Archeo n. 402, Agosto 2018

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TAZZA FARNESE

KERKOUANE

MURA AURELIANE

ROMA

MURA AURELIANE UNA NUOVA IMMAGINE

MUSEO DELL’EBRAISMO

EBREI I PRIMI MILLE ANNI

SPECIALE OSTIA CITTÀ DEL MONDO

LA OSTIA CITTÀ DEL MONDO

I MISTERI DI UN CAPOLAVORO

FARNESE

TAZZA SPECIALE

www.archeo.it

IN EDICOLA L’8 AGOSTO 2018

ch

KE VIA TUN RK GG ISIA OU IO ww AN A w. ar E

2018

Mens. Anno XXXIV n. 402 agosto 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 402 AGOSTO

FERRARA

€ 5,90



EDITORIALE

UNA STORIA ITALIANA Non capita certo tutti i giorni che, nel nostro Paese, si inauguri un nuovo, importante Museo Nazionale e che l’evento sia celebrato da una grande mostra archeologica. È accaduto, invece, a Ferrara, agli inizi di quest’anno. Il museo in questione è il MEIS, acronimo di per sé poco accattivante ma che, una volta sciolto, annuncia un programma impegnativo: Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah. Si tratta – vale la pena sottolinearlo – del primo museo dedicato all’ebraismo in Italia. E la mostra che lo prefigura – e destinata a confluire nell’esposizione permanente del museo – è intitolata ai «primi mille anni» della presenza ebraica in Italia (ne parliamo alle pp. 66-81). Ma fughiamo subito un’impressione che quel nome potrebbe – erroneamente – evocare: il MEIS non è un museo «commemorativo» (se anche lo fosse non ci sarebbe, naturalmente, niente di male), ma è uno straordinario laboratorio di cultura, che rivela, narra e crea. Rivela, per esempio (e tra molto altro), lo scomparso mondo del giudaismo meridionale, per la prima volta documentato e raccontato (in un museo del Nord!) attraverso reperti archeologici mai prima esposti; narra l’assedio di Gerusalemme del 70 d.C., ricordando come i proventi del bottino siano serviti all’arricchimento architettonico di Roma, che cosí si dotò di monumenti straordinari, tra i quali il piú grande anfiteatro del mondo antico, il Colosseo (fa riflettere il fatto che il simbolo stesso dell’Urbe, quell’imperituro monumento alla gloria imperiale visitato ogni anno da milioni di turisti, racchiuda la tacita testimonianza della lontana catastrofe che per il poeta e filosofo inglese Samuel Taylor Coleridge rappresentava, insieme «all’omerica guerra di Troia, l’unico soggetto che ci rimane per un poema epico»); crea, infine, una comunicazione diretta tra storici, ricercatori e pubblico, attraverso espedienti museografici innovativi e di grandissima efficacia. È una storia italiana – ecco la vera novità – quella raccontata nel nuovo museo di Ferrara, città tra i luoghi al mondo dove, come ricorda il direttore del Museo, Simonetta Della Seta, «oltre alla Terra d’Israele e a Roma si sente piú fortemente la presenza ebraica» (e dove – ci piace ricordarlo – il cimitero monumentale ebraico accoglie la tomba di uno dei cantori moderni dell’ebraismo italiano, Giorgio Bassani). Una «nostra» storia che, oggi, grazie al MEIS, possiamo riscoprire e rivivere, nel miglior modo possibile. Andreas M. Steiner Un particolare dell’allestimento della mostra «Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni», in corso al MEIS-Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara.


SOMMARIO EDITORIALE

REPORTAGE

6

ALL’OMBRA DEL VULCANO I monumenti funerari della necropoli fuori Porta Ercolano sono un vero e proprio pozzo di notizie sulla vita dei Pompeiani illustri e della gente comune 12

SCOPERTE Viene da Olimpia la piú antica testimonianza scritta dei versi dell’Odissea appartenenti al libro in cui Eumeo si lamenta con Ulisse dell’insolenza dei Proci 6

PAROLA D’ARCHEOLOGO La Caverna delle Arene Candide, in Liguria, uno dei «santuari» della preistoria italiana ed europea è ora visitabile 20

44

MUSEI A due passi dalle celebri Arènese, ha aperto i battenti a Nîmes il Musée de la Romanité 24

di Stefano Mammini

Una storia italiana

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

RESTAURI Dopo un lungo e complesso intervento, apre al pubblico il magnifico triclinio della villa romana di Positano

8

Kerkouane. Sotto il segno di Tanit

44

di Andreas M. Steiner

MOSTRE/1

19 000 metri di storia

56

ESCLUSIVA

Quella magnifica scudella

32

di Stefano Mammini

56 MOSTRE/2

8

I primi 1000 anni di un’avventura straordinaria

32

66

testi di Anna Foa, Giancarlo Lacerenza, Fausto Zevi e Tessa Rajak In copertina particolare della decorazione interna della Tazza Farnese.

Comitato Scientifico Internazionale Anno XXXIV, n. 402 - agosto 2018 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale Hanno collaborato a questo numero: Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Valentina Di Napoli è archeologa. Anna Foa è stata professore di storia moderna presso «Sapienza» Università di Roma. Mimmo Frassineti è scrittore e fotografo. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Giancarlo Lacerenza è professore di lingua e letteratura ebraica biblica e medievale presso l’Università degli Studi di Napoli «L’Orientale». Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco Archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Tessa Rajak è professore emerito di storia antica all’Univeristà di Reading. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Enrico Zanini è professore associato di metodologia della ricerca archeologica all’Università di Siena. Fausto Zevi è professore emerito presso il Dipartimento di Scienze dell’Antichità di «Sapienza» Università di Roma.


Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Alla ricerca di un equilibrio

102

di Daniele Manacorda

82 SPECIALE

Ostia, città del mondo

102

82

di Mimmo Frassineti, con un’intervista a Mariarosaria Barbera, Direttore del Parco archeologico di Ostia Antica

QUANDO L’ANTICA ROMA... ...arrivò al mare

106

AVVISO AI LETTORI

di Romolo A. Staccioli

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Vivere da predestinato

110

di Francesca Ceci

LIBRI

112

110

In questo numero, per motivi di spazio, non compare la terza e ultima puntata della serie di Flavio Russo dedicata alle dighe, che verrà pubblicata nel mese di settembre.

Illustrazioni e immagini: Luigi Spina: copertina e pp. 32-35, 39-41 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 3, 24, 66-81 – Ministero Ellenico della Cultura e dello Sport: pp. 6, 7 (destra) – The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 7 (sinistra) – Cortesia Soprintendenza ABAP per le province di Salerno e Avellino: pp. 8, 9 (alto e basso, a sinistra), 10 – Cortesia Parco Archeologico del Colosseo: p. 9 (basso, a destra) – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 12-13 – Cortesia degli autori: pp. 14, 16, 18, 110-111 – Cortesia Museo Archeologico del Finale, Finale Ligure Borgo: pp. 20; Walter Siciliano: p. 21 (alto); Daniele Arobba: pp. 21 (basso), 22 – Biblioteca di Stato, Berlino: p. 36 (basso) – Museo Archeologico Nazionale di Napoli: p. 38 – Andreas M. Steiner: pp. 44-45, 46 (alto), 48-55 – Andrea Jemolo: pp. 56/57, 58, 61-65 – Cortesia Archivio Fotografico Comunale, Museo di Roma, Roma: p. 60 – Mimmo Frassineti: pp. 82-83, 85, 86-101, 106 – Doc. red.: pp. 102-104, 108 – Shutterstock: p. 107 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 36/37, 46, 59, 84/85.

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N oti z i ari o SCOPERTE Grecia

METTENDO I PUNTINI SULLE... O (DI ODISSEA)

U

n comunicato stampa del Ministero Ellenico alla Cultura diramato il 10 luglio scorso era stato prontamente rilanciato dalla stampa greca e da quella internazionale. Clamoroso era infatti l’annuncio: presso Olimpia era stata trovata la piú antica testimonianza scritta dell’Odissea, databile al III secolo d.C. E se molti si erano limitati a

riportare la notizia, in alcuni casi «correggendo» di propria iniziativa la datazione al III secolo a.C., altri avevano fatto notare che le prime attestazioni scritte dei poemi omerici sono conservate su papiri egizi del III secolo a.C. e sono quindi anteriori di circa 6 secoli. Si era dunque diffuso il sospetto che il Ministero Ellenico fosse incappato in una svista clamorosa.

Nei giorni successivi, non potendo credere a uno scivolone del genere, abbiamo contattato Erofili Kolia, Soprintendente alle Antichità dell’Elide, che ha gentilmente accettato di fornirci le spiegazioni che siamo ora in grado di riportare. Il rinvenimento, un’iscrizione incisa su un mattone cotto, ha avuto luogo nell’ambito di un programma triennale di ricognizioni di

Il mattone iscritto recentemente rinvenuto nei pressi del tempio di Zeus a Olimpia. Il testo comprende i primi 13 versi del XIV libro dell’Odissea, quello in cui il porcaro Eumeo si lamenta con Ulisse, senza riconoscerlo, dell’insolenza dei Proci. Databile al III (o II) sec. d.C., è la piú antica attestazione a oggi nota di questo brano del poema omerico.

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superficie condotto dalla Soprintendenza alle Antichità dell’Elide in collaborazione con studiosi dell’Istituto Archeologico Germanico provenienti da tre atenei tedeschi (Franziska Lang, Birgitta Eder, Andreas Vött e Hans-Joachim Gehrke: Università di Darmstadt, Tübingen e Frankfurt/Mainz). Il reperto non è stato rinvenuto presso il tempio di Zeus, come pure è stato scritto, bensí in un’area all’esterno del santuario, in cui si è accertata la presenza di resti di epoca romana. E proprio all’epoca romana, al III o forse anche al II secolo d.C., si data l’iscrizione, che riporta i primi 13 versi del XIV libro dell’Odissea, quello in cui il porcaro Eumeo si lamenta con Ulisse, senza riconoscerlo, dell’insolenza dei Proci. Lo studio del testo è stato affidato all’epigrafista Klaus Hallof

(Berlin-Brandenburgische Akademie der Wissenschaften), ma è fin d’ora possibile precisare i motivi della sua importanza. Innanzitutto, si tratta della piú antica attestazione di questi versi dell’Odissea a oggi nota: senz’altro dei versi 1-8, ma forse, se verrà confermata la datazione al II secolo d.C., anche dei versi 9-13. Inoltre, siamo alle prese con la prima testimonianza di versi dell’Odissea incisi su una lastra fittile e, probabilmente, anche davanti alla piú antica traccia dell’epos omerico su suolo greco, se si eccettuano, naturalmente, i molti frammenti di ceramica che venivano spesso utilizzati come supporto scrittorio, che però riportano solo pochissimi versi. Tutt’altro, insomma, che «una bufala epocale», come è stata in qualche caso, e frettolosamente, definita la notizia. Valentina Di Napoli

A sinistra: frammento di papiro egiziano con alcuni versi del libro XX dell’Odissea. 285-250 a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art. A destra: un’altra immagine del mattone iscritto rinvenuto a Olimpia. III-II sec. d.C.

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N otiz iario

RESTAURI Campania

TRICLINIO CON VISTA SULLA BAIA

È

stata aperta al pubblico poche settimane fa – dopo una attesa durata 15 anni, due campagne di scavo e un complesso intervento di restauro –, una porzione della lussuosa villa marittima della prima età imperiale romana di Positano, noto centro della costiera amalfitana (Salerno). Si tratta di un patrimonio archeologico di valore eccezionale, recuperato grazie all’impegno e alla collaborazione tra il Comune di Positano e la Soprintendenza ABAP per le province di Salerno e Avellino. Riscoperta nel 2003 e intercettata a circa dieci metri di profondità sotto il complesso monumentale dell’attuale chiesa di S. Maria Assunta, della sua esistenza si aveva già notizia dalla metà del XVIII secolo, quando l’ingegnere della guardia reale borbonica, Karl Weber, annotò in una sua relazione la presenza dei ruderi di un edificio antico con pavimenti musivi e pitture parietali sotto la chiesa madre, nella baia di Positano. Piú tardi, l’archeologo Matteo della Corte, collaboratore di Amedeo Maiuri, ipotizzò che quei resti appartenessero in realtà alla villa che fu anche di proprietà di un uomo vicino all’imperatore Claudio, Posides Claudi Caesaris libertus, da cui poi lo stesso toponimo del luogo, noto fin dall’antichità per il suo microclima salubre e la straordinaria bellezza della sua costa. In alto: una fase dell’intervento di restauro sulle pitture della villa romana ubicata sotto la chiesa di S. Maria Assunta, a Positano. A sinistra: le pareti affrescate del triclinio della villa, che godeva di una magnifica vista sulla baia sottostante.

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ROMA

Dalla prima città ai palazzi imperiali Il complesso residenziale, che si sviluppava su piú piani e digradava verso il mare con rampe e terrazze, venne distrutto e abbandonato in seguito all’eruzione pliniana del 79 d.C., quando un consistente deposito di ceneri si formò sui monti retrostanti: le piogge alluvionali che seguirono l’evento vesuviano originarono una colata di fango che si incanalò nel fondovalle, investendo la villa, già

allora in corso di restauro dopo i danni subiti a causa del sisma che colpí la zona nel 62 d.C. La valanga fangosa, che si era abbattuta con violenza sulla casa, penetrando in tutti gli ambienti e provocando fratture e slittamenti dei setti murari, oltre al crollo di tetti e solai, dopo essersi velocemente solidificata, inglobò quasi interamente le strutture in un compatto banco piroclastico. In alto e qui accanto: materiali recuperati negli scavi della villa di Positano: un medaglione ad affresco con ritratto femminile e una situla in piombo decorata.

«La porzione della villa marittima restituita al pubblico e rilevata nella cripta della chiesa madre – racconta Silvia Pacifico, funzionario archeologo responsabile di zona – è al momento riferibile solo a quello che crediamo essere un settore, di 30 mq circa, di una delle sale da pranzo (triclinium), che, attraverso un peristilio porticato dotato di colonne di laterizio stuccate in rosso, di cui si conservano alcuni frammenti, si apriva direttamente sulla baia di Positano. Si tratta di un ambiente di elevata suggestione architettonica, che è possibile osservare dal pavimento, a mosaico bianco bordato da una doppia fascia nera, al soffitto, e di cui si rilevano le tracce dei vuoti lasciati dalle travi lignee, per un’altezza complessiva di 5 m. Le due pareti conservate, nord ed est, contigue, presentano una struttura muraria in opera cementizia con paramento in opera reticolata rivestito da pitture parietali su affresco nel Quarto Stile pompeiano (50-79 d.C. circa), con architetture a piú piani nella tipica tripartizione in zoccolo, zona mediana e superiore. La parte bassa, a fondo rosso, è divisa in pannelli e riquadri: vi si rilevano un’edicola con tetto a conchiglia, ma anche delfini, pantere, un grifo e un pegaso alato. La zona mediana è ripartita in pannelli di colore giallo, ornati da ghirlande, alternati a scorci architettonici bianchi arricchiti da candelabri tortili: al centro dei pannelli sono dipinti figure volanti, amorini,

Scendere dal Palatino verso il Circo Massimo, attraversando le pendici del colle che vide nascere il primo nucleo della città di Roma e sul quale, da Augusto in poi, gli imperatori stabilirono la propria residenza. È questa la nuova opportunità offerta dalla riapertura del percorso che, in un vero e proprio viaggio nella storia, costeggia appunto le residenze imperiali, dalla Casa di Augusto al complesso dei Severi del III secolo d.C. Le possenti arcate del palazzo severiano segnano con forza il paesaggio urbano della capitale e caratterizzano il profilo delle pendici meridionali del Palatino. E fin qui si estendevano, nel Rinascimento, gli Horti Farnesiani. Un luogo particolarmente rappresentativo già nell’antichità, stando alla leggenda virgiliana in cui Enea, fuggito da Troia, avrebbe attraversato queste pendici per salire al colle accolto dal vecchio re Evandro. Dal punto di maggiore altezza, poi, si affaccia anche il Tempio della Magna Mater, oggi contrassegnato da imponenti lecci. Info tel. 06 39967700; www.colosseo.beniculturali.it (red.)

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N otiz iario

medaglioni-ritratto e quadretti con scene mitologiche. La zona superiore dell’affresco è decorata con edicole prospettiche: sulla parete nord, la scenografia architettonica è parzialmente coperta da un tendaggio verde sul quale, a rilievo in stucco bianco, sono raffigurati elementi fantastici (mostri marini, delfini guizzanti e amorini); sulla parete est, la tenda è riavvolta, permettendo di cogliere le architetture raffigurate e, in particolare, l’inedita veduta prospettica di un palazzo che si sviluppa su tre livelli con porta d’ingresso in legno appena socchiusa, balcone sorretto da mensole a volute al primo piano e un ampio loggiato. Infine, nell’angolo nord-ovest dell’ambiente tricliniare, è stato scoperto un armadio blindato in legno e ferro, chiuso da una sbarra metallica: al suo interno sono stati ritrovati, come tesaurizzati, diversi recipienti in bronzo e oggetti d’uso quotidiano legati al rituale del simposio e tutti esposti in apposite vetrine nell’ambiente ipogeo ora aperto al pubblico».

GLI INTERVENTI PER LA CONSERVAZIONE

Per la stabilità delle condizioni ambientali

La conservazione della villa di Positano è stata raggiunta grazie al concorso di molteplici fattori, in un contesto nel quale risultano fondamentali la funzionalità e la gestione degli impianti e dei sistemi di controllo ambientali e strutturali. Il controllo del sito è affidato a un sistema di building automation aperto, capace di adeguarsi a tutte le possibili evoluzioni tecnologiche impiantistiche. Il sistema per il monitoraggio del microclima, oltre a registrare da remoto i parametri microclimatici, svolge il ruolo di attivazione e/o spegnimento delle macchine tese a garantire un impianto di climatizzazione passivo, in grado cioè di ripristinare i valori del microclima stabile. A questo obiettivo concorrono comportamenti idonei per la fruizione del bene, che non apportino eccessive variazioni delle condizioni ambientali. Da qui la regolamentazione degli ingressi, con soglie massime di visitatori: si vuole infatti raggiungere un equilibrio con minime alterazioni dei parametri e ridotto intervento degli impianti. Diego Guarino

«L’intervento di restauro del triclinium – spiega Diego Guarino, direttore dei lavori di restauro e musealizzazione del sito – ha preso avvio dalla rimozione meccanica della piroclastite aderente all’affresco. È stato necessario consolidare, fissare e colmare ogni strato, per legarlo alla struttura muraria, anch’essa a volte risarcita. Si è proceduto alla pulitura, al consolidamento, alla riadesione della pellicola pittorica e, infine,

Un particolare della ricca decorazione pittorica della parete nord della villa.

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alla sua reintegrazione. Dei frammenti di affresco e delle finiture in stucco trovati ribaltati nello scavo sono stati eseguiti la ricerca degli attacchi e il restauro in laboratorio, che ha permesso di ricostruire buona parte delle superfici mancanti. Anche la pavimentazione musiva del vano è stata restaurata dopo la rimozione meccanica di uno spesso strato di piroclastite. A conclusione dei lavori di scavo, degli interventi di consolidamento delle strutture e del restauro, sono stati realizzati percorsi aerei (passerelle e scale in vetro e acciaio corten), al fine di rendere accessibile e fruibile al pubblico dei visitatori l’ambiente ipogeo sotto al quale si trova il triclinium. Il percorso di visita rende cosí leggibili i risultati dell’intervento di restauro, in linea con quanto previsto dalla Carta di Venezia all’art. 9: conservare e mettere in rilievo i valori formali e storici del monumento, con la stratigrafia delle sue trasformazioni e la storia degli eventi umani e naturali che hanno lasciato tracce sulle strutture messe in luce». Giampiero Galasso



ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

CHE LA FAMA SOPRAVVIVA GRAZIE ALLE ISCRIZIONI FUNERARIE E ALLE INFORMAZIONI RACCOLTE NEL CORSO DEGLI SCAVI, LE NECROPOLI DI POMPEI SONO UNA VERA E PROPRIA MINIERA DI STORIE DI PERSONAGGI ILLUSTRI E DI GENTE COMUNE

L

a ricchezza e l’eterogeneità delle informazioni provenienti da Pompei permette di ricostruire, a volte solo di ipotizzare, la storia di alcuni abitanti che hanno lasciato una traccia indelebile del loro vissuto nelle iscrizioni funerarie delle necropoli cittadine. Per i personaggi piú in vista la posizione della tomba si rivelava fondamentale: i monumenti principali erano infatti innalzati sulle vie al di fuori delle porte urbane, ben visibili ai passanti che entravano o uscivano dal centro,

In alto: necropoli fuori Porta Ercolano. La tomba di Mamia (n. 4), sacerdotessa di Cerere e del Genio di Augusto A destra: una veduta d’insieme di un settore della necropoli.

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chiamati cosí a soffermarsi per ammirarne le architetture e per leggerne il nome e le gesta del proprietario.

LA VOCE DEI POMPEIANI Su queste tombe riecheggia la voce dei Pompeiani, scolpita a chiare lettere sulla pietra e destinata all’eternità, una sintesi scritta e formale di quello che gli estinti hanno desiderato che i posteri sapessero di loro. Si tratta della forma piú efficace di comunicare la propria posizione sociale in vita, i

propri meriti nei confronti della cittadinanza, le cariche ricoperte secondo passaggi istituzionali, oppure gli affetti familiari. Fuori Porta Ercolano, sulla trafficata strada che conduceva alle località costiere della Campania centrosettentrionale, si affacciano, nel primo tratto di proprietà pubblica, destinato a cittadini illustri, tombe come quella di Mamia (n. 4), sacerdotessa di Cerere e del Genio di Augusto, o di Marcus Porcius (n. 3), che si adoperò per la costruzione dell’odeion e dell’anfiteatro


cittadino. Piú avanti, fuori dal terreno pubblico, nella necropoli si susseguono, su entrambi i lati della strada pavimentata in età augustea, altre tombe accompagnate da epitaffi dal tono meno ufficiale. Fra queste desta un certo interesse la tomba n. 17, appartenuta a uno dei mercanti piú noti di Pompei, Aulus Umbricius Scaurus, della tribú Menenia, divenuto magistrato supremo della colonia con la carica di duoviro. In quanto cittadino emerito, il Senato di Pompei aveva elargito ben 2000 sesterzi per organizzare il suo sontuoso

funerale e addirittura allestire una statua equestre in suo onore nel Foro cittadino. Il padre, Aulus Scaurus, era fra i piú apprezzati fabbricanti di garum a Pompei, salsa pregiatissima esportata fino in Gallia e in Britannia. Sappiamo che parte delle sue ricchezze finirono per finanziare gli spettacoli gladiatori nell’anfiteatro, ma soprattutto per abbellire la sua splendida residenza affacciata sopra le mura urbane nel lato occidentale della città, con bella vista verso Capri e i Monti Lattari. Nella tomba n. 23, un liberto, nel In alto: una veduta panoramica della necropoli fuori Porta Ercolano. Sullo sfondo, si riconosce l’isola di Capri. A sinistra: Porta Ercolano, verso la necropoli cittadina. La struttura non presenta alcun tipo di apprestamento difensivo, poiché non venne innalzata dopo la conquista sillana di Pompei (89 a.C. circa), quando si perde la funzione propria delle mura.

ricordare il suo nome, Callistus, affrancato da Cneus Vibrius Saturninus, figlio di Quinto della tribú Falerna, volle celebrare la sua morte con un monumento a forma di triclinio, sul quale immaginava che si potesse banchettare in suo onore in occasione di tutte le ricorrenze dei morti.

DEVOZIONE CONIUGALE Traspare invece stupore nella tomba di un altro liberto (n. 34), Lucius Caltilius, che fece edificare il sepolcro soprattutto per la moglie Servilia, omaggiandola con un ingresso idealmente configurato come quello della loro casa, cosí da averne in qualche modo meno nostalgia nella dimora eterna. E poi la tomba n. 40, di Salvius,

triste fanciullo, morto a soli 6 anni. Ancora, il sepolcro (n. 42), che secondo alcuni appartenne al proprietario della vicina e splendida Villa di Diomede: Marcus Arrius Diomedes, liberto e amministratore del sobborgo rurale pompeiano chiamato Augustus Felix Suburbanus, costruí questa tomba per sé e la sua famiglia. Infine una coloritura di costume, frequente nelle necropoli pompeiane: sulla tomba n. 18 di Marcia Aucta, del marito Caius Fabius Secundus e delle figlie Fabia e Gratina, alcuni passanti irriverenti deturparono l’intonaco bianco del monumento con le vistose scritte «Gemellus e Proculus sono stati qui»; «Gemellus e Caesarnina salutano»; «Glyco, insieme a Martialis sotto il sole cocente, sarai assetato di sesso qui». Per notizie e aggiornamenti su Pompei, pagina Facebook Pompeii-Parco Archeologico.

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N otiz iario

SCOPERTE Vulci

SOTTO IL SEGNO DI GIANO

V

ulci saluta l’eccezionale scoperta di un tesoretto monetale risalente al III secolo a.C. Ritrovato intatto, l’insieme comprende ben 15 monete in bronzo di grandi dimensioni – che in origine erano probabilmente custodite dentro un borsellino in pelle – ed è stato rinvenuto sopra la tegola di chiusura di un loculo funerario insieme a uno strigile in ferro e a numerosi materiali ceramici, in un chiaro atteggiamento rituale a favore dei due defunti qui sepolti. Dall’alto in basso: particolari della tomba della necropoli di Poggetto Mengarelli (Vulci) nella quale è stato rinvenuto un tesoretto monetale composto da 15 pezzi romani (visibili nella foto in basso). III sec. a.C. Uno, inumato, sicuramente di sesso maschile, aveva un’altra moneta simile posizionata sulla spalla sinistra insieme a una fibula in bronzo, e del suo corredo facevano parte altri oggetti in ferro e ceramica. La sua morte è forse da attribuire all’elemento in ferro (lancia?) rinvenuto nei pressi del cranio. Il secondo defunto, incinerato, era stato deposto sulla banchina e le sue ossa combuste erano avvolte in un sudario, probabilmente chiuso dalla fibula bronzea ritrovata a fianco e praticamente identica all’altra. Altri reperti sono stati recuperati

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nel vestibolo della tomba, assieme a un terzo inumato: fra di essi spicca una piccola pisside di forma circolare con coperchio in piombo. Le monete del tesoretto appartengono alle prime emissioni romane e presentano su un lato la prora della nave e sull’altro l’immagine del dio Giano bifronte e vogliono sicuramente alludere al passaggio del defunto dalla vita al mondo ultraterreno. La scoperta si colloca all’interno delle indagini che da alcuni anni interessano la necropoli di Poggetto Mengarelli e che hanno visto lo scavo di piú di 100 tombe, la cui datazione si

colloca tra la metà dell’VIII e il II secolo a.C. Nel caso del sepolcro appena ritrovato, il suo studio consentirà di meglio definire la continuità sociale tra gli Etruschi e i Romani, all’indomani della conquista che i secondi portarono a termine nel 280 a.C. Gli scavi sono condotti in collaborazione tra la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale, la Fondazione Vulci e il Comune di Montalto di Castro. Carlo Casi


EVENTI Piemonte

UN TERRITORIO, LA SUA STORIA E LE SUE ECCELLENZE ENOGASTRONOMICHE

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l piano di valorizzazione territoriale «Valle di Susa. Tesori di Arte e Cultura Alpina», in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Torino organizza per domenica 23 settembre 2018 (con orario 10,00-12,30 e 14,30-18,00) la IX Giornata del Patrimonio Archeologico della Valle di Susa, «Archeologia da gustare», durante la quale i principali siti archeologici della Valle saranno aperti e accessibili per tutta la giornata, con la possibilità di accompagnamenti guidati gratuiti. L’evento ha ottenuto anche il patrocinio per l’Anno Europeo del Patrimonio Culturale, e la Valle di Susa torna protagonista di questo straordinario racconto corale, che mette in luce la ricchezza e la dimensione

i colori di ogni stagione danno vita a prodotti unici e a una cucina dai sapori decisi e schietti. In occasione dell’evento, per ognuno dei siti archeologici sarà creato un collegamento tra la cronologia di riferimento e i prodotti del territorio, con eventi e iniziative in collaborazione con i Comuni e le associazioni coinvolte. Questi i siti visitabili: Almese, villa romana e ricetto di San Mauro; Avigliana, castello, chiesa di S. Bartolomeo, ecomuseo dinamitificio Nobel; Bardonecchia, parco archeologico «Tur d’Amun»; Borgone Susa, «Il Maometto» e la cappella romanica di S. Valeriano; Bruzolo, l’antica fucina; Caselette, villa romana e antico acquedotto; Chianocco, percorso integrato Orrido di Chianocco; Condove, castello del Conte Verde, chiesa di S. Rocco e fucina Col; Novalesa, museo archeologico dell’abbazia dei Ss. Pietro e Andrea; Oulx, torre delfinale; Salbertrand, ecomuseo Colombano Romean e mulino idraulico del Martinet; Susa, siti storico-archeologici; Vaie, museo laboratorio della preistoria. Per le scuole di ogni ordine e grado l’evento sarà replicato il 20 ottobre 2018. Info tel. 0122/622640: e-mail: info@vallesusa-tesori.it; www.vallesusa-tesori.it

I N F O R M A Z I O N E P U B B L I C I TA R I A

diffusa del patrimonio culturale. L’evento nasce dalla collaborazione tra amministrazioni comunali, associazioni culturali e privati, attraverso una pratica di cooperazione e partecipazione alla costruzione della Giornata che si è consolidata nel tempo. Il percorso giunto alla sua nona edizione ha permesso di fornire un maggiore accesso al patrimonio culturale valsusino, partendo da aperture straordinarie iniziate con la prima edizione sino al consolidamento di un calendario di aperture e visite speciali nel corso dell’anno: si è sviluppata una consapevolezza nella comunità che ha condotto restauri, migliorato gli accessi e promosso in maniera coerente e diffusa. L’iniziativa, inserita nell’Anno del Cibo italiano, permette anche di promuovere e valorizzare il marchio di qualità dei Prodotti tipici Valsusa, riconoscendo la tradizione della vita di montagna e di una valle alpina di transito dalla storia secolare, dove l’incontro tra le genti e i profumi e

Dall’alto in basso: alcuni dei monumenti piú importanti di Susa: Porta Savoia (o «del Paradiso»), il castello della Contessa Adelaide e l’arco di Augusto.

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A TUTTO CAMPO Enrico Zanini

UN PAESE E LA SUA STORIA L’IMPEGNO DELL’UNIVERSITÀ DI SIENA A MONFORTE SAN GIORGIO, IN SICILIA, È LA PROVA DI COME ANCHE UNA REALTÀ CONTEMPORANEA POSSA ESSERE INDAGATA CON GLI STRUMENTI DELL’ARCHEOLOGIA

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li archeologi si occupano, per definizione, di passato. Ma il passato, a sua volta, è un prodotto della nostra contemporaneità, perché esso è sempre storicamente determinato, in quanto ogni epoca finisce per costruirsene uno, da indagare con i metodi dell’archeologia. Il passato dei nostri giorni è praticamente infinito nel tempo, giacché oggi le nuove tecnologie ci consentono di risalire nella «storia profonda» (quella che una volta chiamavamo semplicisticamente «preistoria») fino a epoche remotissime. È poi infinito nello spazio, perché la dimensione del passato che oggi ci interessa è quella globale, e forse anche oltre, visto che si sta ponendo un problema anche di archeologia delle conquiste spaziali. Ma, soprattutto, il passato è infinito nella sua tipologia, perché oggi, a noi, del nostro passato interessa tutto: non solo i grandi monumenti, non solo le epoche storiche tradizionali, ma la vita degli uomini – e delle donne, dei bambini, degli anziani, dei poveri, ecc. – nella sua dimensione globale. A una storia globale – e a un’antropologia globale – corrisponde necessariamente un’archeologia globale; che altro non è che il nostro modo attuale di

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pensare ogni cosa in termini globali. Questa idea, in sé affascinante, pone grandi problemi. Se il passato è infinito, sarà per definizione inconoscibile, perché immensamente piú grande – in puri termini fisici – della capacità di conoscenza di noi umani, con i nostri ovvi limiti di durata della vita e di capacità di trovare, immagazzinare, elaborare, comunicare, recepire informazioni.

SCELTE ARBITRARIE Gli archeologi si trovano quindi di fronte a un problema nuovo: quello di decidere a quale segmento del passato applicare i loro strumenti conoscitivi, nella consapevolezza che ogni scelta sarà comunque arbitraria. Arbitraria era, in passato, la scelta di occuparsi solo di monumenti e di opere d’arte, e arbitraria la scelta di occuparsi solo di preistoria, di archeologia classica, o anche di archeologia cristiana o di Medioevo. È solo una questione di scelte e, per sfuggire alla logica dell’arbitrarietà assoluta (paradossalmente potremmo scegliere di che cosa occuparci assolutamente a caso, per esempio ricorrendo ai dadi per decidere dove scavare), l’unica strada percorribile è quella della coerenza del progetto. Definire cioè

Un momento del lavoro di archeologia condivisa e partecipata con i ragazzi della scuola elementare «Stefano Tuccio» di Monforte San Giorgio. a priori di che cosa vogliamo occuparci, perché vogliamo farlo (cioè per ottenere quale informazione), a che cosa ci servirà questa informazione e quale effetto, sperabilmente positivo, tutto questo avrà sulla comunità in cui avremo operato. La logica di quella che oggi chiamiamo «archeologia pubblica» sta tutta qui, nell’elaborare un progetto al centro del quale non ci sia solo il desiderio di conoscenza degli archeologi che lo conducono (o anche la piú che legittima esigenza di conoscenza e tutela di un pezzetto del nostro patrimonio culturale), ma anche, e soprattutto, la ricaduta positiva che questo


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1. Analisi geochimica dei suoli (luisa.dallai@unisi.it). 2. La cella vinaria nella villa romana di San Giovanni, Isola d’Elba (franco.cambi@unisi.it). 3. Laboratorio di ceramica classica (mara.sternini@unisi.it). 4. Laboratorio di restauro (fernanda.cavari@unisi.it). 5. Archeologia pubblica all’Archeodromo di Poggibonsi, Siena (marco.valenti@unisi.it). 6. Populonia, scavo sull’acropoli in collaborazione con la SABAP di Pisa-Livorno (stefano.camporeale@unisi.it, cynthia.mascione@unisi.it). 7. Salento, Grotta del Cavallo. Scavo di un giacimento paleolitico (lucia.sarti@unisi.it).

A Siena l’archeologia è a tutto campo www.unisi.it

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8. Analisi archeobotaniche di campioni organici dal sito medievale di Vetricella, Grosseto (giovanna.bianchi@unisi.it). 9. Studenti al lavoro sull’alfabeto etrusco a lettere mobili (andrea.ciacci@unisi.it). 10. Scavo di un sito eneolitico al Poggio di Spaccasasso, Grosseto (nicoletta.volante@unisi.it). 11. L’uso del lidar su drone per documentare le aree boschive della Maremma grossetana (stefano.campana@unisi.it). 12. Vignale (Livorno), pulizia e consolidamento di un mosaico (enrico.zanini@unisi.it).

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Alcuni dei tematismi del contemporaneo individuati sulla base

GIS del paese di Monforte San Giorgio (Messina).

progetto avrà su una comunità. Comunità che, tra l’altro, sostiene, direttamente o indirettamente, il peso economico della nostra attività. Con queste idee in testa, da circa un anno, un gruppo di lavoro del Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena ha avviato un progetto di ricerca archeologica multilivello in un paese della Sicilia tirrenica, Monforte San Giorgio, in provincia di Messina. Il progetto è nato perché un giovane e intraprendente sindaco ci ha contattato per condurre un’attività – tutto sommato tradizionale – di schedatura, conoscenza e valorizzazione di ciò che rimaneva del patrimonio storico e archeologico locale. Arrivati a Monforte San Giorgio, ci siamo resi conto che il paese – che pure ha una storia lunga e interessante – non conservava resti particolarmente visibili. La collina che sovrasta il paese nasconde nel suo sottosuolo i resti di un castello normanno ricostruito da Federico II di Svevia, forse sulla base di un primo insediamento bizantino; del

tessuto medievale del borgo alla base del castello rimangono visibili una porta e una chiesa in cattivo stato di conservazione e le cose non vanno meglio per le pur importanti fasi di vita cinque/seicentesche. Il tutto è inglobato in un fitto tessuto urbano, fatto di piccole e medie unità immobiliari, costruite, trasformate, abbandonate, rioccupate, restaurate decine di volte nel corso di qualche secolo, a partire appunto dall’età moderna fino ad arrivare all’altro ieri.

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PARTIRE DAL CONTESTO In questo contesto, l’idea che ci è sembrata piú adeguata è stata quella di partire proprio dal contesto, ovvero dallo stato di fatto attuale. Abbiamo scelto di non focalizzarci su questo o quel monumento piú o meno sopravvissuto (al momento opportuno ci occuperemo anche di quelli), ma di provare ad applicare i nostri metodi di lettura archeologica della trasformazione di un insediamento urbano anche all’abitato contemporaneo. Come spesso accade, l’idea è nata

dalla nostra esperienza archeologica: il nostro gruppo lavora ormai da quindici anni a Gortina di Creta, scavando e studiando un quartiere di abitazioni che hanno vissuto tra il IV e l’VIII-IX secolo d.C. In quel caso, attraverso l’analisi archeologica cerchiamo di capire come vivevano, lavoravano (e morivano) le persone che abitavano quel frammento di città e cerchiamo di capire anche come trarre da questa analisi elementi che possano servire a capire come si trasformarono le altre città del Mediterraneo nella stessa epoca. A Monforte San Giorgio abbiamo semplicemente pensato che avremmo potuto applicare gli stessi strumenti concettuali e operativi a un contesto per molti versi simile (case e spazi di vita di tutti i giorni) anche se di un’epoca diversa e molto piú vicina a noi. Con un vantaggio enorme: quello di poter contare anche sulla conoscenza diretta delle persone che ancora vivono e lavorano in quel paese, sulle loro storie personali e sulla loro percezione della storia collettiva della propria comunità. Insieme a noi archeologi lavorano anche artisti, architetti, archivisti, grafici, gli insegnanti e gli studenti delle scuole e l’obiettivo comune è quello di ri-costruire una storia collettiva, individuando nel tessuto urbano del paese tracce e percorsi. Fili rossi da cui partire per ricostruire l’identità collettiva, anche in prospettiva storica, di una comunità. Stiamo insomma provando a mettere il nostro mestiere di archeologi al servizio di un progetto di rigenerazione urbana nella contemporaneità. Una piccola sfida, per guardare al futuro di un’archeologia che sappia essere davvero pubblica. Il progetto si chiama «Percorsi bioGrafici» e se ne possono seguire gli sviluppi sulla Pagina Facebook Percorsi Bio_grafici. (enrico.zanini@unisi.it)



PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

ALLA CORTE DEL GIOVANE PRINCIPE DOPO AVER RISOLTO NON POCHI PROBLEMI LOGISTICI, LA CAVERNA DELLE ARENE CANDIDE, IN LIGURIA, È STATA APERTA AL PUBBLICO. NE PARLIAMO CON ANDREA DE PASCALE, CONSERVATORE DEL MUSEO ARCHEOLOGICO DEL FINALE, CHE NE GESTISCE LE VISITE

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pre al pubblico la Caverna delle Arene Candide a Finale Ligure, in provincia di Savona, grazie all’accordo siglato tra il Ministero dei Beni Culturali e il Comune di Finale Ligure. Quest’ultimo ne ha affidato la gestione al Museo Archeologico del Finale, come ci racconta il suo conservatore, Andrea De Pascale, nome ben noto ai nostri lettori. «Dal punto di vista scientifico – spiega De Pascale – la Caverna

delle Arene Candide è il sito preistorico piú importante dell’Italia Settentrionale, nonché un punto di riferimento essenziale per la preistoria mediterranea. Siamo infatti di fronte a una lunga storia, che dimostra come una cavità naturale sia stata usata per 30 mila anni con funzioni diverse, a seconda delle epoche: nel Paleolitico Superiore fu un luogo di sepoltura; durante il Neolitico, divenne anche ambiente di vita, con spazi adibiti a stalla o ricovero per animali; nelle età dei Metalli fu frequentata dall’uomo, che ha lasciato traccia di sé nella ceramica; mentre in epoca romana la caverna fu sfruttata per attività produttive e per conservare le derrate». Quali scoperte sono state fatte nella caverna, per l’epoca piú antica della storia dell’uomo? «Eccezionale è stato il ritrovamento A sinistra: statuina in terracotta di «Dea Madre», dalla Caverna delle Arene Candide. Neolitico Medio. Finale Ligure Borgo, Museo Archeologico del Finale. Nella pagina accanto, in alto: una visita guidata all’interno della Caverna delle Arene Candide. Nella pagina accanto, in basso: particolare del calco della sepoltura del Giovane Principe nel Museo Archeologico del Finale.

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della sepoltura paleolitica detta del “Giovane Principe”, ricchissima di ornamenti e oggetti di corredo, che ha restituito le spoglie di un giovane cacciatore vissuto 28mila anni fa. Il defunto è un quindicenne che morí di morte violenta, probabilmente attaccato da un grande animale, forse un orso, che lo colpí fatalmente, strappandogli persino parte della mandibola. Il Museo Archeologico del Finale conserva la riproduzione del momento della scoperta, avvenuta il 1° maggio 1942, mentre la sepoltura originale si trova nel Museo di Archeologia Ligure, a Genova. Il corredo annovera pezzi straordinari, come i pendagli in avorio di mammut. Il pachiderma si era già estinto in Liguria quando visse il “Principe”, 28mila anni fa e dunque questi oggetti dovevano avere un grande valore all’epoca. C’è, poi, una splendida cuffia, ornata da centinaia di conchiglie, interamente cucita a mano». E quali altre meraviglie ha restituito la Caverna delle Arene Candide per le epoche posteriori? «Fin dalla seconda metà del XIX secolo, la grotta è stata oggetto di intense ricerche archeologiche, proseguite fino a oggi con progetti internazionali e missioni di scavo provenienti da varie parti del mondo, oltre che da diverse


università italiane. Per il Neolitico, le Arene Candide offrono la datazione piú antica per l’Italia settentrionale e per il Mediterraneo occidentale, 5800 a.C., ottenuta da chicchi di orzo e di grano conservati nella grotta. Questi cereali all’epoca non erano ancora presenti in Italia e in Europa e furono portati dall’Oriente dai primi contadini allevatori giunti in Liguria. Il deposito stratigrafico della Caverna delle Arene Candide documenta tutte le fasi del Neolitico (5800-3600 a.C.), e poi le età dei Metalli (Rame, Bronzo e Ferro), fino ai livelli romani e bizantini, che chiudono la sequenza. Con la romanizzazione della Liguria di Ponente, dal 181 a.C., questa grotta affacciata sul mare, asciutta, ma fresca e riparata, viene usata come cantina: la ceramica romana ritrovata, infatti, è costituita per il 90 per cento da anfore vinarie». Nella grotta sono state rinvenute, fra le altre, sepolture appartenenti agli ultimi cacciatori-raccoglitori del Paleolitico Superiore, riferibili a

una ventina di individui. Che cosa ci raccontano? «Grazie a un progetto dell’Università di Bordeaux, guidato dall’antropologo Stefano Vitale Sparacello, sono in corso di studio tutti i resti scheletrici delle sepolture della Caverna delle Arene Candide, nonché di quelle ritrovate nelle oltre cento grotte preistoriche presenti nell’area di Finale Ligure. Grazie a un campione archeologico cosí vasto, l’obiettivo è studiare le diverse paleopatologie, cioè le malattie antiche, e quindi comprendere le condizioni di vita dell’uomo preistorico, anche grazie allo studio dei denti e dell’alimentazione. Alla fine della ricerca potremo disporre di 150 datazioni al radiocarbonio». A oggi, nessun altro sito preistorico del Mediterraneo ha restituito una testimonianza cosí completa dell’ambiente, delle condizioni di salute e di vita, dell’economia e delle pratiche di gestione delle risorse naturali, come la Caverna

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Vasi in ceramica del Neolitico Medio, dalla Caverna delle Arene Candide. Finale Ligure Borgo, Museo Archeologico del Finale.

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delle Arene Candide. Come verrà valorizzato tutto ciò, quando la grotta sarà definitivamente aperta al pubblico? Che cosa si potrà vedere? «I quasi 10 m intatti dell’intera sequenza stratigrafica. L’idea è proporre al pubblico le trincee di scavo ottocentesche e mostrare la storia della metodologia degli scavi. Le passerelle realizzate grazie agli ultimi interventi per la valorizzazione permetteranno ai turisti di scendere dai livelli piú recenti fino a quelli piú antichi, fino a vedere il punto in cui è stata ritrovata la tomba del “Giovane Principe”, a 7 m di profondità.


A COLLOQUIO CON IL SOPRINTENDENTE, VINCENZO TINÉ

Un caso esemplare

Della sinergia fra MiBAC e Comune di Finale Ligure che ha reso possibile la valorizzazione della Caverna delle Arene Candide abbiamo parlato con Vincenzo Tiné, Soprintendente per l’Archeologia, le belle arti e il paesaggio per la città metropolitana di Genova e le province di Imperia, La Spezia e Savona. Soprintendente, come siete riusciti ad aprire in maniera definitiva questo importante sito archeologico, finora quasi sempre chiuso al pubblico? «La Caverna delle Arene Candide rientra in un modello di valorizzazione delle aree archeologiche già promosso in Veneto e importato in Liguria. La recente unificazione delle Soprintendenze ha innescato un grave problema di organico dei custodi nelle aree archeologiche. L’unica possibilità per potere aprire i siti, valorizzandoli e rendendoli fruibili dal pubblico consiste perciò nello sperimentare forme di collaborazione con gli enti locali. Nel caso delle Arene Candide, il nostro interlocutore è il Comune di Finale Ligure, che ha affidato al Museo Archeologico del Finale il servizio di accompagnamento dei visitatori alla grotta. Il sito ha problematiche di avvicinamento e pone una questione anche logistica, oltre che di spiegazione degli scavi. La grotta è ora raggiungibile grazie a un sentiero, che abbiamo appena restaurato, che parte dal museo. Al suo interno, per visitare gli scavi, abbiamo allestito passerelle con relativi pannelli e illuminazione. Cosí, finalmente, questo monumento della preistoria italiana è fruibile». La valorizzazione di questo delicato complesso archeologico e paesaggistico ha posto diverse problematiche di tutela, non è vero? «C’è la problematica della Cava Ghigliazza, ora non piú attiva, che nel Novecento ha tagliato la falesia, cancellando tutti i depositi preistorici. In tempi recenti è intervenuto un grosso gruppo emiliano di investitori e imprenditori, con un progetto di edificazione dell’area a scopi turistici, che prevede la costruzione di una serie di palazzine, ma anche la valorizzazione della Caverna delle Arene Candide, la creazione di un antiquarium locale, e di laboratori di ricerca in situ. Dopo un lungo iter, abbiamo da poco dato l’autorizzazione paesaggistica per la siste-

Il Museo Archeologico del Finale, avrà la gestione del sito archeologico insieme all’Istituto Internazionale di Studi Liguri, grazie al protocollo di intesa siglato tra Soprintendenza e Comune. La nostra volontà è che le visite vengano svolte direttamente dagli archeologi e dai membri delle équipe che studiano i materiali.

mazione dell’intera cava con la creazione di un parco naturalistico, cosa che recherà vantaggio anche alla Caverna delle Arene Candide, che finora si affacciava su un cantiere». È dunque possibile conciliare gli interessi turistici ed economici con le esigenze di tutela dei siti archeologici? «Da Soprintendente, devo avere uno sguardo complessivo e valutare un progetto non solo come archeologo, ma anche come architetto, e interloquire con gli imprenditori. Bisogna cambiare prospettiva. E può accadere di entrare in conflitto su certi temi, dovendo autorizzare centinaia di migliaia di metri cubi di cemento, come nel caso dell’operazione – enorme – che interessa la Caverna delle Arene Candide. Si tratta di vagliare proposte edilizie con risvolti di valorizzazione del patrimonio archeologico. Di fronte a una grotta preistorica, è meglio veder sorgere un centro congressi, un villaggio turistico oppure avere i capannoni di una cava abbandonata? Occorre mitigare l’impatto del turismo, che nelle Cinque Terre sta devastando il territorio, e la Soprintendenza si trova a dover continuamente fronteggiare l’attacco speculativo, anche perché in Liguria il 94% del territorio regionale è sottoposto ad autorizzazione paesaggistica. Tutto, dalla casa al mare a quella in montagna, passa per la Soprintendenza. Gli intrecci archeologico-architettonici sono molti forti e bisogna bilanciare gli interessi. Prima le Soprintendenze andavano per la loro strada, perseguendo unicamente l’aspetto archeologico. Ora, con l’unificazione voluta dalla riforma Franceschini, le Soprintendenze si trovano a dover contemperare esigenze diverse: scientifiche ma anche architettoniche, di sviluppo, interessi economici». In questo senso, che cosa insegna l’esperienza della Caverna delle Arene Candide? «Il caso delle Arene Candide è esemplare, perché si tratta di una valorizzazione non solo archeologica, ma anche paesaggistica, architettonica e turistica di un sito. La valorizzazione archeologica non può piú essere solo settoriale e prettamente scientifica, ma deve essere parte di un contesto urbanistico e paesaggistico, da valutare nel suo complesso».

Sarà un modo per mettere in contatto il pubblico con chi scava nel sito. La visita partirà dal museo, dove i visitatori potranno vedere i reperti rinvenuti, tra cui alcune bellissime statuette in terracotta neolitiche di “Dee Madri”, e poi proseguirà nella caverna, poco distante. Con una bella passeggiata, accompagnati da guide ambientali

che daranno informazioni di carattere naturalistico, i turisti arriveranno al sito. Per rendere piú completa la visita, i partecipanti potranno tenere tra le mani le riproduzioni dei reperti. Sarà un’esperienza multisensoriale, arricchita anche da videoproiezioni e supporti multimediali sulla vita del Giovane Principe».

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AQUILEIA

I primi passi del cristianesimo È in programma il 23 settembre prossimo, nel Museo Paleocristiano di Aquileia la Giornata CERM-Archeologia, Arte e Storia. I partecipanti all’evento, aperto anche a chi non sia socio del CERM, Centro Europeo di Ricerche Medievali, saranno accompagnati dalle spiegazioni archeologiche e artistiche degli autori del libro Monastero di Aquileia Maurizio Buora e Paolo Casadio. A Giuseppe Cuscito, già ordinario di archeologia cristiana all’Università di Trieste, è stato inoltre chiesto di ripercorrere i tempi e i modi in cui il cristianesimo pose le sue radici ad Aquileia; mentre Paolo Cammarosano, professore di storia medievale all’Università di Trieste, si soffermerà sulla nascita del patriarcato di Aquileia e sul suo ruolo politico nell’Europa del tempo. Info info@cerm-ts.org; www.cerm-ts.org

In alto: particolare di un mosaico con figure di Nereidi. Età imperiale. Nîmes, Musée de la Romanité. In basso: il Musée de la Romanité, che, come si vede dalla foto, sorge a poca distanza dalle Arénes.

MUSEI Francia

FRA LE PIEGHE DI UNA TOGA

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pochi passi dalle Arènes, il suo celebre anfiteatro, la città francese di Nîmes si è dotata di un nuovo spazio espositivo, che permette di conoscerne ancor meglio la storia: è il Musée de la Romanité, inaugurato lo scorso 2 giugno. Realizzato su progetto dell’architetto Elizabeth de Portzamparc, l’edificio vuole evocare, fin dalle sue forme, l’epoca alla quale è dedicato: l’idea è stata infatti quella di conferire alla facciata un andamento ondulato per evocare il panneggio di una toga e di rivestirla con migliaia di formelle in vetro, che intendono richiamare un antico mosaico. Superato l’ingresso, si viene accolti, non a caso, dal frontone del santuario sorto presso una sorgente ai piedi del Mont Cavalier e dedicato al dio Nemausus (che fu poi anche il nome della città stessa): la sua fondazione, infatti, viene considerata come uno dei momenti cruciali nel processo di formazione dell’abitato. La collezione

permanente – forte di oltre 5000 reperti – si snoda quindi cronologicamente, dall’età del Ferro sino all’epoca medievale. Nella prima sezione spicca la ricostruzione della casa di Gailhan, che offre una testimonianza significativa della vita della Nîmes gallica, nei secoli che precedettero la romanizzazione. Ma si legano tuttavia a quest’ultima le opere di maggior pregio della raccolta, fra le quali sono compresi numerosi mosaici di fattura pregevolissima, come per esempio quello di Penteo. Per festeggiare l’inizio della sua attività, il Musée de la Romanité propone inoltre, fino al prossimo 28 settembre, la mostra «Gladiatori: eroi del Colosseo». Stefano Mammini

DOVE E QUANDO Musée de la Romanité Nîmes, 16, Boulevard des Arènes Orario fino al 31.08: tutti i giorni, 10,00-20,00; dall’01.09: tutti i giorni, 10,00-19,00 Info https://museedelaromanite.fr

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N otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

QUI NULLA È CAMBIATO Il sito archeologico di Kerkouane, in Tunisia – a cui, in questo numero, è dedicato l’articolo alle pp. 44-55 – è stato dichiarato dall’UNESCO Patrimonio Mondiale dell’Umanità nel 1985. Tuttavia, è forse la meno conosciuta delle sette località tunisine che a oggi hanno ottenuto questo riconoscimento e la presentiamo dunque con particolare piacere. Città di origine fenicio-punica situata sul mare, all’estremità di Capo Bon, nel Nord-Est del Paese, Kerkouane (1) fu abbandonata durante la prima guerra punica (intorno al 250 a.C.) dopo circa 400 anni di esistenza. Il fatto che non sia mai stata ricostruita dai Romani, né abitata, e che sia stata solo parzialmente spogliata di pietre, marmi e laterizi a scopo di reimpiego, le ha garantito il privilegio di aver conservato, praticamente intatta, la struttura urbana originaria per cui costituisce una straordinaria testimonianza visiva della reale planimetria di un centro abitato fenicio-punico, con le sue residenze private e i suoi edifici pubblici. Inoltre, a circa 1000 m dal perimetro della città, vi è la necropoli di Arg el Ghazouani (ben illustrata da una cartolina postale cinese del 2011, 2-2a), con le sepolture distribuite lungo il crinale della collina degradante verso il mare. E anche il sepolcreto offre una ricca testimonianza dell’architettura funeraria punica di quel periodo. Fin dal 1952, anno della sua scoperta, gli scavi di Kerkouane hanno restituito mosaici, pitture e monili (3-4), oggi esposti nel Museo del Bardo, maschere, (Museo di Cartagine, 5) e medaglioni in terracotta (6). Come già detto, la specificità di questo sito è data essenzialmente dall’essere rimasto incontaminato dopo oltre 2000 anni. Un destino ben diverso da quello toccato alle altre importanti città tunisine di origine fenicio-punica – Cartagine (cartolina maximum, 7; intero postale cinese, 8), Susa (o Sousse, 9) e Utica (località da cui proviene il famoso mosaico della testa di Nettuno, 10) – che, 9 nella loro lunga storia, sono state praticamente ricostruite in continuazione, fino a perdere la loro connotazione originaria. IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

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Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



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AA M D A O N RACCHI

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RA R E GU

LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO

L’IMPERO

ALLA CONQUISTA DEL

MONDO

L’ARTIGLIERIA ROMANA: I SEGRETI DI UNA MICIDIALE MACCHINA DA GUERRA


S L’assedio di Alesia, olio su tela di Henri-Paul Motte. Le-Puy-en-Velay, Musée Crozatier. Nel dipinto sono raffigurate le macchine da guerra fatte costruire da Cesare per la campagna del 52 a.C., combattuta contro i Galli di Vercingetorige.

i potrebbe dire che tutto abbia avuto inizio quando Davide, nel duello con Golia – che sembrava segnato –, mise mano alla fionda e riuscí ad abbattere il gigante. Come spiega Flavio Russo nella nuova Monografia di «Archeo», infatti, non esiste, almeno dal punto di vista concettuale, una sostanziale differenza fra l’arma rudimentale del giovane pastore protagonista dell’episodio biblico e le poderose macchine da guerra messe a punto dagli ingegneri e dai tecnici prima greci e poi romani. A cambiare furono, naturalmente, le dimensioni e la crescente potenza degli ordigni, per i quali, di volta in volta, si fece ricorso alla forza sprigionata da fasci di fibre animali, molle metalliche, aria, fuoco… Dagli «archi da pancia» sperimentati con successo da Dionisio di Siracusa alle micidiali artiglierie leggere impiegate da Traiano in Dacia, la Monografia ripercorre una storia avvincente, fatta di sangue e di morte, ma anche di capacità inventive e tecniche spesso eccezionali.

GLI ARGOMENTI • PRESENTAZIONE • Al confine tra il bene e il male • GLI ARCHETIPI • Kestrosphendone, gastrafete, scorpioni e baliste • INNOVAZIONI

AL TEMPO DELL’IMPERO • Cheiroballistra, armi di nuova generazione, onagro

• ARMI SPERIMENTALI • Catapulta a molle di bronzo, catapulta di Ctesibio, balista a molle d’aria, catapulta a trazione

IN EDICOLA

• SUI CAMPI DI BATTAGLIA • Teutoburgo, guerre partiche, assedio di Gerusalemme

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CALENDARIO

Italia

FINALBORGO (SAVONA) In bocca al lupo!

ROMA Walls. Le mura di Roma

Un antico predatore tra archeologia, storia e leggende Museo Archeologico del Finale fino al 23.09.18

Fotografie di Andrea Jemolo Museo dell’Ara Pacis fino al 09.09.18

FIRENZE A cavallo del tempo

Il Palatino e il suo giardino segreto Nel fascino degli Horti Farnesiani Palatino fino al 28.10.18

L’arte di cavalcare dall’antichità al Medioevo Limonaia del Giardino di Boboli fino al 14.10.18

Traiano

GUIDONIA MONTECELIO (ROMA) II dio persiano dal manto stellato

Costruire l’Impero, creare l’Europa Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 18.11.18

I Confini dell’Impero Romano

Il Limes Danubiano. Da Traiano a Marco Aurelio Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 18.11.18

La Roma dei re

Il racconto dell’archeologia Musei Capitolini fino al 27.01.19

BOLOGNA Ritratti di famiglia

Personaggi, oggetti, storie del Museo Civico fra Bologna, l’Italia e l’Europa Museo Civico Archeologico fino al 19.08.18

FERRARA Ebrei, una storia italiana

Bernardo Bellotto, L’Arco di Tito a Roma. 1740 circa.

Ricostruzione 3D dell’anfiteatro e del ludus di Carnuntum.

Il culto di Mitra fra Lazio ed Etruria Museo Civico Archeologico «Rodolfo Lanciani» fino al 30.09.18

LIDO DI JESOLO Egitto. Dèi, faraoni, uomini Spazio Aquileia 123 fino al 15.09.18

NAPOLI Pompei@Madre

Materia Archeologica MADRE-Museo d’arte contemporanea Donnaregina fino al 24.09.18

Ercolano e Pompei

Visioni di una scoperta Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.18

I primi mille anni Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS fino al 16.09.18

PIOMBINO (LIVORNO) Sapere di mare

L’opera al nero

SANTA MARIA CAPUA VETERE (CASERTA) Annibale a Capua

La ceramica attica alle origini di Spina Museo Archeologico Nazionale fino al 05.11.18 30 A R C H E O

Ricostruzione della tomba di Tutankhamon.

L’uomo e il mare un legame millenario Museo etrusco di Populonia Collezione Gasparri fino al 04.11.18

Museo archeologico dell’antica Capua fino al 28.10.18

Un taccuino con annotazioni su Pompei. 1829.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Belgio

SANTA MARINELLA (ROMA) Pittura di terracotta

BRUGES Mummie

Mito e immagine nelle lastre dipinte di Cerveteri Castello di Santa Severa fino al 22.12.18

Segreti dell’antico Egitto Xpo Center Bruges fino all’11.11.18

SIRACUSA Archimede a Siracusa

Germania

Experience exhibition Galleria Civica Montevergini fino al 31.12.19

BONN Nazca, disegni divini

TIVOLI (ROMA) Adriano, preservare le memorie

Scoperte archeologiche dal deserto peruviano Bundeskunsthalle fino al 16.09.18

Tecnologie al servizio della salvaguardia e della fruizione del patrimonio storico Ex chiesa dell’Annunziata fino al 15.09.18

Lussemburgo LUSSEMBURGO Il Luogo Celeste. Gli Etruschi e i loro dèi

TORINO Orienti

Il santuario federale di Orvieto Musée national d’histoire et d’art fino al 02.09.18

7000 anni di arte asiatica dal Museo delle Civiltà di Roma MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 26.08.18

Anche le statue muoiono Conflitto e patrimonio tra antico e contemporaneo Museo Egizio fino al 09.09.18

Scarabeo con satiri che vendemmiano.

Rilievo funerario palmireno.

VETULONIA (GROSSETO) L’antico Egitto IN VITA a Vetulonia A casa di un operaio artista della Valle dei Re Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 04.11.18

Svizzera HAUTERIVE Orso

Laténium, Parc et musée d’archéologie de Neuchâtel fino al 06.01.19

Il sarcofago dorato del sacerdote Nedjemankh.

RANCATE (MENDRISIO) Il Cavallo: 4000 anni di storia Collezione Giannelli Pinacoteca cantonale Giovanni Züst fino al 19.08.18

VOLTERRA I signori de L’Ortino

Aristocrazie gentilizie all’alba della città di Velathri Palazzo dei Priori fino al 30.09.18

USA NEW YORK Nedjemankh e il suo sarcofago d’oro The Metropolitan Museum of Art fino al 21.04.19

A R C H E O 31


ESCLUSIVA • TAZZA FARNESE

32 A R C H E O


QUELLA MAGNIFICA SCUDELLA... ACCOMPAGNATA DALLE SPLENDIDE IMMAGINI REALIZZATE DA LUIGI SPINA, QUI PUBBLICATE IN ANTEPRIMA ESCLUSIVA, ECCO LA STORIA DELLA TAZZA FARNESE, UNO DEI VANTI DEL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI NAPOLI di Stefano Mammini

G

Salvo diversa indicazione, tutte le foto che corredano l’articolo sono opera di Luigi Spina e rappresentano la Tazza Farnese, una pregiata coppa in agata sardonica di epoca ellenistica e oggi

conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Sulle due pagine: particolari della decorazione interna della Tazza.

li scavi, e in particolare quelli condotti a Pompei ed Ercolano a partire dal Settecento, hanno alimentato in maniera decisiva le ricchissime collezioni del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, erede del Real Museo Borbonico ufficialmente istituito nel 1816. Eppure, uno degli oggetti di maggior pregio che vi si possono vedere, sebbene sia stato realizzato circa duemilatrecento anni fa, non ha dovuto essere dissepolto, perché, cambiando piú volte proprietario – e collocazione (vedi box alle pp. 36-37) – è sempre stato visibile e ammirato: è la Tazza Farnese, una coppa in agata sardonica che, con i suoi 21 cm di diametro, è, a oggi, il piú grande vaso inciso in pietra dura che sia giunto fino a noi dal mondo antico. A R C H E O 33


La sua storia ebbe inizio ad Alessandria d’Egitto, dove il manufatto venne realizzato, in piena età ellenistica, per essere destinato alla locale corte. Fin da subito dovette essere particolarmente apprezzato e tenuto in grande considerazione. Ed è ragionevole credere che molto del fascino che sprigionava derivasse, già allora, proprio dal materiale scelto dal suo artefice, l’agata, che, sapientemente lavorato, univa all’equilibrio formale delle scene intagliate spettacolari giochi di trasparenze e riflessi. Giochi resi ancor piú affascinanti dalla duplice

In alto: l’interno della Tazza Farnese, nel quale compare una scena interpretata come allegoria divina della famiglia regnante di Alessandria. A sinistra: particolare della testa di Gorgone (gorgoneion) intagliata sulla faccia esterna del manufatto.

«tessitura» della coppa, che presenta due scene diverse: all’interno, sebbene discussa, un’allegoria divina della famiglia regnante di Alessandria e, all’esterno, la testa di una Gorgone (gorgoneion).

LIBAGIONI RITUALI? Questa soluzione è alla base di uno dei molti dibattiti che la Tazza Farnese ha suscitato e continua ad alimentare: proprio per via della sua confor mazione, si può escludere che sia stata realmente utilizzata come vaso per bere (anche perché, poggiandola su una superficie piana, ne sarebbe stata danneggiata la decorazione esterna), ma è altrettanto ragionevole


ipotizzare che abbia avuto una funzione rituale, che potrebbe comunque aver comportato la mescita di un liquido al suo interno. Come accennato, piú complesso, e ancora assai vivo, è il confronto degli studiosi sull’interpretazione della scena che orna l’interno del vaso. Nel tondo, sulla sinistra, domina una figura maschile, seduta, che regge una cornucopia. Dopo di lui, si vede un giovane, che con la mano destra regge il timone di un aratro e con la sinistra cinge l’impugnatura della spada che porta alla vita. Piú in basso, semidistesa su una sfinge, sta una figura femminile con due spighe nella mano destra. Sulla destra, si

In questa pagina: veduta d’insieme e particolare della faccia esterna della Tazza Farnese. La presenza di questa decorazione ha indotto a credere che la coppa non sia mai stata realmente utilizzata, poiché, altrimenti, l’intaglio ne sarebbe stato danneggiato.

vedono altre due figure femminili: una solleva una coppa di foggia simile alla stessa Tazza Farnese, mentre l’altra regge anch’essa, come l’uomo maturo, una cornucopia vuota. Completano la scena i due giovani che, in alto, si librano nel vento, uno dei quali è intento a suonare una buccina (uno strumento a fiato che, come in questo caso, veniva in origine ricavato da conchiglie tortili). La presenza della sfinge, unitamente al luogo di produzione del manufatto, hanno sempre suggerito la matrice egiziana della rappresentaA R C H E O 35


ESCLUSIVA • TAZZA FARNESE

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Mar Rosso

zione, solitamente letta come una Nel Medioevo, la Tazza Farnese rappresentazione allegorica dell’abbondanza di cui l’Egitto poteva sarebbe giunta fino a Samarcanda godere grazie alle piene del Nilo – che molti identificano con il personaggio barbato – e al conco- A destra: l’interno mitante arrivo dei venti etesii, le della Tazza fresche correnti che raggiungevano Farnese in un da settentrione la terra dei faraoni disegno del e che nel rilievo sono impersonate persiano dai due giovani che si librano nella Mohammed parte superiore del tondo. In queal-Khayyam. sta chiave, la donna sulla sfinge saPrima metà del rebbe Euthenia, personificazione XV sec. Berlino, della prosperità (che sarà poi la Biblioteca di Abundantia dei Romani), e le due Stato. La fedeltà fanciulle altrettante Horai, ovvero dei dettagli personificazioni delle stagioni. suggerisce che Pur rimanendo in ambito egiziano, l’artista abbia esiste però anche una lettura in riprodotto chiave religiosa della scena, riferita l’originale, al pantheon isiaco. In questo caso, la avallando donna seduta sarebbe la stessa dea l’ipotesi che si Iside, e la sfinge sottostante andrebtrovasse a be interpretata come simbolo dei Samarcanda. 36 A R C H E O

Golf Persi


IL LUNGO VIAGGIO DELLA TAZZA

aspio Samarcanda

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Tolomei. L’uomo maturo sarebbe quindi Osiride-Serapide, dio funerario, ma anche agrario, che presiedeva alla fertilità dei raccolti e il cui culto fu importato ad Alessandria proprio dai Lagidi. Il giovane che gli sta di fronte sarebbe a questo punto il figlio concepito con Iside, Horo-Arpocrate.

TOLOMEI E CLEOPATRE Non mancano ulteriori ipotesi, spesso suggestive, anche perché è stato da piú parti sostenuto che il tono della scena possiede caratteri troppo aulici per essere una semplice celebrazione della fertilità del Nilo. L’uomo maturo è stato variamente identificato con uno dei Tolomei – Soter, Epifane, Aulete, Filometore –, mentre per la donna sulla sfinge è stata avanzata la proposta che possa trattarsi di una Cleopatra – I o III – e addirittura della piú celebre, vale a dire Cleopatra VII,

III secolo a.C. La Tazza Farnese viene realizzata per la corte alessandrina, su commissione di un sovrano tolemaico, ed entra a far parte del tesoro reale. I secolo a.C. All’indomani della sconfitta di Cleopatra e della conseguente fine dell’autonomia dell’Egitto, la coppa viene acquisita dal tesoro di Roma. Età tardo-antica (?) Seguendo con ogni probabilità le sorti del tesoro imperiale, la Tazza giunge a Costantinopoli. Inizi del XIII secolo Il pregiato vaso viene acquistato da Federico II di Svevia (ma la notizia non è unanimemente accettata), dopo essere stata prelevata da Costantinopoli, forse durante il saccheggio a cui la città fu sottoposta nel 1204, in occasione della IV crociata. Inizi del XV secolo La Tazza è nuovamente in Oriente, a Samarcanda (o Herat). Ne sarebbe prova un disegno realizzato dall’artista persiano Mohammed al-Khayyam: l’opera appare infatti raffigurata con estrema precisione e lascia credere che fosse stata disegnata potendo disporre dell’originale. 1458 Angelo Poliziano riferisce la presenza del vaso alla corte di Alfonso V d’Aragona. 1465 La Tazza Farnese entra in possesso del cardinale veneziano Trevisan, che poi lascia la sua

che tanta parte ebbe anche nelle vicende di Roma sul finire del I secolo a.C. In questo caso, peraltro, si dovrebbe accettare la tesi – formulata da Eugenio La Rocca –, che la Tazza Farnese sia stata fabbricata fra il 37 e il 34 a.C. e non nel III secolo a.C. Fra le piú recenti e suggestive, merita infine d’essere ricordata l’interpretazione proposta da

collezione a papa Paolo II Barbo, veneziano, proprietario di una straordinaria collezione di gemme che viene quindi donata al suo successore, papa Sisto IV. 1471 Lorenzo de’ Medici, il Magnifico, acquista la collezione di Sisto IV e diventa dunque il nuovo proprietario del vaso. 1537 La collezione Medici confluisce in quella dei Farnese, perché Margherita d’Austria, sposata in prime nozze ad Alessandro de’ Medici (13 giugno 1536) e rimasta precocemente vedova (6 gennaio 1537), si risposa con Ottavio Farnese (4 novembre 1538), nipote del papa. 1586 Margherita d’Austria muore il 18 gennaio e nell’inventario dei suoi beni, che comprende la collezione di gemme e dunque la Tazza, compare la prima menzione del foro praticato sul vaso. 1817 La Tazza Farnese è descritta fra gli oggetti del Museo Borbonico. 1925 Nella notte tra il 1° e il 2 ottobre, un custode del museo, in un accesso di follia, colpisce la vetrina della tazza con un ombrello e causa la rottura della parte destra; il manufatto viene immediatamente restaurato e l’intervento si conclude l’11 ottobre. 1951 Nuovo intervento di restauro. 2018 La Tazza Farnese viene esposta nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli in una nuova vetrina, appositamente realizzata.

François Queyrel, secondo il quale la composizione esalta la prosperità dell’Egitto tolemaico inserendovi uno straniero: lo studioso vede infatti nel giovane che si trova al centro uno dei Galati che, dopo essere stati sconfitti da Tolomeo nel 275 a.C., erano stati impiegati con successo nei lavori agricoli, in particolare nella regione del Fayyum. A R C H E O 37


ESCLUSIVA • TAZZA FARNESE

In alto: incisione raffigurante la facciata del Palazzo degli Studi di Napoli. Dopo essere stato sede dell’Università, l’edificio fu oggetto di un ampio intervento di ristrutturazione, che portò alla nascita, nel 1816, del Real Museo Borbonico, la raccolta di cui è oggi erede il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Nella pagina accanto: ancora un particolare del gorgoneion intagliato sull’esterno della Tazza Farnese, che evidenzia uno dei serpenti che componevano la capigliatura della Medusa, che era appunto una delle Gorgoni.

Come detto in apertura, il materiale scelto per il vaso è l’agata, una varietà del quarzo traslucido che si caratter izza per l’essere composta da zone di diversi colori e che fu sfruttata con straordinaria maestria dall’artefice della Tazza. In particolare, si tratta in questo caso dell’agata detta sardonica, che prende nome da un monte della Lidia, nei pressi di Sardi (città dell’Asia Minore, oggi in Turchia). Sono queste caratteristiche ad aver permesso di conferire alla coppa l’affascinante contrasto fra i colori chiari della scena allegorica che ne orna l’interno e il tono scuro del gorgoneion esterno. 38 A R C H E O

Contrasti ai quali si uniscono i colte di Lorenzo de’ Medici, forse riflessi e le trasparenze determina- per inserirvi un piede. Di certo, ti dalla natura della pietra. cosí doveva presentarsi al momento della redazione dell’inventario farnesiano stilato nel 1586 – la PREDILETTA collezione medicea aveva seguito DAL MAGNIFICO Dal punto di vista tecnico, un par- Margherita d’Austria all’indomani ticolare balza altresí evidente ed è del suo secondo matrimonio con il foro circolare che si può vedere Ottavio Farnese, dopo essere rimaproprio al centro della Tazza. Le sta vedova di Alessandro de’ Medinotizie d’archivio provano che non ci – nel quale si descrive «Una tazsi tratta di un intervento eseguito za d’agata, intagliata e lavorata, con al momento della fabbricazione, octo figure di basso rilievo dentro, et nel ma di un adattamento successivo: fondo di fuora una testa di Medusa, almeno fino al XV secolo, infatti, la busata nel mezzo». coppa era integra e il foro venne Va peraltro ricordato che se gli probabilmente praticato al mo- incisori che lavoravano al suo sermento del suo ingresso nelle rac- vizio non s’erano fatti scrupolo di


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

A R C H E O 39


ESCLUSIVA • TAZZA FARNESE

40 A R C H E O


Sulle due pagine: particolari della Tazza Farnese che evidenziano le proprietà cromatiche dell’agata sardonica, la materia prima scelta per la sua realizzazione. La coppa fu opera di un’officina egiziana, che la realizzò,

per la corte alessandrina, in età ellenistica, nel III sec. a.C. Soprattutto negli ultimi anni, tuttavia, sono state avanzate nuove proposte di datazione, tra cui quella che la vorrebbe prodotta negli ultimi decenni del I sec. a.C.

che gioca sapientemente con i volumi, i riflessi e le trasparenze dell’agata sardonica e delle figure intagliate. Parallelamente, la storia del manufatto è stata ripercorsa da Valeria Sampaolo nel primo volume di una nuova collana, Tesori nascosti, che sarà disponibile nelle librerie a partire dal prossimo ottobre e che si avvale delle immagini realizzate per l’occasione dal fotografo Luigi Spina, alcune delle quali – concesse in esclusiva ad «Archeo» – corredano l’articolo che qui pubblichiamo. Del lavoro di Spina sull’antico abbiamo piú volte dato conto e, in questo caso – le immagini che trovate in queste pagine parlano da sole –, la sua sensibilità appare evidente. Come il fotografo stesso ha dichiarato al momento della presentazione del nuovo allestimento della teca che ospita la Tazza Farnese e del libro, il suo intento era quello di raccontare il reperto in modo epidermico e di offrire al lettore un «racconto continuo, molto serrato, nel quale chi legge deve stabilire una sorta di contatto vivo, diretto con la Tazza Farnese». Una sfida ambiziosa, ma senza dubbio vinta.

sufficienti riscontri –, questi l’avrebbe acquistata per l’astronomica cifra di 1239 once d’oro, che possiamo grosso modo convertire in circa 2 milioni di euro. Piú tardi, nel 1512, nell’inventario dei beni appartenuti a Lorenzo de’ Medici, il suo valore venne fissato in 10 000 fiorini, una somma all’epoca equivalente a circa un quarto del valore di un palazzo gentilizio. Non si può dunque che rallegrarsi all’idea che la Tazza Farnese abbia seguito l’omonima collezione nei suoi passaggi piú recenti, che l’hanno vista allontanarsi dal mercato PER SAPERNE CIFRE ASTRONOMICHE Quando Lorenzo poteva ostentarla internazionale dell’arte ed entrare a DI PIÚ come uno dei vanti della sua rac- far parte del Museo Archeologico colta, la scudella era ormai da tem- Nazionale di Napoli. Valeria Sampaolo, Luigi Spina po un pezzo da collezione e, a queTazza Farnese, Collana «Tesori sto proposito, risulta significativo IL NUOVO ALLESTIMENTO nascosti», Museo Archeologico ricordare il valore venale che non Quest’ultimo ha recentemente vo- Nazionale di Napoli-5 Continents tardò a esserle attribuito. Accettan- luto regalare alla coppa una nuova Editions, Milano (in libreria dal do l’ipotesi che uno dei suoi pos- casa, realizzando una teca che esal- mese di ottobre); 80 pp., 70 ill. col. sessori sia stato Federico II di Sve- ta le qualità artistiche e tecniche 40,00 euro via – la notizia, sebbene plausibile, dell’opera, soprattutto grazie a un ISBN 978-88-7439-834-8 viene da molti considerata priva di sofisticato sistema di illuminazione, www.fivecontinentseditions.com forarla, il Magnifico fu senza dubbio uno dei piú sinceri estimatori della coppa, tanto da citarla fra gli oggetti che aveva portato con sé a Roma, nel 1471, in occasione dell’incoronazione del nuovo pontefice: «Di settembre 1471 fui eletto ambasciatore a Roma per l’incoronazione di Papa Sisto, dove fui molto onorato, e di quindi portai le due teste di marmo antiche delle immagini di Augusto e di Agrippa, le quali mi donò detto Papa Sisto, e piú portai la scudella nostra di calcidonio intagliata».

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REPORTAGE • TUNISIA

VIAGGIO A KERKOUANE

NEL SEGNO DI TANIT NEL 310 A.C., AGATOCLE, TIRANNO DI SIRACUSA, DIRIGE UNA SPEDIZIONE IN AFRICA CON IL PROPOSITO DI SCONFIGGERE CARTAGINE. APPRODATO CON LA FLOTTA AL CAPO BON, ASSEDIA UNA CITTÀ PUNICA CHIAMATA MEGALOPOLIS. PASSANO CINQUANTACINQUE ANNI E IL CONSOLE ROMANO ATTILIO REGOLO COMPLETA L’OPERA DI DISTRUZIONE. LA CITTÀ TORNERÀ ALLA LUCE SOLO DOPO VENTIQUATTRO SECOLI E, OGGI, RAPPRESENTA IL FIORE ALL’OCCHIELLO DELL’ARCHEOLOGIA NORDAFRICANA testo e foto di Andreas M. Steiner

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D

a Tunisi (o, se si preferisce, da Cartagine), Kerkouane si raggiunge in meno di tre ore di macchina, percorrendo la strada panoramica che dalla capitale tunisina raggiunge la cima del Capo Bon, la grande penisola che dal continente africano si protende verso le coste della Sicilia (da cui dista, in linea d’aria, soli 140 km). Già gli autori antichi avevano esaltato la ricchezza di questa regione, a partire da Polibio che, nel 509 a.C., definí il promontorio Kalos Akroterion, il «bel promontorio». Ancora piú eloquente appare la testimonianza di Diodoro

Siculo, quando, nella sua Biblioteca Storica, descrive la spedizione diretta dal greco Agatocle contro Cartagine, nel 310 a.C.: il tiranno di Siracusa era sbarcato con il suo esercito nei pressi di Ras Adar (l’originario nome arabo del Capo) e qui, per precludere ai suoi soldati la possibilità di sottrarsi alla missione da compiere, aveva incendiato l’intera flotta e «ansioso di fugare lo scoramento dei soldati (…) guidò l’armata contro la località cartaginese chiamata Megalopoli. Il territorio attraverso il quale dovevano marciare era ripartito in orti e coltivazioni di ogni genere, abbondantemente

Sulle due pagine: Kerkouane (Capo Bon, Tunisia). Resti delle case «a filare», allineate lungo la via dell’Apotropaion. IV-III a sec. a.C. Qui sopra: particolare del pavimento di una casa di Kerkouane con il segno cosiddetto «di Tanit».

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REPORTAGE • TUNISIA

irrigati grazie a canalizzazioni che arrivavano dappertutto. Una serie ininterrotta di residenze di campagna, accuratamente realizzate con dispendiose strutture edilizie e coperture a stucco, stava a indicare la ricchezza dei loro proprietari. Le ville erano complete di ogni conforto (…). La campagna era coltivata in parte a vigneti, in parte a ulivi, e ricca di ogni altra specie di alberi da produzione; ai due lati della pianura pascolavano mandrie di buoi e greggi, e le vicine praterie erano zeppe di cavalli sciolti alla pastura. Era insomma in quei luoghi una molteplice prosperità, poiché i possedimenti erano ripartiti fra i maggiori notabili cartaginesi, i quali con le loro ricchezze s’erano studiati in ogni modo di renderli confortevoli» (Biblioteca Storica XX, 8).

GIUGGIOLI E LENTISCHI Una volta imboccata la penisola, la strada prosegue lasciando sulla sinistra il Jebel Korbous (con i suoi 419 m d’altezza, è il principale rilievo della zona) e, dopo una mezz’ora di viaggio lungo la costa, attraverso distese di campi coltivati, all’orizzonte appaiono le alte sagome di due isole, Zembra e Zembretta. ArA destra: modellino delle case di via dell’Apotropaion a Kerkouane. Kerkouane, Museo Archeologico. Biserta

Kerkouane

Tunisi Sousse

Le Kef

Mar Mediterraneo

Mahdia

Tozeur

Gafsa

Sfax Gabes

Matmata

Zarzis Tataouine

Algeria

Remada

Libia

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rivati quasi alla fine del promontorio, segnato dalla vetta del Jebel Sidi Abiod (347 m), la strada vira a sud e, dopo una decina di chilometri e prima di arrivare alla cittadina di Kelibia (l’antica Aspis che i Romani denominarono Clipea), una deviazione porta in direzione del mare, al sito archeologico di Kerkouane. E qui, circondato da una bassa vegetazione dominata da alberi di giuggiolo e arbusti di lentisco, giace uno dei gioielli dell’archeologia nordafricana: un’intera città punica, la meglio conservata di tutte quelle fino a oggi note, dal 1985 annoverata dall’UNESCO nell’elenco del Patrimonio dell’Umanità.

Kerkouane (ma il suo vero nome rimane tuttora ignoto) non era certo enorme, a dispetto di quanto affermava Diodoro Siculo, che parla di una megalopoli, o se confrontata con Cartagine: si ritiene, infatti, che contasse una popolazione di non piú di 2000 unità. In compenso, si presenta perfettamente intellegibile anche all’occhio del visitatore piú inesperto, grazie a una circostanza non comune per i centri della civiltà fenicio-punica: dopo la sua definitiva distruzione, avvenuta – 55 anni dopo l’assedio di Agatocle – nel corso della prima guerra punica, per mano del console romano Attilio Regolo intorno al 255-254 a.C.,


4

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3 MAR MEDITERRANEO Via dell’Apotropaion

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9

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Una città, le sue case e i suoi monumenti Pianta della Città di Kerkouane: 1. Casa del sacerdote; 2. Casa del segno di Tanit; 3. Casa «a corte centrale»; 4. Casa «a filare»; 5. Casa «a peristilio»; 6. Bagni pubblici; 7. Casa «a peristilio»; 8. La dimora di via della Sfinge; 9. Casa del vetraio; 10. Forno del coroplasta; 11. Quartiere del forno; 12. Santuario; 13. Il grande Tempio.

Kerkouane venne abbandonata e mai piú ricostruita. La fortuna degli archeologi, inoltre, ha voluto che, per ben ventiquattro secoli, a nessuno sia venuto in mente di erigere sulle rovine insabbiate della città anche soltanto una casa. Ecco perché, scherzosamente ma forse non del tutto a sproposito, viene chiamata «la piccola Pompei punica». Contrariamente alla città campana, però, Kerkouane non possiede alza-

ti di rilievo (salvo alcune rare colonne e qualche pilastro), cosicché, camminando tra le sue rovine, si ha l’impressione di percorrere il modello in scala 1:1 approntato da un antico urbanista: i perimetri delle abitazioni, composte da piccole stanze rettangolari, sono tracciati dalle mura, alte in media poche decine di centimetri; l’intera estensione della città si può, cosí, cogliere in un unico sguardo.

La scoperta di Kerkouane risale agli anni Cinquanta del secolo scorso. Rivendicata da due archeologi francesi, Pierre Cintas (l’allora ispettore alle Antichità Puniche di Tunisi) e Charles Saumage, fu dovuta al casuale ritrovamento di frammenti ceramici e di stucchi policromi che affioravano dal mare (già, perché Kerkouane è un’antica città costiera, il che rende la sua visita ancor piú affascinante). Nell’estate del 1976, A R C H E O 47


REPORTAGE • TUNISIA

LA CITTÀ DEI VASAI I vasai erano sicuramente numerosi a Kerkouane. Gli scavi hanno portato alla luce forni per la cottura dei vasi in diverse zone della città. L’immagine qui accanto raffigura uno di essi, costruito fuori dall’abitato, in un’epoca antecedente la realizzazione della cinta muraria. Si tratta di un esemplare relativamente ben conservato, un tipico esempio di forno usato per la cottura della ceramica in età punica, con il suo colatoio e il pilone centrale, realizzato con mattoni cotti a forma circolare di 42 cm di diametro. Le dimensioni del forno sono, in verità, modeste: il diametro della camera di combustione misura appena 1,40 m, il colatoio, in cattivo stato di conservazione, presenta una lunghezza di 1,90 m e una larghezza di poco piú di mezzo metro. I vasai di Kerkouane erano specializzati nella produzione di anfore, ma anche di figurine in terracotta, conservate in gran numero nel Museo archeologico del sito. Oltre a quelli dei vasai, a Kerkouane sono stati scavati anche forni piú piccoli e di concezione piú semplice, destinati alla cottura di medaglioni e stampi, verosimilmente destinati a uso cultuale.

gli scavi vennero ripresi sotto la guida di M’hamed Hassine Fantar, divenuto in seguito protagonista delle principali scoperte nel sito – tra cui quella del tempio cittadino, rivelatosi il piú grande santuario punico di tutto il Mediterraneo occidentale – che hanno contribuito alla decisione di includere il sito nella lista dell’UNESCO.

L’abitato di Kerkouane si estende su una superficie di circa nove ettari.Verso terra era protetto da una fortificazione imponente, composta da due file di mura parallele, separate da un corridoio centrale. Tra le mura da una parte e il mare dall’altra, si susseguivano i quartieri abitativi e gli edifici pubblici, secondo un impianto urbanistico

ordinato e regolare, di tipo semitico-orientale, diverso da quello classico, ippodameo, delle città greche e romane. Tre ampie piazze, di forma irregolare, segnavano il centro cittadino, mentre le case, raggruppate in isolati, fiancheggiavano le strade, larghe in media 4 m. L’intera città era munita di un articolato sistema idraulico: le stesse

Un tratto delle mura di cinta interne di Kerkouane, realizzate con la tecnica «a spina di pesce».

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BAGNI PUBBLICI E PRIVATI I bagni sono una presenza diffusa e caratterizzante delle abitazioni di Kerkouane e, con il colore rosato del loro intonaco, si impongono alla vista del visitatore (vedi foto in questa pagina). Numerosi sono quelli privati, mentre due ampie strutture possono essere identificate come pubbliche. La piú grande, di cui ancora non sono stati individuati i pozzi da cui traevano l’acqua, si trova al centro della città, al numero 6 di via degli Artigiani, un’area molto frequentata da artigiani e commercianti, nonché dai

loro clienti, i quali, a conclusione di una faticosa giornata di lavoro, nei bagni pubblici potevano trovare riposo e momenti d’ozio. Ma vi è un altro dato che riguarda i bagni di via degli Artigiani, forse il piú significativo: la loro vicinanza al principale santuario della città, il grande Tempio scoperto negli anni Settanta del secolo scorso. La prossimità a questo importante luogo di culto ben si accorda con le regole concernenti la pulizia del corpo e la purificazione rituale, tipiche delle religioni semitiche.

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REPORTAGE • TUNISIA

abitazioni, talvolta a piú piani, erano dotate di bagni (vedi box a p. 49 ), cisterne e pozzi, nonché di fogne e canali di drenaggio. Diversi erano i materiali da costruzione impiegati a Kerkouane: oltre all’argilla e al mattone crudo, gli edifici hanno rivelato tracce di pietre sagomate, di marmo, basalto e legno. Tra le tecniche costruttive figurano quella tipica denominata opus africanum, caraterizzata da mura di pietra, rinforzate – a regolare distanza – da grosse lastre o piloni quadrangolari, accuratamente tagliati.Vi è poi la tecnica della tabia, un impasto d’argilla e sassi, racchiuso in una struttura di legno e poi intonacato. Nei resti della cinta 50 A R C H E O

interna delle mura di fortificazione, poi, si può riconoscere l’uso della tecnica «a spina di pesce» (vedi foto a p. 48, in basso).

OGNI COSA È DECORATA Ancora oggi, camminando tra i resti delle case della città punica, si rimane colpiti dalla cura dedicata all’abbellimento degli edifici: le pareti mostrano tracce di intonaco dal colore rosa e resti di stucchi, alcuni pavimenti sono realizzati con la tecnica dell’opus signinum (il nostro cocciopesto) e dell’opus tessellatum. Annota, infatti, l’archeologo M’hamed Fantar, come la decorazione degli edifici fosse «una delle preoccupazioni fondamentali

dei costruttori di Kerkouane (…) tutte le parti dell’edificio possono essere oggetto di decorazione: il cortile, la facciata, i muri». Una menzione particolare meritano, a questo punto, le diverse tipologie delle case che incontriamo lungo la nostra passeggiata, tra cui spiccano quelle caratterizzate dalla presenza di un patio (o corte centrale). Si tratta – secondo Fantar – di «un antico schema attestato in Mesopotamia tra la fine del III e la metà del II millennio a.C. Sembra che i Fenici abbiano diffuso questo tipo di impianto in tutto il bacino mediterraneo, dalla Grecia fino ai territori occupati dagli Iberi. A differenza di quanto è stato piú volte


QUEL SEGNO DETTO DI TANIT Il cosiddetto «segno di Tanit», cosí frequente all’interno del repertorio iconografico della civiltà punica, scolpito su stele funerarie di Cartagine, impresso sulle anse d’anfora e medaglioni, o – come mostrano le immagini di queste pagine – composto «a mosaico» sui pavimenti delle case di Kerkouane, continua a solleticare la fantasia degli studiosi come dei sempici visitatori. Qual è il suo significato? E chi rappresenta? Un’accurata descrizione ne aveva individuato, già nel 1920, i tre elementi distintivi (Stéphane Gsell, Histoire ancienne de l'Afrique du Nord, Parigi 1920): un triangolo (completo o con la cima tagliata), un cerchio (o disco) che lo sormonta (speso incompleto, a forma di luna crescente in senso contrario), una sbarra orizzontale che separa i primi due elementi. L’immagine intera fa pensare a una donna vestita con un abito lungo e con le braccia levate. Alcuni studiosi vi hanno voluto riconoscere l’immagine del dio Baal, altri l’hanno identificata con la dea Astarte o Tanit. Per altri ancora si tratta dell’immagine di una persona in preghiera o di un simbolo apotropaico, ispirato all’egiziano segno della vita, ankh.

scritto, non si tratta dunque di un’invenzione greca». Lungo la strada che costeggia il mare, poi, incontriamo le abitazioni cosiddette «a filare». In questo caso si tratta di una «matrice autoctona – spiega ancora M’hamed Fantar – che rimanda a costruzioni d’epoca

protostorica, quali per esempio gli haouanet che possiamo trovare ancora oggi tra le case berbere nei dintorni di Tataouine e di Matmata». Tra le abitazioni appartenenti a quest’ultima tipologia figura uno dei luoghi piú evocativi di Kerkouane, la cosiddetta «casa del segno di In alto e nella pagina accanto: il «segno di Tanit», raffigurato sulla soglia d’entrata a un ambiente dell’omonina abitazione di Kerkouane. A sinistra: molti pavimenti di Kerkouane erano realizzati con la tecnica dell’opus tessellatum, come nel caso di questo edificio al centro della città.

Tanit», situata al numero 3 di via dell’Apotropaion: il misterioso simbolo a forma di figura femminile, tra gli elementi piú frequenti del repertorio iconografico punico, in particolare quello delle celebri stele funerarie di Cartagine, è qui riprodotto «a mosaico», con la tecnica dell’opus tessellatum, proprio in prossimità della soglia d’accesso alla camera principale dell’abitazione.

CASA CON VISTA MARE Vi sono, poi, le case con peristilio, munite di un cortile interno dotato di un portico sostenuto da colonne. Ne è un esempio molto bello la casa numero 35 su via dell’Apotropaion (vedi il box a p. 52 ), affacciata sul mare, con le basi delle colonne del portico ancora ben visibili. L’architettura religiosa di Kerkouane è eminentemente rappresentata, oltreché dalla vasta necropoli nota con il toponimo di Arg elGhazouani e distante dalla città circa mezzo chilometro in direzione nord-ovest, dal grande tempio A R C H E O 51


REPORTAGE • TUNISIA

Nella Casa del Peristilio Affacciata sul Mediterraneo, lunga la via dell’Apotropaion, la cosiddetta «Casa del Peristilio» rappresenta uno degli esempi piú belli e meglio conservati di questa tipologia abitativa. Nell’immagine qui accanto vediamo gli ambienti del bagno, con l’ampia vasca internamente ricoperta da un rivestimento di colore rosato. Nell’immagine in basso si riconoscono le parti di alcune colonne che componevano i quattro lati del portico.

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venuto in luce, per la prima volta, durante gli scavi di Fantar del 1976. Il santuario si trova sull’omonima strada e la sua entrata è evidenziata da due basi di pilastro, ancora oggi ben visibili (vedi foto a p. 53 ). La planimetria riprende la tipologia dei santuari semitici, caratterizzati da un ingresso aperto sulla via principale della città, il recinto sacro composto da un vestibolo affacciato su un’ampia corte, un podio, la cella e l’area sacrificale. Ma chi erano le divinità titolari del tempio? Troviamo la risposta nel piccolo ma grazioso museo archeologico situato all’ingresso dell’area archeologica di Kerkouane, dove sono esposte numerose statuine rinvenute durante gli scavi del santua-


IL GRANDE TEMPIO DI KERKOUANE

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Via degli Artigiani

Planimetria del Tempio: 1. pilastri; 2. soglia d’entrata; 3. vestibolo; 4. ambiente con banchi; 5. cortile centrale; 6. altare; 7. ambienti adibiti a usi diversi; 8. forno; 9. essiccatoio; 10. laboratorio 11. ambiente per la preparazione dell’argillosa; 12. deposito per l’argilla; 13. «Cortile dei sacrifici»; 14. deposito di epoca tarda; 15. pozzi; 16. cumulo di ciottoli per uso cultuale; 17. casa in mattoni crudi; 18. casa del sacerdote; 19. podia.

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4 Via del Tempio

Il principale tempio di Kerkouane, scavato negli anni Settanta del secolo scorso dall’archeologo tunisino M’hamed Hassine Fantar, è il piú grande santuario punico a oggi noto in tutto il Mediterraneo occidentale. La sua planimetria corrisponde a quella tipica dei santuari di area semitica, con l’ingresso segnato da due pilastri, dal quale si accedeva al vestibolo e, da lí, ai diversi ambienti di servizio del tempio allineati intorno a un vasto cortile centrale: un ambiente munito di banchi, un forno, l’essiccatoio, laboratori vari. All’interno del cortile è stato individuato un blocco di pietra a sezione quadrangolare, largo 0,75 x 0,75 m e alto 0,45 m, con tracce di stuccatura: la struttura è stata identificata come un «altare» sacrificale. La grande corte centrale è chiusa alla sua estremità nord-occidentale da due strutture rialzate, denominate dagli archeologi rispettivamente podium A e podium B, le quali, secondo la ricostruzione ipotizzata dagli studiosi, costituivano il piedistallo di due cappelle, forse il Sancta Sanctorum del tempio, il luogo dove erano esposte le immagini cultuali del santuario. Al di là dei due podia si estendeva un secondo cortile, circondato da mura costruite con grandi pietre. Esteso per circa 100 11 mq, questo spazio è stato chiamato «Cortile dei sacrifici» in seguito al ritrovamento di una grande quantità di ossa animali, di frammenti di vasellame, oggetti metallici e monete.

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In alto: l’ingresso al santuario, con i due pilastri laterali e la soglia.

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REPORTAGE • TUNISIA

IL MUSEO Allestito in un gradevole edificio bianco (al quale si accede da un ampio patio a peristilio nelle cui mura sono inseriti anfore, protome animali e altri reperti in terracotta creando un gradevole contrasto di colore), il Museo d Kerkouane si compone di quattro sale. Qui, 18 vetrine espongono piú di 250 reperti tra quelli rinvenuti durante gli scavi del sito, tra cui vasi importati da Grecia, Sicilia e Italia meridionale, lucerne, figurine in terracotta, gioielli, amuleti, scarabei, anforette e le tipiche maschere in pasta vitrea policroma di produzione fenicia. Un reperto unico dell’archeologia fenicio-punica è la «Dama di Kerkouane»: si tratta del coperchio in legno di cipresso di una bara, scolpito ad altorilievo con l’immagine di una divinità femminile, verosimilmente identificabile con Astarte, la dea protettrice dei morti.

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Alcune vedute del Museo archeologico di Kerkouane, situato all’ingresso dell’area archeologica.


La riva mediterranea di Kerkouane. Per proteggere il sito archeologico dall’erosione marina, il tratto di costa in prossimità dei resti archeologici è stato rinforzato con una barriera di scogli artificiale. In basso: il cartello che segnala il sito di Kerkouane, dal 1985 iscritto nella Lista del Patrimonio dell’Umanità UNESCO.

rio e che suggeriscono la presenza di un culto tributato a diverse divinità, tra cui quelle femminili di Astarte-Tanit e quelle maschili di Baal Hammon – signore della fertilità e principale divinità di Cartagine – e di Melqart, dio poliade della fenicia Tiro.

ALLA RICERCA DEL PORTO Kerkouane è un sito ampiamente scavato, ben conservato e mirabilmente presentato al visitatore. Ma sono ancora molti i problemi e le domande da porsi; manca, per esempio, ogni traccia del porto (ed è impossibile che una città di tale importanza non ne possedesse uno), da cercare verosimilmente lungo la costa, ma a una certa distanza dall’insediamento. E poi vi è la questione delle origini dell’insediamento, unita a quella del suo vero nome. Le vestigia piú antiche emerse dagli scavi risalgono al VI secolo; si ipotizza cosí che, prima di diventare una città punica, il luogo abbia

accolto un abitato dei Libi, popolazione antenata dei Berberi. Esaminando i vari toponimi della regione, infatti, emerge subito il loro substrato libico-berbero, dunque pre-fenicio. Sembra cosí, che Kerkouane (nome attribuito al sito dai suoi scopritori e poi rimasto tale nell’uso comune) fosse originariamente conosciuta con il nome di Tamezrat, come l’omonimo villaggio berbero nei pressi di Matmata. Come vivevano gli abitanti di Kerkouane? Le indagini archeologiche hanno consentito di tracciare un quadro esauriente dell’economia cittadina, caratterizzata, naturalmente, da intensi rapporti con tutto il Mediterraneo: vi erano negozi e laboratori di vasai e vetrai, stuccatori e tagliatori di pietre, fabbricanti di porpora, pescatori, tessitori e perfino orefici, come attestano i gioielli esposti nel museo. Tutto ciò, come già accennato, ebbe una repentina fine nel II secolo a.C. Fu la campagna del tiranno di Siracusa durante la sua spedizione contro Cartagine

del 310 a.C. a decretarla? O furono i soldati di Attilio Regolo? Salutiamo Kerkouane, scrutando l’orizzonte dove, avvolta nella foschia, appare la sagoma di un’isola: è Pantelleria, sin dal VI secolo a.C. base d’appoggio di Fenici e Cartaginesi. E immaginiamo le navi che, provenendo dalla Sicilia e facendo tappa nell’isola per caricarne la preziosa ossidiana, approdavano allo scomparso porto della città… L’autore ringrazia Salah Matmati per la preziosa collaborazione.

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MOSTRE • ROMA

19000 METRI DI STORIA

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L’IMPONENTE CIRCUITO MURARIO VOLUTO DALL’IMPERATORE AURELIANO A DIFESA DI ROMA È PROTAGONISTA DI UNA MOSTRA FOTOGRAFICA ALLESTITA NEL MUSEO DELL’ARA PACIS. UN’OCCASIONE PER SCOPRIRE UN’OPERA UNICA NEL SUO GENERE ATTRAVERSO LE IMMAGINI INEDITE DI ANDREA JEMOLO, AL QUALE SI DEVE LA PRIMA DOCUMENTAZIONE SISTEMATICA DI QUESTO GRANDIOSO MONUMENTO di Stefano Mammini

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pochi passi dalla redazione di «Archeo» si apre piazza Fiume, uno degli snodi nevralgici del caotico traffico romano. Al centro, ignorata dai piú e quotidianamente percorsa da autobus e taxi, la pavimentazione mostra un insolito intarsio, composto da due grandi lobi, al centro dei quale sta una lapide, con su scritto «Porta Salaria». In quel punto, infatti, si apriva uno degli ingressi alla città e per giunta uno dei piú importanti, considerando che la Salaria era uno dei percorsi che per primi vennero regolarizzati da Roma, ricalcando il tracciato sul quale, da sempre, transitavano i carichi di sale, da cui il nome della strada e della porta. Che ora non esiste piú, ma che lí troneggiava, poiché ci troviamo in corrispondenza di uno dei varchi delle Mura Aureliane, che ancora oggi fanno da quinta a piazza Fiume. È una presenza maestosa, eppure sostanzialmente ignorata. Se chiedete come si possa riconoscere la piazza, infatti, la risposta sarà quasi certamente che su di essa si affaccia il palazzo della Rinascente e difficilmente verranno ricordate le mura, perché il destino moderno di molte delle antichità romane è proprio questo: l’invisibilita. Forse perché fanno da sempre parte del paesaggio urbano e non sono ufficialmente compresi nelle aree archeologiche attrezzate per la visita, molti resti della città imperiale sono divenuti nel tempo uno sfondo, magari pit-

Salvo diversa indicazione, tutte le foto che corredano l’articolo sono di Andrea Jemolo e sono attualmente esposte nella mostra «Walls. Le mura di Roma», allestita presso il Museo dell’Ara Pacis. Il tratto delle Mura Aureliane che si snoda fra le porte Latina e Metronia, lungo l’odierno viale Metronio, nel quadrante meridionale della città (vedi pianta a p. 59). A R C H E O 57


MOSTRE • ROMA

toresco, ma di cui raramente si percepisce la nobile vetustà. E le Mura Aureliane non fanno eccezione.

LA PRIMA CAMPAGNA SISTEMATICA Del resto, per quanto possa sembrare sorprendente, anche la mostra allestita nel Museo dell’Ara Pacis nasce da una sorta di rimozione: le magnifiche fotografie di Andrea Jemolo esposte nelle sale disegnate da Richard Meier sono infatti il frutto di una campagna di documentazione sistematica, realizzata fra il settembre e il dicembre 2017, la prima del genere mai realizzata. In almeno un secolo e mezzo di studi e ricerche, le Mura Aureliane

Muro Torto Un tratto delle Mura Aureliane ai piedi del quale si snoda il viale del Muro Torto. La strada, che lambisce il parco di Villa Borghese, prende nome dai resti delle sostruzioni delle ville fatte costruire dagli Anici, dagli Acili e dai Pinci sulla collina sovrastante (che dagli ultimi trasse il nome di Pincio), successivamente inglobati nel circuito delle Mura Aureliane.

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Porta San Paolo Porta San Paolo si apriva in corrispondenza del tracciato della via Ostiense, di cui infatti, in origine, portava il nome. È una fra le meglio conservate di quelle che si aprivano lungo il circuito delle Mura Aureliane. Sulla sinistra, spicca l’inconfondibile sagoma del monumento funerario che Caio Cestio volle in forma di piramide seguendo la moda egittizzante che si era diffusa a Roma all’indomani della conquista del Paese dei faraoni, nel 31 a.C.


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1. Terme Neroniane 2. Portico degli Argonauti 3. Tempio di Matidia 4. Tempio di Serapide 5. Tempio della Salute 6. Teatro di Balbo 7. Arce capitolina e Tempio di Giunone Moneta 8. Portico di Filippo 9. Portico di Ottavia 10. Tempio di Apollo 11. Teatro di Marcello

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12. Tempio di Giove Capitolino 13. Tempio di Esculapio 14. Tempio di Giano 15. Foro di Augusto 16. Foro Transitorio o di Nerva 17. Basilica di Massenzio 18. Basilica di Costantino 19. Tempio di Venere e Roma 20. Arco di Costantino 21. Terme di Tito 22. Tempio di Iside

Terme di Caracalla

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Tempio della Buona Fortuna

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Pianta della città di Roma. La zona in verde piú scuro indica l’area compresa nel circuito delle Mura Serviane; quella di colore piú chiaro l’estensione raggiunta in epoca imperiale e chiusa dalle Mura Aureliane.

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erano state fotografate a piú riprese, accumulando un patrimonio di immagini ricchissimo, eppure lacunoso. Da oggi, invece, la conoscenza di quest’opera straordinaria può contare sulla ricognizione integrale del suo intero circuito, che si snoda per ben 19 chilometri intorno al cuore della capitale. La colossale impresa, lo ricordiamo, fu avviata nella seconda metà del III secolo d.C., quando Aureliano, all’indomani dell’invasione dell’Italia settentrionale da parte degli Alamanni, comprese che anche il cuore A R C H E O 59


MOSTRE • ROMA

IL FONDO PARKER A integrare le foto di Andrea Jemolo, i curatori della mostra «Walls. Le mura di Roma» hanno inserito nel percorso espositivo una cinquantina di fotografie selezionate dal fondo Parker: si tratta di stampe all’albumina realizzate da Carlo Baldassarre Simelli (1811-post 1877), uno tra i piú abili fotografi scelti da Parker per la sua raccolta. L’archeologo inglese John Henry Parker (1806-1884) fece eseguire a piú riprese, tra il 1864 e il 1877, da fotografi professionisti, durante i suoi soggiorni a Roma, una raccolta fotografica di oltre 3300 immagini sulla città e sui suoi dintorni che porta il suo nome. Molti degli antichi negativi sono andati distrutti in un incendio, tranne alcuni, oggi presso l’Accademia Americana e al Gabinetto Fotografico NazionaleICCD, mentre i positivi originali si

conservano, oltre che nell’Archivio Fotografico del Museo di Roma, alla Scuola Britannica di Roma e all’Istituto Archeologico Germanico. Le immagini raffigurano importanti costruzioni del mondo romano: dalla

Porta Ostiense all’Arco di Dolabella, da Porta Metronia alle Mura del Castro Pretorio, da Porta Maggiore alla Porta Asinara, dall’Anfiteatro Castrense all’Acquedotto Claudio. (red.) In alto: Porta Maggiore in una stampa all’albumina di Carlo Baldassarre Simelli. Roma, Archivio Fotografico Comunale, Museo di Roma. A sinistra: la Porta Asinaria in una foto di Gustavo Eugenio Chaffourier. Roma, Archivio Fotografico Comunale, Museo di Roma.

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A destra: le Mura Aureliane lungo la via Casilina Vecchia, dove l’opera sfrutta le arcate dell’Acquedotto Claudio. In basso: lo studio di Francesco Randone, con la Scuola di ceramica, che occupano ambienti ricavati all’interno delle Mura Aureliane nel tratto fra le porte Pinciana e Salaria, oggi in corrispondenza di via Campania, nel rione Ludovisi.

dell’impero poteva essere direttamente attaccato dalle popolazioni che già avevano cominciato a minacciarne i confini. I lavori ebbero inizio nel 271 d.C. e si conclusero appena quattro anni piú tardi. Un dato che suona quasi beffardo, a ricordarlo adesso, in una Roma in cui la certezza sui tempi di realizzazione delle opere pubbliche sembra un frutto proibito.

UN EVENTO TRAUMATICO A voler essere precisi, le ultime rifiniture furono eseguite sotto l’imperatore Probo e ultimate nel 279, ma il nerbo dell’intero sistema aveva già assunto forma compiuta nel 275. In seguito si ebbero interventi di restauro e ristrutturazione, il piú importante dei quali fu promosso dagli imperatori Arcadio e Onorio, che, tra il 401 e il 403, disposero il raddoppio dell’altezza delle mura e delle torri che ne scandivano il perA R C H E O 61


MOSTRE • ROMA

corso. Accorgimenti destinati a rivelarsi di lí a poco insufficienti: nel 410, infatti, Alarico, alla testa dei Visigoti, riuscí a violare le mura e mise a sacco Roma, scrivendo una delle pagine piú drammatiche nella storia dell’Urbe. Né la sua impresa rimase isolata: fra il 455 e il 549, Roma dovette assistere alle sortite di Genserico, Recimero, Vitige e Totila. In tempi ben piú recenti, la resistenza delle Mura Aureliane fu vinta, il 20 settembre 1870, dalle truppe piemontesi, che aprirono la celebre breccia, fra Porta Pia e Porta Salaria. Ma in quel caso almeno una parte della popolazione guardò all’invasore con occhi diversi da quelli di chi aveva visto le vie della città farsi teatro delle scorrerie di Vandali e Goti. Quella di cui questi 19 000 metri di mattoni e pietre sono stati testimoni è dunque una storia plurisecolare, In alto: la faccia interna delle Mura Aureliane nel tratto che corre lungo l’odierno viale di Porta Ardeatina. A destra: un’immagine emblematica del rapporto che nel tempo si è venuto a creare fra le Mura Aureliane e la città moderna: qui siamo in viale Pretoriano, nell’area fra la Stazione Termini e l’Università «Sapienza» di Roma. Alle spalle dei resti dell’opera difensiva, è il palazzo che ospita l’Istituto di Medicina Aerospaziale. 62 A R C H E O


che ora possiamo ripercorrere grazie all’itinerario per immagini proposto da Jemolo. Al di là del valore documentario in materia di tecnica edilizia e architettura militare, le fotografie sono, infatti e soprattutto, la prova tangibile di quanto le Mura Aureliane siano state – e spesso continuino a essere – un organismo vivo e che, fin dalla sua costruzione, non ha costituito un corpo estraneo.

USO E RIUSO Basti pensare, per esempio, alle numerose occasioni in cui, anche per rispondere all’esigenza di portare a termine l’opera nel piú breve tempo possibile, gli architetti coinvolti nell’impresa sfruttarono sapientemente stutture già esistenti, cosí da ridurre i volumi da realizzare ex novo. Il caso piú noto è senz’altro quello dei Castra Praetoria e dell’Anfiteatro Castrense, ma non sono meno significativi quelli di Porta Tiburtina – che inglobò un arco monumentale eretto alla confluenza di tre acquedotti, l’Aqua Marcia, l’Aqua Iulia e l’Aqua Tepula – del tratto di mura che, dove oggi corre il viale del Muro Torto, incorporò i muraglioni di contenimento della collina del Pincio, o, ancora, del segmento del circuito che sfruttò parte dell’Acquedotto Claudio.

I camminamenti Un tratto dei camminamenti interni lungo viale Carlo Felice. Come si può vedere dalla foto, le mura furono costruite in opera laterizia: un solido impasto di malta e pezzi di tufo, pietre e mattoni. La parte superiore del circuito era percorribile attraverso un corridoio scoperto e protetto da un parapetto merlato, movimentato ogni 30 m da torri quadrate con quattro finestre, dotate di una camera di manovra per le artiglierie e sopraelevata rispetto al camminamento.

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In alto: via Tiburtina Vecchia. L’esterno delle Mura Aureliane, una cui torre è inglobata nella Villa Dominici, residenza signorile realizzata fra il 1741 e il 1748, su progetto dell’architetto Filippo Raguzzini. Nella pagina accanto: l’interno della Porta Tiburtina (o San Lorenzo), per la cui costruzione venne sfruttato l’arco monumentale realizzato in età augustea all’incrocio di tre acquedotti: l’Aqua Marcia, l’Aqua Iulia e l’Aqua Tepula.

All’indomani dell’età imperiale, la pratica del riuso fu costante e conobbe episodi anche particolarmente significativi, come a Porta Appia, poi ribattezzata Porta San Sebastiano, una delle piú grandi e meglio conservate dell’intero circuito. Per esempio, nel 1536 e nel 1571, il monumento venne scelto per l’entrata trionfale in città di Carlo V di Spagna e di Marcantonio Colonna, e poi, nel Settecento, fu oggetto di restauri disposti da papa Benedetto XIV. Descritta in buono stato da Giuseppe Valadier nell’Ottocento, tra il 1940 e il 1943, la porta fu concessa a uso di studio e abitazione al segretario del Partito Nazionale Fascista Ettore Muti e, in quell’occasione, furono eseguite varie ristrutturazioni. All’indomani del secondo conflitto mondiale, l’edificio venne riaperto al pubblico e, dopo essere stato a var io titolo utilizzato dall’amministrazione comunale, di-

venne sede, nel 1989, del Museo delle Mura di Roma, la cui visita può costituire il corollario naturale della mostra in corso all’Ara Pacis. Altri spazi della cinta muraria furono peraltro concessi a uso di studio e abitazione, come nel caso dei tratti a ridosso di Porta Salaria – assegnato allo scultore Ettore Ferrari (1845-1929) – o di via Campania, dove il pittore e ceramista Francesco Randone (1864-1935) diede vita alla Scuola d’arte educatrice, dopo che, nel 1894, il ministro dell’Istruzione Baccelli gli aveva messo a disposizione la torre XXXIX delle mura.

tiche nella loro possente resa», sperando che i Romani, ma non solo, smettano di non farci «piú caso, come se quel serpentone fosse parte di un paesaggio eterno e indifferente, una ruga del tempo, una malinconia abituale».

UNA RUGA DEL TEMPO Storie di personaggi illustri e di gente comune hanno dunque animato la vita delle Mura Aureliane, che come ha scritto Marco Lodoli in uno dei testi del catalogo che accompagna la mostra «stanno ancora lí, meravigliose, sconfitte, poe-

«Walls. Le mura di Roma Fotografie di Andrea Jemolo» Roma, Museo dell’Ara Pacis fino al 9 settembre Orario tutti i giorni, 9,30-19,30 Info tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-19,00); www.arapacis.it Catalogo Treccani

DOVE E QUANDO

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I PRIMI 1000 ANNI DI UN’AVVENTURA STRAORDINARIA UNA GRANDE MOSTRA ARCHEOLOGICA INAUGURA IL NUOVO MUSEO NAZIONALE DELL’EBRAISMO ITALIANO E DELLA SHOAH A FERRARA di Anna Foa, Giancarlo Lacerenza, Fausto Zevi e Tessa Rajak

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a dove, quando e perché gli Ebrei sono venuti in Italia? E, una volta giunti nella nostra Penisola, dove hanno scelto di attestarsi? Quali rapporti hanno stabilito con le popolazioni residenti, con i poteri pubblici, prima con la Roma imperiale, poi con la Chiesa, ma anche con i Longobardi, i Bizantini e i musulmani, sotto il cui dominio hanno vissuto? Quali sono stati la vita, le consuetudini, la lingua, la cultura delle comunità ebraiche d’Italia nel corso di tutto questo lungo tempo? E soprattutto: cosa ha di particolare e di specifico l’ebraismo italiano rispetto a quello di altri luoghi della Diaspora? Fino al 16 settembre 2018, il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara presenta al pubblico, su una superficie di mille metri quadrati suddivisi in due piani, un percorso espositivo che prefigura la prima sezione permanente del futuro Museo, presentando reperti, modelli ricostruttivi, immagini, mappe, scenografie e dispositivi multimediali, per raccontare il primo millennio di storia dell’ebraismo italiano, il suo radicamento e la sua espansione grazie alle conversioni e agli apporti da altri territori, e il processo di formazione della sua peculiare identità. Sulle due pagine: i grandi pannelli fotografici che introducono alla mostra in corso a Ferrara. Nella pagina accanto, l’area del Mediterraneo orientale, con il Delta del Nilo, la Penisola del Sinai e la costa siro-palestinese; in alto, un particolare del Levante corrispondente all’antica terra d’Israele. A R C H E O 67


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a sempre si ripete che la presenza degli Ebrei in Italia è piú che bimillenaria e che, in questo lungo arco temporale, è stata sostanzialmente ininterrotta. In effetti, nessun altro luogo nella Diaspora occidentale può vantare una frequentazione ebraica che sia al contempo cosí antica, diffusa e costante. Anche se non va dimenticato che nel corso di quei due millenni (e piú), questa presenza è stata distribuita sul territorio in maniera non omogenea e che, in realtà, le interruzioni non sono certo mancate; piú o meno complete, mai abbastanza generalizzate o durature, comunque, da intaccare in maniera significativa la sostanziale veridicità di quanto sopra. L’«Italia ebraica» inequivocabilmente caratterizzata da continuità e diffusione è, tuttavia, soprattutto e quasi esclusivamente l’Italia meridionale, isole comprese, oltre naturalmente a Roma. Perché è questo lo sfondo della presenza ebraica lungo la Penisola, per tutto il primo millennio. Ma anche parlare di Italia meridionale è una generalizzazione. Il Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, negli edifici dell’ex carcere di Ferrara: a destra, il corpo centrale preceduto dal cortile in cui è allestito il «Giardino delle Domande» (incentrato sugli aspetti della normativa ebraica sull’alimentazione) e, in basso, la facciata dell’ingresso.

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UN PERCORSO «A QUADRI» La mostra «Ebrei, una storia italiana. I prime mille anni» illustra le origini e il periodo formativo della presenza ebraica in Italia, dall’età romana al Medioevo, evidenziandone la continuità e i caratteri del tutto originali rispetto ad altri luoghi della Diaspora. Il percorso espositivo è stato articolato in cinque grandi «quadri»: l’esposizione si apre con una rappresentazione del Mediterraneo e del Vicino Oriente Antico con le aree che hanno visto le origini del popolo ebraico e le sue diaspore: la Penisola siroarabica, la Mesopotamia, Canaan e la Terra d’Israele, l’Egitto. Al centro: Gerusalemme. Il primo

quadro presenta cosí, come necessaria premessa al percorso della mostra vera e propria, le origini della civiltà ebraica e i luoghi in cui essa si è sviluppata fino all’arrivo di Roma. Al tempo stesso, fornisce le prime coordinate sugli Ebrei e l’ebraismo. L’eccezionale antichità della presenza ebraica a Roma, l’unica nella Diaspora occidentale a essere durata senza interruzione dal II secolo a.e.v. a oggi, è l’oggetto del secondo quadro. Da Gerusalemme, con la distruzione del Secondo Tempio nel 70 e.v., si passa all’Urbe dell’età imperiale e della Tarda Antichità, con la transizione dall’Impero


pagano a quello multireligioso e infine cristiano, fino all’accettazione della presenza ebraica, sia pure in un clima pervaso da un crescente antigiudaismo, sotto papa Gregorio Magno (590-604). Il terzo quadro mostra – non piú seguendo un ordine cronologico, ma geografico – come, oltre che nell’Urbe, l’ebraismo abbia preso piede e si sia sviluppato in maniera rigogliosa soprattutto nell’Italia del Sud e nelle isole: qui, sebbene la presenza ebraica sia documentata solo a partire dal IV-V secolo, diverse fonti ne indicano l’origine già nella prima età imperiale, sia fra le altre

presenze «orientali» attestate, per esempio, nella Sicilia orientale, sia come effetto delle deportazioni del I e II secolo dalla Giudea. Con un nuovo cambio di registro, il quarto quadro illustra la diffusione, la varietà e la ricchezza culturale dell’Italia ebraica nel periodo della sua massima fioritura fra il VII e l’XI secolo, quando il «popolo del libro» ritrova l’uso dell’ebraico e lo dispiega in tutte le sue possibili manifestazioni: dalla copiatura dei manoscritti alla redazione di testi letterari o scientifici. Fra l’alternanza delle dominazioni longobarda, bizantina e musulmana, si fa strada dunque in questo periodo un’originale cultura

ebraica «italiana» a tuttotondo. Nel quinto e ultimo quadro il «Libro di viaggi» (Sefer massa’ot) di Beniamino da Tudela, viaggiatore e forse mercante, vissuto nel XII secolo, in un percorso che si snoda dal Mediterraneo al Medio Oriente, offre una preziosa «fotografia» delle comunità ebraiche italiane del tempo. Emerge cosí anche la presenza ebraica nell’Italia centro-settentrionale, a Lucca, Ravenna, Pavia, e la migrazione dal Meridione verso il Nord, fino alla Valle del Reno, di alcune famiglie e di testi, che già in periodo di persecuzione bizantina getteranno le basi culturali dell’ebraismo ashkenazita.

Un edificio pieno di storie Il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah (MEIS) è ospitato dall’ex carcere di Ferrara, ristrutturato in modo impeccabile per essere adibito alla nuova destinazione d’uso: da luogo di segregazione e di esclusione, quale è stato per tutta la durata del Novecento e in particolare negli anni bui del fascismo, ha assunto, in una sorta di contrappasso, il ruolo quanto mai significativo di centro di cultura, di ricerca, di didattica, di confronto e dialogo, in una parola, di inclusione. Il MEIS verrà completato nel 2021, con la costruzione di cinque edifici moderni, connotati da volumi che richiamano i cinque libri della Torah, destinati a ospitare, accanto agli spazi espositivi, luoghi di accoglienza per il pubblico e per i servizi, dando cosí vita a un grande complesso museale e culturale.

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Il racconto della terra Il percorso della mostra si apre con un’esperienza «immersiva», che introduce, figurativamente, lo spettatore nelle terre d’origine del popolo ebraico e delle sue diaspore: grandi pannelli riproducono visioni zenitali della penisola siro-arabica, della Mesopotamia, dell’Egitto, della costa del Levante mediterraneo, patria della storica terra di Canaan e di Israele. Si viene quindi accolti da immagini dei paesaggi desertici (Giuda e Neghev) che fanno da sfondo all’epopea biblica. Alla fine di questa parte introduttiva, si incontra Gerusalemme, nel tragico momento della distruzione del Secondo Tempio.

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Si tratta, infatti, di territori contesi fra piú dominazioni: i Visigoti all’inizio del V secolo, i Vandali in Sicilia nella seconda metà del V, gli Ostrogoti, i Bizantini tra il VI e l’VIII, limitatamente a Puglia, Calabria e Lucania i Longobardi e, infine, gli Arabi. La presenza ebraica attraversa nei secoli queste diverse dominazioni, spesso in guerra tra loro, senza che si verifichino rotture particolarmente significative nella lunga continuità della loro esistenza millenaria.

UN’OCCASIONE IDEALE Un altro elemento caratterizzante dell’ebraismo italiano – richiamato non tanto nella letteratura storiografica, quanto

nell’uso e nelle discussioni, spesso improduttive, sui fattori stor ico-sociali e identitar i dell’ebraismo in genere – è che esso, anche in ragione del lungo radicamento nel territorio, abbia delle caratteristiche peculiari, «uniche». Lungi dal voler provare a dimostrare o negare, in questa sede, la fondatezza di questo assunto, la possibilità di curare una mostra sulle origini della presenza ebraica in Italia e su come essa sia progredita nel corso di poco piú dei suoi primi mille anni di vita, ci è sembrata un’occasione ideale per provare a illustrarne, nella maniera piú ampia possibile, i presupposti. Abbiamo dunque deciso di mostrare, in primo luogo, come, fra


restare e di poter vivere: sia pure all’ombra degli edifici arcivescovili, nelle giudecche, inizialmente ben visibili, solo in seguito spostate, volentieri, a margine del tessuto urbano.

LIBRI E PIETRE Per ricostruire questa storia – se intendiamo per storia non solo gli eventi, ma anche la percezione che ne hanno avuto i contemporanei, Ebrei e no, e il modo in cui l’hanno rielaborata e trasmessa –, ci siamo appoggiati a fonti storiche, archeologiche, letterarie, filosofiche: libri e pietre, insomma… Ma in che cosa consiste, dunque, la specificità della straordinaria avventura storica e culturale dell’ebraismo in Italia? Innanzitutto nel fatto di essere una sorta di culla dell’ebraismo europeo, o almeno di molta parte di esso, dal momento che è dall’Italia meridionale, passando da Roma, che gli Ebrei si spostano al Nord e vanno ad ampliare la popolazione ebraica dell’Italia settentrionale fino la conquista romana di Gerusalemme e la caduta dell’Impero romano d’Occidente, la presenza degli Ebrei si sia inaspettatamente trasformata – in tutta Italia, sebbene il processo possa essere seguito in maniera piú ravvicinata solo a Roma e nelle regioni immediatamente limitrofe – da una delle diverse componenti allogene dell’Impero, già multiculturale di fatto, nell’unica che abbia resistito al trascorrere del tempo: fino a diventare parte, minoritaria senza dubbio, ma capillarmente diffusa e, soprattutto, strutturalmente integrata, di una società fattasi nel frattempo sempre piú largamente cristiana. In quell’area cosí ben definita fisicamente – penisola, isole – e

viepiú contesa fra i Goti, i Bizantini, i Longobardi e gli Arabi di cui sopra, quella consuetudine divenuta da tempo radicamento nel territorio, sostenuta da ragioni di convenienza teologica, oltrechè economica, garantí agli Ebrei la possibilità di

alla Germania del Reno, spesso sovrapponendo nuove comunità ad antiche tracce scomparse di comunità d’età romana, altre volte creandone di assolutamente nuove. L’Italia è anche il luogo attraverso cui la cultura talmudica babilonese filtra in A R C H E O 71


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degli Ebrei dell’Italia meridionale i fondatori, insieme ai cristiani, della cultura italiana delle origini. Testi e scritti che attraversano le culture, parole in volgare scritte in lettere ebraiche. Gli Ebrei che vivono nell’Italia meridionale nel primo millennio hanno, con i loro vicini cristiani, rapporti di convivenza sostanziale, nonostante crisi e incrinature. Non c’è assimilazione, ma integrazione e scambio. La grande rottura e la crisi nella convivenza interverranno molto piú tardi e verranno dal Nord. Saranno gli echi del mutamento irre-

Europa e dove forse ha origine la prima forma dell’organizzazione comunitaria. Dove l’ebraico, a lungo negletto, torna a rivivere e ad animare il pensiero e la vita di ogni giorno. Se di una sorta di primato possiamo parlare, è quindi un primato innanzitutto interno al mondo ebraico della Diaspora. Non a caso un importante rabbino francese del XII secolo,Ya’aqov ben Me’ir, potrà scrivere: «Da Bari uscirà la Torah e la parola del Signore da Otranto». Ma alle origini della specificità c’è anche l’aspetto del rapporto con l’esterno, la simbiosi culturale che fa 72 A R C H E O

parabile che si determina ovunque, dove vivono gli Ebrei, dopo i massacri della prima Crociata in Germania, dopo le spinte apocalittiche del mondo cristiano.

IL MODELLO ROMANO E poi, alle radici della specificità del mondo ebraico italiano c’è Roma. Roma antica con i suoi primati e la tolleranza di tutti i popoli e di tutte le culture, con le eccezioni che sappiamo, e poi la Roma cristiana, che recepisce tanta parte di quel modello di accoglienza e accetta la presenza degli Ebrei, ma solo di essi.


Nessun’altra minoranza potrà restare all’interno della società cristiana, per gli eretici e gli altri infedeli c’è solo il rogo o la conversione forzata. Quello con gli Ebrei è, invece, un rapporto originale fra minoranza e maggioranza assai lontano dalla tolleranza – dal momento che gli Ebrei sono in uno stato legalizzato di inferiorità –, ma anche assai lontano dalla scelta tra espulsione o conversione, dal momento che possono restare presenti nel mondo cristiano e vivervi accanto ai non Ebrei. Un modello, quello romano, distante anche da quello dell’Italia meri-

dionale, dove la vita delle comunità sembra meno segnata dall’ideologia del potere cristiano, piú quotidiana. E mentre a Roma gli Ebrei resteranno presenti fino a oggi, dell’ebraismo meridionale, con tutta la sua importanza, con il gran numero delle comunità, con la sua esplosione culturale, si è persa la traccia. Espulsioni e conversioni lo hanno segnato fino a farlo del tutto scomparire. Ne stiamo riconquistando lentamente la memoria. E vorremmo che questa mostra aiutasse anche a ricordare la sua esistenza. Anna Foa e Giancarlo Lacerenza

Il museo raccontato dai protagonisti Tra gli espedienti museografici piú intriganti dell’allestimento figurano i «quadri parlanti», una serie di schermi attraverso i quali gli studiosi che hanno contribuito alla realizzazione della mostra – storici, archeologi, museologi e rabbini, tra cui Anna Foa, Lucio Milano, Fausto Zevi, Giancarlo Lacerenza, Dan Bahat, Giulio Busi, Daniele Lupo Jalla e Benedetto Carucci Viterbi – «raccontano» al visitatore le diverse sezioni del percorso espositivo.

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LA PRESENZA EBRAICA A ROMA Per la storia degli Ebrei in Italia, Roma rappresenta un punto di riferimento imprescindibile. Ancora oggi, infatti, la città ospita la piú antica comunità della Diaspora occidentale. Ma a quando risale la loro presenza nell’Urbe? E quale fu il loro rapporto con il potere politico? Ce ne parla lo storico e archeologo Fausto Zevi di Fausto Zevi

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onfrontando indicazioni da fonti diverse, si è calcolato che nel I secolo e.v. la presenza ebraica a Roma assommasse a 40/50 000 individui (molti meno, peraltro, su altre basi di computo); supponendo tra 700 000 e un milione gli abitanti della città, gli Ebrei avrebbero rappresentato il 5 o 6% della sua popolazione. La percentuale è notevole, anche se non raggiunge quella delle maggiori città 74 A R C H E O

dell’Asia Minore, e soprattutto dell’Egitto dove, secondo Flavio Giuseppe, viveva un milione di Ebrei, e, come ci informa Filone, due dei cinque distretti di Alessandria erano a maggioranza ebraica. Il corpus delle iscrizioni giudaiche di Roma, con oltre 600 documenti, è di gran lunga il piú imponente di tutto l’Occidente mediterraneo, anche se restituisce una visione solo parziale, limitata come è cro-

nologicamente ai secoli avanzati dell’Impero (soprattutto dal III al V), perchè proviene per la quasi totalità dalle catacombe. Un certo numero di epitaffi reca l’indicazione di cariche rivestite dal defunto all’interno della (o per meglio dire, di una delle) comunità ebraiche romane, talvolta accompagnate dalla citazione del nome della «sinagoga» in cui erano state esercitate. Questo termine, «sinagoga»,


ROMA: UN CASO PARTICOLARE

che oggi designa l’edificio sede delle attività religiose della comunità, in antico aveva un significato piú ampio e ancipite, indicando la congregazione o comunità che vi si riuniva, ma anche l’edificio, per il quale il termine in uso nel mondo ellenistico era proseuche (che però nella epigrafia di Roma compare una sola volta). Cosí, dalle iscrizioni delle catacombe, veniamo a conoscere il nome di undici (e forse dodici o tredici)

Ricostruzione a disegno (nella pagina accanto) e un calco (qui sopra) del rilievo interno dell’Arco di Tito a Roma, con il trionfo di Vespasiano dopo la presa di Gerusalemme e la distruzione del Tempio.

La città di Roma ricopre inevitabilmente un ruolo centrale nell’immaginario ebraico. L’Arco di Tito, che si erge all’inizio della Via Sacra, con una serie di scene dettagliate e ben conservate raffigura con chiarezza la decisiva vittoria di Vespasiano sulla Giudea e il bottino del Tempio distrutto da Tito nel 70 a.C., che include la celebre menorah (il candelabro a sette bracci della tradizione ebraica, n.d.r.) trasportata dai soldati romani. Quest’arco postumo, uno dei due eretti all’epoca, è tuttora tra i monumenti maggiormente visibili nel Foro Romano. E di sicuro è stato il simbolo piú noto del destino diasporico degli Ebrei attraverso i secoli. Per tradizione, gli Ebrei evitavano di passare sotto l’arco; alcuni ancora lo evitano. Ulteriore motivo di interesse sta nel fatto che gli oggetti sacri del Tempio rimasero a Roma, esposti in un tempio pagano, il Templum Pacis, per poi andare irrimediabilmente perduti in epoche successive. Nell’immaginario ebraico, la Roma pre-cristiana è soprattutto il luogo in cui si veniva condotti come schiavi. In realtà, la massa di prigionieri ebrei dalle successive campagne di guerra in Giudea sarebbe passata soprattutto per i grandi mercati di schiavi nella parte orientale dell’Impero romano, da cui sarebbe stata distribuita verso varie destinazioni. Inoltre, ci sono state epoche in cui diversi Ebrei erano attratti dalla città e vi si trasferivano di propria iniziativa. Il resoconto fornito da Flavio Giuseppe, nella sua Guerra giudaica, sulla repressione della grande rivolta ebraica e la sconfitta degli Ebrei nella loro patria ebbe ampia diffusione nell’Europa cristiana, dove veniva letto volentieri. Venivano continuamente riprodotti, illustrati e tradotti i passi in cui l’autore ebreo romano denuncia le iniquità dei ribelli e racconta la caduta del Tempio. Cosí come la descrizione dettagliata, nel libro VII, del trionfo dei Flavi sulla Iudaea capta, inevitabile per l’autore e fondamentale per la reputazione della nuova dinastia di Roma. Pertanto, Roma era inesorabilmente legata al destino ebraico… Tessa Rajak

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«sinagoghe» romane, anche se non sappiamo se fossero tutte contemporaneamente in attività. Di nessuna di esse si conservano resti; tanto piú importante per questo la scoperta, all’inizio degli anni Sessanta, della sinagoga della vicina citta di Ostia. È molto discussa invece, e anzi controversa tra gli studiosi (che nella maggioranza tendono a escluderla), l’esistenza nell’Urbe, come altrove nella Diaspora, di un’organizzazione di riferimento comune a tutte le «sinagoghe», sia sul piano dottrinario sia per l’amministrazione di servizi collettivi (per esempio lo scavo e la gestione delle catacombe, che richiedevano un impegno anche tecnico che oltrepassava le possibilità delle singole «sinagoghe»; a meno che non si trattasse di un’operazione di imprenditoria privata, come pure si è supposto); sia soprattutto per assicurare una rappresentanza unitaria nei confronti dei pubblici poteri e in genere del mondo esterno. Suppongo che 76 A R C H E O

anche la yeshivah, installata a Roma in età antonina, costituisse una istituzione in qualche modo comunitaria.

FONTI STORICHE E LETTERARIE Questa r ilevante presenza ebraica, protrattasi con alterne vicende, ma senza interruzioni, per tutta l’antichità (e via via attraverso il Medioevo fino ai giorni nostri), è attestata da un consistente complesso di informazioni tramandateci dalle fonti scritte romane (soprattutto opere storiche e letteratura giuridica, ma non solo) e dagli scrittori di cose ebraiche in lingua greca (Filone di Alessandria, Flavio Giuseppe; ma anche testi del primissimo cristianesimo come gli Atti degli Apostoli e le lettere di Paolo), grazie alle quali si ricostruisce in modo abbastanza efficace la storia degli Ebrei di Roma per tutto il I secolo dell’Impero, fino alla fine del periodo dei Flavi. Per i tempi successivi, le fonti si fanno piú rare e discon-

tinue: soprattutto il grande storico di età severiana, Cassio Dione, conservato in modo incompleto, e la tarda e spesso inaffidabile Historia Augusta, mentre la letteratura talmudica contiene notizie preziose, ma episodiche e talvolta riportate in modo poco congruente. Le evidenze archeologiche, quasi inesistenti per il I secolo (ma anche per il II), per i secoli successivi praticamente si limitano alle catacombe, con i pochi elementi decorativi (pittorici e, in assai minor misura, scultorei) dei loro apprestamenti funerari, e soprattutto, come si è accennato, con le iscrizioni comunque preziose. Le catacombe conosciute fino a ora (Monteverde, Vigna Randanini sull’Appia,Villa Torlonia in Via Nomentana, oltre a meno noti ipogei in Via Labicana e sulla Via Appia) sono dislocate poco fuori le mura della città in zone molto distanti fra loro o addirittura diametralmente opposte rispetto al centro cittadino e – anche se c’è


chi ne dubita – è parso ovvio che la distribuzione topografica dei cimiteri riflettesse quella delle comunità presenti nelle varie aree urbane, cioé che le «sinagoghe» citate nelle iscrizioni di ciascuna catacomba fossero quelle che della catacomba stessa facevano uso.

UNDICI SINAGOGHE Filone, che, già anziano, fu a Roma a capo di un’ambasceria degli Ebrei di Alessandr ia all’imperatore Caligola (anni 38-40 e.v.), racconta che gli Ebrei romani, per lo piú liberti, vivevano in Trastevere, e all’ampia comunità trasteverina deve essere appartenuta la catacomba di Monteverde, scavata e poi drasticamente spogliata dei materiali recuperabili, soprattutto epigrafici, e abbandonata alla distruzione (qualche lembo di gallerie è stato rivisitato pochi anni fa e sembra si intenda riprenderne lo scavo in settori fin qui inesplorati). Delle undici sinagoghe a noi note, ben sette sono citate nelle iscrizioni

di Monteverde, avvalorando non solo il convincimento che il maggior numero degli Ebrei romani abitasse appunto il Trastevere, ma che l’alto numero di congregazioni sinagogali fosse il prodotto, nella lunga durata, di una storia complessa e stratificata, dove nuclei di varia origine si sarebbero aggiunti via via, le diverse formazioni riflettendo le differenze originarie. I nomi delle sinagoghe, eloquenti a onta di alcune oscurità (dovute anche alla trascrizione di termini latini in fonetica greca), segnalano quartieri di Roma, evocano personaggi illustri, rinviano ad altri Paesi della Diaspora, evidenziando il carattere composito del loro costituirsi. La «sinagoga degli Ebrei» è considerata la piú antica, perché sarebbe formata da Ebrei provenienti dalla Palestina (secondo altri significherebbe «i buoni Ebrei«); laddove i «Vernacoli» sarebbero i nati a Roma, probabilmente di estrazione servile (anche se non neces-

Le catacombe A Roma si conoscono tre catacombe ebraiche e due cimiteri ipogei, di dimensioni minori. La catacomba piú antica è quella di Monteverde, scavata agli inizi del XX secolo e i cui ritrovamenti sono oggi esposti ai Musei Vaticani. Una seconda area, ancora accessibile, è costituita dalle catacombe di Vigna Randanini, situate tra la Via Appia e la Via Appia Pignatelli, il cui interno è stato ricostruito in scala 1:1 nella mostra di Ferrara (nell’immagine qui sopra). La terza area si trova sulla via Nomentana (sotto Villa Torlonia).

sariamente appartenenti alla servitú dell’imperatore). Nessun dubbio invece per la sinagoga degli Augustensi, intitolata al nome di Augusto, il fondatore dell’Impero, cui gli Ebrei dovevano la codificazione di norme che ribadivano e perfino ampliavano i diritti e gli ampi privilegi già loro concessi da Cesare, e che, si ricordi, in segno di rispetto e ossequio A R C H E O 77


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per la loro religione aveva disposto un sacrificio quotidiano in suo nome nel Tempio di Gerusalemme. Quanto agli Agrippensi, prendono nome da Agrippa (Marco Vipsanio Agrippa, l’alter ego e genero di Augusto, piuttosto che Agrippa I re di Giudea sotto Claudio, o Agrippa II), in segno di gratitudine per le molteplici occasioni in cui si era schierato in favore degli Ebrei, e forse anche per un rapporto piú diretto se, come si è congetturato, a quella sinagoga si riferisse l’epigrafe col nome di un personaggio che rivestí due volte la carica sinagogale di archon trovata presso Porta Settimiana, vicino al ponte di Agrippa (oggi ponte Sisto) e alle sue proprietà transtiberine (Villa della Farnesina). Dubbia resta l’esistenza di una «sinagoga degli Erodiensi» dal nome di Erode il Grande, il re di Giudea amico stretto di Augusto e di Agrippa; e incerta l’identità del Volumnio da cui prendeva nome la sinagoga dei Volumnensi, perché tra i personaggi storici di quel nome nessuno se ne segnala per il suo favore nei confronti degli Ebrei. Altre sembrano prendere il nome da città, come la sinagoga dei Tripolitani (è incerto però se dalla città d’Africa o da quella in Fenicia) e forse quella di Elea nella catacomba di Vigna Randanini. Infine, un gruppo di «sinagoghe» ha nomi riferibili alla toponomastica di Roma. Quella dei Calcarensi, sempre che gli operai della calce non fossero gli stessi membri della congregazione, si denominava forse da un distretto urbano in cui si produceva calce. Una schola dei Calcarensi è attestata da iscrizioni dai pressi delle Terme di Diocleziano, ma questa zona, lontana dalla catacomba di Monteverde, semmai avrebbe dovuto gravitare su quella di Villa Torlonia sulla Via Nomentana: qui conosciamo la sinagoga dei Seceni, non altrimenti nota, e soprattutto quella dei Siburensi, gli abitanti della Suburra, che dovevano comprendere anche i residen78 A R C H E O

ti sull’Esquilino, se a loro o agli sconosciuti Seceni (e non ai Calcarensi, come pure è stato proposto) si riferisce la testimonianza, nell’iscrizione funeraria di un fruttivendolo, di una proseucha de aggere, dove l’aggere è certamente quello delle cosiddette «mura serviane», precedenti le mura aureliane, delle quali un lungo tratto si vede tuttora presso la stazione di Termini. Infine, i Campensi noti a Vigna Randanini dovrebbero trarre il nome dal Campo Marzio, anche se il quartiere è lontano e sostanzialmente non è residenziale perché a prevalente destinazione pubblica e monumentale.

UN QUADRO VARIEGATO Poche altre indicazioni possediamo sulla presenza ebraica in Roma; preziosa la segnalazione di Giovenale sulla moltitudine cenciosa di Ebrei che si aggirava presso Porta Capena nel bosco della ninfa Egeria; non lontano, quindi, dalla catacomba di Vigna Randanini. Il quadro d’insieme comunque appare variegato, ed effettivamente la dislocazione delle catacombe sembra corrispondere a una notevole dispersione nel contesto urbano. In genere si ritiene che al tempo di Filone la concentrazione nel Trastevere fosse esclusiva, e che solo piú tardi (eventualmente in concomitanza con il massiccio afflusso di prigionieri della guerra giudaica di Vespasiano) altri nuclei si siano formati in altri quartieri. Suggestiva però appare l’idea che il particolarissimo favore di Cesare verso gli Ebrei – che lo piansero piú degli altri, per varie notti consecutive scendendo a vegliarne la pira – si debba sí all’aiuto determinante a lui fornito da Ircano e Antipatro nel 47 a.e.v., quando era assediato in Alessandria, ma forse anche a un rapporto, se non di clientela, di vicinato nel quartiere, perché la dimora avita dei Giulii era proprio in Suburra; nel qual caso, la presenza degli Ebrei in quella regione dell’Urbe risalirebbe almeno al I

Un grande pannello che rievoca la distruzione del Tempio gerosolimitano da parte delle legioni romane. Sullo sfondo, una riproduzione della cavea del Colosseo, la cui costruzione fu realizzata con i proventi del bottino della guerra giudaica.

secolo a.e.v. Né esclude tale suggestione, anzi la rafforza, l’esistenza probabile di un rapporto politico, quando gli Ebrei romani (un gruppo numeroso, concorde e determinato, capace di influenzare anche le adunanze pubbliche: cosí li presenta Cicerone nella Pro Flacco) appoggiavano i populares, e dunque Cesare; tanto piú dopo l’accentuarsi della sua rivalità con Pompeo, protagonista della conquista e della profanazione del Tempio di Gerusalemme, quando masse di schiavi giudei erano state vendute anche sul mercato romano. Del resto era ben nota a Filone l’origine servile di gran parte della popolazione ebraica di Roma, quando, nella tarda Repubblica, alla conquista di Pompeo erano seguiti altri interventi romani in Giudea, negli anni 50 a.e.v., e poi ancora la campagna di Sosio nel 37, con conseguenti massicci arrivi di prigionieri. Meno sappiamo degli esordi della


comunità romana; se per gli Ebrei espulsi da Roma nel 139 a.e.v. si può pensare a presenze occasionali, la fulminea battuta con cui nel processo di Verre Cicerone fermò l’intervento di un liberto giudaizzante («Che ha a che fare un Ebreo con un porco?», verres significando appunto porco castrato) dimostra che gia nel 70 a.e.v. a Roma gli Ebrei e i loro costumi erano ben noti e incuriosivano (e attiravano) i non Ebrei. Un grande antiquario come Varrone, che sapeva come la religione romana dei primordi non conoscesse simulacri degli dei (ciò che accresceva, egli dice, la reverenza dei devoti), era positivamente colpito dalla aniconicità del dio degli Ebrei, quasi in una consonanza ancestrale. Accresciuta numericamente dagli schiavi, che i correligionari si adoperavano per riscattare (e ai quali dovevano appartenere anche i liberti con cognomi ebraici – Aciba, Apella, Sabbatis, ecc. – che negli

ultimi decenni del I secolo a.e.v. troviamo nella necropoli di Ostia), la comunità ebraica romana, con Cesare e poi soprattutto con Augusto, attraversa un periodo di particolare prosperità; la cacciata del 19 e.v. sotto Tiberio, poi due episodi critici sotto Claudio, nel 41 e nel 49 (quest’ultimo, terminato con l’espulsione degli Ebrei da Roma, dovuto al turbamento prodotto dal diffondersi del cristianesimo, in seno all’ebraismo e al di fuori di esso), sul lungo termine non si tradussero in una diminuzione delle prerogative loro riconosciute in seno alla società romana.

DISTACCATA IRONIA La letteratura del tempo, pur senza guardarli con favore, li osserva con distaccata ironia, come Orazio, o con divertimento, come Ovidio; semmai, come in Seneca o in Persio, ostentando avversione e fastidio per il fumo grasso e la fuliggine sparsi

dalla lampada dello Shabbat («ma gli dei non hanno bisogno di luce») sul davanzale unto di profumi, mentre all’interno la famiglia cena con una coda di tonno al sugo e fiaschette di vino. Il riposo del Sabato (cioè, per Seneca e Giovenale, l’inconcepibile spreco nell’inattività di un settimo della propria esistenza) sollecitava l’imitazione anche dei non Ebrei: i vinti, dice il filosofo, si sono imposti ai vincitori. L’intonazione ostile si accentua via via nella letteratura del tardo I e del II secolo, e a poco sembra servito lo sforzo di Flavio Giuseppe per far conoscere ai Romani la storia della propria gente, portata a termine proprio negli anni finali di Domiziano, quando gravi pericoli sembravano minacciarla. In molti autori tra I e II secolo, primo fra tutti Tacito, l’ostilità antiebraica si manifesta con toni particolarmente duri e acri (l’ebraismo come una inaccettabile superstizione in aperto A R C H E O 79


MOSTRE • FERRARA

I visitatori percorrono le prime sale della mostra allestita al MEIS. 80 A R C H E O


contrasto con le leggi e i costumi romani); tra i poeti epigrammatici e satirici, se in Marziale prevale il dileggio, spesso osceno, di una gente miseranda che pratica commerci infimi (come quelli che scambiano zolfanelli con vetri rotti da riciclare), dove le madri addestrano i fanciulli a elemosinare, in Giovenale gli Ebrei romani sono una turba di mendicanti e di fattucchiere che vendono sogni per pochi spiccioli. Questo mutato atteggiamento probabilmente origina da piú circostanze concomitanti, dove anche il diffondersi del cristianesimo apportava irrequietudine, aprendo dissidi interni e rivalità all’esterno. Ma certo l’evento fondamentale fu, negli anni finali di Nerone, l’insurrezione della Giudea (dovuta alle

malversazioni dei governatori romani, come lo stesso Tacito riconosce), che termina con la presa di Gerusalemme e la distruzione del Tempio (nel 70, con episodi di resistenza fino al 74 e.v.), a opera della nuova dinastia dei Flavi succeduta ai Giulio-Claudi nel potere imper iale: le cortine pur puree dell’Arca e un rotolo della Torah vennero conservati nel Palazzo imperiale; gli oggetti sacri del Tempio, la menorah, la tavola di proposizione, le trombe, sfilarono come prede di guerra nel trionfo di Vespasiano, come li vediamo rappresentati nei rilievi del fornice dell’arco di Tito, per finire esposti come trofei nel Tempio della Pace, il magnifico nuovo complesso che, nell’accostamento anche visivo ai vicini Fori di Cesare e

di Augusto, per gli Ebrei romani drammatizzava il repentino trapasso dalla protezione accordata dai pr imi imperator i all’annientamento del Tempio a opera degli ultimi. I testi che compongono l’articolo sono tratti dal catalogo della mostra e appaiono per gentile concessione dell’editore Electa e del MEIS. DOVE E QUANDO «Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni» Ferrara, MEIS-Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah fino al 16 settembre Orario ma-do, 10,00-18,00; chiuso il lunedí e il 10 settembre Info tel. 0532 769137; e-mail: info@meisweb.it; www.meisweb.it Catalogo Electa

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SPECIALE • OSTIA

OSTIA, CITTÀ DEL MONDO

PRINCIPALE SCALO COMMERCIALE DELL’IMPERO ROMANO, LA CITTÀ SORTA ALLA FOCE DEL TEVERE ARRIVÒ PRESTO A CONTARE MIGLIAIA DI ABITANTI E LA SUA POPOLAZIONE, FIN DALL’INIZIO, SI CARATTERIZZÒ PER LA MESCOLANZA DI GENTI E CULTURE. UNA REALTÀ STRAORDINARIA, DELLA QUALE SI CONSERVA UNA «FOTOGRAFIA» ECCEZIONALMENTE DEFINITA E NITIDA, OGGI CUSTODITA E VALORIZZATA DAL PARCO ARCHEOLOGICO RECENTEMENTE ISTITUITO testo e foto di Mimmo Frassineti, con un’intervista a Mariarosaria Barbera, direttore del Parco Archeologico di Ostia Antica 82 A R C H E O


In alto, sulle due pagine: Ostia. Veduta aerea dell’area in cui sono compresi il Teatro, il Piazzale delle Corporazioni e le Terme di Nettuno. A destra: particolare di una testa di Afrodite, rinvenuta nell’aprile di quest’anno, durante i lavori di pulizia di un condotto fognario di età romana.

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SPECIALE • OSTIA

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orto di Roma, città cosmopolita, una seconda patria per tutti i mercanti del Mediterraneo: a Ostia ogni religione ha i suoi templi, ogni straniero è di casa. Le merci, scaricate dalle imponenti navi onerarie, risalgono il Tevere su barconi trainati da animali da soma, a esaudire le sconfinate esigenze dell’Urbe: grano, olio, vino, bestiame, pelli, pellicce, stoffe, metalli, legno, avorio, porpora, spezie, perle, gemme, profumi, unguenti, frutti rari, ogni sorta di articoli di lusso, perfino le belve per le venationes. Ostia ha conservato non solo i monumenti, gli edifici pubblici e le terme, ma anche le case, i grandi condomini, gli alberghi, i magazzini, i panifici, le lavanderie, le botteghe, i

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ristoranti: quel tessuto urbano, capace di racA destra: veduta contare la vita della gente, che a Roma le aerea del Porto di successive riedificazioni hanno nel tempo Traiano, del quale cancellato. Ammirati i Fori e il Colosseo, chi si riconosce il voglia farsi un’idea delle strade dell’antica grande bacino Roma, la può cercare a Ostia, non piú ricoesagonale, struita dopo l’abbandono nel VI secolo, e rirealizzato fra il trovata quasi intatta dall’archeologia. Raccon100 e il 112 d.C. tano la vita quotidiana anche gli oggetti d’uso, un patrimonio ancora nei depositi, che la nuova direzione del Parco Archeologico progetta di valorizzare in un museo diffuso, nell’area degli scavi. Preziosi affreschi, nelle case dei ricchi, illustrano, piú di quanto non accada nella stessa Roma, l’evoluzione della pittura romana dopo Pompei.

cd. Porto repubblicano

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Roma Decumano Massimo

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Via Ostiensis

(1) Piazzale della Vittoria (2) Caserma dei Vigili (3) Terme di Nettuno (4) Horrea (magazzini) di Ortensio (5) Piazzale delle Corporazioni (6) Teatro (7) Collegio degli Augustali (8) Grandi Horrea (9) Casa della Fortuna Annonaria (10) Terme del Foro (11) Piazza della Statua eroica (12) Casa di Diana (13) Mulino (14) Insula delle Pitture (15) Termopolio (16) Capitolium (17) Curia (18) Basilica Civile (19) Casa dei Pesci (20) Campo della Magna Mater (21) Mercato (22) Horrea Epagathiana (23) Casa di Amore e Psiche (24) Tempio di Ercole (25) Mitreo delle Terme di Mitra (26) Basilica cristiana (27) Schola di Traiano (28) Terme dei Sette Sapienti (29) Insula degli Aurighi (30) Casa delle Muse (31) Insula delle Volte Dipinte (32) Casa del Ninfeo (33) Tomba fuori Porta Marina (34) Casa Fulminata (35) Tomba di Cartilio Poplicola

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SPECIALE • OSTIA Statua-ritratto del duoviro Cartilio Poplicola, uno dei personaggi piú eminenti nella storia di Ostia, collocata nel pronao del Tempio di Ercole.

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Nel 2017 313 000 persone hanno visitato gli scavi, ma il Parco è assai piú esteso: abbraccia a est e a sud un vasto territorio tra la via del Mare e la pineta di Castelfusano, a nord confina con l’Aeroporto «Leonardo da Vinci» e la via Portuense e a Ovest con gli abitati di Ostia moderna e Fiumicino. Nel suo perimetro include i Porti Imperiali, la necropoli dell’Isola Sacra e numerose aree archeologiche minori, che di visitatori ne vedono assai di meno, o niente affatto, soprattutto per carenza di personale. Portus, nel territorio del Comune di Fiumicino – con i moli antichi, il Palazzo Imperiale, gli arsenali, i magazzini, le terme e una basilica paleocristiana – l’anno scorso ha avuto 26 000 visitatori. La necropoli dell’Isola Sacra fu scoperta negli anni Venti del Novecento, durante la bonifica dei terreni che l’Opera Nazionale Combattenti avrebbe assegnato ai reduci della Grande Guerra. Lungo la via Severiana, che collegava Ostia e Porto, si allineano, sui due lati della strada,


oltre 200 tombe, con pitture, stucchi, mosaici e bassorilievi, datate tra il II e il IV secolo d.C. Le iscrizioni sulle facciate danno conto di un ceto portuense di commercianti, liberti e piccoli imprenditori: «Agli Dèi Mani, Caio Annio Proculo e Caio Ninfidio Ogulniano dedicarono questo sepolcro alla piissima madre, Giulia Apollonia figlia di Lucio, a se stessi e ai liberti e liberte e loro discendenti» (Tomba 97 di Giulia Apollonia). È una città dei morti che evoca la città dei vivi, di grande suggestione. Ma, in tutto il 2017, ha fatto registrare 2500 presenze.

CINQUE NAVI IN... AEROPORTO Durante la costruzione dell’Aeroporto Internazionale «Leonardo da Vinci», tra il 1958 e il 1965, vennero alla luce cinque imbarcazioni, lungo il molo destro del Porto di Claudio, le cui rovine affiorano in un vasto prato ai margini dell’aerostazione. Consolidate con una miscela di resine dall’Istituto Centrale del Restauro, furono esposte in un piccolo museo creato ad hoc – in prossimità del luogo di ritrovamento – inaugurato il 10 novembre 1979, il Museo delle Navi. Chiuse i battenti nel 2002, per «lavori in corso», e non li ha piú riaperti. La nuova direzione del Parco annuncia che lo restituirà alle visite entro l’estate del 2019. La basilica paleocristiana

Resti di uno dei templi compresi nell’area sacra di età repubblicana. II-I sec. a.C.

di S. Ippolito – il patrono di Fiumicino, celebrato solennemente il 5 ottobre – è attualmente chiusa al pubblico, come pure l’Iseo Portuense, la necropoli di via Laurentina e di Pianabella, le Saline, Tor Boacciana, le ville costiere. Le auspicabili aperture dipenderanno dalle risorse. Si aggiungono, intanto, altri tesori: nel marzo del 2011, durante la costruzione del nuovo ponte della Scafa, l’ultimo sul Tevere prima della foce (il nome viene dallo zatterone che in passato fungeva da traghetto per l’Isola Sacra), è stata recuperata una nave romana di epoca imperiale, che ora giace nei depositi in attesa di restauro. Nello stesso luogo, 4 m sotto il piano di campagna, è stata individuata una seconda nave. L’ultimo eccezionale ritrovamento, lo scorso aprile, durante i lavori di pulizia di un condotto fognario romano, è una testa di Afrodite, che, probabilmente, appartiene a una replica romana della Venere di Doidalsas, un bronzo greco perduto del 250 a.C. Della fondazione di Ostia, cosí come Tito Livio la racconta, non si hanno testimonianze archeologiche. Regnava, verso la fine del VII secolo a.C., Anco Marcio – il quarto re, secondo la tradizione, nipote di Numa Pompilio – che aveva esteso il dominio di Roma (segue a p. 90) A R C H E O 87


SPECIALE • OSTIA

I SECOLI DEL PORTO DI ROMA 650-600 a.C. Secondo una tradizione semileggendaria, Anco Marcio, quarto re di Roma, fonda Ostia nei pressi della foce del Tevere. IV secolo In seguito alla vittoria su Veio (396), Roma estende i suoi domini fino al mare. In una data ancora imprecisata, coloni romani occupano Ostia. Di poco posteriore è la creazione di un castrum sulla sponda sinistra del fiume (forse tra il 334 e il 305). 298 Di ritorno dalla Grecia, dove si era recata per cercare i sacerdoti richiesti dal culto di Esculapio, una nave risale il Tevere fino a Roma. 267 Prima menzione storica di Ostia: la città è promossa al rango di centro annonario, nel quale risiede uno dei quattro quaestores classici, i magistrati preposti alla manutenzione della flotta e alla difesa delle coste. 237 Gerone II, re di Siracusa, si reca a Roma per assistere ai Ludi Romani. Attracca a Ostia a bordo di una grande imbarcazione di rappresentanza.

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Ostia, che ha un ruolo di primo piano nel conflitto tra Roma e Cartagine, invia un convoglio di rifornimenti in Spagna. Scipione salpa da Ostia alla volta della Spagna, dove, tra il 209 e il 208, sconfigge per tre volte l’esercito cartaginese (seconda guerra punica). Nel quadro dell’estensione della leva militare, gli Ostiensi vengono obbligati a prestare servizio in marina. Durante le guerre civili, Mario, di ritorno dall’Africa, prende possesso della città di Ostia, che si era schierata con Silla, e la saccheggia. Pirati della Cilicia penetrano nella foce del Tevere e distruggono la flotta alla fonda. Viene realizzata una nuova cinta muraria, che amplia la superficie edificabile da 25 a 69 ettari. Durante il principato di Augusto viene costruito il teatro di Ostia e si ha una politica di rinnovamento e di estensione dell’area urbana. Cominciano ad arrivare da Alessandria le prime grandi navi adibite al trasporto dei cereali. Il Foro di Ostia viene ristrutturato all’epoca di Tiberio. Durante il regno di Caligola viene ultimata la costruzione dell’acquedotto. Nerone inaugura il nuovo porto di Ostia, fatto costruire dall’imperatore Claudio, tra il 42 e il 54. In seguito all’incendio di Roma, Nerone fa appello alla solidarietà dei cittadini di Ostia per l’invio di materiale destinato ai senza tetto. L’imperatore dispone la bonifica della palude che circonda la città (paludes Ostienses), che viene colmata con i detriti provenienti da Roma, che giungono a Ostia a bordo di battelli fluviali. Traiano fa ampliare il porto di Claudio, che minacciava d’insabbiarsi, e restaura il canale che collega lo scalo al Tevere e al mare (100-112). La città si arricchisce di grandi depositi e di edifici pubblici. L’imperatore Adriano interviene sull’assetto urbanistico di Ostia (con un vero e proprio piano regolatore) e moltiplica le costruzioni monumentali,


In alto: una veduta del Foro di Ostia, con, al centro, i resti del Capitolium di epoca adrianea, consacrato alla triade capitolina Giove, Giunone e Minerva, e posto all’incrocio tra il cardo e il decumano massimo. Nella pagina accanto: un tratto superstite del basolato del decumano massimo.

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come la Curia e la Basilica del Foro, con un impiego massiccio di laterizio. È il momento di massima fioritura della città, che conta 50 000 abitanti. Sotto Commodo (180-192), figlio di Marco Aurelio, Ostia assume temporaneamente il nome di Colonia Felix Commodiana. Con Settimio Severo (193-211) e il suo successore Caracalla (211-217), in città e nei porti si hanno solo interventi di restauro. Viene realizzata la via Severiana, che collega Ostia a Terracina (Anxur), in direzione sud. Durante il regno di Alessandro Severo si costruisce il tempio rotondo, ultima opera monumentale della città. Massenzio, rivale di Costantino, apre a Ostia una zecca. Costantino, pur facendo restaurare alcuni edifici pubblici, priva Ostia dei suoi poteri municipali per assegnarli ai quartieri che si trovano nei pressi dei porti imperiali e che vengono ribattezzati Civitas Flavia Constantiniana Portuensis. Piú nota con il semplice nome di Portus, questa nuova città finisce con il soppiantare Ostia, che perde il suo ruolo di centro commerciale, a causa dell’insabbiamento del porto fluviale. Mentre Costantinopoli diviene capitale dell’impero, Ostia, cosí come Roma, imbocca la via del declino. Tuttavia, nei dintorni della città sorgono alcune sontuose residenze private (domus). Santa Monica, in partenza per l’Africa,

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muore a Ostia, assistita dal figlio, sant’Agostino. Il restauro del tempio di Ercole dimostra la sopravvivenza del paganesimo. Ravenna diviene capitale dell’impero d’Occidente e il declino di Ostia accelera. I Visigoti di Alarico prendono Roma, ma disdegnano Ostia, città ormai priva di importanza. I Vandali di Genserico mettono a ferro e fuoco la capitale, ma si ignora se Ostia abbia subito la medesima sorte. Il vescovo di Ostia partecipa al concilio indetto nella città francese di Arles. Nel corso delle guerre che Giustiniano combatte per riconquistare l’Italia, i Goti occupano Ostia con il fine di tagliare i rifornimenti di cibo per Roma. Ostia viene privata dei suoi bastioni. Procopio di Cesarea, che vi si trova a passare, ne descrive le miserevoli condizioni. Papa Gregorio IV costruisce a Ostia un borgo fortificato, in funzione antisaracena, nel quale trasferisce gli ultimi abitanti. Portus sopravvive a Ostia ancora per qualche anno. Ha inizio il saccheggio sistematico delle rovine di Ostia. Papa Pio II Piccolomini descrive cosí la città, nei Commentarii: «Che fosse un tempo una grande città lo testimoniano i suoi resti che si estendono su un territorio vastissimo (…) Si vedono ancora portici in rovina, colonne abbattute e frammenti di statue».

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SPECIALE • OSTIA

verso il mare, conquistando Ficana, una città affacciata sul Tevere, in corrispondenza dell’attuale Acilia. Dal Monte Cugno – una modesta altura oggi non piú esistente – Ficana controllava l’ultimo tratto del fiume. Gli abitanti furono accolti – o deportati – sull’Aventino, andando ad accrescere la popolazione dell’Urbe. «Tolta ai Veienti la Selva Mesia – continua Livio – il dominio fu esteso fino al mare, e alla foce del Tevere fu fondata la città di Ostia, vi furono costruite intorno saline» (traduzione di Guido Vitali). Anco Marcio è una figura semileggendaria, ma è plausibile che Roma abbia assunto il controllo della foce (ostium) del fiume e delle saline, verosimilmente preesistenti. La definitiva vittoria su Veio, nel 396 a.C., diede all’Urbe il dominio sulla costa e sui territori alla destra del fiume.Verso la fine del IV secolo a.C. i Romani fondarono una cittadella fortificata, a circa 700 m dal mare, sulla riva sinistra del Tevere. Del Castrum, un rettangolo grande come uno stadio di calcio, si è conservato un tratto delle mura. Nella 90 A R C H E O

città, ricostruita in laterizio in epoca adrianea, spicca per i grandi blocchi di tufo squadrati (come quelli delle Mura Serviane, davanti alla Stazione Termini). Avamposto militare, da cui Scipione, nel 210 a.C., salpa verso la Spagna a sfidare l’esercito cartaginese, Ostia gradualmente si trasforma. Da tutto il Mediterraneo vi convergono le rotte mercantili, si trattano merci di ogni sorta, il grano, in particolare, importato dall’Africa, dalla Sicilia, dalla Sardegna. Nell’80 a.C. una nuova cinta di mura abbraccia 69 ettari, 30 volte l’area del Castrum.Vi si aprono, su tre lati, le porte Romana, Laurentina e Marina (i nomi sono moderni). A nord è il Tevere a segnare il confine dell’abitato.

LA FLOTTA TRASFERITA A sancire il ruolo di porto commerciale fu anche il trasferimento, voluto da Augusto, della flotta militare a Capo Miseno, in Campania. Negli stessi anni furono costruiti il teatro e il Piazzale delle Corporazioni, un monumento unico, palinsesto figurato, con i

Sulle due pagine: particolari dei mosaici del Piazzale delle Corporazioni. In alto, il trasbordo del carico da una nave marittima a un’imbarcazione che da Ostia avrebbe risalito il Tevere fino a Roma; nella pagina accanto, un elefante, che evoca l’origine africana degli operatori citati nell’iscrizione, che in questo caso sono quelli della città libica di Sabrata.


suoi mosaici, delle attività commerciali e della marineria. Tiberio (o forse Caligola), costruí l’acquedotto. L’acqua nelle abitazioni era solo per i ricchi, e si pagava a rationibus. Ma l’acqua pubblica, nelle terme e nelle fontane, era abbondante. Lo scalo fluviale, scomodo da sempre per la limitata larghezza, non reggeva piú la mole dei traffici verso la capitale, la cui popolazione toccava ormai il milione. L’imperatore Claudio (41-54 d.C.) pose allora mano a un progetto grandioso: la costruzione, a nord dalla foce del Tevere, di un porto marino – segnalato da un faro gigantesco, che avrebbe umiliato quello famoso di Alessandria –, al cui interno le navi onerarie potessero agevolmente attraccare, e trasferire le merci su imbarcazioni piú agili, adatte alla navigazione fluviale. Claudio non volle ascoltare i suoi ingegneri, i quali paventavano l’insabbiamento della struttura. I lavori iniziarono nel 42 d.C. e si protrassero oltre la morte dell’imperatore, tanto che l’opera fu inaugurata da Nerone, nel 64 d.C. (segue a p. 98) A R C H E O 91


SPECIALE • OSTIA

IL BIGLIETTO DA VISITA DI ROMA Incontro con Mariarosaria Barbera Istituito il 23 gennaio 2016, il Parco Archeologico di Ostia Antica, si estende tra il X Municipio del Comune di Roma e il Comune di Fiumicino, e include una delle aree archeologiche piú vaste del Mediterraneo (130 ettari).

◆ Dottoressa Barbera, il Parco

Archeologico di Ostia Antica è dotato di «autonomia speciale». Che cosa significa? Che l’istituto ha un bilancio autonomo, un proprio Consiglio d’amministrazione, un proprio Collegio di revisori dei conti, e può fare da stazione appaltante, cioè incardinare presso di sé i fondi per i lavori, le gare, i servizi. Laddove la maggior parte degli uffici dipende per il bilancio soltanto dalle erogazioni del Ministero. ◆ Il Parco è equiparato a una Soprintendenza Territoriale. Che cosa comporta questo? La riforma Franceschini ha distinto gli istituti che fanno tutela da quelli che fanno valorizzazione: i primi sono le soprintendenze, che si occupano della gestione del patrimonio del territorio, per esempio ponendo vincoli e concedendo nulla osta; i secondi sono i musei autonomi che si occupano della valorizzazione delle loro collezioni. Il terzo modello, che raccoglie pochi istituti italiani, fa entrambe le cose. Noi, nel nostro territorio, esercitiamo la funzione della soprintendenza, quindi possiamo mettere un vincolo a Ostia o concedere un nulla osta a Fiumicino, ma abbiamo anche le funzioni di museo autonomo, quindi facciamo valorizzazione. ◆ In un recente convegno, lei ha

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Dal 10 aprile 2017 è diretto da Mariarosaria Barbera – nominata a seguito di concorso internazionale –, già a capo della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, che comprendeva l’area di Ostia Antica, ora autonoma. sottolineato il ruolo del Parco come presidio della legalità. Noi siamo un pezzo dello Stato, che gestisce soldi, lavori, il territorio, nulla osta, autorizzazioni: certo che c’è bisogno di legalità! Non siamo soltanto le vestali dell’archeologia. Ostia è un territorio bello ma difficile, macchiato, come sappiamo, da problemi di delinquenza mafiosa. Quindi bisogna essere piú che mai attenti al contesto, tanto piú quando si è un ufficio pubblico che deve fare della moralità e della buona pratica della cosa pubblica la sua bandiera. L’esempio lo diamo cercando di portare ricchezza al territorio in maniera onesta, attraverso le attività di tutela e di valorizzazione. ◆ Ciò si lega con l’immagine di Ostia, crocevia di culture e popolazioni? Roma era un grande crogiuolo d’idee, di popoli, di progetti culturali, di religioni. Ostia era il biglietto da visita di Roma. Nella stessa strada convivono il mitreo, luogo di culto di una religione iranica, e i mercanti che vengono dalla Gallia o dalla Spagna. Ci sono i templi della religione tradizionale, l’oratorio cristiano, la sinagoga. Ostia è un microcosmo rappresentativo del macrocosmo di Roma. Il simbolo di Ostia è il Piazzale delle Corporazioni, il primo grande foro commerciale dell’antichità, dove in ognuna delle stationes si manifestava, attraverso i mosaici e le scritte, l’orgoglio della propria

identità, della propria origine, e dell’attività svolta al servizio di Roma. ◆ Era una grande vetrina? Non era soltanto una vetrina, vi si svolgevano anche gli affari. Oggi gli ambienti non sembrerebbero adeguati ma, verosimilmente, disponevano anche di un piano superiore. Ostia era il punto di arrivo e di scambio di olio, di grano e, in parte, di vino: la triade alimentare mediterranea. I magazzini di Ostia sono di gran lunga i dock piú grandi di tutto l’impero romano. Gli horrea contenevano migliaia di tonnellate di grano, migliaia di ettolitri d’olio. ◆ Quale altezza raggiungevano le case della città? Dobbiamo immaginare una città che si estendeva anche in altezza. Le case piú alte toccavano i sette piani, anzi, all’occorrenza, li superavano, se è vero che ciclicamente Roma legiferava riducendo a sette il numero dei piani per ragioni di peso e perché le strutture, costituite di legno nei piani alti, erano soggette a incendi. Non a caso Augusto ha creato il primo corpo dei vigili del fuoco. Le domus dei ceti piú abbienti si fermavano generalmente al secondo piano, raramente arrivavano al terzo. Le cosiddette insulae – da cui il termine moderno isolato – Nella pagina accanto: Domus di Amore e Psiche, IV sec. d.C. Esempio di ricca residenza dell’età tardo-antica, prende il nome dalla scultura qui illustrata, il cui originale si trova nel museo.


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SPECIALE • NOME

erano i blocchi edilizi per i meno abbienti. Nel momento di massimo sviluppo Ostia raggiunse i 50 000 abitanti (Pompei ne aveva 15 000). Sono rappresentati tutti i tipi di edilizia: dall’età repubblicana alla fine dell’impero, Ostia racconta l’evoluzione dei sistemi residenziali. Rimane un problema, che riguarda le modalità di scavo attuate quando, tra il 1938 e il 1942, in vista dell’Esposizione Universale, Ostia è stata disvelata massicciamente, ma con scarsa attenzione ai livelli piú recenti, quelli dalla seconda metà del III secolo d.C. in poi. La crisi, che coinvolgeva l’impero nel suo insieme, faceva sí che molte opere edilizie fossero di peggiore qualità, esteticamente meno significative, cosí buona parte

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dell’Ostia tardo-antica è stata cancellata. Quando arriveranno i fondi del CIPE (attendiamo 32 milioni già deliberati) potremo riavviare le ricerche, finalmente con il ricorso al metodo stratigrafico. ◆ L’area non scavata è ancora molto ampia? Ostia misura 84 ettari, 33 dei quali coperti da architetture. Alcune sono state reinghiottite dal verde, come lungo il decumano, che da poco abbiamo liberato dalla vegetazione. Le condizioni di conservazione di Ostia conseguono a una mancata riedificazione, diversamente da Roma. E in alcuni punti, che non sono mai stati toccati, si trova ancora l’Ostia tardo-antica. ◆ Quali criteri presiedono alla manutenzione del verde? Ostia e Porto sono due casi diversi,

con due distinte tipologie di verde. A Porto la condizione è di seminaturalità: c’è una componente archeologica, ma non è prevalente. Quindi Porto deve essere considerato, sotto il profilo naturalistico, come un parco di avifauna, con trattamenti di conservazione che non lo snaturino, e abbiamo già qualche idea in proposito. Il verde di Ostia, invece, è un’invenzione dell’età moderna. Quando si è cominciato a scavare a Ostia – come anche in altri siti dell’Italia romana – si è scelto il pino, perché albero mediterraneo per eccellenza. Ma ogni dieci o dodici anni bisogna contenere l’invadenza delle radici, facendo attenzione che gli alberi non cadano. Con un team di architetti, che abbiamo finalmente in organico, stiamo affrontando il tema


del paesaggio di Ostia, che da una parte deve mantenere la sua identità, dall’altra forse un poco deve correggerla. Quello del verde a Ostia è un discorso da reimpostare. ◆ Quindi progettate un intervento sul verde? Ostia ha subíto, come altri luoghi archeologici, interventi ciclici – il restauro delle coperture, degli affreschi, dei mosaici –, in genere legati a provvidenze economiche straordinarie. Questo Paese è stato incapace di garantire una manutenzione costante: a Ostia le attività si sono svolte quando ci sono stati i fondi per farlo. Il ciclo vitale di un restauro di affreschi o di coperture, oppure di un impianto di alberi, dopo un certo tempo si esaurisce e si apre un altro ciclo. Noi ci troviamo adesso a dover ripensare al restauro di quasi tutti gli affreschi, di molti mosaici e probabilmente di buona parte del verde. L’auspicio è che si smetta con i fondi straordinari e che si riesca a garantire una manutenzione ordinaria decorosa. Quella del verde, di Ostia, di Porto e

eventuali resti nel sottosuolo. Poi, quando non ci sono fondi per fare nulla, si pensa anche di mandare le pecore a brucare, come è accaduto in passato in alcuni siti archeologici. Il problema è che le pecore hanno gli stessi orari dei visitatori, non possono brucare di notte, e inoltre lasciano qualche sgradevole souvenir... ◆ Presenterete la candidatura di Ostia a Patrimonio Mondiale dell’Umanità UNESCO? L’UNESCO difficilmente concederà all’Italia ulteriori riconoscimenti di natura archeologica, quindi a Ostia puntare solo sull’archeologia è limitativo. La recente riforma ministeriale ha fatto di noi un istituto che si occupa del territorio a 360 gradi. Ci chiamiamo Parco Archeologico perché è la caratteristica prevalente, ma abbiamo competenza in materia di architettura e storia dell’arte, fino all’età contemporanea. Ostia ha bisogno di una nuova politica dei trasporti, sia da e verso Roma che rispetto a Fiumicino. Con Fiumicino

di tutte le aree circonvicine, costa almeno 800 000 euro ogni anno. Con il verde siamo diventati anche piccoli imprenditori: abbiamo, infatti, alcuni ettari coltivati a erba medica che, appaltati a un concessionario che la raccoglie, ci rendono una piccola cifra. Le modalità di coltivazione e di raccolta dell’erba medica non interferiscono con

Nella pagina accanto: il Mitreo dei Serpenti, che riutilizza un affresco già in situ. III sec. d.C. In alto: pinze da chirurgo. I-II sec. d.C. A destra: una pelike, piccola brocca a due manici. IV sec. a.C.

non c’è neanche il collegamento diretto: per arrivare qui bisogna passare da Roma. Inoltre, le nostre forze di vigilanza e di accoglienza sono sotto il minimo: le tabelle ministeriali ci attribuiscono un terzo dei custodi previsti per Pompei, su una superficie doppia. Questo è il parco archeologico piú costruito del mondo, perché contiene due città antiche. Al momento riusciamo ad aprire con difficoltà crescenti Ostia antica, mentre a Porto è determinante l’aiuto della Fondazione Benetton, perché lí abbiamo solo due custodi. ◆ Riaprirà finalmente il Museo delle Navi? È pronto il progetto esecutivo e siamo nella fase di verifica di legge. Abbiamo già preso accordi con Invitalia, che ci supporta come stazione appaltante, quindi prevediamo entro l’anno di affidare i lavori e di aprire il Museo entro il 2019. ◆ Che cosa giustifica sedici anni di chiusura per lavori in corso?

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Non è la fabbrica di San Pietro... Ci sono state una serie di circostanze negative in passato, per interventi quasi sempre sconfessati dalle norme antisismiche in seguito sopravvenute. Il museo diventerà immersivo e avrà apparati multimediali. Le navi, a turno, saranno restaurate, in cantieri a vista. ◆ Accoglierà anche i due relitti, recentemente trovati a Isola Sacra, uno dei quali è ricoverato nei vostri depositi, mentre l’altro è ancora da scavare? In futuro sí. Consideriamo che queste navi necessitano di un periodo di sosta in laboratori specializzati – il migliore in Europa è quello di Aix-en-Provence, con il quale abbiamo un accordo operativo – e devono essere sottoposte a un’operazione di desalinizzazione per un tempo molto lungo. ◆ Analogamente a quanto

accaduto con le navi di Pisa? In parte, ma quello era legno bagnato in acqua dolce e, da subito, sottoposto a procedure adeguate. Invece le navi rinvenute negli anni Cinquanta sono state trattate piuttosto alla buona, hanno poi subito varie traversie, è un miracolo che non si siano dissolte. ◆ Accennate all’attività di contrasto degli scavi clandestini. Esistono qui a Ostia? Sí, anche se non siamo la Puglia. Abbiamo una stretta collaborazione con la Guardia di Finanza e con i Carabinieri per la Tutela del Patrimonio. ◆ Che cosa cercano i tombaroli? Per esempio, la tomba di santa Monica, la madre di sant’Agostino, morta qui nel 387. ◆ Avete annunciato la realizzazione di uno spazio espositivo per ripresentare a Ostia l’opus sectile di Porta Marina, ora esposto al Museo delle Civiltà. E lí resterà per il prossimo futuro, ma insieme con quel Museo ne studieremo la ricostruzione virtuale.

Sulle due pagine: foto scattate nel Museo delle Navi nel 2002, prima della chiusura. A destra, calco del rilievo di un sarcofago con scena portuale, da Porto (III sec. d.C.); in basso, una delle imbarcazioni rinvenute in occasione dei lavori per la realizzazione dell’Aeroporto «Leonardo da Vinci» di Fiumicino: si tratta, in questo caso, di una chiatta fluviale adibita al trasporto delle derrate dal porto di Ostia a Roma.

Quando fu restaurato, nel 2000, per ragioni di conservazione non poteva essere riallestito sulle pareti dalle quali era stato staccato e, qui a Ostia, non c’è oggi un ambiente abbastanza grande per contenerlo. La riforma lo ha attribuito al Museo delle Civiltà, con cui, però, intendiamo fare rete. ◆ Realizzerete un nuovo attracco sul Tevere? È un progetto in corso con fondi della Regione Lazio, che portiamo avanti insieme al Municipio. La banchina è di loro competenza, all’interno del perimetro del parco siamo noi a occuparcene. ◆ È vero che volete riattivare il sistema delle fognature romane? Stiamo già riattivando, a lotti, perché

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è sconfinato, tutto il sistema di drenaggio a Ostia. Abbiamo rilevato quanto il sistema di drenaggio moderno sia basato su quello romano. Non è un caso che quest’anno Ostia non si sia allagata. ◆ Il sistema romano è ancora fisicamente visibile? Certo che sí! Ci sono i tombini, le canalette a cappuccina. Da una di queste fogne è venuta fuori, durante la pulizia, la testa di Afrodite. ◆ Avete annunciato anche un allargamento del museo. I volumi esistenti non aiutano. Pertanto, con i fondi del CIPE, ripenseremo le cubature e la funzione di tutti gli edifici. Manca, a Ostia, un grande racconto

multimediale, e mancano pure, a differenza di Pompei, i piccoli strumenti della vita quotidiana. ◆ Che voi possedete in abbondanza. Non come le città vesuviane, che furono tombate dall’eruzione, ma, in effetti, possediamo un buon numero di oggetti della vita quotidiana. Ostia si distingue per monumentalità, ricchezza di mosaici e di affreschi, però le piccole cose della vita non si vedono, con poche eccezioni, come le macine nel mulino del Silvano. Quello che stiamo progettando, con un gruppo di funzionari dell’Istituto, è anche un museo diffuso. Ambienti già oggi visitabili possono diventare punti di esposizione di materiali legati al contesto: per

esempio, al mercato possiamo esporre le anfore. Dobbiamo confrontarci con la carenza di spazi e, per ora, con la carenza di denaro. Il problema di Ostia, come di altri siti dei Beni Culturali, è il personale, soprattutto i custodi in numero sempre piú ridotto: un grido d’allarme che continuo a lanciare. Intanto abbiamo riavuto il castello di Giulio II e ne stiamo accertando le condizioni. ◆ Un bello spazio a disposizione. Sí, ma non abbiamo i custodi per tenerlo aperto, abbiamo dovuto ideare un progetto speciale almeno per i fine settimana, finché durano i soldi dedicati…

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Ma già si era rivelata insicura quando, nel 62 d.C., come riporta Tacito, duecento navi, ancorate nel porto, furono distrutte da una violenta mareggiata. Anche il temuto insabbiamento non tardò a manifestarsi.Tutto ciò indusse Traiano a realizzare, tra il 100 e il 112 d.C., un nuovo bacino portuale, piú interno e protetto, di forma esagonale, collegandolo al mare da un lato, al Tevere dall’altro. Una nuova città, Portus, dedita al commercio, crebbe accanto ai Porti Imperiali. Quello di Claudio giace ormai, a 1 km circa dal mare, sepolto ai margini dell’aerostazione, mentre l’esagono traianeo si è perfettamente conservato. Un affresco, nella Galleria delle Carte Geografiche (1581-1583), ai Musei Vaticani, lo rappresenta attorniato da numerosi edifici.

DAL TUFO AL MATTONE A Ostia, con Adriano (117-138 d.C.), venne ampliata l’area del Foro, fu eretto un nuovo monumentale Capitolium, e vennero innalzati tre nuovi grandi horrea (magazzini). Gran parte della città fu ricostruita abbandonando il tradizionale tufo, la pietra vulcanica laziale, in favore del piú costoso mattone. Pitture

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In alto: lucerna con la figura di un attore tragico, probabilmente perché venduta in prossimità degli edifici teatrali. II sec. d.C.

raffinate ornarono le case dei ricchi. Commodo (180-192) costruí gli Horrea Antoniniana. Settimio Severo definí il tracciato della via Severiana, una strada costiera che univa Portus a Terracina attraversando Ostia, Lavinio e Anzio. Ne restano tratti nella necropoli di Porto e nella pineta di Castelfusano. Il Tempio Rotondo, accanto alla Basilica, fu l’ultimo edificio monumentale costruito a Ostia, probabilmente durante il breve regno dei tre imperatori Gordiani (238-244 d.C.), quando già si avvertivano i primi segnali di crisi dell’impero. Il porto marino, che in una prima fase aveva accresciuto la prosperità di Ostia, finí per monopolizzare le attività commerciali. La vocazione della città si trasformò in residenziale, con dimore eleganti, mentre i quartieri popolari s’immiserivano e si svuotavano. Nel VI secolo, con lo scalo fluviale insabbiato e il progressivo degradarsi dell’ambiente naturale, vi fu il definitivo abbandono. Restarono solo i calcarari, a trasformare in calce i marmi antichi. Una bolla papale del XII secolo – citata da Carlo Pavolini in La vita quotidiana a Ostia (Laterza, 1986) – nomina Ostia semplicemente come il luogo qui voca-


tur calcaria, «che è detto calcara». I pochi abitanti si rifugiarono piú all’interno, dove papa Gregorio IV aveva creato Gregoriopoli, un borgo fortificato, a contrasto dei Saraceni che, basati al Garigliano, spadroneggiavano sulle coste tirreniche. Nel XV secolo, la costruzione di una rocca, a guardia della foce del Tevere, fu vanificata da una piena che, nel 1557, spostò a valle il letto del fiume, privando cosí il castello del suo scopo e avviandolo a trasformarsi in fienile.

LA GRANDE PITTURA Con la ricostruzione di Adriano (117-138 d.C.) si apre la stagione della grande pittura ostiense. Ci guida a scoprirla l’archeologa Flora Panariti. Entriamo nell’Insula delle Muse – parte di un vasto fabbricato, detto delle Case a Giardino. Prende il nome da una stanza affrescata nella quale Apollo, al centro di un riquadro giallo intenso, appare circondato dalle nove figlie di Mnemosine, in altrettanti riquadri su fondo rosso cupo. «È un ciclo molto particolare – spiega Panariti –, le muse sono rappresentate con una piuma sul capo, secondo un antico mito nel quale, dopo una tenzone canora con le sirene, che non erano donne pesce ma esseri piumati, le muse vincitrici si ornano con le loro piume». Un altro ambiente, piú appartato, mostra un corteo dionisiaco. Appartiene allo stesso periodo anche l’Insula delle Ierodule: «Nel mondo greco le ierodule erano le prostitute sacre. Ma quelle che vediamo – chiarisce l’archeologa – sono, in realtà, figure del corteggio dionisiaco: il nome, ormai entrato nell’uso, è inappropriato. Un graffito, forse per mano della proprietaria, restituisce il nome di Lucceia Primitiva». Di epoca adrianea è anche la Casa di Diana, dove un ambiente decorato con festoni e architetture, che incorniciano le effigi di Oceano e di Medusa, era probabilmente il tablinum, priNella pagina accanto, in basso e a destra: affreschi nell’Insula delle Muse. Età adrianea (117-138 d.C.). Apollo, al centro di un riquadro giallo intenso, è circondato dalle nove figlie di Mnemosine, in altrettanti riquadri su fondo rosso cupo e rappresentate con una piuma sul capo, secondo un antico mito nel quale, dopo una tenzone canora con le sirene, che non erano donne pesce ma esseri piumati, le muse vincitrici si ornano con le loro piume. A R C H E O 99


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uso del giallo e del rosso è peculiare dell’epoca antonina. Siamo verso la fine del II secolo anche nell’Insula di Giove e Ganimede, dove una data graffita riconduce a Commodo (180-192 d.C.). «Colonnati in prospettiva, sormontati da protomi semifantastiche, dilatano gli spazi. Il quadro centrale mostra Zeus in trono che accarezza Ganimede, mentre una figura femminile li osserva,Venere o Era». Al III secolo appartiene il Mitreo dei Serpenti. «Riutilizza un affresco già in situ, che rappresenta due serpenti, una femmina e un maschio, simbolo, per i Romani, dell’amore coniugale. Ma il serpente, animale ctonio, rientra a pieno titolo nella mistica mitraica». La Casa di Diana, le Insulae del Soffitto Dipinto e delle Pareti Gialle si possono visitare su richiesta. Le Insulae delle Muse, delle Ierodule e di Giove e Ganimede sono, al momento, oggetto di restauri e messa in sicurezza. È sempre visibile il Mitreo dei Serpenti.

ma che la stanza fosse convertita in uno stabulum, una stalla, come denuncia la presenza della mangiatoia. Nell’Insula delle Volte dipinte, della metà del II secolo a.C., è rappresentato il mito di Pegaso e si può ammirare l’unico dipinto a carattere erotico – un minuscolo quadretto – in tutta Ostia Antica. L’Insula delle Pareti Gialle si colloca oltre la metà del II secolo. «I colori dominanti sono il giallo e il rosso cupo, con fughe prospettiche e l’inserzione di piccole vedute naturalistiche. In un ambiente attiguo riconosciamo Ercole e Acheloo, che lottano per contendersi Deianira, indizio di un committente introdotto alla mitologia». Nell’Insula del soffitto dipinto, l’ampio 100 A R C H E O

LA VITA QUOTIDIANA Alla quotidianità della variegata popolazione ostiense ci introduce l’archeologa Paola Germoni: «Gli strumenti domestici piú diffusi nel mondo antico erano le lucerne. Ne vediamo una che reca impressa la figura di un attore tragico, probabilmente perché venduta in prossimità degli edifici teatrali. Quest’altra, con l’effigie di un personaggio caricaturale, è un portafortuna o un gioco infantile, al confine tra l’amuleto e l’uso pratico. In cima ha una spiga, che è un riferimento all’abbondanza». Su una terza lucerna è rappresentata la corsa delle bighe. Si distinguono i due cavalli, mentre l’auriga brandisce la frusta. Paola Germoni poi ci mostra un piccolo vaso, decorato con un cavallo bianco. «Qui entriamo nel mondo sepolcrale. È una pelike, un contenitore per liquidi, del IV secolo a.C., uno dei reperti piú antichi». Da una cassetta di reperti, contrassegnati da cartellini, Germoni estrae un salvadanaio di coccio. «L’identificazione è data dal tassello, a misura di moneta, e dalla rappresentazione della Fortuna all’interno di un’edicola. Regge la cornucopia nella sinistra e nella destra il remo, che simboleggia l’abbondanza, la navigazione, i commerci». Vediamo ancora una coppia di dadi, numerati da uno a sei, un pugnale di ferro, un cucchiaio di bronzo, per servire a


tavola, un’esile bilancia, per pesare materiali preziosi, e pinze chirurgiche. «Gli scavi di Ostia hanno restituito un gran numero di strumenti chirurgici. Ciò è dovuto alla presenza di molte persone provenienti dall’Oriente e dalla Grecia, dove diffusa era l’arte della medicina. In questo esemplare non manca un certo gusto decorativo. Gli oggetti di bronzo datano tutti tra il I e il II secolo d.C., quando l’impero era piú ricco». Un unguentario, dalla bellissima patina iridescente, appartiene al III secolo d.C. Un calice in vetro soffiato, leggero come l’aria, del V secolo d.C., è un oggetto di gran lusso, che dobbiamo immaginare nelle ultime ricche domus della città, ormai avviata al tramonto.

LA BONIFICA E I PRIMI SCAVI Sembra impossibile che la palude si stendesse a perdita d’occhio, infestata dalla malaria. Di origine ancora sconosciuta (solo nel 1898 Giovan Battista Grassi individuò il plasmodium, trasmesso dalla zanzara anofele), la malaria era giunta a minacciare anche alcuni quartieri di Roma, e fu una delle ragioni che indussero il governo di Agostino Depretis (1884-85) ad affrontare il problema alla radice. La bonifica fu una grande impresa: chi voglia conoscerla, può leggere Gli Scariolanti

Nella pagina accanto, in alto: particolare degli affreschi nell’Insula delle Ierodule. Età adrianea. Nella pagina accanto, in basso: calice in vetro soffiato. V sec. d.C. In basso: Insula delle Pareti Gialle. Particolare di uno degli affreschi raffigurante Oceano. Oltre la metà del II sec. d.C.

di Ostia Antica (Camunia, 1989), di Liliana Madeo, e il capitolo dedicato in Romagnoli e Romagnolacci (Minerva Edizioni, 2014), di Vittorio Emiliani. Racconta quell’epopea anche un museo privato, l’Ecomuseo del Litorale Romano, con due sedi, una a Castelfusano, l’altra a Maccarese. La bonifica Pontina (1926-1937), assai piú celebrata, ebbe il massimo consenso della politica, e poté avvalersi di imponenti macchinari. Invece quei 500, fra uomini e donne, dell’Associazione Generale degli Operai Braccianti di Ravenna – la prima cooperativa italiana – che ottennero l’appalto per risanare gli stagni di Maccarese, Camposalino, Ostia e Isola Sacra, e gli altri – piú di 2000 – che li seguirono nell’avventura, furono spesso guardati con diffidenza. E i loro strumenti erano la pala e la carriola. Sulle terre strappate alla palude sarebbero nate Ostia Lido e, a Maccarese, una florida agricoltura. E avrebbero trovato un ambiente assai piú propizio le indagini archeologiche. A Ostia i primi scavi risalgono alla fine del Settecento, quando si vedevano affiorare solo i maggiori fra i monumenti, come il Capitolium e il Teatro. Proseguirono con Pio VII (1800-1823) e Pio IX (1846-1878) e, dopo l’annessione del Lazio al territorio nazionale nel 1870, a dirigerli fu Rodolfo Lanciani. Nulla, però, in confronto a quanto accadde in soli quattro anni, tra il 1938 e il 1942, di pari passo con la costruzione dell’E42, l’odierno quartiere EUR, e l’allestimento dell’Esposizione Universale, poi disdetta a causa della guerra. L’archeologo Guido Calza e l’architetto Italo Gismondi procedettero a tappe forzate per portare alla luce quella che, ai visitatori dell’Esposizione, doveva apparire come una città romana giunta intatta al XX secolo. È in buona parte la stessa che oggi abbiamo davanti agli occhi, la splendida Ostia del II secolo, valorizzata però asportando, senza documentazione, tutti gli strati posteriori, mandati in discarica. DOVE E QUANDO Parco Archeologico di Ostia Antica Roma, viale dei Romagnoli, 717 Orario il Parco apre alle 8,30; gli orari di chiusura variano stagionalmente (vedi info); chiuso lunedí, il 1° gennaio e il 25 dicembre Info tel. 06 56358099; e-mail: pa-oant@ beniculturali.it; www.ostiaantica.beniculturali.it A R C H E O 101


IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

ALLA RICERCA DI UN EQUILIBRIO SEBBENE LA SUA MISSIONE CONSISTA, DA SEMPRE, NEL GUARDARE ALL’INDIETRO, L’ARCHEOLOGO DEVE SAPER OPERARE CON CRITERI ADEGUATI ALLE ESIGENZE DEL TEMPO IN CUI VIVE. UNA SFIDA CHE LA RICCHEZZA DEL NOSTRO PATRIMONIO RENDE PARTICOLARMENTE IMPEGNATIVA

L

a recente riforma ministeriale che ha introdotto le Soprintendenze uniche nel nostro ordinamento di tutela richiede un grande impegno da parte delle Università per la formazione di personale capace di interpretare al meglio un approccio «olistico» al patrimonio culturale (dal greco olos, «tutto, intero, totale», l’olismo è la teoria secondo la quale le manifestazioni vitali degli organismi vanno interpretate sulla base delle interrelazioni e delle interdipendenze funzionali tra le parti che compongono l’individuo, n.d.r.). Serve dunque una formazione, che miri a una sinergia tra competenze specialistiche e visioni contestuali, innanzitutto nella Pubblica Amministrazione, ma anche nell’imprenditoria privata

e nelle tante forme in cui si esplica l’azione sociale verso il patrimonio. Per questo motivo, l’Università Roma Tre ha, per esempio, attivato un Master, «Culture del patrimonio», che mira a formare figure professionali capaci di operare a diverso titolo nella filiera sintetizzata nel sottotitolo del corso: conoscenza, tutela, valorizzazione e gestione del patrimonio culturale. L’obiettivo è quello di associare a una solida preparazione di base nel campo dei beni culturali anche conoscenze e competenze trasversali, a partire da quelle tecnico-gestionali e giuridico-amministrative, che aprano a una visione sistemica del nostro patrimonio. Un bel pezzo della qualità del secolo che viviamo si fonda sulla

ricerca di un equilibrio, difficile ma vitale, tra necessità dell’approfondimento verticale dei saperi per produrre conoscenze nuove, e obbligo del loro allargamento orizzontale per accompagnare azioni e comportamenti conseguenti. Gli archeologi possono essere favoriti in questo per la caratteristica della nostra disciplina di mettere il naso nelle discipline altrui, per una comprensione piú globale e colta del mondo in cui operiamo, di quello passato che studiamo e di quello presente per il quale studiamo, perché il fascino del passato non ha senso senza la curiosità per il moderno e il futuro.

SAPERI COME STRUMENTI L’Università elargisce da sempre saperi, intesi come strumenti, ma anche come oggetto della piú ampia diffusione: è questa infatti che distingue l’erudizione, l’affastellamento di dati a volte sterilmente ostentati, dalla cultura, intesa come sistema di conoscenze, che creano nuovi modi di interpretare e modificare la realtà. Come? Confrontando le fonti, costruendo reti di conoscenza, piegando le discipline all’analisi del contesto nella sua integrità, secondo una visione globale, che trae linfa dall’anelito di totalità, che è insito in ciascuno di noi, congiunto alla cura e all’interesse per il dettaglio. Dico cultura, e


intendo innanzitutto la cultura umanistica, anche quando annaspa nel suo ostinato rifiuto del criterio di utilità, del principio di sussidiarietà, dei condizionamenti posti dal sistema delle democrazie di massa, talvolta incapace di andare «oltre il rimpianto». «L’uomo di valore – diceva Confucio – bada all’insieme piú che ai dettagli. L’uomo da poco bada ai dettagli piú che all’insieme». Non sarei cosí drastico, ma c’è del vero nel grande saggio cinese. Oggi la comodità strumentale di un navigatore ci permette di dare un attributo onomastico puntuale al luogo in cui stiamo andando. Come la calcolatrice, il navigatore è generoso di informazioni, ma non di conoscenze: non supplisce alla visione contestuale della carta geografica, che ci dice dove siamo diretti, e ci parla di monti, valli, fiumi, Paesi che attraversiamo, e anche di quelli dove decidiamo di non andare.

UNA RELAZIONE DELICATA Nel campo del patrimonio culturale questa delicata relazione tra informazioni e comportamenti, appare con evidenza nel rapporto tra tutela e valorizzazione. Potrà sembrare un pensiero paradossale, ma che cosa distingue in fondo queste due funzioni fondamentali, se non forse il fatto che la prima è sostenuta, anche se certo non esclusivamente, da una solida erudizione, che permette di classificare il bene nel tempo e nello spazio e quindi di riconoscerlo; mentre la seconda si esplica come fatto culturale compiuto, che – uscendo dal perimetro specialistico – ne riverbera il senso nel contesto sociale, avviando un processo di moltiplicazione del suo valore, producendo quindi cultura? Per questo possiamo intendere la valorizzazione come il senso e il fine stesso di ogni attività di

A destra: un esempio virtuoso del dialogo fra archeologia e infrastrutture: una vetrina allestita nella stazione San Giovanni della linea C della metropolitana di Roma, con materiali scoperti durante la costruzione dell’opera. Nella pagina accanto: archeologi impegnati in uno scavo scuola sul Palatino (Roma).

conoscenza socialmente intesa. Il dibattito molto intenso che ha investito in questi anni il rapporto tra società, Pubblica Amministrazione e patrimonio culturale ci ha fatto capire meglio quanto la filiera ricerca/tutela/ valorizzazione/gestione sia costituita da quattro momenti molto diversi, che si danno pur strettamente la mano. La ricerca ci fa infatti capire il senso delle cose; la tutela ci dice come proteggerle; la valorizzazione ci dice come conservarne il senso diffondendone la percezione; la gestione ci dice come continuare a poterlo fare. Il loro concatenamento dovrebbe essere al centro anche della formazione universitaria, come purtroppo non è: ecco il perché di un nuovo Master, che cerca di cominciare a dare una possibile risposta a questa esigenza. Questi anni ci hanno messo anche di fronte a una rivoluzione copernicana, che invita a guardare al patrimonio con gli occhi dei cittadini, dei visitatori, degli utenti, senza cedere di un solo millimetro

(ma è un millimetro importante) sul ruolo delle competenze tecnico-scientifiche e professionali. Se l’ipertrofia delle specializzazioni crea sempre piú tecnici di altissimo livello, che faticano a contestualizzare il senso e il fine della propria opera, l’obiettivo ambizioso è quello di ricomporre l’unità dei saperi nella concretezza dei progetti, senza cedere in nulla sulla qualità degli interventi, perché da questa qualità dipende il raggiungimento del fine primo del nostro operare, ovvero «l’incremento del capitale intellettuale delle persone e, conseguentemente, della qualità di vita delle collettività» (Massimo Montella).

CON OCCHI NUOVI L’Italia si è sempre specchiata nei suoi monumenti, proteggendoli, smontandoli, trasformandoli, congelandoli. Lo stesso potremmo dire dei suoi paesaggi, al di fuori dei quali i monumenti perdono senso, come la frase estratta da un libro che nessun monaco ha piú voluto

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copiare. Li abbiamo comunque sempre usati, e da almeno due secoli abbiamo cominciato a riflettere sull’uso che ne facevamo. E abbiamo cominciato a capire che la sfida sta non tanto nel non musealizzare il paesaggio, quanto nel saperne pianificare le trasformazioni compatibili. La visione contestuale del patrimonio culturale non deprime le specializzazioni, piuttosto le esalta. Sappiamo quanto sia faticoso praticare percorsi di ricerca condivisi. Forse è facile dirlo, ma è meno facile farlo, anche per quella attitudine delle discipline a discutere, magari molto, al loro interno, ma a schivare il confronto con altri sistemi di sapere, quasi che una discussione all’esterno debba implicare necessariamente un conflitto. Conflitti che si alimentano se le discipline sono intese come patrie, secondo una profonda riflessione di Marc Bloch, che diceva: «La scienza decompone il reale solo per osservarlo meglio, grazie a un gioco di fuochi incrociati (...) i guai cominciano quando ogni proiettore pretende di vedere tutto da solo, quando ogni regione del sapere crede di essere una patria». Credo che questa osservazione – che mi ha accompagnato in tutta la mia vita professionale – sia sempre attuale, perché la camicia di forza delle specializzazioni fa sí che le discipline/patrie ci sembrino Un’altra immagine di reperti archeologici esposti nella stazione San Giovanni della linea C della metropolitana di Roma.

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abiti confortevoli e rassicuranti, nei quali il confronto si limita a certificare le differenze, quando non l’indifferenza. Ma non è solo un problema psicologico: è un problema professionale. Nell’affrontare la complessità di un territorio, non si tratta di abbandonare i saperi tecnici e procedurali, ma al contrario di farli dialogare rendendoli piú forti. Noi siamo i primi a sapere che il piú delle volte a un problema archeologico non corrisponde una soluzione archeologica; lo stesso potremmo tranquillamente dire per un problema che nasca da un approccio urbanistico, giuridico, economico, naturalistico…. Intendiamoci: ogni disciplina ha i suoi fini. Il nostro sforzo è non perderli di vista, perché essi legittimano il nostro operato.

ANDARE OLTRE Ma è meglio provare il gusto di guardare con curiosità al di là della siepe in quei territori di confine, dove spesso le scienze raggiungono i loro risultati piú grandi. «Non approfondire troppo – diceva Elias Canetti – perché c’è tanto da scoprire nel mezzo». Non sto facendo l’elogio della tuttologia. Penso piuttosto al fatto che una mente aperta all’esterno si scopre piú acuta quando si trova a operare nel proprio campo specifico. Scendendo dalla teoria

alla prassi: non è forse questo uno dei terreni su cui si misura la capacità dell’apparato amministrativo statale di rispondere ai compiti indicati dalle recenti riforme in materia di tutela e valorizzazione? Non è questa riflessione che dovrebbe aiutare a passare, per esempio (penso alle nuove soprintendenze come ai nuovi musei), dall’esistenza di un organico del personale alla stesura di un organigramma, che individui le competenze professionali, e non solo disciplinari, presenti e quelle mancanti in un ufficio, e distribuisca compiti e obiettivi: dalla protezione e valorizzazione del patrimonio ai servizi amministrativi e finanziari, alla vigilanza, all’accoglienza, alla didattica, all’ufficio stampa e comunicazione e via dicendo. Imparando a farle dialogare, dal momento che la prima dote di ogni dirigente è di saper far lavorare insieme i propri collaboratori, ascoltarli, valorizzarli. Ascoltare i saperi tecnici non significa delegare le scelte, quanto piuttosto rafforzarle grazie a una visione contestuale dei problemi che si hanno di fronte. Per questo mi sento di dare ragione a Karl Kraus, quando diceva che «il valore della cultura si riconosce quando la persona colta prende la parola su un tema estraneo all’ambito della sua professione».



QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

…ARRIVÒ AL MARE SEPPUR INDIRETTAMENTE, ATTRAVERSO UNA FITTA RETE DI SCALI PORTUALI, ROMA NON POTÉ FARE A MENO DI AFFACCIARSI SUL MEDITERRANEO. SIA PER GARANTIRSENE IL CONTROLLO, SIA PER SFRUTTARNE IL RUOLO ESSENZIALE NELLA RETE DEI TRAFFICI E DEGLI SCAMBI

C

ome osservava Cicerone nel De Republica a proposito del luogo in cui era nata – e attribuendone a Romolo la scelta lungimirante –, Roma, proprio grazie alla sua ubicazione, poté facilmente «assicurarsi i vantaggi di una città marittima ed evitarne, al tempo stesso, i difetti». Piú o meno come, poco tempo dopo, scriveva Tito Livio, precisando che la vicinanza al mare era «quanto basta alle nostre necessità, ma non tanto da esporci al pericolo di incursioni di navi straniere». Ciononostante fu inevitabile che al mare, seguendo la via del Tevere, Roma arrivasse ad affacciarsi direttamente e assai presto. E ciò, per un duplice motivo o, se si vuole, per due opportunità. Da un lato, quella di procurarsi il

possesso, e lo sfruttamento, delle importanti saline che si trovavano presso la foce del fiume, soprattutto sulla riva destra. Dall’altro, quella di controllare l’approdo che, in un tratto di costa privo d’insenature e di porti naturali, la stessa foce offriva alle navi e ai mercanti provenienti d’oltremare. La tradizione storiografica degli antichi attribuiva al re Anco Marcio, e pertanto alla seconda metà del VII secolo a.C., il conseguimento dei due obiettivi. Prima, mediante la conquista, sulla riva destra, di un «corridoio» sottratto al possesso, o comunque al controllo, dell’etrusca Veio, a partire dall’Agro Vaticano (e dalle alture del Gianicolo), fino al bosco costiero della Silva Maesia. Poi, sulla riva sinistra, attraverso la

sottomissione dei centri che, come Politorium e Ficana, si frapponevano tra Roma e il mare. Come risultato di quelle operazioni, ad Anco Marcio si attribuiva anche la fondazione di Ostia, alla foce tiberina, quale presidio a una «presenza» che, da allora, divenne irreversibile (vedi anche, in questo numero, lo Speciale alle pp. 82-101).

CONFERME SUL CAMPO Questa è la tradizione, e della sua sostanziale veridicità storica noi non abbiamo ragione di dubitare. Soprattutto da quando, negli anni Settanta del secolo scorso, l’archeologia ne ha dato conferma, soprattutto per quanto attiene agli avvenimenti riguardanti il territorio alla sinistra del Tevere. Per quel che concerne la riva destra, infatti, e in particolare le saline, certamente piú difficile sarà trovare le prove archeologiche della precoce presenza romana da quelle parti, al di là del nome della strada, antichissima che, prima della Portuense, conduceva da Roma ai campi salinarum. Proprio da questi – e in particolare dal campus maior, A sinistra: Ostia, Piazzale delle Corporazioni. Mosaico dei navicularii et negotiantes karalitani, gli «armatori e i commercianti di Karalis», nome dell’antica città di Cagliari. Nella pagina accanto, in basso: resti di residenze e di altre strutture di epoca romana lungo la costa di Anzio.

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Roma

Graviscae

Alsium

Cosa Pyrgi Castrum Novum

la salina maggiore, di Porto o di Fiumicino – quella strada venne chiamata via Campana, mentre la sua prosecuzione, a monte di Roma, verso l’Appennino, fu la via Salaria, il cui nome parla da solo. Per quel che riguarda, invece, la riva sinistra, gli scavi condotti a Castel di Decima, sulla Pontina, (verosimilmente da identificare con l’antica Politorium) e a Monte Cugno, presso Acilia (dove certamente si trovava Ficana), hanno rivelato che quei due centri, risalenti alla fine dell’VIII secolo a.C., anche se non scomparvero del tutto, di certo furono fortemente «ridimensionati» sul finire del VII secolo, cioè proprio nel periodo in cui la tradizione aveva fissato il regno e le imprese di Anco Marcio. Quanto a Ostia, la situazione è piú complessa. Nessun dubbio (anche alla luce dell’archeologia) sulla fondazione di un castrum (come l’hanno chiamato gli studiosi moderni per le evidenti affinità con lo schema dell’accampamento legionario), cioè di una cittadella militare – la prima «colonia» romana, in assoluto – agli inizi del

IV secolo a.C. , dopo che, presa Veio nel 396, Roma ebbe consolidato il proprio controllo su tutta la fascia costiera. Ma non si può pensare che, nei secoli precedenti, Roma abbia lasciato del tutto sguarnita la foce del Tevere, quando già alla fine del VI secolo a.C. essa era stata in grado di stipulare un trattato commerciale e di navigazione con Cartagine, allora all’apice della sua potenza.

LA FONDAZIONE DI MASSALIA

D’altra parte lo storico Giustino (III secolo d.C.) c’informa che, durante il regno del primo Tarquinio (finito, secondo la tradizione, nel 616 a.C.), gli esuli greci che da Focea, in Asia Minore, andavano a fondare Massalia, cioè Marsiglia, nella Gallia meridionale, fecero tappa proprio alla foce del Tevere. E a quell’episodio furono fatti risalire in seguito i tradizionali rapporti d’amicizia tra le due città. Il che significa non soltanto che quello della foce tiberina era, alla fine del VII secolo a.C., un approdo compreso nelle grandi rotte della

Fregenae

Ostia

In alto: le colonie marittime dedotte da Roma nel III sec. a.C., lungo il litorale ceretano: Castrum Novum (264 a.C.), Pyrgi (prima metà del III sec. a.C.), Alsium (274 a.C.), Fregenae (245 a.C.). navigazione tirrenica, ma che esso era già controllato da Roma. Anche perciò, in mancanza di significativi reperti archeologici al di sotto dei livelli di IV secolo, gli studiosi hanno ipotizzato che la Ostia di Anco Marcio (sulla quale tanto insistono le fonti antiche) si trovasse in un altro luogo. Probabilmente, poco piú a monte del castrum, lungo l’ultimo tratto del corso del Tevere. Di certo, il ruolo primario di Ostia fu a lungo quello di base navale. La «consacrazione ufficiale» in tal senso si ebbe nel 267 a.C., allorché essa divenne la sede di uno dei quattro nuovi magistrati istituiti per le esigenze della marina militare, i

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quaestores classici, i magistrati «della flotta», quando ormai inevitabile si profilava il conflitto con Cartagine. Che, infatti, scoppiò pochi anni dopo, nel 264. Ostia mantenne il ruolo primario di base navale ancora per tutto il II secolo a.C., nel periodo dell’espansione romana nel Mediterraneo orientale, mentre crescevano le funzioni di porto commerciale e la base militare andava trasformandosi in un vero e proprio centro abitato. Sicché, agli inizi del I secolo a.C., le attenzioni non furono piú rivolte prevalentemente alle necessità della flotta da guerra, bensí ai problemi dell’approvvigionamento, in primo luogo del grano (importato dalla Sicilia, dalla Sardegna e dall’Africa) destinato alla popolazione di Roma. Le funzioni militari del porto ostiense ebbero definitivamente termine all’epoca di Augusto, quando la flotta destinata alla difesa e alla sicurezza del Mediterraneo occidentale venne trasferita in Campania, nel porto di Capo Miseno.

AI LATI DELLA FOCE A quell’epoca era ormai cessata da tempo anche qualsiasi funzione militare dei due lunghi tratti di costa ai lati della foce tiberina. Quello a mezzogiorno, dove fin dal 338 a.C. era stata fondata la colonia di Antium, sottratta ai Volsci definitivamente debellati. Poi quello a settentrione, dove, nel primo quarto del III secolo a.C., s’era provveduto all’annessione di tutta la fascia costiera del territorio appartenuto alla città etrusca di Caere lungo la quale, abbandonati i vecchi centri abitati e i santuari un tempo fiorenti, Roma fondò, una dopo l’altra, alcune importanti colonie «marittime»: Fregenae, nella zona dell’odierna Maccarese, Alsium, presso Palo, Pyrgi, a Santa Severa, e Castrum Novum, presso Santa Marinella. E per collegarle tra

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Castrum Novum (nel territorio dell’odierna Santa Marinella, Roma). Foto aerea della porzione meridionale della grande peschiera delle Guardiole. loro e metterle in diretta comunicazione con la «città madre», fu realizzato, nel 241 a.C., il primo tronco della via Aurelia. Create allo scopo di presidiare il litorale, quelle colonie non sopravvissero alla perdita del loro ruolo. Nel II secolo a.C., con l’estendersi delle conquiste d’oltremare, Roma spostò sempre piú lontano i suoi presidi militari ed esse persero la loro stessa ragion d’essere, finendo per rimanere del tutto abbandonate, dopo una rapida decadenza e un progressivo spopolamento. E per la costa del «mare di casa», cominciò un’altra fase storica. Oggetto dell’attenzione delle grandi famiglie della nobiltà che presero a costruirvi ville sontuose, ai margini di estese proprietà fondiarie e di fiorenti fattorie rustiche, fu quello l’assetto che si perpetuò nei secoli seguenti, quando le ville passarono

pressoché per intero nella proprietà del fisco imperiale, sino alla fine del mondo antico. E i resti di quelle ville sono ancora disseminati lungo il litorale, con le loro fronti a mare, i terrazzamenti panoramici, i criptoportici ombrosi, gli ambienti termali, le peschiere per l’itticultura semisommerse nell’acqua. Ma il fenomeno delle ville non fu meno vistoso nella fascia costiera a sud della foce tiberina, lungo l’asse della litoranea via Severiana, dalla zona delle odierne Castel Fusano e Castel Porziano fino ad Anzio, dove, oltre a quelli di impianti minori, giganteggiano ancora, nonostante i crolli e le distruzioni provocate dall’erosione marina, gli avanzi della grandiosa villa fatta costruire da Nerone sulle strutture di un impianto precedente, d’età repubblicana (dove l’imperatore era nato), già rifatto e ampliato all’epoca di Augusto.



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

VIVERE DA PREDESTINATO DALLA FUGA DA TROIA ALLE NOZZE CON LAVINIA, LA VITA DI ENEA SI SVOLSE SEGUENDO IL CORSO TRACCIATO PER LUI DAGLI DÈI, SENZA CHE IL «PIO» EROE AVESSE MAI UN TENTENNAMENTO. UNA VICENDA ESALTATA DAPPRIMA DALLA ROMA REPUBBLICANA E POI DA QUELLA DEGLI IMPERATORI

B

ellezza e volontà divina sono temi ricorrenti nelle vicende legate alla guerra di Troia e quindi alla nascita della stirpe latina e ai destini di Roma. Come è noto, la guerra tra Greci e Troiani è frutto della disputa tra Venere, Giunone e Minerva per il possesso della mela

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d’oro con l’iscrizione «alla piú bella»; la scelta fu affidata al troiano Paride, dando vita cosí a uno dei miti piú celebri dell’antichità. Il giovane assegnò la vittoria a Venere, non perché fosse effettivamente la piú bella, ma per il premio che la dea dell’amore gli

aveva promesso se l’avesse scelta: non la gloria in guerra, né il potere e le ricchezze offertigli dalle altre divinità, ma l’amore della donna piú bella del mondo, Elena, figlia di Giove e Leda e sorella di Castore e Polluce (almeno secondo una delle tradizioni a lei riferite). Ella fu per


questo causa della guerra troiana, dell’odio per lei dei Greci e del dover abbandonare, costretta dal capriccio divino, l’amato marito Menelao, re di Sparta, dal quale peraltro ritornerà, ben accetta, alla fine della guerra. Tra gli esiti del conflitto vi furono poi rocamboleschi ritorni in patria, come quello di Ulisse, e le fughe verso nuovi lidi, come quella del troiano Enea, in un certo senso vittima del destino di grandezza voluto per lui dagli dèi, legato al futuro di Roma. Nell’ultima notte di Troia, vinta dai Greci, Enea fugge dalla città in fiamme, portando con sé ciò che ha di piú prezioso, la sua famiglia: la cara moglie Creusa, il figlioletto Iulo-Ascanio e il vetusto padre Anchise, incapace di camminare da solo. Un episodio che, nel tempo, ha ispirato statue, dipinti, oggetti, nonché alcuni famosi tipi monetali di età repubblicana e imperiale.

L’INGANNO DELLA DEA Anche la nascita di Enea è legata allo splendore dell’aspetto. La genealogia dell’eroe troiano è eccezionale, dato che è figlio di Venere. La dea, presa dal desiderio di sperimentare un amore mortale, sceglie di unirsi al giovane troiano Anchise, cugino del re Priamo e di straordinaria avvenenza, e lo seduce fingendosi mortale, per poi rivelargli, abbagliandolo e spaventandolo con il suo splendore divino, chi sia veramente. Nel contempo, gli annuncia la nascita di un loro figlio, che sarà allevato sul Monte Ida dalle Ninfe e che gli verrà consegnato raggiunto il quinto anno d’età. Inoltre, Anchise non dovrà mai parlare né tanto meno vantarsi di questo amore eccezionale, pena venir colpito dai fulmini di Giove. La vicenda è narrata nell’Inno Omerico ad Afrodite, del quale riportiamo alcuni brani, nella traduzione di

Ettore Romagnoli del 1914. Nell’opera si rimarca in piú occasioni il tema «bellezza», in primis quella di Venere che si prepara al suo amplesso umano: Nella pagina accanto: Roma, Palazzo Farnese. Venere e Anchise con Eros, particolare degli Amori degli dèi affrescati nella Galleria Farnese da Annibale Carracci. 1597-1607. Venere, a cui Anchise sta slegando il sandalo prima dell’amplesso, poggia il piede destro su uno sgabello con iscritto Genus unde latinum («Da qui la stirpe latina») tratto dal libro I, 6, dell’Eneide. In fondo, si scorge il Monte Ida dove Enea sarà allevato da infante. In basso: aureo di Antonino Pio. Zecca di Roma, 140-143 d.C. Al dritto, l’imperatore; al rovescio, Enea, Anchise e Ascanio-Iulo.

«Cinta le membra di fulgide vesti, adorna tutta d’oro, l’amica del riso Afrodite lasciò Cipro fragrante, si mosse alla volta di Troia (...) E poi, mosse alla bene costrutta capanna ella stessa, e lui trovò, che stava qui solo, lontano dagli altri, Anchise eroe, che aveva bellezza quanta hanno i Celesti». Infine la dea si svela all’atterrito Anchise, ben conscio «ché florida vita non gode l’uomo che con le Dee che vivono eterne si giacque», annunciandogli la nascita di un figlio destinato a glorioso futuro, bellissimo nell’aspetto: «E come gli occhi tuoi contemplino un tale germoglio, t’allegrerai di vederlo: ché avrà d’un Celeste l’aspetto». Anchise poi in un’occasione infausta, ebbro, si vantò dell’amore di Venere, e venne perciò colpito – benché soltanto leggermente per volontà della dea – dal fulmine di Giove, che lo azzoppò e secondo varie tradizioni, lo accecò e rese impotente.

AMORE E DOLORE Dolore e gloria accompagnarono Enea per tutta la sua esistenza, fatta di abbandoni drammatici e recriminazioni di coscienza per quanto il destino gli impone sospinto dalla volontà divina: l’abbandono della moglie Creusa a Troia, trasformata in una figura di fumo affinché non sia di intralcio alle future vicende del marito, la fuga dalla splendida regina Didone, sedotta e abbandonata, pur con un forte senso di colpa, sempre per disegno degli dèi e infine le nuove nozze con Lavinia, anch’esse foriere di guerre e lutti. Enea è in tutto pius, si sottomette mestamente, lamentandosi ma senza tentennare nell’eseguire ciò che gli dèi vogliono da lui, legandolo cosí alla storia del Lazio e di Roma e, fatto ancor piú importante ai fini della politica cesariana e imperiale, alle origini stesse della gens Iulia.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Paola Ciancio Rossetto, Giuseppina Pisani Sartorio (a cura di)

THEATRUM MARCELLI Istituto Nazionale di Studi Romani, Roma, 301 pp., ill. col. e b/n + XVI tavv. 120,00 euro ISBN 978-887-311-514-4 www. editricelamandragora.it

Sebbene inglobato in una struttura di cui subito si coglie l’«estraneità», il Teatro di Marcello è meglio conservato fra i pur numerosi edifici per spettacoli di questo tipo della Roma antica. Edificato in età augustea nell’area del Circo Flaminio, il teatro doveva essere già in uso nel 17 a.C., ma solo quattro (o sei) anni piú tardi il primo degli imperatori ne decretò la dedica alla memoria di Marcus Claudius Marcellus, il nipote prediletto, designato alla sua successione, ma morto non ancora ventenne nel 23 a.C. È questo l’inizio ufficiale della lunghissima

vicenda di uno dei monumenti romani piú noti e piú familiari, proprio per via della sua attuale configurazione, frutto della trasformazione dell’edificio in castello e poi in palazzo, per volere della famiglia Savelli, a partire dal XIII secolo. Una vicenda che Paola Ciancio Rossetto e Giuseppina Pisani Sartorio ripercorrono in tutte le sue tappe principali, limitandosi tuttavia alla sola epoca romana. Che fu comunque plurisecolare, se si considerano le menzioni del teatro contenute in documenti databili nei primi decenni del V secolo. Avvalendosi dei contributi di numerosi colleghi, le due archeologhe propongono una disamina assai dettagliata del monumento, che dà conto di tutti i suoi aspetti tecnici e artistici, senza naturalmente dinenticarne il ruolo assunto nella topografia dell’area in cui venne innalzato. Un’opera di grande respiro, riccamente illustrata, che, pur nel suo taglio specialistico, potrà certamente soddisfare le curiosità dei non pochi appassionati di cose romane. Marcello Barbanera (a cura di)

FIGURE DEL CORPO NEL MONDO ANTICO Aguaplano, Perugia, 312 pp., ill. col. e b/n 25,00 euro ISBN 978-88-85803-08-4 www.aguaplano.eu 112 A R C H E O

interessante e a tratti, forse, potrà a molti ricordare i vivaci dibattiti ispirati da uno dei piú celebri slogan di qualche decennio fa: «Il personale è politico!»...

DALL’ESTERO Eric E. Poehler

TRE TRAFFIC SYSTEMS OF POMPEII La statuaria soprattutto, ma non solo, hanno abituato l’occhio di noi moderni alla nudità, una condizione che però, come viene ampiamente illustrato in questa raccolta curata da Marcello Barbanera, non rispondeva unicamente a scelte estetiche o mode. La rappresentazione adamitica del corpo poteva infatti «vestirsi» di molteplici significati, la cui identificazione è appunto uno degli obiettivi perseguiti dall’opera, unitamente allo studio del valore assegnato alla bellezza. Ne scaturisce un panorama di notevole interesse e ricco di spunti originali, soprattutto perché l’orizzonte analizzato, pur concentrandosi in prevalenza sul mondo greco-romano, si amplia a contesti quali il mondo ittita o la corte persiana degli Achemenidi. Né manca un’indagine sulla visione filosofica del corpo, e in particolare sulle teorie elaborate in materia da Aristotele. La lettura risulta nel suo insieme davvero

Oxford University Press, New York, 288 pp., ill. b/n 55,00 GBP ISBN 978-0-19-061467-6 https://global.oup.com

A coronamento di studi portati avanti per un ventennio, Eric E. Poehler presenta un’analisi minuziosa e dettagliata dei sistemi messi a punto a Pompei (e, piú in generale, nel mondo romano) per la gestione del traffico, che già allora non costituiva forse un’emergenza, ma era comunque un problema all’ordine del giorno, soprattutto nei grandi agglomerati urbani. (a cura di Stefano Mammini)


L’IMPERO

ALLA CONQUISTA DEL

MONDO

L’ARTIGLIERIA ROMANA: I SEGRETI DI UNA MICIDIALE MACCHINA DA GUERRA Le macchine da guerra a cui è dedicata la nuova Monografia di «Archeo» potevano talvolta avere nomi all’apparenza scherzosi, come «onagro», che in origine designa una variante selvatica dell’asino, ma erano comunque micidiali. Fin dagli ordigni piú antichi, infatti, l’obiettivo di scienziati, tecnici e ignegneri fu quello di mettere a disposizione degli eserciti ordigni capaci di moltiplicare la forza d’urto delle truppe, minimizzando i rischi insiti nell’azione offensiva. E gli sforzi furono coronati da successi in molti casi clamorosi, come si intuisce, per esempio, dal drammatico resoconto del pesante bombardamento a cui gli uomini di Tito sottoposero Gerusalemme nel 70 d.C. Si potrebbe dire, insomma, che la nuova Monografia di «Archeo» racconta la storia del braccio violento della scienza.

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