Archeo n. 413, Luglio 2019

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NAVI DI PISA

CAPODIMONTE

RE DI VULCI

SCHIFANO

POPOLI DELLA BIBBIA/7 MEDI E PERSIANI

SPECIALE GOZO

GLI ULTIMI RE DI VULCI w. ar

GA NT ch eo I .it

GO DE Z IG O I

L’I SO LA

I SEGRETI DI

GOZO

UN VIAGGIO NEL CUORE DEL MEDITERRANEO

PISA

IL NUOVO MUSEO DELLE NAVI

CAPODIMONTE

NAVIGARE CON GLI ANTICHI

MEDI E PERSIANI

POPOLI DELLA BIBBIA

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 9 LUGLIO 2019

ww

2019

Mens. Anno XXXV n. 413 luglio 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 413 LUGLIO

ETRUSCHI

€ 5,90



EDITORIALE

NAVIGARE NECESSE EST... …vivere non est necesse. «Navigare è indispensabile, vivere no». L’esortazione lanciata da Pompeo – secondo quanto riferisce Plutarco – all’indirizzo della ciurma restia a salpare a causa del maltempo, è stata variamente estrapolata dal suo contesto per assumere la valenza di un motto ispirato a intrepida baldanza, sprezzante del bene piú prezioso di cui l’uomo dispone: la vita. La vita, appunto, e non solo la propria. La frase pronunciata dal grande nemico di Cesare (riportata originariamente in greco, tra l’altro, e non in latino), vuole significare, infatti, questo: per salvare la vita degli altri (in questo caso degli abitanti di Roma a cui il carico di alimenti della flotta era destinato) è spesso «necessario», se non sacrificarsi, almeno rischiare di persona. Alla navigazione sono dedicati i due articoli che aprono questo numero, e non a caso: ricorda Caterina Pisu direttrice del nuovo Museo della Navigazione nelle Acque Interne di Capodimonte, che «prima dell’avvento del trasporto su rotaia e su gomma, le barche erano considerate tra i mezzi piú efficaci per velocità e comodità». E di un’intera «flotta», composta da imbarcazioni risalenti a un periodo compreso tra il II secolo a.C. e il VII secolo d.C., ci riferisce Stefano Mammini nel servizio dedicato a una delle piú importanti scoperte archeologiche italiane del secolo scorso, quella delle navi di San Rossore. Veniamo ora all’immagine di questa pagina. Osservandola, potremmo convincerci che una buona foto riesce a comunicare (ed emozionare) molto piú di mille parole. Lo scatto risale al 23 gennaio scorso, l’autore è Daniel Cilia. Cosa vi riconosciamo? Innanzitutto una grande montagna innevata, un bellissimo arcobaleno e, in primo piano, una strana collina. Quest’ultima appartiene a una piccola isola del Mare Nostrum, distante non piú di una novantina di chilometri dalla piú grande isola del Mediterraneo, la Sicilia (a cui appartiene, invece, la montagna della foto, ovvero l’Etna). L’isoletta in questione non è Malta – come qualcuno potrebbe azzardare – bensí Gozo, la seconda e piú settentrionale dell’arcipelago maltese, i cui abitanti discendono da quei primi colonizzatori che vi giunsero, circa settemila anni fa, provenienti dalla Sicilia; secondo il motto che, per esplorare, conoscere e vivere, navigare necesse est. Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE

stabiane svelano ritratti realistici e sguardi carichi di pathos 14

MOSTRE/1

di Andreas M. Steiner

A TUTTO CAMPO La «rappresentazione archeologica» va affermandosi come una disciplina vera e propria e offre nuove e inaspettate riletture delle civiltà del passato 22

di Simona Carosi, Carlo Casi e Carlo Regoli

MUSEI/1

56

Navigare necesse est... 3

Attualità NOTIZIARIO

6

SCOPERTE La storia di Paestum si arricchisce di nuovi e importanti dati, che ribadiscono la vivacità culturale della città e la ricchezza della sua produzione artistica 6 PASSEGGIATE NEL PArCo Avvicinare i giovani all’antico attraverso la musica: è questa la nuova sfida lanciata dal Parco archeologico del Colosseo 10 MUSEI Il Museo delle Palafitte di Ledro svela il suo nuovo allestimento, all’insegna della spettacolarità e dell’inclusione 12

Pisa

La flotta delle meraviglie

Gli ultimi re di Vulci 56

MOSTRE/2 Orvieto

di Stefano Mammini

La mia Etruria

64

di Giuseppe M. Della Fina

30 MUSEI/2

Capodimonte

ALL’OMBRA DEL VULCANO Le magnifiche pitture delle ville

30

Montalto di Castro

Il tesoro del lago

42

di Caterina Pisu

64

In copertina statuette rinvenute agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso in un deposito votivo del Circolo di Xaghra (Gozo, Malta).

Presidente Anno XXXV, n. 413 - luglio 2019 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Federico Curti

Comitato Scientifico Internazionale

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Andrea Camilli è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Pisa e Livorno. Simona Carosi è funzionario della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Tatiana Pedrazzi è ricercatrice del CNR presso l’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico. Caterina Pisu è direttore scientifico del Museo della Navigazione nelle Acque Interne, Capodimonte (Viterbo). Carlo Regoli è archeologo della Fondazione Vulci. Cristina Sanna è dottoranda in Archaeological


POPOLI DELLA BIBBIA/7 Medi e Persiani

Nella fossa del leone

70

di Tatiana Pedrazzi

70 Rubriche L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

La danza del fuoco 112 di Francesca Ceci

86 SPECIALE Malta

I segreti di Gozo

LIBRI

114

86

di Andreas M. Steiner; reportage fotografico di Daniel Cilia

Representation presso l’Università di Southampton (UK). Andrea Schiappelli è funzionario archeologo presso il Parco archeologico del Colosseo.

Illustrazioni e immagini: Cortesia Daniel Cilia: copertina (e p. 100) e pp. 3, 86/87, 88 (basso), 89, 90-103, 104 (alto), 105, 106-110 – Cortesia Parco archeologico di Paestum: pp. 6-7 – Cortesia Università degli Studi di Perugia-Dipartimento di Lettere e Civiltà antiche: p. 8 (alto) – Cortesia SABAP Umbria: p. 8 (basso) – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: pp. 10-11 – Cortesia Museo delle Palafitte di Ledro (Trento): p. 12 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 14-15 – Cortesia SABAP di Salerno e Avellino: p. 16 – Cortesia degli autori: pp. 18-19, 56, 58-60, 61 (basso), 112-113 – Cortesia Museo delle Navi Antiche di Pisa: pp. 30/31, 32, 34, 35 (basso), 36 (centro e basso), 38, 39 (basso), 40 (alto, a destra, e basso) – Stefano Mammini: pp. 32/33, 34/35, 36 (alto), 39 (alto), 40 (alto, a sinistra), 62, 63 (alto) – da: Pisa. Un viaggio nel mare dell’antichità, MiBAC-Electa, Milano 2006: p. 37 – Shutterstock: pp. 42/43, 74/75, 76-77 – Per gentile concessione di Ebe Giovannini e Maurizio Pellegrini: pp. 43 – Cortesia Museo della Navigazione nelle Acque Interne, Capodimonte (Viterbo): pp. 44, 45 (basso), 48, 49 (basso), 50-52; M. Bonino: p. 49 (alto) – DeA Picture Library: A. dagli Orti: p. 45 (alto); G. Nimatallah: p. 61 (alto); W. Buss: pp. 78/79 – Doc. red.: pp. 46, 56/57, 63 (basso), 72, 73, 74, 80/81, 82/83 – © Museo delle Civiltà-MPE «L. Pigorini»: pp. 46/47 – Cortesia Museo Etrusco «Claudio Faina», Orvieto: pp. 64-69 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 70/71, 83; Vivienne Sharp/Heritage Images: p. 78 – Cortesia Professor Caroline Malone, Libby Mulqueeny and Charlotte Stoddart: disegno alle pp. 104/105 – Cippigraphix: cartine alle pp. 35, 72/73, 88. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano


n otiz iari o SCOPERTE Paestum

I COLORI DI APOLLO

N

el corso degli ultimi mesi Paestum è stata teatro di importanti scoperte e acquisizioni, che gettano nuova luce sulle varie fasi di vita della città e sulle realizzazioni monumentali e la produzione artistica. Nuovi scavi condotti nella cosiddetta «Casa dei Sacerdoti», un edificio situato nei pressi del tempio di Nettuno e del quale, a oggi, si ignorano le reali funzioni, fanno intuire che la sua costruzione – contrassegnata da un impianto irregolare e pavimenti in grandi basoli – si collochi tra il IV e il III secolo a.C., cioè tra la fase lucana e quella romana. In seguitò, nel II secolo a.C., la struttura, che dovette comunque avere un ruolo centrale nelle attività rituali, fu oggetto di un importante intervento di ristrutturazione: un pozzo originariamente allestito in uno degli ambienti venne chiuso con materiali di risulta e resti di animali, forse sacrificali, mentre in vari punti il pavimento in basoli di travertino o terra battuta fu coperto da un pavimento in cocciopesto, che nella sala Sud è decorato con linee che formano rombi. Incerta risulta invece la relazione tra un focolare o forno scoperto al centro di uno degli ambienti e l’edificio, dal momento che gli archeologi si sono imbattuti in una stratigrafia sconvolta da vecchi interventi degli anni Cinquanta del secolo scorso, mai documentati. «Purtroppo questo ha fatto saltare la relazione stratigrafica tra il “forno” e l’edificio – spiega il funzionario archeologo Francesco

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A destra: Paestum, Casa dei Sacerdoti. Il pozzo ricavato in uno degli ambienti della struttura e successivamente chiuso con materiali di risulta e resti di animali, forse sacrificati. Nella pagina accanto, in alto: la metopa proveniente dal santuario di Hera alla foce del Sele che, sottoposta a indagini multispettrali, ha rivelato tracce di policromia. Nella pagina accanto, in basso: elementi architettonici riferibilie a un edificio dorico scoperti lungo le mura della città nel corso di un intervento di ripulitura. Scelza – tuttavia la presenza di un punto di fuoco – cucina? produzione di utensili? – non desterebbe stupore in un santuario antico, considerando che il sacrifico prevedeva il consumo di gran parte degli animali immolati presso l’altare».

La ripulitura del versante occidentale della cinta muraria della città antica – il cui circuito si snoda per 5 km circa – ha invece portato a una scoperta del tutto inattesa: capitelli, colonne, cornicioni e triglifi di un edificio dorico nella città dei templi.


Il ritrovamento piú sorprendente consiste in un pannello, probabilmente una metopa, in arenaria decorata con tre rosette a rilievo, come sono note anche in altri edifici dorici costruiti tra il VI e il V secolo a.C. a Paestum e nel suo territorio. Gli elementi architettonici, di estremo interesse anche per la presenza di tracce di intonaco e pittura color rosso, sembrano essere stati accumulati lungo le mura nell’ambito di lavori agricoli a partire dagli anni Sessanta e apparterrebbero a un edificio di dimensioni minori – un tempietto o un portico (stoà) – che risalirebbe allo stesso orizzonte della Tomba del Tuffatore e del Tempio di Athena (fine del VI-inizi del V secolo a.C.).

Infine, pochi giorni fa, sono stati annunciati i sorprendenti risultati di esami condotti sulle metope del santuario di Hera presso la foce del Sele. In particolare, le indagini multispettrali, hanno fatto emergere

che un rilievo raffigurante il dio Apollo fu completato con l’uso di colori. Le analisi archeometriche, tuttora in corso, dimostrerebbero che le metope oggi esposte nel Museo Archeologico di Paestum fossero dipinte e successivamente montate su un tempio. Era questo uno dei numerosi snodi che ancora circondano la storia dell’importante santuario del Sele, fondato – secondo la leggenda – da Giasone. Alcuni studiosi sostenevano infatti che le stesse metope non avessero mai superato lo stato di bozza, mentre «oggi – come ha dichiarato Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco archeologico di Paestum – possiamo essere certi che le metope facessero parte di un grande tempio, all’inizio dell’architettura dorica in pietra degli anni 570/60 a.C. Si tratta di un’altra prova del contributo fondamentale che le aree coloniali dell’Italia meridionale e della Sicilia hanno dato alla formazione dell’architettura dorica nel mondo greco». (red.)

archeo 7


n otiz iario

SCAVI Umbria

STORIE DI UN CENTRO DI CONFINE

S

i sono recentemente concluse le nuove indagini archeologiche condotte nella necropoli del Vallone di San Lorenzo, in località Raiano (Montecchio, Terni), una delle aree sepolcrali preromane piú importanti del territorio umbro per lo studio delle interazioni culturali tra Etruschi e Italici nell’ambito della valle del Tevere. «Le recenti indagini – spiega Luca Pulcinelli, archeologo responsabile di zona della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria – si sono concentrate sulle pendici di un rilievo a monte dell’area scavata in passato e hanno portato alla scoperta di una notevole tomba a camera ipogea scavata nel banco naturale di matile (una roccia sedimentaria piuttosto friabile) dotata di un dromos di accesso a cielo aperto e due camere a pianta quadrangolare in asse, con banchine laterali e di fondo. Tale impianto risulta particolarmente interessante, in quanto attestato solo in pochi casi nella necropoli, perlopiú composta da tombe a camera singola dall’aspetto piuttosto semplice e generalmente prive di decorazioni, anche a causa della scarsa consistenza del banco roccioso.

In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto do dolorest lorest, ut exereca taspisci.

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In alto: una delle sepolture scoperte negli ultimi scavi nella necropoli del Vallone di San Lorenzo (Montecchio,

Terni). Fine del VI sec. a.C. In basso: il settore della necropoli attrezzato per la visita.

Nonostante il parziale crollo e i danni causati da lavori agricoli e antichi saccheggi, il sepolcro ha restituito gli abbondanti resti di un ricco corredo con forme vascolari in bucchero di produzione orvietana, frammenti riconducibili a kylikes a figure nere di produzione attica e vasi sia d’impasto rosso che rossobruno di produzione locale. Notevoli sono gli oggetti di ornamento personale in metallo, alcuni frammenti informi di bronzo (aes rude) e una spada di ferro appartenuta a uno dei due individui qui sepolti con molta probabilità tra la metà e la fine del VI secolo a.C.». La necropoli, che fu scoperta nel 1855 e della quale, a oggi, sono state individuate oltre 50 sepolture a camera distribuite sui fianchi del vallone, va riferita a un insediamento umbro di confine – identificato sulla vicina altura di Copio, a breve distanza dal fiume – sviluppatosi tra la fine del VII e la fine del IV secolo a.C. L’area di San Lorenzo deve la sua vivacità a un importante itinerario commerciale e culturale, parallelo alla sponda meridionale del Tevere e ai piedi delle propaggini settentrionali dei Monti Amerini, che collegava l’Etruria, attraverso Volsinii (Orvieto), con l’umbra Todi. Il carattere misto e ricettivo della cultura del sito – tipico di un centro

di confine – presenta influssi provenienti dagli ambienti sabino e falisco e poi etrusco. La potente e vicina città etrusca di Volsinii, d’altra parte, dovette esercitare un influsso fortissimo, se non addirittura un controllo, sulla comunità di San Lorenzo. Il corredo appena recuperato sarà prossimamente esposto al pubblico in una ricostruzione della tomba, nell’ambito di un piú ampio progetto di risistemazione e riallestimento dell’Antiquarium comunale ubicato nella vicina frazione di Tenaglie di Montecchio, che già ospita alcuni dei materiali piú significativi rinvenuti nei precedenti scavi della necropoli». Gli scavi nella necropoli del Vallone di San Lorenzo sono condotti, in regime di concessione ministeriale, grazie alla collaborazione tra il Dipartimento di Lettere, Lingue, Letterature e Civiltà antiche e moderne dell’Università degli Studi di Perugia – direzione scientifica di Gian Luca Grassigli – e l’Amministrazione Comunale di Montecchio, attraverso un progetto che prevede l’impiego di metodologie tradizionali (ricognizione e scavo stratigrafico) e di nuove tecnologie informatiche (GIS mapping e digitalizzazione di dati georeferenziati). Giampiero Galasso



PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Alessandro D’Alessio

L’ANTICO SUONA BENE FAR CRESCERE LA PRESENZA DEL PUBBLICO PIÚ GIOVANE NEI MUSEI E NELLE AREE ARCHEOLOGICHE. È QUESTO L’OBIETTIVO DI «STAR WALKS», IL NUOVO PROGETTO DEL PARCO ARCHEOLOGICO DEL COLOSSEO GIOCATO SUL COINVOLGIMENTO DI POPOLARI PERSONAGGI DEL MONDO DELLO SPETTACOLO

S

ono ancora troppo pochi i giovani che in Italia vanno al museo di propria iniziativa. È questa l’estrema sintesi della tendenza registrata dall’ISTAT negli ultimi anni, sulla base di dati che evidenziano anche come non sia il costo del biglietto a tenere lontani i ragazzi dai luoghi d’arte. Piuttosto, i giovani si rivelano semplicemente disinteressati a quel tipo di esperienza, ritenuta priva di appeal e di stimoli. A tal proposito, al di là di tutte le considerazioni su cause e soluzioni, gli esperti di settore concordano sul fatto che le istituzioni culturali dovrebbero destinare maggiori risorse a campagne di comunicazione e di sensibilizzazione mirate. Sulla scorta di riflessioni analoghe, corroborate dall’osservazione diretta del fenomeno, il PArCo, e, nello specifico, il suo Servizio Comunicazione, ha avvertito l’esigenza di adottare una forma diversa per comunicare il suo patrimonio, affiancandola alle pur numerose e differenziate modalità attivate da tempo allo stesso scopo. Si è voluto allora pensare a un mezzo in grado di veicolare messaggi che non fosse condizionato dalla legittima

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preoccupazione di diffondere i contenuti storico-archeologici dei monumenti, quanto piuttosto orientato a trasmetterne il fascino e il significato per una via indiretta e Sulle due pagine: due momenti della realizzazione della puntata pilota di «Star Walks: quando il PArCo incontra la musica», girata all’interno della Domus Aurea, con la partecipazione del giornalista e critico musicale Gino Castaldo e del cantautore Daniele Silvestri.

con una prospettiva alternativa. Nasce cosí il progetto della web serie video «Star Walks: quando il PArCo incontra la musica», curato da chi scrive e realizzato in


collaborazione con specialisti del settore, che potrà beneficiare dell’importante sostegno mediatico garantito dalla partnership con RAI Radio2. Di fatto, «Star Walks» è un’applicazione del cosiddetto «pensiero laterale»: consiste cioè nel rappresentare il PArCo da una diversa angolazione e con uno sguardo non convenzionale, non attraverso le impressioni di addetti ai lavori quindi, bensí di artisti e, nel caso specifico della prima stagione della serie, di personaggi del mondo musicale, letteralmente registrando le loro emozioni, sensazioni e reazioni durante una passeggiata nell’area archeologica.

GLI OBIETTIVI Grazie al coinvolgimento di testimonial cari soprattutto al pubblico piú giovane, si intende infatti raggiungere una serie di obiettivi piú o meno ambiziosi: incuriosire e avvicinare chi finora non ha mai mostrato interesse per i siti archeologici, ritenendoli noiosi o magari ignorandone addirittura l’esistenza; stimolare il giovane pubblico locale a frequentare piú assiduamente il PArCo attraverso gli apprezzamenti a esso rivolti da personaggi di suo gradimento. Il target prevalente della serie è perciò il pubblico in età scolare in senso lato, in quanto principale utente dei social network, dei web canali video nonché attento conoscitore dell’attuale panorama musicale pop. Ciò non di meno, il cast della serie è stato definito in modo da raggiungere anche un pubblico piú maturo, comunque attento alla scena artistica e musicale e con maggiore propensione a mettersi in movimento per finalità culturali. Il format del programma consiste in una vera e propria passeggiata all’interno del PArCo, nel corso della quale il musicista di turno viene intervistato da un talent

(intendendo con tale termine speaker radiofonici; personaggi della TV o del cinema; giornalisti noti; youtuber e blogger). Durante il tour, ogni volta incentrato su un sito diverso, la coppia è affiancata in modo non invasivo dagli specialisti del PArCo (archeologi, architetti, storici dell’arte e restauratori), i cui brevi interventi servono come spunto per commenti e divagazioni sul tema della visita.

SECONDO COPIONE OPPURE A RUOTA LIBERA Il dialogo tra i protagonisti potrà svolgersi secondo un canovaccio incentrato su temi predeterminati, oppure essere lasciato aperto all’estro e all’improvvisazione, ispirata da quanto osservato durante l’itinerario archeologico. Va da sé che la chiave ironica e brillante sarà preferita ai toni seriosi, seppur rimanendo entro i

binari del rispetto per i luoghi e del decoro generale. Leggerezza dei toni, montaggio serrato e una colonna sonora adeguata costituiranno la cifra stilistica di «Star Walks». Le 7 puntate finora in programma, con una durata di circa 6 minuti ciascuna, saranno lanciate sugli account social del PArCo e dei personaggi coinvolti con collegamento al canale You Tube del PArCo, mentre una versione con contenuti extra sarà visibile sulla piattaforma RaiPlay; come prodotto derivato è prevista infine l’estrapolazione di storie Instagram della durata di pochi secondi. Mentre scriviamo, è in corso di montaggio la puntata pilota, girata nella Domus Aurea, ospite Daniele Silvestri intervistato da Gino Castaldo, in compagnia di Alessandro D’Alessio, responsabile del monumento. Buona visione! Andrea Schiappelli

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n otiz iario

MUSEI Trentino-Alto Adige

VIVERE SUL LAGO

È

stato inaugurato il nuovo allestimento del Museo delle Palafitte di Ledro (Trento), che si offre raddoppiato negli spazi e piú luminoso e aperto che mai. Il nuovo Museo – sede territoriale del MUSE, Museo delle Scienze – è frutto di un importante investimento della Provincia autonoma di Trento, che, ancora una volta, conferma attenzione al tema cultura, sensibilità nei confronti del patrimonio e della storia locale, lungimiranza nel promuovere e sostenere un alto livello di qualità della vita, in ogni zona del territorio. Il Museo delle Palafitte raccoglie i reperti, risalenti all’età del Bronzo, ritrovati nel corso di novant’anni di ricerche tra i resti del villaggio palafitticolo sulle sponde del Lago di Ledro, uno dei piú importanti dell’arco alpino. All’interno i reperti sono raccolti e interpretati secondo criteri museografici attenti al contenuto, tanto quanto alla resa scenografica e al coinvolgimento – anche emotivo – del visitatore.

L’area esterna del Museo delle Palafitte di Ledro, con una delle capanne del villaggio palafitticolo ricostruite a grandezza reale. 12 a r c h e o

Il nuovo allestimento è ancora all’insegna della trasparenza e della leggerezza, per immergere il visitatore in uno spazio privo di confini e percorsi obbligati. Immediatezza, spettacolarità e inclusione sono espressioni evidenti di un lavoro di ristrutturazione e reinterpretazione che ha visto un ripensamento di tutto l’apparato espositivo. Dalla riprogettazione delle vetrine ai reperti esposti, dalle didascalie alle modalità di comunicazione adottate, tutto è stato ripensato. I temi affrontati sono 4, articolati su un asse concettuale che va dal Macro al Micro. Partendo dalle palafitte come fenomeno alpino ed europeo, si passa alla dimensione del villaggio e del territorio che lo circonda, per arrivare infine agli individui, alle loro attività e alle tante cose, piccole e grandi, che ci distinguono e ci accomunano con gli abitanti della palafitte di 4000 anni fa. All’esterno della struttura la ricostruzione di quattro capanne, complete di arredi e suppellettili,

riproduce uno spaccato di vita quotidiana preistorica nella quale il visitatore può immergersi scoprendo come vivevano i nostri antenati. Il percorso si conclude con l’aggiunta di un cubo vetrato, il QBO, che funge da nuovo spazio per attività educative, eventi, spettacoli, mostre temporanee e da speciale punto di osservazione del lago e dell’area archeologica. (red.)

DOVE E QUANDO Museo delle Palafitte del Lago di Ledro Ledro, località Molina (TN), via al Lago, 1 Orario lug-ago: tutti i giorni, 10,00-18,00; set-nov: tutti i giorni, 9,00-17,00 Info tel. 0464 508182; e-mail: museo.ledro@muse.it; www.palafitteledro.it


RASSEGNE Sicilia

LO SPETTACOLO DELL’ARCHEOLOGIA

C’

è grande attesa ad Agrigento per la prossima edizione del «Festival del cinema archeologico», appuntamento in programma dal 17 al 20 luglio, attesissimo da appassionati e da addetti ai lavori. Giunta alla sua XVI edizione, l’importante rassegna – che è promossa dal Parco archeologico e paesaggistico Valle dei Templi di Agrigento e realizzata con la collaborazione della Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto – richiama ogni anno un folto e qualificato pubblico, che si raduna intorno al suggestivo scenario offerto dal Tempio di Giunone. «Protagoniste delle serate – spiega il direttore Giuseppe Parello – saranno le città di Pompei, Creta, Petra, Nîmes, la città perduta dei Tairona, l’Isola di Pasqua, l’Islanda e Mont-Saint-Michel, che verranno scoperte attraverso la proiezione di due film per ogni appuntamento. Come ogni anno è prevista l’assegnazione dei premi “Valle dei Templi” e “Città di Agrigento”. La rassegna si inserisce nell’ambito delle In questa pagina: la Valle dei Templi di Agrigento e immagini dell’edizione 2018 del «Festival del cinema archeologico».

attività di Public Archaeology, su cui è imperniata la politica culturale del Parco». Mercoledí 17 luglio si inizia con La Pompei britannica dell’Età del Bronzo, film ambientato nella contea di Cambridgeshire, alla scoperta di un villaggio dell’età del Bronzo. A seguire Creta, il Mito del Labirinto, di cui sono protagonisti l’archeologo Peter Eeckhout e la civiltà minoica. Giovedí 18 luglio, Petra, perduta città di pietra, con particolari sorprendenti, dalle sabbie alle leggende che la avvolgono. Si prosegue con Nîmes, la Roma francese, che racconta dei 150 anni che hanno trasformato un villaggio in città gallo-romana. Venerdí 19 luglio, proiezione de La città perduta dei Tairona, rimasta nascosta nei secoli e riscoperta negli anni Settanta del Novecento; seguirà Isola di Pasqua, l’ora della verità, con l’enigma dei Rapa Nui. Sabato 20 luglio, infine, sono in programma Donne vichinghe, l’ira di Sigrun e la scoperta dell’Islanda e Mont-Saint-Michel, labirinto dell’arcangelo, con spettacolari immagini, segreti e storie.

i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

LE GRAZIE DELLO SGUARDO COSÍ LA POETESSA SAFFO ESALTA ALCUNE ESPRESSIONI DEI VOLTI UMANI, RAFFIGURATE IN UNA SORPRENDENTE GALLERIA DI IMMAGINI ATTESTATE NELLA PITTURA STABIANA

L’

antica Stabia, teatro della «dolce vita» romana in Campania, ha recentemente restituito al pubblico uno dei suoi mirabili complessi, Villa Arianna. Questa rientra fra le grandi residenze esplorate in epoca borbonica e riportate in luce nella seconda metà del Novecento, costruite in posizione privilegiata, l’una accanto all’altra, sul bordo

della collina di Varano sopra l’odierna Castellammare, con un affaccio mozzafiato sulla parte meridionale del golfo di Napoli. Villa Arianna, la piú antica, prende nome da una grande pittura che campeggia sulla parete di fondo di uno dei triclini: i recenti lavori di riqualificazione contribuiscono ora a conoscere meglio questo vasto complesso di 14 000 mq circa, frutto di ripetuti ampliamenti che si sono adeguati alla morfologia del pianoro come dimostrano i diversi livelli di rampe che collegano l’edificio alla pianura sottostante.

PROPRIETARI ESIGENTI Gli apparati decorativi della residenza testimoniano l’alto tenore di vita e il gusto raffinato dei suoi esigenti proprietari. Nei piccoli ambienti di soggiorno prevalgono decorazioni miniaturistiche con figurine volanti, amorini, personaggi mitologici, paesaggi, maschere, busti umani entro medaglioni. Nelle sale di rappresentanza di maggiori dimensioni, aperte verso il mare, sono invece riprodotte scene mitologiche animate da grandi figure, ispirate soprattutto al mito di Dioniso, fra cui appunto Arianna

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Sulle due pagine, da sinistra: affresco con figura femminile (da Villa Arianna); affresco con figura femminile (da Villa San Marco); affresco con coppia di personaggi (da Villa Arianna); affresco con testa di Giove (da Villa San Marco).

scoperta dal dio dopo essere stata abbandonata da Teseo. E dalle diverse villae d’otium di Stabia provengono – oltre a oggetti d’uso quotidiano e strumenti di lavoro, esposti nella vicina Reggia di Quisisana – porzioni di luminosi affreschi e di delicati stucchi asportati proprio durante gli scavi di queste abitazioni. Dal I secolo a.C. le ville di San Marco, di Arianna e del Secondo Complesso in particolare, si snodano in quartieri abitativi, strutture termali, portici e ninfei fastosamente decorati e aperti su giardini e sulla costiera. Da qui sono stati staccati numerosi frammenti di pittura parietale conservati nei depositi archeologici di Castellammare, alcuni dei quali riconsegnano una emozionante quanto inaspettata successione di ritratti, quasi una

cosí pervase dalla dimensione quotidiana per la stessa natura degli edifici da cui provengono (domus, botteghe, tombe), è spesso possibile cogliere nei volti dipinti segni di espressività e di sentimenti umani che riconducono alle «grazie di uno sguardo», cosí come li definisce la poetessa Saffo. Questi ritratti sfumati, distinti da un elevato livello qualitativo vista la colta e ricca committenza che dovevano soddisfare, mostrano espressioni che formano una sorprendente rassegna di stati d’animo, snodata in varianti in base al genere di rappresentazione: dalle scene mitologiche a quelle paesaggistiche, dalle figure allegoriche alle maschere, fino a personaggi piú o meno familiari. I volti stabiani scrutano l’osservatore contemporaneo, trasmettendo serenità o pathos, specchio di un’emotività vissuta che solo la mano di abili e anonimi pittori ha saputo tratteggiare. Per notizie e aggiornamenti su Pompei, pagina Facebook Pompeii-Parco Archeologico.

pinacoteca, che costituisce un’originale galleria di immagini «vive» degli antichi stabiani.

IMMAGINI INEDITE Da sempre, i volti calamitano l’attenzione degli esseri umani. Le informazioni trasmesse dal viso, attraverso le sfumature degli occhi e della bocca, sono numerose e significative sul piano caratteriale ed emotivo, tanto che esiste una predisposizione naturale a cogliere i movimenti e le altre modificazioni dello sguardo. La sua durata, intensità e direzione dipendono dall’emozione espressa. Gli stati emotivi vengono raramente esaltati dall’arte romana, impegnata soprattutto a riprendere immagini classiche e stereotipate. Nelle manifestazioni artistiche dell’area pompeiana in particolare,

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n otiz iario

MOSTRE Campania

FRA UN MARE E L’ALTRO

N

ella nuova casa comunale di Scampitella (Avellino), comune dell’Irpinia orientale, è stata inaugurata, a cura della Soprintendenza ABAP di Salerno e Avellino, una mostra archeologica permanente che riunisce i reperti piú significativi provenienti da una necropoli datata tra la fine dell’età del Ferro e l’epoca arcaica (VII-VI secolo a.C.) intercettata in località Piano di Contra dai volontari del Gruppo Archeologico «Scampitella». Un territorio, questo, poco noto alla letteratura archeologica, ma che, attraversato fin dall’antichità da percorsi naturali di collegamento fra Tirreno e Adriatico, è stato frequentato da gruppi umani fin dalla preistoria per la sua posizione strategica. Resti di industrie litiche con strumenti in selce appartenuti a genti eneolitiche provengono dalle località Piano di Contra e Cicala. All’età del Bronzo Medio risalgono forme vascolari d’impasto tipiche della facies appenninica (XV-XIV secolo a.C.), rinvenute in località Migliano. Alla terza e ultima fase dell’età del Ferro risale la necropoli, con tombe a fossa terragna e copertura in pietre e ciottoli, individuata in località Piano di Contra, dai cui corredi funerari – sconvolti dalle profonde arature –

provengono oggetti di lusso, come un bacino con orlo decorato da triplice treccia, e un’olpe di bronzo con ansa sormontante importati dall’Etruria campana, ma anche monili di bronzo nelle tipologie caratteristiche della cultura indigena di origine trans-adriatica di Oliveto-Cairano, diffusa già a partire dall’VIII secolo a.C. lungo le valli dell’Ofanto e del Calaggio. Preziose sono alcune fibule a sanguisuga cava, di cui una «da parata», decorate a incisione con motivi a linee longitudinali e trasversali (VI secolo a.C.), ma anche quelle «a navicella» con apofisi laterali e staffa lunga con bottone profilato, e ad arco serpeggiante di tipo «siciliano» (VIII secolo a.C.). Non meno interessante è la vasta gamma di anelli digitali o da sospensione, di pendagli, di bracciali in verga di bronzo decorati a ovuli e soprattutto di pesanti armille a spirale in filo di bronzo di produzione picena o forse balcanica indossate in prevalenza dalle donne. Non mancano collane composte da vaghi e pendenti in ambra rossa proveniente dal Baltico. All’ingresso della sede municipale è stata collocata anche una grande soglia lapidea con incassi circolari, recuperata nelle

In alto: armilla a spirale in filo di bronzo, di produzione picena o forse balcanica, dalla necropoli di Piano di Contra. VI sec.a.C. In basso: particolare di una statuetta in bronzo raffigurante Ercole in posizione di assalto. IV sec. a.C. campagne del territorio comunale, dove ricognizioni di superficie hanno intercettato siti che hanno restituito tracce di ville rustiche di età imperiale romana, la cui presenza è segnalata non soltanto da estese aree di frammenti fittili, ma anche da resti di strutture murarie. Alla tarda età imperiale risale, infine, una colonna miliare, collocata nello spazio antistante l’edificio, e scoperta in località Guardiola, con doppia iscrizione: la prima relativa ai tetrarchi dioclezianei (fine del III secolo d.C.), la seconda con i nomi degli imperatori Valentiniano, Valente e Graziano (fine del IV secolo d.C.). La colonna riporta l’indicazione di XVI miglio dal caput viae e sarebbe quindi la prova di come il territorio di Scampitella fosse attraversato da un percorso stradale, la via Herdonitana, che, partendo da Aeclanum (odierna Passo di Mirabella) e sfruttando il tratto piú breve e rettilineo, raggiungeva la città di Herdonia (attuale Ordona di Puglia). Giampiero Galasso

DOVE E QUANDO «Testimonianze dal passato: archeologia a Scampitella» Scampitella (Avellino). Casa Comunale Orario lu-ve, 9,00-13,00 (ma-gio, anche 15,30-18,30) Info tel. 0827 93031: e-mail: comune-scampitella@libero.it

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A TUTTO CAMPO Cristina Sanna

RAPPRESENTARE IL PASSATO IL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO POSSIEDE UN SIGNIFICATO POLITICO E SOCIALE? IL CASO DELL’IMMAGINARIO ETRUSCO, TRA IDENTITÀ LOCALE E MARKETING...

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e riflessioni su teoria e pratica della Public Archaeology (o Archeologia Pubblica), apparse piú volte in questa rubrica, hanno assunto nell’ultimo decennio una connotazione propriamente italiana, incentrata su un rinnovato rapporto tra archeologi e società civile. Casi come l’Archeodromo di Poggibonsi (Siena) o lo scavo archeologico di Vignale (Piombino, Livorno), entrambi sotto la direzione scientifica dell’Università di Siena, riflettono al meglio tale orientamento, che ha generato ricadute positive non soltanto dal punto di vista didattico e comunicativo, ma anche sotto il profilo sociale ed economico per le comunità locali. Sebbene ricco di prospettive, il dibattito in corso su questo tema soffre di un certo ritardo rispetto a quello anglosassone, dove le questioni all’ordine del giorno hanno progressivamente virato, stimolate dalle nuove forme di comunicazione e coinvolgimento, verso argomenti di piú ampio respiro metodologico. In questo senso, particolare interesse sta suscitando l’emergere di un nuovo indirizzo di ricerca, che prende il nome di Archaeological Representation. Alimentata dalle riflessioni degli anni Settanta e

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Ritratto di Cosimo I de’ Medici (particolare), olio su tavola del Bronzino (al secolo Agnolo Allori). 1543-1545. Firenze, Gallerie degli Uffizi. Nel 1569 il granduca di Toscana assume il titolo di Dux Etruriae, conferitogli da papa Pio V. Ottanta del Novecento sul concetto di «significato» e su come il termine venga riproposto dalla pratica dello scavo agli allestimenti museali, la «rappresentazione archeologica» cerca di approfondire modi e meccanismi della ricostruzione della conoscenza storica da parte degli

archeologi, attraverso due principali canali di comunicazione: quelli accademici e quelli popolari. I primi consistono in testi e articoli di contenuto scientifico, oltre a convegni per specialisti, conferenze e cicli di lezioni; i secondi, invece, includono esposizioni museali, fumetti, film, trasmissioni televisive di divulgazione e, in generale, tutti i format destinati a un piú vasto e articolato pubblico. Questi ultimi occupano un ruolo centrale nell’analisi, in quanto non vengono classificati come semplici sottoprodotti della ricerca scientifica, ma come azioni capaci di dar vita a risultati e significati che, a loro volta, influenzano il lavoro degli specialisti, andando a configurare la trasmissione di conoscenza archeologica come uno scambio costante tra studiosi e immaginario popolare.

MOLTEPLICI INTERPRETAZIONI Essendo coinvolti nelle pratiche di interpretazione, comunicazione ed esposizione, i musei archeologici sono tra i luoghi piú adatti per sperimentare le teorie sulla rappresentazione. Come ben sa chi lavora nei musei, esporre oggetti cercando di costruire una storia


Qui accanto: esempi di come il popolo etrusco compaia regolarmente e sotto varie forme nei marchi di attività imprenditoriali dislocate nelle aree di espansione storica di questa cultura (soprattutto Toscana, Lazio settentrionale e Umbria, ma anche Emilia-Romagna). In basso, a destra: ancora un esempio dello «sfruttamento» degli Etruschi, in questo caso riletti sotto forma di personaggi della Walt Disney.

attraverso di essi fa subito emergere potenziali criticità, che derivano dalla soggettività dei curatori, dalle identità di cosa/chi viene rappresentato, dalla pluralità delle interpretazioni possibili, nonché dall’inevitabile insorgere di controversie e dissensi. Il patrimonio culturale possiede infatti molteplici significati, di cui uno, quello piú strettamente politico e sociale, viene spesso sottovalutato da chi opera nel settore della valorizzazione. Ciononostante, le rappresentazioni del passato vengono da sempre utilizzate dagli addetti ai lavori, ma anche dal pubblico dei fruitori, per la formazione della memoria storica, sulla cui sostanza le comunità costruiscono e legittimano le proprie identità. A titolo di esempio, il legame tra Etruschi e folklore, emerso nel

Qui sopra: presentata nel 2014 al Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona, la mostra «Seduzione Etrusca» affrontava il fenomeno dell’interesse suscitato dai primi scavi condotti in Etruria e dal relativo commercio di antichità tra Italia e Gran Bretagna fra il Settecento e l’Ottocento.

nostro Paese molto prima che l’etruscologia fosse riconosciuta come disciplina, costituisce un interessante caso-studio di questo fenomeno. Fin dal Rinascimento, infatti, la cultura etrusca è stata utilizzata dai Medici per consolidare e validare il proprio potere e ancora oggi, in buona parte delle regioni di antica cultura etrusca (soprattutto la Toscana e il Lazio settentrionale), tale popolo costituisce un brand e un solido strumento di marketing e promozione nel terziario.

UN’ANIMA DUPLICE Come già sostenne Massimo Pallottino (1909-1995), iniziatore della moderna etruscologia, gli studi sul popolo etrusco possiedono un’anima duplice e contraddittoria: da una parte abbiamo infatti la razionalità scientifica dei ricercatori, dall’altra una visione romanzata e quasi misterica, alimentata di continuo dal pubblico degli appassionati. L’interazione tra queste due facce, molto diverse, di una stessa medaglia costituisce un terreno fertile per approfondire i temi della rappresentazione archeologica e un’occasione di riflessione per chi opera all’interno dei musei. In che modo la cultura etrusca è presentata nei musei e quanto e come la sua rappresentazione ha contribuito alla creazione dell’immaginario popolare sul tema? Per tentare una risposta, le

analisi della Archaeological Representation vanno a intrecciarsi con i cosiddetti Reception Studies, che in ambito classico indagano il rapporto tra fonti antiche e il loro riuso contemporaneo. Spostando l’attenzione sul «ricevente» e il proprio contesto culturale, i Reception Studies osservano i legami tra passato e presente in chiave dinamica e innovativa. Questa prospettiva può essere efficacemente applicata anche all’archeologia, per comprendere come il pubblico interagisca con il passato, suggerendo spunti proficui e suggestivi agli addetti ai lavori. (cristina.sanna91@gmail.com)

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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

RASSEGNE Toscana

GLI ETRUSCHI TORNANO A MURLO

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a V edizione del festival Bluetrusco è in programma ancora una volta a Murlo, a pochi chilometri da Siena, dal 12 al 28 luglio. Come negli anni precedenti, la formula prevede approfondimenti pomeridiani su temi specifici e spettacoli teatrali e musicali nella serata. Una novità è il fatto che gli incontri e gli spettacoli si terranno in varie frazioni dello stesso Comune e non soltanto in località Castello di Murlo. Il tema scelto per il ciclo d’incontri è rappresentato dai grandi scavi in corso in Etruria: il Fanum Voltumnae, ai piedi della rupe di Orvieto, l’area sacra di Pyrgi (Cerveteri), il tempio dell’Ara della Regina a Tarquinia, la necropoli di Tolle (Chianciano Terme) per limitarsi a qualche esempio. A parlarne saranno i responsabili

In alto: uno scorcio del borgo di Murlo (Siena). A sinistra: acroterio in terracotta raffigurante un uomo seduto su un trono con copricapo. 600-550 a.C. Murlo, Antiquarium di Poggio Civitate. delle ricerche, che presenteranno le ultime scoperte. Uno spazio privilegiato verrà dato alle campagne di scavo portate avanti sull’altura di Poggio Civitate, che hanno portato alla scoperta dell’insediamento palaziale di Murlo, e ai confronti con la realtà di Acquarossa, nei pressi di Viterbo, che presenta punti in comune. Per quanto concerne gli spettacoli si segnalano le due serate dedicate alla lettura del romanzo Turms l’etrusco dello scrittore finlandese Mika Waltari, recentemente ripubblicato in Italia, che saranno accompagnate da una riflessione sull’importanza del romanzo storico. Le altre serate saranno caratterizzate da una serie di concerti jazz e dalla presenza degli allievi dell’Accademia Chigiana di Siena. Il festival è promosso e realizzato dal Comune di Murlo e si avvale del patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali; è inserito nell’iniziativa Le notti dell’archeologia voluta dalla Regione Toscana. La direzione scientifica è affidata a Giuseppe M. Della Fina, i media partner sono Rai Radio 3 e la rivista «Archeo». Il programma dettagliato può essere consultato sul sito: www.archeo.it 20 a r c h e o





n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

DALL’ANTICO IRAN Il binomio «Medi e Persiani» è quasi sempre inscindibile nelle citazioni della Bibbia, a riprova di 1 2 3 quanto sostenuto sin dall’epoca degli storici greci, cioè che i Persiani fossero i successori dei Medi dai quali trassero molte tradizioni e molti aspetti della vita sociale e di quella pubblica. L’evoluzione delle due civiltà è ben delineata dall’articolo di Tatiana 4 5 6 Pedrazzi (vedi alle pp. 70-85), mentre qui presentiamo testimonianze filateliche dei Medi (poche) e dei Persiani (molto piú numerose), quasi esclusivamente su francobolli dell’Iran. Per i Medi cominciamo con un valore del 1950 con la veduta di 8 Hamadan (1) sorta presso l’antica Ecbatana, la prima capitale, e con un altro del 1970, che mostra il bassorilievo di una tomba (2). Nel testo viene citato il re Fraorte, che riuscí a unificare tutte le tribú dei Medi con le altre popolazioni nella regione da Ecbatana fino a Damavand (3). C’è anche un esempio di 7 9 ceramica meda in un francobollo del Pakistan (4). Con il re Astiage finisce la storia dei Medi e inizia quella dei Persiani, con una certa continuità; Ciro il Grande, il fondatore dell’impero persiano, era infatti figlio di Cambise I, re dei Persiani, ma anche nipote di Astiage, 10 11 12 perché sua madre era la principessa Mandane, figlia appunto di Astiage. Di Ciro (5) si ricordano la conquista di Ecbatana, che gli valse il titolo di «Re dei Re», e quella di Babilonia (6); la ricostruzione del tempio di Gerusalemme e la costruzione della nuova capitale a Pasargade, i cui resti ben si vedono su questo intero cinese (7) e dove si 13 14 15 trova la sua tomba (8-9). Importantissimo è il famoso cilindro sul quale, in scrittura cuneiforme, Ciro racconta la propria discendenza (10). Alla morte di Ciro, sale al potere Cambise, che conquista l’Egitto ed estende i confini fino alla valle 16 17 del Nilo (11), al quale poi succede il figlio Dario I. Questi consolida l’impero achmenide (12), costruisce la nuova capitale a Persepoli (13) e inizia la costruzione dell’apadana (14), completata poi dal figlio Serse, che insieme alle colonne 20 18 19 rimaste (15) ancora oggi è la testimonianza della grandezza persiana; sulla scalinata ci sono centinaia di bassorilievi tra cui quello famoso IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere del leone che azzanna il toro (16). alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai Nei pressi dell’apadana, Dario fece costruire seguenti indirizzi: anche il suo palazzo (17) e a Persepoli c’è anche la Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, sua tomba (18, francobollo con centro capovolto) Via Tavanti, 8 C.P. 17037 nei cui pressi è stato poi trovato il suo sigillo reale (19). 50134 Firenze Grottarossa info@cift.it, 00189 Roma. Dopo Dario, venne Serse, che portò guerra ai Greci, ma da oppure lcalenda@yahoo.it; www.cift.it essi venne sconfitto a Salamina (20).

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LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO

EBREI IN ITALIA GLI

DALLE ORIGINI AL GHETTO DI VENEZIA


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Facsimile di una pagina della «Bibbia di Mosheh da Castellazzo» con illustrazioni del Pentateuco, corredate da didascalie in ebraico e in volgare.

a dove sono venuti gli Ebrei italiani? Quando? Perché? E, una volta giunti in Italia, dove hanno scelto di attestarsi? Quali rapporti hanno stabilito con le popolazioni residenti, con i poteri pubblici: prima con la Roma imperiale, poi con la Chiesa, ma anche con i Longobardi, i Bizantini e i musulmani, sotto il cui dominio hanno vissuto? E soprattutto: cosa ha di particolare e di specifico l’ebraismo italiano rispetto a quello di altri luoghi della Diaspora? La nuova Monografia di «Archeo», realizzata in collaborazione con il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara, racconta i secoli della presenza ebraica in Italia, una presenza antica e ininterrotta da piú di duemila anni: un viaggio nell’Italia antica, alla scoperta di come, oltre che a Roma, l’ebraismo abbia preso piede e si sia sviluppato in maniera rigogliosa soprattutto nell’Italia del Sud e nelle isole: dalla Puglia alla Sicilia, dalla Calabria alla Basilicata, Campania e Sardegna, per giungere poi nell’Italia centro-settentrionale.

GLI ARGOMENTI •A lle origini di una storia bimillenaria • I primi Ebrei di Roma •C hi ha finanziato il Colosseo? • L a menorah: il mistero del

candelabro scomparso •G li Ebrei e l’impero cristiano •G li Ebrei nell’Italia meridionale •M edicina, astronomia, astrologia • L e tradizioni mistiche altomedievali • Il viaggio di Beniamino da Tudela • I l Rinascimento parla ebraico

IN EDICOLA a r c h e o 27


CALENDARIO

Italia ROMA L’arte di salvare l’arte

Frammenti di storia d’Italia Palazzo del Quirinale, Palazzina Gregoriana fino al 14.07.19

Migranti da sempre

Movimenti, contatti e scambi nella preistoria Museo delle Origini, Sapienza Università di Roma fino al 30.07.19

Roma Universalis

L’impero e la dinastia venuta dall’Africa Colosseo-Foro Romano-Palatino fino al 25.08.19

Volti di Roma alla Centrale Montemartini

Fotografie di Luigi Spina Musei Capitolini, Centrale Montemartini fino al 22.09.19

AQUILEIA Magnifici Ritorni

Tesori aquileiesi dal Kunsthistorisches Museum di Vienna Museo Archeologico Nazionale fino al 20.10.19

BOLOGNA Ex Africa

Storie e identità di un’arte universale Museo Civico Archeologico fino all’08.09.19

La casa della vita

Ori e storie intorno all’antico cimitero ebraico di bologna Museo Ebraico fino al 06.01.20

CATANIA Il kouros ritrovato

Museo Civico di Castello Ursino fino al 03.11.19

Antico Siam

CECINA (LI) Nudo! Tesori del Museo delle Antichità di Basilea

Il ciclo della vita

COMACCHIO Troia

Lo Splendore dei Regni Thai Museo delle Civiltà fino al 30.09.19 Nascere e rinascere in Etruria Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 06.10.19

Mortali Immortali

Tesori del Sichuan nell’antica Cina Mercati di Traiano Museo dei Fori Imperiali fino al 18.10.19

Claudio Imperatore

Messalina, Agrippina e le ombre di una dinastia Museo dell’Ara Pacis fino al 27.10.19

Ars erotica

L’arte dell’amore non violento nell’antica Roma Stadio di Domiziano fino al 06.11.19

L’Arte ritrovata

L’Arma dei Carabinieri per il recupero e la salvaguardia del patrimonio culturale italiano Musei Capitolini fino al 26.01.20 28 a r c h e o

Fondazione Culturale Hermann Geiger fino al 13.10.19

La fine della città, la nascita del mito Palazzo Bellini fino al 27.10.19

FINALE LIGURE BORGO (SAVONA) Clarence Bicknell e la Preistoria nel Finale: una riscoperta Museo Archeologico del Finale fino al 03.11.19

FIRENZE L’arte di costruire un capolavoro La Colonna Traiana Giardino di Boboli, Limonaia fino al 06.10.19

MILANO Il viaggio della Chimera

Gli Etruschi a Milano tra archeologia e collezionismo Civico Museo Archeologico fino all’08.09.20

MONTERIGGIONI, SIENA Monteriggioni prima del Castello Una comunità etrusca in Valdelsa Abbadia Isola, Sala Sigerico fino al 25.08.19


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

NAPOLI Gli Assiri all’ombra del Vesuvio Museo Archeologico Nazionale fino al 16.09.19

Paideia

Giovani e sport nell’antichità Museo Archeologico Nazionale fino al 04.11.19

Sacra Neapolis

Culti, miti, leggende Lapis Museum, Basilica della Pietrasanta fino al 15.12.19

ORVIETO Mario Schifano: visioni etrusche

Museo Etrusco «Claudio Faina» fino al 31.08.19

SIRACUSA Archimede a Siracusa Experience exhibition Galleria Civica Montevergini fino al 31.12.19

TARANTO MitoMania

Storie ritrovate di uomini ed eroi Museo Archeologico Nazionale di Taranto fino al 10.11.19

TORINO Goccia a goccia dal cielo cade la vita

Acqua, Islam e arte MAO, Museo d’Arte Orientale fino al 01.09.19

Archeologia Invisibile

Francia PARIGI Regni dimenticati Dall’impero ittita agli Aramei Museo del Louvre fino al 12.08.19

Tutankhamon

Il tesoro del faraone Grande Halle de La Villette fino al 22.09.19

LENS Omero

Museo del Louvre fino al 22.07.19

LIONE Ludique

Giocare nell’antichità Lugdunum-Musée et théâtres romains fino al 01.12.19

VALLON-PONT-D’ARC Di leoni e di uomini Leggende feline: 400 secoli di fascino Grotte Chauvet 2 fino al 22.09.19

Germania BERLINO Figure possenti

Ritratti dalla Grecia antica Altrs Museum fino al 02.02.20

Museo Egizio fino al 06.01.20

Grecia

VETULONIA, CASTIGLIONE DELLA PESCAIA (GR) Alalía, la battaglia che ha cambiato la storia

ATENE Gli infiniti aspetti della bellezza

Greci, Etruschi e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C. Museo Civico Archeologico Isidoro Falchi fino al 03.11.19

Belgio BRUGES Mummie

Segreti dell’antico Egitto Xpo Center Bruges fino all’01.09.19

Replica sperimentale del Bronzo di Riace A.

Museo Nazionale Archeologico fino al 31.12.19

USA NEW YORK Acquerelli dell’Acropoli

Émile Gilliéron ad Atene The Metropolitan Museum of Art fino al 03.01.20 Acquerello con le figure note come Barbablú, dall’Acropoli. a r c h e o 29


MUSEI • PISA

LA FLOTTA DELLE

MERAVIGLIE

IL MUSEO DELLE NAVI ANTICHE DI PISA È UNA REALTÀ: GLI ARSENALI MEDICEI DELLA CITTÀ TOSCANA SONO STATI APERTI AL PUBBLICO PER ACCOGLIERE GLI STRAORDINARI REPERTI ACQUISITI GRAZIE A UNA DELLE IMPRESE ARCHEOLOGICHE PIÚ IMPORTANTI DEGLI ULTIMI DECENNI di Stefano Mammini

Tutte le foto che corredano l’articolo documentano l’allestimento e i reperti del Museo della Navi Antiche di Pisa, inaugurato il 16 giugno scorso negli spazi degli Arsenali Medicei. 30 a r c h e o


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Sulle due pagine: il relitto della nave A, un’oneraria, ovvero una nave commerciale da trasporto, che fu in attività nel II sec. d.C. e che è stata la prima a essere individuata, nell’ottobre del 1998, durante i lavori per la realizzazione di un centro di controllo della linea ferroviaria Roma-Genova, nell’area della stazione di Pisa-San Rossore.

e navi di Pisa hanno ripreso, almeno virtualmente, a navigare. Il 16 giugno scorso, infatti, le porte degli Arsenali Medicei della città toscana si sono riaperte in via definitiva, e l’avventura del Museo delle Navi Antiche ha avuto ufficialmente inizio. L’inaugurazione è il degno coronamento di oltre vent’anni di lavoro: era infatti il 1998 quando, in occasione dei lavori per la realizzazione di un fabbricato di controllo della linea ferroviaria Roma-Genova, nell’area della stazione di Pisa-San Rossore, vennero alla luce i pr imi frammenti di legno. L’importanza del ritrovamento, del quale anche «Archeo» diede tempestivamente notizia (vedi n. 170, aprile 1999), apparve subito evidente e fu quindi allestito un cantiere di scavo che, in oltre quindici anni di attività, ha portato a risultati davvero eccezionali. L’area indagata ha infatti restituito oltre 30 relitti di imbarcazioni, di varia tipologia, travolte e affondate da ripetute alluvioni, susseguitesi fra il II secolo a.C. e il VII secolo d.C., ai quali si aggiunge una mole di reperti impressionante per qualità e quantità. Come ha sottolineato Andrea Camilli – che ha guidato le operazioni di scavo, coordinato i restauri e progettato l’allestimento del museo del quale ha assunto la direzione – l’importanza delle indagini svolte a San Rossore, al di là delle navi – che di per sé costituiscono comunque una delle piú importanti acquisizioni di sempre nel campo dell’archeologia, non soltanto navale –, risiede nella documentazione restituita dagli scavi in termini di storia economica del mondo romano. a r c h e o 31


MUSEI • PISA A sinistra: la facciata degli Arsenali Medicei, costruiti nei primi decenni del Cinquecento per volere di Cosimo I de’ Medici, su progetto dell’architetto Bernardo Buonatalenti.

Si deve infatti considerare che dei relitti è stato possibile recuperare i carichi e che molte delle ben 13 000 anfore rinvenute conservavano ancora il proprio contenuto (o almeno tracce sufficienti a identificarlo), aprendo prospettive del tutto nuove sui beni che effettivamente circolavano nel Mediterraneo e sulle modalità che regolavano le transazioni, il trasporto e la gestione delle mercanzie. Basti pensare, per esempio, che le anfore trovate a bordo di una nave ellenistica del II secolo a.C. erano piene di spalle di maiale in salamoia o che, in altri casi, viaggiavano anfore piene di sabbia da smeriglio o fichi secchi: rivela-

zioni che cancellano, o quanto meno ridimensionano l’idea che quei contenitori fossero adibiti in prevalenza al trasporto del vino.

UN’OPPORTUNITÀ UNICA Altrettanto propizie, per gli archeologi e adesso per i visitatori del museo, si sono rivelate le condizioni di giacitura dei relitti: l’essere sepolti in un ambiente fangoso, dunque molto umido, ma privo di ossigeno, ha favorito la conservazione di materiali organici altrimenti impensabile. Ecco perché, oltre a quello delle navi, si può oggi ammirare il legno utilizzato per decine e decine di attrezzi per la navigazione, sup-

Un’ala degli Arsenali nella quale sono state conservate le scuderie ricavate nel complesso alla metà del XVIII sec., ora riconvertite in spazi espositivi. A sinistra: la lapide che ricorda la creazione del Giardino dei Semplici, primo orto botanico italiano, nell’area successivamente occupata dagli Arsenali Medicei. 32 a r c h e o


pellettili, ancore. Cosí come è difficile rimanere indifferenti davanti a cesti di vimini intrecciati oppure a un giaccone da marinaio fatto di cuoio spalmato d’olio per assicurarne l’impermeabilità. Queste e molte altre storie sono dunque raccontate nei magnifici spazi degli Arsenali Medicei – 4700 mq di superficie totale –, un complesso nato per volere di Cosimo I de’ Medici all’indomani del 1509, cioè dopo che Pisa era stata costretta ad arrendersi a Firenze. La struttura, disegnata dall’architetto Ber-

nardo Buontalenti, risulta funzionante già nel 1540 e poco piú tardi, nel 1546, fu in grado di ultimare la costruzione della prima galera.

DALLE GALERE AI CAVALLI I fasti furono tuttavia di breve durata e, complice la concorrenza dei cantieri di Livorno e Portoferraio, gli Arsenali pisani subirono la prima delle loro trasformazioni, accogliendo, alla metà del XVIII secolo, i cavalli dei dragoni granducali. Furono quindi scelti come sede del cen-

tro ippico di riproduzione dello Stato sabaudo e nelle loro scuderie furono allevati, tra gli altri, i muli impiegati dall’esercito italiano nel corso della prima guerra mondiale. Va inoltre ricordato che il complesso sorge a ridosso di un parco nel quale fu creato il primo Giardino dei Semplici d’Italia e che verrà presto recuperato per essere poi aperto al pubblico. Come sottolinea ancora Camilli, il progetto espositivo ha seguito alcune linee guida essenziali: «si è voluto che il Museo delle Navi

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MUSEI • PISA

La prima parte del percorso, che si snoda in uno dei settori nei quali si è scelto di conservare i box delle scuderie – rendendo l’esposizione ancor piú suggestiva e permettendo di cogliere uno dei tratti caratterizzanti della struttura – racconta dunque la storia di Pisa, dalla preistoria fino all’età longobarda. Spiccano i materiali di epoca villanoviana recuperati nella necropoli di via Marche, composta da tombe databili tra la fine del IX e gli inizi dell’VIII secolo a.C., e, subito dopo, i reperti riferibili alle capanne individuate invece nell’angolo meridionale del cantiere delle navi.

Antiche fosse un museo “di contesto”; che, soprattutto nelle prime due sezioni, si affermasse come il museo archeologico che Pisa non ha mai avuto; e che fosse accessibile, scrollandosi di dosso il feticismo nei confronti del reperto archeologico». Presupposti che si rispecchiano dunque nell’articolazione 34 a r c h e o

del percorso di visita, suddiviso in otto aree tematiche, le prime due delle quali (La città tra i due fiumi, Terra e acque) non sono strettamente legate allo scavo delle navi, che è invece illustrato in ogni suo dettaglio nelle restanti sei: La furia delle acque, Navalia, Navi, Commerci, La navigazione, La vita di bordo.

LE CAPANNE SUL FIUME I pali lignei di una delle strutture localizzate sono stati integrati nella ricostruzione grafica a grandezza naturale di alcune capanne e offrono quindi un’immagine immediata di come dovevano presentarsi questi piccoli agglomerati, di cui è attestata la presenza nel territorio pisano tra il VII e il VI secolo a.C., quando si è ormai nel pieno dell’epoca etrusca. Da questi nuclei si sviluppò la città vera e propria che, già nelle parole dello storico greco


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Uno degli esempi dell’eccezionale stato di conservazione dei reperti recuperati dallo scavo: si tratta, in questo caso, di un cesto di fibre vegetali al cui interno si conservava la resina usata per il calafataggio delle imbarcazioni.

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Erodoto, veniva descritta come nata alla confluenza fra Arno e Serchio (l’antico Auser). Fra i materiali riuniti in questo primo settore e non provenienti da San Rossore, vanno quindi ricordati i cippi funerari rinvenuti tra il 1982 e il 1987 in località La Figuretta. Scolpiti in marmo locale, dovevano appartenere a un complesso monumentale di particolare rilevanza e

Nella pagina accanto: cippo proveniente dalla località La Figuretta, sul quale è scolpita a rilievo un’arpia affiancata da leoni, opera di un artista greco. VI sec. a.C. A sinistra: la ricostruzione grafica in scala 1:1 del villaggio di capanne individuato sul margine meridionale del cantiere delle navi, integrata dai pali originali rinvenuti nello scavo. A destra: mappa del centro di Pisa con la localizzazione del Museo delle Navi Antiche e dell’area in cui sono stati condotti gli scavi.

Via E. Zerboglio

per uno di essi è stato possibile procedere alla ricostruzione: ne risulta un manufatto a base quadrangolare, decorato da rilievi che mostrano figure di arpie sulle facce e di leoni sugli spigoli. Una composizione che evoca il motivo della potnia theron (signora degli animali), ma che, soprattutto, per via dello stile, identifica l’autore dell’opera con un artista certamente straniero, e in particolare greco, attivo a Pisa nel VI secolo a.C. su temi tipicamente etruschi, a riprova di quanto la città fosse stabilmente inserita nella rete di scambi anche culturali che abbracciava la regione mediterranea. Ampia è la documentazione riferita alla Pisa romana, che divenne colonia nel 180 a.C., ma la cui a r c h e o 35


MUSEI • PISA A sinistra: passerella in legno che, oltre a permettere di salire a bordo o scendere a terra, veniva utilizzata per trasbordare le derrate dalle navi onerarie alle piú piccole imbarcazioni adibite al cabotaggio fluviale. Qui sotto: resti di un giaccone da marinaio in cuoio spalmato d’olio, cosí da garantirne l’impermeabilità. In basso: la sala che propone il catalogo di tutti i tipi di anfora presenti a bordo delle navi di Pisa.

prima attestazione ufficiale è offerta dai piú tardi Decreta Pisana (i cui originali si trovano nel Camposanto Monumentale), nei quali sono ricordati i giochi funebri organizzati per la morte di Lucio e di Gaio Cesare, rispettivamente nel 2 e nel 4 d.C. Negli stessi Decreta sono inoltre citati vari edifici pubblici, come terme e teatri, e si tratta di una notizia preziosa, poiché, a oggi, non si conoscono tracce materiali della loro esistenza. Questo dettagliato inquadramento storico si chiude, come detto, con la fase longobarda, documentata da materiali recuperati in sepolture indagate nell’area della Piazza dei Miracoli, ai quali si aggiunge un vaso rinvenuto nel cantiere delle navi, probabilmente trascinato da una delle frequenti ondate di piena.

VIVERE SULL’ACQUA La seconda area tematica (Terra e acque) analizza il rapporto fra Pisa (e il suo territorio) e, appunto, le 36 a r c h e o

vie d’acqua: un rapporto che ha fortemente inciso sulle vicende storiche di questo comprensorio. L’analisi abbraccia tutte le sfaccettature di questa plurisecolare «convivenza»: dalla geografia alle caratteristiche ambientali, dallo sviluppo di produzioni artigianali specializzate – prima fra tutte quella dell’intreccio di vimini e altre fibre – ai metodi adottati nel trasporto e nel trasporto delle merci, fino alle cause delle alluvioni alle quali si deve la formazione del contesto archeologico delle navi (vedi box alla pagina pagina successiva). Una panoramica molto ampia, che senza i materiali provenienti dallo scavo di San Rossore difficilmente avrebbe potuto rivelarsi altrettanto vivida ed efficace. Basti pensare che in questa sezione è possibile vedere,


Topografia di una scoperta L’illustrazione evidenzia le fasi principali individuate grazie allo scavo. Il corso dell’Auser si è progressivamente spostato verso nord, lasciando una sequenza di sponde meridionali. Trattandosi di eventi perlopiú estremamente violenti, questi spostamenti di riva hanno inglobato un gran numero di resti. Partendo da sud, la prima fase chiaramente definita è quella di età arcaica; nel VI secolo a.C. due capanne in legno sorgevano l’una accanto all’altra sulla riva del fiume (1). A questo momento si possono assegnare anche la massicciata e la palizzata di contenimento della riva fluviale (2). I dati scarseggiano fino ai primi decenni del II secolo a.C.,

quando la riva risulta avanzata almeno di una decina di metri. In questa fase, subito sotto la linea di riva, si è identificato il relitto di una nave oneraria, il cui carico si è disperso per un’ampia area (3); la riva avanza poi sino ad attestarsi, tra la fine della repubblica e il primo impero, nelle forme che resteranno piú o meno stabili fino all’età tardoantica; il corso del fiume forma un’ampia curvatura, intersecata da un canale centuriale (4). In corrispondenza di questo incrocio, con il susseguirsi delle alluvioni (almeno 5, tra il I e il VII secolo d.C.), si sono raccolte e affondate le numerose imbarcazioni travolte dalla furia delle acque. Andrea Camilli

Fase etrusca

Alluvione primo-imperiale

Alluvione ellenistica

Alluvioni medio-imperiale

Alluvioni tardo-antiche

tra gli altri, il frammento della sponda di un’imbarcazione da pesca sulla quale si sono conservate le tracce delle lenze a strascico calate in acqua; una passerella di nave che veniva verosimilmente utilizzata non soltanto per salire a bordo e viceversa, ma anche per trasferire le merci dalle grandi navi onerarie a legni piú piccoli, adibiti al cabotaggio fluviale; un cesto fabbricato con canne palustri, rinvenuto con il suo contenuto di erbe medicinali; o, ancora, i resti di almeno 50 cani di piccola taglia, che hanno suggerito

l’esistenza di un allevamento vero e ché, in caso di forti piogge, l’Arno e proprio destinato a fornire animali il Serchio, corsi d’acqua che erano da caccia e da compagnia. entrambi a regime torrentizio, potevano facilmente esondare.Tutto ciò, nell’area di San Rossore, dove i due LE COLPE DELL’UOMO Quanto all’origine del contesto ar- fiumi confluivano, si trasformava in cheologico, essa viene addebitata a un ulteriore elemento di rischio, quello che gli archeologi hanno poiché le ondate di piena causate definito come uno dei primi dissesti dalle alluvioni cercavano uno sbocidrogeologici della storia. Il territo- co naturale a mare, ma se ciò si verio pisano era infatti di tipo paludo- rificava nelle fasi di alta marea, le so e boschivo e l’intensa attività di ondate venivano frenate e respinte, disboscamento attuata dai Romani dando origine a veri e propri tsunadeterminò il progressivo indeboli- mi. Cataclismi ai quali va imputato mento degli argini fluviali. Cosic- l’affondamento delle navi. a r c h e o 37


MUSEI • PISA

L’Alkedo, la piú famosa delle navi di Pisa, era un’imbarcazione da diporto, a cui si vollero però dare le sembianze di una trireme da guerra Né dovette essere meno pesante il tributo in termini di vite umane, come prova lo scheletro di un marinaio che venne evidentemente sorpreso da una delle piene e il cui scheletro è stato rinvenuto sul fondale, sotto la nave B. Accanto a lui giacevano i resti di un cagnolino e si è dunque ipotizzato che l’uomo possa aver perso la vita nel disperato tentativo di portare in salvo il suo piccolo amico. Si entra quindi nel vivo del museo e l’esordio è affidato a un video nel quale si immagina un nuotatore che si muova fra le acque di San Rossore nel II secolo d.C. fra navi colate a picco e materiali dei carichi che insieme a esse giacciono sul fondale. L’intento è quello di spiegare le particolari condizioni nelle quali il contesto archeologico si è formato e le ragioni che hanno determinato la giacitura dei relitti 38 a r c h e o

e dei materiali. E c’è anche spazio per illustrare le metodologie che uno scavo del genere impone di applicare, mettendole a confronto con situazioni legate all’acqua, ma di diversa natura, come nel caso dei recuperi in mare aperto.

LE PRIME SCOPERTE La rassegna delle navi si apre con il relitto di un’oneraria, avente dunque funzioni commerciali, battezzata nave A, risalente al II secolo d.C., i cui resti furono i primi a essere individuati. L’imbarcazione misurava 35 m circa di lunghezza e si è calcolato che potesse stivare fino a 15 000 anfore. Nel museo è stata esposta riproponendo le condizioni nelle quali giaceva prima del recupero, ovvero ricostruendo il palancolato d’acciaio messo in opera per contenere le pareti degli sterri e che intercettò l’antico battello.

Poco oltre c’è invece l’imbarcazione che, fin dalle prime esposizioni temporanee che hanno preceduto l’inaugurazione del museo, è divenuta il simbolo delle navi di Pisa: si tratta dell’Alkedo (il Gabbiano), una nave da diporto, a remi, il cui facoltoso proprietario volle però che gli fosse dato l’aspetto di una nave da guerra. Databile all’età tardo-augustea, l’Alkedo è, a oggi, il relitto meglio conservato di epoca classica e l’unico a remi. Se ne conosce il nome grazie a una delle soprapanche dei rematori ritrovate durante lo scavo, che lo reca inciso e che ora è nella vetrina posta accanto alla nave. Nella teca sono riuniti anche i reperti piú significativi fra quelli trovati a bordo, come brocche, tappi d’anfora, stoviglie e utensili da cucina, nonché un frammento di corda nel cui intreccio è stata accertata la presenza del pelo di un gatto persiano, che


dobbiamo quindi immaginare a bordo di questo singolare yacht. Per meglio renderne l’immagine complessiva, l’Alkedo è corredata dalla sua ricostruzione in scala 1:1, grazie alla quale si può per esempio vedere la posizione dell’albero. Oltre all’Alkedo, le maestose volte degli Arsenali accolgono una sorta di catalogo della nautica antica: dalle lintres (barche F e Q), ricavate da un unico tronco ligneo e che si possono considerare le antenate delle moderne gondole (e che, come queste, veniva spinte e manovrate servendosi di un unico remo), alla nave I, un barcone a fondo piatto che veniva mosso da terra, grazie a un argano, e utilizzato per fare la spola tra una sponda e l’altra del fiume. È stato peraltro ipotizzato che avesse il fondo piatIn alto: la nave D, un’imbarcazione da trasporto realizzata con numerosi tipi diversi di legno. VII sec. d.C. Nella pagina accanto: l’Alkedo (Gabbiano), una nave da diporto, a remi, che il proprietario volle fosse realizzata con sembianze simili a quelle di una trireme da guerra. Età tardoaugustea. A sinistra: la nave I, un barcone a fondo piatto utilizzato per trasporti da una sponda all’altra del fiume, che veniva azionato da terra, per mezzo di un argano.

to in modo da consentire anche il trasporto di animali. Di particolare interesse è anche la piú tarda delle imbarcazioni recuperate, la nave D, che risale al VII secolo d.C. Si tratta ancora una volta di un’oneraria, ma ciò che la caratterizza è il gran numero di legni diversi impiegati nella sua costruzione, segno del fatto che, per risparmiare, si era fatto ricorso a quanto di piú facilmente e rapidamente disponibile, al punto che, per l’albero, fu utilizzato un tronco storto, che impose di realizzare fuori asse la scassa, ovvero l’alloggiamento in cui l’albero stesso veniva inserito. Come nel caso del barcone fluviale, anche la nave D non disponeva solo di sistemi di propulsione autonomi, ma veniva trainata da terra, con cavalli e buoi. Proprio come facevano, fino al secolo scorso, i renaioli dell’Arno, la cui attività è documentata da un filmato dell’Istituto Luce. All’Alkedo e alle altre navi esposte (11 in tutto) fanno quindi da naturale corollario le sezioni dedicate alle funzioni che le diverse imbarcazioni potevano avere. E qui, com’è facile aspettarsi, la parte del leone la a r c h e o 39


MUSEI • PISA

Ancore portafortuna Questa grande ancora in legno di quercia apparteneva alla nave A e si tratta, probabilmente, di un’ancora rituale. Dette anche «di preghiera» facevano parte della normale attrezzattura di bordo e venivano gettate a mare in caso di pericolo, sperando cosí di propiziarsi la benevolenza degli dèi. Un uso che spiega la frequente presenza, su questi attrezzi, di iscrizioni con invocazioni alle divinità. Nel caso dell’esemplare pisano, tale funzione era stata invece affidata all’immagine di un pesca angelo scolpita nel legno (vedi foto qui accanto).

fanno le anfore, alla quali è riservata l’intera parete di una delle sale, sfruttata per proporre il catalogo dei tipi attestati a Pisa-San Rossore.

ANTICHI CONTAINER Ma non si parla solo di classificazione e tipologie, perché molto viene raccontato del contenuto e dei modi d’uso di quella che fu senza dubbio una delle piú riuscite invenzioni della tecnologia antica. E cosí c’è spazio per i resti di un’anfora ritrovata con il suo tappo originale, co-

stituito da una capsula in stoffa legata da una corda, e che trasportava vino spumante, oppure per alcuni esemplari di cretule (sigilli in terracotta), che recano l’impronta dei dolii (grandi contenitori) e non delle anfore. Questa circostanza ha suggerito che fosse pratica diffusa da parte degli armatori quella di noleggiare i dolii, che si trovavano a bordo delle navi, come si fa oggi con i container: al loro interno si potevano chiudere le anfore cariche di un determinato prodotto, sigilCalco degli scheletri di un marinaio e del suo cagnolino, rinvenuti sotto la barca B: travolto da un’ondata di piena, l’uomo morí, verosimilmente, nel tentativo di salvare la bestiola.

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lando poi il dolio con la cretula. All’arrivo, il consegnatario spezzava il sigillo e recuperava il carico. Il Museo delle Navi Antiche di Pisa, insomma, non è solo il racconto di una scoperta eccezionale, ma è la storia di un intero mondo, fatto di abilità marinaresche, tecnologia navale, spirito imprenditoriale, e animato da uomini che, prima d’esserne travolti, avevano saputo fare dell’acqua di fiumi e mari la loro prezioosa e insostituibile fonte di sostentamento. DOVE E QUANDO Museo delle Navi Antiche di Pisa, Arsenali Medicei Pisa, lungarno Ranieri Simonelli, 16 Orario ve-do, 10,30-18,30; me, 14,30-18,30; oltre che nei giorni di apertura, le visite si possono effettuare, su richiesta, anche nei giorni di martedí e giovedí (10,00-16,00) e mercoledí (10,00-13,00) Info tel. 050 8057880; e-mail: info@navidipisa.it www.navidipisa.it



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IL TESORO DEL LAGO

LA STORIA DELLA NAVIGAZIONE È ANTICA QUANTO QUELLA DELL’UOMO: FIN DALLA PREISTORIA, INFATTI, I NOSTRI ANTENATI ESCOGITARONO SISTEMI PER MUOVERSI NELLE ACQUE DI LAGHI, FIUMI E MARI. UN’AVVENTURA AFFASCINANTE, RIPERCORSA NEL MUSEO DELLA NAVIGAZIONE NELLE ACQUE INTERNE DI CAPODIMONTE di Caterina Pisu

L’

interesse per le discipline che affrontano il rapporto uomo-acqua e i vari campi d’indagine a esso associati è notevolmente cresciuto negli ultimi decenni. Si tratta di un ambito molto vasto ed eterogeneo, che spazia dalla ricerca storica a quella archeologica ed etnografica, dagli studi linguistici a quelli conservativi. Di particolare rilevanza, in questo quadro, sono gli studi sulle acque interne. L’Italia è particolarmente ricca di ambienti umidi: fin dalla

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preistoria, laghi, stagni e fiumi hanno accolto la formazione di insediamenti umani stabili, come dimostra la documentazione relativa alla navigazione e alle attività di sussistenza, quali la pesca e la raccolta di molluschi. Nelle aree interne, inoltre, si sono radicate piú facilmente le tradizioni relative alla costruzione navale, a iniziare dai natanti preistorici, in primis le zattere e le imbarcazioni monossile (cioè ricavate da un solo tronco d’albero, dal greco mono, unico, e

xylon, legno, n.d.r.), per giungere alla straordinaria varietà tipologica delle imbarcazioni tradizionali peculiari di ogni regione. Queste ultime hanno avuto un posto rilevante nella nostra storia e nelle economie del passato. Basti ricordare che, prima dell’avvento del trasporto su rotaia e su gomma, le barche erano considerate tra i mezzi di trasporto piú efficaci per la loro velocità e comodità, sia sul mare che sulle acque interne. Le barche tradizionali, in generale, ma so-


prattutto quelle da lavoro, sono tuttora considerate come un patrimonio «minore», nonostante, ormai dal 2004, il Codice dei beni culturali e del paesaggio, all’articolo 10, comma 4, lettera i, riconosca tra i beni culturali anche «le navi e i galleggianti aventi interesse artistico, storico od etnoantropologico» e all’articolo 11, comma 1, lettera g, «i mezzi di trasporto aventi piú di settantacinque anni». Il censimento, il recupero e la valorizzazione delle imbarcazioni storiche sono interventi ormai non piú prorogabili. Una delle prime campagne di schedatura delle vecchie imbarcazioni da lavoro è stata condotta, tra il 2006 e il 2008, dalla Soprintendenza per i Beni Storici Artistici Etnoantropologici della Liguria; qualche anno dopo sono stati realizzati il censimento delle barche tradizionali dell’Emilia-Romagna, sia delle aree di costa che

In alto, sulle due pagine: una veduta di Capodimonte (Viterbo), cittadina sul lago di Bolsena in cui ha sede il Museo della Navigazione nelle Acque interne (MNAI).

In basso: la ricostruzione moderna di una tipica barca del lago di Bolsena, realizzata da Luigi Papini, durante le riprese del documentario L’ultimo mastro d’ascia.

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MUSEI • LAZIO

delle acque interne, condotto dal Museo della Marineria di Cesenatico, e il «Censimento delle Imbarcazioni storiche e d’interesse naviganti», frutto della collaborazione tra l’Università di Ferrara e l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Tuttavia, tranne i pochi casi citati, in Italia manca ancora un’azione globale di censimento del patrimonio galleggiante, che, nel frattempo, rischia di scomparire.

LE GRANDI SCOPERTE In Italia, gli studi di archeologia navale hanno avuto il loro maggiore sviluppo a seguito di alcune importanti scoperte. Tra le piú sensazionali vi è il recupero delle due navi romane del lago di Nemi, tra il 1928 e il 1932, a cui fece seguito, nel 1939, l’apertura del Museo. Le La piroga monossila dell’età del Bronzo rinvenuta nel 1989 nelle acque del lago di Bolsena, nei pressi dell’Isola Bisentina. XIV-XI sec. a.C. Capodimonte, MNAI.

BREVE STORIA DELL’ARCHEOLOGIA NAVALE La ricerca di informazioni sulle navi antiche, sia marine che delle acque interne, ha una lunga storia. Già nel XV e XVI secolo si ha infatti notizia di studi e illustrazioni, tra i quali si ricordano i disegni di imbarcazioni di Francesco di Giorgio Martini (1439-1501), realizzati per le formelle del Palazzo Ducale di Urbino, il trattato postumo De re nautica libellus (1540) di Lilio Gregorio Giraldi, e il Della Milizia marittima del veneziano Cristoforo Canale. Ocorre però attendere il 1848 per trovare il termine «archeologia navale», usato per la prima volta dallo storico francese Auguste Jal (1795-1873), il quale pose le basi della disciplina, perché fu anche il primo a integrare le fonti, i pochi dati archeologici allora disponibili e gli elementi delle tradizioni costruttive locali.

Piú tardi, nel 1886, Alberto Guglielmotti (1812-1892) pubblicò il Vocabolario Marino Militare. Il XX secolo segna il grande sviluppo della disciplina: nei primi decenni del secolo, il tedesco Augustin Köster fu tra i primi ad applicare alcuni principi dell’architettura navale moderna allo studio delle navi antiche, ma l’evoluzione della ricerca sarà ancora piú significativa durante gli anni Sessanta, in particolare dal 1961, data della pubblicazione in Italia dell’opera del finlandese Björn Landström (1917-2002), La nave, frutto di una ricerca approfondita e di contatti con gli esperti di importanti istituzioni come il National Maritime Museum di Greenwich, il Museo Storico Navale di Venezia, il Museo Naval di Madrid e il Museo Maritimo di Barcellona. Nel 1963, uno dei piú

navi erano le imbarcazioni da parata dell’imperatore Caligola (37-41 d.C.) e avevano dimensioni imponenti: il primo scafo misurava 71,30 x 20 m e il secondo 73 x 24 m. Sebbene il recupero sia avvenuto nel XX secolo, i due battelli erano noti almeno fin dal XV secolo, cioè dalla pubblicazione, da parte di Leon Battista Alberti (1404-1472) del trattato Navis, ora perduto. Pur essendo uscite illese dai bombardamenti della seconda guerra mondiale che avevano colpito la zona dei Castelli Romani, non si salvarono dall’incendio che divampò la sera del 28 maggio del 1944, le cui cause sono ancora incerte. La commissione d’inchiesta, istituita subito dopo il disastro, non riuscí ad attribuire alcuna responsabilità, né a individuare il possibile movente del gesto, e si ritenne perciò che l’incendio fosse stato causato da un’azione scellerata compiuta dalla 44 a r c h e o


valenti studiosi di topografia antica, Nereo Alfieri (1914-1955), pubblicò sull’Enciclopedia dell’Arte Antica un saggio sull’iconografia navale che ha rappresentato una nuova pietra miliare. Tra gli anni Sessanta e Settanta furono ristampate due opere fondamentali: nel 1964, Ancient ships, dello storico inglese Cecil Torr (1857-1928), e, nel 1970, Water Transport, Origins and early Evolutions dell’etnografo navale inglese James Hornell (1865-1949). Oggi il punto di riferimento per gli studi è principalmente l’ISTIAEN, l’Istituto Italiano di Archeologia ed Etnologia Navale, istituito a Venezia nel 1993 e che, dal 2008, ogni quattro anni, organizza i Convegni Nazionali di Archeologia, Storia ed Etnologia Navale, che si svolgono presso il Museo della Marineria di Cesenatico. In alto: una quinquereme, veliero a vele (qui ammainate) con cinque ordini di cinque remi, in una formella decorata a rilievo da Ambrogio Barocci su disegno di Francesco di Giorgio Martini, facente parte del fregio raffigurante le macchine della guerra e della pace. XV sec. Urbino, Palazzo Ducale. A sinistra: ricostruzione grafica della seconda nave di Nemi, una delle due imponenti imbarcazioni da parata dell’imperatore Caracalla rinvenute nell’omonimo lago laziale.

guarnigione tedesca in ritirata. Negli anni, però, si sono fatte strada nuove ipotesi, che hanno trovato fondatezza nell’inspiegabile assenza di grandi quantità di piombo che si sarebbero dovute rinvenire a seguito dell’incendio. Le navi, infatti, erano in gran parte ricoperte di piombo che di certo non poteva non aver lasciato traccia. Un’altra

delle ipotesi avanzate, dunque, è quella di un furto del piombo di copertura delle navi da parte di ignoti, che poi avrebbero cercato di cancellare le tracce del reato, dando alle fiamme il museo. Resta il fatto che quell’episodio ha rappresentato una perdita enorme per l’archeologia navale. Oggi delle due grandi navi romane restano

le copie in scala 1:5 e alcuni reperti che, prima dell’incendio, erano stati trasferiti a Roma, nel Museo Nazionale Romano; tuttavia, grazie alla documentazione, alle immagini e agli studi compiuti all’epoca del recupero, ancora oggi le due navi romane di Nemi rappresentano una eccezionale fonte di notizie sulla nautica antica. a r c h e o 45


MUSEI • LAZIO

I MUSEI NAVALI ITALIANI I primi musei navali nacquero nell’Ottocento: a Venezia, nel 1866, si costituí il primo nucleo del «Museo dell’Arsenale» e qui, nel 1881, in occasione della mostra geografica internazionale, l’ammiraglio Luigi Fincati fece costruire dieci banchi di voga, con trenta remi, mediante i quali si sperimentò la tecnica di voga sulle galere: un interessante esempio, poco noto, di archeologia navale sperimentale. A Genova, tra la fine del XIX e il principio del XX secolo, l’esploratore e viaggiatore Enrico Alberto D’Albertis creò una raccolta etnografica che comprendeva anche alcuni modelli di barche. Altri musei italiani attinenti la tematica navale si sono formati ad Albenga (Museo Navale Romano), Comacchio (Museo del Delta Antico), Pisa (Museo delle Navi Antiche), Santa Severa (Museo del Mare e della Navigazione antica), Venezia (Museo Storico Navale), Marsala (Museo Archeologico «Baglio Anselmi», che espone un relitto di nave punica e la nave romana di Marausa), Napoli (Museo del Mare), Fiumicino (Museo delle Navi romane), Favignana (Ex Stabilimento Florio), Battaglia Terme (Museo della Navigazione Fluviale), Pianello del Lario sul Lago di Como (Museo Barca Lariana), Capodimonte, in provincia di Viterbo (Museo della Navigazione nelle Acque Interne). Da ricordare è anche la sezione permanente dedicata alle marinerie tradizionali italiane del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, che espone vari modelli di imbarcazioni, tra i quali una barca lacustre

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sarda, un trabaccolo romagnolo, una lancetta adriatica, un gozzo siciliano e un modello di zattera fluviale veneta per la fluitazione del legname dai monti a valle. Fondamentale per il recupero e lo studio delle barche tradizionali dell’Alto Adriatico è il Museo della Marineria di Cesenatico: si articola in una sezione in acqua, con sette barche restaurate, e in una a terra, aperta nel 1993, che espone gli aspetti principali della cantieristica, della pesca, delle tecniche di navigazione con le vele al terzo e di quanto ruotava attorno al mondo dei pescatori e dei marinai tra l’Ottocento e il primo Novecento. In alto: Venezia, Museo Storico Navale. La Scalé Reale, nave cerimoniale degli inizi dell’Ottocento esposta nel Padiglione delle Navi, allestito nell’Arsenale. In basso: Nemi (Roma). L’interno del Museo delle Navi Romane. Progettato da Vittorio Morpurgo, fu costruito fra il 1933 e il 1939 per ospitare le due gigantesche navi da parata appartenute a Caligola (37-41 d.C.) e recuperate dalle acque del lago fra il 1928 e il 1932.

Sulle due pagine: la piroga La Marmotta 1, una delle imbarcazioni monossile recuperate nel lago di Bracciano, in località La Marmotta, e riferibili all’insediamento neolitico individuato in quelle acque. Metà del VI mill. a.C. Roma, Museo delle Civiltà, Museo Nazionale Preistorico Etnografico «L. Pigorini».


Fra le acquisizioni piú significative dei decenni successivi, si può ricordare il rinvenimento, a Ostia, dei resti di cinque navi di età romana, nel luogo in cui anticamente era ubicato il porto fatto costruire dall’imperatore Claudio nel I secolo d.C.; la scoperta avvenne durante la costruzione dell’aeroporto «Leonardo da Vinci» di Fiumicino, tra il 1958 e il 1965. Nel 1998, fu la volta di circa trenta imbarcazioni antiche (VI secolo a.C.-VII secolo d.C.) e del loro carico, portate alla luce nei pressi della Stazione di Pisa-San Rossore, in prossimità di un’ansa del fiume Serchio (e ora esposte nel Museo delle Navi Antiche di Pisa, già ampiamente descritto nell’articolo alle pp. 30-40). Infine, nel 1989, sui fondali del lago di Bracciano, in località La Marmotta, è stato individuato il piú antico insediamento

neolitico di sponda dell’Europa occidentale: qui sono state rinvenute anche cinque piroghe monossile, due delle quali sono esposte a Roma, presso il Museo Nazionale Preistorico Etnografico «Luigi Pigorini».

DA UN SOLO TRONCO I natanti preistorici giunti fino a noi sono unicamente le monossile, che, con la zattere, sono le antenate della maggior parte delle barche tradizionali italiane. Se i Greci definivano monoxylos la barca ricavata da un unico tronco di legno, i Latini usavano il termine linter, che, però, era meno specifico e poteva riferirsi, piú genericamente, a tutte le imbarcazioni piccole e leggere, adatte alla navigazione nelle acque interne, ma non necessariamente monossile. La documentazione materiale di imbarcazioni monossile italiane è

notevole, soprattutto nelle zone lacustri, ma anche in quelle fluviali, nonostante in quest’ultimo caso la continua azione meccanica delle correnti possa pregiudicare la conservazione degli scafi. Molte di queste imbarcazioni sono state individuate ma non recuperate, e sono ancora sommerse. Complessivamente gli scafi catalogabili sono poco piú di 200, ma solo per una cinquantina di essi si possiedono dati sulla conservazione e sulla datazione. Le monossile documentate sono databili tra il Neolitico e l’Alto Medioevo e, a oggi, non si conoscono esemplari rinascimentali o piú tardi, sebbene tali imbarcazioni siano state usate in Italia fino al principio del XX secolo, come dimostra la documentazione relativa agli zòppoli dei pescatori triestini e dalmati, oppure alle monossile diffuse nelle paludi pontine. a r c h e o 47


MUSEI • LAZIO

A CIASCUNO LA SUA BARCA Nel 1982, Marco Bonino osservò che, purtroppo, la tutela delle imbarcazioni storiche delle acque interne era iniziata troppo tardi, solo negli anni Sessanta del Novecento, quando buona parte di quella «flottta» era ormai irrimediabilmente perduta. Gli studi sulle barche tradizionali italiane, quindi, sono diventati prioritari per raccogliere una documentazione piú ampia possibile sul patrimonio galleggiante ancora esistente.

Oltre che nel Museo Nazionale Preistorico Etnografico «Luigi Pigorini» di Roma e al Museo della Navigazione nelle Acque Interne (MNAI) di Capodimonte (VT; vedi oltre), imbarcazioni monossile sono esposte nei seguenti musei italiani: Museo Civico di Crema e del Cremasco, Museo Civico di Como, Museo Archeologico della Valle Sabbia di Gavardo (BS), Museo Civico di Pizzighettone (CR), Museo Archeologico Platina di Piadena (CR), Museo del Territorio Biellese, Museo Archeologico Nazionale di Ferrara, Museo del Delta Antico di Comacchio (FE), Museo Etnografico del Po di Monticelli D’ongina (PC), Museo 48 a r c h e o

Nel nostro Paese, da nord a sud, sono presenti vari tipi di imbarcazioni tradizionali ma la differenza è soprattutto tra l’area occidentale e quella orientale della Penisola: la prima – che include l’area ligure, la Corsica, la Sardegna, il resto dell’area tirrenica e parte della Calabria – risulta essere piú dinamica, con la regione alto-tirrenica che funge da zona intermedia tra i tipi navali della ricca marineria ligure e la

molteplicità di tipi del basso Tirreno. La macro-area levantina, invece – che comprende l’area adriatica e ionica –, mostra una certa uniformità progettuale e di metodo costruttivo, soprattutto in virtú della forte influenza veneta e dell’area egea. Tra i numerosi tipi di imbarcazioni tradizionali italiane si ricordano i fassoni e i braccuni di Cabras, che trovano somiglianze con le barche di papiro diffuse dall’Egitto al Marocco; il sànaro di Lesina, imbarcazione pugliese dalla forte influenza mediterranea orientale; la rascona padana, non piú in uso dai primi del Novecento; il burchio padano-veneto; la bissa del lago di Garda; il barcú del lago d’Iseo, una grossa barca da trasporto che mostra punti di confronto con analoghe barche svizzere del lago di Costanza; la bissa (biscia) del lago di Garda, una barca da pesca leggera, a remi, con una vela ausiliaria al terzo, caratterizzata dalla forma trapezoidale; la gondola lariana, l’ultima grande barca da trasporto di antiche

del Fiume Bacchiglione di Cerva- Il museo è stato inaugurato nel rese Santa Croce (PD) e Museo di 2010, nell’ex mattatoio comunale di Storia Naturale di Venezia. Capodimonte, ma la sua storia inizia piú indietro nel tempo, quando, nell’ottobre del 1989, il subacqueo UN NUOVO MUSEO Tra i pochi musei italiani dedicati Massimiliano Bellacima – che stava alle acque interne, il Museo di svolgendo ricognizioni subacquee Capodimonte, in provincia di Vi- per conto del Museo Territoriale terbo, si distingue per la dimensio- del lago di Bolsena – individuò per ne extralocale dell’allestimento. Lo la prima volta una piroga monossila, spazio espositivo, infatti, accoglie adagiata sul fondale a 13 m circa di imbarcazioni e raccolte etnografi- profondità, nei pressi dell’Isola Biche riferibili al lago di Bolsena, sentina. Databile tra gli ultimi anni ma anche barche tradizionali di del Bronzo Finale e il Bronzo Mealtre località, come i laghi di Brac- dio (1365-1020 a.C,), la piroga era ciano e di Posta Fibreno, e model- stata ricavata da un unico tronco di li che illustrano la storia della na- faggio e misurava 6,16 m di lunvigazione dell’Italia centrale e di ghezza per una larghezza di 67/71 cm. Il progetto di musealizzazione altre aree del nostro Paese.


origini classiche o bizantine, usata fino ai primi anni del Novecento su questo lago; il quattràss o bruk, tipico del lago di Novate Mezzòla, la cui tecnica costruttiva riporta alle zattere, molto diffuse anch’esse sul Lario, sul Verbano e sui navigli milanesi; il combàll lariano, una grande barca da trasporto dalla struttura arcaica, con uno scafo a guscio simile alla gondola; il barchètt del lago d’Orta, storica barca utilizzata per il servizio di trasporto che collegava i paesi costieri, caratterizzata da una tenda sostenuta da cerchi fatti di rami intrecciati; la bbarka del lago di Bolsena, tuttora usata dai pescatori locali; la battana del lago di Bracciano; la búfala delle Paludi Pontine, usata per accudire le mandrie di bufali, che non si muoveva con i remi, ma con un palo di spinta, molto simile ai «sandali», utilizzati nella stessa zona; la naue o nave del lago di Posta Fibreno, che deriva dalle monossile per la struttura longitudinale e l’assenza di rinforzi trasversali.

del reperto fu affidato all’archeologa Anna Maria Conti e all’architetto Enrico Conti (Cooperativa Arx), con la supervisione scientifica dell’archeologa della Soprintendenza archeologica per l’Etruria meridionale, Patrizia Petitti, che aveva anche diretto le operazioni di recupero del relitto. Si decise di includere la monossila in un articolato percorso espositivo dedicato alla storia della navigazione dalla preistoria al XX secolo, di cui la piroga sarebbe stata l’elemento centrale. Oggi il museo sta ampliando la propria esposizione, rispondendo alla necessità di recuperare e valorizzare il patrimonio nautico tradizionale italiano, e ha avviato una

In alto: disegno di una gondola lariana sul quale sono indicate le principali definizioni dialettali di etimologia greca; anche gondola è un termine di origine greco-bizantina.

Nella pagina accanto: una bbarka, imbarcazione tipica del lago di Bolsena. Capodimonte, Museo della Navigazione nelle Acque Interne. In basso: la facciata del MNAI.

ricerca di barche storiche nel Lazio e nella vicina Umbria. Le prime acquisizioni sono due barche provenienti dal lago di Bracciano: una è la tipica barca da pesca con prua «a punta» che apparteneva a un pe-

scatore di Trevignano Romano, Sergio Gazzella, detto Sese’, come riportato sulla prua del natante. La seconda è una barca da diporto, anch’essa tipica del lago di Bracciano. Conosciuta come Sabatina, ven-

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MUSEI • LAZIO

ne creata negli anni Trenta dai fratelli Eugenio e Giuseppe Cerocchi e da Federico Zunini, per le gare veliche locali. L’esemplare esposto al museo è la Sabatina 22, realizzata in compensato marino dall’artigiano Roberto Scanu.

L’ULTIMO MASTRO Le due imbarcazioni si uniscono a quelle esposte nel museo fin dalla sua creazione: una è la tipica barca da pesca del lago di Bolsena, dalle origini molto antiche, risalenti almeno al Medioevo. In questo caso

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non è stata recuperata una barca antica, ma ne è stata commissionata la costruzione all’ultimo mastro d’ascia del lago di Bolsena, Luigi Papini. Durante la lavorazione, Papini è stato filmato dall’antropologa Ebe Giovannini e dall’archeologo Maurizio Pellegrini, i quali hanno intervistato, nel contempo, sia l’artigiano che altri testimoni delle tradizioni navali e di pesca: è nato cosí il documentario L’ultimo mastro d’ascia. Viaggio nelle memorie, che i visitatori possono vedere in una postazione video collocata accanto alla barca.

In alto: la naue, barca tipica del lago di Posta Fibreno. Capodimonte, Museo della Navigazione nelle Acque Interne. In basso, a sinistra: modello in scala di carabus, una barca di vimini, rivestita di pelli, di età romana. Capodimonte, Museo della Navigazione nelle Acque Interne.


A destra: una Sabatina, barca creata negli anni Trenta per le regate veliche che si svolgevano nel lago di Bracciano. Capodimonte, Museo della Navigazione nelle Acque Interne. In basso, sulle due pagine: barca tradizionale del lago di Bracciano, tipica della zona di Trevignano Romano. Capodimonte, Museo della Navigazione nelle Acque Interne.

Papini ha rispettato le tecniche costruttive tradizionali e le misure canoniche, pari a 6,70 m circa di lunghezza e 1,70 m di larghezza. La forma è triangolare, con fondo piatto e i remi posti in posizione asimmetrica, come le barche tuttora utilizzate dai pescatori locali, sebbene

costruite in vetroresina e non piú in legno. A Capodimonte si può anche vedere il piú antico esemplare esistente di naue o nave, la tipica barca del lago di Posta Fibreno (Frosinone), risalente alla fine del XIX secolo (vedi box alle pp. 48-49). La storia della navigazione viene

raccontata anche attraverso i modelli realizzati da Carlo Brignola. Suddivise in ordine cronologico, le riproduzioni mostrano un tipo di monossila e di barca di fasciame per ogni epoca, dall’età etrusco-romana all’età moderna. A questi modelli si sono aggiunte altre preziose riproduzioni, donate da Marco Bonino e da lui stesso realizzate: si tratta dei modelli in scala del fassone dello Stagno di Cabras, tipica imbarcazione sarda, di un carabus (barca di vimini rivestita di pelli) di età romana, proveniente dalla zona del Delta del Po, di tre piroghe monossile piemontesi da Mercurago (lago Maggiore), dal lago di Monate e dal lago di Bertignano, e di una piroga monossila da Angera (lago di Verbano), databili tra l’età del Ferro e l’età storica. La collezione si chiude con un modello di barca cicladica (antica età del Bronzo), che rappresenta la fusione tra la monossila, che costituisce il fondo della barca, e le sponde fatte di tavole. Grazie alle donazioni di privati cita r c h e o 51


MUSEI • LAZIO

Altre reti da pesca sono state donate da Elio Natali, uno degli ultimi rappresentanti del vecchio mondo dei pescatori del lago di Bolsena, oggi quasi tutti concentrati nel suggestivo Borgo dei Pescatori di Marta. Il museo si propone anche come luogo di approfondimento e di studio e mette a disposizione dei suoi utenti una sala di consultazione informatica, con tre postazioni PC dalle quali è possibile accedere a pubblicazioni, immagini e video su temi di archeologia ed etnografia navale, storia locale e antropologia. DOVE E QUANDO

tadini, l’esposizione museale si è arricchita di una suggestiva collezione etnografica, formata da due distinte raccolte: la prima è costituita da un cospicuo gruppo di pesi da rete fittili, usati dai pescatori locali per zavorrare le reti fino agli anni Cinquanta, dono di Piero Carosi, già funzionario della RAI; la seconda è composta da oggetti legati alla vita dei pescatori del lago di Bolsena, donati al museo da Mario Bordo, esponente di un’antica famiglia di pescator i bolsenesi. Quest’ultima comprende vari tipi di reti: artavelli, dirlindane o turlindane (strumenti per la pesca a traino), filarelle o palàmiti, per catturare le anguille, e oggetti vari della vita quotidiana, tra cui la tipica pignatta per cucinare la zuppa di pesce, la sbroscia del lago di Bolsena. Completano la nuova esposizione due diorami, realizzati dallo stesso Mario Bordo, che illustrano i tradizionali insediamenti dei pescatori con le suggestive cappanne, fatte di canne palustri, usate fino agli anni Sessanta e Settanta del Novecento. 52 a r c h e o

In alto: diorama che illustra le cappanne, tipiche abitazioni dei pescatori del lago di Bolsena. Capodimonte, MNAI. Qui sopra: modello in scala di barca cicladica, esempio di piroga monossila con sponde di tavole. Capodimonte, MNAI.

Museo della Navigazione nelle Acque Interne Capodimonte (Viterbo), viale Regina Margherita Orario 31 mar-31 ott: ma-ve, 9,30-13,00; sa-do e festivi, 9,30-13,00 e 15,30-18,30; 1° nov-30 mar: ve-do e festivi, 9,30-13,00; in altri giorni e orari è possibile prenotare anticipatamente, almeno 24 ore prima, al 339 1364151 Info tel. 0761 872437 oppure 870043; https:// museocapodimonte.com/

PER SAPERNE DI PIÚ AA.VV., La marineria romagnola, l’uomo e l’ambiente, Atti del Convegno (Cesenatico, 7-8-9 ottobre 1977), Comune di Cesenatico, 1983 Antonio Batinti, Marco Bonino, Ermanno Gambini (a cura di), Le acque interne dell’Italia Centrale: studi offerti a Giovanni Moretti, ALLI, Perugia 2004 Marco Bonino, Le imbarcazioni tradizionali delle acque interne dell’Italia centrale: quadro di riferimento e risultati della ricerca, Nuova Guaraldi Editrice, Firenze 1982 Marco Bonino, Un sogno ellenistico: le navi di Nemi, Felici, Pisa 2003 Marco Bonino, Argomenti di

Architettura navale antica, Felici, San Giuliano Terme (Pisa) 2005 Pasqua Izzo (a cura di), Le marinerie adriatiche tra ‘800 e ‘900, De Luca Edizioni d’Arte, Roma 1989 Stefano Medas, Le imbarcazioni monossili: letteratura antica e archeologia, in Atti del Convegno Nazionale di Archeologia subacquea (Anzio, 30-31 maggio e 1 giugno 1996), Edipuglia, Bari 1997; pp. 271-285 Patrizia Petitti (a cura di), Sul filo della corrente. La navigazione nelle acque interne in Italia centrale dalla preistoria all’età moderna, Arx Società Cooperativa, Montefiascone 2009



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MOSTRE • LAZIO

GLI ULTIMI RE DI VULCI CI FU UN TEMPO IN CUI LA GRANDE CITTÀ ETRUSCA SUL FIUME FIORA ARRIVÒ A ESTENDERE LA SUA LONGA MANUS FINO A ROMA. DELLA VICENDA FURONO PROTAGONISTE ALCUNE NOBILI FAMIGLIE ALLE QUALI È ORA DEDICATA UNA RICCA MOSTRA ALLESTITA NEL COMPLESSO MONUMENTALE DI S. SISTO A MONTALTO DI CASTRO di Simona Carosi, Carlo Casi e Carlo Regoli

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el IV secolo a.C. la città di Vulci è interessata da profonde trasformazioni di ordine sociale ed economico. Dopo un periodo di generale crisi, le famiglie di rango aristocratico riacquistano velocemente il potere sfruttando le ingenti disponibilità economiche a loro disposizione e i nuovi rapporti di parentela contratti per via matrimoniale. In questo panorama le attività produttive rispondono positivamente alla crescente domanda delle nuove élite, desiderose di manifestare il proprio status attraverso gioielli raffinati, sfarzosi vasi in bronzo e sontuose tombe dipinte o con architetture scolpite. Allo stesso modo, nel campo dell’edilizia urbana, si assiste al rinnovamento dei principali luoghi di culto cittadini, come il Tempio Grande o il santuario suburbano di Fontanile di Legnisina, e alla costruzione 56 a r c h e o


A sinistra e in basso: particolari dei coperchi di due sarcofagi provenienti dalla Tomba dei Due Ingressi della necropoli vulcente di Ponte Rotto. IV-III sec. a.C. Boston, Museum of Fine Arts (per la descrizione completa, vedi foto alle pp. 58 e 59). Nella pagina accanto: la tomba n. 23 della necropoli di Poggetto Mengarelli in corso di scavo.

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MOSTRE • LAZIO

di imponenti opere di difesa contro il progressivo espansionismo dell’esercito romano. In questo periodo, in analogia con gli altri principali centri dell’Etruria, anche a Vulci si registra la progressiva articolazione della struttura sociale con la nascita di assetti politici repubblicani gestiti da un senato gentilizio affiancato da assemblee popolari e da magistrati supremi temporanei (unici o collegiali) con compiti politici e religiosi. Tali sviluppi sembrerebbero confermati dalla nuova articolazione del sistema onomastico, caratterizzato dall’unione del prenome personale a quello della famiglia. Da questo sistema era invece esclusa la parte piú consistente della

In alto: foto aerea del territorio di Vulci con l’estensione dell’area urbana (in rosso) e l’ubicazione delle necropoli e delle tombe piú importanti. A sinistra: coperchio di un sarcofago raffigurante una coppia di coniugi abbracciati in un talamo nuziale e avvolti in un lenzuolo, dalla Tomba dei Due Ingressi. Fine del IV-inizi del III sec. a.C. Boston, Museum of Fine Arts. Risulta particolarmente interessante la resa del volto dell’uomo, che anticipa il verismo della ritrattistica tipico dell’arte romana di epoca repubblicana. La donna ha il capo cinto da un doppio diadema, porta un orecchino in forma di cuore e indossa un lungo chitone con maniche, mentre risulta difficile stabilire se il marito indossi a sua volta un abito particolare.

popolazione, come per esempio i servi e gli stranieri, designata con il solo nome personale. Sembra che tra le famiglie inserite nel sistema gentilizio vi fosse comunque una certa omogeneità sociale, testimoniata dalla presenza di aggregati familiari piú ampi. 58 a r c h e o

Tuttavia, a partire IV secolo a.C., si accentuò la differenziazione fra alcune gentes investite piú di frequente di cariche politiche o religiose, che costituivano quindi l’élite dominante, e le altre famiglie minori. Proprio l’archeologia sembra confermare una chiusura dell’aristocra-


zia vulcente, restia a instaurare rapporti persino con le famiglie importanti delle altre città etrusche: soltanto i Tarna, i Tetnie e i Mura si ritrovano infatti anche in altre città – come Caere (Cerveteri) –, mentre i Satie, i Tute, i Prušlna, i Višna, i Ceisatru e gli Zimaru al momento risultano solo vulcenti.

Tomba dei Sarcofagi, detta anche dei Tutes; e quella dei Tori, appartenuta ai Tarnas, che, insieme alla Tomba dei Due Ingressi (o dei Tetnies), sono invece scavate sulla seconda terrazza della necropoli.

TOMBA DEI SARCOFAGI Appartenuta alla famiglia dei Tutes, la Tomba dei Sarcofagi fu scoperta nel 1891 dall’archeologo francese Stéphane Gsell (1864-1932): sebbene fosse già stata depredata, lo studioso transalpino vi rinvenne ben diciotto sarcofagi. La collocazione topografica dell’ipogeo e la sua complessità denotano l’alto tenore della famiglia e il ruolo rivestito nella vita cittadina tra la fine del IV e il II secolo a.C. La famiglia ebbe

SEPOLCRI PRINCIPESCHI Nell’ambito dei sepolcreti orientali, la necropoli di Ponte Rotto ha restituito le piú interessanti testimonianze di età tardo-classica ed ellenistica, con monumenti funerari perlopiú riferibili a esponenti di spicco dell’aristocrazia di Vulci, come dimostrano la monumentalità degli apprestamenti architettonici, l’eccezionalità delle decorazioni interne ed esterne, oltre che la ricCoperchio di un chezza dei materiali di corredo. altro sarcofago Indagata sin dall’Ottocento, quest’araffigurante una rea funeraria, già in uso dalla fine coppia di coniugi del VII secolo a.C., ebbe un enorme coricati, sviluppo soprattutto a partire dalla proveniente seconda metà del IV. Le caratteristianch’esso dalla che geomorfologiche di questo setTomba dei tore, articolato su tre gradoni che Due Ingressi. digradano verso il corso del Fiora, si 350-300 a.C. rivelarono particolarmente adatte Boston, Museum alle esigenze di rappresentatività del of Fine Arts. rango degli illustri possessori dei L’iscrizione incisa sepolcri qui realizzati: alcune tombe su uno dei lati sono infatti caratterizzate da planicorti del metrie articolate e complesse, particoperchio (non colarmente adatte a ospitare piú visibile in questa generazioni di inumati della stessa foto) specifica gens, mentre alla cura nella realizzache il sarcofago zione degli interni, ispirati all’archivenne realizzato tettura domestica, corrisponde spesper Thanchvil so la presenza di apparati decorativi Tarnai e per suo scenografici che animavano i promarito Larth spetti esterni delle tombe. Tetnies, figlio di Proprio intorno alla metà del IV Arnth Tetnies secolo a.C., verosimilmente a segui- e Ramtha Vishnai. to di un preciso progetto, vengono realizzate le tombe piú importanti della necropoli, appartenenti a famiglie di alto rango imparentate tra loro: la Tomba François o dei Saties, il cui imponente dromos si apre nel primo gradone della necropoli; la

origine dalla coppia Tute Arnth e Ravnthu Hathli (fine del IV-inizi del III secolo a.C.), noti indirettamente dall’epitaffio del figlio, Tute Larth, morto all’età di settantadue (o ottantadue) anni dopo aver ricoperto numerose volte la carica di zilath, il supremo magistrato etrusco. A questo importante esponente della famiglia appartiene un sarcofago in nenfro decorato con scene di corteo magistratuale, noto da disegni dell’Ottocento e ritenuto dagli studiosi come proveniente da questa tomba: Tute Larth, e la sposa Pumpli Vela, rappresenterebbero la prima coppia sepolta. L’accesso alla tomba è costituito da un lungo dromos (corridoio), dotato nella parte finale di banconi laterali utilizzati

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MOSTRE • LAZIO Un particolare della tomba n. 23 della necropoli di Poggetto Mengarelli.

per il culto dei defunti. Dal vestibolo si accede all’ipogeo formato da un ambiente centrale che presenta una planimetria ricorrente a Vulci, del tipo detto «a T rovesciata», e da tre camere. Come in altri ipogei vulcenti, l’atrio e la camera di fondo

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presentano i soffitti scolpiti a imitazione di orditure lignee proprie delle abitazioni aristocratiche.

TOMBA DEI TORI Appartenente alla famiglia dei Tarnas, la tomba è anche detta «dei Tori» per la presenza di due basi in nenfro a forma di protome taurina collocate un tempo a sostegno di un sarcofago, oggi esposte al Museo della Ricerca Archeologica di Canino. La gens Tarna è attestata a Cerveteri già nella seconda metà del VII secolo a.C. Dalla città d’origine un ramo della famiglia si trasferí a Vulci, dove fondò la tomba di famiglia, che fu utilizzata dal III al I secolo a.C. Complessivamente l’ipogeo accoglieva sedici sepolti, di cui almeno nove (otto uomini e una donna appartenenti a tre generazioni) erano sicuramente membri della gens Tarna. Due Tarnai furono invece sepolte nella vicina Tomba François, avendo sposato due membri della famiglia dei Satie. Anche la planimetria di questo se-

polcro appartiene al tipo detto «a T rovesciata» e, come in altri monumenti funerari vulcenti, il richiamo all’architettura domestica appare evidente anche nel dettaglio dei soffitti, intagliati nella roccia a imitazione delle travature lignee delle abitazioni. La camera che si apre sulla parete di fondo del tablino era destinata ai membri piú importanti della famiglia e al suo interno furono collocati nove sarcofagi in nenfro. Qui fu sepolto Larth Tarnas: la sua formula onomastica, che presenta il prenome prima del gentilizio, lascia ipotizzare che si tratti di uno dei primi membri della famiglia sepolti nell’ipogeo, agli inizi del III secolo a.C. Dopo di lui, gli altri membri della famiglia useranno la formula inversa, con il gentilizio che precede il prenome, come è riportato sul sarcofago di Tarnas Larth (probabile nipote del precedente) che racchiude anche le spoglie di sua moglie, Tituti Vela. Altri sei membri della famiglia furono sepolti in sarcofagi posti nell’atrio, e uno fu collocato nella camera di destra: sulla parete dell’atrio a sinistra della porta che

Defunti illustri Planimetria della necropoli di Ponte Rotto, con l’ubicazione dei monumenti funerari descritti nell’articolo: 1. Tomba dei Sarcofagi; 2. Tomba dei Tori; 3. Tomba del Delfino; 4. Tomba François; 5. Tomba delle Iscrizioni; 6. Tomba dei Due Ingressi.

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immette in questa cella funeraria, era un tempo scolpito un delfino a bocca aperta e coda slanciata verso l’alto.

TOMBA DEL DELFINO Tra le rare tombe dipinte di Vulci (Tomba Campanar i, Tomba François) va annoverata anche la Tomba del Delfino (metà del IV secolo a.C.), un ipogeo formato da una camera rettangolare e da due piccole camerette che si aprono ai lati del ripido e stretto corridoio di accesso (dromos). Nella camera principale si conservava un piccolo frammento di un fregio raffigurante una sequenza di delfini guizzanti al di sopra di una fascia con onde marine stilizzate: al momento della scoperta si distingueva un delfino azzurro accanto al quale restavano la coda e la porzione del muso di altri due esemplari. Le figure apparivano realizzate con una linea di contorno scura alquanto mar-

In questa pagina: l’atrio della Tomba delle Iscrizioni e, nel riquadro, il segmento della parete sul quale è dipinta una delle iscrizioni che hanno dato nome al monumento funerario. Il sepolcro fu in uso dal IV al I sec. a.C. e accolse le spoglie di membri delle famiglie etrusche dei Prušlnas e dei Zimarus e, in epoca romana, vi vennero inumati anche due Sempronii e una Postumia.

cata, e campite alternativamente in rosso e in azzurro. Ne resta in situ un piccolo frammento. Una larga banchina funeraria corre su tre dei quattro lati della camera principale, dipinta con un finto drappeggio che si distende dal bordo del letto funebre sino al pavi-

mento, a imitare una pregiata tappezzeria conclusa da un’alta frangia di cordoni attorti.

TOMBA FRANÇOIS La storia della Tomba François risulta appassionante sin dal momento della scoperta, avvenuta nel 1857 per mano dello a r c h e o 61


MOSTRE • LAZIO

del sepolcro, dove un fregio a festone sovrasta un altro a meandro prospettico, sotto al quale, nell’atrio, corre una fascia con gruppi di animali, reali e fantastici, in combattimento. Il fregio principale si sviluppa al di sopra di uno zoccolo di colore rosso e inizia a lato della porta dove sono le immagini di Sisifo e Anfiarao (a destra) e di Aiace Oileo e Cassandra (a sinistra). Sulla parete destra dell’atrio è il fondatore della tomba, Vel Saties, il quale, vestito con toga picta, sta per trarre auspici dal volo di un uccello trattenuto con una cordicella da Arnza;

sull’altra parte della parete doveva essere nuovamente raffigurata l’immagine di Vel Saties o quella di un altro membro della famiglia, mentre al centro era dipinta l’immagine di un antenato eroizzato ivi deposto. Sulla parete opposta dell’atrio sono invece presenti le figure di Nestore, saggio consigliere durante la guerra di Troia e quella di Fenice, che educò e accompagnò Achille alla guerra. Ai lati della parete di fondo del tablino sono Eteocle e Polinice, a sinistra, e a destra, Cneve Tarchunies Rumach (forse Tarquinio Prisco, quinto re di Roma) e Marce Camit-

In questa pagina: particolari delle scene dipinte nella Tomba François, che hanno come soggetto le imprese degli eroi vulcenti. 350-325 a.C. Roma, Villa Albani. A sinistra, Vel Saties, titolare del sepolcro, osserva un uccello trattenuto dallo schiavo Arnza per trarne auspici; in basso, Larth Ulthes (nome di origine chiusina), affonda la spada nel fianco di Laris Papathnas Velznach (di Volsinii).

sfortunato archeologo fiorentino Alessandro François (1796-1857), il quale, sebbene avesse raggiunto per primo le ancora intatte camere sepolcrali, pagò con la vita gli scavi condotti in Maremma, contraendo la mefitica «mal aria». Al suo occhio esperto non poteva però sfuggire, come egli stesso racconta, «una lunga fila di annose querce, la di cui verdeggiante chioma era prova evidente di vegetazione floridissima, la quale non poteva derivare che da una polpa di terra assai profonda». Verso la fine del mese di aprile finalmente arrivò alla «porta chiusa da una doppia lastra di nenfro, la quale abbattuta si poté penetrare nell’interno dell’ipogeo». Al suo interno annota che le pareti «erano coperte di eccellenti pitture» che gli ricordavano «i bei tempi del Botticelli e del Perugino». La decorazione pittorica interessa tutte le pareti dell’atrio e del tablino 62 a r c h e o


A sinistra: un altro particolare delle pitture murali della Tomba François raffigurante Aiace Oileo che conduce al sacrificio un prigioniero troiano. In basso: assonometria ricostruttiva della Tomba François.

figura femminile ora conservata al Museo di Vulci, che dà accesso all’atrio sul quale si aprono ben sei camere in uso dalla seconda metà del IV secolo a.C. all’età romana. Nell’ipogeo vennero tumulati personaggi delle famiglie etrusche dei Prušlnas e dei Zimarus e, in epoca romana, vi furono inumati anche due Sempronii e una Postumia. In una delle camere fu rinvenuto un sarcofago, databile fra la fine del IV e la prima metà del III secolo a.C., appartenuto a Ramtha Ceisatrui, moglie di Vel Prušlnas committente della tomba, che presenta sui quattro lati scene di combattimento fra Amazzoni e Greci, mentre una Lasa alata assiste alla scena.

lnas. Sulla parete destra del tablino, fino alla parete di fondo, è la liberazione di Caile Vipinas da parte di Macstarna (il sesto re di Roma Servio Tullio), mentre Larth Ulthes, Rasce e Avle Vipinas uccidono Laris Papathnas Velznach, Pesna Arcmsnas Sveamach e Venthicau ..plsachs. Questa scena ripropone azioni militari che, agli inizi del VI secolo a.C., videro Vulci a capo di una coalizione opposta a Roma alleata con alcune città etrusche e che si concluse con una fase di predominio di Vulci su Roma stessa. Sulla parete opposta del tablino è invece raffigurato il sacrificio dei prigionieri troiani da parte di Achille per onorare la memoria di Patroclo. Purtroppo, nel 1863, le pitture furono staccate dalle pareti della tomba e, da allora, appartengono

La mostra è stata realizzata grazie al contributo della Regione Lazio, del Comune di Montalto, di Fondazione Vulci e con la collaborazione del Parco archeologico del Colosseo, del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, del Museo Archeologico Nazionale di Firenze e del Museo per la ricerca scientifica di Canino. alla collezione privata della famiglia Torlonia e sono conservate a Villa Albani, a Roma.

TOMBA DELLE ISCRIZIONI La tomba prende nome dalle numerose iscrizioni, perlopiú dipinte sulle pareti dell’atrio e nella prima camera laterale sinistra. Scoperta da Renato Bartoccini (1893-1963) nel 1957, la struttura è caratterizzata da uno stretto e lungo dromos, all’epoca rinvenuto sbarrato da una lastra su cui è sommariamente scolpita una

DOVE E QUANDO «Gli ultimi re di Vulci. L’aristocrazia etrusca vulcente alle soglie della conquista romana» Montalto di Castro (Viterbo), complesso monumentale di S. Sisto fino al 3 novembre Orario fino al 31/08: tutti i giorni, 10,00-12,00 e 17,00-19,00; dall’01/09 al 03/11: ve-do, 10,00-12,00 e 17,00-19,00 Info tel. 0766 89298 oppure 0766 870179; www.vulci.it a r c h e o 63


LA MIA ETRURIA

ARTISTA CAPACE DI RIVOLUZIONARE IL PANORAMA ITALIANO E INTERNAZIONALE, MARIO SCHIFANO LAVORÒ IN GIOVENTÚ COME «LUCIDATORE DI DISEGNI» NEL MUSEO ETRUSCO DI VILLA GIULIA. UN’ESPERIENZA DESTINATA A ISPIRARE OPERE DI GRANDE SUGGESTIONE, ORA RIUNITE IN MOSTRA A ORVIETO di Giuseppe M. Della Fina

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uerrieri, tombe, templi di quel popolo hanno fatto parte della mia storia privata»: sono parole di Mario Schifano – il maggiore esponente della pop art italiana – pronunciate durante un’intervista concessa al settimanale Panorama del 19 maggio

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1985. Quel popolo sono gli Etruschi e la dichiarazione può sembrare paradossale se non provocatoria. Ma non è cosí e la conferma viene dall’esposizione, curata da Maria Paola Guidobaldi e Gianluca Tagliamonte, che, dopo essere stata allestita al Museo Nazionale Etrusco di

Villa Giulia a Roma, viene ora riproposta negli spazi del Museo «Claudio Faina» di Orvieto. I curatori hanno recuperato una serie di documenti d’archivio che indicano come il giovane Mario Schifano avesse lavorato per piú di dieci anni nel museo romano: vi era


stato assunto il 1° luglio del 1951 come salariato temporaneo, con mansione di restauratore; poi dal 1958 – dopo avere espletato il servizio militare – come operaio salariato permanente, con mansione di lucidatore di disegni. Sono state recuperate anche le note di servizio che lo riguardavano: nel 1957, il soprintendente Renato Bartoccini scriveva: «È un elemento serio, educato, leale verso i colleghi, rispettoso coi superiori e che ha fatto il restauratore imparando e lavorando con volontà e diligenza». Nell’anno successivo il giudizio continuava a essere positivo, sebbene cominciasse ad affiorare qualche piccolo problema: «Serio, educato e rispettoso, anche se talvolta insofferente della disciplina del lavoro per le sue aspirazioni di pittore in contrasto col compito incaricato di assolvere».

stavo mai, il mio cervello era sempre fuori». La sintesi tra le due affermazioni si trova in un’ulteriore dichiarazione, raccolta dal giornalista Costanzo Costantini: «Era un lavoro di un tedio mortale, ma fu da quelle esperienze che nacque in me l’idea di dipingere, se si può usare questo verbo nel mio caso».

Il confronto giornaliero con l’arte e l’artigianato artistico etrusco non è stato soltanto alla base (e sarebbe già, ovviamente, molto) della spinta a iniziare a dipingere, a immaginarsi un futuro da pittore, ma, decenni dopo, riemerse in alcuni suoi cicli pittorici seppure scaturiti da commissioni specifiche, sui quali è

Nella pagina accanto: Tomba delle Pantere-Tomba degli Auguri, tecnica mista su cartoncino. 1991. Pescara, Fondazione Pescarabruzzo.

In basso: Mario Schifano (1934-1998) nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, accanto all’Apollo di Veio, nel corso di un’intervista.

«ISPIRATO» DAL TEDIO Nel frattempo, il giovane Schifano aveva iniziato a partecipare a mostre collettive presso importanti gallerie romane, bolognesi e milanesi e, tra il 1958 e il 1961, erano arrivati i primi riconoscimenti come pittore. In quel periodo chiese prima il trasferimento presso un’altra Soprintendenza (6 settembre 1960) e poi, il 2 febbraio del 1962, presentò le dimissioni: «Il sottoscritto Schifano Mario di Giuseppe nato a Homs (Tripoli) il 20.09.1934, in servizio presso la Soprintendenza alle Antichità dell’Etruria Meridionale in qualità di salariato permanente, presenta le dimissioni dal servizio e chiede che gli venga concessa la liquidazione spettante». Aveva 28 anni e il «posto fisso» era alle spalle. In seguito, ha espresso giudizi apparentemente contraddittori su quegli anni. Nella già ricordata intervista a Panorama, ribadisce: «La mia scelta è nata qui»; in un’altra, concessa a L’illustrazione Italiana (novembre 1986), afferma invece: «No, non è che son fuggito, in realtà non ci a r c h e o 65


MOSTRE • ORVIETO A sinistra: la lettera di dimissioni di Schifano da salariato dipendente della Soprintendenza alle Antichità dell’Etruria Meridionale, 2 febbraio 1962. Nella pagina accanto: in alto, al centro, Giuseppe Schifano, padre di Mario, assistente presso la Soprintendenza alle Antichità dell’Etruria Meridionale, sugli scavi di Lucus Feroniae, negli anni Cinquanta. In basso: il giudizio del soprintendente Renato Bartoccini sull’operato del lucidatore di disegni Mario Schifano. 1958.

imperniata la mostra. La prima occasione per riallacciare un dialogo con l’arte etrusca venne dalla proposta di dipingere un quadro in pubblico, nell’ambito di una performance artistica immaginata in occasione dell’apertura del cosiddetto «Anno degli Etruschi» (un progetto consistente in esposizioni che si svolsero – soprattutto per volontà della Regione Toscana – a Firenze e in altre città della stessa regione, e che si allargò poi all’Umbria, al Lazio, all’Emilia-Romagna e alla Lombardia). Nella notte del 16 maggio 1985 gli venne chiesto di dipingere un quadro di grandi dimensioni (4 x 10 m), a Firenze, nella centrale piazza della Santissima Annunziata, da dove si poteva accedere alle mostre «Civiltà degli Etruschi» (allestita all’interno del Museo Archeologico Nazionale) e «Fortuna degli Etruschi» (realizzata nei Sotterranei dello Spedale 66 a r c h e o

– per volontà della committenza o dell’artista – era caduta sulla Chimera, uno dei simboli dell’arte etrusca e particolarmente legato alla Toscana: l’eccezionale bronzo, rinvenuto ad Arezzo, era stato infatti acquistato nel 1553 da Cosimo I dei Medici, che, lo ricordiamo, volle fregiarsi del titolo di Magnus Dux Etruriae. Dell’impegno dell’artista in quella notte restano il dipinto, conservato oggi presso una collezione privata vicentina, e una serie di immagini scattate dal fotografo Marcello Gianvenuti, che documentano le diverse fasi della performance e, contemporaneamente, mostrano gli spettatori prima scettici e poi stupiti di fronte alla creazione di un’opera d’arte in diretta. Un’esperienza riservata generalmente solo alle persone piú vicine a un artista.

PITTURE A CONFRONTO Una nuova occasione di confronto venne data al pittore nel 1991, quando gli venne chiesto di realizzare una serie di tele ispirate al mondo etrusco nell’ambito di un progetto promosso dal Consiglio Regionale del Lazio, dal Comune di Tarquinia e dalla Soprintendenza Archeologica dell’Etruria Meridionale. L’iniziativa previde l’allestimento di una mostra – «Gli Etruschi di Mario Schifano», curata dal critico d’arte Ernesto d’Orsi – all’interno del Museo Nazionale Etrusco di Tarquinia (25 gennaio-25 marzo 1992). Le stesse opere vennero poi presentate, nel 2010, in una nuova esposizione, curata da Luca Beatrice, a Pescara, dove le tele – acquidegli Innocenti), inaugurate nella site dalla Fondazione Pescarastessa giornata. Portato avanti di bruzzo – sono rimaste sino alla rifronte a qualche migliaio di perso- proposta attuale. ne, il lavoro era commentato in di- L’attenzione dell’artista si concenretta – come in una telecronaca trò su alcuni vasi, su un carrello sportiva – dal critico d’arte Achille portaprofumi in bronzo, ma sopratBonito Oliva. La scelta del soggetto tutto su alcune testimonianze della


pittura tarquiniese e, in un caso ceretana – la Tomba dei Leoni Dipinti – scoperta nel 1834.Tra le tombe tarquiniesi che Schifano volle reinterpretare sei erano state scoperte nell’Ottocento (tombe dei Tori, degli Auguri, della Caccia e Pesca, del Barone, dei Vasi Dipinti e delle Leonesse), ma ben quattro (tombe delle Olimpiadi, Cardarelli, Bartoccini e dei Giocolieri) durante gli anni del suo lavoro al Museo di

Villa Giulia, a conferma dell’importanza di quell’esperienza. Una – la Tomba delle Pantere – venne rinvenuta nel 1968, quando aveva lasciato già l’impiego, ma la sua scoperta deve averlo interessato. La maggior parte delle pitture sulle quali lavorò risalgono alla seconda metà del VI secolo a.C., con l’eccezione delle tombe dei Leoni Dipinti e delle Pantere, databili, rispettivamente, alla metà del VII secolo a.C.

(o poco dopo) e agli inizi del VI secolo a.C. In alcuni casi, il pittore affiancò, contaminandole, raffigurazioni presenti in tombe diverse: evidentemente, il contesto di riferimento era per lui la pittura etrusca e non la singola realizzazione. Essa, anzi, era solo il pretesto per misurarsi con un’arte capace d’interessarlo, di farlo riflettere sia tramite i temi raffigurati che le modalità di scelta e uso del colore. Può essere a r c h e o 67


MOSTRE • NOME MOSTRA

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curioso osservare che le pitture che lo colpirono maggiormente furono quelle della Tomba degli Auguri, con ben cinque citazioni, mentre due vennero riservate alle tombe dei Leoni Dipinti e dei Giocolieri e una sola a tutte le altre.

LE MADRI DI CAPUA Una nuova occasione per misurarsi con il mondo etrusco venne qualche anno piú tardi e, questa volta, l’attenzione cadde sulla scultura. In particolare, sulle statue note come Matres Matutae rinvenute presso il santuario in località Fondo Patturelli a Curti, presso Capua, e conservate nel Museo Provinciale Campano di Capua. Il ciclo, composto da 18 opere (15 a smalto e acrilico su tela, 130 x 160 cm; 3 a tecnica mista su cartoncino, 70 x 100 cm) e 10 disegni a carboncino su carta (70 x 100 cm), venne commissionato all’artista dal manager Domenico Tulino con finalità filantropiche. Quadri e disegni furono realizzati tra il novembre 1995 e il giugno 1996 e, alla morte del committente, insieme ai beni e alle proprietà di quest’ultimo, sono passati in eredità alla sorella, suor Pina, impegnata in una missione ad Asmara in Eritrea. A lei si deve la costituzione della Fondazione Domenico Tulino, che ha lo scopo di operare a favore delle persone bisognose. Proprio ad Asmara, presso la missione, Mario Schifano ebbe modo di soggiornare per una settimana nell’autunno del 1995 e, a darci una misura dell’eccezionalità di quel viaggio, va ricordato che il pittore tendeva da anni a non uscire mai da casa (o a compiere, al massimo, brevi spostamenti). In proposito abbiamo la testimonianza di un suo collaboratore, Renzo Colombo, che lo ricorda al ritorno: «Scosso nell’animo (…) d’altronde il mecenate mi riferí che, di fronte alle sofferenze umane e ai bisogni che ebbe modo di constatare, specie nei bambini, in piú di un’occasione, Mario Schifa-

Sulle due pagine: Tomba dei Tori (nella pagina accanto) e Tomba delle Olimpiadi, tecniche miste su cartoncino di Mario Schifano. 1991. Pescara, Fondazione Pescarabruzzo. Entrambe le tele appartengono al ciclo

commissionato all’artista in occazione della mostra «Gli Etruschi di Mario Schifano» allestita nel 1992 nel Museo Nazionale Etrusco di Tarquinia e sono state in seguito acquisite dalla Fondazione Pescarabruzzo.

no scoppiò in un pianto liberatorio di commozione». Va ricordato che il pittore solo dieci anni prima, quando aveva superato i cinquant’anni, era divenuto padre per la prima volta. Dietro questo ciclo pittorico ci sono le immagini di grande forza delle statue conservate a Capua, che aveva voluto vedere di persona e fotografare, e contemporaneamente la novità del suo misurarsi con temi legati alla maternità e alla difesa dell’infanzia.

DOVE E QUANDO «Mario Schifano: visioni etrusche» Orvieto, Museo Etrusco «Claudio Faina» fino al 31 agosto Orario tutti i giorni, 9,30-18,00 Info tel. 0763 341216 o 341511; e-mail: info@museofaina.it; www.museofaina.it/ Catalogo a cura di Maria Paola Guidobaldi e Gianluca Tagliamonte, Ianieri Edizioni a r c h e o 69


POPOLI DELLA BIBBIA/7 – MEDI E PERSIANI

NELLA FOSSA DEL LEONE La figura di Ciro il Grande, nipote di un re dei Medi ed egli stesso esponente principe della persiana dinastia achemenide, riceve dal racconto biblico una straordinaria, quasi unica glorificazione: egli è un «eletto del Signore», un uomo preso da Dio «per la destra, per abbattere davanti a lui le nazioni…». Ma chi era, veramente, il leggendario personaggio? E perché la narrazione anticotestamentaria gli tributa l’onore di aver contribuito, addirittura, alla ricostruzione del distrutto tempio salomonico? di Tatiana Pedrazzi

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istruzione, violenza, saccheggi nel Vicino Oriente, non solo odierno, ma anche antico: nel 612 a.C. venne annientata la piú famosa capitale assira, la gloriosa e ricchissima Ninive, che sorgeva lungo il fiume Tigri, in Mesopotamia settentrionale. L’evento viene spesso ricordato come uno «scandalo della storia», per la sua inaudita e repentina violenza e per l’irreversibilità degli accadimenti che ne derivarono. La storia, in effetti, svoltò drammaticamente, 70 a r c h e o

poiché il vasto e potente impero assiro, che poco prima, con il re Assurbanipal, era all’apogeo della sua grandezza, crollò rovinosamente per non risollevarsi mai piú (vedi «Archeo» n. 407, gennaio 2019; anche on line su issuu.com). La coalizione degli assalitori era piuttosto eterogenea: ai Babilonesi, inviati dal sovrano Nabopolassar, si univano i Medi, al comando del re Ciassare. Fra l’VIII e il VII secolo a.C., il popolo dei Medi aveva creato un prospero regno tra le alture e i


La saggezza del profeta Daniele Daniele e Ciro al cospetto dell’idolo di Bel, olio su tavola di Rembrandt. 1633. Los Angeles, The J. Paul Getty Museum. Il dipinto evoca un episodio narrato nel Libro di Daniele e avvenuto quando il profeta si trovava a Babilonia, dove, grazie alla sua saggezza, era divenuto funzionario di corte: Ciro il Grande gli chiese perché non venerasse l’idolo e Daniele rispose di credere in un dio vivente. Al che il sovrano replicò che anche l’idolo era tale, poiché ogni notte consumava i cibi e le bevande che gli venivano offerti. Daniele smascherò l’inganno, scoprendo che in realtà le offerte venivano mangiate nottetempo dai sacerdoti del tempio di Bel: condannato a morte, uscí indenne dalla fossa dei leoni che avrebbero dovuto sbranarlo.

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POPOLI DELLA BIBBIA/7 • MEDI E PERSIANI A destra e nella pianori della regione che oggi chiamiamo iranica. Successori pagina accanto: dei Medi, nel dominare sul vaTepe Nush-i Jan sto altopiano iranico, furono (Iran). I resti poi i Persiani, dalla metà del VI musealizzati della secolo a.C., prima con Ciro, fortezza costruita che la leggenda vuole imparen- dai Medi tra l’VIII tato con i Medi, e poi con la e il VII sec. a.C. dinastia achemenide inaugurata da Dario, il «Re dei Re».

RISALENDO L’ALTOPIANO La storia dei Medi e quella del popolo persiano, di cui la Bibbia ricorda glorie e ricchezze, s’intersecano e si legano stret-

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tamente, nel corso del I millennio a.C. Per andare alle origini di questi popoli occorre addentrarsi fino ai secoli oscuri degli inizi del I millennio a.C., risalendo l’altopiano iranico in direzione delle alture che dividono i moderni Iran e Iraq, cioè l’area persiano-iranica da quella mesopotamica. Un paesaggio brullo, quasi stepposo, caratterizza la parte dell’altopiano che oggi separa Teheran, capitale dell’attuale Iran, da Hamadan, la città sorta presso l’antica Ecbatana, capitale del regno dei Medi. La nobile Ecbatana oggi non conserva A sinistra, sulle quasi nulla dell’antico splendodue pagine: re dei Medi, poiché le vestigia mappa ancora visibili risalgono prevadell’espansione lentemente all’età persiana. dell’impero Nei loro Annali, gli Assiri menpersiano, da Ciro zionano i Medi già a partire dal a Dario, IX secolo a.C., quando sul troVI-V sec. a.C. no d’Assiria sedeva SalmanasCome si può sar III. A quell’epoca, l’organizvedere, i sovrani zazione sociale e politica dei achemenidi Medi doveva essere ancora giunsero a molto frammentaria, per tribú; dominare gran non esisteva un vero e proprio parte del mondo allora conosciuto. regno unitario, dato che gli Assiri menzionano l’esistenza di ben ventisette sovrani dei Medi. Piú di cento anni dopo, verso la fine dell’VIII secolo a.C., il I Persiani all’avvento grande re Sargon II, dopo avere di Ciro (558 a.C.) conquistato la città di Samaria, Impero dei Medi (549 a.C.) in Palestina, nel 721 a.C., decise di deportare e disperdere gli Regno di Lidia (546 a.C.) Israeliti nella lontana Media, Regno di Babilonia (539 a.C.) che evidentemente era sotto il Massima estensione dell’Impero controllo assiro. achemenide (550-330 a.C.) Dice infatti la Bibbia, nel seTerritori conquistati condo Libro dei Re: «Il re d’Asda Ciro il Grande (558-528 a.C.) siria invase tutto il paese, andò in Conquiste di Cambise (530-522 a.C.) Samaria e l’assediò per tre anni. Conquiste di Dario (522-486 a.C.) Nell’anno nono di Osea, il re d’AsStrade reali siria occupò Samaria, deportò gli dell’impero persiano Israeliti in Assiria, destinandoli a Battaglie dei Persiani Chalach, alla zona intorno a Cabor, fiume del Gozan, e alle città della Numero d’ordine delle satrapie secondo Erodoto Media» (2 Re 17, 5-6). e loro probabili confini Il re di Media, che le fonti assi-

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POPOLI DELLA BIBBIA/7 • MEDI E PERSIANI

re chiamano Dayakku e che lo storico greco Erodoto ci fa invece conoscere con il nome di Deioce, tentò di unificare i regni di Media, ma venne sconfitto dagli Assiri e deportato in territorio siriano intorno al 715 a.C. A suo figlio Kashtaritu (chiamato Fraorte dai Greci) si attribuisce l’iniziativa di unifi-

care finalmente tutta la Media in un solo regno, grazie anche al permesso accordato dal re d’Assiria Sennacherib (705-681 a.C.), che dovette consentire a Kashtaritu/Fraorte di riunire sotto il suo dominio i diversi popoli dei Medi, dei Mannei e dei Cimmeri. La regione unificata da Fraorte si estendeva, in

INFANZIA E GIOVINEZZA DI CIRO Stando allo storico greco Erodoto, al re medo Astiage era stato vaticinato che sarebbe stato detronizzato dal figlio di sua figlia. In seguito alla profezia, Astiage decise di eliminare il nipote, Ciro, e affidò il compito al fidatissimo Arpago, il quale però consegnò il neonato a un bovaro, che volle adottare e crescere il bambino, sostituendolo al proprio figlioletto appena morto. Intorno ai dieci anni d’età, Ciro si comportava già da «piccolo re», anche nei giochi con i coetanei; si permise anche di punire il figlio di un dignitario dei Medi, il quale si rivolse ad Astiage per denunciare l’offesa subita. Il re riconobbe il nipote per l’evidente somiglianza, ma non volle ucciderlo e lo mandò in Persia, dai genitori. Puní invece Arpago, per

avere disatteso all’ordine molti anni prima, ordinando di ucciderne il figlio e facendone mangiare al padre le carni. Una volta adulto, Ciro depose il nonno dal trono di Media, anche grazie all’aiuto di Arpago e regnò su Medi e Persiani. Questa e altre versioni del racconto, come quelle riportate da Giustino o da Nicolao Damasceno, sottolineano lo stretto legame tra il persiano Ciro e la casa regnante di Media. Esse contribuiscono a evidenziare l’idea, un po’ preconcetta, di «dipendenza culturale» della Persia dalla Media. Il regno persiano, nuovo e quasi «primitivo», secondo gli autori classici, era profondamente debitore nei confronti del precedente, ricco e ormai dissoluto, regno di Media.

quell’epoca, dall’attuale Hamadan (l’antica Ecbatana) fino a Damavand. Secondo la testimonianza di Erodoto, Fraorte riuscí a sottomettere anche la Persia, che cor r ispondeva all’attuale Fars (la regione a sud della Media). Fraorte fu però ucciso intorno al 653 a.C., mentre cercava di Sulle due pagine: una veduta dei resti di Pasargade, città che fu la prima residenza reale degli Achemenidi. In basso, a sinistra: il cilindro detto «di Ciro», che reca un testo in babilonese nel quale è riportata la piú antica genealogia di Ciro il Grande, da Babilonia. 539-530 a.C. Londra, The British Museum.


attaccare la capitale assira Ninive; approfittando dell’uccisione del re, le tribú semi-nomadi degli Sciti occuparono la Media, tenendola in scacco per un lungo trentennio. Dopo questo interregno, salí al trono Cyaxares, ossia Ciassare, figlio di Fraorte. Ciassare si alleò con i Babilonesi per attaccare l’Assiria e, dopo aver saccheggiato la città di Assur nel 614 a.C., si spinse con i suoi alleati alla conquista della celebre e potente Ninive, che venne saccheggiata e messa a ferro e fuoco, appunto nel 612 a.C. I Medi e i Babilonesi si spartirono allora i vasti territori assiri: l’area siro-palestinese e la Cilicia toccarono al re di Babilonia,

che impose cosí il suo control- sono fonti epigrafiche interne a lo sulle lontane e prospere re- questo ricco e ben organizzato gioni mediterranee. regno. Gli storici greci tendono a sottolineare la continuità tra Medi e Persiani, suggerendo UN REGNO RICCO che questi ultimi, nella loro E BEN ORGANIZZATO Dopo Ciassare, che governò ascesa al potere, acquisirono per una quarantina d’anni, sul proprio dai Medi buona parte trono di Media salí il successo- dei costumi, del cerimoniale di re Astiage (Ishtumegu), il quale, corte e dell’organizzazione stanel 585 a.C., s’impegnò con un tale. La Bibbia menziona la trattato a rispettare il ricco re- Media quasi sempre in associagno occidentale di Lidia, in zione alla Persia; nei libri di Asia Minore, governato dal re Ester e di Daniele, per esempio, Alyattes: il confine da non at- si fa sempre riferimento a «Metraversare era collocato in cor- dia e Persia», insieme, quasi un rispondenza del fiume Halys, binomio inscindibile. l’odierno Kizil Irmak, al centro Anche l’archeologia ci restituisce poco del regno dei Medi. della penisola anatolica. Sono soprattutto le «voci al- Il quadro che possiamo ricotrui» a parlarci dei Medi: non ci struire è dunque frammentario

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POPOLI DELLA BIBBIA/6 • ITTITI

ed è costituito da informazioni discontinue, che lasciano sul popolo dei Medi un velo di mistero. Alcuni importanti siti archeologici sorgono in territorio medo, in Iran occidentale; fra questi, rivestono un notevole interesse storico e documentario le colline di Godin Tepe e di Tepe Nush-i Jan. Qui restano visibili le tracce di imponenti strutture residenziali, corredate dalla presenza di sale ipostile, ovvero ampi saloni in cui numerose colonne portanti sostengono un alto soffitto. Questo modello avrà un maggiore sviluppo in epoca persiana achemenide, trovando una delle migliori realizzazioni nella cosiddetta apadana di Persepoli, la grande sala delle udienze della capitale persiana.

MURATURE IMPONENTI Sulla cima della collina di Godin Tepe si osservano i resti di una fortezza, con magazzini, ambienti abitativi e, appunto, la tipica sala colonnata; un muro di cinta, con torri affacciate verso la parte ripida del pendio, racchiude e protegge il complesso residenziale risalente all’età dei Medi. Un’altra collina, piuttosto alta, che si erge a dominare una pianura spoglia e biancastra, prende il nome oggi di Tepe Nush-i Jan; anche questo luogo custodisce i resti di una fortezza costruita dai Medi tra l’VIII e il VII secolo a.C. Imponenti murature in mattoni crudi, conservate per un’altezza di 3 m circa, delimitano ambienti che furono assai probabilmente magazzini e arsenali; una corte centrale consente l’accesso a un’area templare (un probabile tempio del fuoco). Anche in questo complesso architettonico, una sala Pasargade. Portale decorato con un bassorilievo raffigurante un genio alato, provvisto di quattro ali, di ispirazione assira, ma con una corona egizia e una veste di tipo forse elamita oppure levantino. 76 a r c h e o


colonnata anticipa al periodo dei Medi quella che sarà una tipica realizzazione di età persiana. Con il re Astiage la storia dei Medi s’interrompe, per lasciare spazio a quella dei Persiani, sebbene le fonti concordino nell’evidenziare la continuità tra il regno medo e quello persiano, una continuità sottolineata soprattutto dalla genealogia di suo nipote Ciro, destinato a diventare il

sovrano di un potente regno prima e di un grande impero poi. Ciro II, o «il Grande», è ritenuto il figlio della principessa Mandane, a sua volta figlia di Astiage. Era dunque, per parte materna, discendente dai Medi e, per parte paterna, di nobile stirpe persiana: era infatti il figlio del persiano Cambise I. Nel 554 a.C., con l’aiuto del re babilonese Nabonedo, Ciro attacca

ed espugna la capitale della Media, Ecbatana, ponendo fine al regno dei Medi e assumendo il titolo di «re dei re». Pochi anni piú tardi, nel 539 a.C., entra vittorioso a Babilonia, deponendo Nabonedo e diventando il sovrano anche di tutto quel vasto impero conquistato dai Babilonesi, esteso fino al Mediterraneo. Entrando a Babilonia, Ciro viene accolto come un liberatore

UN MONUMENTO SINGOLARE E SUGGESTIVO La tomba di Ciro a Pasargade, realizzata in pietra, con alta base a gradoni in blocchi squadrati, ha suggerito paralleli mesopotamici, che sono validi per l’idea generale della struttura a gradoni. È stato richiamato da alcuni studiosi il modello della ziggurat, l’alta torre a gradoni costruita però in mattoni crudi, che serviva a sostenere il tempio mesopotamico fin da età sumerica. Un confronto possibile potrebbe essere la ziggurat elamita, che, secondo gli esperti, avrebbe una connessione peculiare con la sfera della morte. Alla ziggurat elamita è stato riconosciuto un carattere funerario sulla base di testimonianze scritte, nelle quali il grande dio di Susa, Inshushinak, è definito «signore della morte nel kukunnum», cioè nel «tempio alto della ziggurat». Tuttavia, il riferimento al modello della ziggurat è piuttosto labile, poiché quest’ultima appartiene a una tradizione architettonica in cui è essenziale l’uso del mattone.

La copertura della tomba di Ciro, consiste in un tetto a doppio spiovente: questo particolare fa pensare alla tradizione architettonica di area urartea, dunque settentrionale. Il prototipo urarteo è documentato nella rappresentazione che gli Assiri fecero della cittadella urartea di Musasir; il modello doveva probabilmente essere stato trasmesso ai Persiani con il tramite dei Medi, poiché il tetto con lastre disposte a doppio spiovente è attestato in alcune tombe area meda. Nella tomba di Ciro si colgono anche elementi greco-ionici, che si mescolano ad apporti egiziani: una resa tipicamente greca dei gradoni (la cosiddetta krepis dei templi greci) e la cyma reversa a coronamento della camera funeraria, insieme, però, a un primo coronamento a gola egizia. Una mescolanza di caratteri e una varietà di fonti di ispirazione stanno dunque alla base di questo singolare e assai suggestivo monumento.

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POPOLI DELLA BIBBIA/7 • MEDI E PERSIANI

clamare per tutto il regno, a voce e per iscritto: “Dice Ciro re di Persia: Il Signore, Dio dei cieli, mi ha consegnato tutti i regni della terra. Egli mi ha comandato di costruirgli un tempio in Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il suo Dio sia con lui e parta!”» (2 Cronache 36, 23). Con le stesse parole si apre il Libro di Esdra, che aggiunge però alcuni importanti dettagli: «Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra; egli mi ha incaricato di coSulle due pagine: una veduta d’insieme e il particolare dei rilievi di Bisutun, sul monte Behistun, nella regione iraniana di Kermanshah. La scena principale rappresenta i re sconfitti al

cospetto di Dario. Sotto e intorno corre la grande iscrizione trilingue (in elamita, antico persiano e neobabilonese), che ricorda le vicende della sua ascesa al trono.

piú che come un conquistatore: il suo atteggiamento è improntato alla tolleranza e al rispetto delle tradizioni, in campo religioso e, piú ampiamente, culturale. Ma da dove proviene davvero Ciro? Un antico documento, il «cilindro di Ciro», che reca un testo in babilonese, ci riporta la piú antica genealogia di questo nobile personaggio: Ciro si autodefinisce «re di Anshan» e, in particolare, «discendente di Teispe, Gran Re, re di Anshan» (vedi foto a p. 74). Il sito di Anshan, che corrisponde al moderno Tall-i Malyan, è dislocato nella piana di Marv-i Dasht, nel cuore del Fars; in quella regione, dunque, ove poco piú tardi sorgerà Persepoli, la capitale cerimoniale voluta da Dario alla fine del VI secolo. La genealogia di Ciro affonda le radici in una regione, quella di Anshan, che prende successivamente il nome di Persia – Parsa, in antico persiano, oggi Fars – e con questo nome viene menzionata nelle iscrizioni successive. In questa regione Ciro fa edificare la capitale Pasargade, che sorge seguendo il modello elamita piú che quello medo. In effetti, con buona pace degli storici classici, che vedo-

no il regno persiano come erede diretto (e quasi «passivo») di quello dei Medi, in realtà l’organizzazione statale, all’inizio, è legata soprattutto all’eredità della tradizione dell’antichissimo impero elamita, sorto nel II millennio a.C. nella regione di Susa, tra l’Iran e la Mesopotamia meridionale. I sovrani dell’Elam erano «re di Anshan e di Susa».

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MAGNANIMITÀ DEL RE DI PERSIA Dopo avere conquistato Babilonia nel 539 a.C., Ciro diede ordine di consegnare ai capi famiglia d’Israele gli utensili d’oro e d’argento che Nabucodonosor aveva prelevato dal tempio di Gerusalemme e permise loro di tornare in patria e ricostruire il santuario di Yahweh (2 Cronache 36, 20 ss.; Esdra 5, 13-17). Ciro concesse dunque il ritorno in patria a quanti da Gerusalemme erano stati deportati e resi schiavi da Nabucodonosor. La Bibbia, come è ovvio, riporta l’intervento di Ciro a favore degli esuli come ispirato direttamente dal Dio d’Israele: «Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, a compimento della parola predetta per bocca di Geremia, il Signore suscitò lo spirito di Ciro re di Persia, che fece pro-

GIUSTIZIA E PROTEZIONE Il dio Ahura-Mazda è rappresentato per la prima volta nel rilievo di Bisutun. Il rilievo accompagna l’iscrizione rupestre voluta da Dario su di una rupe del monte Behistun, nella regione iraniana di Kermanshah. Gli artisti incaricati dal re Dario scelgono di ispirarsi direttamente all’iconografia assira di Shamash,


struirgli un tempio in Gerusalemme, che è in Giudea. Chi di voi proviene dal popolo di lui? Il suo Dio sia con lui; torni a Gerusalemme, che è in Giudea, e ricostruisca il tempio del Signore Dio di Israele: egli è il Dio che dimora a Gerusalemme» (Esdra 1, 2-3). Il re persiano decide, insomma, di far ricostruire il tempio di Gerusalemme, distrutto e depredato quasi un cinquantennio prima. Ciro permette ai Giudei di recuperare anche gli arredi del tempio, «che Nabucodonosor aveva asportato da Geru-

salemme e aveva deposto nel tempio del suo dio» (Esdra 1, 7). Si trattava di ben cinquemila e quattrocento oggetti d’oro e d’argento, che vennero consegnati agli esuli in partenza per volere di Ciro.

LEGNO DI CEDRO PER LA RICOSTRUZIONE A Gerusalemme, inizia la ricostruzione del tempio, con la partecipazione anche di artigiani fenici. Ricorda Esdra (3,7) che «Allora diedero denaro ai tagliapietre e ai falegnami; e

alimenti, bevande e olio alla gente di Sidone e di Tiro, perché trasportassero il legname di cedro del Libano per mare fino a Giaffa: ciò secondo la concessione loro fatta da Ciro re di Persia».Tuttavia, a Gerusalemme, il sorgere di contrasti interni impedisce la continuazione del rifacimento del santuario; i lavori rallentano e s’interrompono durante tutto il periodo compreso tra il regno di Ciro e quello di Dario, come registra sempre il Libro di Esdra (4, 24). In Isaia si trovano l’elogio di Ciro e la celebrazione della

divinità solare garante della giustizia. Il dio Ahura Mazda, rappresentato sotto forma di busto umano che emerge dal disco solare alato, viene posto in alto, a vegliare sul re persiano, proteggendolo e legittimandolo. Si colgono alcuni particolari, come il peculiare elemento circolare che reca all’interno una stella inscritta

nel cerchio, sopra alla testa del dio: tali elementi sono probabilmente ispirati ad antichissime raffigurazioni elamite. Per esempio, nel rilievo rupestre elamita di Sar-i Pul, in Iran, risalente al III millennio, compare, in alto, un disco in cui è inscritta una stella: la somiglianza di questo disco con stella iscritta con quello presente sopra Ahura Mazda

a Bisutun è innegabile. Dario sembra volersi appropriare, dunque, della piú antica tradizione locale (elamita) cosí come della tradizione mesopotamica (assira), facendo confluire questi diversi apporti in direzione di soluzioni artistiche innovative, che esprimono e cristallizzano un’identità comune e «unificante» achemenide.

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sua opera di ricostruzione, attribuita alla volontà del Signore Yahweh: «Io dico a Ciro: “Mio pastore”; ed egli soddisferà tutti i miei desideri, dicendo a Gerusalemme: “Sarai riedificata”; e al tempio: “Sarai riedificato dalle fondamenta”» (Isaia 44, 28). Ciro è addirittura visto come l’eletto del Signore: «Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: “Io l’ho preso per la destra, per abbattere davanti a lui le nazioni, per sciogliere le cinture ai fianchi dei re, per aprire davanti a lui i battenti delle porte e nessun portone rimarrà chiuso”» (Isaia 45, 1). In effetti, Ciro adotta una politica di tolleranza religiosa e culturale e un sistema ideologico e politico 80 a r c h e o

basati sulla piena disponibilità a delegare il potere, lasciandolo in buona parte nelle mani di esperti «locali» in tutte le regioni conquistate. Come nel caso dei Giudei, favorisce il rientro in patria dei popoli deportati dai Babilonesi; incoraggia la ripresa dei culti, il recupero delle tradizioni locali.

UNA NUOVA CAPITALE Al contempo, Ciro rafforza il potere centrale persiano e il legame stretto tra la dinastia regnante e la regione chiamata «Parsa», cioè Persia; questo legame dinastico viene evidenziato anche attraverso la costruzione di una capitale, Pasargade, che viene

edificata ex novo proprio sul luogo della sconfitta delle truppe di Astiage. A Pasargade si attua un ricco programma di costruzione e decorazione di edifici rappresentativi, strutture un tempo splendide, delle quali restano oggi solamente sparse tracce. Uno dei piú singolari edifici è la cosiddetta «tomba di Ciro», un monumento (da identificare quasi certamente con il sepolcro di Ciro il Grande, morto nel 530 a.C.) che fu visitato anche da Alessandro Magno e fu descritto accuratamente dagli storici antichi Strabone e Arriano (vedi box e foto a p. 77). I caratteri artistico-architettonici ibridi – iranici, mesopotamici, greci, egizia-


OMAGGIO AL SOVRANO

Persepoli, Iran. Una delle gradinate di accesso al palazzo di Dario I, la cui costruzione, da lui stesso avviata, fu portata a termine dal figlio, Serse. VI-V sec. a.C.

ni – sono tipici di questa fase antica dell’architettura persiana, che a Pasargade ha la sua prima significativa manifestazione. Le decorazioni scultoree dei palazzi della città mostrano evidenti riferimenti all’arte assira, attraverso la rielaborazione locale, con apporti anche di origine greco-ionica. Un portale, per esempio, viene decorato con un bassorilievo raffigurante un genio alato, provvisto di quattro ali, di ispirazione assira, ma con una corona egizia e una veste di tipo forse elamita oppure levantino; le rosette sul bordo della veste sembrano di ascendenza greca (vedi foto a p. 76). Nel 530 a.C., alla morte di Ciro,

Sulle due scalinate monumentali che davano accesso alla cosiddetta apadana di Persepoli si ripetono raffigurazioni disposte in modo quasi esattamente speculare. I rilievi sono disposti sull’avancorpo delle scalinate, ma trovano posto anche sul basamento dell’edificio colonnato. Nella scalinata est, la rampa meridionale ospita la raffigurazione delle delegazioni dei paesi soggetti all’impero, con doni e tributi. La rampa settentrionale, invece, reca una processione di guardie susiane e di dignitari medi e persiani. Lo stesso tipo di rappresentazione, con disposizione speculare, si trova sulla scalinata nord. I richiami all’arte imperiale assira sono innegabili, soprattutto pensando ai rilievi fatti eseguire dal re assiro Sargon II nel suo palazzo di Khorsabad, con le processioni di tributari. Tuttavia, il grande affresco dell’apadana è una creazione specificamente achemenide, che ci consente oggi di disporre di un suggestivo e variopinto quadro dei numerosi popoli sottomessi all’impero

persiano, osservati dal punto di vista del «centro del potere». Le delegazioni dei paesi sottomessi alla Persia sono composte da sudditi che portano doni o tributi. Ogni delegazione è introdotta da un dignitario, medo o persiano (distinguibile in base all’abbigliamento). Ciascun dignitario prende per mano il capofila della delegazione, introducendolo simbolicamente (ma anche fisicamente) al cospetto del re achemenide. Un’attenzione «programmatica» è rivolta agli elementi distintivi dell’identità dei vari sudditi: vesti e mantelli, acconciature, copricapi, calzature, oggetti e animali portati in offerta. Si ottiene un quadro variopinto e variegato, che è simbolo della pacifica convivenza di una numerosa compagine di popoli. Tutta la complessità dell’impero achemenide è rappresentata a Persepoli: paesaggi, lingue, religioni, usi e costumi anche notevolmente differenti gli uni dagli altri convivono in un’armonia stabile e duratura, garantita dal governo centrale.

sale al trono il figlio Cambise, che regna fino al 522 a.C. e si dedica alla conquista dell’Egitto, realizzata nel 525 a.C.; l’impresa porta l’impero persiano a raggiungere un’estensione considerevole anche verso ovest, fino appunto alla valle del Nilo.

che, insieme ad altri dignitari. ristabilisce l’ordine nell’impero. Dario I (in lingua persiana Dârayavaush) sale al trono nel 522 a.C. In cerca di legittimazione, fa scolpire un’imponente iscrizione, in ricordo della sua vittoria sull’usurpatore, in cima a un’alta rupe sul monte Behistun (Bisutun), nell’odierna provincia di Kermanshah (Iran), e lungo l’antico percorso che conduceva da Ecbatana a Babilonia (vedi box e foto alle pp. 78-79). Nel testo, Dario dichiara di essere discendente di Hakhaimaniš (cioè «Achemene»), ricostruendo cosí, a posteriori, una propria genealogia illustre e proponendosi come discendente di un

L’IMPERO ACHEMENIDE Scomparso Cambise, l’usurpatore Gaumata (chiamato Smerdi da Erodoto) tenta di farsi passare per il fratello del re (fratello che in realtà era morto assassinato proprio per volontà di Cambise stesso). Gaumata e i suoi sostenitori sono però sconfitti dal nobile persiano Dario,

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POPOLI DELLA BIBBIA/7 • MEDI E PERSIANI

ramo secondario della famiglia di Teispe, avo di Ciro il Grande.Teispe è detto «figlio di Achemene», creando cosí una diretta continuità con la stirpe di Ciro e inventando (o ricreando) un passato «achemenide» unitario. È chiaro l’intento di Dario di costruire (quasi dal nulla, diremmo) un passato comune, unificante e legittimante, per gli «Achemenidi», ma anche il proposito d’introdurre una concezione innovativa – tutta achemenide appunto – della patria, della regalità e della religione. In effetti, proprio in quegli stessi anni si stava diffondendo in area iranica il credo religioso zoroastriano; Ahura Mazda era venerato come dio unico, nel contesto di una religione di stampo etico, basata sulla contrapposizione tra bene e male, giustizia e ingiustizia. Nato a seguito della predicazione di Zoroastro (Zaratustra o Zartosht), vissuto in un’epoca imprecisata, lo zoroastrismo costituisce la prima religione nota in ambito indo-europeo con caratteri di tipo monoteistico.

CENTRO CERIMONIALE E AMMINISTRATIVO L’ideologia imperiale di Dario si esprime pienamente nell’edificazione di una nuova capitale cerimoniale e amministrativa, Persepoli, nel Fars, sopra una terrazza naturale che domina la piana di Marv-i Dasht. La città è presentata dalle iscrizioni come fondata ex novo, anche se vi sono, in loco, segni di attività edilizia risalenti all’età forse di Ciro o di Cambise. La fase edilizia piú antica si colloca tra il 515 e il 490 a.C. circa. In questo periodo viene avviata la costruzione del cosiddetto «Tesoro» e si inizia anche a edificare la grande sala colonnata cerimoniale, l’apadana, che costituisce ancora oggi uno dei monumenti piú affascinanti dell’antica Persepoli. In un secondo momento, fra la fine del regno di Dario e gli inizi di quello di Serse, sorge il palazzo di Dario (chiamato 82 a r c h e o

tachara), non distante dal palazzo dell’apadana. Il re Serse, successore di Dario, provvederà a costruire poi la grande porta urbica, detta «di tutte le nazioni», ingresso splendido e monumentale alla città, con i suoi capitelli a protome di animale, posti in cima alle alte colonne. La politica imperiale achemenide venne elaborata compiutamente proprio da Dario tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C. L’ideologia della tolleranza, dell’unità nella diversità e l’idea che i sovrani persiani, scelti e sostenuti dal dio Ahura Mazda, fossero garanti della giustizia, dell’ordine e dell’armonia universali, furono i cardini di un impero che ebbe, nella storia, l’innegabi-

le merito di rendere possibile, o se non altro «pensabile», l’idea di una convivenza pacifica tra popoli differenti, con culture, lingue, abitudini, credenze religiose diverse. Un’idea, o forse un’utopia, tanto preziosa nel mondo antico, quanto nel nostro mondo contemporaneo. Secondo la testimonianza di Erodoto, Dario riorganizzò l’impero, suddividendolo in satrapie, ossia in province, il cui governo era affidato ai satrapi, veri e propri governatori, inviati dal «Re dei Re», sovrano di Persia. Il sovrano proseguí anche la politica di tolleranza religiosa inaugurata da Ciro nei confronti dei Giudei di Palestina. Il lavoro di ricostruzione del tempio di Gerusa-


gname nelle pareti; questo lavoro viene buto per la ricostruzione dell’edifatto con diligenza e progredisce nelle ficio. «Ecco i miei ordini sull’atteggiamento che dovete tenere con questi anloro mani» (5, 7-8). ziani dei Giudei per la ricostruzione del tempio: dalle entrate del re, cioè IL DECRETO RITROVATO Tattenai fa sapere a Dario che se- dalla imposta dell’Oltrefiume, saranno condo i Giudei Ciro in persona rimborsate puntualmente le spese a decise di far ricostruire il tempio; quegli uomini, senza interruzione» chiede poi al Re dei Re di accer- (6,8). Il re ordina di fornire gioventarsi che un simile decreto di Ciro chi, arieti, agnelli, ma anche grano, sia davvero esistito: «Ora, se piace al sale, vino e olio, ogni giorno, per re, si cerchi negli archivi del re in Babi- garantire le offerte al Dio del cielo, lonia se vi è un decreto emanato dal re venerato dai Giudei. Ciro per ricostruire questo tempio in Leggendo i molti passi biblici che Gerusalemme: e ci si mandi la decisio- parlano della politica religiosa attuane del re» (5, 17). Il testo del decre- ta in favore del tempio di Gerusato regio si trova davvero: «Allora il lemme prima da Ciro e poi da Dare Dario ordinò che si facessero ricerche rio, si potrebbe pensare che i sovranell’archivio, là dove si conservano i ni persiani abbiano in qualche motesori a Babilonia, e a Ecbatana, la do «protetto» particolarmente il fortezza che è nella provincia di Me- popolo giudeo, difendendone a spadia, si trovò un rotolo» (6, 1-2) e su da tratta la libertà e sostenendo il questo rotolo era riportata proprio culto del loro dio Yahweh. In realtà, la decisione di Ciro riguardo al analizzando le fonti interne all’imtempio di Gerusalemme. Dario pero achemenide (i documenti ordina dunque al governatore di d’archivio provenienti da Persepoli) lasciare che i lavori al tempio con- non si trova traccia di questo pretinuino, e offre persino un contri- sunto «trattamento di favore» che la A sinistra: Naqsh-i Rustam. Uno scorcio delle monumentali tombe rupestri degli Achemenidi: a sinistra quella di Serse I (486-465 a.C.), a destra quella di Dario I (521-485 a.C.).

In basso: particolare dei rilievi della tomba di Dario I a Naqsh-i Rustam. La decorazione si articola in tre registri; in quello superiore compare lo stesso Dario che prega il dio Ahura-Mazda.

lemme, dopo l’esilio babilonese, era stato infatti iniziato per volere di Ciro, ma poi si era interrotto per contrasti interni «e rimase sospeso fino all’anno secondo del regno di Dario re di Persia» (Esdra 4, 24). Il Libro di Esdra ci narra come al tempo di Dario, il governatore della satrapia chiamata «Transeufratene» (cioè «al di là dell’Eufrate» o, piú semplicemente, «d’Oltrefiume»), un nobile di nome Tattenai, scrisse una lettera al re Dario, informandolo sulla situazione di Gerusalemme. Cosí scrive Tattenai: «Al re Dario salute perfetta! Sia noto al re che siamo andati nella provincia della Giudea, al tempio del grande Dio: esso viene ricostruito con blocchi di pietra; si mette lea r c h e o 83


POPOLI DELLA BIBBIA/7 • MEDI E PERSIANI

E VENNE UN RE «DALL’ANIMO CONSAPEVOLE»... Dal 2000-1800 a.C Persiani e Medi, popoli di lingua alla prima metà indoeuropea, si diffondono in Asia del I millennio a.C. sud-occidentale; occupano vaste regioni dell’altopiano iranico, organizzandosi in domini tribali e potentati autonomi. 700 a.C. circa Regno di Achemene (Hakhaimaniš, «dall’animo consapevole»), la cui storicità non è accertata. 555-530 a.C. Impero di Ciro II o il Grande (Kurush, ossia «Il pastore»), principe di Anshan, governatore delle province di Parsumash e Parsa (l’odierno Fars). Ciro sconfigge Astiage, re dei Medi (584-555 a.C.), conquista la Persia e diviene «Re dei Re» intorno al 550 a.C. 546-540 a.C. Le città greche della costa ionica cadono sotto il dominio persiano. 539 a.C. Presa di Babilonia e liberazione degli Ebrei ivi esiliati, scortati in sicurezza in patria. 530 a.C., dicembre Morte di Ciro in battaglia contro gli arcieri massageti della regina Tomiri, nelle pianure dell’attuale Turkmenistan meridionale. L’impero

Bibbia sembra celebrare ed esaltare, ritenendo, in qualche modo, i re persiani «illuminati» dal dio di Israele. Anche in altri casi, in altre situazioni, i sovrani di Persia, con spirito di tolleranza, ma anche con un certo superiore (e forse altezzoso) disinteresse, presero decisioni atte a favorire la libertà di culto e la possibilità di continuare i culti locali. Il tempio di Gerusalemme, certamente, poté essere ricostruito grazie agli Achemenidi, proprio come altri santuari locali di varie regioni dell’impero. Ma i sovrani persiani reputarono conveniente e opportuno, oltre che giusto, concedere a tutti i sudditi la possibilità di venerare i propri dèi, sempre qualora queste divinità non recassero minacce all’unità e all’equilibrio dell’impero. 84 a r c h e o

si estende dalle pendici del Caucaso alla Valle dell’Indo. 530-522 a.C. Regno di Cambise II (Kambujia, forse «Il re che regna a suo piacere»), figlio di Ciro il Grande. 526 a.C. Probabilmente Cambise fa uccidere il fratello Bardiya («l’Elevato»; Smerdi per i Greci), temendo di esserne spodestato. La sua morte viene tenuta segreta. 525 a.C. Cambise sconfigge Psammetico III e completa la conquista dell’Egitto. 522 a.C. Cambise muore nel ritorno verso Susa; l’usurpatore Gaumata proclama di essere Bardiya e legittimo erede al trono. Le province orientali dell’impero cadono nel caos. 522 a.C., settembre Dario figlio di Istaspe, ufficiale dei corpi scelti imperiali, uccide Gaumata in Media e seda la rivolta nel 519 a.C. 522-486 a.C. Regno di Dario I (Dârayavaush, «colui che possiede il bene»). Spostamento della capitale da Pasargade a Persepoli. Divisione dell’impero in 20 satrapie, riforme

Alla morte di Dario, divenne re Serse (485-465 a.C.), l’erede che Dario aveva avuto da Atossa, figlia di Ciro. Serse viene usualmente identificato con il personaggio di Assuero del Libro di Ester (ma l’individuazione è dubbia).

L’ARROGANZA PUNITA Serse procedette nella guerra avviata dal padre contro la Grecia, decidendo di attraversare l’Ellesponto con le truppe e dunque, nell’ottica greca espressa mirabilmente da Eschilo nella sua tragedia I Persiani, compiendo un’empietà: «aggiogando» l’Ellesponto, trascinato dalla hybris, la tracotanza, quella smodata arroganza che i Greci attribuivano alla figura del sovrano assoluto orientale. Serse fu sconfitto dai Greci a Salamina nel

480: lo scontro tra l’impero persiano e il mondo delle piccole città greche rimase paradigmatico, come conflitto tra dispotismo orientale e «democrazia» occidentale. L’interpretazione stereotipata di questa contrapposizione arriva fino a noi, attraverso gli storici greci, e pare giustificare anche nel presente semplificazioni consimili. Ma un viaggio in profondità dentro l’impero persiano, la sua struttura, la sua ideologia, ci permette di vedere la limitatezza di ogni stereotipo, l’errore a cui conduce ogni semplificazione. Alla litigiosa frammentarietà delle città greche, che si erano unite dinanzi al pericoloso nemico, l’impero achemenide aveva saputo contrapporre la sua grandezza, derivata da una gestione sapiente delle diversità culturali e della varietà


fiscali e dell’esercito; esplorazioni navali nell’Oceano Indiano, e forte impulso al commercio. Ulteriori conquiste in Asia centrale e sul fronte occidentale, nel Ponto, in Armenia e lungo il Caucaso. Nel 514 a.C. l’esercito di Dario attraversa il Bosforo e sottomette la Tracia. Si profila lo scontro con l’Occidente greco. 499-493 a.C. Rivolta delle città asiatiche della costa ionica contro i propri tiranni, vassalli di Dario. L’appoggio di Atene, Eretria e di altre potenze greche alla rivolta causa l’intervento persiano in terra greca. 492-490 a.C. Falliscono le prime spedizioni persiane in Grecia, quando la flotta è distrutta da una tempesta al Monte Athos, e l’esercito penetrato in Attica è battuto a Maratona. 486 a.C. Una rivolta in Egitto interrompe i preparativi di Dario per una terza spedizione. Morte di Dario. 485-465 a.C. Regno di Serse (Xayarsha, «colui che regna sugli eroi»), figlio di Dario.

480-479 a.C. Fallimento della spedizione greca di Serse, le cui armate incontrano forti resistenze e, a piú riprese, gravi rovesci. 465 a.C. Serse viene ucciso dal comandante della guardia reale. 465-425 a.C. Regno di Artaserse I (Artakshassa, «dal regno veritiero»). Mantenimento dello status quo, e repressione di rivolte in Egitto. In questo arco di tempo si colloca il probabile viaggio di Erodoto nella terra del Nilo. 425-424 a.C. Periodo di grave instabilità dinastica causata dai conflitti tra i figli di Artaserse I. 424-404 a.C. Regno di Dario II. Nuovo stato di ostilità con le potenze greche. 405-358 a.C. Lungo regno di Artaserse II Mnemone. Nel 404 l’Egitto si ribella e riacquista una parziale indipendenza. Il fronte occidentale dell’impero si rafforza per le divisioni interne alle città greche. 358 a.C.-338 a.C. Regno di Artaserse III, descritto dalle fonti come despota sanguinario e spietato.

etnica, linguistica, religiosa interne cendio che la storia imputa a una scellerata decisione dello stesso all’impero stesso. Alessandro, desideroso di vendicare le ferite inferte dai Persiani alla LA FINE DI UN’UTOPIA Una simile struttura statale era tut- Grecia. Ardeva cosí un intero montavia destinata a crollare. L’impero do, andava in fumo un’utopia persiano cedette dinanzi all’attacco d’impero universale. delle truppe macedoni, capeggiate E Alessandro, che pure contribuí a da Alessandro Magno, un perso- dare alla cultura greca uno slancio naggio singolare, inquieto, dai con- verso Oriente, in un’ottica aggretorni difficili da delineare. Dopo la gante e unificante, non riuscí a reisconfitta, a Gaugamela, dell’ultimo terare questa utopia nell’immenso re persiano che portava il nome di territorio da lui conquistato: «Allora Dario, Alessandro condusse il suo sorgerà un re potente che dominerà sul esercito fino nel cuore della Persia grande impero e farà quello che vorrà. e, nel 330 a.C., attaccò e distrusse Ma appena si sarà affermato, il suo rePersepoli, mettendola letteralmen- gno sarà infranto e sarà diviso verso i te a ferro e fuoco. Gli splendidi quattro venti del cielo; non apparterrà palazzi, l’immensa apadana con le alla sua discendenza e non avrà una sue colonne, il Tesoro, la grande potenza pari a quella di prima; perché porta «di tutte le nazioni»: tutto sarà smembrato e passerà ad altri, non ai crollò e bruciò, in un terribile in- suoi eredi» (Daniele 11, 3-4).

NEL PROSSIMO NUMERO • Gli Aramei e le popolazioni transgiordaniche

PER SAPERNE DI PIÚ Clelia Mora e Cesare Zizza (a cura di), Antichi Persiani: storia e rappresentazione, Edipuglia, Bari 2018 Antonio Panaino, Zoroastrismo. Storia, temi, attualità, Morcelliana, Brescia 2016 Josef Wiesehöfer, La Persia antica, Il Mulino, Bologna 2003 Pierre Briant, I Persiani e l’impero di Dario, Universale ElectaGallimard, Torino 1995 Roman Ghirshman, Arte persiana. Proto-Iranici, Medi e Achemenidi, Feltrinelli, Milano 1964 a r c h e o 85


SPECIALE • GOZO

I SEGRETI DI GOZO LA SECONDA ISOLA DELL’ARCIPELAGO SITUATO NEL CUORE DEL MEDITERRANEO SEDUCE IL VISITATORE PER L’UNICITÀ DEL SUO PAESAGGIO, PER IL SILENZIO DEI SUOI BORGHI, PER LE SUE ARCHITETTURE DALL’IMPRONTA ARABA E BAROCCA. LETTERALMENTE «NASCOSTI» NEL VENTRE DI QUESTO MICROCOSMO DI STORIA E CIVILTÀ GIACCIONO, INOLTRE, MONUMENTI TRA I PIÚ RILEVANTI DELLA PREISTORIA MEDITERRANEA… di Andreas M. Steiner; reportage fotografico di Daniel Cilia

L’arcipelago maltese in una foto aerea presa da nord-ovest. In primo piano, l’isola di Gozo, e, sullo sfondo, l’isola di Malta, con Comino in mezzo. 86 a r c h e o


P

er introdurre il discorso su Gozo, seconda isola dell’arcipelago maltese conviene, forse, partire proprio dal nome. Diversamente da quello dell’isola maggiore, Malta (che i Greci chiamavano Melite, dal greco meli, «miele», e i Romani Melita, anche se non manca chi ha voluto riconoscervi la parola fenicia maleth, «porto» o «nascondiglio»), l’etimologia di Gozo ha origine decisamente semitica: la riprova è incisa su una lastra di pietra calcarea conservata nel locale Museo Archeologico, situato all’interno della Cittadella di Rabat (nota anche come Victoria), la capitale gozitana. L’iscrizione, in lettere puniche, menziona gli abitanti di GWL, la Gaulos citata da Ecateo

LA GENTE DI GAULOS Nota come Melitensia Quinta, l’iscrizione punica, risalente al III sec. a.C. e incisa in pietra corallina, è stata rinvenuta nel 1855 durante alcuni lavori fuori dalla porta d’accesso alla Cittadella di Rabat, il capoluogo di Gozo. Il testo menziona il popolo di Gaulos (Gozo) quale costruttore e rinnovatore di tre «oggetti» e di quattro templi, tra cui uno della dea Astarte. Il reperto (15,5 x 14,9 cm) è conservato al Museo Archeologico di Gozo.

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SPECIALE • GOZO

di Mileto come un’isola «a largo di Cartagine». I Romani latinizzarono il nome in Gaulus, i Bizantini la chiamarono Gaudomelete (forse accorpando in un sol nome le due isole principali dell’arcipelago). Con l’occupazione araba, iniziata nell’870 e conclusasi – con la conquista normanna – nel 1090, l’isola assunse il nome di Ghawdex (la pronuncia può essere vagamente resa come «audesh»), nome con cui ancora oggi viene chiamata in lingua maltese. Goffredo Malaterra, cronista delle gesta dei Normanni di Ruggero Altavilla in Sicilia e nel Mediterraneo, racconta la non facile conquista di Gozo (la resistenza della popolazione locale fu vinta, infatti, soltanto dopo aver messo a ferro e fuoco tutta l’isola), chiamandola Golsa. In seguito, con l’annessione dell’intero arcipelago al regno siciliano, il nome divenne Gaudisium (gioia), significato ripreso dal toponimo spagnolo Gozo, allorché le isole maltesi caddero sotto il dominio aragonese. E Gozo è, naturalmente, l’altro nome – insieme quello arabo di Ghawdex – con cui la seconda isola dell’arcipelago maltese è tuttora nota.

LA GEOLOGIA Ed ecco spiegata la ragione di questa lunga elencazione di nomi: essa sintetizza la movimentata storia di quest’isola, una storia che, pur configurandosi come parte integrante di quella «maltese» tout court, presenta, nondimeno, alcune particolarità significative. A partire dalla sua conformazione geologica e, di con-

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A destra: cartina delle isole maltesi, al centro del Mediterraneo. Nella pagina accanto: foto aerea di Mgarr, il porto di Gozo situato nella parte meridionale dell’isola, prospicente quella di Malta. In basso: una veduta primaverile della valle di Marsalforn, nel nord di Gozo. La particolare conformazione geologica rende la seconda dell’isola dell’arcipelago maltese particolarmente fertile, grazie alla presenza di numerose sorgenti naturali.

Gharb Ghasri

Marsalforn

San Victoria Lawrenz Xewkija Xlendi Sannat

Xaghra

GOZO

EUROPA

Ghajnsielem Comino

COMINO

Malta AFRICA

Cirkewwa

Qaw Qawra Qa awra a

Millieha

St. Paul’s St S t P auuul’ aul’s aul a ul’s ull’ss Bay B

Mar Mediterraneo

St. Julian’s Sliema Gzira

Mdina Rabat

N

MALTA

Zebbug

Marsa Paola

Valle Va V etta ett tta

Marsascala Tarxien

Zurrieq

0

10 Km

FILFLA

BirzebbugIa

seguenza, dal suo aspetto. Gozo, infatti, con i suoi 67 chilometri quadrati, è certamente simile alla sua sorella maggiore, eppure diversa. Soprattutto, è piú verde; caratteristica non indifferente, visto che ci troviamo al centro del Mediterraneo e in corrispondenza di latitudini propriamente africane. Indagando la stratigrafia geologica di Gozo incontriamo, in superficie, uno strato frastagliato di pietra calcarea semicristallina, relativamente dura, chiamata «corallina superiore» e che si presenta spesso in massi di varie dimensioni (e che, in quanto tali, furono usati dagli abitanti del Neolitico tardo per la costruzione delle loro celebri architetture religiose). Sotto la crosta di corallina superiore, superato uno strato di sabbia, si incontra


Con i suoi 67 chilometri quadrati di superficie, Gozo è la seconda delle isole facenti parte dell’arcipelago maltese. E, pur essendo legata all’isola maggiore Malta, possiede una sua storia personalissima. Naturale e umana...

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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l’argilla blu. Quest’ultima, grazie alla sua compattezza impermeabile, trattiene l’acqua piovana, favorendo le formazioni di sorgenti naturali. Nell’isola si incontrano ancora oggi le tracce di pozzi artesiani scavati attraverso lo strato corallino per intercettare le riserve d’acqua intrappolate sopra lo strato argilloso. Sotto l’argilla blu troviamo, poi, la seconda pietra tipica delle isole maltesi, la cosiddetta «globigerina», che ha natura calcarea e risulta IN RICORDO DI MAIMUNA Alla fine dell’Ottocento fu rinvenuta, a Gozo, una straordinaria stele funeraria, ricavata da un frammento di marmo di età romana. La pietra (alta 62 cm) reca la dedica a una giovane donna di nome Maimuna, morta il 21 marzo 1174. Conservato nel Museo Archeologico di Gozo, il reperto testimonia la presenza di una comunità musulmana nell’isola ben dopo la conquista normanna del 1091.

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soffice e facilmente lavorabile: una volta estratta ed esposta all’aria aperta, assume la calda tonalità del miele. Insieme alla corallina, pietra dalla tonalità grigiastra e dalla consistenza piú dura, è l’incontrastata protagonista dei grandi complessi megalitici dell’arcipelago. L’uso della corallina, però, caratterizza l’aspetto del piú imponente insieme monumentale dell’arcipelago, il complesso di Ggantija, a cui si deve anche il nome della piú antica fase del cosiddetto «Periodo dei grandi templi» di Malta (vedi tavola cronologica a p. 93).

IL COLORE GRIGIO Il maestoso recinto megalitico si impone alla vista composto da enormi blocchi di questa pietra grigiastra, contrariamente a quanto accade nei monumenti preistorici dell’isola di Malta, caratterizzati dal colore piú caldo della globigerina (vedi «Archeo» n. 353, luglio 2014; anche on line su issuu.com). La corallina, infatti, era il materiale da costruzione maggiormente disponibile nell’area specifica in cui sorge questo straordinario monumento, il

Una veduta dell’isola di Gozo con, in primo piano, il capoluogo Rabat/Victoria. Al centro, la cosiddetta «Cittadella», l’imponente, storica fortificazione della città.

tavolato di Xaghra (che si pronuncia «shahra»), situato nella parte centro-orientale di Gozo. Proprio da Ggantija (il nome, pronunciato «gigantía», deriva da una tradizione popolare che vuole l’imponente struttura costruita in un’imprecisata epoca mitica) iniziamo il nostro percorso alla scoperta dell’archeologia preistorica di Gozo. Racconta Brian Boulet, nella sua The Story of Malta (1989), che l’immagine delle strutture megalitiche ha trovato il modo di insinuarsi nel folklore dell’ostetricia popolare. A Xaghra, le donne incinte si sedevano o si stendevano sulla pietra superiore del dolmen detto «di Sansuna» per propiziarsi un parto sicuro. La leggenda vuole che una gigantessa con lo stesso nome, con un bambino custodito in una gerla portata dietro la schiena, reggesse la lastra orizzontale del dolmen in equilibrio sulla testa, e le due grandi pietre laterali in ciascuna mano. Molti racconti popolari vedevano i recinti di giganteschi massi affioranti sulla superficie come «fattorie» magicamente costruite da diavoli, magari nel corso di un’u-

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nica notte: luoghi magici e pericolosi da evitare accuratamente. Cosí racconta dei suoi incubi infantili un testimone maltese: «Potevo quasi vedere i diavoli al loro duro lavoro notturno, tagliare i grandi blocchi, portarli sulle spalle e costruire la fattoria (...) sembravano lucertole rosse e nere rette sulle zampe posteriori, che trascinavano le lunghe code e potevano fare tutto ciò che desideravano». Per i contadini del luogo, i bacini rituali e gli altari cavi che spuntavano tra le rovine dimostravano che il diavolo proprietario della «fattoria» vi custodiva certamente... enormi mucche. Ma veniamo ai tempi nostri. Il complesso templare di Ggantija si trova al centro di uno straordinario paesaggio archeologico, indagato da molti decenni e, in particolare, a partire Nella pagina accanto: Ta’ Cenc (Gozo meridionale). Uno dei dolmen dell’età del Bronzo, facenti parte di una tomba megalitica a camera.

dagli anni Novanta del secolo scorso. Le par- In questa pagina: ti piú antiche dei «templi» di Ggantija si danella fotografia tano al 3600 a.C. e, in quanto tali, sono annosatellitare di verabili tra le prime architetture mai costruiGozo sono te dall’uomo. Pur nella sua unicità, dovuta – riportati i oltre che alle sue dimensioni – anche al fatto principali siti di essere il meglio conservato di tutti i templi archeologici dell’arcipelago, Ggantija preannuncia – o, relativi al periodo meglio, si allinea – alle caratteristiche che dei grandi templi accomunano tutti questi monumenti, costrumegalitici, tutti iti nell’arco di circa un millennio. concentrati nella

VARIAZIONI SUL TEMA Pur nella loro singolarità, infatti, i templi maltesi sembrano rappresentare variazioni su un solo, grande tema planimetrico e architettonico, consistente in una pianta composta da un asse centrale lungo la quale si arti-

parte orientale dell’isola: 1. Templi di Ggantija (Xaghra); 2. Circolo di Xaghra (Xaghra); 3. Tempio di Santa Verna (Xaghra); 4. Villaggio preistorico di Tac-Cawla; 5. Tempio di Ta’ Marziena (Victoria); 6. Tempio di Xewkija (Xewkija; distrutto); 7. Tempio di Triq ix-Xabbata (Sannat); 8. Tempio di Borg I-Imramma (Sannat); 9. L-Imrejsbiet (Ghajnsielem); 10. Borg il-Gharib (Ghajnsielem); 11. Qala menhir (forse i resti di un tempio).

I monumenti preistorici si concentrano nella metà orientale dell’isola 92 a r c h e o


LE ISOLE TRA PREISTORIA E STORIA Età

Fase

Cronologia

Eventi e monumenti

Neolitico

Ghar Dalam 5300-4500 a.C. Skorba 4500-4400 a.C. (ceramica grigia) Skorba 4400-4100 a.C. (ceramica rossa)

Colonizzazione su navi provenienti dalla Sicilia; importazione di cereali, lenticchie e animali domestici, selce e ossidiana, alabastro e ocra. Ceramica decorata in stili siciliani, o simili a quelli delle isole Eolie. A Skorba, capanne «speciali» con figurine femminili (culto della fertilità?).

Calcolitico o età del Rame: «Periodo dei grandi templi»

Zebbug Mgarr Ggantija Saflieni Tarxien

4100-3800 a.C. 3800-3600 a.C. 3600-3000 a.C. 3300-3000 a.C. 3000-2500 a.C.

Tombe collettive in grotta; statue-menhir simili a quelle, piú tarde, di Sardegna e Francia. Esplosione delle grandi costruzioni templari a pianta lobata; sviluppo di una ventina di agglomerati templari e vasti ipogei funerari nell’intero arcipelago. In Egitto, verso il 2500 a.C., si costruiscono le piramidi di Giza; in Mesopotamia sorgono edifici in mattoni crudi; nella Valle dell’Indo fiorisce l’omonima civiltà.

Età del Bronzo

Necropoli di Tarxien Borg in-Nadur Cittadella Collina di Nuffara, Gozo

2500-1500 a.C. 1700-900 a.C.

Crollo della vita di villaggio e abbandono dei grandi complessi cultuali. Costruzione di dolmen. L’incinerazione sostituisce l’inumazione; nuovi forti contatti con Sicilia e Italia meridionale. Villaggi fortificati. In Inghilterra sorge Stonehenge.

Prima età del Ferro

Bahrija

900-700 a.C.

Nuova onda migratoria, forse dalla Calabria?

Periodo fenicio-punico

Fase fenicia Fase punica

700-550 a.C. 550-218 a.C.

Insediamenti fenici, santuario di Astarte a Tas Silg. Predominio cartaginese.

Periodo romano

218 a.C.-395 d.C.

Conquista romana alla fine della seconda guerra punica.

Periodo bizantino

395-870

Conquista dei Vandali (454) e dei Goti (464). Nel 533, riconquista per opera di Belisario.

Conquista araba

870

La conquista di Malta dà inizio a una lunga fase di arabizzazione.

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SPECIALE • GOZO

In alto: la facciata dei due templi di Ggantija Sud (a sinistra) e di Ggantija Nord. Le imponenti mura, antiche di cinquemila anni, sono forse l’espressione piú eclatante della grande architettura megalitica dell’arcipelago maltese. L’edifio sacro è stato costruito tra il 3600 e il 3000 a.C. Il sito non è mai stato scavato scientificamente. Nel 1827, i detriti accumulatisi nel corso dei millenni al di sopra dell’edificio furono rimossi dai militari britannici senza alcuna supervisione scientifica, causando cosi la perdita di una ingente quantità di dati archeologici.

colano una serie di absidi circolari, spesso aggettanti. Se osserviamo la pianta di Ggantija, il complesso ci appare come un grande recinto (composto da enormi blocchi megalitici alti fino a 6,40 m) con il lato frontale, diretto a nord-ovest, a doppio arco, lungo poco meno di 40 m e profondo circa 30. Questo recinto racchiude due strutture gemellate affiancate, di dimensioni diverse: quella meridionale piú grande, quella settentrionale leggermente piú piccola. Entrambe presentano la tipica pianta composta da due absidi lobate, disposte a coppie affiancate ai lati di un percorso centrale, a sua volta terminante in un’ultima abside semicircolare, anche essa in posizione assiale.

UNA STRANA SOMIGLIANZA Vale la pena accennare all’indubbia suggestione «antropomorfa» esercitata dalla planimetria di Ggantija come degli altri templi maltesi: i vani lobati semicircolari ai lati dell’asse centrale potrebbero infatti essere 94 a r c h e o

interpretati come gli arti di un corpo umano, l’abside terminale come una testa. E le «rotondità» che segnano le planimetrie dei templi sono, invero, assai simili a quelle scelte dagli anonimi scultori del Neolitico maltese per realizzare le loro celebri «Veneri». Seppur intrigante, tale accostamento è destinato però a rimanere del tutto formale, originato da una somiglianza puramente casuale. Di recente, il sito di Ggantija (iscritto dal 1980 nella lista del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO) è stato oggetto di impegnativi lavori di restauro e di valorizzazione, che ne hanno reso la visita agevole e, soprattutto, piú rispettosa dell’integrità stessa del monumento. Se, infatti, fino a pochi anni fa chiunque poteva avvicinarsi indisturbato agli antichi arredi interni dei due complessi, oggi il percorso interno è segnato da eleganti passerelle sopraelevate in legno che, pur avvicinandosi alle venerande pietre, impongono al visitatore una giusta distanza di rispetto (chi scrive ha visitato Ggantija molte


GGANTIJA

Pianta del complesso di Ggantija (Gozo): circondati da un muro di cinta megalitico sono i due ambienti templari composti da camere absidate. 3600-3000 a.C.

volte a partire dal 1991 e, da affezionato frequentatore del sito, non può che accogliere con favore lo sforzo davvero notevole profuso a favore della protezione di questo monumento unico al mondo). Oggi, inoltre, l’ingresso al sito avviene attraAcquerello di Charles de Brochtorff, il pittore che nel 1828 dipinse i siti preistorici di Gozo, creando cosí una documentazione di inestimabile valore per le ricerche archeologiche moderne. Malta, Biblioteca Nazionale.

verso il cosiddetto Interpretation Centre, un museo didattico che, con l’ausilio dei piú moderni espedienti museografici (ma anche esponendo una serie di straordinari ed eccezionali reperti di scavo), introduce il visitatore alla storia e alle ricerche in corso sull’universo neolitico maltese (vedi box a p. 100). Dall’Interpretation Centre, dunque, un percorso soprelevato attraversa una porzione del tipico paesaggio naturale e agreste di quest’isola nel cuore del Mediterraneo, per giungere sul vasto piazzale antistante la facciata a doppio arco dei templi. Dal piazzale l’andamento convesso del fronte di Ggantija viene colto pienamente: qui si aprono gli accessi principali alle due strutture, fiancheggiati ognuno da una coppia di ortostati in globigerina che, in origine, sorreggevano una pietra orizzontale a formare un portale a forma di trilithon. Perforazioni circolari sui lati interni degli ortostati forse servivano a inserirvi travi di legno per sbarrare l’accesso. I due passaggi verso l’interno delle rispettive strutture sono pavimentati con grandi lastre di calcare sopra le quali oggi corre la la passerella lignea, in maniera tale da proteggere le lastre dal calpestio dei visitatori. Sui lati dei passaggi centrali si aprono le absidi. E proprio alzando lo sguardo sull’imponente muro megalitico che compone l’absia r c h e o 95


SPECIALE • GOZO

de che chiude il passaggio centrale del Tempio Sud possiamo intuire un aspetto fondamentale, oggi scomparso, del monumento: le absidi sono aggettanti, con un evidente tendenza a chiudersi verso l’alto. Mentre oggi, infatti, Ggantija appare come un enorme monumento aperto verso il cielo, in origine era coperto da un tetto. Racchiudeva, dunque, uno spazio chiuso, separato, oscuro. Come tutti i templi dell’arcipelago, del resto. La questione su come, esattamente, fosse realizzata questa copertura – se con lastre di pietra o, piú probabilmente, con assi di legno forse ricoperti e stuccati con l’argilla – è ancora al vaglio degli studiosi. Vale la pena rivolgere la nostra attenzione ad

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A destra: veduta aerea del complesso templare di Ggantija. In basso: ancora due acquerelli realizzati da Charles de Brochtorff agli inizi dell’Ottocento.


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alcuni degli «arredi» interni degli ambienti absidati: entrando nel tempio di Ggantija Sud, la prima abside a destra accoglie ancora diversi elementi, tra cui una soglia semicircolare e alcuni blocchi stesi ai lati di essa, incisi con una decorazione a spirali. Secondo quanto sembrano testimoniare alcuni disegni acquarellati, realizzati a partire dal 1828 dal pittore Charles de Brochtorff, l’interno dell’abside conteneva, in origine, un’elaborata struttura a forma di altare, oggi purtroppo andata perduta, ma di cui restano in situ ancora alcuni frammenti. I disegni di Brochtorff (sia quelli di Ggantija, sia quelli di un altro, importantissimo com-

plesso, il cosiddetto «Circolo di Xaghra»; vedi oltre) risalgono a un periodo immediatamente successivo alla riscoperta (e allo scavo) del monumento e, dunque, rappresentano un prezioso «documento» archeologico. Sempre grazie ai disegni del pittore tedesco sappiamo che le due absidi laterali successive – quelle piú prossime all’abside centrale – erano arredate con nicchie e, nel caso dell’abside destra, con quella che ancora oggi sembra essere la base rotonda di un focolare. Nell’abside sinistra, invece, la struttura a nicchie, ricostruita sulla base degli acquarelli di Brochtorff, è tuttora ben visibile. La domanda che rimane sullo sfondo di tutte le considerazioni formali e materiali in98 a r c h e o

A sinistra: ortostato in pietra globigerina (1,35 x 0,60 x 0,22 m) con decorazione di serpente, da Ggantija. Gozo, Museo Archeologico.


torno a questo, come agli altri monumenti megalitici maltesi, resta quella circa la loro «destinazione d’uso»: che cosa accadeva all’interno di queste immense strutture, costruite con sforzi per noi inimmaginabili, veri punti di riferimento topografici e ideali di quell’antica popolazione isolana? Possiamo, in qualche modo, ipotizzare la loro funzione come assimilabile a quella delle numerose chiese che, ancora oggi, costellano, con le loro facciate e cupole barocche, il paesaggio dell’arcipelago maltese? L’ordinamento dei loro spazi interni, la presenza degli arredi architettonici interpretabili come «altari», focolari rituali, recipienti per

Sulle due pagine: vedute notturne del nuovo allestimento del sito archeologico di Ggantija. Al centro, la prima abside a destra del Tempio Sud; al centro, a destra, la struttura a nicchie della seconda abside a destra.

libagioni, le enigmatiche quanto affascinanti decorazioni scultoree: tutto sembra suggerire con forza la presenza di un luogo in qualche modo «sacro», destinato ad accogliere gesti e rituali riferiti a un mondo altro da quello della profana quotidianità. Come «leggere», altrimenti, la decorazione che appare scolpita su un ortostato in globigerina, rinvenuto in una delle camere di Ggantija Sud, e che ritrae, su uno dei suoi lati corti, la sagoma contorta di un grande serpente? Si tratta di una pura e semplice e «decorazione»? Dobbiamo però ricordare che il serpente è un animale eminentemente simbolico, spesso legato al mondo degli inferi e a un’immagine di morte e rinascita, suggerita dalla capacita di questo a r c h e o 99


SPECIALE • GOZO

UN CENTRO PER «LEGGERE» LA PREISTORIA DI GOZO L’accesso al sito di Ggantija avviene attraverso gli ambienti dell’Interpretation Centre, un museo/ centro visite, allestito all’interno di un moderno e suggestivo «involucro» di metallo ossidato. Il centro è suddiviso in tre principali sezioni, dedicate rispettivamente alla «scoperta dei nostri antenati neolitici», ai «siti archeologici in un mondo che cambia» e ai «monumenti e rituali». Il centro, inoltre, espone gli originali dei principali manufatti preistorici rinvenuti negli scavi di Ggantija e del Circolo di Xaghra.

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In basso: l’ingresso al sito di Ggantija e l’Interpretation Centre.

Nella pagina accanto: una giovane visitatrice osserva le nove statuette, alte da 15 a 18 cm, rinvenute agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso in un deposito votivo del Circolo di Xaghra. In alto al centro: riproduzione della grande statua di un personaggio femminile, rinvenuta in frammenti nello stesso Circolo di Xaghra. La scritta sotto la riproduzione recita: «Si prega di toccare». A sinistra: una vetrina con minuscoli reperti in osso, dal Circolo di Xaghra.

In alto: piccolo frammento di un recipiente in ceramica (8 x 10,5 cm), decorato con una teoria di uccelli in volo, dai templi di Ggantija. 36003000 a.C. Gozo, Ggantija Interpretation Centre.

rettile di abbandonare la vecchia pelle per assumerne una nuova. Non è privo di rischi, d’altra parte, proiettare la nostra distinzione tra sacro e profano (anch’essa frutto di un processo storico dagli esiti nient’affatto scontati) sul quel misterioso – e silenzioso – mondo della lontana preistoria.

UNA «CATTEDRALE NEL DESERTO»? Come, del resto, sarebbe fuorviante considerare i templi di Ggantija alla stregua di un’unica e irrepetibile – per rimanere in tema – «cattedrale nel deserto». Il monumento, infatti, è inserito all’interno di un’unità di spazi rituali raggruppati nell’area di Xaghra, di cui fanno parte anche il tempio cosiddetto di Santa Verna (scavato nei primi decenni del secolo scorso e poi, nuovamente, nel 2015) e lo spettacolare «Circolo di Xaghra». Del tempio di Santa Verna rimangono solo pochi resti, tra cui tre ortostati e un megalite orizzontale. Le recenti indagini a Santa Verna, condotte sotto l’egida del Consiglio Europeo della Ricerca, hanno, però, ipotizzato una sua planimetria simile, per dimensioni, al tempio di Ggantija Sud. Sono inoltre emersi resti che attestano l’utilizzo del sito già nel 5500 a.C., cioè cinquecento anni prima di quella che, fino a ieri, era considerata la data d’arrivo a Gozo dei primi uomini provenienti dalla vicina Sicilia. a r c h e o 101


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I MISTERI DEL CIRCOLO DI XAGHRA

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en diversa è la consistenza delle scoperte effettuate nel Circolo di Xaghra, chiamato anche Brochtorff Circle, dal nome del suo illustre ritrattista. Oggi visitabile solo su richiesta, il sito dista appena 400 m in direzione sud-ovest da Ggantija. Il sito fu scoperto e poi fatto oggetto di scavi amatoriali, negli anni Venti dell’Ottocento, da parte del governatore di Gozo, John Otto Bayer. Si

LE PIETRE SCOMPARSE Un’immagine dell’attuale sito di Xaghra, alla quale è sovrapposta un’ipotesi ricostruttiva della struttura megalitica in epoca neolitica. Molti ambienti ipogei crollarono già in età antica, rendendo difficile la definizione del loro aspetto originario. Dei megaliti che formarono il recinto circolare ne sono rimasti in piedi solo due. Alcune parti del circolo non sono state ancora scavate, rappresentando cosí un’opportunità per future generazioni di archeologi. 102 a r c h e o

L’area rituale e funeraria di Xaghra si trova a 400 m di distanza dai templi di Ggantija.

trattò perlopiú di lavori di sterro, che ebbero, soprattutto, l’effetto di disgregare un gran numero di contesti archeologici. Dopo i lavori di Bayer, avvenuti poco tempo dopo quelli eseguiti a Ggantija, il sito venne riseppellito e ricoperto da terreno agrario per circa un secolo. Ancora una volta furono gli acquerelli di Brochtorff, datati al 1829 (sono oggi conservati nella Biblioteca Nazionale della


Valletta) a essere di inestimabile aiuto, quando si trattò di ritrovare il perduto circolo. Sulla base delle indicazioni registrate negli acquerelli, il sito fu riscoperto nel 1964 dallo studioso gozitano Joe Attard Tabone, e in seguito, tra il 1987 e il 1994, scavato dall’Università di Malta, dal Dipartimento Maltese dei Musei e dall’Università di Cambridge. Ma cos’è, esattamente, il Circolo di Xaghra? Va spiegato subito che, se non disponessimo degli acquerelli di Brochtorff (il quale – a sua volta – ebbe la possibilità di visionare la descrizione del sito redatta da un viaggiatore

A destra: il Circolo di Xaghra negli acquerelli di Charles de Brochtorff nel 1829. Il primo ritrae la struttura al momento della sua individuazione. Si riconoscono, in primo piano, i due ortostati (oggi scomparsi) che segnavano l’ingresso al circolo. Nel secondo acquerello, che riprende il sito da ovest, si riconosce la grande cavità dovuta agli sterri eseguiti da John Otto Bayer tra il 1816 e il 1826. In basso: il piccolo menhir (16,5 x 9 cm) scoperto a Xaghra con, incisi, i tratti stilizzati di un volto. Fase di Zebbug.

settecentesco, Jean Pierre Louis Houel, nel suo monumentale Voyages pittoresque des isles de Sicile, de Malte et de Lipari, pubblicato nel 1787), oggi non sapremmo neanche che di un circolo si trattava. Al momento della sua esplorazione scientifica moderna, infatti, forma e struttura originaria del sito apparivano – per una serie di circostanze sfortunate ma anche fortuite – disgregate e del tutto irriconoscibili. I già menzionati sterri operati da Bayer e decenni di uso agricolo del terreno su cui insisteva il circolo, avevano obliterato ogni traccia della sua primitiva planimetria.

UNA NUOVA FISIONOMIA Oggi, sulla base dei disegni di Houel, di Brochtorff e, soprattutto, degli scavi recenti, il monumento ha nuovamente assunto parte della sua fisionomia d’origine che possiamo cosí sintetizzare: il Circolo di Xaghra rappresenta un grande luogo di sepolture rituali, composto da vari ambienti sotterranei. Al principale, una grande sala ipogea, si accedeva, verosimilmente attraverso una scalinata. In superficie, l’area era segnata da pietre megali(segue a p. 106) a r c h e o 103


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UNA GRANDE SALA PER I RITUALI FUNEBRI Gli ambienti sotterranei del Circolo di Xaghra, indagati negli anni Novanta del secolo scorso, sono stati messi a confronto con quelli del famoso Ipogeo di Hal Saflieni, presso la località di Tarxien, a Malta (vedi «Archeo» n. 353, luglio 2014; anche on line su issuu.com). Diversamente da quest’ultimo, interamente scavato nella roccia viva, la struttura di Xaghra si avvaleva di un insieme di cavità naturali, modificate in maniera tale da accogliere sepolture collettive di piú generazioni. A causa della consistenza particolarmente friabile della roccia nella zona di Xaghra, i soffitti delle caverne sono crollati nel tempo, trasformando il sito in un’ampia fossa a cielo aperto. L’aspetto piú straordinario emerso dagli scavi è costituito, oltre che dalla quantità dei resti ossei, dal ritrovamento di numerosi manufatti, verosimilmente usati come corredi funebri. Il disegno in queste pagine ricostruisce l’ipotetico aspetto della grande area usata per le cerimonie rituali funebri, con l’indicazione del luogo in cui sono stati ritrovati i piú celebri reperti del Circolo. A destra: una delle numerose figurine sedute (altezza 8 cm), plasmate in argilla, rinvenute presso un ambiente sepolcrale del Circolo di Xaghra.

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A destra: le nove figurine (la piú grande misura 18,6 x 5,8 x 3,4 cm) scolpite in pietra globigerina, rinvenute in quello che appare essere un deposito votivo nel Circolo di Xaghra (vedi anche foto a p. 100). Non vi è alcuna certezza circa l’uso e la destinazione delle enigmatiche statuette, legate, tuttavia, al contesto della ritualità funeraria. Xaghra, Ggantija Interpretation Centre. In basso: frammenti di una grande statua scolpita in pietra globigerina (altezza 1 m circa), inseriti all’interno di un disegno che ne ricostruisce l’aspetto ipotetico.

Qui sopra: la celebre scultura, raffigurante due persone sedute su una branda (14 x 12,5 cm), è considerata uno dei capolavori dell’arte neolitica europea. Xaghra, Ggantija Interpretation Centre. a r c h e o 105


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tiche disposte a cerchio, con due ortostati (quelli ancora visibili nei due acquerelli di Brochtorff) che ne segnavano l’ingresso a quello che – con licenza classica, ma assai impropria – potremmo considerare un temenos, un «recinto sacro». La destinazione d’uso (sepolcrale), la modalità costruttiva (ipogea) e la prossimità a un grande «santuario» megalitico (Ggantija) suggeriscono un immediato parallelo con l’altro, celebre monumento maltese, l’Ipogeo di Hal Saflieni a Tarxien. A differenza di quest’ultimo, però, la cui articolazione in ambienti sotterranei su piú livelli è rimasta intatta per millenni fino a oggi, l’organizzazione degli spazi funerari dell’ipogeo di Xaghra sono, a oggi, solo ipotizzabili. E lo stesso esatto perimetro del circolo megalitico in superfice è, ancora, da definire: i limiti settentrionali e occidentali ancora mostrano l’originario andamento semicircolare, mentre i lati sud ed est sono resi irriconoscibili dai crolli e ricoperti da una costruzione di età moderna. Tuttavia, gli scavi degli anni Novanta hanno individuato ed esplorato alcune delle camere funerarie e, soprattutto, hanno portato alla luce una serie di reperti assolutamente 106 a r c h e o

Il Circolo di Xaghra durante l’ultima campagna di scavo condotta nel 1995. Si riconoscono, al centro dell’immagine, i resti della struttura trilitica sopravvissuta agli sterri ottocenteschi e, a destra, il grande bacino in pietra rinvenuto nel circolo. Sullo sfondo, la chiesa parocchiale della cittadina di Xaghra. Nella pagina accanto, in alto: ceramica dell’età del Bronzo, da Victoria.

straordinari. Ma procediamo per ordine: sembra che il complesso di Xaghra abbia avuto inizio e si sia gradualmente sviluppato a partire da una tomba sotterranea a due camere costruita nella fase di Zebbug (41003800 a.C. circa); gli ambienti funerari, oltre ai resti umani appartenenti a 65 persone, contenevano vasetti con ocra, elementi di collana, ornamenti incisi in osso, asce di pietra, conchiglie e strumenti in pietra. Davanti al pozzetto verticale di accesso a una delle


NUOVI INVASORI Il terzo e ultimo periodo della preistoria gozitana, corrispondente all’età del Bronzo (2400-700 a.C. circa), è segnato dall’avvento di una popolazione straniera. A differenza degli originari abitanti neolitici, i nuovi venuti usavano utensili e armi in rame e bronzo. A questi invasori è A sinistra: la collina di Nuffara, sede di un villaggio fortificato dell’età del Bronzo. In basso: «binari» (forse solchi di carro) a Ta’ Tingi (presso la cittadina di Xewkija).

dovuta, verosimilmente, la fortificazione della collina dove oggi sorge la Cittadella di Rabat, cosí come di altre alture dell’isola. Tra gli esempi piú significativi e spettacolari delle vestigia di questa fase della preistoria di Gozo, figurano il villaggio rinvenuto sulla collina di Nuffara e gli ancora misteriosi «binari» incisi nel terreno, forse tracce di un antico sistema di trasporto.

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camere è stata trovata una piccola stelemenhir, con incisi i tratti stilizzati di un volto. Gli scavi hanno accertato che, tra il 3000 e il 2400 a.C., nelle fasi tarde di vita dei templi di Ggantija, il circolo era stato usato per inumare centinaia di persone in varie grotte scavate e cavità naturali. Una parte dell’ipogeo era stata modificata e costruita a formare – come già ricordato – un vero e proprio centro di culto funerario sotterraneo, con un’entrata monumentale, un grande bacino in pietra circondato da sepolture di donne e bambini, e una pietra sacra di forma fallica. Oltre a essere stati disturbati e dispersi dagli sterri ottocenteschi, i resti scheletrici risultarono essere stati manipolati, spostati e sconnessi già in età antica. Il conto totale emerso dalle indagini è di circa 220 000 resti umani, probabilmente appartenuti a non meno di 400-800 individui diversi (senza contare le ossa disperse negli sterri iniziali). Piú di un’area delle cavità sepolcrali conteneva, insieme alle ossa umane, diversi tipi di offerte, come asce-amuleto in pietra verde, vasetti miniaturistici contenenti cosmetici rossi, spilloni, perline e testine umane in osso, e figurine e vasi di terracotta, suggerendo cosí che gruppi specifici di defunti ricevessero corredi diversificati. Inoltre le cavità sepolcrali, a volte divise da setti murari e soglie, contenevano un numero molto elevato di ossa animali (soprattutto caprovini, bovini e maiali), rivelatrici di

attitudini rituali e alimentari delle antiche comunità dell’arcipelago. Le ceramiche erano finemente decorate e le figurine (umane e animali), plasmate in fine dettaglio e ben lucidate, sono tra i prodotti piú belli dell’arte preistorica maltese; molti esemplari erano stati dipinti in rosso, giallo e nero.

GONNE AMPIE E RIGONFIE Almeno una delle statue, trovata in frammenti intorno a una cavità tombale, era alta piú di 1 m; rappresentava un personaggio con una gonna ampia ed elaborata, e le braccia strette al petto. La statua era stata intenzionalmente infranta, e i suoi pezzi posizionati intorno a sepolture accompagnate da figurine e collane. Tra i ritrovamenti piú clamorosi figurano, poi, alcuni manufatti considerati, a ragione, tra i capolavori della scultura preistorica di Malta e di quella europea in generale: cosí, dalle vicinanze del grande bacino in pietera proviene una piccola scultura (14 x 13 x 9,3 cm) raffigurante due personaggi (dal genere non definibile ma verosimilmente femminili), seduti su una sorta di branda, dalla complessa resa scultorea. Le figure indossano larghe e rigonfie gonne coperte di astratte linee verticali. Una delle figure reca un bimbo in grembo, l’altra una coppa. La scultura evidenzia, inoltre, significative trace di coloratura con pigmento roso, giallo e nero. Stranamente, solo uno dei personaggi è munito di una testa. Quest’ultimo, però,

Sulle due pagine: i bastioni della Cittadella di Rabat/Victoria dopo il loro restauro realizzato nel 2016. Già luogo di un insediamento dell’età del Bronzo, l’altura ospitò probabilmente anche l’acropoli della città punica e poi romana. Nel Medioevo venne fortificata e, dopo il 1551, i Cavalieri di Malta restaurarono e ampliarono le strutture difensive cosí come appaiono oggi. Nella pagina accanto, in alto: l’ingresso del palazzo della Cittadella che è sede del vecchio Museo Archeologico di Gozo.


li) ricalcano il modello delle grandi, talvolta colossali, statue preistoriche maltesi (vedi «Archeo» n. 389, luglio 2017; anche on line su issuu.com). Rimane, naturalmente, la domanda su chi raffigurino i due personaggi e quale fosse la ragione della loro rappresentazione all’interno del contesto in cui sono state intenzionalmente poste. Si tratta di divinità, di antenati, di personaggi in qualche altro modo «sacri»? Il loro aspetto affascinante ed «enigmatico» (e, posso assicurare i lettori, che non vi è osservatore che non ne rimanga, in qualche maniera, colpito!) è dovuto, verosimilmente, proprio all’impossibilità di darne una risposta certa… è un aspetto tipico della produzione scultorea preistorica maltese: forse le teste erano pensate come intercambiabili, o forse, piú semplicemente, essendo la parte piú esposta e fragile, sono andate casualmente – o anche intenzionalmente – distrutte. Un dato curioso riguarda l’acconciatura dei due personaggi: mentre quello integro porta i capelli sciolti, il secondo mostra la parte finale di una coda di cavallo. Per proporzioni, indumenti e postura, le due figure (di cui, va ripetuto, non possiamo definire con certezza il genere per l’assenza di marcati tratti femmini-

CHIUSE IN UNA SCATOLA? Un’altra scoperta straordinaria è quella di un gruppo di nove figurine, altrettanto enigmatiche, rinvenute, anch’esse, in un deposito votivo nei pressi del bacino in pietra. Scolpite nella pietra globigerina, recano tracce di ocra gialla in superficie. Le statuette giacevano l’una accanto all’altra, come se fossero chiuse in una scatola, o in una borsa, travolta dal crollo improvviso del soffitto della cavità. Sei di esse, alte dai 15 ai 18 cm, rappresentano personaggi con tratti fortemente stilizzati, asessuate; una sembra un abbozzo non finito. Alcune portano cinture e incisioni verticali e un’altra una

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sorta di diadema. Un’altra ancora rappresenta la testa di un cinghiale. Si tratta di oggetti unici, senza alcun confronto noto, sia per la forma generale, sia per lo stile. Poiché la parte inferiore delle figure è molto meno dettagliata, e le statuette, da sole, non si reggono in piedi, possiamo pensare che appartenessero a piccoli manichini o rappresentassero «burattini sacri», manipolati ed esibiti nel corso di particolari cerimonie rituali legate all’ambito funebre. Secondo gli archeologi che hanno scavato il Circolo di Xaghra, l’ambiente in cui sono state trovate queste e le altre sculture potrebbe essere interpretato come una sorta di «camera ardente», nella quale i morti venivano portati prima della sepoltura, per essere «salutati» con elaborate cerimonie e con rappresentazioni sacre.

UNA TAPPA OBBLIGATA I templi di Ggantija e il Circolo di Xaghra sono, certamente, i complessi monumentali piú importanti di Gozo. E se il secondo – come dicevamo – non è oggi liberamente visitabile, una sosta al Ggantija Interpretation Cen-

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In alto: verso e recto di una moneta gozitana di età romana (40 a.C.). All’isola era stato concesso lo status di municipium, consentendo cosí la facoltà di battere moneta. A sinistra: una bellissima bottiglia di vetro, rinvenuta all’interno di una sepoltura di epoca romana (II sec. d.C.?) scoperta a Rabat nel 1899. Gozo, Museo Archeologico, Cittadella di Rabat/Victoria.

tre (per il quale si accede alla visita di Ggantija) ne offre un’accurata e suggestiva descrizione. Sono molti altri, però, i siti di interesse archeologico, alcuni raggiungibili solo con lunghe camminate attraverso il paesaggio selvaggio, scandito dalle tipiche colline piatte dell’isola o ai margini delle sue grandiose scogliere a strapiombo sul mare (ne abbiamo riprodotto alcuni esempi a p. 107, dedicata alle emergenze dell’età del Bronzo, con l’immagine del dolmen di Ta Cenc e gli enigmatici «solchi» nel terreno). E, poiché un soggiorno a Gozo non può prescindere dalla visita del capoluogo dell’isola, la città di Rabat (o Victoria, come fu rinominata nel 1897, in onore dell’omonima regnante britannica), vi consigliamo di visitare il piccolo Museo Archeologico di Gozo, situato proprio all’interno della cittadella medievale. In attesa dell’apertura prossima di un nuovo museo dedicato interamente all’archeologia gozitana, nelle sue sale si possono ancora assaporare – tra reperti di epoca fenicia, romana e araba – le atmosfere di un archeologia d’altri tempi. E condividere, cosí, il pensiero di Nicholas Montsarrat (1910-1979), il diplomatico, grande navigatore e scrittore britannico, che visse i suoi ultimi anni sull’isola e di cui scrisse: «Gozo rimaneva un luogo interamente privato, un’isola dentro al petto – e fortunato si dirà l’uomo capace di trovarne la chiave, girare il lucchetto, e scomparire al suo interno». PER SAPERNE DI PIÚ Brian Boulet, The Story of Malta, Progress Press, Malta 1989; Charles Cini (a cura di), Gozo. The Roots of an Island, Said International Ltd, Malta 1990; Daniel Cilia (a cura di), Malta before History, Miranda Publishers, Malta 2004; Joseph Bezzina, Gozo, Mediterranean Colours, European Dream, Gozo Ministry, 2017

DOVE E QUANDO Per la visita a Gozo e ai siti archeologici, ci si puo rivolgere a Heritage Malta (heritagemalta.org) o, in Italia, all’Ente per il Turismo di Malta (www.visitmalta.com). Molto utile è anche il sito web www.visitgozo.com


presenta

MEDIOEVO IN

NERO

Il lato oscuro dell’età di Mezzo La vera natura del Medioevo è stata a lungo travisata, bollando quel lungo interludio fra l’antichità classica e il Rinascimento come una sorta di età della regressione. La storiografia piú recente ha dimostrato l’inconsistenza di simili teorie, ma, pur collocandoli in una prospettiva critica piú accorta, non ha potuto negare alcuni aspetti che furono effettivamente peculiari della cultura medievale. E, fra questi, vi furono, senza dubbio, il tormentato rapporto con il peccato, l’assolutismo dogmatico di molti dei massimi rappresentanti della Chiesa e, su un piano piú prosaico, il tenace perdurare di paure e superstizioni ancestrali. Una realtà che il nuovo Dossier di «Medioevo» indaga e descrive attraverso un viaggio affascinante, le cui tappe ci conducono fra monumenti insigni dell’arte e dell’architettura e ci raccontano le vicende di molti personaggi illustri, senza tralasciare l’incontro con le piú celebri creazioni letterarie nate dal desiderio di esplorare la «faccia nascosta» del Medioevo.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

LA DANZA DEL FUOCO MOMENTO FONDAMENTALE IN ALCUNI CULTI DEDICATI ALLE NINFE, IL BALLO DELLE TRE LEGGIADRE FANCIULLE È FEDELMENTE TESTIMONIATO ANCHE NELLA MONETAZIONE ANTICA

«N

infe, figlie di Oceano dal grande cuore, che avete le case sotto i recessi della terra posati sull’acqua, correte nascoste, nutrici di Bacco, ctonie, date grande gioia, nutrite frutti, siete nei prati, correte sinuosamente, sante, vi rallegrate degli antri, gioite delle grotte, vaganti nell’aria, siete nelle sorgenti, veloci, vestite di rugiada, dall’orma leggera, visibili, invisibili, ricche di fiori». Cosí si apre l’Inno

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Orfico dedicato alle Ninfe (n. 51, «aromi»), una delle 87 preghiere in esametri rivolte alle divinità, componimenti che la tradizione attribuiva a Orfeo, ma redatti probabilmente nel II-III secolo d.C. in Asia Minore. Importanti documenti della tradizione religiosa e misterica dionisiacoorfica – che, tra l’altro, non prevedeva i sacrifici cruenti tipici del mondo antico, bensí profumi e

libagioni –, essi sono dedicati anche a dèi ed entità meno noti del pantheon ellenico, e uno di questi si rivolge appunto alle Ninfe, celebrate nel loro legame con il mondo di Pan e Dioniso. Le Ninfe, il cui nome deriva dal greco nymphe, termine con il quale si indicavano le fanciulle in età da marito, sono di numero incalcolabile, bellissime e leggiadre, materne nutrici di divinità ed eroi,


solitamente vestite di un leggero chitone e considerate parimenti immortali (figlie di Zeus) o semidivine. Esse risiedevano sulla terra, immerse nella natura, e in particolare presso l’acqua, compresa quella termale e il mare, amanti dei boschi, monti e prati, e dimoranti a volte anche in un singolo albero.

Macedonia, la città prese parte alle guerre tra Pompeo e Cesare e, nel 48 a.C., venne occupata da Bruto. La sua grande importanza strategica, economica e politica è testimoniata da numerosi edifici monumentali e trova riscontro anche nella monetazione locale, improntata a tipi riferiti ad Apollo, dio eponimo dell’abitato. Una bella serie di dracme, emessa intorno alla metà del I secolo a.C., presenta sul dritto il profilo di Apollo e, al rovescio, tre ninfe danzanti, questa volta, però, intorno a un braciere acceso, tipo che già ricorreva anche sulla monetazione locale in argento di età preromana.

BELLE E FAMOSE Esse possono accompagnare Dioniso e Pan, ma anche Artemide ed Ecate, allietando con le loro fattezze e movenze i sacri riti e i corteggi di queste divinità; tra le ninfe «famose» si annoverano Eco, Calipso, Egeria ed Euridice, l’amata moglie perduta di Orfeo. Le loro raffigurazioni ricorrono nella statuaria cosí come nella pittura vascolare, in affreschi, mosaici, nonché nell’iconografia della monetazione romanoprovinciale. A partire dall’età antonina, infatti, compare in alcune emissioni delle città dell’impero il tipo con tre fanciulle vestite di un abito leggero e svolazzante, poste una a fianco all’altra in varie pose, che vanno dal toccarsi le spalle, al tenersi per mano o muovendo le braccia. Negli studi moderni vengono di regola definite come «Tre Ninfe», da non confondersi con le analoghe figure delle Tre Grazie, caratterizzate dalla nudità e dalla posizione che si rifà, come abbiamo visto, a modelli statuari coevi (vedi «Archeo» n. 412, giugno 2019; anche on line su issuu.com). Cosí come appunto le Grazie, le Esperidi e come nel caso delle personificazioni delle Tre Monete, anche le Ninfe sono sempre tre: il numero ritenuto perfetto dalle speculazioni filosofiche e religiose, dalla scuola pitagorica sino alla Trinità cristiana, ed esemplificativo anche per

UN DONO DIVINO

In alto: dracma in argento battuta dalla città di Apollonia in Illiria (oggi in Albania). Metà del I sec. a.C. Al dritto, la testa di Apollo; al rovescio, le Tre Ninfe danzanti intorno a un braciere acceso. Nella pagina accanto: rilievo votivo in marmo pentelico con le Tre Ninfe intente alla danza e Pan che suona il flauto, entro una grotta, da Sparta o Megalopolis. 330-320 a.C. Atene, Museo Nazionale Archeologico. significare personaggi numerosi afferenti a uno stesso gruppo. Il motivo delle Tre Ninfe danzanti si può però leggere con migliore evidenza nella serie argentea detta di Apollo e battuta ad Apollonia in Illiria, nell’odierna Albania. Inserita nella provincia romana di

L’immagine si spiega considerando una delle ricchezze naturali di Apollonia, ovvero il bitume che, come riportano le fonti, fuoriusciva dalla roccia e a contatto con l’olio prendeva fuoco (Pseudo Aristotele, De mirabilibus auscultationibus, 36-37), certo considerato come un dono divino e posto sotto la tutela delle Ninfe. Ad Apollonia vi era infatti un celebre Nymphaion con sorgente di fuoco ricordato da Strabone: «Nel territorio d’Apollonia v’è quello che si chiama Ninfee, ch’è un sasso, il quale manda fuori fuoco, e di sotto vi scorrono fontane di bitume tiepido» (T6; si veda anche Plinio il Vecchio, Storia Naturale, III, 145). La raffigurazione monetale permette, probabilmente, di ricostruire un momento del culto santuariale delle Ninfe, che doveva prevedere una sorta di danza del fuoco intorno a un braciere acceso, a celebrare le protettrici di una risorsa naturale che, scaturita dalle viscere della madre terra e sotto il sacro auspicio apollineo, costituiva una delle fonti di ricchezza di Apollonia.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Luca Nannipieri

CAPOLAVORI RUBATI Skira editore, Milano, 173 pp. + XVI tavv. col. 19,00 euro ISBN 978-88-572-4140-1 www.skira.net

Come chiarisce l’autore stesso, Capolavori rubati non vuole essere una storia dei piú clamorosi furti d’arte a oggi perpetrati, ma un invito a riflettere sul perché simili crimini siano stati compiuti. Piú in generale, Nannipieri sottolinea quanto sia ingannevole credere che il bello generi di per sé il buono e come invece le molteplici creazioni dell’estro di artisti antichi e moderni abbia spesso innescato azioni di rara violenza e deliberatamente condotte allo scopo di distruggere opere da altri ammirate, quando non addirittura venerate. È, del resto, una storia antica quanto l’uomo, se pensiamo ai saccheggi e alle azioni vandaliche che fecero da corollario alle grandi

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conquiste degli imperi mesopotamici oppure alle sistematiche razzie – ed è forse il caso piú celebre – di cui si resero protagonisti i Romani dopo aver acquisito il controllo della Grecia, quasi «folgorati» verrebbe da dire, dalla bellezza di statue e pitture. Su un piano meno cruento, ma non meno criminale, si muovono poi i molti attori del traffico illecito di opere d’arte e materiali archeologici, che sono di fatto i protagonisti principali del volume. L’autore ha infatti scelto una quindicina di casi celebri – alcuni dei quali sono veri e propri cold case –, attraverso la cui ricostruzione sviluppa i

temi delineati nella lunga introduzione. Per quanto riguarda l’archeologia, si possono ripercorrere vicende che anche «Archeo» ha piú d’una volta ricordato, come quella, per esempio, della Venere di Morgantina, la grande statua che, dopo essere stata trafugata dal territorio siciliano, approdò al Getty Museum. In quel caso, dopo un lungo contenzioso, il governo italiano ha ottenuto la restituzione dell’opera, che, dal 2011, fa bella mostra di sé nel Museo Archeologico di Aidone. Per il momento, invece, non è altrettanto lieto il finale della tormentata storia dell’Atleta di Fano,

splendida statua in bronzo – da alcuni attribuita a Lisippo – ripescata nelle acque della cittadina marchigiana e poi acquistata, ancora una volta, dal Getty. Nonostante il recente pronunciamento della Corte di Cassazione, l’istituto statunitense si è infatti rifiutato di restituire la scultura all’Italia. Nel nome dell’arte, insomma, si sono condotte e si continuano a condurre battaglie campali e legali, di cui Nannipieri dà conto con ricchezza di particolari e sempre inquadrando i singoli episodi nel piú ampio contesto storico e sociale nel quale sono maturati. Stefano Mammini



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