Archeo n. 405, Novembre 2018

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2018

SCOPERTE A GERUSALEMME

INTERAMNA LIRENAS

EROS IN GRECIA

OVIDIO

SPECIALE PONTI NELL’ANTICHITÀ

Mens. Anno XXXIV n. 405 novembre 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

Cosa ne pensavano i Greci? Risponde lo scrittore Matteo Nucci

OVIDIO

LE METAMORFOSI DELL’AMORE

UNA GRANDE MOSTRA A ROMA

ISRAELE

SCOPERTE A GERUSALEMME

SPECIALE

GLI «INDISTRUTTIBILI» PONTI DEI ROMANI www.archeo.it

IN EDICOLA L’ 8 NOVEMBRE 2018

o. i t

GR L’ A EC MO IA RE ER T RA ww O w. M a rc A he

ARCHEO 405 NOVEMBRE

EROS

€ 5,90



EDITORIALE

AMARE TRA GRECIA E ROMA L’eros fa da protagonista nelle pagine di questo numero, a partire dalla copertina che ritrae uno dei capolavori della scultura antica. In questi giorni possiamo incontrare la bellissima Venere alle Scuderie del Quirinale di Roma, dove si è appena inaugurata la mostra «Ovidio. Amori, miti e altre storie», dedicata all’opera e alla vita di Publio Ovidio Nasone, grande poeta dell’età augustea di cui quest’anno ricorre il bimillenario della morte (avvenuta tra il 17 e il 18 d.C. mentre, caduto in disgrazia, era esule a Tomi, sul Mar Nero). Piú di duecento opere, dall’antichità all’epoca barocca, accompagnano il visitatore alla scoperta del cantore della celebre Ars Amatoria. Poco prima dell’esilio Ovidio completò le Metamorfosi, in cui raccolse circa 250 racconti, lasciandoci una sorta di enciclopedia mitologica in cui ricorre il tema, caro all’epoca ellenistica e che all’opera dà il titolo, del trasformarsi in altro da sé (in pianta, animale o roccia) per punizione divina, ma anche per sedurre e possedere: in amore tutto è lecito, come ci ricordano la bella statua di Leda e il cigno/Zeus (che la possiede inebriandola), il ratto di Aurora sul toro – nei dipinti di Tintoretto o del Carracci – o, ancora, Ganimede rapito dall’Aquila, ritratto nel celebre bronzo dell’Ammannati (vedi alle pagine 65-79). Dall’irriverente amore cantato da Ovidio (e che gli costò l’esilio) passiamo all’Eros greco. Abbiamo incontrato Matteo Nucci, scrittore e saggista, amante e studioso della Grecia (già noto ai lettori di «Archeo» per i suoi reportage su Goethe in Sicilia e sui luoghi di Aristotele) e autore di un libro bellissimo, appena pubblicato: L’Abisso di Eros. L’autore vi indaga, con critica partecipazione, il meccanismo dei grandi amori dell’antica Grecia; di quella passione che, nel suo momento culminante, può lacerare… fino alla morte (vedi alle pagine 54-63). In una Grecia «nostrana», infine, ci riporta l’annuale appuntamento con la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum, giunta alla sua ventunesima edizione, in coincidenza con due anniversari importanti che desideriamo qui ricordare: i cinquant’anni dalla scoperta di una delle icone della città, le celebri lastre dipinte della Tomba del Tuffatore, e i vent’anni dall’iscrizione di Paestum nella lista UNESCO del Patrimonio dell’Umanità. Trovate il programma completo delle giornate pestane alle pagine 38-41. Andreas M. Steiner Venere Callipigia (particolare), copia romana del II sec. d.C., da un originale greco in bronzo databile fra il IV e il I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


SOMMARIO EDITORIALE

Amare tra Grecia e Roma

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

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SCAVI È stata inaugurata, a Olbia, l’area archeologica Tempio e necropoli di S. Simplicio, rivelando tutte le fasi di vita della città sarda, dall’epoca fenicia al Medioevo 8 ALL’OMBRA DEL VULCANO Gli scavi nella Regio V rivelano un elegante tempietto domestico dedicato al culto dei Lari, ornato da magnifiche pitture 10 MOSTRE Il MIC-Museo Internazionale della Ceramica di Faenza ripercorre la straordinaria parabola delle grandi civiltà precolombiane: Aztechi, Inca e Maya 18 A TUTTO CAMPO Un recente progetto condotto a

San Gimignano ha rivelato le molte potenzialità offerte dallo studio degli spazi verdi urbani nell’antichità 20

PAROLA D’ARCHEOLOGO Si è appena conclusa la 29ª edizione della Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto. La direttrice della manifestazione, Alessandra Cattoi, traccia un bilancio dell’evento e annuncia i progetti per il futuro 26 MOSTRE Le sale di Palazzo Reale, a Milano, tornano ad accogliere una nutrita schiera di capolavori di Pablo Picasso, messi a confronto con un’altrettanto ricca selezione di opere d’arte antica 30

30

SCAVI

Vivere tra i fiumi

42

di Giovanna Rita Bellini, Alessandro Launaro, Martin Millett, Lieven Verdonck e Frank Vermeulen

42 EROS

Chi ama davvero ama per sempre

54

di Matteo Nucci, con un’intervista all’autore a cura di Andreas M. Steiner

54 In copertina Venere Callipigia («dalle belle natiche»), copia romana del II sec. d.C., da un originale greco in bronzo databile fra il IV e il I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Presidente

Federico Curti Anno XXXIV, n. 405 - novembre 2018 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale Hanno collaborato a questo numero: Giovanna Rita Bellini è funzionario archeologo, responsabile per la Soprintendenza del Progetto Interamna Lirenas, Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Frosinone, Latina e Rieti (SABAP-Lazio). Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Francesca Ghedini è professore emerito di archeologia classica dell’Università di Padova. Alessandro Launaro è professore associato di archeologia classica all’Università di Cambridge. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco Archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Martin Millett è Laurence Professor di archeologia classica all’Università di Cambridge. Matteo Nucci è scrittore. Sergio Ribichini è collaboratore associato senior dell’Istituto per la Conservazione e valorizzazione dei Beni


MOSTRE

Ovidio, maestro d’amore 64 di Giulia Salvo e Francesca Ghedini

80 SPECIALE

64 Rubriche QUANDO L’ANTICA ROMA...

...tornò alla vittoria contro gli «invasori» cartaginesi 104 di Romolo A. Staccioli

Ponti romani

Acqua, ponti, civiltà

80

di Flavio Russo

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Tutti figli dell’eroe

108

di Francesca Ceci

LIBRI

110

Culturali del CNR. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Giulia Salvo è dottore di ricerca in archeologia classica, Università di Padova. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Lieven Verdonck è ricercatore in archeologia presso l’Università di Gent. Frank Vermeulen è professore ordinario di archeologia romana e metodologia archeologica all’Università di Gent. Jerzy Zelazowsky è professore associato di archeologia all’Università di Varsavia.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534

Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio Stampa mostra «Ovidio. Amori, miti e altre storie»: copertina e pp. 3, 64-67, 68 (alto), 69-79 – Cortesia Israel Museum, Gerusalemme: Laura Lachman: p. 6 (alto) – Cortesia Israel Antiquities Authority: Danit Levy: p. 6 (basso); Assaf Peretz: p. 7 – Cortesia SABAP province di Sassari e Nuoro: Enrico Grixoni: pp. 8-9 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 10-12 – Cortesia SABAP Marche: p. 16 – Cortesia Ufficio Stampa: p. 18; Mathieu Rabeau/RMN-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari: p. 30 (alto); RMN-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari: p. 30 (basso); RMN-Grand Palais (Musée national Picasso-Paris)/Adrien Didierjean/dist. Alinari: p. 31 (alto); Tony Querrec/ RMN-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari: p. 31 (basso) – Cortesia degli autori: pp. 20, 22, 84 (basso), 85, 86-89, 91, 96/97, 108 – Cortesia Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico, Rovereto: pp. 26-28 – Alessandro Launaro: pp. 42-43, 45, 48, 50 – G. Murro: p. 44 – Lieven Verdonck: pp. 46-47 – A. Launaro, S. Hay, L. Verdonck: p. 49 – Martin Millett: p. 51 – Mondadori Portfolio: Leemage: pp. 55, 58-59, 60 (alto); Album: pp. 57, 82, 101; AKG Images: pp. 94/95, 100, 102-103, 109 – DeA Picture Library: p. 62; G. Dagli Orti: pp. 54, 63 – Shutterstock: pp. 60 (basso), 61, 80/81, 82/83, 92/93, 96, 98/99 – Cortesia Fondazione Sorgente Group: p. 68 (basso) – Doc. red.: pp. 84 (alto), 90/91, 104, 106 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 44, 105, 107.

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Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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n otiziario SCAVI Israele

SCOPERTE A GERUSALEMME

R

isale all’epoca cosiddetta «del Secondo Tempio», ovvero agli inizi del I secolo a.C., un’iscrizione molto particolare rinvenuta durante gli scavi archeologici propedeutici alla costruzione di una nuova strada, presso il Centro Congressi di Binyanei Ha’Uma, nel quartiere gerosolimitano di Givat Ram. Scolpita su un rocchio di colonna riutilizzato all’interno di una costruzione di età romana, l’iscrizione riporta il nome di Gerusalemme, scritto in aramaico, utilizzando le stesse lettere ebraiche in uso ancora oggi. Il testo completo recita: Anania figlio di Dodalo di Gerusalemme Le iscrizioni che menzionano la Città Santa sono rarissime e, ancor piú, quelle che ne riportano il nome completo. E, sebbene il nome «Gerusalemme» appaia inciso per esteso sulle monete romane risalenti al tempo della grande rivolta giudaica (66-70 d.C.), la scoperta di Givat Ram rappresenta l’unico esempio del genere a oggi noto, su supporto lapideo. Secondo Dudy Mevorach, curatore della sezione archeologica dell’Israel Museum, il contesto dello scavo non consente, purtroppo, di stabilire con esattezza «dove la colonna fosse collocata in origine, né chi fosse Anania figlio di Dodalo». È molto verosimile, però, che il primo fosse un artigiano, a sua volta figlio di artigiano, attivo nell’ampio quartiere di vasai che,

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A destra: la sala dell’Israel Museum (Gerusalemme) in cui è stato collocato il rocchio di colonna emerso dai recenti scavi nel quartiere di Givat Ram. Al centro: il reperto appena portato in luce. In basso: il particolare dell’iscrizione con la parola «Gerusalemme». Nella pagina accanto: due immagini del mosaico di epoca bizantina emerso dagli scavi di fronte alla Porta di Damasco (Città Vecchia di Gerusalemme).


NELLA CITTÀ VECCHIA

Alla Porta di Damasco

come hanno rivelato pluriennali scavi archeologici, per un periodo di diverse centinaia di anni aveva rifornito la capitale del regno di Giuda, a partire dal periodo ellenistico fino alla tarda età romana. Successivamente alla distruzione di Gerusalemme, avvenuta come è noto nel 70 d.C., le botteghe artigiane proseguirono le loro attività su scala minore, fino ai primi del II secolo d.C., quando la Legio X vi stabilí un proprio impianto produttivo per la realizzazione su larga scala di materiali da costruzione in ceramica quali mattoni, tegole e condutture idriche, ma anche recipienti per lo stoccaggio di derrate e altro. Lo scorso ottobre, il rocchio di colonna è stato esposto al pubblico in un apposito ambiente del rinnovato Museo d’Israele, insieme ad altri due reperti con iscrizioni, recentemente scoperti: un ossuario del I secolo d.C., rinvenuto nella periferia nord di Gerusalemme e recante l’iscrizione «figlio del Gran Sacerdote» e un mosaico di epoca bizantina, rinvenuto lo scorso agosto nei pressi della Porta di Damasco e raffigurante una lunga iscrizione dedicatoria (vedi box in questa pagina). Andreas M. Steiner

Un’iscrizione greca, risalente al periodo bizantino, quasi integra e in ottimo stato di conservazione: è la scoperta effettuata dagli archeologi della Soprintendenza alle Antichità d’Israele durante i lavori di messa in opera di cavi telefonici nei pressi della Porta di Damasco, nella Citta Vecchia di Gerusalemme. Il testo dell’iscrizione, esaminato e tradotto da Leah Di Segni dell’Università Ebraica di Gerusalemme, recita: «Al tempo del nostro sommamente pio imperatore Flavio Giustiniano, anche questo intero edificio Costantino il devotissimo sacerdote e abate fondo e innalzò, nella 14esima indizione». Secondo Di Segni, l’iscrizione

commemora la fondazione di un ostello per pellegrini da parte di un presule di nome Costantino. «Indizione» è un metodo di computo del tempo usato nella tarda antichità e, inoltre, la scritta men-

ziona l’imperatore Giustiniano I: la realizzazione del mosaico può essere datata, cosí, intorno all’anno 550/551 d.C. «La Porta di Damasco – spiega lo scopritore, l’archeologo David Gellman – ha rappresentato per secoli il principale accesso alla città per chi vi giungeva da nord. E, in epoca bizantina, l’area circostante la porta ospitava un gran numero di chiese, ospizi e monasteri». I nomi dei due personaggi menzionati nell’iscrizione, inoltre, sono legati al principale monumento cristiano della Gerusalemme bizantina, oggi scomparso e solo parzialmente riemerso durante le esplorazioni archeologiche degli anni Settanta del secolo scorso, effettuate nel quartiere ebraico della Città Vecchia: la Nea Ekklesia, la nuova, grande chiesa dedicata a Maria, madre di Gesú, fatta costruire dal carismatico papa Giustiniano nell’anno 543. E della quale Costantino era l’abate.

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n otiz iario

SCAVI Sardegna

I SECOLI DI OLBIA

È

stata aperta al pubblico l’area archeologica Tempio e necropoli di S. Simplicio, la nuova importante sede museale di Olbia (Sassari), che custodisce parte dello scavo archeologico eseguito in occasione dei lavori di riqualificazione dello spazio antistante l’omonima basilica. Olbia è una città pluristratificata senza soluzione di continuità dalla nascita dell’insediamento urbano con i Fenici (VIII-VII secolo a.C.) attraverso le fasi greca (630-510), durante la quale è l’unico centro ellenico della Sardegna, punica (510-238), romana (238 a.C.-450 d.C.), vandala (450-550), bizantina (550-950), bassomedievalegiudicale (950-1350) e aragonese. Sino alla fine del XIX secolo, il modesto rilievo sul quale sorge la chiesa romanica di S. Simplicio è sempre stato fuori del centro abitato ed è stato oggetto pochi anni fa di un importante intervento di riqualificazione urbana, che ha dato inizio a una complessa

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Sulle due pagine: immagini dell’area archeologica Tempio e necropoli di S. Simplicio, a Olbia (Sassari). In alto, resti di una fornace di età medievale

(XII-XIV sec.); in basso, da sinistra a destra, una tomba alla cappuccina e il muro dell’accesso al santuario, tombe a fossa e anfore greche.

indagine di archeologia preventiva, grazie alla quale sono state scoperte circa 450 tombe di età romana databili dal 200 a.C. al 300 d.C., ed è stata messa in luce una stratificazione di fasi di culto extraurbano che attraversa la storia della città, dalle origini fenicie all’età medievale. Il sito archeologico, di assoluto rilievo, fornisce una testimonianza

tangibile di Olbia antica, che affianca l’esposizione di reperti del Museo archeologico: la sua unicità è legata al fatto che si tratta di un sito integrato nella sovrapposizione della città moderna sull’abitato antico e la sua necropoli. «I dati relativi alla fase fenicia rilevati durante le indagini archeologiche – afferma Rubens D’Oriano, funzionario archeologo


A destra: un settore dell’area interessato dalla presenza di tombe a fossa, databili al II sec. a.C. In basso: unguentario in forma di tonno. I sec. d.C. della SABAP per le province di Sassari e Nuoro – sono circoscritti a frammenti d’anfora, che però suggeriscono, alla luce delle testimonianze inerenti le fasi successive, l’esistenza di un luogo di culto già in questo periodo. La sua presenza, con tutta probabilità nel sottosuolo della chiesa romanica, è attestata nella successiva fase greca dal ritrovamento di due pozzi abbandonati con un apposito rituale, che conferma la sacralità del sito. Alla fase punica sono pertinenti pochi reperti, a testimonianza della continuità di utilizzo del santuario, mentre dal II secolo a.C. gli indizi della presenza di un tempio sono consistenti e consentono di individuare in Cerere la divinità venerata (nelle fasi precedenti si trattava forse di Astarte-Hera), probabilmente nel suo aspetto ctonio-funerario, dal momento che è proprio da questo periodo che la collina si popola fittamente di sepolture a seguito di una espansione fin qui delle necropoli (prima ubicate in aree adiacenti al piccolo rilievo) dettata da un evidente incremento demografico, economico, produttivo e commerciale del centro abitato. Alla prima età flavia risalgono le strutture murarie dell’accesso monumentale al santuario ed è forse pertinente a questo rinnovamento architettonico l’architrave, conservato a Pisa, con la dedica del tempio a Cerere da

parte di Atte, l’amata liberta alla quale Nerone aveva donato latifondi a Olbia e che gli sopravvisse. Il tracollo di Olbia in età altomedioevale, innescato dall’attacco dei Vandali e dal loro disinteresse per la città, è testimoniato dalla scarsità numerica e qualitativa delle sepolture coeve, mentre la sua ripresa con la prima fase bassomedievale, grazie ai rapporti politici con la Repubblica di Pisa, è attestata dall’erezione della chiesa romanica, per la cui costruzione si realizzò una fornace da calce nello spazio dell’accesso monumentale al santuario di fase flavia». Nell’area archeologica si possono oggi finalmente vedere i pozzi greci con i materiali recuperati, come le

anfore vinarie e i vasi per libagioni, i corredi delle sepolture a fossa (boccali e brocchette) e a cassa (lucerne, coppe, balsamari di vetro). Per esemplificare la tipologia delle tombe messe in luce è stata ricomposta una delle tombe alla cappuccina con il suo corredo. Al centro dell’area, le strutture dell’accesso al santuario di età imperiale, due tombe monumentali in grandi lastre di granito e la fornace medievale per la calce. Quattro vetrine ospitano reperti notevoli come bamboline fittili, specchi di bronzo, pissidi di piombo, balsamari di vetro – alcuni dei quali configurati a pigna –, gioielli, tra cui un unico corredo, detto «del Signore degli Anelli», caratterizzato da numerosi anelli – uno dei quali d’argento con corniola incisa –, bracciali e una fibula d’argento raffigurante l’imperatore Costantino. Giampiero Galasso

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

NEL LARARIO INCANTATO MIRABILI PITTURE, DAI COLORI VIVACI E ANCORA BEN CONSERVATI, SONO EMERSE DAI RECENTISSIMI SCAVI NELLA REGIO V. MA QUAL È IL LORO SIGNIFICATO? E QUALE LA FUNZIONE DELL’AMBIENTE CHE DECORAVANO?

«O

gni porta ha due facce, l’una guarda i passanti, l’altra il dio Lare», con questa frase Ovidio mette in evidenza come l’interno della casa romana fosse sotto la tutela degli dèi Lari, protettori della casa, della famiglia e dei suoi schiavi, assieme al genio del paterfamilias e ad altre divinità piú care al proprietario della dimora. Pompei costituisce la piú importante fonte di conoscenza

dei larari, il luogo riservato al culto domestico, soprattutto per la loro riconoscibilità e configurazione all’interno della domus. Altro tratto originale pompeiano è rappresentato dalla disposizione di questi altari all’interno della casa, a volte ubicati in punti diversi da quello principale dell’atrio, lo spazio di rappresentanza per eccellenza, dove accanto al larario monumentale erano esposti

In basso: la parete del larario recentemente scoperto nell’area del «cuneo», nella Regio V di Pompei, con edicola, altare e pavone.

A destra: il larario nella cucina della casa situata nella Regio VI.15.23 di Pompei, come appariva alla fine dell’Ottocento e oggi quasi distrutto. anche i ritratti e gli archivi della familia, ed erano celebrate le piú importanti feste della casata. La recente scoperta avvenuta nella Regio V – nell’ambito dei lavori del Grande Progetto Pompei, mirati al consolidamento dei vecchi fronti di scavo, all’interno del cosiddetto «cuneo» (vedi «Archeo» n. 401, luglio 2018) – ha messo in evidenza, fra stanze liberate per la prima volta da lapilli e cenere, un piccolo ambiente a cielo aperto occupato da un elegante larario e caratterizzato da un’organizzazione del tutto particolare, finora senza paragoni nella città vesuviana. Il giardino appartiene a una casa parzialmente scavata fra Otto e

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Novecento, di tenore opulento, come dimostrerà il proseguo degli scavi verso le altre stanze che si affacciavano sullo spazio aperto, peraltro originariamente in parte soppalcato. L’accesso alla casa era dal vicolo di Lucrezio Frontone, dove da alcuni mesi si stanno appunto concentrando gli scavi condotti dal Parco Archeologico di Pompei, sotto la direzione di Massimo Osanna.

COME UN TEMPIETTO Realizzato probabilmente nei decenni precedenti la distruzione della città, il larario è composto da una nicchia (con all’interno ancora la lucerna in bronzo) sormontata da un frontoncino, alla maniera di un tempietto, ai lati della quale compaiono i Lari, rappresentati, come d’uso a Pompei, in giovani danzanti vestiti di una corta tunica e con calzari ai piedi; una mano sollevata regge un rhyton (vaso potorio rituale), dal quale scende come uno zampillo il vino, che essi attingono da una patera sorretta dall’altra mano. I Lares, in origine spiriti degli antenati, poi divenuti numi tutelari del focolare, appaiono sempre come divinità gemelle, identiche, raffigurate in modo speculare ai lati della nicchia che

marca l’architettura del sacrario. I larari pompeiani mostrano una sostanziale uniformità iconografica, con composizioni a volte standardizzate e ripetitive, dovute al conservatorismo religioso delle città vesuviane e al breve periodo di tempo in cui sono stati realizzati, compreso fra il terremoto del 62 d.C. e l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Ai Lari si offriva cibo: in occasioni eccezionali della vita familiare, si immolava solitamente un maiale, oppure, suggestivamente ipotizzabile per il nostro caso, si

consumavano anche porzioni di ambite prede di caccia, come il cinghiale e il cervo, entrambi assaliti da lupi o cani e rappresentati sulla brillante parete rossa con scena venatoria che scorre subito a destra del larario. Sotto la nicchia, due serpenti dall’aspetto viperino, con cresta e barba, colti a bocca aperta e sciolti nelle loro lunghe spire, convergono decisi sull’altare rotondo sul quale sono poste uova e una pigna, simbolo di eternità. I serpenti sono spiriti dotati di energia positiva (agathodaemoni, demoni buoni) ed espressione della manifestazione del genius loci, lo spirito benigno che anima aree domestiche e protegge i luoghi destinati alla conservazione del cibo (il penus).

UN PAESAGGIO IDILLIACO Tuttavia, come suggerisce Massimo Osanna, l’attenzione è attirata dall’ambiente naturale dipinto che circonda il larario: «Il tutto è potenziato da un paesaggio idilliaco – spiega il direttore – con natura florida ed esuberante, composta da vegetazione popolata da uccelli che si staglia sul fondo bianco. In queste pitture colpisce soprattutto il gioco fra illusione e realtà». Infatti, piante

In alto: un altro particolare delle pitture del larario recentemente scoperto, con serpenti di fronte all’altare dipinto, uova e pigna. A destra: una fase del primo intervento conservativo condotto sulle pitture murali del larario.

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dipinte e piante vere si mescolavano in questo incantevole luogo, dove anche il vivido pavone raffigurato in basso sembrerebbe muoversi sul piano di calpestio del giardino. La raffigurazione è quindi mossa fra aspetti reali e sognati che si confondono e si diffondono nell’ambiente, in principio dominato da rigogliose piante che dovevano crescere davanti al larario. Collegata a questa rappresentazione, e quindi all’edicola sacra, era inoltre l’arula in pietra (piccolo altare per sacrifici) Due immagini della parete laterale del larario, sulla quale si conserva una vivida scena di caccia, animata, fra gli altri, da un cinghiale e da un cervo.

ritrovata ai piedi dell’installazione, sulla quale erano ancora conservate le tracce di bruciato delle ultime offerte deposte per onorare le divinità domestiche. Questo spazio aveva pertanto una funzione religiosa importante all’interno della casa, ancora da precisare nella sua fisionomia, considerata anche la presenza di una vasca bordata e dipinta che insiste quasi al centro del giardino, alimentata in antico da un sistema idrico connesso al pozzo situato proprio all’angolo dell’invaso, trovato al momento dello scavo col coperchio semiaperto e ancora colmo di lapilli. In generale, la Regio V, messa solo parzialmente in luce dagli scavi archeologici, si distingue per l’eleganza dei luoghi di culto domestico allestiti sia in case di grandi dimensioni, come quella di

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Cecilio Giocondo, che nelle abitazioni piú piccole, fra cui la Casa della Soffitta, appartenuta a un personaggio dell’élite pompeiana a giudicare dalla bella edicola ornata di stucchi.

UNA PRESENZA RICORRENTE La vivacità dei colori appena scoperti sul nuovo larario pompeiano aiuta anche a capire la meraviglia che dovevano destare altri sacrari scoperti in passato e purtroppo oggi in gran parte consumati dal tempo, come quello della casa nella Regio VI 15,23, di cui restano vecchie foto a testimoniare anche la somiglianza col nostro caso. La presenza di larari inseriti nei giardini è comunque nota a Pompei: la casa del Principe di Napoli ha un larario nell’area verde, cosí collocato per

motivazioni topografiche interne e forse per la natura stessa degli dèi Lari; qui l’atrio è infatti decentrato rispetto al resto delle stanze, quasi nascosto alla visione generale della casa; i Lari dovevano invece sorvegliare sulla maggior parte degli spazi domestici. Il giardino assume una certa importanza nella sfera religiosa privata dopo aver perso la primitiva dimensione intima dell’hortus; dal I secolo a.C. divengono sempre piú spazi centrali dell’organizzazione domestica e vengono perciò monumentalizzati. In questa nuova veste i giardini ospitano, tra sculture ed elementi decorativi, anche apprestamenti di culto. L’integrazione del larario in una mirabile pittura di giardino è inoltre attestata nella casa di Optatio, dove gli altari entrano a far parte dello stesso sistema decorativo, in cui la divinità rappresenta la forza naturale, e pertanto viene celebrata anche attraverso i dipinti. D’altronde il giardino romano viene tradizionalmente eletto luogo di Venere, posto sotto la sua tutela, come ricorda Plinio il Vecchio (N.H. XIX, 19.50), una Venere che a Pompei non è solo patrona ma anche divinità della natura, della fertilità e dell’abbondanza. Per notizie e aggiornamenti su Pompei, pagina Facebook Pompeii-Parco Archeologico.



LA NOTIZIA DEL MESE

LA

CROCIERA DI

BARCELLONA VALENCIA

MARSIGLIA

GENOVA

ATTUALITÀ DEL PASSATO

IL RICHIAMO ANTICO DEL MEDITERRANEO Navigate con «Archeo» alla scoperta degli infiniti volti del Mediterraneo. Grazie a una collaborazione con MSC Crociere salperemo da Genova alla volta di Marsiglia, per poi esplorare Barcellona,Valencia e le isole Baleari e quindi rivolgere la prua verso oriente, alla scoperta di Malta. Sulla rotta del ritorno risaliremo le coste dell’Italia, lasciandoci incantare dagli splendori della Sicilia, dal fascino della città eterna e dalle meraviglie della Toscana. A bordo le migliori firme della rivista, oltre al Direttore stesso, terranno incontri di approfondimento e dialogheranno con i partecipanti. Navigate con noi, seguite il richiamo antico del Mediterraneo. Per info e prenotazioni rivolgiti alla tua agenzia di viaggi di fiducia o vai su www.msccrociere.it «LA CROCIERA DI ARCHEO».


ROMA

MESSINA Francia - Spagna - Malta - Italia Imbarco da Genova (25 marzo)

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dal 25 marzo al 4 aprile - 11 giorni /10 notti

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PALMA DI MAIORCA

MALTA MSC SINFONIA

ATTUALITÀ DEL PASSATO

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n otiz iario

SCAVI Marche

IL PRINCIPE DI CORINALDO

S

i è recentemente conclusa la campagna di scavo a Corinaldo (Ancona), in località Nevola, condotta in regime di concessione dall’Università di Bologna (Dipartimento di Storia Culture Civiltà), con la collaborazione e il sostegno del Consorzio Città Romana di Suasa e del Comune di Corinaldo con la Fondazione Flaminia. Lo scavo è parte di un piú ampio progetto, denominato ArcheoNevola e ideato da Federica Boschi – docente di geofisica applicata all’archeologia presso l’Ateneo bolognese –, che prevede lo studio delle dinamiche insediative antiche nella valle marchigiana attraversata dal fiume Nevola, soprattutto grazie all’utilizzo di tecniche non invasive, quali la fotografica aerea e la geognostica. La campagna di scavo di quest’anno, in particolare, si era resa necessaria dopo che la procedura di archeologia preventiva, attivata in vista della costruzione di una nuova struttura sportiva, aveva portato alla localizzazione di almeno una tomba a circolo. «La sepoltura in questione – spiega Ilaria Venanzoni, funzionario archeologo della SABAP Marche –, si è rivelata molto ricca, per la presenza di piú di cento oggetti di corredo, fra cui chiari indicatori di rango, quali una situla bronzea

Corinaldo (Ancona), località Nevola. Un momento dello scavo di una tomba principesca, forse riferibile a un guerriero o comunque a un personaggio di spicco della locale comunità. VII sec. a.C.

troncoconica tipo “kurd”, una cista a cordoni, uno schiniere in bronzo, un elmo a calotta composita, un fascio di spiedi in ferro e i resti di un carro a due ruote. Presente anche il vasellame ceramico, fra cui è stato possibile riconoscere un’anforetta del tipo “Moie di Pollenza”, un holmos, alcuni calici quadriansati, tazzette cantaroidi, oltre a grandi olle per la conservazione degli alimenti. Pur non essendo stato ritrovato il corpo del defunto, che forse era stato inumato su un tavolato disposto sopra la fossa contenente il corredo e poi ricoperto da un cumulo di terra, gli oggetti relativi all’armamentario fanno propendere per l’identificazione con un personaggio maschile, probabilmente un guerriero, forse Un’altra immagine della tomba scoperta a Corinaldo, che ha restituito un ricco corredo composto da vasellame ceramico e oggetti in bronzo.

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un capo della sua comunità. Tutti gli elementi di corredo sono stati consolidati, prelevati e messi in sicurezza, grazie alla collaborazione con il corso di laurea magistrale in conservazione e restauro dei beni culturali di Ravenna. La tomba, per ora genericamente databile al VII a.C., era circondata da un fossato anulare del diametro di circa 30 m e profondo 1,2 m circa. A un primo sguardo, i confronti piú stringenti con questa realtà rimandano alle ben note necropoli di epoca orientalizzante di Matelica (località Brecce, Cavalieri, Crocefisso, Villa Clara), oltre che a quelle di San Severino Marche e Fabriano. All’interno del recinto funerario sono inoltre emerse altre sepolture, datate per ora al I-II secolo d.C., in fossa terragna e alla cappuccina, con piccoli oggetti di corredo, fra cui un anello digitale, una cavigliera con perline, una moneta in bronzo, un balsamario in vetro. Una delle tombe presentava, oltre alla tipica copertura in tegole, un tubulo fittile per le libagioni funebri, realizzato incastrando fra loro numerose anfore». Giampiero Galasso



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MOSTRE Faenza

STORIE DI GRANDI IMPERI

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ttingendo innanzitutto alle proprie collezioni, il MIC (Museo Internazionale della Ceramica) di Faenza ripercorre la parabola delle piú importanti civiltà precolombiane – Atzechi, Inca e Maya –, con l’ambizione di offrire ai visitatori una mostra «orgogliosamente controcorrente», come ha voluto definirla Claudia Casali, direttrice della raccolta romagnola. L’intento è quello di presentare una visione complessiva dell’America precolombiana, in grado di offrire sia una sintesi dei tratti panamericani comuni alle diverse culture, sia gli approfondimenti

specialistici e monotematici piú interessanti. L’esposizione si concentra in particolare sulla Mesoamerica e sull’area peruviana e ha dunque come protagoniste le maggiori civiltà fiorite in quelle regioni. Gli Aztechi, dopo aver fatto la loro comparsa in Messico nel XIII secolo, giunsero ad acquisire il controllo di un territorio immenso, compreso tra l’Atlantico e il Pacifico, che dalle steppe dello stesso Messico si estendeva fino al Guatemala. E poi i Maya, del Periodo Classico, un popolo che ha saputo elaborare sistemi calendariali raffinatissimi e una In alto: sviluppo della decorazione di un vaso cilindrico maya. 300-900 d.C. Venezia, Collezione Ligabue. A sinistra: bottiglia configurata. Cultura Moche, 200 a.C.-650 d.C. Roma, Museo delle Civiltà.

scrittura logo-sillabica, che è stata decifrata solo negli ultimi decenni. E infine gli Inca, che, nel 1438, all’indomani della vittoria sui Chanca, diedero vita all’impero piú esteso e potente del Nuovo Mondo. Un regno sterminato, che chiamarono Tahuantinsuyu («i quattro quarti» o anche «le quattro regioni insieme»), e che arrivò a comprendere un territorio di oltre 600 000 kmq. Epopee formidabili, accompagnate da sviluppi culturali che ancora oggi sorprendono e che nella mostra sono testimoniati da una selezione di opere e reperti di pregio assoluti, molti dei quali esposti per la prima volta. S. M.

DOVE E QUANDO «Aztechi, Maya, Inca e le culture dell’antica America» Faenza, MIC (Museo Internazionale delle Ceramiche), Faenza fino al 28 aprile 2019 (dall’11 novembre) Orario ma-ve, 10,00-16,00; sa, do e festivi, 10,00-17,30; chiuso i lunedí non festivi, 25 dicembre e 1° gennaio Info tel. 0546/697311; e-mail: info@micfaenza.org; www.micfaenza.org



A TUTTO CAMPO Andrea Ciacci

MEMORIE DAL VERDE URBANO IL PROGETTO SVILUPPATO SUL CASO DEL CONVENTO ED EX CARCERE DI S. DOMENICO, A SAN GIMIGNANO, HA RIVELATO LE MOLTE POTENZIALITÀ DI UNA FUTURA «ARCHEOLOGIA DEGLI ORTI»

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a senso parlare di «archeologia degli orti»? Una recente ricerca del Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena e della «Federico II» di Napoli, sviluppata in Joint venture con il Comune di San Gimignano, ha preso in esame lo studio di un progetto tematico sul verde urbano dell’ex convento ed ex carcere di S. Domenico a San Gimignano (Siena) e ha offerto l’opportunità di proporre alcune considerazioni metodologiche a questo riguardo. Un giardino, un orto, uno spazio verde urbano, ancorché abbandonato e ridotto a un arruffo di vegetazione arbustiva e arborea spontanea, costituiscono comunque un brandello di quei «corridoi ecologici» attraverso i quali, per dirla con le parole del filosofo Rosario Assunto in una visione certamente estetica ma anche etica del paesaggio urbano, si sviluppa la funzione «connettiva», di garanzia della qualità del rapporto tra centri abitati e cittadini. In particolare, gli orti rientrano in quel paesaggio, tradotto in ambito urbano, ben tratteggiato da Emilio Sereni per il suo valore storico, manifestato dalla «forma» impressa dall’uomo all’ambiente naturale ai fini di produrre cibo

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S. Domenico a San Gimignano è stato mutuato dal piú ampio Progetto Farfalla, mirato allo studio della vitivinicoltura e olivicoltura antiche.

UN APPROCCIO MULTIDISCIPLINARE

Il Convento di S. Domenico con il suo orto, cosí come appare in un cabreo (documento catastale) redatto nel 1618 da Matteo di Girolamo Brogi. attraverso le attività produttive agricole. Soprattutto laddove il tessuto dei centri urbani risulti fortemente conservativo, tali spazi costituiscono uno dei possibili «paesaggi» di cui l’archeologia prova a ricostruire le trame del passato e il loro mutare nel tempo, differenziandosi in base ai contesti territoriali (orti «conclusi» conventuali, orti urbani) e ai diversi ambiti geografici. Il modello metodologico della ricerca svolta nell’ex carcere di

Il modello, agilmente «esportabile», si è sviluppato negli orti conventuali di S. Domenico attraverso una forte caratterizzazione multidisciplinare (archeologia, storia, storia dell’arte, botanica, genetica, policy evaluation, valutazione dei beni intangibili e della gestione sostenibile delle risorse, ingegneria dell’informazione) e si è mosso tra la ricerca sul campo di carattere archeologico, botanico e paleobotanico, le antiche carte, la decodificazione del palinsesto vegetale e la ricognizione geografico-cartografica per riscoprire le forme del terreno e le alterazioni in esse apportate da chi, quel paesaggio, ha, per secoli, usato e modellato. Quelli che in origine si intuivano come ordinati orti terrazzati posti sul lato orientale dell’ex edificio carcerario, all’inizio del lavoro si presentavano simili a una giungla scomposta di vegetazione arbustiva e arborea spontanea. È stata allora creata una viabilità interna, con specifici interventi di



San Gimignano (Siena). Il convento ed ex carcere di S. Domenico visto dalle mura di guardia del carcere, sul lato degli orti. decespugliamento e pulizia che ha reso possibile la ricognizione, i campionamenti vegetali e paleobotanici ricalcando le originali «viottole» e i percorsi funzionali di spostamento da un terrazzamento all’altro. L’assetto conservativo delle colture proprio dell’hortus conclusus conventuale dalla metà del Trecento fino al 1833, anno di trasformazione del S. Domenico in carcere (dismesso nel 1993, per rimanere fino a oggi inutilizzato), ha favorito la sopravvivenza di varietà botaniche antiche (vitigni, olivi, piante da frutto, piante medicinali) e di forme storiche di allevamento. Gli orti, definiti dalle mura del complesso architettonico da una parte, e dalla cinta muraria cittadina medievale dall’altra, rappresentano un caso esemplare: il loro abbandono a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso ha consentito la conservazione di numerose piante di olivo, vite, piante da frutto che rappresentano un patrimonio di biodiversità peculiare. La ricognizione ha permesso di mettere in evidenza le sei vasche di accumulo delle acque piovane derivanti principalmente dallo sgrondo del soprastante complesso architettonico, dislocate in zone

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strategiche per scopo prevalentemente irriguo. Da esse, tramite canalizzazioni e acquidocci in pietra e in cotto, ormai quasi completamente interrati o invasi da vegetazione infestante, l’acqua veniva convogliata nei vari terrazzamenti. Tali apprestamenti hanno permesso per secoli il mantenimento di un assetto idrogeologico equilibrato dell’area, mentre il loro abbandono ha probabilmente contribuito al parziale crollo della cinta muraria cittadina nella primavera scorsa.

IL RIUSO DELLE TOMBE Alle operazioni sul terreno di archeologi, agronomi, botanici, paleobotanci e genetisti si intrecciava il lavoro di geografi, storici e archivisti che riuscivano a dipanare una storia millenaria: un grande tumulo etrusco tardoorientalizzante (sulla sommità ospitava l’antica chiesa di S. Stefano in Canova!) caratterizzava la collina dove si sarebbe insediato il convento; i monaci lo distrussero per ricavare ulteriore terreno coltivabile; i cunicoli sotterranei del convento, probabilmente in origine tombe etrusche ellenistiche, furono adattati e ampliati dai monaci stessi per installarvi il frantoio oleario, di cui esistono ancora evidenti tracce;

l’approvvigionamento di vino nel XVII secolo dipendeva in prevalenza dall’apporto colturale e produttivo dell’orto, grazie all’alto numero di viti «a testucchio», alcune delle quali ancora presenti in forma relittuale; l’accurata rendicontazione della produzione dell’orto ha consentito, nel caso dell’olio, la precisa stima delle piante di olivo coltivate nel XVII secolo: tra le 80 e 90 piante, molto vicino alle 84 censite nel 2017! Questi sono soltanto alcuni dati emersi dal progetto. Chi vi ha partecipato lo ha fatto con le proprie metodologie e il proprio bagaglio di sapere: tutti però in funzione di un’operazione politica di rilevante interesse, quella di inserire la ricerca in una Concessione in Project Financing del risanamento e della valorizzazione del complesso del S. Domenico da parte del Comune di San Gimignano. È il modo di intendere il paesaggio come ambito dal quale osservare la qualità della politica, della democrazia e della trasparenza delle scelte: e che riguarda in ultima analisi i cittadini. Termino con le parole di Duccio Balestracci: «Quanti (…) sono convinti di questo sono altrettanto convinti che operazioni come il cantiere di studio preliminare che si è aperto intorno al San Domenico sia anzitutto la testimonianza del corretto modo di intendere il rapporto fra operatori di cultura, amministrazioni della cultura e fruitori della cultura». Per saperne di piú: https://sandomenico.comune. sangimignano.si.it/sd/3_PP_ ALLEGATI/PP_ALL.%20F_PARCO. pdf. Alla ricerca hanno partecipato: Duccio Balestracci, Cinzia Bartoli, Andrea Ciacci, Gaetano Di Pasquale, Barbara Gelli, Anna Guarducci, Lenio Morganti, Mirko Petitto, Valerio Zorzi. (ciacci@unisi.it)



PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

CIAK... SI SCAVA SI È APPENA CONCLUSA LA XXIX RASSEGNA INTERNAZIONALE DEL CINEMA ARCHEOLOGICO DI ROVERETO, APPUNTAMENTO CULTURALE PRESTIGIOSO DIVENUTO ORMAI UN RIFERIMENTO A LIVELLO EUROPEO PER L’AMPIA PROPOSTA DI FILM E DOCUMENTARI ARCHEOLOGICI, PROMOSSO DALLA FONDAZIONE MUSEO CIVICO DI ROVERETO. L’EVENTO, CHE QUEST’ANNO HA INCREMENTATO DEL 30 PER CENTO IL PUBBLICO RISPETTO ALLA SCORSA EDIZIONE, HA CAMBIATO «PELLE», PRESENTANDOSI IN FORMA DEL TUTTO RINNOVATA

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ra le novità dell’ultima rassegna, oltre alla location delle proiezioni, ospitate nel prezioso Teatro Zandonai di Rovereto, c’è la direzione della Fondazione Museo Civico di Rovereto, affidata ad Alessandra Cattoi, e la collaborazione con alcuni media partner, tra cui «Archeo». I risultati si sono visti subito in termini di partecipazione, come

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Il regista e documentarista Brando Quilici con Andreas M. Steiner sul palco della Rassegna del Cinema Archeologico di Rovereto.

ci racconta la Direttrice della Fondazione museo civico di Rovereto Alessandra Cattoi... «Quest’anno abbiamo avuto 3mila presenze, di cui circa 500 provenienti da tutta l’Italia: un terzo in piú della scorsa edizione. Dopo quasi 30 anni la rassegna ha iniziato a rinnovarsi e le novità hanno aperto l’evento a un pubblico nuovo. Sono molto contenta di questa edizione». Partiamo dalle novità introdotte con l’ultima


A sinistra: Rovereto. Il Teatro Zandonai, che ha ospitato la Rassegna del Cinema Archeologico. In basso: una sequenza tratta da L’Enigme De La Tombe Celte, che rievoca la scoperta, nel 2015, di una ricchissima tomba a Lavau, presso Troyes, in Francia. rassegna Internazionale del Cinema Archeologico… «Abbiamo ridotto il numero dei film in concorso, passando da 50 a 35, cosí da crescere in qualità e dare spazio a proiezioni – non in gara – che erano frutto del lavoro dei ragazzi delle scuole. La partecipazione degli studenti è la principale novità di quest’anno. A questi progetti sono state dedicate due mattine della rassegna: gli studenti hanno lavorato alla traduzione dei film in lingua straniera e a un programma

di critica cinematografica. I ragazzi hanno partecipato in modo interessato, imparando molto. Nel teatro, da 400 posti, regnava il silenzio. È importante coinvolgere i ragazzi in prima persona, non solo invitarli, affinché possano crescere culturalmente». Quali tematiche hanno maggiormente alimentato il dibattito in sala? «In passato i film raccontavano principalmente le scoperte archeologiche, quest’anno, invece, ci siamo concentrati sulle

tecnologie applicate alla ricerca archeologica. Un tema che ha fatto discutere molto: per esempio, il film sulle ricerche nelle piramidi in Egitto, condotte con tecniche innovative e non invasive, come il georadar, che permettono di vedere al di là delle pareti, ha scatenato un vivo dibattito tra quanti si fidano dei risultati delle nuove tecnologie e quanti, invece, sono piú scettici». Anche la tutela dei beni archeologici è uno dei temi che ritornano nei film in concorso alla Rassegna Internazionale del

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A COLLOQUIO CON BARBARA MAURINA

Scientificità e godibilità

Per conoscere piú da vicino i film presentati dall’ultima Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto abbiamo intervistato la coordinatrice scientifica dell’evento, Barbara Maurina, conservatrice per l’archeologia della Fondazione Museo Civico di Rovereto. Con quali criteri avete selezionato i film «archeologici»? «Accuratezza scientifica e godibilità. Film di altissima qualità, con splendida fotografia e riprese mozzafiato, che fanno ricorso alle tecniche della docufiction senza mai trascurare, tuttavia, il rigore scientifico. Un’impostazione lontana dai canoni tradizionali del documentario archeologico “puro”, che ha fra i migliori risultati il film Gutenberg, l’aventure de l’imprimerie, un docudrama di grande livello sull’invenzione della stampa a caratteri mobili alla metà del Quattrocento. Per la prima volta abbiamo ospitato, poi, un film interamente “fittizio”, Le fils de Neandertal (menzione speciale Archeoblogger), esperimento interessante che ha centrato il bersaglio. Si tratta di una fiction interpretata da attori, che si snoda come un “giallo” dalla preistoria fino ai giorni nostri, e indaga il rapporto fra Neanderthalensis e Sapiens, tenendoci con il fiato sospeso fino all’ultimo fotogramma. Il premio “Città di Rovereto” è stato assegnato a un film d’impostazione piú tradizionale, ma di grande impatto, L’Enigme De La Tombe Celte, che parte dalla straordinaria scoperta, nel 2015, di una ricchissima tomba a tumulo a Lavau, presso Troyes, in Francia, per scorrere le testimonianze piú significative e impressionanti delle tombe principesche halstattiane». Da archeologa, quale film ha apprezzato maggiormente? «Metterei al primo posto i documentari del ciclo Enquetes archéologiques, una serie di cortometraggi in cui l’archeologo Peter Eckhout ci porta “sul campo attraverso il pianeta”, dalla Grecia, all’Africa all’America latina (Amazzonia, Colombia, Perú), per intervistare gli archeologi sulle ultime novità della ricerca sul campo». Alcuni film dell’ultima rassegna sembrano accomunati da un tema sottotraccia: il riscatto che offre la ricerca archeologica quando diventa uno strumento per rivendicare la verità storica e restituire dignità a un popolo…ci vuole raccontare? «È il caso dei popoli oppressi, sfruttati, a volte decimati, la cui storia è stata intenzionalmente travisata e riscritta dai vincitori. Bellissimo il film Île de Pâques, l’heure des vérités, che ricostruisce la vera storia dei Rapa Nui e dello spopolamento dell’Isola di Pasqua, e L’histoire oubliée du Swahili (Menzione CinemAMoRe), dove la ricerca archeologica restituisce a questo popolo un’identità che il colonialismo aveva condannato all’oblio. Una storia di riscatto è anche quella dei due film che “sdoganano” in via definitiva, anche dal punto di vista cinematografico, l’uomo di Neandertal: Le fils de Neandertal e Qui a tué le Neandertal. Ma anche quella dell’équipe, guidata da un’archeologa turca, che scava presso il tumulo dell’età del Bronzo di Gre Amer, in Kurdistan, raccontata da Katman/The Layer (Menzione speciale Archeoblogger): un film in cui l’archeologia diventa strumento di convivenza e pace in una terra sempre piú sconvolta da guerre e conflitti».

Cinema Archeologico di Rovereto… «Sí. Abbiamo affrontato il tema della tutela alla luce del problema del traffico internazionale dei beni archeologici. Una questione che è strettamente collegata al tema

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della criminalità mafiosa: il traffico illecito dei beni archeologici, come è noto, in Italia è controllato dalla mafia. E questo è un tema trattato piú volte nei documentari proposti». Ma come avete fatto, in un anno, a

La locandina de La fragilità del segno, documentario sull’arte rupestre sahariana, che ha ottenuto la menzione speciale «Archeo». incrementare del 30 per cento il numero delle presenze? «Dopo quasi trent’anni, la rassegna aveva bisogno di un cambiamento: noi lo abbiamo avviato, anche con nuove collaborazioni e partnership. Ma soprattutto, coinvolgendo meglio il pubblico. In futuro vorremmo coinvolgere anche i giovani delle Università: gli studenti di archeologia potrebbero essere giudici dei film in concorso, cosí da incrementare il ricambio di pubblico». La rassegna di Rovereto rappresenta ormai un riferimento a livello europeo per il cinema archeologico. Non è vero? «Sí. Avendo un patrimonio cosí ampio di proiezioni e film, il piccolo Museo di Rovereto è diventato un riferimento: ci chiamano da tutta l’Europa per organizzare eventi con proiezioni, poiché siamo gli unici ad avere una cineteca cosí fornita. Siamo stati di recente in Sicilia, a Tunisi, a Belgrado. Terminata la rassegna, i film circolano in tutta Europa: è l’eredità di quasi 30 anni di lavoro». E quali sono le prospettive future? «Il prossimo anno vorremmo diversificare i luoghi delle proiezioni coinvolgendo tutta la cittadinanza: film e dibattiti verranno proposti all’interno di negozi, piazze e luoghi storici della città, cosí da tirar fuori il pubblico dal cinema e creare un evento che abbracci tutta la città in forma diffusa».



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MOSTRE Milano

IL SENSO DI PICASSO PER L’ANTICO

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entre Roma celebra Ovidio con una mostra che in larga parte si ispira alle sue Metamorfosi (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 64-79), Milano rende omaggio a Pablo Picasso, con una rassegna che del celebre poema non solo prende a prestito il titolo, ma nella quale, in un ideale dialogo a distanza, si documenta anche l’interpretazione che il maestro spagnolo volle dare, visivamente, dell’opera ovidiana. Gli studi sulle Metamorfosi sono una delle innumerevoli testimonianze di un rapporto, quello fra Picasso e l’antico, che fu intenso e ispirò molta della sterminata produzione dell’artista spagnolo per l’intero arco della sua carriera, non soltanto in pittura, ma anche nelle arti plastiche, come provano le molte sculture e ceramiche. Il percorso espositivo è dunque giocato sull’accostamento fra le creazioni picassiane e una selezione di opere e oggetti riferibili

ad ambiti culturali diversi, che spaziano dagli idoletti cicladici ai bronzetti iberici, dalla statuaria greca agli affreschi pompeiani, o, ancora, dagli specchi etruschi alle terrecotte architettoniche.

Picasso studiò a fondo quella lezione e non si limitò a ripeterla, ma seppe dare alle riletture di volta in volta elaborate il suo inconfondibile segno, facendo tornare a vivere prototipi e modelli che il tempo aveva cristallizzato. Basti pensare, per esempio, a certi studi sul Minotauro nei quali non si fatica a cogliere, oltre alle affinità con la ceramica geometrica, anche il richiamo alla grande tradizione dell’arte parietale preistorica e in particolare al fantastico bestiario della grotta di Altamira, scoperto, proprio in Spagna, nel 1879. Grazie ai prestiti accordati da una folta schiera di musei italiani e stranieri «Metamorfosi» propone una carrellata di opere di grandissimo pregio, suddivise in sei sezioni. Nella prima, Pablo Picasso viene messo a confronto con Auguste Rodin e JeanAuguste-Dominique Ingres, artisti che prima di lui avevano recuperato e rivisitato gli archetipi


Nella pagina accanto, in alto: Pablo Picasso, Il bacio, olio su tela, 1929. Parigi, Musée National Picasso. Nella pagina accanto, in basso: statua di Arianna, principessa cretese, abbandonata dal dio Dioniso. Parigi, Museo del Louvre. A sinistra: Pablo Picasso, Nudo sdraiato, olio su tela, 1932. Parigi, Musée National Picasso. In basso: oscillum in gesso con una coppia che si bacia. Parigi, Museo del Louvre. della storia dell’arte. Viene quindi documentata la scelta, ripetuta, di prendere a modello le raffigurazioni di esseri fantastici presenti nel repertorio mitologico: tra i punti di riferimento del maestro ricorrono figure ibride, esseri lacerati tra umano e animale, bene e male, vita e morte. Nella terza sezione «Alla Fonte dell’Antico-Il Louvre», il tema viene ulteriormente sviluppato, ripercorrendo le tappe principali del percorso di scoperta, conoscenza e studio compiuto dall’artista, ricordando, fra gli altri, il viaggio in Italia – con tappa, fra le altre, a Pompei – che già aveva ispirato la mostra «Picasso: Parade», presentata nel 2017 al Museo di Capodimonte a Napoli.

Una formazione che passò anche attraverso la frequentazione del Museo del Louvre, che Picasso visitò per la prima volta nel 1901 e nelle cui sale tornò piú volte e regolarmente anche negli anni successivi, fino al secondo dopoguerra. Dopo la sezione che

ha fra le sue opere piú significative i già citati studi per le Metamorfosi di Ovidio, la rassegna si chiude con le ceramiche, che soprattutto nei decenni finali della carriera furono uno dei territori piú spesso esplorati dal maestro. Stefano Mammini

DOVE E QUANDO «Picasso. Metamorfosi» Milano, Palazzo Reale fino al 17 febbraio 2019 Orario lu, 14,30-19,30; ma-do, 9,30-19.30 (gio e sa, apertura serale fino alle 22,30) Info tel. 02 92897755; www.palazzorealemilano.it, www.mostrapicassomilano.it Catalogo Skira Editore

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ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

ANDARE OLTRE: I PONTI NELL’ANTICHITÀ

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Nel leggere lo Speciale dedicato ai ponti nell’antichità, e a quelli romani in particolare (vedi alle pp. 80-103), non si può fare a meno di pensare al crollo del viadotto autostradale di Genova, che ha tragicamente segnato l’estate appena trascorsa. Qui l’intento non è certo quello di proporre un confronto, storicamente opinabile, fra opere solo concettualmente affini, ma di documentare filatelicamente strutture, in molti casi grandiose, che ancora oggi possiamo ammirare. Per farlo, seguiremo la classificazione proposta dall’autore dello Speciale, Flavio Russo. 1. Ponti pedonali di legno. Si può solo ricorrere a un disegno ricostruttivo del Ponte Sublicio (1), famoso nella storia per esser stato il punto di difesa di Roma da parte di Orazio Coclite. 2. Ponti pedonali megalitici. Tra i molti citati, abbiamo trovato un francobollo delle Isole Comores, che raffigura il ponte greco di epoca micenea di Kazarma (o di 7 Arkadiko; 2). 3. Ponti pedonali pseudo-megalitici. Molti di questi si trovano in Inghilterra, ma sono, nella realtà, ponti di epoca medievale, realizzati con lastre di granito. Il piú lungo di essi, circa 50 m, è quello di Tarr Steps e si trova nel Parco Nazionale di Exmoor, ben illustrato da un francobollo inglese del 1968 (3). 4. Ponti pedonali misti. Sono quelli realizzati con massi di pietra per le pile e impalcato e parapetti di legno. L’esempio è quello del ponte di Fabio Massimo a Cerreto Sannita (Benevento), descritto nello Speciale. 5. Ponti di legno. Sono quelli che consentono anche il transito di almeno un carro. Famoso in Italia è quello di Bassano del Grappa, progetto attribuito ad Andrea Palladio, riprodotto in un francobollo italiano del 1948 per la sua ricostruzione (4), a cui si possono aggiungere gli altri similari di Stefanska Uta in Slovacchia (5) e di Cernvir in Repubblica Ceca (6). 6. Ponti in pietra. Moltissimi sono i ponti in pietra sparsi in Europa; quelli citati non hanno riferimenti filatelici, ma possono supplire le immagini del ponte di Alcántara (7) o quello di Tiberio a Rimini (8), entrambi a piú arcate, o quello di Lamon sulla Via Claudia Augusta (9) ad arcata unica. 7. Ponti in pietra e calcestruzzo. L’uso del calcestruzzo permise la costruzione di ponti con grandi luci anche singole, come quello di Saint-Martin, in Valle d’Aosta, riprodotto da un annullo italiano del 2009 (10). 8. Grandi ponti in pietra e legno. La città di Drobeta, in Romania, è sul Danubio e qui Traiano fece costruire il piú lungo ponte dell’antichità: 1135 m. Fu distrutto per motivi militari da Aureliano e poi completamente disgregato dall’opera delle correnti e del tempo. I tre pezzi raffigurati di Romania ne presentano un disegno ricostruttivo (11 e 12) e ciò che ne resta oggi, pochi ruderi degli originali piloni (13).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www. cift.it



CALENDARIO

Italia

NAPOLI Le ore del sole

ROMA Traiano

Geometria e astronomia negli antichi orologi solari romani Museo Archeologico Nazionale fino al 31.01.19

Costruire l’Impero, creare l’Europa Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 18.11.18

ORBETELLO Il Gruppo FAI Maremma per Settefinestre

Il recupero di un affresco. Dettagli di interni tra la villa romana e la città di Cosa Ex Polveriera Guzman fino al 15.11.18

PIOMBINO (LIVORNO) Romani a Populonia I Confini dell’Impero Romano

Il Limes Danubiano. Da Traiano a Marco Aurelio Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 18.11.18

L’anfiteatro e il ludus di Carnuntum in 3D.

10 anni di ricerche all’Area archeologica di Poggio del Molino Museo etrusco di Populonia Collezione Gasparri fino al 06.01.19

POMPEI Alla ricerca di Stabia

Ovidio

Antiquarium degli Scavi fino al 31.01.19

Amori, miti e altre storie Scuderie del Quirinale fino al 20.01.19

La Roma dei re

Il racconto dell’archeologia Musei Capitolini fino al 27.01.19

ABBADIA ISOLA (MONTERIGGIONI, SIENA) Monteriggioni prima del Castello Una comunità etrusca in Valdelsa Sala Sigerico fino al 23.04.19

FAENZA Aztechi, Maya, Inca e le culture dell’antica America»

MIC (Museo Internazionale delle Ceramiche) fino al 28.04.19 (dall’11.11.18)

FRANCAVILLA MARITTIMA (COSENZA) Francavilla Marittima, un patrimonio ricontestualizzato

Vaso antropomorfo. Cultura Huari.

Mito e immagine nelle lastre dipinte di Cerveteri Castello di Santa Severa fino al 22.12.18

Palazzo de Santis fino al 15.01.19

MILANO Picasso Metamorfosi Il maestro a confronto con l’antichità e il mito Palazzo Reale fino al 17.02.19 34 a r c h e o

SANTA MARINELLA (ROMA) Pittura di terracotta

SIRACUSA Archimede a Siracusa Statuette votive forse raffiguranti Atena.

Experience exhibition Galleria Civica Montevergini fino al 31.12.19

L’affresco della villa romana di Settefinestre.

Terrecotte dal luogo di culto in località Privati (Stabia).


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Germania

TORINO Anche le statue muoiono

BERLINO Tempi inquieti

Museo Egizio fino al 06.01.19

L’archeologia in Germania Gropius Bau fino al 06.01.19

Ercole e il suo mito Reggia di Venaria fino al 10.03.19

FRANCOFORTE L’oro e il vino

VENEZIA Idoli

I piú antichi tesori della Georgia Archäologisches Museum fino al 10.02.19

Il potere delle immagini Palazzo Loredan, Isituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti fino al 20.01.19

Busto di divinità in carapace di tartaruga. II sec. d.C.

Paesi Bassi

Belgio

LEIDA Dèi dell’Egitto

BRUGES Mummie

Rijksmuseum van Oudheden fino al 31.03.19

Segreti dell’antico Egitto Xpo Center Bruges fino all’11.11.18

Francia PARIGI Città millenarie

Un viaggio virtuale da Palmira a Mosul Institut du monde arabe fino al 10.02.19

Aleppo, aprile 2017. Immagine 3D del suk della città siriana.

Svizzera HAUTERIVE Orso

Il sarcofago dorato del sacerdote Nedjemankh.

Laténium, Parc et musée d’archéologie de Neuchâtel fino al 06.01.19

USA NEW YORK Nedjemankh e il suo sarcofago d’oro

The Metropolitan Museum of Art fino al 21.04.19 35


E I

N DA IO CH I GU IG US

LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO

EL TR R LA I E

GL E D

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LA

RELIGIONE ETRUSCA LUOGHI, DÈI E MISTERI

• Tutte le divinità dell’Etruria e come riconoscerle • La Disciplina Etrusca, una tradizione scomparsa? • Chi erano gli aruspici? • Sacerdoti, viscere e fulmini • I luoghi di culto • Le rivelazioni dell’archeologia di Daniele F. Maras


E

ra affollato il pantheon degli Etruschi, i quali, al pari di Greci e Romani, credevano che a decidere i loro destini fosse una «famiglia» numerosa e variegata, retta anche in questo caso da un grande padre, Tinia (equivalente dello Zeus greco). Nella nuova Monografia di «Archeo» Daniele F. Maras ci presenta dunque tutti i componenti principali di questo clan, le cui caratteristiche, come vedrete, alternano tratti affini e sovrapponibili a quelli dei loro omologhi greci e latini, a elementi decisamente originali. Questa carrellata di profili, di volta in volta corredati da una ricca selezione di immagini, permette anche di tratteggiare, in senso piú generale, le linee guida della religione etrusca. E di scoprire cosí gli usi e i costumi che piú la connotarono, come la predizione del futuro basata sull’osservazione dei visceri e dei fenomeni naturali, testimoniata da alcuni dei piú celebri reperti oggi noti, primo fra tutti il Fegato di Piacenza. Né manca la descrizione dei principali luoghi di culto, tra i quali spicca il santuario federale del Fanum Voltumnae. Un viaggio affascinante, che aiuterà a capire perché lo storico Tito Livio fosse arrivato a sentenziare che gli Etruschi erano «la gente che piú di tutte si dedicava alla religione».

GLI ARGOMENTI Perugia, Ipogeo dei Volumni. Particolare dell’urna funeraria di Arunte, raffigurante due demoni alati, dall’aspetto giovanile, che vigilano la porta di accesso all’Ade, dipinta al centro. II sec. a.C.

IN EDICOLA

• I NTRODUZIONE • Un popolo alla ricerca della volontà divina •D ÈI DELL’ETRURIA • Selvans, Culsans, Thanr, Fufluns, Cavtha, Calus, Guardiani dell’Oltretomba, Hercle, Thesan, Menerva, Laran e Maris, Tinia, Uni, Turan, Suri, Artumes e Tiur, Cel e Vei, Turms e Nethuns, Thufltha, Le divinità «minori»

a r c h e o 37






SCAVI • LAZIO

VIVERE TRA I FIUMI

42 a r c h e o


LA PIANTA GENERALE DI UN’INTERA CITTÀ DI EPOCA REPUBBLICANA, RIMASTA PER SECOLI SEPOLTA SOTTO TERRA, EMERGE DALLE STRAORDINARIE IMMAGINI OTTENUTE GRAZIE ALLE RECENTI INDAGINI GEOFISICHE ESEGUITE DA UN’ÉQUIPE SCIENTIFICA INTERNAZIONALE di Giovanna Rita Bellini, Alessandro Launaro, Martin Millett, Lieven Verdonck e Frank Vermeulen

Sulle due pagine: Interamna Lirenas (Pignataro Interamna, Frosinone). Un’immagine dei resti del teatro, riportati alla luce a partire dal 2013. La costruzione dell’edificio per spettacoli si colloca negli ultimi decenni del I sec. a.C. Nella pagina accanto, in basso, e in questa pagina, in alto: una terracotta architettonica e un’antefissa provenienti entrambe dal teatro. a r c h e o 43


SCAVI • LAZIO

U

no degli aspetti piú notevoli della civiltà romana è certamente rappresentato dal livello di urbanizzazione che essa seppe promuovere. Piccole e grandi città costituirono i nodi di una fitta rete di vie di comunicazione, scambi e contatti centrata su Roma, un’infrastruttura senza la quale un organismo complesso ed esteso quale l’impero romano difficilmente sarebbe riuscito a sopravvivere, figurarsi prosperare. All’apice della sua grandezza vi erano forse duemila città sparse per tutto l’impero, un quinto delle quali solo nella Penisola italiana. Se molti di questi centri hanno poi avuto una storia successiva alla fase romana, altri sono stati infine abbandonati, per non essere mai piú rioccupati. Queste città «morte» hanno spesso lasciato tracce della passata grandezza, ro-

In basso: fotografia da drone del sito di Interamna Lirenas. La città venne fondata come colonia latina nel 312 a.C.

A 90

Te

Roma re ve

Avezzano

Tivoli

Colleferro Aprilia SS7

Anzio

Roccaraso

Fiuggi

Frascati

Frosinone

Sora

Ceccano Ceprano E 45

Latina Fondi Terracina

Pontecorvo

Cassino

Interamna Lirenas

Formia Gaeta

vine che nei secoli hanno stimolato la curiosità di viaggiatori ed eruditi, sollecitando scavi che le hanno portate alla luce. Altre, invece, sono rimaste sepolte sotto spessi sedimenti o consumate da un’incessante attività di spoliazione attraverso i secoli. È stato questo il destino della città

di Interamna Lirenas, nel Lazio Meridionale (presso Pignataro Interamna, Frosinone). Sebbene alcuni resti fossero ancora visibili almeno fino agli inizi del XIX secolo, a chi passeggia oggi sul sito si presenta una superficie ininterrotta di campi coltivati, ove un tracciato stradale rettilineo (l’antica via Latina) – in-

La città sorse in prossimità del fiume Liris, all’epoca un collegamento fondamentale con la costa

44 a r c h e o


L’impianto urbano di Interamna Lirenas ricostruito sulla base dei risultati della magnetometria, con l’indicazione del teatro (cerchio rosso) presso l’angolo del Foro (area blu).

tersecato da alcuni percorsi campestri ortogonali (che avevano conservato tracce dell’antico assetto viario della città) – e abbondante materiale archeologico sparso sulla superficie dei campi (frammenti di murature, di pavimenti in mosaico, frammenti di suppellettile da tavola e da cucina) testimoniano la presenza di un’antica città sepolta. La sua storia è stata per lungo tempo raccontata dalle menzioni nelle opere degli autori antichi, e dagli studi di archeologi come Michelangelo Cagiano de Azevedo, oltre che dai frammenti epigrafici sparsi nel territorio, censiti e catalogati dalla Soprintendenza archeologica. Sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, archeologi canadesi provenienti dalla McMaster Uni-

versity (Hamilton, Ontario) svolsero la prima ricognizione a tappeto del territorio, e il conseguente primo fondamentale studio dei materiali ceramici, che, anche alla luce della cospicua assenza di significativi resti architettonici, li portò a ipotizzare che la città avesse conosciuto un precoce declino, già dalla fine del I secolo a.C.

QUANDO IL LIRIS ERA NAVIGABILE Interamna Lirenas venne fondata come colonia latina nel 312 a.C., nell’ambito del processo di espansione romana nell’Italia centromeridionale. Il nome Interamna (dal latino inter amnes, «tra fiumi») riflette la sua posizione topografica, mentre l’aggettivo Lirenas («del Li-

ris») la collocava geograficamente, distinguendola cosí da Interamna Nahars (Interamna sul Nera, l’odierna Terni) e Interamna Praetutiorum (Interamna dei Pretuzi, l’odierna Teramo). La città, oggi in Contrada Termine (toponimo derivato dalla trasformazione in Teramen dell’antico nome Interamna), sorgeva all’incrocio di due importanti direttrici di comunicazione: la via Latina (che univa Lazio e Campania) e il fiume Liris (al tempo navigabile), fondamentale collegamento con la costa. Nel corso del III secolo a.C. Interamna Lirenas subí non soltanto un lungo assedio da parte dei Sanniti (294 a.C.), ma vide il proprio territorio devastato e depredato dalle truppe di Annibale (211 a.C.). Tuttavia, una a r c h e o 45


SCAVI • LAZIO

avviata una proficua collaborazione scientifica, che ha coinvolto la Facoltà di Studi Classici dell’Università di Cambridge (Alessandro Launaro e Martin Millett) e l’attuale Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Frosinone, Latina e Rieti (Giovanna Rita Bellini), unitamente all’Accademia Britannica di Roma e al Comune di Pignataro Interamna. Sulla base delle caratteristiche topografiche del sito (un pianoro

La basilica e le terme A sinistra: la basilica cosí come rilevata dal georadar (2015-17) a diverse profondità (procedendo in senso orario, dall’immagine in alto a destra): 56-60 cm, 76-80 cm, 91-95 cm e 121-125 cm. In basso: le strutture riferibili a un grande impianto termale, cosí come rilevate dal georadar alla profondità di 56-60 cm.

volta che la conquista romana dell’Italia fu consolidata, e avendo cosí esaurito il proprio ruolo strategicomilitare, la città avrebbe perso importanza, destinata a quel lento e inesorabile declino che gli studiosi, per lungo tempo, hanno visto riflesso nel generale silenzio delle fonti, sia scritte che archeologiche, e che l’avrebbe portata a un definitivo abbandono nel corso delVI secolo d.C.

UN PROGETTO INTERNAZIONALE Sostenere interpretazioni di crisi e declino solo sulla base di una relativa scarsità di dati raramente viene considerato un argomento forte in archeologia ed è proprio questa consapevolezza che ha ispirato una nuova stagione di ricerche archeologiche a Interamna Lirenas, sostenute dai piú recenti progressi nelle tecniche di prospezione archeologica e nello studio della cultura materiale romana. Nel 2010 è stata cosí 46 a r c h e o


relativamente ampio e allungato, ben definito da pendii piuttosto marcati) e dell’area di dispersione dei materiali archeologici affioranti dalle arature, è stato possibile circoscrivere il nucleo urbano di Interamna Lirenas a un’area di circa 25 ettari. Il 90% di tale area (sgombro da vegetazione arborea o costruzioni successive) è stato quindi sottoposto a una prospezione geofisica tramite magnetometria, che nell’arco di tre stagioni (2010-12),

ha prodotto la prima pianta gene- cate, la magnetometria non ha restirale dell’insediamento. tuito un’immagine particolarmente dettagliata dell’articolazione interna degli isolati, eccezion fatta per un IL RETICOLO STRADALE Il pianoro era tagliato longitudinal- grosso edificio di perimetro rettanmente dalla via Latina, dalla quale si golare (55 x 31 m) presso l’angolo staccavano perpendicolarmente una settentrionale del Foro, la cui interserie di vie secondarie, equidistanti (circa 50 m) e parallele fra loro. Il Ancora un’immagine ottenuta grazie al Foro, in posizione centrale, era tan- georadar (in questo caso alla gente alla via Latina e copriva un’a- profondità di 61-65 cm): si tratta di una rea di 115 x 50 m circa. Nonostante probabile insula, cioè di un caseggiato il gran numero di anomalie identifi- con appartamenti.

a r c h e o 47


SCAVI • LAZIO

In alto: modello fotogrammetrico 3D degli scavi del teatro (settembre 2018). A destra: ricostruzione 3D dell’interno del teatro. È stato calcolato che l’edificio poteva accogliere circa 1500 spettatori.

pretazione è apparsa – almeno all’inizio – incerta. Va infatti osservato che tanto la natura del terreno quanto le caratteristiche delle strutture sepolte influenzano sensibilmente la qualità dei risultati delle prospezioni geofisiche; tuttavia, tecniche diverse possono risultare piú o meno efficaci a seconda del contesto specifico, cosicché i migliori risultati derivano sempre dall’integrazione di approcci diversi. Per questo motivo, in corrispondenza dell’edificio 48 a r c h e o

di cui sopra, è stata condotta un’ulteriore prospezione geofisica, tramite georadar (2012-13): la nitidezza delle immagini restituite da questo strumento non solo ha permesso di identificare l’edificio come un teatro, ma ha soprattutto dimostrato la particolare efficacia di questa tecnica in relazione alle specifiche caratteristiche del sito. Alla luce di un tale riscontro, la prospezione tramite georadar è stata estesa all’intera area d’indagine

(2015-17). Ciò è stato reso possibile da una proficua collaborazione con il Dipartimento di Archeologia dell’Università di Gent (Lieven Verdonck e Frank Vermeulen), a cui si deve lo sviluppo di uno specifico apparato georadar multi-canale ad altissima risoluzione, dotato di GPS integrato e trainato da una quad bike. Tale indagine ha consentito di «popolare» l’interno degli isolati, già individuati dalla magnetometria, con un fitto mosaico di


edifici, molti dei quali caratterizzati da un marcato carattere monumentale. Sebbene lo studio di questi nuovi dati sia tuttora in corso, è già stato possibile identificare la basilica (lungo il Foro, adiacente al teatro), un possibile mercato coperto, un’area templare, almeno tre impianti termali, vari quadriportici e un gran numero di edifici a destinazione commerciale e abitativa.

«VEDERE» IL SOTTOSUOLO Le strutture sepolte (per esempio muri e pavimenti) presentano qualità fisiche differenti rispetto al terreno che le circonda e le ricopre: è quindi possibile rilevarne la presenza nel sottosuolo tramite l’impiego di strumentazioni specifiche quali il magnetometro e il georadar. Il primo è in grado di rilevare le minime variazioni nel campo magnetico del sottosuolo: rispetto al contesto circostante vengono cosí identificate «anomalie», spesso riconducibili a strutture sepolte. Il georadar, d’altra parte, trasmette una serie di brevi impulsi elettromagnetici nel terreno, che vengono parzialmente riflessi quando incontrano «discontinuità» nelle caratteristiche fisiche del

sottosuolo, anche in questo caso spesso riconducibili a strutture sepolte. A differenza della magnetometria, il georadar consente di stimare la profondità alla quale tali «discontinuità» si trovano, rendendo possibile la valutazione piú accurata delle loro caratteristiche. I vantaggi derivanti dall’applicazione sistematica di questa tecnologia sono numerosi: se infatti consentono di definire una pianta piuttosto accurata del sito prescelto, impiegando tempi e risorse incomparabilmente ridotti rispetto a quelli che richiede un moderno scavo archeologico, allo stesso modo rendono possibile pianificare piú efficacemente gli interventi di tutela – eventuale scavo e necessaria conservazione delle strutture portate alla luce –, garantendo quindi un migliore impiego delle risorse disponibili.

COPERTO E CON UNDICI INGRESSI Gli scavi che hanno interessato il teatro (2013-18) hanno permesso di collocarne la costruzione agli ultimi decenni del I secolo a.C. La platea semicircolare (cavea), che poteva ospitare fino a 1500 spettatori, era iscritta entro una struttura rettangolare che, con ogni probabilità, sorreggeva un tetto: in altre parole, si sarebbe trattato di un teatro coperto (theatrum tectum o odeum), una tipologia architettonica abbastanza ricercata e meno diffusa di quella a cielo aperto. Il nucleo principale era circondato su tre lati da un ampio corridoio (anch’esso coperto), al quale si accedeva dall’esterno attraverso undici ingressi di diversa ampiezza e importanza, dotati di porte (come attestano gli alloggiamenti dei cardini ricavati nelle soglie di pietra). Questo corridoio costituiva, con ogni probabilità, non solo un luogo di passaggio, ma anche lo spazio destinato agli spettatori prima di prendere posto per gli spettacoli. Proprio all’esterno di uno degli ingressi secondari del teatro, è stata rinvenuta una meridiana inscritta e sostanzialmente intatta, sebbene rimossa dalla sua originaria collocazione (Foro?; vedi box a p. 50). In questa pagina, dall’alto in basso: il teatro cosí come reso visibile dalla magnetometria (2010-12), dal georadar (2012-13, profondità 100-120 cm), dal georadar (2015-17, profondità 66-70 cm) e dallo scavo (2013-18). a r c h e o 49


SCAVI • LAZIO

LA MERIDIANA DI MARCO NOVIO TUBULA Ricavata da un blocco di calcare (54 x 35 x 25 cm), la meridiana rinvenuta presso uno degli ingressi del teatro di Interamna Lirenas presenta una superficie concava sulla quale sono incise 11 linee (che demarcavano le 12 horae diurne), a loro volta intersecanti 3 curve (solstizio invernale, equinozio e solstizio estivo). Sebbene lo gnomone sia sostanzialmente perduto, parte di esso è conservato sotto la colata di piombo che lo fissava alla pietra. Simili meridiane «coniche» erano relativamente comuni nel periodo romano (sono noti piú di duecento esemplari di questo tipo, integri o frammentari), ma solo poche di esse recano un’iscrizione relativa al committente. Due testi in latino sono infatti iscritti sulla sua superficie: sono entrambi completi e forniscono informazioni precise sull’identità della persona che commissionò l’oggetto. Sulla base è riportato infatti il nome di M(arcus) NOVIUS M(arci) F(ilius) TUBULA [Marco Novio Tubula, figlio di Marco], mentre l’iscrizione sull’orlo della meridiana ricorda che egli

50 a r c h e o

fu TR(ibunus) PL(ebis) [Tribuno della Plebe] e che coprí i costi della meridiana D(e) S(ua) PEC(unia) [con denaro proprio]. Il nomen Novius, di probabile origine osca, era abbastanza comune nell’Italia centrale, mentre il cognomen Tubula (letteralmente «trombetta») è attestato solamente a Interamna Lirenas.


A destra: l’apparato georadar multi-canale trainato dal quad bike impiegato dal progetto. Nella pagina accanto: la meridiana di Marco Novio Tubula e il suo modello fotogrammetrico (in alto).

Dall’iscrizione – databile attorno al I secolo d.C. – sappiamo che essa fu donata alla città da un certo Marco Novio Tubula, con ogni probabilità originario di Interamna Lirenas, il quale ricopriva la carica di tribuno della plebe a Roma: la meridiana avrebbe cosí rappresentato un modo efficace per celebrare la propria elezione (ben pubblicizzata su un monumento verso il quale i residenti avrebbero di frequente rivolto lo sguardo). Questa scoperta getta nuova luce sul posto che Interamna Lirenas occupava all’interno di una piú ampia rete di rapporti politici nell’Italia romana, segnalando il livello di coinvolgimento nella vita politica di Roma stessa a cui potevano ambire i suoi cittadini. Inoltre, queste considerazioni fanno da contrappunto al livello di partecipazione alle faccende locali che spesso coinvolgeva figure di primissimo piano nello scenario politico di Roma: cosí come il recente riesame del testo di

un’iscrizione (oggi perduta) ha potuto confermare, nel 46 a.C. lo stesso Giulio Cesare era diventato patronus (ovvero protettore e alleato politico) di Interamna Lirenas.

UN BENESSERE DI LUNGA DURATA Gli studi finora compiuti lasciano pochi dubbi circa la prolungata vitalità di Interamna Lirenas in età romana. Se le prospezioni geofisiche hanno restituito l’immagine di una città molto piú articolata dal punto di vista urbanistico rispetto a quanto supposto in precedenza, i progressi nello studio della cultura materiale (particolarmente la ceramica di uso comune) hanno contribuito a definirne piú accuratamente lo sviluppo. L’analisi cronologica e quantitativa delle testimonianze, sia pur frammentarie, pertinenti alla vita quotidiana e alle attività produttive e artigianali portate in superficie dalle arature e raccolte in ricognizione ha contribuito signifi-

cativamente alla revisione delle conoscenze, soprattutto a riguardo delle fasi di frequentazione della città e dei suoi singoli settori urbani. Da ciò si deduce che, sebbene Interamna Lirenas avesse raggiunto la sua massima espansione proprio nel corso del II-I secolo a.C., non vi fu alcuna contrazione dell’abitato almeno fino alla metà del III secolo d.C. In altre parole, la città visse una fase di prolungato benessere proprio nel periodo che, tradizionalmente, era stato interpretato in termini di crisi. Il progetto di cui si è dato conto nell’articolo è stato reso possibile dal generoso supporto offerto da: Facoltà di Studi Classici dell’Università di Cambridge, Comune di Pignataro Interamna, Accademia Britannica di Roma, Arts and Humanities Research Council (AH/M006522/1), Isaac Newton Trust, McDonald Institute for Archaeological Research, British Academy e Leverhulme Trust. a r c h e o 51




STORIA • EROS

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CHI AMA DAVVERO AMA PER SEMPRE di Matteo Nucci, con un’intervista all’autore a cura di Andreas M. Steiner

Elena e Menelao; Pericle e Aspasia; Saffo e le sue ragazze; Socrate e i suoi ragazzi.Tutti i grandi amanti dell’antichità seppero conquistarsi amori eterni. Quale fu il loro segreto? Nel suo ultimo libro, L’abisso di Eros, il nostro collaboratore Matteo Nucci – scrittore e studioso del mondo greco – rivela come, con inarrivabile chiarezza, i Greci seppero cogliere

D

l’irresistibile potere di quella forza che, come nessun’altra, può muovere gli esseri umani. Costringendoli a calarsi nelle loro profondità abissali, alla ricerca inesauribile di quella sconcertante bellezza che ci fa tremare le gambe… In esclusiva per i nostri lettori, anticipiamo uno dei passaggi piú significativi del volume appena pubblicato

ella pittura greca si è perso tutto. Sappiamo, da chi ne scrisse, che l’abilità e l’arte dei massimi artisti raggiunsero vette inarr ivabili. Pausania, per esempio, il grande viaggiatore che nel II secolo d.C. percorse l’Ellade in lungo e in largo per raccontare un mondo che era lí lí per scomparire, ebbe bisogno di sette capitoli della sua opera per descrivere due affreschi di Polignoto a Delfi. Una quarantina di pagine in cui siamo costretti a confrontarci con una stupefacente vastità di scene, espressioni, rimandi mitici, ambien-

tazioni. Quasi sempre, del resto, fu la raffinatezza della pittura antica a colpire gli esperti, i viaggiatori, gli eruditi, molto piú che la statuaria. E noi che rabbrividiamo di fronte ai Bronzi di Riace, al Satiro danzante o al Giovinetto di Mozia, tanto per restare a pezzi unici disseminati nella Grecia del Sud Italia, noi che restiamo senza fiato di fronte all’Auriga di Delfi, all’Ermes di Olimpia, all’Efebo di Anticitera, noi che sogniamo di identificare la mano di Policleto o Prassitele dietro i (segue a p. 58)

Nella pagina accanto: particolare della decorazione di un’anfora a figure nere con Afrodite che tiene in braccio Eros e suo fratello Himeros, personificazione del folle desiderio amoroso. VI sec. a.C.

A sinistra: cratere a calice a figure rosse sul quale è rappresentato Eros che offre uova e uno specchio a due donne, la prima delle quali, seduta, tiene un tirso. V sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. a r c h e o 55


STORIA • EROS

«A SPARTA HO RITROVATO LA VERA BELLEZZA» Incontro con Matteo Nucci Romano, classe 1970, Matteo Nucci è uno degli scrittori piú eccentrici della sua generazione. Studioso del mondo greco antico, non ha mai smesso di intrecciare la sua ricerca nella contemporaneità con i temi classici, dando alle stampe da una parte romanzi in cui echeggiano i miti greci e dall’altra saggi sull’antichità in cui siamo costretti a partire da una prospettiva diversa dal solito, seguendo un vero e proprio viaggio attraverso il nostro tempo. Nei suoi libri le riflessioni filosofiche sono lo sfondo di quello spirito di viaggiatore, di uomo in cammino, già noto ai lettori di «Archeo» per i reportage sulle tracce

di Goethe in Italia e su quelle di Aristotele nei luoghi della sua vita. Sul fronte puramente narrativo, Nucci ha pubblicato due romanzi entrambi finalisti al Premio Strega, entrambi dal titolo rivelatore: Sono comuni le cose degli amici (2009) richiamava un motto pitagorico-platonico, mentre È giusto obbedire alla notte (2017) echeggiava un verso omerico. Sul fronte saggistico, dopo il fortunato Le lacrime degli eroi (2013), indagine sul pianto degli eroi omerici, ecco ora L’abisso di Eros, un saggio narrativo sull’amore, da Esiodo a Platone. Ne abbiamo parlato con l’autore.

◆ Matteo, l’immagine di questa pagina ritrae la celebre

esistente. Non che i Greci fossero veri fanatici della guerra. Guerra si ha non soltanto nello scontro come noi lo intendiamo. In amore, guerra è la dialettica costante fra individui che non possono unirsi nella simbiosi afrodisiaca. La simbiosi, l’amore apparentemente perfetto, quella è la vera morte – diceva Empedocle. Detto ciò, il tradimento di Elena portò alla guerra di Troia. E, secondo molte voci malevole, Pericle fu spinto a portar guerra contro Sparta dalla sua amatissima Aspasia. Non importa se ciò sia vero o meno. Sicuramente Pericle fu convinto da Aspasia a cambiare opinione su molte cose e a sovvertire l’ordine a cui si era attenuto. Da questo punto di vista il loro fu un immenso e forte amore pieno di vitalità e futuro».

coppa del Pittore di Pentesilea, a cui dedichi un’ampia descrizione nel capitolo del tuo nuovo libro. Riproduce una scena in cui innamoramento e morte sono proposti come ineludibile sintesi del meccanismo erotico: è questo l’insegnamento che dobbiamo trarre dagli antichi Greci? «Io credo che i Greci, piú che insegnare, siano potentissimi nel mostrare. I Greci come maestri diventano moralisti noiosi e quasi morti. I Greci come scrittori, artisti, filosofi rappresentano qualcosa di vivo e francamente inarrivabile. Esiodo, all’inizio della Teogonia, parla di Eros e Chaos. Chaos significa voragine. E l’amore, in ogni tempo, apre uno squarcio nel petto della persona che penetra, con la seduzione e l’innamoramento. Uno squarcio che proviamo tutti noi, quando ci svegliamo innamorati e ci accorgiamo che le cose hanno cambiato completamente valore. Tutto ciò che prima contava non conta piú. La vita precedente è spazzata via. Siamo morti, insomma. Ma si muore per rinascere. I Greci ci mostrano che la seduzione è un atto violento. Pentesilea muore nel momento in cui viene sedotta. E Achille la perde nel momento in cui se ne innamora e per possederla ne squarcia il petto».

◆ L’esordio del tuo libro si colloca nell’epoca del

grande Pericle. Subito evochi un parallelismo tra l’allora nascente conflitto tra Atene e Sparta e quello, mitico, della guerra di Troia. Comune denominatore, l’amore fatale per una donna: il binomio eros/polemos è un problema solo degli antichi Greci? «Polemos è padre di tutte le cose – diceva Eraclito. Polemos è una forza vitale perché sovverte l’ordine

56 a r c h e o

◆ Nel primo capitolo inviti i lettori a visitare Sparta,

pur definendo le sue vestigia «un’insignificante congerie di pietre». E tuttavia rimpiangi Sparta come luogo in cui si manifesta, per la prima volta, il concetto di charis, della grazia, una «sorta di pienezza che solo la maturità e l’autenticità donano agli esseri umani»... «A Therapne, fuori Sparta, città che io adoro, su un promontorio che nessuno visita mai, al termine di una stradina sterrata che si perde nella natura dell’austera Laconia, il santuario di Menelao e Elena celebra l’amore senza fine di questa famosa coppia, che si ricompose dopo il tradimento. Una coppia solida fino alla morte e che divenne quasi divina. Qui si veniva, secondo un racconto di Erodoto, a conquistarsi la vera bellezza. E cos’è questa bellezza se non quella dote interiore che traspare attraverso i gesti, il portamento, lo sguardo, a prescindere dalle forme esteriori casuali


L’interno di una kylix (coppa a due manici) attica a figure rosse sul quale è dipinta la scena di Achille che uccide l’amazzone Pentesilea, da Vulci. Attribuita al Pittore di Pentesilea, 460-450 a.C. Monaco, Antikensammlungen.

che ci sono state date alla nascita? Possiamo chiamarla grazia. I Greci la chiamavano charis». ◆ Accenni spesso alla «freddezza» dei nuovi musei, ai quali preferisci il calore delle vecchie e polverose bacheche. Insomma, si tratta anche in questo caso di una questione di «eros»? «Eros è un sentimento pervasivo che domina l’anima umana e la trae a conquistare obiettivi di molti generi. Si può amare una persona. Ma si può amare anche altro. Sono quelle che noi chiamiamo passioni. Ma di cosa si tratta se non di brama d’amore, ossia desiderio erotico? Per i Greci e soprattutto per Platone l’eros piú potente è la passione per la conoscenza, ossia la filosofia, che del resto etimologicamente

significa proprio questo: amare (philein) la sapienza (sophia). Ognuno poi si conquista la propria, di sapienza. Il mio amore di conoscenza dell’antichità passa soprattutto attraverso i luoghi che esploro viaggiando e i musei sparsi ovunque. Come i luoghi piú belli sono quelli vivi, poco visitati, fuori dalle grandi rotte e dunque quasi abbandonati, cosí i musei che io preferisco sono quelli in cui i pezzi vanno trovati senza audioguide, senza indicazioni, senza aiuti che poi generalmente servono solo a distrarre eppoi a dimenticare. Una antica teca polverosa zeppa di vasi privi di descrizione, fra cui trovo il mio vaso, quella per me è la felicità. La felicità di una conquista che non si perde piú».

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STORIA • EROS

bronzi o le copie di marmo, quando si parla della straordinaria pittura, veniamo presi dalla forma piú sottile e assillante di nostalgia: il rimpianto di ciò che non abbiamo mai vissuto. Il dolore di voler tornare a vivere un momento che ci è per sempre interdetto. Ma è

un dolore in cui non possiamo deliziarci troppo a lungo. Abbiamo degli strumenti, infatti, per sedare (o magari alimentare) questa nostalgia beffarda. Una pallida copia, o meglio: una rappresentazione in chiave assai minore, della pittura per sempre perduta, possia-

mo ancora procurarcela attraverso le opere dei grandi ceramografi. Ammirando le pitture conservate dalle innumerevoli ceramiche possiamo se non altro immaginare a che punto l’arte pittorica fosse arrivata nella Grecia classica. Il luogo migliore da dove partire è sempre Atene. Se volete farvi, tutta insieme, un’idea della grandezza di quest’arte, dedicate una visita al Museo Archeologico senza perdervi fra le meraviglie del piano terra. Entrate dal grande portone del divino edificio neoclassico e correte direttamente al primo piano, chiudendo gli occhi, come Odisseo si tappò le orecchie, per evitare il richiamo dei pezzi meravigliosi in cui avrete poi tempo di annegare, fra la sacra Micene, gli immensi kouroi arcaici, le statuine cicladiche che sembrano contemporanee, i bronzi dotati di una levità unica e le stele funerarie che gridano la vita.

FIAMMA PERENNE Chiudetevi gli occhi, tirate dritto, superate d’un balzo la maschera di Agamennone della sala che siete costretti a attraversare, non lasciatevi fermare dallo splendore del cavallo di bronzo che ancora galoppa col bambino in sella nella sala successiva, correte verso la grande scala e salite su per lasciarvi portar via dalle centinaia e centinaia di ceramiche disseminate dentro alle teche del primo piano. Una scintilla di quel che si è perduto per sempre potrà accendere nel vostro petto la fiamma perenne del ritorno impossibile. Alimenterete questa fiamma ovunque. Nei piú piccoli e sperduti musei di tutto il mondo. Dalla Grecia alla Magna Grecia, fino a tutti i musei del mondo che per mille vie, fra ruberie e sciacallaggi, oneste ricompense dei propri contributi agli scavi e nobili acquisti, si sono accaparrati materiale infinito. Se capitate a Monaco, per esempio, nel Museo di Antichità (lo Staatliche Anti58 a r c h e o


kensammlungen), siete fortunati. C’è un pezzo che vi ricompensa del viaggio. Fu lo sforzo unico di un artista di cui non conosciamo il nome, il tentativo di superarsi nel racconto perfetto, il desiderio di illuminare una storia, un desiderio talmente potente che sembra quasi sfondare le pareti della coppa in cui è racchiuso. L’artista infatti era principalmente un artigiano, uno dei massimi ceramografi attici di inizio V secolo. E la coppa di cui sto parlando fu il suo massimo capolavoro. Venne ritrovata a Vulci, la splendida città etrusca sulle rive del Fiora che chiunque si trovi in Italia dovrebbe visitare almeno una volta. Qui, fra il VI e il V secolo, dal porto di Regae sbarcavano pezzi pregiatissimi in grande quantità che i ricchi aristocratici etruschi ricercavano per la loro bellezza. Chissà quanti ancora devono uscirne dalle viscere della terra in cui si continua a scavare. Il pezzo in questione venne alla luce nei primi anni dell’Ottocento e finí subito nella collezione privata di Luciano Bonaparte. Tanto fu il clamore, però, che gli esperti ne segnalarono il valore a Ludovico II di Baviera che finí per acquistarla nella seconda metà dell’Ottocento. Si tratta di una kýlix, ovvero una di quelle coppe basse, da vino, spesso usate nei simposi anche per giochi erotici come il kóttabos: l’ultima goccia di vino nella coppa veniva lanciata verso l’uomo sdraiato accanto che cercava di raccoglierla con la propria kýlix, o verso un altro tipo di bersaglio. Premio per chi riusciva: un bacio. Che sia servita a giocare a kóttabos o meno, la nostra coppa doveva travolgere i sensi anche solo a guardarla. La scena che in essa, quasi traboccante, viene narrata è infatti la

Disco in terracotta con Afrodite ed Eroti, da Eraclea (nei pressi dell’odierna Policoro, Matera). IV sec. a.C. Policoro, Museo Archeologico Nazionale della Siritide. Nella pagina accanto: olpe a figure rosse con un’immagine di Eros alato, che tiene un tirso e una corona. IV sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

morte di Pentesilea, regina delle Amazzoni. L’artista che tentò in quest’opera, come spiegano gli esperti, di «superare i limiti della pittura di vasi», attraverso un uso del colore e dei movimenti assolutamente unico e mai piú replicato nei suoi altri lavori, è stato ribattezzato appunto «Pittore di Pentesilea». La vetta della sua arte gli ha dato il nome nei secoli, avvicinandolo alla donna che egli forse ha avuto il merito di raccontare ancora meglio di qualsiasi altro tipo di narrazione.

LONTANO DA TUTTO È un momento capace davvero di portarvi lontano da ogni cosa e non solo dalla città dove è finito questo meraviglioso pezzo d’arte. Siamo davanti alle mura di Troia tremila anni fa. Se immaginiamo odori e sapori, possono essere solo

quelli del vino sacro allungato nell’acqua, dei capretti che rosolano sulla brace, e semmai di un toro sgozzato per far festa. Ma il racconto che ci troviamo davanti non allude a nessuna festa e a nessuna celebrazione. Si tratta infatti di un momento della guerra di Troia esterno al racconto dell’Iliade e dominato da una figura inattesa sul campo di battaglia. Dopo che il canto omerico si conclude e prima che Achille muoia, fra il clangore delle armi compare una donna che sogna di fermare la furia di Achille. Poeti e scrittori che ci hanno tramandato la storia, come spesso accade, si contraddicono. Ma in sostanza noi sappiamo che Pentesilea è scesa verso la rocca di Troia alla guida di un buon numero di guerriere per portare aiuto a Priamo. I giorni passati a cavallo per macinare i chilometri che separano i selvaggi dominii delle Amazzoni da quelli iliadici non devono essere stati pochi. Queste donne che si sono immolate soltanto a due divinità – Ares e Artemide – vengono infatti da lontano. Scizia e Caucaso. I resoconti di storici, geografi e mitografi generalmente fanno questi nomi. Il profondo nord, il freddo e austero nord, fino a ben oltre il mar Nero. Aliene, estranee, violente, le Amazzoni si ritengono figlie di Ares, dio della guerra, e per questo fin dalla piú tenera età, con una delicata e drastica operazione, rimuovono il seno destro per facilitare il movimento del braccio nel momento di scoccare frecce dai loro temibili archi. L’assenza di un seno dà loro il nome (Amazón verrebbe da amazós, ossia privazione del mastós, il seno) ma è un’altra l’assenza a cui pensa immediatamente chiunque debba fare i conti con esse. Il loro mondo infatti è privo di esseri a r c h e o 59


STORIA • EROS

umani maschili perché è privo di eros. Come la divinità che esse adorano, Artemide, dea della caccia, le Amazzoni rifiutano eros e qualsiasi vita di coppia. Per riprodursi, una volta all’anno, invadono di notte un piccolo paese e violentano gli uomini che lo popolano. Solo caccia e guerra, amicizia femminile, e una vita sfrenata dedicata al confronto con se stesse e al dominio su chiunque non sia come loro. Facile immaginare allora il terrore che esse ispiravano con la loro furia assolutamente non codificabile e fuori da ogni orizzonte di attesa. Facile anche capire perché Priamo

fosse tanto contento della loro scesa sul campo di battaglia. E tuttavia la furia delle Amazzoni dovette scontrarsi con quella dell’eroe che dal giorno della morte di Patroclo dominava incontrastato. Forse, quando Pentesilea lanciò le sue grida dopo aver ucciso molti Achei, Achille aveva già perduto anche Antiloco, il giovane figlio di Nestore che con la sua intelligenza acerba a tratti gli aveva fatto dimenticare l’amico piú caro. Certo è che non ebbe un tremore, il grande eroe, mentre Pentesilea si avvicinava. Sfoderò la spada e l’attese. Quel che sarebbe capitato nessuno

In alto: maschera funebre in oro, dalla tomba V del Circolo A di Micene. Atene, Museo Archeologico Nazionale. Tradizionalmente attribuita ad Agamennone, il mitico re di Micene che guidò gli Achei contro Troia, la maschera si data al XVI sec. a.C.: è quindi di almeno tre secoli piú antica della guerra e non può essere appartenuta al leggendario sovrano. In basso: una vetrina del Museo Archeologico Nazionale di Atene nella quale sono esposti vasi e altri manufatti recuperati da Heinrich Schliemann a Micene, negli scavi da lui condotti fra il 1874 e il 1876.

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lo ha raccontato con la potenza e la raffinatezza del pittore di Pentesilea. Osserviamo la scena. La regina forse ha provato a scoccare le sue frecce, ma invano. Certo ha perduto l’arco e, se ne era in possesso, anche la pelta, un piccolo scudo a forma di mezzaluna di cui si dotavano le Amazzoni. Sono movimenti su cui possiamo soltanto fantasticare perché nell’immagine che abbiamo davanti Pentesilea non possiede strumenti di guerra. Nello splendore del colore che trabocca di sfumature noi ci rendiamo conto solo di questo: Achille deve aver calcolato bene i tempi e come ha fatto innumerevoli volte negli innumerevoli corpo a corpo della sua vita di guerriero invincibile deve aver avuto la prontezza di evitare il colpo e infierire sul nemico. La sua spada, infatti, ha squarciato il petto della donna.

IL MOMENTO PERFETTO È in questo momento che il pittore ci rivela la sua arte e attraverso la sua arte il momento perfetto in cui Achille e Pentesilea si innamorano. La donna, che l’artista ha ritratto in vestiti leggeri e femminili, con orecchini e bracciali ritorti a ornarne la figura, alza le braccia verso l’uomo che la sta uccidendo. Ma le mani non si aggrappano all’eroe nel dolore della ferita o nel tentativo estremo di impedirgli il movimento. La sinistra di Pentesilea abbraccia il lungo bicipite di Achille e la destra quasi delicatamente sembra stia cercando di carezzarne il muscolo pettorale. E tuttavia quello che ci colpisce e ci fa tremare sono gli occhi. Gli occhi attraverso cui scorre impetuoso eros. Pentesilea guarda Achille e sembra gli stia chiedendo di baciarla, sembra che il dolore che prova non sia quello del ferro che la sta uccidendo ma quello delle labbra lontane, ancora troppo lontane, di Achille. Al tempo stesso Achille è atterrito. L’occhio con cui vede la donna

morente fra le sue braccia, l’occhio che il pittore ha dipinto con tanta precisione sotto la visiera dell’elmo e quasi nascosto dal guanciale del copricapo guerriero è un occhio pressoché vitreo in cui non c’è compassione o pietà, né rimorso, ma solo terrore, sbalordimento, meraviglia e amore. Achille, sconvolto dalla bellezza della donna e dalla sua sensualità guerriera, cerca di penetrarla con lo sguardo e teme di non poterci riuscire. Egli è infatti improvvisamente innamorato come mai. Attraverso il petto muscoloso ci pare di sentire il sussulto che gli squarcia le viscere scendendo negli intestini. Cerca lo sguardo di Pentesilea innamorata e adorante, il grande eroe. Si guardano, si sentono, si capiscono senza doversi dire nulla. Il dolore che li stringe nell’ultimo abbraccio è il dolore della fine. Di ogni fine che porta con sé eros. Quel che segue a questa drammatica seduzione è oggetto di controversia. Molti sostengono che Achille volle penetrare sessualmente la donna ormai morta. Alcuni credono che si sia limitato a stringerla piangendo l’inizio e la fine repentina dell’amore in un interminabile abbraccio. Ma tutto quel che capita dopo la scena che il nostro pittore ci ha lasciato non basta a spiegare quel che è venuto prima. Perché è il momento della seduzione quello che in questa sto-

Statua bronzea rinvenuta nei fondali antistanti Capo Artemisio, interpretata come Zeus o, piú probabilmente, Poseidone. V sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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STORIA • EROS

ciato ci lasciamo portare via. Quando i guerrieri muoiono sotto alla rocca di Troia, i cantori omerici descrivono questa fine con parole poetiche. Ma, come spesso capita, la poesia e il ritmo che servono agli aedi non interferiscono con la precisione della forza che deve raccontare ciò che sta accadendo. Non sono casuali, insomma, le espressioni che descrivono la morte dei guerrieri. E infatti quando gli aedi cantano il famoso verso «gli si spezzarono le ginocchia» si riferiscono proprio alla vita che come un soffio attraversa il corpo e che da esso esala nel momento del trapasso, sciogliendo i legami che tengono avvinte le giunture delle membra, la principale delle quali è costituita dalle ginocchia.

Un’altra rappresentazione dell’uccisione di Pentesilea da parte di Achille, in questo caso dipinta da Exechias su un’anfora proveniente da Vulci. 530-525 a.C. Londra, British Museum.

Nella pagina accanto: particolare della decorazione di un sarcofago con scena di Amazzonomachia, da Tessalonica (Salonicco). 180 d.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.

ria conta davvero. Il momento dell’apertura. La lama che entra nel petto assieme a eros. La lama di Achille e anche la lama di Pentesilea. Perché Achille uccidendo viene ucciso. Pentesilea seducendo viene sedotta. È il dolore estremo del sovvertimento completo di qualsiasi possibile quotidianità. Quel che sempre porta l’eros a uomini e

donne. Strappandoli da tutto ciò che era abituale prima, negando loro ogni contatto con usanze in cui si cullavano di falsa tranquillità, trasportandoli in un’altra dimensione con la violenza di una morte. Tutto ciò che prima contava muore.Tutto ciò che prima ci rasserenava è perduto. Presi da eros, ci sentiamo morire. Con l’animo squar-

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MAGIE PERDUTE Infiniti sono i trattati che hanno spiegato questa formidabile figura poetica per raccontare il momento in cui l’anima, ossia il soffio vitale, abbandona il corpo. Meno facile invece è imbattersi in studi che ci raccontino dettagliatamente la vicinanza di quest’immagine con quella che racconta l’individuo preso da eros. Forse una spiegazione la troviamo ancora una volta proprio in questo vaso che ci fa sognare la magia della pittura perduta. Scendiamo verso il basso, stavolta. Non cerchiamo piú risposte negli occhi di Achille e Pentesilea. Osserviamo le ginocchia spezzate della donna. I piedi che ormai si trascinano sui bordi della coppa, quasi volessero carezzarli, e l’anima di Pentesilea che vola via. È la sua morte fisica. E Achille? Ha gambe forti e muscoli allungati come li ha immaginati nella loro vera potenza il pittore. Ma lo stanno sostenendo con la decisione che si deve ai grandi eroi pronti a uscire vincitori dal confronto? O non ci appaiono forse fragili, improvvisamente deboli come se qualcosa le avesse svuota-


te? Osserviamo le ginocchia. Non sembrano di cristallo, come se nascondessero un’incrinatura che ne ha preparato la definitiva frattura? Non è Achille, ora, lui stesso, un uomo cui si stanno sciogliendo le membra? E non produce questo la divinità che chiamiamo Eros su tutti coloro che prende con sé, stroncandone la vita abituale per sempre? Eros scioglie le membra. Cosí scrisse Esiodo all’inizio della Teogonia. Cosí, assieme a Esiodo, si abituarono a definire la potenza erotica poeti e scrittori. Lysimelés. L’attributo perfetto. Perché, come il sonno scioglie le membra por-

tandoci ai confini della morte, e come la morte spezza le ginocchia facendoci cadere per sempre, cosí la violenza dell’eros è tale che nulla sarà piú come prima e ci sentiamo presi e portati via, portati altrove, in un’altra dimensione. Violento e invincibile, Eros compie ciò che Esiodo aveva attribuito alla dea della seduzione, Afrodite, nel momento in cui aveva attribuito a Pandora il potere di sciogliere le membra. Eros spezza ogni nostra resistenza. Eros dà vita alle lacerazioni abissali del cosmo, scendendo fino ai confini della morte. Eros si affaccia nell’abissale divaricazione

del Chaos perché apre in noi uno squarcio che non potrà mai rimarginarsi. Eros ci riempie e ci svuota e ci porta via. Come il sonno. Come la morte.

IN LIBRERIA Matteo Nucci, L’abisso di Eros. Seduzione, Ponte alle Grazie, Firenze, 288 pp., 16,80 euro www.ponteallegrazie.it a r c h e o 63


MOSTRE • ROMA

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OVIDIO MAESTRO D’AMORE UNA MOSTRA ALLE SCUDERIE DEL QUIRINALE DI ROMA CELEBRA IL GRANDE POETA LATINO. OLTRE 200 OPERE, TRA AFFRESCHI E SCULTURE ANTICHE, PREZIOSI MANOSCRITTI MEDIEVALI E DIPINTI D’ETÀ MODERNA ACCOMPAGNANO IL RACCONTO DELLA SUA VITA E ILLUSTRANO I GRANDI – E INTRAMONTABILI – TEMI AL CENTRO DEI SUOI SCRITTI: LA SEDUZIONE, IL POTERE, IL MITO di Giulia Salvo e Francesca Ghedini

I

l 2017 e il 2018 sono stati anni importanti per gli studiosi e per gli appassionati di mondo antico, che hanno in vario modo celebrato l’anniversario della morte, avvenuta 2000 anni fa di due giganti della latinità, il patavino Tito Livio – autore di una monumentale storia di Roma in 142 libri – e il sulmonese Ovidio, poeta fra i piú prolifici dell’antichità, la cui sterminata produzione è giunta quasi intatta fino a noi. Publio Ovidio Nasone nacque a Sulmona, nel 43 a.C., da una benestante famiglia di rango equestre; ancora fanciullo si trasferí a Roma con il fratello, maggiore di lui di un anno, per studiare presso i piú apprezzati maestri e prepararsi a percorrere quella carriera politica che il padre vagheggiava per lui. Ma mentre il fratello, che morí giovanissimo lasciando nel cuore del poeta un vuoto incolmabile, era portato per il diritto, il giovane Ovidio amava le arti liberali e la poesia, tanto che, come egli stesso ricorda, qualsiasi cosa tentasse di dire assumeva ritmi precisi (Tristia IV, 10, «sponte sua carmen

numeros veniebat ad aptos»). Era ancora giovanissimo quando iniziò a declamare in pubblico versi d’amore, e l’immediato successo che ottenne lo convinse ad abbandonare la carriera giuridica, rinunciando «a imparare a memoria le prolisse leggi e a fare mercato dell’eloquenza nel foro irriconoscente» (Amores I, 15, 5-6). Da allora la poesia divenne non solo la sua ragione di vita, ma anche la chiave che gli aprí gli esclusivi salotti della capitale, dove ebbe modo di incontrare i piú illustri

Tutti gli oggetti riprodotti in questo articolo sono esposti nella mostra «Ovidio. Amori, miti e altre storie», in corso a Roma, alle Scuderie del Quirinale, fino al 20 gennaio 2019. Nella pagina accanto: quadretto ad affresco raffigurante Eros e Psiche, dalla Casa di Terenzio Neo, a Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In basso: cammeo raffigurante Leda e il cigno. III sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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MOSTRE • ROMA

ingegni del tempo e gli aristocratici piú prestigiosi. Della sua vita privata sappiamo quel poco che lui stesso racconta nell’elegia 10 del libro IV dei Tristia, che costituisce una delle prime attestazioni di quel genere autobiografico che di tanta fortuna ha goduto in età moderna. Ebbe tre mogli: della prima, sposata in giovane età con un matrimonio combinato («ero ancora quasi un fanciullo quando mi fu data in moglie», Tristia IV, 10, 69), il poeta ci fornisce un fulminante e non lusinghiero ritratto: «né degna, né utile» («nec digna nec utilis uxor»); l’immagine della seconda resta cristallizzata in un opaco cameo (71: «sebbene senza colpa non rimase a lungo nel mio letto»), ma è a lei che Ovidio deve l’unica sua discendente, quell’Ovidia che il poeta rimpiange di non aver potuto abbracciare al momento della partenza da Roma. Solo per l’ultima compagna, appartenente all’illustre famiglia dei Fabii, il poeta ha parole di affetto e di gratitudine, per non averlo abbandonato nei momenti bui dell’esilio (Tristia IV, 10, 74).

A Roma si legò di amicizia con gli intellettuali dell’epoca, frequentando il circolo di Valerio Messalla Corvino; fu amico e confidente della figlia di Augusto, Giulia Maggiore, difesa con coraggio nell’Ars amatoria dall’accusa di adulterio, che le costò l’esilio a Ventotene. Il poeta si legò allora a Giulia Minore, nipote di Augusto, che aveva raccolto l’eredità della madre e, come lei, contestava non solo le leggi moralizzatrici emanate dal princeps, ma anche la sua visione politica.

UN DURO EDITTO La condanna di Giulia Minore non fu senza conseguenze per il poeta che – per una colpa di cui non è stato possibile chiarire l’esatta natura, ma che aveva a che fare con i suoi carmi (soprattutto l’Ars amatoria), e con le sue frequentazioni – venne colpito da un duro editto che gli imponeva di lasciare immediatamente la città per una sperduta località del Mar Nero, in una terra non ancora del tutto pacificata. Ovidio partí, con la morte nel cuore e con la speranza, mai realizzata,

Sulle due pagine: alcune immagini dell’allestimento della mostra dedicata a Ovidio e l’edificio delle Scuderie del Quirinale che la ospita. Tre sono le linee guida dell’esposizione: l’epoca di Ovidio; le arti figurative al tempo del poeta; l’influenza che la sua opera ha avuto e continua ad avere nel mondo moderno.

di poter un giorno tornare nella città che lo aveva visto protagonista dei «salotti» buoni. La giovinezza e la prima maturità furono per Ovidio il tempo dei carmi erotici, elegiaci, epistolari, didascalici; la sua prima fatica, gli Amores, si pone sulla scia della grande tradizione elegiaca, incarnata da Cornelio Gallo, Tibullo, Properzio, a cui il poeta riconosce la palma del genere; ma presto la sua ispirazione lo portò verso un nuovo modo di articolare la poesia d’amore: nelle Heroides, lettere immaginarie scritte da eroine dell’epos e del mito, abbandonate dai loro fedifraghi amanti, il poeta indaga con sensibilità l’animo femminile afflitto dalle pene d’amore; e ancora si rinnova nell’opera successiva, quell’Ars che fu la scusa per Augusto di comminargli quella dura pena; qui il poeta 66 a r c h e o


si fa maestro d’amore, offrendo ai suoi lettori precetti e regole del gioco piú antico del mondo. Questo ridurre desideri e sentimenti a una sfida, dove il premio è costituito dalla conquista dell’oggetto del desiderio e dal conseguente raggiungimento del piacere, comporta un rovesciamento delle norme dell’etica. L’inganno diventa non solo un espediente lecito (Ars I, 611-634: «devi far l’innamorato, simulare a parole le ferite d’amore (...) prometti senza paura (…) e a testimonio degli impegni chiama gli dèi che vuoi. Giove dall’alto dei cieli ride degli spergiuri degli amanti e ai venti di Eolo comanda di disperderli nel nulla»), ma addirittura una necessità: ingannate chi inganna (I, 645: «fallite fallentes»), esorta il poeta, fate cadere le donne, razza sacrilega, nei lacci che esse stesse hanno

teso. E, come conseguenza di questo mondo alla rovescia la lealtà (fides) non è piú un valore, ma quasi una colpa. Nessuna meraviglia se Augusto ha osteggiato il poeta che, con levità, ironia e garbo, metteva alla berlina i presupposti stessi su cui si basava la nuova società da lui fortemente voluta.

UNA POESIA PIÚ ALTA A partire dagli inizi dell’età imperiale, il poeta si volse a una poesia piú alta, sia come contenuti che come metro: nelle Metamorfosi, che hanno per oggetto la storia del mondo dalla prospettiva del cambiamento si cimentò con il nobile verso dell’epica, quell’esametro dattilico che anche Virgilio aveva usato per la sua Eneide, allineandosi alla gloriosa tradizione dei poemi eroici; ritornò invece alla dolce

musicalità del distico elegiaco, ritmo senz’altro a lui piú consono, nei Fasti, in cui, forse per riscattarsi agli occhi dell’imperatore che certo non aveva gradito il suo girovagare nelle terre dorate degli amori clandestini, decise di affrontare il non facile tema delle festività religiose, delle loro origini e della loro eziologia. Nell’ultima parte della sua vita, lontano da Roma e dal mondo che aveva amato, la sua Musa fu tutta dedicata alle epistole, innumerevoli disperate epistole che invocavano la mitigazione di una pena a cui non si rassegnò mai. Ma la forza della sua vena poetica era tale che seppe poetare anche nella lingua dei Geti (Ex Ponto IV, 13, 17-22), guadagnandosi onori di vario genere, fra cui l’esenzione delle tasse e una corona sacra (14, 53-56). a r c h e o 67


MOSTRE • ROMA A sinistra: un altro particolare dell’allestimento della mostra. Al centro della foto, Venere Pudica, opera romana (con testa non pertinente) del II sec. d.C., variazione dell’Afrodite Cnidia scolpita da Prassitele nel 364-361 a.C. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

Nelle opere giovanili Ovidio canta l’amore in tutte le forme: l’amore mondano per fanciulle, matrone, schiave e liberte; l’amore mitico di eroine abbandonate o tradite; l’amore come disciplina, trasformando passione e desiderio in oggetti di didattica. Dopo aver sperimentato in prima persona la competizione amorosa e averne dato conto negli Amores, dopo aver insegnato a superare un amore infelice nei Remedia amoris, nell’Ars amatoria il poeta illustra ai suoi lettori/discepoli le regole e i precetti per affrontare il gioco della seduzione. Cosí, a quanti desiderano conquistare una fanciulla il poeta raccomanda anzitutto di prestare attenzione al proprio aspetto fisico (Ars I, 503-522), senza dimenticare poi di mostrarsi galanti, facendo ampiamente ricorso agli strumenti della cortesia (Ars I, 153156), dell’adulazione (Ars I, 609 e ss.; II, 295 e ss.) e, soprattutto, del potere affascinante dello sguardo (Ars I, 499-500). Ma non solo gli uomini. Da equo precettore, Ovidio si rivolge anche al mondo femminile, istruendo le fanciulle sulle migliori strategie per conquistare e mantenere accesa la fiamma del desiderio: gli strumenti sono molteplici e coinvolgono (allora come oggi) la cura del proprio corpo, con il solo scopo di 68 a r c h e o

Il nipote prediletto Fra le opere selezionate per la mostra alle Scuderie del Quirinale figura questo ritratto di Marcello, nipote prediletto di Augusto per la successione imperiale, un disegno che non poté però compiersi per la sua morte prematura, nel 23 a.C. La scultura, che fa parte della Collezione della Fondazione Sorgente Group, è considerata come una delle migliori espressioni dell’arte di epoca augustea.

apparire piacenti. Il praeceptor amoris si sofferma a lungo sul potere affascinante della grazia fisica, a cui contribuiscono gli ornamenti, la bellezza delle vesti o il maquillage; e di questo mondo fatto di gioielli, trucchi colorati e profumi speziati, abbiamo riscontro nei numerosi oggetti d’uso quotidiano che ci sono pervenuti, come i vasetti e i contenitori per unguenti e belletti di ogni tipo, gli specchi su cui controllarsi accertando di essere piacenti, gli anelli e le collane per aumentare il proprio fascino. Tra i diversi artifici non si può certo dimenticare il motivo di acconciare i capelli, sistemando le pettinature in base alla personale fisionomia. Il potere seducente di questo stratagemma è ben noto a Ovidio (Remedia amoris 343) e trova riscontro nel repertorio pittorico della prima età imperiale, in cui fanciulle e dee sono intente ad acconciarsi i capelli curando cosí la propria bellezza.

«MAESTRO D’AMORE» L’avvenenza fisica è finalizzata per il poeta alla seduzione ed è volta a suscitare un desiderio erotico antitetico a quello coniugale, su cui Augusto aveva invece impostato il suo programma di moralizzazione e di ripristino della morigeratezza dei costumi. Ma assieme ai rimedi per migliorare il proprio aspetto è necessario che le donne imparino anche a muoversi «in società», dando prova di saper padroneggiare la musica (Ars III, 319-328; Amores II, 4, 27-28), il canto (Ars III, 315-318; Amores II, 4, 25-26), la danza (Ars III, 349-352; Amores II, 4, 29-30) e


MARTE E VENERE: L’ADULTERIO E LA VENDETTA DI VULCANO Nella politica ufficiale Marte e Venere sono venerati come i progenitori dell’intero popolo romano: lui padre di Romolo, lei madre di Enea. Ben diversa è invece l’immagine che Ovidio ci restituisce delle due divinità, riferendo il piú grande scandalo della corte olimpica: la frivola storia dell’amore illecito tra Marte e Venere, ufficialmente sposa di Vulcano. Il poeta racconta con ampiezza di dettagli gli aspetti piú mondani e piccanti della storia, a cominciare dagli scherzi amorosi con cui i due fedifraghi si dilettano durante i segreti convegni,

per arrivare poi alla soffiata della tresca a Vulcano da parte del Sole e alla vendetta ordita dal marito tradito, che imprigiona i due amanti a letto con sottili catene esponendoli alla pubblica derisione. L’episodio, dal sapore boccaccesco, si ritrova nella tradizione iconografica a partire da una terracotta di età ellenistica (III-I sec. a.C.), per poi godere di una certa fortuna tra la fine del I e il II secolo d.C. nei medaglioni ad applique gallo-romani, prodotti nelle officine situate lungo la valle del Rodano, e nei sarcofagi di età imperiale.

In alto: quadretto ad affresco raffigurante Marte e Venere, dalla Casa di Meleagro a Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

A destra: Venere Callipigia («dalle belle natiche»), copia romana del II sec. d.C., da un originale greco in bronzo databile fra il IV e il I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. a r c h e o 69


MOSTRE • ROMA

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Nella pagina accanto: Bacco e Arianna, olio su tela di Pompeo Girolamo Batoni. 1773. Roma, Collezione Apolloni. A destra: Morte di Adone, olio su tela di Giovan Francesco Gessi. 1639 circa. Pesaro, Musei Civici.

conoscere i piú comuni giochi d’intrattenimento (Ars III, 353 e ss.). In qualità di «maestro d’amore» Ovidio svela tutti i trucchi e gli inganni della passione, si fa paladino di amori plurimi, suggerisce alle coppie i gesti della seduzione, offrendo persino consigli sul tema dell’erotismo (Ars II, 679-680). È infatti con malcelata pudicizia che il poeta si diletta nel descrivere le mille posizioni dell’amore, istruendo cosí i propri discepoli/lettori sul gioco piú antico del mondo. E tutto ovviamente comincia dal bacio, espressione di una conquista già avvenuta e al contempo preludio a ulteriori e piú piccanti sviluppi. Non sorprende quindi che Ovidio vi dedichi molte delle sue attenzioni, specie nel I libro dell’Ars amatoria (vv. 661 e ss.), probabilmente anche dietro l’influenza della perduta opera I baci di Filenide (scrittrice samia del IV secolo a.C.). Le descrizioni ovidiane di baci appassionati e di incontri focosi trovano riscontro nelle gemme, nelle terrecotte, nelle pitture, nei rilievi, nella scultura, nei bronzetti, nelle suppellettili che restituiscono immagini

licenziose in una sorta di «antologia nel 27 a.C., su concessione del Sefigurata» dei versi del poeta. nato, il titolo di Augusto. Il princeps si pone come restauratore dell’ordine sociale, risanando le tenSOTTO LO SGUARDO sioni tra le classi, deponendo le armi DI APOLLO Nella società romana dell’epoca e instaurando cosí un periodo di che mutua dal mondo orientale la pace, che darà avvio a una nuova età predilezione per il lusso, in un cli- dell’oro. Questa nasce sotto lo ma frivolo e libertino teso a quel sguardo attento di Apollo, dio con il gioco d’amore che Ovidio descri- quale ben presto il giovane Augusto ve con tanta maestria nelle sue si identifica. Era una prassi consueta opere, in un orizzonte dove dilaga- già dell’élite romana repubblicana no adulteri e divorzi, prende le far risalire le proprie origini a divimosse il progetto politico di Augu- nità o eroi greci, nobilitando cosí la sto.Tra la fine del I secolo a.C. e gli propria ascendenza. A questo fenoinizi del I secolo d.C., a Roma il meno non si sottrae nemmeno il primo imperatore e la sua famiglia princeps, il quale, giungendo all’isono i protagonisti indiscussi del dentificazione con Apollo, dà avvio nuovo corso della storia. Dopo il al cosiddetto regnum Apollinis. A parperiodo delle guerre civili che ave- tire da questo momento il dio e le vano scosso la repubblica nel corso vicende mitologiche a lui associate del I secolo a.C., si assiste a un divengono non solo uno strumento profondo mutamento politico con di propaganda politica, ma anche un l’ascesa al potere di Ottaviano Au- modus vivendi, dato che l’identificagusto, che inaugura la lunga epoca zione con Apollo finisce per indell’impero romano. Figlio adotti- fluenzare le scelte e l’ideologia privo di Cesare, vendicatore dell’as- vata di Augusto stesso. sassinio del padre, dopo aver scon- La componente religiosa e la devofitto i rivali Antonio e Cleopatra zione verso quelle divinità che avenella battaglia navale di Azio del 31 vano garantito a Roma potere e a.C., il novello imperatore assume benessere divengono elementi cena r c h e o 71


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trali nella propaganda voluta dall’imperatore: assieme a Febo, che dall’alto del Tempio sul Palatino veglia sulla città, ci sono la sorella Diana e la madre Latona; ruolo importante nel pantheon augusteo ha poi Venere, capostipite della gens Iulia, la casata del princeps; Marte, il dio che ha sostenuto la supremazia dell’Urbe; Giove, il padre degli dèi e il garante dell’ordine cosmico. Si tratta delle stesse divinità che ritroviamo protagoniste nei racconti delle Metamorfosi. Eppure, il poema irride la maestà divina, appare spesso sarcastico e ironico, dominato com’è dal comico e dal ridicolo; e benché sia velato da un apparente asservimento alle direttive imperiali, tende progressivamente a spogliare i miti del-

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la loro serietà di fondo. Ovidio narra sí delle vicende di Apollo, Giove, Diana, Marte, Venere…, ma lo fa con spirito irriverente e canzonatorio: sono dèi dominati da passioni tipicamente umane, vendicativi, in preda a irrefrenabili desideri amorosi; sono dèi disposti a tutto pur di possedere il concupito di turno o l’oggetto dei propri capricci; sono amanti insaziabili, ingannatori, mistificatori; sono dèi crudeli e spieta-

ti, che niente hanno in comune con la sacralità delle divinità augustee. E certo al princeps non bastò l’apparente asservimento insito nei catasterismi degli ultimi libri a cancellare dalla sua memoria il tono beffardo con cui Ovidio descrive Apollo mentre corre come un giovane in preda ai primi afflati amorosi dietro a un’integerrima Dafne; o Giove, che tradisce la consorte Giunone con ogni ninfa e fanciulla

In alto: particolare del rilievo sulla fronte di un sarcofago con il ratto di Proserpina. 120 d.C. Venezia, Museo Archeologico Nazionale. A sinistra: pagina miniata dall’Ovidius moralizatus di Pierre Bersuire. 1350 circa. Gotha, Forschungsbibliothek.

In basso: particolare di una statua di Ermafrodito dormiente, da Roma. Copia romana del II sec. d.C. da un originale greco d’età ellenistica. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo.


sto del rigoroso programma di ripristino delle antiche virtú. Ma non è solo Ovidio a porsi in aperto contrasto con la politica augustea. La stessa Giulia Maggiore, figlia di Augusto e della prima moglie Scribonia, costretta dalla ragion di Stato a matrimoni non voluti (Marcello, Agrippa, Tiberio) si ribella al rigore paterno facendosi interprete di comportamenti lascivi e dissoluti, fino a essere coinvolta in scandali a sfondo sessuale ed essere relegata al confino nel 2 a.C. La medesima sorte toccherà all’altra Giulia (Minore), figlia di Giulia Maggiore e Agrippa (dunque nipote di Augusto), che dopo aver seguito le orme licenziose della madre ne seguirà anche il destino, con l’esilio comminatole nell’8 d.C. E forse piacente su cui posa lo sguardo; o ancora Marte e Venere, adulteri ai danni del di lei marito Vulcano ed esposti alla pubblica derisione.

ISTANZE MORALEGGIANTI Oltre alla religione tradizionale, Ovidio si scontra presto con Augusto anche su un altro punto cardine della sua politica: l’ordine morale. Il princeps, infatti, si fa promotore di leggi volte a ripristinare la morigeratezza dei costumi, allora corrotti da comportamenti lascivi, e il senso etico. In adesione al suo programma di moralizzazione, Augusto sottolinea anche nell’arte ufficiale il suo carattere di uomo pio, facendosi rappresentare insieme alla consorte Livia col capo velato, nelle vesti di pontifex maximus. E c’è da credere che gli sfiziosi trattati di Ovidio, volti a istruire le donne sul modo migliore di imbellettarsi per incantare il maggior numero di uomini oppure a svelare i segreti che regolano il gioco della passione, dovettero risultare assai poco graditi al primo cittadino dell’impero. La vita libertina, la spensieratezza, l’esistenza fatta di amori, corteggiamenti, tradimenti… sono infatti all’oppo-

In questa pagina: due immagini del Ganimede con l’aquila, rielaborazione della prima età Didascalia da fare Ibusdae imperiale. Firenze, Gallerie evendipsam, officte erupit antesto degli Uffizi. taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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di); mutamenti che colpiscono sia colpevoli sia innocenti e sono il segno della grandezza degli dèi, che dispensano condanne eterne o eterne ricompense. E il poeta descrive dettagliatamente, quasi con trasporto, le trasformazioni di corpi di fanciulle e giovanetti progressivamente imprigionati entro pellicce di animali UNA CONTINUA feroci (Licaone, Callisto) o piume TRASFORMAZIONE Nella grande e variegata produzio- variegate di uccelli (Meleagridi, ne poetica di Ovidio un posto par- Cicno), in scorze rugose di alberi ticolare meritano le Metamorfosi, (Mirra, Dafne) o fra i petali di fiouna delle piú celebri opere della ri delicati (Narciso); è cosí che i latinità. Il poema è il piú lungo epos personaggi raggiungono il loro romano conservatosi, con i suoi XV eterno destino. libri in esametri che, in poco piú di Non solo metamorfosi e corpi che 12 000 versi, narrano circa 250 sto- mutano in altro da sé, ma anche rie ove interagiscono i grandi dèi amori, vendette, passioni; e ancora dell’Olimpo, gli eroi o i semplici morte, violenta o accidentale, stermortali. Nelle Metamorfosi la mate- mini, rapimenti: non stupisce che ria mitologica è presentata come un nel corso dei secoli questa sorta di susseguirsi continuo di storie, tutte «opera-mondo» abbia goduto di accomunate dalla trasformazione una fortuna travolgente, giungendo finale dei protagonisti in altro da sé: immutata sino ai giorni nostri. trasformazioni di uomini e donne Quali le caratteristiche che hanno in piante (Ciparisso, Eliadi), fiori (Aiace, Adone), uccelli (Procne, Filomela e Tereo, le Pieridi), rocce (Niobe, Batto, Aglauro, Propeti-

proprio in uno degli scandali che videro come protagonista Giulia Minore fu invischiato anche Ovidio. Che, non a caso, nel medesimo anno, l’8 d.C., fu anch’egli esiliato nell’infelice Tomi (l’odierna Costanza, in Romania, n.d.r.), da dove non fece piú ritorno a Roma.

A destra: la sala nella quale sono esposte tre statue facenti parte del ciclo statuario dei Niobidi, rinvenuto a Ciampino (Roma) nel 2012, nella villa di Marco Valerio Messalla. Tivoli, Istituto Le Villae-Villa Adriana e Villa d’Este.

reso quest’opera unica e tanto amata? Due probabilmente sono gli aspetti peculiari. Il primo è la capacità evocativa delle immagini descritte: l’abilità del poeta di rendere visibile nella mente del lettore, antico come moderno, ciò che racconta tramite le parole. Ovidio riesce a evocare immagini mentali, rendendo visivamente percepibile

FIGURARE LA METAMORFOSI La metamorfosi è la trasformazione di un essere vivente in altro da sé, fino a diventare pianta, roccia, animale, uccello, aria, acqua… Ed è attorno a questo tema affascinante che ruotano le Metamorfosi, descrivendo nel dettaglio ben 129 mutamenti di uomini e donne che, per volere degli dèi, divengono statue, fiori, mostri, fiumi; e ancora animali feroci, che strisciano, nuotano, volano… Con quali espedienti nel repertorio figurativo antico si è riusciti a

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rappresentare il complesso mutare delle forme in un’immagine statica? È un motivo che deve aver messo a dura prova gli artigiani, che sono

dovuti ricorrere a diversi espedienti. Il modo piú semplice è quello di inserire nella composizione un elemento che rimanda alla nuova natura del protagonista – è il caso per esempio della giovenca che affianca la figura di Io –, oppure di inserire un particolare del nuovo stato sulla fisionomia del soggetto, come accade alle corna per Atteone, allusive alla sua trasformazione in cervo. Testa animale su corpo umano, o viceversa, è poi un altro espediente


la realtà in divenire propria della trasformazione attraverso la sua scomposizione in elementi semplici e facilmente riconoscibili dall’immaginazione umana. I racconti sono costruiti tramite una molteplicità di dettagli, che interessano non solo l’ambientazione delle vicende (il paesaggio), ma

per mettere in scena corpi parzialmente trasmutati, facendo cosí convivere la vecchia e la nuova natura: esemplare è il caso di Dafne, già avvolta nella parte inferiore del corpo dalla corteccia, secondo un modello che dall’età ellenistica si diffonde con fortuna nel repertorio romano. Piú rara è invece la totale metamorfosi del soggetto, rappresentato cioè nella nuova forma, come accade a Cicno, il fratellastro di Fetonte, talvolta raffigurato con le sembianze di un cigno.

anche gli stessi protagonisti, colti nelle loro relazioni spaziali e definiti icasticamente nella gestualità. Le narrazioni si compongono cosí di una serie di «scene figurative», che prendono corpo nella mente del lettore. Non è dunque un caso se, a partire dal Rinascimento, si assiste al fenomeno del recupero, a tratti dotto, del poema da parte di artisti che materialmente ripropongono in immagine le descrizioni piú incisive, contribuendo cosí in parte alla loro fortuna: pensiamo, solo per citarne alcuni, al dipinto di Carlone con lo svelamento di Marte e Venere, oppure alle opere di Carlo Saraceni raffiguranti Arianna abbandonata, Salmacide ed Ermafrodito, Ganimede rapito, Dedalo e Icaro; e ancora, ai numerosi soggetti mitologici ovidiani proposti da Carracci, Tintoretto, Poussin, Rubens, Tiziano, Bernini…

FISSARE IL MITO Il secondo importante aspetto è la capacità delle Metamorfosi di fissare nell’immaginario collettivo la versione definitiva di molti miti, rendendola celebre attraverso i secoli.Alcune figure «ovidiane» – come Narciso, Pigmalione, Ermafrodito – sono addirittura venute a far parte del patrimonio culturale contemporaneo, divenendo esse stesse spiegazione di fenomeni sociali o psicologici. E, del resto, la funzione primaria di un racconto a caNella pagina accanto in basso: Ratto di Europa, olio su tavola del Tintoretto (al secolo, Jacopo Robusti). 1541-42. Modena, Galleria Estense. A sinistra: Leda e il cigno, copia del II sec. d.C. da un originale ellenistico del 50 a.C. circa. Venezia, Museo Archeologico Nazionale. a r c h e o 75


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rattere mitologico è proprio quella di fungere da parametro per la comprensione del mondo e dei fenomeni che lo regolano, siano essi naturali, morali o sociali. Numerose sono le caratteristiche che contribuiscono a rendere unico il poema e che, le une insieme alle altre, hanno contribuito alla sua fortuna nel corso dei secoli. Tra queste merita di essere ricordata la peculiarità che, di contro, fu forse una delle concause che contribuí all’esilio di Ovidio, ossia la sua capacità di saper muovere gli animi dei personaggi del mito, finanche gli dèi, con passioni del tutto umane. Le Metamorfosi sono pervase da uno spirito sagace, irriverente e canzonatorio, che appare evidente soprattutto nel modo con cui il poeta tratta gli eroi del mito, quei protagonisti che hanno informato di sé componimenti epici di indiscussa fama e credito. In questo senso, uno degli elementi peculiari che caratterizza l’opera è il fenomeno di disgregazione della figura maschile nel momento in cui entra in contatto con la controparte femminile: un esempio è fornito dalla poco nobile prestazione dei virili partecipanti alla caccia calidonia, eclissati dal valore della fanciulla di Tegea, Atalanta. Ma ancor piú significativo è il sottile rovesciamento di ruoli che caratterizza la storia di Medea e Giasone: sebbene, in linea di principio, il titolo di eroe spetti all’Argonauta, la sua immagine è del tutto adombrata da quella della bella maga, senza l’aiuto della quale Giasone sarebbe risultato impotente. Quale ne sia la ragione, le storie ovidiane sono riuscite a imporsi nell’immaginario collettivo almeno a partire dal Rinascimen76 a r c h e o

to, se non addirittura dal Medioevo, allorché vengono tradotte, volgarizzate, commentate, reinterpretate, fatte oggetto di edizioni critiche, prese quale metro per spiegare la realtà contemporanea al di là di interpretazioni logico-razionali. Giove e Ganimede, gruppo in bronzo con finiture a bulino e patina bruna di Bartolomeo Ammannati. 1550 circa. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

«Ho ormai compiuto un’opera, che non potranno cancellare né l’ira di Giove, né il fuoco, né il ferro, né il tempo divoratore (…) il mio nome resterà indelebile. E dovunque si estende la potenza romana sulle terre domate, sarò letto dalla gente, e per tutti i secoli, grazie alla fama, se c’è qualcosa di vero nelle profezie dei poeti, vivrò»: cosí scriveva Ovidio a conclusione delle Metamorfosi. E il tempo gli ha dato ragione. La principale opera del poeta godette, almeno a partire dal XII secolo (periodo che addirittura vanta il titolo di aetas ovidiana), di una fortuna indiscussa, che attraversò indenne il Rinascimento, il Barocco, il Romanticismo per arrivare, superate le diverse tendenze del Novecento, fino ai nostri giorni.

IL RUOLO DEI LIBRI Il poema è stato di volta in volta letto, commentato, reinterpretato, preso quale fonte di ispirazione non solo dai poeti, ma anche dagli artisti che hanno tradotto in immagine quanto narrato dalla parola. Ma nei secoli iniziali, quelli che vanno dal XII sino al XVI secolo, la diffusione di Ovidio è stata possibile grazie a una particolare tipologia di oggetti: i libri. La caratteristica che accomuna tutta la produzione libraria è quella di affiancare, su di un unico supporto, la parola scritta all’immagine figurata, offrendo cosí la possibilità di istituire, attraver so un solo sguardo d’insieme, un gioco di confronti e rimandi tra il mondo della parola e la rappresentazione, sia essa una miniatura o una xilografia. Tra le pagine dei diversi codici i personaggi del mito prendono corpo: ora già completamente trasformati, come accade ad Atteone – raffigurato in forma di cervo nel codice Thott di Copenaghen, realizzato a Bruges negli anni Ottanta del XV secolo –, ora


LA MOSTRA La mostra «Ovidio. Amori, miti e altre storie» si sviluppa lungo tre linee fondamentali: il poeta e il suo tempo; il poeta e le arti figurative del suo tempo; il poeta e la sua influenza nel mondo moderno. Nella prima sala il visitatore incontra Ovidio, o, meglio, quello che di lui conosciamo: certo, la sua complessa vicenda umana, la sua spregiudicatezza nella gioventú, la sua piaggeria cortigiana negli anni dell’esilio non possono essere illustrati, ma il poeta è presente con le sue opere, tramandateci nei preziosi codici, spesso elegantemente miniati, e nelle prime edizioni a stampa, che hanno preservato quella poesia a cui aveva dedicato tutta la vita e a cui aveva affidato il suo riscatto. E immagini idealizzate del suo volto si trovano talvolta sui frontespizi, dove i miniatori lo hanno raffigurato intento alla scrittura dei suoi versi oppure nell’atto di mostrare con orgoglio la sua opera. Ma la vera protagonista della prima sala è la sua poesia, i suoi versi eterni che riecheggiano nell’installazione di un artista contemporaneo, Joseph Kosuth, che si è ispirato alle piú belle parole d’amore che Ovidio ha scritto e ne ha fatto delle immagini colorate (vedi foto qui sotto). Ed è l’amore il protagonista della seconda sala, quell’amore libertino che il poeta cantava e insegnava, incarnato dal sensuale corpo della Venere Callipigia (vedi foto a p. 69) e da alcune straordinarie scene erotiche che nulla lasciano all’immaginazione. Ma questa visione dell’amore come libero piacere della carne che non conosce limiti o confini, che il poeta propugnava con forza, lo aveva posto in aperta contrapposizione con il reggitore dell’impero, quell’Ottaviano che, divenuto Augusto, si era premurato di promulgare a piú riprese leggi per la moralizzazione dei costumi; e non si può parlare di Ovidio senza parlare Joseph Kosuth, Maxima Proposito (Ovidio) #25, neon colorato. 2017. Pescara, Collezione Donatelli.

di Augusto e della sua famiglia, perché è nella contrapposizione fra due visioni del mondo e del futuro di Roma che si consuma il destino del poeta ed è a questa contrapposizione che è dedicata la seconda parte della sala 2, dove, come in una galleria di famiglia troviamo i capostipiti, Augusto e Livia, interpreti della nuova morale, ma anche quelle Giulie, figlia e nipote del princeps, che parte non piccola ebbero nell’amaro destino del poeta, coinvolgendolo nella loro vita scapestrata e nella loro protesta contro il nuovo corso della storia. A tale colpa si aggiunsero i versi irridenti con cui il poeta tratteggiò un pantheon popolato di dèi meschini, bugiardi, vendicativi, portatori di tutti i difetti della debole umanità, senza i pregi di una grandezza di ideali e prospettive. Forte della sua agile penna e delle sue influenti amicizie, Ovidio arrivò a mettere alla berlina anche le divinità piú care al princeps, a partire da Venere, capostipite della gens Iulia, a cui Augusto apparteneva per adozione (vedi box a p. 69). Tuttavia, Ovidio riserva le parole piú dure ai due divini gemelli: Apollo sotto la cui protezione si era posto l’imperatore, e la sorella Diana, «splendidi ornamenti del cielo», come li chiama Orazio nel piú politico dei suoi carmi (Carmen saeculare 2), crudeli, vendicativi e incapaci di perdono per Ovidio. I racconti del poeta di Sulmona (Apollo e Dafne; Diana e Atteone; la strage dei Niobidi) riecheggiano nel repertorio iconografico coevo e attraverso la mediazione dei codici sono giunti alla grande stagione del Rinascimento. Non poteva sfuggire a questa demolizione delle immagini divine il padre degli dèi, l’onnipotente Giove, il signore del cielo, garante dell’ordine cosmico e protettore della città eterna, che nei poemi ovidiani è presentato come amante insaziabile, predatore sessuale, protagonista di abusi e stupri, capace di ogni sotterfugio, inganno, travestimento per possedere l’oggetto del suo momentaneo desiderio: cosí una selezione degli amori di Giove (Leda, Europa, Io) chiude la sezione dedicata allo scontro con Augusto, giocato sulla moralità e sulla religione. I racconti mitici di cui sono protagonisti i protettori di Roma ci accompagnano verso l’ultimo tema della mostra dedicato a rappresentare attraverso immagini che a r c h e o 77


MOSTRE • ROMA Testa di Arianna dormiente. Ante 1598. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

hanno superato il mondo antico giungendo fino a noi, quell’universo mitico formatosi nei secoli, a cui Ovidio ha dato il definitivo suggello. L’intero piano superiore è dedicato alle Metamorfosi, «il gran poema delle passioni e delle meraviglie» come lo definí con illuminante immagine Concetto Marchesi, il poema che ha sancito la fama imperitura di Ovidio e gli ha garantito quella sopravvivenza che egli stesso con smisurato orgoglio prefigurava per sé (Amores I, 15 41-42: «e anche quando l’ultimo rogo mi avrà consumato, vivrò»; Amores III, 16, 20: «e dopo la mia morte la mia opera sopravviverà»). Ogni sala è dedicata o a un mito emblematico o a piú miti, che presentano tangenze per il soggetto trattato o per l’esito della vicenda (Arianna e Proserpina, amate dagli dèi; Icaro e Fetonte, imprudenza punita; amori contrastati o impossibili: Piramo e Tisbe, Narciso, Ermafrodito; eroi cacciatori: Ippolito, Meleagro), e ciascun mito viene presentato con una selezione di opere della piú diversa specie e cronologia: ai rilievi, affreschi, sculture, manufatti toreutici, gemme di età classica, scelti per la loro potenzialità di narrare la storia nella prospettiva ovidiana, si accompagnano i manoscritti miniati o le edizioni a stampa del poema, che costituiscono la tangibile, straordinaria testimonianza della vitalità di quei miti che avevano ispirato gli amanuensi i quali, del tutto ignari del repertorio antico, raffigurarono le vicende narrate, dando ai personaggi fisionomie e abbigliamenti contemporanei. Il fascino dei racconti ovidiani, che potevano essere giocati in chiave esornativa, ma anche simbolica, ne decretarono la fortuna anche nel Rinascimento, a partire dalla panoplia nuziale delle giovani aristocratiche, che fecero ornare non solo i cassoni contenenti i loro corredi con le drammatiche storie di eroi ed eroine, a cui la rilettura moralizzante aveva conferito nuove 78 a r c h e o

valenze semantiche, ma anche i piatti in maiolica «istoriata» che si diffusero in maniera capillare grazie alla circolazione dei modelli usati per le edizioni a stampa del poema. Ma è la grande pittura che sancisce la fortuna in età moderna del repertorio ovidiano: a partire dal Rinascimento i piú illustri maestri dell’epoca, influenzati anche dai continui straordinari ritrovamenti di antichità, ricrearono innumerevoli composizioni «all’antica», ispirate al poema ovidiano, per soddisfare le esigenze di una committenza che con la scelta di soggetti profani intendeva riallacciare i fili con il grande e luminoso passato classico. Nell’ultima sala si compie, attraverso lo specchio del mito di Ganimede, il giovane rapito da Giove e divenuto immortale, quell’apoteosi che il poeta si era prefissato di raggiungere attraverso la sua poesia, quell’apoteosi che aveva tante volte invocato nei carmi della giovinezza e dell’esilio, ma mai con la consapevolezza e la sfrontatezza espresse negli ultimi versi del suo carmen perpetuum: «e ovunque si estende la potenza di Roma sulle terre domate, / sarò letto dalla gente, e per tutti i secoli, grazie alla fama, / se c’è qualcosa di vero nelle profezie dei poeti, vivrò» (Metamorfosi XV 877-879). E quell’ultima, incisiva parola (vivam) si invera nel quadro di Poussin, in cui Ovidio, coronato di alloro, è raffigurato accanto a quella Venere che gli aveva dettato alcuni dei suoi versi piú belli e ai piccoli eroti, che alludono alle gioie e ai patimenti dell’amore.


colti in una metamorfosi ancora in fieri e, rincorrendosi, seguono la multiforme rapidità del racconto ovidiano. Ed è forse proprio per questa peculiare caratteristica che i libri – manoscritti prima e i testi a stampa poi – furono uno dei canali privilegiati attraverso cui si diffusero le Metamorfosi e l’enorme patrimonio mitologico in esse contenuto, giungendo sino al Rinascimento. Questa straordinaria continuità fu possibile innanzitutto grazie alla tradizione manoscritta medievale, perlopiú di tipo moralistico, che aveva sovrapposto gli insegnamenti etici alle figure del mito, le virtú e i vizi alle divinità classiche. Potrebbe sorgere qualche perplessità su come la morale cristiana, e soprattutto l’invito a non assecondare i piaceri della carne, abbiano trovato esempi funzionali in quelle figure mitologiche cosí licenziose; impertinenze che Ovidio ha saputo raccontare con dettagliata e giocosa freschezza. Il paradosso è presto risolto: la lettura delle opere ovidiane è utile nel momento in cui funge da exemplum negativo, da insegnamento morale su ciò che può causare un uso deviato dell’amore. È questo che spesso giu-

stifica e legittima la ripresa e gli assidui commenti alle opere del poeta. Uno degli esempi piú interessanti è offerto dall’Ovide moralisé en vers français, miniato a Parigi dal Maestro del Roman de Fauvel (1315-1325) con 453 vignette in cui le immagini dei miti ovidiani sono intervallate dalle rispettive moralizzazioni.

LA VANITÀ DEL CAMMELLO Diverse sono le modalità di appropriazione e rielaborazione del testo antico da parte di un miniaturista medievale, che traduce i diversi racconti in immagini figurate ora perfettamente aderenti alle descrizioni ivi contenute ora, distaccandosi da queste ultime, crea delle allegorie assecondando cosí quelle che sono le tendenze dell’epoca. Pensiamo per esempio alla raffigurazione che affianca il racconto del mito di Narciso nel piú antico manoscritto noto delle Metamorfosi, redatto a Bari tra la fine dell’XI secolo e gli inizi del XII (Neap. IV F 3): qui la singolare illustrazione a margine mette in scena, come personificazione del vanitoso protagonista, un cammello, animale che, secondo l’interpretazione dei bestiari medievali, sarebbe presuntuoso e arrogante. Molto spesso gli artisti avendo di fronte le sole, ma nel caso di Ovidio meravigliosamente nitide, descrizioni dei personaggi e delle vicende mitologiche, cosí distanti dai consueti argomenti storici o sacri, ricorrono a tipi prima mai utilizzati, creando per l’occasione nuove iconografie. E tuttavia queste diverse forme non potevano che essere espresse nel linguaggio del proprio tempo, facendo cioè ricorso a soluzioni già utilizzate per altri soggetti. Ed ecco Un altro particolare dell’allestimento, con la Venere Callipigia (vedi a p. 69) e un Eros con l’arco, copia romana del I sec. d.C. da un originale greco del IV sec. a.C., dal Museo Archeologico Nazionale di Venezia.

che, per esempio, come quinta scenografica alle storie mitologiche si trovano architetture di stile goticheggiante, gli eroi protagonisti vestono secondo la moda attuale del miniaturista e quando sono connotati come guerrieri, compaiono corazze ed elmi di varie forme. Con il Rinascimento e la riscoperta dei classici, anche l’opera di Ovidio gode di una rinnovata stagione di fortuna nei testi a stampa a partire dal 1497, quando a Venezia viene editato l’Ovidio Metamorphoseos vulgare di Giovanni dei Bonsignori per i tipi di Giovanni Rosso di Vercelli per Lucantonio Giunta. Il libro è corredato da 52 xilografie basate sui disegni del miniatore Benedetto Bordon e intagliati nei legni da Jacopo da Strasburgo insieme ad altri due maestri: a differenza dei manoscritti, qui le immagini hanno uno stile classicheggiante, influenzate non solo dalle opere scultoree dell’antichità, che proprio allora cominciavano a venire in luce, ma anche dall’arte contemporanea. E se di Ovidio non ci rimangono altro che parole e versi, sono ancora una volta i manoscritti medievali e i testi a stampa rinascimentali a offrirci possibili rievocazioni del suo volto, anche se di fantasia: nei frontespizi ci appare infatti il poeta, stante o seduto allo scrittoio, e rappresentato secondo i canoni di un uomo di lettere dell’epoca, spesso coronato di alloro. DOVE E QUANDO «Ovidio. Amori, miti e altre storie» Roma, Scuderie del Quirinale fino al 20 gennaio 2019 Orario tutti i giorni, 10,00-20,00 (venerdí e sabato, apertura serale fino alle 22,30) Info tel. 02 92897722; e-mail: info@scuderiequirinale.it; www.scuderiequirinale.it a r c h e o 79


SPECIALE • PONTI ROMANI

Alcántara (Spagna). Il ponte che scavalca il fiume Tago, costruito per volere dell’imperatore Traiano fra il 104 e il 106 d.C.


ACQUA, PONTI, CIVILTÀ SIN DALLA PREISTORIA, IL PASSAGGIO DEI CORSI D’ACQUA HA COSTITUITO UNA SFIDA ALL’INGEGNO TECNICO DELL’UOMO. FU IN EPOCA ROMANA, PERÒ – QUANDO LA QUALIFICA DI PONTIFEX, GIÀ TITOLO DI UNA DELLE MASSIME MAGISTRATURE D’ETÀ REPUBBLICANA, VENNE ASSEGNATA AGLI STESSI IMPERATORI – CHE L’ARTE DEL «PONTIFICARE» RAGGIUNSE VETTE ASSOLUTE… di Flavio Russo a r c h e o 81


SPECIALE • PONTI ROMANI

L

a generica denominazione di «ponte» abbraccia varie tipologie di strutture, tutte però destinate a consentire di superare gli ostacoli, naturali o artificiali, che interrompano un itinerario, ripristinandone perciò la continuità. Piú correttamente, si definisce «ponte» quello che scavalca un corso d’acqua, «viadotto» – architettonicamente simile – quello che scavalca una vallata o una gola, e «cavalcavia» quello che sormonta una sottostante strada o una linea ferroviaria. Sin dalla preistoria, i ponti furono realizzati per unire il territorio a dispetto delle sue cesure morfologiche, trasformandosi solo in un secondo momento nel raccordo indispensabile delle piste e, piú tardi ancora, delle strade. Per effetto di una fruizione cosí prolungata, i ponti non solo tramandano la coeva tecnica edificatoria, ma testimoniano anche il loro incessante adattarsi alle diverse esigenze, dando vita a un nutrito repertorio di opere fra loro simili, fortunosamente pervenutoci. Un repertorio che va dai ponti piú rozzi di epoca neolitica a quelli piú complessi e arditi progettati dagli ingegneri romani. Questi ultimi, resi indispensabili dal progressivo ampliarsi della rete stradale costruita dalle legioni – a ragione considerata come la piú imponente infrastruttura militare della

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storia –, divennero ponti per antonomasia quando superarono un fiume, la piú ostativa e inaggirabile barriera naturale. Non a caso, una delle massime magistrature romane fu quella del pontifex, alla quale sembra associarsi il compito di costruttore di ponti, in particolare, almeno in origine, di quelli sul Tevere. In seguito il titolo designò il collegio giuridico-sacerdotale preposto alla salvaguardia delle tradizioni, finendo per assegnare all’imperatore la qualifica di pontefice massimo a partire dal 12 a.C.

UN VERO E PROPRIO «CANONE» URBANISTICO Se fin da epoche molto antiche i torrenti suggerirono la costruzione di passerelle per evitare le insidie della loro vorticosa e gelida corrente, fu il Tevere a stimolare la costruzione dei ponti propriamente detti. E dal momento che le principali città europee fondate dai Romani ebbero la medesima connotazione d’impianto dell’Urbe, ovvero un fiume che le attraversava, la competenza maturata per costruire quelle indispensabili infrastrutture, sia lungo le strade sia nelle città stesse, divenne presto superlativa e ineguagliabile. La ragione di una scelta urbanistica che divenne quasi canonica scaturiva dai cospicui vantaggi che, almeno nelle fasi piú arcaiche, il passaggio di un corso d’acqua all’interno dell’abitato poteva assicurare. Il fiume, infatti, era l’acquedotto naturale, capace di fornire un copioso approvvigionamento idrico (sia pure di qualità non eccellente), ma era anche la cloaca che permetteva lo smaltimento delle acque nere, ed era ancora la strada ideale per il trasporto delle derrate alimentari e dei molteplici materiali da costruzione. Pur di non rinunciare a simili opportunità, si sopportava quindi la cesura della città, affidando ai ponti la funzione di raccordo. Come in biologia, anche nei ponti, al di là della mera diversificazione strutturale, si può ravvisare una evoluzione, favorita da millenni di sperimentazioni e perfezionamenti, che ebbe il suo massimo motore, come già accennato, negli ingegneri romani. Essi, infatti, oltre a mettere a punto criteri sempre piú avanzati per la costruzione dei loro ponti monumentali, non accantonarono quelli piú modesti adottati per le passerelle, avvalendosi, come nei ponti militari di circostanza, delle materie prime disponibili in loco. In questo ambito si

A sinistra: la Tabula Traiana, l’iscrizione che ricorda il rifacimento (o la realizzazione) del tratto di strada sul Danubio che attraversa le Porte di Ferro. 100 d.C. Il monumento si trova nella Gola di Djerdap, 2,5 km a monte dalla città di Tekija (Serbia).


In alto: Roma, il Ponte Fabricio. Costruito in pietra nel 62 a.C., sostituí una piú antica struttura lignea già esistente e assicurava il collegamento fra l’Isola Tiberina e la sponda sinistra del Tevere.

constata una preferenza progressiva per i materiali piú resistenti, che vanno dalle preistoriche passatoie in legno ai ponti in pietra e, infine, in calcestruzzo.Va inoltre ricordato che i piccoli ponti locali privi di interesse strategico o sociale e precedenti alla conquista romana, solo raramente furono sostituiti, cosí da permetterci di analizzarne la loro concezione originaria, di cui sarà interessante tratteggiare un breve ragguaglio. Dal punto di vista costruttivo, l’ampio repertorio appena accennato può essere però suddiviso in appena due grandi tipologie: ponti formati con travi e ponti formati con archi, sollecitati a trazione i primi e a compressione i secondi, con due conseguenti diversità di portata, rispettivamente molto inferiore negli architravati rispetto agli archivoltati. Criteri

costruttivi che trovarono applicazione rispettivamente nelle strutture minori e in quelle piú rilevanti. Entrambi somigliarono sempre a una porta, la cui larghezza era imposta da quella del corso d’acqua che scavalcava e, quando questa eccedeva la dimensione tecnicamente congrua, le porte divennero molteplici, assumendo allora la denominazione di «campate», una soluzione adottata anche negli acquedotti e nei viadotti. Da quanto fin qui delineato, si può dunque ricavare la seguente suddivisione, adottata per articolare questo Speciale: 1. ponti pedonali di legno; 2. ponti pedonali megalitici; 3. ponti pedonali pseudo-megalitici; 4. ponti pedonali misti; 5. ponti di legno; 6. ponti di pietra; 7. ponti in pietra e calcestruzzo; 8. grandi ponti in pietra e legno. a r c h e o 83


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1. PONTI PEDONALI DI LEGNO

È

difficile fissare nel tempo l’origine delle passerelle di legno, antenate dei relativi ponti propriamente detti: il criterio informatore di simili strutture poté infatti essere un tronco d’albero casualmente abbattutosi di traverso alle opposte rive di un torrente, consentendone in tal modo l’attraversamento. Nei secoli successivi, al singolo tronco se ne affiancarono altri, formando in alcuni casi un impalcato abbastanza largo da permettere persino il transito dei carri. Quando, poi, il corso d’acqua eccedeva la lunghezza dei tronchi si risolse il problema posizionando nello stesso grosPONTE DI VALLORCINE Tra gli ormai rari esempi di ponti pedonali in legno, si può ricordare quello costruito sulle Alpi francesi, nei pressi di Vallorcine (Alta Savoia; vedi foto qui accanto). In questo caso i grossi tronchi affiancati insistono sopra due opposte spalle realizzate in muratura a secco, con pietre di grandi dimensioni, vagamente incastrate fra loro, simili all’opera poligonale della prima maniera.

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si massi, che fungevano da rudimentali piloni e sui quali vennero poggiate le estremità dei tronchi, formando in tal modo un unico lungo impalcato.


Nella pagina accanto: plastico della città di Roma in epoca arcaica, vale a dire nel periodo compreso fra la dominazione dei re Tarquini e i primi decenni della repubblica. Si può notare come il Tevere sia sovrastato dal solo Ponte Sublicio, a valle dell’Isola Tiberina. A destra: Orazio Coclite difende il Ponte Sublicio, olio su tela di Charles Le Brun. 1642-43. Londra, Dulwich Picture Gallery.

PONTE SUBLICIO: QUANDO «TAGLIARE I PONTI» SIGNIFICA SALVEZZA Stando alla leggenda, nel VI secolo a.C., nel corso della guerra contro gli Etruschi, una incursione nemica minacciò di attraversare il ponte Sublicio, penetrando cosí nel cuore di Roma. Nella circostanza, stando al racconto di Tito Livio, la minaccia sarebbe stata cosí sventata dal leggendario eroe Orazio Coclite: «Corre quindi alla testa del ponte distinguendosi nello spettacolo offerto dalle schiene dei fuggitivi, poiché era l’unico a tenere le armi rivolte verso il nemico, pronte per il combattimento e con tale gesto di coraggio sovrumano riempí di stupore i nemici. Il senso dell’onore trattenne tuttavia con lui altri due compagni, Spurio Larcio e Tito Erminio, nobili entrambi per stirpe e per imprese compite. Con questi sostenne per un po’ la tempesta iniziale e la fase piú aspra del combattimento. Poi, quando rimaneva da tagliare soltanto una piccola parte del ponte e veniva quindi richiamato indietro a gran voce, ordinò anche a quelli di mettersi in salvo. Volgendo intorno occhiate truci e minacciose sui nobili etruschi, ora li sfidava a uno a uno, ora li provocava tutti assieme, gridando che essi, schiavi di re superbi, venivano a schiacciare la libertà altrui, dimentichi della propria. Quelli rimasero a lungo immobili, guardandosi l’un l’altro in attesa di un attacco; infine un senso di vergogna riscosse la schiera e con un sol grido da ogni parte lanciarono frecce contro il nemico, un uomo solo. Poiché queste rimasero infisse nello scudo ed egli con non minore energia rimaneva saldamente a guardia del ponte, i nemici già cercavano con un assalto da abbattere l’eroe, quando ad arrestarne l’avanzata giunsero insieme il fragore del ponte che crollava e le grida di gioia dei Romani che avevano concluso il lavoro» (Ab urbe condita, 10). Per quanto valoroso potesse essere Orazio Coclite, senza la modesta larghezza del ponte, che era in realtà una passerella, gli Etruschi lo avrebbero agevolmente circondato, uccidendolo. Del resto, solo una dimensione tanto ridotta giustifica la rapidità con la quale i Romani poterono tagliarlo.

Una delle peculiarità di tali ponti pedonali consisteva nella facilità con cui si poteva interromperne l’utilizzo, in pochi minuti, semplicemente rimuovendo i tronchi. Una

soluzione che, per vari aspetti, si attaglia perfettamente alla definizione di «ponte levatoio» e ne costituí, almeno concettualmente, l’anticipazione. a r c h e o 85


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2. PONTI IN OPERA MEGALITICA

N

onostante la rarità dei ponti pedonali costruiti interamente in opera megalitica, se ne possono distinguere tre tipologie fondamentali, sempre molto antiche: a trilite, a pseudo-arco e ad arco. La prima deriva appunto dalle strutture trilitiche ed è costituita da due piedritti, non di rado con pile intermedie, su cui insistono grandi lastroni di pietra, che fungono da impalcato. La struttura è perciò sostanzialmente simile a una piattabanda, la cui resistenza ai carichi è data dallo spessore dello stesso lastrone e dalla sua compattezza. Alla seconda tipologia appartengono i ponti ottenuti facendo progressivamente aggettare i

grossi blocchi che li compongono dal basso verso l’alto, fino a chiudersi in sommità per mutuo contrasto, secondo la tecnica della pseudo-volta, tipica della civiltà micenea e quindi ascrivibile al XV-XII secolo a.C. La terza tipologia è realizzata con conci cuneiformi disposti ad arco, per cui il carico, che nelle precedenti tipologie era sostenuto per la trazione esercitata sui conci, viene in questo caso sopportato solo per la compressione dei conci. Si tratta di una confer ma implicita della conoscenza dell’arco da parte dei suoi costruttori, ascrivibile al V-IV secolo a.C. quando iniziò a diffondersi anche nell’Italia centrale.

PONTE SUL RIO TROGOS: 8 TONNELLATE PER UN RUSCELLO Un singolare esempio della tipologia trilitica è il ponte pedonale sul Rio Trogos, fra Paulilatino e Zerfaliu in provincia di Oristano, del tutto isolato in mezzo alla campagna. La sua rudimentale costruzione ha indotto a collocarlo in età nuragica, divenendo perciò l’unico esempio di ponte riferibile a quella cultura. Fra le possibili motivazioni della sua realizzazione vi sarebbe stata la necessità di attraversare il ruscello anche nei periodi di violenta piena. Dal punto di vista strutturale, è composto da due piedritti che fungono da spalle, assemblati con macigni di basalto, approssimativamente sovrapposti e tenuti insieme dalla loro massa: il lastrone centrale, lungo 5 m circa, pesa quasi 8 tonnellate! Piccole campate laterali furono impiantate in un secondo momento, forse in conseguenza delle periodiche esondazioni, portando l’intera struttura a una lunghezza complessiva di 30 m circa, con una larghezza di 2,5-3 m e un’altezza di circa 1,6 m.

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CLAM BRIDGE Alla tipologia trilitica appartiene, sia pure per larga approssimazione, il Clam Bridge, ubicato presso il villaggio di Wycoller, nel Lancashire (Inghilterra). La rudimentale passerella sembra risalire all’età del Bronzo ed è stata avanzata l’ipotesi che possa essere coeva del circolo megalitico di Stonehenge. Il ponte propriamente detto è costituito da un monolito lungo una decina di metri, poggiato su rozze spalle ricavate sulle opposte rive.

PONTE DI KARZAMA Il piccolo ponte di Kazarma, o di Arkadiko, è uno dei quattro esistenti di fattura micenea ed è un rarissimo esempio di struttura a pseudo-arco, risalente perciò all’età del Bronzo. Si trova nelle adiacenze della strada fra Tirinto ed Epidauro, un’arteria militare di rilevante importanza, sulla quale garantiva il transito con gli altri tre. Dal punto di vista dimensionale ha una lunghezza di 22 m circa, per una larghezza di circa 5,5 m alla base con un’altezza di 4 m circa. Fu eretto in opera megalitica, la stessa che si può vedere impiegata nelle mura di Micene e di Tirinto, con blocchi irregolari tenuti insieme soltanto dalla loro massa. Il ponte è ancora utilizzato.

PONTE DI LAVELLO La tipologia ad arco è testimoniata da un esempio significativo: il ponte pedonale ubicato nella Forra di Lavello, incisa dal torrente Titerno presso Cusano Mutri (Benevento). Risulta difficile stabilirne l’età, ma il ritrovarsi nel territorio interessato dalle guerre sannitiche, lo farebbe risalire al V-IV secolo a.C., epoca peraltro confermata dalla sua struttura ad arco con i conci vagamente cuneiformi. Le dimensioni di questi ultimi oscillano intorno a 1,5 x 0,5 x 1 m, a cui corrisponde un peso di circa 18 quintali: inseriti a secco, sono tenuti insieme dalla compressione esercitata dalla loro massa. La modesta larghezza di questo ponte pedonale è tuttavia compatibile con il trasporto a dorso di mulo e l’opera, nonostante le ricorrenti e rilevanti sollecitazioni sismiche – per non dire delle non meno violente delle piene –, non mostra lesioni o segni di cedimento.

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3. PONTI PEDONALI PSEUDO MEGALITICI

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n Gran Bretagna si contano molti ponti pedonali che hanno l’apparenza di antichi ponti megalitici, ma che, in genere, risalgono al Medioevo. Localmente denominati clapper bridge, costituiscono una tipologia residuale che vanta anche esemplari di epoca preistorica, archetipi senza dubbio della successiva produzione. Se ne conoscono nelle brughiere del Devon (Dartmoor ed Exmoor) e tra Snowdonia e Anglesey, Cumbria, Yorkshire e Lancashire. Al pari degli antenati preistorici sono costituiti da spesse lastre piatte, perlopiú di granito o scisto, poggiate sulle opposte rive e sopra macigni intermedi che fungono da pile. La definizione di clapper bridge deriva forse dal termine anglosassone cleaca, con significato di «pila di pietre» oppure di «creare ponti con pile di pietra».

REMINISCENZE DELLA PREISTORIA: I PONTI DI POSTBRIDGE E TARR STEPS Due notevoli esempi di clapper bridge sono quelli di Postbridge, presso Dartmoor (Devon; foto a sinistra), e il Tarr Steps (sulle due pagine). Il primo è costruito con lastre lunghe 4 m circa, per 2 m di larghezza, con un peso medio di 8 tonnellate. Il secondo, molto simile, scavalca il fiume Barle nel Parco Nazionale di Exmoor, nella contea del Somerset. Rappresenta l’esempio maggiore della tipologia, e le sue grandi lastre di pietra formano ben 17 campate, per una lunghezza complessiva di 50 m circa, con un’altezza sull’acqua di 1 m circa. Ogni lastra pesa in media 2 tonnellate e ha un profilo rastremato per opporre una minore resistenza alla corrente.

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4. PONTI PEDONALI MISTI

I

ponti pedonali misti venivano realizzati avvalendosi di due diverse tecniche costruttive, perlopiú megalitica o poligonale per spalle e pile, e lignea per l’impal-

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cato e i parapetti. In seguito, l’impalcato in legno venne spesso sostituito da una volta realizzata in opera cementizia, con parapetto in laterizio o in pietra.


A destra: Cerreto Sannita (Benevento). Il ponte detto «di Annibale».

PONTE DI FABIO MASSIMO Ancora lungo il corso del già citato torrente Titerno, una ventina di chilometri piú a valle del vetusto ponticello denominato «di Annibale» in località Cerreto Sannita (Benevento; vedi foto qui sopra), presso l’abitato di Faicchio si incontra il ponte di Fabio Massimo. L’antica struttura collega le due opposte rive della gola incisa dall’acqua del torrente con un’unica arcata a tutto testo di 12 m circa di corda, la cui chiave si alza a oltre 13 m sopra il suo letto. Ne conseguono piedritti alti, a loro volta, 7 m circa, dei quali, però, solo 3 m sono realmente frutto di un’edificazione vera e propria, poiché le parti restanti sono costituite dalle rocce calcaree contrapposte delle rive, in quel punto piú vicine dell’intero corso. Nei due piedritti, che in effetti fungono da spalle, si ravvisa la componente piú arcaica del ponte. Sono infatti realizzati in opera poligonale della terza maniera, con grossi conci calcarei – la cui dimensione supera spesso i 2 mc –, accuratamente lavorati e posti in opera con altrettanta perizia, ottenendo giunzioni pressoché perfette. Tanto che si presentano ancora oggi integri e non mostrano fessurazioni nella trama connettiva, a dispetto delle violente offese naturali e antropiche, purtroppo ricorrenti negli oltre due millenni di esistenza dell’opera. La concezione originale del ponte, risalente all’epoca sannitica, forse intorno al IV

secolo a.C., contemplava due travi che sorreggono un impalcato con una luce non eccedente i 10 m. Il ponte che invece ci è pervenuto è un rifacimento dei Romani in opera laterizia del periodo repubblicano: la loro superiore tecnologia consentí un incremento della luce, impiantando l’arcata su nuovi piedritti poligonali, configurati a semi-prua per sopportare meglio gli urti dalle piene. Il ponte acquisí cosí la configurazione architettonica prossima all’attuale, con le armille ottenute con una duplice centina di mattoni bipedali e le superfici a esse interne in opera incerta in pietra calcarea bianca. Nella circostanza la sede di transito fu portata a 2,5 m circa.

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5. PONTI DI LEGNO

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nche se di legno, un ponte propriamente detto è reputato tale quando la sua dimensione trasversale consenta, a differenza di quelli pedonali, il transito di almeno un carro, e di due affiancati nelle opere piú grandi, una concezione indispensabile per garantire un traffico veicolare scorrevole sulle strutture piú lunghe. I Romani ne costruirono di varie dimensioni,

progressivamente piú grandi e piú solidi, perfettamente in grado di resistere alle sollecitazioni delle piene. Significativo esempio attuale della categoria è il Ponte Vecchio, meglio noto come Ponte degli Alpini, di Bassano del Grappa (Vicenza), il cui progetto viene attribuito ad Andrea Palladio (1508-1580). Il celebre architetto ricevette l’incarico dopo che, nel 1567, il Brenta aveva spazzato via la struttura precedente, e venne chiamato a occuparsi della ricostruzione dopo aver esaminato la sua interpretazione del ponte di legno fatto costruire da Cesare sul Reno (vedi alle pagine successive), esposta nel trattato I quattro libri dell’Architettura.

Bassano del Grappa (Vicenza). Il Ponte Vecchio (o degli Alpini). La struttura che oggi si può ammirare e percorrere è frutto di ripetuti interventi di ricostruzione, poiché il ponte, la cui prima attestazione risale al XII sec., è stato piú volte distrutto, sia a causa di eventi naturali che per mano dell’uomo.


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CESARE «PONTIFEX MAXIMUS» Nel corso delle guerre contro i Germani, Giulio Cesare fece gettare due ponti sul Reno, rispettivamente nel 55 e nel 53 a.C., anche se nelle fonti si trova menzione solo del secondo, che è dunque divenuto il Ponte di Cesare per antonomasia. Di grande interesse è la tecnica costruttiva, tenendo presente che il Reno risultava all’epoca particolarmente largo e profondo, caratterizzato da una corrente molto rapida che imponeva strutture di notevole robustezza. Il progetto previde perciò una serie di cavalletti formati ciascuno da quattro tronchi, di circa 45 cm di diametro, affiancati in due coppie e uniti superiormente da una trave. Fra un cavalletto e l’altro stavano fissate altre travi, spesse 60 cm circa, sulle quali insisteva l’impalcato che raggiungeva una larghezza di circa 4 m. I tronchi, con un’estremità appuntita, erano di lunghezza variabile a seconda della profondità a cui erano destinati, ma venivano infissi sempre con la stessa inclinazione, mediante battipali. Le quattro gambe dei cavalletti si divaricavano sull’alveo con interasse di 12 m circa, per meglio opporsi alla corrente. Per garantire l’indispensabile elasticità alla struttura, lunga 500 m circa, e formata da ben 56 campate di 8 m, le varie componenti vennero legate fra loro, evitando l’impiego di bandelle e chiodi di ferro, che ne avrebbero indebolito le fibre. Ma ecco come lo stesso Cesare descrisse l’impresa: «Per i motivi indicati Cesare aveva deciso di passare il Reno. Ma un passaggio su navi non era a suo giudizio decoroso per lui e per il popolo romano. Perciò, anche se la costruzione di un ponte si presentava estremamente difficile a causa della larghezza, della vorticosità e della profondità del

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direzione della corrente

fiume, pure stimava di dover fare il tentativo o altrimenti rinunciare al passaggio dell’esercito. Il procedimento da lui adottato fu il seguente. Prendeva delle travi dello spessore di un piede e mezzo, un po’ appuntite alla base e commisurate alla profondità del fiume, e le congiungeva a due a due con un intervallo di due piedi. Per mezzo di magli le fissava saldamente sul fondale, non perpendicolari ma inclinate come una capriata per assecondare la corrente. Analogamente ma in senso opposto e ugualmente separate fra loro ne piantava altre due a una distanza di quaranta piedi alla base ma in senso opposto alla pressione e all’impeto della corrente. Al di sopra delle due coppie poneva altre due travi larghe due piedi, e altrettanto distanti, assicurandole con due arpioni per ogni estremità. Separate e strette in opposta direzione queste travi, il manufatto era cosí solido e cosí concepito nel suo insieme, che quanto piú violentemente si abbatteva l’acqua, tanto piú strettamente si legavano le travi. L’impalcatura veniva poi collegata con l’inserimento di assi e ricoperta di uno strato di travicelli e graticci. Nondimeno a valle del fiume venivano conficcati obliquamente altri pali che come arieti, stando sotto il piano del ponte e

collegati con l’intera costruzione sostenessero la violenza della corrente; altri ancora stavano sopra il ponte, poco distanziati fra loro, perché, se i barbari avessero inviato tronchi o imbarcazioni con l’intento di abbattere la costruzione, la loro protezione attutisse l’urto ed evitasse danni al ponte. In dieci giorni da quando


Disegni ricostruttivi che mostrano la realizzazione di uno dei due ponti sul Danubio fatti costruire da Giulio Cesare nel corso delle campagne militari contro i Germani.

si era cominciato a raccogliere il legname l’opera viene portata a compimento e l’esercito transita» (De bello gallico, lib. IV). Stando a Cesare, il primo dei due ponti fu gettato a Neuwied, presso Coblenza, ed ebbe le connotazioni del tipico ponte militare di circostanza, tanto che venne distrutto al

cessare del bisogno. Non cosí il secondo che, ovviamente, si avvalse dell’esperienza maturata: gettato nei paraggi di Urmitz fu presidiato da una grossa torre, impiantata alla sua testa. Minacciato dalle incursioni nemiche, oltre che dalla furia delle acque, lo si deve supporre molto piú robusto del precedente. Purtroppo, però, Cesare, che si professava comandante del genio, nei suoi scritti evitava di fornire i dettagli tecnici, ritenendoli secondari rispetto alla logica della rievocazione, per cui le caratteristiche strutturali di quei suoi ponti si possono solo ragionevolmente ipotizzare. E che divennero perciò una sfida per numerosi ingegneri rinascimentali tra i quali Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci.

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6. PONTI IN PIETRA

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ponti di questa tipologia furono realizzati con conci cuneiformi, identici a quelli impiegati negli archi, salvo che per la larghezza, che doveva essere ben maggiore, in pratica pari alla sovrastante sede stradale. Dopo essere stati accuratamente tagliati, venivano posti in opera a secco, facendoli aderire

In basso: Cáceres (Spagna). I resti del ponte di Alconétar, trasferiti dalla loro collocazione originaria sul Tago affinché non fossero sommersi dal bacino artificiale creato dalla diga sull’Alcántara.

ALCONÉTAR: L’ERRORE DI APOLLODORO Realizzato su probabile progetto di Apollodoro di Damasco, quello di Alconétar, in Spagna, è il solo ponte romano con archi a sesto ribassato sul Tago. Nel 1969, la costruzione della diga dell’Alcántara ne minacciò la sopravvivenza, poiché sarebbe stato sommerso dalle acque del bacino artificiale che si sarebbe creato e cosí, nel 1970, il ponte fu smontato e ricostruito lontano dal fiume, nei pressi di Cáceres. Reputando attendibile l’accennata paternità, il ponte risalirebbe al II secolo. Si compone di grossi conci cuneiformi, posti in opera a secco e perfettamente aderenti fra loro, con l’imposta obliqua ricavata nelle spalle. Il principale vantaggio fornito dalla minor luce e dal ribassamento degli archi va ricercato nella riduzione della pendenza delle rampe, espediente adottato per favorire il traffico dei carri: l’aggiogamento per il collo dei cavalli, infatti, imponeva pendenze minime per evitare di strangolarli. Tuttavia, la scelta di farlo insistere su 16 arcate, ciascuna con una luce di appena 7 m, creava, per l’eccessiva vicinanza delle pile, un serio ostacolo al deflusso della corrente, nonostante il profilo triangolare della loro base verso monte. Le piene che trasportavano grossi tronchi finivano per creare vere e proprie dighe, con esiti disastrosi. E fu forse questa la causa delle ripetute distruzioni del ponte, che un evento piú rovinoso del solito fece crollare definitivamente, lasciando a testimonianza della sua esistenza soltanto quattro arcate. Il ponte doveva avere una lunghezza di 300 m, con una larghezza della sovrastante sede stradale di 6,5 m circa: si trattava quindi di un’opera di notevole rilevanza civile e militare.

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PONTE MALLIO: L’ADERENZA PERFETTA Il Ponte Mallio trae il suo nome dal prefetto M. Allius, a cui ne viene attribuito il restauro, e fu forse uno dei monumenti romani piú imponenti visibili lungo la via Flaminia in prossimità di Cagli, in provincia di Pesaro e Urbino nelle Marche. La sua costruzione risale all’età repubblicana e sebbene sia ancora in parte interrato e abbia subito gli effetti del catastrofico terremoto del 1781, le sue condizioni di conservazione appaiono buone. L’arcata centrale è formata da 21 conci cuneiformi, sormontati da una cornice in aggetto che funge da cordolo: la loro posa in opera è a secco, con perfetta aderenza.


reciprocamente senza alcun legante. La costruzione si avvaleva di un’apposita cassaforma, fatta perlopiú da uno spesso tavolato inchiodato su due centine e poggiata su sporti di pietra che fuoriuscivano dai piedritti, appena al di sotto del piano d’imposta. La costruzione dell’arco si avviava dai due estremi

della cassaforma e la stabilità veniva assicurata dalla posa della chiave che, serrando l’intera struttura, consentiva a quel punto di rimuovere i puntelli e la cassaforma. Gli archi erano generalmente a tutto sesto, ma non di rado si fece ricorso anche a quelli a sesto ribassato, soprattutto per le grandi luci. a r c h e o 97


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7. PONTI IN PIETRA E CALCESTRUZZO

U

na delle piú importanti tecniche costruttive dei Romani, spesso ritenuta una loro peculiare invenzione, fu il calcestruzzo, calcis structio. La sua origine, invece, probabilmente fu greca, sebbene l’ingrediente principale, la pozzolana, abbondasse presso la cittadina di Pozzuoli. Dal punto di vista mineralogico si trattava di una deiezione vulcanica costituita da piccoli grani: impastata con la calce formava una malta che, indurendosi, acquisiva la stessa consistenza della pietra, ottenendo un conglomerato simile al moderno cemento armato. La caratteristica piú importante del calcestruzzo, oltre alla capacità di rapprendersi sott’acqua, era la sua saldezza, al punto che una cupola, una volta o un arco divenivano dopo il suo indurimento altrettanti monoliti. I paramenti dell’estradosso, in pietra o in mattoni, che fungevano da cassaforma durante il getto, dopo quella iniziale prestazione statica ne conservavano soltato una estetica. Per questa sua potenzialità si rivelò presto la tecnica ideale per la costruzione dei ponti, consentendone alcuni di enormi luci come quello di Saint-Martin, presso l’omonimo abitato della bassa Val d’Aosta.

PONTE DI SAINT-MARTIN: LA POTENZA DEL CALCESTRUZZO Il ponte venne costruito non lontano dalla confluenza tra il Lys e la Dora Baltea, e costituiva un elemento nodale della strada romana delle Gallie che, biforcandosi all’altezza di Aosta (Augusta Praetoria Salassorum), si dirigeva verso il Grande e il Piccolo San Bernardo. Il ponte di Saint-Martin è una colossale struttura romana a campata unica, costruita con 71 conci di pietra di 1 m circa di spessore, pari perciò alla soletta che racchiudono, perfettamente aderenti fra loro. L’arco non è a tutto sesto, ma ribassato tanto che il suo centro si trova quasi 6 m al di sotto dell’imposta, che conserva ancora ben evidenti i grossi sporti di pietra utilizzati per collocare la cassaforma durante la sua costruzione. Le spalle sono in opera incerta, con spessi corsi lapidei, e distano fra loro 35 m al piano dell’imposta. Incerta è la data di costruzione del ponte, che potrebbe essere stata avviata sul finire del I secolo a.C., quando Augusto, all’indomani dell’annessione di Aosta, volle riqualificarne la viabilità. Pervenutoci in ottimo stato, il ponte andò a sostituirne uno piú antico di circa un secolo, probabilmente perché reputato poco affiadabile per l’ancora non matura padronanza del calcestruzzo. La prudenza dei costruttori è giustificata dall’arditezza del ponte, la cui longevità, a sua volta, è prova della loro indubbia competenza. Con la corda di 35 m circa, lo spessore della soletta di appena 1 m, la sede stradale di 5,8 m senza i parapetti e 4,6 netti, e con un’altezza di oltre 13 m dai piedritti al parapetto, il ponte di Saint-Martin è una testimonianza straordinaria delle potenzialità del calcestruzzo.

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8. GRANDI PONTI IN PIETRA E LEGNO

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ebbene il criterio informatore dei ponti costruiti con la travata in legno e i piedritti in pietra fosse tra i piú antichi, quando Traiano volle costruire un colossale ponte sul Danubio fu quella la tecnica utilizzata. La novità consistette semmai nell’utilizzare le grosse travi di legno per formare le robuste arcate, con all’imposta la corda di una trentina di metri, sulle quali fu posto l’impalcato. Un’opera che eccedeva il chilometro di lunghezza necessitava di colossali piloni intermedi che, con avanzate procedure, vennero costruiti senza deviare il corso del fiume. La loro poderosa struttura avrebbe potuto sopportare senza difficoltà arcate in calcestruz-

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Calco di un particolare del fregio della Colonna Traiana raffigurante l’imperatore che celebra sacrifici nei pressi del ponte da lui fatto costruire sul Danubio. Roma, Museo della Civiltà Romana.

zo, di gran lunga piú longeve di quelle in legno. E una luce del genere era stata superata senza gravi problemi in molti ponti in calcestruzzo, come quello di Saint-Martin: perché si optò allora per una simile soluzione, intrinsecamente di breve durata? La risposta tradisce la strategia del momento: il grande ponte era pur sempre una struttura militare e, in quanto tale, doveva consentire in qualsiasi momento la sua interruzione, per evitare possibili invasioni nemiche.


IL PONTE DI TRAIANO Tra le città di Drobeta, in Romania, e Kladovo, in Serbia, scorre il Danubio e proprio in quei paraggi fu costruito, tra il 103-105, il ponte romano piú grandioso, voluto dall’imperatore Traiano e progettato dal suo celebre ingegnere Apollodoro di Damasco. Tra le motivazioni della colossale struttura, stando a Cassio Dione, preminenti erano quelle logistico-militari, trattandosi di realizzare un’ampia via di approvvigionamento per le legioni impegnate nella guerra dacica. Che l’opera fosse reputata anche all’epoca di straordinaria rilevanza lo dimostra la sua raffigurazione in una scena della Colonna Traiana. Stando ad alcune fonti, per costruire i piloni, non potendosi deviare il Danubio, si dovette ricorrere alla tecnica dei cassoni, cosí descritta peraltro da Vitruvio: «Si conficcheranno nel luogo stabilito doppie casse ben congiunte con tavole, e ben incatenate, e fra le dette due casse si calchi della creta dentro corbe fatte di Sala palustre. Quando si sarà ben calcata, anzi assai densamente ammassata, allora con trombe, ruote e timpani, si vuoti, e si dissecchi il luogo circoscritto dalle dette casse, ed ivi si cavino le fondamenta. Se il fondo è terroso si cavino fino al sodo, e siano piú larghe del muro che vi si dovrà costruir sopra, e si lascino bene asciugare: indi si riempiano di fabbrica con piccole pietre, calcina ed arena. Ma se il fondo sarà di terreno fangoso, allora vi si faccia la palafitta con pali abbrustolati di olmo, o di olivo, o di quercia, riempiendo di carboni i vuoti che rimangono, siccome è stato insegnato per i fondamenti ed i muri dei Teatri. Dipoi s’innalzi il muro con pietre riquadrate, e collegate quanto piú al lungo si può, affinché specialmente le pietre di mezzo con codeste connessioni restino ben salde. La parte interiore di questo muro si potrà riempiere o di calcinaccio o di fabbrica e cosí a questo modo vi si potrà innalzar sopra anche una torre» (De architectura V, 2). La distruzione del celebre ponte fu imputata all’imperatore Aureliano, 214-275, per stringenti motivazioni tattiche, conseguenti alla rinuncia alla provincia dacica e al ritiro delle relative forze di presidio. In altri termini, per paura di un’invasione, la stessa che lo stimolò a cingere Roma con poderose mura. Per Procopio, però, furono la furia delle acque e il trascorrere del tempo, senza una adeguata manutenzione, a provocarne la distruzione, favorita certamente dall’essere l’intera sovrastruttura di legno, la cui durata alle intemperie non è particolarmente lunga. Cosí le sue parole: «Mostrandosi l’imperadore Traiano, principe di gran mente, e sommamente operoso, insofferente che l’Impero ivi non avesse termine, ma fosse finito per fatto dell’Istro [Danubio], pensò di

Kladovo (Serbia). Resti del ponte sul Danubio costruito per volere dell’imperatore Traiano su progetto di Apollodoro di Damasco. congiungere le due sponde mediante un ponte, onde liberamente passare quante volte volesse assalire i Barbari stanzianti di là. Come poi costruisse quel ponte io non mi affaticherò a dirlo: tocca a descriverlo ad Apollodoro damasceno, che fu l’architetto di tanta opera. Ma niun conforto ne provenne poi ai Romani, perché e per la forza dell’Istro, e per quella del tempo, quel ponte cadde. Traiano intanto avea piantati due castelli sopra entrambe le rive: quello che era sulla riva opposta fu chiamato di Teodora; e l’altro posto nella Dacia, con nome latino fu detto Ponte. E perché pei rottami, e i fondamenti del ponte il fiume soffre impedimento da rendersi affatto innavigabile, vien costretto a mutar corso; indi a ritornare nel suo alveo, e a sostenervi le

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SPECIALE • PONTI ROMANI

navi. Per antichità ed opera de’ Barbari ruinati i due castelli, Giustiniano Augusto con nuova e robustissima fabbrica rifece quello chiamato il Ponte posto sulla sponda destra; e mise da quella parte in sicuro gl’Illirii. Quello poi di Teodora, che era sulla sponda sinistra, trascurò, come quello che era esposto ai Barbari colà stanziati» (Procopio, De aedeficiis, cap. VI). Diverso è il discorso per i pilastri di pietra che, intorno alla metà del XIX secolo, erano ancora perfettamente visibili, soprattutto dopo che una eccezionale magra aveva abbassato il livello del fiume. Nel 1906, constatando i rischi che quei ruderi semisommersi creavano alla navigazione ne fu decretata la parziale demolizione. Ciononostante, agli inizi degli anni Trenta si potevano ancora riconoscere 16 piloni sotto il livello medio del Danubio, che si ridussero a 12 sul finire del secolo e a soli 7 nel 2003, quando fu condotta una ricognizione subacquea. Una descrizione del ponte, completa delle probabili cause della sua parziale distruzione, si può leggere in In questa pagina: ancora due calchi di altrettanti particolari del fregio della Colonna Traiana. Roma, Museo della Civiltà Romana. In alto, un segmento del ponte sul Danubio; a sinistra, la lavorazione del legname impiegato nella costruzione dell’opera. Nella pagina accanto: disegno ricostruttivo che mostra il cantiere per la realizzazione del ponte sul Danubio.

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Estradosso arcata Spalla Archivolto

Intradosso arcata

Carreggiata

Parapetto

Centina

Cappuccio Rostro Pali di Fondazione

Cassio Dione: «Traiano fece costruire un ponte di pietra sull’Istro [Danubio] per il quale non posso degnamente esprimere la mia meraviglia. Questo era infatti rispetto alle altre opere meravigliose promosse da Traiano, quella che le superava tutte. Infatti è composto da venti piloni di blocchi in pietra squadrati, per un altezza di centocinquanta piedi [45 m circa] senza contare le fondamenta, mentre la larghezza è di sessanta piedi [18 m circa]. Questi piloni che distavano l’uno dall’altro centosettanta piedi [51 m circa], erano uniti da archi. Chi non proverebbe stupore per la spesa fatta per questa costruzione? E come d’altronde non meravigliarsi del modo stesso in cui ciascun pilone sorgeva, in un grande fiume, in mezzo ad una corrente piena di gorghi e su un fondale molto melmoso? Infatti non fu possibile deviare il corso del fiume. Ho parlato della larghezza del fiume, ma essa non è sempre uguale, anzi qualche volta si raddoppia o si triplica, fino a parere un mare, ma anche il punto piú stretto e piú adatto a un ponte, è larghissimo. In verità quanto piú nella sua discesa da una grandezza pari a quella di un mare si restringe in una gola [le Porte di Ferro] per poi nuovamente fluire piú grande del mare stesso, tanto piú diventa impetuoso e profondo, cosí che anche questo particolare spiega l’estrema difficoltà per la costruzione del Ponte. L’altezza di

ingegno di Traiano risulta evidente anche da questa impresa. Tuttavia ai nostri giorni il Ponte non offre alcuna utilità, poiché si ergono sul fiume senza alcuna funzione, i soli piloni, non offrendo cosí alcuna possibilità di transito, quasi che esistessero soltanto per mostrare che non vi è nulla che l’uomo non possa fare. Infatti Traiano temendo che l’Istro in qualche periodo dell’anno si potesse congelare e che quindi la guerra dovesse essere condotta dai Romani al di là di esso, fece costruire il ponte affinché il passaggio risultasse facilitato proprio grazie alla sua presenza. Ma Adriano temendo che per i barbari, una volta sgominate le guarnigioni a presidio del ponte, fosse molto facile passare in Mesia, fece rimuovere la sovrastruttura di quest’opera» (Storia romana, LXVIII, 13.1-2). Dal punto di vista strutturale il ponte, del quale sopravvivono i ruderi delle opposte testate, era lungo 1135 m, in un punto dove il fiume si attestava sugli 800 di larghezza. L’altezza dell’impalcato sul livello medio dell’acqua era pari a 18 m circa, 12 dei quali relativi alle arcate e 6 alla parte emersa dei piloni. L’impalcato a sua volta aveva una larghezza di 15 m circa, sorretto da una struttura di notevole resistenza. La natura prioritariamente militare del ponte era sottolineata dalle due fortificazioni erette alle sue estremità.

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QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

...TORNÒ ALLA VITTORIA CONTRO GLI «INVASORI» CARTAGINESI LE SCONFITTE PATITE PER MANO DI ANNIBALE NEL CORSO DELLE GUERRE PUNICHE MINARONO LA SUPREMAZIA CHE ROMA SI STAVA RITAGLIANDO NEL MEDITERRANEO. FINO A CHE, PROVVIDENZIALE, NON GIUNSE IL TRIONFO OTTENUTO SUL FIUME METAURO

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ell’estate dell’anno 207 a.C., quando a Roma si sparse la notizia che alcuni messaggeri stavano arrivando lungo la via Flaminia per riferire sull’esito della battaglia appena combattuta contro i Cartaginesi sulle rive del Metauro, nelle Marche, una gran folla impaziente uscí dalle mura e corse fino al Ponte Milvio. Qualcuno aveva già parlato di vittoria, ma, dopo tante sconfitte, l’incredulità era diffusa. All’annuncio ufficiale che l’esercito cartaginese di Asdrubale, venuto in Italia per portare aiuto ad Annibale ridotto

alla difensiva all’estremità della Calabria, era stato annientato, le grida di giubilo si levarono alte nel cielo. E fu un ritorno in città come per un trionfo, mentre il Senato proclamava tre giorni di preghiere e di ringraziamenti agli dèi. Finiva un incubo che durava da piú di dieci anni: Annibale a scorrazzare per l’Italia, nemmeno una famiglia senza il lutto per un caduto, il Ticino, la Trebbia, il Trasimeno e soprattutto Canne, una batosta dopo l’altra, appena compensate dai successi che il giovane Scipione aveva conseguito contro i Cartaginesi in Spagna. Allorché si seppe che

Un’ostilità secolare 814 a.C. Data tradizionale della fondazione di Cartagine.

480 I Cartaginesi vengono sconfitti a Imera da Gerone di Siracusa.

238 I Cartaginesi cedono ai Romani la Corsica e la Sardegna.

600 I Focesi emigrati dall’Asia Minore fondano Marsiglia e sconfiggono i Cartaginesi in mare.

405 I Siracusani riconoscono in un trattato i possedimenti punici in Sicilia.

228 Il cartaginese Amilcare Barca inizia la conquista della Spagna.

540 Cartaginesi ed Etruschi vincono i Greci ad Alalía, in Corsica.

264-241 Prima guerra punica; con il trattato di pace Roma costringe Cartagine ad abbandonare la Sicilia.

221 Annibale, figlio di Amilcare, succede ad Asdrubale, morto assassinato.

509 Primo trattato commerciale tra Romani e Cartaginesi.

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241 Vittoria romana alle isole Egadi.

219 Annibale espugna Sagunto: l’evento causa lo scoppio della seconda guerra punica.


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LA SECONDA GUERRA PUNICA (218-202 A.C.) Roma e i suoi alleati all’inizio della guerra

Territori persi da Cartagine dopo la guerra

Cartagine e i suoi domini all’inizio della guerra

Territorio controllato da Annibale e città sue alleate (216 a.C.)

Territori in rivolta contro Roma

Basi e piazzeforti romane

proprio dalla Spagna, Asdrubale, sfuggito a Scipione, era partito alla testa di un esercito per portare aiuto al fratello con una nuova invasione dell’Italia, sembrò che tutto dovesse ricominciare daccapo, fino all’inevitabile disastro finale. Era la primavera del 207 a.C., Asdrubale portava con sé 30 000 uomini e una trentina

218-217 Annibale sconfigge i Romani presso il Ticino e al lago Trasimeno. I Romani affidano le operazioni militari al dittatore Quinto Fabio Massimo, detto il Temporeggiatore. 216 A Canne, in Puglia, Annibale riporta una vittoria schiacciante sui Romani e i confederati italici; vengono stipulati trattati con Capua e altre città italiane. 209 Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano,

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Spedizione di Asdrubale (208-207 a.C.)

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Spedizione di Magone (206-203 a.C.)

COLONIE FEDELI A maggio era nella Pianura Padana, dove tentò inutilmente d’impadronirsi di Piacenza, isola di resistenza romana, insieme a

conquista Cartagena, in Spagna. 207 Asdrubale accorre in Italia in aiuto dei Cartaginesi, ma viene sconfitto e ucciso nella battaglia del Metauro. 202 Scipione l’Africano vince i Cartaginesi a Zama. 149-146 Terza guerra punica, vinta da Scipione Emiliano.

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203

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Spedizione di Annibale (219-202 a.C.) e vittorie cartaginesi (con data)

di elefanti. Passò le Alpi, evitando le enormi difficoltà che Annibale aveva incontrato sul finire dell’autunno.

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Azioni e vittorie romane (e data) Spedizione di Scipione l’Africano in Spagna (210-206 a.C.) e in Africa (204-202 a.C.) Spedizione fallita di Filippo V di Macedonia in aiuto di Annibale (214 a.C.)

In alto: l’assetto geopolitico della regione mediterranea all’inizio della seconda guerra punica, con i territori controllati da Roma e Cartagine. Nella pagina accanto: piatto raffigurante un elefante in assetto da guerra, dalla necropoli delle Macchie, Capena. III sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

Cremona (le due colonie fondate, nel 218 a.C., proprio alla vigilia dell’invasione annibalica), mentre riuscí invece ad arruolare altri soldati, tra cui 8000 Liguri e molti Galli delle tribú padane. Quindi, inviò due distinti drappelli di messaggeri al fratello per concordare i tempi e i modi del loro incontro e del congiungimento dei rispettivi eserciti, a «mezza strada», in Umbria, per poter poi infliggere a Roma il colpo di grazia.

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I Romani dovevano impedire a ogni costo l’incontro tra i due fratelli e affidarono il compito ai due consoli in carica, Caio Claudio Nerone e Marco Livio Salinatore. Lo sforzo fu ancora una volta notevole e, al tempo stesso, nuovamente prodigioso. Furono messe insieme ventitré legioni, con circa 150 000 uomini: alcune furono destinate alle operazioni e ai presidi in Spagna, in Sicilia e in Sardegna, due alla riserva, dodici furono assegnate, sei per ciascuno, ai due consoli mandati a fronteggiare, separatamente, i due fratelli cartaginesi e a impedire che essi unissero le loro forze.

L’ATTENDISMO DEI COMANDANTI Livio Salinatore si diresse contro Asdrubale, che raggiunse nella valle del Metauro, il fiume che finisce in Adriatico a Fano. La consistenza dei due eserciti, romano e cartaginese, era pressappoco pari, ma nessuno dei due comandanti dette ordine di muovere contro l’altro. Asdrubale, in particolare, non ne aveva alcuna intenzione, in attesa com’era di ricevere notizie dal fratello. Queste però non gli giunsero mai, essendo stati tutti i suoi messaggeri intercettati dai Romani che appresero in tal modo i suoi disegni, mentre Annibale ne restava all’oscuro. Fu cosí che il console Nerone, che fronteggiava Annibale in Puglia, tra Venosa e Canosa, poté concepire e mettere in atto l’ardito e rischioso piano di unire lui le sue truppe a quelle di Livio Salinatore, per affrontare con maggiori prospettive di successo l’esercito piú numeroso e piú fresco di Asdrubale. Il suo fu un autentico capolavoro: fece sapere al collega di attenderlo senza muoversi, avvisò il Senato che avrebbe lasciato la sua «provincia», ossia la zona di operazioni che gli era stata assegnata (e che non avrebbe dovuto abbandonare, tanto meno

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per «invadere» quella dell’altro console, senza autorizzazione che comunque non attese); soprattutto, formò con i suoi legionari una colonna veloce e gagliarda di 7000 fanti e 1000 cavalieri, alla testa della quale – senza che Annibale se ne avvedesse –, compí una marcia di trasferimento lungo la costa adriatica rimasta celebre e insuperata. Camminando di giorno e di notte, diciotto ore su ventiquattro, in dieci giorni percorse circa 300 miglia e, alla fine di giugno, rinforzato da qualche migliaio di volontari raccolti durante il cammino, raggiunse Senigallia, dov’erano acquartierate le legioni di Livio Salinatore. I nuovi arrivati furono accolti di notte, senza che nessuno, intorno, potesse accorgersi della loro venuta.

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LA FINE DI UNA LUNGA «AVVENTURA»

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UNO SCONTRO CRUENTO Due giorni dopo fu deciso di attaccare Asdrubale, il quale, sempre in attesa che i Romani muovessero per primi, se ne stava accampato sulla riva sinistra del Metauro. Soltanto quando i Romani si furono schierati sulla riva opposta del fiume egli s’accorse che la situazione era cambiata, che il nemico era notevolmente cresciuto di numero e che, di fronte, aveva entrambi i consoli. Allora pensò di sganciarsi, risalendo il fiume alla ricerca di un guado per riprendere la marcia verso l’Umbria, dove continuava a sperare di incontrare il fratello. Ma cosí dette modo ai Romani di passare a loro volta, indisturbati, sulla riva sinistra del Metauro quando il suo esercito non era ancora riuscito a lasciarla. Lo scontro fu, alla fine, inevitabile. La battaglia infuriò subito accanita. I legionari di Livio erano al centro e sull’ala sinistra dello schieramento romano e avevano di fronte Cartaginesi e mercenari Liguri e Iberici. Nerone, con i suoi, era sull’ala destra a fronteggiare i Galli.

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prevalere e, mentre Asdrubale s’accingeva a tentare l’aggiramento dello schieramento romano con la cavalleria (come avrebbe fatto il ben piú abile ed esperto fratello), fu invece Nerone a mettere in atto la mossa risolutiva. Lasciata una piccola parte dei suoi uomini a tenere a bada i Galli che s’erano arroccati su una collina, con il grosso delle truppe passò dietro le linee romane e attaccò di fianco, dalla parte del fiume, lo schieramento nemico che fu sorpreso e sbaragliato. I Cartaginesi morirono in gran numero, combattendo, compreso Asdrubale che, vista perduta la partita, aveva cercato disperatamente la morte gettandosi nella mischia.

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In alto: schemi che riassumono lo svolgimento della battaglia combattuta nel 207 a.C. sul fiume Metauro. Nella pagina accanto: Annibale riconosce la testa di suo fratello Asdrubale, olio su tela di Giovan Battista Tiepolo. 1728-1730. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Gli elefanti (la decina che erano sopravvissuti agli stenti e alle difficoltà della traversata delle Alpi), come al solito, furono presto d’impaccio a entrambi i contendenti, sicché i loro stessi conducenti si risolsero ad abbatterli. Il corpo a corpo fu tremendo, ma nessuno riusciva a

Era la prima grande vittoria dei Romani in campo aperto sui Cartaginesi invasori, mentre correva il dodicesimo anno di guerra. Ma non si poteva perdere altro tempo. Il giorno dopo, la colonna di Nerone – raddoppiata con i legionari di Livio – si rimise in marcia per il ritorno e, a meno di un mese dall’aver lasciato i suoi accampamenti, fu nuovamente di fronte ad Annibale il quale, nel frattempo, s’era lentamente spostato verso nord, forse senza nemmeno essersi accorto della partenza del console nemico. Seppe invece chiaramente della fine del fratello e dell’esercito amico che doveva raggiungerlo, quando vide con raccapriccio rotolare ai suoi piedi la testa di Asdrubale che Nerone aveva portato con sé e che un cavaliere romano aveva lanciato nel suo accampamento come inequivocabile segno e lugubre messaggio. A quel punto, il Cartaginese capí che con Roma non ce l’avrebbe mai fatta e che, intanto, la sua lunga «avventura» italiana era arrivata alla fine.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

TUTTI FIGLI DELL’EROE LA MITICA DISCENDENZA DEL POPOLO ROMANO DA ENEA FU SFRUTTATA IN CHIAVE PROPAGANDISTICA ANCHE IN EPOCA IMPERIALE. COME PROVANO ALCUNE EMISSIONI DELL’ETÀ ANTONINA

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e risultava plausibile accreditare la notizia che nelle vene di Giulio Cesare scorresse la divina linfa degli dèi sempiterni in quanto discendente di Venere ed Enea per diretta linea genealogica, piú difficile era fare altrettanto per gli imperatori che si avvicendarono nei secoli alla guida di Roma, i quali non potevano vantare lo stesso sangue del dittatore. Il principio adottivo e le variegate e spesso drammatiche vicende delle dinastie imperiali portarono a celebrare nell’iconografia monetale Enea quale capostipite del popolo latino e il cui figlio, Ascanio-Iulo, avrebbe poi fondato Albalonga e la gens Iulia. Da qui la tradizione virgiliana si innesta sul mito della

In alto: quadretto ad affresco che rappresenta la fuga da Troia in chiave caricaturale: Enea, Anchise e il piccolo Ascanio hanno corpi umani, ma teste canine, coda e lunghi falli, forse da Stabia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. A sinistra: rovescio di un aureo di Antonino Pio, con il gruppo di Enea, Anchise ed Ascanio. 140-143 d.C. Lupa Capitolina e della fondazione romulea, in quanto Rea Silvia, figlia del re di Albalonga Numitore (e quindi legata ad Ascanio) partorí i divini gemelli concepiti con Marte, anche se in alcune

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tradizioni i gemelli sono considerati figli o nipoti addirittura di Enea (Plutarco, Romolo). Cosí le narrazioni mitiche e poetiche che vedono protagonisti Enea e Romolo si unirono in un’unica vicenda lineare, adeguatamente


propagandata e diffusa anche sul fronte dell’iconografia monetale. Tra le serie dedicate a Enea in età imperiale, dopo le emissioni di Cesare e Ottaviano con protagonisti l’eroe e il padre Anchise, si assiste, dall’età antonina, all’introduzione nel gruppo in fuga del piccolo Ascanio, che completa il quadro e la stirpe familiare in linea maschile. Da quest’epoca in poi il tipo monetale sarà sempre questo: Enea porta in spalla il padre e ora tiene per mano il figlio.

COME UN PONTEFICE Enea e Anchise sono abbigliati «alla romana», il primo con abito militare e il secondo completamente ammantato come un pontefice con la testa velata e tiene in grembo la cista con i sacra pignora, gli oggetti piú venerabili salvati dalle fiamme di Troia e giunti infine a Roma, dove verranno custoditi nel Tempio di Vesta. Soltanto il piccolo Iulo veste secondo la consuetudine della patria d’origine, alla «troiana», ovvero con braghe, lungo La scenetta con la fuga di Troia in chiave caricaturale in una delle tavole realizzate per l’opera di César Famin Musée royal de Naples, peintures, bronzes et statues érotiques du cabinet secret (Parigi, 1836).

camiciotto, mantellina e berretto frigio; nella destra tiene un bastoncino da pastore ricurvo, il lagobolon o pedum, dato che anche la pastorizia rientrava tra le attività appannaggio dei nobili troiani del XIII secolo a.C. Questo gruppo familiare conobbe larghissima fortuna e diffusione nel mondo antico romano, ricorrendo, insieme ad altri momenti delle vicende di Enea, nella statuaria, nelle terrecotte di piccolo formato, nelle decorazioni plastiche, nella glittica, nei mosaici e negli affreschi pompeiani. L’episodio era talmente celebre e conosciuto da divenire anche oggetto di satira (almeno a una prima lettura di occhi profani): si pensi al «quadretto» proveniente da Stabia dove i tre protagonisti in fuga da Troia hanno il corpo umano, ma presentano teste canine, la coda e lunghi falli. Non si conosce il luogo preciso del ritrovamento di questo frammento di affresco, staccato

dal piú esteso complesso decorativo di una ignota domus stabiana o del territorio limitrofo, scavata probabilmente intorno agli anni Sessanta del XVIII secolo.

UNA COMMEDIA SCOMPARSA? Non è facile oggi cogliere il motivo di questa dissacrante raffigurazione, che poteva forse avere un intento polemico che ci sfugge: tuttavia, essa denota comunque la familiarità dell’immagine, immediatamente percepita e riconosciuta da chi osservava l’affresco. Piuttosto che una sacrilega raffigurazione di personaggi annoverati tra gli avi piú sacri di Roma, e quindi sintomo di una presa di posizione politica che mirava a mettere in ridicolo la gens Iulia e i suoi discendenti, questo unicum figurativo è stato letto (Amedeo Maiuri) come la riproposizione sintetica di una scomparsa commedia popolare, una farsa scenica sulla tradizione dei personaggi buffoneschi delle satire atellane, dove i protagonisti «alti» del mito e dell’epopea sono appunto caratterizzati da evidenti attributi sessuali e volti caricaturali, dissacranti sí, ma inseriti in una corrente letteraria molto apprezzata e bonariamente buffonesca. Non mancano numerose altre interpretazioni della scenetta, che addirittura vi vogliono leggere una celebrazione mitica connessa ai Lari, ai quali i cani erano sacri. Quale che sia stata la volontà di chi volle questa immagine nella sua casa, essa è segno, ancora una volta, della grande diffusione, in ogni strato sociale e culturale, dell’Eneide virgiliana e dei suoi protagonisti.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Emanuele Papi

PIETRE DELLO SCANDALO 11 avventure dell’archeologia Laterza, Bari-Roma, 166 pp. 16,00 euro ISBN 978-88-581-2984-5 www.laterza.it

Per gli antichi Greci lo «scàndalon» era l’ostacolo che si poteva incontrare sul cammino. Oggi in molte città europee quell’impedimento ha preso l’aspetto delle «pietre d’inciampo», che ricordano nelle nostre strade lo scandalo degli stermini del Novecento. Ma nel mondo romano si identificava con quella pietra presso la quale si lanciavano vituperi contro i debitori o i commercianti disonesti esposti a una pubblica umiliazione. Anche Gesú – diceva l’apostolo Pietro (1 Pietro, 2) – poteva essere una pietra dello scandalo, oggetto di insulti e vituperi, ma anche, per chi sapeva

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intenderne la natura, una pietra preziosa. È forse questa doppia immagine, che l’archeologia porta con sé, che ha ispirato il titolo di questo libro delizioso, che dobbiamo a Emanuele Papi, l’attuale direttore della prestigiosa Scuola archeologica italiana di Atene. Una immagine doppia, che muta nel tempo e nello spazio e a seconda degli occhiali con cui la osserviamo. «Le rovine antiche – osserva Papi – non sono beni eterni e universali, ma hanno un valore intermittente, che aumenta o diminuisce a seconda dei punti di vista e dei tempi». Palmira, per esempio, rappresentava per il mondo della cultura e del turismo internazionale un esempio raro di multiculturalità, un luogo fascinoso dove il tempo era trascorso portando con sé le tracce monumentali quasi intatte di un passato remoto; per i miliziani dell’ISIS era un nemico da decapitare, come Khaled al-Asaad, il suo martire angelo custode. Siamo dunque noi, rappresentanti del flusso delle generazioni umane, che carichiamo di valori nostri le rovine degli edifici sorti per tutt’altri motivi, o di disvalori, a seconda del mutuo prevalere del desiderio di conoscenza e dialogo o di sopraffazione e violenza. Di questo siamo ormai consapevoli: le rovine archeologiche non sono un bene in sé,

sono cariche del senso che noi gli diamo, un senso anche conflittuale, che le pone sul palcoscenico del mondo per far dire loro alcune cose e il loro contrario. Per questo parliamo di archeologia pubblica, di un uso «pubblico» della storia attraverso i resti archeologici, che di volta in volta si colora delle tinte rosa della condivisione o di quelle grigie della mistificazione. Non a caso una delle 11 «avventure dell’archeologia» che costituiscono altrettante pietre, è dedicata nel libro alla storia multiforme degli obelischi egiziani e del loro trasporto a Roma. Ultimo fra questi quello nubiano di Axum, trasferito tra mille ostacoli dal suo antico santuario fino alle pendici del colle Aventino come «preda dei vinti» al tempo della guerra fascista all’Etiopia. Obelisco restituito dall’Italia qualche anno fa, dopo che assai prima era stato restituito il Leone di Giuda, sottratto alla stazione di Addis Abeba, preda di guerra assai poco archeologica, dal momento che – racconta Papi – il bronzo «non era un prodotto autentico, ma un regalo fatto al Negus nel 1929 da una società francese di ferrovie» (ma i simboli, si sa, non hanno età). A volte la rovina archeologica diventa addirittura lo specchio di una nazione. Sappiamo

come la Grecia moderna, sin dalla sua nascita come Stato libero, abbia visto nell’Acropoli di Atene il vanto di un suo passato glorioso da preservare per mostrarlo al mondo. Nell’Ottocento, su quell’acropoli Karl Friedrich Schinkel, celebre architetto prussiano, aveva addirittura ideato di costruire la reggia di Ottone, il nuovo re tedesco dei Greci. Un progetto rimasto «felicemente sulla carta», il cui fallimento non impedí di «sgombrare l’Acropoli da tutto quello che era accaduto prima e dopo il V secolo a.C.». Da allora – chiosa Papi – «sono passati quasi due secoli e i cantieri sono ancora aperti per disfare e rifare la centenaria tela dei restauri»… Al grande fisico Richard Feynman il compito di rivelare lo spirito che animava queste nuove costruzioni: «A quanto pare i Greci prendono molto sul serio il loro passato. Studiano archeologia della Grecia antica alle elementari per sei anni, con 10 ore di lezione alla settimana. È una specie di culto degli antenati: non fanno che insistere quanto erano straordinari gli antichi Greci (e lo erano davvero) (…) Non fanno che sminuire la propria epoca ed esaltare quella antica, al punto che sottolineare le meraviglie del presente appare loro come un’ingiustificata mancanza di


apprezzamento per il passato». L’Atene di Ottone doveva «eliminare i segni del passato prossimo che ricordava l’odiato Turco e ripristinare quel che restava dell’orgoglioso passato remoto: il palazzo del governatore ottomano dentro la Biblioteca di Adriano, i minareti e le moschee, le scuole coraniche». Con i soldi elargiti da Heinrich Schliemann nel 1875 si rase al suolo anche la quattrocentesca Torre degli Acciaiuoli che ingombrava l’Acropoli antica. A Roma, negli stessi anni, l’antica Torre Cartularia aveva da poco smesso di gettare la propria ombra medievale sul vicino e venerando Arco di Tito. Le pietre dello scandalo di Papi fanno pensare. Ma non si creda che il libro sia un sussiegoso rovello su quel che è stato o non è stato o avrebbe potuto essere: quelle pagine non lanciano giudizi, offrono chiavi di lettura, occhiali, spiragli, anche dal buco della serratura. Anche su temi tanto duri quanto delicati, e sempre complicati, propongono il tono della leggerezza, sostenuta da una grazia nella scrittura che le rende di piacevolissima lettura. Lo stesso Papi, peraltro, lo confessa: l’ho scritto – dice – anche per divertirmi… Il libro infatti diverte, fa girare la mente e i sentimenti. Anche quando

affronta argomenti che sarebbe eufemistico definire scabrosi, come quando, nell’estate del 1943, gli Alleati scaricarono sulle inermi rovine di Pompei 150 bombe che devastarono case e strade con una violenza che non si vedeva dai tempi dell’antica eruzione. Perché quella violenza apparentemente senza scopo? Quale che sia la risposta, quella tragedia ancora oggi poco conosciuta fu volutamente presto dimenticata e non ha molto spazio nelle storia moderna di Pompei: non colpisce i milioni di turisti ignari e tanto meno le pagine dei giornali, cosí giustamente attente a ogni sbriciolamento degli antichi intonaci. Il fatto è – riflette Papi – che «le rovine antiche non sono cristalli intangibili ma organismi viventi». Perché nelle aree di guerra – e il mondo attuale ne conosce di atroci in ogni suo angolo – i resti delle civiltà che ci hanno preceduto sono a rischio tanto quanto gli abitanti che vi vivono a lato: a rischio di distruzioni, di saccheggi, di perdita di senso e di memoria. Sono quei «danni collaterali» che gli eserciti in guerra producono oltre a quelli inferti alle popolazioni e alle loro case: danni collaterali di cui si perde a volte presto la memoria stessa, affidata semmai a

qualche francobollo. Che ne è del Camposanto di Pisa o della primitiva Scala di Milano, della basilica romana di S. Lorenzo o dell’abbazia di Montecassino? Che ne è della biblioteca di Sarajevo, con l’archivio della cultura di un’intera nazione? È ancor piú scabrosa, anzi un vero e proprio giallo degno di Agatha Christie, la vicenda di Herbert Fletcher DeCou, quando le «normali» contese archeologiche andarono al di là delle parole e ci scappò il morto. Nella Cirenaica del 1910, ancora per poco ottomana, per gli Italiani «la disputa non era solo scientifica», ma serviva a mettere piede sulla quarta sponda. Gli storici infatti hanno illustrato da tempo quanto le grandi missioni archeologiche europee nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente fossero spesso la faccia culturale della diplomazia delle cannoniere. Fletcher era un membro della missione archeologica americana che stava «soffiando» il sito di Cirene agli Italiani, che (questa la versione americana) ricorsero all’omicidio per cacciare gli intrusi. La versione italiana si accontentò di «spiegazioni piú pittoresche e meno convincenti». La posta era alta: a differenza degli Italiani, gli Statunitensi non potevano dire che tornavano a casa loro, visto che Cirenaica e

Tripolitania erano state un tempo province dell’impero romano! Vecchio vizio quello di prendere le terre abitate da altri gridando che prima (un prima che può risalire nel tempo a migliaia di anni fa) «c’eravamo stati noi!». «Noi chi?» vien fatto di domandarsi… Anche i Francesi, conquistando il Marocco, si raccontavano che in fondo tornavano là dove erano stati i Romani, le cui vestigia restavano nel panorama a ricordo della antica conquista! «Ogni contesto archeologico – riflette Papi – ha le sue seduzioni: non solo l’incanto dei luoghi e delle rovine, ma le storie che le pietre, la terra e gli oggetti raccolgono e che possono narrare (spesso sono trame complicate difficili da sciogliere). I siti archeologici hanno anche storie postume e molto recenti, che sono interessanti come quelle antiche». Daniele Manacorda Errata corrige con riferimento alla rubrica «I libri di Archeo» del n. 402 (agosto 2018), desideriamo precisare che l’indirizzo web dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, editore del volume Theatrum Marcelli (vedi a p. 112) è www.studiromani.it. Dell’errore ci scusiamo con gli interessati e con i nostri lettori.

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Giampiera Arrigoni (a cura di)

DEI E PIANTE NELL’ANTICA GRECIA - I Sestante edizioni, Bergamo, 416 pp. 44,00 euro ISBN 978-88-6642-284-6 www.sestanteedizioni.com

Il volume è stato scritto a piú mani dalla curatrice e dai suoi collaboratori, che hanno costituito una sorta di «gruppo delle piante» presso l’Università statale di Milano e che già hanno contribuito al successo della grande mostra di Palazzo Reale, «Mito e natura. Dalla Grecia a Pompei», in occasione di EXPO Milano 2015 e poi di un convegno su «La flora degli dèi», nell’autunno dello stesso anno. Qui sono raccolti nove contributi originali, che offrono riflessioni di metodo e saggi sulle connessioni nella Grecia antica tra le diverse piante e le divinità del mito, del culto pubblico, dei riti misterici e del simbolismo funebre. Dalle pitture vascolari alle tradizioni letterarie, dalla numismatica ai dati archeologici, emerge un quadro botanico e religioso di ampia visuale, affrontato dai vari autori con un impianto ben coordinato e spesso innovativo. Il mirto, l’asfodelo e il fico selvatico; il papavero da oppio, la melagrana, l’aglio, il lampascione e il sesamo; il grano e i cereali; i legumi e la fava; la viola, la rosa, il giglio, il giacinto, l’iris, il croco e il 112 a r c h e o

narciso; il pino, il pioppo, il salice, la quercia, la palma e l’alloro: questo, per cosí dire, è il «vivaio» da cui attingono le pagine del libro. Una pianta dopo l’altra, gli autori introducono il lettore alla riscoperta delle loro associazioni con i miti e i culti greci (o magno-greci) legati a Efesto, a Demetra, a Kore-Persefone, a Ecate, ad Apollo e infine ad Afrodite; tra boschi, prati, giardini, pomi e fiori di primavera. Un saggio approfondito della curatrice, posto a premessa dei successivi, introduce il lettore nel contesto degli studi moderni, dedicati ai vegetali assegnati nel pensiero classico agli dèi, agli eroi e ai defunti, a partire dalle prime teorie sul cosiddetto «culto dell’albero» sviluppatesi nel corso dell’Ottocento. Seguono gli altri contributi, che offrono informazioni dettagliate sulle peculiarità attribuite a ciascuna pianta, discutono d’iconografie ed esaminano interpretazioni antiche

e moderne sui racconti classici di nascita dalle o delle piante, di metamorfosi vegetali di taluni esseri mitici, di usi e costumi rituali connessi alle diverse specie. Quesiti di ordine botanico e identificazioni precise delle piante in esame sono affrontati comparando le loro figurazioni e ponendo a frutto le notizie conservate negli antichi trattati naturalistici, a cominciare da quelli di Teofrasto e Plinio il Vecchio. Numerose illustrazioni in bianco e nero favoriscono la lettura del libro, di stile sempre chiaro e gradevole, mentre un inserto di 16 tavole a colori rende ancor piú pregevole questa pubblicazione. Sergio Ribichini

aveva frequentato dapprima i corsi di studi classici e d’archeologia all’università cattolica di Nijmegen ed era stato costretto a interromperli perché deportato nella Germania nazista. Finita la guerra, sostenne il dottorato a Utrecht nel 1951, con una dissertazione sul culto di Mitra a Roma, che poi,

Maarten Jozef Vermaseren

in forma rielaborata, divenne un libro di successo e fu presto tradotto dall’olandese in francese, inglese e giapponese. Il volume che qui presentiamo è la traduzione dall’edizione francese del 1960, opportunamente attualizzata da un’ampia prefazione (110 pagine) di Giancarlo Mantovani. Lo studioso olandese si schiera, per cosí dire, dalla parte della documentazione archeologica ed epigrafica, ma sviluppa un percorso storicocomparativo che ripercorre il lungo viaggio del culto del dio iranico verso Occidente ed

MITHRA, IL DIO DEI MISTERI Edizioni Ester, Torino, 346 pp., 70 figg., 8 tavv. col 22,00 euro ISBN 978-88-99668-20-4 www.edizioniester.com

Maarten J. Vermaseren (1918-1985) è stato uno dei grandi studiosi del mitraismo e ha raccolto, tra il 1956 e il 1960, un catalogo ancora oggi fondamentale dei monumenti mitriaci dispersi in ogni parte d’Europa e del Mediterraneo: resti archeologici, edifici, raffigurazioni, iscrizioni. «Martino», come amava farsi chiamare dai molti amici italiani,


evidenzia la costante riformulazione degli elementi originari nei nuovi contesti culturali. Il curatore di questa edizione, dal canto suo, ripercorre non solo la storia degli studi e delle scoperte piú recenti, ma anche la trasmissione del nucleo di memorie indo-iraniche e la loro ri-contestualizzazione in chiave iniziatica e misterica. Emerge, nel complesso, un discorso storiografico a due voci, anzi a piú voci giacché il pensiero di Mantovani non si confronta solo con quello di Vermaseren ma anche con le tesi sviluppate nel corso degli ultimi 60 anni tanto sugli adstrati del mitraismo quanto sulla ricezione delle sue dottrine salvifiche nel politeismo greco-romano fino alla tarda antichità. S. R. Jerzy Miziołek

NEL SEGNO DI QUO VADIS? Roma ai tempi di Nerone e dei primi martiri nelle opere di Sienkiewicz, Siemiradzki, Styka e Smuglewicz «L’Erma» di Bretschneider, Roma, 270 pp., 100 ill. col., 100 ill. b/n 70,00 euro ISBN 978-88-913-1193-1 www.lerma.it

Nell’ambito delle celebrazioni tenutesi in Polonia per il centenario della morte di Henryk Sienkiewicz (1846-1916), premio Nobel per la letteratura nel 1905, nonché per i 170 anni

dalla nascita e i 120 anni dalla pubblicazione di Quo vadis?, suo romanzo piú famoso a livello mondiale, questo volume offre un quadro variegato sul profilo intellettuale dell’autore e sulla sua fascinazione per la cultura antica, appresa attraverso la letteratura e i monumenti fin dal periodo della formazione scolastica e universitaria (B. Brzóska). La conoscenza approfondita del latino e, soprattutto, delle opere di Tacito contribuirono certo all’ispirazione di un romanzo ambientato ai tempi di Nerone, ma ci vollero un talento e una sensibilità particolari per creare un’opera letteraria «di massa», capace di commuovere e divertire ogni genere di pubblico con un «happy end» obbligato, una letteratura postmoderna ante litteram (L. Marinelli). E dunque nel libro si insiste molto sulla fama mondiale di Quo vadis?, considerandone non soltanto le innumerevoli traduzioni, edizioni,

adattamenti letterari e musicali, illustrazioni e interpretazioni pittoriche, ma anche come l’elemento vivo della moderna cultura popolare, a volte popolaresca, derivata dalle realizzazioni cinematografiche che ne segnarono e condizionarono la ricezione. Tuttavia, nel romanzo, «sceneggiatura già pronta per il cinema», frutto della sensibilità di Sienkiewicz per una «bellezza facile», si delinea anche la capacità dello scrittore di creare immagini dettagliate pronte a un uso pittorico o magari coreografico. Ne danno testimonianza, tra l’altro, le pitture e le illustrazioni delle edizioni di Quo vadis? create da Jan Styka (1858-1925) e Piotr Stachiewicz (1858-1938), la cui memoria viene custodita nel Palazzo di Oblegorek, dimora estiva di Sienkiewicz, diventata col tempo sede staccata del Museo Nazionale di Kielce (R. Kotowski). In questa prospettiva si spiegano bene i rapporti e le influenze reciproche di Sienkiewicz e Henryk Siemiradzki (1843-1902), pittore polacco vissuto a Roma, che con le sue opere accademiche spesso immerse nell’antichità classica all’epoca godeva di grande popolarità. Quadri come Torce di Nerone, Dirce cristiana e altri ancora rivelano da un lato una raffinata precisione

filologica e archeologica nei dettagli, indagata a fondo da J. Miziołek, ma dall’altro una disinvoltura nella visione della realtà antica del tutto personale. I due artisti polacchi si frequentavano e forse insieme visitarono la chiesetta «Quo vadis, Domine?» sulla via Appia durante uno dei soggiorni romani di Sienkiewicz, che in piú occasioni aveva visto i quadri di Siemiradzki. Il confronto tra pittura e romanzo, a prescindere dalle ispirazioni vicendevoli, rientra nella dimensione metodologica della spiegazione dei topoi universali, «di un cosí magico influsso sulla fantasia delle masse». Jerzy Zelazowski

DALL’ESTERO Matteo Campagnolo e Carlo-Maria Fallani (a cura di)

DE L’AIGLE À LA LOUVE Monnaies et gemmes antiques entre art, propagande et affirmation de soi fotografie di Luigi Spina, Musées d’art et d’histoire, Genève-5 Continents Editions, Milano, 424 pp., ill. col. 90,00 euro ISBN 978-88-7439-795-2 www. fivecontinentseditions.com

Questo magnifico volume nasce dal gesto munifico di un collezionista, Carlo-Maria Fallani, che, nel 2001, decise di donare ai Musei d’arte e storia a r c h e o 113


soddisfare chiunque abbia desiderio di conoscere la collezione Fallani in tutti i suoi dettagli. Anche perché, ai capitoli che descrivono i diversi gruppi distinti all’interno di questo prezioso corpus, fanno seguito le schede analitiche dei singoli oggetti. Come detto, l’impostazione generale segue le scelte di Fallani e cosí, quasi in una sorta di classificazione linneiana, monete, cammei e gemme vengono passati in rassegna secondo le famiglie e le specie di appartenenza, dagli Aracnidi – come il ragno – ai mammiferi marini – come il delfino e la foca – o dai mammiferi terrestri – che costituiscono il gruppo piú numeroso – agli uccelli, che sono anch’essi una delle presenze

Particolare del rovescio di un denario di L. Rustius raffigurante un ariete. 76 a.C. Ginevra, Musée d’art et d’histoire. della città di Ginevra la sua raccolta di monete, dedicata alle emissioni in argento attestate a Roma fra l’età arcaica e l’epoca repubblicana. Uno dei criteri che l’avevano guidato nella selezione dei pezzi era la presenza di immagini di animali e questa sua scelta si è riflessa nella successiva ideazione dell’opera, in cui i pezzi numismatici sono stati affiancati da gemme e cammei, dal momento che la realizzazione 114 a r c h e o

degli intagli seguiva procedimenti affini a quelli adottati per la fabbricazione dei conii. Come scrive il direttore dei musei ginevrini, quando si è trattato di passare alla realizzazione concreta del progetto editoriale, i curatori si sono trovati di fronte alla necessità di illustrare adeguatamente i reperti selezionati, che, per la loro natura, presentavano non poche difficoltà da questo punto di vista. È maturata cosí l’idea di

coinvolgere Luigi Spina, fotografo ormai ben noto ai lettori di «Archeo», che ha ancora una volta dato prova di una non comune sensibilità nella riproduzione di opere d’epoca antica. Il catalogo ha dunque connotati che molto si allontanano dai tradizionali repertori sistematici, ma serebbe al tempo stesso un errore considerarlo soltanto un «bel libro». Le immagini di Spina – che danno la sensazione di poter quasi toccare i denari, e le pietre intagliate – compongono infatti il corredo di un’opera che è comunque in grado di

piú significative. Ne risulta uno straordinario bestiario «tascabile» che, proprio per le ridotte dimensioni dei supporti, esalta, fra le altre, le capacità dei maestri del tondello e dell’intaglio di produrre immagini straordinariamente dettagliate. Stefano Mammini



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