Archeo n. 404, Ottobre 2018

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CUCINA MINOICA

MISTERO A VILLA MEDICI

ORIGINI DELLA BIRRA

GROTTE DI TOIRANO

SPECIALE TUMULI ETRUSCHI

GLI ANTICHI PREFERIVANO LA BIRRA?

SPECIALE

ALLA SCOPERTA DEI GRANDI MONUMENTI D’ETRURIA

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PAESTUM

IL PROGRAMMA COMPLETO DELLA XXI BORSA MEDITERRANEA DEL TURISMO ARCHEOLOGICO ESCLUSIVA

ROMA. MISTERO A VILLA MEDICI

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IN EDICOLA IL 9 OTTOBRE 2018

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Mens. Anno XXXIV n. 404 ottobre 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 404 OTTOBRE

ALIMENTAZIONE

€ 5,90



EDITORIALE

ECLISSI DELLA MEMORIA Tra le drammatiche notizie dell’estate appena trascorsa ve n’è una che arriva da lontano: quella della distruzione del Museo Nazionale del Brasile, a Rio de Janeiro, causata da un incendio dovuto alla scarsa manutenzione dell’impianto elettrico. Man mano che l’entità del danno emergeva in tutta la sua crudezza, la distanza tra quel museo perduto per sempre e noi (alcuni dei quali – tra cui, non ho difficolta ad ammetterlo, il sottoscritto – a malapena sapevano dell’esistenza di quell’istituzione) si assottigliava fino ad annullarsi. Quell’elegante palazzo fine Ottocento, tanto simile ad altrettanti edifici di una qualsiasi capitale del Vecchio Mondo, custodiva, infatti, un patrimonio «nostro»: tra i circa 20 milioni di reperti distrutti dalle fiamme figuravano non solo la piú antica testimonianza materiale della presenza umana nel continente americano (lo scheletro di «Luzia», antico di 11 500 anni) insieme a innumerevoli oggetti d’arte delle civiltà precolombiane, ma anche una ingente collezione egittologica, affreschi pompeiani, antichità greche e perfino etrusche… Viviamo in un’epoca in cui la perdita di memoria del passato sembra subire un’accelerazione che sfugge al nostro controllo. Sono ancora fresche le immagini della devastazione del patrimonio archeologico della Siria e dell’Iraq, appena sbiadite quelle delle decine di migliaia di libri e manoscritti rari periti nel falò della Vijecnica, la grande biblioteca di Sarajevo, colpita dall’artiglieria serba nell’agosto del 1992 e andata completamente distrutta. O, ancora, in anni piú recenti, l’incredibile crollo dell’archivio storico di Colonia, in Germania, uno dei piú grandi d’Europa, avvenuto nella primavera del 2009, che ha seppellito un patrimonio, immenso e unico, di manoscritti medievali (e che erano miracolosamente scampati ai bombardamenti della seconda Guerra Mondiale). Quella perdita accelerata è un rischio concreto o solo «percepito», figlio – come si ripete spesso – di un eccesso di informazioni a cui siamo quotidianamente sottoposti? E la salvezza, se mai potrà esserci, arriverà dalla «luminosa frontiera» dell’informatica? Suona poco rassicurante l’annuncio dello stesso Vint Cerf, vicepresidente di Google e uno dei padri di Internet, il quale – con riferimento alla deperibilità dei supporti della memoria digitale – mette in guardia di fronte alla nient’affatto remota eventualità di un nuovo «evo oscuro», caratterizzato, appunto, da un’eclissi del sapere simile a quella che si verificò nel Medioevo… Ritorneranno cosí in auge, anche nel futuro, gli archeologi? Leggiamo in rete che le rovine del Museo Nazionale del Brasile sono state ricoperte da una tettoia metallica e dichiarate, esse stesse, «sito archeologico». E che il cranio di «Luzia» verrà ricostruito mediante l’utilizzo di uno scanner 3D… Andreas M. Steiner In alto: l’incendio che ha distrutto il Museo Nazionale del Brasile di Rio de Janeiro.


SOMMARIO EDITORIALE

Eclissi della memoria 3 di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

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SCOPERTE Il sito sudafricano di Blombos Cave restituisce la piú antica testimonianza di arte astratta prodotta dall’uomo, risalente a oltre 70 000 anni fa 6 ALL’OMBRA DEL VULCANO Reperti inediti, provenienti da necropoli e luoghi di culto, documentano, in una mostra all’Antiquarium di Pompei, l’importanza di Stabiae 8 RESTAURI Esposto a Orbetello un affresco della villa di Settefinestre e riportato alle cromie originarie da un recente intervento 10 A TUTTO CAMPO L’archeologia può stabilire un dialogo fruttuoso con le scienze

del libro, trasformando pergamene e codici miniati in altrettanti reperti «parlanti» 12

MOSTRE Le lastre dipinte policrome realizzate a Cerveteri scrivono un nuovo capitolo della storia dell’arte etrusca 14

ESCLUSIVA

Il segreto in una stanza

PAROLA D’ARCHEOLOGO Gabriel Zuchtriegel, Direttore del Parco Archeologico di Paestum, illustra i risultati degli ultimi scavi e propone una nuova lettura delle metope dell’Heraion del Sele 16

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DA ATENE

STORIA

A tavola con Minosse

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di Vincent Jolivet e Rosanna Scatamacchia

Nel paese dei bevitori di birra

di Valentina Di Napoli

di Umberto Livadiotti

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In copertina in primo piano, statuetta in calcare raffigurante una donna egiziana che prepara la birra; in secondo piano, ricostruzione grafica di una birreria dell’antico Egitto.

Comitato Scientifico Internazionale Anno XXXIV, n. 404 - ottobre 2018 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale Hanno collaborato a questo numero: Daniele Arobba è archeobotanico e Direttore del Museo Archeologico del Finale (Finale Ligure, SV). Marco Avanzini è geologo e Conservatore presso il MUSE, Museo delle Scienze di Trento. Maria Alessandra Bilotta è ricercatrice presso l’Instituto de Estudos Medievais dell’Universidade Nova di Lisbona. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Rosanna Caramiello è professore ordinario di botanica forestale presso l’Università di Torino. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Paolo Citton è paleontologo presso l’Universidad Nacional de Río Negro in Argentina. Livia Camilla Clementi è archeologa collaboratrice dell’Ente Grotte del Comune di Toirano. Francesco Colotta è giornalista. Marta Conventi è funzionario archeologo presso la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio della Liguria. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Valentina Di Napoli è archeologa. Andrea De Pascale è archeologo e Conservatore del Museo Archeologico del Finale. Roberto Farinelli è ricercatore e professore aggregato di archeologia cristiana e medievale all’Università di Siena. Marco Firpo è professore ordinario di geomorfologia presso l’Università di Genova. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Stefano Giannotti è archeologo collaboratore dell’Ente Grotte del Comune di Toirano. Vincent Jolivet è direttore di ricerca presso


PREISTORIA

Di uomini e orsi

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di Elisabetta Starnini, Daniele Arobba, Marco Avanzini, Rosanna Caramiello, Paolo Citton, Livia Camilla Clementi, Marta Conventi, Andrea De Pascale, Marco Firpo, Stefano Giannotti, Fabio Negrino, Fiorenzo Panizza, Ivano Rellini, Marco Romano, Isabella Salvador e Marta Zunino

80 SPECIALE

64 Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO

Storie di ordinaria sopraffazione 106 di Daniele Manacorda

L’Etruria dei grandi tumuli

80

di Alessandro Mandolesi

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Gruppo di famiglia in un denario

110

di Francesca Ceci

LIBRI

112

110

il CNRS. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Umberto Livadiotti è cultore della materia in storia romana presso «Sapienza» Università di Roma. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco Archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Fabio Negrino è ricercatore in preistoria presso l’Università di Genova. Fiorenzo Panizza è Responsabile del Servizio Grotte del Comune di Toirano. Ivano Rellini è ricercatore in geomorfologia presso l’Università di Genova. Marco Romano è paleontologo presso l’University of the Witwatersrand di Johannesburg (South Africa). Isabella Salvador è ricercatore in geologia presso il MUSE, Museo delle Scienze di Trento. Rosanna Scatamacchia è docente a contratto in storia contemporanea presso «Sapienza» Università di Roma. Elisabetta Starnini è funzionario archeologo presso la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio della Liguria. Marta Zunino è Direttore Scientifico delle Grotte di Toirano.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534

Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: Leemage: copertina (primo piano; e p. 56) e pp. 36-37, 51; AKG Images: p. 57 (alto); Album: pp. 57 (basso), 60 – Bridgeman Images: copertina (secondo piano; e pp. 54/55) e pp. 61, 111 – Doc. red.: pp. 3, 82 (basso) – Craig Foster: p. 6 – Magnus M. Haaland: pp. 6/7, 7 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 8-9 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 10 – Cortesia Fundação Calouste Gulbenkian, Lisbona. Museu Calouste Gulbenkian-Coleção do Fundador: Catarina Gomes Ferreira: p. 12 – Cortesia degli autori: pp. 13 (alto), 40, 41 (sinistra), 42-50, 67 (alto), 71, 72, 74-76, 78-81, 83-105, 110 – Cortesia Biblioteca Pública Municipal de Évora: p. 13 (basso) – Cortesia Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale: pp. 14-15 – Cortesia Parco Archeologico di Paestum: pp. 16-18 – Cortesia Jerolyn E. Morrison: pp. 28-30 – DeA Picture Library: pp. 38, 41 (destra), 62; V. Pirozzi: p. 39 (alto); G. Dagli Orti: pp. 59, 63 – Getty Images: Hulton Archive: pp. 40/41 – Shutterstock: pp. 58, 64/65 – Daniele Arobba: p. 66 (basso) – Agenzia Vignola: p. 67 (basso), 68 – Livia Clementi: pp. 69, 73 (basso) – Elisabetta Starnini: pp. 70 (alto), 77 – Livia Clementi e Daniele Arobba: p. 73 (alto) – Cortesia Museo di Storia della Medicina di «Sapienza» Università di Roma: pp. 106-108 – Cippigraphix: cartine alle pp. 66, 82.

Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Press-Di Abbonamenti SPA c/o CMP BRESCIA Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia BS L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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n otiz iari o SCOPERTE Sudafrica

ASTRATTISMO PREISTORICO

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na nuova, straordinaria scoperta ha avuto luogo nella Grotta di Blombos (Blombos Cave), in Sudafrica, un sito già da tempo impostosi all’attenzione della comunità scientifica internazionale per i rinvenimenti di manufatti che documentano antichissime forme di espressione artistica. Si tratta, questa volta, di una scheggia di silcrite (o silcrete, un conglomerato di origine sedimentaria formato da sabbia e ghiaia fine cementate dalla silice), lunga poco meno di 40 cm e larga 13 cm circa, sulla quale è stata tracciata con l’ocra una serie di linee che formano un motivo a intreccio. Ebbene, per via della sua sicura associazione con livelli riferibili alla Middle Stone Age (una delle fasi culturali in cui viene suddiviso il Paleolitico del continente africano), il ciottolo può essere datato a 73 000 anni fa circa, imponendosi come la piú antica attestazione a oggi

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A destra: la Grotta di Blombos (Blombos Cave, Sudafrica), che si trova circa 300 km a est di Città del Capo. In basso: la scheggia di silcrite con motivi astratti tracciati con l’ocra, servendosi di una sorta di matita. Middle Stone Age, 73 000 anni fa circa.

nota di arte astratta e facendo compiere un considerevole balzo all’indietro all’origine di questo fenomeno. Finora, infatti, manifestazioni del genere, che gli studiosi considerano come uno dei principali indicatori di approcci cognitivi e comportamenti

moderni, non risalivano oltre i 40 000 anni da oggi. La nuova acquisizione prova dunque la capacità di individui appartenenti a forme arcaiche di Homo sapiens di produrre motivi grafici su supporti di varia natura, con tecniche altrettanto differenziate.


In basso: un’immagine degli scavi nella Grotta di Blombos. Il sito venne scoperto nel 1991 e due anni piú tardi ebbero inizio le prime indagini sistematiche.

La scheggia era stata recuperata nel corso della campagna di scavo condotta nel 2011, ma solo dopo la ripulitura e il lavaggio dei reperti, durante la catalogazione e lo studio dell’industria litica e degli scarti di lavorazione ne era stata

osservata la decorazione. Quest’ultima è stata tracciata sulla faccia leggermente concava del reperto e si compone di sei linee diritte, quasi parallele fra loro, che sono tagliate obliquamente da altre tre linee leggermente curve.

Tutte le linee presentano un tratto discontinuo e le analisi chimiche hanno appunto confermato che furono realizzate utilizzando ematite ridotta in polvere, la sostanza che viene comunemente indicata come ocra. Il colore scelto per eseguire il disegno fa sí che esso risalti in maniera evidente rispetto alla tonalità della pietra scelta come supporto, e il fatto che le linee si interrompano in maniera piuttosto brusca suggerisce che il motivo si estendesse in origine su una superficie piú ampia, di cui la scheggia costituirebbe dunque un frammento. Sono state inoltre eseguite prove sperimentali, grazie alle quali è stato possibile accertare che le linee furono tracciate servendosi di una sorta di matita, a riprova dell’intenzionalità del disegno. Stefano Mammini

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

PRIMA DI STABIAE UNA MOSTRA ALL’ANTIQUARIUM DI POMPEI RACCONTA IL RUOLO CHIAVE AVUTO DAL CENTRO PREROMANO NEL CONTROLLO DELLA VALLE DEL SARNO E DELL’ACCESSO ALLA PENISOLA SORRENTINA

L’

area di Castellammare di Stabia, che si trova sull’angolo di golfo contrapposto a quello di Napoli e di Pozzuoli, risulta intensamente occupata dall’uomo ben prima della Stabiae romana, in virtú della sua eccellente posizione a controllo della foce del Sarno e della via d’accesso alla costiera sorrentina e ai valichi dei monti Lattari verso Amalfi. La presenza di numerose In alto: vasellame ed ex voto rinvenuti nella stipe votiva in località Privati (Castellammare di Stabia). A destra: aryballos corinzio dalla necropoli di Madonna delle Grazie.

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sorgenti termali che sgorgano dai piedi dei monti fino all’antistante fondale marino contribuí a far sí che il territorio stabiano fosse intensamente occupato sin dall’inizio del I millennio a.C., con siti ubicati a ridosso dei primi rilievi e davanti allo spettacolare golfo di Napoli. La particolare orografia del luogo avrebbe condizionato la distribuzione in piú nuclei abitati, di

cui sarebbe traccia il nome stesso, declinato in forma plurale. Il centro indigeno, distrutto da Silla insieme a Pompei nell’89 a.C., ha sempre avuto una funzione plurivalente, sia come polo economico connesso alla fertile piana del Sarno, sia come scalo marittimo aggregato alla piú interna Nuceria (Alfaterna?)-Nocera.

LE ORIGINI DEL CENTRO La mostra «Alla ricerca di Stabia», ospitata all’Antiquarium di Pompei e curata da Massimo Osanna insieme a Luana Toniolo, punta a svelare le origini di questo centro, noto in età romana per le sue mirabili ville d’ozio impiantate sulla collina di Varano. La scoperta della Stabia piú antica viene affrontata con l’esposizione di due complessi archeologici rappresentativi del territorio, la necropoli di Madonna delle Grazie,


con le sue numerose sepolture che vanno dal VII al III secolo a.C., e il santuario extraurbano trovato in località Privati, fortemente connesso, come rivelano i suoi votivi, al mondo femminile e ai riti propiziatori della fertilità e della nascita. La necropoli di Madonna delle Grazie, che ha restituito circa 300 tombe, si trovava sull’antica via Nucerina e oggi offre lo spaccato di una vivace comunità indigena strategicamente insediata nella piana del Sarno. Le tombe scoperte sono del tipo a fossa e a cassa litica, oppure le piú tarde coperte da tegole, e contengono corredi articolati, che qualificano lo stato sociale del defunto, nonché la diffusione del simposio, il costume del bere vino secondo pratiche tipiche del mondo greco ed etrusco. Fra gli oggetti compresi nei servizi funebri spiccano diverse ceramiche etrusche, a testimonianza della forte presenza della componente tirrenica in Campania fra il VII e il VI

A destra e in basso, a sinistra: vasi di varia foggia e tipologia facenti parte dei corredi funerari recuperati nelle tombe della necropoli di Madonna delle Grazie. A destra, qui sotto: maschera in terracotta recuperata nella stipe votiva scoperta in località Privati.

seconda metà del IV secolo a.C. Ubicato su una terrazza dei Lattari affacciata sul golfo e sul Sarno, segnava anticamente il confine meridionale dell’agro stabiano, a controllo del percorso che collegava la valle fluviale all’area sorrentino-amalfitana.

VASI MINIATURISTICI

secolo a.C., un dato peraltro recentemente rafforzato dalla scoperta appena fuori Pompei, nel Fondo Iozzino, sulla via verso il Sarno e Stabiae, di un luogo di culto che ha restituito finora il maggiore corpus di iscrizioni etrusche dell’Italia meridionale. Il luogo di culto di Privati documenta invece l’aspetto sacro della prima Stabia, rappresentato da un santuario extraurbano della

Al centro della terrazza è venuta in luce una grande fossa con copioso materiale votivo, costituito da vasi miniaturistici che riproducono in fattezze minori i vasi piú grandi utilizzati nelle libagioni, trovati in associazione a statuette fittili e ceramiche di uso comune. I vasi miniaturistici erano concepiti come contenitori di minuscole quantità di cibo e di liquidi da offrire alla divinità oppure legati ai pasti e alle libagioni che i fedeli effettuavano nel santuario. Accanto a questi materiali, nella fossa votiva

è stato deposto anche materiale intenzionalmente frammentato prima di essere sepolto, frammisto a terreno bruciato e a offerte rituali di ossa animali. L’eterogeneità degli ex voto e dei fittili che decoravano il santuario indica il forte legame della divinità venerata con la sfera femminile e soprattutto inserisce questo complesso in una rete di luoghi sacri che costellavano la valle del Sarno e la penisola sorrentina, dal tempio dorico di Pompei all’Athenaion di Punta della Campanella.

DOVE E QUANDO «Alla ricerca di Stabia» Pompei, Antiquarium degli Scavi fino al 31 gennaio 2019 Orario fino al 31 ott: 9,00-19,30; fino al 31 gen: 9,00-17,00 Info Facebook: Pompeii-Parco Archeologico

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n otiz iario

MOSTRE Toscana

UN RESTAURO E UN AUSPICIO

U

n affresco rinvenuto nel corso degli scavi condotti nella villa romana di Settefinestre è stato recentemente restaurato nell’ambito del progetto «Puntiamo i riflettori», promosso dal Gruppo FAI Maremma. E lo si può ora ammirare, fino al prossimo 15 novembre, nei locali dell’ex Polveriera Guzman di Orbetello. L’esposizione torna a richiamare l’attenzione sulla villa di Settefinestre, inserita nel tessuto storico del paesaggio che si sviluppò in prossimità della colonia latina di Cosa, in una zona denominata Valle d’Oro, a cavallo tra gli attuali Comuni di Orbetello e Capalbio. Oltre all’affresco, che all’indomani della mostra «La Romanizzazione dell’Etruria», nel 1985, non era piú visibile, la mostra illustra alcuni dettagli delle decorazioni interne degli edifici attraverso un percorso di visita che,

Due immagini dell’affresco rinvenuto nella villa romana di Settefinestre, recentemente restaurato nell’ambito del progetto «Puntiamo i riflettori» promosso dal Gruppo FAI Maremma e attualmente esposto nell’ex Polveriera Guzman di Orbetello.

oltre alla Polveriera Guzman, coinvolge il Museo Archeologico di Cosa ad Ansedonia e offre anche l’occasione di vedere, restaurata, un’altra pregevole pittura murale, in questo caso provienente dalla Casa di Diana della stessa Cosa. In occasione del restauro e della successiva mostra, Maddalena Ottali, Assessore alla Cultura del Comune di Orbetello, ha ricordato come «l’Amministrazione Comunale abbia fortemente voluto e sostenuto l’iniziativa promossa dal Gruppo FAI Maremma con il sostegno della Soprintendenza Archeologia della Toscana. In particolare abbiamo chiesto che l’intervento divenisse occasione di allestimento di una mostra che offrisse l’occasione di conoscere da vicino un reperto tanto importante e l’altrettanto importante lavoro di restauro effettuato. L’iniziativa si

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pone in linea con la volontà di avviare un dialogo costruttivo con la Soprintendenza su temi particolarmente importanti per il settore della Cultura di Orbetello e dell’intero territorio provinciale, che prima di tutto verterà sull’esigenza fortemente sentita di riapertura del Museo Archeologico allestito presso la Polveriera Guzman». (red.)

DOVE E QUANDO «Il Gruppo FAI Maremma per Settefinestre: il recupero di un affresco. Dettagli di interni tra la villa romana e la città di Cosa» Orbetello, ex Polveriera Guzman fino al 15 novembre Orario gio-ve, 10,00-13,00; sa-do,16,00-19,00 Info e-mail: maremma@gruppofai. fondoambiente.it



A TUTTO CAMPO Roberto Farinelli e Maria Alessandra Bilotta

COME UN LIBRO APERTO FRA LE NUMEROSE DISCIPLINE CON CUI L’ARCHEOLOGIA PUÒ STABILIRE PROFICUI RAPPORTI VI SONO SENZA DUBBIO LE SCIENZE DEL LIBRO. ANCHE PERGAMENE E CODICI MINIATI SONO INFATTI IN GRADO DI RESTITUIRE INFORMAZIONI UTILI ALLA RICOSTRUZIONE STORICA DEI CONTESTI

C

ome si comporterebbe un archeologo se tra i reperti di uno scavo emergessero le pagine in pergamena di un libro manoscritto medievale, magari ornato di miniature? Non è infrequente che, demolendo la volta di un edificio antico, nel materiale di riempimento si rinvengano pagine di testi manoscritti, rimaste in buono stato di conservazione perché la pergamena, al riparo dall’umidità, è molto resistente alle insidie del tempo. In alcuni casi le indagini di scavo hanno portato alla luce curiosi oggetti originariamente utilizzati nello scriptorium (luogo delegato alla scrittura) o pertinenti all’archivio di un ricco monastero; in altri casi è stato rinvenuto il sigillo bronzeo con il quale un notaio, nella sua dimora, conferiva solennità alle proprie scritture, ispirandosi ai rituali delle cancellerie imperiali e pontificie. Per rispondere a domande del genere, un gruppo di medievisti, archeologi e studiosi del libro manoscritto ha messo a confronto i rispettivi metodi di ricerca, con lo scopo di giungere a una ricostruzione piú definita della materialità e dei contesti di

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Alessandra Bilotta – studiosa del libro manoscritto medievale, autore ospite di questa rubrica –, Catarina Tente e Sara Prata, archeologhe medieviste, tutte ricercatrici presso l’Instituto de Estudos Medievais (IEM) dell’Universidade Nova di Lisbona.

PRODUZIONE E TRASMISSIONE

Pagina miniata di un manoscritto medievale (ms. LA 212, f. 1r) conservato presso la Fondazione Calouste Gulbenkian di Lisbona. produzione e di uso dei reperti archeologici e dei manoscritti. L’esperimento di dialogo e confronto metodologico ha costituito l’obiettivo di un Workshop internazionale, svoltosi a Lisbona nel 2015 e organizzato da Maria

L’idea di fondo del Workshop scaturiva dal considerare il manoscritto come un peculiare manufatto archeologico, dal momento che l’approccio archeologico allo studio del libro medievale miniato, unito all’interesse per l’aspetto quantitativo della produzione manoscritta, facilita la comprensione della sua storia materiale e delle modalità di trasmissione dei testi. Oggetto degli interventi sono stati gli aspetti strutturali del processo di produzione materiale del codice miniato, vale a dire i procedimenti produttivi, le operazioni di fascicolazione, cucitura, legatura, mise en page e mise en livre dei testi. Gli archeologi hanno presentato diversi casi di studio, evidenziando, per esempio, come


A destra: Montalcino, Siena, chiesa abbaziale di S. Antimo. Particolare della «charta lapidaria» nel pilastro polistilo in cornu evangeli. In basso: frammento giuridico miniato reimpiegato come coperta. XIV sec. Évora, Biblioteca Pública Municipal. l’analisi delle epigrafi, nell’ottica di un’«archeologia dell’epigrafia», contribuisca allo studio degli insediamenti medievali. Diviene cosí possibile indagare i modi di produzione, commercio e uso dei libri manoscritti medievali, come pure i loro sorprendenti riusi, una volta trasformarti in frammenti di pergamena. Novità importanti possono emergere dallo studio archeologico dei processi produttivi e delle tecniche impiegate per confezionare e reimpiegare i libri nel Medioevo (organizzazione del lavoro, trasmissione delle tecnologie) e

dallo studio delle dinamiche sociali, antropologiche, economiche e ambientali legate a tali processi di produzione e reimpiego.

DA BOLOGNA AL PORTOGALLO Per esempio, nuovi elementi sono emersi dallo studio «archeologico» di analisi e contestualizzazione di un frammento giuridico miniato, conservato nella Biblioteca Pública di Évora (Pergaminhos fragmentados doc. 97 Pasta 1), proveniente da un manoscritto smembrato e successivamente reimpiegato come coperta di un

registro notarile. Partendo dall’analisi della decorazione miniata del frammento, realizzata a Bologna nel XIV secolo, è stato possibile offrire un quadro dettagliato riguardo alla circolazione di libri manoscritti in territorio portoghese, restituendo cosí un aspetto rilevante degli scambi economici e culturali internazionali che si sono verificati nel Medioevo su tale territorio e sul territorio europeo. Piú in generale, utili elementi di riflessione emergeranno dall’analisi del frammento manoscritto se considerato come un reperto archeozoologico tramite, per esempio, le implicazioni relative all’identificazione delle zone di provenienza degli animali da cui sono state ricavate le pergamene. La collaborazione scientifica appena descritta ha aperto cosí la strada a nuove prospettive di ricerca e a nuove collaborazioni tra l’Università di Siena e la Faculdade de Ciências Sociais e Humanas della Universidade Nova di Lisbona, tra le quali, per esempio, la creazione di un programma Erasmus tra i Dipartimenti di Archeologia delle due università. (roberto.farinelli@unisi.it; maria.bilotta@fcsh.unl.pt)

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n otiz iario

MOSTRE Lazio

CERVETERI, CITTÀ DELLA PITTURA

L’

immagine e la valutazione della pittura etrusca è legata tradizionalmente alle eccezionali tombe dipinte di Tarquinia, alle quali tuttavia si aggiungono le testimonianze riportate alla luce anche in altri centri, come Veio, Vulci, Orvieto e Chiusi. Ora la situazione si va facendo piú ricca e variegata grazie al riesame delle lastre dipinte di Cerveteri reso possibile e stimolato da un recente recupero operato dal Comando dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale. Novità che hanno indotto Mario Torelli ad affermare che Cerveteri può essere considerata ora «la capitale dell’arte pittorica dell’Etruria», prima della piena affermazione delle maestranze attive a Tarquinia. Dopo indagini avviate nel 2014 e condotte in

collaborazione con le autorità elvetiche, il recupero è avvenuto nel porto franco di Ginevra, dove sono state trovate ben 45 casse contenenti reperti provenienti dall’Etruria meridionale, dalla Campania, dalla Sicilia, dalla Puglia, dalla Calabria, e databili tra il VII secolo a.C. e il II secolo d.C. E fra di essi si trovavano quasi 2000 frammenti di lastre dipinte tipiche dell’artigianato artistico di Cerveteri, la polis etrusca piú aperta verso il Mediterraneo. Contemporaneamente, in base a un accordo di cooperazione tra il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, sono rientrati in Italia altri 86 frammenti di lastre dipinte ceretane e ulteriori frammenti sono stati scoperti in scavi condotti negli ultimi anni, come, per esempio, in località Manganello. Francesco Roncalli, che, nel 1965, era stato l’autore del primo studio moderno su questa

classe di materiali ha osservato che – con le nuove acquisizioni – il corpus fin qui noto è piú che raddoppiato. Tale dato suggeriva la necessità di una rivisitazione completa della produzione e, piú generale, dell’attività dei pittori attivi a Cerveteri. I primi risultati di questa revisione sono confluiti nella mostra «Pittura di terracotta», allestita nel castello di Santa Severa (Santa Marinella). La sua preparazione ha previsto innanzitutto l’esame dei frammenti sequestrati a Ginevra: ne sono stati puliti e siglati 1793, suddivisi tra 899 che non hanno trovato attacchi e 894 che hanno consentito di ricomporre 180 unità piú grandi. Numeri che danno un’idea del lavoro svolto, accompagnato da analisi sulle argille e sulle vernici, e condotto anche sui frammenti della Ny Carlsberg Glyptotek. Sono state quindi riconosciute alcune serie: una incentrata sulle fatiche di

In questa pagina: due lastre dipinte esposte nel castello di Santa Severa. Produzione ceretana, 530-500 a.C.

A sinistra, la cattura della cerva di Cerinea da parte di Eracle; in basso, un cavaliere lanciato al galoppo.


BERLINO

Pompei: bilanci e prospettive Lastra dipinta frammentaria con scena interpretabile come la lotta di Eracle contro il leone nemeo. Produzione ceretana, 530-500 a.C.

Eracle; altre due caratterizzate da figure di danzatrici, musicisti e atleti; una quarta, scarsamente documentata, accomunata dalla presenza di una cornice inferiore a scacchiera e da figure rese in una scala minore rispetto alle altre; la quinta evidenziata sulla base di una concezione tecnica diversa trattandosi di una sorta di «mattonelle», che dovevano a loro volta comporre una scena piú ampia. Secondo Roncalli, la datazione delle nuove lastre – almeno in gran parte – va collocata tra il 530 e il 500 a.C. La mostra si sofferma anche sulla collocazione originaria delle lastre che erano destinate a decorare le celle (o i pronai, secondo Mario Torelli) dei templi, gli edifici pubblici e le dimore aristocratiche piú che le tombe. Al loro interno alcune sono state trovate, ma forse vi erano state reimpiegate.

Merita infine d’essere ricordata la lettura proposta da Daniele Maras per una delle lastre provenienti da Copenaghen. Essa presenta nel fregio principale (a partire da sinistra): una figura femminile con il capo velato che indossa un chitone; una seconda donna avvolta solo da un manto trasparente, con trecce che scendono sulle spalle e un diadema; un giovane, vestito con un chitone, munito di una lunga lancia e con accanto un cane. L’età giovanile, la lancia e il cane sembrano caratterizzarlo come un cacciatore. Nella ricostruzione proposta convincentemente da Maras dovremmo trovarci di fronte a un mito molto raro: il giovane Tiresia che, durante una battuta di caccia, sorprende Atena nuda mentre si bagna. La dea, furiosa, lo rende cieco e solo in un secondo momento, su pressione della ninfa Chariclos, madre del ragazzo, gli concede il dono della profezia. Giuseppe M. Della Fina

DOVE E QUANDO «Pittura di terracotta. Mito e immagine nelle lastre dipinte di Cerveteri» Santa Marinella, Castello di Santa Severa fino al 22 dicembre Info tel. 06 39967999; www.castellodisantasevera.it

«Avvennero molti infortuni a questo mondo, ma nessuno che valga ad arrecare cotanta soddisfazione ai posteri. Non ho visto finora cosa piú interessante di quella città sepolta». Cosí si espresse Johann Wolfgang Goethe nel Viaggio in Italia dopo aver visitato Pompei. E due lettere di Plinio il Giovane allo storico Tacito ci hanno tramandato una minuziosa descrizione dell’eruzione del Vesuvio che, nel 79 d.C., distrusse e seppellí le città vesuviane, perfettamente conservatesi sotto gli strati vulcanici fino alla loro scoperta avvenuta nel Settecento. Preservare un «museo a cielo aperto» come Pompei, rappresenta oggi piú che mai un’enorme sfida, sia per la conservazione, sia per la valorizzazione del patrimonio. È stato questo il tema della relazione che, Massimo Osanna, Direttore Generale del Parco Archeologico di Pompei, ha presentato a Berlino, presso l’Ambasciata d’Italia, illustrando il «Grande Progetto Pompei». Si tratta di un piano concepito per fornire una nuova immagine alla città vesuviana, già avviato nel 2012 con finanziamenti europei e nazionali e prorogato fino al 2020. I risultati finora ottenuti contribuiscono in maniera sostanziale al crescente successo di pubblico (3,5 milioni di visitatori nel 2017), grazie anche alla riapertura di 37 domus a lungo inaccessibili, il cospicuo ampliamento della rete viaria urbana per rendere accessibile gran parte del sito e i numerosi spettacolari ritrovamenti degli scavi. (red.)

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

PAESTUM: LAVORI IN CORSO ALL’INDOMANI DELL’ULTIMA CAMPAGNA DI SCAVO CONDOTTA PRESSO L’HERAION ALLA FOCE DEL SELE, ABBIAMO INCONTRATO GABRIEL ZUCHTRIEGEL. IL QUALE, OLTRE A RIEPILOGARE I RISULTATI DELLE ULTIME INDAGINI, SVELA IN ANTEPRIMA LE SUE IPOTESI SULL’INTERPRETAZIONE DELLE METOPE PROVENIENTI DAL CELEBRE SANTUARIO

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roseguono, a Paestum, le ricerche archeologiche presso l’Heraion alla Foce del Sele, santuario arcaico da cui proviene il grandioso ciclo di metope che raffigurano le imprese di Eracle, risalenti al secondo quarto del VI secolo a.C. e oggi conservate nel Museo Archeologico Nazionale di Paestum. In occasione dell’ultima campagna di scavo, appena terminata, abbiamo incontrato Gabriel Zuchtriegel, Direttore del Parco Archeologico di Paestum, che nel volume L’estinzione dei centauri, di prossima

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pubblicazione, intende offrire una lettura inedita di questo importante monumento dell’arte dorica di epoca arcaica. Direttore, quali novità emergono dalle ultime ricerche archeologiche condotte presso il santuario di Hera alla Foce del Sele? «Da tempo l’Università degli Studi di Napoli “Federico II” porta avanti un progetto di ricerca che riprende i vecchi scavi Zancani-Montuoro e Zanotti-Bianco: nel corso dell’ultima campagna di scavo, diretta dall’archeologa Bianca Ferrara, al di sotto di una fattoria di

epoca romana, è stato messo in luce un edificio in blocchi di calcare databile all’epoca arcaica o tardo-classica, probabilmente relativo al santuario di Hera. La struttura dista circa 100 m rispetto grande tempio tardo arcaico e agli altri edifici di culto che sorgono nel santuario alla Foce del Sele (porticati, altari, una struttura a pianta quadrata) e contiene materiali databili alla fine del VI secolo a.C. Doveva essere dunque, probabilmente, legata al complesso sacro dedicato a Hera».


Ma sono molti gli aspetti ancora sconosciuti o discussi di questo importante monumento dell’arte greca… «Sí, eppure il santuario arcaico era cosí importante e famoso da far parlare di sé persino in epoca romana quando, forse, era già abbandonato. Gli archeologi ancora oggi discutono sul nome del santuario (“di Hera Argiva” o “Argogna”?), sulle origini del monumento – che sembrerebbe nascere con la città di Paestum – o sull’epoca del suo definitivo abbandono. Tuttavia, al di là delle questioni ancora aperte tra gli studiosi, una cosa è certa: le metope che sono esposte al Museo di Paestum – di cui ho cominciato a occuparmi per motivi di museologia e didattica – hanno un potenziale scientifico che a mio avviso è molto piú elevato di quanto non si pensi, come cercherò di spiegare nel libro L’estinzione dei centauri (edito dalla collana di studi del Parco Archeologico di Paestum, Argonautikà), che uscirà prossimamente. Queste metope ci dicono davvero qualcosa di essenziale sull’inizio della grande architettura monumentale in pietra». E che cosa suggeriscono in particolare le metope? «Si tratta di uno dei primi fregi dorici che conosciamo, databile al secondo quarto del VI secolo a.C. In nessun sito archeologico del Mediterraneo si conservano tante metope e cosí antiche. In Sicilia, a Selinunte, c’è il tempio “Y”, che è coevo, in Grecia ci sono Delfi e Micene, da cui proviene un reperto anche piú antico, che potrebbe essere una metopa. Con la decorazione del santuario di Hera alla Foce del Sele siamo all’inizio dell’architettura dorica in pietra. Un tema questo – l’origine dell’architettura dorica – ancora molto dibattuto dagli studiosi.

A destra: Paestum. Foto da drone del settore C dell’area scavata nei pressi dell’Heraion alla Foce del Sele. In basso: studenti impegnati nell’attività di scavo. Nella pagina accanto: metopa con l’immagine di un centauro morente, dall’Heraion alla Foce del Sele. Paestum, Museo Archeologico Nazionale.

Secondo l’opinione comune, il dorico sarebbe l’esito di un evoluzione dall’architettura in legno, come suggerisce Vitruvio e poi ribadisce Winckelmann. Fino a oggi l’idea dominante è stata quella della “litizzazione” dorica, cioè di un’evoluzione naturale di forme dal legno alla pietra. Se consideriamo che il fregio dell’Heraion del Sele sta all’inizio dell’architettura dorica in pietra, vi è già tutta l’immensità dei temi mitologici e dell’esecuzione tecnica dei tempi successivi. Non si ravvisa un’evoluzione nel tempo. L’architettura dorica, dunque, cosí come appare nel VI secolo a.C., è il risultato di una vera e propria

rivoluzione degli spazi sacri, nonché della società e della religione greca, che in quell’epoca cambiano radicalmente». Finora non è stato individuato l’edificio da cui provengono le metope arcaiche del santuario di Hera alla Foce del Sele, che sono state rinvenute in giacitura secondaria o riutilizzate in altri edifici. Che cosa è emerso dall’ultima campagna di scavo? «Siamo ancora alla ricerca del tempio a cui appartenevano le metope. Speriamo che gli scavi futuri possano aiutare a definire la collocazione originaria di questo fregio. L’idea del thesauron non ha fondamento, perché – come hanno dimostrato gli scavi condotti in passato da Giovanna Greco, archeologa dell’Università “Federico II” di Napoli – questo edificio è molto piú tardo. Ma troppo spesso la discussione si è concentrata su temi che hanno distolto l’attenzione dall’importanza delle metope stesse, oscurando il valore di questo fregio nella storia dell’architettura dorica. Un significato che, a mio avviso,

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Paestum. Resti di una casa di epoca tardo-arcaica riportati alla luce alle spalle del Tempio di Nettuno.

non è minore rispetto ai grandi tempi di Paestum». Perché ritiene che l’importanza di questo fregio sia stata sottovalutata? «Mentre gli altri monumenti del VI secolo a.C. presenti in Italia e in Grecia hanno restituito due, tre o quattro metope al massimo, il santuario di Hera alla Foce del Sele ne ha ben 40: offre quindi un’idea straordinariamente efficace del programma figurativo dorico, permettendoci di apprezzare tutta la complessità del disegno esistente dietro a questa opera d’arte. Siamo agli esordi dell’architettura dorica in pietra, ma c’è già una visione panellenica che prescinde quasi totalmente dal contesto locale, che sarà tipica del VI e in parte del V secolo a.C. Sulle metope di Paestum sono raffigurati gli stessi miti che troviamo in Sicilia, a Selinunte, o in Grecia, nel Peloponneso, ad Atene, Corinto e Sparta: le fatiche di Eracle o Europa sul toro sono temi ricorrenti sia nella madrepatria che nelle colonie del Sud Italia. Nell’arte magno-greca si crea una forte identificazione con il patrimonio standardizzato di miti panellenici che troviamo, per esempio, nella poesia di

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un uso strumentale e propagandistico di questo linguaggio figurativo, accentrando in questi santuari i contenuti religiosi, mentre il paesaggio veniva desacralizzato. Mentre prima tutto aveva una sacralità e una divinità, dai monti alle sorgenti, nel VI secolo a.C. gli spazi si restringono, anche per effetto del popolamento e dell’estensione dell’agricoltura, e il paesaggio viene svuotato dai significati religiosi. Nella mia lettura, la monumentalizzazione dei santuari in epoca arcaica rappresenta un tentativo di dare una “casa” alle divinità che prima abitavano il paesaggio». Stesicoro. A mio avviso, il canone Quali altri scavi sono in corso nel dorico può essere letto come il Parco Archeologico di Paestum? tentativo di creare un mondo «L’Università di Salerno sta comune con la terra di origine in attualmente indagando il santuario un momento di diaspora, quando di Atena, mentre noi, come Museo i colonizzatori greci vivevano fra Archeologico di Paestum, abbiamo genti non greche». in progetto lo scavo della casa di Quali metope, in particolare, epoca tardo-arcaica, in grandi suggeriscono questa lettura blocchi di pietra, che è stata dell’arte dorica arcaica? individuata alle spalle del Tempio di «C’è un gruppo di metope che Nettuno. Si tratta di una casa forma un vero e proprio ciclo nel monumentale costruita per una ciclo: quelle in cui si narra della committenza molto facoltosa. lotta di Eracle con i Centauri, sul Nella città abbiamo scavato templi, monte Pholoe, in Arcadia, che ebbe mura e tombe, ma mai una casa di come risultato l’estinzione dei epoca preromana: non sappiamo mitologici quadrupedi. Mi sono come abitavano questi Greci. chiesto: cosa ci fanno i centauri L’architettura domestica magno dell’Arcadia alla foce del Sele? greca è ancora poco conosciuta, e Come si spiega la presenza a vorremmo realizzare una bella Paestum di miti relativi a imprese pubblicazione su questo tema che Eracle compí in Arcadia? inedito. Grazie a una Perché in Magna Grecia vengono sponsorizzazione privata, come già raffigurate imprese ambientate in è stato fatto negli anni scorsi, Grecia, quando invece Eracle, indiremo due borse di ricerca per secondo il mito, compí imprese studenti destinate allo scavo della anche in Italia? C’è una casa. Il finanziamento delle ricerche disconnessione tra il luogo reale e il archeologiche da parte di sponsor mito, perché questo è diventato un privati è un mezzo per stringere un simbolo, un richiamo a qualcosa di legame con il territorio e mobilitarlo diverso, con un significato in favore della cultura. allegorico e astratto. La raccolta di fondi non è solo una Il ceto dominante di epoca fonte di introiti, è un modo per arcaica, cioè gli aristocratici aprire il museo ai cittadini e alla tiranni del VI secolo a.C., faceva comunità locale».





n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

UNA «BIONDA» DI SUCCESSO L’articolo sulle origini della birra (vedi alle pp. 54-63) ci offre lo spunto per le consuete note filateliche, che questa volta, però oltrepassano 1 gli schemi tradizionali. Le tracce piú antiche della bevanda vanno dalla Spagna al Caucaso, dalla Germania all’Egitto fino alla Mesopotamia; sembra, infatti, che resti di birra si trovino su manufatti risalenti al IV millennio a.C. e che citazioni compaiano già nell’epopea di Gilgamesh, in parte pervenutaci su tavolette cuneiformi (1), e poi nel codice del re Hammurabi, qui nel francobollo dell’Iraq (2). 4 Le incertezze sulle origini riguardano sia la materia prima – orzo, frumento o miglio –, sia i metodi di lavorazione. Sappiamo, per esempio, che in Egitto lo zythos, una bevanda affine alla birra e molto diffusa soprattutto tra le classi piú umili (3), era un derivato dall’orzo (4). La birra, nell’antichità, era considerata una «selvatica» (5, emblematica la scultura di legno di un indigeno che beve birra) 7 contrapposta al piú signorile vino (6). L’imperatore Giuliano, ricordato da una colonna eretta in suo onore ad Ancira (l’odierna Ankara, 7), aveva composto l’epigramma per cui «il vino profuma di nettare, la birra puzza di caprone»; anche il medico Galeno (8) sosteneva che la «birra provocava flatulenze e cattivi odori». A differenza dello zythos, le bevande di area celtica sopravvissero ai Romani, che usavano il miele (9) per addolcirla non conoscendo ancora le proprietà del luppolo (10), e da esse derivano in pratica le birre medievali (11) e moderne (12). Una citazione della caelia, antenata della birra, è legata alla caduta di Numanzia (13), assediata dai 12 Romani; i Numantini, in pratica, si ubriacarono con la caelia in una sorta di rito sacrificale, prima di subire l’assalto finale dei Romani. Un’altra citazione del 449 d.C. proviene da Prisco di Panio, un cittadino romano di cultura greca, che faceva parte di un’ambasceria alla corte di Attila, re degli Unni (14). Egli racconta della diversità di trattamento riservata ai messi e ai loro accompagnatori; questi ultimi non ricevettero vettovaglie come i primi, bensí orzo e una bevanda fatta di miglio chiamata «kamon».

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



CALENDARIO

Italia ROMA Il Palatino e il suo giardino segreto Nel fascino degli Horti Farnesiani Palatino fino al 28.10.18

Traiano

Costruire l’Impero, creare l’Europa Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 18.11.18

MILANO Picasso Metamorfosi

Il maestro a confronto con l’antichità e il mito Palazzo Reale fino al 17.02.19 (dal 18.10.18)

Pablo Picasso, Piastrellina decorata con un baccanale.

NAPOLI Le ore del sole I Confini dell’Impero Romano

Il Limes Danubiano. Da Traiano a Marco Aurelio Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 18.11.18

L’anfiteatro e il ludus di Carnuntum in 3D.

PIOMBINO (LIVORNO) Sapere di mare

L’uomo e il mare un legame millenario Museo etrusco di Populonia Collezione Gasparri fino al 04.11.18

Ovidio

Amori, miti e altre storie Scuderie del Quirinale fino al 20.01.19

Romani a Populonia

La Roma dei re

Il racconto dell’archeologia Musei Capitolini fino al 27.01.19

FERRARA L’opera al nero

La ceramica attica alle origini di Spina Museo Archeologico Nazionale fino al 05.11.18

Coppa con Atena e il cavallo di Troia.

FRANCAVILLA MARITTIMA (COSENZA) Francavilla Marittima, un patrimonio ricontestualizzato Palazzo de Santis fino al 15.01.19 26 a r c h e o

10 anni di ricerche all’Area archeologica di Poggio del Molino Museo etrusco di Populonia Collezione Gasparri fino al 06.01.19

SANTA MARIA CAPUA VETERE (CASERTA) Annibale a Capua Museo archeologico dell’antica Capua fino al 28.10.18

FIRENZE A cavallo del tempo

L’arte di cavalcare dall’antichità al Medioevo Limonaia del Giardino di Boboli fino al 14.10.18

Geometria e astronomia negli antichi orologi solari romani Museo Archeologico Nazionale fino al 31.01.19

Statuette votive forse raffiguranti Atena.

SANTA MARINELLA (ROMA) Pittura di terracotta

Mito e immagine nelle lastre dipinte di Cerveteri Castello di Santa Severa fino al 22.12.18

SIRACUSA Archimede a Siracusa Experience exhibition Galleria Civica Montevergini fino al 31.12.19


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Germania

TORINO Anche le statue muoiono

BERLINO Tempi inquieti

Museo Egizio fino al 06.01.19 (prorogata)

L’archeologia in Germania Gropius Bau fino al 06.01.19

Ercole e il suo mito Reggia di Venaria fino al 10.03.19

FRANCOFORTE L’oro e il vino

VENEZIA Idoli

I piú antichi tesori della Georgia Archäologisches Museum fino al 10.02.19

Il potere delle immagini Palazzo Loredan, Isituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti fino al 20.01.19

Busto di divinità in carapace di tartaruga. II sec. d.C.

Paesi Bassi

VETULONIA (GROSSETO) L’antico Egitto IN VITA a Vetulonia

A casa di un operaio artista della Valle dei Re Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 04.11.18

VITERBO I tesori di Tutankhamon

LEIDA Dèi dell’Egitto

Belgio

Svizzera

BRUGES Mummie

HAUTERIVE Orso

Rijksmuseum van Oudheden fino al 31.03.19 (dal 12.10.18)

Repliche dall’Egitto a Palazzo dei Papi Palazzo dei Papi fino al 28.10.18

Segreti dell’antico Egitto Xpo Center Bruges fino all’11.11.18

Aleppo, aprile 2017. Immagine 3D del suk della città siriana.

Laténium, Parc et musée d’archéologie de Neuchâtel fino al 06.01.19

Francia

USA

PARIGI Città millenarie

NEW YORK Nedjemankh e il suo sarcofago d’oro

Un viaggio virtuale da Palmira a Mosul Institut du monde arabe fino al 10.02.19

Il sarcofago dorato del sacerdote Nedjemankh.

The Metropolitan Museum of Art fino al 21.04.19 27


CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli

A TAVOLA CON MINOSSE

CHE COSA SI PORTAVA IN TAVOLA IN EPOCA MINOICA? E, SOPRATTUTTO, COME SI CUCINAVANO LE PIETANZE? DA QUESTI INTERROGATIVI HA PRESO LE MOSSE UN INTERESSANTE PROGETTO DI ARCHEOLOGIA SPERIMENTALE SVILUPPATO DA JEROLYN MORRISON

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li scavi archeologici restituiscono in grande abbondanza manufatti ceramici; e spesso non si tratta di ceramiche fini decorate, bensí di ceramica grezza, impiegata tra l’altro per preparare e cucinare cibi. Questa osservazione ha spinto Jerolyn E. Morrison – antropologa e archeologa statunitense che ha conseguito un dottorato presso l’Università di Leicester – a dedicarsi allo studio della ceramica da cottura, in particolare quella minoica. Ormai vent’anni fa, l’occasione le fu offerta da un viaggio a Creta, l’isola che ora è diventata la sua seconda patria.

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In questa pagina: repliche di vasi minoici utilizzati per la cottura dei cibi, sperimentata dalla studiosa Jerolyn Morrison.

L’obiettivo era quello di raccogliere e lavorare argilla grezza da trasformare in vasi; da allora, Morrison ha partecipato a diversi scavi, potendo cosí studiare da vicino le ceramiche grezze minoiche e sviluppare il suo progetto. L’idea è semplice: replicare le forme della ceramica minoica, impiegando le stesse tecniche usate in antico, nell’intento di sperimentarne l’uso pratico, quello della cottura dei cibi. In qualità di esperta, Morrison fa parte delle équipe scientifiche di piú di un progetto di ricerca, tra cui quelli di Mochlos e Papadiokambos a Creta, come anche uno sull’isola di Coo, nel Dodecaneso. Negli anni,


ha imparato a ricostruire le ceramiche minoiche usando il tornio mosso a piede e ha sperimentato di propria mano la lavorazione dell’argilla cretese: un’argilla molto ricca di impurità e tanto elastica da richiedere accorgimenti particolari nella lavorazione, dettagli comprensibili solo a chi «si sporchi le mani».

INGREDIENTI E COTTURE Ma c’è di piú. Jerolyn Morrison è interessata anche a ricostruire l’uso pratico dei vasi minoici. Pur non avendo certo la pretesa di ricostruire scientificamente i sapori antichi, basandosi sull’impiego delle materie prime disponibili nella Creta minoica cerca di

immaginare come e cosa i Minoici cucinassero in questi vasi. Ha appreso quanto dura la cottura, come riscaldare lentamente un recipiente, quali tipi di ricette possono adattarsi meglio alle caratteristiche dei vasi minoici. Impiega prodotti attestati dalle ricerche archeologiche: lenticchie e fagioli, cereali, maiale, capra e pecora, pesce, granchi e frutti di mare, nonché vino e olio. Cosí, cerca di aggiungere un tassello a quanto conosciamo della civiltà minoica, una civiltà della quale si sono conservati molti elementi, ma di cui sfuggono tratti salienti della vita quotidiana. Uno per tutti: i vasi minoici da cottura sono soprattutto di dimensioni

medie e grandi, quindi adatti alla preparazione di quantità relativamente notevoli di cibo.

UN’ASSENZA SORPRENDENTE Che cosa si può dedurne? I Minoici consumavano i pasti in comune con la famiglia e il gruppo allargato? Oppure usavano cucinare meno frequentemente e poi consumare il cibo in gruppi piccoli, nel corso di piú giorni? Impiegavano soprattutto cibi cucinati oppure integravano la loro dieta con cibi crudi o conservati in vari modi, per esempio essiccati? Forse non potremo mai saperlo, ma resta interessante un dato: i Minoici cucinavano il cibo in diversi spazi,

Repliche di vasellame da mensa in uso durante uno dei pasti «alla minoica» proposti dalla studiosa statunitense.

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sia all’interno, sia all’esterno delle loro abitazioni. Avevano conoscenze avanzate nel campo dell’architettura: eppure, non costruirono mai un ambiente della casa o un apprestamento al suo interno, che fosse dedicato esclusivamente alla preparazione e alla cottura del cibo. Il progetto è in continua evoluzione e si sta rivelando un’interessante

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applicazione dell’archeologia sperimentale, che può essere anche un utile strumento didattico e avvicinare il grande pubblico alle sue tematiche. Morrison ne ha fatto anche una vera e propria impresa, che offre la possibilità di cucinare «alla minoica» e di assaggiare cibi cotti in repliche di vasi antichi e preparati con gli ingredienti fruibili nella

Repliche di forme tipiche del vasellame minoico da mensa. Creta minoica (per maggiori informazioni: www.minoantastes. com). Uno dei fini ultimi del progetto è quello di instaurare una collaborazione con organizzazioni locali, al fine di sensibilizzare il pubblico alle tradizioni cretesi: culinarie, ma non solo.







ESCLUSIVA • VILLA MEDICI

IL SEGRETO

IN UNA STANZA DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE, I SOTTERRANEI DI VILLA MEDICI A ROMA – DAL 1803 SEDE DELL’ACCADEMIA DI FRANCIA – FURONO CONCESSI AL BANCO DI ROMA COME DEPOSITO PER I PROPRI VALORI. SVUOTATI A GUERRA FINITA, LA MEMORIA DI QUEI CUNICOLI SI PERSE, FINO ALL’AVVIO DI INDAGINI ARCHEOLOGICHE. CHE HANNO EVIDENZIATO LA PRESENZA DI UN MISTERIOSO AMBIENTE MURATO, MAI RIAPERTO. FINO A OGGI di Vincent Jolivet e Rosanna Scatamacchia

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Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces. 36 a r c h e o

el giugno del 1940, quando l’Italia dichiara guerra alla Francia, la storia e lo statuto di Villa Medici a Roma, secolare e rinomata sede dell’Accademia di Francia, conosce un repentino cambiamento. La Villa, dal 1803 proprietà dello Stato francese, viene tempestivamente requisita e, tra il generalizzato consenso di nazionalisti e fascisti, «riconsegnata alla città». Rimosso – come fu fin troppo facile alla retorica del tempo enfatizzare – il «cuneo straniero infitto in uno dei piú suggestivi luoghi della città», si apriva per la bella residenza del cardinale Ferdinando de’ Medici un delicato quinquennio (vedi box a p. 38). I due Paesi che, nell’estate del 1940, si ritrovarono schierati su fronti opposti avevano alle spalle un ventennio di rapporti alterni segnati da contrasti e avvicinamenti, frutto di vecchie rivalità nel Mediterraneo e da ininterrotti flussi migratori degli Italiani verso la Francia, alimentati da ragioni economiche e politiche. Fra il 1937 e il 1939, in concomi-


Nella pagina accanto: ministri del governo francese giunti a Roma per l’occasione e membri dell’Accademia di Francia danno il benevenuto a Villa Medici al re d’Italia Vittorio Emanuele III e alla regina Elena del Montenegro durante i festeggiamenti per il centenario dell’insediamento dell’istituzione nell’edificio sul Pincio, da Le petit journal del 26 aprile 1903. In questa pagina: Villa Medici in una foto del 1865.


ESCLUSIVA • VILLA MEDICI

UNA VILLA SONTUOSA, IN CONTINUITÀ CON IL GLORIOSO PASSATO DEL SITO Il sito del casale del cardinale Marcello Crescenzi, sul versante occidentale del Pincio, fu scelto nel 1564 dal cardinale toscano Giovanni Ricci da Montepulciano per edificarvi uno splendido edificio, che lui non vide mai ultimato: alla sua morte, nel 1567, un altro cardinale, il giovane Ferdinando de’ Medici comprò la villa e ne affidò il completamento all’architetto Bartolomeo Ammannati per dar lustro alla sua famiglia e favorire il proprio accesso al soglio di Pietro. Parallelamente, ingenti lavori consentirono di modificare completamente la topografia di questo settore, già sito degli antichi giardini del generale Lucio Licinio Lucullo, e di

inserire l’edificio all’interno di uno spazio accuratamente concepito per trasmettere l’idea di una continuità dal glorioso passato della città al suo promettente futuro. Presto caduta in disuso, la villa fu progressivamente spogliata del suo apparato decorativo, e gran parte delle antichità conservate nell’edificio o nel giardino furono trasportate a Firenze oramai sotto i Lorena. Nel 1803 – a seguito dello scambio effettuato da Napoleone con la precedente sede dell’Accademia di Francia, Palazzo Mancini – divenne sede dell’istituzione, una funzione che, tramite varie trasformazioni, adattamenti e crescenti interrogativi, conserva tuttora.

Prospettiva del giardino di Villa Medici a Roma, incisione di Giovanni Battista Falda per l’opera Li Giardini di Roma: con le loro piante alzate e vedvte in prospettiva. 1670. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

tanza con un peggioramento delle relazioni, la polemica antifrancese del regime fascista assunse connotazioni aspre, trasformandosi in reiterati atti offensivi sull’arco alpino con i quali venivano forzatamente spezzate antiche pratiche e solidarietà fra le comunità frontaliere. Com’è noto, la situazione piú avanti precipitò. Con la decisione italiana 38 a r c h e o

di entrare in guerra a fianco delle potenze dell’Asse, il 10 giugno 1940, si metteva in moto una politica di sequestri e confische di beni e proprietà immobiliari appartenenti ai Paesi nemici che non poteva non toccare i possedimenti francesi. Al Governatorato di Roma sedeva all’epoca Gian Giacomo Borghese, il quale, apponendo d’emblée la pro-

pria firma sulla procedura di confisca di Villa Medici, poneva fine alla lunga e vivace politica di scambi e contatti culturali. Grazie ai suoi ampi spazi, alla dotazione d’acqua e alla sua posizione,Villa Medici poté essere rapidamente trasformata in area privilegiata per quegli «orti di guerra» dei quali le città si erano ovunque popolate.Tre anni piú tar-


di, nell’estate del 1943, dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, la caduta del fascismo, la formazione del Governo Badoglio e l’annuncio dell’armistizio, si profilò per la capitale una situazione difficilissima sotto il profilo politico, amministrativo e militare, punteggiata, con sempre maggior frequenza, da sirene d’allarmi e da bombardamenti. Tanto violento quanto improvviso – oltreché durevole nella memoria – sarebbe stato quello dello scalo ferroviario e dell’adiacente quartiere di San Lorenzo il 19 luglio 1943 (vedi box alle pp. 40-41).

UN RIFUGIO IDEALE In questo contesto si inscrive la decisione del Banco di Roma, all’epoca uno dei primi istituti di credito nazionali, di cercare tempestivamente protezione e rifugio per i suoi valori e documenti. La scelta del luogo cadde proprio sulla Villa, affittando il locale sotterraneo «a forma di galleria esistente nel parco», da adibire a «servizi interni della Banca durante il periodo di emergenza». Pensato sin dal gennaio

Il Palazzo Mancini in via del Corso, che fu sede dell’Accademia di Francia dal 1725 al 1793, in un’incisione di

Giovan Battista Piranesi. 1750-1778. Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, Calcografia Nazionale.

1943, il trasferimento dei beni fu effettuato solo nell’agosto successivo. Per adattare i sotterranei della Villa alla loro nuova funzione – in particolare con «un sistema razionale di condizionamento d’aria che ha richiesto una particolare e complessa attrezzatura tecnica», in modo da

completare l’operazione «di accentramento dei tesori dalle varie filiali del Banco» –, l’istituto dovette infatti investire non poche risorse. (vedi box a p. 43). Questa singolare vicenda nella storia di Villa Medici sarebbe stata probabilmente destinata all’oblio – l’ar-

Piazza del Popolo Via del Corso

Villa Medici Piazzale della Repubblica

Quirinale

Stazione Termini

Basilica di S. Lorenzo

Piazza Venezia

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ESCLUSIVA • VILLA MEDICI

ESTATE 1943: ANCHE ROMA È NEL MIRINO All’indomani dell’entrata in guerra dell’Italia, quasi tutte le città italiane divennero oggetto di bombardamenti. In principio, i piú colpiti furono i centri industriali del Nord (Genova, Milano, Torino), o i porti del Mezzogiorno (Napoli e Messina), ma non furono risparmiate città piú piccole, come Rimini e Foggia. La situazione dell’Italia centrale, e di Roma in misura particolare, fu sufficientemente «protetta» sino alla primavera del 1943, tanto da determinare una sorta di continua «migrazione» verso la città. Con l’estate e la convinzione che il fascismo fosse ormai in crisi In alto: un’immagine del quartiere romano di San Lorenzo dopo il bombardamento del 19 luglio 1943. A destra: un’altra immagine del quartiere di San Lorenzo durante il bombardamento, in una foto ripresa da uno dei velivoli impegnati nell’operazione. Nella pagina accanto, a sinistra: un documento delle forze armate anglo-americane con l’elenco degli obiettivi che avrebbero dovuto essere colpiti dal bombardamento in cui viene anche specificato l’ordine di non colpire la Città del Vaticano. 40 a r c h e o

– rafforzata dalla sconfitta dell’Asse in Africa e poi dallo sbarco degli Alleati in Sicilia – si ebbe un’intensificazione dell’azione militare anglo-americana, parallela all’autorizzazione a effettuare bombardamenti sulla zona ferroviaria di San Lorenzo (giugno 1943). Nei dodici-quindici mesi successivi anche Roma si trovò dunque al centro d’intensi e violenti bombardamenti (se ne sarebbero contati circa 51 sino alla sua liberazione), considerati uno strumento essenziale per far crollare il residuo consenso e sostegno al fascismo.


Sebbene fossero definiti attacchi «di precisione» – giacché i bersagli coincidevano sulla carta con specifici obiettivi militari (l’aeroporto di Ciampino e gli scali ferroviari di San Lorenzo e Littorio) – i bombardamenti non risparmiarono i civili, causando circa 7000 vittime.

In alto: Roma, la basilica di S. Lorenzo dopo il bombardamento.

chivio dell’Accademia di Francia non conserva alcun documento al riguardo e, piú in generale, alla maggior parte del periodo bellico – se non ne avesse conservata memoria uno dei camerieri dell’istituzione (ed egli stesso figlio di camerieri dell’Accademia di Francia), Massimo Aloisi. Questi ancora negli anni Ottanta ricordava, seppur in modo alquanto impreciso e sfocato, l’uso dei sotterranei per nascondere i valori di una banca italiana. A dare concretezza ai suoi ricordi sono state due operazioni distinte, ma strettamente complementari. La prima si inseriva nell’ampio qua-

dro delle ricerche realizzate dalla Scuola francese di Roma e dal CNRS, dal 1981 al 2005, tramite scavi programmati, preventivi o di emergenza, nei terreni dell’Accademia di Francia e del convento di Trinità dei Monti che ospitavano, nell’antichità, i famosi Giardini di Lucullo, divenuti poi – dopo vicende in parte documentate dalle fonti, in parte rivelate dall’archeologia – sede principale del potere imperiale a Roma all’indomani del sacco di Alarico del 410 d.C. Lo studio della complessa rete sotterranea di questa parte del Pincio, risultata interamente traforata su diversi piani, da cave di tufo e di a r c h e o 41


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pozzolana e da sistemazioni idrauliche antiche, aveva infatti consentito di notare che molte antiche gallerie erano state chiuse da muri poderosi, due dei quali abbattuti dopo la guerra. La storia della banca, sino ad allora non accertata, acquistava cosí piena credibilità. La seconda, in ragione di una fortunata ricerca d’archivio svolta nel 2008, ha consentito di ritrovare, presso l’archivio del Banco di Roma, una consistente documentazione relativa ai lavori realizzati sul sito. Grazie a questa si è potuta avere non solo una piú esatta conoscenza dell’entità di questi lavori, ma anche, e soprattutto, della fisionomia della rete ipogea prima del 1940; si dispone cosí di una preziosa chiave di lettura di un complesso inspiegabilmente trascurato del giardino di Villa Medici. Anche se non è stato possibile – giacché le fonti sono comprensibilmente reticenti al riguardo – conoscere l’esatta consistenza e tipologia del materiale depositato dal Banco di Roma, i luoghi associati a questa complessa vicenda ne serbano tuttora un preciso ricordo archeologico.

UN LUOGO FRESCO E ADATTO AL VINO Il complesso ipogeo scavato sotto la terrazza del Bosco è chiaramente preesistente al conflitto, durante il quale viene considerato come ricavato nel tufo «da antica data». La sua realizzazione risale probabilmente all’epoca del primo costruttore della villa, il cardinale Giovanni Ricci da Montepulciano. Se, come racconta Giovanfrancesco Leone in una lettera all’amico cardinale Ferdinando de’ Medici – che aveva acquistato villa Ricci nel 1576, 42 a r c h e o

all’età di 27 anni –, egli non se la sentí nell’ottobre 1577 di visitare la grotta, «che la sentivo fresca fin da alto del cancello, et io ero un poco caldo», sappiamo da un inventario del 1588 che essa conteneva, «oltre ad alcune centinai di botte di vino, una tavola e due panche per assaporarci il vino durante le calde giornate d’estate». Il complesso, tuttora impressionante per estensione, profondità delle sale ipogee e volume di tufo necessario a rea-

lizzarlo, fa la sua comparsa in campo grafico sulla pianta di Villa Medici di Deodato Ray, del 1778, dove però sono segnati solo i primi gradini della scala, con l’indicazione «Scala per cui si scende alle Grotte ad uso di Cantine» (vedi foto a p. 44). La documentazione conservata presso l’archivio storico del Banco di Roma, risalente al gennaio 1943, propone all’attenzione una pianta e una sezione, ambedue a scala 1:100.


IL BANCO DI ROMA Il Banco di Roma venne fondato nel 1880, vale a dire negli anni dello sviluppo urbanistico della capitale, da tre nobili romani (il marchese Giulio Mereghi, il principe Sigismondo Giustiniani Bandini, il principe Francesco Borghese), e fu considerato a lungo lo strumento finanziario della Santa Sede. Agli inizi del XX secolo – assieme alla Banca Commerciale Italiana e al Credito Italiano – fu tra gli istituti che iniziarono una penetrazione all’estero. Il Banco fu in realtà il primo istituto italiano ad aprire, nel gennaio 1902, una filiale all’estero (a Parigi), e continuò in tale politica fino al 1914; fu altresí tra i principali sostenitori dell’impresa libica. Le ricadute della Grande Guerra

L’asse centrale del complesso era allora formato da una rampa costituita da piani inclinati scavati nel tufo, successivamente ricoperta dagli 84 scalini della gradinata attuale. In fondo alla scala si trovano gli spazi considerati come «locali utili», segnati in rosso sulla pianta, la cui superficie risulta all’incirca di 225 mq. La lunghezza totale del complesso è pari a 75 m. Si tratta di un dispositivo cruciforme, interamente sottostante alla terrazza del Bosco, eretta da Ferdinando de’ Medici. È costituito da una fila di tre alte stanze, precedute da due piccoli spazi laterali e da due braccia perpendicolari. L’autore della pianta indica, in due punti, la profondità dell’estradosso delle volte del complesso ipogeo, rispettivamente 11,70 m sotto il piano di calpestío del Bosco, a metà lunghezza della scala, e 13,90 m per le sale piú basse. Sulla pianta, lo spessore dello strato di terra viene stimato, in questi due

complicarono il complesso delle attività economiche europee e la vita delle banche. In quegli anni il Banco di Roma conobbe una riduzione dei depositi e un deterioramento dei conti, stavolta però non supportato dall’aiuto della Santa Sede. Durante la crisi dei primi anni Venti venne «salvato» per volontà e scelta politica. Nel 1934, però, anche a seguito dell’impatto in Europa della crisi del 1929, la situazione delle banche italiane si aggravò e la maggioranza delle azioni e delle partecipazioni del Banco (assieme a quelle della Commerciale e del Credito) passò all’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale); nel 1937 il Banco fu riconosciuto banca di interesse nazionale (Bin).

Nella pagina accanto: ripresa dall’alto dei giardini di Villa Medici durante lo scavo dei resti del palazzo imperiale di Onorio (395-423 d.C.). In alto: manifesto di propaganda in cui gli Italiani vengono invitati a

sottoscrivere i Buoni del Tesoro del Banco di Roma per sostenere lo sforzo bellico e difendere la lira. 1942. In basso: un’immagine degli ambienti ipogei esplorati in occasione degli scavi del palazzo imperiale.

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In alto: la pianta disegnata da Deodato Ray nel 1778 che attesta come il complesso di gallerie esistesse già a quel tempo.

punti pari a 1 m e 1,60 m, con una linea orizzontale marrone che indica la superficie del banco di tufo; tale profondità non coincide con quella ricavata dai dati archeologici, che consentono di fissarla intorno ai 5 m. La profondità del complesso era dunque di poco inferiore, in linea di massima, ai 20 m. I sotterranei che circondano questo gruppo di sale serbano una chiara testimonianza dell’uso che, del complesso ipogeo, fu fatto dal Banco di Roma. Esso era infatti connesso, a metà altezza della scala di accesso, con una rete di cunicoli e di gallerie molto estesa, comprensivo dell’intero versante occidentale del Pincio,

dalla Trinità dei Monti alla Casina Valadier. Al livello piú basso, vi erano gallerie di tufo e di pozzolana, sicuramente sfruttate per la costruzione degli edifici di età rinascimentale, ma forse di origine ancor piú remota. L’accesso a queste galle-

rie, che avveniva attraverso la cantina trasformata in riparo antiaereo, era stato chiuso con una porta di cui sono tuttora visibili i cardini, posizionati alla base della scala che collega i due principali livelli di gallerie, e al di là della quale erano allog-

Pianta e sezione in scala 1:100 degli ambienti ipogei di Villa Medici conservate presso l’archivio del Banco di Roma. La freccia di colore rosso sulla pianta indica la stanza murata. 44 a r c h e o


La scala di accesso al complesso ipogeo.

giate le caldaie e le riserve di carbone. Al livello superiore, la rete delle antiche gallerie risale a tre epoche diverse: cunicoli da cisterna di età repubblicana e di età augustea; acquedotto di età giulio-claudia. Al fine di garantire la protezione del patrimonio depositato dal Banco, tali cunicoli furono accuratamente chiusi in tutti i punti – 14 quelli

accertati – che potevano consentire un accesso, dall’esterno o dall’interno del terreno dell’Accademia, al deposito di valori. Non si tratta di una chiusura realizzata al solo scopo di sbarrare il passaggio per visitatori incauti, ma di una misura atta a vietare ogni possibile accesso. Ne è prova evidente lo spessore dei muri, verificabile nei due punti dove essi

sono stati poi in parte demoliti, onde consentire la riapertura del passaggio: costruiti con grossi blocchi di tufo saldamente legati tra di loro con malta, con un paramento di conci di tufo solo verso l’interno del complesso, essi sono spessi in media 3,50 m. La faticosa opera di riapertura di questi muri, eseguita da ignoti e a r c h e o 45


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probabilmente interrotta a fronte della mole di lavoro realizzata e all’inconsistenza dei risultati ottenuti, ebbe luogo dopo la guerra, in data sconosciuta, verosimilmente nella speranza di rinvenire, al di là degli stessi, oggetti di valore nascosti durante il conflitto, forse prestando fede a voci che circolavano sulla presenza effettiva di questi beni. Va interpretato nello stesso senso anche il grosso foro praticato al centro della parete di fondo dell’ultima camera del complesso: tale operazione ha soltanto permesso ai suoi autori di accertare che l’intonaco della parete non nascondeva un muro, con un’ulteriore sala, bensí il banco di tufo vergine. La tecnica utilizzata nell’occasione è, non a caso, quella tipica del lavoro dei tombaroli di area etrusca, che se ne servivano per poter passare da una tomba a camera a un’altra, senza dover riaprire il corridoio di accesso ai diversi ipogei. Il complesso dei sotterranei, assurto dopo la guerra a luogo di svago e di sogno e, dopo il 1968, a deposito dei calchi dell’Accademia, oggi a deposito – anche se alquanto inadeguato –, di materiale archeologico, è stato ribattezzato, nella seconda metà del XX secolo, «dromos des Pensionnai-

res», alludendo ai giovani borsisti che vi si recavano in cerca di emozioni, e talvolta dei resti archeologici ivi caduti in seguito al crollo del banco di tufo sovrastante.

UN LUNGO CONTENZIOSO Ma torniamo alla storia. Con la liberazione di Roma, uno scambio epistolare tra i rispettivi incaricati dalla Banca e dalla Villa, nell’agosto-settembre del 1944, esplicitava i punti di contrasto che, lungi dal riguardare l’oggetto «valori», si concentrò piuttosto sulla titolarità dei materiali e delle strutture utilizzate per la messa in sicurezza dei sotterranei. Che ancora nell’estate del 1944 i materiali nascosti dal Banco si trovassero a Villa Medici lo prova la lettera con la quale, il 3 luglio, il delegato francese al Consiglio consultivo per gli Affari Italiani comunicava al comandante Jeannot, capo di stato maggiore della base francese di Roma, che il controllo riguardante il contenuto delle casseforti del Banco di Roma sarebbe avvenuto sotto la sorveglianza del Servizio ragioneria del Banco stesso. Con l’occasione si precisava non esservi piú necessità di sorvegliare militarmente i locali occupati dalla

Banca e di aver accordato al Direttore della stessa la possibilità di libero accesso al sito, «a condizione di programmarne lo sgombero in tempi ragionevoli». Sebbene già nel giugno 1944, per l’Amministrazione fiscale la Villa non fosse piú da considerarsi sotto sequestro, solo in settembre veniva effettuato il primo sopralluogo nei sotterranei e, il 2 dicembre 1944, stilato il verbale di riconsegna definitiva della Villa all’Amministrazione francese. Il contrasto piú duro sarebbe sorto, come anticipato e documentato dalle corrispondenze del 19451946, per un quantitativo di 25 tonnellate di carbone rimasto in Villa e rivendicato con pari acribia e insistenza da Italiani e Francesi. Per dirimere la questione non si esitò a ricorrere ad avvocati da entrambe le parti, a chiamare in causa lo stesso ambasciatore Maurice Couve de Murville, a vantare con l’occasione – da parte bancaria – il pluriennale radicamento in terra francese e la funzione svolta per le buone relazioni finanziare di entrambi i Paesi. Il ristabilimento di una condizione di normalità si ebbe solo piú tardi, in sintonia col progressivo ritorno alla normalità della vita cittadina. Con la fine del conflitto si installaA sinistra: disegno di Charles Norry che evidenzia il rapporto tra il muro di sostegno della terrazza del Bosco, con la porta che dà accesso al complesso ipogeo, e il «mausoleo». 1817. In basso: i giardini di Villa Medici.

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A destra: sezione della terrazza del Bosco (H. Broise). Qui sotto: pianta del giardino di Villa Medici all’indomani della seconda guerra mondiale, disegnata da A. Villa nel 1952; il settore occupato dal Banco di Roma è evidenziato in rosso.

Profilo naturale della collina

Strutture di sostegno di epoca antica

Terrapieni di epoca antica

In basso: pianta parziale della rete di cave di pozzolana (in rosso) e dei cunicoli idraulici (in verde), con la cantina di Ferdinando de’ Medici (in giallo).

Dopo la guerra, Italia e Francia si contesero aspramente 25 tonnellate di carbone depositate nella Villa vano a Villa Medici le forze del generale Guy Le Couteulx de Caumont, capo della missione militare francese in Italia – circostanza che vedeva la Villa assolvere alla sua ultima funzione, quella di quartier generale delle forze francesi –, mentre l’Accademia iniziava con estrema cautela a preparare il proprio rientro a Roma dal Palais de Fontainebleau. Ancora nel gennaio del 1946 è attestata la presenza dei

militari francesi, conviventi senza tensioni, almeno per tutto il 1945, con i professori del Lycée français Chateaubriand eccezionalmente autorizzati, per le stesse gravi difficoltà materiali che segnano la vita cittadina in quei mesi, a risiedere nella Villa. Non è un caso che, fra le questioni affrontate dagli allarmati accademici pronti a farvi ritorno, la piú grave e spinosa fosse l’approvvigionamento – «Non vi a r c h e o 47


ESCLUSIVA • VILLA MEDICI A sinistra: un cunicolo idraulico riaperto dopo la guerra. In basso: il braccio occidentale, formato da una lunga sala scandita da nicchie, che ha funzionato a lungo come deposito della collezione di gessi dell’Accademia di Francia; sul fondo, il muro della stanza chiusa.

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nascondo che questa situazione (economica) è terribile» – e la conseguente esigenza di ricorrere al mercato nero «estremamente costoso». A differenza dei tempi lunghi necessari per la «ricostruzione», un ripristino delle funzioni istituzionali e scientifiche dell’Accademia non avrebbe tardato troppo.

UNA SCELTA INSPIEGABILE A distanza di tre quarti di secolo, la vicenda del Banco di Roma a Villa Medici non può considerarsi definitivamente chiusa. La documentazione dell’istituto di credito individua inequivocabilmente, all’estremità del braccio meridionale del complesso, la presenza di una stanza a esso perpendicolare di 2 x 3 m, per un’altezza di soffitto di 2,50 m circa (ossia una capienza totale di 15 mc), indicata in rosso – come gli altri ambienti utili – sulla pianta della banca (riprodotta a p. 44). Non sono chiare le ragioni per le quali tale sala – murata nel 1943 prima dell’installazione del poderoso sistema di condizionamento dell’aria che finiva innanzi al muro, come mostrano le tracce tuttora conservate sul soffitto dello spazio – non sia mai stata resa accessibile. Al centro di questo muro è stato praticato, in epoca imprecisabile, un foro, in seguito accuratamente richiuso. Potrebbe trattarsi dell’ambiente cosí faticosamente ricercato, dopo la guerra, dagli sconosciuti che hanno, a gran fatica, sfondato due dei poderosi muri costruiti dalla banca per ostruire le gallerie laterali? (vedi box a p. 50). Fra le ipotesi al riguardo – ma in nessun caso supportate dalla documentazione – ci si limita a ricordarne alcune. La prima è che gli incaricati della Banca, ravvisata la relativa vicinanza della sala con il «viale lungo» che dà accesso, da via di Porta Pinciana, al piazzale della Villa, abbiano deciso di chiudere questo spazio, il piú esposto in caso di bombardamento, oppure che lo ab-


biano fatto perché il tufo, in questa zona, risultava piú friabile. Benché l’ipotesi non sia del tutto da scartare, la profondità della sala la metteva completamente al riparo dai mezzi bellici dell’epoca; d’altronde, il banco di tufo in quest’area risulta, come altrove nel complesso, abbastanza omogeneo. La seconda ipotesi è che vi siano state nascoste carte ritenute all’epoca riservatissime e magari compromettenti per il Banco di Roma, oppure cassette di sicurezza provenienti da altre banche. La terza, tenuto conto dell’impossibilità che la stanza contenga beni affidati alla banca da normali clienti, che li avrebbero normalmente recuperati alla fine della guerra, è che si trattasse di beni confiscati agli Ebrei di Roma o del Lazio, e mai piú richiesti dopo la guerra, per ovvie ragioni. Per esempio sculture, che in questo locale non correvano rischi d’umidità e che potevano essere seppellite nel terriccio a ulteriore protezione, ma anche mobili, quadri, libri... Si potrebbe anche pensare a parte dei circa 5000 preziosi volumi – mai piú ritrovati – della biblioteca della sinagoga di Roma, sequestrata nell’ottobre del 1943.

CACCIA AL TESORO... La quarta, che verrà senz’altro preferita dagli amanti di fantastoria, ne farebbe il nascondiglio finale dei preziosi – si è parlato di oltre 200 kg di oro e gioielli – confiscati agli Ebrei tunisini dal feldmaresciallo Erwin Rommel, la «volpe del deserto»: un tesoro contenuto in sei casse di cui si perde ogni traccia nel settembre 1943, anche se le ipotesi piú disparate al riguardo sono state proposte nel corso degli ultimi anni. Indipendentemente dalla fondatezza di tali ipotesi, un dato resta indubbio e acclarato. Dalla scoperta, avvenuta dieci anni fa, dell’esistenza della stanza murata, i quattro direttori succedutisi alla guida dell’Accademia di Francia a Roma – Richard

In alto: un’altra immagine della sala adibita a deposito dei calchi dell’Accademia. A destra: un cunicolo idraulico tuttora chiuso. Opere come questa sono riferibili allo sfruttamento degli spazi sotterranei della Villa in epoca antica, quando il banco roccioso della collina del Pincio venne anche interessato dall’apertura di varie cave di pozzolana.

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ESCLUSIVA • VILLA MEDICI

STANZE MURATE Dall’antichità ai nostri giorni, in caso di minaccia da parte di un nemico, è sempre stato uso proteggere le sculture, che non temono l’umidità, in stanze chiuse, successivamente riaperte alla fine del pericolo. Il caso piú eclatante, per l’evo antico, è quello del magnifico gruppo delle Niobidi. Le dodici statue, copie romane di originali greci che decoravano il frontone di un tempio, furono nascoste dietro un muro all’interno di un edificio sito verso porta San Giovanni a Roma, probabilmente nel corso di uno dei diversi assedi alla città del IV o del V secolo d.C. Rinvenute fortuitamente nel 1583, esse furono subito acquistate dal cardinale Ferdinando de’ Medici per la sua villa del Pincio. Portate a Firenze dai Lorena intorno al 1770, furono ospitate nella grande «sala della Niobe» del Museo degli Uffizi, creata nel 1781 dall’architetto Gaspare Maria Paoletti. Sotto la direzione di Balthus sono state sostituite e messe in scene, in un angolo del giardino di Villa Medici, da calchi realizzati nel 1976 da Michel Bourbon. Dal lato opposto in tempi recenti, la stessa

Peduzzi, Frédéric Mitterrand, Éric de Chassey e Muriel Mayette – hanno costantemente negato il permesso di eseguire un foro nel muro, onde controllare con una telecamera il contenuto della stanza, e tutte le richieste avanzate – comprese quelle della Comunità ebraica di Roma – sono state ignorate dall’istituzione. Nel 2015, l’Accademia di Francia ha solo proceduto, nella piú assoluta discrezione e in assenza di ogni forma di controllo esterno, a un carotaggio in un punto imprecisato del muro, giungendo alla conclusione, del tutto attesa, che la stanza murata non conteneva «nient’altro che terra».

PORRE FINE AGLI INTERROGATIVI Il che è possibile – ma ben lungi dall’essere provato. Nel caso contrario, sarebbe da considerare perlomeno irresponsabile lasciare che materiali forse deperibili continuino a deteriorarsi in un ambiente saturo di umidità. Il lungo articolo, documentato ed equilibrato, pub50 a r c h e o

sorte è toccata nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, alle statue del Museo Archeologico di Atene, nascoste alla fine del 1940 sotto il pavimento del museo e in diverse grotte delle colline circondanti l’Acropoli, in modo da essere al riparo da possibili bombardamenti della città, e dal saccheggio dell’esercito di occupazione.

blicato a questo proposito sulla Stampa del 12 giugno 2017, a firma di Andrea Cionci, ha suscitato grande interesse presso il pubblico, ma nessuna reazione da parte dell’istituzione, che si è rifiutata di ricevere il giornalista. Va dunque vivamente

auspicato che un rinnovato interesse per la vicenda, affrontata in piena collaborazione tra le autorità francesi e italiane, consenta di porre tempestivamente fine a interrogativi e ipotesi posti dalla stanza murata dei sotterranei di Villa Medici.

PER SAPERNE DI PIÚ André Chastel (a cura di), La Villa Médicis à Rome, I-II, École française de Rome-Académie de France à Rome, Roma 1989-1990 Henri Broise e Vincent Jolivet (a cura di), Pincio 1. Réinvestir un site antique, École française de Rome-Soprintendenza archeologica di Roma, Roma 2009 (Roma Antiqua 7) Andrea Cionci, «Roma, il segreto della stanza murata di Villa Medici», La Stampa, 12 giugno 2017 (anche on line su www.lastampa.it) Umberto Gentiloni Silveri, Maddalena Carli, Bombardare Roma. Gli Alleati e la «città aperta» (1940-1944), il Mulino, Bologna 2007 Miriam Mafai, Pane nero, Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale, Ediesse, Roma 2008 Anthony Majanlahti e Amedeo Osti Guerrazzi, Roma Occupata 19431944, Il Saggiatore, Milano 2010 Gian Luca Naso, Memorie di guerra, I bombardamenti del ‘43 a Porta Maggiore, Portonaccio e delle officine di Prenestina, ATAC-Archivio Storico Capitolino, Roma 2013 Roberto Bianchi, Patrizia Dogliani, Caterina Zanfi, Le relazioni culturali e intellettuali tra Italia e Francia dalla Grande Guerra al Fascismo. Introduzione, Storicamente, vol. 14, 2018 (https://storicamente.org)


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

Nella pagina accanto: i calchi del gruppo delle Niobidi realizzati nel 1976 da Michel Bourbon e collocati nel giardino di Villa Medici al tempo in cui direttore dell’Accademia era Balthus. In questa pagina: statua raffigurante Niobe e la figlia minore, facente parte del gruppo scoperto nel 1583 presso Porta San Giovanni e acquistato da Ferdinando de’ Medici per la sua villa sul Pincio. Copia romana di un originale greco. Firenze, Gallerie degli Uffizi. a r c h e o 51




STORIA • LA BIRRA

PAESE DEI BEVITORI DI BIRRA NEL

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Ricostruzione grafica di una scena di lavoro all’interno di una birreria dell’antico Egitto.

EVOCATA PERLOPIÚ COME LA PARENTE POVERA DEL VINO, LA POPOLARE BEVANDA FERMENTATA VANTA UNA STORIA ALTRETTANTO NOBILE E, FORSE, ADDIRITTURA PIÚ ANTICA. CHE MUOVE I SUOI PRIMI PASSI FRA EGITTO E VICINO ORIENTE… di Umberto Livadiotti

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ervita in bottiglia, in lattina, alla spina, e sorbita seduti al pub, a casa o all’aperto, la birra è divenuta in quest’ultimo secolo la bevanda alcolica piú bevuta del pianeta. La produzione mondiale annua sfiora i duemila milioni di ettolitri; in Europa se ne bevono a testa (in media) piú di 60 litri l’anno. Davanti a un successo di tale portata si è ovviamente rinnovata anche la curiosità sulla storia e le origini di questo prodotto, che, con il vino e l’idromele, si disputa l’alloro di piú antica bevanda alcolica del mondo. L’archeologia, in particolare, ha affinato le sua capacità di rintracciarne le orme, attraverso l’esame delle forme dei recipienti destinati a contenerla e, soprattutto, grazie all’analisi archeobotanica dei reperti organici rinvenuti all’interno di vasellame, contenitori, latrine, consentendo cosí di integrare il vecchio quadro fornito esclusivamente dalle fonti letterarie.

UN PAESE DI BEVITORI Della birra è stato possibile rinvenire tracce antichissime un po’ ovunque: dal Caucaso alla penisola Iberica, dalle foreste germaniche alla pianura mesopotamica, dove la bevanda, raffigurata su manufatti risalenti sin al IV millennio a.C., compare già nell’epopea di Gilgamesh e nel codice di Hammurabi; per non parlare dell’Egitto, che agli occhi di alcuni Greci appariva come un paese di «bevitori di birra». Benché qualche studioso abbia persino azzardato l’ipotesi che nella stessa Grecia, fra gli strati sociali piú umili della popolazione, il consumo di birra fosse superiore a quello del vino, nel mondo classico il successo di questa bevanda non riuscí a competere con quello del vino. Neanche in età romana, un periodo in cui certamente venivano prodotte e consumate in diverse aree dell’impero differenti tipi di birre, ricavate dalla fermentazione a r c h e o 55


STORIA BIRRA DEI GRECI/14 STORIA • LA

dell’orzo o in altri casi del frumento o anche del miglio. In realtà, quando si parla di birra antica, si corre sempre il r ischio di «moder nizzare», cioè di associare nella nostra immaginazione queste bevande antiche alla birra dei nostri giorni. Questa tendenza non è che il riflesso dell’ambiguità lessicale per cui con il termine «birra» noi possiamo riferirci sia al senso generale del vocabolo (cioè a una qualsiasi bevanda derivata dalla fermentazione di un cereale), sia allo specifico prodotto comunemente noto con questo nome (che pure presenta una varietà di stili molto piú vasta e articolata di quanto in Italia solitamente si supponga).

UN ATTO SOCIALE In molti casi le «birre» antiche non hanno pressoché nulla a che vedere con la bevanda a cui pensiamo noi: non molto piú di quanto ne abbiano, per dire, il saké o la chicha andina (che a rigore sono anch’esse due «birre»). L’effervescenza, la trasparenza, la schiumosità, l’equilibrio fra la dolcezza del malto e l’amaro del luppolo che caratterizzano la birra moderna rappresentano, infatti, il risultato di una storia secolare che si è sviluppata principalmente nell’ultimo millennio. Ma non è solo questione di aspetto e sapore. Lo stesso infatti vale per i contesti sociali, le ritualità, l’immaginario simbolico che noi le associamo. Del resto, il consumo della birra, come in genere quello di tutte le bevande alcoliche, piú che un fatto alimentare costituisce un Statuetta in calcare dipinto raffigurante una donna che prepara la birra. Antico Regno, V dinastia (2510-2350 a.C.). Firenze, Museo Egizio. 56 a r c h e o


atto sociale, legato a prassi conviviali, ludiche, cerimoniali. Quel che caratterizza queste bevande, infatti, non sono soltanto la capacità dissetante o l’apporto calorico e nutritivo, ma la forza inebriante, dovuta alla presenza di etanolo, il quale non solo suscita effetti antidepressivi e analgesici, ma, abbassando la soglia di inibizione, favorisce forme di socializzazione particolari. Le fonti letterarie d’età romana ci hanno trasmesso riferimenti a molti tipi di birre. Si tratta perlopiú di bevande prodotte nelle aree rurali dell’impero e ancor di piú di birre consumate da popolazioni straniere. In alcuni casi abbiamo vere e proprie descrizioni delle bevande, dei loro ingredienti e del procedimento di cottura. Tuttavia, anche davanti a queste ricette siamo nell’imbarazzo di identificare con certezza le piante e le erbe aromatiche utilizzate nella preparazione: in particolare, resta sfuggente il vocabolario cerealicolo, sul quale hanno inciso certamente fraintendimenti linguistici, assimilazioni indebite e mutazioni di significato (bisogna tener presente che generalmente si tratta di

nomi indigeni di piante e bevande riportati da autori greci o latini). Qualche volta ci troviamo di fronte a resoconti di esperienze dirette. Nella maggior parte dei casi, comunque, quando gli autori antichi evocano nelle loro opere una qualche birra si tratta di semplici allusioni, spesso di citazioni superficiali, o di rimandi eruditi a vecchie informazioni libresche. Queste descrizioni corrispondono perlopiú all’esigenza di raffigurare la diversità (anche alimentare) dei mondi bar-

barici con cui Greci prima e Romani poi vennero a contatto. Nella gerarchia dei simboli alimentari, infatti, mentre il vino veniva percepito come espressione di un mondo agricolo in cui l’uomo aveva impresso alla natura la sua forma ordinata (di cui la vigna rappresentava una delle espressioni piú raffinate), la birra, o meglio le varie e diverse birre che venivano localmente prodotte, soprattutto nelle regioni piú fredde e montagnose, apparivano come il riflesso di una lavorazione dell’uomo sulla natura molto elementare, quasi bestiale, tipica delle popolazioni «selvatiche». «Bevitore di birra» poteva dunque costituire un insulto, come dire «primitivo». Con questo senso, per esempio, sappiamo che, alla fine del IV secolo d.C., gli abitanti di Calcedone, in Bitinia, nel corso dell’assedio che subirono a opera dell’imperatore Valente, schernivano il loro augusto avversario definendolo «sabaiario», cioè consumatore (o fabbricatore) di sabaia, una birra balcanica (Valente era infatti di origini illiriche). Lo stesso aspetto torbido, quasi putrido, delle birre antiche (le quali ovviamente non venivano sottoposte alla pastorizzazione), la loro corposità, il loro odore suggerivano di considerarle non tanto come un alimento cotto, lavorato, espressione di civiltà, bensí come alimento «marcio», semplice risultato di una putrefaIn alto: sigillo raffigurante una divinità che beve birra, affiancata da un servitore e da un’antilope, da Saar (Bahrein). 2000-1800 a.C. Manama, Museo Nazionale. A sinistra: filtri in metallo per birra, da Meskene (Emar, Siria). Età del Bronzo Recente, 1300-1150 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. a r c h e o 57


STORIA • LA BIRRA

Un’immagine del primo stadio di fermentazione di una birra artigianale, con i petali di luppolo che galleggiano sulla superficie dell’impasto.

zione assistita, se non addirittura spontanea (il processo di fermentazione veniva in effetti grossolanamente pilotato, senza capirne a fondo la dinamica). Celebre è rimasto un epigramma composto dall’imperatore Giuliano, alla metà del IV secolo d.C., in cui il «vino d’orzo» paragonato al vino vero e proprio, viene vituperato con parole aspre: «il vino profuma di nettare, la birra puzza di caprone». Inoltre, come sottolineava il medico Galeno, induceva a flatulenze e malodori.

UN UNIVERSO «ALCOLICO» Sarebbe, tuttavia, sbagliato immaginare una contrapposizione fra birra e vino simile a quella che in età moderna, complice l’antagonismo fra popoli «germanici» e popoli «latini» attizzato dalla Riforma, si radicherà nella percezione comune. A differenza di quanto facciamo noi, infatti, nella loro tassonomia alimentare i Romani non sembrano aver dato un peso determinante alla distinzione della materia prima da 58 a r c h e o

cui ricavare il mosto fermentato (uva, cereali, frutta). Al contrario di noi europei – e occidentali in genere –, che fondamentalmente percepiamo l’universo alcolico come diviso in tre grandi famiglie, distinte e alternative fra loro (la birra, il vino e le acqueviti), nel mondo classico il panorama alcolico si presentava in forma unitaria, ed era interamente coperto dal vino. In un certo senso, semplificando un po’, è come se per i Romani «vino» fosse sinonimo di alcol (parola che, non a caso, non esisteva ancora). Naturalmente si andava dal vino piú prestigioso, riservato alle grandi occasioni, alla piú squallida vinaccia destinata a schiavi e lavoratori dei campi. Le birre (cioè le bevande derivanti dalla fermentazione di cereali), cosí come i sidri (derivanti dalla fermentazione di frutta) erano inseriti in questo quadro come una sorta di vini di serie B, «vini di orzo». I giuristi, che conoscevano la distinzione fra i vari tipi di bevande, erano costretti a ribadire che quando in un testamento si parlava di vino la di-

sposizione non riguardava (a meno di espresso parere contrario da parte del testatore) anche birre, sidri e idromele, bevande che spesso, nell’uso comune, venivano invece considerate semplicemente come una categoria inferiore di vino. Del resto, nel calmiere stilato per ordine dell’imperatore Diocleziano all’inizio del IV secolo d.C., i prezzi delle birre si trovano elencati all’interno della lista dei vini. Semmai i Romani erano colpiti dalla modestia del tasso alcolico sviluppato da alcune di queste forme inferiori di vino (come appunto le birre, che sostanzialmente dovevano oscillare anche allora fra il 4 e il 10% di gradazione), che non ne imponevano l’annacquamento (come avveniva invece col vino). Una mancanza di «forza» che, in alcuni casi, sembra aver suggerito l’accusa di scarsa virilità indirizzata ai loro consumatori. I Romani, insomma, pur conoscendo vari tipi di birre, non avevano in realtà «concettualizzato» il prodotto: non lo pensavano, cioè, come un particolare e specifico tipo di bevanda alcolica, distinta e alternativa al vino. In latino, del resto, non esisteva una parola che significasse «birra», ma esistevano solo i tanti nomi delle varie «birre» presenti nel territorio dell’impero (cervesia, zythos, camum, celeia, sabaia e altre).

BEVANDE STAGIONALI Le varie birre circolanti all’interno e ai bordi dell’impero differivano fra loro per composizione, lavorazione, valori nutritivi, modalità di consumo. L’impressione è che molto spesso si trattasse di bevande prodotte localmente, in ambito domestico, non di rado dalle donne. La bollitura dell’acqua (prevista nella preparazione d’ogni tipo di birra) in molte regioni doveva rendere la bevanda estremamente salutare, rispetto all’acqua di pozzo o di cisterna, spesso veicolo di infezioni. D’altra parte, l’elevatissimo grado di corruttibilità della birra,


BIRRE, BARBARI E PRESTIGIO Posidonio di Apamea, filosofo, storico e geografo di grande successo, si recò in Iberia probabilmente nel primo decennio del I secolo a.C. Nel viaggio di andata attraversò la Gallia meridionale, dove soggiornò fra i Celti. Attento e curioso, Posidonio registrò le abitudini alimentari e sociali dei suoi ospiti: «Quando a mangiare insieme sono piú persone, si siedono in cerchio; al centro, però, alla maniera del corifeo di un coro, siede il piú potente, distinto dagli altri per abilità guerresca, per superiorità di stirpe o per ricchezza. Al suo fianco sta l’ospite, quindi da entrambe le parti siedono gli altri, in base al loro grado sociale (…). Gli inservienti servono le bevande in recipienti simili a coppe, di terracotta o d’argento; di questo genere sono anche i vassoi su cui servono i cibi: alcuni li usano in bronzo, mentre altri fanno uso di canestri intrecciati di legno. La bevanda delle famiglie piú ricche è vino non mescolato proveniente dall’Italia e dal territorio circostante Marsiglia; talvolta, tuttavia, viene aggiunta dell’acqua. Le classi piú povere, invece, bevono birra di frumento con l’aggiunta di miele, mentre la massa della popolazione la beve pura. Questa bevanda

viene chiamata “corma”. Essi ne bevono Bronzetti raffiguranti poca, non piú di una tazza, ma piuttosto Sucellus, frequentemente». divinità celtica Una simile graduatoria di bevande compare, che ha fra i suoi mezzo millennio piú tardi, in un’altra attributi l’olla testimonianza offerta di prima mano da un per bere, che è cittadino romano di cultura greca in viaggio qui ben visibile, fra i «barbari». Si tratta di Prisco di Panio, il simbolo di quale fece parte di un’ambasceria romana ricchezza e che, nel 449 d.C., raggiunse la corte di Attila fertilità. e di cui ci è giunto parte del suo resoconto II sec. d.C. fornito da lui stesso. Dopo aver attraversato Lione, il Danubio, secondo Prisco, gli inviati LUGDUNUMdell’imperatore romano sarebbero stati Musée & accolti dalle popolazioni locali con tutti i Théâtres dovuti onori. Ma il distinto trattamento romains. riservato ai messi e ai loro servitori si sarebbe rispecchiato anche nella qualità e nel prestigio delle bevande loro offerte: «Nei villaggi ci rifornirono di vivande; invece di grano ci fu dato orzo e al posto del vino quello che gli indigeni chiamano “medos”. Anche il personale al nostro seguito fu approvvigionato di orzo e di una bevanda fatta di miglio che i barbari chiamano Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto “kamon”». taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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STORIA • LA BIRRA

che nell’arco di pochi mesi doveva perdere le proprie qualità organolettiche, la rendeva inadatta al trasporto e alla lunga conservazione. Si trattava insomma di bevande stagionali, radicate principalmente negli ambienti rurali. Bevande povere, come documenta inesorabilmente il loro prezzo.

In base ai testi letterari ed epigrafici, sembrerebbe che in età imperiale i tipi di birra piú diffusi e noti fossero sostanzialmente tre: lo zythos, cioè la popolare birra egiziana, il camum e la cervisia (due tipologie di birra celtica, con una certa verosimiglianza derivanti l’una dalla fermentazione dell’orzo e l’altra del frumento).

Altre sembrano essere rimaste produzioni radicate solo a livello regionale, come la celeia in Iberia e la già citata sabaia in Illiria. Sono scarsi, invece, in età romana, i riferimenti alla birra mesopotamica. È verosimile che molte di queste bevande avessero origini indipendenti l’una dall’altra. Quasi tutte,

LA RICETTA DI ZOSIMO All’interno degli scritti di un celebre alchimista attivo tra la fine del III e l’inizio del IV secolo d.C., Zosimo di Panopoli (autore tra l’altro di un perduto libro sulla birra), ci è pervenuta un’antica ricetta egizia di birrificazione. Il testo, la cui traduzione in molti punti lascia spazio ad ambiguità, è forse il risultato dell’interpolazione da parte di uno scriba. La ricetta (o per meglio dire le ricette, visto che si riportano una pluralità di metodi) mostra il procedimento tipico attraverso cui si otteneva lo

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zythos egizio, cioè la macerazione di pani d’orzo in acqua calda e il loro successivo filtraggio: «Prendi chicchi di orzo fine, chiaro, di buona qualità, macerali in acqua per un giorno; e poi mettili ad asciugare in un punto ben ventilato. Dopo bagnali nuovamente per cinque ore e ponili ad essiccare in una ciotola con un setaccio alla base. Immergili nell’acqua e mettili ad asciugare finché non si siano raggrumati. A quel punto mettili al sole finché non siano cadute le glume, che sono amare. Macina il resto e fanne pagnotte,


LA CAELIA DEI CELTIBERI Per espugnare Numanzia, la roccaforte dei Celtiberi adagiata fra i boschi, su un colle a poca distanza dal fiume Duero, nella Spagna centro-settentrionale, i Romani impiegarono decenni. Solo nella primavera del 133 a.C., dopo che il comando delle operazioni militari venne assunto da Scipione Emiliano (lo stesso che tredici anni prima era riuscito a radere al suolo Cartagine), l’assedio alla rocca si fece cosí stringente che i Numantini si sentirono spacciati. A quel punto – secondo una tradizione riportata con dovizia di particolari da alcuni storici romani – i guerrieri celtiberi avrebbero deciso di tentare un’ultima, disperata sortita: ma prima di effettuarla, e anzi per trovare il coraggio di realizzarla, avrebbero organizzato un banchetto rituale nel corso del quale avrebbero accompagnato la poca carne ancora cruda a loro disposizione con grandi bevute di una pozione speciale ad alta gradazione alcolica. Il nome indigeno di questa bevanda, secondo gli studiosi latini, era «caelia». Si trattava del risultato di una raffinata lavorazione: una miscela ottenuta aggiungendo alla farina di frumento maltato e fermentata un non meglio specificato «succo dolce». L’epilogo della vicenda è facile da immaginare: pur sospinti dall’ebbrezza e dalla disperazione, i valorosi Numantini non riuscirono a rompere

comunque, con l’avvento della dominazione romana, videro contratto il loro ambito di diffusione. Nei centri urbani e negli ambienti delle aristocrazie locali romanizzate (o, in Oriente, grecizzate) il vino infatti subentrò rapidamente a ogni tipo di birra, come status symbol, sia nell’immaginario che nella dieta concreta.

l’accerchiamento, rientrando mestamente nella rocca, dove presto inscenarono un suicido di massa. L’episodio, cosí come risulta memorizzato da questa versione storiografica, non è forse molto affidabile. Tuttavia, ci apre uno squarcio sulla complessa varietà delle tradizioni potorie del mondo antico. In questo caso, infatti, non siamo di fronte a una semplice bevanda dissetante e corroborante con cui accompagnare pasti e lavoro ordinario, ma a una birra che svolge una funzione rituale. Una funzione che ormai da millenni, nell’area mediterranea, le è stata scippata dal vino. Del resto, è possibile che un valore cerimoniale avesse anche la deposizione in ambito funerario di vasi contenenti birre, prassi testimoniata già per l’età del Rame dal rinvenimento di tracce della bevande all’interno di vasi campaniformi nella valle de Ambrona, a Soria. Inutile ribadire che nulla possono avere a che vedere con la ricetta originale della bevanda numantina le birre prodotte nell’ultimo decennio da Marcos Sanz, un giovane e intraprendente mastro birraio castigliano, che ha fregiato le sue creazioni del marchio evocativo «Caelia»; né, tantomeno, la birra espressamente intitolata «Numantikon», frutto della fantasia della Asociación Cultural Celtibérica Tierraquemada.

Come già detto, solo poche di queste birre raggiunsero un livello di fabbricazione tale da consentirne l’esportazione verso le città o altri centri di consumo. Quella di piú antica tradizione, ma al tempo stesso di valore commerciale piú modesto, era l’egizia, denominata zythos in greco. Si doveva presentare con un

Nella pagina accanto: Numancia, olio su tela di Alejo Vera y Estaca. 1880-81. Madrid, Museo del Prado. Il dipinto evoca la presa della città da parte delle truppe di Scipione Emiliano. In basso: pagina di un’edizione del trattato di alchimia di Zosimo di Panopoli. III-IV sec. d.C. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

aggiungendo lievito come fai per il pane; ma scalda le pagnotte a una temperatura piú alta di quella usata per il pane e quando si gonfiano sbriciolale in acqua dolce e filtrale attraverso un colino o un setaccio. Altri invece cuociono i pani e li gettano in una vasca con acqua che poi riscaldano leggermente, senza raggiungere la bollitura, ma senza farla intiepidire; quindi estraggono le pagnotte e ne colano un liquido, che coprono, riscaldano e mettono da parte». (ps. Zosim., 4.82 [=2.372 Berthelot and Ruelle])

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STORIA • LA BIRRA

grado di corposità eccezionale, quasi una pappa. Il grado alcolico doveva essere molto basso; viceversa il valore nutritivo era considerato elevato. Ne bevevano anche vecchi, donne e bambini. Secondo Strabone, scrittore di età augustea, ad Alessandria costituiva una bevanda popolarissima fra la plebe cittadina. Doveva costare pochissimo: secondo il calmiere dioclezianeo valeva un quarto del piú modesto vinello rustico. Con meno di un decimo della piú infima paga giornaliera un lavoratore manuale ne poteva acquistare mezzo litro.

MEZZO LITRO AL GIORNO In Egitto il suo consumo era diffuso ovunque (al contrario del vino, la cui vendita era concentrata soprattutto nei centri cittadini); ma ovviamente era smerciato soprattutto nelle campagne. Spacci di birra sono attestati in ogni piccolo villaggio. È stato calcolato che nelle «birrerie» del Fayyum si consumasse quotidianamente circa mezzo litro di zythos a testa – senza contare il consumo alcolico in occasione di feste e cerimonie (contesti in cui, però, il vino veniva spesso preferito alla birra). Sulla sua produzione, principalmente in mano a proprietari egizi, sin dal tempo dei Tolomei gravava una specifica imposta: tassa di cui i frammenti papiracei hanno restituito diverse ricevute di pagamento. Nella tarda antichità, le testimonianze del consumo di zythos si vanno però diradando. L’invasione araba inferse poi il colpo decisivo alla produzione di questa bevanda, che 62 a r c h e o

dunque non ha alcuna relazione con la birra moderna. Lo zythos, del resto, si fabbricava con un procedimento diverso da quello con cui attualmente si prepara la birra, ma analogo a quello ancora in uso al giorno d’oggi in Nubia, p e r l a p ro d u z i o n e d e l l a «bouza». Dopo essere stati essiccati e r idotti a far ina, i chicchi d’orzo, infatti, non venivano trasformati direttamente in mosto mediante bollitura (come avviene oggi per la fabbr icazione della birra), ma venivano invece panificati: le pagnotte erano poi sbriciola-

te e ammollate in acqua per ottenerne la fermentazione.

LA BEVANDA DEI BARBARI Al contrario dello zythos, le birre diffuse nell’area celtica non solo sopravvissero alla romanizzazione della regione, ma anche allo sfaldamento dell’impero, divenendo anzi la bevanda alcolica per eccellenza dei nuovi padroni: i barbari. Da queste birre sarebbe poi maturata, nel Medioevo, la birra moderna. Al tempo dei Romani queste bevande dovevano però presentarsi con


un aspetto differente, piú dense e torbide. Anche il sapore doveva essere molto diverso, data l’assenza di luppolo (che ancora non si utilizzava per aromatizzare e stabilizzare la birra). Spesso invece erano addolcite col miele. Le fonti letterarie ne conoscono diverse varietà, ma non sempre è facile capire se a uno dei termini utilizzati (principalmente cervisia, ma anche curmi, o camum, o altri) corrispondesse una specifica e precisa tipologia. Il consumo di queste birre non rimase confinato alle campagne. Nelle città venivano bevute anche nei locali che vendevano vino. Lo attestano alcune epigrafi. Una fiaschetta conservata a Parigi, per esempio, presenta sui due lati opposti scritte che invitano l’ostessa a riempire il contenitore rispettivamente di vino speziato e di birra. Anche altre epigrafi apposte su contenitori vari ricordano il consumo di birra. Per esempio, una coppa rinvenuta a Darioritum, nella Gallia Lugdunense, riportava la scritta «bevi birra gratis», mentre su un’olla trovata a Magonza campeggiava la scritta «ostessa, riempi la tazza di birra». Il bacino della Mosella sembra aver ospitato i maggiori centri di produzione. Un frammento di ceramica raccolto a Krefeld, ma appartenente forse a un’anfora fabbricata nell’area di Bonn, reca sovrimpressa la scritta «[...]IS ciirvisii[…]», chiaro riferimento al contenuto (che spesso, peraltro, sarà stato trasportato in botti di legno). Conosciamo anche i nomi di alcuni cervesarii, termine con cui si dovevano indicare i produttori di birra: Capurillo e Fortunato, sepolti a Treviri. È nota anche una donna coinvolta nel commercio di birra: Hosidia Materna. Negli ultimi decenni anche gli scavi archeologici hanno fornito materiale interessante, per quanto di interpretazione non univoca. Per esempio, un complesso di costruzioni risalenti all’ultimo quarto del II secolo d.C. emerso alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso dagli

Nella pagina accanto: boccale da birra in avorio di produzione tedesca. XVII sec. A destra: capolettera miniato raffigurante la preparazione della cervogia, da un’edizione manoscritta del Trattato di Medicina di Ildebrando da Firenze. 1356. Lisbona, Biblioteca da Ajuda.

scavi presso Grossprüfening, un abitato a due miglia e mezzo da Ratisbona (Castra Regina) in Baviera, è stato inteso come uno stabilimento brassicolo. Si tratta di un forno, un camino, una fontana e un bacino d’acqua. Contesti simili sono stati individuati, sempre in Germania, anche nei pressi di Xanten (Castra vetera) e Lösnich. Locali adibiti forse a immagazzinamento di cereali maltati in attesa di birrificazione sono stati inoltre individuati nelle ville di Ronchinne e di Anthée, in Belgio.

CERVISIA PER I SOLDATI Per l’approvvigionamento dell’esercito, le cui unità si trovavano dislocate lungo il confine renano e danubiano, nonché in Britannia, si andò strutturando una vera e propria filiera, di cui non conosciamo i dettagli ma intuiamo le colossali dimensioni. Soprattutto all’inizio dovevano essere principalmente i soldati ausiliari, i non cittadini di origine celtica e germanica arruolati nelle forze armate, a consumare birra. La piú suggestiva fra le testimonianze è quella emersa dalle tavolette di Vindolanda, che attestano, per l’inizio del II secolo, la presenza di cervesarii nell’esercito e documentano la ri-

chiesta e il consumo di birra fra gli ausiliari batavi acquartierati al confine settentrionale della Britannia. La birra, (in questo caso cervisia) doveva essere fatta con un cereale chiamato braces, di non facile identificazione (si è pensato a frumento, a spelta; anche a orzo maltato, ma è improbabile). In uno di questi testi, indirizzato al prefetto Flavio Ceriale, un decurione della IX coorte scrive: «Ti chiedo di ordinare di mandarci della birra, che i soldati non ne hanno». Conosciamo inoltre un negotiator cervesarius che, all’inizio del III secolo, militava nella flotta fluviale del Reno. Anche nella Gallia Narbonese, un territorio in cui il consumo del vino si era radicato sin dai tempi dei primi contatti coi Romani, si continuava a berne. Una iscrizione frammentaria rinvenuta a Riez, nella Francia Meridionale, attesterebbe, secondo un’ipotesi di integrazione del testo, persino una distribuzione straordinaria di cervisia alla plebe della città da parte di un ignoto evergete locale. Un’iscrizione galloromana incisa su un piccolo peso da telaio trovato ad Autun recita invece quello che doveva apparire il sogno dei sogni per molti giovani dell’epoca: «Bella ragazza, versa birra». a r c h e o 63


PREISTORIA • LIGURIA

DI UOMINI E ORSI

UN PAESAGGIO INCANTATO, SCOLPITO DALL’ACQUA NELLA PIETRA CALCARE PER CENTINAIA DI MIGLIAIA D’ANNI. ECCO COME SI PRESENTANO LE GROTTE DI TOIRANO, IN LIGURIA: UNO STRAORDINARIO COMPLESSO CARSICO CHE, OLTRE A COLPIRE PER LA SUA BELLEZZA NATURALISTICA, RIVESTE UN’IMPORTANZA FONDAMENTALE PER LA CONOSCENZA DELLA NOSTRA PREISTORIA

di Elisabetta Starnini, Daniele Arobba, Marco Avanzini, Rosanna Caramiello, Paolo Citton, Livia Camilla Clementi, Marta Conventi, Andrea De Pascale, Marco Firpo, Stefano Giannotti, Fabio Negrino, Fiorenzo Panizza, Ivano Rellini, Marco Romano, Isabella Salvador e Marta Zunino

Una sala delle Grotte di Toirano (Savona), straordinario complesso carsico, nel quale la spettacolare valenza naturalistica si coniuga con l’importanza che il sito riveste per la conoscenza della nostra preistoria. 64 a r c h e o


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noltrandosi per pochi chilometri nell’entroterra della Riviera Ligure di Ponente e raggiungendo le Grotte di Toirano, è possibile fare un viaggio nell’oscurità del sottosuolo in un complesso carsico eccezionale, che offre alla scienza e al turismo la scoperta delle meraviglie naturali e quella delle tracce lasciate dall’uomo preistorico nel ventre della terra. Risalendo la Val Varatella, a

monte del delizioso borgo di Toirano, si intravvedono i contrafforti di un massiccio di calcari dolomitici grigi, solcato da una serie di valloni. Poco oltre il paese si incontra sulla destra la strada che, attraversato il torrente, conduce alle Grotte, davanti alle quali si trovano la biglietteria, un piccolo bar e un ampio parcheggio. Il complesso carsico delle Grotte di Toirano rappresenta un

patrimonio culturale straordinario. Aperto al pubblico nel 1953, dotato di sentieri protetti e allestimenti che ne consentono un facile accesso, è attualmente gestito direttamente dal Comune di Toirano, tramite una convenzione stipulata nel 2011 con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Chiunque abbia visitato una caverna ricca di stalagmiti e stalattiti, laghetti e anfratti, sa a r c h e o 65


PREISTORIA • LIGURIA

che si tratta di un’esperienza emozionale, un autentico spettacolo della natura. A Toirano tutto questo si coniuga con i passi dei nostri antenati che 14 000 anni fa sono penetrati all’interno della montagna, tra i colori delle pareti di roccia e l’oscurità della grotta.

ABISSI PRIMORDIALI Fin dall’alba dell’umanità inoltrarsi in una caverna ha infatti significato addentrarsi nell’abisso primordiale, il luogo dell’ignoto e dell’incanto, dell’emanazione sovrannaturale, nella magnificenza delle sue forme, ombre, trasparenze, colori, silenzi e suoni. Le Grotte di Toirano sono uno straordinario museo naturale, sorprendenti per la ricchezza e la varietà delle concrezioni naturali, dove oltre al patrimonio di formazioni rocciose, si possono osservare le enigmatiche tracce lasciate da chi le ha frequentate: orsi e uomini. In questo sito, infatti, si conservano le impronte riferibili alla frequentazione dell’Homo sapiens durante il Pleistocene Superiore, 14 000 anni fa circa e quelle dell’Ursus spelaeus, l’orso delle caverne, oggi estinto, che millenni prima della frequenta-

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In basso: pianta della Grotta della Bàsura con gli ambienti che s’incontrano nel percorso di visita. È indicata anche la posizione del diaframma stalagmitico che occludeva la prosecuzione della caverna, sfondato nel 1950, e che, una volta superato, permise la scoperta delle testimonianze preistoriche.


A sinistra: l’ingresso della Grotta di Santa Lucia Superiore nella cui parte anteriore sorge un santuario quattrocinquecentesco. In basso: la zona del «Laghetto» nella Grotta della Bàsura. La colata calcitica indica lo scorrimento, per centinaia di migliaia di anni, di una sottile lama d’acqua.

Dello stesso sistema carsico fa parte anche la Grotta di Santa Lucia Superiore, pochi metri piú in alto di Santa Lucia Inferiore, che, nella parte anteriore, ospita un santuario risalente ai secoli XV e XVI, visitabile durante i mesi estivi e gestito dalla Curia. Dietro l’altare, la cavità si estende con un corridoio rettilineo lungo circa 240 m, che conserva un importante deposito preistorico. L’insieme ipogeo comprende anche la Grotta del Colombo, che si apre alcune decine di metri piú in alto della Grotta della Bàsura e di quelle di Santa Lucia; la cavità è normalmente chiusa al pubblico, ma visitabile su richiesta con guida speleologica e adeguato equipaggiamento. Questa grotta è formata da un’ampia galleria lunga 50 m, con una sala laterale di notevoli di-

zione umana passava il lungo letargo invernale al loro interno. Inoltre, gli scavi condotti in passato in alcune grotte del complesso, non visitabili perché di accesso difficile e pericoloso, hanno evidenziato anche la presenza dell’uomo di Neanderthal, testimoniata da tipici strumenti in pietra scheggiata e da resti ossei.

UN SISTEMA CARSICO Il complesso carsico della Grotte di Toirano è costituito da quattro differenti cavità, solo due delle quali sono attualmente attrezzate per le visite turistiche. Il percorso di visita si snoda per 1,3 km e permette di attraversare la grotta preistorica della Bàsura (450 m circa di sviluppo) e la grotta di Santa Lucia Inferiore, collegate da un tunnel artificiale lungo piú di 100 m. Nella prima, oltre a bellissime formazioni naturali, si concentrano i resti ossei degli orsi e le straordinarie scoperte archeologiche messe in luce dalle recenti indagini scientifiche. Nella seconda, di puro interesse naturalistico, spiccano i delicati cristalli di aragonite e le imponenti colonne delle sale piú interne. a r c h e o 67


PREISTORIA • LIGURIA A sinistra: un insieme di concrezioni nella «Sala dei Livelli» della Grotta di Santa Lucia Inferiore. La presenza di antichi laghi sotterranei è segnalata dai cornicioni calcarei e dalle piattaforme formatisi all’estremità di stalattiti e di stalagmiti, in corrispondenza dei livelli che l’acqua ha mantenuto per lunghi periodi. Nella pagina accanto: tracce carboniose su una parete della Grotta della Bàsura con segni allungati che ricordano le cinque dita di una mano.

mensioni, ed in passato è stata anch’essa oggetto di scavi. La Grotta della Bàsura prende il nome dalla parola ligure «bàzura» o «bàsua» che significa «strega». È parte del complesso delle oltre 150 cavità naturali che si aprono a differenti quote nei contrafforti del massiccio calcareo dolomitico della Val Varatella. La Bàsura rappresenta la parte piú bassa di un reticolo carsico che, attraverso piani di erosione successivi formatisi per l’azione delle acque sotterranee, ha interessato il massiccio calcareo del Monte San Pietro. L’attuale morfologia della cavità, molto complessa, è il risultato della fusione naturale di cavità originariamente indipendenti. 68 a r c h e o

Nota sin dal secolo scorso grazie alle prime esplorazioni naturalistiche e archeologiche condotte dal sacerdote e paletnologo Nicolò Morelli (1855-1920), la Grotta risulta sicuramente la piú spettacolare: si apre con due ampie bocche semicircolari, poste la prima alla quota di 194 m slm e la seconda circa 2 m piú in basso, che conducono entrambe a un primo grande ambiente, l’unico accessibile fino al 1950, da cui provengono resti archeologici datati intorno a 4200-3200 anni fa.

abbatterono un potente diaframma stalagmitico posto a 25 m circa dall’apertura. I giovani avevano notato che i pipistrelli penetravano in una stretta fessura nella roccia, dalla quale proveniva una corrente d’aria. Quando finalmente riuscirono a varcare quella soglia calcarea, si aprí davanti a loro la foresta di stalattiti e stalagmiti che si inoltra per circa 450 m nel sottosuolo in una successione di corridoi e sale, costellate da piccoli laghi, meravigliose concrezioni, colate alabastrine, createsi nel corSEGUENDO I PIPISTRELLI so di migliaia di anni con il lento Le sale interne della Bàsura furo- stillicidio di gocce d’acqua ricche no infatti scoperte solo nel 1950, di carbonato di calcio. dopo che alcuni ragazzi di Toirano Anche il suolo della grotta inizia-


va a mostrare i primi indizi di antiche presenze, testimonianze della frequentazione di uomini e orsi nella preistor ia. Subito si comprese, oltre all’importanza scientifica dei ritrovamenti, anche la forte attrattiva turistica di questo complesso, cosí vicino alla costa della Riviera ligure, che stava diventando uno dei luoghi preferiti per le vacanze dell’Italia nel periodo del miracolo economico.

PALLINE E UNGHIATE L’importanza scientifica e archeologica della Bàsura fu presto evidenziata dall’archeologa ligure Virginia «Ginetta» Chiappella, che visitò la caverna nei giorni successivi alla

scoperta dei rami interni. Già nei primi sopralluoghi riconobbe al suolo e sulle pareti della grotta antiche orme di piedi umani, tracciati digitali, frammenti di carbone e segni carboniosi; nella sala piú interna, chiamata in seguito «Sala dei Misteri», rilevò la maggiore concentrazione di queste tracce e anche le famose palline di argilla aderenti alle pareti. Inoltre, furono riconosciuti resti scheletrici di Ursus spelaeus (orso delle caverne), che aveva lasciato anche impronte di zampe e tracce di unghiate sulle pareti. Nel 1950 il Ministero della Pubblica Istruzione nominò una commissione di studiosi specialisti, di cui facevano parte il professor Alberto

Carlo Blanc dell’Università di Roma e il professor Ezio Tongiorgi dell’Università di Pisa, per l’esame e lo studio geologico e paleontologico della grotta. L’indagine comportò la perlustrazione sistematica di tutti gli anfratti e le pareti della caverna, il rilevamento planimetrico e l’annotazione dell’esatta posizione di tutte le tracce d’interesse paleontologico e paletnologico. Furono inoltre eseguiti, da specialisti del Museo Preistorico Etnografico «Luigi Pigorini» di Roma, calchi in gesso di impronte umane e animali (queste ultime in gran parte di orso), e Virginia Chiappella condusse la prima esplorazione di una larga a r c h e o 69


PREISTORIA • LIGURIA L’area di scavo indagata al centro della «Sala dei Misteri». In corrispondenza della stalagmite sul soffitto con tracce carboniose, cerchiata in rosso, e di cui si ha un particolare nell’immagine a sinistra, sono stati trovati nel livello superficiale del suolo sottostante numerosi carboni lignei, riconducibili alle fiaccole usate nel Paleolitico Superiore, come confermato dalle datazioni radiocarboniche.

COSA RACCONTANO I RESTI VEGETALI L’archeobotanica studia i resti vegetali recuperati nei siti archeologici e ha consentito di ricostruire l’ambiente preistorico della fine del Pleistocene circostante la Bàsura grazie all’analisi dei frustoli di carbone e

dei pollini rinvenuti nei depositi della grotta, nonché di datare al 14C la frequentazione umana. Le analisi archeobotaniche hanno riguardato soprattutto i sedimenti del «Cimitero degli Orsi» e della «Sala dei Misteri», dove già a

partire dalle prime esplorazioni degli anni Cinquanta del Novecento erano iniziate le indagini da parte di vari studiosi. Analisi del polline Le recenti analisi polliniche condotte nella «Sala dei Misteri» sono sostanzialmente sovrapponibili a quelle relative al «Cimitero degli Orsi» ed evidenziano una certa uniformità del paesaggio nel corso di migliaia di anni, caratterizzato da formazioni arboree rade, in cui prevale il pino tipo silvestre/mugo/ uncinata, specie attualmente distribuite dal piano montano al subalpino-alpino, a cui si accompagnano scarsi elementi del querceto misto (quercia decidua, tiglio, nocciolo) e di ambienti umidi di fondovalle (ontani e salici). La predominante presenza di piante erbacee, costituite da graminacee e composite (cardo, fiordaliso stoppione e assenzio selvatico) suggerisce la presenza di una Diagramma pollinico sintetico del deposito della «Sala dei Misteri».

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porzione del cosiddetto «Cimitero degli Orsi», lasciando in loco la quasi totalità dei resti animali per valorizzare e rendere fruibile il deposito ai futuri visitatori (fino ad allora, in altre grotte, molti depositi analoghi erano stati distrutti per prelevare i resti ossei). Le impronte umane di piedi individuate dalla Chiappella furono analizzate dall’antropologo francese Léon Pales, il quale, in base alle conoscenze del tempo, le identificò mediante comparazioni morfologiche come appartenenti a Homo neanderthalensis, mentre le palline di argilla, poste ad altezza d’uomo, di varia morfologia e struttura, talune

concrezionate aderenti alla parete della «Sala dei Misteri», vennero interpretate da Alberto Carlo Blanc come testimonianze di tipo rituale, proiettili lanciati intenzionalmente contro sagome zoomorfe naturali o contro un bersaglio umano, nell’ambito di rituali di iniziazione.

steppa che colonizzava i pendii sassosi e i prati aridi circostanti la grotta. L’ambiente ricostruito grazie alle analisi è coerente con il tipo di vegetazione individuato anche in altri ambiti territoriali per il Pleistocene Superiore, corrispondente allo stadio isotopico 3 (59-24 000 anni fa), caratterizzato da un clima freddosecco in tutta l’Europa meridionale, ma che poteva risultare mitigato lungo le coste mediterranee.

condotti nella «Sala del Misteri» hanno consentito di recuperare un consistente numero di carboni (56) di dimensioni variabili (3-65 mm) appartenenti tutti al tipo pino silvestre/mugo, riconducibile a tre specie morfologicamente simili dal punto di vista dell’anatomia del legno: Pinus sylvestris, Pinus uncinata e Pinus mugo. Sulla base della curvatura degli anelli annuali di accrescimento è stato inoltre possibile capire che piú dell’80% del materiale da cui derivano i frammenti proviene da rametti giovani, inferiori a 2-3 cm di diametro. Riuniti in piccoli fasci, questi fusticini potevano costituire elementi di torce da accendere in sequenza per realizzare una debole ma efficace illuminazione, un sistema peraltro documentato, per

Analisi dei carboni lignei I frammenti di legno carbonizzato rinvenuti nella grotta provengono in prevalenza da sedimenti superficiali e sono stati talvolta rintracciati in fessure di livelli stalagmitici esposti o sotto forma di tracce nerastre sulle pareti. La loro presenza è da mettere in relazione alle frequentazioni umane nella cavità, che proprio sulla base delle datazioni al 14C condotte su tali reperti, si sono potute far risalire a circa 14 400 anni fa, periodo che corrisponde alla fine del Paleolitico Superiore. I recenti scavi archeologici

UNA TEORIA SUGGESTIVA Il quadro ricostruito all’epoca, che presupponeva la presenza contemporanea dell’uomo di Neandertal e dell’orso delle caverne, sembrava coerente con quanto rilevato in numerosi altri siti europei. La teoria allora in voga prevedeva che l’orso delle caverne costituisse una

preda ambita dai cacciatori neandertaliani e che esistesse un qualche tipo di culto legato a questo misterioso plantigrado. A partire dagli inizi degli anni Settanta del secolo scorso furono ottenute le prime datazioni al radiocarbonio su materiali della Grotta, grazie alle quali iniziò a incrinarsi l’ipotesi che i frequentatori preistorici della Bàsura fossero cacciatori neandertaliani. Furono analizzati sia i resti carboniosi caduti al suolo dalle torce dei visitatori preistorici sia il sottile strato carbonatico che rivestiva alcune delle orme umane. I risultati ottenuti, coerenti tra loro, collocano la presenza umana nella

esempio, nelle miniere di sale protostoriche di Hallstatt, in Austria. Prove di archeologia sperimentale hanno inoltre dimostrato la migliore efficienza in termini di facilità, tempo di accensione e durata dei bastoncini di piccolo calibro rispetto a fiaccole ottenute da grossi rami, a sfatare quanto si era ipotizzato a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso fino ai giorni nostri. Daniele Arobba e Rosanna Caramiello L’esempio dell’uso di grandi fiaccole nella Grotta della Bàsura, come rappresentato nel disegno di N. Parker nel 1953, è da sostituire con l’immagine di un fascio di piccoli rami che potevano essere incendiati singolarmente.

a r c h e o 71


PREISTORIA • LIGURIA

PELLICCE «FOSSILI» Lo scavo condotto nella Sala dei Misteri nel 2016 ha restituito una sequenza stratigrafica di 40 cm circa, caratterizzata dall’alternanza di due livelli di limi argillosi, fosfatizzati e ricchi di frammenti di ossa. L’assenza di tracce macroscopiche significative per l’interpretazione della genesi dei depositi ha suggerito il ricorso a metodi d’indagine piú accurati e risolutivi. La micromorfologia si avvale di tecniche microscopiche e ultramicroscopiche per descrivere su campioni indisturbati di suolo o sedimento i suoi costituenti e le loro reciproche relazioni spaziali e temporali. I risultati ottenuti dall’osservazione al microscopio ottico di sezioni sottili dei campioni, prelevati dallo strato piú superficiale del deposito, hanno evidenziato la peculiare presenza di livelli planari, molto regolari, con microstruttura a canali, associati ad abbondanti residui vegetali. Ulteriori indagini al microscopio elettronico a scansione (SEM) hanno permesso d’individuare, all’interno dei canali, chiari resti di peli, di cui si conserva principalmente la parte piú interna amorfa (midollo) con le tipiche scaglie dello strato epidermico e nelle aree circostanti resti di elementi legnosi e impronte di polline di pino. Le caratteristiche morfologiche dei peli e la loro distribuzione spaziale permettono di attribuire tali strutture a lembi di pelliccia d’orso derivate dalle carogne degli animali che si accumulavano e si decomponevano in superficie. La decomposizione delle carcasse avrebbe anche innescato processi di acidificazione e dissoluzione di molte ossa conservate nel sedimento e la conseguente formazione di abbondanti minerali

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Visione d’insieme di un campione indisturbato di sedimento prelevato nella «Sala dei Misteri» nel quale sono visibili impronte di peli d’orso e loro ingrandimento in due fotografie scattate al SEM dove risultano ben visibili le tipiche scaglie dello strato epidermico (a) e il midollo interno (b).

di fosfato di calcio. Tale processo avrebbe permesso la «fossilizzazione» e quindi la conservazione dei peli tramite la sostituzione dei tessuti organici con il fosfato di calcio stesso, come testimoniato dall’analisi al microscopio a scansione con microsonda EDS. L’inatteso ritrovamento di frammenti di tessuti vegetali e polline in associazione

con peli animali, ha dimostrato inequivocabilmente il ruolo della pelliccia degli orsi come vettore di trasporto di microresti vegetali all’interno di depositi profondi di grotta. È indubbio che molto resta ancora da fare: nuove scoperte e conoscenze verranno certamente dal proseguimento di tali indagini e da piú sistematiche investigazioni. Marco Firpo e Ivano Rellini


Grotta della Bàsura a 14 420 anni fa In alto: la parete circa, migliaia di anni piú tardi ridi roccia nella spetto alla presenza dell’orso delle «Sala dei caverne, le cui ossa restituirono una Misteri» sulla datazione di 30 000 anni fa circa. Si quale vennero trattava quindi di popolazioni di scagliate le Homo sapiens vissute nel Paleolitico palline di argille Superiore e riferibili al contesto (segnate in culturale dell’Epigravettiano finale, rosso). Grazie presente in area ligure tra i 16 000 alle ultime e gli 11 000 anni fa. ricerche, ne sono Il mito dell’Uomo di Neandertal state censite ben nella Grotta della Bàsura, almeno a 51, non tutte però livello divulgativo, durò ancora una riferibili alla decina d’anni, fino a quando non frequentazione venne ufficialmente smentito in ocpreistorica. casione dalla Tavola Rotonda orgaA destra: su nizzata a Toirano dall’Istituto Interalcune palline nazionale di Studi Liguri nel 1983. d’argilla Ulteriori datazioni con tecnica uraparzialmente nio-torio riguardarono il diaframma concrezionate stalagmitico abbattuto al momento nella «Sala dei della scoperta nel 1950, in base alle Misteri» si quali fu chiaro che l’accesso alle sale osservano interne della Bàsura si chiuse circa unghiate di 12 000 anni fa (12 000±1100), perpipistrello. mettendo quindi la conservazione delle tracce preistoriche. un team multidisciplinare che, avvalendosi delle piú moderne tecnologie – come rilievo Laserscan 3D, LE NUOVE RICERCHE Le ricerche scientifiche, ferme dagli Microscopia Elettronica a scansione, inizi del 2000, sono recentemente radiodatazioni al MICADAS (MIni riprese nell’ambito di un programma CArbon DAting System) – sta riscodi valorizzazione promosso dalla So- prendo la Grotta della Bàsura come printendenza per i Beni Archeologi- uno dei siti di massimo interesse ci della Liguria. Sono stati individua- nell’ambito del Paleolitico italiano. ti vari ambiti di indagine (analisi Le ricerche si sono ora focalizzate paleontologiche sulle ossa di orso, nelle sale piú interne della grotta, analisi sedimentologiche e paleobo- dove si concentra la maggior parte taniche, datazioni radiometriche, re- dei resti di orso e delle tracce dell’atvisione delle testimonianze parietali, tività degli uomini nella Preistoria. studio delle orme umane) a cura di Stiamo parlando del «Cimitero degli

orsi», in cui è possibile osservare migliaia di ossa di Ursus spelaeus e della «Sala dei Misteri», localizzata poco a monte del precedente deposito, in cui si trovano ossa di orso ma anche decine di orme umane, tracce carboniose sulle pareti, tracciati digitali e palline di argilla. Proprio in virtú di questa ricchezza di testimonianze, nel 2016 sono stati effettuati sondaggi paleontologici e archeologici mirati all’esplorazione del deposito ancora presente nella sala, mai indagato in prece(segue a p. 77) a r c h e o 73


PREISTORIA • LIGURIA

TRE PICCOLI ESPLORATORI Le tracce fossili sono comunemente definite in paleontologia come tracce importanti dell’attività degli organismi; come tali, rivestono un ruolo fondamentale nella ricostruzione degli antichi ecosistemi e dell’etologia di esseri ormai estinti. Riconosciuta da pochi anni come una branca della paleoicnologia (dal greco palaiòs, antico e ichnòs, traccia), l’icnologia umana può essere considerata una scienza interdisciplinare, che interagisce con ambiti accademici anche molto diversi, come le scienze sociali, l’archeologia e la storia. Essa permette di ricostruire meccanismi evolutivi a grande scala, come pure istantanee di un passato remoto, molto spesso rivelando informazioni che gli studi sui resti scheletrici non sono in grado di svelare. Molte grotte europee conservano orme umane che rappresentano strumenti potenti, sebbene poco utilizzati, per ricostruire la natura e la struttura sociale delle popolazioni paleolitiche. Analisi preliminari in alcune grotte francesi suggeriscono

SM1

SM6

SM15

SM12

SM41

SM44

Alcune delle orme conservate nella sala dei misteri. SM1, SM6, SM15 sono attribuite a un adolescente di 11-12 anni alto circa 135 cm. SM12 è l’orma posteriore di un orso adulto, SM41 è l’orma posteriore di un cucciolo di orso e SM 44 è l’impronta della mano del ragazzo dodicenne.

Rilievo schematico della grotta e modelli 3D ottenuti dal rilievo con Laserscan dove sono messi in evidenza i settori rilevati fino a ora e la localizzazione delle principali concentrazioni di orme umane e animali. 74 a r c h e o

che i gruppi umani che frequentarono gli ambienti ipogei fossero numericamente ridotti ed eterogenei per sesso ed età. Tuttavia, non è stata finora precisata la loro struttura e i comportamenti individuali o collettivi. Lo studio icno-archeologico della Grotta della Bàsura sta contribuendo a delineare alcuni di questi aspetti. Fin dalla sua scoperta erano state riconosciute numerose tracce umane e animali e, anche se la frequentazione della cavità che seguí i giorni della scoperta nel 1950 portò alla perdita di molte di esse, decine di orme umane sono ancora conservate nella grotta. Datate a 14 400 anni fa circa, si localizzano nelle porzioni prossime


Rilievo mediante Laser Scanner della «Sala dei Misteri» per realizzare modelli 3D di alta risoluzione che permettono di collocare le orme nelle loro originarie posizioni spaziali e derivarne modelli geometrici estremamente precisi.

alle pareti e appartengono a individui di dimensioni diverse; sono inoltre riconoscibili orme di orsi e di canidi che hanno frequentato la cavità nello stesso periodo degli uomini. La maggior parte delle tracce è concentrata in due aree: il «Corridoio delle Impronte» e la «Sala dei Misteri», che sono state acquisite digitalmente tramite laser scanner. Nella prima fase di studio, l’attenzione si è concentrata sulle orme della «Sala dei Misteri», rivelando che tutte le orme presenti in questo settore sono riconducibili a tre soli individui. Il primo con piedi di piccole dimensioni (L= 13,50 cm), il secondo

Qui sotto: esempio di rilievo fotogrammetrico 3D dell’orma umana «C60» attribuibile a un individuo adulto ancora in fase di studio. Falsi colori e curve di livello permettono di comprendere la morfologia del piede e desumere una serie di elementi morfologici e metrici partendo dai calchi eseguiti negli anni Cinquanta del Novecento. Sovraimpressa all’orma umana è riconoscibile la traccia «C60b» lasciata dalla zampa anteriore di un canide (volpe o lupo).

con piedi piú grandi e snelli (L= 17,73 cm), l’ultimo con piedi grandi (L= 21,5 cm) e dita divaricate. Le misure biometriche acquisite mediante fotogrammetria 3D sono state utilizzate per ricostruire statura ed età. Ne è risultato che le orme sono state impresse da un bambino alto 87 cm circa e di età inferiore ai 4 anni, da un bambino di 6-7 anni alto 115 cm circa e da un A sinistra: esempio di modellizzazione 3D di un’orma di orso (SM41). a r c h e o 75


PREISTORIA • LIGURIA

individui giovanili all’interno di una cavità frequentata nel Paleolitico Superiore, sebbene sorprendente, non rappresenta un caso isolato. La presenza di bambini è oggi accertata in tutti i complessi ipogei frequentati in quel periodo e sembra che operassero a fianco degli adulti anche nella realizzazione dell’arte parietale. Le orme della «Sala dei Misteri» della Grotta della Bàsura confermano che nonostante la loro apparente elusività nei contesti archeologici preistorici, i bambini erano una componente demografica importante nel Paleolitico e che essi erano onnipresenti nella vita quotidiana di queste popolazioni. In un mondo in cui l’età media degli individui è stimata attorno ai 15 anni non deve quindi sorprendere che tre soggetti di età inferiore ai dodici anni, forse legati da rapporti parentali, abbiano impresso le loro orme sul fondo di una cavità profonda piú di 400 m. Marco Avanzini, Isabella Salvador, Marco Romano e Paolo Citton In alto: particolare della superficie con argilla concrezionata che reca le impronte delle dita lasciate da un bambino 14 400 anni fa circa. A destra: i tre ragazzi che hanno lasciato le orme nella «Sala dei Misteri»: un bambino alto 87 cm circa e di età inferiore ai 4 anni, un bambino di 6-7 anni, alto 115 cm circa, e un preadolescente di 11 anni, alto 135 cm circa.

preadolescente di 11 anni circa alto intorno ai 135 cm. I tre si muovevano lasciando sulle pareti segni carboniosi e impronte di mani. Il piú piccolo si accucciò e scavò una buca nell’argilla che poi venne spalmata sulla roccia dai compagni di maggiore età in un quadro comportamentale in via di definizione. La presenza di tre 76 a r c h e o


L’area del «Cimitero degli Orsi» in corso di scavo. I resti ossei di questo grande animale sono assai numerosi e si presentano in disposizione caotica in quanto trasportati dall’acqua nel corso del tempo.

denza. Tale intervento si è rilevato particolarmente utile per chiarire la formazione e la cronologia dei depositi e la presenza di nuove tracce di frequentazione umana e dell’orso. Lo scavo ha permesso d’individuare, sotto il piano di calpestio attuale, un deposito argilloso di circa 40 cm di potenza contenente resti ossei di orso e apparentemente formato da due distinti livelli, dai quali sono stati prelevati campioni a varie profondità sia per analisi palinologiche (polline e spore), sia per indagini micromorfologiche in sezione sottile dei sedimenti oltre che per nuove datazioni radiometriche sui resti di orso delle caverne e su carboni lignei (vedi box alle pp. 7071). Le analisi microscopiche sui sedimenti hanno rivelato particolari mai precedentemente notati, come

la presenza di microstrutture cilindriche compatibili con ciuffi di peli d’orso, resti dei lembi di pelliccia degli animali morti durante il letargo (vedi box a p. 72).

NUOVE DATAZIONI Dalle datazioni radiometriche sui resti ossei, condotte anche su campioni prelevati dal «Cimitero degli Orsi», emerge come la frequentazione della cavità sia molto piú antica di quella ipotizzata, comprendendo un intervallo di tempo compreso tra oltre 45 000 e circa 24 000 anni fa, periodo in cui l’orso delle caverne si estingue da tutta Europa (vedi box a p. 79). Sul suolo della «Sala dei Misteri» sono stati prelevati frammenti di carbone che sono stati datati e hanno ulteriormente confermato che

l’ingresso dell’uomo avvenne effettivamente tra 14 060 e 14 670 anni fa circa. Gli esploratori della preistoria si sono spinti nell’oscurità lasciando le loro orme lungo il percorso del «Corridoio delle Impronte», fino ad arrivare nella sala piú interna, sul cui suolo argilloso è ancora conservato un buon numero di tracce. Lo studio delle orme, tramite rilievi tridimensionali, fotogrammetrie di dettaglio e analisi biometriche, ha permesso di stabilire il numero di persone e l’età di coloro che visitarono la grotta. Si tratta probabilmente di un piccolo gruppo eterogeneo composto da individui molto giovani che, come ci raccontano i carboni, si illuminò la via con torce composte da fasci di piccoli rami di pino silvestre. Muovendosi nella semioscurità, ma sema r c h e o 77


PREISTORIA • LIGURIA

Durante lo scavo nel «Cimitero degli Orsi» riaffiorano numerosi resti ossei di orso delle caverne (Ursus spelaeus), che utilizzò per il letargo la Grotta della Bàsura tra circa 50 000 e 24 000 anni fa.

pre restando aderenti alle pareti, arrivarono nella sala terminale della grotta, dove per qualche ragione decisero di fermarsi e di lasciare quell’alta concentrazione di tracce che indussero i primi studiosi a battezzare il luogo «Sala dei Misteri» (vedi box alle pp. 74-75). Proprio in questa sala è stato condotto un nuovo censimento delle manifestazioni antropiche sulle pareti della grotta con particolare riguardo all’individuazione e alla mappatura delle tracce carboniose e delle palline di argilla sulle pareti. Per quanto riguarda il primo aspetto sono state evidenziate diverse tipologie di tracce, in particolare impatti di torce, strisciate e segni di natura piú complessa, talvolta localizzate su 78 a r c h e o

sporgenze o concrezioni. Alcune di esse sono imputabili a gesti meccanici legati alla pulitura e al ravvivamento delle torce o a impronte di piú difficile interpretazione lasciate da mani sporche di carbone. Altre tracce carboniose di notevole complessità formale potrebbero delineare un’intenzionalità grafica, tanto da sugerire una probabile valenza di segni con significato simbolico.

FORSE SOLO UN GIOCO I nuovi studi sembrano inoltre confutare la ricostruzione di Alberto Carlo Blanc in relazione al significato delle palline di argilla presenti sulle pareti della «Sala dei Misteri», da lui interpretate come manifestazioni rituali: esse sono ora

considerate come semplice manipolazione di argilla poi applicata alle pareti, con gesti di significato incerto, forse semplicemente ludico, in relazione alla giovane età dei visitatori preistorici. Un sito cosí complesso e straordinario come Toirano, che unisce la bellezza naturalistica all’importanza archeologica, necessita di un piano di studio e valorizzazione efficace e multidisciplinare. Propr io in quest’ottica la Soprintendenza ha promosso la ricerca scientifica stringendo appositi accordi di collaborazione con il MUSE (Museo delle Scienze) di Trento per lo studio dei calchi e delle tracce di frequentazioni lasciate in grotta, con il Dipartimento di Scienze della Terra


UNA PRESENZA DI LUNGA DURATA Come numerose altre grotte europee, la Bàsura contiene abbondanti resti ossei di orso delle caverne (Ursus spelaeus), un plantigrado che si è estinto nel nostro continente intorno a 24 000 anni fa e che utilizzava le sale interne delle grotte per trascorrere il letargo durante i lunghi inverni del Pleistocene superiore (periodo compreso tra 126 000 e 12 000 anni fa circa). Sebbene ossa di orso siano presenti lungo tutto lo sviluppo della Bàsura, nel «Cimitero degli Orsi» la loro concentrazione è particolarmente spettacolare. La genesi del deposito, localizzato lungo il percorso turistico a 400 m circa dall’ingresso, è legata ad antichi eventi alluvionali durante i quali migliaia di ossa d’orso, appartenenti a centinaia di esemplari differenti per età e sesso, sono state accumulate tutte insieme in un unico punto. Il luogo d’origine delle ossa, ovvero la sala in cui gli orsi sono morti, è probabilmente localizzato poco piú a monte del «Cimitero degli Orsi» nella zona conosciuta come «Sala dei Misteri». Recenti datazioni radiometriche hanno permesso di stabilire che l’orso utilizzò la grotta durante un lungo intervallo temporale compreso tra circa 50 000 e 24 000 anni fa. Dagli studi sul piú alto dei livelli fossiliferi conservati nel deposito è stato possibile stabilire la presenza di almeno 139 individui divisi in 57 cuccioli morti al 2°/3° letargo, 63 giovani sotto i 4 anni e 19 adulti. Poiché sulle ossa non sono state rilevate tracce di malattie o segni di predazione da parte di altri animali, si può dedurre che gli orsi siano morti per cause naturali

e della Vita dell’Università di Genova per lo studio dei sedimenti. Inoltre, partecipano alla ricerca le stesse «Grotte-Comune di Toirano» con ricercatori che si occupano dello studio paleontologico e delle analisi delle manifestazioni umane e una équipe di archeologi preistorici delle Università di Pisa e di Genova e di biologi-naturalisti del Museo Archeologico del Finale e del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino. Sempre nell’ambito del programma di valorizzazione di questo importante sito archeologico, nel 2014 è stato riaperto al pubblico il Museo Preistorico «Nino Lamboglia», con nuove vetrine che contengono una

Lo scheletro completo di un orso delle caverne, recentemente restaurato, esposto nel Museo delle Grotte di Toirano.

legate al difficile periodo dell’ibernazione. Per quanto riguarda la «Sala dei Misteri», luogo da sempre identificato come sito di ibernazione degli orsi, nel 2016 è stato possibile effettuare un sondaggio di scavo che ha messo in evidenza un deposito contenente moltissimi resti di orsi molto giovani (cuccioli al 1°/2° inverno e giovani di pochi anni di età) e pochissimi resti di adulti. Le ultime indagini hanno anche evidenziato la presenza, accanto all’orso delle caverne, dell’orso bruno (Ursus arctos). Marta Zunino

scelta significativa di reperti archeologici, paleontologici e impronte fossili provenienti dalle ricerche e dagli scavi effettuati in passato nelle varie grotte (Bàsura, Colombo, Santa Lucia Superiore) e dal territorio della Val Varatella. Istituito negli anni Cinquanta del secolo scorso proprio per accogliere il ricco patrimonio archeologico proveniente dalle Grotte del comprensorio, il Museo è stato anche individuato come la sede migliore per esporre e valorizzare importanti reperti paleontologici recuperati dai Carabinieri, provenienti da scavi illeciti, appartenenti a orso delle caverne e a una lince, restituendoli cosí alla pubblica fruizione. Il Museo espone anche lo scheletro com-

pleto e recentemente restaurato di un esemplare di orso delle caverne, simbolo delle Grotte di Toirano. Sulla base di queste eccezionali nuove testimonianze scientifiche, primo tassello di future ricerche, sarà possibile ampliare l’offerta turistica, per coinvolgere i visitatori in un unico e appassionante viaggio nel nostro passato. DOVE E QUANDO Per conoscere orari di ingresso, tariffe e prenotare visite guidate, oltre ad avere altre informazioni su come arrivare alle Grotte di Toirano (e per sapere cos’altro c’è da vedere nei dintorni), si veda il sito www.toiranogrotte.it a r c h e o 79


SPECIALE • TUMULI ETRUSCHI

L’ETRURIA DEI GRANDI TUMULI DIVERSAMENTE DA TUTTE LE ALTRE CIVILTÀ DELL’ITALIA ANTICA, GLI ETRUSCHI CONTRASSEGNARONO LE PROPRIE TOMBE NOBILIARI CON GRANDI COLLINE ARTIFICIALI. QUESTE GRANDIOSE COSTRUZIONI, PALESEMENTE ISPIRATE A UNA TIPOLOGIA DIFFUSA NEL MEDITERRANEO ORIENTALE, PUNTEGGIANO ANCORA OGGI I PAESAGGI DELLA CAMPAGNA TOSCO-LAZIALE. E NELLA NECROPOLI DI CERVETERI TROVANO LA LORO ESPRESSIONE PIÚ SPETTACOLARE di Alessandro Mandolesi, foto aeree di Opaxir

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«Q

uando la fiamma di Efesto ti sfece, raccogliemmo, o Achille, le candide ossa, al mattino, in vino purissimo e unguento. Tua madre diede un’anfora d’oro: un dono di Dioniso diceva che fosse, un’opera del famosissimo Efesto. Giacciono in essa le tue candide ossa, o illustre Achille (…). Poi elevammo un grande e nobile tumulo sopra di esse, noi forte schiera di Achei armati di lancia, su un promontorio sporgente, sull’ampio Ellesponto, perché da lontano fosse visibile agli uomini in mare, a quanti vivono ora e a quanti vivranno in futuro». Chissà quanto di questo passo dell’Odissea (XXIV, 71-84), in cui si racconta di rituali eroici e di dimore eterne, sia entrato nell’immaginario funerario dell’emergente aristocrazia etrusca fra l’VIII e il VII secolo a.C. Sicuramente il modello omerico permea le cerimonie funebri di questo periodo, come si può cogliere all’interno delle tombe etrusche, dove si osserva la parte finale

In alto: Cerveteri. Una veduta della necropoli della Banditaccia, con, in primo piano, le Tombe del Comune. Sulle due pagine: ricostruzione fantastica ottocentesca della

necropoli dei Monterozzi a Tarquinia, con i grandi tumuli. Nella pagina accanto: Cerveteri. Il dromos (corridoio d’ingresso) della Tomba della Capanna.

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SPECIALE • TUMULI ETRUSCHI

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legata alla deposizione delle spoglie e dei loro ricchi corredi, mentre ci sfuggono ancora le fasi precedenti, quelle preparatorie, connesse all’esibizione del corpo presso la tomba (prothesis), agli spettacoli e alla traslazione della salma seguita da sacerdoti, piangenti e congiunti. Anche la rappresentazione della tomba è d’ispirazione omerica, come quelle ricordate per i resti di Patroclo e di Ettore, che dovevano evidenziare attraverso l’ampiezza e l’altezza la grandiosità della sepoltura. Il tumulo funerario, che con il suo caratteristico profilo emisferico segna il paesaggio dell’Etruria orientalizzante e arcaica (VII-VI secolo a.C.), non è un’invenzione etrusca, ma è il frutto di una mediazione arrivata dal Mediterraneo orientale, ancora poco chiara dal punto di vista delle dinamiche. Il tumulo monumentale è un genere di sepoltura diffusa, in particolare, nelle regioni interne dell’Anatolia (Frigia e Lidia, quest’ultima considerata dallo storico Erodoto come la patria d’origine degli Etruschi), dove gigantesche

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Sutri Nepi Narce S. Giovenale Lago di Capena Bracciano Pyrgi

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Nella pagina accanto: cartina dell’Etruria con, in evidenza, le principali città. A destra: Cerveteri. Ancora una veduta dei tumuli alla Banditaccia. Nella pagina accanto, in basso: ricostruzione dei rituali che si svolgevano intorno a un tumulo arcaico. In basso: Veio. Veduta del Monte Aguzzo e del pianoro di Veio, che si stagliano sullo sfondo di Roma e dei Colli Albani.

UN FENOMENO DIFFUSO E CON MOLTE VARIANTI Il termine «tumulo» deriva dal latino tumulus («monticello»), usato in molte lingue moderne per indicare il tumulo funerario e, nel gergo archeologico, il rigonfiamento sul terreno della calotta terrosa di copertura della tomba. La collinetta viene costruita artificialmente con accumuli progressivi di pietrisco e terra, ben

sistemati al di sopra delle camere funerarie. L’Etruria può a ragione definirsi il «paese dei tumuli» nell’Occidente mediterraneo: quasi tutta la regione è infatti coinvolta dalla diffusione del fenomeno fra il VII e il VI secolo a.C., anche se con forme, tempi e materiali differenti da centro a centro. La calotta emisferica

nasce come rincalzo esterno di terra necessario a consolidare e proteggere la parte costruita interna della tomba. Al riguardo, esiste una netta diversità sul suo utilizzo tra l’Etruria meridionale e quella settentrionale: nella prima, la calotta dei tumuli è accessibile con apposite rampe che permettono di

raggiungere la sommità sistemata per il culto funerario; al nord la calotta è solitamente irraggiungibile, mostrando alla sua base, come a Populonia, delle cornici aggettanti che ne impedivano la salita; sulla vetta, in certi casi, vengono piuttosto montati elementi in pietra come statue o simboli dell’aldilà.

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SPECIALE • TUMULI ETRUSCHI

colline artificiali segnalano, almeno dall’VIII secolo a.C., le tombe reali piú rilevanti. A Gordion, capitale del regno frigio, un caso spettacolare è rappresentato dal colossale tumulo (300 m di diametro e 50 di altezza) che nascondeva una cella sepolcrale senza accesso, suggestivamente attribuita al mitico re Mida. Dall’Anatolia, grazie alla diffusione della cultura greco-omerica, il modello sovradimensionato della tomba si è propagato velocemente in Occidente: questa veste architettonica ha un largo successo fra le élite tirreniche perché risponde alle loro aspirazioni celebrative e durature sul territorio.

ORIGINALI APPARATI DECORATIVI Il tumulo trova le soluzioni piú svariate e originali in Etruria, un felice luogo di elaborazione che si rivela tutt’altro che uniforme fra i vari centri coinvolti da questo fenomeno. Cerveteri, In alto, a sinistra: Cerveteri. Il vestibolo della Tomba dei Leoni Dipinti. Metà del VII sec. a.C. Le falde del tetto sono scolpite a imitazione del soffitto a travetti incrociati tipico delle abitazioni. Sulle due pagine: Cerveteri. L’interno della Tomba della Capanna. Inizi del VII sec. a.C.

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nel Sud della regione, costituisce da subito il centro piú avanzato nella preparazione di queste monumentali costruzioni, che si distinguono per i diametri ragguardevoli, per gli originali apparati decorativi pittorici e scultorei, e, soprattutto, per la conformazione delle camere interne scolpite nel tufo e ispirate alle case dei vivi. Nel Nord dell’Etruria, in assenza di pietra tenera modellabile, la tomba viene invece costruita con blocchi e lastre in pietre sedimentarie, assumendo all’interno aspetti diversi, spesso ancorata a tradizioni architettoniche mediterranee (coperture a tholos). La camera funeraria, comunque venisse realizzata, nei casi piú eclatanti viene avvolta da un imponente tumulo: l’opera presuppone indubbiamente capacità ed esperienze costruttive elevate, nonché un notevole sforzo economico da parte della committenza. È probabile che l’aristocrazia etrusca, in primo luogo ceretana, avesse ospitato architetti e artigiani di scuola orientale: a questi artefici spetta l’aver introdotto nuove tecniche edilizie e decorative in parte sconosciute agli Etruschi. Le maestranze impegnate nelle necropoli piegano però il modello di tumulo orientale alle esigenze di rappresentazione e di culto locali: per esempio, gli ingressi alle camere sono spesso visibili e rivolti preferibilmente a nord-ovest, laddove dimoravano le entità ultraterrene legate al trapasso dell’uomo. Attorno alla zoccolatura dei tumuli è presente una zona di rispetto costituita da un fossato anulare o da una sorta di marciapiede, elementi che raffigurano una delimitazione sacra e inviolabile, oltre la quale si pongono lo spazio del defunto e la sfera oltremondana verso cui il monumento è proiettato. La ricerca archeologica ha inoltre constatato che, accanto ai tumuli maggiori, vengono allestite strutture accessorie, anche dall’aspetto elegante, necessarie allo svolgimento delle azioni preparatorie al funerale, ai ludi e alle celebrazioni commemorative. I tumuli maestosi appartengono a famiglie di personaggi molto prestigiosi della società etrusca, principi o addi-

Cerveteri. Il Tumulo degli Animali Dipinti. Fondato intorno alla metà del VII sec. a.C., comprende quattro tombe a camera.

rittura re (i lucumones, come vengono ricordati dalle fonti latine, dall’etrusco lauchum), eletti all’interno delle caste dominanti forse con la formula arcaica del primus inter pares («primo fra pari»).

UNA METAFORA DEL POTERE La grandiosità della sepoltura, fondata su un imponente tamburo o basamento cilindrico scolpito nella roccia oppure costruito, destinato a sostenere la collina artificiale, diventa pertanto metafora del potere esercitato dai signori sul territorio, un preciso intento di esaltazione e di autorappresentazione al cospetto della città. L’accumulo nella tomba di beni di lusso e oggetti qualificanti è un altro aspetto peculiare del costume orientalizzante: nella suppellettile troviamo infatti elementi segnalati dalle fonti come attributi della regalità (scettri, asce, litui, flabelli, troni, carri).

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SPECIALE • TUMULI ETRUSCHI In basso: Valle Cappellana (Barbarano Romano, Viterbo). Tomba dedicata alla regina Margareth di Danimarca (fine del VII-inizi del VI sec.) con due colonne in stile tuscanico a separare le stanze funerarie.

In basso, a destra e nella pagina accanto: necropoli di San Giuliano (Barbarano Romano, Viterbo). Il Tumulo Cima: l’area cultuale esterna (in basso) e l’ingresso della tomba principale. VII sec. a.C.

Significativa è poi la posizione topografica dei tumuli principali, disposti a corona attorno ai capoluoghi (Veio, Cerveteri,Tarquinia, Chiusi), in corrispondenza di zone esposte delle necropoli o al centro di proprietà terriere, oppure in rapporto a frequentate strade di collegamento fra città e territorio (Vulci,Vetulonia, Populonia, Cortona). A ranghi aristocratici appartengono ugualmente i tumuli installati negli abitati minori o sparsi nelle campagne dell’Etruria, anch’essi dall’aspetto straordinario: i proprietari sono probabilmente parenti o rappresentanti delle famiglie urbane fautrici, fra l’VIII e il VII secolo a.C., dello sviluppo delle periferie e della formazione dei primi distretti territoriali con a capo le città. Ai grandi tumuli va perciò riconosciuto un ruolo di emblema dello splendore e della potenza aristocratica nel paesaggio etrusco arcaico.

ESIBIRE LO STATUS Cerveteri si può considerare la «capitale» indiscussa dell’architettura funeraria etrusca. In questo centro, grande protagonista dell’Etruria orientalizzante e arcaica, si osserva infatti la piú alta e articolata concentrazione di tombe sotto tumulo, un luogo in cui si ambientano le prime esperienze monumentali e si colgono le linee evolutive delle camere funerarie assimilate alle dimore eterne dell’uomo. Cerveteri è dominata da potenti caste gentilizie, in competizione politica ed economica fra loro, che anelano a esibire il proprio status attraverso manifestazioni artistiche eccezionali, che trovano nella tomba l’espressione migliore. Si forma cosí un esclusivo laboratorio di architettura che vede affiancarsi operose maestranze, guidate anche da figure specializzate arrivate dall’Oriente. Sono decenni di espe-

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MAESTRANZE ITINERANTI La tendenza «realistica» della scuola ceretana trova riscontri nella cosiddetta «Etruria rupestre» – segnata dal paesaggio del tufo, fra i laghi vulcanici di Bracciano, Vico e Bolsena –, dove l’influenza di Cerveteri incide fortemente sull’immagine della sepoltura. Le aristocrazie «di provincia» adottano, allo stesso modo dei principi urbani, tumuli dalle dimensioni notevoli. Nella vallata del Mignone, due centri sono molto vivaci nelle espressioni architettoniche, Blera e San Giuliano. In quest’ultimo,

il Tumulo Cima è stato preparato per ospitare ben sette tombe e organizzato all’esterno con una scenografica platea scolpita per il culto familiare, occupata da 18 cippi rupestri ordinati su due file. La tomba piú antica, appartenuta al fondatore del tumulo, è confrontabile direttamente con le sale a pilastri e vestibolo di Cerveteri, un’adesione cosí coerente al modello urbano che ha portato ad attribuire la realizzazione del tumulo a una maestranza itinerante ceretana.

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SPECIALE • TUMULI ETRUSCHI

rimenti e codificazioni di schemi che si imperniano su due elementi-base: all’interno, la camera funeraria richiama prima gli ambienti della capanna tradizionale dell’antenato e poi della casa signorile di famiglia, un processo d’identificazione praticamente sconosciuto ad altre regioni mediterranee. All’esterno l’immagine del monumento è affidata invece alla soluzione del grande tumulo, che in Etruria precedentemente aveva visto solo ridotte applicazioni sopra i pozzetti villanoviani. L’evoluzione delle tombe a tumulo si apprezza al meglio sullo scenografico pianoro della Banditaccia, una «selva di tumuli» posta subito a nord della città: il processo formativo vede l’ingrandimento progressivo delle fosse scavate nel terreno e l’adozione di una copertura costruita in blocchi gradualmente aggettanti a formare una falsa-volta, con l’aggiunta a fini protettivi e statici di un rincalzo esterno di terra, il tumulo. Dopo que88 a r c h e o

ste camerette si passa rapidamente ad ampie stanze interamente intagliate nel tufo e accessibili grazie a lunghi corridoi (dromoi), in cui il tumulo, ora di enormi dimensioni, perde le sue funzioni originarie protettive e rinforza quelle simboliche di marker sul territorio, un vero e proprio mausoleo elogiativo della famiglia aristocratica.

LA CAPANNA DELL’ANTENATO Fra gli esempi piú antichi spicca la Tomba della Capanna, ritagliata all’interno di un primitivo tumulo risalente al 700 a.C., in seguito inglobato nel gigantesco Tumulo II, fra i piú imponenti della necropoli ceretana, ampliato per accogliere sul suo perimetro altre tre camere per i discendenti della stirpe. Nella tomba originaria abbiamo la prima rappresentazione della casa del defunto che rievoca la capanna dell’avo in materiale deperibile. Alla Banditaccia, le stanze ipogee

In alto: Tarquinia, necropoli della Doganaccia. Veduta aerea dei Tumuli del Re e della Regina. Nella pagina accanto: Tarquinia. Il Tumulo del Re. VII sec. a.C. Al suo interno si trova un’unica camera funeraria, a pianta rettangolare.


addossate ai tumuli, una sorta di ponte che scavalca la fossa attorno al monumento e permette di raggiungere la cima apprestata per i culti funerari con altari e cippi. Tumuli monumentali si trovano anche fuori dal circuito cittadino, lungo le strade che da Cerveteri portavano al mare e alle campagne. Fra quelli piú interessanti, il tumulo di Montetosto, innalzato, con i suoi quasi 70 m di diametro, sulla via che conduceva al porto di Pyrgi: un’affascinante teoria propone che presso questo tumulo sia avvenuta la lapidazione dei prigionieri greci-focei all’indomani della vittoria navale etrusco-cartaginese del Mare Sardo, nel 540 a.C., raccontata dallo storico Erodoto; un atto rituale che i Ceretani pagarono però a caro prezzo, se dovettero ricorrere all’oracolo di Delfi per debellare una grave pestilenza che decimò, dopo l’atto cruento, la comunità dei vincitori tirrenici.

riprendono sempre piú fedelmente le sembianze di una residenza nobile: un altro schema vede una sala rettangolare preceduta da un vestibolo, suddivisa o meno in navate da pilastri, in cui colpisce la scrupolosa dovizia dei dettagli scolpiti nel tufo, dai tetti a false-capriate agli arredi composti da letti, sedie, altari, fino alle ceste per le provviste alimentari. Intorno alla metà del VII secolo a.C. queste camere sono incluse in enormi tumuli come il Mengarelli, della Nave, degli Animali Dipinti, Maroi. L’evoluzione delle camere come «case dei morti» si completa a cavallo fra il VII e il VI secolo a.C., quando si rivela una delle versioni piú originali dell’architettura ceretana, considerata «matrice» della casa ad atrio arcaica italica e dell’ordine tuscanico descritto da Vitruvio per i templi etruschi. L’esito finale è magnificamente rappresentato dalla Tomba degli Scudi e delle Sedie, ma non si possono dimenticare quelle dei Capitelli, della Cornice, dei Troni: l’interno è distinto da una grande sala o vestibolo trasversale, a volte con colonne in mezzo, e tre celle affiancate sulla parete di fondo, con porte e finestrelle dalle elaborate cornici. I vestiboli sono corredati da elementi qualificanti il rango familiare, quali i troni ai lati delle porte (del pater e della mater familias presenti nell’atrio della casa reale) e i grandi scudi alle pareti. Una particolarità dei tumuli ceretani è rap-

COME UNA CORONA Nelle altre metropoli dell’area meridionale l’influenza di Cerveteri – osservabile nei centri dell’Etruria cosiddetta «rupestre» (vedi box a p. 87) – non è piú evidente. A Veio, città a controllo della bassa valle del Tevere e dei guadi verso il Lazio antico e la Sabina, contiamo quasi una decina di tumuli orientalizzanti – ancora non del tutto conosciuti archeologicamente – disposti su poggi dominanti e all’esterno delle necropoli urbane, messi

presentata dai massicci tamburi ricavati nel tufo e ornati da eleganti cornici modellate a larghe fasce e tori (cordoni): fra i casi migliori i tamburi del Colonnello e del Sorbo. Siamo di fronte alle prime espressioni di decorazione architettonica attestate in Italia, destinate a marcare il punto di partenza della sovrastante calotta del tumulo; queste sagomature di sapore levantino sembrerebbero introdotte a Cerveteri da maestri della Siria settentrionale. Altra tipicità sono le rampe

sempre a corona attorno al pianoro veiente (fino a 5-6 km di distanza). Fra i monumenti piú interessanti, inseriti nel cuore dei possedimenti agrari familiari, il tumulo Chigi svetta su Monte Aguzzo, con all’interno una camera allungata come un corridoio. Unica città meridionale senza tufo è Tarquinia, dove, su base calcarea, si formula una tomba a grande tumulo diversa dalle versioni di Cerveteri. Centro a forte vocazione marittima, impegnata a mediare fra l’area minea r c h e o 89


SPECIALE • TUMULI ETRUSCHI

ECHI DI MODELLI CIPRIOTI In questa pagina: confronto tra il Tumulo del Re di Tarquinia (in alto) e la Tomba 79 di Salamina di Cipro. Appare evidente la ricezione del modello di tradizione greco-omerica, che prevede un’unica camera con 90 a r c h e o

falsa-volta, preceduta da un ampio accesso o vestibolo a cielo aperto, detto per questo motivo «piazzaletto». Nella pagina accanto: Tarquinia. Due immagini del Tumulo della Regina in corso di scavo.

raria etrusca e i Greci del Sud Italia,Tarquinia restituisce un originale impianto architettonico, influenzato da esperienze provenienti da un preciso angolo del Mediterraneo orientale, l’isola di Cipro. La principale necropoli urbana, i Monterozzi, prende nome proprio dalla presenza in passato di numerosi tumuli, oggi in gran parte spianati. Sulla vasta collina si trovano le celebri tombe dipinte, molte delle quali ancora segnalate in superficie da rialzi di terra. Meno conosciuti sono i grandi tumuli orientalizzanti, situati in luoghi esposti e in corrispondenza delle principali strade prossime alla città. Attorno a Tarquinia si conservano almeno cinque grandi costruzioni, tutte violate nel passato. La loro architettura appare straordinariamente omogenea: la configurazione interna si può collegare alle tombe reali di Salamina di Cipro, di tradizione greco-omerica, per la somiglianza planimetrica che prevede un’unica camera con falsa-volta, preceduta da


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SPECIALE • TUMULI ETRUSCHI

tamente da architetti o capomastri di formazione levantina giunti proprio a Tarquinia. La differenza fra le due soluzioni sta però nell’esito finale dello spazio anteriore, visto che a Salamina gli ingressi, che accoglievano una moltitudine di oggetti e di arredi del defunto, venivano subito interrati, mentre a Tarquinia gli accessi rimanevano aperti per un certo periodo di tempo perché destinati alle frequentazioni periodiche. In due casi – il Tumulo Luzi e il Tumulo della Regina – il «piazzaletto» assume un interessante aspetto teatriforme, con una generosa gradinata scavata nella roccia e utilizzata a mo’ di tribuna da parte degli spettatori, davanti alla piattaforma impiegata come «palcoscenico» rituale.

un ampio accesso o vestibolo a cielo aperto detto per questo motivo «piazzaletto». La presenza di larghe gradinate al posto dei lunghi corridoi è un elemento distintivo degli ingressi tarquiniesi; si tratta di spazi introduttivi approntati per svolgere cerimonie di fronte al portale della cella principale. Le somiglianze con lo schema cipriota fanno pensare che il modello sia stato introdotto diret-

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IL «RE» E LA «REGINA» Il sepolcreto della Doganaccia, al centro dei Monterozzi, è dominato dalla coppia di tumuli detti «del Re» e «della Regina», una disposizione del tutto singolare stabilita probabilmente dalla volontà dei membri di una stessa famiglia, magari fratelli o cugini che vollero erigere in questo luogo esposto le loro ultime dimore, a sancire anche il controllo dei passaggi dal mare verso la città. Il Tumulo del Re ha restituito un’iscrizione dipinta in cui si cita un nome greco etruschiz-

A sinistra: Tarquinia. L’ingresso con scalinata, porta e intonaco dipinto del Tumulo della Regina.


Tarquinia. L’ingresso teatriforme del Tumulo Luzi. Sulle due pagine: Vulci. Il Tumulo della Cuccumella.

zato, Hipukrates, evidentemente ben integrato nella comunità locale. Siamo, curiosamente, all’epoca dell’arrivo a Tarquinia di Demarato di Corinto, esule e ricco aristocratico che, come narrano le fonti latine, qui sposò una nobildonna che darà alla luce Lucumone, il futuro re di Roma Tarquinio Prisco. Diverso è il Tumulo della Regina: l’ampio vestibolo apprestato per le cerimonie prevedeva una copertura lignea necessaria a proteggere un raffinato intonaco in gesso alabastrino, steso anche nelle camere funerarie, consueto a Cipro, ma sconosciuto in Italia. Sulle candide pareti si sono identificate le prime testimonianze di pittura funeraria tarquiniese, costituite da labili decorazioni in nero e rosso, i colori della primitiva pittura etrusca, con elementi architettonici e raffigurazioni purtroppo di incerta lettura. Vulci è un’altra importante interprete dell’orientalizzante, specialmente nella statuaria funeraria. Tuttavia, nelle sue necropoli è raro il tumulo monumentale: la manifestazione del benessere è relegata all’interno delle camere, nei corredi pieni di prestigiosi manufatti anche di fattura esotica, anticipate da un vestibolo trasversale a cielo aperto detto «cassone». I grandi tumuli sono due, appaiati a sud della città, sulla via Tarquiniese.

La colossale Cuccumella, con accanto la Cuccumelletta, ha il merito di aver svelato per la prima volta la grandiosità dei tumuli principeschi etruschi, attraverso memorabili scavi avviati nel 1828 da Luciano Bonaparte. Con i suoi oltre 65 m di diametro, e le due torri innalzate in cima all’altissima calotta, arricchite da un ciclo di sculture animali rievocativo dell’ambiente ultraterreno, la Cuccumella ospita due tombe e soprattutto, a metà circa di un corridoio d’ingresso, una «piazzetta» rettangolare a cielo aperto con gradinate che girano attorno alla piattaforma centrale, come in una minuscola arena, destinata, sull’esempio di quanto visto a Tarquinia, alle cerimonie e agli spettacoli funerari.

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SPECIALE • TUMULI ETRUSCHI

L’ETRURIA SETTENTRIONALE

L’

Etruria settentrionale si può suddividere in due principali comparti geografici e culturali, in parte corrispondenti anche alla diffusione di versioni diverse di tombe a tumulo: quello costiero, incentrato sui poli minerari di Vetulonia e Populonia, è proiettato verso il mondo mediterraneo ed etrusco-padano, mentre quello interno, a base agricola e commerciale, è strettamente connesso alla rete di traffici della vallata del Tevere. Nel Nord dell’Etruria, in assenza dei morbidi tufi, la tomba è interamente costruita.

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Nella fascia costiera e nel medio Valdarno (area fiorentina), sulla via di smercio dei minerali verso Bologna, si afferma un tumulo del tutto differente da quelli finora incontrati. Qui si progetta un’originale struttura a camera unica e a pianta in genere quadrangolare, coperta da una pseudo-cupola composta da file di cerchi concentrici di pietre che si restringono progressivamente fino al vertice, raggiunto, nei casi piú elaborati, da un pilastro centrale che non ha vere e proprie funzioni statiche. Queste stanze sono chiamate a tholos per la somiglianza con i grandi ambienti funerari a cupola della civiltà egea, in primo luogo micenea. La copertura circolare si imposta agli angoli delle camere su originali mensole (pennacchi) ed è sormontata da un tumulo imponente. Questo tipo architettonico trova le migliori rappresentazioni a Vetulonia, dove probabilmente ha origine.


pi di grande scultura etrusca –, che riproducono verosimilmente gli antenati mitici della famiglia (imagines maiorum), in gesto di cordoglio davanti al passaggio del defunto verso la camera. Lungo la via dei Sepolcri si trovano altri tumuli principeschi. La tomba del Diavolino II o Pozzo all’Abate mostra un grande tamburo con all’interno una camera dai bei pennacchi angolari adatti a impostare la finta-cupola, ricostruita come il massiccio pilastro centrale. Nell’altro capoluogo minerario, Populonia, affacciato sull’Elba e per questo in stretto contatto con le rotte verso il Mar Ligure, la Corsica e la Sardegna, dopo un episodico antecedente di camerette villanoviane a pseudo-cupola, dai primi decenni del VII secolo a.C. si apprezzano sviluppi architettonici monumentali nella principale necropoli urbana, San Cerbone: i tumuli sono apparentemente Sulle due pagine: varie vedute del Tumulo della Pietrera di Vetulonia. VII sec. a.C. Il monumento prende nome dall’essere stato a lungo utilizzato dai contadini come cava di pietre. Il tumulo accoglie due tombe sovrapposte: quella inferiore (vedi foto a destra) presenta una camera circolare, provvista di un pilastro centrale che raggiungeva la falsa cupola primitiva.

La diffusione della tholos nell’Etruria mineraria è forse legata alle intense relazioni avviate con la Sardegna, da cui arriva la conoscenza del modello largamente impiegato nei nuraghi, monumenti simbolo dell’isola. Anche in questo caso non è del tutto chiaro il ruolo di mediazione verso l’Etruria, dove le false-cupole, a differenza della Sardegna, si applicano alle tombe. A Vetulonia i signori prediligono l’incinerazione, mentre per la tomba – dopo l’esperienza delle fosse delimitate da grandi circoli di pietre infisse nel terreno, sotto basso tumulo – si scelgono le tholoi.

TOMBE SOVRAPPOSTE L’esempio piú rappresentativo è il Tumulo della Pietrera, cosí chiamato perché usato per lungo tempo dai contadini come cava di pietre. Il sepolcro è in realtà costituito da due tombe sovrapposte, la prima crollata durante o subito dopo la costruzione, intorno al 625 a.C., la seconda ricostruita sopra con materiale diverso (calcare al posto del piú pesante sassoforte), lavori che hanno comportato sia un innalzamento del pavimento che un dimezzamento del diametro del tumulo, da 60 a 30 m circa. Nel rifacimento della camera, il pilastro centrale viene praticamente annullato, perdendo la configurazione primitiva finalizzata a chiudere l’occhio della cupola. Sul lungo corridoio di accesso alla tholos sono state sistemate almeno otto sculture ad altorilievo in stile orientale – fra i piú antichi esema r c h e o 95


SPECIALE • TUMULI ETRUSCHI

meno vistosi rispetto a Vetulonia, ma costruiti con estrema cura e attenzione ai dettagli estetici e funzionali. Il tumulo è sostenuto da un caratteristico tamburo o crepidine, cui si aggiunge a volte un originale avancorpo che mette in risalto l’ingresso della sepoltura.

ARMI E SIMBOLI DEL POTERE Il piú imponente tumulo della necropoli è quello «dei Carri»: la calotta protegge l’intera struttura e, per evitare le infiltrazioni idriche, attorno al tamburo è steso un marciapiede lastricato e inclinato verso l’esterno; una cornice-gronda in lastre sporgenti fra calotta e tamburo regola poi l’eliminazione dell’acqua piovana. Sul dromos si trovano tre cellette rinvenute ancora inviolate, con all’interno la deposizione di due carri del tipo da corsa (currus) e da trasporto (calesse), mezzi da cui trae la denominazione il tumulo, mentre sul fondo si apre la cella con pseudo-cupola, forse destinata a quattro deposizioni, con la piú antica maschile accompagnata da armi e simboli del potere. Trovata intatta sotto gli accumuli ferrosi legati alla lavorazione etrusca, la Tomba dei FlaSulle due pagine: vedute della Tomba del Diavolino di Vetulonia. VII sec. a.C. La tomba è preceduta da un lungo corridoio, suddiviso in due parti, una a cielo aperto e una coperta, al termine del quale si apre la camera di sepoltura quadrangolare.

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La diffusione della tholos è legata alle relazioni con la Sardegna, da cui sembra arrivare il modello largamente impiegato nei nuraghi belli mostra ai lati della porta d’accesso due vistose stele infisse nel terreno, elementi che conferiscono centralità all’ingresso. L’attenzione su questo è ancor di piú evidenziata dall’avancorpo della Tomba delle Pissidi Cilindriche, davanti al quale dovevano officiarsi i riti funebri. A nord dell’area mineraria c’è Pisa, cresciuta nell’ampia fascia lagunare costiera alimentata dall’Arno. Ai margini dell’abitato antico, troviamo una costruzione unica nel suo genere per tipologia e significato. A un gruppo dominante sulla comunità orientalizzante, spetta l’organizzazione dell’area monumentale di via San Jacopo, incentrata su un basso tumulo di 30 m di diametro rinvenuto praticamente intatto. La calotta è delimitata da una crepidine a sottili lastre di pietra, a sua volta circondata da una fascia di terreno rimasto libero e delimitato all’esterno da file di stele monoli-

tiche che separano il tumulo dal sepolcreto circostante. Nel settore nord-ovest, un gradino permetteva di salire e di raggiungere la parte superiore e interna del monumento, dove è stata allestita una complessa zona rituale: accanto a una grande fossa che raccoglieva i residui di un banchetto funebre, è stata scavata una buca per posare un grande tridente in ferro con l’asta ritualmente spezzata; sopra questa deposizione è stato poi allestito un altare in pietra (oggi visibile), smontato dopo le cerimonie. Di fianco all’altare, un grande dolio custodiva invece cenere, chiodini bronzei e un filo d’oro, resti interpretati come kolossós, un «doppio» del morto, cioè un’immagine sostitutiva del corpo assente del defunto, arso allo stesso modo sulla pira funebre. La tomba, trovata infatti senza resti umani, è considerata il cenotafio di un principe pisano disperso, forse a r c h e o 97


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in mare, all’inizio del VII secolo a.C. Questo personaggio basava probabilmente le sue fortune sulle attività marinare, come segnala il tridente deposto, ovvero una lancia marina simbolo sia di pesca che di regalità: questo strumento sarebbe stato sistemato sul tumulo pisano secondo un rituale omerico che richiama il caso di Elpenore (Odissea XII, 1115), sulla cui tomba venne infisso il remo a segnalare l’importanza del suo ruolo fra i compagni di Ulisse.

SIGNORI D’OLTRARNO Nel medio Valdarno, la tomba in voga fra i principi locali è ancora la tholos. Alle piccole versioni diffuse nel Volterrano (valle del Cecina) si contrappongono le grandi costruzioni delle zone di Comeana e di Quinto Fio-

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Sulle due pagine: Populonia, necropoli di San Cerbone. In alto, la Tomba dei Carri (VII sec. a.C.); in basso, la Tomba delle Pissidi Cilindriche (VII sec. a.C.), con un avancorpo che ne esalta l’ingresso; nella pagina accanto, il sepolcreto visto dall’alto.

rentino che possono raggiungere quasi i 10 m di diametro interno. In queste architetture si esplicita la fortuna dei signori dell’Oltrarno, capaci di controllare i traffici che dall’area mineraria e dalla Valdichiana si rivolgevano verso l’Etruria padana. In anni recenti, lavori di pulitura e di restauro hanno permesso di precisare la costruzione di queste strutture avvenuta nella seconda metà del VII secolo a.C. Le tholoi si concentrano in due punti particolarmente strategici: nell’area sud-orientale del Montalbano, fra Artimino e Comeana, a controllo della chiusa oltre la quale si apre il tratto inferiore della chiusa della Gonfolina e l’area pisana; e sulle colline di Quinto Fiorentino, in corrispondenza dell’accesso ai valichi appenninici. Nella prima zona, il tumulo di Montefortini include due tombe, con la piú antica – al centro della collina artificiale – impostata su un lungo corridoio a due profonde celle laterali e tholos finale, disposizione che conferisce un aspetto cruciforme alla sepoltura. Quest’ultima ha restituito una serie di raffinate placchette in avorio finemente lavorate, con raffigurazioni umane e animali anche d’ispirazione mitologica (al Museo di Artimino). Interessante è la struttura che si appoggia all’esterno del tumulo, costituita da un’ampia terrazza-altare, incorniciata e lastricata, servita da una gradinata e utilizzata, come vedremo anche a Cortona, per le pratiche funerarie dopo la tumulazione. La tholos piú spettacolare del Valdarno è quella della Montagnola di Quinto Fiorentino. La collinetta è sostenuta da un tamburo in


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parte restaurato: si accede alla tomba tramite un corridoio che porta alla camera occupata da un pilastro senza funzioni dinamiche, mentre le pareti della cella sono verticali per poi piegare progressivamente a cupola. Alle stesse maestranze è attribuibile l’altra monumentale tomba di Quinto, detta «della Mula», per una leggenda che narra la presenza di una mula d’oro massiccio sepolta nelle campagne fiorentine. Questa tomba è conosciuta fin dal Quattrocento, come raccontano le date graffite al suo interno, quando la camera fu inglobata nella Villa Garbi Pecchioli per essere utilizzata come cantina, modificandone 100 a r c h e o

in parte le strutture. La Mula si distingue dalla Montagnola per la curvatura continua, già da terra, delle pareti verso l’alto, aspetto che ha fatto pensare a una maggiore antichità per il richiamo piú diretto all’immagine di una capanna circolare.

L’AMMIRAZIONE DI LEONARDO Ancora diverse sono le grandi tombe dell’Etruria interna, fra Chiusi, Cortona e il Senese, dove, al posto delle tholoi, troviamo camere rettangolari per cremazioni sistemate a croce e soffitto a doppia falda, praticamente una pseudo-volta fatta da file di bloc-

In alto: Pisa. L’area monumentale di via San Jacopo, incentrata su un tumulo di 30 m di diametro, circondato da una fascia di terreno libero e delimitato all’esterno da file di stele monolitiche.


In questa pagina: Quinto Fiorentino (Firenze), Tumulo della Montagnola. VII sec. a.C. Dall’alto in basso, una veduta

esterna; il corridoio d’ingresso; particolare della copertura a tholos della camera funeraria, che si ispira a modelli nuragici.

chi via via aggettanti fino a chiudere in alto con un lastrone; questa forma richiama soluzioni incontrate nell’Etruria meridionale, in particolare a Cerveteri e Tarquinia. A Castellina in Chianti, una famiglia dominante sulle campagne circostanti eleva il grandioso tumulo di Montecalvario, cosí chiamato per la presenza di una cappellina allestita alla fine di una via crucis che risaliva il poggio. Con i suoi oltre 50 m di diametro, la scoperta del monumento, avvenuta nel 1507, ispirò addirittura il genio di Leonardo, colpito dalla singolare configurazione circolare reinterpretata in un suo disegno per un «grandioso monumento sepolcrale» che aveva «in sé la figura del mondo». All’interno del tumulo si trovano quattro tombe a camera disposte a croce e orientate secondo i punti cardinali: le stanze sono costruite in blocchi squadrati di pietra locale e coperte da pseudovolte un po’ difformi fra loro. Una bella testa di leone scolpita era forse inserita all’ingresso della tomba che si apre a mezzogiorno. Cortona ha goduto di un prestigio eccezionale per la sue origini leggendarie legate all’arrivo dei Pelasgi, considerati da alcuni storici antichi progenitori degli Etruschi. Un’importanza che non è però corroborata da resti archeologici altrettanto significativi, visto che le prime importanti manifestazioni sono costituite proprio da tre grandi tumuli principeschi, detti «meloni», situati nelle località Camucia e Sodo, ai piedi della collina cittadina. Testimonianza dell’opulenza raggiunta dalle famiglie del posto che fondano il loro benessere sull’agricoltura e sul controllo dei traffici fra Valdichiana, Trasimeno e alto Tevere, i tumuli sono programmati sin dall’inizio per una lunghissima utilizzazione, fino al IV-III secolo a.C., e dimostrano un’originale tendenza alla simmetria planimetrica e all’aggregazione di piú stanze messe a croce sui vestiboli d’ingresso. Il primo a essere eretto sulla via di Chiusi è il tumulo di Camucia. Scoperto nel 1840 da Alessandro François, l’interno accoglie due tombe separate forse da riferire a fratelli. Intorno al 575 a.C., al Sodo, vengono innalzati quasi contemporaneamente gli altri due tumuli. All’esterno del Melone II, gli scavi hanno messo in luce i resti del tamburo con cornice, conservato per metà circa del suo sviluppo, e soprattutto, nel settore rivolto alla città, un podio-altare – ricostruito con pezzi a r c h e o 101


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originali –, distinto da un’alta piattaforma raggiungibile con una ripida gradinata. Il podio, costruito dopo il tumulo durante il VI secolo a.C., è delimitato da un bel parapetto modanato arricchito, all’inizio della rampa, dall’inserzione di una doppia scultura di guerriero in atto di pugnalare una fiera che lo sta stritolando, rappresentazione allusiva alla vittoria dell’uomo sulla morte, sostenuta grazie ai rituali officiati proprio sull’altare. Sulla cima del tumulo è stata inoltre apprestata una sorta di piccola cappella funeraria, che offriva un’immagine ancora piú sorprendente del monumento, coperta com’era da un tetto con acroteri, lastre e antefisse Nella pagina accanto: Comeana (Carmignano, Prato). La tomba a tholos del Tumulo di Montefortini. VII sec. a.C. In questa pagina: Cortona. Due immagini del Melone II del Sodo. VI sec. a.C. Sul tamburo del tumulo, nella direzione che guarda Cortona, è stato messo in luce un altare terrazza (foto qui accanto) al quale si accedeva mediante una scalinata delimitata da due ante con, in testata, la raffigurazione di una lotta fra esseri umani e mostri fantastici.

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policrome. I resti dei proprietari sono stati deposti nelle sette camere servite da due vestiboli consecutivi. In prossimità del tumulo è stato scoperto anche un grande edificio, decorato con terrecotte dipinte: si tratta del primo caso documentato in Etruria di costruzione destinata probabilmente all’organizzazione delle cerimonie funerarie.

NELLA PATRIA DI PORSENNA Questo tour dei tumuli si conclude a Chiusi, la maggiore città dell’Etruria interna, patria del «lucumone» Porsenna, il quale, sul

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Castellina in Chianti, Tumulo di Montecalvario. VII sec. a.C. Particolare del corridoio d’ingresso della Tomba Sud. Sulle due pagine: Chiusi. Il Tumulo di Poggio Gaiella. VII sec. a.C.

finire del VI secolo a.C., corse in aiuto di Tarquinio il Superbo e per poco tempo riuscí a imporsi su Roma. Alla figura di Porsenna, e alla monumentalità dei sepolcri chiusini, si lega indissolubilmente la leggenda del mausoleo eretto per lui vicino alla città, descritto da Varrone come gigantesco, dotato di torri e di un inestricabile labirinto, che ha affascinato generazioni di studiosi e architetti, i quali si sono dilettati in favolose ricostruzioni. «Dei labirinti cretese ed egiziano è stato detto abbastanza. Quello di Lemno è simile a questi.


Esistono ancora i suoi resti, mentre del cretese e dell’italico non rimangono tracce (…) E ora dunque conviene parlare dell’italico, che Porsenna re d’Etruria fece per sé a scopo di sepoltura e al tempo stesso perché anche dagli Italici fosse superata la vanità dei re stranieri»: cosí Plinio il Vecchio (Naturalis Historia XXXVI,13) si riferisce alla glorificazione di Porsenna attraverso una sepoltura comparabile solo a quelle di altri potenti del Mediterraneo. Situata su un crocevia strategico, Chiusi, dall’esclusivo rituale incineratorio, a differenza degli altri centri settentrionali, realizza tombe

L’ingresso del Tumulo di Montecalvario a Castellina in Chianti, fonte d’ispirazione per il «mausoleo» di Leonardo da Vinci.

prevalentemente scavate nelle morbida roccia locale. Le aristocrazie chiusine alzano tumuli su stanze rettangolari provviste di un caratteristico tramezzo centrale che si appoggia alla parete di fondo e le suddivide in due ambienti separati, in cui venivano riposti cinerari e suppellettili. Fra i tumuli attorno a Chiusi, quello piú imponente si trova a nord, su Poggio Gaiella, dominante la fertilissima Valdichiana e i percorsi diretti alla Valdorcia e al mare. Frutto in parte di un adattamento del rilievo naturale, il monumento è stato considerato per lungo tempo il mausoleo di Porsenna, in virtú della sua maestosità, visti i circa 90 m di diametro che lo rendono in assoluto il tumulo piú grande d’Etruria. Il complesso è stato purtroppo devastato nei secoli dagli scavatori, alterandone di fatto la fisionomia originale e l’impianto architettonico ricavato nel fragile banco: è certamente identificabile con un ipogeo gentilizio composto da varie tombe ottenute su piú livelli e usate per lunghissimo tempo, fino all’età ellenistica, traforate da intricati cunicoli che investono anche la cosiddetta «Grotta tonda», identificata da alcuni come la camera principale del tumulo.

Si ringraziano per la collaborazione i Poli Museali del Lazio e della Toscana, il Parco Regionale Marturanum di Barbarano Romano, Maria Chiara Bettini (Museo Archeologico di Artimino), Iefke van Kampen e Alfonso Mongiu (Museo Agro Veientano di Formello), Marzio Cresci (Museo Archeologico di Montelupo Fiorentino), Carlo Casi (Parco archeologico di Vulci), Massimo Legni (Architutto Designer’s), Daniele Medaino e Isa Bianchi (Artemide Guide), Alessandra Sileoni (Società Tarquiniense d’Arte e Storia).

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IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

STORIE DI ORDINARIA SOPRAFFAZIONE UNA PICCOLA MOSTRA RACCONTA, CON LUCIDITÀ SCIENTIFICA, LE EVIDENZE DI MALTRATTAMENTI E VIOLENZE ESERCITATE SU GIOVANI E DONNE DI UMILI ORIGINI, VISSUTE NELLA ROMA IMPERIALE

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a donna doveva essersi difesa alzando il braccio destro a riparo del volto: le tracce della frattura ancora visibili sul radio non lasciano dubbi. Anche le clavicole conservano i segni di alcuni traumi subiti. Un pugno sferrato con violenza dovette colpire anche la mandibola, che non poté essere sanata, perché impossibile da immobilizzare. E la sovrapposizione delle tracce lasciate dai colpi indica che le percosse dovettero essere ripetute. Quelle fratture gettano una luce dolorosa su una vita di maltrattamenti continui, di cui le ossa dello scheletro conservano la pietosa memoria. Le botte non risparmiarono la testa: le ossa del cranio presentano tracce di almeno sette episodi traumatici: un colpo inferto con un corpo contundente, forse un bastone, causò un’emorragia interna, anche se le

lesioni non furono mortali. La vita grama di questa povera donna dovette comunque oltrepassare i 50 anni, finché il suo corpo esile e gracile ebbe a scomparire in una semplice fossa scavata nella terra, priva di qualsiasi corredo funebre.

FATICA E VESSAZIONI Era una donna di umili origini, che finí la sua esistenza faticosa in una tomba della necropoli Collatina, una delle piú estese fra le necropoli romane della prima e media età imperiale. Libera o schiava che fosse, la sua vita dovette scorrere nell’anonimato di tante donne come lei, madre di numerosi figli (lo indicano alcuni marcatori scheletrici del bacino), figlia e moglie di uomini che esercitavano il loro potere su di lei ricorrendo al piú banale, diffuso e odioso dei Roma, necropoli Collatina. La tomba 543, al cui interno è stato individuato lo scheletro di una donna che in vita fu vittima di ripetute violenze. Età imperiale.

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comportamenti, la violenza fisica. Nella società romana antica – ma certamente non solo in quella – l’abuso della violenza colpiva innanzitutto le donne, ancor prima dei bambini o degli anziani. Se formalmente la legge la puniva (quando esercitata su persone di condizione libera), di fatto non possiamo valutare la diffusione pervasiva di un costume violento, che purtroppo non conosce limiti di tempo. E tanto meno possiamo farlo nel caso di persone appartenenti ai ceti piú popolari e umili, di cui nulla o quasi sapremmo, se non venissero a parlarci di loro le loro stesse ossa. Questa vita silenziosa di maltrattamenti, forse solo casualmente non conclusasi con un ennesimo femminicidio, è raccontata con lucidità scientifica in una piccola mostra, assai incisiva («Storie di vita. Gli antichi romani raccontati dalla scienza»), dove le condizioni di vita, di lavoro e di salute degli abitanti di Roma in età imperiale e tardo-antica vengono presentate alla luce dei dati forniti dall’intreccio delle ricerche storiche condotte sui testi, di quelle archeologiche condotte nel terreno e di quelle antropologiche eseguite sui resti scheletrici, integrate dalle indagini scientifiche piú aggiornate proprie dei metodi della biologia molecolare. L’analisi antropologica dei resti umani, condotta


Immagini del cranio della donna sepolta nella tomba 543 della necropoli Collatina. Le frecce indicano gli effetti dei colpi, riferibili a ben sette episodi traumatici, uno dei quali causò anche un’emorragia interna, alla quale la poveretta riuscí comunque a sopravvivere.

risposte relative all’età dei defunti, al sesso, ai regimi alimentari, allo stato di salute, tutti fattori ormai non piú trascurabili per la ricostruzione delle vicende storiche delle comunità antiche nel loro complesso, e delle loro strutture demografiche, cosí come esse ci si presentano, in particolare, grazie allo scavo delle necropoli.

PRODUTTORI DI TRACCE prevalentemente sulle parti scheletriche superstiti, si avvale non da oggi anche delle analisi del DNA antico (eseguite nell’occasione presso il Centro di Antropologia Molecolare dell’Università di Roma Tor Vergata), e permette di ricondurre nell’alveo degli studi archeologici l’interesse per le persone fisiche che agirono nel contesto esaminato dall’archeologo, che di solito recupera solo le tracce indirette dei loro comportamenti. Da ciò che resta dei corpi, cioè dalle loro tracce materiali, otteniamo

L’analisi delle ossa e dei denti può evidenziare il tipo di attività lavorativa svolta in vita dai proprietari di quegli scheletri. E può gettare luce – come nel caso della povera donna maltrattata – sugli eventi traumatici o patologici eventualmente subiti in vita. È un modo assai concreto per dimostrare quella finalità storica della ricerca archeologica, che era già chiara nel programma che un grande archeologo inglese, Mortimer Wheeler, aveva sintetizzato in una sua celebre definizione: «L’archeologo non

scava oggetti, ma esseri umani». Con quell’ammonimento Wheeler intendeva dire che l’archeologo ricostruisce la vita umana attraverso le tracce materiali, piú o meno comprensibili, lasciate dalle azioni di donne e uomini destinati tuttavia a rimanere senza volto. Gli esseri umani di cui si occupa l’archeologo, infatti, sono il piú delle volte personaggi sconosciuti, umili produttori, appunto, di tracce. Ma anche umili possessori di corpi, che per primi ci possono parlare dell’umanità che ebbero a ospitare. Un’umanità variegata, e a volte strana, o almeno inusuale. La stessa mostra ci propone infatti anche lo scheletro di un gigante. Nulla di mitologico, ma «semplicemente» le ossa di dimensioni eccezionali riemerse dallo scavo di una tomba della necropoli romana diTorre Serpentana al V miglio della via Salaria (anche questa databile tra I e III secolo d.C.), non lontano dall’abitato di Fidene. Questa volta il morto, un ragazzo tra i 17 e i 20 anni,

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Immagini della mandibola della donna sepolta nella tomba 543 della necropoli Collatina: si può osservare la frattura del ramo mandibolare di sinistra, con mancata saldatura dell’osso.

tumorale benigna, quale l’adenoma dell’ipofisi). Una sorte opposta aveva colpito il morto sepolto in una piccola fossa scavata nel tufo della già ricordata necropoli Collatina.

IL BUFFONE MANCATO

era stato adagiato nella fossa supino, con le mani sotto i glutei (infatti sono state ritrovate poste sotto al bacino). Per seppellirlo era stato necessario scavare una fossa lunga oltre 2,5 m. Lo scheletro ben conservato, dagli arti assai piú lunghi del normale, misurava infatti oltre 2 m di altezza (la statura stimata è pari a 202 cm); e gli antropologi assicurano che, se la morte non lo avesse impedito, il ragazzo avrebbe potuto crescere ancora, forse a causa di una disfunzione dell’ipofisi, che è spesso all’origine dei casi di gigantismo (in questo caso la scienza può spingersi fino a ipotizzarne la causa in una forma

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I resti delle sue povere ossa, questa volta assai mal conservate, erano molto piú corti del normale. Non sappiamo se il piccolo defunto fosse femmina o maschio: ma con i suoi 134 cm circa era comunque di gran lunga piú basso della media delle une e degli altri. Si trattava forse, ipotizzano gli antropologi, di una persona affetta da nanismo acondroplastico, conseguenza di un difetto di crescita delle cartilagini e di sviluppo delle ossa lunghe, che tuttavia non gli aprí le porte riservate ai tanti nani che allietavano nelle vesti di buffoni le mense dei ricchi del tempo: la morte lo colse, o la colse, fra i 20 e i 25 anni. Ma non ne conosciamo le cause. La mostra «Storie di vita. Gli antichi Romani raccontati dalla scienza» (finanziata dal Progetto PRIN

Diseases, health and lifestiles in Rome: from the Empire to the Early Middle Age), è coordinata per la parte antropologica da Paola Catalano, responsabile del Servizio di antropologia della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma, e da Giorgio Manzi, Direttore del Polo Museale di «Sapienza», con la collaborazione della Sezione di Paleopatologia dell’Università di Pisa; per la parte archeologica da Riccardo Santangeli Valenzani (Università Roma Tre); il coordinamento scientifico è di Valentina Gazzaniga.

DOVE E QUANDO «Storie di vita. Gli antichi Romani raccontati dalla scienza» Roma, Università «Sapienza», Museo di Storia della Medicina fino al 31 ottobre Orario ma, me e ve, 9,30-14,30; lu e gio, 9,30-17,00 Info tel. 06 49914445; e-mail: museo.stomed@uniroma1.it; https://web.uniroma1.it/ museostoriamedicina/



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

GRUPPO DI FAMIGLIA IN UN DENARIO GIULIO CESARE SOSTENNE ABILMENTE LA SUA FORMIDABILE PARABOLA RICORRENDO ANCHE ALL’USO PROPAGANDISTICO DELLE MONETE

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ome abbiamo già piú volte avuto modo di sottolineare, uno degli aspetti piú affascinanti dello studio della numismatica antica è l’uso politico dei tipi apposti sulle monete. La capillare capacità di circolazione e diffusione di ogni singolo esemplare immesso sul mercato poteva raggiungere, in ogni dove, un pubblico potenzialmente enorme, propagandando la visione che Roma voleva fornire di sé. Attraverso i magistrati monetali e quanti altri autorizzati a battere moneta, l’Urbe fece un uso esemplare e di grande perspicacia psicologica delle immagini destinate alle monete, sin dai primi esordi delle emissioni a nome della città. Un interessante salto di qualità riguardo la gestione del «potere delle immagini» ebbe luogo nel cruciale periodo di passaggio dalla repubblica al principato, durante le guerre civili scoppiate all’indomani del passaggio del Rubicone da parte di Cesare nel 49 a.C. e conclusosi solo con l’inizio dell’età augustea. In questo frangente, il tipo monetale venne usato apertamente per propagandare la propria fazione politica e familiare, e Cesare

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approfittò sapientemente dell’ascendenza mitico-religiosa legata all’origine della sua gens, la Iulia, fatta accortamente discendere da Iulo-Ascanio, figlio di Enea e nipote di Venere. L’eccezionalità di tale parentela non poteva essere trascurata e compare nella monetazione cesariana emessa nell’ambito della guerra con Pompeo. I suoi denari dovevano infatti sottolineare e testimoniare il favore degli dèi di cui egli godeva quasi per diritto di nascita, e che si ripercuoteva di conseguenza – e favorevolmente – nelle sue vicende politiche. La conclusione della vicenda terrena di Cesare, alle Idi di marzo del 44 a.C., è cosa nota.

IL FIGLIO DI VENERE I tipi scelti da Cesare nel 47-46 a.C. per alcuni suoi denari battuti in Africa nell’ambito delle guerre pompeiane compongono una sorta di ritratto degli avi di famiglia: al dritto compare il profilo di Venere, la progenitrice, mentre sul rovescio figura il celebre momento della fuga da Troia del figlio Enea che amorosamente tiene in spalla il padre Anchise, antico amore terreno della dea. Enea è in cammino e in una mano regge il


A destra: l’interno di una kylix (coppa a due manici) attica a figure rosse sulla quale è riprodotta la scena del furto del Palladio (il simulacro di Atena) da parte di Diomede. Fine del V sec. a.C. Oxford, Ashmolean Museum. Nella pagina accanto: denario di Cesare, emesso nell’ambito delle guerre pompeiane da una zecca africana. 47-46 a.C. circa. Al dritto, il profilo di Venere con diadema; al rovescio, il gruppo di Enea con Anchise in spalla e il Palladio nella mano destra. La leggenda riporta il nome CAESAR. Palladio; a destra campeggia il nome CAESAR. Il Troiano è in «nudità eroica», esaltata da una muscolatura possente e ben definita; il volto è pressoché frontale, incoronato da una capigliatura fluente a ciocche. Anchise, anziano, è invece completamente ammantato e con il capo velato. È assente in questo gruppo il figlio Iulo, altrimenti sempre raffigurato sia nella monetazione di età successiva ispirata ad analogo modello che in gruppi statuari, affreschi, terrecotte, vasi e nella glittica. Il Palladio sorretto da Enea è l’arcaica statua di Atena, di origine divina, che garantiva la sicurezza e l’imbattibilità di Troia. Diverse sono

le tradizioni letterarie riguardo questo simulacro e il suo arrivo a Roma, dove divenne uno dei sacra pignora custoditi del Tempio di Vesta del Foro Romano.

UN FURTO LEGGENDARIO Una di queste voleva che i campioni greci Ulisse e Diomede, consci della potenza protettiva del Palladio, lo avessero rubato da Troia e cosí la città cadde; un’altra versione riteneva che i due avessero trafugato una copia. Comunque sia andata, il prezioso talismano rientrò in possesso di Enea, che lo portò con sé insieme ad altri sacri oggetti che con lui raggiunsero il Lazio. L’origine dell’epiteto «Pallade»

riferito ad Atena non ha spiegazione univoca e dipende da varianti di carattere mitico; dal punto di vista etimologico si rifà comunque al termine pallas (fanciulla) e al verbo pallo (scuotere, lanciare), entrambi ben adatti a descrivere la giovane dea guerriera, armata di lancia, simbolo di saggezza e giustizia e anche protettrice di attività domestiche importanti, come la filatura e la tessitura. In questi denari di Cesare è quindi racchiuso e sintetizzato un eloquente e completo messaggio politico di propaganda ed esaltazione che nelle vittorie del dittatore, di stirpe divina, vuole incarnare e rendere esplicita la vittoria di Roma stessa.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Enrico Giannichedda

QUASI GIALLO Romanzo di archeologia Edipuglia, Bari, 344 pp. 16,00 euro ISBN 978-88-7228-849-8 https://edipuglia.it/

Mi capita spesso di presentare libri di colleghi archeologi. Ma non sono del tutto sicuro che il Quasi giallo scritto da un bravissimo collega, autore di testi che occupano un posto di primo piano nei nostri scaffali, sia un libro di archeologia. Il titolo richiama un genere letterario con il quale gli archeologi convivono spesso, ma a me sembra che questo Romanzo di archeologia, che Giannichedda ci ha regalato sia, innanzitutto, un’opera di letteratura. Anzi, direi (l’autore magari non sarà d’accordo), un romanzo d’amore: un amore moderno, qua e là scanzonato, tra Bollo ed Emy, anche se Bollo, il protagonista, è attratto e distratto da altre relazioni, reali o virtuali che siano.

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Trattandosi anche di un giallo, non mi attarderò sulla trama. Vediamo invece come l’archeologia entri, e quanto, nel romanzo. Perché le due anime coesistono, si intrecciano, anche grazie a un bell’espediente letterario: l’organizzazione e lo svolgimento di un seminario, che dà voce a Bollo e agli studenti attraverso la tecnica narrativa degli scambi di mail. Una tecnica che funziona molto bene, anche quando a scrivere è la professoressa Dini, l’unica che per farlo usa un font corsivo, perché le sue lettere sembrino «scritte a mano». L’archeologia è dunque coprotagonista della narrazione. L’archeologia presentata ora come «roba da ricchi», ora come «vita e morte, lacrime e sangue», che ci permette di vivere infinite vite, cioè le vite degli altri. L’archeologia anche «come disciplina sociale, in grado di migliorare non solo la comprensione storica, ma la qualità della vita e quindi il mondo intero». L’archeologia, insomma, come un’attività del presente che, studiando il passato, contribuisce a costruire il futuro. L’approccio alla disciplina è dunque innanzitutto di carattere etico, nel senso piú ampio del termine. E infatti una grande moralità trascorre in molte pagine del libro. Qualche volta può anche sconfinare nelle praterie del moralismo, ma lo dico

con simpatia, perché conosco anche io quel labile confine, dove alberga il desiderio legittimo, e destinato a essere frustrato, di vedere il mondo comportarsi un po’ meglio, magari alla luce di quel passo di Vere Gordon Childe, che diceva che studiare il passato può aiutare non solo a ragionare meglio, ma anche a comportarsi in modo piú umano. Indigna lo squallido comportamento di Mimmo Amerighi, uno dei personaggi di secondo piano, che «da anni, con la giustificazione della carenza di personale, aveva chiuso al pubblico quasi tutte le sale del museo che dirigeva grazie alle amicizie del padre. Tanto che ne aveva fatto il proprio studio privato. Aveva ridotto l’orario di apertura, posto vincoli al prestito dei libri, reso impossibile lo studio delle collezioni. E di tutto ciò si lamentava pubblicamente, pur essendone, in realtà – scrive Giannichedda – l’artefice e il beneficiario». Infastidiscono alcune locuzioni, che sollevano comprensibili idiosincrasie linguistiche. Bollo si irrita a sentire quegli scontati «assolutamente sí», che attribuisce a un gergo proprio della politica, e che a me sembrano appartenere a un vezzo

conformistico che ha invaso strati assai piú ampi della comunicazione sociale. Ma ci sono temi di etica della ricerca ben piú alti. «Qualcuno a questo punto dirà – osserva Bollo – che, tutto sommato, è meglio essere prudenti, non prendere partito, aspettare nuovi rinvenimenti. Ma io credo che non si può vivere aspettando. Neppure se, per professione, si è archeologi. Bisogna decidere e, poi, se si scoprirà di avere sbagliato, ammetterlo senza problemi». Prendere partito, decidere quali tesi sposare: è un tema ricorrente, perché per Bollo e il suo creatore l’archeologia riconosce i problemi e li affronta. E quindi il primo risultato del seminario sarà capire come passare dalla semplice descrizione di oggetti materiali alla loro interpretazione storica. Perché quello che è interessante nello studio del divenire storico non è tanto descrivere il cambiamento, ma comprenderlo; perché indagando la crisi si percepisce meglio il prima (cosa funzionava e cosa no) e il dopo... Si arriva cioè al nocciolo duro di ogni questione. Il che non significa andare alla ricerca di una verità astratta, perché l’archeologia non risponde a una logica binaria (vero o falso; bianco o nero), ma contempla che si possa non sapere. E perché


ogni interpretazione si colloca in una tradizione di ricerca, in una corrente di pensiero, in una prospettiva, di cui è figlia o figliastra. E prima ne prendiamo consapevolezza, meglio è per ciascuno di noi e per la qualità del nostro lavoro. Per Bollo tutto (o quasi) è archeologia. Dipende dalla capacità di vedere le persone nelle cose, quando queste sono abbandonate. «Per me – dice – archeologia è quella disciplina che, riconosciuto uno scarto temporale, studia evidenze materiali per ricostruire storie (…) Non è una questione di “patina del tempo”, ma di reale distacco tra Noi (che studiamo) e Loro (quelli che studiamo)». Qui si coglie una sfumatura di prospettiva che potrebbe anche accendere la discussione, poiché ritengo che esistano due approcci al passato, alternativi eppure entrambi necessari. Chi ne fa un campo di studio, e quindi noi storici o archeologi, è portato a scorgere innanzitutto ciò che è diverso, rifugge le semplificazioni che assimilano fenomeni culturali troppo distanti nel tempo per essere paragonati. Per noi spesso il passato è davvero una terra sconosciuta. Il grande pubblico è invece spesso interessato a cercare l’analogia, a riconoscere

ciò che appare simile alla propria esperienza, quasi che il passato ci aiuti a ritrovare le origini della nostra vita quotidiana. In realtà non è molto produttivo lasciarsi irretire in questa impasse. Tra una visione del passato distaccata e asettica, che cerca di fare l’anatomia di un organismo sconosciuto, e l’appiattimento delle differenze, che danno colore alla storia della umanità, le nostre ricerche e quindi i nostri racconti possono conciliare queste due letture del passato, legittime e insieme insufficienti al tempo stesso, ma entrambe necessarie. Ritrovare e ritrovarsi, anche per differentiam, nei comportamenti umani: ecco allora qualcosa che merita le nostre fatiche. Raggiungere i pensieri, le azioni, le emozioni, le visioni del mondo di chi ci ha preceduto ci fa rivivere un pezzetto delle loro vite, e allarga a dismisura le nostre. A questo servono dunque la ricerca e l’immaginazione. Approfondendo gli argomenti delle tesine del seminario, Bollo trasferisce agli studenti l’attitudine ad andare sempre alla ricerca testarda di un equilibrio nella considerazione dei diversi punti di vista: per fare una buona tesina sulla Sindone – dice – bisogna evitare innanzitutto sia le professioni di fede, sia le

ironie scientiste. Bollo mette in guardia dai percorsi di certa fantarcheologia, che con la pessima qualità della scrittura o la bruttezza delle copertine dei suoi improbabili libri sembra dare ragione a chi ci racconta che la forma sia sempre e comunque sostanza, come nel mondo della storia e dell’archeologia palesemente non è. Bollo divaga sui tanti significati del termine «conservazione», fermo restando quello che a lui sta piú caro, e cioè che «a furia di conservare e basta, sarebbero morti tutti senza mai fare nulla». Bollo è pervaso da un bisogno quasi fisiologico di leggere dieci libri allo stesso tempo, tanto che le idee si possano sí confondere ma forse anche contaminarsi, per far nascere cosí ancora altre idee, migliori, piú articolate. Bollo non può fare a meno dell’ironia, che è l’altra faccia della curiosità, per la sua connaturata incapacità di prendersi sul serio: un difetto dal quale Bollo, l’autore e chi scrive sperano di non guarire mai. Daniele Manacorda

DALL’ESTERO Joanna Sofaer (a cura di)

CONSIDERING CREATIVITY Creativity, Knowledge and Practice in Bronze Age Europe Archaeopress, Oxford, 164 pp., ill. col. e b/n

33,00 GBP ISBN 978-1-78941-754-8 www.archaeopress.com

Sulla scia di un incontro internazionale tenutosi a Cambridge nel 2013 sullo stesso argomento, Joanna Sofaer ha raccolto in questo volume – di taglio specialistico – un selezionato corpus di contributi, che esplorano un mondo, quello della creatività, che come scrive in sede di presentazione, è parte stessa della storia dell’uomo e della cui considerazione non si può fare a meno nello studio della cultura materiale. Com’è facile intuire, si tratta di un ambito potenzialmente vastissimo, che qui viene limitato all’età del Bronzo, prendendo in esame molteplici classi di oggetti (tessili, manufatti metallici, ceramiche) e altrettanto variegati contesti geografici (dalla Penisola Iberica alla regione dei Carpazi). Stefano Mammini a r c h e o 113


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