il Valdarno era interessato

dalla seconda delle tre fasi di riempimento del bacino, a opera dei fiumi provenienti dai rilievi che scaricavano i sedimenti verso la parte centrale dell’area. L’ambiente era quello di una savana fredda, popolata da elefanti, rinoceronti, zebre, ippopotami, canidi, iene. Lo scavo, infatti, oltre alle ossa di elefante, ha restituito anche resti faunistici di altre specie. Ultimato lo scavo, cranio, difese e ulna, ancora inglobati nel sedimento, sono stati imbracati con robuste longherine in ferro, lamiere e schiuma poliuretanica. Grazie a un ingegnoso sistema «a scivolo» l’elefante, trascinato dalla ruspa, ha percorso il ripido pendio fino ad arrivare a valle. Nello scorso settembre, il cranio di Mammuthus meridionalis si trova a San Giovanni Valdarno, in una struttura in cui si sta provvedendo alla sua ripulitura. L’intervento ha fatto emergere la superficie ossea del cranio e l’avorio delle difese. Durante questo «scavo in laboratorio» è venuta in luce anche una scapola di cervide. Per sostenere il costo dell’operazione è stata lanciata la raccolta fondi «SOS Mammuthus. Aspetta il tuo aiuto da oltre un milioni di anni». Accedendo al sito web del Museo Paleontologico di Montevarchi (www. museopaleontologicomontevarchi. it), è possibile devolvere un contributo anche minimo e anche votare il futuro nome del Mammuthus. Ursula Wierer, Paul Mazza ed Elena Facchino

archeo 7


ROMA

«Luce sull’archeologia»: arrivederci al 2019! Con Matera lucana tra Greci e Romani, domenica 13 maggio, alle ore 11,00, si chiude la quarta edizione di «Luce sull’Archeologia» al Teatro Argentina, quest’anno dedicata a «Roma e il Mediterraneo». L’ultimo appuntamento del 2018 – che vedrà gli interventi di Pietro Laureano, Massimo Osanna, Giuliano Volpe e Raffaello Giulio De Ruggiero e sarà, come sempre, preceduto dalle «Anteprime dal passato» a cura del direttore di «Archeo» e «Medioevo» Andreas M. Steiner – è un fuori programma: è stato infatti pensato come omaggio alla città di Matera, Patrimonio dell’Umanità e Capitale Europea della Cultura 2019, e come anticipazione della V edizione di «Luce sull’Archeologia», in programma da gennaio 2019. Il ciclo di incontri della prossima stagione verterà sul tema «Roma e la Magna Grecia», un patrimonio storico-artistico eterno e universale, un grande serbatoio al quale possiamo attingere per scoprire la nostra umanità. Info: www.teatrodiroma.net

SCAVI Vulci

GLI ETRUSCHI DEL POGGETTO

G

li scavi nella necropoli di Poggetto Mengarelli continuano ad arricchire il quadro delle conoscenze sugli antichi abitanti di Vulci. Buon ultima è la scoperta di una profonda tomba a fossa, di forma rettangolare, con orientamento E-O, localizzata a breve distanza dalla Tomba dello Scarabeo Dorato (vedi «Archeo» n. 373, marzo 2016). La porzione superficiale della sepoltura risultava intaccata da una sepoltura a fossa terragna di età ellenistica che ha solo parzialmente occupato il lato ovest del contesto. Al di sotto era ancora presente il livello di obliterazione, asportato il quale è emersa la copertura in pietra calcarea bianca (cosiddetto palombino) adagiata ancora in parte su una breve risega ricavata nel banco roccioso naturale. La lastra, anche se rotta e parzialmente collassata all’interno della controfossa, era ancora in posto come hanno dimostrato alcune pietre in tufo di rincalzo e una lastra di lavagna situata nei pressi dell’angolo N. Le numerose fratture createsi nella copertura hanno tuttavia determinato l’accumulo, al di sotto, di un abbondante livello di infiltrazione. Asportato questo strato terroso, è emersa la deposizione con il relativo corredo funerario. Quest’ultimo risulta composto da numerosi contenitori in ceramica, alcuni dei quali impilati gli uni sugli altri, ovvero ravvicinati tra loro. Oltre ai tipici vasi per bere in impasto, alcuni dei quali con A destra: la tomba a fossa scoperta nella necropoli di Poggetto Mengarelli nel cui corredo spicca un pregiato cratere baccellato (in alto, a sinistra). La sepoltura sembra potersi datare agli inizi del VII sec. a.C.

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ingobbiatura, si segnala un grande cratere a corpo baccellato sistemato con cura nei pressi dell’angolo SO della tomba. Una volta rimosso il reperto sono emersi ulteriori oggetti del corredo, sistemati con cura in questa parte della tomba. I resti ossei cremati, invece, sono stati messi in luce nella parte NE della fossa, frammisti ad altri reperti in ceramica e ferro. È possibile che questi fossero originariamente raccolti all’interno di un’urna cineraria biconica, della quale si sono rinvenuti numerosi frammenti sparsi in piú punti del contesto. A un primo esame, la tomba risulta databile agli inizi del VII secolo a.C. Le attività di ricerca a Poggetto Mengarelli, finanziate dal Comune di Montalto di Castro, sono dirette da Simona Carosi della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale e dallo scrivente con la collaborazione di Carlo Regoli di Fondazione Vulci. Carlo Casi



ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

PIUME DIPINTE MOLTE PITTURE PARIETALI DELLE DOMUS DI POMPEI PRESENTANO VIVACI IMMAGINI DI UCCELLI: UN BESTIARIO RICCO E VARIOPINTO, CHE MOSTRA LA DIFFUSIONE DI UN GRAN NUMERO DI SPECIE, DI CUI, IN ALCUNI CASI, I DIPINTI COSTITUISCONO LA PIÚ ANTICA ATTESTAZIONE DELLA LORO PRESENZA

«I

o dipingo come un uccello canta», amava dire Claude Monet, padre dell’impressionismo francese. E chissà quanti dei pittori impegnati ad affrescare, con scene di giardino, alcune pareti di raffinate domus pompeiane si sono immedesimati, per l’attenzione profusa nel comporre gli ambienti

naturali, negli uccelli in posa o in volo fedelmente riprodotti con vivace policromia. «Aves animalia laetissima et fortunatissima ex omnibus videntur» («Gli uccelli sono gli animali piú felici e fortunati di tutti»), recita invece un elogio latino agli uccelli. Pertanto quale migliore scelta, se non quella In questa pagina: due immagini delle pitture nella Casa del Bracciale d’oro, con colombacci, gazza, tortora dal collare, rondine e, nel particolare in alto, anche una ghiandaia.

10 a r c h e o

dei volatili, immaginati nel pieno del loro canto, per animare gli incantevoli giardini pompeiani? E cosí la partecipazione dei decoratori si sofferma, con straordinaria efficacia, sulle specie che popolavano la città vesuviana, prima della sua fine. Il giardino della Casa del Bracciale d’Oro, una delle migliori rappresentazioni di «verde» della pittura romana (seconda metà del I secolo a.C.), ritrae, fra piante lussureggianti, diversi uccelli: colpisce l’immagine particolareggiata degli animali, ai quali sembrano mancare solo le vibrazioni canore. Nell’ambientazione si riconoscono colombacci in posa sulla fontana marmorea o sulla cima di un’erma, ma anche una gazza dal caratteristico piumaggio bianco e


nero, una tortora dal collare e una piccola rondine aggrappata a uno dei rami piú alti della vegetazione (alloro) che si staglia contro un cielo azzurro e sereno. Queste sono solo alcune delle specie presenti un tempo in città: caratteristica di questi giardini dipinti è quindi l’accentuato realismo naturale, capace d’ingannare l’occhio umano, secondo un principio illusionistico affermatosi già in età greca classica, se, come racconta Plinio il Vecchio, gli uccelli andavano addirittura a beccare gli acini dell’uva dipinti in un quadro del grande pittore Zeusi.

UN CANTO MELODIOSO Lo studio ornitologico ha cosí permesso di riconoscerne molte specie raffigurate: fra le piú antiche immagini di uccelli della pittura pompeiana, tra III e II secolo a.C. (in I stile), va annoverata nella Casa del Naviglio (Regio VI), una probabile ghiandaia inserita fra pannelli a finte incrostazioni marmoree, animale dal canto melodioso molto vicino alla voce dell’uomo, come rimarca Plinio, e specie assai

apprezzata nei giardini domestici romani. Piú tardi, in altre dimore, con la diffusione della scene naturali, svariate sono le rappresentazioni di uccelli locali ed esotici: nella Casa del Frutteto, scopriamo fra alberi e incannucciate un gabbiano volteggiante, l’airone guardabuoi, il balestruccio, ancora la ghiandaia, la cornacchia grigia, fino al comune passero. Nella Casa del Principe di Napoli, come nella lussuosa Villa di Oplontis, fa bella posa l’elegante pavone reale, sacro a Giunone, protettrice della vita femminile e del matrimonio. Nell’affresco centrale della Casa di Venere in conchiglia, suggestivamente raccordato con l’antistante giardino, la candida scultura di Marte spicca fra vegetazione e uccelli, ai cui piedi incedono lentamente un airone cenerino e un altro bianco, mentre una quieta tortora si riposa sul bordo della fontana. Appaiono anche aggraziati uccelli acquatici, come il cigno nella Casa del Centenario, la cicogna nella domus di Lucrezio Frontone, dove in altre pareti troviamo ancora In alto: Casa del Naviglio. Questa rappresentazione di una ghiandaia è una delle piú antiche immagini di uccello della pittura pompeiana. A sinistra: transenna con pavone reale, dalla Casa del Principe di Napoli. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

la ghiandaia marina e il frosone o fringuello, dal canto soave. Poi ancora il fascino esotico del fenicottero, mentre un pollo sultano è intento a beccare una melagrana nella Casa della Fontana Piccola. L’oca egiziana e una coppia di beccaccini si muovono invece con tranquillità nella Casa delle Quadrighe. Non manca la notturna civetta, attributo di Atena, nella Casa di Menandro.

RAPACI E PREDATORI E poi rapaci, come il capovaccaio, o i prelibati fagiano, piccione e tordo, che evidentemente non mancavano sulle tavole della Casa di Adone ferito. Fra i predatori il gheppio da Giulio Polibio e perfino l’aquila in volo su fondo nero dalla già citata Casa del Bracciale d’Oro. E ancora: l’allocco nella Casa dei Ceii, la ballerina bianca in Obellio Firmo, il merlo ai Dioscuri. Curioso il gallo intento a beccare acini d’uva nell’omonima casa, o il simpatico pappagallo con ciliegia e il gruccione con grappolo d’uva incorniciati nei quadretti ornamentali della Casa dei Vettii. Colpisce la vivace scenetta con capinera nell’intento di catturare un insetto volante nella Casa del Moralista; tranquilla viceversa la coppia di averle al Labirinto, mentre un corvo in atto di atterrare risalta su una parete bianca della Casa della Regina Margherita. Per notizie e aggiornamenti su Pompei, pagina Facebook Pompeii-Parco Archeologico.

a r c h e o 11


n otiz iario

MOSTRE Lussemburgo

TUTTI AI PIEDI DELLA RUPE

U

na delle maggiori avventure dell’archeologia italiana degli ultimi anni, vale a dire la ricerca e la scoperta, presso Orvieto, del Fanum Voltumnae, il santuario federale degli Etruschi, è l’oggetto di una mostra allestita al Musée National d’Histoire et d’Art a Lussemburgo. La rilevanza del complesso è testimoniata dal fatto che presso di esso – ricordato piú volte in testimonianze letterarie ed epigrafiche romane, ma senza fornirne con precisione l’ubicazione – i rappresentanti delle dodici città si riunivano per eleggere un sacerdos supremo, una sorta di primus inter pares che doveva rappresentare l’intera Etruria, e per assumere decisioni politiche comuni. Ogni incontro aveva anche una spiccata valenza religiosa e si accompagnava a gare sportive e a spettacoli teatrali. Il Fanum Voltumnae era quindi uno dei luoghi piú sacri dell’intera Etruria e la sede politica della lega, l’organismo istituito per cercare di superare la suddivisione per città-stato o, almeno, per fare fronte comune in politica estera. Per quali motivi Simonetta Stopponi, che dal 2000 dirige le ricerche, si è indirizzata verso In alto: rhyton (corno per bere) di produzione attica in forma di testa d’asino. 475-450 a.C. A destra: scarabeo con satiri vendemmianti.

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Orvieto, l’etrusca Velzna (in lingua latina Volsinii)? Vari indizi spingevano verso la città umbra: la notizia, riportata da Festo, che, nel tempio di Vertumno (cioè Voltumna) a Roma, era raffigurato Marco Fulvio Flacco, il console vincitore di Velzna, in veste di trionfatore; alcuni versi del poeta Properzio, nei quali viene fatto dire a Vertumno che non rimpiangeva di avere abbandonato i focolari di Volsinii; il numero delle statue di bronzo, pari a duemila, portate via da Velzna sconfitta nella testimonianza di Metrodoro di Scepsi riportata da Plinio nella Naturalis Historia (XXXIV, 16, 34), che induce a ipotizzare la presenza di un santuario di notevole importanza nelle immediate vicinanze. Infine, il Rescritto di Spello, con la decisione dell’imperatore Costantino, presa tra il 333 e il 337 d.C., di consentire agli Umbri di non recarsi piú aput Volsinios per celebrare la loro festa religiosa come facevano sulla base di un’antica tradizione, che sembra riallacciarsi alle riunioni che si tenevano presso il Fanum Voltumnae aperte anche ai non Etruschi. Volsinii a quel tempo non si trovava piú sulla rupe di Orvieto, ma in prossimità del lago di Bolsena dopo che i suoi abitanti, in conseguenza della rovinosa sconfitta del 264 a.C., vi erano stati deportati. Nel testo si dice infatti «presso» e non «in» Volsinii. Lungo il percorso espositivo sono presentati ben 1200 reperti tra

quelli rinvenuti in un’area di scavo vasta ormai piú di cinque ettari. Dal recinto sacro del tempio A provengono ceramiche attiche, basi votive, teste in terracotta, oggetti del mondo femminile, monete di bronzo e d’argento; dalla Via Sacra, altari, frammenti di una statua greca in marmo, decorazioni in terracotta; dal tempio C, buccheri, bronzi, ceramiche attiche ed etrusche; dal tempio B, ancora ceramiche; dalla strada etrusca che dal santuario conduceva a Bolsena, i resti di una fontana monumentale; da una successiva domus romana e da due impianti termali, infine, uno splendido ritratto di età adrianea. In mostra sono testimoniate anche le fasi successive dell’area: ovvero la costruzione di una chiesa paleocristiana e, tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, della chiesa di S. Pietro in vetere (con le sue pertinenze, tra le quali un ampio edificio a due piani interpretato come un refettorio/magazzino) presso la quale – come ricordano documenti di età medievale – si svolgevano mercati stagionali. Giuseppe M. Della Fina

DOVE E QUANDO «Il luogo celeste. Gli Etruschi e i loro dèi. Il santuario federale di Orvieto» Lussemburgo, Musée National d’Histoire et d’Art fino al 2 settembre Orario ma-do, 10,00-18,00 (giovedí apertura serale fino alle 20,00); chiuso il lunedí Info www.mnha.lu



A TUTTO CAMPO Marco Valenti

DIMMI COSA MANGI E TI DIRÒ CHI SEI NEI RIFIUTI, DA SEMPRE, SI ACCUMULANO QUANTITÀ CONSIDEREVOLI DI RESTI DI CIBO: ECCO PERCHÉ L’ANALISI DI QUESTI DEPOSITI OFFRE INFORMAZIONI ASSAI DETTAGLIATE SULLE ABITUDINI ALIMENTARI DELLE SOCIETÀ ANTICHE

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no scavo archeologico si confronta costantemente con i rifiuti, che permettono di ricostruire i comportamenti, il lavoro, gli scambi e i rapporti di una singola famiglia o di un centro insediativo o di un territorio. I rifiuti sono cosí importanti che, nel 1973, William L. Rathje, archeologo dell’Università dell’Arizona, dette inizio a un esperimento ventennale, scavando la piú grande discarica del mondo: Fresh Kills a New York. Finalizzata a comprendere le abitudini dei consumatori americani, l’analisi venne pubblicata in un libro del 2001, Rubbish! The archaeology of garbage (Immondizia! L’archeologia dei rifiuti). L’archeologia, dunque, può interpretare quello che i rifiuti dicono della nostra vita e i cantieri di scavo restituiscono abitualmente avanzi di pasto e scarti di macellazione, resti di scorte alimentari sotto forma di reperti botanici oltre a batterie da cucina e contenitori per liquidi. Reperti che, se analizzati e contestualizzati, consentono di ricostruire

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l’economia di un territorio e i rapporti sociali all’interno di una comunità. Per gli archeologi, quindi, occuparsi di cibo e alimentazione è molto frequente, venendo a conoscenza della dieta della popolazione comune e delle élite. Due insediamenti rurali lungamente scavati dall’Università di Siena – Poggio Imperiale a Poggibonsi e Miranduolo a Chiusdino (entrambi in provincia di

Siena) –, mostrano con chiarezza come l’accesso al cibo scandisse la morfologia sociale presente nei due centri tra IX e X secolo. Gli spazi occupati dalle famiglie piú importanti, proprietarie di beni consistenti, erano connotati da molti edifici con funzione di magazzini per derrate alimentari; vi si stivavano le eccedenze di cibo ottenuto con il lavoro delle famiglie contadine dipendenti o asservite; gestivano gli animali allevati e controllavano le attività artigianali.

COLTURE ALTERNATE Le considerevoli restituzioni archeobotaniche di Miranduolo attestano che cosa si coltivasse e si immagazzinasse. I campi erano sottoposti a una strategia agricola ben definita, alternando cereali a semina invernale principale (frumento) e a semina invernale secondaria (farro, orzo, segale) con cereali a semina primaverile


A sinistra: Miranduolo (Chiusdino, Siena). Silos granario in corso di scavo. IX sec. Nella pagina accanto: ricostruzione grafica dell’area in cui avevano sede i magazzini e gli impianti di essiccazione dei cereali nel villaggio medievale di Miranduolo.

secondari (miglio, panico) e colture sussidiarie (legumi come favino, cicerchia, veccia). Venivano inoltre coltivati vite, olivo, peschi e noci; si sfruttavano le risorse di boschi (ghiande) e di probabili piantumazioni composte da querce, castagni, carpini, eriche, aceri, olmi, frassini e pioppi. Soprattutto i legumi e i cereali costituivano la dieta base delle semplici famiglie contadine. Dall’analisi delle dentizioni delle persone sepolte a Poggibonsi si evince con chiarezza che la loro dieta quotidiana si basava infatti su cibi non raffinati e carenti di minerali, quali calcio e ferro. Il grado di usura dentaria rivela che gli alimenti consumati avevano un alto grado di abrasività ed erano soprattutto di origine vegetale, ricchi di fibre, che permettevano un’efficace detersione dentale: perlopiú farinacei preparati grossolanamente con macine in pietra tenera, i cui granuli residui provocavano sensibili smerigliature. Anche le usure

oblique dei denti molari confermano l’utilizzo di una grande quantità e varietà di grani. Poveri sembrano inoltre gli apporti di origine animale e la carne doveva rappresentare una semplice integrazione, talvolta occasionale.

UN PRIVILEGIO PER POCHI Il consumo di carne era cosí un segno di potere. Lo dimostrano le concentrazioni di grandi quantità di ossi all’interno e in prossimità delle abitazioni delle élite di ambedue i villaggi; ma lo dimostra anche la distribuzione quasi piramidale che, nel caso di Poggibonsi, effettuava la famiglia residente nella grande capanna centrale verso le famiglie delle piccole capanne circostanti. Sintetizzando: la famiglia dominante mangiava molta carne di prima scelta e di tipo diversificato, i dipendenti piú stretti accedevano talvolta a tagli di seconda scelta, il resto della popolazione consumava, solo quando era possibile, tagli di terza scelta.

Un ulteriore aspetto valido per quasi tutti i contesti altomedievali toscani, è poi l’assenza o la bassa percentuale di cacciagione. Nei boschi si raccoglievano legna e frutti spontanei e si pascolavano gli animali, ma non sembra libera la caccia, riservata alle famiglie dominanti, nelle cui abitazioni sono presenti tali ossa. Concludendo scherzosamente, ma non troppo, la descrizione presente nel Decameron di «una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta; ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giú, e chi piú ne pigliava piú se n’aveva», raffigura nel migliore dei modi quell’ossessione per il cibo che, tranne i ricchi, uomini e donne dovevano avere nel Medioevo. (marco.valenti@unisi.it)

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ASOLO (TREVISO)

A tu per tu con una grande viaggiatrice Viaggiare rimanendo in una stanza. All’apparenza un ossimoro, ma se all’interno di quella stanza, sono custoditi gli oggetti, le memorie e gli strumenti di chi nella vita ha avuto come solo, grande ideale viaggiare, allora sembra possibile. Si inaugura in questi giorni, al Museo Civico di Asolo, «La stanza di Freya». Un progetto espositivo permanente dedicato a Freya Stark (1893-1993), in cui il lavoro di una delle piú grandi viaggiatrici del Novecento, fatto di taccuini e disegni, è raccolto all’interno di tre elementi essenziali: l’armadio, la scrivania e il baule. Del resto, come definire Freya Stark, inglese, nata a Parigi, per anni tra Medio Oriente e Italia, se non una viaggiatrice? Nell’arco di un’esistenza tutt’altro che monotona, il viaggio fu tuttavia un mezzo per dedicarsi a molto altro, dall’archeologia alla cartografia, passando per la scrittura, tutte passioni testimoniate dagli oggetti esposti. Protagonista indiscussa della scrittura, tanto da essere considerata la capostipite del travel writing, vedeva in Asolo quel locus amoenus nel quale fermarsi e riflettere, un legame ricambiato dalla cittadinanza onoraria ricevuta dal Comune trevigiano. Info Museo civico di Asolo, tel. 0423 952313; e-mail: info@museoasolo.it; www.museoasolo.it (red.)

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INCONTRI Lombardia

UN LAGO E LA SUA STORIA

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abato 30 giugno e domenica 1° luglio, a Menaggio, sul lago di Como, torna il tributo storico «Lucius Minicius Exoratus». Si tratta di una rievocazione che si prefigge di divulgare scientificamente le origini storiche del territorio, approfondirle e renderle, nella sua originalità, accattivanti e fruibili a un pubblico eterogeneo. Il progetto farà comprendere l’importanza strategica del Larius, in questa parte del vasto impero romano. I suoi trasporti fluviali servirono a incrementare la romanizzazione del territorio, sin dalla rifondazione di Novum Comum, voluta da Gaio Giulio Cesare: il Lario si trovò al centro degli spostamenti militari prima e scambi commerciali poi. Novum Comum con i suoi due avamposti siti nel centro lago, Lemnos e Bilacus, e l’odierna Gera Lario, a nord, formavano un asse fondamentale per gli spostamenti degli eserciti e delle merci. E, tra i piú antichi e illustri nomi legati al Lario, vi è appunto la figura di Lucius Minicius Exoratus. L’effigie recante il suo nome è tutt’oggi murata nella facciata della chiesa di S. Marta, affacciata sulla centralissima via Calvi, strada che Un momento della rievocazione storica di Menaggio.

porta il nome del suo stesso scopritore: il classicista e poeta Francesco Calvi, il quale, nel XVI secolo, la ritrovò nel lago presso Santa Maria Rezzonico e la fece portare a Menaggio, attribuendo al cognomen del notabile romano, nientemeno che la denominazione di Menaggio, che oggi sappiamo invece derivante da un’influenza celtica (monte piovoso). L’importanza dell’iscrizione deriva in realtà dalle sue caratteristiche archeologiche, che la rendono una delle piú importanti testimonianze epigrafiche della presenza romana sul lago di Como. Il notabile menzionato nell’epigrafe è infatti Lucio Minicio Exorato, figlio di Lucio, flamine dell’imperatore Tito Flavio Vespasiano, il quale ricoprí importanti cariche ufficiali: tribuno militare, quadrumviro con podestà edile, duomviro, prefetto dei fabbri, pretore e console per due volte e infine pontefice massimo. Vissuto nel I secolo d.C., Lucius Minicius Exoratus era membro della tribú locale Oufentina, stirpe romana insediatasi nell’area comasca. In conformità allo status sociale derivante dalle alte cariche imperiali ricoperte attraverso il proprio cursus honorum (una posizione paragonabile oggi a quella di un segretario di Stato) Lucius Minicius Exoratus fece erigere per sé e per la propria famiglia un monumento celebrativo che parlasse delle sue gesta. Considerando la misura del frammento epigrafico incastonato sulla facciata di S. Marta, pari a 280 cm di lunghezza e uno spessore di 10 cm, in pregiato marmo di Musso, possiamo ben intuire l’imponenza di questo monumento celebrativo e con essa la rilevanza del personaggio che lo commissionò. (red.)



n otiz iario

SCAVI Veneto

SCENE DI VITA DOMESTICA E ARTIGIANALE

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uove indagini scientifiche sono state condotte ad Adria, in provincia di Rovigo, in via Ex Riformati dopo la scoperta, avvenuta in precedenza durante uno scavo di archeologia preventiva, di un’unità abitativa di epoca etrusca utilizzata con molta probabilità per lo svolgimento di attività artigianali. Ricordiamo che, per la sua posizione strategica, l’insediamento etrusco di Adria – le cui tracce, a causa del progressivo crescere della città su se stessa e delle inondazioni dell’antico ramo del Po presso cui era sorta, sono state intercettate a una notevole profondità dal piano stradale –, doveva essere un importante centro commerciale: tra la metà del VI fino alla metà del IV secolo a.C. era uno dei principali porti dell’Adriatico, come testimoniano le ricche importazioni di ceramiche di produzione greca e orientale

restituite principalmente da scavi risalenti all’Ottocento e oggi in parte esposte nel locale museo archeologico nazionale. «L’indagine – spiega Maria Cristina Vallicelli, funzionario archeologo e direttore scientifico della seconda campagna di scavo – che in alcuni punti ha raggiunto i 6 m di profondità, si è svolta con non poche difficoltà, data la continua risalita di acqua di falda. Le stratigrafie piú basse indagate, quelle riferibili all’insediamento etrusco del VI-V secolo a.C., hanno portato alla luce i resti di una casa-laboratorio, un edificio di 6 metri di larghezza e oltre 10 di lunghezza, diviso in almeno due ambienti e delimitato da canalette di scolo, impostato su un podio di limo e sabbia. L’edificio era costruito prevalentemente in materiale ligneo quale quercia, acero, olmo e frassino, con alzati impostati su travi perimetrali, pareti

in graticcio rivestito di argilla, materiale fittile e tetto in legno o canne. Tale tecnica costruttiva mista assicurava la solidità della struttrura, compatibilmente con i terreni instabili e umidi sui quali sorgeva l’antico centro. Sulle due pagine: Adria (Rovigo). Immagini del cantiere di scavo aperto in via Ex Riformati: qui sono venuti alla luce i resti di un edificio avente sia funzioni residenziali, sia produttive. Le indagini hanno restituito una mole considerevole di reperti, fra i quali spiccano, per l’eccellente stato di conservazione, i manufatti in materiali organici.

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All’interno della casa sono stati rinvenuti due grandi focolari, con tracce di carboni e cenere e la presenza di pozzetti fusori che ne documentano l’utilizzo per attività metallurgiche. Lo scavo ha restituito vari manufatti: interessanti i numerosi frammenti di lastrine in argilla cotta che forse rivestivano la parte basale dei muri, come protezione dall’umidità; da altre costruzioni, di maggiore monumentalità, dovevano invece provenire i frammenti di un’antefissa e di una cornice fittile con traccia di decorazione pittorica con motivi a ovuli in rosso su sfondo blu. Nei piani pavimentali della casa laboratorio, si sono rinvenuti, inoltre, alcuni lingotti metallici, lisciatoi in pietra e frammenti di

ossa e corno di cervo che recano segni di lavorazione. L’edificio doveva comunque essere utilizzato non solo per attività artigianali: al suo interno sono stati infatti trovati materiali legati anche alla vita quotidiana, come alcuni frammenti di ceramica attica a figure nere ed etrusco-padana, ceramica da cucina e da stoccaggio. Eccezionali, per lo stato di conservazione in cui si sono presentati agli scavatori, risultano i reperti in materiale organico, tra cui: un’anta in legno di frassino perfettamente conservata, un pezzo unico che non ha confronti, e un manufatto in pellame, entrambi in corso di restauro. Le analisi paleobotaniche ci aiutano a ricostruire il contesto ambientale di allora: risulta una presenza

significativa di cereali (orzo e avena), canapa, piante da orto come fava, cicoria e rapa e alberi da frutto e naturalmente di aree boscate che dovevano fornire il materiale per la costruzione degli edifici. Dopo le fasi di vita che si susseguono nei primi decenni del V secolo a.C., la casa viene abbandonata, forse a seguito di un dissesto idrico non traumatico, visto che prima dell’abbandono l’edificio sembra oggetto di un’azione sistematica di spoglio e asporto dei materiali che potevano essere utilizzati altrove». Le indagini in via Ex Riformati sono state condotte sotto la guida della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Verona, Rovigo e Vicenza. Giampiero Galasso

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SCAVI Piemonte

LA SIGNORA DI GATTINARA

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sud di Gattinara (Vercelli), centro all’imbocco della Valle Sesia, frequentato attivamente in età romana e medievale, importanti ritrovamenti sono scaturiti da recenti attività di tutela e assistenza archeologica alla posa del metanodotto VercelliRomagnano Sesia. Partendo da anomalie individuate sul terreno sia durante la ricognizione, sia con lo scortico di superficie, sono state localizzate varie concentrazioni archeologiche, che hanno portato all’individuazione di una estesa necropoli, databile tra il V e la metà del IV secolo a.C. e appartenente alla cosiddetta Cultura di Golasecca (dall’omonima località presso il Ticino dove avvennero i primi ritrovamenti agli inizi del XIX secolo). «Il nucleo sepolcrale – sottolinea Elisa Panero, direttore scientifico dello scavo –, intaccato dalle secolari attività agricole, conta 76 tombe entro fossa terragna a incinerazione indiretta. La maggior parte delle sepolture si presenta entro fossa in nuda terra, ma con

curato corredo sepolcrale. Si tratta in prevalenza di ricchi corredi metallici, prevalentemente in bronzo, ma non mancano materiali in argento, ferro, ceramica e addirittura in legno. Spiccano preziose armille (bracciali), orecchini e fermatrecce, ma soprattutto si è rilevata una forte prevalenza di fibule, soprattutto a sanguisuga, con una buona preponderanza del tipo tardoalpino e lodigiano. Non mancano quelle di tipo Mazzucca di Montanaro, ad arco serpeggiante, oltre sei fibule a navicella miniaturistiche. Il sito, che ha potuto essere indagato nella sua interezza, consente di ampliare la conoscenza sulle fasi finali della cultura golasecchiana (G III A1-3), ancora poco documentate in queste zone cosí occidentali rispetto all’epicentro originario, permettendo uno studio attento dei corredi in metallo, della loro lavorazione e dei modi di uso antichi (tipo di deposizione, restauri, utilizzi). In alto: la tomba 40 della necropoli golasecchiana scavata a Gattinara (Vercelli). A sinistra: una delle fibule facenti parte del ricco corredo della deposizione.

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Significativa è un’armilla a capi sovrapposti con ben 40 pendenti di varia foggia, appartenente al corredo di una ricca signora del secondo quarto del V secolo a.C., sulla quale il restauro e le analisi archeometriche non distruttive condotte dall’Università degli Studi di Torino, Facoltà di Fisica, tra cui XRF (fluorescenza a raggi X) e SEM (microscopio elettronico a scansione), stanno mettendo in luce resti di materiali organici (tessuti in lino, semi) e pregiati (osso lavorato, corallo rosso) che raramente giungono fino a noi». Lo studio nel dettaglio dei reperti fornirà dati specifici sulla composizione del nucleo funerario, ma già sono state rilevate alcune caratteristiche del gruppo umano ivi sepolto, quali le concentrazioni tombali forse legate ad ambiti parentali e rituali funerari. L’intervento è stato condotto dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Biella, Novara, Verbano-Cusio-Ossola e Vercelli, in stretta collaborazione con Snam Rete Gas ed eseguito dalla ditta archeologica Lo Studio. Giampiero Galasso



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ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

SPLENDORI D’ASIA Il recente inserimento (2017) di Sambor Prei Kuk (Cambogia) nel Patrimonio Mondiale dell’UNESCO è lo spunto che lo Speciale di questo numero (vedi alle pp. 74-101) ci offre per parlare della ricchezza archeologica del Paese asiatico. Si tratta della terza località ad aver avuto questo riconoscimento, dopo Angkor nel 1992, e Preah Vihear nel 2008. In verità, i primi due siti sono stati ampiamente onorati filatelicamente a partire da Angkor, già presentato qualche anno fa (vedi «Archeo» n. 307, settembre 2010); qui mostriamo, però, emissioni cambogiane diverse da quelle allora scelte. Ecco una visuale della Porta Est di Angkor Thom in un francobollo del 1955 (1) e una bella prospettiva di Angkor Vat in un altro francobollo del 2002 (2); per finire con Angkor, vengono presentati due valori e un foglietto di una serie del 2017 raffiguranti alcune delle 1850 Apsara danzanti scolpite sulle pareti del tempio principale di Angkor (3-4-5). Preah Vihear si trova al confine tra Cambogia e Thailandia ed è stata a lungo contesa tra i due Paesi. Nel tempo si sono succedute dispute diplomatiche, scontri armati con decine di morti, varie risoluzioni dell’ONU, fino al pronunciamento della Corte internazionale di Giustizia, che, nel 1962, riconobbe come il tempio fosse in territorio cambogiano. La decisione fu salutata con una serie di tre valori uguali, emessi nel 1963, quando la Cambogia prese ufficialmente possesso del sito (6). Ma la guerra civile, il conflitto con il Vietnam e altre vicende hanno sempre rinfocolato le richieste di sovranità da parte della Thailandia. Nel frattempo, un’emissione del 2002 ha raffigurato il tempio (7) e infine, nel 2008, il riconoscimento UNESCO è stato celebrato da varie serie: 5 valori (due dei quali mostrati, 8-9) e un blocco foglietto (10) e nel 2009 altri 5 valori (tre sono qui mostrati, 11-12-13) per il 1° anniversario. Sambor Prei Kuk, invece, non è mai stato ricordato filatelicamente e, visti i precedenti, sicuramente la sua recente nomina sarà degnamente commemorata con una prossima emissione; in attesa della quale ecco un annullo postale di Sambor del 1890 (14) e una foto del santuario centrale del complesso Sud, uno dei monumenti piú rappresentativi della zona archeologica (15). IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

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Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

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Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it





CALENDARIO

Italia

MILANO Milano sepolta

ROMA Egizi Etruschi

Dieci anni di archeologia urbana a Milano Civico Museo Archeologico fino al 13.05.18

Da Eugene Berman allo Scarabeo dorato di Vulci Centrale Montemartini fino al 30.06.18

Milano in Egitto

Gli scavi di Achille Vogliano nel Fayum Civico Museo Archeologico fino al 31.05.18

Traiano

Costruire l’Impero, creare l’Europa Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 16.09.18

NAPOLI Pompei@Madre

Materia Archeologica MADRE-Museo d’arte contemporanea Donnaregina fino al 24.09.18

Il Palatino e il suo giardino segreto Nel fascino degli Horti Farnesiani Palatino fino al 28.10.18

REGGIO EMILIA On the road

ALTINO (VENEZIA) Altino-Prima di Venezia

La Via Emilia, 187 a.C.-2017 Palazzo dei Musei fino al 01.07.18

Sguardi in Tecnologia Avanzata sulla Città Antica Museo Archeologico Nazionale fino al 03.06.18

ROVIGO Le mummie a Rovigo

AQUILEIA Tesori e imperatori

Palazzo Roncale fino al 01.07.18

Lo splendore della Serbia romana Palazzo Meizlik fino al 03.06.18

SUTRI (VITERBO) Sutri, Vulci e i misteri di Mitra

BOLOGNA Medioevo svelato

Culti orientali in Etruria Villa Savorelli fino al 13.05.18

Storie dell’Emilia-Romagna attraverso l’archeologia Museo Civico Medievale fino al 17.06.18

Stele lignea dipinta di epoca tolemaica.

Ritratti di famiglia

Gruppo raffigurante Mitra che uccide il toro. III-V sec. d.C.

Personaggi, oggetti, storie del Museo Civico fra Bologna, l’Italia e l’Europa Museo Civico Archeologico fino al 19.08.18

FERRARA Ebrei, una storia italiana

TIVOLI (ROMA) Tivoli e la vestale Cossinia

I primi mille anni Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS fino al 16.09.18

FINALE LIGURE BORGO (SV) Ad fines. 500 miglia da Roma Al tempo dei Romani nel Finale Museo Archeologico del Finale fino al 03.06.18

LIDO DI JESOLO Egitto. Dèi, faraoni, uomini Spazio Aquileia 123 fino al 15.09.18 26 a r c h e o

Andy Warhol, Vesuvius, 1985.

Rilievo funerario palmireno in calcare dorato e dipinto.

Museo della Città fino al 31.05.18 Ricostruzione della tomba di Tutankhamon.

TORINO La capitale delle steppe Immagini dagli scavi di Karakorum in Mongolia MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 03.06.18

Orienti

7000 anni di arte asiatica dal Museo delle Civiltà di Roma MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 26.08.18


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Anche le statue muoiono

Conflitto e patrimonio tra antico e contemporaneo Fondazione Sandretto Re Rebaudengo fino al 29.05.18 Salone delle Guardie Svizzere dei Musei Reali fino al 03.06.18 Museo Egizio fino al 09.09.18

VENEZIA Il mondo che non c’era L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue Palazzo Loredan fino al 30.06.18

VILLANOVA DI CASTENASO (BO) Villanova e Verucchio Un’antica storia comune MUV-Museo della civiltà Villanoviana fino al 10.06.18

VOLTERRA I signori de L’Ortino

Aristocrazie gentilizie all’alba della città di Velathri Palazzo dei Priori fino al 30.09.18

Germania KARLSRUHE Gli Etruschi

Civiltà mondiale nell’Italia antica Badisches Landesmuseum fino al 17.06.18

Lussemburgo LUSSEMBURGO Il Luogo Celeste. Gli Etruschi e i loro dèi

Il santuario federale di Orvieto Musée national d’histoire et d’art fino al 02.09.18

Svizzera HAUTERIVE Orso

Laténium, Parc et musée d’archéologie de Neuchâtel fino al 06.01.19

RANCATE (MENDRISIO) Il Cavallo: 4000 anni di storia Collezione Giannelli Pinacoteca cantonale Giovanni Züst fino al 19.08.18

USA NEW YORK Regni dorati

Lusso ed eredità delle antiche Americhe The Metropolitan Museum of Art fino al 28.05.18

Ornamento aureo in forma di polpo. Cultura Moche.

Belgio BRUGES Mummie

Segreti dell’antico Egitto Xpo Center Bruges fino all’11.11.18

Francia TOURCOING Cristiani d’Oriente

2000 anni di storia Musée des beaux-arts Eugène Leroy fino al 16.06.18 a r c h e o 27


CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli

COME A ELEUSI LA MOSTRA IN CORSO PRESSO IL MUSEO DELL’ACROPOLI DI ATENE EVOCA LE ATMOSFERE DEI CELEBRI MISTERI, UNA DELLE PIÚ IMPORTANTI CELEBRAZIONI RITUALI. I REPERTI SELEZIONATI PER L’OCCASIONE, INSIEME A UN ALLESTIMENTO DI GRANDE EFFICACIA, FANNO DEI VISITATORI ALTRETTANTI SEGUACI DEL CULTO DI DEMETRA E PERSEFONE

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n ambiente gremito di colonne, con banchine su tutti i lati e un fregio di bucrani e fasci di spighe posto a ornare la parte alta delle pareti, accoglie il visitatore della mostra «Eleusi e i Misteri», attualmente allestita presso il Museo dell’Acropoli. L’idea è evidente: dare la sensazione di trovarsi nel Telesterion, il grande edificio a pianta quadrangolare che costituiva il fulcro del culto di Demetra e Persefone, nel cuore del santuario di Eleusi. Perché proprio i misteri eleusini, e le attestazioni di tale culto note grazie ai dati archeologici, sono i protagonisti indiscussi di questa esposizione, organizzata dal Museo stesso in collaborazione con la Soprintendenza Ellenica alle Antichità dell’Attica Occidentale.

PERSEFONE IN CORSA Nel percorso si succedono rinvenimenti provenienti dal santuario di Eleusi, alcuni dei quali molto celebri, come la statua di Persefone in corsa pertinente a un gruppo frontonale perduto, la tavoletta votiva fittile di Ninnion, in cui è raffigurato l’arrivo degli iniziati a Eleusi, e il famoso rilievo della prima età classica con le figure delle due dèe di Eleusi. Meno noti ma altrettanto interessanti sono altri oggetti selezionati per la mostra: si

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tratta del vasellame rituale, documentato da kernoi, incensieri e plemochoai, che venivano impiegati nel corso delle cerimonie misteriche oppure dedicati dai fedeli nel santuario. Alcuni rinvenimenti, poi, spiccano per il loro valore estetico, come due splendidi frammenti di coppe a fondo bianco di età tardoarcaica, che presentano, rispettivamente, la raffigurazione di un Tritone marino e quella di Atena e del Gigante Encelado. Ritratti e rilievi, infine, illustrano le figure dello ierofante e del daduco, i principali sacerdoti implicati nei culti misterici; in particolare, un rilievo con le figure delle due dèe eleusine e dello ierofante Agnousios è un magnifico esempio di scultura attica del II secolo d.C. I reperti, tuttavia, non provengono dal solo santuario di Eleusi, ma anche da altri siti connessi ai misteri. Infatti, la processione festiva che conduceva da Atene a Eleusi, durante la quale sfilava un ampio numero Nella pagina accanto: rilievo con Demetra e Persefone, da Eleusi. Prima metà del V sec. a.C. Eleusi, Museo. A destra: statua di Persefone in corsa. 480 a.C. circa. Eleusi, Museo.

A destra: l’allestimento della mostra, con la ricostruzione di un ambiente che evoca il Telesterion, edificio che era il fulcro del culto di Demetra e Persefone.

di iniziati e di fedeli pronti all’iniziazione, partiva dall’Eleusinion, alle pendici dell’Acropoli di Atene, il santuario che per alcuni giorni custodiva gli oggetti sacri di Eleusi.

IN PROCESSIONE SULLA VIA SACRA In seguito, il corteo percorreva la Via Sacra, passando per diversi luoghi sacri di grande importanza. Per rendere conto anche di queste tappe della processione e del percorso iniziatico, ad aprire la mostra sono un rilievo con Demetra e Persefone in compagnia di tre fedeli, proveniente dall’Eleusinion di Atene, nonché un piccolo gruppo di rinvenimenti provenienti dal santuario di Afrodite posto lungo la Via Sacra, all’altezza del Monastero di Dafní. Tra di essi, spiccano le colombe votive in marmo, dedicate alla dèa dalle fedeli e che presentano iscrizioni molto chiare

incise sull’oggetto, come pure i modellini in marmo del ventre femminile, accompagnati anch’essi da iscrizioni dedicatorie. Al centro della sala, in un piccolo ambiente oscuro che richiama l’anaktoron, il luogo piú recondito del Telesterion al quale avevano accesso solo i sacerdoti, un filmato illustra con dovizia di particolari i momenti salienti della processione verso Eleusi e del percorso iniziatico, con l’aiuto di foto aeree, ricostruzioni e modellini. Le dediche dei fedeli, gli oggetti di culto, le statue frontonali, i ritratti dei sacerdoti lasciano intravvedere credenze e speranze legate alla felicità nella vita e alla prosperità in un mondo ultraterreno, promesse dai misteri eleusini e accolte con fiducia dai tanti che abbracciarono il culto di Demetra e Persefone. Agli organizzatori va riconosciuto il merito di aver offerto al vasto pubblico che visita il Museo dell’Acropoli un’ampia panoramica di questo fenomeno, regalando anche molti oggetti nascosti nei magazzini e accessibili, di rado, solo agli specialisti.

DOVE E QUANDO «Eleusi e i Misteri» Atene, Museo dell’Acropoli fino al 31 maggio Orario lu, 8,00-16,00, ma-do, 8,00-20,00 (venerdí apertura serale fino alle 22,00) Info www.theacropolismuseum.gr

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MOSTRE • TORINO

I MILLE VOLTI DELLA MEMORIA A CHI SPETTA LA CUSTODIA DEL PASSATO? È QUESTO UNO DEGLI INTERROGATIVI INTORNO AI QUALI RUOTA IL PROGETTO «ANCHE LE STATUE MUOIONO», REALIZZATO A TORINO IN TRE SEDI ESPOSITIVE E CHE SARÀ DIBATTUTO IN UN CONVEGNO INTERNAZIONALE. CE NE PARLA IL DIRETTORE DEL MUSEO EGIZIO DELLA CITTÀ PIEMONTESE

Q

uattro istituzioni torinesi – il Museo Egizio, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, i Musei Reali e il Centro Ricerche Archeologiche e Scavi di Torino (CRAST) – hanno dato vita al progetto «Anche le statue muoiono», che si è tradotto in una mostra in cui, attraverso il dialogo tra reperti antichi e opere di artisti contemporanei, si affronta il tema della distruzione e del saccheggio del patrimonio culturale. L’esposizione è stata pensata anche per 30 a r c h e o

di Christian Greco

riflettere sul potere delle immagini e sul ruolo dei musei . Su quest’ultimo punto richiama l’attenzione il direttore del Museo Egizio, Christian Greco, nell’articolo che qui pubblichiamo. Se è vero, come questo progetto dimostra, che «anche le statue muoiono», è lecito e doveroso domandarsi che ruolo abbia l’istituzione museale – luogo di conservazione per eccellenza, destinata a farsi testimone dell’arte o delle culture dei

secoli passati – in questo processo. I musei concorrono alla morte delle opere che conservano nelle loro collezioni o sono l’ultimo baluardo perché esse possano sfuggire alla fine di un’esistenza messa in pericolo da una miriade di fattori quali oblio, mancanza di risorse, conflitti, disastri ambientali o piú semplicemente incuria? Tra i piú accesi sostenitori della prima opzione vi è l’antropologo francese Jean-Loup Amselle che in


Mimmo Jodice, Anamnesi, 9 stampe True Black Fine Art Giglèe su Photo-Rag 100% cotone. 2014. Brescia, Collezione Privata.

un recente lavoro – Il museo in scena. L’alterità culturale e la sua rappresentazione negli spazi espositivi (Meltemi Editore, 2017) – sulla scia di Foucault e delle sue «eterotopie» esamina la condizione carceraria delle opere d’arte, in particolare di quelle di cui l’Occidente si è appropriato e che ha imprigionato nel corso della sua lunga storia coloniale. L’autore mira a dimostrare come il museo costituisca un vero e proprio luogo di extraterritorialità che priva di senso le culture che vi sono esposte, raccolte dall’Occidente in modo totalmente arbitrario, e celate sotto la maschera dell’universalità. I corsi e ricorsi della Storia hanno portato alla formazione di collezioni museali che sovente sono state costituite da oggetti sottratti ad altri Paesi.Vale la pena soffermarsi brevemente sulla natura del Museo, per cercare di comprendere cosa una tale istituzione possa rappresentare, se sia un luogo di memoria collettiva e abbia un valore identitario. Esemplare in questo contesto è il caso della razzia del Museo Nazionale di Antichità di Baghdad nel 2003. Le reazioni immediate a quello scempio permisero subito di capire che i cocci, le statue spezzate, le tavolette d’argilla fossero piú che semplici artefatti appartenenti a un passato lontano. Erano origine di tensioni, pulsioni, senti-

menti profondi e le reazioni furono al contempo locali e globali. La cultura materiale saccheggiata dal Museo rappresentava la connessione con il passato ma anche una chiave identitaria per un futuro incerto. Potremmo forse estremizzare e dire che il concetto di patrimonio culturale sia un bisogno umano molto radicato che mira a dare significato al caos contemporaneo e a fornire un senso simbolico di continuità e certezza, spesso carente nella vita quotidiana. È importante anche riflettere su come i musei raccolgano in sé diversi ossimori: essi sono luoghi di conservazione ma vogliono al contempo essere enti di ricerca e innovazione, vogliono essere inclusivi, partecipativi ma in realtà per loro natura sono anche «esclusivi». Infatti riconoscere il possesso ad alcuni, escludendo altri, ci fa comprendere come anche la cultura materiale del passato possa originare incomprensioni o addirittura conflitti.

«UN BUON RACCOLTO» Molti grandi musei ospitano collezioni formate dal patrimonio di altri Paesi. Indimenticabile, a questo proposito, la scena del film del maestro russo Aleksandr Sokurov, dedicato al Museo del Louvre, Francofonia (2015), nella quale un Napoleone

immaginario – trasformatosi in una sorta di guida per lo spettatore – illustra le campagne di guerra grazie alle quali ha potuto portare in Francia i piú grandi capolavori dell’arte russa e italiana. Nel 1796 Bonaparte scriveva al Direttorio: «La commissione degli esperti (cioè la commissione per le opere d’arte) ha fatto un buon raccolto a Ravenna, Rimini, Pesaro, Ancona e Perugia. Queste opere verranno subito spedite a Parigi. Con queste, e con quelle che spediremo da Roma, tutto quello che c’è di bello in Italia sarà nostro, a eccezione di alcuni pezzi che si trovano a Torino e a Napoli». Le origini dei musei pubblici sono comunemente individuate proprio intorno all’apertura della Grande Galerie del Louvre nel 1793 (e ancora prima, nel 1683, data di nascita dell’Ashmolean Museum): sarebbe tuttavia un errore ritenere che questa tipologia di museo fosse una novità o una rivoluzione per i secoli XVII e XVIII. La storia del Museo, come luogo deputato allo studio, si colloca infatti nell’antichità: basti pensare al Mouseion di Alessandria, fondato nel 280 a.C. circa da Tolomeo Soter. Questa istituzione, connessa alla Biblioteca, era – come dice il nome – un luogo di culto dedicato alle Muse e comprendeva una comunità di studiosi residenti dediti alla disamina, edizione critica a r c h e o 31


MOSTRE • TORINO A sinistra: immagini da Francofonia, film di Aleksandr Sokurov che racconta del rapporto fra il direttore del Louvre e l’ufficiale tedesco incaricato di portare in Germania le opere del museo parigino. Per l’occasione, il regista «resuscita» Napoleone e la Marianne, allegoria della Repubblica francese. A destra: The Temporary Elgin Room, dipinto di Archibald Archer. 1819. Londra, British Museum.

e traduzione in greco dei testi conservati nella Biblioteca: questa istituzione fu un luogo di incontro fra dotti e di insegnamento e divenne il massimo centro culturale del mondo ellenistico.

BOTTINO DI GUERRA Proprio negli stessi anni assistiamo a Pergamo alla nascita di un altro fenomeno: le statue e le opere d’arte raccolte da Attalo I Soter nei territori conquistati furono collocate in città (altre furono invece destinate a diventare modelli da imitare nelle gallerie degli artigiani locali) e le stesse, nel passaggio tra la dominazione greca e ro32 a r c h e o

mana, diventarono nuovamente trofei di conquista. Roma si trasformò, secondo l’incisiva definizione di Jerome Pollitt, in «un museo di arte greca». Assistiamo a Roma a un fenomeno interessante: l’assimilazione della statuaria greca e di altri oggetti preziosi nella cultura visuale e nella vita quotidiana dell’Urbe. Le parole di Orazio sono illuminanti in questo contesto: «Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit aegresti Latio» (Epistole, II, 1, 156: «la Grecia conquistata [dai Romani] conquistò il selvaggio vincitore e portò le arti nel Lazio agreste»). Potenza e ricchezza potevano essere espresse attraverso il

possesso di cultura materiale proveniente da un grande Paese straniero quale la Grecia, i destinatari di questa studiata scenografia erano al contempo i cittadini della res publica e gli emissari stranieri. Proprio in questo contesto si può inquadrare il dibattito sull’appartenenza di collezioni formate da oggetti di culture lontane e diverse arrivate nei Musei attraverso acquisizioni. Il dibattito si è fatto sempre piú


intenso negli scorsi decenni, in particolare legandosi al tema delle restituzioni. È, cioè, opportuno o in taluni casi doveroso, che i musei restituiscano ai Paesi di origine i reperti che conservano, ormai da secoli, nelle loro sale? Emblematico a questo proposito il contenzioso «Morgantina», iniziato nel 2006, fra il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo italiano e alcuni dei musei piú impor-

tanti degli Stati Uniti, il Metropolitan e il Getty, intorno alle restituzioni dei capolavori archeologici che l’Italia reclamava. Nel 2011 giunse in Italia dal Metropolitan un complesso di 16 argenti dorati ellenistici del III secolo a.C., il piú importante complesso di oreficerie della Sicilia ellenistica; contestualmente il Getty Museum restituiva la cosiddetta «Venere di Morgantina», una statua alta piú di due metri, considerata

uno splendido originale greco della fine del V secolo a.C. Un terzo museo statunitense si inserí nelle restituzioni a Morgantina, il Bayly Art Museum dell’Università della Virginia con gli otto pezzi (due teste, tre mani, tre piedi) che appartenevano alle statue acrolitiche di Demetra e Kore. L’altra decennale e parallela vicenda di restituzione in cui era implicato il Metropolitan è stata quella del ritorno in Sicilia a r c h e o 33


MOSTRE • TORINO

della phiale d’oro del IV-III secolo. Una «patera», cioè una tazza per libagioni e offerte di liquidi alle divinità nelle cerimonie, del diametro di 22,75 cm e del peso in oro di 982,40 grammi, riccamente decorata, arrivata illegalmente in America. La storia del «recupero» della phiale è lunga e complessa, frutto di un’inchiesta giudiziaria che ha portato alla riacquisizione di un importante reperto illegalmente trasferito all’estero.

DALLA SICILIA A NEW YORK Negli anni Novanta del Novecento la Procura di Termini Imerese avviò un’indagine sul trafugamento della phiale, dalla quale si apprese che il pezzo, in un primo tempo acquistato da un collezionista di Catania, fu rivenduto per 30 milioni di lire a Vincenzo Cammarata, noto collezionista ennese che l’avrebbe successivamente ceduto al titolare di una società di commercio con sede a Zurigo. Dalla Svizzera, attraverso Lugano – città strategica per il passaggio di opere d’arte provenienti dall’Italia – la phiale fu dunque venduta al miliardario statunitense Michael Steinhardt per 1 200 000 dollari, falsificando i documenti doganali, nei quali fu indicata la Svizzera come Paese d’origine del pezzo e dai quali risultava ridotto il valore rispetto al reale prezzo d’acquisto. A New York diversi esperti di metallurgia antica sottoposero la phiale ad approfondite analisi; L’interno e l’esterno della phiale (tazza per libagioni) in oro trafugata dal territorio di Castelvuturo (Sicilia) e tornata in Italia dopo un lungo contenzioso. IV-III sec. a.C. Termini Imerese, Antiquarium di Himera. 34 a r c h e o


le indagini furono svolte soprattutto dagli esperti del Metropolitan Museum, già in possesso di un’altra phiale aurea acquistata anni prima (senza documenti che ne attestassero la provenienza), e ne provarono l’autenticità. La phiale entrò cosí in possesso di Michael Steinhardt, uno dei piú importanti benefattori del Metropolitan Museum, restando nella sua collezione, senza alcuna contestazione, fino all’apertura, nel 1995, dell’inchiesta giudiziaria al centro della quale vi è la richiesta da parte dello Stato Italiano di restituzione dell’oggetto.

UN DURO CONFLITTO Le autorità americane non restarono insensibili alla richiesta disponendo il sequestro della phiale. Il «contenzioso Steinhardt» aprí un duro conflitto sulla legittimità dell’acquisto di opere d’arte di provenienza sconosciuta da parte di musei e collezionisti. Da un lato vi era l’AAM (American Association of Museums), dall’altro l’AIA (Archaeological Institute of America), due importanti istituti americani di cultura che assunsero in merito alla vicenda opposte e contrastanti posizioni, ispirate a impostazioni del problema diametralmente divergenti. L’AAM, infatti, insieme ad altre associazioni legate ai musei statunitensi, ponendo in secondo piano l’aspetto legato alle leggi di tutela dei Paesi da cui provengono le opere d’arte, sosteneva l’importante ruolo svolto dai musei – attraverso la conservazione, le pubblicazioni e l’educazione pubblica – nella valorizzazione del patrimonio artistico mondiale. Secondo l’AIA, invece, le opere andavano in primo luogo valutate nel loro contesto storico e geografico originale, nel rispetto delle diverse legislazioni nazionali a protezione del patrimonio archeologico di ciascun Paese. Il 12 luglio 1999, la Corte d’Appello di New York con una sentenza per molti aspetti innovatrice, che

segnò un importante precedente, respinse il ricorso di Steinhardt; la phiale secondo la sentenza era da considerarsi di provenienza furtiva («stolen») secondo il National Stolen Property Act (NSPA), dal momento che la legislazione italiana attribuiva allo Stato la proprietà degli oggetti di scavo. L’importazione del reperto era, pertanto, da considerarsi illegale. Da quel momento si apre un nuovo capitolo nella storia della phiale, nel quale gli aspetti piú strettamente giuridici, collegati al rientro in Italia, si intrecciano con le potenziali prospettive legate alla valorizzazione di un oggetto prezioso non solo per il suo valore intrinseco e per la sua notevole importanza sotto il profilo storico-archeologico, ma anche, in qualche modo, per la valenza simbolica rispetto al tema della lotta che da decenni lo Stato italiano conduce nel tentativo di arginare gli scavi abusivi e il commercio illegale all’estero delle opere d’arte. La vicenda della phiale – al di là dell’unanime condanna del furto e della vendita illegale che ha trovato il suo strumento piú alto nella Convenzione UNESCO del 1970, primo strumento internazionale dedicato alla lotta al traffico illecito di beni culturali in tempo di pace – ci consente di delineare due posizioni, che abbiamo visto attive nel dibattito americano, relativamente alle restituzioni. I detrattori della politica delle restituzioni sottolineano il fatto che i musei La dea di Morgantina, statua raffigurante una divinità femminile, forse identificabile con Afrodite. 420-410 a.C. Aidone, Museo Archeologico Regionale. a r c h e o 35


MOSTRE • TORINO

interessante notare come una domanda fondamentale, ovvero a chi appartenga il passato, si esprima ancora con forza e possa avere molteplici risposte. Il caso Morgantina è oggetto della riflessione di una delle artiste protagoniste dell’esposizione «Anche le statue muoiono», Liz Glynn, le cui sculture della serie Surrogate Objects for the Metropolitan sono repliche di alcuni dei reperti che il Met ha restituito all’Italia. L’insieme piú numeroso di oggetti riproduce proprio il tesoro di Morgantina: nella internazionali siano portatori di un vesse tornare in Sicilia perché ap- ricerca di Glynn, i temi della perdiuniversalismo positivo che intende parteneva alla storia del territorio, ta e della copia si intrecciano con le opere d’arte appartenenti al patri- all’eredità greco-romana. Il rimpa- quelli della distruzione e dell’appromonio culturale dell’umanità. Dal trio della phiale era in quest’ottica priazione culturale, testimoniando loro punto di vista il Museo univer- una restituzione al contesto origina- quel processo per cui il tentativo di sale resta il migliore contesto in cui rio che gli archeologi mirano a pre- preservare un reperto causa spesso la avere a che fare con l’arte: le opere servare, criticando contestualmente sua espropriazione, la sua distruzionon obbediscono ai moder ni il fatto che molti reperti siano ormai ne o la sua decontestualizzazione sia confini politici e hanno sempre concepiti come opere d’arte e trat- fisica sia concettuale. Esplicita è la avuto collegamenti altrove. James tati come tali dai collezionisti o dai critica dell’artista verso le istituzioni Cuno, CEO del Getty Trust, uno musei che, in questo modo, ne igno- museali – americane ed europee – dei piú strenui sostenitori dei musei rano consapevolmente la biografia, colpevoli di aver sfruttato i vuoti universali e contrario alle restituzio- contribuendo a decontestualizzarli. legislativi e il mercato illegale per arricchire le proprie collezioni. ni, sottolinea con forza il pericolo che i governi e i musei nazionali UNA DOMANDA CRUCIALE Si tratta di riflessioni a cui un museo connessi intendano la restituzione Inoltre una presa di posizione cosí come l’Egizio di Torino non può come riparazione dell’integrità del- concepita sembrava agli archeologi sottrarsi: la collezione torinese è amla nazione supponendo che queste il modo migliore per opporsi ai basciatrice di una cultura che ha le rivendicazioni siano strettamente furti di reperti archeologici. Il di- sue radici altrove e dunque è lecito chiedersi come comportarci con i legate all’agenda politica. battito e il dialogo sono reperti che custodiamo: forse proÈ infatti importante domandarsi, linfa vitale per un’istiprio il Mouseion di Alessandria ci approfondendo il pensiero di chi tuzione scientifica ed è come Cuno è contrario alle restituzioni, a chi i musei attuali dovrebbero restituire i reperti da loro conservati? I Siciliani di oggi non sono i Greci di Morgantina e istituire un nesso cosí diretto può avere conseguenze negative e alimentare pericolosi nazionalismi. Al contrario, è interessante sottolinearlo, gli archeologi sostenevano che la phiale doMariana Castillo Deball, Mshatta-Fassade, Vernice per tessuti su cotone, guide di metallo. 2014

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fornisce una risposta su come un museo quale il nostro dovrebbe interpretare il suo ruolo ed esercitare la sua missione nella società civile di cui fa parte. Il Museo è un luogo di ricerca che può restituire i contesti archeologici dai quali i manufatti provengono. Il concetto di connessione che abbiamo tentato di materializzare nell’allestimento propone un metodo e uno strumento con cui si intendono valorizzare i contenuti della collezione nel quadro piú ampio della loro contestualizzazione archeologica, prosopografica e antiquaria. Uno dei piú importanti obiettivi in proposito è quello di ricomporre i disiecta membra, i reperti provenienti da un unico contesto di scavo ma che sono stati separati e sparsi tra le collezioni nazionali e internazionali in modo tale che siano valorizzati e ricomposti i contesti archeologici e storici degli oggetti. Al primo obiettivo di ricomposizione dei contesti si associa quello di tracciare una biografia dell’oggetto che possa mostrare al pubblico non una sola storia ma le molte di cui è stato protagonista, in modo da dare agli oggetti esposti una profondità temporale che non li confini esclusivamente nel momento in cui essi sono stati prodotti. Lo sguardo

archeologico aggiunge cosí una quarta dimensione all’oggetto, inserendolo nel flusso del tempo: dal modo in cui è stato prodotto al suo uso, e poi al suo abbandono o alla sua sepoltura, attraverso i segni lasciati dallo specifico ambiente naturale in cui l’oggetto è giaciuto, fino alla sua riappropriazione in quanto oggetto di interesse (romantico, commerciale, scientifico), con le relative manipolazioni (uso, deterioramento, restauro).

duce quando giocano simili interazioni. Credo pertanto che il Museo oggi debba essere in grado di presentare una nuova narrazione contemporanea, nella misura in cui affronta e presenta in modo adeguato la biografia degli oggetti: essi sono dei documenti storici che ci raccontano molteplici aspetti di una civiltà lontana, appartenente al nostro passato e al contempo sono legati all’istituzione che li conserva, studia, pubblica e connette al tessuto sociale in cui oggi gli ogSTORIE DI OGGETTI Rendere dunque conto di una sto- getti sono inseriti. ria che va dall’uso iniziale dell’oggetto sino ad arrivare all’attualità, ed Il testo dell’articolo è è inevitabilmente contemporanea tratto dal catalogo delquest’ultima parte della biografia la mostra «Anche le dell’oggetto: nasce da una selezione statue muoiono», in e da una riflessione che appartiene corso a Torino, e appaal presente. Il Museo, da quello ar- re per gentile concescheologico a quello di arte contem- sione dell’editore. poranea, non è un’entità statica bensí una sorta di campo magnetico DOVE E QUANDO in cui entrano in gioco, distinti e autonomi, tre elementi: chi produce «Anche le statue muoiono. oggetti, chi li espone, chi va a veder- Conflitto e patrimonio li. Da qui scaturisce quel «nuovo» e tra antico e contemporaneo» contemporaneo che sempre si pro- Torino, Museo Egizio Ali Cherri, Fragments II, manufatti archeologici, uccello tassidermizzato, tavolo, dimensioni variabili. 2016.

fino al 9 settembre Fondazione Sandretto Re Rebaudengo fino al 29 maggio Salone delle Guardie Svizzere dei Musei Reali fino al 3 giugno 2018 Orari Museo Egizio: lu, 9,00-14,00; ma-do, 9,00-18,30; Fondazione Sandretto Re Rebaudengo: gio, 20,00-23,00; ve-do, 12,00-19,00 Musei Reali: ma-do, 8,30-19,30 Info www.museoegizio.it Catalogo Franco Cosimo Panini Editore

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MOSTRE • TORINO

NEL SEGNO DEL CONFRONTO Incontro con Caterina Ciccopiedi

contemporanea quale fulcro dell’esposizione nasce dall’interesse per le riflessioni – non mera documentazione quindi, ma indagine piú profonda – che le azioni distruttive hanno generato negli artisti che vivono in quei contesti e assistono alla distruzione del Patrimonio.

Museo Nazionale di Baghdad nel 2003. Le reazioni immediate a quello scempio – amplificate dalla risonanza che i media ne diedero – permisero subito di capire che i cocci, le statue spezzate, fossero piú che semplici artefatti appartenenti a un passato lontano. Erano invece origine di tensione, pulsioni, sentimenti profondi e attuali. Il progetto «Anche le statue muoiono» conferma che l’attenzione del pubblico verso temi di stringente attualità quali la distruzione sistematica e consapevole del patrimonio culturale genera un alto livello di attenzione tra il pubblico.

◆ Episodi come l’assassinio di

◆ Quali sono gli obiettivi della

Inserite nel programma dell’Anno Europeo del Patrimonio 2018, la mostra e la giornata di studi «Anche le statue muoiono» hanno portato a Torino il tema, fattosi drammaticamente attuale, della difesa del patrimonio archeologico dalle distruzioni operate in seno a conflitti e tensioni internazionali. Per l’occasione, abbiamo incontrato Caterina Ciccopiedi, curatrice del catalogo che accompagna l’esposizione.

◆ Dottoressa Ciccopiedi, se fino

a tempi relativamente recenti si vedeva nell’usura del tempo la principale minaccia alla conservazione del patrimonio, oggi la situazione è mutata. «Anche le statue muoiono» fotografa questa involuzione, di cui diffonde la consapevolezza attraverso le opere d’arte contemporanea selezionate per la mostra. Da che cosa nasce la scelta di ricorrere a questa forma espressiva? Sarebbe erroneo pensare che la pratica di distruzione consapevole e ideologica del Patrimonio artistico e culturale sia un fenomeno recente: è vero che il progetto ha uno sguardo al presente, in particolare alle aree di conflitto nel Vicino Oriente, ma la sua peculiarità è il confronto. La mostra introduce una diversa temporalità, legata alla storia, che si manifesta con la vicinanza fisica di oggetti antichi e opere d’arte contemporanea. Questa scelta porta a riflettere su come le odierne pratiche di distruzione e saccheggio trovino antecedenti in altri contesti storici, geografici e ideologici. La scelta dell’arte

Khaled al-Asaad (l’anziano archeologo di Palmira ucciso nell’agosto del 2015) hanno posto il problema della tutela del patrimonio all’attenzione di un pubblico ben piú vasto di quello degli addetti ai lavori: crede, anche sulla base dell’affluenza che «Anche le statue muoiono» sta facendo registrare, che quell’interesse sia ancora vivo o che la questione sia tornata di dominio pressoché esclusivo degli studiosi e di chi opera nel restauro e nella conservazione? Sono proprio episodi come quello di Khaled al-Asaad (a cui è dedicata la sala mostre del Museo Egizio) che contribuiscono al risveglio delle coscienze delle collettività e non solo degli studiosi. Esemplare in questo senso è il caso della razzia del Kader Attia, Arab Spring, installazione site specific formata da 16 vetrine museali danneggiate. 2014.

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giornata di studi in programma il 28 e 29 maggio? Il simposio, che coinvolge studiosi e artisti internazionali, è articolato in tre macro sessioni. La prima è dedicata al «potere delle immagini»: si vuole riflettere su quanto un’immagine possa essere portatrice di significati che vanno ben al di là del semplice segno grafico. Il secondo tema è quello della distruzione e del saccheggio: entrambe le azioni appartengono a diverse epoche storiche, le motivazioni che hanno condotto gli uomini alla distruzione, spesso simbolica, del patrimonio culturale, sono diverse e mutano nei secoli ma alla loro base si può ravvisare un tentativo di mistificazione dell’identità altrui. Il terzo e ultimo tema è quello del ruolo dei musei, liminale tra conservazione/ protezione e appropriazione. È ineludibile ripensare al ruolo dei musei sia come «predatori» di patrimoni sia come luoghi di conservazione e protezione di reperti che altrimenti sarebbero esposti a gravi rischi.





MOSTRE • BOLOGNA

A sinistra e nella pagina accanto: copia romana in marmo pentelico della testa dell’Atena Lemnia di Fidia. Fine del I sec. a.C.-inizi del I sec. d.C.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces. 42 a r c h e o

Tutte le immagini che corredano l’articolo si riferiscono alle opere e all’allestimento della mostra «Ritratti di famiglia» in corso a Bologna, presso il Museo Civico Archeologico.


TUTTI GLI UOMINI (E UNA DONNA) DEL MUSEO

DICIOTTO BIOGRAFIE STRAORDINARIE RACCONTANO LA NASCITA E LA VITA DI UN GRANDE MUSEO CIVICO, L’ARCHEOLOGICO DI BOLOGNA. STUDIOSI DI ANTICHITÀ, MA NON SOLO, LEGARONO LA PROPRIA ESISTENZA PROFESSIONALE ALLA REALIZZAZIONE DELLA RACCOLTA FELSINEA. LA QUALE, IN SEGNO DI RICONOSCENZA, RESTITUISCE OGGI LA PAROLA A QUEI PIONIERI DELL’ARCHEOLOGIA ITALIANA… di Anna Dore e Paola Giovetti

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MOSTRE • BOLOGNA

I

l 25 settembre 2017 la necessità di eseguire interventi strutturali sul coperto impone, a 126 anni esatti dalla sua apertura, la chiusura del primo piano del Museo Civico Archeologico di Bologna, che custodisce le collezioni greca, romana ed etrusco-italica e le sezioni dedicate alla storia della città dalla preistoria all’età romana. Il 9 marzo 2018, nella sala dedicata alle esposizioni temporanee, si inaugura la mostra «Ritratti di famiglia. Oggetti, personaggi, storie del museo fra Bologna, l’Italia e l’Europa»: la chiusura si è cosí trasformata nell’occasione per raccontare il museo secondo una chiave inedita. Come quando in famiglia si aprono gli album delle fotografie e si riconoscono le persone, se ne ricordano e raccontano le storie, si ricostruiscono i fili che le legano le une alle altre, cosí il museo, assieme al suo patrimonio documentario, è stato «aperto» per raccontare 18 personaggi – 18 come i mesi di chiusura – protagonisti della sua

In alto: il volume di Carlo Cesare Malvasia (1616-1693) Marmora felsinea. Bologna, typographia Pisariana, 1690 (volume in quarto). Vi è raffigurato il torso loricato di Nerone, attualmente esposto nel lapidario del Museo Civico Archeologico di Bologna.

storia. Le figure di questi uomini (e una donna) – legati a un oggetto del patrimonio museale perché ne furono i collezionisti, i donatori, i mediatori, perché lo ritrovarono o lo studiarono – conducono il visita-

tore lungo il cammino di sviluppo del modo di guardare all’antico, dal Seicento fino alla nascita della scienza archeologica e delle moderne strutture di valorizzazione e di tutela. Permettono anche di scopriA sinistra: urna cineraria etrusca in terracotta, da Chiusi. II sec. a.C. La cassa è decorata con l’episodio culminante del mito dei Sette a Tebe: i figli di Edipo – Eteocle e Polinice – si uccidono a vicenda, secondo il destino profetizzato per loro dal padre. Nella pagina accanto: la sezione della mostra dedicata a Ulisse Aldrovandi.

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re come una vicenda apparentemente marginale consenta inaspettate aperture verso gli accadimenti storico-politici, culturali, sociali di Bologna e non solo. Il visitatore viene accolto da due speculari linee del tempo, che gli serviranno quasi da filo di Arianna nel percorso espositivo: quella dei personaggi, con i loro ritratti ufficiali, e quella dei «luoghi del museo», che tratteggia in modo sintetico la complessa storia delle collezioni bolognesi. Nel 1603 Ulisse Aldrovandi lascia al Senato il suo Museo con un vincolo alla fruizione pubblica e, nel 1617, le collezioni vengono accolte nel Palazzo comunale: nasce cosí uno dei primi musei pubblici dell’era moderna e per Bologna comincia il lungo cammino della costruzione, della conservazione e della valorizzazione del suo patrimonio culturale.

Anche il Museo Civico Archeologico, inaugurato nel 1881 nell’attuale sede di via dell’Archiginnasio come parte del Museo Civico, trova lí le sue radici.

COLORI E ISOLE Le linee del tempo suggeriscono al visitatore, attraverso una scansione per colori poi ripresa in tutto il percorso espositivo, l’articolazione in blocchi cronologici culturalmente significativi. Successivamente – con un allestimento lieve e colorato, che anche negli arredi restituisce il senso della storia del museo – il percorso si articola in 18 isole, scandite da grandi stendardi in cui campeggia il ritratto del personaggio, questa volta frutto della matita sapiente di Elena Maria Cané, accompagnato dal suo «oggetto simbolo». All’interno di ogni isola, dove

all’oggetto simbolo si affiancano altri reperti collegati al personaggio, la narrazione si articola secondo linee concettuali ricorrenti, come ricorrente è il layout grafico dei grandi bolli colorati: «La conquista del Passato», che segue lo sviluppo dello sguardo sull’antico e l’evoluzione della disciplina dall’antiquaria alla formazione di un preciso statuto scientifico per le scienze dell’antichità; «Raccontami la Storia», che ricollega il personaggio e/o l’oggetto simbolo a fenomeni, eventi storici e correnti culturali; «Link al territorio», che mostra al visitatore le maglie che legano strettamente fra loro le istituzioni culturali della città. Fra Cinque e Seicento sono Ulisse Aldrovandi (1522-1605), Ferdinando Cospi (1606-1686) e Carlo Cesare Malvasia ad accompagnare il visitatore. I primi due, con le a r c h e o 45


MOSTRE • BOLOGNA

PAPA E MECENATE Nell’ambito degli interventi di Benedetto XIV per il sostegno all’Istituto si pongono anche i doni che fra il 1740 e il 1751 giungono ad arricchire il patrimonio antiquario della Stanza delle Antichità. Particolarmente rilevante il dono di materiali numismatici e di un notevole nucleo di antichità egiziane, tra cui si segnalano la mummia egiziana di adulto di datazione incerta, che Joohann

loro raccolte miste di cose di natura e manufatti (naturalia e artificialia), bene esemplificano le caratteristiche collezioni del periodo, tese a una restituzione enciclopedica del mondo, alla sua indagine e alla sua classificazione.

LA CONOSCENZA COME OBIETTIVO In particolare, la figura di Aldrovandi – scienziato rigoroso – permette di raccontare il passaggio dall’Umanesimo scientifico alla nuova scienza di natura, come va costituendosi anche nel raffronto fra l’autorità degli antichi e l’osservazione di una natura differente e di cui i viaggi di esplorazione hanno ampliato incredibilmente i confini: in questo spirito, i musei scientifici del Cinquecento e degli inizi del Seicento vengono messi in opera 46 a r c h e o

Winckelmann menzionò nella sua Storia dell’arte nell’antichità , a dimostrazione dell’inferiorità fisica e anche culturale degli Egiziani rispetto ai Greci, e il sarcofago antropoide di Mes-Iset, in legno stuccato e dipinto, attribuito a un atelier del Basso Egitto (fine della XXII-inizi della XXV dinastia, 746-736 a.C. circa). Il sarcofago e la mummia sono ben riconoscibili nella foto in alto.

per una «visione diretta e ripetuta degli oggetti da osservare e comparare, al fine di descrivere, individuare, riconoscere ma in definitiva conoscere». Differente è la visione del marchese Ferdinando Cospi, uomo di corte che vede nella collezione uno strumento di diletto intellettuale, il cui Museo permette di richiamare alcune caratteristiche di un altro aspetto tipico del collezionismo cinqueseicentesco: quello delle Wunderkammern (letteralmente, «camere delle meraviglie», in lingua tedesca, n.d.r.). Il particolare legame di Cospi con la corte medicea apre uno spaccato sull’uso politico del mito etrusco nella Firenze di Cosimo I de’ Medici e dei suoi successori. Giurista, scrittore di cose d’arte e antiquario, Carlo Cesare Malvasia, con la sua collezione epigrafica edita nei Marmora Felsinea, mostra

una piena adesione a quel profondo ripensamento degli studi storici che giunge nel tardo Seicento a porre i fondamenti scientifici di molte discipline, come la paleografia, la numismatica, l’epigrafia. Adesione che avviene anche grazie ai legami diretti che l’ambiente intellettuale bolognese, e in parte anche lo stesso Malvasia, ebbero con alcuni dei protagonisti di questo processo, come l’epigrafista Jacques Spon e i padri maurini Jean Mabillon, padre della diplomatica, e Bernard de Montfaucon, fondatore della paleografia greca e grande sistematizzatore delle conoscenze sulle antichità materiali.

GUARDANDO ALL’EUROPA Tra il XVII e il XVIII secolo, la scena è dominata dalla nascita e dallo sviluppo dell’Istituto delle


Scienze (1711-1714). Per idea e su stimolo di Luigi Ferdinando Marsili (1658-1730), si affianca allo Studio (Università) un istituto che si ispira alle realtà europee delle Royal Academy britannica e dell’Académie royale des Sciences francese, accademie scientifiche con funzione e finanziamenti pubblici che mettono a disposizione degli studiosi spazi e strumenti per esercitare la scienza sperimentale e per trasmettere il loro insegnamento «piú per gli occhi che per le orecchie». L’Istituto trova sede in Palazzo Poggi, è dotato di laboratori e officine, ed è arricchito anche da un osservatorio astronomico. Viene sostenuto e incoraggiato da papa Benedetto XIV (1675-1758), bolognese di origine, mecenate e cultore delle scienze e delle arti (vedi box a p. 46), e diventa uno dei luoghi in cui avrà maggior sviluppo la scienza sperimentale settecentesca. All’interno dell’Istituto vengono riordinate le raccolte di naturalia e artificialia donate in primo luogo dallo stesso Marsili, cui vengono presto riunite le collezioni di Aldrovandi e Cospi e alle quali vanno infine ad aggiungersi doni di illu-

stri bolognesi, primo fra tutti il già citato papa Lambertini. Nell’Istituto, per la prima volta le Una gemma per gli eroi antichità trovano un loro spazio La cosiddetta «gemma Maffei» è autonomo, la Stanza dell’Antica uno scarabeo etrusco in Erudizione o delle Antichità. Ri- sardonica zonata, decorato con flesso della progressiva organizza- una raffigurazione di Achille e zione delle scienze dell’antichità e Ulisse e oggi inserito in una del riconoscimento di una loro montatura moderna. Risalente alla nuova dignità è il loro corso all’in- prima metà del V sec. a.C., fu terno dell’Istituto: se al momento rinvenuto a Bolsena intorno al della fondazione la Stanza delle 1734. Molto noto per le sue Antichità ha un custode, non sono iscrizioni, fu pubblicato anche da previste vere e proprie lezioni e le Johann Joachim Winckelmann. dissertazioni erudite che vi si tengono non hanno dignità di pubblicazione negli atti dell’Istituto, (1729-1789) viene istituito un con Giacomo Biancani Tazzi corso di lezioni (1779) e le dissertazioni ricevono dignità di stampa nei commentari (1791). L’allestimento della sezione dedicata a Luigi Ferdinando Marsili (1658-1730).

LA «REPUBBLICA» DEGLI INTELLETTUALI Attorno a Biancani Tazzi e all’Istituto ruota una fitta rete di rapporti personali e istituzionali che permette di toccare con mano quella «Repubblica delle Lettere» a cui questi intellettuali aderivano con convinzione. Fra questi rapporti si annoverano quelli con i piú noti intellettuali ed eruditi del tempo, da Lodovico Antonio Muratori, al Passeri, ad Annibale degli Abbati Olivieri, per il cui tramite giunse all’Istituto delle Scienze il dono di Scipione Maffei (1675-1755), altra figura di assoluto rilievo nell’Antiquaria del tempo. a r c h e o 47


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In particolare la Gemma Maffei, passata per le mani di uno dei fratelli Venuti, permette di approfondire il tema dell’Accademia Etrusca di Cortona e del profondo interesse degli eruditi del secolo per il mondo etrusco.

«L’ARTE CONTESA» Il passaggio tra Sette e Ottocento è segnato dalla vicenda napoleonica: alla fine della primavera del 1796, dopo aver assoggettato gran parte dell’Italia, Napoleone conquista anche i ducati di Parma e Modena e invade lo Stato Pontificio, obbligando Pio VI a rinunciare alle Legazioni di Bologna e Ferrara. Cominciano per Bologna anni tumultuosi, determinati anche dalle diverse forme politico-amministrative imposte al Nord Italia. Fra le trasformazioni portate dall’avvento dei Francesi c’è la riorganizzazione delle istituzioni culturali cittadine: l’Istituto delle Scienze e le sue Accademie vengono soppressi e Palazzo Poggi diviene sede dell’Università, completamente riformata nel 1803, secondo un’organizzazione del sapere ormai approdata a una definitiva distinzione in ambiti disciplinari autonomi. In questa riorga48 a r c h e o

In alto: la sezione dedicata a Pelagio Palagi: sullo sfondo, l’Atena Lemnia. In basso: anfora attica a figure nere che reca la firma del ceramista attico Nikosthenes. Collezione Palagi, 540-510 a.C.

nizzazione le collezioni di oggetti e strumenti dell’Istituto vengono smembrate e seguono le sorti delle rispettive discipline, con la definitiva separazione delle raccolte scientifiche da quelle storico-artistiche. Il patrimonio artistico, archeologico e librario pubblico e privato della città viene coinvolto nelle requisizioni di opere destinate ad arricchire le istituzioni culturali francesi e in particolare il Louvre. Da Bologna parte un grandissimo numero di codici e manoscritti, dipinti dalle soppresse istituzioni ecclesiastiche, strumenti scientifici e oggetti archeologici dall’Istituto. Fra questi, una delle opere piú importanti della Stanza delle Antichità, lo specchio noto come «patera cospiana» che era stato il pezzo forte della collezione Cospi. La patera sarà fra i beni che la difficile trattativa di Antonio Canova riuscirà a riportare in patria. Attraverso questa vicenda si apre una finestra sul dibattito intorno ai beni culturali, al loro interesse pubblico e alla loro tutela innescato dalla crisi napoleonica e sulle sue conseguenze. A Bologna è Filippo Schiassi (1763-1844), successore di Biancani Tazzi come custode della Stanza delle Antichità e come professore di Antichità e Numismatica dell’Istituto, a dover gestire tutte le complesse operazioni legate alle soppressioni e alle requisizioni del periodo giacobino e napoleonico. Sempre lui traghetterà nel nuovo secolo le collezioni archeologiche pubbliche, ormai trasformate, ampliate e riorganizzate in Museo d’antichità e ricoprirà, nella rinnovata università, la cattedra significativamente rinominata «di Archeologia».

FRA ARCHEOLOGIA E AMOR DI PATRIA Nel corso dell’Ottocento, i personaggi che incrociano le collezioni del Museo ci conducono attraverso una pluralità di linee e di percorsi.


case regnanti, fioriscono le imprese archeologiche in Italia (Etruria e Magna Grecia) e si impongono le antichità dell’Egitto in seguito alla spedizione napoleonica. Mediatore per Palagi negli acquisti degli oggetti provenienti dagli scavi dei grandi centri etruschi fu l’archeologo tedesco Eduard Gherard (1795-1867), primo direttore dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica di Roma (oggi Istituto Germanico), fondato nel 1829, che coinvolgeva studiosi e illustri amatori nell’impegno di raccogliere notizie sugli scavi e sulle antichità italiane e di documentarli in modo r igoroso, Ancora in parte legata a fenomeni che affondano le radici nel tardo Settecento è l’ultima figura di grande collezionista: il pittore Pelagio Palagi (1775-1860), bolognese per nascita e per formazione, successivamente impegnato nella Roma neoclassica di Canova e Pio VII, a Milano e infine a Torino come pittore di corte di Carlo Alberto di Savoia. Nella parte antica, la sua collezione rispecchia un mercato antiquario profondamente influenzato da quanto andava accadendo nel mondo della ricerca archeologica. Sono anni in cui, dopo i primi grandi scavi settecenteschi promossi soprattutto dalle

Aristocrazia guerriera Elmo italico in bronzo, dalla tomba 953 del sepolcreto gallico Benacci di Bologna. Fine del IV-inizi del III sec. a.C. Insieme agli altri elementi del corredo, questo pregiato manufatto accompagnava uno dei membri piú in vista dell’aristocrazia guerriera della comunità bolognese, deposto in una fossa di grandi dimensioni.

In alto: l’allestimento della sezione dedicata a Edoardo Brizio (1846-1907), che, insieme a Giovanni Gozzadini e Antonio Zannoni, ebbe un ruolo decisivo nella nascita del Museo Civico. a r c h e o 49


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permettendo un confronto diretto con i reperti e i monumenti. L’Istituto diviene cosí il tramite attraverso il quale si diffondono anche in Italia i metodi che gli archeologi tedeschi vanno mettendo a punto, trasformando l’archeologia classica in una scienza autonoma e con un proprio, riconosciuto statuto metodologico. Attorno all’Istituto di Corrispondenza Archeologica si formerà quella prima generazione di archeologi italiani propriamente detti, ai quali va ascritto – soprattutto all’indomani dell’Unità d’Italia – un altro importante fenomeno: lo struttu-

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rarsi dei percorsi di studio per la formazione degli archeologi e delle istituzioni e delle procedure per la tutela e la valorizzazione (diremmo oggi) delle scoperte archeologiche.

I MAGNIFICI TRE A Bologna queste diverse linee di sviluppo si leggono nei tre protagonisti dell’archeologia ottocentesca. Giovanni Gozzadini (1810-1887) – sempre affiancato nelle sue imprese archeologiche dalla moglie Maria Teresa di Serego Allighieri –, Antonio Zannoni (1833-1910) ed Edoardo Brizio (1846-1907). A diverso titolo, Gozzadini, Zannoni e Brizio

sono anche i protagonisti della progettazione e della fondazione del nuovo Museo Civico, che aprirà i battenti nel 1881. Tutti e tre sono inoltre coinvolti in un altro fondamentale fenomeno dell’archeologia ottocentesca: la nascita della paletnologia, scienza che rivolge la sua attenzione ai reperti preistorici, fino all’Ottocento perlopiú relegati a oggetto di credenze magiche e favolistiche. Il vento della nuova scienza – che molto deve all’attività di geologi e naturalisti – comincia a soffiare in Italia con il diffondersi delle idee positivistiche degli scienziati europei e con l’atti-


In alto: le sezioni dedicate a Gherardo Ghirardini (1854-1920) e a Pericle Ducati (1880-1944). Nella pagina accanto: le antichità di Giovanni Capellini (1833-1922) e i partecipanti al V congresso di Antropologia e archeologia preistoriche del 1871.

vità di alcuni naturalisti svizzeri e francesi, che, all’inizio degli anni Sessanta dell’Ottocento, danno l’avvio alle ricerche sugli insediamenti lacustri dell’età del Bronzo nel Nord Italia e sulle terramare. L’Emilia e la Romagna furono centrali in questo processo, grazie anche all’opera di precursori quali l’imolese Giuseppe Scarabelli (1820-1905), che perviene all’archeologia da una formazione geologica, come spesso accade in quegli anni in cui sono proprio i geologi a porre il problema dell’antichità dell’uomo e a offrire gli strumenti per indagarla. Il suo primo lavoro, Intorno alle armi antiche di pietra dura che sono state trovate nell’imolese, poneva in primo piano una delle grandi questioni che gli studi geologici andavano mettendo a nudo in Europa: la necessità di arretrare l’esistenza dell’uomo a epoche insospettate e del tutto inconciliabili

con la cronologia biblica. Si trattava, nel 1850, nel restaurato Stato Pontificio, di un atto di grande coraggio intellettuale. Strumento fondamentale per la diffusione della nuova disciplina furono i Congressi di Antropologia e Archeologia preistoriche, fra i cui fondatori si annovera Giovanni Capellini (1833-1922), anch’egli geologo, giunto nel 1861 come professore all’ateneo bolognese, nell’ambito di quell’operazione di svecchiamento e rilancio dell’Ateneo perseguita dal Ministro Mamiani, che portò a Bologna in quegli anni anche Carducci. Proprio Capellini propose con successo Bologna come sede della V sessione dei congressi di Antropologia e Archeologia preistoriche, che si tenne nel 1871. Attraverso questi personaggi si legge la storia di un secolo tumultuoso: l’ardente spirito liberale porta

Scarabelli e i Gozzadini a ruoli di primo piano nelle vicende che porteranno Bologna e le Legazioni di Romagna all’adesione al Regno di Piemonte. Ricordando il suo maestro, Edoardo Brizio, Gherardo Gherardini ebbe a dire: «L’Italia restituentesi a unità e dignità di nazione, ricca di monumenti superbi, promettitrice d’ignote reliquie di storia e di arte racchiuse nelle viscere della sua terra, avea bisogno di un’archeologia nostrale viva e operosa». Se a noi oggi può sembrare che archeologia e amor di patria poco abbiano a che fare fra di loro, cosí non era per gli uomini di allora, che vedevano un nesso profondo fra il «restituirsi ad unità» della patria e la ricerca delle sue radici prime e del suo glorioso passato. Infine, le imprese archeologiche degli anni successivi all’Unità e la stessa fondazione del Museo Civico proprio nel cuore della città sono a r c h e o 51


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strettamente collegate al fervore urbanistico degli anni post unitari, in cui si cercava per Bologna un volto nuovo e moderno.

VERSO UN’ARCHEOLOGIA CONTEMPORANEA Il Novecento si apre con la morte di Edoardo Brizio, il quale, dalla scomparsa di Gozzadini, aveva ricoperto il triplice ruolo di professore di archeologia, commissario agli scavi (l’odierno soprintendente) e direttore del Museo e a cui succede Gherardo Ghirardini (1854-1920). Come il successore Pericle Ducati (1880-1944), Ghirardini fa parte ormai della seconda generazione di archeologi con una specifica formazione. Si coglie come un consolidamento di tutte le istanze che si erano profilate nella disciplina archeologica e nel campo della tutela nel corso del secolo precedente, il cui frutto piú evidente è forse la conclusione del lunghissimo e combattutissimo iter che conduce al varo della Legge 20 giugno 1909, n. 364, con cui le cose immobili e mobili di interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico o artistico vengono dichiarate inalienabili se di proprietà pubblica (e comunque soggette a vigilanza da parte dello Stato), mentre si sancisce la proprietà statale dei reperti frutto di scavi archeologici. Con Ghirardini approda a un riconoscimento ufficiale nell’ordine degli studi dell’Università di Bologna anche la paletnologia (con il corso di paleoetnologia umbro-etruscogallica, di cui fu titolare a partire dal 1910-11). L’ormai consolidato ruolo di supervisione e tutela negli scavi è ben evidente nelle fruttuose indagini archeologiche che accompagnano gli interventi urbanistici principali di una città ormai dotata di un piano regolatore (1889) e di un’idea sullo sviluppo delle prime periferie urbane. Con Pericle Ducati la divisione delle figure dirigenziali di Museo e

In alto: Antonio Zannoni, in un disegno di Elena Cané. Ingegnere capo del Comune di Bologna (1833-1910), fu il responsabile dello scavo di alcuni tra i principali sepolcreti bolognesi di età etrusca. Suo lo scavo del sepolcreto della Certosa, di fase felsinea. Nella pagina accanto: situla in lamina di bronzo decorata a sbalzo e a incisione detta «della Certosa», dalla tomba 68 del sepolcreto etrusco della Certosa (Bologna). Fase felsinea, prima metà del VI sec. a.C.

Soprintendenza e la separazione anche fisica delle due istituzioni sancisce il definitivo assetto degli Istituti proposti alla conservazione e alla tutela. La sterminata bibliografia di Ducati – figura discussa

per la sua adesione convinta al fascismo e alla Repubblica di Salò, che lo portò alla morte per gli esiti di un agguato gappista nel 1944 – ci pone davanti una disciplina ormai approdata alle grandi sintesi (non ultima quella su Bologna etrusca) e non restia a un’opera di ampia divulgazione, tratto assai moderno anche se spesso inficiato da uno scoperto uso propagandistico del dato archeologico. Divulgazione, attenzione alla valorizzazione, alla protezione del patrimonio (evidentissima nell’emergenza bellica) e al restauro sono tratti innovativi di una figura che d’altra parte è ancora legata, per certi versi, all’archeologia di fine Ottocento-inizi Novecento e che può essere letta come chiusura di un’epoca. «Ritratti di famiglia» invita dunque a compiere un viaggio nel tempo con un sapore bolognese, ma aperto all’Italia e all’Europa, come lo è stata la storia della città e dei suoi musei e come dimostra il diciottesimo personaggio, quello che non abbiamo ancora nominato: nella secondo metà dell’Ottocento fa capolino nella storia del Museo Heinrich Schliemann, portando con sé il fascino dell’avventura piú nota e avvincente dell’archeologia ottocentesca. DOVE E QUANDO «Ritratti di famiglia. Personaggi, oggetti, storie del Museo Civico fra Bologna, l’Italia e l’Europa» Bologna, Museo Civico Archeologico fino al 19 agosto Orario ma-ve, 9,00-18,00; sa, do e festivi, 10,00-18,30; chiuso il lunedí Info tel. 051 2757211; www.museibologna.it/archeologico a r c h e o 53


MOSTRE • AQUILEIA

ORO DEL DANUBIO L’

PERCHÉ ROMA CONSIDERÒ ESSENZIALE IL CONTROLLO DELLE TERRE ATTRAVERSATE DAL GRANDE FIUME? FONDAMENTALE FU, SICURAMENTE, IL LORO RUOLO STRATEGICO PER GLI EQUILIBRI MILITARI DELL’IMPERO. MA LE RAGIONI ERANO ANCHE ALTRE. COME RIVELA UNA MOSTRA AD AQUILEIA, DEDICATA ALLA STORIA E AI TESORI DELL’ANTICO ILLIRICO testi di Arnaldo Marcone e Ivana Popovic

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L’

importanza strategica ed economica dei territori balcanici al tempo dell’impero romano è il filo conduttore della mostra «Tesori e imperatori. Lo splendore della Serbia romana» allestita in Palazzo Meizlik, ad Aquileia. Una centralità documentata dalle fonti letterarie e dall’archeologia e che viene sottolineata dai contributi che pubblichiamo in queste pagine, tratti dal catalogo che accompagna l’esposizione e gentilmente concessi dall’editore.

La Tabula Traiana, l’iscrizione incisa sulla roccia che ricorda il rifacimento (o la realizzazione) del tratto di strada sul Danubio che attraversa le Porte di Ferro. 100 d.C. Il monumento si trova nella Gola di Djerdap, 2,5 km a monte dalla città di Tekija.

L’Illirico in età romana L’attuale territorio della Repubblica di Serbia ricade in larga misura nell’area geografico-amministrativa dell’impero romano nota come Illirico. In realtà, a rigor di termini, «Illirico» è una denominazione piuttosto vaga, in qualche modo simile a quella di «Balcani» nell’uso corrente. Si tratta, infatti, di una regione dall’estensione diversa a seconda delle varie epoche della storia dell’impero romano. Nella sua massima estensione comprendeva gran parte della frontiera danubiana sino a includere la Tracia (Bulgaria sud-orientale, Grecia nord-orientale, Turchia europea). La cosa aveva rilevanti implicazioni di carattere strategico-militare, dal momento che questa frontiera acquisí un ruolo sempre piú rilevante per la difesa dell’impero. Il sistema cosiddetto «lineare», con gli eserciti dispersi lungo le frontiere e senza truppe mobili di riserva, non si rivelò piú adeguato quando, a partire dalla seconda metà del II secolo, il confine (limes) fu sottoposto a una pressione progressivamente insostenibile, in particolare da parte di Quadi e Marcomanni. Proprio le guerre marcomanniche produssero un arresto nel processo di romanizzazione di quest’area. Marco Aurelio (161-180 d.C.) seppe reagire con efficacia alla situazione, ma la morte lo a r c h e o 55


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colse nel 180, quando nuove scorrerie di Svevi e Sarmati avevano superato il Danubio. Commodo (180-192) proseguí sostanzialmente la politica paterna di consolidamento del confine. Nel corso del tempo emerse con sempre maggiore evidenza che la provincia decisiva, anche per gli equilibri politici interni all’impero, era la Pannonia (fra l’Ungheria occidentale, la Bosnia-Erzegovina e la Serbia nordoccidentale), che già nel 106 era stata divisa in due province (Superiore e Inferiore) e nella quale erano stanziate ben quattro legioni. Settimio Severo riconobbe questa situazione. In particolare, mentre all’esercito della Pannonia Superiore era demandato il compito di tenere sotto controllo i soli Marcomanni, quello della Pannonia Inferiore doveva fronteggiare i Sarmati, i Quadi e i Daci nel tratto del Danubio tra la Drava e la Sava. La riorganizzazione della frontiera del medio Danubio promossa da Marco Aurelio, e proseguita dai suoi successori, subí un contraccolpo a seguito dei movimenti dei popoli dell’Europa settentrionale. A partire dal 238 l’insediamento dei Goti sul Mar Nero aprí un fronte permanente sul basso Danubio, ove i pericoli erano accresciuti dalla minaccia dei Carpi. Il confine romano fu spezzato per la prima volta nel 250. I Goti, che secondo una fonte erano forti di 7000 uomini, attaccarono Nova, sede della

Il dio della guerra Pettorale in ottone e smalto di armatura da parata, da Ritopek (Castra Tricornia). Fine del III sec. d.C. Belgrado, Museo Nazionale. Al centro, un busto di Marte Ultore, sotto il quale è una scena di battaglia.

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L’imperatore trionfante Il cosiddetto cammeo di Belgrado, in sardonica a piú strati, con Costantino, a cavallo, che trionfa sul nemico sconfitto, da Kusadak. IV sec. d.C. Belgrado, Museo Nazionale. Si tratta, probabilmente, del dono per un dignitario in occasione della celebrazione del decennale dell’imperatore.

Legio I Italica e conquistarono Filippopoli (oggi Plovdiv, in Bulgaria), capitale della provincia della Tracia. L’imperatore Decio guidò la controffensiva, ma perí nella battaglia di Abritto, in Mesia Inferiore, nel 251.

UNA SITUAZIONE CRITICA Nel 254 Iazigi e Rossolani sospinsero i Vandali Asdingi verso il settore di Sirmium (Sremska Mitrovica) e Viminacium (presso Kostolac). Poco dopo la metà del III secolo fu abbandonata la Rezia (Svizzera, Baviera, Austria occi-

dentale, Alto Adige), dunque la linea di difesa a nord del Danubio, e l’Illirico si trovò in una situazione particolarmente critica. Dopo un lungo periodo di gravi difficoltà, la minaccia gota fu messa sotto controllo grazie al successo conseguito a Naissus (Nis, nella Serbia meridionale) dall’imperatore Claudio il Gotico nel 269 e ai successi conseguiti lungo il Danubio da Aureliano tra il 270 e il 272. Sempre a Sirmium ebbe luogo la proclamazione a imperatore di Aureliano, che era stato il comandante della cavalleria sotto Claudio. Aureliano provvide, tra l’altro, abbandonata la Dacia traianea, a organizzare due province, la Dacia Ripensis, collocata sulla riva destra del Danubio (grosso modo l’attuale Bulgaria nord-occidentale e Serbia orientale) e, piú all’interno, la Dacia Mediterranea. L’accresciuta rilevanza strategico-militare dell’area illirico-danubiana spiega perché molti imperatori di questo periodo siano nati in questa regione. Di fatto si tratta di soldati motivati ad affrontare, con determinazione e capacità, i problemi rappresentati dalla crescente minaccia barbarica (vedi anche il box alle pp. 61-63). Arnaldo Marcone


La conquista dei Balcani La conquista dei territori che oggi fanno parte della Serbia fu graduale e venne completata nei primi anni del I secolo. Essi erano assegnati a tre diverse province: la regione nord-orientale, con la città di Sirmium divenuta colonia sotto l’imperatore Domiziano (81-96), rappresentava l’estrema propaggine della Pannonia Inferiore; la Serbia occidentale fu inclusa nella Dalmazia, mentre la restante parte ricadeva nella Mesia, e piú precisamente, dall’86, nella Mesia Superiore. La conquista romana e l’organizzazione amministrativa che ne seguí non impedirono che le province del medio e basso corso del Danubio fossero costantemente esposte alle incursioni di genti barbariche. In particolare, i Daci stanziati oltre il Danubio, nel territorio dell’attuale Romania, non persero occasione per saccheggiare i territori al di qua del fiume e, fino alla conquista di Traiano, rappresentarono una grave minaccia, soprattutto per la Mesia. Una testimonianza importante della penetrazione dei Daci nel territorio della Mesia è costituita da due tesori contenenti gioielli e monete in argento (la piú recente dell’81) rinvenuti nei siti di Tekija (Transdierna) e di Bare, sulla sponda sinistra del Danubio. Come in casi analoghi, i preziosi oggetti dovevano essere stati nascosti per l’incombere di un pericolo, in questo caso subito dopo l’81. I gioielli rivelano strette analogie di stile con ornamenti daci del I secolo a.C.-I secolo d.C., ma gli elementi di cintura, i recipienti e le tre piccole icone del tesoro di Tekija furono realizzate in Italia. La difesa del confine era affidata alle legioni stanziate stabilmente lungo il corso del fiume. La linea di frontiera rappresentata dal Danubio divenne il «confine» per antonomasia: il limes, appunto. Le guerre che Domiziano condusse contro i Daci tra l’85 e l’89 non furono risolutive, nonostante egli avesse celebrato il

trionfo su questo popolo. In questo periodo fu definitivamente messo a punto un efficiente sistema di forti: alla confluenza tra il Danubio e la Sava, dove ora c’è la capitale della Serbia, Belgrado, sorse sotto Domiziano la fortezza di Singidunum, piú a est quella di Viminacium (Kostolac); precoce è anche la creazione di altri forti, come Ratiaria e Oescus, oggi in territorio bulgaro.

ONORIFICENZE MILITARI Anche Sirmium, punto strategico importante lungo la Sava, fu rinforzata con unità militari e relativi comandi. Lo testimonia la stele funeraria di un centurione della II Legione Adiutrice, che ebbe un ruolo non secondario nella guerra di Domiziano contro i Daci. Tito Cominio Severo, questo il suo nome, era originario di Vienna in Gallia (oggi Vienne, in Francia) e aveva ricevuto da Domiziano una serie di onorificenze per i meriti conseguiti durante la guerra dacica, prima di morire all’età di 45 anni,

verso la fine del I secolo. L’esecutore testamentario del monumento del centurione fu Tito Quinzio Cesernio Macedone, esponente di una importante famiglia originaria di Aquileia, che era stato governatore della Pannonia per conto dello stesso Domiziano. È interessante che la pietra della stele provenga dalle cave di Gummern, nelle Alpi orientali, presso Villaco (Austria); la decorazione della cornice richiama quella di alcuni monumenti funerari di Aquileia. La presenza di soldati in servizio lungo il Danubio è testimoniata anche dai diplomi militari, che venivano consegnati al momento del congedo, dopo un periodo di servizio lunghissimo, da 24 a 28 anni. Di questi diplomi se ne contano circa 600 in tutto l’impero romano. Il piú

Tesori da parata Elmo da parata in ferro, argento, oro e pasta vitrea, da Berkasovo. IV sec. d.C. Vojvodina, Museo. Prodotto di fattura squisita, l’elmo si compone di diversi elementi: calotta, fascia frontale, bande decorative laterali, paraguance e paranuca, nonché della caratteristica cresta centrale.

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antico finora conosciuto fu rinvenuto a Taliata (Veliki Gradac) e fu rilasciato il 28 aprile del 75; successivo è quello trovato a Viminacium, rilasciato il 12 luglio del 96. Anche dopo la morte di Domiziano, il regno della Dacia continuava a rappresentare un pericolo per le province romane lungo il medio e

Il corteo delle divinità Coronamento di scettro da parata in argento e oro, da Viminacium (Kostolac). III sec. d.C. Belgrado, Museo Nazionale. Sul manufatto, ad altorilievo, vi sono immagini in miniatura di varie divinità: nel particolare qui riprodotto si vedono Mercurio, con caduceo e sacca, e i cavalli trattenuti dai Dioscuri (Castore e Polluce).

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basso corso del Danubio. Traiano (98-117) pianificò con cura una nuova campagna bellica contro il re Decebalo fin dall’inizio del suo principato. Ma prima di portare l’attacco nel cuore della Dacia, l’imperatore si preoccupò di rinforzare il sistema di difesa sul confine: restaurò le fortezze esistenti e ne costruí di nuove, come nel caso di Lederata, Pincum, Cuppae, oltre al forte di Boljetin, Diana e Aquae.

OPERE PUBBLICHE Particolare attenzione fu prestata al sistema di comunicazione e ai collegamenti. Traiano rinnovò e ampliò la strada che correva lungo il Danubio, la cui costruzione era già stata cominciata al piú presto sotto l’imperatore Tiberio (1437). Il rifacimento o la realizzazione del tratto che attraversa le Porte di Ferro, la stretta e tortuosa gola nella quale il Danubio si è aperto un varco tra i Carpazi meridionali e i monti Balcani, sono attestati dall’iscrizione nota come Tabula Traiana, incisa nel 100. Nella prima campagna militare contro i Daci (101-102), Traiano sconfisse Decebalo, ma non riuscí a prendere la capitale, Sarmizegetusa, né a conquistare il regno. Era chiaro a tutti, però, che la pace non poteva essere che un breve armistizio.

La maniera di Adriano Maschera in bronzo facente parte di un elmo da parata, da Vinceia (Smederevo). II-III sec. d.C. Belgrado, Museo Nazionale. Per le sue caratteristiche, il ritratto, che raffigura un giovane, è riconducibile allo stile classicistico e la resa dell’acconciatura rimanda alla maniera del periodo di Adriano.

Traiano usò la provvisoria tregua per rafforzare il limes danubiano e preparare la seconda campagna. L’iniziativa piú importante fu la costrµzione di un ponte sul Danubio, che collegò la fortezza di Pontes in Mesia Superiore con quella di Drobeta in Dacia rendendo piú agevole l’ingresso nel territorio nemico. Le fondazioni del ponte,


progettato dall’architetto Apollodoro di Damasco (lo stesso che realizzò a Roma lo splendido complesso del Foro di Traiano), consistevano di venti piloni, sui quali poggiava una struttura di legno, stando alla bellissima raffigurazione sulla Colonna Traiana e alle immagini sulle monete. Parte di uno di questi piloni è ancora oggi visibile, a Kostol, corrispondente proprio al sito di Pontes. L’importanza del sito è testimoniata dal ritrovamento del ritratto in bronzo di un personaggio identificato forse come il padre

Nella pagina accanto: Pontes (Kostol). Il pilone superstite del ponte fatto costruire da Traiano. 103-105 d.C. A destra: calco della scena della Colonna Traiana in cui compare la personficazione del Danubio.

mo da parata in bronzo, che riecheggia la tradizione artistica intorno alla metà del II secolo. Anche altri elementi della dotazione militare da parata sono veri capolavori dell’arte applicata di età romana. I due scettri con anello cilindrico in argento alla sommità, rinvenuti a Margum e a Viminacium sono testimonianza delle tendenze dell’arte del III secolo. Gli anelli recano statuette miniaturistiche di AUTONOMIA divinità, realizzate ad altorilievo, AMMINISTRATIVA In questi anni vennero costi- che evidenziano un’esecuzione tuiti i centri dotati di autono- estremamente accurata e la padromia amministrativa (municipia). nanza delle tecniche di lavorazione Adriano (117-134) assicurò il dei metalli preziosi. rango di municipium agli inse- Anche l’urbanizzazione e la romadiamenti formatisi accanto ai nizzazione del territorio oggi apcampi legionari di Singidunum partenente alla Serbia non furono e di Viminacium, perseguendo un processo sincronico. Sirmium, la una politica di urbanizzazione capitale della Pannonia Inferiore, dei principali centri lungo il era stata fondata sulla Sava lungo limes. Da Vinceia (oggi Sme- la strada che collegava l’ltalia setderevo, a est di Belgrado) tentrionale con le province orienproviene un bellissimo el- tali. Non sorprende certo che lungo tale direttrice potessero giungere dall’Italia merci e influssi Eroe e padre culturali, in particolare da Aquileia, da dove potevano arrivare forGruppo scultoreo me e motivi decorativi soprattutto raffigurante Ercole e il nell’arte funeraria e forse anche le figlioletto Telefo, da maestranze stesse. Singidunum (Belgrado). Questo influsso è visibile anche III sec. d.C. Belgrado, Museo nella pittura parietale e, in modo Nazionale. L’opera denota una particolare, negli affreschi dell’ulforte impronta ellenistica, tima fase della pittura pompeiana. presumibilmente pergamena. Gli affreschi con Venere e Arpo-

di Traiano e di un elmo da parata, anch’esso in bronzo. Con la vittoria su Decebalo (106) e la creazione della provincia della Dacia, iniziò un periodo di pace per i territori sul confine danubiano e di prosperità per la Mesia Superiore, che si protrassero per quasi tutto il regno degli Antonini (117-180).

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MOSTRE • AQUILEIA

crate mostrano graziose rappresentazioni delle due divinità, la prima adornata da molti gioielli d’oro. Questa pittura fu scoperta in una casa privata, in un quartiere a destinazione sia pubblica, sia residenziale, prossima al settore nord delle mura. Ma nel piú ampio territorio di Sirmium, a Bela Reka, venne rinvenuto un tesoretto di gioielli d’argento e monete: l’ultima è un conio del periodo di Commodo (181-182); una collana è decorata nel tradizionale stile locale, sebbene mostri l’influenza della lavorazione a filigrana e a granulazione proveniente dalla Grecia. Numerosi pezzi simili in argento furono scoperti nella valle della Drina. Gli esemplari si datano dalla fine del II alla metà del III secolo.

LA DIFESA DEL TERRITORIO Dopo gli Antonini, la situazione, fattasi di nuovo turbolenta sul limes danubiano, richiese il ripristino dei forti esistenti e la costruzione di nuove postazioni. Negli insediamenti urbani vicino ai campi militari furono realizzate opere funzio-

La Venere di Mediana Testa di Venere, da Mediana. Fine del III-inizi del IV sec. d.C. Nis, Museo Nazionale. Opera di notevole livello, la testa è la copia di un originale greco tardo-classico ed è stata scoperta negli scavi a Mediana nel giugno 2011.

nali alla propaganda di Stato per esaltare i valori romani, in una situazione in cui la difesa del territorio dalla penetrazione dei barbari rivestiva la massima importanza. Una testa di marmo, interpretata come raffigurazione dell’imperatore Albino, fu trovata nel campo militare di Diana (Karatas), mentre la superba testa in bronzo, rinvenuta a Bolec (Mons Aureus), vicino a Belgrado, è il ritratto dell’imperatore Macrino, il cui governo durò un anno soltanto (217). La seconda metà del III secolo fu contrassegnata, oltre che dalla penetrazione di genti barbariche, dai regni brevi degli imperatori e dalle usurpazioni al trono imperiale. Una

La sezione della mostra in corso ad Aquileia nella quale sono riuniti materiali riferibili alla diffusione della religione cristiana: in particolare, nella vetrina, spicca un pregiato insieme di calici con coperchio in argento del V-VI sec.

testimonianza dei tentativi di usurpazione di Ingenuo e Regaliano è rappresentata simbolicamente dalle scene a rilievo sul pettorale di Ritopek (Castra Tricornia). Alla fine di questo lungo periodo, Diocleziano riuscí a stabilizzare il potere e a intraprendere vaste riforme militari e amministrative. Una nuova organizzazione delle province fu uno dei risultati piú significativi. DOVE E QUANDO «Tesori e imperatori. Lo splendore della Serbia romana» Aquileia, Palazzo Meizlik fino al 3 giugno Orario lu-ve, 9,00-18,00; sa-do, 9,00-19,00 Info tel. 320 0342258; www.fondazioneaquileia.it

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PROVINCIALI AL COMANDO di Ivana Popovic

I territori balcanici ebbero un notevole rilievo per l’impero romano, trattandosi di una regione attraversata da strade che mettevano in comunicazione l’Italia con le province orientali, ricche di risorse e di depositi minerali e importanti in senso strategico. L’aspetto militare si fece eccezionalmente preminente alla metà del III secolo, quando si intensificò la pressione delle tribú barbariche sui confini settentrionali dell’impero. Alti ufficiali dell’esercito originari di queste aree e che si erano distinti nei combattimenti contro i barbari furono spesso proclamati imperatori. Decio (249-251) era nato nei pressi di Sirmium, Claudio II (268-270) vi era morto per un’epidemia, Aureliano (270-275) era originario di una umile famiglia della stessa città, cosí come il suo successore Probo (276-282), ricordato per avere introdotto la viticultura nei dintorni del Monte Fruska Gora. Nelle vicinanze di Sirmium nacque anche Massimiano Erculio (285-305), co-augusto di Diocleziano: fu lui a costruire un palazzo vicino alla città. Diocleziano (284-305) era invece originario della Dalmazia, molto probabilmente di Salona.

Salí al potere dopo la vittoria sulle rive del fiume Morava, dove sconfisse nel 285 l’usurpatore Carino, che fu giustiziato immediatamente dopo la battaglia. La testa marmorea del padre dell’usurpatore, l’imperatore Caro, scoperta a Dubravica (Margum), alla confluenza tra la Mlava e il Danubio, testimonia l’esistenza di sculture imperiali di una certa importanza nel luogo in cui avvenne la battaglia. Non appena salí al trono, Diocleziano dovette affrontare il problema della difesa dei confini dell’impero e della repressione di rivolte locali. Cosí, nel 286, proclamò Massimiano come co-reggente e, nel 293, scelse come cesari Costanzo Cloro e Galerio. Stabilito il governo di due augusti e due cesari (la tetrarchia), fu concordato che a Massimiano Erculio e Costanzo Cloro sarebbe stata affidata la difesa delle province occidentali, mentre a Diocleziano e Galerio quella dell’Illirico e delle province orientali dell’impero. Diocleziano aveva già fronteggiato all’inizio del suo regno le incursioni dei Sarmati e dei Quadi, e usando Sirmium come base militare, era passato al contrattacco.

Vetrina nella quale sono riuniti alcuni dei protagonisti delle vicende narrate dall’esposizione. Da sinistra: testa in bronzo raffigurante il padre di Traiano o forse lo stesso imperatore (da Pontes, fine del I o inizi del II sec. d.C.); testa in marmo forse raffigurante l’imperatore Albino (da Diana, 193-207 d.C.); testa in bronzo dell’imperatore Macrino (da Mons Aureus, 217 d.C.); testa in marmo dell’imperatore Caro (da Margum, fine del III sec. d.C.).

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MOSTRE • AQUILEIA Testa in porfido dell’imperatore Galerio, dall’area delle terme di Felix Romuliana (Gamzigrad). Inizi del IV sec. d.C. Zajecar, Museo Nazionale.

Antiochia, suscitarono in Galerio una grande impressione, che si riflette nella sua inclinazione verso lo splendore e i lussi orientali, riscontrabile nel diadema raffigurato sulla testa di Gamzigrad, il luogo in cui egli costruí il palazzo di Felix Romuliana, dedicato alla madre Romula. Il palazzo era riccamente decorato da mosaici e da sculture di marmo e porfido. Per uno strano scherzo del destino, egli non visse tanto da potervisi ritirare dopo l’abdicazione: l’imperatore morí infatti a Serdica nel 311, subito dopo aver emanato il primo editto di tolleranza verso i cristiani, che pure aveva perseguitato durante il suo regno. Il nipote di Galerio, Massimino Daia (305-313), divenne cesare dopo l’abdicazione di Diocleziano, il 1° maggio 305. Il luogo di nascita è identificabile probabilmente con Sarkamen, circa 40 km a nord di Gamzigrad, sito archeologico dove sono stati scoperti un palazzo fortificato e un complesso memoriale associati all’imperatore. I frammenti di porfido da questo sito appartengono a una statua del tipo dell’imperatore in trono. Ricordato come persecutore dei cristiani, dopo l’abdicazione, anche Massimino Daia non visse cosí a lungo da potersi ritirare nel palazzo che aveva voluto.

Durante la guerra contro i Sarmati, a cavallo del 290, Diolceziano soggiornò nella città in diverse occasioni. Grazie alle costituzioni imperiali, sappiamo che egli vi fu nel 289-290, dal 26 al 29 febbraio 293 e nel 294. Tuttavia non è attestato da alcuna fonte che Sirmium fosse la sua residenza ufficiale. Una volta stabilito il sistema tetrarchico, il Cesare di Diocleziano, Galerio, fu incaricato di difendere i territori a sud del Danubio, dalle Alpi al Mar Nero; la sua sede fu Sirmium e Lattanzio dice che Galerio passò ben 15 anni nell’Illirico, eseguendo gli ordini di Diocleziano. Galerio era nato nella Dacia Ripensis, non lontano da Serdica (Sofia). Si uní all’esercito molto presto e ascese a un alto livello nei ranghi sotto Diocleziano. Entro il 294 fu inviato a reprimere una ribellione in Egitto, ed eseguí l’ordine con successo. Subito dopo Diocleziano lo mandò a combattere il re persiano Narsete. Superate alcune difficoltà iniziali, Galerio reclutò nuove unità militari nell’Illirico e sconfisse i Persiani, mettendo fine alla rivolta in Mesopotamia e siglando un trattato di pace a Nisibis. La vittoria e il trionfo, celebrato ad 62 a r c h e o

L’ASCESA DI COSTANTINO IL GRANDE Il primo imperatore cristiano, Costantino il Grande (306-337), nativo di Naissus, oggi Nis, dopo aver soggiornato alla corte di Diocleziano a Nicomedia, raggiunse il padre Costanzo Cloro a York, e alla morte di questi fu proclamato augusto dall’esercito. Gli altri tetrarchi non accolsero favorevolmente quella scelta e cosí, dopo l’incontro del collegio a Carnuntum nel 308, gli venne attribuito il titolo di cesare e gli fu assegnato il governo della Gallia. Qui, nel 310, uccise Massimiano Erculio (o lo costrinse al suicidio). Costantino si scontrò quindi con il figlio di Massimiano, Massenzio, governatore dell’Italia, e lo sconfisse nella battaglia del ponte Milvio, alle porte di Roma, il 28 ottobre 312. L’anno successivo, assieme al collega Licinio emanò a Milano un editto di tolleranza verso i cristiani, grazie al quale la persecuzione contro di essi cessò quasi completamente. Licinio fu a Sirmium con la famiglia e la tesoreria di Stato al tempo del primo scontro con Costantino nella battaglia di Cibalae (Vinkovci, in Croazia) nell’ottobre 316: dopo la sconfitta, infatti, tornò in città a prendere la moglie e il figlio, nonché il tesoro. Licinio demolí il ponte sulla Sava e fuggí verso est, nella Dacia Ripensis. Dopo questi eventi, Sirmium diventò una delle quattro capitali dell’impero, uno status di cui sono prova i resti


Testa in bronzo di Costantino il Grande, facente parte di una statua colossale dell’imperatore, da Naissus (Nis). 324-330 d.C. Belgrado, Museo Nazionale.

del palazzo imperiale e del circo; Costantino la visitò per la prima volta nel marzo 319 e vi rimase sino alla fine dell’anno. Negli anni seguenti vi soggiornò ripetutamente, fra il 321 e il 329. La sua corte fu a Sirmium dall’inizio del 320 all’inizio del 324, e in questo periodo la zecca della città coniò monete d’oro. Due iscrizioni provenienti da Sirmium, nelle quali sono ricordati liberti al servizio dell’imperatore, possono essere collegate con l’attività degli uffici imperiali. In ogni caso, la battaglia di Cibalae fu decisiva affinché Costantino potesse consolidare il suo regno ormai senza colleghi, anche se Licinio venne sconfitto definitivamente solo nel 324 in Tracia. Il secondo figlio di Costantino, Costante, visse per sei mesi a Naissus nel 339-340, mentre il figlio piú giovane, Costanzo II (337-361), depose proprio in questa città l’usurpatore Vetranione, nel 350. Nello scontro con Magnenzio, al comando delle truppe dell’Illirico e muovendo da Sirmium, l’imperatore cacciò l’usurpatore verso Osijek (Mursa), e qui lo sconfisse in una sanguinosa battaglia, nel 351. Subito dopo, rimase per due mesi a Sirmium e vi tornò l’anno successivo, a causa delle guerre sulla frontiera danubiana. Durante il lungo soggiorno, Costanzo II mise in atto un notevole programma edilizio e intervenne sulla strada per l’Italia, come dimostra un miliario trovato nei pressi di Sirmium. La città ebbe un ruolo decisivo nella politica religiosa dell’imperatore, che assunse un atteggiamento duro nei confronti del paganesimo, proibendo con le leggi del 353 e del 356 non solo i riti sacrificali notturni, ma anche il culto degli dèi. D’altro canto, egli cadde sotto l’influenza del vescovo di Mursa, Valente, impegnato nella diffusione dell’arianesimo. LA CELEBRAZIONE DEL TRIONFO Nel 361, il cugino di Costanzo II, Giuliano (361-363), lo sconfisse in battaglia, entrò a Sirmium, dove una folla entusiasta lo scortò fino al palazzo (regia), e organizzò giochi per celebrare il suo trionfo. Giuliano rimase a Naissus nell’estate e autunno del 361 e questa potrebbe essere stata l’occasione per intensificare un programma edilizio nella città e nelle sue vicinanze. Il successore di Giuliano, Gioviano, nacque a Singidunum, ma il suo regno fu brevissimo (363-364). Durante il loro viaggio da Costantinopoli verso Occidente, nel 364, i fratelli Valentiniano e Valente risiedettero a Mediana, nel suburbio di Naissus, da dove emanarono leggi, si divisero l’esercito e designarono i comandanti militari. Quindi proseguirono per Sirmium,

dove tennero un incontro per spartirsi il potere. Valentiniano fu destinato al governo delle province occidentali, con sede a Milano, mentre Valente a quello delle regioni orientali, avendo come residenza Costantinopoli. Valentiniano tornò presto in Pannonia per combattere i Quadi e i Sarmati, che stavano compiendo incursioni nel territorio dell’impero, saccheggiandolo; proprio sul confine danubiano morí, nel 375. Tre anni piú tardi, Graziano si fermò per quattro giorni a Sirmium, durante il viaggio lungo il Danubio verso la Tracia, per accorrere, con l’esercito, in aiuto dello zio Valente, impegnato contro i Goti. Giunse però troppo tardi e i Romani subirono una durissima sconfitta ad Adrianopoli nel 378, in cui trovò la morte lo stesso imperatore. Graziano scelse Teodosio, al tempo dux in Mesia, come co-reggente: l’incoronazione ebbe luogo a Sirmium nel 380. Le genti barbariche stavano però avanzando sempre piú verso le terre comprese nei confini dell’impero, finché ebbero il permesso di insediarvisi. Il crollo del sistema militare amministrativo romano sul Danubio (441) era ormai vicino. a r c h e o 63


PARCHI ARCHEOLOGICI • GROTTE DELLA VALLE DEL FIORA


IL SACRO E

LE TENEBRE

FRA LE MOLTE ATTRAZIONI DEL PARCO ARCHEOLOGICO ANTICA CASTRO, NEL VITERBESE, VI SONO ALCUNE GROTTE SITUATE LUNGO LA VALLE DEL FIUME FIORA: LUOGHI SCELTI DALL’UOMO PREISTORICO PER LA CELEBRAZIONE DI RITUALI LEGATI AL PASSAGGIO DALLA VITA TERRENA ALL’ALDILÀ di Carlo Casi con la collaborazione di Giovanni Antonio Baragliu e un reportage fotografico di Massimo Tomasini

U

sate a scopi rituali, sepolcrali o con funzioni di riparo, le grotte hanno sempre esercitato un forte richiamo sugli uomini preistorici, ai cui occhi costituivano immaginarie aree di confine tra il mondo sensibile e l’aldilà di natura ctonia, tra la vita e la morte. Privilegiati luoghi di culto all’interno dei quali, soprattutto nella Media età del Bronzo, si svilupparono rituali complessi, tanto da far definire questi particolari ambienti come veri e propri «santuari». Tutte le grotte-santuario presentano caratteristiche ricorrenti, come la presenza interna di acque – siano esse sorgive o di scorrimento –, e l’assenza di sepolture, come riscon-

trato a Pertosa (Salerno) e Latronico (Potenza) o nel sito trattato in questo articolo: Grotta Nuova, nel territorio di Ischia di Castro (Viterbo).

BANCHETTI RITUALI Comune è il ritrovamento di resti vegetali macroscopici, quali semi e frutti carbonizzati, nei pressi di focolari oppure entro vasi, a volte intenzionalmente capovolti forse a protezione dell’offerta deposta sulla nuda terra. Grano, orzo, miglio, ma anche fave e frutti selvatici, insieme a ossa d’animali, indicano una ierofania (il senso della presenza o della manifestazione di qualcosa di «sacro», n.d.r.) legata al banchetto rituale, non sempre consumato.

Sulle due pagine: l’imbocco di Grotta Nuova, una delle cavità situate nella valle del fiume Fiora, nel territorio di Ischia di Castro (Viterbo). Questo e altri siti simili indagati nel compensorio castrense furono frequentati dall’uomo in epoca pre- e protostorica, con funzioni rituali. a r c h e o 65


PARCHI ARCHEOLOGICI • GROTTE DELLA VALLE DEL FIORA

SANTUARI PER L’UOMO E RIFUGI PER I PIPISTRELLI

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presenza di specie animali rare, hanno fatto inserire l’area delle grotte nella Rete Natura 2000 all’interno del SIC (Sito di Importanza Comunitaria) IT6010017 Sistema Fluviale Fiora-Olpeta. Le stesse caverne, in particolare Grotta Nuova e Grotta Misa, rappresentano importanti rifugi per varie specie di chirotteri (pipistrelli), per tredici delle quali la Direttiva Habitat (92/43CEE) prevede misure di protezione e speciali aree di conservazione per il mantenimento delle specie e degli habitat in cui vivono. I chirotteri sono inoltre protetti dalla Convenzione di Berna e da quella di Bonn. Ricognizioni a Grotta Nuova hanno portato a individuare la presenza delle seguenti specie, alcune presenti con pochi esemplari, altre con centinaia di individui: Miniopterus schreibersii (Miniottero di Schreibers), Myotis blythii (Vespertilio di Blyth), Myotis myotis (Vespertilio maggiore), Myotis capaccinii (Vespertilio di Capaccini), Rhinolophus euryale (Rinolofo Euríale), Rhinolophus hipposideros (Rinolofo minore). Nei pressi dello stesso sito è stato inoltre rilevato, in volo di trasferimento, Tadarida teniotis (Molosso di Cestoni). A Grotta Misa sono state invece individuate varie specie di chirotteri, alcune presenti con centinaia di individui: Rhinolophus hipposideros (Rinolofo minore), Rhinolophus ferrumequinum (Rinolofo maggiore), Rhinolophus euryale (Rinolofo Euríale), Myotis capaccinii (Vespertilio di Capaccini), Miniopterus schreibersii (Miniottero di Schreibers). Molti chirotteri, cosiddetti troglofili, trascorrono almeno una parte del loro ciclo vitale all’interno delle

Pisa

Fiesole

Volterra

Arezzo

Chiusi Populonia Vetulonia Saturnia Vulci

Perugia Orvieto

Castro

Tarquinia

Mar Tirreno

re ve Te

Quasi tutte le grotte della media valle del fiume Fiora, salvo poche eccezioni, come quella delle Settecannelle – scavata nel tufo dall’erosione delle acque torrentizie del Fosso della Paternale –, sono di origine carsica. Esse si sviluppano, infatti, su piastre travertinose, quella di Chiusa del Vescovo e quella di Canino. Nel banco di Chiusa del Vescovo, che occupa un’area di 6 kmq circa, si trovano grotte tra le piú estese del Lazio nel travertino: il Bucone (che si sviluppa per 1065 m) e Grotta Nuova (603 m), che sembrano costituire un sistema unico (vedi alle pp. 70-71), percorso da un rivolo sotterraneo, alimentato dalle acque meteoriche, che si immette nel fiume Fiora a valle di Grotta Nuova. Nella piastra di travertino di Canino, estesa per 60 kmq, si trovano le altre cavità, in particolare Grotta Misa (che si sviluppa per 119 m; vedi a p. 70). Queste caverne sboccano generalmente su ripidi pendii di vallate e strette forre che racchiudono, nell’arco di poche decine di metri, aspetti vegetazionali variegati e di pregio, dalle formazioni ripariali arboree ad ontano nero, salici e pioppi; alla presenza di esemplari di faggio sottoquota, a cui si accompagnano specie erbacee, come la Sanicula europaea e la Cardamine chelidonia; né mancano vegetazione di forra umida, ricca di felci, come il capelvenere e la lingua cervina; nonché leccete e boschi misti di sclerofille e latifoglie termofile che dominano le parti alte delle forre, in cui, assieme al leccio, si trovano l’acero minore, l’orniello, la roverella, mentre sulle piastre calcaree il leccio si associa al lentisco, al terebinto e all’olivastro. Queste valenze, assieme alla

o

Arn

Veio Cerveteri Roma

grotte, che rappresentano quindi habitat prioritari per la loro conservazione. Alcune specie, come Miniopterus schreibersii, utilizzano le caverne tanto per la riproduzione, quanto per l’ibernazione (svernamento); mentre altre possono utilizzarle per il letargo invernale o per l’accoppiamento. Ciò comporta la regolamentazione delle visite. Nei mesi piú freddi, da dicembre a febbraio, si possono effettuare solo visite brevi, con piccoli gruppi, che prestino grande attenzione a mantenere il silenzio, non sostare presso le colonie, non introdurre lampade a carburo per non riscaldare l’ambiente e risvegliare i chirotteri in letargo. Nel periodo riproduttivo (tra maggio e agosto) sarebbe opportuno evitare del tutto l’accesso. Il Bucone è una delle tre grotte italiane in cui è stata rilevata, nel 2009, la presenza di una nuova specie di ciclopide copepode l’Acanthocyclops magistridussarti sp. nov. Come si vede le grotte sono contenitori, preziosi, prioritari e fragili, di biodiversità, spesso ancora sconosciuta, e come tali vanno considerate, conservate e tutelate. Giovanni Antonio Baragliu


Doveva trattarsi di un culto legato, probabilmente, a miti ctonii d’origine terrigena e agricola, nel quale le offerte rappresentavano simbolicamente il tentativo di restituire alla terra ciò che essa aveva consentito di produrre per la sopravvivenza della popolazione locale. I doni alle divinità erano spesso arricchiti da prodotti di lusso, come il vasellame fine e miniaturizzato o gli oggetti litici, ossei e di metallo. Altre grotte sono state invece usate solo a scopo sepolcrale, a volte anche per diverse decine di individui, deposti principalmente in cunicoli o in camere interne e accompagnati da offerte e focolari rituali, come a Manaccora (Foggia) e a Grotta Misa, piú avanti descritta. La media valle del fiume Fiora, ricompresa nel territorio comunale di Ischia di Castro, presenta una serie di grotte naturali frequentate in epoca pre-protostorica. L’improvviso innalzamento del cono vulcanico di Monte Calvo – avvenuto 50 000 anni fa –, che andò a ostruire il corso del fiume, creando una vera e propria diga, comportò infatti il conseguente innalzamento delle acque che si allargarono verso est, sino a lambire il plateau trachitico della Selva del Lamone. All’indomani del ritrovato corso del fiume verso il mare, queste acque, ritirandosi, lasciarono dietro di sé uno spesso deposito travertinoso, che andò a ricoprire i sottostanti tufi vulcanici volsini, creando cosí le condizioni affinché potessero «nascere» le grotte. Cavità che oggi fanno parte di un circuito di visita del Parco Archeologico Antica Castro (vedi box a p. 72) che però, visto il delicato equilibrio ambientale dei siti, è consigliabile effettuare rivolgendosi sempre al personale del parco stesso. La porta sud dell’abitato medievale di Chiusa San Salvatore, all’esterno della Grotta delle Settecannelle. a r c h e o 67


PARCHI ARCHEOLOGICI

GROTTA DELLE SETTECANNELLE

Ubicata sul Fosso della Paternale, quella delle Settecannelle è l’unica grotta della media valle del Fiora che sia stata oggetto di ricerche sistematiche e durature. L’Università di Pisa ha infatti scavato al suo interno dal 1985 al 2003, rilevando l’ampio arco cronologico delle frequentazioni, che va dal Paleolitico Superiore alla Media età del Bronzo. La cavità si sviluppa per 15 m ed è larga 10, ma quando i cacciatori paleolitici vi giunsero per la prima volta, in una fase avanzata della glaciazione di Würm, la grotta veniva invasa periodicamente dalle acque di un torrente che oggi scorre 10 m piú in basso. È qui ben rappresentata l’intera fase epigravettiana, in particolare quella finale, che ha restituito anche oggetti decorati in stile astratto, spesso rinvenuti in prossimità di focolari, come una tavoletta di scisto incisa con motivi lineari che forse coprono una figura d’animale stilizzata e una costola di erbivoro con motivo «a greca». A questo periodo risale anche una sepoltura femminile, purtroppo sconvolta, che aveva nel suo corredo personale un importante pendaglio in steatite, anch’esso decorato a incisone con motivi astratti. Nel successivo periodo neolitico, la caverna fu

sicuramente utilizzata come luogo di culto, come dimostrano due circoli di pietre e il cranio di un bambino di circa 12 anni e la macina spezzata appoggiata al capo, rinvenuti all’interno di uno di essi.

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Sulle due pagine: immagini della Grotta delle Settecannelle: una veduta del sito; la deposizione di un ragazzo di 12 anni; una tavoletta in scisto incisa con motivi lineari e una costola di erbivoro decorata con un motivo a greca. Epigravettiano finale, 12 700 anni fa circa. Qui sotto: planimetria e sezioni della Grotta Di Carli.

Grotta Di Carli

GROTTA DI CARLI

Scoperta negli anni Ottanta del secolo scorso da Antonio Di Carli, la grotta omonima si apre vicino alla sommità di un ripido costone calcareo che costeggia il Fosso d’Ermini, nei pressi del suggestivo romitorio di Poggio Conte. Si articola in due ambienti principali: l’ingresso vero e proprio, largo circa 4 m e profondo 6, e una vasta sala di forma circolare posta a una quota inferiore di circa 2 m dal piano dell’ingresso. Un recupero effettuato nel 1995 dal Museo Civico «F. Rittatore Vonwiller» di Farnese (Viterbo), a seguito di un intervento clandestino che sconvolse il deposito stratigrafico, ha permesso di definire meglio l’ambito cronologico delle frequentazioni compreso tra un momento finale del Neolitico e l’età del Bronzo Medio. È stata inoltre segnalata la presenza di ossa umane.

GROTTA BARAGLIU

Come la precedente, anche Grotta Baragliu prende nome dallo scopritore (Giovanni Antonio Baragliu), ed è posta in prossimità di Grotta Di Carli. Si tratta di uno stretto cunicolo nel quale sono stati rinvenuti frammenti ceramici attribuiti all’età del Bronzo.

GROTTA DEL DIAVOLO

L’apertura della Grotta del Diavolo è posta nell’angolo nord-ovest di una leggera depressione e vi si accede facilmente. Esiste anche un’altra apertura posta piú in basso, sulla parete di fondo, quasi a rappresentare una balconata sulla ripida scesa che conduce al sottostante fosso di San Paolo subito dopo una sua spettacolare cascata di alcune decine di metri. Proprio in questa stanza, al di sotto di uno stillicidio d’acqua, sono stati ritrovati frammenti ceramici attribuibili all’età del Bronzo. All’esterno sono stati invece rinvenuti materiali databili all’epoca medievale.

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PARCHI ARCHEOLOGICI • GROTTE DELLA VALLE DEL FIORA

GROTTA DEL DIAVOLINO

Nella stessa depressione, ma sul lato sud-est, quasi di fronte alla Grotta del Diavolo, si apre la stretta e poco profonda Grotta del Diavolino, al cui interno, in prossimità di una tana d’istrice, sono stati recuperati alcuni frammenti ceramici riferibili all’età del Bronzo Antico-Medio.

GROTTA MISA

Grotta Misa prende nome dalla moglie del suo fortunato scopritore, Ferrante Rittatore Vonwiller, e assolve stagionalmente la funzione di inghiottitoio delle acque piovane che confluiscono, grazie a un fossetto di scolo, dalla zona circostante. Nonostante si sviluppi per diversi metri, il deposito archeologico è stato rinvenuto solamente all’interno della prima sala, come hanno dimostrato gli scavi svolti da Rittatore tra il 1946 e il 1947. Lo studioso individuò, a circa 10 cm dalla superficie, «5 strati preistorici intervallati da altri

sterili di sabbia compatta depositata dall’acqua», per circa 2,50 m. Nel secondo strato fu rinvenuto un focolare circolare colmo di semi e frutti carbonizzati (fave, miglio, grano e farina), disposti a spicchi nettamente separati. Oltre a numerosi materiali ceramici e metallici, furono ritrovati molti resti scheletrici umani appartenenti a un giovane adulto e a quattro bambini e ad altri individui, sia maschili che femminili. Il momento di maggiore frequentazione della grotta sembra essere stato nella Media età del Bronzo. All’esterno della cavità è stato scoperto un villaggio risalente all’età del Bronzo, probabile insediamento delle genti che utilizzarono Grotta Misa.

GROTTA DELL’INFERNETTO O BUCONE Forse facente parte di un unico sistema, quello appunto di Infernetto-Infernaccio (altro nome con il quale è conosciuta Grotta Nuova), rappresentandone nel caso

uno dei due ingressi, la Grotta dell’Infernetto si apre sulla parete inclinata di una dolina terminante sul fondo in un laghetto. Venne saggiata da Ferrante Rittatore Vonwiller e da Luigi Cardini nel 1955, solamente nella prima sala, nonostante il suo sviluppo superiore ai 50 m, dovuto a uno stretto cunicolo che va via via restringendosi. Il sito ha restituito reperti vegetali (carboni e fave), animali (ovicaprini, maiali, bovini di razza pigmea, cani e cervi) ossei, litici e ceramici che concorrono ad attribuire la frequentazione del complesso alla Media età del Bronzo.

GROTTA NUOVA

Conosciuta anche con il nome di Infernaccio, Grotta Nuova è percorsa da un corso d’acqua sotterraneo, che scompare all’interno della prima stanza per ricomparire in superficie nei pressi del fiume Fiora. Venne esplorata sul finire degli anni Quaranta del secolo scorso da Ferrante Rittatore Vonwiller e da Luigi Cardini, che

Grotta Misa N

Pianta e sezione di Grotta Misa, il cui momento di piú intensa frequentazione si colloca nell’età del Bronzo Medio.

PIANTA

SEZIONE

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Grotta dell’Infernetto (o Bucone) Pianta e sezione della Grotta dell’Infernetto (o Bucone), esplorata nel 1955 da Ferrante Rittatore Vonwiller e Luigi Cardini.

N

SEZIONE

PIANTA

effettuati successivamente nella prima e nella seconda stanza, ma solo nel 1977 venne superato lo stretto passaggio invaso dall’acqua e fu raggiunta cosí la terza stanza. Questa zona della grotta risultò intatta e ricca di offerte ancora in giacitura primaria, poste in vasi distribuiti sia lungo le sponde del corso d’acqua, sia entro lo stesso. Alcuni vasi o pareti di essi ricoprivano resti organici appoggiati sul terreno, residui di antichi pasti preparati per le divinità e mai consumati. La frequentazione umana della grotta è concentrata principalmente tra le fasi antica e media dell’età del Bronzo. Carlo Casi

eseguirono anche un saggio di scavo all’interno della prima stanza. Nell’occasione furono rinvenuti molti frammenti ceramici e ossei, questi ultimi pertinenti ad animali domestici, e resti vegetali carbonizzati di miglio e fava. Altri scavi ed esplorazioni vennero

PIANTA

N

Grotta Nuova Qui sopra: una veduta dell’interno di Grotta Nuova e, a sinistra, pianta e sezione del sito.

SEZIONE

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PARCHI ARCHEOLOGICI • GROTTE DELLA VALLE DEL FIORA

UN’ISTITUZIONE DIFFUSA Inaugurato nell’agosto del 2017, il Parco Archeologico Antica Castro è un parco a rete, diffuso cioè su tutto il territorio del Comune di Ischia di Castro. Il cuore è situato in prossimità della città di Castro, dove ha anche sede il centro servizi dal quale partono le visite. Città etrusca assoggettata a Vulci, Castro divenne poi un importante centro nel Medioevo e soprattutto nel primo Rinascimento, sino alla sua distruzione, ordinata da papa Innocenzo X nel 1649. Oggi appare come una delle piú suggestive città fantasma di tutta l’Etruria. Il percorso attrezzato prevede l’arrivo al parcheggio del santuario del Ss. Crocifisso, prospiciente la porzione di necropoli etrusca comprendente la Tomba a Casa. Da qui un sentiero pavimentato conduce all’area dell’antica città, entro la quale si sviluppa il circuito di visita. Si possono cosí ammirare i resti della «Cartagine della Maremma» nell’incontaminato ambiente naturale che funge da cornice. Dalla cattedrale di S. Savino alla Piazza Maggiore, dove si affacciavano la Zecca, l’Hostaria e il Palazzo di Giacomo Caronio, dal quale è stato rimosso, posizionandolo all’esterno del Museo Civico di Ischia di Castro, il maestoso portale. E poi il recuperato convento di S. Francesco, sino alla

N

FO

sottostante S. Maria intus civitatem. Il percorso si snoda poi attraversando una zona di alto valore paesaggistico e naturale, con l’affaccio sull’alta rupe del fiume Olpeta. Da qui si torna, passando nei pressi di Porta Lamberta, all’ingresso della città. Un sentiero campestre conduce alla necropoli etrusca, dalla quale emerge la copertura della Tomba della Biga. Qui un breve percorso attrezzato ci rende l’idea delle strutture funerarie castrensi. Ma il Parco Archeologico Antica Castro non è solo questo. Da qui partono infatti le visite archeotrekking per i due romitori rupestri, Poggio Conte e Ripatonna Cicognina, per la villa romana della Selvicciola e per il circuito delle grotte. Carlo Casi

DOVE E QUANDO Parco Archeologico Antica Castro Loc. Castro, Ischia di Castro (Viterbo) Orario dal 1° giugno al 30 settembre: ma-do, 9,00-18,00; sempre aperto su prenotazione Info tel. 0761 425455 e-mail: parcodicastro@ gmail.com, coopzoe@libero.it

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Perimetro della città Percorsi di visita Strade sterrate

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L’AREA ARCHEOLOGICA DI CASTRO Planimetria generale 1 Piazza Maggiore 2 Hostaria 3 Zecca 4 Palazzo di Giacomo Garonio 5 Palazzo del Podestà 6 Cattedrale di S. Savino 7 Piazza del Vescovado 8 Porta Lamberta 9 Porta Murata 10 Chiesa di S. Maria 11 Convento di S. Francesco

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12 Santuario del Ss. Crocefisso 13 Tomba a Dado o «a Casa» 14 Tomba della Biga 15 Tomba del Principe Massimo 16 Colombaio 17 Resti del ponte medievale 18 Chiesa di S. Maria delle Grazie 19 Cava di Castro 20 Iscrizioni rupestri etrusche 21 Forte A 22 Forte B

15

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16 18

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21 Ischia di Castro Canino Montalto

In alto: Castro, la tomba a Dado, detta anche «a Casa», per la proposta di ricostruzione che vede l’architettura tombale ispirarsi fortemente a quella domestica.


SFINGI E LEONI ALATI COME CUSTODI Nato nel 1958 sulla spinta della donazione della collezione Stendardi-Lotti, il Museo Civico Archeologico «Pietro e Turiddo Lotti» di Ischia di Castro è stato oggetto di numerosi rifacimenti sino a quello attuale. La sua visita equivale a un viaggio a ritroso nel tempo, con un testimone d’eccezione: il territorio comunale. È quest’ultimo, infatti, il protagonista, visto in maniera diacronica sin dalle epoche piú antiche a partire dal Paleolitico, dal quale riemerge l’importantissima Grotta delle Settecannelle, abitata già 14 000 anni fa. Sono visibili nelle vetrine i numerosi oggetti litici, alcuni dei quali si segnalano per la loro anima artistica in perfetta sintonia con il linguaggio astratto dei cacciatori-raccoglitori. Molto suggestiva poi è l’immagine del bambino di 12 anni il cui cranio giaceva con una macina spezzata appoggiata, forse residuo di un antico rituale neolitico risalente al 5500 a.C. circa. Fanno bella mostra di sé i preziosi reperti etruschi

provenienti dalle necropoli di Castro guardati a vista dalle molteplici sculture funerarie in nenfro – sfingi, leoni alati ruggenti, arieti e cavalli, forse anch’essi alati –, che, come muti custodi, controllano l’incedere dei visitatori lungo lo stretto corridoio che conduce al piano superiore. Qui si entra nel mito e la suggestione prende il sopravvento grazie a una proiezione a tutta parete che ci riporta indietro nel tempo, sino al momento della scoperta della «biga di Castro», quasi stessimo partecipando anche noi agli scavi. Riscendendo, si può accedere alla collezione romana, imperniata sui ritrovamenti effettuati nella villa della Selvicciola, indagata da molti anni e che ha restituito numerosi reperti a partire dal III secolo a.C. sino al V secolo d.C., momento nel quale venne abbandonata. Ma l’area della Selvicciola è stata oggetto di importanti frequentazioni anche in epoche precedenti: nei In questa pagina: reperti conservati nel Museo Civico Archeologico «Pietro e Turiddo Lotti» di Ischia di Castro. In alto, vaso a fiasca della cultura eneolitica di Rinaldone, dalla necropoli di Chiusa d’Ermini (IV mill. a.C.); a sinistra, statua in nenfro raffigurante un leone alato ruggente, dalla Tomba dei Bronzi.

pressi della villa romana è stata infatti scoperta una delle piú importanti necropoli eneolitiche e dell’età del Bronzo, oggi mirabilmente esposta al Museo di Preistoria della Tuscia di Valentano. Non solo, sempre nell’area prossima alla villa, gli scavi hanno portato in luce un’interessante necropoli longobarda costituita da 120 sepolture (V-IX secolo), alcune delle quali sono state ben ricostruite lungo il percorso museale quale necessario completamento cronologico della lunga storia dell’area. L’esposizione termina con l’affascinante mostra degli affreschi, prima staccati e poi recuperati, del romitorio di Poggio Conte e con una rassegna di materiali ceramici e lapidei risalenti al Medioevo e al Rinascimento provenienti dagli scavi di Castro. Carlo Casi

DOVE E QUANDO Museo Civico Archeologico «Pietro e Turiddo Lotti» Ischia di Castro (Viterbo), piazza Cavalieri Vittorio Veneto Orario martedí-domenica, 10,00-13,00 e 15,00-18,00 Info tel. 0761 425455; e-mail: parcodicastro@gmail.com, coopzoe@libero.it

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SPECIALE • CAMBOGIA

CAMBOGIA IL RITORNO DEGLI DÈI

Sambor Prei Kuk (Cambogia). Particolare di una delle strutture del complesso, avvolta dalla lussureggiante vegetazione della giungla. Il sito si identifica con l’antica Ishanapura, capitale dell’impero Chenla fra il VI e il VII sec. e, nel 2017, è stato iscritto dall’UNESCO nella lista del Patrimonio Mondiale. 74 a r c h e o

LAOS

THAILANDIA

Preah Vihear Angkor Siem Reap Battambang

Phnom Kulen

Lago di Tonle Sap

Sambor Prei Kuk

CAMBOGIA

Kratie VIETNAM

Golfo di Thailandia

Phnom Penh

N Kompong Som 0

100 Km

Kompot

Delta del Mekong

Mar Cinese Meridionale


Il 2017 ha segnato il 25° anniversario dell’iscrizione di Angkor Vat, capitale dell’impero khmer dal IX al XV secolo, nella lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO. Nello stesso 2017 si è festeggiato l’inserimento nella lista di un importante sito pre-angkoriano: Sambor Prei Kuk. Infine, nel 2018, ricorre il 10° anniversario dell’iscrizione nella medesima lista del tempio di Preah Vihear, un santuario straordinario, unico nel suo genere, che si adagia sulla lunghezza di un promontorio, a 600 metri sopra il livello del mare. Grazie a questi tre prestigiosi siti, il Regno di Cambogia si è guadagnato una posizione privilegiata a livello mondiale, confermandosi come una delle grandi destinazioni del turismo culturale di Daniela Fuganti

NON SOLO NORME, MA ANCHE ETICA, VISIONE E SPERANZA Incontro con Azedine Beschaouch

P

er tracciare un bilancio dei vantaggi e dei rischi derivanti dal nuovo quadro dell’archeologia cambogiana, «Archeo» ha incontrato il professor Azedine Beschaouch, accademico, archeologo, ex Presidente del Comitato del Patrimonio Mondiale, che, nel 2011, è stato anche titolare del Ministero della Cultura della Tunisia.

◆ Professor Beschaouch, lei ha contribuito in

misura decisiva all’elaborazione dei dossier per l’iscrizione nella lista dell’UNESCO di Angkor, Preah Vihear e Sambor Prei Kuk. Qual è, secondo lei, il loro denominatore comune? I tre beni si differenziano fra loro per il contesto geografico e ambientale, per i dati cronologici e per le numerose specificità architettoniche, ma rispondono tutti ai criteri che li hanno resi degni di figurare nella lista del Patrimonio Mondiale, oltre a soddisfare le condizioni primarie a cui la decisione viene subordinata, vale a dire l’integrità dei siti e l’autenticità dei monumenti. D’altronde, la conditio sine qua non del loro mantenimento nella lista dell’UNESCO è la salvaguardia dei valori che hanno giustificato le loro rispettive iscrizioni. Ciò vuol dire che l’attività costante di manutenzione, conservazione e, se necessario, di restauro, rimane un imperativo categorico. Per completare l’opera, va aggiunta la promozione e infine, poiché la Cambogia ha bisogno

del turismo per il suo sviluppo, si aggiungano anche tutti i progetti capaci di facilitare le visite e la messa in opera, continua e ben meditata, di una politica di equilibrio fra conservazione e sviluppo. In poche parole, un compito a dir poco arduo!

◆ Essendo da 25 anni Segretario scientifico

permanente del Comitato Internazionale di Coordinamento (CIC) per Angkor, e, da quasi cinque anni, anche Segretario scientifico del CIC di Preah Vihear, lei può senz’altro essere considerato un osservatore privilegiato... In realtà, non sono ni juge, ni partie, né giudicante né giudicato: pur nella mia veste di Segretario scientifico, sono soltanto un archeologo, che non ha alcun interesse personale né ad Angkor, né a Preah Vihear. Con i miei colleghi del Segretariato, accompagno le varie azioni. Facilitiamo le attività al servizio dei committenti, che sono l’Autorità Nazionale Apsara (ANA), e l’Autorità Nazionale per Preah Vihear (ANPV). Assistiamo gli esperti che analizzano i programmi messi in opera, dialogano sul territorio con le squadre di lavoro, e che sottopongono le raccomandazioni ai CIC. In questo modo e per quanto possibile, i programmi obbediscono al controllo di qualità e cosí restano di livello internazionale, considerando quale modello di riferimento la Convenzione del Patrimonio Mondiale (1972), con le sue norme e i relativi orientamenti per

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SPECIALE • CAMBOGIA

la sua messa in opera. Peraltro, il Segretariato è al servizio dei Presidenti dei CIC: Francia e Giappone per Angkor; la Cina e l’India per Preah Vihear.

ANGKOR, UNA GALASSIA DI TEMPLI E MONUMENTI

◆ Lei descrive una

situazione ideale, i cui punti positivi sono evidenti, ma le insidie non mancano, come sappiamo… Il migliore dei mondi possibili non esiste da nessuna parte! Il patrimonio cambogiano, ovunque sia situato, continua a risentire di un passato che certo si allontana, ma le cui conseguenze agiscono sempre. La Cambogia è stato un Paese sinistrato. Si è risollevato, ma alcune lacune persistono. La mancanza di specialisti, di esperti in determinati settori del patrimonio culturale, si fa molto sentire… Ma soprattutto, come riuscire a far comprendere i valori del patrimonio, a far rispettare il carattere sacro (al di là dei messaggi religiosi!) del territorio archeologico e storico? La Cambogia non è l’Italia, che dispone, fin dal Rinascimento, di una tradizione, di un’etica del patrimonio, di un rispetto della storia, indipendente dalle vicende politiche e dalle condizioni sociali. Checché se ne dica, e malgrado gli scettici, l’Italia rimane un esempio, un modello superiore. È irrealistico, e quasi ingiusto, esigere che, riguardo al patrimonio, la situazione della Cambogia sia paragonabile a quella italiana! Ciononostante, negli ultimi venticinque anni si sono registrati grandi progressi. Un processo lento, ma sicuro, come ho avuto modo di osservare pur vivendo talora momenti difficili: per esempio, quelli legati alle costruzioni illecite sul territorio patrimoniale; oppure gli eccessi conseguenti all’afflusso dei visitatori all’interno dei templi; o, ancora, malgrado la politica del governo locale, la tendenza di alcuni a privilegiare lo sviluppo a scapito della conservazione. Tuttavia, la difesa del patrimonio esige pazienza, tenacia, e una lunga lotta. Non serve a niente limitarsi a denunciare. Bisogna saper spiegare, dialogare, e non ci si deve scoraggiare. Sí, ci sono norme, leggi, regole. Ma il patrimonio è anche un’etica, una visione, una speranza.

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Prasat Kok Po

ANGKOR THOM Un particolare del tempio-montagna del Bayon, situato esattamente al centro del complesso di Angkor Thom, l’ultima capitale del regno khmer, fondata da re Jayavarman VII (1181-1219) alla fine del XII sec.

Prasat Roluos

Mebon occidentale

Prei Kmeng

Baray occidentale

Prasat Ak Yum

Prasat Has Ho

Prasat Ta Noreay

Tempio-montagna

N

Muro di cinta Torre

0

3 Km


TA PROHM Situato a est di Angkor Thom, il suggestivo edificio, celebre per la folta vegetazione che ne ricopre le rovine, fu edificato come monastero buddhista tra la fine del XII e gli inizi del XIII sec. e dedicato al culto della famiglia reale da Jayavarman VII. Bantesy Thorn Bantesy Prei

Prasat Kroll Ko

Prasat Prei

Ta Som

Prasat Tonle Sirguot Prei Prasat

Preah Khan

Douve

Ta Nol

Prasat Chrung

Preah Pithu Thommanon Ponte di de Khleang Nord Palazzo Spema Thma Reale Phimeanakas Baphuon

Khleang Sud

Chau Say tevods

Bayon

Siem Reap

Ta Prohm

Pre Rup

Prasat Neak Loang Prasat Top

Banteay Srei

Entrata

Baskei Chamkrong

Ta Prohm Koi

Prasat Kravan

Entrata principale

Angkor Vat

Prasat Trapoang Ropou

Angkor Vat

Mura esterne Terrazzo d’onore Biblioteca

Porta dell’elefante

Via Sacra

Entrata principale Statua di Vishnu

Galleria nord

Vasche per abluzioni sacre

1ª terrazza 2ª terrazza

3ª terrazza

Porta est

Galleria sud

Tempio

N 0

Porta nord

Galleria ovest

ANGKOR VAT Il prospetto del tempio e, a destra, la pianta del complesso. Come nel caso del Bayon, l’edificio è stato costruito secondo lo schema architettonico del «tempio-montagna»: una rappresentazione simbolica del sacro monte Meru. Il complesso è formato da porticati o recinti concentrici posti a livelli gradualmente ascendenti che indicano le catene montuose che circondano il Meru, mentre il fossato rappresenta l’oceano.

Pianta del sito archeologico di Angkor e dei suoi principali complessi monumentali, nel 2001 inclusi dall’UNESCO tra i Patrimoni dell’Umanità.

Prasat Bat Chum

Bakheng

Galleria est

Prasat Bei

Mebon orientale

Ta Keo

Portale d’entrata

Angkor Tom

Baray orientale

Porta sud 150 mt

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SPECIALE • CAMBOGIA

Preah Vihear LA DANZA COSMICA DI SHIVA

T

re cime in lontananza dominano verso sud l’immensa pianura che porta ad Angkor. I tre picchi simboleggiano la triade divina dell’induismo: Vishnu, Shiva e Brahma. Su quello centrale, ancorato agli orli di un precipizio, il tempio di Preah Vihear si estende, meraviglioso, su 800 m di lunghezza, e disegna con la sua prua, come un vascello celeste, la catena del Dangrêc, frontiera naturale fra la Thailandia e la Cambogia. Da sessant’anni il santuario, meta insostituibile di pellegrinaggio dell’impero khmer, è area di conflitto armato tra i due Paesi, poiché il regno del Siam non si è mai arreso al fatto che il monumento – entrato nella lista del Patrimonio UNESCO nel 2008 – fosse integrato alla Cambogia. Ci dev’essere dunque stato lo zampino di Shiva, stanco di essere disturbato nella sua danza cosmica quotidiana in mezzo

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THAILANDIA

Preah Vihear Angkor Siem Reap Battambang

Phnom Kulen

Lago di Tonle Sap

Sambor Prei Kuk

CAMBOGIA

Kratie VIETNAM

Golfo di Thailandia

Phnom Penh

N Kompong Som 0

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Kompot

Delta del Mekong

Mar Cinese Meridionale

al cielo della celebre falesia, nel miracoloso incontro avvenuto nel dicembre 2014 attorno a un bianco tavolo apparecchiato all’ombra degli alberi che incorniciano i raffinati padiglioni del tempio: ambasciatori e responsabili dell’UNESCO, storici e archeologi venuti da Phnom Penh ascoltarono increduli l’allora vicepremier cambogiano Sok An, seduto accanto ai rappresentanti di una delegazione thailandese, annunciare un’inedita «luna di miele» con i vicini ex nemici, i quali, avendo sotterrato l’ascia di guerra, offrirono il loro contributo per riportare il sito sacro all’antico splendore. «Abbiamo aperto una nuova pagina della storia di Preah Vihear, basata sulla collaborazione reciproca», sottolineò Sok An. Per il tempio scolpito nella roccia della montagna fra il X e il XII secolo cominciò finalmente l’epoca dei restauri.


Preah Vihear. Veduta da sud del tempio, che permette di constatare come il complesso non disponesse di alcun accesso sul suo lato meridionale, affacciata a strapiombo sulla gola. A destra: rilievo raffigurante il dio Shiva che danza sulla testa di un elefante, sotto gli occhi degli yogi.

Per raccontarne la storia, occorre risalire al IX secolo, quando il principe Indrâyadha, figlio del re Jayavarman II, fondatore dell’impero khmer, inizia i lavori del santuario, installandovi una parte dell’immenso linga di Shiva, simbolo fallico di fertilità, proveniente dal tempio di Wat Phu, in Laos. Secondo un’iscrizione che porta il contrassegno K58, trovata ad Angkor, il dio indú ha ordinato che il suo linga fosse collocato su questo promontorio affinché i segni della Creazione fossero visti dal mondo intero.

ANCHE IL RE FRA I PELLEGRINI Il mito è sempre vivo. «Impronte dei piedi di Shiva sono state rilevate ovunque», afferma Sachchidanand Sahai, lo storico ed epigrafista indiano che da anni studia questi luoghi. Sui fregi e i bassorilievi scolpiti la somma divinità del pantheon indú, venerata degli antichi re khmer, occupa in effetti il posto d’onore. «Per la mitologia khmer – spiega ancora Sahai – la catena del Dangêc è l’Himalaya dell’impero di Angkor, e la falesia di Preah Vihear viene associata al monte Kailash, dimora di Shiva». La montagna intera, bucherellata di grotte, era in origine un noto luogo di eremitaggio frequentato dallo stesso Jayavaram II, prima di assumere un rilievo spirituale e un prestigio politico sempre maggiori, in relazione alla crescita economica dell’impero. L’edificazione del tempio durò piú di trecento anni, con numerosi interventi e cambiamenti, fra cui alcuni particolarmente significativi portano l’impronta di un celebre guru, vissuto fino a ottant’anni – chiamato Ta Guru –, che diresse i lavori fra il 1080 e il 1107 sotto i regni di Sûryavarman I e Jayavarman VI. Il piccolo santuario divenne cosí uno dei piú grandi templi khmer di tutti i tempi. «Recentemente – fa sapere Hang Peu, l’ingegnere cambogiano che si occupa di ricostruire il funzionamento dell’originario sistema idraulico dell’impero – abbiamo scoperto ai piedi della montagna due antichi baray (cisterne artificiali) dei quali ignoravamo l’esistenza, alimentati all’epoca da due piccoli ruscelli che scendevano dalla collina. Se ne deduce che il luogo doveva effettivamente accogliere numerosi pellegrini provenienti da ogni dove. Qui si rinfrescavano prima di iniziare la salita fino al tempio, intorno al quale ne esistono altri due che ora sono di nuovo

riempiti d’acqua. Queste opere, essenziali per comprendere il monumento, sono un’ulteriore prova di quanto i nostri antenati fossero consci dell’importanza dell’acqua, e di come sapessero gestirla». Le vasche e i baray non erano infatti concepiti per decorare il santuario, né per permetterne la stabilizzazione essendo le sue fondamenta direttamente posate sullo strato roccioso, e non sulla sabbia come quelli di Angkor. Servivano a soddisfare i bisogni quotidiani degli abitanti del sito e dei suoi visitatori, semplici pellegrini, alti funzionari o sovrani. Sovrani che qui si recavano e continuano a venire in pellegrinaggio perché, a differenza degli altri santuari khmer che vennero abbandonati con la scomparsa dei re che li avevano edificati, Preh Vihear ha mantenuto nei secoli un ruolo essenziale per i monarchi dell’impero. Una sosta sacra volta a invocare gli antenati e la divinità delle «cime», uno dei tanti volti di Shiva, garanti della perennità del reame e della sua unità: sdraiato con la testa verso Ankgor, il dio indú sposa in effetti la forma del santuario, con il corpo allungato verso il pendio per unire a r c h e o 79


SPECIALE • CAMBOGIA

Cambogia, poiché la via thailandese è sbarrata. Da un paio d’anni anni esiste una strada percorribile in macchina per chi – ancora rari turisti e fedeli locali – voglia accedere al sacro sito senza arrancare sul ripido dislivello che conduce alla sommità della montagna.

idealmente il Sud della Cambogia bagnato dal lago Tonlé Sap, il piú pescoso del mondo, e il Nord con i suoi altopiani. Sino alla fine degli anni Novanta del secolo scorso si raggiungeva la maestosa meta solo dalla Thailandia.Turisti e pellegrini, mescolati a bonzi dai vestiti color zafferano, affluivano in pullman da tutto il regno del Siam. L’ingresso dalla parte cambogiana – una ripida scala di tremila gradini in pietra dissestati in mezzo alla giungla disseminata di bombe inesplose – era molto meno agevole, pressoché inaccessibile, e portava il segno dell’ultima resistenza dei khmer rossi, qui rifugiatisi proprio per la posizione inespugnabile dei luoghi. Il Paese era allora allo stremo, non c’era acqua potabile, mancava il cibo, il paludismo mieteva vittime, la povertà era assoluta. Dopo i conflitti, la situazione si è invertita. Chi vuole visitare il piú grande santuario khmer di tutti i tempi deve ora passare dalla

UN’ASCESA MISTICA Ma chi non affronta la fatica di salire eroicamente a piedi i duemilasettecento gradini della scala di legno recentemente ultimata (nell’attesa che sia ripristinata quella originaria e sacra, di pietra), lungo la lussureggiante giungla – tuttora punteggiata da bunker dissimulati dalle foglie e popolata da militari armati che, sdraiati nelle loro amache, ostentano noncuranza piú che vigilanza –, con un panorama sempre piú sontuoso man mano che si avanza, non può capire cosa significhi arrivare a… destinazione. Non può comprendere il significato di quella ripida salita affrontata da pellegrini e re

COME STAZIONI DI UNA VIA CRUCIS Pianta e sezione del complesso di Preah Vihear, con l’indicazione dei cinque gopura (padiglioni), che scandiscono l’ascesa alla vetta, con funzioni che possiamo in qualche modo paragonare a quelle delle stazioni di una via crucis. Ciascun padiglione era provvisto di portici cortili e cappelle.

Gopura V

V 80 a r c h e o

V

IV

Nella pagina accanto: la porta Sud del Gopura (padiglione) IV.


Gopura III

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit Gopura I antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

Gopura II

Gopura IV

III

II

I a r c h e o 81


SPECIALE • CAMBOGIA

UN LUOGO DI MEDITAZIONE Incontro con Claude Jacques Specialista in epigrafia khmer e del sito di Angkor, Claude Jacques ha all’attivo numerosi incarichi, fra cui

◆ Professor Jacques, quando è

stato riscoperto il tempio di Preah Vihear, a lungo abbandonato? La prima menzione del tempio, alla fine dell’Ottocento, si deve a Étienne Lamonyer, ammistratore coloniale francese. Poi, nel 1907, Étienne Lunet de Lajonquière stila una prima importante descrizione dell’architettura del sito per conto dell’EFEO (École Française d’Extrème Orient), seguita dai fondamentali studi di Henry Parmentier, il quale, negli anni Trenta, esegue numerosi disegni della struttura architettonica dell’intero complesso sacro. Infine, un’altra pietra miliare è rappresentata dagli studi di Georges Coedes, maestro incontrastato dell’antica epigrafia

la direzione della sezione di scienze storiche e filologiche dell’École Pratique des Hautes Études. cambogiana: sarà lui a tradurre le quattro iscrizioni trovate in loco, che danno preziose informazioni sulla fondazione, sullo sviluppo e sull’anima religiosa del santuario.

◆ In che cosa consiste l’unicità di

questo luogo? È un tempio da considerare «a parte» per la sua posizione, per la sua storia e per la sua evoluzione nel tempo. Di certo, quando il principe Indrâyudha all’inizio del IX secolo ha creato il santuario, l’eremo esisteva già da tempo immemorabile. Vi si accedeva dal lato che oggi è in territorio cambogiano. Alla base della montagna doveva esserci un villaggio presso il quale si rifornivano di cibo gli eremiti che vivevano nelle grotte della falesia, aperte a sud del tempio su un paesaggio grandioso.

◆ Come si conosce la storia del

tempio? Grazie alla traduzione delle iscrizioni. La piú antica è stata trovata ad Angkor, e permette di stabilire che Indrâyudha (figlio di Jayavarman II, re fondatore dell’impero khmer nell’802) si era ritirato in eremitaggio presso il sito di Vat Phu, oggi in Laos. Nell’iscrizione si dice che, durante una meditazione, Indrâyudha aveva ricevuto ordine dal dio Shiva di portare a Preah Vihear un linga estratto dal grande linga della montagna che domina Vat Phu. Nel tempio stesso sono state rinvenute quattro iscrizioni. In una di esse, incisa verso il 1120, il re Sûryavarman II (1113-1150) elogia il suo guru Divâkarapandita, incaricato di offrire doni ai diversi luoghi sacri: a Preah Vihear era

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stata offerta una statua in oro del Shiva danzante, che non è mai stata ritrovata. E furono appunto gli imponenti lavori iniziati da Sûryavarman II, il costruttore di Angkor Vat, a trasformare il modesto luogo di meditazione in una meta di pellegrinaggio molto frequentata. Il gran numero di edifici in cima alla montagna e l’abbondanza di serbatoi d’acqua mostrano che, a partire dall’XI secolo, il luogo diventa molto attivo, popolato da monaci, da laici e dai loro servitori che vivevano nelle abitazioni in legno intorno al tempio consacrato al culto di Shiva, sotto forma di linga. Un culto forse trasformatosi in buddista all’epoca di Jayavarman VII (1181-1215), con un afflusso di pellegrini sempre intenso, a giudicare dall’ospedale con cappella annessa che sorgeva alla base della montagna, edificato vicino a due serbatoi rettangolari, uno dei quali posto ai piedi della scala che conduceva in cima alla montagna.

◆ Quanto a lungo si è protratta la

frequentazione del tempio? Cadde verosimilmente in abbandono dopo Jayavarman VII, ma non ci sono documenti al riguardo. Era un luogo tranquillo e isolato, adatto alla meditazione, tagliato fuori dalla grande via che collegava Angkor a


Vat Phu, passando per Koh Ker. Per questo è poco menzionato dalle iscrizioni.

◆ Il sito di Preah Vihear ha subito

saccheggi? Non saprei rispondere. Certo ricordo quando Philippe Groslier (1926-1986), membro dell’EFEO e conservatore di Angkor, mi raccontava come a Phnom Penh gli venisse continuamente proposto l’acquisto di opere strappate ai templi, quasi sempre teste. I siti situati fuori dal perimetro di Angkor sono stati selvaggiamente saccheggiati, come ben sappiamo. I piú attivi nella razzia erano i militari dell’esercito cambogiano, gli unici a disporre di camion con i quali trasportare la merce rubata sulle strade impraticabili del Paese: oggetti che finivano a Bangkok, per passare poi sul mercato internazionale. Gli abitanti dei villaggi raccontano che i militari li costringevano con il mitra spianato a staccare le teste scolpite dai bassorilievi: spesso, per ricavarne una intatta, se ne distruggevano tre o quattro. (Il professor Claude Jacques, illustre storico della civiltà khmer, è venuto a mancare il 20 febbraio 2018; aveva 89 anni, n.d.r.)

A sinistra: particolare del frontone della porta Sud del Gopura IV raffigurante un episodio legato all’ottenimento dell’amrita, il liquore che, secondo la religione induista, rende immortali ed eternamente giovani. Nella pagina accanto: ancora un’immagine della porta Sud del Gopura IV.

lungo un intero millennio, volta a scandire, nello sforzo del cammino sacro, i ritmi dell’evoluzione e della creazione dell’Universo, su in cima lungo il percorso ascendente che conduce ai portici monumentali dei cinque gopura, dotati di cortili e cappelle. La strada sacra è fiancheggiata da boccioli di loto in arenaria raffiguranti il rosario, che il fedele sgrana recitando i mantra sul cammino della destinazione finale. «Il primo padiglione simboleggia lo spazio infinito – spiega il professor Sahai – il secondo, a nove porte, rappresenta il corpo umano e le sue nove aperture», e cosí via, fino al santuario principale posato sul verde tappeto d’erba agli orli dell’impressionante baratro: l’ultimo degli edifici chiuso all’interno di un delizioso chiostro, rischiarato da finestre senza balaustra e destinato al passaggio dei fedeli non autorizzati a penetrare nello spazio privato del dio. Qui, scolpito su uno dei frontoni, Shiva danza alla luce del sole calante, schiacciando con i piedi la testa di Kala, il demonio con le fauci spalancate che ingoia il tempo. È l’incendio finale, l’estinzione del tempo causata dal fuoco eterno. «Tutta la montagna – osserva ancora Sahai – è il teatro della danza cosmica del benefico dio che distrugge per ricreare. Espressione di gioia ed energia, essa si svolge ogni sera».

IN ARMONIA CON IL PAESAGGIO Per fortuna, il cosmico scenario del dio indú dai mille volti ha per il momento pochi spettatori e il tempio, molto fragile, mal sopporterebbe attualmente un forte afflusso turistico. Se i lavori di restauro non sono certo paragonabili a quelli colossali di Angkor, si presentano tuttavia abbastanza delicati e complessi. «La straordinaria importanza spirituale del santuario – osserva Azedine Beschaouch – risiede in gran parte nella sua posizione spettacolare, che ne determina la valenza religiosa. Il restauro dovrà restare in armonia con la bellezza del paesaggio, e dovrà conservare l’autenticità culturale del tempio». Per dare il via alle cure necessarie per la rinascita del sito, nel dicembre 2014 si è svolta a Siem Reap la prima riunione del Comitato Internazionale di Coordinamento dedicato a Preah Vihear (CIC-PV), sul modello del ventennale e ben rodato CIC di Angkor (CICANGKOR). «Si può dire – afferma Mounir Bouchenaki, consigliere speciale della direta r c h e o 83


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trice dell’UNESCO Irina Bokova, e attualmente direttore generale dell’Arab Center of World dell’UNESCO – che il CIC di Angkor sia diventato il riferimento mondiale per gli interventi “spinosi” sul Patrimonio. Il successo di questo metodo, esemplare, ci ha portati a creare due CIC anche in Afghanistan e in Iraq, casi disperati per i quali l’unica speranza è la cooperazione internazionale». In contesti «neutri», meglio ancora che a casa propria, le nazioni finanziatrici e i loro esperti delle varie discipline sembrano dare con entusiasmo il meglio di sé. «La nuova iniziativa – spiega Beschaouch – è copresieduta da Cina e India e ha come membri fondatori Francia, Stati Uniti, Giappone, Belgio e Corea. Con la felice collaborazione della Thailandia, che si è dichiarata pronta a fornire tutta la documentazione scientifica in suo possesso, i lavori inizieranno sotto i migliori auspici».

ARMI PER L’ESERCITO IMPERIALE Nelle vicinanze del santuario sopravvivono antiche popolazioni autoctone, i Kuy, preziose testimoni della storia di questo territorio. Vivevano all’interno del reame, ma avevano usi e costumi propri, strettamente legati all’ambiente che li ospitava, ossia le ricche miniere di ferro (in attività sino alla fine del protettorato francese), e la giungla, ricca di piante medicinali, con gli animali che la popolavano. «Sfruttavano il ferro – spiega Christiane Garnero Morena, esperta di architettura e urbanistica che si occupa del museo “ecoglobale” di Preah Vihear – con il quale realizzavano le armi per l’intero esercito imperiale. Sono le stesse che si ammirano incise nei bassorilievi del Bayon: spade, archibugi e scudi. I Kuy costituivano il grande supporto dell’apparato bellico delle armate khmer poiché ne fornivano anche i “carri armati”, incarnati dagli elefanti da loro addestrati, come quelli di Annibale, per partecipare alle battaglie». I riti magici dei Kuy, legati alla lavorazione di metalli, e le loro danze propiziatorie con gli scudi, sono ricostruiti in museo innovativo per il Sud-Est asiatico, che affianca materiali frutto di scoperte archeologiche recenti e innumerevoli oggetti etnografici, raccolti – tiene a sottolineare Garnero Morena – con la collaborazione attiva delle popolazioni locali. 84 a r c h e o

Nella pagina accanto: private delle travature lignee che le sostenevano, le architravi in pietra di Preah Vihear non sono piú in grado di assicurare un sostegno sufficiente. In basso: esempio di rotazione di una struttura causata dallo smottamento della sabbia che costituiva il riempimento della base.

COME SALVARE PREAH VIHEAR Incontro con Carlo Blasi Specializzato nel consolidamento e nel restauro degli edifici storici, l’architetto Carlo Blasi ha all’attivo un’intensa attività di consulenza a livello nazionale ed internazionale e che, per conto dell’UNESCO, lo ha visto e lo vede impegnato in Bosnia, Kosovo, Albania, Cambogia, Libano, Palestina e Tunisia.

◆ Professor Blasi, lei è uno

specialista di livello internazionale nel campo degli interventi di restauro dei monumenti. Nella sua veste di architetto esperto di stabilità degli edifici storici, segue da tempo i restauri del sito di Angkor ed è stato incaricato dall’UNESCO di far fronte ai problemi legati al crollo delle strutture del tempio di Preah Vihear. Quali sono i principali problemi tecnici per la salvaguardia di questo meraviglioso santuario? Si tratta di un tempio molto interessante, perché è diverso dai templi di Angkor costruiti sulla piana alluvionale; Preah Vihear, infatti, è costruito in cima a una montagna su un banco di pietra affiorante, che è stato utilizzato anche come cava. Anzi, è un intero percorso rettilineo di


purificazione a piú tappe via via che si sale, seguendo il banco di roccia, fino alla sommità del monte, dove è collocato il tempio piú sacro. Disponendo della pietra in loco, il santuario è stato costruito con una tecnica completamente diversa dagli altri templi khmer, realizzati con pietre di modeste dimensioni – perché dovevano essere portate da lontano con gli elefanti – con le quali venivano realizzati ad Angkor grossi muri e volte. I vari padiglioni (Gopura), paragonabili alle stazioni di una via crucis in salita sul monte, sono perlopiú realizzati con travi e pilastri monolitici che poggiano direttamente sulla pietra del banco affiorante, oppure su riempimenti di sabbia fatti per realizzare i piani di posa. Le coperture erano perlopiú di legno e le stesse travi di pietra, troppo lunghe per sostenersi da sole e sopportare il peso delle coperture, erano supportate da travi di legno che costituivano anche elementi di legatura tra gli alti frontoni triangolari.

◆ Quali sono state le cause dei

crolli? I crolli sono avvenuti per due ragioni: in parte per la differenza di rigidezza delle fondazioni tra quelle direttamente sulla pietra e quelle sul terreno, presto dilavato, in parte per la perdita delle travi di legno, corrose dagli insetti e dalle muffe, che ha portato al cedimento delle coperture, al dissesto delle facciate e alla rottura delle lunghe architravi decorate a bassorilievo. La semplice anastilosi, pur su fondazioni consolidate, non è dunque possibile, perché i pilastri da soli e senza i collegamenti di legno, sono instabili e perché le travi di pietra si romperebbero nuovamente. Anche l’affascinante Scala Sacra, inizio dell’ascesa mistica, è stata realizzata in parte direttamente sul bancone di pietra,

con scalini scolpiti in loco e in parte con scalini appoggiati su riempimenti di terra, per cui è stata oggetto, nei secoli, di assestamenti differenziali. Il restauro, in questo caso, è però facile, perché non ci sono problemi di sicurezza e stabilità: i gradini che si sono spostati potranno essere riposizionati senza difficoltà e senza alterare l’ambiente circostante.

◆ In che modo si procederà? Per ora si interviene sul primo tempio (Gopura 5). È stato deciso di riposizionare le pietre crollate: operazione possibile non essendoci altri elementi ostativi o piante monumentali da proteggere. Per ricomporre il tempio, ponendo in sicurezza gli architravi e i pilastri, ho proposto di rimettere travi in legno là dove si trovavano, negli incavi originari, per ricreare la necessaria continuità strutturale e dare stabilità alle pietre. Utilizzare perni in ferro per la pietra per «consolidarla», sarebbe stato un grave sbaglio e non solo un inutile inserimento di elementi incongrui. Un errore commesso, per esempio, a Ta Prohm, uno dei piú suggestivi templi di Angkor, celebre per le gigantesche radici che lo avvolgono, ora nelle mani degli esperti indiani che svolgono interventi discutibili, usando tubolari in ferro per puntellare le strutture dell’edificio e sostenerne le volte e gli archi, ma soprattutto inserendo barre di ferro nelle pietre per rinforzarle. È un procedimento fatalmente votato al fallimento perché, come c’insegna l’esperienza, le barre d’acciaio rischiano di spaccare la pietra. Non subito, dato che i fenomeni di rilassamento che subiscono gli elementi strutturali di pietra e le conseguenze dei diversi comportamenti termici tra pietre e ferro hanno tempi lunghi.

◆ Che cosa pensa

dell’organizzazione dell’UNESCO ad Angkor e a Preah Vihear, con i due CIC (Comitati Internazionali di Coordinamento)? Credo si possa affermare che Angkor è stata salvata dall’UNESCO (con la collaborazione dell’Autorità nazionale Apsara e dei Paesi implicati nel progetto), e che il CIC è la positiva macchina di direzione, pur nella sua enfatizzata funzione e organizzazione. L’UNESCO ha avuto successo grazie anche all’impegno di Azedine Bechaouch, che va ricordato per avere centrato almeno due obiettivi: quello (titanico) di tenere lontane le infrastrutture turistiche (alberghi, ristoranti, negozi, ecc.) dall’area archeologica – dove possono alloggiare solo i locali in poche abitazioni tradizionali –, e quello di formare una classe di tecnici locali (autorità Apsara) in grado ormai di garantire tutti gli indispensabili interventi di manutenzione. Ovviamente, per quanto riguarda i progetti di restauro di singoli edifici, davanti alla potenza politica ed economica di certe nazioni finanziatrici che utilizzano i restauri per la propria immagine e che quindi vorrebbero fare interventi vistosi, alcuni compromessi sono stati inevitabili. Ma ripeto: Angkor è stata salvata, ed è un miracolo.

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Phnom Kulen UNA CAPITALE NELLA GIUNGLA

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el XII secolo Angkor Vat si ergeva al centro di una gigantesca metropoli ora occultata dalla giungla, ma ricostituita com’era novecento anni fa grazie alla rivoluzionaria tecnica del Lidar, il raggio laser ad alta frequenza capace di individuare i piú minuscoli rilievi attraverso la vegetazione piú fitta: è stato cosí possibile accertare che, in epoca pre-industriale, Angkor era la piú grande città del mondo e, secondo le stime di alcuni studiosi, ospitava oltre 700 000 abitanti. Ma quali erano le origini dell’impero khmer? Dov’era la sua prima capitale? Dal 1999 l’archeologo Jean-Baptiste Chevance lavora sul massiccio del Phnom Kulen, 40 km a nord di Angkor: vive qui, fra la popolazione locale, e svolge le sue ricerche sull’altopiano. Sul Kulen, uno degli ultimi bastioni dei khmer rossi, inaccessibile e completamente isolato dal mondo fino al 1996, ancor oggi terreno minato in certe zone, sarebbe nato l’impero khmer trecento anni prima della costruzione di Angkor Vat. E qui doveva trovarsi la prima mitica capitale Mahendraparvata, fondata da Jayavarman II nel IX secolo. Fin dagli inizi del Novecento, l’esploratore Étienne Lunet de Lajonquière aveva individuato resti sparsi nella fitta vegetazione della montagna. Negli anni Trenta, Philippe Stern, primo conservatore del Museo d’Indocina di Parigi, e l’epigrafista George Coedès, confrontando i propri studi, avevano intuito l’importanza del sito, grazie anche alla coerenza stilistica dei suoi templi in mattoni «a colonnette», alla raffinatezza degli architravi scolpiti e all’esistenza di un tempio-montagna, il Rong Chen. L’avevano battezzato «stile Phnom Kulen», considerandolo come l’anello mancante fra l’espressione pre-angkoriana 86 a r c h e o


Il massiccio del Phnom Kulen, situato 40 km a nord di Angkor. Qui sono in corso ricerche che hanno portato all’individuazione di numerosi complessi templari.

LAOS

THAILANDIA Preah Vihear Angkor

Phnom Kulen

Siem Reap Battambang

Lago di Tonle Sap

Sambor Prei Kuk

CAMBOGIA

Kratie VIETNAM

Golfo di Thailandia

Phnom Penh

N Kompong Som 0

100 Km

Kompot

Delta del Mekong

Mar Cinese Meridionale

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incarnata dal complesso di Sambor Prei Kuk (VII secolo) e la forma angkoriana classica. Un’iscrizione in sanscrito datata 1052, trovata nel tempio di Sdok Kak in Thailandia, indica che il giovane principe guerriero Jayavarman II si era installato nell’802 sul promontorio del Kulen con l’obiettivo di federare il reame, autoproclamandosi «messaggero di dio sulla terra»: un’espressione ripresa poi da tutti i sovrani che si sono succeduti nell’impero.

SULLA «MONTAGNA DEI LITCHI» Per anni nessuno si era piú occupato della «montagna dei litchi», come qui viene chiamata. Ora, dopo questo lungo intervallo, il testimone è passato nelle mani dell’archeologo Jean-Baptiste Chevance, che ci accompagna nella scoperta del suo universo nella giungla, appollaiati sul sedile posteriore di improbabili moto-taxi. «Adoro la moto – spiega –, l’unico modo per traversare la foresta». In effetti non esistono strade sul Kulen, ma solo sentieri che si trasformano in ruscelli nella stagione delle piogge. Riesce difficile immaginare che la pista che stiamo percorrendo fosse una delle grandi 88 a r c h e o

In alto: la cima piú elevata del Kulen, sulla quale si trovano un tempio di epoca khmer, una pagoda e una moderna installazione militare. Nella pagina accanto: l’archeologo Jean-Baptiste Chevance con il collega Sakada Sakhoeun, davanti al tempio O’Paong.

arterie di una città smisurata, resuscitata dal suo sonno sotto la fitta boscaglia grazie al Lidar, adoperato qui come ad Angkor, per la prima volta nel 2012 poi nel 2015, quando si è passati dai 30 kmq indagati ai 900 attuali. «Si sapeva che sul Kulen c’era una forte concentrazione di templi, ben conosciuti e ampiamente saccheggiati – racconta Chevance –, però mancava il nesso fra loro. Il Lidar ha dato risultati spettacolari svelando la presenza di una megalopoli organizzata intorno al Rong Chen, che è probabilmente il prototipo del tempiomontagna angkoriano. Con strade, canali, dighe, forni in ceramica, templi e il palazzo reale, che si estendeva su almeno 100 kmq». Cinque immensi bacini idrici fornivano l’acqua necessaria per una popolazione sempre piú numerosa, dedita a soddisfare le esigenze visionarie di un re che aveva intrapreso un progetto smisurato: i suoi sudditi – le iscrizioni ci parlano di una società fortemente gerarchizzata, fondata sulla schiavitú – avevano dovuto disboscare decine di chilometri di giungla per costruire la prima capitale. Una pratica ancestrale, oggi arrivata quasi a un punto di non ritor-


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Prima di ogni nuovo scavo si svolge una cerimonia volta ad attirare la benevolenza degli spiriti del luogo, innanzitutto dello spettacolare Buddha sdraiato scolpito sulla parete della montagna: una delle mete di pellegrinaggio tuttora piú gettonate dai cambogiani, che dopo la visita scendono a Preah-Ang-Thom, il villaggio in riva al fiume dal letto scolpito con i simboli indú della fertilità, adiacente alla grande cascata. Un luogo altamente simbolico, dove il 23 marzo 1973 il re Sihanouk incontrò Pol Pot, con il quale era stato alleato prima di diventarne il prigioniero eccellente. Un paradiso terrestre, frequentato per secoli dagli eremiti che qui venivano prima della fondazione della mitica capitale Mahendraparvata, rimasta tale solo per novant’anni, e che qui hanno continuato a venire anche dopo il suo abbandono alla volta di Angkor.

Sulle due pagine: immagini delle figure scolpite da eremiti, nell’XI sec., sulle rocce del fiume che alimentava Angkor. In particolare, nelle foto in questa pagina si riconoscono il dio Vishnu che riposa su un serpente e una serie di linga, il simbolo fallico di Shiva.

no. Sull’altopiano, nonostante i divieti, il manto della foresta è ridotto al punto tale che copre appena il 20% dei 37 000 ettari della montagna. La cultura intensiva di noci di acagiú (da cui si ricava l’anacardo), unica fonte di reddito degli abitanti, è devastante. Sparse nei dieci villaggi della foresta, alcuni dei quali inaccessibili, quattromila persone vivono isolate, in miseria e dimenticate dal mondo. «Nessuno qui sa leggere, non ci sono scuole», spiega Chevance che ha fondato l’Archeology and Development Foundation (ADF), al fine di finanziare i programmi educativi per i bambini e la creazione di redditi alternativi rispetto alla noce di acagiú, «e i giovani, dipendenti da telefonini e alcol di riso, si rifiutano di imparare. “Sono pigro”, affermano, “non ho voglia e non so fare”». Taluni tuttavia aiutano Chevance nei suoi scavi archeologici sugli otto templi esplorati e su alcuni siti rupestri del IX, X e XI secolo.

LA ROCCIA A FORMA DI RANA... In occasione della visita, Claude Jacques, il grande specialista di epigrafia khmer recentemente scomparso, ci raccontava come furono scoperti alcuni importanti siti di eremitaggio e le relative inedite iscrizioni sulle pareti rocciose lungo le sponde del Kbal Spean: il fiume sacro che scorre sulle pendici nord-occidentali del Kulen, famoso per le straordinarie sculture intagliate nel suo letto. «Eravamo nel 1968 – ricordava Jacques – e l’etnologo e amico Jean Boulbet, che viveva nella giungla insieme agli indigeni, mi chiamò per tradurre delle iscrizioni scovate in un luogo sconosciuto. Un segreto svelatogli da un eremita in segno di riconoscenza per aver guarito una ragazza del villaggio che stava morendo, grazie a una dose di penicillina (scaduta), rimasta per caso nella sua macchina. “Risali il fiume finché arriverai a una roccia a forma di rana…”, gli aveva detto. Le straordinarie immagini che si presentarono ai suoi occhi, scolpite sul letto del corso d’acqua, erano state eseguite dagli eremiti, in questo caso personaggi colti e di alto lignaggio ritirati dal mondo, e le iscrizioni che ho avuto l’emozione di tradurre le facevano risalire all’XI secolo. Su una delle pietre si leggeva che un re di Angkor, Udayâdityavarman II aveva visitato il sito nel 1050. Un’altra iscrizione citava il termine “mille linga”, e cosí con Boulbet abbiamo battezzato la riviera “fiume dai mille linga”, il simbolo fallico di Shiva». a r c h e o 91


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PER UNA ARCHEOLOGIA «UMANITARIA» Incontro con Jean-Baptiste Chevance Formatosi all’École du Louvre, Jean-Bapitste Chevance lavora in Cambogia da quasi vent’anni e, nel 2007, ha fondato l’organizzazione non governativa Archaeology and Development Foundation (ADF), che opera sul sito di Phnom Kulen.

sconfortante: mi colpisce soprattutto il contrasto fra la ricchezza delle vestigia disseminate nella foresta e l’inverosimile miseria degli abitanti. Subito nasce in me l’idea di creare una struttura che possa combinare la ricerca archeologica con il coinvolgimento della popolazione locale, allo scopo di aiutarla nei bisogni materiali e sensibilizzarla nello stesso tempo alla necessità di preservare la ricchezza del loro patrimonio storico e naturale.

◆ Professor Chevance, vuole

◆ Come ha organizzato questo

riassumerci le tappe fondamentali del suo lavoro sul Phnom Kulen? Dopo i primi esploratori all’inizio del Novecento, e dopo gli studi negli anni Trenta di Stern, Coedes e Dupont, passando per gli anni Sessanta con l’etnologo Jean Boulbet e lo storico Bruno Dagens – che redigono e pubblicano un esaustivo inventario archeologico della zona –, nessuno piú si occupa del sito. Angkor concentra tutta l’attenzione. L’avvento dei khmer rossi che fin dall’inizio degli anni Settanta stabiliscono qui i loro quartieri, sigilla la montagna e la rende impenetrabile. Nel 2000, quando arrivo e mi innamoro del luogo, scopro un universo

ambizioso programma? Nei primi anni, con la mia moto e con l’assistenza di un’eccezionale guida del posto, ho scandagliato in lungo e in largo la montagna, limitandomi a prospezioni sui siti conosciuti, e individuandone altri inediti – ammassi di pietre informi e siti rupestri – grazie al fine fiuto del mio accompagnatore. Finalmente nel 2008, ottenuti i fondi per creare insieme a mio fratello Vincent l’associazione Archaeology and Development Foundation (ADF), ho potuto dare vita al mio disegno iniziale. Da una parte, l’archeologia: cartografia, scavi, conservazione, formazione in situ di studenti cambogiani, e restauro dei reperti rinvenuti. Dall’altra, l’assistenza alla popolazione: l’aiuto per curare e educare i bambini, e la creazione per i contadini di redditi alternativi alla nefasta coltura delle noci di acagiú (coltivazione di funghi, allevamento di polli e pesce). Ardua incombenza quest’ultima, perché convincere gli abitanti a salvare la foresta piuttosto che tagliarne gli alberi per piantare le invasive e redditizie – nell’immediato – noci di acagiú, risulta finora una missione impossibile.

◆ Prima dell’arrivo dei dati del Lidar nel 2012, a quali risultati erano giunte le sue ricerche?

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Un monumento buddhista accanto ai resti di un tempio khmer su una cima del massiccio del Phnom Kulen.

Avendo a disposizione i fondi per condurre gli scavi, a partire dal 2008 abbiamo cominciato a capire come è stato occupato il luogo nel periodo pre- e post-angkoriano. All’inizio ci siamo concentrati sui monumenti piú rappresentativi, come il Ron Chen e il Damrei Krap. Cosí le date si precisano: i siti rupestri (di cui molti nuovi segnalati dai locali, che Boulbet stesso non conosceva), risultano piú tardivi (X-XIII secolo) rispetto ai templi dell’epoca di Jayavarman II (IX secolo). Il puzzle comincia a prendere forma. In linea con il Ron Chen e i templi in mattoni, scopro infine le fondamenta, tanto cercate, del palazzo reale!


◆ Come è riuscito a ritrovarle? Con molta costanza: osservando elevazioni non naturali del terreno, come argini di terra e mattoni circoscritti in uno stesso spazio, ho cominciato a scavare portando alla luce la base della costruzione organizzata su un perimetro di 30 ettari (600 x 400 m), con argini tutt’intorno. All’interno si ricostruisce uno schema d’insediamenti civili, inserito in un’organizzazione spaziale su grande scala. Come ho detto, il palazzo reale e i templi sono piú antichi dei siti rupestri. Quando la capitale sul Phnom Kulen viene abbandonata, il posto, sempre

considerato sacro, attira in effetti gli eremiti, spesso persone colte, che qui si isolano creando centri di insegnamento per la meditazione con conseguente realizzazione di abitazioni in legno, destinate ad alloggiare gli «allievi» e di cui abbiamo ritrovato numerose tracce.

◆ Tutto questo avveniva prima del

2012, quando il Lidar ha scoperto il velo della foresta che nascondeva la città… Con il Lidar si è avuta una foto dell’antica capitale nel suo insieme: era orientata nord-sud/est-ovest. Il palazzo reale, il tempio-montagna e i santuari allineati, erano collegati da

una rete di argini costruiti per delimitare un’area. Ci sono un’infinità di particelle circoscritte, che definiscono zone destinate alla coltivazione agricola e alle abitazioni. Gli argini piú grandi corrispondono invece agli assi di comunicazione d’una organizzatissima rete che univa i diversi siti. Lavoriamo ora sui risultati del Lidar concentrandoci sullo studio delle dighe, dei tumuli, delle piattaforme: elementi essenziali per capire com’era organizzato lo spazio. Il Lidar del 2015 ha allargato la nostra prospettiva all’intero altipiano, coprendo circa 900 kmq, e rivelando l’estensione delle arterie già repertoriate in precedenza.

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Sambor Prei Kuk GIOIELLO KHMER

D

opo Angkor (1992) e Preah Vihear (2008), la Cambogia vanta l’iscrizione di un terzo sito nella prestigiosa lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO: Sambor Prei Kuk, l’antica Ishanapura, capitale dell’impero Chenla fra il VI e il VII secolo, una della città piú fiorenti del Sud-Est asiatico, ben prima dell’apoteosi di Angkor. L’arte e l’architettura sviluppatesi in questo affascinante e apparentemente poco scenografico luogo, intriso di un’atmosfera magica e religiosa – che non ha niente a che vedere con la magnificenza a cui ci hanno abituati i templi di Angkor –, divennero un modello che si è poi diffuso in altre zone della regione e ha posto le basi dello stile khmer. Isolata nella foresta e semisoffocata dalla vegetazione selvatica, l’intelaiatura della cultura khmer giace a Sambor Prei Kuk, 150 km a sud-est di Angkor. Qui, nella sterminata area

sacra, tre gruppi di templi distinti – Nord, Sud e Centrale – costruiti in mattoni, guardano al di là della vita e della morte, testimoni di un’arte che in quel periodo era arrivata a vette di perfezione assoluta.Tutt’intorno, sonnecchiante nella boscaglia, una miriade di piccoli, fragili e delicati santuari, alcuni semidistrutti, altri miracolosamente conservati, custodisce eccezionali dettagli decorativi cesellati sugli architravi, sui telai delle porte e sui piedestalli delle aggraziate sculture. Sulle pareti esterne dei templi ottagonali, i soli nel loro genere esistenti in tutto il SudEst asiatico, appare un’iconografia particolare, presumibilmente importata dall’India: i «palazzi volanti», dimore dei re e degli dèi, mantenute in altezza da animali alati e figure umane. Uno stile unico in Cambogia e in tutta l’Asia, impregnato dell’influenza indiana che è penetrata nel Paese attraverso il Funan, A sinistra: coppia di leoni ruggenti all’ingresso del Prasat Tao, il santuario Centrale di Sambor Prei Kuk. Insieme all’architrave, sono gli unici elementi superstiti della ricca decorazione del complesso. Nella pagina accanto: la torre santuario del Gruppo Nord di Sambor Prei Kuk. Sulle pareti della struttura sono visibili alcuni «palazzi volanti».

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Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

LAOS

THAILANDIA Preah Vihear Angkor

Phnom Kulen

Siem Reap Battambang

Lago di Tonle Sap

Sambor Prei Kuk

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Kratie VIETNAM

Golfo di Thailandia

Phnom Penh

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Kompot

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il primo regno khmer, esistito verso l’inizio della nostra era. Fino al VI secolo d.C. la futura Cambogia era in effetti divisa in due regni: il Funan, brillante e potente civiltà marittima, insediata sulle coste cambogiane e nel golfo del Siam, con il suo porto di Oc Eo, tappa obbligata sulla via dell’India verso la Cina; e il Chenla, che controllava l’entroterra cambogiano, inglobando anche le regioni settentrionali del Laos e della Tailandia.

UN RE SAGGIO E BENVOLUTO «A determinare la scomparsa del Funan – spiegava nel corso del nostro incontro Claude Jacques – fu senza dubbio Ishanavarman I, il cui padre, Citrasena, proveniva da Vat Phou (oggi in Laos). Un evento che non sembra tuttavia aver traumatizzato la popolazione, e che ha orientato la civiltà khmer verso un destino continentale. Fu un grande re con reputazione di saggezza, rimasto talmente presente nella memoria degli khmer che, alla fine del XII secolo, gli venne ancora consacrato un santuario nel tempio di Preah Khan (uno dei complessi piú estesi di Angkor costruito da Jayavarman VII ). Intratteneva con i In alto: l’interno di uno dei templi di Sambor Prei Kuk: questi luoghi di culto sono ancora assai venerati e ciò spiega dunque la presenza delle suppellettili legate alla celebrazione delle cerimonie religiose. A sinistra e a destra: immagini che documentano in maniera eloquente come la natura si sia progressivamente «appropriata» dei monumenti di epoca khmer di Sambor Prei Kuk.

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vicini rapporti pacifici e sappiamo che un principe cham venne a Ishanapura per sposare una delle sue figlie». L’avvento della potente dinastia dei re di Chenla segna in sostanza la fusione delle due diverse culture khmer, e, nello stesso tempo, di «khmerizzazione» degli apporti esterni. Nei santuari è venerato il pantheon indú e praticato il culto del linga (simbolo fallico cosiderato come una forma di Shiva nella tradizione indiana), con un’eccezione che ha giocato un ruolo considerevole nella storia pre-angkoriana: la presenza di Harihara, doppia divinità Shiva e Vishnu, concepita per evitare dissidi fra i seguaci di Shiva del Nord e quelli di Vishnu del Sud. Quando il sito venne «riscoperto» dall’archeologo francese Henry Parmentier all’inizio del Novecento, svelando il nome del re che nel VII secolo l’aveva edificato, Ishanavarman I, ancora non si sospettava l’esistenza dell’antica città adiacente, rintracciata in seguito da un’esplorazione aerea degli anni Trenta. Ricerche archeologiche, epigrafiche e iconografiche successive approfondiranno, negli anni Sessanta, la conoscenza di quello che si rivelò essere uno dei centri piú vivaci del Sud-Est asiatico, cin- In alto: un altare quecento anni prima dell’apoteosi di Angkor. della torre SD,

IMPRESSIONARE I VISITATORI Le rovine di Sambor Prei Kuk si estendono su un’area di 4 x 6 km, all’interno della quale sorgono oggi sette villaggi, divisa in due parti: la zona dell’antica città a occidente, con il palazzo reale e le case in legno, circondata da un fossato; e il territorio dei templi a oriente, delimitato da un corso d’acqua, l’O Krou Ke, che, attraverso un canale, si congiunge al fiu-

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nel Gruppo Sud. In basso: ricostruzione grafica del complesso monumentale di Sambor Prei Kuk, esteso su una superficie di 25 kmq circa.

me sottostante, il Sem River e al suo antico porto fluviale di Kompong Chuteal. Da qui partivano due vie rialzate, collegate agli edifici sacri. «Le strade – spiega So Sokuntheary, l’architetta cambogiana che coordina gli interventi di restauro, finanziati da Cambogiani e Giapponesi – erano state concepite per dare un’impressione di magnificienza ai visitatori stranieri che entravano nella capitale Chenla. Testimonianze scritte di viaggiatori cinesi menzionano come il sovrano inviasse regolarmente ambasciatori anche “al di là dei mari, fino al Mediterraneo orientale” per coltivare relazioni commerciali e diplomatiche, come provano i ritrovamenti archeologici e le iscrizioni in sanscrito e khmer». In questo periodo il Paese viene dotato di un sistema idrico prodigioso. Hang Peou, ingegnere e specialista dell’antico circuito acquatico per la regione di Angkor in epoca khmer, ha disegnato una mappa della zona, di 7 x 4 km, identificando i numerosi bacini alimentati da serbatoi, dighe di controllo e di deviazione sul fiume, per le necessità di irrigazione. Una rete sofisticata che verrà adottata ad Angkor su vasta scala. L’acqua non è solo vitale, ma sacra per gli antichi khmer, i cui sovrani regolarmente rinnovavano le manifesta-


zioni di rispetto verso gli antenati, visitando e restaurando i templi originari, custodi dei simboli religiosi fondatori dell’impero. Iscrizioni, reperti e tracce di ristrutturazione degli edifici indicano la costante attività religiosa svoltasi a Sambor Prei Kuk anche secoli piú tardi, nel periodo di Angkor. «Il dio del santuario centrale di Prasat Sambor, nel gruppo nord – spiegava ancora Claude Jacques – si chiamava Gambhireçvara, cioè il Signore delle profondità: un nome di Shiva poco frequente in Cambogia. Le iscrizioni attestano che si è continuato o ripreso il suo culto fino alla metà del X secolo. Nel gruppo sud invece, a Prasat Yeay Pouen, un’altra epigrafe racconta come il famoso Linga d’oro del santuario centrale dedicato a Shiva con il nome di Prahsitesvara, ossia il Signore sorridente, fosse stato eretto il mercoledi 7 ottobre 627».

I LEONI RUGGENTI Lo stesso Jayavarman II, fondatore dell’impero Khmer, che nell’anno 802 si era proclamato «sovrano universale» sul Phnom Kulen (la montagna sacra a nord di Angkor), innalzò in questo luogo del ricordo un santuario: due spettacolari leoni ruggenti, miracolosamente ancora in situ, sorvegliano l’ingresso della porta principale e ricordano appunto lo stile artistico «Phnom Kulen», considerato come l’anello mancante fra l’estetica pre-angkoriana incarnata da Sambor Prei Kuk, e la forma angkoriana classica. «Ulteriori ricerche e verifiche saranno necessarie per perfezionare la cronologia del sito – sottolinea So Sokuntheary – e nuove prove confermano varie attività nel periodo angkoriano. Per esempio, alcune iscrizioni di Prasat Sambor risalgono al X secolo, cioè al regno di Rajendravarman II, l’ultimo sovrano di Ishanapura, che nel 944 salí sul trono supremo di Angkor alla morte del cugino Harshavarman II di Koh Ker (capitale dell’impero khmer fra il 928 e il 944, edificata da Jayavaraman IV), integrando definitivamente i propri possedimenti a quelli dell’impero. Recenti scavi condotti nella città rivelano che i luoghi erano occupati fin dal V secolo. La maggior parte delle strutture venute alla luce sono pressoché in rovina, e le tegole ammassate in vari punti indicano che il palazzo e gli altri edifici istituzionali della capitale erano in legno. Secondo le descrizioni cinesi del Libro dei Sui (storia della dinastia dei Sui redatta nel

Particolare di uno degli edifici monumentali di Sambor Prei Kuk: sono ben riconoscibili le tracce lasciate dagli interventi compiuti per svellere parte della decorazione scolpita.

639 d.C.), esistevano 20 000 abitazioni, e si stimava la popolazione in 100 000 abitanti. Indagini aeree e sul terreno confermano che una strada collegava Ishanapura ad Angkor, coprendo una distanza di 150 km». Dei trecento monumenti sparsi in tutta l’area, solo una sessantina sono rimasti in piedi, sopravvivendo all’usura del tempo, ai bombardamenti vietnamiti, al regime di Pol Pot, al saccheggio che negli anni Ottanta ha portato alla sparizione di un gran numero di statue. Rimangono i piedistalli, con le loro iscrizioni, a testimoniare l’esistenza di Shiva sorridente. Ed è proprio il Sorriso, secondo l’epigrafista e storico indiano Sachchidanand Sahai, la chiave di lettura di Sambor Prei Kuk. a r c h e o 99


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QUEI TEMPLI DEDICATI AL DIO DEL SORRISO... Incontro con Sachchidanand Sahai Epigrafista e saggista indiano, Sachchidanand Sahai è consulente del governo cambogiano per gli interventi di restauro ad Angkor Vat.

◆ Professor Sahai, lei afferma

che il sito di Sambor Prei Kuk è legato al dio del Sorriso. Che cosa significa? C’erano a Ishanapura dei templi dedicati al dio del Sorriso, che si chiamava Prahasitesvara (il Signore Sorridente); e altri templi consacrati invece al dio della Serietà, Gambhireçvara (il Signore delle Profondità). Ciò a significare come una sorta di bilancia, di equilibrio della vita.

◆ Perchè è cosí importante sapere che qui era rappresentato il dio del Sorriso?

Il dio del Sorriso è conosciuto in India attraverso vari trattati del IV secolo. Era venerato nell’antica città di Pataliputra, sul Gange, ma il tempio nel quale la statua doveva essere custodita non si è mai trovato. Nel gruppo dei santuari di Prasat Sambor invece, un’iscrizione ne conferma la presenza.

◆ Dunque? Dunque, essendo scomparso il prototipo indiano, questo luogo è di importanza capitale in quanto unico custode della «memoria del Sorriso» in tutto il Sud-Est asiatico. Il famoso Angkor smile viene da qui, ma compare nelle sculture solo verso il X, XI secolo. Cosí cambia tutta la cronologia: si pensava che solo ad Angkor gli dèi sorridessero! I re di Angkor nutrivano un tale rispetto per il sito, che regolarmente venivano a ripararne i templi. ◆ Colpisce la presenza, sulle pareti

in mattoni dei templi, dei «Palazzi volanti». Da dove vengono queste meravigliose rappresentazioni? Il concetto di palazzo volante risale al 1500 a.C., ed è descritto nei testi vedici. L’origine va trovata nei veicoli volanti originari, chiamati in sanscrito «ratha», e in seguito «vimana». Nelle epopee sanscrite, i «vimana» erano cocchi volanti che trasportavano Indra e altri personaggi dei testi vedici. In sostanza, a Sambor esistono le sole rarissime rappresentazioni khmer di palazzi volanti, prese a prestito dall’India e scolpite sulle pareti dei templi ottogonali da artisti In alto: Angkor Thom, Bayon. Ritratto del re Indravarman I. Nella pagina accanto: Gruppo Nord, Prasat N15. Un «palazzo volante». A sinistra: testa di Jayavarman VII. Fine del XII-inizi del XIII sec. Phnom Penh, Museo Nazionale.

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eccezionali, formati in un atelier di cui è documentata l’esistenza.

◆ E veniamo ai templi ottogonali,

ennesima eccezione di questo posto fuori del comune… Gli architetti di Ishanapura hanno sperimentato tutte le forme possibili: quadrata, rettangolare e anche ottogonale. Quest’ultima costituisce un’altra particolarità del sito, poiché qui sopravvive il solo esempio di tempio ottogonale esistente in tutto il Sud-Est asiatico, salvo due santuari nel Sud del Vietnam, a Champa, entrambi piú tardi.

◆ Ma oggi, qual è il rapporto della

popolazione locale con i loro templi? I monumenti continuano a mantenere una forte valenza religiosa. Le comunità locali considerano Prasat Sambor come la casa di Nek Ta, potente spirito ancestrale, il quale è oggetto di adorazione nei riti quotidiani e in due feste annuali: lo svolgersi delle celebrazioni contiene pratiche sconosciute nel resto della Cambogia, come per esempio l’uso della polvere (emanazione dello spirito ancestrale) dei lastricati della antiche strade che portano al fiume, per cospargere e benedire i credenti. Non si sa a quando risalgano questi riti, ma i segni di strofinamento delle pietre trovati durante gli scavi suggeriscono che le cerimonie abbiano radici remote.


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QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

…CONQUISTÒ ADEN L’IMPERO ROMANO CERCÒ A PIÚ RIPRESE DI IMPADRONIRSI DELL’ARABIA «FELICE»: TERRA DI GRANDI RICCHEZZE E DALLA QUALE, SOPRATTUTTO, SI POTEVANO CONTROLLARE I TRAFFICI COMMERCIALI FRA L’ORIENTE E IL MONDO MEDITERRANEO

I

n un giorno imprecisato dell’anno 1 della nostra era, la flotta romana del Mare Eritreo (come allora si chiamava il Mar Rosso) compí un’incursione contro Aden, l’antica Adana (o Eudaemon) e, distrutte le fortificazioni della città, l’occupò. In verità l’episodio non è del tutto certo, ma molti studiosi lo ritengono assai probabile. Esso, infatti, potrebbe essere stato inserito, con molta verosimiglianza, in un piú ampio progetto d’intervento romano nella penisola arabica attribuito a Gaio Cesare, il giovanissimo nipote e figlio adottivo di Augusto, inviato in missione in Oriente l’anno 1 a.C. Se portato avanti – come invece non fu, anche per la morte improvvisa del principe – quel progetto, sarebbe stato la ripetizione di un’«esperienza» già realizzata, senza successo, negli anni 25 e 24 a.C. Infatti, nonostante il proposito di evitare nuove conquiste e nuovi impegni militari troppo onerosi, Augusto non trascurò di difendere, anche sul versante orientale, gli interessi

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Testa bronzea appartenente a una scultura colossale dell’imperatore Augusto. Conservata oggi al British Museum di Londra, è nota anche come «Testa di Meroe», perché rinvenuta nell’omonima città della Nubia. commerciali dell’impero. Cosí, quando si trattò di assicurare ai mercanti alessandrini la libertà di navigazione attraverso lo stretto che oggi chiamiamo di Bal-elMandeb – e quindi lo sbocco nell’Oceano Indiano – e di garantire loro la possibilità d’approdare sulle coste dell’Arabia meridionale e

della Somalia – che gli Arabi impedivano per mantenere nelle loro mani il monopolio dei traffici –, l’imperatore non esitò a intervenire militarmente. Lo scopo era quello di indurre a miti consigli e possibilmente di ridurre alla condizione di vassallaggio il regno dei Sabei che s’estendeva nei


Axum

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Porre sotto controllo il commercio sabeo e poter stabilire rapporti diretti con India ed Etiopia, senza l’intermediazione araba (che, oltre tutto, significava trasporti lenti e dispendiosi, per via di terra, a fronte di quelli per mare, piú economici e rapidi), sarebbe stato d’estrema importanza per l’economia dell’impero e, in particolare, delle sue province orientali, prima fra tutte, l’Egitto. Il compito di provvedere in tal

Marib

YEMEN Okelis

Lago Tana

Bedele

IL «VICERÉ» DELL’EGITTO

San’a

ERITREA

lo

rinoceronte, olio di palma, gusci di tartaruga, cinnamomo e schiavi) o dall’India (pepe, gomme aromatiche, pietre preziose, perle, sete cinesi, indaco, legni pregiati).

Ni

territori dell’odierno Yemen ed era conosciuto col nome di Arabia Felix: un Paese straordinariamente ricco per via di una fiorente attività commerciale, che lo vedeva protagonista pressoché assoluto dei traffici tra l’Oriente e il mondo mediterraneo. Si trattava, in primo luogo, del commercio delle spezie tanto apprezzate in Occidente per gli usi piú diversi, dalla cucina alla cosmetica, dalla medicina alle cerimonie di culto. Poi, di molte altre merci esotiche e rare, pure assai richieste e vendute a carissimo prezzo, prodotte localmente (come incenso, mirra, cannella, cassia) oppure provenienti dall’Africa orientale (come avorio, corna di

Gimma Om

SOMALIA

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ETIOPIA

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SOMALIA

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senso fu assegnato da Augusto al «viceré» dell’Egitto, Caio Elio Gallo il quale allestí un corpo di spedizione di 10 000 uomini, rinforzato da due contingenti forniti dai re «alleati» della Giudea e della Nabatea (l’attuale Giordania), attratti dai vantaggi che sarebbero derivati anche per loro. Le truppe,

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concentrate ad Arsinoe, nei pressi di Suez, furono imbarcate su 130 navi appositamente costruite e trasferite in un paio di settimane di difficile navigazione, tra scogli e banchi corallini, sulla sponda orientale del Mar Rosso, a Leukè Kome (la «Città bianca»), 500 km circa a nord dell’attuale Gidda. Da lí, passato l’inverno, nella primavera del 24 a.C., iniziò la «lunga marcia» alla volta del mitico regno di Saba. L’itinerario durò sei mesi e si svolse per 900 miglia (oltre 1300 chilometri), tra difficoltà d’ogni genere, attraverso regioni sconosciute, quasi sempre desertiche e, comunque, assai poco ospitali, con il continuo e assillante problema dell’acqua che, insieme a quello del cibo, costringeva a lunghi giri e a estenuanti ricerche. Trovando, a volte, accoglienza amichevole, piú spesso ostilità, che, tuttavia furono facilmente debellate, manu militari, con la distruzione di diversi nuclei di resistenza. Le perdite però furono gravi, a causa delle fatiche e dei disagi, ma anche delle malattie tipiche di quei Paesi, come lo scorbuto e la paralisi degli arti inferiori.

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Alla fine la spedizione giunse a destinazione, cioè a una città che Plinio e lo stesso Augusto (nelle sue res gestae) chiamano Marieba, identificata dagli studiosi con la capitale sabea corrispondente all’odierna Marib, a qualche giorno di marcia a est di San’a, l’attuale capitale dello Yemen del Nord. La città venne stretta d’assedio, ma dopo sei giorni di inutili tentativi di prenderla d’assalto, Gallo dovette desistere per la mancanza di acqua. Poi, la situazione si fece talmente critica che egli decise di abbandonare senza altri indugi l’impresa e di tornare indietro.

UNA CELERE RITIRATA La ritirata fu compiuta in soli sei giorni, risalendo verso nord per la via piú diretta, fino a raggiungere un imprecisato villaggio di Egra, sul Mar Rosso. Da lí, per mare, i resti della spedizione raggiunsero il porto di Myos Hormos, in Egitto, quindi Coptos e la valle del Nilo, scendendo per la quale rientrarono finalmente ad Alessandria. Mal preparata e condotta con leggerezza, la spedizione di Gallo non si concluse tuttavia con un fallimento completo. Altrimenti

Augusto non avrebbe lasciato scritto, sia pure con una certa enfasi, nel suo «testamento»: «Per mio ordine e sotto i miei auspici, due eserciti vennero condotti quasi contemporaneamente in Etiopia e nell’Arabia detta Felice, e vaste schiere di entrambe le popolazioni nemiche furono uccise sul campo e molte città conquistate». In conclusione, è assai probabile che i Sabei, rimasti comunque colpiti e impressionati dalla sia pur temporanea invasione del loro regno, certamente senza precedenti, e preoccupati per una sua possibile ripetizione, magari con migliore sorte per gli invasori, si siano risolti a stringere con Roma un rapporto di «amicizia», concedendo ai mercanti romani libertà di transito nelle acque da loro controllate. Poi, però, dovettero ripensarci e allorché tornarono alle antiche ostilità, si ebbero forse come risposta l’incursione navale contro Aden. Quanto all’Etiopia, menzionata


anch’essa da Augusto, si trattò di un’altra spedizione, condotta nel Paese degli «uomini dal volto bruciato» (come voleva dire il nome che a essi veniva dato, in greco, di Aithiopi), che tuttavia corrispondeva a quello che oggi chiamiamo Sudan. Lo stesso Augusto c’informa che essa arrivò fino a Napata (presso la quinta cateratta del Nilo), non lontana da Meroe: due città, quelle, che si avvicendarono come capitali del regno di Nubia.

MISSIONE ESPLORATIVA L’idea di una grande spedizione contro gli Etiopi venne ripresa da Nerone, proprio mentre vedeva la luce, a opera di un autore ignoto, il Periplo del Mare Eritreo, un itinerario marittimo attraverso i porti del Mar Rosso e verso i favolosi Paesi dell’Africa Orientale, dalle coste della Somalia e da Aden verso il Golfo Persico e l’India. Piú di un autore (Plinio il Vecchio, Dione Cassio) scrivono di una

missione esplorativa affidata a una «unità pretoriana» partita appositamente da Roma che sarebbe arrivata ancora una volta a Napata, ma che, al suo ritorno, avrebbe dissuaso l’imperatore. Seneca, invece, piú estesamente, In alto: il cosiddetto «chiosco» di Naga, in Nubia (Sudan). L’edificio rivela una commistione di stili architettonici differenti e se ne ignora l’effettivo utilizzo. Nella pagina accanto: una veduta della necropoli nubiana di Meroe (Sudan). A sinistra: Marib (Yemen). I pilastri del tempio di Mahram Bilqis (l’«harem di Bilqis»). VI sec. a.C.IV sec. d.C.

scrive (Nat. Quaest. VI 8,3-4): «Nerone (...) inviò due centurioni alla scoperta delle sorgenti del Nilo. Ho ascoltato raccontare da essi il lungo viaggio che avevano fatto favoriti dagli aiuti del re di Etiopia il quale li aveva raccomandati ai re vicini. Cosí erano andati piú lontano dei loro predecessori e, dopo molti giorni, dicevano d’essere arrivati a delle immense paludi che gli stessi abitanti ignoravano dove finissero né si poteva sperare di conoscerlo un giorno, a tal punto la vegetazione è aggrovigliata nelle acque e queste non sono percorribili né a piedi né con imbarcazioni perché la palude fangosa e ostruita non può sostenere nient’altro che una piccola barca in grado di portare una sola persona». Nonostante tutto, Nerone, non rinunciò all’idea della spedizione militare. Sicché, nel 66, furono concentrate in Egitto forze destinate alla sua realizzazione. Ma, l’anno dopo, ne fu ritirata una buona parte per essere impiegata nella guerra scoppiata in Giudea. E allora ogni ulteriore progetto venne definitivamente abbandonato.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

UNO STRATAGEMMA DI SUCCESSO L’ASTUZIA SFODERATA DA DIDONE AL MOMENTO DI FONDARE CARTAGINE VENNE RINVERDITA, OLTRE MILLE ANNI PIÚ TARDI, DA UN CONDOTTIERO VICHINGO DI NOME IWAR. UNA COINCIDENZA, OPPURE LA PROVA DELLA STRAORDINARIA FAMA E FORTUNA DI CUI GODETTERO LE GESTA DELLA PIÚ VIRILE FRA LE REGINE?

L

a serie televisiva canadese Vikings di Michael Hirst, autore di sceneggiature su importanti personaggi del mondo anglosassone, racconta le gesta e le conquiste del semileggendario conte Ragnar Loobrök e dei suoi figli, ambientate tra la Scandinavia e le isole britanniche del IX secolo d.C. Dal punto di vista storico, offre un’ottima ricostruzione dell’epoca e una complessiva aderenza alle fonti, ferme restando alcune «licenze poetiche» che servono a collegare, per motivi drammaturgici, personaggi ed eventi in alcuni casi lontani tra di loro. I testi a cui l’autore moderno attinge sono principalmente il libro nono delle Gesta danorum, redatto nel XII secolo in latino dallo storico danese, forse un chierico, noto come Saxo Grammaticus, e i due testi La Saga di Ragnarr Loðbrók e Il Racconto dei figli di Ragnar, composti nel XIII secolo in lingua norrena. In queste narrazioni si ritrova un interessante episodio, di cui è protagonista uno dei figli di Ragnar, l’astuto, spietato e grande condottiero Iwar, soprannominato inn Beinlausi (il Senz’ossa), un personaggio storico realmente esistito e probabilmente affetto dalla nascita da una malattia delle

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ossa che gli impediva di camminare, ma che non gli impedí di divenire un glorioso e feroce guerriero. Morto forse nell’873, egli guidò i suoi Vichinghi in Anglia per vendicare la morte del padre, ucciso dal re Aelle II di Northumbria. Saxo Grammaticus e Il Racconto dei figli di Ragnar, celebrando la scaltrezza di Iwar, raccontano che il giovane propose al re, in cambio della morte del padre un guidrigildo, ovvero un bene che l’offensore doveva dare all’offeso per riscattarsi dalla sua vendetta.

MINUTISSIME STRISCIOLINE

Moneta in bronzo di Octacilia Severa, moglie di Filippo I (244-249 d.C.), Zecca di Tiro (Fenicia). Al dritto, busto dell’imperatrice; al rovescio, Didone che sovrintende alla costruzione di Cartagine.

Iwar chiese allora ad Aelle, terrorizzato – poiché ben conosceva le spietate rivalse vichinghe –, soltanto tanta terra quanta ne poteva racchiudere una pelle di bue (o di cavallo, a seconda delle fonti letterarie), proposta che subito il re accolse, certo con grande e ingenuo sollievo. Ma Iwar tagliò il pellame in minutissime striscioline, tanto da racchiudere un ampio perimetro di terreno che subito muní e che viene di regola identificato con la città di York. E comunque, il re Aelle non scampò alla vendetta dei figli di Ragnar, che piú tardi lo uccisero. Viene da chiedersi se, nel Medioevo, i letterati del Nord


Miniatura raffigurante Didone che accoglie Enea a Cartagine, con 7 cigni in volo quale omen divino e in fondo Troia distrutta, da un’edizione manoscritta dell’Eneide. 1497-99. Londra, British Library.

Europa fossero consci di attingere, per questo specifico episodio, al patrimonio mitistorico del mondo romano, attribuendo al Vichingo il celebre stratagemma di Didone, che ottenne da re Iarba tanta terra quanta ne rientrasse in una pelle di bue, fondando cosí Cartagine. Piú di mille anni separano Didone da Iwar, ma l’escamotage relativo alla nascita di città per mezzo di una sagace richiesta ha attraversato tutto il mondo antico e medievale, attribuendo a un re vichingo, ovvero quanto di piú «virile» e aggressivo vi sia tra i popoli del Nord, una modalità di fondazione insolita ma legalmente valida, ideata da una donna dell’antichità classica: non per nulla Didone è una virago, colei che agisce come un uomo (Servio, Commento all’Eneide, IV, v. 340). Come già accennato nell’intervento precedente (vedi «Archeo» n. 398, aprile 2018), la città fenicia di Tiro dedica nel III secolo d.C. tre tipi alla

sua gloriosa figlia, fuggiasca in terra straniera e divenuta potente regina di una gloriosa città. La prima emissione raffigura Didone in viaggio, mentre la seconda, seguendo un paradigma di tipo narrativo, la rappresenta mentre assiste alla costruzione di Cartagine (bronzi di Elagabalo e famiglia, Octacilia Severa, Treboniano e Volusiano, Valeriano I e Gallieno).

PIÚ GRANDE DEL VERO Tutti i conii di questi personaggi imperiali adottano la medesima impostazione iconografica: Didone, di maggiori dimensioni rispetto alla scena intera, quasi a sottolinearne la sua eccezionale posizione che poi ne farà una divinità, si rivolge verso un edificio, una sorta di torre o porta in costruzione, sopra il quale vi è un omino al lavoro, mentre un altro, in basso, sta picconando il terreno. La regina indica il lavoratore in basso con uno scettro,

insegna di comando e forse strumento che indica anche la qualifica di sovrintendente agli edifici da innalzare; nell’altro braccio tiene una lancia, abbigliata e in una posizione di tipo divino. In alcuni casi compaiono in alto un murice, la conchiglia dalla quale si produce la porpora, il pregiatissimo colore commercializzato dai Fenici, e a destra la palma, pianta tipica di Cartagine come di Tiro. La leggenda del rovescio riporta abbreviato (COL TYRO METR) il nome «romano» della città, divenuta colonia con ius italicum sotto Settimio Severo (Septimia Tyros Colonia Metropolis Phoenices et aliarum civitatium), oppure piú semplicemente Tyriorum (dei cittadini di Tyro). Quando compare il nome della regina, esso è scritto in greco, forse per riferirsi alla derivazione dell’alfabeto greco da quello fenicio e usato per ribadire la maggior gloria della città di Tiro. (2 – continua)

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Andrea Augenti

A COME ARCHEOLOGIA 10 grandi scoperte per ricostruire la storia Carocci Editore, Roma, 182 pp., ill. b/n 14,00 euro ISBN 978-88-430-8994-9 www.carocci.it

Raccogliendo i testi preparati per una serie radiofonica andata in onda nell’estate scorsa, Andrea Augenti – autore ormai familiare ai lettori di «Archeo» – ha confezionato una sorta di piccolo atlante delle grandi scoperte archeologiche, scegliendone 10, da lui ritenute particolarmente significative. La raccolta spazia nel tempo – dalla preistoria all’età medievale – e nello spazio, poiché i luoghi che sono stati teatro delle imprese raccontate sono distribuiti in tre dei nostri cinque continenti. L’obiettivo 108 a r c h e o

perseguito dall’autore, però, non sono i numeri, né le statistiche, bensí la riaffermazione di un concetto fondamentale: l’archeologia, anche nelle occasioni in cui gli eventi che la vedono protagonista destano grande sensazione, non va intesa come una caccia al tesoro, ma come un passaggio ineludibile nell’ambito di un piú ampio processo di ricostruzione storica (che, del resto, viene evocato già dal sottotitolo del libro). Augenti, insomma, pur consapevole del fatto che quanti si dedicano a scavi e ricognizioni sono da molti considerati come altrettanti epigoni di Indiana Jones, amplia la prospettiva, riconoscendo l’indubbio fascino del lavoro sul campo, ma sottolineando come esso non rappresenti altro che una delle fasi di una piú articolata catena operativa. Una catena in cui, peraltro, l’archeologo è affiancato da una nutrita schiera di specialisti in altre discipline, condizione ormai ritenuta irrinunciabile da chiunque si dedichi allo studio delle antichità. Resta il fatto che, se anche quella che tecnicamente si definisce «unità stratigrafica negativa» può avere la sua rilevanza per comprendere la storia di un contesto, nessuno può negare che imbattersi nel tesoro di Tutankhamon o nei resti della tomba di Childerico – per citare (segue a p. 110)

Tratti da A come archeologia, ecco alcuni dei passaggi piú significativi del capitolo che Andrea Augenti ha dedicato allo scavo della villa romana di Settefinestre. Settecamini, Settebagni, Settebassi… Settefinestre. I nomi di luogo di questo tipo indicano i monumenti antichi, quelli che anche quando non si capiva cosa fossero impressionavano per la mole, e per il numero delle strutture ancora visibili. La località di Settefinestre è in campagna: siamo nella Toscana meridionale, a circa 140 chilometri a nord di Roma, in provincia di Grosseto, vicino ad Ansedonia e presso Orbetello. La città antica piú vicina era Cosa, una colonia fondata dai Romani nel 273 a.C. E qui, a Settefinestre, sono tornati alla luce i resti di una villa romana. Lo scavo di Settefinestre, condotto alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, è molto importante, un vero snodo: un punto di svolta nella storia dell’archeologia italiana e dell’archeologia in generale. Perché? Le ville rurali – i centri dai quali i Romani governavano lo sfruttamento agricolo del territorio – sono

una delle categorie di insediamenti antichi piú studiate, da sempre. Questo perché potevano essere monumentali, quindi riccamente decorate (con colonne, capitelli, mosaici, intarsi di marmo, statue e altro ancora); e perciò, le ville sono state dei molto appetibili oggetti del desiderio da parte di un’archeologia romana come quella in voga fino agli anni SessantaSettanta del secolo scorso, dedita soprattutto alla storia dell’arte, e comunque a ricercare testimonianze del passato ricche e fastose (non solo in Italia: anche altrove, ad esempio in Inghilterra e in Francia). Per forza di cose, quindi, quella delle ville è stata a lungo un’archeologia molto incline a indagare le tracce materiali dei potenti, delle classi dirigenti dell’Antichità; e a fornirci un quadro del passato davvero parziale su tutto, architetture comprese, e questo non va bene. (...) Lo scavo di Settefinestre, invece, è il primo pensato in maniera organica per indagare approfonditamente l’economia legata al sistema delle ville: uno scavo nato da un interesse diverso rispetto a quello prevalente fino ad allora, di tipo soprattutto economico-


sociale. L’attenzione, ora, è rivolta alla ceramica, ai reperti e alle strutture piú umili, che però sono veicoli di importantissime informazioni. (…) I resti della villa di Settefinestre si trovano poco distanti dalla Via Aurelia, in una posizione piuttosto appartata. Secondo Andrea Carandini (l’archeologo che ne ha condotto lo scavo, n.d.r.) la villa somigliava «ad una piccola reggia racchiusa entro le mura di una città». Per una di quelle circostanze fortunose che a volte offre l’archeologia, sappiamo il nome del proprietario: Lucio Sestio, console nel 23 a.C., le cui iniziali sono impresse sulle tegole che coprono i tetti della villa. La data della costruzione è tra il 40 e il 30 a.C., e i Sestii sono noti come proprietari terrieri della zona di Cosa (tra l’altro il padre di Lucio, Paolo, era stato difeso da Cicerone in un processo:

lo conosciamo bene). Stiamo quindi parlando di un’importante famiglia dell’Italia romana. La villa è divisa in settori: è composta da una parte urbana, cioè la residenza del signore (il dominus); una parte rustica, cioè la zona destinata alla servitú; e una parte chiamata fructuaria, cioè la zona destinata alla lavorazione e alla conservazione dei prodotti agricoli. Nella struttura della villa queste zone sono ben distinte tra loro. Tutto intorno: orti e frutteti e, piú oltre, pascoli e bosco, sempre da utilizzare per scopi produttivi. Su un lato c’era un giardino all’italiana, circondato da un muro con torri in miniatura, sull’altro un grande cortile: sarebbero delle allusioni alle inclinazioni del proprietario, «sdoppiato tra il lusso e il guadagno». Quindi: sulla fronte, la villa fornisce l’impressione della residenza fastosa di un ricco possidente; sul retro, invece, le architetture esaltano l’aspetto del Ricostruzione della villa di Settefinestre, vista dall’alto (disegno di Sheila Gibson).

complesso come centro della produzione agricola. Proviamo ad attraversare la villa, compiendo un percorso ideale. Partendo da sud, si entra in un cortile rettangolare sul quale si affacciano la cucina, la dispensa, la cantina, i magazzini, le stalle e gli alloggi degli schiavi. Da questo settore si può accedere al corpo centrale della dimora, la zona padronale, circondata da un loggiato affacciato su corti e giardini. Dopo l’ingresso incontriamo un atrio al cui centro si trova un impluvio, ossia una vasca ornamentale in cui confluiva l’acqua piovana. E qui la musica è già cambiata, perché ora i pavimenti sono a mosaico e l’architettura si fa sempre piú ricercata. Intorno all’atrio si dispongono vari ambienti, tra cui probabilmente quelli del procurator, l’amministratore della villa per conto del proprietario. Ma il cuore del complesso si trova oltre: è il peristilio, cioè un cortile colonnato (sono colonne in mattoni sagomati, coperte da stucchi e con capitelli in pietra) sul quale si affacciano le due stanze dei padroni di casa, i cubiculi: piú grande quello del capofamiglia; piú piccolo, invece, quello di sua moglie. I cubiculi sono decorati: pavimenti a mosaico e pareti rivestite da

affreschi in secondo stile pompeiano. E c’è spazio per una terma, con ambienti riscaldati e vasche; perché la cura del corpo è un valore molto importante per i Romani. Insomma: qui si esibiscono il lusso e il potere, senza mezzi termini. Accanto alla parte urbana, un giardino porticato. Ancora piú a sud: un magazzino, un porcile e gli alloggi degli schiavi, tutti ambienti disposti intorno a un cortile centrale. Nella sua fase originaria la villa è un esempio della villa perfecta teorizzata da Varrone nel suo trattato De agricoltura (I secolo a.C.). Innanzitutto, è ben servita dalle vie di comunicazione: la Via Aurelia, il mare. All’interno, un settore è dedicato all’autoconsumo; ma, al tempo stesso, la produzione della villa è fortemente rivolta verso il mercato esterno, specie quello di Roma. Tutto intorno si coltivano soprattutto vite e ulivo, e dunque la villa è dedita alla produzione di vino e olio: infatti è stato trovato un intero quartiere con i resti di svariati torchi, di un frantoio e di altri impianti destinati a queste attività. Con l’età di Traiano (98-117) la villa cambia proprietario, e la

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due dei casi narrati nel volume – difficilmente lascerebbe indifferente anche il piú pragmatico dei ricercatori. Ecco perché la rassegna proposta da Augenti presenta in larga maggioranza situazioni che appartengono all’eccezionalità di una professione che, nella pratica quotidiana, si confronta con realtà storicamente preziose, ma non sempre altrettanto spettacolari. Stefano Mammini Alberto Friso

LA STRADA DEL NEBO Storia avventurosa di Michele Piccirillo francescano archeologo Edizioni Terra Santa, Milano, 152 pp., ill. col. e b/n 15,00 euro ISBN 978-88-6240-524-9 www.edizioniterrasanta.it

Conobbi Michele Piccirillo nel lontano 1986, in occasione della mostra «I Mosaici di Giordania», da lui stesso promossa a Palazzo Venezia di 110 a r c h e o

Ricostruzione dell’atrio della villa di Settefinestre, (disegno di Maria Rossella Filippi).

sua economia viene riconvertita: ora vi si allevano soprattutto schiavi, sempre piú cari e difficili da trovare sul mercato. A Settefinestre adesso alloggiano circa cento schiavi, tra uomini, donne e bambini (cioè intere famiglie). Oltre agli schiavi, si allevano anche maiali: è stato ritrovato un porcile costruito proprio in quel momento, con ventisette stalle, per un numero di maiali che va da 216 a 432 all’anno. In questa fase vengono aboliti il vigneto e l’uliveto, che non servono piú. Al tempo degli imperatori della dinastia antonina, nel II secolo d.C. inoltrato, l’economia invece va in crisi e la villa viene quasi del tutto abbandonata. Poi, nel periodo della famiglia dei Severi (cioè nei primi decenni del III secolo), risulta in rovina, quindi definitivamente distrutta all’epoca di Aureliano (270 circa). Tra i ruderi abitano solo pochi pastori, malati di talassemia. E poi, probabilmente, dei banditi, che depredano i viaggiatori che passano lungo la Via Aurelia:

sembra dimostrarlo, forse, un gioiello d’oro trovato tra le ossa di uno di loro.

(che si trovano piú in alto) fino ad arrivare a quelli piú antichi, i piú bassi di tutti, quelli dei livelli piú profondi. E quindi, alla fine, è un po’ come il gioco dello shangai: a mano a mano, ogni bastoncino (ogni strato) va tolto quando è il suo turno, quando è libero perché non ne ha nessun altro al di sopra.

(…) (...) Settefinestre è uno scavo rivoluzionario: porta al centro del discorso l’archeologia della produzione e, piú in generale, l’economia, affrontata con la lente di ingrandimento dell’indagine archeologica. Con questo scavo in Italia viene definitivamente alla ribalta il metodo stratigrafico, in un contesto di età classica. E cos’è il metodo stratigrafico? Seguire questa procedura significa, in poche parole, smontare il sottosuolo negli elementi che lo costituiscono, uno per uno: strati, fosse, muri e altro ancora. Ognuno di questi elementi viene individuato, numerato, documentato con foto, disegni e schede; e poi ciascuno viene scavato, nell’ordine inverso a quello in cui si sono accumulati l’uno sull’altro. Sí, perché il metodo stratigrafico, per ovvi motivi, prevede che lo scavo avvenga partendo dagli elementi piú recenti

Lo scavo di Settefinestre è stato fatto alla ricerca di un contesto antico, e tutta l’operazione è ispirata da uno sguardo di tipo contestuale: uno sguardo che abbraccia il monumento e l’area circostante, l’interazione tra natura e cultura, l’impronta dell’uomo che modifica il paesaggio. E per questo, già durante i lavori viene progettata e avviata la ricognizione, cioè l’esplorazione del territorio, con particolare attenzione alle tracce archeologiche, anche le piú minime. Raccogliere e interpretare i resti in superficie nei campi, quelli che rimangono dopo le arature: questo è la ricognizione. (...) L’archeologo è chiamato a individuare e decifrare le tracce rimaste sul terreno, proprio come Sherlock Holmes fa con gli indizi di un crimine.



Roma. L’esposizione rivelò, per la prima volta al grande pubblico, i risultati di anni di ricerche condotte dalla missione archeologica dello Studium Biblicum Francescanum, diretta dallo stesso Piccirillo, nelle terre bibliche della Giordania, e che avevano portato alla luce un vastissimo numero di pavimenti musivi, databili tra l’epoca romana e i primi secoli del periodo musulmano. Padre Piccirillo mi colpí per il suo piglio operativo, accompagnato da una gentile e immediata disponibilità. Il catalogo della mostra, anch’esso curato e in ampia parte scritto dallo stesso Piccirillo, rappresenta tuttora una pietra miliare per gli studi delle antichità giordane. Nel 2008 il frate francescano, divenuto ormai studioso di fama internazionale, muore, all’età di 63 anni. E oggi, a distanza di dieci anni, il giornalista e scrittore Alberto Friso ha tracciato un ritratto «a mosaico» (quindici capitoli concepiti come quindici tessere diverse di un mosaico, ognuna di diversa misura e colorazione) di questo infaticabile e carismatico archeologo: per coloro che abbiano frequentato i percorsi battuti (e talvolta svelati) da padre Piccirillo, il libro di Friso rappresenta una piacevole rievocazione di luoghi e atmosfere; 112 a r c h e o

per tutti gli altri, invece, la lettura si rivelerà come il racconto di un’epoca di grande passione intellettuale e esistenziale, capeggiata da un uomo davvero fuori dal comune: «appassionato, ruvido ed esigente» lo definisce l’autore, ma subito aggiunge: «con un’abbondante dose di ironia». È davvero una fortuna che il ricordo di Michele Piccirillo, della sua intensa e avventurosa esistenza, abbia ricevuto oggi questo rinnovato omaggio. Andreas M. Steiner Annalisa Coppolaro Nowell, Anthony Tuck, Göran Söderberg

L’AVVENTURA ETRUSCA DI MURLO 50 anni di scavi a Poggio Civitate ARA edizioni, Siena, 158 pp., ill. col. e b/n 20,00 euro ISBN 9788898816316 www.cooperativaara.it

Frutto della collaborazione tra una giornalista, Annalisa Coppolaro Nowell, un archeologo, Anthony Tuck, e un fotografo, Göran Söderberg,

il volume rievoca una delle avventure dell’archeologia degli ultimi cinquant’anni, ovvero la scoperta di un palazzo dell’aristocrazia etrusca sull’altura di Poggio Civitate a Murlo, nei dintorni di Siena. Le ricerche ebbero inizio nel 1966 sotto la direzione dell’archeologo statunitense Kyle M. Phillips (Bryn Mawr College) e nel libro si raccontano le campagne di scavo che si sono succedute sino a oggi. Esse hanno portato al riconoscimento di un insediamento etrusco riunito intorno a un palazzo, di cui sono state individuate con certezza almeno due fasi: una risalente agli ultimi decenni del VII secolo a.C. (periodo orientalizzante), l’altra sviluppatasi durante il VI secolo a.C. Alla fine dello stesso secolo, negli anni 530-520 a.C., l’intero complesso venne distrutto e abbandonato. Sempre nel libro, scritto in lingua italiana e inglese, viene evidenziato come la vita nel palazzo fosse governata da una gens (una famiglia aristocratica) in grado di esercitare un controllo su un’area abbastanza vasta, sino a quando non si scontrò con la polis (città-stato) di Chiusi. Il benessere dell’insediamento era stato assicurato dalla posizione geografica essendo sorto lungo un

itinerario che collegava i centri etruschi di Roselle e Vetulonia con la Val di Chiana e quindi la costa tirrenica con l’Etruria interna. Un ruolo importante ebbe anche lo sfruttamento delle vicine miniere di Casenovole e Poggio Abbú. Un giusto rilievo viene anche dato ai singoli protagonisti delle ricerche e all’intera comunità locale che ha seguito da vicino – con interesse e partecipazione – i lavori che hanno portato alla riscoperta del suo passato piú lontano. Giuseppe M. Della Fina Gilles Sauron

LA STORIA VEGETALIZZATA Il duplice messaggio dell’Ara Pacis Jaca Book, Milano, 256 pp. + 45 ill. b/n 40,00 euro ISBN 978-88-16-41400-6 www.jacabook.it

A poco meno di vent’anni dalla sua prima pubblicazione, Jaca Book propone la traduzione italiana della versione aggiornata


e rivista di questo denso saggio di Gilles Sauron. L’opera, di taglio specialistico, affronta un tema che potrebbe all’apparenza sembrare minore o marginale e che invece, come l’autore illustra in maniera puntuale e sistematica nei vari capitoli della sua trattazione, si rivela di particolare rilevanza, quello della decorazione a motivi vegetali e dei girali d’acanto in particolare. Un tema adottato per ampie porzioni della decorazione dell’Ara Pacis e che divenne uno dei canoni dell’arte augustea. Secondo Sauron, questa sintassi non va dunque letta come un semplice espediente ornamentale, ma cela implicazioni simboliche ben piú profonde e che, nella sua ipotesi, furono in larga parte frutto dello scambio intellettuale fra Augusto e Virgilio. E la fortuna di cui il modello godette non soltanto nelle epoche immediatamente successive ma anche a distanza di molto tempo, come per esempio nel Rinascimento, sarebbe una delle conferme di come simili composizioni rispondessero a esigenze che andavano ben oltre il mero gusto estetico. S. M.

Ricerche 2010-2016 Edipuglia, Bari, 370 pp., ill. b/n e col. 70,00 euro ISBN 978-88-7228-783-5 www.edipuglia.it

Il volume dà conto delle nuove ricerche che hanno interessato la villa romana scoperta in località Collesecco, nel territorio del Comune di Cottanello (Rieti), e che era stata oggetto di indagini fra il 1969 e il 1973. Le nuove campagne hanno notevolmente arricchito il bagaglio dei dati utili alla ricostruzione della storia del complesso, anche grazie al riesame sistematico della documentazione prodotta in occasione dei primi scavi. La residenza

si inserisce nel piú ampio fenomeno della diffusione delle villae nella Sabina romana e la sua frequentazione conobbe tre fasi principali, comprese fra il III secolo a.C. e il VI secolo d.C. Fra le acquisizioni piú significative, vi è la conferma che la dimora dovette con ogni probabilità appartenere, com’era già stato ipotizzato in precedenza, agli Aurelii Cottae, una famiglia aristocratica romana di grande prestigio, dalla quale ha preso peraltro nome lo stesso paese di Cottanello. Il volume presenta una rassegna sistematica dei dati, integrata da contributi che inquadrano il sito nel piú

ampio contesto storico e territoriale. Né mancano alcune significative considerazioni sulle potenzialità della villa dal punto di vista turistico, auspicando che possano farsi piú incisivi gli interventi volti alla sua valorizzazione e alla sua fruizione. S. M.

Patrizio Pensabene e Carla Sfameni

LA VILLA ROMANA DI COTTANELLO a r c h e o 113



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