Archeo n. 406, Dicembre 2018

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2018

EROS A POMPEI

ERCOLE E IL SUO MITO

MONTERIGGIONI

GEORGIA

SPECIALE ROMA ARCHEOLOGIA NEL METRÓ

Mens. Anno XXXIV n. 406 dicembre 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE ROMA

L’ARCHEOLOGIA NEL METRÓ GEORGIA

NELLA TERRA DELL’ORO E DEL VINO MONTERIGGIONI

UN’ORIGINE ETRUSCA

FASCINO E ATTUALITÀ DI UN MITO

www.archeo.it

IN EDICOLA L’ 8 DICEMBRE 2018

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SE NS UA LIT À

PO M ww P w. E a rc I he o A

ARCHEO 406 DICEMBRE

EROE PER SEMPRE

ERCOLE

€ 5,90


LA VERA STORIA DELLE ORIGINI DI ROMA Uno sguardo dai ponti di Giulio Caporali


EDITORIALE

EROI DI IERI E DI OGGI «Da un grande potere derivano grandi responsabilità»... Chi di voi, in questi anni, non ha sentito ripetere quel monito cinematografico, rivolto con benevola esortazione a uno dei piú acclamati supereroi dell’epopea Marvel? Spider-Man, l’Uomo Ragno, nato agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso dalla penna di Stan Lee (scomparso lo scorso novembre) e dalla matita di Steve Ditko, è l’eroe umano per eccellenza: adolescente con problemi personali, reso invincibile grazie a una metamorfosi miracolosa, combatte il crimine come le fatiche del quotidiano, alternando l’inevitabile consapevolezza della sua superiorità a scoramenti e crisi d’identità… Come non riconoscere, allora, nell’intera schiera di contemporanei «salvatori del mondo», il loro archetipo per eccellenza, l’Eracle/Ercole, semidio dal volto umano, per niente alieno, del resto, a tutti i peggiori difetti di quel genere… Al figlio di Zeus e alla straordinaria, ininterrotta fortuna del suo mito, è dedicata la bella mostra alla Reggia di Venaria Reale (di cui riferiamo alle pp. 38-53). Come scrive uno dei suoi curatori, Paolo Carrion, la mostra (realizzata grazie alla collaborazione di studiosi di tutto il mondo) non pretende certo di esaurire il tema, ma intende «trasmettere emozioni e suscitare riflessioni sulla rappresentazione del mito di Ercole epoca dopo epoca». E non si tratta certo, come abbiamo visto, di un esercizio privo di attualità… Vi sono, poi, altre figure, eroiche e umanissime cui vorrei accennare in questa pagina. Tra questi, per esempio, il protagonista di una mostra appena inauguratasi a Venezia, nel Salone Sansoviniano della Biblioteca Nazionale Marciana: si tratta di Manuele II Paleologo, che fallí nell’«eroico» tentativo di salvare il proprio impero dalla conquista ottomana. A nulla valse, infatti, il disperato e avventuroso viaggio, intrapreso tra il 1399 e il 1403 dall’imperatore bizantino per invocare l’aiuto dei potenti d’Europa. Pochi decenni dopo, la seconda Roma sarebbe stata conquistata – e definitivamente – dal sultano Maometto II. De «Gli ultimi giorni di Bisanzio. Splendore e declino di un impero» (ecco il nome dell’esposizione) e dei preziosi e rarissimi oggetti che presenta, parleremo diffusamente nel prossimo numero. Ma chiudiamo questa breve riflessione rimandando alla notizia di pagina 12. Anch’essa popolata da profeti e autentici... eroi del nostro tempo. Con gli auguri di buona lettura e, soprattutto, di un sereno Natale e Felice Anno Nuovo! Andreas M. Steiner

In alto: Ercole in riposo, cammeo in agata. Post 1787. Collezione privata.


SOMMARIO EDITORIALE

Eroi di ieri e di oggi

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di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

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SCOPERTE È stata trovata in una grotta del Borneo, immersa in una foresta lussureggiante, la pittura forse piú antica del mondo, risalente a circa 40 000 anni fa 6

PAROLA D’ARCHEOLOGO La nascita di Roma si deve a un mercante etrusco: è questa la provocatoria proposta di Giulio Caporali, ingegnere con la passione per l’archeologia 24

INCONTRI Il Teatro Argentina di Roma annuncia il programma della V edizione di «Luce sull’archeologia» 22

Quel nodo che «male non fa»

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di Alessandra La Fragola

MOSTRE Il Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria presenta i preziosi reperti magno-greci recuperati di recente dai Carabinieri 26

MOSTRE

Venaria Reale

ALL’OMBRA DEL VULCANO La città vesuviana fa registrare una nuova, straordinaria scoperta: quella di un magnifico affresco che raffigura, con inedito realismo e colori eccezionalmente ben conservati, la leggendaria unione fra Leda e il cigno 10

MITOLOGIA

Un eroe per tutte le stagioni (della storia)

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di Friedrich-Wilhelm von Hase, Claudio Strinati e Darko Pandakovic

56 MONTERIGGIONI

Il ritorno dei Calisna Sepu 64 testi di Giacomo Baldini, Pierluigi Giroldini, Enrico Maria Giuffrè, Matteo Milletti e Andrea Zifferero

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64 In copertina Ercole raffigurato su un’anfora attica con coperchio del Pittore di Berlino. 490 a.C. circa. Basilea, Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig.

Presidente

Federico Curti Anno XXXIV, n. 406 - dicembre 2018 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Giacomo Baldini è direttore scientifico del Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli» di Colle di Val d’Elsa. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Franco Cambi è professore associato di metodologia della ricerca archeologica all’Università di Siena. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Catia Fauci è archeologa. Luciano Frazzoni è direttore del Museo Civico «F. Rittatore Vonwiller» di Farnese. Pierluigi Giroldini è funzionario archeologo della SABAP per la città metropolitana di Firenze e le province di Pistoia e Prato. Enrico Maria Giuffrè è funzionario archeologo della SABAP per le province di Siena, Grosseto e Arezzo. Alessandra La Fragola è archeologa e storica. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco Archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri


GEORGIA

Nella terra del vino e dell’oro

74

di Andreas M. Steiner

84 SPECIALE Roma

L’archeologia in metró

74 Rubriche

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

SCAVARE IL MEDIOEVO

di Francesca Ceci

A me gli occhi... di Andrea Augenti

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di Luciano Frazzoni, con interviste a Simona Morretta e Francesco Prosperetti

Morte a Trieste 110

LIBRI

è archeologa e giornalista. Matteo Milletti è funzionario archeologo della SABAP per le province di Siena, Grosseto e Arezzo. Darko Pandakovic è architetto. Claudio Strinati è storico dell’arte. Friedrich-Wilhelm von Hase è professore onorario di archeologia classica all’Università di Vienna. Andrea Zifferero è professore associato di etruscologia e antichità italiche e di musealizzazione e gestione del patrimonio archeologico all’Università di Siena.

Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio Stampa mostra «Ercole e il suo mito»: copertina (e p. 44) e pp. 3, 39-48, 52/53 – Pindi Setiawan: p. 6 (alto) – Kinez Riza: p. 6 (basso) – Luc-Henri Fage: p. 7 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 8, 12 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: Cesare Abbate: pp. 10-11 – Da: Corriere del Mezzogiorno: p. 16 – Da: FoggiaToday.It: p. 17 – Shutterstock: pp. 25, 74/75, 78/79 – Cortesia Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria, Perugia: pp. 26, 28 – Doc. red.: pp. 50/51, 77, 82, 83, 110-111 – DeA Picture Library: G. Dagli Orti: p. 61 – Cortesia degli autori: pp. 56-60, 62-63, 112 – Cortesia Ufficio Stampa mostra «Monteriggioni prima del castello»: Luca Betti: pp. 64/65; disegno di Irene Laschi, concept di Giacomo Baldini, cortesia Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli» di Colle di Val d’Elsa: p. 65; Folco Biagi: disegno alle pp. 66/67; da: G. Bartoloni, La Tomba dell’Alfabeto di Monteriggioni, in Etrusca et Italica. Scritti in ricordo di Massimo Pallottino, Pisa-Roma 1997: p. 67; Studio Lucii, Poggibonsi; cortesia Fondazione Musei Senesi: pp. 68, 71 (alto); Damiano Dainelli, Volterra; cortesia Museo Etrusco «Mario Guarnacci»: p. 69; Luca Passalacqua: pp. 68/69; Studio Lensini, Siena; cortesia Fondazione Musei Senesi: pp. 70, 72-73; cortesia Münzkabinett, SMB, Berlino: p. 71 (centro) – Cortesia Ufficio Stampa mostra «L’oro e il vino»: pp. 74, 75, 76, 78, 79, 80-81 – Cortesia Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma: pp. 84/85, 86-108 – Da: Marzia Vidulli Torlo, «Un atroce misfatto». L’assassinio di Winckelmann a Trieste, Civici Musei Storia ed Arte, Trieste 2012: p. 113 (alto) – Francesca Ceci: p. 113 (basso) – Cippigraphix: cartine alle pp. 66 (alto), 82. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Press-Di Abbonamenti SPA c/o CMP BRESCIA Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia BS L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano


n otiz iari o SCOPERTE Borneo

ECCO LE PRIME PITTURE D’ASIA E (FORSE) DEL MONDO

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a un nome quasi impronunciabile la regione nella quale sono state scoperte quelle che potrebbero essere le piú antiche pitture realizzate dall’uomo: l’eccezionale ritrovamento ha infatti avuto luogo nella penisola del SangkulirangMangkalihat, nell’isola di Kalimantan, ovvero nella parte indonesiana del Borneo. Qui opera una missione internazionale, che da anni esplora le numerose grotte presenti nella foresta circostante il monte Batu Tutunambo, al cui interno sono state individuate numerose testimonianze d’arte preistorica. E in particolare, nella grotta di Lubang Jeriji Saleh, l’attenzione dei ricercatori si è concentrata su una composizione nella quale si vedono varie figure di animali, fra i quali si riconosce un bovide forse identificabile con un antenato del banteng (Bos javanicus), tuttora diffuso nella regione indonesiana. La pellicola pittorica è apparsa velata da depositi di carbonato di

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In alto: Kalimantan Orientale (Borneo, Indonesia). Le foreste della penisola del Sangkulirang-Mangkalihat, nella quale si concentrano i siti che hanno restituito le testimonianze di arte preistorica risalenti a 40 000 anni fa. In basso: impronte di mani nella grotta di Lubang Jeriji Saleh. 20 000 anni fa.

calcio e questa «sporcizia» si è rivelata decisiva. Alcuni campioni della sostanza sono stati infatti sottoposti all’analisi del decadimento degli isotopi di uranio e hanno fornito un risultato forse inaspettato, datando le pitture a 40 000 anni fa circa. Una cronologia che ha poi trovato conferma in analisi compiute su altri campioni e che dunque apre uno scenario inedito nella storia delle prime manifestazioni artistiche prodotte dall’uomo. Ne emerge infatti un quadro in cui, ai due poli opposti dell’Eurasia – vale a dire nella regione franco-cantabrica e, appunto, in quella indonesiana –, alcuni nostri antenati sperimentarono, piú o meno nello stesso momento, forme di espressione artistica figurativa. La circostanza appare


Fotomosaico delle figure di animali dipinte sulle pareti della grotta di Lubang Jeriji Saleh, fra i quali si riconosce, in basso, a sinistra, un

bovide. Le analisi condotte sui depositi di carbonato di calcio che le ricoprivano hanno permesso di datare le pitture intorno ai 40 000 anni fa.

particolarmente affascinante, perché, come hanno sottolineato gli autori dell’articolo con il quale è stata data notizia della scoperta, questo passo decisivo nell’evoluzione della nostra specie si verifica in coincidenza con la diffusione dell’uomo anatomicamente moderno (Homo sapiens). E, naturalmente, ripropone ancora una volta il dibattito sulla genesi di questa coincidenza: al momento, infatti, non si può dire se si sia

trattato di una «invenzione» avvenuta simultaneamente in ambiti geografici diversi o se una medesima popolazione, spostandosi dall’uno all’altro dei continenti, non abbia portato con sé anche i primi rudimenti della pittura. È invece certo che il Borneo fu senz’altro una delle culle dell’arte preistorica, poiché gli animali della grotta di Lubang Jeriji Saleh si inseriscono in un repertorio ormai molto ricco, nel quale sono

comprese anche raffigurazioni di tipo piú schematico, nonché numerosi esempi di impronte di mani, che, ancora una volta, presentano una singolare affinità con analoghe manifestazioni attestate in ambito europeo ma non solo. Nel caso delle mani, si tratta di testimonianze piú recenti, databili intorno ai 20 000 anni da oggi, ma che in ogni caso provano la vivacità delle comunità preistoriche stanziate in questa regione. Stefano Mammini

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n otiz iario

MOSTRE Trieste

GENTI DELL’ANTICA ILLIRIA

P

opolo misterioso ma mai dimenticato, i Giapodi (Iapodes, Iapudes, Iapydes) sono un gruppo di comunità tribali che si sviluppò per quasi mille anni, dalla fine dell’età del Bronzo (fine del X secolo a.C.) alla conquista romana del 35 a.C. nell’area montana della Croazia e la Bosnia nord-occidentale. La loro vicenda viene ora ripercorsa dalla mostra allestita a Trieste nel Museo d’Antichità «J.J. Winckelmann», che l’ha organizzata in collaborazione con il Museo Archeologico di Zagabria, il Comune di Trieste e la Comunità Croata di Trieste. L’esposizione fa il punto delle conoscenze odierne sui Giapodi, una popolazione priva di organizzazione statale che si formò verso la fine del X secolo a.C., da comunità affini e che condividevano cultura materiale e spirituale: dal modo di costruire gli abitati fortificati al rito funebre, fino ai costumi e alle credenze. I reperti esposti provenienti dalla

In alto: pendenti in bronzo a forma di figura femminile, da Hrvatsko. VII-VI sec. a.C. A sinistra: coppia di fibule in bronzo a doppia molla decorate da perle

d’ambra, da Prozor. II-I sec. a.C. Qui sotto: placchetta circolare in ambra decorata. VI-V sec. a.C. In basso: copricapo di lamina bronzea decorato, da Kompolje. VII-VI sec. a.C.

collezione giapodica del Museo Archeologico di Zagabria, curata da Lidija Bakaric e Ana Đukic, introducono alla cultura materiale dei Giapodi e al loro stile specifico e ben riconoscibile. Nel percorso espositivo si possono ammirare oltre centotrenta reperti di questo popolo illirico (fra cui particolarmente importanti sono gli elementi del costume giapodico con diversi tipi di copricapi, fibule, pendagli,

cinturoni e collane, eseguiti in bronzo, ferro, ambra e vetro), che nell’età storica abitò sui pendii dei monti Albii, estendendosi dai confini dell’Istria sino al bacino dell’Una nella Bosnia e toccando il mare sulle coste del Carnaro. Questi ricchi manufatti sono messi a confronto con i materiali dell’esposizione permanente, provenienti dagli scavi dei territori tergestino, isontino e istriano. Tutti appartenuti alla stessa cultura dei castellieri, ma ognuno di loro connotato da caratteri autoctoni. (red.)

DOVE E QUANDO «Iapodes. Il popolo misterioso degli altopiani dell’Europa centrale» Trieste, Civico Museo d’antichità «J.J. Winckelmann» fino al 17 febbraio 2019 Orario ma-do, 10,00-17,00; lu chiuso Info tel. 040 310500 o 308686; e-mail: Museowinckelmann@ comune.trieste.it; www.museoantichitawinckelmann

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

I COLORI DELLA SENSUALITÀ GLI SCAVI CONDOTTI NELL’AMBITO DEL GRANDE PROGETTO POMPEI HANNO FATTO REGISTRARE UNA NUOVA ED ECCEZIONALE SCOPERTA: NELLA STANZA DA LETTO DI UNA DOMUS DI VIA DEL VESUVIO È TORNATO ALLA LUCE UNO SPLENDIDO AFFRESCO, CHE OFFRE UNA SENSUALE ED ELEGANTE VERSIONE DELLA LEGGENDARIA UNIONE FRA LEDA E ZEUS, CELATOSI NELLE SEMBIANZE DI UN CIGNO PUR DI CONCUPIRE LA MOGLIE DEL RE DI SPARTA

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na nuova incantevole sorpresa dagli scavi di Pompei. Gli interventi di sistemazione dei fronti di scavo nella Regio V – condotti dal Grande Progetto Pompei, sotto la direzione di Massimo Osanna – hanno fatto emergere un lembo di affresco pertinente a una stanza da letto (cubiculum) di una domus situata su via del Vesuvio, nella zona nord della città. L’ambiente è posto

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Sulle due pagine: l’affresco con Leda e il cigno scoperto in una domus situata su via del Vesuvio. Si tratta di un’opera di altissima qualità, nella quale, rispetto ad altre rappresentazioni del medesimo episodio, spicca il realismo con il quale l’artista ha voluto rendere il congiungimento fra Zeus e la donna.

accanto al corridoio di ingresso alla dimora, dove in precedenza è stato individuato l’affresco del Priapo, molto simile a quello della vicina Casa dei Vettii.

ZEUS, MAESTRO DI TRAVESTIMENTI Ad attrarre le attenzioni di archeologi e restauratori è stata l’immagine femminile affiorante sui margini degli scavi e che, a un maggiore approfondimento, si è rivelata essere di grande qualità pittorica e di notevole suggestione. Si tratta della rappresentazione del mito di Leda e il cigno, fissato nell’attimo del congiungimento tra Giove, trasformatosi appunto nell’animale, e la moglie di Tindaro, re di Sparta. Giove aveva scorto Leda mentre si rinfrescava in un fiume e, invaghitosi della giovane, le si presenta sotto forma di cigno. Dal doppio amplesso di Leda, prima con Giove e poi con Tindaro, nasceranno – fuoriuscendo da due distinte uova – rispettivamente i gemelli Castore e Polluce (i Dioscuri) e, nel secondo, Elena – futura moglie di Menelao,

re di Sparta, causa scatenante della guerra di Troia – e Clitennestra, sposa e successivamente assassina di Agamennone, re di Argo. A Pompei l’episodio di Leda e il cigno gode di una certa popolarità, come dimostra la sua rappresentazione in diverse domus, fra cui quelle del Citarista, della Venere in conchiglia, della Regina Margherita, di Meleagro, dei Capitelli Colorati o di Arianna, della Caccia Antica, di Fabio Rufo, della Fontana d’Amore, e forse anche nelle case di L. Rapinasius Optatus e degli Amorini Dorati. A differenza delle altre iconografie, in cui la donna è simbolicamente in piedi con accanto il volatile, e non nel momento del congiungimento carnale, nel nuovo affresco pompeiano Leda appare invece distesa sul trono con il cigno che la sovrasta. Diretto, quindi, è il richiamo al passo di Ovidio, che nel VI libro de Le Metamorfosi immagina la tessitrice Aracne, impegnata nella sfida decorativa con Atena, che «raffigura Leda che sotto le ali di un cigno giace supina». Del dipinto appena scoperto

colpiscono alcuni aspetti significativi, come la qualità artistica dell’opera, per una delle stanze piú intime della casa, che appare di alto livello rispetto alla media delle altre riproduzioni pompeiane; lo stato d’animo di Leda, praticamente impassibile al suo destino di genitrice di personaggi insigni del mito greco; infine, la scelta della scena mitica, fortemente connessa alla sessualità, ma allo stesso tempo colta in quanto direttamente ispirata alla grande letteratura.

EROTISMO E ALLEGORIE La carica erotica e allegorica di Leda avrà peraltro un ampio successo nell’iconografia rinascimentale, anch’essa ispirata dal testo di Ovidio; questa storia alimenta una delle sequenze piú hard della pittura dell’epoca. Proibitivo sarebbe stato infatti raffigurare direttamente un atto sessuale, al quale era invece possibile alludere attraverso l’escamotage della letterarietà del mito. Per notizie e aggiornamenti su Pompei, pagina Facebook Pompeii-Parco Archeologico.

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n otiz iario

SPETTACOLI Mitologia

«CHIAMATEMI TIRESIA!»

L

o scorso 11 giugno, al Teatro Greco di Siracusa, Andrea Camilleri ha incantato piú di 3000 persone con il monologo Conversazione su Tiresia, un racconto mitico, pensato, scritto e recitato dallo stesso scrittore. Quella serata straordinaria, con la regia teatrale di Roberto Andò e Stefano Vicario, è diventata ora un film, distribuito nei cinema nello scorso novembre, per soli tre giorni, e che, in futuro, sarà proiettato nelle scuole. Inoltre, nella primavera del 2019, il film verrà trasformato in un libro, pubblicato dall’editore Sellerio. Il film inizia con una sequenza accelerata d’immagini del teatro greco che si riempie, quindi entra in scena Camilleri, l’incedere lento di chi non vede piú. Lo scrittore raggiunge il palcoscenico, sorreggendosi sulle spalle di Valentina Alferj, sua storica collaboratrice: davvero sembra sia apparso il vate Tiresia. Camilleri si siede e inizia il monologo inframmezzato solo dalle musiche dal vivo di Roberto Fabbriciani. Ottantacinque minuti, tanto dura lo spettacolo, dedicati a Tiresia, indovino tebano (anch’egli cieco) dalla curiosa vicenda mitica: figlio di una ninfa, ancora giovinetto, passa le sue giornate sul monte Citerione, luogo ameno e verdeggiante nei pressi di Tebe, prediletto dagli dèi dell’Olimpo per i loro incontri erotici, assumendo le sembianze di animali, piante, acque ecc. Un giorno il giovane Tiresia interrompe l’amplesso tra due serpenti (in realtà due divinità), uccidendo quello di sesso femminile. Di conseguenza Tiresia verrà trasformato dagli dèi in una donna. Nelle nuove sembianze il vate sperimenta i piaceri dell’amore, finché, seguendo le

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indicazioni della Pizia, non riesce a tornare di nuovo uomo. Ma non è finita: interrogato da Zeus e da Hera su chi provi piú piacere nell’atto amoroso, se l’uomo o la donna, Tiresia, forte della sua esperienza, risponde che è la donna la piú fortunata. Istigato da Hera, Zeus lo condanna allora alla cecità, ma, allo stesso tempo, gli concede la capacità di presagire il futuro. Il dono profetico diventa un fardello penoso per Tiresia che patisce di dover svelare il dolore dell’esistenza umana. Dunque si ritira sul monte Citerione da dove ridiscenderà per volere del re di Tebe, Edipo, al quale sarà costretto a confessare le tragiche vicende mirabilmente narrate nell’Edipo re di Sofocle. Questa la storia che Camilleri racconta, usando i toni di una conversazione tra amici e con punte di ironia che divertono e non lasciano spazio alla noia. Tiresia diventa un alter ego dello scrittore che, come il vate, non vede ma in realtà, come egli stesso ammette, «da quando non vedo piú vedo meglio». La seconda parte della storia descrive la fortuna che nei secoli il personaggio Tiresia ha avuto nella poesia e nella letteratura, sia come profeta, mediatore tra gli dèi e gli uomini, ma soprattutto per la sua ambiguità sessuale, uomo, donna e poi uomo… Per la prima volta l’indovino appare nell’Odissea (nell’oltretomba viene consultato da Ulisse che vuole conoscere quale destino attende lui e i suoi compagni e se mai rivedranno le loro famiglie), passando poi per Sofocle, Seneca e Dante,

che lo mette all’Inferno tra i fraudolenti, mostrandocelo con la testa girata sulla spalle a guardare perennemente indietro… Anche il Novecento non dimentica Tiresia, ripescato da Apollinaire in un’opera teatrale surrealista, da Virginia Woolf, Borges, Pound, Pavese, Pasolini, fino a Primo Levi. Quest’ultimo, nel romanzo La chiave a stella, fa del profeta tebano il testimone inascoltato del male che viene dagli «dèi» di Auschwitz. Cosí si conclude la lezione magistrale di Camilleri, che a 93 anni si è voluto cimentare con la recitazione e, non a caso, ha scelto la cornice del Teatro Greco di Siracusa. L’anziano autore sentiva l’urgenza, come egli stesso ha dichiarato «di riuscire a capire cosa fosse l’eternità». E solo andando lí, su quelle pietre eterne, avrebbe potuto intuirlo. Lorella Cecilia

DOVE E QUANDO Conversazione su Tiresia, Dal Teatro Greco di Siracusa di e con Andrea Camilleri, regia di Roberto Andò e Stefano Vicario, musiche di Roberto Fabbriciani; prodotto da Palomar, distribuito da Nexo Digital





A TUTTO CAMPO Franco Cambi

L’OCCHIO (CRITICO) DELL’ARCHEOLOGO

PER RICOSTRUIRE I PAESAGGI ANTICHI OCCORRE OSSERVARE E STUDIARE IL PAESAGGIO CONTEMPORANEO: UNA RACCOMANDAZIONE CHE È QUASI UN INVITO ALLA MILITANZA

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uesta breve riflessione parte da tre punti essenziali. Il primo è l’invito, con il quale apro il corso di archeologia dei paesaggi della laurea triennale, a guardare senza filtri il paesaggio contemporaneo. Nelle pieghe di questo, oltre che nelle diverse fonti (storiche, geografiche, ambientali, etnoantropologiche, archeologiche) si celano gli indizi e le prove che permettono poi di ricostruire i paesaggi scomparsi, i paesaggi del passato. Il secondo punto consiste nell’indirizzare gli studenti verso

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letture del paesaggio diversificate e non costrette in artificiose barriere disciplinari: per esempio le letture proposte da archeologi, urbanisti, geologi, agronomi e da altri studiosi ancora, di diverse scuole e competenze, che abbiano un contatto militante con il paesaggio, non solo teorico e mediato. Il terzo punto scaturisce dalla cronaca che descrive paesaggi contemporanei piagati e straziati da calamità naturali (il terremoto), violenze urbanistiche (Taranto), devastazioni economiche

e sociali (il Tavoliere). Nel corso della lezione avevo utilizzato immagini diverse degli stessi luoghi, che potevano riflettere forme di paesaggio diverse: la vita opposta alla morte, la prosperità opposta allo sfruttamento. Sono emersi soprattutto i casi pugliesi. I forti contrasti di Taranto (vita e morte) e del Tavoliere (prosperità e sfruttamento) solo per caso sono localizzati nella amatissima Puglia, regione con grandi scuole archeologiche, capace di dotarsi di un Piano Paesaggistico, nonché, cosa ancora piú importante, di una Carta del Patrimonio Culturale, strumento strategico di ricerca, formazione, valorizzazione, diffusione culturale.

LA CRUDA REALTÀ Queste rapide considerazioni confluiscono in una sintesi preliminare. L’archeologia socialmente efficace non dorme mai e non dovrebbe mai cessare di guardare osservando. All’esterno dei bei luoghi in cui svolgiamo il nostro bellissimo lavoro la realtà è sempre piú cruda. In Puglia, ma anche in Toscana. Taranto, un tempo paesaggio che aveva dato speranze, vita, cibo eccellente a un popolo venuto dalla povera Laconia, è oggi un non-luogo, lacerato fra paura della disoccupazione e terrore che i figli si ammalino: bellezza e paesaggio trasformati in morte e degrado. E che cosa direbbe Federico II, stupor mundi e innamorato di Foggia, andando oggi a caccia cum avibus nella amatissima Capitanata? Vedrebbe ancora campi


A destra: un esempio di cittadinanza attiva e di coscienza di luogo a Foggia: il recupero del paesaggio urbano nel progetto dei Campi Diomedei. Nella pagina accanto: un esempio di trasformazione insediativa: il Ghetto di Rignano (Foggia) nel 2015. feraci di grani preziosi sotto il gran cielo di Puglia, ma anche nuove, sperimentalissime e orrende conurbazioni come quelle che ospitano i lavoratori clandestini, dei quali ci si ricorda solo quando si verificano fatti criminosi. Cosí, la nostra risorsa primaria si è trasformata in sfruttamento e miseria. A tutti piacerebbe mostrare ciò che è buono, bello e virtuoso. Le immagini che fanno bene e scaldano il cuore sono quelle delle bonifiche dei Lorena, un paesaggio fatto di progettualità, lavoro, fatica, desiderio di costruire un territorio garante di prosperità e di benessere. Tuttavia, bisogna andare a trovare la sostanza dietro le immagini delle cose. A voler vedere oltre le icone, la sostanza delle cose per il paesaggio contemporaneo non è molto promettente. Tanta parte dell’agricoltura della Toscana funziona oggi con manodopera extracomunitaria. E, purtroppo, il radicamento del caporalato anche nelle pregiate aree vitivinicole toscane non desta molti allarmi, come sarebbe auspicabile.

ATTENZIONE PER LE CRITICITÀ Dobbiamo ammettere di essere, ancora una volta, a un bivio. La nostra archeologia pubblica deve riscoprire la debita attenzione per le criticità (oltre che per le icone) del paesaggio contemporaneo, pena il trasformarsi in un pensiero finito o circolare, circoscritto al punto, al palazzo, alla piazza, alla località, al sito archeologico, ma privo di una osservazione globale del contesto. L’imperatore adesso si chiama mercato e non è stupor mundi.

Il mercato chiede produzione, la produzione chiama forza-lavoro, la forza-lavoro deve costare poco. Il capitalismo agrario, che già non era poi questo granché, tramonta e dal suo tramonto nascono, anzi ricrescono, le forme di sfruttamento piú macabre che il passato abbia mai conosciuto. Il nostro comunicare-diffondere-essere pubblici rischia cosí di essere esercizio di stile se sapremo solo creare isole confortanti e consolatorie in mari avvelenati dalla devastazione ambientale, dall’espansione urbanistica, da improvvidi impianti per la produzione di energia, dall’incauto governo del territorio. La presenza degli archeologi deve (tornare a) essere piú militante, accanto agli urbanisti, agli agronomi, ai giuristi, ai biologi, ai geologi, ai medici, insomma accanto a tutti coloro che di territorio, bene o male, si occupano. In barba al tanto decantato Codice per i Beni culturali e il Paesaggio del 2007, solo tre Regioni italiane su venti hanno adottato e approvato un Piano Paesaggistico. L’approvazione della Convenzione di Faro, da molti descritta e sostenuta, sembra arenata sulle

secche della politica piú autoreferenziale. Eppure, è proprio dalle comunità di eredità auspicate da «Faro» che possiamo giungere alla decrescita di dominio delle relazioni economiche globali, consumo di risorse e di suolo, di energia, di ambiente, di relazioni di prossimità e alla crescita di cittadinanza attiva, coscienza di luogo, stili di vita peculiari, valorizzazione del patrimonio, saperi contestuali per la cura del territorio e la riproduzione della vita, qualità dei paesaggi urbani e rurali contestualizzati (cito Alberto Magnaghi, già docente di pianificazione territoriale all’Università di Firenze). La società è assai poco interessata ai nostri strabismi, quelli che ci fanno vedere il passato riciclato nel presente in maniera settoriale. Ci si aspetta da noi, a mio avviso, che guardiamo le cose come se fossimo tutti Giano bifronte, che osserva il presente appena trascorso nel momento stesso in cui alza lo sguardo sul futuro che sta facendosi presente; e che osserva il nostro piccolo interno senza cessare di allargare lo sguardo sull’esterno. (franco.cambi@unisi.it)

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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

VIAGGI La «Crociera di Archeo»

MARSIGLIA, PERLA DEL MEDITERRANEO

C

ome raccontare i molteplici volti di una città simbolo del Mediterraneo, custode di vestigia, tradizioni e significati dell’Oriente e dell’Occidente che, fin dall’antichità, non cessano qui di intessere un dialogo? Probabilmente, per cogliere tutta la ricchezza culturale di questi luoghi, non c’è niente di meglio che iniziare con una passeggiata nella fresca aria primaverile attraverso i vicoli assolati del Panier. Proprio lí dove oggi si estende questo storico quartiere e nell’area del Vieux Port, nel VI secolo a.C si insediarono i coloni greci provenienti dalla Focide. Un’antichità che è ancora ben leggibile, semplicemente camminando nel suggestivo Jardin des Vestiges, un’eccezionale spazio archeologico all’aperto appositamente allestito all’interno del Musée d’Histoire de Marseille. Estendere la visita alle altre sezioni di questo eccezionale museo vi permetterà di viaggiare nel tempo ben piú a ritroso dell’antica Massalia greca – poi cartaginese e quindi romana – per raggiungere l’epoca preistorica, con le straordinarie

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testimonianze della Grotta Cosquer che conserva incisioni datate a 27 000 anni fa. Addentrandosi in questo crogiolo di civiltà non potrà mancare una visita al nuovo Museo delle Civiltà dell’Europa e del Mediterraneo (MUCEM). Situato proprio all’imboccatura del Vieux Port, si tratta di uno dei musei etnografici piú grandi al mondo, allestito tra il seicentesco Forte di Saint-Jean e un volume architettonico contemporaneo appositamente realizzato. Come tralasciare poi il Museo di Archeologia Mediterranea, ospitato nel complesso storico della Vieille Charité, anch’esso recentemente restaurato. Qui sono raccolte le testimonianze di tutte le culture che si affacciano sul bacino del Mediterraneo e una straordinaria collezione egizia, seconda per importanza, in Francia, solo a quella del Museo del Louvre. Innumerevoli sarebbero ancora da elencare le bellezze e ricchezze culturali di questa perla del Mediterraneo… venite a scoprirle tutte, insieme a noi, durante la «Crociera di Archeo»!



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INCONTRI Roma

CON IL TEATRO ARGENTINA VERSO L’EUROPA

«L

uce sull’Archeologia», la rassegna di incontri di storia e arte al Teatro Argentina, giunge alla sua V edizione, forte del grande successo finora riscosso. Sette gli appuntamenti in calendario, da gennaio ad aprile 2019, sei dei quali dedicati all’analisi della parabola ascendente di Roma, che, affermata la propria egemonia nel Lazio, prosegue il processo di romanizzazione con la conquista della Gallia e la Gallia Cisalpina a opera di Giulio Cesare, che pone cosí i presupposti dell’Italia augustea e lascia un’impronta indelebile nella storia d’Europa. I Romani riuscirono a creare una patria europea attraverso un processo di stabilità e compattezza, integrazione e assimilazione, ottenuto principalmente con la fondazione di città che ancora oggi portano il marchio di Roma; nell’architettura, nelle istituzioni politiche, nelle leggi, nell’alfabeto, nelle arti, nella letteratura, nelle infrastrutture e comunicazioni. Analizzeremo come l’impero romano, un mosaico di popoli e culture, divenne un modello capace di integrare e imporre un’unità di «genti diverse in un’unica patria», come disse il poeta Rutilio Namaziano all’inizio del V secolo d.C. Il settimo incontro sarà un fuori programma, dedicato all’archeologia e alla storia della Lucania romana, un omaggio a Matera Capitale Europea della Cultura 2019. In ogni incontro, introdotto dall’archeologo Massimiliano Ghilardi, ci saranno sempre due preziosi interventi: Anteprime dal passato, con notizie su

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ritrovamenti, scoperte e mostre, a cura di Andreas M. Steiner, e Racconti d’Arte, a cura di Claudio Strinati, con contributi sulle tematiche discusse. Si comincia il 13 gennaio, con «L’Europa dei romani», a cura di Andrea Giardina; l’Europa dei Romani era la fanciulla dello straordinario mito raccontato dai poeti e rappresentato in tante opere d’arte. Era anche uno spazio

geografico le cui dimensioni potevano variare, da continentali a regionali. Ma chi erano gli Europei? Si prosegue con «Le donne dei Romani al tempo delle guerre di conquista», a cura di Francesca Cenerini, spiegando il cambiamento della condizione femminile in età romana repubblicana alla luce delle guerre di conquista che mutarono gli assetti politici ed economici

pregressi e, di conseguenza, anche i rapporti di genere. Chiude l’incontro Claudio Strinati, che illustrerà «Europa, immagini figurative nella pittura rinascimentale e barocca». Domenica 27 gennaio, con «Dalla conquista alla romanizzazione della Gallia Cisalpina III-I secolo a.C.», Gino Bandelli prenderà in esame l’assetto multietnico della Gallia Cisalpina indipendente; le varie fasi della conquista romana; le forme di controllo esercitate dalla potenza egemone; il processo di romanizzazione. Paolo Sommella parlerà invece delle «città romane della Cisalpina», esaminando centri urbani che si sono rivelati di grande importanza per la documentazione archeologica appartenente alla fase romana del II-I secolo a.C. «Roma e la Germania: la battaglia di Teutoburgo» è invece l’argomento scelto da Valerio Massimo Manfredi, che rievoca il massacro delle legioni romane compiuto, all’inizio dell’autunno dell’anno 9 d.C., dalle tribú germaniche guidate da Arminio. Claudio Strinati chiude la giornata con una sintesi incentrata sulle rappresentazioni belliche romane nella pittura rinascimentale. Nel terzo appuntamento, domenica 3 febbraio, Renato Oniga, con «Lo sguardo di Tacito sulla Germania», individua i modelli di pensiero attraverso i quali Tacito ha elaborato la propria immagine della geografia e dei popoli della Germania antica, evidenziando punti di convergenza e punti di opposizione tra Romani e Germani.


L’incontro prosegue con l’analisi del tema «Nemici» di Roma: documenti e testimonianze», a cura di Silvia Orlandi, che spiegherà il concetto di «nemico», nella Roma antica e non solo, e di come esso muti nel corso del tempo. Annalisa Lo Monaco ci illustrerà quindi le «Immagini di Europa nel mondo greco e romano»: la figlia del re di Tiro Agenore, Europa fu rapita da Zeus, trasformatosi in toro pur di sedurla, e divenne poi regina di Creta. Il suo mito, noto già a Omero ed Esiodo, fu molto popolare nel mondo greco-romano. Claudio Strinati farà una sintesi della giornata incentrata su Italia e Germania nella pittura. Domenica 10 febbraio, Luciano Canfora esporrà gli avvenimenti di «Giulio Cesare in Gallia», chiarendo che la colonizzazione della Gallia è fenomeno di tali proporzioni storiche da imporre la domanda se la contabilità dei morti proposta da Plinio con estrema chiarezza (e con l’accusa bruciante a Cesare di aver nascosto le cifre) non debba tuttavia cedere il passo, in sede di bilancio storico, a quello che può considerarsi l’evento cruciale nella formazione dell’Europa medievale e poi moderna: la romanizzazione dei Celti, dovuta appunto alla conquista cesariana. Si prosegue con il contributo di Domenico Palombi, «Dalla Gallia a Roma: Cesare e la sua città», che spiega come l’oro della Gallia diede a Cesare l’opportunità di avviare un programma monumentale che, per dimensione e significato, avrebbe trasformato le tradizionali forme di manifestazione del potere nello spazio urbano. «Giuliano Cesare in Gallia» è il contributo di Alessandro Pagliara, che racconta l’affascinante figura di Giuliano e del suo cesarato in Gallia, culminato nella grande vittoria sugli Alamanni ad

Argentoratum/Strasburgo del 357: un evento dal grande significato simbolico e pratico. Domenica 3 marzo, esploreremo «La Britannia romana» con Sergio Rinaldi Tufi, per scoprire che non c’è solo il Vallo di Adriano... Si prosegue con Massimiliano Ghilardi, che spiegherà «La prima cristianizzazione dell’isola»: le origini cristiane della Britannia sono poco chiare e non si può certo dare credito alle leggende medievali secondo le quali l’evangelizzazione cominciò con i viaggi missionari dei santi Pietro e Paolo; notevole successo riscosse già in antico la leggendaria presenza sull’isola di Giuseppe d’Arimatea, il quale avrebbe portato alcune gocce del sangue di Cristo e piantato il sacro roveto a Glastonbury. Chiude l’incontro Claudio Strinati, con «Le prime rappresentazioni figurative cristiane». Domenica 24 marzo Alessandro Barbero racconterà «L’Europa di Carlo Magno»: quando l’imperatore venne incoronato in S. Pietro il giorno di Natale dell’800, i cronisti bizantini commentarono tristemente che anche Roma era caduta in potere dei barbari; ma è in conseguenza di quegli avvenimenti che l’Urbe divenne una città europea, piú legata a Milano, Francoforte e Parigi che non a Costantinopoli, Gerusalemme e Alessandria. La giornata continua con Alessandro Viscogliosi che illustrerà «Una sola architettura per un impero millenario». Come simbolo di un Impero che non aveva capitale, Carlo Magno concepí e fece realizzare la Cappella Palatina di Aquisgrana, monumento sintesi di un’idea imperiale che, tramite un indiscusso omaggio/citazione

dell’architettura bizantina, ricollega il neonato Sacro Romano Impero all’unico impero, quello di Roma. Chiude l’incontro Claudio Strinati commentando «Le origini del Medioevo figurativo». Domenica 7 aprile, il ciclo si conclude con l’incontro dedicato alla Lucania romana, in omaggio a Matera Capitale Europea della Cultura 2019, presieduto da Antonio Calbi. Maria Luisa Marchi ci spiegherà «Roma in Lucania: Venosa e Grumento «luci» sulle città romane», con una lettura del processo di cambiamento dal mondo indigeno (dauno e lucano) a quello romano, da un «mondo di non città» alle colonie tra trasformazioni e conservazioni. Si prosegue con il contributo di Antonio Marchetta, che racconterà di «Orazio e le sue origini lucanoapule»: nessuna delle piú rilevanti figure della letteratura latina era nativa di Roma, e non lo fu nemmeno Orazio, che però non dimenticò mai la sua terra di origine, con la quale mantenne sempre uno stretto legame sentimentale, spirituale, temperamentale. Concluderà la giornata Claudio Strinati illustrando «L’idea del monumento aere perennius nella storia della civiltà occidentale». Catia Fauci

DOVE E QUANDO «Luce sull’archeologia. Incontri di storia e arte» V Edizione 2019 L’impero romano all’origine culturale e civile del continente dal 13 gennaio al 7 aprile 2019 Orario domenica, 11,00 Info tel. 06 684000354; e-mail: catia.fauci@teatrodiroma.net www.teatrodiroma.net

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

MA ROMA NACQUE DA UN PONTE? INGEGNERE CON LA PASSIONE PER L’ARCHEOLOGIA, GIULIO CAPORALI HA DI RECENTE PUBBLICATO UN SAGGIO NEL QUALE RIESAMINA LA STORIA DELLA NASCITA DELL’URBE. PER ARRIVARE ALLA CONCLUSIONE CHE TUTTO COMINCIÒ... CON UN MERCANTE ETRUSCO

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utto iniziò da un ponte, anzi due. Cioè quelli in corrispondenza dell’Isola Tiberina, punto di passaggio strategico ancor prima della fondazione di Roma e luogo nevralgico da cui si originò, poi, la Città Eterna. Ne è convinto l’ingegner Giulio Caporali, autore del libro Uno sguardo dai ponti. La vera storia della nascita e dello sviluppo di Roma (Iacobelli editore, 2017), che rilegge il tema delle origini dell’Urbe alla luce di una prospettiva originale: «dai ponti». Ingegner Caporali, il suo saggio sembra smentire la leggenda di Romolo e Remo sulla fondazione di Roma, ovvero che la città venne fondata sul Palatino, non è vero? «Sí. E non lo dico io, lo sostengono gli storici moderni. Mentre le fonti antiche parlano della favola dei due gemelli allattati dalla lupa, che fondarono Roma sul Palatino, oggi gli studiosi concordano sul fatto che il vero punto da cui ebbe origine la città è l’Isola Tiberina». Dunque quella di Romolo e Remo sarebbe una «favola» e nella storia della nascita di Roma c’è una figura che avrebbe giocato un ruolo ben piú importante dei due gemelli fondatori, il pontifex... «Come spiego nel mio saggio, il vero fondatore di Roma non è Romolo, ma colui che ha costruito il primo ponte. E i Romani chiamarono il fondatore pontifex (termine derivato da pons, ponte).

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La riflessione è nata mentre leggevo la vita di Numa Pompilio, il secondo re di Roma (715-673 a.C.). Fu lui a creare la carica di pontefice massimo. Ma il primo ponte a Roma, come ci racconta lo storico Tito Livio, venne costruito molti anni piú tardi, sotto il quarto re Anco Marzio (che regnò fino al 616 a.C.). Allora mi sono chiesto: perché Numa Pompilio crea un pontefice se, all’epoca, a Roma non esisteva un ponte?». Ne ha concluso che a Roma doveva esistere un ponte già dall’epoca di Numa Pompilio, fra l’VIII e il VII secolo a.C.: forse il Ponte Sublicio, come ci tramandano gli antichi? «No, non era il Sublicio. Dovevano essere i due ponti che collegano l’Isola Tiberina alla terraferma, ovvero il Ponte Cestio e il Fabricio. L’isola era infatti il punto piú comodo per attraversare il Tevere, un passaggio obbligato per collegare l’Etruria, a nord, con la Campania greca, a sud. E non si tratta di un “guado”, come riportano gli antichi: serviva un ponte, anzi due, per attraversarla. Gli storici moderni sono concordi nel ritenere che Roma nacque in corrispondenza dell’Isola Tiberina grazie all’impulso degli scambi commerciali e culturali che qui avvenivano. Roma, in pratica, nasce dal passaggio su due ponti. Anche Ranuccio Bianchi Bandinelli scriveva che se non ci fosse stata l’Isola Tiberina, la città non sarebbe

mai nata. Come il principe permette alla Bella Addormentata di svegliarsi, nella favola, cosí il ponte permise alla Città Eterna di sorgere». Non a caso, fra i materiali archeologici piú antichi mai rinvenuti a Roma ci sono i frammenti di ceramica ritrovati nell’area sacra di Sant’Omobono, che si trova proprio di fronte all’Isola Tiberina… «Esatto. Ma alcuni sembrano averlo dimenticato». Ma chi costruí questo primissimo ponte di Roma? E quando? «Secondo me fu un ricco commerciante etrusco, già nell’VIII secolo a.C. Prima si usavano i traghetti per attraversare l’Isola Tiberina e collegare il mondo etrusco a quello greco, o per andare da Veio alle saline dell’interno. Roma era all’incrocio di due importanti vie di comunicazione, ma bisognava superare il letto del Tevere. A un certo punto qualche imprenditore etrusco che aveva fatto quel percorso da mercante decide di costruire, a sue spese, un ponte. Del resto, la Roma delle origini era un villaggio di capanne sul Palatino, abitato da pastori che non avevano alcun interesse al commercio e che non possono aver costruito i due ponti. Nessuno – tranne gli Etruschi – andava sull’Isola Tiberina, che all’epoca era solo un pezzo di terra in mezzo a un fiume. L’Etrusco che realizzò l’opera


Roma. Veduta aerea dell’Isola Tiberina con i ponti che la collegano alle sponde del Tevere: a sinistra il Cestio e a destra il Fabricio. aveva intuito che quell’attraversamento avrebbe potuto rendere come un... pozzo petrolifero, imponendo il pagamento di un pedaggio. Fra il IX e l’VIII secolo a.C. gli Etruschi erano gli unici ad avere il know how per costruire un ponte: erano i veri ingegneri dell’antichità, con la loro esperienza in tema di idraulica, strade, fogne. La Cloaca Maxima, per esempio, è stata fatta un Etrusco (Tarquinio Prisco). E ben tre re dei sette di Roma sono etruschi». Come dobbiamo immaginare questi primi ponti? «Fatti di legno, a campata unica, con pilastri sulle due rive. In

corrispondenza dell’Isola Tiberina la distanza tra le sponde del Tevere è di 25-30 m, mentre a valle e a monte di 60-70 m. Ho analizzato la lunghezza di tutti i ponti di Roma: i quattro piú lunghi misurano oltre 200 m, tutti gli altri superano i 100 e solo due arrivano a 50 m: il Cestio e il Fabricio. È chiaro che sono i primi di Roma. In origine, nell’VIII secolo a.C., dovevano essere in legno e successivamente vennero rifatti in pietra. Il Ponte Fabricio, nel suo aspetto attuale, risale al 62 a.C.». E quando fu invece costruito, secondo lei, il Sublicio, che per le fonti antiche fu il primo ponte di Roma? «Nel V secolo a.C. Sono arrivato a

questa conclusione approfondendo la storia di Porsenna, condottiero etrusco che tentò la conquista di Roma dopo la cacciata dei Tarquini del 509 a.C. Quando attaccò la città, i Romani abbatterono il ponte Cestio, che collegava Roma con l’Etruria. Successivamente decisero di ricostruirlo, ma 200 m piú a valle: era il Sublicio, noto per essere stato costruito senza l’uso del ferro, con assi di legno legate tra loro (dalla parola latina sublices, che vuole dire palo). E qual è l’unico periodo in cui i metalli erano al bando a Roma? Sotto Porsenna, che nel trattato di pace proibí a Roma l’uso del ferro per opere che non avessero una finalità agricola».

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MOSTRE Perugia

ECHI DI MAGNA GRECIA

È

nata da un recupero effettuato nel 2016 dai Carabinieri del Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Perugia la mostra «Alla ricerca dell’arte perduta», allestita nel Museo Archeologico Nazionale di Perugia. Lungo il percorso espositivo, curato da Paola Bonacci e Sabina Guiducci con il coordinamento generale di Luana Cenciaioli, sono presentate le fasi del sequestro, le indagini archeometriche eseguite e i reperti suddivisi secondo la tipologia. E va segnalata, innanzitutto, la tempestività del loro studio e della presentazione al pubblico. I reperti sembrano provenire da un’unica tomba scavata clandestinamente e da riferire a tre persone: due adulti – un uomo e una donna – e un bambino. Essa risulta databile tra la seconda metà del IV e gli inizi del secolo successivo e accoglie opere che rientrano nell’ambito dell’artigianato artistico della Magna Grecia. Doveva trattarsi del sepolcro di una famiglia aristocratica di spicco all’interno della comunità, come suggerisce il corredo funerario.

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A sinistra: una elegante loutrophoros (anfora per acqua, usata per nozze o riti funerari) figurata di produzione apula. IV sec. a.C. In basso: testa e statuette femminili in terracotta policroma. IV sec. a.C.

Quattro vasi catturano l’attenzione per la loro singolarità: una lekane (bacino), un’hydria (vaso per acqua a tre manici) una oinochoe (brocca da vino) e di un kantharos (tazza a due manici) a vernice nera, impreziositi da una decorazione figurata in oro, a rilievo bassissimo,

applicata sul corpo ceramico attraverso colle naturali. La lekane rinvia al mondo femminile e poteva costituire un dono di nozze, mentre gli altri vasi si possono riferire all’uso domestico. Il repertorio figurativo della lekane e dell’hydria fa riferimento a quello consueto nella ceramica apula, con scene di eroti alati e figure femminili sedute, mentre meno frequenti sono le scene di grifomachie proposte nel kantharos: un’amazzone in lotta con un grifo (lato A) e uno scontro tra due grifi (lato B). La novità maggiore è rappresentata, comunque, dal fatto che i quattro vasi – pur innestandosi in una tradizione attestata e riferibile al pittore di Meidias – non possono essere fatti rientrare in una classe ceramica già conosciuta e anzi costituiscono gli unici esemplari noti di una completamente nuova, come scrivono Bonacci e Guiducci. Le studiose hanno osservato che la tecnica della doratura con foglia d’oro è una peculiarità dell’area di Taranto e che nei quattro vasi si può osservare un sincretismo di tecniche e motivi iconografici desunti da ambienti geografici e culturali diversi (Attica, Macedonia, Oriente persiano) fusi «con l’originalità e vivacità del linguaggio figurativo apulo». La singolarità dei vasi le ha spinte, comunque, a far eseguire analisi scientifiche sulle argille, che hanno confermato la loro autenticità in quanto «le caratteristiche composizionali, morfologiche e



A sinistra: gruppo di vasi apuli figurati che in alcuni casi mostrano il defunto all’interno di un tempietto. IV sec. a.C. In basso: testa femminile in terracotta policroma riferibile a un’officina tarantina. Anni centrali del IV sec. a.C.

strutturali sono molto simili a quelli di vasi databili al V-IV secolo a.C. provenienti da contesti di scavo». Di particolare interesse è poi una testa femminile in terracotta con diadema e orecchini, che si inserisce nell’ambito dell’artigianato artistico di Taranto e faceva parte di una statua femminile a tutto tondo che rappresentava idealmente la defunta come suggerisce l’incarnato bianco del volto. L’opera è databile negli anni centrali del IV secolo a.C. e ha un confronto stringente con una testa conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Taranto: entrambe sembrano riferibili da un’officina locale e presentano i tratti del volto resi in maniera morbida, a contrasto con una capigliatura dal rendimento plastico accentuato. Un’attenzione particolare è riservata ai gioielli della donna: un’altra caratteristica del mondo tarantino. Nella stessa sezione sono riunite cinque statuine in terracotta, anch’esse femminili, caratterizzate da una policromia con teneri colori. Si tratta, con ogni probabilità, di applique di vasi plastici cosiddetti canosini: le giovani donne sono colte in pose diverse, presentano

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un’acconciatura resa in maniera minuziosa, indossano chitone e himation e tengono in mano vari attributi (phiale, cetra, colomba). Il nucleo piú consistente dei materiali recuperati è costituito da quindici vasi apuli a figure rosse, tre dei quali di maggior impegno: un’anfora panatenaica, una loutrophoros (anfora per acqua, usata per nozze o riti funerari), un

cratere a volute con mascheroni. Essi recano l’effigie del defunto entro il naiskos (tempietto), un tema iconografico che si affermò, nella produzione apula, alla metà del IV e riscosse un successo considerevole nei decenni successivi. Il defunto è raffigurato in atteggiamenti della vita reale seppure idealizzati: l’uomo, spesso in nudità eroica, esibisce armi da parata, mentre la donna indossa vesti raffinate e gioielli. Da segnalare ancora un cratere a campana con una rara scena di caccia al cinghiale, che rinvia al mondo aristocratico e alla virtus del cacciatore di un animale ritenuto forte e pericoloso. In questo esemplare, comunque, non vi è alcun riferimento drammatico e la scena sembra avere un tono prettamente celebrativo. L’insieme è completato da due vasi di ceramica apula nello stile di Gnathia – caratterizzato dalla superficie ricoperta da vernice nera con sovradipinture in bianco, giallo e rosso – e da un guttus, probabilmente un contenitore per profumi, in vernice nera. Giuseppe M. Della Fina

DOVE E QUANDO «Alla ricerca dell’arte perduta» Perugia, Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria fino al 25 gennaio 2019 Orario tutti i giorni, 8,30-19,30; lunedí 10,00-19,30 Info tel. 075 5727141; http:// polomusealeumbria.beniculturali.it/ Catalogo Il Formichiere



n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

QUELLE IMPRESE MEMORABILI... Delle gesta di Ercole, il mitico eroe greco divenuto poi un semidio, si parla nell’articolo che prende spunto dalla bella e inusuale mostra a lui dedicata in corso nella reggia di Venaria fino al prossimo marzo (vedi alle pp. 38-53). Molto è il materiale a disposizione, per cui la rassegna si limita questa volta proprio alla rappresentazione grafica delle dodici fatiche, interpretate dalle amministrazioni postali di Grecia e Principato di Monaco, che hanno affrontato questo tema con molti francobolli. Eccole, secondo l’ordine fissato da Apollodoro: 1. Ercole uccide il leone di Nemea e ne indossa la pelle (1, Grecia; 2, Monaco); 2. Uccide l’idra di Lerna (3, Grecia; 4, Monaco); 3. Cattura la cerva di Cerinea dopo un inseguimento durato un anno (5, Monaco); 4. Uccide gli uccelli mangiatori di uomini; palude di Stinfalo, in Arcadia (6, Grecia; 7, Monaco); 5. Caccia il cinghiale di Erimanto e lo riporta ancora vivo al re Euristeo, che era nascosto in una giara (8, Grecia; 9, Monaco); 6. Pulisce le stalle del re Augia dell’Elide in un sol giorno (10, Monaco); 7. Doma il toro di Creta che sputava fuoco dalle narici (11, Grecia; 12, Monaco); 8. Addomestica le cavalle di Diomede, re di Tracia, che si nutrivano di carne umana (13, Monaco); 9. Si impossessa della cintura di Ippolita, regina delle Amazzoni, per offrirla ad Admeta, la figlia di Euristeo (14, Monaco); 10. Cattura i buoi di Gerione (15, Grecia; 16, Monaco), innalzando, in questa occasione, le colonne d’Ercole (17, Gibilterra); 11. Con l’aiuto di Atlante, al quale si sostituisce per reggere la sfera celeste, ottiene i tre pomi d’oro delle Esperidi (18, Grecia; 19, Monaco); 12. Si reca negli Inferi ove sconfigge il feroce cane Cerbero (20, Grecia; 21, Monaco).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



I N E ISTIA L A R T NA MI C I R P N CO

LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO

I

Nel mondo dei primi

cristiani

• Il primo Natale • Il piú antico presepe • La missione di Pietro e Paolo • Cosa sono i testi apocrifi • A pranzo con i primi cristiani • L’età delle persecuzioni • La basilica della Natività • Rivelazioni sulle catacombe • Quando Roma divenne cristiana


L

a dottrina che i seguaci di Cristo diffusero in tutto il mondo allora conosciuto ebbe un impatto formidabile sulle società del tempo e, fin dall’inizio, scatenò ripercussioni che andarono ben oltre la sfera religiosa. Una vera e propria rivoluzione che, però, solo a partire dal III secolo, si espresse attraverso una straordinaria produzione artistica e architettonica. Ai secoli formativi di questo nuovo universo religioso e culturale è dedicata la Monografia di «Archeo», ora in edicola. Un viaggio nel tempo, raccontato e illustrato dai principali studiosi della materia.

Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Mosaico parietale raffigurante l’Adorazione dei Magi. 561-568. Giunti a Betlemme dall’«Oriente» per rendere omaggio al «re dei Giudei», i tre re, vestono abiti persiani e indossano il tipico berretto frigio.

GLI ARGOMENTI • I NTRODUZIONE • Cittadini del cielo •L E ORIGINI DEL NATALE • Santa è la notte •B ETLEMME • Mistero a Betlemme •P IETRO E PAOLO • La grande missione • I MARTIRI • Morire di fede •L E CATACOMBE • Un mito da sfatare •L ’ARTE DELLE CATACOMBE • Dall’oscurità alla luce •R OMA CRISTIANA • La grande metamorfosi

IN EDICOLA a r c h e o 35


CALENDARIO

Italia

NAPOLI Le ore del sole

ROMA Ovidio

Geometria e astronomia negli antichi orologi solari romani Museo Archeologico Nazionale fino al 31.01.19

Amori, miti e altre storie Scuderie del Quirinale fino al 20.01.19

La Roma dei re

Il racconto dell’archeologia Musei Capitolini fino al 27.01.19

Orciolo in impasto dalla necropoli dell’Esquilino.

Roma Universalis

Un mito mediterraneo Palazzo Farnese fino al 17.03.19 (dal 16.12.18)

ABBADIA ISOLA (MONTERIGGIONI, SIENA) Monteriggioni prima del Castello

PIOMBINO (LIVORNO) Romani a Populonia

Una comunità etrusca in Valdelsa Sala Sigerico fino al 23.04.19

MIC (Museo Internazionale delle Ceramiche) fino al 28.04.19

Coppa apula con sposa ed Eros .

FIRENZE L’Arte di donare

Palazzo de Santis fino al 15.01.19

GENOVA 100 mila anni in Liguria

Tra Mediterraneo ed Europa Museo di Archeologia Ligure fino al 09.06.19

MILANO Picasso Metamorfosi Il maestro a confronto con l’antichità e il mito Palazzo Reale fino al 17.02.19 36 a r c h e o

10 anni di ricerche all’Area archeologica di Poggio del Molino Museo etrusco di Populonia Collezione Gasparri fino al 06.01.19

POMPEI Alla ricerca di Stabia Antiquarium degli Scavi fino al 31.01.19

Moneta con ritratto di Amilcare Barca.

SANTA MARINELLA (ROMA) Pittura di terracotta

Nuove acquisizioni del Museo Archeologico Nazionale Museo Archeologico Nazionale fino al 10.03.19

FRANCAVILLA MARITTIMA (COSENZA) Francavilla Marittima, un patrimonio ricontestualizzato

Mostra di materiali archeologici recuperati dai Carabinieri di Perugia nel 2016 Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria fino al 25.01.19

PIACENZA Annibale

L’impero e la dinastia venuta dall’Africa Colosseo-Foro Romano-Palatino fino al 25.08.19

FAENZA Aztechi, Maya, Inca e le culture dell’antica America

PERUGIA Alla ricerca dell’arte perduta

Mito e immagine nelle lastre dipinte di Cerveteri Castello di Santa Severa fino al 22.12.18 Statuette votive raffiguranti Atena (?).

SIRACUSA Archimede a Siracusa Experience exhibition Galleria Civica Montevergini fino al 31.12.19

TORINO Anche le statue muoiono Museo Egizio fino al 06.01.19

Ercole e il suo mito Reggia di Venaria fino al 10.03.19

TRIESTE Iapodes

Il popolo misterioso degli altopiani dell’Europa centrale Civico Museo d’antichità «J.J. Winckelmann» fino al 17.02.19


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

VENEZIA Idoli

FRANCOFORTE L’oro e il vino

Gli ultimi giorni di Bisanzio

Paesi Bassi

I piú antichi tesori della Georgia Archäologisches Museum fino al 10.02.19

Il potere delle immagini Palazzo Loredan, Isituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti fino al 20.01.19 Splendore e declino di un Impero Biblioteca Nazionale Marciana fino al 05.03.19

LEIDA Dèi dell’Egitto

Rijksmuseum van Oudheden fino al 31.03.19

VILLANOVA DI CASTENASO (BO) Oggetti dal quotidiano Un giorno all’interno di un villaggio villanoviano MUV, Museo della civiltà Villanoviana fino al 09.06.19

Belgio BRUGES Mummie

Affresco con allegoria della Primavera.

Regno Unito

Segreti dell’antico Egitto Xpo Center Bruges fino all’01.09.19 (prorogata)

LONDRA Io sono Assurbanipal

Re del mondo, re dell’Assiria British Museum fino al 24.02.19

Francia PARIGI Città millenarie

Svizzera

Un viaggio virtuale da Palmira a Mosul Institut du monde arabe fino al 10.02.19

Un sogno d’Italia La collezione del marchese Campana Museo del Louvre fino al 18.02.19

Germania BERLINO Tempi inquieti

L’archeologia in Germania Gropius Bau fino al 06.01.19

HAUTERIVE Orso Busto di divinità in carapace di tartaruga. II sec. d.C.

Laténium, Parc et musée d’archéologie de Neuchâtel fino al 06.01.19

USA NEW YORK Nedjemankh e il suo sarcofago d’oro

The Metropolitan Museum of Art fino al 21.04.19 Il sarcofago dorato di Nedjemankh.


MOSTRE • TORINO

ERCOLE

UN EROE PER TUTTE LE STAGIONI (DELLA STORIA)

Una grande mostra alla Reggia di Venaria celebra la fortuna millenaria di Ercole, figlio della coppia divina Giove e Alcmena e il piú grande eroe dell’antichità classica. L’occasione è offerta dal restauro in corso della «Fontana d’Ercole», situata nei giardini della Reggia e che, dopo tre secoli, tornerà a ospitare la statua dell’«Ercole Colosso», realizzata da Bernardo Falconi intorno al 1670. Oltre settanta opere – tra reperti archeologici, gioielli, dipinti, sculture, manifesti, filmati e molto altro – indagano le numerose rappresentazioni evocate, nei secoli, dal mito dell’eroe: un percorso «temporale» che, partendo dalle origini greche e dalla rilettura di età romana attraversa le sue declinazioni d’età medievale e poi rinascimentale. Per giungere all’età moderna e, infine, all’effimera immagine del supereroe creata dalla filmografia hollywoodiana di Friedrich-Wilhelm von Hase, Claudio Strinati e Darko Pandakovic La mostra «Ercole e il suo mito» è organizzata da Swiss Lab for Culture Projects e da Consorzio Residenze Reali Sabaude in collaborazione con numerosi musei nazionali e internazionali, tra cui l’Antikenmuseum e Sammlung Ludwig di Basilea e il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. 38 a r c h e o


L’attore Mark Forest, protagonista del film La vendetta di Ercole, diretto da Vittorio Cottafavi nel 1960. Si tratta di un tipico esempio di peplum.

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MOSTRE • TORINO

Q

uello di Eracle (l’Ercole latino) è uno dei piú antichi e popolari miti greci – epici racconti millenari che hanno conservato intatta la loro forza – e affonda le sue radici nel periodo miceneo. Ma la figura di Eracle ha ispirato anche importanti artisti rinascimentali e barocchi, come Michelangelo, Albrecht Dürer, Luca Cranach il Vecchio, Tintoretto, Rubens, Antoon Van Dyck e Tiepolo. Frammenti modesti e piuttosto bizzarri delle gesta dell’eroe sono sopravvissuti fino ai giorni nostri sotto forma di cartoni animati, cartelloni pubblicitari e nei cosiddetti film peplum. Una mostra dedicata a un tema cosí impegnativo, che comprende oggetti eccezionali di generi disparati, creati nell’arco di oltre due millenni e mezzo, non poteva trovare una collocazione piú appropriata della Venaria Reale. Anche lo spunto per il progetto espositivo non poteva essere piú felice: il restauro completo di una statua barocca di Ercole, che un tempo adornava un’importante fontana nei giardini del palazzo della residenza reale dei Savoia e che ora è nuovamente collocata nella sua posizione originaria. Nell’antichità la figura di Eracle godeva della piú alta considerazione. In Grecia l’eroe era venerato nei molti santuari a lui dedicati, dei quali riferisce soprattutto Pausania nella sua Periegesi della Grecia del 180 d.C., una guida basata sull’osservazione personale. Come ci racconta Plinio nella Naturalis historia, i maggiori scultori

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greci, come Mirone, Policleto, Scopa e Lisippo, crearono famose statue di Eracle. Gli episodi tratti dal cosiddetto Dodekathlos, ovvero il ciclo delle dodici fatiche dell’eroe Nella pagina accanto: metopa raffigurante Atena, Eracle e Atlante, dal tempio di Zeus a Olimpia. 460-450 a.C. circa. Olimpia, Museo Archeologico. In basso: anfora attica a figure nere con la contesa fra Ercole e Apollo per il tripode di Delfi, attribuita al Pittore di Antimene. 510 a.C. circa. Basilea, Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig.

(vedi box alle pp. 42-43), erano scolpiti sulle metope del tempio di Zeus a Olimpia (460-450 a.C. circa; vedi foto alla pagina accanto) e sul lato orientale del tempio di Efesto ad Atene (450-440 a.C. circa), mentre sul fregio del Tesoro degli Ateniesi a Delfi (510-500 a.C.) era raffigurata la contesa del tripode tra Eracle e Apollo.

TRAGICO, MA ANCHE BURLESCO Oltre alle antiche sculture greche, grandi o piccole che siano, l’immagine di Eracle e delle sue gesta compare nella pittura vascolare greca e nella glittica classica e piú recente, entrambe rappresentate in mostra da alcuni capolavori. Infine dobbiamo ricordare importanti opere letterarie, come le tragedie di Euripide Eracle e Alcesti, e commedie che mettevano in scena una versione burlesca dell’eroe. Sotto l’influsso greco in Italia Eracle divenne subito oggetto di venerazione, tanto che gli furono intitolate diverse città, come Ercolano nel Golfo di Napoli, distrutta nel 79 d.C., ed Eraclea in Lucania. A Roma venne eretto – nel Foro Boario – un famoso altare dedicato all’eroe, il quale era raffigurato anche in numerose statue sparse per la città. Su mosaici, affreschi e sarcofagi appaiono ripetutamente raffigurazioni di Ercole, segno della sua popolar ità nell’immag inar io collettivo dell’antichità. Non sorprende, dunque, che l’imperatore Commodo (161-192 d.C.), figlio dell’impera-


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

tore filosofo Marco Aurelio, nella sua megalomania si facesse venerare e ritrarre nei panni del divino eroe, come testimonia il busto marmoreo conservato nei Musei Capitolini (vedi foto a p. 42, in basso). L’importanza di Ercole nei territori della provincia germanica superiore

dell’impero è attestata dalle raffigurazioni presenti su numerosi bassorilievi giunti fino a noi, le cosiddette Viergöttersteine (letteralmente, «pietre delle quattro divinità», n.d.r.) Ercole godeva di un culto speciale come dio del commercio; era anche considerato soccorritore degli op-

pressi, protettore dei giovani, patrono dei Giochi olimpici e soprattutto portatore di cultura. Tutti sanno che Eracle era dotato di una forza sovrumana e di un coraggio tali da affrontare il combattimento contro i Centauri, i Giganti e persino la disputa con a r c h e o 41


MOSTRE • TORINO

LE IMPRESE CANONICHE DI ERACLE SECONDO APOLLODORO (II SECOLO A.C.) 1. Eracle strangola l’invincibile Leone di Nemea nell’Argolide e da allora indossa la sua pelle. 2. Uccide l’idra di Lerna. 3. Cattura la cerva di Cerinea dopo un inseguimento durato un anno. 4. Uccide gli uccelli mangiatori di uomini che abitano la palude di Stinfalo in Arcadia. 5. Caccia il cinghiale di Erimanto e lo riporta ancora vivo al re Euristeo, che si era nascosto in una giara. 6. Pulisce le stalle del re Augia dell’Elide in un solo giorno.

Fin dall’antichità l’eroe viene preso a modello di perfezione morale

In alto: Ercole in riposo, cammeo in agata. Post 1787. Collezione privata. A sinistra: ritratto di Commodo come Ercole. 190 d.C. circa. Roma, Musei Capitolini.

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Apollo, la celebre contesa del tripode a cui abbiamo accennato all’inizio. Il nostro eroe scese addirittura negli inferi, sconfisse Cerbero, il terribile cane infernale, e lo portò ancora vivo nel mondo superiore, cosí come gli era stato ordinato di fare dal re Euristeo.

MANCANZA DI AUTOCONTROLLO Accanto agli aspetti positivi, il personaggio presentava anche tratti oscuri, come la mancanza di autocontrollo, l’inclinazione all’ubriachezza, l’indole litigiosa e la dissolutezza in qualsiasi forma, anche nel suo rapporto con le donne. Con leggera esagerazione si potrebbe dire che nulla di «maschile» gli fosse estraneo, e anche queste caratteristiche hanno sempre ispirato la creazione artistica. Persino i filosofi greci si sono occupati di Eracle, rendendo omag-


7. Doma il toro di Creta, che sputava fuoco dalle narici. 8. Addomestica le cavalle del re di Tracia Diomede, che si nutrivano di carne umana. 9. Si impossessa della cintura di Ippolita, regina delle Amazzoni, per offrirla ad Admeta, la figlia di Euristeo. 10. Cattura i buoi di Gerione, erigendo in questa occasione le cosiddette Colonne d’Ercole. 11. Con l’aiuto di Atlante, cui si sostituisce nel sorreggere la sfera celeste, Eracle ottiene i tre pomi d’oro delle Esperidi. 12. Supera anche l’ultimo e piú pericoloso compito, la discesa negli inferi, dove sconfigge il terribile cane Cerbero e lo porta nel mondo superiore.

In alto: medaglione in bronzo parzialmente dorato raffigurante Ercole e l’Idra, di Pier Jacopo Alari de Bonacolsi. 1490 circa. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. A sinistra: Ercole e il leone di Nemea, cammeo in diaspro. Fine del XVIII-inizi del XIX sec. Collezione privata.

gio al modo in cui, con coraggio e senza lamentarsene, affrontò le difficili prove impostegli dal re Euristeo. Nella sua celebre opera Le Ore, il sofista Prodico di Ceo racconta la storia di «Eracle al bivio»: messo di fronte a due donne, una seducente e l’altra pudica, davanti alla scelta tra il facile sentiero del vizio e la dura via della virtú, l’eroe sceglie la seconda (il passo ci è tramandato da Senofonte, Memorabilia, II 1, 21-34). Ovviamente, questa allegoria della ricerca della perfezione morale è stata utilizzata nell’arte dell’antichità, ma anche nella successiva epoca cristiana. Vi sono poi alcuni altri particolari della «biografia» di Eracle/Ercole che appaiono rilevanti ai fini del nostro discorso. L’eroe era figlio di Zeus e di Alcmena, moglie di Anfitrione, il leggendario re di Tebe, ingannata da Zeus che la sedusse assumendo false sembianze. Era, la a r c h e o 43


moglie di Zeus, furente per il tradimento del marito e in cerca di vendetta, inviò due serpenti a uccidere il bambino, che tuttavia li afferrò e, senza indugi, li strangolò. Cosí, fin dalla piú tenera infanzia, Eracle diede prove straordinarie dei suoi formidabili poteri e del suo coraggio. Non sorprende che questo strabiliante episodio sia stato raffigurato piú volte, sia nel mondo antico sia nei secoli successivi.

UN ATTACCO DI FOLLIA L’educazione del giovane Eracle fu affidata a esperti maestri, come era costume: Lino, figlio di Apollo, gli insegnò la musica, una disciplina che aveva un ruolo molto importante per i Greci. Ma una volta in cui Lino si azzardò a rimproverare il giovane 44 a r c h e o

allievo, questi si arrabbiò a tal punto da uccidere il suo insegnante, colpendolo con la cetra. In un attacco di follia inviatogli dalla vendicativa Era, uccise la moglie Megara insieme ai propri figli, come descritto da Euripide nella già citata tragedia. È noto che Eracle uscí vittorioso da innumerevoli avventure, in cui era schierato dalla parte del bene: combatté e sconfisse il gigante Anteo e uccise il re egiziano Busiride, che eliminava tutti gli stranieri e che lo aveva preso prigioniero. La fine del nostro eroe fu terribile: la gelosa Deianira, sua seconda moglie, gli mandò una veste intrisa del sangue avvelenato del centauro Nesso. Quando l’ignaro Eracle la indossò, fu subito assalito da un dolore cosí terribile che preferí


porre fine alla sua vita, gettandosi su una pira eretta sul monte Eta. Gli dèi mandarono tuttavia una nube che avvolse l’eroe e lo sollevò fin sull’Olimpo, dove sposò Ebe, figlia di Zeus. Una ricca tradizione letteraria – e una figurativa ancor piú ricca – hanno assicurato la permanenza della figura del divino eroe nella memoria culturale. Come abbiamo fin qui illustrato, il personaggio e le gesta di Eracle hanno offerto abbondante materiale agli artisti figurativi di ogni epoca; ma lo troviamo anche nell’opera barocca e persino in Georg Friedrich Händel, autore dell’omonimo oratorio (1745).

Sulle due pagine: le due facce di un’anfora attica con coperchio del Pittore di Berlino con le immagini di Eracle e Atena. 490 a.C. circa. Basilea, Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig.

L’eroe, armato di clava e vestito della sua leontè (la spoglia del leone di Nemea) tiene nella mano un kantharos (tazza a due manici) e a lui «risponde» la dea, porgendo una oinochoe (brocca da vino).

APPREZZATO DA ETRUSCHI E ROMANI Naturalmente, i tratti dell’eroe divinizzato e gli attributi con cui veniva rappresentato erano soggetti a cambiamenti. Cosí, nelle prime rappresentazioni della pittura vascolare attica, l’eroe è vestito e armato di arco, freccia e clava di legno di olivo. In seguito, l’immagine canonica ci restituisce la figura di un Eracle piú giovane, dal fisico molto atletico, nudo e con la barba; i suoi emblemi includevano anche la pelle del leone di Nemea da lui ucciso e la possente clava. Non privo di interesse è il fatto che molti dei vasi attici a figure nere e rosse con immagini di Eracle, eseguite tra la seconda metà del VI secolo a.C. e la prima metà del V, non provengano da tombe greche, ma etrusche. Dobbiamo quindi dedurre che gli Etruschi sapessero comprendere e apprezzare le raffigurazioni sui preziosi vasi importati. In che modo anche in epoca romana la conoscenza del mito di Ercole costituisse un bene comune dei circoli colti e fosse apprezzata, è illustrato, per esempio, dalle statue in bronzo e marmo e dagli splendidi affreschi delle città vesuviane di Pompei ed Ercolano, distrutte nel 79 d.C. a r c h e o 45


MOSTRE • TORINO

Ercole secondo Gregorio De Ferrari Le quattro tele di Gregorio De Ferrari (1647-1726) che raffigurano imprese del mitico eroe Ercole (1. Ercole sulla pira; 2. Ercole e Anteo; 3. Ercole e il toro di Creta; 4. Ercole e l’idra di Lerna) sono divenute note solo nel 1970, grazie a Piero Torriti, che le descrisse tra i capolavori della quadreria di Palazzo Cattaneo Adorno nel volume dedicato ai Palazzi di Strada Nuova a Genova insieme a tre altre imponenti opere dello stesso pittore dedicate a episodi tratti dalle Metamorfosi di Ovidio. Rispetto alle quattro tele dedicate alle imprese di Ercole, ha una storia diversa l’Ercole accolto nell’Olimpo (5), di cui

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1 si è venuti a conoscenza ancora piú tardi, nel 1996. Evidentemente separata dalle altre in un momento imprecisato, è ritenuta l’episodio conclusivo delle imprese narrate nelle quattro tele, considerate le caratteristiche stilistiche e le dimensioni di poco differenti, e quindi si ritiene costituisca con quelle un unico ciclo. Esposta a Palazzo Spinola nel 2014, al momento della prima presentazione delle sette tele acquisite, proprio per offrire la serie completa, è stata definitivamente inclusa nel patrimonio del museo nel 2016, grazie alla donazione di Alexander Mehringer di Monaco di Baviera.

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MOSTRE • TORINO

UN EROE RINASCIMENTALE Come accade con i protagonisti della moderna narrativa, nell’immaginario umanistico Ercole acquista una sorta di identità propria di Claudio Strinati

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rcole è la figura polisemica per antonomasia del mito greco in età umanistica. Si nota, infatti, come il semidio, che il mito greco consacra in una serie di episodi registrati in modo quasi normativo nei testi considerati canonici (come le Metamorfosi di Ovidio), divenga nella letteratura e nell’arte rinascimentale il protagonista di una sorta di «serial», che lo vede di volta in volta protagonista di fatti eccezionali e sbalorditivi, di avventure connesse con l’origine di innumerevoli città e di nobile casate, simbolo di concezioni etiche ed estetiche elaborate, appunto, dalla stessa civiltà rinascimentale e raccontate sovente attraverso la sua figura. Come accade nella narrativa moderna a partire dal XIX secolo, in cui un personaggio inventato in connessione con un ben preciso racconto o serie di racconti letterari, cinematografici o televisivi (come potrebbe essere uno Sherlock Holmes di Sir Arthur Conan Doyle, un Philip Marlowe di Raymond Chandler, un Indiana Jones di George Lucas e Steven Spielberg), l’eroe continua a vivere al di là delle imprese originariamente descritte dal suo autore, acquistando una sorta di identità propria che lo abilita ad affrontare sempre nuove avventure ma, naturalmente, sempre connesse con la quintessenza caratteriale ed emotiva del personaggio nella sua definizione originaria. Ercole è connotato dalla forza possente, dalla sua natura di semidio che lo rende particolarmente vulnerabile sia a umanissime tentazioni, sia a rischi tremendi e patetiche balordaggini. E quindi, nell’immaginario umanistico, si rende disponibile a incarnare molteplici episoErcole e Onfale, decorazione di una coppa in maiolica a lustro dipinta da Francesco Xanto Avelli e lustrata dal maestro Giorgio Androli. 1528. Arezzo, Museo Nazionale d’arte Medievale e Moderna.

di in cui ovviamente rifulge il suo carattere di base ma esprimendosi in una miriade di azioni che il mito antico sovente non contempla minimamente. Ercole, insomma, è un personaggio che caratterizza tanto la cultura antica quanto quella rinascimentale, mantenendo fissi alcuni aspetti tipici, ma poi assumendo di volta in volta facce diverse, tutte unificate da alcuni elementi strutturali: il dominio sul territorio, la fondazione di città e castelli, gli incontri e gli scontri che determinano inevitabilmente l’evoluzione di ogni civiltà fino ad assurgere a simbolo supremo di regolatore dei rapporti umani, di modello emblematico rispetto alla capacità di scelta quale supremo fattore di moralità della vita di ciascuno di noi.

LA VERSIONE DANTESCA Ercole, peraltro, è strettamente connesso, e qui alle origini stesse del mito, col tema del viaggio dell’esistenza, col fatale andare che Dante Alighieri nel canto di Ulisse (Inferno XXVI) assimila all’ansia della conoscenza in sé e per sé insita nell’essere umano. E proprio il testo della Commedia, nell’accostamento di Ercole e Ulisse, pone le basi per la lettura in chiave umanistica della figura di Ercole. In effetti, il canto di Ulisse si conclude con la tempesta marina sollevata dall’Eterno all’approssimarsi della nave alla Montagna del Purgatorio, per confermare l’obbligo posto da Ercole sulla terra, consistente nel non superare i limiti prescritti dal mito. In quel punto l’interpretazione cristiana, sia della figura di Ercole sia della figura di Ulisse, trova la sua consacrazione e funge da modello per la civiltà rinascimentale. Nel testo dantesco, infatti, Ulisse e i suoi periscono proprio per aver disobbedito a un ordine divino, ma di una divinità del tutto peculiare in quanto incaricata e non determinata dal suo stesso volere. Le colonne d’Er-

cole sono il limite che l’Ulisse dantesco ritiene superabile in quanto non coincidente con la condanna del peccato originale per cui è la violazione dell’ordine divino a perdere l’Uomo, già collocato in un «paradeisos», un giardino da cui non avrebbe potuto né soprattutto voluto uscire. Le colonne d’Ercole potrebbero dunque essere paragonate al giardino dell’Eden. La Bibbia prevede uno spazio di contenimento alla vita terrena, mentre il mito delle colonne d’Ercole, noto a Esiodo, a Omero, a Platone, prevede una concezione cosmologica in cui non è possibile superare una porta, una soglia marcata da colonne al di là della quale qualcosa c’è. Al contrario, niente ci sarebbe al di fuori del Paradiso Terrestre della Genesi se non l’inattingibile, cioè la conoscenza della distinzione tra il Bene e il Male, che si configura quindi come non luogo. Ma è rimarchevole notare come già nel mito antico Ercole violi il giardino delle Esperidi, che è un equivalente quasi testuale, almeno in certe versioni, del modello del Paradiso Terrestre biblico, provvisto dell’albero dei pomi d’oro che in qualche modo posseggono la stessa sacralità e intangibilità del frutto dell’albero edenico. Ed Ercole, infatti, nell’Ercole Farnese oggi al Museo Archeologico di Napoli, ruba i pomi e li nasconde dietro la schiena come uno scolaretto sorpreso per aver commesso una marachella. Nondimeno, questa violazione pertiene alla natura complessa dell’eroe che è inevitabilmente connotato anche del negativo, nella versione originaria del mito, posto che si possa parlare veramente di una versione originaria del mito. Fatto sta che l’eroe ingannatore e subdolo, che ruba i pomi delle Esperidi, pone il confine dell’umano tragitto e quindi prescrive un divieto che la civiltà umanistica, smentendo la versione dantesca, supererà. Ma, in a r c h e o 49


MOSTRE • TORINO

effetti, permane nell’Umanesimo rinascimentale proprio l’idea della violazione che non ammette riscatto: infatti, già durante il pontificato di Alessandro VI (eletto nel 1492 proprio in contemporanea con l’impresa di Cristoforo Colombo) esplode lo scandalo delle conse50 a r c h e o

guenze della scoperta del Nuovo Mondo. Conseguenze funeste sia agli occhi dei teologi piú avveduti, sia agli occhi dei politici, persino dei piú aperti e progressisti. La persecuzione sistematica delle popolazioni autoctone si configura progressivamente come l’introdu-

zione da parte della civiltà occidentale nelle terre scoperte al di là delle colonne d’Ercole di quell’inferno che Dante, nel discorso di Ulisse ai suoi uomini, preconizza come destino di chi abbia osato violare il divieto.Tranne che, nell’esperienza rinascimentale susse-


Ercole al bivio, olio su tela di Annibale Carracci. 1595-1596. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.

guente alla conquista del Nuovo Mondo, l’inferno non è il luogo a cui si arriva superando le colonne d’Ercole, ma è la condizione che la civiltà occidentale esporta nella terra scoperta. Come se, sovrapponendo appunto dantescamente il mito greco alla fede cristiana, la condi-

zione umana, violato un ordine che sembra assimilare la Bibbia al culto di Ercole e all’affidamento in Cristo, fosse connotata ancora e sempre dalle conseguenze del peccato originale e, superate le colonne d’Ercole, si manifestasse chiaro il rischio che la conquista del Nuovo

Mondo avrebbe potuto portare l’umanità al disastro irreversibile. Dunque, nel corso del Rinascimento il personaggio Ercole dilaga in una sequenza di storie, leggende, racconti che tendono a spostare sempre di piú l’interpretazione della figura erculea verso una chiave salvifica, benevola, volta alla protezione di popoli e di singoli individui, come si vede nella memorabile narrazione delle origini del lago di Vico raffigurata da Federico Zuccari e Jacopo Zanguidi, detto il Bertoja, nel Palazzo Farnese di Caprarola, emblema del mito di fondazione, in questo caso del dominio di una casata illustre all’interno del Patrimonio di San Pietro. Un exemplum, quello della Villa-Palazzo Farnese di Caprarola, destinato ad assurgere a modello universale nella roccaforte piú formidabile concepita nel corso del Cinquecento nell’Europa intera.

UN’OPERA IMMORTALE Da quella casata verranno ulteriori e determinanti indicazioni a proposito della interpretazione umanistica del mito di Ercole, come nell’immagine, in questo caso commissionata dal cardinale Odoardo Farnese, dell’Ercole al bivio nell’immortale quadro di Annibale Carracci, dove il mito della cognizione della scelta viene clamorosamente fissato in immagine dal sommo pittore bolognese caricando sulla figura erculea tutta l’ambiguità e l’incertezza che attraversa l’intero corpo dell’arte rinascimentale accentuando, nel mito della decisione fatale dell’essere umano sempre oscillante tra vizio e virtú, una sorta di sbalorditiva ed enigmatica inerzia caratterizzante la figura dell’eroe, che nel quadro non solo non opera alcuna scelta, ma sembra manifestare perplessità, ironia, forse derisione rispetto al tema trattato, rimarcandosi qui quella sublime ambiguità di cui il semidio è connotato, in eterna sospensione tra fisica e metafisica. a r c h e o 51


MOSTRE • TORINO

L’EROE IN GIARDINO Ercole è una figura forte, ma alternante e doppia. Una caratteristica ben simboleggiata da un particolare albero che gli è sacro di Darko Pandakovic

Nel mondo occidentale, da secoli, Ercole è presente nei giardini. Ercole tutelava, in forma di statua, numerosi boschi, antri, grotte, rilievi nell’antica Grecia. Pausania, nella Periegesi della Grecia, cita diverse località in cui il culto di Ercole era praticato in luoghi naturali intensi per espressività naturalistica e per fascino di bellezza. Possiamo quindi pensare che nei luoghi ove l’eroe era piú venerato fossero presenti statue rievocative della sue gesta, rappresentando le mitiche fatiche, gli incontri, il riposo, la furia e la follia. Nella Grecia antica diverse località erano considerate vicine a un ingresso nell’Ade: in alcuni di questi luoghi Ercole era venerato in quanto reduce dagli inferi, vincitore della morte. Anche nell’impero romano, nella trasmissione dei miti e nell’assimilazione da parte di Roma della cultura greca, Ercole è immagine dominante: significativa è la superstite raffigurazione dell’imperatore Commodo rappresentato come Ercole, oggi ai Musei Capitolini di Roma. Quando il cristianesimo si diffonde nelle terre dell’impero e la nuova iconografia sacra rielabora le forme religiose già presenti, l’immagine di Ercole, come quella di Giove e di altri dèi, viene riciclata, riproposta nella rappresentazione di Cristo e piú tardi di alcuni santi. 52 a r c h e o

Ercole raccoglie nei secoli una infinita quantità di attributi, è protagonista di innumerevoli e contraddittorie vicende, esprime diversi atteggiamenti. Un attributo che rimane costante è la forza: Ercole, per antonomasia, è soprattutto forte. In questo aspetto coincide con le forze della natura, con il vigore degli alberi, con la violenza del vento: tutto questo già ci introduce alle realtà dei boschi e dei giardini. Probabilmente è questo l’Ercole piú arcaico, quello che coincide con un momento iniziale della consapevolezza collettiva greca, che Simone Weil vede come tema portante dell’Iliade, che interpreta come poema della forza. Non seguiremo tuttavia il percorso che dalle rappresentazioni di Ercole nelle statue dei giardini ci condurrebbe, mediante un’attenta analisi filologica, a coglierne di volta in volta il senso. Vorremmo capovolgere i termini del problema: non tanto dunque «Ercole in giardino», ma piuttosto quali elementi del giardino, del bosco, della natura ci fanno capire meglio Ercole? «Affrettatevi, o giovani, (…) cingete di frode le chiome, sollevate con la destra i calici, invocate il dio di tutti, Ercole. Disse e cinse la testa con il pioppo dal duplice colore, sacro a Ercole. (…) Allora i salii cantarono, avvolto il capo di fronde di pioppo, attorno agli altari accesi; da un lato i giovani in coro, dall’altro i

Il giardino della Venaria Reale, nel quale è stato ricollocato l’Hercole colosso, monumentale statua in marmo bianco realizzata nella seconda metà del Seicento da Bernardo Falconi per ornare l’omonima fontana.

vecchi, lodano col canto Ercole e le sue gesta» (Virgilio, Eneide, canto VIII, 273-277, 285). Il pioppo dal duplice colore è albero sacro a Ercole. Il tema è piú volte ripreso nei testi classici: Pausania racconta che «Ercole sacrifica a Zeus e fa bruciare per il dio di Olimpia legna di pioppo bianco»; è ben presente anche nella tradizione rinascimentale e successiva, tanto che nel Dizionario Mitologico settecentesco di André de Claustre viene detto: «Ercole si trova spesso coronato di foglie di


DOVE E QUANDO

pioppa bianca, perché avendo scoperto quest’albero in Tesprochia nel regno di Aidonea, dove viaggiava, ne trasportò in Grecia, e affettava dopo, dice Pausania, di portarne delle corone. Quindi è che gli venne consacrata la pioppa bianca: e Vergilio lo chiama l’albero di Ercole». Del pioppo dunque focalizziamo il carattere di doppiezza delle foglie, su un lato bianche, sull’altro piú scure, e la loro mobilità che fa pensare a facili cambiamenti di stato d’animo. Anche Ercole è

doppio: è giusto e difensore del bene, ma anche traditore dei piú elementari doveri di ospitalità ed empio; è forte ma, una volta, cedendo nella lotta fuggí presso una schiava tracia e si nascose sotto vesti femminili; è virile, ma si veste anche da donna e compie lavori femminili al servizio della regina Onfale; è combattente instancabile, ma si abbandona anche al piú prostrante riposo. In questa alternanza di opposti Ercole è doppio: su Ercole si proietta la duplicità della natura umana.

«Ercole e il suo mito» 10 marzo 2019 Reggia di Venaria Reale (Torino), Sale delle Arti, II piano fino al 10 marzo 2019 Orario ma-do e festivi, 9,00-16,00; lu chiuso (tranne eventuali giorni festivi) Info tel. 011 4992333; www.lavenaria.it Catalogo Skira

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QUEL NODO CHE

«MALE NON FA» DOPO AVERE AVUTO LA MEGLIO SUL LEONE DI NEMEA, ERCOLE NE UTILIZZA LA SPOGLIA PER FARNE UNA «CORAZZA» CAPACE DI DIFENDERLO DA QUALSIASI FERITA. E LA FERMA SUL PETTO CON UN ESPEDIENTE CHE PRESTO SI TRASFORMERÀ IN UN SIMBOLO DI INVINCIBILITÀ di Alessandra La Fragola

In alto: Ercole e il Leone di Nemea, disegno di Pieter Paul Rubens. 1613-1616. Anversa, Museo Plantin-Moretus. L’uccisione della terribile fiera è la prima delle leggendarie dodici fatiche, e l’eroe si impossessa della pelle dell’animale (la leonté), che, secondo la leggenda, avrebbe assicurato l’invulnerabilità. Nella pagina accanto: particolare della decorazione di un’anfora attica raffigurante Ercole con la leontè allacciata con nodo stilizzato. 525-520 a.C. Boston, Museum of Fine Arts. a r c h e o 57


MITOLOGIA • IL NODO DI ERCOLE

N

ell’antichità esisteva un simbolo di remota tradizione, stereotipo di invincibilità e potenza, piú efficace di qualsiasi amuleto: l’Herakleotikon hamma, il nodo di Ercole. Oggi se ne è persa in buona parte la valenza, relegato il piú delle volte, nella comprensione, a mero elemento decorativo nella statuaria e citato (nel migliore dei casi) giusto per nome. Il nodo di Ercole nasce – ed è fondamentale ricordarlo – quando l’eroe semidio cinge al petto le spoglie del leone che imperversava nella regione Nemea, sconfitto, forse non a caso, nella prima delle sue imprese. Secondo la tradizione, aveva la proprietà di difendere chi la indossava da ferite eventualmente inferte in combattimento. Col tempo questa proprietà passò, per transitività e sintesi, a un suo elemento: il nodo, appunto. Da allora esso comparve a cingere una conger ie di dèi e personaggi dell’antichità, ogni volta che era Disegno del particolare della cintura con nodo di Ercole su una statua di Igea, dalla terma F di Antiochia. II sec. d.C. Nella pagina accanto: Tiro, Libano. Clipeo con Medusa su base di colonna. Età romana.

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necessario far comprendere ciò che a noi ora perlopiú sfugge: rafforzare un significato; nell’iconografia e nell’interpretazione di ciò che si andava a rappresentare.

IL DONO DI PERSEO Ed ecco, ovunque, Medusa con il nodo di Ercole legato sotto al collo in un altro passaggio stereotipato e talvolta sfuggito di mano ai lapicidi. Medusa presenta questa legatura negli scudi (clipei) e sulle corazze come potenziamento di un’invincibilità che si tramanda dall’episodio dell’impresa dell’eroe Perseo, avo di Ercole. In seguito la testa viene estrapolata in altri contesti, mantenendo sempre questo nodo, che comunque «male non fa», e rafforza sempre. L’importante connessione tra Perseo, Medusa ed Eracle fa sí che, di ovvia conseguenza, anche Atena si fregi del simbolo di Medusa nell’egida, e immancabilmente del nodo. Ad Atena fu donato da Perseo stesso lo scudo con la

testa gorgonica, dal potere pietrificante. Inoltre è il laccio scelto per legare i due serpenti nel caduceo del dio Hermes/Mercurio, cosí come tramanda lo storico Macrobio, in Saturnalia I.19.16. Forza, invincibilità, potenza. L’Herakleotikon hamma accompagna anche gli dèi medici in età romana, cinto alla vita o accennato nei lacci dei calzari. A questo riguardo ce ne fornisce ragione Plinio il Vecchio: «Vulnera nodo herculis praeligare mirum quantum ocior medicina est» («Stupefacente quanto rapidissimo rimedio è legare le ferite con il nodo di Ercole», Naturalis Historia 28.17.63). La valenza protettiva del nodo, chiamato erculeo anche in virtú della sua prerogativa di essere «forte», cioè slacciabile non senza fatica, non manca mai di comparire nella grande statuaria, nelle corazze di personaggi loricati, imperatori e/o condottieri. Lo stesso Marco Aurelio, nella splendida statua equestre oggi conservata nei Musei Capitolini


Da fine conoscitore dei saperi antichi, Marco Aurelio si appropria del nodo di Ercole, cosí da potersi avvalere delle sue prodigiose facoltà protettive non ha la corazza, ma presenta le calighe allacciate con esso. Il significato è palese, difendere scaramanticamente persino quell’unico «tallone» di vulnerabilità a causa del quale neanche Achille ebbe modo di salvarsi. «Ma Achille non aveva il nodo a proteggerlo» risponderebbe Plinio, se ancora avesse voce. E Marco Aurelio, certo, era fine conoscitore dei saperi antichi. Un sussurrare messaggi senza troppo clamore. La tradizione è dunque davvero antica, tanto che anche il dio fenicio Melqart, quando entra in simbiosi con Eracle a contatto con le genti greche, viene raffigurato con la leontè cinta dal famoso nodo già nelle iconografie levantine di VI secolo

a.C. Un nodo che ritroveremo anche nei bruciaprofumi a testa di Eracle/Melqart di tradizione ellenistica presenti in Italia. Ma già molto prima, un simbolo del tutto simile è presente in Egitto, il cosiddetto «square knot» il nodo quadrato; un esempio tra i tanti è scolpito nel laterale di un trono su cui siede Chefren, usato per legare insieme due dei simboli dell’Alto e Basso Egitto: il loto e il papiro. Un nodo, ancora una volta non a caso, immediatamente percepibile in antico nel suo forte significato e da non confondersi col successivo «nodo di Iside», che avrà comunque un’importante valenza amuletica anch’esso.

Tale è il significato del nodo di Ercole da comparire anche in alcune acconciature degli dèi Apollo e Venere. Gli studiosi hanno realizzato che serviva per caratterizzare una «soglia», quella del passaggio liminare dei fanciulli dall’età puberale a quella adulta; e ogni volta che era presente nell’iconografia del dio, valeva a far comprendere la transizione dei giovani, caratterizzata dal futuro taglio dei capelli in suo onore, qui ancora lunghi e intrecciati. Nella dea, è da interpretare nel concetto di dedica a colei che presiede all’amore carnale nelle nozze, che proprio nel nodo si scioglie in quella data. Nelle donne il nodo di Ercole era a r c h e o 59


MITOLOGIA • IL NODO DI ERCOLE

infatti fondamentale al momento di diventare spose e passare dalla casa paterna a quella nuziale, come ci tramanda, tra le varianti, il grammatico Festo (II secolo d.C.) tramite un sunto dello storico Paolo Diacono (VIII secolo). Esse si presentavano al marito, la notte delle nozze, con una tunica legata in vita con questo nodo, che era compito dello sposo slacciare. Un gesto di appartenenza (solo il legittimo marito ha facoltà di scioglierlo) e di buon auspicio, dal momento che Ercole era celebre anche per la fertilità e la copiosa prole.

Statua in calcare di Eracle/Melqart, dal santuario di Golgoi-Agios Photios a Cipro. 530-520 a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art. È ben riconoscibile la leontè, fermata sul petto dal nodo di Ercole. 60 a r c h e o

RUOLI GIUSTAPPOSTI In ambito storico due dei personaggi che si fregiarono con maggior convinzione degli attributi di Ercole furono Alessandro il Macedone (336-323 a.C.) e l’imperatore romano Commodo (180-192 d.C.). In entrambi, la leontè risulta immancabilmente annodata con l’Herakleotikon hamma, a rimarcare chiaramente la comprensione del simbolo in entrambi i periodi. I significati di questa scelta, soprattutto per Alessandro, sono molteplici e ben noti. Tra i meno citati, l’assedio e la successiva presa di Tiro (Libano), città protetta da Melqart. Dunque un giustapporsi di ruoli particolarmente significativo soprattutto per questa città, dove risulta attiva una zecca in cui furono coniate monete con Alessandro in veste di Eracle/Melqart col nodo dell’invincibilità. Monete poi prodotte anche altrove nelle città entrate sotto il suo controllo. E sempre a partire dall’età ellenistica, comincia la produzione di oggetti di lusso caratterizzati da questo elemento, il cui dono non è certo senza significato. Anche nella statuaria femminile, non direttamente pertinente a divinità, ci si appropria del simbolo. Donne romane di rilievo non mancarono infatti di farsi raffigurare con questo nodo tra i capelli, a rimarcare in

In alto: testa in bronzo nota come Apollo Chatsworth, da Cipro. 470-460 a.C. Londra, British Museum. In basso: tetradramma d’argento. 330-320 a.C. Al dritto, Alessandro Magno/Eracle con leontè e nodo; al rovescio, Zeus.


Il loto e il papiro Statua in diorite del faraone Chefren, da Giza. 2520-2494 a.C. Il Cairo, Museo Egizio. Sulla faccia laterale del trono su cui siede il faraone compare il cosiddetto square knot (nodo quadrato), una composizione nella quale sono associati il loto e il papiro, a simboleggiare l’unione fra Alto e Basso Egitto.

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MITOLOGIA • IL NODO DI ERCOLE

modo chiaro (per gli antichi) il loro status di spose, madri e, quando imperatrici, protettrici del popolo. In Vibia Sabina, che morí senza generare figli, il significato del nodo può essere di fermezza e temperanza, emblema di sposa esemplare. Un’altra donna in tal senso assai attenta, per vari motivi, a far valere questa sua prerogativa, fu l’imperatrice Faustina Minore, moglie di Marco Aurelio.

SERPENTI E MONACI Una proposta di chiave di lettura: in età piú recente il nodo, girato in un senso o nell’altro, continua a comparire sempre come sinonimo di tenacia, invincibilità e protezione. Due esempi: uno, identico, nelle cosiddette colonne ofitiche all’interno di edifici religiosi. Qui il nodo, seppur talvolta paragonato a quello di Salomone, non ha con questo tratti in comune, se non in maniera artificiosa (sezione riportata su un piano). L’interpretazione ofitica che gli dà il nome, cioè a forma di serpente, accettata da diversi studiosi, conferirebbe anche maggior pregnanza a questo motivo all’interno dei luoghi di culto. Il cristianesimo fa suoi diversi simboli pagani in maniera piú o meno esplicita e l’archeologia ce ne fornisce prova. L’Herakleotikon hamma caratterizza una delle divinità salvifiche piú significative dell’antichità: Igea/ Salus. Plinio ce ne conferma la valenza taumaturgica. Il serpente è anche il simbolo del dio medico per eccellenza:

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Statua di Vibia Sabina (86-137 d.C. circa), imperatrice e consorte di Adriano. Tivoli, Villæ-Istituto autonomo Villa Adriana e Villa d’Este. Il nodo di Ercole corona un’acconciatura assai elaborata. Nella pagina accanto, in alto: due immagini del tempio di Krishnabai, Mahabaleshwar (India), il cui primo impianto risale al 1215. Sulla destra, pilastro con evoluzione del nodo di Ercole ed altri simboli Nella pagina accanto, in basso: il chiostro dell’abbazia cistercense di Chiaravalle (Milano). XIII sec. Qui sotto: bracciale in oro con chiusura caratterizzata da nodo di Ercole. Fine del IV-inizi del III sec. a.C. Collezione privata.


Esculapio, padre di Igea. Il culto mariano edifica le sue chiese su molti luoghi prima votati ai riti della salute; celebre l’iconografia della Vergine che schiaccia con il piede il serpente, vale a dire gli dèi salvifici pagani, perché ora è lei la Signora che protegge e salva. Nelle colonne, il serpente, ormai astratto, compare annodato (cioè legato, indicatore fondamentale) con il nodo piú forte che ci sia, potente e taumaturgico allo stesso tempo, riproposto dai Maestri Comacini, che ne perpetuano il significato in età cri-

stiana tramite i monaci cistercensi per primi, e adottato nello stile romanico. Un riappropriarsi di un simbolo dalla forte pregnanza protettiva in un percorso logico che va oltre la supposizione.

L’EROE IN INDIA Come secondo esempio, leggermente modificato dal passare del tempo e dal diverso contesto etnico culturale in cui viene usato, esso compare nei bassorilievi scolpiti sui pilastri del tempio che circonda la cosiddetta sorgente di Krishna a Mahabaleshwar (India). La tradizione di Ercole in questo Paese è davvero antica: lo storico Diodoro (II 39, 1-4) tramanda la notizia che per gli Indiani l’eroe era nato nella loro regione. Krishna, inoltre, venne associato già in antico al semidio. In sintesi, ciò che non va sottovalutata, è la valenza magica di questo nodo, che diventa un amuleto potentissimo a sigillare iconografie di oggetti e persone; per proteggerle, nell’immaginario superstizioso, da ogni danno e paura. Un simbolo che merita il giusto riconoscimento come indicatore-guida nell’interpretazione di iconografie, soprattutto quando giunte a noi in maniera anche molto parziale.

PER SAPERNE DI PIÚ Carla Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari. Vol.3: Sponsalia, matrimonio, dote, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2005 Alessandra La Fragola, Il ruolo a lei dovuto. Il riconoscimento di un culto (ufficiale?) a Igea/Salvs da Villasimius (CA), in Sardinia Corsica et Baleares Antiquae, XVI, Pisa 2018; pp. 43-58 Ann M. Nicgorski, Apollo akersekomas and the Magic Knot of Heracles, in Regionalism and globalism in Antiquity, Peeters, Lovanio-Parigi-Walpole, 2013; pp. 177-200 Sergio Ribichini, Sulle tracce del mito. Dèi ed eroi greci, tra archeologia e storia delle religioni, De Agostini Rizzoli Periodici, Roma 2007; pp. 84-88 a r c h e o 63


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IL RITORNO DEI

CALISNA SEPU

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UNA MOSTRA ALLESTITA A MONTERIGGIONI, NEL COMPLESSO MONUMENTALE DI ABBADIA ISOLA, RICOSTRUISCE LA STORIA DELLA CITTADINA E DEL SUO TERRITORIO IN EPOCA ETRUSCA. E OFFRE L’OCCASIONE DI VEDERE ECCEZIONALMENTE RIUNITI, SEPPUR VIRTUALMENTE, I PREZIOSI REPERTI DEL CORREDO FUNERARIO DI UNA ILLUSTRE FAMIGLIA ARISTOCRATICA testi di Giacomo Baldini, Pierluigi Giroldini, Enrico Maria Giuffrè, Matteo Milletti e Andrea Zifferero

Sulle due pagine: il paesaggio di Monteriggioni (Siena), dominato dalla cinta muraria del Castello. In basso: ricostruzione grafica dell’utilizzo della Tomba n. 2 della necropoli in località Le Ville (Colle di Val d’Elsa) nella prima età ellenistica.

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C

hiunque sosti ai piedi del colle che sostiene il Castello di Monteriggioni, attorniato dalla sua magnifica cerchia di mura, non può non tornare col pensiero a Dante Alighieri e al canto XXXI (vv. 40-45) dell’Inferno:

Emilia-Romagna Liguria Mas asssssa ass a

Pist Pis Pi P i toia oi Lucc L ucc uccca

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Firenz Fir enz nz ze Arez Are Ar A re rrez e ezzzo o

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Monteriggioni Sien S iena

Però che, come su la cerchia tonda Montereggion di torri si corona, cosí la proda che ‘l pozzo circonda torreggiavan di mezza la persona li orribili Giganti, cui minaccia Giove dal cielo ancora quando tuona.

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Port rto oferrai ferraio

Isol solaa d’E d’Elba

Isola di Mon ontecr tec isto

Umbria Go Gro Gros osss seto eto to Lag Lag Lago go go di Bo olse ols ol ls naa ls

Lazio

Monteriggioni è da sempre un luogo di spiritualità e di accoglienza, una tappa obbligata lungo la via Francigena: nel passato transito per pellegrini e viandanti nel cammino verso Roma, oggi mèta per riscoprire se stessi, immersi nel paesaggio unico della Valdelsa. Se il pozzo dei Giganti appare a Dante quando la nebbia si dirada, l’archeologia ha accertato da tempo come la storia di Monteriggioni sia molto piú antica del Medioevo. Nel periodo etrusco l’area di Monterig-


gioni era infatti costellata di abitati e necropoli, transito cruciale tra la città di Volterra e il Chianti senese, tra la valle dell’Arno e quella dell’Ombrone: una storia fatta di scambi, ma soprattutto di comunità, riflesse negli oggetti oggi conservati in musei italiani ed europei. Grazie agli scavi del conte Giulio Vagnoli Terrosi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ma soprattutto a seguito degli studi effettuati negli anni Trenta dall’archeologo senese Ranuccio Bianchi

Pagina di un manoscritto di Filippo Buonarroti con il disegno della Tomba dell’Alfabeto di Colle, oggi perduta. 1723. Firenze, Biblioteca Marucelliana. Il sepolcro fu scoperto nel 1698 e si presentò povero di materiali, ma completamente decorato con segni alfabetici e altre iscrizioni, da cui il nome.

Bandinelli, la necropoli del Casone e la Tomba dei Calisna Sepu sono entrati a far parte dei contesti piú conosciuti e citati nella letteratura archeologica. Le indagini sono proseguite e di recente hanno messo in luce l’abitato di Campassini, mentre gli scavi nel Podere Milanese e in

Un antico villaggio Ricostruzione grafica della prima fase del villaggio esplorato grazie allo scavo del sito di Campassini, collocato poco a sud-ovest del Castello di Monteriggioni e parzialmente indagato fra il 1986 e il 2003. Le tracce piú antiche rinvenute appartengono a capanne a pianta semicircolare databili tra la fine dell’età del Ferro e il primo periodo Orientalizzante (seconda metà dell’VIII-inizio del VII secolo a.C.).

quelli cosiddetti del Piano del Casone hanno scoperto altre sepolture etrusche di livello elevato. Questa esposizione è l’occasione per riunire, per la prima volta a Monteriggioni, materiali provenienti dai Musei di Colle di Val d’Elsa, di Firenze e di Volterra e, con le installazioni multimediali, di apprezzare in 3D anche parte dei reperti ceduti agli inizi del Novecento alla Antikensammlung di Berlino. La mostra non vuole soltanto riscoprire il profilo di Monteriggioni antica, quanto indicare un punto di partenza per una nuova stagione di ricerche, nella consapevolezza delle potenzialità dei luoghi, in un dialogo continuo con le persone, le comunità e le realtà che hanno reso famosi i suoi Giganti nel mondo. Giacomo Baldini, Pierluigi Giroldini, Enrico Maria Giuffrè, Matteo Milletti e Andrea Zifferero a r c h e o 67


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LA SCOPERTA DEGLI ETRUSCHI

Siena, tra gli scritti dell’erudito senese Uberto Benvoglienti (16861733).Vero protagonista dell’archeologia locale è il conte Giulio Vagnoli Terrosi che, tra il 1892 e il 1906, porta alla luce nella Tenuta del Casone (di sua proprietà) oltre 270 tombe, tra cui la Tomba dei Calisna Sepu, un sepolcro a camera inviolato che accoglieva un intero nucleo familiare aristocratico.

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a scoperta delle antichità di Monteriggioni inizia nel Medioevo, come attesta la pregevole urna marmorea romana, reimpiegata nel 1198 per conservare le ossa di san Cirino nella chiesa di Abbadia Isola: l’uso delle urne come reliquiari è giustificato dal riconoscimento degli oggetti antichi come immagini del potere, riservate perciò alla conservazione della memoria. Sono però gli umanisti a riscoprire il valore del passato classico anche in Valdelsa: nel primo decennio del Cinquecento il rinvenimento fortuito di due monumenti «dei gentili» scuote i contemporanei: risale infatti al 1501 la scoperta di una tomba con tumulo nel convento di S. Domenico a San Gimignano; nel 1507 in una vigna a Castellina in Chianti emerge una tomba la cui fama giunge fino a Leonardo da Vinci, che la replica nel progetto per un monumento funebre. Il viaggio nella «storia archeologica» di Monteriggioni inizia nel marzo 1698, con il ritrovamento della prima tomba nella piana del Casone: a camera unica con tramezzo centrale e nicchie alle pareti, scavata nella roccia e povera di materiali, ma completamente decorata con segni alfabetici dipinti e altre iscrizioni, da cui prende il nome di Tomba dell’Alfabeto di Colle, oggi perduta; del monumento si è conservata tuttavia una ricca documentazione manoscritta, descrittiva e grafica tra le carte (sicuramente postume), dello studioso Giovan Battista Doni (1597-1647), conservata nella Biblioteca Nazionale di Firenze; altri documenti della scoperta sono nella Biblioteca Comunale di 68 a r c h e o

NUOVI FRONTI DI RICERCA Grazie alle pubblicazioni di Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975) negli anni Venti e Trenta, la necropoli del Casone diventa il punto di riferimento per gli studi sull’Etruria settentrionale, anche se è necessario aspettare la fine degli anni Sessanta del Novecento e la meccanizzazione dei lavori agricoli perché si aprano nuovi fronti di

In alto: incensiere in bronzo, dalla Tomba 18 della necropoli del Casone. Colle di Val d’Elsa, Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli». Si tratta di un ricercato oggetto rituale, verosimilmente utilizzato per bruciare essenze profumate durante la cerimonia funebre.


A sinistra: kyathos (attingitoio) di Monteriggioni, dalla Tomba 150 della necropoli del Casone, Vigna La Chiusina. Volterra, Museo Etrusco «Mario Guarnacci». In basso: necropoli del Casone, Podere Milanese. La Tomba 1/2010 al termine dello scavo.

ricerca: sono di questi anni gli scavi nella necropoli di Poggio alla Fame e della Tomba di Santa Colomba. Nel 1982 la Soprintendenza Archeologica della Toscana riprende le esplorazioni al Casone (scavi Cianferoni), ampliando notevolmente le conoscenze della necropoli; nel 2010, nel Podere Milanese, è stato individuato l’ultimo ipogeo a oggi noto, presentato in questa sede. Nel 1986 a Campassini, su un terrazzo del Montemaggio prospiciente l’attuale Castello di Monteriggioni, in prossimità di due tombe scavate nel 1923 e nel 1933, vengono identificati i resti di un insediamento: le ricerche, realizzate congiuntamente per piú di un decennio dalla Soprintendenza e dall’Università degli Studi di Siena prima e di Roma «Sapienza» poi portano alla luce una porzione di villaggio di capanne, frequentato tra la fine dell’VIII e gli inizi del VI secolo a.C. Giacomo Baldini

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LA VALDELSA TRA IL IV E IL I SECOLO AVANTI CRISTO

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ella tarda età classica Volter ra attraversa grandi trasformazioni, grazie a un forte aumento della popolazione: dal punto di vista urbanistico, l’elemento di maggiore impatto è la costruzione della grande cerchia di mura nella seconda metà del IV secolo a.C. Replica dell’urna di Larth Calisna Sepu, figlio di Cursni. Colle di Val d’Elsa, Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli».

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Il IV secolo è un periodo di instabilità in Etruria e nell’Italia centrosettentrionale, per la pressione dei Celti (chiamati Galli dai Romani), a nord dell’Appennino. La stessa Roma, risolti i diverbi con le città latine, inizia a rivolgere i propri interessi verso l’Etruria: lo storico Tito Livio riporta la notizia di uno scontro avvenuto nel 298 proprio nel territorio volterrano. In questo contesto Velathri consolida la supremazia sul territorio: ridotti al silenzio i potentati aristocratici rurali, lo spazio compreso tra il Mar Tirreno e il Chianti, tra le valli fluviali del Farma/Cornia e gli ultimi rilievi prospicienti il medio Valdarno, che ancora alla fine del V secolo

poteva essere identificato come un distretto culturale dipendente da Volterra, dalla metà del IV secolo diviene dichiaratamente territorio volterrano, come dimostra la circolazione capillare della monetazione bronzea con la testa di Culsans (corrispondente al Giano romano) e la legenda Velathri, emessa dalla zecca urbana tra gli ultimi anni del IV e la prima metà del III secolo a.C. In Valdelsa, accanto alle famiglie aristocratiche di antico prestigio, che continuano a seppellire nelle grandi tombe gentilizie di tradizione arcaica (come accade nelle necropoli di Dometaia e de Le Ville), la campagna si popola di nuovi gruppi, chiara espressione del nuovo corso po-


litico: lo dimostrano le suppellettili (tutte di marca volterrana, come la ceramica e le urne) e i titoli sepolcrali che, dove presenti, denunciano rapporti familiari con le genti volterrane di maggiore spicco. Esemplare in questo senso il complesso funerario dei Calisna Sepu. Con il III secolo il sistema insediativo si definisce in modo ancora piú netto: sui rilievi collinari e lungo le principali direttrici di transito si affermano nuclei abitativi costituiti da alcune decine di famiglie (Poggio alla Città-La Ripa e Orli), riflesso di un ceto medio di agricoltori e artigiani che nell’architettura funeraria (in prevalenza a camera) e nella modesta composizione dei corredi, esprime condizioni di forte livellamento sociale. Gli anni compresi tra la metà del III e il II secolo a.C. rappresentano il periodo piú florido per Volterra: lo confermano le f e b b r i l i a t t iv i t à sull’acropoli e la diffusione delle urne in pietra, prodotte nel capoluogo e replicate nelle botteghe del territorio. Grazie a una politica attenta, l’aristocrazia cittadina evita lo scontro con Roma ed entra nella sua sfera di influenza (come dimostra la circolazione della monetazione romana al posto di quella volterrana), assicurandosi prosperità economica e decenni di relativa pace. Le disparità tra i diversi strati della società, pur evidenti nell’adozione di diversi tipi tombali, non sembrano sfociare in aperti contrasti, come accade invece nella vicina Arezzo. Al contrario, le tensioni sociali nella Penisola dei primi anni del I secolo a.C. producono effetti significativi: con la lex Iulia de civitate (90 a.C.) anche ai Volterrani è riconosciuta la cittadinanza romana, con l’iscrizione nella tribú Sabatina; il

A destra: specchio in bronzo con il Giudizio di Paride. Colle di Val d’Elsa, Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli». In basso: dupondio in bronzo, dalla Tomba dei Calisna Sepu. Berlino, SMB, Münzkabinett.

La lex Iulia de civitate riconosce anche ai Volterrani la cittadinanza romana e molti aristocratici irrompono sulla scena politica dell’Urbe

latino diventa la lingua ufficiale e le piú importanti famiglie aristocratiche (come i Caecina e i Carrinas), trovano spazio nella vita politica dell’Urbe. La guerra civile e le conseguenti rappresaglie di Silla segnano profondamente la storia della città fino all’età di Cesare e, soprattutto, di Augusto, quando si assiste a una rinascita patrocinata dalle famiglie volterrane integrate nella politica romana. La compagine sociale resta comunque legata alle origini etrusche: lo attestano le iscrizioni in lingua etrusca che accompagnano le manifestazioni artistiche di ambito privato e l’impiego ininterrotto delle tombe familiari fino alla piena romanità. Straordinario esempio di conservazione delle tradizioni è la Tomba di Escaiole (Casole d’Elsa), dove ancora negli anni tra la fine del I secolo avanti e l’inizio del I secolo dopo Cristo le sepolture sono effettuate all’interno di una camera circolare con banchina, tipica espressione della piena età ellenistica. Giacomo Baldini a r c h e o 71


MOSTRE • TOSCANA

LA TOMBA DEI CALISNA SEPU: DALLA SCOPERTA ALLA DISPERSIONE «Il professore Milani, direttore del Museo archeologico centrale di Firenze, recatosi col signor Giulio Terrosi a visitare stamane un sepolcro testé scoperto in un possesso dello stesso sig. Terrosi a Monteriggioni, ha constatato la grande importanza del ritrovamento. Il prof. Milani dice trattarsi di un grande sepolcro etrusco del secolo terzo avanti Cristo, con abbondantissime suppellettili: vi sono monete eccezionali di bronzo, terrecotte, urne di alabastro, oreficerie. Alcuni oggetti sono dal professor Milani dichiarati unici». Queste parole, pubblicate nella terza pagina de La Nazione del 13 dicembre 1893, annunciano il ritrovamento di un’eccezionale tomba etrusca: il monumento, poi noto come Tomba dei Calisna Sepu, è stato protagonista di una vicenda che ha tratti romanzeschi. Nel 1881 il conte Giulio Vagnoli Terrosi acquista la Tenuta del Casone da Carlo Bianchi Bandinelli:

DOVE E QUANDO «Monteriggioni prima del Castello. Una comunità etrusca in Valdelsa» Monteriggioni, Complesso monumentale di Abbadia Isola, Sala Sigerico fino al 23 aprile 2019 Orario tutti i giorni, escluso il martedí, 10,00-13,30 e14,00-16,00; chiuso il 25 dicembre; le possibili variazioni di orario sono consultabili sul sito www.monteriggioniturismo.it Info tel. 0577 304834; e-mail: info@monteriggioniturismo.it 72 a r c h e o

durante il passaggio di proprietà, l’acquirente è avvertito della possibilità di ritrovamenti archeologici. Dopo anni di incuria, nel 1892 il nuovo proprietario decide di mettere a coltura il Campo di Malacena e, nell’inverno dello stesso anno, si imbatte nella prima, importante scoperta: una tomba a camera con tramezzo centrale, loculi e nicchiotti per le deposizioni. Pochi i materiali, tra i quali «un’olletta di argilla figulina, di tipo italo-geometrico con doppi semicerchi incisi a compasso»: viene ribattezzata «Tomba del Cane» per la presenza dello scheletro di un cane in un loculo. L’estate pone fine ai lavori di piantumazione del vigneto, che riprendono nell’inverno 1893: le fosse sono piú profonde del necessario, tanto da far sospettare lo specifico interesse del Terrosi per il rinvenimento fortuito di sepolture. Il 7 dicembre 1893 avviene la scoperta: Sabatino

Capresi, giovane operaio del conte, trova una grande pietra di travertino, che sposta insieme ai coloni Chiarucci e Angiolini: si scopre «un largo foro, nel quale era una tomba». La notizia arriva a Cetona, dove risiede il Terrosi; questi manda un telegramma al Soprintendente Milani, che si precipita a Monteriggioni; anche la Prefettura di Siena si mobilita «per ordine superiore», inviando due carabinieri «per sorvegliare l’opera scoperta». Il quotidiano La Nazione riporta la notizia del ritrovamento per due giorni: molti curiosi accorrono sul posto, tra i quali l’antiquario di Certaldo Guido Maccianti. Il sepolcro è inviolato, gli oggetti recuperati, purtroppo senza le associazioni dei corredi, sono in tutto 438; i materiali vengono trasferiti nella residenza fiorentina del Terrosi, dove Milani li ordina e li allestisce in una sorta di museo privato. La storia subisce una svolta


Nella pagina accanto: servizio da simposio in ceramica a vernice nera. Colle di Val d’Elsa, Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli». In basso: replica dell’urna bisoma in alabastro di Larth Calisna Sepu e della moglie Cursni. Colle di Val d’Elsa, Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli».

improvvisa nel 1897: l’antiquario Maccianti convince Capresi a «vendergli le sue ragioni», affinché gli sia riconosciuta una parte del materiale in qualità di scopritore. La causa giudiziaria termina nel 1901, con la condanna di Terrosi a cedere metà degli oggetti che, come si può constatare dalla perizia allegata alla sentenza d’appello, sono valutati e divisi equamente in due lotti. La parte spettante al Terrosi resta a Firenze, per essere poi trasferita al Casone con tutto il resto della collezione, mentre i materiali toccati a Maccianti sono acquistati tra il 1901 e il 1902 dalle Antikenabteilungen di Berlino: grazie all’interessamento del Soprintendente, l’urna bisoma con i nomi dei defunti confluisce nelle collezioni del Regio Museo Archeologico di Firenze, arricchendo il piccolo nucleo già donato da Terrosi al momento della scoperta. Lo smembramento, tuttavia, impedisce al Soprintendente Milani di pubblicare il contesto e complica poi il lavoro di Ranuccio Bianchi Bandinelli, che nel 1928 gli dedica un articolo sulla rivista Studi Etruschi, quando la tomba è ancora visibile. Nel 1932 l’archeologo Paolino Mingazzini visita il monumento ed è ritratto quando ne esce. Dopo, se possibile, la storia si complica ancora: negli anni del dopoguerra i pezzi berlinesi (a esclusione di un cratere già a Tübingen) sono divisi tra

Charlottenburg (Antikenabteilung) e il Pergamonmuseum (Antikensammlung) di Berlino Est; oggi, dopo la riunificazione della Germania, tutti i pezzi sono confluiti nell’Altes Museum; alcuni, dati per dispersi, ma in realtà presi dai Sovietici nel 1945 come indennizzo di guerra, sono riapparsi nei depositi del Museo Pushkin di Mosca. Il lotto Terrosi, conservato nella villa del Casone,

soggetto a numerosi furti nel corso del tempo, è stato ceduto in parte al Museo Etrusco «Mario Guarnacci» di Volterra (1956), in parte al Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli» di Colle di Val d’Elsa (1972); lo specchio con il mito di Telefo è conservato infine a Berna (Svizzera), nella Collezione Bloch-Diener. Giacomo Baldini


MOSTRE • GERMANIA

NELLA TERRA DEL VINO E

DELL’ORO


TRA I PAESI DEL CAUCASO, LA GEORGIA ANNOVERA ALCUNI PRIMATI STORICI E CULTURALI DI STRAORDINARIA IMPORTANZA. UNA MOSTRA IN CORSO AL MUSEO ARCHEOLOGICO DI FRANCOFORTE NE RIVELA I SEGRETI, COMPIENDO UN VIAGGIO ALLE ORIGINI DELL’AGRICOLTURA E DELLA METALLURGIA di Andreas M. Steiner

Salvo diversa indicazione, tutti gli oggetti riprodotti in questo articolo sono attualmente esposti nella mostra «Georgia», in corso al Museo Archeologico di Francoforte sul Meno.

Sulle due pagine: la chiesa di Lamaria (della Vergine Maria) presso il villaggio di Ushguli, ai piedi del monte Shkhara (regione della Svanezia, Georgia nordoccidentale). Sotto il titolo: figurina in oro di leone stilizzato (vedi a p. 80). A sinistra: il grande pithos (recipiente per la conservazione del vino) in terracotta, alto piú di 80 cm, rinvenuto a Kwazchelebi (Georgia orientale). 3400-2500 a.C. a r c h e o 75


MOSTRE • GERMANIA

S

econdo un’antica leggenda, tutto ebbe inizio con un banchetto. Accade, infatti, che nel giorno scelto da Dio per distribuire le terre agli uomini, i mitici progenitori dei Georgiani, alquanto compromessi dagli eccessi notturni, all’importante appuntamento si presentarono malconci e in ritardo. Irritato e insofferente verso quegli irrispettosi e gaudenti crapuloni, Dio si fece negare, e solo dopo aver appreso che quell’orgiastico simposio era stato inscenato proprio in suo onore, il Signore si ammorbidí e donò ai proto-Georgiani la piú bella terra da lui creata. I lettori sanno bene che racconti di tenore simile si conoscono anche per altri e diversi contesti storici e territoriali, eppure qualcosa di verosimile, di convincente e unico quell’episodio lo racchiude: è innegabile, infatti, che i paesaggi della Georgia, cosparsi dalle vestigia di una storia e di storie antichissime, costituiscono una parte preponderante nel fascino che questa terra del Caucaso, posta al confine tra l’Europa e l’Asia, esercita sul visitatore.

IL CAUCASO DELLE ORIGINI Eppure, non sono solo la bellezza della terra (segnata da maestose montagne), la sua storia (tramandata in una lingua difficilissima da apprendere e trascritta con un alfabeto composto da ben trentatré lettere),

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In alto: grande recipiente in terracotta (60 x 54 cm) per la conservazione di derrate, dall’insediamento neolitico di Khramis Didi Gora e databile tra il 6000 e il 5200 a.C. Sull’orlo della giara si riconosce una particolare decorazione a rilievo, raffigurante

grappoli d’uva stilizzati. In basso: pendente in bronzo a forma di testa d’ariete con le corna attorcigliate. Il reperto proviene dalla tomba 12 della necropoli di Brili (regione di Ratscha) ed è databile tra il XVIII e il XVI sec. a.C.


l’ottima e verosimilmente anche assai salubre cucina (la popolazione della Georgia è annoverata tra quelle piú longeve del pianeta), i magnifici siti archeologici (basti pensare al vasto insediamento trogloditico di Uplisziche, nei pressi della capitale Tbilisi) a costituire il vero tesoro di questa terra benedetta: due, infatti, sono i suoi frutti piú antichi e preziosi, ai quali è dedicata un’importante mostra in corso al Museo archeologico di Francoforte (fino al 10 febbraio 2019): l’oro e il vino. Si tratta di un’esposizione eminentemente archeologica, incentrata su un periodo specifico, racchiuso tra il 5800 a.C. (la data corrisponde all’età dei reperti che documentano l’avvento dell’agricoltura nel Paese caucasico) e il 2100/1700 a.C., ovvero tra la cosiddetta «Rivoluzione Neolitica» e l’Età del Bronzo Medio. I reperti raccolti nelle sale del museo di Francoforte provengono da scavi recenti, intrapresi negli ultimi decenni da archeologi georgiani e tedeschi soprattutto nel sito neolitico di Aruchlo, caratterizzato dalle sue tipiche architetture circolari e dal quale è emersa una serie di straordinari oggetti rappresentativi della piú antica economia agricola del Caucaso meridionale.

DAL FARRO ALLA VITE In quest’area – come ricorda l’archeologo Svend Hansen, uno dei curatori della mostra – i primi insediamenti di agricoltori e allevatori risalgono alla prima metà del VI millennio a.C. Se si considera che nella «mezzaluna fertile» – la terra d’origine della rivoluzione neolitica – questo processo era incominciato già intorno alla metà del X millennio a.C. per concludersi verso il 7000 a.C., è verosimile che, proprio da quelle terre dell’Alta Mesopotamia, coloni protostorici si siano mossi verso le aree montuose del Caucaso alla ricerca di nuovi pascoli e terreni da coltivare. Il primi insediamenti di agricoltori

ALLA RICERCA DEL VELLO D’ORO Secondo la mitologia greca nella Colchide era custodito il vello d’oro, cioè il manto di ariete donato da Ermes a Nefele (moglie di Atamante, mitico re di Coronea, n.d.r.), che fu preso dagli Argonauti, guidati da Giasone; ad aiutarlo nell’impresa fu Medea, principessa della Colchide, protagonista dell’omonima tragedia di Euripide. La leggenda narra che Giasone andò dallo zio Pelia per farsi restituire il trono di Iolco, che gli spettava di diritto, in quanto sottratto al padre Esone. Pelia, che non voleva lasciare il potere, sfidò Giasone alla difficile impresa del vello d’oro, con la promessa che, se fosse riuscito a trovarlo e a portarlo in Tessaglia, gli avrebbe restituito il regno che aveva usurpato. Cosí Giasone fece costruire la nave Argo e, sotto la protezione di Atena, partí alla testa di un gruppo di circa cinquanta eroi, i piú valorosi del tempo, detti appunto Argonauti, dando vita a un’impresa favolosa, narrata, tra gli altri, nel III secolo a.C., da Apollonio Rodio nelle Argonautiche: a bordo della nave egli condusse i suoi uomini nelle ostili terre della Colchide, dove il vello d’oro era gelosamente

custodito dal re Eete. Giunti nella Colchide dopo un viaggio avventuroso, gli Argonauti furono ricevuti da re Eete nella capitale, forse corrispondente all’attuale città di Vani o di Kutaisi; il sovrano promise che avrebbe donato il vello a Giasone, se questi fosse riuscito a seminare un campo con denti di drago, per mezzo di un aratro trainato da tori mostruosi, e se poi si fosse dimostrato in grado di combattere tutti i soldati che ne sarebbero nati. Giasone, con l’aiuto di Medea, la figlia di Eete, che era dotata di poteri magici e che si era perdutamente innamorata di lui, riuscí grazie a un incantesimo a sopravvivere alla prova e a sottrarre il vello d’oro al drago che lo sorvegliava, fuggendo poi dal re Eete e dalla Colchide. La leggenda del vello d’oro trae origine da una tradizione tuttora viva nelle regioni montuose della Colchide e della Georgia. Nello Svaneti, infatti, ancora oggi abitano, sebbene siano ormai pochissimi, pastori che cercano l’oro nei fiumi, stendendo pelli di pecora, che utilizzano come una sorta di setaccio, tra le cui fibre si depositano le pagliuzze d’oro.

Eracle e gli Argonauti, particolare di un cratere a figure rosse, da Orvieto. 460-450 a.C. Parigi, Museo del Louvre.


MOSTRE • GERMANIA

A sinistra: modellino di un carro a due ruote, dal sito di Badaani. Datato alla seconda metà del III mill. a.C., si tratta della piú antica attestazione di un carro in Georgia.

del Caucaso meridionale sono composti, come nel già menzionato caso di Aruchlo, da strutture circolari realizzate con mattoni di argilla cruda. Bovidi, capre e pecore contribuivano alla dieta, mentre il farro (nelle due varietà delle specie Triticum dicoccum – noto anche come emmer – e Triticum monococcum) erano i cereali piú diffusi. Veniamo, però, a uno dei due gran78 a r c h e o

di temi che danno il nome alla mostra di Francoforte: il vino. Risalgono a un periodo molto recente, infatti, scoperte relative alle prime tracce di vinificazione databili al Neolitico in Georgia, al punto che si è avviaA destra: figurina in argilla di animale, da Tsopi, regione di Kvemo Kartli. 5200-3400 a.C.

ta un’accesa discussione circa la possibilità che le origini del nettare divino siano da ricercare proprio nelle terre del Caucaso meridionale di epoca neolitica. Come è noto, la vite selvatica (Vitis vinifera subsp. sylvestris) è diffusa in tutta l’area del Mediterraneo e oltre, dalla Penisola Iberica a ovest fino alle regioni dell’Asia centrale e, ancora oggi è riscontrabile anche nelle aree boschive del Caucaso meridionale. Ora – come ricorda Svend Hansen – recentissime indagini genetiche sembrano però,


suggerire che il centro di addomesticamento della vite sia da ricercare proprio in un’area compresa tra l’Anatolia orientale e il Caucaso meridionale. A quest’ipotesi hanno dato un contributo decisivo le analisi condotte da ricercatori dell’Università della Pennsylvania su alcuni recipienti in argilla rinvenuti nei siti del Neolitico georgiano di Shulaveri e di Gadachrili Gora (databili tra il 5800 e il 5400 a.C.), in cui sono stati rinvenuti resti di acido tartarico, un acido organico naturalmente presente in molte piante e, specialmente, nell’uva. Gli scavi archeologici in numerosi siti della Georgia, databili però a un periodo di qualche millennio successivo, confermano, poi, la capillare diffusione di una vera e propria «civiltà del vino»: nella stessa mostra sono esposti grandi recipienti in argilla, tra cui un pithos destinato alla conservazione del vi-

no, rinvenuto nel sito di Kwazchelebi (Georgia orientale), alto ben 80 cm e databile al 3400-2500 a.C.; o, ancora, un piú antico vaso per derrate (datato tra il 6000 a.C. e il 5200 a.C. e rinvenuto nel sito di Khramis Didi Gora) che, lungo l’orlo, riporta la rappresentazione stilizzata di

In alto, sulle due pagine: il paesaggio collinare della regione della Cachezia, nella Georgia orientale. In basso: grande carro in legno a quattro ruote, dal kurgan di Ananauri, regione di Kacheti. 2400 a.C.

a r c h e o 79


MOSTRE • GERMANIA

La piú antica miniera d’oro del mondo Sakdrisi è il nome di un’area mineraria della Georgia sud-orientale, risalente all’età del Bronzo antico e, per tanto, considerata la piú antica miniera d’oro del mondo. La scoperta della miniera risale agli anni tra il 2005 e il 2007. Le indagini, svolte da un’équipe franco-tedescogeorgiana fino al 2013, hanno potuto stabilire che il primo utilizzo della miniera risale alla metà circa del IV millennio a.C. I reperti rinvenuti nella miniera documentano un arco di tempo esteso dal Neolitico attraverso la cultura di Kura-Araxes fino all’età del Ferro. Nel 2006, il governo georgiano aveva dichiarato il sito di Sakdrisi «patrimonio culturale». Nel 2014, però, la qualifica è stata revocata al sito per favorirne lo sfruttamento metallifero e, nonostante numerose proteste,

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In basso: figurina in oro nota come «il leone di Tsnori», dall’omonima località nella regione della Cachezia (Georgia orientale) e databile alla seconda metà del III mill. a.C.

alcuni grappoli d’uva. Particolare attenzione meritano le esplorazioni della cosiddetta Cultura di KuraAraxes, dal nome delle due grandi valli fluviali che solcano le terre del Caucaso da ovest a est. L’epoca in cui si sviluppò e fiorí questa particolare civiltà – originaria del Caucaso meridionale ma i cui tratti distintivi si diffonderanno fino nel Levante, da una parte, e nell’Altopiano iranico, dall’altra – è racchiusa tra il 3500/3300 a.C. e il 2600 a.C.

RIVELAZIONI DALL’ETÀ DEL BRONZO Numerose innovazioni caratterizzano quest’epoca: l’allevamento di una pecora dal particolare manto lanoso (viene in mente il mito del vello d’oro!) e, soprattutto, il carro e la ruota, testimoniato, tra i reperti 80 a r c h e o

esposti in mostra, da un modello di carro a due ruote rinvenuto nel sito di Badaani e datato alla seconda metà del III millennio a.C. L’oro è il secondo protagonista della storia georgiana. E non solo di quella antica, quando il Paese era noto con il nome di Cholchide e god eva d e l l a

fama di essere, appunto, ter ra dell’oro, attirando l’attenzione di figure leggendarie come Giasone e i suoi Argonauti. Viaggiando nel sud della Georgia, infatti, in direzione della frontiera con l’Azerbaigian, il visitatore giunge sul luogo di quello che, a oggi, viene considerato come la piú antica testimonianza di una miniera


il sito archeologico è stato completamente distrutto. Da sinistra a destra: perle in oro (1), dal kurgan 3 di Ananauri, 2400 a.C.; il pendente di una collana in oro (2) dal kurgan 2 di Ananauri, 2400 a.C.; anello in oro (3) da Satschkhere, datato alla metà del III mill. a.C. e considerato il piú antico reperto d’oro a oggi noto in Georgia; particolare di una fibbia in oro (4), dal kurgan 3 di Ananauri, 2400 a.C.

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d’oro sotterranea della preistoria. Siamo nella località di Sakdrisi, a una cinquantina di km a sud di Tbilisi. Qui, a partire dal 2005, archeologi dell’Università della Ruhr e del Museo dell’industria mineraria di Bochum (in Germania), in collaborazione con il Centro per la ricerca archeologica dell’Accademia Georgiana delle Scienze, hanno esplorato la superficie e i percorsi sotterranei della miniera (profondi fino a 27 m) giungendo a conclusioni eclatanti: come rivela l’archeologo Svend Hansen, già seimila anni fa – al piú tardi dal 3400 a.C. – la miniera di Sakdrisi venne sfruttata per piú di settecento anni, al fine di ricavarne il prezioso metallo. L’eccezionale maestria dell’antica arte orafa della Georgia in età protostorica è ben rappresentata, insieme a molti altri reperti aurei, dal celebre «leone di Tsnori», una piccola figura di animale stilizzato (misura 5,2 x per 2,8 cm), rinvenuta nel kurgan di Tsnori (una località della Cachezia, una provincia della Georgia orientale) e datata alla seconda metà del III millennio a.C.

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La miniera aurifera di Sakdrisi venne sfruttata per piú di sette secoli, a partire da seimila anni fa Figurine antropomorfe stilizzate, dal sito neolitico di Khramis Didi Gora. 6000-5200 a.C.

Il termine kurgan (con il quale si indicano i tipici tumuli funerari che segnano le sepolture principesche delle popolazioni eurasiatiche in età protostorica) ci introduce a un ulteriore, affascinante capitolo dell’archeologia georgiana, ben documentato nella mostra di Francoforte. Il periodo in questione, quello appunto delle culture kurganiche dell’età del Bronzo, succede cronologicamente alla Cultura di Kura-Araxes. Gli insediamenti di quest’ultima vengono abbandonati e la nuova epoca appare segnata da un sostan-

ziale cambiamento nello «stile di vita» che sembrano orientarsi verso una maggiore mobilità.Tra le grandi sepolture a tumulo tipiche di questa nuova civiltà figura la collina funeraria denominata Ananauri 3, al centro di lunghe e approfondite indagini archeologiche: tra i reperti emersi dai recenti scavi spiccano i resti di due imponenti carri in legno, datati al 2400 a.C. Il piú grande e meglio conservato dei due (con il diametro delle ruote che misura ben 1,50 cm!) è stato restaurato ed è, per la prima volta, esposto in mostra. a r c h e o 81


MOSTRE • GERMANIA

VIAGGIO IN GEORGIA Tbilisi, la capitale della Georgia, si estende sulla riva destra del fiume Mtkvari. Fondata nel V secolo d.C., è una città multietnica e multireligiosa, in cui genti e confessioni diverse convivono in assoluta armonia. Il nome della città è legato alla leggenda della sua fondazione, secondo la quale il re della Georgia, Vakhtang Gorgasali, la fondò perché affascinato dalle sorgenti sulfuree calde, che ancora oggi rappresentano un’importante attrattiva turistica, chiamandola appunto bilisi, cioè «calda». Nel centro storico, dai vicoli stretti e dalle vecchie case con balconi, si respira ancora l’antica atmosfera di città crocevia tra Europa e Asia. Da Tbilisi, dopo pochi chilometri, si giunge a Mtskheta, l’antica capitale del regno d’Iberia e della Georgia, nonché cuore della spiritualità georgiana; qui, infatti, nel 327, Santa Nino convertí il popolo georgiano al cristianesimo. La città e i dintorni presentano una

RUSSIA

Gagra

Abcasia Sokhumi

Tqvarcheli Jvari

Ochamchire

Ambrolauri Zugdidi Senaki

M a r N e ro

Poti

Kutaisi

Ossezia meridionale

Chiatura

Tskhinvali

Pasanauri

Samtredia

Akhmeta

Khashuri Kobeleti Batumi

Gori Akhalts’ikhe Vale

Tsalka

Mts’kheta

Tbilisi

Marneuli Aruchlo Kazreti Ninotsminda

Akhalk’alaki

TURCHIA

ARMENIA

grande densità di monumenti di rilevante interesse e importanza, tra cui spiccano, oltre ai resti del ponte costruito da Pompeo sul fiume Mtkvari, la cattedrale di Svetitskhoveli, risalente all’XI secolo, splendido esempio di architettura medievale. Oltre al museo, che espone le testimonianze archeologiche del regno d’Iberia, merita un’attenta visita la chiesa di Jvari o chiesa

Telavi

Rustavi

Lagodekhi Tnsori Tsit’eli-Tsquaro

AZERBAIGIAN

della Santa Croce, del VI secolo, posta sulla sommità della collina che domina Mtskheta, da cui si può ammirare uno splendido panorama; in questo luogo, nel IV secolo, la già ricordata Santa Nino si ritirò a pregare e secondo la tradizione eresse una croce, da cui il nome della chiesa. Proseguendo si giunge a Gori, la città natale di Stalin, dove si può fare una sosta per vedere la A sinistra: una veduta degli scavi nel sito neolitico di Aruchlo, indagato da una missione georgianotedesca. Il sito, caratterizzato da particolari architetture a pianta circolare, ha restituito una serie di straordinarie testimonianze della piú antica economia agricola nel Caucaso meridionale.


In basso: una veduta dell’insediamento rupestre di Uplisziche, nei pressi di Tbilisi.

fortezza medievale che sorge in cima alla grande collina a ovest del Museo di Stalin. Nei dintorni, 10 km a est di Gori, si trova la città rupestre di Uplistsikhe, uno dei piú antichi insediamenti del Caucaso, fondata alla fine dell’età del Bronzo, intorno all’XI secolo a.C., ma che si sviluppò soprattutto dal VI secolo a.C. al I secolo d.C. Da qui inizia il viaggio verso la Georgia occidentale sulle strade della Colchide, la terra del vello d’oro. Giunti a Kutaisi, la seconda città della Georgia, dalle

distrutta. Oltre alle rovine, merita di essere visitato il museo, nei cui allestimenti vengono esposti interessanti reperti archeologici, come splendidi monili d’oro, rinvenuti negli scavi dell’antica città. Da Vani ci si dirige in direzione della regione di Samtskhe-Javakheti, nota in passato come la terra di Meskheti, che occupa la parte meridionale della Georgia, caratterizzata da bellissimi paesaggi e da una natura pressoché incontaminata. La strada che conduce da Akhaltsikhe a

scavata nel fianco del monte Erusheli. Considerata un simbolo della spiritualità georgiana, Vardzia fu fatta costruire nel 1185 dalla regina Tamar, la quale creò qui un monastero, che crebbe sino a diventare una città sacra, con piú di seicento vani, in cui si pensa vivessero circa 2000 monaci. Il monastero, scavato completamente nella roccia, si articola su tredici livelli, con la chiesa dell’Assunzione posta al centro, le cui pareti interne, affrescate, raffigurano numerose scene del

antichissime origini, che conserva un ricco patrimonio di monumenti, come le rovine della cattedrale di Bagrati, sulla collina di Ukimerioni, fatta costruire nell’XI secolo da Bagrat III, il re che unificò la Georgia occidentale e orientale. Dieci km a nord-est di Kutaisi, sul versante di una collina, si trova il monastero di Gelati, fatto erigere nel 1106 dal re Davit il Costruttore, qui sepolto. Quaranta km a sudovest di Kutaisi, vi è Vani, uno dei centri piú importanti dell’antica Colchide, che secondo alcuni studiosi sarebbe stata la città del re Eete, padre di Medea, dove Giasone andò alla ricerca del vello d’oro. La città ebbe il suo periodo di maggiore splendore dall’VIII sino al I secolo a.C., quando venne

Vardzia è tra le piú spettacolari della Georgia; il percorso, che segue l’alta valle del fiume Mtkvari, presenta splendidi panorami. Di particolare rilievo, a metà strada, è la fortezza di Khertvisi, costruita sulla cima di una rupe, risalente al X secolo, che aveva un ruolo nevralgico nella difesa della regione, Percorrendo per circa dodici chilometri una suggestiva strada tortuosa dominata da gole profonde, si giunge al villaggio di Tsunda, nella cui prossimità, su di un altopiano alquanto impervio, si trova una vasta necropoli appena scoperta, una delle piú importanti aree archeologiche dell’intera Georgia. Dopo pochi chilometri si arriva al monastero rupestre di Vardzia, una vera e propria città,

Vecchio Testamento. Un terremoto, avvenuto nel 1283, distrusse quasi due terzi della città rupestre. Oggi Vardzia è una delle principali attrazioni turistiche della Georgia.

DA LEGGERE «L’oro e il vino. I piú antichi tesori della Georgia» Francoforte sul Meno, Museo Archeologico fino al 10 febbraio 2019 Orario ma-do, 10,00-18,00 (mercoledí apertura serale fino alle 20,00); lu chiuso Info www.archaeologischesmuseum-frankfurt.de a r c h e o 83


SPECIALE • ROMA

L’ARCHEOLOGIA NEL

METRĂ“

La realizzazione della terza linea della rete metropolitana di Roma dimostra come le esigenze legate allo sviluppo di una grande infrastruttura possano armonizzarsi con quelle della tutela del patrimonio archeologico. Nei cantieri aperti lungo il percorso sul quale, senza guidatore, correranno i convogli della Metro C sono state condotte indagini che hanno portato a tante e clamorose scoperte. Gli scavi hanno 84 a r c h e o


Pozzo di Piazza Celimontana. Parte di un tratto dell’acquedotto di epoca mediorepubblicana in blocchi rettangolari di cappellaccio. Metà del III sec. a.C.

permesso di acquisire dati decisivi per la storia di aree nevralgiche della capitale dell’impero, come nel caso del quartiere del Celio. Ma hanno anche svelato complessi finora mai documentati, e, soprattutto, consentiranno ai cittadini e ai visitatori sempre piú numerosi di scoprire e approfondire la conoscenza del passato nascosto sotto la città moderna di Luciano Frazzoni

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SPECIALE • ROMA

L

e indagini preliminari e i lavori per la Una veduta realizzazione della linea C della metrosatellitare politana di Roma (vedi box in questa dell’area in cui pagina) hanno portato a numerosi ritrova- sono comprese le menti archeologici, in gran parte ancora ineStazioni San diti e in fase di studio; grazie alla disponibiliGiovanni (1) tà della Soprintendenza Speciale Archeologia e Amba AradamBelle Arti e Paesaggio di Roma, possiamo Ipponio (2). presentare ai lettori di «Archeo» una panora- A sinistra, in alto, mica sui principali rinvenimenti, che stanno si riconosce restituendo un’immagine nuova e sconosciu- l’Anfiteatro Flavio ta del sottosuolo della capitale. (o Colosseo). Le indagini archeologiche preliminari di Prima Fase hanno avuto inizio nel maggio 2006. Fra le scoperte piú importanti vi è stata, tra il 2007 e il 2011, quella degli Auditoria di Adriano, in piazza Madonna di Loreto, nei pressi di

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IL PROGETTO Il progetto della linea C della metropolitana di Roma nasce per collegare il quadrante est con il quadrante nord-ovest della città. Attraverso un percorso di circa 26,5 km, che va dal capolinea di Pantano – nel Comune di Monte Compatri – fino al quartiere Prati, all’altezza di piazzale Clodio, la linea attraversa gran parte del centro storico, con un percorso parte in superficie e parte sotterraneo, prevedendo quattro interscambi con le altre linee metropolitane A (a San Giovanni e a Ottaviano) e B (al Colosseo-Fori Imperiali) e con la linea ferroviaria F1 (al Pigneto). La linea C è la prima grande infrastruttura di trasporto pubblico di tipo

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driverless a Roma, ovvero guidata e controllata a distanza in maniera automatica. La complessità e vastità del progetto ha portato a elaborare un dettagliato piano di interventi sia nella fase preliminare che durante i lavori di costruzione, concordato con Comune di Roma, il Committente Roma Metropolitane e Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma e realizzato da Metro C, sotto la Direzione Scientifica degli scavi della Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma. Le indagini preventive di Prima fase, iniziate nel 2006, hanno previsto l’apertura di cantieri archeologici e l’esecuzione di carotaggi, mentre le indagini di Seconda fase hanno comportato lo scavo integrale del volume di terreno di interesse archeologico durante l’esecuzione delle opere, e hanno interessato le Tratte T4, T5, T6A e T7, mentre sono attualmente in corso sulla Tratta T3.


Tratta T5, Stazione di Parco di Centocelle. Resti di un colombario in opera reticolata. I-II sec. d.C. Nelle nicchie sono ancora presenti le urne contenenti i resti ossei dei defunti e alcuni oggetti di corredo.

tipologia, tra cui una necropoli eneolitica (Area Parcheggio della Stazione Monte Compatri/Pantano), impianti agricoli con canalette di irrigazione e drenaggio del terreno, tracciati viari e aree di estrazione di materiale da costruzione, soprattutto tufo e pozzolana (area deposito Graniti, Area Stazione Teano, Pozzo TBM Malatesta – dove è stata scoperta anche una fornace di epoca romana –, Area Stazione Pigneto), resti di una villa romana (Area Stazione Torre Spaccata), due ambienti funerari, uno dei quali costituito da un colombario con murature in opera reticolata e probabilmente pareti rivestite da intonaco, nelle cui nicchie erano presenti le urne contenenti resti ossei e corredi dei defunti (Stazione Parco di Centocelle); infine, nel Pozzo 5.4 è stato rinvenuto un manufatto pertinente a un tratto dell’acquedotto Alessandrino. Come si vede, in epoca romana, dal IV secolo a.C. al V secolo d.C. quest’area esterna alla cinta muraria di Roma fino alle pendici dei Colli Albani era occupata soprattutto da impianti agricoli, facenti capo a ville rustiche, e produttivi (cave, fornaci), con alcune zone adibite a scopo funerario, percorse da tracciati viari secondari. I ritrovamenti piú importanti hanno però interessato la Tratta T3, che attraversa il centro storico da San Giovanni, subito fuori dal cirUNA LUNGA FREQUENTAZIONE Nel corso delle indagini di Seconda Fase, cuito delle Mura Aureliane, fino alla Stazione nell’area compresa tra le Tratte T7 e T4, sono Colosseo-Fori Imperiali; su questa tratta i stati individuati contesti archeologici di varia lavori sono ancora in corso. piazza Venezia. Si tratta di un edificio fatto costruire dall’imperatore Adriano, separato dal Foro di Traiano da una strada curvilinea, articolato su due livelli, adibito alla pubblica lettura di opere letterarie, all’insegnamento della retorica, ma anche all’esercizio dell’attività giudiziaria. Il piano terra si articolava in tre grandi aule con gradinate affrontate ai lati di un corridoio centrale, disposte a raggiera lungo la strada curvilinea. Il corridoio centrale era destinato all’oratore, che presentava il suo lavoro al pubblico, seduto sui subsellia, sedili posti sui gradoni. Si tratta dell’unico esempio di Auditorium a Roma (anche se pubbliche letture si svolgevano nei teatri, o nelle esedre del Tempio della Pace), databile in base ai bolli laterizi delle murature tra il 123 e il 125 d.C., e ancora in uso nel V secolo d.C. Benché noti da fonti letterarie ed epigrafiche, gli unici altri complessi del genere documentati archeologicamente sono gli Auditoria di Adriano ad Atene (132 d.C.), annessi alla biblioteca, e quelli di Alessandria d’Egitto (IV-VII secolo d.C.), utilizzati per l’insegnamento superiore (come le moderne aule universitarie), ma anche per pubbliche letture (recitationes), collegati all’adiacente teatro.

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LA STAZIONE SAN GIOVANNI

L’

allestimento della Stazione di San Giovanni, aperta al pubblico lo scorso 12 maggio, permette di effettuare un viaggio a ritroso nel tempo e di ricostruire l’intera storia della zona; percorrendo le moderne scale mobili ci si immerge nella stratigrafia archeologica, che riporta testimonianze dall’epoca moderna a quella preistorica, quando l’area – nel Pleistocene – era percorsa da grandi animali come l’Elephas Antiquuus.

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Stazione San Giovanni. Alcune vetrine dell’allestimento della stazione con reperti in terracotta. In basso: la sindaca di Roma Capitale, Virginia Raggi, e il Soprintendente, Francesco Prosperetti, durante l’inaugurazione della stazione, il 12 maggio 2018.

I lavori, sotto la direzione scientifica di Rossella Rea della Soprintendenza, sono stati eseguiti dalla Cooperativa Archeologia, con la consulenza scientifica di Anna Giulia Fabiani. L’attuale quartiere di San Giovanni, risalente ai primi decenni del Novecento, sorge su quello che nell’Ottocento era chiamato di via dei Canneti, interrato alla fine del XIX secolo insieme al fosso dell’Aqua Crabra (attestato con questa denominazione fin dalle fonti medievali) che percorreva la zona. L’acqua è infatti l’elemento che ha caratterizzato per secoli questa area posta al di fuori delle Mura Aureliane. Un asse viario parallelo alle mura percorreva il quartiere, e un ponticello permetteva il transito per Porta San Giovanni sull’Aqua Crabra, visibile anche in una stampa di Pirro Ligorio del 1570, e i cui resti sono stati rinvenuti nel corso degli scavi. La cartografia del Cinque-Seicento, cosí come alcune vedute ottocentesche, restituiscono l’immagine di un sobborgo a forte vocazione agricola, occupato da grandi proprietà. Le risorse idriche naturali venivano sfruttate anche per alimentare mole e mulini presenti nella zona. Le attività legate a questo sobborgo agricolo coprono un arco di circa


quattrocento anni, dal Cinquecento alla fine dell’Ottocento. Per l’epoca medievale invece si registra un lungo periodo di abbandono e di impaludamento; gli unici interventi si devono a papa Callisto II, che nel 1122 provvede all’irregimentazione delle acque, soprattutto in relazione con le produzioni legate alla basilica di S. Giovanni in Laterano. Queste opere di regolamentazione delle acque portarono a un ripopolamento

In alto: anfore utilizzate per il drenaggio delle acque. II sec. d.C. In basso: una veduta della stazione. Al centro, una vetrina con reperti marmorei.

dell’area, anche se di scarso rilievo, insieme all’impianto di mulini. Altre testimonianze di frequentazione, in questo caso a scopo funerario, sono costituite da un notevole numero di sepolture sparse, databili al V-VI secolo d.C. I periodi intermedi, privi di testimonianze archeologiche, furono caratterizzati da frequenti inondazioni e conseguente impaludamento della zona. (segue a p. 92)

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ACQUA A VOLONTÀ Ricostruzione virtuale dell’area della Stazione San Giovanni cosí come doveva presentarsi in epoca antica, quando era attraversata dal fosso dell’Aqua Crabra e da un tracciato viario a esso parallelo. L’acqua è l’elemento che ha caratterizzato per secoli la storia di questa zona extraurbana, subito fuori le Mura Aureliane, sfruttata a scopi agricoli e per alimentare mulini. Nella prima età imperiale vi si installò una azienda agricola comprendente un grande bacino idrico, il piú vasto a oggi rinvenuto nel suburbio, che, attraverso un complesso sistema di condutture e canalette idrauliche, irrigava i terreni adiacenti, adibiti alla produzione di pesche, forse le piú antiche trovate in Italia.

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Nella pagina accanto, in alto: antefissa a gocciolatoio in terracotta a testa leonina. A destra: vetrina con strumenti relativi all’azienda agricola: un forcone in ferro e vasi in terracotta (fitocelle) per la duplicazione delle talee. I sec. d.C.

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Ma la scoperta piú importante, avvenuta nell’agosto del 2012 (vedi anche «Archeo» n. 360, febbraio 2015), quando si era giunti con lo scavo ai livelli della prima età imperiale (I-II secolo d.C.), è costituita da una grande vasca, di 35 x 70 m circa, in opera reticolata, con il fondo e le pareti rivestite di cocciopesto per renderle impermeabili. Questo grande bacino idrico, della capacità di oltre 4 milioni di litri d’acqua, era alimentato dal fosso dell’Aqua Crabra e, attraverso un complesso sistema di condutture e canalette idrauliche, irrigava i terreni adiacenti. La vasca non è stata scavata completamente, ma doveva proseguire verso l’attuale piazzale Appio e in direzione delle mura (nel pavimento della Stazione San Giovanni se ne può osservare l’ingombro, evidenziato da mattonelle di tipo diverso rispetto al resto della pavimentazione). Il bacino faceva parte di una grande azienda agricola suburbana caratterizzata da frutteti e coltivazioni varie, la prima di cosí vaste dimensioni rinvenuta a Roma. Il periodo di attività dell’azienda copre all’incirca tutto l’arco del I secolo d.C., alla fine del quale viene improvvisamente abbandonata, e le L’AZIENDA E LA STAZIONE Veduta dall’alto (virtuale) del fosso dell’Aqua Crabra e del grande bacino idrico pertinente all’azienda produttiva di età imperiale; in basso: l’area occupata dalla Stazione San Giovanni (in rosso) sovrapposta alla situazione antica.

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strutture idrauliche vengono rasate e completamente interrate. Questo fatto è probabilmente da collegare con la decisione di Frontino, nominato nel 97 d.C. curator aquarum da Traiano, di interrompere l’afflusso dell’Aqua Crabra a Roma per destinarne l’uso esclusivamente alle campagne fuori città. I numerosi noccioli di pesca, rinvenuti in tutta l’area, fanno pensare che la principale coltivazione dell’azienda agricola fossero gli alberi di pesco, frutto introdotto a Roma poco tempo prima dalla Persia. Molte tegole e canalette in terracotta recano il bollo «TL», verosimilmente riferibile a un unico produttore. Fra i reperti recuperati, oltre a numerose anfore utilizzate per il drenaggio dei terreni, si segnalano lastre in terracotta con figure di Menadi e Sileni (anch’esse con il bollo TL), antefisse a testa leonina e di lupo, ma, soprattutto, resti di materiali organici, conservatisi grazie alla particolare natura del terreno. Tra questi, cesti in vimini, suole in cuoio di calzature, due aste in legno di frecce, una delle quali ancora con la punta in ferro e addirittura parte della cordicella usata per stringere il cappuccio sopra la freccia. Infine, la copertura di una fognatura rea-

Sulle due pagine: confronti tra le ricostruzioni virtuali e i resti archeologici del bacino idrico, la cui capacità era pari a oltre 4 milioni di litri. La vasca misurava 35 x 70 m, era stata realizzata in opera reticolata e aveva le pareti e il fondo rivestiti in cocciopesto per renderli impermeabili. I sec. d.C. L’ultima foto (nella pagina accanto, in basso) documenta il contesto alla fine dello scavo.


lizzata con tavole lignee appartenenti a varie essenze, perfettamente conservate. Tornando ancora piú indietro nel tempo, alcuni argini in blocchi di cappellaccio testimoniano lavori di sistemazione dell’area risalenti al III secolo a.C., mentre tracce di frequentazione di epoca arcaica (VI-V secolo a.C.) costituite da un tracciato viario, un pozzo e canali agricoli, sono venute alla luce al di sotto del grande bacino idrico, a conferma dello sfruttamento nei secoli delle risorse idriche, a scopo agricolo, fornite dal fosso dell’Aqua Crabra. L’esposizione e la parziale ricontestualizzazione dei ritrovamenti e delle canalizzazioni idrauliche, visibili all’interno della Stazione di San Giovanni, costituiscono un modello di moderna conservazione e valorizzazione degli aspetti archeologici, che in altri tempi sarebbero andati perduti.

IL POZZO DI VIA SANNIO Nei giardini di via Sannio, subito fuori delle Mura Aureliane, a circa 14 m di profondità è stato individuato un grande portico largo 9 m e lungo circa 60, ma che doveva sicuramente continuare oltre i limiti dello scavo; il portico dava le spalle alla collina del Laterano e si affacciava lungo la valle delimitata dal fosso dell’Aqua Crabra. Il piano pavimentale è costituito da un massetto cementizio, mentre la parete di fondo era rivestita da lastre marmoree nella parte inferiore e intonaci dipinti nella parte piú alta. Nella parte che invece affacciava sulla valle correva un lungo muro in opera reticolata su cui poggiava un porticato; in corrispondenza di ogni pilastro vi erano piante rampicanti. Secondo l’interpretazione di Rossella Rea, l’edificio è da identificare in un galoppatoio facente parte di una villa, un luogo dove fare passeggiate a cavallo e praticare attività fisica. La villa, di cui non si conosce il proprietario, doveva svilupparsi su terrazzamenti dalla sommità del Celio verso il fosso dell’Aqua Crabra. Il portico prospettava su un giardino in cui sono state rinvenute le fosse di piantumazione delle piante. Il complesso presenta varie fasi, la prima del I secolo d.C., risalente all’epoca di Claudio; successivamente viene ristrutturato almeno due volte, per poi essere abbandonato e interrato in epoca flavia (seconda metà-fine del I secolo d.C.). Lo scavo ha messo in luce anche piccoli ambienti con a r c h e o 93


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opere di canalizzazione idrica e un ambiente riscaldato con il sistema a ipocaustum, del quale sono ancora in situ parte delle suspensurae. In uno di questi ambienti è stato ritrovato uno scheletro, appartenente probabilmente a un asino. Anche qui, come nella vicina Stazione di San Giovanni, la caratteristica del sito sembra essere quella dello sfruttamento delle acque, come testimonia anche un canale rivestito in laterizi bollati rinvenuto ai lati del muro perimetrale del cantiere, nel lato opposto agli ambienti di servizio. Ma l’eccezionalità dello scavo è ben altra: nelle fondazioni dei muri che delimitano il portico, sono state rinvenute le armature lignee delle fondazioni stesse. Si tratta di un ritrovamento eccezionale (ma abbastanza diffuso nei cantieri della Metro C), dovuto alla caratteristica argillosa e umida del terreno, dove, in mancanza di ossigeno, si creano le condizioni favorevoli per la conservazione

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delle strutture lignee e organiche, un po’ come avviene nei fondali marini. Le strutture lignee per la gettata delle fondazioni cementizie dei muri sono state asportate per essere opportunamente conservate. L’intervento di rimozione, delicatissimo a causa della fragilità dei reperti, esposti improvvisamente agli agenti atmosferici dopo secoli di interramento, è stato seguito da Antonella Di Giovanni e Stefano Ferrari dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro. La messa in opera delle tavole lignee prevedeva la loro disposizione in senso orizzontale all’interno, e verticale all’esterno. Le assi orizzontali risultano particolarmente lunghe, fino a 3 m circa. Una vera sorpresa è stato il rinvenimento di un perno ligneo a sezione circolare, disposto in senso longitudinale e che sosteneva i due lati del tavolato, originariamente affogato nella gettata cementizia contenuta dalla cassaforma lignea, che si è

Ricostruzione virtuale dell’area della Stazione San Giovanni nella prima età imperiale, con il bacino idrico, il fosso dell’Aqua Crabra, il frutteto di alberi di pesco; sullo sfondo, il tracciato viario che attraversa il fosso mediante un ponte ad arcate.


re le Mura Aureliane (compensation grouting). Dallo scavo sono emersi tre ambienti risalenti a epoca traiano-adrianea, con rifacimenti di epoca severiana. Questi ambienti sono stati distrutti da un incendio scoppiato intorno alla metà del III secolo d.C. L’eccezionalità del ritrovamento consiste nel fatto che sono state rinvenute, perfettamente conservate, benché carbonizzate, le travature lignee che sorreggevano il solaio del piano superiore, insieme al tavolato e alle preparazioni del pavimento a mosaico. L’incendio si rivelò letale per un cane e due polli, morti o asfissiati o in seguito al crollo del tetto, i cui scheletri sono stati trovati in un angolo presso la porta di una delle stanze, al di sotto delle travature lignee. Questi tre ambienti sono da mettere in relaIL POZZO Q15 Il Pozzo Q15 si trova in largo Amba Ara- zione con la vicina caserma militare emersa dam; si tratta di un piccolo pozzo di 8 m di per gli scavi della stazione di Amba Aradamdiametro, avente la funzione di salvaguarda- Ipponio (vedi alle pagine che seguono). potuto estrarre. Altri cinque perni rinvenuti nel tavolato non si sono invece potuti recuperare in quanto ancora inglobati nell’opera cementizia. Altre strutture lignee sono state rinvenute sotto al muro originariamente affiancato dalla canaletta foderata da mattoni bollati. In questo caso la struttura è costituita da soli assi orizzontali a fasce sovrapposte; una scoperta eccezionale, con decine di metri di assi di legno ordinatamente disposti a contenere le varie gettate di fondazione, il primo mai rinvenuto a Roma. I risultati delle analisi effettuate sulle tavole lignee, hanno restituito una datazione intorno al 40-50 d.C.; si tratta di legno di quercia proveniente dalle foreste dell’alta valle del Reno.

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LA STAZIONE DI AMBA ARADAM-IPPONIO

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ell’area di questa stazione ha avuto luogo uno dei rinvenimenti piú importanti, che ha costituito una vera sorpresa. Condotti tra la fine del 2015 e la primavera del 2016, gli scavi hanno messo in luce, a 9 m circa di profondità, un lungo edificio, formato da una quarantina di ambienti affrontati tra loro e divisi da un corridoio, largo appena 80 cm, con le porte di accesso sfalsate tra di loro. Questa tipologia architettonica ha fatto subito pensare che ci si trovasse in presenza di una caserma militare. Il sistema delle porte sfalsate permetteva infatti ai soldati di disporsi rapidamente in fila nel corridoio senza intralciarsi. Tutta l’area compresa tra il Celio e il Laterano era occupata da edifici adibiti ad alloggiamenti militari, come i Castra Priora Equitum Singularium rinvenuti in via Tasso, i Castra Nova Equitum Singularium localizzati sotto la basilica di S. Giovanni in Laterano, i Castra Peregrinorum al di sotto della chiesa di S. Stefano Rotondo e la statio della V Coorte dei Vigili presso la chiesa di S. Maria in Domnica, lungo il fianco occidentale dell’odierna piazza della Navicella. Un frammento della Forma Urbis (la pianta marmorea di Roma risalente all’epoca di Settimio Severo, affissa su una parete del Tempio della Pace), rinvenuto nel 2012 durante gli scavi nell’aula di culto di Pax, mostra un edificio del tutto simile a quello di Amba Aradam, con una doppia fila di piccoli ambienti contrapposti, una delle quali si apre su uno stretto corridoio. Questo frammento sembrerebbe, in via ipotetica allo stato degli studi, riprodurre una parte della caserma della V Coorte dei Vigili, che doveva svilupparsi su due o tre file di blocchi paralleli di alloggi dei militari. Tutti questi complessi, edificati in età traiano-adrianea, formavano dunque un vero e proprio quartiere militare. 96 a r c h e o

Stazione di Amba Aradam-Ipponio. Uno degli ambienti della Domus del Comandante della caserma, con pavimento a mosaico a tessere bianche e nere, con motivi geometrici, floreali e zoomorfi entro riquadri. Prima metà del II sec. d.C.



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Sulle due pagine: il pavimento in mosaico di uno degli ambienti della Domus del Comandante, con motivi geometrici e pannello con amorino danzante insieme a un satiro. A destra: corridoio e stanze dei soldati della caserma. Prima metà del II sec. d.C.

Mentre dei castra sopra menzionati conosciamo la denominazione, la caserma rinvenuta nella Stazione di viale Ipponio è al momento sconosciuta, e oltretutto ricade al di fuori dell’area della città antica riprodotta nella Forma Urbis. L’edificio, che forse si sviluppava su due o piú piani superiori, è databile alla prima metà del II secolo d.C., in epoca traiano-adrianea, e comprende 39 ambienti, 25 dei quali a pianta quadrangolare delle stesse dimensioni (4 x 4 m circa), adibiti ad alloggio dei soldati, oltre ad ambienti probabilmente di servizio. Alcuni alloggi dei soldati erano pavimentati a mosaico a tessere bianche e nere con motivi geometrici, mentre le pareti erano dipinte ad affresco; le strutture murarie sono in opera reticolata con filari di laterizi.

LA DOMUS DEL COMANDANTE Circa 3 m piú in basso rispetto ai dormitori dei militari, sono emersi, all’inizio del 2018, altri due edifici, parte integrante della caserma, di cui formano due ali lungo i lati est e ovest, disposti a una quota piú bassa in quanto seguono l’originaria orografia della zona, degradante in direzione nord verso il corso dell’Aqua Crabra. I due complessi sono contemporanei alla costruzione della caserma (prima metà del II secolo); il complesso est, a cui si accede attraverso alcuni gradini che portano a un corridoio pavimentato in opus spicatum (ossia con mattoncini disposti a spina di pesce), è una vera e propria domus, con 14 ambienti disposti attorno a un cortile centrale, anch’esso in opus spicatum, con una fontana e vasche rivestite in marmo. I pavimenti delle stanze sono in opus sectile a quadrati di marmo bianco e ardesia grigia, a mosaico di tessere bianche e a r c h e o 99


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nere con motivi geometrici e figurati (un pannello mostra un amorino che danza insieme a un satiro sotto una pergola) o in cocciopesto, mentre le pareti sono decorate con intonaci dipinti o bianchi. Sia i pavimenti che gli intonaci parietali sono stati piú volte rifatti; nell’ultima fase di vita la domus è stata dotata di una scala per accedere a un piano superiore, dove dovevano trovarsi uffici o dormitori. Un ambiente della residenza era sicuramente riscaldato, in quanto si sono trovate le suspensurae che formavano l’intercapedine al di sotto del pavimento per il passaggio dell’aria calda. Come si vede, si tratta di una domus di un certo pregio. Poiché è impensabile che una residenza privata potesse essere costruita cosí vicino a un edificio militare di proprietà imperiale, si è ritenuto che costituisse la casa del comandante della caserma o almeno di un alto ufficiale.

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In alto: Domus del Comandante. Particolare del pavimento a mosaico di uno degli ambienti, con amorino che danza insieme a un satiro sotto una pergola. In basso: mosaico con motivi geometrici entro riquadri delimitati da trecce e al centro amorino e satiro danzanti.

L’ala a ovest della caserma, simmetrica alla domus, sicuramente piú vasta di quella scavata – in quanto le strutture proseguono al di là della paratia che delimita la stazione moderna –, presenta pavimenti in opus spicatum, vasche e un complesso sistema di canalizzazioni idrauliche sottostanti. Inoltre, attraverso una soglia in blocchi di travertino, era in comunicazione con una strada basolata con andamento est-ovest. Si tratta evidentemente di una struttura di servizio, nella quale, grazie a questo tracciato viario, venivano stoccate merci o attrezzature connesse con il funzionamento della caserma.

SPOLIAZIONE SISTEMATICA Nella seconda metà del III secolo, tutto questo complesso di edifici (comprendente i dormitori della caserma, la casa del comandante e gli ambienti di servizio) viene dapprima dismesso, poi i muri vengono rasati tutti alla stessa quota (1,5 m circa), e infine completamente interrato, dopo aver subíto una sistematica spoliazione di tutto ciò che poteva essere recuperato (tubature di piombo, elementi architettonici, persino le macerie dei muri abbattuti, probabilmente riutilizzate nella costruzione delle Mura Aureliane). Questo drastico intervento è sicuramente da mettere in relazione proprio con la costruzione delle Mura Aureliane (271-275), che doveva prevedere un’area sia all’interno, ma soprattutto all’esterno, libera da edifici che potevano essere sfruttati dai nemici come nascondigli o riparo in caso di assedio.


Il complesso di edifici rinvenuto per la realizzazione della Stazione di Amba AradamIpponio presenta diversi elementi di eccezionale importanza. Per prima cosa, il notevole stato di conservazione degli ambienti, che permettono di conoscere in maniera approfondita un edificio a carattere militare; inoltre la casa del comandante della caserma è il primo esempio conosciuto a Roma (altri casi si trovano nei castra disposti lungo il limes, il confine dell’impero). Un ulteriore elemento che rende questi ritrovamenti eccezionali è l’enorme quantità di materiale ligneo recuperato; qui, come nella Stazione di San Giovanni e nel Pozzo di via Sannio, le particolari condizioni del terreno a queste profondità hanno permesso che si conservassero in buone condizioni sia resti delle

Stazione Amba Aradam-Ipponio. Uno degli alloggi dei soldati della caserma, con pareti rivestite da intonaco dipinto con riquadri in rosso. Prima metà del II sec. d.C.

cassaforme utilizzate per edificare le fondazioni dei muri (tavole e ritti ritrovati ancora in situ sulle fondazioni), sia elementi di carpenteria (tavole, travi, travetti) accatastati o gettati in fondo a fosse. La Domus del Comandante è stata selezionata tra le cinque finaliste dell’International Archeological Discovery Award «Khaled al-Asaad» del 2018, uno dei maggiori riconoscimenti mondiali per la piú importante scoperta archeologica dell’anno, promosso da UNESCO e UNWTO con il supporto della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico (BMTA) e delle piú importanti pubblicazioni internazionali del settore, tra cui «Archeo». Il premio è intitolato al grande archeologo di Palmira, ucciso dall’ISIS per aver protetto il patrimonio culturale della città siriana.

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UN’OPPORTUNITÀ STRAORDINARIA Incontro con Simona Morretta Simona Morretta, Funzionario Archeologo della Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma, ha seguito parte delle indagini preventive condotte nei cantieri della Metro C. Le abbiamo chiesto di riepilogare le tappe piú salienti del lavoro finora svolto.

◆ Dottoressa Morretta, ci può

ricordare le principali scoperte avvenute per i lavori della Metro C nel tratto di sua competenza?

La Tratta T3 della Metro C ha costituito un’importante opportunità, perché ha consentito indagini di ampie dimensioni, che hanno toccato profondità irraggiungibili con i normali scavi archeologici, addirittura oltre i 20 m. Ciò ha permesso di recuperare dati

scientifici per tutto il sedime archeologico antropizzato delle zone interessate. I rinvenimenti di cui mi sono occupata sono il Pozzo 3.2 di piazza Celimontana, il piccolo Pozzo Q 15 di largo Amba Aradam, la seconda fase dello scavo della Stazione Amba Aradam, che ha restituito la Domus del Comandante (la prima parte dello scavo è stata seguita da Rossella Rea) e infine ho affiancato Rossella Rea rispettivamente negli scavi della Stazione San Giovanni, del Pozzo di via Sannio e della Stazione Fori Imperiali. Il Pozzo di piazza Celimontana, di fronte all’Ospedale militare del Celio, si trova all’interno delle Mura Aureliane e Serviane. Qui abbiamo potuto indagare tutta la

Stazione Amba Aradam-Ipponio. Due ambienti adibiti ad alloggio dei soldati della caserma pavimentati a mosaico con motivi geometrici. Prima metà del II sec. d.C.

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stratigrafia antropizzata, dalla distruzione delle case popolari nel 1970 fino al ritrovamento di una tomba dell’età del Ferro della fine del IX secolo a.C., in uno spessore di circa 19-20 m per una superficie di 800 mq. Abbiamo raccolto una mole di dati immensa, che proprio per questo quartiere antico del Celio era piuttosto scarna, e che potrà costituire la base per ricostruirne la storia. Fra i ritrovamenti, spicca la già ricordata porzione di acquedotto. Abbiamo ritrovato per l’intero diametro del pozzo, 30 m circa, un tratto di acquedotto antico, probabilmente da identificare con l’Anio Vetus o con l’Aqua Appia. Lo scavo archeologico del pozzo di piazza Celimontana si è concluso alla fine del 2016, e stiamo ora lavorando alla sua messa in fase e alla prima classificazione dei materiali. Spero di mettere presto in campo la pubblicazione per restituire alla comunità scientifica, ma anche a chiunque sia interessato all’argomento, le informazioni che sono emerse. Quello di piazza Celimontana è un pozzo inter-tratta tra le Stazioni Fori Imperiali e Amba Aradam, che non sarà frequentato da nessuno e che deve rimanere libero per consentire l’aerazione della galleria sotterranea. Parte delle strutture rinvenute è stata delocalizzata, l’acquedotto è stato smontato e depositato nel campo base di Metro C, e abbiamo intenzione di rimontarne almeno un tratto in una sede opportuna. In largo Amba Aradam lo scavo di un piccolo pozzo di 8 m di diametro di compensation grouting, cioè progettato per la salvaguardia delle Mura Aureliane, ha dato risultati piuttosto eccezionali: abbiamo rinvenuto tre ambienti antichi di epoca traiano-adrianea, con rifacimenti successivi di epoca severiana, distrutti da un incendio verso la metà del III secolo d.C.

L’eccezionalità del ritrovamento è data dal solaio ligneo che divideva il piano terra dal primo piano crollato, rinvenuto carbonizzato, ma ben conservato. Sembra quasi di leggere Vitruvio, perché abbiamo trovato le travi portanti, i travetti, il tavolato superiore, anche frammenti del pavimento in mosaico della stanza superiore, con le preparazioni; non solo, ma è stato trovato anche quello che c’era sotto il solaio, ovvero il soffitto di intonaco, che ancora conserva le tracce in negativo dei cordini che legavano l’incannucciata al tavolato del solaio. È un rinvenimento particolare, perché, sebbene si tratti di legno carbonizzato, è stato possibile imballare e delocalizzare tutti gli elementi, che potranno essere studiati. È un’acquisizione importante, perché l’elemento legno per Roma è molto raro, in quanto il clima e la conformazione del terreno non ne hanno mai favorito la conservazione, se non a queste profondità. Per la Stazione Amba Aradam i carotaggi non avevano fornito molti indizi di strutture murarie nel sottosuolo e la scoperta della caserma e della Domus del Comandante è stata una vera sorpresa. Anche qui quel che è venuto alla luce è stato smontato, portato in superficie e conservato nei container messi a disposizione da Metro C. La possibilità di delocalizzare muri e rivestimenti ci ha permesso di esplorare le fasi precedenti di vita di questi edifici, che hanno restituito informazioni straordinarie, ora in fase di sistemazione. È in corso la messa in fase dello scavo e tutti i reperti archeologici sono stati lavati e vengono ora preclassificati per le datazioni di strato.

◆ Come saranno valorizzati? Vorremmo rimontare tutte le strutture

murarie che componevano la caserma in un grande ambiente all’interno della stazione, alla quota e nella posizione nella quale sono state rinvenute, quindi creando una vera stazione archeologica. È un progetto ambizioso sul quale stiamo lavorando grazie anche alla volontà e all’impegno del Soprintendente Prosperetti.

◆ In che modo queste scoperte

stanno cambiando le conoscenze della storia e della topografia di Roma e in particolare del Celio? La caserma di Amba Aradam rientra nella cintura di installazioni militari che, a partire dall’età traiano-adrianea, si viene a costituire nella parte sud della città con la fondazione di edifici aventi funzioni diverse e che mirava a unire e proteggere questa parte della città. Il Pozzo di piazza Celimontana è particolarmente significativo perché sul Celio, come ho già ricordato, nessuno scavo archeologico aveva mai raggiunto quote analoghe. E le nostre indagini hanno restituito dati per l’epoca arcaica e repubblicana che forniranno sicuramente risultati nuovi.

◆ Un messaggio per i lettori di

«Archeo»… Li invito a visitare la Stazione San Giovanni, già allestita come un museo, perché oltre a essere un unicum nel mondo, offre un’idea di come abbiamo lavorato. Tra l’altro, lo si racconta in video piuttosto accattivanti, con i quali abbiamo voluto spiegare come il lavoro svolto sia stato in parte restituito alla cittadinanza, e ancora lo sarà con maggior approfondimento in seguito, sempre nel rispetto del bene culturale.

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SPECIALE • ROMA

IL POZZO DI PIAZZA CELIMONTANA

D

urante la costruzione di un grande pozzo di aerazione, del diametro di 32 m circa in piazza Celimontana, di fronte all’Ospedale militare del Celio, è stata fatta, negli ultimi mesi del 2016, una delle scoperte piú interessanti dei cantieri della Metro C. La presenza delle paratie in cemento armato, che scendono a una profondità di 20 m dall’attuale piano stradale, ha permesso di effettuare uno scavo stratigrafico completo, su una superficie di 800 mq, individuando le fasi di vita di questa zona della città dall’epoca moderna fino all’età del Ferro. La scoperta piú sensazionale, avvenuta a 17,5 m di profondità, è un tratto di acquedotto intatto, che copre l’intero diametro del pozzo (32 m), di cui si ignorava completamente l’esistenza. La struttura, alta circa 2 m, è in blocchi rettangolari di tufo grigio, il cosiddetto cappellaccio, ed è databile in base al materiale recuperato a poco prima della metà del III secolo a.C. Benché non si sappia da dove provenga, né dove arrivasse (ma sicuramente continua oltre il limite delle paratie), si può ipotizzare che si tratti, sulla base anche di quanto ci dice Frontino, di un tratto o dell’Anio Vetus o dell’Aqua Appia, il primo acquedotto costruito a Roma. Siamo dunque in presenza di un tratto di acquedotto, perfettamente conservato con la sua copertura, di una grande quantità di dati; grazie allo studio epoca medio-repubblicana. condotto dagli archeozoologi e dagli archeobotanici, si è potuto ricostruire anche la dieta degli abitanti del Celio nelle varie epoOGNI EPOCA HA LA SUA DIETA Il monumento ha subito interventi di manu- che. Si è notata una differenza tra l’alimentatenzione e di restauro già in epoca antica, e zione dei primi secoli dell’impero, basata sul ha avuto una durata di vita di diversi secoli. consumo di animali domestici (per esempio L’interno è risultato interrato; questo ha per- polli, galli, capponi, o anche cinghiali) e quelmesso di datarne anche l’abbandono nella la di epoca tardo antica, quando questa zona prima età imperiale; successivamente la strut- della città era occupata dalle residenze signotura fu utilizzata non piú come acquedotto, rili di ricche famiglie appartenenti all’ordine ma come fogna, infine, in epoca tardo-antica, senatorio (dei Simmachi, di Gaudenzio, di con lo scoperchiamento di alcuni tratti, come Mario Massimo), che potevano cibarsi di immondezzaio, i cui strati hanno restituito cibi esotici e rari, come cigni, fagiani, gru, e molti resti di pasti. Tutto questo ha fornito pesci come la cernia bruna. 104 a r c h e o

Pozzo di piazza Celimontana. Tratto di acquedotto, perfettamente conservato, di epoca mediorepubblicana (Anio Novus, Aqua Appia?) realizzato in blocchi rettangolari di tufo grigio. Metà del III sec. a.C.


Oltre ai resti dell’acquedotto, lo scavo ha portato al rinvenimento, alla profondità di 18 m, di una tomba il cui corredo, costituito da due ciotole, permette di collocarla nell’età del Ferro (fine del IX-inizi dell’VIII secolo a.C.), una scoperta assai rara a Roma per questa fase cosí antica. Lo scavo del pozzo di piazza Celimontana, proprio per la sua profondità, costituisce dunque un’ importante e irripetibile occasione per studiare l’intero sviluppo insediativo del Celio dall’epoca moderna (ossia dalla demolizione delle case popolari nel 1970) fino all’età del Ferro. Da questa breve panoramica dei ritrovamenti effettuati nei cantieri della Metro C, si può

comprendere la grande opportunità che questi lavori stanno offrendo alla città di Roma per una maggiore conoscenza della sua storia passata, proiettandola però in un futuro in cui, finalmente, dopo tanti interventi distruttivi effettuati in passato (e questo non può che riportare alla mente una famosa scena del film Roma di Federico Fellini, in cui, durante i lavori per la linea A, viene scoperta una domus che piano piano si sgretola sotto gli occhi degli scavatori) le esigenze della vita quotidiana convivono e si integrano con le testimonianze del passato, contribuendo in maniera determinante a restituire un’immagine nuova e dinamica della Capitale. a r c h e o 105


SPECIALE • ROMA

LA STORIA DI UNA CITTÀ Incontro con Francesco Prosperetti Sui lavori per la Metro C abbiamo raccolto anche il parere di Francesco Prosperetti, Soprintendente della Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma.

◆ Professor Prosperetti, che cosa

hanno significato per la Soprintendenza i cantieri della Metro C? La realizzazione delle stazioni e delle strutture di servizio di Metro C costituiscono una straordinaria opportunità, senza precedenti a Roma, di conoscenza archeologica e storica. Dopo i sondaggi preventivi, si è scelto di fare i confinamenti dello scavo realizzando per prime le paratie in cemento armato: al loro interno una volta raggiunte le quote archeologiche, si lavora con metodo scientifico. Questa prassi ha costituito un unicum per uno scavo urbano di un’opera pubblica: raggiungere quote che si trovano tra 2 e 12 m, per esempio ad Amba Aradam, ma anche fino a 20 m, come nel Pozzo di Celimontana, con uno scavo stratigrafico. Significa dare alla ricerca archeologica un orizzonte mai visto prima in uno scavo urbano. È l’opportunità di conoscere non solo i materiali archeologici, ma tutta la loro storia all’interno di contesti significativamente ampi, si pensi che abbiamo superfici non inferiori ai 100 mq.

◆ Dopo i lavori per le linee A e B, che hanno comportato prevalentemente la distruzione dei resti archeologici, e per i quali non rimane quasi alcuna

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documentazione, la realizzazione della Metro C ha fatto registrare un grande cambiamento «culturale», che ha comportato la massima attenzione per l’aspetto archeologico. Si è finalmente compreso che esso è un importante valore aggiunto nella realizzazione dell’opera, e un modo per restituire alla città, ai cittadini e anche ai turisti nuovi elementi per la ricostruzione storica e archeologica delle aree interessate. Come è avvenuto tutto ciò? Direi che il cambiamento culturale è iniziato grazie a un’evoluzione normativa, vale a dire con le direttive sull’archeologia preventiva. Rispetto al passato, l’attenzione è stata rivolta non solo ai beni culturali visibili, ma anche a quelli non visibili, sotto terra, cioè ai beni archeologici. Grazie a questo cambio di prospettiva si è potuto affrontare anche per la realizzazione della Metro C, il tema della protezione dei beni archeologici ma con una importante novità: nel capitolato di Metro C la Committenza ha voluto inserire il dovere da parte del Contraente Generale, cioè di chi realizza l’opera, di far fronte alle spese derivanti dai ritrovamenti archeologici, attingendo a una specifica riserva finanziaria contenuta nel quadro economico del progetto. Ciò permette di lavorare con una tranquillità mai vista prima, perché a Roma il ritrovamento

archeologico non è l’eccezione, ma la regola. C’è stato dunque un budget previsto dai fondi della Metro e c’è stato anche un fondo messo a disposizione dal Ministero attraverso Arcus (Società per lo sviluppo dell’arte della cultura e dello spettacolo, dal 2016 confluita in Ales-Arte Lavoro e Servizi S.p.A., società in house del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, n.d.r.). Nonostante alcuni abbiano voluto interpretare per l’ennesima volta questo modo di affrontare il rischio archeologico come un impedimento alla realizzazione delle opere pubbliche, posso dire serenamente che non è cosí, e la dimostrazione è proprio il diverso modo in cui abbiamo affrontato la realizzazione delle prime due stazioni che si trovano nella città storica.

◆ Partiamo da quella di San

Giovanni... È un esempio di come l’archeologia possa raccontare la storia di una parte di città. Con lo scavo si è potuti arrivare alla comprensione di un contesto vasto, dove con le varie stratigrafie si sono ricostruite le vicende dell’area di San Giovanni, dalla preistoria fino ai giorni nostri. C’è stata poi l’interessantissima scoperta a 12 m di profondità di una struttura immateriale dal punto di vista archeologico: un’azienda agricola della prima età imperiale di cui sono stati ritrovati non solo i resti degli edifici, ma anche i suoli produttivi. E questa azienda ci racconta di un imprenditore ingegnosissimo che organizza un sistema di irrigazione, parte in scorrimento parte con i tubi in pressione, le cosiddette fitocelle (vasi in terracotta forati per il drenaggio dell’acqua, n.d.r.) per la replicazione delle piante, e infine la presenza di alberi di pesco, probabilmente i piú antichi ritrovati in Italia, e che allora erano un bene


Pozzo di Piazza Celimontana. Sezione dell’acquedotto in blocchi di tufo con parte del suo interro in fase di scavo.

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SPECIALE • ROMA

di lusso importato dall’Oriente. Insomma una struttura produttiva dal punto di vista agronomico di grande modernità.

◆ Come presentare universi di tale

complessità? Intanto è senza precedenti la possibilità di raccontare: in passato anche in altri Paesi europei la scelta è stata di esporre nelle stazione della metropolitana alcuni ritrovamenti in uno stile un po’ museale. Al contrario, questa volta si è preferito utilizzare la stazione come uno spazio didattico, seppure con alcuni artifici. Per esempio lo Stratigrafo, cioè quello strumento che permette di legare la profondità a un’epoca, e che accompagna il viaggiatore indicandogli l’età storica che corrisponde al livello in cui si trova. L’intero allestimento, dalle vetrine ai video, fino ai pezzi scelti per l’esposizione, è pensato in maniera empatica, come un viaggio nel tempo, nella storia di quel quartiere. L’utente può vivere la Stazione di San Giovanni su diversi registri, ci può essere il viaggiatore frettoloso, che si incanta solo a veder la forza delle immagini degli oggetti, e ci può essere chi vuole entrare nello specifico, trovandosi di fronte alle vetrine e ai supporti multimediali e può comprendere fino in fondo questa storia.

◆ Nello scavo per la Stazione di

Amba Aradam la situazione è diversa? Se a San Giovanni si è trattato di un ritrovamento immateriale, ad Amba Aradam la situazione è opposta: un Stazione Amba Aradam-Ipponio. Gli alloggi dei militari divisi da uno stretto corridoio della caserma. Le porte di ingresso sfalsate permettevano ai soldati di disporsi rapidamente in fila nel corridoio senza intralciarsi tra loro.

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edificio unitario, una caserma di epoca adrianea, con tanto di camerate e alloggi per alti ufficiali, che copre oltre il 60% dell’intero scavo. Un ritrovamento eccezionale, per vastità e qualità, che ci ha obbligato a un approccio diverso, perché l’atteggiamento progettuale si deve affinare caso per caso, in rapporto a quello che viene scoperto. La scelta, per quanto complessa nella sua realizzazione, è quella di far convivere la stazione con il ritrovamento archeologico, che ora è smontato e conservato in container climatizzati ma sarà rimontato come era e dove era, una volta che i lavori di costruzione della stazione saranno ultimati. Oltre a far convivere la parte tecnica e la parte archeologica, occorre anche costruire un rapporto visivo tra i resti di questo edificio militare e le vicine Mura Aureliane. Il progetto, che sarà presto presentato, non sarà quello di una stazione-museo, né di un racconto, ma della realtà di uno scavo. I visitatori, non solo i viaggiatori – perché sarà separato lo spazio d’uso archeologico rispetto a quello della stazione –, potranno goderne sentendosi come gli archeologi di fronte a uno scavo nel quale i reperti siano stati appena riportati alla luce.

◆ Quali sono state le difficoltà

affrontate per la realizzazione dell’apparato espositivo della Stazione San Giovanni? Definirei un miracolo la realizzazione di San Giovanni, perché è il frutto di una pressione costante esercitata dalla Soprintendenza, che ha funzionato. Se, infatti, nel progetto di Metro C c’è stata una attenzione nuova e innovativa per la conservazione del patrimonio archeologico, mancava invece una sensibilità per la valorizzazione. Come Soprintendenza non possiamo ritenerci soddisfatti soltanto se si conserva, ma dobbiamo promuovere

anche la fruizione e quindi la valorizzazione dei ritrovamenti. È stato soltanto grazie all’impegno mio e dei miei collaboratori se si è cambiato rotta in corso d’opera: una metropolitana che nel terzo millennio attraversa il sottosuolo di Roma deve essere contestualizzata proprio nel suo concetto architettonico, tanto che sia nel caso di San Giovanni, sia in quello di Amba Aradam abbiamo chiesto e ottenuto dal Contraente Generale, e prima ancora da Roma Metropolitane, il cambio completo del progetto. Ciò ha causato non pochi problemi con l’Autorità Nazionale Anti Corruzione (ANAC), che ha voluto capire perché ci siano stati cambiamenti non previsti nella progettazione delle stazioni. Dopo averlo incontrato, Raffaele Cantone (Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione) ha dovuto però convenire che non aveva senso conservare i materiali archeologici per chiuderli in un magazzino, ma che di fronte alla possibilità che avevamo di rendere fruibili i ritrovamenti, sebbene comportasse un incremento della spesa, si trattava di un costo sociale e culturale che l’opera doveva sostenere. Infine il successo mediatico che hanno riscosso sia i ritrovamenti, sia la Stazione di San Giovanni ha avuto la sua parte nell’indirizzare diversamente i progetti. E altrettanto conto di fare per la Stazione Fori Imperiali.

◆ È un restituire alla città la sua

storia… Le città contemporanee si vivono sottoterra, e si somigliano tutte, perché se prendo una metropolitana a Londra, Parigi o Vancouver cambia poco, sono i cosiddetti non luoghi di cui scrive Marc Augé: allora se la percezione delle città avviene attraverso le infrastrutture di trasporto, facciamo sí che anche queste abbiano una loro cifra.

Che la metropolitana debba rispettare l’identità del luogo è un principio che sta finalmente diventando patrimonio comune, abbiamo preso in forza questa opportunità e l’abbiamo declinata in due situazioni molto diverse tra loro, appunto la narrazione di San Giovanni e la ricostruzione del suolo di scavo ad Amba Aradam. E piú entriamo nella città storica – penso a Fori Imperiali, Piazza Venezia e oltre –, e piú ci sarà di che divertirsi.

◆ Quali tempi sono previsti per la

ricollocazione delle strutture archeologiche delocalizzate? Noi abbiamo ottenuto dall’ANAC lo sblocco del progetto, che è in corso di definitiva approvazione e di affidamento, ma è totalmente delineato a livello di progetto definitivo. Ora è in corso di realizzazione la parte trasportistica: ad Amba Aradam viene inserita e costruita la talpa che da lí parte fino ad arrivare al Colosseo e oltre; ultimata questa operazione e costruite le gallerie, coperto il livello tecnologico dei treni, si comincerà a costruire il solaio su cui poggiare tutti i pezzi dello scavo. La previsione è che l’intervento abbia una durata di cinque-sei anni.

◆ Per l’acquedotto di piazza

Celimontana? In quel caso c’è un’idea, che abbiamo maturato insieme al Comune di Roma, di realizzare una sorta di Antiquarium nel Palazzo del Circo Massimo, al cui interno ricostruire i tanti piccoli brani delle realtà che sono state intercettate dallo scavo di Metro C. È un progetto che coltiva insieme a noi il Sovrintendente Capitolino Claudio Parisi Presicce, e mi auguro che potremo portarlo avanti.

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SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

A ME GLI OCCHI... SCOPERTO CASUALMENTE NELLE CAMPAGNE DEL SOMERSET, IL «GIOIELLO DI ALFRED» È UNO STRAORDINARIO PRODOTTO DELL’ARTIGIANATO ARTISTICO ALTOMEDIEVALE. UN MANUFATTO DI GRANDE PREGIO E AL TEMPO STESSO INTRIGANTE: A OGGI, INFATTI, SE NE IGNORA LA FUNZIONE E ALTRETTANTO INCERTA APPARE L’IDENTIFICAZIONE DEL PERSONAGGIO CHE IN ESSO È RAFFIGURATO

C

orre l’anno 1693 e un operaio, il cui nome è rimasto sconosciuto, sta scavando nella tenuta di Newton Park, nella regione del Somerset, in Inghilterra. È in cerca di torba, che gli serve per riscaldare la sua piccola casa. Improvvisamente si imbatte in un oggetto prezioso: un gioiello interamente in oro, decorato con smalti, dalla strana forma. Ha appena trovato quello che passerà alla storia come «The Alfred Jewel», il Gioiello di Alfred. Il monile passa subito al proprietario

del luogo, SirThomas Wrothe e nel 1717 viene donato all’Università di Oxford. Un anno piú tardi, grazie al lascito del colonnello Nathaniel Palmer, entra a far parte della collezione dell’Ashmolean Museum, dove lo si può ancora oggi ammirare. Il gioiello ha una forma piuttosto semplice. In cima c’è una cornice in oro a forma di goccia, sul cui bordo corre una iscrizione in inglese medievale: «AELFRED MEC HEHT GEWYRCAN», e cioè «Alfred ordinò che io fossi fatto». È l’oggetto che parla, quindi, seguendo una tradizione che risale all’antichità.

LA TUNICA VERDE La cornice accoglie il prezioso ritratto di un personaggio con due grandi occhi, seduto, e visibile dalla vita in su, realizzato in smalto e con i contorni in fili d’oro. L’uomo è vestito con una tunica verde, e nelle mani stringe due piante che terminano con un fiore. L’elemento a goccia termina, in basso, in una testa di animale stilizzata, finemente decorata con filamenti e granelli d’oro, a rilievo. Il Gioiello di Alfred è insomma un oggetto di straordinaria eleganza, che dobbiamo attribuire a un artigiano dotato di grande raffinatezza, non c’è che dire.

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Ma chi poteva essere l’Alfred che commissionò l’opera a un laboratorio di oreficeria nell’Alto Medioevo? Il valore e la grande raffinatezza dell’oggetto hanno spinto a ipotizzare che si tratti di un sovrano: potrebbe essere l’Alfred che fu re del Wessex (uno dei reami d’Inghilterra) tra l’871 e l’899, e che sconfisse i Vichinghi nella battaglia di Edington. Se cosí fosse, il gioiello risalirebbe alla seconda metà del IX secolo, una data che ben si accorda con le sue caratteristiche tecniche e stilistiche. A tutt’oggi, anche la funzione del gioiello non è stata chiarita del tutto. Inizialmente qualcuno ha suggerito che possa trattarsi di un pennino; o, meglio, di una parte di un pennino, e cioè dell’estremità da accogliere tra le dita della mano, mentre dobbiamo immaginare che un elemento appuntito si inserisse nella testa dell’animale e che proprio quella fosse la punta con cui si scriveva, intingendola nell’inchiostro o incidendo la cera delle tavolette.


Potrebbe essere cosí, ma non è detto. Ultimamente, infatti, si sta facendo sempre piú strada un’altra ipotesi: il gioiello di Alfred sarebbe quello che nei testi inglesi antichi viene chiamato un «aestel», in latino «indicatorium». Se tale ipotesi cogliesse nel vero, dovremmo ugualmente immaginare un elemento lungo e appuntito inserito nella testa dell’animale, la cui funzione non sarebbe però quella di pennino, bensí di indicatore: un oggetto che aiuta durante la lettura, facendolo scorrere come guida per gli occhi lungo le righe della pagina mentre si legge. Sembra proprio l’interpretazione piú probabile, almeno per ora. E la figura disegnata a smalto, che sostiene i due fiori? Secondo alcuni

sarebbe Cristo, per confronto con alcune miniature dello stesso periodo, tra cui una dallo straordinario Libro di Kells (un manoscritto miniato realizzato poco prima dell’800 da monaci irlandesi che contiene il testo in latino dei quattro Vangeli, n.d.r.).

QUASI COME UN... MOUSE

Ma forse ci sono migliori possibilità che si tratti di uno dei cinque sensi, che in quest’epoca vengono spesso raffigurati in forma di persone. Infatti, in un altro gioiello britannico molto famoso, la «Fibula Fuller» (manufatto di produzione anglosassone del IX secolo, oggi al British Museum, n.d.r.), sono effigiati i cinque sensi. E la Vista, rappresentata con due

grandi occhi, è proprio identica al personaggio del Gioiello di Alfred! Un confronto che corrobora l’ipotesi che il Gioiello di Alfred sia in effetti un puntatore, quasi una sorta di... mouse altomedievale! Come avrete capito, e come spesso accade in archeologia, poche sono le certezze, anche perché il prezioso reperto non è stato rinvenuto da un archeologo, e quindi le informazioni sono ridotte all’osso. Non resta che aspettare il ritrovamento di oggetti analoghi in situazioni piú chiare, e cosí vedremo se le nostre attuali ipotesi verranno smentite o confermate. Per ora possiamo in ogni caso affermare, senza tema di smentita, che il Gioiello di Afred è uno dei piú straordinari prodotti dell’artigianato artistico altomedievale. Sulle due pagine: il Gioiello di Alfred (Alfred Jewel), in oro, cristallo di rocca e smalti, rinvenuto nel Somerset nel 1693. IX sec. Oxford, Ashmolean Museum. In particolare, in questa pagina, l’iscrizione nella quale si legge «AELFRED MEC HEHT GEWYRCAN», cioè «Alfred ordinò che io fossi fatto». La foto alla pagina accanto, in alto, mostra invece il ritratto forse identificabile con una personificazione della vista.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

MORTE A TRIESTE LA CITTÀ GIULIANA FU TEATRO DELLA TRAGICA FINE DI JOHANN JOACHIM WINCKELMANN, ASSASSINATO DA UN LOSCO PERSONAGGIO INTENZIONATO AD APPROPRIARSI DI QUATTRO MEDAGLIE COMMEMORATIVE. SI CHIUDEVA COSÍ, INGLORIOSAMENTE, L’ESISTENZA DELL’UOMO CHE HA RIVOLUZIONATO LO STUDIO DELL’ARCHEOLOGIA E DELL’ARTE ANTICA

C

on la fine del 2018 si concludono le celebrazioni internazionali svoltesi in occasione del 250° anniversario della morte di Johann Joachim Winckelmann (Stendal, 9 dicembre 1717-Trieste, 8 giugno 1768), il celeberrimo studioso tedesco di umili origini che, grazie alla sua raffinata preparazione culturale e all’eccezionale sensibilità verso la produzione artistica del mondo classico, viene considerato il padre fondatore della moderna storia dell’archeologia e dell’arte antica. Massimo teorico del neoclassicismo, bibliotecario e ordinatore delle collezioni di nobili e prelati, Sovrintendente alle antichità di Roma (1764), raggiunse nel corso della sua esistenza una larghissima fama e unanime apprezzamento internazionale. La competenza riguardo l’analisi dell’arte greca e romana e le conseguenti teorizzazioni ne fecero un intellettuale ricercato e ben noto alle corti europee. E fu proprio la conseguenza di un suo viaggio a Vienna (1768), dove fu ricevuto a corte con tutti gli onori da Maria Teresa d’Austria e dal principe Wenzel Anton von Kaunitz-Rietberg, influente politico e colto diplomatico dell’impero, a essergli fatale. A seguito di colloqui di cui non si conosce compiutamente l’intero argomento e come segno della stima dell’imperatrice, egli

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ricevette da questa due medaglie d’oro e due d’argento, dono riservato a coloro che i regnanti consideravano personaggi di grande prestigio e meriti speciali. Ciò sulla scorta dell’antico uso degli imperatori romani, che elargivano medaglioni contraddistinti da elaborate iconografie a figure di spicco della corte e in specifiche occasioni celebrative.

L’INCONTRO FATALE Dopo Vienna, Winckelmann avrebbe dovuto proseguire per la Germania, ma decise invece di ritornare a Roma via mare, e si portò quindi a Trieste, dove intendeva trovare un imbarco verso l’Urbe. Prese alloggio nella Locanda Grande in piazza San Pietro e qui, nell’attesa, durata

inspiegabilmente otto giorni, strinse amicizia con il vicino di stanza Francesco D’Arcangeli, un figuro di circa 30 anni già bandito da Vienna per furto. Tra i due uomini, lontani per cultura, età, interessi e modi, si venne a creare una fulminea e strettissima amicizia, che spinse Winckelmann a mostrare a D’Arcangeli, improvvidamente, il prezioso dono ricevuto, accennando anche, seppur velatamente, al suo incontro «segreto» alla corte di Vienna. D’Arcangeli, probabilmente avvicinatosi allo studioso per ottenerne un qualche profitto, si risolse a rubargli le medaglie: un furto premeditato che prevedeva anche l’assassinio, dato che il malfattore si procurò preventivamente un coltello e un laccio da strangolamento. La mattina dell’8 giugno 1768 il ladro si recò nella stanza del suo nuovo amico e, dopo una strenua colluttazione, lo ferí a morte per fuggire subito, senza neanche il prezioso bottino, poiché il trambusto aveva richiamato il personale della locanda. Lo studioso tedesco ebbe il tempo di raccontare l’accaduto ai suoi soccorritori e di fare testamento, e spirò in grazia di Dio all’età di 51 anni. L’assassino venne prontamente catturato, processato e condannato a morte mediante sfracellamento per mezzo di una


ruota dentata, con il corpo poi esposto sulla pubblica piazza. Il drammatico evento è testimoniato negli atti del processo relativi al delitto, che ripercorrono con dovizia di particolari gli ultimi giorni di Winckelmann a Trieste e «l’atroce misfatto», di cui fu vittima. Tra questa documentazione importantissima, oggi conservata nell’Archivio Diplomatico della Biblioteca Civica di Trieste e composta da 150 fogli di testimonianze, referti e 13 documenti allegati, compaiono anche i disegni del coltello e la menzione delle medaglie che causarono la fine cruenta del grande studioso. Queste ultime sono descritte nell’elenco degli «Effetti del mortalmente ferito ed agonizzante sig.r Giovanni Winckelmann» redatto l’8 giugno

Nella pagina accanto: Ritratto di Johann Joachim Winckelmann, olio su tela di Anton Raphael Mengs. 1777 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art. A sinistra e a destra: i documenti allegati agli atti del processo per l’assassinio di Winckelmann in cui compaiono la descrizione e i disegni delle medaglie commemorative e dell’arma del delitto. In basso: Trieste. Il cenotafio di Johann Joachim Winckelmann. 1768. Si tratta di una medaglia commemorativa del principe di Lichtenstein Joseph Wenzel I (1758) in oro, di una medaglia, anch’essa in oro, per il matrimonio tra Maria Teresa e Francesco III (1736), e di due medaglie d’argento per l’incoronazione di Giuseppe II come imperatore e coreggente con la madre Maria Teresa (1765).

UNA FINE DISCUSSA Wickelmann lasciò i suoi beni al cardinale Alessandro Albani, mentre i documenti e i manoscritti che aveva al momento della morte a Trieste furono dapprima richiesti dal principe von Kaunitz su autorizzazione dell’Albani, e quindi restituiti all’erede. Ancora oggi si discute su possibili «intrighi» legati alla morte di Winckelmann, da quelli religiosopolitici a quelli personali: l’unica

cosa certa è che le sue ossa, deposte a Trieste, andarono disperse nell’ossario comune e che la città, per risarcire il mondo dall’essere stata teatro involontario del delitto dell’illustre personaggio (che peraltro vi risiedette in incognito), ospita oggi il suo cenotafio. Fortemente voluto dal notabile triestino conte Domenico Rossetti sin dal 1808 e inaugurato nel 1833, il monumento, si trova nell’Orto Lapidario del Museo Civico intitolato a Winckelmann.

PER SAPERNE DI PIÚ Marzia Vidulli Torlo, «Un atroce misfatto». L’assassinio di Winckelmann a Trieste, Civici Musei Storia ed Arte, Trieste www.museostoriaeartetrieste.it/ ortolapidario/portfolio/il-cenotafiodi-winckelmann/

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Matthew Kneale

STORIA DI ROMA IN SETTE SACCHEGGI Bollati Boringhieri, Torino, 438 pp., ill. b/n + 19 figg. col. NT 26,00 euro ISBN 978-88-339-2976-7 www.bollatiboringhieri.it

Questo libro, davvero godibile, è un autentico atto d’amore nei confronti di Roma. Del resto, lo stesso Matthew Kneale non fa mistero della sua infatuazione per la Città Eterna e, intenzionato a scriverne una storia, ha ben presto intuito le difficoltà insite in un’impresa del genere. Ha cosí deciso di sviluppare il suo progetto attraverso la narrazione di sette degli episodi piú tragici che hanno segnato una vicenda dipanatasi nell’arco di oltre duemila anni, concentrandosi appunto sui sette saccheggi annunciati dal titolo. Gli eventi vengono presentati in ordine cronologico e l’apertura

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è perciò riservata ai Galli di Brenno, che, nel 387 a.C., furono i primi a violare Roma. Il merito di Kneale, oltre a uno stile scorrevole e accattivante, sta nell’inquadrare questo e gli eventi descritti nei capitoli successivi all’interno del contesto storico nel quale ebbero luogo, offrendo quasi una sorta di reportage. Si ha perciò modo di «vedere» i luoghi che furono teatro degli eventi e di immaginare gli stati d’animo di quanti ne vennero coinvolti. Una ricostruzione basata, per gli episodi accaduti in epoca antica, sia sulle testimonianze offerte dalle fonti letterarie, sia sui dati acquisiti grazie all’archeologia e frutto del lungo lavoro di preparazione richiesto dal volume. Nel caso dell’assedio gallico come per quelli successivi, lo storico inglese, ove necessario, evidenzia il beneficio d’inventario con il quale è d’obbligo considerare molti dei resoconti, soprattutto quando si tratti di cronache scritte a molta distanza dagli eventi, da autori che non potevano averne avuto altro che gli echi di un racconto tramandato da una generazione all’altra. Per i Romani il «Guai ai vinti!» di Brenno dovette suonare come un oltraggio indicibile, ma ebbero tuttavia modo di lenire la ferita e forse dimenticarla, visto che, per i successivi sette

secoli nessuno arrivò a tanto. Solo nel 410 d.C., infatti, la città fu presa e saccheggiata dai Visigoti di Alarico, che si rese protagonista di uno degli episodi emblematici del declino di un impero che a lungo era parso invincibile e destinato a durare per sempre. E molto efficace risulta il confronto in questo caso proposto fra la Roma del IV secolo a.C. e quella del V d.C., che era una capitale di cui si poteva toccare con mano la perduta grandezza, sottolineata dalla drastica diminuzione della sua popolazione. Uno scenario non dissimile da quello in cui, un secolo e mezzo piú tardi, furono gli Ostrogoti di Totila a valicare le Mura Aureliane, grazie a una sortita notturna attuata, con ogni probabilità, in corrispondenza di Porta Latina. In pieno Medioevo sarà poi la volta di Roberto il Guiscardo e dei suoi Normanni, che nel 1084 misero la città a ferro e fuoco, con particolare violenza. Nei capitoli successivi Kneale si concentra ai casi piú recenti, dal sacco dei lanzichenecchi nel 1527 fino ai tragici mesi dell’occupazione della capitale da parte delle truppe tedesche, fra il settembre del 1943 e il giugno del 1944. Epilogo doloroso di un libro avvincente, scritto con una passione alla quale si perdona facilmente anche qualche notazione meno puntuale di altre. Stefano Mammini

Lesław Daniel Chrupcała

BETLEMME TRA CIELO E TERRA Edizioni Terra Santa Milano, 352 pp., ill. b/n 25,00 euro ISBN 978-88-6240-583-6 www.edizioniterrasanta.it

L’autore di questa colta e documentatissima introduzione alla città natale di Gesú (e, circa un millennio prima, di Davide) è un frate francescano, dal 1988 al servizio della Custodia di Terra Santa. Questo suo libro su Betlemme – pur affrontando i grandi temi della natività di Gesú e delle vicende immediatamente successive – si offre soprattutto come una guida, agile eppure profonda e esauriente, delle vicende storiche della cittadina arroccata

sulle colline della Giudea, con ampio spazio dedicato alla sua geografia attraverso i secoli e alle sue testimonianze archeologiche e artistiche. Andreas M. Steiner



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