INCHIESTA SUL POPULISMO VAL DI CORNIA
MISTERIOSI SGUARDI DAL PASSATO
UNA GRANDE MOSTRA A VENEZIA
AVVENTURE IN VAL DI CORNIA
ARCHEOLOGIA DEL LUPO DIGHE/3 SPECIALE IDOLI
Mens. Anno XXXIV n. 403 settembre 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
HORTI FARNESIANI
PARCHI ARCHEOLOGICI
ROMA
IL SEGRETO DEGLI HORTI FARNESIANI SAVONA
IL LUPO TRA STORIA E LEGGENDA
ATTUALITÀ DEL PASSATO
INCHIESTA SUL POPULISMO
www.archeo.it
it
2018
IDOLI
IN EDICOLA L’8 SETTEMBRE 2018
NE IL IN LL PO CH ’A PU IE NT L ST IC ISM A A O ww RO w. a rc M he A o.
ARCHEO 403 SETTEMBRE
ANTEPRIMA
€ 5,90
CHI HA PAURA DELLA SFINGE? IN MOSTRA LE ULTIME AFFASCINANTI SCOPERTE EFFETTUATE NELLA MAREMMA ETRUSCA LA SFINGE E ALTRE CREATURE FANTASTICHE Una mostra al Museo Civico Archeologico «Pietro e Turiddo Lotti» di Ischia di Castro (Viterbo) fino al
31 DICEMBRE PARCO ARCHEOLOGICO ANTICA CASTRO
SOPRINTENDENZA ARCHEOLOGICA, BELLE ARTI E PAESAGGIO PER L’AREA METROPOLITANA DI ROMA, LA PROVINCIA DI VITERBO E L’ETRURIA MERIDIONALE
ATTUALITÀ DEL PASSATO
COMUNE DI ISCHIA DI CASTRO
EDITORIALE
L’IMMAGINE AL POTERE La riflessione sul passato può illuminarci sulle vicende del presente? Si tratta di un dubbio forse banale, sempre pronto, però, a irrompere da dietro le spalle di chi, per lavoro o anche solo per passione, si confronta con la storia antica. Leggiamo, allora, l’intervista in apertura di questo numero, incentrata sul tema della «comunicazione politica» a Roma, sullo scorcio dell’età repubblicana: vi troviamo affrontati temi (e termini) che agitano il nostro quotidiano e che suggeriscono piú di un parallelo tra l’oggi e le vicende svoltesi piú di due millenni fa. Facendo in modo che si insinui un ulteriore, e altrettanto banale, dubbio: non sarebbe lecito trarre, da quei lontani accadimenti, qualche indicazione per il futuro? Di una comunicazione molto diversa, ma non meno affascinante, parliamo nello Speciale del numero. Lo spunto ci viene offerto dalla mostra «Idoli», che qui presentiamo in anteprima (si inaugura, infatti, il 15 di questo mese a Venezia, in Palazzo Loredan). Promossa dalla Fondazione Ligabue – oggi alla sua terza prova, dopo le grandi mostre dedicate al perduto mondo delle civiltà precolombiane (vedi «Archeo» n. 396 novembre 2015) e all’origine della scrittura (vedi «Archeo» n. 384, febbraio 2017) – l’iniziativa espone cento reperti rarissimi, provenienti dall’Europa e dall’Asia, e riconducibili a un arco cronologico racchiuso tra il IV e il II millennio a.C. Si tratta di raffigurazioni del corpo umano, talora stilizzato fin quasi all’irriconoscibilità, volti segnati da grandi occhi, esseri mostruosi, ibridi, androgini; di idoli, «immagini» scolpite dall’uomo, appunto, il cui significato – politico, religioso, sociale? – sí è perso nei secoli. C’è qualcosa, ci si chiede oggi, che potrebbe suggerire quale fosse il loro originario messaggio? Le risposte, sin da quando gli enigmatici reperti hanno incontrato l’interesse degli studiosi, non sono mancate. Eppure, a oggi, non sono tali da placare l’inquietudine che quei volti suscitano nell’osservatore. Dovremmo forse, piuttosto che azzardare risposte, formulare nuove domande, come suggerisce a pagina 90 Pedro Azara, mentre osserva un idolo antico di cinquemila anni: quegli occhi «scavati, neri e penetranti», sono solo parte di un’immagine o racchiudono un messaggio? Appartengono a un essere vivente o a una creatura immortale, a un uomo o a una donna? A questo punto non ci resta che un suggerimento: dopo la lettura dello Speciale, prenotate subito la visita alla mostra veneziana! Andreas M. Steiner Idolo oculare quadruplo, dall’Asia occidentale. Pietra verdastra (steatite?). 3300-3000 a.C. Parigi, Collezione privata. Il reperto sarà esposto nella mostra «Idoli», a Venezia.
SOMMARIO EDITORIALE
L’immagine al potere 3 di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
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MUSEI Grazie alla realtà immersiva, le Terme di Diocleziano, le piú grandi mai realizzate a Roma e nell’impero, si svelano in tutta la loro originaria magnificenza 10
SCOPERTE Nell'isola di Sicandro, nel cuore delle Cicladi, gli archeologi si interrogano sul ruolo e sul nome di una signora sepolta con un corredo ricchissimo 6 ALL’OMBRA DEL VULCANO Le iscrizioni sui sepolcri della necropoli di Porta Nocera restituiscono un vivace affresco della vita quotidiana dei Pompeiani, illustri e non 8
PAROLA D’ARCHEOLOGO Sergio Ribichini e Attilio Mastino illustrano i risultati e i progetti della Scuola Archeologica Italiana di Cartagine 18
L’INCHIESTA
Polibio e l’arte della previsione
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incontro con Umberto Livadiotti, a cura di Marco Di Branco
10 A TUTTO CAMPO Il convolgimento degli archeologi nella pianificazione territoriale è una prassi sempre piú diffusa, che apre nuove prospettive alla professione 14
30 PARCHI ARCHEOLOGICI
Nel parco delle meraviglie 42 di Carlo Casi e Silvia Guideri
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MOSTRE Francavilla Marittima festeggia il rientro dalla Danimarca di decine di splendidi manufatti trafugati dal sito di Timpone Motta negli anni Settanta 16
42
In copertina idolo placca in ardesia, da Vega del Guadancil (Garrovillas de Alconétar, Cáceres, Spagna). Calcolitico, IV mill. a.C. Madrid, Museo Arqueológico Nacional.
Comitato Scientifico Internazionale Anno XXXIV, n. 403 - settembre 2018 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale Hanno collaborato a questo numero: Daniele Arobba è archeobotanico e Direttore del Museo Archeologico del Finale. Pedro Azara è professore presso l’Università Politecnica di Catalunya di Barcellona. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Franco Cambi è professore associato di metodologia della ricerca archeologica all’Università di Siena. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Annie Cuabet è conservatore generale onorario del Museo del Louvre. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Andrea De Pascale è archeologo e Conservatore del Museo Archeologico del Finale. Marco Di Branco è assegnista di ricerca all’Università degli Studi di Padova. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Silvia Guideri è direttore dei Parchi e Musei della Società Parchi Val di Cornia. Maria Katsinopoulou è archeologa. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco Archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito.
MOSTRE/1
Nel giardino segreto 56 a cura di Paolo Leonini
56
MOSTRE/2
In bocca al lupo!
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di Daniele Arobba e Andrea De Pascale
80 SPECIALE
Idoli. Enigmatici sguardi dal passato
80
a cura della redazione, con testi di Annie Caubet e Pedro Azara
64
Rubriche
TECNOLOGIA
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
Le dighe/3
Datemi un arco... di Flavio Russo
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L’eroe remissivo
LIBRI
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di Francesca Ceci
Illustrazioni e immagini: Cortesia Fondazione Giancarlo Ligabue: Hughes Dubois: copertina e pp. 3, 80-108 – Ministero Ellenico della Cultura e dello Sport, Eforato per le Antichità delle Cicladi: pp. 6-7 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 8-9 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 10-12, 58-63 – Cortesia degli autori: pp. 14-15, 18-22, 52-53, 77, 78, 111 – Cortesia Soprintendenza ABAP per le province di Catanzaro, Cosenza e Crotone: p. 16 – Doc. red.: pp. 30-39 – Cortesia Parchi Val di Cornia: pp. 44 (alto e basso), 45 (alto), 47, 48, 48/49, 49 (basso); Claudio Gennai, Milco Tonin, Sandro Leonelli: pp. 42/43; Gianni Dellavalle: p. 49 (alto); Paolo Biondi: p. 50; Enrico Caruso: p. 51; Walter Saletti: pp. 54/55 – Mondadori Portfolio: Album: pp. 46, 47 (sinistra), 56/57 – Corteisa Archivio Museo Archeologico del Finale: pp. 64/65, 66-70, 73; Nicola Rebora: pp. 65, 72; Karol Schauer: disegno a p. 71 – Shutterstock: pp. 74/75, 76/77 – Bridgeman Images: p. 110 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 44/45. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Press-Di Abbonamenti SPA c/o CMP BRESCIA Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia BS L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano
n otiz iari o SCOPERTE Grecia
LA MISTERIOSA SIGNORA DI SICANDRO
S
ull’isola di Sicandro (Sikínos), nel cuore dell’arcipelago delle Cicladi, è in corso il progetto di restauro di un importante complesso monumentale della locale diocesi (Episcopí). Situato nell’entroterra dell’isola, la struttura consiste in un mausoleo di epoca romana (III secolo d.C.) in buono stato di conservazione, in seguito trasformato in una chiesa bizantina a cupola e che oggi racchiude un impressionante palinsesto che abbraccia 1400 anni di storia, facendone una testimonianza unica per il territorio greco.
6 archeo
A destra: Sicandro (Isole Cicladi, Grecia). Lo scheletro femminile rinvenuto in una tomba a cista databile al III sec. d.C. In basso: il complesso monumentale al cui interno, grazie all’intervento di restauro, ha avuto luogo la scoperta.
Nel mese di luglio, nel corso dell’intervento è stata rinvenuta una sepoltura femminile intatta. Si tratta di una tomba a cista, databile al III secolo d.C., che venne ricavata nei sotterranei del monumento, allo scopo di proteggerla da eventuali saccheggi. Nelle prime fasi delle ricerche, quando ancora gli scavi non avevano messo in luce la tomba, gli archeologi ipotizzavano di trovarsi di fronte alle strutture di un antico sacello dedicato ad Apollo. A giudicare dalla ricchezza dei gioielli rinvenuti nel corredo, la defunta doveva senz’altro occupare una
posizione sociale di alto rango sull’isola. Dalla sepoltura sono infatti stati recuperati bracciali d’oro, anelli, una collana, una fibbia con cameo in rilievo, oggetti in vetro e in metallo – tra cui uno specchio – e frammenti organici di tessuti pertinenti all’abbigliamento.
A destra: uno dei preziosi monili facenti parte del corredo della defunta, insolitamente ricco per gli standard dell’isola di Sicandro. In basso: un momento dello scavo della tomba, individuata nei sotterranei del monumento.
Come ha dichiarato il responsabile dell’Eforato per le Antichità delle Cicladi, Dimitris Athanasoulis, si tratta di una sepoltura caratterizzata da ricchezza fuori dal comune per l’isola. È degno di nota il fatto che non sia stata collocata nella cripta sotto il monumento – dove invece
erano presenti due altre sepolture di minore importanza –, ma ricavata in un’apposita intercapedine entro una doppia muratura, verosimilmente allo scopo di occultarne la presenza. Le prime ipotesi formulate dagli archeologi indicano che il mausoleo sia stato edificato come copertura per la tomba. Un altro particolare che ha acceso l’interesse dei ricercatori è la possibile relazione fra la sepoltura e l’iscrizione – già rilevata in passato su una parete del mausoleo – in cui si legge il nome femminile «Nikò». Un’evidenza che non sembrava avere alcun nesso apparente con il luogo, ma che adesso potrebbe forse riconnettersi all’identità della defunta. Il progetto di restauro è finanziato grazie ai programmi di sviluppo dell’Unione Europea per la regione meridionale del Mare Egeo. Maria Katsinopoulou
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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
LE «VOCI» DEI POMPEIANI SULLE TOMBE DI PORTA NOCERA SI LEGGONO ALCUNI TRA I PIÚ SUGGESTIVI EPITAFFI DELLA NECROPOLI ORIENTALE: ECCO UNA GUIDA ALLA SCOPERTA DI QUESTE PREZIOSE TESTIMONIANZE DI «VITA QUOTIDIANA»
I
l sepolcreto di Pompei che si distende subito fuori Porta Nocera è fra i piú interessanti dal punto di vista architettonico, per la presenza di tombe a esedra e a edicola, fra cui spicca per imponenza l’edificio costruito per Eumachia, famosa sacerdotessa di Venere, ma anche dal punto di vista delle iscrizioni funerarie che contrassegnano i monumenti. Come per quella fuori Porta Ercolano (vedi «Archeo» n. 402, agosto 2018), anche in questo caso è possibile tracciare un itinerario fra gli epitaffi piú suggestivi della necropoli orientale di Pompei. Fra le «voci» immortalate nella pietra risalta certamente quella di uno dei piú ricchi personaggi locali, la cui tomba (n. 3) si trova nel settore ovest del complesso: Lucius Seius Serapio, liberto di Lucio, con la moglie Helvia, abitava in una domus aperta su via di Castricio, abbellita grazie ai guadagni e agli affari derivanti dalla sua attività di banchiere a Pompei. Un senso di dolore traspare, per le sorti del giovane figlio, nel ricordo della tomba 13: Marcus Octavius, figlio di Marco, della tribú Menenia e sua moglie Vertia Filumina, liberta di Gaia, hanno voluto la costruzione di questo monumento nella necropoli pubblica; le statue collocate in alto che
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rappresentavano la famiglia mostravano Marcus con la toga, a sinistra, la moglie, a capo velato, sulla destra, e, al centro, il figlio, vestito in abiti militari con la corazza, probabilmente non piú rientrato a casa perché disperso come soldato in una delle guerre combattute da Roma.
IN GALLIA CON CESARE La fierezza militare e familiare trapela nella lunga epigrafe della tomba 17: Lucius Tillius, figlio di Caio, della tribú Cornelia, ha probabilmente combattuto – secondo la ricostruzione di Lara Anniboletti (autrice di 79 storie su
Pompei, «L’Erma» di Bretschneider, Roma) – in Gallia con Cesare ed è stato tribuno della gloriosa decima Legione Equestre. Con lui nella tomba era sepolto anche il padre Caius Tillius Rufus, figlio di Caio della tribú Cornelia, duoviro della colonia di Pompei e due volte edile ad Arpino e augure a Veroli. È possibile che Caius giunse a Pompei come colono, dopo la fondazione in città della colonia sillana Veneria Augusta Pompeiana. Un riferimento a diffidare dalle false amicizie è invece trasmesso senza mezzi termini nella tomba 23, appartenuta al liberto Publius Vesonius Phileros. Il sepolcro era
destinato anche all’amico Marcus Orfellius, ma la sorte riservò al povero Publius un imprevisto spiacevole con il presunto compagno. Non potendo piú togliere dalla tomba la statua di Marcus Orfellius, Lucius commissionò un’integrazione all’epigrafe del monumento in cui mette in guardia i passanti dai falsi amici e che, grosso modo, suona cosí: «Passante, fermati per un attimo, se questo non ti disturba e impara una cosa da cui conviene stare in guardia. Colui che avevo sperato fosse un amico mi ha
intentato dei processi, fornendo accusatori contro di me. Grazie agli dèi e in virtú della mia innocenza, fui prosciolto dalle accuse. A chi tra noi ha mentito, auguro di non essere accolto né dagli dei Penati, né dagli dei inferi». Fra le tombe di Porta Nocera compaiono anche molte iscrizioni incise successivamente con contenuti propagandistici, come nella tomba di Caius Munatius Faustus, membro del collegio degli Augustali, sulle cui mura un viandante della vicina NuceriaNocera inneggia a un loro
Sulle due pagine: vedute della necropoli fuori Porta Nocera. Il sepolcreto è uno dei piú importanti di Pompei e comprende numerosi monumenti funerari, consistenti soprattutto in tombe a esedra e a edicola.
Nella pagina accanto: il cantiere di scavo aperto nella Regio V, nell’ambito delle attività del Grande Progetto Pompei.
In questa pagina: immagini delle scoperte effettuate all’angolo con il Vicolo delle Nozze d’Argento: lo scheletro di un fuggiasco schiacciato da un grosso blocco di pietra (qui accanto e in basso) e iscrizioni elettorali riferibili alle ultime votazioni che si svolsero a Pompei (al centro della pagina).
candidato politico, «Eleggete Lucius Munatius Caeserninus alla carica di duoviro quinquennale, è un probo»; oppure le piú divertenti scritte amorose o erotiche collegate alle passioni dei Pompeiani evidentemente consumate fra le sepolture di questa necropoli: nella 22, «Salve, Primigenia Nocerina. Solo un’ora vorrei essere la gemma di questo anello per dare a te, mentre la inumidisci con la bocca, i baci che vi ho impresso»; nella tomba 11, «Ti amo, Facile! Dammi una possibilità»; e ancora nella tomba 13, appartenuta a un militare, una probabile prostituta ha scritto «Atimetsis mi ha messo incinta». Per notizie e aggiornamenti su Pompei, pagina Facebook PompeiiParco Archeologico.
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n otiz iario
MUSEI Roma
CON GLI OCCHI DELL’IMPERATORE... E DEI SUOI CONCITTADINI
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ostruite in appena otto anni, tra il 298 e il 306 d.C., le Terme di Diocleziano si estendevano su una superficie di 13 ettari, tra i colli del Viminale e del Quirinale. Si tratta del piú vasto impianto termale del mondo romano e la sua storia è fatta di ripetuti riusi e rimaneggiamenti, fino a quando, nel 1889, non fu deciso di trasformarlo nella sede del Museo Nazionale Romano, che nacque con l’intento dichiarato di essere uno dei principali «centri di cultura storica ed artistica dell’Italia unita». Dallo scorso agosto lo straordinario complesso si è dotato di una nuova modalità di fruizione che, grazie a una visita immersiva in 3D, permette di mettere a confronto lo stato attuale dei suoi maestosi resti con l’aspetto che l’edificio doveva avere in epoca romana, In alto: Roma. Confronto fra la ricostruzione virtuale e lo stato attuale dell’atrio d’ingresso dell’Aula X delle Terme di Diocleziano. A sinistra: il giardino delle Terme di Diocleziano, sede, dal 1889, del Museo Nazionale Romano.
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all’indomani della sua inaugurazione, nel IV secolo d.C. Il tradizionale percorso di visita è stato infatti integrato da una «guida visiva», basata su una innovativa tipologia di audio-videoguida, utilizzabile con appositi visori. Nelle aree attualmente aperte al pubblico, il visitatore può vedere gli ambienti del monumento ricostruiti in tutto il loro antico splendore mentre ne ascolta la descrizione. La fedeltà ricostruttiva del grandioso complesso termale dedicato a Diocleziano e inaugurato nel 306 d.C., è basata su accurati studi condotti sul monumento. Gli ambienti principali, frigidarium, tepidarium e calidarium, erano posti in successione lungo un asse centrale ai lati del quale si articolavano simmetricamente tutte le altre aule: oltre alle due grandi palestre scoperte vi erano numerosi ambienti con diverse funzioni, tra cui la celebre Aula Ottagona, caratterizzata da una delle piú imponenti cupole del mondo romano. L’impianto restò in funzione fino alla metà del VI secolo d.C. quando la guerra greco-gotica causò gravi danneggiamenti in tutta la città, in particolare l’interruzione dell’alimentazione idrica. Dopo
In alto: rendering della natatio delle Terme. A destra: confronto fra la ricostruzione virtuale della natatio e lo stato attuale della struttura, trasformata nel Chiostro piccolo della Certosa. circa mille anni di abbandono, nel 1561 il papa Pio IV destinò le antiche Terme alla costruzione di una chiesa e di una certosa, affidando il progetto a Michelangelo. La chiesa fu dedicata alla Madonna degli Angeli e dei Martiri cristiani, in ricordo dei numerosi cristiani che, secondo una leggenda diffusa già nel Medioevo, avevano trovato la morte nella costruzione del complesso. Michelangelo realizzò la chiesa trasformando l’ampia aula del frigidarium, il tepidarium e parte della natatio, mentre gli ambienti della Certosa, in particolare il Chiostro grande con le abitazioni dei monaci e il Chiostro piccolo, occuparono la parte settentrionale del complesso termale.
A partire dal 1575, con Gregorio XIII, le grandi aule delle terme furono trasformate in granai e depositi per l’olio. La verosimiglianza degli ambienti è stata raggiunta attraverso la sapiente traduzione degli studi sugli apparati decorativi in immagini molto accurate e attenti effetti di luce, con una perfetta restituzione visiva di pavimenti, pareti, colonnati e mosaici. Ogni elemento, dalle forme ai colori, è stato riproposto con un meticoloso lavoro di ricostruzione, basato sullo studio del monumento. La ricostruzione 3D a 360°, perfettamente sovrapponibile alla visione reale delle Terme, produce uno straordinario effetto di potenziamento percettivo e una
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In alto: l’Aula VIII delle Terme di Diocleziano. A sinistra: confronto fra la ricostruzione virtuale e lo stato attuale dell’Aula IX delle Terme di Diocleziano.
immediata comprensione dell’aspetto originario degli spazi architettonici. I sistemi di georeferenziazione e orientamento inclusi nel dispositivo, offrono al visitatore una possibilità di confronto continuo tra quello che vede intorno a sé e la ricostruzione nel visore, cioè tra realtà fisica e virtuale, consentendogli di compiere un viaggio nel tempo tra
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passato e presente. La nuova tecnologia, leggera e portatile, è denominata Cardboard Virtual Reality: si basa su un visore VR, all’interno del quale è inserito uno smartphone con uno specifico software. Con semplici comandi gestiti da un solo pulsante, l’apparecchio riproduce i luoghi dove si trova il visitatore con una prospettiva immersiva, coprendo cioè tutto lo spazio visivo.
L’apparecchiatura garantisce la stessa naturalezza della visione normale riducendo al minimo fenomeni di vertigine e fastidio visivo, talvolta connessi all’uso dei visori. La visione immersiva avviene con la stessa naturalezza della visione normale, riducendo al minimo fenomeni di vertigine e fastidio visivo talvolta connessi all’uso dei visori. (red.)
DOVE E QUANDO Le Terme con gli occhi di Diocleziano Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano Orario ma-do, 9,00-19,30; chiuso il lunedí Info tel. 06 39967700; www.coopculture.it; www.museonazionaleromano. beniculturali.it
A TUTTO CAMPO Franco Cambi
L’ARCHEOLOGO CHE VERRÀ LO STUDIO DEL PASSATO SVOLGE UN RUOLO SOCIALE SEMPRE PIÚ MARCATO: PRENDIAMO L’ESEMPIO DEGLI ARCHEOLOGI COINVOLTI NELLA REDAZIONE DEI PIANI PAESAGGISTICI...
V
oglio cominciare con una banale domanda: «Serve l’archeologia ai fini della pianificazione territoriale?». La risposta è affermativa, ma proviamo ad articolare meglio il concetto. Negli ultimi anni molti archeologi hanno partecipato alla redazione dei Piani Paesaggistici o Piani di Indirizzo Territoriale di alcune regioni (pochi sono quelli realmente adottati e approvati: Puglia, Toscana, Piemonte). Nel caso virtuoso della Puglia il Piano è stato accompagnato dalla Carta del Patrimonio Culturale, che intende promuovere un percorso finalizzato all’accrescimento delle potenzialità di fruizione locale e collettiva. La parte archeologica del lavoro svolto nell’ambito del Piano Paesaggistico della Toscana è stata resa possibile dal ruolo crescente dell’archeologia globale nell’approccio alla conoscenza dei territori e dal rapporto organico che gli archeologi hanno con la contemporaneità. Questa tensione investe anche la società e ciò spiega anche il diffuso ed entusiastico interesse degli archeologi per la comunicazione, per le reti, per i social. L’archeologia contemporanea lavora soprattutto in équipe. Non credo di dire niente di particolarmente originale affermando che fra i primi
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insegnamenti che si ricevono nelle aule della scuola archeologica di Siena è, soprattutto, l’invito a coltivare il proprio ingegno non solo alla scala della ricerca individuale ma anche mettendolo al servizio della crescita collettiva di un gruppo: un gruppo che opera in uno spazio geografico, su uno scavo, su una classe di reperti, all’allestimento di un museo, di una mostra, di un parco. Un progetto di ricerca è fatto di progressi, di successi, di errori e di difficoltà.
CASI FELICI Una cosa che continuo a imparare e a cercare di insegnare al tempo stesso è che bisogna sempre provarci insieme, bisogna sempre provare a fare le cose di concerto. Vi sono progetti apparentemente facili, che falliscono per mancanza di armonia nel gruppo, e progetti insormontabili che giungono a buon fine proprio perché il collettivo ha funzionato. Il Piano Paesaggistico e Territoriale della Puglia e quello della Toscana sono casi felici in cui le forme di cooperazione e di collaborazione hanno funzionato, raggiungendo un livello piú alto di integrazione scientifica e disciplinare. Il lavoro sui Beni Archeologici della Regione Toscana ha dovuto creare, infatti, coerenti relazioni interdisciplinari
anche con altri campi del sapere: geologia, ecologia, urbanistica, geografia, agraria... Non poteva essere facile instaurare da subito rapporti con discipline cosí diverse e partecipare, conseguentemente, alla elaborazione di linguaggi condivisi. Tuttavia, dopo i primi, inevitabili balbettii e afasie, dovuti alla necessità di costruire linguaggi condivisi, alla fine si è riusciti a costruire un percorso di conoscenza efficace. A lavori conclusi l’esito finale del complesso percorso dialettico appare soddisfacente. Fino a qualche tempo prima dell’elaborazione dei Piani Paesaggistici della Puglia e della Toscana, la definizione di «bene archeologico» nella prassi della ricerca evocava il concetto di documento materiale (contesto, edificio, oggetto) utile alla ricostruzione di uno spazio geografico in un determinato momento del passato. Passando a un ambito piú applicativo e spostandosi dal piano della ricerca a quello della comunicazione, i beni archeologici e le elaborazioni che su di essi potevano condursi erano utili ai fini di una progettualità culturale: creazione di musei, di parchi, di attività di varia tipologia che possono svolgersi negli appositi spazi.
In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca.
Oggi, grazie anche a una sempre maggiore capillarità tra archeologia e società, fra accademie e istituzioni preposte alla tutela, sono stati fatti ulteriori passi avanti. Il patrimonio culturale, nelle sue diverse e articolate declinazioni, può assumere ruoli importanti ai fini della costruzione del futuro e non essere semplicemente una ciliegia che si pone sulla torta a fine cottura, a scopo esclusivamente esornativo. Archeologia e patrimonio culturale devono essere, pertanto, un ingrediente basilare e imprescindibile da usare fin dall’inizio, perché si possa ottenere una torta soddisfacente.
SCELTE CONSAPEVOLI Nei Piani Paesaggistici delle Regioni Puglia e Toscana l’ordinamento della documentazione archeologica e le relative elaborazioni dinamiche possono dare esito a molti e molto fecondi sviluppi, legati alla tutela, alla ricerca e alla comunicazione, ma anche alla consapevolezza delle comunità e alle scelte che queste, o chi per loro, intendono fare. Insomma la consapevolezza globale di essere in un territorio e di partecipare a un progetto di futuro può contribuire a migliorare la vita di tutti. Innanzitutto, l’analisi della distribuzione e delle scelte insediative preferenziali operate dalle comunità umane del passato può consentire di individuare, valutare ed eventualmente attenuare le criticità e le pericolosità insite nella struttura di un territorio. Conoscere la posizione dei siti antichi di un fondovalle o il livello di incidenza delle reti medievali in altura può fornire utili suggerimenti a chi si trova a orientare la pianificazione territoriale. Inoltre, lo studio materiale dei luoghi e della loro profondità storica assume anche un particolare valore dal punto di vista
I principali progetti di ricerca utili alla realizzazione di una banca dati per la parte archeologica del Piano Paesaggistico della Regione Toscana: 1. Carta Archeologica della Toscana; 2. Atlante dei Siti Fortificati d’Altura della Toscana; 3. Progetto «Colline Metallifere»; 4. Progetto «Fra la Valle dell’Albegna e il Fiora»; 5. Progetto «Carta Archeologica della Provincia di Siena». della restituzione della conoscenza alle cosiddette comunità di eredità. Infine, una volta compiuto questo processo di partecipazione e di condivisione delle conoscenze, si possono studiare percorsi di accrescimento dei livelli di benessere economico, sociale e culturale delle comunità medesime, partecipando al processo di costruzione delle discipline d’uso e consentendo di indirizzare meglio il perseguimento degli obiettivi di qualità. L’archeologo del futuro sarà una figura professionale complessa
e originale, improntata alla tutela e alla ricerca ma anche alla gestione del bene archeologico in ambito tecnico-amministrativo, avendo piena coscienza e conoscenza della disciplina archeologica e delle sue problematiche. Sarà uno specialista capace di ottimizzare le risorse e i processi di costruzione dell’informazione archeologica sul territorio, aiutando gli amministratori nei processi di pianificazione e di valorizzazione paesaggistica. (franco.cambi@unisi.it)
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MOSTRE Calabria
UNA COLLABORAZIONE VINCENTE
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l sito di Timpone Motta – oggi nel territorio di Francavilla Marittima (Cosenza) – fu meta di una straordinaria affluenza di Greci e non Greci d’Oriente e d’Occidente, luogo in cui si intersecarono le strade transmarine e terrestri battute alla ricerca di pregiate materie prime. Nell’VIII secolo a.C. intensi e diretti furono gli scambi con il Salento e con la Campania e in seguito con l’Etruria. Dal secondo quarto dello stesso secolo il sito venne interessato dalla precoce frequentazione da parte di genti provenienti dall’Egeo. Alla metà dell’VIII secolo a.C. si datano le prime importazioni da Corinto, che nei successivi VII e VI secolo a.C. divengono predominanti. Nello stesso periodo si fanno cospicue le importazioni di
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A destra: particolare di un fregio con animali dipinto su una oinochoe corinzia. In basso: statuette votive femminili, forse raffiguranti Athena. monili in ambra baltica, in faïence egizia e greco orientale e oggetti in avorio lavorato da Sparta: ricorrono, inoltre, ceramiche dalle isole della Grecia orientale e dalla Turchia occidentale. Nella seconda metà del VI secolo a.C. sono invece documentate importazioni dall’Attica, dal Peloponneso e dalla Laconia. Sin dal 2001 la Ny Carlsberg Foundation di Copenaghen offre un grande supporto alla ricerca scientifica condotta a Francavilla dalla Missione italo-danese, le cui indagini sistematiche, dirette da Jan Kindberg Jacobsen e Gloria Mittica per l’Accademia di Danimarca di Roma, stanno comprovando la contiguità tra frammenti rinvenuti durante i più recenti scavi stratigrafici e altri oggetto di rimpatrio da varie collezioni estere. La mostra «Francavilla Marittima un patrimonio ricontestualizzato» saluta ora il rientro in Italia di un lotto di 65 eccezionali reperti databili tra l’VIII ed il VI secolo a.C., trafugati a seguito di scavi clandestini presso il sito di Timpone Motta negli anni Settanta del secolo scorso e confluiti nel 1978, attraverso il mercato antiquario, nella collezione della Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, che ha stabilito e concordato il rimpatrio e la ricontestualizzazione del lotto di
materiali. Si tratta di vasi di produzione corinzia e di statuette fittili votive di figure femminili raffiguranti una divinità o una sacerdotessa, provenienti con molta probabilità dall’area del santuario greco di Athena, eretto sul Timpone Motta dai coloni achei che fondarono Sibari nell’ultimo quarto dell’VIII secolo a.C. La mostra, allestita all’interno di Palazzo de Santis fino al 15 gennaio 2019, è stata curata dal team danese con la collaborazione di Carmelo Colelli (funzionario archeologo SABAP per le province di Catanzaro, Cosenza e Crotone) e nasce dalla sinergia tra il museo nordeuropeo e lo Stato Italiano, che nel luglio del 2016 hanno siglato un accordo bilaterale, che, tra varie iniziative, ha previsto l’esposizione di Francavilla Marittima, prima che i reperti riconsegnati confluiscano nel Museo Archeologico Nazionale della Sibaritide. Giampiero Galasso
DOVE E QUANDO «Francavilla Marittima, un patrimonio ricontestualizzato» Francavilla Marittima (Cosenza), Palazzo de Santis fino al 15 gennaio 2019 Orario ma-do, 9,00-12,00 e 17,00-20,00 Info tel. 328 4595155
PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
PER UN MARE DAVVERO «NOSTRUM» DUE SEDI, UNA A SASSARI E L’ALTRA A TUNISI, E UNA BIBLIOTECA APPENA INAUGURATA: È LA SCUOLA ARCHEOLOGICA ITALIANA DI CARTAGINE, NATA PER PROMUOVERE LA COLLABORAZIONE CULTURALE TRA LE DUE SPONDE DEL MEDITERRANEO. NE ABBIAMO PARLATO CON UNO DEI FONDATORI, LO STORICO DELLE RELIGIONI E COLLABORATORE DI «ARCHEO», SERGIO RIBICHINI
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ondata nel 2016, la Scuola Archeologica Italiana di Cartagine, nel giro di due anni, ha triplicato gli iscritti, passando da 25 a 160 soci. Un risultato che, in un momento storico politicamente critico per il Mediterraneo, ha contribuito ad «avvicinare» attraverso l’archeologia la sponda Sud e quella Nord del nostro mare. Ne parliamo con Sergio Ribichini, ideatore, cofondatore e oggi segretario della Scuola Archeologica Italiana di Cartagine. Ci vuole raccontare come nasce la Scuola che lei ha contribuito a fondare? «La Scuola Archeologica Italiana di Cartagine è una società scientifica nata per convogliare tutte le iniziative italiane sviluppate in ambito archeologico in Tunisia e nel Nord Africa, soprattutto dopo i tristi avvenimenti che hanno seguito la primavera araba. Sull’onda di quest’ultima, nel 2013, in occasione di una tavola rotonda che si tenne a
A sinistra: il Capitolium di Thugga, uno dei siti archeologici piú ricchi e meglio conservati della Tunisia. Lo studio e la valorizzazione dell’ingente patrimonio del Paese nordafricano costituiscono uno degli obiettivi perseguiti dalla Scuola Archeologica Italiana di Cartagine, fondata nel 2016.
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Roma, presso il CNR, sulla cooperazione culturale tra Italia e Tunisia, i colleghi tunisini Nabil Kallala e Adnane Louhichi manifestarono il desiderio di un migliore coordinamento delle attività archeologiche italiane in Tunisia. Dalla sinergia tra Ministero degli Affari Esteri, CNR e Università di Sassari è nata la Scuola Archeologica Italiana di Cartagine, finalizzata allo sviluppo della cooperazione con la Tunisia nell’ambito della documentazione, formazione e conservazione, valorizzazione e fruizione del patrimonio culturale e archeologico in particolare. Come società scientifica, è aperta a tutti i ricercatori e gli studiosi interessati al patrimonio dell’Africa, agli archeologi e ai funzionari impegnati sul campo. La Scuola è stata fondata a Sassari nel 2016 da 25 soci, tra cui il sottoscritto, il presidente Attilio Mastino e il presidente onorario Piero Bartoloni. Oggi può contare 160 iscritti: italiani, tunisini, francesi, americani, spagnoli, algerini. Tra i soci ordinari ci sono gli archeologi
A destra: Cartagine. Frammenti di un fregio architettonico e di una cornice con iscrizione nelle Terme di Antonino. In basso: la biblioteca della Scuola di Cartagine, che ha ricevuto in dono i 6000 volumi appartenuti a Sabatino Moscati. titolari di progetti di ricerca in Tunisia, mentre i soci benemeriti aiutano al finanziamento delle iniziative. La Scuola ha due sedi: una legale, presso l’Università degli Studi di Sassari, e una operativa, a Tunisi, presso l’Istituto Italiano di Cultura e l’Agence de Mise en Valeur du Patrimoine et de Promotion Culturelle. In questi due anni abbiamo raggiunto numerosi accordi con istituzioni tunisine e Università italiane provenienti dal
Nord al Sud del nostro Paese. Il nostro obiettivo è mettere in rete i saperi e le conoscenze». La Scuola rappresenta una risposta, in termini culturali, alle critiche vicende che hanno segnato la sponda sud del Mediterraneo in questi anni, a partire dall’attentato al Museo del Bardo a Tunisi del 2015. In che modo avete potuto dare il vostro contributo, in questo senso? «In occasione dell’anniversario dell’attentato al Museo del Bardo, il 18 marzo 2016, abbiamo organizzato il primo convegno della Scuola: un confronto su archeologia e tutela nel sito di Cartagine. Il nostro obiettivo è infatti la valorizzazione del patrimonio archeologico tunisino: il turismo culturale è una parte importante dell’economia della Tunisia e con gli attentati aveva subito un forte contraccolpo. Per prima cosa abbiamo creato una biblioteca a Tunisi, nata dalla donazione dei libri appartenuti a Sabatino Moscati, fondatore di “Archeo”. Le figlie dell’archeologo, Laura e Paola Moscati, hanno formalizzato la donazione di 6mila volumi appartenuti al compianto professore: in tutto 215 casse di libri. La biblioteca è stata inaugurata a Tunisi il 6 ottobre 2017
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A COLLOQUIO CON ATTILIO MASTINO
Ricerca e cooperazione
Per avere un quadro completo delle attività della Scuola Archeologica Italiana di Cartagine, abbiamo incontrato il suo attuale Presidente, Attilio Mastino, professore di storia romana e già Rettore dell’Università di Sassari. Professor Mastino, quali sono i progetti su cui vi siete maggiormente concentrati in questi due anni? «Sicuramente la biblioteca “Sabatino Moscati”, che oggi conta ben 6mila volumi, e la pubblicazione del volume Carthage, maîtresse de la Méditerranée, capitale de l’Afrique. Histoire & Monuments, firmato dal sottoscritto e dall’archeologo Samir Aounallah. Abbiamo, inoltre, coordinato tutte le imprese archeologiche italiane in Tunisia: a Neapolis, Zama, Uchi Maius, Thignica, Cartagine. Abbiamo organizzato diversi congressi internazionali per presentare i risultati scientifici delle ricerche tunisino-italiane. Grazie al nostro lavoro, peraltro, abbiamo potuto localizzare il sito che fu teatro della celebre battaglia di Zama, con la quale si concluse la seconda guerra punica (202 a.C.). Inoltre in questi giorni, a settembre, uscirà la pubblicazione delle iscrizioni della località di Thignica, l’attuale Aïn Tounga. Sul fronte epigrafico, abbiamo aggiornato la lettura della dedica a Nettuno Augusto del Tempio delle Acque, pubblicando su “Epigraphica” tutte le iscrizioni venute alla luce nel corso degli scavi. Adesso ci stiamo concentrando sulle circa 400 stele inedite con processione di animali verso il Tempio di Saturno. Personalmente ho pubblicato le iscrizioni dell’Acquedotto di Cartagine, progettato da Adriano e realizzato 40 anni dopo, sotto Marco Aurelio, con le Terme cosiddette di Antonino. Abbiamo seguito, inoltre, l’attività dei colleghi siciliani nel teatro di Althiburos e le ricerche degli archeologi di Cagliari nel sito di Utina. Su iniziativa di Mario To-
e ogni giorno cresce grazie alle donazioni di istituzioni e studiosi, diventando uno strumento di diffusione della nostra cultura in Tunisia. Ci stiamo occupando, inoltre, della formazione dei giovani magrebini alla gestione della biblioteca, cosa richiesta dagli stessi colleghi tunisini». Con quali progetti promuovete, concretamente, la collaborazione culturale tra Italia e Tunisia? «Il progetto Unimed, finanziato dalla Fondazione di Sardegna, è un esempio che ha consentito a molti studenti magrebini di conseguire la
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relli, poi, lo scorso marzo, abbiamo presentato nella sede dell’Accademia Nazionale dei Lincei a Roma il contributo “Un decennio di esplorazioni nella Colonia Iulia Neapolis in Africa Romana”, di Raimondo Zucca e Pier Giorgio Spanu, archeologi dell’Università di Sassari, e del collega tunisino Mounir Fantar, dell’Institut National du Patrimoine». In che modo vengono finanziate le attività della Scuola? «Principalmente dalla Fondazione di Sardegna, in parte dall’Istituto Italiano di Cultura a Tunisi e, per quanto riguarda i vari progetti di scavo nei siti tunisini, dalle stesse Università italiane. Il ministero degli Affari Esteri finanzia, invece, le grandi imprese e campagne archeologiche internazionali». Fra i vostri obiettivi c’è la formazione degli archeologi magrebini, anche presso le Università Italiane. Come procedono, in questo momento storico critico, le attività di scambio culturale? «Grazie all’Università di Cagliari e a quella di Sassari, che hanno ospitato studenti tunisini algerini e marocchini, è stato già fatto molto. Abbiamo rapporti diretti con le Università di Cartagine e Tunisi dal 1994, quando agli scavi a Uchi Maius presero parte circa 200 studenti tunisini. In questo momento politico c’è grande spazio per la cooperazione internazionale. L’Italia e l’Europa, incapaci di accogliere i migranti, vengono viste come un miraggio per chi arriva dal Sud del Mediterraneo. E piú si parla di cooperazione, piú si sbarrano le finestre. Anche i colleghi archeologi tunisini, che spesso hanno studiato nelle migliori Università europee, in questi giorni hanno difficoltà a partecipare ai convegni organizzati in Italia per le difficoltà di ottenere il visto. Il nostro Paese potrebbe avere un ruolo importante, in un momento come questo, ma si sta tirando indietro».
laurea magistrale. Di recente, poi, è stato pubblicato il volume Carthage, edito dall’Agence de Mise en Valeur du Patrimoine et de Promotion Culturelle, che raccoglie i testi di molti studiosi italiani. Abbiamo inoltre elaborato un progetto, attualmente sottoposto all’approvazione dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) per ottenere i necessari finanziamenti, chiamato “Urbs Antiqua”, che sono le prime parole con cui Virgilio presenta Cartagine nell’Eneide. L’obiettivo è creare figure
professionali specializzate nell’ambito delle scienze del patrimonio culturale da inserire nel tessuto socio-economico magrebino, cosí da aumentare le sinergie tra Italia e Tunisia, offrire expertise ai colleghi dell’altra sponda del Mediterraneo, sostenere il consolidamento del processo di sviluppo e favorire i legami di cooperazione scientifica e tecnologica tra i Paesi del Maghreb e l’Italia. Il programma è indirizzato a documentare, formare, conservare, valorizzare e (segue a p. 22)
comunicare il patrimonio culturale. La fase della documentazione prevede la fornitura alla biblioteca di computer e stampanti per il personale bibliotecario, nonché la realizzazione di una mostra didattica itinerante che illustri le imprese archeologiche congiunte italo-tunisine. La formazione comprende un Master universitario, da svolgere in Italia e in Tunisia, e borse di studio da offrire ai giovani tunisini affinché possano studiare in Italia. Nell’ambito della tutela, vorremmo realizzare interventi di conservazione e restauro di alcuni siti archeologici, da individuare su indicazione degli stessi colleghi
tunisini. Per la valorizzazione, è prevista la realizzazione di supporti informativi, totem e app che guidino i turisti nei siti archeologici della Tunisia. Infine, sul fronte della comunicazione, oltre alla pagina web della Scuola Archeologica Italiana di Cartagine (www.scuolacartagine.it), esiste il sito Caster presso l’Università di Cagliari: un sistema open access (cioè aperto a tutti) per condividere i contributi scientifici, che vengono anche pubblicati sull’omonima rivista cartacea internazionale, diretta da Antonio M. Corda ed edita in piú lingue». Quanti fondi servirebbero per sostenere il progetto
A destra: la locandina del XXI Convegno internazionale sull’Africa romana, che si terrà a Tunisi dal 6 al 9 dicembre 2018. In basso: gli edifici che oggi occupano l’area del pagus Suttuensis, un centro che si ritiene legato alle terre di proprietà imperiale della zona, situato presso Henchir Chett, 3 km a nord di Uchi Maius.
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«Urbs Antiqua»? «In tutto circa 500mila euro, di cui 142 come apporto valorizzato dei soci della Scuola e circa 357mila di contributo da parte della Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, che sta valutando il finanziamento».
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ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
UN LINGUAGGIO UNIVERSALE Lo Speciale di questo numero è dedicato all’esposizione «Idoli. Il potere dell’immagine», in programma a Venezia dal 15 settembre al 20 gennaio 2019. Si tratta di una rassegna di 100 straordinari reperti, provenienti da terre che vanno dalla penisola iberica fino all’Estremo Oriente e che dimostrano l’esistenza, all’epoca della «rivoluzione neolitica», di un fil rouge tra popolazioni lontane nello spazio e a volte nel tempo. Ecco dunque in che modo possiamo documentare filatelicamente queste relazioni, con una sequenza di pezzi che si apre con le numerose statuette collegate al culto della «Dea madre» e che incarnano i concetti di fertilità e prosperità. La «dea di Boutovo» (Bulgaria, 1) del IV secolo a.C., alcune «Veneri» di Malta (2-3), anche se di epoche precedenti al Neolitico, e una statuetta greca proveniente dalle Cicladi 7 (4). Poi ci sono i numerosi ritrovamenti provenienti dalla Turchia (5-6-7), da Cipro (8), dalla Siria («La dea della fonte», 9) fino ad arrivare al Giappone (10). In un secondo momento compaiono anche oggetti con 11 sembianze maschili: Cipro (11), Turchia (12), Iran (13) e Siria (14). E poi fu la volta degli animali e degli oggetti: Spagna (15), Turchia (16-17). Infine gli «Idoli» generici che hanno dato il titolo alla mostra: Cipro (18) e Turchia (19). In conclusione, per ribadire il fil rouge a cui accennavamo, puo essere divertente mettere a confronto oggetti di Paesi ed epoche molto diverse. È innegabile che gli artisti o artigiani che hanno realizzato queste due statuette di guerrieri a cavallo abbiano posseduto uno stesso senso estetico e similari capacità tecniche, nonostante la diversità dei 18 materiali usati (la terracotta per la statuetta di Cipro, 20, e il metallo per quella di Spagna, 21), le diverse epoche di realizzazione (VII secolo a.C. per la terracotta e IV secolo a.C. per il bronzetto) e le distanze geografiche tra le due regioni. IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
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Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure
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Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it
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RA R E GU
LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO
L’IMPERO
ALLA CONQUISTA DEL
MONDO
L’ARTIGLIERIA ROMANA: I SEGRETI DI UNA MICIDIALE MACCHINA DA GUERRA
S L’assedio di Alesia, olio su tela di Henri-Paul Motte. Le-Puy-en-Velay, Musée Crozatier. Nel dipinto sono raffigurate le macchine da guerra fatte costruire da Cesare per la campagna del 52 a.C., combattuta contro i Galli di Vercingetorige.
i potrebbe dire che tutto abbia avuto inizio quando Davide, nel duello con Golia – che sembrava segnato –, mise mano alla fionda e riuscí ad abbattere il gigante. Come spiega Flavio Russo nella nuova Monografia di «Archeo», infatti, non esiste, almeno dal punto di vista concettuale, una sostanziale differenza fra l’arma rudimentale del giovane pastore protagonista dell’episodio biblico e le poderose macchine da guerra messe a punto dagli ingegneri e dai tecnici prima greci e poi romani. A cambiare furono, naturalmente, le dimensioni e la crescente potenza degli ordigni, per i quali, di volta in volta, si fece ricorso alla forza sprigionata da fasci di fibre animali, molle metalliche, aria, fuoco… Dagli «archi da pancia» sperimentati con successo da Dionisio di Siracusa alle micidiali artiglierie leggere impiegate da Traiano in Dacia, la Monografia ripercorre una storia avvincente, fatta di sangue e di morte, ma anche di capacità inventive e tecniche spesso eccezionali.
GLI ARGOMENTI •P RESENTAZIONE • Al confine tra il bene e il male •G LI ARCHETIPI • Kestrosphendone, gastrafete, scorpioni e baliste • I NNOVAZIONI
AL TEMPO DELL’IMPERO • Cheiroballistra, armi di nuova generazione, onagro
•A RMI SPERIMENTALI • Catapulta a molle di bronzo, catapulta di Ctesibio, balista a molle d’aria, catapulta a trazione
IN EDICOLA
•S UI CAMPI DI BATTAGLIA • Teutoburgo, guerre partiche, assedio di Gerusalemme
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CALENDARIO
Italia
FIRENZE A cavallo del tempo
ROMA Walls. Le mura di Roma
L’arte di cavalcare dall’antichità al Medioevo Limonaia del Giardino di Boboli fino al 14.10.18
Fotografie di Andrea Jemolo Museo dell’Ara Pacis fino al 09.09.18
GUIDONIA MONTECELIO (ROMA) II dio persiano dal manto stellato
Il Palatino e il suo giardino segreto Nel fascino degli Horti Farnesiani Palatino fino al 28.10.18
Il culto di Mitra fra Lazio ed Etruria Museo Civico Archeologico «Rodolfo Lanciani» fino al 30.09.18
Traiano
Costruire l’Impero, creare l’Europa Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 18.11.18
I Confini dell’Impero Romano
Il Limes Danubiano. Da Traiano a Marco Aurelio Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 18.11.18
LIDO DI JESOLO Egitto. Dèi, faraoni, uomini Bernardo Bellotto, L’Arco di Tito a Roma. 1740 circa.
Coppa attica con Atena e il cavallo di Troia.
Ricostruzione della tomba di Tutankhamon.
Spazio Aquileia 123 fino al 15.09.18
NAPOLI Pompei@Madre
La Roma dei re
Il racconto dell’archeologia Musei Capitolini fino al 27.01.19
FERRARA Ebrei, una storia italiana
I primi mille anni Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS fino al 16.09.18
L’opera al nero
La ceramica attica alle origini di Spina Museo Archeologico Nazionale fino al 05.11.18
FINALBORGO (SAVONA) In bocca al lupo! Un antico predatore tra archeologia, storia e leggende Museo Archeologico del Finale fino al 23.09.18 28 a r c h e o
L’anfiteatro e il ludus di Carnuntum in 3D.
Materia Archeologica MADRE-Museo d’arte contemporanea Donnaregina fino al 24.09.18
Ercolano e Pompei
Visioni di una scoperta Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.18
PIOMBINO (LIVORNO) Sapere di mare
Un taccuino con annotazioni su Pompei. 1829.
L’uomo e il mare un legame millenario Museo etrusco di Populonia Collezione Gasparri fino al 04.11.18
Romani a Populonia
10 anni di ricerche all’Area archeologica di Poggio del Molino Museo etrusco di Populonia Collezione Gasparri fino al 06.01.19
SANTA MARIA CAPUA VETERE (CASERTA) Annibale a Capua Museo archeologico dell’antica Capua fino al 28.10.18
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
SANTA MARINELLA (ROMA) Pittura di terracotta Mito e immagine nelle lastre dipinte di Cerveteri Castello di Santa Severa fino al 22.12.18
SIRACUSA Archimede a Siracusa Experience exhibition Galleria Civica Montevergini fino al 31.12.19
TIVOLI (ROMA) Adriano, preservare le memorie Tecnologie al servizio della salvaguardia e della fruizione del patrimonio storico Ex chiesa dell’Annunziata fino al 15.09.18
TORINO Ercole e il suo mito
Reggia di Venaria fino al 10.03.19 (dal 13.09.18)
VETULONIA (GROSSETO) L’antico Egitto IN VITA a Vetulonia A casa di un operaio artista della Valle dei Re Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 04.11.18
Belgio BRUGES Mummie
Segreti dell’antico Egitto Xpo Center Bruges fino all’11.11.18
Germania BONN Nazca, disegni divini
Scoperte archeologiche dal deserto peruviano Bundeskunsthalle fino al 16.09.18
Svizzera HAUTERIVE Orso
Laténium, Parc et musée d’archéologie de Neuchâtel fino al 06.01.19
USA NEW YORK Nedjemankh e il suo sarcofago d’oro
The Metropolitan Museum of Art fino al 21.04.19 Il sarcofago dorato del sacerdote Nedjemankh.
VOLTERRA I signori de L’Ortino
Aristocrazie gentilizie all’alba della città di Velathri Palazzo dei Priori fino al 30.09.18 a r c h e o 29
L’INCHIESTA • POPULISMO
POLIBIO E L’ARTE DELLA PREVISIONE Quando Roma «inventò» il populismo
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LEGGERE GLI SCENARI POLITICI CONTEMPORANEI CON LA LENTE DEGLI EVENTI VERIFICATISI IN ETÀ ANTICA PUÒ RISULTARE FUORVIANTE. TUTTAVIA, UNA RECENTE INDAGINE SULLE VICENDE DELLA ROMA TARDO-REPUBBLICANA SVELA PIÚ DI UNA SIGNIFICATIVA COINCIDENZA incontro con Umberto Livadiotti, a cura di Marco Di Branco
La morte di Caio Gracco, particolare di un dipinto di Francois-Jean-Baptiste Topino-Lebrun. 1792. Marsiglia, Musée des Beaux-Arts. La crisi della repubblica romana è simboleggiata da inchieste come quelle indette dal senato contro Tiberio Sempronio Gracco e i suoi sostenitori, inchieste «abolite» da Caio, fratello di Tiberio, contro il quale fu usato un nuovo strumento di repressione, il senatusconsultum ultimum. a r c h e o 31
L’INCHIESTA • POPULISMO
II SECOLO A.C.
VERSO LA GUERRA CIVILE Polibio non spingeva oltre la sua previsione, ma se ne può immaginare il seguito: nella repubblica romana, pervenuta all’apogeo della sua potenza, l’oclocrazia avrebbe gene133 e 123-121 I Gracchi tentano la riforma agraria
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120 Conquista della Gallia Narbonese che diviene provincia romana
I GRACCHI TRA RIVOLUZIONE E RIFORME La vicenda politica di Tiberio Sempronio Gracco e di Caio Sempronio Gracco, figli della patrizia Cornelia, a sua volta figlia di P. Cornelio Scipione l’Africano, rende manifesta la crisi che, circa cento anni piú tardi, portò alla fine della repubblica. Tribuno della plebe dal 10 dicembre 134 a.C., Tiberio riuscí a far approvare una legge agraria per la redistribuzione della terra pubblica che però attentava gravemente agli interessi dell’oligarchia. Iniziando a temere per la sua vita per questo e per altri provvedimenti assunti o programmati, Tiberio cercò, contro ogni consuetudine, di farsi rieleggere tribuno della plebe cosí da fruire della protezione assicurata da questa carica. Per i settori piú intransigenti dell’oligarchia fu il segnale di una sorta di rivoluzione: nel luglio del 133 Tiberio fu giustiziato e, nel 132, molti suoi seguaci furono uccisi dopo inchieste brutali. La stessa sorte toccò, nel 121, al ben piú rivoluzionario fratello Caio, ma non prima che avesse varato riforme importanti, tra cui proprio la possibilità di essere rieletti consecutivamente al tribunato della plebe.
102 Mario sconfigge i Teutoni e, l’anno successivo, i Cimbri
I SECOLO A.C.
U
no dei piú grandi storici dell’età romana, il greco Polibio, esprime piú volte nella sua opera grande ammirazione nei confronti della forma di governo della Roma repubblicana, perché, a suo dire, essa coniugava in sé i pregi del regno, dell’ar istocrazia e della democrazia, distribuendo il potere fra vari organi della repubblica. Tuttavia, la sua ammirazione era offuscata da un presentimento di decadenza: per lo storico, infatti, quando uno Stato, superati numerosi e gravi pericoli, raggiunge un potere grande e incontrastato, grazie al benessere generale i cittadini conducono vita piú sontuosa e divengono piú avidi di potere e supremazia; allora, una ribellione partirà apparentemente dal popolo, che si sentirà oppresso dai concittadini avidi di predominio, sarà in tutti i modi adulato da chi vorrà ottenere le cariche pubbliche e, inorgoglito, cederà all’impulso della sua prepotenza, non vorrà piú ubbidire né stare al pari dei capi, ma vorrà avere assoluta supremazia. Di conseguenza, il governo avrà il nome migliore di ogni altro, di libera democrazia, ma sarà in realtà della forma peggiore, l’oclocrazia, il governo della plebaglia.
91-89 Guerra sociale
90-89 Concessione della cittadinanza romana ai Latini e agli alleati rimasti fedeli 83-82 Guerra civile
60 Primo triumvirato di Cesare, Pompeo e Crasso
cazione politica». L’indagine inizia a Roma, nel 124 a.C., quando Caio Gracco, candidato alle elezioni alla questura, va in giro dicendo di aver ricevuto dal fratello, il tribuno Tiberio ucciso alcuni anni prima, una sorta di investitura a ripercorrerne le politiche filopopolari. Ci si sposta poi nell’estate del 100 a.C., quando una folla in delirio irrompe nel carcere dove è trattenuto un tale che si professa figlio di Tiberio Gracco. Liberato a forza, il sedicente Gracco viene accompagnato a casa da una massa festante, che presto lo eleggerà tribuno.
rato il regno, e il regno la tirannide. Che è quanto effettivamente si verificò a Roma nel secolo successivo alla morte di Scipione Emiliano e di Polibio, che morí in Grecia intorno al 120 a.C. Nel 121 a.C. fu assassinato a Roma Caio Sempronio Gracco, che insieme al fratello Tiberio, già ucciso nel 133 a.C., si era fatto promotore di riforme favorevoli alla plebe, provocando la reazione dell’oligarchia che egemonizzava il potere della repubblica. Questi eventi diedero l’avvio a una lunga guerra civile fra le fazioni rivali degli aristocratici e dei popolari (capeggiate da politici ambiziosi che aspiravano a conquistare il potere con la forza delle armi), che, dopo alterne vicende, sfociò nella fine della repubblica romana e nell’inizio del principato. Un recente libro dello storico Umberto Livadiotti, La forza del nome. Identità politica e mobilitazione popolare nella Roma tardorepubblicana (Artemide, Roma 2017), illumina di luce nuova il periodo delle guerre civili, con particolare attenzione all’aspetto, oggi piú attuale che mai, della «comuni-
UNA GRANDE FESTA Con un ulteriore salto cronologico, l’autore ci conduce all’autunno del 45 a.C: nel parco di Trastevere, dove Cesare ha organizzato la grande manifestazione per celebrare il suo rientro vittorioso dalle guerre civili, una folla immensa si accalca entusiasta sotto al palco. dove, tra omaggi e applausi, si esibisce un individuo che si professa nipote di Caio Mario, il salvatore di Roma che il senato condannò all’onta dell’esilio. Come spiegare questi scenari di mobilitazione popolare? Davvero la credula plebs, come la stigmatizzavano le fonti antiche, si lasciava semplicemente sedurre e imbrogliare da impostori e arrivisti? O era la memoria traumatica evocata da questi nomi a stimolare emotivamente migliaia di cittadini e a spingerli per strada, per affermare se stessi e la propria identità politica?
Jean-Baptiste-ClaudeEugène Guillaume, cenotafio in bronzo dei fratelli Tiberio e Caio Sempronio Gracco. 1853. Parigi, Musée d’Orsay.
58-51 Cesare conquista la Gallia
48 Dittatura di Cesare; Battaglia di Farsalo 44 Morte di Cesare
43 Secondo triumvirato di Ottaviano, Antonio, Lepido; guerra di Modena 42 Battaglia di Filippi
41-40 Guerra di Perugia 31 Vittoria di Ottaviano su Antonio ad Azio
27 Ottaviano riceve il titolo di Augusto 16-15 Norico e Rezia diventano province
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L’INCHIESTA • POPULISMO
Per affrontare queste e altre questioni, abbiamo incontrato Umberto Livadiotti, al quale vogliamo porre una domanda preliminare: se cioè, a suo parere, sia ancora utile guardare alla storia di Roma antica per meglio comprendere le vicende di oggi: Penso che lo studio della storia romana e in particolare dei suoi periodi di crisi – che pure mantengono intatto il loro fascino – non possa offrire direttamente chiavi di lettura adatte a spiegare le problematiche del
Ritratto di Caio Mario, generale e uomo politico romano, in età avanzata (157-86 a.C.). I sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. Di parte popolare, dispose l’arruolamento dei proletari: la riforma rendeva i soldati piú fedeli al loro comandante che allo Stato, e aprí la strada alle guerre civili.
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mondo moderno, ma in generale, come tutti gli studi di storia, possa aiutare a dare complessità all’analisi e a suggerire nuovi punti di osservazione; ed è quindi da considerarsi proficuo. Del resto, la sensibilità e gli strumenti con cui ogni generazione riguarda e rilegge l’antichità cambiano continuamente: di conseguenza cambia il modo in cui narriamo la storia e cambiano anche le suggestioni che a nostra volta ne ricaviamo. Ma, a suo parere, è lecito – e fruttuoso – applicare alla storia romana categorie politiche utilizzate per lo studio della storia contemporanea? L’antropologia, la politologia e la psicologia nell’ultimo secolo hanno elaborato nuovi modelli interpretativi con cui affrontare l’analisi della vita politica contemporanea. Certo, l’antichista non possiede e non potrebbe mai possedere la documentazione necessaria a svolgere indagini sul comportamento elettorale o sulle mobilitazioni di piazza simili a quelle che svolgono i politologi o gli studiosi di storia contemporanea. Non ci sono a disposizione interviste telefoniche, sondaggi, o anche semplicemente i risultati elettorali. Non ci sono neppure gli schedari e i verbali con cui la polizia registra i movimenti dei partecipanti alle attività politiche. Tuttavia penso che sia stimolante utilizzare queste nuove categorie per suggerire possibili chiavi di lettura alternative per fenomeni già ampiamente studiati. Io, per esempio, ho cercato di lavorare tenendo presenti due concetti che in questo momento dominano lo scenario dell’analisi politica contemporanea ma che risultano ancora piuttosto inutilizzati nella ricostruzione della storia romana: quello di «identità politica» e quello di «storytelling», cioè la tendenza a organizzare la comunicazione politica in forma di racconto, di narrazione di una storia, piuttosto che in una elencazione di propositi. «Grande è la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente». La celebre massima di Mao Tse-Tung potrebbe calzare bene per questo periodo, in cui diventa ogni giorno piú chiaro che la politica, a colpi di urla e tweet, non sa dare risposte ai problemi complessi del nostro tempo e che c’è bisogno di ripensare radicalmente cosa significhi «fare politica» nell’Europa della moneta unica e delle governance sovranazionali. Dato che, parafrasando Marc Bloch, la storia trova nel confronto tra passato e presente la capacità di prevedere in che senso anche domani si opporrà a ieri, le chiedo: cosa significava «fare politica» nella Roma repubblicana? Quando parliamo di partecipazione, noi pensiamo soprattutto all’assemblea: alle votazioni di leggi, alla
elezione dei magistrati. Ma il quadro è piú complesso, soprattutto in contesti istituzionali non democratici, come il caso di Roma, in cui di fatto il potere è gestito da una élite piuttosto ristretta di famiglie nobili. Per le persone di rango piú modesto, cioè per coloro che, di fatto, non potevano aspirare alle cariche di potere, si presentavano altre opportunità per influenzare le decisioni. Si trattava fondamentalmente di esplicitare il proprio umore e di esercitare pressione ambientale, ammassandosi sulle gradinate dei teatri, o dei tribunali, per fischiare o applaudire; oppure sottoscrivendo petizioni, organizzando assembramenti davanti alle case, non di rado minacciando fisicamente gli avversari. La Roma repubblicana è una città senza polizia in cui nei momenti di massima tensione è facile assistere a scontri di piazza, sassaiole, occupazioni di edifici. Ma la cosa interessante è che a Roma, come del resto ovunque, spesso si partecipa non solo per orientare le decisioni, ma anche semplicemente per soddisfare la propria esigenza di esserci, per sentirsi coerenti con la propria identità. Quando parte il richiamo, si scende in campo. Per dirla con il loro linguaggio: boni contro mali. È una polarità che alcuni ambienti vivono in maniera viscerale e assoluta. Se non si tiene presente la forza di questo sentimento di appartenenza alla «fazione», non si capiscono a fondo la vicende delle convulsioni tardo repubblicane. Oggi la comunicazione politica è post-televisiva, nel senso che ormai i principali canali di propaganda sono i social media. Quali erano, invece, le forme della comunicazione politica in età romana? La Roma tardo-repubblicana è ancora uno scenario dominato dall’oralità della comunicazione: non a caso la retorica è ancora percepita come una delle doti prioritarie per un politico. Quindi discorsi; ma anche chiacchiere, battute salaci, canzoni, come quelle che i soldati intonavano durante la processione trionfale. Tuttavia hanno un loro peso anche le epistole e i libelli che circolano, soprattutto al di fuori di Roma, per tenere aggiornati sulle evoluzioni della vita politica dell’Urbe. Sappiamo di opuscoli di propaganda che giravano negli accampamenti. E sappiamo che si imbrattavano i muri con slogan politici. Le pareti di via dell’Abbondanza, a Pompei, ci hanno restituito centinaia di «manifesti elettorali»: pitture murali attraverso cui i committenti raccomandavano pubblicamente al vicinato i candidati a loro graditi. La povertà di contenuto politico di queste scritte, redatte oltretutto da pittori professionisti e non da anonimi attivisti, è spaventosa. Naturalmente, però, la Pompei che verrà sommersa dalla lava del Vesuvio non è che
una cittadina di provincia d’età imperiale e rappresenta una situazione molto diversa da quella della Roma tardorepubblicana. A Roma al tempo dei Gracchi, o al tempo di Cesare, le scritte tendevano a spronare all’azione, a esplicitare il sostegno a un indirizzo politico, a marcare il territorio. Un punto-chiave del suo libro è quello della valenza politica dell’onomastica romana: il nome è non di rado
Ritratto del generale e poi dittatore Caio Giulio Cesare (102/100-44 a.C.), da Pantelleria. Età tiberiano-claudia. Trapani, Museo Regionale «Agostino Pepoli». Protagonista della guerra civile contro Pompeo e l’oligarchia senatoria, segnò di fatto la fine della repubblica.
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L’INCHIESTA • POPULISMO
latore di un destino politico. Ci può sintetizzare qui il senso di questa «scoperta»? Il sistema onomastico dei Romani è per certi versi molto piú elastico di quanto si creda. Ogni cittadino maschio aveva un nome personale, il prenome, scelto fra un numero molto ridotto di possibilità, e il nome familiare, quello cioè della gens di appartenenza: cosí per esempio Caio Mario, o Marco Antonio. A questi due nomi, soprattutto in ambito nobiliare, già in età tardo-repubblicana si aggiungeva spesso un ulteriore elemento, il cognome (per esempio Cesare, o Cicerone), che in molti casi (ma non sempre) si trasmetteva ai figli. Ma l’idionimo, cioè l’elemento identificante, quello, per capirci, con cui si chiamava la persona in pubblico, cambiava da caso a caso: per alcuni bastava il cognome, per altri il nome, per altri c’era invece bisogno della combinazione di piú elementi. Inoltre, nella vita quotidiana potevano prevalere anche soprannomi ulteriori o storpiature. Insomma c’era una certa libertà di denominazione. Il punto è che in alcuni casi, e sottolineo in alcuni casi, il nome, la maniera di essere chiamati, veicolava un contenuto politico, costituiva già di per sé una forma di comunicazione, in particolare quando c’erano in ballo quelli che sono stati definiti «nomi pesanti». È come se questi nomi racchiudessero microstorie, capaci di risvegliare nella collettività le emozioni legate al ricordo delle vicende associate al nome stesso (un po’ come è successo in Italia quando Alessandra Mussolini è scesa in politica sottolineando il suo cognome). Voglio dire che alcuni nomi, se «indossati» con coerenza e allusione esplicita, diventano veicolo di aspettative; diventano un vero e proprio fattore di comunicazione politica. Nel mio libro ho cercato di ricostruire la maniera in cui due nomi, Gracco e Mario, hanno acquistato e dimostrato questa capacità di «smuovere la pancia».
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Sulle due pagine: il Foro Romano, principale teatro della vita politica di Roma. In basso: coppe di propaganda: riempite di cibo e bevande, venivano offerte nelle strade in occasione delle elezioni politiche. 63 a.C. Roma, Museo Nazionale Romano. In quella a sinistra Marco Porcio Catone (l’Uticense) chiede di essere eletto tribuno della plebe; in quella di destra Lucio Cassio Longino chiede di supportare la nomina di Catilina a console.
Oggi, per noi Italiani, i luoghi della politica non si identificano piú solo con i tradizionali palazzi del potere, ma, in misura sempre maggiore, con le sedi delle lobby finanziarie e con gli infiniti uffici della burocrazia europea. Quali erano i luoghi del potere della Roma repubblicana? La linea politica generale a Roma viene dettata dal senato, che si riunisce nella Curia, sul lato nord-occidentale del Foro, o in altri edifici pubblici, i templi o le basiliche prospicienti il Foro o in Campidoglio. Poi ci sono gli spazi assembleari, in cui si votano le leggi e si scelgono i magistrati. Questi spazi sono tanti, cosí come tanti sono i tipi di assemblee. C’è la piazzetta del Comizio, incassato fra Foro e Curia; il Foro stesso; la spianata antistante il Tempio di Giove Ottimo Massimo, in Campidoglio; i prati del Campo Marzio, che in quel perio-
do era un’area solo parzialmente edificata. Sono spiazzi ancora non monumentalizzati, attorno ai quali vengono montate per l’occasione staccionate, cordoni e palchi di legno. Alcune raffigurazioni monetali aiutano a farcene una idea. Si è cercato di immaginare quante persone questi spiazzi potessero contenere: ma è un conteggio complicato.Vanno poi considerati anche altri spazi. Quelli della convivialità e della comunicazione popolare. I crocicchi, le piazzette, i luoghi di mercato; i locali dove i membri delle associazioni di mestiere e di quartiere trascorrevano le giornate; gli atri delle domus delle grandi famiglie, dove i clienti si radunavano a decine e talvolta persino a centinaia per consultare il patrono e poi fargli da codazzo. Soprattutto, bisogna tenere presente gli accampamenti. I soldati parlavano: si scambiavano impressioni, informazioni, entusiasmi e preoccupazioni. Erano soldati capaci di una fedeltà assoluta ma anche di incrociare le braccia o addirittura di deporre il proprio comandante nel caso in cui dimostrasse una gestione del potere, dell’imperium, dispotica e insensibile alle loro esigenze.
Oltre ai luoghi del potere, esistono i luoghi della memoria, legati a doppio filo al ricordo di eventi e personaggi fondamentali della storia di una città o di uno Stato. La Roma repubblicana aveva i suoi luoghi della memoria? La Roma repubblicana, in particolare l’area centrale attorno al Foro, si doveva presentare come un palcoscenico sul quale le grandi famiglie nobili, in competizione fra loro, cercavano di imprimere la loro orma. Statue, iscrizioni commemorative e, fuori dalle mura, sepolcri monumentali celebravano le virtú dei personaggi che avevano fatto grande l’Urbe. Parallelamente, in questo periodo si radica la tendenza a estirpare il ricordo dell’avversario politico cancellandone le tracce: cadaveri gettati in massa nel Tevere; sepolcri profanati; case rase al suolo. Ma la memoria collettiva non sempre combaciava con quella istituzionale. Poteva capitare cosí che il ricordo di personaggi oggetto di pubblica riprovazione si perpetuasse ugualmente in ambiti popolari non istituzionali. Nel caso dei Gracchi, per
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L’INCHIESTA • POPULISMO A sinistra: Pompei. Il muro di un edificio lungo la via dell’Abbondanza, sul quale sono affastellate varie iscrizioni di propaganda elettorale. Nella pagina accanto: statua in marmo di Augusto togato con rotolo, rinvenuta a Velletri. I sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.
esempio, sappiamo che nei luoghi del loro assassinio venne praticato per un certo periodo di tempo una specie di culto. Caio, è vero, morí in un luogo fuori mano: arrancando con la caviglia slogata nella sua fuga oltrepassò il Tevere e arrivò al boschetto consacrato a Furrina, una divinità lacustre, alle falde del Gianicolo (all’interno di quella che oggi è Villa Sciarra). Ma Tiberio fu ucciso su una delle scalinate che portavano in Campidoglio, quindi in una zona centralissima! Tuttavia, il caso piú clamoroso è, senz’altro, quello della manipolazione del ricordo di Cesare da parte di Augusto. Dopo il suo assassinio, prima di partire per la guerra contro i cesaricidi, il giovane Ottaviano promise la costruzione di un tempio da dedicare alla memoria del padre adottivo, ormai divinizzato (il divus Iulius), proprio nel luogo dove la sua salma era stata inaspettatamente cremata nel corso del turbolento funerale, e dove già era stata eretta, per iniziativa popolare, una colonna. Parliamo di punto centralissimo della città: il lato orientale del Foro. Quando cominciarono i lavori di costruzione dell’edificio, all’inizio degli anni Trenta, Ottaviano si presentava ancora come un capoparte, era appoggiato sostanzialmente da quei settori che si sentivano «cesariani» e in lui, a torto o a ragione, vedevano il prosecutore della politica di Cesare. Ambienti per cui quella colonna aveva un elevato valore simbolico. Gli architetti di Ottaviano pertanto idearono per il tempio un podio la cui linea anteriore prevedeva una piccola esedra semicircolare, per lasciare cosí in
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evidenza la colonna (che è poi la colonna il cui basamento viene tuttora ricoperto di fiori dai turisti che vengono in visita al Foro da tutto il mondo). Ma alcuni decenni piú tardi, una volta diventato Augusto e consolidato il proprio regime, per l’erede di Cesare cominciò ad affievolirsi il richiamo al padre adottivo, la cui memoria piú che favorire la conciliazione al contrario divideva le coscienze. Pertanto la colonna di Cesare venne spazzata via, e la fronte del tempio poté assumere un normale andamento rettilineo. Possiamo applicare alla vita politica romana il moderno concetto di «partiti»? E può dirci qualcosa di piú sul lessico politico della Roma repubblicana? Se pensiamo ai partiti novecenteschi, con programmi, tessere e organizzazione di massa, senz’altro no. Ma questo non significa che la politica a Roma fosse espressione solo dell’attività di piccole cricche nobiliari e delle loro clientele. In alcuni casi la partecipazione alla lotta politica da parte della plebe fu massiva e pianificata. Esisteva una lacerazione del tessuto cittadino. Purtroppo mancano le parole adatte a definire con chiarezza questo scenario. Alcuni autori parlano semplicemente di contrapposizione fra ricchi e poveri. Altri contrappongono i nobili (che costituiscono la crema, l’élite del senato) alla plebe (benché, formalmente, siano plebee anche la maggioranza delle famiglie nobili). Fra i moderni è invalso l’uso di chiamare populares gli appartenenti allo schieramento ostile all’aristocrazia: ma in realtà popularis, proprio come «popolare» in italiano, è un aggettivo che può signifi-
care tante cose. Certo, esistono identità contrapposte: identità caratterizzate in parte da sensibilità sociali discordanti, ma contrassegnate soprattutto da memorie antitetiche. La cosa interessante è che queste identità possono rimanere sopite, o affiancarsi ad altre, e poi risvegliarsi all’improvviso, se ben solleticate. È questa l’importanza della comunicazione politica. All’inizio del 49 a.C., quando Cesare e la nobiltà arroccata attorno a Pompeo arrivano ai ferri corti e scoppia la guerra, per mobilitare la popolazione basta riattivare la memoria, suscitando il ricordo del con-
flitto passato. Cesare diventa il nuovo Mario, Pompeo il nuovo Silla, e cosí i settori piú radicali, da entrambe le parti, scendono in campo per quello che percepiscono come un «secondo tempo» della guerra civile combattuta poco piú di trent’anni prima. Nell’attuale contingenza politica italiana si assiste allo strano fenomeno della sinistra moderata che attacca i suoi avversari tacciandoli di populismo, ignoranza e mancanza di umanità, giungendo in alcuni casi a mettere addirittura in discussione il concetto di suffragio universale. Quanto di questo atteggiamento ha radici antiche? Spesso la storiografia moderna si è limitata a ripetere i giudizi stereotipati forniti dalle fonti letterarie antiche sul comportamento della folla, del popolo, di quella che oggi, a volte con una punta di disprezzo, definiamo «la gente». Questo comportamento viene quasi sempre stigmatizzato come animalesco, irrazionale, impulsivo, legato esclusivamente alle corde emotive. Oggi non sembra piú cosí semplice scindere il piano decisionale razionale da quello emotivo. Sappiamo che anche semplicemente nell’informarsi, nel farsi un’idea dei problemi, agiscono fattori legati alla propria passionalità; e che spesso la memoria, tramite le emozioni che suscita, suggerisce al pensiero valide scorciatoie. Io ho cercato di analizzare i casi della entusiastica mobilitazione popolare suscitata dalla comparsa di persone che sostenevano, probabilmente in maniera fraudolenta, di essere discendenti dei Gracchi e di Caio Mario. Ebbene, non direi che la plebe sia rimasta stupidamente abbindolata per questioni di sudditanza psicologica. Piuttosto, semplificando molto, direi che questi individui hanno fornito un’occasione per scendere in piazza a quei cittadini che si sentivano legati emotivamente a questi nomi, alle loro storie, all’identità contenuta in questi nomi. PER SAPERNE DI PIÚ Umberto Livadiotti, La forza del nome. Identità politica e mobilitazione popolare nella Roma tardorepubblicana, Artemide, Roma, 272 pp., ill. b/n 25,00 euro ISBN 978-88-7575-287-3 www.artemide-edizioni.com
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PARCHI ARCHEOLOGICI • VAL DI CORNIA
La Rocca di San Silvestro, una delle attrazioni principali dell’omonimo Parco Archeominerario, compreso nel sistema dei Parchi della Val di Cornia. L’insediamento sorse in epoca medievale, a servizio dei minatori e fonditori che lavoravano per i conti della Gherardesca.
NEL PARCO DELLE
MERAVIGLIE
VENT’ANNI FA VENNE INAUGURATA L’AREA ARCHEOLOGICA DI BARATTI, FULCRO DEL NASCENTE SISTEMA DEI PARCHI E DEI MUSEI DELLA VAL DI CORNIA. DA QUEL MOMENTO, LE INIZIATIVE VOLTE A PRESENTARE AL PUBBLICO LE STRAORDINARIE RICCHEZZE MONUMENTALI E NATURALISTICHE DEL PROMONTORIO NON SI SONO MAI INTERROTTE. RISALE A POCHE SETTIMANE FA, INOLTRE, IL COMPLETAMENTO DI IMPORTANTI RESTAURI E L’APERTURA DI NUOVI PERCORSI DI VISITA… di Carlo Casi e Silvia Guideri
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rofondamente incuneato nel braccio di mare che guarda l’Isola d’Elba, il promontorio di Baratti è storicamente legato al metallo che sul finire della protostoria venne scoperto nella vicina isola: il ferro. Da quel momento in poi, l’irresistibile ascesa delle popolazioni che ne controllavano le miniere
e la produzione metallurgica, dapprima i Villanoviani e poi gli Etruschi, fece mutare gli equilibri che per secoli si erano consolidati sulle coste tirreniche, relegando le genti nuragiche della Sardegna a una posizione piú defilata. La città di Populonia, sita su una delle colline piú settentrionali del promontorio, diventò il
PARCHI ARCHEOLOGICI • VAL DI CORNIA A sinistra: Marina ricostruzione di Castagneto della cosiddetta Casa del Re nel Parco Archeologico di Baratti e Populonia. In basso, nel riquadro: una veduta San Vincenzo panoramica della Rocca di San Silvestro.
Rocca di San Silvestro San Carlo
Lumiere
Venturina Poggio del Molino Poggio all’Agnello e ium
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Castagneto Carducci
Parco Costiero di Rimigliano
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luogo privilegiato della lavorazione del ferro. Da qui in poi, le riparate spiagge interne al Golfo di Baratti furono utilizzate sempre di piú a scopi produttivi sino in tempi recenMar ti. Singolare, a questo proposito, è la Tirreno strategia adottata da Antonio Minto negli anni Venti del secolo scorso. G o l fo L’archeologo sfruttò la voglia di Populonia di recupero delle scorie antiBa r a tt i Poggio che, ancora ricche di un’al- del Telegrafo Baratti ta percentuale di metallo, che ricoprivano completaParco mente le strutture archeoArcheologico di Baratti logiche. Riuscí cosí a effete Populonia tuare i necessari lavori di sbancamento, liberando la maggior parte delle tombe della necropoli di Populonia. Sino ad allora la coltre degli e di scarti della lavorazione metallurPi om gica aveva ben occultato la presenbin o za delle antiche vestigia tanto che, sino a tutto il Settecento, erano conosciute solamente le strutture
Donoratico
Piombino Museo Archeologico del Territorio di Populonia
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A destra: resti di strutture comprese nell’area dell’Acropoli di Populonia.
Sassetta Parco Forestale di Poggio Neri Parco Archeominerario di San Silvestro Suvereto Campiglia Marittima Forni S. Lorenzo
Cafaggio Casalappi Banditelle VIA
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Montioni Parco Naturale di Montioni
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Riotorto
Parco Costiero della Sterpaia
Firenze Firenze
TOS C A N A
TOSCANA
Follonica
delle Logge sull’Acropoli. E solo grazie alla fortunata scoperta del cosiddetto Apollo di Piombino (vedi box alle pp. 46-47), avvenuta nel 1832, presero avvio le prime ricerche archeologiche nell’area. Anche Alessandro François, lo scopritore dell’omonima tomba vulcente, si cimentò nel 1840 con indagini nelle zone delle Grotte e della Buca delle Fate, riportando pochi successi. Si dovette poi attendere sin quasi la fine del secolo (1889) per la ripresa delle ricerche archeologiche, condotte da Isidoro
Falchi nelle necropoli del Casone e di Monte Pitti, e successivamente aspettare ancora fino al 1908, quando iniziarono le piú sistematiche indagini dell’allora Soprintendenza alle Antichità d’Etruria, dirette da Angelo Pasqui prima e dal 1922 in poi da Antonio Minto. Il dopoguerra segna una grande scoperta, quella della Fossa della Biga (la ricostruzione del calesse è temporaneamente esposta nella mostra «A cavallo del tempo. L’arte di cavalcare dall’antichità al medioevo» presso la Limonaia di Palazzo Pitti a Firenze e
MarMar Tirreno Tirreno
rientrerà al museo di Piombino per le prossime festività natalizie), compiuta da Alfredo de Agostino, il quale, grazie allo studio delle foto aeree, individua anche il circuito murario della città. Nel 1968, il generoso mare antistante il promontorio di Populonia, restituisce un vaso in argento, unico nel suo genere, la famosa a r c h e o 45
PARCHI ARCHEOLOGICI • VAL DI CORNIA
IL MISTERO DELL’APOLLO Alcuni pescatori, nel 1832, trovarono l’Apollo di Piombino impigliato nelle reti e la descrizione che ci ha lasciato nello stesso anno l’archeologo tedesco Eduard Gerhard (1795-1867) ben rende l’importanza della scoperta: «Rimasi ammirato vedendo presso il signor Ruschi la statua in bronzo di un atleta nudo in grandezza naturale, proveniente dalla Grecia a Livorno, ove fu acquistata dal professore; la qual per l’artifizio usatovi ne rimembra i piú bei tempi dell’arte, sebbene non sia spoglia dell’usata rigidezza; è conservata quasi interamente, tranne parte del piede destro che è perduta e qualche altro luogo danneggiato per negligenza di chi la statua ripulí. Il merito di siffatta statua s’innalza per i caratteri incavati e intarsiati dell’argento sulla sinistra gamba che và innanzi, fatta a Minerva: ATHANAIDEKATAN». La statua bronzea è ancora al centro di un dibattito che nasce da lontano, a partire dal luogo di ritrovamento, subito messo in dubbio a favore di una località greca, complice la potenziale interpretazione suggerita dalla lettera del Gerhard. Ma la fortunata presenza, al momento del ripescaggio, del barone Beugout, come descritto nel 1833 dal Raul Rochette, avvenuto nelle acque di Piombino, non lascia adito ad altre ipotesi. L’anno successivo, l’Apollo venne acquistato dal Museo del Louvre per 16 000 franchi, dove tuttora si trova. Nel 1842, la statua fu oggetto di un accurato restauro, che portò al ritrovamento al suo interno di una lamina di piombo iscritta risalente al
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I secolo a.C. Immediatamente sorsero dubbi sulla cronologia, anche per la sua evidente incertezza stilistica. Alcuni studiosi erano propensi a credere che la possibile derivazione da un modello greco del 490 a.C. – quello del tempio di Apollo Philseios di Mileto dello scultore Kanachos di Sicione, purtroppo perduto, ma riprodotto su alcune monete e su un rilievo del teatro di Mileto e descritto da Plinio il Vecchio – e l’apparente somiglianza con i kouroi, fossero fondamentali per l’attribuzione all’interno del V secolo a.C., mettendo in discussione l’iscrizione pumblea, tanto da riferirla a un possibile restauro antico o addirittura ritenendola un falso. Ancora oggi l’ipotesi viene da alcuni sostenuta, mentre altri sono piú propensi a ritenerla opera del I secolo a.C. In quest’ottica, l’aporia stilistica perderebbe ogni significato in quanto le discrepanze segnalate ben rientrano invece nei canoni del tardo ellenismo e del primo impero, riconoscendo nell’Apollo della Casa di Polibio a Pompei un preciso confronto. E l’iscrizione rinvenuta all’interno della statua confermerebbe il quadro proposto, aggiungendo, tra l’altro, il nome del possibile scultore, Menodotos di Tiro. Anche la cronologia dell’iscrizione apposta sul piede sinistro, seppur datata da alcuni al V secolo a.C., potrebbe risalire all’età ellenistica che tra l’altro, rispetto alla descrizione del Gerhard, presenta un’altra riga non vista all’epoca della scoperta che riporta il nome del dedicante, Charidamos. Carlo Casi
Nella pagina accanto e qui accanto: due immagini dell’Apollo di Piombino, statua in bronzo recuperata nel 1832 nelle acque antistanti la città toscana. Parigi, Museo del Louvre. L’opera viene variamente datata, fra il V e il I sec. a.C. A quest’ultimo termine cronologico appartiene la laminetta in piombo ritrovata al suo interno che ha dunque indotto vari studiosi a considerare coeva la scultura.
In basso, a destra: la replica dell’Apollo di Piombino esposta nel Museo Archeologico del Territorio di Populonia, che ha sede a Piombino.
Anfora di Baratti. Negli anni Settanta cominciano le esplorazioni di Mauro Cristofani nel quartiere industriale, mentre prendono il via anche le prime ricerche subacquee, con il ritrovamento dei relitti di Cala del Pozzino e di Cala del Piccione. Dagli anni Ottanta sono state avviate le ricerche nell’area della città e sull’acropoli che ancora oggi continuano e che si sono allargate anche ad altre zone del Parco.
VENT’ANNI DI PARCO L’11 luglio 1998 l’area archeologica di Baratti apriva le sue porte ai visitatori in una veste tutta nuova. A partire da quel momento il volto di
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PARCHI ARCHEOLOGICI • VAL DI CORNIA
In alto: un particolare dell’allestimento del Museo Archeologico del Territorio di Populonia di Piombino, con l’anfora di Baratti in primo piano. Sulle due pagine: carta del territorio di Populonia, con i principali siti e aree archeologiche.
quel territorio è cambiato completamente, non solo per l’apertura al pubblico di una nuova area, quella della necropoli delle Grotte, ma anche per il criterio utilizzato per strutturare i percorsi di visita e per la valorizzazione e fruizione dell’area. Il Parco viene infatti dotato di un suo centro visita e di un bo48 a r c h e o
okshop, di pannelli illustrativi lungo i percorsi, di un centro di archeologia sperimentale già allora pensato per rendere l’archeologia alla portata di tutti. Oggi si parla molto di archeologia pubblica, di restituzione al pubblico delle ricerche: il lavoro della Parchi Val di Cornia, sin dai primi progetti è sempre andato in
questa direzione, nella convinzione che la ricerca non possa esimersi dal collegarsi alla valorizzazione e alla fruizione da parte del visitatore. Negli anni le attività non si sono mai fermate (come anche «Archeo» ha piú volte documentato: si vedano, fra gli altri, i nn. 372, febbraio 2016, e 272, ottobre 2007): l’Acropoli di
In alto: una miniera medievale nel Parco Archeominerario di San Silvestro.
Populonia, il monastero benedettino di S. Quirico e il territorio della città sono stati oggetto di scavo e di ricognizione archeologica finalizzati all’approfondimento dei temi riguardanti la topografia della città e della campagna in età etrusca, romana e medievale. La ricerca è stata condotta in modo tale che le nuove scoperte fossero messe in evidenza in maniera fruibile e comprensibile per i visitatori. Attraverso un finanziamento PISL (Progetto integrato di sviluppo locale) è stato possibile progettare un intervento coordinato nel quale hanno interagito un pool di Università (Siena, Pisa, Roma 3,Venezia, Firenze), la Soprintendenza Archeologica della Toscana e la Parchi val di Cornia impegnate nell’ambito della ricerca, della tutela e della strutturazione e gestione del nuovo lotto del Parco archeologico. Cosí, a meno di 10 anni dall’apertura del primo lotto del Parco, il 30 marzo 2007, è stata inaugurata una nuova area, quella dell’Acropoli. Oggi, a distanza di vent’anni, il Parco si presenta ancora rinnovato. Ed (segue a p. 54)
A destra: particolare dell’anfora di Baratti. Fine del IV sec. a.C. Piombino, Museo Archeologico del Territorio di Populonia. a r c h e o 49
PARCHI ARCHEOLOGICI • VAL DI CORNIA
PARCHI DELLA VAL DI CORNIA: COSA C’È DI NUOVO Questo 2018 è un anno ricco di novità per il sistema di Parchi e Musei della Val di Cornia che comprendono, oltre al Parco Archeologico di Baratti e Populonia, il Parco Archeominerario di San Silvestro e il Museo Archeologico del Territorio di Populonia (Piombino). Progetti pensati per rendere l’archeologia accessibile, per una visita «senza barriere» non solo fisiche, ma anche e soprattutto culturali; un’accessibilità intesa non tanto nell’accezione piú ristretta di abbattimento delle barriere architettoniche, ma anche come superamento delle barriere culturali, cognitive e sensoriali. Nel Parco Archeominerario di San Silvestro, il progetto per il restauro del villaggio medievale della Rocca (finanziato dal Programma Operativo Regionale FESR 20072013 per un importo complessivo di 800 000 euro, cofinanziato per il 20% dal Comune di Campiglia Marittima), frutto di un lavoro multidisciplinare, ha rappresentato un momento di riflessione per
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considerare il restauro non soltanto come un’operazione indispensabile per la conservazione del patrimonio, ma anche come opportunità di conoscenza e sperimentazione, oltreché come doverosa occasione per trasmettere e «rendere fruibile a tutti (addetti e non addetti ai lavori) ciò che stiamo conservando». A oltre vent’anni dall’inaugurazione del Parco di San Silvestro, e dai primi lavori di consolidamento delle murature, era divenuto imprescindibile effettuare un intervento di restauro della Rocca per consolidare le strutture murarie sottoposte a un continuo processo di degrado causato dagli agenti meteorici e dalla frequentazione dell’area da parte di oltre 30 000 visitatori all’anno. Grazie al restauro effettuato, il percorso di visita della Rocca è nuovamente completo e i visitatori possono tornare a scoprire aree particolarmente suggestive del sito. Questo progetto ha rappresentato anche una preziosa opportunità per riprendere, insieme al Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni
Culturali dell’Università di Siena e al Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, il filo rosso della ricerca alla Rocca di San Silvestro. L’intervento di restauro non è stato soltanto il consolidamento strutturale del sito archeologico, ma un’occasione per arricchire le conoscenze, facendo agire insieme diverse discipline e professionalità. Seguendo la strada maestra che sta alla base dell’esperienza dei Parchi della Val di Cornia, con i lavori di restauro della Rocca si è determinata quella feconda interazione tra ricerca scientifica, sperimentazione, restauro, gestione e fruizione pubblica del patrimonio culturale che si conferma come il processo piú efficace per restituire concretamente alla comunità valore sociale e benefici economici. Si tratta di una modalità integrata e diversificata di lavoro che considera la Rocca e il suo contesto paesaggistico come un unicum inscindibile, un «precipitato» di risorse all’interno del quale trovano spazio anche attività di archeologia sperimentale che, in questo caso, hanno offerto un prezioso contributo all’intervento di restauro. Proprio nell’ambito del cantiere di restauro è stato infatti possibile anche portare a compimento un progetto di archeologia sperimentale già avviato e riguardante le tecnologie produttive e l’edilizia di età medievale, che ha visto operare in sinergia archeologi, architetti, maestranze del settore e professionisti dedicati alla fruizione. Il progetto «Medioevo in corso», frutto dell’ininterrotta collaborazione tra la società Parchi Val di Cornia e il Laboratorio di Archeologia
A destra: ancora un’immagine della Rocca di San Silvestro. Grazie a un recente intervento di restauro, il sito è tornato a essere pienamente fruibile dai visitatori. Nella pagina accanto: un’altra sala del Museo Archeologico del Territorio di Populonia.
dell’Architettura e dell’Urbanistica Medievali dell’Università di Siena, ha permesso di realizzare, nell’area esterna alla cinta muraria della Rocca di San Silvestro, un cantiere di archeologia sperimentale, unico nel suo genere in Italia, nel quale sono stati replicati i cicli produttivi legati alla lavorazione della pietra, alla produzione della calce e alla costruzione di una casa realizzata sul modello delle abitazioni presenti all’interno della Rocca. Al Museo Archeologico del Territorio di Populonia (che ha sede a Piombino), l’intervento presentato rientra nell’ambito del Programma Operativo Regionale FESR 20142020, Promozione e Valorizzazione della rete dei grandi attrattori Culturali Museali, che coinvolge sia il Museo che il Parco Archeologico di Baratti e Populonia all’interno della tematica «Gli
Etruschi in Toscana: le città dell’Etruria». Il progetto prevede azioni coordinate e coerenti di restauro conservativo, adeguamento funzionale e miglioramento della fruizione. In particolare, nell’ottica di una visione complessiva di sviluppo del polo museale, il progetto prevede un adeguamento dei supporti informativi, del sistema di illuminazione e di alcuni degli allestimenti, anche tramite dispositivi tecnologici innovativi. In questa fase del progetto entra in gioco l’allestimento «Suoni del passato»: un viaggio emozionante, fatto di musica, suoni e parole che vuole trasportare il visitatore nella vita quotidiana, rituale e funeraria degli Etruschi e dei Romani. Grazie alle piú moderne tecnologie e a uno studio filologico della musica del passato (uno degli
aspetti fondamentali nella vita del popolo etrusco e romano), sarà possibile ascoltare il suono di alcuni strumenti musicali, fedelmente ricostruiti sulla base di numerose raffigurazioni, come quelle rappresentate su affreschi, ceramica, mosaici e statue che sono giunte fino a noi. Silvia Guideri
DOVE E QUANDO Parchi della Val di Cornia Parco Archeologico di Baratti e Populonia Parco Archeominerario di San Silvestro Museo Archeologico del Territorio di Populonia Info tel. 0565 226445; e-mail: prenotazioni@parchivaldicornia.it; www.parchivaldicornia.it
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PARCHI ARCHEOLOGICI • VAL DI CORNIA
UN LEGAME MILLENARIO Il Castello di Populonia è sede dal 2015 del Museo etrusco di Populonia Collezione Gasparri, nel quale sono attualmente in corso due esposizioni temporanee: «Sapere di mare» e «Romani a Populonia». La prima, in particolare, pone l’accento sul tema del mare, e del Mediterraneo in particolare, come luogo centrale della storia dell’uomo: un’idea che il mondo antico ci ha trasmesso e che l’archeologia continua a riscrivere nel suo articolato e sempre nuovo palinsesto di scoperte e piccole storie. Populonia, nota come l’unica città etrusca fondata direttamente sul mare, rappresenta piú di ogni altra il luogo privilegiato per ospitare il racconto che fa emergere il legame, vario e complesso, tra l’uomo e il mare.
In alto: un particolare dell’allestimento della mostra «Sapere di mare». A sinistra: oinochoe (brocca da vino) d’impasto bruno con decorazione incisa in cui si riconosce un pesce. Produzione etrusco meridionalefalisca, VII sec. a.C.
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Sapere di mare vuol dire conoscere, imparare, esplorare, scambiare, assaggiare, imitare, colorare; significa transculturale, dialogare, contaminare. Il mare è dunque la culla della nostra civiltà ma, come sottolineava con amarezza il grande cantore del Mediterraneo Predrag Matvejevic, «l’Europa ha dimenticato la sua culla». I reperti esposti in mostra, e i testi che ne raccontano la storia, vogliono essere un piccolo antidoto contro questa dissoluzione. In anteprima assoluta, il Museo etrusco di Populonia ospita quattro splendidi vasi della straordinaria collezione etrusca della Fondazione Luigi
Pisside (contenitore con coperchio) d’impasto bruno con decorazione incisa, comprendente anch’essa figure di pesci. Produzione etrusco meridionale-falisca, VII sec. a.C.
indirizzo mantenendo però ben saldo quell’obiettivo di vivacità e apertura verso le novità che caratterizza il Museo di Populonia e le sue iniziative estive degli ultimi anni. Carolina Megale e Giorgio Baratti
Rovati, eccezionalmente prestati dalla Fondazione in vista dell’apertura del nuovo Museo di arte etrusca di Milano, che la Fondazione sta realizzando nello storico Palazzo Bocconi-RizzoliCarraro in Corso Venezia 52. In mostra sono tre magnifiche ceramiche etrusche del VII secolo a.C. di produzione etrusco meridionale-falisca con decorazioni incise e una splendida anfora dipinta di bianco su fondo rosso prodotta a Cerveteri agli inizi del VII secolo a.C., forse riferibile al Pittore dei pesci di Stoccarda. Su tutti i vasi spiccano le riproduzioni stilizzate ma evocative di pesci: qui gli artigiani etruschi
hanno saputo sfruttare al meglio la circolarità della superficie dei vasi per rappresentare il moto scandito e fluente dei pesci in quello spazio quasi infinito e simbolico che, parlando del Mediterraneo, lo storico francese Fernand Braudel definiva «pianura liquida». La mostra rinnova l’appuntamento estivo che il Museo etrusco di Populonia offre ogni anno ai visitatori del castello della Maremma livornese, per confrontarsi su temi legati all’archeologia della città e del suo territorio. Dopo gli appuntamenti con le novità dagli scavi di Populonia – nel 2016 la mostra «Populonia. La città dei vivi» legata alla scoperta della Casa dei Semi a seguito all’alluvione che ha colpito Baratti nell’autunno 2015, e nel 2017 «Sepolto incatenato tra le dune di Baratti» – dedicata all’uomo rinvenuto sepolto con i ceppi da schiavo alle caviglie – il breve allestimento dell’estate 2018, anch’esso studiato negli aspetti grafici ed espositivi dall’architetto Erica Foggi, muta leggermente
DOVE E QUANDO «Sapere di mare. L’uomo e il mare, un legame millenario» fino al 4 novembre «Romani a Populonia. 10 anni di ricerche all’Area archeologica di Poggio del Molino» fino al 6 gennaio 2019 Museo etrusco di Populonia Collezione Gasparri, Castello di Populonia (Piombino, Livorno) Orario tutti i giorni, 10,00-13,00 e 14,00-19,00 Info tel. 0565 1828030; e-mail: periploturismoecultura@gmail.com
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PARCHI ARCHEOLOGICI • VAL DI CORNIA
è sempre l’Acropoli di Populonia a mostrarsi con un nuovo volto grazie a nuovi percorsi, mosaici restaurati e restituiti alla visita, ricostruzioni di strutture antiche. Un lavoro importante che non rappresenta tuttavia un punto di arrivo, ma un nuovo trampolino di lancio per altri progetti, come quello attualmente in corso dei «Grandi Attrattori», che vede coinvolte tre città etrusche della Toscana: Populonia (Piombino), Cortona e Volterra.
LE ULTIME NOVITÀ Di recente, il parco (in particolare l’area dell’Acropoli), è stato oggetto di un importante progetto di conservazione e valorizzazione (finanziato da Ales-Arte Lavoro e Servizi S.p.A per un importo complessivo di 1 milione di euro, alla cui definizione hanno contribuito piú soggetti: Ministero dei beni e delle attività culturali, Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio, Comune di Piombino, Parchi Val di Cornia S.p.A., Università), nell’ottica di assicurare continuità e coordinamento fra le fasi della ricerca scientifica, del consolidamento e restauro delle strutture e della successiva valorizzazione e fruizione dei beni archeologici, presenti nel sistema dei parchi e nell’intero promontorio di Populonia. L’idea di fondo è che, se è vero che la valorizzazione del patrimonio culturale si alimenta della ricerca, è altresí vero che la ricerca, a sua volta, trae dalla valorizzazione stimoli, idee, obiettivi e non solo giustificazione sociale e culturale. La valorizzazione può essere intesa, in altri termini, come parte costitutiva delle stesse scelte di conoscenza. Nell’elaborare le linee di sviluppo del progetto si 54 a r c h e o
è quindi tenuto conto da un lato delle esigenze di tutela del patrimonio, accentuate dalla fruizione e dall’avanzare della ricerca archeologica e, dall’altro, delle esigenze dei visitatori, soprattutto in termini di comprensione del dato archeologico e di ampliamento dei servizi, partendo proprio da una analisi delle criticità emerse durante la gestione. Gli interventi sono decisamente importanti e hanno completamente cambiato l’impatto visivo e cognitivo dell’area archeologica. Il primo significativo lavoro ha riguardato la ricostruzione del basamento di uno dei templi situati lungo la strada basolata romana dell’Acropoli. Di questi edifici sacri si conservano oggi soltanto le fondazioni e non gli elevati; solo del tempio scelto per la ricostruzione era ancora visibile una parte dell’alto basamento in blocchi di macigno su cui era costruito. Il visitatore aveva cosí serie difficoltà nella comprensione dei singoli monumenti, poiché si presentano privi dei paramenti e degli elementi che ne definivano un preciso contorno.
REPLICHE FEDELI Per rendere piú appagante la visita al sito, mettendo in evidenza il perimetro del manufatto e le sue caratteristiche costruttive, è stata perciò completata la ricostruzione del basamento del tempio (iniziata in via sperimentale con il progetto Accessit) con la collocazione in situ di blocchi in materiale sintetico, in grado di imitare la forma, il colore e l’ingombro degli elementi costruttivi originari, restituendo al visitatore la percezione dell’originario ingombro e dell’imponente grandezza dell’edificio sacro. Dopo un accurato lavoro di re-
stauro sono, inoltre, di nuovo visibili al pubblico i mosaici pavimentali e i rivestimenti parietali del balneum (la terma privata) della domus a valle delle Logge. Il visitatore può cosí ammirare questo ambiente le cui pareti erano rivestite d’intonaco rosso con tessere bianche e il cui pavimento era interamente a mosaico bianco, decorato al centro con un motivo a intreccio geometrico nero. Alla base del primo gradino della vasca per il bagno vero e proprio, si trovava una sorta di tappeto in mosaico con un motivo che ricorda il profilo di una città turrita, mentre il gradino superiore era decorato a scacchi bianchi rossi e neri, cosí come la soglia d’ingresso dallo spogliatoio. L’esedra, caratteristica dei bagni caldi, infine, era delimitata da una fascia di tessere nere. Il complesso delle Logge, sull’Acropoli di Populonia. Anche in quest’area è stato di recente attivato un nuovo percorso di visita.
Altra novità è la realizzazione di un nuovo percorso che costeggia le antiche mura di Populonia. Dopo scavi e studi che hanno consentito l’elaborazione di nuovi dati su questa imponente cinta muraria, è stato creato un itinerario che permette di ammirare la struttura, completamente nascosta prima dell’intervento. Si sono inoltre conclusi importanti lavori di restauro sulla strada basolata e un primo restauro conservativo sulla terrazza dell’edificio de Le Logge e al complesso termale con pavimento in opus spicatum e ambiente con nicchie che, oltre a salvaguardarne gli intonaci parietali, il pavimento e le strutture, hanno consentito la creazione di nuovi percorsi. Sulla terrazza de Le Logge, infatti, è stato realizzato un nuovo per-
corso, con uno spettacolare punto panoramico e la possibilità di ammirare il ninfeo monumentale che in origine ospitava il Mosaico dei Pesci, esposto oggi nel Museo Archeologico del Territorio di Populonia, a Piombino e di cui è stata collocata in situ una copia realizzata secondo la tecnica musiva tradizionale.
LA CASA DEL RE L’Acropoli è stata oggetto anche di un altro significativo progetto: nell’area delle capanne sul Poggio del Telegrafo è stato ricostruito un importante edificio capannicolo della fine dell’VIII secolo a.C., luogo di riunione dell’élite populoniese di epoca villanoviana, chiamata «La casa del Re» per le testimonianze relative alla fondazione della città. La capanna è stata
realizzata secondo i criteri dell’archeologia sperimentale ed è posizionata nelle immediate vicinanze dell’area indagata, cosí da permettere il raffronto fra la struttura ricostruita e il dato archeologico, ampliandone la portata didattica. Questo è oggi il Parco Archeologico di Baratti e Populonia: oltre 100 ettari di aree archeologiche valorizzate e fruibili nello straordinario paesaggio del promontorio di Piombino; un patrimonio archeologico eccezionale, visitato ogni anno da quasi 50 000 persone. Si ringrazia Andrea Camilli, funzionario responsabile di zona per la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Pisa e Livorno, per la disponibilità e il costante supporto in tutte le fasi di ricerca, progettazione e sviluppo.
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MOSTRE • ROMA
NEL GIARDINO
SEGRETO
IL COLLE PALATINO SI RIVELA: UN PERCORSO TRA NATURA E ARCHEOLOGIA GUIDA IL VISITATORE ATTRAVERSO LA MAGIA DEI SECOLI, DALL’ETÀ DEL FERRO ALLO SPLENDORE DEI FASTI RINASCIMENTALI a cura di Paolo Leonini
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Il Colosseo visto dai giardini farnese, olio su tela di JeanBaptiste Camille Corot. 1826. Parigi, Museo del Louvre.
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MOSTRE • ROMA
«I
mmaginate una collina di circa un miglio di circonferenza e alta meno di duecento piedi, coperta con rovine senza forma, sventrate dagli scvi al punto che il suolo originale è sostituito da frammenti di mattoni e calcina; spargetelo di orti (…) buttateci magari la vite, l’alloro, il cipresso, l’edera, ombreggiatelo qua e là con querce, coronate tutto con una elegante villa moderna e voi avrete qualche nozione sul Palazzo dei Cesari». Cosí scriveva, nel 1853, George Stillman Hillard, in un passo del suo Six Months in Italy. Oggi, centocinquanta anni dopo, oltre un secolo di indagini archeologiche hanno quasi completamente cancellato l’aspetto originario degli Horti Farnesiani. Le vestigia superstiti sono appena in grado di evocare la meraviglia che si doveva 58 a r c h e o
In alto: veduta aerea del Palatino. Roma, BiASA-Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte, Fondo Rodolfo Lanciani.
Qui sopra: gli scavi di Giacomo Boni nell’area di cinta degli Orti Fanesiani. Roma, Archivio Fotografico del Parco Archeologico del Colosseo.
presentare agli occhi del visitatore ottocentesco. I motivi che ne hanno decretato la loro distruzione sono gli stessi che ne hanno costituito l’unicità: un luogo che ha assorbito e stratificato oltre 1500 anni di storia, seminando il terreno di testimonianze di epoche passate e impregnandola di significati ideali. Qui, alla metà del XVI secolo, la famiglia Farnese inizia la realizzazione di un grande giardino, con viali, aiuole, alberi fontane, edifici, pitture, statue e altre opere d’arte. Come spiega Giuseppe Morganti – curatore della mostra «Il Palatino e il suo giardino segreto. Nel fascino degli Horti Farnesiani» – «il giardino rinascimentale, luogo riservato e segreto, concepito per la meditazione e l’intrattenimento, per il sollievo del corpo e della mente, costituiva un universo formale e ideologico che aveva profondi legami con l’Antico e con la tradizione filosofico-letteraria e artistica del mondo classico. Sul Palatino il legame con la classicità si nutriva in piú di riferimenti concreti e immanenti al sito stesso. Il contenuto
Il nuovo percorso attraversa l’intera area archeologica centrale
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In basso: Panorama di Roma, illustrazione di Luigi Rossini da I sette colli di Roma antica e moderna. 1827.Roma, Archivio Fotografico del Parco Archeologico del Colosseo.
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Parco Archeologico del Colosseo 1. Circo Massimo 2. Arcate severiane 3. Palazzo dei Flavi (Domus Augustana) 4. Septizodium 5. Ampliamento massenziano 6. Il cosiddetto Stadio 7. Facciata della Domus Augustana 8. Paedagogium 9. Casa di Augusto 10. Tempio di Apollo 11. Capanne romulee 12. S. Anastasia 13. Scalae Caci 14. Tempio della Magna Mater/ Cibele 15. Fortezza Frangipane 16. S. Teodoro 17. Vicus Tuscus 18. Domus Tiberiana 19. Horrea Agrippiana
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MOSTRE • ROMA
mitico dei luoghi indusse a sceglierli con il chiaro intento di legare il nome dei Farnese alla tradizione e alla grandezza di Roma. Il giardino diventava strumento per affermare la raggiunta e consolidata posizione nel quadro politico-istituzionale, attinta nella sua piú alta espressione: il soglio pontificio».
UN NUOVO PERCORSO Nella scorsa primavera, dopo diciotto anni, è stato riaperto il percorso lungo le pendici del Palatino, che degradano verso il Circo Massimo. Una passeggiata nel verde, attraverso le epoche, che si sviluppa lungo un itinerario di quasi un chilometro. L’iniziativa si inserisce nel piano di progressive aperture del Parco Archeologico del Colosseo avviato nello scorso gennaio su iniziativa della direttrice del Parco, Alfonsina Russo. «Da sempre – spiega la direttrice – il Palatino è stato considerato vissuto dai Romani e dai viaggiatori di tutto il mondo come un luogo dal fascino tutto particolare, immersi in un’armonia senza uguali tra una natura dalle mille sfumature e richiami alla vita che rinasce ad ogni primavera e monumenti archeologici e complessi ecclesiastici di rara sugegstione. Forse proprio il Palatino custodisce una delle piú straordinarie visioni della Città Eterna, con la sua luce, al tramonto, calda, accogliente, inebriante, come poche città al mondo hanno. E per descrivere questa presenza “magica” del Palatino, la sua poesia, l’espressione piú nitida è nelle parole di Goethe, che durante la sua visita a Roma il 10 novembre 1786 al tramonto visita il Palatino:“Io vivo qui in una condizione di quiete, di serenità, che non conoscevo da tanto tempo… Ogni giorno un qualche oggetto nuovo, meraviglioso: ogni giorno immagini fresche, grandiose, rare, e un complesso che si vagheggiava da lungo tempo, ma che non si riusciva mai ad immaginare. Oggi sono stato alla piramide di Cestio, e 60 a r c h e o
L’ETÀ DEGLI HORTI FARNESIANI 1536 Inizia l’epoca Farnese, con l’acquisto di numerosi terreni sul colle Palatino da parte di Alessandro Farnese. XVI-XVII sec. Diversi componenti della famiglia Farnese intervengono sulla proprietà, trasformandola nel capolavoro degli Horti Farnesiani. Metà del Dopo la sconfitta nella guerra di Castro i XVII sec. Farnese abbandonano Roma e inizia il declino dell’area. 1692 Per limitare la spesa della manutenzione dei giardini, questi vengono dati a coltivare «a giardinieri di habilità e fede che abbiano a contentarsi del frutto che ne caveranno». 1718-1854 Progressiva trasformazione del giardino in azienda agricola: la Reale Azienda Farnesiana. 1721-1727 Primi scavi sul colle, ad opera del duca di Parma Francesco I. 1731 Elisabetta Farnese, unica discendente di Antonio Farnese sposa Filippo V di Borbone. 1809-1814 Le Uccelliere vengono rielaborate secondo un progetto attribuito a Giuseppe Valadier e rese abitabili per il conte di Tournon. 1861 Napoleone III compra gli Orti Farnesiani da Francesco II di Borbone, per condurvi scavi archeologici, affidati all’italiano Pietro Rosa. Le coltivazioni vengono distrutte. 1870 Gli Orti farnesiani vengono acquistati dal Governo Italiano. 1876 Rodolfo Lanciani è direttore degli scavi. La superficie dei giardini viene ridotta, rasi al suolo la facciata nord e i casini angolari, smontato il portale del Vignola. Inizio del ‘900 L’archeologo Giacomo Boni prosegue gli scavi e recupera parte del giardino. Riemerge il Ninfeo degli Specchi, dimenticato dalla metà del XVIII sec. 1957 Il portale del Vignola viene rimontato in via di San Gregorio, quale accesso monumentale al parco archeologico del Palatino, ancora attuale ingresso.
Nella pagina accanto: il portale degli Orti Farnesiani (detto del Vignola), rimontato su via di San Gregorio, ingresso attuale al Parco archeologico del Palatino.
verso sera sul monte Palatino, dove sorgono imponenti le mura in rovina, del palazzo dei Cesari. Non è possibile, io credo, trovare vista uguale a questa”». Il percorso di visita segue un itinerario che si snoda lungo le pendici meridionali e occidentali del Palatino. Muovendo dalle possenti arcate severiane a est (III secolo d.C.), ultimo ampliamento del sontuoso palazzo imperiale, si passeggia sotto il fronte della reggia (I-II secolo d.C.) e sopra il Circo
A destra: statua di barbaro inginocchiato, dagli Horti Farnesiani. Marmo pavonazzetto. 98 d.C.-117 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. a r c h e o 61
MOSTRE • ROMA
In alto: ricostruzione virtuale ipotetica dell’aspetto degli Horti Farnesiani nella prima metà del XVI sec. Nella pagina accanto: una veduta delle Uccelliere Farnese dopo il recente restauro (2013-2018). Roma, Archivio Fotografico del Parco Archeologico.
Massimo, fino a che, seguendo un’ideale viaggio indietro nel tempo (dal I all’VIII secolo a.C.), si giunge alle pendici sud-ovest del colle (Cermalus), lí dove Romolo fondò la Città Eterna e dove abitò e visse Augusto, primo imperatore di Roma. E di qui, ancora, proseguendo lungo il fianco occidentale del monte, si ridiscende il tempo sovrastati dal santuario di Cibele e Victoria (acropoli Palatina), dall’incombere della domus Tiberiana e degli Horti Farnesiani, fino ad arrivare alla chiesa medievale di S. Teodoro. Passando infine negli Horrea Agrippiana (magazzini), il tragitto si conclude con l’ingresso nel Foro Romano, alle spalle della basilica Iulia (da dove si potrà anche accedere per compierlo nel senso inverso). Anche le Uccelliere Farnese sono state recentemente riaperte al pubblico e al loro interno ospitano 62 a r c h e o
nuovamente i preziosi marmi un tempo emersi dagli scavi archeologici, come la statua di Iside Fortuna e quella del barbaro inginocchiato, originariamente, oggi nella collezione Farnese del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che ne ha concesso il prestito a lungo termine per questa iniziativa.
CIPRESSI, PINI E ROSMARINO L’itinerario si snoda in un paesaggio naturale di grande fascino. L’ambiente è infatti parte integrante e caratterizzante di tutta l’area archeologica. E per la prima volta non sono solo gli alberi i grandi protagonisti, ma anche i cespugli e le piante erbacee. I cespugli di acanto dalle foglie dentellate, riprodotti anche sui capitelli corinzi dei monumenti, le ginesetre che punteggiano la collina, la rosa canina rampicante, la malva, il rosmarino e la
menta che sprigionano i loro profumi e le piante di cappero caratterizzano oggi, come allora, il sentiero ombreggiato da pini e cipressi. Una guida al percorso è per l’occasione pubblicata da Electa con utili mappe orientative per identificare, e testi per conoscere, i monumenti archeologici dei vari tratti. Un approfondimento è dedicato alla botanica del colle indagata in chiave storica. DOVE E QUANDO «Il Palatino e il suo giardino segreto. Nel fascino degli Horti Farnesiani» Roma, Palatino fino al 28 ottobre Orario fino al 30.09: tutti i giorni, 8,30-19,00; dal 1° al 28 ottobre: tutti i giorni, 8,30-18,30 Info tel. 06 39967700; www.coopculture.it; www.electa.it; www.colosseo.beniculturali.it
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MOSTRE • LUPO
IN BOCCA AL
LUPO!
PREDATORE TEMIBILE, MA ANCHE SALVATORE DI NEONATI, ANIMALE TOTEMICO E SIMBOLO DI FIEREZZA: C’È TUTTO QUESTO E MOLTO ALTRO NELL’ANTENATO DEL MIGLIOR AMICO DELL’UOMO. CE NE PARLA UNA MOSTRA NEL MUSEO ARCHEOLOGICO DEL FINALE, IN LIGURIA di Daniele Arobba e Andrea De Pascale 64 a r c h e o
cane, il piú fedele amico dell’uomo, tramite una complessa domesticazione, le cui modalità sono ancora oggetto di dibattitto da parte della comunità scientifica. Rimangono infatti aperte diverse domande su dove questo processo possa essere avvenuto per la prima volta e quando sia iniziato. Alcuni gruppi di ricerca indicano l’Europa, altri l’Asia centrale, altri ancora la Cina. Per lungo tempo si è ipotizzato che i primi cani siano entrati nella storia dell’uomo quando i nostri antenati cacciatori-raccoglitori, durante le ultime fasi del Paleolitico o nel Mesolitico – 10 000 anni fa circa –, decisero di portare cuccioli di lupo nei loro accampamenti, nutrendoli e allevandoli.
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n molte civiltà del passato il lupo ha sempre avuto un ruolo fondamentale a livello leggendario e totemico. E anche nella nostra società riveste un’importanza non secondaria nell’immaginario collettivo, soprattutto negli ultimi anni, in considerazione dell’aumento di esemplari in libertà nel territorio italiano a seguito del suo ripopolamento. Fin dall’antichità, il lupo è al centro di molte fiabe ed è il protagonista leggendario della fondazione di Roma. Il lupo, dal punto di vista tassonomico, è l’animale che ha dato vita al
LA DOMESTICAZIONE Scoperte e studi piú recenti inducono a ritenere piú probabile l’ipotesi dell’auto-domesticazione. I primi uomini lasciavano carcasse e ossa animali attorno ai loro insediamenti: avanzi di pasto che dovevano fare gola ai lupi piú audaci, capaci di avvicinarsi agli accampamenti senza timore. A quel punto l’uomo iniziò una fase piú attiva della domesticazione: i lupi piú «mansueti» vennero integrati negli insediamenti e usati come guardiani, compagni di caccia e cani-pastore. Combinando analisi genetiche e i dati archeologici, alcuni ricercatori sono giunti recentemente alla conclusione che il cane è il risultato della domesticazione indipendente di due diverse popolazioni di lupi. È stata infatti evidenziata una separazione genetica tra le moderne popolazioni dell’Europa e dell’Asia orientale, che, sorprendentemente, è risultata piú recente dei primi reperti archeologici del vecchio continente. Le nuove prove genetiche indicano un ricambio nella popolazione europea originaria, perlopiú sostituita dall’arrivo di individui pro-
venienti da altre aree. Inoltre, le analisi sui resti archeologici hanno dimostrato che i primi cani fecero la loro comparsa oltre 12 000 anni fa in Europa e in Cina, mentre si diffusero in Asia centrale solo a partire da 8000 anni fa. In sintesi, quindi, sembrerebbe che i primi cani siano stati domesticati da popolazioni di lupi geograficamente isolate, che vivevano agli estremi opposti del continente eurasiatico. In seguito, con le migrazioni verso occidente delle popolazioni umane, i cani asiatici giunsero in Europa, dove si mescolarono alle popolazioni locali, spesso sostituendole in gran parte. Va infine ricordato come, secondo alcuni studiosi, i cani sarebbero riusciti a fare proprio un meccanismo tipico dell’uomo nel legame tra maSulle due pagine: scena di vita quotidiana in un villaggio neolitico secondo l’interpretazione di Zdenek Burian (1951). Si noti in primo piano la presenza di un cane domestico, ormai divenuto un membro delle comunità di agricoltori/allevatori. In basso: giovane esemplare di lupo fotografato in Alta Val Polcevera nell’Appennino ligure.
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MOSTRE • LUPO
In alto: l’allestimento della mostra «In bocca al lupo!» visitabile fino al 23 settembre presso il Museo Archeologico del Finale a Finalborgo (Savona). A sinistra: frammento di cranio di Canis lupus, dai livelli epigravettiani (15-10 000 anni fa) della Caverna dei Parmorari (Borgio Verezzi, Savona). Finalborgo (Savona), Museo Archeologico del Finale.
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dri e figli: quello per cui, fissandosi negli occhi, si stimola la reciproca produzione di ossitocina, un ormone che rafforza fiducia ed empatia e aiuta a capirsi anche in assenza di una comunicazione verbale. Questo aspetto ha sicuramente favorito la «stretta amicizia» che da millenni lega l’uomo al cane.
UN ANTICO INCONTRO L’uomo del Paleolitico Superiore, vissuto in Europa a partire da 40 000 anni fa circa, conosceva bene il lupo. Pur essendo un animale tipico di steppe e praterie, questo predatore si adattò ad habitat diversi, anche di foresta, e, soprattutto nelle fasi finali del Paleolitico Superiore, entrò certamente in competizione con i gruppi nomadi di cacciatori-raccoglitori, condividendone ambienti e prede. In diversi siti sono documentati casi di caccia al lupo da parte dell’uomo, cosí come tracce di macellazione, individuate, per esempio, su resti ossei rinvenuti nei li-
LA MOSTRA La mostra in corso al Museo Archeologico del Finale desidera smentire tutti quei luoghi comuni sul lupo legati a favole e leggende non corrispondenti alla realtà scientifica. Il percorso espositivo presenta suggestive immagini realizzate dai fotografi Nicola Rebora e Paolo Rossi, che hanno «catturato» alcuni lupi in libertà tra i monti liguri, e una serie di supporti didattici che descrivono il tipo di habitat naturale nel quale vivono questi affascinanti animali, informazioni sul loro comportamento, sulla storia leggendaria e il loro ruolo in popoli e culture del mondo nel corso dei millenni. Tra i materiali esposti si trovano reperti archeologici che documentano la presenza del lupo e del cane domestico nei siti del Finalese, tra cui resti scheletrici ed escrementi fossili, ma anche una
rassegna delle celebri copertine, con protagonisti i lupi, de La Domenica del Corriere, e l’attrezzatura di caccia di un «luparo» degli inizi del Novecento. L’esposizione permette anche di approfondire temi sviluppati dal naturalista Matteo Serafini legati all’ecologia del comportamento del lupo, al suo complesso sistema di comunicazione e ai processi di ripopolamento naturale di questa specie in Italia e in particolare nell’area ligure. In occasione della mostra si svolgono attività rivolte ai bambini, con letture di fiabe e la possibilità di partecipare a un concorso a premi visitando l’esposizione e lasciando il proprio disegno di un lupo, oltre ad approfondimenti a cura di esperti di fotografia, biologia e archeologia per scoprire storie e curiosità su questo animale.
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MOSTRE • LUPO A sinistra: l’imbocco della grotta di Font-de-Gaume (presso Les-Eyzies-deTayac, in Dordogna, Francia), uno dei piú importanti siti di arte rupestre paleolitica con pannelli risalenti al Maddaleniano (18-10 000 anni fa). In basso: l’abate Henri Breuil rinvenne a Font-de-Gaume la piú antica rappresentazione di un lupo. Oggi di questa pittura paleolitica, ben leggibile nell’acquerello del grande archeologo (in basso), rimangono solo pochi tratti delle orecchie appuntite e delle zampe anteriori, in quanto il resto del corpo è quasi totalmente ricoperto da concrezioni di calcite.
velli datati tra 13 000 e 11 000 anni fa nella Caverna delle Arene Candide, importante giacimento del Ponente ligure, noto a livello internazionale per la ricca sequenza stratigrafica, che ha registrato attività umane e cambiamenti ambientali a partire da oltre 30 000 anni fa fino all’età bizantina.
FORZA E PROTEZIONE Oltre a un interesse esclusivamente venatorio e quindi di tipo alimentare, l’uomo ha avuto nei confronti del lupo anche un’attrazione e un legame dovuti al significato rituale di forza e protezione, che veniva riconosciuto all’animale quale «spirito guardiano», forse proprio in virtú della sua abilità predatoria. Tali motivi spiegherebbero il ritrovamento in diversi siti archeologici del Paleolitico Superiore europeo di denti di lupo forati, trasformati in ciondoli per collane, prova di un’elaborazione culturale con l’attribuzione di particolari accezioni a questa specie. La piú antica raffigurazione di un lupo risale a 14 000 anni fa. Si tratta della pittura su una parete di roccia nella grotta di Font-deGaume, ubicata in Dordogna (Francia) nei pressi di Les Eyzies68 a r c h e o
Le prove archeologiche della diffusione in Eurasia dell’addomesticamento del cane sulla base dei recenti studi di Laurent Frantz dell’Università di Oxford (Palaeogenomics and Bio-Archaeology Research Network). La mappa rappresenta l’origine geografica e l’età dei piú antichi resti di cane ritrovati e suggerisce la presenza di una doppia area di origine per il processo di domesticazione avvenuto in modo indipendente a est e a ovest, con uno spostamento mediato dall’uomo a seguito di migrazioni di comunità neolitiche a partire da almeno 6400 anni fa.
de-Tayac, aperta al pubblico per piccoli gruppi. La caverna conserva pitture rupestri policrome e incisioni risalenti al periodo Maddaleniano (18-10 000 anni fa), scoperte nel 1901 e studiate dall’archeologo francese Henri Breuil (18771961). A oggi nel sito sono state registrate 230 immagini, che includono rappresentazioni di oltre 80 bisonti, 40 cavalli e 23 mammut.
LA SEPOLTURA DI OBERKASSEL Nel 1914 i lavoratori della cava di pietra di Oberkassel (Bonn, Germania) scoprirono due scheletri umani sepolti insieme ad alcune ossa di cane. Datata a 14 000 anni fa, la tomba documenta il piú antico esempio di deposizione sepolcrale in Europa di questo animale domestico. Nella sepoltura si trovavano un uomo e una donna, cosparsi di polvere rossa di ematite con alcune offerte rituali, tra cui uno spillone in osso decorato con una testa di animale ritrovato vicino al capo della
donna e una scultura realizzata in palco d’alce, probabilmente un propulsore per giavellotti. L’uomo aveva circa 40 anni di età, mentre la donna era piú giovane (20-25 anni). Le analisi condotte sui loro scheletri hanno rivelato che negli ultimi mesi di vita mangiarono frutti, bacche, pesce e carne. L’esame del DNA mostra che essi erano imparentati, ma non fratelli. La presenza del cane a fianco dei due individui testimonia l’importanza del ruolo di questo animale in una comunità di cacciatori-raccoglitori nelle ultime fasi del Paleolitico. Piú enigmatiche appaiono invece le impronte lasciate al suolo nella Grotta Chauvet nel Sud della Francia (Vallon-Pont-d’Arc) da un canide che sembrano seguire le orme lasciate da un bimbo paleolitico entrato nella cavità 26 000 anni fa circa. Queste tracce animali, ancora in corso di studio per accertare se siano contemporanee o meno al giovane, hanno tuttavia caratteristiche piú simili ai canidi domesti-
ci che non ai lupi, in quanto le dita mediane delle zampe sono relativamente piccole.
CANI E PRIMI ALLEVATORI Con l’avvento del Neolitico, a partire da 12 000 anni fa nel Vicino Oriente, il sorgere della pratica dell’allevamento nelle comunità stanziali determinò un profondo cambiamento nel rapporto tra uomo, lupo e cane. La necessità di difendere le greggi e gli abitati dal predatore, portò queste popolazioni a rafforzare la loro unione con il cane domestico, che divenne cosí un fido aiuto e collaboratore. In Europa numerosi i siti archeologici hanno restituito ritrovamenti di cani al seguito delle prime comunità di agricoltori-allevatori, che spostandosi dal Mediterraneo orientale giunsero a colonizzare dapprima la nostra Penisola e nel giro di due millenni arrivarono nelle isole britanniche e nell’area scandinava. Tra i piú importanti siti italiani che documentano l’avvio della neolia r c h e o 69
MOSTRE • LUPO
tizzazione, particolarmente rilevante è la già citata Caverna delle Arene Candide a Finale Ligure. Le ricerche hanno qui evidenziato la presenza di resti ossei sia di lupo sia di cane, ma con significative differenze quantitative tra le due specie, a seconda dei periodi di frequentazione della cavità da parte dell’uomo durante il Medio Olocene, tra 8000 e 5000 anni fa. Il lupo è attestato dal Neolitico Antico (7800-7000 anni fa) fino alla seconda fase del Neolitico Medio (6500-6200 anni fa) per poi scomparire nei periodi piú recenti. Il cane si diffonde invece agli inizi del Neolitico Medio (7000-6500 anni fa) e diventa molto frequente dal Neolitico Recente (6200-5600 anni fa), quando l’uomo intensifica l’allevamento dei caprovini per la produzione di carne e latte. In questa caverna, usata dai primi gruppi di agricoltori come abitazione temporanea e stalla, sono stati rinvenuti anche numerosi escrementi fossili di canidi (coproliti) nei livelli del Neolitico medio, quando il cane era ormai divenuto definitivamente compagno del pastore per la custodia delle greggi. Una delle principali differenze tra A destra: la mandibola di cane trovata nella sepoltura di una coppia di individui del Paleolitico Superiore a Oberkassel (Germania), che attesta la piú antica presenza dell’animale domestico in Europa. Nella pagina accanto: disegno ricostruttivo della coppia e del cane di Oberkassel. 70 a r c h e o
lupo e cane è data dall’alimentazione. Nella dieta del cane è sempre stato presente il cibo offerto dall’uomo – in genere i suoi scarti – e quindi questo animale ha adeguato nel corso del tempo il proprio processo digestivo a quello tipico dell’alimentazione umana. Rispetto al lupo, il cane digerisce meglio i carboidrati, poiché possiede geni destinati al metabolismo dell’amido molto piú attivi, che gli consentono di assimilare alimenti a base di cereali senza problemi. Negli escrementi fossili ritrovati nei livelli neolitici della Caverna delle Arene Candide si sono conservati polline di grano e parassiti che infestavano granaglie e farine di frumento, in particolare un coleottero (calandra del grano) e un acaro (possibile attribuzione a Tarsonemus granarius). La presenza di queste tracce testimonia come il cane in Liguria condividesse con l’uomo lo stesso cibo (pane, gallette e zuppe) a partire da circa 7000 anni fa.
UN MITO ROMANO Con il passaggio all’età storica, già all’alba della civiltà romana, il lupo continua a essere un animale ben presente nel pensiero delle comuni-
tà, acquisendo addirittura un ruolo primario a livello mitologico. Infatti, secondo la leggenda il re di Alba Longa, Amulio, usurpatore del fratello Numitore a capo della confederazione dei popoli latini, condannò a morte la nipote Rea Silvia, madre dei gemelli Romolo e Remo. I bimbi furono consegnati a due schiavi con l’ordine di metterli in una cesta da affidare alla corrente del fiume Aniene. La cesta si arenò in una pozza d’acqua sulla riva del Tevere, tra Palatino e Campidoglio, nei pressi di una grotta che prese poi il nome di «Lupercale». Attirata dai loro vagiti, una lupa raggiunse i neonati e si mise ad allattarli. In seguito i gemelli furono cresciuti da un pastore di nome Faustolo, il quale, insieme alla moglie Acca Larentia, decise di crescerli come suoi figli. Alcune interpretazioni identificano Acca Larentia con la «lupa», parola che in latino significa anche prostituta (da cui, «lupanare», luogo dove si svolge la prostituzione). I bambini crebbero inizialmente nella capanna di Faustolo e Acca Larentia, situata sul Palatino. Divenuti adulti, i gemelli tendevano spesso imboscate per rubare il bottino di banditi, dividendo poi i beni
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MOSTRE • LUPO
recuperati con i pastori. Un giorno, però, furono essi stessi a essere assaliti dai briganti. Remo venne cosí catturato e condotto di fronte al re Amulio con l’accusa di furto, ma il re riconobbe il nipote che pensava morto. Nel frattempo, Faustolo aveva raccontato a Romolo delle loro origini e del sangue reale. Romolo radunò allora un gruppo di compagni e si diresse da Amulio, raggiunto da Remo, che era stato intanto liberato da Numitore. Amulio venne cosí ucciso e Numitore ritornò legittimo re di Alba Longa. Romolo e Remo lasciarono Alba Longa e si recarono sulla riva del Tevere per fondare la nuova città di Roma, nei luoghi dove erano cresciuti. Romolo scelse il Palatino e Remo l’Aventino. I rispettivi segua-
ci dei due gemelli proclamarono re l’uno e l’altro contemporaneamente. Ne nacque una discussione e dal rabbioso scontro a parole si passò al sangue: Remo, colpito nella mischia, cadde a terra. In questo modo Romolo s’impossessò da solo del potere e la città appena fondata prese il nome del suo fondatore. Il mito racconta, infatti, che fu proprio Romolo a fondare la città di Roma il 21 aprile 753 a.C.
I VELITES Proprio per il significato simbolico connesso al mito di fondazione della capitale, le legioni dei soldati romani avevano insegne composte da un’asta di legno o di metallo, su cui era appeso un drappo generalmente color porpora, sulla cui
sommità vi era una piccola statua in metallo raffigurante l’emblema della compagnia, che spesso rappresentava una lupa. Il lupo compare nell’esercito romano anche attraverso i Velites, soldati di fanteria leggera dell’epoca repubblicana, a partire dal III secolo a.C. Il veles era uno specialista e costituiva la prima linea dell’esercito schierato in battaglia. Questo soldato era ricoperto, dalla testa fino al dorso, da una pelle di lupo scuoiata ma interamente conservata, coda e zampe comprese. Gli arti anteriori del lupo venivano allacciati sul petto del soldato e il muso infisso nell’elmo, che conferiva loro un temibile aspetto. L’equipaggiamento del veles consisteva in una leggera armatura in cuoio, un piccolo scudo di legno di forma rotonda, una spada e alcuni giavellotti di dimensioni ridotte.
IL LUPO NEL MEDIOEVO Durante il Medioevo, il lupo ha assunto molti dei suoi aspetti negativi, di animale mostruoso, feroce, legato al Male e al Demonio. Secondo le credenze popolari, sostenute dalla Chiesa, l’animale era divoratore di uomini, in possesso di poteri sovrannaturali tra cui la fascinatio, ossia la capacità di togliere la parola a chi lo guardava. Celebre è il racconto di Tommaso da Celano (1200-1265) su un episodio della vita di Francesco d’As-
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A sinistra: la copertina della Domenica del Corriere del 27 maggio 1939, che evoca un fatto di cronaca nera di cui il lupo fu protagonista. In basso: francobollo della Repubblica di Turchia emesso nel 1930 raffigurante «il leggendario fabbro e il suo lupo grigio», personaggi spesso richiamati dalla mitologia delle popolazioni turche.
sisi (1182-1226). Viene infatti ricordato come nella città di Gubbio, dove san Francesco visse, «apparí un lupo grandissimo, terribile e feroce, il quale non solamente divorava gli animali, ma eziandio gli uomini, in tanto che tutti i cittadini stavano in gran paura (...) E santo Francesco gli parlò cosí: “Frate lupo, tu fai molti danni in queste parti, e hai fatti grandi malifici, guastando e uccidendo le creature di Dio sanza sua licenza, e non solamente hai uccise e divorate le bestie, ma hai avuto ardire d’uccidere uomini fatti alla immagine di Dio; per la qual cosa tu se’ degno delle forche come ladro e omicida pessimo; e ogni gente grida e mormora di te, e tutta questa terra t’è nemica. Ma io voglio, frate lupo, far la pace fra te e costoro, sicché tu non gli offenda piú, ed eglino ti perdonino ogni passata offesa, e né li uomini né li cani ti perseguitino piú”». La tradizione vuole che, sentite queste parole, il lupo chinò il capo e accettò quanto il santo lo invitava a fare. Nel Livre de la Chasse (Libro di cac-
nato che venne accudito e allevato da una lupa dal manto grigio-azzurro, chiamata Asena. Divenuto un giovane vigoroso, la lupa si accoppiò con lui, dando vita a creature metà lupo e metà uomo da cui poi discesero i Turchi. Essi si divisero in molte tribú che, memori delle loro origini, conquistarono la Cina per vendetta. Ancora oggi, tra le etnie turche, soprattutto in Mongolia, il lupo è visto come portatore di fortuna, specialmente per i maschi. È suggestivo notare come a distanza di migliaia di chilometri e in due distinte epoche si ritrovino assonanze nei miti di fondazione di due civiltà cosí diverse, l’impero romano e i popoli delle steppe, dove una lupa è responsabile della salvezza dei padri fondatori, che dalla propria mitica madre trassero vigore, coraggio e capacità di guida del «branco».
cia) realizzato tra il 1405 e il 1410 da Gaston Phoebus, conte di Foix, molte miniature mostrano la ferocia dei lupi e gli stratagemmi usati per catturarli e ucciderli.
MITI DELL’ASIA CENTRALE Come già accennato, una delle aree di diffusione originaria del lupo e di prima domesticazione è stata l’Asia centrale. In queste regioni l’animale è perciò considerato sacro, tanto che gli sciamani turchi credevano di discendere dai lupi ed esso occupa un ruolo centrale nella mitologia dei popoli turcomongoli. Un mito narra di un fabbro, guidato da un lupo grigio, che entrò in una caverna e indicò di aprire un varco facendo fondere un filone metallifero all’interno della roccia per liberare la sua tribú imprigionata in una valle sperduta nella terra dei Turchi Celesti. Un’altra leggenda racconta come nella Cina del Nord un piccolo villaggio venne distrutto da alcuni soldati e la popolazione deportata. Tra le case fu dimenticato un neo-
DOVE E QUANDO «In bocca al lupo! Un antico predatore tra archeologia, storia e leggende» Finalborgo (Savona), Museo Archeologico del Finale fino al 23 settembre Orario martedí-domenica, 9,00-12,00 e 14,30-17,00 Info tel. 019690020; www.museoarcheofinale.it a r c h e o 73
TECNOLOGIA • LE DIGHE/3
DATEMI UN ARCO...
...E FERMERÒ LE ACQUE! SI POTREBBE – SCHERZOSAMENTE – SINTETIZZARE COSÍ LA MESSA A PUNTO, DA PARTE DEGLI INGEGNERI ROMANI, DELLA VERSIONE PIÚ EFFICIENTE DELLE DIGHE. UN MODELLO REPLICATO CON SUCCESSO IN TUTTE LE PROVINCE DELL’IMPERO di Flavio Russo
L
a competenza dei Romani nell’idraulica è ben nota, meno il fatto che alcune loro realizzazioni sono tuttora in servizio, come vari acquedotti e, piú sorprendentemente, anche piú di una diga. Fra queste ultime se ne distinguono a gravità di notevoli dimensioni, prima fra tutte quella detta «di Proserpina», che si trova a circa 5 km da Mérida (l’antica Emerita Augusta), in Spagna, e che venne cosí ribattezzata, nel Settecento, dopo il ritrovamento di una lapide
sulla quale si poteva leggere un’invocazione alla dea suddetta. Strutturalmente, la diga di Mérida fu costruita con contrafforti e paramento in muratura a grandi blocchi di granito con rilevato in calcestruzzo e terra, il tutto insistente su di un affioramento roccioso ubicato nell’alveo del corso d’acqua da sbarrare. L’opera presenta una pianta a salienti, con i vertici orientati verso la provenienza del flusso, per meglio contrastarne la spinta. La sua lunghezza al coronamento tocca i 230
m, con un’altezza al centro di 18 m e uno spessore murario, sempre nel coronamento, di quasi 4 m, che salgono a 18 alla base, rinforzata a valle da un terrapieno a sua volta di 60 m circa. A monte, invece, l’estradosso è gradonato e rinforzato da 9 poderosi contrafforti, in grado perciò di contenere un invaso di ben 3,5 milioni di metri cubi. Due sono gli sfioratoi, tramite i quali le acque in eccesso vengono allontanate per mantenere il livello d’invaso massimo entro limiti
La diga detta «di Proserpina», presso Mérida, in Spagna. L’opera, cosí chiamata all’indomani del ritrovamento di una lapide recante un’invocazione alla dea, contribuiva al rifornimento idrico della città di Emerita Augusta. a r c h e o 75
TECNOLOGIA • LE DIGHE/3
di assoluta sicurezza. Tramite due opere di presa poste a valle e allacciate all’invaso mediante una galleria e una canalizzazione di 10 km circa, si conduceva l’acqua alla città di Mérida. Altrettanto imponente è la diga di Cornalvo, anch’essa a gravità, nella provincia di Badajoz, in Estremadura, sempre in Spagna. Raggiungeva un’altezza massima di 21 m circa, con uno sviluppo al coronamento di oltre 220 m e una larghezza alla base di oltre 75. Un’opera di presa turriforme, in ottime condizioni di conservazione, è ancora in funzione, collegata al corpo della diga tramite una passerella oggi in ferro, ma nell’antichità in muratura su archi. Alla base della torre di presa erano alloggiate saracinesche e tubature che, attraverso il corpo della diga, contribuivano a rifornire d’acqua la
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città di Mérida. In caso di piene straordinarie, uno sfioratoio naturale provvedeva a smaltire le acque in eccesso, fino a lasciare l’invaso al massimo della sua capienza, pari a circa 28 milioni di metri cubi.
ECONOMICHE E AFFIDABILI Al di là di queste significative sopravvivenze, che fanno parte di una tipologia talmente diffusa tra il I e il II secolo d.C. da far contare, nella sola Spagna, oltre una cinquantina di dighe romane, è facile imaginare quante ve ne fossero nel resto dell’impero. Tra quelle che s’imposero per la loro concezione avanzata, indiscusso vertice dell’ingegneria idraulica romana, spiccano le dighe ad arco, una tipologia tuttora fra le piú adottate per convenienza economica e affidabilità strutturale.
Le dighe a gravità, o di sbarramento, erano di logica deduzione e di facile costruzione, dal momento che bastava ammassare grandi quantità di terra e pietre di riporto e la loro resistenza derivava dall’inerzia della massa, ma proprio per tale ragione risultavano meno soddisfacenti in termini di costi e tempi di costruzione. Diverso era il caso delle dighe ad arco, la cui resistenza era assicurata dalla capacità dell’arco di scaricare la spinta idraulica sui fianchi e sulle spalle, anche quando relativamente sottile. Il calcestruzzo, inoltre, riuscí a dare all’insieme una consistenza monolitica accrescendone la resistenza pur attenuandone lo spessore e quindi i costi. Rari sono gli esempi a oggi noti di questa classe di manufatti, e si trovano per giunta in precarie condizioni di leggibilità, come la diga di
DIGA AD ARCO DI GLANUM
Kasserine in Tunisia o di Monte Novo in Portogallo. Quasi a ribadire la suddetta rilevanza tecnica, che garantiva ingentissimi risparmi a parità di volume di invaso, sta un singolare brano di Procopio di Cesarea, che cosí descrisse, reputandola una straordinaria novità, una diga del genere, realizzata al tempo dell’imperatore Giustiniano: «Quaranta piedi in circa
In alto: l’invaso della diga di Glanum (Francia), oggi noto come Lac du Peirou. A sinistra: schema planimetrico della diga di Glanum, i cui resti si trovano presso l’odierna Saint-Rémy-deProvence. Nella pagina accanto: la diga di Cornalvo (Spagna).
lungi dal muro esteriore della città, tra que’ due scogli, fra quali scorre il fiume, alzò un argine di giusta altezza e larghezza, le cui estremità, da ogni parte cosí ben legò a quegli scogli, che le acque del fiume, qualunque fosse l’impeto del loro corso, non potessero per di là trovare adito. I periti di tali cose chiamano quell’opera Fratta, od Aride, o con altro vocabolo che meglio piaccia loro usare. Nè tirò già quell’argine in retta linea, a r c h e o 77
TECNOLOGIA • LE DIGHE/3
Gli ingegneri romani seppero sfruttare al meglio le potenzialità dell’arco e del calcestruzzo, applicandone l’utilizzo combinato anche nella costruzione delle dighe ma lo fece torto, affinché la curvatura incontro al fiume piegando, meglio sostenesse la violenza delle acque. Quell’argine poi divise con finestre poste sotto e sopra, onde se per avventura il fiume crescesse improvvisamente, fosse costretto a ristarsi, nè potesse mandar oltre tutta la mole delle sue acque; ma per que’ fori uscendo, a poco a poco cali; nè faccia violenza alle mura. E difatto in quello spazio di quaranta piedi, che sta tra l’argine e il muro esterno, vien la corrente senza violenza veruna, e alla solita apertura del muro convenientemente scendendo, rimane accolta dal canale. In fine, tolte via le porte, che improvvisamente il fiume avea aperte, il posto che da prima occupavano chiuse con grandi macigni, poichè il sito ivi piano dava a ciò facile adito al fiume ristagnante; e la 78 a r c h e o
porta collocò in luogo alto presso la parte delle mura poste sul precipizio, ove il fiume non poteva alzarsi. Cosí l’Imperador nostro fece eseguire» (da un volgarizzamento dell’opera Degli edifici, pubblicato a Milano nel 1828).
L’UNIONE FA LA FORZA Tuttavia, la diga ad arco era stata inventata e adottata dai Romani d’Occidente già mezzo millennio prima e, subordinandone la costruzione all’impiego del calcestruzzo, consentí opere di straordinaria saldezza e longevità. I Romani non inventarono né l’arco, né il calcestruzzo, ma portarono entrambi al massimo rendimento dopo la loro intima fusione, padroneggiando le ingenti potenzialità dell’uno e
dell’altro, nella consapevolezza degli enormi carichi che riuscivano a sopportare. Intorno al I secolo d.C. qualche tecnico pensò di sfruttare l’abbinamento nel settore delle grandi costruzioni idrauliche: erigendo una spessa volta adagiata trasversalmente nell’alveo di un corso d’acqua serrato in una stretta gola e portandone le estremità a insistere contro le opposte pareti, in modo da rivolgere la convessità verso monte e la concavità verso valle, si sarebbe sbarrato il deflusso dell’acqua. In questo caso il carico sulla struttura sarebbe stato rappresentato dalla spinta esercitata dalla massa d’acqua che, arrestata, formava un ampio bacino di raccolta, un vero lago artificiale.
Stando agli attuali ritrovamenti e interpretazioni, la piú antica diga ad arco fu quella di Glanum in Provenza il cui sito fu talmente ben scelto da far utilizzare i resti della costruzione romana come basamento per un analogo sbarramento ottocentesco, tuttora in servizio. La diga di Glanum è indicata anche come diga del Vallon de Baume, e l’invaso, a sua volta, come Lac du Peirou. L’opera era destinata a rifornire l’abitato romano di Glanum, i cui resti si rintracciano oggi presso la città di Saint-Rémy-deProvence nel Sud-Ovest della Francia. La gola in cui scorreva un piccolo torrente, è ubicata tra le colline di Les Alpilles, poco discosta, verso mezzogiorno, dall’antica Glanum, ed era compresa nel territorio della Gallia Narbonensis. La costruzione sembra potersi ascrivere al I secolo a.C. e i suoi resti furono studiati nel 1763 da Esprit Calvet, che ne fece oggetto di un’attenta pubblicazione quando risultavano non solo visibili, ma ancora ben identificabili correttamente. Stando ai suoi rilievi, la diga era composta di due archi orizzontali paralleli, ciascuno di 1 m circa di spessore con conci di pietra da taglio tenuti in sede con grappe, separati da una sorta di intercapedine di 1,5 m, riempita di terra di riporto e pietrame, ma forse piú verosimilmente di
calcestruzzo. Le estremità dell’arco erano inserite in alloggiamenti scavati nella roccia delle opposte pareti. Quanto alle dimensioni, misurava 6 m al coronamento con uno spessore complessivo di circa 3,5 m, costituendo perciò un indubbio archetipo tipologico. I suoi ruderi restarono abbastanza evidenti fino al 1891, quando finirono inglobati nella nuova diga.
ACQUA PER LE VILLE Di poco piú recente è un’altra diga ad arco, questa volta in Italia, e che, pur essendo di modeste dimensioni, si può ancora vedere, sebbene alla stato di rudere, sull’isola di Ponza (Latina), dove fu probabilmente dettata dalla scarsità d’acqua per le residenze patrizie. L’individuazione e la corretta interpretazione dei suoi resti si devono al certosino lavoro del professor Leonardo Lombardi, che divulgò questa sua significativa scoperta archeologica in vari scritti. Sebbene l’isola di Ponza abbia qualche sorgente, la sua trasformazione in base navale – o, forse, piú verosimilmente in porto di appoggio per le navi di Sesto Pompeo, nel corso della sua ostilità contro Roma –, ne dimostrò l’insufficienza. Le navi da guerra dell’epoca, infatti, avendo un gran numero di uomini ai remi, richiedevano ri-
Un’immagine dei resti (nella pagina accanto) e il rilievo planimetrico (qui sopra) della diga romana individuata sull’isola di Ponza (Latina). Lo sbarramento intercettava le acque del torrente Giancos.
fornimenti idrici di cospicua entità, incompatibili con le scarse disponibilità. Forse fu per la grave carenza che, oltre alla costruzione di un vero porto, si realizzò quindi anche un piccolo acquedotto, conservando al contempo le acque meteoriche mediante numerose cisterne. Ma anche cosí, nei decenni successivi, cessata ormai la frequentazione navale, quelle riserve risultarono insufficenti, soprattutto dopo l’insediamento sull’isola di alcune ville patrizie. Non può escludersi che nella circostanza tra i lavori di adeguamento foraneo e di tesaurizzazione dell’acqua vi fosse stata pure la costruzione di un invaso, che mediante una piccola diga consentisse di accumulare le acque di un canalone naturale. Sul finire dell’Ottocento, tra i ruderi delle opere idrauliche romane, infatti, fu identificata una diga eretta trasversalmente al corso del torrente Giancos, quasi in prossimità della sua foce, ad appena una cinquantina di metri dal mare. Si tratta di un manufatto in calcestruzzo che, nonostante il cattivo stato di conservazione e l’interramento del bacino a monte, risulta ancora agevolmente identificabile. La struttura, originalissima per l’epoca, aveva uno sviluppo al coronamento di 32 m circa, con un’altezza compresa fra i 12 e i 14 m, e uno spessore per quanto ancora osservabile di 6 m circa. La diga consentiva la formazione di un invaso di circa 45 000 metri cubi, un’entità modesta nell’ambito delle dighe coeve, ma significativa se riferita alla nuova tipologia. Dal punto di vista strutturale, la diga di Ponza insiste su di uno strato di origine vulcanica sostanzialmente impermeabile e conserva ancora una galleria interna alta 3 m circa e larga 0,90, connessa a due pozzetti che verosimilmente fungevano da troppo pieno dell’invaso. (3 – fine; le prime due puntate sono state pubblicate nei nn. 400 e 401, giugno e luglio 2018) a r c h e o 79
SPECIALE • IDOLI
IDOLI ENIGMATICI SGUARDI DAL PASSATO
Fin dalla preistoria l’uomo ha sentito la necessità di rappresentare la figura umana: con i graffiti e le pitture murali, ma anche in forma tridimensionale. Da quei lontanissimi tempi, fin dall’età paleolitica, ci è giunta un’immensa quantità di statuette realizzate in diversi materiali riproducenti tratti umani. Quale fosse il loro significato – valore simbolico, religioso o di testimonianza, espressione di concetti metafisici, funzione rituale o «politica» – e quali soggetti realmente rappresentassero, rimane ancora un mistero. Una mostra allestita a Venezia, a Palazzo Loredan a partire dal 15 settembre, propone un viaggio affascinante nel tempo e nello spazio: è la prima volta che sono messe a confronto opere raffiguranti il corpo umano provenienti dall’Oriente e dall’Occidente, riferibili a un arco cronologico compreso tra il 4000 e il 2000 a.C. 100 straordinari reperti – alcuni eccezionali per l’importanza storicoscientifica e la rarità – tracciano il percorso attraverso un ampio spazio geografico, che si estende dalla Penisola Iberica alla Valle 80 a r c h e o
dell’Indo, dalle porte dell’Atlantico fino ai remoti confini dell’Estremo Oriente. L’epoca racchiusa dagli oggetti esposti è quella della grande transizione in cui i villaggi del Neolitico si evolvono a poco a poco nelle società urbane dell’Età del Bronzo. Un epoca, quella della cosiddetta «Rivoluzione neolitica», che segna il passaggio da clan e Nella pagina accanto: idolo placca in ardesia, da Vega del Guadancil (Garrovillas de Alconétar, Cáceres, Spagna). Alt. 16,30 cm, largh. 7,9 cm. Calcolitico, IV mill. a.C. Madrid, Museo Arqueológico Nacional.
tribú a società piú complesse, che vede l’avvento di nuove tecnologie e della lavorazione dei metalli, l’affermarsi delle prime forme di scrittura in diversi centri, l’avvio di reti commerciali e dei relativi traffici anche tra popoli molto distanti. Favorendo, cosí, i rapporti e gli scambi di merci e materiali, di idee e forme espressive. In questa pagina: idolo oculare quadruplo in pietra verdastra (steatite?), dall’Asia occidentale. Alt. 2 cm. 3300-3000 a.C. Parigi, Collezione privata.
Tutti gli oggetti rirprodotti in questo Speciale saranno esposti nella mostra «Idoli. Il potere delle immagini», in programma a Venezia, in Palazzo Loredan, dal 15 settembre al 20 gennaio 2019.
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SPECIALE • IDOLI
UN MONDO IN TRANSIZIONE di Annie Caubet
L
a mostra «Idoli» – dal greco eídolon che significa immagine – propone ai visitatori un viaggio nel tempo e nello spazio per scoprire le raffigurazioni tridimensionali del corpo umano create da artisti che vissero e lavorarono nel periodo compreso tra il 4000 e il 2000 a.C. I reperti esposti provengono da una vasta area geografica che si estende da Oc-
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Figura steatopigia stante, dall’Arabia sud-occidentale. Alt. 22 cm. IV mill. a.C. Londra, Collezione privata.
cidente a Oriente, dalla Penisola Iberica alla valle dell’Indo, dallo stretto di Gibilterra ai confini dell’Estremo Oriente. Il periodo preso in esame fu una fase di transizione, durante la quale i villaggi di agricoltori del tardo Neolitico si trasformarono nelle società urbane dell’Età del Bronzo. L’organizzazione familiare e tribale lasciò il posto alle società controllate dallo Stato; l’introduzione di nuove tecnologie, lo sviluppo della metallurgia e l’invenzione della scrittura accompagnarono i cambiamenti economici. Le reti commerciali, create per facilitare la circolazione delle materie prime esotiche, collegavano popoli lontani attraverso rotte marittime e terrestri; gli artigiani itineranti diffondevano tecnologie, merci e idee.
Figura stante steatopigia, dalle Cicladi. Conchiglia, alt. 5,7 cm, largh. 3,3 cm. Neolitico, tardo V mill. a.C. Regno Unito, Collezione privata.
La rivoluzione urbana portò a nuove forme di rappresentazione figurativa Il tipo piú antico esposto in mostra è l’onnipresente figura steatopigia, la cosiddetta «Grande Madre», ereditata da una lunga tradizione neolitica. Nuda e sontuosamente voluttuosa, occupò da sola lo scenario iconografico di gran parte del mondo antico fino all’arrivo di nuove immagini, alla fine del IV millennio a.C.
UNA NUOVA ARTE Quando, tra il 3300 e il 3000 a.C., gran parte del mondo antico fu teatro della rivoluzione urbana che portò alla nascita delle prime città, la profonda trasformazione sociale ed economica si tradusse in cambiamenti radicali nel campo delle rappresentaa r c h e o 83
SPECIALE • IDOLI A sinistra: figura femminile geometrica, dalla necropoli a domus de janas di Porto Ferro (Sassari). Marmo, alt. 30 cm, largh. 11,5 cm. Antica Età del Bronzo. Cagliari, Polo Museale della Sardegna, Museo Archeologico Nazionale di Cagliari.
zioni visive. I concetti metafisici continuarono a essere incarnati in immagini tridimensionali, ma l’ideale steatopigio fu abbandonato a favore di visioni del tutto nuove. Il contrasto tra le due fasi può essere osservato con particolare chiarezza negli esemplari realizzati in periodi successivi nella stessa area, come la Sardegna o le Cicladi. Si affermarono due tendenze opposte e complementari: una portata all’astrazione e alla schematizzazione estrema; l’altra realistica, ma stemperata da una tendenza all’idealizzazione. Entrambe erano spesso adottate contemporaneamente. Composte con volumi netti e geometrici, le immagini astratte non sono tali nel senso dell’estetica del Novecento. Piuttosto, sono visioni schematiche del corpo, in cui alcune parti sono assenti e altre accentuate, soprattutto gli occhi e il triangolo pubico, secondo una sorta di sineddoche (pars pro toto) visiva. Gli occhi, la sede della vita e dell’identità, 84 a r c h e o
erano – anche in contesti diversi – l’elemento principale delle statuette modellate nella penisola iberica, in Egitto, a Cipro, in Anatolia, in Siria e in Mesopotamia. Talvolta il triangolo pubico compare in modo discreto sul bordo di un disco completamente astratto, come negli idoli circolari di Kültepe o in quelli cicladici a forma di violino. In altri casi finisce con il rappresentare il corpo intero, come negli idoli di terracotta dell’Asia centrale composti da un triangolo dotato di occhi e seni. Solitamente, queste immagini astratte sono di genere femminile, anche se talvolta contengono un’altra sineddoche visiva: nelle immagini «femminili falliche», tutto il corpo o solo alcune parti, la testa e le braccia, assumono la forma di un pene eretto. Cipro e l’Anatolia crearono capolavori raffiguranti questo ideale androgino: si voleva riprodurre una natura irrealisticamente completa? In contrasto con quest’estetica astratta, all’incirca nello stesso periodo, alla fine del IV millennio a.C., si venne affermando una visione naturalistica ma idealizzata del corpo umano. Uno dei centri principali di questa tendenza si trovava nella Mesopotamia meridionale. La cultura di Uruk, cosí chiamata dal nome della città di GilFigura cruciforme, da SouskiouVathyrkakas (Cipro). Picrolite, alt. 12,5 cm. Calcolitico medio, 3400-2800/2700 a.C. Nicosia, Museo di Cipro.
Figura cruciforme, da KissonergaMosphilia (Cipro). Picrolite, alt. 7 cm. Calcolitico medio, 3400-2800/2700 a.C. Nicosia, Museo di Cipro.
Figura cruciforme, da Salamiou-Anephani (Cipro). Picrolite, alt. 10,5 cm. Calcolitico, 3400-2800/2700 a.C. Nicosia, Museo di Cipro.
Nella pagina accanto: figura cruciforme, da Cipro. Picrolite, alt. 9,4 cm, largh. 6,5 cm. Calcolitico. Venezia, Collezione Ligabue.
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SPECIALE • IDOLI
COME E DOVE NASCONO LE PRIME RAFFIGURAZIONI? Cinquecentomila anni fa, a Trinil, nell’isola di Giava, un esemplare maschile o femminile di Homo erectus incideva con grande cura una linea a zigzag su una valva di conchiglia. Circa cinquantamila anni fa l’Uomo di Neandertal, evolutosi a partire da trecentomila anni fa dagli erectus africani arrivati in Europa, lasciava incisioni perpendicolari nella grotta di Gorham, a Gibilterra. Piú o meno contemporaneamente, poco piú a nord, motivi astratti venivano dipinti con ocra rossa sulle pareti di grotte spagnole come quelle di La Pasiega, Maltravieso, Ardales e forse El Castillo, ma anche nella grotta delle Meraviglie a Rocamadour, in Francia. I Neandertal furono anche i primi ad adornarsi con ciondoli o collane di denti perforati e a seppellire i propri defunti. In questo lasso di tempo, gli erectus rimasti in Africa avevano continuato a evolversi per dare origine, tra trecentomila e duecentomila anni fa, all’Homo sapiens moderno. Circa ottantamila anni fa, i sapiens tracciano linee perpendicolari su blocchetti di ocra rossa rinvenuti nella grotta di Blombos, in Sudafrica. Ma bisognerà attendere altri quarantamila anni, il tempo necessario perché le loro facoltà
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mentali divengano piú complesse, affinché gli uomini eseguano le prime rappresentazioni figurative. E lo fanno alle due estremità dell’Eurasia, nell’Europa occidentale da una parte e in Indonesia dall’altra. In Europa occidentale, la raffigurazione fa la sua comparsa sia nelle grotte del Giura Svevo come Hohle Fels o Hohlenstein in Germania, sotto forma di sculture in pietra o in avorio che rappresentano animali e in alcuni casi figure femminili, sia nella grotta Chauvet in Francia. In quest’ultima sono stati dipinti piú di quattrocento animali, ma è presente una sola rappresentazione umana, costituita da un triangolo pubico sormontato da una testa di bisonte. Donne nude con attributi sessuali esagerati e animali saranno per trentamila anni i soggetti preferiti dell’arte preistorica: delle prime sono noti centinaia di esempi (contro le rarissime rappresentazioni maschili), mentre gli animali si contano a decine di migliaia. È lecito pensare che, piú che evocare la «fertilità», queste statuette preistoriche di figure femminili nude esprimessero un modo di concepire la sessualità, senza che ci si possa spingere molto oltre.
A sinistra: figura placca «Red Polished» con due colli, da Deneia (Cipro), contesto archeologico ignoto. Argilla, alt. 28,5 cm. Media Età del Bronzo I, 2000-1850 a.C. Nicosia, Museo di Cipro. A destra: figura placca «Red Polished», da Cipro. Terracotta, alt. 26,2 cm. Prima Età del Bronzo III, 2100-2000 a.C. Nicosia, Museo di Cipro. Nella pagina accanto: disco antropomorfo a forma di testa, da Khirokitia-Vouni (Cipro). Andesite, alt. 11 cm. Neolitico preceramico, VII-VI mill. a.C. Nicosia, Museo di Cipro.
gamesh dove fu inventata la scrittura, estese il proprio dominio su gran parte dell’Asia occidentale e segnò in modo significativo lo sviluppo dell’Egitto alla nascita della civiltà faraonica. Gli artisti della Mesopotamia crearono capolavori di bellezza idealizzata come la cosiddetta «Dama di Warka» (conservata al Museo Archeologico di Baghdad). Una tipologia di statuette femminili nude idealizzate, create intorno alla metà del III millennio a.C., si diffuse nel Levante e in Egitto e rimase estremamente popolare fino alla fine dell’antichità. Depositate nelle tombe e collocate nei templi, queste a r c h e o 87
SPECIALE • IDOLI
Figura femminile con braccia sollevate, dall’Egitto. Argilla cotta dipinta, alt. 26,5 cm, largh. 15,1 cm. Periodo Naqada II, 3450-3300 a.C. circa. Bruxelles, Musée Royaux d’Art et d’Histoire. 88 a r c h e o
statuine probabilmente facevano parte anche del culto domestico. La maggior parte era in argilla cotta, con alcune eccezioni in avorio o pietra.
DONNE IN ATTESA In alto: figura incinta distesa Tipo Spedos tardo, dalle Cicladi. Marmo, alt. 37,2 cm, largh. 8,5 cm. Cicladico antico II, 2500-2400 a.C. Parigi, Collezione privata. A destra: figura incinta distesa Tipo Spedos antico, dalle Cicladi. Marmo, alt. 19,6 cm, largh. 6 cm. Cicladico antico II, 2600-2500 a.C. Regno Unito, Collezione privata.
IL MIRACOLO DELLE CICLADI Il confronto tra l’estetica idealizzata della Mesopotamia e quella delle isole Cicladi, nell’Egeo, non è stato tentato spesso, ma apre nuove prospettive sull’arte dell’Età del Bronzo del III millennio a.C. Gli artisti delle Cicladi sfruttarono al meglio la qualità del marmo locale, cosí come avrebbero fatto i loro successori del periodo classico greco. I tipi iconografici creati intorno al 2800 a.C. resistettero e si evolvettero per diversi secoli: un corpo nudo, le braccia incrociate sulla vita a proteggere la pancia, spesso mostrata in stato di gravidanza. Benché nei musei siano spesso esposte in verticale, queste statuette erano in realtà concepite per essere collocate in posizione supina, con le gambe leggermente piegate, i piedi puntati verso il basso e la testa reclinata all’indietro come a guardare il cielo. Pur rimanendo nei limiti della tipologia, singoli scultori come il prolifico «maestro di Goulandris» o il cosiddetto «maestro di Sutton Place» introdussero innumerevoli variazioni di stile e proporzioni. Le statuette cicladiche venivano depositate nelle tombe probabilmente dopo essere state utilizzate nei luoghi di culto pubblici in occasione di rituali ricorrenti; le ripetute manipolazioni lasciavano tracce di usura e segni di rottura sui pezzi, che spesso venivano riparati con cura. Le statuette cicladiche erano importate e imitate a Creta e in Anatolia. EGITTO, UN MONDO A PARTE L’Egitto ebbe un approccio proprio e originale alla rivoluzione neolitica, come dimostrano le poche statuine aggraziate in argilla dipinta che sono sopravvissute fino ai giorni nostri. Durante il periodo badariano (4300-3700 a.C.) e quello di Naqada (3700-3300 a.C.), uomini e don(segue a p. 92) a r c h e o 89
SPECIALE • IDOLI
L’OCCHIO ERA NELLA TOMBA E GUARDAVA... L´oeil était dans la tombe et regardait… (Victor Hugo, La Conscience, in La légende des Siècles, 1859)
di Pedro Azara
Lui o Lei è sulla mia scrivania mentre scrivo questo saggio. I suoi occhi scavati, neri e penetranti mi «guardano»: occhi o qualsiasi cosa questi buchi profondi siano o vogliano significare. Scrivo, ma con Lui o Lei accanto non sono del tutto a mio agio… Questo essere maschile o femminile è incarnato in piccolo cilindro di pietra bianca. Potrebbe essere rotto: forse era piú grande e raggiungeva i venti centimetri di altezza, piú o meno. Ma questo è – o era – considerato un oggetto o un’immagine? Lui o Lei è un essere vivente o una creatura immortale? Rappresenta un uomo o una donna? Troveremo mai la risposta a queste domande? Ed è davvero importante conoscere questi particolari? Possiamo guardare e considerare questo manufatto nello stesso modo in cui lo facevano i popoli dell’antichità? Fino alla metà degli anni Cinquanta del Novecento la risposta era chiara e sempre la stessa: questa era la rappresentazione della Grande Madre. Ma è davvero cosí? Questo piccolo cilindro scolpito e inciso è un «idolo con occhi» della penisola iberica (la Spagna e il Portogallo di oggi), l’estremità occidentale del Mediterraneo, la porta dell’Atlantico. Risale a un periodo compreso tra il IV e il III millennio a.C. Questi idoli scolpiti in pietre allungate o cilindri di marmo sono caratterizzati da incisioni, come i raggi, a volte cerchi, che circondano i fori sulla sommità del 90 a r c h e o
cilindro e le linee a zigzag tracciate in senso orizzontale o verticale, che sembrano essere un modo semplificato per indicare i capelli lunghi. Nella maggior parte dei casi sono presenti piccole sopracciglia e talvolta linee curve verticali che incorniciano lo sguardo ipnotico di questi due occhi piccoli e rotondi che non si chiuderanno mai. Come avrete notato sto utilizzando termini che indicano parti del corpo di un essere vivente: occhi, sopracciglia, capelli, a volte persino braccia. Ma saranno corretti? Si tratta effettivamente di «idoli»? Il fatto che gli occhi siano simili a quelli delle civette e che le civette fossero il simbolo della dea greca Atena ha spinto gli studiosi a interpretare questi manufatti come immagini o incarnazioni di divinità femminili. Contrariamente agli esseri umani le divinità non dormono mai. Cosí questi manufatti sono stati considerati rappresentazioni del divino. È possibile che fossero o raffigurassero altre creature mortali o immortali? Gli idoli cilindrici hanno un aspetto piuttosto diverso dalle altre statuette del Mediterraneo. Gli idoli-placca grigi di ardesia compongono un grande gruppo di quasi duemila statuine – se di statuine si tratta – trovate nel sud della penisola iberica (Spagna e Portogallo). Sapremo mai cos’erano e cosa rappresentavano questi manufatti? Gli idoli-placca, risalenti al III
millennio a.C. e trovati, come quelli cilindrici, in diversi siti del sud della penisola, sono stati tradizionalmente interpretati come immagini divine: raffiguravano la «Grande Madre», la dea protettrice e pacifica che si suppone fosse adorata da tutte le culture preistoriche del Mediterraneo. Tuttavia, questa lettura convenzionale può, o addirittura deve, essere messa in discussione per una serie di ragioni. In primo luogo, non tutte le placche hanno tratti antropomorfi (mi riferisco ai fori e alle incisioni che indicano gli occhi e, in alcuni casi, alle sopracciglia e alle braccia sollevate ai due lati della placca. Il fatto che gli occhi «intagliati» e uno o due fori sulla sommità possano essere presenti in un unico pezzo sembra indicare, quando i bordi sono consumati, che la placca
potesse essere stata usata o riusata come pendente). È persino possibile che non siano affatto statuette antropomorfe. Talvolta, linee orizzontali dividono la placca in due, a suggerire un corpo antropomorfo articolato. Nella maggior parte dei casi queste incisioni sono adattate alla forma trapezoidale e i motivi decorativi non sembrano essere rappresentativi, non sono né possono essere associati ad alcun tratto antropomorfo. Tuttavia, sono simili alle decorazioni tessili. Rappresentano indumenti? I motivi tessili non erano solo decorativi; erano un modo per registrare dati importanti nella vita di una comunità. Erano una sorta di «prescrittura». Forse misuravano il passare del tempo. E di certo erano simboli identificativi di un gruppo.
Nella pagina accanto: figura a bastoncino con occhi, dalla Penisola iberica. Pietra grigia «caliza», alt. 21,5 cm, largh. 3,5 cm. Calcolitico, IV mill. a.C. Madrid, Museo Arqueológico Nacional. In basso: due idoli placca in ardesia, da Granja de Céspedes (Badajoz,
Spagna). Calcolitico, IV mill. a.C. Madrid, Museo Arqueológico Nacional. A destra, in alto: figura cilindrica con occhi, forse dall’Estremadura. Gesso, alt. 12,75 cm, diam. 6,10 cm. Calcolitico, IV mill. a.C. Madrid, Museo Arqueológico Nacional.
Malgrado la differenza tra l’incisione di una placca e la tessitura di un filato, le due lavorazioni potevano avere la stessa funzione. Placche e tessuti erano segni: rappresentavano i valori condivisi da un gruppo composto da vivi e defunti, antenati ed esseri umani, valori espressi attraverso segni grafici e trasmessi da una generazione all’altra. Forse erano segni d’identificazione e allo stesso tempo registrazioni di avvenimenti passati o del trascorrere degli eventi. Potrebbero rappresentare una divinità protettrice (come sono stati interpretati per anni) e agire come tramite di valori – espressi mediante motivi grafici facilmente riconoscibili in quanto appartenenti a un gruppo – per rafforzare i legami tra i membri passati e presenti di una comunità. Figure protettive? Sicuramente preservavano la memoria di una comunità, in quanto testimonianza di un patrimonio di importanti valori condivisi. Per queste possibili ragioni erano molto piú che semplici «divinità»… a r c h e o 91
SPECIALE • IDOLI
ne venivano rappresentati con organi sessuali espliciti. Al contrario di quanto accadeva nelle culture del Mediterraneo e in Asia occidentale, queste statuette non erano diffuse né erano parte integrante di pratiche rituali. Sono state variamente interpretate come danzatori, figure trionfanti o rappresentazioni di uccelli, ma di queste immagini straordinariamente espressive ci sfuggono il significato, la funzione sociale e l’uso durante i riti funebri. Le statuette tendono a scomparire alla fine del periodo predinastico. Poi, intorno al 30002900 a.C., quando cominciò a costituirsi l’organizzazione controllata dallo Stato che sarebbe diventata la civiltà faraonica, l’ampliamento della rete economica e sociale incoraggiò i rapporti con il Levante e la Mesopotamia. Una statuina nuda rinvenuta a Hierakonpolis, scolpita in lapislazzuli, una pietra importata dall’Afghanistan, dimostra l’ampiezza della rete di scambi e contatti tra l’Egitto e l’Asia. Con lo sviluppo delle società urbane in Mesopotamia e in Egitto alla fine del IV millennio a.C., un profondo cambiamento veicolò l’entrata in scena delle immagini di comuni mortali, esseri umani a tutti gli effetti. Ed eccoli comparire, vivi, nel loro ruolo di adoratori di divinità, a cui sono umilmente devoti. Sono uomini e donne normali, queste ultime non piú l’incarnazione di principi divini femminili. Portano indumenti e ornamenti che ne indicano il ruolo e lo status sociale e la loro identità può essere ribadita da un’iscrizione dedicatoria che ne conserva i nomi per l’eternità.
In alto: figura a forma di violino tipo Beycesultan, dall’Anatolia. Marmo, alt. 16 cm, largh. 7 cm. Antica Età del Bronzo/ Calcolitico, inizi del III mill. a.C. Venezia, Collezione Ligabue. 92 a r c h e o
Nella pagina accanto: figura tipo Kilia, dall’Anatolia occidentale Marmo, alt. 10,3 cm, largh. 3,7 cm. Antica Età del Bronzo III, 3300-3000 a.C. Regno Unito, Collezione privata.
UOMINI-TORO E ALTRE DIVINITÀ Parallelamente agli esseri umani, nel mondo delle immagini compaiono nuovi dèi che, in un capovolgimento del detto biblico, sono creati a immagine e somiglianza dell’uomo. Diverse divinità, ciascuna con una propria personalità e area di competenza, vanno a occupare un posto all’interno di pantheon perfettamente organizzati. Lo sviluppo dell’alfabetismo consentí di mettere per iscritto la mitologia di questi pantheon e le azioni degli dèi. Per essere certi che le immagini divine non si confondessero con quelle di chi le adorava, agli dèi furono assegnati specifici abiti, emblemi e attributi. In Egitto le convenzioni iconografiche fissate all’inizio
IDOLI FEMMINILI ANATOLICI Immagini tridimensionali raffiguranti personaggi di sesso femminile sono documentate in molti siti neolitici dell’Anatolia e l’esempio piú noto è costituito dalla statuetta, rinvenuta a Çatalhöyük, che rappresenta una donna steatopigia, assisa su un trono fiancheggiato da felini. Essa potrebbe rappresentare una divinità, una specie di «Signora delle fiere», oppure anche un personaggio di rango, la cui corpulenza, combinata con il sedile di foggia ricca ed elaborata, potrebbe suggerire la sua condizione sociale elevata. Idoli femminili sono stati prodotti in Anatolia anche nel corso del IV e del III millennio a.C.: le cosiddette statuette Kilia, caratterizzate da un corpo reso schematicamente in forma di violino. Per quanto la maggioranza delle immagini appartenenti a questa tipologia sia stata rinvenuta in Anatolia occidentale, tuttavia, alcuni esemplari sono stati trovati anche nel sito di Kirsehir, in Anatolia centrale, presumibilmente come conseguenza delle relazioni commerciali tra i siti centro-anatolici e quelli delle regioni occidentali.
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SPECIALE • IDOLI
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A destra: Dama dell’Oxus seduta, dall’Iran orientale. Faïence (corpo), calcare (testa), alt. 9 cm, largh. 8 cm. Civiltà dell’Oxus, 2200-1800 a.C. circa. Venezia, Collezione Ligabue. Nella pagina accanto: «Sfregiato» con kilt bianco, dall’Iran orientale. Clorite, calcare, alt. 11,5 cm. Civiltà dell’Oxus, 2200-1800 a.C. circa. Londra, Collezione privata.
Fra gli eroi, ci sono quelli «ibridi», dalla doppia identità, umana e animale dell’era dei faraoni rimasero quasi immutate fino alla fine dell’antichità. In Asia occidentale, le divinità che governavano il cielo e gli inferi si distinguevano dagli esseri umani per via di una speciale corona a forma di tiara con corna e di vari attributi. Vicini alle massime divinità, gli eroi partecipavano all’antico scontro cosmico che garantiva il perpetuarsi del ciclo della natura. Eroi dai «geni ibridi», nel cui corpo si concentrava una doppia identità,
animale e umana: l’Uomo-Toro simboleggiava la forza selvaggia delle montagne che si opponevano alle ricche vallate, alle città e alla civiltà: il Drago dell’Oxus, con il corpo coperto di squame di serpente, era la controparte selvaggia della dea dell’Oxus. Conclude il nostro viaggio nello spazio e nel tempo, un’affascinante statuetta del Belucistan che esemplifica l’enigmatica connessione tra l’Indo e l’arte sumera alla fine del III millennio. a r c h e o 95
SPECIALE • IDOLI
Ci auguriamo che, nel corso di questo viaggio, il lettore abbia potuto percepire la presenza costante delle figure selezionate, il ritmo dei singoli corpi, le variazioni quasi musicali delle immagini, tutte cosí simili eppure assolutamente uniche. Non tutte le culture incontrate nel viaggio dall’Atlantico all’India, tuttavia, sono rappresentate. Alcune civiltà famose per l’arte figurativa sono state escluse perché la loro fioritura ha avuto luogo molto prima dei limiti temporali da noi fissati: per esempio, la Malta del Neolitico o i Balcani, dove già sul fi-
LE PRIME IMMAGINI DI NORMALI ESSERI UMANI L’identità delle prime figure antropomorfe rimane a dir poco ambigua. In generale gli studiosi sono concordi nell’interpretare le statuette femminili come espressione di concetti cosmici e metafisici collegati alla vita, alla morte o al ciclo della natura. Anche le prime immagini di guerrieri con balteo e daga provenienti dall’Arabia o dalle Cicladi erano ambigue in termini di identità. Non è chiaro infatti se rappresentassero veri uomini di potere oppure esseri sovrumani, forse l’equivalente maschile delle figure femminili nude. Con lo sviluppo delle società urbane A sinistra: ascia con figura maschile seduta, dall’Iran orientale. Civiltà dell’Oxus, 2200-1800 a.C. circa. Lega di rame, incrostazioni in argento, alt. 17,8 cm, largh. 7,8 cm. Venezia, Collezione Ligabue. Nella pagina accanto: figura femminile stante. Terracotta, alt. 15 cm, largh. 6 cm. Civiltà dell’Indo, Belucistan, Mehrgarh, stile VII 2700–2500 a.C. circa. Venezia, Collezione Ligabue.
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in Mesopotamia e in Egitto alla fine del IV millennio a.C., un profondo cambiamento veicolò l’entrata in scena delle immagini di comuni mortali, esseri umani a tutti gli effetti. Ed eccoli comparire, vivi, nel loro ruolo di adoratori di divinità, a cui sono umilmente devoti. Sono uomini e donne normali, queste ultime non piú l’incarnazione di principi divini femminili. Portano indumenti e ornamenti che ne indicano il ruolo e lo status sociale e la loro identità può essere ribadita da un’iscrizione dedicatoria che ne conserva i nomi per l’eternità.
nire del VII millennio a.C. furono realizzate figure potenti. Mancano all’appello anche il Levante e l’Elam (nell’Iran sud-occidentale), per l’impossibilità di ottenere in prestito opere significative. In diversi casi, è stata proprio questa difficoltà a determinare un’esclusione: ci rammarichiamo per l’assenza delle figure in avorio del Negev che collegavano l’Egitto predinastico al Levante, ma questi pezzi sono estremamente fragili e la circolazione dell’avorio è attualmente soggetta a regole molto rigide. È stato inoltre necessario, per forza di cose, stabilire dei limiti geografici. Se a occidente l’Atlantico segna il confine naturale del Vecchio Mondo, a oriente la linea di demarcazione avrebbe potuto essere spostata in Cina, lungo le rotte che millenni piú tardi sarebbero diventate la Via della Seta. L’Indo, a metà strada tra il Mediterraneo e l’Estremo Oriente, fu tuttavia un importante confine culturale durante il periodo di transizione preso in considerazione, tra il 4000 e il 2000 a.C. Auspichiamo, tuttavia, che alcuni degli interrogativi sollevati all’inizio, principalmente quelli riguardanti eventuali elementi comuni a queste culture remote, abbiano trovato risposta.
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SPECIALE • IDOLI
ASTRAZIONE ED EQUILIBRIO, ALL’INSEGNA DELLA SEZIONE AUREA! La statuetta, realizzata in marmo bianco – una delle piú grandi nel repertorio della piccola plastica femminile neolitica – rinvenuta in un contesto verosimilmente sacrale-cerimoniale, può essere presa per esempio della tipologia cruciforme e si impone per la perfetta simmetria della costruzione e l’equilibrio formale. L’impianto, pressoché bidimensionale vista l’adozione del supporto-placca, è percepito in tre moduli geometrici. La lunga appendice basale, a volume subconico e sagoma trapezoidale allungata, proietta longitudinalmente l’architettura della statuetta e anticipa la tensione verticale del lungo collo (ampliata dalle due leggere incisioni oblique convergenti sul busto) che termina alla sommità della testa, tensione che viene enfatizzata dal volto ellittico e dal naso a pilastrino triangolare. L’astrazione del corpo femminile ricomposto in una sintesi di estrema essenzialità le conferisce una forte valenza iconica dove il genere femminile del soggetto, rappresentato nudo, prevale sulla fisionomia di genitrice. L’esemplare di Senorbi è uno dei pochi integri e quindi valutabile nella sua costruzione originaria senza ipotesi ricostruttive. Il suo prestigio nell’ambito delle produzioni sarde deriva anche dall’equilibrio formale della costruzione, generato dai rapporti dimensionali dei tre moduli geometrici. Infatti il rapporto matematico tra la lunghezza dell’apparato superiore (busto e braccia+collo e testa) e l’apparato inferiore (bacino+arti inferiori) si avvicina al valore del Pi greco pari a 1,6180339887… (sezione aurea o numero aureo ecc.), un numero irrazionale che indica uno specifico rapporto dimensionale che nell’antichità (anche pre-greca) e in altre epoche storiche (per esempio dal Rinascimento sino alla «successione ricorsiva» di Fibonacci) ha caratterizzato impianti architettonici e figurativi, esemplari per armonia. Figura femminile geometrica, da Turriga (Senorbí, Sardegna). Marmo, alt. 43 cm, largh. 18 cm. Antica Età del Bronzo. Cagliari, Polo Museale della Sardegna-Museo Archeologico Nazionale.
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LINEE SEMPLICI E FORME GEOMETRICHE CONFLUITE NELL’ARTE DEL XX SECOLO Le piú antiche testimonianze di scultura nel mondo greco risalgono al Neolitico. I materiali utilizzati erano molti e includevano terracotta, osso, conchiglia e pietra. Le rappresentazioni vanno dall’estremamente astratto (ciottoli) al realismo molto piú accentuato. Questa scultura in marmo, ben conservata, è tra gli esemplari piú raffinati di una categoria molto rara e presenta linee semplici e forme geometriche nitide che trovano richiami sorprendenti nell’arte del XX secolo. Rappresenta una figura femminile seduta con le gambe piegate una sopra l’altra anziché incrociate. La parte superiore del corpo è un ampio rettangolo piatto inclinato all’indietro rispetto alla porzione inferiore. I seni, ben definiti, sembrano pendere da entrambi i lati del collo. La parte inferiore del corpo è una massa molto arrotondata con natiche estremamente accentuate separate da un solco. Recenti scavi effettuati in Grecia hanno portato alla luce altre figurine neolitiche, principalmente in terracotta. Esse dimostrano che le
raffigurazioni antropomorfe, in particolare quelle femminili, erano comuni nel mondo greco dell’epoca, evidenziando le varianti regionali di stile e posa. In realtà la posizione a gambe incrociate, o apparentemente incrociate, è attestata soprattutto nelle Cicladi e forse in Attica, il che porta a confermare che la scultura, acquistata dal Museo di Bruxelles nel 1929 da Manolis Segredakis, noto mercante d’arte cretese attivo a Parigi, proviene effettivamente dalle isole.
Statuetta femminile seduta con gambe piegate, dalle Cicladi (forse Amorgos). Marmo, alt. 18,5 cm, largh. 13,3 cm. Tardo Neolitico, V-IV mill. a.C. Bruxelles. Musées Royaux d’Art et d’Histoire. a r c h e o 99
SPECIALE • IDOLI LAPISLAZZULI, IL MATERIALE DEGLI DÈI, E UN RITROVAMENTO INCREDIBILE! Questa statuetta di notevole pregio è scolpita da un meraviglioso lapislazzulo azzurro. I giacimenti di questa pietra semipreziosa piú vicini all’Egitto si trovano a Badakhshan, in Afghanistan, a una distanza di circa temilaseicento chilometri, il che la rende uno dei materiali piú esotici e apprezzati tra quelli utilizzati dagli antichi Egizi. In epoca dinastica il corpo degli dèi era descritto come «di lapislazzulo puro»: questa mirabile pietra evocava dunque il divino. La statuetta di Hierakonpolis è il piú grande tra i pezzi realizzati in lapislazzuli che siano giunti fino a noi. Ma anche il suo ritrovamento ha dell’incredibile. Il corpo fu rinvenuto da James Quibell durante gli scavi a Hierakonpolis (uno dei siti piú significativi nella formazione dell’antica civiltà egizia) insieme ad altri importanti oggetti di un deposito rituale. Nel collo della figura si era conservato un piccolo piolo di legno per attaccare la testa, che incredibilmente fu rinvenuta otto anni piú tardi, nel corso di ulteriori scavi condotti da Harold Jones nella medesima area. La pietra utilizzata per la testa è della varietà azzurro «pur» (non screziata) piú rara e questo ha fatto pensare che corpo e testa fossero stati realizzati in luoghi diversi. Gli occhi sono incassati per consentire l’intarsio di un altro materiale. Il dibattito sull’identità e sull’origine della figurina è ancora vivace. Se ne è sottolineato l’aspetto poco egiziano, paragonandola alle statuette cicladiche in marmo rinvenute sulle isole greche dell’Egeo, risalenti al 2500 a.C. circa o alla posa delle figure iraniane della fine del II millennio a.C. Figura femminile stante a braccia conserte, dal «Deposito principale» di Hierakonpolis (Egitto). Lapislazzuli e legno, alt. 8,9 cm. Periodo predinastico Naqada III. Oxford, Ashmolean Museum.
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LA GENTE DEL III MILLENNIO A.C. AMAVA LA BUONA MUSICA ! Il suonatore di arpa appartiene a un raro gruppo di figurine dalle «forme speciali», dato che a dominare numericamente nella produzione dell’Antico Cicladico sono gli idoli femminili in piedi con le braccia conserte, delle quali esistono oltre milleseicento esemplari. Tra i gruppi dalle forme speciali c’è quella dei musici, figure in piedi che suonano il flauto, sedute che suonano l’arpa. Indipendentemente dalla postura del corpo, i musici seguono il «canone» del gruppo delle figurine femminili a braccia conserte con caratteri schematici. Diversi ricercatori hanno dimostrato che gli spazi attualmente vuoti non corrispondono alla situazione originale, nella quale i lineamenti del viso e le parti del corpo erano dipinti. I suonatori d’arpa noti siedono su uno sgabello basso o su un «trono», sempre con lo stesso tipo di strumento: un triangolo chiuso con una cassa di risonanza rettangolare tenuta sulle cosce del musicista. È stato appurato che questo genere di strumento proviene dal Medio Oriente: è noto del resto che gli abitanti delle Cicladi intrattenevano stretti rapporti commerciali e culturali con i popoli che abitavano la costa del Medio Oriente. La forma chiusa degli strumenti consentiva di creare note precise, suoni delicati e un’ampia estensione di volume. C’èra bisogno di un musicista professionista per suonare questo strumento con risultati soddisfacenti. L’alto livello qualitativo raggiunto e l’uso del marmo, il miglior materiale disponibile all’epoca, fanno ritenere che i musicisti godessero di elevato prestigio sociale. Sorge a questo punto una domanda: chi è rappresentato in questa figurina? Un uomo, una persona divinizzata, oppure un dio? Mentre si ritiene che le statuette a braccia conserte fossero utilizzate come intermediari tra la sfera umana e quella divina, non disponiamo di molte interpretazioni riguardo ai suonatori di arpa. Una loro possibile associazione con i banchetti si basa sul ritrovamento di altre statuette raffigurate in posizione seduta nell’atto di bere, ma non sappiamo se si trattasse di banchetti che avevano luogo nella vita reale, nell’aldilà, oppure nella sfera divina. Un fatto è certo: la gente del III millennio a.C. amava la buona musica.
Suonatore di arpa cicladico, da Thera (Santorini). Marmo, alt. 16,5 cm, largh. 5,5 cm. Antico Cicladico II, 2600-2400 a.C. Karlsruhe, Badisches Landesmuseum.
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SPECIALE • IDOLI AMBIGUITÀ SESSUALE: UNA SOCIETÀ FLUIDA O LA VOLONTÀ DI COLMARE IL DIVARIO TRA SESSI? Il repertorio delle figurine neolitiche e calcolitiche di Cipro comprende diversi manufatti che tipicamente sono ambigui per quanto concerne il sesso e il simbolismo. Alcuni di essi presentano caratteri sia fallici sia vulvari, mentre altri hanno piú spiccate caratteristiche falliche, benché sia pure accennato l’organo femminile. Comunque si vogliano considerare questi oggetti, l’indeterminatezza espressa dai corpi appare lampante. La «Dama di Lemba» con i suoi trentasei centimetri di altezza, è la piú grande figurina del Calcolitico trovata finora a Cipro. Questa scultura a forma di violino, con le
braccia tese come un crocifisso, è realizzata in materiale calcareo, inciso e modellato in modo da accentuare seno, anche e pube. Il ventre è leggermente ingrossato, forse a indicare una gravidanza. I caratteri femminili contrastano con la testa e il collo di forma pressoché fallica, caratteristica questa che risale al Neolitico. La figurina di Lemba giaceva tra grandi vasi all’interno di un edificio che aveva probabilmente una funzione comunitaria o rituale. L’insolito contesto del ritrovamento, unito alla straordinarietà della forma e delle dimensioni uniche, fanno della «Dama di Lemba» l’unica figura cipriota dell’età precedente a quella del Bronzo che potrebbe rappresentare una divinità. L’ambiguità sessuale di queste statuette può manifestarsi mediante
una combinazione di genitali maschili e femminili, che lascia una deliberata incertezza sul sesso di una figurina, oppure mediante l’attenuazione o l’accentuazione di determinati tratti anatomici. Essa potrebbe indicare il fatto che le società preistoriche fossero organizzate sulla base di un numero di sessi superiore a due, o che vi fosse una certa flessibilità che consentiva agli individui di passare dall’uno all’altro. Tale ambivalenza esprimeva forse il concetto che gli esseri umani erano composti da elementi sia maschili sia femminili e potrebbe interpretarsi come un tentativo di colmare il divario esistente tra i due sessi. Figura femminile distesa, tipo Dokathismata, dalle Cicladi. Marmo, alt. 7 cm, largh. 5,1 cm. Cicladico antico II, 2400-2300 a.C. Venezia, Collezione Ligabue.
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Nella pagina accanto, in alto: figura antropomorfa schematica, da Sotira-Teppes (Cipro). Calcare, alt. 16,5 cm. Tardo Neolitico. Nicosia, Museo di Cipro. In questa pagina: la ÂŤDama di LembaÂť, da Lemba-Lakkous (Cipro) Calcare, alt. 36 cm. Calcolitico medio, 3400-2800/ 2700 a.C. Nicosia, Museo di Cipro.
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SPECIALE • IDOLI LA FAMOSA «VENERE LIGABUE» Le statuette della «Dama dell’Oxus» rappresentano una produzione caratteristica della civiltà dell’Oxus dell’età del Bronzo. Distribuite su una vasta area geografica, per un lungo arco di tempo – dal 2300 al 1800/1700 a.C. circa – furono realizzate con la tecnica composita, assemblando pietre di tipo e colore differenti. Le figure potevano essere ritratte in piedi, sedute o accovacciate, con il corpo interamente ricoperto da una pesante veste munita di mantello, dove era riprodotto con fine incisione il disegno delle ciocche del vello di lana ispirato al kaunakes sumero. La varietà dei motivi incisi sul vello rinvia probabilmente a significati particolari: sottili strisce ondulate che simulano lo scorrere dell’acqua rimandano alle figurine triangolari, personificazioni forse di uno spirito dell’acqua come le varianti triangolari della «Dama»; lunghe ciocche possono diramarsi dalle spalle come i raggi di una stella, probabile indizio che la «Dama dell’Oxus» rappresenti uno spirito astrale, o come piume a suggerire una natura di uccello. La «Dama» della Collezione Ligabue è l’unica finora nota di queste figure che indossa una veste levigata, forse perché rimasta incompiuta, forse perché lo scultore volle rompere con la tradizione realizzando un disegno puramente geometrico. La maestosa «Dama» è seduta con il busto
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eretto e le gambe piegate e nascoste dal pesante mantello che le ricopre interamente il corpo e le braccia. Fu realizzata nella tipica tecnica composita, assemblando all’altezza della vita, sotto il busto eretto, pezzi diversi di clorite scura. La testa e il lungo collo in calcare chiaro emergono da una scollatura circolare incassata; il volto è caratterizzato da grandi occhi in rilievo e da labbra e naso finemente modellati. Al pari dell’abito, la resa dell’acconciatura, parzialmente danneggiata al di sopra di un orecchio, è giocata sul contrasto di colori scuri. La capigliatura, percorsa da sottili striature, è raccolta in un lungo boccolo che ricade al di sopra del petto, in una foggia piuttosto rara, riscontrabile con maggiore frequenza nelle raffigurazioni di giovani uomini. Le marcate linee diagonali sul petto e sulla schiena creano l’effetto di un solido armonioso. Tutta la figura veicola un’impressione di imperturbabilità e di serena fiducia.
La statuetta nota come «Venere Ligabue», dall’Iran orientale. Clorite, calcare, alt. 11 cm, largh. 13,2 cm. Civiltà dell’Oxus, 2200-1800 a.C. circa. Venezia, Collezione Ligabue.
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SPECIALE • IDOLI
INSIEME AL PENDANT AL MUSEO NAZIONALE IRACHENO DI BAGHDAD, L’UNICO UOMO-TORO MESOPOTAMICO SCOLPITO A TUTTO TONDO La statuetta rappresenta un uomo-toro nudo, una figura mitologica, e ha un pendant conservato presso il Museo nazionale iracheno di Baghdad. I due manufatti sono gli unici esempi di uomini-toro mesopotamici scolpiti a tutto tondo. Solitamente, infatti, l’uomo-toro, spesso itifallico, compare sui sigilli insieme a eroi e in scene di lotta con animali. Il materiale usato per le due statuette è un alabastro particolarmente delicato di color giallo-verde con venature ruggine. Benché l’esemplare di Baghdad sia leggermente piú piccolo, la resa dei genitali, del naso e della bocca, la somiglianza della cintura a tre fasce, la tecnica di scultura adottata tesa a rivelare le venature sulle spalle e l’aspetto levigato indicano non solo che i due manufatti provenivano dalla stessa importante officina, ma con tutta probabilità erano opera della stessa mano. Il particolare delle mani unite in un gesto di devozione rivela che la statuetta era di certo parte dell’arredo di un tempio. La statuetta inoltre comprendeva particolari realizzati con altri materiali, forse lapislazzuli, oro, argento o rame. Sono ancora visibili diversi fori per l’inserimento delle corna, della coda e della parte inferiore delle gambe; quelli nella barba indicano che probabilmente questo elemento era messo in risalto da una lamina di metallo, mentre i due nel torace probabilmente servivano per aggiungere un qualche dettaglio o per un intarsio.
Uomo-toro, da Umma (attuale Jokha, Mesopotamia meridionale). Alabastro, alt. 34,8 cm. Protodinastico I, 2900-2650 a.C. circa. Ginevra, George Ortiz Collection.
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UN SIMBOLO AL TEMPO STESSO GRAVIDO, ANDROGINO E ITIFALLICO Notevole esemplare di statuetta a forma di disco della Cappadocia risalente alla fine del III millennio. Nel sito di Kültepe queste figurine venivano depositate in edifici di culto. Alcune di esse sono doppie, con due colli e un solo corpo; altre, come questa, presentano racchiusa nel corpo un’ulteriore figurina di forma discoidale, del tutto simile ma di dimensioni inferiori. In molti casi il collo allungato termina con una testa a forma di freccia, ravvivata da grandi occhi circolari, come nella piccola figura qui presentata. Eccezionalmente, la testa globosa è modellata con lineamenti realistici – bocca, orecchie e naso – mentre gli occhi sporgenti mantengono lo sguardo fisso della tipologia precedente. La parte inferiore della figura principale, oggi
danneggiata, mostrava probabilmente un triangolo pubico, conservato sul disco piú piccolo, al quale conferisce cosí un aspetto femminile, da «madre con figlio» oppure in gravidanza. Questa interpretazione rischia tuttavia di essere fallace: l’aspetto generale di questo tipo di idoli è chiaramente fallico, come appare evidente soprattutto nella figurina secondaria, collocata nel punto dove normalmente dovrebbero trovarsi i genitali maschili. Ne risulta una combinazione complessa, un simbolo al tempo stesso gravido, androgino e itifallico, che può essere messo a paragone con gli idoli femminili dotati di fallo del Calcolitico cipriota. L’enfasi sugli occhi è anch’essa un fattore ricorrente, che si riscontra spesso in Anatolia e nella Mesopotamia siriana.
Idolo a disco, tipo Kültepe, dalla Cappadocia. Alabastro gessoso, alt. 26,3 cm, largh. 15,5 cm. Antica Età del Bronzo III, 3300-3000 a.C. Venezia, Collezione Ligabue. a r c h e o 107
SPECIALE • IDOLI
LA FONDAZIONE LIGABUE Costituita nel gennaio del 2016, a un anno dalla scomparsa di Giancarlo Ligabue (30 ottobre 1931-25 gennaio 2015), la Fondazione è stata voluta dal figlio Inti Ligabue (nella foto), che la presiede, per dare continuità e soprattutto un rinnovato impulso al lavoro svolto in passato dal Centro Studi e Ricerche Ligabue, proponendo il suo raggio di iniziative a livello locale, nazionale e internazionale.
La Fondazione Giancarlo Ligabue ha la finalità di favorire lo svolgimento di attività di promozione culturale e di ricerca con particolare riferimento ai settori dell’archeologia, antropologia, paleontologia, scienze naturali ed arti figurative, anche attraverso manifestazioni aperte al pubblico, mostre a tema, conferenze, pubblicazioni, editoria, consulenze scientifiche, restauri, erogazioni filantropiche, sia in Italia che all’estero.
DOVE E QUANDO «Idoli. Il potere delle immagini» Venezia, Palazzo Loredan, Isituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti fino al 20 gennaio 2019 (dal15 settembre) Orario martedí-domenica, 10,00-18,00; chiuso il lunedí Info tel. 041 2705616; e-mail: prenotazioni@fondazioneligabue.it; www.fondazioneligabue.it; Facebook: @fondazioneligabue Instagram: @ligabuefoundation, #fondazioneligabue Catalogo Skira 108 a r c h e o
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
L’EROE REMISSIVO DOPO ESSERE STATO ESALTATO COME UNO DEI TROIANI PIÚ VALOROSI, ENEA DIVENTA CAMPIONE DI RETTITUDINE. E, A ROMA, NON SI TARDA A VEDERE IN LUI IL CAPOSTIPITE IDEALE DELLA DINASTIA GIULIA, MAGNIFICATA NELL’ENEIDE DAL POETA VIRGILIO
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I
l «pio Enea» è una figura iconica del mondo romano, veicolata dall’Eneide virgiliana, mirabile opera poetico-politica. Se l’ascendenza di Enea è in parte divina, in quanto figlio di Venere e quindi già dotato in partenza di qualità eccezionali, perché è anche emblematicamente pio, nell’accezione greco-romana del termine? L’eroe è considerato tale in quanto si sottomette totalmente alla volontà divina, che gli impone di abbandonare la cara sposa Creusa, d’impaccio ai futuri disegni del destino, e poi Didone, pur essa amata, per giungere nel Lazio come previsto dagli dèi e compiere quanto voluto dal fato. Egli è quindi pio perché agisce a prescindere da ciò che lo spingerebbero a fare i suoi sentimenti e perché pone in primo piano i valori incarnati dal patriottismo – nel mondo antico strettamente connesso alla religione – e dalla famiglia: tutto ciò che doveva caratterizzare il cittadino esemplare, sino ai giorni nostri. Si pensi per inciso al celebre motto «Dio, Patria e Famiglia», desunto sinteticamente dallo scritto, parte della teoria della filosofia del diritto, I doveri dell’uomo del 1860 di Giuseppe Mazzini quale base del vivere civile e morale della società.
L’ELMO CORINZIO La figura di Enea usata come tipo numismatico si ritrova in primis nelle emissioni della cittadina di Aeneia nel Nord-Est della penisola calcidica (Macedonia) emesse dalla fine del VI agli inizi del IV secolo a.C. Sui suoi nominali in argento compare al rovescio un quadrato incavato (detto incuso) circondato perlopiú dal nome della città emittente, AINEAS, e al dritto campeggia un profilo maschile, con un magnifico elmo corinzio. La tradizione locale, fondata sull’assonanza toponomastica,
questo personaggio, vissuta da un lato nei racconti epici di matrice greca, come l’Iliade e l’Ilioupersis (la caduta di Troia), dove appunto svolge ruoli di rilevanza bellica (testimoniati anche nella ceramica attica del VI secolo a.C.), nonché di eroe fondatore di città, e quindi l’Enea romano, il cui destino è legato appunto alla potenza di Roma.
UN TEMA DI GRANDE SUCCESSO
In alto: moneta in argento (tetraobolo) della città di Aineia (Penisola Calcidica, Macedonia), con testa di Enea con elmo corinzio e quadrato incuso. 510 a.C. Boston, Museum of Fine Arts. Nella pagina accanto: Fuga di Enea da Troia, affresco di Girolamo Genga. 1507-10. Siena, Pinacoteca Nazionale. vedeva in Enea (Aeneas-Aineias) l’ecista, l’eroe che, fuggito da Troia in fiamme, trova un primo rifugio nella penisola calcidica e vi fonda un abitato che da lui prende nome. Il volto, redatto nell’elegante e lineare stile arcaico dell’epoca, è incorniciato da lunghi capelli a ricciolo che ricadono sulla nuca, mentre la barba rende il mento particolarmente appuntito; l’occhio grande, frontale, avvicina l’immagine dell’uomo a quella di una divinità, dalla quale egli discende. L’uso da parte della comunità cittadina della testa (e del nome) del Troiano che diverrà uno dei simboli di Roma, sta a testimoniare la «doppia vita» di
Nella monetazione romana il fondatore della gens Iulia trova uno spazio di nicchia che perdura nell’età repubblicana e imperiale, rappresentato secondo schemi ripetitivi e facilmente riconoscibili che ne esaltano la sua caratteristica principale, quella «pietà» di cui si diceva all’inizio. Grande fortuna ebbe infatti il momento della fuga da Troia con figlio e padre, tema che si ritrova già nella ceramica greca e che ricorre anche nell’arte figurativa romana di grande e piccolo formato. Se nella pittura vascolare ellenica Enea, troiano, è armato sempre di tutto punto come un guerriero «greco», cosí come nella già ricordata monetazione di Ainea, è stato sottolineato (Paul Zanker) come nel modello iconografico romano l’eroe venga pressoché sempre «romanizzato», con corazza, armatura e calzari eguali a quelli usati a Roma. Mentre, a ricordare l’origine troiana, resta l’abbigliamento del piccolo Ascanio-Iulo, in tutto ispirato a quello di un giovane pastorello orientale, con berretto frigio e un bastoncino da pastore, ricordo dell’idilliaco monte Ida, dove Enea passò la sua prima giovinezza, e dell’incontro fugace e lontano del bel nobile pastore Anchise con la dea dell’amore, che tanta conseguenza ebbe per la storia mitica e politica di Roma.
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Silvia Pallecchi (a cura di)
RACCONTARE L’ARCHEOLOGIA Strategie e tecniche per la comunicazione dei risultati archeologici All’Insegna del Giglio, Sesto Fiorentino (FI), 160 pp., ill. col. e b/n 32,00 euro ISBN 978-88-7814-822-2 www.insegnadel giglio.it
Il volume raccoglie i contributi presentati in occasione del convegno omonimo, svoltosi nel 2016 a Policastro Bussentino (Salerno), e il cui intento era, come ricorda la curatrice del volume nell’Introduzione, quello di offrire un’«occasione di confronto tra diverse esperienze di comunicazione e condivisione dell’archeologia». Nella prima parte dell’opera si susseguono quindi gli interventi sul progetto di ricerca che da alcuni anni coinvolge la stessa Policastro, il cui territorio è caratterizzato da una
lunga e significativa frequentazione. E, coerentemente con gli intenti del progetto di cui questi atti danno ora conto, c’è spazio, oltre che per il resoconto delle attività di indagine archeologica, anche per le iniziative svolte nel campo della comunicazione, al fine di favorire la conoscenza del patrimonio locale, che si rivela assai ricco. Nella seconda parte, le esperienze sviluppate nel territorio del Comune cilentano vengono messe a confronto con attività condotte in vari contesti della Penisola – come Luni o la Valle dell’Albegna –, a cui si aggiungono contributi di taglio teorico e metodologico sulle forme della divulgazione. Lorenzo Fabbri
IL PAPAVERO DA OPPIO NELLA CULTURA E NELLA RELIGIONE ROMANA Leo S. Olschki Editore, Firenze, 398 pp., tavv. col. 34,00 euro ISBN 978-88-222-6507-4 www.olschki.it
È un mondo affascinante quello svelato dalle pagine di questo volume, che, nonostante il taglio specialistico, ha il pregio di una redazione scorrevole e chiara, cosí da farne una lettura di sicuro interesse anche per i non addetti ai lavori. Ed è sorprendente l’attualità di molte delle problematiche analizzate dall’autore, se solo 112 a r c h e o
fra tutti l’imperatore Marco Aurelio. Molto vasti sono i capitoli dedicati quindi alla tradizione letteraria sull’argomento, cosí come sulle testimonianze nell’ambito dell’arte. Un saggio, insomma, davvero denso e ricco di spunti per molti possibili approfondimenti.
PER I PIÚ PICCOLI pensiamo, per esempio, ai dibattiti sull’uso terapeutico delle sostanze stupefacenti. Il primo e indiscutibile dato di fatto è la lunga consuetudine dell’uomo con il papaver somniferum: se oggetto della sua ricerca è infatti l’ambito romano, Fabbri non tralascia di ricordare come la diffusione della pianta e dell’oppio che se ne poteva ricavare siano attestate almeno a partire dal IV millennio a.C. I Romani, dunque, non fecero che inserirsi in una scia già ampiamente tracciata e, potremmo dire, con un certo «entusiasmo». Il papavero divenne, per esempio, un ingrediente assai diffuso e apprezzato in ambito culinario, mentre il suo impiego in ambito medico fu variamente sperimentato. Naturalmente, il discorso si amplia a uno degli aspetti che maggiormente caratterizzano il fiore rosso e il suo derivato, vale a dire il problema della dipendenza. Anche in questo caso, vengono riepilogati alcuni presunti celebri oppiomani, primo
Arianna Capiotto, Elena Sala, illustrazioni di Luca Tagliafico
NEL SEGNO DEGLI ETRUSCHI I CercaStoria 5, Ante Quem, Bologna, 48 pp. 9,50 euro ISBN 978-88-7849-124-3 www.antequem.it
La fortunata serie dei CercaStoria Ante Quem si arricchisce di un nuovo episodio, ambientato questa volta al tempo degli Etruschi, di cui i giovani protagonisti, Adam e Miriam, hanno modo di sperimentare gli usi e i costumi, compresa la sorprendente dimestichezza degli áuguri con i fulmini... (a cura di Stefano Mammini)