Archeo n. 401, Luglio 2018

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IN EDICOLA IL 7 LUGLIO 2018

.it

2018 CATACOMBE DI DOMITILLA COLLEZIONE VÁREZ FISA

LA TOMBA DELL’ATLETA

DIGHE SPECIALE TERME DI CARACALLA

Mens. Anno XXXIV n. 401 luglio 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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EDITORIALE

UNA LEGGERA VERTIGINE Girovagare tra le rovine di un’area archeologica – magari muniti di una guida tascabile e, possibilmente, accompagnati dal silenzio del deserto o da una brezza marina – è uno dei piaceri estivi a cui non vorrei rinunciare. Calpestare antichi percorsi, sfiorare le ruvide pietre di mura e santuari, insomma, appropriarsi, attraverso un dialogo solitario, del loro «racconto»: trattasi, forse, di irrazionale – e sconveniente – «monumentofilia»? Potrete trovare la risposta nell’articolo alle pp. 60-71. Prima, però, vi invito a programmare la visita a uno dei piú estesi e affascinanti complessi archeologici del mondo romano, quello delle Terme di Caracalla. Un’esperienza che si avvale di un nuovo e sorprendente strumento conoscitivo: gli esiti delle indagini, svolte sulle grandiose vestigia nel corso degli ultimi decenni, sono confluiti in modelli di realtà virtuale tridimensionale, la cui elaborazione rende oggi possibile la visione del monumento in un continuo confronto tra il suo aspetto attuale e quello del passato (ricostruito, appunto, virtualmente). Ora, per accedere a questa nuova dimensione, il visitatore deve sottoporsi a una parziale restrizione della liberta personale (questo, almeno, è come il sottoscritto si sente di descrivere l’esperienza), dovuta a un visore che, in alcuni punti precisi del percorso, deve essere portato davanti agli occhi: cosí facendo (e perdendo – per alcuni secondi – il senso della realtà), ci si immerge nelle terme com’erano nel 216 d.C., al momento della loro inaugurazione. Il prezzo da pagare per vivere questa contemporaneità presente/passato è una leggera vertigine (il ritorno al passato, si sa, può far girare la testa) e conviene, dunque, reggersi alle ringhiere che accompagnano il percorso. Ma ne vale la pena: come, altrimenti, potremmo riconoscere il luogo esatto in cui erano originariamente collocati capolavori a tutti noti, come il Toro Farnese (oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli) o, anche, le statue dell’Ercole Farnese o dell’Ercole Latino (oggi, rispettivamente, al Museo di Napoli e alla Reggia di Caserta)? E, soprattutto, come potremmo renderci conto – se non attraverso questo confronto diretto – dell’altrimenti inimmaginabile grandiosità architettonica e dello sfarzo delle decorazioni andate perdute? Proprio per la loro inesauribile ricchezza, le terme costituirono il bersaglio principale su cui si accanirono i saccheggiatori di tutti i tempi, a partire dai barbari fino ai papi del Rinascimento. E non solo quelle di Caracalla: dalle Terme di Antonino a Cartagine, per esempio (le terze in ordine di grandezza), elementi architettonici giunsero fino a Pisa, Genova, e addirittura a Canterbury, in Inghilterra. Eppure, ancora oggi, quei grandiosi monumenti, «spogliati» come sono fino all’irriconoscibilità, meritano piú che una visita. Con, o senza, l’ausilio di un visore multimediale… Andreas M. Steiner Roma. Una veduta delle Terme di Caracalla, inaugurate nel 216 d.C.


SOMMARIO EDITORIALE

Una leggera vertigine 3 di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

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SCOPERTE Nel quadrante orientale del suburbio di Roma torna alla luce la tomba di un atleta vissuto nel IV secolo a.C. 6 ALL’OMBRA DEL VULCANO A Pompei riprendono le esplorazioni: un vasto cantiere di scavo interessa la Regio V di Pompei e già si contano molte scoperte di eccezionale importanza 10 SCAVI Un recente intervento di archeologia preventiva ridisegna l’assetto della città di Jesi in epoca medievale 14

A TUTTO CAMPO Anche i Neandertaliani avevano il gusto del bello: lo rivelano gli scavi nella Grotta del Cavallo 18

ARCHEOLOGIA CRISTIANA

Nel segno della tolleranza 48 di Renata Salvarani

PAROLA D’ARCHEOLOGO Dall’Etiopia al Veneto, per studiare l’uso dei colori nella preistoria: ecco la «missione» di una giovane archeologa italiana 22

INCHIESTE

I buoni e i cattivi

30

di Maurizio Pellegrini

MITI E LEGGENDE

MOSTRE

Chi ha paura della Sfinge?

48

42

Innamorarsi di una statua

60

di Maria Milvia Morciano

di Carlo Casi e Patrizia Petitti

60

42

In copertina Roma. Una veduta delle Terme di Caracalla.

Comitato Scientifico Internazionale Anno XXXIV, n. 401 - luglio 2018 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Maria Giovanna Belcastro è professore associato di antropologia presso Alma Mater Studiorum Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Luciano Frazzoni è direttore del Museo Civico «F. Rittatore Vonwiller» di Farnese. Catia Fauci è responsabile del progetto «Luce sull’Archeologia» del Teatro Argentina di Roma. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco Archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Monica Miari è archeologa della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Maria Milvia Morciano è archeologa. Maurizio Pellegrini è archeologo direttore della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale. Patrizia Petitti è funzionario della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Renata Salvarani è ricercatore di storia del cristianesimo e delle Chiese presso l’Università degli Studi Europea di Roma. Lucia Sarti è professore ordinario di preistoria e protostoria presso l’Università degli Studi di Siena. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma.


TECNOLOGIA Le dighe/2

I primi signori delle acque

72

di Flavio Russo

78

72

SPECIALE

Caracalla. La nuova dimensione

Rubriche QUANDO L’ANTICA ROMA... ...si faceva in quattro

104

di Romolo A. Staccioli

SCAVARE IL MEDIOEVO

Mors tua, vita mea 108 di Andrea Augenti

78

di Luciano Frazzoni

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA La volitiva figlia di Belo

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di Francesca Ceci

LIBRI

Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 76/77, 95, 100/101 – Cortesia Soprintendenza Speciale di Roma Archeologia Belle Arti e Paesaggio: pp. 6-7, 78/79, 80, 80/81, 82, 84-87, 88/89, 89 (alto), 94, 96-97 – Cortesia Soprintendenza ABAP-BO e Gruppo Speleologico Bolognese-USB: F. Grazioli: pp. 8, 9 (sinistra) – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 10-12 – Cortesia Soprintendenza ABAP delle Marche: pp. 14-15 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 16, 20 – Cortesia degli autori: pp. 18-19, 22-23, 30-38, 42-47, 74-75, 76, 110-111 – Mimmo Frassineti: pp. 48/49, 50 (basso), 51-59 – Mondadori Portfolio: p. 106; AKG Images: pp. 60, 65 (basso), 72, 92; Album: pp. 66, 69, 89 (basso), 107; AGE: p. 73 (basso); Electa: p. 83 – Bridgeman Images: pp. 63, 70 (sinistra) – Doc. red.: pp. 64, 65 (alto), 67, 68, 68/69, 70 (destra), 71, 90-91, 98-99, 104/105, 108-109 – DeA Picture Library: p. 73 (alto) – Andreas M. Steiner: pp. 102/103 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 50, 81. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Press-Di Abbonamenti SPA c/o CMP BRESCIA Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia BS L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano


n otiz iari o SCOPERTE Roma

L’ULTIMO PASTO DELL’ATLETA

I

l suburbio di Roma è stato ancora una volta teatro di una scoperta di eccezionale interesse: in località Case Rosse, nel quadrante orientale del territorio comunale, a ridosso della via Tiburtina, è venuta alla luce una tomba a camera, intatta, il cui utilizzo si colloca fra il IV e il III secolo a.C., dunque in età repubblicana. Individuato grazie a un intervento di archeologia preventiva condotto nell’ambito dei lavori finalizzati al raddoppio dell’acquedotto Castell’ArcioneSalone, il sepolcro è composto

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In alto: Roma, località Case Rosse. La camera sepolcrale della tomba intatta recentemente rinvenuta, con i resti di uno degli inumati e parte del corredo. Il monumento funerario è stato ribattezzato Tomba dell’Atleta o degli Strigili, appunto perché vi sono stati rinvenuti due strumenti di questo tipo,

utilizzati nell’antichità per detergersi da olio, polvere e sudore dopo le attività ginniche e sportive. A sinistra: moneta in lega di bronzo, databile fra il 335 e il 312 a.C. Al dritto, la testa elmata di Minerva; al rovescio, una testa equina con la scritta «ROMANO».

da una camera, scavata a una profondità di circa 2 m sotto l’attuale piano di campagna e ospita quattro inumazioni, avvenute in momenti differenti. Alla camera si accedeva per un pozzo lungo 2 m e largo 1, dotato di gradini appena sbozzati; a chiusura del vano erano stati collocati una lastra di calcare bianco e pietrame di tufo. I lati lunghi del vano ipogeo accoglievano le inumazioni di due uomini adulti, le cui spoglie erano deposte su banconi realizzati nella nuda pietra. Sulla base delle prime analisi condotte, la loro età al momento della morte è stata fissata in circa 50 e in circa 30-39 anni.

Insieme ai resti ossei, scarsamente conservati a causa dell’elevato grado di acidità del terreno di origine vulcanica, sono stati identificati piú di 20 elementi di corredo, perlopiú in ceramica, eccezion fatta per due strigili in ferro (gli strumenti con i quali gli atleti si detergevano dopo le attività fisiche, di qui il nome di Tomba dell’Atleta o degli Strigili che si è scelto di attribuire al sepolcro) e per una moneta in lega di bronzo, con la raffigurazione della testa elmata di Minerva sul diritto, e una testa equina accompagnata dalla scritta «ROMANO» sul rovescio, databile fra il 335 e il 312 a.C.


In alto: i piatti del corredo funebre al cui interno sono stati rinvenuti resti di animali deposti nella tomba come offerte alimentari. A sinistra: uno degli scheletri rinvenuti sul fondo della camera sepolcrale, con alcuni vasi di corredo ancora in situ.

Quasi tutti i vasi sono in ceramica a vernice nera, alcuni dei quali presentano tracce ancora vivide di una decorazione bianca a motivi geometrici e vegetali. All’interno di due piatti (del tipo che gli studiosi definiscono «piatti da pesce») e di due coppe sono stati inoltre

identificati i resti delle offerte alimentari che furono parte integrante dei riti funerari ed è stato possibile riconoscere ossa di un coniglio e di un capretto (o agnello). Sul fondo del vano sono stati identificati i resti ossei di altri due individui: un uomo e una donna

– lui presumibilmente morto tra i 35 e i 45 anni, lei di età indefinita –, dotati di ulteriori 5 elementi di corredo, tutti in terracotta. In base a uno studio preliminare dei reperti è possibile collocare la sepoltura tra il IV e il III secolo a.C. Prima della rimozione dei reperti archeologici, si è proceduto al rilevamento con laser scanner, funzionale a una ricostruzione in tre dimensioni della sepoltura, mentre i materiali e le informazioni raccolte durante lo scavo saranno oggetto di uno studio nei prossimi mesi. I lavori per il raddoppio dell’acquedotto Castell’ArcioneSalone sono svolti da ACEA Elabori, direttore dei lavori Fabio Pompei, e, per l’archeologia, sotto la direzione scientifica dell’archeologo Stefano Musco della Soprintendenza Speciale di Roma Archeologia Belle Arti e Paesaggio e la collaborazione sul campo dell’archeologo Fabio Turchetta. (red.)

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n otiz iario

SCOPERTE Emilia-Romagna

UNA RAGAZZA DI SEIMILA ANNI FA

D

all’Ottocento a oggi le grotte emiliano-romagnole sono state oggetto di esplorazioni speleologiche e archeologiche che hanno portato alla luce una considerevole quantità di resti umani, insieme a materiale archeologico databile all’età del Rame e all’antica età del Bronzo. Fra il III e gli inizi del II millennio a.C. le cavità naturali venivano infatti sfruttate come luogo di sepoltura collettiva, secondo un costume tipico sia in area appenninica che in area alpina. In Emilia-Romagna le principali grotte che hanno restituito una quantità significativa di resti umani risalenti all’età del

Rame e al Bronzo Antico sono la Grotta del Re Tiberio, la Tanaccia di Brisighella, la Grotta dei Banditi, nell’area dei Gessi romagnoli, il riparo sottoroccia del Farneto, nel Bolognese, e la Tana della Mussina nel Reggiano. A questi dati si aggiunge ora il recente rinvenimento di un cranio nella Grotta Marcel Loubens, a San Lazzaro di Savena (Bologna). La grotta si apre sul lato sud della Dolina dell’Inferno e dista dal Farneto meno di 600 m in linea d’aria. Durante l’esplorazione di un ramo di recente scoperta è stato segnalato un cranio umano lungo la risalita di un alto camino: il

In basso: San Lazzaro di Savena (Bologna), Grotta Marcel Loubens. Il cranio umano scoperto in un ramo della cavità, a 11 m d’altezza dal fondo, prima che venisse recuperato. Le indagini finora condotte sul reperto hanno permesso di datarlo fra il 3600 e

il 3300 a.C., assegnandolo quindi all’età del Rame; sembra altresí probabile che il cranio appartenesse a una giovane donna. Nella pagina accanto: uno speleologo nel tratto del ramo della grotta in cui è stato scoperto il cranio.

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reperto si trovava a strapiombo a 11 m d’altezza dal fondo, incluso in un ammasso detritico franoso e poco stabile, che ha reso necessario e urgente il suo recupero. La delicata operazione è stata eseguita dal Gruppo Speleologico Bolognese nell’estate 2017. Il cranio è stato subito trasportato presso il Laboratorio di Bioarcheologia e Osteologia forense del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna, al fine di iniziarne lo studio. In fase preliminare si è realizzata una tomografia (TAC) del reperto, cosí da poterne valutare lo stato di conservazione e il tipo di sedimenti che riempivano la cavità cranica, mentre le datazioni al radiocarbonio effettuate sul secondo molare sinistro dal CEDAD (Centro di Datazione e Diagnostica dell’Università del Salento) hanno collocato il reperto tra il 3300 e il 3600 a.C., in una fase iniziale dell’Eneolitico, consentendo di posizionarlo nell’ambito di quanto già noto nelle altre cavità naturali. Sulla scorta dei dati preliminari, da confermare con successive analisi, il cranio apparterrebbe a un giovane individuo di sesso femminile. Le indagini nella grotta sono ancora allo stadio iniziale e, al momento, non sono disponibili altre informazioni circa la natura del deposito anche se, sulla base di quanto riferito dagli scopritori, il reperto sembrava trovarsi in giacitura secondaria. Occorre comunque ricordare che nell’età del Rame molte sepolture presentano pratiche funebri di manipolazione, spostamento e rimozione dello scheletro, che rivelano il forte simbolismo legato alle credenze sacre e al culto degli antenati. I crani, in special modo,


MURLO (SIENA)

Tullio Pericoli a Bluetrusco 2018 Nell’ambito del festival Bluetrusco, giunto alla sua quarta edizione, all’interno del Museo Etrusco di Murlo è stata allestita la mostra «Linee di terre» di Tullio Pericoli. Inoltre, nel mese di luglio (dal 13 al 29) sono previsti numerosi appuntamenti, tra cui si segnalano: una serie d’incontri dedicati ai maggiori musei etruschi italiani (Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma, Museo Archeologico Nazionale di Firenze, Museo Civico Archeologico di Bologna, ecc.); la lettura in tre serate del libro Etruscan Places di David Herbert Lawrence affidata agli attori Giuseppe Cederna, Orsetta De Rossi e Pino Strabioli; la proiezione dl film Le meraviglie, con la presenza della regista Alice Rohrwacher (recente vincitrice del premio per la migliore sceneggiatura al Festival di Cannes), con una riflessione sul ruolo e la funzione del passato nel mondo contemporaneo; concerti di musica jazz con noti musicisti italiani e stranieri. Per informazioni: www.bluetrusco.land

Un’opera di Tullio Pericoli allestita al Museo Etrusco di Murlo (Siena). dovevano rivestire un forte valore simbolico: la loro asportazione quasi sistematica dal luogo di giacitura potrebbe suggerirne l’utilizzo in ambienti diversi da quello strettamente funerario. I primi dati sono stati pubblicati dagli scopritori negli atti del convegno «La frequentazione delle

grotte in Emilia-Romagna tra archeologia, storia e speleologia» (Brisighella, 6-7 ottobre 2017) ed editi a gennaio 2018 dalla Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Monica Miari e Maria Giovanna Belcastro

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

IL «CUNEO» DELLE MERAVIGLIE GRAZIE AL GRANDE PROGETTO POMPEI, NELLA CITTÀ VESUVIANA HANNO PRESO IL VIA NUOVI GRANDI SCAVI, IN UNA DELLE AREE PIÚ PROMETTENTI DEL SITO. E LE SORPRESE NON SI SONO FATTE ATTENDERE...

S

i è aperto a Pompei un nuovo capitolo di scoperte archeologiche. Gli scavi appena avviati nella Regio V dal Grande Progetto Pompei rientrano in un ampio programma d’indagine della città antica, destinato, dopo decenni di silenzi, a svelare lembi abitati sconosciuti, sepolti sotto le coltri vulcaniche che celano ancora 22 ettari circa di tessuto urbano. In particolare, si sta liberando un’area di oltre 1000 mq, il cosiddetto «cuneo», perché compreso fra le case delle Nozze d’Argento e di Marco Lucrezio Frontone, nella parte nord-orientale della città. Dirette da Massimo

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Osanna, le ricerche vedono impegnati archeologi, ingegneri, antropologi, restauratori e altre figure professionali, coinvolte in uno studio interdisciplinare senza precedenti per Pompei, supportato da tecniche e analisi di laboratorio avanzate, che permetteranno di comprendere al meglio quanto si sta scavando.

CENERI E LAPILLI Nel cuneo emerge, sotto la stratigrafia composta da livelli di cenere sovrapposti a strati di lapillo, un’articolata serie di strutture che consentono di ricostruire l’organizzazione di

questo settore abitato, sistemato lungo due vicoli disposti ad angolo fra loro nel pieno di un quartiere dal reticolo abbastanza irregolare, forse per la necessità di adattarsi agli edifici preesistenti e all’andamento delle vicine mura urbane. Da via di Nola si addentra, verso nord e in leggera salita, il


In questa pagina: immagini delle scoperte effettuate all’angolo con il Vicolo delle Nozze d’Argento: lo scheletro di un fuggiasco schiacciato da un grosso blocco di pietra (qui accanto e in basso) e iscrizioni elettorali riferibili alle ultime votazioni che si svolsero a Pompei (al centro della pagina).

varie anfore, probabilmente capovolte. I balconi si sono preservati perché crollarono quando il vicolo era già ricoperto di lapilli, sui quali il fondo dei balconi stessi si è quindi di fatto posato.

UN GIARDINO PRIVATO Nel primo tratto di vicolo, a fianco della Casa della Soffitta – scoperta all’inizio del Novecento con solai rinvenuti all’epoca in ottimo stato di conservazione –, è emersa un’area aperta, delimitata da un porticato, quasi sicuramente un giardino privato, con al centro un pilastrino scanalato che doveva sostenere in origine una vasca primo vicolo che fiancheggia il muro esterno della Casa delle Nozze d’Argento: è stata messa in luce l’originaria configurazione della stradina con tanto di marciapiedi e di ingressi agli edifici che vi si affacciavano. Il vicolo è stato chiamato «dei Balconi» per la scoperta di alcuni terrazzini sui quali, al momento dell’eruzione, erano state messe ad asciugare

ornamentale (labrum), riutilizzato successivamente come piano d’appoggio oppure in attesa di essere ripristinato come fontana; il giardino era ombreggiato da alberi di cui sono stati realizzati i calchi delle radici. Un gruppo di anfore era in bella vista su un angolo dell’area, del cui contenuto sapremo qualcosa appena saranno ultimate le analisi in laboratorio, come anche per i resti vegetali recuperati, che ci racconteranno l’aspetto verde del giardino. Sul vicolo sono stati inoltre rintracciati alcuni ambienti appartenuti alla Casa di Giove, individuata fra Sette e Ottocento a

Nella pagina accanto: il cantiere di scavo aperto nella Regio V, nell’ambito delle attività del Grande Progetto Pompei.

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In alto: scenetta mitologica con Adone ferito, Venere e amorini scoperta in un cubiculum adiacente alla Casa di Giove. A sinistra: anfore messe ad asciugare sui balconi di uno degli edifici scoperti lungo il vicolo omonimo.

sud e a est della Casa delle Nozze d’Argento, come dimostra una grande fossa da cui partono vari cunicoli esplorativi.

STUCCHI E PITTURE Di questa dimora sono stati individuati l’ingresso (fauces) sul Vicolo dei Balconi e un atrio circondato da ambienti. Sul peristilio della casa si aprono in particolare due stanze, l’una con decorazioni in I stile a riquadri e cornici in stucco, l’altra con motivi in III stile fra cui una coppia di uccelli entro cornice; in questo soggiorno si conservava in un angolo un elegante portalucerne in bronzo. In un probabile cubiculum (stanza da letto) adiacente è poi venuta in luce una bella pittura

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mitologica con Adone ferito, Venere e amorini. L’angolo con il Vicolo delle Nozze d’Argento è stato teatro di altre due sorprese. La prima è rappresentata dallo scheletro di un fuggiasco sopravvissuto alla prima ondata distruttiva finché, nella disperata ricerca di salvezza, camminando lungo la stradina ormai ricolma di lapilli, la furia della nube piroclastica ne ha sbalzato all’indietro il corpo, e un grosso blocco in pietra, trascinato anch’esso dalla nube, lo ha poi colpito, schiacciandogli testa e torace. L’individuo stringeva al petto una borsetta con all’interno un gruzzolo di monete certamente sufficiente per vivere quasi due mesi, composto com’era da una

ventina di denari d’argento e da un paio di assi bronzo, per un valore nominale di 80 sesterzi e mezzo.

ELVIO, UNO BUONO Su un lato dell’incrocio sono poi affiorate tre vivaci iscrizioni elettorali. Un primo slogan recita «Helvium Sabinum aedilem d(ignum) r(ei) p(ublicae) v(irum) b(onum) o(ro) v(os) f(aciatis)» («Vi prego di eleggere Elvio Sabino edile, degno dello Stato, uno buono»); un secondo invece «L(ucium) Albucium aed(ilem)». Quest’ultima iscrizione si riferisce agli Albucii, probabili proprietari dell’antistante Casa delle Nozze d’Argento. Iscrizioni elettorali sono già presenti nella zona, soprattutto all’incrocio fra via di Nola e via Vesuvio, testimonianza dell’impegno politico dei residenti del quartiere, chiamati Campanienses (nome della circoscrizione elettorale) per via della vicina Porta Vesuvio o Campana. Sul vicolo delle Nozze d’Argento le ricerche hanno identificato la parte anteriore di altre case signorili, fra cui spicca una domus, di fronte alla Casa delle Nozze d’Argento, con due riquadri riempiti da una coppia di delfini guizzanti, oltre ad altri animali e a prospettive architettoniche. Per notizie e aggiornamenti su Pompei, pagina Facebook Pompeii-Parco Archeologico.



n otiz iario

SCAVI Marche

IL NUOVO VOLTO DELLA JESI MEDIEVALE

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n intervento di archeologia preventiva condotto a Jesi (Ancona), in vista della riqualificazione di piazza Colocci ha permesso di indagare i livelli di vita e le strutture edilizie appartenenti a un importante spaccato del nucleo urbano medievale, collocabile fra l’XI e il XII secolo e la costruzione del Palazzo della Signoria, innalzato alla fine del 1400 su quello comunale del 1248. «Nei livelli piú profondi indagati In alto: Jesi (Ancona). Veduta zenitale del cantiere di scavo aperto in piazza Colocci, in vista della riqualificazione del sito. L’indagine sta gettando nuova

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luce sull’assetto urbanistico della città in età medievale. In basso: una delle strutture scoperte, con resti di un solaio ligneo.

– spiega Maria Raffaella Ciuccarelli, funzionario archeologo della Soprintendenza ABAP delle Marche – l’area ha restituito strati di abbandono post romani. Su di essi si imposta il complesso delle strutture medievali, che è costituito da due blocchi di edifici in laterizi delimitati da una strada nord-ovest/ sud-est, con piano di calpestio in terra battuta e ghiaia, e da un piccolo vicolo ortogonale. A sud-est si distingue un gruppo di tre unità abitative private affiancate, probabilmente a due piani e con bottega al piano inferiore, mentre a nord una casa privata con bottega ha restituito resti di pavimentazione in tavole lignee carbonizzate e una serie di reperti in ferro (due aratri, pinze, anelli vari forse da giogo) che fanno pensare alla bottega di un fabbro. A essa adiacente è un ambiente seminterrato, con un piano parzialmente concotto, usato come postazione di cottura con adiacente area di contenimento delle braci. Nell’estremità nord-ovest del complesso si riconosce un’area lastricata, molto probabilmente di natura pubblica, poi parzialmente occupata dall’allargamento della struttura abitativa, che qui utilizza nelle fondazioni materiali romani,


come grandi pezzi di cocciopesto provenienti da una vasca e molte tegole. Questo assetto del quartiere, uno spaccato dell’edilizia privata dell’XI-XII secolo, si modifica in seguito alla costruzione di un’imponente struttura con archi di fondazione su plinti che ingloba tutto l’edificio a nord-ovest e almeno parte della prima casa a sud-est del vicolo. In questa operazione, dopo una parziale demolizione delle case, si pongono in opera, sopra le murature rasate, nuove fondazioni murarie che innalzano l’edificio assai al di sopra della quota di calpestio della piazza attuale. La struttura continua al di sotto del Palazzo della Signoria e vede anche drastici interventi di restauro, come il raddoppio di alcuni muri, il posizionamento di alcuni contrafforti e di un probabile grande trave fissato al centro di una

stanza colmata di detriti. In fase con questa struttura sono due imponenti cisterne per derrate in laterizio adiacenti e ben conservate. La pianta, l’imponenza dimensionale, il particolare restauro e la drasticità della demolizione finale sono coerenti con quanto le fonti riferiscono riguardo al palazzo comunale – probabilmente a due piani con scala esterna –, fondato nel 1248, danneggiato da cedimenti fra Trecento e Quattrocento e infine abbattuto per la costruzione dell’attuale Palazzo della Signoria. I muri di questo imponente edificio appaiono in effetti volutamente rasati fino alla quota del piano di calpestio della nuova piazza e il Palazzo della Signoria, su di essa affacciato, risulta in parte impostato sulle strutture due-trecentesche rasate. È quindi chiaro che la piazza fu realizzata per il palazzo e con il

In alto: l’area lastricata messa in luce all’estremità nord-ovest del complesso e che aveva molto probabilmente natura pubblica.

Qui sopra: reperti in ferro rinvenuti in una struttura che, per via della loro presenza, è stata interpretata come la bottega di un fabbro.

palazzo, creando uno spazio nuovo e ideale in un tessuto urbano fitto di edifici e strade o vicoli». La scoperta del quartiere medievale permette quindi, indirettamente, di riportare alla dovuta attenzione anche l’assetto urbano conseguente alla progettazione, da parte di Francesco di Giorgio Martini, del palazzo e della piazza, un grande progetto urbanistico che prevedeva il sacrificio di edifici preesistenti nella ricerca del modello della città ideale. Sulla scorta di questo rinvenimento, la Soprintendenza sta quindi progettando il riesame della topografia della Jesi medievale, la revisione della mappatura archeologica del centro storico e il suo studio urbanistico complessivo. Si procederà alla contestualizzazione dei complessi scavati rispetto al tessuto urbano circostante, per porre in relazione questa nuova porzione di quartiere con gli eventuali altri edifici di fondazione medievale che lo circondano. Giampiero Galasso

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ROMA

MOSTRE Roma

Una sola patria per genti diverse

ANCHE L’ARCHEOLOGIA AIUTA IL PIANETA

È stata annunciata la V edizione di «Luce sull’Archeologia», il ciclo di incontri di storia e arte al Teatro Argentina. Sette gli appuntamenti, da gennaio ad aprile 2019, sei dei quali saranno dedicati all’analisi della parabola ascendente di Roma, che, affermata la propria egemonia nel Lazio, prosegue il processo di romanizzazione con la conquista delle Gallie a opera di Giulio Cesare, che pone cosí i presupposti dell’Italia augustea e lascia un’impronta indelebile nella storia d’Europa. I Romani riuscirono a creare una patria europea attraverso un processo di stabilità e compattezza, integrazione e assimilazione, ottenuto principalmente con la fondazione di città che ancora oggi portano il marchio di Roma; nell’architettura, nelle istituzioni politiche, nelle leggi, nell’alfabeto, nelle arti, nella letteratura, nelle infrastrutture e comunicazioni. Nel corso degli incontri si analizzeranno i modi in cui l’impero romano, un mosaico di popoli e culture, divenne un modello capace di integrare e imporre un’unità di «genti diverse in un’unica Patria», come disse il poeta Rutilio Namaziano all’inizio del V secolo d.C. Il settimo incontro sarà un fuori programma, dedicato all’archeologia e alla storia della Siria. Catia Fauci

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a Basilica Giulia, uno degli edifici piú importanti del Foro Romano, è stata scelta per accogliere, fino al 29 luglio, HELP the Ocean, opera dell’artista Maria Cristina Finucci, che intende rivolgere a milioni di turisti e cittadini romani un grido d’allarme sullo stato del nostro pianeta. HELP the Ocean fa parte del ciclo, iniziato dall’artista nel 2013, con la fondazione di un nuovo Stato Federale, il Garbage Patch State, il secondo Stato piú vasto al mondo con i suoi 16 milioni di kmq, che comprende le cinque principali «isole» di plastica attualmente presenti negli oceani. Formata da un insieme di gabbioni in rete metallica, rivestiti da un ricamo di sei milioni di tappini di plastica colorati, l’opera vuole simulare un ritrovamento archeologico che potrebbe essere un giorno emblematico della nostra era, ribattezzata quindi come l’«età della plastica». Si tratta di un enigmatico impianto architettonico, che richiama la sintassi costruttiva dell’architettura antica romana, ma

In alto: Roma, Foro Romano, Basilica Giulia. HELP the Ocean, opera ideata da Maria Cristina Finucci per attirare l’attenzione del pubblico sui rischi che il nostro pianeta corre a causa dell’inquinamento da plastica. il cui materiale da costruzione non è la pietra, bensí la plastica. Dalla visione dall’alto si può inoltre notare che questa peculiare costruzione forma le quattro lettere della parola HELP, la richiesta di aiuto di un’intera epoca storica, la nostra, finalmente conscia del proprio avviato processo di autodistruzione. (red.)

DOVE E QUANDO «HELP the Ocean» Parco Archeologico del Colosseo, quadriportico di S. Maria Antiqua, Foro Romano (ingresso da via dei Fori imperiali) fino al 29 luglio Orario tutti i giorni, 8,30-19,15 Info tel. 06 39967700: www.colosseo.beniculturali.it/



A TUTTO CAMPO Lucia Sarti

IL SENSO DEL NEANDERTAL PER LA BELLEZZA LA GROTTA DEL CAVALLO, NEL SALENTO, OGGETTO DI RICERCHE DA PARTE DELL’UNIVERSITÀ DI SIENA DA UN QUARANTENNIO, DOCUMENTA IL GUSTO ESTETICO DEI NOSTRI ANTICHI «CUGINI»

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ungo la costa salentina che congiunge il circondario di Nardò con quello di Gallipoli si apre Grotta del Cavallo, uno dei siti paleolitici piú importanti d’Italia. Localizzato nella Baia di Uluzzo, un porto naturale considerato una delle perle naturalistiche del Salento, il sito è rinomato a livello internazionale per il suo deposito archeologico, che, in 4 m circa di spessore, racchiude una delle stratigrafie piú significative per la cultura dell’Uomo di Neandertal, il

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Musteriano. Tuttavia, non si tratta dell’unico «tesoro» custodito in questo eccezionale archivio archeologico. Sopra quegli strati poggiano infatti livelli abitativi del Paleolitico Superiore arcaico (Uluzziano, 40-30 000 anni fa circa, una facies lí scoperta per la prima volta e cosí denominata dal nome della baia da Arturo Palma di Cesnola nei primi anni Sessanta del secolo scorso) e del Paleolitico Superiore finale (Epigravettiano, 12-10 000 anni fa). In particolare,

questi livelli piú recenti hanno restituito un patrimonio significativo di incisioni su pietra, con figurazioni zoomorfe e geometrico-lineari, che, insieme a quelle della non lontana Grotta Romanelli, identificano uno specifico stile raffigurativo dell’area mediterranea della fine del Paleolitico. Ma torniamo alle testimonianze neandertaliane.

L’UOMO E L’AMBIENTE Nella stratigrafia, formatasi tra 150 000 e 40 000 anni fa, vari elementi consentono di ricostruire le trasformazioni climatiche e ambientali e l’interrelazione tra uomo e ambiente, i modi di vita, le strategie economiche, le tecniche di lavorazione della pietra. Oltre a tutto questo, nei livelli del Musteriano piú recente, datati a 45-42 000 anni fa circa, sono stati scoperti alcuni blocchetti di calcare sui quali i Neandertaliani hanno inciso una serie di linee, che ampliano il limitato repertorio di segni geometrici e lineari che caratterizza uno stadio cognitivo cruciale nell’ambito dell’evoluzione umana. Ai Neandertaliani, infatti, viene ascritto il primato di aver introdotto nella storia dell’uomo atteggiamenti simbolici sconosciuti alle specie Homo piú antiche, pratiche che nei millenni successivi vennero ampliate in forme molto piú complesse dalla


specie sapiens. La rivoluzione culturale dei sapiens (avviata 40 000 anni fa all’indomani del loro arrivo in Europa) nulla deve, apparentemente, al patrimonio culturale dei Neandertaliani, i quali, meno dotati di geni di tipo cognitivo – come ricerche in corso sembrano dimostrare –, hanno elaborato un proprio originale sistema simbolico. Le due specie, che hanno convissuto per circa diecimila anni, prima che i Neandertaliani si estinguessero, hanno praticato una occasionale ibridazione culturale (forse anche fisica, le indagini sono in corso) con scambi di conoscenze tecniche, ma non hanno condiviso pienamente gli aspetti simbolici e rituali. Veniamo quindi al simbolismo di Homo neanderthalensis. Al Neandertal possiamo attribuire la nascita del senso estetico. A lui si devono il primo impiego dell’ocra rossa come colorante utilizzata su rocce e su conchiglie ornamentali (collane, bracciali…), ma anche

segni lineari (e forse pitture!) incisi sulle pareti delle grotte oltre che, come indicano recenti segnalazioni, su ciottoli come a Grotta del Cavallo, e anche la ricerca di penne di uccelli da utilizzare verosimilmente per decorare il corpo o gli indumenti.

SEGNI ENIGMATICI Fra queste testimonianze archeologiche non utilitaristiche si inseriscono anche le incisioni su pietra, segni piú o meno organizzati che marcano piccoli supporti in calcare, eccezionalmente ossei, il cui significato resta enigmatico. In ambito europeo queste prime evidenze grafiche sono molto rare In alto: la Baia di Uluzzo, nel Salento. A sinistra: due pietre con serie di linee incise rinvenute nella Grotta del Cavallo e riferibili ai Neandertaliani. Nella pagina accanto: il cantiere di scavo dell’Università di Siena nella Grotta del Cavallo, che l’ateneo toscano indaga da circa quarant’anni.

(solo sette in Italia), il che sottolinea l’importanza delle incisioni di Grotta del Cavallo. Si tratta di segni concentrati al centro del supporto, oppure posizionati in modo da creare una sequenza ritmica di spazi pieni e spazi vuoti, con una disposizione organizzata che ne testimonia la non casualità. Questi segni vanno considerati come i primi documenti che attestano la volontà di trasferire su un supporto – che è altro da sé – immagini della mente, che in questo stadio culturale ancora non si concretizzano in figure zoomorfe o antropomorfe di soggetti riconoscibili. In questo senso la pratica dei Neandertaliani di incidere segni lineari può essere considerata nella storia dell’uomo la prima esperienza grafica, che amplia il già complesso bagaglio espressivo di questa specie. Resta il problema di come interpretare queste piccole rocce incise. Senza escludere che il segno lineare in sé possieda un significato simbolico, è possibile che l’incisione, intesa come «marchio», conferisca a un banale blocchetto di pietra un significato profondo, che non è archeologicamente documentabile. Certamente, però, queste produzioni si inseriscono nel complesso sistema psichico cognitivo dei Neandertaliani, ai quali si devono anche la creazione di uno «spazio della memoria» nella piú antica pratica dell’inumazione dei defunti, nonché tecniche molto elaborate nella fabbricazione degli strumenti in pietra. (lucia.sarti@unisi.it)

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MUSEI Marche

UN TERRITORIO DA SCOPRIRE

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l complesso delle Grotte di Frasassi, che si aprono all’interno dell’ Appennino marchigiano, è situato nel territorio del Comune di Genga, nell’entroterra di Ancona. Si tratta di uno dei percorsi sotterranei piú grandiosi e affascinanti del mondo. Stalattiti e stalagmiti si mescolano a colate di cristalli in un susseguirsi di forme armoniche. Un ecosistema sotterraneo completo, dove è ancora possibile osservare la formazione delle concrezioni, le gocce che scavano e costruiscono le proprie architetture e in cui la vita continua indisturbata da milioni di anni. Una visita alle Grotte può peraltro essere l’occasione per scoprire un territorio ricco di storia e di fascino, in cui si integrano armoniosamente natura, arte e paesaggio. Basti pensare all’abbazia romanica di S. Vittore delle Chiuse, dell’XI secolo, dichiarata monumento nazionale nel 1902, al tempietto del Valadier, fatto costruire nel 1828 da

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A destra: una sala delle Grotte di Frasassi (Genga, Ancona). In basso: la chiesa costruita nelle Grotte di Frasassi su disegno dell’architetto Giuseppe Valadier.

papa Leone XII, nativo del posto; o, ancora, ai musei «Speleo Paleontologico ed Archeologico» e «Arte, Storia e Territorio» e al Castello di Genga, all’interno del suggestivo borgo. Nella vicina Fabriano si può inoltre visitare il Museo della Carta e della Filigrana, che ripercorre la storia di una scoperta che ha davvero cambiato il corso della storia (red.)

DOVE E QUANDO Grotte di Frasassi Genga (Ancona) Info numero verde 800 166 250 (attivo anche per le prenotazioni); e-mail: booking@frasassi.com oppure grotte@frasassi.com; www.frasassi.com Note il sito web fornisce informazioni anche sui siti e i musei del territorio



PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

UNA QUESTIONE DI SFUMATURE LA PRATICA DI TINGERSI IL CORPO DI VARI COLORI NON RISPONDEVA SOLO A ISTANZE ESTETICHE, MA AVEVA ANCHE SIGNIFICATI SOCIALMENTE BEN DEFINITI. UNA REALTÀ INDAGATA DAL PROGETTO DI RICERCA DELL’ARCHEOLOGA ITALIANA DANIELA ROSSO

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razie a una ricerca sull’uso dei pigmenti nella preistoria, l’archeologa italiana Daniela Rosso è risultata tra le vincitrici dell’ultima edizione del premio L’Oréal-UNESCO «Per le donne e la scienza», un riconoscimento nato nel 1998 a sostegno delle donne nella ricerca scientifica. Dottoressa Rosso, perché il colore è cosí importante per capire l’uomo preistorico? «Il colore serve a trasmettere

informazioni ed è prova di una cognizione complessa. Il suo impiego è legato all’origine del pensiero simbolico, per questo i ricercatori si domandano quando l’uomo abbia iniziato a usare le tinte e per quali ragioni. Ancora oggi, in Africa, le donne Hamar, nel Sud dell’Etiopia, si coprono il corpo di ocra quando stanno per sposarsi o si sono appena sposate. Dunque, se si vede una donna tutta color ocra, il

messaggio è chiaro. Il colore è un simbolo che trasmette informazioni e indica, in questo caso, lo status sociale. Altrettanto doveva probabilmente accadere in Africa, nella Middle Stone Age (denominazione adottata per la preistoria del continente africano e che corrisponde, grosso modo, al Paleolitico Medio dell’Europa, n.d.r.). In quest’epoca si usavano soprattutto minerali, come l’ocra rossa e gialla, ma anche pigmenti di A sinistra: la grotta di Porc-Epic, in Etiopia. Nella pagina accanto: masserelle d’ocra (in alto) e macine (a destra) per triturare il pigmento, dalla grotta di Porc-Epic.

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varietà di macine e di tracce sui pezzi. Vi venivano realizzati prodotti di ocra adatti a diversi tipi di funzioni. La cosa eccezionale è che all’interno della grotta abbiamo trovato un grande accumulo di pigmenti, oltre 700 pezzi, e una grande quantità di macine: l’attività produttiva quindi era probabilmente concentrata in una zona concreta della grotta».

colore nero, come il manganese. Io mi concentro sul rosso e sul giallo». Quale è l’obiettivo del suo progetto, finanziato adesso con una borsa di studio da 20 000 euro? «Con la mia ricerca vorrei comprendere gli scopi che stanno alla base dell’utilizzo delle diverse tinte. Studierò all’Università di Ferrara, per vedere come si sia evoluto nel tempo l’uso dell’ocra, dalla Early Stone Age africana (500 000 anni da oggi) fino al Paleolitico Superiore europeo, per esempio nel sito della grotta di Fumane, nel Veronese». Per quali motivi gli uomini preistorici tingevano il proprio corpo con il colore? «Sia per scopi simbolici che funzionali, come, per esempio, per proteggere la pelle dal sole e dagli insetti. Usi che dimostrano una cognizione complessa. In epoca preistorica l’aspetto simbolico-artistico era probabilmente legato all’aspetto funzionale. L’ocra, inoltre, è uno dei materiali piú usati nell’arte rupestre. Anche oggi, in Etiopia, questo pigmento è utilizzato per dipingere il corpo nel corso di diversi rituali. Le donne Hamar usano l’ocra ogni giorno, è il loro segno distintivo. Coprono interamente i loro capelli d’ocra. Lo fanno per ragioni igieniche e estetiche, come anche le donne

Ovahimba, ancora oggi, in Namibia». Nel corso del suo dottorato di ricerca, ha approfondito lo studio della grotta di Porc-Epic, in Etiopia, datata a 40 000 anni dal presente. Un sito importante, poiché vi si rintraccia un vero e proprio laboratorio artistico di lavorazione dei pigmenti di colore. Ci vuole raccontare che cosa ha scoperto? «La grotta Porc-Epic, datata alla fine della Middle Stone Age, ospita la collezione di pigmenti piú grande al mondo per un sito paleolitico: 40 kg di ocra, piú di 4000 pezzi, tra cui frammenti su cui si trovano strie di abrasione e segni di scheggiatura, a indicare che sono stati lavorati dall’uomo. Erano usati per produrre polvere di ocra, molto probabilmente. Abbiamo trovato, inoltre, 23 macine in pietra basaltica o quarzo, usate per lavorare i pigmenti. La cosa interessante è che venivano utilizzati diversi tipi di materia prima (e quindi di macine) per produrre differenti tipi di polvere d’ocra. Nel caso di Porc-Epic possiamo dunque parlare di un vero e proprio centro di produzione del colore: ci sono quantità importanti, c’è una differenziazione nella scelta delle materie prime, nella lavorazione dei pigmenti, nonché una grande

Da ricercatrice italiana, che però ha studiato e studia all’estero, le piacerebbe poter tornare in Italia? «Sí tanto, ma è molto difficile ottenere finanziamenti per le ricerche. Grazie al premio L’Oréal-UNESCO potrò tornare per qualche mese in Italia, ma sono all’estero dal 2005. Durante il mio dottorato ho potuto fruire di varie borse di studio, erogate dal Ministero degli Esteri francese e da una fondazione statunitense (Wenner-Gren), nonché dall’Università di Barcellona». I dati dicono che, a livello globale, solo il 28 per cento dei ricercatori è donna. Quale ruolo, dunque, attende le ricercatrici? «Le donne sono minoritarie nella ricerca in generale. Non saprei spiegarne le ragioni, ma è un fatto: ci sono meno donne. Lo dicono i numeri, sono meno di un terzo dei ricercatori. Iniziative come il premio che ho vinto permettono certo di migliorare la situazione e spero che presto non si parli di uomini o donne, ma solo di scienziati».

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

DAGLI ATLETI AI TENORI In questo numero diamo conto della piú recente iniziativa tesa a rendere sempre piú vivo e fruibile uno dei maggiori siti archeologici romani: il progetto multimediale «Caracalla IV dimensione» (vedi lo Speciale alle pp. 78-103). Ne prendiamo dunque spunto per ricordare, filatelicamente, il grandioso complesso termale, ricordando anche come la sua vitalità duri quasi interrottamente da oltre ottant’anni… Innanzitutto, però, soffermiamoci sugli aspetti archeologici. L’immagine piú classica delle terme è stata ripresa da un francobollo italiano del 1959 (1) emesso per le 7 Olimpiadi dell’anno successivo. Anche la Città del Vaticano, nel 1987, emise la prima serie sportiva della sua storia, raffigurante un giudice (2) e atleti (3-4-5) ripresi da alcune delle tessere dei mosaici trovati in una delle esedre e oggi esposte nei Musei Vaticani. Per quanto riguarda la vitalità delle terme prevale l’aspetto musicale. Infatti, dal 1° agosto del 1937, le Terme di Caracalla ospitano la stagione estiva del Teatro dell’Opera di Roma, per il cui esordio fu scelta la Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti. La filatelia ha dunque fatto la sua parte anche sul versante del melodramma, perché quasi tutte le stagioni liriche alle terme sono state ricordate con un annullo; tra i primi quello del 1955 (6) accompagnato da un bollo lineare (7), del 1957 (8), del 1958 quando fu adottato, per la prima volta, un annullo figurato con la riproduzione del sito e il titolo dell’opera, in questo caso la Turandot (9). In tempi piú moderni, possiamo ricordare il concerto del Cinquantenario della stagione lirica alle terme romane, nel 1991, con uno dei due annulli usati per l’evento (10) e quello dell’anno successivo per il Festival organizzato per i 500 anni della scoperta dell’America (11). C’è stata anche una parentesi sportiva: le gare di ginnastica dei Giochi Olimpici di Roma si svolsero in uno scenario unico al mondo, come risulta da questo annullo del 5 settembre del 1960 (12). Quanto a Caracalla medesimo, al di là di ciò che racconta la storia e di rivisitazioni o riflessioni piú o meno fondate, filatelicamente si può ricordare l’imperatore solo attraverso tre francobolli bulgari del 1967, che riproducono altrettante monete in cui è raffigurato in epoche diverse della sua vita (13-14-15).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



A ESCOI I HUN USE C R SITI I M U T TI I AND

LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO

T R TU I G

TURCHIA

LA TERRA • LA STORIA • L’ARCHEOLOGIA


Una veduta dell’Açıksaray («Palazzo aperto»), presso Gulsehir. Nell’insediamento, scavate nella roccia vulcanica, vi sono strutture a uso religioso (chiese e monasteri) e produttivo, databili al X-XI sec.

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al bianco accecante dei meravigliosi edifici di Efeso all’oscurità delle città sotterranee della Cappadocia, dallo spettacolare complesso monumentale voluto da Antioco I a oltre 2000 m d’altezza, sulla cima del Monte Nemrut, ai grandiosi teatri affacciati sulle coste del golfo di Antalya… C’è questo e c’è molto altro nella nuova Monografia di «Archeo», che passa in rassegna il ricco patrimonio culturale dellaTurchia, Paese la cui storia plurimillenaria può essere ripercorsa in tutto il suo lunghissimo svilippo proprio grazie all’archeologia. In quello che può a ben diritto essere considerato alla stregua di un vero e proprio continente – se solo pensiamo alla sua vastità e alla varietà dei suoi paesaggi – si conserva un numero quasi incalcolabile di testimonianze, molte delle quali, grazie ai favori del clima, ci sono giunte in uno stato di conservazione sorprendente. Non resta quindi che «partire», sfogliando le pagine della Monografia, per scoprire questi tesori straordinari.

GLI ARGOMENTI •P RESENTAZIONE • Tutti i siti UNESCO della Turchia • Italia e Turchia: la cooperazione archeologica • I L TERRITORIO • Anatolia: culla di civiltà •L A STORIA • I millenni dell’Anatolia • 2018, l’anno di Troia • ITINERARI • Viaggiare nella storia: Pergamo, Monte Nemrut, Efeso, Afrodisia, Hierapolis, Cappadocia, Istanbul, i musei archeologici della Turchia •S ELGIUCHIDI • La dinastia dell’aquila

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CALENDARIO

Italia

FIRENZE A cavallo del tempo

ROMA Walls. Le mura di Roma

L’arte di cavalcare dall’antichità al Medioevo Limonaia del Giardino di Boboli fino al 14.10.18

Fotografie di Andrea Jemolo Museo dell’Ara Pacis fino al 09.09.18

GUIDONIA MONTECELIO (ROMA) II dio persiano dal manto stellato

Il culto di Mitra fra Lazio ed Etruria Museo Civico Archeologico «Rodolfo Lanciani» fino al 30.09.18

LIDO DI JESOLO Egitto. Dèi, faraoni, uomini

Coppa attica con Atena e il cavallo di Troia.

Spazio Aquileia 123 fino al 15.09.18

Ricostruzione della tomba di Tutankhamon.

NAPOLI Pompei@Madre

Statuetta di elefante da guerra, II-I sec. a.C.

Il Palatino e il suo giardino segreto Nel fascino degli Horti Farnesiani Palatino fino al 28.10.18

Traiano

Costruire l’Impero, creare l’Europa Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 18.11.18

BOLOGNA Ritratti di famiglia

Personaggi, oggetti, storie del Museo Civico fra Bologna, l’Italia e l’Europa Museo Civico Archeologico fino al 19.08.18

FERRARA Ebrei, una storia italiana

I primi mille anni Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS fino al 16.09.18

L’opera al nero

La ceramica attica alle origini di Spina Museo Archeologico Nazionale fino al 05.11.18

FINALBORGO (SAVONA) In bocca al lupo! Un antico predatore tra archeologia, storia e leggende Museo Archeologico del Finale fino al 23.09.18 28 a r c h e o

Bernardo Bellotto, L’Arco di Tito a Roma. 1740 circa.

Materia Archeologica MADRE-Museo d’arte contemporanea Donnaregina fino al 24.09.18

SANTA MARIA CAPUA VETERE (CASERTA) Annibale a Capua

Museo archeologico dell’antica Capua fino al 28.10.18

SANTA MARINELLA (ROMA) Pittura di terracotta Mito e immagine nelle lastre dipinte di Cerveteri Castello di Santa Severa fino al 22.12.18

SIRACUSA Archimede a Siracusa Experience exhibition Galleria Civica Montevergini fino al 31.12.19


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Germania

TIVOLI (ROMA) Adriano, preservare le memorie

BONN Nazca, disegni divini

Tecnologie al servizio della salvaguardia e della fruizione del patrimonio storico Ex chiesa dell’Annunziata fino al 15.09.18

Scoperte archeologiche dal deserto peruviano Bundeskunsthalle fino al 16.09.18

Lussemburgo

TORINO Orienti

LUSSEMBURGO Il Luogo Celeste. Gli Etruschi e i loro dèi

7000 anni di arte asiatica dal Museo delle Civiltà di Roma MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 26.08.18

Anche le statue muoiono Conflitto e patrimonio tra antico e contemporaneo Museo Egizio fino al 09.09.18

Rilievo funerario palmireno.

VETULONIA (GROSSETO) L’antico Egitto IN VITA a Vetulonia

A casa di un operaio artista della Valle dei Re Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 04.11.18

VOLTERRA I signori de L’Ortino

Il santuario federale di Orvieto Musée national d’histoire et d’art fino al 02.09.18

Svizzera HAUTERIVE Orso

Scarabeo con satiri vendemmianti.

Laténium, Parc et musée d’archéologie de Neuchâtel fino al 06.01.19

RANCATE (MENDRISIO) Il Cavallo: 4000 anni di storia Collezione Giannelli Pinacoteca cantonale Giovanni Züst fino al 19.08.18

Aristocrazie gentilizie all’alba della città di Velathri Palazzo dei Priori fino al 30.09.18

Belgio BRUGES Mummie

Segreti dell’antico Egitto Xpo Center Bruges fino all’11.11.18

USA NEW YORK Nedjemankh e il suo sarcofago d’oro The Metropolitan Museum of Art fino al 21.04.19 (dal 20.07.18)

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INCHIESTE • COLLEZIONE VÁREZ FISA

I BUONI E I CATTIVI ECCO UN NUOVO CAPITOLO DELLE INDAGINI CONDOTTE DA DUE ARCHEOLOGI ITALIANI NEL MONDO DEL TRAFFICO CLANDESTINO DI ANTICHITÀ. PROTAGONISTI, QUESTA VOLTA, UN «VIRTUOSO» MUSEO STATUNITENSE E UNA «PROBLEMATICA» COLLEZIONE SPAGNOLA di Maurizio Pellegrini

N Il cratere a calice a figure rosse con Dioniso che si dedica al gioco del cottabo in una delle foto sequestrate a Giacomo Medici (in alto) e cosí come si presenta adesso. IV sec. a.C. Prodotto da un’officina di Paestum, il vaso era stato acquistato dallo Speed Art Museum di Louisville, che ha deciso di restituirlo all’Italia. 30 a r c h e o

ello scorso febbraio, lo Speed Art Museum di Louisville, città degli USA, al confine tra Kentucky e Indiana, ha annunciato la restituzione all’Italia di un vaso in terracotta del IV secolo a.C. proveniente da scavi clandestini effettuati sul suolo italiano. Il ritorno di questo cratere a calice a figure rosse, raffigurante Dioniso su un triclinio mentre gioca una partita a cottabo (dal greco kottabos, era un passatempo tipico del simposio: ciascun commensale, riempita di vino la propria coppa, la faceva roteare fino a lanciare la bevanda verso un


bersaglio posto al centro della sala, n.d.r.), rientra in un accordo pluriennale che il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo ha deciso di avviare con il museo statunitense. Lo Speed Art Museum ha proposto volontariamente il ritorno del re-

del museo le copie in formato digitale di immagini del cratere provenienti dall’archivio di un magazzino appartenente a Giacomo Medici – condannato nel 2005 per ricettazione ed esportazione clandestina di beni archeologici – e sottoposto a sequestro nel 1995 dai

In alto: lo Speed Art Museum di Louisville (Kentucky, USA). A sinistra: l’archeologo greco Christos Tsirogiannis.

perto dopo che, nel 2015, aveva ricevuto dall’archeologo greco Christos Tsirogiannis – allora assistente ricercatore dell’Università di Glasgow – le prove che ne suggerivano lo scavo illecito e l’esportazione clandestina dall’Italia. Lo studioso aveva messo a disposizione

Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale presso il porto franco di Ginevra. La provenienza delle fotografie e le condizioni del cratere, che nelle immagini appariva ricoperto di abbondanti concrezioni terrose, convinsero lo staff del museo di Loui-

sville che il cratere potesse essere frutto di uno scavo illegale. Risalente al IV secolo a.C., il vaso venne fabbricato a Paestum. Nel 1990 era stato acquistato da Robin Symes, un mercante d’arte specializzato in antichità con sede a Londra, il quale dichiarò di averlo ac-

quistato da un collezionista privato di Parigi. Symes, lo ricordiamo, è stato a piú riprese coinvolto nel caso Medici e segnalato nel processo contro Marion True del Getty Museum e Robert Hecht, il trafficante internazionale che ha venduto il cratere di Eufronio al Metropolitan Museum di New York. Lo stesso Symes, che risulta aver fornito materiali archeologici a numerosi musei, contribuendo alla formazione di collezioni archeologiche poi confluite in varie raccolte statunitensi (vedi «Archeo» n. 375, maggio 2016), è tuttora indagato, nel Regno Unito, e decine di magazzini di sua proprietà sono stati sottoposti a sequestro. Purtroppo, però, non sono solo i a r c h e o 31


INCHIESTE • COLLEZIONE VÁREZ FISA

musei degli USA ad aver acquistato con disinvoltura opere dalla provenienza discutibile. Nel corso del lavoro di «indagine» svolto da chi scrive insieme a Daniela Rizzo in qualità di consulenti della Procura di Roma, abbiamo rintracciato importanti reperti archeologici in tutto il mondo e scoperto che a queste pratiche si sono dati anche importanti musei europei. Durante i lavori di consulenza ci siamo imbattuti quasi per caso, visitando come semplici turisti il Museo Archeologico Nazionale di Madrid, nel catalogo della mostra di una collezione privata di recente acquisizione. Il noto museo spagnolo l’aveva da poco acquistata dal collezionista e mecenate José Luis Várez Fisa – ingegnere e uomo d’affari nato a Barcellona nel 1928 e scomparso appena quattro anni fa –, il quale, oltre alla raccolta formata da poco meno di 200 reperti archeologici, iniziata negli anni Settanta e acquisita nel 1999 dal museo madrileno per 12 milioni di euro, possedeva anche numerosi dipinti di enorme rilievo, tra cui opere di Goya e Velázquez. Fin da una prima analisi, abbiamo individuato alcuni oggetti che mostravano forti somiglianze con reperti raffigurati nelle foto sequestrate sia a Medici che a Gianfranco Becchina, le cui copie digitali erano in nostro possesso per i lavori di indagine propedeutici al processo contro Marion True e Robert Hecht, appena iniziato, e per il quale eravamo testi e consulenti della Procura di Roma. Nel preparare l’esposizione per la seconda udienza del dibattimento, abbia32 a r c h e o

L’acquisto di materiali dalla dubbia provenienza è stato praticato anche da vari musei europei

In alto: la copertina del catalogo della collezione Várez Fisa. Nella pagina accanto: anfora a figure nere con scena di partenza di un guerriero nelle sue condizioni attuali (a sinistra) e in una polaroid sequestrata a Giacomo Medici. 550-500 a.C. Venduto all’asta da Sotheby’s nel 1995, apparteneva alla collezione Várez Fisa, acquistata dal Museo Archeologico Nazionale di Madrid nel 1999.

mo iniziato a esaminare il catalogo con piú attenzione e le prime impressioni si sono rivelate fondate. Un’anfora a figure nere con partenza di guer r iero (n. inv. 1999/99/51; questo e i successivi numeri di inventario si riferiscono a quelli assegnati dal Museo Archeologico Nazionale di Madrid), nella quale la presenza di un cane ai piedi del personaggio armato ci aveva aiutato a memorizzare la scena, appariva in molte polaroid e fotocolor del sequestro Medici. Abbiamo accertato che la stessa anfora era stata proposta in vendita in un’asta della Sotheby’s di Londra, il 14 dicembre 1995, come lotto n. 143, e, soprattutto, che non era mai stata pubblicata prima di allora. Poteva trattarsi di una coincidenza e, del resto, il vaso avrebbe potuto essere stato comprato dal collezionista in occasione della vendita organizzata dalla Sotheby’s. Ma sapevamo altrettanto bene, grazie alle indagini condotte sulla casa d’aste e sui rapporti che intercorrevano con Medici e le sue società, che era consuetudine vendere i reperti archeologici e riacquistarli mediante società di comodo appositamente create. Un’altra anfora a figure nere con Ercole che lotta contro Tifone (n. inv. 1999/99/59) aveva seguito lo stesso percorso; anche in questo caso l’iconografia si è dimostrata fondamentale e, tra le migliaia di immagini che nel tempo abbiamo controllato, il dettaglio di Tifone ci ha consentito di fissarlo nella nostra memoria. L’anfora era riprodotta in uno dei negativi fotografici trovati nel magazzino del porto franco di


Ginevra: datato 14 novembre 1988, riportava l’intestazione «Framm. Ogg.Coll.+Ogg.Soth.Gen.», sigle che si possono forse sciogliere in «Frammenti oggetti collezione e oggetti Sotheby’s gennaio (o Genève, Ginevra)».

LA PROVA DECISIVA Tuttavia, il fatto che l’anfora fosse stata messa in vendita da Sotheby’s il 22 maggio 1989 (lotto n. 328) non era in sé un elemento sufficiente, dal momento che, anche in questo caso, Várez Fisa avrebbe potuto

acquistare l’oggetto in quell’occasione. La prova che la collezione dell’ingegnere spagnolo fosse stata costituita o, forse, solo alimentata con materiale archeologico frutto di scavi illeciti ed esportazione clandestina dall’Italia, è venuta dalla presenza di un cratere a campana di Gnathia con Atena (n. inv. 1999/99/138). Il vaso è raffigurato su negativi acquisiti a seguito del sequestro nel porto franco, ma ciò dimostrava soltanto che era stato nella disponibilità di Giacomo Medici, il quale ha sempre dichiarato di essere un antiquario che acquistava e rivendeva gli oggetti. Anche il cratere era stato offerto in asta dalla Sotheby’s di Londra, il 14 dicembre 1990 (lotto n. 296), e, rimasto invenduto, era stato riproposto dalla Edition Service – società di proprietà di Giacomo Mea r c h e o 33


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dici – nell’asta dell’8 dicembre 1994 (lotto 154) e infine aggiudicato per 8000 sterline.

pralluogo, accompagnando come esperti il Pubblico Ministero Paolo Ferri e i Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale, presso l’abitazione laboratorio di Bürki a LA GIUSTA INTUIZIONE Nei negativi sequestrati, il cratere è Zurigo. Il retro del medesimo craripreso anche in fase di restauro, tere compare infine anche tra le insieme ad altri reperti coevi e foto sequestrate nel 2000 a Parigi aventi probabilmente la medesima allo stesso Hecht. A quel punto, provenienza, poggiato sopra alcuni sembrava difficile che potesse tratgiornali in lingua tedesca, su uno tarsi di semplici coincidenze: l’in-

sfondo di piccole mattonelle. Basandoci sugli intrecci affiorati nel corso delle nostre indagini, avevamo ipotizzato che le foto fossero state scattate in un locale appartenente a Fritz Bürki, restauratore di fiducia di Robert Hecht, che è intervenuto sul cratere di Eufronio e che, in piú occasioni, era indicato nei vari documenti in sequestro. La conferma delle nostre supposizioni è venuta nel corso di un so34 a r c h e o

Anfora a figure nere con Ercole che lotta contro Tifone, cosí come si presenta oggi (a destra) e in un’altra delle foto sequestrate a Giacomo Medici.

treccio ipotizzato veniva confermato e la collezione Várez Fisa risultava in buona parte costituita da materiali provenienti da noti trafficanti di opere d’arte attivi in Italia, ma con contatti in tutto il mondo. E, da quel momento in poi, è stato possibile accertare la provenienza illecita di molti altri reperti compresi nella raccolta spagnola: un’oinochoe di produzione etruscocorinzia (n. inv. 1999/99/36), sicuramente recuperata a Cerveteri (vedi foto a p. 36), era anch’essa immortalata nei negativi sequestrati, con l’intestazione «Soth. Maggio Port.Franc 5/2/90», e risultava pubblicata sul catalogo della vendita


Münzen und Medaillen 70 (Basilea, 1986, lotto n. 191), organizzata da una casa d’aste con sede a Weil am Rhein, in Germania, e specializzata in monete; un’anfora a figure nere con partenza in quadriga (n. inv. 1999/99/61), mai pubblicata, era invece raffigurata in numerose polaroid, accompagnate da appunti di vendita che si riferiscono probabilmente a un’asta della Sotheby’s.

I VORTICOSI MEANDRI DEL MERCATO Inedita è anche una grande anfora a figure nere con Ercole che lotta contro le amazzoni (n. inv. 1999/99/60) che appare in frammenti in varie polaroid del sequestro Medici (vedi foto a p. 37). In altre foto comparivano invece una lekythos a figure rosse con Nike in volo e un cratere a colonnette a figure rosse con scena di simposio (n. inv. 1999/99/96). Il cratere è compreso fra i negativi siglati «Soth. + 3 Pezzi Belli Annibale Port.Franc 18/1/90», e infatti è stato messo all’asta dalla Sotheby’s di Londra, il 22 maggio 1989 (lotto n. 348). Lo stesso manufatto è stato inoltre pubblicato nei cataloghi delle Royal Athena Galleries di Jerome M. Eisenberg, mercante piú volte sospettato di traffici illeciti di materiale archeologico, e su Art of the Ancient World, n. 71 (1995), ed è stato poi messo in vendita dalla Christie’s di Londra, nell’asta del 10 luglio 1992. Un cratere a colonnette a figure rosse con Dioniso e satiri (n. inv. 1999/99/97), mai pubblicato, compare nelle polaroid in sequestro con copiose tracce di concrezioni, dopo il restauro, e accompagnato da appunti di vendita, probabilmente in un’asta della Sotheby’s. Un cratere a campana a figure rosse con Dioniso, menadi e satiri (n. inv. 1999/99/100), riprodotto nei fotocolor e tra i negativi Medici, è invece pubblicato nel catalogo della Sotheby’s di New York per la vendita Parke-Bernet del 13 giugno 1999.

Cratere a campana di Gnathia con Atena, un altro dei vasi confluiti nella collezione Várez Fisa dopo essere stato offerto in asta di Sotheby’s, alla quale era stato affidato da una società riconducibile a Giacomo Medici.

Un’anfora italica orientalizzante (n. inv. 1999/99/159) fornisce un altro tassello decisivo nella ricostruzione delle dinamiche del traffico internazionale di opere d’arte. Il reperto compare tra le foto di un altro importante sequestro, accompagnato da un appunto manoscritto che reca le dimensioni del vaso e la sigla P.A.K. (che può essere sciolta in Palladion Antike Kunst, galleria di Basilea gestita da Gianfranco Becchina).

DALL’ARTE ANTICA ALL’OLIO D’OLIVA Nel 2001, in seguito a rogatoria internazionale, i Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale hanno effettuato una perquisizione nella città elvetica e sequestrato allo stesso Becchina importanti documenti e foto insieme a

circa 5000 reperti; restituiti all’Italia una decina di anni fa, quei materiali sono passati definitivamente nella disponibilità dello Stato e sono stati presentati al pubblico nel gennaio dello scorso anno. Originario di Castelvetrano, Gianfranco Becchina – sedicente imprenditore e mercante d’arte, emigrato in Svizzera – ha fornito reperti archeologici a tutto il mondo, ma ultimamente, rientrato in Sicilia, si dedica alla produzione di olio d’oliva. Infine un’anfora a figure nere con preparazione per la partenza con quadriga (n. inv. 1999/99/53), che appare in molte polaroid del sequestro Medici, fornisce un’ulteriore tessera di questo mosaico (vedi foto a p. 38). Pubblicata dalla Minerva International Revue of Art & Archaeology del 1998 e nel catalogo Sotheby’s New York del 17 dicembre 1997, a r c h e o 35


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sequestri operati, ma la cui provenienza suscita piú di un dubbio. Si tratta, in particolare, di: un’anfora a figure nere con raffigurazione di Hermes ( n . i n v. 1999/99/54); un’anfora a figure nere con Ercole che lotta con il leone (n. inv. 1999/99/55); una idria a figure nere con corteo nuziale (n. inv. 1999/99/68), indicata, però, come proveniente da scavi Montanari del 1833; un’idria a figure nere c o n D i o n i s o (n. inv. 1999/99/66), una lekythos a fondo bianco con raffigurato Apollo (n. inv. 1999/99/78), apparsa sul mercato nel 1993 alla Christie’s; una oinochoe a figure nere (n. inv. 1999/99/153); un’anfora a figure rosse con anse a torchon (n. inv. 1999/99/88); una kalpis a figure rosse col rapimento di Tetide (n. inv. 1999/99/105); una coppa con pittura imitante il motivo di un cesto (n. inv. 1999/99/83).

Legittimi dubbi sono insorti sull’acquisizione di piú di un vaso della collezione Várez Fisa compare, insieme a una coppa laconica con danza dei comasti (n. inv. 1999/99/45), anche tra le foto sequestrate in Grecia al già citato Robin Symes, il mercante che ha venduto il cratere a calice a figure rosse raffigurante Dioniso che gioca a cottabo e che lo Speed Art Museum di Louisville è intenzionato a restituire. Vogliamo infine segnalare una kylix con giovane che si immerge nel vino (n. inv. 1999/99/84), proposta dalla Sotheby’s di Londra nel luglio 1996 e nel maggio 1997 36 a r c h e o

dalla Christie’s di New York, ma apparsa una prima volta nel 1992 nel catalogo Galleria Nefer di Frieda Tchacos, ovvero dall’art dealer che ha venduto al Paul Getty Museum i primi frammenti della kylix di Eufronio e decorata dal suo allievo Onesimo, restituita dal museo statunitense nel 1999 poiché risultata proveniente da uno scavo clandestino effettuato a Cerveteri. Della collezione Várez Fisa fanno inoltre parte vari reperti archeologici dei quali non si è finora trovata traccia fra le foto e i documenti dei

UNA PRESENZA RICORRENTE Tutti questi oggetti sono stati pubblicati, negli anni, nel catalogo Art of the Ancient World delle RoyalAthena Galleries di Jerome M. Eisenberg, che hanno sedi a New York e Londra, e che piú volte abbiamo incrociato nelle nostre indagini. La somma di questi elementi alimenta le perplessità sulla collezione Várez Fisa, ora al Museo Archeologico Nazionale di Madrid. Nel 2006, in qualità di consulenti tecnici del Comitato per le problematiche afferenti l’esercizio dell’azione di restituzione di beni culturali, avevamo informato la Direzione Generale del MiBACT proponendo di partecipare a una missio-


Nella pagina accanto: oinochoe etrusco-corinzia, proveniente da Cerveteri, in una foto Medici (a sinistra) e nel suo stato attuale. In questa pagina: grande anfora a figure nere con Ercole che lotta contro le amazzoni, riconoscibile, in frammenti, in una polaroid sequestrata a Giacomo Medici.

ne informale a Madrid, con l’intento di consultare la documentazione sottoposta al museo a garanzia dell’acquisto, per proseguire la nostra ricerca. In un primo momento, il Ministero sembrava interessato alla proposta, ma poi, forse a causa di un’interruzione determinata dall’impegno nel processo contro Marion True e Robert Hecht, l’iniziativa si è arenata. Tre anni piú tardi, nel 2010, mettemmo al corrente delle nostre ricerche il giornalista Fabio Isman, che da anni segue le vicende del traffico internazionale di opere d’arte (suo, lo ricordiamo, è, fra gli altri, il volume-inchiesta I Predatori dell’Arte Perduta, Skira 2009). Isman diede subito notizia della questione sul Giornale dell’Arte (lua r c h e o 37


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glio 2010), periodico che viene tradotto anche in lingua spagnola, e si rivolse a José María Luzón Nogué, Direttore del Museo Archeologico Nazionale di Spagna nel periodo precedente l’acquisizione. Luzón Nogué rispose di non aver ricevuto «alcun contatto da parte del Ministero per i Beni Culturali italiano».

RISPOSTE EVASIVE Piú di recente, Andrés Carretero Pérez, direttore responsabile della nuova esposizione del 2014, contat-

Anfora a figure nere sulla quale è rappresentata la preparazione per la partenza con una quadriga. Anche in questo caso il vaso, acquistato da José Luis Várez Fisa, compare in una foto sequestrata a Giacomo Medici. 38 a r c h e o

tato da una ricercatrice dell’American Journal of Archaeology, ha invece dichiarato che il caso era ancora in fase di studio da parte dei servizi legali del Ministerio de Educación, Cultura y Deporte spagnolo. In attesa di possibili sviluppi, non possiamo che sottolineare, a fronte di situazioni fra loro analoghe, la differenza delle strategie adottate dallo Speed Art Museum di Louisville e dal museo madrileno. Il primo, informato da uno studioso greco che al momento opera nel Regno Unito e con il quale abbiamo uno stretto rapporto di collaborazione, si è subito offerto di restituire un reperto archeologico, in odore di scavo clandestino ed esportazione illecita. Il secondo, pur di fronte a una quantità ingente di prove su di una quindicina di reperti della collezione Várez Fisa e ad alcuni interrogativi su una decina di altri, non sembra intenzionato a fare altrettanto.



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CHI HA PAURA

DELLA SFINGE? I SUOI MISTERIOSI ENIGMI, UNITI AL TEMIBILE SGUARDO DELLA GORGONE SONO FRA I TEMI PIÚ CARI AI LETTERATI E AGLI ARTISTI DELL’ANTICHITÀ: VICENDE FAVOLOSE, CHE EBBERO GRANDE FORTUNA ANCHE IN ETRURIA, COME DIMOSTRANO I PREZIOSI REPERTI RIUNITI IN UNA MOSTRA ALLESTITA A ISCHIA DI CASTRO, NEL VITERBESE di Carlo Casi e Patrizia Petitti

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U

n viaggio nell’immaginario antico e nella sua capacità di elaborare un pensiero simbolico rivestendo di figure eroiche e racconti avventurosi i problemi esistenziali: è questa la suggestiva proposta offerta dalla mostra «La Sfinge e altre creature fantastiche», in corso presso il Museo Civico Archeologico «Pietro e Turiddo Lotti» di Ischia di Castro (Viterbo). L’esposizione dà spazio alla voce degli autori antichi, per individuare, sotto le narrazioni, il senso dell’esperienza umana raccontata dal mito, e a quelle voci affianca una selezione di materiali archeologici provenienti da Vulci e da Castro. Una scelta, quest’ultima, giustificata dalla circolazione di beni e di idee che si ebbe nei primi secoli del I millennio a.C. e che portò in Etruria prodotti e ideologie dall’Egeo e dall’Oriente, accendendo la passione dell’aristocrazia etrusca per i racconti del mito greco.Tuttavia, il mito perse nel tempo la sua forza di verità esistenziale, riducendosi a elemento di pura decorazione, come dimostra l’evoluzione della figura della Sfinge. Il percorso si articola in tre sezioni; la prima è dedicata a creature per metà uomini e metà animali, esseri che vivono sul confine tra il mondo umano e il mondo ferino, tra cultura ragionevole e natura selvaggia; la seconda sezione è riservata ai mostri; l’ultima, infine, racconta dei grandi felini, creature che, pur non essendo fantastiche, erano scomparse dalla fauna locale e potevano essere conosciute solo attraverso le immagini e i racconti da Paesi esotici.

avendolo sentito, trovò la soluzione, dicendo che l’indovinello enunciato dalla Sfinge era l’uomo: esso infatti è quadrupede quando è neonato poiché procede su quattro arti e divenuto adulto bipede, mentre da vecchio aggiunge come terzo sostegno il bastone. La Sfinge dunque si gettò dall’Acropoli».

IL CANTO AMMALIATORE La sirena, invece, a volte confusa con Scilla, viene descritta da Apollonio Rodio, nelle Argonautiche, come «le canore sirene in parte simili a fanciulle nel corpo e in parte ad uccelli». Famoso è anche il passo dell’Odissea: «Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei e ferma la nave, perché di noi due tu possa udire la voce. Nessuno è mai passato di qui con la nera nave Nella pagina accanto: in primo piano, la statua di Sfinge rinvenuta a Vulci, nella necropoli dell’Osteria (VI sec. a.C.); in secondo piano, riproduzione di una kylix attica del Pittore di Edipo con Edipo e la Sfinge, da Vulci (470 a.C. circa; Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco). In questa pagina: anfora etrusca con l’immagine della Sfinge, dall’area della necropoli dell’Osteria. VI-V sec. a.C.

PORTATRICE DI SVENTURA «Feroce cantatrice di enigmi», cosí Sofocle definisce la Sfinge nell’Edipo Re. Nata in Egitto per proteggere il faraone nel passaggio alla vita ultraterrena, arriva in Etruria tramite il mondo greco, che ne trasforma profondamente il significato. Essa diventa infatti una creatura che porta distruzione e sventura, generata da divinità sotterranee appartenenti a epoche antichissime e precedenti l’affermazione degli dèi celesti dell’Olimpo. Edipo, sconfiggendola, ne induce la morte e avvia, insieme ad altri eroi, il passaggio dalle primordiali pratiche religiose al nuovo pantheon collocato nella volta del cielo. Lo pseudo-Apollodoro racconta infatti: «E mentre regnava Creonte, cognato del defunto Laio, una non piccola sventura colse Tebe. Era infatti inviò la Sfinge: stava seduta sul Monte Ficio e proponeva un indovinello ai Tebani. E l’indovinello era: cos’è che, pur avendo una sola voce, diventa un quadrupede e bipede e tripede? E i Tebani cercavano che cosa fosse ciò che veniva detto ma poiché non trovavano, la Sfinge afferrandone uno lo divorava. Ed essendo morti molti, Creonte promette con un bando di dare sia il regno sia la moglie di Laio a colui che avesse risolto l’indovinello (…) ed Edipo, a r c h e o 43


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LA TOMBA DELLA SFINGE DI VULCI Tra le numerose sepolture recentemente scavate dagli archeologi a Vulci, grande emozione ha destato, nel 2012, la scoperta della Tomba della Sfinge, un monumentale ipogeo funerario caratterizzato da un dromos lungo ben 27 m e da un ampio vestibolo sul quale si aprono tre porte: esse danno accesso a sinistra a una camera, a destra a due camere, mentre la porta centrale immette in quattro ambienti disposti a croce. L’articolato complesso risale alla seconda metà del VII secolo a.C.: le misure del dromos e gli eccezionali reperti rinvenuti manifestano l’importanza della famiglia che qui seppellí i suoi morti. La scultura raffigurante una sfinge che ha dato nome al sepolcro è stata ritrovata, in giacitura secondaria, nei riempimenti del vestibolo. Posta a guardia del sonno eterno dei defunti, la sfinge di Vulci impressiona per l’eleganza delle sue fattezze: una linea morbida raccorda il corpo di leone e le ali di rapace al sereno volto di donna; alla morbidezza del volume della figura corrisponde la raffinata capigliatura dalle lunghe e morbide ciocche che scendono incorniciando l’enigmatico sguardo. Questa scultura è uno dei migliori esempi della produzione scultorea di Vulci, dove si sviluppò, a partire dal 600 a.C., una fiorente attività specialistica: nella pietra locale furono scolpiti sfingi, leoni, pantere e altri animali fantastici. La Sfinge di Vulci è momentaneamente esposta al Museo Archeologico di Pitigliano, mentre tutti i materiali del corredo di un sepolcro piú recente, il cui dromos ha tagliato ortogonalmente la tomba in questione, sono esposti all’interno della mostra di Ischia di Castro. Si tratta di una piccola struttura funeraria

a camera denominata Tomba B14.5 databile ai decenni centrali della seconda metà del VI secolo a.C. e che, grazie alla presenza di una panoplia di armi, costituita da un’ascia, una lancia e una spada o un lungo coltello, è possibile attribuire con sicurezza a un guerriero. Arricchisce il corredo un servizio per il simposio che comprende: un’anfora del Gruppo Orvieto e un’olla biansata d’impasto per contenere il vino; un attingitoio e un kyathos monumentale (e defunzionalizzato) entrambi in bucchero; due oinochoai a rotelle in bucchero e una brocca a becco in bronzo per versare; due kantharoi in bucchero e una kylix attica con la Gorgone al centro. Completano il corredo quattordici piattelli in ceramica depurata e dipinti e uno in impasto per la presentazione delle offerte funebri, un piccolo bacile in bronzo forse usato per cucinare e una fibula tipo Certosa, anch’essa in bronzo. C. C.

In alto: un’altra immagine della scultura raffigurante la Sfinge, da Vulci. Qui sopra: aryballos corinzio con l’immagine della Sfinge, dal vestibolo della Tomba della Sfinge. Inizi del VI sec. a.C.

senza ascoltare con la nostra bocca il suono di miele, ma egli va dopo averne goduto e sapendo piú cose». Ma perché il canto delle sirene è cosí rischioso e mortale per gli uomini? Cosa cantano le fanciulle uccello? La voce di miele nascondeva la vera tentazione delle sirene omeriche: «sapere piú cose». Era l’aspirazione alla conoscenza assoluta, incompatibile con la natura umana che è limitata. Cedere all’impulso, assecondare in modo incondizionato questo desiderio significa uscire dalla propria condizione mortale, stracciare la 44 a r c h e o

rete di rapporti che legano l’individuo alla famiglia e alla società, e dunque morire. Se vuole compiere l’avventuroso ritorno a Itaca, l’eroe deve perciò fuggirle.

LO SGUARDO CHE PIETRIFICA La paura dell’ignoto prende l’aspetto di un mostro: di fronte al mistero l’uomo non osa muovere neppure un passo, si pietrifica. La Gorgone trasforma l’imprudente che osa avvicinarsi in duro sasso: la paura ispirata dal suo aspetto mostruoso dissuade, anzi proibisce di avanzare.


L’interno di una kylix attica con la raffigurazione di una Gorgone, dalla Tomba B14.5 della necropoli vulcente dell’Osteria. Metà del VI sec. a.C.

Uccidendo la Gorgone, Perseo impone la forza della ragione sulla paura e la superstizione e, come altri eroi greci, si afferma come portatore di civiltà In questo senso la Gorgone sembra apparire come divinità della soglia, protettrice di luoghi e segreti. Uccidendo il mostro, Perseo impone la forza della ragione sulla paura e la superstizione e, come altri eroi greci, si afferma come portatore di civiltà. Esiodo, nella Teogonia, ci dice che: «Le Gorgóni che stanno di là dal famoso Oceàno, verso la Notte, agli estremi confini: Stenno, Euríale e Medusa funesta. (...) e, quando alla Gorgone Perseo dal collo recise la testa, ne balzò Pegaso. Quindi volò lasciando la terra nutrice di greggi, fra gli Immortali giunse, di Giove nei tetti dimora e il tuono a Giove, mente sagace, ed il fulmine reca». Ancora Esiodo, ne Lo Scudo: «Si precipitavano su Perseo, insaziabili quanto nessuno può dire, le Gorgòni, bramose di ghermirlo,

Sopra la cintola a ognuna di loro si svincolavano due dragoni, inarcando le teste, E lingueggiavano entrambi, nell’ira aguzzavano i denti, terribilmente guatando. Sopra le orrende teste delle Gorgòni, si torceva orrore immane».

UN’ANTICA PRESENZA La raffigurazione dei grandi felini attraversa la storia dell’uomo. Come già accennato, dopo essere scomparsi in tempi remoti dalla fauna italiana, compaiono nel mondo antico e tra gli Etruschi grazie alla circolazione di beni e di idee che caratterizza gli inizi del I millennio a.C. Secondo la tradizione orientale, oltre a essere rappresentati in maniera naturalistica, i grandi felini possoa r c h e o 45


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LA TOMBA DEI BRONZI DI CASTRO Sicuramente appartenuta a una famiglia di spicco dell’aristocrazia etrusca di Castro, la tomba prende nome dalla ricca presenza di materiali bronzei. Rinvenuta nel corso degli scavi del Centro Belga di Studi Etrusco-Italici tra il 1963 e il 1965, la tomba presenta un lungo e stretto dromos con vestibolo a cielo aperto e quattro camere sepolcrali, dedicate ognuna a un singolo personaggio, deposto su di un letto ligneo. La camera centrale, forse destinata al capostipite, ha restituito un servizio da simposio del quale fanno parte recipienti di bronzo, due

rari vassoi in lamina, grandi contenitori importati dall’Attica, vasellame da Corinto, ceramiche etrusco-corinzie di produzione vulcente, due bacili d’impasto ingobbiati e numerosi vasi di

no assumere caratteri fantastici, spesso alati, o con caratteri compositi, per esempio con testa umana. Tuttavia, al di là del linguaggio figurativo, le sculture di pantere e leoni non sono semplici decorazioni, ma si inseriscono nella ritualità e nella mitografia, come nella tradizione dei leoni a guardia delle porte, sia quelle concrete delle città, sia quelle spirituali del mondo dei morti. Cosí Esiodo, in un altro passo de Lo Scudo: «E come due leoni, l’un contro l’altro furore spirando, si avventano». Mentre Omero, nell’Iliade: «Come da folto bosco una pantera A destra: animali fantastici dipinti su una kylix attica, dalla Tomba 34 della necropoli dell’Osteria. 530-520 a.C. 46 a r c h e o

bucchero, tra i quali spicca un esemplare con motivo della Gorgone fra due figure di Pegaso. Anche i materiali residui recuperati nella camera laterale confermano l’alto rango della famiglia. Qui una donna venne sepolta con vesti intessute d’oro e del suo corredo non restano che una limetta in bronzo, due balsamari di bucchero ionico, rinvenuti sotto al letto funebre e pochi altri vasi di varie tipologie e forme. Ma l’alto lignaggio dei sepolti si percepisce soprattutto dalla scenografia della tomba: sfingi, cavalli alati, leoni dovevano decorare l’area antistante il dromos, dove probabilmente, intorno alla metà del VI secolo a.C., si svolsero i giochi e le rappresentazioni funebri. C. C.


L’Etruria degli animali fantastici

Sulle due pagine: statue che decoravano la Tomba dei Bronzi: nella pagina accanto, una Sfinge e un leone; a destra, un cavallo alato (o ippocampo alato). Prima metà del VI sec. a.C.

Sbucando affronta il cacciator, nè teme I latrati, nè fugge, e s’anco avvegna Ch’ei l’impiaghi primier, la generosa Il furor non rallenta, innanzi ch’ella O gli si stringa addosso, o resti uccisa» E ancora: «Ed ecco uscire Due tremendi lïoni, ed avventarsi Tra le prime giovenche ad un gran tauro, Che abbrancato, ferito e strascinato Lamentosi mandava alti muggiti. Per rïaverlo i cani ed i pastori Pronti accorrean: ma le superbe fiere Del tauro avendo già squarciato il fianco, Ne mettean dentro alle bramose canne

La mostra allestita a Ischia di Castro rappresenta solo una tappa di un percorso articolato, che rimanda a un circuito piú esteso, nel quale sono comprese le principali città etrusche controllate da Vulci poste lungo il corso del Fiora. Cosí dai «mostri» raffigurati sulle edicole delle tombe a camera di Sovana, tra i quali spiccano certamente le sirene e i demoni alati, si passa alla mostra sulla sfinge di Vulci, ultimo ritrovamento effettuato in tal senso nella necropoli settentrionale della grande metropoli antica, oggi esposta temporaneamente al Museo Archeologico di Pitigliano. Meritano una tappa anche lo scarabeo in corniola che presenta sulla base piatta una sfinge barbuta maschile in posizione di agguato, rinvenuta negli scavi di Rofalco, e la base a corpo leonino dalla Tomba del Gottimo, entrambi esposti al Museo Civico «F. Rittatore Vonwiller» di Farnese. Segue poi la mostra qui trattata al Museo Civico Archeologico di Ischia di Castro e alla necropoli di Castro, dalla quale provengono le straordinarie sculture della Tomba dei Bronzi per arrivare alla Tomba della Sfinge a Vulci, dove è stato recentemente aperto un percorso attrezzato di visita che consente anche a coloro che hanno difficoltà motorie di raggiungere facilmente l’importante sepolcro. Questo percorso tematico offre l’opportunità di visitare ben tre parchi archeologici – il Parco Archeologico «Città del Tufo», il Parco Archeologico «Antica Castro» e il Parco Archeologico e Naturalistico di Vulci – e tre musei civici, quelli di Pitigliano, Farnese e Ischia di Castro. Un’occasione per scoprire storie e monumenti che hanno caratterizzato la cultura di questa terra di frontiera posta sul confine tra Lazio e Toscana, rimasta ancora intatta dall’epoca etrusca. C. C.

Le palpitanti viscere ed il sangue. Gl’inseguivano indarno i mandrïani Aizzando i mastini. Essi co’ morsi Attaccar non osando i due feroci, Latravan loro addosso, e si schermivano». DOVE E QUANDO «La Sfinge e altre creature fantastiche» Ischia di Castro (Viterbo), Museo Civico Archeologico «Pietro e Turiddo Lotti» fino al 31 dicembre Orario ma-do, 10,00-13,00 e 15,00-18,00 Info tel. 0761 425455; e-mail: parcodicastro@gmail.com oppure coopzoe@libero.it a r c h e o 47


ARCHEOLOGIA CRISTIANA • ROMA

NEL SEGNO DELLA

TOLLERANZA LA PIÚ GRANDE CATACOMBA DI ROMA, INTITOLATA A DOMITILLA, È UNA TESTIMONIANZA DI COME UOMINI DI FEDI DIVERSE POTESSERO VIVERE (E MORIRE) NEL PIENO RISPETTO RECIPROCO. OGGI IL SUO STRAORDINARIO PATRIMONIO PITTORICO È DOCUMENTATO DA UN PROGETTO CONDOTTO CON L’AUSILIO DELLE TECNOLOGIE PIÚ AVANZATE. E DA UN PICCOLO, MA PREZIOSO MUSEO di Renata Salvarani; fotografie di Mimmo Frassineti

C

on i suoi 12 chilometri di gallerie e oltre 26 000 tombe, la catacomba di Domitilla è la piú grande di Roma. Nei suoi spazi si snoda la storia del cristianesimo dei primi secoli, insieme con le origini dell’archeologia cristiana, che risalgono proprio agli studi condotti sui suoi cunicoli e sui suoi dipinti. Testimonianze restituite alla visita e che sono state oggetto di una ricostruzione tr idimensionale completa ottenuta con la tecnologia laser scanning, aprendo nuove prospettive di studio. In nessun altro luogo è altrettanto evidente come una necropoli, la città dei morti, si sia 48 a r c h e o

Tutte le foto che corredano l’articolo illustrano ambienti e opere d’arte appartenenti alle catacombe di Domitilla. Sulle due pagine: veduta d’insieme del cubicolo dell’Introductio, cioè dell’Introduzione (vedi anche a p. 52).


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ARCHEOLOGIA CRISTIANA • ROMA

IDENTIKIT DI UNA CITTÀ SOTTERRANEA Le origini La catacomba si trova nell’antico praedium Domitillae, attestato in fonti letterarie e ritrovamenti epigrafici. Nella famiglia dei Flavi, nel I secolo, sono documentate due figure femminili col nome di Flavia Domitilla: una è la proprietaria del terreno, moglie del console Flavio Clemente (95); la seconda è nipote dello stesso console, venerata come martire nel IV secolo. La catacomba è legata al loro nome e alla memoria dei Flavi, fra i quali figuravano diversi cristiani. Cronologia Le tombe piú antiche risalgono alla tarda età repubblicana e sono state rinvenute nel sopraterra. Il cimitero sotterraneo risale al I secolo dell’era cristiana e ha continuato a svilupparsi fino al VI secolo. Cifre La catacomba si estende in corrispondenza di un’area di 10 ettari per oltre 12 chilometri di gallerie, articolate su quattro livelli, con 26 scale tra i piani. Luce e aria vi entravano da 39 lucernari. Vi si contano 228 cubicoli e 650 arcosoli. Complessivamente vi sono ricavate

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Via Salaria Nuova

1 2

Via Tiburtina

Tevere

Roma

(intra moenia)

Via Latina

Via Appia Antica

3 4 Via delle Sette Chiese Via Ardeatina

5

In alto: le principali catacombe di Roma: 1. Priscilla; 2. Agnese; 3. Callisto; 4. Domitilla; 5. Sebastiano. In basso: il cubicolo dei Fornai.

oltre 26 000 tombe, di tutte le misure tra neonati e adulti, raggruppate in sette «regioni» distinte. Fra i nuclei che compongono il complesso, l’ipogeo dei Flavi risale al III secolo. È composto da una galleria con pareti dipinte, sulla quale si aprono

quattro nicchioni che ospitavano i sarcofagi dei membri piú importanti della famiglia. Si aggiungevano spazi per i liberti, servi e clientes. Al suo interno vi sono tombe sia pagane che cristiane. Complessivamente sono stati individuate 80 pitture, risalenti a due fasi principali: la prima dell’inizio del III secolo, ancora non cristiana, e la seconda della fine del IV secolo, quando famiglie cristiane benestanti, per l’autorappresentazione, ricorrono a modelli architettonici e figurativi delle chiese del sopraterra, ormai monumentali. La basilica Un’area cimiteriale è stata aperta nel IV secolo a partire dalla basilica dei Ss. Nereo e Achilleo, per riunire sepolture cristiane adiacenti ai resti dei martiri, per i fedeli che volevano essere accomunati anche nello spazio alla santità della loro resurrezione. Portata alla luce nel XIX secolo da Giovanni Battista de Rossi, la basilica semipogea, è stata preceduta da due fasi strutturali sotterranee, attualmente non visibili. Un primo vano martiriale risale all’epoca di papa Damaso; la successiva costruzione in elevato, probabilmente, al VI secolo. Sicuramente esisteva all’inizio del successivo, quando Gregorio Magno vi tenne una delle sue omelie. Al suo interno sono stati scoperti i frammenti di un’iscrizione di papa Damaso che conferma l’esistenza dei resti dei due santi, militari probabilmente condannati perché cristiani durante la persecuzione dioclezianea. È stato individuato anche un bassorilievo che raffigura la scena dell’esecuzione: un uomo con le mani legate dietro la schiena, dietro di lui un soldato che sta per decapitarlo.


A sinistra: particolare delle pitture del cubicolo dell’Introductio. In basso: particolare delle pitture del cubicolo dei Fornai.

trasformata, gradualmente, in un cimyterium, il luogo di coloro che dormono, in attesa della Resurrezione. Nelle gallerie, nei cubiculi stessi, anche fra i membri della medesima famiglia, pagani e cristiani stanno gli uni accanto agli altri. I simboli del pesce e dell’ancora, il cristogramma, l’invocazione della pace sono incisi nel marmo delle epigrafi, vicino a sculture greche, scene di caccia, racconti mitologici scolpiti sui sarcofagi.

ERCOLE, EROE DI VIRTÚ Per un lungo periodo, tra la fine del II e il V secolo, le due appartenenze religiose hanno convissuto nella stessa società: sensibilità diverse, immagini e racconti si sono sovrapposti e contaminati. La figura di Pan ha finito per identificarsi con quella del Buon Pastore; Ercole che lotta con i mostri è diventato emblema delle virtú che i cristiani apprezzavano anche nei pagani, segno della bontà di ogni essere umano e predisposizione all’annuncio del Vangelo. Il L’importanza Il complesso della catacomba di Domitilla è una testimonianza straordinaria della coesistenza di pagani e cristiani all’interno della medesima koiné classica: nei suoi spazi bui due visioni della morte e della vita sono espresse con lo stesso linguaggio artistico e figurativo, per arrivare a esiti opposti eppure umanamente vicinissimi. Le sue raffigurazioni dimostrano come la narrazione visiva cristiana abbia preso le mosse all’interno dei codici simbolici greci e romani, mutuandone la freschezza e gli accenti piú intimistici. Tutti i soggetti e gli schemi iconografici che andranno poi consolidandosi qui vengono sperimentati e ibridati con raffigurazioni diverse: il Buon Pastore, l’Adorazione dei Magi, Cristo e gli Apostoli, Pietro e Paolo.

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ARCHEOLOGIA CRISTIANA • ROMA

passaggio è avvenuto lentamente, da una generazione all’altra, scandito da gesti di offerta, graffiti. I vescovi di Roma, papa Callisto in particolare, hanno sancito la presenza santificatrice dei resti dei martiri Nereo e Achilleo, militari che si erano rifiutati di eseguire gli ordini dell’imperatore. Al culto per i morti si aggiunse, cosí, la memoria devozionale per i testimoni della fede, talmente forte da trasformare le tombe stesse in meta di pellegrinaggio. Si andò rafforzando la consapevolezza devozionale che la comunità dei vivi e la comunità dei defunti, nei vasti spazi della catacomba di Domitilla, fossero unite nella preghiera e nell’attesa della domenica senza tramonto, che tutto trasfigurerà nella dimensione dell’eternità.

FINO A QUATTRO PIANI Proprio per la sua origine composita, l’insieme ipogeo ha una struttura particolarmente complessa: si sviluppa a partire da sette nuclei, in parte ancora pagani. È cresciuto in epoca costantiniana, con un santuario dedicato ai martiri Nereo e Achilleo, poi trasformato in una basilica. Le gallerie sono disposte su piú piani, da due fino a quattro. Per la sua importanza, la catacomba è (segue a p. 56) La volta del cubicolo dell’Introductio, che prende nome dalla pittura del medaglione centrale, in cui due defunti vengono «introdotti», cioè presentati, a Cristo.

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CHI ERA DOMITILLA? L’area in cui venne scavato il cimitero comune cristiano al II miglio della via Ardeatina è unanimemente attribuita alla proprietà di Domitilla, che l’avrebbe donata alla comunità dei suoi correligionari. Ma chi era questa matrona? Le donne che portavano questo nome legate alla catacomba in realtà erano due. Eusebio di Cesarea nella sua Historia ecclesiastica ricorda che

una cristiana, Flavia Domitilla, nipote di Flavio Clemente, console di Roma, era stata deportata sull’isola di Ponza a causa del suo rifiuto del paganesimo. Alla fine del IV secolo Girolamo riferisce che la sua discepola, in viaggio per mare verso la Terra Santa, passando di fronte all’isola, vide le carceri in cui la matrona aveva trascorso la sua lunga prigionia, longum martyrium, e sentí un tale desiderio di imitarne la virtú che il vento le sembrò troppo lento nel condurre la nave. Flavio Clemente era uno dei personaggi piú in vista della sua epoca e la vicenda di questa sua nipote dimostra che, già alla fine del I secolo, il cristianesimo era penetrato in tutti gli strati della popolazione, anche nell’entourage imperiale. Tuttavia, secondo Svetonio (Vita Domitiani), lo stesso console era sposato con un’altra Domitilla, figlia di una sorella di Domiziano, poi perseguitata per la


sua fede, insieme con il marito. Lo conferma Dione Cassio, scrivendo che l’imperatore tolse la vita a molte personalità eminenti di Roma, tra cui Flavio Clemente, che pure era suo cugino e aveva in moglie una sua nipote.

I principi Flavi Vespasiano

DOMITILLA MAGGIORE

DOMITILLA Tito MINORE Tito Flavio Clemente

Qui sopra: una delle gallerie della catacomba, con i caratteristici loculi scavati nelle pareti di tufo. A sinistra, in alto: l’arcosolio degli Apostoli Piccoli.

FLAVIA DOMITILLA

Marcia Furnilla Giulia Flavia

Domiziano

Domizia Longina

T. Flavius Caesar (?)

Entrambi furono accusati di ateismo e di aderire alle idee dei Giudei. Dopo la morte di lui, lei fu condannata al confino a Ventotene. Alcuni studiosi ritengono che le testimonianze delle due donne si possano sovrapporre. È tuttavia piú probabile, invece, che si tratti davvero di due componenti dello stesso gruppo familiare, le cui vicende dimostrano le diverse modalità di persecuzione nei livelli piú alti della società imperiale: alla fine del I secolo il cristianesimo non era individuato come un preciso sistema religioso, ma nella percezione pagana si sovrapponeva all’ebraismo, prestandosi a identificazioni con gruppi politici e al coinvolgimento in congiure interne all’élite imperiale, accuse, strumentalizzazioni.

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ARCHEOLOGIA CRISTIANA • ROMA

LA SOLUZIONE IDEALE PER UN MONUMENTO COMPLESSO L’indagine della catacomba di Domitilla con il supporto di tecnologie informatiche è iniziata dieci anni fa con un progetto START della Fondazione dell’Austria per la Scienza che ha visto coinvolti archeologi dell’Accademia delle Scienze di Vienna e architetti dell’Università Tecnica di Vienna, coordinati da Norbert Zimmermann, che poi ha sviluppato ulteriormente il progetto con l’Istituto Archeologico Germanico di Roma. Lo strumento principale utilizzato è stato un image laser scanner in grado di documentare tridimensionalmente spazi e superfici da una distanza di 1,5 m circa 360 gradi. Lo scanner registra le cosiddette nuvole di punti, che sono copie tridimensionali della realtà circostante. Le posizioni vengono scelte in base alle caratteristiche degli ambienti da registrare, in questo caso cubicoli, gallerie, arcosoli, scale, lucernari. Zone di interesse specifico, come le

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In questa pagina: particolari dei personaggi raffigurati nel cubicolo dei Fornai (a sinistra) e dell’Introductio (in basso).

superfici dipinte, sono riprese con scansioni ravvicinate. Durante il progetto è stato utilizzato il modello austriaco di Riegl, con il suo software Ri Scan Pro, molto elaborato e compatibile con i programmi per il disegno dell’architettura. Sullo scanner è collocata una macchina fotografica digitale, calibrata e in movimento insieme con lo scanner, che scatta foto dalle stesse posizioni. Cosí la nuvola dei punti, o meglio, ciascun punto è immediatamente colorabile con un’immagine fotografica. Le nuvole di punti possono essere trasformate in modelli geometrici. Nelle prime fasi del progetto sono stati realizzati modelli replicabili in piú situazioni (cubicoli, gallerie, scale). Sulla base dei dati raccolti, è di grande utilità poter muovere la sezione che si sta studiando in modo tridimensionale: si ottiene cosí, procedendo per regioni o per gruppi di tombe, l’intera ricostruzione del complesso. La ripresa tridimensionale degli spazi delle catacombe è stata il primo passo dello studio. Per gli ambienti dipinti e per il repertorio delle pitture si è poi proceduto a creare modelli reali ad alta qualità. Attraverso il meshing, un processo che trasforma la nuvola dei punti in un insieme di triangoli, si crea un

modello tridimensionale ad alta definizione che ha una superficie definita. Su quest’ultima, infine, è possibile applicare foto digitali ad alta qualità. Alla fine di questo post processing, si ottiene un modello tridimensionale a colori, che viene trasformato in un file VRLM (Virtual Reality Modeling Language), mobile e accessibile virtualmente. Nelle ultime fasi del progetto è stato messo a punto anche un sistema piú rapido e preciso, almeno per gli ambienti piú piccoli: le superfici vengono fotografate da un tripode con un panorama mount in giri a 360 gradi e da almeno due posizioni diverse. Ogni pixel delle foto cosí ottenute ha le sue coordinate di riferimento. È quindi possibile calcolare una triangolazione come per il metodo precedente. Si giunge, cosí, a una rappresentazione tridimensionale dell’ambiente basata sulle immagini fotografiche. Anche questi modelli sono trasformabili e fruibili in file VRLM. «Il laser scanning – spiega Norbert Zimmermann – non è solo uno strumento molto adatto alle indagini archeologiche e ai restauri, ma è l’unico utilizzabile in una situazione complessa e vasta come quella della catacomba di Domitilla, per raggiungere risultati convincenti in tempi brevi».


Graffiti moderni visibili nel cubicolo dei Fornai.

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ARCHEOLOGIA CRISTIANA • ROMA

stata oggetto di studi fin dalle origini dell’archeologia cristiana, anche se, fino a tempi recenti, non era stato possibile ricostruirne l’estensione effettiva, né la pianta completa, perché il suo reticolo era (e resta) in parte inaccessibile. Già nel 1632 Antonio Bosio aveva realizzato la pianta di alcune gallerie, allora ritenute parte della catacomba di Callisto, e alcune tavole che raffiguravano gli ambienti noti con pitture murali. Il livello delle sue descrizioni grafiche, con la struttura architettonica dell’insieme, 56 a r c h e o

le proporzioni, la distribuzione dei dipinti rispetto agli spazi è rimasto insuperato fino a oggi, sia per la precisione, sia per la razionalità della sintesi di insieme.

PIANTE E ACQUERELLI Un’altra pianta collegata con immagini interne era stata realizzata nell’Ottocento da Louis Perret, seguita da quella realizzata da Guglielmo Palombi e stampata da Mario Marubbi tra il 1909 e il 1914. La documentazione delle pitture catacombali ebbe una svolta qualitativa

importante a partire dai foto acquarelli realizzati nel 1903 da Joseph Wilpert: anche i dipinti di Domitilla vennero riprodotti, ma soltanto due terzi di essi erano allora conosciuti. Piú tardi, il repertorio di Aldo Nestori (1975) fissava alcuni elementi e, talvolta, la posizione topografica delle scene. La successiva operazione di inventariazione, condotta da Johannes Georg Deckers a partire dal 1987, non ha preso in considerazione il complesso della via Ardeatina, ma ha definito l’obiettivo metodologico principale: il


collegamento fra pitture e spazio, fra architetture ipogee e costruzioni monumentali, fra vie di collegamento e complessi catacombali. La campagna di studi condotta nell’area di Domitilla, prima dall’Università Tecnica di Vienna e poi dall’Istituto Archeologico Germanico a Roma con la direzione di Norbert Zimmermann, si è basata su questi presupposti, raccogliendo cosí stimoli, tematiche e problemi critici dell’intera tradizione dell’archeologia cristiana romana. La riproduzione virtuale completa

A sinistra: il cubicolo di Veneranda e Petronilla, riconoscibili nella pittura murale, accanto a una cesta che contiene alcuni rotoli.

In alto: l’interno della basilica dei Ss. Nereo e Achilleo, militari condannati a morte perché cristiani durante le persecuzioni di Diocleziano.

delle gallerie e degli ipogei, insieme con l’immensa mole di dati raccolta, è stata la base per i restauri condotti su alcune pitture (cubiculo del Fossore, ipogeo dei Flavi, arcosolio di Veneranda). Non solo: per la prima volta la catacomba viene indagata nella sua interezza in una prospettiva fortemente interdisciplinare, che mette in luce gli aspetti architettonici, i codici figurativi e simbolici utilizzati nella fase di penetrazione del cristianesimo nella società urbana romana, la raffinatezza delle tecniche pittoriche.

«La vera novità emersa durante i restauri resi possibili dall’indagine condotta con il laser scanner – spiega Fabrizio Bisconti, Sovrintendente archeologico delle catacombe per la Pontifica Commissione di Archeologia Sacra, che ha coordinato gli studi – sono i dipinti del cubiculo in cui è rappresentata l’introduzione di due defunti al cospetto di Cristo maestro tra due santi protettori, forse gli stessi Nereo e Achilleo. Questa scena esprime il contatto che i “defunti eccellenti” vogliono intrattenere con Gesú e con i santi e, quina r c h e o 57


ARCHEOLOGIA CRISTIANA • ROMA

LE CATACOMBE RACCONTATE DAL MUSEO Achille che piange Patroclo, in piedi, appoggiato allo scudo con la mano destra a reggere il capo in un gesto disperato, è l’opera piú raffinata, un inno plastico agli affetti che vincono la morte e alla poesia che li rende eterni. Risale al I secolo ed è di provenienza e fattura greca. Accanto a essa, nei bassorilievi e nelle iscrizioni raccolte nel piccolo

museo inaugurato all’ingresso della catacomba, bambini giocano nella culla con un sonaglio, facchini trasportano anfore, nomi ed età lasciano traccia di una vita. Banchieri, pastori, cavallari raccontano la loro esistenza terrena. C’è anche un «cucumius» che di mestiere faceva il «capsarius», cioè il guardarobiere delle terme di Caracalla, sepolto proprio nella terra di Domitilla. Riemerge tutto un mondo, consegnato con tenerezza al silenzio delle sepolture e sigillato dalle lapidi nella A sinistra: particolare della decorazione scultorea del sarcofago delle Quattro Stagioni. Nella pagina accanto, in alto: frammento di sarcofago attico. Nella pagina accanto, in basso: rilievo con scena di commercio del vino.

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memoria dei familiari. L’allestimento sobrio, basato sull’uso del legno, evidenzia la materialità degli oggetti esposti, sculture ed epigrafi, contribuendo a far riemergere una quotidianità fitta di scambi, di legami, di lingue e culti diversi, che stavano l’uno accanto all’altro nella quotidianità della metropoli. I marmi attici qui raccolti provengono anche da altri complessi ipogei. Con il loro altissimo livello formale dimostrano quanto la cura per i defunti si traducesse spesso nell’ostentazione di opere magistrali, espressione di amore

per la vita e per una cultura che valorizzava i sentimenti, gli individui e le virtú. Miti e narrazioni visive si intrecciano, condivise dai piú, immediatamente riconoscibili anche per noi, nella loro ricchezza di immagini elementari. Sulle simbologie greche e omeriche si innestano elementi mitraici e suggestioni orientali. Il codice narrativo cristiano nasce al loro interno, valorizzando gli aspetti psicologici e propriamente umani e traslando i significati verso la storia della Salvezza, fondata su una nuova antropologia.

DOVE E QUANDO Catacombe di Domitilla Roma, via delle Sette Chiese 282 Orario tutti i giorni, 9,00-12,00 e 14,00-17,00; chiuso il martedí

Info e prenotazioni tel. 06 5110342; e-mail: info@domitilla.info; www.catacombedomitilla.it

di, la scelta, di farsi seppellire in prossimità dei resti dei martiri». Ecco, di conseguenza, che il santuario, poi trasformato in basilica, è stato elemento aggregatore per tombe di famiglie cristiane, motivo di sviluppo della grande catacomba. Proprio lo sviluppo storico del complesso, la sequenza dello scavo dei nuclei monumentali e delle gallerie rendono tangibili le origini del cristianesimo a Roma, nella concretezza corporea e umanissima del rapporto fra la vita e la morte. Il cimyterium che oggi possiamo visitare e leggere con chiarezza, nella sua apertura alla speranza ultraterrena, è la trasposizione ipogea di un’intera società che andava trasformandosi nel profondo, allargandosi a una sensibilità nuova senza privarsi della ricchezza dei valori del mondo classico che si stava lasciando alle spalle. a r c h e o 59


MITI E LEGGENDE • AMORE PER LE STATUE


INNAMORARSI DI UNA STATUA IL PRIMO FU PIGMALIONE, MITICO RE DI CIPRO, PRESO DA PASSIONE TRAVOLGENTE PER UN RITRATTO DI AFRODITE CHE EGLI STESSO AVEVA SCOLPITO NELL’AVORIO. MA, DOPO DI LUI, LUNGA È LA SCHIERA DEI PERSONAGGI CHE S’INVAGHIRONO DI SCULTURE DALLE FORME TANTO PERFETTE – E SENSUALI – DA SEMBRARE ESSERI VIVENTI di Maria Milvia Morciano

I

nnamorarsi di una statua. Provare trasporto e desiderio per una forma inanimata, fredda, ma perfetta e bellissima. Sembrerebbe una stravaganza da relegare nella sfera del leggendario e invece si tratta di episodi che ricorrono piú volte nella narrazione del mito in epoca antica. La favola di Pigmalione, i miti legati alle piú belle e conturbanti statue dell’antichità – come l’Afrodite di Cnido – le storie dei ritratti degli amanti lontani o dei defunti sono soltanto il punto di partenza di un viaggio che affonda nella profondità della psiche e della memoria. Il mito cantato da Ovidio nel X libro delle Metamorfosi (243-197) è certamente uno dei piú celebri e romantici, tanto da ispirare innumerevoli opere letterarie e artistiche e generare una ricchissima letteratura di studio. Ovidio non specifica se

Pigmalione fosse un re o un artista. È un uomo disgustato dal comportamento dissoluto delle donne e in particolare delle Propetidi, giovani della città di Amatunte, nell’isola di Cipro, per cui sceglie di vivere in casta solitudine.

REGALI E BELLE VESTI Un giorno scolpisce nell’avorio una figura di donna che viene cosí perfetta e bella da farlo innamorare. Ricopre la statua di regali e belle vesti, la tratta come se fosse donna vera. Il suo amore diventa sempre piú intenso e disperato cosí da spingerlo a pregare gli dèi affinché gli donino una moglie simile a questa fanciulla d’avorio. Se aveva punito le Propetidi pietrificandole, Venere, al contrario, infonde vita alla figura eburnea. Ed ecco che l’avorio si ammorbidisce e cede sotto le sue dita come «la

cera dell’Imetto (…) Le vene pulsano sotto il pollice che le tasta (…) Allora il cipriota rivolge a Venere parole traboccanti di gioia per ringraziarla, e finalmente con le sue labbra comprime labbra che non sono piú finte». I versi si chiudono con un secondo prodigio; non soltanto la metamorfosi di una statua in forma umana, ma di vera e propria nascita di una donna virtuosa, timida, casta, il contrario delle orride e lussuriose Propetidi: «E la vergine sente quei baci e arrossisce e levando timidamente gli occhi verso la luce, vede, assieme al cielo, colui che la ama». Il mito è stato ripreso piú tardi in chiave moralistica da Clemente di Alessandria (Protrepticon, IV 57, 3) e Arnobio (Adversus nationes, VI 22), condannando l’amore del giovane cipriota quale espressione di perversione pagana. I due scrittori fanno anche risalire a Filostefano di

Nella pagina accanto: Pigmalione, olio su tela di Louis Lagrenée. 1777. Helsinki, Sinebrychoff Art Museum. a r c h e o 61


MITI E LEGGENDE • AMORE PER LE STATUE

Cirene, un mitografo greco del III secolo a.C., la fonte alla quale si ispirò Ovidio. Secondo quest’ultimo in un’opera andata perduta, le Kupriaké, Pigmalione sarebbe stato il re di Cipro e la statua quella della dea Afrodite, non scolpita da lui. Ovidio recupera il mito, lo trasforma e lo inserisce tra i canti di Orfeo, personaggio che ha con Pigmalione molti punti in comune, come la delusione e la volontà di volersi estraniare dal mondo, il rapporto con l’arte. Ed è secondo questa chiave che va interpretato il mito. Pigmalione è un artista che supera con la sua arte la realtà e crea un modello assolutamente perfetto, secondo quel principio dell’estetica – seguito forse inconsapevolmente da Ovidio – chiamato phantasia, ove la natura smette di essere modello dell’arte. L’opera d’arte non è piú cosí perfetta da sembrare reale, ma, al contrario, è la natura a essere tanto perfetta da sembrare un’opera d’arte.

FAVOLA CON MORALE Contrariamente al pensiero degli apologisti cristiani, la favola di Pigmalione contiene un fondo moralistico, perché l’amore verso la statua è puro e si contrappone alla metamorfosi inversa delle Propetidi che da umane sono trasformate in statue. Pigmalione desidera che la statua d’avorio diventi umana. Viene rapito dal riflesso di un suo desiderio che prende sostanza nelle sue mani di artista. Non si innamora della scultura come conseguenza della sua bellezza, ma di ciò che lui ha creato come perfettamente fedele al suo desiderio. Questa statua non ha un’identità precisa, come vedremo nei miti di passioni provate per statue di divinità. Ovidio descrive la metafora della creazione artistica e, a differenza di Narciso, non viene punito, ma premiato, poiché le sue azioni non sono empie, poiché, come Narciso, non si innamora di un ri62 a r c h e o

flesso vuoto, ma prega gli dèi perché l’oggetto del suo amore diventi reale, giusto, conforme, si trasformi secondo natura. La fortuna di cui la storia di Pigmalione ha goduto nel tempo è giunta fino all’epoca moderna, mentre non esiste alcuna raffigurazione del mito in epoca classica. Le prime immagini si trovano su miniature e disegni dal Trecento in poi, molto interessanti perché commentano la storia non in modo filologico, aderente al testo di Ovidio, ma in linea con l’epoca in cui si fa il racconto. Mentre in alcune raffigurazioni, per esempio, la fanciulla è scolpita da

Il mito di Pigmalione ha avuto una fortuna straordinaria in epoca moderna, mentre non se ne conosce alcuna rappresentazione d’età antica distesa, con un chiaro riferimento moraleggiante che l’accosta alla rigidità della morte e quindi all’accusa di necrofilia, piú tardi – diventando un’iconografia canonica – è raffigurata in piedi come trionfante di fronte allo scultore in ginocchio e in adorazione, aderendo ai canoni della lirica trobadorica. L’iconografia di Pigmalione e Galatea, nome della statua d’avorio apparso solo a partire dal XVIII secolo, esplode nell’arte barocca e continua con molto successo in quella preraffaellita, nelle opere di Edward BurneJones e infine in quelle neoclassiche di Jean-Léon Gérôme. Attirano l’attenzione alcuni dipinti ispirati da una delle varianti dell’Afrodite Cnidia di Prassitele, ovvero la

pudica. Non è difficile far risalire il modello del dipinto a una delle statue piú celebri in assoluto, soprattutto nel XVIII secolo, considerata superiore per bellezza alla natura stessa, la Venere de’ Medici degli Uffizi.

LA PIÚ BELLA FRA LE ETERE Secondo la tradizione, modello dell’Afrodite Cnidia sarebbe stata Frine, l’etera piú bella dell’antichità. Plinio si sofferma sulla statua, scolpita da Prassitele tra il 360 e il 330 a.C., commissionata dagli abitanti di Kos e da questi rifiutata proprio a causa della sua nudità e quindi adottata dai Cnidi per inserirla in un tempietto circolare completamente aperto, dove sarebbe stato possibile ammirarla da ogni lato (Naturalis historia XXXVI 21). Questa statua è stata la prima figura femminile a essere rappresentata nuda, rompendo uno schema fino ad allora riservato alle statue di genere maschile. Proprio questo particolare favorí forse il fiorire di una ricca aneddotica, come l’episodio raccontato dallo stesso Plinio e anticipato negli Amores (1316) dello Pseudo-Luciano: un giovane, invaghito della splendida dea di marmo, di notte si nasconde nel tempio e la oltraggia. Scoperto, il giovane si suicida precipitando in mare, non si sa se per suo volere o se costretto dagli abitanti dell’isola e quindi dimenticato. La profanazione dello spazio sacro del santuario e della statua costituiscono un sacrilegio, un vero e proprio atto di hybris contro la divinità, incarnata nella materia. Il giovane viene dimenticato da tutti, come estremo atto di condanna per un’azione che è considerata al pari dell’incesto. Questo episodio e il suo epilogo drammatico non riNella pagina accanto: Pigmalione e Galatea, olio su tela di Jean-Léon Gérôme. 1890 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.


Casi clinici Agalmatofilia, galateismo, pigmalionismo, monumentofilia, statuafilia: non sono sinonimi, ma varianti di un fenomeno complesso, termini che non appaiono mai nel mondo antico, ma solo in tempi recenti come terreno di studio della psicopatologia sessuale, della psicanalisi, della psicologia. Nell’opera dello psichiatra Richard von Krafft-Ebing Psychopathia sexualis (1886), sono accennati alcuni casi tra cui quello raccontato da Ateneo nei Deipnosofisti, la storia di un giovane che avrebbe profanato la statua di Ermes nel tempio di Delfi. Tuttavia, per rintracciare il termine agalmatofilia nella nosologia medica, si deve attendere il 1975, quando Alexander Scobie e Anthony Taylor trattano il caso di un giardiniere che si sarebbe innamorato di una copia della Venere di Milo e per la prima volta definiscono Didascalia da l’agalmatofilia fare Ibusdae come evendipsam, officte erupit antesto «la condizione patologica in cui taturi cumpersone ilita autstabiliscono quatiur restrum alcune eicaectur, testorelazione blaborenes ium un’esclusiva sessuale quasped quos non reius nonem con le statue. La etur condizione non quam expercipsunt quos rest magni va confusa con pigmalionismo, né autatur apic teces anche enditibus con il feticismo, se ateces. volte si crea confusione tra queste tre diverse manifestazioni di sessualità immatura». Soltanto nel 2013, nella riedizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Desorders, l’agalmatofilia compare ufficialmente fra i disordini parafiliaci. È stato affermato come sia inesatto usare il termine «agalmatofilia» nell’ambito del mondo antico. Sarebbe corretto, piuttosto, parlare di «agalmatoerotismo», per quanto questo possa essere sufficiente a riunire in un’unica classificazione racconti dai risvolti simbolici tanto diversi.

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MITI E LEGGENDE • AMORE PER LE STATUE

Pigmalione comincia a scolpire.

È colpito dalla bellezza della statua.

La veste.

Sulle due pagine: miniature che raffigurano i momenti salienti della leggenda di Pigmalione, da un’edizione del Roman de la Rose. Seconda metà del XV sec. Oxford, Bodleian Library.

mangono isolati, ma le fonti ci consegnano diverse storie scabrose che, per giunta, riguardano anche altre divinità, trasformandosi in una sorta di genere letterario. Un ultimo esempio, diverso e gustoso, viene raccontato ancora da Plinio nella Naturalis historia (XXXXIV 82) e riguarda l’imperatore Nerone, il quale avrebbe talmente apprezzato un’opera dello scultore Strongilione, un’amazzone detta Euknemos, cioè dalle belle gambe, da portarla sempre con sé quand’era in viaggio. Altre varianti di rapporti sentimentali tra immagini e persone sono le storie che parlano di sostituzione dell’amato con una scultura o un disegno. Atenagora (Legatio pro Christianis, 17, 2) racconta di una fanciulla che si era innamorata di un giovane che però di lí a poco sarebbe partito lontano. Di notte lei ricalca il profilo dell’amato proiettato sul muro e traccia un disegno. Il padre, Butade, un vasaio di Sicione a Corinto, prende a modello il disegno e ne fa un modello di argilla da cuocere al forno. Da qui l’origine della plastica. La realizzazione di una figura umana plasmando dell’argilla sembra riportare alla creazione dell’uomo nella Genesi e, nel mondo greco, ai miti di Prometeo e Pandora. La creazione dell’uomo è un atto divino imitato e riprodotto poi 64 a r c h e o

dall’artista nelle sue opere. Secondo i racconti di alcuni autori (Igino, Fabulae, 104; Apollodoro, Epitoma Vaticana III 30) la vedova Laodamia, distrutta dal dolore per la perdita del marito Protesilao, si sarebbe fatta costruire un modello in cera che trattava alla stessa stregua del coniuge. Quando il padre la scoprí, pensando di fare bene e mettere fine a una finzione che secondo lui avrebbe portato solo danni, brucia il simulacro. La donna non sopporta questo secondo dolore e si getta anche lei nelle fiamme. Questo racconto ebbe molto successo ed è stato il soggetto di una tragedia di Euripide, Trag. Graec. Frag. V, ora andata perduta, e ripreso anche in Ovidio nelle Heroides XIII.

UN DOLORE INSOSTENIBILE Ancora, nell’Alcesti di Euripide, la giovane moglie offre la sua vita in cambio di quella di Admeto condannato a dover morire. Admeto giura fedeltà eterna e si promette di farsi fare un corpo «imitato dalla mano di abili artefici» che rimpiazzerà del tutto Alcesti: «Crederò di avere fra le braccia la mia cara moglie, pur non avendola». Il simulacro sostituisce il defunto e sopperisce alla sua presenza fisica consolando i vivi. E ancora un ulteriore topos letterario ricorrente riguarda amanti poco

reattivi, freddi come il marmo: «Che piacere, Eliodoro, nei baci, se tu non rispondi con avida bocca alla forza dei miei, ma le tue labbra chiuse mi sfiorano tranquille? Cosí, in casa, anche senza di te mi bacia la tua immagine di cera» (Antologia Palatina XII, 183). «Al tuo posto tengo un’immagine di te, mio conforto, che venero devotamente, e che da me riceve molte corone», ha fatto scrivere su un’epigrafe funeraria il vedovo Allio per la moglie Allia Potestas (Carmina Latina Epigraphica 1988, vv 44 sgg.; CIL VI 3795). Nella letteratura del Grand Tour riecheggiano talvolta gli antichi racconti legati all’amore per le statue, soprattutto la favola di Pigmalione, che suggestiona artisti e letterati dell’epoca. La passione per l’antico quale esempio di perfezione artistica, che si esprime attraverso l’analisi e l’ammirazione di alcuni capolavori dell’antichità, scivola talvolta verso un tono che non è di sola ammirazione, ma che assume quelli di un vero sperdimento amoroso, di attrazione sensuale. La statua di Venere piú decantata a partire dal XVIII secolo è stata certamente la Venere de’ Medici degli Uffizi, originale di epoca ellenistica della fine del I secolo a.C. e ispirata all’Afrodite Cnidia di Prassitele. Fu trasferita a Firenze da Roma, insieme al Gruppo dei Lottator i e dell’Ar rotino, nel 1677, su concessione di papa In-


L’abbraccia e la corica nel letto.

Si rivolge a Venere.

Scopre che la statua ha preso vita.

nocenzo XI in favore di Cosimo III, che desiderava arricchire le collezioni granducali. Prima era esposta a Villa Medici, dove si lamentava che «ben spesso con parole e con gesti da piú scorretti (era) abusata». Sembra quindi che il trasferimento fosse stato dettato dalla necessità di proteggerla dal dileggio. La sistemazione delle opere

nella preziosa sala della Tribuna agli Uffizi poneva la statua al centro, in posizione privilegiata, del corteo di cosí grande bellezza. Ben presto questo luogo divenne meta di studiosi e forestieri. Le descrizioni della statua si moltiplicano, soprattutto si soffermano sulle caratteristiche del marmo che sembra carne vera. Il padre di Goe-

the, che soggiornò a Firenze nel 1740, rilevò alcuni eccessi dei visitatori, dove l’attrazione era tale da far innamorare costoro, altri a esprimersi in modo poco consono e altri addirittura a farsi ritrarre con la statua in atteggiamento blasfemo. In un dipinto del 1715, a opera di Giulio Pignatta, Sir Andrew Fountaine e amici nella Tribuna (Narford

In basso: Roma, catacomba di via Latina. Pittura murale raffigurante Ercole che conduce Alcesti agli inferi, affinché possa ricongiungersi con il suo sposo, Admeto. IV sec. d.C.

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MITI E LEGGENDE • AMORE PER LE STATUE

LA VENERE CAPITOLINA A Roma, Johann Wolfgang Goethe non cita la Venere de’ Medici. Un’altra statua di Venere attira il suo sguardo, la Venere Capitolina: «La venere nuda, la piú bella statua del genere a Roma». Goethe segue lo stesso atteggiamento di Winckelmann, e sembra non indulgere ad alcuna attrazione pigmalionica per le statue. A suo dire la raffigurazione plastica del corpo umano suscita in lui soltanto ammirazione; egli intende l’arte antica come trasfigurazione in senso spirituale. Winckelmann individua nel mito di Pigmalione l’origine della statuaria antica come frutto di un’ispirazione di natura sensuale, ma destinata a elevarsi verso la spiritualizzazione, tesa a voler raffigurare il divino attraverso una perfezione estetica che distacca l’umano dalla dimensione carnale. Cosí anche Goethe a Roma, di fronte alla Minerva Giustiniani, mostrerà insofferenza nei riguardi di una custode un po’ insolente, che gli aveva chiesto, vedendo che non riusciva a staccarsi dalla contemplazione della statua, se quella scultura non assomigliasse a una sua qualche innamorata. «La brava donna conosceva solo adorazione e amore; della pura ammirazione per un capolavoro d’arte, del senso di reverente fraternità d’uno spirito umano, non poteva avere alcuna idea» (Viaggio in Italia, Roma, 13 gennaio 1787). Eppure in una lettera spedita solo pochi giorni dopo, il 25 gennaio, scriveva alla sua amata Lotte von Stein che la «Giunone Ludovisi» (testa colossale del I secolo d.C., ora in Palazzo Altemps) sarebbe potuta essere una sua possibile rivale, e aggiunge che ve n’è un’altra, proprio la Minerva Giustiniani, per la quale avrebbe potuto prendersi una bella cotta.

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Hall) sono ritratti alcuni nobili inglesi che discutono, forse decretano come nel giudizio di Paride chi sia la piú bella, indicando le tre statue di Venere poste nella Tribuna. Al centro vi è la de’ Medici che rimane senz’altro la regina delle statue, allora attribuita erroneamente addirittura alla mano di Fidia.

PAROLE TREPIDANTI Durante la sua visita agli Uffizi, il marchese De Sade, si sofferma a descrivere con molta precisione la disposizione e le statue che ornavano la Tribuna.Tra tutte la Venere de’ Medici è «la cosa piú bella che abbia mai visto in tutta la mia vita». Le sue parole sono trepidanti e piene di ammirazione: «Contemplandola, ci si sente penetrati da una dolce e santa emozione», ma sono parole che sottendono comunque uno sguardo impudico, un’eccessiva attenzione alle bellezze particolari, anche se ancora piuttosto trattenute rispetto a quelle che dedicherà alla Venere dipinta dal Tiziano, sempre agli Uffizi. Tuttavia De Sade adopera per la de’ Medici un linguaggio circospetto e colpisce la sua attenzione alla ricostruzione filologica, alla discussione archeologica sulle varie parti anatomiche – se autentiche, danneggiate o di restauro – sulla pertinenza dell’iscrizione della base o meno. Winckelmann riserva alla Venere de’ Medici parole quasi tenere e trasognate, celebrandone lo splendore: «È simile alla rosa, che esce fuor dalla buccia al primo apparir del sole dopo una bella aurora; e par che senta quell’età, in cui le membra prendon una piú compiuta forma» (Storia delle arti del disegno presso gli antichi, vol. I, libro V, capo II, par. 3). Ammirata (e trafugata) da Napoleone, la statua continua a riscuotere consensi nelle parole di John Ruskin, che la definisce «una delle piú pure ed elevate incarnazioni della donna mai concepite».

Fortuna di un modello Sulle due pagine: repliche dell’Afrodite Cnidia scolpita da Prassitele nel 364-361 a.C. Nella pagina accanto, la Venere Capitolina, rinvenuta a Roma, nei pressi della basilica di S. Vitale intorno al 1666-1670 (Roma, Musei Capitolini). In basso, la Venere della Collezione Ludovisi (Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps).

In alcuni racconti dell’Ottocento le statue diventano protagoniste di vicende amorose piene di fascino e d’inquietudine. Esse prendono vita, si animano, costringono l’umano a porsi di fronte all’angosciosa perfezione dell’opera d’arte. Su un piano ancora naturale, legato solo a un’eccezionale somiglianza fisica, rimane Il fauno di marmo di Hawthorne (pubblicato nel 1860), incentrato su un’altra celebre opera di Prassitele, il Fauno dei Musei Capitolini, che si riflette nell’incredibile somiglianza con un ragazzo italiano, Donatello conte di Monte Beni. Il racconto è pervaso da un’atmosfera magica, nella quale la commistione tra l’umano e il fantastico diventa motivo di suggestione, fascinazione panica. Le opere d’arte antica, i monumenti e il ricordo del passato rimangono sempre sullo sfondo, come simbolo di un’Italia dall’atmosfera esotica, quasi magica, vissuta dagli artisti stranieri a Roma.

FANTASIA E REALTÀ Joseph von Eichendorff scrisse La statua di marmo nel 1818. Il racconto si svolge nelle campagne toscane, intorno a Lucca, e mescola fantasia e realtà e vicende amorose del protagonista, un giovane poeta di nome Florio, con Bianka, descritta simile alla Venere botticelliana, capolavoro che Hawthorne aveva certamente visto a Firenze. La visione di una meravigliosa statua di Venere sul bordo di uno stagno gli fa dimenticare la fanciulla: «Era apparsa ai suoi occhi come un’amata a lungo cercata e ora improvvisamente riconosciuta». Piú la guarda e piú gli sembra che essa prenda vita. Ma questo incanto d’amore muta improvvisamente e diventa orrore notturno: il temporale crea visioni spettrali, tutte le statue scendono dal piedistallo e i fiori nei vasi si contorcono. L’alba riporta alla verità e il canto dell’amico Fortunato gli spiegherà ogni cosa. In quel luogo vi era un tempio a r c h e o 67


In alto: statua in marmo rosso antico raffigurante un Fauno, da Tivoli, Villa Adriana. II sec. d.C. (da un originale del tardo ellenismo). Roma, Musei Capitolini.

dedicato a Venere e la dea usciva senza pace dalla quiete terrificante della sua tomba per esercitare con diaboliche allucinazioni la sua antica seduzione. Il racconto presenta il tema affermato dei canoni fantasy, tipico dell’epoca, mescolato all’ammirazione per l’arte antica, che attraeva cosí tanti viaggiatori stranieri a visitare l’Italia. Nella Venere d’Ille, di Prosper Mérimée, la statua non è piú l’oggetto del desiderio, ma tutto il contrario. La perfetta scultura di rame – come viene descritta – mostra la sua ambiguità fin sull’iscrizione della base: cave amantem, «guardati dall’amante». E nella descrizione del volto: «Tutti i linea68 a r c h e o

menti erano lievemente contratti: gli occhi un po’ obliqui, la bocca rialzata agli angoli, le narici appena dilatate: disdegno, ironia, crudeltà si leggevano su quel volto che era tuttavia di incredibile bellezza. In verità, piú si guardava quella statua mirabile, e piú si provava la penosa sensazione che sí meravigliosa bellezza potesse essere unita a una totale assenza di qualsiasi sensibilità». Mérimée rovescia il rapporto pigmalionico tra statua e amante. Durante il gioco alla pallacorda con

gli amici, l’incauto Alphonse, prossimo alle nozze, si sfila l’anello e lo mette all’anulare della statua che però non glielo restituisce piú, piegando il dito. Le nozze sono state celebrate. Di notte la crudele divinità sale le scale con il suo pesante passo metallico e va a reclamare lo sposo sotto gli occhi terrorizzati della moglie legittima. Lo uccide in un abbraccio senza scampo. In questi racconti si parla di amori fantastici, passioni di creature non umane, come nel racconto di Giu-


La «bella» degli Uffizi La Tribuna degli Uffizi, olio su tela di Johann Joseph Zoffany. 1772-77. Londra, Castello di Windsor. Nel dipinto, evidenziata dall’ovale, si riconosce la Venere de’ Medici. Quest’ultima (foto in basso) è una scultura di età ellenistica, plasmata alla fine del I sec. a.C. da Cleomene di Atene, che si ispirò all’Afrodite Cnidia di Prassitele. Acquistata da Francesco de’ Medici nel 1584, è tuttora esposta presso gli Uffizi.

seppe Tomasi di Lampedusa La sirena (o Ligheia; 1956-57), nel quale lo spunto per scrivere la storia d’amore tra l’archeologo Rosario La Ciura e la creatura marina gli era stato suggerito dalla visita al Museo archeologico di Agrigento, dove lo scrittore aveva ammirato un dio greco di incontaminata bellezza, esclamando «forse hanno ragione loro!», alludendo alla possibilità di credere negli dèi. Non è specificato quale sia la statua che colpí Tomasi, probabilmente si

tratta del cosiddetto «Efebo di Agrigento», del V secolo a.C. E, infine, il fondamentale racconto del 1903 di Wilhem Jensen, Gradiva, fantasia pompeiana, che tanto attirò l’attenzione degli psicanalisti e in particolare di Freud, il quale scrisse Delirio e sogni nella «Gradiva» di W. Jensen, per spiegare come sollecitazioni esterne possano portare in superficie tensioni psichiche nascoste nell’intimo e far guarire. Cesare Musatti, che per primo ha tradotto il racconto, osserva che a r c h e o 69


MITI E LEGGENDE • AMORE PER LE STATUE

In alto: replica in gesso della «Gradiva», già nella collezione di Sigmund Freud. Londra, Freud Museum. 70 a r c h e o

A destra: l’Efebo di Agrigento, statua in marmo di un atleta, dall’area del tempio di Demetra. Agrigento, Museo Archeologico Regionale.


con il saggio di Freud su Jensen le categorie interpretative della psicoanalisi sono applicate per la prima volta a un’esperienza narrata in un’opera letteraria e quindi trattata come fatto realmente accaduto.

NELLA STANZA DI FREUD All’insistenza di Freud che chiedeva allo scrittore se avesse interessi di natura psicoanalitica, Jensen rispondeva di no. Il racconto era a suo dire frutto della fantasia e semplicemente ispirato da un rilievo conservato nel Museo Chiaramonti dei Musei Vaticani (inv. 1284) del quale aveva acquistato una riproduzione, come farà il protagonista del racconto e come fece anche Freud, che aveva appeso il calco proprio dietro al suo celebre divano-lettino. Il rilievo, che raffigura le Horai o Aglauridi, deriva probabilmente da un originale greco del IV secolo a.C. in cui sono raffigurate, oltre alla «Gradiva», altre due figure femminili – una acefala e l’altra conservata in minima parte. Esso doveva avere contrapposte altre tre figure femminili avanzanti da sinistra verso destra, come è stato possibile ricostruire da altri rilievi conservati nei musei di Monaco e degli Uffizi. Norbert Hanold è un archeologo che durante una visita ai Musei Vaticani viene calamitato da un rilievo sul quale è raffigurata una flessuosa fanciulla che cammina piegando il piede in un modo del tutto particolare. Per questo motivo la chiama «Gradiva», da gradiente. Tornato a casa, l’attrazione non diminuisce. La storia si dipana tra fantasticherie e realtà, ossessioni e allucinazioni. L’archeologo sogna di compiere un viaggio nel tempo e di trovarsi a Pompei pro-

Rilievo che raffigura le Horai o Aglauridi, probabilmente derivante da un originale greco del IV sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Chiaramonti. La prima figura a sinistra è la cosiddetta «Gradiva».

prio nel giorno fatale dell’eruzione dove incontra la Gradiva. C’è un lieto fine. Alla fine Norbert ritorna in sé e scopre che la misteriosa fanciulla del rilievo altro non è che Zoe (vita!), la ragazza in carne e ossa innamorata segretamente e da

sempre di lui. Gradiva non è che un ideale cristallizzato nella pietra. Zoe è invece la «vita che avanza splendendo». Sembra di ritrovare la parafrasi della divina metamorfosi raccontata da Ovidio nel mito di Pigmalione.

PER SAPERNE DI PIÚ Giulia Ferrari, Agalmatofilia. L’amore per le statue nel mondo antico: l’Afrodite di Cnido e il caso di Pigmalione, in «PsicoArt»-Rivista on line di arte e psicologia, [S.l.], v. 3, n. 3, 2013. Darwine Delvecchio, Pigmalione: le forme e la struttura di un mito di sublimazione, in «Enthymema» IX, 2013, pp. 283-301. Massimo Fusillo, Feticci. Letteratura, cinema, arti visive, Il Mulino, Milano 2012. Anna Però, La statua di Atena. Agalmatofilia nella «Cronaca» di Lindos, LED, Milano 2012. Francesco Vitale, Winckelmann, Goethe e il mito di Pigmalione, in «Cultura tedesca» 21, 2002, pp. 203-222. Steffi Roettgen, La cultura dell’antico nella Firenze del Settecento. Una proposta di lettura, in «Studi di Storia dell’Arte», n. 20, Todi 2010, pp. 181-204. Victor I. Stoichita, L’effetto Pigmalione. Breve storia dei simulacri da Ovidio a Hitchcock, Il Saggiatore, Milano 2016. Maurizio Bettini, Il ritratto dell’amante, Einaudi, Torino 1992. Gianpiero Rosati, Narciso e Pigmalione. Illusione e spettacolo nelle Metamorfosi di Ovidio, Sansoni Editore, Firenze 1983. Sigmund Freud, Il delirio e i sogni della Gradiva di Wilhelm Jensen, Opere, Vol. 5, Boringhieri, Torino, 1975. a r c h e o 71


TECNOLOGIA • LE DIGHE/2

Un’imbarcazione a canestro, o quffa, sulle acque del Tigri, in una foto degli anni Trenta del Novecento.

I PRIMI SIGNORI C DELLE ACQUE

ome abbiamo ricordato nella puntata precedente (vedi «Archeo» n. 400, giugno 2018), le piú antiche dighe a oggi note, tutte del tipo a gravità, furono erette nel Vicino Oriente lungo il corso dei grandi fiumi. Molteplici erano le loro finalità: dalla derivazione delle acque nei canali agricoli alla protezione delle dall’agevolazione dei LE PIÚ ANTICHE DIGHE A OGGI NOTE VIDERO coltivazioni, trasporti su zattere alla regimentaLA LUCE NELLE REGIONI DEL VICINO ORIENTE. zione degli wadi (vocabolo arabo indica corsi d’acqua stagionali a IL LORO IMPATTO SULLA VITA DELLE che carattere torrentizio, n.d.r.). POPOLAZIONI FU FORMIDABILE. TANTO CHE LA Meglio noti storicamente, sebbene piú recenti, sono gli LORO DIFFUSIONE VIENE OGGI CONSIDERATA relativamente sbarramenti dell’Eufrate innalzati a COME UNO DEI FATTORI DETERMINANTI partire dal III millennio a.C., per irriguo. Erodoto ne testimonia NELL’AVVENTO DEI PRIMI GRANDI IMPERI uso l’esistenza, descrivendo la complessa DELLA MESOPOTAMIA rete realizzata nella vasta pianura compresa fra il Tigri e l’Eufrate, di Flavio Russo alimentata da numerose opere di presa, in genere traverse, che – garantendo anche il raccordo fra i due fiumi – ne moderavano le rispettive

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A sinistra: rilievo raffigurante una scena di pesca e una barca a canestro con quattro rematori, da Ninive. VII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. In basso: i resti della diga di Marib (nell’odierno Yemen).

piene, consentendovi la navigazione. In Mesopotamia, infatti, le vie d’acqua si dipanavano su di un intricato dedalo di canali irrigui, ai quali era perciò delegata non solo la fertilizzazione delle colture, ma anche lo smercio delle derrate che da esse si ricavavano.

piú superato dal traffico interno fin quasi ai nostri giorni. Lungo quelle arterie erano dislocate stazioni per la riscossione dei pedaggi, il cui gettito permetteva la costante e delicata manutenzione delle

idrovie. E intorno alla metà del II millennio a.C., forse ispirato proprio dalla constatazione del gettito tratto dai canali, un sovrano persiano volle estorcere cospicui proventi, bloccando il corso degli affluenti del fiume

ROTONDE COME SCUDI Scendendo il Tigri, giungevano a Sumer l’ossidiana dal lago Van, il legno di cedro dai monti Amano, il bitume dal Medio Eufrate, il marmo dai monti del Tauro e il rame dalle coste del Mar Nero. Caratteristica era l’imbarcazione a canestro, o quffa – da cui coffa –, utilizzata dai Sumeri e oggi ancora in uso, che ancora Erodoto cosí descrive: «Le barche che scendono dal fiume a Babilonia sono circolari e fatte di pelli. I telai, che in legno di salice, sono tagliati nel paese degli armeni sopra l’Assiria, e su questi, che servono per gli scafi, una copertura di pelli è tesa fuori, e quindi le barche sono fatte, senza stelo o poppa, piuttosto rotondo come uno scudo» (Storie, I, 194). Sebbene i natanti impiegati fossero tanto primitivi, riuscivano tuttavia a trasportare, in media, una decina di tonnellate, a volte persino di un centinaio, un carico mai a r c h e o 73


TECNOLOGIA • LE DIGHE/2

Akes con ben cinque dighe. Stando ancora alle parole di Erodoto: «C’è in Asia una pianura circondata da ogni parte da una catena di montagne, e vi sono in essa cinque fenditure (…) E scorre, dalle montagne che la circondano, un gran fiume, il cui nome è Aces. Il quale prima, diviso in cinque rami, irrigava contemporaneamente le terre dei popoli (…) Ma da quando questi popoli sono sotto la Persia (…) il Re ha murato le fenditure della montagna e applicato una chiusa a ogni fenditura. Sicché ne è impedita l’uscita delle acque e la pianura tra i monti diventa un mare, perché il fiume vi sbocca senza sfogo (…) E il re dispone che, per quelli che hanno piú bisogno, si aprano [ovviamente a pagamento] le chiuse corrispondenti» (Storie, III, 117). Tra i compiti originari delle prime

dighe, ricorre la protezione dei campi dalle esondazioni, come, per esempio, con il piccolo sbarramento di Jawa, in Giordania, risalente al IV millennio a.C. (vedi oltre, a p. 75). Di circa quattro secoli posteriore è la traversa di Sadd el-Kafara, innalzata tra il 2950 e il 1750 a.C., e verosimilmente destinata a soddisfare il fabbisogno idrico degli operai e dei macchinari delle limitrofe cave di alabastro (vedi oltre, a p. 76).

NEI PRESSI DI TIRINTO Di gran lunga piú recenti sono i primi sbarramenti fluviali eretti in Occidente, in particolare in Grecia, tra il XIV e il XIII secolo a.C., come la diga costruita nei pressi di Tirinto piú nota come diga di Kofini. Suggerita dalle canalizzazioni

persiane, serviva anch’essa a innalzare il livello del corso del fiume per alimentare numerosi canali irrigui, proteggendo, al contempo, l’abitato dalle frequenti inondazioni (vedi oltre, a p. 77). Ancora piú recenti sono le dighe destinate alla formazione di ampi bacini, cospicue riserve d’acqua in grado di alimentare le città. A questa tipologia appartennero le due traverse fatte erigere dal re assiro Sennacherib, tra il 703 e il 694 a.C., lungo il corso del fiume Koshr, un affluente del Tigri, un’opera che assicurò l’autonomia idrica di Ninive, la capitale del suo regno. L’ampio ricorso alle dighe per varie necessità dovette implicarne non rari e devastanti crolli, vuoi per difetti di progettazione, vuoi per eventi sismici, vuoi per catastrofiche

In questa pagina: i resti della diga di Jawa, in Giordania, che, essendo databile al IV mill. a.C., è la piú antica struttura del genere a oggi nota.

JAWA (GIORDANIA) JAWA (GIORDANIA)

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piene non smaltite dai canali di deflusso, a causa dell’intasamento delle prese o per l’insufficienza degli sfioratoi, come avvenne probabilmente a Mer’bit. È legittimo ipotizzare che simili disastri abbiano suggerito di trasformare i bacini di accumulo e le dighe che ne determinarono la formazione in terribili armi di sterminio. Il citato sovrano assiro di Ninive, per esempio, si avvalse della mostruosa ondata scaturita dalla rottura della diga da lui appositamente eretta sull’Eufrate per radere al suolo Babilonia, nel 689 a.C. Col tempo, dighe e traverse divennero infrastrutture basilari per la produzione agricola e per i trasporti, tanto che, stando a Strabone, intorno al IV secolo a.C., Alessandro Magno – per sottomettere l’impero

A destra e in basso: la diga di Sadd el-Kafara, la cui costruzione fu avviata intorno al 2500 a.C.

SADD EL-KAFARA (EGITTO)

SADD EL-KAFARA (EGITTO)

dei Persiani – ne distrusse un gran numero. Secondo il grande geografo, infatti: «Il territorio di Babilone [è] irrigato da molti fiumi, ma i maggiori sono l’Eufrate, e il Tigri (...) Et si possono navigare contr’acqua, questo fin’ ad Opi, e alla Seleucia d’hoggidi (è Opi una villa, dove si fa il mercato de i luoghi circonvicini) et quello fin’ à Babilone, per piú di tre mila stadij. Ora volendo i Persiani, à studio, impedire il navigarvi contr’acqua per paura che v’andassero

eserciti forestieri; vi fabbricarono doi sostegni fatti à mano [traverse], ma andandovi Alessandro, ne disfece quanti ne puotè trovare, e quelli massimamente ch’erano ad Opi» (Geografia XVI, qui nella traduzione di M.Alfonso Buonacciuoli, 1565). Nella circostanza, la decisione del Macedone fu istigata dall’iniziativa persiana di utilizzare quelle dighe come fortificazione supplementare, allagando il territorio circostante,

cosí da renderlo impraticabile. Un espediente destinato a trovare innumerevoli riproposizioni e che fu adottato perfino in Olanda agli inizi della seconda guerra mondiale.

OPERE POCO LONGEVE Le dighe arcaiche furono perlopiú di modeste dimensioni e spesso realizzate con materiali fortemente incoerenti e di piccola pezzatura, quindi facilmente disgregabili sotto l’azione concomitante dell’acqua e del tempo. Di esse, pertanto, si conservano ben poche tracce, sebbene la loro esistenza venga a piú riprese attestata dalle fonti. Solo delle dighe piú grandi ci sono giunti resti significativi, che perciò consentono di valutare i livelli attinti dalla coeva ingegneria idraulica. Riportiamo qui di seguito la descrizione di alcune delle strutture principali. Situata sul Wadi Rajil, a Jawa, in Giordania, una sessantina di chilometri a nord di Azraq, la diga di Jawa è ritenuta la piú antica finora individuata, dal momento che si data al IV millennio a.C. In realtà, fu un complesso sistema di sbarramenti, finalizzato a formare una cospicua riserva idrica di oltre 1 milione a r c h e o 75


TECNOLOGIA • LE DIGHE/2

di mc d’acqua, per cui quella in oggetto fu solo la piú grande. Il Wadi Rajil ha un bacino di circa 300 kmq, con uno sviluppo di 35 km circa. Insiste su di uno spesso strato di basalto scarsamente permeabile, per cui le rare precipitazioni provocano violentissime fiumare, rovinose quanto brevi. La diga, pertanto, consentiva di tesaurizzare le preziosa pioggia in un ampio bacino di accumulo, per poi distribuirla con vari canali. La sua struttura consisteva in una doppia parete, alta 5 m circa e lunga circa 80, con l’intercapedine riempita di sabbia e cenere. Pur trattandosi di una diga a gravità, vi si scorgono ingegnosi espedienti che mirano a incrementarne la resistenza, tramite accumuli di pietrame sugli estradossi a monte. La piú antica diga in muratura fu quella di Sadd el-Kafara, in Egitto,

A destra: i resti della diga di Kofini, eretta allo scopo di deviare le acque del fiume Lakissa. In basso, sulle due pagine: un’altra veduta della poderosa diga di Marib.

KOFINI (GRECIA)


lungo lo Wadi Garawia, a sud del Cairo, detta anche diga dei Pagani. I lavori di approntamento furono intrapresi all’epoca delle grandi piramidi di Giza, intorno al 2500 a.C., oltre quattro secoli dopo il piccolo sbarramento di Jawa. Il suo scopo, per quanto oggi deducibile, va ricondotto allo sfruttamento delle cave: non era quindi destinata all’irrigazione, a cui provvedeva il Nilo. Analizzandone i resti, è stato possibile calcolarne l’altezza in 14 m circa, nonché la lunghezza, pari a circa 110 m, e lo spessore di base, di 90 m circa che al coronamento si riduceva a 56 m circa. Fu eretta con conci di pietra con l’evidente ambizione di garantirne la longevità, ma i massi di roccia e di pietrisco che ne incrementavano la solidità non la salvarono da una devastante esondazione, decretandone l’abbandono prima della completa ultimazione.

Paradossalmente, il suo scopo sembrerebbe essere stato proprio quello di arginare le esondazioni, formando una sorta di bacino di oltre 500 000 mc.

IPOTESI PER UNA CATASTROFE Tra il XIV e il XIII secolo a.C. fu costruito presso Tirinto un poderoso sbarramento, piú noto come diga di Kofini, destinato a deviare le acque del fiume Lakissa, che scorreva a breve distanza. La sua costruzione avvenne quasi contemporaneamente alla distruzione dei palazzi micenei, dopo che lo stesso fiume aveva esondato invadendo l’abito e lasciandovi uno spesso strato di fango. Molte sono le ipotesi sulla catastrofe, dal terremoto a una piena improvvisa, pur restando la prima la piú probabile, con il crollo de-

gli antichi argini e le relative conseguenze. I Micenei costruirono perciò una nuova diga, lunga 3,5 km, piú che altro un nuovo argine, per convogliare le acque in eccesso del fiume in un canale di 1,5 km circa, scaricandole nel limitrofo fiume Manessi. La si realizzò con grandi ammassi di sabbia e detriti, su di un nucleo in opera ciclopica, con una altezza di 10 m circa e una lunghezza di oltre 100. Il sito in cui fu innalzata la grande diga di Marib, di cui si conservano resti evidenti e cospicui, si trova a sud-est dell’omonima città (nell’odierno Yemen), antica capitale del regno di Saba e ricco centro di oltre 50 000 abitanti, fiorito grazie al commercio dell’incenso e di altre spezie. A motivare la costruzione fu l’esigenza di regimentare e, soprattutto, di tesaurizzare le abbondanti piogge monsoniche. Tramite una vasta rete di canali le loro acque riuscirono a irrigare i campi circostanti, consentendo una florida agricoltura. Dal punto di vista strutturale, la diga era costituita da un arcaico sbarramento di terra, risalente forse al 2000 a.C. e trasformato, oltre un millennio piú tardi, in una diga vera e propria, grazie alla ricchezza prodotta dal commercio dell’incenso. In sezione può equipararsi a un trapezio, largo alla base quasi 600 m, con un’altezza di 4, in seguito portata a 7, edificato con una spessa muratura di pietra. Il limo trasportato dall’acqua, però, ostruiva rapidamente le prese dei canali, costringendo a una manutenzione continua: forse per tale ragione i nuovi padroni del regno innalzarono il coronamento a circa 14 m, con lavori protrattisi per almeno quattro secoli. Al termine, la superficie complessivamente irrigata raggiungeva i 100 kmq. La diga cadde in disuso intorno al 700 a.C., verosimilmente per la sopravvenuta incuria, condannando gli abitanti a un generalizzato esodo. (2 – continua) a r c h e o 77


SPECIALE • TERME DI CARACALLA

CARACALLA

LA NUOVA DIMENSIONE INAUGURATE DALL’OMONIMO IMPERATORE DELLA DINASTIA DEI SEVERI NEL 216 D.C. E VERO CAPOLAVORO ARCHITETTONICO, INGEGNERISTICO E ARTISTICO, SONO LE UNICHE TERME MONUMENTALI DELLA ROMA ANTICA AD AVER MANTENUTO LA LORO STRUTTURA IN FORMA COMPIUTA. OGGI, UN NUOVO PROGETTO DI REALTÀ VIRTUALE PERMETTE DI LEGGERE E INTERPRETARE LE GRANDIOSE VESTIGIA IN UN CONTINUO CONFRONTO TRA PRESENTE E PASSATO di Luciano Frazzoni

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econde per dimensioni (misurano 337 x 328 m), seppur di poco, rispetto alle Terme di Diocleziano, le Terme di Caracalla (Thermae Antoninianae) sono uno degli edifici termali meglio conservati di Roma, non avendo subito, per la loro posizione periferica, le sovrapposizioni e le trasformazioni dell’epoca medievale e rinascimentale. Questo nonostante il complesso sia stato ampia78 a r c h e o

mente spogliato nei secoli, sia delle opere d’arte che lo adornavano, sia dei marmi, dei laterizi, dei vetri e dei metalli. Le Terme sono situate nella XII regione, Piscina Publica, nella parte meridionale della città, area urbanisticamente qualificata dai Severi con la creazione dell’asse stradale della via Nova (tracciato che serviva appunto le terme), e del Septizodium, un grande ninfeo a


Roma. Veduta delle Terme di Caracalla. I lavori per la costruzione del grandioso complesso ebbero inizio nel 212 d.C. e si conclusero nel 216 d.C.

piú piani situato presso le pendici del Palatino, voluto da Settimio Severo come quinta scenografica verso la via Appia. Previste forse già da Settimio Severo, i lavori per la realizzazione delle terme iniziarono nel 212 d.C., e previdero lo sbancamento del versante orientale del colle del Piccolo Aventino, su un’area occupata in precedenza da orti, giardini e case private. Una di queste, ben conservata, si trova a 10 m circa sotto il livello delle terme, nell’angolo sud-est dell’edificio centrale; scavata da Giovanni Battista Guidi tra il 1858 e il 1866, fu erroneamente identificata come la dimora di Asinio Pollione. Si tratta di una domus di epoca adrianea, disposta su due piani e arricchita da pavimenti a mosaico e pitture di II stile. La terra di risulta dello sbancamento fu utilizzata per creare una ampia platea sulla quale venne fondata la parte centrale del complesso, inaugurato nel 216 d.C. Altri interventi furono effettuati dagli imperatori Elagabalo e Alessandro Severo, mentre il completamento dei lavori sarebbe avvenuto nel 235 d.C. Sotto Aureliano, un incendio ai portici del recinto esterno o delle palestre comportò alcuni restauri; interventi edilizi sono poi dovuti a Diocleziano, che restaurò l’acquedotto (in questo periodo è anche attestata la figura di un procurator thermarum Antoniniarum), mentre

sotto Costantino vennero realizzati alcuni cambiamenti nel calidarium, inserendovi un’abside, come testimonia un’iscrizione databile tra il 317 e il 337 d.C.

UN’ENORME QUANTITÀ D’ACQUA Le Terme di Caracalla erano alimentate dall’Acquedotto Antoniniano, derivazione dell’Acqua Marcia, che partiva dal III miglio della via Tuscolana, realizzato appositamente per garantire l’enorme quantità d’acqua necessaria all’impianto. Come ricorda l’iscrizione posta sulla Porta Tiburtina, questi lavori di derivazione e ampliamento della Marcia furono effettuati forse già da Settimio Severo nel 196 d.C. La derivazione parte nei pressi di Porta Furba; resti sono conservati nelle Mura Aureliane a Porta Latina e sul cosiddetto Arco di Druso, all’interno di Porta San Sebastiano. Secondo alcuni calcoli, la portata media dell’acquedotto era di 15 000 mc al giorno, pari a 175 litri al secondo. Dopo essere giunta presso le terme attraverso varie camere tramite un condotto, l’acqua, veniva conservata in 18 grandi ambienti – le cisterne – disposti nel recinto meridionale presso l’Aventino. Dalle cisterne, che assicuravano una riserva d’acqua di 9 945 000 litri, venivano riforniti, attraverso tubature in piombo, tutti gli ambienti delle terme. a r c h e o 79


SPECIALE • TERME DI CARACALLA

Altri restauri nei sotterranei effettuati agli inizi del V secolo d.C., insieme ad alcuni bolli laterizi riferiti a Teodorico, indicano che le terme erano ancora in uso in questo periodo, come attestano anche alcune fonti letterarie (Olimpiodoro, Polemio Silvio). Sebbene si ritenga che le Terme siano state abbandonate dopo il taglio degli acquedotti da parte del re goto Vitige del 537, alcune tracce nelle condutture lasciano supporre che l’acqua vi continuò a defluire. Ulteriori restauri furono effettuati nel IX secolo sotto i papi Adriano I , Sergio II e Nicolò I. Alcune sepolture databili al VI-VII secolo, rinvenute nei pressi delle palestre, hanno fatto pensare che in questi ambienti sia da collocare lo xenodochium de via Nova (albergo-ospedale per i pellegrini), noto da una lettera di Gregorio Magno, probabilmente collegato con la vicina chiesa dei Ss. Nereo e Achilleo. In epoca bassomedievale l’area fu occupata da vigne e orti.

LE SPOLIAZIONI E I PRIMI SCAVI Lo spoglio delle Terme di Caracalla cominciò a partire dal XII secolo, quando molti elementi architettonici furono utilizzati per decorare, soprattutto, chiese. Cosí, tre capitelli provenienti dalla Palestra orientale decorati con le aquile e i fulmini di Giove, vennero usati nel Duomo di Pisa, alcune colonne e otto capitelli figurati con Iside, Serapide, Arpocrate, in origine collocati nelle 80 a r c h e o

Sulle due pagine: uno dei quattro spogliatoi (apodyteria) ubicati ai lati della piscina scoperta e la sua ricostruzione virtuale (in alto). Erano disposti su due piani e avevano un elegante pavimento a mosaico a motivi geometrici di tessere bianche e nere.


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In alto: carta dei principali acquedotti che rifornivano la città di Roma.

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biblioteche, vennero riutilizzati nella chiesa romana di S. Maria in Trastevere. Nel 1545-46 cominciarono gli scavi sistematici condotti da papa Paolo III Farnese, finalizzati a recuperare materiale edilizio e, soprattutto, opere d’arte per decorare Palazzo Farnese in Campo de’ Fiori. In una lettera di Prospero Mochi a Pier Luigi Farnese (figlio di Paolo III) dello stesso anno, si parla della scoperta «di uno Ercole, uno tauro (il Toro Farnese), tre ancille, un pastor (…) e anche una bellissima testa sopra al naturale». Un altro elenco compilato nel 1556 da Ulisse Aldrovandi parla delle due statue di Ercole, quello di Glykon e quello detto «latino», mentre fonti settecentesche parlano di un gruppo forse di Scilla, che doveva essere collocato nella palestra ovest, in posizione simmetrica e in asse con il gruppo del Toro Farnese. Ancora, Pirro Ligorio parla di numerose statue, colonne di marmo pregiato, vasi, tazze rotonde e vasche di forma ovale. Tipico esempio di «grandi terme imperiali», le terme di Caracalla erano un luogo dove ci si recava non solo per il a r c h e o 81


SPECIALE • TERME DI CARACALLA

bagno, ma anche per praticare attività sportive, per la cura del corpo, per passeggiare o studiare, per assistere a eventi musicali e per imbastire rapporti sociali. Secondo recenti calcoli, le terme potevano ospitare ogni giorno tra gli 8000 e i 10 000 visitatori, calcolando i 1600 per turno di cui ci da notizia Olimpiodoro. Il complesso si sviluppa su cinque livelli, tre sotterranei e due in elevato. L’edificio termale vero e proprio è costituito da un corpo centrale di forma rettangolare, orientato in senso NE/SO e completamente isolato dal recinto che delimita l’intero monumento. Sul lato nord di quest’ultimo erano gli ingressi principali e diverse tabernae disposte sulla fronte; nei lati est e ovest, caratterizzati da due grandi esedre, le latrine o forse ambienti riscaldati, dove si svolgevano varie attività (massaggi, unzioni con oli profumati, depilazioni), mentre sul lato sud erano le cisterne e, alle estremità, le due biblioteche, una per i testi latini, l’altra per quelli greci. A fianco di quella sul lato ovest, una scalinata monumentale permetteva l’accesso alle terme dal Piccolo Aventino (probabilmente ve ne era un’altra sul lato opposto, non conservata). Davanti alle cisterne era il cosiddetto «stadio», una struttura a gradinata, forse una cascata d’ac-

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CARACALLA, UN IMPERATORE DA RIVALUTARE? «Fu uomo dai costumi corrotti e piú crudele del già crudele padre; avido di cibo, come pure ingordo di vino, odiato dai familiari e detestato da tutti i soldati, a eccezione dei pretoriani». Cosí l’Historia Augusta (una raccolta di biografie dell’età imperiale compilata nel IV secolo, n.d.r.) descrive Marco Aurelio Antonino Bassiano detto Caracalla (dal nome della lunga tunica gallica che era solito indossare), figlio di Settimio Severo e Giulia Domna e fratello di Geta. Un giudizio non proprio benevolo, ma che ben rende l’immagine di questo imperatore spietato e violento. Caracalla nacque a Lione (Lugdunum) il 4 aprile del 188 d.C.; a 15 anni, nel 203, sposò Plautilla, la figlia del prefetto del Pretorio Plauziano, il

consigliere favorito del padre Settimio Severo. Il matrimonio non fu però tra i piú felici, tanto che Plautilla fu dapprima relegata nell’isola di Lipari e poi fatta sopprimere dal marito, che nel 205 uccise anche, e con le proprie mani, Plauziano, una delle persone che odiava di piú, insieme al fratello Geta. Nel 211 Settimio Severo morí improvvisamente a Eboracum (forse con la complicità piú o meno diretta di Caracalla), pertanto Giulia Domna e i suoi due figli tornarono a Roma per tenere le sorti dell’impero. L’odio tra i fratelli era però incolmabile, tanto che, come narra Erodiano, il palazzo imperiale sul Palatino fu diviso in due parti per evitare che si incontrassero. Anche l’impero venne diviso in due, e Caracalla tenne la parte occidentale, mentre Geta


quella orientale. Il 26 dicembre 211 Caracalla uccise, tra le braccia della madre, il fratello Geta e, dopo essersi presentato in Senato dicendo di essere scampato a un attentato tramato da quest’ultimo, venne acclamato come unico e legittimo imperatore. Per ottenere il piú largo consenso, egli concesse aumenti di stipendio all’esercito e lauti donativi al popolo romano. Come si nota dai molti ritratti, e come sottolineato dalle fonti storiche (Aurelio Vittore, Historia Augusta), per affermare il suo potere assoluto si immedesimò con Alessandro Magno, al punto da assumerne la stessa espressione, con la testa reclinata verso destra e lo sguardo corrucciato. Dopo aver eliminato tutti quelli che avevano parteggiato per Geta (le fonti parlano di 20 000 vittime), il nuovo imperatore si dedicò esclusivamente a favorire l’esercito, demandando alla madre Giulia Domna l’amministrazione dell’impero. Le spese militari sempre piú elevate (giustificate dall’esigenza di fronteggiare le pressioni dei barbari sul confine renanodanubiano e su quello orientale), portarono ad aumentare le tasse sulla popolazione. Una soluzione al tracollo finanziario fu quella di allargare a tutta la cittadinanza il gettito fiscale; pertanto, nel 212 o 213 d.C., Caracalla emanò uno dei provvedimenti piú importanti dello Stato romano, la Constitutio Antoniniana, con la

quale si concedeva la cittadinanza romana a tutti coloro che abitavano entro i confini dell’impero, salvo alcune categorie (come i «dediticii», cioè «coloro che si sono arresi», intesi secondo alcuni studiosi come i barbari sottomessi o, secondo altri, come i contadini e le classi piú povere). Caracalla compí durante il suo principato numerose campagne militari in Gallia, Germania (contro i Catti e gli Alemandi), in Tracia e in Asia Minore contro i Parti. Un altro importante provvedimento di Caracalla fu l’introduzione dell’antoninianus, una moneta d’argento che conteneva la stessa quantità di metallo del denarius, ma che aveva il valore di una volta e mezzo quest’ultimo; questo provvedimento fu adottato per combattere la svalutazione e ridare stabilità al sistema monetario. Sebbene Caracalla sia stato dunque descritto dagli storici suoi contemporanei (per esempio Cassio Dione) come un folle e sanguinario, egli attuò nel suo breve regno riforme e provvedimenti di estrema importanza storica, realizzò opere pubbliche e aumentò le distribuzioni gratuite di olio, carne, vino al popolo di Roma. Caracalla fu ucciso a pugnalate da un soldato per ordine del prefetto del pretorio Macrino (che si fece proclamare imperatore dai militari, nel 217), durante il viaggio tra Edessa e Carre, dove era diretto per visitare il tempio del dio Luno.

A destra: ritratto dell’imperatore Caracalla, da una villa signorile del suburbio di Roma, al km 11,5 della via Cassia. 212-215 d.C. circa. Roma, Museo Nazionale Romano. Nella pagina accanto: ricostruzione grafica di una delle due biblioteche situate alle estremità del lato meridionale delle terme.

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SPECIALE • TERME DI CARACALLA

tuita da un’abside nel corso del restauro effettuato da Costantino, ricordato da un’iscrizione ora collocata nei sotterranei. Al di sotto del calidarium si trovavano i forni (50 circa, di cui 24 conservati) e le caldaie per il riscaldamento dell’acqua. In questo grande ambiente si IL CORPO CENTRALE La parte principale delle terme è costituita deve riconoscere la cella soliaris citata nell’Hida un rettangolo di 220 x 114 m, da cui storia Augusta (raccolta di biografie degli imsporgono solo il calidarium a pianta circolare, e le due esedre laterali delle palestre. Gli ambienti termali veri e propri si dispongono su un asse centrale: partendo da sud, si ha in successione il calidarium, il tepidarium, il frigidarium, e la natatio, la grande piscina scoperta. Ai lati di questo asse si dispongono altri ambienti, raddoppiati e simmetrici: i laconica (saune), le due grandi palestre, gli apodyteria (spogliatoi) e i vestibula, gli atri che danno sugli ingressi del lato nord. Il calidarium è un grande ambiente circolare, coperto da una volta a cupola molto simile a quella del Pantheon, di 35 m di diametro, sorretta da pilastri. L’alzato era disposto su una doppia serie di archi, tra cui si aprivano grandi finestre che sfruttavano l’irraggiamento solare per tutto il corso della giornata. Tra i pilastri erano sette vasche per i bagni di acqua calda, sei delle quali ancora visibili, mentre la settima, nel lato sud, fu probabilmente sostiqua. Lo spazio compreso tra l’edificio centrale e il recinto era occupato da un’ampia area a giardino con aiuole, boschetti, viali dove poter passeggiare.

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A sinistra: ricostruzione virtuale del frigidarium, la monumentale vasca per i bagni in acqua fredda, che era il vero fulcro delle terme. In primo piano, la vascafontana circolare in porfido, con anse a forma di serpenti e mascheroni con teste di divinità (il cui originale si trova oggi al MANN). A destra: pianta a volo d’uccello del complesso termale. In basso: un altro confronto fra la ricostruzione virtuale e le odierne condizioni del frigidarium.


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LE TERME DI CARACALLA 1. Ingressi e tabernae 2. Spogliatoi 3. Natatio 4. Palestre 5. Saune 6. Calidarium 7. Tepidarium

8. Frigidarium 9. Giardino 10. Portico 11. Biblioteche 12. Sale per riunioni 13. Latrine 14. Cisterne

peratori), descritta come una grande cupola ricoperta da una volta in bronzo. Dal calidarium, attraverso il tepidarium (ambiente per i bagni di acqua tiepida), di minori dimensioni per non disperdere il calore, si passa al grande frigidarium, il vero fulcro di tutto il complesso. Si tratta di un grande ambiente alto 50 m, coperto da tre volte a crociera, sorrette da otto grandi colonne di granito addossate alle pareti, e con murature retrostanti che fungevano da contrafforti, mettendo in comunicazione tra loro gli ambienti vicini; sul lato nord si aprivano tre grandi arconi finestrati, che prospettavano sulla parete a nicchie della natatio. Nei lati lunghi erano quattro vasche in muratura per il bagno di acqua fredda; quelle sul lato sud comunicavano con il tepidarium, mentre quelle sul lato nord erano collegate, tramite una cascata d’acqua, direttamente con la piscina scoperta. a r c h e o 85


SPECIALE • TERME DI CARACALLA

Al centro, tra quest’ultime, era alloggiata (ne rimane la traccia) una vasca-fontana circolare in porfido con anse a forma di serpenti e mascheroni con teste di divinità, ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. La parte centrale del frigidarium, definita anche «basilica», e che ha influenzato architettonicamente le successive terme di Diocleziano e la basilica di Massenzio (ma anche, nell’Ottocento, la stazione ferroviaria di Chicago e la Pennsylvania Station di New York!), serviva come luogo di smistamento dei numerosi visitatori, che da qui potevano raggiungere i vari ambienti del complesso, recandosi nelle palestre, negli ambienti per il bagno caldo o nella grande piscina scoperta, seguendo vari percorsi secondo le proprie esigenze. Nei lati brevi del frigidarium erano le due grandi vasche di granito, ora collocate in piazza Farnese, e le due statue di Ercole, quello Farnese firmato da Glykon ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, e quello «latino», conservato alla Reggia di Caserta. 86 a r c h e o

La piscina fredda (natatio), probabilmente l’unico ambiente scoperto dell’intero complesso, presentava, sul lato nord, la parete interna divisa in tre parti da grandi colonne di granito grigio; ogni parte era scandita da sei nicchie divise da colonne piú piccole, disposte su due livelli articolati in due ordini, entro le quali erano collocate statue. Questo tipo architettonico, che si ritrova nelle scaenae frontes dei teatri e nel vicino Septizodium, caratterizzato da elementi stilistici asiatici, rientra appieno in quella che è stata definita «architettura barocca severiana».

MENS SANA IN CORPORE SANO Passando agli ambienti laterali delle terme, dal calidarium si giungeva ai locali per il bagno di sudore (laconica o sudationes), dotati probabilmente di una grande apertura verso il giardino e di ampie finestre a vetri per l’irraggiamento solare. Sui due lati brevi, a est e a ovest, si dispongono poi i grandi ambienti identifi(segue a p. 93)

In alto: un’altra immagine di uno degli apodyteria (spogliatoi) delle terme, con il pavimento a mosaico a motivi geometrici bianchi e neri.


QUEL CULTO VENUTO DALL’ORIENTE...

A destra: il mitreo delle Terme di Caracalla, il piú grande fra quelli esistenti a Roma. L’importanza del luogo di culto nasce anche dal suo eccellente stato di conservazione, che permette di riconoscere tutti gli elementi funzionali alla celebrazione del rito in onore di Mitra, dio di origine iranica, che culminava con il sacrificio di un toro.

Il mitreo delle Terme di Caracalla, il piú grande di Roma e il secondo di tutto l’impero (il primo si trova a Sarmizegetusa in Romania), fu scoperto negli scavi del 1912, al di sotto degli ambienti del recinto ovest. Fu realizzato all’indomani dell’inaugurazione delle terme, e, pur trovandosi negli ambienti sotterranei, era probabilmente destinato non solo al personale di servizio, ma anche ai frequentatori delle terme. Consta di cinque ambienti, accessibili per uno scalone che dal piano superiore porta alla galleria laterale di questo lato. Il primo ambiente, sotto lo scalone, interpretabile come vestibolo, presenta su un lato una fontana semicircolare coperta a cupola. Da qui, attraverso una piccola porta, si accede ad altri due ambienti, nel secondo dei quali fu rinvenuta una statua di Afrodite Anadiomene, divinità connessa al culto solare. Da questo atrio si accede al mitreo vero e proprio, costituito da un vano lungo e stretto con sei pilastri che sorreggono la volta. Sui due lati lunghi sono le banchine inclinate verso le pareti, dove prendevano posto gli adepti al culto; il pavimento è a mosaico bianco con una doppia fascia nera. Al centro, subito dopo la porta di accesso, è interrata una grande olla in terracotta coperta da una lastra di marmo, dove erano conservate le spighe di grano. Nella parete del lato ovest, all’interno di una nicchia, un affresco ritrae una figura che indossa un berretto frigio e tiene nella mano sinistra un disco solare (Mitra o dadoforo). Ma la caratteristica piú importante del mitreo di Caracalla è la presenza, al centro della navata, di una profonda fossa rettangolare, messa in comunicazione – attraverso uno stretto passaggio e delle scale – con un ambiente situato tra due piccole latrine; da qui, attraverso una porta, si arriva alla stanza interpretata come stalla per il toro (apparatorium), data la presenza di una banchina sul muro di fondo; qui si trova anche una piccola vasca per le abluzioni legate al culto. La fossa al centro del mitreo costituisce un unicum per questo tipo di edifici dedicati a Mitra. Si tratta della fossa sanguinis, dove veniva versato sul sacerdote

o sugli iniziati il sangue del toro sacrificato durante la cerimonia in onore di Mitra (taurobolium). Tale rito cruento si pensava fosse proprio di un altro culto orientale, quello di Attis e della Magna Mater, ma evidentemente si deve ritenere che si praticasse anche in ambito mitraico. Che questo ambiente fosse proprio un mitreo è infatti confermato dal ritrovamento, in frammenti, del gruppo scultoreo di Mitra che uccide il toro; inoltre, un rozzo altare marmoreo su cui è inciso un serpente tra le rocce (petra genetrix) e due iscrizioni greche su cippi dedicate a Mitra, rinvenute negli scavi, non lasciano dubbi a tal proposito; in una di queste era precedentemente inciso il nome del dio egizio Serapide, poi cancellato. Nella parete di fondo, dove era probabilmente il gruppo di Mitra tauroctono, vi sono, al centro, l’altare, e, ai lati, le nicchie che forse accoglievano le statue di Cautes e Cautopates, i due geni che sorreggono le fiaccole in alto e in basso.

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L’APPARATO DECORATIVO E LA COLLEZIONE FARNESE

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utti gli ambienti delle Terme di Caracalla erano riccamente ornati da pavimenti a mosaico e in opus sectile, da colonne in porfido e granito (una di quelle presenti nella natatio si trova dal 1563 in piazza Santa Trinita a Firenze, portata da Cosimo de’ Medici), da capitelli con figure di divinità, da rivestimenti parietali di marmi pregiati, da stucchi e da un numero infinito di statue in bronzo e marmo, tanto che lo scrittore Elio Sparziano (uno degli autori della Historia Augusta) definí le Thermae Antoninianae «eximias 88 a r c h e o

et magnificentissimas». Si può anche pensare che Caracalla, con questo imponente complesso, abbia voluto in qualche modo realizzare un altro «foro imperiale» legato alla dinastia dei Severi, che a Roma infatti è assente. Il programma decorativo prevedeva statue di divinità, personificazioni, ritratti dell’imperatore e di rappresentanti della famiglia imperiale, mentre scarse sembrano essere state le immagini di filosofi, poeti e letterati. I pavimenti del corpo centrale (calidarium, tepidarium e

frigidarium) erano rivestiti in opus sectile con marmi colorati, di cui restano pochissime tracce, mentre gli altri ambienti erano a mosaico. In particolare quelli delle palestre e degli ambienti a esse connesse, e dei vestiboli presentano una decorazione con tessere di marmi colorati in porfido, serpentino e giallo antico con motivi geometrici (dischi inscritti entro quadrati delimitati da fasce con girali d’acanto, motivi curvilinei a pelte), mentre quelli degli spogliatoi sono a tessere bianche e nere con vari


In alto: ricostruzione del frigidarium. Nel riquadro, alle spalle delle due statue di Ercole, si vede la palestra orientale, con il Toro Farnese. Qui accanto: il gruppo scultoreo noto come Toro Farnese e raffigurante il supplizio di Dirce, mitica moglie del re di Beozia, che venne legata a un toro inferocito da Anfione e Zeto come punizione per le angherie da lei inflitte alla loro madre, Antiope, dalla palestra orientale delle terme. II-III sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: una veduta della palestra orientale.

motivi geometrici. Dalle due esedre delle palestre provengono i mosaici, ora in gran parte esposti nei Musei Vaticani, uno dei complessi musivi piĂş grandi rinvenuti a Roma, con figure di atleti entro pannelli delimitati da una cornice a treccia. Si distinguono tre tipi di figure: busti di atleti a dimensioni maggiori del vero entro quadrati; figure intere di atleti (vincitori con corona e ramo di palma, pugili, a r c h e o 89


SPECIALE • TERME DI CARACALLA

Sulle due pagine: fronte e retro dell’Ercole Farnese, opera dello scultore Glykon, collocata in origine nel frigidarium delle terme insieme a un’altra statua dell’eroe (ora alla Reggia di Caserta). III sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

lottatori, discoboli e lanciatori di giavellotto) e giudici di gara entro rettangoli, oltre ad attrezzi ginnici e premi delle gare atletiche. Secondo studi recenti, tale pavimentazione musiva, vero e proprio repertorio delle specialità atletiche dell’antichità, è da attribuire ai lavori di completamento delle terme realizzati da Alessandro Severo, tra l’altro grande sostenitore dei giochi atletici. Le terrazze superiori delle palestre erano invece ornate da pavimenti a mosaico in bianco e nero, con thiasos marino con nereidi, tritoni, delfini, eroti e mostri d’acqua, di cui alcuni lacerti sono ora appoggiati alle pareti delle palestre dopo il crollo del piano superiore. Mosaici in pasta vitrea erano inoltre presenti nella natatio e nel frigidarium, creando con il riflesso dell’acqua un effetto iridescente. Molte erano le statue in marmo presenti nelle nicchie (un recente studio ne enumera circa 150) e su basi poste nei pavimenti dei vari ambienti delle terme e del recinto esterno, in gran parte cotte nelle calcare per ricavarne calce durante il Medioevo. Gli scavi effettuati «all’Antoniana» nel 1545-1547 da papa Paolo III Farnese per decorare il suo palazzo in Campo de’ Fiori, restituirono numerose opere d’arte, che, in seguito, riempirono i magazzini del palazzo, dando origine alla Collezione Farnese. 90 a r c h e o


Andata in dote all’ultima rappresentante della famiglia, Elisabetta, moglie del re di Spagna Filippo V, gran parte della collezione passò a suo figlio Carlo III di Borbone, re di Napoli, che nel 1788 fece trasferire i pezzi piú importanti nella città partenopea. Tra questi, il famoso gruppo realizzato in un unico blocco marmoreo, noto come «Toro Farnese», in origine collocato probabilmente nella palestra orientale; le due statue colossali di Ercole, quella firmata dallo scultore ateniese del III secolo d.C. Glykon, ora al MANN (l’«Ercole Farnese», definita in un inventario del 1796 «Una scultura di tal sublimità che si reputa per la prima statua del mondo»), e quello detto «latino» ora alla Reggia di Caserta, entrambe collocate in origine nel frigidarium. Da qui proviene anche un capitello figurato con Ercole a riposo (ora nei sotterranei), a riprova di quanto l’eroe fosse amato dai Severi. Della Collezione Farnese, facevano parte anche la Nike in bigio morato, la statua di Atena, il gruppo di Neottolemo e Astianatte (o Achille e Troilo), e il cosiddetto Gladiatore, tutti esposti al MANN. Non sembrano invece provenire dalle terme le statue di Flora e Pomona, come erroneamente si è ritenuto in passato. Altre opere furono rinvenute successivamente nelle terme, tra cui il gruppo di Atreo e Tieste, statue di Venere, Minerva, busti con ritratti della famiglia imperiale; dal frigidarium provengono inoltre la vasca in porfido (ora al MANN), e i due bacini di granito, riutilizzati da Rainaldi per le fontane di piazza Farnese. Una delle ultime statue recuperate è l’Artemide, rinvenuta nel 1996 nei sotterranei e ora esposta al Museo Nazionale Romano. a r c h e o 91


SPECIALE • TERME DI CARACALLA

BREVE STORIA DELLE TERME IN CIFRE E DATE • 16 000-20 000 metri cubi al giorno d’acqua. • 3,5 km di tubazioni in piombo. • 50 forni per il riscaldamento degli ambienti e dell’acqua. • 10 tonnellate di legna al giorno. • 2000 tonnellate di legna immagazzinata. • 7 mesi di autonomia. • 10 000 gli ingressi giornalieri. • 216 d.C. anno dell’inaugurazione da parte di Marco Aurelio Antonino Bassiano detto Caracalla, figlio di Settimio Severo. • 235 d.C. anno in cui il complesso fu probabilmente ultimato. Eliogabalo e Severo Alessandro, infatti, completarono le Terme con porticati e alcune decorazioni. Costantino modificò il calidarium con l’inserimento di un’abside. Lo attesta un’iscrizione tuttora conservata nei sotterranei. • 37 metri l’altezza misurabile in piú punti del complesso. • 337 x 328 metri circa la superficie delle terme, alimentate da una derivazione – fatta costruire da Caracalla nel 212 d.C. – dell’Acqua Marcia, arricchita dalla captazione di nuove sorgenti, e che prese il nome di Aqua Nova Antoniniana. • 5 livelli: 2 piani in alzato e 3 in sotterraneo. • 18 cisterne fornivano tutte le utenze dell’edificio, vasche e fontane. • 50 forni consumavano 10 tonnellate al giorno di legname per il riscaldamento e la cottura del pane. • 9000 operai al giorno per 5 anni circa: la forza lavoro per la costruzione dell’edificio. • 9 milioni di laterizi usati per la costruzione. • 252 colonne: il numero stimato, di cui 16 alte piú di 12 metri.

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• 156 nicchie per statue. • 537 d.C. anno dell’abbandono delle terme, dopo il taglio degli acquedotti, all’indomani dell’assedio di Vitige, re dei Goti. • XII secolo già da questo periodo le terme si trasformano in cava di materiali destinati a essere reimpiegati per la decorazione di chiese e palazzi. In particolar modo sotto papa Paolo III Farnese, nel 1545-1547, avvenne la spoliazione delle sculture che finirono a decorare il suo nuovo palazzo. Un esempio per tutti il Toro Farnese, oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Nel tempo l’area fu sicuramente adibita a vigne e orti. • 1824 cominciano gli scavi sistematici che continuano per tutto il secolo, fino ai primi del Novecento quando, indagato il corpo centrale, si passò all’esplorazione del corpo perimetrale e di parte dei sotterranei. • 1993 ultima stagione lirica estiva

all’interno del calidarium, dopo un’occupazione risalente al 1938. Nel 2001 riprende la stagione estiva dell’Opera, con un palcoscenico rimovibile. • 1996 ultimo ritrovamento di statuaria. Una statua acefala di Artemide. • 2012 le Terme di Caracalla si aprono all’arte contemporanea. Michelangelo Pistoletto esegue e dona alla Soprintendenza il Terzo Paradiso, con reperti delle Terme stesse. Nel 2016 realizza la Mela Reintegrata, in marmo di Carrara, collocata al centro dell’antico posto di guardia per il custodecontrollore del traffico di carri, legname e uomini impegnati a mandare avanti la complessa macchina delle Terme. • 2017 prima mostra di arte contemporanea: il 19 ottobre inaugurazione di Molti, una mostra di Antonio Biasiucci curata da Ludovico Pratesi nella suggestiva cornice dei sotterranei della Terme.


cati come palestre, tra i piú vasti del complesso, con pavimento a mosaico policromo e portico colonnato, disposto su due livelli con terrazze al piano superiore. Nella palestra est era collocato il famoso gruppo marmoreo del supplizio di Dirce, conosciuto come Toro Farnese (ora, come già ricordato, al Museo Archeologico Nazionale di Napoli). Gli spogliatoi, ai lati della piscina scoperta, erano quattro, disposti due a due e preceduti da un grande ambiente coperto da volta a crociera, che comunicava con la natatio. Erano disposti su due piani (rimangono tracce delle scale che conducevano al piano superiore),

Nella pagina accanto: Il Tepidarium, «sala in cui le donne di Pompei si fermavano per riposare e asciugarsi uscendo dal bagno», olio su tela di Théodore Chassériau. 1853. Parigi, Musée d’Orsay.

con pavimento a mosaico a motivi geometrici di tessere bianche e nere; erano arredati sulle pareti con ripiani o armadi in legno per riporvi i vestiti, e al centro da panche. Delle due biblioteche situate nel lato meridionale del recinto del complesso, si conserva soltanto quella nel lato sud-ovest; consta di un grande ambiente rettangolare (38 x 22 m), con tre pareti dove erano disposte 32 nicchie su due piani, che contenevano gli armadi di legno dove erano conservati i libri. Nella nicchia centrale, piú grande, del lato sud era probabilmente collocata una statua di Atena. Il pavimento in opus sectile presen-

I QUARTIERI DI AUGUSTO Augusto dispose una nuova suddivisione di Roma in quattordici regioni. Queste grandi circoscrizioni erano a loro volta organizzate in vici, i cui nomi indicavano allo stesso tempo i quartieri VII e la relativa strada principale.

I. Porta Capena II. Caelimontium III. Isis et Serapis IV. Templum Pacis V. Esquiliae VI. Alta Semita VII. Via Lata VIII. Forum Romanum IX. Circus Flaminius X. Palatium XI. Circus Maximus XII. Piscina Publica XIII. Aventinus XIV. Transtiberim

VI

IX

VIII

V IV

III XIV

X II

XI I

XII XIII

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SPECIALE • TERME DI CARACALLA A sinistra: ricostruzione virtuale in 3D della natatio, alle cui spalle si riconosce il frigidarium. In basso: ricostruzione virtuale in 3D della parete interna del lato nord della natatio. Divisa in tre parti da grandi colonne, presentava, in ogni parte, nicchie scandite da colonne piú piccole, entro le quali erano collocate varie statue. Nella pagina accanto: la natatio vista dal frigidarium.

tava un motivo a quadrati e rettangoli con dischi inscritti. Tutt’intorno alle nicchie correva una banchina in muratura, dove potevano essere consultati i volumi.

NELLE VISCERE DEL MONUMENTO Sia sotto l’edificio centrale che sotto il giardino e il recinto esterno delle terme, è nascosta una fitta rete di gallerie e cunicoli, che corrono a quote diverse e spesso si intrecciano e si sovrappongono tra loro. Questo complesso sistema di ipogei serviva a svolgere varie funzioni legate alle attività termali; era chiuso al pubblico e frequentato solo dal personale di servizio. In base alle caratteristiche 94 a r c h e o

strutturali si possono distinguere quattro categorie corrispondenti alle funzioni che gli ambienti ipogei dovevano svolgere: ambienti di servizio, di passaggio e di deposito, molto ampi in altezza e larghezza (6 m) per permettere il passaggio dei carri carichi di legna necessaria per i forni; gallerie e ambienti connessi con l’impianto termico di riscaldamento; gallerie e cunicoli per la gestione e manutenzione dell’impianto idraulico e condotti dove erano alloggiate le tubazioni per l’adduzione e la distribuzione dell’acqua; infine, tutte le strutture adibite allo smaltimento delle acque reflue e quelle piovane. Nei sotterranei si aprivano inoltre numerosi (segue a p. 98)


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SEMPLIFICARE, MA NON BANALIZZARE Incontro con Marina Piranomonte Un progetto promosso dalla Soprintendenza Speciale di Roma e da CoopCulture, con la collaborazione del CNR, permette di tornare indietro nel tempo e immergersi negli ambienti delle Terme di Caracalla, primo sito archeologico italiano interamente fruibile in 3D. Grazie a speciali visori e un sistema di georeferenziazione, il visitatore, attraverso un percorso in 10 tappe (di cui 6 in

realtà virtuale), potrà «vedere» le terme come erano nel 216 d.C. e come sono oggi, con un confronto continuo tra realtà fisica e realtà virtuale, con una visione che copre tutto lo spazio visivo. Ne abbiamo parlato con la direttrice del monumento, la professoressa Marina Piranomonte, curatrice scientifica del progetto.

◆ Come nasce il progetto Caracalla IV

opere come il Toro Farnese. Poi con i dati ottenuti attraverso l’uso di mezzi come il laser scanner o i droni per le riprese dall’alto. Tutto questo messo insieme ha portato, già una decina d’anni fa, ad alcune novità; la principale riguarda la scoperta che le Terme di Caracalla sono un edificio di tipo asiatico, essendo basato su misure asiatiche e non romane. Non conosciamo il nome dell’architetto, ma sappiamo che è stato usato come unità di misura il piede asiatico (27,8 cm circa, n.d.r.). D’altra parte, la famiglia di Caracalla, per parte di madre, era siriana. Anche le statue presenti nelle terme sono rese in misure asiatiche. Lo stesso monumento, che ora si presenta come un nudo scheletro in laterizio, in origine era rivestito di marmi colorati, con un gusto scenografico che si ritrova sempre in ambito asiatico: la biblioteca è uguale a quella di Celso a Efeso, la natatio è molto simile a un ninfeo e a una frons scaenae ellenistica; quindi il gusto del monumento è molto orientale e barocco, scenografico, ecco perché parliamo di «barocco severiano».

Dimensione? Soprattutto dal desiderio di dare un’informazione piú moderna e al passo con i tempi rispetto alle normali visite guidate. Anche perché le Terme di Caracalla sono un monumento che ben si presta a essere illustrato con le nuove tecnologie essendo ben conosciuto e documentato. È facile, insomma, realizzarne le ricostruzioni.

◆ Queste ricostruzioni si basano su studi recenti. Ci

può riassumere come si è proceduto e quali sono le novità piú importanti emerse dalle ultime ricerche? Gli studi da me condotti sul monumento in trent’anni di attività mi hanno permesso di conoscerlo come nessun altro. Abbiamo proceduto innanzitutto raccogliendo tutti i dati storici e d’archivio e le grandi ricostruzioni dell’edificio ottocentesche e anche precedenti, tra cui un disegno del cosiddetto «Anonimo di Destailleur», e utilizzando le fonti relative agli scavi di papa Paolo III Farnese, in cui vengono descritte le scoperte di famose

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Sulle due pagine: un’altra veduta della natatio. In basso, nel riquadro: il rilievo della facciata settentrionale della stessa natatio, affiancato alla ricostruzione grafica della struttura.

◆ Uno degli aspetti piú importanti del progetto

è la possibilità di vedere ricontestualizzate alcune opere che ora si trovano in altri musei. In questo senso avete collaborato con l’Archeologico Nazionale di Napoli... Proprio cosí. Il direttore del MANN, Paolo Giulierini, è stato estremamente collaborativo. A Napoli ci sono le statue, a Roma c’è il contenitore, e solo in maniera virtuale si potevano ricontestualizzare e mettere insieme. Ricollocando virtualmente le statue nel frigidarium o nella palestra, si è realizzata un’operazione culturale di altissimo livello. Non è facile per le persone comprendere, entrando in una sala vuota, come fosse in realtà; noi abbiamo ricostruito gli ambienti con rigore scientifico. Dai testi cinquecenteschi sappiamo esattamente dove le statue si trovavano; tutta questa serie di osservazioni è confluita nel progetto 3D, che permette di vedere veramente le Terme di Caracalla come dovevano essere nell’antichità.

◆ Avete in cantiere altre ricostruzioni? Il progetto dovrebbe continuare con la ricostruzione dei sotterranei, per far capire come funzionavano. I sotterranei sono il vero cuore delle terme. Sarebbe molto bello far vedere gli operai al lavoro, il fuoco, i fumi (nei sotterranei doveva fare un caldo terribile). Prevediamo poi la ricostruzione del calidarium e di tutto il sistema dei forni, dell’acqua e del calore. ◆ Sono previsti nuovi scavi e restauri alle Terme di

Caracalla? Stiamo procedendo a due grandi cantieri di restauro,

quello del fronte delle tabernae sulla Passeggiata Archeologica, con il restauro delle arcate dell’ingresso delle terme; all’interno stiamo invece procedendo al restauro dei sotterranei, nella speranza di poterli aprire tutti al pubblico con un percorso dedicato.

◆ Un messaggio ai nostri lettori? È necessario, direi essenziale, portare alle persone le nostre conoscenze, bisogna trasmettere una informazione corretta, è importante che gli studi che ho fatto siano accessibili a tutti. Secondo me questa è una forma di vera democrazia culturale; abbiamo dato un mezzo in piú con ricostruzioni scientifiche ineccepibili e corrette. La cultura deve avere questa funzione, deve arricchire, insegnare, deve semplificare ma non banalizzare. Penso che questo è il messaggio che viene dal progetto 3D: c’è conoscenza, c’è onestà intellettuale, c’è un discorso semplificato che può essere chiaro per tutti. E speriamo che cosí venga recepito.

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SPECIALE • TERME DI CARACALLA

lucernai, che servivano per assicurare il passaggio dell’aria in modo che il legname accatastato non marcisse. Si è calcolato che ogni giorno venissero consumate 10 tonnellate di legna, e che i magazzini ne potessero contenere 2000 tonnellate, garantendo un’autonomia di 7 mesi. Oltre a questi ambienti, negli scavi effettuati nei sotterranei nel 1912 fu scoperto un mitreo e, in un ambiente adiacente, un mulino ad acqua con frammenti di ruote di macina, considerato da Guglielmo Gatti di epoca medievale, ma probabilmente riferibile al momento in cui vennero costruite le terme. Bruciato intorno alla metà del III secolo, fu ricostruito con alcune modifiche.

ALLA RICERCA DEL CONSENSO I Cataloghi Regionari (elenchi dei monumenti e degli edifici situati nelle 14 regioni della città) ci informano che a Roma, nel IV secolo d.C., vi erano tra 856 e 942/957 balnea. Queste cifre ci danno un’idea dell’importanza primaria che questi luoghi rivestivano nella vita quotidiana dei Romani. Le terme venivano spesso costruite da privati, magistra98 a r c h e o

ti, notabili, senatori, che le offrivano al popolo per conquistarsi fama, prestigio e favorire la loro carriera politica. Agrippa, durante la sua carica di edile (33 a.C.), censí ben 170 bagni pubblici in vari luoghi di Roma, assumendosi l’onere dell’ingresso, che dunque era per il popolo gratuito. Successivamente, tra il 25 e il 19 a.C., da privato, realizzò le grandi terme che da lui presero nome, nella zona del Campo Marzio, dove l’accesso era gratuito in perpetuo. In epoca imperiale, furono gli imperatori a realizzare grandi terme, sempre accessibili gratuitamente. Nel caso di terme e bagni privati invece, l’ingresso era comunque a modico prezzo. La gestione delle terme, sia che fossero di proprietà dello Stato, dell’imperatore o di privati, poteva essere diretta o appaltata a un amministratore (conductor), che pagava una somma al proprietario e riscuoteva la tariffa di accesso e le rendite delle botteghe e degli appartamenti che si trovavano nello stesso fabbricato. Nelle terme lavorava numeroso personale specializzato secondo le varie attività che vi si svolgevano: i capsarii (guardarobieri), i fornacia-

In alto: una delle strutture superstiti delle grandiose Terme di Traiano, sul Colle Oppio. Il complesso venne realizzato, tra il 104 e il 109 d.C., dallo stesso architetto del Foro di Traiano, Apollodoro di Damasco.


rii (addetti al riscaldamento), l’unctor (addetto ai massaggi e alle unzioni), l’alipilus (addetto alla depilazione). Seneca, che abitava in un appartamento sopra un impianto balneare, ci offre un’immagine vivace delle attività che si svolgevano in questi ambienti. Il filosofo, in una famosa lettera (Ad Lucilium, 56), si lamenta con il suo amico Lucilio, per il continuo schiamazzo: «Abito proprio sopra uno stabilimento balneare. Immaginati ogni sorta di clamore che mi risuona attorno; quando i campioni si allenano a sollevare i manubri di piombo, e si affaticano o fingono di affaticarsi, li sento gemere, e ogni volta che emettono il fiato trattenuto, sento i sibili del loro respiro affannato; quando qualcuno piú pigro si accontenta di una frizione, sento la mano che fa i massaggi sulle spalle, con un suono diverso secondo che si muova aperta o concava. Se poi sopraggiungono coloro che giocano a palla e cominciano a contare i punti fatti, è finita. Aggiungi l’attaccabrighe o il ladro colto sul fatto, o quello cui piace sentire la propria voce mentre fa il bagno; poi il fracasso di quelli che saltano nella piscina. Oltre a questi, le cui voci sono normali, pensa al depilatore che, per farsi notare, parla in falsetto e non sta mai zitto se non quando depila le ascelle e costringe un altro a urlare in sua vece. Infine c’è il venditore di bibite con le sue varie esclamazioni, il salsicciaio, il

pasticcere e tutti i garzoni delle bettole, ognuno dei quali per vendere la propria merce, ha una caratteristica inflessione della voce».

PER LE PUBBLICHE RELAZIONI Ai bagni si recavano giornalmente tutti, ricchi, poveri, liberti e schiavi (ma solo se alle dipendenze statali), uomini e donne, giovinetti, soldati, imperatori. I piú assidui anzi erano proprio i ricchi i quali, nonostante possedessero impianti termali privati nelle loro lussuose case, si recavano ai bagni pubblici, accompagnati da uno stuolo di inservienti, dove mantenevano pubbliche relazioni indispensabili per i loro affari e per la loro carriera. Qui spesso ricevevano anche i loro clientes, facendo dono di denaro o della sportula (una donazione in natura o in denaro, n.d.r.), come narra Marziale (I, LIX; X, LXX, 13). Alle terme, un po’ come accade oggi nelle piscine e nei centri sportivi, si poteva anche consumare un frugale pasto a base di uova, insalata e pesce (Marziale, XII, XIX). L’ingresso per gli uomini e le donne avveniva separatamente; nelle terme piú grandi gli ambienti erano infatti doppi, e le strutture rigidamente separate per i due sessi. Dove ciò non era possibile, gli ingressi avvenivano

A destra: una ricostruzione ipotetica delle Terme di Agrippa in una stampa del 1585. Milano, Castello Sforzesco, Civica Raccolta delle Stampe «Achille Bertarelli». Costruito nel Campo Marzio, quello voluto dal genero di Augusto fu il primo impianto pubblico del genere attivo a Roma.

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SPECIALE • TERME DI CARACALLA

in orari diversi; ma poteva accadere anche che uomini e donne frequentassero insieme le terme, con grande scandalo dei moralisti come Tertulliano, che definisce adulterae le donne che partecipavano a bagni promiscui (Institutio oratoria 5.9.14). Questo portò a una serie di divieti, a partire da Adriano che prese il provvedimento di separare i bagni secondo i sessi. Gli orari di apertura erano dalle 10,00-11,00 circa del mattino (hora V) al tramonto (hora XI-XII, circa le 18,00, secondo la stagione). Quando non era gratuito, l’ingresso era comunque alla portata di tutte le tasche; Orazio e Marziale parlano di 1 quadrante (un quarto di asse), la piú piccola moneta bronzea in circolazione nel I secolo d.C. (con 1 asse e mezzo si potevano acquistare 1 litro di vino e una pagnotta). Nell’editto dei prezzi di Diocleziano, si fissa la tariffa a due denari (anche questa la misura piú piccola di monete bronzee). È curioso notare che, mentre per i bambini, i soldati e i liberti l’ingresso era gratuito, le donne pagavano il doppio rispetto agli uomini (nella lex metalli Vipascensis di epoca adrianea si stabilisce mezzo asse per gli uomini e un asse per le donne).

UNA DELLE GIOIE DELLA VITA Sul funzionamento dei bagni pubblici, sia a Roma che nelle città minori, vigilavano gli edili che avevano anche il compito di controllare l’igiene e la temperatura, il rifornimento di acqua, i contratti di appalto, il comportamento dei frequentatori.Tale attività poi passò ai curatores thermarum. Le terme erano dunque il luogo preferito dai Romani per passare le loro giornate, secondo il noto principio mens sana in corpore sano enunciato da Giovenale (X, 356). Qui infatti, oltre ai bagni e agli esercizi fisici, si potevano coltivare relazioni sociali e si poteva accrescere la propria cultura, partecipando a conferenze, letture poetiche e concerti musicali, che avvenivano in apposite sale (auditoria) decorate da pregiate sculture. Infine, nelle grandi terme imperiali erano presenti anche fornite biblioteche, dove poter leggere i testi dei piú famosi poeti e scrittori greci e latini, spesso ritratti sugli armadi che contenevano le loro opere. Insomma, andare alle terme era per i Romani una delle gioie della vita, paragonabile solo al vino e all’amore, come riporta una famosa iscrizione: «Balnea vina Venus corrum100 a r c h e o

punt corpora nostra sed vitam faciunt!», ossia: «Le terme, il vino e l’amore corrompono i nostri corpi, ma sono il sale della vita!».

IL PRIMO FU AGRIPPA Il primo grande complesso termale pubblico a Roma si deve ad Agrippa, il quale, tra il 25 e il 19 a.C., costruí le terme alle spalle del Pantheon, alimentate dall’acquedotto dell’Acqua Vergine. La pianta dell’edificio, nota dalla Forma Urbis, è ancora di tipo repubblicano, con gli ambienti disposti intorno a una sala circolare senza un ordine particolare. Successivamente, sempre nell’area del Campo Marzio, vennero realizzate da Nerone nel 62 d.C. le prime grandi terme imperiali (chiamate poi Alexandrinae dopo gli interventi di restauro del 227 di Alessandro Severo), dove già compare lo schema tipico con gli ambienti principali (calidarium, tepidarium e frigidarium) disposti su un asse centrale trasversale, e gli altri ambienti duplicati disposti simmetricamente su un asse longitudinale rispetto al primo. Sul Colle Oppio, al posto della Domus Aurea neroniana, sorsero le Terme di Tito, inaugurate nell’80 d.C. insieme al Colosseo. Gli imperatori flavi realizzarono anche le terme della residenza imperiale sul Palatino. Vicino a quelle di Tito,Traiano realizzò, sempre sul Colle Oppio, le terme piú grandi allora esistenti a Roma, inaugurate nel 110 d.C. Progettate probabilmente da Apollodoro di Damasco, le Terme Traiane, alimentate dall’Acquedotto dell’Aqua Traiana e dalla grande cisterna delle Sette Sale, presentano lo schema che sarà poi imitato in tutte le grandi terme imperiali, con un edificio centrale per le attività termali e sportive, circondato da un’area aperta adibita a verde, e delimitata su tutti i lati da portici, grandi esedre e ambienti dedicati ad attività culturali e ricreative. L’orientamento N-E/S-O permetteva di sfruttare tutto il giorno il calore del sole; tale disposizione e orientamento degli ambienti sarà ripreso nelle successive Terme di Caracalla e di Diocleziano. Altre terme minori furono costruite sull’Aventino (Thermae Surae, dedicate da Traiano all’amico Licinio Sura, e successivamente le Thermae Decianae costruite dall’imperatore Decio), e sul Celio (Thermae Eleniane costruite in età severiana e poi restaurate da Elena madre di Costantino). Ma le terme piú grandi e popolari furono quelle realizzate da Diocle-

Le terme di Bath (Aquae Sulis), nell’odierno Somerset (Inghilterra), le piú grandi dell’Europa occidentale.


ziano tra il 298 e il 306 nella zona compresa tra Quirinale, Viminale e Esquilino, vicino ai Castra Praetoria. L’ultimo impianto termale realizzato a Roma si deve a Costantino, il quale, probabilmente dopo il 315 d.C., edificò sul Quirinale un piccolo complesso destinato ai ceti abbienti che abitavano nella zona. Da qui provengono, tra l’altro, le statue dei Dioscuri collocate da Sisto V in piazza del Quirinale, e le statue dei Fiumi ora sotto la scalinata di Palazzo Senatorio in Campidoglio.

DALL’URBE A TUTTO L’IMPERO Oltre che a Roma, impianti termali sono diffusi in tutto l’impero, a dimostrazione di quanto tali edifici rappresentassero una delle principali caratteristiche del modo di vivere proprio della cultura romana. A Ostia le terme principali vennero realizzate tra la fine del I e il II secolo d.C., in seguito al

forte aumento della popolazione. Esterne alle mura e prospicienti l’antica linea di costa sono le Terme di Porta Marina (o thermae maritimae), costruite da Traiano e forse completate da Adriano, cui si devono anche le Terme del Nettuno, completate da Antonino Pio. Al Prefetto del Pretorio di questo imperatore, Marco Gavio Massimo, sono da attribuire le piú grandi Terme di Ostia, quelle del Foro, situate in posizione centrale a sud-est della grande piazza. Pompei offre un buon esempio di impianto termale di epoca tardo repubblicana, le Terme Stabiane, le piú antiche tra quelle conosciute, databili al II secolo a.C. Divise in due settori, uno per gli uomini e uno per le donne, avevano gli ambienti disposti su un unico asse ai lati di una fornace comune, con un grande cortile porticato che serviva da palestra, cui fu aggiunta in un momento successivo una a r c h e o 101


SPECIALE • TERME DI CARACALLA

grande piscina. In età augustea, una grande sala rotonda fu trasformata in frigidarium per il bagno freddo. Al di fuori dell’Urbe, una delle terme piú grandi si trova a Treviri in Germania (Gallia Belgica), caratterizzate dal calidarium triabsidato; costruite da Costantino, vennero modificate da Graziano (375-383 d.C.) e riutilizzate come residenza o sede di rappresentanza. Altre terme grandiose sono quelle di Cluny a Parigi (oggi in parte occupate dal Musée National du Moyen Âge), della fine del II secolo d.C. Da rilevare l’imponenza e il numero delle sale per i bagni caldi che determinano, attorno a un frigidarium piuttosto piccolo, un percorso semicircolare. Sorte in funzione di una sorgente di acqua curativa, sono le terme di Bath (Aquae Sulis) in Britannia, le piú grandi dell’Europa occidentale. Comprendono tre grandi piscine per bagni caldi; ancora in funzione, costituiscono per lo stato di conservazione delle strutture romane, unito alla elegante ricostruzione settecente-

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sca, un suggestivo e unico esempio ancora vivo delle antiche terme. A differenza dell’Occidente romano, dove le vasche singole sono rare, in Grecia la caratteristica degli impianti termali di epoca tarda (presenti a Sparta, Epidauro, Olimpia, Delfi, Argo, Atene) è l’alto numero di ambienti per il bagno individuale, spesso ricavati da piscine collettive, forse a causa di un maggior pudore cristiano contro l’immoralità


dei bagni in comune. Inoltre, in Grecia non vi è assialità e simmetria negli ambienti come in Occidente, ruotando tutto intorno al frigidarium. Terze per estensione, dopo quelle di Diocleziano e di Caracalla, sono le terme di Cartagine dette «di Antonino»; iniziate da Antonino Pio, furono ultimate da Marco Aurelio e Lucio Vero. Il frigidarium presentava otto grandi colonne in granito; una di queste è stata

ricollocata, insieme a un grande capitello, raggiungendo un’altezza complessiva di piú di 20 m, per rendere l’idea dell’imponenza del complesso. I marmi di spoglio delle terme, inserite nei siti UNESCO Patrimonio dell’Umanità, furono riutilizzati in edifici a Tunisi, ma anche a Pisa, Genova e perfino Canterbury. Altri grandi impianti termali in Africa si trovano in Algeria, a Cherchel, Timgad e Djemila. Le terme di Leptis Magna, in Tripolitania, sono uno degli edifici piú belli e ricchi dell’Africa romana. Costruite in età adrianea, furono restaurate e ampliate sotto Commodo e Settimio Severo. Infine, in ambito microasiatico, lo schema delle terme presenta gli ambienti principali allineati in modo parallelo alla palestra, spesso sostituendo al frigidarium un cortile aperto. Esempi si possono trovare ad Afrodisia, Efeso, Mileto e Hierapolis, in Frigia, vera e propria città termale che conobbe particolare sviluppo sotto Settimio Severo e Caracalla. Le terme di Cartagine, dette «di Antonino». Iniziate fra il 145 e il 162 d.C. dall’imperatore Antonino Pio, furono ultimate da Marco Aurelio e Lucio Vero.

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QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

…SI FACEVA IN QUATTRO IL TIFO: UNO DEI MOLTI FENOMENI CHE HANNO ANTICIPATO DI SECOLI ALCUNE DELLE MANIFESTAZIONI PIÚ TIPICHE DEL MONDO CONTEMPORANEO. NELL’URBE ERA PARTICOLARMENTE SENTITO PER I CAMPIONI CHE SI SFIDAVANO NELLE CORSE DEL CIRCO

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uddivisa amministrativamente in quattro per qualche secolo, a partire dal VI a.C., quando il re Servio Tullio creò i «distretti» territoriali, chiamati regiones (caduti in disuso durante la repubblica e ripristinati, ma in numero di quattordici, al tempo di Augusto), Roma tornò a dividersi in quattro per tutta l’età imperiale, ma da un altro punto di vista: quello delle «scuderie» – o factiones – che gareggiavano nelle corse dei carri al circo, e dei loro seguaci. La «divisione» riguardava la cittadinanza pressoché per intero, comprese le donne che al circo sedevano promiscuamente tra gli uomini, tanto che Ovidio consigliava ai suoi lettori di approfittarne per adeguati corteggiamenti: «Siediti accanto alla tua bella, gomito a gomito, piú a ridosso che potrai; nulla te lo impedisce, il poco spazio ti costringe a premerla e, buon per te, ella si dovrà rassegnare...». Giovenale (X, 81) ricorda sprezzantemente i ludi del circo, insieme al cibo (panem et circenses), come le sole aspirazioni della plebe, anche se la passione per le corse dei carri coinvolgeva la gente di ogni condizione. Fino agli strati piú alti della società e agli stessi imperatori, alcuni dei quali, come Caligola, Nerone (che, stando a Svetonio, ogni giorno «si divertiva a giocare con quadrighe di avorio sul tavolo»), Commodo, non

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disdegnarono neppure di cimentarsi nell’arena.Tra le eccezioni, il «filosofo» Marco Aurelio, il quale, al contrario, si vantò della sua indifferenza per le corse. Le fazioni erano dunque quattro (da due che erano state durante la repubblica, mentre diventarono sei quando Domiziano ne aggiunse altre due che, tuttavia, non gli sopravvissero). Ognuna era contrassegnata da un colore dal quale, in tre casi, esse traevano il nome: dal bianco la Albata, dal rosso la Russata (dal termine russus usato, popolarmente, al posto di ruber), dal verde la Prasina (dal greco prason, «porro», che indicava il verde porro o smeraldo).

IL POPOLO DEI CAVALLI Il nome della quarta, infine, non aveva a che fare con il colore – che era l’azzurro – bensí con i... Veneti. Essa si chiamava, infatti, Veneta e il motivo stava nell’origine dei suoi cavalli che, almeno un tempo (forse con i primi aurighi), provenivano proprio dalla regione che fu poi la Venetia dell’Italia romana, i cui abitanti godevano fama di intenditori e allevatori di cavalli. Quanto alle due fazioni effimere di Domiziano, esse ebbero i «colori di Roma», porpora e oro, e i nomi Purpurea e Aurata. Le scuderie (stabula) o, piuttosto, le sedi delle fazioni, ampie e sontuose, si trovavano tutte nel Campo Marzio occidentale, in

Rilievo funerario per un magistrato, responsabile dell’organizzazione delle corse delle quadrighe nel circo. II sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano.


un’area prossima al Tevere, servita da una strada che prendeva il nome di vicus Stab(u)larius. Ogni fazione aveva naturalmente i propri sostenitori, ma quella che godeva dei maggiori favori era la Prasina. Anche perché, per tradizione, era la preferita degli imperatori. Celebre il tifo che per essa nutriva Caligola, il quale, per la passione del circo se n’era fatto costruire uno nella villa ereditata dalla madre, Agrippina, nell’Agro Vaticano. Della Prasina, Caligola era solito frequentare la sede, dove spesso s’intratteneva a cena, mentre era letteralmente impazzito per il cavallo Incitatus, che era uno di quelli detti funales: i due cavalli esterni, nella quadriga, che non

venivano legati al timone del carro come i due centrali, ma a essi collegati per mezzo di funi. Ciò consentiva loro libertà di movimenti e capacità di guida, soprattutto nei momenti cruciali della gara, quando si trattava di doppiare le metae e di tenere a freno l’andatura del carro, facendogli compiere il giro piú stretto possibile, ma in maniera da non urtare la meta stessa e capovolgersi (e «fare naufragio», come si diceva).

PREMURE LEGGENDARIE Svetonio scrive che l’amore di Caligola per Incitatus era arrivato al punto che, alla vigilia di una gara, egli imponeva il silenzio al

«vicinato», perché il cavallo «non venisse disturbato». E, ancora, che per esso aveva fatto costruire una stalla di marmo con la mangiatoia in avorio; che gli avesse regalato gualdrappe di porpora e finimenti ornati di gemme e perfino una casa, arredata e completa di servi «affinché esso potesse ricevere al meglio le persone invitate a suo nome». Non si spinse però fino a farlo... senatore, come banalmente si sente ripetere. Il biografo si limita a scrivere: «Si dice che volesse persino destinarlo al consolato» (una carica allora poco piú che onorifica e che, tuttavia, apriva le porte del Senato), riferendo una «diceria» nata tra la gente evidentemente per ridicolizzare una

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A sinistra: mosaico policromo raffigurante un auriga della Prasina, la fazione riconoscibile dal colore verde, dalla villa in località Baccano, al XVI miglio della via Cassia. III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano. Nella pagina accanto: mosaico policromo raffigurante l’auriga Calimorfus che guida una quadriga, da Bell-lloc (Girona, Spagna). IV sec. d.C. Barcellona, Museo di Archeologia della Catalogna.

passione tanto smodata quanto, certamente, «chiacchierata». Nei giorni immediatamente prima delle gare, ma anche durante le corse, il tifo si traduceva in «ardite scommesse» (sponsiones), delle quali, purtroppo, non sappiamo altro, se non che tenevano molto alta la tensione (populum [...] de sponsionibus concitatum, scrive Tertulliano, de Spect. 16), ma anche in dispute, risse e veri e propri scontri tra i sostenitori dei diversi colori, accecati dal furor circi, il «delirio del circo». Alla vigilia delle gare, poi, non mancavano quelli che, per assicurarsi i posti migliori, si recavano al circo in piena notte, facendo grande strepito.

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Si racconta che una volta, sempre Caligola (che abitava sul Palatino, proprio sopra il circo), «disturbato dal frastuono (...) fece cacciare via tutti a bastonate e nella ressa rimasero feriti piú di venti cavalieri e altrettante matrone, oltre a una folla di gente comune».

DALL’ALBA AL TRAMONTO Nei giorni delle gare – che, secondo un calendario del 354, erano 64 in un anno – il pubblico rimaneva sulle gradinate dall’alba al tramonto, provvisto di cibo e bevande portati da casa oppure acquistati sul posto. Le corse, infatti, con una breve pausa meridiana, si succedevano l’una

all’altra dopo che da dieci erano passate a venti e che i consueti sette giri di pista per ciascuna erano stati ridotti a cinque. Oggetto di particolari attenzioni erano, ovviamente, gli aurighi – solitamente di bassa estrazione, spesso schiavi affrancati –, i quali, se bravi e fortunati, diventavano personaggi pubblici, godevano di grande popolarità, erano idolatrati dalle donne e – grazie a ingaggi, stipendi, premi e regali – riuscivano ad accumulare ingenti ricchezze. Al tempo di Domiziano, un tale Scorpus, durante un giro d’onore raccolse ben cinquanta borse d’oro gettategli dagli spalti, mentre di un suo collega, chiamato Lacerta,


Giovenale dice che il suo patrimonio equivaleva a quello di cento avvocati. Premi e carriere venivano sovente ricordati nelle epigrafi funerarie, in particolare di coloro che avendo riportato piú di 1000 vittorie, erano detti miliarii. Come Diocle, un Iberico (resosi famoso anche per aver guidato, una volta, un carro a sette cavalli), che si ritirò a vita privata a 42 anni dopo aver vinto 3000 corse di bighe, 1462 di trighe e altrettante di quadrighe e guadagnato 35 milioni di sesterzi. O come un certo Clemente, africano e scuro di pelle (maurus), il quale, a 22 anni, di sesterzi ne aveva messi insieme piú di 15 milioni e mezzo.

C’erano, tuttavia, anche gli aurighi fieramente avversati e, come tali, fatti persino oggetto di sortilegi e pratiche magiche.

«ADESSO, PRESTO!» Una vera e propria «maledizione» è giunta fino a noi, incisa su una di quelle laminette di piombo dette tabellae defixionis (da defigere, infiggere, fissare, dichiarare, ecc.) che, dedicate agli dèi inferi, con segni e formule imprecatorie, venivano calate entro una tomba, un pozzo o altra cavità in modo da metterle in comunicazione diretta col mondo sotterraneo: «Esseri e numi santi, vi scongiuro di mettervi insieme nel favorire questo

incantesimo, legando, incantando, opponendovi, intralciando, unendovi per annientare, uccidere, fracassare l’auriga Eucherio e tutti i suoi cavalli, domani, nel circo di Roma. Che faccia una falsa partenza, che vada lentamente, che non riesca a sorpassare nessuno, né a girare come si deve. Che non vinca premi. Se resta ostinatamente a ruota di qualcuno, che non riesca a vincerlo, se sta dietro a qualcun altro, che non riesca a sorpassarlo e che invece venga colto da un incidente, venga trattenuto, possa sfracellarsi, e nelle corse del mattino e in quella del pomeriggio venga frenato dalla vostra potenza. Adesso, adesso, presto, presto!».

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SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

MORS TUA, VITA MEA DUE IMPRESSIONANTI SCOPERTE HANNO, DI RECENTE, SCOSSO IL MONDO ARCHEOLOGICO: SI TRATTA DI VERI E PROPRI COLD CASE DELL’ETÀ DI MEZZO. A CONFERMA DI COME LA SOPRAFFAZIONE ABBIA ANCHE ALLORA RAPPRESENTATO UNA SORTA DI LINGUAGGIO UNIVERSALE

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l X secolo è stato a lungo definito «di ferro» dai medievisti. Perché si è trattato di un’epoca tormentata, immediatamente successiva alla fine dell’impero carolingio (888) e caratterizzata da grandi difficoltà nella gestione e nel mantenimento del potere da parte degli imperatori germanici e dei vari re. Una fase storica attraversata da forti tensioni, e da un tasso molto elevato di militarizzazione: fenomeni a cui non è sfuggito il paesaggio rurale, che, proprio in questo periodo, assiste alla nascita e all’esplosione dell’incastellamento, la tendenza di quasi ogni famiglia aristocratica a

costruire una fortezza per difendere i propri possedimenti. In questo contesto tormentato, la violenza contro gli individui o i gruppi era spesso all’ordine del giorno e l’archeologia ne ha piú volte individuato le tracce.

UNA FOSSA COMUNE Due sono i piú recenti e significativi rinvenimenti di questo genere, compiuti in Inghilterra e nell’attuale Repubblica Ceca. Il primo è una scoperta fortuita, avvenuta nella località di Ridgeway Hill, vicino a Weymouth (Inghilterra meridionale) durante la

costruzione di una strada. Qui, nel 2009, è stata trovata una fossa comune contenente 54 scheletri, tutti decapitati. Agli archeologi si è presentato un quadro piuttosto impressionante: a tutti gli individui era stata mozzata la testa e, accanto alla fossa in cui erano stati deposti gli scheletri, ne è stata trovata una seconda, nella quale giacevano accatastati i crani. In assenza di elementi di datazione – ceramica, monete o altri reperti che potessero indicare una cronologia – si è fatto ricorso al C14, che ha collocato l’episodio intorno all’anno Mille. A quel punto, sulla scorta di Nella pagina accanto: Ridgeway Hill (Weymouth, Inghilterra). La fossa comune in corso di scavo. A sinistra: miniatura raffigurante l’omicidio di Venceslao da parte di Boleslao, da un’edizione della Vita di san Venceslao. X sec. Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek.

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un diffuso pregiudizio, si è ipotizzato che le vittime fossero abitanti del luogo massacrati da una banda di pirati vichinghi, ma analisi piú approfondite sugli scheletri hanno rivelato una storia del tutto diversa, anzi opposta: scheletri e crani apparterrebbero proprio a giovani vichinghi, che avevano tutti circa vent’anni d’età, fatti uccidere dal re Etelredo II. Un episodio di cui resta memoria nei testi: il sovrano, infatti, avrebbe disposto che venissero uccisi tutti i Vichinghi che si trovavano in terra inglese nel giorno 13 novembre dell’anno 1002. Il secondo episodio riguarda invece la zona di Budec, in Boemia. Qui si trovano i resti di una fortezza costruita verso la fine dell’VIII secolo. Si trattava di un luogo importante dell’Europa centrale, che aveva funzioni militari, ma anche religiose. A poca distanza dal

castello, in località Na Tynici, è venuto alla luce un piccolo villaggio, al cui interno sono state trovate numerose abitazioni con il fondo scavato nella roccia, poi abbandonate nella seconda metà del X secolo. In una di queste dimore venne scavata una grande fossa, nella quale furono deposti gli scheletri di un numero ancora non ben definito di individui: probabilmente una sessantina.

LOTTE INTESTINE Le ossa rivelano che quasi tutti morirono a causa di ferite violente, sul cranio o sulla schiena: ferite letali, da spada, l’arma per eccellenza dell’Alto Medioevo, nonché simbolo di potere. Anche in questo caso il C14 ha fornito la datazione per l’eccidio, che si consumò tra il 930 e il 990. La spiegazione piú plausibile è che la strage abbia avuto luogo nel 935,

subito dopo l’assassinio del duca Venceslao da parte di suo fratello, Boleslao, per prendere il potere in quella regione. Secondo alcuni testi l’omicidio scatenò una terribile ondata di violenza, che attraversò l’intera Boemia, e Venceslao aveva trascorso la sua giovinezza proprio a Budec, dove aveva molti seguaci: conquistare la fortezza era perciò una delle chiavi per la successione, ma occorreva innanzitutto annientare l’opposizione. L’archeologia ha rivelato anche un particolare macabro: le tracce di denti di cani, o di volpi, osservate sugli scheletri indicano che i corpi rimasero inizialmente insepolti, prima d’essere gettati nella fossa. E non tutti i crani sono stati trovati: forse alcuni furono portati via come trofei, oppure esposti come monito per tutti gli abitanti della zona, magari infilzati sulle punte delle lance.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

LA VOLITIVA FIGLIA DI BELO «SIDONIA», UNO DEGLI EPITETI ATTRIBUITI A DIDONE, EVOCA LE ANTICHE ORIGINI DELLA STIRPE FENICIA DA CUI LA REGINA DI CARTAGINE DISCENDEVA

N

el Libro IV dell’Eneide, dedicato alla tragica storia d’amore e morte tra Didone ed Enea, la maestria e l’arte poetica di Virgilio coniugano mirabilmente, e in una duplice forma, l’altissimo

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afflato poetico della vicenda sentimentale e la propaganda politica augustea. Da un lato, infatti, essendo l’intera opera un inno a Roma, ad Augusto e alla sua stirpe d’origine, l’autore fornisce una

banale, ma accattivante motivazione romantica alla storica inimicizia tra Cartagine e Roma, mentre dall’altro, su un piano di lettura piú fine, potrebbe aver voluto paragonare la passione tra la


regina orientale e il prode eroe a quella, piú recente, concreta e perniciosa (per l’ottica di Augusto) tra Cleopatra e Marco Antonio. E se il triumviro, che avrebbe trasformato Roma in una succursale del decadente regno egizio governato da donne lussuriose e contrario in tutto all’ideologia romana (sempre secondo l’ottica del vincitore), ne era uscito sconfitto, soccombendo alla passione sino a morire per essa, Enea invece, progenitore della gens Iulia, ne era risultato vincitore, fuggendo nottetempo, senza colpo ferire, dall’amore promesso a Didone e continuando cosí i grandiosi progetti degli dèi sulla nascita dell’Urbe.

Agenore, Fenice, Belo e Didone (Punica, I, 87-90). Didone acquista in patria, alla sua morte, uno status degno di venerazione che la assimila a una divinità, e, secondo le complesse genealogie da cui discende, nelle sue vene già scorreva sangue divino. Anche le modalità del suicidio che la regina sceglie per non dover accondiscendere alle nozze con l’aborrito re indigeno Iarba (nella tradizione originaria precedente quella virgiliana), sono le stesse adottate dal semidio Eracle, di cui il marito defunto era sacerdote: gettarsi su una pira che, disfacendo il corpo, ne simboleggia l’ascesa ai cieli.

TESORI DI FENICIA

Tra le emissioni emesse in Fenicia riferibili a Didone vi sono anche quelle battute a Sidone sotto Elagabalo sino a Severo Alessandro (218-235 d.C.), dove compare al rovescio la leggenda con il nome abbreviato della città – Col(onia) Aur(elia) Pia Metropolis Sidon – e, in campo, una figura femminile in trono di tre quarti, probabilmente a busto nudo o forse vestita solo di una leggera camiciola pressoché invisibile, e con ampio manto che le discende sulle gambe (BMC, Phoenicia, 262-263). La testa e una mano sono rivolti leggermente verso destra, ma i conii non permettono di determinare e interpretare il gesto. Si tratta certamente di una figura divinizzata, parte del patrimonio mitistorico di Sidone, che in alcune emissioni è designata come DIDO dalla inequivocabile leggenda in esergo. La città fenicia, madrepatria di Tiro da dove dovette fuggire l’intrepida giovane vedova, celebra le eccezionali capacità di decisione e comando della sua Didone, la quale fondò la città che piú di tutte rimase impressa, come un nemico temibilissimo, nell’immaginario collettivo romano.

Da Omero in poi, gli epiteti attribuiti ai personaggi per indicare una loro determinata caratteristica, a prescindere dal contesto della narrazione, costituiscono un uso ricorrente: Didone è appellata anche «Sidonia» non solo nell’Eneide (I, 614) ma anche, per esempio, nelle Silvae di Stazio (IV, I, 1-2), e, secoli piú tardi, da Giovanni Boccaccio (De claris mulieribus, VI) e altri letterati ancora. Anche le ricchezze di Cartagine che Didone mostra a Enea (IV, 75) sono definite «sidonia opulenza». Tali appellativi si riferiscono evidentemente alla provenienza geografica di Didone e ai tesori che essa portò dalla madrepatria, su suggerimento del sogno inviatole dal marito Sicheo appena ucciso per bramosia dal fratello della sua amata sposa. Didone era figlia di Belo re di Tiro, fondata da coloni fenici della vicina Sidone (oggi Saida in Libano); entrambe le città, potenti sul mare, erano considerate superbe e opulente, nonché ricolme di lussuria, come le definiscono la Bibbia e il Vangelo (Ezechiele 26, 1-14; Matteo, IV, che le nomina insieme a Sodoma). Dunque, con il

UN GESTO MISTERIOSO

In alto: emissione in bronzo di Elagabalo, Sidone (Fenicia). 218-222 d.C. Al rovescio, una donna in trono di tre quarti, con legenda COL AVR PIA METR SIDON e in esergo Dido. Nella pagina accanto: affresco raffigurante Didone in trono con un’ancella alle spalle e le personificazioni dell’Africa, con un copricapo a forma di testa d’elefante, e dell’Asia, con un corno, da Pompei, Casa di Meleagro. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. La regina è stata appena abbandonata da Enea che si allontana con la nave che si vede alle spalle del gruppo. termine «sidonia» si indica l’origine prima della stirpe di Didone, e poteva essere usato anche come sinonimo di «fenicia». Didone, Anna e Pigmalione erano i figli di Belo, discendente da Fenicio, eroe eponimo della stirpe fenicia, figlio di Agenore, il quale, a sua volta, era figlio di Poseidone. Silio Italico ricorda che a Cartagine vi era un tempio dove erano venerati

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Marco Chioffi, Giuliana Rigamonti

ANTICO REGNO «Sua Maestà fece che si onorasse Abutiu» Editrice La Mandragora, Imola, 309 pp., ill. col. e b/n 28,00 euro ISBN 978-88-7586-5289-0 www. editricelamandragora.it

Marco Chioffi e Giuliana Rigamonti aggiungono un nuovo tassello alla loro meritoria opera di pubblicazione sistematica del patrimonio epigrafico dell’antico Egitto. Questa volta l’attenzione è stata rivolta a una serie di documenti riferibili alla V e VI dinastia, che ressero le sorti del Paese dei faraoni nella seconda metà del III millennio a.C., nell’ambito di quello che viene definito Antico Regno. L’apertura della raccolta è dedicata a un levriero, di nome Abutiu, in onore del quale, per ordine del sovrano, venne apprestato un vero e proprio sepolcro. Una scelta che può forse

apparire singolare, ma che rientra, invece, in una prassi piuttosto diffusa, dettata dal rapporto d’affetto che legò anche gli Egiziani al «migliore amico dell’uomo». In altre iscrizioni, si può leggere di barche sacre o di divinità, e, come sempre, gli autori offrono una puntuale illustrazione dei materiali studiati – proponendo, oltre alla traduzione, la traslitterazione dei geroglifici –, accompagnata in questo caso da un corredo fotografico particolarmente ricco. In appendice, viene anche pubblicata la scoperta di alcuni graffiti ad Assuan e della quale «Archeo» aveva dato notizia in anteprima nello scorso autunno (vedi n. 391, settembre 2017). Luca Cappuccini, Christina Leypold e Martin Mohr (a cura di)

FRAGMENTA MEDITERRANEA Contatti, tradizioni e innovazioni in Grecia, Magna Grecia, Etruria e Roma Studi in onore di Christoph Reusser All’Insegna del Giglio, Sesto Fiorentino, 292 pp., tavv. col. e b/n 100,00 euro ISBN 978-88-7814-810-9 www.insegnadelgiglio.it

Come si può intuire dal sottotitolo, la raccolta – di taglio prettamente specialistico – spazia in un ambito molto vasto e risultano dunque assai 112 a r c h e o

Cambridge Scholars Publishing, Newcastle upon Tyne, 319 pp., ill. b/n 61,99 GBP ISBN 978-1-5275-0338-0 www. cambridgescholars.com

variegati i temi scelti da quanti hanno voluto contribuire a questo omaggio all’archeologo svizzero Christoph Reusser, che si è distinto, in particolare, per le ricerche condotte in Sicilia. Fra i testi proposti da amici e colleghi dello studioso, vi sono analisi di specifici contesti e oggetti, ma anche considerazioni di carattere metodologico, come nel caso delle riflessioni di Luigi Malnati sul rapporto fra tutela e ricerca, esaminato alla luce della situazione emilianoromagnola. Ricorrono le analisi su singoli problemi iconografici, che per la maggior parte si concentrano sulla diffusione di modelli elaborati in Grecia e di lí passati ad altre aree del Mediterraneo, prima fra tutte l’Etruria.

DALL’ESTERO Alessandra Salvin

ARCHAEOLOGICAL PERSPECTIVES ON HOUSES AND HOUSEHOLDS IN THIRD MILLENNIUM MESOPOTAMIAN SOCIETY

Il volume di Alessandra Salvin porta il lettore, letteralmente, dentro le case dell’antica Mesopotamia. Scopo del saggio è infatti quello di esaminare la dimensione domestica degli abitati vicino-orientali, che, grazie alle favorevoli condizioni ambientali

di quelle regioni, risulta assai piú leggibile di quanto non accada in contesti di altre regioni del mondo. Dopo i capitoli che inquadrano il fenomeno dal punto di vista concettuale e metodologico, si passa alla descrizione di alcuni singoli insediamenti e delle loro strutture residenziali, per concludere con le considerazioni sui dati scaturiti dall’intera ricerca. (a cura di Stefano Mammini)



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