Archeo n. 407, Gennaio 2019

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2019 POPOLI DELLA BIBBIA/1 GLI ISRAELITI

PARIGI

IL LOUVRE, UN GRANDE MUSEO ITALIANO?

CORNAFESSA

TRENTINO

LONDRA

ORVIETO SPECIALE ASSURBANIPAL

Mens. Anno XXXIV n. 407 gennaio 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

COLLEZIONE CAMPANA

SCENE DI CACCIA NELLA PREISTORIA IL RITORNO DI ASSURBANIPAL

UNA NUOVA GRANDE SERIE

I POPOLI DELLA BIBBIA

CHI ERANO GLI ISRAELITI?

LE ULTIME RIVELAZIONI

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I

IN EDICOLA L’ 8 GENNAIO 2019

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ARCHEO 407 GENNAIO

€ 5,90



EDITORIALE

IL LIBRO Assiri, Babilonesi ed Egiziani, Cananei e Amorrei, Hittiti, Hurriti, Filistei, Fenici, Aramei, Moabiti, Edomiti, Persiani, Seleucidi… quanto sapremmo di questi nomi se non li avessimo letti nel libro piú stampato, tradotto e diffuso di tutti i tempi? E, soprattutto, cosa conosceremmo davvero di questi popoli, della loro storia e civiltà, se, sin dalla metà dell’Ottocento, con i primi grandi scavi nelle terre dell’antica Mesopotamia, non avesse preso forma quel vero e proprio movimento intellettuale e scientifico noto, in seguito, con il nome di «archeologia biblica»? Una disciplina che, sull’onda delle prime, sconvolgenti scoperte emerse dalle aride terre del Vicino Oriente, sembrava chiamata – quasi miracolosamente – a convalidare l’autenticità dei testi biblici, a conferire un contesto storico e materiale agli eventi narrati nell’Antico Testamento. Con questo primo numero del 2019 proponiamo ai nostri lettori una serie, dedicata ai «popoli della Bibbia» e, dunque, alla grande – e straordinaria – avventura archeologica che ci ha permesso di conoscerli. Per avviare l’impresa ci siamo avvalsi della consulenza del nostro «antico» collaboratore Sergio Ribichini (storico delle religioni e studioso del mondo fenicio-punico) e di una serie di giovani studiosi delle rispettive discipline,

aggiornatissimi sulle ultime scoperte e, naturalmente, sulle elaborazioni storico-critiche che ne derivano. E, inevitabilmente, l’esordio di questa nuova lettura storico-archeologica della Bibbia spetta al popolo che, piú di ogni altro, a quell’insieme di testi fa riferimento, e anzi – come vedremo – ne trae «linfa vitale». Sono, infatti, le indagini sull’antico Israele degli ultimi decenni (e tuttora in corso) ad aver rivoluzionato, letteralmente, il quadro di «veridicità» del racconto veterotestamentario: la vicenda del patriarca Abramo, l’esodo dall’Egitto guidato da Mosé, l’epica conquista di Gerusalemme e la fioritura di un grande regno di Israele sotto Davide e Salomone, accaddero veramente? E, soprattutto, si verificarono nei millenni e nei secoli in cui li colloca il racconto biblico? Sono questi gli interrogativi che affronteremo nei prossimi mesi, a partire da oggi. E, sia detto esplicitamente, non per «distruggere» quel grandioso ed eterno racconto (mossi, magari, dalla stessa «ira» del biblico personaggio raffigurato in questa pagina). Ma, semmai, per decostruirlo e poi ricomporlo, sotto una luce piú autentica…

Mosè distrugge le Tavole della Legge, olio su tela di Rembrandt. 1659. Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie.

Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE Il Libro

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gestione è al centro di recenti provvedimenti di legge

POPOLI DELLA BIBBIA/1 16

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

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SCOPERTE Viene dalle colline della Giudea meridionale una rara maschera in pietra, scolpita 9000 anni fa, al tempo delle comunità neolitiche 6 ALL’OMBRA DEL VULCANO È imminente il restauro della Casa dei Ceii, che restituirà la vivacità originaria alle pitture murali a soggetto nilotico

PAROLA D’ARCHEOLOGO Quale futuro per le catacombe napoletane di S. Gennaro? Ne parliamo con Giuliano Volpe 24 MUSEI Il Museo Archeologico «Paolo Giovio» di Como saluta l’apertura della nuova sezione romana 28

DA ATENE

L’ultimo mistero di Akrotiri

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di Valentina Di Napoli

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Gli Israeliti

Quell’antico «Popolo del Libro»

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di Fabio Porzia

38 SCAVI

Scene di caccia in Trentino

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di Stefano Mammini

MOSTRE La magnifica statua di Amenofi ha lasciato il Museo Egizio di Torino per una significativa trasferta nelle sale dei Musei Vaticani 12 A TUTTO CAMPO I musei e i siti archeologici minori sono una delle risorse piú preziose del patrimonio. La cui

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56 In copertina veduta aerea di Megiddo (Israele).

Presidente

Federico Curti Anno XXXV, n. 407 - gennaio 2019 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Gareth Brereton è conservatore delle collezioni mesopotamiche del British Museum, Londra. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Valentina Di Napoli è archeologa. Rossella Duches è ricercatrice presso la Sezione di Preistoria del MUSE-Museo delle Scienze, Trento. Daniela Fuganti è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco Archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Fabio Porzia è post-dottorando presso l’Università di Tolosa come storico del Levante antico. Julian Edgeworth Reade è stato conservatore del Dipartimento di Antichità dell’Asia occidentale del British Museum, Londra. Barbro Santillo Frizell è archeologa. Romolo A. Staccioli


MOSTRE

La raccolta delle meraviglie

66

di Daniela Fuganti

82

66 MUSEI

SPECIALE

di Giuseppe M. Della Fina

Il ritorno dell’ultimo re

All’ombra del Duomo 74

Assurbanipal

82

testi di Gareth Brereton e Julian Edgeworth Reade

QUANDO L’ANTICA ROMA... ...fu «violata» dai Visigoti di Alarico

74

di Romolo A. Staccioli

Rubriche

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Un rinnegato a Policastro

di Daniele Manacorda

108

Ecco il segno! 104

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di Francesca Ceci

LIBRI

è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Andrea Zifferero è professore associato di etruscologia e antichità italiche e di musealizzazione e gestione del patrimonio archeologico all’Università di Siena.

Illustrazioni e immagini: Duby Tal/Albatross Aerial Photography: copertina e pp. 40 (alto), 44 (basso, a sinistra), 51 – Mondadori Portfolio: Album: p. 3 (e p. 43); Electa/Sergio Anelli: pp. 38/39; AKG Images: pp. 40 (basso), 48, 50/51, 85, 88/89, 91, 94/95, 98/99; Album/Prisma: p. 86; Erich Lessing/Album: p. 87 – Cortesia Israel Antiquities Authority: pp. 6, 7 (sinistra) – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 8, 12, 27-29; L. Spina: p. 26 (alto); C. Pescatori: p. 26 (basso) – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 10-11 – Shutterstock: pp. 16-17, 46/47, 74/75, 77 (alto) – Cortesia degli autori: pp. 22-23, 36 (alto) – Cortesia Cooperativa «la Paranza», Napoli: pp. 24 (basso), 25 – Ministero Ellenico della Cultura e dello Sport: p. 37 – DeA Picture Library: S. Vannini: p. 45 – Doc. red.: pp. 46, 52-53, 96, 109, 112-113 – Bridgeman Images: p. 49 – Cortesia MUSE-Museo delle Scienze, Trento: pp. 56/57, 58 (alto), 59-65; disegno di Mauro Cutrona: p. 56 – Cortesia Ufficio Stampa Museo del Louvre, Parigi: pp. 66 (basso), 68 (alto), 70, 71 (sinistra); Stéphane Maréchalle: pp. 66 (alto), 73; Thierry Ollivier: p. 67; Hervé Lewandowski: pp. 68 (basso), 70/71; Museo Ermitage, San Pietroburgo/V. Terebenin, A.Terebenin: pp. 68/69; BnF, Parigi: p. 69; Françoise Gaultier: p. 71 (destra); Gérard Blot: pp. 72/73 – Museo Archeologico Nazionale, Orvieto: pp. 74, 77 (destra) – Museo «Claudio Faina», Orvieto: pp. 75, 76, 78-79 – MODO-Museo dell’Opera del Duomo, Orvieto: pp. 80-81 – Cortesia Department of Photography and Imaging, British Museum, Londra: The Trustees of the British Museum: pp. 82/83, 84, 92, 100-103; Paul Goodhead: pp. 93, 96 (alto); Learning Sites, Inc.: p. 96 (basso) – Cortesia Elena Santoro: pp. 104-107 – Cippigraphix: cartine alle pp. 36, 41, 58, 87 – Patrizia Ferrandes: cartine alla p. 110. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Press-Di Abbonamenti SPA c/o CMP BRESCIA Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia BS L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano


n otiz iari o SCOPERTE Israele

UN ANTENATO DI 9000 ANNI FA

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l volto riprodotto in queste pagine è antico di circa 9000 anni, scolpito da un anonimo artigiano nella pietra calcarea dalla tonalità rosata, tipica delle colline di Giuda. La notizia del ritrovamento della maschera (perché di ciò si tratta) è stata resa nota lo scorso novembre da Ronit Lupu, archeologa dell’Unità di Prevenzione Furti della Soprintendenza Archeologica d’Israele (Israel Antiquities Authority). La scoperta stessa, invece, è avvenuta nei primi mesi del 2018, verosimilmente nella regione di Pnei Hever, presso il Monte Hebron, nel Sud delle colline della Giudea, come suggerisce il ritrovamento nel sito di altri reperti, tutti databili al periodo neolitico preceramico. Il reperto è lavorato con grande accuratezza: oltre alla resa perfetta del naso, di zigomi pronunciati e di una bocca dentata, i lati recano quattro fori, verosimilmente per poter applicare la maschera sul volto di una persona. Di maschere simili e databili allo stesso periodo se ne contano a oggi quindici, e solo di due sono noti il luogo e il contesto di rinvenimento. Altre maschere d’età neolitica sono sparse in

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varie collezione private, senza che, cosí, se ne conoscano il luogo o la data in cui furono trovate. «Questo tipo di maschere in pietra – spiega l’archeologo Omry Barzilai, direttore del dipartimento di ricerca della Soprintendenza Archeologica d’Israele – rappresentano una straordinaria testimonianza dell’universo religioso risalente al periodo della cosiddetta “rivoluzione neolitica”, segnato dal passaggio da un’economia di caccia e raccolta a quella agricolo-pastorale. A questo stesso contesto storico-culturale appartengono, oltre alle maschere, anche altri reperti riferibili all’ambito religioso e rituale, come figurine umane e crani modellati in gesso o argilla». L’ipotesi storico-religiosa piú accreditata a proposito di questi

reperti è che essi segnalino, per quell’epoca remota, la presenza di una particolare devozione rivolta ai familiari defunti, un «culto degli antenati». «Crani scolpiti e resi con i tratti del volto perfino attraverso l’inserimento di conchiglie all’interno delle orbite oculari – spiega l’archeologa Ronit Lupu – sono stati rinvenuti sotto i pavimenti delle abitazioni del Neolitico Preceramico. E anche la maschera di Pnei Hever, cosí simile a un volto umano, può essere attribuita a tale antichissima forma di religiosità». Andreas M. Steiner

Sulle due pagine: la maschera in pietra calcarea rinvenuta presso il Monte Hebron (Cisgiordania) e databile al Neolitico Preceramico (VIII mill. a.C.).

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n otiz iario

MOSTRE Piacenza

ANNIBALE È TORNATO... MA NON FA PAURA

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n una delle sue Satire, il poeta Giovenale invitava a pesare le ceneri di Annibale, per vedere quante libbre del famoso generale sarebbe stato possibile trovarvi... La grande mostra allestita in Palazzo Farnese non arriva a offrire una simile opportunità – sospesa a metà fra sarcasmo e gusto del macabro –, ma, in compenso, permette di ripercorrere la straordinaria vicenda dell’uomo che per per lunghi anni i Romani considerarono come il nemico numero uno. Rievocare le gesta del condottiero cartaginese singifica compiere un viaggio nella storia del Mediterraneo all’epoca delle guerre puniche, in un percorso immersivo In basso: Giuramento di Annibale contro i Romani, acquaforte di Valentine Green. 1773. Brescia, Musei Civici di Arte e Storia.

che si snoda tra i sotterranei della storica residenza ducale piacentina, recentemente restaurati, dove la tecnologia incontra il rigore della ricerca storica. In esposizione vi sono reperti archeologici e opere d’arte provenienti da istituzioni culturali italiane e internazionali. Come spiega Giovanni Brizzi, che ne è il curatore, «la mostra ha due cuori e due linee direttive: da un lato Annibale, un personaggio che viene visto come maieuta, colui che muterà per sempre natura e destini, non solo di Roma e dell’Italia, ma dell’intero Mediterraneo. Dall’altro, la città di Piacenza, balcone privilegiato da cui si osserva questo passaggio e nucleo tematico che riguarda anche e soprattutto l’Italia romana. Nel 218 la città è la porta sulla piana del fiume Po che deve esser conquistata e trasformata, ma in seguito alle mutate condizioni del Mediterraneo, alla fine della

guerra annibalica, Placentia diventerà il punto terminale a settentrione della res publica romana segnando il confine di quella che all’epoca era l’Italia». (red.)

DOVE E QUANDO «Annibale. Un mito mediterraneo» Piacenza, Palazzo Farnese fino al 17 marzo Orario ma-gio, 10,00-19,00; ve-do, 10,00-20,00; lunedí chiuso Info tel. 0523 492784 333 1279770 - 338 3165152; e-mail: info@annibalepiacenza.it www.annibalepiacenza.it

Errata corrige desideriamo segnalare che nella Monografia di «Archeo» attualmente in edicola, Nel mondo dei primi cristiani, la foto alle pp. 26/27 (qui riprodotta in alto) è stata erroneamente indicata come un’immagine delle grotte sotto la basilica della Natività di Betlemme, mentre si tratta di una veduta della chiesa inferiore della basilica dell’Annunciazione di Nazareth. Della svista ci scusiamo con i nostri lettori e pubblichiamo (qui sopra) un ambiente delle grotte della chiesa betlemita.

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

IL DUOVIRO CHE AMAVA L’EGITTO LA CASA DEI CEII RIAPRE AL PUBBLICO: PRESENTIAMO L’ABITAZIONE, NOTA PER LE PITTURE DEL GIARDINO CON SCENE DI ISPIRAZIONE EGIZIA E DI CACCIA FRA ANIMALI SELVAGGI, ANCHE ATTRAVERSO LE ECCEZIONALI IMMAGINI DEGLI SCAVI CONDOTTI NEL 1913-1914

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a casa dei Ceii non è una dimora di gran lusso, diremmo di livello medio, se paragonata alle vicine residenze aristocratiche della Regio I, quali le domus del Citarista, del Menandro e del Criptoportico. Risultano invece di particolare interesse le pitture parietali, concentrate nelle stanze piú rappresentative dell’abitazione, che fu forse di proprietà della gens dei Ceii – e in particolare di Lucius Ceius Secundus, candidato alla suprema carica di duoviro poco prima della distruzione della città, nel 78 d.C. –, se dobbiamo prestare

Casa dei Ceii. Particolare degli affreschi che ornano una delle pareti del giardino in una foto scattata in occasione degli scavi condotti nel 1913-1914 e una ripresa che ne documenta lo stato attuale. Si riconosce la figura di una ninfa, affiancata da una civetta e da una colomba, che alimenta con una conca un canale che scorre ai suoi piedi.

fede alle iscrizioni elettorali trovate sulla facciata principale della casa, ancora ben conservata col suo aspetto antico e austero. La banchina in muratura presente all’esterno a destra dell’ingresso, destinata ai clientes in attesa di essere ricevuti, è stata forse aggiunta proprio al momento

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dell’ascesa politica di L. Ceius Secundus. Risalente all’età tardosannitica (II-I secolo a.C.), l’edificio ha un impianto stretto e allungato, evidentemente condizionato dalla presenza di costruzioni precedenti: alla prima fase edilizia appartiene la vasca dell’impluvio, posta al centro dell’atrio a quattro colonne e


perimetrali dei giardini pompeiani, allo scopo di ampliare illusionisticamente le dimensioni di questi spazi verdi e, allo stesso tempo, di evocare una dimensione idilliaca e coinvolgente. In questo caso, con ogni probabilità, il tema delle pitture potrebbe testimoniare anche un legame del proprietario della domus con il mondo egizio e Ancora un confronto tra la situazione attuale e quella rilevata in occasione degli scavi del 1913-1914. Le immagini si riferiscono, in questo caso, alla parete laterale del giardino sulla quale è dipinta una scena ambientata nelle terre del Nilo. perfettamente in asse con l’ingresso (fauces), formato da frammenti di anfore disposti per taglio, secondo una soluzione rara a Pompei e conosciuta nelle case ellenistiche dell’isola di Delo.

ESTETICA E POLITICA Dopo il terremoto del 62 d.C., la casa è al centro di importanti ristrutturazioni, che hanno segnato l’attuale aspetto funzionale e decorativo. Sulle pareti dell’atrio si propone addirittura una decorazione rétro, ispirata agli eleganti ornati del III stile di età augustea, composta da grandi campi rossi uniformi delimitati da lesene, una scelta estetica forse condizionata dalle ambizioni politiche del proprietario. Prima dell’eruzione, al fine di raggiungere il piano superiore della residenza, una scala venne forzatamente addossata a una parete dell’atrio, andando cosí a coprire parte di questa decorazione. Nel triclinio, due grandi quadri su fondo bianco dominano l’ambiente, l’uno con Dioniso giovane impegnato nel mescere vino a una tigre, l’altro con una menade e fiaccola. Particolare è anche la decorazione di un cubicolo, alle cui pareti troviamo busti di menadi e

satiri che escono da tendaggi, o ancora altri medaglioni con busti e tralci dai colori vivaci e contrastati, fino all’immagine di Apollo accompagnato da un suonatore di cetra e da una musa. All’esterno, affiancata da una civetta e da una colomba, è invece dipinta una ninfa, che con una conca d’acqua alimenta un canale che scorre ai suoi piedi sul pavimento e arriva a una sfinge, anch’essa con conca idealmente zampillante dell’acqua del condotto. Entrambe le figure fanno da cornice alla scena maggiore della casa affrescata sulle alte pareti del giardino.

GLI ANIMALI DEL DELTA Qui i dipinti rappresentano al centro un’animata scena di caccia condotta da animali selvatici ed esotici disposti su piú livelli (lupi contro cinghiali, una tigre che rincorre alcuni arieti, un leone alle prese con un toro), mentre ai lati spaziano paesaggi nilotici di origine alessandrina, con templi, statue sacre, devoti, animali del Delta egiziano e gli scuri Pigmei, anticamente considerati originari della parte piú remota dell’Egitto, vicina all’Oceano, donde arrivava il Nilo. Siamo davanti a un soggetto pittorico che ricorre sui muri

in particolare con il culto di Iside, molto diffuso in città prima della sua distruzione. Il grande affresco sarà presto oggetto di un intervento di restauro realizzato «a vista» del pubblico, e nella casa sarà riproposto parte dell’allestimento originario, noto attraverso le foto scattate all’epoca della scoperta dell’edificio (1913-1914), con la ricollocazione del tavolo in marmo e della vera di pozzo nell’atrio, dove sono visibili anche i calchi di un armadio e della porta di accesso alla casa. Per notizie e aggiornamenti su Pompei, pagina Facebook Pompeii-Parco Archeologico.

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n otiz iario

MOSTRE Città del Vaticano

LE VACANZE ROMANE DEL FARAONE

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menhotep (o Amenofi) II, faraone della XVIII dinastia (1425-1400 a.C.) è stato scelto per inaugurare «Collezioni in dialogo», il nuovo progetto espositivo che vedrà i Musei Vaticani collaborare con le piú importanti istituzioni museali nazionali e internazionali con l’intento di creare preziose e reciproche occasioni di dialogo, confronto, ricerca e crescita scientifica. Per la prima volta nella storia, infatti, la monumentale statua che lo ritrae ha lasciato

la sua sede – la Galleria dei Re del Museo Egizio di Torino – ed è approdata nelle sale del Museo Gregoriano Egizio. Capolavoro della statuaria faraonica, la scultura fa parte dell’importante collezione di Bernardino Drovetti, Console generale di Francia, acquistata dai Savoia nel 1824. Il re appare inginocchiato nell’atto di offrire due vasi globulari alla divinità, mostrandosi nella sua funzione di sacerdote che assicura al popolo la

La statua in granito rosa del sovrano Amenhotep II, dal tempio di Amon a Karnak. Nuovo Regno, XVIII dinastia, 1425-1400 a.C. Torino, Museo Egizio. La foto in alto mostra la scultura attualmente esposta nel Museo Gregoriano Egizio.

benevolenza del mondo divino tramite le offerte. Il faraone indossa un gonnellino (shendit) e il tipico copricapo regale (nemes) con il cobra sulla fronte, manifestazione del suo potere. La muscolatura particolarmente accentuata sembra alludere alla prestanza fisica di Amenhotep II, celebrata in molte stele e rilievi templari, in cui si legge che «non c’era un sol uomo nel suo esercito (…) in grado di tendere il suo arco», o anche che il re, tirando dal suo carro da guerra in corsa, colpí «quattro bersagli di rame asiatico» con tale potenza che la freccia «uscí dall’altra parte e cadde a terra». L’identificazione del faraone è assicurata dal nome iscritto sulla cintura nonché dallo stile della scultura. La statua, che proviene sicuramente dal grande tempio di Karnak a Tebe, fu recuperata da Jean-Jacques Rifaud, agente del Console generale di Francia Bernardino Drovetti, attivo in Egitto nella prima metà del XIX secolo. (red.)

DOVE E QUANDO «Collezioni in dialogo. Un capolavoro del Museo Egizio di Torino raccontato dai Musei Vaticani» Città del Vaticano, Museo Gregoriano Egizio fino al 30 giugno Orario lu-sa, 9,00-18,00; ogni ultima domenica del mese, 9,00-14,00 Info tel. 06 69884676; e-mail: info.mv@scv.va; www.museivaticani.va/

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A TUTTO CAMPO Andrea Zifferero

FISSARE GLI OBIETTIVI AREE ARCHEOLOGICHE MINORI E MUSEI DI INTERESSE LOCALE? ECCO ALCUNE PROPOSTE SU COME VALORIZZARLI

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oco meno di un anno fa, abbiamo commentato il consistente aumento dei visitatori fatto registrare nel 2017 dai grandi musei e dai siti archeologici italiani, cercando di far emergere le criticità che tale aumento può causare in merito alla tutela dei monumenti e al rischio di snaturare valore e significato delle opere (vedi «Archeo» n. 398, aprile 2018, on line su issuu.com). L’incremento delle presenze costituisce infatti un dato senza dubbio positivo, che rischia però di essere vanificato in assenza di un’adeguata contestualizzazione storica, paesistica e/o urbanistica dell’opera conservata nel museo o del sito archeologico. Tra le prime vittime di una malintesa fruizione del bene culturale vi sono i musei di interesse locale e i siti archeologici minori, i piú numerosi e diffusi nel nostro Paese: ciascuno dotato di caratteri distinti che lo rendono unico, proprio in ragione del contesto che lo ha espresso. Valorizzare questi beni, che vantano gli stessi diritti legislativi di quelli conservati nei musei piú noti e importanti, significa stimolare una fruizione cosiddetta di «contesto», all’interno di una specifica progettazione culturale. Per farlo, occorre attivare in modo consapevole alcune delle molte

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identità espresse dai monumenti nell’ambito di uno spazio geografico (e di conseguenza, storico) definito, collegandone gli aspetti originali al paesaggio archeologico o al paesaggio urbano che li ha prodotti. Tale percorso presume la stesura di un progetto, da sviluppare in modo il piú possibile integrato tra gli specialisti dei contenuti da valorizzare.

UN PASSAGGIO DELICATO Ai progettisti della valorizzazione spetta inoltre la responsabilità della selezione delle identità e, quindi, dell’immagine ultima che si intende conferire al bene: l’esempio di Tarquinia può chiarire il delicato passaggio. Oggi la città della Tuscia viterbese è famosa nel mondo per la concentrazione delle tombe A destra: Tarquinia (Viterbo). La chiesa medievale di S. Maria in Castello. Nella pagina accanto: Tarquinia, necropoli etrusca dei Monterozzi. La Tomba delle Leonesse. 520 a.C.

etrusche dipinte, vero e proprio paradigma della pittura funeraria del grande popolo preromano. Le antichità etrusche hanno perciò definito l’attuale identità tarquiniese: pochi sanno, tuttavia, che il suo centro storico vanta una concentrazione di case-torri, di edifici medievali e chiese in condizioni di conservazione ancora discrete, in numero pari se non superiore a quelle della ben piú famosa San Gimignano. Un’identità medievale forte nel contesto, che resta tuttavia sotto traccia rispetto alla prevalente identità etrusca comunicata all’esterno. Dai concetti fin qui esposti si desume inoltre come la fruizione di contesto debba essere forzosamente parziale rispetto alle diverse entità da valorizzare,


sempre configurate in modo articolato e spesso dotate di identità molteplici. L’operazione di valorizzazione dovrà perciò essere selettiva, partendo dal presupposto che è impossibile promuovere un contesto in modo integrale, per ragioni legate allo stato di conservazione dei beni, alla facilità o difficoltà di accesso dei luoghi, alla loro posizione geografica e contiguità con assi di percorrenza stradale e infrastrutture di accoglienza. Queste sono soltanto alcune delle condizioni che gli autori dei progetti di valorizzazione devono osservare e tenere presenti: ciò che invece non cambia (quasi) mai è il registro minore del patrimonio da valorizzare, costituito in larga maggioranza da musei civici (o di interesse locale, come sono stati classificati dal legislatore) e da siti archeologici di piccole dimensioni, spesso isolati nelle campagne o nelle periferie dei centri urbani. Per avere successo e, soprattutto, per ottimizzare le risorse disponibili, i progetti devono puntare sul meccanismo della rete, che rappresenta il modo corretto per far comunicare poli (cioè musei, siti e parchi archeologici) diversi su uno spazio geografico definito. L’esperienza delle reti, sviluppata a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, ha trovato un importante campo di applicazione soprattutto nei musei civici, riportandoli da uno stato di sofferenza e spesso di trascuratezza al centro di sistemi museali nei quali la circolazione dei visitatori assumeva dimensioni di livello provinciale o addirittura regionale: una delle esperienze piú importanti è quella della Regione Umbria, promotrice, attraverso una legge varata nel 1985, di un Sistema Museale Regionale che ha fatto storia nel nostro Paese. Le reti museali sono quindi divenute protagoniste di circuiti di

valorizzazione costruiti su filiere diverse ma integrate, quali espressioni della dimensione storica e archeologica, artistica e artigianale, ambientale e antropologica, architettonica e urbanistica, fino a includere in qualche caso la filiera enogastronomica, ricca di tipicità fortemente caratterizzate in senso storico.

NUOVI INTERVENTI LEGISLATIVI Le molte esperienze nel settore delle reti museali e dei parchi archeologici, alla base di progetti di successo varati da Regioni, Province ma anche da Comuni che si sono consorziati per dare vita a progetti decisamente innovativi come il Sistema dei Parchi della Val di Cornia (Livorno), non sono rimaste isolate rispetto alla legislazione nazionale, che nel 2018 è intervenuta di nuovo sui musei. L’ultimo atto formale dell’ex ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Dario Franceschini infatti, è stato il varo del Sistema Museale Nazionale attraverso il D(ecreto) M(inisteriale) n. 113 del 21/02/2018, un provvedimento con caratteri inediti nel settore, per i tanti richiami al rapporto tra bene culturale e società civile e ai territori che esprimono i musei di ogni profilo

giuridico, finalmente al centro di una prospettiva nazionale. Una delle novità del DM 113 è senza dubbio il particolare richiamo al territorio su cui si distende la rete formata dai musei ma anche dalle aree e dai parchi archeologici, intesa non soltanto come spazio geografico ma come sede di comunità locali direttamente coinvolte nella gestione dei sistemi. Si tratta di una prima applicazione del provvedimento varato dal Consiglio d’Europa nel 2005, noto come Convenzione di Faro, che sottende le comunità dei Paesi aderenti quali protagoniste e custodi dei rispettivi patrimoni culturali. Il DM 113 riconosce quindi alle associazioni culturali un compito decisivo per la conservazione e la comunicazione del patrimonio, attribuendo loro il ruolo di stakeholders (sostenitori) nella elaborazione, nella messa in atto e nella gestione dei progetti di valorizzazione dei patrimoni locali. Il recepimento del DM espresso dal nuovo ministro Alberto Bonisoli, in particolare sul tema del rafforzamento dei musei civici, e l’insediamento della Commissione per il Sistema Museale Nazionale avvenuto il 18 settembre scorso, fanno ora ben sperare per il futuro del patrimonio «minore». (1 – continua andrea.zifferero@unisi.it)

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n otiz iario

VIAGGI ARCHEOLOGICI Georgia

ARCHEOLOGI DELL’UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI DI VENEZIA SULLE TRACCE DEL MITICO «VELLO D’ORO»

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al 2009 è in atto il «Georgian-Italian Shida Kartli Archaeological Project», un progetto di indagine archeologica italo-georgiano condotto dall’Università Ca’ Foscari di Venezia in collaborazione con il Museo Nazionale Georgiano di Tbilisi. Ne sono oggetto le antiche culture pre- e protostoriche della regione di Shida Kartli, cuore storico della Georgia, la mitica terra del «Vello d’oro» dei Greci, nel Caucaso meridionale, luogo di antichi pastori, viticultori e abili metallurghi (vedi anche l’articolo in «Archeo» n. 406, dicembre 2018). L’arco cronologico indagato va dal Tardo Calcolitico all’età del Ferro (IV-I millennio a.C.). Alle campagne annuali sul campo e alle attività di ricerca partecipano ricercatori, studenti e dottorandi italiani e georgiani e esperti internazionali. La prospettiva del progetto è di tipo regionale e si concentra sulle relazioni tra siti di diverso tipo (insediamenti di grandi e piccole dimensioni, necropoli, ecc.), sullo sviluppo diacronico dei rapporti tra i gruppi umani e l’ambiente naturale e sulle relazioni tra le comunità locali e le civiltà urbane del Vicino Oriente, loro vicine meridionali. L’approccio adottato è multi- e interdisciplinare e prevede la partecipazione alle campagne di scavo di esperti di diverse discipline. I siti finora scavati sono Natsargora,

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Okherakhevi, Aradetis Orgora e Doghlauri. Allo scavo si sono affiancati lo studio di materiali conservati presso i musei locali (insediamento e necropoli di Natsargora e necropoli di Doghlauri) e numerose ricerche paleoambientali e archeometriche. Nel corso delle prime campagne la ricerca si è focalizzata soprattutto sulle culture del Bronzo Antico (Kura-Araxes e Bedeni), per quanto riguarda sia gli insediamenti che, soprattutto, gli usi funerari, ma dal sito di Aradetis Orgora si è ottenuta una sequenza stratigrafica pressoché continua dalla fine del IV alla I metà del I millennio a.C., con risultati importanti anche per quanto riguarda le fasi del Bronzo Medio (prima metà del II) e del Bronzo Tardo/Antico Ferro (seconda metà del II-I metà del I millennio a.C.). Nell’estate del 2018, inoltre, è stato avviato un nuovo progetto italo-georgiano, il «Georgian-Italian Lagodekhi Archaeological Project», che vede gli studiosi dell’Università Ca’ Foscari di Venezia collaborare con la Municipalità e il Museo di Lagodekhi. Lagodekhi si trova nella provincia di Kakheti (la Cachezia), al limite orientale della Georgia, non lontano dal confine con l’Azerbaigian, estesa tra le propaggini del Caucaso e la valle del fiume Alazani (vedi nell’immagine in queste pagine). Si tratta di una


DALLA GEORGIA ALL’IRAN

In viaggio tra i tesori del Caucaso e la Via della Seta La Georgia del mito, terra dove gli Argonauti approdarono alla ricerca del Vello d’Oro, è un terreno fertile tra il grande e il piccolo Caucaso fatto di colori accesi, di monti imponenti e vallate dolci, borghi e villaggi che testimoniano le piú genuine e antiche tradizioni della patria dei ricchi grappoli e del vino rosso intenso, generoso come la sua gente. Tbilisi, la «Parigi del Caucaso» che guarda curiosa all’Occidente lasciandosi cullare da languori orientali, apre il passo verso siti archeologici millenari come Uplistsikhe, città scavata nella roccia, scenari di grande impatto dominati dai piú elevati picchi montani tra cui l’adamantina cima di Kazbegi, dove la leggenda vuole incatenato un Prometeo che qui ha nome Amirani; patrimoni UNESCO quali l’antica capitale Mtskheta, che i numerosi reperti designano come importante

delle aree della Georgia piú ricche sia dal punto di vista paesaggistico che da quello del patrimonio storicoartistico, nota soprattutto, oltre che per i resti del periodo medievale, per la presenza di monumentali tombe a tumulo (i cosiddetti kurgan) datate alla seconda metà del III millennio a.C. e per quella di numerosi siti del Calcolitico (V-IV millennio a.C.). Il progetto mira in primo luogo a mappare tutti i siti archeologici presenti sul territorio della Municipalità

tappa del commercio lungo le piú remote rotte dei mercanti o il monastero-accademia di Gelati, capolavoro dell’epoca d’oro della Georgia medievale. Metamondo propone viaggi di 7 giorni nella Georgia Classica e itinerari combinati dai 12 ai 16 giorni con paesi limitrofi, studiati attraverso la trama dei legami storico-culturali e archeologici che li collega. Tra le proposte «oltre confine» i tour guidati in Armenia e Georgia e i percorsi di viaggio tra i tesori di Georgia, Armenia e Iran o in Georgia e Azerbaigian. Per scoprire la Georgia di Metamondo: www.metamondo.it Metamondo Tour Operator – tel. 041 8899300 Metamondo è tra gli sponsor sostenitori degli scavi archeologici in Georgia condotti dall’Università di Ca’ Foscari entro il progetto di ricerca nei siti di Lagodekhi e Shida Kartli.

attraverso una ricognizione di superficie con l’ausilio del telerilevamento (analisi delle foto aeree e satellitari). Oggetto di attenzione particolare saranno le culture tardo-preistoriche e protostoriche del Calcolitico e delle età del Bronzo e del Ferro (V millennio-prima metà del I millennio a.C.) che saranno indagati attraverso scavi e sondaggi su diversi siti della Municipalità. A. M. S.

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VIAGGI La «Crociera di Archeo»

APERITIVO A BORDO

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olonia romana fondata per volere dell’imperatore Augusto con il nome di Colonia Iulia Augusta Faventia Paterna Barcino, Barcellona – seconda tappa della «Crociera di Archeo» – divenne, grazie alla felice posizione geografica e, soprattutto, alla possente cinta muraria del III secolo d.C., il principale centro territoriale della regione, superando la vicina Tarraco (oggi Tarragona), ben piú grande e popolosa. Tre secoli piú tardi, proprio Barcino venne scelta come capitale del regno dei Visigoti e, nell’VIII secolo, fu ancora l’antica Barcellona a cedere per ultima all’avanzata dei Mori. E questo è solo uno scorcio del passato ricchissimo di storia che potremo ripercorrere sul posto, accompagnati da due esperti archeologi, Alessandra Costantini e Christoph Hausmann, che ci guideranno nel cuore del Barri Gòtic.

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Per esempio per visitare il Museo di storia di Barcellona (MUHBA), che conserva oltre 4000 mq di resti archeologici della Barcino romana, nonché le colonne del tempio di Augusto (I secolo d.C.), che si trovava nell’area compresa fra la Cattedrale di S. Eulalia e la Plaça del Rei. Potremo quindi salire verso la collina del Montjuic, dove ha sede il Museu d’Arqueologia de Catalunya, le cui collezioni illustrano l’evoluzione della Catalogna e del territorio circostante dalla preistoria fino al Medioevo. Infine, dalla sommità della collina potremo godere anche del panorama della città nei giardini del castello seicentesco, per poi tornare a bordo, dove, magari sorseggiando un gustoso aperitivo, potremo fare quattro chiacchiere con gli archeologi a proposito dei siti visitati nel corso della giornata. Alessandra Costantini si è laureata in Archeologia all’Università «Sapienza» di Roma, con una tesi sulla statua di Apollo dedicata dai Nassi a Delo. Successivamente ha conseguito il dottorato in Antichità classiche e loro fortuna in Italia, discutendo una tesi sulla collezione di vasi greci di Luciano Bonaparte principe di Canino. Insieme al collega Christoph Hausmann, laureatosi all’Università di Neuchâtel con una tesi su Penelope e in seguito assistente all’Università di Zurigo, ha condotto un progetto di ricerca in Argentina sulla civiltà precolombiana della Candelaria. Entrambi hanno una consolidata esperienza nel settore del turismo, come guide e accompagnatori.



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TEMI Architettura

QUANDO SI DICE «CUPOLA»...

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ei manuali di archeologia e storia dell’architettura compaiono spesso, a indicare la cupola micenea cosí come altre murate a secco (per esempio i tumuli etruschi), le definizioni generiche di «falsa cupola» o «pseudo-cupola». L’idea della tholos micenea come falsa cupola si è affermata al punto da essere generalmente riconosciuta e il termine ha finito con l’essere utilizzato con superficialità, sia nella letteratura scientifica, che in quella di natura divulgativa. In un recente progetto di ricerca, chi scrive, insieme all’architetto Raffaele Santillo, ha analizzato le tecniche edilizie e la statica della tomba micenea a tholos, giungendo alla conclusione che quella micenea è una cupola assolutamente autentica. Viene dunque lecito chiedersi che cosa abbia originato questo malinteso sulla cupola. Il primo errore è consistito nell’utilizzare una terminologia relativa alla

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In alto: Alberobello (Bari). L’interno della cupola in pietra a secco che costituisce la copertura di un trullo, abitazione tradizionale della cittadina pugliese. A differenza di un arco, una struttura del genere termina con un’apertura e non con una chiave. A sinistra: rappresentazione schematica di un arco in pietra e del suo funzionamento. L’arco è una

costruzione «bidimensionale» in grado di incanalare, con la sua traiettoria curvilinea, le sollecitazioni prodotte dai carichi. Queste sono trasformate in forze di compressione lineare (linea di spinta) e deviate sui piedritti. Durante la fase di costruzione l’arco, finché non viene chiuso in alto da una chiave, necessita di una struttura portante provvisoria (centina).

tecnica edilizia, come il corbelling – termine anglosassone che indica un insieme di blocchi di pietra disposti in aggetto – per designare un principio di statica.

È importante, invece, tenere separati i principi della tecnica edilizia da quelli della statica. La tecnica edilizia definisce le modalità e le norme utilizzate


Disegno schematico di una cupola ideale. Si tratta di una struttura «tridimensionale», in cui l’azione di cerchiatura svolta dai paralleli annulla le spinte dei meridiani. Le frecce indicano le tensioni della cupola: in basso tirano, in alto spingono rendendo la struttura autoportante anche in fase di costruzione. dall’uomo per costruire, mentre la statica edilizia riguarda i principi fisici in base ai quali una costruzione mantiene un equilibrio, cioè le relazioni tra forza e peso negli edifici e nelle loro parti. Tecnica edilizia e statica sono evidentemente integrate in una struttura architettonica, ma è metodologicamente sbagliato descrivere un edificio dal punto di vista statico servendosi di un termine di pertinenza dell’edilizia. Il corbelling è, appunto, la tecnica utilizzata nella costruzione di cupole in pietra a secco, in cui i massi vengono disposti in strati orizzontali circolari di diametro via via decrescente. Il concetto di falsa cupola nasce probabilmente dall’assimilazione all’arco, costituito da pietre a forma di cuneo chiuse in cima da una chiave. La cupola, invece, non termina mai con una chiave, bensí con un’apertura, anche se alcune cupole vengono chiuse per proteggere l’interno dagli agenti atmosferici. In questo caso, sulla sommità viene collocata una pietra che funziona da coperchio. Il coperchio può essere aperto o rimosso senza compromettere la stabilità della costruzione, come avverrebbe, invece, rimuovendo la chiave di volta di un arco. Il coperchio della cupola può evolversi nella forma e

divenire, per esempio, una lanternina, soluzione funzionale ed esteticamente elegante, molto frequente negli edifici religiosi. Errore ricorrente è la descrizione di una cupola come un insieme di archi. La cupola, in realtà, non contiene archi, ma è costituita da cerchi completi, sovrapposti orizzontalmente e, al contrario dell’arco, è una struttura tridimensionale. Al malinteso potrebbe aver contribuito il fatto che spesso, nei disegni, la cupola appare in sezione e, quindi, piana e non tridimensionale. Ma che cosa, dunque, permette a una cupola di mantenersi in equilibrio? In una cupola agisce una rete inscindibile di forze che mantiene fermi i suoi elementi: le tensioni orizzontali, i paralleli, annullano le spinte verticali dei meridiani e, dunque, la struttura è autoportante. Nell’arco, la chiave di volta è indispensabile affinché la struttura scarichi il peso sui pilastri laterali. Nessuno esita a definire cupola la copertura del monumento piú prestigioso dell’antica Roma, il Pantheon, il tempio dedicato a piú divinità, che fu riedificato da Adriano e trasformato in chiesa cristiana nel 609 d.C. Sulla sommità dell’immensa cupola si apre l’oculus, con i suoi 9 m di diametro. Esso si deve a ragioni tecniche ma assume anche una valenza simbolica, alludendo a una presenza cosmica. Sebbene sia

costruita in opus caementicium (opera cementizia), la cupola del Pantheon funziona secondo gli stessi principi statici di quelle micenee in pietra. Il segreto del cemento romano è la pozzolana, il materiale vulcanico che, unito alla calce spenta, produce una reazione chimica divenendo, con l’aggiunta di frammenti di pietra, ghiaia o laterizi (caementa), molto solido. La cupola romana, come le altre, è costituita di strati anulari orizzontali sovrapposti e deve essere autoportante durante l’intera fase di costruzione per il raggiungimento della massima stabilità ed evitare cedimenti e fratture. Barbro Santillo Frizell

PER SAPERNE DI PIÚ Barbro Santillo Frizell, Tra terra e cielo. Cupole e obelischi nella cultura mediterranea, Edizioni Polistampa, Firenze 2016

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

UN MIRACOLO A RISCHIO NEL 2009, LE CATACOMBE DI S. GENNARO, A NAPOLI, SONO STATE STRAPPATE ALL’ABBANDONO E TRASFORMATE IN UNA DELLE PIÚ SUGGESTIVE ATTRAZIONI DELLA CITTÀ. UNA STORIA ESEMPLARE, MA CHE ORA POTREBBE BRUSCAMENTE FINIRE, COME CI SPIEGA GIULIANO VOLPE

A

Napoli, nel rione Sanità, san Gennaro sembra aver fatto davvero il «miracolo». Dopo essere state per decenni abbandonate e inaccessibili, le catacombe della città, fra cui quelle intitolate al santo, sono state prese in gestione dalla cooperativa di ragazzi del rione Sanità «la Paranza» e sono arrivate a far registare ben 130mila visitatori l’anno. Tuttavia, questo virtuoso e vincente modello di gestione del patrimonio rischia adesso di scomparire. Per saperne di piú, abbiamo intervistato Giuliano Volpe, presidente emerito del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, docente di Archeologia presso l’Università di Foggia e presidente della Fondazione Apulia felix. Professore, lei è tra gli studiosi che hanno piú strenuamente difeso questo «miracolo». Ci vuole raccontare? «Nelle catacombe di Napoli, i

miracoli sono tre. Il primo è la rinascita di un bene culturale di straordinaria importanza che era completamente abbandonato: fino al 2008 le catacombe erano chiuse, sconosciute e in cattivo stato di conservazione. La chiesa di S. Gennaro era utilizzata come deposito dell’omonimo ospedale, piena di rifiuti e materiali di scarto. Dopo anni di tentativi per superare i mille ostacoli burocratici (le catacombe dipendono da Vaticano, ASL, Comune e Soprintendenza), nel 2009, il parroco del rione Sanità, don Antonio Loffredo, è riuscito a prendere in gestione questo patrimonio, affidandolo alla cooperativa “la Paranza”. I visitatori, che all’epoca erano 8mila l’anno, nel 2018 sono arrivati a 130 mila». Se questo è stato il primo «miracolo» di san Gennaro, qual è il secondo? «Salvare un’intera comunità, offrendole lavoro e sviluppo. Napoli, Catacombe di S. Gennaro. Affresco della defunta di nome Cerula. V-VI sec. I codici evangelici ai lati del volto evocano l’intimità del rapporto con il messaggio di Cristo.

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La cooperativa “la Paranza” riunisce i ragazzi della parrocchia del rione Sanità, che avevano abbandonato gli studi. Oggi alcuni si sono laureati in archeologia, altri hanno imparato lingue all’estero: 50 sono stati assunti con contratto regolare, a tempo indeterminato, cosí da avere finalmente un lavoro regolare». Il nome «la Paranza» ha un forte significato simbolico... «Dimostra che a Napoli non esiste solo la “paranza dei bambini” raccontata da Roberto Saviano, in cui ai piccoli viene insegnato a sparare ad altezza d’uomo per marcare il territorio. Sanità è un rione a fortissima presenza mafiosa e questi ragazzi avevano davanti solo due strade: la camorra o l’abbandono del quartiere. Cosí invece hanno potuto percorrere un’altra via. Don Antonio dice sempre: “Ho dimostrato come le pietre di scarto possano diventare pietre angolari e sorreggere l’edificio”». Come secondo «miracolo», san Gennaro ha quindi salvato anche il «patrimonio umano» del rione... «Sí, perché tutti i lavori vengono eseguiti da giovani disagiati. Gli interventi elettrici e idraulici all’interno delle catacombe sono stati realizzati dall’Officina dei talenti, composta da ragazzi che vengono dal carcere, che si sono occupati anche della parte edile per la creazione di due Bed and


Napoli, Catacombe di S. Gennaro, il vestibolo superiore. Decorato agli inizi del III sec. nel cosiddetto «stile pompeiano», conserva le prime pitture cristiane del Sud Italia.

Breakfast nei locali abbandonati della chiesa di S. Gennaro. I restauri e la manutenzione ordinaria e straordinaria delle catacombe sono a carico de la Paranza. Mentre i ragazzi della cooperativa “Iron Angels” lavorano il ferro e l’acciaio di scarto per realizzare gadget ispirati alle catacombe». La valorizzazione del sito ha davvero coinciso con lo sviluppo economico e turistico del rione Sanità? «Sí. I due B & B sono sempre pieni e ormai insufficienti. Migliaia di turisti vengono in visita nel rione. Dei 130mila biglietti venduti nel 2018, 70mila sono serviti a pagare tutti gli stipendi, il resto è stato reinvestito in servizi per il quartiere. È questo il terzo “miracolo” di san Gennaro: aver ridato dignità a un rione che, dopo l’epoca di Totò, faceva parlare di sé solo per omicidi, furti e droga. È nata una “comunità di patrimonio”, in cui gli stessi abitanti che prima maltrattavano i beni culturali, ora se ne prendono cura. Li percepiscono come qualcosa che può migliorare la loro vita. Ed è stata creata la Fondazione San Gennaro, formata da decine di piccoli

commercianti, artigiani e cittadini che sostengono l’operazione investendo di tasca propria… piú “miracolo” di cosí! Adesso sono le mamme del quartiere, appartenenti a famiglie problematiche, che chiedono di far lavorare i figli con don Antonio, perché evitino di fare la fine dei padri». Eppure questo virtuoso esperimento rischia di scomparire: il Vaticano ha chiesto di riscuotere i proventi del 50% dei biglietti delle catacombe, cosa che comprometterebbe la sopravvivenza stessa di questa esperienza. Lei, professore, ha incontrato don Antonio Loffredo poche ora prima di rilasciare questa intervista. Che notizie ci sono? «Il Vaticano, tramite la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, ha chiesto di rivedere la convenzione, a dieci anni dalla stipula, rivendicando il 50% dei proventi dei ticket delle catacombe. La cosa metterebbe del tutto in crisi la sostenibilità dell’operazione: verrebbero meno le risorse per mantenere i servizi nel rione, minando la ricaduta economica che ha messo in moto sul territorio un’economia pulita, sana

sostenibile. Quando ho sentito esponenti del Vaticano dire che “sono state assunte troppe persone”, mi sono cadute le braccia. Per fortuna si è scatenato il finimondo, con una raccolta di oltre 60mila firme, e la situazione per adesso è ferma. Ma occorre tenere alta l’attenzione. Il mio timore è che questa realtà venga vissuta dalle autorità vaticane come una pericolosa anomalia». Don Antonio è solito dire: «Se lo abbiamo fatto a rione Sanità, è possibile ovunque»… «Il caso di Napoli deve diventare un modello da replicare in altre realtà italiane, cosí da favorire una gestione dal basso del patrimonio culturale e restituire nuova vita a monumenti abbandonati, offrendo sviluppo e occupazione qualificata. Bisogna creare un nesso tra valore culturale e sociale del patrimonio: questo è il mix potente che il caso Sanità esprime. Per questo l’esempio di Napoli aprirà gli Stati generali della gestione dal basso del patrimonio culturale, che si terranno il prossimo 23 febbraio, a Firenze, con l’obiettivo di mettere in rete le tante iniziative popolari di gestione dei nostri beni».

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n otiz iario

MOSTRE Roma

GLI STRANIERI AL COMANDO

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ra il 193 e il 235 d.C., le redini dell’impero romano furono nelle mani dei Severi: l’ultima, grande dinastia imperiale, originaria dell’Africa. Una dominazione ora rievocata dal percorso espositivo che si snoda tra Colosseo, Palatino e Foro Romano. La mostra si apre al secondo ordine dell’Anfiteatro Flavio con una ricca sequenza di ritratti che ricordano le origini della famiglia: con Settimio Severo, proveniente da Leptis Magna, in Libia, e la moglie Iulia Domna, da Emesa, in Siria. Una sfilata che comprende anche tre rilievi di recente scoperta negli scavi della metropolitana di Napoli, appartenenti a un arco onorario. Al Palatino sono visibili per la prima volta le vestigia delle cosiddette Terme dell’imperatore Elagabalo, venute alla luce in un angolo delle pendici del colle lambito dalla via Sacra che racconta una lunga storia di trasformazioni edilizie. Un ciclo statuario scoperto proprio in questo sito, mai esposto prima d’ora e composto da ritratti e busti

di marmo di pregevole qualità, è riunito nel Tempio di Romolo. Il percorso di visita sul Palatino prosegue attraverso i luoghi dei Severi, estesi su circa due ettari, di cui i segni piú evidenti sono le imponenti arcate e le terrazze, insieme allo Stadio, con la straordinaria sala dei capitelli dal soffitto a cassettoni stuccato. Nel Foro Romano è per la prima volta visitabile un tratto del vicus ad Carinas, uno dei piú antichi percorsi dell’Urbe. Oggi, attraverso questo accesso, ci si affaccia sul Templum Pacis, di cui, dopo un lungo restauro, è visibile il magnifico opus sectile pavimentale. Nel 192 d.C. un incendio distrusse quasi il templum, ricostruito da Settimio Severo riproponendo la monumentalità della costruzione originaria. In questa occasione fu collocata, in una sala adiacente all’aula di culto, la Forma Urbis Romae, di cui restano sul muro di facciata della basilica dei Ss. Cosma e Damiano le impronte delle lastre su cui era incisa. (red.)

In alto: particolare dei rilievi dell’arco di Settimio Severo. In basso: i ritratti esposti nel

Colosseo, con, in primo piano, sulla destra, Caracalla (212-217 d.C., Napoli, Museo Archeologico Nazionale).

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DOVE E QUANDO «Roma Universalis. L’impero e la dinastia venuta dall’Africa» Roma, Colosseo-Foro Romano-Palatino fino al 28 agosto Orario fino al 15/02: tutti i giorni, 8.30-16,30 (nei mesi successivi, gli orari subiscono variazioni stagionali, aggiornati sul sito del Parco, vedi Info) Info www.colosseo.beniculturali.it Prevendita e visite guidate tel. 06 39967700; www.coopculture.it


MOSTRE Roma

LUDWIG POLLAK, FRA ARCHEOLOGIA E MEMORIA

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a Roma dell’ultimo trentennio del secolo XIX ha visto una schiera di intelligenti raccoglitori di antichità classiche». Sono parole di Ludwig Pollak, uno dei protagonisti di questa importante stagione dell’archeologia e del mercato dell’arte internazionale tra Otto e Novecento, primo direttore onorario del Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco di Roma, che ne custodisce la Biblioteca e l’Archivio. A 150 anni dalla nascita, a Praga nel 1868, e a 80 dalla promulgazione delle leggi razziali in Italia, Pollak viene ricordato dalla mostra nata dalla collaborazione tra il Museo Ebraico di Roma e lo stesso Museo Barracco. Grande esperto di antichità, grande archeologo e abilissimo mercante d’arte, Ludwig Pollak è ricordato anche per importanti scoperte archeologiche, tra cui il ritrovamento del braccio originale del Laocoonte. La sua appartenenza al mondo culturale e religioso ebraico, oltre alla comune passione per l’archeologia, favorí inoltre i suoi legami di amicizia e

A destra: lo studio di Ludwig Pollak in Palazzo Odescalchi. In basso: Ritratto di Ludwig Pollak, olio su tela di Werner F. Fritz. 1925. Roma, Museo di Roma.

collaborazione con eminenti personalità della cultura viennese, in particolare con Sigmund Freud ed Emanuel Loewy. Purtroppo l’origine ebraica comportò anche il suo progressivo isolamento, a partire dagli anni Trenta del Novecento, con l’espulsione nel 1935 dalla Biblioteca Hertziana e, infine, il tragico epilogo della sua vita nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, dove fu deportato con la moglie e due figli, vittima dei rastrellamenti di Roma del 16 ottobre 1943. Le opere esposte nelle due sedi della mostra (dipinti, sculture, vasi greci, acquerelli, libri rari e fotografie d’epoca, inediti documenti d’archivio) ripercorrono le tante storie che accompagnarono la vita del grande collezionista, partendo dai ritratti: quelli di Ludwig Pollak stesso, di sua moglie Julia Sussmann Pollak e del conte Grigorij Sergeevic Stroganoff. Di grande rilevanza il cartone del Domenichino con Salomone e Betsabea e il Ritratto di Dorothea Denecke von Ramdohr con la figlia Lilli del 1819. O, ancora, la testa

ritratto in marmo lunense dell’imperatore Claudio. Opere che facevano parte della collezione personale di Ludwig Pollak e che sono state successivamente donate dalla cognata, unica superstite, al Comune di Roma. (red.)

DOVE E QUANDO «Ludwig Pollak. Archeologo e mercante d’arte» Roma, Museo Ebraico via Catalana (largo 16 Ottobre 1943) Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco, corso Vittorio Emanuele 166/A fino al 5 maggio Orario gli orari variano stagionalmente per entrambi i musei e vengono aggiornati sui rispettivi siti (vedi info) Info Museo Barracco: tel 06 06 08; www.museobarracco.it; www.museiincomune.it; Museo Ebraico di Roma: tel. 06 68400661; e-mail: info@ museoebraico.roma.it; www.museoebraico.roma.it

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MUSEI Como

MILLE MONETE D’ORO E ALTRI TESORI

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a Sezione Romana del Museo Archeologico «Paolo Giovio» di Como è stata riaperta al pubblico, forte di un nuovo allestimento e un aggiornato apparato informativo. Accanto ai pezzi storici della collezione, come il «Rilievo dei cavalieri» (un fregio monumentale con una parata di cavalieri databile

al II secolo d.C.) e il celebre ritratto di Augusto (riconoscibile nella foto in basso, sulla destra), si possono ammirare, ora, importanti opere e manufatti provenienti dagli scavi urbani del 1999. Le indagini, svolte per la costruzione dell’edificio Regione Lombardia in viale Varese, portarono alla luce un intero quartiere e due necropoli di epoca romana. In particolare, sono da segnalare i reperti rinvenuti all’interno di una locanda per viaggiatori risalente al III secolo d.C e distrutta da un violento incendio, che ne causò il crollo del tetto, sigillando quanto si trovava all’interno del locale: attrezzi da cucina (mortai, uno spiedo, una

graticola), e per il lavoro nei campi, oltre a una bella applique in bronzo che mostra Dioniso su una roccia e una pantera al fianco. Merita una segnalazione il corredo del IV secolo d.C. della cosiddetta «tomba della maga», che prende il nome da una laminetta in oro con

In alto, a sinistra: balsamario a forma di colombina, da Como. In alto, a destra: collana di granati, dalla tomba femminile ribattezzata «della maga», nella necropoli a inumazione di via Benzi. IV sec. d.C. A sinistra e qui sopra: due immagini del nuovo allestimento della sezione romana del Museo «Paolo Giovio».

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A sinistra: il tesoro rinvenuto nello scorso settembre nell’ex Teatro Cressoni e composto da 1000 monete in oro perlopiú databili al V sec. d.C. Qui sotto: applique in bronzo con raffigurazione di Dioniso e la pantera, dalla locanda scoperta in via Benzi. In basso: orecchini in oro da una tomba di via Borgovico.

iscrizione magica e da una lamina arrotolata in piombo. La defunta doveva essere una giovane donna (25-29 anni) dai caratteri nordici con influssi centro-asiatici, come ha rivelato l’indagine antropologica dei resti, e doveva probabilmente esercitare un’attività nella quale era previsto l’uso di coloranti – come per esempio l’ocra –, che contengono arsenico rinvenuto in alta concentrazione nelle ossa della «maga». Questi nuovi reperti, finalmente esposti, forniscono un grande

monete sono stati trovati anche tre orecchini, tre anelli e un frammento di lingotto. Gli archeologi ipotizzano che nel luogo in cui è stato rinvenuto il vaso dal prezioso contenuto sorgesse forse un deposito pubblico di denaro. Ma le indagini sono solo all’inizio e non si hanno ancora risposte certe sul perché quel tesoro si trovasse lí. Lorella Cecilia contributo alla conoscenza della Como romana, una città generosa di scoperte archeologiche. Risale, infatti, al settembre dello scorso anno il rinvenimento nel centro storico, nell’ex Teatro Cressoni, di uno straordinario «tesoro» composto da ben 1000 monete in oro (del peso di 4,5 grammi ciascuna), perlopiú del V secolo d.C. e conservate impilate all’interno di un vaso monoansato in pietra ollare. Insieme alle

DOVE E QUANDO Museo Archeologico «Paolo Giovio» Como, piazza Medaglie d’Oro 1 Orario ma-do, 10,00-18,00; chiuso tutti i lunedí e 1° gennaio, Pasqua, 1° novembre, 25 e 26 dicembre; aperture straordinarie: Lunedí dell’Angelo e 24 dicembre Info tel. 031 252550; e-mail: museicivici @comune.como.it; www.visitcomo.eu

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

STORIE DI ANTICHI POPOLI Prendendo spunto dalla nuova serie dedicata ai popoli della Bibbia (vedi alle pp. 38-53), anche la nostra rubrica inaugura una rassegna che documenterà con materiale filatelico luoghi, personaggi e vicende citati nelle Sacre 3 1 Scritture. Si comincia dal popolo di Israele, l’unico, tra quelli dell’antichità, in qualche modo 2 sopravvissuto fino ai tempi moderni, anche se l’Israele di oggi (o quello del 1940, la cui estensione è raffigurata da un francobollo emesso appunto in quell’anno, 1) non corrisponde affatto a quello della 4 Bibbia, come si vede dalla cartolina che riporta anche tutti i nomi delle antiche tribú (2). Le connessioni tra Bibbia, storia e archeologia vengono sviluppate da 6 Fabio Porzia nella sua indagine, mentre qui si procede mostrando le cose e le persone citate essenzialmente nei testi sacri. Circa le origini di Israele, si può risalire ai due regni, quello di Israele con capitale Samaria (i resti della città nell’appendice di un francobollo israeliano del 2017, 3) e quello di Giuda con capitale Gerusalemme (in una vecchia piantina, 4). Il regno di 5 Samaria, quello piú ricco di risorse, si sviluppò in 7 modo dinamico anche dal punto di vista dell’edilizia pubblica, come risulta dalle rovine di Megiddo e Hazor (intero postale cinese, 5). La domanda chiave dell’articolo, «La Bibbia racconta il vero Israele?», può essere ampiamente documentata, poiché esistono francobolli dedicati ai patriarchi 9 Abramo (6), Isacco (7) e Giacobbe (8), alle 12 tribú 8 13 guidate dai figli di Giacobbe (i simboli delle 12 tribú su un francobollo di Israele del 1952, 9) e ai re di Israele Saul (10), Davide (11) e Salomone (12). Ma questi personaggi biblici sono realmente esistiti? Non vi sono riscontri storico-archeologici su di loro, e 14 perciò sussistono molti dubbi sulla loro effettiva storicità. L’unica eccezione potrebbe essere per il re Davide, perché «la casa di Davide» è citata su una stele rinvenuta a Tel Dan (13). Sintetizzando le conclusioni a 10 11 12 cui giunge Fabio Porzia, si può affermare che l’identità del popolo di Israele è costruita su IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia una base etnica e religiosa in assenza di Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai elementi concreti (terra, istituzioni, templi), seguenti indirizzi: dovuta alla «crisi dell’esilio» e quindi, per la Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, prima volta, la coscienza collettiva, cioè Via Tavanti, 8 C.P. 17037 l’identità di un popolo, si è formata è sulla 50134 Firenze Grottarossa Torah, cioè sull’insegnamento (14) di racconti e leggi info@cift.it, 00189 Roma. oppure lcalenda@yahoo.it; www.cift.it raccolti nei primi 5 libri della Bibbia.

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I N E ISTIA L A R T NA MI C I R P N CO

LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO

I

Nel mondo dei primi

cristiani

• Il primo Natale • Il piú antico presepe • La missione di Pietro e Paolo • Cosa sono i testi apocrifi • A pranzo con i primi cristiani • L’età delle persecuzioni • La basilica della Natività • Rivelazioni sulle catacombe • Quando Roma divenne cristiana


L

a dottrina che i seguaci di Cristo diffusero in tutto il mondo allora conosciuto ebbe un impatto formidabile sulle società del tempo e, fin dall’inizio, scatenò ripercussioni che andarono ben oltre la sfera religiosa. Una vera e propria rivoluzione che, però, solo a partire dal III secolo, si espresse attraverso una straordinaria produzione artistica e architettonica. Ai secoli formativi di questo nuovo universo religioso e culturale è dedicata la Monografia di «Archeo», ora in edicola. Un viaggio nel tempo, raccontato e illustrato dai principali studiosi della materia.

Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Mosaico parietale raffigurante l’Adorazione dei Magi. 561-568. Giunti a Betlemme dall’«Oriente» per rendere omaggio al «re dei Giudei», i tre re, vestono abiti persiani e indossano il tipico berretto frigio.

GLI ARGOMENTI • I NTRODUZIONE • Cittadini del cielo •L E ORIGINI DEL NATALE • Santa è la notte •B ETLEMME • Mistero a Betlemme •P IETRO E PAOLO • La grande missione • I MARTIRI • Morire di fede •L E CATACOMBE • Un mito da sfatare •L ’ARTE DELLE CATACOMBE • Dall’oscurità alla luce •R OMA CRISTIANA • La grande metamorfosi

IN EDICOLA a r c h e o 33


CALENDARIO

Italia ROMA Ovidio

Amori, miti e altre storie Scuderie del Quirinale fino al 20.01.19

La Roma dei re

Il racconto dell’archeologia Musei Capitolini fino al 27.01.19

EtruSchifano

Mario Schifano a Villa Giulia: un ritorno Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 10.03.19

Il classico si fa pop

Di scavi, copie e altri pasticci Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo e Crypta Balbi fino al 07.04.19

Ludwig Pollak. Archeologo e mercante d’arte

Gli anni d’oro del collezionismo internazionale. Da Giovanni Barracco a Sigmund Freud Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco e Museo Ebraico di Roma fino al 05.05.19

Roma Universalis

L’impero e la dinastia venuta dall’Africa Colosseo-Foro Romano-Palatino fino al 25.08.19

CANINO (VITERBO) Olio. Patrimonio antico, risorsa moderna

Materiali dagli scavi di Vulci Museo della Ricerca Archeologica-Ex Convento di S.Francesco fino al 31.01.19

FAENZA Aztechi, Maya, Inca e le culture dell’antica America MIC (Museo Internazionale delle Ceramiche) fino al 28.04.19

FIRENZE L’Arte di donare

Nuove acquisizioni del Museo Archeologico Nazionale Museo Archeologico Nazionale fino al 10.03.19

FRANCAVILLA MARITTIMA (COSENZA) Francavilla Marittima, un patrimonio ricontestualizzato Palazzo de Santis fino al 15.01.19

GENOVA 100 mila anni in Liguria

Statuette votive forse raffiguranti la dea Atena.

Tra Mediterraneo ed Europa Museo di Archeologia Ligure fino al 09.06.19

MILANO Picasso Metamorfosi Il maestro a confronto con l’antichità e il mito Palazzo Reale fino al 17.02.19

Il viaggio della Chimera Civico Museo Archeologico fino al 12.05.19

MONTERIGGIONI, SIENA Monteriggioni prima del Castello Una comunità etrusca in Valdelsa Abbadia Isola, Sala Sigerico fino al 23.04.19

NAPOLI Le ore del sole

Geometria e astronomia negli antichi orologi solari romani Museo Archeologico Nazionale fino al 31.01.19

Mortali Immortali

I tesori del Sichuan nell’antica Cina Museo Archeologico Nazionale fino all’11.03.19

PERUGIA Alla ricerca dell’arte perduta

Mostra di materiali archeologici recuperati dai Carabinieri di Perugia nel 2016 Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria fino al 25.01.19

PIACENZA Annibale

Un mito mediterraneo Palazzo Farnese fino al 17.03.19 34 a r c h e o

Moneta con ritratto di Amilcare Barca.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

POMPEI Alla ricerca di Stabia Antiquarium degli Scavi fino al 31.01.19

SAN GIMIGNANO Aristocrazie lucane e artigianato etrusco

Ricerche di archeologia preventiva nella Valle del Sauro (PZ) Chiesa di San Lorenzo in Ponte fino al 21.03.19

SIRACUSA Archimede a Siracusa Experience exhibition Galleria Civica Montevergini fino al 31.12.19

TORINO Ercole e il suo mito

Winckelmann

Capolavori diffusi nei Musei Vaticani fino al 09.03.19

Francia PARIGI Città millenarie

Un viaggio virtuale da Palmira a Mosul Institut du monde arabe fino al 10.02.19

Un sogno d’Italia La collezione del marchese Campana Museo del Louvre fino al 18.02.19

Reggia di Venaria fino al 10.03.19

Germania

TRIESTE Iapodes

FRANCOFORTE L’oro e il vino

VENEZIA Idoli

Grecia

Il popolo misterioso degli altopiani dell’Europa centrale Civico Museo d’antichità «J.J. Winckelmann» fino al 17.02.19

Il potere delle immagini Palazzo Loredan, Isituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti fino al 20.01.19

Gli ultimi giorni di Bisanzio

Splendore e declino di un Impero Biblioteca Nazionale Marciana fino al 05.03.19

VILLANOVA DI CASTENASO (BO) Oggetti dal quotidiano

Un giorno all’interno di un villaggio villanoviano MUV, Museo della civiltà Villanoviana fino al 09.06.19

Belgio BRUGES Mummie

Segreti dell’antico Egitto Xpo Center Bruges fino all’01.09.19 (prorogata)

Città del Vaticano MUSEI VATICANI Collezioni in dialogo Museo Gregoriano Egizio fino al 30.06.19

I piú antichi tesori della Georgia Archäologisches Museum fino al 10.02.19

ATENE Gli infiniti aspetti della bellezza Museo Nazionale Archeologico fino al 31.12.19

Paesi Bassi LEIDA Dèi dell’Egitto

Rijksmuseum van Oudheden fino al 31.03.19

Regno Unito LONDRA Io sono Assurbanipal

Re del mondo, re dell’Assiria British Museum fino al 24.02.19

USA NEW YORK Nedjemankh e il suo sarcofago d’oro

The Metropolitan Museum of Art fino al 21.04.19


CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli

L’ULTIMO MISTERO DI AKROTIRI I PIÚ RECENTI SCAVI NEL CELEBRE SITO PREISTORICO HANNO RESTITUITO UN PREZIOSO IDOLETTO CICLADICO, RIACCENDENDO IL DIBATTITO SULLA FUNZIONE DI QUESTE ENIGMATICHE RAFFIGURAZIONI

I

l sito di Akrotiri, a Santorini, vera e propria leggenda dell’archeologia, ha restituito un intero centro abitato sigillato sotto le ceneri di un’eruzione vulcanica avvenuta nel II millennio a.C. Si tratta di uno dei capisaldi della preistoria mediterranea, e di questa autentica Pompei preistorica si sono conservate strade, piazze, abitazioni a piú piani, edifici pubblici; il sito ha restituito inoltre materiale abbondante e spesso di squisita fattura: dalla ceramica alle splendide pitture murali, ai magnifici gioielli, agli enigmatici idoletti cicladici. E proprio un idoletto cicladico è il protagonista della scoperta dell’ultima campagna condotta ad Akrotiri da Christos Doumas, sotto gli auspici della Società Archeologica di Atene.

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Chio

Atene

Mar Egeo

Andros

GRECIA

Samos

Tinos Ikaria

Cicladi Paros

Naxos

Milos

Mar Mediterraneo

Santorini

Gli scavi del 2018 si sono concentrati, tra l’altro, sulla cosiddetta «Casa delle Banchine», una struttura a probabile vocazione pubblica ascesa nel 1999 agli onori della cronaca per il rinvenimento di una magnifica statuetta di caprone in oro, ora esposta al Museo di Thera preistorica. Un ambiente interno del medesimo edificio è

stato ora teatro di un altro rinvenimento eccezionale: in successione cronologica, sono state ritrovate dapprima anfore fittili e, quindi, piccole larnakes fittili quadrangolari (plurale di larnax, il termine designa cassette per le ceneri o le ossa dei defunti, n.d.r.). Due larnakes poste nell’angolo sud-orientale dell’ambiente contenevano una massa di argilla di forma ovoide, mentre una terza, la piú grande, custodiva due craterischi protocicladici di marmo, una coppa anch’essa di marmo e un vaso in alabastro. A riservare una sorpresa del tutto inattesa è stata però la piccola larnax situata all’angolo nord-occidentale dell’ambiente: qui, infatti, è stato rinvenuto un idoletto protocicladico in marmo, raffigurante un


personaggio femminile, che venne deposto in diagonale, sul fondo del contenitore. La rilevanza di questi rinvenimenti è evidente: non solo perché gli idoletti cicladici sono stati finora trovati al di fuori dei loro contesti – circostanza che ha causato serie difficoltà d’interpretazione, su cui ancora pesano gravi incertezze –, ma anche perché questa complessa scoperta si colloca nel delicato momento della preistoria in cui sembrano farsi strada tendenze che vanno in direzione dell’emergere dell’individuo, a discapito di rituali di tipo comunitario. L’edificio in questione si trova all’estremità meridionale dell’abitato, poco In alto: Akrotiri (Santorini), Casa delle Banchine. La larnax in terracotta al cui interno è stato rinvenuto un pregevole idoletto protocicladico in marmo, raffigurante un personaggio di sesso femminile. A sinistra, dall’alto: statuetta in oro raffigurante un caprone, rinvenuta anch’essa nella Casa delle Banchine (e oggi conservata nel Museo di Thera Preistorica); uno dei settori indagati

nell’ultima campagna di scavi ad Akrotiri con vasi e larnakes ancora in situ; un’altra larnax subito dopo la scoperta e il primo consolidamento. Nella pagina accanto: una veduta del sito di Akrotiri. L’insediamento ebbe a lungo un ruolo chiave nella rete dei traffici mediterranei, ma la sua vita fu bruscamente e violentemente interrotta da un’eruzione vulcanica nell’età del Bronzo, nel XVII sec. a.C.

lontano dalla struttura denominata Xestè 3, interpretata come un importante complesso di tipo pubblico e dotato di una ricca decorazione di pitture murali.

delle iniziative scientifiche che stiamo intraprendendo ad Akrotiri. Tra i progetti futuri vi sono l’ampliamento del laboratorio per la conservazione delle pitture murali (vedi «Archeo» n. 364, giugno 2015, on line su issuu.com), nonché la prosecuzione dei lavori di restauro degli edifici, che ne permetterà anche una migliore protezione». Le indagini in corso ad Akrotiri stanno riportando alla luce un complesso in cui dovevano compiersi atti rituali. I rinvenimenti di questa campagna di scavo, ma forse anche delle prossime, potranno arricchire le nostre conoscenze sulla popolazione antica di Thera, suscitando nuovi interrogativi circa l’ideologia e le credenze religiose di questa comunità dell’Egeo preistorico.

UN MECENATE D’ECCEZIONE Le ricerche ad Akrotiri sono condotte grazie ai generosi finanziamenti della Kaspersky Lab, una società all’avanguardia nella cybersicurezza. Contributi che si devono all’entusiasmo nei confronti del patrimonio culturale di Santorini del fondatore della compagnia, Eugene Kaspersky, che per questo ha ricevuto la cittadinanza onoraria dell’isola. «Le attività di scavo della nostra équipe – ha commentato Doumas – non sono che una piccola parte

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POPOLI DELLA BIBBIA/1 – GLI ISRAELITI

QUELL’ANTICO «POPOLO DEL LIBRO»

Per secoli il racconto biblico è stato considerato, se non come diretta emanazione della volontà divina, alla stregua di un resoconto – puntellato da personaggi, luoghi e fatti – di avvenimenti storici verificatisi nel corso di oltre mille anni in un’area del Levante chiamata «Terra Santa». A partire dall’età moderna, però, questa immagine subirà, sull’onda delle grandi scoperte archeologiche e storiografiche, un progressivo e radicale cambiamento. Chi erano, veramente, i protagonisti dell’epos biblico? E, soprattutto, come si formò il popolo che a quel racconto è legato per definizione? di Fabio Porzia 38 a r c h e o


Salomone sacrifica agli idoli (particolare), olio su tela di Filippo Abbiati. XVII sec. Milano, Seminario Arcivescovile. Il vecchio re è in piedi davanti all’idolo della divinità, in adorazione; alle sue spalle assiste alla scena una folla di persone, tra le quali vi sono le mogli di Salomone.

N

on è possibile trattare la stor ia dell’antico Israele dissociandola dal vortice di personaggi e racconti che la Bibbia ci ha tramandato. A questo bagaglio culturale assai generale si sovrappongono spesso aspetti piú profondi: Israele, per esempio, è il popolo di cui faceva parte Gesú di Nazareth o al quale furono rivolte le promesse dell’Antico Testamento prima di travasarle nella Chiesa, che per Paolo di Tarso era il «vero Israele» (Rm 9,6-8; Gal 6,16). Ma Israele è anche il popolo

che, dapprima discriminato con le leggi razziali, è stato poi fatto incamminare con scientifico rigore alle camere a gas nei giorni in cui il nazifascismo trionfava in Europa. Ancora, Israele è uno Stato moderno, creato appena settant’anni fa in Medio Oriente, che spicca sovente sulle prime pagine della cronaca internazionale. Un insieme intricato di sentimenti e convinzioni, ma anche di posizioni politiche, si somma dunque alle reminiscenze bibliche. È una situazione che non si applica allo studio di nessun altro popolo

dell’antichità e che costituisce il problema fondamentale, nonché il fascino degli studi sull’antico Israele, imponendo due considerazioni preliminari. La prima riguarda la necessità di «fare storia». Israele è certo il miglior esempio di un popolo sopravvissuto al generale naufragio dei popoli antichi. Sarebbe tuttavia erroneo cadere nel tranello della continuità ininterrotta del nome Israele (dal primo libro della Bibbia, la Genesi, alle pagine dei nostri quotidiani) per avvalorare quel «corto circuito» secondo il quale l’Israele della Bibbia sarebbe, di fatto, l’Israele odierno, e viceversa. Il rischio di questa concezione è di considerare Israele come un fossile, un’entità che non cambia con il passare del tempo, o almeno non sostanzialmente ma solo di facciata, facendone quindi un soggetto a-storico, se non anche nemico della storia (idea di cui, peraltro, si nutre da sempre l’antisemitismo). Al contrario, ora piú che mai è necessario ridare profondità storica a questo popolo e restituirlo ai suoi molteplici contesti.

UN NEMICO DELLA STORIA? La seconda considerazione è la necessità di «normalizzare Israele». Lo studio di questo popolo è stato per secoli appannaggio delle facoltà di teologia, nelle quali ci si interessava a Israele come prefigurazione della Chiesa e di cui si enfatizzavano il carattere unico, straordinario (quindi anormale), lo splendido isolamento dai popoli vicini, la missione universale. Verso la metà del XIX secolo, quando si cominciarono a riportare alla luce le grandi civiltà del Vicino Oriente antico, a r c h e o 39


POPOLI DELLA BIBBIA/1 • ISRAELITI

individuare differenti redazioni, aggiunte e modificazioni, in un modo non molto diverso da quello con cui un archeologo è capace di individuare diversi strati e quindi diversi momenti della vita di un sito. Allo stesso tempo, gli esegeti hanno mostrato che la Bibbia è un insieme di testi ben piú complesso di una cronaca neutra di fatti in presa diretta.

per esempio, molti si precipitarono a cercare le convergenze fra la nuova documentazione archeologica e il testo biblico, con l’esplicita finalità di mostrare che «la Bibbia aveva ragione» e di salvare cosí il valore teologico di Israele. In anticipo su storici e archeologi, tuttavia, la normalizzazione iniziò proprio con gli specialisti del testo biblico, ossia gli esegeti, che perfezionarono, a partire dal XVIII secolo, il «metodo storico-critico», ossia un approccio al testo biblico come a un qualsiasi altro testo antico, particolarmente attento alla sua formazione progressiva quale

risposta e adattamento a differenti contesti storico-sociali. Mettendo da parte la questione dell’ispirazione divina, divenne chiaro, per esempio, che è riduttivo attribuire il libro del profeta Isaia al profeta vissuto in Giudea durante l’VIII secolo a.C., poiché, a partire dalla sua predicazione, il testo che noi leggiamo porta i segni di un accrescimento durato alcuni secoli, per adattare la sua ormai lontana predicazione alle nuove sfide che il popolo dovette affrontare. Il testo biblico, inoltre, è diventato l’oggetto di uno studio approfondito, capace di

In alto: veduta aerea del sito di Tel Hazor (Galilea). In basso: Ricostruzione del Tempio delle Stele di Hazor. XIV sec. a.C. Gerusalemme, Israel Museum.

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UN RACCONTO IDEOLOGICO La scoperta di una lunga gestazione dei testi biblici (fra l’VIII e il II secolo a.C.), e quindi di una distanza fra l’evento vissuto e il suo racconto, infine, si accompagna al riconoscimento del carattere ideologico di quest’ultimo. Il testo biblico è frutto di selezione, filtraggio e deformazione delle informazioni, quando non di invenzione, per servire gli interessi politici e teologici dell’élite regale o sacerdotale a cui gli scribi erano legati, come in tutte le cancellerie del Vicino Oriente antico. In tutto il mondo antico, infatti, l’accesso alla scrittura in termini di competenze (alfabetizzazione) e di possibilità economiche (possedere i materiali necessari


L’antico Israele al tempo di David e Salomone secondo la narrazione biblica. a r c h e o 41


POPOLI DELLA BIBBIA/1 • ISRAELITI

alla scrittura e mantenere una classe di scribi dedita a questo tipo di attività) dipendeva dal potere centrale, e difficilmente precede, nel caso biblico, l’VIII secolo a.C. Gli sviluppi all’interno delle principali discipline interessate alla Bibbia hanno dunque reso possibile, negli ultimi decenni del Novecento, un significativo rinnovamento della sua interpretazione. Le «Storie dell’antico Israele» che si scrivono oggi non si accontentano piú di essere una parafrasi del testo biblico, alla quale aggiungere a mo’ di appendice qualche passo dalle letterature coeve o qualche elemento di cultura materiale. La storia di Israele, con le sue particolarità, è comprensibile solo se inserita nella trama fondamentale della regione siro-palestinese, con la quale questo popolo condivise le vicende politiche, economiche, militari, culturali e religiose.

LE ORIGINI DI ISRAELE Se non fosse per le vicende del popolo di Israele e della Bibbia, con ciò che di cristiano ne deriva, la porzione di costa compresa fra il Mar Mediterraneo e il Giordano sarebbe un territorio piuttosto marginale nella storia dell’umanità. Dal punto di vista geopolitico, l’intera costa levantina è stata spesso una regione di frontiera, e di una frontiera che mutava col mutare dei secoli: dapprima fra l’Egitto e l’Anatolia o la Mesopotamia; piú tardi come cerniera fra la Grecia e il resto del Mediterraneo, da un lato, l’Asia e la penisola arabica dall’altro, sino a rappresentare il «confine mentale» fra Occidente e Oriente, prima con le crociate e poi in epoca coloniale. Il Levante diveniva cosí un crocevia di scambi culturali su scala mediterranea, ma al prezzo di continui interventi militari. Quello dell’antico Israele, inoltre, è un territorio modesto, tanto per dimensioni (20 000 kmq circa, meno del Piemonte o della Sicilia) quanto 42 a r c h e o

per risorse e produzione agricola, nonostante l’iperbolico titolo di «paese dove scorre latte e miele» che si ritrova piú volte nella Bibbia. Praticandosi un’agricoltura non irrigua, ma pluviale, solo la regione settentrionale piú piovosa e verdeggiante disponeva di un certo potenziale, a differenza dei paesaggi brulli attorno alla regione centrale di Gerusalemme o a quelli desertici piú a sud. A questa divisione latitudinale se ne aggiunge un’altra longitudinale, ossia fra la regione montagnosa interna, a ovest del Giordano, e quella pianeggiante prossima alla costa mediterranea, costellata da città importanti, spesso affacciate sul mare come Gaza o Giaffa, che già nel II millen-

Le prime tracce di quello che diventerà il popolo di Israele vanno ricercate nelle aree montuose interne della regione nio a.C. avevano avuto un ruolo attivo negli scambi internazionali. Nell’interno montagnoso di questa difficile regione si trovano le prime tracce di quel che diventerà poi il popolo di Israele. E come gli altri attori della costa levantina (Fenici, Filistei e popolazioni transgiordaniche), anche questa popolazione nasce nel contesto di crisi della transizione fra età del Bronzo ed età del Ferro, dunque fra la metà del XII e il X secolo a.C. Dopo che l’Egitto aveva allentato la propria presa sul Levante, alcune delle piú importanti città cananee andarono distrutte, sotto attacchi esterni come quelli dei cosiddetti «Popoli del mare» di cui

parlano le fonti egiziane, oppure per rivolte sociali interne. Non a caso, un progressivo impoverimento della società sembra in atto almeno dall’epoca amarniana (XIV secolo a.C.), come attesta il dilagante fenomeno degli ‘apiru noti dalle fonti storiche, cioè di personaggi ai margini della società, spesso contadini indebitati, i quali, pur di evitare la schiavitú che scattava in caso di insolvenza, preferivano darsi al brigantaggio. A ciò si aggiungeva la bellicosità endemica della regione, causata dalla sua frammentazione politica, dove una serie di piccoli regni, che consistevano in una città, nel suo territorio circostante e nei suoi piccoli villaggi, si fronteggiavano alla ricerca di un’egemonia e di un ampliamento dei propri minuscoli territori. La distruzione del fitto reticolo di città indipendenti portò a ridisegnare il panorama degli insediamenti, soprattutto nelle aree interne e collinari in precedenza meno abitate, all’infuori dei due centri principali (Sichem e Gerusalemme), dove da una qualche decina di villaggi si passò rapidamente a diverse centinaia. Caratterizzati dal moltiplicarsi di silos per l’immagazzinamento cerealicolo e da semplici costruzioni domestiche sul modello della casa a quattro vani, questi villaggi concentrarono una popolazione eterogenea: pastori indigeni, contadini in fuga dai piccoli regni in crisi, ma anche genti venute dalla regione costiera e gruppi nomadi dalle steppe orientali. Un gruppo tribale chiamato «Israele» è attestato per la prima volta verso il 1207 a.C., in una stele del faraone Merneptah; ma nulla fa pensare che un tale nome si applicasse all’intera popolazione dei villaggi del retroterra. Nemmeno il nome di ‘apiru, spesso messo in relazione con gli «Ebrei» – data l’assonanza fra i due termini –, ha a che vedere con questi. In realtà, le ricerche archeologiche degli ultimi


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

Mosè distrugge le Tavole della Legge, olio su tela di Rembrandt. 1659. Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie. a r c h e o 43


POPOLI DELLA BIBBIA/1 • ISRAELITI A sinistra: ricostruzione grafica di una tipica casa degli antichi Israeliti. Oltre a strutture come questa, sono documentate abitazioni provviste di un piano superiore che ne copriva l’intera superficie, facendo del cortile uno spazio chiuso.

Le cosiddette case «a quattro vani» o «a pilastri» rappresentano le tipiche abitazioni della regione decenni hanno messo in discussione proprio l’unità delle popolazioni sparse nella regione montagnosa che, nella versione biblica, costituisce il nucleo del piccolo regno di Saul e poi di quello ben piú esteso

di Davide e Salomone del X secolo a.C. Al contrario, l’archeologo Israel Finkelstein e lo storico Neil Asher Silberman hanno sostenuto che l’esistenza a quest’epoca di un regno esteso da Dan a Be’er Sheva,

avente Gerusalemme come capitale, non solo non è documentata, ma non è neppure storicamente verosimile. La presunta capitale, la cui estensione sembra assai ridotta nel X secolo a.C., sarebbe stata incapaIn basso: assonometria ricostruttiva della cosiddetta «Casa di Ahiel», i cui resti sono venuti alla luce nella città di David a Gerusalemme. È un esempio di casa «a quattro vani», provvista di pilastri che sorreggevano il piano superiore.

A sinistra: veduta aerea di Gerusalemme, con, in primo piano, la cosiddetta «città di David», il piú antico e originario nucleo insediativo della città. 44 a r c h e o


ce, fra l’altro, di permettersi le onerose opere pubbliche descritte in tutto il Paese (1 Re 9; 2 Cronache 8), e in particolare quelle per la fabbrica del tempio di Gerusalemme (1 Re 6-7; 2 Cronache 2-4).

I REGNI DI ISRAELE E DI GIUDA Molti storici dubitano dunque del racconto del regno davidico-salomonico e della sua fine, quale si legge nella Bibbia. Qui il testo narra che fu Geroboamo all’origine della divisione dell’eredità di Salomone in due regni autonomi e concorrenti (1 Re 12; 2 Cronache 10): quello di Israele, la cui capitale sarebbe poi diventata Samaria, e quello di Giuda, che mantenne Gerusalemme come capitale. La ricostruzione storica offre infatti una prospettiva piuttosto differente e si concentra sulla creazione del regno di Israele per opera di Omri, nella prima metà del IX secolo a.C., attorno alla nuova capitale Samaria, non lontano da Sichem delle epoche precedenti (1 Re 16,24). Come si è detto, si tratta, non a caso, del territorio piú provvisto di risorse e vicino ai ricchi regni fenici, quali Tiro e Sidone, o aramaici, come Damasco. Questo regno diventò una delle piú estese e dinamiche monarchie territoria-

Stele che commemora la vittoria militare del faraone Merneptah e nel cui testo in geroglifico compare la prima attestazione a oggi nota di un gruppo tribale chiamato «Israele» (vedi disegno qui sopra), da Tebe. XIX dinastia, 1207 a.C. circa. Il Cairo, Museo Egizio. a r c h e o 45


POPOLI DELLA BIBBIA/1 • ISRAELITI

attirando gli interessi dell’impero neo-assiro. Dopo vani tentativi e varie coalizioni per tener testa al comune rivale, il regno capitolò definitivamente nel 722/721 a.C., con la presa della sua capitale per mano di Salmanassar V e di Sargon II. Secondo una pratica ben attestata anche altrove nell’impero, parte della popolazione venne deportata, impiantando nella regione coloni stranieri (2 Re 17). Una simile promiscuità contribuí, d’altronde, alla rivalità fra Samaritani e Giudei,

li nel panorama regionale. In particolare, l’edilizia pubblica in città come Megiddo, Hazor e Gezer si data al tempo dei re della dinastia omride, fra il IX e l’VIII secolo a.C., e non al Salomone del X secolo a.C. come fa la Bibbia. Il regno meridionale di Giuda si sviluppò, con circa un secolo di ritardo e su scala ridotta, all’ombra del potente regno di Israele, ricalcando la dualità e la rivalità fra Sichem e Gerusalemme che caratterizzavano la regione sin dal II millennio a.C. Le vicende politiche di questo regno e l’esistenza di strutture architettoniche simili andrebbero imputate al fatto che, per gran parte della loro coesistenza, Gerusalemme fu subalterna a Samaria. Ciò è vero, in particolare, per l’VIII secolo a.C., quando piú indizi archeologici mostrano che il regno di Giuda era di fatto fagocitato da quello di Israele (vedi box a p. 49). Se dunque una monarchia unita esistette, essa era centrata piuttosto su Samaria e dettata dalle sue forti tendenze espansionistiche, e non su Gerusalemme, come la Bibbia a un certo punto volle far credere capovolgendo i rapporti di forza. La maggior fortuna del regno di Samaria ne determinò anche la fine, 46 a r c h e o

Parco Nazionale di Tel Megiddo. Uno dei pannelli che illustrano la storia del complesso palaziale e, a destra, le cosiddette «scuderie di Salomone», in realtà risalenti al IX-VIII sec. a.C., al tempo dei re della dinastia omride. Il complesso è stato oggetto di una parziale ricostruzione.


che, pur condividendo sostan- che poté godere di una relativa zialmente gli stessi testi sacri, indipendenza sotto la proteziosussiste tuttora. ne dei conquistatori. È dunque sulle ceneri del regno egemone di Israele che Gerusalemme UNA RELATIVA iniziò ad arricchirsi, subentranINDIPENDENZA Chi guadagnò maggiormente do nel ruolo che fino ad allora della caduta del regno setten- aveva giocato Samaria nella retrionale fu il regno di Giuda, gione e appropriandosi delle sue tradizioni mitiche e letterarie. I monarchi dell’epoca, soprattutto Ezechia (727-698 a.C.), Manasse (698-642 a.C.) e Giosia (639-609 a.C.), guidarono la grande ripresa economica e culturale del Paese, mostran-

do anche una crescente disinvoltura in politica estera. Una prima collisione si ebbe fra Ezechia e Sennacherib nel 701 a.C., e costò una serie di distruzioni nei maggiori centri della Giudea. In quel frangente Gerusalemme scampò, è il caso di dire «miracolosamente», all’assedio (2 Re 18-19; 2 Cronache 32). Affievolendosi la presa dell’impero neo-assiro, che finalmente cedette alla pressione neo-babilonese nel 612 a.C., l’indipendenza di Giuda si rafforzò fino allo


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Ricostruzione della Porta Reale di Hazor, i cui piedritti sono coronati da capitelli proto-eolici, eretta al tempo di Acab, re d’Israele dall’875 all’854 a.C. Gerusalemme, Israel Museum. 48 a r c h e o


YAHWEH E LA SUA COMPAGNA Sito fortificato dell’VIII secolo a.C. nella penisola del Sinai, lungo la rotta commerciale fra la costa levantina e il golfo di Aqaba, Kuntillet ‘Ajrud fungeva probabilmente da spazio polifunzionale per la difesa del territorio e dei commerci, ma anche come luogo di riparo e vettovagliamento per i commercianti. Benché idealmente situato ai limiti meridionali del regno di Giuda, tutto al suo interno depone a favore di un controllo non da parte di

scontro con l’Egitto, il cui interesse nella regione tornava ad aumentare, contro il quale trovò la morte Giosia nel 609 a.C. Si chiuse cosí il secolo di gloria del regno di Giuda, seguito da un vassallaggio nei confronti dell’impero neo-babilonese di Nabucodonosor (597 a.C.), che nel frattempo aveva ridimensionato le mire egiziane. Una rivolta in Giudea sancí, tuttavia, l’intervento definitivo contro la regione e questa volta anche contro Gerusalemme (586 a.C.), il cui tempio fu distrutto, le mura smantellate e l’élite dirigente deportata a Babilonia (la biblica «cattività babilonese», n.d.r.). Fra il IX e il VI secolo a.C., i regni di Israele e Giuda nacquero, si consolidarono e sparirono sotto le spin-

Graffito su ceramica (e sua restituzione grafica) forse raffigurante Yahweh e la sua paredra Ashera, da Kuntillet ‘Ajrud. VIII sec. a.C. Collezione privata.

Gerusalemme bensí di Samaria. In particolare, alcune iscrizioni a carattere religioso attestano un’onomastica tipicamente settentrionale e parlano di un YHWH di Samaria e di un YHWH di Teman, ossia della regione in cui il sito si

trova. Le stesse iscrizioni parlano anche della Ashera di YHWH, probabilmente da intendere come la sua paredra, ossia della divinità femminile che accompagnava quella maschile come in tutto il Vicino Oriente all’epoca.

te degli imperi mesopotamici, come gran parte delle altre formazioni politiche della regione. Fu la fine di un’epoca per il Levante, che da allora passò sotto il controllo diretto o indiretto di molti pretendenti: Assiri, Babilonesi, Persiani, Greci e Romani. Degli Israeliti, tuttavia, qualcosa di sostanziale sopravvisse. La popolazione gerosolimitana in esilio non rimase infatti inoperosa. La documentazione cuneiforme attesta che essa continuò a far prosperare gli affari e le attività nel Paese di accoglienza, mentre quella biblica mostra la preoccupazione dei suoi dirigenti affinché il popolo non si dissolvesse nell’esilio. La soluzione fu pragmatica e si rivelò duratura nel giudaismo di tutti i secoli a ve-

nire: integrarsi nel nuovo contesto socio-culturale e rivendicare, al contempo, la propria alterità etnica. Questo esercizio di equilibrismo fra culture differenti non fu mai facile, e costò non poca incomprensione od ostilità nei confronti del popolo di Israele già nel mondo antico. Su questo sfondo, per esempio, si comprende perché la Bibbia consideri il popolo come un’unica famiglia impiantatasi nel Paese di Canaan a seguito di una duplice migrazione, prima del suo capostipite, Abramo, dalla Mesopotamia (Genesi 12), e poi dell’intero popolo nato in Egitto (Esodo 1). L’origine non autoctona e unitaria di Israele non si spiega, insomma, con un ricordo preciso delle origini, che furono al a r c h e o 49


POPOLI DELLA BIBBIA/1 • ISRAELITI

contrario essenzialmente autoctone e variegate; essa, piuttosto, fu dettata dalle circostanze durante le quali questi racconti vennero assemblati: l’esilio a Babilonia e la speranza di ritornare in quella che, a partire da quest’epoca, si cominciò a chiamare la «Terra promessa». In questa contingenza, dunque, alcune pratiche acquistarono per la prima volta un forte valore identitario, come la circoncisione, il rispetto del sabato, la celebrazione della Pasqua, l’osservanza di strette regole alimentari e dell’endogamia. Si tratta di pratiche legate al contesto familiare e al calendario, che non avevano quindi bisogno né di un clero specializzato, né del tempio, che in esilio non esistevano. Le conseguenze sul piano religioso di questa strategia sociale non furono meno importanti. Nelle tradizioni 50 a r c h e o

precedenti all’esilio, la Bibbia attesta ciò che gli storici delle religioni chiamano «enoteismo», cioè la preminenza di un dio su tutti gli altri, o «monolatria», il culto di una sola divinità, pur concependone altre.

IL MONOTEISMO YAHWISTICO Il monoteismo ebraico, ossia la convinzione che esista un solo dio, cominciò a imporsi alla fine del VI secolo a.C. Non fu, dunque, una caratteristica intrinseca al popolo, che, al contrario, prima dell’esilio aveva conosciuto una pluralità di luoghi di culto, era ricorso a varie rappresentazioni del divino e spesso si era rivolto a una pluralità di divinità (vedi box a p. 49). D’altronde, i testi della colonia giudaica di Elefantina in Egitto mostrano che ancora durante il V secolo a.C. il dio

biblico poteva esser venerato in altri luoghi e in relazione ad altri dèi. Tuttavia, il monoteismo biblico non fu nemmeno un’elaborazione teologica condotta interamente a tavolino. Da un lato, le progressive distruzioni sotto Ezechia e Giosia prepararono la strada all’accentramento religioso che la Bibbia preferisce attribuire allo zelo monoteista di questi sovrani (2 Re 23; 2 Cronache 29.34). Dall’altro, tendenze enoteiste sono attestate alla stessa epoca in Mesopotamia, come anche certe titubanze verso la rappresentazione antropomorfica del divino, che la Bibbia estenderà in un divieto esplicito di ogni tipo di rappresentazione (Esodo 20,4-6; Deuteronomio 5,8). Inoltre, in un’epoca in cui le vicende umane erano comprese come riflesso di quelle divine, l’unicità del dio biblico fu particolarmente enfa-


A sinistra: rilievo raffigurante prigionieri giudei catturati dagli Assiri dopo la presa di Lachish (701 a.C.), dal Palazzo Sud-Ovest di Ninive. 700-691 a.C. Londra, British Museum. In basso: veduta aerea del sito di Tel Lachish.

tizzata a partire dall’esilio come controparte dell’unità del popolo d’Israele, ridotto ai minimi termini a Babilonia. Il monoteismo biblico non si può comprendere, dunque, fuori dallo sforzo di sigillare i legami interni di questa piccolissima comunità nel periodo di crisi che visse tra l’esilio e l’immediato post-esilio.

LA BIBBIA RACCONTA IL VERO ISRAELE? In questa ricostruzione storica sono rimasti esclusi non soltanto i racconti della Creazione e del Diluvio, ma anche una lunga lista di avvenimenti e personaggi successivi: i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, la discesa del popolo in Egitto con Giuseppe e l’esodo da questo Paese con la guida di Mosè verso la «Terra promessa», la conquista di quest’ultima con Giosuè e la fase in cui le dodici tribú dei figli di Giacobbe erano governate da figure carismatiche come quelle dei giudici, sino alle figure dei primi re Saul, Davide e Salomone (vedi box a p. 52). Pur avendo a lungo cercato di far quadrare la versione biblica con i dati

storico-archeologici, ci si è scontrati con una serie di elementi incontrovertibili, che hanno gettato un alone di dubbio sull’Antico Testamento. Nella gran parte dei casi si tratta di anacronismi: città di cui si racconta la conquista e che neppure esistevano all’epoca in cui la conquista avrebbe avuto luogo; uso di animali o materiali in epoche in cui questi non sono attestati; alleanze o battaglie situate in periodi poco verosimili; descrizioni dal sapore esotico e irrealistico. La lista potrebbe continuare, ma sarebbe inutile capovolgere il vecchio motto «la Bibbia aveva ragione» con «la Bibbia aveva torto»: la questione è piú complicata. Anche da una prospettiva letteraria, infatti, le tradizioni sulle epoche «formative» non sono una creazione unitaria. Innanzitutto, le tradizioni sui patriarchi e l’esodo sono state a lungo indipendenti e poi saldate anche grazie alla storia di Giuseppe, che a sua volta esisteva autonomamente. Le tradizioni sui patriarchi, inoltre, non sono omogenee al loro interno: Giacobbe è il piú antico e tutta la sua vicenda è

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POPOLI DELLA BIBBIA/1 • ISRAELITI

legata al regno di Israele, mentre Abramo, la cui esistenza è radicata piú a sud, nel territorio di Hebron, sembra essere una creazione successiva alla caduta del regno settentrionale, quando il regno di Giuda cercò di darsi lustro, vantando anch’esso origini nobili. Quanto a Isacco, la figura meno elaborata, sarebbe poco piú che una transizione fra i due patriarchi maggiori. Tutta la storiografia sui regni di Israele e Giuda, inoltre, è pervenuta dalla prospettiva meridionale e

quindi segnata dal pregiudizio secondo cui il regno settentrionale fu sempre un esempio di pessima morale. Anche in questo caso la lista potrebbe allungarsi e una buona introduzione all’Antico Testamento non mancherebbe di mostrare la complessità dell’argomento.

di Israele su base etnica e religiosa. Proprio quando, per la prima volta nella storia in modo sí netto e duraturo, fu privato della terra, del re e del tempio – i tre pilastri su cui si fondava l’identità delle genti vicine – un popolo si è pensato in termini che non fossero né geografici, né politici, né cultuali. Il popolo di Israele fondò la propria TESTO SACRO identità in particolare sulla Torah, E IDENTITÀ DI POPOLO La crisi dell’esilio babilonese di- cioè l’insegnamento, fatto di racvenne comunque la spinta per conti e leggi, raccolto nei primi configurare l’identità del popolo cinque libri della Bibbia.

COSA AFFERMA LA STELE DI DAN? La storicità di Davide sembra avvalorata da un’iscrizione aramaica dal sito settentrionale di Tel Dan, datata alla seconda metà del IX secolo a.C. In essa un re arameo, probabilmente Hazael di Damasco, racconta di come sconfisse Joram, «re di Israele», e il suo alleato Acazia, della «casa di

Iscrizione aramaica (e sua restituzione grafica), dal sito settentrionale di Tel Dan. Seconda metà del IX sec. a.C.

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Davide». Cosí facendo, essa convalida la differenza di trattamento fra Israele, presentato come un regno a pieno titolo, e il territorio meridionale considerato, secondo la terminologia aramaica, come un gruppo tribale dotato di potere politico. In discussione non è tanto l’esistenza storica di Davide, o quella di Saul e soprattutto di Salomone, per i quali non disponiamo di attestazioni extrabibliche, quanto l’attendibilità dei racconti biblici che a loro si riferiscono.


La fuga dei prigionieri, gouache su cartone di James Jacques Joseph Tissot e allievi. 1896-1902. New York, Jewish Museum. L’opera rappresenta la deportazione degli Ebrei verso Babilonia, in seguito alla conquista di Gerusalemme (sullo sfondo) nel 586 a.C., che segnò la fine del regno di Giuda.

La redazione di questi testi si nutrí di altre crisi che si aggiunsero a quella dell’esilio: le difficoltà del rientro in Giudea a partire dal 539, quando ai neo-babilonesi subentrarono i Persiani (Esdra-Neemia), la diaspora (Ester, Daniele), il duro confronto con il mondo ellenistico (1 e 2 Maccabei). In questo senso la letteratura biblica è in gran parte una letteratura di crisi. Questi testi continuarono a essere frutto di riflessione e rielaborazione nei quartieri del ricostruito tempio di Gerusalemme, almeno fino alla ritrovata autonomia politica con gli Asmonei, nel II secolo a.C. Secondo una pratica in voga in tutte le letterature del passato, l’antichità di una tradizione determina il suo prestigio e la sua autorità. Gran parte della Bibbia risponde a questa esigenza: fondare in un tempo re-

moto pratiche, situazioni o credenze attuali, in modo da legittimarle. Nella sua progressiva rielaborazione, essa attesta una continua e feconda vitalità. Al contrario, leggere i testi biblici cercando una ricostruzione storica fedele di ciò che raccontano e verificandola con le nostre conoscenze archeologiche significa appiattirli su un solo momento storico e trattarli come descrizione, invece di comprenderli come riflessione. Da una prospettiva storica, dunque, la Bibbia non è una cronaca di fatti, né la parola rivolta da Dio all’essere umano; essa è invece la voce di un popolo che, coralmente, ha incessantemente cercato di comprendere la propria storia e le ripetute crisi che ha dovuto sostenere. Di fronte a questo sforzo interpretativo, le categorie di ragione e torto sono inappropriate, perché ogni interpre-

tazione, soprattutto quando è interpretazione di una crisi, non è necessariamente né vera, né falsa, bensí è quella che si ritiene piú adatta per uscire da tale crisi. PER SAPERNE DI PIÚ Israel Finkelstein, Neil Asher Silberman, Le tracce di Mosè. La Bibbia tra storia e mito, Carocci, Roma 2004 Mario Liverani, Oltre la Bibbia. Storia antica d’Israele, Laterza, Roma-Bari 2003 Jean-Louis Ska, L’Antico Testamento spiegato a chi ne sa poco o niente, San Paolo, Cinisello Balsamo 2015

NEL PROSSIMO NUMERO • I racconti della Creazione: Sumeri, Assiri, Babilonesi a r c h e o 53




PREISTORIA • TRENTINO

SCENE DI

CACCIA IN TRENTINO

LO SCAVO DEL RIPARO CORNAFESSA, NEL CUORE DEI MONTI LESSINI, RIVELA UNA PRATICA FINORA MAI ATTESTATA IN ITALIA. MUNITI DI ARCO E FRECCE, I CACCIATORI CHE FREQUENTARONO IL SITO 12 000 ANNI FA AVEVANO SCELTO QUELL’AREA PER PROCACCIARSI UNA PREDA PARTICOLARMENTE AMBITA... di Stefano Mammini

U

n giovane orso caracolla nel bosco. D’improvviso si ferma e annusa l’aria: ha percepito un odore diverso, ma è troppo tardi. Il cacciatore che lo sta seguendo e che emana l’odore sospetto ha avuto il tempo di imbracciare l’arco e tirare. La freccia colpisce l’animale e penetra nelle sue carni, arrivando a scalfire una costola. Il plantigrado riesce forse ad allontanarsi, per tentare di sfuggire al suo inseguitore, ma alla fine stramazza: il colpo è stato letale e l’uomo, probabilmente in compagnia di altri cacciatori, recupera la preziosa preda per trasportarla fino all’accampamento. Una scena del genere ebbe luogo circa 12 000 anni fa sui Monti Lessini, a 1200 m di quota, nei pressi del Riparo Cornafessa, giacimento preistorico situato nel territorio del Comune di Ala (Trento) e indagato 56 a r c h e o

Disegno ricostruttivo di un cacciatore preistorico e, qui a destra, punte in selce che potevano essere utilizzate per armare le frecce. Sulle due pagine: la faggeta che oggi circonda il Riparo Cornafessa, nel territorio del Comune di Ala (Trento).


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PREISTORIA • TRENTINO A sinistra: l’aggetto roccioso sfruttato dall’uomo per ricavarne l’accampamento oggi denominato Riparo Cornafessa. Il sito ha restituito tracce di frequentazioni umane risalenti a 12 000 anni fa.

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da una missione archeologica guidata dal MUSE, il Museo delle Scienze di Trento (vedi box a p. 65). Gli scavi condotti nel sito hanno infatti restituito – e si tratta di una novità assoluta per l’Italia – la prima prova certa dell’abbattimento di un orso da parte di un cacciatore armato appunto di arco e frecce. Tutto ha avuto inizio nel 2014, dopo che un appassionato di storia locale aveva rinvenuto una moneta di epoca romana e segnalato il riparo, la cui presenza era già stata rilevata nel corso di ricognizioni condotte nella zona, ipotizzando che, alla luce della sua posizione e della sua conformazione potesse essere stato frequentato dall’uomo. In superficie, al di là della moneta, non affioravano reperti, ma l’assenza poteva essere la prova che vi fosse un deposito archeologico a una quota piú bassa dell’attuale piano di campagna, intatto e sigillato dal progressivo interramento. Venne dunque deciso di effettuare un primo sondaggio, su di un’area molto limitata (2 x 1 m), scendendo fino a una profondità di 1,7/1,8 m. L’indagine restituí pochi resti ossei e alcune selci con tracce di scheggiatura: presenze dunque esigue, ma che comunque confermavano una qualche frequentazione umana. L’anno successivo è stata perciò organizzata una seconda

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Riparo Cornafessa

campagna di scavo, ampliando l’area indagata (6 mq totali), e l’allargamento del sondaggio ha dato risultati piú che promettenti.

L’ULTIMO GRANDE FREDDO Le nuove indagini hanno infatti permesso di accertare che il livello archeologico era ben conservato e ben sigillato, che i resti faunistici si presentavano in condizioni altrettanto buone (circostanza che accresce il potenziale informativo di tali reperti) ed è stata trovata anche una lente carboniosa che, sottoposta ad analisi, ha consentito di datare il contesto a 12 000 anni da oggi. Ciò significa che la frequentazione del

riparo ebbe luogo nel Dryas Recente, l’ultima oscillazione fredda del Paleolitico, prima che, durante l’Olocene, si verificasse una risalita delle temperature e una modificazione delle nicchie ecologiche fino a condizioni simili a quelle attuali. Come spiega Rossella Duches, l’archeologa del MUSE che coordina le ricerche, «Il Dryas Recente è una fase molto interessante, che, tra l’altro, alla data di 12 900 anni BP, fa registrare un evento climatico molto brusco, che coinvolge l’intero emisfero settentrionale del pianeta e determina cambiamenti molto veloci su larga scala. Le temperature calano drasticamente – -4° C sulle Alpi –, seppur limitatamente, le aree


glaciali tornano ad avanzare e sulle Alpi la quota degli alberi si abbassa di circa 300 m. In un lasso di tempo limitato, dunque, cambiano il clima, la vegetazione e, di conseguenza, anche gli spostamenti della fauna».

ACCAMPAMENTI STAGIONALI «Mutamenti di fronte ai quali viene spontaneo interrogarsi su quale sia stata la reazione dell’uomo: si trattava all’epoca di comunità di cacciatori-raccoglitori, nomadi, che nei millenni precedenti avevano occupato le quote montane medioalte – fino a 1400 m circa –, spostando i propri accampamenti in funzione degli spostamenti stagionali degli animali predati, perlopiú ungulati: stambecchi alle quote medio-alte e cervi nella zona sottostante. Il sopraggiungere del Dryas Recente costringe dunque l’uomo ad adeguare il proprio comportamento ed è interessante rilevare che, almeno nei primi millenni, continua a frequentare le stesse quote, gli stessi bacini di caccia, ma con accampamenti che, almeno per quanto sappiamo oggi, sono piú effimeri, con una mobilità accentuata, e uno sfruttamento del territorio meno strutturato. L’insieme di In alto: una paleosuperficie in corso di scavo: appare evidente la presenza di resti ossei e strumenti in selce. A sinistra: la sezione del deposito archeologico. I livelli hanno documentato pochi episodi di frequentazione, compresi nell’ambito del Dryas Recente. a r c h e o 59


PREISTORIA • TRENTINO

questi elementi rende particolarmente importante la scoperta del Riparo Cornafessa, proprio perché riferibile all’orizzonte cronologico dei 12 000 anni fa e ubicato in una zona chiave, quale è quella dei Lessini che, grazie alla ricchezza e alla qualità dei suoi giacimenti di selce, è stata da sempre una di quelle piú sfruttate, fin dall’epoca dell’Uomo di Neandertal e per l’intero arco del Paleolitico, senza soluzione di continuità o quasi». Gli scavi finora condotti al Riparo

Cornafessa provano che dovette trattarsi di un accampamento di tipo stagionale, nel quale si susseguirono pochi episodi di frequentazione: ne sono prova lo spessore limitato del deposito archeologico e la presenza di molti reperti in selce che possono essere fra loro ricomposti, frutto, quindi, di un numero contenuto di sessioni di lavorazione. L’elemento che giustifica l’eccezionalità del sito – rispetto a contesti coevi – è la prevalenza dell’orso bruno fra le specie animali di cui

sono stati rinvenuti i resti. Il plantigrado, infatti, è sí presente nei siti del Paleolitico, ma costituisce una preda generalmente occasionale, mentre in questo caso rifletterebbe la pratica di una caccia specializzata, poiché, oltre alla consistenza statistica, l’équipe degli specialisti che sta studiando il sito e i suoi materiali, ha rilevato la presenza di buona parte dello scheletro: vertebre, cranio, costole… Ciò significa che, se la battuta aveva avuto successo, all’interno dell’accampamento si

I giacimenti di selce dei Monti Lessini offrivano una materia prima di qualità eccellente

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Una fase dello scavo e della documentazione dei livelli interessati dalla frequentazione da parte dell’uomo. Le indagini nel Riparo Cornafessa hanno preso avvio nel 2014, sotto la supervisione di Giampaolo Dalmeri, allora conservatore della Sezione di Preistoria del MUSE.

trasportava l’intera preda, per poi macellarla e trattarne le varie parti utilizzabili, come provano le tracce osservate su piú di un osso. E proprio l’analisi dei resti ossei ha dato luogo alla scoperta che ha cominciato a far circolare il nome del Riparo Cornafessa anche al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori. Come ammettono gli stessi specialisti che l’hanno compiuta – Nicola Nannini e Alex Fontana –, una piccola dose di fortuna ha avuto il suo peso, pur essendo affiorato il sospetto che quel segno, quasi invisibile a occhio nudo, avesse un’origine particolare e potesse essere traccia della

lesione causata da un proiettile. Ha allora avuto inizio un lungo e paziente lavoro di analisi e di confronto, partendo dalla consapevolezza che le punte di freccia in uso nel periodo in questione – l’Epigravettiano Recente – hanno una morfologia tale da generare tracce di forme e dimensioni riconoscibili.

PROVE SPERIMENTALI Un contributo decisivo è venuto dall’archeologia sperimentale: come racconta ancora Rossella Duches, «sono state effettuate prove su animali di media taglia, come i mufloni, analizzando al microscoA sinistra, sulle due pagine: immagini ottenute al microscopio della costola d’orso colpita dalla freccia, associate a una ricostruzione grafica della costola stessa e della sua posizione rispetto allo scheletro dell’animale.

pio le ossa che avevano subíto i colpi di frecce scagliate da distanze affini a quelle documentate etnograficamente – 13/15 m – e ricostruite con caratteristiche in tutto e per tutto identiche a quelle in uso nel Paleolitico (vedi foto alle pp. 64-65). La scansione delle lesioni (effettuata dai colleghi dell’Università di Siena) ha permesso di ricavarne un profilo standard e di definirne le misure, cosí da ricavare un modello che si è dimostrato statisticamente affidabile. Abbiamo verificato la possibilità di distinguere le tracce causate dall’impatto di un proiettile da quelle che si possono trovare in ambito archeologico, ma che sono causate, per esempio, dal passaggio dello strumento in selce utilizzato durante la macellazione (cut marks), oppure dalle raschiature dei carnivori, i cui denti scavano piccoli fori (pits), ma possono lasciare anche tracce di trascinamento». È probabile che le frecce usate dai cacciatori che frequentavano il Riparo Cornafessa fossero armate con una punta e uno o piú elementi taglienti, cosí da accrescerne l’efficacia: la prima si conficcava nella carne dell’animale e i secondi favorivano la penetrazione della freccia a r c h e o 61


PREISTORIA • TRENTINO A sinistra: repliche sperimentali di frecce armate con punte e lamelle del tipo di quelle in uso al Riparo Cornafessa. A destra: i segni lasciati dalle punte di freccia su ossa utilizzate per verificarne la fisionomia. La sperimentazione ha avuto un ruolo decisivo nello studio dei materiali finora restituiti dallo scavo del riparo e, in particolare, nel riconoscimento della traccia lasciata appunto da una freccia su una costola d’orso.

stessa. L’ipotesi nasce dal fatto che nell’Epigravettiano Recente si trovano sia migliaia di punte a dorso, sia migliaia di lamelle, che, essendo elementi di taglio, potevano appunto essere posizionate per incrementare la capacità di penetrazione. Del resto, spiega Duches, «che i cacciatori dell’epoca usassero armi composite era già stato suggerito e viene ritenuto plausibile. L’analisi al microscopio elettronico della traccia scoperta sulla costola dell’orso 62 a r c h e o

mostra con chiarezza il taglio e la presenza di frammenti di selce incastrati nell’osso. L’analisi è stata condotta anche con un sistema di spettroscopia EDS (Energy Dispersive X-ray Spectrometry), in grado di distinguere la selce dall’elemento inglobante, in questo caso l’osso. Abbiamo inoltre eseguito alcune microtomografie (effettuate dai colleghi dell’Abdus Salam International Centre for Theoretical Physics, ICTP, che ha sede a Trieste), che

hanno permesso di distinguere i frammenti piú grossi, caratterizzandoli per spessore e volume. Risultano allineati all’interno del taglio, ma hanno profondità diverse: pensiamo quindi che la punta dovette spezzarsi al momento della penetrazione nella carne dell’animale, e che poi sia rimasta incastrata anche parte di un altro elemento facente parte dell’armatura della freccia, subito dopo la punta». Quanto alle dimensioni, basandosi


sullo strumentario recuperato e su confronti con contesti riferibili al medesimo orizzonte culturale, la punta vera e propria doveva avere una larghezza massima di 1 cm, per una lunghezza compresa fra 1,5 e 4 cm. Un’arma di dimensioni contenute, quindi, ma che, come accennato in apertura fu sufficiente ad abbattere l’orso. La costola colpita doveva essere la VI, la VII o l’VIII (in questi casi non vi sono elementi diagnostici certi) e si trovava dunque nella zona della gabbia toracica che assicurava una buona protezione degli organi interni, ma il colpo fu comunque letale: l’orso potrebbe non essere morto all’istante e potrebbe addirittura aver percorso qualche chilometro prima di cadere.

QUEL COLPO FATALE... «Di certo – spiega Nicola Nannini, archeozoologo dell’Università di Ferrara – l’animale morí per effetto del colpo, poiché non abbiamo riscontrato tracce di rigenerazione, anche se è difficile che una singola freccia possa aver abbattuto un esemplare che superava il quintale di peso. Tuttavia, essendo stato colpito lateralmente, l’orso potrebbe essere stato vittima della perforazione di un organo vitale. E se non fu la freccia a causarne la morte immediata, il plantigrado potrebbe essere stato finito con ulteriori colpi». Le osservazioni compiute sulla costola hanno anche permesso di ricostruire con buona probabilità l’identikit dell’orso e non solo le circostanze della sua morte. Doveva trattarsi di un esemplare di dimensioni non particolarmente grandi, paragonabili a quelle di un grosso cinghiale: un adulto di piccola taglia, dunque, oppure un esemplare giovane, che non aveva ancora raggiunto la maturità completa, ma che non era un cucciolo. Dal confronto con costole di orsi di varie classi di età, sembra probabile che quella dell’animale abbattuto dai cacciatori del Riparo Cornafessa

PRIMA DEGLI ORSI Nello scorso luglio, in occasione del suo quinto compleanno, il Museo delle Scienze di Trento ha presentato GO!Muse, la nuova App per esperienze di Realtà Aumentata. GO!Muse è in grado di collocare virtualmente negli spazi del museo modelli 3D di grande complessità, come dinosauri, rettili preistorici e balene. Grazie a dispositivi completamente nuovi, è pertanto possibile inquadrare gli scheletri di questi animali (per la maggior parte estinti) e vederne comparire l’aspetto in vita e in movimento. Gli stessi dispositivi possono funzionare come un vero e proprio «navigatore GPS per interni», dal quale farsi accompagnare con precisione lungo i percorsi tematici, cosa in precedenza molto complicata all’interno degli edifici, oppure veder fluttuare virtualmente sopra alcuni oggetti le informazioni di approfondimento (ad esempio didascalie o immagini). Il tutto grazie ad una tecnologia esclusiva di Google, il VPS (Visual

Positioning Service) che permette al device di riconoscere l’ambiente circostante e la posizione del visitatore senza necessità di infrastrutture costose ma meno accurate, come il wi-fi o i beacon. GO!Muse è stata sviluppata da GuidiGO, una piattaforma di storytelling digitale che utilizza la Realtà Aumentata per coinvolgere, appassionare e ispirare il pubblico dei musei. Per dare spettacolarità alle esperienze, la realizzazione dei modelli 3D dei rettili preistorici è stata affidata a Davide Bonadonna e Fabio Manucci, tra i maggiori paleoartisti a livello internazionale, con la supervisione scientifica dei ricercatori del MUSE.

DOVE E QUANDO MUSE, Museo delle Scienze Trento, corso del Lavoro e della Scienza 3 Orario ma-ve, 10,00-18,00; sa-do e festivi, 10,00-19,00; lu chiuso Info tel. 0461 270311; e-mail: museinfo@muse.it; www.muse.it

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PREISTORIA • TRENTINO A sinistra: ricostruzione schematica delle operazioni necessarie per trasformare le lamelle di selce in punte, ricorrendo a tre metodologie diverse di ritocco: percussione su incudine, abrasione o pressione tramite palco di capriolo.

fosse inferiore ai 5 anni. Risulta invece impossibile stabilire se fosse un maschio o una femmina. La scelta di abbatterlo potrebbe essere stata dettata dal fatto che il suo pellame è piú morbido e la carne piú tenera. Oppure da ragioni di

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opportunismo. Ulteriori informazioni a riguardo potranno venire dalle prossime campagne di scavo e dall’eventuale ritrovamento di resti tali da indiziare la scelta di una categoria ben definita di prede. Al momento si può avanzare un’ipote-

si basata sul confronto con alcuni popoli dell’Alaska, che seguono gli orsi nella scelta della tana e poi, nella stagione invernale, a mesi alterni li predano, selezionandoli affinché ogni anno ce ne siano abbastanza: conoscono quindi perfettamente la


Il contributo di molteplici discipline Lo scavo del Riparo Cornafessa viene condotto nell’ambito di un progetto coordinato dal MUSE di Trento, che si avvale della collaborazione delle Università di Trento, Ferrara, Siena e Innsbruck e dell’Abdus Salam International Centre for Theoretical Physics (ICTP) di Trieste, nonché del supporto del Comune di Ala. Dell’équipe che guida i diversi filoni di ricerca fanno parte Rossella Duches, Nicola Nannini, Stefano Neri e Alex Fontana. Oltre allo scavo archeologico vero e proprio, il contributo di specialisti di materie diverse assicura la conduzione di un vasto spettro di attività: analisi geoarcheologiche, analisi della distribuzione GIS dei manufatti, ricostruzione delle unità stratigrafiche, indagini palinologiche e paleobotaniche, indagini archeozoologiche, studio dei micromammiferi, ricostruzione ambientale.

In alto: repliche di frecce e, in basso, le prove effettuate con l’aiuto di arcieri esperti come Stefano Benini, membro della Society of ArcherAntiquaries Italia e coordinatore del gruppo storico Teuta Boico Lingones-Arcieri di YR di Bologna.

consistenza della popolazione e la dislocazione delle loro tane. Altrettanto potrebbero aver fatto i cacciatori del Riparo Cornafessa, che, in ogni caso, cacciavano l’orso innanzitutto per assicurarsene la pelliccia. Quest’ultima, infatti, al

pari di quelle di altri carnivori – come il lupo – ha capacità termiche piú elevate e una maggiore durevolezza: rispetto alla pelle di un cervo, per esempio, perde molto piú lentamente il pelo. E non è un caso che fra i materiali restituiti dallo scavo vi siano anche resti di lupo.

GLI OBIETTIVI FUTURI Proprio come l’orso, anche il cantiere di scavo vive in questo momento il suo letargo, ma la prossima estate le indagini riprenderanno, con l’obiettivo di ricostruire in maniera sempre piú dettagliata la storia di un sito e di una comunità che quasi non stonerebbe fra le pagine di un romanzo di Jack London.Verrà ampliata l’area di scavo, nella speranza di intercettare alcune delle aree chiave dell’accampamento, come per esempio quelle in cui si fabbricavano le armi e in cui la carcassa degli orsi veniva lavorata per ricavarne la pelliccia. E chissà che non si trovi anche una spiegazione per la presenza dell’intruso illustre – la moneta romana – grazie al quale si sta scrivendo un capitolo di rilevanza primaria nello studio della preistoria italiana ed europea.

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MOSTRE • PARIGI

LA RACCOLTA DELLE

MERAVIGLIE

È IL 1861 E LA STRABILIANTE COLLEZIONE DEL MARCHESE GIAMPIETRO CAMPANA VIENE MESSA IN VENDITA. A CONTENDERSELA SONO INGHILTERRA, RUSSIA E FRANCIA, MA, GRAZIE A NAPOLEONE III, QUEI TESORI FINISCONO QUASI INTERAMENTE OLTRALPE. E SONO ORA IN MOSTRA A PARIGI, NELLE SALE DEL MUSEO DEL LOUVRE di Daniela Fuganti Tutti i reperti archeologici e le opere d’arte riprodotti nell’articolo sono attualmente esposti nella mostra «Un sogno d’Italia. La collezione del marchese Campana», in corso al Museo del Louvre e, salvo diversa indicazione, appartengono alla collezione permanente del museo parigino.

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a collezione Campana non era mai stata oggetto di una vera retrospettiva, ma adesso il Museo del Louvre e l’Ermitage di San Pietroburgo hanno deciso di far rivivere la storia della raccolta privata piú ricca e leggendaria dell’Ottocento, grazie a una mostra e a un catalogo che si avvalgono dei piú recenti studi condotti in Francia, in Italia e in Russia. Il marchese Giampiero Campana (1808-1880), direttore del Monte di Pietà di Roma e banchiere del papa, fu una delle figure piú brillanti del-

la società romana del suo tempo. Appassionato d’arte ma anche imprenditore, filantropo oltre che archeologo, si conquistò presto una posizione di primo piano nel mondo culturale, scientifico ed economico italiano ed europeo.

UNA RACCOLTA LEGGENDARIA Si veniva da tutta Europa a visitare la sua raccolta, ma nessuno poteva dire di averne un’idea precisa, tanto numerose erano le opere sparse negli immobili della capitale di cui era

proprietario: la Villa Campana vicino a S. Giovanni in Laterano (oggi scomparsa), il palazzo di via del Corso, e vari altri luoghi. Campana non mostrava tutto, e questo alimentava la leggenda. Forti furono dunque l’emozione e la curiosità suscitate dal suo arresto improvviso per malversazione, nel novembre 1857, nonché dalla sua condanna alla prigione e poi all’esilio. I dibattiti intorno alla sorte riservata ai capolavori raggruppati nelle sue dimore occuparono per mesi la stampa dell’epoca. E la

Nella pagina accanto, in alto: collana in oro con pendente in forma di Acheloo, dall’Etruria. 480 a.C. circa. Nella pagina accanto, in basso: un particolare dell’allestimento della mostra. In basso: frammento di rilievo facente parte del registro superiore della decorazione dell’Ara Pacis. 13-9 a.C. Le figure scolpite fanno parte di una processione ufficiale e, data la presenza di due bambini, è probabile si tratti del medesimo gruppo familiare, la cui identità non è stata a tutt’oggi accertata.

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MOSTRE • PARIGI

Un altro particolare dell’allestimento: sulla sinistra si riconoscono le lastre in terracotta policroma dette Campana e, sulla destra, un sarcofago etrusco in terracotta, sul cui coperchio sono scolpite le immagini di una coppia di sposi. Sia le lastre che il sarcofago provengono dalla necropoli della Banditaccia di Cerveteri e sono rispettivamente databili alla seconda metà del VI sec. a.C. e al 520-510 a.C. circa.

vendita di tale irripetibile patrimonio, simbolo della ricchezza culturale della Penisola, suscitò grande scandalo in un contesto politico risorgimentale particolarmente sensibile ai valori patriottici dell’Italia appena nata. Nel 1861 Inghilterra, Russia e Francia si contesero il bottino, messo di

fatto all’asta dallo Stato Pontificio: vasi, bronzi, gioielli e monete, terrecotte, vetri dipinti etruschi, greci e romani; sculture greche e romane; dipinti italiani dal periodo bizantino a Raffaello; pitture dal Cinquecento al Settecento; maioliche di Luca della Robbia, curiosità etrusche e romane. Una fetta dei beni – princi-

palmente sculture rinascimentali – finí in Inghilterra, e un’altra parte – marmi e vasi antichi – fu acquistata dallo zar Alessandro II, prima che Napoleone III si aggiudicasse in blocco la quasi totalità dei capolavori: piú di 10 000 pezzi, trasferiti perlopiú al Louvre, ma anche nei musei francesi di provincia, al Petit A sinistra: un’altra lastra fittile policroma denominata Campana, ma riferibile a un ambito diverso da quello delle lastre rinvenute a Cerveteri. I sec. a.C.-I sec. d.C. Nella pagina accanto, in alto: ritratto del marchese Giampietro Campana, disegno di Denise-Auguste-Marie Raffet. 1850. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso, sulle due pagine: coperchio di urna funeraria etrusca in bronzo che ritrae un giovane disteso, da Perugia. IV sec. a.C. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage.

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rure, provenienti dagli scavi di tombe etrusche realizzati dal marito! Nel periodo-cerniera che precede la nascita dell’archeologia come disciplina scientifica, le figure che dominavano il mercato antiquario facevano parte delle grandi e potenti famiglie romane, ma quella del marchese emergeva fra tutte. «Tutte le LA MODA DEL GIOIELLO Accanto ai capolavori del Louvre pitture, tutte le statue che erano messe in si ammirano quelli provenienti da vendita – testimonia il poeta Louis San Pietroburgo. Da Roma giun- Delâtre – tutti gli oggetti antichi che gono le monete in oro con busti di uscivano dalle feconde viscere del suolo Traiano, Costantino II, Tito, Nero- latino, trovavano nel marchese Campane: sfuggita all’esilio, la collezione na un compratore certo. La sua dimora numismatica di Campana fu salva- era una sorta di inghiottitoio di ogni ta da Augusto Castellani, allora di- genere di curiosità, di tutte le antichità rettore dei Musei Capitolini, colle- etrusche romane e italiane. Se un contazionista a sua volta e appartenente dino nel vangare la terra, rinveniva una a una grande famiglia di gioiellieri. medaglia, un cameo, un intaglio, subito I Castellani lanciarono la moda del lo portava al marchese Campana. Se un altro contadino, nel fabbricare una gioiello archeologico, all’origicasupola, scopriva un colomne di una vera infatuaziobaio pieno di urne cinerarie ne: la principessa di Cao una necropoli adorna di nino, vedova di Luciasarcofagi e di lampade no Bonaparte, si prefunebri, correva tosto a sentò nel 1883 a un darne avviso al marcheballo pontificio, cose Campana». perta di magnifiche pa-

alle pp. 70-73), in associazione con l’Ermitage, riunisce piú di cinquecento pezzi, con l’ambizione di proporre al pubblico e al mondo scientifico una visione d’insieme della raccolta piú stupefacente dell’Ottocento.

Palais di Avignone in particolare, che custodisce circa 4800 opere. L’attuale esposizione parigina, curata da Françoise Gaultier, direttrice delle antichità greche etrusche e romane del Louvre, e da Laurent Haumesser, conservatore presso lo stesso dipartimento (vedi l’intervista

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MOSTRE • PARIGI

IL LOUVRE, UN GRANDE MUSEO ITALIANO? Incontro con Françoise Gaultier e Laurent Haumesser ◆ Che cosa sarebbe il Museo del

Louvre senza la collezione Campana? «Sarebbe senz’altro un museo meno importante. Per esempio, il dipartimento delle antichità etrusche quasi non esisterebbe, poiché l’80% dei suoi pezzi provengono dalla collezione Campana. Il Louvre espone circa 1200 opere raccolte dal marchese, fra vasi etruschi e greci, sculture antiche e moderne, lavori di grandissimi artisti come Paolo Uccello, Giotto o Della Robbia… È la constatazione di questa realtà ad avere indotto l’attuale direttore del museo, Jean-Luc Martinez, a scrivere che il Louvre è (anche) un grande museo italiano». ◆ La raccolta lasciò l’Italia nel 1861 e l’evento fu giudicato scandaloso. In effetti, tuttora ci si chiede come una cosa simile sia potuta accadere... «I Castellani, che erano collezionisti, avrebbero voluto

comprarla, ma certo non potevano competere con le grandi potenze europee, Inghilterra Francia e Russia, che, sin dagli anni Quaranta dell’Ottocento, avevano messo gli occhi su questi capolavori. La perseveranza manifestata da questi Paesi per acquistare i fiori all’occhiello della mitica collezione è una prova di quanto il modello culturale italiano fosse simbolo di

In alto: la sezione della mostra in cui è esposta la mano di una statua colossale in bronzo dell’imperatore Costantino. A sinistra: Laurent Haumesser, curatore del dipartimento antichità greche, etrusche e romane del Louvre e co-curatore della mostra «Un sogno d’Italia».

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A destra: il dito colossale in bronzo di cui è stata riconosciuta l’appartenenza alla mano della statua dell’imperatore Costantino conservata presso i Musei Capitolini (e concessa in prestito per la mostra di Parigi).

prestigio in tutta Europa. Le acquisizioni erano anche operazioni fortemente politiche, e il concetto di “Rêve d’Italie” variava secondo le sensibilità nazionali. L’Inghilterra era affascinata dalla grande stagione del Rinascimento, e comprò 84 sculture; la Russia, ormai da tempo soggiogata dalla raffinatezza artistica italiana (la grande Caterina aveva fatto riprodurre all’Ermitage le Logge vaticane di Raffaello), non si lasciò sfuggire la ghiotta occasione, e lo zar Alessandro II si aggiudicò 800 oggetti fra marmi e bronzi antichi; Napoleone III, peraltro molto coinvolto nella situazione politica nella Penisola, acquistò tutto il resto, 12 000 oggetti circa. Si trattava del proseguimento della politica delle


l’unificazione del Paese, si colloca dunque nel contesto del Risorgimento. Il marchese è stato chiamato il “Garibaldi della Cultura” e senza dubbio perseguí il suo “Rêve d’Italie” assicurando un contributo fondamentale alla definizione del patrimonio nazionale italiano». In basso: grazie a una replica in resina, Claudio Parisi Presicce verifica la pertinenza del dito in bronzo conservato al Louvre con la mano colossale dei Capitolini.

grandi acquisizioni italiane già avviata da Napoleone I, che aveva ottenuto i marmi antichi della collezione Borghese (pagandoli tre volte il prezzo della stima). Solo il medagliere rimase in Italia, grazie all’intervento di Augusto Castellani che riuscí a ottenerlo per conto dei Musei Capitolini, di cui era direttore». ◆ Napoleone III aveva assunto posizioni vicine alla Chiesa… «Napoleone III, carbonaro in gioventú, si trasformò nel piú risoluto difensore del papa all’epoca della Repubblica romana (1849) di Mazzini,

Armellini e Saffi, e per molti anni – preoccupato di non perdere il sostegno dei cattolici francesi – impedí al neonato Stato italiano (1861) di entrare a Roma. Solo nel 1870, con la breccia di Porta Pia, i bersaglieri penetrarono nella nuova Capitale d’Italia perché la Francia di Napoleone III, sconfitta a Sedan dalla Prussia, fu costretta a ritirare le sue truppe. Il progetto di Campana, impiegato al servizio dello Stato Pontificio, ma le cui simpatie sembravano andare piuttosto verso i repubblicani che si battevano per A sinistra: Françoise Gaultier, curatrice del dipartimento antichità greche, etrusche e romane del Louvre e co-curatore della mostra «Un sogno d’Italia».

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MOSTRE • PARIGI

◆ Chi erano i fortunati che

all’epoca avevano accesso alla collezione? «Un libro d’oro, visibile in mostra, riporta le firme degli appassionati che l’avevano visitata: fra queste, anche quella di Pio IX e di Ludovico I di Baviera. La raccolta era citata nelle guide turistiche europee, ma serviva una lettera di presentazione per accedere nei vari luoghi della città di Roma in cui era disseminata. Si conservano i disegni dei viaggiatori che avevano ricopiato le opere, o dipinto la famosa Villa

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Campana in Laterano, oggi scomparsa: uno di questi disegni ha fatto recentemente la sua comparsa fra i lotti di una vendita all’asta!». ◆ La mostra è stata l’occasione per riconsiderare anche i pezzi conservati nei depositi… «Delle 6/7000 opere di Campana custodite al Louvre (le altre sono sparse fra i musei di mezza Francia), solo 1200 sono esposte. Nei magazzini vengono preservati oggetti di qualità minore, o di vita quotidiana. Campana ha costituito serie ripetitive – tipologiche e iconografiche –, che formano ancor oggi un fondo di

interesse eccezionale per gli studi di archeologia classica. La scoperta piú clamorosa avvenuta nei depositi è stata quella di un dito in bronzo dorato, lungo 38 cm, che corrisponde perfettamente all’indice mancante della celebre statua colossale di Costantino (330 d.C.), uno dei capolavori dei Musei Capitolini». ◆ Com’è organizzata la mostra? «Il percorso espositivo si sviluppa secondo l’ordine dei 12 cataloghi che Campana stesso aveva redatto prima del suo processo, pubblicati nel 1858: otto volumi per classificare le opere antiche e quattro per registrare


A sinistra: Madonna con Bambino e San Francesco d’Assisi, San Giovanni Battista, San Giovanni Battista e Sant’Antonio da Padova, polittico di Paolo Veneziano. 1340-1345. L’opera doveva verosimilmente comporsi di altri elementi, oggi perduti. In basso: cratere a calice attico a figure rosse plasmato da Eussiteo e dipinto da Eufronio sul quale è rappresentata la lotta tra Ercole e Anteo, da Cerveteri. 515-510 a.C.

◆ Ma chi era davvero Giampietro

Campana? «Era un uomo del suo tempo. A 24 anni era già direttore, dopo il nonno e il padre, del Monte di Pietà. Collezionista, ma anche imprenditore, possedeva, fra l’altro, una tipografia, una fabbrica di falsi marmi, nonché partecipazioni alle nascenti ferrovie europee. Processato con l’accusa di mischiare i suoi affari con quelli del Monte di Pietà, e per avere svuotato le casse della venerabile istituzione, il suo avvocato lo difendeva adducendo la ragione morale – ossia il bene pubblico dell’Italia, l’identità storica del Paese –, che nobilitava l’operato del suo cliente. Un ritratto presente in mostra dà un volto alla ricca moglie inglese del marchese, Emily Rowles, la cui famiglia aveva legami con Napoleone III, del quale – si mormorava – la donna sarebbe stata l’amante prima che lui diventasse imperatore. Di sicuro la sua posizione suscitava molte invidie, e ancora molti dettagli

restano da chiarire circa la vendita della collezione, il processo e le opportunità politiche legate al contesto storico. Numerosi archivi attendono di essere vagliati per precisare la storia della formazione di questa smisurata raccolta e delle attività di Campana sul terreno degli scavi come sul mercato dell’arte. In effetti, piú si approfondisce la conoscenza del personaggio, meno si riesce a sistemarlo in una sola casella…».

DOVE E QUANDO «Un sogno d’Italia. La collezione del marchese Campana» Parigi, Museo del Louvre fino al 18 febbraio Orario me-lu, 9,00-18,00 (mercoledí e venerdí, apertura serale fino alle 21,45); chiuso il martedí Info www.louvre.fr

quelle moderne. La maggior parte degli oggetti viene dal Louvre stesso, mentre dall’Ermitage giungono 40 capolavori fra cui il busto di Antinoo. L’Inghilterra ha messo a disposizione i manoscritti del British Museum sull’inventario della raccolta, redatto dall’archeologo Charles Thomas Newton. Il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia ha prestato i suoi preziosi gioielli, mentre dai Capitolini giungono le monete in oro sfuggite all’esilio grazie a Castellani e, ovviamente, la mano di Costantino, per essere ricongiunta con il dito mancante».

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ALL’OMBRA DEL DUOMO

TRE RAFFINATE COLLEZIONI MUSEALI SI AFFACCIANO SULLA PIAZZA PIÚ CELEBRE DI ORVIETO. PER RACCONTARE, ATTRAVERSO NUMEROSI CAPOLAVORI DELL’ARTE ANTICA E MEDIEVALE, LA LUNGA E NOBILE STORIA DELLA CITTÀ UMBRA di Giuseppe M. Della Fina

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a piazza del Duomo, a Orvieto, accoglie tre musei: il MODO-Museo dell’Opera del Duomo, il Museo «Claudio Faina» e il Museo Archeologico Nazionale. Essi fanno da corona a uno dei monumenti piú insigni dell’Italia. Tutti – seppure con storie diverse – hanno avuto origine nell’Ottocento. Il Museo Archeologico Nazionale di Orvieto è sorto nel 1982, ma scaturisce dalla prima collezione archeologica pubblica della città: accoglie, infatti, gran parte dei reperti del Museo Civico Archeologico voluto

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A destra: particolare di un acroterio in terracotta policroma raffigurante il matricidio di Oreste, dal santuario in località Cannicella. 500-480 a.C. Orvieto, Museo Archeologico Nazionale.


In alto, sulle due pagine: l’inconfondibile profilo di Orvieto, arroccata su una poderosa rupe tufacea. A destra: scorcio di una sala del Museo «Claudio Faina», con un sarcofago e il cippo a testa di guerriero (foto a p. 76).

soprattutto da Eugenio Faina. Nel 1877 il giovane conte, nominato Ispettore Onorario ai Monumenti e Scavi del Circondario di Orvieto, iniziò infatti a impegnarsi per il suo allestimento a latere del «Museo medioevale», già posizionato all’interno del Palazzo dell’Opera del Duomo.

PER UNA «GRAMMATICA DELL’ARTE ETRUSCA» Nel 1879 il museo venne inaugurato, ma nell’anno successivo fu necessario recuperare nuovi spazi per fare fronte al rapido accrescia r c h e o 75


MUSEI • ORVIETO

mento della collezione. Un ulteriore salto di qualità venne fatto nel biennio 1884-1885, quando furono musealizzati i reperti scoperti nella necropoli e nell’area sacra di Cannicella. L’allestimento era stato curato da Adolfo Cozza, che voleva farne «la grammatica dell’arte etrusca». Il museo non era stato istituito soltanto «a decoro della città», ma soprattutto come centro di documentazione della sua storia antica. Esso continuò ad accrescersi nella prima metà del Novecento con il deposito dei reperti che si andavano riscoprendo. Negli anni Sessanta e Settanta dello stesso secolo la raccolta venne divisa in piú parti: nel 1982 – come si è ricordato sopra – da essa è sorto il Museo Archeologico Nazionale di Orvieto, poi arricchitosi con altri reperti di ritrovamento recente, come quelli scoperti –

negli ultimi anni – in località Campo della Fiera dove si sta riportando alla luce il Fanum Voltumnae, il santuario federale degli Etruschi (di cui «Archeo» ha piú volte dato conto, l’ultima delle quali nel n. 388, giugno 2017, anche on line su issuu.com).

LA DEA E IL GUERRIERO Un’altra sezione, particolarmente significativa per il livello delle opere esposte – come, per esempio, la «Venere» di Cannicella e il cippo a testa di guerriero dalla necropoli di Crocifisso del Tufo (vedi foto in questa pagina) –, è visibile al pianterreno di Palazzo Faina. Altre opere, provenienti dallo stesso museo ottocentesco, sono collocate attualmente all’ingresso di Palazzo Soliano. Il Museo «Claudio Faina» è nato invece dalla passione collezionistica

Larth, guerriero valoroso Questo cippo a forma di guerriero, databile al 530-520 a.C. e conservato nel Museo «Claudio Faina», venne ricavato da un blocco di trachite e aveva la funzione di segnacolo funerario. Fu rinvenuto nel 1881 in occasione degli scavi realizzati in una necropoli etrusca situata alle pendici della rupe di Orvieto e nota con la denominazione di Crocifisso del Tufo. La conformazione a testa di guerriero, insolita per questo genere di reperti, reca incisa un’iscrizione in lingua etrusca, sul lato sinistro dell’elmo, che ricorda il personaggio raffigurato: Larth Cupures. La scultura potrebbe quindi ritrarre un valoroso guerriero le cui imprese lasciarono un segno profondo nella storia del territorio orvietano in epoca etrusca.

A sinistra: la «Venere» di Cannicella, statua in marmo di Naxos raffigurante una divinità femminile nuda connessa con la fertilità, rinvenuta nell’omonima necropoli a Orvieto. 530-520 a.C. Orvieto, Museo «Claudio Faina». 76 a r c h e o


del conte Mauro Faina, il quale, nel In alto: Palazzo 1864, iniziò a collezionare antichità Soliano, la piú etrusche, greche, romane e a con- vasta e imponente durre campagne di scavo nei terridelle residenze tori di Chiusi, Perugia,Todi, Orviepontificie to e Bolsena. Nel 1868, nell’anno orvietane, della sua morte, la collezione era già costruita su ricca e contava piú di duemila resollecitazione di perti, senza considerare le monete. papa Bonifacio Essa passò sotto la gestione del gioVIII. Già sede vane nipote Eugenio, che, negli ul- storica del Museo timi mesi, aveva condiviso con lo dell’Opera del zio la passione per l’antichità. Duomo, ospita La scelta fu fortunata: Eugenio si oggi il Museo rivelò buon collezionista e persona «Emilio Greco» e di grande levatura intellettuale. spazi di servizio. Deputato e poi senatore del ReA destra: statua gno, divenne un uomo politico di in terracotta spicco nel liberalismo italiano dei policroma decenni a cavallo fra Ottocento e raffigurante un Novecento, impegnato, in particopersonaggio lare, sui problemi dell’agricoltura e maschile con dell’alfabetizzazione. clamide dal Amico di archeologi illustri, quali tempio di Gian Francesco Gamurrini e, soBelvedere. prattutto, Adolfo Cozza, continuò 400 a.C. circa. sino agli anni Ottanta ad arricchire Orvieto, Museo la propria raccolta, ma acquisendo Archeologico solo materiali orvietani nella consaNazionale. a r c h e o 77


MUSEI • ORVIETO

In alto e a destra: due sale del Museo «Claudio Faina», che vanta una ricca collezione di ceramiche figurate, sia di importazione – fra le quali spiccano tre anfore attiche attribuite a Exekias,

uno dei piú insigni ceramisti e ceramografi ateniesi –, sia vasi di produzione etrusca, con pregevoli esemplari del «Gruppo Orvieto» e del «Gruppo di Vanth».

pevolezza dell’importanza di non estrapolarli dal loro contesto storico. Alla morte di Eugenio, avvenuta nel 1926, la collezione di famiglia passò al figlio Claudio jr. che nel 1954 scelse di donarla al Comune di Orvieto, insieme a una serie di beni finalizzati alla sua conservazione e valorizzazione. Dette anche disposizioni affinché la gestione fosse autonoma e assicurata da una Fondazione, sul modello anglosassone: una scelta oggi largamente condivisa, ma insolita nel panorama italiano degli anni Cinquanta.

– attraverso di essa – la vita artistica della città. Nelle sue collezioni figurano opere provenienti anche da altre chiese e palazzi della città e del territorio, come pure importanti donazioni. Ospita capolavori assoluti: quali il gruppo scultoreo della Madonna con Bambino e angeli reggicortina, originariamente posto sulla lunetta della porta principale del Duomo; il reliquario di Ugolino di Vieri, uno dei capolavori dell’oreficeria trecentesca; alcune sculture di Andrea e Nino Pisano e della loro scuola; pannelli di polittici di Simone Martini; un dipinto su tavola di Luca Signorelli; oli su tela di Cesare Nebbia e Girolamo Muziano; l’Annunciazione di Francesco Mochi. Denominato Museo Etrusco Medievale dopo la fusione con la sezione archeologica, era stato inaugurato nel giugno del 1882 nel Palazzo dell’Opera del Duomo. Nel 1897, a seguito del suo incremento – dovuto anche al deposito delle sculture e delle tele del Cin-

LA VITA ARTISTICA DELLA CITTÀ Sulla piazza del Duomo si affaccia infine la sede di una raccolta di grande interesse e importanza, con un taglio non archeologico, ma storico-artistico: si tratta di una delle pr incipali collezioni d’arte dell’Umbria, vale a dire il MODO-Museo dell’Opera del Duomo, che documenta le fasi di costruzione della Cattedrale, ma 78 a r c h e o


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MUSEI • ORVIETO A sinistra: Madonna con Bambino e angeli, (scomparto centrale di un polittico), tempera, oro e foglia d’argento su tavola di Simone Martini, dalla chiesa orvietana di S. Francesco. 1322-1324 circa. Orvieto, MODO-Museo dell’Opera del Duomo. Nella pagina accanto: Madonna in trono con bambino, tempera su tavola attribuita tradizionalmente al fiorentino Coppo di Marcovaldo, dalla chiesa dei Servi di Maria. 1265 circa. Orvieto, MODO-Museo dell’Opera del Duomo.

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quecento e del Seicento rimosse dalla Cattedrale –, il museo venne trasferito nella piú monumentale sede di Palazzo Soliano. In anni recenti, il MODO ha inglobato il Museo «Emilio Greco», che ne è divenuto la sezione contemporanea, i sotterranei del Duomo, la Libreria Alberi, ora sede del Tesoro della Cattedrale, e lo spazio espositivo della chiesa di S. Agostino nel quartiere medievale della città. Raggiungere questa sede distaccata permette di attraversare alcune delle vie e delle piazze piú ricche di storia e suggestive della città e di raggiungere la chiesa di S. Giovenale, recentemente restaurata. La realizzazione di un percorso e di un biglietto comune fra i tre musei presenti sulla stessa piazza e la Cattedrale consente di illustrare insieme la vita civile, religiosa e culturale di Orvieto dal X secolo a.C. sino al Novecento e quindi durante tre millenni: un vero museo (della storia) della città. DOVE E QUANDO Museo Etrusco «Claudio Faina» Orvieto, piazza del Duomo 29 Orario 1 ott-31 mar: 10,00-17,00 1 apr-30 set: 9,30-18,00; chiuso il lunedí da novembre a febbraio Info tel. 0763 341216 o 341511; e-mail: info@museofaina.it www.museofaina.it

Visitare i musei che si affacciano sulla piazza del Duomo di Orvieto significa viaggiare attraverso tre millenni di storia

MODO, Museo dell’Opera del Duomo Orvieto, piazza del Duomo 26 Orario gli orari variano stagionalmente Info tel. 0763 342477; e-mail: opsm@opsm.it ; www.museomodo.it Museo Archeologico Nazionale Orvieto, piazza del Duomo Orario tutti giorni, 8,30-19,30 Info tel. 0763 341039; http://polomusealeumbria. beniculturali.it/ a r c h e o 81


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IL RITORNO DELL’ULTIMO

RE

Tutti i reperti archeologici e le opere d’arte riprodotti nell’articolo sono attualmente esposti nella mostra «Io sono Assurbanipal, re del mondo, re dell’Assiria», in corso al British Museum e, salvo diversa indicazione, appartengono alla collezione permanente del museo inglese. Particolare di un rilievo raffigurante la caccia reale, in cui Assurbanipal è ritratto in sella al suo cavallo, al galoppo, mentre sta scoccando una freccia per colpire una preda, dal Palazzo Nord di Ninive. 645-640 a.C.

FU IL PIÚ POTENTE SOVRANO DELL’IMPERO ASSIRO MA ANCHE PERSONAGGIO FUORI DAL COMUNE. LE SUE GESTA RIECHEGGIANO NEI MAGNIFICI RILIEVI CHE ORNAVANO IL SUO SONTUOSO PALAZZO DI NINIVE. OGGI, AL GRANDE ASSURBANIPAL RENDE OMAGGIO UNA MOSTRA AL BRITISH MUSEUM DI LONDRA di Gareth Brereton

N

el 669 a.C., quando salí al trono, Assurbanipal (669-631 [?] a.C.) era probabilmente l’uomo piú potente del pianeta. Governava un vasto impero, il cui cuore si estendeva a est del fiume Tigri, nella porzione settentrionale dell’odierno Iraq. La capitale di Assurbanipal, Ninive – i cui resti si trovano oggi nel territorio di Mosul - era la piú vasta città del tempo: le sue mura poderose e le diciotto porte racchiudevano la superficie di una grande metropoli. Palazzi e complessi templari ornati da statue colossali ed eleganti pannelli a rilievo dominavano l’altura della cittadella, mentre un complesso sistema di canali e acquedotti irrigava i giardini del re e le riserve di caccia. Assurbanipal regnò su un impero geograficamente e culturalmente diversificato, nel quale coesistevano gli stili di vita delle popolazioni stanziate sulle sponde del Nilo e delle genti dell’Iran occidentale, cosí come quelli dei popoli insediati sulle rive del Golfo Persico e di quelli che occupavano le steppe dell’Anatolia centrale. Oggi possiamo ricostruire la straordinaria vicenda di Assurbanipal grazie alle centinaia di iscrizioni cuneiformi che si sono conservate sulle tavolette in argilla, sui prismi e sui a r c h e o 83


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I RE DELL’IMPERO ASSIRO Assur-dan II Adad-nirari II Tukulti-ninurta II Assurnasirpal II Salmanassar III Shamshi-adad V Adad-nirari III Salmanassar IV Assur-dan III Assur-nirari V Tiglath-pileser II Salmanassar V Sargon II Sennacherib Asarhaddon Assurbanipal Assur-etel-ilani Sin-shumu-leshir Sin-shar-ishkun Assur-uballit II

935-912 a.C. 912-891 a.C. 891-884 a.C. 884-859 a.C. 859-824 a.C. 824-811 a.C. 811-783 a.C. 783-773 a.C. 773-755 a.C. 755-745 a.C. 745-727 a.C. 727-722 a.C. 722-705 a.C. 705-681 a.C. 681-669 a.C. 669-631 circa a.C. 631-627? a.C. 627 a.C. 627-612? a.C. 612-609 a.C.

cilindri risalenti all’epoca del suo regno. I suoi annali danno conto delle campagne militari, dei progetti per la costruzione degli edifici e di altre imprese, offrendoci un profilo del sovrano che vuole accreditarlo come monarca magnanimo, capace e giusto. Un’ideologia replicata nei pannelli scolpiti a rilievo che

rivestono le mura degli appartamenti di Assurbanipal, che celebrano con vividi dettagli il suo glorioso regno. I sovrani assiri erano considerati rappresentanti terreni delle divinità, compreso il dio supremo, Ashur, e, consapevole di questa visione, Assurbanipal affermò che il suo diritto a sedere sul trono era stato stabilito dagli dèi. Non a caso, il nome Assurbanipal si può tradurre in «Ashur è il creatore dell’erede» e fu probabilmente conferito al sovrano quando venne nominato principe ereditario dell’Assiria. La sua salita al potere, in realtà, fu tutt’altro che scontata. I giochi politici che si intrecciarono dietro di essa sfociarono in un duro confronto fra due fratelli, che determinò il successivo svolgersi della storia dell’impero.

UN PREDECESSORE ILLUSTRE Per meglio comprendere l’ascesa al potere di Assurbanipal, occorre innanzitutto tornare al regno del suo formidabile nonno, Sennacherib (705-681 a.C.), promotore della celebre ricostruzione della città di Ninive e della costruzione della grandiosa residenza reale denominata «Palazzo Senza Rivali». Sennacherib ebbe almeno sette figli, il maggiore dei quali, Assur-nadin-shumi, venne insediato sul trono di Babilonia, antica e venerabile città che era allora passata sotto il controllo degli Assiri. Subito dopo, Assur-nadin-shumi venne rapito dai suoi sudditi babilonesi e

Un particolare dell’allestimento della mostra. 84 a r c h e o


Particolare di un rilievo raffigurante Sennacherib (705-681 a.C.) che vede condotti davanti a lui gli uomini fatti prigionieri durante la presa di Lachish e destinati all’esecuzione, dal Palazzo Sud-Ovest di Ninive. 700-691 a.C. Nel 612 a.C., quando il palazzo fu devastato dopo la conquista di Ninive, il volto del sovrano venne parzialmente cancellato.

consegnato ai rivali dell’Assiria, gli Elamiti che governavano sull’Iran sud-occidentale, i quali verosimilmente lo giustiziarono. La vendetta di Sennacherib fu spietata: assediò Babilonia nel 689 a.C. e la ridusse a un cumulo di rovine. I sovrani e i cronisti delle epoche successive giudicarono quel gesto come un grave crimine, poiché a Babilonia veniva riconosciuta una grande importanza storica, dal momento che la città era stata un illustre centro di cultura e di studio. Assurnadin-shumi sarebbe probabilmente salito al trono d’Assiria dopo Sennacherib, ma poiché era stato assassinato dagli Elamiti, la carica di principe ereditario fu assegnata al secondo dei figli del grande sovrano, Ardamullisi. Quest’ultimo, però, per motivi che a tutt’oggi ignoriamo, fu costretto a rinunciarvi, a causa dello scontento del padre, che a quel punto, nel 683 a.C., decise di nominare un altro dei suoi eredi, Asarhaddon (il padre di Assurbanipal). Quella scelta scatenò un’aspra lotta per la successione all’interno della corte, che lo stesso Asarhaddon rievoca in un’iscrizione: «Io sono il fratello minore del mio

fratello maggiore (e) per volontà degli dèi (…) [mio] padre, che mi generò, mi elevò nell’assemblea dei miei fratelli, dicendo “Questo è il figlio che mi succederà”». La madre di Asarhaddon, Naqi’a, era una figura influente a corte e potrebbe senza dubbio aver giocato un ruolo decisivo nelle manovre che portarono suo figlio al potere. Una sua rara immagine si è conservata su un frammento di rilievo in bronzo che mostra la regina madre alle spalle di un re, probabilmente identificabile con Asarhaddon. E possiamo identificarla grazie a un’iscrizione che contiene il suo nome e dalla corona che le cinge il capo. Era del resto consuetudine dei sovrani assiri avere numerose mogli e consorti, che si occupavano collegialmente dell’educazione dei bambini negli appartamenti femminili del palazzo. Una discendenza numerosa assicurava la continuità della linea dinastica, ma, al tempo stesso, la presenza a corte di numerosi figli (e delle loro madri) si traduceva spesso in feroci lotte intestine per il potere. Ed è perciò facile immaginare che le consorti reali cercassero di accaparrarsi i favori del a r c h e o 85


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sovrano al fine di favorire l’ascesa al trono del proprio figlio. Avendo assunto il ruolo di regina madre, Naqi’a raggiunse uno status di notevole importanza: sappiamo che arrivò a possedere numerose propr ietà nei ter r itor i dell’impero, che ricevette parte degli introiti derivanti dal pagamento dei tributi e che fece persino costruire un palazzo per suo figlio.

SCONTRO FRATRICIDA La nomina di Asarhaddon come principe ereditario ebbe caratteri di tale precarietà che i membri della famiglia reale, e gran parte del popolo assiro, furono obbligati a prestare un giuramento di 86 a r c h e o

Piccolo cippo in pietra recante un’iscrizione cuneiforme che ricorda la ricostruzione di Babilonia e del tempio di Marduk promossa da Asarhaddon dopo la distruzione della città e dei suoi monumenti da parte di Sennacherib, da Babilonia. 670 a.C.

fedeltà nei suoi confronti. Tuttavia, nonostante gli sforzi fatti per salvaguardare le pretese reali di Asarhaddon, crebbe il sostegno per il fratello maggiore, Arda-mullisi, che si riteneva fermamente convinto di essere l’erede legittimo. Un sentimento che, secondo lo stesso Asarhaddon, venne influenzato dalla campagna diffamatoria orchestrata ai suoi danni: «La persecuzione [e] la gelosia si impossessarono dei miei fratelli, che abbandonarono [la volontà] degli dèi. Essi fecero affidamento sulle loro imprese arroganti e tramarono il male. Cominciarono a diffamarmi e a far circolare falsità [e] calunnie su di me e sulla volontà degli dèi, e presero a raccontare bugie insincere e cose ostili alle mie spalle». Il clima politico si fece sempre piú teso e, temendo uno scontro violento, Sennacherib cercò di proteggere Asarhaddon dai pericoli della capitale, inviandolo in una località segreta situata nella province occidentali dell’impero. Ignorando la crescente pressione, Sennacherib respinse le richieste di restituire il titolo di principe ereditario ad Ardamullisi, il quale reagí organizzando una congiura con i suoi sostenitori, al fine di assumere il potere con la forza: nel 681 a.C. Sennacherib venne brutalmente assassinato dai cospiratori, che probabilmente lo sorpresero mentre pregava all’ingresso di uno dei templi di Ninive, pugnalandolo mortalmente. L’identità dell’assassino è svelata dalla lettera di un suddito fedele a Sennacherib, il quale, dopo aver scoperto la trama ordita per eliminare il sovrano, aveva richiesto d’essere urgentemente ricevuto in udienza da lui, cosí da poterlo avvisare del pericolo. L’uomo venne interrogato da due ufficiali assiri che lo portarono subito a palazzo, ma dovette coprirsi il volto con il mantello, poiché la gente comune non poteva guardare il sovrano mentre si trovava al suo cospetto. Purtroppo, i militari che avevano ricevuto la sua dichiarazione erano coinvolti nella congiura e lo condussero perciò al cospetto di Arda-mullisi, che del complotto era il regista: a quel punto scoprirono il volto dell’uomo, che si rese conto – con sgomento – d’aver rivelato il suo segreto proprio a chi aveva


In alto: cartina che illustra lo sviluppo e l’estensione dell’impero assiro (X-VII sec. a.C.). Qui sopra: la faccia superiore del cippo che ricorda la ricostruzione di Babilonia da parte di Asarhaddon (vedi foto alla pagina precedente).

«Io sono Assurbanipal, re grande, re potente, re del mondo, re dell’Assiria, re dei quattro quarti (del mondo), della discendenza di Asarhaddon, re dell’Assiria, governatore di Babilonia, re della terra di Sumer e di Accad, discendente di Sennacherib, re del mondo, re dell’Assiria» (da un’iscrizione reale di Assurbanipal) a r c h e o 87


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architettato il piano omicida. Ed è quasi inu- commisero l’errore di incitare i miei fratelli a regnatile aggiungere che, di lí a poco, l’uomo ven- re sull’Assiria, e ho stabilito per loro una pena ne giustiziato insieme ad alcuni suoi seguaci. dolorosa: ho fatto sterminare la loro progenie». Asarhaddon (681-669 a.C.) si dimostrò un re LO STERMINIO DELLA PROGENIE capace: riuscí ad ampliare i confini occidenAll’indomani dell’assassinio di Sennacherib, i tali dell’Assiria fino all’Egitto e, al pari degli fratelli si batterono per la successione e Arda- altri sovrani assiri, promosse la costruzione di mullisi dovette rinunciare ai suoi piani. numerosi edifici. Nel tentativo di ristabilire il Asarhaddon sfruttò la situazione venutasi a rapporto privilegiato con Babilonia – una creare per ridare stabilità alla corona e marciò regione che per l’Assiria si era rivelata difficiverso l’Assiria per annientare le forze del fra- le da controllare – ricostruí la grande città tello. Arda-mullisi riuscí a fuggire e chiese distrutta da Sennacherib. Asarhaddon fu però asilo al regno di Urartu, il grande rivale degli tormentato da un male misterioso (che alcuAssiri che occupava i territori a nord del loro ni ritengono possa essere stato il lupus, malatimpero. Asarhaddon divenne re dell’Assiria tia della pelle che si manifesta con la comparnel 681 a.C., due mesi dopo l’assassinio del sa di ulcerazioni cutanee) per l’intera durata padre, e dispose l’epurazione dei suoi nemici del suo regno, che lo portò a vivere in uno politici: militari sospettati di infedeltà, la guar- stato di paranoia costante. In lettere scritte dai dia reale e soldati dissidenti furono giustiziati medici del sovrano troviamo la descrizione e sostituiti con uomini fedeli al nuovo sovra- dei sintomi del suo male, che comprendevano no: «Ho cercato uno per uno i soldati colpevoli, che febbri, mancanza d’appetito, dolori muscolari,

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Rilievo raffigurante Assurbanipal che uccide un leone, particolare di uno dei numerosi pannelli che hanno come soggetto la caccia reale, dal Palazzo Nord di Ninive. 645-640 a.C.


rigidità delle giunture e vesciche, nonché disturbi agli occhi e alle orecchie. Gli stessi medici raccontano di come Asarhaddon, provato dalla malattia, rimanesse chiuso nella sua camera da letto per giorni, rifiutando il cibo, le bevande e la compagnia: «Il re, nostro signore, ci perdonerà. Un giorno intero non è abbastanza per il re per avvilirsi e non mangiare? Per quanto tempo [ancora]? Già da tre giorni il re non tocca cibo. Il re, un mendicante!». Se pensiamo alle difficoltà che avevano segnato la sua ascesa al trono, non sorprende che Asarhaddon sospettasse dei suoi congiunti di sesso maschile e che avesse riposto la sua fiducia nelle donne della corte, e in particolare nella regina madre Naqi’a. Fiaccato dalla malattia e preoccupato per la fedeltà di chi gli era piú vicino, Asarhaddon era ossessionato dal proprio futuro. Ne sono prova le lettere da lui indirizzate a vari esperti negli anni di regno, che contengono centinaia di richieste di profezie.

UN ALTER EGO PER IL SOVRANO E sappiamo anche che volle celebrare un «rito del sostituto del re» in almeno tre occasioni: di fronte a una minaccia oppure in seguito a un cattivo vaticinio, il re assiro veniva temporaneamente rimpiazzato da un sostituto e nascosto alla pubblica vista assumendo i panni di un «contadino» per un periodo che poteva arrivare a cento giorni. Questo curioso rituale era alimentato dalla convinzione che fosse possibile ingannare il destino, allontanandolo dal vero re e indirizzandolo sul suo alter ego. Alla fine della cerimonia, per garantire la sicurezza del sovrano reale, il sostituto veniva giustiziato. Nei suoi anni di regno Asarhaddon ebbe numerosi figli, ma sembra che il maggiore, destinato a esserne l’erede, Sin-nadin-apli, sia morto subito dopo essere stato designato come principe ereditario. Asarhaddon venne cosí a trovarsi nella medesima condizione di suo padre – per il quale, come abbiamo visto, la vicenda aveva avuto esiti tutt’altro che positivi – e scelse di seguirne le orme, scartando il figlio che avrebbe avuto diritto alla successione, per affidare a uno piú giovane, Assurbanipal, il titolo di principe ereditario dell’Assiria. Memore della lotta che egli stesso aveva dovuto sostenere per salire sul trono, Asarhaddon si preoccupò tuttavia di gestire al meglio la successio-

ne, nominando Assurbanipal principe ereditario dell’Assiria e Shamash-shumu-ukin principe ereditario di Babilonia. Il loro status di «pari fratelli» venne certificato nell’atto ufficiale di successione di Asarhaddon e fatto conoscere in tutto l’impero attraverso sculture monumentali, prima fra tutte la stele reale di Asarhaddon da Sam’al (l’odierna Zincirli, in Turchia), che mostra i due principi in piedi, ai lati del re. Il sigillo reale assiro, che solitamente ritraeva un solo re nell’atto di uccidere un leone, venne adattato a questa inedita situazione politica e il motivo dell’uccisione del leone fu ripetuto tre volte, per sottolineare la legittimità dei tre signori dell’Assiria: il re Asarhaddon e i suoi due eredi, Assurbanipal, principe ereditario dell’Assiria, e Shamash-shumu-ukin, principe ereditario di Babilonia. Dopo essere stato designato principe ereditario, Assurbanipal entrò nel bit reduti (la «Casa della Successione») – il palazzo del principe ereditario –, dove gli venne insegnata l’etichetta reale, imparò a padroneggiare attività importanti – come l’andare a cavallo e la caccia – e apprese le nozioni della filosofia e della cultura tradizionali della Mesopotamia. Nell’ambito della sua formazione militare, il giovane principe imparò a condurre i carri e a montare i cavalli della cavalleria e perfezionò le sue doti di arciere. Tuttavia, a differenza dei sovrani che lo avevano preceduto, Assurbanipal non condusse mai, o forse solo raramente, le truppe sui campi di battaglia. Le rappresentazioni che ne esaltano le capacità guerresche si limitano perciò a una serie di eleganti pannelli in gesso scolpiti provenienti dal Palazzo Nord di Ninive, nei quali è raffigurata la caccia reale. In questi rilievi Assurbanipal appare come un eroe in piena regola, che abbatte il leone dal suo cavallo, oppure affrontandolo a terra o anche dal carro, servendosi di vari tipi di armi. Essendo il pastore delle sue genti, il re dell’Assiria aveva il dovere di proteggere la nazione dalle forze ostili, che potevano comprendere tanto i nemici stranieri quanto gli animali selvatici, come il leone, appunto. Impregnata di risvolti simbolici e vista come un dramma eroico, la caccia reale costituiva un mezzo di propaganda particolarmente efficace per esaltare la capacità del re di adempiere ai suoi compiti, essendo stato scelto dalle divinità come protettore dell’Assiria. a r c h e o 89


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Per Assurbanipal era altrettanto importante acquisire esperienze di governo e conoscenze degli affari internazionali, poiché avrebbe ereditato un territorio molto vasto, circondato da pericolosi nemici. Dalla corrispondenza fra Assurbanipal e suo padre apprendiamo che il giovane principe ereditario ricevette l’incarico di raccogliere informazioni sui nemici politici dell’Assiria e sui regni rivali, che trasmise ad Asarhaddon nei rapporti che regolarmente gli inviava. All’indomani della nomina a principe ereditario, inoltre, Assurbanipal sposò la sua futura regina consorte, Libbali-sharrat, la cui rara immagine è scolpita su una stele rinvenuta nella città assira di Assur, in cui la si vede cingere una corona simile a quella portata dalla regina madre Naqi’a.

UOMO D’ARMI E DI LETTERE Ai re assiri, inoltre, essendo i rappresentanti terreni della divinità nazionale, Ashur, venivano impartiti insegnamenti sulle pratiche religiose. Quand’era principe ereditario, Assurbanipal aveva il compito di assicurare offerte al mausoleo di una regina defunta, che potrebbe essere stata sua madre. E prima di essere nominato come erede al trono, potrebbe perfino essere stato educato al sacerdozio e a una vita di opere pie. Circostanze che potrebbero spiegare un aspetto intrigante del suo carattere: la sua eccellenza negli studi, che sembra contrastare l’immagine ufficiale accuratamente accreditata, vale a dire quella di un guerriero fiero e senza paura. Per Assurbanipal era insomma importante essere percepito come uomo forte nel corpo e nello spirito. I ritratti lo mostrano spesso con uno stilo infilato nella cintura e il re stesso si vantava di essere diverso dai sovrani che lo avevano preceduto, dal momento che possedeva un talento insuperabile nelle arti scrittorie, era in grado di risolvere complessi problemi matematici e sostenere confronti con esperti studiosi e indovini. Non sappiamo se tutti i re assiri sapessero leggere e scrivere, ma le affermazioni di Assurbanipal sulle sue capacità letterarie trovano conferma in alcuni rari esempi di testi cuneiformi scritti di suo pugno. E la sete di conoscenza del sovrano è provata anche dalla ricca biblioteca di testi cuneiformi che cominciò a riunire nel suo palazzo di Ninive. All’indomani della vittoria riportata da 90 a r c h e o

Asarhaddon in Egitto, in Assiria si diffuse la notizia di una terribile profezia, legata al dio della Luna, Sin: il seme di Sennacherib sarebbe stato distrutto e sull’Assiria avrebbe governato un nuovo re, Sasi. Il vaticinio costituiva, in realtà, il pretesto ideologico per una rivolta contro Asarhaddon e, di conseguenza, contro il suo successore designato, Assurbanipal. A tutt’oggi si ignora quale personaggio debba essere identificato con Sasi, ma è probabile che si tratti di un lontano parente della famiglia reale, appartenente a una diversa linea dinastica, forse discendente dal padre di Sennacherib, Sargon II (722-705 a.C.). Il complotto ordito da Sasi per usurpare Asarhaddon trovò un ampio sostegno in ogni angolo dell’impero e, con grande disappunto del re, fu appoggiato anche da membri della sua cerchia piú fidata, poiché anche il capo dei suoi eunuchi, Assur-nasir, risultò coinvolto nella congiura. Temendo per la sua vita, Asarhaddon fece celebrare ancora una volta il rito del sostituto del re e si nascose. Rientrato a corte, promosse una violenta rappresaglia per stroncare il complotto, che probabilmente comprese l’esecuzione di massa dei militari infedeli. Le misure di sicurezza a corte furono rinforzate e venne strettamente limitata la possibilità di recarsi al cospetto del re e di accedere al palazzo. Dopo aver stroncato la rivolta, Asarhaddon allestí una nuova spedizione militare in Egitto, destinata a essere l’ultima per lui, dal momento che morí inaspettatamente mentre era in viaggio verso la terra dei faraoni nel 669 a.C.

UN’EGUAGLIANZA FITTIZIA In seguito alla morte di suo figlio, la regina madre Naqi’a si adoperò per tutelare il diritto di suo nipote alla successione e obbligò i sudditi assiri a prestare giuramento di fedeltà ad Assurbanipal, che fu nominato re dell’Assiria nel 669 a.C. Dopo che la sovranità di Assurbanipal era stata assicurata, il successivo diritto di Shamash-shumu-ukin a governare su Babilonia fu stabilito dal ritorno della sua divinità protettrice, la cui immagine era stata rimossa dall’Assiria dal loro nonno, Sennacherib. Il piano per la successione definito da Asarhaddon sembrò dipanarsi senza intoppi: Assurbanipal divenne re dell’Assiria e Shamash-shumu-ukin re di Babilonia.Tuttavia il loro status di fratelli «pari» era in buona parte fittizio. Assurbanipal mantenne uno stretto controllo


«Concedi al nostro signore Assurbanipal giorni lunghi. Anni copiosi, armi potenti, un lungo regno, anni di abbondanza, una buona reputazione, fama, felicità e gioia, oracoli favorevoli, e il dominio su [tutti gli altri] re!» (da un’iscrizione reale di Assurbanipal) Rilievo raffigurante Assurbanipal che compie una libagione dopo una battuta di caccia, versando una bevanda – che l’iscrizione identifica come vino – sulle carcasse di quattro leoni, dal Palazzo Nord di Ninive. 645-640 a.C.

sull’operato del fratello maggiore, tanto da chiedere agli ufficiali di Babilonia di rapportarsi a lui e di sottoporre al suo benestare le disposizioni che intendevano emanare. Assurbanipal si fece inoltre promotore di importanti progetti edilizi a Babilonia, fra cui il restauro dei templi cittadini, delle ziqqurat, delle mura esterne e delle porte, un privilegio che, in condizioni normali, sarebbe stato appannaggio di colui che ufficialmente governava la città, Shamash-shumu-ukin. Forse quest’ultimo, almeno inizialmente, non era effettivamente in grado di guidare un esercito a Babilonia, se consideriamo che quando il re elamita Urtak cercò di invadere la città, Shamash-shumu-ukin dovette affidarsi al sostegno militare fornito da Assurbanipal per respingere gli invasori. Consapevole della minaccia potenziale che il fratello maggiore

costituiva, è probabile che Assurbanipal avesse limitato la forza militare di Babilonia. Alla luce dei dati oggi disponibili, non possiamo essere certi dei reali piani di Asarhaddon per il destino dei suoi figli: averli designati come «fratelli pari» fu solo una mossa di propaganda? O, con l’aiuto della potente nonna, Assurbanipal riuscí a far pendere la bilancia del potere in suo favore? Divenuto re dell’Assiria, Assurbanipal ebbe senza dubbio autorità sul fratello maggiore, che, in realtà, non era altro che un sovrano vassallo, accreditato di un inedito status, e Babilonia dovette sottostare ai voleri del suo signore assiro. Questo squilibrio di potere fra due fratelli e due città era destinato ad avere effetti di lunga durata sul futuro dell’impero e fu certamente uno dei fattori che ne determinarono la scomparsa. a r c h e o 91


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IL PALAZZO DI ASSURBANIPAL di Julian Edgeworth Reade

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el 646-644 a.C., dopo le conquiste a Babilonia e nella terra di Elam, Assurbanipal costruí un nuovo palazzo a Ninive, la sua capitale. I palazzi assiri non erano semplici residenze reali, ma complessi molto vasti, nei quali si svolgeva gran parte dell’attività amministrativa del governo. Il nuovo edificio di Assurbanipal era il Palazzo Nord, che sorse nel quadrante settentrionale della collinetta di Kuyunjik, rimpiazzando il precedente Palazzo Sud-Ovest, e non fu soltanto la nuova dimora del re, ma acquisí anche uno status speciale come residenza del principe ereditario.

Nel sito in cui venne innalzato, già Sennacherib aveva ricostruito un edificio, che cominciava a mostrare i segni del tempo: Assurbanipal narra che fra quelle mura era cresciuto, raccontando di come gli dèi l’avessero protetto quand’era principe ereditario, di come lí avesse abitato e ricevuto le notizie delle vittor iose campagne condotte in terre lontane e di quanto avesse fatto sogni meravigliosi. Si trattava, insomma, di un luogo propizio e pregno di ricordi felici. Il palazzo sorgeva sulla sommità di un terrazzo artificiale nel quale si contavano 50 corsi di mattoni, per un’altezza


Giardini e frutteti

Porta di Nergal

Mercati e magazzini

Laboratori artigianali

Tigri

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Quartiere degli affari e magazzini

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A destra: cartina che mostra l’ubicazione della cittadella di Kuyunjik e la sua estensione rispetto all’intera superficie della città di Ninive. Nella pagina accanto, a sinistra: stele raffigurante Shamash-shumuukin con un canestro sulla testa, a evocarne il ruolo di costruttore, dal tempio di Nabu a Borsippa (Iraq). 668-665 a.C. Il volto del principe ereditario fu cancellato all’indomani della fallita rivolta ai danni di suo fratello Assurbanipal, ma la sua identificazione è provata dall’iscrizione, rimasta leggibile. Nella pagina accanto, a destra: stele raffigurante Assurbanipal con un canestro sulla testa che ne indica il ruolo di costruttore reale in occasione dell’avvento di Shamash-shumuukin quale re di Babilonia e del restauro dell’Esagila, nella stessa Babilonia, dal tempio di Marduk. 668-665 a.C.

Palazzo dell’Arsenale

Caserme Kuyunjik

Porta di Ashur Palazzo Nord

Tigri

Tempio di Nabu

Palazzo di Sud-Ovest

pari a 7 m circa e avrebbe potuto ulteriormente elevarsi, ma Assurbanipal non volle che potesse competere con i templi che si trovavano nei suoi pressi. La base del terrazzo era rivestita da blocchi di calcare, ma il nucleo della struttura era fatto con mattoni crudi, cioè essiccati al sole, che erano il materiale da costruzione tipico degli Assiri. I laterizi cotti venivano infatti utilizzati solo per i canali di drenaggio e per opere soggette alla pioggia o all’impaludamento, facendo ampio ricorso al bitume come sostanza impermeabilizzante. Al suo interno, il palazzo si articolava in nuclei di stanze disposte intorno a cortili pavi-

mentati con pietre o tegole di terracotta e, come nei palazzi assiri piú antichi, le porzioni inferiori dei muri delle sale piú sontuose erano decorate da pannelli di gesso alabastrino locale, detto anche «marmo di Mosul», che potevano raggiungere un’altezza di 2,5 m ed erano scolpiti a bassorilievo con scene narrative o immagini di creature magiche, capaci di assicurare la loro protezione. I pannelli dovevano essere colorati con tinte vivaci, ma di quei pigmenti si conservano oggi solo scarse tracce. Per i tetti si utilizzava il legno di cedro del Libano e le porte erano invece fatte con legno di ginepro profumato, a r c h e o 93


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rivestito di metallo lucente. È stato calcolato che il pianterreno del Palazzo Nord occupasse una superficie di almeno 100 x 200 m, ma potrebbe essere stato anche piú vasto: i suoi limiti esatti sono infatti solo ipotetici, poiché gli scavi hanno riportato alla luce solo la parte piú sfarzosa dell’edificio, che ne occupava la porzione occidentale. Doveva esserci una corte esterna o un cortile accessibile da un ingresso principale sul lato orientale, là dove si svolgevano le attività amministrative e possiamo immaginare il palazzo brulicante di uomini ed eunuchi, provvisto di ampie strutture per i servizi, per la sicurezza e per ogni altra esigenza di carattere pratico. Quando il re si trovava a palazzo, un visitatore – per esempio l’emissario di un popolo straniero venuto per recare doni -, prima di poter accedere alla corte della stanza del trono, doveva attraversare gli uffici dislocati nel94 a r c h e o

Rilievo in gesso raffigurante Assurbanipal che, dal suo carro, tira con l’arco sui leoni, dal Palazzo Nord di Ninive. 645-635 a.C.

la cintura esterna dell’edificio. Lí si sarebbe trovato al cospetto della facciata della sala del trono stessa, che si elevava a un livello piú alto, al quale si arrivava grazie ad ampie scalinate, e nella quale si aprivano tre ingressi distinti. Come ogni sala del trono assira, anche questa era orientata in direzione del Nord, piú che verso il Sud, cosí da risultare meno esposta alla calura dell’estate.

UN’ASSENZA INSPIEGABILE Tutti i piú importanti edifici degli Assiri rispettavano un proprio schema di protezione magica, che si credeva fosse in grado di tenere lontani gli spiriti e gli influssi negativi. Ciascuna delle sale del trono del nonno di Assurbanipal, Sennacherib, oppure di Sargon II, suo bisnonno, era sorvegliata da sette paia di tori alati e con testa umana (lamassu): monoliti che potevano pesare fino


In questa pagina, dall’alto: ricostruzione virtuale del Palazzo SudOvest di Sennacherib; ricostruzione virtuale della cittadella di Kuyunjik a Ninive con, in primo piano, il «Palazzo senza rivali» di Sennacherib e, sullo sfondo, il Tempio di Ishtar con la ziqqurat e il Palazzo Nord di Assurbanipal.

a 30 tonnellate. È difficile credere che gli Assiri avessero disimparato la tecnica necessaria per cavare e trasportare simili blocchi, eppure, per ragioni ancora da decifrare, le creature fantastiche scolpite nel Palazzo Nord, pur essendo straordinariamente variegate, non comprendono questi tori alati androcefali, ma includono vari leoni-centauri di proporzioni piú ridotte. Il muro della sala del trono che si trova di fronte alla porta centrale e che sarebbe stato visibile dal cortile esterno (O), era rivestito da pannelli con una coppia di lastre di pietra lisce in una piccola nicchia, larghe oltre 5 m. Anche in altre sale del trono troviamo apprestamenti altrettanto imponenti, scolpiti nella medesima posizione. L’unico a essersi interamente conservato risale al IX secolo a.C. e si trova a Nimrud (l’antica Kalhu): si tratta di un pannello murale che mostra il re assiro alle due estremità di una pianta stilizzata, il cosiddetto Albero Sacro, con un disco alato che simboleggia la divinità soprastante, identificabile con il dio Ashur che governa la terra di Assur. Nella sala del trono di Sennacherib a Ninive sembra attestata una versione alternativa di questa scena di culto. A Nimrud il sovrano mostra una versione della scena formale ricamata sul proprio pettorale, cosí come nel caso di Assurbanipal. La stessa scena compariva anche su alcuni grandi pannelli di mattoni smaltati nei palazzi di Nimrud e Khorsabad (l’antica Dur-Sharrukin, che fu voluta come nuova capitale da Sargon II) e aveva un forte valore simbolico; è probabile che le due figure reali non fossero viste soltanto come repliche del monarca regnante, ma anche come manifestazioni della sovranità assira, che guardava con orgoglio al proprio lontano passato. Questa composizione dovette essere predominante anche nel Palazzo Nord e fu verosimilmente riprodotta anche in un grande arazzo o tessuto che copriva i pannelli lisci che si trovano di fronte alla porta centrale della sala del trono.

all’estremità opposta. Entrambe le posizioni risultavano direttamente accessibili da un cortile interno (J) e dagli altri quartieri privati presenti nel palazzo. La decorazione murale della sala del trono seguiva la tradizione dei pannelli con rilievi raffiguranti tutti i principali successi militari ottenuti dal regno fino alla costruzione del palazzo. Si tratta di esempi tipici della scultura narrativa assira, alla quale si faceva ricorso per glorificare il potere reale, ma che poteva anche prestarsi a scene sofisticate e umoristiche. In questa sala del trono le scene superstiti comprendono variazioni su un canone compositivo standardizzato, che si sviluppa su piú pannelli adiacenti: all’estremità di una delle unità si vedono immagini di combattimento, come l’assedio di una città, seguite da un corteo di prigionieri e dal bottino, che, all’estremità opposta, viene consegnato al re, che sta sul suo carro. La maggior parte delle rappresentazioni a soggetto militare di

I SUCCESSI MILITARI Probabilmente, nel corso delle cerimonie piú importanti, Assurbanipal o il principe ereditario, cosí come avveniva nelle sale del trono piú antiche, presiedevano al rito da un trono collocato all’estremità sinistra della stanza oppure da una loggia o da una galleria situata a r c h e o 95


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Assurbanipal segue questo schema, che ci permette di ricostruire l’organizzazione di numerosi frammenti di pannelli murali che sarebbe altrimenti impossibile identificare. Fra gli elementi artificiosi inseriti in queste composizioni vi è l’inserimento del re in carne e ossa: nella realtà, il sovrano passava effettivamente in rivista i prigionieri e il bottino, ma lo faceva a Ninive, nella sua residenza, lontano dal teatro delle azioni belliche raffigurate.

I PRIGIONIERI PASSATI IN RASSEGNA Nella sala del trono del Palazzo Nord si possono riconoscere le immagini di quattro campagne militari: quelle condotte contro Babilonia (a sud dell’odierna Baghdad), Susa, capitale dell’Elam (oggi nell’Iran meridionale), Egitto e Mannea (Iran occidentale). È inoltre rappresentata un’altra spedizione, che si svolge in una regione montagnosa e forse vi erano anche immagini riferibili ad altre tre operazioni. La sala adiacente mostra, nel registro inferiore, immagini di campagne condotte contro gli Arabi, mentre il registro superiore è oggi perduto. Manca il pannello che raffigura la presa di Babilonia, che venne forse distrutto quando i Babilonesi, a loro volta, conquistarono Ninive, mentre si è conservata la rappresentazione di Assurbanipal che passa in rassegna i prigionieri di quella città, accompagnata da una lunga didascalia

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che ne spiega il soggetto. La medesima scena comprende quattro stranieri non riconoscibili come Babilonesi che si sottomettono agli Assiri, a dimostrazione del fatto che l’opera è una rappresentazione composita di trionfi e sottomissioni che non ebbero luogo nello stesso momento, offrendo cosí un equivalente visivo delle iscrizioni storiche di AssurbaUNA CORTE SFARZOSA Planimetria (a destra) e ricostruzione virtuale ipotetica del Palazzo Nord di Assurbanipal a Ninive. Il complesso è stato indagato solo parzialmente, ma è stato possibile accertare la funzione dei settori riportati alla luce, tra i quali vi sono la sala del trono (1) e i due grandi cortili che si aprivano a ridosso della sala (2, 3), nonché parte degli appartamenti reali (4).

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nipal, nelle quali si riscontrano analoghe collazioni. Giustapponendo temi tra loro non collegati, questi resoconti compositi, siano essi visivi o testuali, cercano di definire una realtà – la gloria universale e invincibile del re assiro – che si colloca al di là dei confini del tempo e dello spazio.

QUASI COME UN FUMETTO Soltanto i funzionari incaricati dell’amministrazione del palazzo e pochi, selezionati visitatori potevano, oltrepassando la sala del trono, raggiungere il cortile J, che dava accesso a settori piú privati dell’edificio. I pannelli murali che rivestivano i muri settentrionali del cortile, per quanto a oggi è stato possibile recuperare, mostravano le vittorie riportate dagli Assiri nelle terre paludose della Babilonia meridionale o Caldea, ma quelli che si trovano sul lato nord-occidentale, e in particolare nelle Stanze H-I, avevano caratteri eccezionali. In questo caso, infatti, le composizioni – vaste, a tratti giocose e a tratti terribili - furono organizzate in una sequenza simile alla moderna striscia di un fumetto: le campagne di Assurbanipal e le vittorie ottenute in terra straniera erano illustrate nei registri inferiori, mentre quelli superiori erano dedicati alla celebrazione delle vittorie riportate nel territorio del regno, fra le città e i canali dell’Assiria. Il registro inferiore che si conserva su un muro della Stanza I raffigura gli Assiri che sconfiggono l’esercito elamita nella battaglia di Til-Tuba e impongono un nuovo sovrano agli abitanti di una città dell’Elam che possiede un elegante tempio a torre (ziqqurat). Nel registro superiore, Assurbanipal mesce una libagione sul capo del re elamita Teumman, ucciso in battaglia, e l’evento ha luogo a Erbil, dopo un corteo trionfale. Lo stesso insieme di scene che mostra la battaglia di Til-Tuba e gli eventi che a essa fecero seguito venne scolpito alcuni anni piú tardi, in una versione piú vivace ed elegante, nel Palazzo Sud-Ovest. Assurbanipal apprezzava molto quell’opera, che viene descritta in alcune tavolette cuneiformi. È probabile che l’accesso di servizio al cortile J si aprisse in corrispondenza del suo angolo orientale. Di una suite ubicata sul lato sud-orientale rimangono poche tracce, ma nei suoi pressi sono state trovate varie tavolette cuneiformi della biblioteca reale (una

delle quali reca una versione incompleta della Storia del Diluvio) e dunque potrebbe aver accolto vari uffici, tra cui, appunto, la biblioteca. Sebbene sia stata in larga parte distrutta, la struttura sul lato sud-occidentale era provvista di un basamento in pietra lavorata ed è perciò identificabile con un bit hilani (palazzo caratterizzato da un portico a colonne che immetteva in un atrio largo, ma poco profondo, n.d.r.), cosí come viene menzionato in un’iscrizione di fondazione di Assurbanipal. Si trattava di una struttura particolare, aperta alle brezze, che le cronache assire descrivono come adatta al piacere e al relax. Quella del Palazzo Nord potrebbe essere stata adibita ai ricevimenti estivi, poiché il fianco prospiciente il cortile risultava particolarmente fresco, come un tipico iwan mediorientale (nell’architettura islamica, atrio con volta a sesto acuto, n.d.r.). All’occasione, potrebbe anche essere stata a disposizione delle donne di corte, i cui appartamenti dovevano trovarsi nel settore privato sudoccidentale del palazzo, da dove si poteva godere della vista sulla città, fino al fiume Tigri e alle colline retrostanti. Sebbene l’erosione abbia cancellato le stanze di questo settore privato, è stato possibile accertare che, in corrispondenza dell’angolo occidentale, al piano piú basso, vi era un ingresso posteriore, che dava accesso ad alcune stanze. Qui si sono accumulati e conservati alcuni pannelli murali crollati dai quartieri reali, alcuni dei quali, ancora una volta, mostrano scene di guerra, nonché rappresentazioni della caccia reale al leone, uno dei soggetti preferiti di Assurbanipal.

VERSO IL REALISMO Risulta invece insolita la rilavorazione alla quale furono sottoposti alcuni dei pannelli. Un frammento che mostra la cattura di un re elamita sembra essere stato rilavorato per due volte: lo sfondo presenta infatti profonde incisioni, verosimilmente attribuibili a una diversa e piú antica composizione, ma mostra anche differenze stilistiche, come nel caso del corpo del soldato che spinge il re nel carro da dietro e che invece era originariamente scolpito di fronte alla ruota. Si osserva quindi il passaggio da una resa schematica, in cui era riprodotto l’intero corpo del guerriero, a un’immagine piú realistica, che offre all’occhio dell’osservatore soltanto ciò che si sareba r c h e o 97


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be potuto effettivamente vedere nella realtà. Un mutamento che suggerisce l’intervento di un artista ispirato da criteri estetici inediti, ai quali vanno ascritti anche i singolari dettagli del paesaggio sottostante, che comprendono un leopardo che insegue una capra e un granchio che cattura con un pesce.

L’ESALTAZIONE DEI SUCCESSI Sembra ragionevole credere che simili significative innovazioni nella scelta dei soggetti, finora riscontrate soltanto in questo settore privato del palazzo, abbiano risposto al desiderio di offrire un resoconto piú ampio dei successi di Assurbanipal nell’Elam, includendo quelli riportati dopo che il primo apparato decorativo era stato ultimato. Le modifiche sembrano aver coinvolto anche una nota rappresentazione di Assurbanipal su una lettiga, che riposa dopo la caccia al leone, con la regina seduta ai suoi piedi. Nella stessa composizione, a poca distanza, si vedono un gruppo di cortigiani assiri e almeno un sacerdote, che stanno sbeffeggiando i re elamiti, riconoscibili dal loro copricapo a forma di bulbo; come spiega la didascalia, i sovrani nemici erano stati obbligati a portare cibo e bevande per il sovrano assiro. Dal cortile interno (J), passando per la Stanza C, oppure dagli appartamenti reali attraverso la Stanza E, si poteva accedere a un lungo corridoio, dolcemente declinante (Stanze A-R), che portava a una sala d’ingresso posteriore privata situata a un livello inferiore, la Stanza S. È questo il percorso che il re doveva seguire per lasciare il palazzo quando voleva recarsi a visitare un frutteto che aveva fatto piantare nelle vicinanze, ma anche in occasione delle battute di caccia, che lo portavano piú lontano, fra i campi. I pannelli murali superstiti delle Stanze A e R mostrano sulla sinistra il corteo reale che esce, con cani, scimmie e reti, mentre sulla destra lo stesso corteo rientra con uccelli e leoni uccisi. Il corridoio doveva essere piuttosto buio e alcuni pannelli non furono ultimati. Nella sala d’ingresso stessa i pannelli rappresentavano la caccia al cervo, agli asini selvatici e alle gazzelle; in altri casi si vedono anche scene di caccia al leone, una delle quali ambientata lungo un canale, mentre altre che hanno per protagonisti i leoni sono piú elaborate e si riferiscono probabilmente a battute organizzate all’interno di un’arena. 98 a r c h e o

Anche nella Stanza C compare il sovrano, che, sotto gli occhi degli abitanti di Ninive, uccide ben diciotto leoni: un’impresa simbolica, che rappresenta l’annientamento dei nemici sotto le diciotto porte della città. Questi pannelli sono fra gli esempi piú eleganti della scultura assira, anche se, in origine, molti leoni furono scolpiti con code troppo lunghe. Possiamo quindi immaginare che il re, dopo aver esaminato i rilievi ed essersi lamentato dell’imprecisione, avesse dato agli scalpellini poco tempo per rimediare e nascondere l’errore con stucco e colore, cosicché oggi sia la vecchia che la nuova versione risultano visibili.

LA FINE Ninive fu conquistata nel 612 a.C. da una coalizione che comprendeva i Babilonesi e i Medi e, verosimilmente, fu quella l’occasione in cui i palazzi e templi vennero devastati. I soldati degli eserciti aggressori, ai quali si unirono con ogni probabilità altri nemici dell’establishment assiro in quella che era ormai divenuta una città davvero cosmopolita, si riversarono negli edifici, distruggendo tutte le immagini ritenute offensive. A questi eventi dobbiamo attribuire la scomparsa di scene come la presa di Babilonia e di Susa raffigurate nella sala del trono di Assurbanipal, delle quali possiamo supporre l’esistenza, ma che sono oggi in larga parte perdute. L’impero assiro non si riprese mai piú da quegli eventi disastrosi, ma la città di Ninive riuscí lentamente a rinascere. Le mura del Palazzo Nord crollarono e sembra che sia caduto in disuso, anche se, alcuni secoli piú tardi, i muri di una casa che ne occupò una porzione inglobarono molti frammenti di sculture in pietra. In quello che in origine era il corridoio discendente (Stanza R) fu scavato un canale di drenaggio: la sua volta in mattoni doveva essersi conservata intatta, cosicché chi scavò il canale si ritrovò all’interno di un passaggio sotterraneo, che conservava in buone condizioni molti dei pannelli che ne rivestivano le pareti. L’area fu poi nuovamente sepolta e dimenticata, mentre il terrazzamento e le mura superiori continuavano a cedere e crollare, perdendo la propria fisionomia originaria. Sarebbero stati riscoperti solo nel 1853-1854, grazie agli scavi di Hormuzd Rassam e William Loftus, che ne intercettarono i resti subito sotto la superficie del terreno.

Rilievo raffigurante la battaglia di Til-Tuba, nota anche come battaglia del fiume Ulai, dal Palazzo Sud-Ovest di Ninive. 660-650 a.C.


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UN GIORNO ALLA CORTE DEGLI ASSIRI L

a mostra che il British Museum dedica ad Assurbanipal offre un profilo a tutto tondo dell’ultimo grande re dell’Assiria. E lo fa, innanzitutto, attraverso i magnifici rilievi che ornavano i palazzi di Ninive, le centinaia di tavolette cuneiformi conservate nella biblioteca reale e i reperti recuperati nel corso delle campagne di scavo che hanno interessato l’antica capitale. Una capitale che raggiunse le dimensioni di una vera e propria metropoli e dalla quale Assurbanipal regnò su

un impero vastissimo, che si estendeva dalle coste del Mediterraneo agli altopiani dell’odierno Iran e nel quale convivevano molte genti e culture diverse.

Sulle due pagine: immagini dell’allestimento della mostra. Si riconoscono, fra gli altri: nella vetrina a sinistra, materiali di produzione urartea; al centro, una stele raffigurante il dio della

tempesta Adad (da Arslan Tash, Siria, VIII sec. a.C.) e una statua raffigurante una creatura con volto umano, corpo di uccello e coda di scorpione (da Tell Halaf, Siria, X-IX sec. a.C.).

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Nel percorso espositivo sfilano oltre 200 reperti di grande pregio, provenienti dalla collezione permanente dello stesso British Museum e affiancati da prestiti concessi


Nel riquadro: la teca che accoglie un pannello in gesso alabastrino raffigurante alcuni spiriti benigni, dal Palazzo Nord di Ninive. 645-640 a.C.

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SPECIALE • ASSURBANIPAL dai piú importanti musei archeologici d’Europa e comprendenti materiali che mai prima d’ora avevano lasciato la propria sede. Ripercorrendo la straordinaria parabola di Assurbanipal, la mostra permette di immergersi nella realtà quotidiana della corte assira, il cui splendore è evocato da sculture, rilievi, mattoni smaltati e dipinti, pitture murali. Ornamenti scultorei e architettonici ai quali fanno da contraltare avori, manufatti in metallo, vasi per prodotti cosmetici e monili in oro, a riprova del lusso in cui viveva l’élite imperiale. Né manca l’enfasi assegnata alla guerra e alla caccia – in primo luogo al leone –, che costituiscono altrettanti temi dominanti dei pannelli scolpiti, per mezzo dei quali Assurbanipal veicola la sua immagine di guerriero coraggioso e valente cacciatore. Tuttavia, rispetto ai suoi predecessori, il nipote di Sennacherib volle anche accreditarsi come

uomo di scienza e di lettere e si vantava di saper leggere, scrivere e sostenere il confronto con i sapienti di corte. Per questo volle dotare Ninive anche di una straordinaria biblioteca, che nei suoi intenti doveva contribuire a garantirgli

Sulle due pagine: la sala in cui sono riuniti, fra gli altri, una significativa selezione di tavolette cuneiformi e, sulla destra, il rilievo raffigurante un corteo di uomini che portano frutti destinati a un banchetto (dal Palazzo Sud-Ovest di Ninive, 705-681 a.C.).

A sinistra: la sezione della mostra dedicata alle imprese militari di Assurbanipal, il quale, in realtà, potrebbe non aver mai partecipato direttamente alle campagne condotte durante il suo regno. 102 a r c h e o


l’esercizio del potere sull’impero. Merita infine d’essere sottolineata la scelta di utilizzare l’ultima sezione della mostra per ricordare le distruzioni compiute dall’ISIS ai danni di alcuni dei siti archeologici da cui provengono i reperti esposti, primi fra tutti la stessa Ninive e Nimrud. Devastazioni alle

quali il British Museum ha scelto di rispondere dando vita all’Iraq Emergency Heritage Management Training Scheme, un progetto rivolto agli archeologi iracheni, con il fine di offrire loro una formazione specifica nel campo dell’archeologia d’emergenza e della gestione del patrimonio di cui sia in pericolo la conservazione.

DOVE E QUANDO «Io sono Assurbanipal, re del mondo, re dell’Assiria» Londra, British Museum fino al 24 febbraio Orario tutti i giorni, 10,00-17,30 (venerdí, apertura serale prolungata fino alle 20,30) www.britishmuseum.org a r c h e o 103


IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

UN RINNEGATO A POLICASTRO ALLA METÀ DEL XVI SECOLO, SULL’INTONACO DI UN MURO DEL DIRUTO CASTELLO DI POLICASTRO BUSSENTINO, UNA MANO IGNOTA DISEGNÒ, CON TRATTI QUASI INFANTILI, UNA SCENA DI BATTAGLIA NAVALE. LA SUA RECENTE – E DAVVERO CONVINCENTE – INTERPRETAZIONE POTREBBE ESSERE DEGNA D’UN ROMANZO D’AVVENTURA

A

bbiamo già avuto modo di raccontare come le ricerche archeologiche condotte dall’Università di Genova e dall’associazione Etruria Nova

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onlus stiano portando alla luce le storie perdute di Policastro Bussentino (Salerno), piccolo centro del Cilento che in età romana vantava un Foro e un bel complesso

termale (vedi «Archeo» n. 379, settembre 2016, on line su issuu. com). Ebbe poi una cattedrale, e fu sede di un presidio conquistato dai Normanni e innalzato a contea al


tempo di Ruggero II. Visse poi la sua vita di borgo marinaro, esposto ai pericoli che venivano dal mare, nel momento di massimo scontro fra cristianità e mondo ottomano: saccheggiato dal corsaro Ariadeno Barbarossa nel 1544, vide posta fine alla sua esistenza quando il pirata Dragut Rais, nel 1552, lo devastò definitivamente uccidendo o razziando i suoi abitanti. Sulla sommità della collina, dove sorgono le rovine dell’antico castello, l’équipe archeologica guidata da Silvia Pallecchi ha scoperto con meraviglia una grande scena figurata, ancora leggibile alla base della muratura esterna del corpo centrale di quella fortezza. Dietro a un boschetto di lentischi è infatti apparsa, graffita sull’intonaco antico, la raffigurazione tanto dettagliata quanto complicata di quattro imbarcazioni a remi, due, poste al centro, di dimensioni cospicue, e due piú piccole.

IL GIOCO DEGLI INDIZI Superate le difficoltà di un complesso rilievo, la scena – su due registri sovrapposti – ha cominciato a parlare. Non si vedono vele all’orizzonte: dagli scafi delle navi fuoriescono invece selve di remi, segno indiretto che ci troviamo ancora all’inizio dell’età moderna, dal momento che solo alla fine del XVI secolo le grandi imbarcazioni, sia mercantili che militari, rinunciarono ai remi come principale forza di propulsione. Di quali navi si tratta? Il gioco degli indizi parte innanzitutto da questa domanda. Se le imbarcazioni piccole possono essere identificate abbastanza facilmente come due galee, agili navi da guerra, le due navi maggiori possono raffigurare invece quelle galeazze, vere e proprie fortezze di mare, che i cantieri navali di Venezia allestirono in gran segreto modificando le piú grandi galee mercantili negli anni

Nella pagina accanto: Policastro Bussentino (Salerno). Le strutture superstiti del castello, innalzato nel XIV sec. nella parte piú alta dell’abitato, forse sulle rovine di un piú antico fortilizio bizantino.

In alto: planimetria della città di Policastro Bussentino. In alto, al centro, è l’area in cui sorse il castello, su uno dei cui muri è stato scoperto il graffito con scena di battaglia navale (foto alle pp. 106/107).

immediatamente precedenti lo scontro epocale di Lepanto, che nel 1571 pose fine all’espansione ottomana in Occidente. Di una di queste due galeazze si riconoscono bene lo scafo con un albero, i banchi dei rematori e il castello di prora armato di cannoni, dell’altra si intravedono lo scafo e il cassero di poppa e due degli alberi abbattuti. Sappiamo che le galeazze recarono un contributo determinante alla vittoria della flotta cristiana. Nelle acque di Lepanto ne vennero schierate sei,

due per squadra, al comando rispettivamente di Agostino Barbarigo, don Giovanni d’Austria, fratellastro di Filippo II, re di Spagna, e Giovanni Andrea Doria. Le tracce di una grande lanterna aiutano a identificare nel graffito la presenza delle ammiraglie. Anche le due galee indirizzano l’indagine verso le acque di Lepanto. In quella posta a sinistra si riconoscono lo scafo, i remi, un albero e il lungo sperone spezzato, forse proprio quello che le fonti ci dicono essere stato fatto segare da

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don Giovanni per movimentare le navi piú agevolmente. Della galea di destra, oltre ai remi e allo scafo, si riconosce anche uno stendardo, che potrebbe alludere – secondo l’interpretazione archeologica del graffito – a quello consegnato nel 1571 da Pio V a don Giovanni d’Austria. L’altra issa uno stendardo triangolare con una croce, che lascia sospettare si tratti della raffigurazione della Marchesa, la galea capitana della squadra di Genovesi, che affiancarono il Doria nelle acque di Lepanto. Al margine sinistro del graffito, con una serie di tratti confusi, la scena forse raffigura una nave che affonda e la presenza di uomini caduti in mare. I testimoni ci danno di quella battaglia una descrizione che possiamo utilizzare quale didascalia di questo drammatico disegno: «Infinita – scrive Giovanni Battista Contarini (1558-1613) – era la mortalità ch’usciva da i spadoni, scimitarre, mazze di ferro, cortelle, manarini, spade, freccie, archibugi, e fuoghi artificiali, oltra quelli, che per diversi accidenti spenti, ritirandosi, e da loro gettandosi s’affogavano in mare, qual già era spesso e rosso di sangue».

scena si riconoscono infatti anche alcune scritte in lettere arabe, nelle quali si è potuta leggere la celebre, antica professione di fede musulmana: Allahu akhbar («dio è grande»), accompagnata dall’altra invocazione che recita Alhamdu’lillah («sia lode a dio»). Ma come è possibile che, alla fine del Cinquecento, qualcuno abbia esposto la sua fede islamica in un graffito celebrativo della vittoria cristiana a Lepanto alla base del castello che dominava quel che restava di Policastro dopo le distruzioni subite proprio a opera dei Turchi qualche decennio prima? Se l’autore del graffito è un testimone degli eventi, sappiamo bene che – come nella flotta cristiana c’era una gran quantità di schiavi musulmani – cosí nelle navi ottomane molto numerosi erano gli schiavi cristiani imbarcati, frutto dei rapimenti operati in quegli anni lungo le coste dell’Italia

A destra: il graffito con scena di battaglia navale. Il disegno fu eseguito con uno strumento a punta sulla malta ancora fresca e mostra quattro imbarcazioni a remi, due delle quali, al centro, hanno dimensioni maggiori. La scena potrebbe rappresentare uno dei momenti centrali della battaglia di Lepanto (1571) ed essere opera di un testimone diretto dell’evento imbarcato su una nave ottomana.

TESTIMONE OCULARE La scena graffita, dunque, rappresenta probabilmente un momento cruciale della battaglia navale, quando la flotta del Doria fronteggiò quella ottomana guidata dal beylerbey di Algeri, Uluç Ali Pascià, un corsaro calabrese che aveva raggiunto gli alti gradi della flotta ottomana dopo essersi convertito all’Islam, ponendo fine ad anni di prigionia ai remi di una galea turca. La scena, per la sua rarità, è dunque sconvolgente: tutto lascia presumere che il rozzo graffito sia l’opera di un testimone oculare, superstite di quel drammatico scontro. Ma le sorprese non finiscono qui. All’estremità della

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A sinistra: planimetria del castello di Policastro Bussentino con l’indicazione della zona in cui è stata rilevata la presenza del graffito con scena di battaglia navale.


meridionale. Tra questi molti erano anche i cosiddetti «rinnegati», cioè coloro che, per ritrovare la libertà, avevano abbracciato la fede islamica, come aveva fatto appunto lo stesso Uluç Alí.

RITORNO ALLE ORIGINI Ecco allora che si fa strada una possibile verità: quel magnifico graffito, per quanto rozzo e approssimativo, è il prodotto di un antico abitante di Policastro, di un uomo ormai maturo negli anni, ma rapito ancora ragazzo quando nel 1552 Dragut Raís aveva posto fine

alla vita del piccolo borgo marinaro incendiando le case e portando via con sé donne e bambini. «Cresciuto e vissuto sulle imbarcazioni dei corsari, dove avrebbe potuto imparare a scrivere, – è questa la convincente conclusione di Silvia Pallecchi – si sarebbe poi potuto convertire all’Islam per riscattarsi dalla servitú e avrebbe potuto trovarsi coinvolto nella battaglia di Lepanto sulle galee del contingente algerino di Uluç Alí. Sopravvissuto alla grande battaglia, dopo aver fatto ritorno alla sua terra d’origine, sentí forse il

bisogno, là dove tutto era cominciato, di rendere grazie a dio per il pericolo scampato, celebrandone la grandezza sulle pareti di quello che, al tempo, certamente appariva come il piú maestoso degli edifici della città».

PER SAPERNE DI PIÚ Silvia Pallecchi (a cura di), Raccontare l’archeologia. Strategie e tecniche per la comunicazione dei risultati delle ricerche archeologiche, All’Insegna del Giglio, Sesto Fiorentino (FI) 2017

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QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

… FU «VIOLATA» DAI VISIGOTI DI ALARICO DOPO L’OLTRAGGIO DI BRENNO, NEL 387 A.C., ROMA SI ERA CULLATA NELLA CERTEZZA CHE MAI NESSUNO AVREBBE OSATO PROFANARLA DI NUOVO. E INVECE, SETTE SECOLI PIÚ TARDI, IL RE DEI VISIGOTI IMPOSE UN BRUSCO RISVEGLIO...

«C

hi avrebbe mai creduto che, dopo essersi imposta a tutto il mondo grazie alle sue vittorie, Roma sarebbe caduta diventando al tempo stesso la madre e la tomba delle sue genti?». Cosí, dopo averne avuta notizia nel suo romitorio di Betlemme, san Gerolamo (che piú volte nei suoi scritti tornò poi sull’episodio) commentò il sacco di Roma a opera di Alarico. E, sempre nel suo commentario al libro di Ezechiele, aggiunse: «Quando la luce piú splendente di tutta la terra si estinse, quando all’impero fu troncata la testa, quando – per dirla piú correttamente – il mondo intero perí in una città, allora sono ammutolito, nella mia umiliazione mi sono tenuto lontano dal bene e il mio dolore si è rinnovato». Il grave evento fu uno degli episodi certi e piú rilevanti – se non il piú rilevante, almeno per il suo significato – di un periodo particolarmente tormentato e per noi confuso nelle notizie e nei resoconti che possediamo,

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a volte incerti, discordanti, talora fantastici, anche perché spesso assai posteriori ai fatti citati (donde le «ricostruzioni storiche» non sempre univoche degli studiosi moderni). Nel 408, la situazione in Italia s’era complicata, dopo la morte di Stilicone, il generale romano di origine vandala, comandante delle truppe della parte occidentale dell’impero, per l’... «irrequietezza» del re dei Visigoti, Alarico. Il quale, dopo aver servito come foederatus a capo di un reparto di suoi, nell’esercito di Teodorico impegnato contro l’usurpatore Eugenio, era stato acclamato nel 395 alla guida del suo popolo.

LE PRIME INVASIONI Inseritosi nello stesso anno, alla morte di Teodorico, nel conflitto latente tra le due parti dell’impero, orientale e occidentale, ed esploso tra i pretendenti alla successione, aveva invaso l’Illirico. Quindi aveva tentato di passare in armi in Italia – dando inizio per essa (e per tutto l’Occidente) alle «invasioni barbariche» –, ma ne era stato respinto, con le due sconfitte subite a opera dello stesso Stilicone, nel 402, a Pollenzo (l’antica Pollentia, presso Bra nel territorio dei Liguri Statielli) e, nel 403, a Verona. Scomparso quello, ucciso a Ravenna nel 408, consenziente l’imperatore, perché colpevole d’aver tentato d’instaurare una politica di intese (e di contropartite) con il re Visigoto e additato perciò, nella parte orientale dell’impero, come «nemico pubblico», Alarico

riprese con successo il vecchio proposito. Andati a vuoto i suoi tentativi di accordarsi con l’imperatore d’Occidente, Onorio (trasferitosi intanto da Milano nella piú sicura Ravenna, difesa dalla barriera naturale del Po e dall’ancora potente flotta pretoria che garantiva anche i collegamenti con l’impero d’Oriente) ed essendo state variamente respinte dal Senato le sue richieste di danaro, vettovaglie e incarichi come quello di magister militum, decise di rompere gli indugi e di marciare su Roma. Né valse ad arrestarlo la tardiva disponibilità dello stesso Senato, preso dal terrore, a versargli una somma anche molto superiore a quelle precedentemente da lui richieste. Spintosi per ben due volte, nel 408 e nel 409, fino alle porte di Roma ed entratovi pacificamente Alarico si limitò, la prima volta, a incassare un sostanzioso tributo in oro e argento e, la seconda, a imporre al Senato un imperatore fantoccio come il prefetto della città, Prisco Attalo. Finalmente, quando, per il suo tergiversare, cominciò a perdere il sostegno di una parte dei suoi, si decise a investire direttamente la città, che, peraltro, già da qualche anno, audito rumore Gothorum (come scrive Claudiano) ancora sotto la direzione di Stilicone, aveva provveduto a migliorare le sue difese, in particolare rinforzando e soprelevando le Mura Aureliane. Il 24 agosto del 410, dopo aver bloccato tutte le vie d’accesso alla Il sacco di Roma da parte dei barbari, di Joseph-Noel Sylvestre. 1890. Sète, Musée Paul Valéry. Nel 410 d.C. i Visigoti di Alarico saccheggiarono Roma per tre giorni e l’evento ebbe un’enorme risonanza emotiva.


Dida digendis poreic tem iust et qui dus eicat pratia dita que omnis nem videlessent aut ut volorat emporit iostia quiasintiur alitatem denimol orepero enihici dellat eicatur? Modi beribus aperior possimos reiciUcil et autectempos sunt illitas

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Milano

Concordia

Marzo 402

Pollenzo 6 aprile 402

Emona

Pavia

Verona

Pavia

Estate 402

Bologna

Aquileia

Milano

Aquileia

Verona Bologna Ravenna

Ravenna

Firenze

Fiesole

Roma

Roma

401-402

406

d.C. Prima invasione dei Visigoti di Alarico

città, compreso il Tevere, e impediti i rifornimenti da Porto e da Ostia, Alarico entrò in Roma col suo esercito attraverso la Porta Salaria (che non esiste piú – a parte la «pianta» indicata da una speciale selciatura dell’odierna piazza Fiume – da quando essa venne sconsideratamente demolita, per quel che ne rimaneva, dopo le distruzioni provocate dai cannoneggiamenti del 20 settembre 1870).

VERSIONI DISCORDANTI Quanto alle modalità dell’occupazione, le versioni lasciateci dagli antichi sono diverse e contraddittorie (come molti altri «racconti» degli avvenimenti di quegli anni). La Storia Ecclesiastica di Sozomeno (IX, 9) accenna semplicemente a un tradimento dei difensori senza aggiungere alcun dettaglio. Procopio di Cesarea, invece, racconta (III, 2) di una illustre matrona Proba, appartenente alla famiglia degli Anicii, che, mossa a compassione per gli stenti subiti dai concittadini per la carestia di cibo, avrebbe indotto i suoi servi ad aprire di nascosto la Porta. Ma lo

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3 agosto 406

d.C. Invasione degli Ostrogoti di Radagaiso

In questa pagina: le direttrici delle invasioni in Italia dei Visigoti di Alarico e degli Ostrogoti di Radagaiso. Nella pagina accanto: Roma. Un tratto delle Mura Aureliane, che alla fine del V sec. furono sopraelevate, per assicurare una difesa piú efficace alla città, ormai non piú invulnerabile.

Milano

Verona

Pavia Bologna Firenze

Concordia

Emona

Aquileia

Ravenna

Agosto 410

Roma

408-412

d.C. Seconda invasione dei Visigoti di Alarico

stesso Procopio aggiunge anche un’altra piú elaborata e ugualmente fantasiosa e poco credibile versione. Non essendo riuscito a impadronirsi della città con la forza (o, non avendolo voluto), Alarico avrebbe giocato d’astuzia, comunicando al Senato l’intenzione di levare l’assedio mentre, a garanzia del suo proposito, inviava

300 suoi giovani soldati in ostaggio presso le piú illustri famiglie patrizie di Roma. Ma quelli, adeguatamente istruiti, una volta in città, «mentre i padroni dopo il pranzo riposavano», avrebbero proditoriamente attaccato e ucciso gli uomini di presidio e spalancato la Porta. Che invece, molto piú verosimilmente – e...


semplicemente – sarebbe stata aperta a tradimento dalla sua stessa guarnigione di Isauri che la presidiava. Ma, anche questa versione è tutt’altro che sicura. Comunque siano andate le cose, l’occupazione di Roma fu un evento traumatico e non mancano gli storici moderni che fanno risalire a essa la fine del mondo antico e l’inizio del Medioevo. Dal sacco dei Galli di Brenno, all’inizio del IV secolo a.C., erano ottocento anni che l’Urbe non veniva occupata e violata da un esercito nemico. I Visigoti rimasero in città per tre giorni, saccheggiando dove e quanto possibile (ma risparmiando la basilica di S. Pietro, le tombe degli Apostoli e altri luoghi sacri), appiccando incendi (come quello che devastò l’Aventino), facendo strage di persone di varia estrazione e prendendo ostaggi tra i quali la sorella di Onorio, Galla Placidia. Poi, lasciata Roma carichi di bottino, si diressero verso il Mezzogiorno della Penisola,

saccheggiando Capua e Nola, forse con l’intenzione di passare in Sicilia e poi in Africa. A parte la distruzione della flotta che erano riusciti rapidamente ad allestire, a causa di una tempesta, tutto finí però con la morte improvvisa di Alarico, in Calabria, presso Cosenza, dove, secondo lo storico goto Giordane, il re fu sepolto, con tutto il suo tesoro, nel letto del fiume Busento, appositamente e momentaneamente deviato in modo che il suo corpo non potesse essere piú trovato e sottoposto a possibile scempio.

AGEVOLAZIONI FISCALI Quanto ai suoi, guidati dal nuovo re Ataulfo (che avrebbe poi preso in sposa con tutti gli onori Galla Placidia), essi tornarono sui loro passi devastando mezza Italia, al punto che Onorio, qualche tempo dopo, pensò bene di concedere agli abitanti delle regioni meridionali la riduzione di un quinto delle imposte erariali per un

quinquennio. Lasciata quindi la Penisola, i «barbari» andarono a stabilirsi nella Gallia meridionale (dove, nel 413, ricevettero dallo stesso Onorio – del quale si posero al servizio – lo status di foederati). La notizia della caduta di Roma – per la quale l’imperatore d’Oriente, Teodosio II, proclamò a Costantinopoli (la «Nuova Roma») tre giorni di lutto – provocò ovunque, com’è facile immaginare, un vero e proprio trauma ed ebbe una eco vastissima nella pubblica opinione. Soprattutto costrinse le classi dominanti a misurarsi in un’aspra polemica sulle responsabilità dell’accaduto. Con gli ambienti tradizionalisti e conservatori – che vedevano nel paganesimo la continuità e la certezza dei valori tradizionali e quindi della potenza di Roma – a sottolineare l’episodio come una prova evidente dell’oltraggio fatto agli antichi dèi col bando del loro culto decretato vent’anni prima dall’imperatore Teodosio e con l’accusa contro gli empi cristiani se la «diva» Roma aveva perduto l’... immortalità. E i cristiani che, a loro volta, dovettero impegnarsi a fondo per una seria riflessione storica e per spiegare e giustificare il fatto che la città, ormai convertita alla nuova religione, fosse stata presa e saccheggiata. Per giunta, da altri cristiani, quali erano i Visigoti. Protagonista del difficile momento fu sant’Agostino, vescovo di Ippona in Africa. Sia con i suoi scritti, come i Sermones ad populum e, soprattutto, il capolavoro De civitate Dei (la cui importanza, peraltro, va ben oltre la circostanza), nel quale considera l’evento epocale e alla stregua di un annuncio della prossima fine del mondo. Sia per aver affidato al suo discepolo Paolo Orosio il preciso compito di confutare le accuse dei pagani, che quello assolse scrivendo l’opera apologetica Historiae adversum paganos.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

ECCO IL SEGNO! IL PEREGRINARE DI ENEA, FUGGITO DA TROIA, EBBE TERMINE SULLE COSTE DEL LAZIO, QUANDO L’EROE AVVISTÒ UNA SCROFA BIANCA CON TRENTA PORCELLINI. UN’APPARIZIONE ANNUNCIATA DAL FIGLIO DI PRIAMO E CHE EBBE GRANDE DIFFUSIONE NELL’ARTE E SULLE MONETE

«Q

uando piú stanco e travagliato a riva sarai d’un fiume, sotto un’elce accolta sarà candida troia, ed avrà trenta candidi figli a le sue poppe intorno, allor dí: Questo è ‘l segno e ‘l tempo e ‘l loco da fermar la mia sede, e questo è ‘l fine de’ miei travagli» (Virgilio, Eneide, III, 389-393; versione di Vincenzo Monti). Udendo queste parole, Enea ha

finalmente coscienza che il suo travagliato viaggio avrà fine e che troverà pace (si fa per dire) con la fondazione di Lavinium. Da qui, trent’anni piú tardi, i suoi epigoni erigeranno Alba Longa, dalla quale, tramite Romolo e Remo, nascerà Roma. L’evento gli è vaticinato dal troiano Eleno, figlio di Priamo ed Ecuba e fratello di Cassandra, come lei dotato del


dono apollineo della profezia. Salvatosi dalle fiamme di Troia per le sue specifiche qualità di vateguerriero, Eleno fonderà la città di Butroto in Epiro, «la piccola Troia» e sposerà Andromaca. Qui trovano accoglienza Enea e i suoi, e il re gli predice appunto le traversie che ancora lo aspettano, come salvarsene e come potrà quindi identificare il luogo che gli dèi gli hanno destinato per innalzare la città dalla quale poi deriverà Roma. Il sito si trova sulla costa laziale ed egli potrà riconoscerlo quando vedrà una scrofa bianca con trenta porcellini; seguendola, lí troverà la sua nuova patria: «Questo della città sarà il sito, qui certa la fine dei mali» (Eneide, III, 392-393).

UN MOMENTO EPICO In questo modo, all’antico mito di Enea si ricollega la propaganda virgiliana che fa del figlio di Venere e del piccolo Iulo i capostipiti della gens Iulia. Inseguita e catturata la scrofa, che lo ha condotto al luogo della futura Lavinium, Enea la sacrifica alle divinità. Le fonti antiche raccontano della statua bronzea del povero animale e dei suoi porcellini esposta a Lavinium, dove i sacerdoti ne mostravano anche il corpo conservato sotto salamoia (Varrone, De re rustica, II, 18, 4; composta nel 37 a.C.). Il momento epico dell’incontro tra Enea e i suoi con l’animale che allatta i suoi figli viene dunque celebrato dalla produzione artistica e si ritrova in primis su uno dei pannelli dell’Ara Pacis e quindi in altri rilievi marmorei che dovevano essere numerosi, sparsi per tutto l’impero. La scena viene anche utilizzata nella monetazione dell’età imperiale con Vespasiano, Adriano e Antonino Pio, attraverso varie modalità compositive. Una di queste ripropone la scrofa con i maialini, da sola, sotto un albero, secondo un modello iconografico

In alto: Roma, Ara Pacis. Pannello tradizionalmente identificato con la raffigurazione di Enea che sacrifica ai Penati la scrofa bianca. 13 a.C. È stata tuttavia avanzata l’ipotesi che la scena possa raffigurare un sacrificio alla concordia tra Sabini e Romani compiuto da Numa Pompilio, il secondo re di Roma.

Nella pagina accanto, in alto: asse di Antonino Pio che, al rovescio raffigura la scrofa che allatta i porcellini sotto un albero. 143-144 d.C. Nella pagina accanto, in basso: particolare di un rilievo raffigurante l’arrivo nel Lazio di Enea, che tiene per mano il figlio Ascanio. 140-150 d.C. circa. Londra, British Museum.

che ricorda le monete con la Lupa Capitolina. Vi sono poi scene piú complesse e di maggior respiro riportate sui medaglioni di Adriano e Antonino Pio. Qui la scrofa che allatta è sempre presente, mentre cambia invece il gruppo di Enea, che può essere quello tradizionale con l’eroe che porta Anchise sulle spalle, o quello di Enea e Ascanio mentre discendono dalla barca degli esuli troiani; ancora, alcuni medaglioni riportano il momento sacrificale. Cosí dalla scrofa alla lupa, nella storia di Roma compare sempre un animale totemico, ben

riconoscibile e noto a tutti i cittadini romani che potevano vederlo, quale simbolo identitario, nelle monete diffuse per tutto l’impero. Per concludere si può ricordare a questo proposito un’efficace immagine «genealogica» che compare su un’emissione in bronzo di Adriano battuta a Ilium, nella Troade. La città provinciale sceglie come tipo il gruppo familiare EneaAnchise-Ascanio in fuga da Troia e inserisce in esergo una piccola lupa con i gemelli, riunendo in un unico tondello le piú vetuste e venerabili origini mitiche della città.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Margaret Atwood

IL CANTO DI PENELOPE Ponte alle Grazie, Milano, 160 pp. 13,50 euro ISBN 978-88-3331-132-6 www.ponteallegrazie.it

In questo Canto di Penelope (uscito in una prima edizione italiana nel 2005) la scrittrice e poetessa canadese Margaret Atwood dà voce a uno dei personaggi femminili piú celebri dell’Odissea che, in prima persona, narra la sua versione dei fatti delle vicende tramandate dal poema e aggiunge particolari della sua vita, attinti da altre fonti antiche. Complice la scrittrice, Penelope esce dalla rigida rappresentazione di fedele e leale moglie, tessitrice di un sudario per Laerte di giorno e disfattrice della tela di notte e si svela raccontando, quando è ormai nell’Ade («ora che sono morta so tutto», le fa dire la Atwood), la sua infanzia traumatica,

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trascorsa con il padre Icario, re di Sparta, che aveva cercato di affogarla subito dopo la nascita. La piccola Penelope, però, s’era salvata nuotando (era pur sempre figlia di una Naiade) e per questo era stata soprannominata «anatroccola». La regina ci racconta poi di un’adolescenza passata a confrontarsi con la bellissima e sventata cugina Elena, causa di molte delle sue disgrazie, e della scelta del marito Ulisse, re di Itaca, affabulatore scaltro e dalle gambe corte. Ulisse l’aveva presto abbandonata per andare in guerra, a Troia, lasciandola con il piccolo Telemaco, in balia di Laerte e della moglie Anticlea, della onnipresente nutrice Eraclea e, in seguito, dei Proci, per tornare vent’anni dopo a difendere il trono. Come in una tragedia greca, il testo è scandito da un coro cantato dalle dodici ancelle di Penelope, attese da un terribile destino: moriranno impiccate tutte insieme a una gomena per decisione di Ulisse e per mano di Telemaco, a conclusione della feroce mattanza dei pretendenti. Le vittime sono le dodici fanciulle preferite da Penelope, che la regina ha allevato e scelto come complici per spiare i Proci, mostrandosi a tal fine accondiscendenti ai loro desideri, e per mantenere il segreto sulla

tessitura del sudario. Sono Melanto dalle belle gote e le sue amiche, sono le «piú sfrontate e le piú villane», riferisce Euriclea alla regina. Ma perché Penelope non interviene per salvarle? Al quesito rispondono le ancelle stesse nel capitolo Entra il Coro. Una lezione di antropologia e ci confessano che forse non erano solo schiave e donne di fatica e che forse non è un caso che fossero dodici. La Atwood, infatti, ipotizza che il mito di Penelope si rifaccia al culto ancestrale della Grande Madre. Le ancelle non sarebbero altro che le dodici sacerdotesse di Artemide, dea della Luna e vergine implacabile, e che, unendosi ai Proci, esse celebrerebbero i riti della fertilità destinando però alla morte il maschio (sarebbe questa la spiegazione della strage finale dei Proci). Artemide, invece, sarebbe da identificare con Penelope, che alla fine sposerà Odisseo, il quale resterà in vita uccidendo le ancelle e instaurando in tal modo l’ordine patriarcale e segnando la fine del potere matriarcale di Artemide-Penelope. Lorella Cecilia

DALL’ESTERO Stephen Shennan

THE FIRST FARMERS OF EUROPE An Evolutionary Perspective Cambridge University Press, Cambridge,

254 pp., ill. b/n 24,99 GBP ISBN 978-1-108-43521-5 www.cambridge.org

La «scoperta» dell’agricoltura ha avuto un impatto formidabile sulla storia della nostra specie e non è dunque un caso, come ricorda

lo stesso Shennan nell’Introduzione, che al fenomeno sia stata dedicata una mole enorme di studi. Tuttavia, piú d’una questione rimane aperta e, soprattutto, molti sono stati i mutamenti nell’approccio metodologico con il quale le indagini sono state condotte negli anni piú recenti. Da tali presupposti è nato questo saggio, in cui lo sviluppo delle prime comunità umane che basarono la propria sussistenza sull’economia produttiva viene analizzato in chiave evoluzionistica, incrociando i dati offerti dall’archeologia con quelli sul DNA delle antiche popolazioni. Stefano Mammini



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