IN EDICOLA IL 9 APRILE 2019
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2019 POPOLI DELLA BIBBIA/4 FILISTEI
I POPOLI DELLA BIBBIA
LUDWIG POLLAK
FILISTEI L’ETERNO NEMICO
SCAVI
TANNETUM CITTÀ ROMANA
L’EGITTO INVISIBILE
SPECIALE TOMBA DEI CALISNA SEPU
Mens. Anno XXXV n. 410 aprile 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
ARCHEOLOGIA INVISIBILE
TORINO
ROMA
LUDWIG POLLAK AL MUSEO BARRACCO
SPECIALE MONTERIGGIONI, DICEMBRE 1893
ISRAELE
NELLA TENUTA DEL SAMARITANO
LA GRANDE SCOPERTA
www.archeo.it
SU LL ET RA CC ED EI
FIL IST EI
ARCHEO 410 APRILE
€ 5,90
EDITORIALE
ERA UN’EPOCA... Un’«aria di famiglia» accomuna l’avventurosa vicenda riferita da Giacomo Baldini in apertura dello Speciale (vedi alle pp. 84-103) alla rievocazione di un personaggio eccezionale proposta da Orietta Rossini alle pp. 48-59. È l’aria di un’epoca, anzi, dell’epoca per eccellenza, avviatasi all’insegna di premesse luminose e conclusasi nella catastrofe. Leggendo i loro articoli, vedremo muoversi sulla scena dello scorcio tra Otto e Novecento – e solo a qualche centinaio di chilometri di distanza gli uni dagli altri – personaggi come il colono toscano Sabatino Capresi, nobili illuminati e antiquari senza scrupoli, archeologi e antichisti di fama come il veronese Luigi Adriano Milani e, naturalmente, il grande praghese (e romano d’adozione) Ludwig Pollak. Tutti, ognuno a modo suo e ognuno «secondo le proprie possibilità», con la mente e il cuore rivolti al «passato»; a quel passato che, proprio in quell’epoca tutta rivolta al futuro, riemergeva facendo sbocciare i suoi frutti migliori. Invitiamo i nostri lettori, dopo aver sfogliato le pagine di questo numero, a recarsi nel bellissimo borgo di Abbadia Isola, nel Senese, e a Roma, al Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco e al vicino Museo Ebraico. Per immergersi nei luoghi di un’età straordinaria e ascoltare il racconto di chi l’aveva, a piene mani, vissuta. Andreas M. Steiner
Foto dello scavo della Tomba dei Calisna Sepu (Monteriggioni, Siena), scattata al momento della scoperta, nel dicembre del 1893.
SOMMARIO EDITORIALE
Era un’epoca...
3
di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
6
SCOPERTE Nuovi, favolosi tesori vengono alla luce nelle necropoli egiziane di Saqqara e di Tuna el-Gebel 6 PASSEGGIATE NEL PArCo Apre al pubblico il complesso noto come «bagni di Livia», uno sfarzoso ninfeo-triclinio voluto dall’imperatore Nerone per la sua reggia sul Palatino 8 SCAVI Indagini preventive condotte nel cuore della città francese di Angoulême rivelano una inaspettata frequentazione preistorica del sito 10 ALL’OMBRA DEL VULCANO Anche l’archeologia documenta la ricchezza e la varietà della dieta
alimentare dei Pompeiani, sulle cui tavole non mancavano cibi pregiati ed esotici 12
MOSTRE/1
RECUPERI Il Museo Bizantino di Nicosia saluta il ritorno di un mosaico trafugato oltre quarant’anni fa 23
di Orietta Rossini
Roma, Ludwig Pollak
«Uno straordinario intenditore d’arte...» 48
RESTAURI Il gruppo scultoreo di Marco Virgilio Eurisace, ricco panettiere della Roma imperiale, torna a farsi ammirare nella Centrale Montemartini 24
48
POPOLI DELLA BIBBIA/4
SCAVI
I Filistei
L’eterno nemico
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Dalla città degli scacchi
di Fabio Porzia
di Paolo Storchi, con la collaborazione di Gaia Carosi, Marco Montermini, Antonella Pansini e Ilaria Trivelloni
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60
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In copertina sarcofagi antropoidi filistei in terracotta, da Deir el-Balah. Gerusalemme, Israel Museum.
Presidente
Federico Curti Anno XXXV, n. 410 - aprile 2019 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Comitato Scientifico Internazionale
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it
Comitato Scientifico Italiano
Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it
Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Giacomo Baldini è curatore scientifico del Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli» e del Parco Archeologico di Dometaia di Colle di Val d’Elsa (Siena). Giovanna Bianchi è professore associato di archeologia cristiana e medievale all’Università di Siena. Stefano Borghini è funzionario architetto presso il Parco archeologico del Colosseo. Franco Bruni è musicologo. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Gaia Carosi è dottore di ricerca in topografia antica presso «Sapienza» Università di Roma. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Alessandro D’Alessio è funzionario archeologo presso il Parco archeologico del Colosseo. Daniela Fuganti è giornalista. Pierluigi Giroldini è funzionario archeologo della SABAP per la città metropolitana di Firenze e le province di Pistoia e Prato. Richard Hodges è professore di archeologia alla University of East Anglia, Norwich (UK). Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico
MOSTRE/2 Torino
La faccia nascosta della storia
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di Stefano Mammini
84 SPECIALE
Tomba dei Calisna Sepu
In quella mattina di un anno freddissimo...
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di Giacomo Baldini, con contributi di Pierluigi Giroldini e Andrea Zifferero
SCAVARE IL MEDIOEVO
Giocando s’impara 108
70
di Andrea Augenti
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
Rubriche
Ai confini del mondo
QUANDO L’ANTICA ROMA... ...ricordava il «giorno dell’Allia» di Romolo A. Staccioli
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di Pompei. Marco Montermini è laureando in archeologia presso «Sapienza» Università di Roma. Antonella Pansini è dottore di ricerca in topografia antica presso «Sapienza» Università di Roma. Fabio Porzia è post-dottorando presso l’Università di Tolosa come storico del Levante antico. Orietta Rossini è curatore responsabile del Museo dell’Ara Pacis. Maria Maddalena Scoccianti è funzionario architetto presso il Parco archeologico del Colosseo. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Paolo Storchi è dottore di ricerca in topografia antica presso «Sapienza» Università di Roma. Ilaria Trivelloni è dottoranda in scienze dell’antichità in cotutela fra «Sapienza» Università di Roma e Università di Losanna (CH). Andrea Zifferero è professore associato di etruscologia e antichità italiche e di musealizzazione e gestione del patrimonio archeologico all’Università di Siena.
Illustrazioni e immagini: DeA Picture Library: copertina; V. Pirozzi: pp. 36/37 – Cortesia Gruppo Archeologico Colligiano, Colle di Val d’Elsa: p. 3 (e p. 86, basso) – Doc. red.: pp. 6-7, 21, 23, 42-45, 59, 92 – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: A. Lugari: p. 8; M. Modolo: p. 9 (alto); R. Carlani: p. 9 (basso) – Cortesia INRAP: Denis Gliksman: p. 10 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 12-13 – Archivi Centre Jean Bérard, Napoli: pp. 14 (basso), 15-16; Jean-François Dars: p. 14 (alto) – Cortesia degli autori: pp. 18-19, 60-69, 110 (alto), 111 – Cortesia Israel Antiquities Authority: Yitzhak Marmelstein: p. 20 (alto e centro) – Cortesia Ufficio Stampa Zètema Progetto Cultura: pp. 24-25, 48-58 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 32/33, 34 (alto), 37, 39, 41, 104, 105 (alto), 106; Album/Prisma: p. 110 (basso) – Shutterstock: p. 34 (basso), 85 – Bridgeman Images: p. 40 – Cortesia Ufficio Stampa Museo Egizio, Torino: pp. 70-83 – Cortesia Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli» di Colle di Val d’Elsa (Siena): pp. 84/85, 102 (basso) – Cortesia Agenzia di comunicazione Robespierre S.a.s., Siena: Veronica Becchi: p. 87 (alto) – Cortesia Fondazione Monte dei Paschi di Siena: p. 88 (alto) – da: Monteriggioni. Testimonianze d’arte nel territorio, Genova 1988: p. 88 (centro, a sinistra, e p. 89) – Cortesia SABAP Siena, Grosseto e Arezzo: Paolo Nannini: p. 88 (centro, a destra) – Cortesia Polo Museale della Toscana, Firenze: pp. 90-91, 93, 95, 96 (alto), 97 – Studio Lucii, Poggibonsi: pp. 94, 98, 99 (basso) – da: I confini della diocesi ecclesiastica, del municipio romano e dello stato etrusco di Volterra, 1968: p. 96 (basso) – da: Egitto, Iraq e Etruria nelle fotografie di John Alfred Spranger. Viaggi e ricerche archeologiche (1929-1936), Oxford 2019: p. 99 (alto) – Mario Maccantelli, Colle di Val d’Elsa: pp. 100 (alto), 101 – Studio Lensini, Siena: p. 100 (basso) – Giacomo Baldini: p. 103 – Cortesia Progetto Orgères, Università degli Studi di Torino: pp.
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di Francesca Ceci
LIBRI
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108-109 – Cippigraphix: cartine alle pp. 20, 35, 86, 105. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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n otiz iari o SCAVI Egitto
BUONA FINE E... BUON PRINCIPIO!
D
ue importanti scoperte hanno accompagnato il passaggio dell’archeologia egiziana dal 2018 al 2019. Nello scorso dicembre Mostafa Waziri, Segretario Generale del Consiglio Supremo delle Antichità, ha presentato alla stampa una tomba appena scavata nel cuore dell’antica necropoli di Saqqara a sud del Cairo, organizzando la conferenza all’interno del monumento funerario stesso. Si tratta di una sepoltura risalente al regno di Neferirkare-Kakai, terzo re della V dinastia dell’Antico Regno (24892469 a.C.). L’ambiente, di forma
rettangolare, misura quasi 10 m di lunghezza per 3 di larghezza e altrettanti di altezza e presenta le pareti coperte da geroglifici, con numerose statue alloggiate in nicchie, disposte su due ordini. Il titolare della tomba è stato identificato con un alto sacerdote di nome Wah-ty, definito un «ispettore divino», raffigurato nelle statue assieme alla madre, alla moglie e ad altri parenti. La scoperta ha avuto grande risalto, soprattutto perché la tomba è stata rinvenuta ancora sigillata, offrendo quindi la possibilità di osservare un contesto archeologico intatto. In questa pagina: una maschera funeraria e alcune delle mummie rinvenute nella tomba scoperta a Tuna el-Gebel, databile all’epoca tolemaica. Nella pagina accanto: Saqqara. Particolare della decorazione della tomba di Wah-ty, «ispettore divino» vissuto al tempo del faraone NeferirkareKakai (V dinastia, 2489-2469 a.C.).
6 archeo
La quantità e qualità delle iscrizioni e i colori delle pitture parietali, che raffigurano scene rituali e momenti di vita quotidiana, sono sorprendenti e in ottimo stato di conservazione. All’interno della sepoltura sono stati individuati cinque cunicoli, quattro dei quali ancora sigillati e verosimilmente colmi di materiale di riempimento. Mentre il vano già aperto si è rivelato vuoto, Waziri ha espresso un deciso ottimismo sul potenziale contenuto degli altri, in particolare di uno, che scende in verticale sotto il pavimento e potrebbe condurre a una camera funeraria con il sarcofago del sacerdote. Lo scavo è tuttora in corso e, a oggi, non ci sono stati ulteriori aggiornamenti. La prima scoperta del 2019, è stata invece comunicata dal ministro per
le antichità Khaled Anani e si è trattato ancora una volta di una sepoltura, meno antica della precedente, ma – almeno per il momento – ben piú ricca. A Minia, 260 km a sud del Cairo, nel sito archeologico di Tuna el-Gebel, sono state rinvenute quattro camere funerarie contenenti oltre 40 mummie in buono stato di conservazione. Gli ambienti erano scavati nella roccia a una profondità di 9 m. La tomba è stata datata al periodo tolemaico (323-30 a.C.), grazie anche all’esame dei numerosi utensili in ceramica e frammenti di papiro recuperati. L’identità dei defunti è sconosciuta, poiché non sono stati trovati nomi scritti nei geroglifici. Gli archeologi ipotizzano che si tratti della tomba di una famiglia di
ceto medio-alto, come suggerisce la tecnica di mummificazione adottata per i defunti. Delle mummie rinvenute, 12 sono state attribuite a individui di età infantile e 6 contenevano animali, mentre le restanti appartenevano a uomini e donne adulte. Erano tutte in buono stato di conservazione, alcune avvolte in bende di lino con resti di cartonnage e iscrizioni in demotico (la scrittura «di uso comune» dell’antico Egitto), mentre altre erano deposte all’interno di sarcofagi di argilla o di legno. Lo scavo è stato condotto da una missione congiunta tra il Ministero per le Antichità e il dipartimento di archeologia (Center for Research and Archaeological Studies) dell’Università di Minia. Paolo Leonini
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PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Alessandro D’Alessio
COME UNA QUINTA TEATRALE ALLA SFARZOSA REGGIA VOLUTA DA NERONE APPARTENEVA ANCHE UN MONUMENTALE NINFEO-TRICLINIO, OGGI NOTO CON IL NOME DI «BAGNI DI LIVIA». IL COMPLESSO TORNA A FARSI AMMIRARE IN TUTTA LA SUA RICERCATA ELEGANZA, FATTA DI MARMI PREGIATI E SQUISITE PITTURE PARIETALI
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el programma di ampliamento dei luoghi e dei percorsi fruibili del Foro Romano e del Palatino intrapreso dal Parco archeologico del Colosseo, particolare importanza riveste l’apertura al pubblico, per la prima volta, dei cosiddetti «Bagni di Livia», un monumentale ninfeo-triclinio (specus aestivus) sottostante la Cenatio Iovis (sala da banchetto riscaldata) della Domus Flavia, ma facente parte,
in origine, della prima reggia di Nerone sul Palatino. Scavati negli anni Venti del Settecento da Francesco Bianchini per conto dei Farnese, e poi ancora tra il 1910 e il 1913 da Giacomo Boni, i suggestivi ambienti che lo compongono sono stati oggetto in questi anni di un lungo e paziente lavoro di restauro e messa in sicurezza, per essere offerti oggi alla pubblica fruizione con un percorso di visita impreziosito da I cosiddetti «Bagni di Livia», complesso monumentale del Palatino che dev’essere in realtà letto come un ninfeo-triclinio, originariamente appartenente alla reggia di Nerone.
8 archeo
un impianto illuminotecnico che ne restituisce le atmosfere e da alcune installazioni multimediali. L’edificio, semi-ipogeico, è ricompreso in un parallelepipedo di 31 x 11,50 x 6,70 m di altezza, scavato nel suolo fluvio-lacustre del Palatino fino al sottostante tufo lionato. Le superfici di taglio e sbancamento praticate nel colle per incassarvi la struttura, vennero rivestite con cortine murarie in opera laterizia a mattoni rossi con ricorsi di bipedali (moduli di 2 x 2 piedi romani, pari a 60 x 60 cm circa) gialli e sovrapposte tegulae mammate (mattoni con piccole sporgenze ai quattro vertici angolari) lungo le pareti, a creare un’intercapedine di 3 cm, collegata con vespai alti 15 cm al di sotto dei pavimenti, allo scopo di contrastare l’umidità di risalita e trasmissione dal terreno sotto e retrostante. Lo spazio/volume cosí ricavato fu ulteriormente suddiviso tramite la costruzione di pilastri e setti murari, anch’essi, in opera laterizia, al fine di ottenere gli ambiti necessari all’inserimento di due scale speculari di accesso sul lato nord-ovest (quella oggi fruibile conserva parte della volta a cassettoni in stucco), di una grande sala o corte centrale
scoperta, e di tre sale minori voltate a botte su ciascuno dei lati nord-orientale e sud-occidentale (rispettivamente piú ampie le due a est e di piú ridotte dimensioni le due coppie a ovest).
PER LE ANTICHE SCALE Proprio attraverso una delle antiche scale si scende oggi nell’ampia sala centrale, originariamente scoperta e occupata su un lato da uno spettacolare ninfeo, che ripropone le forme architettoniche della
quinta teatrale (scenae frons con cascata-gradinata d’acqua che alimentava nove zampilli posti alla base del sottostante pulpitum a nicchie mistilinee ornate da 48 colonnine in marmi colorati con basi e capitelli corinzi in bronzo dorato) e, sull’altro, da uno sfarzoso padiglione/triclinio circondato da 12 colonne di porfido, pavimento e rivestimenti parietali in marmi policromi, destinato al riposo e allo svago dell’imperatore. Qui, una proiezione di grande formato e a doppio audio (italiano e inglese) introduce i visitatori alla storia del luogo e del piú vasto palazzo imperiale, dal suo contesto topografico urbano (quello della Domus Transitoria)
A destra: particolare delle volte affrescate degli ambienti dislocati nel settore nord del ninfeo. In basso: ricostruzione virtuale del padiglionetriclinio.
alla relativa ricostruzione architettonica e al rapporto con la successiva Domus Aurea. Il percorso prosegue verso i tre vani che si affacciano sul lato sud-ovest del triclinio, dove la tecnologia dei visori 3D di ultima generazione (Oculus Go) consentirà di visualizzare, attraverso una fruizione immersiva, il ricco ambiente cosi come doveva apparire al tempo di Nerone.
SCENE EPICHE Verso nord, invece, la visita continua negli ambienti lussuosamente decorati anch’essi con pavimenti in marmi colorati, pareti ugualmente rivestite di marmo e volte affrescate con raffigurazioni epiche (attualmente
conservate nel vicino Museo Palatino, dove sono ora esposti anche alcuni affreschi già distaccati dal monumento all’epoca degli scavi settecenteschi e confluiti poi nelle collezioni del Museo Archeologico Nazionale di Napoli). Da qui, attraversando una serie di squarci nelle strutture murarie che si sovrapposero ai «Bagni di Livia», si accede all’interno di una grande latrina a 50 posti, da attribuire verosimilmente al cantiere della Domus Aurea, e si raggiunge infine il settore piú orientale di queste imponenti costruzioni, dove si propone al visitatore un’ultima proiezione video con la ricostruzione della sua decorazione pittorica cosiddetta di giardino. All’apertura del monumento al pubblico si accompagna l’edizione di un volume riccamente illustrato (a cura degli scriventi), che dalla storia degli scavi nel sito passa a esaminare topografia e architettura delle Domus Transitoria e Aurea e le loro splendide decorazioni pittoriche e in marmo, fino al resoconto dei piú recenti restauri del monumento e a un’ampia introduzione all’utilizzo dei sistemi multimediali installati al suo interno. Alessandro D’Alessio, con Stefano Borghini e Maria Maddalena Scoccianti
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n otiz iario
SCAVI Francia
CACCIATORI IN CITTÀ
A
d Angoulême, città della Francia nord-occidentale, gli archeologi dell’INRAP (Institut National de Recherches Archéologiques Préventives) si sono resi protagonisti di una scoperta eccezionale e inaspettata. Nei pressi della locale stazione ferroviaria sono venuti alla luce i resti di un sito preistorico, nel quale si succedettero tre fasi di occupazione, databili tra la fine del Paleolitico e il Mesolitico. «Siamo in un sito occupato in modo continuativo per 4000 anni – spiega Miguel Biard, l’archeologo responsabile dei lavori –, di fronte a una stratigrafia (molto rara in un centro urbano) che, grazie alla sua successione geologica, è destinata a diventare un riferimento internazionale. Qui sono infatti documentate le ultime società di cacciatori-raccoglitori presenti nell’Europa centrale al momento del cambiamento climatico». Una transizione da suddividere, per quel che riguarda le testimonianze in questa zona della Francia, in tre periodi: Aziliano recente (14 000 anni fa), Laboriano (12 000 anni fa) e Mesolitico (11 000 anni fa). Ai mutamenti delle condizioni ambientali, da un clima freddo a un clima temperato, corrispondono le diverse tecnologie usate per lavorare la selce, attestate dagli
oltre 200 000 pezzi rinvenuti, fra cui 400 punte di freccia. Intorno ai 14 000 anni fa, il clima che caratterizza l’Aziliano (cultura che prende nome da un sito nel Masd’Azil, dove fu distinta per la prima volta), ben piú rigido dell’attuale, si riscaldò progressivamente, ma fece registrare un ultimo picco di freddo, che si protrasse per 1300 anni. La fauna e la flora cambiarono, le renne cedettero il posto ai cervi. «In questo momento, denominato Laboriano (che si colloca nel periodo definito Dryas Recente dai geologi) – osserva ancora Miguel Biard – si è sorpresi nel veder apparire una tecnica inedita per lavorare le armature, con lamelle In alto: strumenti in selce recuperati nel sito preistorico scoperto ad Angoulême (Francia). A sinistra: il cantiere di scavo.
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delicate e sottilissime, assemblate per formare la punta della freccia che risulta a forma di arpione. Mentre nel Mesolitico, nella fase di transizione dal clima freddo al clima temperato (10 000 anni fa), le selci e le punte di freccia diminuiscono». La zona studiata ad Angoulême era allora attraversata da un corso d’acqua. «È in parte grazie a questa fonte – sottolinea Grégory Dandurand, geomorfologo e geoarcheologo dell’INRAP – che il sito ha restituito l’istantanea di un contesto rimasto intatto per 4000 anni. L’acqua ha in un primo tempo favorito il deposito dei sedimenti, che hanno inglobato i manufatti prima che i luoghi fossero sigillati da uno spesso strato di tufo, che ha coperto tutto come una calotta». Il tufo ricopre a sua volta uno strato nero di torba, ricchissimo di polline: «Si sono originate sequenze simili a sandwich, spiega Dandurand, che forniscono agli specialisti – palinologi, malacologi, geomorfologi – tutti gli elementi necessari per interpretare i dati forniti dal terreno». Daniela Fuganti
ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
A TAVOLA CON I POMPEIANI I RESTI ORGANICI ANIMALI TROVATI NEGLI SCAVI DELLA CITTÀ VESUVIANA DOCUMENTANO GUSTI E CREDENZE DEI SUOI ANTICHI ABITANTI
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agli scavi di Pompei provengono molti resti organici, custoditi nel Laboratorio di Ricerche applicate del Parco Archeologico, che permettono di scoprire i piú minuti aspetti della vita alimentare dei suoi abitanti. Fra i materiali di origine animale spiccano senza dubbio le uova, il cui uso era importante nell’alimentazione antica come prezioso apporto proteico. Una soluzione ottimale per conservarle è costituita dall’immersione delle uova nella cenere all’interno di contenitori di argilla, come nel caso di quelle rinvenute nella Casa di Giulio Polibio. Le uova sono ampiamente rappresentate sugli altari dei larari domestici, talvolta accanto ad altre offerte, verso le quali convergono i serpenti (agatodemoni), simbolo di prosperità e di buon auspicio: l’uovo, nella sua forma perfetta, assume in questi casi una valenza concettuale connessa alla rigenerazione della vita che si trasmette piú tardi al cristianesimo, come simbolo della Pasqua e della rinascita di Gesú. In una dieta in cui sono prevalenti legumi e cereali e scarseggiano le carni, perlopiú derivanti dalla cacciagione svolta nel territorio vesuviano, oltre le uova, le proteine
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animali sono fornite dai derivati del latte, come i formaggi, stagionati e non. Piú di una ricetta antica ne prevede l’uso; un pezzetto di formaggio, un pugno di olive e un po’ di pane costituiscono di fatto l’alimentazione piú diffusa tra le classi sociali meno abbienti.
PIETANZE ESOTICHE Tra le classi piú elevate è invalso invece l’uso di allevare animali esotici: si mangiano cosí polpette di pavone, di fagiano e di coniglio,
struzzo lessato, pappagalli e fenicotteri in umido, di cui Apicio ci informa che la lingua è dotata di un sapore squisito! A Pompei una ricerca condotta sui resti degli scarichi fognari di alcune abitazioni, ha portato a scoprire un’ampia varietà di cibi importati dall’estero, tra cui una coscia di giraffa macellata. Parte integrante dell’alimentazione delle popolazioni costiere sono i prodotti ittici, utilizzati da tutte le classi sociali, seppure in maniera
A sinistra: Casa di Giulia Felice. Affresco raffigurante una tavola con uova e cacciagione. Qui sotto: contenitore in ceramica aperto per le uova, dalla Casa di Giulio Polibio.
differente. Agli schiavi sono destinati i molluschi meno pregiati, come le «balorde», non a caso conosciute come le «cozze degli schiavi». Una sezione del Laboratorio di Pompei è costituita proprio dalle valve dei molluschi: molte specie, oltre al consumo alimentare, sono utilizzate come elemento decorativo negli spazi verdi delle abitazioni per pannelli decorativi, fontane e ninfei.
Nella pagina accanto: vaso contenente conchiglie di murice. In basso: particolare di un affresco del tempio di Iside raffigurante un mazzo di asparagi e ricotte in cestini, una delle quali caduta e rovesciata.
PESCI... DA GIARDINO Particolarmente amate dai commensali sono le ostriche (Ostrea edulis), il cui consumo è cosí ampio e fonte di guadagno che si realizzano anche appositi vivai: «Primo fra tutti Sergio Orata inventò i vivai di ostriche nella sua villa di Baia, al tempo dell’oratore Lucio Crasso: e non per gola, ma per avidità, in quanto percepiva grandi rendite», ricorda Plinio. E tra i ricchi la moda di allevare pesce, cosí da avere sempre disponibili le specie piú pregiate – quali murene, orate o saraghi – è cosí diffuso che anche nei giardini di alcune case di Pompei, le piccole piscine che si accompagnano ai ninfei sono a volte trasformati in murenai. Tra i condimenti di origine animale celebre è il garum, largamente diffuso nelle preparazioni culinarie per insaporire carne, pollo, agnello
e verdura e considerato anche un medicamento utile a guarire le ustioni, le ulcere, i morsi dei cani e soprattutto dei coccodrilli. Il garum è ottenuto dalla fermentazione nel sale di intestini e scarti di pesce azzurro. Se ne ottengono diverse qualità, quella peggiore era destinata alla razione giornaliera per gli schiavi. Pompei è rinomata per la qualità di questa salsa: la migliore la produce A. Umbricius Scaurus, del quale conosciamo l’abitazione affacciata in posizione panoramica verso il mare. Il famoso commerciante ha fatto raffigurare ai quattro angoli
dell’impluvio le ampolline usate per la conservazione del condimento con una scritta che menziona il suo nome e l’espressione «liqua (minis) flos», a indicare la qualità piú raffinata e pregiata del suo prodotto. Qualcosa di simile al garum, seppure ottenuta per fermentazione del pesce intero e non delle sole parti di scarto, è rappresentata dalla prelibata «colatura di alici» che ancora oggi viene preparata a Cetara, in costiera amalfitana. Per notizie e aggiornamenti su Pompei, pagina Facebook Pompeii-Parco Archeologico.
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n otiz iario
SCAVI Napoli
SULLE TRACCE DEI COLONI
I
stituito alla memoria dell’archeologo francese Jean Bérard (1908-1957), grande specialista della Magna Grecia, il Centre Jean Bérard di Napoli (CJB) rappresenta in Italia, insieme all’École française de Rome (EFR), l’eccellenza francese nel campo della ricerca archeologica in territorio italiano. Fondato nel 1966 dall’allora direttore dell’EFR, Georges Vallet, il Centre Jean Bérard, è oggi diretto dalla storica antichista Claude Pouzadoux, coadiuvata da Priscilla Munzi Santoriello, che abbiamo incontrato. Chiediamo dunque a Claude Pouzadoux e a Priscilla Munzi Santoriello in che modo si sia trasformata l’attività dell’istituto, anche in termini di obiettivi e di programmi di ricerca... «Ormai da decenni il Centre Jean Bérard opera nel campo della ricerca archeologica su vari siti dell’Italia meridionale. Un impegno, questo, che ha finalmente ricevuto un riconoscimento
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Priscilla Munzi (a sinistra) e Claude Pouzadoux. istituzionale con il cambio di statuto del 2008, quando il CJB ha assunto piena autonomia nella programmazione scientifica delle proprie attività in campo
archeologico che coordina in collaborazione con il CNRS e l’EFR. Sono due gli assi di ricerca in cui il centro sviluppa le sue specifiche competenze e che ne costituiscono le priorità scientifiche. Gli scavi effettuati a Cuma a partire del 1994, inizialmente a sud dell’acropoli al fine di localizzare l’area portuale, e, in seguito, nella necropoli a nord della città, rappresentano uno dei punti forti del primo asse “Ai margine delle colonie greche”, che completano i lavori sui siti di Laos (Cosenza) e Moio della Civitella (Salerno); a ciò si aggiunge, a partire dal 2013, un nuovo programma sul vasto insediamento dauno di Arpi (Foggia), in collaborazione con l’Università di Salerno e la Soprintendenza di Foggia. L’équipe del CJB collabora inoltre alle pubblicazioni dell’École française de Rome sul sito di Megara Hyblaea (Siracusa) per lo studio delle produzioni ceramiche di età ellenistica. Dal 2000, le nuove ricerche condotte a Pompei e sulle città vesuviane hanno dato vita al secondo asse riguardante il programma “Vita economica e artigianato in Italia meridionale in età antica”». Tra le attività di scavo di cui il CJB si occupa, Pompei e Cuma occupano dunque una posizione privilegiata. Quali sono le vostre iniziative su questi due siti dell’area campana? «Il CJB ha acquistato competenze specifiche nella conoscenza dell’organizzazione e del funzionamento degli spazi periurbani. Nella periferia settentrionale di Cuma abbiamo messo in luce la successione, a partire dall’età del Ferro fino all’epoca medievale, di necropoli opiche, osche e romane, ma anche di un santuario greco, di attività commerciali, di un campo di
Nella pagina accanto, in basso: una veduta del fiume Lao (Calabria), il cui territorio è oggetto di uno dei progetti di ricerca condotti dal CJB. In alto: Cuma. Porta Mediana,
necropoli settentrionale. L’interno del mausoleo dei girali d’acanto, in corso di restauro. Età augustea. A sinistra: Cuma. La necropoli romana vista dalla Porta Mediana.
addestramento militare di età romana, di quartieri artigianali tardo-antichi e di case-torri medievali. Riguardo a Pompei, è in prossimità delle porte della città, nel settore di Porta Ercolano, che le nostre campagne di scavo, a partire del 2013, hanno portato a scoperte spettacolari; tra queste, l’atelier di vasaio, distrutto dall’eruzione del 79 d.C., e, poco distante, alcune tra le prime tombe sannitiche, contenenti vasi a figure rosse decorati con scene mitologiche. Incoraggiati da questi risultati, stiamo proseguendo le ricerche nella zona di Porta Vesuvio su un atelier di bronzisti preparando, al
contempo, una serie di pubblicazioni tra cui quella sulla conceria di Porta di Stabia». Quali risorse offre il CJB e sono contemplate anche attività di divulgazione e/o sensibilizzazione delle materie trattate verso un pubblico piú largo? «Tra le missioni del CJB vi è la promozione, verso un pubblico variegato, della ricerca e delle conoscenze sulla storia e sull’archeologia della Magna Grecia. Studenti e ricercatori possono usufruire delle risorse di una biblioteca d’eccellenza specializzata sull’archeologia dell’Italia meridionale, e in particolar modo
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n otiz iario
A sinistra: Pompei, Porta Ercolano. Scavi delle tombe sannitiche. In basso: Megara Hyblaea (Siracusa). Ceramiche di epoca ellenistica in corso di studio.
sulla colonizzazione greca, ma anche sulla romanizzazione e l’archeologia dell’area vesuviana, sull’artigianato e sulle tecniche antiche. Inoltre, gli allievi della Scuola francese di Napoli
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“Alexandre Dumas”, grazie a un partenariato nato 13 anni fa, incontrano ogni anno, in classe e sui siti, membri della nostra équipe, che li introducono alla storia antica e al mestiere dell’archeologo. In occasione di eventi culturali, il CJB è impegnato con attività di informazione sull’attualità delle proprie ricerche, come per esempio in occasione delle Giornate europee del patrimonio, ma anche con la presentazione di libri e di dibattiti organizzati con l’Institut français Napoli. Grazie a una rete ben collaudata, le attività del nostro istituto sono infine ben diffuse e promosse attraverso conferenze, film-documentari e articoli di divulgazione». Dalla vostra esperienza alla guida del CJB, quale è il bilancio di questi ultimi anni e, soprattutto, quali sono i progetti futuri del vostro istituto? «Il CJB è stato sempre percepito come una piattaforma, un luogo di
accoglienza, di incontro, di scambi e di condivisione tra i ricercatori specialisti dell’Italia meridionale. Frequentare, lavorare, studiare presso il nostro centro, costituisce senza dubbio una tappa essenziale della vita di un ricercatore. L’obiettivo è di perpetuare questa tradizione, restando vigili e aperti alle trasformazioni del mondo attuale e attraverso ricerche mirate che ci permettano di riflettere su questioni fondamentali come quelle – estremamente attuali – riguardanti la mobilità delle popolazioni, gli incontri tra culture, le conseguenze economiche e sociali dell’evoluzione tecnologica. L’Italia meridionale e in particolare il golfo di Napoli rappresentano, da questo punto di vista, un laboratorio eccezionale per comprendere la formazione della cultura europea… Il nostro obiettivo è quella di comunicarla e di condividerla». (a cura di Franco Bruni)
A TUTTO CAMPO Giovanna Bianchi, Richard Hodges
UN’EPOCA DI GRANDI CAMBIAMENTI LA TOSCANA MERIDIONALE È TEATRO DEL PROGETTO EUROPEO NEU-MED, MIRATO ALLA RICOSTRUZIONE DEI SIGNIFICATIVI MUTAMENTI ECONOMICI DEI PRIMI SECOLI DEL MEDIOEVO
N
egli ultimi trent’anni l’archeologia medievale ha fornito molti dati in grado di cambiare la canonica interpretazione della storia dell’Europa dopo la caduta dell’impero romano sino ai secoli centrali dell’età di Mezzo. In primo luogo, lo studio delle testimonianze materiali ha mostrato che, in determinate aree del Mediterraneo, a partire dal VII secolo il crollo della società romana e della sua cultura ebbe conseguenze ben piú profonde di quanto previsto in precedenza dagli storici della documentazione scritta, segnando in negativo la qualità degli stili di vita e le economie. In secondo luogo e al contrario, la ricerca archeologica ha evidenziato come nel periodo compreso tra il VII e il IX secolo nell’Europa nord-occidentale si sviluppò un’economia integrata grazie all’azione delle comunità che vivevano nelle regioni affacciate sul Mare del Nord e nei territori solcati dai fiumi Reno e Senna. Solo dal IX secolo alcune regioni dell’Europa meridionale, come l’Italia, furono coinvolte in analoghi processi di sviluppo. Ciò portò alla
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formazione graduale, a partire soprattutto dal XII secolo, di un piú equilibrato scenario economico, preludio di un piú ampio e unitario sistema di scambi commerciali e culturali tra Nord e Sud d’Europa. Le modalità, i tempi e i presupposti di questa crescita dell’area occidentale del Mediterraneo, che affonda le radici nei secoli del primo Medioevo, debbono però
In alto: modellazione 3D di materiali archeologici svolta nei laboratori dell’Università di Siena. In basso: alcuni componenti del team del progetto nEU-Med impegnati in una ricognizione geoarcheologica. ancora essere compresi nella loro interezza. È questo l’obiettivo di un importante progetto internazionale, finanziato dalla Comunità Europea, Origins of a new economic union 7th-12th centuries: resources, landscapes and political strategies in a Mediterranean region (acronimo nEU-Med), iniziato nel 2015 con sede nel Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena.
SPECIALISTI A CONFRONTO Un progetto nel cui ambito l’analisi dei cambiamenti degli insediamenti umani, dei paesaggi agricoli, degli stili di vita in relazione allo sfruttamento delle risorse e alle diverse strategie politiche sono le chiavi di lettura per comprendere questi macro-scenari storici. Per affrontare tali tematiche, il team nEU-Med ha una forte
Lo scavo in località Vetricella (Scarlino, Grosseto). Nel sito si indagano le caratteristiche materiali di una proprietà regia. Al centro, la fossa di spoliazione di una torre che si innalzava all’interno di un sistema di tre fossati concentrici, in uso tra IX e X sec. e poi colmati. Le numerose buche alloggiavano strutture lignee legate alla torre o funzionali alle attività svolte nel sito. connotazione multidisciplinare: archeobotanici, archeozoologi, archeometallurgisti, antropologi, geoarcheologi, geochimici, numismatici, storici delle fonti documentarie affiancano e supportano il lavoro degli archeologi. La ricerca ha previsto un focus di indagine su di un territorio-tipo del Mediterraneo occidentale contraddistinto da varietà di ambienti naturali oltre che da importanti risorse sfruttate in età medievale. Tali caratteristiche sono state individuate nella Toscana meridionale, internamente al grande corridoio compreso tra il Golfo di Follonica e i confini con l’attuale provincia di Siena, già oggetto in passato di importanti ricerche coordinate da Riccardo Francovich, che costituiscono una preziosa banca dati per il progetto nEU-Med. In quest’area è stato avviato lo scavo nel sito di pianura in località
Vetricella (Scarlino, Grosseto), interpretabile come il centro di una grande proprietà regia attiva tra l’VIII e l’XI secolo. Contemporaneamente ricognizioni geoarcheologiche hanno affiancato quelle propriamente archeologiche, mentre analisi geochimiche sono state effettuate per analizzare specifiche attività come, per esempio, quelle estrattive e metallurgiche.
LEGGERE IL PAESAGGIO Attraverso tecniche di telerilevamento finalizzate a individuare elementi specifici del paesaggio (antichi terrazzamenti agricoli, cambi di uso del suolo agroforestale, insediamenti, viabilità, sistemazioni idrauliche) verranno messe a fuoco le grandi trasformazioni subite dal paesaggio nei secoli dell’Alto Medioevo. Al contempo altri gruppi di lavoro sono impegnati nello studio di
specifici reperti (ceramiche, vetri, ossa animali, resti ossei umani). Tra questi ultimi, il gruppo interdisciplinare che si occupa della produzione monetaria, grazie al cui lavoro è stato possibile determinare la provenienza delle materie prime utilizzate nel periodo compreso tra X e XI secolo, un risultato di eccezionale importanza, che apre innovativi scenari nel campo della numismatica europea. Il quadro desunto da queste ricerche verrà poi comparato, entro il 2020, anno in cui è prevista la conclusione del progetto, con altri comprensori dell’Italia centrosettentrionale e d’oltralpe. Le ricerche sul campo e l’attivazione di laboratori legati al progetto – oltre a seminari, workshop e convegni – offrono agli studenti dell’Università di Siena un’importante occasione per approfondire le proprie conoscenze sulla storia medievale e sull’applicazione estensiva di innovative metodologie di indagine.
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NELLA TENUTA DEL RICCO SAMARITANO
«S
olo dio aiuti la bella proprietà del Maestro Aidos, Amen». Recita cosí l’iscrizione rinvenuta dagli archeologi israeliani durante lo scavo dei resti di una tenuta agricola antica di 1600 anni, situata nei pressi del villaggio di Zur Natan (Samaria occidentale). La scritta, in lingua greca e realizzata in tessere di mosaico, appare nelle immediate vicinanze di un calcatorium, una pressa vinaria, ritrovamento dell’iscrizione si trova, infatti, non lontano dalla vetta del Tel Zur Natan («la roccia di Natan»), un tempo sede di una sinagoga samaritana, trasformata in chiesa nel VI secolo d.C. L’iscrizione (e il relativo impianto per la produzione vinaria) rappresentano, dunque, un’ulteriore conferma dell’esistenza, durante l’età bizantina, di una comunità samaritana anche in questa parte della Terra Santa. Siamo, infatti, lontani dai due centri storici dei LIBANO
Mar Mediterraneo
Zur Natan
verosimilmente parte di una villa rustica, proprietà di un possidente di nome «Aidos». L’aspetto piú interessante della recentissima scoperta risiede però nel fatto che Aidos fosse un esponente di spicco (il termine «maestro» era un titolo onorifico riservato solo a personaggi di alto rango) della comunità dei Samaritani. Il luogo di
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Qui sopra: la pressa vinaria rinvenuta a Zur Natan (Israele)e risalente agli inizi del V sec. d.C. In alto, sulla sinistra, si nota l’iscrizione in greco, realizzata a mosaico nella quale è menzionato il «maestro Aidos», proprietario della tenuta agricola. Nella foto in alto: il particolare con l’iscrizione.
Tel Aviv
Nablus (Monte Gerizim)
Gerusalemme STRISCIA DI GAZA ISRAELE EGITTO
GIORDANIA
n otiz iario
SCOPERTE Israele
Samaritani, quelli di Nablus (la romana Flavia Neapolis, corrispondente alla biblica Sichem, in Cisgiordania) e di Holon, nei pressi di Tel Aviv. Ancora oggi, a Nablus e Holon vivono circa 800 persone appartenenti all’antica comunità dei Samaritani. Essi stessi si chiamano Bene-Yisrael («figli di Israele») o Shamerim («gli osservanti»), con riferimento alla loro stretta aderenza al Pentateuco (i primi cinque libri dell’Antico Testamento). La città di Nablus, inoltre, si trova ai piedi del principale luogo sacro dei Samaritani, il Monte Gerizim, sulla cima del quale sorgono i resti del tempio che i Samaritani costruirono nel IV secolo a.C. su modello di quello salomonico a Gerusalemme. Ma chi erano i Samaritani, quale la loro origine? Per rispondere a questa domanda, è necessario ricordare alcuni importanti avvenimenti nella storia della Terra Santa: verso la fine dell’VIII secolo a.C. la città di Samaria (nei pressi dell’odierna Nablus) fu distrutta nel
VIAGGI
Sulle orme della Bibbia
In alto: veduta aerea del Monte Gerizim e, sullo sfondo, della città di Nablus (Cisgiordania). A sinistra: l’interno di una sinagoga samaritana in una foto scattata agli inizi del Novecento.
corso delle invasioni da parte degli Assiri. Dal racconto biblico (II Re 17:27,28) e da un’iscrizione inneggiante al re assiro Sargon II, sappiamo che gli abitanti furono esiliati e, al loro posto, vennero insediate genti provenienti da altre regioni.È verosimile, però, che solo gli strati piú poveri della popolazione divennero vittime della politica di ricollocazione etnica messa in atto dagli Assiri, mentre l’élite degli Israeliti rimase in Samaria. Dall’assimilazione di questi ultimi con i nuovi venuti prese forma una nuova comunità, quella dei Samaritani, appunto. Secoli piú tardi, con la conquista araba della Palestina, nel 636 d.C, i Samaritani adottarono l’arabo
La spiritualità dell’antico Israele e i grandi temi dell’archeologia biblica sono il filo conduttore di un viaggio organizzato da Far East Viaggi dal 13 al 20 giugno. La partenza è prevista da Milano, la prima tappa è il deserto di Giuda e il Mar Morto, con la visita ai leggendari siti di Qumran e Masada. Il viaggio prosegue verso sud, alla volta del deserto del Neghev, del grande cratere naturale del Makhtesh Ramon e delle «colonne di Salomone», nel Parco di Timna, a pochi chilometri dal Mar Rosso. Risalendo verso nord, l’itinerario prosegue lungo l’antica via delle spezie, toccando le grandiose rovine delle città carovaniere fondate dai Nabatei – Avdat, Shivta, Mamshit – con una tappa nel sito dell’età del Bronzo di Tel Arad. Dal deserto il viaggio prende la via verso la costa, dove si visitano la città portuale – voluta da Erode il Grande – di Cesarea Marittima, Haifa, il Monte Carmelo e il Lago di Tiberiade. Dal Lago di Tiberiade il percorso si dirige nuovamente verso sud, alla volta della grande città romano-bizantina di Bet Shean e, da lí, raggiunge la Città Santa di Gerusalemme. Per informazioni: Far East Viaggi tel. 0331 455489; e-mail: fareastlegnano@alice.it; www.fareastviaggi.it
come lingua corrente, mentre l’ebraico divenne la lingua usata nelle liturgie e per la recitazione delle preghiere. Ligi alle regole della tradizione piú ancora degli stessi Ebrei ortodossi, i Samaritani di oggi si ritengono i discendenti delle tribú di Ephraim e Manasse e conducono un’esistenza estremamente isolata rispetto al resto della società. Andreas M. Steiner
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RECUPERI Cipro
L’EVANGELISTA RITROVATO
I
l suo ormai ex proprietario mai avrebbe sospettato che quel pregevole mosaico potesse essere frutto del saccheggio compiuto in una chiesa dell’isola di Cipro. Lo ha scoperto Arthur Brand, l’investigatore olandese che è riuscito a rintracciare l’opera nel Principato di Monaco, al termine di innumerevoli contatti con mercanti d’arte e informatori, spesso poco collaborativi, e di una «caccia» condotta per tre anni in tutta Europa. Si tratta di una porzione di mosaico risalente al VI secolo e raffigurante l’evangelista Marco, che, dopo l’invasione turca del 1974, venne trafugata dalla chiesa cipriota della Panagia Kanakaria, situata nella parte settentrionale dell’isola, circa 105 km a nord di Nicosia.
I mosaici dell’abside della chiesa, da cui proviene anche questa raffigurazione dell’evangelista, rappresentano una inestimabile testimonianza figurativa dell’arte bizantina sopravvissuta al periodo dell’iconoclastia (726-843 d.C.). Il frammento si trovava nell’appartamento monegasco di un cittadino britannico, che è
risultato completamente all’oscuro della vicenda. L’opera gli era stata lasciata in eredità dal padre, che l’aveva acquistata negli anni Settanta del Novecento, senza sospettarne l’illecita provenienza. Dopo essere stato contattato da Brand ed essere stato informato della vicenda, il proprietario – che ha chiesto di rimanere anonimo – ha deciso di restituire il mosaico alle autorità cipriote, dalle quali ha ricevuto una ricompensa simbolica per averne preservato l’integrità per tutti questi anni. Il 16 novembre scorso il reperto è stato riconsegnato da Brand alle autorità diplomatiche cipriote a L’Aia, per essere poi trasportato a Cipro, dove è ora esposto nel Museo Bizantino di Nicosia. Paolo Leonini
In alto: l’investigatore olandese Arthur Brand, al quale si deve il recupero del mosaico trafugato a Cipro. In basso: il mosaico bizantino raffigurante san Marco e che apparteneva alla decorazione della Panagia Kanakaria.
n otiz iario
MUSEI Roma
FORTUNA E GLORIA DI UN FORNAIO
A
Roma, a ridosso dell’acquedotto di Claudio a Porta Maggiore, nel quadrante sud-orientale della città, sorge un curioso monumento in muratura rivestita di travertino, che i Romani chiamano «la tomba del fornaio». Ma chi era il panettiere che, alla metà del I secolo a.C., fece realizzare per sé e per la consorte Atistia questo edificio funebre? Il suo nome era Marco Virgilio Eurisace ed era forse un liberto di origine greca che a Roma doveva aver fatto una discreta fortuna, di cui andava giustamente fiero, tanto da voler ricordare, nell’epigrafe funeraria, che in vita era stato un «uomo di un certo rango»: «Est hoc monimentum Marcei Vergilei Eurysacis pistoris, redemptoris, apparet[oris]» («Questo sepolcro appartiene a Marco Virgilio Eurisace, fornaio, appaltatore, apparitore»).
A destra: il gruppo con Marco Virgilio Eurisace e la moglie Atistia. 40-30 a.C. Roma, Centrale Montemartini. In basso: modellino del monumento funerario del panettiere. Il ricco panettiere volle che l’iscrizione fosse ripetuta pressoché identica sui lati del monumento, perché non sfuggisse che Eurisace non era stato un fornaio qualsiasi, ma aveva rifornito con i suoi prodotti lo Stato romano in qualità di appaltatore (redemptor) e che aveva persino ricoperto la carica di ufficiale subalterno (apparitor) di un qualche personaggio eminente. Sul lato orientale della tomba aveva poi voluto essere ritratto insieme alla moglie, scolpiti nell’atto di rivolgersi lo sguardo, in un altorilievo a grandezza naturale ricavato da un blocco unico di marmo pentelico (del
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peso di oltre 2 tonnellate): lui con una toga drappeggiata e lei con l’ampio mantello sulla tunica e con l’acconciatura in voga in quegli anni, con i capelli divisi da una riga centrale in bande laterali composte da trecce e raccolte in un’alta crocchia. Il gruppo scultureo di Eurisace e consorte fa ora bella mostra di sé nella Sala delle Colonne della Centrale Montemartini – secondo polo espositivo dei Musei Capitolini –, dopo un restauro che ha visto la pulitura leggera delle superfici marmoree e il consolidamento di alcune parti disgregate nel corso dei secoli e la
ricostruzione (sulla base di foto storiche) in gesso patinato della testa di Atistia (trafugata nel 1934). Un pannello didattico racconta l’interessante storia della tomba, costruita nel 40/30 a.C. in un’area attraversata dalle vie Prenestina e Labicana e chiamata nell’antichità ad Spem Veterem, dove, poco distante, si trovava anche il pistrinum, cioè l’impianto per la panificazione di Eurisace. Il monumento fu risparmiato, un secolo dopo, dalla costruzione dell’acquedotto Claudio ma fu sconvolto, invece, da quella delle Mura Aureliane nel III secolo d.C. e
Il rilievo che corre lungo il monumento funerario di Eurisace, raffigurante le fasi della panificazione. venne infine inglobato, nel V secolo, nel bastione voluto dall’imperatore Onorio. Si dovrà aspettare il 1838 perché la tomba torni alla luce dopo le demolizioni delle strutture onoriane volute da papa Gregorio XVI. Da allora il monumento, o quel che ne resta, è lí, alla mercè del passare dei secoli e dell’inquinamento metropolitano, edificio familiare a chi attraversi Porta Maggiore e non può fare a meno di notare la costruzione. Una struttura rivestita in travertino che
A destra: il monumento funerario di Marco Valerio Eurisace, adiacente Porta Maggiore. Le cavità circolari potrebbero forse alludere alle impastatrici allora in uso negli impianti adibiti alla panificazione.
salta all’occhio per l’altezza e per le curiose cavità circolari (forse una rappresentazione delle impastatrici di un forno) e, sull’estremità del piano superiore, per le vivaci scene a rilievo che ricordano le diverse fasi della panificazione. Nel livello inferiore si notano poi alcuni piloni o sorta di colonne bianche di difficile interpretazione. Il rilievo che ritraeva il committente e la moglie, una volta recuperato dallo smantellamento del bastione onoriano, fu lasciato a decorare la piazza di Porta Maggiore, finché, nel 1934, non fu trafugata la testa di Atistia. La lastra fu quindi esposta nei Musei Capitolini (Sala I del
Museo Nuovo, già Museo Mussolini), fino agli anni Novanta del secolo scorso; da lí è finalmente giunta alla Centrale Montemartini. Nel nuovo allestimento che ci auguriamo sia definitivo, si può ammirare anche il plastico del monumento, proveniente dal Museo della Civiltà Romana e, ai piedi del gruppo scultureo, l’epigrafe, rinvenuta anch’essa nel bastione, dedicata alla moglie di Eurisace: «Atistia fu mia moglie, visse come eccellente donna le cui spoglie riposano in questo paniere (urna)». Infine una curiosità: resta ancora oggi un mistero in quale parte della tomba fossero collocate le ceneri della donna. Lorella Cecilia
DOVE E QUANDO Centrale Montemartini Roma, via Ostiense 106 Orario ma-do, 9,00-19,00 Info tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, dalle 9,00 alle 19,00); e-mail: info.centralemontemartini@ comune.roma.it; www.centralemontemartini.org/
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n otiz iario
ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
POPOLO DEL MARE 1 2 3 Dopo gli Israeliti, i Filistei sono il secondo popolo piú citato dalla Bibbia, anche se la stragrande maggioranza di noi tutti ricordano solo la famosa citazione biblica «Muoia Sansone con tutti i Filistei» e quasi nulla piú. In effetti, come spiega Fabio Porzia nel 6 suo articolo (vedi alle pp. 32-45), i Filistei sono sempre 4 5 stati considerati un insieme di genti di origini diverse, senza una precisa identità socio politica e che, agli occhi degli Israeliti, ancora in epoca romana, incarnavano lo «straniero», diverso e perciò ostile e 7 quindi nemico. Innanzitutto le origini; essi facevano parte dei «Popoli del mare», provenienti da ovest e piú precisamente da Creta (1) o da Cipro (2; per caso si vede un’antica nave greca proprio in direzione est), o 9 8 dalla Grecia continentale (3) o anche da piú lontano, Sicilia (4) e Sardegna (5). Si erano insediati nella parte orientale della costa del Mediterraneo, tra Gaza (6) e l’attuale Tel Aviv (7), in una terra inizialmente chiamata Filistea e che sarebbe poi diventata la Palestina (8). L’esistenza storica dei «Popoli del mare» è 10 documentata dei rilievi del tempio di Ramesse III (9) a Medinet Habu. La loro presenza risale ai tempi dei 11 primi re di Israele con Saul, David (10) e Salomone, che qui vediamo nella vetrata della cattedrale di 12 13 Strasburgo (11), ma i contatti con gli Israeliti del luogo non furono mai facili per motivi di controllo delle terre, delle fonti d’acqua e delle altre risorse. E nei racconti biblici diversi sono gli episodi che dimostrano i contrasti tra Israeliti e Filistei: dal tradimento ordito da 14 Dalila – per il quale abbiamo scelto un dipinto di Rubens (12) e un’opera lirica (13) – ai danni di Sansone, 16 che fece crollare il tempio (14), esclamando la famosa frase ricordata in apertura, alla sottrazione dell’Arca dell’alleanza (15) da parte dei Filistei e alla sfida tra Davide e Golia (16). Nell’articolo vi sono cenni a elementi scientifici che attestano la provenienza 15 europea dei Filistei. Il DNA dei resti ossei di suini trovati in zona risulta di tipo europeo e quindi diverso da quello delle razze locali, per cui se ne 19 deduce che gli animali dovrebbero essere arrivati 18 17 dal mare insieme ai primi naviganti. Alcuni reperti archeologici di Ashdod (17) hanno IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere un’impronta egeo-cipriota e anche i resti di alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai ceramiche trovati in zona hanno evidenti influssi seguenti indirizzi: micenei. Da sottolineare come la Bibbia richiami Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, le differenze socio-economiche tra i Filistei e gli Via Tavanti, 8 C.P. 17037 abitanti della Giudea: i primi dediti all’agricoltura 50134 Firenze Grottarossa info@cift.it, 00189 Roma. specializzata (cereali, oliveti, vigne; 18) mentre i oppure lcalenda@yahoo.it; www.cift.it secondi maggiormente dediti alla pastorizia (19).
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RA I U CVVENT I NDE A E FN LA
LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO
A GR
FENICI
Un’epopea mediterranea di Sandro Filippo Bondì
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L’incontro fra Didone ed Enea, olio su tela di Nathaniel Dance-Holland. 1766. Londra, Tate Britain.
I
l grande dipinto raffigura l’incontro fra l’eroe troiano Enea e Didone, la leggendaria regina fenicia, a cui la tradizione attribuisce la fondazione di Cartagine. La vicenda è una delle molte che nella nuova Monografia di «Archeo» dedicata ai Fenici vengono evocate da Sandro Filippo Bondí, uno dei piú autorevoli studiosi della materia, tratteggiando un profilo ricco e articolato di una delle «grandi potenze» dell’antico Mediterraneo. La civiltà fiorita nelle terre del Levante costiero ha legato il suo nome a conquiste straordinarie, come quella dell’alfabeto, strumento del quale i Greci colsero per primi le straordinarie potenzialità. E poi i Fenici furono anche navigatori abilissimi, dotati di un’innata vocazione al commercio, e divennero interlocutori privilegiati dell’Egitto, dei grandi imperi orientali e, sul versante occidentale, di tutte le principali realtà indigene. Una diffusione favorita anche dalla fitta rete di colonie che punteggiarono Cipro, l’Africa del Nord, la Sicilia, la Sardegna, la Penisola Iberica…
GLI ARGOMENTI • F enici e Cartaginesi: nuove
prospettive e nuove conoscenze
•A mbiente geografico •S toria • L ’attività commerciale • L a colonizzazione • I stituzioni e la società •V ita religiosa •U rbanistica e architettura • L a statuaria in pietra •A vori e metalli •T errecotte e produzioni minori • L a scrittura • L ’eredità dei Fenici • I l Museo Nazionale di Beirut
IN EDICOLA a r c h e o 29
CALENDARIO
Italia
CORTONA 1738 Marcello Venuti alla scoperta di Ercolano
ROMA Ludwig Pollak. Archeologo e mercante d’arte
Politica e cultura fra Cortona e Napoli MAEC-Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 02.06.19
Gli anni d’oro del collezionismo internazionale. Da Giovanni Barracco a Sigmund Freud Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco e Museo Ebraico di Roma fino al 05.05.19
FAENZA Aztechi, Maya, Inca e le culture dell’antica America
Il classico si fa pop
MIC (Museo Internazionale delle Ceramiche) fino al 28.04.19
Di scavi, copie e altri pasticci Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo e Crypta Balbi fino al 12.05.19 (prorogata)
GENOVA 100 mila anni in Liguria
Tra Mediterraneo ed Europa Museo di Archeologia Ligure fino al 09.06.19
Mæternità
Maternità e allattamento nell’Italia antica Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Sala di Venere fino al 02.06.19
MILANO Il viaggio della Chimera Civico Museo Archeologico fino al 12.05.19
Storie di vita
Gli antichi romani raccontati dalla scienza Museo delle Civiltà-Museo preistorico etnografico «Luigi Pigorini» fino al 30.06.19
MODENA Storie d’Egitto
La riscoperta della raccolta egiziana del Museo Civico di Modena Museo Civico Archeologico Etnologico fino al 07.06.20
Roma Universalis
L’impero e la dinastia venuta dall’Africa Colosseo-Foro Romano-Palatino fino al 25.08.19
Mortali Immortali
Tesori del Sichuan nell’antica Cina Mercati di Traiano Museo dei Fori Imperiali fino al 18.10.19
Claudio Imperatore
Messalina, Agrippina e le ombre di una dinastia Museo dell’Ara Pacis fino al 27.10.19
BOLOGNA Ex Africa
Storie e identità di un’arte universale Museo Civico Archeologico fino all’08.09.19
CAGLIARI Le Civiltà e il Mediterraneo
Museo Archeologico e Palazzo di Città fino al 16.06.19
COMACCHIO Troia
La fine della città, la nascita del mito Palazzo Bellini fino al 27.10.19 30 a r c h e o
Testa in terracotta, da Ife (Nigeria). XII-XV sec.
Cavallino in terracotta, da Cipro. VII-VI sec. a.C.
MONTERIGGIONI, SIENA Monteriggioni prima del Castello
Una comunità etrusca in Valdelsa Abbadia Isola, Sala Sigerico fino al 23.04.19
NAPOLI Canova e l’antico
Museo Archeologico Nazionale fino al 30.06.19
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
LENS Omero
Sacra Neapolis
Culti, miti, leggende Lapis Museum, Basilica della Pietrasanta fino al 15.12.19
Museo del Louvre fino al 22.07.19
VALLON-PONT-D’ARC Di leoni e di uomini
POMPEI Pompei e gli Etruschi Palestra Grande fino al 02.05.19
Leggende feline: 400 secoli di fascino Grotte Chauvet 2 fino al 22.09.19
SIRACUSA Archimede a Siracusa
Germania
Experience exhibition Galleria Civica Montevergini fino al 31.12.19
BERLINO Il paesaggio culturale della Siria
Conservazione e catalogazione in tempo di guerra Pergamonmuseum La cittadella di Aleppo devastata fino al 26.05.19 dai bombardamenti. 2014.
TARANTO TesORI clandestini
Dal saccheggio alla valorizzazione» Chiostro del convento di San Domenico fino al 28.06.19
TORINO Archeologia Invisibile Museo Egizio fino al 06.01.20
VILLANOVA DI CASTENASO (BO) Oggetti dal quotidiano
Un giorno all’interno di un villaggio villanoviano MUV, Museo della civiltà Villanoviana fino al 09.06.19
Belgio
Grecia
BRUGES Mummie
ATENE Gli infiniti aspetti della bellezza Museo Nazionale Archeologico fino al 31.12.19
Segreti dell’antico Egitto Xpo Center Bruges fino all’01.09.19
Città del Vaticano MUSEI VATICANI Collezioni in dialogo Museo Gregoriano Egizio fino al 30.06.19
Francia PARIGI Regni dimenticati
Dall’impero ittita agli Aramei Museo del Louvre fino al 12.08.19 (dal 02.05.19)
Statua in granito rosa di Amenhotep II, da Karnak. 1425-1400 a.C.
USA NEW YORK Nedjemankh e il suo sarcofago d’oro
The Metropolitan Museum of Art fino al 21.04.19
Il mondo fra gli imperi
Arte e identità nel Vicino Oriente antico The Metropolitan Museum of Art fino al 23.06.19 Stele funeraria di Bat’a, da Palmira. II-III sec. d.C. a r c h e o 31
POPOLI DELLA BIBBIA/4 – I FILISTEI
L’ETERNO
NEMICO
«Che io muoia insieme con i Filistei»: la celebre frase, pronunciata dal biblico eroe Sansone, è forse la menzione piú nota del nome degli storici avversari di Israele. Ma la storia di questo popolo – il secondo, per numero di citazioni, elencato nella Bibbia – va ben oltre quell’episodio leggendario. Le genti insediatesi nella fertile terra lungo la costa del Levante meridionale sono, infatti, gli «stranieri» ostili per eccellenza, oggetto di disprezzo e diffidenza. Ma chi furono, veramente, i Filistei e da dove venivano? E quali le ragioni della loro scomparsa? di Fabio Porzia
D
opo l’Egitto, i Filistei sono l’entità straniera piú attestata nella Bibbia ebraica. Nella versione in lingua greca, che risale al II secolo a.C., cioè a un’epoca in cui il popolo dei Filistei non esisteva piú, il loro nome è spesso sostituito con il termine generico di «stranieri». In effetti, nei racconti biblici i Filistei, che sono nominati il piú delle volte come gruppo, formano una massa indistinta, caratterizzata da credenze e abitudini diverse (per esempio, a differenza degli Israeliti, sono spes32 a r c h e o
so qualificati – con disprezzo – come «non-circoncisi»). In una parola, i Filistei, nella tradizione biblica, sono l’incarnazione dell’altro, dello straniero, appunto, ma dello straniero ostile e quindi del nemico. La cultura ebraica conosce, infatti, anche un’accezione positiva dello straniero, quella di Abramo, che si auto-definisce «forestiero e di passaggio» nel paese di Canaan (Genesi 23,4). A immagine del suo capostipite, il popolo di Israele si rappresenta a propria volta come un immigrato, uno straniero nella
Medinet Habu (Egitto). Particolare di un rilievo del tempio funeraio di Ramesse III (1185-1153 a.C.) che mostra un gruppo di Filistei, riconoscibili dal tipico copricapo a penne, fatti prigionieri.
POPOLI DELLA BIBBIA/4 • FILISTEI
regione. All’ombra del principio secondo il quale Dio afferma «Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini» (Levitico 25,23), Israele trova una legittimazione del proprio diritto ad abitare il paese nel dono che Dio gli ha fatto. Un dono, fra l’altro, che Dio fa sempre al futuro, poiché la chiave di interpretazione di questo paese è quella della promessa.
UNA VISIONE CARICATURALE L’attitudine nei confronti dei Filistei, anche dopo la loro sparizione dal panorama geo-politico, aiuta a riconoscere una particolarità della letteratura biblica. Lo sguardo della Bibbia ebraica sulle popolazioni circostanti è spesso di natura caricaturale, volto a mettere in scena un clima di diffidenza e ostilità generale che, per contrasto, mette in risalto la portata teologica del popolo di Israele (Levitico 20,22-26; Deuteronomio 7,1-6). I cosiddetti «oracoli contro le nazioni», che scandiscono in modo assai ripetitivo la predicazione profetica e non solo, sono il luogo ideale in cui una simile visione viene perpetuata, elencando le colpe dei vari popoli e
In alto: affresco raffigurante la statua di Dagon che va in pezzi dopo che nel suo tempio è stata portata l’Arca santa presa dai Filistei agli Israeliti, dalla cosiddetta domus ecclesiae di Dura
Europos. 232 d.C. circa. Damasco, Museo Nazionale. In basso: sarcofagi antropoidi filistei in terracotta, da Deir el-Balah. Gerusalemme, Israel Museum.
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T l Qasi Te Tel as le l annunciandone la sconfitta fiYa rko n nale per volere di Dio. Contro questi popoli condannati e maledetti, Israele si staglia come popolo eletto, popolo santo, considerandosi messo da parte, proprietà esclusiva e separata del proprio Dio. Da un punto di vista storico, tuttavia, il rifiuto dell’origine Y neh Yav ne eh autoctona e delle relazioni coi Gezer Gez er popoli circostanti, entrambe Sore M arr M e d iterr r a n e o q pertanto attestate dall’archeoTel Ba Bata ta h tas logia, va interpretato per raAshdod gioni ideologiche (vedi «ArB t-S Be Bei t-Shem hemesh hem es Ekron cheo» n. 407, gennaio 2019; Ha Ela anche on line su issuu.com). Gat Tale posizione è dettata dal fatto che la costruzione dell’arAshkelon Lach ish chitettura generale della Bibbia ebraica, al di là di singole composizioni o saghe, è il prodotto di una successione di Lac chis hish h Shiqma Shi periodi di crisi come l’annientamento del regno di Israele Gaza nell’VIII secolo a.C. e, sopratTe Tel e ’Ai Aitun tun tutto, di quello di Giuda nel VI secolo a.C. Non a caso, parole Jem em emmeh mmeh m Tel T ell Beit e Mi Mirsi rs m rsim elogiative sono dedicate ai In alto: cartina dei territori occupati dai Filistei, che s’insediarono nella Shefela, nuovi regnanti persiani, i quali la fertile regione collinare e pianeggiante ai piedi delle montagne della Giudea. permisero il ritorno in Giudea, In evidenza, le cinque città che componevano la cosiddetta «pentapoli filistea»: dopo cinquant’anni di esilio, e Gaza, Ashdod, Ashkelon, Gat ed Ekron. la ricostruzione del tempio alla fine del VI secolo a.C. vano, infatti, il fronte occiden- Questi racconti, in particolare, tale, che premeva verso l’entro- costellano il Libro dei Giudici e terra il regno di Israele nella i due libri di Samuele. Al tempo AI PIEDI DELLE sua massima fase di espansione stesso essi fecero da catalizzaMONTAGNE Situati lungo la parte meridio- ma soprattutto quello di Giuda, tore per la monarchia nascente nale della costa levantina, fra a cui impediva l’accesso al ma- attorno alle figure del profeta Samuele e del primo re Saul. Gaza e Tell Qasile (l’odierna re (Sofonia 2,5-7). Tel Aviv), i Filistei occupa- La dettagliata nar razione La volontà di avere un re, al vano la regione della She- dell’inimicizia con i Filistei pari delle altre nazioni (1 Sam fela, ossia la fertile zona non è relegata soltanto agli 8) fu, peraltro, giustificata dalcollinare e pianeggiante «oracoli contro le nazioni», la necessità di organizzare una ai piedi della regione che spesso veicolano altrettan- risposta unita e coordinata montagnosa della ti topoi letterari, ossia una sor- proprio contro la minaccia dei Giudea, confinante a ta di luoghi comuni. Essi sono Filistei, che, dalle basse terre sud con il deserto i protagonisti, o meglio gli an- della Shefela, avevano esteso la del Negev. «Da occi- tagonisti, di lunghi racconti loro dominazione fin quasi a dente i Filistei divora- ambientati nelle prime fasi Gerusalemme, insinuandosi no Israele a grandi della storia dell’antico Israele, nel corridoio fra le montagne morsi», dice il profe- quella dei patriarchi, dei giu- di Giuda e quelle di Efraim. ta Isaia (9,11). I Fi- dici e della monarchia delle Per comprendere la natura dei listei rappresenta- origini con Saul e Davide. rapporti fra Israeliti e Filistei è s Be
or
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sufficiente leggere il primo racconto che mette questi ultimi in scena: l’incontro fra Isacco, il figlio di Abramo, e il re filisteo Abimelech (Genesi 26). Innanzitutto, quest’episodio costituisce un anacronismo, poiché all’epoca di Isacco (verso la prima metà del II millennio a.C., secondo la cronologia del tutto fittizia della Bibbia) i Filistei non erano ancora insediati nel Levante. Inoltre, si tratta di una replica dell’incontro fra Abramo e lo stesso re Abimelech, che in Genesi 20-21 non era però qualificato come filisteo, episodio che è a sua volta 36 a r c h e o
molto simile a un altro racconto, ambientato in Egitto, della saga di Abramo (Genesi 12,1020). Spinto da una carestia, Isacco, dunque, trova riparo presso i Filistei. Dopo aver presentato sua moglie come sorella – stratagemma già praticato a piú riprese da Abramo –, Isacco è smascherato ma non viene punito né cacciato. Al contrario, l’incontro si trasforma nell’occasione per riconfermare l’alleanza già stipulata fra Abramo e Abimelech. Almeno in un primo momento, questo testo lascia trapelare tracce di rapporti piuttosto pa-
cifici e costruttivi con i Filistei. Non si tratta, in questo senso, di un testo isolato; nella stessa direzione vanno, per esempio, i successivi racconti del matrimonio fra Sansone e una donna filistea (Giudici 14) o di Davide che, incalzato da Saul, trova rifugio e salvezza presso i Filistei (1 Samuele 27). Tornando a Isacco, dopo questa prima fase, un conflitto si apre a proposito di alcuni pozzi d’acqua scavati all’epoca di Abramo e di altri appena scavati dai servi di Isacco, tutti contestati dai Filistei di cui rivendicano il possesso dell’acqua. Isacco allora attri-
Nella pagina accanto: Roma, ipogeo di via Dino Compagni (complesso noto anche con la denominazione di «catacombe di via Latina»). Affresco raffigurante Sansone che uccide i Filistei con una mascella d’asino. IV sec. In basso: Wadi Hamam (Israele), sinagoga. Frammento di mosaico policromo raffigurante Sansone che lotta contro i Filistei.
buisce a tre dei nuovi pozzi nomi significativi: Esech, Sitna e Recobot, ossia semanticamente legati, nell’ordine, al «litigio», alla «contestazione» (per la quale va segnalato che si tratta della stessa radice da cui proviene il nome Satana), e alla «larghezza», con un riferimento finale, dunque, alla possibilità data da Dio al suo popolo di spaziare e di allargarsi nel paese, contrariamente alle rivendicazioni da parte filistea.
DEMONIZZARE L’AVVERSARIO Poco affidabile dal punto di vista storico, questo racconto esprime bene il carattere ambivalente e la carica ideologica delle narrazioni sui rapporti fra i due popoli. Sin da questo primo racconto, inoltre, è chiaro che il tema centrale della contesa fra i due è il possesso della terra e delle sue risorse. Come i pozzi di Isacco, litigio e contestazione penetrarono nella storia della regione e finirono
per demonizzare – Satana è il contestatore e l’accusatore – la figura dell’avversario politico e militare, o piú semplicemente quella dello straniero, dell’altro, che i Filistei incarnano cosí bene. Essi divennero dunque oggetto di un odio viscerale che mescolava vendetta personale e desiderio di riscatto per un intero popolo, espresso lapidariamente dal grido di Sansone, prima di sacrificarsi per la buona causa: «Che io muoia insieme con i Filistei» (Giudici 16,30). Il resto della letteratura biblica non costituisce altro che variazioni e un crescendo sul tema della disumanizzazione del nemico: oltre alle vicende di Sansone (Giudici 13-16), restano memorabili, per esempio, il racconto della sottrazione dell’arca dell’alleanza da parte dei Filistei e della peste che li colpí come punizione divina (1 Samuele 4-7), o il duello fra Davide e Golia, il giovane e bell’eroe contro il prode soldato alto quasi tre metri, a cui
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POPOLI DELLA BIBBIA/4 • FILISTEI
I RILIEVI DI MEDINET HABU Oltre ai testi, la documentazione di Ramesse III ci tramanda anche alcuni rilievi sulle pareti del tempio di Medinet Habu, che mostrano queste popolazioni invadere i territori egiziani via mare su lunghe navi e via terra su grandi carri, in entrambi i casi stracolmi di
Davide riservò lo stesso trattamento delle bestie feroci contro cui si imbatteva quando custodiva il gregge (1 Samuele 17). Il nome dei Filistei era talmente identificato con la caricatura del nemico che anche dopo la scomparsa della cultura propriamente filistea, essi continuarono a essere invocati come l’eterno nemico di Israele, specialmente in occasione della distruzione di Gerusalemme (Gioele 4,4-8; Ezechiele 25,15-17).
CHI ERANO I FILISTEI? Con il nome «Filistei», noi intendiamo popolazioni che condividevano, certo, una cultura, compresa quella materiale, distintiva.Tuttavia, il livel38 a r c h e o
persone, fra cui molti guerrieri ma anche popolazione civile. Il livello di dettaglio è impressionante, e ci trasmette le acconciature caratteristiche e le armature degli invasori, come il copricapo a penne per i Filistei e a corna per i Sherdana.
lo di omogeneità culturale non deve essere esagerato, per due ragioni: la prima è che il territorio chiamato Filistea non costituí mai un’unità geo-politica indipendente, e la seconda è che la popolazione di questo territorio era promiscua. Benché il territorio occupato sia chiamato Filistea, esso era organizzato, all’età del Ferro, attorno a cinque città principali, la cosiddetta «pentapoli filistea»: Gaza, Ashdod, Ashkelon, Gat ed Ekron (Giosuè 13,2-3; Amos 1,6-8). Infatti, l’entità politica dei Filistei, come anche quella dei Fenici, è sempre stata la città, il cui nome comprendeva lo spazio urbano e il territorio circostante, in continuità con la situazio-
ne dell’età del Bronzo, a sua volta organizzata in un reticolo di città indipendenti e sovente in rivalità. Di conseguenza, è del tutto probabile che i Filistei – come del resto i Fenici – si identificassero con il nome della città di appartenenza, piuttosto che come Filistei. D’altronde, il nome «Filistei» non ci è noto da fonti interne a questo popolo, di cui peraltro pochissime iscrizioni sono state ritrovate durante gli scavi archeologici. Tale nome, invece, è attestato da altre fonti del Vicino Oriente antico ma sempre esterne, anche se le fonti mesopotamiche talora fanno ricorso ai nomi delle principali città per parlare della popolazione locale.
Al di là della Bibbia ebraica, l’uso sistematico del nome Filistei è tipico di altre fonti propagandistiche come quelle egiziane, in cui il faraone di turno racconta le proprie benemerenze in favore del paese e la propria supremazia contro i numerosi nemici. Fra questi nemici compaiono, a partire dal XIII secolo a.C., i «Popoli del mare», ossia gruppi di migranti di origine mediterranea, in fuga dai loro paesi colpiti da dure carestie. Le fonti egiziane propongono diverse liste di questi «Popoli del mare», che variano leggermente secondo i periodi ma identificano, in tutto, una decina di gruppi (Eqwesh, Lukka, Shekelesh, Teresh,
Sherdana, Zeker, Shekelesh, Danuna, ne degli sconvolgimenti e delle diWeshesh, ed evidentemente i Fili- struzioni occorsi a Cipro, in Anatostei, qui chiamati Peleset). lia e nel Levante. Ancora una volta, la lettura delle fonti egiziane semplifica la realtà storica. Il drammatiUNA REALTÀ co periodo che, convenzionalmenSEMPLIFICATA Benché citazioni isolate di singoli te, si data all’anno 1200 e che portò gruppi siano attestate da varie fon- alla fine della prosperità dell’età del ti – come alcune lettere della città Bronzo, fu dovuto a fenomeni incostiera di Ugarit, nell’odierna Si- terni piú che all’onda d’urto delle ria, l’epistolario egiziano di Tell el- migrazioni dei «Popoli del mare». Amarna, testi risalenti a Ramesse II La prosperità dell’età del Bronzo e soprattutto a suo figlio Mernep- era fondata sulla fitta rete di raptah –, le notizie si fanno piú preoc- porti tenuti insieme dai grandi pacupate e dettagliate all’epoca di lazzi dei piú importanti centri del Ramesse III. Nella prospettiva egi- Vicino Oriente, nota in letteratura ziana, questi gruppi esercitarono la come «sistema palatino». loro pressione nella zona del delta Tale sistema comprendeva anche del Nilo dopo essere state all’origi- l’area egea, con i palazzi micenei e i a r c h e o 39
POPOLI DELLA BIBBIA/4 • FILISTEI
centri ciprioti, e assicurava, fra le altre cose, la circolazione di beni e persone e il sostentamento di una classe di artigiani specializzati e di mercanti. Il rovesciamento di dinastie locali e la distruzione di alcune città maggiori, come la capitale del regno ittita o la potente Ugarit – spesso a causa di rivalità interne e di un generale malcontento sociale –, privarono questa rete internazionale dei principali committenti e investitori, facendo rovinare rapidamente l’assetto socio-politico dell’intero Mediterraneo orientale. Il nome dei Peleset/Filistei compare per la prima volta all’epoca di Ramesse III, sui rilievi di Medinet Habu, che raccontano e rappresentano la loro avanzata (vedi box a p. 38), ma anche su documenti letterari, come il Papiro Harris della stessa epoca. Stando alla propaganda faraonica, Ramesse III arrestò l’avanzata di queste popolazioni verso l’anno 1190 a.C. In realtà, il faraone dovette riconoscere un fatto compiuto, e cioè l’insediamento di queste popolazioni lungo la costa levantina. Conseguenza importante, lo stanziamento dei Filistei nel Levante meridionale significò la perdita da parte egizia-
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Una dea in trono? Restituzione grafica di oggetti rinvenuti in contesto cultuale in diversi siti dell’antica Filistea (Ekron, Ashkelon, Ashdod) con evidenti tratti di origine micenea e cipriota e databili fra l’XI e il X sec. a.C. Spicca la cosiddetta «ashdoda» (da Ashdod, sito nel quale fu rinvenuta; vedi anche la foto a tutta pagina), figura femminile direttamente ricavata dal trono attraverso l’aggiunta di un lungo collo, una testa che ricorda quella di un uccello per la forma acuminata del naso e l’applicazione di due pasticche di argilla a formare i seni. La restante decorazione dell’oggetto è pittorica, forse a ricordare un abito a fasce nere e rosse e, probabilmente, un pendente fra i seni. La posizione seduta e il simbolismo dell’oggetto fanno propendere per la rappresentazione di una divinità.
na del controllo diretto sulla regione che andava dalla frontiera con l’Egitto fino a Gerusalemme, fattore che è all’origine della progressiva fioritura in tutta la regione di entità politiche autonome, nell’entroterra come nella costa. Chiamandoli Pilishtim nell’ebraico biblico, o Peleset nella lingua egiziana, le due documentazioni convergono nell’affermare che i Filistei vengono dal mare, dove costituiscono una potenza navale (Genesi 21,32-34; 26,1, 8, 14-15; Esodo 13,17; 15,14; 23,31). Quanto alla loro origine, la Bibbia ebraica cita soprattutto Creta (detta «Caftor»,
Genesi 10,14; Deuteronomio 2,23; Tale visione migratoria e per granAmos 9,7; Geremia 47,4) o Cipro di eventi va, però, in parte ridimen(detta «Kittim», Numeri 24,24). sionata e lo studio della cultura materiale filistea ha contribuito a mostrarne i limiti. ORIGINI INCERTE L’ampia documentazione archeo- La stessa identificazione della cullogica conferma i legami dei Fili- tura materiale filistea non è sempre stei con una provenienza dal Me- certa ed è oggetto di diverse interditerraneo centro-orientale e la pretazioni. La pratica di seppellire i loro capacità nautica. È però piú defunti ricorrendo ai sarcofagi andifficile stabilire corrispondenze tropoidi è stata, per esempio, a lununivoche fra i Filistei e un’origine go considerata tipicamente filistea precisa, come si è fatto a lungo, a causa delle analogie della loro identificando per esempio gli decorazione con il modo in cui i Eqwesh con gli Achei, i Lukka con rilievi di Medinet Habu raffigurai Lici, gli Shekelesh con i Siculi, o no i Filistei.Tuttavia, l’uso di questi ancora gli Sherdana con i Sardi. sarcofagi non è attestato nei siti
Veduta degli scavi di Tell es-Safi (Israele), sito identificato con la città filistea di Gat.
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POPOLI DELLA BIBBIA/4 • FILISTEI
maggiori della pentapoli e sembra essere un fenomeno di emulazione locale di una tradizione egiziana piú che una pratica veramente filistea. Inoltre, la recente scoperta di una vasta necropoli ad Ashkelon ha attestato l’esistenza di molteplici pratiche per l’inumazione dei cadaveri. Anche le abitudini alimentari nei siti filistei hanno attirato l’attenzione degli studiosi, e in particolare il consumo di carne suina, in contrasto con il tabú biblico. Lo studio del DNA di alcuni resti ossei ha mostrato che i suini di cui i Filistei si nutrivano non appartenevano a una razza locale, bensí a una europea, sugge-
rendo che la prima generazione di suini dovette arrivare sulle stesse navi dei primi Filistei provenienti dal continente europeo. Una precisione geografica maggiore circa le origini dei Filistei proviene dallo studio della religione. Da un lato, il testo biblico attesta che i Filistei veneravano divinità essenzialmente locali, come il Dagon di Ashdod (1 Samuele 5,1-5) o il Baal Zebub – demonizzato poi in Belzebú – di Ekron (2 Re 1,1-4). La scoperta di un’iscrizione commemorativa della costruzione di un tempio a Ekron (vedi box alla pagina successiva) attesta, però, anche il culto di divinità sconosciute nella regione, come
Nella casa del dio della tempesta Aleppo. Un’immagine degli scavi del tempio di Adad, dio della tempesta. Il santuario ha restituito anche iscrizioni in cui è citato un «Taita, re di Palistin», identificabile dunque con un sovrano filisteo. Nel riquadro, alcuni dei rilievi del tempio, tra cui, sulla destra la raffigurazione dello stesso Adad.
una certa divinità femminile Ptgyh, forse legata al mondo miceneo, a cui il tempio era dedicato. In maniera ancor piú evidente, tuttavia, depongono a favore di un’origine egeocipriota i materiali connessi allo scavo di alcuni luoghi di culto (come quelli di Ashdod, Ekron e Tell Qasile). Per esempio, questi siti conservano non soltanto suppellettili, ma anche oggetti per le libazioni, come kernoi e coppe a testa di animale che, seppur non sconosciuti nel Levante, erano molto piú comuni a Cipro. Inoltre, alcuni ambienti architettonici rimandano a un contesto egeo, come il focolare del tempio di Ekron, che ricorda da vicino quello del megaron, la sala del trono del mondo greco arcaico.
IL RUOLO DELLA CERAMICA Al di là di questi indizi sparsi nella documentazione archeologica, un materiale in particolare, onnipresente in ogni contesto di scavo, è stato utilizzato come indicatore della presenza di genti straniere e come pista per rintracciarne le origini: si 42 a r c h e o
A sinistra: particolare della fronte di un sarcofago con la scena del passaggio del Mar Rosso. Età teodosiana (379-395 d.C.). Città del
tratta della ceramica. Le differenti fasi della produzione ceramica locale sono state messe in stretta relazione con le fasi di installazione dei Filistei. La prima tipologia, la cosiddetta «ceramica monocroma filistea», fu interpretata come il segnale dell’arrivo dei primi Filistei. Questo tipo di ceramica, caratterizzato da semplici decorazioni geometriche e pochi tipi di vasellame, mostra influssi direttamente micenei. La seconda fase della produzione (la cosiddetta «ceramica bicroma filistea») fa emergere caratteri piú distintivi ed è contraddistinta da una pluralità di forme e da decorazioni in rosso o nero su fondo bianco e con motivi geometrici, volatili od acquatici. È stata interpretata come il risultato di una seconda ondata migratoria di Filistei. Quanto agli ultimi esemplari di ceramica filistea, ritrovati soprattutto ad Ashdod, essi mostrano una combinazione di forme e decorazioni fenicie e filistee. Tuttavia, il nesso fra questi tipi ceramici e i Filistei può essere interpretato diversamente dall’attribuirlo a differenti ondate migratorie,
Vaticano, Museo Pio Cristiano. In basso: miniatura raffigurante il passaggio del Mar Rosso, da una Vasellame filisteo di varia foggia e Bibbia ditipologia. produzione tedesca. sec. Ashdod, TheXV Corinne Mamane Museum of Philistine Culture.
L’iscrizione regale di Ekron Datata alla metà del VII sec. a.C., è una delle rare e piú lunghe iscrizioni di ambito filisteo, benché utilizzi una scrittura e una lingua non lontane dal fenicio. Il testo è abbastanza consueto e riguarda la costruzione di una casa (tempio) da parte del governante locale che chiede, in cambio, una lunga vita e una benedizione per il proprio territorio. Tuttavia, è l’identità della divinità in questione a essere misteriosa. Una possibile lettura è «Pitigaia», che ha fatto pensare ad alcuni studiosi alla fusione di due elementi divini di origine egeea, uno degli epiteti di Apollo, Pizio, e la divinità femminile Gaia. Al di là di queste e altre congetture filologiche, il pantheon filisteo rimane a oggi essenzialmente oscuro.
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POPOLI DELLA BIBBIA/4 • FILISTEI
Le meraviglie di Yavne In queste pagine è illustrato lo straordinario materiale di Yavne, sito ubicato tra Ashdod e Tel Aviv. I reperti provengono dalla favissa, cioè un deposito per materiali connessi al culto (vedi foto a sinistra), di un santuario filisteo dell’XI-VIII sec. a.C. La loro funzione è stata a lungo discussa, ma si tratta essenzialmente di oggetti offerti dai fedeli alle divinità, e che rappresentano in maniera varia e fantasiosa elementi architettonici (probabilmente rifacentisi al tempio in questione) spesso popolati da animali o da personaggi antropomorfi.
spiegazione troppo meccanica. Innanzitutto, ceramica che riprende forme e decorazioni di quella micenea è presente fra il XIII e il XII secolo a.C. in tutta la regione siro-palestinese. Questo significa che la cosiddetta ceramica monocroma filistea non è una produzione unicamente filistea né che la si possa generalmente attribuire ai Popoli del mare. La produzione locale di materiali che fino ad allora provenivano dai commerci con la regione egea deve essere piuttosto interpretata come conseguenza diretta della fine di questi stessi commerci, nella transizione fra l’età del Bronzo e l’età del Ferro. Non potendo piú importare questi prodotti, si è, insomma, iniziato a produrli localmente.
UN NOME PER PIÚ REALTÀ Vi è un altro aspetto da considerare. Arrivati via mare, ma forse anche via terra, il nome di Filistei identifica certo una popolazione immigrata nel Levante. Essi, tuttavia, non arrivarono in una terra vuota. In questo senso, definire come filistea l’intera popolazione della costa del Levante meridionale è inesatto: la componente propriamente filistea fu 44 a r c h e o
una parte minoritaria rispetto alla popolazione locale. Inoltre, anche questa parte minoritaria non sembra etnicamente omogenea. Le ultime ricerche hanno mostrato che elementi di cultura materiale di matrice filistea si sono sviluppati nel Levante gradatamente, a partire dalla fine del XIII secolo a.C., e che portano i segni di disparate origini (egee, cipriote, ma anche anatoliche e balcaniche). La mescolanza di tratti è dunque la cifra stessa della cosiddetta cultura materiale «filistea». Promiscuità etnica, attività marittima e commerciale fanno dunque pensare che i cosiddetti Filistei altro non fossero che gruppi itineranti fra il Mar Egeo e il Levante, che vivevano degli scambi commerciali fra le élite palatine dell’età del Bronzo, sul modello dei pirati antichi. In seguito al crollo degli scambi interregionali, questi gruppi, che frequentavano da tempo la costa levantina, furono verosimilmente costretti a sedentarizzarsi. Questo breve excursus mostra come lo studio della cultura di una particolare regione alla ricerca dell’identità delle origini della sua popolazione o di una sua parte sia riduttivo. Ogni forma culturale è, al con-
estendere il loro dominio diretto e la loro influenza nella regione; i secondi, una popolazione tribale, dedita alla pastorizia e decisamente arretrata dal punto di vista economico. La parabola politica dei Filistei, tuttavia, non durò a lungo. Da un lato, il loro carattere promiscuo e minoritario portò nel giro di qualche secolo a far sfumare le caratteristiche proprie della loro cultura materiale, linguistica ma anche religiosa, che appaiono del tutto assorbite nel tessuto locale nel VII secolo a.C. Dall’altro lato, l’indipendenza politica delle loro città soffrí dapprima un ridimensionamento operato dagli Aramei, in particolare da Hazael di Damasco (seconda metà del IX trario, il prodotto di innumerevoli li delle fonti antiche. Come si è visto, secolo a.C.), poi con i Neo-Assiri e adattamenti e contatti a diverse si- i Filistei sono descritti, nella Bibbia e fu cancellata dai Neo-Babilonesi nelle fonti egizie, come un popolo in nel VI secolo a.C. tuazioni e stimoli. armi e belligerante. A oggi, però, gli Dei Filistei sopravvisse soltanto il scavi intensivi dei siti filistei non nome, oltre che nei testi biblici, I FILISTEI OGGI Anche per i Filistei, la prosecuzione hanno, per esempio, restituito armi nella geografia antica e contempodegli scavi e dello studio della re- attribuibili alle fasi di occupazione ranea. Esso, infatti, è all’origine di gione levantina fornisce informa- filistea, un’assenza impensabile se le una regione ancora oggi drammatizioni di prima mano. In particolare, fonti letterarie contenessero una de- camente rilevante, quella di Palestiè stata recentemente ipotizzata una scrizione affidabile. Pur non imma- na. Dapprima attestata in greco, in loro presenza anche nel Levante ginando che fossero pacifisti ante lit- particolare in Erodoto, la Palestina settentrionale. A partire da alcune teram, niente nella cultura materiale entrò poi nella nomenclatura delle iscrizioni provenienti dal tempio filistea mostra una particolare milita- province romane, a partire dal II del dio della tempesta di Aleppo rizzazione della società. Al contrario, secolo d.C. Dopo la rivolta giudaica (vedi box a p. 42), una connessione è sempre piú chiaro come le attività di Bar Kochba, infatti, i Romani può essere fatta con il sito di Tell privilegiate fossero di tipo artigiana- abbandonarono il termine amministrativo di Giudea e lo sostituirono Taynat, nella pianura di Amuq le e commerciale. nell’odierna Turchia meridionale, I Filistei, infatti, furono vicini assai con quello di Palestina, come atto di capitale di un piccolo regno chia- importanti per i regni di Israele e repressione; come una sorta di dammato, verso l’XI secolo a.C., Palistin Giuda, e non solo in quanto avversa- natio memoriae nei confronti di un o Walistin e successivamente Patina. ri. È importante notare che, anche in popolo, quello d’Israele, sí probleUn nome, dunque, assai vicino al fasi in cui non costituivano piú un matico per Roma. rischio per il popolo di Israele, il loro termine Peleset. Un ulteriore elemento che sembra ricordo era vivo e alcune tradizioni NEL PROSSIMO NUMERO legare i Filistei del Levante meri- risalenti a epoche precedenti, seppur dionale a queste zone, potrebbe es- rielaborate, furono messe per iscritto • I Siriani sere il titolo del regnante, seren, in nel testo biblico. Si tratta, in particouso presso i Filistei secondo il testo lare, di ricordi ben lucidi nel mostra- PER SAPERNE DI PIÚ biblico (1 Samuele 5-6 o spesso nel re la differenza fra la società filistea e Libro dei Giudici), e che sembra lin- quella delle montagne di Giudea: i Giovanni Garbini, I Filistei. guisticamente vicino alla carica di primi, cittadini praticanti un’agricol- Gli antagonisti di Israele, tarwanis, attestata nel Levante setten- tura specializzata, di cui, per esempio, Paideia, Brescia 2012 la Bibbia menziona a piú riprese la Eric H. Cline, 1177 a.C. Il collasso trionale in lingua luvita. L’archeologia, inoltre, permette di produzione cerealicola, le vigne e gli della civiltà, Bollati Boringhieri, smussare i caratteri spesso caricatura- oliveti (Giudici 15,5), e capaci di Torino 2014 a r c h e o 45
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«UNO STRAORDINARIO INTENDITORE D’ARTE...» Ludwig Pollak e gli anni d’oro del collezionismo internazionale
Ludwig Pollak (Praga 1868-Auschwitz 1943) è stato uno dei piú brillanti protagonisti della stagione archeologica e antiquaria internazionale tra Otto e Novecento. A partire dal 1891, l’esistenza professionale e privata di questo grande esperto di antichità si lega a doppio filo all’Italia, in particolare a Roma, dove assumerà l’incarico di primo direttore onorario del Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco. La sua permanenza romana sarà segnata da importanti scoperte archeologiche, tra cui il ritrovamento del braccio originale del Laocoonte. Dagli anni Trenta, con l’avvento del fascismo e del nazionalsocialismo, l’esistenza di Pollak sarà compro-
messa – similmente a quanto accadde per molti altri intellettuali dell’epoca – dalla sua appartenenza al mondo culturale e religioso ebraico.Vittima del rastrellamento del 16 ottobre 1943, viene deportato, insieme alla moglie e ai due figli, nel campo di sterminio Auschwitz-Birkenau. A lungo «dimenticata», la figura di Ludwig Pollak torna oggi alla ribalta grazie a un’importante mostra e un altrettanto rilevante libro-catalogo, curati da Orietta Rossini e Olga Melasecchi. Nelle pagine che seguono, Orietta Rossini introduce i nostri lettori ad alcuni aspetti chiave della vicenda esistenziale, scientifica e culturale di questo personaggio eccezionale...
di Orietta Rossini In alto: l’ultima abitazione di Ludwig Pollak in Palazzo Odescalchi. Sono evidenziati a colori tre quadri giunti nelle raccolte capitoline dopo la morte dell’archeologo. Nella pagina accanto: cartolina con la silhouette di Ludwig Pollak. a r c h e o 49
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IL BRACCIO DEL LAOCOONTE
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ra gli «anni d’oro» vissuti da Pollak, il 1903 rappresenta quello forse piú brillante, dato che in quella stessa primavera l’archeologo si rendeva protagonista di un eccezionale ritrovamento, relativo a uno tra i piú famosi gruppi della statuaria greca. Passeggiando sull’Esquilino, nel corso di uno dei suoi consueti sopralluoghi tra scavi, rigattieri, «marmorari» e scalpellini, nel laboratorio di uno di questi ultimi, in via delle Sette Sale, Pollak notava e acquistava un braccio marmoreo ripiegato, che gli veniva detto provenire da scavi effettuati sulla vicina via Labicana. Due circostanze, note a Pollak, rendevano grande l’emozione dell’acquisto: il fatto che il luogo era vicinissimo a quello in cui, quattrocento anni prima, era stato ritrovato il gruppo ellenistico del Laocoonte vaticano e la consapevolezza che il braccio destro che allora completava il gruppo era frutto di un restauro cinquecentesco condotto con il gusto dell’epoca. Ma la problematica connessa al braccio ritrovato era complessa. Da una parte, bisognava capire se l’eventuale reintegrazione
LA VISITA IN VATICANO Pollak meditava a lungo su entrambi i temi e intanto manteneva il riserbo sul ritrovamento, che faceva vedere a pochi, tra i quali Petersen e Bartolomeo Nogara, direttore dei Musei Vaticani. Anche i suoi Diari sono parchi di riferimenti in propo-
sito, almeno fino al marzo del 1904, quando Pollak si recava in Vaticano per donare il ritrovamento e al tempo stesso confrontare da vicino il braccio con il gruppo sistemato nel cortile del Belvedere. L’esame aveva esito dubbio, come scoraggiante risultava un ulteriore confronto effettuato l’anno successivo da Pollak stesso e da Nogara. Il fatto era che il braccio ritrovato risultava di circa dieci centimetri piú corto di quanto avrebbe dovuto essere l’originale e dunque non combaciava all’attacco con la spalla del Laocoonte. Si giungeva cosí al 1906 e alle celebrazioni per il quadricentenario del ritrovamento del gruppo vaticano. In quella circostanza Pollak pubblicava Der rechte Arm des Laokoon sui Mittei-
Bormann studia le iscrizioni della Biblioteca Oliveriana e le collezioni epigrafiche e numismatiche del Museo, come a
Firenze, dove il suo precoce intuito per i falsi lo porta a scoprire la contraffazione di un grande vaso etrusco.
del gruppo con il braccio ritrovato – in posizione ripiegata e non distesa come nell’integrazione cinquecentesca – fosse filologicamente corretta e restituisse il gruppo alla sua concezione originale; dall’altra, andava accertato se il braccio ritrovato appartenesse proprio all’originale custodito in Vaticano oppure a una delle molte copie circolanti del gruppo scultoreo.
L’ITALIA, LA MIA ALFA E OMEGA Nell’estate del 1891 Ludwig Pollak compie il suo primo viaggio in Italia al seguito del maestro Eugen Bormann, visitando le principali città d’arte italiane. Un viaggio di formazione che si trasforma in un incontro decisivo con la sua seconda patria: «Roma, che vuol dire Italia, la mia alfa ed omega», come scriverà nel 1893. Ovunque vada, osserva, discute e annota: a Pesaro, dove con
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DUE STANZE E CUCINA Ludwig Pollak nacque il 14 settembre 1868 alla periferia dell’antico ghetto di Praga, terzogenito e primo maschio di una laboriosa e osservante famiglia ebrea che traeva i suoi proventi dal commercio dei tessuti. La casa paterna, in cui crebbe con due sorelle e il fratello Max, consisteva in due stanze e una cucina, senza riscaldamento, senza servizio interno, ma con un pianoforte per l’educazione delle sorelle: «La nostra vita di famiglia era semplice, piccolo borghese, patriarcale. Totale riposo il sabato. Padre con cilindro, madre in abito tradizionale in sinagoga». A destra: Ritratto di Ludwig Pollak, olio su tela di Werner F. Fritz. 1925. Roma, Museo di Roma. Nella pagina accanto: foto dall’Archivio Pollak, con veduta del Foro Romano e indicazione a penna delle sue prime abitazioni romane.
lungen dell’Istituto Archeologico Germanico e, nel corso dell’affollato convegno che si teneva nello stesso Istituto, interveniva sostenendo, da una parte, la reintegrazione del Laocoonte secondo il tipo del braccio trovato e, dall’altra, l’appartenenza di quest’ultimo a una replica del famoso gruppo. Il giorno dopo i quotidiani riportavano a grandi titoli la notizia del ritrovamento e della reintegrazione operata da Pollak e in breve l’intera comunità internazionale ne accettava le conclusioni. L’archeologo veniva nominato membro ordinario dell’Istituto Archeologico Germanico e riceveva da Pio X la «Croce alla Cultura», unico ebreo non convertito a essere in questo modo onorato dal papa. Solo in seguito, grazie agli studi condotti negli anni Quaranta e Cinquanta da Vergara Caffarelli e
Nella Vienna di fine Ottocento, nei suoi circoli colti e nelle aule universitarie, spirava allora, nonostante la minaccia montante della destra antisemita, un clima culturale aperto, laico e illuminista, che Pollak condivideva senza riserve. Come Goethe – sua passione precoce e identitaria, che avrebbe coltivato per tutta la vita – egli considerava la cultura classica la radice della civiltà occidentale, un terreno comune precedente razza e credo. La stessa sua passione archeologica fondava su questa premessa a r c h e o 51
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Il gruppo del Laocoonte, prima (in alto) e dopo la restituzione del «braccio Pollak». L’opera è attribuita agli scultori rodii Agesandro, Atenodoro e Polidoro e datata tra il 40 e il 20 a.C. Città del Vaticano, Museo Pio Clementino. Raffigura il sacerdote troiano Laocoonte che, per aver avvertito i suoi concittadini dell’inganno del cavallo di legno, dono dei Greci, fu condannato da Atena a morire con i due figli, vittima di serpenti giunti dal mare.
A sinistra: il braccio destro del Laocoonte vaticano in una fotografia fatta eseguire al momento del suo ritrovamento. Roma, Museo Barracco, Archivio Pollak. Nella pagina accanto: casa Pollak in Palazzo Odescalchi.
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poi da Magi, l’appartenenza del «braccio Pollak» al gruppo vaticano veniva accertata, e alla fine degli anni Cinquanta si procedeva alla reintegrazione, ricreando il pezzo mancante di raccordo. Ludwig Pollak non aveva la soddisfazione di vedere una delle sculture piú famose al mondo ripristinata grazie al suo ritrovamento, ma, contrariamente a quanto finora ritenuto, viveva abbastanza da sapere che il «suo» braccio era l’originale braccio destro del Laocoonte: l’archivio Pollak conserva i ritagli di due articoli con annotazioni autografe, comparsi nel 1942 su l’Osservatore Romano e sul Corriere della Sera, in cui vengono riferite le conclusioni degli esami condotti da Vergara Caffarelli e riconosciuto a Pollak il merito della scoperta.
IL RE DEGLI ANTIQUARI A Roma, dal novembre 1893, il venticinquenne borsista può realizzare in piena libertà le sue aspirazioni di studioso. La città gli offre il contatto con l’antico e la possibilità di frequentare l’Istituto Archeologico Germanico, a quel tempo la maggiore istituzione archeologica europea. Fino al 1896 Pollak risiederà sul monte Tarpeo, in una delle posizioni piú stimolanti per un archeologo, tra lo stesso Istituto Germanico e il Foro Romano, che si dispiegava davanti alla finestra del suo studio. Nel
frattempo Klein, il maestro praghese, lo raccomandava a Emanuel Löwy, che dal 1899 era diventato il primo docente di archeologia dell’Università di Roma. A sua volta Löwy – anche lui ebreo ed ex allievo dell’Archäologisch-Epigraphische Seminar – lo presentava a quattro grandi collezionisti privati residenti a Roma: il conte Tyszkiewicz, il principe Del Drago, il senatore Giovanni Barracco e Augusto Castellani, che piú tardi Pollak ricorderà come «il re degli
antiquari romani». Fin dal 1894 il Praghese otteneva la loro fiducia e l’accesso alle loro raccolte: si apriva dinanzi a lui la strada redditizia del mediatore ed esperto di arte antica, un ruolo che gli consentiva di muoversi tra accademia, scavi, antiquari e collezionisti con l’autorevolezza della sua formazione filologica. Ma anche accompagnato dalla fama del suo flair, un talento innato per l’esatto apprezzamento dei reperti che non tardava a essergli pubblicamente riconosciuto.
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IL RITROVAMENTO DELL’ATENA STROGANOFF
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ra i grandi interlocutori tedeschi di Pollak vi fu Georg Swarzenski, direttore del Liebieghaus di Francoforte. La fondazione di questo museo di scultura avveniva nel 1906, anno successivo all’apertura del Museo Barracco, e nel museo di Francoforte, come per la raccolta Barracco, il principio conduttore veniva a essere l’intento didattico di illustrare la storia dell’arte plastica attraverso la selezioni di pezzi significativi di ogni singolo periodo. È comprensibile che Pollak, che aveva già vissuto questa esperienza accanto a Giovanni Barracco, divenisse consulente e fornitore del giovane Swarzenski. Di sicuro tra il 1906 e il 1909, cioè tra la fondazione e l’apertura del Liebieghaus, Pollak vendette a Swarzenski ben 45 sculture antiche, alle quali se ne aggiungevano altre 6 tra il 1912 e il 1914. Tra tutte, la piú importante e famosa è senz’altro l’Atena Stroganoff, la cui storia costituisce uno dei maggiori successi della carriera di Pollak. Pollak faceva la conoscenza del collezionista russo conte Gregor io Stroganoff grazie a Christian Hulsen, Segretario dell’Istituto Archeologico Germanico, che glielo presentava nel corso di un’adunanza del 1898. All’epoca Stroganoff abita-
va, da un ventennio, nel bel palazzetto che aveva fatto costruire in via Gregoriana e che appariva «un museo dal piano terra alle soffitte». Grazie alle miniere d’oro negli Urali, ai latifondi e alle distillerie di vodka, il conte Stroganoff possedeva una delle piú importanti, vaste ed eclettiche collezioni d’arte dei sui tempi.
UNA CASA DELLE MERAVIGLIE Dall’Egitto alla Grecia, dalla porcellana cinese alle maioliche italiane, dalla pittura rinascimentale agli smalti bizantini, nella raccolta Stroganoff figuravano «la maggior parte delle epoche e degli stili attraverso oggetti superlativi». In questa casa delle meraviglie, probabilmente verso il 1906, Pollak notava per la prima volta una statua mutila delle braccia, un’Atena con elmo, venuta alla luce un ventennio prima nel corso dei lavori fatti eseguire nel giardino di via Gregoriana. All’epoca del ritrovamento la statua era stata ritenuta un falso di nessun valore e quindi relegata nei locali di servizio di casa Stroganoff. Qui la trovava Pollak, che subito ne parlava al proprietario come di una scultura notevole. Per tutta risposta Stroganoff se ne disfaceva velocemente. Qualche settimana dopo,
Pollak ritrovava l’Atena in un magazzino di via Margutta, divenuta proprietà del maître di casa Stroganoff, nonché antiquario, Filippo Tavazzi. Pollak acquistava la statua da Tavazzi e iniziava a studiarla a suo agio. Il confronto con una moneta ateniese raffigurante il gruppo di Atena e Marsia lo c o nv i n c eva c h e quella ritrovata in via Gregoriana era propr io una copia dell’Atena del gruppo di Atena e Marsia, opera di Mirone, che Pausania, nel II secolo d.C., aveva ammirato sull’Acropoli di Atene. Poiché nel 1853 l’archeologo tedesco Heinrich Brunn aveva già identificato il Marsia nella statua di satiro conservata al Museo Laterano, con il riconoscimento dell’Atena diventava
possibile ricomporre il gruppo, la cui ricerca, sulla scorta delle fonti letterarie, era iniziata ai tempi del Winckelmann. Dopo il braccio del Laocoonte e l’Atena Stroganoff, un Pollak ormai noto negli ambienti scientifici del vecchio e del nuovo continente concordava con lo stesso Stroganoff e con Antonio Muñoz la pubblicazione di un grande catalogo della raccolta di via Gregoriana. Nel 1912, due anni dopo la scomparsa del conte russo, usciva a Roma il catalogo Stroganoff diviso in due volumi, il primo di arte antica, curato da Pollak, e il secondo, comprendente arte medievale, moderna e contemporanea, opera di Muñoz. Il catalogo Stroganoff rimane oggi la maggiore testimonianza di quel «luogo d’arte di primo rango» che fu l’abitazione romana del grande collezionista.
A destra: Ritratto del conte Gregorio Stroganoff, olio su tavola di Olga Victorovna Bariatinskij. 1902. Roma, Museo di Roma. Sulle due pagine: ricostruzione virtuale del gruppo di Mirone dell’Atena e Marsia. L’Atena fu riconosciuta da Pollak e da lui venduta nel 1909. Entrambe le opere sono oggi conservate nei Musei Vaticani.
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MOSTRE • ROMA
LA FINE DI UN MONDO
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el giugno 1918, il governo italiano aveva posto sotto sequestro i beni di Ludwig Pollak, come quelli di tutti i cosiddetti «nemici di guerra». Ciononostante, nel maggio 1919, l’archeologo poteva far ritorno a Roma «forse il primo suddito dell’ex impero austriaco che tornasse in Italia». Ma nella Città Eterna il suo reinserimento si prospettava tutt’altro che facile. Dalla sua abitazione sequestrata era stata infatti prelevata tutta la sua corrispondenza professionale, circa 9000 lettere, consegnate a un traduttore «perfettamente ignaro di tutto quanto si attiene all’arte ed all’archeologia». Questi stendeva una relazione sfavorevole all’archeologo, che veniva usata per aprire un procedimento a suo carico. Nell’aprile 1922 veniva ingiunto a Pollak di passare il confine entro quindici giorni. Su tutta la vicenda il Fondo Pollak conserva due documenti importanti: il memoriale Astorri, l’avvocato che difende Pollak dall’accusa di aver compiuto illeciti nel commercio di opere d’arte, e la copia di un fascicolo di 12 lettere scritte in favore dell’archeologo da personalità del mondo dell’archeologia e della storia dell’arte. Nella lettera del Direttore Generale dei Musei e Gallerie Vaticane, Bartolomeo Nogara, leggiamo il senso di questa vicenda: «La professione dell’archeologo congiunta a quella del negoziatore di antichità potrà essere piú o meno simpatica, ma sino a che questo commer56 a r c h e o
Statua di guerriero ferito, nota come Vulneratus deficiens. Età antonina (138-181 d.C.). L’opera fu identificata da Pollak in pezzi sul mercato romano, ricomposta e poi acquistata dal Metropolitan Museum of Art di New York.
cio sia ammesso dalle leggi e si eserciti sotto il controllo delle autorità competenti, non potrà costituire, non dico un reato, ma nemmeno una colpa passibile di espulsione». Nel 1923, grazie all’intervento di qualche senatore e di amici ancora influenti, la vicenda si concludeva con la revoca dell’espulsione e la restituzione dei beni sequestrati. Negli anni Trenta e fin dentro i Quaranta, Pollak si interessa, oltre che di scultura antica, di placchette, medaglie, miniatura a olio, incisioni e antiquariato librario. Inoltre, anche se non segue piú da protagonista le grandi aste, continua a documentarsi sugli avvenimenti maggiori, quelli che segnano l’andamento
Nella pagina accanto, in alto: l’appartamento viennese di Sigmund Freud. Nel 1917 Pollak catalogò la collezione del padre della psicanalisi. Nella pagina accanto, in basso: Sigmund Freud con i figli Ernst e Martin nel 1916.
del mercato mondiale, e annota in margine ai cataloghi le cifre realizzate, con l’evidente intenzione di raccogliere materiale per uno studio sul valore delle opere d’arte. Nel frattempo l’Europa veniva travolta dal fascismo e dal nazionalsocialismo e Pollak viveva i suoi ultimi anni nella consapevolezza della catastrofe politica in atto. Per tutti gli anni Venti i suoi Diari registrano l’avvento del fascismo con distacco critico, ma agli inizi del decennio successivo, in corrispondenza all’ascesa di Hitler, il distacco si trasforma in commento angosciato. L’ultimo giorno del 1932 scriveva: «L’anno che volge alla fine non è stato particolarmente felice. Magari il prossimo sarà migliore! Io sono pervaso da presagi angosciosi. Spero che alla fine vinca il mio ottimismo». Ma il mese dopo, commentando la vittoria di Hitler in Germania, registra seccamente la fine della speranza: «Hitler è diventato cancelliere. Successore di Bismark! 44 anni e prima era nessuno. Segni dei tempi!».
ESPULSO DALL’HERTZIANA Pollak, che ha assicurato ai suoi figli la cittadinanza italiana, stringe i rapporti con la comunità israelitica romana e internazionale. Ma è destinato a sperimentare presto l’arroganza degli emergenti. Nel 1935 viene espulso dalla Biblioteca Hertziana dal nuovo Direttore Bruhns. Motivo ufficiale del provvedimento alcuni giudizi negativi che Pollak avrebbe pubblicamente espresso sul conto di Bruhns e dell’istituzione da lui gestita. In realtà, si intendeva allontanare lo studioso ebreo per completare quella «germanizzazione» dell’Istituto, ben avviata dopo la scomparsa della fondatrice Henriette Hertz e del vecchio Direttore Steinmann, entrambi ebrei e amici del Pollak. Alle accuse del neo-direttore, Pollak rispondeva con coraggio e orgoglio: «Se lei – scriveva – vuol divulgare il piú possibile il mio comportamento
A CASA DI SIGMUND FREUD L’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 rappresenta per Pollak un punto di demarcazione esistenziale. Dapprima cerca rifugio in Svizzera con tutta la famiglia, ma in seguito all’improvvisa morte della moglie, intervenuta a Zurigo nel settembre di quell’anno, fa ritorno a Praga con i tre figli, proseguendo poi per Vienna, dove rimane fino alla fine del conflitto. Nella capitale del vecchio Impero, il suddito Ludwig Pollak, 49 anni d’età, presta servizio militare nell’ufficio incaricato della censura delle lettere dei prigionieri di guerra e questo gli consente di intervenire in favore di molti italiani detenuti. Nel frattempo però non trascura la sua attività di archeologo. E in quei mesi del 1917, tra i piú bui e
sanguinosi della storia europea, fa ripetutamente visita a Sigmund Freud (che gli è stato presentato dal comune amico Emanuel Löwy) nella famosa casa-studio di Berggasse, al numero 19.
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MOSTRE • TORINO
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UN LEGAME PARTICOLARE Sin da quando arriva a Roma nel 1893, il giovane Ludwig Pollak intreccia relazioni di fiducia con i piú noti collezionisti: la sua capacità di scovare la rarità, il pezzo originale, in breve tempo lo rende celebre. Questo straordinario connoisseur stringe un legame molto particolare, sia dal punto di vista umano che professionale, con il senatore Giovanni Barracco: il 29 dicembre del 1913 un Barracco debole ed estremamente provato convoca urgentemente Pollak al suo capezzale; con il venir meno delle forze, aumentano le angosce sul destino di quel piccolo gioiello di Museo che accoglie la sua collezione e che egli spera possa Nella pagina accanto: haggada appartenuta a Pollak e donata al figlio del rabbino Prato. 1300 circa. New York, Jewish Theological Seminary.
in ambienti tedeschi e italiani, come mi ha scritto minaccioso, mi fa solo del bene. Io non sono tedesco ma cecoslovacco e quello che pensano di me alcuni ambienti tedeschi di qui mi lascia totalmente indifferente. In influenti circoli italiani avremo cura noi, io ed i miei figli naturalizzati, nati a Roma 25-35 anni fa e che si sentono italiani con tutto il cuore, che si sappia come, a seguito di una diceria priva di fondamento, senza previa verifica della realtà, venga trattato un uomo molto avanti negli anni, che gode di buona fama di scienziato e che era il piú anziano e gradito frequentatore dell’Hertziana. E questo principalmente per venire incontro al desiderio di alcuni funzionari piú o meno giovani della Biblioteca, che parimente hanno ricevuto da me un trattamento amichevole». La lettera, datata 8 aprile 1935, è firmata «Dottor Ludwig Pollak, del-
nario collezionista e intenditore d’arte», n.d.r.), che hanno potuto contattare alcuni testimoni oculari. Secondo le testimonianze all’alba del 16 ottobre 1943 – giorno che verrà ricordato come «il sabato nero» – Pollak veniva avvertito della razzia che si apprestava a compiere la Gestapo da un giovane funzionario dell’Ambasciata Tedesca presso la Santa Sede. Sembra anche che monsignor Fioretti, egli stesso esperto d’arte, offrisse ospitalità a lui e alla essere gestito in continuità, con lo famiglia in Vaticano e che di qui stesso spirito, anche dopo la sua un’automobile venisse mandata a scomparsa. L’invito a Pollak a prelevare i Pollak presso la loro abiprendersene cura suona come una tazione in piazza Santi Apostoli. preghiera; del resto, il senatore sa Ma il settantacinquenne archeoloche può fidarsi di quell’uomo di cui go declinava l’offerta di salvezza e coltiva l’amicizia da circa 10 anni e i motivi di questa scelta rimangono che si è dimostrato anche un a tutt’oggi incerti. La testimonianraffinato consigliere, un consulente za raccolta da Hartmann riferisce di assoluta capacità. alcune battute di Pollak sull’improbabilità di una violenza usata contro un uomo della sua età. Una In alto: l’edificio cinquecentesco noto fotografia dei Pollak e alcuni docucome «Farnesina ai Baullari», oggi menti epistolari conservati oggi sede del Museo di Scultura Antica presso il Museo Barracco danno Giovanni Barracco. l’immagine di un nucleo familiare la Real Società Scientifica Boema, fragile e colpito dalla malattia, che della Società Tedesca di Scienze ed non poteva opporre che la propria Arti per la Repubblica Cecoslovac- dignità alla ferocia nazista. ca di Praga, Membro Ordinario dell’Istituto Archeologico Germa- DOVE E QUANDO nico, Membro dell’Istituto Archeologico Austriaco di Vienna». «Ludwig Pollak. Poco dopo anche la fiducia riposta Archeologo negli «influenti circoli italiani» veni- e mercante d’arte» va delusa. Nel 1938, dopo un rifiuto Roma, Museo di durato cinque anni, Mussolini face- Scultura Antica va propria la politica razziale nazista, Giovanni Barracco rivelando illusorio il credito riscos- e Museo Ebraico so presso una parte degli Ebrei ita- fino al 5 maggio liani. Nel 1943 le truppe tedesche Orario gli orari variano invadevano Roma e nell’ottobre stagionalmente per entrambi i deportavano un migliaio di Ebrei musei e vengono aggiornati sui romani, tra cui anche Ludwig Pol- rispettivi siti (vedi info) lak e la sua famiglia. Le notizie su Info Museo Barracco: tel 06 06 08; quest’ultimo episodio e sulla sop- www.museobarracco.it; pressione dei Pollak provengono www.museiincomune.it; principalmente da testimonianze Museo Ebraico di Roma: orali raccolte dalla Guldan e dallo tel. 06 68400661; e-mail: storico dell’arte Jorgen B. Hart- info@museoebraico.roma.it; mann (che definí Pollak «straordi- www.museoebraico.roma.it a r c h e o 59
SCAVI • TANNETUM
DALLA
CITTÀ DEGLI SCACCHI
SULLA VIA EMILIA, FRA REGGIO E PARMA, SONO STATI IDENTIFICATI I RESTI DELL’ANTICA TANNETUM, FINO A OGGI NOTA SOLTANTO GRAZIE ALLE SPORADICHE CITAZIONI DI POCHI STORICI. GLI SCAVI DI UNA MISSIONE ITALO-DANESE L’HANNO INVECE LOCALIZZATA CON CERTEZZA E NE STANNO RISCRIVENDO LA STORIA di Paolo Storchi, con la collaborazione di Gaia Carosi, Marco Montermini, Antonella Pansini e Ilaria Trivelloni
U
na striscia gialla solca un enorme prato verde: a volte, basta un fenomeno come questo, all’apparenza privo di un significato particolare, per individuare un antico insediamento. Gli archeologi e i topografi, infatti, conoscono bene l’importanza di simili indizi. La vegetazione trae il proprio nutrimento dalle radici e, quando queste incontrano un profondo strato ricco di materiale organico (humus), la pianta reagisce con una crescita rigogliosa, risultando alta, forte e di un bel colore verde intenso. Al contrario, quando qualcosa impedisce al vegetale di nutrirsi, esso subisce una crescita stentata e, ben prima delle piú fortunate piante vicine, secca, assumendo appunto un colore giallo, letteralmente paglierino.
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Il fenomeno è sí visibile da terra, ma diventa impressionante nelle visioni dall’alto, da aereo, satellite o drone: in particolari periodi dell’anno, si svelano improvvisamente perfette planimetrie di ville rustiche romane, interi villaggi preistorici, strade di ogni epoca. Quasi una radiografia del sottosuolo.
INDIZI DECISIVI Qualcosa di simile è accaduto a Tannetum, nel cuore della Pianura Padana. Le ricerche di dottorato di chi scrive e le indagini condotte in collaborazione con gli archeologi che cofirmano questo articolo hanno infatti portato a individuare una serie di tracce e anomalie che ha rinnovato l’interesse per la questione aperta riguardante l’ubicazione dell’antica città scomparsa. Si tratta
di un centro gallico divenuto, in seguito, un municipium romano, una vera e propria città quindi, che però non sopravvisse alla «crisi» politica, economica e demografica verificatasi nel lungo periodo di passaggio fra antichità e Medioevo. Oggi può sembrare impensabile il fatto che un’intera città scompaia totalmente e anche gli antichi vedevano l’urbs come qualcosa di immortale. Tanto che, negli autori, la percezione della fine del mondo antico è spesso accompagnata proprio dallo stupore per la «morte» non del singolo, ma perfino della città: «Vediamo che anche le città possono morire» scriveva nel V secolo d.C. Rutilio Namaziano veleggiando lungo le coste dell’attuale Toscana. In Emilia-Romagna (l’antica Regio Octava della divisione augustea) il
Lo scavo dei resti del «Castellazzo», fortilizio di epoca medievale individuato nei pressi del sito di Tannetum, nel territorio oggi compreso fra Sant’Ilario d’Enza e Gattatico, in provincia di Reggio Emilia.
Pedina per il gioco degli scacchi rinvenuta negli scavi del Castellazzo (vedi anche il box a p. 66).
fenomeno fu poi particolarmente evidente. Oltre alla dibattuta descrizione dei centri abitati emiliani come «cadaveri di città semidiroccate», da parte di sant’Ambrogio, il tutto è evidenziato dal fatto che le fonti parlano, per la piena età romana, di ben 24 città, mentre le diocesi altomedievali sono solo 12: il 50% dei centri, dunque, non era sopravvissuto. Non è certo semplice individuare una città scomparsa e dimenticata per decine di secoli. A volte serve una buona dose di fortuna, come nel caso di Veleia nell’Appennino piacentino. Qui uno smottamento ha portato alla scoperta della tabula bronzea (una grande tavola in bronzo che contiene le disposizioni dell’imperatore Traiano per l’istituzione di un prea r c h e o 61
SCAVI • TANNETUM A sinistra: l’équipe italo-danese che conduce le indagini su Tannetum. In basso, da sinistra: la traccia dell’anfiteatro individuata a Tannetum grazie alla foto aerea messa a confronto con gli analoghi edifici per spettacoli romani di Roselle e Londinium (Londra).
stito ipotecario concesso direttamente dal patrimonio personale del princeps, n.d.r.) che suggerí la presenza, nel circondario, di un centro di grande importanza, poi archeologicamente rinvenuto. Ma si tratta di un caso eccezionale. Un elemento basilare per l’individuazione di questi centri può essere invece rappresentato dalle fonti itinerarie di età romana. Si tratta sostanzialmente di «guide per i viag-
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giatori» sulle strade del passato, elenchi di strade e di tutte le tappe che il viandante poteva sfruttare per la sosta (vedi box alle pp. 68-69). Queste pongono Tannetum fra Regium Lepidi (Reggio Emilia) e Parma (Parma), sulla via consolare Aemilia, costruita tra il 187 e il 175 a.C. dal console Marco Emilio Lepido. A una distanza dai due centri compatibile con quelle riportate dagli itinerari. Lungo l’attuale via Emilia si
trova il paese di Sant’Ilario d’Enza che, in virtú di tali dati, era, nella letteratura scientifica, riconosciuto, quasi senza esitazioni, come il centro romano oggetto delle nostre indagini.Tuttavia, le ricerche archeologiche condotte nel paese emiliano hanno rivelato la, quasi esclusiva, presenza di sepolture romane che, per antichissima consuetudine riportata perfino dalle leggi delle XII tavole, non potevano trovarsi in città. Celebre è la formula «Hominem mortuum in urbe ne sepelito neve urito» («In città non si seppelliscano né si inceneriscano i morti»).
«NULLA DI ANTICO»... Le nostre indagini stanno portando a una rivalutazione dell’idea che l’antico centro non fosse in corrispondenza di Sant’Ilario d’Enza, che invece, anche in base ai citati ritrovamenti archeologici, potrebbe corrispondere a una necropoli; l’altra storica ipotesi di ubicazione della città è in corrispondenza di un chiaro relitto toponomastico derivante dal nome del centro scomparso: Taneto. Riprendendo alcune considerazioni di Pier Luigi Dall’Aglio, le ricerche che stiamo svolgendo sembrano escludere anche que-
Inquadramento topografico dell’area indagata. L’ubicazione dell’antica Tannetum è stata a lungo dibattuta, ma, come emerge dalle indagini di cui si dà conto nell’articolo, la città dovette sorgere fra i moderni nuclei di Taneto e Sant’Ilario d’Enza, in corrispondenza dei quali è stata accertata la sola presenza di aree adibite a necropoli.
sta lettura e, pur non concordando totalmente con il ricercatore settecentesco Giovanni Antonio Liberati (questi affermava che «il paese di Taneto, oltre il nome non ha nulla di antico»), si propone che qui fosse una seconda necropoli della città romana, cosa che giustifica comunque la conservazione del toponimo; l’antica Tannetum invece sarebbe ubicata fra i due attuali paesi. I sondaggi condotti fra il 2016 e il 2018 in questa porzione di territorio hanno infatti evidenziato livelli di frequentazione di età romana. In particolare, il rinnovato interesse verso Tannetum è nato dall’individuazione, in una fotografia da aeroplano, di una traccia di forma ellittica, posta proprio a sud-ovest di
Taneto e che, per forma e dimen- di costruzione di un sottopasso fersioni, risultava sovrapponibile all’an- roviario). Entrambi i ritrovamenti fiteatro di Roselle, in Toscana. risultano particolarmente importanti per l’identificazione di Tannetum per due ragioni. In primo luoAFFIORANO LE STRADE Nella campagna del 2018 è inoltre go, in tutta la regione, ma anche in stata riconosciuta una strada fine- gran parte della Cisalpina, le strade mente ciottolata, larga 4,10 m circa, di età romana sono pavimentate in recante i solchi relativi al passaggio questo modo esclusivamente nei dei carriaggi, orientata nord-sud; centri urbani o nella loro immediamentre si è recuperata la notizia ta prossimità: si pensi che la stessa della scoperta nel 1978 di una strada via Emilia, a Bologna, è pavimentasimilmente pavimentata, ma orien- ta in trachite nei tratti urbani, protata grosso modo est-ovest, parallela segue per poche decine di metri alla ferrovia Milano-Bologna, che acciottolata all’esterno delle mura, corre 500 m a nord della via Emilia per diventare, immediatamente doodierna, e quasi in corrispondenza po, una semplice strada inghiaiata. della strada ferrata (il ritrovamento, Il secondo motivo per cui queste effettuato da Silvio Chierici e Ivan scoperte sono particolarmente imChiesi, è avvenuto durante i lavori portanti risiede nel fatto che l’unia r c h e o 63
SCAVI • TANNETUM A destra: foto aerea del 1993 in cui erano visibili tre anomalie quadrangolari e, indicati dalla freccia, i risultati dello scavo di una di esse. Le tracce sono riferibili al villaggio gallico. Qui accanto e in basso: frammenti di ceramica di produzione celtica e una fibula in bronzo del tipo La Tène, riferibile anch’essa alle fasi di frequentazione celtiche.
un poco piú a nord del percorso attuale, con una deviazione operata al fine di raggiungere Tannetum, ma anche, come l’analisi geomorfologica condotta da Mauro Cremaschi sta rivelando, per superare l’Enza in un punto di attraversamento decisamente piú favorevole.
co ponte di età romana rinvenuto in tutto l’areale non si trova in corrispondenza della via Emilia attuale, ma proprio in prossimità della ferrovia/strada romana. I ponti sono opere di grande impegno costruttivo: verosimilmente, quindi, una infrastruttura tanto importante in tale posizione doveva servire una via Emilia che correva 64 a r c h e o
IL VILLAGGIO GALLICO... Una conferma indiretta che l’antica Tannetum si trovasse qui ci viene dalla possibile individuazione del villaggio gallico precedente il centro romano, anch’esso situato a nord della via Emilia attuale. La prima menzione dell’insediamento riguarda i fatti del 218 a.C., quando, come riportano Polibio e Tito Livio, esso era un villaggio dei Galli Boi, occupato militarmente dal pretore L. Manlio che cercava scampo dai Galli, i quali si erano improvvisamente ribellati al giogo romano, avendo
appreso della imminente discesa di Annibale in Italia. Qui il pretore approntò, stando a Livio, difese temporanee per il centro e riceveva aiuti attraverso un fiume da parte di un’altra tribú celtica, i Cenomani, stanziati a Brescello, alla foce dell’Enza. Questi infatti erano storici alleati di Roma, uniti con l’Urbe da asserite ancestrali comuni origini. La ricerca ha portato all’individuazione di un paleoalveo del fiume Enza che lambisce un’ampia area, mai prima segnalata, nella quale si è rinvenuta una concentrazione di materiale celtico (ceramiche e oggetti bronzei), oltre che alcune strutture in argilla cruda, individuate, ancora una volta, grazie alla fotografia aerea. Resti dei quali si potrà avanzare una proposta interpretativa solo alla luce di un ampliamento delle indagini. Tutto dovrà attendere il vaglio di
In alto: foto aerea della torre del Castellazzo scattata prima degli interventi di scavo condotti nel 2017 e 2018. A sinistra: pianta settecentesca del fortilizio. Si noti, sulla sinistra, una torre con accanto l’indicazione di una porta: è la porzione scavata dalla missione italo-danese nel 2017 e 2018.
ulteriori campagne di ricerca, ma, data la consonanza cronologica e culturale, nonché la considerazione che, a oggi, null’altro di simile, per cronologia e consistenza, si è rinvenuto nell’areale, non si esclude che quello rinvenuto possa essere proprio l’abitato menzionato delle fonti antiche, peraltro posizionato proprio lungo un antico corso dell’Enza. Si darebbe cosí consistenza alle parole di Polibio e Livio.
...E IL FORTILIZIO MEDIEVALE Le ricerche hanno portato inoltre alla riscoperta di un fortilizio che era noto dalla toponomastica locale come «Castellazzo» e risultava ancora parzialmente visibile nel Settecento, quando il già ricordato Liberati ne produsse una planimetria. La struttura era stata oggetto di brevi campagne di scavo negli anni a r c h e o 65
SCAVI • TANNETUM
MOSSE VINCENTI L’origine del gioco degli scacchi è incerta. La maggior parte degli studiosi propende con il considerarlo un’evoluzione del chaturanga, un gioco attestato nel Nord-Ovest dell’India almeno dal VI secolo d.C. Attraverso la mediazione sasanide, esso si diffuse in tutto il Medio Oriente, assumendo il nome di shatranj, e seguí l’espansione araba, facendo dunque, nell’VIII secolo, il proprio ingresso in Europa, con la conquista della Spagna. Nel secolo successivo, quando anche la Sicilia fu presa, il gioco fece finalmente il proprio ingresso in Italia, per diffondersi rapidamente in tutta Europa, assumendo nomi diversi: la parola persiana Shah, pronunciata «Scac» o «Check» nelle varie regioni europee, diede cosí forma al francese Échecs, Pedine rinvenute negli scavi della torre del Castellazzo: in alto, pedina circolare con decorazione floreale; in basso, un pezzo identificabile con un’antenata della «regina».
all’inglese Chess, all’italiano Scacchi o al danese Skak. Tutto questo mentre, tra le classi elevate del mondo medievale, continuava sempre piú a farsi largo come uno dei passatempi preferiti di corte, aperto anche alle donne (pare che Eleonora d’Aquitania fosse un’abile giocatrice), ed elemento importante nell’epica cavalleresca. Gli scacchi piú comuni erano in osso o legno, quelli di pregio in avorio, ebano, ambra, quarzo o diaspro. Originariamente erano composti da due fazioni di otto soldati semplici, due carri (Rukh), due cavalli, due elefanti, un visir e uno scià (Shah); a partire dal X secolo, acquisirono forme sempre piú elaborate. Le forme e il regolamento del gioco divennero quelli che conosciamo al giorno d’oggi nella Spagna del XV secolo. Il ritrovamento tannetano risulta particolarmente importante poiché si tratta di otto pezzi fra integri e ricostruibili integralmente (una pedina è relativa a un altro gioco): un numero decisamente elevato per un singolo sito italiano. Inoltre, essi sono di tipologia e, forse, di manifattura araba, realizzati con forme astratte e i dati di scavo fanno propendere per una datazione alta delle pedine: peraltro, la maggioranza degli antichi scacchi italiani proviene invece da collezioni e quindi è difficile o impossibile ricostruirne il contesto di ritrovamento. La presenza di questi scacchi d’avorio, associata a diversi ulteriori elementi di pregio rinvenuti nella torre scavata, lascia intendere la residenza in loco di qualche figura di status elevato; ci si dovrà interrogare sulla sorprendente disponibilità economica e importanza dei residenti nel castello.
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A sinistra: l’area della porta e della torre del Castellazzo durante le indagini condotte nel 2018. In basso: un’immagine di dettaglio sulla quale è evidenziata la porta di ingresso al fortilizio.
Cinquanta del Novecento, ma alcuni problemi legati alla prossimità di una falda idrica superficiale avevano imposto agli studiosi di indagare un’area di ridotte dimensioni e limitatamente ai soli strati superficiali, impedendo di comprenderne cronologia e funzionalità. Tutto questo aveva generato fantasiose interpretazioni delle strutture. Lo scavo del 2017 si è concentrato su una delle torri già scavate negli anni Cinquanta, rivelando la presenza di
murature larghe oltre 1,40 m e confermando almeno la parziale affidabilità della riproduzione di Liberati: immediatamente a sud della torre era proprio la porta d’accesso al fortilizio da lui disegnata. Uno dei piú importanti risultati raggiunti dalla missione archeologica italo-danese è stata la possibilità di indagare la porzione esterna della torre; essa ha rivelato fondazioni profonde piú di 2 m. Lo stesso sondaggio ha inoltre portato alla sco-
perta di un palo ligneo profondamente infisso nel terreno, immediatamente all’esterno della torre e conservatosi sotto il livello delle fondazioni.Verosimilmente, esso faceva parte di una palificata di consolidamento del terreno, qui particolarmente umido. Un accorgimento assai frequente nella regione emiliana dall’età romana a pochi decenni orsono.
LA MINACCIA UNGARA Grazie al contributo del Gruppo Storico-Archeologico val d’Enza, il legno fossile è stato sottoposoto all’analisi del Carbonio 14 che ha rivelato come il fortilizio, o almeno parte di esso, sia databile all’857 d.C. (± 25 anni), una datazione straordinariamente antica per le strutture difensive note in Emilia-Romagna, di cui quindi il «Castellazzo» rappresenta non solo uno dei piú interessanti, ma anche uno dei piú antichi esempi. Forse la sua costruzione è da mettere in relazione a quel lungo periodo di instabilità nel regno franco precedente alle incursioni delle popolazioni ungare. Le ricerche dell’estate 2018 si sono a r c h e o 67
SCAVI • TANNETUM
VIAGGIARE INFORMATI Il sistema stradale romano era estremamente complesso, raffinato e, per certi versi, molto moderno. Non sempre ne siamo consapevoli, ma la maggioranza delle strade che oggi percorriamo sono ancora quelle tracciate dagli antichi magistrati che, fra Italia e mondo mediterraneo, si impegnarono nell’apprestare ben 80 000 km circa di percorsi che addirittura, a volte, superavano le grandi città con vere e proprie tangenziali o circonvallazioni, per velocizzare i
tempi di percorrenza e non disturbare la quiete pubblica. Uno scrittore di arte militare, Vegezio, ci racconta che, per orientarsi in questo dedalo di strade, gli antichi potevano contare sugli «itinerari»: vere e proprie guide per i viaggiatori. Essi potevano essere in forma illustrata (carte stradali, rotoli che rappresentavano il mondo antico e dove erano segnati i percorsi principali) o in forma scritta (costituiti da elenchi con riportato
il nome delle strade e le tappe che si dovevano toccare). Sostanzialmente a noi è giunto un solo esempio di itinerarium pictum, la famosa Tabula Peutingeriana (copia medievale di un originale del IV secolo d.C.), un rotolo di pergamena largo 34 cm e, in origine, lungo oltre 7 m; e tre itineraria adnotata, databili fra il I e il IV secolo d.C. In essi erano riportati non soltanto i nomi delle città attraversate, ma anche quelli dei luoghi in cui il
invece concentrate sulle fasi di di- uno dei ritrovamenti di tale tipolo- ferma di come l’archeologia possa gia piú antichi e abbondanti avere importanti ricadute anche dal struzione della struttura, i numericamente avvenuti punto di vista sociale. suoi ultimi momenti di in Italia fino a oggi, sovita. Sigillati sotto uno prattutto uno dei pochi Le ricerche a Tannetum sono condotte strato di crollo, sono di cui sia noto il conte- da «Sapienza» Università di Roma, in emersi gli ultimi conassociazione con la Syddansk Universisto di scavo. testi abitativi e tracce di Si stanno insomma scri- tet di Odense (sotto la direzione scienuna fine violenta convendo interi capitoli del- tifica di Luisa Migliorati, Jesper Carlsen clusasi con un probabile la stor ia di Tannetum. e Paolo Storchi) e con la preziosa collaincendio. Sono stati recuUn’esperienza entusiasmante borazione di Mauro Cremaschi per la perati reperti riferibili alla dal punto di vista del topo- ricostruzione geomorfologica, su concesvita quotidiana, come grafo che cerca di rico- sione della Soprintendenza Archeologia, frammenti di vasi o fusestruire il mondo antico, belle arti e paesaggio per la città metroruole, una moneta d’arresa ancor piú gratifi- politana di Bologna e le province di gento che, come una già cante dal sostegno e Modena, Reggio Emilia e Ferrara (sorinvenuta nel 2017, si dall’entusiasmo che isti- printendente Cristina Ambrosini, fundata al regno di Ottone tuzioni, aziende locali e la zionario archeologo Monica III (imperatore del Sacro comunità intera manifesta- Miari). La campagna 2018 Romano Impero dal 996 al no verso queste ricerche, a con- è stata finanziata dai Co1002 d.C.), armi (una punta di freccia, un puntale di lancia, un elemento in osso per balestra), come prevedibile in una struttura militare, e si è anche avuto il rinvenimento, di eccezionale interesse, di 9 pedine da gioco, sostanzialmente integre o integrabili con certezza. Molte di queste possono essere ricondotte al gioco degli scacchi che fece il suo ingresso in Europa solo nel IX secolo attraverso la mediazione dei mercanti arabi (vedi box a p. 66). Gli studi sono solo agli inizi Reperti restituiti dallo scavo della torre: in alto, emissione argentea e tanta parte del castello resta ancodatabile al regno dell’imperatore Ottone III (996-1002); ra da scavare: si potrebbe trattare di qui sopra, una chiave da mobile e una punta di freccia. 68 a r c h e o
viaggiatore poteva cambiare il proprio cavallo e godere di un breve ristoro, in strutture spesso dotate di impianti termali (mutationes), e vi erano anche, per cosí dire, i «motel», cioè le mansiones, luoghi nei quali i viaggiatori potevano pernottare; piú rare e con funzione, almeno all’inizio, prettamente militare, erano le stationes, che però hanno lasciato la maggiore eredità linguistica nel nostro termine «stazione».
muni di Sant’Ilario d’Enza e Gattatico e da aziende locali (Italsughero, Autocarrozzeria Capelli, Fondazione Studium Regiense), con l’assistenza tecnica per rilievi e geofisica di GST snc di Marco Camorani e Ra.Ga Ricerca Archeologica e Geofisica Applicata; un
particolare ringraziamento va al Gruppo Archeologico Val d’Enza e all’Associazione Culturale Tannetum. Gli scavi sono stati possibili anche grazie a un crowdfunding popolare e all’utilizzo della vincita di chi scrive al programma «L’Eredità» di Rai 1.
In alto: il segmento della Tabula Peutingeriana (copia medievale di un originale del IV sec. d.C.) in cui è riportata la città di Tannetum. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. In basso: un’altra veduta generale del cantiere di scavo che ha interessato l’area del Castellazzo.
PER SAPERNE DI PIÚ Paolo Storchi, Regium Lepidi, Tannetum, Brixellum e Luceria. Studi sul sistema poleografico della provincia di Reggio Emilia in età romana, Quasar editore, Roma 2018 Aggiornamenti sulle iniziative del progetto di ricerca sono disponibili alla pagina Facebook: Tannetum Archaeological project-Tannetum Hunters
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MOSTRE • TORINO
LA FACCIA NASCOSTA DELLA
STORIA
RISERVA PIÚ D’UNA SORPESA «ARCHEOLOGIA INVISIBILE», LA NUOVA MOSTRA INAUGURATA AL MUSEO EGIZIO DI TORINO. SCIENZA E TECNOLOGIE AVANZATE SONO INFATTI IN GRADO DI FORNIRE RIVELAZIONI FINO A QUALCHE ANNO FA INIMMAGINABILI, GETTANDO LUCE SUI SEGRETI DEI PITTORI O DEGLI IMBALSAMATORI, FINO A SMASCHERARE ANCHE QUALCHE PICCOLO SOTTERFUGIO... di Stefano Mammini
C
i sono molte buone ragioni per visitare «Archeologia Invisibile», la mostra temporanea che si è appena inaugurata al Museo Egizio di Torino. Ma la prima consiste senza dubbio nell’offrire, in maniera tutt’altro che invisibile, un’immagine puntuale e rigorosa di che cosa significhi, oggi, essere un archeologo. Chiunque abbia scelto questo mestiere è infatti abituato a sentirsi dire frasi del tipo «Sei un archeologo? Chissà che meraviglia! E che avventure…», alle quali di solito si replica abbozzando un sorriso e cercando, spesso senza successo, di spiegare come lo studio delle culture del passato non corrisponda necessariamente a certi stereotipi letterari o cinematografici. Ebbene, senza cancellare quel quid di fascino che comunque connota la ricerca archeologica, il progetto espositivo realizzato a Torino svecchia l’imma70 a r c h e o
gine dell’archeologo, tratteggiando il profilo di una professione in grado di stare al passo con i tempi. Che, in questo caso, significa giovarsi di tutte le possibilità di indagine offerte dalla scienza e dalla tecnologia.
L’UNIONE FA LA... BUONA RICERCA E significa anche, con buona pace di quanti si ostinano a pensare che occuparsi di antichità sia quasi un passatempo, coltivato da personaggi un po’ eccentrici e che poco amano la curiosità della gente, avere piena consapevolezza del fatto che i frutti migliori della ricerca nascono dalla condivisione dei dati e dalla disponibilità al confronto e alla collaborazione con specialisti di altre discipline. Discipline che, fino a non molti anni fa, venivano solitamente definite «scienze sussidiarie» dell’archeologia, ma che nessuno ormai chiamerebbe tali e
che vengono piú correttamente ricomprese nell’archeometria, vale a dire nell’insieme di tutte le tecniche che permettono di ricavare dati oggettivi e quantitativi sui reperti studiati (vedi box a p. 72). Il percorso espositivo si apre in maniera programmatica: si viene infatti accolti, da un lato, da un grande planisfero, sul quale sono indicati tutti gli istituti della cui collaborazione il Museo Egizio si è avvalso per realizzare la mostra, avendo cosí modo di constatare come il respiro dell’iniziativa sia stato non solo internazionale, ma segnato dal coinvolgimento di molte e diverse discipline scientifiche; mentre sulla parete opposta è possibile staccare una copia delle considerazioni con cui il direttore della raccolta torinese, Christian Greco, ha chiuso il suo contributo al catalogo della mostra, significativamente intitolato La biografia degli
Analisi Macro XRF (fluorescenza a raggi X) sull’immagine che decora i piedi del sarcofago esterno di Butehamon, da Deir el-Medina. Terzo Periodo Intermedio, XXI dinastia (1076-944 a.C.). a r c h e o 71
MOSTRE • TORINO
MISURARE L’ANTICO L’archeologia è stata a lungo considerata come una disciplina puramente umanistica e da molti intesa quasi come un’appendice della storia dell’arte. In ossequio a questa concezione si sono formate intere generazioni di studiosi, alle quali è apparso superfluo interessarsi a quelle scienze che potevano aiutare la ricostruzione del contesto storico in cui collocare l’oggetto dei propri interessi. Gli studi si sono basati sullo scavo, sulla osservazione e il confronto dello stile e della tipologia dei reperti e, ove disponibili, sulla consultazione delle fonti scritte. I soli ad aver seguito un modus agendi almeno in parte diverso sono stati gli studiosi di preistoria, non tanto per l’appartenenza a una diversa scuola di pensiero, quanto per via dell’indisponiblità di fonti relative ai periodi analizzati. I primi mutamenti dell’approccio metodologico hanno avuto luogo agli inizi degli anni Cinquanta del Novecento, grazie a una nuova generazione di archeologi, soprattutto anglosassoni, di formazione non piú soltanto letteraria, ma aperti anche alle materie scientifiche: di fatto si è finalmente cominciato a interessarsi oltre che ai reperti anche all’uomo che
oggetti. Rivoluzione digitale e Umanesimo. Ne riportiamo il passaggio che forse meglio chiarisce la filosofia che ha guidato l’ideazione e l’allestimento di «Archeologia Invisibile». Scrive infatti Greco: «Oggi ci troviamo immersi nella cosiddetta
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questi documenti ha lasciato e al contesto sociale e ambientale in cui quest’uomo aveva vissuto. Si è pertanto constatata la necessità del contributo di alcune fra le piú importanti branche delle scienze naturali per lo studio dell’ambiente (sedimentologia, botanica, zoologia), cosí come di quello della fisica e della chimica soprattutto ai fini delle analisi tecnologiche e delle datazioni dei manufatti. Questo «nuovo corso» ha portato a un diverso metodo di indagine, in cui l’esaltazione delle valutazioni soggettive ha lasciato il posto alla ricerca oggettiva, basata sulla valutazione dell’effettiva entità dei documenti presi in esame. In questo contesto ha fatto la sua comparsa la nozione di «archeometria», un concetto che raggruppa in sé tutte le tecniche che consentano una quantificazione delle vestigia studiate. A questa impostazione metodologica fa riscontro l’attività di laboratorio, complemento indispensabile della ricerca sul terreno. Lo scavo, che continua a essere il piú importante momento di verifica della ricerca, non può piú dirsi moderno qualora sia trascurato il contributo dell’archeometria.
rivoluzione digitale che ha già profondamente trasformato il nostro approccio cognitivo e il modo di lavorare. In ambito archeologico la fotogrammetria e la modellazione 3D mettono in grado gli archeologi di documentare
A sinistra: analisi Macro XRF sul cofanetto ligneo dipinto di Kha, dalla tomba di Kha e Merit a Deir el-Medina. Nuovo Regno, fine della XVIII dinastia (1425-1353 a.C. circa). Nella pagina accanto, in alto: la sezione della mostra dedicata all’uso della fotografia in archeologia. Nella pagina accanto, in basso: modellazione 3D dello scavo di Saqqara ottenuta grazie alla fotogrammetria.
l’intero processo di scavo e di ricostruire contesti anche dopo la loro rimozione. Possiamo riprodurre un sarcofago con precisione submillimetrica registrando tutte le sue fasi di produzione e di riutilizzo.
La diagnostica per immagini, non invasiva, ci permette di scrutare all’interno di un vaso ancora sigillato e di sbendare virtualmente le mummie. Analisi puntuali danno oggi la possibilità agli studiosi di osser-
vare le fibre di un papiro facilitando la ricomposizione dei documenti antichi. La comunicazione digitale ci consente, inoltre, di creare ambienti di lavoro virtuali in cui studiosi di (segue a p. 78)
Grazie alle nuove tecnologie, un sarcofago può essere riprodotto con precisione submillimetrica
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MOSTRE • TORINO
LA SECONDA CAPITALE D’EGITTO Per quanti ancora non lo conoscano o non l’abbiano visitato dopo il suo riallestimento (vedi «Archeo» n. 363, maggio 2015; anche on line su issuu.com), la mostra «Archeologia Invisibile» può essere un’ottima occasione per scoprire anche le collezioni permanenti del Museo Egizio di Torino. Quello che si snoda negli spazi distribuiti sui quattro piani del «Collegio dei Nobili», il palazzo barocco che ospita la raccolta – e che, nel tempo, è stato Collegio dei Gesuiti, sede dell’Accademia delle Scienze, Museo di Storia Naturale e Galleria Sabauda – è un viaggio nel tempo, attraverso oltre 4000 anni di storia.
Nato nel 1824 per iniziativa di Carlo Felice di Savoia, il Museo Egizio possiede la piú datata collezione archeologica dedicata all’Antico Egitto al mondo. A comporla sono gli oltre 40 000 reperti qui custoditi, 3300 dei quali sono oggi esposti lungo un percorso cronologico articolato in 15 sale. Ulteriori 11 000 oggetti sono inoltre visibili nei depositi denominati «Gallerie della Cultura Materiale», per uno sviluppo complessivo di 2 km lineari e 10 000 mq di superfici, che, oltre agli ambienti destinati alle mostre temporanee, includono una sala per conferenze ed eventi, caffetteria, bookshop, aree di servizio e uffici.
Da sinistra, in senso orario: una delle sale dedicate alla storia del museo; gli spazi che accolgono le pitture provenienti dalla tomba di Iti e Neferu, scoperta a Gebelein nel 1911 (Primo Periodo Intermedio, 2118-1980 a.C.); la vetrina che riunisce esemplari di mummie animali di varie specie nella sala che ospita le opere dell’Epoca Tarda.
Grazie alla sua straordinaria raccolta di statue, papiri, sarcofagi, oggetti di vita quotidiana e, naturalmente, mummie – se ne contano circa 300 fra umane e animali – il Museo Egizio è considerato la principale istituzione culturale e scientifica nell’ambito delle antichità egizie al di fuori della culla di tale civiltà, ossia dopo il suo omologo del Cairo. Un primato consolidato in tempi recenti non soltanto con lo sviluppo di un’offerta espositiva capace di richiamare 850 mila visitatori all’anno, ma soprattutto attraverso un’azione di profondo rinnovamento in termini gestionali e organizzativi, nonché in virtú di una sempre piú intensa attività scientifica condotta dalle risorse umane del Museo. Sono infatti una quarantina le persone oggi direttamente impiegate – piú che raddoppiate nell’ultimo quinquennio – di cui la metà dedite all’area a r c h e o 75
MOSTRE • TORINO
ricerca, collezione e didattica (fra curatori, registrar, restauratori ecc.), mentre altrettante sono impegnate nelle aree gestione e amministrazione, sviluppo e fondi europei, comunicazione, marketing e relazioni esterne. La gestione economico-finanziaria del Museo rappresenta un altro dei suoi punti di forza: con un valore della produzione vicino ai 10 milioni di euro, il Museo Egizio ha saputo dare stabilità a un modello oggi in grado di garantirne l’auto-finanziamento, conseguendo nel triennio 2015/2017 avanzi di gestione per un totale di 1 833 360 euro (destinati al sostegno di nuove progettualità interne). Un risultato al cui conseguimento ha contribuito anche l’impulso dato alla circuitazione e commercializzazione di alcune mostre itineranti che, nelle diverse tappe effettuate in giro per il mondo, hanno fin qui raccolto un pubblico di quasi 4 milioni di persone. Resta comunque la ricerca l’elemento al centro di un progetto scientifico che vede il Museo costantemente In alto: Galleria dei Sarcofagi. Il sarcofago dello scriba reale Butehamon, da Deir el-Medina. Nuovo Regno-Terzo Periodo Intermedio (1069 a.C. circa). A sinistra: la sala dedicata all’epoca predinastica e all’Antico Regno (3900-2100 a.C. circa). Nella pagina accanto: in alto, la sezione tolemaica; in basso, la sala con i materiali da Deir el-Medina.
impegnato nella valorizzazione della collezione e nel dialogo con le principali istituzioni museali e di ricerca nazionali e internazionali: al di là della gestione dello spazio museale strettamente inteso, se ne riafferma cosí concretamente lo storico ruolo di punto di riferimento per la comunità archeologica mondiale, come confermano operazioni quale l’avvio, nel maggio del 2015, della missione di scavo congiunta italo-olandese a Saqqara, a cui si affianca la ventina di progetti di ricerca in corso, il restauro di oltre 400 reperti e 28 pubblicazioni scientifiche nell’ultimo biennio. Nei suoi quasi 200 anni di storia, il Museo Egizio si è piú volte trasformato, rinnovato e ripensato, cercando di coniugare le esigenze della ricerca scientifica con quelle di fruizione del pubblico. A partire dal suo stesso profilo istituzionale, terreno in cui si è distinto per innovazione quando il 6 ottobre 2004 è nata ufficialmente la Fondazione Museo delle Antichità Egizie di Torino che rappresenta il primo esperimento di costituzione, da parte dello Stato Italiano, di uno strumento di gestione museale a partecipazione privata. La Fondazione è stata istituita dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali
– che ha conferito in uso per 30 anni le collezioni museali – unitamente alla Regione Piemonte, all’allora Provincia di Torino (oggi Città Metropolitana), alla Città di Torino, alla Compagnia di San Paolo e alla Fondazione CRT.
Un’evoluzione formale determinante per la successiva trasformazione strutturale del Museo Egizio completata nell’aprile 2015 con il radicale rinnovamento dei propri spazi: un progetto da 50 milioni di euro sostenuto dai soci fondatori, frutto di 5 anni di lavori di rifunzionalizzazione, restauro e messa in sicurezza dell’edificio seicentesco di via Accademia delle Scienze. Si tratta di un profondo ripensamento del Museo che sotto la direzione di Christian Greco ha dato corpo a un progetto scientifico capace di competere con i grandi musei internazionali. Il percorso museale ricostruisce la storia del Museo e delle collezioni, i contesti archeologici degli oggetti in mostra, ma anche la storia delle missioni, la loro organizzazione, il loro modo di operare, avvalendosi, oltreché dei reperti custoditi, anche di un prezioso patrimonio archivistico ricco di foto e documenti storici. (red.) a r c h e o 77
MOSTRE • TORINO A sinistra: screenshot tratto dallo sbendaggio virtuale della mummia di Kha. È possibile vedere i monili che ornavano le spoglie del defunto: orecchini, collare, amuleti, una collana con scarabeo e bracciali. In basso: la sezione dedicata agli studi sui pigmenti usati dai pittori dell’antico Egitto. Nella pagina accanto, in alto: la vetrina dedicata alle mummie animali e alle indagini non invasive di cui sono state fatte oggetto.
tutto il mondo possano mettersi in relazione e confrontare i loro dati. Significa perciò che il ruolo dell’umanista sta diventando subalterno? Tutt’altro. I dati che ci vengono forniti sono sempre piú dettagliati e complessi e richiedono un livello di interpretazione ancora maggiore. Lo scienziato e l’umanista devono lavorare sempre di piú assieme per cercare di dipanare la complessità del mondo contemporaneo». Si passa quindi alla prima sezione della mostra, dedicata alla documentazione, che della ricerca archeologica è l’elemento fondante e nel cui ambito, al di là delle sempre piú sofisticate risorse offerte dall’evoluzione delle tecnologie, la fotografia continua a svolgere un ruolo fondamentale. Un’importanza intuita fin dall’Ottocento, se pensia78 a r c h e o
mo alle parole – riportate anch’esse da Greco – pronunciate nel 1834 dal fisico e astronomo François Jean Dominique Arago.
UN AUSILIO PREZIOSO Di fronte ai membri dell’Accademia delle Scienze e di quella delle Belle Arti riuniti in seduta congiunta, Arago spiegò cosí le applicazioni che la fotografia avrebbe potuto avere per l’egittologia, con grandi aspettative: «Se avessimo avuto la fotografia nel 1798 oggi avremmo materiale iconografico affidabile di ciò che è stato sottratto alla comunità scientifica dall’avidità degli Arabi (sic) e dal vandalismo dei viaggiatori. Solo per copiare i milioni di geroglifici che coprono la parte esterna dei monumenti di Tebe, Menfi, Karnak ed altri luoghi avremmo bisogno di decenni e di legioni di disegnatori. Grazie alla dagherrotipia una persona sola può essere in grado di portare a termine con successo questo immenso lavoro. Diamo quindi due o tre esemplari dell’apparecchiatura di Daguerre all’lnstitut d’Egypte e un numero illimitato di geroglifici,
cosí come essi sono nella realtà sostituiranno quelli che ora vengono immaginati o riprodotti in modo approssimativo». Se oggi fa sorridere l’accenno, assai poco politicamente corretto, all’«avidità» (cupidité nel testo francese originale) degli Arabi, si resta invece colpiti dalla lucidità con cui Arago aveva intuito le potenzialità del mezzo, rammaricandosi, pur non essendo un archeologo, della mancata acquisizione di dati preziosi da parte degli studiosi che Napoleone aveva voluto al suo seguito nella campagna d’Egitto. una delle palestre ideali per sperimentare i primi apparecchi fotografici. Questi ultimi, infatti, nelle loro LUCE D’EGITTO In seguito quei rimpianti furono in prime versioni necessitavano di larga parte compensati dal fatto che tempi di esposizione molto lunghi proprio il Paese dei faraoni divenne e le condizioni di luce offerte dai
siti archeologici che venivano via via scoperti risultavano pressoché ideali. Immagini e strumenti di un’epoca pioneristica sono dunque messi a confronto con le piú avanzate tecniche di acquisizione delle
Occhio non vede... Questa pseudomummia di toro risale all’Epoca Tarda (722-332 a.C.) ed è fra i reperti che appartenevano inizialmente alla Collezione Drovetti, nucleo fondante del Museo Egizio. L’analisi condotta sul reperto ha rivelato che, in realtà, all’interno del bendaggio furono sigillati soltanto il cranio, le coste e alcune ossa sparse di un bovino, completando l’opera con elementi vegetali. Simili «contraffazioni» sono piuttosto frequenti ed è probabile che fossero dettate dalla carenza di tempo o risorse, quando non da vere e proprie intenzioni fraudolente.
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immagini e, in particolare, con la fotogrammetria. Come lascia intendere il nome stesso, la fotogrammetria permette di ricavare misure dall’elaborazione delle immagini ed è ormai una risorsa insostituibile, per esempio, nel rilevamento dei siti o anche di intere regioni. Può inoltre essere applicata anche su singoli oggetti e contribuire all’elaborazione di modelli 3D. Soprattutto, in molti casi, la fotogrammetria permette all’archeologo di «riavvolgere il nastro»: lo scavo, infatti, è per definizione un intervento di tipo distruttivo, poiché, pur portando al recupero di reperti e informazioni, altera una situazione che nel tempo si è creata e consolidata, ma l’elaborazione delle immagini acquisite fotogrammetricamente può generare la ricostruzione virtuale del contesto, cosí come esso si presentava prima che cominciasse a essere esplorato o anche in diversi stadi di avanzamento dell’indagine. Sulla fotografia si basano anche le
indagini multispettrali, delle cui applicazioni la mostra offre l’intervento compiuto su un elegante cofanetto in legno policromo proveniente dalla tomba di Kha e Merit, scoperta da Ernesto Schiaparelli a Deir el-Medina nel 1906.
In basso: uno dei vasetti in alabastro per gli oli sacri trovati nella tomba di Kha e Merit, affiancato dalla sua radiografia neutronica, che ha confermato la natura organica del materiale contenuto all’interno.
Nella pagina accanto, in alto: replica in 3D dei gioielli di Merit. Nella pagina accanto, in basso: la sezione dedicata ai tessuti, con reperti originali e repliche che permettono di verificarne la consistenza.
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LA MAESTRIA DEGLI ARTIGIANI L’esame del prezioso manufatto rientra nel progetto di studio sistematico degli oltre 400 reperti che compongono il corredo della tomba e che si è indirizzato anche all’analisi dei colori utilizzati per la decorazione dei diversi oggetti. Al di là della composizione chimica dei vari pigmenti, la ricerca sta rivelando dettagli di notevole interesse sulle tecniche adottate dagli artigiani che fabbricarono le suppellettili, suggerendo che la scelta di determinate soluzioni nascesse da una padronanza delle materie prime e del loro utilizzo finora insospettata. Uno dei capitoli piú affascinanti è poi quello riservato alle varie tipo-
logie di analisi diagnostiche, che offrono esempi eloquenti di quanto l’«invisibilità» dell’archeologia possa essere ormai aggirata. Prendendo a prestito tecniche messe a punto a fini medici, come i raggi X o le tomografie assiali computerizzate, gli studiosi – e gli egittologi in particolare – hanno visto schiudersi orizzonti fino a pochi decenni fa impensabili. È infatti diventato possibile vedere dentro i reperti, senza comprometterne l’integrità. Un’opportunità che, nel caso dell’archeologia egiziana, ha trovato e trova applicazione soprattutto per le mummie. Se un tempo, per studiarle, non si poteva evitare di sbendarle, compromettendone l’integrità e molto spesso causando danni irreparabili, oggi si possono effettuare ricognizioni complete e accurate, ricavando una messe di dati ancora piú completa e dettagliata. A un intervento del genere sono state per esempio sottoposte le mummie di Kha e Merit, che furono entrambi addobbati per l’ultimo viaggio con preziosi monili e provvisti di uno «scarabeo del cuore». Suppellettili che sono state anche replicate virtualmente in 3D. Con criteri analoghi sono stati anche esaminati i sette vasi in alabastro del sepolcro di Kha e Merit, rinvenuti ancora perfettamente sigillati e che si suppone fossero destinati agli oli sacri utilizzati per l’imbalsamazione. In questo caso, avvalendosi della collaborazione di un centro di ricerca inglese, i piccoli contenitori sono stati sottoposti a radiografie neutroniche, una tecnologia complementare alla radiografia tradizionale, e i risultati non sono mancati: l’esame ha infatti confermato la natura organica del contenuto dei vasetti. Né mancano i casi in cui, guardando dentro, si possono scoprire piccoli e grandi sotterfugi, come confermano gli studi dedicati negli ultimi anni alle mummie animali, un ambito di ricerca che va rivelandosi
di grande interesse. Il fenomeno ebbe notevole diffusione nell’antico Egitto e, grazie all’incremento delle indagini, si sono moltiplicate le scoperte di necropoli adibite alla deposizione di questi defunti un po’ speciali. Il Museo Egizio possiede una ricca collezione di mummie animali e il loro esame ha appunto rivelato piú di una sorpresa, come prova un toro proveniente dalla Collezione Drovetti (vedi box a p. 79).
ne, e dunque esami e analisi costituiscono un passaggio obbligato. I curatori dell’esposizione hanno scelto tre tipologie di beni, accomunate dalla loro fragilità – pitture murali, i papiri iscritti e i tessuti –, per le quali si è fatto ricorso a un ampio spettro di metodiche.
Sale quindi in scena lo scriba reale Butehamon, vissuto tra la fine del Nuovo Regno e l’inizio del Terzo Periodo Intermedio (1069 a.C. circa), figura chiave in seno alla comunità degli artigiani di Deir el-Medina che costruirono le tombe dei faraoni nella Valle dei
CONOSCERE PER CONSERVARE La sezione conclusiva della mostra illustra il contributo, altrettanto prezioso, che scienza e tecnologia offrono, oltre che alla conoscenza, alla conser vazione e al restauro. Quest’ultimo, del resto, si rivela efficace solo a patto che siano preliminarmente accertate le caratteristiche fisiche e chimiche del reperto o del contesto sul quale si interviea r c h e o 81
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A sinistra: ancora un’immagine riferita allo sbendaggio virtuale della mummia di Kha, con l’indicazione dei diversi elementi di cui è stata accertata la presenza. Nella pagina accanto, in basso: l’installazione dedicata al sarcofago di Butehamon. In basso: TAC sulla mummia di un canide, avvolta in bende originariamente dipinte in rosa e marrone. 380-200 a.C. (datazione C14).
Re e delle Regine. Restaurato nel 2015 nell’ambito del Vatican Coffin Project – un progetto internazionale per lo studio e il restauro dei sarcofagi policromi in legno del Terzo Periodo Intermedio (XXI-
XXV dinastia, 1070-712 a.C.) avviato dal Reparto di Antichità Egizie dei Musei Vaticani – il suo sarcofago esterno è stato sottoposto a indagini diagnostiche, perlopiú non invasive, che hanno forni-
to indizi interessanti sulla storia del manufatto e sulle tecniche di falegnameria utilizzate.
UN CLONE DIGITALE PER LO SCRIBA REALE Le radiografie hanno anche mostrato numerosi interventi eseguiti per rimodellare gli elementi riutilizzati, come le mani e il volto, e l’osservazione diretta della pellicola pittorica, associata all’esame di alcune microstratigrafie, ha infine evidenziato almeno due strati pittorici sovrapposti. Una raccolta di dati riassunta in mostra da una spettacolare installazione in video mapping, che propone la proiezione su un modello 3D in scala 1:1 del sarcofago dello scriba reale, che rappresenta il clone digitale dell’originale esposto in sala. Dopo aver salutato Butehamon, il percorso propone un salto temporale di molte decine di secoli, offrendo una nutrita e variopinta scelta di oggetti d’epoca moderna: la trowel di un archeologo, una macchina giocattolo, una musicassetta, un ex voto, una palla da baseball… E basta poco per intuire il senso della scelta e superare lo straniamento. Come spiegano le brevi didascalie, ogni oggetto ha una sua storia e chi, meglio di un archeologo, potrebbe ricostruirla e raccontarla, naturalmente con l’aiuto di un collega scienziato?
DOVE E QUANDO «Archeologia Invisibile» Torino, Museo Egizio fino al 6 gennaio 2020 Orario lu, 9,00-14,00; ma-do, 9,00-18.30 Info tel. 011 440 6903; e-mail: info@museitorino.it; https://museoegizio.it/ Catalogo Franco Cosimo Panini a r c h e o 83
SPECIALE • TOMBA DEI CALISNA SEPU
IN QUELLA MATTINA DI UN ANNO FREDDISSIMO... UN CONTE CON LA PASSIONE PER LE ANTICHITÀ, UN SUO GIOVANE LAVORANTE, UN ANTIQUARIO DALL’OCCHIO LUNGO: ECCO I PROTAGONISTI PRINCIPALI DELLA STORIA MODERNA DELLA TOMBA ETRUSCA DEI CALISNA SEPU, SCOPERTA NEL TERRITORIO DI MONTERIGGIONI PIÚ DI CENTO ANNI FA. UNA VICENDA DAI TRATTI DAVVERO ROMANZESCHI... di Giacomo Baldini, con contributi di Pierluigi Giroldini e Andrea Zifferero
I
l 7 dicembre 2018, nella Sala Sigerico di Abbadia Isola a Monteriggioni, si è celebrato il 125° anniversario della scoperta della Tomba dei Calisna Sepu: una ricorrenza importante, visto che, nei locali attigui, è in corso il percorso espositivo dal titolo «Monteriggioni prima del Castello. Una comunità etrusca in Valdelsa» (vedi «Archeo» nn. 406, 408 e 409, dicembre 2018, febbraio e marzo 2019; anche on line su issuu.com). Il complesso è uno dei piú noti dell’Etruria settentrionale, fondamentale per lo studio dell’età ellenistica a Volterra. Ma ciò che piú colpisce la fantasia, anche a distanza di oltre un secolo, sono le vicende del ritrovamento e le dinamiche che hanno portato alla dispersione del corredo. Tratti romanzeschi, che abbiamo provato a narrare in forma di racconto, basandoci sui documenti e sulle testimonianze dei contemporanei.
In alto: il borgo di Monteriggioni (Siena), ancora oggi cinto dalle mura del Castello. Sulle due pagine: disegno di
Irene Laschi (concept Giacomo Baldini) nel quale si immagina la scoperta della Tomba dei Calisna Sepu, avvenuta nel 1893.
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SPECIALE • TOMBA DEI CALISNA SEPU
Giovedí 7 dicembre 1893 Come tutte le mattine ormai da qualche mese, Sabatino Capresi (vedi box alle pp. 94-95) si reca al lavoro nei campi del signor Conte. Fa freddo, molto freddo ma la giovane età del ragazzo, non ancora maggiorenne, lo aiuta a sopportare le basse temperature che solo le carezze del pallido sole di mezzogiorno in parte alleviano. Del resto l’anno già era iniziato con un gennaio freddissimo, con temperature cosí rigide da rendere difficile anche il semplice respirare. E i vestiti, lisi e sdruciti, certo non possono riparare dai morsi del gelo e dal vento che soffia forte. Proprio quella mattina, mentre si dirigeva al lavoro e sotto gli scarponi sentiva il crepitare dell’erba secca cristallizzata dal ghiaccio, risuonavano nitide nella sua testa le parole del nonno che, davanti allo scoppiettare del fuoco del camino, si lamentava del freddo, a suo ricordo mai cosí rigido. Tante volte aveva calpestato quelle zolle, molti erano i pensieri che, in alto, il Castello di Monteriggioni aveva suscitato nella sua giovane testa di ragazzo. Fantasie stimolate da quei racconti in rima che i vecchi erano capaci di intonare, in un battibecco arcigno che gli ricordava le battaglie dei galli nell’aia di casa. D’un tratto si materializzava davanti ai suoi occhi lo strazio di Pia dei Tolomei, o sentiva risuonare tetro l’urlo blasfemo di Sapía Salvani, nobildonna senese protagonista di uno
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Emilia-Romagna Liguria Mas as ass a sss sa
Pist Pis Pi P i toia oi Lucc L ucc uccca
Pisa i a isa
Prato Prat o Arn
Firenz Fir enz nz ze Arez Are Ar A re rrez e ezzzo o
Liv vorn rno rn no n o
Monteriggioni Sien S iena
Port rto oferrai ferraio
Isol sola a d’ d’E Elba
Isola di Mon ontecr tec isto
Umbria Go Gro Gros osss seto eto to Lag Lag Lago go go di Bo olse ols ol ls naa ls
Lazio
scontro combattuto proprio lí, nel piano del Casone, tra il Castello di Monteriggioni e Castiglion Ghinibaldi. In realtà, tutte quelle figure erano per lui solo leggende, lontane meraviglie che il bruscello (una forma di teatro popolare toscano, n.d.r.), nei giorni di festa, faceva rivivere. La vita del colono era altro: lavoro nei campi, fango, calli e sangue, il caldo sangue che arrossava la pelle quando, tesa per lo sforzo, si apriva in laceranti fessure sul dorso della mano per effetto
Nella pagina accanto, in alto: un particolare dell’allestimento della mostra «Monteriggioni prima del Castello. Una comunità etrusca in Valdelsa», in corso presso la Sala Sigerico del complesso monumentale di Abbadia Isola (Monteriggioni). In basso: foto d’epoca dello scavo della Tomba dei Calisna Sepu, scattata al momento della scoperta, nel dicembre del 1893.
dei geloni, molesti compagni dei suoi giorni. Ma da qualche tempo anche il lavoro gli appariva diverso, non solo perché il Conte aveva aumentato la paga, ma, soprattutto, perché ogni volta che affondava il piccone nel terreno scrutava la piccola voragine con fiduciosa speranza. Era passato un anno esatto: a pochi metri da dove stava lavorando, nel dicembre del 1892, gli operai, intenti a dissodare il terreno per la realizzazione del nuovo vigneto voluto dal Conte, avevano trovato una buca che dava accesso a una stanza, una specie di cantina con uno strano scalone lungo le pareti e un muretto nel mezzo. All’interno furono trovati vasi, alcuni anche dipinti e con incisioni. Quello che piú aveva attratto la curiosità sua e degli altri lavoranti era stato uno scheletro, disteso su uno dei banconi. Subito si erano accorti che non si trattava di una persona, ma di un animale, forse un cane
OLTRE 100 SEPOLTURE Pianta e sezione della Tomba dei Calisna Sepu realizzate da Augusto Guido Gatti e pubblicate nel 1928 da Ranuccio Bianchi Bandinelli. Il sepolcro consiste in una sola camera funeraria, lungo le cui pareti furono allineate le 105 deposizioni.
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SPECIALE • TOMBA DEI CALISNA SEPU
SAN CIRINO E LA TOMBA DEL CANE La ricerca archeologica al Casone ha inizio nel 1698 con la scoperta della Tomba dell’Alfabeto, divenuta subito nota tra gli eruditi del tempo per la presenza sulle pareti di un alfabetario, un sillabario e di titoli sepolcrali. In realtà, però, ritrovamenti sono noti fin dal Medioevo: nel corso dei lavori di ristrutturazione della cripta della chiesa dei Ss. Salvatore e Cirino ad Abbadia Isola, infatti, era stata rinvenuta, nel 1898, un’urna di marmo lunense, prodotta a Volterra nel I secolo d.C. L’iscrizione incisa sulla tabella epigrafica testimonia che la theca, reperita
A destra: i materiali del corredo della Tomba del Cane in un disegno di Ranuccio Bianchi Bandinelli.
deposto accanto al suo padrone, fedele compagno per l’eternità (vedi box in queste pagine). L’agente Serafino Ghezzi, avvertito dal sottofattore Carlo Barneschi, aveva chiamato subito il Conte, in quei giorni a Firenze, che arrivò qualche giorno dopo, accompagnato da un professore, un distinto signore di nome Milani, il quale, felice per la scoperta, aveva dato indicazioni sulla prosecuzione dei lavori. Ricordava ancora la sensazione di fastidio e di stizza che quell’uomo aveva suscitato in tutti quando suggeriva come procedere nello scavo. Come se quel cittadino sapesse qualcosa della vita dei 88 a r c h e o
In alto, a destra: olla stamnoide in ceramica etrusco-corinzia, dalla Tomba del Cane. Volterra, Museo Etrusco «Mario Guarnacci».
campi! Dicevano che fosse il direttore di un grande museo di cose antiche a Firenze, ma quello strano accento del nord, misto a una eleganza per certi aspetti rude, lo rendeva ancora piú insopportabile (vedi box a p. 92). Il Conte lo ascoltava e quando parlava di quegli strani oggetti, per loro vasi rotti senza valore, riusciva a trasmettere un insolito entusiasmo. Appena arrivato aveva chiesto subito se fossero state trovate monete. Qualcuno, ridendo, fece notare che, se cosí fosse, certo non le avrebbero lasciate in terra. Ma il Conte, con tono fermo e deciso, forse per ribadire il suo ruolo di fronte all’ospite, rispose che, quanto recuperato nei suoi terreni, sarebbe stato di sua esclusiva proprietà, bloccando sul nascere un naturale (e contagioso) moto di ilarità e mortificando l’incauto lavorante. Giulio Terrosi Vagnoli, per tutti il Conte. Un signore d’altri tempi che abitava un po’ a Firenze, dove aveva un villino in centro e un po’ a Cetona, lontana località dove nessuno degli operai era mai
verosimilmente dai monaci nell’area abbaziale, fu utilizzata come reliquiario delle ossa di san Cirino, vescovo martirizzato sotto l’imperatore Diocleziano, a seguito del loro trasferimento nel complesso nel 1198. Gli scavi divennero sistematici soltanto alla fine del XIX secolo. Nel 1881 il conte Giulio Terrosi decise di comprare la Tenuta del Casone per impiantare un vigneto. Dopo anni di inattività, i lavori partirono alla fine del 1892 e, già a dicembre, fu trovato il primo importante monumento funerario: di forma rettangolare, con tramezzo e loculi e nicchiotti alle pareti. Venne ribattezzato Tomba del Cane perché, nel loculo di sinistra, fu appunto rinvenuto lo scheletro di un cane in connessione anatomica. Dato l’interesse del contesto, nei primi giorni di settembre del 1894, la tomba venne riaperta e indagata con maggiore cura: nell’occasione furono rinvenuti «mischiati alle ossa, alcuni chicchi di vetro di una collana, frammenti d’incenso, fibule,
due lacrimatori, una lama di bronzo, e frammenti di bronzo». Il ritrovamento del sepolcro, che sulla base della struttura e dei pochi oggetti di corredo noti venne utilizzato nel VI secolo a.C., è considerato l’inizio degli scavi di età moderna, anche se, nei dieci anni
stato, né sapeva esattamente dove si trovasse. Aveva comprato la tenuta del Casone una decina d’anni prima, nel 1881 da un altro nobile senese, Carlo Bianchi Bandinelli: i terreni erano incolti e bisognosi di lavoro (vedi box a p. 94). Proprio su quelle colline vellutate, fino a pochi anni prima, si distendeva un piccolo bosco di querce, fatto abbattere per lasciar spazio al vigneto. È vero che anche nel Chianti, grazie soprattutto al barone Bettino Ricasoli, il vino è diventato una produzione sempre piú ricercata: ma perché investire proprio in quel luogo difficile e da poco bonificato?
I RICORDI DEI VECCHI I vecchi raccontavano ancora del canale maestro, una profonda fenditura che, tagliando in due la piana, aveva sanificato tutto lo spazio attorno alla Badia. Quante storie si raccontavano sulla Badia! «Ah, la Badia...». Si diceva che un tempo fosse totalmente immersa nell’acqua, che ci
In alto e nella pagina accanto, in basso: due immagini dell’urna in marmo apuano di età romana utilizzata nel 1198 come reliquiario delle ossa di san Cirino e rinvenuta nel 1898 durante la ristrutturazione della cripta dei Ss. Salvatore e Cirino ad Abbadia Isola, dove è oggi conservata.
trascorsi fra l’acquisto della tenuta e l’avvio della piantumazione del vigneto, non mancarono scoperte archeologiche casuali; del resto, pochi anni prima, anche Carlo Bianchi Bandinelli aveva individuato una tomba, nota come Tomba Bianchi. G. B.
fosse una comunità dotata di un proprio statuto e di propri rappresentanti, una sorta di piccolo Comune. Ai coloni appariva, al contrario, come un luogo fatiscente, con molte parti crollate. Quante volte Sabatino era rimasto rapito dallo sguardo materno e rassicurante della Madonna col Bambino, raffigurata in trono su una tavola tutta d’oro appesa nel muro a destra dell’ingresso; quante volte da bambino, solo nel buio della chiesa, aveva sperato che quegli angioletti ai lati del trono, perfetti nella loro fissità, potessero animarsi e scendere a giocare con lui, a rallegrare le lunghe giornate, trascorse tra il lavoro in famiglia e la spensieratezza dei suoi giovani anni. Il Conte: persona schiva, ma affabile, sempre pronto a venire incontro alle esigenze degli operai. Per la messa a coltura del vigneto del Casone, che sarebbe durata anni, visto che i lavori di scavo si interrompevano d’estate per riprendere a settembre, aveva stabilito una paga ad opra (cioè a giornaa r c h e o 89
SPECIALE • TOMBA DEI CALISNA SEPU Il corredo della Tomba dei Calisna Sepu, allestito in casa Terrosi a Firenze. Firenze, Archivio del Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: fotografia di un candelabro a vernice nera con Eracle in lotta con Scylla, dalla Tomba dei Calisna Sepu. Fine IV sec. a.C. Il reperto risulta oggi disperso. Firenze, Archivio del Museo Archeologico Nazionale.
ta) anziché a cottimo; addirittura aveva incaricato l’agente Serafino Ghezzi di dare paga doppia per quei giorni nei quali gli zappaterra avessero prestato speciale lavoro e custodia a una tomba scoperta. Ricordi e domande per le quali, forse, non avrebbe mai avuto risposta, ma che tutte le mattine, ogni volta che saltava nello scasso del nuovo vigneto, si rincorrevano quasi senza senso nella sua testa e lo accompagnavano tutto il giorno. L’appezzamento di terreno dove gli operai realizzavano il vigneto si chiama Malacena, perché, secondo gli anziani, proprio in quel campo le truppe senesi, mentre erano intente a consumare una lauta cena, divenuta per loro fatale, sarebbero state assaltate dal contingente fiorentino. Quella mattina, poco distante da lui, lavoravano i coloni Chiarucci e Angiolini, anche loro impegna90 a r c h e o
ti nella realizzazione di una fossa per le viti. Fosse profonde, piú del necessario per un vigneto, all’apparenza inutili, lavoro sprecato, ma comunque ben pagato. Sabatino era solo nella fossa: quasi ci sprofondava. Bisognava togliere velocemente lo strato superficiale perché la brina, ancora ghiacciata, evitasse al terreno argilloso, di colore rosso intenso, di diventare una poltiglia scivolosa e pesantissima, che si attacca agli attrezzi e fiacca le forze. E invece sarebbe stato ore a scrutare con curiosità quei piccoli aghi cristallini che ricoprivano le foglie d’erba che si trasformavano in gocce d’acqua appena lambiti dal tepore della mano. Era passata qualche ora dall’inizio del lavoro: era gradevole, ogni tanto, rivolgersi verso il sole, basso all’orizzonte, e, a occhi chiusi, lasciare che i raggi gli riscaldassero le guance, coperte da quella leggera
LE TRAVERSIE DI UN NOBILE APPASSIONATO Il conte Giulio Terrosi Vagnoli nacque a Cetona nel 1851. Dal padre Giovanbattista ereditò l’amore per le antichità e una collezione che, nel tempo, incrementò grazie agli scavi nel Chiusino e a Monteriggioni. Ammirata anche da George Dennis nella primavera del 1876, la raccolta di Cetona acquistò importanza grazie alla scoperta della Tomba della Pania, strepitoso complesso di età orientalizzante ritrovato nel 1873 in un podere nei pressi di Chiusi di proprietà del conte. Del sepolcro, di cui si occupò anche Wolfgang Helbig, è stata resa nota la documentazione d’archivio che mostra la particolare cura e attenzione di Terrosi nella registrazione dei dati di scavo. Cura che ritroviamo anche nelle indagini a Monteriggioni. Giulio Terrosi acquistò la tenuta del Casone nel 1881 da Carlo Bianchi Bandinelli, a un prezzo molto superiore rispetto a quello richiesto, nonostante le pessime condizioni in cui versavano i campi. Nei documenti dell’epoca viene fatto esplicito riferimento alla presenza di boschi di querce e terreni totalmente incolti. Ma Terrosi si fidava dei contadini della zona, i quali assicuravano che la piana era ricca di testimonianze antiche. Del resto proprio al Casone era stata trovata nel 1698 una tomba con segni alfabetici dipinti che tanta eco ebbe tra gli eruditi del tempo. Per questo, quando decise di partire con la piantumazione del vigneto nel 1892, stabilí una paga ad opra (ovvero a giornata) anziché a cottimo, obbligando i suoi lavoranti a scavare il terreno per una profondità ben maggiore del necessario. Già nell’inverno dello stesso anno scoprí un sepolcro, noto come Tomba del Cane e, nel dicembre dell’anno successivo, trovò la Tomba dei Calisna Sepu. Forte della tradizione, dopo aver avvertito Luigi Adriano Milani, direttore del Regio Museo Archeologico di Firenze, e aver soddisfatto la curiosità di molti, mostrando l’ipogeo e i materiali, fece
caricare gli oggetti su carri, per trasferirli a Firenze, nella sua villa di via delle Ruote, dove lo stesso Milani allestí un museo. Per lasciare testimonianza del ritrovamento, donò al Regio Museo alcuni oggetti, tra cui due urne cinerarie, un candelabro a vernice nera e un dupondio della zecca di Volterra. Nel 1897 Giulio Terrosi fu inaspettatamente chiamato in causa da Guido Maccianti unitosi in società con Sabatino Capresi, il colono che aveva scoperto il sepolcro: chiedevano l’applicazione dell’articolo 714 del codice civile, che riconosceva allo scopritore la metà del tesoro (in questo caso il corredo della Tomba dei Calisna Sepu) rinvenuto fortuitamente in terreno altrui. La richiesta, oltre che come danno pecuniario, fu vissuta dal conte con profonda afflizione nei confronti del Capresi, verso il quale aveva dimostrato sempre una particolare considerazione. Nonostante la strenua difesa degli avvocati, con la sentenza d’appello del 1901 che decretò la colpevolezza di Terrosi e la conseguente cessione della metà dei materiali, si infranse il sogno del piccolo museo dedicato ai Calisna Sepu. Da allora il contesto è stato smembrato in musei e collezioni italiane ed europee, attraversando le drammatiche vicende della seconda guerra mondiale e le travagliate conseguenze della guerra fredda. Gli scavi proseguirono fino al 1906, anche se con minore intensità: nelle lettere a Milani, Giulio Terrosi mostra un maggiore distacco, ma l’attenzione e la precisione nel dettaglio restituiscono una documentazione assolutamente rigorosa, quasi maniacale. Proprio da questi appunti sono nati gli studi pionieristici del giovane Ranuccio Bianchi Bandinelli, ancora oggi testi imprescindibili per lo studio della Valdelsa in età antica. G. B.
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UNA VITA PER LA RICERCA E PER LA TUTELA Figura chiave nelle vicende che seguirono al rinvenimento della Tomba dei Calisna Sepu, Luigi Adriano Milani al momento della scoperta era già un punto di riferimento per l’archeologia e gli studi di antichità fiorentini e toscani. Nato a Verona nel 1854 da una famiglia benestante, si trasferí a Firenze per condurvi il proprio percorso universitario. In quegli anni il capoluogo era interessato dall’avvio del grande progetto per la costituzione del «Museo Centrale dell’Etruria», istituito con Regio Decreto del 17 marzo 1870 e da aprirsi presso il Palazzo della Crocetta (tuttora sede del Museo Archeologico Nazionale di Firenze), con il trasferimento dell’esposizione dalla primitiva sede del «Museo Etrusco» sita in via Faenza, presso il Cenacolo del Fuligno. Coinvolto ancora giovanissimo nel progetto, originariamente come addetto all’ordinamento delle collezioni, dal 1887 diventa vicedirettore, insieme a Ernesto Schiaparelli, responsabile della sezione egizia, per poi assumere, dal 1892, la carica di Direttore del Regio Museo Etrusco, a cui si affiancò nel 1902 quella di Direttore degli Scavi di Antichità d’Etruria. Del 1907, infine, è la nomina a capo della neonata Soprintendenza alle Antichità d’Etruria, incarico che terrà fino alla scomparsa nel 1914. Parallelamente ai compiti svolti nell’ambito dell’Amministrazione dello Stato, Milani ebbe ruoli di docenza nell’Istituto universitario fiorentino, che lo portarono all’ordinariato a partire dall’Anno Accademico 1902-1903.
peluria, che lo faceva sentire un uomo. La fatica iniziava a farsi sentire; la pala piena di terra, da alzare oltre il margine della fossa, era sempre piú pesante e i cumuli di argilla ai lati dello scavo sembravano mura invalicabili. Fortunatamente era di nuovo il turno del piccone: il peso della lama di ferro e del manico di legno aiutavano a vibrare colpi precisi e potenti. Proprio mentre scagliava con forza lo strumento per la seconda volta sentí un rumore sordo e la vibrazione gli fece tremare tutta la schiena. Piccole schegge di pietra si sparsero nel terreno, come deflagrate dalla lama che aveva innescato una scintilla. Nella sua 92 a r c h e o
La visione museologica di Milani, fortemente improntata a un ordinamento delle collezioni su base geografico-topografica e non meramente tipologica, portò lo studioso ad attivare e curare, nel corso dei decenni, relazioni e rapporti volti a incrementare le raccolte con materiali provenienti da nuovi scavi che coprissero l’intera area geografica di riferimento della civiltà etrusca, quando non zone differenti, contermini ma anche lontane (come mostra l’acquisizione di materiali greci, ciprioti e vicino-orientali). In questo quadro di instancabile attività si inquadrano i rapporti del direttore con Giulio Terrosi. Milani, infatti, è tra i primi a recarsi sul luogo della scoperta, quando giunge a Firenze la notizia del sensazionale rinvenimento della Tomba dei Calisna Sepu. In rapporti personali con il conte, riceve da questi un piccolo lotto di oggetti per accrescere le collezioni del Museo e offrirà la propria competenza per l’ordinamento dei materiali rinvenuti nel corso degli scavi. Lo stesso Milani, dopo la complicata vicenda giudiziaria che vedrà la metà circa del corredo finire nelle mani dell’antiquario Guido Maccianti, si adopererà per assicurare allo Stato (e al proprio Museo) almeno la monumentale urna bisoma rinvenuta nella tomba, conducendo una complessa trattativa con Maccianti, che probabilmente avrebbe tratto piú vantaggio da una vendita a musei stranieri. Pierluigi Giroldini
Nella pagina accanto: un’altra immagine del corredo della Tomba dei Calisna Sepu, allestito in casa Terrosi a Firenze. Firenze, Archivio del Museo Archeologico Nazionale.
testa quel clangore risuonò per tutta la valle, spingendosi ben oltre i confini della tenuta. Ancora gli faceva male il braccio e le orecchie gli fischiavano, quando, d’un tratto, sentí la terra scivolare sotto le sue scarpe infangate e, per poco, non cadde in un piccolo vuoto aperto sotto di lui. Recuperato l’equilibrio, vide una pietra, una grossa pietra di travertino che, senza successo, tentò di spostare. Il cuore gli batteva forte, le mani tremavano, non capiva se per la paura di cadere nel vuoto o per la speranza di aver scoperto qualcosa di importante. Si ricordava ancora le disposizioni del Conte: paga doppia per chi avesse trovato una tomba. E se non
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IL COLONO E L’ANTIQUARIO La causa per la spartizione dei materiali della Tomba dei Calisna Sepu vide contrapposti al conte Giulio Terrosi Vagnoli il colono Sabatino Capresi, scopritore del sepolcro, e l’antiquario Guido Maccianti. Diversi nella vita, uniti nell’obiettivo di ricevere giustizia. Poco sappiamo di Capresi, al punto che a volte è chiamato Sabatino altre volte Serafino. Figlio di contadini della zona, non ancora maggiorenne iniziò a lavorare nella tenuta del Casone. Riusciamo a tratteggiare la sua figura grazie alle arringhe degli avvocati chiamati a discutere la causa: mite e rispettoso del padrone, appare come circuito dall’ambizione e dalla cupidigia dell’antiquario. Durante il dibattito, gli avvocati sostennero che lo stesso Terrosi, quando fu avvertito della procedura in corso nei suoi confronti, si stupí soprattutto del fatto che il
lo avesse detto a nessuno? Avrebbe tenuto il tesoro tutto per sé. In quello stesso momento pensò agli altri coloni, cosa avrebbero pensato di lui; al guardiano Alessandro Brocchi, che senza dubbio avrebbe intuito qualcosa e lo avrebbe denunciato al Ghezzi. Ma soprattutto pensò al Conte, e si vergognò per ciò che aveva pensato. In quell’istante sentí che, senza neppure accorgersene, stava chiamando a gran voce gli altri lavoranti che, impauriti, accorsero subito. Lo trovarono seduto sul mucchio di terra, ma non capirono cosa fosse accaduto, perché parlava in maniera confusa. E tremava. Cercarono quindi di tranquillizzarlo, offrendogli un gotto di vino rosso. Sabatino lo tracannò e, ancora agitato, spiegò cosa fosse successo. Chiarucci e Angiolini non fecero molto caso alle parole poco lucide del giovane, ma, per rassicurarlo e tornare al proprio lavoro, decisero di provare a spostare tutti insieme quella pietra. Lo spazio di manovra era misero in quella fossa stretta e profonda e, nonostante fossero in tre, non riuscivano a esercitare la forza necessaria: sembrava che la pietra, arcigno custode di un passato lontano, avesse profonde radici nel terreno, impossibili da lacerare. A un tratto, nel momento di massima tensione, quell’antico sigillo si spezzò e, sotto i loro piedi, si aprí una camera. L’aria gelida che spirò dal profondo, carica di umidità, paralizzò i tre contadini: quando gli occhi si abituarono all’oscurità, tagliata da un lembo di luce, furono abbagliati dallo scintillio del bronzo e dalla lucentezza di una ceramica nera, con riflessi bluastri, 94 a r c h e o
giovane, assiduo frequentatore della sua residenza fiorentina durante il periodo di leva, non avesse mai accennato alla volontà di rivalsa nei suoi confronti. Del resto, lo stesso Capresi, forse consapevole della propria inadeguatezza e dell’impossibilità a sostenere una causa giudiziaria contro il suo datore di lavoro, aveva concluso nel 1897 un accordo per effetto del quale cedeva a Maccianti i diritti di scopritore. Anche le notizie su Guido Maccianti sono piuttosto scarse e condizionate dal giudizio negativo scaturito dall’affaire Calisna Sepu. Certaldese di nascita, svolse la sua attività a Firenze, occupandosi soprattutto di reperti trovati in Valdelsa. Di lui è nota la caparbietà che lo portò, dopo anni di tentativi, a intraprendere gli scavi sul Poggio del Boccaccio, proprio nel 1893, un’impresa che lo mise in contatto con Isidoro Falchi,
Luigi Adriano Milani e Bonaventura Chigi Zondadari, il quale, a Roma, sottopose parte dei materiali recuperati all’attenzione di Wolfgang Helbig e Luigi Pigorini. L’ultimo quarto del XIX secolo coincise con la presa di coscienza del passato etrusco della Valdelsa, grazie soprattutto a personalità come il marchese Chigi Zondadari; nel 1892 nacque la Società Storica della Valdelsa (di cui Guido Maccianti faceva parte) e, alla fine del secolo, l’antiquario Pacini, supportato da Oreste Mignoni, scavò insieme allo stesso Maccianti a San Gimignano, sul Poggio alla Città. Le lettere scritte prima dell’avvio della causa Terrosi, pur velate da un interesse di tipo scientifico, che, nei giorni immediatamente successivi al ritrovamento, lo portò a visitare la Calisna Sepu insieme a Terrosi e a Milani, già tradiscono una smisurata attenzione per il valore economico dei reperti.
accentuati dalle gocce di acqua sulla superficie liscia. Attorno un popolo di volti: uomini e donne scolpiti nella pietra, sguardi fissi su un passato lontano. I tre stettero in silenzio, guardandosi negli occhi. Solo in quell’istante, per loro infinito, compresero da dove nasceva quella fastidiosa distanza che li separava dal professor Milani: lui conosceva, lui sapeva, lui aveva già visto, ma, soprattutto, lui aveva già provato quell’emozione chissà quante volte! Passato lo stordimento iniziale, senza entrare nella camera e senza toccare nessun oggetto, quasi per timore di violare una reliquia o uno scrigno segreto, mandarono a chiamare il sottofattore Carlo Barneschi, il quale, a sua volta, inviò subito un biglietto in fattoria all’agente Ghezzi che, arrivato sul luogo e verificata l’entità del ritrovamento, spedí immediatamente una lettera al Conte che in quei giorni si trovava a Cetona.
EMOZIONI E RICORDI Mentre leggeva la lettera, al Conte tremavano le mani: ricordava ancora l’emozione dell’anno precedente quando, per la prima volta, era entrato in una tomba al Casone e, con aria trasognata, pensò all’armadio di legno con le mensole e le ante di vetro che aveva fatto costruire dal falegname della fattoria per riporvi i vasi della Tomba del Cane. Gli tornarono alla mente le lunghe passeggiate nella tenuta, scrutando ogni zolla, ogni radice con la speranza di trovare qualcosa. In verità, ogni anno, già prima della messa a coltura per il vigneto, aveva trovato qualcosa: qualche vaso, utensile, suppellettile di tomba, urna vuota o altra traccia di sepolcreto.
Poco dopo il giudizio d’appello del 1901, per tramite dell’archeologo Hermann Winnefeld, l’antiquario vendette a Reinhard Kekulé von Stradonitz, direttore dell’Antikenabteilungen di Berlino, un lotto di materiali etruschi dalla Valdelsa, composti in larga misura dai reperti della Calisna Sepu. Allo stesso museo aveva promesso anche l’urna d’alabastro bisoma con i nomi dei defunti incisi, ma Milani, sulla base del decreto Ricasoli del 1860, riuscí a bloccarne la vendita, assicurandola al Regio Museo Archeologico di Firenze. Anche in questa occasione Maccianti dette prova di tutta la sua spregiudicatezza e della sua ambiguità, affermando che, se obbligato, era pronto «a chinare il capo», cedendola «al Regio Museo piú volentieri che ad altri con amore di vero italiano». G. B.
Nella pagina accanto: olla cineraria di bronzo (a sinistra, III sec. a.C.) e stamnos su sostegno a vernice nera (fine del IV sec. a.C.), dalla Tomba dei Calisna Sepu. Colle di Val d’Elsa, Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli». A destra: fotografia di appliques fittili e una statuetta in alabastro, dalla Tomba dei Calisna Sepu. Firenze, Archivio del Museo Archeologico Nazionale.
Niente, però, che giustificasse le parole del conte Sallustio Ugurgeri Malevolti, procuratore del Bianchi Bandinelli, che aveva sottolineato il valore archeologico della tenuta. In quello stesso momento ripensò a tutte le critiche e alle battute patite per il prezzo pagato per l’acquisto della tenuta, eccessivo per tutti: 600 000 lire, mentre il Bianchi Bandinelli ne aveva chieste solo 400 000! Lo stesso Carlo Bianchi Bandinelli lo aveva accolto come un (segue a p. 98)
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AI CONFINI DELL’AMORE La notizia del ritrovamento della Tomba dei Calisna Sepu rimbalzò veloce per la Valdelsa, amplificata da un articolo uscito sulle pagine de La Nazione il 13 dicembre 1893: «La tomba è intatta e meravigliosa» strillò qualcuno; «è stato scoperto un tesoro inestimabile per trasportare il quale sono stati utilizzati oltre venti carri» favoleggiarono altri. La tomba era il sepolcro collettivo di una famiglia aristocratica che abitava (e controllava) un’area ai margini del territorio della città di Volterra: sulle colline del Chianti iniziava infatti l’agro fiesolano. Nei giorni successivi crebbe la fama della scoperta: l’attenzione fu rivolta in particolare a un’urna in alabastro lumeggiato in oro, con «i due coniugi aggrappati sul coperchio come recumbenti sul proprio letto. Sono i capi famiglia della tomba e i loro nomi sono iscritti in bei caratteri nel fronte dell’urna In alto: urna bisoma di Larth Calisna Sepu, figlio di Arnth, e della Cursni. Inizi del terzo quarto del III sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. A sinistra: cartina dello Stato etrusco di Volterra (da: I confini della diocesi ecclesiastica, del municipio romano e dello stato etrusco di Volterra, 1968). Nella pagina accanto, in senso orario: tabella epigrafica dell’urna bisoma di Larth Calisna Sepu; la Collezione Terrosi in una foto della fine del XIX sec.; un particolare dell’urna bisoma.
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foggiata a letto funebre». L’urna, da subito, costituí l’elemento di maggior prestigio (e ricchezza) del contesto, anche perché i due consorti furono identificati nei capostipiti. In realtà, oggi sappiamo che la theca è databile al terzo quarto del III secolo a.C., mentre le prime deposizioni sono della seconda metà del IV secolo a.C. La tegola inclinata, appoggiata sulle teste smussate ad arte, è frutto di un restauro antico, indotto dalla percolazione dell’acqua nella tomba. Nota fin dal V secolo a.C. in altre zone d’Etruria (Orvieto, tempio del Belvedere), la gens Calisna fa parte di quel ristretto nucleo di famiglie dell’aristocrazia rurale stanziate nel territorio, attenta a rapporti di alleanza con influenti nuclei gentilizi cittadini, spesso attuata attraverso mirate politiche matrimoniali: per limitarci alla Valdelsa, lo stesso
volterrane (come Thana Felmui), ma a nessuna è dato lo stesso risalto. È talmente forte il valore (anche ideologico) di questo legame che il loro figlio, nel titolo sepolcrale, rivendica con orgoglio la discendenza da entrambe le famiglie. La spiegazione va ricercata proprio nella gens di provenienza, quei Cursni che abitavano verosimilmente nella parte meridionale del territorio fiesolano e che, acquistata importanza e trasferitisi in città, parteciparono attivamente alla vita pubblica di Fiesole, attraverso figure di spicco come Arnth e Aule Cursni, che, in qualità di magistrati, posero i confini rispettivamente della città e dello stato fiesolano nel II secolo a.C. Basta un rapido confronto con la pianta dello stato volterrano etrusco elaborata da Fiumi oltre mezzo secolo fa per verificare come proprio l’area del Casone si trovasse sul confine tra le due città-territorio. Il gesto di amoroso affetto con il quale la coppia coniugale è immortalata sul coperchio dell’urna – senza dubbio uno dei piú dolci che la storia dell’arte etrusca ci abbia trasmesso – non deve quindi oscurare una realtà, forse meno «romantica», ma decisamente piú pragmatica, fatta di alleanze, interessi e rapporti politici realizzata attraverso legami matrimoniali. G. B.
fenomeno è attestato nel sepolcro della gens Achu a San Martino ai Colli, dove troviamo una Pumpnei, e, forse, a Bucciano, dove, in un cinerario fittile, era deposta una appartenente alla gens Visinei. Il prestigio della famiglia fu tale che Larth Calisna Sepu sposò una appartenente alla influente gens fiesolana dei Cursni. Ma chi era questa donna identificata con il solo gentilizio e perché le viene attribuita tanta importanza? Altre donne, come è naturale, trovarono sepoltura nella tomba, anche di importanti famiglie
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No! Ghezzi non poteva essersi sbagliato. Senza pensarci oltre, mandò la comunicazione a Firenze e dette disposizioni per partire per Monteriggioni. La mattina del 13 dicembre il freddo era pungente ma alla stazione di Castellina Scalo il Conte aspettava con impazienza il professor Milani. La tomba era intatta, sembrava che nessuno, prima di lui, avesse calpestato quel pavimento dal tempo degli Etruschi. Penetrato dal buco aperto nella volta, alla tenue luce della lampada a petrolio, vide vasi di terracotta, oggetti di bronzo, suppellettili di metallo, tutto ancora predisposto sulla banchina. La camera era piena di urne, alcune delle quali iscritte e con decorazioni in oro. Era ancora palpitante in lui l’immagine di un’urna con due defunti – si immagina marito e moglie – distesi su un letto come a banchetto. Sulle loro teste una tegola, forse per evitare che lo stillicidio deturpasse i volti. E il gesto: la mano dell’uomo che, con affettuoso amore, prende quella della donna che lo abbraccia. In quel momento gli occhi si gonfiano di commozione.
salvatore, non avrebbe mai sperato di riuscire a ricavare tanto da quei campi cosí trascurati. Tra le mani aveva la prova che aveva avuto ragione. Bisognava avvertire subito il professor Milani e organizzare la partenza il prima possibile. Era sicuro che, in sua assenza, nessuno avrebbe toccato niente, ma bisognava piantonare la zona. E se il Ghezzi avesse esagerato? Forse sarebbe stato piú giusto aspettare e valutare di persona la situazione. La sua mente, come in un sogno, ritornò indietro di vent’anni, a quel lontano 1873, quando nei suoi possedimenti chiusini in località La Pania, aveva trovato una tomba a camera costruita con lastre di travertino, segnalata esternamente da un tumulo di terra sopra il quale era infisso un cippo. Al centro della stanza un tramezzo a cui erano appese una patera, uno scudo e un elmo in bronzo, che non era riuscito a recuperare: a destra il letto funebre e sulla sinistra, ancora adagiata in terra, la situla di avorio intagliata che tanto aveva impressionato quel professore tedesco venuto da Roma, Wolfgang Helbig. 98 a r c h e o
Kelebe (vaso a imboccatura larga, simile al cratere, utilizzato come cinerario) a figure rosse attribuita al Pittore del Pigmeo Trombettiere, dalla Tomba dei Calisna Sepu (vaso eponimo). Ultimo quarto del IV sec. a.C. Colle di Val d’Elsa, Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli».
UNA PICCOLA FOLLA IN ATTESA Intanto nel campo di Malacena, tra i solchi delle viti e i cumuli di terra, un gruppo piuttosto nutrito di persone aspettava l’arrivo del Conte e del Milani: oltre a due carabinieri che da giorni, per ordine superiore, piantonavano l’opera scoperta, ci sono curiosi, eruditi locali come il proposto Agostino Neri della neonata Società Storica della Valdelsa, il conte Guidone Bargagli Stoffi, amico del Terrosi, chiamato da Siena perché scattasse fotografie del momento, e gli operai, perché, sotto la guida del Milani, procedessero alla rimozione dei materiali. Appena arrivati,Terrosi mandò a chiamare Capresi, affinché spiegasse come era avvenuto il ritrovamento. Mentre narrava la vicenda, il giovane si accorse che Milani, con aria preoccupata, indicava a Terrosi un uomo, disinteressato da tutte quelle chiacchiere, che, vicino al buco della tomba, scrutava l’interno. Dalle loro parole capí che si trattava di un certo Guido Maccianti, che, proprio in quel periodo, stava scavando sul Poggio del Boccaccio a Certaldo (vedi box alle pp. 94-95). Evidentemente distratti, ringraziarono il giovane per il racconto e si affrettarono a scendere nella tomba. Quando risalirono, l’espressione di Milani era trasfigurata: nonostante il suo aspetto austero, era agitato come un bambino. Parlava con tutti, raccontava quello che aveva visto. Scese piú volte, quasi incredulo tanto che, alla fine, il suo lungo mantello e il suo cappello erano completamente infangati. Ma non se ne accorse: parlava di monete, bellissime, di
A destra: 30 novembre 1932: Paolino Mingazzini in visita alla Tomba dei Calisna Sepu. In basso: kelebe a figure rosse attribuita al Pittore della Colonna Tuscanica dalla Tomba dei Calisna Sepu. Primo ventennio del III sec. a.C. Colle di Val d’Elsa, Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli».
vasi dipinti, di candelabri, di oreficerie e di un’urna con due coniugi che si chiamavano Capra Calinio, figlio di Larthia, e Sepus, figlio di Arunthia e Cursni, nomi per tutti incomprensibili, ma non per Milani. Lui conosceva, lui sapeva. Proprio in quel momento anche Capresi notò Maccianti: si avvicinò, quasi correndo, quando il professore iniziò a descrivere gli oggetti e tale fu la sua insistenza che, alla fine, riuscí a scendere nella tomba. Sotto la guida attenta di Milani i materiali furono rimossi in poco tempo e ordinati affinché potessero partire per Firenze, dove Terrosi aveva intenzione di allestire un piccolo museo. A tutti gli operai furono date 15 lire per l’ottimo lavoro svolto. Anche a Sabatino Capresi, lo scopritore della tomba. Era giovane, spensierato e contento per la paga doppia che aveva ricevuto. Ma l’idea che quel tesoro, un po’ anche suo, fosse lontano in una villa fiorentina gli dava fastidio. E tutte le volte che vedeva i contadini curvi nelle fosse delle viti, ripensava allo sguardo di quel signore venuto da Certaldo. Fine a r c h e o 99
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Dalla finzione narrativa, torniamo ora alla storia reale. In pochi giorni i materiali, caricati su venti carri, furono trasferiti a Firenze, nel villino di famiglia in via delle Ruote, dove, su indicazioni del Milani, fu allestito un piccolo museo dedicato alla Calisna Sepu e dove si iniziò a preparare la pubblicazione integrale del contesto. Purtroppo l’entusiastica rimozione del materiale non conservò le associazioni dei corredi, privilegiando piuttosto la raccolta per classi: questo ha irrimediabilmente compromesso la precisa definizione delle fasi di utilizzo, scaglionate tra la seconda metà avanzata del IV e l’inizio del I secolo a.C. Le 105 sepolture di incinerati furono accolte in urne lapidee (35), crateri cinerari a figure rosse (34), crateri fittili di produzione locale e anfore (18), vasi a vernice nera (5) e di bronzo (12). Anche gli oggetti di ornamento personale e le monete contenute nei cinerari furono confuse: dagli appunti manoscritti e dalle pagine di Bianchi Bandinelli ricaviamo soltanto che dentro l’urna bisoma era deposto il grande anello in oro con castone e che nell’urna femminile di Thana Felmui erano
A destra: particolare dell’urna bisoma di Larth Calisna Sepu. Inizi del terzo quarto del III sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. In basso: vasi a vernice nera dalla Tomba dei Calisna Sepu. IV-III sec. a.C. Colle di Val d’Elsa, Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli».
Caricato su venti carri, il corredo della tomba fu portato a Firenze e poi esposto in via delle Ruote
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conservati i due dupondi volterrani e gli orecchini in oro con pendente a pelta. Nel 1897 la storia subí una svolta improvvisa, quanto inattesa: Guido Maccianti, entrato in contatto con il giovane Capresi, lo convinse a «vendergli le sue ragioni», affinché gli fosse riconosciuta una parte del materiale in qualità di scopritore. La causa giudiziaria terminò alla fine del 1901, con la condanna di Terrosi a cedere metà degli oggetti che furono valutati e divisi equamente in due lotti. La parte spettante a Terrosi rimase a Firenze, per essere poi trasferita al Casone, dopo il 1910, con tutto il resto della collezione. I materiali toccati a Maccianti furono acquistati tra il 1901 e il 1902 dall’Antikenabteilungen di Berlino: solo l’urna bisoma, grazie all’interessamento di Luigi Adriano Milani, confluí nelle collezioni del Regio Museo Archeologico di Firenze, arricchendo il piccolo nucleo già donato da Terrosi al momento della scoperta. Lo smembramento impedí la pubblicazione del contesto integrale. Se escludiamo l’articolo di Ranuccio Bianchi Bandinelli del 1928, la tomba venne dimenticata, al punto che, poco tempo dopo la visita di Paolino Mingazzini (1932), il sepolcro fu ricoperto.
LA DISPERSIONE Negli anni del dopoguerra i reperti berlinesi (a esclusione di un cratere già a Tubinga) furono divisi tra Charlottenburg (Antikenabteilung) e il Pergamonmuseum (Antikensammlung) di Berlino Est, mentre i pezzi Terrosi, in parte anche rubati dal Casone, vennero nel tempo progressivamente alienati dagli eredi. L’importante specchio con Telefo (il piú prezioso, valutato 1000 lire nel 1901) entrò a far parte della Collezione di Elsa Bloch-Diener prima del 1981 (nel 2017 è stato battuto a un’asta di Christie’s per una cifra superiore ai 530 000 euro!); nel 1956 un consistente lotto della collezione (tra cui importanti pezzi della Calisna Sepu, come le urne e alcune kelebai) fu ceduto al Museo Etrusco «Mario Guarnacci» di Volterra, mentre nel 1972 il Comune di Colle di Val d’Elsa comprò l’ultimo nucleo rimasto, che andò a costituire il cuore del nuovo Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli». Oggi, dopo la riunificazione della Germania, Candelabro a vernice nera con Eracle in lotta con Tritone, dalla tutti i reperti tedeschi sono confluiti nell’Al- Tomba dei Calisna Sepu. Fine del IV sec. a.C. Firenze, Museo tes Museum di Berlino; alcuni, dati per di- Archeologico Nazionale. a r c h e o 101
SPECIALE • TOMBA DEI CALISNA SEPU
NEL NOME LA STORIA L’occasione di inquadrare lo straordinario corredo della Tomba dei Calisna Sepu ha consentito di approfondire un tema ricorrente nella topografia dell’Etruria settentrionale: la sopravvivenza di nomi di luogo (toponimi) di origine etrusca, accanto a nomi di corsi d’acqua (idronimi), di simile origine. Nella Toscana centro-meridionale (in particolare nelle Province di Siena e Arezzo) si osserva un fenomeno importante di sopravvivenza di nomi di origine antica, classificabile come un patrimonio immateriale, in quanto prodotto da secoli di frequentazione delle campagne da parte delle comunità residenti. Il rapporto con la storia è sempre diretto: i nomi piú diffusi sono d’età medievale e di natura agiografica, cioè collegati a luoghi di culto (per esempio le pievi), e piú moderni (di solito risalenti ai secoli XVI-XIX), derivati dalla presenza di specie vegetali, dalla pratica di colture agricole o di forme specifiche di allevamento; come i centri urbani a continuità di vita, anche le campagne sono un palinsesto stratificato, del quale l’archeologo, lo storico, il geografo e l’antropologo possono distinguere e circoscrivere le diverse fasi di occupazione. Per ricostruire un quadro storico, l’analisi della toponomastica non è di per sé sufficiente: gli indizi onomastici, infatti, vanno letti in parallelo con vari segni archeologici ancora visibili in superficie. Tra questi, uno degli elementi ricorrenti nel paesaggio italiano è la sopravvivenza del sistema di appoderamento romano (la cosiddetta centuriazione), allineato lungo assi ortogonali formati da reticoli di strade e canali, spesso ancora conservati e registrati nelle carte topografiche di dettaglio. In prossimità del reticolo centuriale sopravvivono tuttora toponimi di chiara origine latina indicanti valori numerali, talvolta riferiti agli assi viari o anche al reticolo centuriale, che
era numerato con precisione dagli agrimensori. Per la toponomastica etrusca la situazione è piú complicata: per la Toscana centro-meridionale, gli studi pionieristici condotti da Silvio Pieri nella prima metà del Novecento hanno raccolto toponimi con marcate analogie con l’onomastica etrusca desunta dalle testimonianze epigrafiche. Si veda, a titolo di esempio, la corrispondenza precisa tra il nome di famiglia (= nome gentilizio) perkena/perkna e l’attuale denominazione del borgo medievale di Percenna, nel comune di Buonconvento (Siena). La mostra di Monteriggioni ha suggerito un’analisi della toponomastica – valutata in parallelo con i dati archeologici, soprattutto da santuari e necropoli – mirata a definire i confini progressivi della città etrusca, fino a rintracciare quei toponimi che ancora oggi possono, in via ipotetica, segnalare le antiche frontiere dello stato territoriale in Etruria settentrionale. Tra questi, particolare attenzione va posta ai toponimi costruiti su una base *tul-/tol- e *ras-/rasi-: i primi derivati dal termine tular (corrispondente al latino finis = limite, presente di norma sui cippi confinari), mentre i secondi conservano il termine originale rasna (corrispondente al latino publicus = sotto l’autorità del popolo, presente di norma nella titolatura dei magistrati verosimilmente preposti al controllo delle frontiere dello Stato etrusco). Si prospettano cosí e si valutano in modo critico alcuni casi di studio, mirati a definire i confini progressivi e le frontiere di Vips/Vipsul (Fiesole), Curtun (Cortona) e Perusia (Perugia): in altre parole, si tenta di superare il primo e piú semplice confronto analogico tra nome di luogo = nome gentilizio etrusco, per orientare lo studio toponomastico verso l’analisi di fenomeni piú complessi, quali l’organizzazione delle aree suburbane e dell’agro controllato dalle città; al tempo stesso si cerca di associare in modo piú stretto la toponomastica ai metodi propri dell’archeologia. Andrea Zifferero Vaso gemino in impasto buccheroide con iscrizione di dono da parte di Pisna Perkena, dalla Tomba Pierini di Campiglia dei Foci. 600 a.C. Colle di Val d’Elsa, Museo Archeologico «Ranuccio Bianchi Bandinelli».
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PER SAPERNE DI PIÚ
In alto: la Tomba dei Calisna Sepu ricostruita per la mostra di Abbadia Isola. Nella pagina accanto, in alto: il territorio controllato da Fiesole: si notino la posizione del santuario liminale di Pieve a Sòcana e la persistenza del toponimo Ràssina (borgo e corso d’acqua) sulla riva sinistra dell’Arno: 1. insediamento o sito fortificato d’altura; 2. tomba a camera isolata o necropoli; 3. santuario; 4. iscrizione rupestre sul Poggio di Firenze.
spersi ma in realtà presi dai Russi nel 1945 come indennizzo di guerra, sono riapparsi nei depositi del Museo Pushkin di Mosca, tra cui un’olla in bronzo con coperchio su base parallelepipeda in pietra, ridotta in frammenti.
NUOVE LETTURE Il fascino e il valore evocativo della scoperta continuano ancora oggi: lo attestano le numerose mostre e gli studi dedicati alla Calisna Sepu. L’esposizione di Monteriggioni nasce come momento conclusivo di un percorso di studio teso a ricostruire tutte le vicende che portarono agli scavi nella necropoli del Casone e, in particolare, al ritrovamento della Tomba dei Calisna Sepu. Grazie alla collaborazione di molti Istituti italiani e stranieri è stato possibile rintracciare oggetti dati per dispersi e proporre nuove letture di monumenti anche molto noti, come i due candelabri a vernice nera, messi per la prima volta a confronto. Il progetto di valorizzazione proposto dal Comune di Monteriggioni, in stretta collaborazione con la SABAP Siena, Grosseto e Arezzo ha individuato la Tomba dei Calisna Sepu attraverso indagini non invasive con l’intenzione, nei prossimi anni, di riportare alla luce il sepolcro, nell’ambito delle esplorazioni che riprenderanno nell’area del Casone già nel corso del 2019. L’ambizioso obiettivo della ricerca è la ricostruzione del paesaggio storico attorno ad Abbadia Isola, dalle fasi preistoriche fino alle testimonianze di età moderna.
Valeria Acconcia, Paesaggi etruschi in terra di Siena. L’agro tra Volterra e Chiusi dall’età del Ferro all’età romana, Archaeopress, Oxford 2012 Giacomo Baldini, Pierluigi Giroldini, Enrico Maria Giuffrè, Matteo Milletti, Andrea Zifferero (a cura di), Monteriggioni prima del Castello. Una comunità etrusca in Valdelsa (catalogo della mostra, Monteriggioni 2018-2019), Pacini Editore, Ospedaletto 2019 Ranuccio Bianchi Bandinelli, La tomba dei Calini Sepus presso Monteriggioni, in Studi Etruschi II, 1928; pp. 133-176 Ranuccio Bianchi Bandinelli, Materiali archeologici della Valdelsa e dei dintorni di Siena, Stabilimento Arti Grafiche San Bernardino, Siena 1931 (estratto da La Balzana II, 1928) Marina Cristofani Martelli, Monteriggioni. Tomba XXXI. Tomba dei Calisna Sepu, in Mauro Cristofani, Marina Cristofani Martelli, Enrico Fiumi, Adriano Maggiani, Anna Talocchini (a cura di), Corpus delle urne etrusche di età ellenistica. I complessi tombali, Centro Di, Firenze 1975; pp. 159-189 Giuliano de Marinis, Topografia storica della Valdelsa in periodo etrusco, Società Storica della Valdelsa, Castelfiorentino 1977 Arrigo D. Manfredini, Antichità archeologiche e tesori nella storia del diritto, G. Giappichelli Editore, Torino 2018 Susanna Sarti, Luigi Adriano Milani, in Dizionario biografico dei Soprintendenti Archeologi (1904-1974), Bononia University Press, Bologna 2012; pp. 484-494
DOVE E QUANDO «Monteriggioni prima del Castello. Una comunità etrusca in Valdelsa» Monteriggioni, Complesso monumentale di Abbadia Isola, Sala Sigerico fino al 23 aprile Orario tutti i giorni, escluso il martedí, 10,00-13,30 e14,00-16,00; possibili variazioni di orario sono consultabili sul sito www.monteriggioniturismo.it Info tel. 0577 304834; e-mail: info@monteriggioniturismo.it Catalogo Pacini editore a r c h e o 103
QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli
…RICORDAVA IL «GIORNO DELL’ALLIA» AGLI INIZI DEL IV SECOLO A.C., POCO FUORI L’URBE E NON LONTANO DALLA VIA SALARIA, I ROMANI FURONO PESANTEMENTE SCONFITTI DAI GALLI DI BRENNO. UN ROVESCIO DIFFICILE DA DIMENTICARE, TANTO DA FAR RICORDARE LA DATA DELL’EVENTO PER SEMPRE COME NEFASTA
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li antichi annoveravano il 18 luglio (il «giorno XV prima delle kalendae del mese di sextilis», cioè di agosto) tra le date «nefaste» (in occasione delle quali ci si doveva astenere da qualsiasi attività, pubblica e privata) e la definivano con l’espressione dies alliensis, «il giorno dell’Allia». Il riferimento era alla sconfitta subita dall’esercito romano presso un modesto affluente del Tevere, dalle parti della via Salaria, che
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lasciò Roma in balia di un’orda di Galli venuta dalle... Marche. La data, peraltro, era considerata doppiamente nefasta (o, come scrive Tito Livio, VI 1,11, «duplici clade insignem», «famosa per una doppia sciagura»), giacché in quello stesso giorno, l’anno 477 a.C., si era consumata la «strage dei Fabi», che aveva visto morire i trecento membri di quella nobile famiglia con i loro clientes, sterminati in quella sorta di guerra privata da
essi combattuta contro gli Etruschi di Veio, per questioni di territorio. Quanto alla sconfitta dell’Allia – della quale riferiscono, insieme a Livio, anche Diodoro Siculo e Plutarco – gli storici non ci danno elementi sufficienti per determinarne, oltre il mese e il giorno, l’anno esatto, che quindi oscilla nell’arco di circa un decennio. Anche se gli studiosi sono per la maggior parte propensi a indicare il 390 (o il 387) a.C.
A destra: La morte del console Papirio, replica di un dipinto di Philipp Friedrich von Hetsch. 1795. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum. Nella pagina accanto: la battaglia dell’Allia in un’incisione ottocentesca.
La localizzazione della battaglia, invece, è pressoché certa, legata com’è al piccolo corso d’acqua che le dette il nome e che viene ormai quasi concordemente riconosciuto nel Fosso della Bettina (o, della Regina), il quale, poco prima del km 20 della via Salaria, scende dalle colline della Marcigliana (i Crustumini montes, dove si trovava la «città» di Crustumerium) per andarsi a gettare nel Tevere dopo aver attraversato il breve tratto di pianura col nome di Fosso Maestro (o della Marcigliana). Plutarco, in particolare (Cam. 18, 4-7), scrive che la battaglia avvenne proprio «dove l’Allia entra nel Tevere». A quel che pare, i Romani avrebbero tentato di sbarrare il passaggio dei Galli appoggiandosi alle colline e affrontando il nemico nella «strettoia» tra queste e il Tevere. Ma non si trattò delle... «Termopili».
agito con grande leggerezza («senza aver preso gli auspici e senza aver fatto i dovuti sacrifici propiziatori») e, soprattutto, di avere trascurato gli avvertimenti degli dèi (come quello espresso dalla voce misteriosa udita qualche giorno prima della catastrofe, sul Palatino) – scrive (V, 38) che essi si dettero alla fuga «non solo senza aver tentato il combattimento, ma nemmeno levato il grido di guerra». E fu il massacro, soprattutto nell’ala sinistra, dove molti, «inesperti del nuoto o privi di forze, appesantiti dalle corazze e dagli altri armamenti», finirono nei gorghi del
LE COLPE DEI CAPI Di gran lunga inferiori per numero e con un esercito raccolto in fretta, con uomini perlopiú alle prime armi, i Romani furono rapidamente travolti. Livio – che se la prende anche con i capi, colpevoli di non aver unificato il comando, di aver V i Vu Vulc
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Tevere, mentre molti altri ripararono, sani e salvi, nella città di Veio, da pochi anni conquistata, dove si fermarono senza mandare a Roma «neppure la notizia della disfatta». Quelli dell’ala destra, invece, rimasti lontano dalla riva del fiume, dapprima s’arrampicarono sulle colline o si dispersero per i campi, poi riuscirono a riprendere la via per Roma. Quando vi giunsero, «senza aver nemmeno chiuse le porte della città», si rifugiarono sull’Arce capitolina, dove, «trasferite armi e granaglie», si ritirarono anche i giovani atti alle armi e i piú validi dei senatori, con le mogli e i figli. Molti altri, infine, trovarono rifugio in un bosco dei paraggi, «grande e tenebroso», dove in seguito, il 19 luglio d’ogni anno, si celebravano i riti dei Lucaria, in ricordo della salvezza che quel bosco (lucus) aveva assicurato agli scampati, ma soprattutto per allontanare il pericolo del ripetersi di disastri come quello. In quell’occasione, infatti, i Galli, «sorpresi per quella repentina vittoria», si trovarono la via libera verso Roma, che, secondo Livio (V, 39-41), raggiunsero la sera stessa della battaglia (ma accampandosi fuori le mura), secondo gli altri storici, tre giorni dopo. La città era stata precipitosamente abbandonata e gli invasori l’occuparono, senza
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Brenno e la sua parte di bottino, olio su tela di Paul Joseph Jamin. 1893. La Rochelle, Musée des Beaux-Arts. incontrare alcuna resistenza, entrando dalla Porta Collina, sul Quirinale, «che trovarono aperta». Quindi si dettero al saccheggio «correndo qua e là a far bottino, per le vie completamente deserte». Livio attribuisce alle distruzioni dell’«incendio gallico» la perdita dei documenti sulla piú antica storia di Roma e, quindi, le lacune, le incertezze, le confusioni, le invenzioni degli storici.
FERRO, NON ORO Ma non è che i racconti – suoi e degli altri – a proposito di quell’episodio, siano chiari, univoci e privi di contraddizioni e di leggende. Con queste, anzi, la tradizione cercò di mascherare i fatti piú disdicevoli e imbarazzanti, al fine di... indorare la pillola, e magari stravolgendoli fino a farli diventare edificanti ed esemplari. Cosí, è arduo districarsi tra quei racconti che vanno dalla fuga delle famiglie plebee verso le alture gianicolensi alla strenua difesa della rocca capitolina (salvata da un attacco notturno dei Galli dallo starnazzare delle oche chiuse nel recinto sacro a Giunone), dal rifugio offerto alle Vestali e ai sacra del Popolo Romano dalla città etrusca amica di Cere (ma un’altra versione vuole che i tesori sacri fossero stati nascosti in grandi vasi sepolti nel Tempio di Quirino), all’orgoglioso rimanere di magistrati e senatori nelle rispettive sedi, incuranti delle offese dei barbari (come il vecchio Marco Papirio che nel suo scanno del Senato rispose con un colpo di bastone al barbaro che aveva osato tirargli la barba). Fino al riscatto di mille libre d’oro preteso dal capo dei Galli, Brenno, il quale, alle proteste dei Romani per i pesi truccati, dopo aver gettato la sua spada sulla bilancia, rispose con la
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celebre frase «guai ai vinti». E fino all’improvviso sopraggiungere di Camillo, alla testa delle sue truppe, al grido dell’altrettanto celebre frase «col ferro, non con l’oro, si riscatta Roma». In realtà, s’era trattato di un sia pur momentaneo «cedimento» di Roma, forse coinvolta in vicende di ben piú ampi orizzonti, quali quelle legate alla politica espansionistica del signore di Siracusa, Dionigi, ai danni degli Etruschi e, in particolare, di Cere, contro la quale (e contro la sua alleata Roma) egli avrebbe stipulato un’intesa proprio con i Galli, che, all’inizio, di loro iniziativa avevano puntato, per esserne respinti, all’altra potente città etrusca di Chiusi. Ma questa è una storia che ci porterebbe troppo lontano. Si può concludere ricordando che i Romani si legarono al dito la sconfitta dell’Allia e il «sacco» della
città. A prescindere dal timore che l’episodio potesse ripetersi: il famoso metus gallicus («la paura dei Galli»), rimasto lungamente vivo, alimentato come fu, fino oltre la metà del III secolo a.C., dal rinnovarsi delle minacce, sempre peraltro vittoriosamente sventate. E ogni volta che si trovarono a dover affrontare i Galli, quel ricordo fece loro da sprone. Alla fine, come si sa, si vendicarono alla grande. Non solo, infatti, sottomisero i territori italici dai quali provenivano le incursioni e, piú in generale, tutte le regioni dell’Italia centro-settentrionale nelle quali i Galli invasori s’erano insediati. Ma conquistarono buona parte dell’intero mondo celtico, dalla penisola iberica a quella anatolica, dall’Inghilterra alla Slovenia, rimanendovi per secoli e trasferendovi per sempre costumi, lingua e monumenti.
SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti
GIOCANDO S’IMPARA LO SCAVO DEL SITO DI ORGÈRES, IN VALLE D’AOSTA, OFFRE INDICAZIONI PREZIOSE SULLA NATURA DI SIMILI INSEDIAMENTI DI MONTAGNA. E, SOPRATTUTTO, OFFRE UNA DIMOSTRAZIONE ESEMPLARE DI QUANTO AMPIE E IMPORTANTI SIANO LE POTENZIALITÀ DELL’ARCHEOLOGIA PUBBLICA
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oglio raccontarvi una bella storia: di archeologia medievale, certo, ma anche di archeologia pubblica, condivisa e appassionata. Una storia che ho potuto ascoltare durante un seminario svoltosi all’Università di Torino. Tutto comincia in Valle d’Aosta, nel sito di Orgères, vicino a La Thuile. Qui, nel 2013, Chiara Maria Lebole e Giorgio di Gangi, due docenti dell’Università di Torino, hanno deciso di aprire uno scavo collaborando con la Soprintendenza della Valle d’Aosta e il Comune di La Thuile, che sostiene concretamente il progetto. A Orgères si pratica quella che i Tedeschi hanno battezzato
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«Montanarchäologie», archeologia di montagna. Siamo infatti a 1665 m di altezza, e in una posizione favorevole per un insediamento d’altura. Proprio per questo gli scavi hanno rivelato che il sito è stato occupato a piú riprese, spesso smontando gli edifici precedenti per riutilizzarne i materiali da costruzione. La frequentazione ha inizio in età romana (I-III secolo d.C.) e poi prosegue nell’Alto Medioevo (VIII-X secolo).
LA STALLA E LA FORGIA Queste prime fasi sono testimoniate soprattutto da frammenti di ceramica e da alcune tracce della presenza umana, tra cui
un edificio in legno con zoccolo in pietre. Poi, nel XIV secolo, a Orgères viene costruita una stalla, che gli archeologi hanno ritrovato in ottime condizioni. È probabile che in quest’epoca nel sito si producano latte e formaggi, e successivamente (XVI secolo) al quadro si aggiunge una forgia. Tra le novità dell’ultima campagna di scavo, vi è la scoperta di un edificio rettangolare con mura piuttosto spesse: si tratta forse di una casa forte del pieno Medioevo, cioè un’abitazione privata attrezzata per la difesa. Nel XVII-XVIII secolo sui muri di questo edificio si impostò poi una struttura difensiva e la presenza militare si spiega con
il fatto che la località ha un valore strategico: sorveglia infatti un percorso, quello del Vallon des Chavannes, alternativo alla strada che dalla zona di La Thuile porta al passo del Piccolo San Bernardo. In estrema sintesi, questa è la storia del sito di Orgères, che non è particolarmente fuori dal comune: si tratta di un piccolo insediamento di montagna che doveva avere un peso nell’economia della vallata circostante, unito a una certa importanza dal punto di vista strategico e militare. Al di là della «normalità» del contesto, lo scavo è molto interessante, perché fa luce sui diversi modi di vivere della zona alpina e sulla tendenza ad abitare gli stessi luoghi favorevoli nel corso del tempo, interpretandoli di volta in volta in maniera differente. E l’équipe di Torino – di cui gli studenti sono i veri protagonisti – fa tutto questo con grande scrupolo, utilizzando le tecniche di indagine piú avanzate: analisi archeozoologiche, archeobotaniche, geofisica e altro ancora; per far parlare al meglio tutto il sito, e anche il piú piccolo dei reperti. Soprattutto, del progetto Orgères colpisce l’idea che lo anima. L’idea di un’archeologia fatta prima di tutto con e per la comunità che vive in quei luoghi, e che riconosce in quel sito un capitolo del suo passato. E quindi, innanzitutto, gli archeologi hanno trovato i fondi
In alto: Orgères (Valle d’Aosta). L’area dell’insediamento nella quale sono stati localizzati i resti di un edificio di epoca altomedievale. Nella pagina accanto: una veduta del sito; sullo sfondo, il Col des Chavannes. tramite un’operazione di ricerca di sponsor e di crowdfunding, coinvolgendo molti soggetti locali (tra cui anche la Centrale Laitière de la Vallée d’Aoste, interessata perché presso il sito si produceva proprio il latte).
LA DIVULGAZIONE Poi lo scavo è aperto al pubblico: adulti e bambini sono invitati a visitarlo e a fare tante domande agli archeologi; è stata anche proposta una giornata di archeologia sperimentale, nel corso della quale sono state coniate monete con la tecnica in uso nel Medioevo e sono state fatte rievocazioni storiche, la «caccia al coccio», cioè una caccia ArcheOrgères, il gioco da tavolo sullo scavo del sito valdostano ispirato al Monòpoli.
al tesoro con indizi archeologici e laboratori dedicati; è stata allestita una mostra, nella quale sono confluiti i risultati delle indagini. E, per ultimo, è stato creato un gioco da tavolo! Si chiama ArcheOrgères, ed è una sorta di Monòpoli, con tanto di carte (degli strumenti, degli imprevisti e dei reperti); si procede risolvendo problemi (come sullo scavo), e non vince chi arriva per primo, ma chi guadagna piú punti avendo usato gli strumenti giusti e le procedure corrette. E, giocando, si imparano i metodi dell’archeologia. Il progetto si autofinanzia anche con la vendita di questo gioco, bello e intelligente. Il progetto Orgères, insomma, è un ottimo esempio di archeologia pubblica: restituire la storia alle comunità che vivono nei luoghi dove noi la portiamo alla luce si deve e si può fare in molti modi diversi. Cercando di essere chiari e coinvolgenti, con passione, e stimolando il pubblico a partecipare. E poche volte ho incontrato l’entusiasmo e la passione che ho visto negli studenti dell’Università di Torino impegnati nel progetto. Bravi, davvero.
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
AI CONFINI DEL MONDO PER GLI ANTICHI LA TERRA FINIVA LÀ DOVE ERCOLE SEPARÒ I MONTI ABILA E CALIPE: UN LUOGO FANTASTICO, OGGI IDENTIFICATO CON LO STRETTO DI GIBILTERRA. E IL TERRITORIO D’OLTREMARE DEL REGNO UNITO TIENE VIVA LA MEMORIA DI QUELL’EPISODIO LEGGENDARIO CON UN’EMISSIONE MONETALE SIMILE A QUELLE BATTUTE IN ANTICO
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racle, le Esperidi e lo sfortunato Atlante sono personaggi del mito classico che hanno trovato grandissima fortuna non solo nell’antichità, ma anche nell’immaginario moderno, fino a trasformarsi in vere e proprie icone pop. Il fenomeno ha coinvolto soprattutto Ercole, prode spaccamontagne di tanti peplum degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, nonché personaggio adattato ai racconti destinati ai bambini, come nel romanzo di
Nathaniel Hawthorne A Wonder Book for Girls and Boys del 1852, dedicato al Giardino delle Esperidi, e nei piú recenti cartoni animati della Disney: in questo contesto contemporaneo, l’eroe viene in un certo senso moralizzato, divenendo l’esempio di un percorso iniziatico ricco di prove difficili che portano alla Virtú e alla Salvezza. Come abbiamo già ricordato (vedi «Archeo» n. 409, marzo 2019; anche on line su issuu.com), Ercole ricorre nella monetazione antica e in particolare in quella romanoimperiale, sia da solo, sia nella raffigurazione delle sue Dodici Fatiche. Il mito delle Esperidi, tra gli altri, si confronta dal punto di vista iconografico con esempi desunti dalle arti maggiori, come pittura, mosaici e decorazioni vascolari d’età greco-romana, secondo vari modelli rappresentativi. Su un vaso attico a figure nere del VI secolo In alto: particolare di una lekythos a figure nere del Pittore di Edimburgo: Hermes osserva Eracle che raccoglie i pomi d’oro dell’albero delle Esperidi, da cui pende il serpente Ladone, ponendoli in una cesta. 500-475 a.C. Gela, Museo Archeologico. A sinistra: particolare della metopa del tempio di Zeus a Olimpia raffigurante Ercole con i pomi delle Esperidi. 460 a.C. circa. Olimpia, Museo Archeologico.
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A sinistra: dracma di Antonino Pio della serie delle Fatiche di Ercole. Zecca di Alessandria, Egitto, 141-142 d.C. Al dritto, l’imperatore; al rovescio, l’eroe che coglie i pomi dall’albero, attorno al quale è attorcigliato Ladone. In basso: moneta commemorativa da 2 pounds. Gibilterra, 2000. Al dritto, il profilo della regina Elisabetta II; al rovescio Atlante, Eracle e un’Esperide. a.C., per esempio, Eracle, simile a un contadino, posata la clava si china e raccoglie i pomi d’oro caduti a terra mettendoli in una cesta, mentre tra i rami si riconosce il serpente Ladone; a sinistra Hermes osserva la scena. Una dracma in bronzo battuta ad Alessandria in Egitto sotto Antonino Pio nel 141-142 d.C. mostra invece Ercole intento a cogliere i pomi d’oro dall’albero al quale, vivido, è attorcigliato Ladone. Le vicende dell’eroe si legano a un altro celebre luogo della geografia del mito, situato ai confini del mondo: si tratta delle Colonne dette appunto d’Ercole, apposte nel corso della decima fatica, la cattura dei buoi rossi di Gerione che pascolavano remoti, in una terra tra l’Europa e l’Africa. Egli separò con la sua forza sovrumana i due monti Abila e Calipe, e vi piantò due colonne, a indicare l’ultimo luogo della terra oltre il quale non bisognava andare: l’iscrizione «Non plus ultra» sanciva il divieto posto all’uomo di procedere piú oltre.
IL VIAGGIO DI DANTE Di regola questo fantastico luogo viene collocato presso l’attuale Stretto di Gibilterra, che separa appunto l’estrema propaggine dell’Europa dall’Africa, e oltre il quale si apre, immenso, l’Oceano Altantico. Confini geografici che corrispondono a quelli che l’uomo deve porsi per non superare, con la tracotanza, i limiti dati alla natura umana dagli enti supremi. Celeberrimo è il dantesco viaggio di
un Ulisse ormai anziano ma sempre ansioso di conoscenza, che abbandona i sospirati e da poco raggiunti lidi familiari per rigettarsi in mare con un manipolo di amici fidati, con l’ansia di superare i limiti geografici e divini rappresentati dalle Colonne d’Ercole, dove si apre il mare incognito e un mondo tutto da scoprire: «“O frati,” dissi, “che per cento milia / perigli siete giunti a l’occidente / a questa tanto picciola vigilia / d’i nostri sensi ch’è del rimanente / non vogliate negar l’esperïenza, / di retro al sol, del mondo sanza gente. / Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”» (Inferno,
XXVII, vv. 112-120). Con queste celebri terzine Dante tratteggia lo spirito d’Ulisse e riprende il mito delle Colonne d’Ercole, donandogli fama imperitura anche nel mondo medievale e moderno.
LE COLONNE DELLA REGINA In tempi recenti Gibilterra, la colonia inglese d’oltremare che si fregia della rinomanza del mito erculeo e che ha fatto delle Colonne d’Ercole un vanto e un’attrattiva turistica, ha emesso tra il 1998 e il 2000 una serie monetale commemorativa dedicata alle Dodici Fatiche. Il dritto delle monete, del valore di 2 pounds e simile nell’aspetto ai 2 euro europei, raffigura il profilo maturo di Elisabetta II, mentre sul rovescio compaiono le varie fatiche affrontate da Ercole. In quella dedicata al furto dei pomi d’oro nel Giardino delle Esperidi, menzionato nel campo, Ercole regge la volta celeste sulle spalle, affiancato da una fanciulla, un’Esperide che tocca il globo e la mano dell’eroe, mentre davanti a lui Atlante pone su tavolino un cesto ricolmo dei frutti che le Esperidi, considerate anche in talune versioni sue figlie, gli hanno permesso di cogliere senza aver sentore dell’inganno erculeo. Cosí, il mito di Ercole valica lo spazio e il tempo, ricorrendo, con iconografie che non si sono mai perdute nell’immaginario moderno, su monete distanti tra loro piú di duemila anni e che mantengono un fascino imperituro e ancor oggi riconosciuto.
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Giorgio Jossa
VOI CHI DITE CHE IO SIA? Storia di un profeta ebreo di nome Gesú
Paideia Editrice, Torino, 363 pp. 27,00 euro ISBN 978-88-394-0923-2 www.claudiana.it
Già professore di storia della Chiesa antica all’Università Federico II di Napoli, Giorgio Jossa è uno dei maggiori studiosi contemporanei della figura storica di Gesú, della storia delle origini del Cristianesimo e della temperie politico-culturale della Terra Santa nei primi decenni dell’età volgare. Ai lettori di «Archeo», Jossa è noto per i due ampi interventi apparsi nei numeri di aprile 2009 (290) e aprile 2011 (314). La ricostruzione storica del personaggio di Gesú ha informato ampia parte della sua piú recente bibliografia: tra le sue opere piú recenti, a questo proposito, sono da segnalare La verità dei Vangeli, Gesú di Nazaret tra storia e fede (2001), Gesú Messia (2006), Il cristianesimo ha tradito Gesú? (2008), Gesú, storia di un uomo (2010), tutti editi per i tipi della Carocci (Roma). All’argomento specifico del processo a Gesú, Jossa ha dedicato i volumi La condanna del Messia (Paideia, Brescia 2010), Chi ha voluto la morte di Gesú? Il maestro di Galilea e i 112 a r c h e o
suoi avversari (Edizioni San Paolo, Cininsello Balsamo 2011) e Tu sei il re dei Giudei? (Carocci, Roma 2014). Ultima fatica, in ordine di tempo, è oggi il volume il cui titolo – piú che suggestivo – trascrive una domanda rivolta da Gesú a Simon Pietro e riportata nei Vangeli di Matteo, Marco e Luca: «Voi chi dite che io sia?».
Le oltre 350 pagine del volume rappresentano la ripresa e un’ampia sintesi delle precedenti ricerche dell’autore – sottoposte alla lente di nuove istanze critiche –, partendo sempre dal quesito iniziale e nient’affatto scontato: è veramente impossibile – come sostengono taluni – scrivere una storia di Gesú? L’autore ripercorre l’intera storia della ricerca sul «Gesú storico» (Jossa parte dalla cosiddetta «nuova ricerca» – condotta per lo piú da teologi e
indirizzata, soprattutto, a definire l’originalità della figura di Gesú, a discapito del contesto storico in cui si svolgeva la sua azione e predicazione –, per arrivare alla cosiddetta «terza ricerca», veicolata da interessi prettamente storiografici e stimolata dalle recenti scoperte archeologiche) e procede alla disamina delle tappe fondamentali della vicenda di Gesú, giungendo a un’immagine nuova – e per molti versi – inedita della sua figura. Nell’introduzione, Jossa riconosce al biblista Giuseppe Barbaglio (1934-2007), autore di un ricco e ponderoso volume intitolato Gesú ebreo di Galilea. Indagine storica (EDB, Bologna 2002), il merito di aver tentato una presentazione tra le piú complete ed equilibrate della ricerca attuale, operando una «radicale storicizzazione della figura di Gesú, mediante il suo deciso inserimento nel contesto storico del tempo»; Barbaglio però – avverte Jossa – restituisce un’immagine di Gesú che si ferma alla «presentazione letteraria dei singoli aspetti della sua personalità (guaritore, evangelista, narratore, carismatico, saggio)» senza procedere al tentativo di delineare il «concreto sviluppo storico della vicenda di Gesú». Quest’ultima esigenza distingue, invece, l’andamento
del nuovo volume di Jossa, i cui capitoli scandiscono un filo narrativo che esordisce con l’adesione di Gesú al movimento penitenziale di Giovanni, per passare alla sua «nuova» figura di annunciatore del regno di Dio nella Galilea abitata da pescatori e contadini, e giungere, infine, al Gesú gerosolimitano, annunciatore del regno di Dio. Ripercorrendo le tappe di questi passaggi, l’indagine di Jossa giunge a una nuova e inedita immagine della sua figura: «Mi sono sempre piú convinto – scrive l’autore – che Gesú in Galilea ha predicato l’avvento di un regno terreno e che questo avvento ha ritenuto realmente imminente. Solo verso la fine del suo ministero, e in particolare a Gerusalemme, dinnanzi al fallimento definitivo della sua missione e dovendo fare i conti con la prospettiva sempre piú sicura di una morte violenta, ha parlato di un regno di Dio trascendente (…): l’idea di regno di Dio che la tradizione avrebbe fatto propria. (…) Mi e parso infatti sempre piú evidente che tra il tema del regno di Dio e quello del Figlio dell’uomo …ci sia non un contrasto ma una tensione; e che i due temi caratterizzino due fasi diverse della missione di Gesú, l’una nel segno della speranza, l’altra in quello del fallimento». Andreas M. Steiner
Daniele Castrizio, Massimo Frasca, Claudia Lambrugo, Maria Costanza Lentini, Carmelo Malacrino, Carlo Ruta, Fabrizio Sudano
VIAGGI IN MAGNA GRECIA E DINTORNI IN ETÀ ANTICA Edizioni di storia e studi sociali, Ragusa, 160 pp. 14,00 euro ISBN 978-88 www.edizionidistoria.com
Agile nella forma quanto rigorosa negli apparati, questa raccolta di cinque saggi esamina il tema del viaggio nel Mediterraneo antico sotto diverse prospettive e ne mette in luce le innumerevoli sfaccettature, aprendo lo spunto per ulteriori filoni di ricerca. Il primo contributo parte dal riferimento geografico del bacino mediterraneo per esaminare fonti letterarie e figurative ed elaborare il tema della navigazione e delle sue influenze sugli scambi culturali tra i popoli. Si passa quindi ad approfondire la migrazione degli esuli focei dalla Ionia alle coste campane, dove la
fondazione di una colonia, Elea, avrà un ruolo fondamentale nella storia del pensiero filosofico. Il terzo contributo affronta il tema del trasferimento di cultura da Atene all’occidente, prendendo in esame la fondazione di Thurii, affascinanti ipotesi in tema di monetazione antica, e un ideale «Grand Tour ante litteram» (cit.) della Magna Grecia, tra mitiche reliquie disseminate sulle coste mediterranee. La raccolta prosegue con l’esame di un’altro specifico viaggio, quello compiuto dai Siculi dall’attuale Calabria alla Sicilia nord-orientale, tre secoli prima dell’arrivo dei Greci. Dalle fonti letterarie classiche alle fonti archeologiche, il discorso si estende all’ampio movimento migratorio che insiste nell’area dall’età dal Bronzo Recente fino all’età del Ferro. Il saggio conclusivo, infine, prova a tracciare l’itinerario verso ovest intrapreso – nella Calabria del VII secolo a.C. – dagli abitanti di Locri Epizefiri, che portò alla fondazione delle colonie di Medma (odierna Rosarno) e Hipponion (odierna Vibo Valentia). Paolo Leonini Mauro Fiorentini
I GUERRIERI PICENI Tattiche, equipaggiamento e tecnologie Edizioni Chillemi, Roma, 48 pp., ill. col. e b/n 12,00 euro ISBN 978-88-99374-25-9 www.edizionichillemi.com 114 a r c h e o
Prendendo le mosse dal tema scelto per la sua tesi di laurea – l’uso del ferro nella produzione delle armi –, Mauro Fiorentini propone una panoramica sulla cultura picena e, in particolare, quindi sul modo in cui l’antico popolo delle Marche concepiva l’arte della guerra. Un obiettivo, come l’autore stesso riconosce nelle righe iniziali di questo volumetto, non facile e forse ambizioso, alla luce di una documentazione a oggi non particolarmente ricca. Per supplire alla scarsità delle fonti, Fiorentini associa alle congetture sui materiali analizzati gli esiti delle sperimentazioni effettuate
con l’associazione «Arte Picena» (da lui fondata nel 2012) e delle quali dà ampio conto, anche fotograficamente. Ne scaturisce un profilo sintetico, ma puntuale, dei Piceni, che in piú di un’immagine vengono qui fatti «rivivere». Stefano Mammini
DALL’ESTERO Kristian Kristiansen, Thomas Lindkvist e Janken Myrdal (a cura di)
TRADE AND CIVILISATION Economic Network and Culture Ties, from Prehistory to the Early Modern Era Cambridge University Press, Cambridge, 554 pp., ill. col. e b/n 110 GBP ISBN 978-1-108-42541-4 www.cambridge.org
La conoscenza del passato è uno strumento prezioso per immaginare il nostro futuro e ne abbiamo l’ennesima riprova da questa ponderosa raccolta, che esamina le dinamiche del commercio nel corso di oltre quattro millenni: dal 3000 a.C. fino al 1600. I contributi riuniti nel volume, infatti, esaminano contesti cronologicamente lontani, ma nelle cui vicende è facile cogliere significative affinità con la realtà contemporanea. S. M.