Archeo n. 400, Giugno 2018

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ARCHEO 400 GIUGNO MOSAICI DI SPELLO

STROFADI UN MIRAGGIO SUL MARE

PORTO DI UR

UMBRIA

ISOLE STROFADI

I MOSAICI DI SPELLO IRAQ

RISERVA DI CAPO GALLO SPECIALE CANALE DI SUEZ

Mens. Anno XXXIV n. 400 giugno 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ECCO IL PORTO DELL’ANTICA UR SICILIA

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IL SOGNO DEL

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SESOSTRI E LE ORIGINI DEL CANALE DI SUEZ

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GRECIA

IN EDICOLA L’8 GIUGNO 2018

2018

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ARCHEO



EDITORIALE

I NOSTRI 400 COLPI I lettori mi perdoneranno se dedico queste righe a un evento non propriamente «archeologico» ma quasi: mi riferisco – come avrete intuito – al raggiungimento del 400esimo numero dalla nostra rivista. Non lo consideriamo, beninteso, un traguardo (termine che – in gergo sportivo e in senso stretto – implicherebbe un punto d’arrivo), quanto, piuttosto – e rimaniamo in ambito sportivo –, un valico. Fermiamoci, dunque, prendiamo respiro e guardiamoci indietro, prima di riprendere la corsa. E ci accorgeremo, insieme ai nostri lettori piú fedeli, che, in questi ultimi 33 anni, abbiamo raccontato la storia. E non soltanto quella «antica», come vorrebbe il titolo della testata, ma anche quella «contemporanea», per la parte nient’affatto irrilevante che l’archeologia vi ha svolto: ricordiamo i titoli di apertura dei giornali susseguitisi da quando nel Vicino e Medio Oriente si è riaccesa la miccia della guerra, scandita dalla distruzione di alcuni, leggendari, siti storici; pensiamo alla drammatica – e anacronistica – «presa in ostaggio» di un antico luogo di commercio, arte e civiltà, quale era la compianta città carovaniera di Palmira. Mai il passato è stato di tanta infausta attualità come in questi anni… A una lettura diversa – positiva, operativa e costruttiva – si prestano, invece, le tante storie di valorizzazione che abbiamo raccontato, mese dopo mese: le scoperte, i restauri, i musei, le mostre grandi e piccole, i progetti urbanistici e architettonici finalizzati a integrare – e spesso a far emergere per la prima volta – la memoria storica all’interno della nostra contemporanea quotidianità. Che cosa ci perderemmo – vale davvero la pena chiederselo – se non potessimo avvalerci del lavoro di quegli indagatori del nostro passato/presente che sono… gli archeologi? A loro dunque, alla schiera di donne e uomini che lavorano, perlopiú lontani dai riflettori e gratificati da rari, rarissimi riconoscimenti (e che spesso, e paradossalmente, vengono additati quali ingombranti e inutili ostacoli al moderno vivere mentre ci regalano grandi e, soprattutto, non effimere, emozioni), a loro vorrei rivolgere, insieme alla promessa che continueremo a essere la loro «voce», il nostro ringraziamento. Un ringraziamento caloroso che, in occasione di questa breve pausa di riflessione, estendiamo a tutti i nostri lettori. I quali – ne siamo piú che convinti – alla storia scritta dagli archeologi continueranno ad appassionarsi. Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE

I nostri 400 colpi

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di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

SCOPERTE Il popolamento dell’America precolombiana ebbe tempi e modi diversi da quelli fin qui ipotizzati: è quanto provano recenti ricerche condotte nell’Amazzonia meridionale

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Il Teatro Grande di Pompei torna ad animarsi, proponendo un fitto calendario di rappresentazioni, scelte fra i capolavori della drammaturgia antica 12 A TUTTO CAMPO Una mostra allestita presso il Museo Archeologico e d’Arte della Maremma di Grosseto ribadisce

la possibilità di coniugare con successo le testimonianze dell’antico con l’arte contemporanea 16

SCOPERTE

PAROLA D’ARCHEOLOGO Gli archeologi del terzo millennio devono saper raccontare: come spiega Giuliano Volpe, è questa la lezione scaturita da un recente incontro svoltosi a Foggia 22

REPORTAGE

DA ATENE

Tutti in rete

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Un porto fra le acque di Sumer

Come un miraggio nel mare

58

MUSEI

SICILIA

di Stefano Mammini

58

di Fabrizio Polacco

di Valentina Di Napoli

Le stagioni di Spello 34

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di Franco D’Agostino e Licia Romano

Preistoria a Capo Gallo

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di Giuseppina Battaglia e Carlo Casi

68

34

In copertina testa in granito del faraone Sesostri III, da Karnak. XII dinastia, 1881-1861 a.C. Luxor, Museo d’Arte Antica.

Comitato Scientifico Internazionale Anno XXXIV, n. 400 - giugno 2018 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale Hanno collaborato a questo numero: Giuseppina Battaglia è archeologa della Soprintendenza BB.CC.AA. di Palermo. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Julien Cuny è archeologo. Franco D’Agostino è professore aggregato di assiriologia presso «Sapienza» Università di Roma. Valentina Di Napoli è archeologa. Daniela Fuganti è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco Archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Margaréta Musilová è curatore della mostra «I confini dell’Impero Romano-Limes Danubiano, da Traiano a Marco Aurelio». Fabrizio Polacco è coordinatore nazionale del «PRISMA». Licia Romano è condirettore della Missione Archeologica italo-irachena ad Abu Tbeirah. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Mara Sternini è professore associato di archeologia classica all’Università degli Studi di Siena. Lucrezia Ungaro è curatore archeologo della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali presso i Mercati di TraianoMuseo dei Fori Imperiali. Christiane Ziegler è direttore onorario della sezione di antichità egiziane del Museo del Louvre. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova.


TECNOLOGIA Le dighe/1

La lezione dei castori

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di Flavio Russo

80 Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO

Nel segno dell’inclusione 102 di Romolo A. Staccioli

QUANDO L’ANTICA ROMA...

...divenne una città invivibile 106 di Romolo A. Staccioli

86 SPECIALE Canale di Suez

Quel sogno che attraversa il deserto

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di Christiane Ziegler, con contributi di Julien Cuny e Daniela Fuganti

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

L’eterna fedeltà di Sicheo

110

di Francesca Ceci

LIBRI

Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: Album: copertina (primo piano) e pp. 93, 111; AKG Images: p. 62; Leemage: pp. 63 (alto), 80/81, 98 – Cortesia Ufficio Stampa IMA, Parigi: DR: copertina (secondo piano; e pp. 94/95); Engie: pp. 86/87; RMN-Grand Palais (domaine de Compiègne)/Daniel Arnaudet: pp. 88/89; BNF/Bibliothèque de l’Arsenal: p. 90; GGb: p. 91; Musée du Louvre, Dist. RMN-Grand Palais/Georges Poncet: p. 92 (alto); Musée du Louvre, Dist. RMN-Grand Palais/Christian Decamps: pp. 95, 96; RMN-Grand Palais Musée du Louvre/Franck Raux: p. 97 (basso); Archives nationales du monde du travail (Roubaix): pp. 100, 101 (centro); Souvenir de Ferdinand de Lesseps et du Canal de Suez/Lebas Photographie Paris: p. 101 (alto) – Cortesia University of Exeter (Regno Unito): José Iriarte: pp. 8 (basso), 9-10 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 12-13 – Cortesia CNRS (Parigi, Francia): Fernando Ramirez Rozzi: p. 14 – Cortesia degli autori: pp. 17, 20, 22-23, 80, 82 (alto), 110 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 18, 24, 34/35, 37, 40-41, 42 (alto e basso), 43 – Stefano Mammini: pp. 36 (basso), 36/37, 38-39, 42 (centro) – Cortesia Missione Archeologica italo-irachena ad Abu Tbeirah: pp. 46-47, 48/49, 49, 50-57 – Fabrizio Polacco: pp. 58/59, 60 (alto), 61, 63 (basso), 64, 64/65, 66-67 – Cortesia Jeff Schmaltz, MODIS Land Rapid Response Team at NASA GSFC: p. 59 – Doc. red.: pp. 60 (basso), 65, 76/77, 85/86, 97 (alto), 99, 102, 103 (alto), 104, 106-109 – Shutterstock: pp. 68-71, 72 (alto), 73, 78 – Giuseppina Battaglia: pp. 74-75 – DeA Picture Library: p. 83 (basso); Aeronike: p. 77 – Flavio Russo: pp. 82 (basso), 83 (alto), 84 (alto e basso), 86 – Studio Inklink, Firenze: p. 103 (basso) – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 21, 36, 48, 72, 92. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Press-Di Abbonamenti SPA c/o CMP BRESCIA Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia BS L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano




n otiz iari o SCOPERTE America Latina

IL NUOVO VOLTO DELL’AMAZZONIA PRECOLOMBIANA

R

icognizioni condotte nei territori che si estendono in corrispondenza del margine meridionale dell’Amazzonia e, in particolare, nell’area del bacino superiore del fiume Tapajós, gettano nuova luce sul popolamento di questa regione del continente sudamericano. Fino a tempi recenti, si riteneva che le genti precolombiane si fossero concentrate in prevalenza nelle grandi piane alluvionali, mentre i dati ora acquisiti dimostrano che gli insediamenti sorsero, numerosi, anche in altre zone, come, per esempio, quella delle sorgenti dello stesso Tapajós. Qui, infatti, sono

A destra: l’area dell’Amazzonia oggetto delle ricerche sul popolamento della regione in epoca precolombiana. Il riquadro indica la zona dell’alto corso del fiume Tapajós (UTB).

state individuate tracce di villaggi fortificati, occupati fra il 1200 e il 1500 d.C., che si pensa costituiscano la testimonianza di un fenomeno che potrebbe aver interessato una porzione molto vasta dell’Amazzonia meridionale, estesa per oltre 400 000 kmq. L’ipotesi avanzata dagli studiosi che hanno condotto le ricerche è che gli interfluvi e i corsi d’acqua secondari avessero assicurato la sussistenza di comunità assai popolose, suggerendo, dunque, una riconsiderazione del ruolo svolto da questi territori nello sviluppo culturale delle civiltà precolombiane. Tracce di insediamenti con diverse caratteristiche strutturali sono state rilevate dalle savane di Llanos de Moxos, in Bolivia, fino alle foreste stagionali dell’Alto Xingu, nel Mato Grosso (Brasile), con attestazioni anche nelle foreste umide dello

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Stato brasiliano di Acre. Le ricognizioni nell’area del bacino superiore del Tapajós hanno portato, in particolare, al censimento di 81 siti precolombiani, in alcuni dei quali è stata osservata la compresenza di opere di vario tipo, per un totale di oltre 100 strutture. Gli insediamenti risultano di preferenza distribuiti in zone pianeggianti, punteggiate da modesti rilievi collinari di altezza compresa fra i 100 e i 300 m. Gli abitati erano circondati da fossati scavati nel terreno aventi un diametro variabile (in alcuni casi, fino a piú di 350 m), al cui interno si distribuivano, per esempio, tumuli e strade, e per i quali si sceglievano posizioni dominanti sui corsi d’acqua. Le trincee piú piccole, il cui diametro si aggira in media sui 30 m, sono attestate soprattutto fra i fiumi Juruena e Aripuana, nel settore occidentale dell’area

In alto: un tratto del fossato che cingeva uno degli insediamenti localizzati grazie alle ricognizioni. Nella pagina accanto: foto aerea del sito che, a oggi, ha rivelato i fossati

piú grandi: il loro diametro oscilla fra i 330 e i 370 m. In basso: foto aerea di un villaggio sorto sulla sommità di una collinetta e circondato da un fossato circolare.

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n otiz iario L’immagine di un altro grande fossato individuato nel corso delle ricognizioni condotte nell’Amazzonia meridionale, fra Brasile e Bolivia. Le ricerche hanno portato al censimento di 81 nuovi insediamenti, occupati fra il 1200 e il 1500 d.C. indagata. Questi «villaggi trincerati» (per usare una definizione tipica del Neolitico italiano) di dimensioni piú contenute equivalgono a un terzo del totale dei siti censiti e potevano essere unità abitative isolate, oppure far parte di agglomerati piú vasti. I fossati presentano spesso un terrapieno esterno, che mostra

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talvolta interruzioni forse interpretabili come ingressi. Spesso, nel caso degli abitati piú estesi, coesistono piú tipologie di apprestamenti: un fenomeno che deriva verosimilmente da una lunga frequentazione, con ripetuti interventi di costruzione e ristrutturazione. Per acquisire ulteriori dati, uno dei siti è stato

inoltre fatto oggetto di un saggio di scavo, che ha restituito materiale ceramico – che presenta una ricca gamma di motivi decorativi – e consistenti resti di carbone. Entrambi gli elementi suggeriscono una permanenza stabile e prolungata della comunità che lí si era insediata. Stefano Mammini



ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

INVITO A TEATRO CON LA STAGIONE ESTIVA, IL PIÚ GRANDE EDIFICIO PER SPETTACOLI DI POMPEI RITROVA LA SUA DESTINAZIONE ORIGINARIA, OSPITANDO UN CARTELLONE RICCO DI APPUNTAMENTI. TORNANO COSÍ IN SCENA TRAME E PERSONAGGI CHE HANNO SEGNATO LA STORIA DELLA DRAMMATURGIA

O

gni estate Pompei offre al suo pubblico la possibilità di assistere a rappresentazioni all’interno dei suoi antichi edifici da spettacolo. Il monumentale Quartiere dei Teatri si estende a ridosso del costone meridionale del pianoro, un tempo dominato dal Tempio Dorico (Foro Triangolare), come in un impianto scenografico tipico delle città

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In questa pagina: due immagini del Teatro Grande di Pompei nella stagione estiva, quando la sua scena e le sue gradinate tornano ad animarsi come nell’antichità.


Il Teatro Grande di Pompei, capace di accogliere 5000 spettatori. ellenistiche che vedeva la sequenza santuario-teatro posti a quote diverse. Il Quartiere comprende il grande teatro scoperto con annesso quadriportico – usato come un moderno foyer – e un altro coperto, piú piccolo (Odeion). Il teatro di Pompei è fra i piú antichi del mondo romano: edificato nel II secolo a.C., sfrutta, come quelli greci, il pendio naturale per la costruzione delle gradinate distinte in tre zone, di cui quella inferiore riservata alle autorità e ai cittadini importanti (ima cavea). Comodi gradini accoglievano sedie (bisellia) per gli aristocratici elegantemente vestiti «per vedere» ma anche «per farsi vedere» dagli altri spettatori. La parte centrale (media cavea) era probabilmente destinata ad altre personalità e, forse, ai rappresentanti delle corporazioni artigiane. Al centro della fila piú bassa di sedili, ricordato da una inscrizione di bronzo, c’era il posto riservato a Marco Olconio Rufo, facoltoso cittadino di Pompei, che aveva contribuito a restaurare e ampliare il teatro intorno al 3 a.C. In quella occasione i lavori furono diretti dall’architetto M. Artorius, come ci informa l’iscrizione presso l’accesso orientale dell’orchestra. Nei settori superiori della cavea si

distribuiva il resto del pubblico. Un corridoio anulare separava la cavea inferiore da quella superiore (summa cavea): nella parte piú elevata prendevano generalmente posto le donne. Nella sua ultima configurazione, il teatro poteva accogliere circa 5000 spettatori.

SCENOGRAFIE DIPINTE L’ingresso era gratuito e pertanto le persone andavano spesso a occupare i posti a sedere molte ore prima degli spettacoli. Alle spalle del palcoscenico, la scena aveva due ordini architettonici movimentati da absidi, nicchie, colonne e statue, come nei migliori teatri ellenistici. Affascinanti dovevano essere le scenografie dipinte, mosse da macchinari che offrivano agli spettacoli effetti suggestivi ed emotivi. A differenza di quelli moderni, il sipario si abbassava all’inizio e si alzava alla fine dello spettacolo. Il «cartellone teatrale» pompeiano era dipinto sui muri delle strade o annunciato in città da appositi araldi a servizio degli organizzatori; anche i magistrati in carica (gli edili, competenti agli spettacoli pubblici), in qualità di finanziatori, avevano tutto l’interesse a sostenere gli eventi a fini propagandistici.

Nel teatro si rappresentavano sia tragedie greche che commedie ispirate a fatti politici o della quotidianità, come appare rappresentato negli affreschi della Casa del Centenario, e fra gli autori piú apprezzati dovevano esserci l’ateniese Menandro, ritratto nell’omonima casa prossima al teatro, e i romani Plauto e Terenzio. Non mancavano poi i mimi e i pantomimi, derivati dalla commedia. L’archimimo Caius Norbanus Sorex, talmente popolare da girare a braccetto con il dittatore Silla, si è piú volte esibito nel teatro, e i magistrati pompeiani posero addirittura il suo ritratto in bronzo sia nel vicino Tempio di Iside che nell’edificio di Eumachia del Foro. Fra le rappresentazioni di maggior successo fra i cittadini erano certamente le fabulae Atellane, delle vere e proprie farse popolari in lingua osca, nate proprio in Campania e che prevedevano dei «siparietti» su trame scritte ma con un’ampia libertà d’improvvisazione, a seconda della bravura dell’attore. Praticamente una commedia dell’arte ante litteram. Caratterizzavano le Atellane personaggi in costume e in maschera, come i divertenti e ingenui Macco, Buccone, Pappo, Dosseno o Manduco. A Pompei è stato ritrovato un interessante gruppo di modelli di maschere in gesso usati per ricavare esemplari da scena, uno dei quali raffigura uno dei personaggi comici della farsa atellana, Buccus, distinto da un grosso naso adunco simile alla moderna maschera di Pulcinella. Anche quest’anno, Pompei ospita un programma di drammaturgia antica, Pompeii Theatrum Mundi, curato dal Teatro Stabile di Napoli, con testi riproposti al pubblico nell’affascinante atmosfera del Teatro Grande. Per notizie e aggiornamenti, pagina Facebook Pompeii - Parco Archeologico.

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n otiz iario

SCOPERTE Francia

APPRENDISTA CHIRURGO O APPRENDISTA STREGONE?

S

ituato a una quarantina di chilometri dalla costa atlantica, l’insediamento neolitico di Champ-Durand (Vandea, Francia) si trovava ai margini delle paludi del Poitou ed era protetto da un triplice fossato. Nel III millennio a.C., costituiva uno dei centri piú importanti della rete di scambi imperniata sulla produzione del sale ed era anche sede di un’intensa attività di macellazione del bestiame. Tra il 1975 e il 1985 furono condotte ripetute campagne di scavo nei fossati, che restituirono una quantità considerevole di resti faunistici. Le tracce di tagli e di combustione osservate su ossa di bovini, maiali, pecore e capre provavano che queste specie rappresentavano altrettante componenti essenziali della dieta alimentare. E l’analisi statistica dei reperti confermava che, al pari di altri villaggi neolitici della regione, anche a Champ-Durand la specie piú rappresentata era il Bos taurus, con il 54% del campione. Fin dai primi studi, l’attenzione dei ricercatori si era concentrata sul

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A destra: il foro da trapanazione rilevato sul cranio di bovino da Champ-Durand messo a confronto con analoghi interventi eseguiti su crani umani, provenienti da altri siti neolitici francesi. In basso: veduta esterna e interna del cranio trapanato.

teschio quasi completo di uno di questi bovini, che mostrava un foro nella sua parte frontale. La lesione era stata inizialmente attribuita allo scontro con un altro

animale, ma osservazioni piú approfondite avevano suggerito che fosse invece l’esito di un intervento umano. Ulteriori esami hanno definitivamente accertato che il foro è frutto di una trapanazione. L’animale, dunque, fu sottoposto a un vero e proprio intervento e se ciò fosse avvenuto quando era ancora in vita, e dunque per curarlo da una qualche patologia, il cranio di Champ-Durand sarebbe la prova del piú antico intervento chirurgico veterinario a oggi noto. In alternativa, si può pensare che la trapanazione sia stata praticata quando la bestia era già morta, forse per acquisire maggiore destrezza in un’operazione che veniva se necessario condotta sull’uomo o forse perché all’azione veniva attribuito un valore rituale. S. M.



A TUTTO CAMPO Mara Sternini

SÍ ALLA CONTAMINAZIONE, MA CON GIUDIZIO I COMMENTI LASCIATI DAI VISITATORI DELLA MOSTRA «FOREVER NEVER COMES», RECENTEMENTE ALLESTITA A GROSSETO, SUGGERISCONO QUALCHE RIFLESSIONE SULLE OPERAZIONI CHE PROPONGONO IL DIALOGO FRA L’ARCHEOLOGIA E L’ARTE CONTEMPORANEA

D

al 26 agosto 2017 al 26 gennaio 2018 Grosseto ha accolto una interessante mostra, «Forever never comes», titolo che potremmo tradurre con «Sempre non viene mai». Curata da Lapo Simeoni, artista di origini grossetane, si proponeva di mescolare archeologia e arte contemporanea. Le sale del Museo Archeologico e d’Arte della Maremma (MAAM) hanno ospitato opere e installazioni di artisti di varia formazione, tutte riconducibili al tema del tempo e del suo scorrere. Altre installazioni erano montate nel sito archeologico di Roselle, tra le rovine della città fondata dagli Etruschi e poi conquistata dai Romani nel 294 a.C. L’opera che forse rappresenta meglio lo spirito della mostra è un arazzo di Alighiero Boetti (unico artista non vivente presente nella rassegna) sul quale si legge la frase «Dare tempo al tempo», che in questo contesto può essere letta come una sorta di invito a metabolizzare lentamente le contaminazioni proposte, non sempre facili da accettare.

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Gli artisti coinvolti, emergenti e affermati a livello nazionale e internazionale, hanno elaborato i loro progetti dopo aver preso visione degli spazi e degli oggetti esposti nel museo, cercando quindi di pensare un’opera d’arte in base al contesto in cui doveva essere inserita. Non si tratta, quindi, di una semplice giustapposizione di antico e moderno. Tutte le opere sono state pensate e realizzate per adattarsi a quegli spazi e per dialogare con le strutture e gli oggetti presenti, che sono strettamente legati alla storia di quel territorio.

UN PROGETTO AUDACE Dal momento che le collezioni permanenti del MAAM sono presentate secondo un criterio cronologico, che si sviluppa nei tre piani dell’edificio in cui è ospitato, la mostra è stata allestita seguendo parallelamente questo criterio, cosí da sottolineare i punti di contatto tra antico e contemporaneo. Il progetto è stato sicuramente audace, non tanto per l’idea in sé – che non è nuova –, ma per il contesto in cui è stato realizzato, un

museo di provincia in un territorio non immediatamente ricettivo rispetto a proposte culturali «inconsuete». A manifestazione conclusa, si possono tirare le somme e si può procedere a un primo bilancio dell’operazione; a questo proposito sono molto utili i commenti lasciati dai visitatori della mostra sul libro delle firme, come sottolinea la direttrice del MAAM, Mariagrazia Celuzza, nell’introduzione al catalogo: commenti che, oscillando tra l’entusiasmo e il deciso rifiuto dell’operazione, indicano comunque un forte coinvolgimento. Sicuramente la mostra è stata un’operazione culturale riuscita, perché è stata pensata nel rispetto della storia e del tempo; le opere contemporanee non si sono sovrapposte ai reperti archeologici nascondendoli, ma si sono inserite tra le pieghe spazio-temporali preesistenti, convivendo nel reciproco rispetto, quando non addirittura instaurando una sorta di richiami tra antico e contemporaneo come nella sala 11, dove l’installazione di Philip Topolovac Celestial Debris ha


creato un suggestivo collegamento con i ritratti della famiglia imperiale giulio-claudia, rinvenuti nell’Augusteo di Roselle. Non si è trattato dello sfruttamento di beni culturali a scopi promozionali, come è accaduto di recente alla Galleria dell’Accademia di Firenze, dove nel gennaio scorso il Lanificio Luigi Ricceri ha organizzato un evento che ha suscitato qualche polemica perché prevedeva un’installazione, ideata da Felice Limosani, che ha utilizzato il David di

Michelangelo come superficie su cui proiettare le trame dei tessuti prodotti dalla suddetta ditta. Nel caso della mostra del MAAM il visitatore non aveva mai la sensazione di trovarsi altrove, perché il museo archeologico, con la sua esposizione permanente, era

sempre il protagonista principale, solo che in quell’occasione veniva arricchito da un’ulteriore chiave di lettura. Una contaminazione, quindi, decisamente riuscita, perché pensata e realizzata rispettando il genius loci di quel museo e di quel territorio.

Après le déluge, le Temps..., installazione realizzata dal progetto artistico Duepernove (Francesco CapassoAnnamaria Natale), nell’area archeologica di Roselle per la mostra «Forever neves comes».

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n otiz iario

MOSTRE Ferrara

TESORI DALLA «CITTÀ GRECA»

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ondata dagli Etruschi intorno al 540 a.C. come testa di ponte dell’Etruria Padana per i commerci nell’Adriatico, la città di Spina fu certamente il principale partner commerciale di Atene in Occidente. Già all’indomani della fondazione, infatti, Spina divenne in breve tempo uno dei maggiori scali commerciali e fu frequentata da gruppi sempre piú numerosi di mercanti greci, che vi si recavano per le loro transazioni. Molti, soprattutto dal V secolo a.C., scelsero anche di stabilirvisi e in questo modo si venne a creare quella popolazione mista che alimentò la fama di «città greca» di Spina. Attraverso questi contatti, oltre alle persone, giunsero nel porto manufatti e prodotti della Grecia, a cominciare dalle raffinate produzioni di ceramica attica a figure nere. Da questa realtà è nata

l’idea della mostra allestita presso il Museo Archeologico Nazionale di Ferrara, che presenta al pubblico, in molti casi per la prima volta, la piú antica ceramica attica importata dal neonato emporio deltizio. Il percorso espositivo si articola in due sale, nelle quali si possono ammirare diversi esemplari di vasi attribuiti ai pittori della tecnica a figure nere e databili tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C. I materiali sono presentati secondo una suddivisione tematica che va dal banchetto al culto di Dioniso e dalla mitologia al tema della guerra. Infine, ampio spazio è In alto: alabastron (unguentario) con l’immagine di una sfinge. A destra: un particolare dell’allestimento della mostra. In basso: particolare di una brocca raffigurante un satiro.

dedicato alla tecnica di produzione della ceramica, dalla preparazione dell’impasto fino alla cottura del vaso, e alle problematiche della circolazione di questa classe di manufatti nell’Etruria Padana. (red.)

DOVE E QUANDO «L’opera al nero: la ceramica attica alle origini di Spina» Ferrara, Museo Archeologico Nazionale fino al 5 novembre Orario ma-do, 9,30-17,00; chiuso il lunedí Info tel. 0532 66299; e-mail: pm-ero-archeologico-fe@ beniculturali.it; www.archeoferrara.beniculturali.it

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n otiz iario

MOSTRE Roma

STORIE DI CONFINE

I

l grande successo della mostra «Traiano. Costruire l’impero, creare l’Europa», ospitata nel complesso museale dei Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali (vedi «Archeo» n. 395, gennaio 2018), ha suscitato un vivo interesse anche per i confini dell’impero. Sotto la spinta delle recenti scoperte lungo il limes romano, l’Istituto Municipale per la Tutela dei Beni (MUOP) di Bratislava ha cosí voluto organizzare una seconda esposizione, «I Confini dell’Impero Romano. Limes Danubiano», che prenderà il via, nella stessa sede, il 5 luglio prossimo. Nell’anno che l’Europa dedica al Patrimonio Culturale e che segna il 25° anniversario della nascita della Repubblica Slovacca, è stato allestito, nelle tabernae sulla via Biberatica, un percorso espositivo che illustra i materiali provenienti

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A destra: decorazione parietale raffigurante il mito di Dedalo e Icaro, da Gerulata (oggi Rusovce, presso Bratislava). In basso: resti dell’accampamento romano di Iža.

dai siti piú significativi che si trovano ai confini tra l’impero romano e l’odierno territorio slovacco. Fino al 25 ottobre i visitatori avranno quindi modo di conoscere alcune zone dell’impero al tempo di Traiano, finora note solo dalle fonti antiche e topografiche. Supporti multimediali mostreranno i reperti rinvenuti nei siti di confine grazie ai recenti scavi.

L’impero romano fu protetto da una linea di confine che circondava non solo l’area del Mar Mediterraneo, ma anche i territori adiacenti e racchiudeva un totale di circa 5 milioni di chilometri quadrati. Questa linea si è conservata fino a oggi sotto forma di terrapieni, fossati, fortezze, accampamenti militari, insediamenti civili, torri di guardia e avvistamento. Il limes non è solamente il segno dell’espansione della civiltà romana, ma ebbe anche un ruolo attivo nello scambio culturale tra le unità militari e gli abitanti locali. La comunità internazionale ha riconosciuto un particolare valore culturale al limes romano già nel 1987, anno in cui una delle sue parti, il Vallo di Adriano in Inghilterra, venne iscritta nel Patrimonio Mondiale dell’UNESCO. Tutte le altre parti del limes saranno accorpate nello stesso elenco, sotto un’unica cornice, dal nome «I confini dell’Impero romano». Nella sua parte danubiana il limes è costituito da strutture, soprattutto di natura militare, che formano un insieme monumentale, nel quale sono comprese le fortezze delle legioni, gli accampamenti, i borghi civili adiacenti (vici), santuari, cimiteri, porti e strade che si estendono da Bad Gögging


Wels

Linz

Vienna Bratislava

Brigetio

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Salisburgo

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D A C I A

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Danubio

Tulcea Castra Traiana Constanta

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Sava

Alba Iulia

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Carta delle province danubianobalcaniche, con il tracciato del limes e i siti archeologici. I piccoli quadrati di colore nero indicano le fortezze.

D A L M A T I A

Mar Adriatico

MOESIA

Salona

Marcianopolis

Ratiaria

SUPERIOR

M O E S I A

I N F E R I O R

Nis Caricin Grad Sofia

I T A L I A

Scutari

Skopie

Varna

Mar Nero

T H R A C I A Istanbul

200 Km

(Germania) a Kölked Hajlok (Ungheria). Per i singoli tratti di questo confine di 997 km, i Romani svilupparono soluzioni che rispondevano alle diverse condizioni topografiche e geografiche. L’obiettivo era quello di costruire un sistema che provvedesse al controllo sicuro ed efficace dei commerci e dei trasporti sul Danubio e che consentisse all’esercito di bloccare l’ingresso dei nemici nell’impero. Il territorio dell’attuale Slovacchia sud-occidentale, abitato dal I al IV secolo dalle tribú germaniche dei Quadi e dei Marcomanni, si trovava immediatamente a ridosso dell’impero romano prima di diventarne parte. Il naturale confine settentrionale dell’impero nella provincia della Pannonia era costituito dal Danubio, lungo il quale i Romani progressivamente costruirono un ampio sistema di fortificazioni, che comprendeva le due fortezze dell’odierna Bratislava,

MACEDO NI A

Gerulata e Iža. Presso l’odierna Iža, sulla riva sinistra del Danubio, a 4 km circa dalla confluenza con il Vah, sono stati ritrovati i resti di un accampamento militare costruito dalle truppe della Legio I Adiutrix di stanza a Brigetio. Il sito si estendeva per oltre 3 ettari ed era fortificato con un doppio fossato e un bastione in materiale deperibile. Gli scavi hanno riportato alla luce resti di stalle, magazzini e degli accampamenti provvisori dei soldati, costruiti in mattoni crudi d’argilla. Il compito della guarnigione era di tenere le tribú germaniche fuori dal perimetro difensivo. I recenti scavi hanno portato alla luce un castellum e un complesso termale, entrambi databili al II secolo d.C. e distrutti nel IV. Nel XVIII secolo i resti delle murature romane sono stati totalmente obliterati. Gli scavi hanno rimesso in luce le antiche strutture e attualmente il sito è un parco archeologico.

Il castellum di Gerulata si trova nel quartiere di Bratislava, a ridosso del canale di Rusovce. Intorno all’accampamento militare sono stati rinvenuti un nucleo civile, il vicus, insediamenti rurali e una villa rustica. Grazie alla sua posizione strategica, l’unità militare, di stanza a Carnuntum, capitale della provincia romana della Pannonia, controllava l’area relativa a uno dei crocevia del commercio. Lucrezia Ungaro, Margaréta Musilová

DOVE E QUANDO «I Confini dell’Impero Romano. Limes Danubiano» Roma, Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 25 ottobre (dal 5 luglio) Orario tutti i giorni, 9,30-19,30 Info tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-19,00); e-mail: info@mercatiditraiano.it www.mercatiditraiano.it

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

COME TI RACCONTO L’ARCHEOLOGIA ESISTE UNA «REGOLA AUREA» PER FAR SÍ CHE UN MUSEO SAPPIA PARLARE ANCHE AI NON ADDETTI AI LAVORI? ECCO LA RICETTA DI GIULIANO VOLPE

F

ar parlare i reperti, raccontando le storie di cui sono protagonisti. E stabilire un dialogo continuo con il visitatore di un sito o un museo archeologico. Ma come? Se ne è discusso nel corso di un incontro organizzato presso il Museo Civico di Foggia, con la collaborazione della Soprintendenza Archeologia per le province Barletta-Andria-Trani e Foggia e dell’Università di Foggia, nell’ambito della rassegna «Dialoghi di Archeologia». Ne abbiamo parlato con Giuliano Volpe, professore di archeologia tardo-antica presso l’Università di

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Foggia, Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali e Presidente della fondazione Apulia Felix, che ha promosso il ciclo di incontri rivolti al pubblico. Professore, nel dibattito si è affrontato il tema del rapporto tra archeologia e storytelling: ci vuole spiegare? «“Storytelling” è una definizione anche troppo usata, ma l’abbiamo voluta conservare per la sua forza: vuol dire racconto, narrazione. È importante raccontare le storie, non necessariamente la storia con la “S” maiuscola. Ogni reperto o manufatto

archeologico, piccolo o grande che sia, è un’opera d’arte che racconta una storia. Il problema è far parlare i reperti con un linguaggio comprensibile a tutti. Questa è la grande sfida per i musei e i parchi archeologici. Gli oggetti non parlano da soli, contrariamente a quanto i miei colleghi pensano. Il rapporto tra visitatore e reperto non deve essere solo di contemplazione. La vera scommessa, per gli archeologi, è far parlare i manufatti che trovano sotto terra. Per usare una definizione del grande archeologo e divulgatore della BBC, Mortimer


Wheeler: “Gli archeologi, quando scavano, estraggono dalla terra persone, non cose”». A suo avviso, che cosa dovrebbero fare gli archeologi per scoprire persone e non cose? «Devono saper usare linguaggi adeguati con il pubblico. Il rischio, altrimenti, è la banalizzazione o il ricorso a interpretazioni fantasiose. L’archeologo dev’essere un narratore di storie, capace di rendere chiaro e semplice ciò che è complesso e unitario ciò che è frammentario (visto che l’archeologo lavora con i frammenti)». Invece, secondo lei, oggi, gli archeologi «si Sulle due pagine: alcuni momenti dell’incontro organizzato presso il Museo Civico di Foggia, nel corso del quale si è discusso su quali strategie gli archeologi debbano adottare per far sí che scavi e musei risultino agevolmente fruibili, anche da parte del pubblico dei non addetti ai lavori.

perdono» tra quei frammenti di storia, senza riuscire a comunicarne al pubblico il significato? «Se ci perdiamo nei frammenti, nessuno si interessa. Bisogna dare una visione unitaria del singolo ritrovamento, rendere accattivante il racconto e stimolare la partecipazione attiva del pubblico. Questo è il compito dell’archeologo: un bravo narratore non deve dare risposte ma, soprattutto, stimolare domande. Una domanda ben posta è molto piú utile di una risposta mal data». Come si può coinvolgere il pubblico nella narrazione? «Ci sono le tecnologie multimediali, ma rappresentano

solo uno strumento. Quello che conta è la qualità del progetto culturale e dell’interpretazione storica, cosa che è compito dell’archeologo. Non dobbiamo delegare ai tecnici il ruolo di mediare con il pubblico, dobbiamo imparare a farlo». Il mestiere dell’archeologo è cambiato, insomma? «Con le nuove professioni il lavoro dell’archeologo è sempre piú articolato, come mostra il volume presentato nel corso dell’incontro presso il Museo Civico di Foggia, Racconti da museo, curato dalla giornalista Cinzia dal Maso. Gli archeologi non devono limitarsi all’aspetto descrittivo: ci vuole

analisi rigorosa dei dati, ma anche capacità interpretativa. E, soprattutto, un’archeologia che sappia parlare alla società contemporanea. In questo senso è esemplare il Museo “Salinas” di Palermo, dove, grazie ai social media, sono riusciti a far vivere e poi a far riaprire un museo chiuso da anni. Hanno creato una comunità virtuale, organizzato piccole mostre e aperture parziali, promuovendo sui social i reperti archeologici. Cosí hanno reso vivo e vitale un museo chiuso, portandovi piú visitatori di quanti ne hanno contati i musei aperti da sempre. Le pietre e gli oggetti parlano, ma possono anche essere muti, se non siamo in grado di raccontare le storie che racchiudono».

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ORTE (VITERBO)

Un antico approdo sul Tevere È stata finalmente riaperta al pubblico, dopo l’alluvione del 2012, l’area archeologica di Seripola, presso Orte (Viterbo), sede di un importante porto romano sul Tevere, in uso tra il III secolo a.C. e il XII secolo d.C. I resti dell’impianto vennero alla luce fra il 1962 e il 1993, a seguito di lavori connessi alla realizzazione dell’Autostrada del Sole. Costruito all’altezza di un punto di attraversamento del Tevere di cui oggi non resta piú traccia, il porto di Seripola si articola intorno a due assi viari che si incrociano al centro dell’area. I resti messi in luce si riferiscono ad ambienti destinati allo stoccaggio di merci e ad attività commerciali, ma anche a strutture termali. Grazie alla disponibilità dell’Amministrazione comunale di Orte, all’impegno dell’Associazione culturale Veramente Orte e alla sinergia con la Soprintendenza, il visitatore può ora tornare a passeggiare tra le botteghe, i magazzini e le terme dell’antico sito, un tempo brulicante di vita e affacciarsi sul Tevere che ancora ne lambisce i resti monumentali. Per gli appassionati è anche possibile risalire il fiume in canoa e approdare direttamente all’interno del porto. Info e visite guidate: Ufficio Turistico Comunale, tel. 348/7672750; e-mail: visitaorte@gmail.com; www.visitaorte.com (red.)

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MOSTRE Roma

UNA SERENATA DI CINQUEMILA ANNI FA

A

lcuni anni fa, nella necropoli dell’età del Rame (3000 a.C. circa) scoperta in località Torre della Chiesaccia (nei pressi della via Laurentina, a Roma), venne alla luce un vaso in ceramica dalla forma molto particolare, che ricorda la metà del guscio di una noce. Il curioso manufatto era stato rinvenuto all’interno di una tomba a grotticella e faceva parte del corredo della sepoltura di un individuo morto in un’età compresa fra i 20 e i 30 anni. Fin da subito, quell’oggetto dalla forma ovale, con fondo tondeggiante e 30 fori lungo l’orlo ha posto numerosi interrogativi: quale funzione poteva avere? Sono conosciuti vasi di questo tipo in altri contesti archeologici? È possibile individuare un nesso tra il vaso e il giovane accanto al quale era stato collocato? Domande alle quali si è cercato di rispondere avviando un percorso di ricerca multidisciplinare, basato sull’analisi dei materiali, sui confronti etnografici e sulla ricostruzione sperimentale. Un percorso che ha infine portato alla sua interpretazione come strumento musicale, pur lasciando insoluto almeno uno degli interrogativi: si trattava di uno strumento musicale effettivamente funzionante oppure di una sua imitazione, destinata ad accompagnare il defunto nel suo viaggio nell’aldilà? Da questa intrigante vicenda è nata la mostra presentata dal Museo delle Origini, che ha realizzato per

Vaso interpretato come strumento musicale, da una tomba della necropoli dell’età del Rame di Torre della Chiesaccia (Roma). IV mill. a.C. l’occasione due ricostruzioni sperimentali di strumenti, un liuto e un’arpa, in grado di produrre suoni definibili «musicali», rilevati con diapason elettronici, che non sono lontani dal tipo di suono prodotto da strumenti tradizionali come l’imzad tuareg o la gusla balcanica. (red.)

DOVE E QUANDO «Suoni perduti? La ricostruzione di uno strumento a corde dell’età del Rame» Roma, Museo delle Origini, Città Universitaria, «Sapienza» Università di Roma fino al 26 giugno Orario lu-ve, 9,00-13,00; sa-do chiuso Info tel. 06 49913294; Pagina Fcebook: Museo delle Origini Sapienza Università di Roma



n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

SULLA STRADA PER TROIA... Lo Speciale recentemente dedicato a Troia (vedi 1 «Archeo» n. 398, aprile 2018) e la nuova Monografia di «Archeo» dedcata alla Turchia (ora in edicola) hanno offerto lo spunto per questa breve «guida», pensata per quanti vorranno raggiungere in automobile il leggendario sito: la rassegna presenta infatti i siti e i luoghi che si possono facilmente visitare perché prossimi alla magnifica Egnatia Odos, 4 l’autostrada che unisce Igoumenitsa, il porto greco prsso il quale attraccano molti dei traghetti provenienti dall’Italia, al confine turco. Dopo appena una sessantina di chilometri di trova l’uscita di Dodoni: in pochi minuti si arriva al sito, molto ben conservato, del piú antico oracolo di Grecia (1, aerogramma con impronta). Si riparte e, dopo soli 20 km, si può sostare a Ioannina, posizionata sul bel lago Pamvotida, per visitare il Castello (2) e la moschea di Aslan Pasha (3), oggi museo. Dopo circa 50 km, avendone il tempo, c’è la deviazione piú lunga per vedere le Meteore, incredibile complesso di monasteri bizantini sospesi in cielo: luoghi assai spettacolari (4). Poi una tappa piú lunga e, a 50 km da Salonicco, c’è Verghina con la tomba di Filippo II (5) e gli ori dei Macedoni (6-7). A poca distanza s’incontra Pella, l’antica capitale della Macedonia, con i suoi incredibili mosaici (8). Superata Salonicco (9), si raggiunge Filippi (10), con i suoi monumentali resti, Kavala nel cui centro passa un acquedotto romano molto ben conservato (11) e si arriva al confine turco, delimitato dalla foce del fiume Evros, la piú importante riserva naturalistica dell’area (12). Superate le formalità doganali (unica vera incognita per i tempi di percorrenza…) si giunge allo stretto dei Dardanelli (13), che si supera in mezzora per sbarcare a Çanakkale (14) ridente e vivace cittadina universitaria. All’indomani, solo un cinquantina di chilmetri di autostrada per Smirne per giungere a Troia (o Truva). E finalmente la collina di Hissarlik, con un cavallo di legno (15) tra gli alberi ad accogliere i turisti... Buona visita! IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

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Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

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Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it





CALENDARIO

Italia ROMA Suoni perduti?

La ricostruzione di uno strumento a corde dell’età del Rame Museo dell Origini, «Sapienza» Università di Roma fino al 26.06.18

Egizi Etruschi

Da Eugene Berman allo Scarabeo dorato di Vulci Centrale Montemartini fino al 30.06.18

Traiano

Costruire l’Impero, creare l’Europa Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 18.11.18 (prorogata)

NAPOLI Pompei@Madre

Il Palatino e il suo giardino segreto

Materia Archeologica MADRE-Museo d’arte contemporanea Donnaregina fino al 24.09.18

Nel fascino degli Horti Farnesiani Palatino fino al 28.10.18

REGGIO EMILIA On the road

BOLOGNA Medioevo svelato

La Via Emilia, 187 a.C.-2017 Palazzo dei Musei fino al 01.07.18

Storie dell’Emilia-Romagna attraverso l’archeologia Museo Civico Medievale fino al 17.06.18

ROVIGO Le mummie a Rovigo

Ritratti di famiglia

Palazzo Roncale fino al 01.07.18

Personaggi, oggetti, storie del Museo Civico fra Bologna, l’Italia e l’Europa Museo Civico Archeologico fino al 19.08.18

SIRACUSA Archimede a Siracusa Experience exhibition Galleria Civica Montevergini fino al 31.12.19

FERRARA Ebrei, una storia italiana

I primi mille anni Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS fino al 16.09.18

LIDO DI JESOLO Egitto. Dèi, faraoni, uomini Spazio Aquileia 123 fino al 15.09.18

TORINO Orienti

Ricostruzione della tomba di Tutankhamon.

7000 anni di arte asiatica dal Museo delle Civiltà di Roma MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 26.08.18

Anche le statue muoiono Conflitto e patrimonio tra antico e contemporaneo Museo Egizio fino al 09.09.18

VENEZIA Il mondo che non c’era L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue Palazzo Loredan fino al 30.06.18 30 a r c h e o

Andy Warhol, Vesuvius, 1985.

Stele lignea dipinta di epoca tolemaica.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

VOLTERRA I signori de L’Ortino

Aristocrazie gentilizie all’alba della città di Velathri Palazzo dei Priori fino al 30.09.18

Belgio BRUGES Mummie

Germania BONN Nazca, disegni divini Scoperte archeologiche dal deserto peruviano Bundeskunsthalle fino al 16.09.18

KARLSRUHE Gli Etruschi

Segreti dell’antico Egitto Xpo Center Bruges fino all’11.11.18

Civiltà mondiale nell’Italia antica Badisches Landesmuseum fino al 17.06.18

Francia

Lussemburgo

TOURCOING Cristiani d’Oriente

LUSSEMBURGO Il Luogo Celeste. Gli Etruschi e i loro dèi

2000 anni di storia Musée des beaux-arts Eugène Leroy fino al 16.06.18

Il santuario federale di Orvieto Musée national d’histoire et d’art fino al 02.09.18

Svizzera HAUTERIVE Orso

Laténium, Parc et musée d’archéologie de Neuchâtel fino al 06.01.19

RANCATE (MENDRISIO) Il Cavallo: 4000 anni di storia Collezione Giannelli Pinacoteca cantonale Giovanni Züst fino al 19.08.18 In alto: scarabeo con satiri vendemmianti. A destra: un raro cavallo a dondolo settecentesco.

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CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli

TUTTI IN RETE L’ULTIMA «GIORNATA INTERNAZIONALE DEI MUSEI» HA AVUTO UNA RISONANZA PARTICOLARE IN GRECIA, LE CUI RACCOLTE HANNO PARTECIPATO, ANCORA UNA VOLTA, CON ENTUSIASMO ALL’INIZIATIVA. UN SEGNALE IMPORTANTE DELLA VOLONTÀ DI NON VENIRE MENO, NONOSTANTE LA DIFFICILE CONGIUNTURA, AL PROPRIO INSOSTITUIBILE RUOLO DI «PALESTRE» DELLA CONOSCENZA E DELLA FORMAZIONE

E

ra il 1977 quando il Consiglio Internazionale dei Musei (ICOM) dichiarò il 18 maggio «Giornata Internazionale dei Musei». Da allora ogni anno, a metà di maggio, si celebra una grande festa in cui migliaia di istituzioni

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offrono l’ingresso gratuito ai visitatori e organizzano presentazioni tematiche, mostre e attività che possono durare un giorno, un week end, ma anche una settimana intera. L’affluenza a questa iniziativa è aumentata anno dopo anno tra i musei di tutto il mondo: basti pensare che nel 2017 vi hanno aderito piú di 37 000 musei in 158 Paesi e territori. Il tema scelto dall’ICOM per la Giornata Internazionale dei Musei 2018 è stato «Musei iperconnessi: nuovi approcci, nuovi pubblici». Un tema che s’incentra sul concetto dell’iperconnettività, ovvero quell’insieme molteplice di metodi di comunicazione oggi a disposizione di molti: dal telefono alla posta elettronica, alla

messaggistica istantanea, ai social media e alle piattaforme web. Una rete globale di contatti sempre piú ampia, complessa, integrata ed evoluta, nella quale si muovono inevitabilmente anche i musei, che spesso la sfruttano per attrarre nuovo pubblico.

UNA VASTA PARTECIPAZIONE La Grecia ha celebrato anche quest’anno il 18 maggio; anzi, i musei che hanno aderito all’iniziativa sono stati numerosi: e non ci riferiamo solo a quelli privati, ma anche e soprattutto a quelli a gestione statale. Solo per citarne alcuni tra quelli d’interesse archeologico, il Museo Marittimo del Pireo ha promosso un concorso fotografico incentrato sulle opere in mostra: le immagini sono state pubblicate sulla pagina Facebook e sull’account Twitter del Museo e


delle scuole elementari, proiezioni di video nell’anfiteatro del Museo, presentazioni tematiche delle collezioni in cui si esaltavano i riferimenti alla topografia della moderna città di Patrasso e una mostra di poster ideati dagli studenti della Scuola di Arti Applicate per la Rete Museo-CittàMonumenti, lanciata dalla Soprintendenza locale.

AL SERVIZIO DELLA SOCIETÀ

sono stati offerti premi alle tre foto piú votate. Simile anche l’iniziativa del Museo Archeologico Nazionale di Atene, che ha lanciato «Un click alla bellezza!», un concorso di fotografia ispirato alla nuova mostra temporanea che ha per tema gli innumerevoli aspetti del bello. Ai vincitori, il Museo ha regalato visite gratuite alle collezioni guidate dai curatori.

OCCASIONE DI DIALOGO Il Museo per lo Studio della Ceramica di Atene, invece, ha scelto un approccio piú tradizionale, puntando a una giornata in cui ha presentato opere provenienti dall’Ungheria e dalla Lettonia, sotto il titolo generico «La ceramica unisce». Interessante anche l’iniziativa dei Musei dell’isola di Lesbo, che si sono connessi in una rete formata da 8 istituzioni e hanno promosso una giornata di dialogo col pubblico svoltasi nell’anfiteatro del Museo Archeologico di Mitilene.

Segnaliamo senz’altro il Museo Archeologico di Patrasso, sempre molto attivo nella comunità locale, che quest’anno si è distinto per le iniziative molteplici, tra cui un laboratorio di mosaico per bambini

Attivissimo anche il Museo Archeologico di Salonicco, che sotto il titolo «Connettiamoci» ha promosso una serie di attività per tutta la settimana della celebrazione della Giornata. Tra di esse, una giornata di studi sul tema «I restauratori fanno viaggiare nel mondo i Musei greci», un laboratorio di scultura tenutosi nel giardino del museo, ma soprattutto un dialogo aperto tra i curatori del Museo e il pubblico su Facebook e Twitter (col sistema di domande e risposte), la presentazione ufficiale della pagina Instagram del Museo e la pubblicazione delle manifestazioni sul suo canale Youtube. Come si legge sul sito dell’ICOM, «il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo» e l’obiettivo della Giornata Internazionale dei Musei è promuovere la consapevolezza del fatto che i musei sono un importante mezzo di scambio culturale, di arricchimento delle culture e di comprensione reciproca, cooperazione e pace fra i popoli. Connessi alle comunità nelle quali sono nati e cresciuti, i musei greci quest’anno hanno aggiunto la loro voce a questo messaggio.

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MUSEI • SPELLO

STAGIONI SPELLO

LE DI


IN ETÀ IMPERIALE, QUANDO HISPELLUM PROSPERAVA GRAZIE ALLA SUA STRATEGICA POSIZIONE SULLA VIA FLAMINIA, UN FACOLTOSO IMPRENDITORE VOLLE CHE LA SUA LUSSUOSA VILLA FOSSE ORNATA DA RAFFINATI MOSAICI. SEPOLTI E DIMENTICATI PER OLTRE QUINDICI SECOLI, QUEI MAGNIFICI TAPPETI DI PIETRA SONO TORNATI ALLA LUCE POCO PIÚ DI DIECI ANNI FA. E OGGI SI POSSONO AMMIRARE ALL’INTERNO DI UN’APPOSITA STRUTTURA REALIZZATA PER LA LORO MUSEALIZZAZIONE di Stefano Mammini

P

oco fuori la cinta muraria che ancora oggi la racchiude, Spello – cittadina umbra alle falde del monte Subasio – ha visto compiersi una delle piú interessanti scoperte archeologiche degli ultimi decenni, che trova ora il suo felice coronamento nell’inaugurazione del complesso museale voluto per proteggerla. Tutto aveva avuto inizio nel 2005, quando il Comune avviò i lavori per la realizzazione di un parcheggio, in un’area in località Sant’Anna, all’epoca utilizzata come campo di calcetto: fu però sufficiente scendere di pochi metri rispetto al piano di campagna, perché gli sterri intercettassero, inaspettatamente, i primi resti di mosaico. La sorpresa lasciò dunque il posto alle verifiche di rito e, in breve tempo, apparve chiaro che quelle prime tessere colorate non erano altro che il significativo campione di un complesso di notevole consistenza.

UNA DIMORA LUSSUOSA Il cantiere assunse un nuovo volto, trasformandosi in un intervento di scavo archeologico vero e proprio, al quale fece quindi seguito il restauro delle murature, degli intonaci, degli affreschi e, naturalmente, dei mosaici. In un primo tempo, la notevole estensione del tappeto musivo piú importante aveva suggerito che dalla terra stessero affiorando i resti di un impianto termale, ma poi, grazie all’estensione delle indagini, apparve evidente che in località Sant’Anna stava tornando alla luce una lussuosa villa di epoca imperiale. Che oggi conosciamo appunto come Villa dei Mosaici. Salvo diversa indicazione, tutte le immagini documentano la Villa dei Mosaici di Spello e la struttura realizzata per la sua musealizzazione. Una fase della ripulitura del grande mosaico pavimentale del triclinio. a r c h e o 35


MUSEI • SPELLO

Le ricerche hanno accertato che la ricca residenza ebbe in realtà due fasi costruttive principali: la prima si può collocare in età augustea (a cavallo fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.), mentre la seconda è databile tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C. A quest’ultima appartiene la maggior parte dei resti (e dei mosaici) oggi visibili e che si devono all’iniziativa di un personaggio rimasto per noi senza nome, ma certamente assai facoltoso e che potrebbe forse aver tratto le sue ricchezze dalla viticoltura: un’ipotesi suggerita dalla scena che si può vedere al centro della sala

Arezzo

L ag o Trasi me n o

Perugia Spello UMBRIA

La g o d i Bol se n a

Viterbo

Terni Rieti

In alto, sulle due pagine: una veduta della struttura che accoglie la Villa dei Mosaici, con, in primo piano, il triclinio. A sinistra: l’ingresso del museo.

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destinata ai banchetti, in cui compare un servitore che riempie di vino, mescendolo da un’anfora, la coppa retta da un coppiere.

UNA PROSPERITÀ DURATURA La villa sorse in prossimità di un ramo secondario della via Flaminia, la consolare che, attraversando l’Umbria, da Roma portava a Rimini (Ariminum) e che fu una delle principali fonti di benessere per Hispellum, la Spello romana. La città visse una stagione di particolare fioritura al tempo di Augusto, ma godette di non minore fortuna


anche molto piú tardi, nel corso del IV secolo d.C., come testimonia, fra gli altri, il Rescritto di Costantino. Redatto fra il 333 e il 337, quest’ultimo era un documento con il quale l’imperatore concedeva alla città umbra la facoltà di celebrare propri ludi scenici e gladiatori senza doversi piú recare a Volsinii (Orvieto) e disponeva la costruzione di un tempio in onore della gens Flavia. La copia del provvedimento, incisa su una lastra marmorea, venne rinvenuta nel 1773 nei pressi del teatro romano ed è oggi conservata nel Palazzo Comunale.

Chi, all’epoca, abitava la Villa dei Mosaici fu dunque testimone di un momento ancora prospero, di cui la dimora stessa è del resto un eloquente riflesso: basti pensare che lo scavo archeologico ha permesso di individuare una ventina di ambienti, metà dei quali sono impreziositi da pavimenti a mosaico, che si conservano per una superficie complessiva di 500 mq circa. Cifre che, peraltro, offrono solo un’immagine parziale della ricca residenza, la cui superficie totale doveva essere superiore a quella indagata archeologicamente, che coincide con il corpo centrale della struttura.

Copia autenticata Oggi conservato nel Palazzo Comunale di Spello, il Rescritto di Costantino è inciso su una tavola marmorea, ricomposta da tre frammenti. Il testo si compone di 59 righe: di queste, la prima presenta le tre lettere abbreviate che qualificano la lapide come copia del sacro Rescritto costantiniano; le successive quattro recano i titoli dell’imperatore; le restanti riportano il testo dell’editto.

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MUSEI • SPELLO

Gli ambienti piú riccamente decorati si dispongono a ridosso del peristilio, il portico che correva intorno al giardino o al cortile centrale del complesso e che poteva essere anche provvisto di un colonnato. Nel caso della Villa dei Mosaici, si può vederne poco meno della metà inferiore, che per un breve tratto conserva la pavimentazione originaria, consistente in un mosaico policromo a motivi geometrici. Gli altri tappeti musivi sono descritti nelle pagine che seguono, a corredo della planimetria della residenza (vedi alle pp. 40-41). 38 a r c h e o

IL PROGETTO ARCHITETTONICO I magnifici mosaici della villa scoperta in località Sant’Anna si possono oggi ammirare all’interno della struttura museale inaugurata nello scorso marzo. L’edificio è frutto di un progetto nato all’indomani del concorso bandito nel 2010 per la realizzazione di una copertura del sito. L’opera è stata realizzata dallo Studio Alfio Barabani Architects, che, fin dall’inizio, ha voluto proporre una soluzione capace di andare oltre la semplice protezione dell’area archeologica. Ne è cosí

scaturita una struttura di grande qualità architettonica, che, grazie alle sue linee morbide e ad alcune particolari soluzioni – prima fra tutte la creazione di un giardino pensile sul tetto dell’edificio -, si è inserita in maniera davvero armoniosa nel contesto circostante. Un equilibrio che connota anche l’interno dell’edificio e il suo allestimento, che si rivelano funzionali alla fruizione dei resti della villa e non danno mai la sensazione di voler sovrastare il valore dei reperti e la loro storia. Una volta entrati, la (segue a p. 43)


In alto, sulle due pagine: ancora una veduta dell’allestimento della Villa dei Mosaici, con le passerelle che agevolano la lettura degli ambienti e delle loro decorazioni pavimentali. A destra, in alto: uno degli schermi sui quali vengono proiettate le ricostruzioni 3D della residenza. A destra, in basso: la struttura provvista di suspensurae (pilastrini in laterizi) utilizzate per ricavare uno spazio al di sotto del pavimento: tale soluzione veniva adottata quando si voleva riscaldare il vano in questione, facendo appunto circolare aria calda nell’intercapedine. a r c h e o 39


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LE STANZE DELLA VILLA A. STANZA DELLE ANFORE Questo vano presenta uno dei mosaici piú originali fra quelli rinvenuti: la composizione è formata da gruppi di quattro anfore stilizzate, disposte a formare una sorta di croce. Si tratta di un motivo per il quale, a oggi, si

A

conosce un solo confronto, con un mosaico trovato in una villa scoperta in località Tor Marancia, a Roma. La stanza era probabilmente utilizzata per i pasti privati e il soggetto del mosaico potrebbe alludere anch’esso alla produzione del vino, attività che si ipotizza fosse stata praticata dal proprietario della dimora. B C

B. STANZA DEGLI UCCELLI Prende nome dai volatili raffigurati in altrettanti ottagoni. Si tratta in alcuni casi di pernici e la decorazione allude alla caccia e alla buona tavola. C. TRICLINIO Si tratta dell’ambiente di gran lunga piú spettacolare dell’intera Villa dei Mosaici. Al centro si vede la già ricordata scena 40 a r c h e o

di mescita del vino, inserita in un una decorazione «a cuscini». Tutto intorno si riconoscono personaggi con in mano elementi vegetali o attributi legati al mondo dell’agricoltura (per esempio, falci e spighe di grano) e, con ogni probabilità, le figure vanno interpretate come altrettante personificazioni delle stagioni. Arricchiscono la composizione


E

basa sul contrasto fra il bianco e il rosso, disposti in forme geometriche che definiscono il motivo detto «a quattro squadre». Da rilevare, piú che in altri settori della villa, la cospicua porzione conservata degli elevati, che conservano le pitture murali originarie.

C

immagini di animali reali (pantera, cervo, cinghiale, anatra, ecc.) e fantastici (come le tigri marine), nonché rappresentazioni di vasi. D. STANZA DEL SOLE RADIANTE Il mosaico di questo vano si presenta in condizioni di conservazione ottimali e si può leggerne per intero l’articolazione: all’interno dell’ottagono centrale c’è il sole radiante da cui la stanza ha preso nome, i cui raggi si indirizzano verso canne con infiorescenze, tra le quali stanno alcuni uccelli, fra cui un’upupa e un’anatra. Il sole, l’ambiente palustre e l’abbondanza degli uccelli sono stati interpretati come altrettante allusioni alla fertilità del territorio. E. STANZA DEL MOSAICO GEOMETRICO Per questo vano, verosimilmente utilizzato come stanza da letto, la soluzione scelta si

F. STANZA DEGLI SCUDI La stanza trae nome dalla scelta di basare la trama ornamentale sulla sagoma dello scudo greco a forma di mezzaluna, la pelta: una soluzione sobria, ma elegante al tempo stesso. Con occhio moderno, non sfugge la somiglianza che le parti in colore mostrano con il seme di quadri delle carte da gioco francesi. G. PERISTILIO È il portico che cingeva il giardino (o il cortile) della villa. Conserva alcuni brani della pavimentazione a mosaico. D

H. AMBIENTE RISCALDATO Si tratta di un vano individuato a ridosso della Stanza degli uccelli e del Triclinio nel quale appaiono ben leggibili i resti delle suspensurae, i pilastrini in mattoni che, reggendo il pavimento, creavano un’intercapedine nella quale veniva fatta circolare aria calda. F


MUSEI • SPELLO

UNA CITTÀ DA SCOPRIRE La Villa dei Mosaici arricchisce in maniera significativa il già considerevole patrimonio di Spello e la visita del nuovo museo non può certamente essere disgiunta da quella dei monumenti che ne fanno parte. Il giro alla scoperta dei tesori della città umbra potrà peraltro essere organizzato proprio dal neonato polo culturale, poiché la Villa dei Mosaici è stata adibita anche a punto informativo. Di notevole rilievo sono le testimonianze riferibili all’epoca romana. La Porta consolare, che costituiva il principale accesso alla città sul versante meridionale, è senz’altro una delle piú spettacolari, anche per la

A destra: collegiata di S. Maria Maggiore, Cappella Baglioni. Disputa di Gesú fra i dottori, affresco del Pintoricchio. 1500-1501.

Qui sopra: Porta Venere, l’ingresso di età augustea ai cui lati, nel Medioevo, furono innalzate due torri dodecagonali. A sinistra: un vicolo del centro storico. Nella pagina accanto: l’Arco di Augusto.

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conformazione assunta in seguito ai rimaneggiamenti succedutisi nel corso del tempo. Si presenta come una poderosa struttura a tre fornici, per la cui costruzione furono impiegati blocchi di pietra bianca provenienti dal vicino Monte Subasio. Sul fronte esterno furono collocate tre statue, la cui identificazione è a tutt’oggi discussa, e, nel Medioevo, la porta venne affiancata da una torre. Altrettanto spettacolare è la Porta Venere, innalzata in età augustea,


ma oggi caratterizzata soprattutto dalle due massicce torri dodecagonali erette ai suoi lati nel XII secolo. Risalendo verso il centro, si può visitare il Palazzo Comunale, nel cui atrio si conserva una raccolta di materiali archeologici recuperati in varie zone di Spello, ma, soprattutto, al primo piano, nella Sala Grande, si può vedere il già ricordato Rescritto di Costantino. A pochi metri, sul lato opposto, il palazzo custodisce inoltre un piccolo gioiello: il fondo antico della Biblioteca Comunale, forte di circa 4000 volumi recuperati all’indomani dello scioglimento degli Ordini religiosi e fra i quali è compreso un incunabolo veneziano

del 1474. Poco piú in basso, nella Collegiata di S. Maria Maggiore, si trova una delle glorie cittadine, vale a dire la Cappella Baglioni, affrescata dal Pinturicchio, su commissione di Troilo Baglioni. Occorre però segnalare che il monumento è attualmente chiuso al pubblico, per consentire lo svolgimento di un intervento di restauro che sta interessando un settore della chiesa. In compenso, non lontano, si possono ammirare gli affreschi della Cappella Tega, tornati alla luce in epoca moderna, quando il piccolo luogo di culto era stato da tempo adibito a bottega. Info: http://turismo.comune. spello.pg.it/

struttura appare ariosa e permette di abbracciare con lo sguardo l’intero sito, soprattutto perché il numero dei pilastri di sostegno è stato ridotto al minimo indispensabile e la loro disposizione non crea mai ostacoli visivi importanti. Un sistema di passerelle consente di attraversare le diverse stanze, i cui mosaici possono cosí essere letti agevolmente e da molteplici angolazioni.

AUSILI MULTIMEDIALI A tutto questo si aggiunge la dotazione esplicativa, affidata a schermi sui quali vengono proiettate ricostruzioni in 3D dei diversi ambienti della residenza, postazioni multimediali, nonché una App dedicata. Quest’ultima, che può essere facilmente scaricata sui propri dispositivi, offre testi, immagini e filmati che si attivano in corrispondenza dei diversi vani del sito. Inoltre, prim’ancora della visita, si può sostare in una sala che introduce alla storia del sito e nella quale sono disponibili anche attività ludicodidattiche per i piú piccoli. L’inaugurazione della Villa dei Mosaici di Spello segna dunque un passo importante sulla strada di una valorizzazione capace di coniugare al meglio il desiderio di trasmettere i dati acquisiti grazie alla ricerca archeologica con la necessità di adottare un linguaggio accessibile e adattato anche alle forme di comunicazione piú innovative. DOVE E QUANDO Villa dei Mosaici di Spello Spello (Perugia), via Paolina Schicchi Fagotti, 7 Orario apr-set: dal martedí alla domenica e festivi, 10,30-13,00 e 15,00-18,30; nel resto dell’anno, gli orari variano stagionalmente e possono essere verificati consultando il sito web del museo Info tel. 0742 301909; e-mail: info@villadeimosaicidispello.it; www.villadeimosaicidispello.it a r c h e o 43




SCOPERTE • IRAQ

UN PORTO FRA LE ACQUE DI SUMER

46 a r c h e o


LA MISSIONE ARCHEOLOGICA ITALO-IRACHENA AD ABU TBEIRAH, DA SETTE ANNI OPERATIVA NELLE TERRE DELLA MESOPOTAMIA, STA PORTANDO ALLA LUCE LE STRUTTURE DI UN ANTICO APPRODO. UNA RICERCA CHE, FIN DA ORA, È DESTINATA A RISCRIVERE LA STORIA AMBIENTALE ED ECONOMICA DELL’IRAQ MERIDIONALE NEL III MILLENNIO A.C. di Franco D’Agostino e Licia Romano

In alto: frammento del secondo e del terzo registro della stele del sovrano Ur-Namma (2100 a.C.), rinvenuta nella città di Ur nel 1925. Filadelfia, Penn Museum. Sulle due pagine: una tipica veduta delle Paludi del Sud dell’odierno Iraq.

«H

o fatto attraccare le navi di Magan al porto del dio Luna Nannar, il mio re, e le ho fatte risplendere in Ur!». Con queste parole il sovrano Ur-Namma, il fondatore della cosiddetta III Dinastia di Ur, ricorda, nel prologo della sua raccolta di leggi – scritta in sumerico nel XXI secolo a.C. –, un evento importantissimo per il suo regno: il ritorno delle navi cariche di mercanzia pregiata (rame, pietre semi-preziose, metalli vari, ecc.) dal lontano Oman, che si trova oltre lo stretto di Hormuzd, sulla costa occidentale del Golfo Persico-Arabico, dopo un lungo periodo di stagnazione economica e commerciale della bassa Mesopotamia. Le famose navi di Magan, dette nei testi sumerici le «navi nere» a causa del bitume con cui erano calafatate per impermeabilizzarle, rapa r c h e o 47


SCOPERTE • IRAQ

presentavano agli occhi dei Sumeri di Ur il simbolo stesso della ricchezza e dell’abbondanza e, per noi, sono il segno della grande importanza che le vie d’acqua avevano per gli abitanti della Mesopotamia meridionale del III millennio a.C., rendendo ragione della straordinaria fioritura economica delle capitali del tempo.

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UNA RETE CAPILLARE Per l’economia delle antiche città sumeriche, oltre alla navigazione in mare lungo le coste del Golfo, elemento altrettanto fondamentale era senza dubbio la navigazione fluviale interna al Paese stesso, praticata sulle acque dei due fiumi principali, l’Eufrate a ovest e il Tigri a est, e attraverso la miriade di canali artificiali che, a partire dal V millennio a.C., gli abitanti di Sumer avevano cominciato a scavare sull’intero territorio della Bassa Mesopotamia collegando tutte le città dell’area. Si era cosí venuta a creare una fittissima rete di corsi d’acqua, percorsa da chiatte e barche che potevano arrivare a trasportare anche qualche tonnellata di mercanzia e che venivano fatte scivolare sull’acqua seguendo la corrente, oppure venivano spinte controcorrente dalla riva a forza di braccia o mediante trazione animale, unendo cosí commercialmente Ur, Umma, Lagaš, Nippur, Drehem, Uruk, Larsa, ecc. Questi legni erano in grado di trasportare derrate d’ogni genere –

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Nella regione di Sumer la navigazione fluviale rappresentava un elemento fondamentale per la vita economica orzo, farro, animali, uomini, olio, legname, mattoni – e un gran numero di testi amministrativi dell’epoca ci racconta il mondo che circondava questo aspetto della realtà della Mesopotamia antica: marinai, chiamati «ma-lah» («colui che trascina la barca, fa andare la barca»), venivano ingaggiati, per periodi piú

o meno lunghi, per far giungere la merce ai porti dei centri sumerici, come per esempio nel testo seguente: «13 marinai ingaggiati per 3 giorni – il salario corrisponde a 39 giorni lavorativi – per tirare una barca caricata con pecore ingrassate al molo del sovrano e poi far giungere la barca fino alla città di Umma». Al tempo


A sinistra: i canali attorno ad Abu Tbeirah ricordano le vie acquatiche tra le canne delle Paludi del Sud dell’Iraq. In basso, sulle due pagine: cosí si presenta oggi uno dei paleocanali attorno al sito di Abu Tbeirah, individuati grazie alle immagini satellitari.

della III Dinastia di Ur, la paga giornaliera per l’ingaggio di un marinaio equivaleva a 6 kg circa di orzo (nel caso citato, il costo dell’intera procedura è quindi pari a circa 235 kg di orzo, senza contare l’affitto della barca ed eventuali spese aggiuntive, quali il cibo per i marinai). Anche la legislazione mesopotami-

ca tratta questo aspetto cosí essenziale della vita quotidiana. A proposito del marinaio negligente, il codice di Hammurabi, la piú ricca raccolta di leggi dell’antichità, redatto nel XVIII secolo a.C., recita: «Se un uomo noleggia un marinaio e una barca, la carica di orzo, lana, olio, datteri o qualsiasi altra merce, e quel

marinaio è negligente e fa affondare la barca e fa perdere il suo carico, il marinaio sostituirà la barca affondata e tutta la merce che è andata perduta». Proprio la presenza nel codice di un «diritto di navigazione» – non soltanto in questo paragrafo, ma in una intera sezione della raccolta – prova l’importanza della navigazione nella vita quotidiana dell’antico abitante di Sumer. Ma se i testi raccontano abbastanza dettagliatamente le procedure amministrative per gestire la navigazione e il trasporto di merci, pochissime informazioni abbiamo sul piano archeologico per quanto riguarda la conformazione, la struttura e l’utilizzo di un porto della Mesopotamia nel III millennio a.C.

ANTICHI CANTIERI NAVALI I testi, di nuovo, ci informano di una struttura definita «mar-sa», che noi traduciamo come «arsenale», intendendo il luogo in cui si immagazzina il materiale per la costruzione e la riparazione delle imbarcazioni e che gestiva la struttura che, per noi, può essere definita «porto». Tuttavia, nessuna struttura del genere è stata mai ritrovata negli scavi e, a parte le generiche notizie contenute negli asciutti testi amministrativi, dove il termine per «porto» è «kar», letteralmente «molo», nulla sappiamo di come questa realtà apparisse fisicamente. Le uniche strutture portuali riportate alla luce in epoca moderna


SCOPERTE • IRAQ

nell’area sono quelle della città di Ur. Tra il 1923 e il 1932, infatti, l’archeologo britannico Sir Leonard Woolley scavò la città di Ur (Tell el-Muqayyar) e mise in evidenza, nel settore settentrionale, un grande porto costruito in mattoni cotti, mentre uno piú piccolo si trovava a 50 a r c h e o

ovest della città. Tutte queste installazioni, però, risalgono al I millennio a.C., epoca detta neobabilonese (il cui sovrano piú famoso fu Nabucodonosor, 605-562 a.C.), e non possono dirci nulla su come un porto sumerico di due millenni piú arcaico potesse apparire. Ma, per

nostra fortuna, la tana che una volpe si è scavata nell’area occidentale del sito di Abu Tbeirah sta rivoluzionando questo scenario... Dal 2011 una missione italo-irachena, condiretta da chi scrive, è attiva su questo tell di 45 ettari circa, il cui nome antico è a tutt’oggi ignoto,


che si trova nell’area della provincia Sulle due pagine: di Dhi Qar, 7 km a sud della città di foto e restituzione Nasiriyah, in Iraq meridionale (vedi grafica di un pane «Archeo» n. 322, dicembre 2011): di bitume con qui, a cominciare dal 2016, è stato impressione di avviato lo scavo del porto fluviale stuoia rinvenuto della città. E, come accennato, tutto ad Abu Tbeirah. è iniziato grazie a una volpe. Questi pani

LE PRIME TRACCE Nel 2016, mentre effettuavamo la consueta ricognizione sul tell a inizio di campagna di scavo, nel settore occidentale, caratterizzato dalla presenza di una forte attività antropica, cioè umana, moderna, con tracce evidenti di utilizzo di vanghe e macchine scavatrici, un buco sul terreno ha attirato la nostra attenzione: si trattava della tana che una volpe si era scavata in quell’area del sito e che aveva utilizzato per proteggersi e accudire i piccoli nei mesi estivi. Al suo interno apparivano chiaramente strutture in mattoni crudi, che ci hanno fatto comprendere che non tutte le peculiarità topografiche dell’area (grossi cumuli e zone piú depresse) erano di origine moderna, ma che alcune di esse dovevano nascondere una imponente costruzione sottostante; mettendo in evidenza questa struttura è apparsa, per la prima volta nella storia dell’archeologia mesopotamica, una installazione portuale ascrivibile al III millennio a.C.! A scanso di equivoci, è bene sottolineare che l’esistenza di porti fluviali nelle città della Mesopotamia, oltre che dalla enorme documentazione amministrativa cuneiforme, era stata ipotizzata anche sulla base di ricognizioni o foto satellitari, ma, come abbiamo detto, mai un porto sumerico era stato scavato in modo moderno e nessuna descrizione archeologica di una tale struttura era stata finora proposta. Situato nel settore NO del sito, il porto consiste in un bacino direttamente collegato al canale principale che divideva Abu Tbeirah in due lobi. Caratterizzato da una zona

venivano ricoperti da stuoie, verosimilmente per agevolarne il trasporto e lo stoccaggio.

depressa al centro, che una volta costituiva il bacino vero e proprio, il porto era una zona separata dal canale principale e dall’insediamento grazie a un rampart, cioè un terrapieno in argilla con un’intelaiatura in mattoni crudi. All’interno dell’ovale delimitato dal terrapieno si può facilmente distinguere una zona piú rialzata rispetto al bacino, che possiamo verosimilmente interpretare come il molo destinato all’attracco delle barche. Le dimensioni della struttura portuale di Abu Tbeirah sono notevoli: per esempio, il solo bacino misurava 132 x 41 m, avendo quindi una capienza di oltre 20 milioni di litri di acqua. La città era collegata al porto tramite due accessi lungo il lato sud del terrapieno. Una terza interruzione del rampart, localizzata nella parte occidentale, aveva invece plausibilmente un’altra funzione: in questa zona, infatti, il molo è caratterizzato da una depressione che parte dal bacino, attraversa la struttura e pro-

segue oltre il porto stesso: si tratta di un secondo canale, visibile anche dalle immagini attuali di Google, che corre parallelo al principale, attraversando la città da NO a SE.

IN CASO DI PIENA La funzione di questo secondo canale verrà indagata nelle future campagne, ma non si può escludere che, oltre al controllo delle barche e delle merci, potesse anche servire, insieme al bacino stesso, alla gestione dell’afflusso d’acqua in caso di piene. Infine, a ridosso del bastione meridionale è stata evidenziata una struttura quadrata e anch’essa verrà messa in luce durante le prossime campagne: la speranza è che si tratti del «mar-sa» di cui parlano i testi sumerici, che finalmente potremo indagare archeologicamente e comprenderne struttura e funzione. Molto interessante è stata la considerazione che, dopo quasi quattromila anni durante i quali il canale e il bacino non sono stati piú utilizzaa r c h e o 51


SCOPERTE • IRAQ

LA MESOPOTAMIA VISTA DAL CIELO Nel 1995, l’allora presidente degli USA, Bill Clinton, liberalizzò le immagini che il primo satellite-spia americano, chiamato CORONA, aveva acquisito tra il giugno del 1952 e il maggio 1972, orbitando attorno alla terra a 400 000 km circa di quota; ciò ha permesso la rivalutazione, tra l’altro, della geomorfologia dell’area della Mesopotamia meridionale e ha obbligato a ripensare l’habitat in cui si trovavano i centri sumerici piú

antichi. L’ipotesi, ora corroborata anche da analisi sul campo, ci fa ricostruire per i millenni V e IV a.C. un ecosistema drammaticamente paludoso e lagunare, in cui le città appaiono come delle «gobbe di tartaruga» (turtle back) che fuoriescono dall’ambiente acquatico circostante; il corollario è che lo sfruttamento dell’elemento acquatico, in ogni sua forma – trasporto di merci, acquisizione di materiale costruttivo,

approvvigionamento di cibo –, è stato senz’altro piú significativo di quanto sinora supposto, e che l’immagine offertaci essenzialmente dalla documentazione scritta di una società che «ruba» spazio alla palude per produrre terra arabile e pasturale (aspetto che, come è stato notato, rappresenta un pregiudizio della tradizione occidentale) è solo uno degli aspetti che giustificano lo straordinario sviluppo sociale ed economico della Mesopotamia meridionale. Rispetto a questa riconsiderazione del paesaggio mesopotamico arcaico, la scoperta del porto di Abu Tbeirah ci permette però di fare un ulteriore passo in avanti per raffinare questa nuova visione della realtà economico-ambientale della città sumerica. A sinistra: immagine acquisita dal satellite Corona negli anni Sessanta. Nella foto sono indicati il canale principale, il porto e il canale secondario che da questo si diparte. Attorno al sito è visibile il sistema radiale di paleo-canali. Nella pagina accanto: particolare dell’area NO del tell, del porto e dei canali interni ad Abu Tbeirah.

ti, nell’area del porto cresce ancora oggi una vegetazione piú ricca e fiorente che nel resto del tell, segno certo, assieme alla mancanza di frammenti ceramici, dell’antica presenza massiccia dell’acqua in quel settore del sito. Oltre all’importanza archeologica di poter finalmente descrivere un porto sumerico arcaico, la scoperta di questa struttura ad Abu Tbeirah ci obbliga a rivalutare tutta una serie di considerazioni relative al paesaggio che circondava una città mesopotamica del III millennio a.C., e soprattutto al modo in cui i suoi 52 a r c h e o

abitanti convivevano con il mondo naturale che li circondava e di come essi lo sfruttassero fisicamente ed economicamente.

L’ECONOMIA DEI SUMERI E UN SATELLITE-SPIA L’aspetto piú interessante e significativo è innanzitutto la dimensione del porto di Abu Tbeirah: rispetto alle altre coeve città dell’alluvio precedentemente citate, la struttura portuale del sito appare assai sovradimensionata percentualmente rispetto alla superficie totale della città, suggerendo che proprio il

porto fosse uno degli elementi fondanti la topografia, e di conseguenza la ricchezza economica, della città. Questa caratteristica ci spinge a rivedere quello che doveva essere l’ambiente naturale in cui la città di Abu Tbeirah era immessa. Che l’elemento acquatico, oggi definito spesso marshlands, sia uno dei tratti fondamentali della cultura mesopotamica è un fatto acquisito nei nostri studi da molto tempo. Uno studioso tedesco, Karl August Wittfogel (1896-1988), descrivendo in un saggio della metà del XX secolo il «dispotismo orienta-


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e abbia rappresentato il fondamento del loro benessere e della loro prosperità, in qualche modo ispirando la struttura sociale.

GLI INTERESSI PRIMARI Da tempo è chiaro come in quel contesto ambientale l’interesse dei Sumeri fosse rivolto a tre aspetti essenziali: agricoltura, pastorizia e risorse acquatiche (fiumi, lagune, paludi, ecc.). A questo riguardo va osservato però che nella documentazione amministrativa sumerica del III millennio a.C. la grande parte è rappresentata proprio dalla gestione

dei settori agricolo e pastorale, mentre molto minore appare la quantità di testi relativi all’ambito littorale e deltaico, caratteristica che ha fatto ritenere l’impatto economico di quest’ultimo settore come secondario e insignificante. A ciò si aggiunga che, dal punto di vista archeologico, le tracce di realtà fisiche legate all’acqua (pesci, uccelli, canne, ecc.), anche a causa della difficoltà di reperimento, sono piú scarse, per esempio, della ceramica o dei resti architettonici, piú visibili e facili da reperire. Sintetizzando queste considerazioni, l’immagine ama r c h e o 53


SCOPERTE • IRAQ

Abu Tbeirah. Tomba sub-pavimentale da un edificio del III mill. a.C. Il corredo comprendeva un cestino intrecciato in materiale vegetale con una conchiglia al suo interno.

Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis

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bientale e politica che si è ricostruita delle piú antiche città sumeriche prevede una gestione in cui, bonificando le paludi che circondavano i centri urbani, gli abitanti si procuravano terra per l’agricoltura e la pastorizia; episodicamente sfruttavano anche l’ambiente paludoso e lagunare, considerato senz’altro secondario, per aspetti di minore impatto economico ovvero per il commercio intercittadino. Da qualche anno, però, nell’ambito degli studi sull’origine dello Stato

A destra: rinvenimento di una giara, parte di un corredo funerario datato alla III Dinastia di Ur (2100 a.C.). Qui sotto: edificio in mattoni crudi, scoperto nel 2017 e datato alla III Dinastia di Ur (2100 a.C.).

Qui sopra: scavo di un mattone iscritto del sovrano Amar Suena della III Dinastia di Ur. A sinistra: scavo di una sepoltura bisoma della seconda metà del III mill. a.C.

in Mesopotamia, si è cominciato a rivalutare l’apporto economico dell’elemento acquatico sulle scelte economiche degli abitanti per supportare la nuova e complessa macchina statale che stavano costruendo. Un elemento rappresentato dall’ecosistema littorale, deltaico e paludoso che ha caratterizzato paesaggisticamente la Mesopotamia meridionale all’inizio della sua storia politica, quando, per intenderci, apparvero lí le prime organizzazioni cittadine e statali, in modo sorprena r c h e o 55


SCOPERTE • IRAQ

dentemente repentino, a partire dalla fine del V millennio a.C. Questo fenomeno, sulla base di una fortunata espressione coniata da Vere Gordon Childe (1892-1957) negli anni Cinquanta del secolo scorso, che mantiene ancora oggi tutta la sua validità storica, viene detto «rivoluzione urbana». Il quadro storico ora delineato ha cominciato a essere sottoposto a 56 a r c h e o

critica, almeno per quanto riguarda la sottovalutazione dell’apporto economico dell’ecosistema deltaico alla ricchezza delle città sumeriche arcaiche, grazie a nuove immagini satellitari che sono state declassificate a partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso (vedi box a p. 52). La scoperta del porto nel nostro tell sta aiutando a comprendere che la

dipendenza delle città sumeriche dallo sfruttamento delle paludi circostanti è durato molto piú a lungo di quanto si poteva supporre. Lungi dall’essere un fenomeno «arcaico», la preponderanza dell’ecosistema deltaico (in ogni suo aspetto) rispetto allo sfruttamento agricolo e pastorale dell’ambiente naturale che circondava la città, o almeno la sua pariteticità con queste altre realtà


A sinistra: un «mudhif» («casa dell’ospite»), costruzione tradizionale delle Paludi del Sud dell’Iraq, che trova confronti già nell’iconografia del IV mill. a.C.

(molluschi, canne e oggetti in canna, costruzioni tipiche della cultura delle marshlands, come ci indicano le comparazioni etnografiche), l’esistenza di canali (simili alle hollow ways, antiche strade visibili nei siti del Nord dell’Iraq) tutt’intorno al tell, che indicano l’antica traccia di vie d’acqua che si dipartivano dal sito e che possono essere messe in relazione con i piccoli canali cireconomiche, può essere considerato condati dalle canne che si possono vedere ancora oggi utilizzati nelle ora un fatto acquisito. A questa conclusione portano al- paludi dell’Iraq meridionale. tresí ulteriori testimonianze archeologiche, reperite nei sette anni di NUOVI SCENARI scavo già effettuati sul tell: le scarse Insomma, l’idea di una città sumeattestazioni di attività agricole; lo rica circondata da campi ondegsfruttamento massiccio di realtà gianti di orzo e ripiena di animali specifiche delle paludi, sia dal punto da pastura va ridimensionata e sostidi vista alimentare che per le loro tuita con un’immagine piú vicina caratteristiche naturali e culturali alla realtà storica, in cui l’elemento

In alto: la raccolta delle canne palustri costituisce ancora oggi una delle maggiori attività praticate dalle comunità stanziate nell’area delle marshlands irachene.

paludoso riprenda la sua valenza e significato. Di piú, appare indispensabile riconsiderare la documentazione scritta, cercando di evidenziare in essa gli aspetti economici relativi al mondo delle marshlands, e valutarne l’impatto nella globalità dell’economia sumerica antica. Simili considerazioni costituiscono, al momento, un’ipotesi valida per l’area occidentale di Sumer, in cui è appunto compreso il sito di Abu Tbeirah, e verifiche sulle altre città dell’alluvio a est, quali per esempio Umma e Lagaš, permetteranno di raffinare meglio la nostra proposta interpretativa. Tuttavia, appare fin d’ora necessario un ripensamento del quadro ambientale in cui le città di Sumer sono nate e si sono sviluppate, almeno sino alla fine del III millennio a.C. a r c h e o 57


REPORTAGE • GRECIA

COME UN

MIRAGGIO SUL MARE

SONO FRA LE PIÚ «SFUGGENTI» E IGNOTE ISOLE DELLO IONIO: VISIBILI SOLO NELLE MAPPE PIÚ DETTAGLIATE, LE MINUSCOLE STROFADI HANNO LEGATO IL PROPRIO NOME ALLA LEGGENDA DI ENEA E DELLE ARPIE. OGGI, LA PIÚ GRANDE DI ESSE, LA SOLA A ESSERE MAI STATA ABITATA, VIENE RAGGIUNTA UNA VOLTA ALL’ANNO PER CELEBRARVI UN ANTICO RITO di Fabrizio Polacco

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acconta il mito che alcune isole greche emersero dall’abisso del mare, come Rodi. Altre, nacquero come macigni scagliati sul corpo dell’avversario dagli dèi in lotta con i Giganti, come Nisyros. Altre ancora, nella loro esistenza precedente, furono dèe: Asteria, amata invano da Zeus, fu trasformata dapprima in quaglia, e divenne isola una volta precipitata in mare. Estremamente ristretto è però il numero delle isole «erranti» o «naviganti», di cui la stessa Asteria fece parte nella prima fase della sua vita marina, prima di stabilizzarsi e di diventare la Delo cara ad Apollo. Avvistate ora qua, ora là, dai perplessi marinai e dagli attoniti abitanti delle coste dell’Ellade, le Erranti erano in genere piccole, misteriose e partecipi di vicende straordinarie: come l’isola Eolia, dimora vagante di Eolo, dio dei Venti, che accolse Ulisse in un celebre episodio dell’Odissea. Ma le piú ignote e sfuggenti di queste isole plotài (potremmo definirle anche «flottanti»), sono le due minuscole Strofadi. Si tratta delle piú estreme terre greche del Mar Ionio: collocate a ovest del Peloponneso, distano oltre 40 km dal promonto-

Isole Strofadi

rio piú meridionale di Zacinto, o Zante, che è a sua volta l’ultima grande isola delle Ionie. Piatte, prive di rilievi, emergenti sí e no una ventina di metri sulla superficie marina, sono praticamente

invisibili dalle altre terre. Come mi racconta per incoraggiarmi durante la lunga e un po’ noiosa traversata il capitano della motovedetta che mi sta conducendo fin lí, ci appariranno allo sguardo solo al termine del

Sulle due pagine: il monastero-fortezza costruito sull’isola di Stamfani nel XIII sec. per volere dell’imperatore romano d’Oriente Teodoro I Lascaris. Si tratta dell’unica isola abitabile tra le due Strofadi, che dista una quarantina di chilometri dal Peloponneso.

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anche in presenza di una modesta intensità di vento creano spesso, mi dice il capitano, un sorta di effetto tsunami attorno alle due isolette. E però, proprio dal ponte di uno di quei traghetti mi erano già apparse una prima volta in un abbacinante pomeriggio estivo d’una dozzina d’anni fa: brune, ombrose e incantate come un miraggio sul mare. Ora purtroppo quel traghetto passeggeri che collegava direttamente l’Italia e

la Turchia non esiste piú. Ma da allora mi ero sempre ripromesso in cuor mio di visitarle. Ed è stato questo il mio primo pensiero quando, giunto l’estate scorsa a Zacinto, mi sono trovato ad aggirarmi tra le banchine del porto dell’isola, il piú favorevole per tentare la traversata. Benché minuscole, remote e attualmente disabitate, le Strofadi non mancano infatti di motivi di interesse. Anzitutto, sono collocate al

UN NOME PER OGNI VENTO

In alto: la costa rocciosa di Stamfani, la maggiore delle Strofadi. In basso: la Rosa dei Venti nell’atlante nautico disegnato da Andrea Bianco. 1436. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

viaggio. Fino all’ultimo, l’orizzonte equoreo si mostra deserto. Tanto che, da quando ospitano un faro, cioè dal 1887, i naviganti trovano addirittura piú semplice individuare le Strofadi di notte che di giorno.

TAGLIATE FUORI DAL MONDO Nessuna linea marittima, nessuna corsa regolare né saltuaria vi fa scalo. E anche le grandi navi se ne tengono prudentemente al largo quando passano dall’Adriatico e dallo Ionio all’Egeo. Sono traghetti o portacontainer troppo grandi per accorciare il passaggio tra il Mediterraneo occidentale e quello orientale «tagliando» il Peloponneso attraverso il canale di Corinto, creato alla fine dell’Ottocento per natanti di stazza ben minore. E se ne tengono al largo anche perché le loro acque sono pericolose: scogli aguzzi spuntano inattesi dai fondali, per il resto assai profondi, di quel tratto di mare; e le coste, scoscese e improvvisamente emergenti dalle acque, 60 a r c h e o

La collocazione in corrispondenza delle Strofadi del centro della Rosa dei Venti – creata nel Medioevo, forse dalle Repubbliche marinare italiane – in questo angolo meridionale del Mar Ionio, spiega, per esempio, il nome Grecale per il freddo e teso vento di nord-est, visto che la penisola ellenica, che

pure è la piú meridionale di quelle europee, si trova a nord-est rispetto alle Strofadi. Ma anche del nome Libeccio attribuito al vento di sud-ovest: infatti noi parliamo di «libecciate» sulle nostre coste, sebbene la Libia non si collochi a sud-ovest dell’Italia, ma della Grecia.

Tramontana

Maestrale

Grecale

Ponente

Levante

Libeccio

Scirocco

Ostro


di una nuova patria: collocate su una rotta praticamente obbligata, le due isolette, infatti, erano e sono tutt’oggi lussureggianti, dotate di flora e fauna ricchissime, ma, soprattutto, provviste d’acqua. Non la pioggia raccolta artificialmente in grandi cisterne, come accade in tante isole mediterranee, ma ampie riserve naturali, sotterranee e potabili, facilmente attingibili con dei pozzi. Che cosa poteva esserci di meglio, quindi, di due piccoli paradisi ombrosi e rinfrescanti per i navigatori di quei piccoli legni del II millennio a.C., usurati dal sale, che se le trovano davanti inattese, come isole «vaganti», appunto, dopo una lunga traversata?

COME UN INCUBO Ma ecco che, quando finalmente quei progenitori dei Romani approdano nelle Strofadi e si accingono al sospirato banchetto, inizia per loro un incubo raccapricciante. Ombre veloci, aguzze e grandiose si stagliano improvvise sull’erba e sulle rocce circostanti. Enea e i suoi fanno appena in tempo a volgere lo sguardo verso il cielo, che uccelli dal volto femmineo già piombano sui cibi appena imbanditi, con stridore acuto, sbatter di piume, artigli e becchi acuminati. È l’assalto delle orribili Arpie: «Da una diversa parte centro della Rosa dei Venti. Infatti, In questa pagina: cosí come una bussola ha per riferi- due immagini del mento il Polo Nord, la direzione dei faro che, dal 1887, venti del Mediterraneo – e quindi fa sí che per i le loro denominazioni – furono naviganti sia piú individuate dagli antichi marinai agevole partendo da un punto geografico individuare le ben preciso, coincidente pressappoStrofadi di notte co con quel loro solitario angolo di invece che di mare (vedi box alla pagina precedente). giorno. L’altro motivo di interesse è lo stesso per cui le Strofadi erano famose fin dall’antichità, tanto che Virgilio ne fece una delle tappe significative delle peripezie di Enea. Una sosta che doveva essere di riposo e di sollievo per i profughi troiani in cerca a r c h e o 61


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di cielo e da ciechi nascondigli, vola la turba sonora intorno alla preda con unghie adunche e insozza i cibi con la bocca». Invano, quei soldati avvezzi a una guerra decennale impugnano le lame per allontanarle: «I compagni assalgono e tentano strane battaglie, ferire col ferro i sudici uccelli del mare. Ma non ricevono offesa nelle piume, o ferite sul dorso, e volate con rapida fuga alle stelle lasciano la preda semidivorata e le sozze vestigia» (traduzione di Luca Canali; vedi box in questa pagina). Piú fortunato di Enea e dei suoi, riesco a sbarcare su queste isole

misteriose in un mattino di sole agostano, assieme a pochi altri compagni di traversata, ma rassicurato da una notevole quantità di cibo che viaggia con noi e che ci garantirà una sopravvivenza senza imprevisti per alcuni giorni. Neppure l’agile motovedetta osa approdare al piccolo molo in cemento, battuto dalle onde nervose, che è l’unico approdo: dobbiamo trasbordare tutti, lentamente e un paio alla volta, su un minuscolo gommone a motore che fa la spola. La compagnia di cui faccio parte è

DEE CHE RAPISCONO Le Arpie non erano un parto originale della fantasia di Virgilio: quei mostri risalivano a una tradizione ripresa già in precedenza da Apollonio Rodio, e che sicuramente rimanda a un patrimonio mitico greco ancor piú antico. Come le piú note Sirene, le Erinni, le Moire e le Gorgoni, esse erano divinità femminili, primordiali e collettive. In un contesto culturale arcaico poco benevolo verso il gentil sesso, si presentavano come entità nefaste: anche quando, come nel caso delle Sirene, erano avvolte da una parvenza incantevole. Le Arpie, poi, di gradevole non avevano neanche l’apparenza. Pure il nome non prometteva nulla di buono, rimandando alla loro furia distruttrice e rapinatrice (dal greco antico arpàzein, «rapire»), assimilabile a quella dei Venti.

SALVEZZA E RITORNO Le Arpie sono divenute oggi metafora di donne sgradevoli e malvagie perché non solo Apollonio Rodio, ma anche Dante nell’Inferno ce le descrivono in modo concordemente sgradevole (le «brutte Arpie», del canto XIII, o di Pier delle Vigne). Nelle Argonautiche, Fineo, un vecchio profeta, era stato punito dagli dèi con la loro malefica presenza. Commossi dalla sorte del vate – «Mi rapiscono il cibo di bocca, piombando da non so dove, da qualche nido funesto, e non ho modo di difendermi (…) Se talvolta per caso mi lasciano un poco di cibo, manda un odore tremendo, che non si può sopportare» (traduzione di Guido Paduano) – i due Argonauti Calais e Zetes, figli del vento Borea, le cacciarono inseguendole in volo fino alle due remote isolette dello Ionio, dove vennero salvate dal soccorso della sorella Iride: dovettero promettere di non muoversi piú di lí, e in cambio gli inseguitori tornarono indietro. In greco antico, infatti, «Strofades» significa «Isole del Ritorno».

tanto piccola quanto insolita: oltre a me, scendono un paio di marinai e il capitano della nave (che però poi ripartiranno dopo un paio d’ore, lasciandoci sul mini arcipelago); un tecnico elettricista con la sua cassetta di attrezzi, che è lí per riparare il faro; un dipendente del ministero della cultura che ci abbandonerà anch’egli con la motovedetta dopo il pranzo; tre giovani cantori di salmi; e, soprattutto, il capo della nostra spedizione, il piú anziano e autorevole della compagnia: porta il nome di uno dei grandi Padri della Chiesa, Crisostomo. È il metropolita, 62 a r c h e o


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

cioè il vescovo, di Dodona.Tuttavia, a parte questo titolo onorifico (che rimanda non a una giurisdizione ecclesiastica effettiva, ma alla zona archeologica del santuario di Zeus a Dodona, nell’Epiro), è stato fino a pochi anni fa il metropolita di Zante, l’isola da cui siamo salpati: del vescovado, insomma, da cui giuridicamente dipendono le isolette.

In alto: kylix (coppa a due manici) con le Arpie inseguite da Calais e Zetes. VI sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Nella pagina accanto: Enea combatte

le Arpie, olio su tela di François Perrier. 1646. Parigi, Museo del Louvre. In basso: l’isola di Arpya, la piú piccola delle Strofadi.

IL MONASTERO FORTIFICATO Che cosa ci facciano un metropolita ortodosso e uno sparuto gruppo di salmisti in questo remoto a r c h e o 63


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tratto del Mar Ionio, ce lo spiega il In alto: scalea e sorprendente edificio che troneg- portale d’accesso gia sulla scogliera al di sopra del al torrione del minuscolo scalo. Da lontano lo dimonastero di resti un palazzo-fortezza, dominato Stamfani. da un torrione possente che svetta A destra: sulle due minuscole terre. Il torrioCrisostomo, ne, a sua volta, abbraccia e protegge metropolita di con una cinta scoscesa di mura Dodona, con il grigie – ma di un grigio caldo, monastero di addolcito dal vento e dal sole – al- Stamfani alle sue tri, piú bassi edifici. spalle. L’antichità del complesso ne spiega Nella pagina l’austera bellezza. Si tratta di un accanto, in alto: il monastero fortificato bizantino, rimonasterosalente al XIII secolo, che preserva fortezza in una ancora gran parte dell’originario incisione impianto medievale. La sua origine settecentesca. è strettamente legata alla storia del64 a r c h e o


giunse a ospitare fino a un centinaio di religiosi. Vivevano pregando, cantando le loro lodi a Dio, e mettendo a frutto il terreno della maggiore delle due isole, Stamfani, l’unica pianeggiante e abitabile. Ripetuti attacchi dei pirati e degli Ottomani prima (che portarono in conclusione al trasferimento della sede monastica nella città di Zante), la crisi delle vocazioni religiose poi, e, infine, un disastroso terremoto, hanno fatto sí che l’ultimo monaco ultraottuagenario che ancora vi abitava si sia spento, malato, a Zante proprio nell’estate del 2017. le isole. In quell’epoca, una nave che trasportava la principessa Irene, figlia dell’imperatore romano d’Oriente Teodoro I Lascaris, rischiò il naufragio in questi mari perigliosi, e fu salvata dall’intercessione della Vergine, la «Madonna di Tutte le Grazie». A lei, e alla Trasfigurazione di Cristo (in greco si dice «Metamorfosi») venne quindi dedicato il monastero, che però forse non faceva che rivitalizzarne uno assai precedente, dei tempi dell’imperatore Giustiniano (VI secolo d.C.). Grazie alla posizione strategica e all’abbondanza delle risorse naturali, sorprendente in scogli sperduti che non raggiungono neanche i 3 kmq di superficie, il cenobio

TEMPO DI MIETITURA Per fortuna non sbarchiamo nella solitudine piú assoluta: un barbuto fattore con pochi braccianti, che trascorrono nell’isola alcune settimane ogni anno al tempo della mietitura, ci accolgono con una tavola già apparecchiata e del buon vino. La loro sussistenza è agevolata da un generatore di corrente, che però non basta a illuminare un’isola: il vialetto di terra da percorrere fino alla piccola foresteria che ci accoglierà per la notte è punteggiato dalla fioca luce di lampioncini a ricarica solare. E cosí, in assenza di segnali televisivi e di internet, con i cellulari che resteranno ostinatamente silenti, trascorriamo il primo pomeriggio,

la sera e la notte. Non sappiamo se questa rimarrà l’unica notte, o non sia invece che la prima: scopro infatti che il ritorno non è programmato. «Quando torneremo, lo sa solo Dio», mi comunica con un sorriso ineffabile il metropolita, levando il dito verso il cielo. O meglio, dipenderà dalle condizioni del mare e dalla disponibilità di una imbarcazione adatta all’approdo che possa venire a riprenderci. L’uomo moderno non è piú abituato a vivere, come Odisseo a Ogigia, «nell’ombelico del mare», cioè privo di relazioni col resto del mondo, neanche ci trovassimo al centro dell’oceano. Ma, oltre che da quel pugno di compagni tanto singolari quanto solidali, che conoscevo appena, mi sentivo non solo confortato, ma felice grazie al semplice fatto di potermi aggirare liberamente in una sorta di paradiso dimenticato. Ricordo la passeggiata sul far del tramonto al vecchio faro, prima attraverso una estesa macchia mediterranea, poi dentro una vegetazione di magnifici e secolari cedri, tanto fitta da essere soprannominata «la Giungla». Da quella vecchia lanterna, su un promontorio appena rilevato di Stamfani, ho cosí ammirato anche la sagoma irregolare, aspra e nera dell’isola minore: che si chiama – lei sí – proprio «Arpyia». Una grande croce lungo a r c h e o 65


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il sentiero ci ricorda il luogo in cui si ritirava in romitaggio san Dionisio, il piú celebre ospite del monastero e ora patrono di Zante, il cui corpo miracolosamente conservato avevo osservato prima della partenza in una delle regolari ostensioni offerte ai trepidi fedeli. Il mattino successivo, prima ancora che il sole si levasse e rendesse ancor meno tollerabile l’umidità di queste isole Erranti, ho fatto una lunga passeggiata nell’isola ancora deserta. Ed è allora che li ho visti: a coppie, a piccoli stormi e poi a decine si levavano improvvisi al mio passaggio, con un fragoroso batter d’ali, grossi uccelli mai visti, di varie forme e dai piumaggi per me ignoti. E a quel punto ho capito perché queste isole fanno parte del Parco Nazionale Marino di Zacinto, lo stesso che sulle spiagge dell’isola maggiore preserva le preziose nidiate delle testuggini marine: qui, però, a farla da padrone sono i volatili, poiché le Strofadi, ultimo lembo di terra tra quest’angolo dei Balcani e l’Africa, sono punto di 66 a r c h e o

transito e di sosta nelle lunghissime rotte degli uccelli migratori. Che sia questa l’origine del mito delle Arpie? (vedi box alle pp. 62-63). La mia passeggiata all’alba ha un andamento grosso modo circolare, il cui fuoco è senz’altro rappresentato dal grandioso monastero-fortezza. Silente, abbandonato poiché pericolante dal terremoto del 1997, guarda dai suoi alti bastioni le grosse navi sfilare lontane all’orizzonte, come faceva quand’era il signore di questo tratto di mare. Mi avvicino e vi entro, attraversando il portale monumentale rimasto aperto.

«SOLO ACQUA PER BERE» Mi aggiro per la corte fortificata, dove, attorno a un pozzo su cui un cartello raccomanda «solo acqua per bere», sorgono le residenze con le minuscole celle, il refettorio, le sale di lavoro e di riunione dei monaci che lo abitarono per generazioni. Attraverso una scalinata in pietra salgo fino all’ingresso del maschio. Incredibile: quello che sembra dall’esterno un fortilizio difensivo

racchiude al suo piano nobile, come uno scrigno, il tempio ortodosso dell’isola, la chiesa della Metamorfosi. In un tripudio di aquile bizantine scolpite nella pietra, la grande navata, spettacolare e illuminata dai fasci del sole nascente che la intersecano obliquamente, mi accoglie silente e immota: vedo attorno a me gli scranni dei monaci vuoti e impolverati, i ceri spenti e reclinati, i messali e i libri di salmi lasciati aperti oltre l’iconostasi e gli stucchi sulle pareti, bisognosi di restauri ma ancora seducenti. Dopo lunghi minuti di ammirazione e meditazione esco: la semplice vita dell’isola è già ripresa. Da una chiesetta nei pressi della foresteria giunge, interrotta solo dalle folate di vento e dagli stridii degli uccelli, la voce dei coristi che hanno iniziato la loro funzione. Ancora una volta, come accade da mille anni, il «venerabilissimo» Crisostomo, vestito dei paramenti solenni, celebra la liturgia della Trasfigurazione: i contadini lo aiutano nella cerimonia, reggendo turiboli d’incenso e ceri dalla fiammella tremolante. Nonostante l’abbandono, le difficoltà, i terremoti, la quasi inaccessibilità dei luoghi; nonostante quasi piú nessuno sappia dell’esistenza di queste isole sperdute e marginali – nessuno certo delle decine di migliaia dei turisti di Zante, né dei milioni di frequentatori estivi degli arcipelaghi ellenici –, quelle tre voci impostate e solenni e i gesti pacati e larghi del metropolita, che alla fine della cerimonia benedirà le primizie dell’uva raccolta nella terra delle Arpie, tracciano e circoscrivono uno spazio di memoria che non si vuole smarrire. Cosí come il Signore del Mare poco lontano da lí difende ancora simbolicamente quegli scogli sperduti dall’immensità circostante del mare. Dopo il pranzo, i giovani salmisti vanno a godersi un bagno rinfrescante. Io invece resto ad ammirare, seduto all’ombra incerta di un can-


neto, quel mare in cui, nell’ora piú calda, non sembra passare nessuno: se non, lontanissima e sballottata dalle onde, una cuspide di vela bianca. Vento, luce. Ancora vento, ancora luce. Solo la cupa Arpya, di fronte a me, sembra ingoiare i raggi meridiani come un buco nero, ancora piú solitaria di questa nostra solitudine, ancora piú inarrivabile – circondata com’è da punte rocciose affioranti come canini – di questa nostra terra già estrema.

UNA META IRRAGGIUNGIBILE Non potrei, neppure volendo, consigliare al lettore vie e procedure da seguire per visitare le due isolette. Infatti non vi si organizzano gite, non vi sono autorizzati soggiorni, e nessun battello vi ci porterà, neanche a pagamento. Anzitutto, esse fanno parte di un parco marino esclusivo; poi sono proprietà della Chiesa ortodossa. Ma, soprattutto, come mi spiega il metropolita, mancano di un imbarco degno di questo nome, non vi sono strutture di accoglienza temporanea, e, infine, il monastero è chiuso alle visite poiché pericolante.Tiranti metallici ne sorreggono le parti piú alte, e il semplice accesso può essere rischioso. Inoltre, il monumento è protetto e tutelato come bene archeologico, e neppure l’autorità

A destra: i tre portali d’ingresso della chiesa della Metamorfosi. Nella pagina accanto: l’abside bizantina della chiesa della Metamorfosi, inglobata nel monastero di Stamfani. In basso: Crisostomo benedice le primizie d’uva: una cerimonia che si celebra ogni anno in occasione del raccolto.

ecclesiastica potrebbe avviarne autonomamente i restauri. La democrazia ellenica non ha certo, nelle attuali condizioni economiche, disponibilità finanziarie per garantire il recupero dei manufatti e l’accessibilità delle isole: che non potrebbero, né dovrebbero, divenire

mete di turismo di massa, ma almeno accogliere visite guidate e contingentate, senza pernottamento, per i devoti locali del santo o per gli altri viaggiatori che ambiscano a calcare, una volta nella loro vita, la terra delle Arpie. Mentre due piccole imbarcazioni ci riportano infine verso Zacinto, Crisostomo mi confessa che salvare le Strofadi e il monastero della Metamorfosi dalla rovina e dall’abbandono è diventato ormai lo scopo della sua vita. Soltanto attraverso uno sforzo comune dell’Europa, penso, si potrebbero recuperare queste terre. Del resto, uno scatto di orgoglio e di amore per il proprio passato e per la propria cultura, non darebbe a istituzioni europee oggi poco amate un’occasione per riconquistare la fiducia e la stima generale, dimostrando che il bilancio comunitario ha un occhio, talvolta, anche per i paradisi perduti? a r c h e o 67


PREISTORIA • SICILIA

PREISTORIA A CAPO GALLO POCO FUORI PALERMO, LA RISERVA NATURALE ORIENTATA DI MONTE GALLO OFFRE PAESAGGI DI STRAORDINARIA BELLEZZA. POPOLATO DA NUMEROSE SPECIE VEGETALI E ANIMALI, QUESTO PICCOLO ANGOLO DI PARADISO RACCHIUDE PERÒ ANCHE IMPORTANTI TESTIMONIANZE ARCHEOLOGICHE: PRIME FRA TUTTE LE MOLTE MANIFESTAZIONI D’ARTE PARIETALE PREISTORICA di Giuseppina Battaglia e Carlo Casi

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I

ncuneato tra le spiagge di Mondello (a est) e di Sferracavallo (a ovest), il Monte Gallo si erge come una muraglia a difesa della Sicilia tirrenica d’Occidente e, mentre si getta a capofitto nel mare, gli fanno da sfondo le variegate sagome dei monti della Conca d’Oro. I naviganti hanno sempre temuto la sua figura possente, che emerge improvvisa dalle acque, affibbiandogli l’orientale, anche se non esclusivo, toponimo di Ghallu (maestoso): «Egli era uno degli sceicchi di Gallú delle montagne di Sicilia, non quella su un promontorio che sovrasta il mare» (AlHamawi, Ta’ rikh al-Mansuri, 122829). Lo stesso timore trapela anche dalla descrizione lasciataci nel XVI secolo dall’architetto toscano Camillo Camilliani e dal capitano termitano Filippo Geraci: «A miglia uno

di Capo di Gallo, quale fa una montagna alta, che comparisce da lontano detta montagna corre a pico, e se l’altura cascasse una pietra si reduce in mare».

COME UN BALUARDO Muta e inaccessibile sentinella della grande e popolosa città che ormai è giunta ai suoi piedi: Palermo. Un tempo la lambiva la palude acquitrinosa, della quale resta solo il ricordo nel toponimo «via Saline», aumentando le insidie per i viaggiatori che tentavano la fortuna cercando di superare l’angusto passo tra la rocca dell’Impiso e le balze del Raffo e giungere cosí nella Piana di Carini in direzione di Trapani. Sicuro baluardo del passato isolamento di Palermo, il Monte Gallo, con i suoi ripidi versanti, pericolosamente digradanti dai 562 m di altitudine,

sembra ancora oggi voler ammonire chiunque si avvicini alla città dei Florio da ovest o da sud. Luogo di passatempo e divertimento per i nobili palermitani che amavano stanare i volatili che si annidavano numerosi – e che per fortuna ancora si annidano – sulle pareti delle balze durante le battute di caccia; luogo di sacrificio e di sudore per gli ignoranti (non nobili), che qui si accanirono contro la dura roccia nel tentativo di estrarne pregiato materiale da costruzione e fondamentale cementizio. Geologicamente, si tratta di un massiccio carbonatico che il mare, a causa della natura carsica delle rocce, ha scavato, formando lungo i pendii grotte e cavità, alcune delle quali presentano sicuro interesse paleontologico e archeologico, soprattutto

Il Monte Gallo, promontorio roccioso nei pressi di Palermo, che tocca i 562 m di altitudine. Nei suoi pendii si aprono grotte e cavità, alcune delle quali hanno restituito materiali archeologici e paleontologici e conservano importanti testimonianze d’arte parietale preistorica.

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PREISTORIA • SICILIA

sul versante costiero orientale denominato la Marinella: la Grotta dei Vitelli, la Grotta Perciata, la Grotta del Capraio, la Grotta Regina, Grotta Impisu, Grotta del Faro, Grotta della Caramula, Grotta dei Vaccari e Grotta Buzzillino. Trovandosi vicino all’abitato della borgata di Mondello, durante il secondo conflitto mondiale, le grotte vennero utilizzate come rifugio, provocando danni irreparabili ai depositi archeologici.

IL MAGO EREMITA La Grotta dei Vitelli, la prima cavità del gruppo della Marinella, è un corridoio di una ventina di metri che presenta un gruppo di incisioni lineari, alcuni motivi vulvari e il dorso di un quadrupede, databili tra la fine del Paleolitico Superiore e il Mesolitico. Dell’antico deposito non rimane traccia. Conosciuta anche con il nome di grotta «del Magaru» per l’antica presenza di un eremita, probabile «mago», salí agli onori della cronaca nella prima metà del Novecento, Veduta di un tratto di costa dalla sommità di Monte Gallo.

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grazie alle ricerche condotte da Raymond Vaufrey, pubblicate nel 1928. L’anno seguente, Giuseppina Tricomi, eseguí un interessante studio malacologico sui resti di molluschi rinvenuti al suo interno. La Grotta Perciata («bucata», in dialetto siciliano), caverna di grandi dimensioni di origine marina, presenta due aperture: una, verso nord, guarda il mare aperto e una, verso est, si affaccia sul Golfo di Mondello. I primi scavi risalgono al 1859, quando vennero in luce diversi strumenti litici del Paleolitico Superiore. Altri scavi seguirono fino a quelli del 1970, condotti in collaborazione fra la Soprintendenza alle Antichità della Sicilia Occidentale e l’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria di Firenze. Oltre a industria litica e ceramica, il deposito restituí ossa d’ippopotamo, di cervo e un frammento di molare di Elephas mnaidriensis. Nel cunicolo di destra, lungo una ventina di metri, sono state individuate cinque impronte di mani, in positivo, in ocra rossa.

Impronte come queste sono un tema ricorrente nell’arte rupestre di tutti i continenti, forse il primo segno di «individualità» nella storia umana. Possono essere realizzate seguendo due tecniche: in positivo, come in questo caso, intingendo la mano nella tinta ottenuta mescolando pigmenti naturali (ocra, ecc.) con leganti (uovo, ecc.) oppure in negativo, poggiando la mano sulla roccia e passandoci sopra la tinta (vedi box alle pp. 74-75).

UNA LUNGA FREQUENTAZIONE La Grotta del Capraio è una caverna di grandi dimensioni di origine marina, in fondo alla quale si aprono due cavità piú piccole. Sulle pareti di una di esse è stata rilevata la presenza di un gruppo di incisioni lineari, databili al Mesolitico, alcune lettere puniche, alcune croci e il disegno in nero di due imbarcazioni del XV-XVI secolo. L’antica frequentazione umana è attestata da labili tracce di paleosuoli concrezionati


alle pareti con strumenti litici e resti di pasto databili al Paleolitico Superiore. Sul soffitto, a oltre 5 m dal piano di calpestio attuale, è stata di recente individuata la figura incisa di un quadrupede (cerbiatto?). La Grotta Regina, la piú grande fra le cavità della Marinella for-

matasi per erosione marina, si affaccia sulla Fossa del Gallo a 130 m s.l.m. Gli scavi condotti dalla Soprintendenza alle Antichità della Sicilia Occidentale negli anni Settanta del secolo scorso hanno individuato tracce residue del deposito che documentano una frequentazione


PREISTORIA • SICILIA

LA RISERVA NATURALE La Riserva Naturale Orientata Capo Gallo è stata istituita nel 2001 ed è gestita dall’Azienda Foreste Demaniali della Regione Siciliana. Comprende un’area di circa 586 ettari ed è costituita essenzialmente dal Monte Gallo, che termina in un promontorio, denominato Capo Gallo, nella zona nord-occidentale di Palermo. Gli aspetti naturalistici sono caratterizzati da una ricca flora rupestre, che comprende diverse specie endemiche o rare, tra cui il raro limonio di Palermo (Limonium panormitanum), esclusivo di Capo Gallo e del vicino Monte Pellegrino. Numerose sono anche le orchidee selvatiche, come l’ofride verde-bruna Capo Gallo Trapani

siciliana, l’ofride verde-bruna palermitana e l’ofride di Branciforti. Lecci, carrubi, lentischi, pini e olivi sono presenze sporadiche che contornano il banco di roccia affiorante dove dominano l’ampelodesma e il penniseto. Numerose specie usano il Monte Gallo quale tappa della migrazione o addirittura per svernare: la cicogna bianca, il gabbiano reale, il falco pecchiaiolo, il gruccione, il cuculo, il lui piccolo. Molti sono anche gli uccelli rapaci come il gheppio, il falco pellegrino, la poiana, l’allocco e il barbagianni. Tra i mammiferi sono comuni la volpe, il coniglio selvatico e il toporagno di Sicilia, specie presente soltanto nell’Isola.

Messina Cefalù

Palermo

Reggio Calabria

Marsala Caltanissetta

Acireale

Enna

La riserva è visitabile ogni giorno, esclusivamente a piedi, seguendo i percorsi naturalistici tabellati dall’Azienda Foreste. I punti di accesso sono tre:

Catania Agrigento

Mar Mediterraneo

1. Dal versante orientale è possibile accedere attraverso una proprietà privata che inizia alla Torre di Mondello, e che consente di raggiungere le pendici del monte fino al Faro di Capo Gallo. Da qui alcuni

Siracusa

Gela Ragusa

La Puntezza Area di sosta Puntazza

Punta di Barcarello

Punto accoglienza

Ingresso riserva Barcarello Unico

Area di sosta Gabbiano

Pietra Tara

Semafora

Pizzo della Sella

Punto panoramico Piano Stinco

Punto panoramico C. Spartivento Pizzo Vulturo

Sferracavallo

Monte S. Margherita

Area di sosta Faro Capo Gallo

Grotta dell’Olio

Piano dello Stinco

Primo Pizzo

Riserva naturale Capo Gallo

Area di sosta Pizzo coda di Volpe Vasca

Pizzo Vuletta

Pizzo Impiso

Ingresso riserva via Tolomeo

Spinasanta Mondello Sentieri Ingressi Punti di interesse Percorso equestre Grotte

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NO

N

O

NE

SO

E S

SE

Ingresso riserva Marinella


sentieri portano quasi sino al Malpasso e consentono di osservare la splendida, anche se limitata, macchia di foresta che caratterizza le pendici nord del monte stesso, testimonianza di passate coperture forestali. 2. Dal versante opposto, sempre attraverso una stradella privata che inizia in Contrada Barcarello di Sferracavallo, è possibile percorrere le pendici del monte ammirando la limpidezza delle acque della Riserva marina, sino ad arrivare in un’area attrezzata, dalla quale è possibile percorrere i sentieri che arrivano sino al Malpasso, senza possibilità di congiungersi con i sentieri del lato opposto. Qui, raggiungibile solo in barca o meglio in canoa, si può visitare la Grotta dell’Olio, splendida cavità a fior d’acqua, dovuta all’erosione marina. 3. Dal versante meridionale è possibile salire sul monte, attraverso una strada comunale che inizia alle spalle di Partanna Mondello e costeggia Pizzo Sella. Percorrendola si può arrivare sino a quota 527 m slm al cosiddetto Semaforo, costruzione militare di avvistamento, molto interessante per la localizzazione e per la particolare struttura. Carlo Casi

Sulle due pagine: esempi della ricca vegetazione diffusa nella Riserva Naturale Orientata di Capo Gallo. Altrettanto importante è la presenza delle specie animali, che comprendono sia presenze permanenti che stagionali, legate, queste ultime, alle rotte migratorie.

dal Paleolitico Superiore al Medioevo. Le pareti, dritte e lisce, conservano centinaia di disegni e di iscrizioni, che vanno dalla preistoria recente (età dei metalli: figura umana stilizzata dipinta in rosso) al II secolo d.C. Vi sono rappresentate figure umane e animali, fra le quali si distinguono un guerriero punico, un orso, un cavallo, un braccio avvinghiato da un serpente, tre navi e ancora preghiere, suppliche, firme. È l’unico santuario punico scoperto sino a oggi nel Mediterraneo. Le epigrafi in lingua punica, neopunica, libica hanno permesso di conoscere meglio il mondo fenicio-punico che fonda l’emporio di Palermo: alcune iscrizioni del VII secolo confermano la presenza di gruppi fenicio-punici di commercianti; grazie all’unico disegno finora conosciuto, che si trova sulla parete sinistra, si può sapere come era fatta una nave da guerra cartaginese, rappresentata in tutti i particolari; il santuario è dedicato alle divinità fenice Melqart, nume tutelare di Tiro e delle terre puniche della Si-

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PREISTORIA • SICILIA

cilia, assimilabile all’Eracle greco, e Shadrapa, genio guaritore rappresentato con serpenti e scorpioni, conosciuto dal VI-V secolo a.C.; e a quelle egizie Iside, protettrice della magia, dei naviganti e della fertilità, e il suo fratello-sposo Osiride, re dell’oltretomba. La grotta venne frequentata anche durante l’età tardoromana, bizantina e araba, come dimostrano i frammenti ceramici trovati durante gli scavi all’interno della grotta.

ANIMALI ESTINTI La Grotta Impisu, sul versante occidentale sopra Sferracavallo in località Schillaci, ha rivelato tracce di frequentazione umana durante l’età del Rame (III millennio a.C.). Sono emersi anche resti di grandi animali vissuti (ed estinti) nel Pleistocene, come l’ippopotamo. La Grotta del Faro prende nome dalla sua vicinanza con il faro di Capo Gallo e al suo interno Antonio De Gregorio recuperò, agli inizi del Novecento, alcuni strumenti litici attribuibili al Paleolitico Superiore e frammenti di ceramica eneolitica. Deve il suo nome al fatto che l’apertura sia difficilmente percorribile, la piccola Grotta della Caramula, che ha restituitito di recente numerosi frammenti di ceramica d’impasto preistorica e utensi(segue a p. 78)

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LE MANI SULLA ROCCIA

In alto: l’ingresso della Grotta Regina, la piú grande delle cavità individuate sul litorale della Marinella. Qui accanto: Grotta Regina. Figura antropomorfa dipinta in ocra rossa. Nella pagina accanto: Grotta Perciata. Impronte di mani realizzate in positivo nel cunicolo. A sinistra, in basso: Grotta Regina. Una nave da guerra punica (in alto, a destra) e altre figure di piú incerta interpretazione.

La notizia è di quelle importanti per l’archeologia: sono state trovate impronte di mani umane nella Grotta Perciata, sul Monte Gallo, nei pressi di Palermo. L’esistenza delle impronte dipinte in positivo era già nota: Edoardo Borzatti von Löwenstern le aveva scoperte nel 1970, coadiuvato da Giovanni Mannino, Gianluigi Bini e Stefano Petrucci, ma da allora non erano state svolte ulteriori indagini. L’accertamento definitivo è stato fatto il 24 ottobre 2017, durante un’esplorazione condotta congiuntamente dalla Soprintendenza BB.CC. AA. di Palermo, dal CeSMAP Centro Studi e Museo d’Arte Preistorica di Pinerolo (Torino), dalla Soprintendenza dell’Extremadura e dall’Università di Saragozza. Anche questo sito siciliano entrerà, pertanto, a pieno titolo nel progetto europeo, «Handpas. Mani dal passato» – diretto da Hipolito Collado, attuale Presidente dell’IFRAO (Federazione Internazionale dell’Archeologia Rupestre, UNESCO) –, che ha come primo obiettivo quello di identificare le caverne, spesso di difficile accesso, che recano impronte preistoriche di


mani e rilevarle tridimensionalmente con sofisticate scansioni fotografiche in 3D. Con questa missione internazionale in Sicilia, il progetto si avvia alla conclusione. I siti interessati dal progetto «Handpas» sono circa una cinquantina e si trovano in Italia, Francia e Spagna; il progetto mira anche a determinare scientificamente se le realizzazioni di impronte di mani siano legate solo all’Homo Sapiens o se siano opera anche dell’Uomo di Neandertal in quanto anch’egli produttore di simboli. Le mani, dipinte o incise, sono presenti fin da 40 000 anni fa, come residuo di cerimoniali magicoreligiosi ora scomparsi. Sarà ovviamente necessario proseguire in futuro le ricerche scientifiche, con un nuovo progetto che si basi sulla positiva sinergia delle istituzioni già coinvolte: i prossimi obiettivi implicano la datazione delle pitture preistoriche, la loro contestualizzazione archeologica e la diffusione dei risultati raggiunti. L’importanza della scoperta è legata anche alla rarità di simili impronte di mani in Italia, fino a ora documentate solo nella Grotta Paglicci in Puglia. In particolare, le impronte di mani di Capo

Gallo si trovano in uno stretto cunicolo della Grotta Perciata – «bucata» in siciliano, perché presenta due accessi: uno sul golfo di Mondello e l’altro sulla Marinella – una cavità marina, a pianta trapezoidale, a circa 80 m slm. Il piano di calpestio attuale è costituito dalla tipica terra rossa del Palermitano, in cui si raccolgono ancora facilmente i gusci di grandi patelle ferruginee e molte schegge di selce. Il cunicolo, lungo 25 m circa, presenta due accessi, separati da un diaframma roccioso: quello di destra ha la volta quasi all’altezza del livello del piano di calpestio attuale, la volta di quello di sinistra si trova a circa 1 m dal suolo odierno. In altri termini, per accedere al cunicolo, bisogna strisciare per circa un paio di metri, poi la volta si alza a oltre 2 m e si può proseguire stando in piedi. Procedendo nel budello, verso il fondo, sulla parete sinistra, circa ad altezza d’uomo, si trovano due gruppi di impronte: il primo gruppo è costituito da una mano sinistra, da una mano destra e da una terza, che appare soltanto ipotizzabile da alcune tracce di ocra che ricordano le dita. Anche il secondo gruppo, a circa un paio di metri

dalla terza mano del primo gruppo, è costituito da tre impronte, di cui due evidenti e una terza appena intuibile: sicuramente una di quelle evidenti è una mano destra. Per quanto riguarda la posizione delle impronte, alcune presentano le dita rivolte verso l’alto, mentre altre sono poste in orizzontale. Le impronte sono realizzate «in positivo» ossia ottenute intingendo nell’ocra rossa solo la parte superiore del palmo e le quattro dita, senza il pollice. Si tratta di una caratteristica molto particolare di queste mani. Infatti la mancanza del pollice sarebbe simbolica: il sistema dozzinale potrebbe derivare dall’utilizzare il pollice come cursore e le falangi come pallottoliere. Nella fase attuale delle indagini si ipotizza che

queste impronte siano databili alle fasi finali del Paleolitico Superiore. Una decina d’anni fa venne pubblicata la notizia che nella Grotta dell’Acqua, sempre a Capo Gallo, erano presenti altre impronte di mani. In quel caso si trattava di impronte «in negativo», di colore bruno-nerastro, poste all’ingresso del riparo. Già tutte queste caratteristiche, cosí diverse da quelle della Grotta Perciata, suggerivano prudenza. Le prime analisi effettuate su un piccolo campione di pigmento stabiliscono che lo stesso è carbone; nel frattempo le impronte vanno scomparendo, cosí si è deciso di effettuare una verifica allo scanner e contestualmente sono arrivati i risultati del C14: entrambi confermano che si tratta di falsi. Giuseppina Battaglia

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PREISTORIA • SICILIA

UN MARE RICCO DI FAUNA E DI FLORA Istituita nel 2002, l’Area Marina Protetta «Capo Gallo-Isola delle Femmine» costituisce il naturale prolungamento della Riserva Naturale di Capo Gallo e comprende un’area di circa 2173 ettari a mare, a cui si sommano 16,02 km di costa posta tra i Comuni di Palermo e Isola delle Femmine. Il fondale è caratterizzato da una serie di «gradoni», elementi residuali delle antiche linee di costa, che si esauriscono in un’estesa pianura sabbiosa intorno ai 40 m. Ricca e variegata è la flora marina: dalle praterie di Posidonia oceanica allo spaghetto di mare, dalle numerose varietà di alghe ai lichenidi del genere Verrucaria. Anche la fauna è degna di nota e,

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oltre ai ben attestati pesci tipici del Tirreno, si segnala la presenza importante di molluschi come la Pinna nobilis, il bivalve piú grande del Mediterraneo. Immergendosi nelle acque della riserva non è difficile avvistare anche la tartaruga marina o incontrare le colorate colonie di Astroides calycularis, una madrepora incrostante dal caratteristico colore arancione. Di particolare importanza è la presenza del corallo rosso, del corallo nero e del falso corallo, mentre il riccio diadema, dai lunghissimi aculei, popola i fondali piú profondi. Tra i pesci piú grandi è possibile imbattersi in barracuda, pesci luna, tonni e, occasionalmente, anche in

verdesche, mentre sono frequenti gli avvistamenti di delfini. Interessanti sono anche le escursioni sottomarine all’interno delle grotte dell’Olio e della Màzzara. Quest’ultima deve il suo nome a un’antica ancora di pietra, che i pescatori chiamavano màzzara, ritrovata negli anni Sessanta, in prossimità del suo ingresso. Ma il sito piú spettacolare della riserva si trova circa 300 m a nord dell’Isola delle Femmine: sono i Finistruna (finestroni), cosí chiamati perché i pescatori usavano come riferimento per individuarli il punto in cui è possibile vedere il mare attraverso le due finestre della torre posta sull’isola. Si tratta di una parete verticale ricca di archi e


fenditure dai quali spuntano i musi curiosi delle cernie e dove prolificano i coralli. La superficie dell’isola ospita un ricco patrimonio vegetale, che comprende oltre 140 specie, in prevalenza erbacee. Molto ricca è anche la varietà di specie animali e, soprattutto, di uccelli, tra i quali spicca una colonia di gabbiani reali mediterranei fra le piú importanti del Tirreno. Tra le particolarità faunistiche, va segnalata una specie degna di protezione che è possibile scoprire anche senza essere subacquei: il vermeto del marciapiede, bio-costruttore di piattaforme formatesi generazione dopo generazione dalla sovrapposizione dei gusci di questi

Sulle due pagine: la costa settentrionale di Capo Gallo, con, al centro, il faro. A destra: l’Isola delle Femmine.

molluschi e note appunto come «marciapiedi a vermeti», che bordano con un nastro continuo il perimetro del litorale. Altra specie da protezione è l’anfiosso, un tempo

comune lungo le coste della Penisola e oggi sempre piú raro a causa del degrado dei fondali e dell’inquinamento delle acque. Carlo Casi

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PREISTORIA • SICILIA

li litici. Una cava di ciaca per la produzione di calce (vedi box in questa pagina) ha distrutto l’ingresso originale della Grotta dei Vaccari, dalla quale provengono numerose lame di selce e di ossidiana riferibili all’industria epipaleolitica e neolitica. Nella Grotta Buzzillino, prossima a un fortilizio della II guerra mondiale, sono stati rinvenuti abbondanti elementi di industria litica attribuita al Paleolitico Superiore. Ma la roccia di Monte Gallo non fu utilizzata solamente come riparo o modesta abitazione preistorica: le popolazioni che vivevano lungo le sponde della palude formata dal ri-

LE CALCARE La roccia del Monte Gallo non sfuggí agli occhi attenti delle comunità locali, che l’hanno sfruttata per secoli quale privilegiato materiale da costruzione, soprattutto per ricavarne la calcina. Questa veniva lavorata nelle calcare distribuite nell’area in cui finivano i blocchi di pietra carbonatica estratti in precedenza e dove venivano cotti per una settimana. Le calcare erano costruite in muratura, a forma di un imbuto, solitamente alle falde del monte o nei canaloni che lo segnano ma sempre in prossimità della cava. Alla base avevano le grandi bocche per il

caricamento della legna e per il recupero del materiale, mentre la parte superiore restava scoperta per accogliere piú facilmente le pietre da cuocere, le ciache. Già nella seconda metà del Settecento, periodo al quale risale la carta di distribuzione delle calcare di Monte Gallo, si potevano notare sin da Palermo i numerosi fuochi accesi, ben descritti dall’abate palermitano Domenico Scinà (1765-1837): «Quando queste erano accese e nelle notti serene di state fan vista colle loro fiamme di falò, e dilettan che dalla città le riguarda». Carlo Casi

In alto: il golfo e la borgata marinara di Mondello visti da Capo Gallo. Sullo sfondo si staglia il Monte Pellegrino. In basso: un tipico paesaggio roccioso del Monte Gallo.

stagnare delle acque provenienti dal Billiemi, vi realizzarono anche le proprie tombe, come ben si percepisce a partire almeno dall’Eneolitico. E cosí tracce di sepolture tipiche della facies della Conca d’Oro sono state rinvenute nella seconda metà dell’Ottocento presso Scalea-Santocanale dallo stesso principe di Scalea che ritrovò, insieme ad alcuni pezzi d’ocra, «olle sformate asimmetriche di argilla malissimo cotta». Altri vasi furono salvati dalla distruzione di alcune tombe da Giovanni Mannino durante gli sbancamenti per la costruzione dei capannoni industriali dei Cotonifici Siciliani. DOVE E QUANDO Riserva Naturale Orientata di Capo Gallo Info www.regione.sicilia.it/ agricolturaeforeste/azforeste/ Area Marina Protetta Capo Gallo-Isola delle Femmine Info tel. 091 6628672; e-mail: info@ampcapogallo-isola.gov.it; www.ampcapogallo-isola.gov.it/

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TECNOLOGIA • LE DIGHE

LA LEZIONE DEI CASTORI FIN DA EPOCHE ASSAI REMOTE E SOPRATTUTTO DA QUANDO DIVENNE AGRICOLTORE, L’UOMO IMPARÒ A GOVERNARE LE ACQUE, CREANDO CANALIZZAZIONI EFFICIENTI E CAPILLARI. ALL’ORIGINE DI TUTTO C’ERANO SEMPRE LE DIGHE, STRUTTURE CONCETTUALMENTE ELEMENTARI, CHE I NOSTRI ANTENATI MISERO A PUNTO IMITANDO I GRANDI RODITORI CHE VEDEVANO ALL’OPERA SULLE RIVE DEI FIUMI di Flavio Russo

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oncettualmente, una diga è l’opera idraulica piú semplice da concepire, tanto che se ne possono spesso incontrare sia di formazione spontanea, ovvero dovute a frane, sia realizzate persino

dagli animali, come il castoro. Quale che sia la loro origine, esse consistono sempre in uno sbarramento che si oppone al libero deflusso delle acque correnti, formando cosí una sorta di bacino, piú o meno grande, il cui livello è notevolmente superiore a quello del normale corso d’acqua che lo ha prodotto. Se dunque il concetto di diga risulta facilmente comprensibile, di gran lunga piú complessa e articolata è la deA sinistra: una diga apprestata dai castori, provvista di un rudimentale sfioratore centrale per il deflusso dell’acqua in eccedenza.

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Incisione raffigurante due castori intenti a procurarsi il legname necessario per fabbricare una diga. 1893.

stinazione di questi sbarramenti, poiché comprende una vasta gamma di utilizzi. Si va, infatti, dall’uso irriguo a quello di forza motrice, dall’alimentare al ludico, dalla salvaguardia dei terreni alla navigazione, solo per citare alcuni fra i piú noti. Primo fra tutti, però, dal punto di vista cronologico è quello irriguo – dal latino irriguus, che, a sua volta, discende

dal verbo in-rigare, far fluire in canali –, destinato cioè all’irrigazione delle colture, che risulta praticato già in epoca preistorica e soprattutto protostorica, come provano resti archeologici databili a partire dal IV millennio a.C. L’acqua, infatti, anche quando sia molto abbondante – come, per esempio, lungo il corso dei grandi fiumi –, si trova sempre

a una quota troppo bassa per poter essere canalizzata nelle colture, per cui è necessario sollevarla. Nel caso di piccoli orti, le macchine elementari – come lo shaduf o la coclea – risultavano efficaci, sebbene a costo di fatiche non indifferenti. Ma quando si aveva a che fare con vasti campi, soprattutto se seminati a cereali, l’unica soluzione praticabile consisteva a r c h e o 81


TECNOLOGIA • LE DIGHE

mezzo millennio piú tardi, con uno scavo lungo 15 km circa e profondo 5 m, dal mitico visir Yusuf, da cui la denominazione di canale di Bahr Yusuf, il biblico Giuseppe venduto dai fratelli.

RIFORNIRE LE CITTÀ Un altro basilare impiego delle dighe era quello destinato all’approvvigionamento idrico degli abitati, soprattutto laddove i periodi di prolungata siccità si succedevano con regolarità. Per uso irriguo e per uso alimentare, le dighe costituirono il rimedio per antonomasia delle regioni piú povere di acqua, quali il Vicino Oriente, il Nordafrica, la Penisola Iberica, e l’Italia meridionale. Per quanto incredibile possa sembrare, occorre ribadire che, senza le dighe, non sarebbero state possibili la coltivazione sistematica, né, di conseguenza, l’esistenza di molte città, dipendendo dalle stesse il loro regolare rifornimento idrico. Adottando una terminologia moderna, quegli sbarramenti, piú che dighe propriamente dette, furono

nell’innalzare il livello del corso In questa pagina: d’acqua con appositi sbarramenti, foto e restituzione chiuse o saracinesche, dai quali si grafica di una dipartivano i canali, spesso muniti di tavoletta argini, in modo da farne circolare il sumerica in flusso nei terreni circostanti. argilla Non è dunque casuale che le piú raffigurante la antiche rappresentazioni planimerete di canali triche di città redatte intorno alla della città di prima metà del III millennio a.C., Nippur, muniti come a Nippur, siano mappe sumedelle relative riche che riportano dettagliatamenchiuse. te i vari canali d’irrigazione con le III mill. a.C. relative chiuse. Filadelfia, Penn Simile ai suddetti canali era anche Museum. Nel quello egiziano, di origine naturale, disegno, il lungo il quale il faraone Sesostri I tracciato dei (XII dinastia, 1964-1929 a.C.) fece canali è erigere due dighe, e ricostruito sievidenziato dal no al bacino del Fayyum, circa colore azzurro.

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traverse, in quanto l’innalzamento del livello dell’acqua era di poco superiore a quello del flusso libero e comunque non eccedeva l’altezza delle sponde. In ogni caso, al di là della distinzione tecnica, dighe e traverse, soprattutto nel passato, erano accomunate dal medesimo criterio informatore. Al pari di un gran numero di opere umane la cui ideazione fu suggerita dall’osservazione della natura, costruzioni tanto grandiose da mutare la morfologia dei luoghi e il relativo clima furono ispirate, come già accennato, dalle frane naturali e dalle costruzioni dei castori. Circa le prime, si deve innanzitutto osservare che si tratta di eventi molto frequenti in ogni epoca, per cui la loro osservazione fu sempre agevole. Sotto il profilo geologico, lo sbarramento per frana si forma in valli strette e con fianchi ripidi di discreta altezza e dalla morfologia instabile, particolarmente sog-

getta all’azione dei terremoti, le cui dinamiche possono risultare aggravate da depositi vulcanici o di glaciali sulle stesse pendici. Sedimenti non ancorati alle sottostanti rocce, strati di terreno, accumuli di ghiaccio e, non di rado, vegetazione superficiale costituiscono le masse in precario equilibrio pronte, alla minima sollecitazione – pioggia torrenziale, forte nevicata o scossa sismica –, a precipitare sul fondo della valle, ostruendo il letto del corso d’acqua che vi scorre.

TERRA, SASSI E ROCCIA Dalle indagini compiute su numerose dighe del genere, se ne è stabilita una prima basilare suddivisione: quelle costituite da cumuli terrosi scarsamente coerenti e quelle, invece, da colate di sassi e di roccia. Queste ultime, di gran lunga piú violente e devastanti, hanno un maggior volume e formano bacini

piú duraturi, che spesso si trasformano in veri e propri laghi. Circa le prime, va ricordato che i castori un tempo pullulavano lungo i principali fiumi europei e, forse, anche in regioni piú meridionali, essendo il loro habitat legato all’acqua e non alla latitudine. A causa della caccia, la loro popolazione è diminuita al punto che, senza la reintroduzione di nuovi esemplari, si sarebbero del tutto estinti. Le loro dighe, realizzate per accrescere la profondità degli specchi d’acqua antistanti alle tane, cosí da impedire Canale di Numbirdu Canale centro città

Eufrate

In questa pagina: foto e restituzione grafica del frammento di un’altra tavoletta sumerica, in argilla, con incisa la pianta della città di Nippur, da Tello (Iraq). III mill. a.C. Jena, Hilprecht Sammlung, Università di Jena. Sono evidenti il tracciato delle mura ed un canale che l’attraversa.

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TECNOLOGIA • LE DIGHE

Dighe a gravità Oggi le dighe si distinguono in tre tipologie fondamentali, tutte già attestate in età classica: a gravità, ad arco e a contrafforti. La prima tipologia è di gran lunga la piú antica, nonché la piú simile a quelle prodotte dalle frane, essendo in pratica un massiccio sbarramento trasversale. Nei casi piú rozzi, infatti, si tratta di un robusto terrapieno, piú spesso alla base, la cui sezione risulta perciò grosso modo triangolare. Dal punto di vista strutturale, si tratta della diga piú sicura, praticamente immune anche dalle scosse sismiche piú devastanti, poiché la sua coesione è data dall’inerzia della sua massa. L’inerzia stessa, perciò, neutralizza la spinta dell’acqua, e il fatto che opere simili siano ottenute ammassando del terreno non deve farle sottovalutare. Attualmente, infatti, le dighe piú alte del mondo sono proprio in terra: la prima, di Rogun, alta 335 m, e la seconda, di Nurek, alta 300 m, con 704 m di sviluppo del coronamento, entrambe in Tagikistan. A gravità furono anche le dighe costruite in muratura, perlopiú di pietre da taglio disposte in corsi regolari, piú di rado di mattoni e, in epoca romana, in calcestruzzo.

ad altri animali di potervi accedere, sono ottenute assemblando rami e piccoli tronchi di alberi, legandoli con fango e pietre. L’opera non è mai considerata finita, poiché i grossi roditori la ingrandiscono continuamente, tanto che, in media, gli sbarra-

menti si attestano su un’altezza di 1,5 m circa, con uno spessore di 3 m circa alla base e sviluppi che, non di rado, eccedono il centinaio di metri. Dell’esempio fornito dai castori dovettero perciò giovarsi le popolazioni stanziate a ridosso di

Dighe ad arco o a volta La tipologia delle dighe ad arco, o a volta, pur essendo riscontrabile agli inizi dell’era volgare, fu, in realtà, una costruzione esclusivamente romana. L’esperienza maturata nel campo delle costruzioni archivoltate di notevoli dimensioni e il ricorso generalizzato al calcestruzzo dagli esiti monolitici portarono infatti i tecnici romani a utilizzare volte e archi, la cui enorme capacità di carico era ormai nota, anche nell’ambito delle dighe. Una diga ad arco, pertanto, si può immaginare come un’arcata di ponte orizzontale, incastrata saldamente tra le due opposte pareti rocciose, definite spalle. La pressione dell’acqua sulla sua convessità determina il carico da sopportare, trasferito ai vincoli laterali e quindi alle pareti rocciose. Tale razionale criterio consentiva la sensibile contrazione dei materiali necessari alla costruzione e, quindi, tempi piú rapidi e minori costi di costruzione. Ma quei vantaggi erano ridotti dalla rarità dei siti idonei al loro impianto e, nelle regioni a forte attività sismica, dalla loro minore resistenza strutturale. In ogni caso, le dighe, almeno per i primi tre millenni della loro adozione, furono sempre e solo a gravità. Le dighe ad arco potevano essere costruite esclusivamente in muratura, perlopiú con blocchi di pietre di rilevanti dimensioni, con due paramenti riempiti di pietrisco affogato nel calcestruzzo. Le dighe a volta che oggi, in base alla forma, si definiscono a curvatura semplice o doppia, dagli archetipi del I secolo a.C. fino all’esordio del cemento armato, furono sempre a curvatura semplice.

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A sinistra: Il lago di Nemi, olio su tela di JeanCharles-Joseph Rémond. 1830 circa. Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art.

Dighe a contrafforti o alleggerite Le dighe a contrafforti o alleggerite vengono definite anche «a gravità alleggerita» e sono costituite da uno spesso muro, che si oppone alla pressione dell’invaso, coadiuvato nella resistenza da una serie di contrafforti che lo irrigidiscono. Disposti a scansione ravvicinata e regolare, perlopiú di pianta quadrangolare o triangolare, scaricano la spinta dell’acqua sul terreno.

tutti i grandi fiumi, che presto imitarono quella lezione. Il fiume o il torrente sbarrati da una diga non cessano di condurre altra acqua nell’invaso, provocandone l’innalzamento, esattamente come fa un rubinetto aperto in un lavabo chiuso. In entrambi i casi, l’acqua finirebbe per tracimare, se non ci fosse un «troppo pieno» per il lavabo e uno sfioratore per l’invaso. Ovviamente, le dighe prodotte dalle frane o costruite dai castori, prive di sommità orizzontale, fanno defluire l’acqua dal loro punto piú basso, formando una piccola cascata, che ne compromette la stabilità. Per evitare quell’inconveniente, dighe e traverse hanno sezioni piú basse del coronamento, che smaltiscono appena sfio-

rate l’acqua in eccesso, da cui la definizione di sfioratori, convogliandole in genere nel vecchio alveo. Un celebre sfioratore, costruito intorno al VI secolo a.C., lungo 1600 m circa e con un dislivello di 13, è quello che smaltiva le acque in eccesso del lago di Nemi, fungendo da emissario.

sto differente, in grado di prelevare l’acqua a una quota maggiore del fondo, per evitarne le impurità in sospensione e, al contempo, abbastanza al di sotto della superficie per disporne in maggiore quantità. Strutture del genere, definite «opere di presa», sostituivano i fori praQUESTIONI DI QUOTE Indipendentemente dalla destina- ticati nelle dighe presso la base e zione, l’acqua dell’invaso doveva muniti di rudimentali chiusure. Dal essere prelevata: la soluzione piú punto di vista architettonico ricorsemplice, ma meno vantaggiosa, si davano le ciminiere, la cui base era ottenne con rozzi canali, possibili collegata con l’esterno: le acque vi solo per bacini di scarsa profondità. si introducevano venendo cosí Quando però l’invaso alimentava estratte dall’invaso. (1 – continua) un acquedotto, occorreva un innea r c h e o 85


SPECIALE • CANALE DI SUEZ

QUEL SOGNO CHE ATTRAVERSA IL DESERTO IL 17 NOVEMBRE DEL 1869, ALLA PRESENZA DEL VICERÉ D’EGITTO E DI NOTABILI DA TUTTA L’EUROPA, VENNE INAUGURATO IL CANALE DI SUEZ. REALIZZATA GRAZIE ALLA COOPERAZIONE TRA MOLTE NAZIONI EUROPEE – IN PRIMIS LA FRANCIA –, L’EPOCALE IMPRESA RIVOLUZIONÒ LA STORIA DEI TRASPORTI COMMERCIALI TRA IL MEDITERRANEO E L’OCEANO INDIANO. NON TUTTI SANNO, PERÒ, CHE UN PROGETTO ASSAI SIMILE ERA GIÀ STATO CONCEPITO – E AVVIATO – PIÚ DI 3000 ANNI FA… di Christiane Ziegler, con contributi di Julien Cuny e Daniela Fuganti

«L

’idea di Sesostri è stata fatta propria da Ferdinand de Lesseps e trasformata in realtà con l’audacia che caratterizza i potenti mezzi della scienza moderna». Con queste vibranti parole lo scrittore Théophile Gautier commentava l’Esposizione Universale del 1867, uno dei cui padiglioni era dedicato al taglio dell’istmo di Suez. In effetti, al tempo dei faraoni, l’istmo era già stato tagliato da un canale che sfociava nel Mar Rosso e del quale alcuni autori dell’antichità classica attribuivano la paternità a Sesostri, un faraone mitico. La sua traccia è relativamente ben conosciuta grazie alle fonti letterarie e ai resti archeologici, ma è bene considerare che la topografia e l’idrografia della

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I Veneziani presentano il loro progetto di Canale al sultano, olio su tela di Giulio Carlini. 1869, Parigi.


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SPECIALE • CANALE DI SUEZ

regione mutarono considerevolmente nel corso dei millenni. Gli scavi non consentono di localizzare con precisione le due estremità del canale. Esso doveva terminare nel golfo di Suez seguendo una via d’acqua scavata nella parte desertica della zona. Da lí, si dirigeva verso nord, attraversava i Laghi Amari e quello di Timsah, disegnando un percorso grosso modo parallelo a quello del canale moderno. A differenza di quest’ultimo, però, l’antica via d’acqua non proseguiva verso nord, per congiungersi con il

Mediterraneo: essa deviava verso occidente, sfruttando una depressione che correva in senso est-ovest, lo Wadi Tumilat, che si snoda dall’est dell’area del Cairo a Ismailia. Questa depressione, che verosimilmente corrisponde a un antico ramo del Nilo, era percorsa da un corso d’acqua intermittente. Si tratta della medesima traccia che, in epoca moderna, è stata seguita dal canale d’acqua dolce che alimenta le nuove città del canale di Suez. Il canale sfociava in uno dei bracci del delta del Nilo che si getta nel Mediterraneo. Lo

L’antico canale, da alcuni attribuito al faraone Sesostri, correva lungo un tracciato parallelo a quello moderno

Cerimonia di inaugurazione del Canale di Suez a Porto Said, 17 novembre 1869, olio su tela di Édouard Riou, 1896, Compiègne, Museo Nazionale del palazzo di Compiègne.


sbocco che viene piú frequentemente indicato dagli autori si trovava nei pressi della città di Bubastis, l’odierna Zagazig. All’epoca risultava agevole raggiungere la regione del Cairo, là dove sorsero le capitali dell’Egitto: Menfi in epoca antica o Fustat all’indomani della conquista araba.

UNA SFIDA POLITICA Se la presenza di un canale nell’istmo di Suez assicurava l’irrigazione e l’approvvigionamento d’acqua potabile di questa arida regione, la sfida era al tempo stesso commerciale e politica. Per la sua

stessa posizione, questa zona ha sempre avuto un ruolo strategico importante: era infatti una terra di passaggio fra l’Egitto e il Levante, un ponte tra l’Africa e l’Asia. In origine i trasporti seguivano vie di terra e centinaia di insediamenti nel delta orientale del Nilo e lungo la costa mediterranea provano l’esistenza di relazioni fra l’Egitto e il Levante fin dal IV millennio a.C. Il sito di Beda, per esempio, esplorato da Jean Clédat, che era stato nominato direttore degli scavi archeologici per conto della Compagnie du canal de Suez, si trova (segue a p. 92)

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SPECIALE • CANALE DI SUEZ

UN’EPOPEA LUNGA 164 CHILOMETRI Una mostra allestita all’Institut du Monde Arabe racconta la straordinaria avventura di un capolavoro dell’ingegneria idraulica di Daniela Fuganti

Il Canale di Suez scorre come un azzurro nastro d’acqua lungo 164 chilometri, da Suez (sull’omonimo golfo che si apre sul Mar Rosso), passando da Ismailia, fino a Porto Said, sul Mediterraneo. Fu una delle piú grandi sfide ingegneristiche dell’ottocento, sostenuta con fervore dalla corrente economico-filosofica sansimoniana, ma a lungo rimasta un « miraggio » a causa delle difficoltà tecniche legate sua costruzione. Ad avere un ruolo decisivo nella soluzione del problema di quello che fu definito l’«istmo di tutte le utopie» fu l’italiano Luigi Negrelli, che propose, a differenza degli altri ingegneri europei chiamati in causa, la soluzione piú semplice e geniale, e cioè un tracciato diretto e senza chiuse. Nella prima metà dell’Ottocento, Luigi Negrelli era noto in tutta Europa per la sua attività di progettista di grandi opere idrauliche, stradali e ferroviarie. Nato in Trentino nel 1799 (il padre era italofono, la madre parlava tedesco), Negrelli era cittadino austriaco (la regione apparteneva da secoli all’impero asburgico) e, in quanto tale, prestò servizio a Vienna. Sostenuto da Metternich e dal ministro delle finanze Von Bruck, era entrato a far parte – come rappresentante dell’Austria e in qualità di cofondatore – della Società di studi per il Canale di Suez, costituita a Parigi nel 1846. In questa sede Luigi Negrelli aveva presentato un progetto che dieci anni dopo sarebbe stato approvato e adottato dalla Commissione Scientifica Internazionale per la costruzione del Canale di Suez, voluta dal viceré d’Egitto e organizzata dal francese Ferdinand de Lesseps. Proprio in relazione ai lavori della Commissione, Negrelli scriveva al finanziere triestino Pasquale Revoltella: «Com’è noto, il mio progetto fu sempre per un canale libero da ogni 90 a r c h e o

impiccio e senza chiuse, alimentato dall’acqua marina. Il progetto inglese consisteva in un canale pensile, alimentato dal Nilo ed accessibile solo attraverso sei chiuse. I francesi volevano un canale come il mio, ma posto fra due chiuse da erigersi alle due estremità». Il progetto di Negrelli la spuntò su tutti gli altri. Peccato che l’esposizione parigina dell’IMA ignori l’uomo-chiave di tutta l’impresa, per sottolineare invece la figura di Ferdinand de Lesseps, personaggio determinato, energico e spregiudicato che riuscí fra innumerevoli difficoltà a finanziare l’opera portandola a termine, e al quale saranno attribuiti in seguito tutti i meriti, anche quelli scientifici. De Lesseps, parente della futura imperatrice Eugénie, era arrivato al Cairo come diplomatico nel 1832. Diventato istruttore di equitazione e amico di Said Pascià, figlio del viceré Mehmet Alí, dopo la morte di quest’ultimo (contrario all’istmo in quanto temeva che una volta terminata l’opera « gli inglesi avrebbero montato le porte al canale e intascato le chiavi ») de Lesseps poté dare inizio, con l’appoggio del nuovo sovrano, all’appassionante avventura. La firma per la concessione dei lavori ebbe luogo al Cairo nel 1855 con una solenne cerimonia. Per il finanziamento dell’iniziativa furono emesse azioni da 500 franchi oro, acquistate da grandi nazioni e da piccoli risparmiatori. Il 25 febbraio 1859 de Lesseps lancia il primo colpo di piccone, mentre Luigi Negrelli, che doveva dirigere il cantiere, era morto da pochi mesi. Un altro ingegnere italiano, Pietro Paleocapa, elaborò i piani per evitare gli insabbiamenti. Migliaia di fellah reclutati dal governo e costretti ai lavori forzati (all’inizio con badili, picconi e carriole) morirono durante i dieci


A destra: Verso i mari del Sud, bozzetto per un manifesto pubblicitario. Nella pagina accanto: Carta dell’Istmo di Suez, che serva come memoria sulle comunicazioni da stabilire attraverso l’Istmo fra il Mediterraneo e il Mar Rosso, carta manoscritta di Louis Maurice Adolphe. 1844. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

anni necessari alla realizzazione del colossale capolavoro. Di sete, di fatica, e di epidemie. A questi orrori seguiranno le prodezze tecniche e le rivoluzioni tecnologiche, altrettanti simboli del progresso in pieno sviluppo: macchine a vapore, scavatrici gigantesche e una monumentale draga galleggiante, materializzata in una sala dell’esposizione grazie a una copia di grandi dimensioni. Dieci anni dopo l’inizio dei lavori, il 17 novembre 1869, Alí Pascià, viceré d’Egitto, dà il via, a Porto Said, ai festeggiamenti per l’apertura del Canale di Suez. L’imperatrice Eugénie, accompagnata da Ferdinand de Lesseps, precede a bordo della sua nave, L’Aigle, le imbarcazioni che trasportano gli altri ospiti eccellenti. Fra le molte teste coronate convenute per celebrare il simbolo del connubio tra Oriente e Occidente, c’è Francesco Giuseppe, ma non la regina Vittoria (gli Inglesi temono l’influenza francese in questa regione situata sulla via dell’India), che declina l’invito, cosí come il sultano dell’impero ottomano (di cui l’Egitto faceva parte) il quale – non avendo ottenuto garanzie per la neutralità del canale – non aveva acconsentito al taglio dell’istmo. I festeggiamenti, interrotti dalla guerra franco-prussiana, raggiungeranno il loro apice solo due anni dopo, alla vigilia del Natale 1871, quando nel teatro dell’Opera del Cairo verrà rappresentata per la prima volta l’Aida, composta per l’occasione da Giuseppe Verdi. L’importanza capitale di una via d’acqua che unisse il Mediterraneo al Mar Rosso era ben chiara fin

dall’antichità. Il faraone Sesostri III aveva fatto unire il Mar Rosso al delta del Nilo nel 1850 a.C.; una stele attesta come Dario I nel 500 a.C. avesse perseverato nell’impresa, cui si era appassionato anche Traiano, il quale cercò di ripristinare il canale, dopo che Cleopatra nel 30 a.C., in fuga dalla sconfitta nella battaglia di Azio, vi era rimasta insabbiata con la sua flotta. Molti secoli dopo ci riprovò senza successo la Serenissima, e verso la metà del Cinquecento persino un avventuriero di origini calabresi, Uluc Alí, che aveva aderito alla religione musulmana, diventando il miglior ammiraglio della flotta ottomana. Il sogno fu poi accarezzato da Napoleone (in chiave anti-inglese), ma l’imperatore francese cambiò avviso perchè i suoi ingegneri avevano calcolato, sbagliando, che tra i due mari c’era un dislivello di dieci metri. Pochi anni dopo l’inagurazione, l’Egitto – schiacciato dai debiti – fu costretto a cedere la sua parte delle azioni della Compagnia di Suez (il 44%!) alla Gran Bretagna, che in questo modo riuscí a dribblare la Francia mantenendo il controllo della situazione per settant’anni. Da allora il canale diventerà la posta in gioco nella lotta per l’indipendenza egiziana, e il punto focale dei confronti strategici internazionali. Nel 1956, il fallito complotto di Francia, Inghilterra e Israele per occupare l’Egitto e riportare Nasser «alla ragione», viene bloccato dagli Americani e dai Russi, e volta la pagina del colonialismo franco-britannico, aprendo la strada ai nuovi equilibri della guerra fredda. a r c h e o 91


SPECIALE • CANALE DI SUEZ

Nella pagina accanto: Deir el-Bahari, Tempio di Hatshepsut. Rilievo con due rematori a bordo di una nave in viaggio verso il Paese di Punt. In basso: cartina che mostra la via d’acqua creata per collegare il golfo di Suez con il delta del Nilo. Mar Mediterraneo

Suez

Cairo

Sinai

ARABIA S A U D I TA N ilo

E G I T TO

Testa identificata con un ritratto del faraone Sesostri III, 1862-1843 a.C. Parigi, Museo del Louvre.

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Mar Mediterraneo

Peluso

Daphne

C a nale dei faraoni

Bubastis (Zagazig)

Heropolis

Lago di Zarou

Lago di Timsah Thaubastum Serapeum

Laghi Amari

Nilo

su una delle rotte lungo le quali viaggiavano il rame e i turchesi del Sinai, l’olio e il vino della Palestina. Intorno al 3500 a.C., la domesticazione dell’asino rese possibile il trasporto delle merci su lunghe distanze e l’apertura di relazioni commerciali stabili. Al Mar Rosso si poteva arrivare anche grazie alle piste che attraversavano il deserto orientale, fra la valle del Nilo e le inospitali coste del Mar Rosso stesso. Già al tempo delle piramidi, si organizzavano spedizioni che trasportavano fino alla costa battelli smontati che venivano quindi assemblati e utilizzati in mare per alcuni mesi, prima d’essere tirati in secco e depositati in appositi magazzini, in vista dei successivi impieghi. Installazioni portuali di questo tipo sono state scoperte grazie agli scavi condotti a Mersa Gawasis, Ayn Sukhna e Wadi el-Jarf. Anche in questo caso, il fine principale di simili operazioni era l’accesso al rame e ai turchesi del Sinai meridionale, anche se le imbarcazioni si avventuravano verso mete piú lontane,

Mar Rosso

Lago Nasser

Kabret N

Il Cairo

NO

NE

SO

SE

O

0

40 Km

E

S

Golfo di Suez


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SPECIALE • CANALE DI SUEZ


Una foto satellitare del Canale di Suez.

in direzione sud, lungo le coste dello Yemen e dell’Etiopia. È qui che viene collocato il misterioso Paese di Punt, da dove la regina Hatshepsut tornò carica di beni preziosi: incenso, spezie, oro, uova di struzzo e avorio. Per accedere al Mar Rosso venne creata anche una via d’acqua che collegava il Golfo di Suez con il delta del Nilo attraverso un canale. Esso permetteva di evitare l’attraversamento degli aridi deserti, le perdite di tempo e il ricorso alla manodopera altrimenti necessaria per i due trasbordi, sulla costa e lungo le sponde del Nilo. In epoca storica, lo scavo di un canale, anche di dimensioni notevoli, non costituiva un’impresa insormontabile.

CATARATTE E BANCHI DI SABBIA Fin da epoche remote, gli Egiziani avevano affinato grandi capacità ingegneristiche nella realizzazione dei canali, utilizzati per l’irrigazione e per i trasporti, e avevano acquisito una notevole maestria nella navigazione fluviale. Il letto del Nilo era disseminato di banchi sabbiosi e ostruito da barriere rocciose, le cateratte. Dall’Antico Regno, i faraoni vi fecero scavare canali che andavano regolarmente mantenuti. La navigazione era stagionale, cadenzata da impedimenti di varia natura: la

CHI FU IL PRIMO INGEGNERE? Stando a quanto riportato da Erodoto all’interno delle sue Storie, ad iniziare lo scavo del canale, che dal Golfo di Suez arrivava al delta del Nilo, sarebbe stato Necao, raffigurato in questa stele funeraria, 610-595 a.C. Parigi, Museo del Louvre. Necao, grazie a numerose testimonianze archeologiche che validerebbero il racconto di Erodoto, può essere indicato come il primo «ingegnere» ad occuparsi del canale, salvo poi, come sostenuto dallo storico greco, interrompere i lavori a causa di un oracolo.

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SPECIALE • CANALE DI SUEZ

DARIO E LE STELE DEL CANALE

In alto: stele recante il testo di una donazione di terreni; nella lunetta superiore, il faraone Necao II offre terre a Iside e Osiride. XXVI dinastia, 610-595 a.C. Parigi, Museo del Louvre.

piena annuale del fiume, nel mese di luglio, il regime dei venti… Simili ostacoli si facevano ancora piú ardui quando occorreva combinare la navigazione sul Nilo con quella marittima: il Mediterraneo e il Mar Rosso avevano infatti regimi climatici differenti. Il Golfo di Suez e il Mar Rosso celavano molteplici pericoli, come si può leggere, per esempio, nel racconto egiziano del Naufragio. Il canale antico aveva lo scopo di agevolare le relazioni tra le coste del Mar Rosso e la valle del Nilo, un obiettivo ben diverso dai successivi progetti di cui l’opera di Ferdinand de Lesseps costituí il coronamento. È probabile che il canale antico sia rimasto in uso fino all’VIII secolo dell’era cristiana e venne denominato in vario modo: canale dei faraoni, di Traiano, dei credenti.Tuttora ci si interroga sulla data della sua creazione, della sua messa 96 a r c h e o

Grazie ai moderni lavori di scavo del canale furono casualmente scoperti, nel febbraio del 1866, a Kabret, nei dintorni di Chaluf, alcuni frammenti di granito rosa che recavano iscrizioni in caratteri cuneiformi. Reperti di questo tipo erano già stati segnalati da esploratori francesi nel corso della spedizione in Egitto di Bonaparte, senza però fornirne una localizzazione precisa. Charles de Lesseps, figlio di Ferdinand, dispose allora l’esecuzione di scavi piú estesi, assecondando la richiesta di Auguste Mariette, direttore delle antichità dell’Egitto. Questi aveva intuito l’interesse storico del monumento: si trattava di un raro documento ufficiale che testimoniava la prima dominazione persiana dell’Egitto (XVII dinastia, 526/525-404/403 a.C.). Venne infine riportato alla luce un insieme incompleto, ma che autorizzava a ricostruire una stele monumentale, alta almeno 3 m, larga 2,3 m e avente uno spessore di 77 cm, iscritta su entrambe le facce. Su un lato si potevano vedere, sotto un grande disco alato, che fluttuava anch’esso sotto il simbolo egiziano del cielo, due personaggi vestiti in abiti persiani, allora noti grazie alle raffigurazioni scolpite di Persepoli, in Iran. I due sostenevano un cartiglio reale con il nome del sovrano achemenide Dario in caratteri cuneiformi. Il resto di questa faccia conteneva iscrizioni in antico persiano e in elamita. La parte inferiore della stele, di cui nulla si è conservato,

recava senza dubbio una versione del testo in babilonese, dal momento che l’uso delle tre lingue era ricorrente nelle iscrizioni reali achemenidi. L’altra faccia recava un testo in geroglifici egiziani, assai piú lungo, ma anche piú lacunoso. Della stele vennero subito eseguiti disegni e riproduzioni con la tecnica del frottage (che consiste nel ricavare una sorta di stampo dell’originale, ponendovi sopra un foglio di carta sul quale si strofina una matita, n.d.r.), ma quasi tutti i frammenti furono riseppelliti, non potendo provvedere al loro trasporto e al deposito in un luogo adeguato. Un frammento della parte superiore entrò nelle collezioni del Louvre solo nel 1892, perché donato da un impiegato della Compagnia del canale. Fu identificato con l’estremità destra del disco alato e con la fine di una riga scritta in antico persiano. Dopo il 1866 furono identificate altre tre stele persiane. Esse punteggiavano la traccia del canale antico a intervalli regolari, sulla sua riva occidentale. Ciascuna di esse era stata innalzata su un podio, sulla sommità di un monticolo che la rendeva visibile da lontano. La compilazione dei frammenti di testo ha permesso di ricostruire il contenuto dell’esempio che qui riportiamo. Dario proclamava: «Io sono un Persiano […] ho conquistato l’Egitto. Ho ordinato lo scavo di questo canale, a partire da un fiume che si chiama Nilo, che scorre in Egitto, verso il mare che viene dalla Persia […] Le navi


andavano dall’Egitto, attraverso questo canale, verso la Persia, secondo il mio piacere» (traduzione di P. Lecoq). La versione geroglifica del testo offriva invece dettagli sull’esecuzione dei lavori e utilizzava la titolatura faraonica. L’Egitto era stato annesso all’impero persiano nel 526 a.C. dal predecessore di Dario, Cambise, e sappiamo che Dario era venuto in questa provincia almeno una volta nel suo secondo anno di regno (519-518 a.C.). Fu allora, probabilmente, che decise di riavviare la costruzione del canale, riprendendo un’iniziativa precedente, avviata sotto la dinastia saitica. La scoperta di queste stele conferma l’effettiva esecuzione degli interventi voluti dai

Persiani e dei quali già aveva dato conto Erodoto nel V secolo a.C. La collocazione dei monoliti, in particolare quello di Suez, allo sbocco del canale nel Mar Rosso, suggerisce che quelle opere – a differenza della tradizione antica riportata da Diodoro Siculo, Plinio e Strabone - fossero stati effettivamente ultimati. L’idea di unire l’Egitto al centro dell’impero attraverso il mare, circumnavigando l’Arabia, non mancò di sedurre anche Dario, anche se l’ipotesi della circumnavigazione a quell’epoca è stata recentemente confutata. In quel caso la realizzazione del canale sarebbe stata per Dario un gesto volto ad accrescerne il prestigio. Julien Cuny In alto: ricostruzione grafica della stele su cui è inciso il nome di Dario, scoperta grazie ai lavori di scavo del canale nel 1866 a Kabret. 522-486 a.C. Parigi, Museo del Louvre. È evidenziata la collocazione del frammento illustrato qui accanto.


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in opera, cosí come non sappiamo chi sia stato l’iniziatore del progetto. Per quali scopi veniva utilizzato? Era navigabile per tutto l’arco dell’anno? Se dobbiamo dare credito agli autori antichi, i lavori si svolsero in numerose tappe. «Esiste un altro canale – scrive, per esempio, Aristotele – che si riversa nel Mar Rosso e nel Golfo Arabico, nei pressi della città di Arsinoe (…) attraversa i laghi che chiamiamo amari (…) Sesostri fu il primo ad aver messo mano al suo scavo, prima della guerra di Troia, nonostante alcuni sostengano che a cominciare l’opera fosse stato il figlio di Psammetico, che morí poco dopo. Piú tardi Dario I si fece carico del proseguimento dell’opera. Ma, assecondando un parere sbagliato, abbandonò i lavori quando mancava poco al loro completamento». Erodoto integra questo racconto: «Psammetico ebbe un figlio di nome Necao, che avviò lo scavo del 98 a r c h e o

Frammento di papiro che mostra un’imbarcazione egizia in navigazione. Torino, Museo Egizio. Gli archeologi hanno trovato traccia di navi le cui parti venivano lavorate nei pressi del Nilo e successivamente assemblate sulle coste del Mar Rosso.

canale che scorre verso il Mare Eritreo e che, dopo di lui, venne ultimato dal persiano Dario. Come lunghezza, questo canale richiede quattro giorni di navigazione ed è stato fatto largo abbastanza per consentire il passaggio di due triremi affiancate. La sua acqua viene dal Nilo, dal quale esso si stacca all’altezza di Bubastis, passa vicino alla città araba di Patoumos e sfocia nel Mare Eritreo (…) Sotto il regno di Necao morirono 120 000 operai impegnati nel suo scavo e tuttavia Necao fece interrompere i lavori, dopo che un oracolo aveva sentenziato che stava lavorando nell’interesse dei barbari». Queste cronache vanno valutate con cautela, poiché furono scritte entrambe circa duemila anni dopo gli eventi narrati. Né le fonti


egiziane, né l’archeologia hanno confermato che i lavori siano stati avviati da un Sesostri, sebbene il piú famoso dei faraoni che portano questo nome, Sesostri III, abbia realizzato altri grandi progetti. Per contro, numerose testimonianze archeologiche provano l’operato di Necao nella regione, in particolare i resti scoperti negli insediamenti commerciali di Tell Rabata e Tell el-Mashukhta, nello Wadi Tumilat. Tuttavia, i piú antichi documenti che testimoniano esplicitamente l’esistenza di una via d’acqua navigabile fra il Nilo e il Mar Rosso sono le stele innalzate dal re Dario I. L’Egitto, che era stato da poco conquistato, divenne una delle province piú ricche dell’immenso impero persiano e il canale, completando la rete di rotte e di stazioni di posta che collegavano le province a Susa, la capitale, apriva una via marittima diretta per l’Oriente.

Testa marmorea di Tolomeo II Filadelfo re d’Egitto. III-II sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

attività si registrò dopo la conquista dell’Egitto da parte dei Romani, tanto che Plinio il Vecchio scrive che il collegamento fra il porto mediterraneo di Peluso e il golfo di Suez avveniva per via di terra. Il nome di Traiano, che portò a termine alcuni interventi sul canale, rimase legato alla via d’acqua, che da allora fu chiamata «fiume di Traiano». Al di là della predilezione degli imperatori per le grandi opere, le motivazioni erano strategiche ed economiche: la preparazione di una campagna contro i Parti e la necessità di mantenere scambi commerciali con l’Africa e con l’Oriente, fino alle Indie. Le rotte terre-

«PER RIDARE GIOIA AL CUORE...» Le stele scoperte sulla riva destra del canale offrono una traccia del canale all’epoca della dominazione persiana, da Tell Mashukhta a Kabret, 6 km a nord di Suez. In seguito sembra che il canale si fosse insabbiato, poiché una stele di Tell Mashukhta, che commemora la fondazione delle città sul Mar Rosso, allude alla ristrutturazione dell’opera da parte di Tolomeo II Filadelfo: «Scavarono il canale per ridare gioia al cuore del loro padre Atum (…) Esso ha inizio dal fiume [un braccio del Nilo] a nord di Eliopoli e finisce nel lago Scorpione [Timsah]». Il faraone si sarebbe servito di questa via per trasportare gli elefanti venuti dall’Africa e lo storico Diodoro Siculo precisa che allo sbocco nel Mar Rosso furono installate alcune chiuse. Sembra che il canale non fosse piú in uso al tempo di Cleopatra. Se dobbiamo prestare fede allo storico Plutarco, la regina aveva progettato di fuggire sul Mar Rosso con il resto della sua flotta dopo la sconfitta di Azio: «L’istmo che separa il Mar Rosso dal Mar d’Egitto e che con il suo corso segna il confine fra l’Asia e l’Africa, nel punto in cui si insinua tra i due mari ed è piú stretto, non è piú lungo di 330 stadi [57 km]. Ella [Cleopatra] aveva progettato di far trainare e trasportare le sue navi sopra questo istmo». Il piano fallí, ma l’episodio diede origine alla leggenda dei carri del faraone che inseguivano gli Ebrei. Una certa a r c h e o 99


SPECIALE • CANALE DI SUEZ

stri dei deserti egiziani erano spesso minacciate da banditi o da ribelli e la via d’acqua offriva una provvidenziale alternativa. Tuttavia, nel 642, quando il califfo Amr ibn al-As guidò la conquista dell’Egitto, il canale si era nuovamente insabbiato. Fu rimesso in funzione nel giro di sei mesi, per agevolare i pellegrinaggi verso le città sante arabe e i rifornimenti di grano egiziano. «Da allora le barche non smisero di circolare, da Fustat Masr [Il Cairo] a Qolzum, città situata sul mare orientale, nella località che oggi si chiama Suez», scrive lo storico arabo al-Maqrizi (1364-1442). I commerci prosperavano: spezie e sete giungevano dall’India e dalla Cina, i prodotti africani dall’Etiopia. Ma si trattò di una breve parentesi: il canale fu colmato per impedire il rifornimento della città di Medina, che si era ribellata: «L’acqua smise di gettar-

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In alto: Le Chantier n°5: vue du Canal de Suez, dipinto di François-Pierre Bernard Barry. 1863. Parigi, Souvenir de Ferdinand de Lesseps et du Canal de Suez.

si nel mare nei pressi di Qolzum nell’anno 150 [767-768 d.C.], epoca in cui il califfo Abu Ja’far al-Mansur fece colmare questo canale, e cosí non ne è rimasto che quel che si può vedere ancora oggi». Nell’VIII secolo il canale dei faraoni appariva ormai condannato. La navigazione si era fatta intermittente e la sua portata era troppo ridotta per accogliere imbarcazioni il cui tonnellaggio era nel frattempo cresciuto. Al contempo, la sua manutenzione era ormai troppo costosa, poiché gli insabbiamenti si ripetevano sistematicamente. Ciononostante, i traffici commerciali tra l’Africa, l’Oriente e l’Occidente continuavano a essere intensi e l’istmo di Suez ne era uno degli snodi nevralgici, anche se i trasporti avvenivano solo per via di terra. La regione era attraversata da carovane di cammelli carichi dei beni piú

Sulle due pagine: tre fotografie di Hippolyte Arnoux e dei fratelli Zangaki che ritraggono diverse scene di vita con il Canale di Suez ultimato. Roubaix, Archivio nazionale del mondo del lavoro.

pregiati: avorio e oro africani; pepe e altri prodotti orientali; grano egiziano; vermiglio, mercurio, rame, corallo, acqua di rose venuti dall’Occidente. Su queste rotte si potevano altresí incontrare pellegrini che venivano dal Maghreb e del Sudan e si dirigevano verso le città sante dell’Arabia. Il contesto politico ed economico era mutato, con l’avvento di nuove potenze. Infestato dai pirati «barbari», il Mediterraneo divenne inaccessibile agli Europei, con l’eccezione dei porti del Levante. Ancora molti secoli dovevano passare prima di sognare un nuovo progetto: riunire i due mari con un canale che, da nord a sud, attraversasse l’istmo di Suez.

DOVE E QUANDO «L’epopea del Canale di Suez. Dai faraoni al XXI secolo» Parigi, Institut du monde arabe fino al 5 agosto Orario ma-ve, 10,00-18,00; sa-do e festivi, 10,00-19,00; lu chiuso Info www.imarabe.org a r c h e o 101


IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

NEL SEGNO DELL’INCLUSIONE LA LEZIONE DI RICCARDO FRANCOVICH, INDIMENTICATO FONDATORE DELL’ARCHEOLOGIA MEDIEVALE ITALIANA, È ANCORA OGGI ATTUALISSIMA. COME DIMOSTRANO ALCUNE PUNTUALI RIFLESSIONI SUL RAPPORTO FRA LE ESIGENZE DELLA TUTELA E QUELLE DELLA RICERCA

P

rematuramente scomparso poco piú di dieci anni fa, Riccardo Francovich è stato l’indimenticabile fondatore dell’archeologia medievale italiana, ma anche, e innanzitutto, un cittadino, buono, allegro, laico e generoso. Prima di lui l’archeologia medievale aveva in Italia ben scarsa cittadinanza. La Rocca di San Silvestro, da lui inserita nel magnifico Parco archeominerario che la circonda, è un po’ il simbolo della sua opera, il luogo in cui la passione per la ricerca, per la comunicazione dei suoi risultati e per la gestione dei siti si intrecciano indissolubilmente. La sua curiosità investiva i temi

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storici e archeologici della città e del contado della Toscana intera, che conosceva palmo a palmo, di castello in castello, nell’incessante aspirazione di ricostruirne i paesaggi ambientali e umani: un’opera ciclopica, nella quale aveva impegnato tutto se stesso e la folla dei suoi tanti allievi e collaboratori.

USARE LA MODERNITÀ Riccardo Francovich studiava il passato in modo moderno e disincantato. Il feticismo dell’oggetto antico (o medievale che fosse) era l’ultima cosa che lo affascinasse. Gli interessava usare la modernità per capire il passato,

usare il passato per dare un senso alla modernità. Questo spiega anche la sua passione, da vero precursore, per l’applicazione dell’informatica all’archeologia. Questo atteggiamento faceva tutt’uno con il suo impegno quotidiano nella politica dei beni culturali, che non poteva immaginare separata dalla sua attività di docente e ricercatore. Era quello il suo modo di fare politica: una politica delle cose fatte e da farsi, che non rifuggiva da momenti di confronto teorico o ideale. Formazione, ricerca, tutela, valorizzazione e gestione erano per lui la filiera che si ritrovava nel territorio vissuto, abitato,


A sinistra: Parco Archeominerario di San Silvestro. L’interno della miniera del Temperino, oggi visitabile. La miniera produceva in prevalenza minerali di rame. In basso: disegno ricostruttivo della rocca San Silvestro, intorno alla quale, tra il X e l’XI sec., sorse, per volontà dei conti della Gherardesca, il villaggio dei minatori, che rimase in uso fino al XIV sec. Nella pagina accanto: Campiglia Marittima (Livorno). I resti della medievale rocca di San Silvestro, oggi compresi nell’omonimo Parco archeominerario. amministrato, ieri come oggi. Per questo si impegnava per coinvolgere nelle attività di ricerca le popolazioni interessate e i loro amministratori, conducendo scavi, allestendo mostre temporanee e musei permanenti, progettando parchi, intrisi di cultura e natura. E cocciutamente dimostrava che le ricerche specialistiche degli archeologi erano il sale e il motore della tutela, mai intesa come mera conservazione, ma sempre come strumento di pianificazione dell’uso del territorio, come occasione per creare risorse basate su modelli di sviluppo che si alimentavano di cultura, favorendo le attività economiche indotte dal turismo di qualità. Non c’è formazione, ricerca, tutela senza una pari passione per la comunicazione, che per Francovich non era mai semplificazione, meno che mai banalizzazione, ma restituzione godibilissima della complessità del percorso di conoscenza, che fa degli archeologi una sorta di storici tutta particolare. Quando avviò la sua azione (passo fondamentale fu la nascita della rivista Archeologia medievale, da lui fondata quando non aveva ancora trent’anni) l’archeologia del Medioevo era una disciplina marginale, che doveva faticare

per farsi spazio nelle università. E ancor piú nelle strutture amministrative della tutela, verso le quali l’impegno di Francovich fu tanto assiduo quanto preveggente, tanto che oggi possiamo ricordarlo come «protagonista di una battaglia, ancora da combattere e vincere, per la tutela dei siti archeologici e del paesaggio circostante», per usare le parole di Salvatore Settis.

IL FUTURO DEL PATRIMONIO Uno dei suoi ultimi scritti sul tema (Politiche per i beni culturali, fra conservazione e innovazione) ci offre uno spaccato delle sue posizioni e ci fa riflettere su quanto anticipatrici fossero state certe sue affermazioni,

che appaiono attualissime se rapportate al grande dibattito sul futuro del patrimonio culturale avviato in Italia dal 2014 a seguito delle recenti riforme. Già nel 2004 Francovich rimproverava agli apparati dirigenti del Ministero dei beni culturali di difendere «rendite di posizione», che lasciavano l’amministrazione «disattenta ai contesti» e incapace di «rispondere ai nuovi bisogni di una tutela e di una valorizzazione diffusa». Quindi di non essere all’altezza delle sfide dei tempi. La «sacrosanta norma a tutela della “pubblicità” del patrimonio archeologico si è trasformata – scrive – in una forma di “monopolio di Stato” sui processi conoscitivi». Non è dunque la prima che

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va indebolita, ma il secondo che va smantellato. Una gestione monopolistica da parte degli organi di tutela dello Stato, impropriamente estesa anche alla valorizzazione, creava «un conflitto di interessi palese» di ostacolo alla «crescita qualitativa e quantitativa della conservazione di un patrimonio che si va sempre piú dilatando». L’assenza di una politica riformatrice trovava sponda «nella politica centralista del Ministero», mentre lo sviluppo sociale e culturale dell’Italia aveva visto crescere «professionalità e capacità tecnico-scientifiche di rilievo, soprattutto nel contesto del terzo settore, come le associazioni di volontariato, imprese, fondazioni». Il nodo centrale – rifletteva Francovich – sta dunque nel «fare scelte “inclusive” al fine di utilizzare al meglio tutte le risorse vitali per la gestione dei beni culturali» nell’ambito di una concezione della tutela archeologica intimamente legata a quella dei paesaggi. Nel suo scritto, non a caso, la

parola che ritorna con maggiore costanza è proprio «inclusione». Tutti devono concorrere a raggiungere l’obiettivo «di garantire l’uso pubblico del patrimonio storico-archeologico ed artistico», confermando quindi «il “principio di pubblicità” dell’azione di tutela riservando allo Stato un esercizio di controllo forte» (ben separato dalla gestione e dalla valorizzazione) e d’indirizzo, responsabilizzando e includendo il maggior numero di soggetti sulla base del «principio di sussidiarietà”: quello sancito da due articoli della nostra Costituzione, il 117 e il 118 (specialmente nel suo comma 4) troppo spesso dimenticati quando si discute di politiche del patrimonio culturale.

CONTRO IL CENTRALISMO Abbandonare, dunque, le politiche centralistiche sorrette «da una legislazione costruita e radicata ancora nella società preindustriale» per operare piuttosto «in un quadro

15 FEBBRAIO 2007, LA LETTERA A SETTIS

Le battaglie si possono vincere

Questa è la lettera indirizzata da Riccardo Francovich a Salvatore Settis, a cui era allegato un appello di Italia Nostra nazionale per la Parchi Val di Cornia, a proposito del rapporto fra strutture statali della tutela e poteri locali: «Purtroppo credo che sarebbe stata sufficiente l’attenzione delle strutture di tutela per evitare i danni arrecati e quelli che si vanno a produrre nella Val di Cornia. Non vi è dubbio quindi che, se per realizzare imprese significative in scala territoriale, i governi locali sono determinanti, è altrettanto vero che per conservarli è assolutamente necessario disporre di strutture di controllo lontane dagli affari locali e capaci di un giudizio terzo e inappellabile (quello che io chiamo controllo forte dello Stato, che potrebbe essere esercitato da una Autorità indipendente). Oggi abbiamo comuni in fase di rapido “declino” progettuale e gestionale (anche in Toscana) e strutture di tutela concentrate alla conduzione di tartufistiche ricerche e, invece, disattente alla costruzione delle cartografie regionali e sub regionali e ai processi di trasformazione paesaggistici. Per questo mi ritrovo fra l’altro a battagliare anche per Fiesole, dove il comune, con l’avallo delle sovrintendenze, sta trasformando l’immenso deposito archeologico del centro interno alle mura in aree fabbricabili (era giunto fino a noi in condizioni discrete). Scusa lo sfogo, ma come puoi immaginare sono un po’ teso, anche se sicuro che le battaglie si devono fare e si possono vincere, Tuo con affetto Riccardo».

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Riccardo Francovich (1946-2007). di ricomposizione e di “inclusione”». Era questa la proposta da lui ritenuta piú efficace per contrastare il rischio che le potenzialità enormi del nostro Paese venissero vanificate dalle nostre endemiche debolezze, fatte di burocrazia, lassismo, cronica e intollerabile sfiducia nel corpo sano dei cittadini. Era questa la sua grande intuizione, che oggi vediamo ripresa e interpretata da tanti protagonisti del dibattito attuale. Era questo il suo cruccio, che limpidamente registrava quando – in una delle sue ultime lettere (recentemente resa nota da Salvatore Settis; vedi box qui accanto) – amaramente denunciava come, di fronte al declino delle capacità progettuali e gestionali dei poteri locali, le strutture statali della tutela fossero «concentrate nella conduzione di tartufistiche ricerche e, invece, disattente alla costruzione delle cartografie regionali e sub-regionali e ai processi di trasformazione paesaggistici». Che cosa direbbe Riccardo Francovich del dibattito attuale? Quanti di noi l’hanno conosciuto possono forse immaginarlo, ma non possono certo suggerire una risposta. Sappiamo però che il suo contributo critico, e appassionato al tempo stesso, oggi sicuramente ci manca.



QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

…DIVENNE UNA CITTÀ INVIVIBILE CHI VIVE IN UNA MODERNA METROPOLI GIUDICA SPESSO INSODDISFACENTE LA PROPRIA QUALITÀ DELLA VITA. MA GLI SCRITTI DI GIOVENALE O DI MARZIALE RIVELANO COME PROBLEMI SIMILI GIÀ AVESSERO AFFLITTO LA CAPITALE DELL’IMPERO...

A

l tempo in cui Nerone aveva disposto la costruzione della Domus Aurea – alla metà degli anni Sessanta del I secolo d.C. – una «pasquinata» invitò i Romani ad abbandonare la loro città per trasferirsi a Veio: Roma domus fiet, Veios migrate Quirites, «Roma sta diventando un’unica casa, emigrate a Veio, Quiriti». L’invito era malignamente esagerato, anche se in sintonia con l’irritazione di un’opinione pubblica che, duramente provata per i lutti e le devastazioni del grande incendio dell’anno 64, era incline a credere in chi andava sostenendo che fosse

stato lo stesso imperatore ad aver dato fuoco a Roma per poterla ricostruire a proprio piacimento. I Romani, naturalmente, non accolsero l’invito. Tuttavia, meno di mezzo secolo dopo – intorno all’anno 100 – molti di loro avevano cominciato a emigrare sul serio, per andare a vivere in campagna o in uno dei tanti piccoli centri dei dintorni di Roma; e anche piú lontano. La città, infatti, era diventata invivibile, come attesta, tra gli altri, Giovenale che nella sua Satira III loda incondizionatamente la decisione presa da un suo amico (che pure gli procura dispiacere) di In alto, sulle due pagine: plastico ricostruttivo della Roma imperiale all’epoca della sua massima espansione, nel IV sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà Romana. A sinistra: frammento di sarcofago raffigurante un cambiavalute, da Roma. Roma, Museo Nazionale Romano.

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trasferirsi a Cuma. Lui stesso, del resto, confessa che alla famigerata Suburra preferirebbe persino Procida, l’isola tristemente nota come luogo di confino e di esilio. Gli inconvenienti erano molti e il poeta non esita a parlare di veri e propri pericoli: mille pericula saevae urbis («i mille pericoli d’una crudele città»).

CRESCITA ECCESSIVA Per cominciare, nonostante avesse trovato di che crescere in altezza, l’abitato s’era troppo esteso in superficie. Sicché difficili e faticosi erano diventati gli spostamenti da un capo all’altro di esso: «Ci sono


due miglia che ci separano, che diventano quattro con il ritorno», rispondeva Marziale a uno dei suoi patroni che si lamentava di non essere frequentato piú assiduamente. Ma soprattutto aumentato, a dismisura, era il numero degli abitanti, per via di una immigrazione diventata «selvaggia». «A Roma non c’è piú posto per i Romani», scrive Giovenale. Al loro posto ci sono ormai gli immigrati: «È già da un pezzo che l’Oronte di Siria è venuto e riversare le sue acque nel Tevere portando con sé lingua e costumi, flautisti, corde oblique ed esotici

I Romani in cifre

Riportiamo, qui di seguito, la consistenza (stimata e/o reale) della popolazione di Roma nel corso della sua storia:

Età medievale (XI-XIII sec.) da 100 000 a 30 000 unità (epidemia di peste)

Epoca serviana (VI sec. a.C.) 30 000 unità

Rinascimento (XV sec.) 40 000 unità

Epoca delle guerre puniche (270 a.C.) 190 000 unità

Età moderna (XVII sec.) 100 000 unità

Epoca imperiale (II sec. d.C.) 1 200 000-1 700 000 unità

Unità d’Italia (1870) 200 000 unità

Sacco di Roma e guerra gotica (V-VI sec. d.C.) da 650 000 a 100 000 unità

Oggi (dati ISTAT, settembre 2011) 2 777 979 unità, (è il Comune piú popoloso d’Italia)

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tamburi e ragazze costrette a prostituirsi dalle parti del Circo». E per le strade, affollate e caotiche, si possono incontrare, a sentire Marziale (De Spect. III,10), il contadino della Tracia e il Sarmata «che si nutre di sangue di cavallo», l’Arabo «che si disseta alle sorgenti del Nilo», i Sabei, i Cilici «impregnati di zafferano», i Sigambri «con le chiome raccolte in un nodo» e gli Etiopi, «con i capelli intrecciati». L’aumento incontrollato della popolazione aveva provocato una vera e propria crisi degli alloggi. La sempre crescente richiesta aveva fatto lievitare smisuratamente i canoni d’affitto e favorito la speculazione edilizia. E le case, tirate su in fretta e con materiali scadenti (per non dire delle soprelevazioni e delle aggiunte precarie) erano sempre sotto la minaccia dei crolli. Al pericolo dei quali c’era da aggiungere quello di finire i propri giorni tra le fiamme di un incendio, specie per chi abitava in condizioni di estrema precarietà, magari in una soffitta o in un sottotetto: «Ucalegonte grida che portino acqua (...) sotto i suoi piedi già il terzo piano è in fiamme» – scrive

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Giovenale – «mentre tutti di sotto sono già in trambusto, chi non ha che le tegole per difendersi dalla pioggia e se ne sta lassú dove le colombe depositano l’uovo, quello, sia pure per ultimo, è destinato ad arrostire».

LEZIONI IN STRADA Anche per questo, la vita dei piú si svolgeva prevalentemente in strada, dove molti stazionavano normalmente per svolgervi le loro attività: dai barbieri ai cambiavalute, fino ai maestri di scuola, che organizzavano la propria classe, con uno sgabello e qualche panca, magari al riparo d’una tenda nell’angolo defilato d’un marciapiede. Mentre bottegai e ambulanti esponevano dovunque la loro merce («il venditore temerario Roma intera ci portava via», scrive Marziale, VII 61). La situazione era tale da rendere difficile e penosa persino la circolazione e già Orazio (Sat. II 6,28) aveva sottolineato la fatica che occorreva, in strada, per farsi largo a strattoni tra la calca (luctandum in turba). Lo stesso Orazio aveva anche scritto (Epist. II, 2, 72-75): «Qui un impresario

affaccendato s’affretta con muli e facchini, lí una grande macchina tira su pietre e travi; un carro funebre si scontra con carri da trasporto; da una parte scappa una cagna rognosa, dall’altra rotola una scrofa coperta di fango». E Giovenale, dal canto suo, aggiunge: «A me che m’affretto, s’oppone l’onda che mi precede, mentre la folla che segue mi preme ai fianchi come una falange compatta. E uno ti dà una gomitata, un altro ti colpisce duramente con una spranga; questo ti sbatte in testa una trave, quello un barile (...), d’ogni parte ti calpestano scarpe smisurate e un soldato ti conficca nei piedi le sue suole chiodate». Che dire poi dell’inquinamento acustico? Orazio aveva scritto (Epist. II 2,79) che a Roma si viveva inter strepitus nocturnos atque diurnos. A sentire Marziale (XII 57) non esisteva un posto dove un poveretto potesse meditare o riposare: «Non ti lasciano vivere, al mattino, i maestri di scuola, la notte i fornai, durante tutto il giorno il martellare dei calderai. Qua c’è un cambiavalute che, non avendo altro da fare, scuote il sudicio tavolo con la sua scorta di monete; là il


A sinistra: rilievo raffigurante una pollivendola. Prima metà del III sec. d.C. Ostia, Antiquarium. In basso: affresco con scena tratta dalla commedia di Menandro L’Invasata e della quale sono protagonisti alcuni musici ambulanti, da Stabia. 30-40 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

battiloro picchia col suo lucido mazzolo la pietra aurifera della Spagna già in pezzi; né la smettono i fanatici del culto di Bellona di vociare, il naufrago attaccato a un pezzo di legno, di raccontare la sua storia; il piccolo ebreo ammaestrato dalla madre, di chiedere l’elemosina; il rivendugliolo cisposo, di vendere gli zolfanelli gridando». Anche Seneca, non molto tempo prima, aveva scritto qualcosa di simile (Epist. VI 56): «Mi circonda d’ogni parte un frastuono

indiavolato. Abito sopra un bagno pubblico e immaginati un chiasso, un gridare in tutti i toni che ti frastorna le orecchie. Sento il mugolio di coloro che si esercitano, affaticandosi o fingendo d’affaticarsi, con i pesi di piombo e, ogni volta che mettono fuori il fiato trattenuto, sento i sibili del loro respiro affannato. Se qualcuno se ne sta invece buono buono a farsi massaggiare, sento il ticchettare della mano sulle spalle e un suono diverso a seconda che il colpo venga dato con la mano aperta o concava. Quando poi arriva uno di quelli che non sanno giocare a palla senza contare i punti a voce alta, allora è finita. Aggiungi l’attaccabrighe, il ladro colto in flagrante, il ciarlatano che quando parla sta a sentire il suono della sua voce, quelli che si tuffano nella piscina e fanno rumorosamente schizzare l’acqua da tutte le parti. Ma, perlomeno, tutti costoro mettono fuori la loro voce abituale; pensa al depilatore che ogni tanto, per offrirti i suoi servigi, parla in falsetto e non sta zitto che quando strappa i peli a qualcuno, ma allora urla chi gli sta sotto. Infine, c’è il vociare dei venditori di bibite, di salsicce, di pasticcini e quello degli inservienti delle bettole che vanno in giro offrendo la loro merce,

ognuno con una speciale modulazione di voce». Tutto questo, di giorno. Di notte, quando riprendeva il traffico veicolare sospeso per legge dall’alba al tramonto, erano i carri a fare un frastuono infernale, con lo scalpitio degli zoccoli degli animali, lo stridio dei cerchioni di ferro delle ruote, le grida, le imprecazioni, le liti dei carrettieri. «Quale casa d’affitto consente il sonno a Roma?», si chiede, sconsolato, Giovenale.

I PERICOLI DELLA NOTTE Ma di notte, per la strada, incombevano minacciosi veri e propri rischi: dai cattivi incontri (con ubriachi, malfattori, rapinatori, giovinastri) alla caduta di oggetti contundenti. Scrive in proposito il poeta: «Non manca, infatti, allorché le case sono ben chiuse e dopo che, sprangate con catene le taberne, d’ogni parte è silenzio, chi ti spoglia completamente». E inoltre: «Considera l’altezza dei tetti da dove una tegola, cadendo, può spaccarti il cervello e quante volte vengono giú dalle finestre vasi crepati o rotti e con che peso essi lasciano il segno sul selciato. Potresti passare per negligente o per uno che non si preoccupa degli imprevisti, se vai fuori a cena senza aver fatto testamento: tanti saranno i pericoli di morte, in una notte, quante le finestre aperte sopra di te che passi». Alla fine, v’era da augurarsi che «quelle finestre s’accontentino di rovesciarti addosso il contenuto dei loro catini» (e l’allusione era all’abitudine della gente di gettare in strada, nottetempo, ogni genere di rifiuti domestici, liquidi e solidi, compresi quelli derivanti dalla generale assenza nelle abitazioni dei piú elementari servizi igienici). In conclusione, nella Città dei Cesari ce n’era abbastanza per darsi alla fuga. Cedamus patria, esclama pertanto Giovenale: « Andiamo via da Roma!».

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

L’ETERNA FEDELTÀ DI SICHEO IL GRAN SACERDOTE, PRIMO MARITO DI DIDONE, NUTRÍ PER LA REGINA UN SENTIMENTO COSÍ FORTE DA SUPERARE IL TRADIMENTO E LA MORTE

N

ell’Eneide, l’amore «scandaloso» tra Enea e Didone, imposto dagli dèi, non cancella la figura del primo marito della regina cartaginese, Sicheo-Acerba. Questi ricorre nella tradizione di origine fenicia riguardo la mitica fondazione di Cartagine tramandata da Timeo di Tauromenio, nelle Istorie di Pompeo Trogo compendiate da Giustino (dove Enea non è mai menzionato) e nei versi del poema virgiliano. Queste narrazioni, infatti, esaltano l’amore sincero che lega Elissa-Didone al marito, suo ricchissimo sposo e zio, nonché gran sacerdote di Melqart-Eracle, secondo per potere solo al re e ucciso per bramosia di ricchezze dal giovane nipote (e fratello di Didone) Pigmalione, divenuto signore di Tiro. La presenza post mortem di Sicheo è parte integrante della vicenda di Didone in entrambe le fonti relative alla regina: in quella originaria egli appare in sogno alla sposa, le raccomanda di fuggire da Tiro, portando con sé gli oggetti sacri del culto e il tesoro nascosto. Con uno stratagemma, Elissa, che dà subito prova della propria scaltrezza, riesce nottetempo a salpare di nascosto da Tiro, con un gruppo a lei fedele e con le ricchezze coniugali, non prima, però, di aver celebrato un sacrificio alla principale divinità di Tiro: «E cosí, rinnovati i sacrifizii a Ercole di cui Acerba era stato

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emissioni in bronzo sul cui rovescio è raffigurata in primo piano una donna ammantata e con un copricapo a forma di kalathos (la cesta sacra che era attributo di divinità o sacerdotesse), in atteggiamento devozionale, con le braccia alzate, davanti a un’ara illuminata e a un tempio a due colonne e con la clava di Ercole all’ingresso. Nel campo è presente la consueta conchiglia del tipo Murex, dalla quale si ricavava il celebre color porpora fenicio; la leggenda, in latino, è la tradizionale denominazione dell’autorità civica che ha emesso le monete: COL(onia) TYRO METRO(polis).

NEI PANNI DI UNA DEA

sacerdote, con l’esilio vanno a procacciarsi stanza» (Istorie, libro 18. IV, edizione a cura di Paolo Emilio Campi, Milano 1829; p. 197). Nella serie romano-provinciale battuta a Tiro, in Fenicia, nel III secolo d.C. (tra cui Treboniano Gallo, Volusiano, Valeriano I, Gallieno e Salonina), vi sono

Questo tipo sembra il puntuale rimando figurato a quanto narrato dalle Istorie: prima di partire per un’avventura estrema, senza destinazione sicura e sfidando i mari, Elissa-Didone, abbigliata come una divinità o come una sacerdotessa – cosí come lo era il marito – invoca il favore di Eracle-Melqart, simboleggiato semplicemente dalla clava. Ed è evidente che i magistrati preposti alle emissioni della Tiro sotto il giogo di Roma si rifacessero alla versione fenicia delle vicende della loro Elissa-Didone, raffigurando l’episodio del sacrificio propiziatorio al viaggio. Giunta in Africa, fonda Cartagine con uno stratagemma, regna


A sinistra: Il sogno di Didone, olio su tela di Giovanni Gioseffo dal Sole. 1697 circa. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Nella pagina accanto: moneta in bronzo di Treboniano Gallo. III sec. d.C. Al dritto, il busto dell’imperatore; al rovescio, Didone che esegue un sacrificio su un’ara accesa davanti al tempio di Eracle-Melqart, rappresentato da una clava. Nel campo, una conchiglia del genere Murex.

sovrana e infine, costretta dal suo stesso popolo a un matrimonio odioso con il re locale Iarba (secondo la tradizione di origine fenicia) o per il vile abbandono di Enea secondo Virgilio, si uccide. Sicheo non abbandona mai la sua amata sposa: dapprima, già morto, compare in sogno a Didone, consigliandola, e poi, nell’invenzione poetica virgiliana, una volta che essa lo raggiunge nell’Ade, non la disdegna offeso dal tradimento della sua memoria: egli sa che lei è stata oggetto della crudele volontà degli dèi protettori di Enea. Nell’eternità degli Inferi, i due sono per sempre riuniti e, anzi, Sicheo protegge Didone dal

doloroso e umiliante passato, accogliendola tra le sue braccia e dirigendosi in un bosco frondoso.

L’INCONTRO NELL’ADE Quando infatti Enea giunge nell’Oltretomba e incontra la regina, subito le parla, spinto dal senso di colpa per il comportamento al quale anche lui è stato costretto dal fato, che a lui aveva chiesto di dare origine alla progenie romana (e alla gens giulio-claudia) e che ha portato la regina al suicidio. Seppure il sentire moderno poco faccia propendere per Enea e per i motivi che adduce all’antica amante per giustificare la sua fuga,

la poesia virgiliana raggiunge qui vertici di empatico lirismo, e si rilegge sempre con commossa partecipazione: «Lei, altrove rivolta, gli occhi fissava giú a terra, né si smuoveva nel volto al discorso intrapreso piú che se fosse una statua di dura pietra o di roccia marpèsia. E infine se ne andò via, e piegò, rifugiandosi, ostile nell’umbrifero bosco, dove lo sposo di un tempo alle sue cure risponde, Sichèo, e ne ricambia l’amore. Non di meno Enea, percosso da quel caso avverso, lei, che va via, con le lacrime segue, lontano, e commisera» (Eneide, VI, 469-476, traduzione di Alessandro Fo).

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Eric H. Cline

TRE PIETRE FANNO UN MURO Bollati Boringhieri, Torino, 478 pp. 26,00 euro ISBN 9788833929101 www.bollatiboringhieri.it

Il pregio principale di questo nuovo volume di Eric H. Cline – maturato nell’esperienza dell’autore come insegnante di corsi introduttivi all’archeologia nelle università nordamericane – consiste nel comunicare non solo la fascinazione del passato e delle grandi scoperte degli ultimi tre secoli, ma anche le piú comuni curiosità che il pubblico nutre per la disciplina. Le domande «terribili», in quanto richiedono spiegazioni complicate, che ogni archeologo di campo si è spesso sentito rivolgere («Come fate a sapere dove scavare? Come fate a sapere esattamente quanto antichi sono i reperti? Potete tenere i reperti che trovate?»)

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formano altrettanti capitoli del libro, e intercalano le narrazioni di scoperte epocali. Senza trascurare finestre su tecniche e metodi scientifici introdotti di recente, con risultati spesso inattesi, nella prassi dell’archeologia. Il linguaggio di Cline è semplice, a volte quasi ingenuo, e rifugge da specialismi; molte delle cose che racconta sono tratte da esperienze personali, il che rende vivide le circostanze e piú immediati i personaggi che si incontrano. Per questo motivo, nel raccomandare la lettura del libro ai nostri lettori, si ha la tranquillità di affidarli alla mano e alla penna di un collega «onesto», ma anche molto ben informato e aggiornato. Come hanno ben scritto i curatori italiani, Tre pietre fanno un muro rappresenta la prosecuzione, in una sorta di discendenza ideale, di Civiltà Sepolte di C. W. Ceram (in realtà Kurt Wilhelm Marek, 1918-1972): il volume sul quale molti archeologi della generazione di chi scrive hanno affilato le lame della propria determinazione a fare questo mestiere (forse poco remunerativo ma bellissimo), nel quale la comunicazione mediatica rimane essenziale. Nel suo racconto, Cline si toglie qualche sassolino dalla scarpa, per esempio ridimensionando i meriti

di Heinrich Schliemann (1822-1890) sul preteso sito dell’antica Troia; per riabilitare, di converso, quelli del rappresentante consolare inglese Frank Calvert (1828-1908), vero scopritore della mitica città. La scoperta e il recupero dei manoscritti del Mar Morto (presso Qumran), ritrovamento forse meno spettacolare e meno noto di quello della tomba di Tutankhamon o degli ori di Ur, ma di enorme importanza storica, è narrato in dettaglio. Nel dipanarsi di casualità, acquisti impropri, traffici illegali e recuperi fortunosi, la storia dei frammenti scritti di Qumran occupa un capitolo affascinante. Cline dedica pagine significative anche all’uso ideologico dell’archeologia nelle politiche culturali nazionalistiche del passato e del presente: rivisita, a questo proposito, l’archeologia del fascismo in Italia, concludendo che «a Roma il legame tra archeologia e nazionalismo è forse piú forte che in qualsiasi altra città o regione del mondo, e in qualsiasi epoca, comprese Atene, Gerusalemme, Città del Messico e altrove». Altri capitoli e racconti indugiano su aspetti piú fascinosi e «romantici», come le celebri scoperte delle città maya nelle intricate giungle centroamericane da parte di John Lloyd Stephens

(1805-1852) e Frederick Catherwood (1799-1854); o, ancor piú, quelle delle «teste giganti» avvolte dalla vegetazione nei siti dimenticati della cultura olmeca. Il panorama descritto da Cline è amplissimo, estendendosi non soltanto nello spazio, ma anche nel tempo: dalle tracce dei nostri piú remoti antenati ominidi di milioni di anni fa giunge ad abbracciare – cosa per noi Europei piuttosto insolita – eventi storici molto recenti. Tra questi, merita di essere letto il capitolo sul recupero dei resti del sommergibile confederato CSS H.L. Hunley, che nel 1864 speronò al largo della costa della Carolina del Sud la Housatonic, una nave nemica nordista, inserendovi una carica esplosiva. Con la Housatonic, a sua volta affondò anche il sommergibile, recuperato a 9 m di profondità, con i resti dei suoi otto uomini dell’equipaggio ancora a bordo. Lo scheletro del comandante, George E. Dixon, è stato identificato grazie a una moneta d’oro incisa da 20 dollari, che in una precedente battaglia gli aveva salvato la vita, fermando, da un taschino, la pallottola che lo aveva raggiunto. Storie come questa confermano – se ve ne fosse il bisogno – la capacità dell’archeologia di rinnovare, in forme sempre diverse, il suo vecchio ma perenne fascino. Massimo Vidale




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