Archeo n. 412, Giugno 2019

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IN EDICOLA L’8 GIUGNO 2019

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2019 ERCOLANO CAGLIARI POPOLI DELLA BIBBIA/6 ITTITI

ERCOLANO VITA QUOTIDIANA SOTTO IL VESUVIO LE ULTIME RIVELAZIONI

L’INTERVISTA

SCOPERTE

LUGNANO IN TEVERINA SPECIALE MUSEO DI DAMASCO

Mens. Anno XXXV n. 412 giugno 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SULLE TRACCE DI ALESSANDRO MAGNO

STREGONI SULLE SPONDE DEL TEVERE

SPECIALE DAMASCO

CAGLIARI

LA NUOVA VITA DEL MUSEO NAZIONALE

IL MEDITERRANEO IN MOSTRA

POPOLI DELLA BIBBIA

ITTITI

POTENTI E MISTERIOSI

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ER SCO CO PER TE L AN A ww w. O

ARCHEO 412 GIUGNO

€ 5,90



EDITORIALE

L’ORA DI DAMASCO È forse per un eccesso di cautela – motivato, perché no, da una certa dose di scaramanzia – che nelle nostre passate cronache siriane non abbiamo mai affrontato le sorti di una delle principali istituzioni culturali del Paese vicinoorientale, il Museo Nazionale di Damasco. Situato nella capitale, a pochi minuti dal simbolo della città, la Grande Moschea degli Omayyadi (sorta sui resti di una chiesa bizantina, a sua volta costruita sulle rovine di un santuario romano e, ancor prima, siriaco), il Museo ha superato indenne le tragedie che hanno colpito – e, purtroppo, tuttora investono – la Siria: una condizione fortuita e rara, a fronte di un panorama che, per altri versi, continua a rivelarsi sconsolante (segnaliamo, a questo proposito, la vicenda dello straordinario mosaico trafugato dalla martoriata Apamea, di cui potete leggere alle pp. 8-10). Il Museo damasceno custodisce – dobbiamo ricordarlo – alcuni tra i tesori piú preziosi di tutta l’archeologia del Vicino Oriente: citiamo solo gli straordinari dipinti della sinagoga di Dura Europos e le sculture della tomba ipogea di Yarhai, presso Palmira. È con un senso di sollievo, dunque, che nello Speciale presentiamo, in esclusiva per «Archeo», il racconto della nuova «vita» di questa importante istituzione. A narrarla non è un testimone esterno, ma uno dei protagonisti stessi che all’esistenza del Museo ha dedicato lunghi soggiorni di lavoro: l’architetto Antonio Giammarusti, già noto ai lettori per essere stato l’autore del riallestimento di un’importante sezione del Museo Nazionale di Beirut (vedi «Archeo» n. 379, settembre 2016, anche on line su issuu.com). E alle parole di Giammarusti desideriamo ricollegarci per esprimere un nostro augurio: che il Museo torni presto a essere quel luogo «di cultura, ricerca e ricreazione» per il quale era stato concepito; e che il pubblico di tutto il mondo possa, a sua volta, farvi ritorno. Andreas M. Steiner Uno scorcio dell’ingresso al Museo Nazionale di Damasco e, in alto, un’emissione filatelica che gli venne dedicata negli anni Quaranta.


SOMMARIO EDITORIALE

L’ora di Damasco

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

TRAFFICO INTERNAZIONALE In esclusiva, le immagini di un prezioso mosaico trafugato ad Apamea, in Siria, al quale l’Interpol dà la caccia da anni

6

PAROLA D’ARCHEOLOGO Le ricerche dell’Università di Udine nel Kurdistan iracheno confermano l’identificazione di Tell Gomel con Gaugamela, dove Alessandro sconfisse Dario 22

POPOLI DELLA BIBBIA/6 Gli Ittiti

Potenti e misteriosi 60 di Silvia Alaura

SCAVI

Ercolano

8

PASSEGGIATE NEL PArCo Piú che lusinghieri i risultati dei progetti sviluppati nell’ambito dell’Alternanza Scuola Lavoro 12 ALL’OMBRA DEL VULCANO In mostra a Roma alcuni dei piú preziosi reperti pompeiani recuperati dai Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale 16 VOLONTARIATO La villa di Traiano a Civitavecchia strappata al degrado dal Gruppo Archeologico Romano 18

Un parco «come nessun altro al mondo»

34

di Francesco Sirano, Domenico Camardo e Mario Notomista

60 SCAVI

Stregoni nella valle del Tevere

76

di David Pickel, Roberto Montagnetti e David Soren

34 MOSTRE/1 Cagliari

Navigare sul mare della storia

52

76

In copertina una veduta del Parco archeologico di Ercolano.

Presidente

Federico Curti Anno XXXV, n. 412 - giugno 2019 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Comitato Scientifico Internazionale

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Italiano

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Silvia Alaura è ittitologa e ricercatrice del Consiglio Nazionale delle Ricerche presso l’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico (Roma). Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Daniele Buscella è vicepresidente del Gruppo Archeologico Romano. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Domenico Camardo è archeologo dell’Herculaneum Conservation Project. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Patrizia Fortini è funzionario archeologo presso il Parco archeologico del Colosseo. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Rosa Maria Iglesias Morsilli è designer. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Roberto Montagnetti è dottore di ricerca in archeologia. Mario Notomista è archeologo dell’Herculaneum Conservation Project. Marek Titien Olszewski è professore di archeologia romana all’Università di Varsavia. David Pickel è direttore del


MOSTRE/2 Roma

Le sentinelle del bello

80

di Giuseppe M. Della Fina

80 Rubriche

86

SCAVARE IL MEDIOEVO Quando lo scavo arriva al pettine di Andrea Augenti

108

SPECIALE

Museo Nazionale di Damasco

Damasco val bene un museo

86

di Antonio Giammarusti e Rosa Maria Iglesias Morsilli

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

In stato di... Grazie 110

108

di Francesca Ceci

LIBRI

Villa Romana di Poggio Gramignano Archaeological Project. Federica Rinaldi è funzionario archeologo presso il Parco archeologico del Colosseo. Houman Saad è funzionario della Direzione generale delle Antichità e dei Musei di Siria. Francesco Sirano è direttore del Parco Archeologico di Ercolano. David Soren è Regents Professor in antichità classiche alla University of Arizona. Mara Sternini è professore associato di archeologia classica all’Università degli Studi di Siena.

Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 3, 64, 68-69, 76/77 – Cortesia Università degli Studi di Milano: pp. 6-7 – Cortesia degli autori: pp. 8, 9 (basso), 20-21, 36-43, 44, 45 (alto), 46-47, 48, 49 (alto), 77, 78-79, 86-91, 94-107, 110-111 – Doc. red.: pp. 10, 61, 63, 66, 70-73, 108-109 – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: pp. 12-13 – Cortesia Università di Bari: p. 14 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 16-17 – Cortesia Gruppo Archeologico Romano: p. 18 – Cortesia Università di Udine: pp. 22-24 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 26-27, 80-85 – Cortesia Raffaele Gentiluomo (Museo Archeologico Virtuale di Ercolano): ricostruzioni 3D alle pp. 34-35, 44/45 (alto), 45 (basso), 49 (basso) – Cortesia Villaggio Globale International: pp. 52-59 – The Leiden Collection (www.theleidencollection.com): p. 62 – The Oriental Institute Museum, Chicago: pp. 74-75 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 92-93 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 9 – Cippigraphix: cartine alle pp. 64/65, 76 Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

112 Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano


n otiz iari o SCOPERTE Egitto

L’ULTIMA DIMORA DI TJT

A

d Assuan, sulla sponda occidentale del Nilo, nell’area che circonda il mausoleo in cui riposano l’Aga Khan III e la sua consorte, la missione italoegiziana (Egyptian-Italian Mission at West Aswan-EIMAWA 2019) guidata da Patrizia Piacentini, docente di culture del Vicino Oriente antico, del Medio Oriente e dell’Africa dell’Università degli Studi di Milano, e da Abdelmanaem Said, del Ministero delle Antichità egiziano, si è resa protagonista, nello scorso gennaio, di una scoperta di notevole interesse.

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In alto: il tratto del Nilo che bagna l’area in cui ha avuto luogo la scoperta compiuta dalla missione italo-egiziana ad Assuan; sullo sfondo, il mausoleo dell’Aga Khan.

In basso: frammento di cartonnage in forma di collana. Composto da stoffa o papiro, questo materiale si utilizzava per rivestire le mummie e, come in questo caso, poteva essere dipinto. Tutto è nato dagli esiti di un sondaggio condotto nella zona, che sembrava suggerire la presenza di tombe: i successivi accertamenti hanno in effetti permesso di localizzare un’intera necropoli, alla quale appartengono almeno 300 sepolture, databili fra il VI secolo a.C. e il IV secolo d.C. In particolare, grazie alle esplorazioni condotte nel corso dell’ultima campagna, è venuto alla luce un complesso funerario che può essere considerato come un vero e proprio sepolcreto. Probabilmente utilizzata dal periodo tardo-faraonico al periodo romano e appartenente a una famiglia di estrazione sociale medio-alta, la tomba – sebbene già saccheggiata in epoca antica – ha infatti restituito oltre 30 mummie e numerosi oggetti di corredo. Il ritrovamento di un testo completo in geroglifico ha inoltre permesso di identificarne il proprietario, chiamato Tjt, il cui nome è associato all’invocazione agli dèi della prima cataratta del


A destra: la tomba scoperta nello scorso gennaio ad Assuan e che ha restituito oltre 30 mummie. In basso: un’archeologa impegnata nello scavo della tomba appartenuta a un personaggio di nome Tjt. Nilo, Khnum, Satet e Anuket, e ad Hapy, il dio del Nilo. La struttura si articola in una camera funeraria principale e in una laterale: nella prima sono state trovate 30 mummie ben conservate – tra le quali alcune di bambini piccoli che erano state depositate in una lunga nicchia laterale – e, appoggiata a una parete, una barella intatta in legno di palma e strisce di lino, usata dalle persone che avevano depositato le mummie

nella tomba. A corredo, vasi contenenti bitume per la mummificazione, cartonnage (materiale composto da strati di stoffa di lino o di papiro induriti con gesso) bianchi pronti per essere dipinti e altri già dipinti, una statuetta in legno ben conservata e dipinta dell’uccello-Ba, che rappresenta lo spirito del defunto. Nella seconda stanza sono state trovate quattro mummie, accompagnate da vasi che Qui sopra: Patrizia Piacentini, direttrice dello scavo ad Assuan, al lavoro sul campo. contenevano ancora resti di cibo, fondamentale per il «viaggio» che il defunto si accingeva a compiere. Due mummie sovrapposte, probabilmente riferibili a una madre e a suo figlio, erano ancora coperte da cartonnage dipinto, mentre un sarcofago era stato scavato direttamente nel pavimento roccioso. (red.)

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n otiz iario

TRAFFICO INTERNAZIONALE Siria

CACCIA AL MOSAICO

U

n mosaico romano portato alla luce da scavi clandestini condotti nel sito dell’antica Apamea di Siria è una delle vittime eccellenti dei saccheggi organizzati da quanti hanno approfittato (e continuano ad approfittare) del caos provocato dalla guerra civile che sta dilaniando il Paese. Scoperta nel 2011 e subito trafugata, l’opera – tuttora ricercata dall’Interpol – rappresenta tre scene rare e particolarmente interessanti dal punto di vista storico: la fondazione della colonia militare (katoikia) di Pella, sull’Oronte, per mano del leggendario Archippo; la rifondazione della polis di Apamea (sul sito della stessa Pella) da parte di Seleuco I Nicatore, nonché l’atto di magnanimità di sua moglie, Apama I, nei confronti della nuova città; e, infine, l’immagine della vita prospera e felice condotta nella valle dell’Oronte e nei dintorni di Apamea. Il mosaico è databile al IV secolo d.C. e, grazie alla fotografia scattata al momento della sua scoperta, possiamo vedere che la composizione, articolata in tre fasce sovrapposte,

è danneggiata in piú punti e che metà della fascia centrale e di quella inferiore sono perdute. Per il resto, salvo qualche piccola lacuna, lo stato di conservazione del manufatto è buono. Il mosaico, che probabilmente impreziosiva la residenza di un alto funzionario statale, è stato staccato dalla sua sede originaria e, dopo essere stato consolidato, venduto all’estero, con ogni probabilità a collezionisti di antichità, andando cosí a infoltire la lunga lista di opere d’arte antica trafugate dal sito di Apamea. Nella prima fascia superiore si trovano dieci personaggi; da un lato, cinque cavalieri macedoni, in sella ai loro eleganti destrieri, tengono lance o scudi, mentre dall’altro è in corso un sacrificio. In quest’ultima rappresentazione, grazie alle iscrizioni in greco, è possibile identificare tre personaggi: Archippo, il leggendario fondatore di Pella, che regge una patera per sacrifici sopra un altare sul quale giace la testa di un toro, e, ai suoi lati, il diadoco Antipatro e suo figlio Cassandro. Tutti indossano tuniche, pallio e diademi e la scena è sormontata da un’aquila, l’uccello sacro a Zeus.

La fascia centrale si articola in tre zone: sei personaggi riuniti intorno a una tavola coperta da monete d’oro e d’argento, la città e i suoi edifici monumentali e, infine, un cantiere lungo le mura di fortificazione. Anche in questo caso le iscrizioni in greco permettono di identificare le figure. Vediamo dunque Seleuco I Nicatore, il fondatore (ktistes), che tiene un regolo da architetto, simbolo della sua opera fondatrice. Archippo osserva la scena, mentre alla tavola siedono Antipatro, Apama – prima moglie di Seleuco –, Cassandro e infine Antioco, figlio di Seleuco. Tutti sono vestiti come monarchi ellenistici, con tuniche e pallio; alcuni indossano diademi, mentre Apama, velata, è vestita con chitone e himation. La regina dona una consistente somma di denaro per la nuova città (polis), mentre gli altri diadochi osservano e sottolineano a gesti la propria approvazione per il suo gesto. La città appare dietro le poderose mura di fortificazione. Alle spalle di Seleuco si vede un tempio che presenta frontalmente cinque colonne sormontate da un timpano e che si innalza su un alto La fascia superiore del mosaico trafugato da Apamea nel 2011 e da allora ricercato dall’Interpol. IV sec. d.C. Sulla sinistra, vari personaggi, fra cui Archippo e Antipatro; sulla destra, un manipolo di cavalieri macedoni.

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Apamea

Palmira D e s e r t o

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Damasco al-Quneitra as-Suwayda

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Mappa della Siria, con, in evidenza, il sito di Apamea.

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Aleppo

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G I O R D A N I A

basamento, con colonne anche sul fianco sinistro. Dietro Antipatro si riconosce una costruzione di forma ovale, con due metae collocate a ciascuna estremità dell’asse centrale e che può dunque essere identificata con l’ippodromo/circo cittadino. Nei pressi di quest’ultimo si trova un edificio piú importante, provvisto di un tetto a quattro falde, adiacenti al quale vi sono altri tre edifici piú piccoli. All’interno della città possiamo distinguere numerosi edifici monumentali diversi, anche se il mosaico è molto danneggiato in questa zona. Nella parte destra della fascia superstite si riconosce un bue nel pieno dello sforzo e, piú lontano, la personificazione femminile di una sorgente: la figura è seminuda e si appoggia su una brocca rovesciata, dalla quale sgorga l’acqua. Sui muri di fondazione vi sono due operai con i loro arnesi, mentre ai piedi dello stesso muro altri tre uomini trasportano un blocco di pietra. L’ultima fascia, che occupa il livello inferiore del mosaico, raffigura la ricca regione circostante Apamea, il Ghâb, e tesse l’elogio della sua bellezza e dei piaceri che gli abitanti vi possono trovare. Si vedono un bell’impianto termale e

una noria sulla sponda di un fiume. Le terme hanno un ingresso con apodyterium (spogliatoio), e un secondo accesso con un bacino. Alcuni ragazzi saltano o nuotano nella vasca, mentre due donne con i bambini si dirigono verso l’entrata dell’impianto. Come già accennato, questo mosaico possiede un’importanza particolare come fonte per la storia della creazione della prima colonia militare (katoikia) di Pella da parte di Archippo e della sua

rifondazione come Apamea da parte di Seleuco, quando la colonia militare si trasformò in polis. È opinione di chi scrive che secondo la fonte a noi sconosciuta che ha ispirato l’artefice del mosaico, Pella venne fondata da Archippo e colonizzata dai veterani macedoni come katoikia nel 320 a.C., all’indomani del trattato di Triparadiso, presso Baalbek. Riteniamo invece di poter respingere le teorie che vorrebbero la città fondata nel 330 a.C. da Alessandro Magno oppure da Antigono Monoftalmo fra il 306 e il 304 a.C. Crediamo infatti che la colonia macedone di Pella sia stata fondata nel 320 a.C., per iniziativa di Antipatro, quando questi era reggente dell’impero, e di Cassandro, che comandava la cavalleria macedone che avrebbe poi avuto in Pella la sua base. La nascita della colonia militare di Pella precedette di circa 13 anni la creazione della capitale di Antigono, Antigoneia, che divenne poi Antiochia, capitale dell’impero

Qui accanto: la scena che mostra Apama, prima moglie di Seleuco I Nicatore, mentre offre una cospicua somma di denaro per la costruzione della nuova città. In basso: il frammento di mosaico nel quale si riconoscono la noria (sulla sinistra) e le terme di Apamea.

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n otiz iario In questa pagina: la facciata e un particolare della decorazione della tomba di Agios Athanasios, presso Salonicco. Nel fregio dipinto si vedono alcuni cavalieri macedoni resi con uno stile affine a quello del mosaico di Apamea.

10 a r c h e o

seleucide e capitale virtuale dell’Oriente romano. La composizione della scena che raffigura i cavalieri macedoni evoca opere dell’epoca dei primi diadochi: le pitture della tomba di Agios Athanasios a Salonicco e il sarcofago di Alessandro il Grande da Sidone, oggi al Museo di Istanbul. Il mosaico costituisce una

fonte preziosa per le rappresentazioni dei diadochi e delle loro famiglie. Per esempio, ci regala il primo ritratto a oggi noto della regina Apama, prima moglie di Seleuco I Nicatore. Possiamo inoltre sottolineare l’importanza delle prime e per ora uniche raffigurazioni nell’iconografia antica di Antipatro, Cassandro e Archippo. Altrettanto uniche per i due monarchi sono le raffigurazioni di Seleuco I Nicatore come ktistes e di Antioco I Sotere. Il mosaico documenta inoltre edifici di Apamea che non conoscevamo o che erano stati rappresentati molto raramente, come l’ippodromo/circo, il tempio di Zeus Belos, le terme e, soprattutto, la noria nota finora su una sola rappresentazione di Apamea del V secolo d.C. Questo mosaico è, insomma, un’opera davvero unica nel suo genere e appartiene altresí a una serie molto ristretta di composizioni musive a soggetto storico. Ed è dunque auspicabile che possa essere presto ritrovato, per fare cosí ritorno nel Museo di Apamea. Marek Titien Olszewski e Houmam Saad



PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Alessandro D’Alessio

DUEMILA ANNI IN UN FUMETTO IL PARCO ARCHEOLOGICO DEL COLOSSEO CONFERMA LA SUA VOCAZIONE DIDATTICA CON UN’ESPERIENZA DI ALTERNANZA SCUOLA LAVORO CHE HA FRA I SUOI ESITI UNA STORIA DEL MONUMENTO DAVVERO ORIGINALE

S

in dalla sua istituzione, il Parco archeologico del Colosseo ha puntato alla didattica e alla diffusione della conoscenza del proprio patrimonio con azioni costruite sul rapporto tra i monumenti e il pubblico. Obiettivo principale è sollecitare le aspettative dei visitatori, generando sul territorio ricadute formative e puntando alla riconquista soprattutto delle fasce piú giovani, sia in veste di studenti della scuola dell’obbligo, sia come figli in

famiglie che vogliono riappropriarsi dello spazio del Foro, del Palatino e del Colosseo, in quanto luoghi di svago e di conoscenza della memoria della città di Roma e di tutta la cultura occidentale. L’ambizione piú grande, dunque, è quella di «produrre cultura», raccontando la storia, gli uomini, le vicende di un sito che nell’arco di due millenni ha rappresentato la culla della nostra civiltà. Operando in questa direzione, nel corso dell’anno scolastico 2017-2018 i

Servizi Educativi – sotto la guida e responsabilità di Patrizia Fortini e Federica Rinaldi e con il coordinamento operativo di Silvio Costa, Silvia D’Offizi, Elena Ferrari, Francesca Ioppi e Sabrina Violante – hanno accolto 115 studenti in Alternanza Scuola Lavoro, provenienti soprattutto da scuole del territorio (Liceo Classico Orazio, IIS Silvestri-Liceo Scientifico Malpighi, Liceo Scientifico San Francesco, Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II). All’interno dei A sinistra: la messa in scena della IX Satira di Orazio al Foro Romano, realizzata nell’ambito del progetto di Alternanza Scuola Lavoro condotto nell’anno scolastico 2017-2018. Nella pagina accanto: la copertina di HIC, graphic novel di Roberto Grossi, che racconta la storia della Valle del Colosseo.

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progetti «Civitas Universalis» e «La Bibliotec@ multimediale del Foro Romano-Palatino» (per cui si veda https://parcocolosseo.it/progettiasl-anno-scolastico-2017-2018 ) gli studenti hanno «solcato» la via Sacra, la piazza del Foro, le Basiliche Emilia e Giulia, il Tempio di Vesta e la Curia del Senato, diventando «cittadini attivi» e partecipi della vita e della gestione del patrimonio e concludendo il loro percorso con la produzione, tra le altre cose, di video-documentari, video-tutorial, video-interviste, e persino con la messa in scena della IX Satira di Orazio. Ma l’accoglienza si è presto estesa anche alla comunità di Capodarco – il cui percorso termina quest’anno con risultati importanti in termini di operatività e interazione sociale –, e a quelle famiglie «romane» che da troppo tempo rifuggono l’area centrale a causa della forte pressione turistica: cosí, in occasione delle Giornate Europee del Patrimonio e della F@MU 2018, i Servizi Educativi hanno accolto con passeggiate guidate e attività ricreative quel pubblico di cittadini romani che lentamente si sta riappropriando del «cuore» della città, volendo mettere in pratica quotidianamente la definizione di ICOM (peraltro in corso di aggiornamento) che qualifica il museo come «un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali e immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, istruzione e diletto». Proprio in considerazione del «diletto» come ingrediente necessario per la formazione e il coinvolgimento delle fasce piú giovani, per l’anno scolastico che sta per concludersi, l’offerta formativa del Parco è ripartita dalla

collana «Fumetti nei Musei», ideata dal MiBAC (febbraio 2018) e composta da ventidue graphic novel, con l’aspirazione a inaugurare un nuovo dialogo tra studenti e musei. Roberto Grossi, architetto e illustratore, aveva elaborato per il Parco, in senso diacronico, una serie di quadri legati alla vita della Valle del Colosseo, inserendoli in tavole sincroniche in cui passato e presente erano messi a confronto.

DA EDIFICIO PER I GIOCHI A ISOLA PEDONALE Il progetto innovativo e originale del PArCo ha previsto il coinvolgimento di tre scuole secondarie di secondo grado, un liceo classico (Aristofane), uno scientifico (Majorana) e un artistico (Caravaggio), ai quali è stata assegnata una porzione della storia del Colosseo, ovvero rispettivamente quella di età romana (dall’inaugurazione con i giochi di 100 giorni dell’Imperatore Tito nell’80 d.C. fino all’inizio del suo sfruttamento come cava di materiale nel VI secolo d.C.), quindi quella compresa tra il Medioevo e l’età moderna (tra riuso e nuove forme di occupazione) e infine quella contemporanea (interessata dalla riscoperta archeologica, ma anche dalle adunate fasciste fino alla rinascita come isola pedonale). Nei mesi scorsi gli studenti delle tre scuole, guidati dallo staff dei Servizi Educativi, hanno visitato e passeggiato per il Colosseo secondo un itinerario che ha permesso loro di conoscerne le trasformazioni nelle diverse epoche storiche; quindi con la guida dell’archeologo fumettista Silvio Costa, hanno sviluppato ciascuno per la propria parte la sceneggiatura, definendo ciò che volevano comunicare e a chi; di seguito, con incontri periodici e attraverso un serrato e formativo lavoro di gruppo hanno

individuato i nessi, i legami, ma, soprattutto, i personaggi necessari per il riconoscimento delle tre diverse macrofasi della narrazione allo scopo di montare le «storie», ottenendo il racconto illustrato dell’unica storia millenaria del monumento simbolo della romanità. L’esperienza si distingue nel panorama dell’Alternanza Scuola Lavoro per la sua originalità e innovazione, non solo rispetto al prodotto in sé, il fumetto (che benché ormai spopoli tra le forme di narrazione rimane spesso appannaggio di mani esperte), ma soprattutto per il carattere inclusivo e per aver saputo mettere assieme studenti di scuole e provenienze diverse che si sono confrontati sul medesimo tema, in una dimensione di squadra e di gruppo che è l’anima di ogni team working. Il progetto sarà presentato nella Curia Iulia del Senato al Foro Romano nel prossimo autunno. Federica Rinaldi e Patrizia Fortini

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n otiz iario

SCAVI Puglia

RIVELAZIONI A MONTE SANNACE

F

ra i risultati dell’ultima campagna di scavi condotta presso il Parco Archeologico di Monte Sannace (Gioia del Colle, Bari) spicca la scoperta di due tombe a sarcofago monolitico in tufo, poco distanti tra loro, vuote all’interno perché già depredate in passato, ma che all’esterno conservavano abbondanti resti delle prime deposizioni (ossa, ceramica, metalli, ambra). Numerose sono le forme vascolari recuperate, databili alla seconda metà del V secolo a.C.: vasi a vernice nera, di importazione attica, ma anche ceramica locale con decorazione a fasce, una punta di lancia in ferro, fibule in argento e ferro, nonché oggetti di ornamento in ambra e osso intagliato. «A Monte Sannace, il piú noto fra i centri indigeni della Peucezia preromana, i defunti – spiega l’archeologa Paola Palmentola – venivano seppelliti in spazi non distinti da quelli abitativi e deposti nelle tombe in posizione rannicchiata, adagiati su un fianco e con ginocchia e mani al petto in posizione fetale. Sono queste le usanze funerarie che piú caratterizzano chi abitava la Iapigia (Puglia) prima del dominio di Roma. Ma non le uniche. Come in altri insediamenti della Puglia centrale, anche qui succedeva che spesso, vicino alle tombe, fosse collocato un “ripostiglio”: solitamente posto accanto a uno dei lati corti della sepoltura, utile a conservare parte

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In questa pagina: immagini dell’ultima campagna di scavo condotta nel Parco Archeologico di Monte Sannace (Gioia

del Colle, Bari) dalla Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici dell’Università di Bari.

del corredo funerario che accompagnava il defunto. Infatti, anche le sepolture appartenenti alla parte piú ampia della società indigena del V e ancor piú del IV secolo a.C. erano dotate di un ricco corredo, con il quale si mostravano e dimostravano le proprie possibilità economiche e si dichiarava l’appartenenza al gruppo sociale o a ruoli specifici, deponendo oggetti che ne fossero un richiamo evidente per i contemporanei. Un’altra usanza che si rileva nelle stesse aree geografiche e nello stesso arco cronologico è quella del riutilizzo delle sepolture. Tombe che venivano svuotate del defunto e del suo corredo per far posto a un nuovo ospite. La prima deposizione era asportata e collocata al di fuori della sepoltura, nei suoi pressi oppure nel ripostiglio, se presente. I recenti scavi hanno inoltre rivelato che frammenti di vasi rinvenuti sulla lastra di pietra calcarea che copriva il ripostiglio erano pertinenti e combacianti con frammenti trovati all’interno dello stesso. Si tratta, evidentemente, di recipienti che erano già in frammenti al momento del riutilizzo della tomba e sono finiti in parte

all’interno e in parte all’esterno. È stato poi sorprendente scoprire che agli stessi vasi appartenevano anche frammenti rinvenuti all’esterno della seconda sepoltura, a 2 m circa di distanza. Le due deposizioni primarie dovettero appartenere a un uomo (per la presenza della punta di lancia) e a una donna (per la presenza di piú monili), ambedue deposti nella II metà del V secolo a.C. Le tombe furono riutilizzate nello stesso momento, riaperte e svuotate delle deposizioni che furono sparse in maniera frammentaria presso entrambe le sepolture. Restano da chiarire i motivi della presenza di frammenti degli stessi vasi in punti diversi: non sappiamo se sia stata frutto di un’operazione frettolosa e confusa di riapertura e riutilizzo antico oppure se vi sia stata intenzionalità rituale nella frammentazione dei vasi e nella loro deposizione presso entrambe le tombe». Gli scavi a Monte Sannace sono condotti dalla Scuola di Specializzazione Beni Archeologici dell’Università di Bari sotto la direzione di Paola Palmentola. Giampiero Galasso



ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

POMPEI RITROVATA LA PIAGA DELLO SCAVO CLANDESTINO NON HA RISPARMIATO LA CITTÀ VESUVIANA. TUTTAVIA, GRAZIE ALL’ATTIVITÀ DEL COMANDO CARABINIERI TUTELA PATRIMONIO CULTURALE, MOLTE OPERE SONO STATE RECUPERATE E ALCUNE DELLE PIÚ PREGEVOLI SONO ORA IN MOSTRA A ROMA

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opo la sua scoperta nel 1748, Pompei ha subíto una seconda distruzione ben peggiore di quella inferta dall’eruzione del 79 d.C.: nefasto protagonista ne è stato lo scavatore clandestino. La mostra «L’Arte ritrovata», ai Musei Capitolini, è dedicata all’attività di recupero dei beni culturali italiani svolta dal Comando Carabinieri per la Tutela Patrimonio Culturale (TPC), che proprio quest’anno festeggia il cinquantennale della sua istituzione. La nascita del Comando TPC è un vero primato mondiale, in quanto precede la Convenzione UNESCO di Parigi che invita gli Stati membri a istituire specifici servizi di protezione del patrimonio culturale nazionale. «L’Arte ritrovata» si compone in un simbolico mosaico di testimonianze provenienti da varie edizioni espositive del passato; un percorso fra archeologia e arte italiana, attraverso una selezione di opere di grande qualità e di forte significato ideologico, quale sintesi della pluridecennale azione di contrasto fatta dai Carabinieri. Un focus della mostra è dedicato proprio a Pompei e al patrimonio archeologico disperso attorno alla città antica. Il territorio vesuviano è

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A destra: frammento di affresco con prospettiva architettonica e maschera teatrale, restituito nel 2009 dagli USA. II stile (50-30 a.C.). Nella pagina accanto: statua di Artemide in marcia detta «Artemide arcaistica». Fine del I sec. a.C.-inizi del I sec. d.C.

da sempre «terra di tesori», e dal suo sottosuolo sono stati prelevati nel tempo – come sottolinea Grete Stefani nel catalogo – materiali edilizi, metalli da rifondere, oggetti da rivendere agli amanti di anticaglie; un’attività incontrollata, a cui un’apposita legge borbonica pose un freno già dal 1755. Il fenomeno degli scavi clandestini è ancora vivo attorno a Pompei e al Vesuvio, dove la criminalità organizzata agisce significativamente. Le forze

dell’ordine sono riuscite a individuare e a bloccare diversi interventi grazie all’azione di intelligence e di controllo del territorio. In sinergia con il Parco Archeologico di Pompei, la Procura della Repubblica di Torre Annunziata e il Comando TPC hanno disposto perfino l’esecuzione di uno scavo regolare in uno dei siti piú violati dai clandestini, al fine di interrompere tale attività. È stata infatti avviata, in località Civita, alla periferia settentrionale di


Pompei, una campagna di scavo nei terreni in cui erano state aperte a piú riprese varie gallerie di spoliazione. È stato possibile cosí mettere in luce ambienti del settore rustico di una grande villa, già nota agli inizi del Novecento per scavi

condotti dall’allora proprietario. I cunicoli dei clandestini hanno purtroppo perforato muri, sconvolto ambienti, rovinato reperti e asportato oggetti di cui non conosceremo mai qualcosa.

UNA SCENOGRAFIA SUGGESTIVA L’illegalità va combattuta anche sul mercato antiquario «disinvolto», che commercia oggetti di provenienza dubbia e cela trafficanti di reperti prelevati in scavi abusivi. Alcune opere sono finite in collezioni private, altre confluite in musei di fama: è il caso degli affreschi esposti in mostra, brutalmente tagliati per portarli fuori dai cunicoli, pertinenti a uno o piú ambienti di una elegante villa vesuviana del I secolo a.C., di cui purtroppo non sappiamo nulla. I tre frammenti di affresco parietale sono in II stile pompeiano (50-30 a.C.) e mostrano una suggestiva scenografia architettonica con vari elementi che richiamano la commedia e la tragedia del teatro greco; i pannelli sono stati consegnati a Pompei nel 2009 ed erano precedentemente conservati al Paul Getty Museum e al Metropolitan Museum of Art di New York. La tecnica e lo stile delle decorazioni rimandano ad analoghe sale affrescate nella Villa imperiale detta «di Poppea» a Oplontis. In mostra si celebra anche un modello scultoreo di grande valore artistico e ideologico al tempo di Augusto: l’Artemide marciante. Lo storico Svetonio racconta che Ottaviano conseguí nel 36 a.C. un’importante vittoria navale su Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno, che portò alla disfatta dell’opposizione al triumvirato di Ottaviano, Marco Antonio ed Emilio Lepido. Il futuro Augusto intese questo successo

ottenuto con il favore della dea Diana (l’Artemide greca), di cui sorgeva un tempio presso il luogo siciliano della battaglia, Milazzo. A celebrare questa vittoria fu coniata anche una moneta che riportava l’immagine di una Diana che avanza con passo deciso. L’Artemide/Diana marciante con arco e frecce delle monete è stata collegata a un tipo scultoreo di cui si conoscono almeno quattro copie: in mostra sono presenti due di queste, la prima – dal Museo Nazionale Romano – frutto di scavi clandestini fatti in Campania, dove fu recuperata nel 2001; la seconda – detta per il suo stile «Artemide arcaistica», dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli – è stata invece scoperta nel 1760 a Pompei, nella Casa di M. Spurius Saturninus e di D. Volcius Modestus (VII,6.3) posta in prossimità del Foro. La statua, di cui è stata riconosciuta la collocazione sul fondo del peristilio della casa, era policroma, come dimostrano le tracce sui capelli in ocra gialla, sugli occhi in bruno e nero, e sui bordi della veste, sul diadema e sui sandali in rosa, giallo, bianco e blu. La dea in marcia rappresentata in queste due opere, nella propaganda augustea simbolo di purezza e di verginità, è quindi un modello famoso nella Roma degli anni attorno al 20 a.C., nato forse da un originale in bronzo poi replicato in marmo per il culto domestico o per arredare lussuose domus.

DOVE E QUANDO «L’Arte ritrovata. L’Arma dei Carabinieri per il recupero e la salvaguardia del patrimonio culturale italiano» Roma, Musei Capitolini fino al 26 gennaio 2020 Orario tutti i giorni, 9,30-19,30 Info www.museicapitolini.org Facebook: Pompeii-Parco Archeologico

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n otiz iario

VOLONTARIATO Lazio

«BELLISSIMA» E... DIMENTICATA

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a quasi trent’anni aspetta di essere ritrovata e poi raccontata nella sua straordinaria bellezza. Grande quanto una residenza romana importante, forse imperiale, è la «Villa pulcherrima» di Civitavecchia, che Traiano si fece edificare nel II secolo d.C., all’indomani delle guerre daciche, probabilmente riutilizzando una costruzione piú antica. L’imperatore affidò l’incarico al suo architetto di fiducia, Apollodoro di Damasco, cosí da poter verificare personalmente il buon andamento dei lavori di costruzione del suo nuovo grande porto, Centumcellae, al quale dopo poco tempo si agganciò – alle sue spalle – la città che diede origine all’odierna Civitavecchia. Primo testimone oculare d’eccezione della magnifica residenza è Plinio il Giovane, il quale, in una lettera scritta all’amico Cornelliano intorno al 107 d.C. lo informa d’essere stato convocato dall’imperatore al Consilium Principis, nella sua villa situata in prossimità del mare in un luogo chiamato Centumcellae. La lettera ha un’importanza

straordinaria per la storiografia locale, perché è il primo documento che attesti sia il nome di Centumcellae che la presenza della villa, in realtà mai individuata. E da tempo si discute se il toponimo Centumcellae si riferisca al porto, alla villa imperiale o alla città cresciuta alle spalle del porto stesso. Il dibattito verte anche su dove sia ubicata la villa citata da Plinio, ovvero se nei pressi del porto o nella zona tra gli odierni ex Scuola di Guerra e ospedale San Paolo, in località Case Verdi, conosciuta come Vigna De Filippi. Ai primi dell’Ottocento, su questo pianoro, denominato Belvedere e situato a 60 m sul livello del mare, il latinista Pietro Manzi, allora proprietario del fondo, aveva effettuato alcuni scavi, grazie ai quali rinvenne resti di un ricco edificio e una statua di Apollo in marmo. Successive indagini della Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale hanno rivelato l’esistenza di strutture, abitate dall’età repubblicana all’epoca tardo-antica e disposte su di una superficie di almeno 20 000 mq. Sebbene, a oggi, non abbiano

Civitavecchia, Vigna de Filippi. I resti della villa romana di epoca imperiale forse identificabile con la villa pulcherrima voluta da Traiano.

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restituito materiali direttamente riferibli a Traiano, i ruderi di Vigna De Filippi costituiscono un interessante complesso monumentale, tutto da scoprire. E proprio quest’area è ora oggetto di una campagna di pulizia e ripristino condotta dal Gruppo Archeologico Romano (GAR). I ruderi, infatti, da sempre noti, sono stati a lungo dimenticati e sono tornati alla ribalta quando per il sito fu approvato un progetto di costruzione di edifici residenziali. Fermati i lavori dopo la segnalazione e il conseguente blocco, fu condotto uno scavo di controllo e poi di nuovo piú nulla. In tutti questi anni, però, la visione di un grande parco archeologico, che darebbe nuova linfa non solo agli studi di storia locale, ma soprattutto all’economia culturale di Civitavecchia, è una possibilità che molti accarezzano, con l’auspicio di portare all’attenzione del mondo scientifico questo luogo straordinario. Cosí è nata l’idea di far conoscere, o meglio ri-conoscere, soprattutto alle nuove generazioni le strutture già emerse, ripulendole dalle erbe infestanti, per poi permettere alle Università e alla Soprintendenza di effettuare uno scavo scientifico. Il progetto di ripulitura ha potuto essere avviato grazie alla volontà di alcuni Civitavecchiesi, proprietari del sito che ospita i resti archeologici, all’intervento della responsabile della Soprintendenza, Rossella Zaccagnini, che ha concesso le necessarie autorizzazioni, all’amministrazione comunale e alla disponibilità del Gruppo Archeologico Romano che nell’occasione ha aperto una sezione anche a Civitavecchia, battezzandola «Ulpia». Daniele Buscella



A TUTTO CAMPO Mara Sternini

LE MOLTE VITE DI UN «COCCIO» I FRAMMENTI CERAMICI SONO I REPERTI CON I QUALI PIÚ SPESSO GLI ARCHEOLOGI SONO CHIAMATI A CONFRONTARSI. SCHEGGE DI UN PASSATO PIÚ O MENO LONTANO CHE, SE DEBITAMENTE INTERROGATE, POSSONO RESTITUIRE UNA VERA E PROPRIA MINIERA DI INFORMAZIONI

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frammenti di ceramica che si rinvengono in uno scavo contribuiscono, in primo luogo, a fissare la cronologia del sito indagato: quando sia stato realizzato, per quanto tempo sia stato frequentato e, infine, quando sia stato distrutto o semplicemente abbandonato. Tuttavia, la ceramica è di per sé anche fonte di informazioni essenziali per definire la natura del sito (se si tratta di un’abitazione privata o di un’area sacra, per esempio, oppure di un magazzino impiegato per lo stoccaggio di derrate alimentari e cosí via). Lo studio della forma dei vasi e l’analisi delle argille che li costituiscono possono raccontare la storia dei contenitori, i loro In questa pagina: frammento di piatto, forato per ricavarne una stecca; sulla superficie sono ben visibili i residui di una sorta di malta, molto friabile, che attesta il riuso del coccio nella costruzione di una struttura, probabilmente funzionale alla bottega. Nel disegno è illustrato il primo reimpiego del frammento, utilizzato per modellare il profilo dei vasi lavorati al tornio.

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trasferimenti e, infine, il loro smaltimento, permettendo di ricostruire forme e modi dei commerci che li hanno fatti viaggiare dalla località di origine a quella di ricezione.

IL LAVORO DEL VASAIO Se si impara a osservare i «cocci» con attenzione, se ne possono però ricavare molte altre informazioni; nel caso in cui essi costituiscano gli scarti di lavorazione di una fornace, il loro studio consente di ricostruire alcune fasi del processo di lavorazione utilizzato dai vasai dell’epoca. Prendiamo, per esempio, lo scavo dello scarico della fornace di Ateius, individuato e scavato ad Arezzo negli anni Cinquanta del secolo scorso. Le numerose tracce visibili sui frammenti permettono di ricostruire le tecniche di lavorazione utilizzate per modellare i vasi sul tornio e per applicare il rivestimento. Per esempio la «vernice rossa», che veniva applicata sulle superfici, si


otteneva per immersione in un bagno di argilla molto fine e diluita, tenendo il vaso per il piede, cioè per la base sulla quale poggia il fondo. I segni lasciati da questa fase di lavorazione sono ben visibili vicino al piede, dove si possono notare aloni circolari, che corrispondono al punto di contatto delle cinque dita che tenevano il vaso; cosí avveniva nel caso di piattini piccoli e leggeri, che si potevano reggere con una sola mano. Quando invece i vasi erano piú grandi e pesanti era necessario sollevarli con entrambe le mani, come dimostrano i segni visibili vicino al piede, che si riferiscono alle dita piegate nello sforzo di trattenere il vaso, e dalle impronte dei pollici sul lato interno del piede. Altri segni di ditate sono visibili sul fondo del vaso; si tratta perlopiú di impronte di due o tre dita, a volte piegate, che il vasaio faceva scivolare sotto il piatto mentre lo appoggiava su un ripiano, dove veniva lasciato ad asciugare prima della cottura in forno.

ESEMPLARI DIFETTOSI Ma ci sono anche altre tracce che possiamo trovare e che raccontano di un uso diverso da quello per il quale i vasi erano stati modellati. Lo scavo dello scarico di Ateius ha infatti restituito frammenti che, dopo essere stati scartati a causa dei loro difetti di produzione, dimostrano di avere svolto altre funzioni. Prendiamo come esempio uno di questi cocci e cerchiamo di ricostruirne le vicende fino al momento del suo rinvenimento. La prima fase è quella di vaso modellato nella fornace romana della fine del I secolo a.C. ad Arezzo; per qualche difetto di fabbricazione, o per un errore nella gestione del forno durante la cottura, deve aver subito deformazioni o fratture che hanno portato a gettarlo nello scarico. A

Frammento di un grosso piatto sul quale sono riconoscibili le tracce lasciate dalle dita delle due mani che sorreggevano il vaso durante il bagno nell’argilla. quel punto il vaso giace in frammenti su una montagna di scarti accanto alla bottega. Ma quei frammenti non restano là per sempre, almeno non tutti. In effetti alcuni di essi presentano un foro circolare, realizzato con il trapano, allo scopo di trasformarli in strumenti, utili a modellare il profilo dei vasi durante la lavorazione al tornio. Il foro dimostra, cioè, questo riciclo del frammento, trasformato in stecca. Una volta esaurita tale funzione, forse per usura dei margini, il coccio è stato nuovamente gettato nello scarico, ma non definitivamente. Infatti alcuni di quelli che erano già stati trasformati in stecche presentano uno strato piú o meno spesso di una specie di malta molto friabile, che lascia supporre un riuso come materiale da costruzione, forse per qualche struttura funzionale alle attività della bottega. Una struttura che poi,

non si sa quando, è stata smantellata, causando il ritorno del coccio nel mucchio dei vasi rotti. L’ultima fase di vita vede poi lo spostamento di una parte dello scarico in un luogo diverso da quello di giacitura primaria; non si sa quando ciò sia avvenuto, né quanto lontano sia stato portato dalla fornace, che non è mai stata trovata; forse il trasferimento era finalizzato a spianare con terra di riporto un dislivello naturale. Ed è proprio in questo contesto che il coccio è stato ritrovato. Pulito e inventariato, classificato e schedato si trova ora nel laboratorio di Ceramica Classica del Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali. La sua funzione, ora, è quella di raccontare tutte le sue numerose vite, perché come un testo scritto i cocci sanno narrare molte storie, basta imparare a leggere le tracce che conservano. (mara.sternini@unisi.it)

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

SULLE TRACCE DI ALESSANDRO SEMBRAVA UNA SUGGESTIONE, MA ORA È UNA REALTÀ: LA MISSIONE ITALIANA NEL KURDISTAN IRACHENO GUIDATA DA DANIELE MORANDI BONACOSSI HA SVELATO LA REALE UBICAZIONE DI GAUGAMELA, LUOGO IN CUI IL MACEDONE COLSE UNA VITTORIA EPOCALE

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e ultime scoperte della missione archeologica dell’Università di Udine nel Kurdistan Iracheno portano sulle tracce di Alessandro Magno e, piú precisamente, sul campo della battaglia di Gaugamela, dove, nel 331 a.C., il Macedone sconfisse il re persiano Dario III e la storia antica visse uno snodo cruciale. Ne parliamo con Daniele Morandi Bonacossi, professore di archeologia del Vicino Oriente antico presso l’Università di Udine,

che guida la missione attiva dal 2012 nel Kurdistan Iracheno, con il progetto «Land of Nineveh». Professor Morandi, è vero che avete finalmente individuato il luogo in cui si svolse la battaglia di Gaugamela? «La mia ipotesi è che il sito in cui scaviamo, oggi Gomel, nel Kurdistan, sia il luogo che fu teatro della battaglia. Grazie a un mix di storia antica, filologia, nuove tecnologie, GIS e ricerche sul campo, abbiamo

raccolto prove scientifiche sufficienti per individuare il luogo in cui il condottiero trionfò sull’armata persiana». E che cosa vi fa pensare che la famosa battaglia di Gaugamela, che segnò uno spartiacque cruciale nella storia, si sia combattuta proprio a Gomel? «La prova regina è lo studio filologico del toponimo Gomel: questo deriva per corruzione dal nome di epoca bizantina-medievale Gogemal (IX secolo d.C.), il quale, a

La piana di Gomel, nell’odierno Kurdistan Iracheno. Le ricerche della missione archeologica dell’Università di Udine provano che il sito vada identificato con Gaugamela, teatro della battaglia nella quale, nel 331 a.C., Alessandro Magno sconfisse i Persiani.


sua volta, è una storpiatura del nome greco di Gaugamela. La dizione greca deriva dal nome del sito di epoca assira, Gammagara/ Gamgamara, che troviamo in un’iscrizione cuneiforme celebrativa dell’epoca del re assiro Sennacherib (704-681 a.C.)». Ci sono riscontri archeologici a questa ipotesi? «L’archeologia offre diversi elementi a sostegno di questa identificazione. Il sito di Gomel, nel periodo antecedente a quello ellenistico, cioè dal 612 a.C. in poi, è un villaggio di dimensioni ridottissime. Dalla fine del IV secolo a.C., invece, come indica la ceramica raccolta, coeva alla battaglia di Gaugamela, il sito entra in una fase di sviluppo: nel territorio circostante si moltiplica il numero degli insediamenti ellenistici». Circostanza che sarebbe il risultato del passaggio a Gomel di Alessandro Magno. E quali altre tracce archeologiche rimangono, oggi, della sua presenza? «Nella regione circostante si contano vari rilievi rupestri, scolpiti sulle pareti rocciose delle vallate che si aprono attorno al sito di Gomel nel raggio di 30 chilometri. Due rilievi rappresentano cavalieri: uno è stato rinvenuto a Gali Zerdak, l’altro a Khinnis. Nel primo è raffigurato un cavaliere a cavallo incoronato da una Nike: cosa molto interessante, se si considera che la valletta dove è scolpito domina il presunto luogo del campo della battaglia di Gaugamela e il sito di Tell Gomel. L’altura potrebbe essere quello che Alessandro ribattezza come il “monte nikatorion”, da nike, il “monte della vittoria”. Il sospetto che il cavaliere raffigurato a Gali Zerdak sia Alessandro Magno, vittorioso a Gaugamela, è molto forte. A Khinnis, invece, c’è un altro cavaliere a cavallo, che lo studioso Julian Read propone di interpretare

con Alessandro Magno. Poi c’è un terzo rilievo, nel sito di Nirok, sul quale sono raffigurati i “soli argeadi”, cioè quei soli con 16 raggi che simboleggiano la dinastia regale di Alessandro Magno. In un altro rilievo ancora, è raffigurato un sovrano con la caratteristica lunghissima lancia introdotta dall’esercito macedone, la cosiddetta “sarissa”, che trafigge un re con vesti orientali. Insomma, nel territorio attorno al sito di Gomel ci sono tutta una serie di segni che sembrano proprio la firma reale di Alessandro Magno». Era il 331 a.C. quando le truppe di Alessandro Magno trionfarono a Gaugamela: perché questa data è cosí importante nella storia? «Gaugamela è un luogo simbolo in cui la storia “cambia cavalli”: uno

dei momenti cruciali in cui un mondo finisce e inizia una nuova era, l’ellenismo. Siamo alla terza vittoria consecutiva di Alessandro Magno, dopo la battaglia di Isso e quella del Granico: un successo che permette al condottiero di conquistare tutte le capitali achemenidi, da Babilonia, a Susa, Persepoli ed Ekbatana, espandendo il suo impero in una regione enorme (che va dalla Macedonia all’Asia centrale fino alla valle dell’Indo, nell’odierno Pakistan) e realizzando uno straordinario, fecondissimo momento di incontro culturale tra Oriente e Occidente». La missione dell’Università di Udine, sostenuta da Ministero degli Affari Esteri, Agenzia italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, Ministero dell’Istruzione, Regione

In alto: il restauro dei rilievi rupestri di Maltai, vittime di atti vandalici. A destra: Khinnis. Il rilievo assiro raffigurante un cavaliere e trasformato in età ellenistica in un ritratto di Alessandro Magno.

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costruito con mezzo milione di blocchi di calcare perfettamente squadrati, con iscrizioni di Sennacherib che documentano l’impresa. Abbiamo avviato, inoltre, progetti di formazione del personale della Direzione Antichità locale, nonché donato al Museo di Dohuk un laboratorio di restauro». Che cosa ha voluto dire lavorare in un territorio come il Kurdistan Iracheno, da decenni in guerra, ? «Sono stati anni difficili. Nell’agosto 2014 eravamo a Dohuk, a circa 60 km da Mosul, quando l’ISIS minacciava di In alto: iscrizione in caratteri cuneiformi incisa su uno dei blocchi di calcare utilizzati per costruire il colossale acquedotto di Jerwan. Questo e altri testi celebrano

l’impresa, promossa dal re assiro Sennacherib. A destra: Maltai. Particolare di un rilievo rupestre raffigurante varie divinità assire.

Autonoma Friuli-Venezia Giulia e Fondazione Friuli, ha portato avanti un prezioso lavoro di mappatura sul campo. Avete scoperto migliaia di siti archeologici del tutto sconosciuti, non è vero? «Abbiamo individuato e mappato ben 1100 siti archeologici ignoti, che vanno dal Paleolitico al periodo islamico (da un milione di anni fa a oggi), in un’area di 3000 km2, una delle piú ampie concessioni di ricerca mai rilasciate in Iraq. Si tratta di una zona mai esplorata fino a oggi, che coincide con il cuore, il nucleo centrale dell’impero assiro. Grazie a riprese con droni, fotografie ortogonali, ricognizioni archeologiche, studio della ceramica e scavi stratigrafici, abbiamo ricostruito la storia del popolamento e dell’uso delle risorse della regione, che è risultata una delle zone della Mesopotamia con la piú alta densità di siti archeologici. Fino a oggi, conoscevamo solo le grandi capitali dell’impero assiro, come Ninive, non il territorio e la campagna». E che cosa avete scoperto? «Abbiamo studiato lo straordinario

sistema di irrigazione costruito dagli Assiri tra la fine dell’VIII e l’inizio del VII secolo a.C., che serviva a captare l’acqua dei torrenti di montagna e delle sorgenti carsiche a nord di Ninive, per poi irrigare la campagna – facendone il “granaio” dell’impero – e portare acqua fino al palazzo di Sennacherib, ai suoi giardini e parchi imperiali». Ci sono canali e acquedotti che corrono per centinaia di chilometri, non è vero? «Abbiamo documentato un sistema di 250 km di canali e acquedotti in pietra che sono i primi della storia. Un patrimonio culturale straordinario, unico, esposto agli agenti atmosferici, al vandalismo e distruzioni di ogni tipo, che la missione sta proteggendo anche con l’elaborazione, a opera dell’Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del CNR, di un progetto di parco archeologico e di un dossier per il suo inserimento nella tentative list dell’UNESCO. L’acquedotto di Jerwan, per esempio, è colossale: lungo 280 m e alto 10, è stato

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sfondare la linea del fronte fra il Kurdistan e Mosul. Se lo avesse fatto, in 20 minuti di autostrada sarebbe arrivato da noi. Siamo stati evacuati nell’agosto 2014 e siamo tornati nel febbraio 2015. Da allora abbiamo lavorato senza problemi, anche se l’area di ricerca arrivava a 10 chilometri dal fronte tra i Curdi e l’ISIS: si scavava con i bombardamenti, gli aerei che planavano sopra le nostre teste e i pinnacoli di fumo in lontananza. Abbiamo convissuto con la guerra dietro l’angolo fino all’ottobre 2016, quando è iniziata la liberazione di Mosul».



n otiz iario

MOSTRE Roma

A SCUOLA DI (SANO) EROTISMO

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Roma. gli spazi espositivi ricavati nei sotterranei dello Stadio di Domiziano (l’odierna piazza Navona) ospitano una piccola mostra che, negli intenti dei suoi curatori, è destinata principalmente ai ragazzi dei licei italiani al fine di «prevenire e contrastare» la violenza sulle donne. Nei due ambienti espositivi gli studenti vengono invitati alla rilettura psicologica delle opere esposte, tutte inerenti alla sfera dell’eros, e partecipano cosí del modus vivendi del mondo antico, prima dell’avvento moralizzatore del cristianesimo, quando in amore tutto era lecito e privo di tabú e, di conseguenza, meno soggetto alla violenza. Le opere scelte provengono dal Gabinetto Segreto del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, la celebre sezione voluta due secoli fa dai cattolici Borboni di Napoli e destinata a sigillare i reperti erotici (considerati osceni) che via via venivano alla luce dagli scavi di Pompei e Ercolano. Nel 1851 Il Gabinetto raccolse anche tutte le sculture e le pitture di Venere reputate scandalose, soltanto perché in nudità, e la collezione fu definitivamente chiusa e murata perché se ne perdesse persino la memoria. Riaperto da Giuseppe Garibaldi, il quale, dopo la vittoria sull’esercito borbonico, ordinò di «scassinare» la porta e rese accessibili al pubblico le opere, il Gabinetto fu ben presto richiuso; con la nascita del regno d’Italia e durante il ventennio fascista per visitare la collezione si doveva ottenere il permesso del Ministero dell’Educazione Nazionale. Fino agli anni Settanta del secolo scorso la censura è perdurata e soltanto dal 2000 il Gabinetto è

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stato definitivamente riaperto al pubblico dopo un nuovo allestimento. Nella mostra romana si possono vedere alcuni piccoli oggetti originali e fotografie a grandezza naturale delle statue e degli affreschi. Tra i reperti esposti in vetrina ci sono i celebri tintinnabula pompeiani, sonagli che venivano appesi alla porta di casa o delle botteghe con la funzione di scacciare il malocchio e portare fortuna e fertilità e raffiguranti personaggi dai falli priapici come il grottesco gladiatore in lotta contro il proprio membro dalle forme leonine. Un’iconografia, dunque, che nell’antica Roma non creava alcun imbarazzo o senso del A destra: Afrodite che si slaccia il sandalo (Venere in bikini), dalla Casa di Maximus a Pompei. I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: Supplizio di Dirce, meglio noto come Toro Farnese, gruppo scultoreo originariamente appartenente all’apparato decorativo delle Terme di Caracalla. Copia di età antonina di un originale greco. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

peccato. Accanto ai tintinnabula troviamo in mostra alcune lucerne dalle raffigurazioni erotiche e il rilievo in marmo proveniente da una caupona (osteria), che ritrae un accoppiamento eterosessuale e che ricorda gli affreschi dei lupanari. Degne di nota sono le riproduzioni auto-stereoscopiche in 3D delle statue delle Veneri (Afrodite pudica, Afrodite che si slaccia il sandalo – nota anche come «Venere in bikini» –, ecc.) di Pan e Dafni della collezione Farnese, e del gruppo scultoreo raffigurante il supplizio di Dirce, nonché di alcune pitture. Si tratta di un tecnica di riproduzione suggestiva, realizzata grazie all’interlacciamento di 60 scatti circa, ottenuti ciascuno da un


ROMA

Quando i Fori brulicavano di vita

punto di ripresa distinto dall’altro ed elaborati da vari software. Questo tipo di immagini è sempre piú utilizzato nelle attività di promozione e divulgazione del patrimonio artistico e in esposizioni itineranti dove non è possibile il trasporto degli originali. Il risultato è notevole e utile, qui, per illustrare l’aspetto psicologico e didattico suggerito dal soggetto raffigurato, come nel Supplizio di Dirce (o Toro Farnese). Quest’ultima opera, vista in 3D, si trasforma nell’icona contemporanea di un’atroce violenza su una donna, Dirce, istigata da un’altra donna, Antiope, per mano dei due figli Anfione e Zeto, l’ultimo atto di una tragica dinamica che oggi si definirebbe una «triangolazione familiare» in cui i figli maschi sono autorizzati dalla stessa madre a esercitare la violenza. Speriamo, dunque, che i nostri studenti traggano dagli antichi qualche utile insegnamento sulla femminilità, la sensualità, la passionalità e l’affettività e che,

spinti dalla curiosità per quel modus vivendi, si rechino a Napoli per vedere «dal vivo» il Gabinetto Segreto e la collezione del Museo Archeologico Nazionale. La mostra «Ars erotica. L’arte dell’amore non violento nell’antica Roma» nasce dalla sinergia fra Codacons, SIIPAC (Società italiana d’Intervento sulle Patologie Compulsive) Lazio Onlus e Museo Archeologico Nazionale di Napoli ed è stata realizzata con i contributi del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Lorella Cecilia

DOVE E QUANDO

Torna il progetto «Viaggi nell’antica Roma», che, attraverso due spettacoli multimediali, racconta e fa rivivere la storia del Foro di Cesare e del Foro di Augusto. Grazie a sistemi audio con cuffie e accompagnati dalla voce di Piero Angela e dalla visione di filmati e proiezioni che ricostruiscono i due luoghi cosí come si presentavano nell’antica Roma, gli spettatori possono godere di una rappresentazione emozionante e allo stesso tempo ricca di informazioni dal grande rigore storico e scientifico. I due spettacoli possono essere ascoltati in 8 lingue (italiano, inglese, francese, russo, spagnolo, tedesco, cinese e giapponese). Le modalità di fruizione dei due spettacoli sono differenti. Per il Foro di Augusto sono previste tre repliche ogni sera (durata 40 minuti), mentre per il Foro di Cesare è possibile accedervi ogni 20 minuti, secondo il calendario pubblicato (percorso itinerante in quattro tappe, per la durata complessiva di circa 50 minuti, inclusi i tempi di spostamento). Info tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); #viaggioneifori; www.viaggioneifori.it; www.turismoroma.it (red.)

«Ars erotica. L’arte dell’amore non violento nell’antica Roma» Roma, Stadio di Domiziano fino al 6 Novembre Orario tutti i giorni, 10,00-19,00 (sabato, 10,00-20,00) Info tel. 06 68805311; e-mail: info@stadiodomiziano.com; https://stadiodomiziano.com

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

UNA LENTA RISCOPERTA Le vicende di cui la regione mesopotamica è stata teatro all’inizio del II millennio a.C. hanno visto 1 coinvolti molti popoli, le cui storie si sono spesso intersecate, fino a rendere difficile la 2 individuazione delle singole genti e delle 3 loro provenienze, dei loro insediamenti e finanche dei loro linguaggi. In questo numero (vedi alle pp. 60-75), Silvia Alaura spiega chi furono gli Ittiti, quali contatti ebbero con altri popoli della stessa zona e 4 racconta la loro storia. Qui, come di 5 consueto, presentiamo personaggi, episodi e luoghi citati per i quali è possibile trovare evidenze filateliche. Fino al XIX secolo le uniche citazioni sugli Ittiti si potevano ricavare soltanto dal testo biblico. La prima narra di Abramo (1), 6 che aveva comprato da un Ittita, Efron, un 7 terreno nei pressi di Hebron (2) per seppellirvi la moglie Sara (1); un luogo che viene considerato come il primo insediamento ebraico nella terra promessa. La seconda citazione si trova nella storia che coinvolge il re David (3), invaghitosi di 8 Betsabea, moglie dell’ittita Uria, da lui vista 9 mentre usciva dal bagno (4). Una rara affrancatura meccanica italiana del 1952 reclamizza proprio il lancio del film David e Betsabea, 10 interpretato da Gregory Peck e Susan Hayward (5). In aggiunta alle citazioni bibliche anche l’archeologia, ma solo a partire dalla metà dell’Ottocento, diede il suo contributo a certificare l’esistenza degli Ittiti come popolazione autonoma. Pietre miliari sono state le ceramiche ritrovate negli scavi nel 12 villaggio anatolico di Bogazköy, oggi Bogazkale (6), gli scavi 11 nella provincia di Tokat (7), un vaso proveniente da Inandik (8), il simbolo ittita del sole trovato ad Alacahöyük (9), ove è stata trovata anche una statuetta di bambino (10), l’anatra a due teste di fattura ittita del XIV secolo a.C. (11), la statuetta di un re di tarda fattura ittita del VI secolo a.C. (12). Importante è, poi, la testimonianza su una delle piú famose battaglie dell’antichità, quella di Qadeš tra Egizi e Ittiti, nella quale si scontrarono il 13 14 faraone Ramesse II (13) e il re degli Ittiti Muwatalli II. La versione in geroglifici venne incisa nel tempio di IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Amon a Karnak e nel Ramesseo di Tebe, mentre quella Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi in cuneiforme su tavoletta d’argilla è stata rinvenuta altro tema, ai seguenti indirizzi: negli archivi di Hattuša. E proprio con la capitale del Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, regno ittita al tempo del suo massimo splendore, Via Tavanti, 8 C.P. 17037 scoperta dall’archeologo tedesco Hugo Winckler, 50134 Firenze Grottarossa chiudiamo queste note mostrando una delle tre porte della info@cift.it, 00189 Roma. città, quella «dei Leoni» (14). oppure lcalenda@yahoo.it; www.cift.it

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LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO

EBREI IN ITALIA GLI

DALLE ORIGINI AL GHETTO DI VENEZIA


D

L’assedio e la distruzione di Gerusalemme, olio su tela di David Roberts. 1850. Collezione privata.

a dove sono venuti gli Ebrei italiani? Quando? Perché? E, una volta giunti in Italia, dove hanno scelto di attestarsi? Quali rapporti hanno stabilito con le popolazioni residenti, con i poteri pubblici: prima con la Roma imperiale, poi con la Chiesa, ma anche con i Longobardi, i Bizantini e i musulmani, sotto il cui dominio hanno vissuto? E soprattutto: cosa ha di particolare e di specifico l’ebraismo italiano rispetto a quello di altri luoghi della Diaspora? La nuova Monografia di «Archeo», realizzata in collaborazione con il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara, racconta i secoli della presenza ebraica in Italia, una presenza antica e ininterrotta da piú di duemila anni: un viaggio nell’Italia antica, alla scoperta di come, oltre che a Roma, l’ebraismo abbia preso piede e si sia sviluppato in maniera rigogliosa soprattutto nell’Italia del Sud e nelle isole: dalla Puglia alla Sicilia, dalla Calabria alla Basilicata, Campania e Sardegna, per giungere poi nell’Italia centro-settentrionale.

GLI ARGOMENTI •A lle origini di una storia bimillenaria • I primi Ebrei di Roma •C hi ha finanziato il Colosseo? • L a menorah: il mistero del

candelabro scomparso •G li Ebrei e l’impero cristiano •G li Ebrei nell’Italia meridionale •M edicina, astronomia, astrologia • L e tradizioni mistiche altomedievali • Il viaggio di Beniamino da Tudela • I l Rinascimento parla ebraico

IN EDICOLA a r c h e o 31


CALENDARIO

Italia

CASTELFRANCO EMILIA (MODENA) Una sosta lungo la via Emilia, tra selve e paludi

ROMA Storie di vita

La mansio di Forum Gallorum a Castelfranco Emilia Museo Civico Archeologico «Anton Celeste Simonini» fino al 10.06.19

Gli antichi romani raccontati dalla scienza Museo delle Civiltà-Museo preistorico etnografico «Luigi Pigorini» fino al 30.06.19

COMACCHIO Troia

La fine della città, la nascita del mito Palazzo Bellini fino al 27.10.19

Migranti da sempre

Movimenti, contatti e scambi nella preistoria Museo delle Origini, Sapienza Università di Roma fino al 30.07.19

CORTONA 1738 Marcello Venuti alla scoperta di Ercolano

Politica e cultura fra Cortona e Napoli MAEC-Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 02.06.19

Roma Universalis

L’impero e la dinastia venuta dall’Africa Colosseo-Foro Romano-Palatino fino al 25.08.19

FINALE LIGURE BORGO (SAVONA) Clarence Bicknell e la Preistoria nel Finale: una riscoperta

Volti di Roma alla Centrale Montemartini

Fotografie di Luigi Spina Musei Capitolini, Centrale Montemartini fino al 22.09.19

Antico Siam

Lo Splendore dei Regni Thai Museo delle Civiltà fino al 30.09.19

Mortali Immortali

Tesori del Sichuan nell’antica Cina Mercati di Traiano Museo dei Fori Imperiali fino al 18.10.19

Claudio Imperatore

Messalina, Agrippina e le ombre di una dinastia Museo dell’Ara Pacis fino al 27.10.19

Museo Archeologico del Finale fino al 03.11.19 Tho song taeng, contenitore per cosmetici, dalla Thailandia.

MILANO Il viaggio della Chimera

Gli Etruschi a Milano tra archeologia e collezionismo Civico Museo Archeologico fino all’08.09.20 (prorogata)

MODENA Storie d’Egitto

La riscoperta della raccolta egiziana del Museo Civico di Modena Museo Civico Archeologico Etnologico fino al 07.06.20

L’Arte ritrovata

L’Arma dei Carabinieri per il recupero e la salvaguardia del patrimonio culturale italiano Musei Capitolini fino al 26.01.20

BOLOGNA Ex Africa

Storie e identità di un’arte universale Museo Civico Archeologico fino all’08.09.19

CAGLIARI Le Civiltà e il Mediterraneo

Museo Archeologico e Palazzo di Città fino al 16.06.19 32 a r c h e o

MONTERIGGIONI, SIENA Monteriggioni prima del Castello Una comunità etrusca in Valdelsa Abbadia Isola, Sala Sigerico fino al 25.08.19


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

NAPOLI Canova e l’Antico

Museo Archeologico Nazionale fino al 30.06.19

Sacra Neapolis

Culti, miti, leggende Lapis Museum, Basilica della Pietrasanta fino al 15.12.19

Città del Vaticano MUSEI VATICANI Collezioni in dialogo Museo Gregoriano Egizio fino al 30.06.19

Francia

ORVIETO Mario Schifano: visioni etrusche

PARIGI Regni dimenticati

Museo Etrusco «Claudio Faina» fino al 31.08.19

Dall’impero ittita agli Aramei Museo del Louvre fino al 12.08.19

SIRACUSA Archimede a Siracusa

LENS Omero

Experience exhibition Galleria Civica Montevergini fino al 31.12.19

TARANTO TesORI clandestini

Dal saccheggio alla valorizzazione» Chiostro del convento di San Domenico fino al 28.06.19

MitoMania

Storie ritrovate di uomini ed eroi Museo Archeologico Nazionale di Taranto fino al 10.11.19

TORINO Goccia a goccia dal cielo cade la vita

Acqua, Islam e arte MAO, Museo d’Arte Orientale fino al 01.09.19

Archeologia Invisibile Museo Egizio fino al 06.01.20

VETULONIA, CASTIGLIONE DELLA PESCAIA (GR) Alalía

La battaglia che ha cambiato la storia. Greci, Etruschi e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C. Museo Civico Archeologico Isidoro Falchi fino al 03.11.19

Belgio BRUGES Mummie

Segreti dell’antico Egitto Xpo Center Bruges fino all’01.09.19

Museo del Louvre fino al 22.07.19

VALLON-PONT-D’ARC Di leoni e di uomini Leggende feline: 400 secoli di fascino Grotte Chauvet 2 fino al 22.09.19

Germania BERLINO Figure possenti

Ritratti dalla Grecia antica Altrs Museum fino al 02.02.20 (dal 19.06.19)

Grecia ATENE Gli infiniti aspetti della bellezza

Museo Nazionale Archeologico fino al 31.12.19

USA NEW YORK Il mondo fra gli imperi

Arte e identità nel Vicino Oriente antico The Metropolitan Museum of Art fino al 23.06.19 Stele in calcare della dea di Haiyan, da Petra. I-II sec. d.C. a r c h e o 33


SCAVI • ERCOLANO

UN PARCO «COME NESSUN ALTRO AL MONDO» IL SITO DI ERCOLANO, COLPITO DALL’ERUZIONE DEL 79 D.C., RAPPRESENTA UN ECCEZIONALE «FERMO IMMAGINE» SULLA VITA QUOTIDIANA DELLA CITTÀ VESUVIANA. RECENTISSIME INDAGINI, SVOLTE DA UN TEAM INTERDISCIPLINARE E SOSTENUTE DAL GENEROSO IMPEGNO DI UNA IMPORTANTE ISTITUZIONE FILANTROPICA, HANNO RIVELATO UNA SERIE DI ASPETTI FONDAMENTALI DELL’ORGANIZZAZIONE CITTADINA… di Francesco Sirano, Domenico Camardo e Mario Notomista

L

a città romana di Ercolano, situata sul litorale campano, fu distrutta dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. insieme a Pompei, Stabiae e ad altri centri minori. Le condizioni particolari del seppellimento, dovuto a diverse ondate di flussi piroclastici alternati a nubi ardenti, crearono uno strato di 20 m circa di fango vulcanico che riempí e inglobò totalmente le strutture dell’antica città, consegnandoci uno straordinario esempio di piccolo 34 a r c h e o

In questa pagina: ricostruzioni grafiche della latrina della Casa della Gemma; nella figura di destra si noti, sulla parete sinistra, il graffito che attesta l’uso della latrina da parte di

Apollinare, medico dell’imperatore Tito. Qui sopra, è riportata la restituzione grafica del graffito stesso, che recita: «Apollinaris medicus Titi imp(eratoris) hic cacavit bene».


abitato romano con le sue infrastrutture ben conservate o quasi completamente ricostruibili. Abitata da circa 4000 persone, la cittadina vesuviana, sorge su una terrazza creata dalle eruzioni preistoriche del Vesuvio che termina a Sud sull’Antica Spiaggia, con un salto di quota di 15 m circa. Come descritto dalle fonti antiche, l’impianto urbano era delimitato a est e a ovest da due fiumi e gli scavi hanno permesso di ricostruire un tessuto urbano regolare che si articolava su 3 decumani e almeno 5 cardini.

DAI POZZI ALL’ACQUEDOTTO Fin dalla sua fondazione l’approvvigionamento idrico della città era garantito da cisterne e da pozzi. Nelle cisterne situate nelle abitazio-

UNA TESTIMONIANZA UNICA Il Parco Archeologico di Ercolano, come ente indipendente dotato di autonomia scientifica e finanziaria, è stato istituito nel 2016, distaccandolo da quello di Pompei, nell’ambito della riforma del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Dal 1997, le aree archeologiche di Pompei, Ercolano e Torre Annunziata risultano iscritte, come Sito Unico, alla Lista del Patrimonio Mondiale UNESCO, «costituendo una testimonianza completa e vivente della società e della vita quotidiana in un preciso periodo storico e non trovando equivalente in nessuna parte del mondo». A sinistra: ricostruzione virtuale del sistema di sollevamento dell’acqua dal grande pozzo che alimentava le Terme Centrali, eseguita sulla base dei rinvenimenti archeologici realizzati da Amedeo Maiuri.

ni erano convogliate le acque piovane provenienti dai tetti e quelle raccolte nelle vasche presenti negli atri. E il primo dato che balza agli occhi è che a Ercolano le cisterne sono meno diffuse rispetto a Pompei. Ercolano era infatti dotata di una fitta rete di pozzi che attingevano direttamente dalla falda, posta a 8-10 m circa dal piano di calpestio. La realizzazione dei pozzi era facilitata da un sottosuolo formato, per i primi 8-10 m, da cineriti (rocce formate prevalentemente da ceneri

vulcaniche, n.d.r.) riferibili all’eruzione vesuviana delle «Pomici di Avellino» (databile a 3760 anni fa circa). Queste poggiano sui tufi appartenenti a un’eruzione ancora piú antica, detta di «Ottaviano» o «Mercato» (databile a 8000 anni fa circa). Le acque di falda passavano proprio tra questi due livelli la cui quota era facilmente raggiungibile con lo scavo dei pozzi. Inoltre non era nemmeno necessario rivestire queste cavità, proprio perché i materiali, che erano facili da tagliare, si pre-

Il Parco Archeologico di Ercolano ha strutturato la propria pianta organica a partire dal 2017, per potenziare le risorse umane già operanti sul sito. Nell’aprile 2017, chi scrive è stato nominato direttore dell’istituto. Lo staff è andato costituendosi nel corso del 2018 con funzionari tecnici e personale amministrativo, perlopiú ministeriale, ma anche assunto per la segreteria tecnica o nell’ambito della convenzione ALES. Infine, il Parco si avvale della preziosa collaborazione dell’Herculaneum Conservation Project, che si dedica al sito di Ercolano fin dal 2001. (F. S.)

sentavano notevolmente compatti, tanto da non presentare pericoli di crollo. Nel caso di attingimento dai pozzi era necessario sollevare l’acqua da una maggiore profondità rispetto alle cisterne, ed è facile trovare traccia di meccanismi che aiutavano il sollevamento.

CORDE E SECCHI Lo straordinario stato di conservazione dei legni a Ercolano ha permesso di recuperare due verricelli carbonizzati con ancora presenti le corde. Uno era posizionato presso il pozzo nel cortile della Casa a graticcio e aveva una corda lunga 9 m circa, mentre un altro argano, straordinariamente conservato, è stato trovato sopra il pozzo della Bottega n. 13 dell’insula IV. Piú semplice era il sistema utilizzato nella Casa dell’Erma di bronzo e nella Casa del Bel cortile, dove un trave a sezione circolare era utilizzato per far scorrere la corda a cui era legato il secchio che serviva per attingere. Piú complesso era il sistema di sollevamento dell’acqua dal grande pozzo che alimentava le vasche a r c h e o 35


SCAVI • XXXX XXXXXX

In alto: l’allestimento della Bottega n. 13 dell’Insula IV di Ercolano realizzato da Amedeo Maiuri subito dopo lo scavo. In alto è ben visibile l’argano di legno rinvenuto al di sopra della bocca del pozzo e utilizzato per attingere l’acqua.

A destra: i resti dell’argano installato sul pozzo della Casa a graticcio di Ercolano cosí come si presentava dopo il recupero; in basso, la restituzione grafica dello stato di conservazione al momento dello scavo e la sua ricostruzione ipotetica.

delle Terme Centrali. Qui fu installata una macchina costituita da una grande ruota in legno (noria), azionata da uno schiavo che camminava al suo interno e collegata a una catena di secchi che permetteva di

recuperare l’acqua dal fondo del pozzo e portarla in superficie dove, tramite un sistema di tubazioni, veniva condotta ai serbatoi e successivamente alle vasche delle terme. Di questa struttura si sono

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gi sgorgano sorgenti minerali che hanno la caratteristica di contenere un alto livello di fluoro. A tal proposito vale la pena ricordare proprio l’elevata presenza di fluoro che gli antropologi hanno riscontrato in quasi tutti i denti degli scheletri dei fuggiaschi ercolanesi ritrovati nell’area dell’Antica Spiaggia, che risulta essere dieci volte maggiore del normale. Appare quindi probabile che gli antichi Ercolanesi bevessero soprattutto acqua proveniente dalla falda locale e non quella dell’acquedotto del Serino o quella piovana raccolta nelle cisterne; queste ultime, infatti, risultano entrambe povere di fluoro. Un’ulteriore prova sarebbe la sensibile contaminazione di piombo che sembra essere comune agli abitanti della città, probabilmente dovuta sia all’uso di recipienti fabbricati con questo materiale o ai residui di metallo rilasciati dalle condutture dell’acquedotto. Purtroppo a Ercolano gli scavi non hanno ancora permesso di individuare e riportare alla luce il castellum aquae, il principale serbatoio dell’acquedotto che, similmente a In alto: veduta panoramica degli scavi di Ercolano. In primo piano, la città antica e, sullo sfondo, quella moderna, con il Vesuvio alle spalle.

A destra: sezione ricostruttiva di un pozzo scavato nell’antica Ercolano per attingere l’acqua di falda, che si trovava a 8-10 m circa di profondità.

dizionalmente identificato con quello augusteo del Serino, che alimentava diverse città della Campania prima di giungere ai grandi serbatoi di Miseno che rifornivano le navi della flotta militare. Questa ipotesi appare tuttavia smentita da alcuni dati. Nelle tubazioni conservate nell’antica Ercolano sono assenti i depositi calcarei che caratterizzano in altri siti le condutture in cui scorreva l’acqua del Serino.Tale circostanza suggerisce l’ipotesi che POVERA DI CALCARE, Ercolano fosse servita da un acqueMA RICCA DI FLUORO Numerosi pozzi rimasero in uso dotto alimentato da una sorgente anche quando la città fu collegata locale, povera di calcare, situata alle all’acquedotto pubblico che è tra- pendici del Vesuvio, dove ancor’ogconservati alcuni importanti elementi, come due cuscinetti in bronzo e parte dell’albero di rotazione, nonché alcuni elementi delle tubazioni e il locale in cui erano posti i serbatoi. Per garantire la fornitura di acqua calda alle vasche delle terme alcuni di questi grossi recipienti erano collocati al di sopra di camere di combustione nelle quali veniva acceso il fuoco.

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SCAVI • ERCOLANO

LA PUNIZIONE NON È UGUALE PER TUTTI La forte sensibilità degli Ercolanesi per il mantenimento dell’igiene in prossimità dei luoghi di approvvigionamento e conservazione delle acque pubbliche si ritrova in un decreto dipinto su un pannello realizzato sul pilastro elevatore dell’acquedotto situato all’incrocio tra il IV Cardine e il Decumano Massimo. Emanato dall’edile M. Alficius Paulus, il magistrato preposto alla manutenzione delle strade e degli edifici pubblici, l’editto ammonisce chi scarica immondizie alla base

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del pilastro perché sappia che ciò non è permesso. Se il misfatto sarà denunciato, il colpevole dovrà pagare una multa pari a una moneta d’argento se nato libero, ma se è servo sarà punito con la fustigazione. Oltre a essere una prova tangibile del livello di igiene pubblica raggiunto dalla società ercolanese nel I secolo d.C., questo testo rivela la sensibile differenza di trattamento riservata agli uomini liberi rispetto agli schiavi anche nel momento in cui si puniva un’infrazione. (F. S.)

Pompei, doveva trovarsi nel punto piú elevato della città e fungere da partitore delle acque in arrivo che erano poi distribuite negli edifici pubblici, nelle fontane e nelle case della città. Di questo sistema di distribuzione sono stati riscoperti solo alcuni elementi, come i due massicci pilastri elevatori realizzati in laterizio e ancora visibili uno all’incrocio tra il IV Cardine e il Decumano Maggiore e l’altro addossato all’angolo sud-orientale della Casa

Sannitica, all’incrocio tra il Decumano Inferiore e il IV Cardine. Da questi pilastri discendevano le condutture in piombo che permettevano la distribuzione dell’acqua in città. Traccia dei tubi è ancora visibile su entrambi i pilastri e un tratto di tubazione è ancora conservato sul lato Nord del pilastro posto alla fine del IV Cardine. Al sistema di distribuzione delle acque in città appartengono alcune tubazioni in piombo che si indivi-

A sinistra, in alto: le tre linee di tubazioni in piombo che discendendo dal pilastro elevatore dell’acquedotto distribuivano l’acqua alle case e alle botteghe presenti lungo il IV Cardine. A sinistra, in basso e qui sotto: due immagini del pilastro elevatore

dell’acquedotto pubblico sul quale è «affisso» il decreto con cui si avvisava la popolazione di non gettare immondizia per la strada, pena il pagamento di un’ammenda, se uomini liberi, o la fustigazione pubblica, in caso di schiavi.


In alto: gli incassi con i resti di tubazioni di piombo che dal pilastro elevatore portavano l’acqua corrente agli edifici lungo il IV Cardine. A sinistra: la fontana di Venere sul Decumano Massimo. In secondo piano, a destra, i resti del pilastro elevatore in laterizio su cui era posto un serbatoio di piombo collegato all’acquedotto pubblico.

Spesso, grazie all’alimentazione fornita dall’acquedotto, le vasche dell’impluvio divennero fontane ornamentali duano lungo il marciapiede Est del IV Cardine, tra i civici nn. 8 e 9 dell’Insula V. Questi tubi vengono dal pilastro elevatore posto alla fine del IV Cardine, sono organizzati in tre linee autonome e portano l’acqua agli edifici e alle botteghe posizionate lungo la strada. L’alimentazione costante garantita dall’acquedotto permise di trasformare in diverse case la vasca dell’impluvio in una fontana ornamentale e consentí la creazione all’interno dei giardini di veri e propri ninfei con giochi d’acqua. Anche le tre fontane pubbliche finora scoperte in città ricevevano l’alimentazione

dall’acquedotto tramite condutture di piombo. Tutte le fontane sono realizzate in pietra calcarea, con una vasca di forma rettangolare e presentano un mascherone figurato da cui usciva il getto d’acqua. (F. S.)

LO SMALTIMENTO Come molte città romane, anche Ercolano disponeva di un organico sistema di smaltimento delle acque, suddiviso in pubblico e privato, che è stato oggetto di studi condotti nell’ambito dell’Herculaneum Conservation Project (vedi box a p. 40). L’indagine sulle fogne e le latrine della città ha permesso di stabilire

che, nella fase piú antica di vita, lo smaltimento degli scarichi delle latrine era affidato ai pozzi neri. A causa del sottosuolo vulcanico della città, caratterizzato da una notevole compattezza, la frazione liquida (acqua e urina) si disperdeva parzialmente nel terreno, mentre la frazione solida o semisolida (feci) si sedimentava all’interno del pozzo, che doveva essere periodicamente svuotato. Una prassi confermata da un importante graffito rinvenuto su una delle colonne del peristilio della Casa del Salone nero, che reca l’iscrizione «EXEMTA STE(R) CORA A(SSIBUS) XI» («Il pozzo a r c h e o 39


SCAVI • ERCOLANO

nero è stato svuotato con un costo di XI assi»). Il materiale recuperato veniva riutilizzato nei campi come fertilizzante e trasportato su appositi carri che avevano il permesso di circolare di notte e anche durante le prime ore del giorno. Le periodiche operazioni di svuotamento imposero la creazione di sistemi di chiusura dei pozzi tali da permetterne la facile apertura. Quello piú economico era costituito da grandi blocchi di tufo che venivano semplicemente poggiati sull’imboccatura. Piú complesso era il sistema che prevedeva di porre sulla bocca del pozzo un tavolato di legno che veniva poi coperto da una gettata di cementizio. Esistono anche casi, come quello della Casa IV, 18, in cui sul pozzo fu posta orizzontalmente un’anfora intera, sulla quale furono poi poggiate tavole di legno e gettato uno strato di malta, rivestito con tegole, che divenne il pavimento della latrina.

FOGNATURE PUBBLICHE Nella prima età imperiale, il sistema di smaltimento dei rifiuti organici fu rivoluzionato dalla costruzione delle fognature pubbliche, secondo uno schema composto da canali sotterranei di 60 cm circa di larghezza e 1,00 m di altezza, che corrono sotto le strade o i marciapiedi e che scaricavano direttamente sull’Antica Spiaggia. Un buon esempio in tal senso è la fogna che corre sotto la pavimentazione stradale del III Cardine. Si tratta di un condotto largo 60 cm

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L’HERCULANEUM CONSERVATION PROJECT L’Herculaneum Conservation Project (HCP) nasce nel 2001 grazie al sodalizio tra il Packard Humanities Institute e l’allora Soprintendenza Archeologica di Pompei, ai quali si aggiunge, negli anni successivi, la British School at Rome. L’HCP esprimeva la risposta del magnate e filantropo statunitense David Packard al grave degrado del sito archeologico. Un degrado che aveva portato alla chiusura di due terzi della città antica, molte delle cui strutture erano state puntellate e diffusi erano i rischi di crolli. Il sostegno del Packard Humanities Institute non si è concretizzato in una semplice elargizione di fondi, ma ha messo a disposizione progetti e realizzato interventi all’altezza di un patrimonio culturale complesso ed esteso; l’HCP è stato anche indirizzato, fin dagli esordi, a individuare soluzioni gestionali di lungo periodo. Tale approccio è passato attraverso la creazione di un team interdisciplinare di specialisti, in grado di affiancare il personale della Soprintendenza e del quale La necessità di svuotare periodicamente i pozzi neri impose il ricorso a semplici sistemi di chiusura. Questo schema mostra quelli documentati dagli scavi: a. chiusura

facessero parte archeologi, architetti, restauratori, ingegneri, manager, quasi sempre italiani, disposti a garantire una presenza costante e un impegno durevole. Grazie a questa formula, in quasi due decadi, sono state concepite e realizzate numerose campagne di messa in sicurezza, manutenzione «straordinaria» e ordinaria su tutto il sito. In questo modo è stato possibile riportare gradualmente le condizioni del sito sotto controllo, restituendolo alla fruizione e creando le condizioni per la sua sostenibilità, e, allo stesso tempo, facendo fiorire attività di ricerca e di studio che hanno arricchito la conoscenza della città antica. Nel 2013 il Packard Humanities Institute ha rafforzato la sua presenza in Europa con la creazione dell’Istituto Packard per i Beni Culturali, che ha sostituito la British School at Rome come braccio operativo della fondazione californiana, rispondendo in modo sempre piú adeguato alle esigenze del sito di Ercolano, divenuto nel 2016 Parco Archeologico autonomo, la cui direzione è stata affidata a Francesco Sirano. (D. C.) con semplici blocchi di tufo; b. chiusura con assi di legno e gettata di cementizio; c. chiusura con anfora, assi di legno, gettata di cementizio e finitura con tegole.


In basso: planimetria del Parco Archeologico di Ercolano, con evidenziati i tratti dell’antica fogna: in blu, le canalette di scolo lungo il Decumano Massimo; in rosso, i canali delle fogne liberate dal fango vulcanico, e, in verde, il tratto ipotizzato sulla base dei dati archeologici e delle indagini eseguite con georadar.

dimensioni maggiori, misurando 1,70 m di larghezza, 20,90 m di lunghezza e 3,20 m di altezza. Non presenta sbocchi sul litorale e pertanto doveva essere periodicamente ripulita dal materiale che vi si accumulava. Fu realizzata per raccogliere gli scarichi delle latrine e delle cucine presenti nelle botteghe e negli appartamenti dell’isolato, che erano ubicate sempre nella stessa posizione e collegate a vere e proprie colonne fecali, realizzate con tubuli di terracotta inseriti nello spessore dei muri portanti. Lo scavo di oltre 30 m del condotto principale, realizzato nel 2006, ha permesso il recupero di una notevole quantità di materiale archeologico: vasellame in terracotta, lucerne e vetri che, una volta rotti, venivano gettati nella fogna attraverso

In alto: il ramo della fogna che corre al di sotto del basolato stradale del III Cardine. Si notino la pavimentazione in tegole e la volta in cementizio.

e alto 1,05 m, pavimentato con tegole e coperto da una volta a botte. Raccoglieva gli scarichi dagli edifici che si aprono sul III Cardine, ma anche delle Terme Centrali e di alcuni edifici del Decumano Inferiore, dove la fogna corre al di sotto dei marciapiedi. (D. C.)

LE NUOVE INDAGINI Accanto alla rete fognaria principale, gli scavi condotti nell’ambito dell’Herculaneum Conservation Project hanno permesso di indagare completamente una grande fossa settica, già individuata e parzialmente scavata da Amedeo Maiuri negli anni Quaranta del Novecento nell’Insula Orientalis II. Costruita in età tiberiano-claudia (tra il 14 e il 54 d. C.), la struttura si compone di due bracci di cui uno (nord-sud) è lungo 85,60 m, largo 0,80 m, con un’altezza compresa tra i 2 e i 3,5 m, mentre l’altro (est-ovest) presenta a r c h e o 41


SCAVI • ERCOLANO Qui accanto e in basso, a destra: materiali recuperati nella fossa settica dell’Insula Orientalis II durante lo scavo condotto nel 2006. A destra: il condotto principale della grande fossa settica dell’Insula Orientalis II, che corre in senso nord-sud.

gli scarichi delle latrine presenti nei tre piani di cui si compone l’isolato. Lo scavo ha inoltre permesso il recupero di oltre 700 sacchi di materiale organico (escrementi), che costituiscono un vero e proprio scrigno di informazioni per la ricostruzione delle abitudini alimentari degli abitanti di un isolato popolare di Ercolano negli anni immediatamente precedenti l’eruzione del 79 d.C. Infatti, gli studi condotti da r icercator i dell’Università di Oxford sul 10% circa del sedimento prelevato nella fogna hanno permesso di indentificare almeno 94 piante, ma

anche una ricca fauna con vari piccoli mammiferi e rettili, 2 uccelli (gallina e oca), 73 pesci e 31 tipi di molluschi. I resti archeobotanici, che risultavano carbonizzati e anche mineralizzati, sia pur in quantità molto limitate, consistono in gran parte in noccioli di olive (94,3%), insieme con altri semi di frutta (fichi, mele, pere, more), semi di erbacce e gusci di frutta secca. Il materiale è carbonizzato, o bruciato, poiché fu probabilmente utilizzato come combustibile: la quantità di frammenti di noccioli di oliva ritrovati (6426 contro 88 noccioli interi), A sinistra: particolare dello scarico di una delle colonne fecali all’interno della fossa settica dell’Insula Orientalis II. Si noti, sulla parete del condotto, la concrezione di residuo organico.

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indica infatti che, insieme al carbone, si usavano a tale scopo i residui della molitura delle olive. Un uso peraltro attestato anche nei panifici di Pompei. Il modo in cui gli antichi Ercolanesi condivano i pasti e l’importanza delle mode culinario-culturali del mondo romano sono rivelate dai nove tipi di erbe e condimenti identificati (pepe nero, aneto, finocchio, coriandolo, sedano, menta, papavero e lino). Il pepe nero, proveniente dall’India, era, all’epoca, il condimento piú costoso, anche se Plinio il Vecchio narra che veniva ormai importato dai Romani in notevoli quantità, condizione che potrebbe aver provocato un abbassamento del prezzo. Accanto a questi sono stati recuperati numerosissimi frammenti di gusci d’uovo, che sembrano avere un importante ruolo nella dieta degli Ercolanesi. Ric-


COME UN CORPO «RIANIMATO» Uno dei maggiori problemi che gli specialisti dell’HCP si sono trovati ad affrontare a Ercolano era quello del ristagno d’acqua. Questa situazione era dovuta alla morfologia dello scavo, che si presenta come una grande fossa, profonda tra i 10 e i 20 m, sul cui fondo si trovano gli edifici della città romana, circondati dalle alte pareti di materiali piroclastici dell’eruzione del 79 d.C., a cui, soprattutto sul lato Nord, si sono sovrapposte le case della città moderna. In occasione delle piogge, si creavano diffusi allagamenti, con l’acqua che ristagnava in piú punti, creando gravi problemi di erosione nei muri in tufo e di distacco degli intonaci dipinti a causa dell’umidità di risalita. Grazie al contributo degli ingegneri idraulici, sono stati recuperati tutti i dati sulle fognature antiche individuate dallo scavo. Al contempo, è stata avviata la mappatura delle canalette, tubazioni e di tutti i percorsi delle acque all’interno delle case. Ne è scaturito il quadro di una città romana estremamente organizzata per quanto riguarda lo smaltimento delle acque, raccolte dalla rete fognaria pubblica che correva sotto le strade o i marciapiedi e a cui, tramite una capillare rete di canali secondari, erano connesse la maggior parte delle case e botteghe. In caso di pioggia, sul basolato stradale scorrevano solo le acque pulite che lavavano le strade ma la rete fognaria sotto le stesse impediva gli allagamenti. Non a caso, a Ercolano mancano del tutto i caratteristici basoli piatti sporgenti dal piano stradale, comuni nelle strade di Pompei, e che servivano ai pedoni per attraversare le stesse in caso di allagamento. Si è quindi deciso di ripulire le rete fognaria pubblica scavando alcuni tratti già svuotati negli anni Trenta e Quaranta del Novecento e che si erano poi di nuovo riempiti di sedimenti per mancanza di

chissimi sono anche i resti di ittiofauna che comprendono le lische di piú di 50 specie di pesce, quasi tutti ancora presenti oggigiorno nel Golfo di Napoli e nel Mar Tirreno, come occhiata, orata, sarago, sardina, acciuga, sogliola, grongo e murena, sgombro, traci-

manutenzione. Sono stati liberati dai materiali vulcanici che li avevano occlusi anche lunghi tratti, come quello della fossa settica dell’Insula Orientalis II. Nel complesso, i condotti fognari sono stati trovati in buono stato di conservazione e sono stati sufficienti limitati interventi di sistemazione del fondo o puntuali restauri delle pareti per renderli di nuovo operativi. In pratica, è stato come riattivare il sistema arterioso di un corpo, rimettendo in funzione la rete principale, alla quale, man mano che si è proceduto con il restauro delle domus e delle botteghe, sono stati collegati gli elementi della rete secondaria, liberando dove possibile le canalette antiche oppure realizzando bypass. L’operazione ha dato prova di quanto sia importante, in fase di progettazione, la stretta collaborazione tra gli architetti che pianificano la sostituzione o il restauro dei solai e delle coperture, gli archeologi e gli ingegneri idraulici, in modo che il problema dello smaltimento delle acque di ogni ambiente e di ogni edificio venga preliminarmente studiato e risolto contestualmente ai lavori di restauro. Cosí facendo, le acque tornano a fluire nei percorsi originari prima di giungere, come già accadeva in epoca romana, nell’area dell’Antica Spiaggia, da dove un sistema di pompe la solleva e la porta sull’attuale litorale di Ercolano sfruttando una straordinaria galleria moderna, alta 2,50 m, larga 1,30 e lunga ben 450. Quest’ultima fu interamente scavata a mano durante i lavori diretti da Amedeo Maiuri proprio per allontanare le acque meteoriche e sorgive dal sito scaricandole direttamente in mare. (D. C.)

ne, gallinelle, aguglia, castagnola, scorfano, cefalo, razza, palombo. È molto probabile che la maggior parte dei pesci rinvenuti nella fogna siano stati catturati nel mare davanti la città antica. Né potevano mancare le ossa di topo, assiduo frequentatore delle fogne. (M. N.)

A sinistra: la videoispezione preliminare alla discesa nella fossa settica dell’Insula Orientalis II.

A CIASCUNO LA SUA LATRINA La creazione in città della rete di fognature pubbliche por tò a u n ’ i n n ova z i o n e s o s t a n z i a l e nell’ambito dello smaltimento del materiale organico e dei rifiuti. Molte latrine private vennero cola r c h e o 43


SCAVI • ERCOLANO

Qui sopra: lo stato di conservazione della latrina pubblica posta accanto all’ingresso del settore maschile delle Terme Centrali di Ercolano.

legate direttamente a questi canali di scarico, eliminando, di fatto, il problema dello svuotamento periodico dei pozzi neri. Nella parte finora portata in luce dell’antica Ercolano si sono potute indentificare ben 88 latrine, a riprova della loro diffusione capillare. Nel dettaglio, su 41 domus, ben 28 sono dotate di una o piú latrine, per un totale di 39. Di queste, 14 appaiono posizionate presso la cucina, con la quale condividevano il sistema di scarico, una sola vicino all’ingresso e 24 nella parte interna della casa, sempre presso i quartieri servili o gli ambienti di servizio. Inoltre, escludendo le domus solo parzialmente scavate, le uniche pr ive di latr ine sono la Casa dell’Apollo citaredo, la Casa del Mobilio carbonizzato, la Casa del 44 a r c h e o

Sacello di legno e la Casa dell’Erma di bronzo, che verosimilmente disponevano di apprestamenti diversi, di tipo mobile. Occorre infatti ricordare che l’uso delle latrine all’interno delle case sembra fosse riservato prevalentemente agli schiavi, visto che i piccoli ambienti in cui erano alloggiate sono quasi sempre situati nei quartieri di servizio. I padroni, infatti, potevano usufruire di un comodo sedile forato (sella pertusa) in cui un servo metteva un recipiente per la raccolta degli escrementi.

A DISPOSIZIONE DEGLI AVVENTORI Di latrine erano provviste anche numerose botteghe. Su 68 edifici produttivi e commerciali presenti a Ercolano, 27 appaiono dotati di almeno una latrina, spesso posizionata presso l’ingresso, in modo che potessero piú facilmente beneficiarne non soltanto i lavoranti della bottega, ma anche gli avventori. In particolare la presenza di una latrina in prossimità dell’ingresso sembra tipica delle tabernae, dei thermopolia e delle caupone, quindi dei locali in cui il pubblico si fermava per bere e mangiare. Anche nelle lavanderie e nei panifici, dove operavano diversi lavoranti, è attestata costantemente la presenza di una latrina. Considerando infine gli edifici pubblici, si deve sottolineare che da questo punto di vista Ercolano non

offre un campione esaustivo. Infatti non è stata ancora scavata l’area del Foro della città e diversi edifici pubblici sono stati solo parzialmente riportati alla luce. Nel complesso conosciamo 11 edifici pubblici, nei quali sono state individuate 9 latrine: 4 nelle Terme Centrali e una ciascuna per le Terme Suburbane, la Sede degli Augustali, l’Area Sacra e nel cosiddetto Collegium (Ins. Or. II, 7). In città la capillare diffusione delle


Una rete fitta e capillare

In alto: ricostruzione grafica della latrina pubblica posta accanto all’ingresso del settore maschile delle Terme Centrali. A sinistra: foto d’epoca della cucina della Casa dei Due atri, subito dopo lo scavo. A sinistra si nota il box della latrina costruita al lato del bancone. In basso: ricostruzione grafica della cucina e della latrina della Casa dei Due atri.

Qui accanto: planimetria del Parco Archeologico di Ercolano con evidenziati i condotti fognari e i punti in cui sono state individuate le latrine. Si noti la distribuzione capillare all’interno della città.

latrine ai piani terra, ma anche ai primi piani degli edifici (24 al primo piano e 3 al secondo piano), si può ricostruire anche grazie all’articolata rete di condutture in terracotta degli scarichi che rivelano un livello di attenzione per le problematiche igieniche che sarà eguagliato solo nel XX secolo. La realizzazione di ampi rami fognari capaci di ricevere una notevole quantità di scarichi favorí certamente anche la costruzione a r c h e o 45


SCAVI • ERCOLANO

di latrine pubbliche (foricae). Attualmente, l’unica del genere individuata a Ercolano si trova vicino all’ingresso al settore maschile delle Terme Centrali. Si compone di un grande ambiente rettangolare, diviso in due zone ben distinte: una con funzione di vestibolo d’ingresso e l’altra destinata ad accogliere la latr ina vera e propria. I sedili in legno erano disposti lungo le pareti Nord ed Est, in asse con il canale di scolo, incassato all’inter no del pavimento in mattoncini disposti a spina di pesce. Una piccola canaletta, scavata in grossi blocchi di pietra vesuviana, conteneva l’acqua usata per il lavaggio della spugna che svolgeva la funzione dell’attuale carta igienica. Molto interessante è il sistema di alimentazione dell’acqua per la pulizia della latrina, garantita dal potente flusso che fuoriusciva da un tubo in piombo collegato al troppo pieno della vasca del frigidarium delle terme. Questo getto permetteva di convogliare gli escrementi direttamente nella fogna costruita al di sotto del III Cardine. (D. C.) In basso: assonometria ricostruttiva di una parte dell’Insula Orientalis II secondo l’ipotesi di Amedeo Maiuri. La freccia indica la porta d’ingresso della latrina del secondo piano, a cui si accedeva tramite il balcone e che serviva piú appartamenti.

In alto: assonometria ricostruttiva dell’angusta latrina della Casa dell’Alcova, ricavata al di sotto del corridoio di servizio del primo piano.

LATRINE DOMESTICHE Il tipo di struttura e di scarico delle latrine varia a seconda della posizione in cui si trovano all’interno dell’edificio. Per quanto riguarda i piani terra, il tipo piú diffuso è quello del piccolo box caratterizzato da un piano pavimentale rivestito con tegole, inclinato verso il condotto di scarico. Per ripulire le latrine si lanciava una secchiata d’acqua sul pavimento, la cui pendenza faceva sí


che il materiale organico scivolasse nel condotto di scarico e da qui all’interno della fogna. Un buon esempio in tal senso è la bella cucina della Casa dei due Atri, il cui bagno era posizionato accanto al lungo bancone in pietra della cucina, al di sotto di una finestra dotata di grata in ferro che permetteva di aerare il locale. Il ricorrente affiancamento del box della latrina al bancone della cucina – che ritroviamo in molte case di Ercolano – non deve sorprendere, poiché derivava dal fatto che lo scarico del gabinetto era utilizzato anche per buttare gli avanzi dei pasti e, piú in generale, l’immondizia prodotta nell’edificio. Né deve stupire la mescolanza di odori e miasmi che si creava all’interno di queste stanze, poiché, come già si è avuto modo di accennare, questi luoghi erano frequentati soprattutto dalla servitú. Proprio questa caratteristica fece sí che le latrine fossero spesso ricavate in spazi angusti e residuali. Ne è un esempio la latrina costruita nell’angolo Nord-Ovest della cucina della Casa dell’Alcova, che era stata incastrata in uno spazio ristretto, ricavato sotto il corridoio di servizio del primo piano. Chi la usava era costretto a piegarsi per poter raggiungere la tavoletta forata della seduta. L’eccezionale stato di conservazione di Ercolano offre anche la possi-

Qui sotto: ricostruzione grafica della latrina individuata al secondo piano del civico 7 dell’Insula Orientalis II. La freccia indica la tavoletta di legno che riduceva l’imbocco del condotto di scarico e limitava la risalita dei cattivi odori.

bilità di analizzare le latrine poste ai piani superiori degli edifici, delle quali difficilmente resta traccia negli altri siti archeologici. Esse restituiscono un’immagine nitida dei rapporti che dovevano intercorrere tra i diversi proprietari delle abitazioni. Alcune di queste latrine erano infatti accessibili soltanto da spazi comuni, come balconi e pianerottoli, ed erano quindi al servizio di diversi appartamenti. L’esempio migliore in tal senso è quella individuata al secondo piano del civico 7 dell’Insula Orientalis II, che è una delle latrine poste a maggior altezza fra quelle a oggi note. Si tratta di una struttura che veniva regolarmente ripulita con secchiate d’acqua e che doveva essere assai frequentata, come dimostrano le tracce di consunzione delle tegole del pavimento, che presenta una pendenza verso la latrina. L’ambiente misura 2,75 x 1,54 m, e, nella parete Est, si conservano gli incassi di una seduta lignea

A destra: un’immagine della latrina individuata al secondo piano del civico 7 dell’Insula Orientalis II con il piano in tegole inclinato verso la seduta che era posta sulla destra della foto. A sinistra: il prelievo dei campioni dal condotto di scarico della latrina individuata al secondo piano del civico 7 dell’Insula Orientalis II. a r c h e o 47


SCAVI • ERCOLANO A sinistra: la latrina a nicchia costruita all’interno della veranda sporgente della Casa di Messenio Eunomo. In basso: sezione ricostruttiva del sistema di scarico della medesima latrina.

e di un appoggio per i piedi, posizionato a 15 cm di altezza dal pavimento, in modo da creare lo spazio libero per far passare l’acqua utilizzata per la pulizia. Interessante è la presenza, proprio all’ingresso del condotto di scarico, di un incasso obliquo per l’inserimento di una tavoletta di legno che riduceva le dimensioni dell’imbocco del condotto e probabilmente serviva per limitare la risalita delle esalazioni maleodoranti dal canale. All’interno del condotto di scolo, che è di forma quadrata (0,37 x 0,25 m), si conservano ancora tracce consistenti di residui di feci. Ne sono stati analizzati alcuni campioni e gli esami, chimici e microscopici, hanno permesso di individuare numerose fibre vegetali, interpretabili come resti di pasto, e han48 a r c h e o

Nella pagina accanto, in alto: veduta panoramica dell’angolo Nord-Ovest della sede degli Augustali con, indicata dalla freccia, la latrina a nicchia posta al primo piano, di cui si conserva ancora la seduta in legno carbonizzato.

no inoltre rilevato un’alta presenza di leucociti, indicativi di un’infezione batterica in corso nella persona che le ha prodotte. Altro caso interessante è quello della latrina costruita al primo piano della Casa di Messenio Eunomo (Insula VII,17,18), costruita all’interno della veranda sporgente sul Decumano Inferiore. Era del tipo piú attestato ai primi piani ed era costituita da una nicchia ricavata nel muro in cui erano posizionati i due muretti che servivano a reggere la tavoletta della seduta con foro cir-


da parte di un importante person a g g i o : A p o l l i n a re, m e d i c o dell’imperatore Tito, salito al potere soltanto pochi mesi pr ima dell’eruzione del 79 d.C. In tutti i casi citati, gli ambienti delle latrine presentano tracce di una decorazione parietale molto semplice, composta da una parte bassa in cocciopesto idraulico e una parte alta a fondo bianco. Spesso sulle pareti delle latrine si conservano graffiti osceni o di tema amoroso che testimoniano un’abitudine antica ma ancora oggi frequente, soprattutto nei bagni pubblici. Per quanto riguarda la privacy appare probabile l’uso di porte o tendaggi, anche se la diffusione di latrine a due o piú posti rivela la consuetudine a un uso contemporaneo della latrina da parte di piú diverse e su piani abitativi differen- persone, con le lunghe tuniche che ti, ma sfruttavano lo stesso canale di bastavano da sole a garantire un scarico che portava i liquami diret- minimo di riservatezza. (M. N.) tamente nella fogna pubblica. Merita di essere ricordata anche PER SAPERNE DI PIÚ un’altra latrina a nicchia di Ercolano, scoperta al primo piano del Sa- Domenico Camardo, Ercolano: la cello degli Augustali. È particolar- gestione delle acque in una città mente importante perché è l’unica romana, in Oebalus, 2-2007: che conservi i resti carbonizzati del- pp. 167-187 la tavoletta di legno con foro circo- Domenico Camardo-Mario lare per la seduta, posta in asse con Notomista, Le latrine di il condotto di scarico. Herculaneum. Studio dei sistemi

In alto: ricostruzione grafica del sistema di scarico delle latrine individuate nelle botteghe 8-9 e del lanarius.

colare. Lo scarico formato da tubuli di terracotta era incassato nel muro perimetrale della bottega e confluiva nella fogna che corre al di sotto del Decumano Inferiore. Un altro caso eccezionale è costituito dalle tre latrine individuate nella cosiddetta Bottega del lanarius (III, 10) e nella Bottega III, 9. Queste erano poste in proprietà

BASTA UN LUNGO MANTELLO... Nel mondo romano era pratica comune fare i propri bisogni in compagnia. Lo dimostrano non solo le latrine pubbliche, dove potevano trovare posto piú persone, ma anche alcune latrine private a piú posti. A Ercolano l’esempio meglio conservato è quello della Casa della Gemma, dove, nei pressi della cucina, fu costruita una latrina a due posti, al cui interno si rinvenne uno dei documenti epigrafici piú singolari dell’antica città. Si tratta del graffito «Apollinaris medicus Titi imp(eratoris) hic cacavit bene», che attesta l’uso della latrina

igienici di una città romana, in Vesuviana, 7-2015; pp. 55-190 Barry Hobson, Latrinae et foricae: toilets in the Roman world, Duckworth, Londra 2009 Barry Hobson, Pompeii Latrines and Down-Pipes, BAR International Series, Oxford 2009 Gemma C.M. Jansen, Water in de Romeinse Stad Pompeji-Herculaneum-Ostia, Peeters, Maastricht 2002 Amedeo Maiuri, Ercolano. I nuovi scavi (1927-1958), Istituto poligrafico dello Stato, Libreria della Stato, Roma 1958 N. de Haan- Gemma C.M. Jansen (a cura di), Cura Aquarum in Campania, Peeters, Leiden 1996

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MOSTRE • CAGLIARI

NAVIGARE SUL MARE DELLA STORIA SUL MEDITERRANEO SI SONO AFFACCIATE E SI SONO CONFRONTATE LE PIÚ IMPORTANTI CULTURE E CIVILTÀ DEL MONDO ANTICO. LE CUI VICENDE PLURISECOLARI VENGONO ORA RIEVOCATE A CAGLIARI, GRAZIE A UNA MOSTRA NELLA QUALE SONO RIUNITE TUTTE LE PIÚ SIGNIFICATIVE ESPRESSIONI DELL’ARTE E DELL’ARTIGIANATO ARTISTICO DI QUESTI NOSTRI ANTENATI

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el corso della preistoria recente e delle successive fasi protostoriche, il Mediterraneo è stato il principale fattore di connessione tra regioni estremamente distanti fra loro. I processi della formazione di culture, che hanno assunto caratteristiche originali e differenti su scala locale, sono stati sovente influenzati dalla fusione di componenti tradizionali locali e influssi allogeni, veicolati mediante forme di interazione dirette e indirette su ampia distanza geografica. Esempio di questo fenomeno è la diffusione dell’economia

produttiva a partire dalle aree nucleari del Medio e Vicino Oriente, che, attraverso ondate migratorie progressive e per via di acculturazione, ha deter minato la repentina compar sa di comunità di agricoltori e allevatori nelle estreme propaggini occidentali del continente europeo. Il retaggio di questa comune matrice è comprovato dalla presenza di caratteristiche produzioni materiali che - pur nella specificità di ciascuna cultura di cui sono espressione - tradiscono tale matrice e una seriazione evolutiva parallela, seppur sovente asincrona e connotata

Tutti gli oggetti riprodotti nell’articolo sono attualmente esposti nella mostra «Le civiltà e il Mediterraneo», in corso a Cagliari. Navicella in bronzo, dalla Sardegna. Prima età del Ferro, Nuragico Tardo (X-VIII sec. a.C.). Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

da velocità differenti. Dalla base strutturalmente egalitaria delle prime società neolitiche, la progressiva frammentazione e segmentazione interna delle comunità stanziate nelle diverse aree del Mediterraneo ha alimentato da un lato l’accentuazione dei fenomeni di regionalizzazione e di differenziazione delle rispettive identità culturali, dall’altro le spinte propulsive all’interazione e al confronto al loro esterno.

NUOVI ASSETTI SOCIALI Nell’età del Rame, crescono il ruolo, il prestigio e l’interesse delle comunità che acquisirono e organizzarono il controllo delle ricercate materie prime, per la nuova tecnologia metallurgica, e si accentuano l’instabilità e la dinamica interna alle popolazioni preistoriche, che si indirizzano verso la formazione di società di rango. In queste, la spinta verso l’ostentazione e l’affermazione dello status si è riflessa nella comparsa di produzioni materiali innovative e nelle forme sempre piú esteriorizzate e monumentalizzate dell’architettura civile, funeraria e sacra. Le grandi civiltà sorte localmente nella successiva età del Bronzo, talora con connotazioni delle produzioni di cultura materiale e simbolica uniche e irripetibili, manifestano comunque forti analogie di processi e di esiti. Su questi temi della straordinaria affinità e della convergenza tipologica e iconografica, invita a riflettere la mostra «Le Civiltà e il Mediterraneo». Pur nell’esplicita enunciazione della distanza spaziale e temporale, che distingue e caratterizza (segue a p. 59) a r c h e o 53


MOSTRE • CAGLIARI

AL CENTRO DEL MEDITERRANEO di Federica Doria, Stefano Giuliani, Elisabetta Grassi e Manuela Puddu

Le collezioni del Museo Archeologico Nazionale di Cagliari si intrecciano alle testimonianze delle culture fiorite intorno al bacino del Mediterraneo. Dalle ceramiche decorate a motivi geometrici della cultura di Ozieri agli utensili in ossidiana del Monte Arci, che fu la piú antica merce sarda oggetto di commerci transmarini, dalle ieratiche figure femminili di dea madre, diffuse in tutta l’isola sin dal Neolitico antico (e forse dal Paleolitico) alle prime armi in metallo, tutto in Sardegna parla di rapporti commerciali e umani su lunghe distanze, favoriti dalla sua posizione geografica e da quel mare che è sempre stato piú amico che ostile. La posizione centrale dell’isola permette lo sviluppo, dalla seconda metà del II millennio a.C. alla prima età del Ferro, di una civiltà con caratteristiche originali ed esclusive da un lato, propensa ai confronti transmarini dall’altro. Le relazioni tra le popolazioni nuragiche e le altre genti che solcano il Mediterraneo sono testimoniate dal materiale miceneo e cipriota rinvenuto in contesti nuragici. È proprio il nuraghe, torre che domina le campagne e svetta sul mare, l’elemento distintivo di una società progredita dal punto di vista sociale, economico e politico, come si evince anche dalla singolarità del rituale funerario e dei luoghi sacri. Pintadere, brocche askoidi, armi e bronzetti popolano questo mondo dai tratti cosí peculiari, senza tralasciare le navicelle, straordinarie proiezioni simboliche della rilevanza della navigazione e di quel mare che da sempre regala alla Sardegna un ruolo di primo piano nelle complesse relazioni mediterranee. Il Museo Nazionale Archeologico ed Etnografico G.A. Sanna di Sassari contribuisce alla mostra con alcuni dei suoi reperti piú significativi. Alle manifestazioni della cultura di Bonu Ighinu (4900-4400 a.C.) appartiene una spatola in osso con lungo manico alla cui sommità è riprodotto schematicamente un volto umano. Le tacche incise nella parte terminale del manico e nell’estremità prossimale della capocchia rimandano alla linearità della coeva produzione ceramica, che si distingue per finezza ed eleganza, con decorazioni a minuto tratteggio e a puntini. Con la successiva cultura di San Ciriaco il processo di neolitizzazione può considerarsi ormai concluso e si affermano società stanziali e articolate, caratterizzate da un’economia basata su agricoltura e allevamento. Al mondo animale

rimanda anche il piatto proveniente dalla tomba di Bingia Eccia, Dolianova (Cagliari). La Sardegna nuragica si caratterizza per la ricchissima produzione di manufatti bronzei di uso civile, militare, rituale o religioso. Tra quelli figurati, le rappresentazioni di tipo zoomorfo rimandano a un profondo legame con l’ambiente naturale e con il patrimonio faunistico, selvatico o domestico. Ne è un esempio il bovino del Pozzo sacro di Predio Canopoli, Perfugas (Sassari), caratterizzato da lunghe corna, corpo massiccio e masse muscolari ben modellate, realizzate con notevole realismo. Una marcata adesione alla realtà è evidente anche nel modellino di nuraghe dal Pozzo sacro del Camposanto di Olmedo (Sassari). I modellini di nuraghe rappresentano senz’altro uno degli aspetti piú singolari della produzione artistica nuragica. Realizzati in materiali differenti, in forme miniaturistiche ma attinenti alla realtà, rimandano alla sfera del culto. Perduta ormai la sua funzione originaria, il nuraghe stesso diviene oggetto di culto e simbolo di appartenenza a un gruppo sociale. Per il Museo Archeologico Nazionale G. Asproni di Nuoro la mostra è occasione di rendere fruibili alcuni dei pezzi piú importanti della propria collezione, sopperendo alla sua temporanea chiusura, dovuta a lavori di ristrutturazione e riallestimento. Fra questi ricordiamo un vaso neolitico con anse modellate a forma di teste animali stilizzate e con una decorazione sul corpo cilindrico, realizzata con punti impressi che forse allude a una testa di muflone, oggetti di ornamento provenienti dalla Grotta Rifugio di Oliena, ceramica nuragica decorata (brocchetta askoide con decorazione a cerchielli), nonché, ancora per l’età nuragica, oggetti di prestigio (frammento di bacile in bronzo, collana in ambra), bronzi figurati dai siti di Nurdole (Orani) e Sa Sedda ‘e Sos Carros (Oliena), oggetti d’uso comune e armi in bronzo, tra cui la bellissima spada proveniente da Siniscola. Due bronzetti raffiguranti arcieri, dalla Sardegna. Prima età del Ferro, Nuragico. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.


DALL’ANTICO CAUCASO Il Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo partecipa alla mostra di Cagliari con reperti che documentano la piú antica storia del Caucaso settentrionale. Nel III millennio a.C., spostandosi da nord verso quella regione, le tribú delle steppe hanno portato nuovi rituali di sepoltura e nuove tipologie di suppellettili ceramiche e strumenti in metallo. Nelle sepolture delle comunità locali, non compaiono quasi mai armi o attrezzi, quanto piuttosto numerosi gioielli in rame

strumenti falciformi del Caucaso del Nord si trovano lontani dal loro luogo di produzione, per esempio in Romania (a Costanza). Nella seconda metà del II millennio a.C., a cavallo fra la tarda età del Bronzo e la prima età del Ferro, una nuova cultura, detta di Koban, apparve nel Pre-Caucaso centrale, occupando aree pedemontane e montane. Tra i reperti rinvenuti vi sono armi, imbracature di cavalli, vasi in argilla e in metallo. Molti oggetti sono decorati con immagini

arsenicale. Un posto speciale fra questi è occupato dai perni dalla caratteristica forma a martello e piastre metalliche. Parte dei manufatti metallici conservati all’Ermitage proviene da tumuli funerari, in assonanza con un fenomeno che, tra il III e il I millennio a.C., caratterizzò l’intero continente europeo. In mostra figurano utensili tipici dell’area del Mar Nero (asce, scalpelli e falcetti) ed è interessante notare che gli

In questa pagina, dall’alto: scure in bronzo, da Bombori Polyana (VIIIVI sec. a.C.); pugnale in bronzo, dal Caucaso (inizi del II mill. a.C.); statuina in bronzo, dal Caucaso (seconda metà del I mill. a.C.); fibbia in bronzo, lega di piombo e stagno con animali, dal Caucaso (I mill. a.C.). San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage.

zoomorfe e antropomorfe e non mancano sculture a tutto tondo raffiguranti animali e uomini. Questi materiali hanno elementi in comune con i ritrovamenti sulla costa del Mar Nero nei territori della moderna Abcasia e della Georgia occidentale e provano la somiglianza strutturale tra la scultura a tutto tondo del Caucaso e quella del Mediterraneo, in particolare della Sardegna. Yuri Piotrovsky

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MOSTRE • CAGLIARI

UNA TERRA DI CERNIERA La Macedonia è la piú grande unità geografica della Grecia. È separata dall’Epiro a ovest e dalla Tessaglia a sud dalla catena montuosa del Pindo, mentre il Monte Olimpo e la valle di Tempe formano la sua estremità meridionale. L’intera fascia costiera – da Pieria alla Calcidica e alla Macedonia orientale – si affaccia sul Mar Egeo.

Catene montuose dominano i confini settentrionali e vanno a formare quelli con gli Stati limitrofi della Macedonia del Nord e della Bulgaria. I siti pre- e protostorici erano integrati con l’ambiente circostante, ma interagivano anche con le aree vicine e in particolare con il Mar Egeo. Durante il Neolitico (dal VII all’inizio del IV millennio a.C.) si diffondono varie tipologie di ceramica e manufatti realizzati con altre materie prime, come, per esempio, l’ossidiana, proveniente dai giacimenti di Meilan e Karpath. In Macedonia l’età del Bronzo copre una parte del IV, il III e II millennio a.C. e, nella sua fase tarda (circa 1700-1000 a.C.) si registra la massima densità di insediamenti.

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In questa pagina, dall’alto: tazza a manico singolo in terracotta (prima età del Bronzo); fibbia in bronzo (VIII-VII sec. a.C.); alabastron di tipo miceneo (tarda età del Bronzo). Salonicco, Museo Archeologico.

In questo momento, e soprattutto nelle fasi successive, è attestato l’aumento delle strutture di stoccaggio all’interno degli insediamenti. Ciò viene interpretato sia come il risultato della

differenziazione economica e sociale di determinati gruppi o persone all’interno della comunità, sia come indicazione di un deposito centrale o collettivo nel quadro di una differenziazione gerarchica di gruppi o insediamenti all’interno di una data regione. L’età del Ferro abbraccia un ampio orizzone cronologico, dal 1100 al 700 a.C. circa. Ripetuti movimenti di gruppi di popolazione ebbero luogo in quei cinque secoli, insieme a mutamenti sociali ed economici, che spiegano le numerose innovazioni attestate in quel periodo. I corredi funerari offrono informazioni sui manufatti dell’età del Ferro: gioielli in metallo in sepolture femminili e armi in quelle maschili, insieme a ceramiche artigianali locali o importate. Le influenze provenienti dall’Europa centrale e dai Balcani possono essere rintracciate nella metallurgia, documentata in alcuni insediamenti, che hanno collegamenti con le reti di scambi commerciali con la Grecia meridionale. Queste relazioni sono dimostrate anche dalla presenza di terrecotte sub-micenee e protogeometriche, in particolare negli insediamenti costieri. Evangelia Stefani


UN MOSAICO DI CULTURE di Manfred Nawroth

Le collezioni del Museum für Vor und Frühgeschichte (Museo di Preistoria e Storia antica) di Berlino sono in grado di documentare i temi sviluppati dalla mostra «Le civiltà e il Mediterraneo» con reperti di rilevanza assoluta. Della raccolta tedesca, infatti, fanno parte materiali riferibili a tutte le culture e le civiltà fiorite nella regione mediterranea. Qui ci limitiamo, quindi, a ricordare alcune delle presenze piú significative. Alla civiltà cicladica, sviluppatasi nell’arcipelago omonimo dal III millennio a.C., sono per esempio ascrivibili i materiali provenienti da Filakopi, sull’isola di Milo, che divenne un importante centro per la lavorazione dell’ossidiana. All’inizio Filakopi era ancora legata strettamente alla civiltà minoica di Creta, ma divenne sempre piú soggetta all’influsso di Micene. In questa fase vennero probabilmente costruiti i complessi dei palazzi, in parte decorati con affreschi colorati e vennero erette le mura ciclopiche intorno alla città. L’influsso di Micene si estese alle isole Egee, raggiungendo la regione costiera dell’Asia Minore. Qui sorse Troia, descritta già nell’Iliade e nell’Odissea. E proprio prendendo spunto dalle opere di Omero, nel 1870 Heinrich Schliemann iniziò gli scavi in quell’area, proseguiti nel 1890, dopo la sua morte, da Wilhelm Dörpfeld. Schliemann riuscí a recuperare alcuni frammenti di ceramica micenea importata a Troia o realizzata a sua imitazione. I reperti indicano che la città di Troia aveva intrattenuto contatti per molto tempo con i Micenei, o che, addirittura, fosse appartenuta al regno di Micene, che andave sempre piú prendendo potere nel Mediterraneo orientale. Cipro, terza isola per grandezza del Mediterraneo dopo Sicilia e Sardegna, intrattenne rapporti con quest’ultima, testimoniati da attrezzi in metallo (asce, asce doppie e picconi) e oggetti di prestigio in bronzo (tripodi, recipienti con sostegni, sculture e figure). Il Museum di Berlino custodisce una vasta raccolta di antichità di origine cipriota, facenti parte della collezione della fine dell’Ottocento appartenuta a

In questa pagina, dall’alto: ascia Koban con disegno di cavallo, da Rutschi-Tig, Russia (XV-XI sec.a.C.); figurina in terracotta di cavallo, da Cipro (VII-VI sec. a.C.); aryballos in ceramica decorata, dalla Grecia (XIV-XII sec. a.C.). Berlino, Museum für Vor- und Frühgeschichte.

Max Ohnefalsch-Richter. Non meno importanti sono i materiali riferibili alla cultura di El Argar, che si sviluppò nell’area sud-orientale della Spagna nel periodo tra il 2200 e il 1500 a.C. acquistati dagli ingegneri minerari belgo-spagnoli Henry e Luis Siret. Si tratta probabilmente di corredi funebri e di reperti provenienti dall’abitato, in larga parte consistenti in recipienti in ceramica, ma non mancano le armi, mentre sono rari i gioielli. Significativi sono anche i reperti che documentano le culture dell’Italia nell’età del Ferro e in particolare quella villanoviana, cosí come quelli che illustrano le produzioni delle comunità che si insediarono nelle regioni del Caucaso nel corso dell’età del Bronzo. a r c h e o 57


MOSTRE • CAGLIARI

TRADIZIONI A CONFRONTO di Floriana Miele e Giovanni Vastano

In Campania, la prima età del Ferro è un periodo estremamente vivace: favorito dalla ricchezza di risorse naturali e posto alla convergenza di importanti vie di comunicazione terrestri, fluviali e marittime, questo distretto geografico si contraddistingue per una complessità senza paragoni nelle aree limitrofe. La precoce apertura delle genti che popolano il suo territorio si manifesta archeologicamente nella comparsa di materie prime e manufatti che contribuiscono a riconoscere nel Mediterraneo un imprescindibile interlocutore: non mero bacino di approvvigionamento, ma volano per la diffusione di tecnologie, idee e credenze. Questo prolifico confronto riveste un ruolo di primaria importanza in quel processo che, avviatosi già nel Bronzo Finale, prosegue nella piena età del Ferro, con l’esplicitazione delle diversificazioni culturali ed etniche che determineranno l’affermarsi degli ethne di epoca storica. In quest’epoca, il suolo campano ospita sia i centri villanoviani meridionali, sia gruppi umani che si possono accostare alla tradizione europea della Fossakultur (Cultura delle Tombe a fossa), secondo una distribuzione a macchia di leopardo: Capua, 58 a r c h e o

Pontecagnano e Sala Consilina afferiscono al primo ambito; Cuma, Valle del Sarno (Poggiomarino, San Marzano, San Valentino Torio, Striano), penisola sorrentina (Stabia e Vico Equense) e area interna settentrionale della regione (Allifae, Calatia, Montesarchio, Suessula, Trebula) al secondo. Soltanto parzialmente circoscrivibile entro quest’ultimo è l’emergere nella Valle del Sele e nell’alta Valle dell’Ofanto della cosiddetta cultura di Oliveto-Cairano, connotata dal rituale dell’inumazione, ma con forti affinità con le facies del versante adriatico. In questo articolato quadro si inserisce, dalla metà dell’VIII secolo a.C., l’arrivo di genti greche che daranno vita alla prima colonizzazione del golfo di Napoli. A documentare questi diversi fenomeni sono stati selezionati oggetti acquisiti dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli attraverso acquisti, doni e indagini d’emergenza susseguenti a scavi clandestini avvenuti tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Tali interventi testimoniano la volontà delle istituzioni di arginare il fenomeno degli scavi clandestini e della conseguente dispersione dei materiali archeologici, con l’irreparabile perdita dei contesti.


DALL’AFRICA ROMANA L’inaugurazione del Museo del Bardo di Tunisi, con il nome di Museo Alaoui, ebbe luogo il 7 maggio 1888, durante il regno di Ali Bey (1882-1902). Nel marzo 1956 divenne museo nazionale e, da allora, ha assunto la denominazione ufficiale di Musée National du Bardo. L’edificio che ospita la raccolta è classificato come monumento storico; si tratta di uno dei palazzi reali della fine dell’Ottocento, la cui decorazione riflette le influenze delle diverse civiltà mediterranee del tempo, dal gusto andaluso-moresco, a quello ottomano, non senza un evidente influsso italiano. Per quanto riguarda le collezioni, il museo ospita testimonianze di tutte le civiltà e le culture avvicendatesi in terra tunisina dalla preistoria all’epoca moderna. Per la mostra «La Civiltà e il Mediterraneo» sono stati scelti reperti di epoca romana,

di diverse tipologie: mosaici, sculture, epigrafia e ceramica; rappresentando in parte le credenze, le divinità, il mondo del lavoro e il mondo del tempo libero tra gli abitanti della Tunisia romana. Il periodo romano in Tunisia abbraccia quasi cinque secoli e lo conosciamo attraverso le fonti letterarie e grazie a importanti

Nella pagina accanto: anfora in impasto, da Cuma. Preellenico (prima metà dell’VIII sec. a.C.). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

In alto: mosaico raffigurante Cerere che regge una falce e un calathos ripieno di spighe, da Uthina (Oudhna). II sec. d.C. Tunisi, Museo del Bardo.

i contesti culturali di origine, l’esposizione di oltre 550 manufatti di primaria rilevanza e di elevatissima raffinatezza produttiva, provenienti da territori che si affacciano sul Mediterraneo o che con esso sono stati in connessione attraverso millenarie vie di scambio, consente di valutare come lo sviluppo graduale della complessità sociale abbia condotto ora indipendentemente a esiti consimili, ora alla innegabile circolazione e al trasferimento di oggetti, comportamenti e idee. Nella sede del Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, l’esposizione di una cospicua selezione di manufatti di eccezionale rilevanza, provenienti da importanti colle-

zioni museali internazionali, oltre che restituire integralmente il senso complessivo della mostra, suggerisce riferimenti e connessioni con le preziose collezioni che costituiscono l’esposizione permanente del patrimonio archeologico della regione sarda.

testimonianze materiali: siti archeologici con un monumentale apparato architettonico, distribuiti in quasi tutto il Paese, da nord a sud, alcuni dei quali sono stati inseriti nella lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO, come Cartagine, Dougga, il Colosseo o l’anfiteatro di El Jem. Fatma NaÏt Yghil

DOVE E QUANDO «Le Civiltà e il Mediterraneo» Cagliari, Museo Archeologico Nazionale e Palazzo di Città fino al 16 giugno Orario Museo Archeologico Nazionale: ma-do, 9,00-20,00; chiuso il lunedí Palazzo di Città: ma-do, 9,00-18,00; chiuso il lunedí Info e-mail: info@mostracagliarimediterraneo.it; https://mostracagliarimediterraneo.it/ Catalogo Skira a r c h e o 59


POPOLI DELLA BIBBIA/6 – GLI ITTITI

POTENTI E

MISTERIOSI

Si tratta di un caso raro nella storiografia del Vicino Oriente Antico: gli Ittiti, l’enigmatico popolo parlante una lingua indoeuropea, non vengono mai citati nelle fonti classiche, mentre sono spesso menzionati nella Bibbia. Ma – dobbiamo chiederci – è mai esistito un contatto diretto tra i protagonisti della spettacolare civiltà fiorita in Anatolia a partire dal XVII secolo a.C. e la nascente compagine israelitica? di Silvia Alaura

F

ino al XIX secolo, tutto ciò che era noto dell’antica Asia occidentale dipendeva dalle fonti classiche e dalla Bibbia. I testi greci e latini, che forniscono molte informazioni su Assiri, Babilonesi ed Egizi, non fanno però menzione evidente degli Ittiti. Apparentemente, in età classica se ne era già persa ogni memoria storica e i monumenti ittiti venivano attribuiti ad altre civiltà. Gli Ittiti erano quindi noti soltanto dalla Bibbia. In molti passi, in effetti, l’Antico Testamento menziona il popolo dei hittîm, nome che Martin Lutero tradusse come «Hethiter». Gli Ittiti vi

sono elencati insieme ai popoli che gli Israeliti trovarono al loro ingresso nella terra promessa (Cananei, Amorrei, Girgashiti, Perizziti, Hiwiti, Gebusei e altri ancora). Ma essi compaiono anche in passi pregnanti del testo biblico, in momenti fondativi della storia dei Patriarchi prima e del Regno d’Israele poi.

NELLA GROTTA DEI PATRIARCHI Da un Ittita di nome Efron, per esempio, Abramo comprò il terreno alberato nei pressi di Hebron con una caverna per seppellirvi la moglie Sara (Genesi 23). Tale acquisto è stato

interpretato come un modo per legittimare il radicamento abramitico in Canaan, la prima sede del popolo ebraico nella terra promessa. Nello stesso luogo furono poi sepolti anche Abramo stesso, Isacco e Rebecca, Giacobbe e Lia. Altrettanto significativa è la vicenda dell’ittita Uria (2 Samuele 11:1-12:25; vedi box alle pp. 62-63). Essa si colloca durante il regno-modello di Davide, che sancisce il patto con Yahweh. È una storia di grande importanza poiché riguarda l’origine della discendenza davidica. Leale generale dell’esercito del re, Uria viene fatto morire dallo stesso Davide per

Nella pagina accanto: illustrazione raffigurante la pesatura dei 400 sicli d’argento con i quali Abramo compra il terreno, con la caverna per seppellirvi Sara, da Efron l’ittita, secondo Genesi 23, da una Bibbia inglese del 1752. 60 a r c h e o



POPOLI DELLA BIBBIA/6 • ITTITI

PASSIONE E TRADIMENTO Cosí la Bibbia dà conto della vicenda che vede protagonisti Davide, Betsabea e Uria: «Un tardo pomeriggio Davide, alzatosi dal letto, si mise a passeggiare sulla terrazza della reggia. Dall’alto di quella terrazza egli vide una donna che faceva il bagno: la donna era molto bella di aspetto. Davide mandò a informarsi chi fosse la donna. Gli fu detto: “È Betsabea figlia di Eliàm, moglie di Uria l’Hittita”. Allora Davide

poterne sposare la bellissima moglie Betsabea, di cui si era invaghito vedendola mentre faceva il bagno. Fra i molti motivi che nel tempo hanno reso celebre la tragica storia dell’amore di Davide per Betsabea vi è quello della lettera mortifera affidata all’ignaro morituro. Esso trova illustri paralleli, antichi e moderni, sia a Oriente che a Occidente, per esempio nella Leggenda sumerica di Sargon di Akkad (testo cuneifor me probabilmente composto verso la fine del III millennio a.C.), nel racconto omerico di Bellerofonte (Iliade, libro VI, 62 a r c h e o

mandò messaggeri a prenderla. Essa andò da lui ed egli giacque con lei, che si era appena purificata dalla immondezza. Poi essa tornò a casa. La donna concepí e fece sapere a Davide: “Sono incinta”. Allora Davide mandò a dire a Ioab: “Mandami Uria l’Hittita”. Ioab mandò Uria da Davide. Arrivato Uria, Davide gli chiese come stessero Ioab e la truppa e come andasse la guerra. Poi Davide disse a Uria: “Scendi a casa tua e

155-195), e nell’Amleto shakespea- che per il suo comportamento riano (Atto V, scena II). ipocrita e truffaldino. Nella prima metà del XIX secolo, dunque, la maggior parte degli stuLA RIVISITAZIONE diosi credeva che gli Ittiti della DICKENSIANA La trama della storia di Davide, Bibbia fossero una tribú minore Betsabea e Uria è rimasta a lungo stanziata sulle colline palestinesi. produttiva, prestandosi assai bene a L’assenza di qualsiasi menzione veicolare messaggi sociali o mora- esplicita degli Ittiti nelle fonti clasleggianti. Un esempio è quello del siche spinse persino alcuni a metcelebre romanzo David Copperfield tere in discussione la veridicità del(1850) di Charles Dickens, nel le attestazioni bibliche e a dubitare quale il personaggio di Uriah He- dell’esistenza degli Ittiti. Quando ep, che fa da contraltare al prota- poi furono rinvenute testimoniangonista, è connotato negativamen- ze archeologiche ed epigrafiche te sia per il suo aspetto repellente della loro civiltà – fiorita in Anato-


làvati i piedi”. Uria uscí dalla reggia e gli fu mandata dietro una portata della tavola del re. Ma Uria dormí alla porta della reggia con tutti i servi del suo signore e non scese a casa sua. La cosa fu riferita a Davide e gli fu detto: “Uria non è sceso a casa sua”. Allora Davide disse a Uria: “Non vieni forse da un viaggio? Perché dunque non sei sceso a casa tua?”. Uria rispose a Davide: “L’arca, Israele e Giuda abitano sotto le tende, Ioab mio signore e la sua gente sono accampati in aperta campagna e io dovrei entrare in casa mia per mangiare e bere e per dormire con mia moglie? Per la tua vita e per la vita della tua anima, io non farò tal cosa!”. Davide disse ad Uria: “Rimani qui anche oggi e domani ti lascerò partire”. Cosí Uria rimase a Gerusalemme quel giorno e il seguente. Davide lo invitò a mangiare e a bere con sé e lo fece ubriacare; la sera Uria uscí per andarsene a dormire sul suo giaciglio con i servi del suo signore e non scese a casa sua. La mattina dopo, Davide scrisse una lettera a Ioab e gliela mandò per mano di Uria. Nella lettera aveva scritto cosí: “Ponete Uria in prima fila, dove piú ferve la mischia; poi ritiratevi da lui perché resti colpito e muoia”. Allora Ioab, che assediava la città, pose Uria nel luogo dove sapeva che il nemico aveva uomini valorosi. Gli uomini della città fecero una sortita e attaccarono Ioab; parecchi della truppa e fra gli ufficiali di Davide caddero, e perí anche Uria l’Hittita. (...) La moglie di Uria, saputo che Uria suo marito era morto, fece il lamento per il suo signore. Passati i giorni del lutto, Davide la mandò a prendere e l’accolse nella sua casa. Essa diventò sua moglie e gli partorí un figlio. Ma ciò che Davide aveva fatto era male agli occhi del Signore» (2 Samuele 11:2-27).

lia fra il 1650 e il 1200 a.C. circa, e per un certo periodo estesa anche su gran parte della Siria – si pensò di poter finalmente identificare gli Ittiti della Bibbia. Adesso sappiamo che molti passi biblici fanno riferimento a popolazioni e territori controllati dai potentati cosiddetti neo-ittiti e luvio-aramaici degli inizi del I millennio a.C., che si svilupparono in Anatolia e Siria dopo la caduta del regno ittita. Tuttavia, se gli Ittiti menzionati nella Bibbia possano essere identificati, almeno in alcuni casi, con gli Ittiti del Bronzo

Nella pagina accanto: Davide consegna a Uria una lettera per Ioab, olio su tavola di Pieter Lastman. 1619. Collezione privata.

Betsabea al bagno, tecnica mista su tavola di Hans Memling. 1485 circa. Stoccarda, Staatsgalerie. a r c h e o 63


POPOLI DELLA BIBBIA/6 • ITTITI

UNA CAPITALE IN ARMONIA CON LA NATURA La città di Hattuša è organizzata in tre grandi zone: l’Acropoli, con gli edifici residenziali della famiglia reale, la Città Bassa e la Città Alta. Nel muro di cinta, lungo 9 km e in gran parte scavato e restaurato, si aprono porte urbiche monumentali, tre delle quali sono decorate con sculture da cui prendono i nomi: Porta del Guerriero, Porta dei Leoni e Porta delle Sfingi. Nella Città Bassa si trova il Grande Tempio dedicato al Dio della Tempesta e alla Dea Sole di Arinna, la coppia divina a capo del pantheon ittita.

Il tempio non aveva solo funzioni religiose, ma era anche un centro economico e amministrativo che ospitava magazzini e archivi di tavolette cuneiformi. Numerose altre strutture templari sono state messe in luce nella Città Alta. La popolazione viveva in villaggi al di fuori delle mura urbiche. Molti edifici o elementi architettonici di Hattuša sono stati concepiti per utilizzare al meglio l’ambiente naturale (in particolare la roccia e l’acqua, elementi importanti nella religione ittita),

con cui sono perfettamente integrati. Ciò costituisce la cifra dell’unicità e del fascino dell’architettura ittita. L’esempio forse piú eloquente è rappresentato da Yazılıkaya, zona rocciosa naturale adibita a santuario che si trova al di fuori delle mura urbiche. A uno degli ultimi sovrani ittiti, Tuthaliya III, si deve la sistemazione definitiva del santuario, con ambienti decorati da magnifici rilievi che raffigurano, fra altri, il sovrano stesso insieme al suo dio personale Šarruma. Hattuša. Una delle sfingi collocate ai lati della porta che da esse prende nome.

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Tardo è ancora oggetto di vivace bili nei pressi di Bogazköy (oggi Bogazkale), villaggio dell’Anatolia dibattito tra gli studiosi. centro-settentrionale sito 140 km circa a nord-est di Ankara, e con la LA RISCOPERTA Lo studio degli Ittiti nacque, dun- successiva identificazione dell’ittita que, nell’alveo degli studi biblici, come lingua indoeuropea. Gli scavi durante la seconda metà dell’Otto- a Bogazköy iniziarono nel 1906 sotcento e, in particolare, negli ambien- to la direzione dell’assiriologo Hugo ti intellettuali dell’Inghilterra vitto- Winckler (1863-1913), affiancato riana impegnati a dimostrare che le nel 1907 da un team archeologico nuove scoperte archeologiche nel diretto da Otto Puchstein (1856Vicino Oriente non contraddiceva- 1911). Durante queste campagne no la veridicità della Bibbia, ma anzi furono scoperte migliaia di tavolette la supportavano. Non è pertanto d’argilla iscritte in caratteri cuneisorprendente che le prime due mo- formi. Sulla base dei testi in lingua nografie dedicate agli Ittiti, The Em- accadica (all’epoca ormai comprenpire of the Hittites (1884) e The Hittites: The Story of a Forgotten Empire Dalla fine (1888), entrambe pubblicate a Londra, siano state scritte dai reverendi dell’Ottocento William Wright, presbiteriano, e Archibald Henry Sayce, anglicano. gli studiosi hanno Quest’ultimo, in particolare, dedicò avanzato varie gran parte della sua lunga vita allo studio delle civiltà anatoliche, diviipotesi sulla dendosi tra Oxford – dove dal 1891 fu professore di assiriologia – e l’Eidentificazione gitto, dove trascorreva i mesi inverdegli Ittiti nali in un’imbarcazione sul Nilo adibita ad abitazione e biblioteca. menzionati Sedi ideali per l’allora nascente dibattito sugli Ittiti furono istituzioni dalla Bibbia, londinesi come la Society for Biblical e il dibattito Archaeology, il British Museum e anche il Victoria Institute, fondato nel resta aperto 1865 in risposta al libro On the Origin of Species di Charles Darwin (1859). Sebbene il Victoria Institute sibile) che vi aveva trovato,Winckler non fosse ufficialmente contrario capí che questo imponente sito era alla teoria dell’evoluzione, esso at- la capitale dell’impero ittita, l’antica tirò scienziati scettici sul darwini- Hattuša. Fu una scoperta sensaziosmo e divenne un forum in cui la nale, che ebbe vastissima eco. scienza e le Scritture venivano discusse in modo comparativo. TuttaLA GIUSTA INTUIZIONE via, il dibattito sugli Ittiti non rima- Dovettero però passare alcuni anni se confinato alla ristretta cerchia dei per arrivare alla comprensione della biblisti. Esso infatti veniva affronta- lingua ittita, in cui erano redatti la to anche nei circoli letterari e intel- maggior parte dei testi ritrovati a lettuali e se ne dava conto nella Bogazköy. Fu l’orientalista ceco Bestampa popolare, sia in tono serio drich Hrozný (1879-1952) che, stuche in chiave satirica. diando nel museo di CostantinopoIl quadro si chiarí solo agli inizi del li le tavolette trovate da Winckler, Novecento, con gli scavi tedeschi riuscí, nei drammatici mesi in cui delle rovine archeologiche ben visi- iniziava la prima guerra mondiale, a

comprendere che si trattava di una lingua indoeuropea, confermando una precedente intuizione del 1902 del norvegese Jørgen Knudtzon (1854-1917), che aveva lavorato sui testi cuneiformi di el-Amarna. Da quel momento l’ittitologia divenne un distinto campo di studi, anche se inizialmente molti accolsero con scetticismo la sorprendente e inattesa scoperta di Hrozný, presentata il 24 novembre del 1915 a Berlino in un’epocale conferenza tenutasi alla Königlich-Preußische Akademie der Wissenschaften. Nella stessa sede, il giorno dopo, Albert Einstein presentò l’equazione di campo gravitazionale che è alla base della Teoria della relatività generale. Hattuša, inserita dal 1986 dall’UNESCO tra i siti Patr imonio dell’Umanità e dove le indagini archeologiche sono tuttora in corso, è rimasta a lungo l’unica città ittita conosciuta e scavata in Anatolia. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso sono stati messi in luce altri centri della cultura ittita. Nel 1973 è stata identificata, a Masat Höyük, nella provincia settentrionale di Tokat, una residenza palatina con il suo archivio cuneiforme, il cui studio ne ha permesso l’identificazione con Tapikka, in epoca ittita città di confine con i bellicosi Kaskei (gruppi tribali della zona montuosa lungo la costa a nord del Mar Nero). Le scoperte di siti ittiti che hanno restituito importanti archivi si sono moltiplicate negli ultimi anni. In particolare, a Ortaköy, nella provincia centrale di Çorum, è stato rinvenuto dagli archeologi turchi il grande palazzo reale dell’antica Sapinuwa, con un archivio di circa 4000 tavolette, molte delle quali anche in lingua hurrita, a testimonianza del fascino che questa cultura (diffusa fra Caucaso, Mesopotamia e Siria) esercitò sulla famiglia reale ittita. Anche in Siria sono state ritrovate tavolette in lingua ittita o che sono comunque testimonianza del periodo a r c h e o 65


POPOLI DELLA BIBBIA/6 • ITTITI

dell’amministrazione ittita, nei siti di Meskene (l’antica Emar) sull’Eufrate, Tell Atchana (l’antica Alalah) presso Antiochia, e Tell Afis, a sud di Aleppo. Appena i testi trovati a Bogazköy cominciarono a essere pubblicati, intorno alla fine degli anni Venti del Novecento, gli studiosi tentarono di far combaciare l’evidenza della storia ittita con il racconto biblico. Lo stesso Sayce fu tra i primi ad affrontare la questione, ipotizzando che gli Ittiti della Bibbia fossero gli stessi Ittiti che abitarono in Anatolia nel II millennio a.C. Tale approccio fu presto abbandonato a favore di una ricostruzione storica piú articolata e problematica. Due importanti studiosi degli anni Trenta, Emil O. Forrer (18941966) e Louis Delaporte (18741944), sostennero che il termine «ittita» doveva avere piú di un referente storico e proposero che la presenza di Ittiti nella Palestina dell’età del Ferro fos-

se l’esito di mig razioni. Quest’ultima idea ha a lungo guidato le ricerche archeologiche, che hanno cercato le prove materiali di tali migrazioni.

UNA NUOVA INTERPRETAZIONE Piú recentemente si è affermata una nuova interpretazione, di segno diametralmente opposto: gli Ittiti non si sarebbero mai stanziati in Canaan e gli scrittori biblici avrebbero mutuato il termine «Ittiti» dalle fonti cuneiformi neoassire e neobabilonesi, nelle quali Hatti indicava la Siria-Palestina. In tal caso, gli «Ittiti» della Bibbia non avrebbero niente a che fare con gli Ittiti d’Anatolia del II millennio. Si tratterebbe, insomma, di un costrutto letterario (retorico e ideologico piuttosto che storico) per designare uno dei popoli «altri», come «Cananei» o «Amorrei», nella storia delle origini d’Israele.

Il rapporto fra gli Ittiti e la Palestina è strettamente connesso con la storia delle relazioni fra Ittiti ed Egizi, segnate dall’alternanza di ostilità e pace. Per tutta la durata del regno ittita, che gli studiosi comunemente suddividono in Antico Regno e Nuovo Regno, la regione siropalestinese fu sempre teatro o di politiche espansionistiche e aggressioni o d’incontr i e scambi fra le due superpotenze. Due grandi sovrani dell’Antico Regno ittita, Hattušili I e suo nipote Muršili I, fra la fine del XVII e l’inizio del XVI secolo 66 a r c h e o


Ras

K a s k e i

Meskene Ras Shamra

Tell Nebi Mend

In alto: carta geopolitica dell’Anatolia ittita con i luoghi dei principali ritrovamenti epigrafici. Nella pagina accanto: veduta a volo d’uccello dell’Acropoli di Hattuša.

a.C. estesero il loro dominio sulla Siria settentrionale (Muršili arrivò addirittura a saccheggiare Babilonia, abbattendo la dinastia di Hammurabi). Hattušili I, che attorno al 1650 a.C. aveva spostato la sua capitale a Hattuša, è il primo re ittita di cui abbiamo una documentazione testuale abbondante. Le composizioni storiografiche di questo sovrano – in particolare i suoi Annali (pervenutici sia in ittita che in acca-

dico, sempre in copie di età posteriore) – espongono le imprese militari, volte non solo a consolidare il potere del re in tutta l’Anatolia, ma anche a conquistare la Siria nord-occidentale, a partire da Alalah, centro del regno di Yamhad, la cui capitale era Aleppo. Gli Annali sono un testo storiografico di grande importanza poiché la loro struttura, che adotta una suddivisione della narrazione per anni, co-

stituisce una novità senza precedenti noti in Anatolia o Mesopotamia. L’annalistica deve pertanto essere considerata un nuovo genere letterario creato dagli Ittiti, che continuarono a utilizzarlo anche nei periodi successivi. Scopo delle campagne militari di Hattušili I fu la conquista di Alalah, Uršu, Haššu e Hahhu, che si trovavano a sud del Tauro, verso il Mediterraneo e la Mesopotamia. Furono imprese vittoriose, a r c h e o 67


che portarono il sovrano ittita a paragonarsi orgogliosamente a Sargon, il grande re di Akkad vissuto tra il XXIV e il XXIII secolo a.C., per aver attraversato a piedi il fiume Eufrate seguito dalle sue truppe.

IL NEMICO HURRITA Alcuni dei centri contro cui combatté Hattušili I erano retti da dinastie hurrite. Nelle fonti ittite dell’Antico Regno non appare mai uno Stato hurrita di grandi dimensioni quale avversario degli Ittiti, quanto piuttosto una coalizione di piccoli potentati, a cui queste fonti fanno riferimento con la designazione generica di Hurriti. La recente pubblicazione di alcuni documenti (provenienti dal mercato antiquario) dell’archivio di TunibTešub, re di Tikunani, un regno citato anche negli Annali, getta nuova luce sul quadro storico del tempo. Si può cosí supporre che Hattušili I, nel tentativo di debellare i principati siro-hurriti, abbia sfruttato le loro rivalità e abbia ottenuto l’alleanza di un principato 68 a r c h e o

UNA SCHIATTA UNITA COME QUELLA DEL LUPO Quelli che seguono sono alcuni brani del testo cuneiforme denominato Testamento di Hattušili I: «Il Gran Re Tabarna ha detto alla popolazione ed ai nobili: (...). Ecco, Muršili è mio figlio: riconoscete lui, lui mettete [sul trono]! A lui è stato dato appunto dalla divinità un grande cuore e la divinità lo metterà proprio come un leone al posto del leone. Nel momento in cui si presenterà un problema di guerra o diventa pressante qualche ribellione voi, miei servi e nobili, state in aiuto accanto a mio figlio! Entro tre anni vada in guerra! Io ne farò un re eroe, ma anche prima di ciò egli deve essere onorato come un re. Egli è stirpe del vostro Sole: innalzatelo come un re eroe! Se lo conducete a una spedizione, riportatelo sano e salvo! La vostra schiatta sia unita come quella del lupo e non vi devono essere altri dissensi! I suoi servi sono generati

da una sola madre, voi siete legati da un solo cuore, un solo petto, una sola mente: non siate presuntuosi, non agitate dissensi, nessuno violi la parola [del re]! (...) Nessuno della mia famiglia finora ha mai recepito la mia volontà. Tu, Muršili, sei mio figlio: recepiscila tu e custodisci le parole di tuo padre! Se custodirai le parole di tuo padre mangerai il pane e berrai l’acqua: quando sarai adulto mangia due o tre volte al giorno ed abbi cura di te, e quando diventerai vecchio bevi a sazietà e getta pure via allora la parola di tuo padre. Voi siete i primi miei servi: custodite le parole del re! Mangerete e berrete, Hattuša starà alta e la mia terra starà in pace, ma se non custodirete le parole del re, in futuro non vivrete, ma andrete in rovina: chi contesta le parole del re muoia in questo stesso momento!»


hurrita orientale, Tikunani, contro uno occidentale, Hahhu. Nel contesto delle campagne militari di Hattušili I potrebbe trovare posto anche la distruzione della città di Ebla, sebbene resti aperta la possibilità che tale evento sia piuttosto da attribuire al suo successore. Fra il 1983 e il 1985, sono state rinvenute a Hattuša tavolette che conservano una composizione letteraria bilingue, in hurrico e ittita, focalizzata sulla distruzione di Ebla. Noto come Canto della liberazione, questo testo menziona una serie di sovrani eblaiti (vedi «Archeo» n. 411, maggio 2019; anche on line su issuu.com); alcuni di essi portano nomi hurriti e ciò aggiunge un ulteriore elemento al quadro della presenza hurrita in Siria nel Bronzo Medio. I successi militari di Hattušili I nell’area siriana ebbero ricadute di grande portata sia a livello politico

ed economico che culturale. Essi permisero infatti l’accesso alle vie di comunicazione fra l’Anatolia e la Mesopotamia, il cui controllo costituiva il presupposto indispensabile ad assicurare a Hatti il rifornimento di materie prime, come lo stagno, e di altre merci provenienti dalle aree mesopotamica ed egiziana. Inoltre, gli Ittiti vennero in contatto diretto con la tradizione scribale e letteraria siriana, e non è un caso che la prima documentazione scritta ittita appaia in questo frangente. Ma non c’è nulla che possa suggerire che le imprese dei sovrani dell’Antico Regno ittita abbiano avuto un qualche impatto sulla storia o sulla composizione etnica di Canaan. In questo periodo la famiglia reale e la corte ittite erano dilaniate da conflitti di potere e non vi erano le condizioni per un dominio stabile sulle regioni del Levante settentrionale, e tantoNella pagina accanto: Hattuša, santuario di Yazılıkaya, camera B. Rilievo raffigurante un corteo di dodici divinità, forse appartenenti al mondo degli inferi. A sinistra: Hattuša, santuario di Yazılıkaya, camera B. Rilievo che raffigura il re Tuthaliya III, abbracciato dal dio Šarruma, a indicare che egli si trovava sotto la protezione divina e che il suo operato era guidato dal dio.

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meno in quelle del Levante meridionale. A niente serví il fatto che Hattušili I, in punto di morte, avesse emanato un editto, noto come Testamento, con cui designava suo nipote Muršili come successore al trono e invitava i membri della corte e gli alti dignitari a rimanere uniti come un branco di lupi (vedi box alla pagina precedente). Il regno di Muršili si concluse tragicamente: il re venne ucciso dal cognato Hantili, che si insediò sul trono, e ciò dette avvio a una lunga catena di delitti all’interno della famiglia reale.

IL NUOVO REGNO Un periodo di stabilità si ebbe soltanto nel tardo XV secolo a.C., con l’ascesa al trono di Tuthaliya I. Grazie a ripetute vittorie, questo re riuscí a tornare in possesso dei territori che erano stati conquistati dai Hattuša, Citta Alta. Rilievo raffigurante un sovrano ittita (Suppiluliuma II, per alcuni Suppiluliuma I) nella «Camera 2» di un grande bacino idrico nell’area del Südburg.

IL RE DI BIBLO SCRIVE AL FARAONE Ecco il testo di una delle lettere inviate da Rib-Adda, re di Biblo, al faraone egiziano Amenhotep IV: «Rib-Adda: dí al re mio signore. Sotto i piedi del mio signore sette e sette volte mi getto. Poiché il mio signore mi ha scritto per [avere] legno di bosso: [lo] si prende dalle terre di Zalhu e da Ugarit, ma io non posso mandare le mie navi laggiú, perché Aziru mi è ostile e tutti i reggenti sono d’accordo con lui. A loro piacimento le loro navi vanno e prendono quel che vogliono. Inoltre: perché il re dà ogni genere di viveri ai reggenti miei colleghi, ma a me non dà nulla? In passato, ai miei padri si dava dal Palazzo argento e ogni cosa per il loro sostentamento, e il mio signore mandava loro truppe. Io [invece] ho scritto al mio signore per [avere] truppe, ma truppe di guarnigione non mi sono mandate, e non mi viene dato nulla (...). Poiché il re mio signore ha detto: “Proteggi [te stesso] e proteggi [la città del re che è con te!]”, come posso proteggermi? Ho scritto [al re mio signore:] “Hanno preso tutte le mie città, il figlio di Abdi-Aširta è il loro

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[signore], Biblo sola mi resta!”. Non ho forse mandato il mio messaggero al re mio signore? Ma le truppe non sono state mandate, e il messaggero non è stato rilasciato. Rilàscialo, assieme a truppe ausiliarie! Se il re odia la sua città, la abbandoni; ma se [odia] me [solo], sloggi me, e tu manda un tuo uomo a proteggerla! Perché non mi viene dato nulla dal Palazzo? Ho saputo che le truppe di Hatti bruciano col fuoco le terre! Ho scritto e ripetuto, ma non mi si risponde parola alcuna. Hanno preso tutte le terre del re mio signore, e il mio signore resta inerte al loro riguardo. Ecco, adesso porteranno truppe di Hatti per prendere Biblo: prendi consiglio riguardo alla tua città! Non dia retta il re alla gente dell’esercito: tutto l’argento e l’oro del re l’hanno dato ai figli di Abdi-Aširta, e i figli di Abdi-Aširta l’hanno dato al re forte [cioè al re di Mittani]: cosí sono diventati forti» (lettera cuneiforme EA 126, XIV sec. a.C., da: Mario Liverani, Le lettere di el-Amarna, 1. Le lettere dei «Piccoli Re», Paideia, Brescia 1998, pp. 227-228)


Vestito come un dio Muwatalli II, la cui immagine ci è nota da questo rilievo rupestre scolpito su uno sperone roccioso naturale a Sirkeli (in Cilicia) e corredato di una legenda in luvio geroglifico, è uno dei sovrani ittiti piú affascinanti e meno conosciuti. Nel rilievo egli si fa ritrarre abbigliato come una divinità, con un lungo mantello, un copricapo a calotta e il lituo. Oltre alla battaglia di Qadeš, uno dei fatti piú rilevanti del regno di questo sovrano fu il trasferimento della capitale da Hattuša a Tarhuntašša (la terra di Tarhunta, il dio della Tempesta del Fulmine), in Anatolia meridionale. Tarhuntašša non è stata ancora identificata archeologicamente e la sua scoperta potrebbe rivoluzionare molte delle nostre attuali conoscenze dell’Anatolia preclassica.

suoi predecessori. Dapprima si alleò con Sunassura re di Kizzuwatna (paese corrispondente alla Cilicia di età classica, che era stato soggetto al grande regno hurrita di Mittani) e poi concluse trattati di vassallaggio con Aleppo,Tunip (sull’Oronte) e Aštata (sull’Eufrate). Fu necessario dunque un secolo agli Ittiti per tornare nella regione siriana, ma quando lo fecero gettarono le basi per un potente dominio, che durò per due secoli. A Tuthaliya I si deve probabilmente attribuire anche la stipula del piú antico accordo concluso tra gli Ittiti e gli Egizi, noto come il Trattato di Kurustama, che sanciva la deportazione della gente di questa città dell’Anatolia settentrionale (fra il territorio ittita e quello kaskeo) come manodopera per il faraone,

to il dominio egizio. Fra i molti testi di Suppiluliuma I vi sono le sue Gesta (un testo storiografico redatto da suo figlio e successore probabilmente da identificare con Muršili II) e numerosi trattati inAmenhotep II. Alcuni studiosi han- ternazionali stipulati con i re dei no ipotizzato che il faraone avesse paesi assoggettati. permesso loro di insediarsi presso Hebron, Beersheba e Gerusalem- CORRISPONDENZA REALE me. I loro vicini cananei probabil- Ma piú impressionanti e straordinamente li denominarono «Ittiti», an- ri sono i riferimenti all’inarrestabile che se essi non lo erano, sulla base avanzata militare ittita verso le redella loro provenienza dal paese di gioni meridionali che si trovano Hatti. È interessante dunque con- nelle lettere dei sovrani siriani e lestatare che, indipendentemente dal vantini subordinati all’Egitto. Esse testo biblico, le fonti ittite stesse venivano inviate nella nuova capitadocumentano la presenza non solo le Akhetaten, fondata dal faraone di passaggio, ma anche in forma Amenhotep IV (alias Akhenaten) a stabile, di genti anatoliche nelle el-Amarna, nel Medio Egitto. Parterre del Levante meridionale. ticolarmente toccanti sono le letteLa situazione cambiò con Suppilu- re di Rib-Adda re di Biblo, il quale, liuma I, che conquistò il regno di atteggiandosi a «giusto sofferente», Mittani (la cui capitale si trovava in da un lato proclama la sua fedeltà al Mesopotamia settentrionale) e i faraone, dall’altro ne lamenta la territori siriani che erano stati a mancanza di attenzione e aiuto (vequesto sottomessi o che erano sot- di box alla pagina precedente). a r c h e o 71


POPOLI DELLA BIBBIA/6 • ITTITI

La tensione fra Ittiti ed Egizi culminò nel 1275 a.C. con la battaglia di Qadeš, uno degli scontri piú famosi della storia antica, che vide affrontarsi gli eserciti di Muwatalli II e Ramesse II. Di essa ci rimane un’ampia documentazione testuale e figurativa, ma solo di parte egizia. Tuttavia, proprio grazie a questa battaglia – sostanzialmente un successo ittita perché arrestò l’espansionismo egizio verso nord, sebbene la propaganda faraonica lo abbia presentato come una vittoria – si arrivò di lí a poco a una pace lunga e fruttuosa, nota come «pax ittito-egizia». Una nuova era nelle relazioni fra le due superpotenze fu inaugurata nel 1258 a.C. grazie a un trattato di

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pace. Stipulato fra Hattušili II (fratello e successore di Muwatalli II) e Ramesse II, esso ebbe forma paritetica. La sua versione in geroglifico venne incisa nel tempio di Amon a Karnak e nel Ramesseo di Tebe, mentre quella in cuneiforme su tavoletta d’argilla è stata rinvenuta negli archivi di Hattuša (vedi foto qui sotto). Si tratta di uno dei piú famosi documenti diplomatici dell’antichità preclassica, e recentemente è assurto a simbolo di pace fra i popoli. Una copia di grandi dimensioni della tavoletta ittita fu infatti donata dalla Turchia all’ONU nell’anno della Dichiarazione sulle relazioni amichevoli e la cooperazione fra gli Stati, e venne consegna-

ta nel 1970 a New York dal Ministro degli Affari Esteri di Turchia al Segretario generale dell’ONU.

CONTATTI INTENSI Un rapporto cordiale senza precedenti si sviluppò tra le due grandi potenze e i loro vassalli nel Levante. Testimoniato da una ricca corrispondenza, esso dette luogo a visite reciproche di spedizioni diplomatiche, che devono aver generato un importante flusso di merci, tecnologie e idee. Questi intensi contatti, durati per due generazioni, non solo hanno lasciato tracce materiali, ma, cosa piú importante, devono aver avuto un impatto duraturo sulle parti coinvolte, in ambiti quali lingua,


A destra: restituzione grafica della Stele del matrimonio del Grande Tempio di Abu Simbel, raffigurante Ramesse II e la principessa ittita che prese il nome egizio di Maathorneferura: il faraone siede fra Ptah e Seth, la sposa li omaggia, affiancata dal padre Hattušili II, che però non accompagnò la figlia in Egitto. Nella pagina accanto: tavoletta cuneiforme con il trattato di pace stipulato fra Hattušili II e Ramesse II nel 1258 a.C., dagli archivi di Hattuša. Istanbul, Museo Archeologico.

tradizioni scribali, religione e mitologia. Il trattato di pace fu ulteriormente rafforzato, nel 1245 a.C., dal matrimonio di una principessa ittita dal nome ancora sconosciuto (sappiamo però che prese il nome egizio di Maathorneferura) con Ramesse II. Dopo aver attraversato Canaan e costeggiato il Sinai, la ragazza arrivò finalmente a Pi-Ramesse, la magnifica capitale del faraone nel Delta orientale del Nilo. In generale, i viaggi diplomatici e commerciali fra Hatti ed Egitto erano intrapresi o via mare, lungo la costa levantina dotata di vari porti (fra cui Biblo e Ugarit) o via terra, percorrendo la Valle dell’Oronte e passando per le principali roccaforti egizie in Palestina (Beth-Shean,

Megiddo, Aphek, Jaffa e Gaza). Queste spedizioni erano occasione di scambi di doni e compravendite con le élite e le popolazioni locali. Non sorprende dunque che alcuni oggetti, perlopiú sigilli, siano stati rinvenuti in questi luoghi, in modo casuale o durante scavi archeologici. Fra di essi, uno dei piú affascinanti è una placchetta ittita di avorio, trovata a Megiddo nel 1937 durante gli scavi del «tesoro» del Palazzo dello strato VIIA, condotti dall’Oriental Institute di Chicago. Che i proprietari di alcuni di questi oggetti possano essersi trasferiti in Canaan non è impossibile, ma non può essere stabilito con certezza. Altrettanto vale per i numerosi deportati kaskei, in un caso fino a 500, che furono

inviati in Egitto, di solito in cambio di uomini e donne nubiani.

LA FINE DI UN’ERA Una profonda cesura mise però fine a questi fruttuosi contatti ittitoegizi che certamente interessarono le terre bibliche. In seguito a una fase convulsa, caratterizzata da una grave crisi economica, da carestie e da invasioni, attorno al 1200 a.C., Suppiluliuma II (l’ultimo sovrano ittita a noi noto) con la famiglia reale e i membri della corte abbandonarono per sempre Hattuša. Il regno di Hatti cosí terminò. Dai testi provenienti dal sito siriano di Ugarit apprendiamo dell’arrivo di genti appartenenti al gruppo dei «Popoli del mare» menzionati nelle a r c h e o 73


POPOLI DELLA BIBBIA/6 • ITTITI

fonti egizie. Si apriva una fase che per noi resta ancora largamente oscura. Solo alcuni secoli dopo, in piena Età del Ferro, i regni luvii (chiamati anche neo-ittiti) mostrano che, fra Levante e Anatolia, non tutta l’eredità culturale di Hatti era andata perduta.

TRADIZIONI CONDIVISE La ricerca di paralleli testuali fra il mondo ittita e l’Antico Testamento è antica quanto l’ittitologia stessa. Alcuni anni dopo la decifrazione di Hrozný, Sayce richiamava l’attenzione sul rituale del capro espiatorio ittita come parallelo del motivo biblico attestato in Levitico 16:1-26. Ma tali ricerche diventarono di grande attualità a partire dalla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, quando il biblista statunitense George E. Mendenhall (19162016) osservò che l’alleanza biblica fra Yahweh e Israele seguiva il modello dei trattati di vassallaggio degli Ittiti. Entrambi sono strutturati con un prologo storico, che informa sulle relazioni passate fra le parti contraenti l’accordo, una sezione normativa, con diritti e doveri delle due controparti, le istruzioni per la deposizione del contratto, un elenco di testimoni e, infine, formule di maledizione e benedizione previste per chi trasgrediva o rispettava i termini del trattato. Nel tempo, sia gli studiosi dell’Anatolia preclassica che i biblisti hanno individuato paralleli e analogie, talvolta anche sorprendentemente stringenti, nelle pratiche amministrative e legali e nei motivi letterari di ambito religioso. Per esempio, varie clausole delle Leggi ittite hanno paralleli nella legge biblica, come nel caso del levirato (HL §193 // Deuteronomio 25:5-10), per cui un cognato era non solo autorizzato, ma anche praticamente obbligato a sposare la propria cognata – contro la norma generale che proibiva il matrimonio fra cognati – quando essa era rimasta vedova e senza figli. 74 a r c h e o

Piú l’ittitologia progrediva, piú si è realizzata la complessità dei problemi che coinvolgono i confronti biblici Per quanto riguarda i motivi letterari, passi biblici sono comparabili a passi delle preghiere ittite: fra di essi vi sono quelli che riguardano la concezione della colpa dei padri che ricade sui figli e della divinità come rifugio sicuro in cui trovare scampo nei momenti di pericolo. Quest’ultimo motivo, espresso piú volte nelle preghiere ittite in modo proverbiale, si trova anche nella lunga e toccante Preghiera di Muwatalli II, dove si legge: «L’uccello si rifugia nella gabbia e sopravvive: anch’io mi sono rifugiato presso il dio Tarhunta del Fulmine, mio signore: mantienimi in vita! Poiché elevo per me una preghiera

agli dèi, rendi piene le [mie] parole di fronte agli dèi, ed essi mi ascoltino! Allora anche esalterò continuamente Tarhunta del Fulmine». L’atteggiamento di colui che, consapevole della propria debolezza, vive prudentemente nel rispetto della legge divina ricorre frequentemente anche nei Salmi: «Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore ed ammirare il suo santuario. Egli mi offre un luogo di rifugio nel giorno della sventura. Mi nasconde nel segreto della sua dimora, mi solleva sulla rupe» (Salmo 27 (26):4-5) e


Sulle due pagine: placchetta ittita in avorio (e sua restituzione grafica), trovata a Megiddo nel 1937 durante gli scavi del «tesoro» del Palazzo dello strato VIIA, condotti dall’Oriental Institute di Chicago. 1400-1200 a.C. Chicago, The Oriental Institute Museum.

analogamente, per esempio, in Salmo 18 (17):3): «Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore; mio Dio, mia rupe, in cui trovo riparo; mio scudo e baluardo, mia potente salvezza». Piú l’ittitologia progrediva e veniva impostata su solide basi metodologiche, piú gli studiosi hanno realizzato la complessità dei problemi che coinvolgono i confronti biblici. La civiltà ittita è una miscela complessa di origini variegate: l’eredità ancestrale indoeuropea si fonde con le tradizioni locali dell’Anatolia, in particolare con quella dei Hattici nel Nord e dei Hurriti nel Sud-Est. Inoltre, le influenze mesopotamiche e siriane sono state pervasive, sia tramite contatti diretti che attraverso la mediazione hurrita, e a esse si aggiungono i contatti con gli Egizi. Il risultante melting pot ittita è un amalgama culturale estremamente ricco e variopinto, i cui ingredienti originali non possono essere facil-

mente separati. Un altro importante sviluppo della storia culturale del Vicino Oriente antico è la crescente consapevolezza di un ecumene occidentale che attraversa l’Asia Minore, la Siria e la Palestina, una «Mezzaluna levantina ad agricoltura non irrigua», come l’ha definita lo storico Itamar Singer, che in vari modi è distinguibile dal mondo mesopotamico, anche se ovviamente è stata profondamente influenzata da quest’ultimo. L’epocale scoperta degli archivi di Ebla e l’enorme progresso negli studi sui testi di Mari hanno notevolmente migliorato la nostra comprensione delle antiche basi siriane e amorree di questa unità culturale occidentale, che ha avuto un’influenza decisiva sulle prime culture anatoliche. Questo sfondo richiede dunque molta cautela nel tracciare paralleli ittito-israeliti diretti, scavalcando l’intermediario siriano. Infat-

ti molti paralleli suggeriti in passato si sono rivelati già radicati nelle piú antiche tradizioni del Levante, come per esempio proprio quello del capro espiatorio. Nonostante i cambiamenti di prospettiva rispetto agli studi del passato, il potenziale dell’ittitologia per l’interpretazione biblica non è affatto diminuito. Alle nuove generazioni di studiosi resta sicuramente ancora molto da scoprire e da comprendere. NEL PROSSIMO NUMERO • Medi e Persiani

PER SAPERNE DI PIÚ Billie Jean Collins, The Bible, the Hittites, and the Construction of the «Other», in Detlev Groddek-Marina Zorman (a cura di), Tabularia Hethaeorum, Hethitologische Beiträge Silvin Košak zum 65. Geburtstag (DBH 25), Wiesbaden 2007; pp. 153-161 Stefano de Martino, Da Kussara a Karkemish. Storia del regno ittita, Laboratorio di Vicino Oriente antico 1, LoGisma editore, Firenze 2016 Harry A. Hoffner jr, Ancient Israel’s Literary Heritage Compared with Hittite Textual Data, in James K. Hoffmeier-Alan Millard (a cura di), The Future of Biblical Archaeology. Reassessing Methodologies and Assumptions, Eerdmans, Grand Rapids, Michigan/Cambridge 2004; pp. 176-192 Manfred Hutter (a cura di), Themen und Traditionen hethitischer Kultur in biblischer Überlieferung, Biblische Notizen 156, 2013 Itamar Singer, The Hittites and the Bible Revisited, in Aren M. MaeirPierre de Miroschedji (a cura di), «I Will Speak the Riddle of Ancient Times»: Archaeological and Historical Studies in Honor of Amihai Mazar on the Occasion of His Sixtieth Birthday, Eisenbrauns, Winona Lake, 2006; pp. 723-756 a r c h e o 75


SCAVI • UMBRIA

STREGONI NELLA VALLE DEL TEVERE A POGGIO GRAMIGNANO, NELL’UMBRIA MERIDIONALE, È STATO SCOPERTO UN CIMITERO DEL V SECOLO D.C. RACCOGLIEVA LE SPOGLIE DI NEONATI E BAMBINI, COLPITI DA UN’EPIDEMIA DI MALARIA E AI QUALI FURONO RISERVATE ESEQUIE DAVVERO SINGOLARI… di David Pickel, Roberto Montagnetti e David Soren

S

ulla sommità di Poggio Gramignano, una collina che domina il Tevere nei pressi della cittadina umbra di Lugnano in Teverina (Terni), lungo la strada provinciale per Attigliano, si trovano i resti di una grande e lussuosa villa romana del 15 a.C. circa, con eleganti alloggi per il dominus e per la sua famiglia; tra questi, un triclinio, affiancato da un’altra stanza di rappresentanza piú piccola e altri ambienti della casa come la cucina e tre stanze coperte con volta a botte, situate lungo la terrazza che si affaccia verso valle e che fungevano probabilmente da dispense per lo stoccaggio di vino e derrate alimentari. La struttura aveva però un grosso problema: era stata costruita su un substrato geologico instabile che, a partire dal II secolo a.C., se non prima, franò facendo crollare i pavi76 a r c h e o

Arezzo

Lago Tra s i m e no

Perugia UMBRIA

Lugnano in Teverina Terni Viterbo

Rieti

menti, le pesanti volte e i soffitti e rendendo inagibile la villa. Ciononostante, verso la metà del V secolo d.C., durante un’epidemia di mala-

ria che colpí quest’area, essa fu riutilizzata come cimitero per feti abortiti, neonati e bambini. Sidonio Apollinare, un aristocratico e poeta romano, conobbe in prima persona gli effetti dell’epidemia, scrivendo a un amico su come «la febbre e la sete» quasi lo uccidessero dopo aver «respirato l’aria pestilenziale della regione» (Epistole 1.5.6-9). Questa «aria pestilenziale» potrebbe essere stata cosí potente da aver costretto Attila, re degli Unni, ad abbandonare i piani per assediare la città di Roma dopo un avvertimento papale. Il numero e la disposizone delle sepolture dimostrano che il cimitero si sviluppò in verticale, di pari passo al progressivo diffondersi dell’epidemia, con le prime vittime, sepolte singolarmente o in inumazioni doppie ordinatamente dispo-


ste negli strati piú bassi, alle quali fece seguito, in un ristretto arco di tempo, un numero sempre maggiore di sepolture ritrovate negli strati superficiali piú recenti, dove sono state individuate fino a sette deposizioni sullo stesso livello.

RIMEDI ANCESTRALI Come già ricordato, a causare i decessi fu un’epidemia di malaria, scatenata dal parassita Plasmodium falciparum. Pur essendo ormai in epoca cristiana, la comunità locale, terrorizzata, non esitò a ricorrere alla magia popolare e alla stregoneria per cercare di fermare la diffusione della malattia. Il parassita della malaria trasportato dalle zanzare invade il fegato da otto a dodici giorni dopo il morso e si moltiplica, in un processo che può ostruire i capillari e colpire i

In alto, sulle due pagine: veduta di Lugnano in Teverina (Terni), nel cui territorio è stato scoperto il cimitero infantile di Poggio Gramignano.

Qui sopra: la sepoltura ribattezzata «Burial 51» subito dopo la scoperta: affiorano le prime tegole, addossate al muro della villa romana. a r c h e o 77


SCAVI • UMBRIA Sulle due pagine: immagini dello scavo della Burial 51. Da sinistra, in senso orario: la tomba con lo scheletro ancora in situ, adagiato sul fianco sinistro; un particolare del teschio, con il cubilium nella bocca del bambino; un momento dello scavo; il cubilium dopo la prima ripulitura. Gli esami fin qui condotti hanno permesso di accertare che il defunto (del quale al momento si ignora il sesso) morí intorno ai 10 anni di età e che, al momento della sepoltura, la pietra gli venne introdotta nella bocca intenzionalmente.

reni e la milza causando anoressia, mal di testa, nausea, parossismi, brividi, febbre, vomito e gravi dolori gastrici, creando un aspetto emaciato e scarno nell’individuo. Risulta particolarmente letale per i neonati ed è causa di aborto per le gestanti. Fin dai nostri primi scavi, condotti nel 1987, la necropoli di Poggio Gramignano è diventata il cimitero antico piú importante d’Italia per le singolari pratiche funerarie riscon78 a r c h e o

trate: un bambino è stato ritrovato sepolto con i resti di un rospo posizionato sul corpo; in un’altra sepoltura era presente l’artiglio di un corvo, e un’altra ha restituito una bambola in osso priva degli arti. Inoltre, fra le sepolture infantili, sono venuti alla luce i resti di tredici cuccioli di cane, tutti di età compresa tra i 5 e i 6 mesi, che risultano tagliati in due, con le mascelle squarciate, e sepolti vicino a due

grandi calderoni di bronzo pieni di cenere e inseriti l’uno nell’altro. Simili rituali magici furono senza dubbio dettati dalla convinzione che il male all’interno di questi neonati potesse scatenarsi e infettare i vivi, un’idea che l’archeologa Francesca Ceci ha definito «La paura del ritorno». In età romana, l’Umbria era uno dei principali centri di stregoneria e magia del mondo romano, come testimoniano gli scrittori augustei Orazio (Satire I.8) e Virgilio (Egloga 9.15), i quali, riferendosi a questa regione, citano riti simili a quelli documentati a Poggio Gramignano. Virgilio, in particolare, parlando delle pratiche funerarie, menziona corvi, rospi e bambole.

LE NUOVE RICERCHE Dopo alcuni anni di pausa, gli scavi sono stati ripresi nel 2016 e l’ultima campagna, nel 2018, ha fatto registare una scoperta entusiasmante. In un caldo pomeriggio di luglio, gli archeologi Gabriele Soranna e Danny Reeve-Brook cominciarono a intravedere i primi segni di una nuova sepoltura. Frammenti di anfore coprivano una grossa tegola appoggiata a uno dei muri ancora in elevato e ben presto apparve chiaro che questa sepoltura era diversa e consisteva in una tomba a «cappuccina», molto piú grande di quelle fino a quel momento riportate alla luce. Le sepolture alla cappuccina, in cui le tegole sono unite e ammorsate l’una contro l’altra per creare una tomba di fortuna, sono tipiche di questo cimitero e dell’Italia romana in generale ed erano in genere utilizzate per individui di status medio-basso. Per l’esattezza, in questo caso la cappuccina era solo parziale, costruita appoggiando due grandi tegole contro uno dei muri della stanza. Sotto le tegole sono stati trovati i resti di un solo individuo deposto sdraiato sul suo fianco sinistro e rivolto verso il muro della stanza.


L’analisi preliminare delle ossa non ha rivelato patologie o traumi visibili, salvo un singolo dente che sembra essere stato perso poco prima della morte a causa di un ascesso parodontale. Tuttavia, la presenza del bambino in un cimitero che si ipotizza sia stato riservato alle vittime infantili di un’epidemia di malaria fa pensare che anch’esso abbia subito la stessa sorte; interpretazione, quest’ultima, rafforzata dall’insolito trattamento riservato al cadavere. Mettere una pietra nella bocca del bambino, infatti, potrebbe aver fatto parte di un rituale funerario diretto a contenere la malattia. La Burial 51 rappresenta UN GESTO dunque un’anomalia all’inDELIBERATO terno di un luogo di sepoltura Tale circostanza ha reso ancora piú evidente il secondo elemento che gillata e il modo in cui era posi- già di per sé anomalo, sottolineando rende notevole la sepoltura, vale a zionata la testa del bambino non ulteriormente l’unicità del cimitero dire la presenza di una pietra avrebbe permesso alla mascella di di Poggio Gramignano, ormai non all’interno della cavità orale del aprirsi anche quando i muscoli si soltanto infantile, ma, alla luce di defunto. Si tratta di una piccola fossero decomposti. La pietra, queste scoperte, riservato anche a pietra calcarea a forma di cubilium, inoltre, recava tracce di cemento bambini di età piú avanzata. la tipica pietra da costruzione uti- su entrambi i lati, sulle quali sono lizzata in epoca romana, tagliata e visibili piccole depressioni a forma Gli scavi di Poggio Gramignano sono lavorata a forma piramidale per di dente, che rafforzano l’ipotesi condotti dall’Università dell’Arizona, poter essere inserita di punta nel che essa sia stata volutamente in- d’intesa con la Soprintendenza Antichità, Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria. nucleo cementizio dei muri. L’a- serita nella bocca del bambino. L’individuo e la sepoltura, denominata «Burial 51» sono notevoli per due ragioni. Innanzitutto, si tratta del bambino piú grande finora ritrovato (su 52 ritrovamenti in totale): l’analisi del suo sviluppo dentale ha infatti permesso di stabilire che l’individuo (il cui sesso rimane al momento indeterminato) aveva circa 10 anni al momento della morte e, il corpo, nonostante qualche disturbo, essendo ben protetto dalle tegole, ha mantenuto un elevato grado di conservazione, evidenziato dalla completezza dello scheletro e delle articolazioni.

nalisi antropologica sui resti del bambino ha accertato che il posizionamento della pietra all’interno della bocca fu intenzionale e non è un evento casuale dovuto al lento collasso dall’edificio circostante. La tomba, infatti, risultava ben si-

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MOSTRE • ROMA

LE SENTINELLE DEL BELLO NEL 1970, A POCHI MESI DALLA SUA ISTITUZIONE, L’ALLORA NUCLEO TUTELA PATRIMONIO ARTISTICO DEI CARABINIERI RECUPERÒ DUE PREGEVOLI DIPINTI RUBATI IN UNA CHIESA TOSCANA: ERA L’INIZIO DI UN’AVVENTURA CHE HA APPENA TAGLIATO IL TRAGUARDO DEI SUOI PRIMI CINQUANT’ANNI, NEL CORSO DEI QUALI QUESTA SPECIALE UNITÀ OPERATIVA, NEL FRATTEMPO RIBATTEZZATA COMANDO CARABINIERI TUTELA PATRIMONIO CULTURALE, SI È AFFERMATA COME UNA DELLE ECCELLENZE ITALIANE NELLA LOTTA AL TRAFFICO INTERNAZIONALE DI ANTICHITÀ E OPERE D’ARTE di Giuseppe M. Della Fina

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apolavori assoluti e un centinaio di opere in grado d’illustrare la vivacità dell’arte e dell’artigianato artistico italiano nell’arco di tre millenni sono in mostra a Roma, nella Palazzina Gregoriana all’interno del Palazzo del Quirinale. Il filo conduttore che li unisce è l’attività svolta dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale dal 3 maggio

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Statua in marmo pario di Vibia Sabina velata, restituita all’Italia dal Museum of Fine Arts di Boston. Età adrianea. Tivoli, Villae-Villa Adriana e Villa d’Este.


Per la mensa di un comandante? Da Ascoli Satriano (Foggia) proviene questo sostegno di una mensa (trapeza) in marmo di eccezionale fattura, raffigurante due grifoni che azzannano un cerbiatto. La sua realizzazione viene attribuita a maestranze macedoni o greco-orientali attive nei decenni finali del IV secolo a.C. Notevole è lo stato di conservazione al punto che si può apprezzarne la policromia: i colori utilizzati sono il rosa, il rosso, il blu, il giallo, il bianco e il verde. Si continua a discutere sulla sua collocazione originaria:

1969, quando venne istituito con la denominazione iniziale di Nucleo Tutela Patrimonio Artistico, sino ai giorni nostri (vedi box qui accanto). Alcuni numeri danno un’idea dei successi colti in un cinquantennio e, al contempo, dell’aggressione subíta dal nostro patrimonio culturale: 1 101 618 reperti archeologici sequestrati, 801 851 opere recuperate, 1 362 482 opere false requisite. Colpisce, inoltre, la varietà e il livello qualitativo dei reperti archeologici scavati clandestinamente e poi entrati nel mercato internazionale di antichità e quello delle opere rubate da chiese, palazzi e musei. Tra i beni recuperati e scelti per l’esposizione – curata da Francesco Buranelli – si trovano, come detto, alcuni capolavori assoluti: vasi del ceramista attico Euphronios, il maggiore nella

è stato ipotizzato che il manufatto si trovasse in una tomba monumentale, in un santuario, oppure in un palazzo aristocratico, in un luogo nel quale, comunque, potessero svolgersi cerimonie di culto. Ma non si esclude nemmeno che facesse parte della suppellettile della tenda di un capo militare. Insieme ad altri marmi, la scultura fu scavata clandestinamente tra il 1976 e il 1978 e acquistata dal Paul Getty Museum di Malibu. È tornata in Italia nel 2007, nell’ambito di un accordo stipulato tra il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il museo statunitense.

tecnica a figure rosse (vedi box a p. 82), scavati clandestinamente; una scultura etrusca raffigurante Charun dalla tomba gemina di Greppe Sant’Angelo a Cer-

veteri; un servizio di argenti eccezionali da Morgantina in Sicilia dove erano stati scoperti e da lí erano giunti – attraverso spregiudicati mercanti d’arte –

Mezzo secolo di successi Il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale è stato istituito il 3 maggio del 1969 con la denominazione di Nucleo Tutela Patrimonio Artistico, in un periodo in cui il livello dell’attacco al patrimonio culturale italiano era molto alto, con frequenti scavi archeologici portati avanti da tombaroli, in contatto diretto o indiretto con il mercato d’arte internazionale, e con numerosi furti nelle chiese, nei palazzi e nei musei del nostro Paese. Il reparto specializzato sorse grazie a un’intuizione dell’allora Capo di Stato Maggiore del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, generale Arnaldo Ferrara, d’intesa con il Ministero della Pubblica Istruzione. Il Nucleo iniziale era composto da soli 16 militari, mentre oggi il Comando si avvale della collaborazione di 300 carabinieri specializzati nel contrasto agli attacchi al patrimonio culturale nazionale. La sua azione si è estesa a interventi portati avanti in aree colpite da calamità, come è stato di recente nei terremoti che hanno interessato zone dell’Abruzzo, del Lazio, dell’Umbria e delle Marche, e, all’estero, in zone di guerra, per cercare di limitare i danni al patrimonio culturale di quei Paesi.

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MOSTRE • ROMA

al Metropolitan Museum of Art di New York; una statua in marmo pario dell’imperatrice Vibia Sabina; un sostegno di mensa con due grifoni che azzannano un cerbiatto da Ascoli Satriano (Foggia; vedi box a p. 81); un gruppo scultoreo raffigurante la triade capitolina, vale a dire Giove, Giunone e Minerva seduti insolitamente su uno stesso trono cerimoniale (vedi box a p. 83) e rinvenuto in scavi clandestini nei pressi di Guidonia Montecelio (Roma). E, ancora, una tavola di Piero Della Francesca, nota come Madonna di Senigallia, rubata nella Pinacoteca di Urbino; un rilievo di Andrea della Robbia strappato dalla chiesa di S. Giovanni Battista a Scansano (Grosseto); una Madonna col Bambino di Giovanni Bellini rubata, insieme ad altri due dipinti, dalla Pinacoteca Malaspina di Pavia; una Sacra Famiglia di Andrea Mantegna sottratta, con altre sedici opere, dal Museo di Castelvecchio di Verona; una Madonna della Misericordia di Pietro Vannucci, detto il Perugino, trafugata dalla Pinacoteca di Bettona (Perugia); oppure oli su tela come Il giardiniere di Vincent Van Gogh e Le Cabanon de Jourdan di Paul Cézanne, rubati dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma.

ASPETTANDO L’AUTOBUS... Dietro ogni opera esposta c’è il racconto avvincente delle indagini condotte per ottenerne la restituzione: è il caso, per esempio, degli sforzi compiuti per dimostrare la provenienza illecita della coppa firmata da Euphronios come ceramista e attribuita a Onesimos in qualità di ceramografo, di cui si è riusciti a riconoscere il luogo di scavo: l’area sacra in 82 a r c h e o

Una tragedia collettiva Questa magnifica coppa, di dimensioni ragguardevoli (diametro, 46,5 cm; altezza, 20,5 cm) venne firmata da Euphronios come ceramista ed è stata attribuita a Onesimos, il suo allievo piú dotato, in qualità di ceramografo. Vale a dire che il primo la modellò e il secondo la dipinse. La decorazione risulta notevole per la qualità e la complessità delle scene raffigurate che rappresentano una delle versioni piú elaborate del racconto della distruzione di Troia. I vari episodi rappresentati riescono a narrare «un’unica grande tragedia collettiva», come ha osservato Maria Antonietta Rizzo. La coppa fu realizzata negli anni 500-490 a.C. e presenta un’iscrizione in lingua etrusca sotto il piede: venne incisa dopo il suo arrivo in Etruria e in vista dell’offerta del vaso in un santuario.

località Sant’Antonio a Cerveteri. Lí scavatori clandestini l’avevano rinvenuta e, entrata nel mercato d’arte clandestino, era giunta al Paul Getty Museum di Malibu, che anni dopo,

alla luce delle schiaccianti prove documentarie raccolte, ha deciso di restituirla all’Italia. L’indagine aveva preso le mosse dalla segnalazione di una funzionaria della Sopr intendenza, che, in attesa di prendere un autobus a Cerveteri, nell’agosto del 1990, aveva ascoltato una conversazione tra due sconosciuti che parlavano del ritrovamento di frammenti di una grande coppa in scavi clandestini, svolti a piú riprese, a partire dal 1982. I due affermavano inoltre che sulla coppa, firmata da Euphronios, erano raffigurate scene della «presa di Troia». Proprio negli ultimi mesi del 1990 il Paul Getty Museum pubblicò, corredandola con alcune immagini, una coppa con scene della guerra di Troia acquisita di recente. Da queste informazioni partirono le ricerche, che hanno portato, grazie anche a un’azione di diplomazia culturale, alla restituzione dell’opera. Altrettanto complesse sono state le indagini che hanno consentito il recupero degli argenti di Morgantina, pervenuti al Metropolitan Museum of Art di New York e restituiti nel 2010 (vedi «Archeo» n. 302. aprile 2010). In questo caso, nel novembre del 1984, la Soprintendenza Archeologica di Roma informò che sul Bullettin of the Metropolitan Museum of Art erano stati pubblicati vasi e suppellettili in argento del III secolo a.C. provenienti dall’Italia. Le indagini s’indirizzarono verso un noto trafficante d’arte svizzero, il quale, attraverso un antiquario libanese, era entrato in possesso dei reperti. Per via dell’impermeabilità degli ambienti coinvolti e del decorso del termine di prescrizione, l’attenzione si concentrò sulla ricerca di do-


cumentazione scientifica che suggerisse il luogo del ritrovamento. Allo scopo vennero effettuate anche campagne di scavo, che consentirono di raccogliere dati inoppugnabili. Su questa base e sempre con il supporto di un’azione di diplomazia culturale, il museo statunitense decise di riconsegnare gli argenti. Altre ricerche hanno portato sino in Giamaica per ritrovare 29 opere rubate dalla Pinacoteca di Bet-

tona nella notte del 27 ottobre 1987, tra le quali la Madonna della Misericordia del Perugino. Dopo quattro mesi, gli autori del furto vennero individuati, ma le opere non erano piú in Italia ed erano state trasferite in Giamaica nella residenza di un influente uomo politico locale. Solo due anni piú tardi fu possibile perquisire l’abitazione e recuperare i dipinti. Altre indagini hanno condotto i

carabinieri nell’isola di Turunciuc, in territorio ucraino, per ritrovare i 17 dipinti rubati nel Museo di Castelvecchio di Verona nella giornata del 19 novembre 2015, tra cui la Sacra Famiglia di Mantegna. Gli autori del furto furono scoperti e cosí si apprese che le opere erano state portate in Moldavia e, in seguito, in Ucraina da dove avrebbero dovuto raggiungere la Russia. L’11 maggio del 2016 gli investigatori le ritrova-

I magnifici tre Il gruppo scultoreo raffigura le tre maggiori divinità del pantheon romano: Giove, Giunone e Minerva sedute su un unico trono cerimoniale e incoronate da piccole Vittorie alate. Ogni divinità è accompagnata dal suo animale sacro e dagli attributi che gli sono propri. L’opera venne realizzata da botteghe attive a Roma e, sulla base dei tratti stilistici, è databile tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C. L’importanza della scultura risiede soprattutto

nel suo schema compositivo che deriva da un prototipo ignoto: le tre divinità sono raffigurate infatti su uno stesso piano e Giove non viene enfatizzato a parte la posizione centrale. La Triade venne scavata clandestinamente nei pressi di Guidonia Montecelio (Roma) nel 1992 ed è stata ritrovata grazie a un’indagine condotta tra l’Italia e la Svizzera che ha previsto l’utilizzo a fini investigativi di una sorta di identikit dell’opera.


MOSTRE • NOME MOSTRA

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rono avvolte in sacchi di plastica e nascoste tra i cespugli. Complesse sono state anche le indagini conclusesi con il recupero di una serie di gioielli ottocenteschi realizzati, reinterpretando modelli antichi, dai noti orafi Castellani e rubati dal Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma nella notte tra il 30 e il 31 marzo del 2013. Le investigazioni provarono che il furto era stato commissionato da una facoltosa signora russa, ma la sua individuazione non le consentí di acquistarli. I malviventi dovettero cercare nuovi acquirenti, i carabinieri riuscirono a evitare la vendita e, in tre momenti differenti, a rintracciare l’intera refurtiva.

INTERVENTI D’EMERGENZA In una sezione della mostra si dà conto anche dell’attività svolta dai «carabinieri dell’arte» in aree colpite da eventi sismici. Tale impegno è testimoniato dall’esposizione di alcune opere, di cui si possono ricordare almeno un olio su tavola – Sa-

In questa pagina: gioielli facenti parte della Collezione Castellani. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. La collezione conta oltre 6000 oggetti, fra cui oreficerie antiche, alle quali si affiancano quelle moderne, frutto della lunga attività di orafi dei Castellani.

cra Famiglia con San Giovannino – di Cola dell’Amatrice, detto il Filotesio, dal Museo Civico di Amatrice; una scultura lignea raffigurante una Madonna con Bambino da Accumoli; un olio su tela – Apparizione della Madonna col Bambino a San Filippo Neri – di Giovan Battista Tiepolo dalla

Dietro il recupero delle opere esposte ci sono indagini svolte con tenacia degna del miglior Sherlock Holmes Nella pagina accanto: Madonna della Misericordia con i Santi Stefano, Girolamo e committenti, tempera su tavola di Pietro Vannucci, detto il Perugino. 1516-1520. Bettona, Pinacoteca.

chiesa di S. Filippo Neri a Camerino; e ancora un olio su tela – Crocifissione con dolenti –, che era stato molto danneggiato, dalla chiesa di S. Antonio Abate a Frascaro di Norcia (Perugia). Nel percorso espositivo è inserito anche un rilievo funerario proveniente da Palmira che è stato sequestrato in Italia. Esso è stato sottratto al patrimonio archeologico siriano e in Siria tornerà appena le condizioni generali di sicurezza lo renderanno possibile. In questo caso, come in altre occasioni, i carabinieri hanno dato un contributo alla difesa del patrimonio culturale di un Paese straniero. DOVE E QUANDO «L’arte di salvare l’arte. Frammenti di storia d’Italia» Roma, Palazzo del Quirinale, Palazzina Gregoriana fino al 14 luglio Orario ma, me, ve, sa e do, 10,00-16,00 Info www.quirinale.it Catalogo De Luca Editori d’Arte a r c h e o 85


SPECIALE • MUSEO NAZIONALE DI DAMASCO

DAMASCO

VAL BENE UN MUSEO NELLO SCORSO AUTUNNO, CON LA RIAPERTURA DELLA SEZIONE CLASSICA DEL MUSEO NAZIONALE DAMASCENO SI È RIPRESO IL FILO DI UN DISCORSO BRUSCAMENTE INTERROTTO DALLO SCOPPIO DELLA GUERRA CIVILE: LA RISTRUTTURAZIONE E IL RIALLESTIMENTO DI UNA FRA LE COLLEZIONI PIÚ RICCHE DEL VICINO E MEDIO ORIENTE. UN PROGETTO ITALIANO, DI CUI, IN ESCLUSIVA PER «ARCHEO», PRESENTIAMO LE LINEE GUIDA di Antonio Giammarusti e Rosa Maria Iglesias Morsilli

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o scorso ottobre, durante il convegno Salvo diversa «The fact of Syrian museums and their role indicazione, tutti in sustaining consciousness of national begli oggetti e le longing» promosso dal Ministero della Cultuopere d’arte ra-Directorate-General of Antiquities & Museums riprodotti (DGAM) della Siria in cooperazione con il nell’articolo Mistero del Turismo e la UNDP (United Naappartengono tions Development Programme), è stata inaugu- alle collezioni del rata e aperta al pubblico la sezione del Museo Museo Nazionale Nazionale di Damasco dedicata all’arte dell’edi Damasco. tà classica, dal periodo achemenide all’inizio del cristianesimo. A destra: statua Il museo fu chiuso all’inizio del 2011 a caudi Psyche sa dello scoppio della terribile guerra che, (particolare), oltre alla distruzione di vite umane, di intere da Apamea città e siti del patrimonio dell’umanità, inI-II sec. d.C. terruppe anche il grande afflusso di turismo In basso, sulle culturale di cui la Siria stava godendo; nel due pagine: una 2010, 8,5 milioni di turisti visitarono il Paveduta di ese con un incremento del 40% rispetto Damasco, con, in all’anno precedente. All’epoca stavamo alleprimo piano, la stendo le vetrine della sezione «Classica», in Moschea degli collaborazione con i colleghi siriani e Omayyadi. dell’Università di Roma «Sapienza» – Stefano Tortorella e Claudio Borgognoni –,

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SPECIALE • MUSEO NAZIONALE DI DAMASCO

quando fummo costretti a rientrare in Italia per non tornare piú sino allo scorso ottobre. L’emozione di trovarsi di nuovo a Damasco è stata grande; ripercorrere le strade intorno al museo, confondersi con gli studenti usciti dall’università, passeggiare lungo gli argini del fiume Barada – sempre asciutto in verità –, attraversare il ponte Jameyah verso i quartieri borghesi e le sedi delle ambasciate, che speriamo riaprano presto; andare a fare shopping nel suq Hamidiyé, pullulante di persone, ci ha permesso di tornare a respirare il profumo di una regione del mondo che, sin dalla preistoria, è stata protagonista dello sviluppo della civiltà. Rivivere il caos del traffico, a cui a fatica ci eravamo abituati, oggi ci rende allegri, facendoci constatare che la vita sta riprendendo; il traffico, la gente, gli studenti, i negozi e i ristoranti aperti e scintillanti di luci ci hanno dato la sensazione che gli eventi bellici fossero lontani e che non avessero intaccato l’ottimismo e la «resilienza» del popolo siriano. Grandi sono l’ammirazione e la riconoscenza per i colleghi siriani che hanno avuto il coraggio di rimanere nella loro terra per difendere, anche a costo della vita, un patrimonio culturale ricchissimo, che l’UNESCO ha inserito nella lista del Patrimonio dell’Umanità e oggi, purtroppo, in quella del Patrimonio a Rischio. Gli eventi bellici hanno costretto i curatori del museo a tenerlo ermeticamente chiuso per proteggerne i preziosi reperti sino allo scorso 28 ottobre quando, come abbiamo A sinistra: testa di una statua in basalto nero di Nike, da Suweida. II sec. d.C.

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ricordato, è stata riaperta la prima sezione, detta «Classica», al cui allestimento, finanziato dalla Cooperazione Tecnica Italiana, oggi AICS (Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo), partecipammo dal 2008 al 2011 in collaborazione con le Università di Roma «Sapienza» e Venezia, con gli esperti del Ministero per gli Affari Esteri, coordinati dapprima da Fabrizio Ago e poi da Tiziana Lucidi, Roberto Cavallini per il museo, Renzo Carlucci per i laboratori di restauro e Giancarlo Barbato per il recupero e Master Plan della Cittadella. Chi scrive, con Alessia Mastropietro, Laura Tapini, Valerio Ancona e Davide Persanti ha lavorato in Siria su incarico del DGAM nell’ambito del programma finanziato dalla Cooperazione Italiana per la valorizzazione del patrimonio culturale siriano, redigendo il Master Plan del Museo Nazionale di Damasco e l’allestimento della sezione Classica; nello stesso periodo ci occupammo anche del Master Plan della Cittadella di Damasco e dell’allestimento della Grande Galleria per l’esposizione dei mosaici di epoca romana restaurati anch’essi grazie ai finanziamenti della Cooperazione Italiana.

UNA NUOVA SENSIBILITÀ Prima ancora dei preziosi reperti in esso conservati, il Museo Nazionale di Damasco testimonia, come quello di Beirut e molti altri del Medio Oriente, la volontà delle popolazioni locali di affermare la propria identità culturale, di bloccare il continuo trasferimento all’estero dei propri tesori archeologici e di sostenere la nuova sensibilità verso la conservazione del patrimonio culturale nazionale. La dominazione turca della Siria della fine dell’Ottocento ebbe l’effetto di avvicinare e fondere le comunità musulmane e cristiane in un unico sentimento nazionalistico e interreligioso, durato sino allo scoppio della recente sanguinosa guerra. L’impero ottomano in Siria, che di fatto durava dal 1516, terminò il primo ottobre 1918, quando l’Egyptian Expeditionary Force entrò a Damasco con l’emiro Faisal, accompagnato dal leggendario colonnello Lawrence. Il 7 marzo 1919 l’emiro della Siria fu nominato re dal «Congresso Generale Siriano di Damasco», ma durò poco, sino al 1920, quando, sconfitto dai Francesi, abbandonò la capitale siriana; prese avvio il Mandato francese

DAL CASTELLO DEL CALIFFO Nel 1936, Daniel Schlumberger (1895-1973) avviò gli scavi, nel deserto orientale vicino Palmira, del Qasr al-Hayr al-Gharbi, il castello costruito nel 724-727 dal califfo omayyade Hisham ibn ‘Abd al-Malik, che probabilmente lo utilizzava come residenza di caccia. L’edificio, di tre piani, è a pianta quadrata, con il lato di 71 m, e ciascun angolo era difeso da una torre circolare; al centro di ogni lato le mura erano inoltre rinforzate da torri semicircolari. Il governo siriano, che vedeva di buon occhio la riscoperta dell’identità araba del Paese, sostenne la ricomposizione del castello nel Museo Nazionale di Damasco. L’architetto Ecochard propose di ricostruirne la facciata d’ingresso all’esterno dell’ala sud del museo, sia per risolvere i problemi derivanti dall’altezza delle due torri, 15 m, sia per l’alto costo di soluzioni alternative e, soprattutto, per dare un impatto positivo alla vista delle due torri da lontano. A Damasco furono dunque ricostruite con grande cura le due torri monumentali, decorate con motivi vegetali e geometrici, che fiancheggiavano l’ingresso del Qasr al-Hayr. All’interno il castello si articolava intorno a un grande cortile, fiancheggiato da un portico a due piani: gli scavi restituirono le basi delle colonne e quelle dei quattro pilastri d’angolo. Nel museo, al primo piano, sono state ricostruite due stanze che portavano agli appartamenti privati del califfo e parte della galleria che fiancheggiava la corte del castello. Inoltre, nell’area del cortile è stata allestita una sala che espone i frammenti degli affreschi trovati al Qasr Al-Hayr al-Gharbi. Nella pagina accanto in alto e al centro: confronto fra l’attuale assetto della facciata del museo, con le torri del Qasr al-Hayr al-Gharbi, e del suo spazio antistante con la sistemazione prevista dal nuovo progetto architettonico.

(1919 1949), che, nonostante opere di incremento economico e culturale, non riuscí a domare lo spirito di indipendenza politica dei patrioti siriani. In questo clima, nel 1919, durante il breve periodo di indipendenza tra la fine dell’occupazione ottomana e l’inizio del Mandato francese, venne fondato il Museo Nazionale di Damasco, inizialmente situato nella madrasa di Al-Adiliyah, vicino al suq Hamidiyé. L’intento del Ministero dell’Educazione fu quello di bloccare l’esportazione, nel museo di Istanbul e in Occidente dei tesori nazionali, creando un luogo nel quale i Siriani potessero ritrovare i segni della propria identità culturale. Nel giro di pochi anni, la madrasa di Al-Adiliyah divenne insufficiente per ospitare il materiale archeologico che veniva continuamente riportato alla luce, e, nel 1935, le scoperte dell’ipogeo di Yarhai a Palmira (II secolo d.C.), e della sinagoga di Dura Europos (III secolo d.C.) imposero la costruzione di un nuovo museo, destinato a ospitare i due moa r c h e o 89


SPECIALE • MUSEO NAZIONALE DI DAMASCO

del Piano Regolatore di Damasco. Henry Pearson, della Università di Yale, collaborò all’iniziativa e in particolare curò il delicato lavoro del trasporto nel museo degli affreschi di Dura Europos.

SUL FIUME, FRA I GIARDINI Fu scelto un sito nella zona di espansione di Damasco verso ovest, lungo il fiume Barada, in una zona di giardini collegata con la Takiyya e moschea Süleimaniyya, interessanti esempi di architettura ottomana ricontestualizzati in Siria; la struttura venne successivamente ampliata, aggiungendovi un mercato artigianale, fornito anche di atelier per artisti, e creando cosí un complesso architettonico unico nel suo genere. Nelle vicinanze del museo sorse anche la stazione Hedjaz, l’ultimo edificio realizzato a Damasco dai Turchi prima di lasciare il Paese, trasformata nel 2010 in spazio per esposizioni temporanee. Il primo nucleo del museo fu costruito con criteri museografici ancora oggi attuali, nell’innumenti e le collezioni archeologiche di età classica, enormemente arricchitesi. Seguendo le indicazioni degli specialisti dell’epoca, il nuovo museo fu inizialmente destinato ad accogliere le collezioni di età classica e quelle di arte arabo-islamica, mentre i materiali preclassici sarebbero stati ospitati ad Aleppo. L’incarico per la realizzazione del nuovo edificio venne affidato all’architetto francese Michel Ecochard (1905-1985), redattore

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In alto: assonometria delle sezioni del museo. In basso e a destra: vedute dell’area d’ingresso del museo realizzata nel 1936.


tento di valorizzare e contestualizzare la sinagoga di Dura Europos e la tomba ipogea di Palmira. Cosí scrisse Ecochard: «Innanzi tutto era importante ricreare l’ambiente di questi monumenti antichi evitando ogni discordanza con l’architettura moderna del museo: la posizione dell’ipogeo sotterraneo fu prevista nel sottosuolo. Quanto alle pitture della sinagoga furono applicate su pareti identiche a quelle dell’edificio primitivo, per conservarne l’aspetto originale e non farne un “oggetto” dentro il museo; essa fu ricostruita con la sua corte

aperta in modo tale che la sua coesistenza con il museo propriamente detto permette al visitatore, senza lasciare l’interno dell’edificio, di trovarsi in una vera sinagoga». Il concetto della ricontestualizzazione, senza cadere in false ricostruzioni delle opere monumentali trasportate nei musei, era l’avanguardia museografica del tempo; l’idea era stata teorizzata dal museologo americano John Cotton Dana (1856-1929), il quale, per sostenere il finanziamento dei musei da parte degli imprenditori privati, promosse il museo come «social actor». Oggi, anche se con fini prevalentemente di promozione culturale, è una fondamentale linea guida negli allestimenti moderni. Nel 1936, la sinagoga e la tomba ipogea di

Qui sopra: il prospetto Nord del museo, cosí come si presentava all’indomani dell’ampliamento ultimato nel 1936. In alto: planimetria del museo nella quale sono evidenziati gli interventi architettonici succedutisi dal 1936 al 2000.

Palmira (vedi box alle pp. 92 e 94) erano accessibili direttamente dall’atrio del museo (ora destinato all’esposizione dei mosaici provenienti dalla costa mediterranea) e l’edificio museale era sistemato in un giardino con numerosi alberi di eucalipto; aveva una forma a «L», con un atrio di ingresso rivolto verso la moschea turca del XVI secolo; i piani erano sfalsati, per dare la sensazione di una costruzione poco elevata e creare effetti di luce naturale nelle sale espositive. Nel complesso, si trattava di un edificio all’avanguardia per l’epoca in cui fu costruito, con sale poco affollate di reperti e nelle quali furono esposti solo gli oggetti di maggior valore artistico, mentre gli altri, numerosissimi, di interesse archeologico e documentale, furono conservati negli ampi magazzini, dotati di illuminazione naturale e accessibili agli specialisti. Il trasporto, nel 1939, delle due fragili torri della facciata principale del castello omayyade di Qasr al-Hayr al-Gharbi, vicino Palmira, impose un ampliamento (vedi box a p. 89). Le dimensioni delle torri, 32 m di lunghezza per 15 di altezza, convinsero Ecochard a collocarle in facciata, all’esterno dell’edificio. Realizzò dunque un’estensione del muro sud, ed espose il castello verso il giardino. Per proteggere la fragile struttura dagli agenti atmosferici creò a r c h e o 91


SPECIALE • MUSEO NAZIONALE DI DAMASCO

COLORI NEL DESERTO Nel 1932 gli scavi nel sito di epoca romana di Dura Europos, condotti dalla spedizione archeologica dell’Università di Yale diretta da Michael I. Rostovtzeff, restituirono una sinagoga immersa nella sabbia con affreschi unici al mondo, che mostrano scene dell’Antico Testamento, con ritratti di patriarchi e profeti. Lo stato di conservazione dell’edificio era pessimo, perché la sabbia ne aveva compromesso l’integrità. Sotto la guida dell’architetto Henry Pearson, capo della missione, le pitture murali furono staccate e trasportate nel nuovo Museo di Damasco, insieme ad altri elementi costruttivi: basi di colonne, frammenti di porte, mattoni dipinti, ecc. L’intento era quello di ricostruire nel museo una replica perfetta della sinagoga ritrovata sulle rive dell’Eufrate. Le pareti dipinte sono isolate dalla parete esterna del museo da un corridoio che crea un sistema di climatizzazione naturale, garantendo una buona temperatura e un livello di umidità relativa media. Il soffitto è fatto di mattoni quadrati, dipinti con soggetti

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tradizionali. Prodotti e cotti a Beirut, sono copie fedeli degli originali, troppo danneggiati per essere rimontati. Subito sotto il soffitto sono state create tre finestre, che costituiscono l’unica fonte naturale di luce quando la porta della sinagoga è chiusa. Alla stanza della preghiera si accede dal cortile, interamente pavimentato e bordato su tre lati da un portico a pilastri. Nella stanza gli affreschi sono distribuiti su quattro registri, di cui l’inferiore decorato unicamente con figure animali. Di fronte all’ingresso principale corre il muro in cui è ricavata la nicchia della Torah e che è stato recuperato interamente, mentre le pareti laterali presentano lacune. Su questa parete, ai due lati della nicchia, si possono riconoscere numerosi personaggi ed episodi biblici, tra cui il profeta Samuele, Mosè salvato dalle acque, Aronne e i suoi figli, la fuga degli ebrei dall’Egitto, Mosè che separa le acque del Mar Rosso, Davide consacrato re d’Israele, Elia che resuscita il figlio della vedova Sarepta.


In alto: gli affreschi staccati dalla sinagoga di Dura Europos e ricomposti nel museo. 232 d.C. circa. Nella pagina accanto: la scena del ciclo affrescato di Dura Europos raffigurante l’esodo e l’attraversamento del Mar Rosso da parte degli Ebrei. 232 d.C. circa.

un aggetto di 6 m sulla sommità del muro. La nuova ala del museo, terminata nel 1950, comprende, oltre le due torri d’ingresso, due sale che nel castello davano accesso agli appartamenti, la ricostruzione della galleria sulla corte interna del museo, e una galleria destinata a esporre gli affreschi ritrovati in sito a Qasr al-Hayr al-Gharbi.

IL NUOVO AMPLIAMENTO Oltre alla nuova ala, Ecochard progettò un ulteriore ampliamento, composto da un edificio di tre piani situato sul lato occidentale della struttura. Il nuovo ingresso fu sistemato fra le due torri del castello, in modo che la galleria della corte interna diventasse il nuovo atrio e mettesse in collegamento le tre sezioni principali: quella classica, la nuova sezione dedicata al Vicino Oriente antico (o «preclas-

sica») – situata nell’ala occidentale – e quella islamica. L’ampliamento fu curato dagli architetti siriani Oulalby e Omary e inaugurato nel 1954. Infine, fra il 1956 e il 1961, l’ala occidentale del museo venne nuovamente ampliata, con la costruzione di una galleria, di tre sale doppie e di una sala conferenze. Al piano superiore furono realizzate le nuove sale per l’arte moderna, una biblioteca e gli uffici per la direzione del museo. Nella configurazione attuale (2011) il Museo Nazionale di Damasco si articola in due ali distinte: l’ala occidentale ospita i dipartimenti di antichità orientali, di preistoria, di arte arabo-islamica e di arte moderna, nonché gli uffici del DGAM; l’ala orientale accoglie il dipartimento di antichità classiche, con l’arte bizantina, la sala dei gioielli e monete situate al primo piano, ma attualmente, per motivi di a r c h e o 93


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sicurezza, i gioielli non sono in esposizione. Nell’ampio giardino sono sistemate numerose statue, manufatti lapidei e mosaici di epoca classica provenienti da varie località della Siria. Vicino all’ingresso realizzato nel 1935, di fronte a una fontana, è stato trasportato il leone Al-lat, proveniente da Palmira (vedi foto a p. 90). Si tratta di una statua che ornava il tempio della dea pre-islamica Al-lat (Allat), raffigurante appunto un leone che tiene fra le zampe un orice accovacciato. La scultura fu rinvenuta nel 1977 dalla missione polacca diretta da Michał Gawlikowski e, dopo il restauro, esposta davanti all’ingresso del Museo Archeologico di Palmira. Nel maggio del 2015, la statua e il museo sono stati demoliti dai miliziani dell’ISIS. Dopo la riconquista di Palmira da parte dell’esercito siriano e russo, l’UNESCO, nell’ambito del programma di «Salvaguardia d’urgenza del patrimonio archeologico siriano», coordinato da Cristina Menegazzi, ha finanziato un nuovo restauro del leone, affidandolo agli specialisti polacchi Bartosz Markowski e Aleksandra Trochimowicz. Dopo il restauro in sito, il leone è stato quindi trasportato nel giardino del museo di Damasco.

IL RIORDINO DELLE COLLEZIONI Dal 1963 al 2000 il museo è stato oggetto di ulteriori trasformazioni e le collezioni si sono arricchite grazie ai nuovi ritrovamenti. I continui arrivi di reperti e le modifiche non piú pianificate hanno cancellato l’organizzazione iniziale e il museo ha assunto un aspetto disordinato, con magazzini quasi inaccessibili per la quantità di reperti che vi sono stati depositati. Si è dunque fatto urgente il riordino delle collezioni, con un nuovo allestimento delle vetrine, la riorganizzazione dei percorsi di visita, la ristrutturazione e l’ampliamento dei magazzini. Il programma di cooperazione italo-siriana, finanziato con oltre 10 milioni di euro, prevedeva il recupero della Cittadella di Damasco e il riordino del Museo Nazionale – nel quale furono tenuti corsi di management a beneficio del personale –, la creazione di un database delle collezioni e la redazione del Master Plan, destinato ad avere, come logico sviluppo, il riallestimento della sezione classica, dedicata all’arte romana e bizantina. Il Master Plan ha analizzato tutte le problematiche del museo, conservando, su richiesta della direzione, tutte le sezioni (Paleolitica, 94 a r c h e o

UNA SPETTACOLARE DIMORA PER L’ALDILÀ Tra il novembre del 1934 e il febbraio del 1936, il Museo Nazionale di Damasco promosse l’esplorazione, nella valle vicino Palmira, di uno dei piú grandi monumenti funerari della necropoli romana, l’ipogeo di Yarhai. Le volte della tomba – che era stata violata da scavatori clandestini, ma solo parzialmente saccheggiata – erano crollate, la sabbia riempiva l’interno del complesso e parti delle decorazioni architettoniche erano state rimosse per essere riutilizzate in altri edifici. I frammenti superstiti permisero tuttavia all’archeologo francese Henri Seyrig (1895-1973), allora a capo del Servizio delle Antichità di Siria e Libano, di elaborare la ricostruzione grafica completa del monumento. L’ipogeo era composto da 219 loculi e un’iscrizione datava la sua fondazione al 105 d.C., dichiarandone l’appartenenza a un personaggio di nome Marcus Ulpius Yarhai, la cui

famiglia utilizzò la tomba sino al III secolo d.C. Scale diritte, scavate nel pavimento, portavano in un piccolo magazzino funerario dopo sette gradini; nella parete del vestibolo si apre una porta, attraverso la quale, dopo 10 gradini, si raggiunge l’ipogeo vero e proprio, composto da una galleria lunga 14 m e coperta da una volta a botte e da due esedre laterali. L’interno, riccamente decorato, è composto da una stanza rettangolare voltata a botte e le pareti laterali si articolano in quattro livelli di loculi, mentre quella di fondo presenta una nicchia quadrata, sormontata da un arco e posta su di un podio; al suo interno vi è un triclinium, con il titolare del sepolcro che presiede al banchetto funebre. Gli elementi architettonici delle pareti laterali sono stati recuperati e hanno consentito di ricostruire l’esatta decorazione architettonica, compresi il triclinium e le lastre di chiusura dei loculi, che raffigurano i loro occupanti.


Neolitica, Preclassica, Classica, Islamica e Arte Moderna) oltre ai magazzini, gli uffici tecnici, la direzione e i laboratori di restauro. In accordo con il progetto di Ecochard, la linea propositiva del Master Plan fu quella di far evolvere l’istituzione in un «museo per la gente», in cui le opere in mostra siano al centro di uno spazio sociale dove il pubblico locale possa riscoprire la propria storia culturale e quello internazionale attingere a una introduzione alla visita del Paese. Riorganizzato come «attore sociale», il museo rappresenta simbolicamente una finestra aperta sulla cultura siriana, stimolando i visitatori a recarsi nei luoghi archeologici di provenienza dei reperti esposti.

A OGNI ZONA LA SUA LUCE Il Master Plan ha dato il necessario riconoscimento al valore dell’edificio in quanto contenitore museale di grande valore architettonico. Nella sezione classica è stato recuperato il sistema di illuminazione naturale delle sale espositive, dove, al piano terra, erano state create finestre poste in alto, cosí da evitare, per motivi di conservazione, l’illuminazione diretta dei reperti; nelle gallerie le vetrine incassate nel muro esterno ricevono una illuminazione naturale attraverso finestre poste sopra l’angolo visuale dell’osservatore. Il recupero e l’integrazione del sistema di illuminazione realizzato genera modulazioni di luce diversa per ogni zona espositiva, contribuendo a tenere alta l’attenzione dei visitatori. Il giardino di ingresso al museo con le due torri del Qasr al-Hayr al-Gharbi e con le collezioni di sculture e mosaici esposti all’aria aperta è stato ripensato per dare maggiore spazio ai servizi museali. Attraverso una comoda rampa, dall’ingresso nel giardino si potrà scendere al piano seminterrato, nel quale verranno sistemate la biglietteria, una zona per le mostre temporanee e la boutique. Qui sarà inoltre realizzato l’ampliamento dei magazzini archeologici. Un gruppo di scale poste al centro dell’area di accoglienza porterà i visitatori al piano terra, dove, superato il Reception and information desk, si entrerà nel museo, sempre utilizzando la porta situata fra le due torri del Qasr al-Hayr al-Gharbi. Per proteggere dall’inquinamento atmosferico le due torri e le collezioni di sculture poste all’esterno si è proposto di chiudere lo spazio antistante il museo con una grande struttura vetrata, dove i tetti dell’ala orientale

Sculture di epoca classica provenienti da varie località della Siria e collocate nel giardino del museo. Nella pagina accanto: la nicchia di fondo dell’ipogeo di Yarhai, con il triclinium. II sec. d.C.

del museo potranno diventare caffetteria, ristorante e spazi di relax. Sempre nell’atrio sarà collocato il museo per i bambini. Sull’esempio delle case damascene l’atrio coperto a vetri sarà rinfrescato dalla nebulizzazione dell’acqua della fontana centrale. Lo studio mira a integrare la tradizionale esposizione di opere d’arte in una struttura piú ampia coniugando la ricerca scientifica e formativa con spazi dedicati alle attività di intrattenimento e commerciali, attraendo in questo modo una grande varietà di visitatori locali e internazionali. In altre parole, il museo diventerà un luogo per la cultura, la ricerca e la ricreazione. Per usare le parole dell’architetto statunitense Fiske Kimball (1888-1985), il nuovo museo di Damasco potrà essere vissuto come «la strada principale dell’arte», un itinerario che sarà una guida per comprendere i reperti esposti, evitando la «successione faticosa e noiosa di sale e gallerie prive di emozioni culturali» (Il museo del futuro, 1929). a r c h e o 95


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LA SEZIONE CLASSICA

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a sezione dedicata alla Siria in età classica, dalla fine del periodo arcaico alla nascita dell’Islam, inaugurata lo scorso ottobre, segue un percorso cronologico, tematico e geografico, mostrando gli elementi che caratterizzano le diverse regioni siriane e propone diversi livelli di approfondimento, offrendo comunque un panorama completo dello sviluppo storico-artistico della Siria classica. I diversi livelli sono articolati attraverso i reperti piú rappresentativi di ciascun tema. In particolare, l’attenzione su questi «master pieces» è catturata, oltre che dal loro intrinseco valore artistico, dalla collocazione in posizione baricentrica lungo il percorso.

Sarcofago neoattico, da Arethusa (Al Rastan). I sec. a.C.I sec. d.C. Sulla fronte della cassa è scolpita una scena di battaglia davanti alle navi.

Sette sono i temi cronologici elaborati da Stefano Tortorella e Claudio Borgognoni: 1. Dal periodo arcaico all’epoca ellenistica; 2. La Siria dalla romanizzazione alla guida dell’impero: vita quotidiana, artigianato e commercio; la statuaria, modelli figurativi urbani, l’immagine dell’impero; 3. Regioni e città della Siria romana; le metropoli: Damasco, Antiochia, Apamea, Lattakia, Emesa; le regioni meridionali: Hauran e Golan; 4. Il ruolo strategico del confine orientale: Dura Europos; l’originalità di un mondo di frontiera; arte e religione; il mondo militare, il ruolo dell’esercito romano; 5. Palmira. Caravanserraglio e capitale del commercio orientale; l’arte funeraria


ca e religiosa romana in Siria, sono documentati da manufatti come il grande sarcofago di marmo trovato a Rastan e statue di divinità siro-romane in basalto e calcare. La sezione dedicata alle città della Siria romana mostra il territorio e i principali centri urbani. Il materiale architettonico è rappresentato da capitelli e modanature provenienti dalla strada colonnata, la via Recta, di Damasco, mettendo in risalto il fiorire urbanistico e architettonico della città in questo periodo. Per sottolineare la ricchezza e il lusso degli edifici pubblici e delle case private sono esposte statue di marmo provenienti da Antiochia, Apamea e Lattakia. Il percorso prosegue con Emesa (Homs), centro di primo piano per la storia dell’impero, perché qui nacque la dinastia severiana fondata da Settimio Severo e

A sinistra: rilievo con Ishtar e la Tyche di Palmira. Metà del I sec. d.C. La figura maschile sotto il piede della dea simboleggia probabilmente le forze del male sottomesse; mentre Tyche con la corona turrita è la personificazione simbolica della città.

delle necropoli; la religione palmirena; il mondo femminile; Palmira arbiter dell’impero romano; 6. L’età bizantina (395-632 d.C.); la peculiarità del cristianesimo orientale; la Croce, nuova iconografia per una nuova religione; 7. Sezione diacronica: il vetro in età classica, storia, tecniche, utilizzazioni.

AL TEMPO DEI SELEUCIDI Il percorso si apre con un’introduzione dedicata ai primi manufatti della cultura figurativa greca in Siria durante il regno dei Seleucidi e in epoca achemenide. La sezione successiva mostra l’incontro tra i Greci e la cultura siriana in età ellenistica. Dopo la morte di Alessandro Magno, in Oriente l’impero macedone fu diviso tra i suoi generali. La Siria diventa parte della Seleucide, fondata da Seleuco I Nicatore. In questa sezione si presentano mappe e testi tematici, con reperti legati all’artigianato artistico e alla cultura materiale, come ceramica, vetro, gioielli, sculture e monete d’argento raffiguranti vari re ellenistici. La sezione sulla «romanizzazione» illustra i profondi cambiamenti della regione quando la Siria entrò a far parte dell’impero romano nel 64 a C. I mutamenti che coinvolgono l’economia, il commercio, la scienza, la medicina, la cultura e la scrittura sono mostrati attraverso reperti archeologici del mondo quotidiano. Altri aspetti della presenza artisti-

Pianta della sezione classica con la suddivisione delle sale prevista dal Master Plan: 1. Dal periodo arcaico all’epoca ellenistica; 2. La Siria romana; 3. Regioni e città; 4. Dura Europos; 5. Palmira; 6. L’età bizantina.

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Iulia Domna, figlia di un importante sacerdote locale. La dinastia severiana diede imperatori quali Caracalla, Eliogabalo e Alessandro Severo, che sono raffigurati nelle monete d’argento esposte nel museo. Il culto siriano del Sole (Sol Invictus), arrivato sino a Roma è presentato attraverso alcuni bassorilievi. Una parte di questa sezione è dedicata alle regioni del Hauran e Golan, mostrando la loro particolarissima cultura artistica rappresentata dalla scultura religiosa e funeraria in basalto e dalle raffinate miniature in bronzo. L’ultima parte della sezione è dedicata alla città di Shahba-Filippopoli, il cui abitante piú famoso, Filippo, divenuto imperatore, alla metà del III secolo d.C., costruí infrastrutture e monumenti tipici dell’urbanistica romana. Varie statue in basalto mostrano i simboli del potere dell’impero romano di questo periodo.

UNA SOCIETÀ MULTICULTURALE Si passa quindi alla città di Dura Europos, illustrando il ruolo strategico dell’impero romano al confine con il mondo persiano. La società multiculturale è rappresentata nelle sculture, nei dipinti e, soprattutto, negli affreschi provenienti dal «tempio dei Palmireni» – con le pitture raffiguranti una tipica divinità greco-romana, come Nikai –, e nelle tavole del soffitto della sinagoga. Nella parte dedicata all’esercito romano è esposta una stele funeraria la cui iscrizione narra di un soldato proveniente dall’Italia, che aveva sposato una donna siriana e che, dopo il servizio militare, decise di continuare a vivere e morire in questa regione; qui si può anche ammirare la famosa armatura per cavallo. Dopo aver ripercorso la storia di Dura Europos, il visitatore può scegliere fra la possibilità di approfondire la conoscenza dei siti archeologici siriani, sostando nel punto multimediale, o uscire nel giardino, dove sono esposti frammenti architettonici di grandi dimensioni, provenienti dalle piú importanti città della Siria, oppure proseguire la visita. Dall’atrio del primo allestimento di Ecochard si possono visitare i due famosi monumenti che caratterizzano l’inte98 a r c h e o

ro museo: la già menzionata sinagoga di Dura Europos, con il suo dipinto murale raffigurante episodi biblici, e il complesso funerario ipogeo di Yarhai, da Palmira, ricostruito nel sotterraneo. Tornati al piano terra, la sezione dedicata a Palmira è focalizzata sul ruolo della città come hub commerciale tra l’Oriente e il mondo Mediterraneo, che permise alla regina Zenobia di conquistare importanti territori dell’impero romano. L’arte funeraria palmirena è rappresentata da busti in calcare e sarcofagi, che provano il livello sociale e il modo di vivere della nobiltà palmirena. Sfilano quindi i bassorilievi a carattere religioso, raffiguranti divinità sia orientali – come la «Triade palmirena» –, sia classiche – come Ercole e Atena – a testimonianza del carattere cosmopolita della città. Capitale del commercio orientale, Palmira è raffigurata attraver-

In basso, sulle due pagine: unguentario in forma di pesce per profumi od oli, da Tafas. Inizi del III sec. d.C.


A destra: la sezione dedicata alla regione del Hauran. In primo piano, rilievo di Eracle che strangola il leone nemeo, da Suweida. II-III sec. d.C. L’eroe, giovane e senza barba, nella prima delle sue dodici fatiche, uccide il mostruoso e invulnerabile felino, che attaccava i villaggi facendo razzia di greggi e strage di uomini.

so i bassorilievi con le carovane che giungevano in città, mentre, la sua ricchezza si coglie dal lusso delle ambientazioni e dagli ornamenti femminili rappresentati nei ritratti. L’ultima sezione della mostra riguarda i caratteri del cristianesimo siriano in epoca bizantina. La nuova religione è mostrata sia attraverso gli strumenti del

culto e della liturgia (lampade di bronzo, vasi sacri, incensieri, ampolle, brocche, reliquiari), sia attraverso la nuova iconografia cristiana, come, per esempio, le croci e i rilievi scultorei provenienti dalla chiesa di Rasm al-Qanafez, che raffigurano scene legate a episodi del Nuovo Testamento, quale l’Adorazione dei Magi a Betlemme.

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IL VICINO ORIENTE ANTICO

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uella classica, come detto in apertura, è attualmente la sola sezione visitabile del Museo Nazionale, mentre le altre sono chiuse in attesa della ristrutturazione prevista dal Master Plan. L’Università di Roma «Sapienza», Dipartimento di scienze dell’antichità – nelle persone di Frances Pinnok, Paolo Matthiae e Davide Nadali –, dopo aver progettato le nuove linee museologiche della collezione, sta elaborando un project financing per avviare la ristrutturazione della sezione dedica-

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Frammento di fregio a rilievo raffigurante un busto maschile, dal «Palazzo presargonico» di Mari. 2500-2400 a.C.

ta al Vicino Oriente antico. In queste pagine riportiamo una sintetica descrizione di come il museo si presentava al momento della sua chiusura e un accenno alle innovazioni suggerite nel Master Plan. In origine, le antichità del Vicino Oriente antico erano destinate a essere esposte solo nel Museo di Aleppo; successivamente, dopo i numerosi ritrovamenti archeologici, fu deciso di esporle anche a Damasco e di allestire ad Aleppo una sezione di arte romana. Il percorso di visita è essenzialmente di tipo geografico: inizia a fianco della corte con la fontana di epoca araba e comprende le sale dedicate a Ugarit, due gallerie dedicate alle antichità della Siria interna – Tell Ref ’at, Khoueyrah – e a quelle dei tell situati lungo la costa – Soukas Kazel, Amrit –, nonché le sale dedicate a Ebla e Mari. La sala di Ugarit, importante porto nel II millennio a.C., mostra una civiltà protagonista delle fasi cruciali della storia dell’umanità, in particolare per quanto riguarda lo sviluppo dell’agricoltura e l’invenzione di uno dei primi sistemi di scrittura. Una vetrina espone l’alfabeto di Ugarit, una sorta di abbecedario per gli studenti del II millennio, che ne imparavano a memoria le 30 lettere. Nella vetrina successiva sono esposte le tavolette ritrovate nell’immenso archivio reale, nel quale erano custoditi testi amministrativi, giuridici


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diplomatici e religiosi che documentano i rapporti instaurati fra i popoli del Mediterraneo con quelli della Mesopotania. Il livello dell’artigianato ugaritico è documentato dal piatto in avorio finemente decorato con animali disposti intorno una rosa centrale, mentre alla sfera religiosa rimandano due statuine in bronzo che mostrano le divinità venerate nella città: El, il dio cananeo seduto sul trono che tiene in mano uno scettro, e Baal. Ugarit raggiunse il massimo potere durante il II millennio, affermandosi come protagonista delle vivaci attività commerciali nel Mediterraneo che, dalla costa siriana, arrivavano sino alla valle del Nilo. Nelle vetrine del museo sono esposti oggetti che mostrano il gusto per i motivi egiziani, ceramiche smaltate prodotte nella città, ma ispirate all’iconografia egiziana.

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In basso: particolare di un rilievo raffigurante un eroe che tiene (o combatte) due capridi, da Mari. 2500-2400 a.C.

A sinistra: planimetria della sezione dedicata al Vicino Oriente antico con l’attuale suddivisione delle sale: 1. Ugarit; 2. Galleria di Ugarit; 3-4. Gallerie del Vicino Oriente; 5. Ebla; 6-7. Mari.

da oltre 17 000 tavolette cuneiformi. Quell’archivio conservava i registri della contabilità della città, testi di carattere letterario, legale, economico, diplomatico, nonché un dizionario bilingue, probabilmente il piú antico del mondo. Quella scoperta ha permesso di scrivere un capitolo della Siria sconosciuto, dimostrando che la regione di Ebla, nel III millennio, fu il centro di uno degli Stati piú importanti del Vicino Oriente. A Damasco è

UNA SCOPERTA CLAMOROSA La scoperta di Ebla, citata in molti testi antichi, ma mai rinvenuta sino al 1968, è stata il grande evento archeologico degli anni Sessanta del Novecento, quando permise di studiare la storia della regione siriana del III millennio a.C. in un’ottica totalmente diversa e innovativa, rendendo famosa l’archeologia italiana in tutto il mondo. A Tell Mardikh, la missione diretta da Paolo Matthiae si è resa protagonista, nel 1975, di una scoperta eccezionale per la storia della civiltà, quando, dopo il ritrovamento del palazzo reale, venne alla luce, nella zona amministrativa, l’archivio di Stato, risalente al III millennio e composto a r c h e o 101


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esposta una selezione delle tavolette rinvenute dalla missione italiana, mentre nel Museo di Idlib, vicino alla zona archeologica, è conservato il resto dell’archivio, che tutti noi ci auguriamo non abbia subito danni e furti durante la violenta occupazione della città non ancora, mentre sciviamo, del tutto liberata. Fondata intorno al 4500 a.C., Mari, uno fra i piú importanti siti archeologici mesopotamici, fu un centro sumerico, tra il 2900 e il 1761 a.C., e raggiunse il massimo splendore agli inizi del II millennio, sino a quando non fu distrutta dal re Hammurabi di Babilonia nel 1761 a.C. Il sito archeologico forma una col-

Nella pagina accanto: particolare di una statua femminile seduta che indossa il kaunakes, mantello di vello di montone, e il polos, copricapo con il velo, dal Tempio di Ishtar a Mari. 2500-2400 a.C. In basso, a sinistra: particolare di una statua di orante, da Mari. 2500-2400 a.C. In basso, a destra: tavoletta cuneiforme con impronta di sigillo di timbro di ShaushgaMuwa, re di Amurru, dal Palazzo Reale di Ugarit. XIII sec. a.C.

lina che si trova a 11 km circa dalla cittadina di Abou Kemal (o Al Bukamal), sulla sponda occidentale del tratto intermedio del fiume Eufrate, 120 km circa a sud-est di Deir el-Zor e a 30 km circa dalla frontiera con l’Iraq. Dopo la scoperta di una statua da parte di un beduino, il sito fu scavato dal 1933 al 1968 da André Parrot (1901-1980), che rinvenne templi a ziqqurat e un palazzo reale fra i piú grandi del mondo antico, che copre un’area di 200 x 120 m ed è composto da oltre 300 stanze. La sezione su Mari espone oggetti in lapislazzuli provenienti dall’Asia e alcune famose statuette, probabilmente ex

La sezione dedicata al grande sito di Mari espone preziosissimi reperti in avorio e madreperla



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In alto: tarsia in madreperla e avorio con il sacrificio di un montone, da Mari. 2500-2400 a.C. A sinistra: particolare della statua in basalto del governatore assiro di Sukani Hadad-a’ysi, da Tell Fekheriyeh. IX sec. a.C.

voto, che ritraggono Ur-Nanshè, danzatore del tempio di Ishtarat, seduto su un cuscino, e Shibum, direttore del catasto reale, rappresentato calvo con le mani giunte in segno di adorazione e il vestito ricoperto di piume. In un’altra vetrina il pannello in madreperla e avorio che descrive la scena di un sacerdote che si accinge a sacrificare un agnello.

LE PRIME FORMAZIONI STATALI La proposta museologica sviluppata dall’Università di Roma e riportata nel Master Plan mette in luce il sostanziale contributo delle civiltà siriane al profilo della storia generale, allo sviluppo dell’agricoltura, della pastorizia, ai primi villaggi neolitici e alla creazione di civiltà statali. Contributo che determinò il successo finale della città come formazione socio-economica nella prima età del Bronzo, fino alla concezione e formazione dell’alfabeto nella tarda età del Bronzo. Le fasi fondamentali della storia saranno illustrate non solo lungo le sale destinate ai singoli siti archeologici, quali Mari, Ebla, Ugarit, ma anche attraverso sale tematiche, dedicate ai piú antichi testi amministrativi cuneiformi, alle tavolette ugaritiche, ai monumenti epigrafici fenici e aramaici e dagli avori dei principi simboli di ricchezza e potere. 104 a r c h e o


L’EPOCA ISLAMICA

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In questa pagina: veduta d’insieme e particolare delle torri del Qasr al-Hayr al-Gharbi, trasferite dal sito d’origine e ricomposte nella facciata del museo.

attuale atrio d’ingresso del Museo Nazionale, attraverso il quale si accede alle tre sezioni – classica,Vicino Oriente antico e islamica – accoglie la ricostruzione del castello Al-Hayr Al-Gharbi (vedi box a p. 89), sorto nel deserto siriano per volere del califfo omayyade Hisham Abb El Malik; sulle pareti e al piano superiore sono esposti i fragili elementi architettonici salvati dal deserto. Davanti agli ingressi delle sezioni dedicate al Vicino Oriente antico e all’arte islamica è stato ricostruito un cortile islamico, con al centro una fontana in marmi policromi datata al tardo periodo ottomano e, nella nicchia, un leone in gesso dipinto seduto su una base cubica; il reperto di epoca abbaside fu rinvenuto nel letto dell’Eufrate, vicino ad Ar-Raqqa. L’ala dell’arte islamica, costruita nel 1939 e attualmente chiusa, copre una superficie di 317 mq. È scandita da un percorso di visita sia cronologico, sia tematico, con sale dedicate alle città protagoniste dell’islamizzazione che, con Damasco capitale della dinastia omayyade, ha ulteriormente arricchito la millenaria ricchezza culturale della Siria. La sala dedicata agli scavi di Raqqa – oggi tristemente famosa per essere stata la roccaforte dei terroristi di Daesh (ISIS) e da questi quasi totalmente distrutta – mostra

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due modelli della città antica con la doppia cinta di mura e i suoi palazzi, a nord-ovest il palazzo «A» e, a nord-est, i palazzi «B», «C» e «D»; gli elementi architettonici sono esposti sui muri della sala, al cui centro fa bella mostra di sé lo stupendo cavaliere in ceramica policroma probabilmente importato a Raqqa dal Turkistan asiatico nel XII secolo (vedi foto alla pagina seguente). Il cavaliere combatte con la spada contro il drago che avvolge il suo cavallo. Le vetrine lungo le pareti, oltre alle ceramiche e a frammenti in legno dipinti, espongono una collezione numismatica in rame di oltre 1000 pezzi arabi e bizantini, che testimoniano i fiorenti commerci della città antica fra mercanti di diversa religione.

In questa pagina: particolare della decorazione di un recipiente in terracotta con raffigurante un personaggio con un calice in mano, da Hama. XIII-XIV sec.

La sala 5 è dedicata alla cittadella di Hama, la cui frequentazione abbraccia un lungo orizzonte cronologico, dal II millennio a.C. sino all’epoca arabo-islamica. I reperti esposti, scavati dalla missione danese tra il 1931 e il 1938, confermano l’importante contributo dato dal sito all’avvento della cultura arabo-islamica in Siria. Le sale dedicate ai manoscritti (7 e 8) mostrano le tecniche e i supporti per la scrittura e l’importante collezione di documenti, che vanno dai primi anni dell’Egira (622 d.C.) al periodo ottomano. I manoscritti mostrano l’alto livello culturale raggiunto dall’Islam in tutti i campi esponendo testi religiosi (il Corano), suppliche, teologia, filosofia, letteratura, linguistica, medicina,

In età islamica, la produzione artigianale raggiunse livelli di eccellenza in molti campi, fra cui spicca quello della lavorazione del legno

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A sinistra: iscrizione che commemora la ristrutturazione della Moschea degli Omayyadi, nel 1179. In particolare, si ricorda il restauro dei rivestimenti marmorei. In basso: figura equestre in argilla cotta con vernice policroma, da Raqqa. XII sec.

anatomia, farmacia, botanica, geografia e astronomia. L’esposizione comprende anche un importante corpus di manoscritti arabi destinati alla popolazione non araba, scritti con calligrafia persiana e turca per far comprendere la lingua siriana agli stranieri.

La riorganizzazione museologica della sezione islamica, progettata dall’Università Ca’ Foscari di Venezia-Dipartimento di studi euroasiatici – Cristina Tonghini –, pone particolare attenzione ai manufatti provenienti dagli scavi archeologici effettuati in tre grandi siti della storia dell’archeologia islamica: Qasr al-Hayr al-Gharbi, Raqqa e Hama. Lo scopo del nuovo allestimento è quello di illustrare, sulla base di un quadro cronologico i diversi periodi islamici (1. L’impero dei califfi,VII-X secolo; 2. Atabeg, emiri e sultani, XI-XVsecolo; 3. Il sultanato ottomano, XVI-XX secolo), con i vari aspetti della civiltà che caratterizzarono la storia e la produzione artistica della Siria per circa quattordici secoli. Per aiutare il visitatore nella comprensione di questa notevole collezione, vari temi sono presentati in modo piú dettagliato: la vita religiosa; la vita alla corte dei califfi; il patrocinio delle arti, delle scienze, delle tecniche e della letteratura; l’arte della guerra e della cavalleria; lo sviluppo della scienza. La nuova mostra riflette il ruolo dell’Islam sia come religione che come sistema politico, mostrando una scelta di oggetti artistici provenienti dalla corte e opere di arte religiosa.

CAPOLAVORI DI INTAGLIO Il livello artistico nella lavorazione del legno raggiunto dagli artigiani siriani è documentato nelle sale 9 e 10, dove diverse tecniche di taglio e incisione sono utilizzate per la produzione di numerosi oggetti di arredo delle abitazioni, delle moschee e delle scuole coraniche. Qui sono esposti porte, soffitti intagliati e dipinti, paraventi – moucharabieh - utilizzati per non mostrare al pubblico le donne dell’harem. Alla fine del percorso, s’incontra la sala di ricevimento damascena, ricostruita nel museo nel 1958 con pannelli originali del XVIII secolo donati dal primo ministro Jamail Mardam bey. a r c h e o 107


SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

QUANDO LO SCAVO ARRIVA AL PETTINE A RIBE, IN DANIMARCA, È RIPRESO LO SCAVO DI UN EMPORIUM NATO NELL’ALTO MEDIOEVO. INDAGINI CHE GETTANO NUOVA LUCE SULLA STORIA DELL’ABITATO E HANNO GIÀ SVELATO PIÚ D’UNA SORPRESA...

T

ra il VII e il IX secolo succede qualcosa di nuovo, nell’Europa settentrionale: in tutta la zona che si affaccia sul Mare del Nord e il Mar Baltico nasce una rete di città. È un sistema interconnesso, i cui gangli prendono vita già nel VII secolo: Quentovic, in Francia; Dorestad, in Olanda; Lundenwic (cioè la versione altomedievale di Londra). Seguono poi le prime fondazioni scandinave: Hedeby/Haithabu, in Germania; Ribe, in Danimarca; Birka, in Svezia. Questa ondata di fondazioni di città si muove quindi con un andamento da ovest verso est. Una delle ultime è Kaupang, nata in Norvegia all’inizio del IX secolo. A scatenare questo fenomeno sono i commerci e, in particolare, la nascita di un network mercantile che gravita su quelle aree ma si ramifica fino nei territori della Russia, dell’India e delle zone sotto la dominazione islamica.

UNA VASTA GAMMA DI BENI Si commerciano molti beni, tra oggetti e materie prime: ambra, vetro, oro; vino, armi, gioielli, pellicce, bicchieri, macine in pietra. Uno dei distretti commerciali piú attivi è la Renania, dove artigiani specializzati fabbricano spade di

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Ribe, Danimarca. La foto qui accanto si riferisce alla scoperta della sepoltura di un cavallo, che ha restituito, oltre allo scheletro dell’animale, anche le staffe e altri elementi della bardatura.

grande qualità. Ma poi, sopra ogni altra cosa: schiavi. I missionari giunti in Scandinavia nel IX secolo tratteggiano un quadro a tinte fosche, in cui le strade di questi centri vengono continuamente attraversate da schiavi in catene, uomini e donne che provengono soprattutto dal Sud dell’Europa e dall’Africa. Tutto questo sarà uno dei principali motori della ripartenza economica dell’Europa, che decollerà al tempo di Carlo Magno. Le nuove città del Nord, che gli antichi documenti chiamano «emporia», sono da tempo nel mirino degli archeologi, che hanno

iniziato ad analizzarle già nel XIX secolo. Da allora le indagini si sono susseguite con approcci sempre piú meticolosi, alla ricerca di nuovi dati e, ciclicamente, si ricomincia a scavare in qualcuno di questi luoghi. Capiamo bene il perché: si tratta delle nuove esperienze urbane dopo la caduta dell’impero romano, e, per la Scandinavia, delle prime città in assoluto. Luoghi fondamentali, quindi, per ricostruire le modalità attraverso le quali quell’area è uscita dalla preistoria per entrare direttamente nel Medioevo. Uno degli emporia piú scavati e


meglio conosciuti è Ribe. Scoperta negli anni Settanta del Novecento, la Ribe altomedievale è tornata alla ribalta una prima volta vent’anni piú tardi, quando un archeologo danese, Klaus Feveile, ha diretto lo «scavo dell’ufficio postale». Durante la ristrutturazione di un piccolo ufficio postale si è infatti potuta documentare la sequenza insediativa del primo abitato di Ribe: un agglomerato dell’inizio dell’VIII secolo, suddiviso in lotti di terreno regolare, nel quale

vivevano e lavoravano con cadenza stagionale artigiani/ mercanti con le loro famiglie.

UN PROGETTO AMBIZIOSO Le indagini, finanziate dalla Carlsberg Foundation e dirette da un altro, ottimo archeologo danese, Søren Sindbæk, sono riprese nel giugno 2017. Questa volta il progetto è piú ambizioso: è stata aperta una grande trincea che attraversa parte

Il pettine in osso rinvenuto a Ribe e, nel dettaglio, l’incisione in caratteri runici leggibile in kama, vocabolo che designa appunto il pettine.

dell’abitato, e che ha permesso il recupero di molte nuove informazioni. E la prospettiva è cambiata: sono venuti alla luce i resti di case in legno e terra, coperte con ramaglie e con pavimenti in terra battuta. A Ribe, quindi, gli artigiani risiedevano stabilmente. Questo importante risultato è stato raggiunto grazie a una modalità di scavo certosina: gli strati di vita sono sottilissimi e i resti delle strutture quasi impercettibili. Tutto è stato documentato con accuratezza, e con l’aiuto delle tecnologie piú avanzate: la scansione in 3D di ogni elemento scavato ha aiutato a velocizzare i tempi, oltre che nella comprensione della sequenza. Tra le altre novità di rilievo, la scoperta di un cimitero attorno alla chiesa, segno di un primo successo dei missionari cristiani già nel IX secolo. E poi, in un altro cimitero, l’individuazione di forme differenti di sepolture: a cremazione dentro urne, in sarcofagi, con e senza oggetti… Il segno di una comunità composita, i cui membri provenivano evidentemente da zone diverse. Ribe era insomma un crocevia di genti e di culture, come sempre succede nei luoghi del commercio. E poi, forse la scoperta piú straordinaria: sono tornati alla luce alcuni oggetti con iscrizioni in alfabeto runico, tra cui un pettine in osso con incisa la parola «kama», vocabolo che sta alla radice dell’inglese comb, cioè «pettinare». E finora erano pochi gli esempi di iscrizioni runiche dell’VIII secolo. Le nuove ricerche definiscono quindi un’immagine di Ribe come un luogo centrale dei commerci e della società altomedievale, i cui abitanti conducono vite complesse e varie, e conoscono anche la scrittura. Un embrione di città, in una zona dove fino a quel momento le città non erano mai esistite.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

IN STATO DI... GRAZIE LE TRE FANCIULLE CELEBRATE DA POETI E SCRITTORI RICORRONO ANCHE SULLE EMISSIONI MONETALI, COME SIMBOLI DI ARMONIA UNIVERSALE

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el fantastico Giardino delle Esperidi, tanto simile a un Eden senza animali se non per il serpente guardiano Ladone, vivevano felici le sorelle Esperidi, che le fonti quantificano in un numero oscillante fra tre (di solito sono nominate insieme: Egle, Aretusa ed Espera) e undici. Soavi

fanciulle, sono versate nella lirica («fanciulle dal canto melodioso»: Esiodo, Teogonia, v. 275) e nella danza: Properzio ricorda infatti «i cori delle Esperidi danzanti» (Elegia XVI). Nella ceramografia greca esse compaiono in riferimento alla vicenda dei pomi d’oro dell’undicesima fatica di Ercole;

In alto: moneta in bronzo emessa a Marcianopoli (Mesia Inferiore). 177-192 d.C. Al dritto, l’imperatore Commodo; al rovescio, le Tre Grazie. A sinistra: Le Tre Grazie Borghese, copia romana di età imperiale da un originale di età ellenistica (integrate e restaurate nel 1609 da Nicolas Cordier). Parigi, Museo del Louvre. come si è visto nelle scorse puntate, anche nell’iconografia numismatica le giovani ricorrono, sempre in numero di tre, in contesti relativi allo stesso episodio. Dato il tema palesemente gradevole, l’immagine letteraria delle Esperidi che si tengono per mano, colte in danza o in leggiadre movenze, conobbe grande fortuna nella pittura moderna e in particolare nel XIX secolo, come dimostra, tra gli altri, il celebre dipinto del maestro preraffaelita Edward Burne-Jones intitolato


A sinistra: rovescio di una corona d’oro di Giorgio III, Gran Bretagna, 1817. Le «Tre Grazie» come personificazioni dell’Irlanda, della Gran Bretagna e della Scozia. In basso: rovescio di un gettone da 5 ECU, Gran Bretagna, con le Tre Grazie ispirate a un modello vittoriano.

appunto alle divinità. Tale tipo compositivo deve però molto a un altro modello iconografico classico, ovvero quello largamente attestato delle Tre Grazie (derivate dalle greche Cariti-Charites): Aglaia (la Splendente), Eufrosine (la Rallegrante) e Talia (la Fiorente), figlie, secondo una tradizione, di Zeus e Eurinome, o addirittura generate da Era o Afrodite, della quale sono anche le ancelle.

CREATURE PERFETTE Personificazioni della grazia, bellezza, rigoglío della natura feconda, dell’amore, dispensatrici di beni e qualità, esse rappresentano fisicamente e spiritualmente la perfezione alla quale l’essere umano deve ambire, per raggiungere, giustappunto, lo stato di grazia sublime che lo avvicina al divino. Non per nulla la grazia in ambito teologico rappresenta la benigna propensione di Dio (o delle divinità) verso l’uomo, al quale manifesta cosí il suo misericordioso favore. Le Grazie simboleggiano dunque l’armonia universale, armonia che ben si appresta a significare, tra l’altro, il buon governo dell’imperatore nell’ecumene sottoposto a Roma. Infatti la raffigurazione delle Tre Grazie, colte in una nudità splendida ma avulsa dalla malizia dello sguardo umano, ricorre con frequenza nella produzione artistica romana e provinciale attraverso sculture, mosaici, affreschi, gioielli e monete. Un tema nel quale al significato religioso si unisce quello della leggiadría: basti pensare alla splendida e celebre composizione statuaria in marmo pario di età romano-imperiale nota come le Tre Grazie Borghese, ritrovata a Roma nei pressi di S. Gregorio al Celio, sapientemente e fortemente integrata (in particolare nelle teste), entrata nella collezione del cardinale Scipione Borghese e,

infine, acquistata da Napoleone e passata al Museo del Louvre. Le Tre Grazie si ritrovano con una certa frequenza nella monetazione romano-provinciale di età imperiale a partire dall’età antonina sino al III secolo d.C. Il gruppo non va però confuso con quello delle Tre Ninfe affiancate, che sono sempre vestite, mentre le nostre sono nude o con un panneggio che scopre comunque il corpo; di regola la giovane al centro mostra la schiena e tutte e tre si toccano le spalle. Si vedano, per esempio, le emissioni di Marcianopolis in Mesia per Commodo, o quelle della città di Deultum, in Tracia, battute a nome di Severo Alessandro, Giulia Mamea e Filippo I, dove è evidente la ripresa dal modello statuario. Lo schema iconografico delle Tre Grazie è presente anche nelle monete moderne e contemporanee, in particolare su alcune emissioni del mondo

anglosassone, certo influenzate dal capolavoro di Antonio Canova realizzato tra il 1813-17, le Tre Grazie, manifesto del neoclassicismo chiaramente ispirato al modello romano.

UN PATTO INVIOLABILE Si tratta di una pregevolissima serie di Giorgio III re del Regno Unito e Irlanda datata 1817, nota come l’emissione delle Tre Grazie e composta da esemplari in oro (ma non solo) probabilmente non destinati alla circolazione: al dritto vi è la testa del re coronata di alloro, e al rovescio tre giovani vestite che personificano l’Irlanda (con l’arpa), la Gran Bretagna al centro (con la bandiera dell’Unione sullo scudo) e la Scozia (con il cardo). La legenda Foedus inviolabile si riferisce al «trattato inviolabile» che vide uniti dal 1801 i tre Paesi sotto la stessa corona. Sulle due facce ricorre la firma dell’incisore, l’artista W(illiam) Wynon, che dal 1828 rivestí il ruolo di incisore capo della Zecca Reale. Questa immagine, ma senza leggenda, è stata ripresa poi sugli ECU, acronimo di European Currency Unit (unità di conto europea), una moneta scritturale, ovvero destinata solo a operazioni contabili, introdotta dal Consiglio Europeo nel 1978 e rimasta in uso sino al primo gennaio 1999. Essa fu coniata a fine collezionistico e tra i tipi adottati dalla Gran Bretagna si ritrova appunto, nei pezzi da 5 e 25 ECU, il modello vittoriano delle Grazie-Paesi, simbolo di armonica unità e di un regno che si voleva allora immaginare improntato a uno stato, appunto, di grazia.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Luca Peis

I GEROGLIFICI Manuale per leggere la scrittura egizia Graphot Editrice, Torino, 294 pp., ill. b/n 25,00 euro ISBN 978-88-99781-41-5 www.graphot.com

Nel 394 d.C., stando almeno alle conoscenze finora acquisite, i caratteri geroglifici furono utilizzati per l’ultima volta, ponendo fine a un’avventura iniziata piú di tremila anni prima e, cadendo in disuso, quel sistema di scrittura fu totalmente dimenticato, trasformandosi in un mistero. Un mistero destinato a durare fino al 1822, quando un giovane e brillante studioso francese, Jean-François Champollion, non ebbe la giusta intuizione: potendo disporre del testo bilingue inciso sulla stele di Rosetta, comprese infatti che quei segni non erano solo ideogrammi – come piú d’uno, prima di lui, aveva supposto –, ma

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possedevano anche un valore fonetico. Fu quella la chiave di una delle imprese piú celebrate nella storia degli studi di antichità, e che, di fatto, permise la nascita e lo sviluppo della moderna egittologia. La vicenda, com’è logico, occupa un’ampia sezione del volume di Luca Peis, il quale, tuttavia, non si limita a ripercorrere la storia dei geroglifici, ma, anzi, prende le mosse dalle loro origini per farli tornare a essere una vera e propria lingua viva. Ed è questo, senza dubbio, il punto di forza del libro, che, mantenendo sempre una piú che apprezzabile chiarezza, conduce il lettore alla scoperta di un mondo fatto di segni che, pagina dopo pagina, si fanno sempre meno criptici. Tanto che, dopo avere fornito le necessarie nozioni grammaticali e sintattiche, Peis, come in un tradizionale manuale scolastico, propone una serie di esercizi, attraverso i quali verificare la padronanza acquisita con l’antica lingua. Un esperimento che l’autore si augura possa mettere in condizione di visitare le collezioni egiziane sparse per il mondo, a cominciare da quella del Museo Egizio di Torino – che, in questo campo, è seconda solo a quella del Cairo –, con una chiave di lettura in piú, capace di rendere meno ostiche quelle «curiose» teorie di simboli e figurine.

Marco Chioffi, Giuliana Rigamonti

ANTICO REGNO “jm(y).t-pr” I Iareti e Khenemeti, Penmeru, Upemneferet e Iby, Sennuankh, Tjeneti, Pepi Editrice La Mandragora, Imola, 274 pp., ill. col. e b/n 28,00 euro ISBN 978-88-7586-587-0 www. editricelamandragora.it

La bibliografia di Marco Chioffi e Giuliana Rigamonti si arricchisce di un nuovo titolo, offrendoci questa volta l’analisi di sei iscrizioni appartenenti a monumenti funerari di Saqqara e Giza, nei quali furono sepolti personaggi che avevano ricoperto la carica di sacerdote. AA.VV.

STORIA DEI MEDITERRANEI Edizioni di storia e studi sociali, Ragusa, 396 pp., ill. b/n 25,00 euro ISBN 978-88-99168-34-6 www.edizionidistoria.com

Proprio in questo numero, diamo conto

di una mostra in cui, attraverso i materiali archeologici, viene ripercorso il fitto intreccio di culture che si sviluppò nella regione mediterranea (vedi alle pp. 52-59). Un tema a cui fa da ideale contrappunto questo volume, accomunato a quel progetto espositivo dall’avere il mare nostrum come filo conduttore. Nelle pagine di Storia dei Mediterranei l’orizzonte temporale si amplia notevolmente, poiché i diversi contributi riuniti per l’occasione, spaziano dalla preistoria fino al Medioevo. Altrettanto composita è la gamma degli studiosi coinvolti nell’operazione, ciascuno dei quali ha il merito di proporre spunti originali e di sicuro interesse, che vanno, solo per citarne alcuni, dalle tecniche di navigazione adottate dalle comunità preistoriche, alle vicende del porto etrusco di Pyrgi, dall’elaborazione di una vera e propria



iconografia «marinara» nella decorazione delle ceramiche alla partecipazione della Repubblica di Genova alle crociate. Giuliano Volpe

IL BENE NOSTRO Un impegno per il patrimonio culturale Edipuglia, Bari, 382 pp., ill. col. 16,00 euro ISBN 978-88-7228-884-9 www.edipuglia.it

Da anni noto anche ai lettori di «Archeo», Giuliano Volpe, dopo essersi affermato nel campo della ricerca archeologica e della docenza universitaria, è fra i protagonisti della politica culturale italiana. Un ambito nel quale si inserisce la sua esperienza nel CSBCP (Consiglio Superiore Beni Culturali e Paesaggistici) del Ministeri per i Beni e le Attività Culturali, del quale è stato dapprima consigliere e poi, fino al 2018, presidente. Dal suo impegno nasce ora questo volume, che, come si legge nel capitolo introduttivo, l’autore ha voluto allestire ritenendo «fosse opportuno (e spero anche utile) raccogliere in un libretto sia alcuni miei interventi piu recenti (…), sia soprattutto una serie di documenti prodotti nel corso della mia presidenza (del CSBCP, n.d.r.)». Per chi, in questi anni, 114 a r c h e o

abbia seguito da vicino le vicende del nostro patrimonio culturale e, in particolare, il dibattito sulla sua gestione, Il bene nostro è dunque un riepilogo di molti dei passaggi cruciali. Chi invece, abbia solo distrattamente orecchiato le questioni di volta in volta affrontate, prima fra tutte quella relativa al varo della riforma voluta dall’ex ministro Dario Franceschini, potrà trovare notizie e riflessioni utili a comprendere le ragioni di confronti che, sebbene legati a un settore prettamente specialistico, sono stati spesso trasformati in pretesti per accese querelle politiche. E proprio perché anche la

tutela e la valorizzazione dei beni culturali non sono operazioni meramente tecniche e apolitiche, Volpe non si astiene dal manifestare il suo orientamento in questo senso, ma sempre argomentando le ragioni delle sue prese di posizione. Nel complesso, dunque, la lettura di questa raccolta può essere intesa come una ricognizione puntuale e aggiornata di una realtà che per l’Italia dovrebbe essere centrale e che invece fatica spesso a esserlo. E anzi, paradossalmente – ma neanche troppo –, Il bene nostro andrebbe consigliato ai tanti che hanno abusato (e abusano) della metafora

«petrolifera» dei nostri beni culturali (salvo poi non muovere un dito per mettere quel petrolio in condizioni d’essere redditizio), cosí come a quanti insistono nel sostenere che con la cultura non si mangia. (a cura di Stefano Mammini)



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