Archeo n. 409, Marzo 2019

Page 1

2019

ARCHEOLOGIA 3.0 ARCHEOLOGIA 3.0

NELLA RETE DI PENELOPE

I POPOLI DELLA BIBBIA

POPOLI DELLA BIBBIA/3 EGIZIANI

EXODUS

BARDO MARCELLO VENUTI SPECIALE MUSEO DI CLASSE

Mens. Anno XXXV n. 409 marzo 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

UNA LEGGENDA SULLE RIVE DEL NILO

SPECIALE RAVENNA

IL NUOVO MUSEO DI CLASSE CORTONA

MARCELLO VENUTI E LA SCOPERTA DI ERCOLANO

TUNISIA

LE MERAVIGLIE DEL BARDO

www.archeo.it

IN EDICOLA L’ 8 MARZO 2019

o. i t

EG ITT O

SU LL EO RM ED ww IM w. a rc OS he È

ARCHEO 409 MARZO

€ 5,90



EDITORIALE

UNA LEGGENDA SULLE RIVE DEL NILO «Cosí Mosè venne istruito in tutta la sapienza degli Egiziani». Basterebbe questo verso biblico tratto dagli Atti degli Apostoli (7, 22) a offrire una sintesi piú che suggestiva di quanto narra l’egittologa Francesca Iannarilli nel terzo contributo dedicato ai «Popoli della Bibbia». E se nel numero precedente, parlando di Sumeri, Assiri e Babilonesi, affermavamo che senza la Mesopotamia non esisterebbe la storia dell’antico Israele, come potremmo immaginare il racconto biblico senza uno sfondo composto dalle colorate vesti di faraoni e regine, dal Nilo bordato da canneti e piante di papiro? Scopriremo, di contro, come la riscoperta della civiltà egiziana, un mondo fino ad allora dimenticato, puntellato da monumenti giganteschi quanto enigmatici, sia nato proprio sotto la scorta della lettura delle Sacre Scritture… È un legame «biunivoco», quello che lega la storia dell’Egitto al popolo d’Israele. E se vi è una figura in cui le due entità simbolicamente si fondano, questa è rappresentata dal piú grande di tutti i profeti, quel discendente dei patriarchi Giacobbe e Giuseppe, nato nella terra di Gosen e salvato dalle acque del Nilo proprio da coloro che lo avrebbero voluto morto. In un celebre scritto di Sigmund Freud (L’uomo Mosè e la religione monoteistica, 1939), il padre della psicoanalisi (che fu anche accanito collezionista di antichità egiziane) individua in Mosè – il cui nome riecheggia in quello di piú di un faraone (Ahmose, Thutmosi, Ramesse)

– un alto dignitario della corte faraonica e seguace dell’eretico Akhenaton, promotore di una prima forma di monoteismo. Piú di recente l’egittologo Jan Assmann ha dedicato all’argomento un’affascinate trattazione (Mosè l’egizio, Adelphi, Milano 2000) in cui, d’altra parte, ammonisce tutti coloro che trascurano un dato fondamentale, ovvero l’assenza di ogni elemento scientifico (epigrafico, archeologico) che comprovi l’esistenza storica del personaggio Mosè. «Mosè è una figura del ricordo – scrive Assmann – ma non della storia; Akhenaton invece è una figura della storia, ma non del ricordo». E l’epopea dell’Esodo? «Oltre il 90% di tutti gli studiosi – sostiene l’archeologo Israel Finkelstein – concordano sul fatto che un esodo del popolo d’Israele dall’Egitto non si sia mai realmente verificato». Tra questi figura anche l’egittologo berlinese Rolf Krauss, il quale conferma come non vi siano «prove archeologiche che possano suggerire la presenza di un gruppo di schiavi operai nel Delta orientale del Nilo in quel dato periodo». Ma, sostiene lo studioso nel suo ultimo libro – non ancora tradotto – L’enigma Mosè (Das MosesRätsel, Monaco 2001), una figura storica che ha fatto da modello al personaggio di Mosè è realmente esistita: si tratterebbe di un tale Mase-sa-ja, vicerè della regione di Kush, che nel XIII secolo a.C. si ribellò contro Sethi II, cercando di usurparne il trono…

Una scena del film I dieci comandamenti (1923), diretto da Cecil B. DeMille, con Theodore Roberts nei panni di Mosè e Charles de Roche in quelli di Ramesse II.

Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE

A TUTTO CAMPO L’area archeologica di Populonia è un esempio virtuoso di integrazione fra ricerca sul campo, tutela e valorizzazione 18

DA ATENE

MOSTRE Ispirata dal ritrovamento del laboratorio di Giovanni Volpato, una mostra in due sedi del Museo Nazionale Romano sfata piú di un falso mito sull’arte antica 20

Penelope, la rete e l’archeologia 3.0

PASSEGGIATE NEL PArCo Studiosi ed esperti si incontrano nella Curia Iulia, al Foro Romano, per discutere di manutenzione del patrimonio culturale nelle aree archeologiche 10

PAROLA D’ARCHEOLOGO Nel Comune di Ardea, sulla costa laziale presso Roma, si conservano i resti del misconosciuto porto-santuario di Castrum Inui. Un sito che meriterebbe ben altra considerazione 24

34

MOSTRE I Musei Vaticani rendono omaggio a Johann Joachim Winckelmann attraverso la rilettura di alcuni dei massimi capolavori oggi custoditi nelle collezioni pontificie di antichità 16

24

44

Una leggenda sulle rive del Nilo

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

6

SCOPERTE Giace sui fondali del Mar Nero, a 50 miglia dalle coste bulgare, il relitto eccezionalmente ben conservato di una nave risalente a circa 2400 anni fa 6

Quando l’abito fa il signore

32

di Valentina Di Napoli

MULTIMEDIALITÀ

34

di Paola Moscati

POPOLI DELLA BIBBIA/3 Gli Egiziani

Storie di un vicinato difficile

44

di Francesca Iannarilli

In copertina Abramo e Sara alla corte del Faraone, olio su tela di Giovanni Muzzioli. 1875. Modena, Museo Civico d’Arte.

Presidente

Federico Curti Anno XXXV, n. 409 - marzo 2019 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Stefano Camporeale è professore associato di archeologia classica all’Università di Siena. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Valentina Di Napoli è archeologa. Daniela Fuganti è giornalista. Francesca Iannarilli è dottore di ricerca in Egittologia, presso Ca’Foscari Università di Venezia. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Cynthia Mascione è responsabile del Laboratorio di disegno e documentazione archeologica del Dipartimento di scienze storiche e dei beni culturali dell’Università di Siena. Paola Moscati è dirigente di ricerca presso l’ISMA


MUSEI

Un giorno al Bardo

58

di Andreas M. Steiner

88

58

SPECIALE

MOSTRE

Un lucumone alle falde del Vesuvio

Classis Ravenna

70

Classe regina

88

di Stefano Mammini, con un’intervista ad Andrea Augenti

di Bruno Gialluca

MOSTRE

La riscoperta dell’America 78 a cura di Stefano Mammini

70

La grande utopia

Quell’albero dai pomi dorati

110

di Francesca Ceci

Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

LIBRI 106

di Daniele Manacorda

112

106

(Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico) del CNR. Federica Rinaldi è funzionario archeologo presso il Parco archeologico del Colosseo.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534

Illustrazioni e immagini: DeA Picture Library: A. Dagli Orti: copertina (e pp. 44/45) – Mondadori Portfolio: Paramount Pictures: p. 3; AKG Images: pp. 46, 49, 54-55, 57 (alto); Album/Fine Art Images: p. 48; Age: pp. 50/51; Archivio Quattrone/Antonio Quattrone: p. 56; Album/Prisma: p. 110 – Doc. red.: pp. 6-7, 50, 57 (centro), 66, 69, 101 – Di Lieto & C. srl/ Aeropix: p. 10 – Foto DART: p. 11 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 14-15 – Cortesia Servizio Fotografico Musei Vaticani: p. 16 – Cortesia degli autori: pp. 18-19, 24-26, 34-41, 111 – Cortesia Museo Nazionale Romano: pp. 20 (basso), 21 (basso); Cristina Vatielli: pp. 20 (alto), 21 (alto) – Cortesia Museo Archeologico Nazionale, Atene: pp. 32-33 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Franck Raux: p. 47 (basso) – Getty Images: Heritage Images: pp. 52/53 – Shutterstock: pp. 58/59, 62, 72/73, 106-108 – Jacques Descloitres, MODIS Rapid Response Team, NASA/GSFC: p. 60 (alto) – Andreas M. Steiner: pp. 60 (basso), 60/61, 63-65, 67, 68 – Cortesia Ufficio Stampa MAEC-Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona: pp. 70-71, 72, 73, 74-77 – Stefano Mammini: pp. 78/79 – Cortesia Ufficio Stampa MIC-Museo Internazionale della Ceramica, Faenza: pp. 80 (centro e basso), 81-87 – Cortesia Ufficio Stampa Classis Ravenna, Museo della Cttà e del Territorio: pp. 90/91, 91; Tommaso Raffoni: pp. 88-89, 92-95, 96 (basso), 97 (alto), 98-100, 102-105; Giorgio Albertini: disegni alle pp. 96, 97 – Cippigraphix: cartine alle pp. 47, 80, 90.

Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI)

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano

Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Press-Di Abbonamenti SPA c/o CMP BRESCIA Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia BS L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno.


n otiz iari o SCOPERTE Bulgaria

DUEMILA METRI SOTTO IL MARE

U

n gruppo di ricercatori del Black Sea Maritime Archaeology Project (MAP) ha individuato sui fondali del Mar Nero, a 50 miglia della costa della Bulgaria, il relitto di una nave greca perfettamente conservato in ogni sua parte. La scoperta è il frutto di un progetto durato tre anni nel corso del quale il team anglo-bulgaro ha localizzato oltre 60 resti di imbarcazioni – una sorta di cimitero di navi dalla diversa datazione – e, utilizzando tecnologie avanzate, con integrazione di scansioni laser e fotogrammetria, ha eseguito una mappatura in 3D. Nelle fasi finali della ricerca è stata individuata, a 2 km di profondità, la nave piú interessante sia per la conservazione che per la datazione. L’ottimo stato di conservazione è dovuto al fatto che il Mar Nero a quella profondità è privo di ossigeno (anossico) e quindi i legni dell’imbarcazione non si sono deteriorati. Nell’immagine in 3D si possono infatti vedere l’albero, il timone ancora al suo posto e le panche dei rematori. La nave è lunga 23 m e, grazie all’analisi al radiocarbonio di un frammento di legno riportato in superficie, si è potuto stabilire che risalirebbe a circa 2400 anni fa ed è dunque l’esemplare piú antico tra quelli rinvenuti finora. «Una nave rimasta intatta a 2000 m di profondità è qualcosa di impensabile – ha affermato il professor Jon Adams , responsabile della ricerca e della

6 archeo

mappatura – e rivoluziona le nostre conoscenze sulle costruzioni navali e sulla navigazione nel mondo antico». La nave, di tipo mercantile, era a doppia propulsione, a vele e remi, e la sua struttura era nota fino a oggi nelle raffigurazioni sui vasi greci, in particolare il Siren Vase (Vaso delle Sirene), conservato al British Museum di Londra, riproduce il relitto del Mar Nero. Nella celebre

scena, Ulisse è legato all’albero per non cedere al canto delle Sirene, le vele sono alzate e i suoi compagni sono ai remi. Riguardo all’equipaggio del relitto, il professor Adams crede che dovesse essere composto da 25/30 uomini e non esclude che i loro resti siano sepolti nel fondale del mare. Per il momento non si prevede di riportare la nave in superficie. Lorella Cecilia

Sulle due pagine: il relitto individuato nel Mar Nero, in acque bulgare, e risalente a 2400 anni fa circa. A sinistra: ricostruzione grafica della nave del Mar Nero. Nella pagina accanto: particolare del Vaso delle Sirene nel quale si riconosce una nave simile a quella scoperta nel Mar Nero. 480-470 a.C. Londra, British Museum.


archeo 7


i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

ANTEPRIMA

LA NUOVA MONOGRAFIA DI «ARCHEO»

C

ome avvertono Anna Maria Liberati ed Enrico Silverio – autori della Monografia di «Archeo» ora in edicola – «non si può affrontare l’argomento dei “servizi segreti” romani impiegando esclusivamente categorie militari, giuridiche o politico-istituzionali moderne, senza prendere in considerazione quella particolare “sensibilità” giuridico-religiosa propria di Roma antica». E dunque, forti di questa consapevolezza, ci guidano alla scoperta di un mondo che ebbe in ogni caso una rilevanza decisiva nella gestione degli affari interni e della sicurezza dell’impero. Un universo in cui molti dei protagonisti appartenevano agli apparati militari, ma nel quale si muovevano anche altrettanti civili, capaci di fare della delazione quasi una professione regolare. Fenomeni in piú di un caso alimentati dalle paure, quando non da vere e proprie paranoie, dei detentori del potere, molti dei quali, forse perché memori delle Idi di marzo rivelatesi fatali per Giulio Cesare, vedevano trame e nemici fin dentro i palazzi imperiali.

8 archeo

GLI ARGOMENTI •P REMESSA • Gli occhi e le orecchie di Roma •L A SICUREZZA

INTERNA

• In principio era il pater • La fine della repubblica • Taci, l’impero ti ascolta... • Curiosi di mestiere

•L A SICUREZZA

MILITARE

• Quando il gioco si fa sporco... • Spie e soldati • Messaggi di fuoco • Quando le notizie corrono sull’acqua • Uomini del conte e seguaci del re



PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Alessandro D’Alessio

LA TUTELA COMINCIA DAL BASSO LA CURIA IULIA OSPITA UN INCONTRO INTERNAZIONALE. PER FARE IL PUNTO SULLO STATO DELL’ARTE IN MATERIA DI MONITORAGGIO E MANUTENZIONE DEL PATRIMONIO CULTURALE NELLE AREE ARCHEOLOGICHE

C

on piú di 200 superfici pavimentali, il Palatino e il Foro Romano racchiudono quasi dodici secoli di storia. In questo numero sono comprese pavimentazioni destinate ora a vani di servizio – rivestiti da resistenti ma poco eleganti cocciopesti –, ora a sontuosi ambienti di rappresentanza, decorati sia da superfici in tessellato bianco e nero, sia da esuberanti e policromi rivestimenti marmorei. Alcune pavimentazioni sono visibili e ben protette nelle case e nei palazzi del Palatino (la Casa dei Grifi, la Casa di Livia, la Casa di Augusto, ma anche – in ordine temporale – la chiesa di S. Maria Antiqua), oppure giacciono sotto una coltre di terra (Basilica Emilia al Foro Romano, Paedagogium alle pendici meridionali del Palatino). Particolarmente numerose sono però le superfici esposte e, tra queste, annoveriamo soprattutto i cosiddetti sectilia pavimenta, quei rivestimenti costruiti ad arte grazie all’accostamento di marmi colorati, ben riconoscibili, per esempio, nei Palazzi Flavi. Si tratta dei pavimenti piú fragili perché sottoposti allo stress termico delle alte temperature estive e del gelo invernale e al calpestio dei 20 000 turisti che in media ogni giorno visitano e «passeggiano» in questo

10 a r c h e o

straordinario compendio di storia e architettura, non sempre percependo di camminare all’interno di uno spazio di rappresentanza, di un corridoio, di un porticato un tempo frequentato da semplici cittadini romani o imperatori.

UN IMPEGNO CRESCENTE Per mantenere in situ e rendere anche piú leggibile questo patrimonio indicatore di status, di funzioni, ma anche di mode e abitudini soggette ai capricci e ai gusti dei «padroni di casa», nel corso del 2018 il Parco archeologico del Colosseo ha incrementato le

azioni di tutela: cosí, all’interno di un piú ampio programma di monitoraggio e manutenzione del patrimonio monumentale dell’area archeologica centrale di Roma, i cui primi risultati saranno presentati il 20 e 21 marzo prossimi in Curia Iulia nell’ambito di un convegno internazionale, sono state progettate idonee e dedicate misure di monitoraggio e di prevenzione dal rischio di degrado o perdita, prendendo in considerazione, in particolare, due tipologie di eventi estremi, i cambiamenti climatici e il contesto «sociale», ovvero quella pressione turistica che si colloca di diritto tra


le cause primarie di «usura e consumo» dei livelli pavimentali. Partendo dalla mappatura di tutti i pavimenti noti, già realizzata negli anni Sessanta del secolo scorso da Maria Luisa Morricone Matini (1967) e in anni recenti aggiornata con l’ausilio di tecnologie digitali (http://tess.beniculturali.unipd.it ), sono state poste le basi di un progetto piú ampio che, nell’ottica di operare secondo gli indirizzi e gli obiettivi della Carta del Rischio Nazionale dell’ISCR (Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro), si è rivolto ai mosaici e pavimenti marmorei che abbellivano le domus repubblicane e i palazzi imperiali del Palatino, ma anche i grandi complessi pubblici del Foro Romano.

SCHEDE MULTILIVELLO Prendendo a modello alcuni casi esemplari, quale l’esperienza del parco archeologico di Nora in Sardegna, un team multidisciplinare di archeologi, architetti e restauratori ha progettato e realizzato una scheda che si compone di piú livelli: da quello informativo sul contesto e sulla tipologia di rivestimento (con georeferenziazione del bene), a quello relativo alle vicende conservative (con indagini di archivio utili per recuperare la storia degli interventi di restauro, che spesso risalgono fino ai tempi di Giacomo Boni), fino a quello specifico relativo alla tipologia di deterioramento di cui si dettagliano i danni strutturali, la disgregazione

A destra: particolare del pavimento in opus sectile conservato tra le fondazioni del ninfeo della Domus Flavia nel restauro di Giacomo Boni e prima della pulizia. Nella pagina accanto: ripresa da drone della Domus Flavia. In primo piano la Coenatio Iovis (a sinistra) e il ninfeo ellittico (a destra). In basso: restauratori al lavoro sulle lastre in proconnesio del peristilio superiore della Domus Flavia. del materiale, l’umidità, le alterazioni di origine biologica, le alterazioni degli strati superficiali, le parti mancanti. La combinazione di questi livelli fornisce l’indice di gravità e quindi l’urgenza dell’intervento. Obiettivo finale del progetto, oltre alla conoscenza sistematica e puntuale di ogni superficie pavimentale decorata, sarà la raccolta di dati continuamente aggiornabili, che permetteranno di redigere periodicamente prescrizioni dettagliate degli interventi conservativi, garantendo nel contempo, anche a livello didattico, la migliore comprensione e presentazione al pubblico di ogni singolo pavimento antico. Coordinato da chi scrive, il progetto prevede la partecipazione dei restauratori Maria Bartoli e Alessandro Lugari, dell’archeologa Francesca Boldrighini, del

funzionario per le tecnologie Laura Calcara, della ditta DART di Alessandro Danesi e Silvia Gambardella per i restauri e la redazione della carta del rischio, di Francesca Sposito per la raccolta dei dati di archivio e la redazione della sezione archeologica della scheda, dell’architetto Mario Leante per il coordinamento della sicurezza e il supporto logistico nella organizzazione dei cantieri e della società Azimut per la documentazione grafica. Federica Rinaldi

DOVE E QUANDO «Monitoraggio e manutenzione nelle aree archeologiche» Roma, Curia Iulia, Foro Romano 20-21 marzo Info e-mail: pa-colosseo.convegni@ beniculturali.it https://parcocolosseo.it/

a r c h e o 11




ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

ORIONE CELESTE LE INDAGINI NELLA CASA DI GIOVE HANNO PORTATO ALLA SCOPERTA DI QUESTO RAFFINATO MOSAICO. ORNAVA UNO DEGLI AMBIENTI PIÚ LUSSUOSI DELLA RESIDENZA E RESTITUISCE LA RARA ICONOGRAFIA DI UNA TRASFORMAZIONE PRODIGIOSA: QUELLA DEL CACCIATORE ORIONE IN UNA COSTELLAZIONE

G

li scavi nella Regio V di Pompei stanno riservando piú d’una sorpresa agli archeologi che da qualche tempo hanno ripreso a scavare lembi di città ancora sepolti da lapilli e cenere. Dopo l’affresco con la Leda e il cigno (vedi «Archeo» n. 406, dicembre 2018; on line su issuu. com), e la piú recente scoperta nella stessa stanza (cubiculum) dell’altrettanto elegante Narciso – raffigurazioni da attribuire alla mano di uno stesso pittore –, un altro interessante ritrovamento è avvenuto poco tempo fa, passando immeritatamente in sordina nelle cronache di stampa. La Casa di Giove, affacciata sul Vicolo dei

14 a r c h e o


Balconi, in prossimità della Casa delle Nozze d’Argento (vedi «Archeo» n. 401 luglio 2018; on line su issuu.com), presenta un peristilio sul quale si aprono diverse stanze con decorazioni in I e III stile. Proprio per queste associazioni decorative, la domus è stata attribuita a proprietari dal vivo gusto retrò, che appositamente conservano alle pareti riquadri e cornici in stucco del piú antico stile pompeiano al posto di piú aggiornati cicli pittorici.

SCELTE CONSERVATIVE E in queste scelte di mantenimento ricade anche il pregiato mosaico venuto alla luce in una sala di rappresentanza della casa, un emblèma databile alla fine del II secolo a.C. con la rappresentazione del cacciatore Orione che dopo la morte si trasforma, per volere di Zeus, in una delle piú affascinanti costellazioni (catasterismo). Fra i tanti miti legati al gigantesco e bellissimo Orione, amato da Eos (l’Aurora), si ricorda quello della sua uccisione voluta per gelosia da Artemide, perché invaghito delle Pleiadi, attraverso uno scorpione inviato nella sua capanna per pungerlo a morte; in seguito Orione salí in cielo assieme al suo fedele cane Sirio. Il culto di Orione si è sviluppato soprattutto in Beozia, dove Corinna ne cantò la storia nella prima metà del V secolo a.C. Rendendo omaggio alla musa ispiratrice Tersicore e alle tradizioni piú care alla natia regione greca, scrive la poetessa: «Ecco che Tersicore mi invita a cantare le belle storie alle fanciulle di Tanagra dai candidi pepli, e la mia città davvero gioisce, per i canti che soavemente sussurrano (…) io canto alle fanciulle i racconti del tempo dei nostri padri, in cui spesso appare il Cefiso (…) spesso il grande Orione». Le raffigurazioni di Orione che si trasforma in astro sono rare

nell’iconografia greco-romana e per questo motivo l’attestazione di Pompei assume un valore particolarmente significativo. Nel mosaico – un opus vermiculatum a tessere minute che hanno consentito di rendere con una certa accuratezza gli effetti di luminosità e di dinamicità della metamorfosi – il cacciatore appare proiettato verso l’alto, con Eros (Amore) che tormenta e brucia la sua anima, qualificata da ali di farfalla, un attributo della dea Psiche. Un altro dettaglio utile alla lettura dell’opera è l’assenza delle pupille negli occhi del cacciatore, circostanza che richiama il suo accecamento avvenuto sull’isola di Chio, per via del rapporto amoroso avuto con Merope, adorata figlia del re Enopio. Nel mosaico, l’immagine di Orione si integra verso il basso con la parte posteriore del mortale scorpione, tramutato anch’esso in una costellazione.

QUASI COME PITTURE Il mosaico pompeiano è un emblèma collocato al centro di una delle stanze piú lussuose della casa. Gli emblemata sono raffinate composizioni pavimentali di tradizione greco-ellenistica, realizzate con tessere talvolta sagomate, distinte da una policromia gareggiante con quella della pittura; il riquadro era eseguito in bottega e successivamente inserito nell’ambiente da decorare, al centro di un pavimento, contornato da un mosaico di qualità modesta o, come nel nostro caso, da un coccipesto di tradizione repubblicana eseguito sul posto. Questa circostanza impedisce di sapere se il luogo di esecuzione del riquadro possa coincidere con quello del suo rinvenimento. L’esempio piú famoso di emblèma è il mosaico di Alessandro della Casa del Fauno, composto da circa un

Il mosaico recentemente scoperto nella casa di Giove, con, al centro, il mitico cacciatore Orione, il cui volto appare privo delle pupille (vedi foto alla pagina accanto). milione di tessere e presumibilmente realizzato in un atelier alessandrino, su ispirazione di un celebre dipinto del greco Filosseno di Eretria. Altri esempi di quadri musivi pompeiani sono conservati al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, prelevati dalle sedi originarie dopo la scoperta, per comporre, con quelli di Ercolano, la ricca collezione borbonica. Il mito di Orione si ritrova a Pompei al momento dell’apertura dei rapporti culturali e commerciali della Campania con il mondo grecoorientale, da dove si diffondono la tecnica degli emblemata e la conoscenza di nuovi miti e iconografie finora ignote all’universo magno-greco e italico. Per notizie e aggiornamenti su Pompei, pagina Facebook PompeiiParco Archeologico.

a r c h e o 15


n otiz iario

MOSTRE Città del Vaticano

OMAGGIO AL «SIGNOR GIO.»

P

er celebrare Johann Joachim Winckelmann, del quale si sono recentemente succeduti gli anniversari della nascita (Stendal, 9 dicembre 1717) e della morte (Trieste, 8 giugno 1768), i Musei Vaticani hanno ideato un percorso espositivo attraverso il quale mettere in evidenza il ruolo cardine che le collezioni pontificie hanno costituito per gli studi, le teorie e gli scritti del celebre storico dell’arte antica. È nata cosí un’esposizione che presenta 50 capolavori riletti attraverso le sue intuizioni, spesso geniali. Data la vastità degli argomenti trattati, l’itinerario proposto si snoda trasversalmente attraverso tutti i settori museali – con un’ovvia preponderanza per le sezioni dedicate alla scultura antica, che sia essa egizia, greca e romana –, includendo anche quelle universali opere d’arte rinascimentale e barocca che tanto catturarono gli interessi dell’intellettuale tedesco. All’interno dell’apparato didascalico che accompagna le opere selezionate, sono riportati estratti degli scritti dello studioso.

I suoi commenti e le sue illustrazioni, sempre erudite e raffinate, testimoniano come l’osservazione diretta dei manufatti e l’attenta lettura delle fonti letterarie furono le basi sulle quali lo studioso sviluppò le fondamenta teoriche dell’archeologia moderna. Proprio per questo motivo la Sala XVII della Pinacoteca è dedicata all’esposizione di alcune sue importanti produzioni letterarie, Geschichte der Kunst des Alterthums e Monumenti Antichi Inediti. Inoltre, per la prima volta, è esposto un documento, datato 31 luglio 1764, in cui si fa menzione di una somma di denaro da versare «al Signor Gio. Winckelmann, Scrittore di lingua Tedesca». All’interno di questo spazio viene proiettato un filmato che aiuta a comprendere meglio l’atmosfera e il clima culturale che caratterizzavano la città di Roma intorno alla metà del Settecento. Winckelmann vi giunse nel 1755, per un breve soggiorno e, invece, trascorse in Italia il resto della sua vita, conquistato dalla grandiosa bellezza delle antichità.

In alto: particolare dell’Hermes del Belvedere, statua di epoca adrianea rinvenuta intorno al 1540 nei giardini circostanti il Mausoleo di Adriano, oggi Castel Sant’Angelo, e per questo a lungo identificata con Antinoo, il favorito dell’imperatore Adriano. In basso, a sinistra: particolare del

gruppo di Sileno con Dioniso fanciullo. Copia romana in marmo pentelico da un originale di Lisippo del 300 a.C. circa. In basso, a destra: il Cortile Ottagono, già Cortile delle Statue, che ospitò il primo nucleo delle collezioni pontificie di antichità classiche.

Lo studioso tedesco non vide mai i Musei Vaticani cosí come sono concepiti oggi, eppure una parte consistente delle collezioni pontificie si sono arricchite, negli anni successivi alla sua morte, con molte delle opere che egli osservò nelle raccolte nobiliari romane. L’esposizione, dunque, ha una duplice finalità per i Musei Vaticani: riportare all’attenzione del pubblico un personaggio che ha cambiato lo studio dell’archeologia influenzando tutte le generazioni successive – «bisogna lavorare per la posterità, e a questa vorrei lasciare un’eredità notevole» – e ripercorrere la nascita di una parte consistente delle proprie collezioni, da quel momento e per la prima volta concepite non piú come proprietà esclusiva di pochi, ma come luoghi destinati alla collettiva formazione culturale. (red.)

DOVE E QUANDO «Winckelmann. Capolavori diffusi nei Musei Vaticani» fino al 9 marzo Città del Vaticano, Musei Vaticani Orario lu-sa, 9,00-18,00 (ultimo ingresso alle 16,00); Info www.museivaticani.va

16 a r c h e o



A TUTTO CAMPO di Stefano Camporeale e Cynthia Mascione

UN LABORATORIO A CIELO APERTO IL PARCO ARCHEOLOGICO DI BARATTI E POPULONIA È UNA REALTÀ CONSOLIDATA, IL CUI SUCCESSO NASCE DALLA RIUSCITA ARMONIZZAZIONE FRA RICERCA, TUTELA E VALORIZZAZIONE

N

el settembre del 1998 pochi colpi di piccone misero in luce, inaspettatamente, i primi basoli di una maestosa via lastricata. Era il cardine della città etrusco-romana, edificata sull’acropoli di Populonia tra il 200 e l’80 a.C., al termine di un lungo processo di integrazione dell’antico centro etrusco nello Stato romano, iniziato con la conquista dei territori dell’Etruria settentrionale (300-280 a.C.). Una città che, in poco piú di un secolo, ebbe uno sviluppo economico e urbanistico notevole. La produzione metallurgica, legata

allo sfruttamento delle miniere dell’Isola d’Elba, raggiunse il suo apice proprio in quel periodo, generando una ricchezza ben riflessa dalla costruzione sull’acropoli di grandi templi e ricche dimore, all’interno di un impianto urbanistico regolare e scandito da vie lastricate. Una città che aveva poco da invidiare alle colonie romane distribuite lungo la costa tirrenica, come per esempio Cosa, anche per la magnificenza dei mosaici, degli intonaci, degli stucchi e dei marmi che rivestivano gli edifici. La sua fine, repentina e drammatica, fu

L’équipe italo-canadese sul cantiere di scavo scuola aperto nell’area dell’acropoli di Populonia (giugno-luglio 2018).

18 a r c h e o

conseguenza dello schieramento a favore del partito dei populares di Gaio Mario, nella contesa politica e militare che tra l’88 e l’82 a.C. lo oppose agli optimates guidati da L. Cornelio Silla. Con la vittoria sillana Populonia pagò la sua infausta scelta: l’abitato sull’acropoli venne attaccato, distrutto e quindi abbandonato. La vita dei cittadini superstiti finí per gravitare intorno al porto, dove ancora fervevano i commerci.

DALLA RICERCA AL PARCO Dal 2007 quella stessa strada è diventata l’asse portante dei sentieri di visita del Parco Archeologico dell’Acropoli, percorsi ogni anno da migliaia di turisti. Dai tempi dei primi saggi di scavo il destino di quell’angolo nascosto della costa toscana, coperto da boscaglia e macchia mediterranea, ha cambiato volto. Tutto ha avuto inizio grazie alla presenza sul territorio di una protagonista dell’archeologia populoniese, Antonella Romualdi, allora funzionario della Soprintendenza Archeologica per la Toscana e impegnata già da alcuni anni nello scavo del primo dei templi riportati alla luce sull’acropoli. Per suo volere, e con l’intento di garantire un futuro alla


ricerca populoniese, ha preso avvio nel 1998 una collaborazione con le Università di Pisa (M. Letizia Gualandi), Roma Tre (Daniele Manacorda) e Siena, proseguita negli anni con i funzionari successivi, Anna Patera e quindi Andrea Camilli. La sinergia nel frattempo consolidata fra le università, la Soprintendenza, il Comune di Piombino, la Società Parchi Val di Cornia e la famiglia Gasparri, proprietaria dei poggi su cui sorgeva la città antica, ha creato le condizioni per promuovere vari progetti, caratterizzati dalla stretta interrelazione fra ricerca, didattica, divulgazione e valorizzazione. Sono cosí ricaduti su Populonia finanziamenti regionali (2002-

2004) ed europei (2005-2007), che hanno consentito alla Soprintendenza e alle università di sostenere indagini in estensione, coinvolgendo sul campo e nei laboratori decine e decine di studenti dei corsi di laurea in archeologia. Nel contempo, il Comune e la Società Parchi Val di Cornia hanno potuto realizzare le opere di restauro e di allestimento dei percorsi di visita, necessarie all’apertura al pubblico dell’area archeologica dell’acropoli. Forte dell’esperienza acquisita e incoraggiato dall’apprezzamento (e

A destra: Populonia. La via lastricata centrale durante i lavori di restauro. In basso: il gruppo di scavo impegnato nella campagna autunnale del 2002, davanti alle Logge, allora ancora semisepolte dalla vegetazione.

dalle critiche) del pubblico, lo stesso team ha elaborato una nuova proposta progettuale. Nel 2015-2017 sono arrivati i finanziamenti della Società Ales (ex Arcus), strumento operativo del MiBAC per la gestione di progetti destinati alla valorizzazione e alla fruizione del patrimonio culturale del nostro Paese. In questo caso, quindi, l’archeologia si è posta al servizio delle opere previste in esecuzione, destinate a migliorare l’accessibilità culturale dei monumenti già indagati e a tracciare nuovi percorsi attrezzati con pannelli informativi didattici, curati dall’Università di Siena e dalla Società Parchi Val di Cornia.

I NUOVI PROGETTI Oggi è dunque possibile raggiungere il belvedere del grande edificio delle Logge e un tratto delle mura dell’acropoli, riscoperte e studiate recentemente da un’équipe dell’Università di Siena (2011-2012). Ancora in quest’ultimo caso il binomio ricerca e valorizzazione ha trovato una sintesi, restituendo alla fruizione e alla conoscenza un nuovo

tassello di storia populoniese. Nel 2018 è stato siglato un nuovo accordo di collaborazione tra la Soprintendenza, l’Università di Siena e la University of Toronto (Seth Bernard), che ha consentito di riprogrammare la ricerca sull’acropoli della città antica, all’interno di un cantiere scuola al quale hanno partecipato studenti italiani e canadesi. Un’esperienza destinata a ripetersi ancora nel 2019, con l’auspicio che Populonia possa essere ancora a lungo un cantiere di riferimento per molti giovani archeologi. E un nuovo impegno di ricerca e valorizzazione è alle porte, con l’attuazione del Progetto Regionale/ Europeo «Gli Etruschi in Toscana» (2019-2020), assegnato a Populonia (Comune di Piombino-Società Parchi Val di Cornia), Cortona e Volterra, considerate centri di eccellenza e di traino per lo sviluppo dei rispettivi territori. Sarà questa l’occasione per indagare e restituire al Parco un piccolo edificio termale del II secolo a.C., uno dei piú antichi mai rinvenuti in Italia. (stefano.camporeale@unisi.it, cynthia.mascione@unisi.it)

a r c h e o 19


n otiz iario

MOSTRE Roma

SERIE VINCENTI

L

a luce squarcia il buio della sala e accarezza la testa della Ninfa dormiente (1820-1822) scolpita nel gesso da Antonio Canova, per poi rischiararne le morbide membra. Il fascio bianco scivola quindi sull’Ermafrodito dormiente del Museo Nazionale Romano – marmo ispirato a un originale greco del II secolo a.C. – e risale quindi sulla parete, per illuminare un’altra opera di Canova, la Venere con Fauno, in questo caso dipinta su tela, e, infine, La nuova Dolce Vita (from the Triumph Paolina Borghese to Eva Mendes), prova d’artista di Francesco Vezzoli, datata 2009.

Cosí, con questo suggestivo video mapping, i curatori della mostra «Il classico si fa pop» – Mirella Serlorenzi, Marcello Barbanera e Antonio Pinelli – raccontano la fortuna moderna di un modello antico, uno dei temi portanti del loro progetto espositivo, realizzato in due sedi del Museo Nazionale Romano: il Palazzo Massimo e la Crypta Balbi. E non è la sola soluzione a effetto inserita nel percorso, ed è bene sottolineare che la mostra non si limita alle suggestioni visive e sonore – come anche nel caso dell’inserimento del gruppo dei Tirannicidi in una «scatola» animata in puro stile In alto: un particolare della sezione della mostra allestita nella sede del Museo Nazionale Romano in Palazzo Massimo. A sinistra: Ermafrodito dormiente. Copia romana da un originale della metà del II sec. a.C. Roma, MNR, Palazzo Massimo.

optical art –, ma, anzi, sviluppa e approfondisce numerosi temi di grande rilevanza e interesse. Tutto è nato dal ritrovamento, nel 2010, dell’atelier di Giovanni Trevisan, detto il Volpato, incisore veneto trapiantato a Roma, dove fece fortuna dedicandosi alla produzione di ceramiche ispirate all’antico. Il suo laboratorio sorgeva nel rione Monti e gli scavi hanno riportato alla luce migliaia di frammenti, perlopiú riferibili a prodotti di scarto, ma rivelatisi comunque preziosi per ricostruire uno dei fenomeni che piú

MONTERIGGIONI

Di scoperte, ritorni e altre storie... Venerdí 8 marzo, alle ore 17,00, nella suggestiva cornice del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, sarà presentato il catalogo del percorso espositivo «Monteriggioni prima del Castello. Una comunità etrusca in Valdelsa» (Pacini edizioni). Oltre a presentare le schede di quasi 300 oggetti in mostra, il volume accoglie contributi che, partendo da dati d’archivio spesso inediti, 20 a r c h e o

raccontano la storia della ricerca archeologica a Monteriggioni, con particolare riferimento agli scavi della fine dell’Ottocento del conte Giulio Terrosi Vagnoli e di quelli dell’ultimo ventennio del XX secolo, che hanno portato alla scoperta di un nuovo settore della necropoli e dell’abitato di Campassini (vedi «Archeo» n. 406, dicembre 2018; on line su issuu. com). Per la prima volta, inoltre,

vengono presentati i materiali dell’ipogeo scoperto nel 2010 in podere Milanese. Rilevante è l’approfondimento dedicato alla Tomba dei Calisna Sepu: grazie ai prestiti del Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli» di Colle di Val d’Elsa, del Museo Archeologico Nazionale di Firenze e del Museo «Mario Guarnacci» di Volterra, molti reperti sono tornati, dopo 125 anni


caratterizzarono il gusto europeo fra Sette e Ottocento, quando la passione per l’arte classica divenne per molti un autentico must. Si sviluppò cosí un mercato fiorente, in cui al centro delle transazioni non c’erano soltanto le opere originali, ma anche una copiosa produzione di repliche, veri e propri falsi, imitazioni e variazioni sul tema, fra cui, appunto, i ricercati servizi da tavola di Volpato. Del quale spicca il grandioso Trionfo di Bacco e Arianna, un dessert in biscuit composto da ben 98 pezzi, Nel costante gioco di rimandi fra antico e moderno c’è anche spazio per sfatare alcuni fra i piú tenaci

dalla scoperta, nel luogo dove furono recuperati il 7 dicembre 1893. Inoltre, uno specifico supporto multimediale, consente di includere nel percorso anche i materiali che si trovano nell’Altes Museum di Berlino. La presentazione, alla quale partecipano i curatori e gli autori del volume, è coordinata dal direttore del Museo Archeologico, Mario Iozzo, e vedrà la

falsi miti dell’arte antica: che non era fatta di statue candide e che, nel caso delle opere di successo, vedeva praticata senza imbarazzi la riproduzione in serie del modello fortunato, anticipando di secoli quel che sarebbe successo, per esempio, con le Ninfee di Claude Monet. Una mostra, insomma, ricca di spunti, alla quale nuoce soltanto

una scelta logistica non del tutto felice. In una città come Roma, attanagliata da problemi di mobilità a cui nessuno sembra saper trovare una soluzione adeguata, spostarsi da Palazzo Massimo alla Cripta di Balbo (o viceversa) può richiedere piú tempo di quello necessario per visitare l’esposizione… Stefano Mammini

In alto: un altro particolare della sezione della mostra allestita nella sede del Museo Nazionale Romano in Palazzo Massimo, nella quale si può interagire con una replica del gruppo dei Tirannicidi (II sec. d.C.). A sinistra: Ritratto di Giovanni Volpato, olio su tela di Francesco Antonibon. 1834-1839. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio di Bassano del Grappa.

DOVE E QUANDO «Il classico si fa pop. Di scavi, copie e altri pasticci» Roma, Museo Nazionale Romano: Palazzo Massimo e Crypta Balbi fino al 7 aprile Orario ma-do, 9,00-19,45; chiuso il lunedí Info http://museonazionaleromano. beniculturali.it

partecipazione del presidente del Consiglio Regionale, Eugenio Giani, del sindaco del Comune di Monteriggioni, Raffaella Senesi, del Soprintendente SABAP Siena, Grosseto e Arezzo, Anna Di Bene, di Giuseppina Carlotta Cianferoni, del Polo Museale della Toscana, della professoressa Gilda Bartoloni e del direttore di «Archeo» Andreas M. Steiner. (red.) a r c h e o 21


i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

VIAGGI La «Crociera di Archeo»

DULCIS IN FUNDO

D

opo la visita di Malta l’itinerario della nostra crociera sarà interamente dedicato alla scoperta delle ricchezze archeologiche e culturali della nostra Penisola. Ci aspettano tre destinazioni speciali, dislocate strategicamente per poter apprezzare al meglio le eccellenze del nostro patrimonio. Il primo scalo sarà a Messina città di fondazione greca, successivamente passata sotto il dominio romano. Situata a poca distanza, Taormina, l’antica Tauromenion, un gioiello della Sicilia che custodisce l’antico teatro di origine ellenistica risalente al III sec. a.C., ricostruito e ampliato in età romana intorno alla metà del II secolo d.C. (a cui risale la struttura oggi visitabile), posta su un’altura da cui si può godere di un panorama mozzafiato. Lo scalo a Civitavecchia ci permetterà di accostarci a Roma e all’Etruria. Avvicinandoci alla Città Eterna ci sarà solo l’imbarazzo della scelta sulle visite da effettuare, a iniziare dall’area archeologica centrale, con i suoi monumenti piú celebri come Colosseo, i Fori

22 a r c h e o

imperiali e la Domus Aurea, per non dire di sedi museali come i Musei Capitolini o il Museo Nazionale Romano, solo per citarne due. Raggiungibile anche Tarquinia, una delle città piú importanti dell’Etruria. Le vestigia del suo straordinario passato etrusco (fu uno dei centri principali della Dodecapoli) sono ancora tangibili nella straordinaria necropoli di Monterozzi, le cui tombe hanno restituito le testimonianze piú eccezionali della pittura etrusca, oggi custodite nel Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia, e anche nella imponente struttura rituale dell’Ara della Regina. L’ultima tappa sarà quella toscana, a Livorno. Da qui si potranno raggiungere sia Pisa, sia Firenze, per visitare la culla del Rinascimento e che custodisce importanti poli archeologici, come il Museo Archeologico di Firenze che custodisce capolavori dell’arte plastica etrusca come la Chimera e l’Arringatore, e anche Fiesole, città di fondazione etrusca. È arrivato il momento di pensare a cosa mettere in valigia per la partenza!



PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

OLTRAGGIO AD ARDEA NEL TERRITORIO DEL COMUNE LAZIALE SI CONSERVANO I RESTI DI CASTRUM INUI, UN PORTO-SANTUARIO CITATO GIÀ DA VIRGILIO NELL’ENEIDE. GLI SCAVI HANNO RIPORTATO ALLA LUCE I RESTI, ECCEZIONALMENTE BEN CONSERVATI, DI TRE COMPLESSI TEMPLARI: QUELLE IMPORTANTI TESTIMONIANZE, PERÒ, OLTRE A NON POTER ESSERE VISITATE, SONO OGGI DETURPATE DA COSTRUZIONI DICHIARATE ABUSIVE MA ANCORA NON DEMOLITE

I

l complesso archeologico di Castrum Inui, antica area sacra e portuale collocata sulla costa laziale, nel Comune di Ardea (Roma), restituisce testimonianze uniche ed eccezionalmente ben conservate, che coprono quasi mille anni di vita (dal VII secolo a.C. al III secolo d.C.). Ma i suoi templi in tufo e i suoi altari scolpiti sono pressoché sconosciuti, poiché, dopo essere stati scavati, a partire dal 1998, dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici del Lazio, non

sono mai stati aperti al pubblico. Non solo. Di recente il sito si è guadagnato l’attenzione della stampa non come meraviglia dell’archeologia, ma come esempio di degrado e violazione del paesaggio. Per capire meglio cosa stia accadendo ad Ardea, ci siamo recati sul posto a vedere e abbiamo potuto «ammirare» le quattro palazzine che incombono sul sito archeologico: edifici che in parte sorgono in un’area sottoposta a vincolo archeologico.

E, per saperne di piú, abbiamo incontrato Giacomo Castro, guida turistica e presidente dell’Associazione Latium Vetus. «Qui ad Ardea – ci dice – si è consumato un grave danno paesaggistico e sociale. Castrum Inui è un sito importante che documenta una storia lunghissima, dalla protostoria al Medioevo. Si tratta di un porto-santuario dedicato alla divinità laziale Inuo e citato anche da Virgilio, che nell’Eneide (Libro VI, 775) lo nomina Ardea (Roma). Resti di uno dei templi individuati a Castrum Inui, il porto-santuario dedicato alla divinità laziale Inuo che, secondo la leggenda, sarebbe stato fondato da Latino Silvio, figlio di Ascanio e nipote di Enea. Il sito è stato oggetto di scavi fin dal 1998, ma è attualmente chiuso al pubblico.

24 a r c h e o


accanto a grandi centri come Gabii e Fidenae. La leggenda narra che venne fondato 1300 anni prima di Cristo da Latino Silvio, figlio di Ascanio e nipote di Enea». Ai passati fasti di Castrum Inui si contrappone oggi la vista delle «Salzare»: un complesso turistico composto in origine da sette palazzi (tre dei quali demoliti nel 2012-2013), da vent’anni dichiarato di illecita costruzione e dunque da abbattere. In particolare, la palazzina «D», l’unica che ancora insista sull’area vincolata, è uno scheletro semi abbandonato, fortemente degradato, che «vomita» rifiuti a ridosso del sito… «Il paesaggio è pesantemente compromesso dalla presenza delle costruzioni, che sono fonte di inquinamento e degrado. L’impatto delle “Salzare” sull’area archeologica è molto pesante. Sarebbe necessario e possibile finanziare un’operazione di recupero urbano, affinché la tutela della cultura e del paesaggio, sanciti dalla nostra Costituzione, non rimanga lettera morta». Ma torniamo alle bellezze del passato… «Castrum Inui, che sorge alla foce del fiume Incastro, emissario del lago di Nemi, ha una spiccata fase monumentale di epoca arcaica, che affonda le radici nel secolo

precedente, come mostra il tempio detto «B». Esso risale al VI secolo a.C. nel suo aspetto monumentale, ma restituisce anche materiali ceramici piú antichi, databili al VII secolo a.C.». Questo tempio conserva, eccezionalmente, l’alto podio, con un alzato di ben 2 m, e una scalinata che guarda verso due altari: una testimonianza unica, che trova pochi confronti in epoca arcaica, non è vero? «Sí, il tempio ha pochi eguali in epoca cosí antica, soprattutto per

In alto: due immagini del tempio «A». III sec. a.C. Davanti alla scalinata d’accesso sono collocati un altare e una struttura cubica in travertino (forse un thesauros). In basso: uno degli ambienti facenti parte dell’impianto termale del sito. l’ottimo stato di conservazione. Il tempio etrusco di Portonaccio, a Veio, per esempio, coevo a questo di Ardea, è conservato solo in fondazione. E anche l’Ara della Regina, a Tarquinia, realizzata fra l’epoca arcaica (fine VII-inizio VI secolo a.C.) e quella ellenistica (IV-III secolo a.C.), non ha un podio cosí alto. Splendidi sono anche i due altari in peperino scolpito che si trovano di fronte al tempio “B” di Ardea, risalenti all’età ellenistica». E non è l’unico edificio sacro presente nel sito… «I templi sono tre. C’è il tempio “A”, in tufo e a cella unica, che risale al III secolo a.C. e presenta una scalinata preceduta da un’area pavimentata dove sono collocati un altare e una struttura cubica in

a r c h e o 25


travertino (forse un thesauros, databile al III secolo a.C. e utilizzato fino al II secolo d.C.). Infine, c’è un sacello dedicato a Esculapio, del I secolo d.C., preceduto da un altare in marmo». A quale divinità poteva essere dedicata questa grande area sacra e portuale? «Le fonti antiche parlano della presenza in questo tratto di costa di un importante santuario internazionale, noto come Aphrodisium: dedicato ad Afrodite, dea della fertilità e della navigazione, viene citato da Plinio il Vecchio tra Ardea e Antium. I risultati degli scavi piú recenti, insieme all’interpretazione di un passo di Macrobio (Saturnali, 22, 2-7), suggeriscono l’identificazione del porto-santuario di Ardea con l’Aphrodisium. Un’ipotesi che ben si addice alla natura di Castrum Inui, come luogo di incontro tra genti diverse». Che cosa si conserva delle strutture portuali? «Moli e banchine lungo il fiume Incastro: un porto di epoca ellenistica (IV secolo a.C.) che rimase in uso fino all’età romana. Anche in questo caso eccezionale è

lo stato di conservazione delle strutture portuali, che arrivano a circa 3 m di altezza. Ardea è uno dei grandi approdi sulla costa laziale e aveva grande importanza fin dall’epoca etrusca, aperto alle differenti popolazioni che frequentavano le coste del Latium Vetus. Era una di quelle rade dove le navi attraccavano dal VII-VI secolo a.C., che si contendeva con altri porti il mito dell’approdo di Enea, prima che nel VI secolo a.C. la spuntasse Lavinio». A proposito di Lavinio, mi sembra che gli altari in tufo di Ardea somigliano molto alle 13 are… «Sí, senza dubbio. Tra l’altro, i 13 altari di Lavinio sono stati realizzati tra VII-VI e III secolo a.C., quindi sono coevi al tempio “B” di Ardea. Dobbiamo immaginare Castrum Inui, come Lavinio, come uno di quei presidi nati intorno al VII-VI secolo a.C. sulla costa laziale per segnare un territorio allora frequentato da Etruschi e Greci dediti a scambi e commerci. Gli altari in peperino di Ardea, risalenti all’epoca ellenistica (II secolo a.C.), presentano orientamenti differenti e dovevano essere collegati alle strutture

Un ambiente delle terme, con suspensurae e resti di pitture parietali.

26 a r c h e o

portuali all’interno del castrum. In quest’epoca doveva continuare a essere venerato anche l’arcaico tempio “B”, a riprova della lunga frequentazione del sito come approdo sacro». Eppure queste meraviglie non sono mai state aperte al pubblico, tranne rare eccezioni… «Si tratta di un sito archeologico meraviglioso, ma mai valorizzato. Noi, come Associazione Latium Vetus, in accordo con Comune di Ardea e Soprintendenza Archeologica del Lazio, abbiamo organizzato alcune visite guidate a partire dal 2016. Ma è molto difficile portarvi i turisti: il sito deve essere messo in condizione di essere fruito e ancora non lo è. Due anni fa il Comune ha firmato un accordo con la Soprintendenza diventando l’affidatario dell’area archeologica, ma a oggi il sito è ancora chiuso al pubblico. Allora vennero stanziati 200 mila euro, nella programmazione ministeriale, ma i finanziamenti in due anni non sono ancora arrivati». Quali sono gli interventi piú urgenti per rendere accessibile il sito archeologico? «Bisognerebbe realizzare sentieri di accesso, biglietteria, bagni, servizi per i visitatori, nonché interventi per mettere in sicurezza l’area. Per non parlare dell’orrore delle palazzine moderne che incombono sui resti archeologici. Si potrebbe realizzare un’area dunale tra il sito e le “Salzare”, cosí da oscurarne almeno la vista. Ma l’antidoto naturale per risanare una zona profondamente degradata è far fruire il sito ai turisti, perché degrado ambientale e degrado sociale si alimentano a vicenda. Se si risollevassero le sorti del sito archeologico, anche il tessuto sociale si risolleverebbe: i residenti potrebbero innamorarsi dell’area – come è accaduto a me – e magari dedicarsi alla sua pulizia. Quello che manca, in quell’area, è l’amore».



n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

NELLA TERRA DI MISR Con gli Egiziani del tempo di Abramo (1) continua la rassegna degli antichi popoli del Mediterraneo citati dalla Bibbia. Come in precedenza, i nostri flash 3 filatelici illustrano alcuni dei collegamenti tra Bibbia 1 2 4 e antico Egitto, partendo dal lungo silenzio che ha «coperto» la civiltà egiziana per decine di secoli, come scrive nel suo articolo Francesca Iannarilli (vedi alle pp. 44-57). Infatti si sostiene che dopo l’Editto di Teodosio (l’obelisco in suo onore a Costantinopoli, 2), 5 la distruzione della Biblioteca di Alessandria (3) e con la successiva diffusione del cristianesimo copto e dell’Islam, si sia praticamente persa traccia della civiltà 7 8 egiziana sino alla fine del Settecento, quando vengono condotte le esplorazioni archeologiche durante la 6 campagna di Napoleone in Egitto (4) e con il successivo lavoro di Jean François Champollion (5). In tutto questo periodo, quindi, l’unica fonte cui attingere è stata la Bibbia (6) e vediamo allora alcuni dei riferimenti biblici al popolo egiziano. 12 Il nome usato nella Bibbia per indicare l’Egitto è 11 Misr e un toponimo con la stessa radice (Misri) è riportato nelle lettere di Amarna (7), tavolette in 9 10 scrittura cuneiforme (8) rinvenute nel sito ove sorgeva la capitale del faraone Akenathon (9). Le stesse lettere informano della dominazione egiziana sulla terra di Canaan per circa tre secoli sotto i faraoni Tuthmosi III (10) e suo figlio Amenothep (o 16 Amenofi) II (11) e di Ramesse II (12). L’episodio della fuga di Abramo con la moglie Sara (13) in Egitto è la prima menzione del popolo egiziano nella Bibbia. 13 E proprio al regno di Ramesse si fa risalire l’esodo biblico degli israeliti guidati da Mosè (14) verso la terra promessa attraverso le acque del Mar Rosso (15). Altri collegamenti tra le due realtà si riscontrano 15 dall’influenza dell’antica letteratura egiziana sulla Bibbia. Oltre a una certa rispondenza tra il manoscritto egiziano Gli insegnamenti di Amenemope e il Libro dei Proverbi nella Bibbia, esemplare è il caso della «seduzione di Giuseppe» (16) raccontata nella Genesi, 17 14 18 molto simile al «Racconto dei due fratelli», Anubi (17) e Bata, nel papiro d’Orbiney. Entrambe le storie narrano di due uomini, Giuseppe e Bata, i quali IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può resistono alle offerte amorose di due donne che, per scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi vendetta, li accusano di averle insidiate; dopo essere altro tema, ai seguenti indirizzi: stati ingiustamente puniti dai mariti delle due donne Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, vengono successivamente riabilitati. Infine anche Via Tavanti, 8 C.P. 17037 nel Vangelo di Matteo l’Egitto è citato come luogo 50134 Firenze Grottarossa info@cift.it, 00189 Roma. importante nel racconto della fuga in Egitto, appunto, di oppure lcalenda@yahoo.it; www.cift.it Giuseppe e Maria (18) per sfuggire all’ira di Erode.

28 a r c h e o



CALENDARIO

Italia

GENOVA 100 mila anni in Liguria

ROMA EtruSchifano

Tra Mediterraneo ed Europa Museo di Archeologia Ligure fino al 09.06.19

Mario Schifano a Villa Giulia: un ritorno Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 10.03.19

MILANO Il viaggio della Chimera Civico Museo Archeologico fino al 12.05.19

Il classico si fa pop

Di scavi, copie e altri pasticci Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo e Crypta Balbi fino al 07.04.19

MONTERIGGIONI, SIENA Monteriggioni prima del Castello

Una comunità etrusca in Valdelsa Abbadia Isola, Sala Sigerico fino al 23.04.19

Ludwig Pollak. Archeologo e mercante d’arte

Gli anni d’oro del collezionismo internazionale. Da Giovanni Barracco a Sigmund Freud Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco e Museo Ebraico di Roma fino al 05.05.19

NAPOLI Mortali Immortali

I tesori del Sichuan nell’antica Cina Museo Archeologico Nazionale fino all’11.03.19

Roma Universalis

Canova e l’antico

Museo Archeologico Nazionale fino al 30.06.19 (dal 28.03.19)

L’impero e la dinastia venuta dall’Africa Colosseo-Foro Romano-Palatino fino al 25.08.19

Sacra Neapolis

Culti, miti, leggende Lapis Museum, Basilica della Pietrasanta fino al 15.12.19

BOLOGNA Ex Africa

Storie e identità di un’arte universale Museo Civico Archeologico fino all’08.09.19 (dal 29.03.19)

PIACENZA Annibale

Un mito mediterraneo Palazzo Farnese fino al 17.03.19

CAGLIARI Le Civiltà e il Mediterraneo

Museo Archeologico e Palazzo di Città fino al 16.06.19

CORTONA 1738 Marcello Venuti alla scoperta di Ercolano

Politica e cultura fra Cortona e Napoli MAEC-Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 02.06.19

FAENZA Aztechi, Maya, Inca e le culture dell’antica America

MIC (Museo Internazionale delle Ceramiche) fino al 28.04.19

FIRENZE L’Arte di donare

Nuove acquisizioni del Museo Archeologico Nazionale Museo Archeologico Nazionale fino al 10.03.19 30 a r c h e o

Testa in terracotta, da Ife (Nigeria). XII-XV sec.

In basso: Antonio Canova, Compianto della contessa de Haro. 1805


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Germania

POMPEI Pompei e gli Etruschi

BERLINO Il paesaggio culturale della Siria

Palestra Grande fino al 02.05.19

SAN GIMIGNANO Aristocrazie lucane e artigianato etrusco

Ricerche di archeologia preventiva nella Valle del Sauro (PZ) Chiesa di San Lorenzo in Ponte fino al 21.03.19

Conservazione e catalogazione in tempo di guerra Pergamonmuseum fino al 26.05.19

La cittadella di Aleppo devastata dai bombardamenti. 2014.

SIRACUSA Archimede a Siracusa Experience exhibition Galleria Civica Montevergini fino al 31.12.19

TORINO Ercole e il suo mito Reggia di Venaria fino al 10.03.19

VILLANOVA DI CASTENASO (BO) Oggetti dal quotidiano

Un giorno all’interno di un villaggio villanoviano MUV, Museo della civiltà Villanoviana fino al 09.06.19

BRUGES Mummie

Paesi Bassi

Segreti dell’antico Egitto Xpo Center Bruges fino all’01.09.19

LEIDA Dèi dell’Egitto

Città del Vaticano Capolavori diffusi nei Musei Vaticani fino al 09.03.19

Collezioni in dialogo Museo Gregoriano Egizio fino al 30.06.19

Francia LENS Omero

Museo del Louvre fino al 22.07.19 (dal 27.03.19)

ATENE Gli infiniti aspetti della bellezza

Museo Nazionale Archeologico fino al 31.12.19

Belgio

MUSEI VATICANI Winckelmann

Grecia

La statua in granito rosa di Amenhotep II, da Karnak. 1425-1400 a.C.

Rijksmuseum van Oudheden fino al 31.03.19

Svizzera ZURIGO Exekias mi ha dipinto e mi ha plasmato

Archäologische Sammlung der Universität Zürich fino al 31.03.19

USA NEW YORK Nedjemankh e il suo sarcofago d’oro The Metropolitan Museum of Art fino al 21.04.19

Facsimile di un dipinto raffigurante rituali funebri. a r c h e o 31


CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli

QUANDO L’ABITO FA IL SIGNORE POCO MENO DI QUARANT’ANNI FA, A LEFKANDÍ, NELL’EUBEA, VENNE ALLA LUCE L’ECCEZIONALE SEPOLTURA DI UN EMINENTE PERSONAGGIO VISSUTO INTORNO AL X SECOLO A.C. FRA GLI OGGETTI DEL SUO CORREDO FUNEBRE C’ERA ANCHE UN PREZIOSO TESSUTO, ORA TEMPORANEAMENTE ESPOSTO NEL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI ATENE

«I

presso i visitatori, ma anche presso gli specialisti. E quello ora esposto nella Sala dell’Altare (la n. 34 del Museo) è davvero un capolavoro nascosto. Rarissimo relitto superstite dell’industria tessile greca antica, il tessuto che accompagnava i resti del «signore di Lefkandí» è un vero miracolo di conservazione e di restauro, un rinvenimento unico in Grecia e tra i pochissimi del mondo antico. Ma chiariamo di cosa si tratta.

l Museo invisibile» è un’iniziativa del Museo Archeologico Nazionale di Atene che si pone l’obiettivo di presentare al pubblico reperti custoditi nei magazzini, spesso di grande importanza e di valore eccezionale, affinché possano essere ammirati per un periodo di alcune settimane. Da quando l’iniziativa è stata lanciata, nel 2015, sono già stati esposti 18 reperti o gruppi di reperti (di alcuni di essi abbiamo già parlato in «Archeo» n. 365, luglio 2015; on line su issuu.com) che hanno riscosso grande successo

AL TEMPO DEI «SECOLI BUI» In alto: particolare della trama del tessuto rinvenuto a Lefkandí (Eubea), dopo il restauro. Metà del X sec. a.C. A sinistra: il tessuto all’arrivo nel laboratorio di restauro del Museo Archeologico Nazionale di Atene. A destra: assonometria ricostruttiva dell’edificio absidato di Toumba.

32 a r c h e o

Lefkandí, un sito che si trova in Eubea centrale, ha suscitato l’interesse degli studiosi per il rinvenimento di un insediamento e delle relative necropoli risalenti a quelli che per molto tempo sono stati definiti i «Secoli Bui» della storia greca (XI-IX secolo a.C.). Come dimostrano i rinvenimenti, in


A sinistra: il cratere bronzeo, di produzione cipriota, che custodiva le ossa del «signore» di Lefkandí. In basso: veduta d’insieme del tessuto dopo il restauro, cosí come è esposto attualmente nel Museo. quel periodo il sito intrattenne relazioni commerciali e contatti intensi con l’Egeo e il Mediterraneo orientale. Tra le scoperte piú note di Lefkandí, nella necropoli di Toumba, vi è un edificio a pianta absidata che costituiva la dimora eterna di un signore locale, risalente alla metà del X secolo a.C., le cui ceneri furono deposte in un cratere bronzeo di produzione cipriota, un oggetto di grande valore realizzato perlomeno un secolo prima della deposizione di Lefkandí. Accanto al «signore di Lefkandí», che doveva avere un ruolo di spicco nella società del suo tempo, era stata deposta una donna, probabilmente la sua compagna nella vita, e vi erano inoltre quattro cavalli: la perfetta materializzazione, insomma, di una deposizione praticata secondo i costumi funerari omerici.

UNA TRAMA SEMPLICE Il «signore di Lefkandí» era stato cremato e le sue ceneri deposte nell’urna bronzea assieme a un ampio tessuto di forma rettangolare, accuratamente ripiegato, che si è preservato proprio grazie alle eccezionali condizioni climatiche createsi all’interno dell’urna bronzea. La trama, in gran parte semplice, era completata in alcuni punti da frange; assieme al tessuto furono

rinvenute anche fasce separate, come sottili cinture o bende, decorate con motivi geometrici. Scoperto nel 1981 dal team grecobritannico che effettuava gli scavi a Lefkandí, il tessuto venne immediatamente trasportato al

laboratorio di Restauro e Conservazione del Museo Archeologico Nazionale di Atene, dove fu restaurato e fissato su un tessuto moderno. Conservato in una speciale teca sotto particolari condizioni di temperatura e umidità, con l’impiego di un sistema innovativo di soluzione di glicerolo, il tessuto del «signore di Lefkandí» può essere ammirato ogni giorno dai curatori del Museo, ma non dal pubblico né dagli specialisti, se non previo appuntamento per motivi specifici di studio.

UN’OPPORTUNITÀ IMPERDIBILE Fino al 5 maggio prossimo, invece, questo eccezionale reperto può essere ammirato da vicino ed è quasi superfluo aggiungere che vale davvero la pena di sostare davanti all’enorme teca per osservarne la trama, i dettagli e l’eccezionale stato di conservazione. Si ha realmente la sensazione di poter toccare con mano, quasi di avere davanti, ancora vivo, quel «signore» di 3000 anni fa. Chi poi abbia la fortuna di trovarsi al Museo Nazionale il 10 e 24 marzo, il 17 e 24 aprile o il 5 maggio prossimi, potrà anche partecipare alle visite guidate effettuate dai curatori del Museo, che illustreranno al pubblico nel dettaglio la storia del rinvenimento, le vicende del restauro e i misteri della realizzazione di un tessuto durante l’antichità. Da non perdere, semplicemente.

DOVE E QUANDO «Il museo invisibile. Il tessuto del signore di Lefkandi» Atene, Museo Archeologico Nazionale fino al 5 maggio Orario martedí, 13,00-20,00; mercoledí-lunedí, 08,00-20,00 Info www.namuseum.gr

a r c h e o 33


MULTIMEDIALITÀ • INFORMATICA ARCHEOLOGICA

34 a r c h e o


PENELOPE, LA RETE E

L’ARCHEOLOGIA 3.0 L’UTILIZZO DELL’INFORMATICA NEGLI STUDI SULLE CULTURE E LE CIVILTÀ DEL PASSATO VANTA ORMAI UNA VERA E PROPRIA «TRADIZIONE». NON DEVE QUINDI STUPIRE L’IDEA DI RACCONTARNE LA VICENDA IN UN MUSEO, CHE, IN QUESTO CASO, NON POTEVA NON ESSERE VIRTUALE. RIPERCORRIAMO LA SUA STORIA, ILLUSTRANDONE LE CARATTERISTICHE E LE RICCHE «COLLEZIONI» di Paola Moscati

I

l Museo virtuale dell’informatica archeologica (http://archaeologicalcomputing.lincei. it/) è un progetto promosso dall’Accademia Nazionale dei Lincei e dal Consiglio Nazionale delle Ricerche. L’idea progettuale è nata nel 2008, in occasione del Convegno internazionale «La nascita dell’infor matica archeologica», svoltosi all’Accademia e i cui Atti sono stati pubblicati nel numero 20 della rivista Archeologia e Calcolatori. Pochi anni piú tardi, il progetto «La

storia dell’informatica archeologica» è divenuto una realtà operativa tramite una ricerca triennale promossa dall’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico del CNR e dal Centro Linceo Interdisciplinare «Beniamino Segre».

LE PRIME APPLICAZIONI La consultazione dell’Archivio di Jean-Claude Gardin – archeologo francese e pioniere dell’utilizzo dei computer in archeologia – è stato il primo passo per risalire

agli albori delle applicazioni informatiche e le ripetute visite alla Maison Archéologie & Ethnologie, René-Ginouvès (MAE) a Nanterre, dove l’archivio è conservato, hanno consentito di prendere le mosse dal 1955. Un progetto sulla storia di una disciplina è per sua natura in costante evoluzione; ciò non significa che non vada divulgato anche in uno stato di progressivo avanzamento, possibilmente in un ambiente flessibile e dinamico come quello della

Nella pagina accanto: Penelope, simbolo del Museo virtuale dell’informatica archeologica, e, qui sopra, alcuni degli studiosi che piú hanno contribuito alla nascita della disciplina. La grafica del Museo è stata curata da Marcello Bellisario. a r c h e o 35


MULTIMEDIALITÀ • INFORMATICA ARCHEOLOGICA

rete. È nato cosí il «Museo virtuale dell’informatica archeologica», che costituisce l’aspetto comunicativo del progetto e che il MIUR ha selezionato nel 2015 tra i progetti intesi alla diffusione della cultura scientifica. Attraverso documenti e testimonianze che narrano l’incontro tra scienze esatte e scienze umane, l’allestimento del Museo ripercorre la storia delle applicazioni informatiche alla ricerca archeologica. Simbolo del sito web è la figura di Penelope al telaio, che riporta alla memoria la scelta di Gardin, che nel 1959 aveva voluto cosí rappresentare il ritmo ciclico della ricerca.

PORTALI AUTOGESTITI Per l’architettura del Museo, la scelta del sistema di gestione dei contenuti si è r ivolta verso Museo&Web, messo a punto dall’Osservatorio Tecnologico del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e oggi adottato in molti siti web istituzionali del Ministero e di Musei, Gallerie, Archivi e Biblioteche. Museo&Web, distribuito in licenza open source, è il risultato di uno dei primi progetti europei, il progetto MINERVA, ed è stato sviluppato con l’intento di rispon-

dere all’esigenza di curatori museali e staff ministeriali di realizzare portali autogestiti. Dal punto di vista dell’allestimento, si è voluto realizzare un ambiente di visita e di consultazione accessibile attraverso la rete in un luogo virtuale nel quale fossero favorite modalità innovative di presentazione e fruizione interattiva delle informazioni attraverso percorsi esplorativi intesi ad arricchire il settore scientifico e insieme quello educativo. L’architettura del sito web, cioè l’organizzazione dei contenuti e del sistema di

navigazione, risponde a questi obiettivi e offre, in uno «spazio» virtuale di consultazione, percorsi di studio e di formazione da cui attingere informazioni e insieme strumenti di ricerca utili a ritrovare le origini di quella generale aspirazione all’automatizzazione dei processi di studio e di documentazione. Il sistema di navigazione dà accesso ai contenuti attraverso sette sezioni: Storia, Protagonisti, Istituzioni, Progetti, Eventi, Metodi e Documenti. Dei Protagonisti si fornisce una breve biografia e la bibliografia di riferimento per il settore dell’informatica archeologica. Tra i Precursori, che hanno operato prima degli anni Sessanta, oltre a Jean-Claude Gardin spicca la figura di Albert C. Spaulding, uno dei propulsori del movimento della New Archaeology, che si sarebbe diffusa in America negli anni Sessanta, dando vita alla grande stagione dell’archeologia processuale. Tra i Pionieri, che tra i primi hanno sperimentato l’uso dei calcolatori elettronici, vi sono studiosi sia di formazione archeologica (David L. Clarke, René Ginouvès, Frank R. Hodson), sia di formazione scientifica (George L. Cowgill, James E. Doran). Un caso emblematico è

In alto: la copertina della brochure pubblicata da Jean-Claude Gardin nel 1959. In basso: la prima pianta di Pompei realizzata al computer.

36 a r c h e o


Due esempi di itinerari multimediali, dedicati a Robert G. Chenhall, pioniere delle applicazioni informatiche alla catalogazione delle collezioni museali e alla sala multimediale allestita dall’IBM a Venezia, nella Mostra sui Fenici (1988).

quello di Doran e Hodson, autori del primo manuale dedicato all’informatica archeologica. La sezione delle Istituzioni si concentra sui due poli promotori dell’iniziativa. Per l’Accademia, sono consultabili in rete i volumi della collana dei Contributi del Centro Linceo dedicati al trattamento informatizzato dei dati archeologici, a partire dalle conferenze tenute alla fine degli anni Settanta da Amilcare Bietti, lo studioso che piú ha contribuito in Italia a diffondere i metodi matematici e statistici. Il Cen-

tro Linceo ha anche promosso due Conferenze, nel 2000 e nel 2008: «I modelli nella ricerca archeologica. Il ruolo dell’informatica» e «La nascita dell’informatica archeologica».

I CONVEGNI E LA RIVISTA I visitatori del Museo possono ascoltare i file audio dei relatori e consultare sei postazioni multimediali dedicate alla catalogazione del patrimonio archeologico, alle banche dati, alla cartografia numerica e ai Sistemi Informativi Geografici, a Internet e alle tecnologie multimediali.

L’Istituto del CNR, attivo in questo settore di studi sin dagli inizi degli anni Ottanta, grazie all’impulso lungimirante di Mauro Cristofani, prosegue ancora oggi l’attività nell’ambito della linea di ricerca «Archeologia e società dell’informazione. Metodologie informatiche e modelli formali per una conoscenza arricchita del patrimonio archeologico». Nel Museo si è scelto di fare riferimento alla rivista internazionale Archeologia e Calcolatori, pubblicata dall’Istituto sin dal 1990. I link rimandano a numeri a r c h e o 37


MULTIMEDIALITÀ • INFORMATICA ARCHEOLOGICA

In alto: alcuni momenti della vita di Carlo Maurilio Lerici (1890-1981) e delle ricerche condotte dalla Fondazione che porta il suo nome. Lerici introdusse i calcolatori elettronici per registrare e

38 a r c h e o

interpretare i dati delle prospezioni geofisiche. Tra le scoperte piú note, alcune tombe etrusche dipinte della necropoli dei Monterozzi di Tarquinia. In basso: la pagina web di accesso agli itinerari multimediali.

tematici, atti di convegni e supplementi, che consentono di seguire lo sviluppo trentennale dell’informatica archeologica e che sono disponibili in rete, grazie all’adesione, sin dal 2005, ai principi della Dichiarazione di Berlino sull’accesso aperto ai risultati della ricerca scientifica. Scorrendo in breve le altre sezioni, tra i Progetti troviamo i principali corpora archeologici che nel tempo hanno perseguito con costanza e convinzione l’informatizzazione delle fasi di schedatura, registrazione e interrogazione dei dati. Risulta cosí evidente l’interesse suscitato fin dalla fine degli anni Settanta per la schedatura informatizzata della ceramica attica, come è testimoniato dall’esempio del Beazley Archive Computer Project, avviato nel 1979, pionieristico anche


nell’avvalersi della rete per la tra- In alto: il percorso di visita che prende smissione delle informazioni. avvio con il progetto «The Kingdom of

UN EVENTO MEMORABILE Tra gli Eventi non poteva mancare la Mostra «Rediscovering Pompeii», il cui catalogo è oggi consultabile nel Museo virtuale. Svoltosi a New York alla IBM Gallery of Science and Art nel 1990, l’evento ebbe un’eco notevole soprattutto per l’esposizione al pubblico, attraverso strumenti multimediali e programmi interattivi, dei risultati del Progetto Neapolis, condotto da IBM Italia e Fiat Engineering, in accordo con le Soprintendenze Archeologiche di Pompei e di Napoli e Caserta. Il Museo offre poi due importanti strumenti di ricerca, che ne fanno un ambiente non solo di narrazio-

Sicily database» e percorre a ritroso l’evoluzione dei progetti digitali sviluppati in ambito storico-artistico. In basso: gli itinerari dedicati alle

tecnologie applicate alla ricerca archeologica. Uno di essi affronta il tema del ruolo che i social media e la multimedialità possono esercitare per coinvolgere i giovani nelle visite ai musei.

a r c h e o 39


MULTIMEDIALITÀ • INFORMATICA ARCHEOLOGICA

ne storica, ma anche di acquisizione della conoscenza. Grazie a un accordo con il Service des Archives della MAE, sono stati digitalizzati e resi disponibili per la consultazione online i documenti piú antichi del Fondo «Jean-Claude Gardin», che riguardano la fondazione e l’avvio del Centre mécanographique de documentation archéologique e del Centre d’analyse documentaire pour l’archéologie. Questi documenti consentono di ripercorrere i primi anni dell’attività scientifica di Gardin, i contatti nazionali e internazionali, i rapporti con studiosi come Seyrig,

Braudel, Leclant, Leroi-Gourhan e Lévi-Strauss, e l’avvio di numerosi progetti di ricerca. Altro strumento è il database della Bibliografia di Informatica Archeologica, pubblicata sotto forma di rassegna nei primi dieci numeri della rivista Archeologia e Calcolatori e poi informatizzata. Si tratta di piú di 2700 titoli relativi al decennio 1990-2000, un periodo cruciale per lo sviluppo delle applicazioni informatiche, segnato dall’avvento della grafica computerizzata, dei GIS e soprattutto di Internet. Dalla homepage del sito si accede

anche agli Itinerari culturali, che si sviluppano come approfondimenti multimediali. Gli itinerari, che si possono scorrere nel loro insieme cliccando sul link dedicato alla «Segnatura» lincea coordinata da Tito Orlandi nel 2017, sono il frutto della collaborazione di tanti studiosi che hanno voluto contribuire a ripercorrere alcune tappe della storia dell’informatica archeologica. In ogni itinerario sono sempre presenti tre box, che rimandano ad approfondimenti rintracciabili sul web: uno dei box richiama l’archivio della rivista Archeologia e CalcoSulle due pagine, da sinistra: immagini che illustrano la storia e lo sviluppo della Realtà Virtuale applicata all’archeologia. Due schermate del Museo Virtuale dell’antica via Flaminia (Roma, Museo Nazionale Romano) e un modello tridimensionale della Tomba dei Rilievi (Cerveteri) realizzato dal Virtual Heritage Lab del CNR-ITABC.

40 a r c h e o


latori, che consente di scaricare liberamente gli articoli dedicati alle singole tematiche. Gli itinerari si snodano lungo percorsi narrativi che prendono spunto da una vicenda, un personaggio, un evento per giungere fino ai giorni d’oggi. Negli itinerari dedicati ai Protagonisti, per esempio, si rievoca l’attività di studiosi che hanno influenzato il corso degli studi: Robert Chenhall, fondatore nel 1965 della Newsletter of Computer Archaeology e promotore della classificazione informatizzata delle collezioni museali; Carlo Maurilio Lerici, protagonista di un capitolo importante della storia delle tecnologie applicate alla ricerca archeologica: le prospezioni geofisiche come metodo d’indagine preliminare sul campo; Frank Roy Hodson, da noi intervistato nel 2013, che rievoca gli anni della sua formazione. Altri momenti salienti della storia della disciplina vengono ripercorsi grazie alla testimonianza di Anne-

Marie Guimier-Sorbets sulla fondazione del Centre de recherche sur les Traitements Automatisés en Archéologie Classique (TAAC), e di François Djindjian sul ruolo della Commission IV «Archaeological Methods and Theory» dell’Union Internationale de Sciences Préhistoriques et Protohistoriques, creata nel 1976.

DAI SIGILLI AGLI SPECCHI Anche i progetti risalgono nel tempo alle prime sperimentazioni, come nel caso dell’analisi quantitativa di specifiche classi di materiali, a partire dai sigilli orientali per passare agli specchi etruschi, o dello studio del territorio, dal Progetto Neapolis alla città etrusca di Marzabotto. La presenza italiana nel panorama internazionale della catalogazione e gestione informatizzata del patrimonio culturale si registra sin dagli anni Settanta, grazie alle attività degli istituti centrali del Ministero dei Beni Culturali. Gli itinerari consentono anche di

ripercorrere la storia delle applicazioni tecnologiche: dall’archeologia subacquea, all’archeologia virtuale e all’archeoastronomia, specialisti del settore tracciano l’evoluzione dei metodi e delle tecniche. Infine, l’impegno del CNR nell’attività di Alternanza Scuola Lavoro ha portato alla realizzazione di un itinerario dal titolo «Engaging young people: social media, interactivity and museums», con il contributo dei ragazzi di due licei romani, il «Vivona» e il «Virgilio», e di una laureanda dell’Università Bocconi. In un momento in cui siti web, blog e social media sono considerati strumenti imprescindibili di apprendimento, trasmissione e attualizzazione del passato e dunque di sostenibilità della ricerca archeologica, si è voluto cosí verificare quanto i giovani siano coinvolti dai mutamenti della società dell’informazione e quanto questo nuovo approccio contribuisca ad attrarli verso la conoscenza del mondo antico.

a r c h e o 41




POPOLI DELLA BIBBIA/3 – GLI EGIZIANI

STORIE DI UN

VICINATO DIFFICILE I patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe e Giuseppe, il profeta biblico per eccellenza, Mosè e, infine, Gesú: tutti questi grandi protagonisti dell’Antico e del Nuovo Testamento intrattennero con il Paese del Nilo rapporti piú che stretti e, nella maggior parte dei casi, gli erano debitori della propria sopravvivenza. Eppure, sin dall’inizio, il legame tra i figli del popolo eletto e il regno dei faraoni si tinse dei colori dell’odio e del sangue. A partire dall’avvenimento piú tragico ed emblematico di quella vicenda, l’Esodo. La cui «vera storia» è oggi sottoposta al vaglio di nuove e sorprendenti rivelazioni... di Francesca Iannarilli

L

e menzioni dell’Egitto nella Bibbia sono circa 650 e piú di 120 quelle relative al popolo egiziano. Non stupisce, dunque, che le prime ricerche storiche su un Paese tanto antico quanto indecifrabile muovessero i primi passi proprio dalle Sacre Scritture. Dopo l’editto di Teodosio, che nel 380 d.C. aveva posto fine ai culti pagani, all’indomani della distruzione della Biblioteca di Alessandria e della chiusura dei templi di Alto e Basso Egitto, le memorie del popolo egiziano e della sua cultura hanno

44 a r c h e o

cominciato a smarrirsi tra le «sabbie del tempo». La diffusione del cristianesimo copto prima e dell’Islam poi hanno completato l’opera, riducendo faraoni e dèi egiziani a un pallido ricordo. Fino alla fine del Settecento l’unica chiave disponibile all’interpretazione di quella civiltà dimenticata rimase proprio la Bibbia, guida per eccellenza di cacciatori di tesori, primi esploratori e pellegrini. A essa si accompagnava, talora, la lettura degli autori classici, primo tra tutti Erodoto con le sue Storie. Ma si dovrà


Abramo e Sara alla corte del Faraone, olio su tela di Giovanni Muzzioli. 1875. Modena, Museo Civico d’Arte.


POPOLI DELLA BIBBIA/3 • EGIZIANI

In alto: stele egiziana in pietra basaltica rinvenuta nel 1928 a Beit She’an (Israele). L’iscrizione in caratteri geroglifici celebra la vittoria conseguita al tempo del faraone Sethi I (1290-1279 a.C.) contro una coalizione di città ribelli che avevano cercato di impossessarsi delle postazioni egiziane nella stessa Beit She’an. Nel testo la Terra Santa è indicata come «Retenu», denominazione attribuita dagli Egiziani alla terra d’Israele prima che fosse conquistata dagli Israeliti. In basso: tavoletta in caratteri cuneiformi nella quale sono citati i granai di Giaffa, da Tell el-Amarna. Questa e altre tavolette simili, note appunto come Lettere di el-Amarna, formano l’archivio di Akhenaton e consistono in messaggi scambiati tra il faraone e i re asiatici indipendenti o comunicazioni provenienti dai vassalli egiziani di Siria e Palestina. Non contengono alcuna forma di datazione, ma sono concordemente collocate tra l’ultima parte del regno di Amenhotep III (1387-1348 a.C.) e l’inizio del regno di Tutankhamon (1328-1318 a.C.).

LE LETTERE DI AMARNA La Palestina fu oggetto di dominio egiziano per quasi tre secoli (14601170 a.C. circa), attraverso la gestione indiretta di cui ci informano le lettere di Amarna: le località di Gaza, Kumidi e Sumura erano sedi di governatorati egiziani, ma altri centri minori ospitavano sicuramente guarnigioni stanziali e tutti i «piccoli re» dovevano al «grande re» tributi annuali, fedeltà assoluta («Non ci ribelleremo mai contro Sua Maestà!») e sottomissione («Siamo sgabello sotto i suoi piedi»). Come ricompensa, però, il faraone – pur cosí taciturno, lontano e intoccabile – redistribuiva le risorse alimentari, concedeva la possibilità di governare come vassallo e, in senso piú ampio, elargiva la vita. Nella visione egiziana, la vita, ankh, è un soffio emesso dal sovrano o dalla divinità

46 a r c h e o

attraverso il respiro e le parole. «Prima dell’arrivo del messaggero del re mio signore, il respiro non riprendeva, il mio naso era bloccato. Ma adesso che il soffio del re è uscito per me, io mi rallegro molto e sono felice ogni giorno» (da Le lettere di el-Amarna, a cura di Mario Liverani, 117).

attendere il XVIII secolo perché la Description de l’Égypte – il monumentale studio prodotto durante i lunghi mesi di spedizione napoleonica in Egitto – apra la strada all’Egittologia moderna. A essa seguiranno le pubblicazioni di Jean-François Champollion sulla decifrazione del geroglifico e poi le grandi missioni archeologiche del XIX e XX secolo (si pensi solo alla scoperta dei Testi delle Piramidi, della Tomba di Tutankhamon o della Barca di Cheope). Ma qual era l’Egitto di Abramo? Chi sono e come vengono descritti gli Egiziani nella Bibbia? E quali rapporti intrattenevano con il «popolo eletto»?

LA TERRA «MURATA» Sappiamo che il nome ebraico del Paese, usato nel testo biblico, è Mizraim, omofono dell’attuale nome arabo Misr; il suo significato potrebbe originare dalla parola antico-egiziana


Gaza

Lago Tismah Pithom Yam Suph?

Deserto di Shur

Grande Lago Amaro

(Esodo, 13:17-19:3 Numeri, 10:11-12:16; 33:1-36

Jebel Sin Bisher

IItinerario centrale alternativo IItinerario meridionale IItinerario meridionale alternativo dda Jebel Musa a Kadesh Barnea Città Città di incerta localizzazione Picco montuoso Possibili ubicazioni del Monte Sinai

Deserto di Paran

m

an

Ezion Geber

Sinai

Abu Zeneimeh

Golfo di Suez

Edom (Seir)

Timna

Ain Hawarah

IItinerario settentrionale IItinerario centrale

Badiyat et-Tin

Punon

Serabit el-Khadim Nuweiba Ain Khandra

Deserto di Sin Jebel Serbal

Rephidim

Ras Safsaf Jebel Katarina El-Tor

Jebel Musa Jebel Umm Shomar

Dahab

an

I percorsi dell'Esodo secondo le Sacre Scritture

Har Harif Kuntillat Ajrud Jebel Karkom

Nakhl

Darb el-Haj

Yam Suph?

Jebel Yeleq

Deserto di Zin

di

Noph (Menfi)

Nilo

On (Heliopolis)

Piccolo Lago Amaro

Jebel Helal

di Aq aba

Tumillat

Kadesh Barnea

Jebel Magharah Strada di S h u r

Ismalia

Amalek

G olfo

Succoth

Moab

N

Mi

Raamses (Qantir)

v ge e N

Ar

ilistei Strada per la terra dei F

Sile

Lago Ballah Yam Suph?

Arad

Beersheba

El-Arish

el-A rish

Zoan

Goshen

Lago Sirbonis (Bardawil)

Migdol

ish Ar el-

Basso Egitto

Rafah

Dibon

ab

Lago Menzaleh

Gerusalemme Heshbon

el-Khrob

NO

NE

SO

SE

O

0

E

S

50 Km

Strade principali

Sharm el-Sheikh Tell el-Amarna

Mar Rosso

on

Ashdod

Rabbah

Gerico

Am

Mar Mediterraneo

C a n a a n

Giaffa

Hala el-Bedr

Stele in pietra calcarea raffigurante Ramesse II che offre incenso e papiro alla dea Astarte; nella parte superiore compare l’immagine di Seth, dio egiziano del caos e dei Paesi stranieri, raffigurato come una creatura ibrida, con il muso appuntito simile a quello di un formichiere, orecchie erette e coda rigida e biforcuta. Parigi, Museo del Louvre.

mdr, «murato, fortificato», con riferimento ai naturali confini egiziani in grado di proteggere la terra del Nilo dalle invasioni. Un toponimo con la stessa radice (Misri) è riconoscibile anche nelle famose Lettere di Amarna: si tratta di tavolette a r c h e o 47


POPOLI DELLA BIBBIA/3 • EGIZIANI

di argilla, redatte in scrittura cuneiforme e databili alla metà del XIV secolo a.C., rinvenute nella città di Tell el-Amarna, in Medio Egitto. L’attuale sito corrisponde all’antica Akhetaton (letteralmente «L’orizzonte dell’Aton»), nuova capitale fondata dal re Akhenaton nella XVIII dinastia, per dare visibilità e forza al nascente culto del disco solare Aton. Queste 380 tavolette erano parte dell’archivio diplomatico della città e, dunque, ci forniscono interessanti informazioni sulla corrispondenza intrattenuta tra il «grande re» egiziano e i «piccoli re» della regione siro-palestinese. Analizzando linguaggio e tono delle lettere, risulta netta la distinzione tra piccole cittàstato della Siria-Palestina e grandi Stati imperiali come l’Egitto, da cui 48 a r c h e o

deriva la definizione «grandi e piccoli re», proposta dallo storico e archeologo Mario Liverani. Nel Libro della Genesi (10: 6) Mizraim/Egitto è figlio di Cam, il capostipite dei Camiti, uno dei gruppi etnici in cui la Bibbia suddivide l’umanità: appunto, Camiti figli di Cam, di cui l’Egitto/ Mizraim fa parte; Semiti figli di Sem; Iafetiti figli di Iafet. Della famiglia di Cam, però, è parte anche Canaan, progenitore delle undici tribú che si stabiliranno nella regione ubicata tra Egitto e Siria, il cosiddetto «Paese di Canaan». Perché l’Egitto e Canaan siano associati in questa genealogia è quesito ancora dibattuto; una possibilità è che la situazione geografica descritta nella Genesi conservi ancora memoria della dominazione

egiziana sulla terra di Canaan del II millennio a.C., dominazione ottenuta a seguito delle numerose campagne militari di Thutmosi III e Amenhotep II prima (1500-1450 a.C. circa) e di Ramesse II poi (1300-1230 a.C. circa).

IL VIAGGIO DI ABRAMO «Il Signore disse ad Abram: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione”». Cosí nella Genesi (12: 1-2) ha inizio il viaggio di Abramo: già trasferitosi con la propria famiglia dalla Ur dei Caldei (presso la foce dell’Eufrate) alla città assira di Carran (verso nord), il patriarca si dirige nel paese di Canaan,


Nella pagina accanto: Il salvataggio di Mosè, olio su tela di Lawrence Alma-Tadema. 1904. Collezione privata. L’opera si basa sul racconto contenuto nel Libro dell’Esodo, in cui si dice che la figlia del faraone andò al fiume per lavarsi e trovò il bambino abbandonato in un cesto di vimini. L’artista ha immaginato il momento in cui, dopo il ritrovamento, il piccolo Mosè viene portato in processione verso la dimora della principessa, nella città di Menfi. A destra: statua colossale di Ramesse II, terzo faraone della XIX dinastia (1279-1212 a.C.), da Abu Simbel. Assuan, Museo Nubiano.


POPOLI DELLA BIBBIA/3 • EGIZIANI

DÈI MULTIFORMI E FARAONI DIVINI Il termine egiziano per dio è nTr (pronuncia: necer) e può essere applicato alle divinità in senso stretto, ma anche al sovrano, ad alcuni defunti e, in specifici contesti, a oggetti o animali. Nella Stele di Rosetta – il famoso decreto tolemaico che ha permesso la decifrazione del geroglifico – nTr è sinonimo del greco theos. I cristiani d’Egitto, nel II secolo d.C., acquisiranno la parola e la trasformeranno nel copto noute, utilizzandola per il Dio cristiano. Le divinità egiziane sono multiformi, hanno caratteristiche variabili e aspetti mutevoli; uno stesso dio può essere, infatti, raffigurato in molti modi. La dea Hathor è un ottimo modello di questa complessa capacità di rappresentazione: talora è illustrata come una vacca nutrice; talaltra come una

donna con copricapo a corna bovine; altrove, ancora, può assumere una forma ibrida, metà donna e metà bovino. Ogni dio può, inoltre, governare diversi campi d’azione, in relazione al contesto e al momento: Seth, per esempio, è noto come dio malvagio uccisore del fratello Osiride e incarnazione del caos e del disordine; nel contempo, però, egli svolge anche il ruolo di protettore della barca del dio sole Ra, difendendola dai pericoli della notte. Ambivalenza e ambiguità sono, dunque, due caratteristiche fondamentali del divino egiziano. Anche il faraone, in alcuni casi, può essere definito nTry, necery, «divino». Spesso si sente parlare del faraone come di un dio in terra, unico intermediario tra mondo umano ed extraumano; quelli in cui il re è definito «divino», però, sono

Qui sopra: Tebe, necropoli di Dra Abu el- Naga, Tomba di Antef (TT 155). Pittura murale raffigurante alcuni Apiru che vendemmiano (vedi a p. 53). Antef fu gran araldo del faraone fra il regno di Hatshepsut (1479-1457) e 50 a r c h e o

casi ben specifici, eccezionali, nei quali egli è coinvolto in eventi e manifestazioni di potere, per esempio quando torna da una spedizione vittoriosa e particolarmente ardita. Vero è che ogni regnante egiziano viene identificato con il dio Horo, figlio di Osiride e primo dopo di lui a regnare sull’Egitto; il cosiddetto «nome di Horo» è il primo e piú antico della lunga titolatura del re, composta da ben cinque nomi. Se in vita è Horo, il sovrano defunto assume come modello Osiride, dio morto per eccellenza, che, secondo il mito, era stato ucciso e smembrato dal fratello e rivale Seth; una volta ricomposto dalla sorella Iside, Osiride diventerà, infatti, re divino e defunto per eccellenza, con il quale ogni sovrano d’Egitto dovrà automaticamente identificarsi dopo la morte.

quello di Thutmosi III (1479-1424). Nella pagina accanto: particolare di un rilievo policromo raffigurante il dio Horo e Ramesse II, dal tempio costruito per il faraone ad Abido. 1250 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.

la terra che il Signore ha promesso a lui e alla sua intera discendenza. Da lí Abramo procede verso le montagne del Negev, a sud del territorio di Giuda, ma una carestia lo costringe a fuggire in Egitto. Questo episodio rappresenta la prima menzione del popolo egiziano nella Bibbia, un episodio breve, ma sufficiente a mostrarci quale fosse l’atteggiamento biblico nei confronti della terra del faraone. Abramo, infatti, persuade la moglie Sarai (nome originario della donna, che, secondo le Scritture, Dio mutò in «Sara» quando raggiunse i 90 anni di età, n.d.r.) a fingersi sua sorella per timore che gli Egiziani, considerandola donna molto avve-


nente, uccidano lui e prendano lei; l’inganno funziona, la donna viene condotta nella casa del faraone come sua sposa e Abramo riceve ogni onore e bene. «Ma il Signore colpí il faraone e la sua casa con grandi piaghe, per il fatto di Sarai, moglie di Abram.Allora il faraone convocò Abram e gli disse: “Che mi hai fatto? Perché non mi hai dichiarato che era tua moglie? Perché hai detto: È mia sorella, cosí che io me la sono presa in moglie? E ora eccoti tua moglie: prendila e vattene!”» (Genesi 12:17-19). Contrariamente a quanto si legge nell’Esodo, il sovrano qui presentato si mostra rispettoso del dio di Israele e reagisce, spaventato, mandando

via dalla propria terra la causa della collera divina. Sembrerebbe trattarsi, dunque, di un faraone assennato, quasi giusto; eppure l’Egitto ne esce come un luogo ostile, dal quale Abramo è costretto a fuggire. Il concetto, in effetti, viene ripreso in Genesi 26:2-3, quando lo stesso Yahweh mette in guardia Isacco, pronto a scappare da una nuova carestia, intimandogli: «“Non scendere in Egitto, abita nel paese che io ti indicherò. Rimani in questo paese e io sarò con te e ti benedirò, perché a te e alla tua discendenza io concederò tutti questi territori, e manterrò il giuramento che ho fatto ad Abramo tuo padre”». L’Egitto di Abramo, quindi, è un Paese

nel quale gli Ebrei non possono o non dovrebbero vivere.

UNO STRANO ANACRONISMO Come ha bene osservato l’egittologo Donald Redford, prima del XII secolo a.C. non abbiamo fonti, né egiziane, né asiatiche, che facciano chiaramente riferimento a Israele o ai suoi patriarchi ancestrali e, in seguito, ancora per molti secoli si trovano solamente allusioni nella documentazione. Questa carenza di attestazioni sul versante egiziano è accompagnata da un’altrettanto scarsa presenza di riferimenti storici nella Bibbia all’Egitto e al Levante del II millena r c h e o 51


POPOLI DELLA BIBBIA/3 • EGIZIANI

nio a.C.: non si parla dell’espansione del Nuovo Regno egiziano nel Mediterraneo orientale, delle 17 campagne di Thutmosi III in Palestina, né di Ramesse II, che si batte contro gli Ittiti nella celeberrima battaglia di Qadesh (1274 a.C.), sulle rive del fiume Oronte (in Siria). Nessuna menzione diretta neanche della presenza egiziana nella terra di Canaan o della riscossione di tributi da parte del faraone. La descrizione dei piú noti sovrani e luoghi egiziani è spesso ridotta a poche menzioni, come nel caso della città di Ramses: «Giuseppe fece risiedere suo padre e i suoi fratelli e diede loro una proprietà nel paese d’Egitto, nella parte migliore del paese, nel territorio di Ramses, come aveva comandato il faraone». Qui il testo biblico (Genesi 47:11) nomina il territorio di Ramses, identificabile forse con PiRamesse, la capitale del Nuovo Regno fondata da Ramesse II sul Delta orientale del Nilo, intorno al 1300 a.C. circa. La citazione in Genesi su riportata, però, rappresenta un chiaro caso di

52 a r c h e o

anacronismo: la Bibbia, infatti, si riferisce al «territorio di Ramses» come fosse un luogo già esistente al tempo del patriarca Giuseppe, figlio di Giacobbe e padre di Efraim e Manasse, le cui vite si collocherebbero – idealmente ben prima che i Ramessidi prendessero potere in Egitto.

UNA «CITTÀ-DEPOSITO»? La città torna a essere nominata in Esodo (1:11), ove si elencano i nomi dei figli di Israele entrati in Egitto con il patriarca Giacobbe e delle rispettive famiglie. Il faraone (il cui nome non è espresso) viene descritto solo attraverso le sue parole, come un sovrano preoccupato del proliferare dei «figli d’Israele» in casa propria, al punto da imporre loro la schiavitú: «Allora vennero imposti loro dei sovrintendenti ai lavori forzati per opprimerli con i loro gravami, e cosí costruirono per il faraone le città-deposito, cioè Pitom e Ramses. Ma quanto piú opprimevano il popolo, tanto piú si moltiplicava e cresceva oltre misura; si cominciò a sentire come un incubo la presenza

dei figli d’Israele. Per questo gli Egiziani fecero lavorare i figli d’Israele trattandoli duramente. Resero loro amara la vita costringendoli a fabbricare mattoni di argilla e con ogni sorta di lavoro nei campi: e a tutti questi lavori li obbligarono con durezza» (Esodo 1:11-14). Di nuovo, la Ramses del testo biblico si riferirebbe alla Pi-Ramesse costruita da Ramesse II, odierna Qantir, e il cui nome egiziano prr’ms-sw, da leggere: per-Ramess(u), significa letteralmente «casa di Ramesse». Alcuni studiosi, tuttavia, ritengono che la Pi-Ramesse egiziana e la Ramses biblica non possano in alcun modo corrispondere, per due ragioni principali. Anzitutto perché Pi-Ramesse al tempo della XX dinastia è una vera e propria capitale e non una semplice «città-deposito», come quella biblica. In secondo luogo perché le due città, come già detto, non sembrano datarsi allo stesso periodo, essendo Pi-Ramesse egiziana fondata intorno all’inizio del XIII secolo ed essendo i patriarchi collocati tradizionalmente molto prima. Pitom,


invece, corrisponderebbe a un altro sito collocato sui Laghi Amari, presso l’attuale Canale di Suez; il suo nome egiziano è pr-tm (lettura: perAtum) e significa letteralmente «casa di Atum», con riferimento al dio creatore egiziano. Sono entrambe definite città-deposito nell’Esodo, poiché dovevano essere destinate all’immagazzinamento di tributi e derrate alimentari. È proprio al regno di Ramesse II – fondatore di Pi-Ramesse – che si fa tradizionalmente risalire l’esodo biblico.

CHI ERANO GLI APIRU? Durante il Nuovo Regno (15431069 a.C.), tra la XVIII e la XX dinastia, apprendiamo dalle fonti egiziane l’esistenza di un gruppo sociale o etnico definito degli Apiru, proveniente dalla Siria-Palestina e impiegato come forza-lavoro in Egitto. Secondo una diffusa quanto dibattuta ipotesi, gli Apiru (‘pr.w in Egiziano, pronuncia: Aperu/Apiru/Habiru) potrebbero corrispondere agli Ebrei della Bibbia, nominati anche nelle già citate Lettere di Amarna.

Le prime attestazioni in proposito vengono da due tombe della necropoli di Tebe (TT 39 e TT 155), attribuite a due alti funzionari vissuti al tempo di Thutmosi III (Puiemra e Antef), in cui gli Apiru sono rappresentati come viticoltori. Durante il regno di Amenhotep II, poi, ben 3600 Apiru sono elencati insieme ai principi asiatici e ai beduini, nella lista di prigionieri portati in Egitto dopo la seconda campagna militare del sovrano, condotta nell’area siro-palestinese. Sotto il regno di Ramesse II (12791212 a.C.), tuttavia, la presenza di questo gruppo di genti straniere risulta ancor meglio attestata nella documentazione testuale. Nel Papiro Harris 500 (un tempo appartenuto al collezionista Anthony Charles Harris e oggi conservato presso il British Museum di Londra) troviamo menzione degli Apiru nel testo noto come «La presa di Joppa», in cui si descrive la conquista della città cananea di Yapu (Joppa, l’odierna Giaffa, in Israele, n.d.r.) da parte di Thutmosi III. Il testo è

frammentario e non ci consente di raccogliere ulteriori informazioni sul loro ruolo in Egitto. Ancora, nel Papiro Leida 348, relativo alla costruzione della capitale Pi-Ramesse leggiamo: «Distribuisci razioni di grano ai soldati e agli Apiru, che trasportano le pietre al grande pilone di Ramesse». In altre fonti dello stesso periodo gli Apiru sono citati come fabbricanti di mattoni, impiegati nell’harem regale o commercianti, tutt’altro che schiavi, dunque, e tutt’altro che sulla via di una ribellione. Eppure, in Esodo, la caratterizzazione dell’Egitto e del suo sovrano è apertamente negativa, e il rapporto tra il popolo della Bibbia e gli Egiziani risulta basato sull’opposizione e la segregazione degli uni da parte degli altri. Ramesse II – considerato nell’Esodo il diretto antagonista di Mosè – diviene, nell’immaginario comune, l’incarnazione del male e l’oppressore della fede. Si dovranno attendere gli studi della fine dell’Ottocento e poi la creazione della Repubblica Araba d’Egitto (nel 1953)

Primo mattino nel Deserto di Shur, olio su tela di Frederick Goodall. 1860. Londra, Guildhall Art Gallery. Secondo Esodo 15:22, dopo il passaggio del Mar Rosso, gli Ebrei raggiungono il «deserto di Shur» da cui si avviano verso il sud, per la prima tappa dell’Esodo.


POPOLI DELLA BIBBIA/3 • EGIZIANI

perché il sovrano venga definitivamente riabilitato e, anzi, trasformato in un vero e proprio simbolo dell’antico splendore del Paese.

LA FUGA DALL’EGITTO «Il Signore disse: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, Particolare di un affresco raffigurante il passaggio del Mar Rosso, dalla sinagoga di Dura Europos. III sec. d.C. Damasco, Museo Nazionale.

54 a r c h e o

l’Hittita, l’Amorreo, il Perizzita, l’Eveo, il Gebuseo. Ora dunque il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto l’oppressione con cui gli Egiziani li tormentano. Ora va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!”» (Esodo 3:7-10). Nonostante il costante riferimento alla crudeltà egiziana, il motivo dell’Esodo deve essere stato una metafora esemplare per alludere alle deportazioni assire che, nell’VIII secolo a.C. infierirono sugli abitanti della costa siro-palestinese; circostanza divenuta, nel tempo, una vi-

cenda «fondante» per la tradizione del popolo di Israele. Il biblista Thomas Römer ritiene plausibile che l’Esodo abbia avuto origine da una tradizione trasmessa oralmente, che rifletterebbe il periodo finale del dominio egiziano su «Israele» (seconda metà del II millennio a.C.); contemporaneamente, non esclude che la vicenda possa alludere anche agli Apiru in fuga dal controllo faraonico. In ogni caso, si deve valutare anche la situazione storica del millennio seguente: dopo il 1100 a.C., i territori della costa palestinese speri-


mentarono un periodo di indipendenza dalle grandi potenze, poiché i grandi imperi egiziano e ittita – che sino ad allora ne avevano detenuto il controllo – si erano indeboliti sotto i duri colpi ricevuti da quei gruppi di invasori passati alla storia sotto il nome di «Popoli del Mare». A un dominio, però, seguí presto l’altro: tra l’853 e il 730 a.C. circa, Salmanassar III e Tiglat-Pileser III, imperatori di Assiria, sferrarono una serie di attacchi agli Stati siro-palestinesi, sottomettendoli al pagamento dei tributi e deportando 13 520 persone (secondo gli annali regali). Nel 721 a.C. fu presa Samaria, capitale di Israele nel Nord; Gerusalemme fu assediata, ma non capitolò. Per la sua distruzione si dovrà attendere ancora un secolo e l’avvento dell’imperatore babilonese Nabucodonosor (586 a.C.), a cui seguiranno ancora anni e anni di deportazioni. Dopo l’esilio babilonese (597-539 a.C. circa), la narrazione dell’Esodo sarà formulata dai cosiddetti Deuteronomisti, un gruppo intellettuale di scribi e sacerdoti che, attraverso l’amministrazione degli archivi e la produzione letteraria, dovevano gestire anche la propaganda. Il Libro dell’Esodo, cosí come oggi lo conosciamo, è stato l’oggetto di una lunga riflessione, nella quale sono confluite le diverse tradizioni documentarie od orali relative alla storia del popolo biblico, poi interpretate e rielaborate dalla casta scribale e sacerdotale dell’epoca. In questo panorama, la narrazione della fuga dall’Egitto diventa, quindi, il simbolo della liberazione di tutte le deportazioni sofferte dalle genti dell’area siropalestinese durante i secoli di dominazioni straniere.

cinanza si può ravvisare in alcune similitudini esistenti tra l’antica produzione letteraria egiziana e i libri biblici; piú specificatamente nella ricezione di documenti egiziani da parte della Bibbia ebraica. Esemplare è il caso del manoscritto egiziano noto come Gli Insegnamenti di Amenemope, costituito da trenta capitoli di istruzioni impartite da un padre al proprio figlio. La prima elaborazione del testo, nota tramite frammenti piú antichi, è di epoca ramesside; la copia piú completa è però quella conservata presso il British Museum e datata alla XXVI

dinastia (VII-VI secolo a.C.). Gli studi degli inizi del Novecento (tra cui quello dell’egittologo tedesco Adolf Erman) sottolineano le corrispondenze tra Amenemope e il Libro dei Proverbi, ipotizzando una diretta influenza dell’opera egiziana su quella ebraica. D’altronde, le affinità tra i due sono ben evidenti scorrendo i testi. «Porgi le tue orecchie, ascolta ciò che si dice, e poni il tuo cuore a comprenderlo. È utile porle nel tuo cuore, dannoso per chi le trascura», leggiamo negli Insegnamenti di Amenemope (I stanza, traduzione di Alessandro Roccati). Similmente, in Proverbi (1:

A sinistra: particolare della fronte di un sarcofago con la scena del passaggio del Mar Rosso. Età teodosiana (379-395 d.C.). Città del

Vaticano, Museo Pio Cristiano. In basso: miniatura raffigurante il passaggio del Mar Rosso, da una Bibbia di produzione tedesca. XV sec.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

CONTATTI FREQUENTI Piú o meno bellicosi, i contatti tra Egitto e il popolo di Yahweh furono certamente piuttosto frequenti e ravvicinati. Al di là delle vicende storicamente attendibili, questa via r c h e o 55


POPOLI DELLA BIBBIA/3 • EGIZIANI

5-6) si trova: «Ascolti il saggio e aumenterà il sapere, e l’uomo accorto acquisterà il dono del consiglio, per comprendere proverbi e allegorie, le massime dei saggi e i loro enigmi».

LA SEDUZIONE MANCATA Queste massime sapienziali non sono, però, l’unico prestito della letteratura egiziana alla Bibbia. Un altro caso piuttosto suggestivo è quello della seduzione di Giuseppe, raccontata nella Genesi, che ricorda abbastanza da vicino la vicenda narrata sul Papiro d’Orbiney (13201200 a.C. circa), meglio nota come Il racconto dei due fratelli. Genesi 39 racconta che Giuseppe era stato condotto in Egitto e, grazie

alle sue abilità, entrato nelle grazie di Potifar, uomo facoltoso e consigliere del faraone. Giuseppe è anche descritto come «bello di forma e avvenente di aspetto» (39:6), al punto da guadagnarsi le attenzioni licenziose della moglie di Potifar: «Dopo questi fatti, la moglie del padrone gettò gli occhi su Giuseppe e gli disse: “Unisciti a me!”. Ma egli rifiutò (…) E, benché ogni giorno essa ne parlasse a Giuseppe, egli non acconsentí di unirsi, di darsi a lei» (Genesi 39:7-10). A causa delle false accuse della donna rifiutata, però, Giuseppe finí per subire le ire del marito geloso, il quale lo fece gettare nelle prigioni del re. Questo episodio biblico trova numerosi parallelismi nell’antico rac-

Padova, Cappella degli Scrovegni. Particolare dell’affresco di Giotto raffigurante la fuga in Egitto. 1303-1305. L’angelo, in alto, esorta la Sacra Famiglia a mettersi in salvo dalla strage degli innocenti che si sarebbe di lí a poco consumata e Giuseppe conduce il piccolo corteo, con Maria sull’asino che tiene Gesú fra le braccia.

conto egiziano: gli uomini coinvolti in questo caso sono due fratelli (da cui il titolo dell’opera), Anubi e Bata; il primo accasato e sposato, il secondo privo di moglie ma abilissimo a svolgere ogni tipo di attività agricola utile all’economia familiare. Anche Bata è descritto come «un bel giovane vigoroso, di cui non c’era l’eguale nella terra intera» (traduzione di Edda Bresciani) e anche in questo caso la moglie infedele tenta di sedurlo: «Cosí lei gli parlò dicendo: “C’è una grande forza in te. Io vedo ogni giorno il tuo vigore”. E lei desiderò conoscerlo come uomo. Allora si alzò, lo afferrò e gli disse: “Vieni, passiamo un’ora distesi insieme”». Come Giuseppe, anche Bata rifiuta l’offerta e si allontana. E come Giuseppe anche Bata incorre nella vendetta femminile e, dunque, nell’ira fraterna. La vicenda egiziana è piú lunga e articolata di quella biblica, ma entrambe sottolineano l’importanza di valori e principi molto simili. I due protagonisti sono modelli di purezza e lealtà, capaci di resistere alle tentazioni della carne; una volta riabilitati infatti, essi diverranno governanti del proprio popolo: Giuseppe arriverà a essere nominato secondo del faraone (Genesi 41: 37) e Bata diverrà re d’Egitto.

MATRICI COMUNI Oltre a mostrarci quanto pericolosa possa diventare una donna rifiutata, i due racconti dimostrano, ancora una volta, come il popolo di Yahweh e quello del Nilo fossero intimamente legati non solo da secoli di invasioni, dominazioni e imposte, ma anche e soprattutto da una lunga tradizione culturale, substrato e memoria di tutti i Paesi che affacciano sul Mar Mediterraneo. L’Egitto è luogo centrale per la vicenda biblica anche nelle pagine del Vangelo di Matteo, ove si narra che il re Erode – temendo la venuta dell’annunciato «re dei Giudei» – ordinò di uccidere ogni bambino sotto i due anni. 56 a r c h e o


A sinistra: Venezia, basilica di S. Marco. Mosaico raffigurante Giuseppe che resiste al tentativo di seduzione della moglie di Potifar, consigliere del faraone. IV sec. d.C. In basso: papiro contenente alcuni passi degli Insegnamenti di Amenemope, da Tebe. XXVI dinastia, VII-VI sec. a.C. Londra, British Museum.

seguente profezia: «Ecco il Signore salirà su una nube veloce e entrerà in Egitto, e gli idoli dell’Egitto cadranno davanti a lui» (Is 19,1)». L’interesse del testo alessandrino risiede nel fatto che vi troviamo elencati alcuni toponimi di luoghi attraversati dalla Sacra Famiglia: il villaggio di Bastah, in cui il piccolo Gesú fa scaturire una fonte di acqua guaritrice; la località chiamata Biha Isus, «tallone di Gesú», a memoria del suo passaggio; il monte en-Natrun – probabilmente attuale area dello wadi El Natrun, zona desertica sede di numerosi monasteri copti. Nonostante, dunque, il Nuovo Testamento ci dia notizia della fuga in Egitto tramite il solo Vangelo di Matteo e la descrizione del viaggio non risulti particolarmente ricca di dettagli, di certo questa vicenda ha dato luogo a una lunga tradizione, celebrata ancora nell’odierno Egitto di fede cristiana. NEL PROSSIMO NUMERO • I Filistei

PER SAPERNE DI PIÚ

Il testo canonico ci dice soltanto: «Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo”. Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggí in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Dall’Egitto ho chiamato il mio figlio”». Notizie piú numerose ci giungo-

no dal Sinassario Alessandrino – una collezione di vite e opere dei santi redatta dalla Chiesa cristiana copta nel XII secolo – ove apprendiamo che Gesú sarebbe arrivato in terra d’Egitto all’età di due anni per due ragioni principali: la prima, quella già nota dal Vangelo di Matteo, era che il bambino non cadesse nelle mani di Erode; la seconda, che gli Egiziani potessero gioire della «grazia che Egli avebbe portato passando tra loro, e perché, attraverso la caduta degli idoli dell’Egitto, si adempisse la

Edda Bresciani, Letteratura e poesia dell’antico Egitto. Cultura e società attraverso i testi, Einaudi, Torino 1969 Mario Liverani (a cura di), Le lettere di el-Amarna, Paideia, Brescia 1998-1999 Mario Liverani, Oltre la Bibbia: storia antica di Israele, Laterza, Roma-Bari 2003 Alessandro Roccati, Sapienza egizia, Paideia, Brescia 1994 Thomas Römer, The Role of Egypt in the Formation of the Hebrew Bible, in Journal of Ancient Egyptian Interconnections, 18, 2018; pp. 63-70 Donald B. Redford: Egypt, Canaan, and Israel in Ancient Times, Princeton University Press, Cairo 1993 a r c h e o 57


MOSTRE • NOME MOSTRA

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces. 58 a r c h e o


Tutte le foto si riferiscono all’allestimento del Museo Nazionale del Bardo di Tunisi. La sala che espone il celebre mosaico raffigurante Ulisse e le Sirene e, a sinistra, quello di Dioniso e i pirati.

UN GIORNO AL BARDO È UNA DELLE PIÚ STRAORDINARIE RACCOLTE ARCHEOLOGICHE AL MONDO E LA SUA COLLEZIONE DI MOSAICI ROMANI NON HA CONFRONTI. OGGI, IL CELEBRE MUSEO DELLA CAPITALE TUNISINA SI PRESENTA CON UNA SUPERFICIE ESPOSITIVA NOTEVOLMENTE AUMENTATA E IL NUOVO ALLESTIMENTO DI MOLTE SEZIONI STORICHE di Andreas M. Steiner a r c h e o 59


MUSEI • TUNISIA

U

n’ora e venti minuti di aereo – partendo da Roma –, un altro quarto d’ora di taxi dall’aeroporto di Tunisi Cartagine e ci troviamo all’ingresso di uno dei piú stupefacenti musei archeologici del mondo. Una grande vetrata, inserita all’interno di un cubo bianco che si staglia contro la luce abbacinante del cielo nordafricano; una fila di palme che, a distanza regolare, accompagna il corpo di un’architettura geometrica e razionale, fino a raggiungere gli edifici ottocenteschi dell’originario edificio museale. Stiamo per entrare al Bardo, il secondo museo del continente africano (dopo quello del Cairo) e il piú grande scrigno dell’arte musiva romana al mondo… Due sono le date che hanno segnato – in senso diametralmente opposto – la storia recente di questa importante istituzione: la prima risale al 2012, anno in cui è stato inaugurato il nuovo corpo museale, aggiunto all’edificio originario facente parte del piú vasto complesso noto come il «Palazzo del Bardo» e composto da un insieme di edifici risalenti a partire dal XV secolo

Roma

Tunisi

(come numerose altre residenze signorili tunisine – tra cui la stessa Cartagine moderna –, anche il Palazzo del Bardo, costruito sul modello delle residenze principesche dell’Andalusia musulmana, sorge in una zona al di fuor i dell’antico centro cittadino – la medina – di Tunisi).

L’AMPLIAMENTO L’ampliamento del museo (conosciuto in origine come «Museo Alaoui», dal nome del bey regnante all’epoca della sua istituzione) è stato voluto per aumentare la superficie espositiva e poter cosí presentare al pubblico una parte ancora mag-

IL NUOVO MUSEO Il Museo Nazionale del Bardo fu fondato il 7 novembre del 1882, occupando l’ala ottocentesca (fatta costruire durante il regno di Mohamed Pasha Bey tra il 1855 e il 1859) di un palazzo risalente al XV secolo. La nuova istituzione prenderà il nome di Museo Alaoui, in onore dell’allora monarca alawita Ali Muddat ibn al Hysayn, detto Ali Bey (1882-1902). La prima collezione fu allestita nella parte dell’edificio che, originariamente, ospitava l’harem del regnante. Il nome Dall’alto, in senso orario: l’antico edificio del Museo del Bardo; la sezione con la nuova estensione, inaugurata nel 2012; il grande mosaico di Nettuno (con una superficie di oltre 225 mq), esposto nell’atrio; la vetrata dell’ingresso. A sinistra: il mosaico di Ulisse e le Sirene, da Susa. III sec. d.C.

60 a r c h e o


odierno verrà reso ufficiale solo nel 1956, dopo la raggiunta indipendenza della Tunisia dal protettorato francese. I moti della primavera araba ritarderanno l’inaugurazione – prevista per il 2011 – della nuova ala del museo, che però verrà ufficialmente aperta al pubblico il 25 luglio del 2012.

Qui sotto: la targa commemorativa dell’attentato compiuto il 18 marzo 2015.

a r c h e o 61


MUSEI • TUNISIA

Il ballatoio del salone principale, o Sala di Cartagine, del Museo Nazionale del Bardo.

giore dei suoi innumerevoli tesori, ma anche per riallestire, in maniera piú consona ai piú moderni criteri museografici, alcune delle sue collezioni storiche. La seconda data ha condizionato, tragicamente e fino a oggi, l’immagine della veneranda istituzione: esattamente quattro anni fa – erano le 12,30 del 18 marzo 2015 – un commando di terroristi armati di fucili d’assalto, granate ed esplosivi, penetrava nel Palazzo (la cui entrata è in comune con quella del Parlamento tunisino) e apriva il fuoco sui visitatori. Le vittime furono ventidue (ventuno i turisti, tra cui quattro italiani, e un agente di polizia), quarantacinque i feriti. In seguito, l’attacco fu rivendicato dal sedicente Stato Islamico. L’attentato, che si inserisce in una 62 a r c h e o

serie di attacchi terroristici verificatisi in quell’anno nefasto, molti dei quali diretti ai simboli della cultura e della civiltà mondiale (ricordiamo che pochi mesi dopo avrà inizio la distruzione della siriana Palmira), ha inevitabilmente determinato una temporanea damnatio di quel luogo straordinario che, come abbiano ricordato, era stato appena ampliato e reinaugurato.

VOLONTÀ DI RINASCITA Ma, fortunatamente, il Museo del Bardo è vivo. Una targa a memoria delle vittime (perlopiú di nazionalità straniera) è posta nel grande atrio d’ingresso del Museo, a ricordare un evento – e una stagione – di barbarie recenti; e un bellissimo volume, quasi un catalogo del museo, è stato pubblicato nel 2016, per

conto dell’Agenzia per la valorizzazione e la promozione del patrimonio culturale della Tunisia: il titolo è: «Un monument, un musée: Je suis Bardo». Scrive, nell’introduzione, Sonia M’barek, ministro della cultura e del patrimonio: «Il colpo è stato duro. Lo sappiamo. Ma i terroristi hanno raggiunto il loro obiettivo? Certamente no…». Quasi un catalogo, dicevamo, perché, nonostante la sua mole fatta di 480 pagine e centinaia di foto, menzionare e descrivere tutti i reperti del museo in un solo volume sarebbe impresa impossibile. Visitare per la prima volta il Museo Nazionale del Bardo (o anche gli altri musei tunisini, quello di Susa per esempio, piú piccolo, ma bellissimo) produce un effetto quasi sconcertante: rivela, infatti, un uni-


Virgilio e le Muse Racchiuso da una cornice quadrata di 122 cm per lato, questo mosaico rinvenuto nell’antica Hadrumetum (odierna Susa) ritrae il poeta mantovano Virgilio seduto fra la musa della storia, Clio (alla sua destra) e quella della tragedia, Melpomene. L’opera illustra l’attaccamento dell’élite africana del III sec. d.C. alla cultura romana e ai suoi classici. Si tratta della piú antica raffigurazione a oggi nota dell’autore dell’Eneide. a r c h e o 63


MUSEI • TUNISIA

verso – le province dell’antica Africa romana – in maniera cosí immediata e viva da affascinare per sempre anche coloro che, per l’arte musiva, non avevano nutrito, fino a quel momento, alcuna particolare propensione. Gli ambienti espositivi, distribuiti su due piani per un totale di 9000 mq, presentano una scelta immensa di mosaici provenienti dagli scavi intrapresi, a partire dagli inizi del XX secolo, nei siti archeologici di Cartagine, Hadrumetum (l’odierna Susa), Thugga e Utica. L’allestimento segue un ordine tematico, per cui si inizia con i mosaici raffiguranti scene di vita quotidiana: vi troviamo le raffigurazioni di fastose ville agricole che riportano varie tipologie architettoniche e botaniche (un grande mosaico rinvenuto a Tabarka, ai confini con l’Algeria e che in origine decorava un’esedra trilobata, ritrae una villa padronale e altri edifici minori destinati ai lavori agricoli, tra cui una

64 a r c h e o


A sinistra e qui sopra: gli ambienti dedicati ai mosaici con scene di caccia e pesca e di giochi circensi. Nella pagina accanto: particolare del mosaico di Venere incoronata da due centauresse, da Ululi (oggi Eles). IV sec. d.C.

scuderia), paesaggi italici e nilotici, scene di caccia e pesca e di vita termale. La visita prosegue per passare ai giochi circensi e agli spettacoli negli anfiteatri: la corsa dei carri, gli aurighi, la teoria di animali, i combattimenti tra leoni e bestiarii, l’incontro tra due pugili; tutto ciò illustra l’importanza che questo tipo di spettacoli rivestiva nell’Africa romana lungo un periodo compreso tra il II e il VI secolo d.C. Gli animali sono, poi, i grandi protagonisti del terzo ciclo tematico, quello dedicato alla caccia: cinghiali, pantere, lepri e cani animano i pavimenti musivi di Cartagine, Thuburbo Majus e Chebba.

LA TOGA BIANCA DEL POETA Numerosi sono, poi, i mosaici dedicati al banchetto e al convivio («Omnia tibi felicia» – «Possa tu gioire di tutto» – recita la scritta di uno di essi), all’ambito della poesia, della religione e della mitologia. Forse è

proprio a questi ultimi tre ambiti che appartengono le creazioni musive piú suggestive di tutto il museo: prendiamo il caso, emblematico, del mosaico che raffigura Virgilio seduto tra le muse Clio e Melpomene (vedi foto a p. 63). Scoperto a Hadrumetum nel 1896, fu inizialmente esposto in un ambiente degli appartamenti nobiliari facenti parte del vecchio museo, mentre oggi inaugura il percorso del «nuovo Bardo». Racchiuso da una cornice quadrata di 122 cm per lato, il magnifico mosaico ritrae il poeta vestito di una toga bianca mentre racconta l’amore tra Enea e Didone. Sulla pergamena che poggia sulle ginocchia si legge l’inizio dell’ottavo verso dell’Eneide: «Musa mihi causas memora» («Musa, rammentami le cause»). In piedi, alla destra del poeta, è Clio, la musa della storia, riconoscibile grazie al volumen che tiene aperto tra le mani. Alla sua sinistra è Melpomene, musa della tragedia, che regge una maschera. a r c h e o 65


MUSEI • TUNISIA

Testa in marmo raffigurante Lucio Vero, da Dougga. II sec. d.C. 66 a r c h e o


In alto: il nuovo braccio del museo, che accoglie i reperti del relitto di Mahdia. I sec. a.C. In basso: maschera ghignante in terracotta di produzione fenicia, da Cartagine. Fine del VI sec. a.C.

Databile tra il I e il IV secolo, l’opera costituisce la piú antica rappresentazione del poeta; ed è suggestivo pensare che, quando il mosaico venne realizzato (per decorare il pavimento di un ricco signore dell’Africa romana), la città di Cartagine, teatro del leggendario amore tra la regina fenicia e l’eroe troiano, era già rinata come Colonia Iulia Kar thago, dall’oblio in cui la stessa Roma l’aveva condannata piú di un secolo prima. Alla glorificazione degli dèi di Roma è, inoltre, dedicata una serie di splendide composizioni tra cui spicca il Trionfo di Nettuno, un enorme pavimento musivo dalla superfice di oltre 125 mq, rinvenuto nella casa di Sorothus, sempre a Susa, e databile alla fine del II secolo. Dalla fine dell’Ottocento il mosaico era stato sistemato come decorazione di una

sala per le feste del palazzo del Bardo, rinominata «sala di Susa» quando venne inaugurato il Museo Alaoui. Oggi questo straordinario tappeto musivo (il piú esteso mai rinvenuto in tutto il Maghreb) è stato collocato in posizione verticale e accoglie il visitatore all’ingresso stesso della nuova ala del Museo: nel medaglione esagonale centrale si riconosce Nettuno, con il tridente nella mano sinistra, su un carro trainato da quattro cavalli marini. Lo attorniano cinquantasei medaglioni circolari ed esagonali in cui sono raffigurate Sirene, Nereidi e Tritoni assisi su altrettanti mostri marini. Il trionfo del dio marino è uno dei temi piú amati dai mosaicisti africani, come dimostra un altro Nettuno, questa volta rinvenuto a Chebba e che rappresenta, anch’esso, uno dei capolavori esposti al Bardo: decorava, in origine, l’atrium di una domus a r c h e o 67


MUSEI • TUNISIA

della metà del II secolo e rappresenta, all’interno di una cornice perfettamente quadrata, il dio con la testa nimbata su un carro trainato da quattro ippocampi. Agli angoli della composizione quattro figure femminili, accompagnate da animali e servi intenti ai lavori agricoli, simboleggiano le stagioni (vedi foto nella pagina accanto).

L’ANZIANO E IL PLURIVINCITORE Una divinità femminile è, invece, protagonista di un altro mosaico, rinvenuto a Eles (la romana Ululi) e risalente al IV secolo (vedi foto a p. 64). Si tratta del particolare a forma di T facente parte di un piú vasto pavimento musivo, al cui interno riconosciamo Venere mentre sta per essere incoronata da due centauresse. La scena è sormontata da una scritta in cui si legge «POLYSTEFANUS-RATIONIS EST–ARCHEUS» e, verosimilmente, rievo-

68 a r c h e o

ca la vittoria durante una gara di carri svoltasi durante le festività in onore della dea. La scritta potrebbe indicare i nomi dei due cavalli vincenti: Polistefanus (il plurivincitore) rationis est (e a buon diritto) e Archeus (l’anziano), per l’occasione trasformati in… centauresse.

E concludiamo questa nostra troppo rapida rassegna dei capolavori del Bardo accennando a un’opera nota anche a molti di coloro che non hanno ancora avuto la fortuna di visitare questo vero e proprio santuario dell’arte musiva: ci riferiamo al celeberrimo frammento di


A sinistra: mosaico con Nettuno su un carro trainato da quattro ippocampi, da Chebba. II sec. d.C. Nella pagina accanto, in alto: il mosaico raffigurante il dio Dioniso e i pirati, da Dougga. III sec. d.C. Nella pagina accanto, in basso: grande mosaico pavimentale raffigurante il trionfo di Dioniso, dalle terme di Traiano ad Acholla, presso l’odierna Sfax. 120-130 d.C.

mosaico raffigurante Ulisse e le Sirene, esposto nella sezione dedicata ai miti e alle leggende dell’antichità. È stato scoperto durante gli scavi di una villa di Dougga e si data al III secolo. Riprodotta in tutti i manuali di storia antica, la scena rievoca l’episodio narrato da Omero (Odissea 12. 151-200) in cui l’eroe resiste al canto delle sirene (raffigurate sul lato destro della composizione), legato all’albero principale della sua nave. Dallo stesso peristilio della casa di Dougga proviene un altro mosaico marino, esposto a fianco di quello di Ulisse: raffigura, questa volta, un giovane Dioniso/Bacco, in piedi su una nave assediata dai pirati, contro i quali è intento a scagliare una lancia. Un vecchio sileno,

una baccante e un satiro sono i suoi mana. Le bellissime sale del vecchio compagni di viaggio. edificio, inoltre, presentano le raccolte di arte e archeologia islamica, cristiana e giudaica. Ognuna di IL GHIGNO FENICIO Possiamo solo accennare, a questo queste raccolte meriterebbe una punto della nostra visita, alle tante trattazione a parte. E non esiste caaltre collezioni custodite in questo talogo (né tantomeno l’articolo di grandioso luogo della memoria an- una rivista!) che possa rendere giutica. Gli ambienti del nuovo Bardo stizia al loro fascino. espongono magnifici reperti di L’autore ringrazia il professor Moncef epoca fenicio-punica (a pagina 67, Ben Moussa, conservatore del Museo del riproduciamo, a titolo di puro Bardo, per la sua preziosa collaborazione. esempio, una delle celebri «maschere ghignanti»), ma anche i ritrova- DOVE E QUANDO menti del relitto di Mahdia (la nave mercantile greca naufragata, nel I Museo Nazionale del Bardo secolo a.C., al largo della costa Tunisi, route Nationale 7 orientale tunisina e scoperta e sca- Orario ma-do, 9,30-16,30; vata agli inizi del Novecento), insie- chiuso il lunedí me a esempi eccelsi di statuaria ro- Info www.bardomuseum.tn a r c h e o 69


MOSTRE • CORTONA

UN LUCUMONE ALLE FALDE DEL VESUVIO ALLA METÀ DEL XVIII SECOLO, IL CORTONESE MARCELLO VENUTI SI TRASFERISCE A NAPOLI, ALLA CORTE DEI BORBONI, INCARICATO DI CURARE LE COLLEZIONI REALI. HA COSÍ MODO DI ACCOSTARSI AGLI SCAVI AVVIATI NELL’AREA DI ERCOLANO ED È IL PRIMO A IDENTIFICARE I RESTI DELL’ANTICA CITTÀ. UNA VICENDA APPASSIONANTE, ORA RIPERCORSA DALLA MOSTRA ALLESTITA A CORTONA, NEL MUSEO CHE PORTA IL NOME DI QUELL’ACCADEMIA ETRUSCA DI CUI VENUTI FU UNO DEI FONDATORI di Bruno Gialluca Bronzetto di Alessandro Magno a cavallo, da Ercolano. I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Il Macedone è nell’atto di lanciare dal cavallo impennato un fendente di spada su un nemico appiedato: la scena rimanda, in scala ridotta, al gruppo scultoreo, di Lisippo, che rappresentava i cavalieri macedoni caduti alla battaglia presso il fiume Granic (334 a.C.).


C

zione, introdusse i nipoti presso Salvatore Ascanio, domenicano, rappresentante della Spagna a Firenze. L’intervento dell’influente zio valse nel 1724 al giovane Marcello l’incarico della descrizione della cerimonia funebre celebrata dallo stesso Ascanio a Firenze, in Santa Maria Novella, in occasione della morte del re di Spagna Luigi I. Marcello a partire dal 1726 avrebbe cominciato a distinguersi per essere cofondatore e dominus della Accademia Etrusca di Cortona. Il giovane, con il fratello Ridolfino e altri concittadini, nel dicembre 1726 aveva dato vita a una «società per la compra di libri», per costituire a

ortona rende omaggio con una mostra a uno dei suoi figli piú illustri, Marcello Venuti (1700-1755). Già tra i fondatori dell’Accademia Etrusca, nel 1738 Venuti fu incaricato dal re di Napoli di curare le collezioni farnesiane e di sovrintendere agli scavi di Ercolano. La sua vicenda biografica fra Cortona e Napoli, tra scavi e pubblicazioni, tra granducato di Toscana e corte borbonica viene dunque raccontata da materiali e documenti nella maggior parte dei casi presentati per la prima volta. E, nelle pagine che seguono, pubblichiamo un ampio stralcio del testo in cui Bruno Gialluca rievoca la vita di Marcello Venuti. Marcello Venuti, nato a Cortona nel 1700, fu il primogenito della folta prole di Giuseppe, cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano, e di Francesca Baldelli, ambedue appartenenti a nobili e antiche famiglie della città. Morto immaturamente Giuseppe nel 1708, di Marcello e dei fratelli Giovan Battista, Ridolfino, Filippo, Girolamo, tutti in tenera età, si prese cura lo zio, fratello minore del defunto, Domenico Girolamo Venuti, in seguito ministro dei granduchi Cosimo III e Gian Gastone e ben inserito nell’ambiente di Filippo Buonarroti. Fu Domenico Girolamo Venuti a disegnare le strategie per aprire ai nipoti un futuro migliore di quello che poteva loro assicurare il modesto patrimonio di famiglia: appartenente al partito filo spagnolo, a corte largamente maggioritario, che vedeva nel giovane Carlos di Borbone – designato dal trattato di Londra (1718) e dal congresso di Cambrai (1722) quale successore del granduca Gian Gastone – la soluzione migliore per la successione ai Medici, prossimi all’estin-

In alto: particolare di un affresco raffigurante un volto di fanciulla (identificata con Akte o Peliade), da Ercolano. 20-10 a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. A destra: busto in marmo di Marcello Venuti, al quale si devono il progetto di istituire a Cortona l’Accademia Etrusca (1727) e il primo riconoscimento dei resti della città di Ercolano (1738).

a r c h e o 71


MOSTRE • CORTONA

Cortona, che ne era sprovvista, una biblioteca a uso dei soci. Acquisita nel novembre 1727 una ingente collezione di libri, antichità, naturalia, raccolti a Roma da Onofrio Baldelli, zio dei Venuti, il sodalizio mutava la ragione sociale in Società o Accademia degli Occulti, prestissimo diventata Accademia Etrusca delle Antichità ed Inscrizioni, che ebbe (come già la Società degli Occulti) il sostegno incondizionato di Filippo Buonarroti.

IL SOGGIORNO ROMANO Non vedendo la possibilità di impieghi nel breve termine, Marcello optò per un soggiorno a Roma, verso la quale mosse da Firenze nei pr imissimi giorni del gennaio

1729, in compagnia di un giovane gentiluomo inglese, Henry Hare, 3th Baron Coleraine. Nel corso del soggiorno romano, che non fu brevissimo, poiché si protrasse dagli inizi di gennaio fino al maggio successivo inoltrato, Marcello potè conoscere importanti personalità della cultura e dell’antiquaria romane. Nell’estate, Marcello doveva rientrare precipitosamente a Firenze per apoplessia dello zio, la cui morte, di poco successiva, lo faceva diventare capofamiglia. La nomina di Salvatore Ascanio a lucumone dell’Accademia Etrusca, nel 1730, venne celebrata da Marcello componendo De antiquitate Cortonae epistola, un breve scritto avente per oggetto le origini, la storia, la grandezza di Cortona, indirizzato a Salvatore Ascanio, nel quale l’autore, a nome dell’Accademia Etrusca, salutava il nuovo lucumone come l’artefice della felicità della Toscana per l’intensa 72 a r c h e o

attività diplomatica esplicata a Firenze a favore della candidatura di Carlos di Borbone. Nominato Gran Conservatore dell’Ordine di Santo Stefano nell’aprile 1731 e perciò stesso membro di diritto del Consiglio dei dodici, che si riuniva due volte la settimana e deliberava su tutto quanto atteneva al funzionamento dell’ordine, per tre anni (tale era la durata dell’incarico, non rinnovabile alla scadenza) il giovane gravitò su Pisa. Fresco di nomina, Marcello partecipò alla delegazione che nel dicembre 1731 salpò da Livorno per Antibes, inviata dal granduca Gian Gastone per scortare e porgere gli omaggi a Carlos di Borbone in procinto di imbarcarsi per la Toscana, che allora pareva a lui destinata. Marcello partiva con le idee assai chiare: era intenzionato a restare «nell’idea del Principe [Don Carlos] per essere il primo nazionale che incontrerà» e a bene

impressionare il marchese José Joaquín de Montealegre «che dovrà essere il padrone della Toscana», al fine di trarre vantaggio anche per sé e la sua famiglia dalla partecipazione alla delegazione.

L’ATTIVITÀ EDITORIALE Gli impegni derivanti dall’incarico non impedirono a Marcello di avviare un piano di attività editoriale dell’Accademia Etrusca. Alla fine del 1730, per esortazione di Filippo Buonarroti, che insisteva perché venisse pubblicato un volume di dissertazioni scelte tra le migliori presentate all’Accademia Etrusca, secondo il modello delle piú accreditate accademie europee, ebbe l’avvio la redazione dei Saggi di dissertazioni accademiche pubblicamente lette nella nobile Accademia Etrusca dell’antichissima città di Cortona. Al termine di una difficile vicenda redazionale, che impegnò per cinque anni Marcello, Filippo e Ridol-


Sulle due pagine: una veduta di Cortona, città sviluppatasi sul sito dell’etrusca Curtun. Nella pagina accanto: barretta in bronzo fuso con iscrizione incisa rinvenuta insieme alla statuetta di Zeus (vedi qui accanto). Età ellenistica. Cortona, MAEC-Museo dell’Accademia Etrusca

e della Città di Cortona. A destra: statuetta in bronzo fuso di Zeus, rinvenuta nel 1728 a Pegli, località di Firenzuola presso Firenze. Fine del VI-prima metà del V sec.a.C. Cortona, MAEC-Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona.

fino Venuti (nelle cui mani progressivamente transitò la realizzazione del volume, per essere dal 1730 residente a Roma, come gli editori, i fratelli Pagliarini, e per i crescenti impegni di Marcello, da ultimo trasferitosi a Napoli), alla fine del 1735 compariva finalmente il primo volume dei Saggi di Dissertazioni, che, con i volumi successivi, innalzò la fama dell’Accademia Etrusca in Italia e all’estero. Una lettera da Perugia del 5 marzo 1734 a lui indirizzata da Bernardo Tanucci, suo antico docente a Pisa, durante la marcia delle truppe di Carlos alla conquista del vicereame austriaco di Napoli e di Sicilia, comunicava a Marcello il gradimento da parte del marchese di Montealegre, futuro segretario di Stato, della sua offerta di mettere a disposizione della moglie dello stesso Monteale-

gre, che seguiva il marito e la truppa a distanza, la villa venutiana di Catrosse, alle pendici di Cortona.

VERSO NAPOLI Con tutta evidenza Marcello Venuti dopo il trasferimento di Carlos da Firenze a Parma (1732) aveva accudito a distanza i rapporti avviati con il sovrano e la sua corte fin dall’incontro di Antibes, verosimilmente rafforzati durante il soggiorno toscano dell’infante. Si comprende allora come, scaduto intorno alla metà del 1734 l’incarico di gran conservatore dell’Ordine di Santo Stefano, privo di prospettive in Toscana, Marcello avesse deciso di spostarsi a Napoli, contando di poter fare affidamento sul capitale di conoscenze e di credito personale acquisito presso quella corte e a r c h e o 73


MOSTRE • CORTONA

coltivato negli anni. Fatta tappa a Roma dal fratello Ridolfino, presso il quale si trovava ancora a metà dicembre, pochi giorni dopo raggiungeva Napoli. Superato lo sconforto derivato dall’esito negativo dei primi sondaggi per poter ottenere un incarico retribuito a lui adatto, Marcello volse fin da subito le sue mire alla soprintendenza retribuita della galleria e museo Farnese, puntando tutte le sue carte sul Montealegre, verso di lui assai ben disposto.

ANALISI «VIRTUALE» Dopo che nell’autunno dello stesso anno venne fatto senza esito il suo nome in Consiglio di Stato per la «soprintendenza alla galleria e museo Farnese con stipendio», nel dicembre dell’anno successivo Marcello interveniva come consulente scientifico nell’acquisto che Carlo

intendeva fare della raccolta numismatica del palermitano Vincenzo Marchese. Consulenza esplicata prima con l’analisi «virtuale» della collezione, ancora in Sicilia, condotta sul catalogo manoscritto della stessa, poi, trasferita la raccolta a Napoli dal nipote ed erede del Marchese per concludere la cessione, direttamente sulle monete. L’incarico gli era anticipato l’8 ottobre 1737 con un biglietto autografo dallo stesso Montealegre, pervenuto 74 a r c h e o

In alto: frammento di lastra architettonica in terracotta raffigurante un satiro inginocchiato in atto di cogliere un grappolo d’uva e di depositarlo in un cesto posto di fronte a lui. Età giulio-claudia. Cortona, MAEC-Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona. A sinistra: ritratto di padre Salvatore Ascanio (1659-1741), ambasciatore di Spagna a Firenze. Cortona, MAEC-Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona.

Nella pagina accanto: Musa Polimnia, olio a encausto su lavagna. Prima metà del XVI sec. Cortona, MAECMuseo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona. Secondo la tradizione, il dipinto, che risulta presente nel Museo dell’Accademia fin dal 1851, sarebbe stato scoperto nel territorio di Cortona. Rappresenta una giovane donna che suona uno strumento musicale a corde ed è considerato una copia o un’imitazione di un dipinto di epoca romana.

con una redazione preliminare della relazione poi trasmessa da Marcello a Carlos il 9 dicembre successivo. A fine maggio/primi di giugno 1738 giunse la nomina a «Tenente soprannumerario delle galere col soldo di tenente effettivo», incarico che Marcello faticò ad accettare per la tenuità dello stipendio, e poco dopo, finalmente, con «regio dispaccio del 12 novembre 1738», otteneva l’impiego agognato della direzione della libreria e del museo

farnesiani, mantenendo però lo stesso esiguo stipendio. La curatela delle collezioni reali aprí a Marcello l’opportunità di intervenire quando, per la riemersione di frammenti marmorei nel sito degli scavi eseguiti nel 1711 dal principe d’Elboeuf nelle vicinanze della villa reale di Portici, il sovrano dette ordine di riprendere i saggi. Marcello, al seguito del re «come era mio costume», richiesto da Carlos del significato di una epigrafe


frammentaria, riuscí a leggerla e, connettendo alla epigrafe un passo di Cassio Dione, a riconoscere il teatro di Ercolano. Di fatto sovrintendente agli scavi, si aprí per Marcello una fase della sua esperienza napo-

letana ricca di soddisfazioni professionali, sebbene, come piú volte lamentato, non economiche, culminate con la redazione di una relazione sugli scavi richiesta da Carlos e inviata alla corte di Madrid dove

fu assai apprezzata. Non sono chiare le ragioni che nella prima metà del 1740, a poco piú di un anno e mezzo dalla nomina, indussero Marcello a prendere congedo dal re e a tornare a Cortona «necessitato

a r c h e o 75


MOSTRE • CORTONA

dai … domestici affari e da importanti litigi», tanto piú che solo pochi mesi prima aveva lucidamente analizzato con il fratello Ridolfino la propria condizione economica, concludendo che non sarebbe stato in grado di mantenersi con decoro a Cortona per l’impossibilità di trovarvi un impiego adeguato e per la esiguità del patrimonio familiare.

croso ufficio di priore dell’ospedale pubblico di Cortona, grazie all’intervento decisivo del conte di Richecourt, a lungo sollecitato. L’incarico, della durata di cinque anni, in via eccezionale gli sarebbe stato ogni volta confermato alla scadenza, fino alla morte nel 1755. In concomitanza non casuale con la ritrovata tranquillità economica di Marcello, pro-

INVIDIE E SOSPETTI L’unica spiegazione plausibile è che il clima di sospetto, gelosia e di invidia che a Napoli lo circondava, unito alla frustrazione per l’esiguità dello stipendio, abbia determinato la decisione, nella quale l’impulso forse prevalse sul raziocinio: si spiegherebbe allora perché, nel marzo 1741, a distanza di meno di un anno dal ritorno in patria, egli abbia cercato, via Ridolfino, di ottenere da Carlos l’amministrazione dei beni farnesiani a Roma, senza però risultato, tentativo al quale è forse connessa la dedica a Marcello anteposta alla riedizione del 1741 della Roma Antica da Ridolfino che ne fu il curatore, nella quale compariva, per la prima volta a stampa (e in un’opera destinata a grande diffusione), come direttore degli scavi di Ercolano. Marcello, nel dicembre convolato a nozze, ebbe di fronte a sé quattro anni impegnativi, spesi alla ricerca di un impiego adeguato, per il quale mobilitò tutte le conoscenze fiorentine, finalmente conseguito nel gennaio 1744, quando ottenne il lu-

Busto in bronzo di Eracle, dalla Villa dei Papiri di Ercolano. Seconda metà del I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale di Napoli. L’opera è riconducibile a un tipo statuario identificato con l’Eracle creato da Policleto, intorno al 430 a.C.

76 a r c h e o

prio a partire dal gennaio 1744 l’Accademia Etrusca avviò a Cortona una nuova impresa, le Notti Coritane: incontri serali bisettimanali ospitati a turno nelle case degli accademici e, spesso, nei locali dell’ospedale cittadino messi a disposizione dal Venuti, dedicati all’aggiornamento culturale e alla discussione erudita, alimentati dalla lettura e commento dei periodici letterari e scientifici, dalle lettere dei vari corrispondenti, dalla esposizione e spiegazione di materiali non solo archeologici, dal focus sulla storia cittadina. Delle Notti restano i verbali delle riunioni, con la data, il luogo, l’elenco dei partecipanti e la sintesi degli interventi. Marcello, spesso anche redattore dei verbali, fu l’animatore degli incontri ed è significativo che con la sua morte, nel 1755, la consuetudine di queste riunioni si sia spenta. L’evento che segnò l’ultima parte della vita di Marcello fu certamente la Descrizione delle prime scoperte dell’antica città d’Ercolano. Le scoperte di Ercolano avevano suscitato l’interesse di tutta Europa e gli impedimenti frapposti da Carlos, gelosissimo dei ritrovamenti, non avevano impedito alle notizie di circolare. I tempi erano ormai maturi e Anton Francesco Gori decideva di scrivere lui stesso, pubblicando le lettere a suo tempo ricevute da Marcello e da altri corrispondenti. Ottenuto da Marcello il permesso di pubblicare le lettere da lui inviategli, lo ringraziava e gli chiedeva insistentemente la relazione distesa per Carlos ricevendone però un sostanziale diniego. Questo scambio segna


verosimilmente il momento nel quale Marcello, superata ogni esitazione (non gli era certo ignota la gelosia di Carlos), metteva finalmente mano alla sua Descrizione, poi comparsa alla fine del 1748, preceduta dalle Admiranda antiquitatum Herculanensium del Gori. Conclusa la vicenda della Descrizione, Marcello pose mano al rilancio dell’attività dell’Accademia Etrusca, la cui vita, dopo il fervore A destra: affresco con coppia di maschere della commedia, rinvenuto e staccato nel luglio 1739 da una domus di Ercolano situata fra la Basilica e il Teatro. 45-79 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In basso: tripode in bronzo con sfingi, da Ercolano. Prima metà del I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Destinato a contenere un braciere, il tripode è composto da una struttura complessa e riccamente decorata. Ne fanno parte elementi – come le sfingi – che sono un chiaro riferimento al mondo egiziano.

del primo quindicennio, culminato con la stampa dei primi quattro tomi dei Saggi di Dissertazioni Accademiche (1735-1743), aveva conosciuto qualche rallentamento, solo in parte bilanciato dalla nuova impresa delle Notti Coritane. La Descrizione non aveva compromesso in maniera irreparabile i rapporti di Marcello con la corte napoletana. Tanucci nel 1755 ottenne da Carlos la firma del decreto di nomina di Marcello a marchese di Cuma e Domenico, uno dei figli, potè essere educato e crescere nella paggeria reale, primo passo del percorso che l’avrebbe portato alla direzione della Real Fabbrica di Capodimonte. Marcello sarebbe morto pochi mesi dopo, l’11 luglio 1755, con solenni esequie registrate nei Pietosi Offici. La sua morte, quelle di Philipp Stosch (1757), di Anton Francesco Gori (1757) e

di Antonio Cocchi (1758) costituirono una cesura profonda e irreversibile, che chiuse definitivamente un’epoca del collezionismo e dell’antiquaria toscani. DOVE E QUANDO «1738 La scoperta di Ercolano. Marcello Venuti: Politica e cultura fra Cortona e Napoli» Cortona, MAEC-Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 2 giugno Orario fino al 31 mar: tutti i giorni, 10,00-17,00; dal 1° apr: tutti i giorni, 10,00-19,00; chiuso il lunedí Info tel. 0575 637235; e-mail: info@cortonamaec.org; https://cortonamaec.org/ a r c h e o 77


MOSTRE • FAENZA

78 a r c h e o


LA RISCOPERTA DELL’AMERICA IL MUSEO INTERNAZIONALE DELLA CERAMICA DI FAENZA RIPERCORRE LE VICENDE DELLE GRANDI CIVILTÀ PRECOLOMBIANE: AZTECHI, MAYA E INCA. UN VIAGGIO NEL MONDO DI POPOLAZIONI IN GRADO DI ESPRIMERE CULTURE MATERIALI DI ALTISSIMO LIVELLO E DI ELABORARE UN UNIVERSO SIMBOLICO E IDEOLOGICO COMPLESSO E AFFASCINANTE a cura di Stefano Mammini

Tutti gli oggetti riprodotti nell’articolo sono esposti nella mostra «Aztechi, Maya, Inca», in corso presso il MIC-Museo Internazionale della Ceramica di Faenza. Sulle due pagine: tavoletta funeraria in legno e filato raffigurante un simbolo solare, dall’Area Peruviana. Cultura Huari tarda-Chancay, 900-1050 d.C. a r c h e o 79


MOSTRE • FAENZA

N

Aztechi

Golfo Aztechi el 1971, lo storico e antro- Aztechi Golfo Golfo del Messico del Messico Messico pologo francese Nathan del Tuxpan Wachtel pubblicava La vi- Tenochtitlán Tuxpan Tuxpan Tenochtitlán Tenochtitlán sione dei vinti. Gli indios del Perú di fronte alla Conquista spagnola. Un Coatzacoalcos Coatzacoalcos Coatzacoalcos Huaxyacac Huaxyacac anno prima, nelle sale cinematograHuaxyacac fiche era uscito Soldato blu, uno dei Tehuantepec Tehuantepec Tehuantepec primi film western girati «dalla parte Oceano Oceano Oceano Pacifico degli indiani», e Dee Brown aveva Pacifico Pacifico dato alle stampe Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, nel quale riperMaya Maya Mayapán Chichén Chichén Itzá Itzá correva la storia dell’incontro fra Maya Mayapán Mayapán Chichén Itzá Jaina Golfo Jaina Uxmal Golfo nativi americani e coloni occidenTulum Jaina Tulum Golfo Uxmal Tulum del Messico Uxmal Messico Messico tali, risoltosi, per i primi, in una del del Comalcalco Comalcalco Mar Mar Uaxactún drammatica sequela di massacri, de- Comalcalco Uaxactún dei Caraibi deiMar Caraibi Palenque Uaxactún Palenque portazioni e segregazione. dei Caraibi Tikal Tikal PalenquePiedras Piedras Yaxchilán Tikal Negras Yaxchilán In forme e con livelli di approfonNegras Piedras Yaxchilán Quirigua Negras Quirigua dimento diversi, i libri e il film Copán Quirigua Copán Kaminaljuyu Kaminaljuyu esprimevano un modo nuovo di Copán Oceano Kaminaljuyu Oceano guardare alla storia del continente Pacifico

Inca

Inca Inca

Oceano

Oceano Oceano Atlantico Atlantico Atlantico

Quito Quito Quito

Machu Picchu Machu MachuPicchu Picchu Cuzco Cuzco Cuzco

Oceano Oceano Oceano Pacifico Pacifico

Pacifico

Oceano Pacifico Pacifico

A sinistra: ciotola in terracotta raffigurante un colibrí, dall’Area Peruviana. Cultura Nasca, stile monumentale, 350 a.C.-550 d.C. Faenza, MIC. In basso: tazza in terracotta dipinta per il cacao, dal Guatemala. Cultura Maya, 600-800 d.C. Collezione privata.

americano, per troppo tempo raccontata nei termini di un Occidente capace di «civilizzare» terre e popolazioni selvagge. Nel tempo, questa presa di coscienza ha generato anche un diffuso senso di colpa, dal quale sono scaturite, quasi a cercare un ormai impossibile risarcimento, le frequenti celebrazioni delle civiltà precolombiane, esaltate come detentrici di competenze eccezionali, per esempio in campo scientifico o ingegneristico.

bili e la mostra allestita al Museo Internazionale della Ceramica (MIC) di Faenza, «Aztechi, Maya, Inca e le culture dell’antica America» ha fra i suoi intenti proprio quello di offrire un profilo storicamente attendibile delle realtà prese in esame. Lo fa attraverso oltre 300 oggetti e opere d’arte, scelti fra i materiali della collezione dello stesso MIC, ai quali si sono aggiunti alcuni importanti prestiti accordati da vari musei italiani. All’esposizione fa da prologo il riallestimento della sezione permaLA VERA STORIA Anche alla luce delle acquisizioni nente del museo faentino, che, anpiú recenti, entrambe le posizioni che per le civiltà precolombiane, si sono dimostrate ormai insosteni- vanta reperti di notevole interesse,

80 a r c h e o


molti dei quali entrati a far parte della raccolta dopo la seconda guerra mondiale. Un arricchimento che si deve all’iniziativa assunta da Gaetano Ballardini (fondatore e primo direttore del MIC) e Giuseppe Liverani

(conservatore e poi direttore del museo) per rimediare al disastroso bombardamento che nel 1944 aveva colpito l’edificio in cui erano custodite le ceramiche, causando ingenti danni. I due studiosi lanciarono infatti un appello internazionale, al

LA CONDIZIONE DELLA DONNA Sebbene gli imperi degli Aztechi e degli Inca, nati in meno di cent’anni da una serie di guerre vittoriose, facciano pensare a società di guerrieri in cui le donne erano relegate a un ruolo marginale, la visione di un’antica America caratterizzata dalla dominanza maschile, seppur non del tutto errata, dà un quadro distorto di una realtà molto sfaccettata.

Per esempio, gli studi di genere sulla società azteca partiti dalla sacralizzazione delle Cihuateteo (= Donne sacre, Donne dee), le donne morte di parto, hanno messo in evidenza non solo una certa parità sul piano ideologico, ma anche una relativa autonomia delle donne nella vita reale. Per quanto riguarda l’Area Peruviana le recenti ricerche non

hanno messo in discussione il maschilismo della società inca, ma hanno portato alla scoperta di tombe di donne Moche e Lambayeque con corredi funerari di sorprendente ricchezza che dimostrano il ruolo di primissimo piano che la donna aveva tra le classi dominanti della Costa Nord. (red.)

fine di ricostituire il patrimonio perduto e ricevettero molteplici adesioni che, nel caso dei materiali precolombiani, videro affluire pezzi provenienti, per esempio, dall’INAH (Instituto Nacional de Antropologia e Historia di Città del Messico), dal Museo Nazionale del Perú, nonché da numerosi collezionisti privati. Fra questi ultimi merita d’essere segnalata la presenza di molti medici che operarono nei luoghi d’origine delle varie culture, raccogliendo reperti e, in alcuni casi, conducendo scavi, a dimostrazione di un interesse non solo collezionistico, ma finalizzato anche alla ricerca vera e propria.

L’ORIZZONTE TEMPORALE In questa prima parte, dunque, viene ripercorsa l’intera parabola delle civiltà precolombiane, che abbraccia un orizzonte cronologico di circa 3000 anni e comprende anche le culture non documentate nella mostra. Quest’ultima si apre con l’inquadramento geografico dell’ambito analizzato, che si articola nei due grandi nuclei della Mesoamerica e dell’Area Peruviana. La prima – che vide fiorire i Maya e poi l’impero azteco – comprende la maggior parte del Messico, il Guatemala, il Belize, il Salvador, il Nicaragua occidentale e l’Honduras, mentre la seconda – che fu la culla dell’impero inca – coincide sostanzialmente con le Ande Centrali. In ter mini cronologici, come spiegano i curatori della mostra – Antonio Aimi e Antonio Guarnotta –, è difficile, a tutt’oggi, fornire r ifer imenti precisi, anche Gruppo in terracotta con scena di parto in presenza di donne gravide, dalla Mesoamerica. Cultura Nayarít, Ixtlán del Río, 300 a.C.-400 d.C. La partoriente è assistita da tre uomini, che le applicano sul volto una foglia di pianta narcotica per lenire i dolori, preparano una pozione e aiutano la fuoriuscita del neonato. a r c h e o 81


MOSTRE • FAENZA

perché Mesoamerica e Area Peruviana seguono sviluppi diversi e hanno anche denominazioni differenti. Tuttavia, si può comunque collocare l’avvento di Maya, Aztechi e Inca in momenti che coincidono, rispettivamente con il Classico (300-900 d.C.), il Postclassico (900-1521/1524) e, spostandosi appunto nella regione andina, con l’Orizzonte Tardo (1470-1532). Ben piú definite sono invece le date che segnano il tramonto di queste grandi civiltà, causato dall’ar r ivo dei conquistadores: nel 1521 cadeva Tenochtitlan, capitale dell’impero azteco; nel 1542 la fondazione di Merida coincise con il definitivo consolidamento del dominio spagnolo sull’area maya; mentre nel 1532, la cattura dell’imperatore Atahualpa e l’ingresso degli uomini di Francisco Pizarro a Cusco segnarono la fine del regno degli Inca. Da sempre viene sottolineata la rapidità con la quale queste potenti realtà vennero annichilite e, anche in questo caso, la mostra offre l’occasione per alcune puntualizzazioni importanti. Se alcune centinaia di avventurieri riuscirono a imporre il proprio dominio su buona parte dell’America ciò accadde principalmente grazie a tre fattori: gli imperi degli Aztechi e degli Inca erano giovani e non avevano avuto il tempo di amalgamare i territori conquistati, sui quali eser82 a r c h e o

citavano un controllo molto blando; gli Spagnoli vennero visti come «liberator i» da molte popolazioni sottomesse, che offrirono la loro alleanza; sul piano militare, gli uomini venuti dall’Europa potevano contare su una schiacciante superiorità, dovuta non tanto alle armi da fuoco, ma alle armi in acciaio, ai cavalli, ai cani e, soprattutto, a una tattica che ignorava ogni aspetto cavalleresco, puntando sempliBottiglia fischiante in terracotta con ansa a staffa, dall’Area Peruviana, Costa Settentrionale. Cultura Moche stile Moche 4, 100-850 d.C. Faenza, Museo Internazionale della Ceramica.

cemente alla distr uzione dell’avversario. Ed è anche opportuno sottolineare come debba essere ormai ritenuta infondata l’ipotesi secondo la quale durante la conquista del Messico gli Spagnoli sarebbero stati salutati come discendenti di un re divinizzato, che in parte coincideva con il dio Quetzalcoatl. Si trattò, infatti, di un’invenzione di Hernan Cortés, che oltre a essere inverosimile, fu poi smentita dalla «visione dei vinti», dalla quale emerge che la Conquista fu invece attribuita a Tezcatlipoca, la divinità piú importante degli Aztechi.

UNA VASTA GAMMA DI FORME Entrando nel vivo dell’allestimento, la ceramica costituisce il filo conduttore del progetto espositivo e dunque sono molteplici le occasioni offerte per constatare la maestria dei vasai attivi presso le varie culture. Soprattutto se si considera che nessuna delle popolazioni a cui vanno ascritti gli oggetti presentati conosceva il tornio: dalle semplici scodelle alle sofisticate bottiglie antropomorfe, le forme venivano plasmate a mano, talvolta ricorrendo alla tecnica del colombino, e aiutandosi con strumenti in legno o altri materiali per sagomare i vasi e farli comunque ruotare. In altri casi è stato accertato l’uso di stampi, come nel caso, per esempio, di alcune bottiglie fischianti in forma di pappagallo, capaci di emettere suoni grazie a un ingegnoso sistema di cavità e canali interni nei quali si faceva scorrere l’acqua (foto in questa pagina). I vivaci colori utilizzati per le decorazioni erano solitamente a base di


A sinistra: stele in pietra, dall’Oaxaca (Messico). Cultura zapoteca, periodo classico, 200-700 d.C. Roma, MUCIVMPE «L. Pigorini». A destra: figurina in terracotta di giovane nobile seduto. Cultura maya, periodo classico, 300-900 d.C. Venezia, Collezione Ligabue.

pigmenti naturali e venivano applicati in prevalenza prima della cottura del vaso.

VASI COME RITRATTI Colpisce, appunto, la varietà delle forme, cosí come la caratterizzazione «umana» assegnata a molte di esse. Non si contano i casi di vasi che riproducono volti o figure intere e recenti studi hanno dimostrato che in molti casi non si trattava di rappresentazioni ieratiche, religiose, ma invece di ritratti veri e propri di personaggi eminenti o capi. Una teoria sostenuta dall’aver osservato che manufatti tipologicamente affini hanno però tratti molto diversi l’uno dall’altro e molto espressivi. Qualcosa di simile, insomma, a quanto osservato – in tutt’altro contesto, naturalmente – con le centinaia di guerrieri dell’esercito di terracotta di Xi’an. Sebbene anonime, le immagini antropomorfe si rivelano comunque assai importanti al fine a r c h e o 83


MOSTRE • FAENZA

di conoscere gli usi e i costumi delle diverse popolazioni. Come nel caso, per esempio, di una figurina in terracotta probabilmente proveniente dall’isola di Jaina (Mesoamerica, Area Maya) che riproduce un giovane nobile seduto (vedi foto a p. 83). Il personaggio indossa un copricapo – forse di carta – e un gonnellino che copre il perizoma; porta grandi orecchini discoidali e un collare con un pendente centrale che, nella realtà, poteva essere forse zoomorfo. Ha inoltre il mento decorato, forse da sostanze vegetali o da un accessorio. Nell’insieme si tratta di una rappresentazione vivida, che avvicina, in questo caso, alla realtà sociale dei Maya. Del resto, i soggetti legati alla vita quotidiana sono frequenti nell’iconografia precolombiana e rappresentati, come in questo caso, con vivacità e naturalismo: l’uomo al lavoro, guerrieri in azione, sacerdoti intenti a rituali e sacrifici, donne al lavoro o nell’atto di partorire, la morte, la nascita e oggetti della vita quotidiana. E Mesoamericani e Peruviani vestivano in modo diverso, ma per entrambi l’abito indicava l’appartenenza a una speci-

fica cultura o a una posizione sociale. Aztechi, Maya e Inca, inoltre, erano accomunati, pur nella diversità, dalla divisione in classi, alla cui sommità vi era la nobiltà guerriera, a cui facevano seguito una classe media che costituiva la colonna economica del governo e infine la classe inferiore, composta da artigiani, contadini e schiavi. Un gradino sopra la nobiltà onoraria, presso Aztechi e Inca, si trovavano il sovrano e la sua famiglia, ritenuti discendenti da una o piú divinità, mentre i Maya non esprimevano un unico re, ma un sistema di governo autonomo delle varie città, ciascuna con a capo un sovrano di nobili origini e per di piú elevato a divinità.

LA MUSICA ALL’INDICE Come la bottiglia fischiante ricordata poc’anzi, alla musica riportano molti reperti selezionati, per documentare una delle espressioni che dovettero senza dubbio costituire una delle manifestazioni piú importanti delle culture precolombiane. Manifestazioni che oggi possiamo soltanto immaginare, dal momento che non possediamo tra-

Tessuto in cotone dipinto, dall’Area Peruviana, Costa Centrale, Cultura HuariChancay, 800-900 d.C. Faenza, Museo Internazionale della Ceramica.

84 a r c h e o

scrizioni di alcun tipo, ma delle quali, grazie alle cronache, sappiamo che destarono grande impressione negli Europei, i quali rimasero particolarmente colpiti dallo stato di esaltazione che la musica era in grado di suscitare. Tanto da arrivare a proibirla. Nella vasta gamma degli strumenti non mancavano i tamburi, come quello proveniente dalla Costa Meridionale dell’Area Peruviana e riferibile ai Nasca. Realizzato in terracotta dipinta nei consueti vivaci colori, appartiene a una tipologia utilizzata soprattutto nei rituali che dovevano garantire l’equilibrio del cosmo e la fertilità della terra (vedi foto a p. 87). In mostra è esposto in posizione capovolta rispetto a quella originaria, poiché è privo della pelle tesa sopra l’imboccatura, che poteva essere d’animale o anche di un nemico ucciso (secondo una pratica attestata anche presso gli Inca). Il tamburo raffigura l’Essere Mitico Antropomorfo, la divinità principale Nasca. Il dio è seduto e impugna un propulsore (o un bastone di comando) e la punta di un dardo. Presenta pitture facciali, che rappresentano serpenti fortemente stilizzati che escono dalle narici, e indossa un copricapo raffigurante un batrace e una collana con pendenti rettangolari. Non meno importante fu il calcolo del tempo: sia nella Mesoamerica che nell’Area Peruviana furono messi a punto calendari basati sull’osservazione dei cicli del Sole e della Luna. Si trattava di strumenti certamente intrisi di significati rituali e simbolici, ma, al tempo stesso, funzionali alle esigenze della vita quotidiana, quale per esempio quella di poter calcolare il ciclo delle stagioni di pioggia, essenziale per svolgere al meglio le attività agricole. In questa sezione della mostra sono riunite due fra le opere non ceramiche piú spettacolari: la tavoletta in legno e filato riferibile all’Area Peruviana scelta come


immagine d’apertura (vedi foto alle pp. 78-79) e una stele in pietra zapoteca proveniente dall’Oaxaca (Messico; vedi foto a p. 83, in alto). Nel primo caso, il manufatto mostra un simbolo solare dai raggi ricurvi, mentre, nel secondo, si riconoscono motivi decorativi a forma di A e di O intrecciate, che rappresentano il «glifo dell’anno».

I GLIFI «DEBOLI» Insieme ai numeri, i glifi – segni consistenti in immagini di carattere naturalistico o geometrico, fortemente stilizzate, associate a un fonema o a un simbolo matematico – erano diffusi presso tutte le culture precolombiane e utilizzati, per esempio, nei già ricordati calendari. Ma potevano anche essere elementi centrali di particolari soluzioni decorative. Ne è prova lo spettacolare vaso cilindrico maya proveniente dalla regione di Calakmul e attribuito alla corrente definita appunto Scuola dei Glifi Deboli (foto in questa pagina). Sul vaso si vedono due figure maschili sedute, che impugnano un’ascia sacrificale. Fra i

Tazza cilindrica in ceramica dipinta rosso-arancio e nero-bruno su fondo crema e, in alto, sviluppo della sua decorazione, dalla Mesoamerica. Cultura maya, periodo classico, 300-900 d.C. Attribuito alla cosiddetta Scuola dei Glifi Deboli, il vaso mostra due figure maschili che impugnano asce sacrificali e che il testo qualifica come doppio soprannaturale di due nobili molto importanti.

due corre un breve testo glifico vi è anche un’olla che contiene del pulque, bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione delle foglie di agave, che si vedono fuoriuscire dal vaso stesso. Uno degli uomini tiene un piatto sul quale è collocata una testa decapitata e porta un complesso copricapo con una testa di giaguaro e una collana di occhi strappati. Il secondo indossa un copricapo altrettanto elaborato, arricchito da penne di quetzal, o trogone splendido, uccello tipico dell’Amer ica Centrale, i cui esemplari maschi si caratterizzano per il vivace piumaggio. Coerentemente con gli stilemi della Scuola dei Glifi Deboli, i glifi hanno un ruolo secondar io nel complesso della decorazione. Il testo recita: «u wahy [k’uhul] Chatahn [Winik]» (=[Questo] è lo wahy [l’alter ego] dei [sacri Uomini] di Chatahn). E, per quanto breve, contiene un’informazione molto importante, perché specifica che le figure rappresentate sono il doppio soprannaturale di due nobili molto importanti. a r c h e o 85


MOSTRE • FAENZA

In una delle sezioni conclusive, la mostra offre l’opportunità, eccezionale, di ammirare due dei soli cinque propulsori (atlatl) rivestiti in oro a oggi noti (foto in questa pagina). Provenienti dal Museo Nazionale di Antropologia e Etnologia di Firenze, i due strumenti – che permettevano di moltiplicare la potenza data dal braccio umano al lancio di un giavellotto – furono fabbricati con legno di quercia da artigiani mixtechi, nel Postclassico Tardo (1200-1251). Uno dei due celebra le imprese del suo proprietario, che dovette essere un personaggio di alto rango, il cui potere viene legittimato dalle raffigurazioni che lo vedono coinvolto negli eventi bellici e sacrifica-

li intagliati sui lati dell’oggetto. Fra questi si riconosce la cattura di un cervo, una metafora che nell’ambiente mesoamericano alludeva alla cattura di un prigioniero destinato al sacrificio rituale. Sul secondo, il solo che si conosca provvisto di due ganci, cosí da permettere il lancio simultaneo di due dardi, si possono invece osservare motivi che sembrano r ifer irsi all’evento mitico della cosiddetta «Guerra con il Cielo, Guerra con la Pioggia», che consentí ai Mixtechi («Popolo della Pioggia») di occupare le proprie terre. La complessa iconografia del retro, invece, illustra i momenti salienti e politicamente piú r ilevanti della vita di un governante in modo da legittimarne il potere agli occhi della comunità.

DOPO LA SCOPERTA Il percorso si chiude sintetizzando graficamente il cosiddetto «scambio colombiano». Scelta nel 1972 dallo storico statunitense Alfred Crosby come titolo di un suo saggio sull’impatto dell’arrivo degli Europei nelle Americhe, l’espressione si riferisce appunto agli effetti innescati a partire dal fatidico 1492. Tra i piú vistosi, vi fu certamente il crollo demografico A sinistra: propulsori (atlatl) in legno di quercia intagliato ricoperto d’oro zecchino, dalla Mesoamerica sud-occidentale. Cultura mixteca, Postclassico Tardo, 1200-1521. Firenze, Museo di Antropologia e Etnologia. A destra: particolare della decorazione di uno dei propulsori, i cui motivi sembrano riferirsi alla cosiddetta «Guerra con il Cielo, Guerra con la Pioggia» che consentí ai Mixtechi («Popolo della Pioggia») di occupare le proprie terre.


causato dall’introduzione di malattie sconosciute alle genti indigene della Mesoamerica e dell’Area Peruviana che, unite alle malversazioni, determinarono una riduzione della popolazione in misura pari all’80%: si può insomma affermare che la vittoria degli Spagnoli sui grandi imperi precolombiani fu garantita da vaiolo, varicella, colera, lebbra e altre patologie, prim’ancora che dalle armi. A compiere il tragitto inverso fu

invece la sifilide, che i conquistadores contrassero in gran numero e diffusero assai velocemente, al loro ritorno, in Europa, Africa e Asia. Su un piano meno cruento, vale a dire quello alimentare e delle materie prime, l’Occidente scoprí il mais, la patata, il pomodoro, il cacao, il cotone, il caucciú, il tabacco, piante medicinali – fra cui il chinino, destinato a rivelarsi un antidoto prezioso contro la

In basso: bottiglia in ceramica modellata a stampo e dipinta, configurata in forma di dignitario seduto, dall’Oaxaca (Messico). Cultura zapoteca, periodo classico, 200-700 d.C. Roma, Museo delle Civiltà-MPE «L. Pigorini». A destra: tamburo in terracotta lavorata a colombino, palettata e

dipinta, dall’Area Peruviana, Costa Meridionale. Cultura Nasca, 400-600 d.C. Milano, Museo delle Culture. Lo strumento veniva suonato mettendolo in posizione capovolta rispetto a quella della foto, con una pelle d’animale (e/o di un nemico ucciso) tesa sulla grande apertura (qui non visibile).

malaria – e psicoattive, e fra gli animali, la cavia e il tacchino. Portando invece nel Nuovo Mondo cereali, alcuni tipi di frutta (per esempio, vite, olivo, mela, agrumi), ortaggi (carciofo, asparagi, melanzana, aglio), lino, canapa, tè, e fra gli ani- mali domestici, gatti, volatili da cortile, mucche, cavalli, maiali e muli.

DOVE E QUANDO «Aztechi, Maya, Inca e le culture dell’antica America» Faenza, MIC-Museo Internazionale delle Ceramiche fino al 28 aprile Orario ma-do, 10,00-16,00; festivi, 10,00-17,30; chiuso i lunedí non festivi Info tel. 0546 69 73 11; e-mail: info@micfaenza.org; www.micfaenza.org a r c h e o 87


SPECIALE • CLASSIS RAVENNA

CLASSE

REGINA «QUANDO VOGLIO CAPIRE LA STORIA D’ITALIA, PRENDO UN TRENO E VADO A RAVENNA»: QUEST’AFFERMAZIONE, FATTA DAL GRANDE STORICO ARNALDO MOMIGLIANO, DÀ IL BENVENUTO AI VISITATORI DI CLASSIS RAVENNA, IL NUOVO MUSEO REALIZZATO NEGLI SPAZI DELL’EX ZUCCHERIFICIO DI CLASSE. FILO CONDUTTORE PRIMO DELL’ESPOSIZIONE È LA LUNGA STORIA DEL PORTO IMPERIALE ROMANO E DEL SUO TERRITORIO, RACCONTATA DA REPERTI INEDITI E STRUMENTI MULTIMEDIALI di Stefano Mammini, con un’intervista ad Andrea Augenti

L

a ciminiera che svetta nelle foto d’epoca non c’è piú, ma il colpo d’occhio offerto dal rosso edificio che ospita Classis Ravenna. Museo della Città e del Territorio è forte ed esplicito. Complice la luce spesso velata di questo lembo di terra sospeso fra il Delta del Po e l’Adriatico, si ha quasi la sensazione di trovarsi dalle parti dell’ex centrale termoelettrica londinese di Bankside, oggi sede della Tate Modern, oppure di quella di

88 a r c h e o


L’edificio dell’ex zuccherificio di Classe (Ravenna) che, recuperato e ristrutturato, è divenuto sede di Classis Ravenna. Museo della città e del Territorio. Lungo la scalinata corre il mosaico L’Onda che esonda, voluto per evocare il rapporto con il mare e l’arte musiva, da sempre eccellenza di Ravenna.

a r c h e o 89


SPECIALE • CLASSIS RAVENNA

na

Battersea, trasformata in un’icona dell’archeologia industriale dalla copertina di uno dei piú celebri album dei Pink Floyd, Animals. E, del resto, è facile percepire l’origine della struttura, che infatti nacque come zuccherificio a cavallo del 1900 (vedi box nella pagina accanto). E visse una storia fatta di lavoro e benessere per quasi un secolo, prima d’imboccare la via del declino negli anni Settanta e poi chiudere definitivamente i battenti nel 1982. Siamo a Classe, 4 km a sud dal centro di Ravenna e la città che deve il suo nome al vicino porto della flotta imperiale romana (Classis, appunto) e la sua notorietà alla magnifica basilica di S. Apollinare ha potuto finalmente salutare la conclusione di un progetto ambizioso, che ha arricchito il patrimonio di una risorsa di grandissimo pregio. L’idea del museo Classis Ravenna nacque oltre vent’anni fa, quando sempre piú forte si fece il desiderio delle amministrazioni locali di strappare al degrado quello che era stato uno dei simboli della comunità. Lo zuccherificio venne quindi acquisito e si cominciò a ragionare sulla sua possibile riconversione, fino a giungere al progetto del museo, la cui prima pietra venne posta nel 2002. E non deve stupire che siano stati ne-

Via C la

ssica

Mausoleo di Teodorico

Mausoleo di Galla Placidia

Battistero degli Ariani

Basilica S. Vitale

Ravenna

Via A d

op

a

Ospedale

ci uc ell oB

olf

Basilica S. Apollinare Nuovo

E le Via

SS16

ur

Porto Fuori

a

Via Marabina

SS67

Via

Via Ravegnan

Ponte Nuovo

me

Ro

Romea Vecchia

ud

aS

Classis

Ravenna Basilica S. Apollinare in Classe Classe

90 a r c h e o

Cl Via

SS16 SS3bis

as

sic

Madonna dell’Albero

an a

SS67

cessari oltre quindici anni per giungere al taglio del nastro, poiché – oltre a questioni amministrative e burocratiche – è stato necessario affrontare anche problemi tecnici e costruttivi piuttosto impegnativi.

MILLE ANNI DI STORIA Basti pensare che la fabbrica era in sostanza una sorta di grande guscio di mattoni, al cui interno operavano i macchinari per la produzione dello zucchero e si è dunque scelto di procedere in maniera almeno in parte analoga, realizzando uno scheletro in acciaio, ancorato ai muri in laterizio, intorno al quale articolare gli spazi espositivi e di servizio. Una scelta che l’allestimento del museo permette di apprezzare, poiché, fin dall’inizio del percorso di visita, ci coglie facilmente la natura originaria dell’edificio. La storia di Classe e del suo territorio, che si dipana per oltre un millennio, si salda dunque con le ben piú recenti vicende dello zuccherificio, armonizzando i dati offerti dall’archeologia classica e medievale con una significativa testimonianza di archeologia industriale.


UNA STORIA DOLCEAMARA Nell’agosto del 1900, lo zuccherificio realizzato a Classe dalla Società Ligure Ravennate per la coltivazione della barbabietola da zucchero poteva salutare, a meno di un anno dalla creazione, la sua prima campagna saccarifera. Era l’inizio di un’avventura industriale che, fatta salva la parentesi imposta dalla seconda guerra mondiale – quando lo stabilimento aveva subito gravi danni a causa di un bombardamento – assicurò al territorio una risorsa economica importante: basti pensare che nel periodo della sua massima attività, lo zuccherificio dava lavoro – nelle fasi piú intense del processo produttivo – a 600 persone e il suo dolce prodotto veniva distribuito in tutta Italia e in Europa, trasportato per mare e per ferrovia.

Che l’intero progetto sia stato giocato sull’impatto visivo appare evidente prim’ancora di varcare la soglia del museo vero e proprio: lungo la scalinata che sale verso l’entrata, infatti, corre un mosaico moderno, L’Onda che esonda, voluto per evocare lo stretto rapporto che ha sempre legato Classe al mare, ma anche per ricordare l’espressione artistica di cui Ravenna è la culla, che è appunto il mosaico. La riproduzione di un secondo mosaico, questa volta antico e celeberrimo – si tratta della raffigurazione del porto di Classe il cui originale si può ammirare nella basilica di S. Apollinare Nuovo – è stata invece scelta per la sala d’ingresso. Le imbarcazioni «navigano» sopra le teste dei visitatori, mentre un grande pannello riporta le parole dello storico Arnaldo Momigliano (1908-1987), che nel corso di una lezione tenuta alla British Academy nel 1955 disse: «Quando voglio capire la storia d’Italia, prendo un treno e vado a Ravenna». La citazione evidenzia subito due delle caratteristiche salienti di Classis Ravenna: tutti gli apparati esplicativi, oltre che in italiano, sono redatti in inglese, e, sul piano concettuale, il

In alto e a destra: foto d’epoca dello zuccherificio di Classe. L’impianto effettuò la prima campagna saccarifera nel 1900 e, nel momento di massima attività, arrivò a impiegare 600 persone. Chiuse definitivamente i battenti nel 1982.

Nel 1930 la fabbrica venne rilevata dalla Società Anonima Eridania Zuccherifici Nazionali di Genova e, nel 1966, raggiunse i 36 000 quintali di materia prima trattata. Pochi anni dopo subentrò un nuovo proprietario, la Società Romana Zuccheri, un’associata del Gruppo Maraldi di Cesena, ma, nel contempo, l’impianto cominciò ad accusare i primi segni di crisi, fino alla chiusura definitiva nel 1982.

a r c h e o 91


SPECIALE • CLASSIS RAVENNA

filo conduttore primo dell’intera esposizione vuol essere appunto la storia. E, del resto visitando le diverse sezioni del museo, l’impegno profuso nella contestualizzazione di ogni singolo reperto appare evidente.

SULLA «LINEA DEL TEMPO» Superato l’ingresso, Classis Ravenna si offre quasi come un gigantesco open space: proprio per la natura dell’edificio, non ci sono suddivisioni in vere e proprie sale, ma l’intero spazio risulta quasi totalmente organizzato intorno alla «Linea del tempo» che l’attraversa centralmente. Cosí come l’aggancio con le diverse fasi storiche, anche l’inquadramento geografico viene subito precisato, proponendo una grande pianta animata che mostra appunto la posizione di Ravenna nel contesto italiano e mediterraneo e il mutare del suo ruolo nel corso del tempo. Un ruolo che ebbe inizio ben prima della Classis romana, come provano i 92 a r c h e o

materiali scelti per le prime vetrine. Qui, come altrove, sono confluiti anche reperti acquisiti grazie a scavi recenti e, in questo senso, la creazione di Classis Ravenna ha offerto la possibilità di dare visibilità a testimonianze che, prima d’ora, erano rimaste perlopiú confinate nelle pagine delle pubblicazioni specialistiche. È appunto il caso, per esempio,

In alto, sulle due pagine: le vetrine dedicate alla preistoria (nella pagina accanto) e allo stanziamento di genti etrusche e umbre. A sinistra: kylix (coppa da vino a due manici) attica, dalla tomba n. 15 della necropoli di San Martino di Gattara, presso Brisighella. 520-510 a.C.


A destra: la vetrina dedicata alla prima romanizzazione di Ravenna e del suo territorio. La grande iscrizione, realizzata su lastre di pietra calcarea, risale al I sec. a.C. e doveva con ogni probabilitĂ appartenere a un importante edificio pubblico. a r c h e o 93


SPECIALE • CLASSIS RAVENNA

In alto: statua acefala in marmo che ritrae un personaggio femminile (I sec. d.C.) e la testa di una statua marmorea della dea Fortuna (II sec. d.C.; vedi anche a p. 99). A sinistra: materiali da sepolture databili al II sec. d.C.

94 a r c h e o


della sepoltura del III millennio a.C. scoperta nel corso degli scavi condotti a Faenza, in località Fornace Cappuccini, fra il 1978 e il 1992; intorno a questi anonimi resti scheletrici fanno bella mostra di sé varie forme vascolari in impasto, mentre poco oltre si compie un considerevole salto in avanti, ripercorrendo le fasi in cui Ravenna fu interessata dalla presenza di genti umbre ed etrusche. Qui, oltre a vasellame in ceramica compaiono numerosi oggetti in bronzo, che comprendono utensili ma anche un elmo e varie punte di lancia. Né mancano i prodotti importati, come una pregevole kylix (coppa

a due manici) di produzione attica, rinvenuta in una tomba della necropoli scavata in località San Martino di Gattara, presso Brisighella.

LA ROMANIZZAZIONE Ha quindi inizio il racconto della romanizzazione del territorio, che segnò una svolta importante, soprattutto dopo che Augusto intuí il valore strategico della zona e scelse di farne, come accennato all’inizio, una delle basi della flotta imperiale, determinando la nascita di Classis. La documentazione della fase romana è ricca e variegata, con materiali che (segue a p. 99) a r c h e o 95


SPECIALE • CLASSIS RAVENNA

DALLO SCAVO AL MUSEO Incontro con Andrea Augenti Firma che i nostri lettori possono da anni apprezzare, Andrea Augenti – docente di archeologia cristiana e medievale all’Università di Bologna – è il curatore scientifico

◆ Professor Augenti, come si è

dell’allestimento di Classis Ravenna. Lo abbiamo incontrato, per farci raccontare quali siano state le tappe salienti del percorso che ha portato all’apertura del museo.

In alto: disegno ricostruttivo della grande area abitata (conurbazione) che comprendeva Ravenna, Cesarea e Classe. A sinistra: frammento di mosaico policromo con l’immagine di una papera, dal pavimento della basilica di S. Severo. VI sec. d.C.

96 a r c h e o

arrivati all’inaugurazione di Classis Ravenna? Per quanto mi riguarda è stato un lungo cammino, iniziato nel 2001. Nel museo sono confluiti i risultati dei principali scavi che ho diretto, prima nel porto di Classe (2001-2005) e poi

nel complesso di S. Severo (20062016). Inoltre abbiamo recuperato reperti trovati in precedenza, durante altre indagini. Il museo ospita di fatto le acquisizioni compiute in numerosi anni di ricerche, piú e meno recenti: i molti tasselli di un puzzle che ora, ricomposto a Classe, è molto piú comprensibile. Tutto questo si è potuto realizzare solo grazie alla stretta collaborazione tra l’Università di Bologna, la Fondazione RavennAntica, il Comune di Ravenna e la Soprintendenza ai Beni Archeologici.

◆ Qual è la chiave, l’idea centrale

dell’allestimento? La chiave è senz’altro il punto di


partenza, l’idea stessa che sta dietro il museo: raccontare la storia attraverso l’archeologia. I reperti, gli apparati, l’impianto stesso dell’allestimento sono stati individuati e concepiti appositamente per accompagnare il visitatore in un lungo viaggio nel tempo, dalle origini di Ravenna fino al Medioevo. E poi la diacronia: era importante dare conto di tutta la storia di questo territorio, perché troppo spesso nel passato si è puntato il riflettore soltanto sull’Antichità e sull’età bizantina.

colpito soprattutto la concisione dei testi nei pannelli: in media soltanto quattro periodi, semplici ed efficaci. Una vera lezione: l’unica maniera per non spaventare il visitatore con una slavina di parole, che poi nessuno legge.

◆ Quali sono i reperti piú importanti

esposti nel museo? Faccio una doverosa premessa di carattere metodologico: tutti i reperti sono importanti, dal piú appariscente al piú umile, perché ognuno di essi ci A sinistra: la sala d’ingresso di Classis Ravenna, dove si viene accolti da una grande vela che riproduce il mosaico di S. Apollinare Nuovo raffigurante il porto di Classe. In basso: la città di Ravenna cosí come doveva presentarsi al tempo di Giustiniano.

apre una finestra diversa sulla storia del territorio di Ravenna. Detto questo, capisco benissimo che i visitatori di un museo possano essere sedotti dalla bellezza dell’arte antica. E allora direi che nel museo colpiscono senz’altro opere come la testa della dea Fortuna, un ottimo esempio di scultura di età romana; il grande mosaico del Palazzo imperiale; e il tesoro di Classe: 7 cucchiai e un piatto d’argento venuti alla luce nel porto, nel 2005 (vedi box a p. 103).

◆ E quali, a suo avviso, le

soluzioni piú importanti, i punti di forza di Classis Ravenna? Nel museo la narrazione prende vita attraverso strumenti differenti. Abbiamo i filmati, splendidi plastici (firmati da Francesco Galluccio) e molte ricostruzioni grafiche (opera di Giorgio Albertini) che spiegano i reperti e i monumenti meglio di migliaia di parole. E poi la «Linea del tempo»: una sorta di navigatore che, dal centro del museo, indica costantemente al visitatore la sua posizione nel tempo della storia. Io ho

◆ Ci sono state altre fonti di

ispirazione? Molte, senza dubbio: nei miei viaggi in Italia e all’estero ho sempre privilegiato le visite ai musei, non solo per conoscere le storie degli altri ma anche per prendere nota delle soluzioni diverse adottate negli allestimenti. Tra tutti, però, mi hanno ispirato soprattutto due musei: quello della Crypta Balbi, a Roma, un vero punto di riferimento per chiunque si occupi di Medioevo, e piú in generale per chi voglia fare il salto dallo scavo alla valorizzazione dei risultati raggiunti. E poi ho tratto spunti importanti dal Museum of London. Di quell’allestimento – felicissimo, uno dei migliori in Europa – mi ha

a r c h e o 97


SPECIALE • CLASSIS RAVENNA

A sinistra: modello in scala della basilica di S. Severo. Qui sotto: fibula ad arco in argento, con tracce di doratura, da Castel Bolognese. Prima metà del V sec.

nella storia, pur restando una città importante: i suoi arcivescovi sono tra i piú potenti dell’Italia medievale. Nel museo raccontiamo tutto questo, e raccontiamo anche un altro elemento portante della storia di Ravenna: a causa della sua posizione è sempre stata una città protesa verso il mare, e ha accolto genti e culture da ogni parte del mondo. Ravenna, da sempre, ha un’anima cosmopolita e multietnica.

◆ Quali sono gli elementi piú

collaborato alla realizzazione di tutte queste soluzioni, ma l’ottima idea complessiva dell’allestimento si deve all’architetto Andrea Mandara: un vero maestro, che da tempo dialoga con alcuni dei migliori archeologi del nostro Paese realizzando splendide mostre e musei.

◆ Può riassumerci, in breve, la

storia di Ravenna, cosí come raccontata dall’allestimento? Quella di Ravenna è una storia molto particolare: si tratta di una città nata prima dei Romani (forse fondata dagli Etruschi e dal popolo degli Umbri) e poi conquistata da Roma. Una città di media importanza, che acquista

improvvisamente un ruolo di primo piano quando Augusto decide di stabilire qui la flotta che controlla il Mediterraneo orientale. E poi c’è l’età d’oro, quella compresa tra il V e l’VIII secolo, in cui Ravenna diventa per tre volte capitale: prima dell’impero d’Occidente, poi del regno goto e infine della provincia bizantina d’Italia. È in quel periodo che raggiunge il suo massimo sviluppo, e si dota di quelle chiese e di quei mosaici che l’hanno resa famosa in tutto il mondo. Successivamente torna a occupare un posto meno centrale

positivi nel rapporto con la comunità locale rispetto al Museo, e all’archeologia? La comunità locale ha prima aspettato con impazienza l’apertura del museo, e poi ne ha salutata l’inaugurazione con grande entusiasmo: il giorno dell’apertura (nello scorso dicembre, n.d.r.) erano presenti 4000 visitatori! Per me è molto importante far sentire a queste persone che il passato scavato da noi è prima di tutto il loro passato, la loro storia. Per questo sono rimasto molto colpito dalla contentezza e dalla commozione di una bravissima archeologa locale, che mi ha detto di aver visto finalmente tutto il suo lavoro di anni tramutarsi in storia nel museo. E sono rimasto colpito dal gesto di un altro cittadino ravennate, che, negli anni Sessanta, aveva portato a casa un frammento di mosaico proveniente dalla basilica di S. Severo e nel 2006 lo ha restituito dopo aver capito che stavamo ricostruendo con passione e con serietà la vicenda di quel monumento. E ora quel mosaico ha un posto d’onore nel museo. Sono risultati importanti: punti di


contatto tra l’archeologia, l’etica e la società civile.

◆ Quale bilancio si può tracciare

dell’attività archeologica svolta a Ravenna e a Classe? Grazie ai nuovi scavi ora ne sappiamo molto di piú, e in questi anni con la mia équipe abbiamo anche creato gli strumenti per sistematizzare le conoscenze (le carte archeologiche di entrambe le città, e la Carta del potenziale archeologico di Classe). Ma c’è ancora molto da fare: Classe è quasi interamente sepolta e conosciamo ancora poco la struttura del suo tessuto insediativo dentro le mura; mentre a Ravenna c’è bisogno perlomeno di un grande scavo urbano che attraversi la stratificazione sulla lunga diacronia; e magari ci racconti nel dettaglio l’evoluzione di un intero isolato nel corso dei secoli.

In alto: testa di una statua marmorea della dea Fortuna (Tyche), da Classe. II sec. d.C. La divinità ha sul capo una cinta di mura, a mo’ di corona, dettaglio che la identifica come protettrice di una città. Nella pagina accanto, in basso: un particolare dell’allestimento della sezione dedicata al rapporto fra Ravenna e il mare.

spaziano dal vasellame di uso quotidiano, essenziale e standardizzato, a opere piú ricercate, come il mosaico con figure di pugili rinvenuto nella Domus dei Tappeti di Pietra, a Ravenna. La composizione, di cui Classis Ravenna propone la ricostruzione virtuale, era stata realizzata alla metà del I secolo a.C. utilizzando diverse qualità di marmo e i due personaggi che la animano potrebbero, in realtà, non essere semplici pugili ma i protagonisti di un episodio mitico legato al viaggio degli Argonauti: la sfida per l’acqua tra Amico (re dei Bebrici) e Polluce, il dioscuro. Sono invece presenti in originale due eleganti sculture scelte per documentare la produzione artistica. La prima è una statua in marmo che ritrae un personaggio femminile. L’opera, oggi acefala, risale al I secolo d.C. e faceva forse parte di un gruppo di sculture che ornavano un edificio pubblico probabilmente situato a Ravenna. Piú tardi, nel V secolo fu riutilizzata come materiale edilizio per la costruzione del porto di Classe. Non ci sono invece dubbi sull’identità della scultura che le sta accanto: si tratta infatti della testa di una statua marmorea della dea Fortuna (Tyche), trovata a Classe e databile al II secolo d.C. La divinità ha sul capo una cinta di mura, a mo’ di corona, e questo dettaglio la identifica come protettrice di una città. È possibile che la scultura facesse parte della decorazione di un tempio di Ravenna.

SENTINELLE ILLUSTRI Mentre l’occhio di chi visita passa da un oggetto all’altro – in tutto, sono oltre 600 i reperti esposti – altri occhi «controllano» la vita di Classis Ravenna: lungo la linea del tempo, riportata su una struttura che in qualche modo possiamo avvicinare alla spina di un antico circo, si susseguono infatti le immagini dei grandi protagonisti della storia del territorio, da Giulio Cesare a Claudio, da Astolfo a Gregorio Magno, che campeggiano sulle gigantografie distribuite in corrispondenza delle varie sezioni dell’allestimento. Una presenza silenziosa ma emblematica dell’importanza assunta da Ravenna e Classe nel corso del tempo. Momento di svolta decisivo fu, in particolare, la tarda età imperiale, quando all’inizio del V secolo, Onorio scelse di elevare Ravenna a capitale dell’impero d’Occidente e a questo nuovo ruolo si lega, di conseguenza, una a r c h e o 99


SPECIALE • CLASSIS RAVENNA A sinistra: ricostruzione virtuale del mosaico con raffigurazione di pugili, dalla grande residenza aristocratica (domus) ritrovata in via d’Azeglio, a Ravenna. Metà del I sec. a.C. In basso: un particolare della «Linea del tempo» che attraversa centralmente lo spazio espositivo di Classis Ravenna. Nella pagina accanto, in alto: particolare di un mosaico della basilica di S. Vitale raffigurante l’imperatore Giustiniano.

delle sezioni piú ricche dell’intero museo. Ancora una volta le testimonianze materiali sono affiancate da numerosi supporti didattici, fra i quali, per esempio, il modello in scala del palazzo di Teodorico, grazie al quale si può avere un’idea del complesso solo parzialmente noto grazie agli scavi condotti agli inizi del Novecento. Il modello permette cosí di confrontare il probabile volume del complesso con l’immagine della sua facciata visibile in uno dei mosaici di S. Apollinare Nuovo (e riprodotta nel pannello collocato alle spalle del plastico), divenuta celebre per la damnatio memoriae di cui fu oggetto. Nella composizione musiva si possono infatti vedere varie mani «fantasma», non riferibili ad alcun personaggio: un mistero spiegato appunto con un rifacimento di 100 a r c h e o


I SECOLI DI RAVENNA E DI CLASSE DATA 402 425-450 429-475 476 V sec. 493-540 521-549 523-549 535 540 545 553 568 570-595 576 (584?) 585-586 VI sec. (?) 712-713 717-718 726-744 732-733 735 751 774 IX sec. X sec.

EVENTO STORICO Ravenna residenza imperiale d’Occidente

Deposizione di Romolo Augustolo: caduta dell’Impero Romano d’Occidente Ravenna capitale del regno goto di Teodorico

Inizio della guerra tra Goti e Bizantini I Bizantini conquistano Ravenna Fine della guerra tra Goti e Bizantini I Longobardi invadono l’Italia Faroaldo I, duca longobardo di Spoleto, attacca e saccheggia Classe Il bizantino Droctulfo libera Classe dai Longobardi Il duca di Spoleto Faroaldo II occupa Classe, che viene però restituita ai Bizantini dal re longobardo Liutprando Liutprando invade e distrugge Classe Un terremoto colpisce Classe. La Basilica Petriana è distrutta Presa di Ravenna (e di Classe?) da parte del re longobardo Astolfo Il doge di Venezia Orso aiuta i Bizantini a riconquistare Ravenna ponendo il blocco a Classe Astolfo conquista Ravenna. Fine dell’Esarcato Fine del regno longobardo d’Italia Agnello, storico ravennate, definisce Classe «una città scomparsa» Ottone I stabilisce la sua residenza a Classe

XV sec. XIX sec.

parte dell’opera, operato al tempo di Giustiniano, che volle far cancellare le immagini che con ogni probabilità ritraevano lo stesso Teodorico e membri della sua corte. Anche se, non sappiamo se per imperizia o per risparmiare sull’intervento, la rimozione non venne effettuata a regola d’arte. Con Giustiniano, Ravenna divenne la città piú

Qui sopra, a destra: S. Apollinare Nuovo. Particolare del mosaico con le sante martiri.

PRINCIPALI MONUMENTI DI RAVENNA E DI CLASSE Basiliche di S. Giovanni Evangelista e di S. Croce, Mausoleo di Galla Placidia Basilica Petriana (Classe) Cattedrale e Battistero degli Ortodossi, costruzione delle mura e porto di Classe Basilica di S. Apollinare Nuovo, cattedrale e Battistero degli Ariani, Mausoleo di Teodorico Basilica di S. Vitale Basilica di S. Apollinare in Classe Chiesa di S. Michele in Africisco Basilica di S. Severo (Classe)

Basilica del Beato Probo (Classe)

Monastero di S. Severo Palazzo di Ottone I presso S. Severo Spoliazione e ricostruzione di S. Severo Definitiva distruzione di S. Severo

importante della provincia d’Italia, annessa all’impero bizantino e visse una stagione di eccezionale fioritura artistica e architettonica. Risale a questo periodo, infatti, la costruzione delle basiliche di S. Vitale, S. Apollinare in Classe e S. Severo. Quest’ultima è anche il tema portante delle sezioni dedicate all’epoca medievale. Ancora una volta – come ricorda a r c h e o 101


SPECIALE • CLASSIS RAVENNA

102 a r c h e o


DI GENERAZIONE IN GENERAZIONE Fra i materiali di maggior pregio esposti nel museo, vi è questo insieme composto da sette cucchiai e da una patera in argento dorato, probabilmente appartenenti a un servizio per banchetto. I reperti furono scoperti nel 2005, a Classe, in località Podere Chiavichetta, all’interno di una cassetta nella quale erano stati abbandonati, forse insieme ad altri manufatti di pregio, fra l’VIII e il IX sec. Gli argenti stessi, però, sono risultati piú antichi, in quanto risalgono ai primi anni del VII sec. ed è perciò probabile che il loro ultimo proprietario avesse riunito oggetti provenienti da servizi diversi, forse tramandati nell’ambito di una stessa famiglia, per poi seppellirli in vista di un pericolo incombente. Il tesoro costituisce un documento significativo per la ricostruzione della società ravennate di età tardo-antica, che attribuiva una particolare importanza a simili oggetti non solo per il valore intrinseco del metallo, ma anche perché elementi identificativi di uno stile di vita e di una identità familiare da tramandare di generazione in generazione.

anche Andrea Augenti nell’intervista che pubblichiamo in questo Speciale (vedi alle pp. 9699) – la creazione di Classis Ravenna ha costituito l’esito ideale della ricerca condotta sul campo. I materiali che documentano la storia della basilica e, soprattutto, del monastero sono infatti frutto delle indagini svolte sul sito dall’Università di Bologna negli anni Duemila (e delle quali abbiamo avuto occasione di

In alto: replica di una statua in porfido raffigurante un imperatore. Fine del IV-inizi del V sec. d.C. A sinistra: il tesoro di Classe. VII sec. d.C. Nella pagina accanto: il ritratto a mosaico di Giustiniano inserito nella «Linea del tempo». In basso: bulla in oro con decorazione a sbalzo a grappoli d’uva. I sec. d.C.

dare conto; vedi «Archeo» n. 333, novembre 2012), grazie alle quali sono state acquisite informazioni decisive sulla storia del complesso religioso. Da qui proviene, fra gli altri, un frammento di mosaico policromo con l’immagine di una papera. Grazie a stoviglie, utensili, ma anche a ricostruzioni e apparati multimediali, si entra nella vita quotidiana dei monaci, la cui comunità costituí uno dei principali presidi dell’intera regione. Parallelamente allo sviluppo cronologico, vi sono poi alcune sezioni tematiche su argomenti specifici, fra cui possiamo ricordare quella dedicata al rapporto fra Ravenna e il mare, nella quale viene soprattutto sottolineata l’importanza economica del sito. Al di là

a r c h e o 103


SPECIALE • CLASSIS RAVENNA

NEL SEGNO DELLA VALORIZZAZIONE L’inaugurazione di Classis Ravenna ha segnato un altro passo decisivo verso il completamento del Parco Archeologico di Classe, del quale già facevano parte il sito dell’Antico Porto (inaugurato nel 2015) e la basilica di S. Apollinare in Classe. Ultimo tassello sarà la musealizzazione del sito archeologico della basilica di S. Severo. Il progetto ha preso le mosse, nel 1997, con la creazione della Fondazione Parco Archeologico di Classe, poi denominata RavennAntica, di cui sono soci fondatori: il Comune di Ravenna, l’Amministrazione Provinciale di Ravenna, l’Università degli Studi di Bologna, l’Archidiocesi di Ravenna e Cervia e la Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna. È sostenitore istituzionale la Fondazione del Monte di BolognaRavenna. Alla realizzazione del Parco di Classe RavennAntica ha, negli anni, affiancato molte altre iniziative, come la gestione del

104 a r c h e o

sito della Domus dei Tappeti di Pietra, restituita alla fruizione pubblica nel 2002; il recupero di un’altra testimonianza eccellente del patrimonio storicoartistico ravennate, vale a dire la trecentesca chiesa di S. Nicolò, divenuta sede di eventi espositivi; l’allestimento, nel complesso di S. Nicolò, di TAMOTutta l’Avventura del Mosaico, una mostra permanente incentrata sull’arte musiva con un impianto caratterizzato da allestimenti interattivi, multimediali e scenografici con soluzioni tecnologiche avanzate. La Fondazione gestisce, inoltre, la Cripta Rasponi e i Giardini Pensili del Palazzo dell’Amministrazione Provinciale di Ravenna, al cui interno sono stati ospitati eventi espositivi di artisti mosaicisti moderni e contemporanei nell’ambito della rassegna Mosaici Contemporanei in Antichi Contesti.

degli aspetti strategici intuiti da Augusto, Classe fu infatti un crocevia di scambi intensissimi, non solo in epoca romana, ma anche in età tardo-antica, quando si affermò come uno degli scali piú importanti dell’intero Mediterraneo. Una vocazione marinara evocata anche da alcuni monumenti funerari, fra cui la stele di un classiario vissuto nel I secolo d.C., ma, soprattutto, il sontuoso sarcofago di Vibio Proto, risalente al III secolo d.C.Vibio era un liberto, a cui il sarcofago venne dedicato da Vibio Seneca, che fu prefetto della flotta ravennate. Sebbene non finita, l’arca è di ottima fattura e presenta un coperchio a doppio spiovente, mentre la cassa è decorata da due edicole a timpano, fra le quali è incisa l’iscrizione, all’interno di una cornice. Il percorso si chiude con una sezione dedicata alla storia dello zuccherificio, raccontata in una sala che riunisce foto d’epoca, documen-

In alto: materiali di varia foggia e tipologia restituiti dagli scavi condotti dall’Università di Bologna nel sito di S. Severo. Epoca medievale. Nella pagina accanto: il sarcofago in pietra calcarea del liberto Vibio Proto. III sec. d.C.


I NUMERI DI CLASSIS RAVENNA Il progetto per il recupero dello zuccherificio di Classe e la sua trasformazione nella sede di Classis Ravenna ha interessato una superficie complessiva esterna di 15 000 mq. Gli spazi interni si estendono invece su 5347 mq, cosí ripartiti: 4250 mq sono adibiti a spazi espositivi e 1907 mq sono riservati a laboratori e magazzini. Il costo complessivo dell’operazione è stato di poco superiore ai 22 milioni di euro e all’investimento hanno partecipato il Comune di Ravenna, lo Stato italiano, l’Unione Europea, la Fondazione Cassa di Risparmio e la Regione EmiliaRomagna.

vero!

ti e filmati. Un omaggio importante, che rende ancor piú completa l’operazione di recupero condotta attraverso la realizzazione di Classis Ravenna. Un museo che, inoltre, non è stato pensato esclusivamente come contenitore di reperti, poiché nell’edificio sono compresi anche laboratori di restauro e spazi destinati ad attività di studio e ricerca. DOVE E QUANDO Classis Ravenna Museo della Città e del Territorio Classe, via Classense 29 Orario tutti i giorni, 10,00-18,30 Info tel. 0544 473717; https://classisravenna.it a r c h e o 105


IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

LA GRANDE UTOPIA

NEL TERRITORIO ATTRAVERSATO DALLA VIA APPIA ANTICA CONVIVONO DUE PARCHI, L’UNO ARCHEOLOGICO E L’ALTRO NATURALISTICO. DALLA LORO INTERAZIONE POSSONO E DEVONO PARTIRE LE PROPOSTE IN GRADO DI VALORIZZARE AL MEGLIO UN CONTESTO UNICO AL MONDO

U

n recente volume dedicato alla via Appia e al suo rapporto con Roma stimola molte riflessioni e stimolerà, immagino, ulteriori contributi. Le prime sono per la politica: e in particolare per la breve introduzione di Francesco Rutelli, che di Roma fu sindaco alla fine del secolo scorso. Sono due pagine, che meritano d’essere lette e meditate. E non solo perché molti Romani si sentono un po’ orfani di quegli anni, lontani ma non troppo, in cui personalità come lo stesso Rutelli prima e Walter Veltroni poi hanno dimostrato che si può governare una città avendo in testa idee e visioni non effimere. Ma perché toccano temi nodali che riguardano il nostro rapporto con il patrimonio culturale. Incalziamo dunque la politica, perché si prenda sempre le sue responsabilità; e aiutiamola quando cerca di fare quello che dovrebbe fare: cioè la ricerca di sintesi, anche complicate, per un bene comune. Sintesi

106 a r c h e o

necessarie, perché gli interessi in gioco nelle società complesse sono spesso conflittuali, anche quando legittimi, e non è ai portatori di questi interessi che si deve chiedere di raggiungere quell’equilibrio che solo l’arte democratica della politica può immaginare e descrivere.

LE BUONE PRATICHE È questa, peraltro, la differenza che separa le buone pratiche politiche da quello che oggi chiamiamo populismo, quella degenerazione della politica che si impadronisce di fette piú o meno larghe della popolazione, offrendo soluzioni tanto facili quanto poco plausibili a problemi complessi. Problemi che pretendono invece pluralità di ottiche e capacità di ascolto, non solo della pancia (c’è anche quella), ma anche della mente e del cuore delle persone. Rutelli delinea in modo chiaro alcuni nodi della lunga vicenda del rapporto fra Roma e la via Appia,

che, grazie alla ricchissima perlustrazione storica che il libro ci offre, si può sintetizzare nel concetto che quella antichissima via e il suo moderno Parco non sono una enclave, non sono uno zoo separato dalla città, non sono un inferno, né un paradiso: sono un pezzo fondamentale di Roma, che può diventare anzi «uno dei tratti dominanti della nuova identità urbana». L’Appia non è soltanto una porzione di territorio intrisa di resti archeologici da salvare di fronte a una tendenza – cito – che la stava portando «dal fascino romantico della desolazione delle antiche rovine a una desolante rovina contemporanea»: l’Appia è una risorsa della città contemporanea, è uno strumento centrale della sua rigenerazione. E ha quindi diritto a un destino contemporaneo. Questo destino parte da due realtà, che giocano un ruolo decisivo nelle scelte dei prossimi anni: l’Appia


coinvolge un bacino demografico di circa mezzo milione di abitanti; il territorio dell’Appia gravitante su Roma è per l’85% in mano privata. Sono in contrasto questi due elementi del problema? Non necessariamente. Purché prendiamo atto che negli ultimi tempi due grandi novità hanno cambiato sensibilmente le carte in tavola: la nascita del nuovo autonomo Parco archeologico di competenza statale e l’approvazione del piano di assetto del già esistente Parco Regionale. Almeno sulla carta, può dunque cambiare lo scenario poco esaltante che ci ha accompagnato in questi ultimi vent’anni, quando le due competenze operanti sul territorio, quella statale e quella regionale, sono sembrate piú

spesso elidersi o ignorarsi che non fare squadra. Oggi tutto questo non è piú possibile. Anzi, si può, si deve – cito ancora Rutelli – «ripensare il ruolo del Parco, ridefinirne funzioni e margini, restaurarne il paesaggio, realizzare nuovi sistemi di fruizione». Insomma, possiamo sperare di essere in presenza di una nuova fase fondativa: altro che desolazione! È di speranza che dobbiamo nutrirci.

UN’ANTINOMIA SUPERATA Il grande dibattito sul patrimonio culturale di questi ultimi anni, di cui anche «Archeo» si è fatta eco, qualcosa deve aver cambiato forse anche nella mentalità diffusa. Rutelli scrive infatti che «l’antinomia – ormai impossibile – tra tutela e mercificazione è finalmente

esaurita»: la tutela non coincide solo con la sacrosanta battaglia di questi decenni contro il vandalismo predatorio che animò l’azione di Antonio Cederna, la valorizzazione (le persone di buon senso lo hanno ormai chiaro) non ha nulla a che fare con la mercificazione, ma è il motivo stesso per cui non uno, ma addirittura due parchi insistono sul suo territorio. I due istituti hanno certamente finalità distinte (e questo è un bene perché aiuta a definire i reciproci punti di partenza: archeologico per il Parco statale, naturalistico per quello regionale), ma traggono linfa da una radice culturale che ormai non può non essere condivisa, quella che li rende entrambi – cito ancora – «capaci di integrare i fattori culturali con quelli ecologici».

Nella pagina accanto: l’Appia Antica in prossimità di uno degli ingressi all’area archeologica comprendente la Villa dei Quintili e il casale di Santa Maria Nova. In basso: un tratto della via Appia con il suo basolato originale. Sulla sinistra, la Villa dei Quintili.

a r c h e o 107


Una delle quinte scenografiche realizzate nell’Ottocento dall’architetto e archeologo Luigi Canina (1795-1856) sull’Appia Antica. Si tratta di un tipico pastiche di gusto neoclassico, nel quale sono assemblati rilievi e frammenti architettonici provenienti dai monumenti un tempo affacciati sulla consolare. C’è bisogno di dirselo? Non è il concetto stesso di paesaggio storico (quindi anche archeologico) che supera in modo chiarissimo e creativo l’antinomia natura/cultura? Se storia e natura non sono che i due cromosomi da cui trae origine la vita del paesaggio, come non sentirsi quindi in sintonia quando leggiamo che questo «è il primo parco archeologico moderno, ma anche luogo di vita, di scambi, di attività umane, insomma un compendio sensazionale per l’archeologia e la storia, un grande ambito ecologico e paesaggistico». L’Appia è tutto questo insieme, e questa sua natura complessa è la sua profonda meraviglia che non finisce mai di affascinarci, e di farci star male quando le cose vanno male o storte. Di qui l’indicazione politica che il volume suggerisce e che faccio mia con tutto il cuore: «Comune, Regione, Ministero dei Beni Culturali debbono c o l l a b o r a r e e non solo convivere. E debbono (certo, nella chiarezza dei ruoli) copianificare gli strumenti e l’organizzazione». Come avrebbe dovuto fare il benedetto Consorzio Stato-Comune per la gestione dell’Area archeologica centrale di Roma avviato nel 2015 e poi soffocato nella culla, se per ignavia

108 a r c h e o

o incultura, non saprei dirlo. Quello che abbiamo davanti ora è dunque un Superparco: «Una provocazione, uno stimolo a vedere oltre», come scrivono Alessandra Capuano e Fabrizio Toppetti.

UNA NUOVA STAGIONE Ma è anche qualcosa di assai piú concreto, qualcosa che ai cittadini di Roma e a milioni di turisti dia l’impressione netta che una nuova stagione stia forse partendo. «Cominciamo a renderlo percepibile – scrive Rutelli – con una segnaletica unitaria e diffusa». Vi sembra poco? È un obiettivo minimalista? A me sembra di no. Cominciamo ad abituare i Romani al fatto che due parchi non si elidono a vicenda ma che 1+1 può fare... 3, se operiamo in sintonia con la Convenzione di Faro, faro davvero per una politica del patrimonio culturale aperta all’esterno, fiduciosa nelle forze migliori che si muovono nelle nostre società, presenti e attive anche in una Roma bistrattata. Ho attinto a piene mani dall’introduzione del volume perché mi trovo in grande sintonia con quelle parole, cosí come con le colleghe e i colleghi che con qualità e impegno si muovono nei due parchi: da loro ci aspettiamo tanto e

ci aspettiamo che chiedano aiuto, se ne avranno bisogno, a tutti coloro che una mano potranno e vorranno darla. Per questo meritano di essere ricordate le parole di Orazio Carpenzano, che nella presentazione al volume scrive: «il SuperParco dovrebbe moltiplicare le figure degli utilizzatori e aumentare anche il numero dei soggetti proprietari dei beni culturali coinvolti nell’iniziativa; sviluppare politiche di cogestione tra le forze produttive e il mondo della cultura e quindi un rapporto piú stabile tra pratiche della conservazione e politiche dell’uso, ossia della valorizzazione, in sostanza un rapporto piú maturo tra pubblico e privato». Senza indietreggiare di un solo millimetro dal fronte della salvaguardia, apriamo allora le porte del Parco a tutti coloro che, avendo il privilegio di operare o vivere al suo interno, vogliano e possano sentirsi partecipi di un progetto comune di uso pubblico di un bene che, se è giuridicamente in tante sue parti privato, è sentito e visto oggi piú che mai come un bene universale.

PER SAPERNE DI PIÚ Alessandra Capuano e Fabrizio Toppetti (a cura di), Roma e l’Appia. Rovine Utopia Progetto, con testi di Rachele Dubbini, Alessandro Lanzetta, Federica Morgia, Quodlibet, Macerata 2017



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

QUELL’ALBERO DAI POMI DORATI UN GIARDINO AMENO, UN SERPENTE-GUARDIANO E L’IRROMPERE DELLA «REALTÀ»: COME L’ICONOGRAFIA NUMISMATICA RITRAE UN EPISODIO MITOLOGICO DALLA VALENZA DAVVERO... UNIVERSALE

N

ella mitologia e nella filosofia antica ricorre il ricordo di un mondo primigenio perduto e magnifico, dove (pochi) uomini e alcune divinità vivevano felici, in perfetta armonia con una natura rigogliosa e benevola, insieme agli animali e senza violenza alcuna. È l’Eden di biblica memoria, dall’ebraico eden, che significa «campagna» e, e poi anche «piacere, delizia», nel quale Dio collocò tutti gli esseri viventi, compresi Adamo ed Eva, in solitudine beata. Il luogo ha anche una sua precisa collocazione geografica sulla terra, descritta nella Genesi (2, 8-14): «Poi il Signore Dio piantò un

110 a r c h e o

giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male».

I QUATTRO FIUMI «Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lí si divideva e formava quattro corsi. Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre intorno a tutto il paese di Avíla, dove c’è l’oro, e l’oro di quella terra è fine; qui c’è anche la resina odorosa e la pietra d’onice. Il secondo fiume si chiama Ghicon:

esso scorre intorno a tutto il paese d’Etiopia. Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre a oriente di Assur. Il quarto fiume è l’Eufrate». Si tratta dunque della terra di Mesopotamia, mentre nella sumerica epopea di Gilgamesh l’Eden (che in sumero si traduce, come «pianura») si trova nella zona del Golfo Persico; per inciso, anche in quest’ultima tradizione mitica fanno la loro comparsa frutti proibiti e serpenti. Per il mondo greco-romano questi luoghi di delizie sono dislocati in un’età remota e hanno vari nomi, come le Isole Beate e quelle di Pancaia, Eusebe, Ogigia, siti che sia gli antichi che i moderni si sono


Esperidi ammansiscono nutrendolo con liquidi divini. Per volere di Era, alla quale è molto caro, il serpente vive attorcigliato sull’albero per proteggerlo da eventuali profanatori. Il resto della storia è noto, nelle sue varie versioni (Apollodoro, Biblioteca, II, 5, 11 (119-120): a sconvolgere il luogo divino e di armonia, direttamente legato agli affetti coniugali della divina coppia regale dell’Olimpo, giunge l’eroe Eracle il quale, nell’ambito delle sue dodici fatiche – che, seppur improntate alla violenza e all’uccisione, gli varranno l’ascesa tra gli dèi –, deve rubare, per ordine del re Euristeo, i pomi d’oro e a consegnarli allo stesso sovrano (undicesima fatica).

DONO DI NOZZE

sempre affannati a ricercare nel mondo reale. Ma sono luoghi dell’immaginario, come la celebre Atlantide (localizzata oggi fantasiosamente e con pertinacia degna di miglior causa dalla Scozia alla Sardegna). Un antecedente all’idea dell’Eden della Genesi si può ritrovare nel Giardino delle Esperidi, un sito ameno posto al di là dell’immenso Oceano, dove giorno e notte si incontrano e dove vivono le Esperidi, figlie della Notte (ma in alcune versioni anche del titano Atlante) dal canto melodioso e serena bellezza, le quali hanno cura del giardino e dei suoi fruttuosi alberi (Esiodo, Teogonia, Proemio). Di numero imprecisato secondo le diverse fonti, che varia da tre a undici (fra cui la celebre e sfortunata Medusa), esse badano all’albero dai frutti d’oro donato da Gea a Era in occasione delle nozze con Zeus, e insieme alle ninfe lo protegge anche il serpente-drago Ladone, parlante e poliglotta, che le

Il Giardino con l’albero dai pomi d’oro, dice Apollodoro, «non si trovava, come alcuni hanno detto, in Libia, bensí sul monte di Atlante, nel paese degli Iperborei, ed era il dono di nozze offerto da Gea a Zeus ed Era. Lo custodiva un drago immortale, figlio di Tifeo e di Echidna, che aveva cento teste e sapeva parlare con le voci piú diverse e variegate. Anche le Ninfe Esperidi facevano la guardia: Egle, Eritia, Esperia e Aretusa». Siamo quindi in Mauritania, dove Atlante è costretto a tenere sulle sue spalle la volta celeste. Eracle convince il Titano a prendere tre pomi dalle Esperidi, le quali senza problemi glieli danno, poi, con uno stratagemma, se li fa consegnare e

Nella pagina accanto: particolare di un cratere apulo del Pittore di Licurgo raffigurante il Giardino delle Esperidi. 360 a.C. Ruvo di Puglia, Museo Nazionale Jatta. A sinistra: medaglione di Antonino Pio con, al rovescio, Ercole nel Giardino delle Esperidi. II sec. d.C. In basso: rovescio di un medaglione di Gordiano III con Ercole di fronte all’albero dei pomi delle Esperidi, dal quale pende morto il serpente Ladone. 238-244 d.C. li riporta a Euristeo. Vi è anche una versione cruenta e crudele della vicenda, secondo la quale Eracle giunge nel Giardino, uccide il buon serpente guardiano e ruba i pomi, gettando nello sconforto Era, sia per il furto che per l’uccisione di Ladone. La storia si conclude tristemente: benché i pomi tornino infine in possesso della sua proprietaria, tre Esperidi, vinte dal dolore per il furto e per la morte dell’amato serpente, si trasformano in tre alberi – un salice per Egle, un olmo per Eriteide e un pioppo per Espera – e cosí le troveranno gli Argonauti di Giasone, giunti anche loro a portare scompiglio nel Giardino il giorno dopo il furto (Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, 1422 e ss). Nell’iconografia numismatica Eracle compare di frequente per la sua assimilazione all’imperatore combattente, vittorioso e semidivino, e tra i tipi prescelti vi è anche quello dell’undicesima fatica, riproposta con varianti: o solo l’eroe armato di tutto punto che prende il pomo dall’albero dal quale Ladone pende morto, o con le Esperidi accanto, spaventate dall’irruzione violenta di Eracle. La perdita dell’Eden, del giardino quasi irraggiungibile ma localizzato sulla terra, è dunque legata all’azione «civilizzatrice» di un uomo, per quanto semidivino, che qui infrange l’età dell’oro e riporta tutti alla tormentata realtà.

a r c h e o 111


I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Francesca Ghedini

IL POETA DEL MITO Ovidio e il suo tempo

Carocci editore, Roma 326 pp., ill. b/n 29,00 euro ISBN 978-88-430-9403-5 www.carocci.it

Ovidio è per antonomasia il poeta del mito, e questo libro ci introduce nel cuore di quella mitologia, di cui fu il cantore. Ciò non significa che manchi l’uomo Ovidio, giunto giovane dai monti di Sulmona a Roma, dove la microstoria della sua famiglia si intreccia con quella della famiglia di Ottaviano, e quindi con la macrostoria di Roma. Seguono poi la rinuncia a ogni attività politica e il viaggio in Grecia: il Grand Tour dei giovani-bene della Roma augustea, alla scoperta di ambienti, paesaggi e luoghi del mito. La vita nella nuova Roma di Augusto coincide con le frequentazioni dei circoli che contano. Tra questi, anche quello di Messalla Corvino, forse nella sua villa recentemente scoperta presso Ciampino. Chissà se recitò proprio lí la sua storia di Niobe, accanto a quello straordinario ciclo di statue, che sono state rinvenute fatte a pezzi in una grande piscina. I circoli politici dissidenti si riunivano sotto la protezione di quelle che Francesca Ghedini chiama le «scandalose Giulie»: la Maggiore, l’unica figlia 112 a r c h e o

di Augusto, e la Minore, la figlia di lei. Giulia, amata dalla plebe, ma non da suo padre, venne condannata all’oblio (fatichiamo addirittura a riconoscerne il volto). Della vita di Ovidio fa parte quel carmen et error, quello sbaglio fatale, sul quale sono stati versati fiumi d’inchiostro. Qual è la colpa che lo portò alla rovina? Quelle due

parole – dice Francesca Ghedini – restano aperte a ogni interpretazione. Certo, il suo errore era legato alla vista di qualcosa che non avrebbe dovuto vedere; e forse a un comportamento, dietro al quale si intravede la possibile adesione a un progetto culturalmente antagonista al potere augusteo. Intrecciando i fili sottili, l’autrice si domanda dunque se nell’Ars amatoria, l’opera con la quale Ovidio entra nell’arengo dei poeti di Roma, non ci fosse qualcosa di piú di qualche offesa al pudore e di uno spaccato ironico (e comunque mai volgare)

della vita del tempo, ma addirittura una visione dello Stato contrapposta a quella augustea. Se Ovidio, nella sua Ars, non fu dunque forse «solo maestro d’amore», anche nei Fasti, sotto la coltre dell’ironia, venivano messi alla berlina alcuni concetti religiosi e sociali su cui si basava la società del tempo. E cosí il grande poema delle Metamorfosi, con la minuziosa descrizione di tanti amori impossibili deviati o contro natura, metteva in discussione il rispetto verso le leggi augustee, prima fra tutte quella sul legittimo connubio. Gli amori immorali degli dèi, all’insegna della prevaricazione, dello stupro o dell’inganno, sono i primi a svelare l’ipocrisia del nuovo regime. D’altra parte, le Metamorfosi non nascondono le riflessioni sulla caducità dei destini di popoli e città, che Ovidio mette in bocca a Pitagora guardando forse alla caducità della stessa Roma che Augusto voleva immortale. E non nascondono l’ammirazione per quegli spiriti disinteressati al potere o ai piaceri della vita mondana, «che vollero primi ascendere alle dimore celesti, che con gli occhi della mente si sono approssimati alle stelle lontane e con il loro genio hanno conquistato la volta celeste» (Metamorfosi, I, 297-306). Ovidio, padrone della lingua, pratica i generi

piú diversi: erotico, didascalico, epico, civile, tragico… Il volume entra dentro le opere di Ovidio, cronologicamente esposte una per una, dagli Amores, dove incontriamo già l’atteggiamento irriverente e trasgressivo che percorrerà anche le opere successive, alla Ars amatoria, dove il pudore diventa il nemico da allontanare e entriamo nel mondo della gente normale. Seguono i Fasti, il meno ovidiano dei poemi e tuttavia una grande sfida letteraria, perché in quei versi Ovidio riesce a fondere generi assai diversi. Ma l’immortalità di Ovidio è affidata al poema delle Metamorfosi, «una sorta di storia universale che comincia con la creazione del mondo e finisce con il tempo del poeta», fantastico catalogo enciclopedico di miti greci e romani. Le Metamorfosi sono «il poema delle meraviglie di un mondo all’insegna della instabilità, dove tutto cambia, nulla si sottrae al continuo trapassare da uno stato all’altro». Senza mai perdere la sua vena ironica, Ovidio indaga un mondo di sentimenti, dove dominano l’amore, la violenza, la vendetta e l’ineluttabilità degli eventi. E dove non manca una singolare capacità di lettura introspettiva dei cuori femminili. Dai testi ovidiani, evocatori potentissimi



di immagini, il mondo moderno dal Rinascimento in poi ha tratto un repertorio figurativo immenso, capillarmente diffuso. Ma quanto deve l’immaginario iconografico del mondo antico a Ovidio? Quanto Ovidio stesso deve al mondo da cui proviene? In questo affascinante compendio, dove sono raccontati miti antichissimi, miti piú recenti, o apparentemente sconosciuti, e anche possibili invenzioni ovidiane, stabilire rapporti univoci fra testo e immagine è operazione complessa e non priva di incertezza. Le nostre conoscenze del repertorio iconografico ellenistico e romano, dal quale Ovidio sicuramente pescava a piene mani, non sono sufficienti a giudicare di volta in volta quanto lui rielaborasse «repertori consolidati o creasse il nuovo seguendo la sua libera ispirazione». Ma da questo libro si dovrà comunque ripartire per cercare di restringere il campo delle risposte possibili, mito per mito, scena per scena, personaggio per personaggio. Oggi sappiamo in ogni modo che Ovidio è l’autore classico che ha maggiormente influenzato il patrimonio figurativo di tutti i tempi: la condanna dell’uomo non ha comportato quella delle sue opere, che continuarono a circolare 114 a r c h e o

«nelle biblioteche private e divennero testi di riferimento per le scuole«, tanto che «anche la gente comune conosceva i suoi carmi e li scriveva sui muri». Ovidio ha il dominio sulla parola; ed è la parola che dà «la capacità di comunicare, che rende l’uomo diverso dagli altri animali». La voce perduta «diventa squittio latrato ululato» ferino; la perdita dell’umanità generata dalla metamorfosi impone quella posizione carponi, propria di ogni animale che osserva a testa bassa la terra e comporta l’impossibilità di guardare il cielo. L’uomo invece la faccia la può volgere in alto, al cielo e all’infinito. Questa è la grande lezione: «Mentre gli altri animali si volgono curvi alla terra, levò la fronte dell’uomo e gli impose che il cielo guardasse e alzasse dritta la faccia superba alle stelle» (Metamorfosi I, 84-86). Qui è Dante che ci viene in soccorso, che a Ovidio, accolto nel Limbo tra i grandi poeti pagani, attinge a piene mani in tante parti del suo poema e – credo – fin nell’ultimo verso della prima cantica: «Salimmo sú, el primo e io secondo, tanto ch’i’ vidi de le cose belle che porta ´l ciel, per un pertugio tondo. E quindi uscimmo a riveder le stelle» (Inf. XXXIV.136-9). Da tempo Ovidio è nel mirino delle nuove censure che un mondo impazzito si va

imponendo. Oggi in alcune biblioteche delle università statunitensi le Metamorfosi sono contrassegnate, come i film vietati ai minori o come gli Indici, che anche le nostre Chiese hanno ormai rinnegato, da un bollino, che avvisa gli studenti che in esse si parla di uno stupro, in modo che possano evitare di leggerle. Salviamo Ovidio, proteggiamo Ovidio! Proteggendo lui e la sua poesia, contribuiamo a salvare il nostro mondo impazzito da questa notte della ragione, che in tutto il pianeta rischia di portare l’umanità indietro di molti secoli, e di molti milioni di morti, per aver espresso poeticamente un’idea. Daniele Manacorda

alcun aspetto importante) tutti i momenti salienti di quell’avventura che è stata – ed è tuttora – la riscoperta archeologica della Terra Santa, partendo dalle origini ottocentesche per arrivare alle «destabilizzanti» ipotesi avanzate dai protagonisti di un recente e rivoluzionario approccio alla pretesa storicità

Estelle Villeneuve

del racconto biblico (si rilegga, a questo proposito, l’articolo Quell’antico «Popolo del Libro» in Archeo n. 407, gennaio 2019; on line su issuu.com). E di quell’avventura sottolinea anche l’innegabile portata mediatica: «Da piú di 150 anni – scrive Villeneuve – la Bibbia e l’archeologia procedono insieme nella buona e nella cattiva sorte, come una coppia che vive rapporti tumultuosi». E cosí, come le coppie di star finiscono sulle copertine dei rotocalchi, anche la scoperta del piú piccolo reperto rinvenuto a Gerusalemme subito «fa il giro del mondo». Andreas M. Steiner

LA BIBBIA NASCOSTA Le grandi scoperte dell’archeologia Edizioni Terra Santa, Milano, 288 pp., ill. b/n 22,00 euro ISBN 978-88-6240-582-9 www.edizioniterrasanta.it

Questo agile e aggiornatissimo volume, pubblicato dall’archeologa e orientalista Estelle Villeneuve nel 2017 e prontamente tradotto per i tipi delle Edizioni Terra Santa, rappresenta un’ideale integrazione alla lettura della nostra serie dedicata ai «Popoli della Bibbia». Nella densa introduzione l’autrice riassume per grandi linee (ma senza omettere



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.