ORIGINI DI ROMA MONTE PELLEGRINO CLAUDIO
CANOVA L’ULTIMO DEGLI ANTICHI
SPECIALE CANOVA A NAPOLI
Mens. Anno XXXV n. 411 maggio 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
POPOLI DELLA BIBBIA/5 AMORREI
UNA GRANDE MOSTRA AL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI NAPOLI
SICILIA
ROMA
I SEGRETI DEL MONTE PELLEGRINO
L’IMPERATORE CLAUDIO ALL’ARA PACIS
POPOLI DELLA BIBBIA
AMORREI
ALLE ORIGINI DEL LEVANTE
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IN EDICOLA IL 9 MAGGIO 2019
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ARCHEO 411 MAGGIO
€ 5,90
EDITORIALE
SCULTORI SENZA TEMPO È doveroso aprire questa pagina segnalandovi, cari lettori, la splendida mostra aperta fino al 30 giugno, al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, grazie alla quale possiamo partecipare a quel geniale, inedito processo creativo che portò il figlio di uno scalpellino veneto a creare una «nuova» arte classica, destinata all’eternità quanto il suo modello d’ispirazione. Di «Canova e l’Antico» ci parlano, in questo numero, uno dei maggiori studiosi dell’artista, Giuseppe Pavanello, il direttore del museo partenopeo, Paolo Giulierini, e il nostro Giuseppe M. Della Fina (che ci ricorda come il massimo esponente del neoclassicismo fosse anche impegnato nella politica di tutela: nell’estate del 1815, infatti, Canova si reca a Parigi per inventariare le opere d’arte antica trafugate da Napoleone e poi riportarle in Italia). Di indubbio interesse è, inoltre, la rivisitazione di Tiberio Claudio Druso, personaggio tra i piú controversi e discussi (i meno giovani di voi ricorderanno Io Claudio, il bestseller di Robert Graves), proposta dalla mostra allestita al Museo dell’Ara Pacis di Roma. Del tutto casuale appare, naturalmente, la coincidenza con fatti di cronaca suggerita dalla patria del primo imperatore nato fuori dal suolo italico: Claudio, infatti, era nativo di Lione. Volgiamo ora un breve sguardo a Oriente, fonte, oggi come nei secoli e millenni passati, di sorprese magnifiche e sconcerti profondi: passiamo dall’esclusiva intervista allo storico dell’arte Alessandro Bianchi (appena tornato dall’Iraq; alle pp. 22-24), alla grande inchiesta approntata per noi dall’assiriologo Marco Bonechi su uno dei popoli piú antichi e misteriosi del Levante antico, gli Amorrei (alle pp. 68-81), per chiudere con una notizia di questi giorni, riguardante un sito archeologico a noi caro e del quale, se ancora non l’avete visto di persona, oggi potreste programmare la visita: parliamo del complesso neolitico di Göbekli Tepe, a pochi chilometri dalla metropoli di Sanliurfa (l’antica Edessa), in Turchia sud-orientale. Questo luogo unico al mondo (di cui abbiamo ampiamente riferito in «Archeo», in particolare nei numeri 279 e 395, del maggio 2008 e del gennaio 2018) è da poco agevolmente visitabile, dopo una serie di impegnativi interventi di protezione e accessibilità, appena completati. Göbekli Tepe (Turchia). Il sito neolitico cosí come si presenta dopo la recente musealizzazione.
Andreas M. Steiner
SOMMARIO EDITORIALE
Scultori senza tempo 3 di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
6
SCAVI Tornano alla luce, nei pressi di Montefiore dell’Aso, in provincia di Ascoli Piceno, i resti di una grande villa rustica romana 6 PASSEGGIATE NEL PArCo Il Colosseo si racconta: il percorso espositivo allestito al secondo livello dell’anfiteatro ripercorre la lunga storia del monumento piú celebre dell’antichità 8 SCOPERTE Una tomba scoperta nell’oasi egiziana di Dakhla testimonia il sincretismo religioso del paese dei faraoni in età tolemaica 12 ALL’OMBRA DEL VULCANO Gli scavi nella Regio V svelano un termopolio impreziosito da vivaci
pitture murali e fermato dall’eruzione quand’era nel pieno della sua attività
PARCHI ARCHEOLOGICI Monte Pellegrino 16
MUSEI Il Museo Archeologico Nazionale di Firenze inaugura il nuovo allestimento della sua ricca collezione di gemme 18 PAROLA D’ARCHEOLOGO Come spiega Alessandro Bianchi, per scongiurare la distruzione dell’inestimabile patrimonio archeologico dell’Iraq servono interventi immediati, ma, soprattutto, attentamente pianificati 22
Sul monte divino
46
di Giuseppina Battaglia e Carlo Casi
46 MOSTRE
Claudio imperatore
Un candidato improbabile 56 di Lucia Spagnuolo
STORIA
Nascita di una città 34 di Francesco di Gennaro
56
34
In copertina Le Grazie, gruppo in marmo di Antonio Canova. 1812-1816. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage.
Presidente
Federico Curti Anno XXXV, n. 411 - maggio 2019 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Comitato Scientifico Internazionale
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it
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Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it
Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Sven Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Giuseppina Battaglia è archeologa della Soprintendenza BB.CC.AA. di Palermo. Marco Bonechi è assiriologo e ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche presso l’istituto di Studi sul Mediterraneo Antico (Roma). Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Stefano Campana è professore associato in topografia antica all’Università di Siena. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Francesco di Gennaro è stato soprintendente della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Sassari e Nuoro. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paolo Giulierini è direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e
POPOLI DELLA BIBBIA/5 Gli Amorrei
Nel Levante delle origini
68
di Marco Bonechi
82
68 Rubriche
SPECIALE
IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO
Un artista grande come gli antichi
Un certo senso per il patrimonio di Daniele Manacorda
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Antonio Canova
104
82
a cura di Giuseppe M. Della Fina; testi di Giuseppe Pavanello, Paolo Giulierini e Giuseppe M. Della Fina
QUANDO L’ANTICA ROMA... ...aveva la greca Marsiglia come «amica e alleata» di Romolo A. Staccioli
giornalista. Giuseppe Pavanello è direttore dell’Istituto di Storia dell’arte della Fondazione Giorgio Cini, Venezia. Rossella Rea, funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo, è direttore del Colosseo. Lucia Spagnuolo è curatore archeologo del Museo dell’Ara Pacis. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Emanuele Vaccaro è ricercatore in archeologia classica presso l’Università di Trento.
Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio Stampa Museo Archeologico Nazionale di NapoliVillaggio Globale International: Leonard Kheifets, San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage: copertina (e p. 82); Possagno, Gypsotheca e Museo Antonio Canova: pp. 82/83, 84, 86, 94 (alto); Napoli, Museo Archeologico Nazionale: pp. 83, 84/85, 87, 93, 98; Udine, Musei Civici: p. 85; Bassano del Grappa, Museo Civico: pp. 92 (alto), 99, 102; Alexander Koksharov, San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage: pp. 92 (basso), 94 (basso), 95 (destra); Palermo, Palazzo Ajutamicristo: p. 95 (sinistra) – Shutterstock: pp. 3, 48/49, 49, 72/73, 88-89, 96/97, 102/103, 105 (basso), 106 – Cortesia SABAP Marche: pp. 6-7 – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: pp. 8-9 – Cortesia Israel Antiquities Authority: Yoli Schwartz: pp. 10-11 – Doc. red.: pp. 12, 37 (basso), 38, 43, 72, 73, 80, 100-101, 104, 105 (alto), 108 (alto), 110-111; Studio Inklink, Firezne: pp. 34/35, 41, 42 (alto) – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 16-17 – Cortesia Museo Archeologico Nazionale, Firenze: pp. 18, 19 (alto, al centro) – Cortesia Musei Capitolini, Roma: p. 19 (alto, a destra) – Cortesia degli autori: pp. 21-24, 46/47, 50-55 – Cortesia Polo Museale della Puglia: pp. 26-27 – da: Rasenna. Storia e civiltà degli Etruschi, Libri Scheiwiller, Milano 1986: pp. 36 (alto), 37 (alto) – da: Cerveteri, Edizioni Quasar, Roma 1986: p. 36 (basso) – Cortesia Luciano Proietti: pp. 40/41 – DeA Picture Library: Icas94: p. 48 (alto) – Cortesia Ufficio stampa Zetema Progetto Cultura: pp. 56-67 – Mondadori Portfolio: Album/Fine Art Images: pp. 68/69, 75; AKG Images: p. 70 (alto), 71 (alto), 76, 78 (basso), 79, 81, 108 (basso); Erich Lessing/Album: pp. 74/75, 91; Age: p. 77; Electa/Luca Mozzati: p. 90; CM Dixon/Heritage Images: p. 109; Archivio Magliani/Mauro Magliani & Barbara Piovan: p. 112 – Cippigraphix: cartine alle pp. 35, 42 (basso), 46, 71 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 39. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
Il peso del mondo 108
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di Francesca Ceci
LIBRI
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Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Press-Di Abbonamenti SPA c/o CMP BRESCIA Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia BS L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano
n otiz iari o SCAVI Marche
NELL’ANTICA FATTORIA...
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ndagini di archeologia preventiva coordinate dalla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio delle Marche hanno portato alla luce nel territorio del Comune di Montefiore dell’Aso (Ascoli Piceno), in località Menocchia, i resti di una villa rustica di età romana frequentata in un periodo compreso tra la fine del I secolo a.C. e il IV secolo d.C. Lo scavo del complesso, ubicato in un’area di versante caratterizzata In alto: Montefiore d’Aso (Ascoli Piceno). Veduta dall’alto dei resti della villa rustica. A sinistra: un settore del grande complesso. In basso: il boccaletto su cui è graffita la scritta ICINI, genitivo di un gentilizio. da una morfologia acclive e il cui nucleo originario si data alla tarda età repubblicana, ha messo in luce le diverse fasi costruttive, come già avvenuto durante la scoperta di una villa rustica di età augustea intercettata in località Forno de Vecchis nell’estate scorsa. «Dopo la fase di massimo sviluppo – spiega Paola Mazzieri, il funzionario archeologo della Soprintendenza responsabile di
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zona – la villa dovette subire un dissesto, forse in seguito al movimento franoso dell’intero versante della collina. È infatti possibile datare al II-III secolo d.C. un importante intervento di ristrutturazione, che vede la costruzione di un cortile porticato, posto a ridosso di un ambiente probabilmente occupato dalla cucina della fattoria, come dimostra la natura dei materiali
recuperati al suo interno, perlopiú consistenti in frammenti di ossa animali e di oggetti di uso quotidiano (ceramica comune, da fuoco e da dispensa). Segue una nuova fase di degrado del complesso, che evidentemente continuava ad avere problemi statici, contraddistinto dal crollo del tetto del porticato, in tegole e coppi, ancora parzialmente in situ al momento dello scavo, momento che si può datare a partire dal terzo decennio del III secolo d.C. grazie al fortunato rinvenimento di un sesterzio di Giulia Mamea (222-235
d.C.). Non si esclude, tra le cause di questo ulteriore crollo, anche il verificarsi di un incendio, indiziato dalle diffuse tracce di fuoco e di concotto in corrispondenza dei piani di calpestio antichi, mentre alcune delle strutture dell’impianto originale sono rimaste in uso, forse con destinazioni funzionali differenti. L’ambiente adibito a cucina, per esempio, fu riservato alle sepolture infantili: vi sono state trovate due sepolture di individui in età neonatale contenute all’interno di anfore. Le anfore dovrebbero risalire alla fine del III secolo d.C., e tale datazione confermerebbe la dismissione di questo settore della villa in quel periodo, mentre ancora per diversi anni continuarono a essere occupati i settori posti piú a nord e piú a ovest, a quote superiori, dove sono rintracciabili interventi di ristrutturazione a livello delle fondazioni. Delle murature si conservano ovunque solo le fondazioni realizzate con ampio uso di ciottoli fluviali, di frammenti fittili di riutilizzo, tegole fratte o intere con alette in paramento, legati da semplice argilla o, piú raramente, da malta grigia. Al di sopra di queste zoccolature dovevano impostarsi alzati lignei e pareti a tamponamento in argilla cruda (non si esclude la presenza di tramezzi realizzati interamente in materiali deperibili e privi di fondazione), mentre di argilla battuta risultano composti tutti i piani pavimentali individuati.
Una delle sepolture di neonato in anfora rinvenute nei locali di quella che, in origine, era la cucina della villa rustica.
Le attività di tipo domestico sono attestate dal rinvenimento di sporadici pesi da telaio e di due porzioni di macine manuali in pietra lavica. Agli aspetti produttivi possono collegarsi gli abbondanti frammenti di dolia e di anfore, che permettono di ipotizzare, in attesa dello studio completo e sistematico dei materiali rinvenuti, una produzione non solo destinata all’ambiente domestico, ma probabilmente, vista la dimensione dell’insediamento, anche alla loro commercializzazione. Desta curiosità il rinvenimento, nei livelli superficiali posti a copertura dell’area, di un frammento di boccaletto con sul collo un graffito, realizzato dopo la cottura, composto da cinque lettere riferibili a un gentilizio al genitivo ICINI, che, allo stato attuale e in vista di riscontri e confronti puntuali con l’abbondante materiale ceramico rinvenuto, non possiamo escludere riveli il nome del proprietario della fattoria». Le indagini sul campo sono state condotte, sotto la Direzione
scientifica della SABAP Marche, dalla Società Cooperativa Archeologia, con il coordinamento di Manuela Cerqua coadiuvata da Mattia Berton, Alessandra Marchello e Isabella Piermarini. Giampiero Galasso Errata corrige con riferimento alla Monografia di «Archeo» n. 30, Fenici. Un’epopea mediterranea, desideriamo precisare che l’immagine pubblicata a p. 21, che documenta materiali ceramici provenienti dal sito di Sant’Antioco, è tratta dall’articolo di Elisa Pompianu e Antonella Unali Le origini della colonizzazione fenicia in Sardegna: Sulky liberamente disponibile on line all’indirizzo: http://www.bhir-ihbr. be/doc/3_13_12.pdf. Della mancata attribuzione ci scusiamo con gli autori interessati e con i lettori.
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PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Alessandro D’Alessio
UN MUSEO «COLOSSALE» LA STORIA PLURISECOLARE DELL’ANFITEATRO FLAVIO È RACCONTATA NEGLI SPAZI DEL SECONDO LIVELLO DEL MONUMENTO, DAL TEMPO DEI GIOCHI GLADIATORI A QUELLO DEI FILM IN COSTUME
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naugurato nel dicembre 2018 al II livello, il Museo del Colosseo ripercorre la storia del monumento dalla costruzione fino all’età contemporanea. L’anfiteatro esercita una forte attrazione sui visitatori per la sua funzione originaria, durata 443 anni, dall’anno 80 al 523, ma l’edificio non fu solo palcoscenico di scontri cruenti, scenografiche cacce e condanne alla pena capitale: le vicende successive, strettamente connesse agli eventi politici ne fanno, allora come ora, la memoria storica della capitale. E proprio verso tali vicende il museo
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indirizza l’interesse del pubblico. L’incipit è segnato dalla «firma» incisa sul travertino nel 1762 da un visitatore illustre: il pittore Hubert Robert, le cui opere documentano con grande efficacia le condizioni in cui versava il monumento nel XVIII secolo, da tempo in bilico tra usi sacri e profani. Il tema dell’architettura e del suo funzionamento, da cui il percorso inizia, si estende alla macchina scenica: i sotterranei, a cui è dedicata un’intera sezione. I modelli realizzati dall’Istituto Archeologico Germanico illustrano l’evoluzione delle macchine che
consentivano il sollevamento sul piano dell’arena di animali e scenografie, e un breve filmato ne mostra il funzionamento. Una serie di vetrine contiene i reperti che documentano l’indice di gradimento del pubblico che gremiva gli spalti: ignoti spettatori incisero sui loca di marmo gli spettacoli a cui avevano assistito. Antichi graffitari, alcuni veri artisti, disegnarono scene di caccia e di combattimenti tra gladiatori, tramandandone anche i nomi. Tra i graffiti è un documento eccezionale: un bimbo stringe la mano di un uomo e, visibilmente
A sinistra e nella pagina accanto: due particolari dell’allestimento del Museo del Colosseo, ricavato negli spazi del II livello dell’Anfiteatro Flavio.
contento, con l’altra mano impugna una piccola palma. Quale migliore dimostrazione della presenza dei bambini tra gli spettatori e della vendita di gadget nell’anfiteatro? Nei secoli del tardo Medioevo, il Colosseo si trasforma in una città ai confini della città, in cui convivono tutte le classi sociali, dalla famiglia baronale dei Frangipane – che nell’anfiteatro costruisce su due livelli una residenza fortificata –, alle abitazioni del ceto medio e fino all’umile bottega del macellaio. L’intero primo livello viene occupato, creando un impianto urbano completo di infrastrutture: strade, pozzi, spazi coltivati, persino una chiesa. Un’ampia sezione del percorso di visita è dedicata al Medioevo: grazie alle recenti scoperte archeologiche è stato possibile riproporre in modelli l’assetto dell’insediamento dei Frangipane e delle umili criptae utilizzate come ricovero dagli allevatori. Una vasta esposizione del vasellame da mensa e da cottura, insieme a strumenti di lavorazione, documenta il livello degli occupanti e le attività a cui la variegata comunità era dedita. Il terremoto del 1349 determinò l’abbandono del Colosseo. Numerosi reperti, visibili nella sezione «Culto e devozione», documentano la presenza di chiese a ridosso dell’anfiteatro già dall’Alto Medioevo: S. Nicola de Coliseo o S. Maria de Coliseo e S. Maria de
Ferrari, mentre S. Salvatore de Rota Colisei era forse interna al monumento. La chiesa piú importante era S. Giacomo de Colosseo, eretta nel 1360 sul versante orientale della valle: con l’annesso ospedale di S. Angelo apparteneva alla Confraternita del Santissimo Salvatore. Nel percorso museale sono visibili i disegni degli affreschi che adornavano la chiesa. Su concessione di Bonifacio IX, dal 1397 la Confraternita dispose di un terzo del Colosseo, comprese le gallerie murate dai Frangipane al II livello, che, alcuni decenni piú tardi, ospitarono un secondo ospedale, come suggeriscono i tre stemmi datati al 1540, visibili lungo il percorso. Nel 1490, Innocenzo VIII autorizzò la Confraternita del Gonfalone, che possedeva nel monumento la cappella di S. Maria della Pietà, a celebrare nell’anfiteatro il Venerdí Santo.
LA MEMORIA DEI MARTIRI L’idea di consacrare l’anfiteatro matura dalla seconda metà del XVI secolo, nel clima della Controriforma: Clemente X (1670-1676) consacrò il Colosseo alla memoria dei martiri, innalzando una croce al centro dell’arena. Il progetto per la definitiva consacrazione fu redatto nel 1696 da Carlo Fontana: del monumentale edificio è esposto nel museo il modello. Infine, in occasione del Giubileo del 1750,
Benedetto XIV consacrò l’arena alla memoria della Passione di Cristo e dei martiri: fece costruire intorno alla croce le 14 edicole della Via Crucis, rendendo istituzionale la celebrazione del rito del Venerdí Santo nell’anfiteatro che da allora si celebra tutti gli anni. Tra il 1790 e il 1812 Carlo Lucangeli eseguí due modelli del Colosseo: l’esemplare esposto nel museo è il risultato delle indagini condotte sul posto dall’autore, che riprodusse in scala 1:60 il prospetto esterno e le gallerie interne nella loro conformazione originaria. Con l’avvento del fascismo, il Colosseo tornò a essere palcoscenico del potere. Le solenni adunate organizzate al suo interno hanno lasciato numerose tracce, in parte esposte nel museo. Mussolini risolse, con un abile compromesso, la secolare diatriba che aveva diviso laici e mondo cattolico: per bilanciare l’uso politico del Colosseo riportò al suo interno la croce rimossa nel 1874 per consentire lo sterro dei sotterranei. L’evento fu documentato dall’Istituto Luce: il filmato è visibile nel percorso espositivo. L’iscrizione con cui Mussolini celebrava l’evento fu, in seguito, oggetto di damnatio memoriae: spaccata in piú pezzi, è stata ricomposta e offerta al pubblico quale documento storico. Nel dopoguerra il Colosseo entra prepotentemente nella cinematografia con i film peplum e nei capolavori del neorealismo italiano, mentre la pop art romana lo consacra al ruolo di icona, che continua a rivestire senza soluzione di continuità. Rossella Rea
DOVE E QUANDO Museo del Colosseo Roma, Anfiteatro Flavio, II livello Orario tutti i giorni, 8,30-19,15 Info tel. 06 699841; https://parcocolosseo.it
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SCOPERTE Israele
NEL VILLAGGIO DEGLI ASMONEI
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li Asmonei furono l’ultima dinastia indipendente a regnare sulla Giudea, prima che, nel 63 a.C., la regione venisse conquista dalle legioni capeggiate da Pompeo. Nata dopo la rivolta dei Maccabei del 167 a.C. contro l’ellenizzazione imposta dai dominatori seleucidi, la dinastia svolse un importante ruolo sul piano sia politico sia culturale: i suoi membri furono garanti di circa un secolo di indipendenza e, insieme, del ripristino di un’ortodossia religiosa, impersonata dal re che era, al contempo, sommo sacerdote. Le vestigia archeologiche del periodo asmoneo sono numerose: si tratta perlopiú di strutture militari
(tra cui le fortificazioni nei deserti di Giuda e Negev) e di vasti edifici palaziali, come quelli di Gerico e Masada, scavati e studiati dal celebre archeologo Ehud Netzer. Recentissima, invece, è la scoperta di un intero villaggio asmoneo, emerso durante uno scavo di emergenza a Sharafat, un quartiere di Gerusalemme Est. Le indagini condotte dalla Soprintendenza per le Antichità di Israele (Israel Antiquities Authority) hanno portato alla luce un torchio vinario contenente numerosi frammenti di recipienti in terracotta, un frantoio per la produzione dell’olio, resti di un miqveh (la vasca per le abluzioni rituali), un ampio colombario e una cisterna per la raccolta dell’acqua.
Un imponente sito funerario completa la recente scoperta: la struttura è caratterizzata da un corridoio scolpito nella roccia, terminante in un’ampia corte le cui pareti sono circondate da una panca e sulle quali si aprono gli accessi alle camere funerarie, al cui interno erano ricavate le nicchie (kochim) per la deposizione dei resti dei defunti. È verosimile che la grande tomba appartenesse a una ricca famiglia residente in questo villaggio situato a pochi chilometri di distanza dal centro di Gerusalemme e, oggi, vero e proprio spaccato della vita quotidiana nella Terra Santa di duemila anni fa. Andreas M. Steiner A sinistra: il colombario del villaggio di epoca asmonea (II sec. a.C.) rinvenuto nel quartiere gerosolimitano di Sharafat. Nella pagina accanto: gli archeologi esaminano alcuni frammenti architettonici all’interno del grande sepolcreto asmoneo di Sharafat.
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SCOPERTE Egitto
UNA SCENA DALL’OLTRETOMBA
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na missione archeologica egiziana ha recentemente riportato alla luce a Beer El-Shaghala (un sito nell’oasi di Dakhla, nella parte centrale del Paese) due tombe in pietra arenaria risalenti all’epoca romana. Gli scavi, iniziati nel 2002 e proseguiti negli anni successivi grazie a cinque missioni archeologiche, avevano già rivelato una necropoli con oltre dieci tombe d’epoca greco-ellenistica. La nuova scoperta, di cui il Ministero delle Antichità dell’Egitto ha dato notizia nelle scorse settimane, è avvenuta sul lato orientale dell’area indagata. La prima tomba presenta una scalinata che conduce all’ingresso di una stanza principale in mattoni crudi, sulla quale si aprono altri due ambienti funerari. Nelle stanze
secondarie sono stati trovati scheletri, lucerne e vasellame. Piú interessante appare la seconda tomba, realizzata anch’essa in mattoni crudi, e rinvenuta a est della prima. Anche in questo caso sono stati individuati due ambienti: un’anticamera con alcuni gradini che conducono a una piccola stanza, nella quale appare una nicchia centrale che presenta, nella zona sovrastante, i resti di una pittura. I colori, ancora vividi, campiscono una scena di mummificazione in cui si vede, parzialmente, il defunto sdraiato su una kline (letto funerario) dalla tipica sponda a testa leonina. Sui lati, appaiono due personaggi stanti, di cui resta, purtroppo, solo la parte inferiore dei corpi. Colpisce lo stato di conservazione dei colori sull’intonaco bianco della parete: il rosso, il verde, e il
giallo delle corte tuniche e dei mantelli, e ben disegnati sono i sandali stringati, dipinti in nero, cosí come il colore degli arti inferiori e del braccio conservato della figura di sinistra. Gli archeologi ancora non si sono pronunciati sull’identità dei due personaggi. La loro pelle ha il colore di quella degli dèi degli inferi, come Anubi, il dio che presiede alla mummificazione raffigurato nelle pitture egizie con la testa canina e il corpo di colore nero; i loro abiti, però, sono quelli tipici dei soldati romani. La scena, dunque, ci riporta a un’epoca della storia dell’Egitto in cui usanze e credenze millenarie erano state contaminate da quelle dei Greci prima, e dei Romani conquistatori poi, dando vita a un interessante sincretismo religioso. Lorella Cecilia
Beer El-Shaghala (Egitto). Un’immagine della tomba di età romana caratterizzata da vivaci pitture murali.
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MOSTRE Napoli
MAGGIO NAPOLETANO
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a mostra «Canova e l’Antico» al Museo Archeologico Nazionale di Napoli a cui è dedicato il nostro Speciale (vedi alle pp. 82-103) è solo una delle numerose manifestazioni che la città del Golfo ha messo in agenda per la primavera 2019. Dallo scorso marzo è nata la «Via dell’archeologia dal MANN alla Pietrasanta», un’iniziativa che mira all’espansione del Museo Archeologico sul territorio della città, resa possibile grazie alla collaborazione con l’Associazione Pietrasanta Polo Culturale Onlus e vari enti preposti, Comune, Soprintendenza, Regione. L’operazione intende creare un percorso archeologico per scoprire la Napoli antica attraverso le testimonianze sparse nella città, un tour che ha come fulcro il MANN, con la sezione Neapolis (che per il 2020 dovrebbe essere riproposta in un nuovo allestimento). La «Via dall’archeologia» parte dal Museo e procede verso la prima tappa del percorso, la Basilica della Pietrasanta (piazza della Pietrasanta 17-18), dove, con il coupon del MANN, si può visitare – con un’aggiunta di soli 3 euro – la mostra «Sacra Neapolis, culti, miti, leggende», allestita nel Lapis Museum (nella Crypta della Basilica) e dedicata, come suggerisce il titolo, agli aspetti religiosi e sacri della Napoli greco-romana, con una ricca scelta di reperti tra monete, sculture e le terracotte della stipe di Sant’Aniello a Caponapoli. Il Lapis Museum racchiude i resti di un’insula greco-romana, dell’originarioTempio di Diana – su cui è stata costruita la chiesa sovrastante –, tratti di mura in opus reticulatum, e altre di periodo greco, oltre a una meravigliosa cava di tufo giallo napoletano.
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Napoli. Resti di mura di domus greco-romane. Lapis Museum, basilica di S. Maria Maggiore alla Pietrasanta. Passando dall’archeologia ai capolavori del Caravaggio, è aperta, al Museo di Capodimonte, la mostra dedicata agli anni napoletani del grande artista e all’eredità che il pittore ha lasciato alla città partenopea. Lo scorso 25 aprile ha poi avuto inizio il XXV Maggio dei Monumenti di Napoli, dedicato a Gaetano Filangieri (1753-1788), tra i massimi giuristi e pensatori dell’illuminismo. Titolo dell’edizione 2019 della rassegna è «Il diritto alla felicità. Filangieri e il ‘700 dei Lumi» e sono in calendario iniziative legate ai luoghi nei quali visse e operò il giurista, senza tralasciare concerti, spettacoli teatrali, conferenze, mostre e convegni con al centro i principi illuministici tratti dalla sua opera. Gli eventi in programma saranno un’occasione preziosa per visitare i tanti monumenti di Napoli, con visite guidate di approfondimento di luoghi poco frequentati, come il Museo Filangieri, la chiesa dei Ss. Severino e Sossio e il Complesso Monumentale Vincenziano, o anche i grandi «classici», come il Tesoro di S. Gennaro, la Certosa di S. Martino, o la piú conosciuta Cappella Sansevero. (red.)
DOVE E QUANDO «Sacra Neapolis. Culti, miti e leggende» Basilica di S. Maria Maggiore alla Pietrasanta, piazzetta Pietrasanta 17-18 Orario lu-ve, 10,00-20,00; sa-do, 10,00-21,00 Info tel. 081 19230565; e-mail: info@lapismuseum.com; www.lapismuseum.com MANN, Museo Archeologico Nazionale di Napoli Piazza Museo 19 Orario tutti i giorni (tranne il martedí), 9,00-19,30 Info tel. 081 4422149; www.museoarcheologiconapoli.it «Caravaggio a Napoli» Museo e Real Bosco di Capodimonte, Sala Causa fino al 14 luglio Orario tutti i giorni, 8,30-19,30 Info tel. 848 800 288 «Il diritto alla felicità. Filangieri e il ‘700 dei Lumi» XXV Maggio dei Monumenti fino al 2 giugno Info e programma www.comune.napoli.it
ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
TUTTI A PRANZO! ANCHE A POMPEI, COM’ERA D’USO NELLE CITTÀ ROMANE, IL PASTO DI MEZZOGIORNO SI CONSUMAVA NEI TERMOPOLI. STRUTTURE DI CUI, NELLA REGIO V, È STATA SCOPERTA UNA NUOVA E IMPORTANTE ATTESTAZIONE
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uesta volta non sono né affreschi, né mosaici di eleganti domus a stupire gli archeologi che scavano, ormai da tempo, nella Regio V di Pompei, ma un’autentica testimonianza di vita quotidiana, ricorrente lungo le principali strade cittadine, che desta notevole interesse per la freschezza dei suoi decori e, speriamo presto, per l’articolazione della sua suppellettile ancora in posto. Si tratta di un termopolio – un antesignano della nostra tavola calda o bar – appena emerso nello slargo che fa da incrocio tra il vicolo delle Nozze
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Sulle due pagine: immagini che documentano il termopolio appena scoperto nella Regio V di Pompei. Lo scavo di questa antica «tavola calda» ha rivelato pregevoli quadretti ad
affresco (uno con una Nereide su un ippocampo e l’altro con scene ambientate nel termopolio stesso) e una considerevole quantità di anfore utilizzate dal gestore dell’esercizio.
d’argento e il vicolo dei Balconi, ormai interamente portato in luce nel cantiere di scavo del Grande Progetto Pompei. Sebbene liberato solo in parte da cenere e lapilli, l’impianto commerciale ha subito svelato una ricercata decorazione che abbelliva il massiccio bancone di mescita, dalla caratteristica forma a «L»: il lato maggiore presenta un’immagine seminuda di Nereide su ippocampo davanti a delfini
guizzanti, immersa in un tranquillo ambiente marino, divinità particolarmente benigne alla vita degli uomini; sul lato minore, che piega verso l’esterno dell’ambiente, è invece una probabile rappresentazione della stessa attività esercitata nel locale, con una figurina che si muove fra i diversi servizi del termpolio, una sorta di invitante insegna commerciale che doveva attirare l’attenzione e stimolare l’appetito
dei passanti. Questa particolare raffigurazione rientra nel piú ampio novero delle insegne pubblicitarie pompeiane (signa), che possono essere solo scritte o solo figurative – come nel nostro caso, in cui viene allegoricamente simboleggiato il servizio offerto –, oppure altre ancora scritte e figurative insieme. Spesso sono rappresentati uno strumento del mestiere o un elemento della sua produzione, come una capra per indicare una latteria. Diverse sono le insegne delle taverne, dipinte e spesso intitolate ad animali, cosí che si designava familiarmente il locale con l’animale rappresentato sulla porta. Il ritrovamento poi di un gruppo di anfore depositate proprio davanti al bancone del termopolio appena scoperto, esaltava ancor di piú, al momento dello scavo, l’effetto di questa immagine di bottega, che verso la strada mostrava un pavimento montato a grandi lastre marmoree. Starà ora al prosieguo delle ricerche svelare la parte posteriore al bancone, con la sua articolazione e i suoi arredi.
BEVANDE E CIBI CALDI Come indica l’origine greca del nome (thermopolium), i termopoli sono destinati a servire soprattutto bevande e cibi caldi, conservati in grandi dolia (giare) incassati nel bancone in muratura, e sono molto diffusi a Pompei, dove era abitudine consumare il prandium fuori casa (la colazione di mezzogiorno) per
fare quattro chiacchiere con amici e clienti. In città se ne contano oltre ottanta, fra cui il frequentato locale di Lucius Vetutius Placidus, aperto su via dell’Abbondanza. Oltre all’edicola del larario con la rappresentazione di Mercurio, Dioniso e i serpenti, questo termopolio conserva il banco di vendita con il piano rivestito di scaglie e piastrelle di marmo policromo e completo dei dolia incassati nella struttura muraria; in uno di questi il proprietario della bottega, residente nella casa attigua, ha lasciato l’incasso di quell’infausto giorno del 79 d.C., con la speranza di poterlo recuperare in un secondo momento, costituito da 1385 monete in bronzo pari a un valore complessivo di circa 585 sesterzi.
Talvolta, come nel termopolio di Placidus, queste attività erano dotate anche di una o piú stanze retrostanti, nelle quali potersi appartare per mangiare comodamente seduti o addirittura sdraiati sui triclini. Asellina è un’abile imprenditrice pompeiana che gestisce un altro vivace termopolio lungo via dell’Abbondanza. Le numerose iscrizioni elettorali dipinte sulla parete esterna della bottega, firmate da donne di origine orientale (Smirina, Egle, Maria, dette «le aselline»), attestano che la frequentazione del locale non era motivata unicamente dal ristoro delle vivande… Per notizie e aggiornamenti su Pompei, pagina Facebook Pompeii-Parco Archeologico.
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n otiz iario
MUSEI Firenze
PICCOLI TESORI
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ttuale sede del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, il Palazzo della Crocetta era una delle poche «ville urbane» del capoluogo toscano. Nato come casino, costruito per volere di Lorenzo il «Magnifico», il fabbricato fu ampliato su progetto di Giuliano Parigi intorno al 1619 e adibito a residenza privata per Maria Maddalena, ottava figlia del granduca di Toscana Ferdinando I de’ Medici e di Cristina di Lorena. Nella ristrutturazione voluta da Cosimo II, furono previsti camminamenti aerei per collegare l’edificio all’adiacente omonimo convento di clausura e alla basilica della Santissima Annunziata; uno stratagemma che permetteva alla giovane principessa «malcomposta nelle membra», di potersi muovere
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In alto, a sinistra: cammeo in calcedonio con testa di Germanico (?), 14-19 d.C. (?); montatura della seconda metà del XVII sec.
In alto, a destra: gemma in sardonica con busto di Antonia Minore come Giunone. Post 37 d.C. Già collezione del cardinale Pietro Barbo.
liberamente al primo piano senza dover uscire, salire e scendere le scale. Tale attività sarebbe stata molto dolorosa per lei, essendo affetta da rachitismo che le causava gravi problemi di deambulazione. Da qui la decisione della donna di ritirarsi in questo luogo silenzioso, in cui era solita passare le sue giornate, come una suora, pur non avendo preso i voti, con poche dame di compagnia. Ecco che il palazzo diventò l’elemento intermedio fra due punti religiosi a cui si giungeva attraverso una lunghissima galleria, che partiva dagli appartamenti de «la devota Signora»; il tratto di corridoio verso la chiesa fu allestito come se fosse un percorso sacro nel quale «tra sí grati oggetti di devozione, passeggia questa Real Vergine, e
col guardo, e col pensiero segue il suo Signore al Calvario». Proprio qui, lungo questo prolungamento, noto come «Coretto», che aveva un affaccio riservato su S. Maria Annunziata, dal quale Maria Maddalena poteva assistere, non vista, alla messa, è ora possibile ammirare una selezione di 432 preziose gemme babilonesi, greche, etrusche, romane e post-classiche, dall’epoca carolingia al Rinascimento, per un arco cronologico che va dal 2300 a.C. circa fino agli inizi del Settecento; dopo due anni di studio e di preparazione, i preziosi reperti tornano a splendere nella nuova esposizione permanente, realizzata grazie anche al contributo dell’associazione Friends of Florence.
A sinistra, in alto: cammeo in sardonica con busto di baccante o di Dioniso (prima metà del I sec. a.C.), con montatura del XVII sec.
A sinistra, in basso: cammeo in sardonica con Ermafrodito (ultimo quarto del I sec. a.C.), con montatura della fine del XVI sec.
ROMA
Tutto cominciò con un villaggio... Il MAF custodisce una delle piú importanti collezioni di gemme al mondo, consistente in 2300 esemplari, in cui sono rappresentate tutte le classi collezionate dalle dinastie dei Medici e dei Lorena: sigilli, cammei, intagli, paste vitree, gemme magiche e anelli. Molti di questi ultimi conservano la montatura originale di epoca romana o rinascimentale, e sono realizzati in calcedonio, sardonica, corniole, zaffiri o granati da artisti come Benvenuto Cellini. A partire da Lorenzo il Magnifico, che aveva acquistato alcuni pezzi dalla raccolta del cardinale veneziano Pietro Barbo, poi papa Paolo II (1464-1471), si ripercorre la formazione del prestigioso corpus, fino a Gian Gastone de’ Medici e a Pietro Leopoldo Asburgo-Lorena, passando per il granduca Cosimo I con la consorte Eleonora di Toledo, il cardinale Leopoldo de’ Medici e l’Elettrice Palatina, Anna Maria Luisa de’ Medici. Due salette – dotate di pannelli e fotografie retroilluminati, touch screen, video e filmati – guidano alla scoperta, sia dell’ambiente, sia dell’esame del materiale in mostra, visibile in dettaglio tramite gli ausili tecnologici. Le didascalie offrono approfondimenti sulle materie prime, sulle iconografie, sulla storia e la formazione della serie e sugli antichi possessori, che, con l’acquisto di squisiti cammei e intagli, sostenevano il loro potere, ostentando i lussuosi ornamenti. La predilezione dei Medici per le incisioni su pietre dure e preziose portò alla creazione di uno dei piú mirabolanti nuclei della storia, iniziato da Cosimo il Vecchio con il figlio Piero e il nipote Lorenzo, e incrementato nei secoli da nuove acquisizioni. Il gusto per l’arte della
Gemma in sardonica con testa di Augusto come Apollo. Terzo-quarto decennio del I sec. d.C. glittica si trasmise di generazione in generazione e affascinò l’ambiente artistico fiorentino, culturalmente pronto per questa tipologia di ricercate gioie. Tra gli esemplari esposti, spiccano un cammeo in sardonica, oro, smalti, granati e smeraldi che raffigura un Ermafrodito e uno rappresentante il busto di Dioniso, entrambi del I secolo a.C. Sono invece riferibili al secolo successivo una Testa di Medusa in calcedonio e argento dorato e una Testa di Sabina in oro e acquamarina. Mila Lavorini
DOVE E QUANDO Museo Archeologico Nazionale Firenze, piazza Santissima Annunziata n. 9b Orario ma-ve, 8,30-19,00; lu, sa, prima e terza domenica del mese, 8,30-14,00 Info Firenze Musei, tel. 055 294883; www.polomusealetoscana. beniculturali.it/
È stata prorogata fino al prossimo 2 giugno la mostra «La Roma dei Re. Il racconto dell’archeologia», visitabile presso i Musei Capitolini di Roma. L’esposizione accende i riflettori sulla fase piú antica della storia di Roma, illustrandone gli aspetti salienti e ricostruendo costumi, ideologie, capacità tecniche, contatti con ambiti culturali diversi, trasformazioni sociali e culturali delle comunità che vivevano quando Roma, secondo le fonti storiche, era governata da re. Grazie alle attività di ricomposizione e di restauro curate della Sovrintendenza Capitolina, con la collaborazione del Parco Archeologico del Colosseo – che ha messo a disposizione i risultati delle piú recenti ricerche nell’area nord-est del Palatino e sulla Velia –, sono per la prima volta esposti al pubblico dati e reperti inediti. La mostra può inoltre essere un corollario ideale alla lettura dell’articolo di Francesco di Gennaro che pubblichiamo in questo numero (vedi alle pp. 34-43), dedicato appunto alla nascita delle città, prima fra tutte Roma. Per informazioni sulla mostra: tel. 06 06 08 (tutti i giorni, 9,0019,00); www.museicapitolini. org; www.museiincomune.it In alto: askos ad anello in impasto bruno, dalla tomba 128 della necropoli dell’Esquilino. 630/620-580 a.C. (fase laziale IVB).
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A TUTTO CAMPO Stefano Campana, Emanuele Vaccaro
DALLA VILLA ALLA CHIESA LE INDAGINI NEL SITO DI SANTA MARTA, LUNGO LE PENDICI OCCIDENTALI DEL MONTE AMIATA, STANNO RIVELANDO LA LUNGA E ARTICOLATA STORIA DI UN CONTESTO OCCUPATO DAL II SECOLO A.C. FINO AL SEICENTO
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i risiamo: là dove nulla o poco avremmo dovuto trovare, spuntano prima le tracce di un grande insediamento di età romana, poi una chiesa e infine un orizzonte insediativo, produttivo, ricettivo e cultuale che dal II secolo a.C. si estende senza evidenti interruzioni fino al XVII secolo d.C. Siamo nel Comune di Cinigiano, lungo le pendici occidentali del Monte Amiata tra l’entroterra della costa tirrenica, il corso del fiume Ombrone e la Valdorcia. Le ricerche fanno parte delle attività dell’Università di Siena, progetto Carta Archeologica della Provincia di Grosseto, avviate in quest’area nel 2007. Il contesto è associato a un toponimo eloquente, Santa Marta, conservando la memoria della presenza in quest’area di una chiesa ricordata dalle fonti medievali come Sant’Ippolito di Marturi. Il rinvenimento è avvenuto nell’ambito della prima campagna di ricognizione di superficie (2007), alla quale sono seguite intense campagne di indagini non distruttive basate su fotografia aerea obliqua, fotogrammetria UAV (Unmanned aerial vehicle), magnetometria, indagini geoelettrice e col georadar GPR (Ground penetrating radar) che hanno permesso, attraverso l’integrazione con le raccolte di
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materiale archeologico in superficie, di valutare l’estensione dell’insediamento in circa 1,2 ettari. Gli scavi archeologici, iniziati nel 2012 dalla cattedra di Topografia Antica dell’Università di Siena e ancora in corso (la campagna 2019 si svolgerà dal 10 giugno al 12 luglio in collaborazione con la cattedra di Archeologia Classica dell’Università di Trento), hanno permesso di identificare un contesto di grande complessità, estensione e durata. L’occupazione dell’area ha origine tra il II e il I secolo a.C. come fattoria dotata sia di ambienti residenziali che di strutture per lo stoccaggio e la lavorazione di prodotti agricoli.
NELLE MANI DI UN PERSONAGGIO EMINENTE Questo nucleo conobbe un precoce abbandono nel corso del I secolo d.C. Dopo un breve periodo (qualche decennio) in cui osserviamo un gap insediativo, agli inizi del II secolo d.C., verosimilmente in seguito al passaggio della proprietà nelle mani di un personaggio eminente, il contesto conobbe un marcato sviluppo sia per monumentalità delle opere realizzate, sia per le dimensioni. Nella prima metà del II secolo d.C. assistiamo alla realizzazione di un ampio
complesso di tipo villa-mansio, cioè una villa con stazione di posta caratterizzata dall’impiego di tecniche edilizie di tipo «urbano» (opus mixtum, opus testaceum e opus vittatum) e dai ricchi apparati decorativi che includono ampissime superfici ricoperte da mosaici, di cui una parte è stata irrimediabilmente danneggiata dalle arature moderne. Questa parte del complesso villa-mansio continuò a crescere sia per dimensioni che per monumentalità, fino a raggiungere, nel IV secolo d.C., circa 1500 m2 di superfici interamente edificate. Alla luce delle indagini sinora condotte il complesso di età imperiale si compone di tre edifici principali: Edificio B1, Edificio B2 e una cisterna B3. Sebbene le indagini siano ancora a un livello preliminare, l’Edificio B1 ebbe, verosimilmente, funzione residenziale e venne dotato di un balneum (impianto termale) privato nella parte sud-occidentale; l’Edificio B2, invece, venne concepito sin dall’inizio come ampia terma pubblica, utilizzabile da parte dei viandanti che percorrevano la viabilità di raccordo tra la costa tirrenica e l’entroterra e che evidentemente passava da Santa Marta. Il complesso romano rimase in uso,
Località Santa Marta (Cinigiano, Grosseto). Mosaico figurato scoperto nella villa-mansio e raffigurante l’incontro tra Marte e Rea Silvia. Per ragioni stilistiche e iconografiche l’opera è ascrivibile all’età severiana e costituisce, a oggi, il secondo esempio di rappresentazione del mitico episodio su un mosaico dell’Italia romana e il quarto dell’intero mondo romano.
sia pure a fronte di mutamenti topografici e funzionali, fino agli inizi del VII secolo d.C. Una cesura sembra invece profilarsi dalla prima metà del VII al IX secolo d.C., anche se forse è solo apparente. A un momento anteriore al tardo IX-X secolo d.C. risale la fase a oggi piú antica della chiesa, con pianta triabsidata, che si trova al di sotto della pianta romanica. In associazione all’edificio di culto troviamo anche un cimitero, il cui utilizzo si protrasse fino all’abbandono della struttura. Considerando l’intensità e l’ampiezza delle ricerche archeologiche svolte negli ultimi 10 anni nel territorio comunale di Cinigiano e negli ultimi 25, piú in
generale, nelle aree della bassa Val d’Orcia e della media Valle dell’Ombrone, emerge chiaramente l’eccezionalità del contesto di Santa Marta che, per ampiezza, monumentalità e lunga durata, costituisce un unicum nel territorio, un vero e proprio central place con diverse finalità: un ruolo di controllo su di un’ampia proprietà fondiaria, uno snodo centrale per la viabilità interna a sud dell’Ombrone, un riferimento per il popolamento di un’ampia porzione di territorio. Come per l’età romana la ricchezza dei mosaici, i temi in essi rappresentati legati al mito delle origini di Roma e il dato epigrafico suggeriscono una committenza di
alto livello, cosí anche in età medievale la presenza di un edificio religioso triabsidato del IX-X secolo e i resti di affreschi confermano l’elevata importanza del contesto. Questa ricerca dimostra che aree sino a oggi considerate marginali possono invece rivelarsi molto importanti, essendo state capaci di attrarre sia in età romana che in età medievale grandi investimenti da parte delle aristocrazie laiche o religiose. Inoltre può rappresentare un’opportunità per ampliare le nostre conoscenze sulle dinamiche economiche in spazi molto lontani dai centri urbani e dei quali troppo spesso si sa ancora molto poco. (stefano.campana@unisi.it, emanuele.vaccaro@unitn.it)
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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
IRAQ: OLTRE L’EMERGENZA ALESSANDRO BIANCHI, STORICO DELL’ARTE E FUNZIONARIO DEL MIBAC, È APPENA RIENTRATO DAL PAESE VICINO-ORIENTALE, DOVE HA LAVORATO SUL CAMPO PER PIÚ DI 15 ANNI. FINO A POCHI GIORNI FA HA GUIDATO UNA MISSIONE SUL SITO DI NINIVE. ECCO LA SUA TESTIMONIANZA, RACCOLTA IN ESCLUSIVA PER I LETTORI DI «ARCHEO»
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er meglio comprendere la delicata situazione di un Paese martoriato da anni di guerra, come l’Iraq, abbiamo incontrato Alessandro Bianchi, storico dell’arte e funzionario del ministero per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC), che da oltre 15 anni lavora sul campo in questo difficile teatro e ha recentemente ha guidato una missione di archeologi e tecnici nel sito dell’antica capitale assira di Ninive. Dottor Bianchi, a che punto è la ricostruzione a Mosul, devastata dai terroristi nel 2015 e, piú in genere, da anni di guerra e razzie? «A oggi, nulla è stato ricostruito. La cittadella ottomana, sulla riva occidentale del Tigri, è stata rasa al suolo e la ricostruzione, patrocinata dall’UNESCO, stenta a decollare. La situazione non è migliore nell’area archeologica di Ninive, sulla riva opposta del fiume, quasi del tutto trascurata da chi è intervenuto. A due anni dalla liberazione della città, gli interventi di recupero devono ancora iniziare». Quale situazione avete trovato nell’area archeologica di Mosul? «Le équipe del MiBAC e dell’Università di Heidelberg sono
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state le prime a visitare il sito dopo l’occupazione: ha subito danni molto gravi. Si tratta di un’area di ben 750 ettari, dieci volte piú grande di Pompei, che ne misura 60-70. La metà meridionale è coperta dalla città moderna, mentre quella settentrionale – circa 300 ettari – è in parte occupata dalle rovine di epoca assira, in parte intaccata da costruzioni abusive». Nessuno potrà dimenticare le immagini della distruzione delle preziose sculture assire di Ninive… «A colpi di piccone e martello pneumatico è stata distrutta la scultura colossale di toro androcefalo alato che proteggeva uno degli ingressi di Ninive, e, con le ruspe, anche i rilievi figurati del “Palazzo Senza Eguali” di
Nella pagina accanto: una delle gallerie scavate a Ninive dai miliziani dell’ISIS. Qui accanto: una delle trincee militari scavate a ridosso delle mura di Sennacherib.
In alto, a destra: lo stato in cui versa la Sala del Trono del Palazzo Reale. A sinistra: frammento di un rilievo distrutto e abbandonato. Sennacherib, costruito tra il 702 e il 693 a.C., i cui esemplari piú importanti sono conservati al British Museum di Londra. I pezzi rimasti in situ, per i quali era previsto un programma di conservazione all’aperto mai attuato, a causa della guerra scoppiata nel 2003, sono stati distrutti. Si tratta delle parti basse della decorazione della Sala del Trono: nel 2015 sono state martellate e lasciate al suolo. I frammenti sono ancora lí, abbandonati a terra, con tanto di iscrizioni cuneiformi, decorazioni con cortei di personaggi e animali. Non sono stati trafugati, ma distrutti solo per sfregio». Quali altre distruzioni ha subito il sito di Ninive? «La collina reale di Ninive – Tell Kuyunjik – è stata trapassata da parte a parte da gallerie comunicanti scavate dai miliziani
per nascondersi, durante gli attacchi aerei. I danni subiti dalla stratigrafia archeologica sono incalcolabili. Ci sono poi 12 enormi trincee, di 100 x 30 m, scavate a ridosso delle mura della città di Sennacherib, costruite in mattoni crudi quindi molto delicate. In alcuni punti ci sono 4-5 m di resti archeologici in sezione e Dio solo sa che cosa possa essere stato saccheggiato. Nel corso della prima missione abbiamo eseguito un rilievo tecnico molto accurato e oggettivo dell’area, attraverso sopralluoghi a terra e con il drone. Abbiamo redatto un report della situazione, dove è tutto documentato, ma è rimasto sulla carta». Perché nessuno è intervenuto? «Servirebbero 3-4 milioni di euro per tamponare i danni, ma al momento non c’è la volontà politica di spenderli. E i resti antichi
deturpati sono esposti alle intemperie. Il nostro intervento di mappatura sul campo, finanziato dalla Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri, è appena terminato. Adesso bisognerebbe intervenire, ma non si sa cosa accadrà. E il report archeologico rimane lettera morta». Lei coordina missioni sul campo, in Iraq, dal 2004. Quali sono stati gli interventi piú efficaci portati a termine in questi anni? «Senza dubbio il ripristino dei laboratori di restauro al Museo di Baghdad, realizzato pochi mesi dopo la fine della guerra del 2004. Quindi iniziammo a restaurare i pezzi trafugati durante l’assalto al museo della capitale, che nel tempo venivano recuperati o restituiti, tra i quali spicca il “Vaso di Warka”, restituito grazie a un’operazione di intelligence delle autorità irachene: un capolavoro proto-sumero in alabastro, risalente al 3000 a.C. Era riapparso, in pezzi, pochi mesi dopo la fine della guerra, nel 2004: iniziammo a restaurarlo, ma subito dopo la situazione precipitò e l’allora ambasciatore italiano a Baghdad, Gianluca De Martino, ci impose di non lavorare piú al museo, poiché troppo pericoloso. Il restauro del
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In alto: costruzioni abusive nell’area di Ninive. A sinistra: Alessandro Bianchi osserva una stratigrafia esposta dagli sbancamenti. vaso è stato dunque terminato dieci anni piú tardi, nel 2013». Quali altri interventi sul patrimonio archeologico avete condotto, in Iraq, in quei dieci anni di guerra? «Abbiamo portato avanti corsi di formazione e restauro in zone piú tranquille, come a Erbil, nel Kurdistan iracheno, e realizzato interventi a Baghdad all’interno della zona verde, tra cui un corso di restauro degli avori destinato a un gruppo di ricercatori del Museo di Baghdad, nel 2011. Al museo si conservano infatti circa 1200 frammenti di avorio recuperati dagli archeologi tedeschi negli scavi condotti a Warka (Uruk)». Come definirebbe l’attuale situazione dell’Iraq? «Brutta: il Paese è distrutto moralmente e fisicamente, la gente è prostrata dalle guerre. E pensare che questa “terra tra i due fiumi” è stata la culla della civiltà umana! Vicino Nassiriya si conservano le rovine di Ur, uno dei primi insediamenti abitati della bassa Mesopotamia, risalente al IV
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millennio a.C. Si tratta di un sito archeologico fragilissimo, che rischia di scomparire e la causa non è la guerra, ma il declino amministrativo dell’Iraq, il cui sistema non è piú efficace». Di che cosa avrebbe allora bisogno l’Iraq, innanzitutto, per salvare il suo patrimonio archeologico? «Serve un forte sostegno alle istituzioni locali, da un punto di vista tecnico e amministrativo. Bisognerebbe potenziare la capacità gestionale in loco, mentre tutti gli organismi internazionali – compresi l’UNESCO o il World Monuments Fund – realizzano progetti senza curarsi della crescita delle amministrazioni irachene. Tutte le zone di guerra, soprattutto quelle ricche, diventano terra di nessuno: le organizzazioni internazionali intervengono con approccio autoreferenziale, inviando tanti denari, ma curandosi poco di trasferire alla popolazione locale, che ha vissuto la disgrazia della guerra, la capacità di risorgere con le proprie forze. Anche nel
mondo dell’archeologia, spesso, si ha interesse soltanto per lo scavo dei siti e molti, dopo aver studiato e pubblicato i materiali rinvenuti, se ne vanno, senza lasciare nulla a livello strutturale». Eppure in questi anni i finanziamenti non sono mancati... «Credo che all’Iraq e al suo patrimonio siano state destinate alcune centinaia di milioni di dollari: soldi che hanno lasciato poco e molte chiacchiere. Tra la famelicità dei soccorritori e l’incapacità degli Iracheni, l’archeologia in Mesopotamia sta morendo, nella sostanziale indifferenza. A Ninive, se non si interviene per la messa in sicurezza, il sito archeologico scomparirà del tutto nel giro di pochi anni. È come una ferita aperta che, se continua a sanguinare, non guarirà mai. Con i denari delle organizzazioni internazionali si finanzia una pratica di consulenze che non hanno nulla di strutturale. Si tamponano le emergenze, con tende e cibo, ma senza alcun interesse ad affrontare i nodi veri del problema. Bisognerebbe potenziare i rapporti bilaterali in modo da agevolare il trasferimento delle competenze, senza passare necessariamente per le organizzazioni dedite all’emergenza pura. Passate le bombe, occorre trasferire le conoscenze. E fare le cose per gli altri, non per se stessi».
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MUSEI Puglia
I PEUCETI DI GIOIA DEL COLLE
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llestito nel castello normanno-svevo di Gioia del Colle (Bari), tra le piú importanti opere fortificate di epoca federiciana documentate in Italia, il Museo Nazionale Archeologico è stato inaugurato nel 1976 ed è attualmente gestito dal Polo Museale della Puglia (vedi anche il box alla pagina successiva). «Per la creazione del museo – spiega la sua direttrice, Angela Ciancio – è stata determinante la necessità di raccogliere e conservare l’imponente documentazione archeologica proveniente dall’antico abitato di Monte Sannace, situato su di un colle 5 km circa a nord-est di Gioia. Nella località, nota per i ritrovamenti di oggetti antichi sin dalla seconda metà dell’Ottocento, il primo scavo ufficiale risale al 1929: dal 1957 cominciano le ricerche regolari a cura della Soprintendenza archeologica, nella zona bassa dell’abitato e sull’acropoli, ricerche che proseguono tuttora,
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con la collaborazione dell’Università di Bari». Il percorso di visita si sviluppa fra il piano terra (sale 1, 2) e il primo piano (sale 3, 4, 5) del monumento e affronta il tema «Vivere in una città della Puglia antica». L’esposizione è articolata in sezioni tematiche e propone oggetti riferibili alla cultura degli antichi Peuceti, datati tra il VII e il III secolo a.C. e provenienti, oltre che dall’abitato e dalle necropoli di Monte Sannace, anche dalla necropoli di Santo Mola. A Casa, lavoro, vita quotidiana è dedicata la prima sala, forte di una
Nella seconda sala, con la sezione Ruoli e funzioni, è esposta la documentazione funeraria acquisita grazie allo scavo dei corredi tombali recuperati nelle sepolture di Monte Sannace, ricchi di ceramiche di straordinaria fattura (vasi a decorazione geometrica e figurati, di produzione locale oppure di importazione greca o magno-greca), statuette fittili votive e oggetti di ornamento personale in bronzo, argento, avorio e ambra, ma anche armi d’offesa in ferro. Notevole è un’armatura di guerriero completa, rinvenuta in una tomba di Conversano e
In alto: la sezione Ruoli e funzioni del Museo Archeologico Nazionale di Gioia del Colle (Bari), allestito nel magnifico castello normanno-svevo della cittadina pugliese. A sinistra: elmo in bronzo facente parte dell’armatura completa di un
guerriero, rinvenuta in una tomba di Conversano (Bari). IV sec. a.C. Nella pagina accanto, in alto: cratere apulo «a mascheroni» attribuito al Pittore di Gioia del Colle raffigurante un guerriero all’interno di un naiskos (tempietto funerario). IV sec. a.C.
ricca selezione di materiali (vasi per derrate, macine e fornelli, ceramiche da fuoco e da mensa, strumenti di lavoro e prodotti dell’artigianato, tegole e materiale edilizio, colonne, capitelli ed elementi architettonici policromi), che documentano le attività primarie e di sussistenza svolte dalla comunità peuceta, le sue occupazioni e l’organizzazione della vita domestica.
databile al IV secolo a.C., composta da elmo, corazza, cinturone a fascia e schinieri di bronzo. Sempre nella seconda sala emerge una placchetta di avorio con testa di sileno a bassorilievo, elemento decorativo di un letto da banchetto, mentre tra le forme ceramiche si possono ricordare: un grande cratere apulo «a mascheroni» a figure rosse attribuito al Pittore di Gioia del Colle (IV secolo a.C.) con
IDENTIKIT DEL MUSEO
Una casa per la storia del territorio
Il Museo Archeologico Nazionale di Gioia del Colle nasce nel 1976 ed è da allora il punto di confluenza di tutti i reperti di Monte Sannace e del suo comprensorio territoriale. Nel 1977 prende avvio, inoltre, l’acquisizione al demanio statale della vicina area archeologica, che, nei successivi anni Novanta, viene trasformata in Parco archeologico e naturalistico, custodito, attrezzato e aperto al pubblico, attualmente gestito dal Polo Museale della Puglia. Negli stessi anni il museo gioiese amplia e ristruttura i propri spazi, dotandosi di un laboratorio di restauro, di una sezione di uffici e archivi, di un’aula didattica e di un ambiente destinato all’accoglienza del pubblico, con bookshop e caffetteria. Nel 2014 una nuova sezione espositiva viene aperta al primo piano dell’edificio, con l’allestimento di tre nuove sale, e s’inaugura un nuovo percorso espositivo, dedicato alle genti antiche di Monte Sannace, alla evoluzione della loro cultura, agli aspetti della ideologia e della religione e alla narrazione del loro vivere quotidiano.
raffigurato un giovane guerriero armato di lancia e scudo all’interno di un naiskos (tempietto funerario) tra figure di giovani e fanciulle offerenti; uno splendido rhyton apulo a figure rosse (vaso potorio per il consumo del vino) a testa di cervo (metà del IV secolo a.C.) con una battuta di caccia notturna (un satiro con la fiaccola illumina il percorso nel bosco a un giovane cacciatore); un cratere a campana protoitaliota a figure rosse, attribuito al Pittore di Amykos (fine del V secolo a.C.) con scena di carattere dionisiaco (Satiro che insegue una Menade); un cratere
a colonnette di produzione apula a figure rosse con raffigurazione di una processione notturna (Menade con tirso preceduta da un giovane satiro, con fiaccola accesa con cui illumina il percorso, e seguita da un altro giovane in movimento verso destra). Chiude il percorso la sezione Ideologia e stile di vita, incentrata sui rapporti e gli scambi intercorsi tra i Peuceti di Monte Sannace e culture esterne: vi sono esposte importanti ceramiche d’importazione provenienti dalla Grecia o dalle poleis della Magna Grecia, trovate nei livelli piú antichi Antefissa in terracotta con testa di Gorgone proveniente dagli scavi dell’acropoli di Monte Sannace. Fine del VI-inizi del V sec. a.C.
dell’abitato e in sepolture di personaggi eminenti. Spicca il grande cratere corinzio a figure nere detto «di Memnon», risalente al VI secolo a.C. e attribuito all’omonimo pittore, attivo a Corinto in età arcaica. Sul lato principale del vaso sono raffigurate scene omeriche della guerra di Troia, in particolare il combattimento tra l’eroe greco Achille e il barbaro Memnone, mentre sul lato opposto è rappresentata una processione di donne ammantate, che procedono solenni condotte da un corifeo. Giampiero Galasso
DOVE E QUANDO Museo Archeologico Nazionale-Castello Svevo Gioia del Colle (Bari), piazza dei Martiri del 1799 n. 1 Orario tutti i giorni, 8,30-19,30 Info tel. 080 3481305; e-mail: pm-pug.museogioiadelcolle@ beniculturali.it; www.musei.puglia.beniculturali.it/
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n otiz iario
ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
TRE ANTICHE «REGINE» Come scrive Marco Bonechi (vedi l’articolo alle pp. 1 2 68-81), quella di Ebla, Mari e Ugarit è una storia piuttosto complessa e, nel tempo, si era persa la memoria delle tre città, centri molto importanti per delineare lo sviluppo delle culture della regione siro-palestinese fino a circa il 1200 a.C. e, come altri insediamenti di rilievo, non citate dalla Bibbia, a 3 4 differenza di quanto avvenuto per Harran (1), nell’odierna Turchia, da dove, secondo il Libro della Genesi, partí la famiglia di Abramo verso Canaan. Ma le tre città siriane hanno col tempo restituito preziosissime testimonianze archeologiche, soprattutto grazie alla scuola archeologica francese che, all’inizio del secolo scorso, scopre prima Ugarit nella località di Ras Shamra, e subito 5 6 dopo Mari, nel sito di Tell Hariri. Ebla, invece, è 7 esplorata da una spedizione italiana diversi decenni piú tardi, nel 1964, e, da allora, ha restituito reperti molto importanti soprattutto dal punto di vista filologico attraverso le numerose tavolette di scrittura cuneiforme. Ecco dunque i collegamenti filatelici con le tre città e i relativi reperti archeologici. Mari, posta sulla 8 9 sponda dell’Eufrate (2) e salvata dalla costruzione della diga (3), ha fornito notevoli tesori tra i quali: 10 esempi di scrittura cuneiforme (4), statue di varie dimensioni che raffigurano la dea del vaso (5) e il re Lamgi (o Isqui) Mari (2520-2480 a.C.; 6). Sulla statua di Shibum (7), Capo del Catasto, è riportato il nome di un altro re, Igun Shamagan. Infine, la statua del re Ishtup-Ilumm (8) e quella di 11 12 una sacerdotessa del tempio di Ishtar (9). Da Ugarit proviene la famosa «Testa di principessa», qui mostrata in due diverse emissioni, del 1964 (10) e del 2018 (11), nonché molte tavolette con scrittura cuneiforme (12) e un’altra statua (13). A Ebla, infine, sono state trovate preziose 13 14 15 iscrizioni cuneiformi (14), un bassorilievo con cerimonia sacra (15), numerose sculture (16) e il famoso leone d’oro (17). IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
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Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure
Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it
CALENDARIO
Italia ROMA Il classico si fa pop
Di scavi, copie e altri pasticci Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo e Crypta Balbi fino al 12.05.19
La Roma dei Re
Il racconto dell’archeologia Musei Capitolini fino al 02.06.19 (prorogata)
BOLOGNA Ex Africa
Storie e identità di un’arte universale Museo Civico Archeologico fino all’08.09.19
CAGLIARI Le Civiltà e il Mediterraneo
Museo Archeologico e Palazzo di Città fino al 16.06.19
CASTELFRANCO EMILIA (MODENA) Una sosta lungo la via Emilia, tra selve e paludi La mansio di Forum Gallorum a Castelfranco Emilia Museo Civico Archeologico «Anton Celeste Simonini» fino al 10.06.19
COMACCHIO Troia
La fine della città, la nascita del mito Palazzo Bellini fino al 27.10.19
CORTONA 1738 Marcello Venuti alla scoperta di Ercolano
Mæternità
Politica e cultura fra Cortona e Napoli MAEC-Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 02.06.19
Storie di vita
FINALE LIGURE BORGO (SAVONA) Clarence Bicknell e la Preistoria nel Finale: una riscoperta
Maternità e allattamento nell’Italia antica Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Sala di Venere fino al 02.06.19 Gli antichi romani raccontati dalla scienza Museo delle Civiltà-Museo preistorico etnografico «Luigi Pigorini» fino al 30.06.19
Roma Universalis
L’impero e la dinastia venuta dall’Africa Colosseo-Foro Romano-Palatino fino al 25.08.19
Volti di Roma alla Centrale Montemartini
Fotografie di Luigi Spina Musei Capitolini, Centrale Montemartini fino al 22.09.19
Mortali Immortali
Tesori del Sichuan nell’antica Cina Mercati di Traiano Museo dei Fori Imperiali fino al 18.10.19
Claudio Imperatore
Messalina, Agrippina e le ombre di una dinastia Museo dell’Ara Pacis fino al 27.10.19 32 a r c h e o
Museo Archeologico del Finale fino al 03.11.19
GENOVA 100 mila anni in Liguria
Tra Mediterraneo ed Europa Museo di Archeologia Ligure fino al 09.06.19
MILANO Il viaggio della Chimera Civico Museo Archeologico fino al 12.05.19
MODENA Storie d’Egitto
La riscoperta della raccolta egiziana del Museo Civico di Modena Museo Civico Archeologico Etnologico fino al 07.06.20
MONTERIGGIONI, SIENA Monteriggioni prima del Castello Una comunità etrusca in Valdelsa Abbadia Isola, Sala Sigerico fino al 25.08.19 (prorogata)
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
NAPOLI Canova e l’Antico
Museo Archeologico Nazionale fino al 30.06.19
Sacra Neapolis
Culti, miti, leggende Lapis Museum, Basilica della Pietrasanta fino al 15.12.19
ORVIETO Mario Schifano: visioni etrusche
Museo Etrusco «Claudio Faina» fino al 31.08.19
SIRACUSA Archimede a Siracusa Experience exhibition Galleria Civica Montevergini fino al 31.12.19
TARANTO TesORI clandestini
Dal saccheggio alla valorizzazione» Chiostro del convento di San Domenico fino al 28.06.19
MitoMania
Storie ritrovate di uomini ed eroi Museo Archeologico Nazionale di Taranto fino al 10.11.19
TORINO Goccia a goccia dal cielo cade la vita
Acqua, Islam e arte MAO, Museo d’Arte Orientale fino al 01.09.19
Archeologia Invisibile Museo Egizio fino al 06.01.20
VILLANOVA DI CASTENASO (BO) Oggetti dal quotidiano
Un giorno all’interno di un villaggio villanoviano MUV, Museo della civiltà Villanoviana fino al 09.06.19
Città del Vaticano MUSEI VATICANI Collezioni in dialogo Museo Gregoriano Egizio fino al 30.06.19
Francia PARIGI Regni dimenticati
Dall’impero ittita agli Aramei Museo del Louvre fino al 12.08.19
LENS Omero
Museo del Louvre fino al 22.07.19
VALLON-PONT-D’ARC Di leoni e di uomini Leggende feline: 400 secoli di fascino Grotte Chauvet 2 fino al 22.09.19
Germania BERLINO Il paesaggio culturale della Siria
Conservazione e catalogazione in tempo di guerra Pergamonmuseum fino al 26.05.19
Grecia ATENE Gli infiniti aspetti della bellezza Museo Nazionale Archeologico fino al 31.12.19
USA NEW YORK Il mondo fra gli imperi
Arte e identità nel Vicino Oriente antico The Metropolitan Museum of Art fino al 23.06.19
Belgio BRUGES Mummie
Segreti dell’antico Egitto Xpo Center Bruges fino all’01.09.19 a r c h e o 33
STORIA • LA NASCITA DELLE CITTÀ
NASCITA DI UNA CITTÀ
A PROPOSITO DELLA FONDAZIONE DI ROMA, NARRA VARRONE CHE ROMOLO AVREBBE DISTRIBUITO A OGNI CAPOFAMIGLIA, CIRCA MEZZO ETTARO DI TERRA. L’EVENTO ATTIENE PIÚ ALLA NARRAZIONE MITOLOGICA O, FORSE, CONTIENE UN NOCCIOLO DI VERITÀ STORICA? IN QUESTO ARTICOLO, FRANCESCO DI GENNARO TORNA INDIETRO NEL TEMPO, ALLE ORIGINI STESSE DELLA CIVILTÀ DI ETRURIA E LAZIO, PER SUGGERIRE, CON I SOLI DATI ARCHEOLOGICI ALLA MANO, COME SI CONFIGURÒ QUELL’EVENTO STORICO, UNICO E DECISIVO… di Francesco di Gennaro
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In alto: carta dell’Etruria con l’indicazione delle città piú importanti in essa comprese. A sinistra: ricostruzione grafica del probabile aspetto del colle del Campidoglio (Roma) in epoca protostorica.
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a nostra è una civiltà urbana, fondata sulla città, entità che si contrappone con peso diseguale e preponderante ai territori extraurbani e al reticolo degli insediamenti minori. La città non era e non è un punto d’arrivo obbligatorio (esistono al mondo aree in cui non si è mai approdati all’entità urbana), ma, dal momento che la storia dell’uomo sulla terra ha fatto prevalere il sistema imperniato sulle metropoli, il tema della formazione della città ha sempre rivestito un ruolo centrale nella ricerca antropologica. La nascita delle città in Italia centrale era attribuita a un’ispirazione pervenuta da civiltà esterne, con particolare riferimento ai Greci, anche quali possibili mediatori con l’Or iente, anticipatore di
Artimino Quinto
Bolsena Castro Bisenzio Acquarossa
Tuscania
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Sutri Nepi Narce Gravisca S. Giovenale Lago di Capena Bracciano Pyrgi
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questo come di altri fenomeni culturali. Una grande scoperta dell’ultimo cinquantennio è che, invece, nella Penisola italiana le città nacquero autonomamente, ben prima dei contatti diretti con i colonizzatori ellenici. Questa formazione in loco riguarda innanzitutto l’Etruria e poi Roma e la Campania, mentre nel Sud della Penisola e in Sicilia la città venne effettivamente importata dai Greci, costruttori di colonie talvolta meglio organizzate delle città della madrepatria; ma ciò avvenne circa due secoli dopo la nascita dei grandi centri «villanoviani», databile al periodo di passaggio tra l’età del bronzo finale e la prima età del ferro (X secolo a.C.). La poleogenesi (la nascita delle città) tirrena è stata oggetto di indagine soprattutto nell’Etruria meridionale – corrispondente agli attuali Lazio settentrionale, Umbria sud-occidentale e al lembo meridionale della Toscana –, ove l’evento stesso comportò una profonda riorganizzazione di tutti gli aspetti del mondo protostorico:
insediativo, sociale, economico, tecnologico, agrario, ecc. Per quest’area, i numerosi dati archeologici disponibili consentono di riassumere le linee generali del processo di etnogenesi, cioè di formazione del popolo che molti anni dopo sarebbe stato denominato Etruschi. Un processo storico che, come si diceva, è stato individuato da qualche decennio, ma i cui particolari rimangono largamente incerti e, in parte, potranno meglio delinearsi con lo studio di nuovi ritrovamenti.
NEL III MILLENNIO... Per raccontare, con il costante suggerimento dei dati della ricerca archeologica, i primi passi della storia di lunga durata che portò all’emergere delle grandi città confederate (le cui vicende politiche e militari rappresentano la storia degli Etruschi, interrotta solo con la completa sottomissione da parte di Roma), dobbiamo partire da molto lontano. Nell’età del rame (IV-III millennio a.C., fino al 2300 circa) l’insediaa r c h e o 35
STORIA • LA NASCITA DELLE CITTÀ
spostamenti ciclici: i gruppi che avevano anticipato la mossa della stabilizzazione, infatti, impedivano l’accesso alle sedi tradizionalmente interessate dai periodici ritorni, soprattutto nei casi di quelle circondate dai terreni piú fertili. Tale situazione, ancor prima di una sistematizzazione degli inevitabili conflitti tra le stesse comunità stabilizzatesi, su cui torneremo piú avanti, rese inevitabile l’organizzazione della difesa delle posizioni elette come sedi stabili.
In alto: l’area di Tarquinia (Viterbo) nel Primo Ferro (villanoviano): a tratteggio e punteggio rado, le zone occupate da nuclei abitati.
mento era prevalentemente instabile e una larga parte delle attività di sussistenza dei gruppi era condotta in ampi areali geografici, anche con ritorni ciclici in luoghi tradizionalmente eletti a sedi abitative. Alla stabilizzazione dell’insediamento si pervenne nel corso della successiva età del bronzo, quando venne conseguita nei territori che potevano supportarla sulla base delle risorse specifiche. Sia pure semplificando, possiamo osservare che tra i fattori che consentirono la nuova modalità dell’occupazione stabile vi fu il rapido miglioramento della strumentazione disponibile in seguito allo sviluppo della tecnologia del bronzo; in particolare il nuovo strumentario agrario consentí di coltivare con maggiore successo. L’elezione di luoghi di dimora stabile ridusse la possibilità, per gruppi diversi da quelli che si insediavano in modo «definitivo», di praticare un’economia legata a
BEN DIFESI E VICINI ALLE TERRE Nella scelta vennero dunque privilegiati luoghi dotati per natura di una difendibilità dell’area riservata all’insediamento, condizione che si manifesta essenzialmente nelle alture con una sommità isolata da un perimetro acclive o, comunque, valicabile con difficoltà. Nel territorio medio-tirrenico si offrono come particolarmente idonee a tal fine le porzioni dei banchi tabulari tufacei isolate dall’erosione (dette «castelline»), le analoghe formazioni a base calcarea, e alcune sommità di colline perlopiú di natura vulcanica. In alcuni casi postazioni elevate e strategicamente irrinunciabili ma non dotate di difese naturali, vennero fortificate artificialmente (Monte Cimino [Soriano nel Cimino,Viterbo], Elceto [Allumiere, Roma]). Gli stanziamenti su alture con perimetro «forte», denominate «aree difese», si affermarono progressivamente, ma non rappresentarono mai la forma esclusiva di insediamento: anche nell’area centrale del sistema territoriale-insediativo dell’Etruria meridionale e – pure nella fase avanzata del processo – sono documentati abitati in posizione aperta, sovente in contatto diretto con le risorse agrarie, a conferma del fatto che l’occupazione delle aree difese
Urna cineraria di stile villanoviano coperta con elmo in terracotta, da una tomba del Primo Ferro di Cerveteri. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. 36 a r c h e o
Vita, morte, fede Veio nel Primo Ferro (villanoviano). Le zone tratteggiate indicano le aree di abitato visibili in superficie, mentre quelle puntinate si riferiscono ai sepolcreti. Sono inoltre numerate le successive aree sacre: 1. Piazza d’Armi: 2. scarico Lanciani; 3. presunto tempio (secondo Ward Perkins); 4. Portonaccio; 5. Campetti; 6. Macchiagrande. La nascita dei grandi centri riferibili a questa fase storica si colloca nel momento di passaggio fra l’età del bronzo finale e la prima età del ferro, vale a dire nel X secolo a.C.
era comunque connessa al possesso e al dominio, da parte delle comunità insediate, del bene primario rappresentato dalla terra. Dette rocche naturali risultano abitate almeno dalla media età del bronzo (XVII-XIV secolo a.C.) quando la forma di occupazione delle corrispondenti estese comunità tribali territoriali contemplava nello spazio circostante numerosi altri insediamenti, sia su aree difese minori, sia in posizioni aperte. Molti degli abitati su area difesa inaugurati nel corso del Bronzo Medio prosperano anche nel successivo Bronzo Recente (XIII secolo a.C.), nel corso della quale si fanno particolarmente evidenti, in tutta la regione, la riduzione numerica degli stanziamenti e l’aumento dimensionale delle aree difese prescelte per la concentrazione dei gruppi familiari. In alcuni casi, già dal Bronzo Recente, si sono accertate anche aree di insediamento al di fuori del ciglio delle castelline occupate. Il processo di selezione degli abitati, il cui numero, a partire dal Bronzo Medio, diminuisce gradualmente, mentre crescono le dimensioni delle singole unità, è stato definito da Renato Peroni
A sinistra: statua in terracotta policroma dal tempio di Portonaccio a Veio, raffigurante Latona con in braccio un bambino, verosimilmente Apollo. 510 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
(1930-2010) e da chi scrive «Progressiva Concentrazione dell’Insediamento». Uno dei caratteri salienti della teoria della progressiva concentrazione dell’insediamento è l’evidente instabilità, nel lungo periodo, delle posizioni sia pur «stabilmente» prescelte, da mettere in relazione causa-effetto con la diffusione della accennata conflittualità tra i corrispondenti piccoli gruppi. Tra i fenomeni che carata r c h e o 37
STORIA • LA NASCITA DELLE CITTÀ
terizzano il processo venne individuato il graduale abbandono degli abitati «in cui le caratteristiche ricercate sono difettose»; tra i difetti dei requisiti rientra anche la ridotta (ovvero «insufficiente») dimensione dell’area difesa.
PIÚ GRANDI E PIÚ DIFENDIBILI Sono necessarie a questo proposito alcune riflessioni sui presupposti e sulla pratica della difesa militare delle sedi abitative. Alle dimensioni progressivamente maggior i di un’area geometrica – e quindi anche di un’«area difesa» – corrisponde una crescita proporzionalmente minore dello sviluppo lineare del perimetro; per fare un esempio, se un riquadro di 1 km² ha un perimetro di 4 km, un riquadro di 9 km² è contenuto in un perimetro di «soli» 12 km. Ne consegue che le difficoltà di reperimento di un numero sufficiente di uomini da impiegare nella difesa del perimetro di una rocca – che assurgono a livelli critici sotto i 4 ettari – decrescono, fino a risolversi definitivamente, con la scelta di aree difese di maggiore estensione. Quanto illustrato rappresenta probabilmente uno dei motivi per cui, nel corso del processo di progressiva 38 a r c h e o
concentrazione dell’insediamento, le comunità del Tardo Bronzo tendono ad abbandonare le rocche minori coagulandosi preferibilmente, e ove disponibili, su aree difese di circa 5 ettari (ma anche di 8-9 e in qualche caso 15 o piú ettari), dimensioni dunque idonee per organizzare una difesa del ciglio dell’abitato senza trascurare le mansioni
militari complementari e irrinunciabili in caso di assedio. Il successo dell’occupazione di molte delle rocche si confermò nell’età del bronzo finale, a partire dal XII secolo a.C., epoca in cui vediamo convivere nel territorio considerato numerosissimi abitati su area difesa e piú scarse presenze insediative secondarie.
In alto: il vasto pianoro sul quale si estendeva l’antica Cerveteri, ai piedi del quale si apre l’ampio fondovalle attraversato dal Fosso della Mola. In basso: urna cineraria a capanna, in ceramica d’impasto, dalla tomba 2500 di Pontecagnano. X sec. a.C. Pontecagnano, Museo Archeologico Nazionale.
PARALLELI MICENEI Qualche suggerimento del tutto indicativo sull’organizzazione complessiva e sulla possibile instaurazione di leghe, con funzioni occasionali o di piú lunga durata, può essere ricavato dalla contemporanea manifestazione, nel Mediterraneo orientale, del sistema delle cittadelle micenee, pur tenendo conto del piú avanzato stadio di sviluppo raggiunto dall’ambito egeo. La disposizione, l’autonomia e la densità di queste rocche all’interno di un sistema territoriale, che si può agevolmente circoscr ivere almeno per quanto riguarda l’Etruria meridionale, fa pensare che anche la viabilità interna fosse condizionata dal far sí che essa toccasse tutti i nodi della rete insediativa e obbligasse a transitare nelle singole sedi del dominio territoriale. Nel complesso, il lungo periodo che corrisponde a gran
parte del II millennio a.C. – dal Bronzo Medio al Bronzo Finale – e che precede la rivoluzionaria unificazione politico-territoriale altresí nota come «svolta (proto)urbana» dell’Etruria, fu dunque un’epoca in cui il territorio era costellato e controllato da una rete di cittadelle perlopiú omologhe, ognuna arroccata sulla sua area difesa, con un territorio di pertinenza di piú chilometri quadrati (in alcuni casi fino a qualche decina): un modulo che, per dare un’idea al lettore, si può confrontare con quello dei comparti comunali attuali.
LA SVOLTA PROTOURBANA Il momento maturo del processo di progressiva concentrazione dell’insediamento vede un numero di insediamenti primari presumibilmente non superiore alle 100 unità, quasi tutti in luoghi riconducibili alla classe delle aree difese, nel territorio che successivamente sarà suddiviso tra le sei città di Veio, Cerveteri, Tarquinia, Vulci, Volsinii (Orvieto) e Bisenzo. La fase della cosiddetta «svolta protourbana», evento finale e coerente – seppur parossistico per portata e rapidità – del processo di concentrazione dell’insediamento, separa dunque un’epoca con occupazione diffusa da un momento successivo, in cui la regione è divisa in sei territori protostatali gestiti da altrettanti grandi abitati impostati su amplissime formazioni morfologicamente unitarie. I luoghi nei quali si concentrò la popolazione presentano gli stessi caratteri morfologici da secoli privilegiati, in particolare per ciò che riguarda la definizione fisica e l’invalicabilità del perimetro; tuttavia, le dimensioni enormemente maggiori – in media 20 volte – di queste aree difese rispetto a quelle del periodo precedente avevano certamente impedito alle piccole comunità dell’età del bronzo di perce-
Una grande città etrusca e le sue necropoli Per fondare Cerveteri, gli Etruschi scelsero, già dal Primo Ferro, un pianoro tufaceo ben difendibile e delimitato da due corsi d’acqua: il Fosso del Manganello a nord e il Fosso della Mola a sud. Le necropoli occuparono pianori con caratteristiche simili, posti al di fuori dell’area abitata sulle colline circostanti. I sepolcreti piú antichi sono quelli del Sorbo, a occidente, e quello in località Cava della Pozzolana, a oriente. Ma i complessi piú importanti e monumentali sono quelli della Banditaccia, a settentrione, e di Monte Abatone, a meridione. Questa articolazione è sintetizzata dalla pianta, nella quale sono segnalate tutte le piú importanti aree archeologiche citate. La pianta, inoltre, offre un’immagine eloquente della vastità del sito: si calcola che nella fase di massima fioritura Cerveteri fosse abitata almeno da 25 000 persone.
pirne le potenzialità, che si appalesavano finalmente agli occhi di chi cercava la sede idonea per una comunità in rapida crescita. Il «rivoluzionario» spostamento delle sedi, che avviene in un periodo
piuttosto breve, valutabile complessivamente in anni o al massimo in qualche decennio, dimostra la volontà dei gruppi di unirsi, con esiti dirompenti e fruttuosi. Proprio la radicalità di questo fenomeno ha a r c h e o 39
STORIA • LA NASCITA DELLE CITTÀ
determinato la definizione convenzionale del passaggio dall’età del bronzo alla prima età del ferro. Poiché, nel passo cosí compiuto dalle comunità protostor iche dell’Etruria, sono complete le premesse per la successiva, graduale strutturazione interna dei centri urbani, va indubbiamente riconosciuta in questo momento la nascita della città antica, nonché dell’organizzazione statale in Italia.
CAPITALI TERRITORIALI I centri maggiori del periodo iniziale della prima età del ferro, nei quali si sviluppa repentinamente l’aspetto culturale e stilistico villanoviano, assurgono al ruolo di central places (letteralmente, località centrali; da intendersi come gli insediamenti gerarchicamente piú importanti nell’ambito di un determinato territorio) nei rispettivi vasti territori di pertinenza, gestiti anche tramite pochi centri satellite,
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mentre la fascia costiera (come si osserva in particolare per Tarquinia) è a tratti abitata cosí densamente come mai era stata in precedenza. Già nei primi anni di vita di questo nuovo sistema, le spedizioni navali organizzate dalle grandi città solcavano il Tirreno, dove, con ogni probabilità, la compagine di Pontecagnano (provincia di Salerno; località nella quale è attestata la presenza di una comunità villanoviana) distrusse l’insediamento di Lipari e dove, dalla costa dell’Etruria, le navi raggiungevano regolarmente la Gallura (ritrovamenti di Tavolara; vedi «Archeo» n. 397, marzo 2018; anche on line su issuu.com). Tra i molti argomenti di dettaglio che restano da precisare nel prosieguo delle ricerche, ricordiamo: la possibilità che l’occupazione dei grandi pianori possa essere iniziata in una fase in cui i villaggi sparsi continuavano a vivere, e che ci sia stato quindi un breve periodo di
contemporaneità; l’iniziale espansione di alcuni insediamenti oltre i limiti dell’area difesa, ben esemplificata dal caso dei Monterozzi a Tarquinia; le ragioni di una discontinuità di insediamento meno netta che altrove nel territorio di Volsinii. Altro importante argomento, che riguarda un periodo successivo alla fase di unificazione interna, è quello della rioccupazione dell’agro. Il ripopolamento, non «spontaneo» ma perseguito e diretto dai neonati centri urbani, si percepisce già nel corso della prima età del ferro, ma non prima della fine del suo periodo iniziale; il recupero demografico delle campagne vede spesso la ripresa dell’occupazione delle postazioni nodali della fase pre-urbana, temporaneamente abbandonate nel periodo iniziale della prima età del ferro, ma forse mai dimenticate in seno alla nuova e dislocata comunità. In sintesi: la storia delle città-stato etrusche si apre quando ai piccoli
A destra: ricostruzione dell’impianto urbanistico di Vulci durante l’epoca arcaica, quando la città si estendeva su di una superficie pari a 90 ettari circa, peraltro piú ridotta di quella del Primo Ferro.
A sinistra: veduta della rocca di Tuscania (Viterbo), i cui edifici medievali occupano la sommita di una «castellina», vale a dire una di quelle alture tufacee, tipiche del paesaggio tosco-laziale, naturalmente ben difese e dunque privilegiate per l’insediamento già nell’età del bronzo.
reami sostanzialmente equipollenti si sostituiscono i grandi insediamenti in cui si concentrano le comunità; formando raggruppamenti sociali piú estesi, e nei quali si manifesta una nuova organizzazione, che investe un vasto comparto territoriale di pertinenza con una struttura insediativa e un’azione complessiva che può definirsi di tipo statale.
ROMA: UN CASO PARTICOLARE? La città di Roma nacque sulla sponda del Tevere opposta a quella controllata da Veio, laddove, allo stato attuale delle conoscenze, si situa l’unico abitato dell’ultima fase dell’età del bronzo conosciu-
to in un ampio territorio, ben distanziato dagli insediamenti circostanti. Molti secoli prima, l’elemento catalizzatore era stato il colle del Campidoglio, una rocca con area difesa di oltre 4 ettari, in prima fila sul Tevere, in corrispondenza del guado piú importante del suo basso corso, e direttamente affacciata anche sulla amplissima pianura poi denominata Campo Marzio (vedi il disegno ricostruttivo in apertura dell’articolo, alle pp. 34/35, rispetto al quale occorre però immaginare un tessuto abitativo molto piú fitto e strutturato). L’altura tufacea si presentava isolata, salvo l’esile cresta di connessione con il Quirinale, di facile sbarramento; sugli altri fronti vi erano a r c h e o 41
STORIA • LA NASCITA DELLE CITTÀ
che in momenti non avanzati della media età del bronzo il corso del Tevere non costituiva un confine per le manifestazioni culturali. Questa sorta di comunanza tra l’area di Roma e la prospiciente Etruria (comunanza che investe peraltro anche la Sabina) è troppo antica perché si possa stabilire una correlazione tra le due entità al momento e nei modi della formazione urbana. Quest’ultima, infatti, ebbe luogo oltre mezzo millennio piú avanti, quando i caratteri culturali dei due gruppi separati dal Tevere si erano definitivamente differenziati. L’afferenza dell’area romana a manifestazioni proprie dell’Etruria appare invece significativa se consideriamo che le vicende precedenti la «fondazione di Roma» attestano, per l’insediamento dell’età del bronzo di Roma-Campidoglio, un percorso condiviso con la maggioranza dei centri del distretto geografico medio-tirrenico. Il successo della scelta della posizione occupata dalla Roma della media età del bronzo è confermato dal vigore dell’insediamento formazioni collinari di analoga In alto: natura ma non altrettanto isolate, ricostruzione eccettuato il Palatino, le cui digrafica del mensioni erano troppo al di sopra probabile aspetto delle possibilità di controllo di una del colle del comunità di poche centinaia di Campidoglio individui; la stessa considerazione all’indomani della vale per il piú lontano Aventino. costruzione del Di fatto l’altura del Campidoglio, tempio di Giove nel suo complesso (Capitolium, Capitolino. Asylum e Arx) fu prescelta come A destra: sede di una comunità già dalla planimetria della media età del bronzo. Roma serviana,
AFFINITÀ CULTURALI A tale proposito non si può trascurare il fatto che, nel Bronzo Medio, i caratteri di cultura materiale del gruppo che scelse come sede e centro della comunità territoriale il colle del Campidoglio sono condivisi con l’Etruria meridionale. È infatti archeologicamente accertato 42 a r c h e o
con l’indicazione dei colli e della cinta muraria.
Mura serviane (IV sec. a.C.)
Quirinale
Campo Marzio
Viminale Cispio Esquilino Suburra
Campidoglio
Foro Romano Isola Tiberina Velabro Trastevere
Fagutale Velia Oppio
Palatino Celio
re ve Te
Aventino
nella successiva età del bronzo recente, che corrisponde alla fase in cui nell’area medio-tirrenica gli insediamenti su aree difese superano numericamente, come già ricordato, quelli in posizioni aperte o su alture minori.
ROMA COME ATENE Anche a prescindere dalla tradizione che poneva la città di Saturno (secondo la tradizione, il dio, cacciato dal figlio Giove, si sarebbe rifugiato nella regione d’Italia che da lui prese il nome di Lazio perché lí si nascose, lateo, n.d.r.), la prima antenata di Roma, sul Campidoglio, la centralità dell’abitato capitolino ancora nell’età del bronzo finale sembra provata archeologicamente dal fatto che tutte le tombe di quella fase dell’area romana sono a una distanza compatibile con una pertinenza allo stesso insediamento del Campidoglio. Scavi recenti hanno attestato che la frequentazione dell’altura non si interrompe neppure nella successiva prima età del ferro. In seguito il colle capitolino rimase emarginato in seno all’abitato che aveva generato e divenne sede di templi, di edifici e di funzioni pubblici. Tra gli abitati protostorici dell’area medio-tirrenica si rilevano altri casi in cui lo spopolamento del settore di piú antica occupazione venne a concidere con una nuova destinazione comunitaria e spesso sacrale. Una destinazione verosimilmente deliberata e voluta, proprio in considerazione della nobile funzione di «nucleo generatore» svolto da quell’originario abitato. Non si può trascurare l’evidente parallelo con l’acropoli di Atene, che, oltre a essere la primaria area sacra della piú importante polis greca, ne era stata certamente l’originale polo di attrazione.
Antefissa in terracotta dipinta, dal Giardino Romano dei Musei Capitolini, l’area scoperta che segnava il limite tra palazzo dei Conservatori e palazzo Caffarelli. 530-510 a.C. Roma, Musei Capitolini.
Nella prima età del ferro, la «svolta urbana» di Roma con l’ampliamento sulle alture circostanti il Campidoglio, e in particolare sul Palatino, appare logica e organica, ma è difficile che la Roma della prima età del ferro possa aver escluso dal suo perimetro la rocca del Campidoglio. In ogni caso, la comunità romana non poté non tener conto dei risultati conseguiti dalle comunità dell’opposta sponda del Tevere, con le quali doveva necessariamente confrontarsi e scontrarsi, e a cui dovette a essi ispirarsi. La veridicità storica dell’episodio,
tramandato da Varrone (De re rustica), in cui si parla dell’assegnazione, da parte di Romolo, di due iugeri di terra (circa mezzo ettaro) a ogni capofamiglia, è stata messa in discussione. Eppure, se questo aspetto della narrazione intorno alla fondazione di Roma derivasse da tradizioni condivise con l’Etruria, potrebbe suggerire la ragione dello spostamento della popolazione verso i grandi centri in formazione. Rimane il fatto che, con il formarsi dei grandi centri villanoviani sopra citati (ma anche di quelli piú settentrionali, come Vetulonia, Chiusi, Per ug ia, Populonia,Volterra e, al sud, Pontecagnano) e, a Roma, con lo spostamento del centro demografico dal Campidoglio al Palatino, i successivi sviluppi urbanistici e di strutturazione interna sono altrettanti effetti. Effetti che non possono essere presi, a posteriori, come parametri per stabilire se un abitato possa o meno definirsi «città». PER SAPERNE DI PIÚ Renato Peroni, Comunità e insediamento in Italia tra età del bronzo e prima età del ferro, in Storia dei Greci e dei Romani, vol. 13, Einaudi, Torino 2008 Marco Pacciarelli, Verso i centri protourbani. Situazioni a confronto da Etruria meridionale, Campania e Calabria, in Scienze dell’Antichità 15, 2009; pp. 371-416 Alessandro Guidi, Archeologia dell’Early State: il caso di studio italiano, in Ocnus 16, 2008; pp. 175-192 Marco Rendeli (a cura di), Le città visibili. Archeologia dei processi di formazione urbana I. Penisola Italiana e Sardegna, Officina Etruscologia 11, Roma 2015 a r c h e o 43
PARCHI ARCHEOLOGICI • MONTE PELLEGRINO
SUL MONTE
DIVINO
MISTERIOSE INCISIONI RISALENTI A DODICIMILA ANNI FA, UN TESORO DI MONETE PUNICHE, UNA GROTTASANTUARIO DALLE ORIGINI ANTICHE, ANCORA OGGI LUOGO DI DEVOZIONE: LA RISERVA NATURALE DEL MONTE PELLEGRINO, L’IMPONENTE PROMONTORIO AFFACCIATO SUL GOLFO DI PALERMO, È IL CUSTODE DI STRAORDINARIE VESTIGIA DEL PASSATO di Giuseppina Battaglia e Carlo Casi Punta Celesi o Valdesi Palermo Punta di Priola Grotta delle Incisioni
Grotta Addaura Grande
Grotta Caprara Grotta dei Bovidi
Punta del Rotolo
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427 m.
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Palermo
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Valle del Porco
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Grotta Niscemi
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600 m.
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327 m. SE
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46 a r c h e o
1 Km
Arenella
L’area della Riserva Naturale Regionale di Monte Pellegrino, che si estende a nord del centro di Palermo.
La poderosa mole di Capo Gallo visto dalla Grotta Addaura 1 (o Caprara) su Monte Pellegrino (Palermo), il cui patrimonio storico e paesaggistico è da oltre vent’anni tutelato dall’omonima Riserva Naturale Regionale.
H
erkté (ripido) per i Greci, Peregrinus (inaccessibile, fuori città) per i Romani e Gebel Grin (monte vicino) per gli Arabi, il Monte Pellegrino rappresenta da sempre per i Palermitani la montagna sacra per eccellenza. Dimora prediletta di divinità, eremiti e santi, il monte si erge a nord della popolosa città, quasi a volerla riparare dai freschi venti di tramontana. Oggi il suo incanto è protetto grazie all’istituzione della Riserva Naturale Regionale di Monte Pellegrino, avvenuta nel 1995, che si sviluppa per piú di 1000 ettari comprendendo anche la Real Tenuta della Favorita. Johann Wolfgang Goethe lo celebrò come il promontorio piú bello del mondo, e cosí lo descrive ricordando, nel suo Viaggio in Italia (1786-1788), l’arrivo nel capoluo-
go siciliano: «Palermo, lunedí 2 aprile 1787. Alle tre del pomeriggio, con sforzo e fatica, entrammo finalmente nel porto, dove ci si presentò il piú ridente dei panorami. Mi sentivo del tutto rimesso, e il mio godimento fu grande. La città situata ai piedi di alte montagne, guarda verso nord; su di essa, conforme all’ora del giorno, splendeva il sole, al cui riverbero tutte le facciate in ombra delle case ci apparivano chiare. A destra il Monte Pellegrino con la sua elegante linea in piena luce».
LE GROTTE PREISTORICHE Delle 64 cavità che hanno restituito materiali pre-protostorici (Grotte di Valdesi, Grotta della Montagnola, Grotta del Laghetto, Grotta di Niscemi, Grotta del Ponte, ecc.), quelle presenti nella zona dell’Addaura sono sicuramente le piú rilevanti. Il
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PARCHI ARCHEOLOGICI • MONTE PELLEGRINO
complesso delle Grotte dell’Addaura è ubicato nel versante settentrionale del Monte Pellegrino, antistante il mare, in un’area che durante gli anni Sessanta del Novecento è stata oggetto di una forte speculazione edilizia. Le quattro cavità di interesse archeologico − Addaura 1 (o Caprara), Addaura 2 (o Antro Nero o dei Bovidi), Addaura 3 (o Grotta delle Incisioni) e la Grotta dell’Eremita (sopra l’An-
In alto: il Santuario e la Grotta di Santa Rosalia in una incisione settecentesca. A destra: la Grotta di Santa Rosalia, oggetto ancora oggi della devozione popolare dei Palermitani. Nella pagina accanto: la statua di santa Rosalia, affettuosamente ribattezzata «Santuzza» dai fedeli.
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tro Nero) − sono sovrastate da una falesia di roccia alta oltre 100 m ed erano tutte caratterizzate da un deposito stratigrafico terroso rosso, con resti faunistici databili al Pleistocene medio-superiore.
Bovidi e della Caprara, riscontrando una sequenza di strati archeologici compresa tra il Paleolitico Superiore e il Mesolitico, ricca di manufatti litici e di ossa umane, alcune riferibili a una donna adulta risalenti a 15 000 anni fa; si tratta del piú antico individuo a oggi ritrovato in SiLA SCOPERTA cilia. La Grotta Addaura 3, una picDELLE INCISIONI Tra il 1946 e il 1947 Jole Bovio cola cavità di circa 20 mq con amMarconi e Luigi Bernabò Brea pio ingresso cuspidato, venne usata condussero ricerche nella Grotta dei come deposito per gli attrezzi di scavo e nessuno percepí, allora, l’esistenza di figure incise sulle pareti. Solo dopo la scoperta casuale e fortuita, nel 1949, delle raffigurazioni nella Grotta del Genovese a Levanzo (Trapani), si cominciò a cercare testimonianze di arte rupestre in Sicilia occidentale. E cosí, nel 1953, ancora una volta in maniera inattesa, si vennero a scoprire le incisioni dell’Addaura. La vera storia della scoperta delle incisioni è stata raccontata da Giovanni Mannino, studioso di preistoria del Palermitano, in diverse pubblicazioni, e vale la pena ricordarla, anche perché molte sono le versioni fantasiose di questo straordinario rinvenimento. Nella primavera del
LA «SANTUZZA» Il Monte Pellegrino è anche la sede principale del culto di santa Rosalia: all’interno di una grotta ricca d’acqua è stato infatti realizzato il santuario a lei dedicato. La leggenda narra che la santa nacque a Palermo nel 1125 da una nobile casata forse di discendenza carolingia, quella del padre il conte Sinibaldo de’ Sinibaldi, mentre la madre, Maria Guiscardi, dovrebbe essere stata la nipote del signore normanno di Sicilia, Ruggero II d’Altavilla. Proprio a lui e a sua moglie, la contessa Elvira, sarebbe apparsa una figura che avrebbe detto loro: «Ruggero, io ti annuncio che, per volere di Dio, nascerà nella casa di Sinibaldo, tuo congiunto, una rosa senza spine», da qui il nome Rosalia dato poi alla bambina. Promessa sposa giovanissima al conte Baldovino, rinunziò all’offerta e abbracciò la fede, rifugiandosi in una grotta (oggi incorporata nell’eremo a lei dedicato) nel bosco della Quisquina, nei pressi di Bivona, all’interno della proprietà
paterna nell’Agrigentino. Sulla parete destra dell’ingresso della piccola cavità, un’iscrizione ricorda: «EGO ROSALIA SINIBALDI QUISQUINE ET ROSARUM DOMINI FILIA AMORE D/NI MEI JESU CRISTI IN HOC ANTRO HABITARI DECREVI», mentre in basso compare il numero 12, che dovrebbe indicare gli anni da lei trascorsi in quel luogo. Successivamente la santa torna a Palermo per un breve periodo sin quando non decide di trasferirsi sul Monte Pellegrino dove morirà otto anni dopo, il 4 settembre del 1160 all’età di 35 anni. Rosalia visse quel periodo, all’indomani della cacciata degli Arabi (1072) grazie all’intervento normanno, di rinnovato fervore cristiano-cattolico all’interno del quale si diffusero nella Sicilia occidentale i monasteri benedettini e, in quella orientale, i basiliani. E con loro si propagarono anche gli esempi degli anacoreti che, abbandonando la vita agiata e attiva, si erano ritirati in solitudine, vivendo dentro grotte o anfratti, posti in prossimità dei conventi che offrivano loro la necessaria assistenza religiosa. Anche la santa beneficiò probabilmente della vicinanza di uno dei monasteri benedettini quale muto testimone
della sua breve vita eremitica. Ma il culto di Rosalia dovette aspettare il 1625 quando Palermo venne salvata dalla peste grazie a un suo intervento e da allora ne diventò la protettrice. In realtà un culto a lei dedicato già esisteva almeno sin dal 1196 come attestano il Codice di Costanza d’Altavilla e il dipinto conservato al Museo Diocesano di Palermo che la ritrae vestita da monaca basiliana. Ma la sua «consacrazione» è legata indissolubilmente all’episodio della peste che si diffuse a Palermo, probabilmente a causa del contagio portato da una nave tunisina, nel maggio del 1624. Il miracolo si compí nel momento in cui, il 9 giugno 1625, il cardinale di Palermo organizzò, su indicazione di tal Vincenzo Bonelli – che asseriva di aver avuto una visione della santa –, una processione solenne con le reliquie a lei attribuite e rinvenute un anno prima all’interno della sua grotta, e la peste fu debellata. La città la ricorda il 14 e 15 luglio con il tradizionale «festino» e, il 4 settembre, data della sua morte, con l’«acchianata» (salita) che consiste nella processione sino al santuario di Rosalia sul Monte Pellegrino. Carlo Casi
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Sulle due pagine: immagini della Grotta dell’Addaura e delle incisioni scoperte sulle sue pareti. 12 000 anni fa circa.
1952, durante un’escursione sul Monte Pellegrino, Giosuè Meli, assistente della Soprintendenza, accompagnato da un amico, incontrò il signor Giovanni Cusimano, che si vantava di conoscere molto bene la zona. Meli gli chiese allora se avesse mai visto disegni nelle grotte e il pastore li condusse davanti alla cavi-
tà, nella quale qualche anno prima avevano depositato le pale, i picconi e gli altri attrezzi. In effetti, sulla parete di sinistra, entrando, a circa 2 m da terra – e forse per questo non vista – si presentò ai loro occhi una scena di pochi metri quadrati, popolata da animali e da uomini intenti in un rito collettivo di oscuro significato, che non trova confronti con nessun’altra, non solo in Europa, ma in tutti i continenti. Giosuè Meli avvisò subito l’allora Soprintendente, Jole Bovio Marconi, che si attivò senza indugio per studiare e tutelare questo unicum, ma che, nell’annunciare la scoperta alla comunità scientifica, decise di raccontare la storia dell’esplosione di un ordigno bellico che aveva messo in luce i graffiti. Entrando nella grotta, tuttavia, non si vedono segni di esplosione, ma solo scheggiature provocate da armi leggere (pistole, fucili) utilizzate dai militari o dai cacciatori. Gli scavi condotti nel 1956 nel talus della grotta hanno messo in evidenza un periodo di frequentazione dal Paleolitico Superiore al Me-
solitico, ma ciò che rende sensazionale la grotta sono le incisioni rupestri, la cui interpretazione è stata discussa da diversi autori. Nella scena principale vi sono sette figure maschili, a corpo nudo, tutte con la testa ricoperta da una maschera a becco d’uccello e da una folta capigliatura, disposti in un cerchio, all’interno del quale vi sono due individui proni, piú snelli, calvi, con i corpi contrapposti, che indossano astucci fallici legati in vita da un laccio, in atteggiamento acrobatico; le altre figure sono ritratte in piedi, di profilo, in atto di danzare o stanti con la massa muscolare ben pronunciata che mette in risalto glutei, gambe e polpacci; mancano del tutto mani e piedi.
UNA SCENA ENIGMATICA Secondo alcuni si tratta di un rito di iniziazione, per altri di un sacrificio umano per auto-strangolamento, e per altri ancora di una gara acrobatica. Una donna – la figura è priva sia del laccio in vita, elemento presente nelle altre figure, sia della maschera a becco d’uccello – è raffigurata all’interno del cerchio della scena principale, nell’atto di chinarsi a raccogliere qualcosa. Sulla stessa
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PARCHI ARCHEOLOGICI • MONTE PELLEGRINO
LA NECROPOLI ENEOLITICA DI VIALE VENERE Nel 2016, ai piedi del Monte Pellegrino, durante la sorveglianza archeologica per la posa della rete dell’Alta Tensione, in viale Venere, tra i civici 9 e 11, sono state rinvenute tre tombe a cella ipogeica precedute da pozzetto (T.1, T.2 e T.3), scavate nella roccia tenera, sabbiosa, bianca, molto friabile. Lo scavo è stato effettuato all’interno della trincea larga circa 1,5 m realizzata per la posa dei cavi. Le celle presentano pianta sub-circolare del diametro compreso fra 1,5 e 2 m, altezza di circa 1 m e si attestano a circa -1,70 m dal piano stradale. Si tratta certamente di deposizioni multiple, i cui resti sono stati rinvenuti in un pessimo stato di conservazione e dei quali sono in corso le analisi radiocarboniche e osteologiche. Nel 1970, in via Marte 2, a meno di 100 m in linea d’aria dal ritrovamento attuale, venne individuata una tomba analoga.
In questa pagina e nella pagina accanto: immagini delle tombe eneolitiche scoperte e indagate in viale Venere, ai piedi del Monte Pellegrino.
In base alla tipologia delle strutture funerarie e dei corredi in esse rinvenuti, si ipotizza l’esistenza di una necropoli databile all’Eneolitico Antico che occupa un’area abbastanza estesa. Tomba 1 Con pozzetto d’accesso verticale a SW della cella, che era stata tagliata da un precedente scavo per la posa di una condotta
elettrica. Il corredo – collocato a SE e attribuibile alla facies di San Cono-Piano Notaro – è costituito da un’olletta a corpo ovoidale integra, un’olla a corpo globulare e orlo svasato, lacunosa, due olle (?) con orlo svasato di cui si conservano solo alcuni frammenti, una scodella tronco-conica lacunosa, una tazza con ansa a nastro insellata integra, una conchiglia (Glycymeris sp.). Nel pozzetto, fra il pietrame di riempimento, è stata rinvenuta, inoltre, una grossa scheggia in quarzite con ritocco laterale destro.
parete, nella zona sottostante questa scena, ci sono altre figure animali e umane fra cui una donna, in evidente stato di gravidanza, che cammina in direzione opposta alla scena rituale e che porta sulle spalle un grosso zaino. Le raffigurazioni vengono attribuite a 12 000 anni fa circa e mostrano uno stile naturalistico, che testimonia un livello di esecuzione molto raffinato. Oltre a questa scena, vi sono altre figure umane e zoomorfe incise sia sulla parete di sinistra, sia su quella centrale, che sono state individuate circa 10 anni dopo la scoperta da Giovanni Mannino e che sono state recentemente oggetto di analisi dia52 a r c h e o
Si tratta probabilmente di uno strumento di scavo (pick), come quelli rinvenuti in diverse necropoli coeve nella Sicilia occidentale. A differenza della tomba 1, per le tombe 2 e 3 manca parte dei pozzetti d’accesso a causa dell’apertura della trincea, mentre le celle erano integre al momento della scoperta. Tomba 2 Con pozzetto d’accesso verticale a NE della cella, tangente a quello della T.3. Il corredo – collocato a SE e attribuibile alla facies di San Cono-Piano Notaro – è costituito da una tazza carenata con decorazione excisa riempita di ocra rossa e priva dell’ansa, una tazza a corpo ovoidale priva dell’ansa, un’olla globulare con orlo leggermente svasato, integra. Completavano il corredo varie conchiglie e una lastra litica, utilizzata probabilmente come poggiatesta, con evidenti tracce di ocra rossa. Alcune ossa lunghe si trovavano collocate a NO – nei pressi dell’imboccatura della cella – e presentano anch’esse evidenti tracce di ocra rossa. Tomba 3 Con pozzetto d’accesso a piano inclinato a O della cella,
tangente a quello della T.2 e chiuso da due lastre litiche, poste di taglio, una alla sommità e l’altra alla base. Il corredo – collocato a O, davanti all’imboccatura della cella e attribuibile alla facies di San Cono-Piano Notaro – è costituito da due olle globulari con orlo leggermente svasato, integre. Qui si è riscontrato il peggiore stato di conservazione dei resti umani; infatti, di una deposizione in giacitura supina vi era solo un’impronta di «polvere» d’ossa e due ossa lunghe, collocate nei A sinistra: l’imbocco, in basso a destra, della Grotta dei Bovidi (o Antro Nero).
pressi dell’ingresso a S, fra l’impronta dello scheletro e la parete. Un’altra caratteristica di questa cella è la presenza di una banchina ricavata lungo la parete verso N. In questa zona, oltre alla già ricordata tomba di via Marte 2, si conoscono la necropoli e il villaggio di Valdesi – che si trovano nella fascia pedemontana fra il viale Regina Margherita e Monte Pellegrino, al limite del Parco della Favorita – e il villaggio del Giusino, anch’esso all’interno della Favorita. Giuseppina Battaglia
gnostiche finalizzate all’individuazione di eventuali ulteriori graffiti sotto le concrezioni calcaree. In epoca storica le tracce piú antiche rinvenute nell’area del Pellegrino sono prevalentemente da riferire all’età punica. Oltre ad alcuni insediamenti di carattere difensivo e alla sporadica frequentazione di alcune grotte, emerge per importanza quello che sembra un insediamento a carattere religioso, nelle adiacenze della Grotta di Santa Rosalia, dove un ricco tesoro di monete puniche (decadrammi e tagli minori), associate a oreficerie di età ellenistica, rinvenuto nel 1958, rimanda a una datazione a r c h e o 53
PARCHI ARCHEOLOGICI • MONTE PELLEGRINO
L’ACCAMPAMENTO DI AMILCARE? Nel tempo, sul Monte Pellegrino sono state individuate numerose aree con presenza di reperti ceramici, perlopiú anfore puniche, databili tra la fine del IV e la metà del III secolo a.C., che corrisponde alla fase finale del periodo punico di Palermo. Tale dispersione ha trovato conferma nello scavo condotto (da maggio a dicembre 2017) dalla Soprintendenza nel parco di Villa Belmonte, che sovrasta la borgata marinara dell’Acquasanta. In questa zona antichi ritrovamenti, avvenuti durante la costruzione della via Pietro Bonanno agli inizi del Novecento, collocavano il cosiddetto «Campo Punico». L’indagine, condotta nell’area retrostante le scuderie della villa neoclassica e della struttura ospedaliera costruita negli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso, per la realizzazione di due vasche anti-incendio, ha messo in luce un tratto di strada larga 3 m circa, nonché diversi ambienti, realizzati con una tecnica a «pseudo telaio» probabilmente con copertura straminea (vista la quasi totale assenza di tegole), di cui si conserva solo il primo filare, posto a diretto contatto con la roccia che in piú punti risulta spianata e livellata e ricoperta da strati di battuto in calce. Gli ambienti sono
compresa tra la fine del IV e il III secolo a.C. Numerose sono le zecche rappresentate, da quelle puniche di Sicilia a quella di Sardegna e quelle di Panormos, Agrigentum, Syrakusae, Rhegium e Cales.
DA TANIT A MARIA Luogo forse dedicato alla dea Tanit, probabilmente vide l’utilizzo stesso della sacra grotta, come parrebbe confermare la presenza al suo interno di un’antica edicola, poi trasformata in epoca cristiana e probabilmente dedicata alla Madonna. Il ritrovamento poi di numerose ghiande missili in piombo e di punte di freccia in bronzo è stata da alcuni attribuito all’occupazione del Monte da parte di Amilcare Barca (Polibio, 56-57; Diodoro XXII 10 4) che da lí tenne sotto scacco per tre anni (247-244 a.C.) l’esercito romano, divenuto oramai sovrano della stessa Panormos. Successivamente i Romani fondarono nume54 a r c h e o
In alto: un momento dello scavo condotto nel parco di Villa Belmonte. A destra: veduta dall’alto del cosiddetto «tempietto di Vesta» con funzione di Coffee house nel parco di Villa Belmonte.
A sinistra: blocco con linee incise di oscura interpretazione, riutilizzato in un muro dei magazzini. In basso, a destra: veduta dall’alto dell’area di Villa Belmonte recentemente indagata, situata a ridosso delle scuderie della villa neoclassica.
interpretabili come magazzini per derrate, vista la grande quantità di anfore rinvenute, prevalentemente puniche, ma anche alcune greco-italiche, oltre ad alcune monete puniche con la caratteristica raffigurazione del cavallo con la palma sullo sfondo. Sebbene i materiali siano in corso di studio, si può già
affermare che essi sono inquadrabili intorno alla metà del III secolo a.C. nel corso della prima guerra punica, ossia proprio tra la fine del periodo punico e l’inizio dell’età romana. Si tratta di una postazione a carattere strategico/militare, poiché da essa si gode un’ottima visuale di tutta la piana di Palermo e delle alture che le fanno da corona, nonché di un ampio tratto di mare, compreso Monte Catalfano, su cui sorge un’altra città di fondazione punica: Solunto. La notevole quantità di grandi contenitori rinvenuta e la loro omogeneità suggeriscono un abbandono repentino e improvviso. I saggi hanno inoltre documentato una rioccupazione dell’area del parco solo durante il secondo conflitto mondiale sempre come postazione militare. Si pensa di avere individuato un altro tassello a favore dell’identificazione del Monte Ercte come accampamento di Amilcare Barca. In particolare, il passo «Vi è infatti un poggio, che ha la posizione contemporaneamente di acropoli e di posto di vedetta rispetto al paese sottostante» (Polibio, Storie I, 56) sembra descrivere in maniera puntuale il parco della Villa Belmonte. Giuseppina Battaglia
rose fattorie, spesso sugli stessi fortilizi punici e altre strutture come ben testimonia la cisterna in cocciopesto rinvenuta nell’area dell’insediamento fortificato localizzato sul vasto pianoro compreso tra il Cozzo di Mandra, il Santuario e il Gorgo di Santa Rosalia. Si deve arrivare al VII secolo d.C., ovvero in epoca bizantina, per avere le prime testimonianze cristiane. Esempio calzante è la chiesetta costruita all’interno della Grotta di Santa Rosalia, che diventa riferimento per un lungo periodo di esperienze eremitiche. Certamente la sua posizione privilegiata e la sua ricchezza d’acque furono sempre tenute in considerazione dalle popolazioni che si sono avvicendate nel controllo della Conca d’Oro. Come conferma il cosiddetto «rosario di Santa Rosalia», oggi conservato in un ostensorio nel tesoro della Cattedrale di Palermo, che non è altro che una collana di gra-
ni di calcite – materia prima con la quale sono fabbricati molti corredi funerari dell’età del Rame –, la Grotta della «Santuzza» ben rappresenta la continuità e la complessità di tutto un territorio che, nonostante la sua estrema fragilità, ha sempre esercitato un fascino irresistibile su tutti coloro che nell’arco dei millenni gli si sono avvicinati. a r c h e o 55
MOSTRE • ROMA
UN CANDIDATO
IMPROBABILE AUGUSTO, CHE DUBITAVA DELLE SUE ATTITUDINI POLITICHE, GLI AVREBBE PREFERITO DI GRAN LUNGA IL FRATELLO GERMANICO, MORTO IN CIRCOSTANZE SOSPETTE. GLI SUCCEDETTE IL FIGLIO DI QUEST’ULTIMO, CALIGOLA, A SUA VOLTA ACCOLTELLATO NEL SUO STESSO PALAZZO. ACCADDE COSÍ CHE, PIÚ PER NECESSITÀ CHE ALTRO, TIBERIO CLAUDIO DRUSO DIVENNE, ALL’ETÀ DI CINQUANT’ANNI, IL PRIMO IMPERATORE NATO FUORI DAL TERRITORIO ITALICO. LA SUA VICENDA, PROBLEMATICA QUANTO CONTROVERSA, È AL CENTRO DI UN’AFFASCINANTE MOSTRA AL MUSEO DELL’ARA PACIS DI ROMA di Lucia Spagnuolo Tutte le opere riprodotte sono attualmente esposte nella mostra «Claudio Imperatore», in corso a Roma, presso il Museo dell’Ara Pacis. A destra: statua di Claudio in nudità eroica, da Gabii. 40-50 d.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto: un particolare dell’allestimento della mostra al Museo dell’Ara Pacis. È qui esposto il calco di un rilievo con apoteosi di Augusto, il cui originale proviene da Ravenna. 56 a r c h e o
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l 24 gennaio dell’anno 41, durante la celebrazione dei Ludi Palatini, feste in ricordo di Ottaviano Augusto, la quarta congiura ordita ai danni del giovane imperatore Caligola si dimostra per lui fatale: i pretoriani lo accoltellano brutalmente, ponendo poi successivamente fine anche alla vita della moglie e della figlioletta. Non aveva ancora compiuto 29 anni e aveva regnato per soli 3 anni, 10 mesi e 8 giorni. La sua morte violenta segna l’inizio dell’impero di Claudio. A raccontare le vicende dell’impero di Claudio e a restituir ne un’immag ine complessa e sfaccettata, radicalmente diversa dal ritratto offerto dalla tradizione storiografica senatoria, è ora la mostra, ideata dal Musée des Beaux-Arts di Lione e inaugurata a Roma, presso lo spazio espositivo del Museo dell’Ara Pacis. In mostra sono presenti alcune opere di straordinario valore, concesse in prestito da numerose e prestigiose istitu-
L’esposizione sottolinea il ruolo svolto dall’archeologia nella rilettura critica della figura di Claudio zioni italiane e internazionali. Ne sono alcuni esempi le grandi statue provenienti dalle collezioni del Museo del Louvre, i preziosi cammei dalle collezioni del Kunsthistorisches Museum di Vienna e del British Museum, le emissioni monetarie auree dalle collezioni dei Musei Capitolini, Medagliere, il prezioso bronzetto dorato con ritratto di Agrippina Minore da Alba Fucens, concesso dalla Soprintendenza Archeologia e Belle Arti Abruzzo, la corazza-trofeo in bronzo dei Musei Vaticani, il primo diploma bron-
zeo di honesta missio attestato, dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli e il ritratto di Ger manico di propr ietà della collezione Fondazione Sorgente Group, in mostra per la prima volta. Il percorso espositivo si articola in un racconto per sezioni, che prende avvio dalla contestualizzazione della figura di Claudio e della sua famiglia all’interno della dinastia giulio-claudia. Si sofferma poi sulle figure di Germanico e Caligola come premesse necessarie per comprendere l’ascesa di Claudio, per poi sottolineare quanto del suo operato nella gestione di Roma e dell’impero sia testimoniato dalla ricerca archeologica e possa aiutare a rileggere criticamente le fonti e il suo tradizionale ritratto. Importanti momenti di riflessione sono dedicati anche al rapporto di Claudio con le sue ultime due mogli, Messalina e Agrippina. Il racconto è arricchito da installazioni multimediali che aca r c h e o 57
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Sulle due pagine: un altro particolare dell’allestimento della mostra. A sinistra: statua di Messalina, terza moglie dell’imperatore Claudio, dai dintorni di Roma. 45 d.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto: statua in basanite di Agrippina Minore orante. I sec. d.C. Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini.
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compagnano il visitatore, rendendo la sua esperienza piú coinvolgente. Figlio di Druso Maggiore e Antonia Minore, Tiberio Claudio Druso era nato nel 10 a.C. a Lugdunum, l’odierna Lione (vedi box a p. 60). La presenza dei suoi genitori in quel centro era legata alla posizione strategica che la città rivestiva per gli scontri con le popolazioni germaniche, condotti proprio da Druso in quegli anni. Claudio vi trascorse pochissimo tempo, meno di due anni di vita, ma conservò probabilmente anche da adulto un legame speciale con la sua terra d’origine. Se paragonato ad altre figure della dinastia giulio-claudia, visse la giovinezza e l’adolescenza quasi nell’ombra. In particolare, il confronto con il fratello maggiore Germanico è particolarmente efficace: se Germanico fu da subito indirizzato alla vita militare e rivestí le cariche politiche secondo la tradizionale carriera (il cosiddetto cursus honorum),
precorrendone persino i tempi, a Claudio vennero affidate solo cariche minori, come i sacerdozi, e la famiglia lasciò che approfondisse gli studi, che da subito si dimostrarono essere suoi veri interessi.
I DUBBI DI AUGUSTO L’antiquaria e la storia erano in maniera particolare nelle sue corde. Sembra che questa scelta e questa volontà di tenere Claudio ai margini fossero state dello stesso Augusto, il fondatore dell’impero e della dinastia giulio-claudia: il biografo Svetonio riporta il testo di alcune lettere che si sarebbero scambiati Augusto e Livia, sua moglie, nonché nonna di Claudio, nelle quali ci si interroga sul destino del giovane Claudio e su quale potesse essere il miglior ruolo da attribuirgli (Svetonio, De vita Caesarum, Claudius, 4). Emerge il riferimento a un aspetto e a un contegno del giovane che avrebbero potuto mettere in imbarazzo la famiglia impe-
riale, ma anche alla sua straordinaria capacità oratoria. Un ritratto paradossale e problematico: le infermità di Claudio, a cui si fa riferimento in questo carteggio e che anche la storiografia testimonia, sono in realtà difficili da comprendere e definire in maniera chiara. Si tratta di infermità solo fisiche o anche psicologiche? E quale ne fu la causa? Fu forse una malattia a determinarle? Ma, soprattutto: come poteva un giovane «disturbato» dimostrarsi poi un oratore tanto abile ed efficace, da suscitare perfino l’ammirazione del nonno Augusto? Sin da queste pr ime testimonianze, l’immagine di Claudio appare complessa, di difficile definizione, ma tutta da scoprire. Ultimo dei tre figli di Druso Maggiore e Antonia Minore, Claudio era stato da subito a r c h e o 59
MOSTRE • ROMA A sinistra: la sezione della mostra in cui figurano il ritratto di Claudio in nudità eroica (vedi a p. 56) e un rilievo con la personificazione delle popolazioni etrusche di Vetulonia, Vulci e Tarquinia. In basso: particolare della Tabula Claudiana, da Lugdunum (Lione). Dopo il 48 d.C. Lione, Lugdunum-Musée et théâtres romains. Sulla lastra è inciso il testo del discorso pronunciato da Claudio in Senato nel 48 d.C.
affidato alle cure di valenti maestri, alcuni meno noti, come Atenodoro di Tarso, e altri famosi, come Tito Livio. Le sue capacità dovettero manifestarsi presto: sappiamo, infatti, che lo storico Dione Cassio gli riconobbe un’intelligenza non comune. La storia, come detto, lo appassionò molto e Svetonio racconta che già in gioventú produsse un’opera che narrava i primi anni della Roma imperiale. Da quel momento, non smise piú di interessarsi alla storia: in età ormai matura scrisse, in greco, sui popoli etrusco e cartaginese e sembra che proprio queste opere fossero lette e recitate in pubblico ad Alessandria d’Egitto. Questa maturata consapevolezza del ruolo di Roma nel Mediterraneo e nei confronti di altre nazioni dette, con ogni proba60 a r c h e o
LIONE, CITTÀ NATALE Claudio è il primo imperatore a nascere fuori dal territorio italico, a Lione, l’antica Lugdunum, città strategica per la sua posizione nel corso delle guerre germaniche. Fondata nel 43 a.C. da Lucio Munazio Planco, Lione divenne, soprattutto grazie ad Agrippa, il centro piú importante delle tre province imperiali della Gallia (Belgica, Lugdunensis e Aquitania). Probabilmente nel periodo in cui Agrippa soggiornava a Lione, nel 20 a.C., fu realizzato il cosiddetto «Palazzo del governatore», una residenza di lusso, forse di carattere istituzionale. Nel 15 a.C. Augusto volle che qui si
insediasse la zecca imperiale, la seconda dopo Roma, dove venivano coniate monete d’oro e d’argento. Tre anni dopo, Druso, padre di Claudio, presenziò a Lugdunum la dedica a Roma e Augusto del santuario federale delle Tre Gallie. Con lui era la consorte Antonia Minore. Si pensa che il piccolo Claudio abbia visto la luce proprio nel «Palazzo del governatore». Il legame del futuro imperatore con la sua città natale restò profondo, anche se la visitò poche volte, dopo avervi trascorso i primi due anni circa di vita. Durante il suo impero, Lione si chiamò Colonia Claudia Augusta Copia Lugdunum.
bilità, spessore alle sue capacità politico-amministrative. Mentre Claudio si dedicava ai suoi studi, nel 4 d.C., per volontà di Augusto, il fratello Germanico fu adottato da Tiberio, primo figlio di Livia, moglie dell’imperatore. In quella stessa circostanza, infatti, Augusto aveva adottato Tiberio, legittimandone la successione, ma voleva comunque favorire la propria linea di sangue e spinse cosí, contestualmente, Tiberio ad adottare proprio Germanico, che, come Claudio, era figlio di sua nipote, Antonia Minore. Di lí a poco, Augusto favorí anche il matrimonio dello stesso Germanico con Agrippina Maggiore, nata da sua figlia Giulia e dal suo caro amico Agrippa.
IL DESTINO DI GERMANICO Germanico seppe distinguersi da subito per coraggio e capacità militare: per gli incarichi militari che sin da giovanissimo rivestí visse a stretto contatto con i soldati e si fece apprezzare per il carattere aperto e leale. Anche la moglie Agrippina era molto ammirata: si dimostrò una
donna di grande forza d’animo, in grado di accompagnare il marito sul campo di battaglia e di rendersi protagonista nel rapporto con le legioni. Agrippina seguí Germanico ai confini dell’impero, dal Nord all’orientale Antiochia, dove, nell’anno 19 d.C., fu costretta ad assistere impotente all’improvvisa morte di lui. I sospetti di questo grande lutto ricaddero su Tiberio, portando allo scoperto l’odio sotterraneo che correva tra Agrippina e l’imperatore, già sospettato degli assassini della madre e del fratello di lei. Fu proprio lei a ricondurre sul suolo italico le ceneri del consorte e, tra i membri della famiglia giunti ad accoglierla al suo arrivo a Brindisi, le fonti parlano anche di Claudio. Il fascino che le figure di Germanico e Agrippina esercitarono sulle masse si dimostrò uno strumento fondamentale per l’ascesa all’impero di Caligola, loro figlio. Ma anche Claudio, in seguito, seppe utilizzare la figura del fratello a fini propagandistici. Immediatamente dopo la morte di Caligola, il 24 gennaio del 41 d.C., il corpo dei pretoriani, individuò in In alto: corazza-trofeo in bronzo. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
Claudio il successore all’impero. Svetonio racconta la vicenda dell’acclamazione come decisa dal caso e descrive un Claudio spaventato, piú timoroso della morte che attratto dal potere. Gli storici contemporanei sono ormai piú propensi a ritenere che il futuro imperatore sapesse – o almeno sospettasse – qualcosa della congiura contro Caligola e che decise di non intervenire in alcun modo. Sempre dal racconto svetoniano si apprende come ciascun pretoriano ricevette da Claudio, ormai imperatore, un donativo in denaro di 15 000 sesterzi, che fu poi ripetuto ogni anno, anche se in forma ridotta, quasi a celebrare il ricordo dell’acclamazione. a r c h e o 61
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All’acclamazione da parte dell’esercito fece seguito il riconoscimento formale da parte del Senato che arrivò dopo un malriuscito tentativo dell’aristocrazia senatoria di opporre a Claudio un proprio candidato. Ma il dibattito senatorio, da cui emersero i conflitti tra i gruppi di potere al suo interno, non riuscí a individuare alcuna alternativa a Claudio. Del resto, in questo modo, la linea dinastica era preservata. Un imperatore che quindi, per la prima volta, era divenuto tale in seguito a un’acclamazione e non per legittima adozione; anche Caligola era stato acclamato dall’esercito alla morte di Tiberio, ma era stato anche già adottato nel 35 d.C. e, quindi la sua ascesa doveva essere apparsa naturale. Data la sua posizione, diversa da quella dei suoi predecessori, ClauA destra: ritratto in bronzo di Agrippina Minore, da Alba Fucens. Chieti, Museo archeologico nazionale d’Abruzzo.
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LA BRITANNIA «Una sola spedizione, neppure molto importante», cosí Svetonio definisce la conquista della Britannia da parte di Claudio. Eppure sembra che il principe amasse sottolineare l’eccezionalità dell’impresa compiuta: la conquista di una terra solo
dio pose sempre molta attenzione a sottolineare con il linguaggio delle immagini il proprio diritto alla successione. Le emissioni monetali si prestavano molto bene ad accogliere immagini che si voleva circolassero e fossero associate al potere: sui coni di Claudio ricorrono le attestazioni dei genitori Druso Maggiore e Antonia Minore, come pure del fratello Germanico. Ma Claudio utilizzò le monete anche per sottolineare le differenze tra lui e il suo predecessore Caligola e volle che al suo impero fosse associata l’immagine della Costanza (Constantia). Si tratta di una figura femminile in abiti militari, in qualche caso raffigurata come Antonia Minore, seduta sopra una sella curule, che invita al silenzio con un gesto dell’indice. Si è pensato che questo fosse un riferimento proprio alla volontà di riconciliazione tra la famiglia imperiale e il Senato, con il quale appianare i contrasti con un atteggiamento equilibrato e coerente. Seppure Claudio non volle mai che legalmente si bandisse il ricordo di suo nipote Caligola (cosa che poteva avvenire con la damnatio memoriae, decisione sulla base della quale si distruggevano le immagini e il ricordo di alcuni personaggi, anche cancellandone il nome dalle iscrizioni), sempre fece in modo da segnalare la differenza rispetto al suo giovane predecessore tra la propria moderazione e il proprio approccio
parzialmente esplorata, al di là del mare, il cui destino veniva legato a quello di Roma. Era il 43 d.C.: le truppe di Claudio salparono da Gesoriacum (Boulogne-sur-Mer) e sbarcarono nell’attuale Kent, presso Richborough e Dover. Erano suddivise in tre gruppi, al comando di Aulo Plauzio e dei
alla politica e all’amministrazione. Né è probabilmente un caso che nella ritrattistica ufficiale la sua immagine sia quella di un uomo in età avanzata: certo, divenne imperatore a oltre cinquant’anni, ma se ne volevano sottolineare piuttosto l’avvedutezza e la saggezza, data dall’età. Sempre con l’intenzione di rimarcare i propri rapporti familiari, nell’anno 42 d.C. riconobbe onori divini alla nonna Livia Drusilla, scegliendo per le celebrazioni la data del 17 gennaio, lo stesso giorno in cui era andata sposa a Ottaviano, non ancora Augusto.
MESSALINA Due anni pr ima dell’acclamazione, nel 39 d.C., Claudio si era sposato per la terza volta, prendendo in moglie una giovanissima Valeria Messalina, di appena 14 anni. Anche lei legata alla famiglia imperiale, in quanto figlia di Domizia Lepida, a sua volta nata da Antonia Maggiore, zia dello stesso Claudio. La giovane, della quale le fonti sottolineano l’incomparabile bellezza, aveva già reso padre Claudio della piccola Claudia Ottavia ed era incinta di un maschio, quando avvenne l’acclamazione. Di lí a poco, quindi, Claudio diventò il
suoi legati, tra cui Tito Flavio Vespasiano, futuro imperatore. I Britanni non si aspettavano l’arrivo dei Romani. La
conquista fu rapida e già entro l’anno si concretizzò la creazione della nuova provincia. L’imperatore in persona si recò sul campo di battaglia: Claudio partí da Roma per ricongiungersi agli eserciti e lí rimase per 16 giorni. Rientrò a Roma solo sei mesi dopo. Statuetta in bronzo di Vittoria alata. Fine del I-inizi del II sec. d.C. Lione, Lugdunum-Musèe & theatres romains. Nella pagina accanto in alto: testa di una statua in bronzo di Claudio (o Nerone), dal Suffolk (Inghilterra). I sec. d.C. Londra, The British Museum.
primo imperatore a veder nascere un erede legittimo durante il proprio regno: in teoria non ci sarebbe stato bisogno di adottare un successore esterno alla linea dinastica. Ma il piccolo Britannico, nato circa un mese dopo l’acclamazione e chiamato con questo nome solo dopo la conquista della Britannia da parte del padre, non riuscí a diventare imperatore, come probabilmente sperava invece Messalina. Dall’apogeo della sua potenza di a r c h e o 63
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imperatrice e madre di un erede legittimo, Messalina andò incontro a un destino tragico: ricevette la morte nel 48 d.C., una vera e propria esecuzione, e fu oggetto di damnatio memoriae, motivo per cui le sue immagini sono molto rare e rendono eccezionale il suo ritratto nella grande statua della collezione del Louvre, presente in mostra. In seguito, il suo nome diventerà il simbolo della dissoluzione, la «prostituta imperiale» (Augusta meretrix) dei versi del poeta Giovenale (Sat. II, 6, vv. 114-135). Come è possibile? Oggi si è piú propensi a ritenere la sua morte, la damnatio memoriae e la ricostruzione in negativo dell’immagine di questa imperatrice come conseguenze di una spinosa circostanza politica: Tacito
parla della passione di Messalina per un membro dell’aristocrazia senatoria, Gaio Silio, che lo storico definisce «l’uomo piú bello di Roma»; niente di piú facile che tra di loro ci fosse un sodalizio a carattere politico, oltre che erotico, e questo giustificherebbe la violenza della condanna ricevuta.
VERSO IL DISCORSO DEL 48 D.C. Come già sottolineato, l’ascesa di Claudio al vertice dell’impero andava contro gli interessi di alcuni gruppi di potere dell’aristocrazia senatoria, ragione per cui l’imperatore dovette affrontare fin dall’inizio congiure e trame per esautorarlo, a cui reagí con una repressione durissima. Un rapporto cosí com-
plesso con il Senato ebbe probabilmente un peso nella decisione di affidare ruoli importanti nell’amministrazione dello Stato a uomini fidati e alle sue dirette dipendenze, i liberti imperiali, sottraendo competenze alle tradizionali magistrature. La burocrazia imperiale mosse cosí i suoi primi passi. La realizzazione di opere pubbliche fu un’altra caratteristica della sua gestione politica. Completò e restaurò acquedotti (Aqua Claudia, Anio Novus e Aqua Virgo) e lavorò alla creazione del porto di Roma a Ostia, un progetto complesso e ambizioso, con il quale si voleva porre fine ai problemi di approvvigionamento dell’Urbe. Ugualmente grandiosi e dispendiosi furono i lavori per la realizzazione dell’emissa-
Nella pagina accanto: ancora un’immagine dell’allestimento della mostra. In basso: particolare di un rilievo con ufficiali e pretoriani. II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.
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IL LINGUAGGIO DEL POTERE Augusto fu un punto di riferimento fondamentale per Claudio, che, seguendo il suo esempio, si serví della potenza delle immagini per favorire la propaganda imperiale. In mostra ci sono alcuni dei piú significativi esempi di quello che potremmo definire il suo «progetto di comunicazione», tra originali e calchi, parte della collezione del Museo della Civiltà Romana: alcuni rilievi frammentari riconducibili all’arco trionfale sulla via Lata (attuale via del Corso, a Roma), realizzato in occasione della vittoria sui Britanni; i calchi dei rilievi pertinenti a un monumento a carattere dinastico realizzato a Ravenna, con la
rio del lago Fúcino, un progetto già di Giulio Cesare, concepito per risolvere il problema della regimentazione delle acque del lago. Nel 48 d.C., ricoprendo il ruolo di censore, Claudio pronunciò in Senato un discorso di grande peso politico, il cui contenuto è rimasto per i posteri impresso sulla Tabula Claudiana. Questa lastra bronzea, straordinaria per le notevoli dimensioni e lo stato di conservazione, ci
rappresentazione dell’apoteosi di Augusto, la ricostruzione della porta cittadina di Ravenna, Porta Aurea, fatta costruire da Claudio tra il 43 e il 44, i cui clipei suggeriscono un riferimento forte al Foro di Augusto. Estremamente significativi, infine, sono i calchi dai rilievi del ciclo Medinaceli, anch’essi parte di un monumento a carattere dinastico di epoca claudia. La scena di battaglia navale, rappresentata su una parte del ciclo, è tradizionalmente interpretata come la battaglia di Azio: lo scontro tra Augusto e Marco Antonio che aveva posto le basi per la creazione dell’impero.
offre la versione originale dell’orazione di Claudio, priva di alcune sue parti, ma sufficiente a darci l’idea del contenuto del discorso. Oltre a testimoniare l’erudizione dell’imperatore e la sua preparazione negli studi storici e antiquari, il testo documenta una lungimiranza e una concezione dell’impero che potremmo definire senza alcun dubbio «moderni». Il presupposto è quello di una Roma che ha fondato
la sua forza e la sua stabilità sul contributo degli «stranieri» (persino di alcuni tra i suoi primi re); perché, dunque, non consentire l’accesso alle massime magistrature anche ai notabili della Gallia Comata? Claudio sembra essere da un lato consapevole dell’importanza delle capacità, molto piú delle origini di chi è chiamato a gestire la cosa pubblica, ma soprattutto è evidentemente convinto di come fosse impensabile a r c h e o 65
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Claudio fu il primo imperatore a veder nascere un erede legittimo durante il proprio regno A sinistra: frammento di rilievo con figura femminile. Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini.
c o n t i nu a re a escludere una parte dei cittadini «non romani» dalla gestione politica dell’impero, tentando di porre il freno a un processo inevitabile quanto necessario.
CONQUISTE E ANNESSIONI I popoli e i territori conquistati da Roma, o che ne avevano accettato il controllo pur mantenendo una relativa autonomia, erano cresciuti già significativamente da Augusto a Caligola. Claudio si preoccupò sia di riorganizzare amministrativamente l’impero ereditato, che di lavorare attivamente alla sua integrazione. Sua la suddivisione amministrativa tra Mauretania Tingitana e Caesariensis, conclusa la guerra di conquista iniziata da Caligola. Sue anche le annessioni di Licia e Tracia, diventate provincie rispettivamente nel 43 e nel 46. La conquista della 66 a r c h e o
Britannia (vedi box alle pp. 62-63), sempre nel 43, gli diede il diritto di allargare i confini dell’area urbana considerata sacra, il pomerium. Affrontò anche la riorganizzazione dei territori del Norico e della provincia giudaica, dai delicati equilibri. Nel 48 d.C., l’esecuzione di Messalina favorí l’ascesa al potere di Agrippina Minore, figlia di Germanico e nipote di Claudio. Donna forte, ambiziosa e carismatica, cresciuta nel solco e nel ricordo della madre Agrippina Maggiore, nel 49 d.C. divenne la quarta e ultima moglie di Claudio. Zio e nipote si sposavano contro il tradizionale costume romano: fu neces-
sario che il Senato si esprimesse in merito, per consentirlo. Agrippina riuscí a favorire nella successione il figlio Lucio Domizio, nato da un precedente matrimonio e piú grande di 4 anni rispetto al legittimo erede Britannico, figlio di Claudio e Messalina. Claudio adottò il figlio di Agrippina nel 50, che assunse cosí il nome di Nerone. Di lí a poco ne favorí il fidanzamento con la propria figlia Claudia Ottavia. Poco dopo, nel 52 d.C., ormai superati i sessant’anni, Claudio si ammalò gravemente, ma riuscí a ristabilirsi. Non è specificato nelle fonti quale fosse la malattia, tuttavia era ormai chiaro come la salute dell’imperatore fosse cagionevole e la successione ormai prossima. Claudio si spense nella notte tra il 12 e il 13 ottobre del 54 d.C., forse per una pietanza avvelenata. La notizia della morte venne diffusa solo diverse ore dopo, nella giornata del 13. Sul modello di Augusto,
Claudio fu divinizzato, Agrippina diventò la sacerdotessa del suo culto e a lui si dedicò un tempio da realizzare sul Celio, di cui pochissimo è testimoniato. In alto: L’Imperatore Claudio fa uccidere il suo legatario Asiatico, olio su tela di Raffaele Postiglione. 1818 circa. Collezione privata. A sinistra: una sezione della mostra che si avvale di una delle installazioni multimediali realizzate per l’occasione.
Nerone abbandonò il progetto del tempio, che fu poi portato a termine da Vespasiano, uno dei condottieri militari coinvolti nella conquista della Britannia. La mostra «Claudio Imperatore» è stata ideata dal Musée des BeauxArts di Lione e organizzata per la sede di Roma dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali in collaborazione con Lugdunum, Musée et theâtres romains. Curatori: Claudio Parisi Presicce, Lucia Spagnuolo; curatela dell’allestimento multimediale: Orietta Rossini. DOVE E QUANDO «Claudio Imperatore. Messalina, Agrippina e le ombre di una dinastia» Roma, Museo dell’Ara Pacis fino al 27 ottobre Orario tutti i giorni, 9,30-19,30 Info tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); e-mail: info.arapacis@ comune.roma.it; www.arapacis.it a r c h e o 67
POPOLI DELLA BIBBIA/5 – GLI AMORREI
NEL LEVANTE DELLE
ORIGINI
Sei grandi re, un centinaio di sovrani vassalli e un territorio vastissimo, compreso tra Mediterraneo e Golfo Persico: ecco come doveva configurarsi, nei primi secoli del II millennio a.C., l’ambiente in cui fiorí una grande civiltà dell’età del Bronzo, gli Amorrei. La loro memoria riecheggia nel racconto biblico, che li annovera tra i popoli che abitavano il «paese dove scorre il latte e il miele». Ma saranno le scoperte di tre grandi siti nell’odierna Siria a restituirne la «vera» immagine… di Marco Bonechi
A
ttorno al 1750 a.C., nella sua capitale Hasura (Hazor), il re amorreo IbniAddu aveva al suo servizio scribi che praticavano il sistema grafico cuneiforme. Lo sappiamo da una ventina di tavolette d’argilla rinvenute là dove Ibni-Addu aveva il suo palazzo reale, cioè a Tel Hazor, in alta Galilea. E lo confermano altrettanti testi cuneiformi da Tell Hariri, l’antica Mari, sull’Eufrate a valle di Deir ezZor. Questi documenti illustrano i contatti fra i due regni, distanti piú di 500 km. 68 a r c h e o
Durante il XVIII secolo a.C. Hasura, che molto tempo dopo fu la capitale piú importante degli staterelli settentrionali nella prospettiva israelitica (Giosuè 11:1-14), era la piú mer idionale delle sedi regali amorree di cui siamo a conoscenza. Per giungervi dalla Jezirah e dal Medio Eufrate siriani, dove si trovavano le città di Šubat-Enlil e Mari, bisognava passare da Qatna, sul Medio Oronte. In contatto con Biblo e probabilmente anche con l’Egitto, Hasura apparteneva a un ambiente culturale omoge-
Battaglia di Giosuè contro gli Amorriti (noto anche come Vittoria di Giosué sugli Amorriti), olio su tela di Nicolas Poussin. 1625-1626. Mosca, Museo Puškin.
POPOLI DELLA BIBBIA/4 • FILISTEI A sinistra: gli scavi di Tel Hazor, nell’alta Galilea, in una foto scattata negli anni Venti del Novecento, quando il sito fu indagato da John Garstang. Nella pagina accanto: l’assetto del Vicino Oriente antico intorno al 1770 a.C. Nella pagina accanto, in alto, a destra: bronzetto raffigurante un sovrano, da Tel Hazor. XV-XIII sec. a.C.
neo, dalla diffusione assai ampia, che si estendeva dal Mediterraneo al Golfo Persico, in regioni oggi appartenenti almeno a Israele, Libano, Siria, Turchia, Iraq, Iran e Bahrein. Questo ambiente, di cui faceva parte anche il famoso Hammurabi, re di Babilonia, esprimeva un sistema politico segmentato, imperniato su una
mezza dozzina di grandi re, ciascuno dei quali, nella sua regione, guidava fino a una ventina di sovrani di rango minore. L’origine ultima di questa cultura non va cercata in Mesopotamia, ma piuttosto a occidente di essa. Gli Amorrei sono il piú antico gruppo di parlanti lingue semitiche la cui localizzazione può
Corrispondenza fra sovrani «Dí a Yasmah-Addu [re di Mari]: “Cosí [parla] Samsi-Addu [re di Šubat-Enlil], tuo padre. Ecco che Išar-lim ha fatto condurre verso di te i messaggeri di Hasura e i messaggeri di quattro re Amorrei. Questi messaggeri, affidali a Yasim-Dagan, il messaggero di Išhi-Addu [re] di Qatna, affinché egli li accompagni a Qatna, presso Išhi-Addu”» (lettera paleobabilonese A.2760, rinvenuta a Mari e scritta fra il 1782 il 1775 a.C., secondo la cronologia media).
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essere documentata anche in aree vicino-orientali oggi assai aride, benché le modalità della loro diffusione durante le fasi storiche piú antiche (almeno dalla metà del III millennio a.C.) siano ancora dibattute. L’età dei regni amorrei, cioè i primi secoli del II millennio a.C., fu uno snodo cruciale nello sviluppo delle vicende culturali del Vicino Oriente antico. Essa chiuse definitivamente uno straordinario capitolo piú che millenar io (il Bronzo Antico), durante il quale l’Asia occidentale e l’Egitto si erano enormemente arr icchiti, sviluppando reti commerciali senza precedenti e sperimentando innovazioni tecnologiche, abilità artistiche e complessità politiche mai viste prima. Fu un’epoca in cui le società delle regioni corrispondenti all’odierna Siria si trovarono al centro di un’enorme catena di interscambi di ogni tipo. Per converso, gli Amorrei vissero in una fase piú povera, drammatica e tormentata, fra l’altro ecologicamente meno favorevole a causa di crescenti aridità e degrado dei suoli. Per sopravvivere, il sistema palatino sumerico e semitico arcaico, impiantatosi prima del 2500 a.C., ereditato dagli Amorrei dopo la
Il Vicino Oriente antico intorno al 1770 a.C. Mar Caspio Karkemish Alalakh Oronte
Ugarit
Aleppo
Cipro
Ebla
Ekallatum
Emar
Assur
Qatna Mari
Homs
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Biblo
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Palmira Eu
Mar Mediterraneo
Damasco
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Giord
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Hazor
Deserto Siriano
am Susa
Babilonia
Amman
Larsa
Mar Morto
Estensione del Golfo Persico nell’antichità
Nilo
Menfi
Mar Rosso
Regno di Hammurabi di Babilonia Terre conquistate a partire dal 1792 a. C. Regno di Samsi-Addu Egitto (Medio Regno) Città moderne
Yamkhad Qatna Mari Città antiche
Golfo Persico
N 0
250 Km
La memoria dei grandi regni amorrei è riemersa, dopo millenni, grazie agli scavi archeologici del Novecento svolta epocale del 2000 a.C., e infine riorganizzato da Egizi, Ittiti, Hurriti, Cassiti, Assiri ed Egei («Età di Amarna»), col tempo si irrigidí. Questo secondo capitolo della stor ia vicino-or ientale (il Bronzo Medio e Tardo, 20001200 a.C.) lasciò comunque in eredità un insieme di sintesi concettuali e di memorie sedimentate che riuscirono a sopravvivere nell’Età del Ferro, un mondo tecnologicamente nuovo e spazialmente assai piú ampio. E la conservazione di tratti culturali molto antichi, osservabile per esempio nella documentazione neo-assira che termina con la caduta di Ninive del 612
a.C., è un fenomeno che inte- tutto fuorviante ‒ sebbene imprecisa ‒ di una popolaressa anche la Bibbia. zione che, prima degli Aramei, aveva abitato il Levante GLI AMORREI settentrionale. Ma erano anE IL TESTO BIBLICO Quando Esodo 3:7-8 cita gli dati perduti i nomi di Ebla, Amorrei fra i popoli che abi- Mari e Ugarit. tavano il «paese dove scorre latte Queste sono le tre città palatine e miele», o quando ancora Ge- di Siria (nozione successiva ai nesi, Numeri, Deuteronomio, periodi storici che qui interesGiosuè e Giudici ripetutamen- sano, ma utile per riferirvi note li menzionano, questi testi mi e vicende) che ben illustrafanno riferimento a una si- no le culture sviluppatesi fra il tuazione ben poster iore a Mediterraneo, il Levante meriquella r icostruibile per il dionale, il Tauro e il medio Eutempo di Ibni-Addu re di frate nell’età del Bronzo, dunHasura, citato all’inizio. Alla que fra la prima metà del III chiusura del canone, il testo millennio e il 1200 a.C. circa. biblico (che certo non è un Analogamente perduti erano i manuale universitario!) con- nomi di altri insediamenti di servava una memoria non del comparabile importanza, quali a r c h e o 71
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Alalah, Karkemiš, Emar e Qatna. Di Biblo,Tiro e Sidone non trapelava alcunché di prefenicio. Neppure i culti dei grandi dèi Hadda e Dagan, a lungo praticati ad Aleppo e Tuttul, avevano lasciato traccia nella Bibbia. Differente è il caso di Harran, la città non lontano da Sanliurfa, in Turchia, dove, secondo Genesi 11:31-32, da Ur in Mesopotamia meridionale migrò Terach con la sua famiglia comprendente Abramo, il quale poi da lí si mosse verso Canaan. La storia di Harran è ben rintracciabile nelle fonti cuneiformi, che la menzionano come ultima capitale assira al tempo di Assuruballit II (cadde nel 609 a.C.) e soprattutto ne riportano l’importanza come sede antichissima di un culto del dio-luna che, già praticato nel III millennio a.C., continuò ancora per secoli nella nostra era. Silenti gli autori classici sul Vicino Oriente dell’età del Bronzo, fu la nuova stagione egittologica dei 72 a r c h e o
primi dell’Ottocento a fornire dati sorprendenti sull’Asia occidentale antica, Siria inclusa. A rivoluzionare le conoscenze furono però le scoperte, infittitesi sempre piú dopo il 1840, d’iscrizioni cuneiformi su argilla o pietra. E se fino ai primi del Novecento fu soprattutto la Mesopotamia a essere illuminata dal cuneiforme, dopo la prima guerra mondiale anche quella che poi sarebbe diventata la Siria cominciò a rivelarsi prodiga di ritrovamenti epigrafici.
L’EPOCA DELLA RISCOPERTA La storia delle scoperte di Ugarit, Mari ed Ebla è davvero emozionante. Il 9 agosto del 1929 l’archeologo Claude Schaeffer (1898-1982) presenta all’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres i risultati della sua prima campagna di scavi nei siti contigui di Ras Shamra e Minet el-Beida, sulla costa levantina settentrionale. Nella stessa sede parigina, alcune
In alto: pannello in avorio scolpito a rilievo, raffigurante un principe in preghiera, un uomo con un leoncino e scene di guerra, da Ugarit. XIII sec. a.C. Damasco, Museo Nazionale. Nella pagina accanto, in alto: l’archeologo francese Claude Schaeffer, che diresse gli scavi sul sito di Ras Shamra dal 1929. A destra: una veduta del sito di Ugarit, nell’odierna Siria.
settimane piú tardi, il filologo Charles Virolleaud (1879-1968) comunica la notizia che a Ras Shamra sono stati rinvenuti anche testi cuneiformi diversi da quelli accadici di tipo ormai ben noto, in quanto omogeneo a quello della massa di rinvenimenti precedenti avvenuti in Mesopotamia, Anatolia ed Egitto. Schaeffer vi aveva infatti trovato testi cuneiformi scritti in una varietà sconosciuta, che subito Virolleaud propone fosse alfabetica e non sillabica. Di lí a breve, la nuova scrittura viene decifrata, grazie soprattutto all’ingegno di Hans Bauer (18781937) e Paul Dhorme (1868-1958). L’ugaritico, chiaramente una nuova lingua semitica (cosí denominata dal nome della città che comincia a emergere a Ras Shamra), guadagna le prime pagine delle riviste scientifiche. Rapidamente, la straordinaria qualità dei testi letterari ugaritici del Bronzo Tardo allerta l’attenzione dei biblisti;
«Ugarit e l’Antico Testamento» diventa un campo di ricerca destinato a durare fino a oggi. L’eco dei ritrovamenti di Schaeffer è ancora assordante quando i Francesi centrano un altro bersaglio. Dal suo posto strategico di conservatore
delle antichità orientali del Louvre, Réné Dussaud (1868-1958) scrive il 28 dicembre 1933 all’archeologo André Parrot (1901-1980), che si trova in missione sul medio Eufrate, a Tell Hariri: «Se siete nella capitale del regno di Mari, è una fortuna incomparabile». Cosí è, in effetti. Come accaduto a Schaeffer, Parrot era stato inviato in Siria a indagare un sito nel quale, poco tempo prima, una scoperta casuale aveva fatto affiorare antichità inattese. Il 23 gennaio 1934 egli annota nel suo diario di scavo: «Ancora una giornata brillante. La migliore di tutte. Perché dà statue iscritte e la quasiprova che Tell Hariri sia Mari. Tempo bellissimo, ma molto fresco». È il giorno della scoperta della statuetta che reca l’iscrizione di Išqi-Mari, re di Mari. Fra resti materiali imponenti e testi cuneiformi di incomparabile dovizia e varietà, paradossalmente centrale nella sua localizzazione perife-
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rica rispetto sia alla Mesopotamia che al Levante, meticciata com’è, Mari si rivela presto una miniera d’oro per l’archeologia e la filologia. Diventa un sito capace di modificare il corso delle interpretazioni, all’epoca già assai consolidate, di molti aspetti delle culture mesopotamiche con cui si trovava in contatto a Oriente. Ma comincia anche a dettare paradigmi per le ricerche piú di frontiera – che allora si avviavano – sulle culture levantine prebibliche con cui si trovava in contatto a Occidente. Mari è ben diversa da Ugarit. In antico, l’una si trovava in area semiarida lungo l’Eufrate, l’altra in area temperata sul Mediterraneo. A oggi, l’una è stata prodiga di ritrovamenti del Bronzo Antico e Medio, l’altra di quelli del Bronzo Tardo (ma sappiamo che fu meta di un viaggio del re di Mari Zimri-lim). Grosso modo equidistanti dalla terra al centro della narrazione anticotestamentaria, Ugarit e Mari sono però i siti che definiscono i limiti di quella vasta 74 a r c h e o
regione culturale che, fra il Mediterraneo e l’Eufrate, effettivamente esisteva a nord del Levante biblico, e che con esso continuamente interferiva, trasferendovi ulteriori elementi culturali che vi transitavano provenendo da aree ben piú settentrionali, occidentali e orientali. Tuttavia, è una regione che ancora oggi fatica a ritagliarsi una sua vera autonomia nell’interpretazione accademica del Vicino Oriente antico e tale da rivaleggiare ad armi pari con gli studi biblici, mesopotamici, fenici, egizi, egei e anatolici, non essendosi, per esempio, trovata una denominazione migliore di Siria antica.
GLI ECHI DEL RACCONTO BIBLICO Nei decenni successivi alle novità degli anni Trenta sopra ricordate, gli studi degli orientalisti precisano, smussano e cominciano a sistemare il patrimonio di dati recuperato a Ugarit e Mari. Vengono prodotti studi fecondi che, sul versante filolo-
gico, non possono piú essere ignorati da chi opera per contestualizzare non tanto il testo anticotestamentario in sé – che è troppo tardo rispetto al cuneiforme di Ras Shamra e Tell Hariri –, ma piuttosto alcuni tratti culturali che esso tramanda. Non solo la religione nel senso di teologia e culto, ma anche le pratiche e le mentalità (come quella profetica e quella sapienziale, per fare esempi maggiori) sono oggetto di multiformi indagini. Nelle migliori di esse gli elementi di confronto sono usati sia per charire dettagli, sia per precisare stadi storici successivi di fenomeni culturali persistenti in linea generale, e condivisi al di là delle innumerevoli mutazioni politiche, tecnologiche e ambientali prodottesi nel tempo. Eppure, in Siria occidentale le grandi novità non si esauriscono con le scoperte francesi avvenute fra il 1929 e il 1933. Molti anni dopo,Tell Mardikh, un sito sulla strada nordlevantina che va proprio da Mari a Ugarit, rivela un ulteriore e inaspet-
A sinistra: pittura murale con scena di sacrificio, dal palazzo di Zimri-Lim a Mari. XVIII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. In basso: pettorale in oro e lapislazzuli a forma di aquila dalla testa leonina, da Mari. XXV-XXIV sec. a.C. Damasco, Museo Nazionale.
tato oggetto storiografico, ancora una volta assai peculiare e complesso. È l’antica Ebla. Anche in questo caso l’importanza del sito, scavato dalla missione archeologica di Roma guidata da Paolo Matthiae a partire dal 1964, è di ordine sia archeologico che filologico. Esso s’inserisce nella fortunata, e purtroppo non maggioritaria, categoria dei ritrovamenti vicino-orientali epocali che sono frutto di scavi regolari, continuativi e pianificati. Analogamente a Mari, e a differenza di Ugarit, la cronologia dei materiali rinvenuti a Ebla non scende oltre il Bronzo Medio. Come nel caso delle due altre scoperte, una loro ricognizione equilibrata mostra la presenza, già in età molto risalente, di alcuni tratti riscontrabili anche nell’Antico Testamento. Per esempio, una peculiare versione del motivo del «capro espiatorio» appare attestata nel Rituale regale eblaita del Bronzo Antico, cui si può accostare un passo di un testo di Ugarit del Bronzo Tardo.
IL PROVERBIO DELLA CAGNA Fra il 1782 e il 1775 a.C. (cronologia media) il re di Šubat-Enlil SamsiAddu cosí inizia una sua lettera al figlio Yasmah-Addu, re di Mari, dove la tavoletta cuneiforme è stata rinvenuta: «Voi, voi cercate continuamente degli stratagemmi per battere il vostro nemico e cercate senza sosta di imbrogliarlo. Da parte sua il nemico non cerca altro che stratagemmi a vostro danno e cerca senza sosta di imbrogliarvi. È una mutua ricerca continua di stratagemmi, come fanno i lottatori. C’è da temere che avvenga come nel proverbio antico, che dice: “La cagna, a furia di affrettarsi, ha partorito dei [cagnolini] ciechi!”. Non agite cosí! C’è da aver paura che il nemico vi imbrogli in
Denominazioni come «protosiriano antico», «protosiriano maturo» e «paleosiriano» possono essere usate per descrivere le tre fasi di rigoglio materiale di Ebla, il cui palazzo reale s’impianta e sale di rango prima del 2500 a.C., per poi essere distrutto tre volte, attorno al 2300 a.C., attorno al 2000 a.C., e definitivamente, a opera degli Ittiti, attorno al 1600 a.C.
un’imboscata!». Il vecchio «proverbio della cagna», dunque già antico ai tempi di Samsi-Addu, è straordinariamente prossimo al proverbio cui, piú di mille anni dopo, allude un celebre frammento del greco Archiloco: «Voglio sposare te piuttosto, che non sei falsa né infida, mentre quella è una volpe e trama sempre inganni. Temo che figli ciechi e prematuri farei, preso da fretta, come li fa la cagna». È un proverbio noto ancora oggi («La gatta frettolosa ha fatto i gattini ciechi» nella versione in italiano contemporaneo, con sostituzione del tipo di animale, sempre però domestico) e ancora oggi viene usato per mettere in guardia dall’agire avventatamente.
a p. 77).Vi si vedono contrapposti il dio della tempesta Teššob e il Senato eblaita, con il re locale, Meki, destinato ad accollarsi la colpa della di-
ZAZALLA, ORATORE IMBATTIBILE All’ultima distruzione di Ebla dovrebbe fare riferimento un testo letterario cuneiforme veramente straordinario. Si tratta della bilingue hurrico-ittita rinvenuta alla metà degli anni Ottanta a Hattuša, la capitale ittita sull’altopiano anatolico, dunque assai lontano da Tell Mardikh/Ebla. Denominata Canto della liberazione, essa tratta in modo drammatico questioni relative allo status giuridico di certi servitori di Ebla (vedi box a r c h e o 75
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IL CAPRO ESPIATORIO Ecco in che modo viene trattato il motivo del «capro espiatorio» presso le diverse culture attestate nell’antica Siria e nella Bibbia. A Ebla «E purifichiamo il mausoleo. Prima dell’ingresso [delle immagini] degli dèi Kura e Barama una capra, un bracciale d’argento al collo della capra, verso la montagna di Alit la lasciamo andare» (variante: la confiniamo). A Ugarit «Se una città viene conquistata, se la gente muore, la gente deve prendere una capra e condurla lontano». Nella Bibbia «Il Signore parlò a Mosè dopo che i due figli di Aronne erano morti mentre presentavano un’offerta davanti al Signore. Il Signore disse a Mosè: “(...) Aronne (...) dalla comunità degli Israeliti prenderà due capri per un sacrificio espiatorio (...) Poi prenderà i due capri e li farà stare davanti al Signore all’ingresso della tenda del convegno e getterà le sorti per In alto: Il capro espiatorio, olio su tela di William Holman Hunt. 1854. Port Sunlight (Merseyside Inghilterra), Lady Lever Art Gallery. Nella pagina accanto: Tell Mardikh/ 76 a r c h e o
vedere quale dei due debba essere del Signore e quale di Azazel. Farà quindi avvicinare il capro che è toccato in sorte al Signore e l’offrirà in sacrificio espiatorio; invece il capro che è toccato in sorte ad Azazel sarà posto vivo davanti al Signore, perché si compia il rito espiatorio su di lui e sia mandato poi ad Azazel nel deserto. (...) Aronne poserà le mani sul capo del capro vivo, confesserà sopra di esso tutte le iniquità degli Israeliti, tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati e li riverserà sulla testa del capro; poi, per mano di un uomo incaricato di ciò, lo manderà via nel deserto. Quel capro, portandosi addosso tutte le loro iniquità in una regione solitaria, sarà lasciato andare nel deserto. (...) Colui che avrà lasciato andare il capro destinato ad Azazel si laverà le vesti, laverà il suo corpo nell’acqua; dopo, rientrerà nel campo”» (Levitico 16:1-26). Ebla, Area FF. Veduta dei resti di un vano adiacente l’ingresso del Palazzo meridionale, comprendente abbeveratoi e dunque probabilmente adibito a scuderia. Bronzo Medio II.
struzione della sua città. Colpisce, in questo testo, il racconto inusitato dell’appassionata arringa dell’eblaita Zazalla, oratore imbattibile che, alternando ironia tagliente e pratica durezza, obbliga il suo re a resistere al dio, concorrendo in abilità retorica con Teššob stesso. Un’eventuale relazione che leghi il Canto della liberazione a celebri testi dell’antichità, classici e biblici, è tuttora oggetto di dibattito scientifico. Gli scavi a Ugarit, Mari ed Ebla hanno recuperato molte migliaia d’iscrizioni cuneiformi, perlopiú su argilla, ma anche su statue e sigilli. Le informazioni che esse forniscono riguardano praticamente ogni settore degli studi assiriologici. Per limitarsi agli ambiti di indagine piú frequentati, gli studi che i testi di Ugarit, Mari ed Ebla permettono su religione, diritto, tecnologie, scienze, arte, commercio, diplomazia, conflitti, società e famiglia formano ormai una bibliografia sterminata. Ma è anche possibile evidenziare il contributo specifico piú significativo che i testi cuneiformi di ognuno di questi tre siti portano alla nostra migliore definizione della storia del Vicino Oriente antico.
L’IMPORTANZA DI EBLA Per Ebla, si può indicare l’apparizione – in un’epoca molto antica, la fine del XXIV secolo a.C. – di fenomeni culturali di complessità e implicazioni tali da sfidare ancora la comunità scientifica. La portata veramente rivoluzionaria, in quanto precedentemente insospettata, delle informazioni ora disponibili grazie ai testi riferibili agli ultimi re del Palazzo G ‒ Yigriš-Halab, Yirkab-damu e Yiš’ar-damu ‒ ha reso gli studi eblaiti, caratterizzati da vivaci dibattiti, veri e propri studi di frontiera, eccitanti perché vi si fanno scoperte continue. Abbiamo or mai accesso a infor mazioni, complementari a quelle provenienti dai testi mesopotamici ed egizi, che sono utili sia per cercare
IL CANTO DELLA LIBERAZIONE Quelli che seguono sono alcuni brani compresi nel Canto della liberazione, un testo letterario cuneiforme inciso su numerose tavolette rinvenute a Hattuša. Cosí parla Teššob, il dio della tempesta della città di Kumme, a Meki re della città di Ebla e al suo Senato: «Fai tornare a vivere liberi e nel benessere i figli [della città] di Igingalliš! Libera anche Purra, il prigioniero, che ha servito nove re! Per Igingalliš egli ha servito tre re, per Ebla egli ha servito sei re, e ora, per il decimo [re], o Meki, egli sta davanti a te. Se voi decretate la [loro] liberazione, il destino per Ebla è [questo]: se voi decretate la [loro] liberazione, io esalterò le vostre armi fino a un [potere] simile a quello divino, le vostre armi batteranno il nemico [e] i vostri campi prospereranno dandovi gloria. Se [però] voi non decretate la [loro] liberazione, il destino per Ebla è [questo]: il settimo giorno io verrò su di voi, e distruggerò la città di Ebla, ne farò un luogo disabitato, frantumerò la città bassa come [fosse] una tazza, calpesterò la città alta [ridotta] a spazzatura, schiaccerò sotto i [miei] piedi il mercato dentro la città come [fosse] una tazza, rimuoverò il mio (...), [lo] getterò dal cuore dell’acropoli nella città bassa [e] dalla città bassa nell’acqua». Cosí viene poi riportato ciò che Zazalla figlio di Fazanigar dice al re di Ebla Meki: «Non c’è oratore che gli si opponga, nel Senato non c’è oratore che gli si opponga, [nessuno] che possa argomentare contro di lui. [Se nella cit]tà c’è un oratore potente, [le cui] parole nessuno contrasta, è Zazalla quell’oratore potente, le cui parole nessuno supera nell’assemblea. Zazalla cosí iniziò a dire al re
di Ebla Meki: “Perché parli di sottomissione, o Meki, stella degli eblaiti?”. [Cosí] Zazalla parlò contro di lui. [Zazalla poi disse:] “È forse oppresso il dio Teššob, sí da richiedere una liberazione? Fosse Teššob oppresso finanziariamente, gli daremmo argento, un siclo per ciascuno di noi, mezzo siclo d’oro per ciascuno di noi, un siclo d’argento per ciascuno di noi gli daremmo. Fosse Teššob affamato, ciascuno di noi gli riempirebbe una misura di grano, ciascuno di noi gli riempirebbe una mezza misura di farro, una misura di grano [da ciascuno di noi]. Fosse Teššub denudato, ciascuno di noi abbiglierebbe il dio con un abito. Fosse Teššob inaridito, ciascuno di noi gli fornirebbe una fiasca d’olio e lo risaneremmo [liberandolo] dalle sue necessità, il dio. Lo salveremmo, Teššob, dal suo oppressore. Però noi non concederemo la [loro] liberazione! Meki, il tuo cuore non gioirà. Il tuo cuore non gioirà, e nemmeno Purra gioirà. Noi non libereremo i figli della città di Igingalliš! Se li liberassimo, chi starà al nostro servizio? Essi sono coppieri, camerieri, cuochi e lavapiatti. (...) Se tu [Meki] vuoi una liberazione, libera i tuoi servitori, libera le tue servitrici, abbandona tuo figlio per strada e rimanda tua moglie nella [casa] di suo padre!”. Quando il re di Ebla Meki udí questo discorso si mise a piangere senza smettere piú. Si inginocchiò davanti a Teššob e prosternandosi Meki disse a Teššob: “Ascolta Teššob, grande signore della città di Kumme: io la concedo, [ma è] la mia città [che] non concede la [loro] liberazione! Zazalla, figlio di Fazanigar, non concede la [loro] liberazione!”».
di sincronizzare le varie storie regionali sia per rintracciare percorsi e modalità della circolazione di testi cuneiformi quali inni, incantesimi e liste lessicali in aree distanti fra loro anche 1000 km. Grazie ai testi amministrativi di Ebla possiamo però anche indagare, in un dettaglio insperato, l’articolata e cosmopolita società eblaita quando essa si trovò alle prese con gli enormi problemi innescati da dinamiche sovraregionali epocali, segnatamente quelle che, di lí a pochissimo, ebbero come esito la riorganizzazione «imperiale» operata da Sargon di Akkad. Attorno al a r c h e o 77
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2300 a.C., essa investí l’intera Asia occidentale, Ebla compresa. Il fatto che gli archivi del suo Palazzo reale s’interrompano bruscamente proprio in questo frangente ci priva di un racconto diretto delle fasi conclusive delle trasformazioni in corso. Veniamo comunque a sapere che l’epoca della Ebla degli archivi cuneiformi del Palazzo G era caratterizzata da un interscambio commerciale di enormi dimensioni (enormi in rapporto alla demografia delle comunità interessate). Esso permise alle élite nord-levantine del tempo di raggiungere livelli di ricchezza non troppo distanti da quelli egizi
Sulle due pagine: due facce della Stele di Ištar, da Ebla (1800 a.C. circa), e disegno della sfinge dalle forme di leone, aquila, toro e uomo: sarebbe l’unica attestazione figurativa precristiana che fonde i quattro cherubini della profezia contenuta in Ezechiele 10:14.
e comparabili, se non addirittura per certi aspetti superiori, a quelli mesopotamici. E un grande lavoro di ordinamento e valutazione degli ingenti dati quantitativi relativi ai gruppi umani e all’ambiente naturale dell’età di Ebla protosiriana ancora attende gli studiosi, che dovranno farsi aiutare da nuove tecnologie.
MARI E LA BIBBIA Per Mari, si deve rimarcare che, grazie ai testi scritti durante la prima metà del XVIII secolo a.C. (sotto i regni degli ultimi sovrani amorrei ‒ Yahdun-lim, YasmahAddu e Zimri-lim ‒ e subito prima che Hammurabi di Babilonia ne distruggesse per sempre il Palazzo reale), le ricerche sulla preistoria del testo anticotestamentario possono trovare fondamenta solide. Una ventina d’anni fa, Jean-Marie Durand ha ripreso l’argomento, cercando di superare la fase della raccolta di frammenti di comparazione. Si vede come, evitando obbiettivi impossibili quali la ricerca di legami storici (in quanto le due documentazioni – i testi di Mari e quello anticotestamentario – sono indipendenti), si possono invece individuare sia importanti connessioni antropologiche sia pre78 a r c h e o
cursori testuali, data la presenza di tematiche identiche nelle due fonti: per esempio, l’accoglienza riservata allo straniero, l’eco di avvenimenti antichi o il culto delle pietre. La redazione della Bibbia di cui disponiamo dovrebbe dunque conservare a livello di racconti e di folklore vari elementi trasmutati, che possono essere stati altrettanti fatti reali in epoche risalenti verso l’età amorrea. Tra i fatti vi sono anche le credenze religiose, e un caso qui interessante è fornito da una notevole stele amorrea trovata non a Mari, bensí a Ebla. È stato infatti proposto che, nello scomparto D2 della Stele di Ištar eblaita, la sfinge dalle forme di leone, aquila, toro e uomo sia l’unica attestazione figurativa precristiana in cui si fondono i quattro cherubini della visione profetica di Ezechiele 10:14.
UGARIT E LA MATRICE LEVANTINA Per Ugarit, le circa 2000 tavolette in ugaritico che, durante i secoli XIV e XIII a.C. (prima della definitiva distruzione operata dai «Popoli del Mare»), furono scritte nella varietà locale di cuneiforme alfabetico, offrono un numero elevatissimo di paralleli al testo anti-
cotestamentario, assai ricchi formalmente e semanticamente. Relativi a fatti di lingua, di stile poetico e di tradizioni letterarie, questi paralleli sono spesso cosí specifici da suggerire che quanto è condiviso dai due gruppi di testi sia testimonianza di una comune matrice culturale, definibile levantina o semitico-occidentale, piuttosto che «cananaica». Tuttavia, occorre anche sottolineare le profonde differenze fra le due documentazioni. Ugarit era un regno costiero perfettamente cosmopolita e politeista, che nel Bronzo Tardo si barcamenò fra i due grandi imperi del Nord e del Sud (l’ittita e l’egizio), come confermato dai testi cuneiformi rinvenuti nella capitale di Hatti, Hattuša, e nella cancelleria del faraone Akhenaton, ad Amarna. Sorretta da una fiorente agricoltura, la fortissima vocazione mercantile di Ugarit, sita all’incrocio di varie rotte commerciali, contrasta con quanto sappiamo delle terre oggetto della narrazione biblica, che si trovavano in una collinosa zona rurale interna, assai piú defilata. Inoltre, anche i testi ugaritici piú recenti sono distintamente piú antichi, sebbene forse non di molto, dei livelli piú arcaici del testo biblico. Allo stato attuale degli studi possiamo ritenere che i parallelismi ugaritico-biblici mostrano due culture sufficientemente sovrapponibili e sufficientemente differenti. Cosicché possiamo ricavare molti elementi prospetticamente utili alla definizione stor ica dell’insieme formato dalle culture levantine durante il millennio che precedette l’età assiale.
ALALAH E LE ALTRE I testi cuneiformi di Ebla, Mari e Ugarit non sono però i soli fari in grado di illuminare la Siria antica. Ve ne sono altri, in un numero che illustra la complessa strutturazione delle società che, durante il Bronzo Medio e Tardo (Ebla resta
per ora isolata nel Bronzo Antico), popolavano quelle aree. Uno dei siti in cui, poco prima dei ritrovamenti di Ugarit, vennero rinvenuti testi cuneiformi è Mishrife, sul medio Oronte, l’antica Qatna, che ancora di recente ha dato nuova documentazione, importante negli studi sui Hurriti. Alla lista vanno aggiunte città sul medio Eufrate siriano quali Tell Bi’a (l’antica Tuttul, sede principale del culto del dio Dagan), Meskene (l’antica Emar, che fu prima un regno, poi città famosa per i suoi attivissimi mercanti, infine dominio ittita) e Tell Munbaqa (l’antica Ekalte, un centro minore). Ma testi cuneiformi sono stati trovati anche in Libano, per esempio a Kamid el-Loz (l’antica Kumidi). Da queste aree il cuneiforme scomparve o divenne estremamente minoritario solo a partire dall’età del Ferro, in concomitanza con la diffusione della grande innovazione levantina, l’alfabeto. Spicca poi Alalah, capitale del piccolo regno di Mukiš, sito nella piana di Antiochia. In generale, le informazioni storiche su Alalah (che, con iati, coprono in tutto quasi dodici secoli) provengono sia dai testi del sito stesso che da quelli di Ebla, Mari e Ugarit, a cui si aggiungono le fonti ittite da Hattuša. Inoltre, si sa che Alalah fu raggiunta da un raid del faraone Thutmosi III. Alalah entrò di prepotenza negli studi vicino-orientali nel 1937, quando sir Leonard Woolley – ormai celebre per le scoperte di Ur nel Sud mesopotamico – modificò radicalmente i suoi interessi, che si volsero verso i contatti fra l’Asia occidentale e l’Egeo, e iniziò quindi l’esplorazione di Tell Atchana, non lontano da Antiochia. Scavandovi dapprima sotto l’amministrazione mandataria francese (19371939) e poi sotto quella kemalista nella nuova provincia turca di Hatay (1946-1949), Woolley vi scoprí non solo templi, palazzi, case e
tombe, ma anche molte tavolette del Bronzo Medio e Tardo, nonché la famosa Statua di Idrimi (vedi box alle pp. 80-81). Quest’ultima reca inciso un testo cuneiforme che costituisce una preziosa finestra su come poteva essere narrata e concettualizzata ex eventu (dovrebbe trattarsi di una pseudo-autobiografia) la vita movimentata di un capo politico minore del Levante settentrionale della prima metà del XV secolo a.C. Ritrovato in frantumi dentro un pozzo in livelli databili al 1200 a.C. circa, la verosimile storia di questo monumento può essere ricostruita: è infatti probabile che dapprima esso
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POPOLI DELLA BIBBIA/5 • AMORREI
L’«AUTOBIOGRAFIA» DI IDRIMI, RE DI ALALAH Ecco la traduzione del testo inciso sulla Statua di Idrimi: «Io sono Idrimi, figlio di Ilum-ilimma, servitore del dio della tempesta [e] di Hebat [signori di Aleppo], e [ora anche] di Ištar di Alalah, la regina, mia signora. La mia famiglia [risiedeva] in Aleppo. Ci fu una calunnia e ci ritrovammo in fuga. C’erano dei parenti di mia madre a Emar e andammo a vivere a Emar. I miei fratelli, che erano ben piú grandi di me, vivevano con me, ma nessuno [di loro] pensava quello che pensavo io. Io pensavo questo [di chi abitava a Emar]: “Qual è la sua famiglia? Certamente, o di secondo, o di medio, o di primo rango. E allora, che cosa (sono io) per chi abita a Emar? Certamente, un servitore [e dunque non uno di loro]!” Preso il mio cavallo, il mio carro e il mio palafreniere, attraversate terre abbandonate, spintomi fra i nomadi, mi ritrovai a passare la notte in un riparo precario della steppa. L’indomani partii, per andarmene nel paese di Canaan. Nel paese di Canaan c’era la città di Ammiya. Vi risiedevano genti originarie di Aleppo, del paese di Mukiš, del paese di Niy e del paese di Ama’e. Essi non mancarono di accorgersi che io ero figlio del loro signore e [quindi] si unirono a me. Dunque là [ad Ammiya], essendo diventato piú potente [grazie a loro], a lungo e fra le bande di mercenari, per [ben] sette anni mi ritrovai ad abitare. Liberai [costantemente] uccelli [per avere oracoli sul favore divino, ma invano]. Poi [un giorno] esaminai le viscere di un agnello [per avere un oracolo piú sicuro] e, gli anni [passati] erano sette, [finalmente vidi che] il dio della tempesta si era messo dalla mia parte! Fabbricati battelli, vi feci imbarcare soldati, e, per mare, mi avvicinai [andando 80 a r c h e o
verso nord] al paese di Mukiš, e davanti al monte Casio attraccai. Marciai verso l’interno. Allora [quello che sarebbe diventato] il mio paese non mancò di sentire parlare di me, e buoi e pecore mi furono portati. E di colpo, unanimemente, il paese di Niy, il paese di Ama’e, il paese di Mukiš e la città di Alalah, [oggi] la mia città, si misero dalla mia parte! (...) Durante [quei] sette anni, Barattarna, un re potente, re delle bande Hurrite, non aveva mancato di mostrare la sua ostilità contro di me. Alla fine di [quei] sette anni inviai un messaggio al re Barattarna, re delle bande <Hurrite> tramite Annuwanda. Allora, raccontai in dettaglio le tribolazioni dei miei padri: all’epoca delle generazioni che mi avevano preceduto, [i re Hurriti] avevano fatto un patto di alleanza con loro. Allora, [alleati] furono i nostri antenati ai re delle bande hurrite, c’era amicizia, e fra di loro non avevano mancato di instaurare un giuramento forte! Il re potente [Barattarna] riconobbe le tribolazioni dei nostri antenati [al servizio dei Hurriti] e il giuramento che esisteva fra di loro. Egli, rispettando le clausole del giuramento (...) accettò i miei doni di obbedienza, e il successivo [giorno festivo del] Braciere [fu l’occasione] di offerte sacre; io [le] offrii aumentandole [piú del previsto], e [cosí] una casata fuggitiva fu restaurata al suo fianco. Da gentiluomo leale che ero, gli giurai il giuramento anteriore. Allora, divenni re! I re della mia frontiera meridionale e quelli della mia frontiera settentrionale non mancarono di portare [prove della] loro alleanza [qui] ad Alalah. Allora, proprio come [avrebbero fatto] loro, assumendo lo stesso rango, io
Statua di Idrimi, re di Alalah, da Tell Atchana, nei pressi di Antiochia. 1500 a.C. circa. Londra, British Museum. Sull’opera corre l’iscrizione riportata in queste pagine.
stesso, quando [agli abitanti di Alalah] le loro mura, quelle dei loro padri, rovinarono al suolo, non solo le ritirai su dal suolo, ma anche detti loro un’altezza che potesse resistere agli assalti! Levata la truppa e marciato contro il paese di Hatti [sulla montagna in direzione della Cilicia], mi impadronii [inoltre] di ben sette città: Paššahe, Damarutla, Hulahhan, Zila, Yâ, Uluzila e Zaruna. Queste diverse città le ho annesse [al mio regno] ed alcune a viva forza. Il paese di Hatti non si mobilitò e non marciò contro di me. Realizzato quanto desideravo e fatto un [bel] bottino, i loro tesori, i loro beni e le loro provviste li presi e li divisi fra le truppe dei miei alleati, dei miei contribuli e dei miei compagni d’arme. Avendo preso per me soltanto le loro armi [come trofei], tornai nel paese di Mukiš e rientrai ad Alalah, la mia città. Con il
bottino e il bestiame, con i tesori, i beni e le provviste che furono fatte scendere dal paese di Hatti feci fare una residenza! Il mio trono uguagliò i troni de[gl]i [altri] re. I [ricchi] gentiluomini miei fratelli si comportarono come i fratelli de[gl]i [altri] re. I miei amministratori si comportarono come i loro amministratori, e i [valenti] gentiluomini miei compagni d’arme si comportarono come i loro compagni d’arme (...) Quelli che avevano già dimore nel mio paese, gliene feci abitare di migliori, [e insieme con] quelli che non ne avevano [ancora] e cui io detti dimora, [essi] resero allora stabile il mio paese. Allora, io resi le mie città del tutto simili a quelle dell’epoca dei nostri avi. Allora, proprio come quando i nostri padri fissarono i riti regolari degli dèi di Alalah e le offerte dei sacrifici per i nostri avi, quelli [i riti] che per loro [gli dèi e gli avi] essi compivano io li ho fatti svolgere regolarmente! Tutto questo, fatto per loro, io lo affidai a mio figlio Addu-nerari. [Chiunque rimuoverà dalla sua posizione questa mia statua, che la divinità (...) distrugga la sua discendenza!] Che il cielo lo maledica, che gli inferi accolgano il suo erede! Che gli dèi del cielo e della terra misurino la sua regalità e il suo paese! Chiunque l’altererà [o] se la cancellerà, che il dio della tempesta, signore del cielo e della terra, la sua fama e la sua progenie distrugga nel suo paese! Šarruwa, l’apprendista scriba, servitore del dio della tempesta, del dio del sole, del dio della luna, e di Ištar. Šarruwa [è] lo scriba che ha iscritto questa statua divinizzata. Possano gli dèi del cielo e della terra salvarlo dalla morte [e] proteggerlo, [e] possa essergli favorevole il dio del sole superno!
Tavoletta in caratteri cuneiformi recante un testo relativo alla relazione fra la sacerdotessa Ti’a-parsu e Titinu, da cui ebbe un figlio, dall’archivio reale di Ebla. XXIV sec. a.C. Idlib, Museo.
abbia a lungo ricevuto un culto connesso agli antenati defunti, che il suo danneggiamento sia conseguenza delle violenze avvenute all’arrivo dei «Popoli del Mare», e che la raccolta e l’interramento dei suoi frammenti indichino un ancora successivo atto di pietà.
QUASI COME UNA FIABA La lettura del testo inciso sulla Statua di Idrimi rafforza sia la sensatezza dei raffronti comparativi di certi documenti cuneiformi del Levante settentrionale con la Bibbia, sia la necessità di inquadrare bene continuità e discontinuità. Da un lato, infatti, la testualizzazione della vicenda avventurosa di Idrimi, compresi fuga e successivo lieto fine, presenta quei tratti strutturali dei racconti fiabeschi che si riscontrano, per esempio, anche nel racconto biblico concernente Ioas, il nono re di Giuda, riportato in 2 Re 11-12 (come ha notato Mario Liverani, consapevole che le due storie, scritte in lingue differenti, sono separate da 650 anni e 500 km, ma anche che esse sono inquadrabili in un mondo piuttosto compatto e conservatore). Dall’altro, si osserva come il culto prestato in Alalah a Idrimi e alla sua statua confligga frontalmente con le credenze proprie di chi produsse il canone anticotestamentario. Le ricerche piú recenti riconoscono che il confronto dei dati testuali fra le documentazioni cuneiformi di Ebla, Mari, Ugarit, Qatna,Tuttul, Emar, Ekalte, Kumidi e Alalah da una parte e la Bibbia dall’altra è operazione legittima e fertile qualora sia praticata con estremo rigore. Vi è molto spazio
per nuove ed entusiasmanti ricerche, adatte per giovani menti brillanti. Se in futuro anche un solo dottorato in assiriologia (magari focalizzato sulla Siria dell’età del Bronzo) risultasse motivato, seppur in piccola parte, dalla lettura di questo articolo, esso avrebbe ottenuto il suo scopo primario. NEL PROSSIMO NUMERO • Ittiti e Hurriti
PER SAPERNE DI PIÚ Pascal Butterlin, Sophie Cluzan (a cura di), Voués à Ishtar. Syrie janvier 1934. André Parrot découvre Mari, Presses de l’IFPO, Beirut 2014 Mario Liverani, Antico Oriente. Storia Società Economia. Nuova edizione aggiornata, Editori Laterza, Bari-Roma 2011 Valérie Matoïan, Thomas Römer (a cura di), Ougarit, entre Orient et Occident, catalogo della mostra (Parigi, 15-23 settembre 2016), Collège de France, Parigi 2016 Paolo Matthiae, Dalla terra alla storia. Scoperte leggendarie di archeologia orientale, Einaudi, Torino 2018 Eva von Dassow, Liberty Bondage and Liberation in the Late Bronze Age, History of European Ideas 44 (2018), pp. 658-684. a r c h e o 81
SPECIALE • CANOVA E L’ANTICO
UN ARTISTA GRANDE COME GLI
ANTICHI
SCRIVEVA STENDHAL CHE «IL CANOVA HA AVUTO IL CORAGGIO DI NON COPIARE I GRECI E DI INVENTARE UNA BELLEZZA, COME AVEVANO FATTO I GRECI…». IN QUESTI GIORNI, UNA SPLENDIDA MOSTRA AL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI NAPOLI CELEBRA IL GRANDE SCULTORE E PITTORE VENETO, RIUNENDO OLTRE CENTO DEI SUOI CAPOLAVORI, PROVENIENTI DAI PRINCIPALI MUSEI ITALIANI E INTERNAZIONALI. E ILLUMINA, COSÍ, IL RAPPORTO CONTINUO, INTENSO E FECONDO CHE LO LEGÒ AL MONDO CLASSICO a cura di Giuseppe M. Della Fina; testi di Giuseppe Pavanello, Paolo Giulierini e Giuseppe M. Della Fina 82 a r c h e o
«P
er noi l’unica via per diventar grandi e, se possibile, inimitabili, è l’imitazione degli antichi». All’epoca in cui fu scritta – maggio 1755 – questa frase celeberrima di Johann Joachim Winckelmann era semplicemente un auspicio: un azzardo potremmo dire, proclamato per di piú in un luogo, Dresda, dove non si poteva certo pensare che potessero maturare i frutti sperati. Verso Roma era rivolta quell’espressione e Roma sarà il luogo dove Winckelmann porterà avanti tale discorso, polemico a oltranza. Era il segnale di una rivoluzione, in un’Europa dominata dal Rococò. Imitare gli antichi per diventare inimitabili: l’assunto proclamato dal padre del neoclassicismo intride la personalità di Canova. Dal giovanile Teseo vincitore del Minotauro fino all’Endimione dormiente, concluso poco prima di morire, il dialogo Antico/Moderno è stato, per lo scultore, una costante irrinunciabile. Fino a toccare, in tale percorso, punte che hanno valore di sfida: su tutte, la creazione del Perseo trionfante, novello Apollo del Belvedere. La sfida all’Antico mai s’era spinta fino al punto di proporre l’equivalente, il rivale moderno di una delle statue antiche piú osannate: il Perseo trionfante versus l’Apollo del Belvedere, deportato quest’ultimo a Parigi per cui il marmo canoviano andò a piazzarsi nel 1802 proprio sul suo piedistallo nel cortile del Belvedere nel Museo Pio-Clementino, per volere dello stesso sommo pontefice. Al Perseo si affiancheranno ben presto nel cortile del Belvedere i due Pugilatori – i nuovi Tirannicidi – anch’essi acquistati nel 1802 per rimpiazzare, questa
In alto, sulle due pagine: Mercato degli Amorini, tempera su carta di Antonio Canova. 1799. Possagno, Gypsotheca e Museo Antonio Canova. A destra: Le Grazie, affresco da Pompei, Casa di Titus Dentatius Panthera. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: Le Grazie, gruppo in marmo di Antonio Canova. 1812-1816. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage.
volta, opere antiche di «forte carattere», come il Laocoonte esiliato a Parigi. «Per Canova fu poco meno che un’apoteosi. Per Pio VI e il cardinale Consalvi, vero artefice di tutta l’operazione, fu soprattutto un modo di lanciare un segnale politico inequivocabile in risposta ai soprusi subiti dallo Stato della Chiesa in quegli anni tormentati», come ha notato Antonio Pinelli. Cosí, a riparare la perdita della Venere dei Medici, esiliata dagli Uffizi a Parigi, si chiederà a Canova di scolpirne la copia: punto di partenza per la nuova Venere che esce dal bagno (Italica). Su un altro versante si colloca il Monumento funerario di Maria Cristina d’Austria (1798-1805: Vienna, Augustinerkirche). L’Antico in quest’opera è sostanzialmente lo sfondo della piramide. A partire da qui la scultura si innova sganciandosi dalla servitú nei confronti dell’architettura, e almeno sei figure si a r c h e o 83
SPECIALE • CANOVA E L’ANTICO
presentano in piena autonomia nello spazio: A destra: un una, persino, quella che sta per entrare nella particolare cella del sepolcro, non mostra il volto, e dall’allestimento l’osservatore è perciò invitato a indovinarne della mostra con, l’espressione dall’attitudine. Siamo già «olin primo piano, tre» il neoclassicismo? una delle versioni E se un elemento antico, il sarcofago di tradi Ebe, scolpita dizione romana, viene a imporsi – e siamo al da Canova Monumento funerario di Francesco Pesaro poi nel 1796. ripreso per Vittorio Alfieri – la figura che gli In basso: sta accanto, colta in attitudine piangente – Autoritratto come prima Venezia, poi l’Italia – viene a conferiscultore, olio su re un significato nuovo all’insieme, nel segno tela di Antonio del compianto, vanificando ogni citazione Canova. 1799. erudita. Ancora un sarcofago, ma con altro Possagno, significato. È il cardine del Monumento funeGypsotheca e rario di Horatio Nelson, a riproporre il giganMuseo Antonio tismo della tarda latinità – i porfidi dell’età Canova.
di Costantino conservati nel Museo PioClementino – enfatizzato dalle personificazioni dei Continenti poste tutt’attorno su una base circolare, sicché il gioco delle forme geometriche si fa prevalente.
LA SCULTURA FUNERARIA Le numerose stele, esemplate su esempi classici, con una figura femminile assisa in attitudine afflitta davanti al busto del personaggio commemorato. Una ricerca di purezza neoattica si direbbe l’istanza che sta alla base di tali invenzioni, sorvegliatissime nella modulazione dei rapporti tra figura e piano di fondo, come un diaframma che separa mondo fisico e metafisico, in un percorso che, per gradi, viene a focalizzarsi su minimi risalti, come delle mezze tinte in pittura, o, meglio come 84 a r c h e o
In basso: Lo studio del Canova, disegno a penna, acquarellato grigio e seppia, lumeggiato a biacca di Francesco Chiarottini. Udine, Musei Civici. L’opera si riferisce all’atelier romano dell’artista e fu eseguita tra il marzo e il giugno 1786, pressappoco negli anni in cui lo scultore stava realizzando il Monumento funerario a Clemente XIV, del quale, sulla destra, si riconoscono il modello in gesso e il marmo.
lo. È un passaggio cruciale: la Stele Giustiniani (Padova, Musei Civici) segna infatti l’avvio alle stele degli anni futuri, in cui si andrà assottigliando il risalto del rilievo, sino a toccare nelle Stele Mellerio – e siamo nel 1812 – un vertice ineguagliabile di rarefazione formale e di pathos, insieme commisti. Il modello classico s’impone anche nella ritrattistica: il busto di Francesco II panneggiato all’antica, Napoleone I, colossale, in nudità eroica come un imperatore romano, la madre Letizia Ramolino come nuova Agrippina. Cosí, sotto il velo della Concordia è raffigurata Maria Luisa d’Asburgo-Lorena: la nuova imperatrice dei Francesi, il cui matrimonio con Napoleone aveva sancito la fine delle guerre fra i due imperi. Nella statua dell’imperatore dei Francesi l’imitazione/confronto fra antico e moderno tocca un altro vertice.
IL PIÚ CELEBRE DEI RITRATTI E veniamo al ritratto celeberrimo: Paolina Borghese Bonaparte come Venere vincitrice. In gara con gli antichi marmi, come la Ninfa/ Baccante del British Museum. Ma pure esempi inattesi. Paolina: «Ripete, pur nello splendore delle sue carni vellutate, l’attitudine di riposo delle figure giacenti dei sarcofagi etruschi, riassorbendo cosí la carnalità e la sensualità dell’antico schema tizianesco nella immobilità sacrale dell’ancor piú antico monumento funebre», ha osservato Corrado Maltese. Ma si può aggiungere anche una
delle velature scolpite, per cui l’astrazione formale tocca un vertice ineguagliato. Si può credere che l’artista abbia dato un’occhiata a stele classiche, sia dal vero, come l’esemplare da secoli conservato nell’abbazia di Grottaferrata, sia in incisioni. Negli ultimi anni del Settecento da Padova viene richiesta un’opera in onore del reggente veneziano, Girolamo Giustiniani, nel momento in cui prendeva congedo dalla città a fine mandato. Niente di piú estraneo a Canova, che, fra l’altro, nutriva una forte idiosincrasia per il ritratto. Un «pensiero» si affaccia alla mente dell’artista: in forma di bassorilievo. Ecco imporsi la personificazione di Padova, assisa come saranno le statue sedenti degli anni futuri, in atto di reggere il medaglione con il volto del personaggio ripreso di profia r c h e o 85
SPECIALE • CANOVA E L’ANTICO
Archeologico di Napoli come il marmo Ludovisi descritto dalle fonti come «Statua con testa ritratto virile seduta». Antico/Moderno, quasi un’attuale rivisitazione del confronto Anciens/Modernes che aveva animato il dibattito all’Académie Royale suscitando accese prese di posizione. Ben piú alto è tuttavia l’obiettivo che ora ci si prefigge, entro un arco temporale che abbraccia pressoché l’intera storia dell’arte d’Europa. Non un altro dei tanti «classicismi» che di tempo in tempo si erano susseguiti, ma qualcosa di radicalmente nuovo. Il sasso gettato da Winckelmann doveva produrre una rivoluzione inaspettata, e proprio nella scultura doveva produrre i maggiori risultati. Di necessità, si può dire, stanti le testimonianze antiche pervenute. Quali opere d’arte d’altri ambiti potevano gareggiare con il Laocoonte o con l’Apollo del Belvedere? O con la Venere dei Medici?
fonte «ercolanese»: il dipinto riprodotto nel terzo volume di Le pitture antiche d’Ercolano (Napoli 1762, tav. XXVII): Ninfa sdraiata con un corno dorato nella mano sinistra. Anche nel caso del ritratto di un personaggio come George Washington, ci si raffronta con modelli antichi, abbigliato come un condottiero romano e i riferimenti comprendono il Claudio semipanneggiato sedente del Museo 86 a r c h e o
Teseo vincitore del Minotauro, gesso di Antonio Canova. 1781-1783. Possagno, Gypsotheca e Museo Antonio Canova.
GLI STUDI GIOVANILI Canova si dedicò allo studio dell’Antico già negli anni giovanili: a Venezia nella Galleria di gessi costituita da Filippo Farsetti nel suo palazzo sul Canal Grande con i calchi delle piú celebri statue classiche. Il suo primo tributo all’antico sono le copie dell’Antinoo del Belvedere (perduta) e, nel 1775, dei Lottatori degli Uffizi (Venezia, Gallerie dell’Accademia) per un concorso all’Accademia, vinto da altri. L’avvio è dunque in perfetta sintonia con la pratica dell’insegnamento accademico di quel momento. Per un giovane artista di quegli anni s’imponeva, in ogni parte d’Europa, il viaggio a Roma, meta obbligata per chi volesse aggiornarsi e partecipare al dibattito sull’arte d’avanguardia, soprattutto per conoscere l’Antico sugli originali, e Canova vi arriva già alla fine del 1779 grazie al guadagno ottenuto scolpendo il gruppo di Dedalo e Icaro. Giunto nell’Urbe, l’entusiasmo è alle stelle. È suo compagno nelle scorribande nei musei, fin dal primo giorno, l’architetto veneziano Giannantonio Selva. Nel Pio-Clementino: «Giunto colà fu tanto rapito da quegli eccellenti originali, che sembrava quasi pazzo a chi non lo conosceva; si fermava all’Apollo; correva al Laocoonte, e cosí di mano in mano alle altre statue, pareva che in un momento succhiar volesse quelle bellezze che il suo fino occhio scopriva». Anche grazie alle note appuntate nei Qua-
derni di viaggio, il diario giornaliero, veniamo informati dell’indefessa attività nello studio dell’Antico: disegni di statue conservate al Campidoglio, nel Museo Pio-Clementino e in residenze dell’aristocrazia romana. Le opere oggetto di maggior attenzione sono l’Antinoo-Hermes (in ben sei riprese) e il Torso del Belvedere del Museo Pio-Clementino. E, ancora, le riprese, ben venticinque, dai Colossi di Monte Cavallo, i celebri gruppi posti nella piazza del Quirinale, attribuiti in passato a Fidia e Prassitele. Se ne ricorderà per modellare i Pugilatori, o, anche, per il panneggio del Perseo. L’accuratezza con cui Canova studiava le opere classiche è palese anche nella registrazione delle misure prese sull’originale e riportate sul foglio con acribia da archeologo. Nel caso dell’Apollo del Belvedere egli utilizzò un’incisione di Giovanni Volpato e Raffaello Morghen tratta dal volume Principi del Disegno pubblicato nel 1786, con annotazioni di accanita precisione. Altro esempio, il disegno a gessetto rosso con la Venere dei Medici. L’artista, dopo aver accettato all’inizio del 1803 – caso unico, ma senza seguito – la commissione di scolpire una copia della Venere dei Medici, asportata dalla Galleria degli Uffizi ed emigrata a Parigi, realizzò l’anno dopo il modello di una Venere di propria invenzione. Ma l’Antico non basta.Vi si affiancano numerosi disegni a matita dal nudo femminile, al fine di una verifica sul «naturale»: studi dal vero per cogliere tutte le sfumature del corpo femminile. Contrariamente alla prassi sempre seguita, l’artista aveva inizialmente accettato di realizzare una copia della celebre statua, per rimpiazzare nella Tribuna degli Uffizi il marmo portato via Eracle Epitrapezios, statua in bronzo, da Pompei, località Bottaro. I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. a r c h e o 87
SPECIALE • CANOVA E L’ANTICO Perseo trionfante, scultura in marmo di Antonio Canova. 1800-1801. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Cortile Ottagono.
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dai Francesi; ma sarà solo un momento di passaggio per arrivare quindi alla realizzazione di una Venere moderna: Venere che esce dal bagno (la cosiddetta Venere Italica). La qualità della modellazione, intesa a trasfondere nel marmo il calore e la morbidezza della carne, venne subito compresa da Ugo Foscolo: «Se la Venere de’ Medici è bellissima dea, questa che io guardo e riguardo è bellissima donna». Antico e natura, idealità e osservazione. Un Antico come «corpo animato e pien di vivezza e di grazia». Dell’applicazione costante sui testi di archeologia – volumi di incisioni, in particolare – abbiamo innumerevoli testimonianze: basta scorrere l’elenco dei volumi nel catalogo della biblioteca dello scultore. Se all’inizio furono soprattutto le sculture piú famose ad attirare l’attenzione dell’artista – e non poteva essere altrimenti – in seguito la sua curiosità vigile e l’inesausto spirito di ricerca lo indussero a esplorare altri territori dell’arte antica, scarsamente frequentati. Anche a manufatti etruschi di stile arcaizzante e di qualità modesta, ma di rude caratterizzazione espressiva. Come un ritorno alle origini, a un classicismo archetipico, di cui quei lavori, proprio per il loro carattere provinciale, conserverebbero una traccia: per attingervi nuova energia e trarne spunti originali per nuove invenzioni.
NELLA ROMA DI FINE SETTECENTO Tanti artisti, tante declinazioni. Fra altre, la corrente di gusto oltramontana: specialmente pittori e scultori inglesi e francesi che soggiornavano a Roma. Attenzione, raccomandava Quatremère de Quincy: «Ma stia sempre forte nel gusto antico e se difenda del stile inglese, il quale, benché savio sodo giudicioso, manca di quel calore antico, di quella verità, di quell’espressione profunda che spirano i Greci». Ma quale Antico? Non quello accademico, dei copisti o di chi si poneva in attitudine scolastica di fronte ai marmi visibili a Roma. Melchior Cesarotti, traducendo dal greco, cercava di interpretare lo spirito del testo e non di ricalcarne pedissequamente i termini, perché si potesse gustarlo come «un corpo animato e pien di vivezza e di grazia». Egualmente, lo scultore reinterpretava la statuaria antica allontanandosi il piú possibile dalla copia o dal ricalco. Le posizioni potevano ribaltarsi, e
L’Apollo del Belvedere, replica romana in marmo di un originale greco in bronzo eseguito da Leocare fra il 330 e il 320 a.C. II sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Cortile Ottagono.
Cesarotti poteva scrivere a Canova di essere, lui «un racconciatore di quadri vecchi, un inverniciature di statue antiche, ma voi siete un Pigmalione che dà vita ed anima ai marmi». Vita ai marmi: per rafforzare il concetto, Canova li pone, anche quelli colossali come Ercole e Lica, su basi che contengono un meccanismo che consente di farli girare. Lo spettatore, dunque, sta fermo, ed è il marmo a muoversi, al fine di rendere l’effetto della vita. Bernini, al fine di totalmente illudere, aveva previsto un unico punto di vista per le sue a r c h e o 89
SPECIALE • CANOVA E L’ANTICO A sinistra: Venere Italica, statua in marmo di Carrara di Antonio Canova. 1804-1811. Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti. Nella pagina accanto: la Venere dei Medici, opera di Cleomene di Atene, che si ispirò all’Afrodite Cnidia di Prassitele. Fine del I sec. a.C. Firenze, Gallerie degli Uffizi.
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creazioni, che dovevano stupire per l’effetto sorprendente che suscitavano. Canova si prefigge, invece, una contemplazione graduale che permetta di creare empatia fra il marmo e l’osservatore, per trasportarlo in un mondo «altro».
NOVELLO PRASSITELE Il problema è delicatissimo, e per un nonnulla si può scivolare da una parte, nella convenzione, dall’altra nel fraintendimento. Canova è come un Prassitele redivivo nell’interpretazione di Carlo della Torre, proprio a proposito del gruppo di Adone e Venere, nel quale riviveva la grazia di celebri sculture classiche: della Venere dei Medici degli Uffizi come dell’Antinoo, o dell’Apollo detto Adone del Museo Pio-Clementino. Ancora un critico coevo, Gian Gherardo de Rossi: «Quando vedrete quest’Amorino, torneravvi bene a mente quello, che scolpí Prassitele, il dono che ne fece, ed i versi che a quel dono andarono uniti». Pure l’eccentrico Lord Bristol è su questa linea. Al «Carissimo Praxitele», a «Mon cher et digne Praxiteles» intesta le sue lettere. Parole di certo adulatorie, ma che offrono la temperatura, per cosí dire, dell’epoca. Quanto studio si cela nell’operare canoviano! Perfetta la definizione di Leopoldo Cicognara: «Dell’antico Canova fu veramente devoto, non superstizioso». Frase che s’attaglia a un’altra, dello stesso Canova: «Anch’io mi vanto esser adoratore dell’antico, ma non idolatra di tutte le antiche cose». Mai, dunque, l’Antico come un feticcio o un ideale monolitico. Non basta imitare la «corteccia dell’antico», che può spingersi fino alla «caricatura dell’antico», come si esprime ancora Cicognara nella sua lucidissima analisi. Bisogna accomodare l’Antico a una «propria maniera di sentire e di vedere». Rapporto unico fra un artista moderno e l’arte antica. Con punte d’innovazioni radicali, come nel caso delle Grazie. Rispetto agli esempi della classicità – celebre il marmo della Libreria Piccolomini a Siena, l’altro del Museo PioClementino, quindi i dipinti del Museo Archeologico di Napoli – tutti i personaggi sono presentati di prospetto: già a fine Settecento nel bassorilievo raffi-
gurante La morte di Adone, mentre il modello canonico – rispettato anche da Raffaello – prevedeva la ripresa da tergo della figura centrale. Le tre giovani figure femminili, piú creature che dee, sono colte in sussurrante colloquio, allacciate in nodi soavi di braccia e di pose: l’archetipo mitologico si cala nel presente. Per converso, una situazione contingente assurge alla sfera della bellezza ideale. Dopo il gruppo di Adone e Venere, l’artista vuol creare ancora un equivalente moderno dei modelli della classicità, componendo indissolubilmente studio dell’antico e studio del naturale. Quatremère de Quincy sottolineava che nulla di «archeologico» aveva il gruppo di Canova, che aveva voluto far risaltare «l’abbraccio ingegnoso e nuovo di tre figure femminili, che da qualunque lato lo si osservi, girandovi attorno, ci rivela, con aspetti sempre diversi, molteplicità di positure, di forme, di contorni, di idee e di modi di sentire via via sottilmente digradandosi».
NÉ COPIE, NÉ RESTAURI Canova ha sempre una posizione originale. E come si rifiutò sempre di realizzare copie, cosí si rifiutò di intervenire con restauri sulle opere antiche, «intoccabili» per definizione. Per primi, i marmi del Partenone, da lasciare cosí com’erano. Siamo a Londra nel 1815, ed è come una prova della verità. Napoli, con il suo Museo Archeologico Nazionale, è sede perfetta per ospitare una mostra che dia conto di questo dialogo fra Canova e l’Antico. Nello scalone monumentale si trova, fra l’altro, la statua colossale del re Ferdinando di Borbone, scolpita proprio per quel luogo, dov’è tornata di recente dopo l’esilio decretato dai Savoia. Il sovrano è presentato quale nuovo Pericle, colto nel gesto dell’Arringatore. Come commentare quel distendersi frontale del mantello, efficacissimo in quell’apparentemente informale, «sprezzante» caduta di pieghe a larghissimo raggio? Persino brutale nel suo imporsi allo sguardo, senza alcun compiacimento formale ed esecutivo. Davvero un’opera che si pone sul crinale dei due se-
SPECIALE • CANOVA E L’ANTICO A sinistra: Antonio Canova, Studio per Ercole e Lica, matita grassa e penna, inchiostro bruno, carta bianca. Bassano del Grappa, Museo Civico. Nella pagina accanto: Ferdinando IV di Borbone re di Napoli (Ferdinando I re delle Due Sicilie), marmo di Antonio Canova. 1800. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In basso: Ercole e Lica, piccolo gruppo in bronzo ispirato all’opera di Canova. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage.
coli, intrisa delle idealità neoclassiche e, al contempo, proiettata – e a quale livello! – nella retorica di stampo ottocentesco.
UNA SVOLTA IMPREVISTA Dopo il 1814, il confronto con l’Antico assume una sterzata imprevista. Ritornato il pontefice Pio VII a Roma il 4 maggio 1814, dopo l’esilio decretato dai Francesi, Canova decide di rendergli omaggio con una statua colossale, alta quasi otto metri, raffigurante la Religione, da porre nella basilica di S. Pietro. Il grandioso modello, esposto nello studio, viene giudicato «di stile antico, severo ed anche 92 a r c h e o
cosa nuova». Ancora una gara con gli antichi. Il confronto è con l’Urania Farnese e con altre statue grandiose descritte dalle fonti classiche, a partire dall’Atena o il Giove Olimpico di Fidia. Ma non solo: celebrare, al contempo, il ritorno sul trono pontificio di Pio VII e dunque il presente che si fa portatore di nuove idealità, da Fidia al Congresso di Vienna, si potrebbe dire. Per Canova, quella statua era «di stile antico, severo ed anche cosa nuova»: indice di una nuova direzione di ricerca, che preannuncia l’epoca nuova che veniva ad aprirsi: è l’avvio alla scultura monumentale ottocentesca che nella statua della Libertà di New York si affermerà in modo clamoroso. Sempre partendo da prototipi classici, viene elaborata una nuova dimensione della bellezza, che esce dalla sfera della «ragione». L’opera d’arte si percepisce ora con l’anima: un nuovo Canova è nato, sensibile interprete, ancora una volta, della modernità. La ricerca di una dimensione del sublime cristiano porterà l’artista a rimeditare illustri esempi dell’arte d’Italia. È il momento del recupero sistematico dei «primitivi», delle espressioni artistiche precedenti il Rinascimento maturo, nelle quali l’artista «coglieva gesti e movenze uguali a quelle classiche (i modi di esprimere ira, dolore, gioia, disperazione, pietà, raccoglimento, ecc.) e ne stabiliva e ricercava, piú o meno consapevolmente, le concordanze. Nei “primitivi” ritrovava cosí la classicità e nello stabilire le concordanze tra primitivi, classicità e verità attuava (forse senza avvedersene, ma poco importa) ancora un principio dell’illuminismo neoclassico», come ha osservato Corrado Maltese. Giuseppe Pavanello
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SPECIALE • CANOVA E L’ANTICO
ANTONIO CANOVA: UN TALENTO APPREZZATO E RICERCATO IN TUTTA EUROPA 1757 Antonio Canova nasce a Possagno (Treviso) nella giornata del 1° novembre. 1761 Morto il padre e risposata la madre, Angela Zardo Fantolin, Canova resta a Possagno con il nonno Pasino e la nonna Caterina Ceccato. 1768 Viene accolto nel laboratorio dello scultore Giuseppe Bernardi Torretti per interessamento del senatore Giovanni Falier. 1769 A Venezia frequenta la Pubblica Accademia del Nudo. 1772 Esegue due Canestri di frutta per il senatore Falier. 1778 Inizia Dedalo e Icaro, che espone, nell’anno
Teseo e Piritoo nel tempio di Diana Ortia vedono Diana danzare, fra due danzatrici, davanti al simulacro di Artemide Efesia (Ratto di Elena), Tempera su carta di Antonio Canova. 1799. Possagno, Gypsotheca e Museo Antonio Canova.
successivo, in piazza San Marco. 1779 Nella giornata del 9 ottobre parte per Roma, dove è ospite dell’ambasciatore Zulian nella sede di Palazzo Venezia. 1780 Compie un primo viaggio a Napoli, di cui ammira i monumenti e le opere d’arte. Visita, inoltre, Pompei, Ercolano e Paestum. 1781 Si stabilisce definitivamente a Roma. Esegue il Teseo sul Minotauro. 1795 La scultura Venere e Adone viene collocata a Palazzo Berio in Napoli e suscita un grande interesse. 1796 Esegue il marmo della prima Ebe. 1797 Napoleone Bonaparte dichiara Antonio Canova sotto la protezione dell’Armata d’Italia. Il fatto segnala la fama ormai raggiunta. 1798 Ritorno a Possagno e
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viaggio in Austria e in Germania. A Vienna gli viene commissionato il Monumento funerario di Maria Cristina d’Austria, che verrà collocato nel 1805. 1800 Esegue il modello della statua colossale di Ferdinando IV di Borbone. Scolpisce le statue di Perseo trionfante, Creugante, Damosseno acquistate dal pontefice Pio VII per i Musei Vaticani. 1802 Viene nominato Ispettore generale delle Antichità e Belle Arti dello Stato della Chiesa, dell’Accademia di San Luca, dei Musei Vaticani e del Campidoglio. 1803 Esegue il modello della statua colossale di Napoleone come Marte pacificatore. 1804 Esegue il ritratto di Pio VII da donare a Napoleone Bonaparte. Gli viene commissionato il
Monumento funerario di Vittorio Alfieri dalla contessa d’Albany. Esegue la Venere italica, che sarà completata nel 1812. 1805 Esegue il modello per la statua di Letizia Ramolino Bonaparte. 1806 Termina la statua di Napoleone Bonaparte come Marte pacificatore. Inizia la Danzatrice con le mani sui fianchi per Giuseppina de Beauharnais. 1808 Termina la statua di Paolina Bonaparte Borghese, che gli era stata commissionata dal principe Camillo Borghese nel 1804. Termina anche il Ritratto di Domenico Cimarosa. Stipula il In basso: Stele funeraria del Conte Giambattista Mellerio, marmo di Antonio Canova. 1811-1814. Palermo, Palazzo Ajutamicristo. Nella pagina accanto, in basso: Amorino con le ali, marmo di Antonio Canova. 1792-1795. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage.
contratto per la fusione in bronzo della statua di Napoleone come Marte pacificatore. 1813 Esegue il modello delle Grazie. 1815 Realizza il modello della Religione. Termina la statua colossale Ercole e Lica per i banchieri Torlonia. Si reca a Parigi per recuperare le opere d’arte trafugate da Roma e dall’Italia su ordine di Napoleone Bonaparte. Si trasferisce a Londra dove osserva i marmi del Partenone. Gli vengono commissionate una statua di Marte e Venere e una replica delle Grazie. 1816 Scolpisce la quarta versione della statua di Ebe. 1817 A Napoli viene fuso il cavallo per il suo Monumento a Carlo III. 1819 Realizza il Cenotafio degli Stuart (Roma, basilica di S. Pietro). Conclude il Teseo in lotta con il Centauro iniziato nel 1804. 1821 Scolpisce la statua di George Washington su commissione dello Stato della North Carolina e porta a termine la statua di Pio VI orante iniziata nel 1817. 1822 Ritorna a Possagno dove si ammala. Portato a Venezia, muore il 13 ottobre. I funerali si celebrano nella basilica di S. Marco (16 ottobre). Viene sepolto a Possagno.
Amore e Psiche stanti, gruppo in marmo di Antonio Canova. 1803. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage.
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SPECIALE • CANOVA E L’ANTICO
ANTONIO CANOVA E GLI ETRUSCHI di Paolo Giulierini
L
a biblioteca di Antonio Canova è un formidabile strumento per comprendere le fonti di ispirazione delle sue opere. Il «bibliofilo» Canova sfruttava spesso il tempo del lavoro sui marmi facendosi leggere da persone dedicate a quel ruolo testi di classici o della storia dell’arte. Molte delle sue visite, spesso legate a commissioni, in grandi centri legati all’archeologia classica, coincisero con richieste ufficiali di volumi alle autorità locali. Da un rapido riscontro del catalogo dei libri, si evidenzia un interesse a tutto tondo per l’archeologia: greca, etrusca, romana ma anche egizia. La presenza di tre volumi di Anton Francesco Gori nella sua biblioteca testimonia l’interesse per il «mondo etrusco». Le tre opere di Gori, presentate in mostra, ampiamente illustrate, sono pervenute alla Biblioteca di Bassano del Grappa a seguito della donazione del fratellastro ed erede universale di Antonio Canova, Giambattista Sartori. Ai volumi di Gori fa riferimento Canova in una lettera a Quatremère de Quincy, scritta da Roma il 19 febbraio 1805: «Vi citerò ancora un Pirro nell’atto di sacrificar Polissena all’ombra del padre Achille, nudo con gladio, nella tavola CXLI del tomo I del Museo etrusco del Gori»; o, ancora, in una lettera del 5 settembre 1804: «Tralascio di produrvi tanti altri bassirilievi di combattenti simili, come Amazzoni, che si possono vedere nel Museo Etrusco ecc.». La consuetudine canoviana con il lavoro di Gori è del resto nota. Sfogliando i volumi del Museum Etruscum, si vede che parte dei disegni del taccuino di Possagno, soprattutto gli episodi all’antica e le figure di guerrieri, sono perlopiú ripresi dai disegni delle urne Paolina Borghese Bonaparte come Venere vincitrice, scultura in marmo di Antonio Canova. 1808. Roma, Galleria Borghese. 96 a r c h e o
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SPECIALE • CANOVA E L’ANTICO
funerarie etrusche (talvolta anche specchi, piú raramente terrecotte e appliques in bronzo), che forniscono un nuovo linguaggio piú arcaico di quello classico greco-romano, che Canova rielabora e rivitalizza. Anche altre opere, tratte da repertori etruschi forniscono spunti per l’artista, come un’urnetta con Echetlo alla battaglia di Maratona pubblicata da Johann Joachim Winckelmann, che ispira un bozzetto con Guerriero ignudo che comprime l’avversario abbattuto. Anche la presenza dei tre volumi di Giovan Battista Passeri nella biblioteca di Antonio Canova, considerando l’importanza della sua opera, non sorprende affatto. L’artista a essi sembra ricorrere nella raffigurazione dei Due guerrieri ignudi che si affrontano alla presenza di un terzo in corta tunica del taccuino di Possagno. Tra le opere canoviane che la critica ha avvicinato a una generica influenza dell’arte etrusca vi è la statua di Paolina Borghese Bonaparte (1780-1825), sorel98 a r c h e o
In alto: un altro particolare dell’allestimento della mostra, con il confronto tra il modello in gesso della Paolina Borghese Bonaparte come Venere vincitrice e un’urna etrusca sul cui coperchio compare l’immagine di una defunta giacente.
la di Napoleone e consorte, dal 1803, del principe romano Camillo Borghese, rappresentata come Venere vincitrice. L’inizio dell’opera, come noto, è ascrivibile al 1804, anno della commessa, e la sua conclusione al 1808.
CONFRONTI E RIFERIMENTI Al di là dei confronti con figure sdraiate della pittura veneziana, tra cui alcune celebri di Tiziano, sono stati citati pure altri riferimenti al mondo antico: dalla Ninfa baccante del British Museum della collezione di Charles Townley, uno dei personaggi inglesi piú legato a Canova, a un affresco di Ninfa sdraiata con un corno dorato in mano raffigurata nel terzo volume de Le pitture antiche d’Ercolano (Napoli, 1762, tav. XXVIII), ma anche con l’arte etrusca e, in particolare, con le figure femminili giacenti di sarcofagi e urnette. Occorre subito precisare che i confronti addotti, il sarcofago di Larthia Seianti del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, rinvenuto solo
nel 1877 o il sarcofago dell’Ipogeo dei Volumnii a Perugia, scoperto il 5 febbraio 1840, pur essendo pertinenti sotto il profilo dell’iconografia, non possono però essere stati osservati, neppure nella forma mediata del disegno, da Canova, essendo stati rinvenuti dopo la morte dell’artista. È comunque a Firenze che Canova può avere assorbito, almeno in parte, un contatto diretto con il mondo etrusco, soprattutto grazie a intellettuali gravitanti attorno alla corte che lo possono avere introdotto a quel nuovo mondo. All’epoca esistevano in città sia nuclei di collezioni private, sia le celebri statue della Chimera, della Minerva e dell’Arringatore, insieme ad altre opere etrusche, conservate agli Uffizi. Canova fu a Firenze dal 1779. Nella città visitò le principali chiese e palazzi ed entrò in contatto con il ceto intellettuale della città. Nello specifico fu preziosa l’amicizia con il barone Giovanni Degli Alessandri, figura di spicco, a cavallo tra perio-
In alto, da sinistra: Studio della Venere de’ Medici di profilo e Nudo stante di prospetto con le gambe divaricate, in atto di reggere uno scudo con il braccio sinistro proteso, con un gladio nella mano destra, disegni di Antonio Canova. Bassano del Grappa, MuseoBibliotecaArchivio.
do lorenese prima e napoleonico poi, nelle élite culturali fiorentine. Degli Alessandri aveva assunto l’impegno a contrattare con il «moderno Fidia» a seguito della visita dell’artista a Firenze nel dicembre del 1802, quando Ludovico d’Etruria (morirà il 27 maggio 1803, lasciando la reggenza alla giovane moglie Maria Luisa di Borbone) richiese una copia della Venere dei Medici, trasferita al Louvre (all’epoca Musée Napoléon). La Venere Italica che ne risultò e che doveva sanare la ferita della perdita di quella antica, fu difatti il frutto di complicate e lunghe trattative fra lui e lo scultore piú famoso d’Europa. Non mancarono all’intellettuale fiorentino la capacità diplomatica, il garbo e talora la fermezza anche nei confronti dello stesso Canova. Il 3 ottobre 1809 Degli Alessandri compare, in qualità di Presidente dell’Accademia delle Belle Arti di Firenze, assieme alla granduchessa di Toscana Elisa (segue a p. 102) a r c h e o 99
«MONSIEUR L’EMBALLEUR»: CANOVA IN DIFESA DELL’ARTE di Giuseppe M. Della Fina
L’
Antico «bisognava mandarselo in mente, sperimentandolo nel sangue, sino a farlo diventare naturale come la vita stessa»: si tratta di un’affermazione di Antonio Canova, che lo scultore tenne sicuramente presente nella sua attività artistica, ma anche nel suo impegno a difesa del patrimonio archeologico e storico-artistico. Tale aspetto è meno noto, ma non va tenuto in ombra e non lo è, infatti, nella mostra napoletana che celebra il suo rapporto con il mondo antico, né nel catalogo (edito da Electa) che la accompagna grazie a un interessante e documentato saggio di Antonio Pinelli. 100 a r c h e o
Emblematica, in proposito, risulta la sua battaglia per riportare a Roma e nello Stato Pontificio le opere che nel 1797 erano state trasferite a Parigi per incrementare le collezioni del Museo del Louvre. Nel trattato di Tolentino, sottoscritto il 19 febbraio, si prevedeva infatti che fossero portati in Francia 100 capolavori tra quadri, statue antiche, vasi e busti, scelti a insindacabile giudizio di commissari francesi, insieme a 500 manoscritti e libri antichi. Già il 2 marzo 1797 la Commissione incaricata di prelevare le opere giunse a Roma, mentre il pontefice dava ordine di eseguire calchi in gesso dei marmi destinati a Parigi:
quattro convogli partirono alla volta di Livorno nelle giornate del 10 aprile, dell’11 maggio, del 10 giugno e del 4 luglio. Tra le statue vi erano l’Apollo del Belvedere, il Laocoonte, l’Antinoo, il Torso del Belvedere, lo Spinario, il Galata morente, la Venere Capitolina e, tra i dipinti, la Trasfigurazione, la Madonna Sistina e la Santa Cecilia di Raffaello, la Crocifissione di San Pietro e la Strage degli Innocenti di Guido Reni, la Comunione di San Girolamo del Domenichino e la Madonna di San Girolamo del Correggio. Da Livorno le opere furono caricate su una fregata francese diretta a Marsiglia, da dove vennero portate a
A sinistra: L’imperatore e l’imperatrice in visita alla luce delle torce, disegno di Benjamin Zix. Parigi, Museo del Louvre. La scena mostra la sala allestita per il gruppo del Laocoonte, che Napoleone aveva confiscato e portato in Francia nel 1798 (l’opera rientrò in Vaticano nel 1815). A destra: La Tribuna degli Uffizi, olio su tela di Johann Joseph Zoffany. 1772-77. Londra, Castello di Windsor.
Parigi su dieci battelli attraverso una rete di fiumi e canali. La via di terra venne giudicata meno sicura. Al loro arrivo si organizzò una celebrazione pubblica di due giorni (27-28 luglio 1798), che previde la sfilata delle opere d’arte sul modello dei trionfi di epoca romana. Nel corteo confluirono opere requisite anche in altre città italiane: i Cavalli di San Marco, per esempio, prelevati dalla basilica veneziana, vennero fatti scortare da giraffe, cammelli e altri animali esotici. L’unica voce francese di rilievo che si levò contro questa operazione fu quella di Quatremère de Quincy, legato tra l’altro a Canova da profonda stima e amicizia, che scrisse con coraggio un pamphlet – noto col titolo Lettres à Miranda –, nel quale affermò con lungimiranza che le opere non potevano essere estrapolate dal loro contesto dato che i capolavori «fanno catena e collezione» con le opere minori. Anni piú tardi – dopo la sconfitta definitiva di Napoleone a Waterloo – proprio Canova, che era stato nominato Ispettore Generale delle Antichità e Belle Arti dello Stato della Chiesa nel 1802, fu incaricato di guidare la delegazione pontificia inviata a Parigi per rivendicare la restituzione delle opere. Svolse l’incarico con grande intelligenza (fece ristampare, per esempio, proprio le Lettres à Miranda, distribuendo il libretto ai rappresentanti delle potenze vincitrici) e decisione.
Dopo complesse trattative che rischiavano di cadere nel vuoto, Canova infatti, scortato da soldati austriaci e prussiani, decise di entrare nel Louvre e cominciò – con la collaborazione volontaria di artisti stranieri residenti a Parigi – le operazioni d’identificazione e quindi d’imballaggio facendo redigere una nota molto dettagliata delle opere prelevate per evitare successive contestazioni. Talleyrand, che, tergiversando, aveva cercato di opporsi all’operazione, arrivò a definire Canova con sarcasmo «Monsieur l’Emballeur», invece di «Monsieur l’Ambassadeur». Lo stesso Canova si stupí del lavoro svolto e in una lettera all’amico Leopoldo Cicognara scrisse: «Appena si crederà che tante statue e tanti quadri e di quella mole che erano, si siano potuti ritirare dal Museo Reale di Francia, incassare, imballare e spedire pe l’Italia in solo 20 giorni, in mezzo alle imprecazioni
di un popolo irritato». Nel frattempo, la diplomazia vaticana aveva consigliato di non insistere per la restituzione totale, poiché molte opere erano state trasferite in chiese e musei della provincia francese e il loro recupero poteva essere piú difficoltoso. Dei 100 capolavori, prelevati sulla base del Trattato di Tolentino, ne tornarono 77; dei 117 portati in Francia successivamente, ne vennero recuperati circa la metà. L’impegno di Canova a favore del patrimonio non si limitò comunque a questa operazione. Le sue riflessioni e il suo prestigio si avvertono nella legislazione pontificia degli inizi dell’Ottocento: nell’editto noto come Chirografo Chiaramonti, emanato nel 1802, e nel successivo Editto Pacca, entrato in vigore nel 1820, e considerato «una pietra miliare» nella storia della conservazione e della tutela del patrimonio archeologico e storico-artistico italiano. a r c h e o 101
SPECIALE • CANOVA E L’ANTICO
Baciocchi Bonaparte e a Canova, alla cerimonia di premiazione del concorso bandito dalla stessa Accademia. Nell’occasione Elisa venne acclamata davanti ai presenti e fu celebrato Canova che aveva appena finito i lavori per la statua di Napoleone pacificatore e per quella che ritraeva Paolina Borghese Bonaparte. Nel 1811, con decreto imperiale firmato dallo stesso Bonaparte, fu nominato direttore della Galleria degli Uffizi, divenuta nel frattempo Imperial Galleria in esplicito omaggio all’imperatore Napoleone.
UNA PROVA DI FORZA Un capolavoro di fermezza e diplomazia fu compiuto dal nuovo direttore al ritorno della Venere dei Medici da Parigi, quando riuscí a convincere Canova sull’opportunità di traslare la sua Venere nella Cappella Palatina di Palazzo Pitti per far posto alla statua antica, facendone accettare, di fatto, un declassamento. Similmente riuscí a vincere una prova di forza con Dominique Vivant-Denon, direttore del Louvre, riuscendo a differire il piú possibile le pratiche per il trasferimento di un elenco significativo di opere che Denon voleva portare al Louvre fin dall’ottobre del
Sono le permanenze fiorentine, quelle in cui l’attenzione per il mondo etrusco può aver avuto una particolare influenza nell’animo dell’artista che conclude, nello stesso 1804, il modello della Venere Italica e si avvia a realizzare il capolavoro «all’etrusca» per Paolina Borghese Bonaparte. Nel taccuino del 1806 troviamo anche una figura femminile giacente. La doppia postura (semiseduta nel monumento della Paolina, sdraiata nel disegno del taccuino) potrebbe rimandare alla doppia possibilità dei recumbenti delle urnette etrusche che compaiono ora semiseduti ora sdraiati. Per la statua di Paolina Borghese Bonaparte, in analogia con altri disegni del taccuino che assimilano spunti dalle tavole dei volumi di Gori, la posa del braccio della donna e la presenza di due cuscini sono confrontabili con la tavola CLXX. Al contempo, la donna può essere riferibile solo genericamente per il volto, la capigliatura e il seno a un bronzetto di un’altra Venere vincitrice, alla tavola XLIII. La francese Paolina Bonaparte sposando un nobile italiano (il principe Borghese) simboleggia l’entrata della casata Bonaparte nell’ambito italico, o meglio etrusco. Dunque A sinistra: Nudo femminile bocconi di schiena con il capo leggermente sollevato, disegno a matita di Antonio Canova su carta avorio. Bassano del Grappa, Museo Civico.
1811 e arrivando a procrastinare i tempi fino al 13 febbraio 1814. In seguito alla caduta di Napoleone, Degli Alessandri fu poi incaricato del recupero delle opere trafugate in Francia dal Granducato, come Canova lo fu dallo Stato Pontificio. È dunque a personalità come Degli Alessandri che bisogna pensare quali eventuali tramiti di Canova per osservare le collezioni etrusche fiorentine, ma anche quali colti consiglieri per richieste librarie su quell’antico popolo. 102 a r c h e o
ella è trasformata in un’aristocratica tirrenica. Il fatto poi che le donne etrusche fossero ricordate dalle fonti antiche come particolarmente disinibite, poteva accentuare il gioco (che talora diventò avversione) fra artista e committente e, magari, alludere velatamente alle vicende sessuali turbolente di Paolina. La parziale nudità, che non si riscontra nelle figure femminili rappresentate nelle urnette etrusche (ma è tipica degli uomini), si comprende bene in quanto non si tratta di un
monumento funerario. Dovendo tuttavia realizzare anche una Venere che sostituisse quella trasferita in Francia – il cui modello sappiamo portato a compimento nel 1804 (come detto, lo stesso anno della commessa di Paolina) – con una Venere moderna e capace di restituire «l’orgoglio nazionale defraudato dai francesi», lo scultore utilizza, quasi per gioco, il volto idealizzato della donna francese anche per la Venus di tipo Pudica che va a realizzare, quasi restituendo, per gioco, un pezzo di Francia all’Italia. Pochi anni dopo lo scultore sarebbe partito per Parigi per portare a compimento le restituzioni delle opere trafugate e dunque non gli mancavano sensibilità e orgoglio «nazionale». Se dunque i libri d’arte etrusca ispirarono l’artista, in un quadro di precoce accoglimento di suggestioni che avrebbero trovato completezza nella corrente romantica, la genialità di Canova sta anche nella scelta di utilizzare spunti dell’arte etrusca per esprimere nel marmo simboli e rimandi a vicende politiche contemporanee. Le quali videro, a un certo punto, soprattutto in Toscana, la fusione degli ideali dell’Impero francese, ormai ispirato alla
Veduta posteriore della Paolina Borghese Bonaparte come Venere vincitrice. Roma, Galleria Borghese, Sala della Paolina.
romanità, con quelli di un Granducato ormai asfittico ma legato ai segni della monarchia etrusca, l’unico popolo che prima dei Romani aveva rischiato di unificare l’Italia (quindi a ragione poteva esserne il simbolo): e, come avvenne per l’antichità, anche ai tempi di Canova le nuove aquile «romane» dell’impero francese riportavano nella Penisola e in Toscana il giogo di un nuovo impero, sottraendo opere d’arte o insinuando negli artisti evidenti suggestioni del potere d’Oltralpe. Paolo Giulierini DOVE E QUANDO «Canova e l’antico» Napoli, Museo Archeologico Nazionale fino al 30 giugno Orario tutti i giorni, escluso il martedí, 9,00-19,30 Info tel. 081 4422149; www.museoarcheologiconapoli.it Catalogo Electa a r c h e o 103
IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda
UN CERTO SENSO PER IL PATRIMONIO LA NEONATA FONDAZIONE SCUOLA DEI BENI E DELLE ATTIVITÀ CULTURALI MIRA A FORMARE LA FUTURA GENERAZIONE DEI NOSTRI FUNZIONARI. UN OBIETTIVO CHE POTRÀ ESSERE RAGGIUNTO SOLO ATTRAVERSO UNA NUOVA E PIÚ AMPIA VISIONE DELLA TUTELA E DELLA VALORIZZAZIONE
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a preso il largo da qualche mese la nave della Scuola dei Beni e delle Attività Culturali gestita da una Fondazione che trae il nome dall’omonimo Ministero. Un affollato seminario, introdotto dal suo Presidente, il giurista Marco Cammelli – al quale si deve una celebre edizione commentata del Codice dei Beni culturali e del paesaggio (Codice Urbani) varato ormai 15 anni fa –, ha fatto il punto sí sulle criticità dell’iniziativa, del tutto nuova, ma anche e soprattutto sulle sue grandi potenzialità. Che io penso siano quelle di formare i giovani che accederanno ai corsi alla complessità del patrimonio culturale (dalla ricerca alla tutela, dalla valorizzazione alla gestione), mettendo al centro il concetto di contesto e il ruolo fondamentale che riveste una profonda comprensione storica del
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paesaggio. Anche per contribuire a trasmettere criticamente a settori di popolazione sinora ritenuti marginali il senso del patrimonio culturale, e quindi la centralità della sua valorizzazione come garanzia per la sua stessa salvaguardia.
UNA SINERGIA ARMONICA La sfida – ha detto Cammelli – è proporre una formazione trasversale a quel nodo di saperi che si intrecciano nel nostro immenso patrimonio culturale, per raggiungere una sinergia armonica tra competenze specialistiche e visioni contestuali, associando quindi a una solida preparazione di base umanistica, tecnico-gestionale e giuridico-amministrativa, una necessaria visione integrata e sistemica degli interventi. Cioè, un po’ l’opposto di quanto da sempre è stato previsto dai bandi
concorsuali del MiBAC, ancorati a una logica ancora rigorosamente disciplinare, che non tiene conto delle reali professioni del settore, le quali invece – come ha recentemente ricordato lo storico e museologo Daniele Jalla –, «prescindono dalle competenze disciplinari perché sono tendenzialmente trasversali». Anche per questo, sin dal suo inizio, una Scuola innovativa dovrebbe allargare il novero degli interlocutori (amministrazioni pubbliche, Università, imprese, associazionismo culturale), cercando collegamenti – come indica lo stesso Codice Urbani (art. 29 comma 5) – con progetti di ricerca interdisciplinare, che siano palestra per le future mansioni dei diplomati. Ovviamente, non è facile valutare l’efficacia di un percorso formativo sulla base del solo
comprenderne il linguaggio e le logiche applicative. Sí che i confini delle discipline, piú che steccati che neutralizzino le decisioni, si trasformino in ponti da un luogo all’altro del sapere e quindi in strumenti potentissimi di percezione nuova dei problemi che permettano di assumere in tempi giusti decisioni adeguate. Come sappiamo, il personale di
nuova nomina presso il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali dovrà essere capace di assicurare quei passaggi di testimone, che l’attuale vorticoso turn over rende necessari e urgenti. Tuttavia, mi permetto di dire che sarebbe bene far coincidere questa fondamentale trasmissione di esperienze tecnico-professionali qualificate anche con una forte
In alto: il presidente della Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali, Marco Cammelli, professore emerito di diritto dell’Università di Bologna. Nella pagina accanto: l’immagine guida del sito web della Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali, basata su una fotoelaborazione della Scuola di Atene di Raffaello Sanzio. A destra: particolare del David di Michelangelo (1501-1504), una delle opere simbolo del patrimonio storico-artistico italiano, conservata a Firenze presso la Galleria dell’Accademia. progetto didattico. L’efficacia si rivelerà semmai nel momento in cui i diplomati, di fronte alle responsabilità future, troveranno nel proprio paniere qualche strumento in piú per rendere piú incisiva e utile la propria azione nel loro posto di lavoro. Una Scuola che intenda formare anche i futuri funzionari dell’amministrazione della tutela, e i suoi stessi dirigenti, dovrebbe comunque mirare non solo a trasferire procedure e metodologie applicative, ma, soprattutto, a consolidare gli strumenti culturali e quelle particolari sensibilità, che permettano alle diverse competenze di sedersi allo stesso tavolo con competenze altre, di
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Una veduta di Matera, scelta come Capitale Europea della Cultura per il 2019. soluzione di continuità della mentalità, che ha troppo spesso accompagnato le procedure pubbliche del Ministero sin dalla sua creazione. In fatto di mentalità, cioè di una pervasiva concezione proprietaria del patrimonio e di un offuscamento del concetto di servizio pubblico applicato alla sua tutela, c’è poco da trasmettere e molto da modificare.
UNA NUOVA MENTALITÀ Su questo terreno la Scuola ha davanti a sé una prateria, e quindi quelle che Bertholt Brecht chiamava le fatiche della pianura, non minori di quelle richieste per scalare le montagne. Come mi è capitato di osservare in altre occasioni, costruire una mentalità dei futuri dirigenti e funzionari al passo con i tempi significa, per esempio, saper passare dalla struttura di un organico del personale alla stesura di un organigramma; saper far lavorare insieme i propri collaboratori, passando da una prassi fatta di ordini di servizio alla cultura del briefing, rafforzata da una capacità e desiderio di valutazione e autovalutazione dei risultati, che una visione contestuale permette di raggiungere in termini di efficienza, efficacia e innovazione. Significa anche avere la consapevolezza che una questione
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di mentalità emerge in tanti aspetti delle politiche sul patrimonio culturale, che il dibattito di questi anni ancora aperto attorno alla libertà di riproduzione e uso del patrimonio culturale pubblico hanno messo ancor piú alla luce del sole. Da sempre, questa mentalità, che produce gerarchie verticistiche, personalismi, burocratizzazione del profilo scientifico-tecnico del personale, assenza di dibattito interno, perdita di vista della funzione sociale allargata delle istituzioni pubbliche preposte al patrimonio, quando pervade gli apparati amministrativi, isola e penalizza l’impegno dei migliori. Questa deriva – il cui prezzo è lo scollamento tra amministrazione e società – è, in fondo, il portato anche di una concezione della tutela che, sin dai primi editti pontifici, scrive norme che mirano alla salvaguardia delle «cose», inizialmente «d’arte» e poi anche «di storia», ma pur sempre oggetti, monumenti, materia. È questa la nostra tradizione, peraltro ricca di sprazzi di luce, e non dobbiamo stupirci troppo se in questa prospettiva le persone siano state tenute fuori dalla porta a giocare il ruolo dei potenziali distruttori del patrimonio e del bello. Non è partendo dalle persone che si è amministrato il patrimonio culturale, ma dalle cose.
E le une e le altre, e le loro relazioni, si sono progressivamente dislocate su piani sghembi, destinati a non incontrarsi. Date queste premesse, storicamente comprensibili, il risultato si è spesso tradotto in norme e comportamenti, che non hanno sempre prodotto una maggiore certezza del diritto, nella libera circolazione dei dati come nella trasparenza, nel front office come nella promozione della ricerca. Alcuni di questi problemi riguardano certamente anche altri settori dell’amministrazione statale, ma la natura dell’oggetto amministrato (il patrimonio culturale) e dei soggetti coinvolti (le persone singole o associate desiderose di cultura) carica le decisioni e i comportamenti assunti in questo campo di effetti rilevanti sul sistema-paese nel suo complesso. La Scuola potrà fare molto in questo senso.
IL PATRIMONIO COME DIRITTO Certo, le mentalità non si cambiano solo con la formazione, ma anche con la pratica di comportamenti alternativi, a partire dunque dai processi di reclutamento o dalle procedure di valutazione del personale e dei relativi parametri. Ma si cambiano anche con piccoli grandi gesti: per esempio, facendo entrare a pieno titolo i principi della Convenzione di Faro tra i contenuti della formazione trasversale. Quel testo, figlio legittimo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, si fonda infatti sul concetto del diritto dei cittadini al patrimonio culturale: è una ventata di aria nuova, che da sola non basta, ma certo darebbe ossigeno a chi dentro le strutture statali della tutela, e fuori di esse, ha dedicato o vuole dedicare la propria vita alle sorti del nostro patrimonio. Ed è perciò auspicabile che il nostro Parlamento lo ratifichi al piú presto.
QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli
…AVEVA LA GRECA MARSIGLIA COME «AMICA E ALLEATA» DOPO SECOLI DI PACIFICA COLLABORAZIONE, I FOCESI DI MASSALIA, SOBILLATI DA LUCIO DOMIZIO ENOBARBO, SCELSERO DI PRENDERE LE PARTI DI POMPEO. AL CHE GIULIO CESARE NON TARDÒ A INDURLI A PIÚ MITI CONSIGLI...
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uando, alla fine dell’estate del 49 a.C., dopo un lungo assedio, le legioni di Cesare costrinsero alla resa la città di Marsiglia (l’antica Massalie), finí un rapporto d’amicizia tra la colonia greca e Roma che durava da molti secoli. La nascita di quel rapporto, infatti (o, quanto meno, la sua immediata premessa), veniva fatta risalire alla buona accoglienza che, al tempo del re Tarquinio Prisco, intorno al 600 a.C., i Romani avevano riservato per uno scalo alla foce del Tevere (che essi avevano da poco tempo stabilmente raggiunta) alle navi dei
Focei che dalla loro città, in Asia Minore, s’erano spinti fin nel cuore del Tirreno diretti alle «bocche» del Rodano, immediatamente a est delle quali avrebbero fondato la piú occidentale delle colonie greche. A quell’episodio si riferiva, ancora nel III secolo d.C., Marco Giustino che nella sua epitome delle Historiae Philippicae di Pompeo Trogo scriveva con estrema chiarezza: «Temporibus Tarquinii regis ex Asia Phocaeensium iuventus ostio Tiberis invecta amicitiam cum Romanis iunxit» («Ai tempi del re Tarquinio, la gioventú dei Focesi venuta d’Asia ed entrata nell’imboccatrua del Tevere strinse amicizia con i Romani»). In realtà, la prima documentazione diretta che possediamo di quei rapporti d’amicizia risale «soltanto» agli inizi del IV secolo a.C., ma essa è tale, in ogni caso, da far presumere che quegli stessi rapporti fossero già in atto da tempo. Si tratta infatti della notizia di un tripode d’oro inviato dai Romani al santuario di Apollo, a Delfi, come ex voto per la conquista di Veio (avvenuta nel 396 a.C.), e «ospitato» nel thesaurós che i Massalioti avevano eretto in quel santuario fin dalla seconda metà del VI secolo a.C. E quella ospitalità
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A destra: statua di Artemide Efesia, da Efeso. II sec. a.C. Efeso, Museo. Nella pagina accanto, a destra: denario in argento battuto dalla Zecca di Roma. 81 a.C. Al dritto, la dea Diana; al rovescio, un personaggio togato che si appresta a sacrificare un toro. Nella pagina accanto, in basso: la Gallia Narbonensis in un atlante storico seicentesco. non dovette rimanere senza un’eco nel mondo greco. Ma, restando nel campo della religione, c’è anche da ricordare il riferimento fatto dagli stessi antichi tra l’immagine di Diana esistente nel tempio romano di quella dea, sull’Aventino, e la statua dell’Artemide venerata a Marsiglia (nel tempio i cui resti sono stati ritrovati sotto la Cattedrale), a sua volta riconducibile come a un prototipo della statua di culto dell’Artemision di Efeso.
ORO E ARGENTO Di poco posteriore alla notizia del tripode di Delfi (e cioè del 390 a.C. o giú di lí) è quella di un intervento di Marsiglia a favore di Roma, in occasione del «sacco dei Galli» di Brenno. Sempre secondo Giustino, infatti, i Massalioti avrebbero offerto oro e argento ai Romani per il pagamento del loro riscatto. E fu in seguito a quell’atto di generosità – a quanto pare – che i Romani proposero in cambio agli stessi Massalioti la stipula di un vero e proprio trattato d’amicizia: un foedus aequum, con il quale i contraenti, in condizioni di assoluta parità, si scambiavano alcuni privilegi, da una sorta di «esenzione doganale» (o immunitas) nei commerci ai posti riservati, tra quelli dei senatori, negli spettacoli teatrali. Dell’alleanza – mantenuta con grande lealtà (summa fide, come dicevano gli antichi) e divenuta quasi proverbiale – trassero profitto entrambe le città. In particolare, nei
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confronti della comune rivale e poi nemica, Cartagine. La cui intraprendenza ci induce a spingere molto indietro nel tempo (quando Roma non disponeva ancora di flotte militari) gli amichevoli rapporti romano-massalioti. Senza i quali, per esempio, Roma non avrebbe potuto stipulare con la stessa Cartagine un trattato sostanzialmente alla pari come quello del 509 a.C. Poi, fu quando s’arrivò allo scontro armato che ebbe modo di attuarsi in pieno l’antico rapporto di amicizia, durante le guerre «puniche». Soprattutto in occasione della seconda, quella di Annibale. A cominciare dal suo inizio, visto che nella primavera del 218 a.C. furono i Massalioti ad avvisare i Romani che il Cartaginese, superati i Pirenei e lasciata la Spagna, stava dirigendosi con il suo esercito verso le Alpi per scendere in Italia. E cosí un esercito romano, a sua volta diretto in Spagna al comando di Publio Scipione (il padre del futuro Africano), fu dirottato verso la foce del Rodano, a nord della quale, tuttavia, esso giunse in vista dell’accampamento di Annibale tre giorni dopo che questi lo aveva lasciato per passare il fiume e proseguire verso l’Italia. Dall’altra parte, Marsiglia, che tanto era fiorente per commerci e cultura quanto debole per capacità militari, sempre piú minacciata dalle circostanti tribú celto-liguri, a est, e
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celto-iberiche, a ovest, chiese piú volte l’aiuto di Roma. Cosí, per esempio, nel 155 a.C. quando fu attaccata dagli Oxebi e dai Diceati e i Romani inviarono dapprima un’ambasceria e poi un corpo di spedizione che sconfisse e allontanò i «barbari».
AIUTI INTERESSATI Lo stesso successe – e in modo anche piú deciso – quando furono i ben piú temibili Salluvi ad attaccare Marsiglia: nel 125 a.C., con un esercito guidato dal console Marco Fulvio Flacco, e poi, nel 123, con un altro esercito al comando del console Gaio Sestio Calvino, che non solo sconfisse i Salluvi in battaglia, ma ne conquistò l’oppidum di Entremont, ossia la «capitale» (della quale non conosciamo il nome antico). Altri interventi ci furono nel 122 a.C., contro gli Allobrogi, e, nel 121, contro gli Arverni. Roma, che con i suoi interventi dava respiro alla città alleata, badava naturalmente anche ai propri interessi. E cosí, nel 122, pensò bene di trasformare il campo legionario costruito da Calvino a nord di Marsiglia in una vera e propria colonia, che fu Aquae Sextiae (l’odierna Aix-en-Provence), la prima oltre le Alpi, diventata subito importante nodo stradale sulla via tra l’Italia e la Spagna all’incrocio con la via di penetrazione verso l’interno della Gallia.
A destra: Marsiglia. Resti delle strutture portuali dell’antica colonia focese. In basso: dracma in argento di Massalia battuta in epoca ellenistica. Al dritto, la dea Artemide; al rovescio, l’immagine di un leone.
La successiva costituzione, da parte di Roma, della provincia della Gallia Narbonensis (forse già 118 a.C.) non dovette essere senza qualche «limitazione», anche territoriale, per l’antica alleata. La quale continuò tuttavia a professare la sua indefessa fedeltà a Roma, garantita da una classe dirigente tradizionalmente aristocratica e conservatrice e, quindi, omologa a quella che governava Roma. Fino allo scontro con Cesare, che fu conseguenza della «lealtà» dei Massalioti alla politica – e alle decisioni – del Senato romano. Fu cosí che, dopo una prima «dichiarazione» di neutralità, essi furono indotti, anche per l’opera di convincimento svolta dall’accanito anticesariano Lucio Domizio Enobarbo accorso presso di loro, a optare per Pompeo,
scegliendo quella che a essi parve, in ogni caso, la legalità. Sulla vicenda ci riferisce direttamente lo stesso Cesare in alcuni capitoli del I e del II libro del suo De bello civili. Dopo sei mesi di resistenza, i Massalioti «provati da ogni genere di mali, ridotti all’estrema carestia del cibo, battuti in due scontri navali, messi in fuga nelle frequenti sortite, afflitti anche da una grave pestilenza causata dal lungo assedio e dal deterioramento del cibo (...) abbattuta la torre e rovinata gran parte delle mura, perduta la speranza di aiuti dalla provincia e degli eserciti che sapevano caduti nel potere di Cesare (...) decidono di arrendersi senza inganni (sese dedere sine fraude constituunt)» (come, possiamo aggiungere, avevano fatto invece in precedenza). E questo segnò il destino della città.
Anche se Cesare non infierí su di essa: piú per il nome e la vetustà che per i meriti verso di lui.
TERRE AI VETERANI Privata della flotta e di gran parte del suo territorio – che venne distribuito in grandi lotti (maggiori del solito) ai veterani della Legione X, la protagonista piú celebre delle vittorie militari di Cesare – a Marsiglia (che in età romana venne chiamata con la variante di Massilia) fu tuttavia lasciata la sua condizione di città libera, autonoma rispetto alla provincia della Gallia Narbonese all’interno della quale era venuta a trovarsi. E pur nella progressiva decadenza non cessò di essere una città importante e ricca di monumenti. Quanto ad altri eventi, si può ricordare che nel 52 a.C. vi trovò rifugio, fuggito da Roma, il capo del partito pompeiano
Milone, dopo gli scontri tra bande armate che avevano portato all’uccisione del rivale Clodio, capo del partito cesariano. E che, nel 2 a.C., vi morí per l’improvvisa malattia che lo colpí, a quindici anni, mentre era in viaggio per raggiungere l’esercito in Spagna, Lucio Cesare, figlio di Agrippa e di Giulia, adottato da Augusto e designato alla sua successione dopo la morte, ugualmente prematura, del fratello Caio. Curiosa, infine, ma senza fondamento, la tradizione medievale secondo la quale, verso il 40 d.C., vi sarebbero approdati, dopo un naufragio, gli amici di Gesú, Maria Maddalena con la sorella Marta e il fratello Lazzaro di Betania, il protagonista del celebre miracolo della resurrezione, che vi sarebbe diventato il primo vescovo della nuova religione.
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
IL PESO DEL MONDO ANCHE SE IL MITO DI ATLANTE, CONDANNATO A PORTARE SULLE SPALLE IL GLOBO TERRESTRE, EBBE GRANDE FORTUNA IN EPOCA ANTICA E MODERNA, I CONI MONETALI ISPIRATI ALLO SFORTUNATO TITANO SONO RARISSIMI. TRA QUESTI FIGURANO ALCUNI MEDAGLIONI BRONZEI EMESSI AL TEMPO DELL’IMPERATORE ANTONINO PIO...
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L’
atlante del globo e quello celeste, la catena montuosa dell’Atlante in Africa settentrionale, l’Oceano Atlantico: termini che ricorrono a identificare opere geografiche e luoghi ben precisi nel mondo moderno. L’atlante può essere inoltre anche storico e linguistico, mentre in architettura è una figura maschile di sostegno e, in anatomia, è la prima vertebra cervicale, fondamentale in quanto unisce e sorregge il cranio sulla colonna vertebrale. L’uso poliedrico di tale nome fa ben comprendere la fortuna, per cosí dire, che ha avuto e continua ad avere la figura mitica del titano Atlante, dal quale deriva, e il cui nome significa «Il forte portatore» (da tla, aoristo del verbo greco etlen, avere forza). Ma chi era, esattamente, Atlante?
VERSATO NELLE SCIENZE GEOGRAFICHE È un Titano di seconda generazione, di quelle divinità precedenti l’ordine olimpico classico presieduto da Giove, ed è re di una terra nell’estremo Occidente in Mauretania, presso il Giardino delle Esperidi. Versato nelle scienze geografiche e astronomiche, è il primo a far conoscere all’umanità ignorante la sfericità del globo: «Dopo la morte di Iperione, narra il mito, il regno fu diviso tra i figli di Urano e Crono. Di costoro, Atlante ricevette come sua parte le regioni sulla costa dell’Oceano, e non solo diede il nome di Atlanti ai suoi popoli, ma chiamò anche Atlante la montagna piú grande di quella terra. Dicono inoltre che egli perfezionò la scienza dell’astrologia e fu il primo a far conoscere all’umanità la dottrina della sfera; e fu per questa ragione che si credette che tutto il cielo venisse sorretto sulle spalle da Atlante» (Diodoro Siculo, Biblioteca storica, III, 60). Prese parte alla battaglia tra gli dèi
olimpici e i Titani, che si vuole scaturita per la conquista del trono celeste, ma che il mitografo Igino fa derivare invece dalla proverbiale gelosia di Giunone per le innumerevoli avventure amorose del marito con le donne della terra, le quali daranno perlopiú frutti eroici che scatenano ulteriormente la rabbia della divinità. Tra questi figli illegittimi vi è Epafo, figlio di Io, divenuto potente re dell’Egitto, che incorse incolpevole nella vendetta crudele di Giunone: «Giunone, gelosa del regno di Epafo che era figlio di una concubina, lo fece perire in un incidente di caccia e istigò i Titani contro Giove. Giove, aiutato da Minerva, Apollo e Diana, precipitò i Titani nel Tartaro e condannò il loro capo Atlante a sostenere la volta del cielo» (Igino, Favole, 149-150). Da allora, il destino di Atlante fu quello di tenere il mondo sulle spalle, e qui le sue vicende si intrecciano con quelle di Ercole e il Giardino delle Esperidi, figlie del Titano, alle quali sottrarrà con uno stratagemma, del quale si è detto nelle puntate precedenti, i pomi d’oro, sostituendo momentaneamente Atlante nel sorreggere il mondo. Per inciso, va ricordato che tra le altre celebri e belle figlie dell’infelice e forte Titano vi erano Calipso, protagonista di una lunga liaison con Ulisse, le Pleiadi e le Iadi (Igino, Favole, 125,16 e 192).
«ALLA CORTE» DELL’IMPERATORE Le monete romane in cui compare il Titano sono rarissime (Antonino Pio, Settimio Severo, Filippo I l’Arabo), e, tra queste, si menzionano i medaglioni in bronzo emessi da Antonino Pio, datati al 156-157 d.C. Il dritto come di regola reca il profilo imperiale, mentre al rovescio sovrasta il campo la figura nuda di Giove con manto sulla spalla, fulmini e lancia come
In alto: restituzione grafica del rovescio di un medaglione in bronzo emesso al tempo di Antonino Pio. 138-161 d.C. Si riconoscono Giove, Atlante, alla sua sinistra, che sorregge il mondo, e un altare con scena di Titanomachia. Nella pagina accanto: Ercole e Atlante, affresco monocromo di Bernardino Luini, dal cortile di Palazzo Landriani, a Milano. 1513-1515. Milano, Castello Sforzesco, Pinacoteca. attributi, con, a destra, un altare sul quale poggia l’aquila, suo animale simbolico, e decorato con scena di Titanomachia: il re degli dèi atterra con il fulmine un Titano inginocchiato. A sinistra, è invece raffigurato, sempre nudo ma ben piú piccolo, Atlante, che regge sulle spalle il globo, ben fermo sulle gambe, una delle quali leggermente piegata a meglio garantire la stabilità della posa. La simbologia è ben: dalla vittoria del padre degli dèi e signore dei destini umani è derivata la stabilità della terra e del cosmo, affidata alla forza di un antico ribelle, la cui punizione è la garanzia della giustizia divina, alla quale non vale opporsi. E cosí è per la figura dell’imperatore direttamente paragonata a quella di Giove, fondamento incrollabile per la stabilità dell’impero romano e al quale non si può e non si deve contrapporsi, pena la sconfitta certa.
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Giovanna De Palma (a cura di)
I TEMPLI DI PAESTUM TRA RESTAURO E MANUTENZIONE Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro-Gangemi Editore International, Roma, 366 pp., ill. col. + 1 CD 40,00 euro ISBN 978-88-4923566-1 www.gangemieditore.it
Nell’aprire un nuovo libro, si leggono spesso distrattamente la dedica o la citazione scelte dall’autore. Non è cosí per questo volume, che si apre con un’affermazione semplice eppure fondamentale di Giuliano Urbani, direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro dal 1975 al 1983: «Per salvare i nostri monumenti basta cominciare a farlo e non smettere mai». Una battuta che può sembrare ovvia, ma che invece racchiude in poche sillabe un principio che, purtroppo, viene spesso trascurato da coloro ai quali spetta decidere in che modo utilizzare le
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risorse economiche di cui il nostro Stato dispone. Per contro, nessun addetto ai lavori, in questo caso gli specialisti del restauro, rinuncerebbe a tutelare e valorizzare il patrimonio che gli è stato affidato, e questa pubblicazione ne offre una conferma eloquente. In oltre 350 pagine, ricche di notizie e corredate da un puntuale apparato iconografico, viene ripercorso il pluriennale impegno dell’ICR (ora ISCR, Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro) in favore di Paestum e dei suoi templi, offrendo una mole di dati e notizie davvero impressionante. Dati e notizie la cui
importanza non sfugge anche al lettore non specialista, poiché se è vero che la conservazione nasce da un impegno costante e quotidiano, è altrettanto vero che la conoscenza ne costituisce il presupposto fondamentale. La trattazione si articola per temi (la manutenzione, gli studi) e per periodi di intervento (campagne 2005-2006 e 2008-2010), ai quali fanno da logico corollario le considerazioni su quali possano essere le strategie piú adatte a garantire la manutenzione di un patrimonio unico al mondo. Né manca, in chiusura, un interessante esempio di come le
analisi di tipo tecnico possano portare a considerazioni che vanno ben oltre il semplice dato materiale. Le analisi che Massimo Vidale e Giulia Salvo hanno condotto sul tempio di Nettuno e, in particolare, su alcune soluzioni adottate dai suoi costruttori, hanno infatti suggerito una nuova proposta di inquadramento cronologico dell’edificio. Il monumento sarebbe dunque stato innalzato nel V secolo a.C. e, soprattutto, piú di un indizio lascia credere che il suo cantiere abbia operato in quel lasso di tempo per un periodo piuttosto prolungato Stefano Mammini