2019
CIMITERO EBRAICO DI BOLOGNA
VULCI
POPOLI DELLA BIBBIA/9 ARABI
DIOLKOS
SPECIALE CARIA
Mens. Anno XXXV n. 415 settembre 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
VIAGGIO IN CARIA
SPECIALE TURCHIA w. ar
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POPOLI DELLA BIBBIA
LA SCOPERTA DEL CIMITERO EBRAICO BOLOGNA
IRAQ
IL PALAZZO EMERSO DALLE ACQUE
CORINTO
IL CANALE CHE NON C’ERA
www.archeo.it
IN EDICOLA IL 7 SETTEMBRE 2019
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ARCHEO 415 SETTEMBRE
GLI ARABI
€ 5,90
EDITORIALE
DI LEONI E ALTRE STORIE... «Abbiamo subito pensato a una nuova Sfinge, come quella scoperta nel 2012, ma poi la sorpresa è stata ancora maggiore. Dopo una prima pulitura è emersa la vera identità della scultura: non di una Sfinge si trattava, bensí di un leone alato e... ruggente!». Carlo Casi, direttore scientifico della Fondazione Vulci, non ci nasconde il suo entusiasmo: il leone (nella foto), rinvenuto lo scorso luglio nella necropoli dell’Osteria, la vasta area cimiteriale a nord-ovest del pianoro un tempo occupato dalla grande città etrusca, è solo l’ultimo di una lunga serie. In passato, oltre alla famosa Sfinge (vedi «Archeo» n. 325, marzo 2012; anche on line su issuu.com), quell’area aveva anche restituito altre importanti testimonianze funerarie, come la cosiddetta Tomba delle Mani d’Argento. «Il leone alato – spiega ancora Casi – è una testimonianza significativa e particolarmente raffinata della produzione artistica vulcente del VI secolo a.C. In quel periodo, le botteghe di Vulci scolpirono sfingi, leoni, pantere, arieti, centauri e mostri marini. Poste all’ingresso delle tombe, sorvegliavano sulla quiete eterna dei defunti». Di Vulci – di quando la metropoli etrusca doveva ancora nascere – Casi ci parla anche alle pagine 48-55. Dall’Etruria, il «periplo archeologico» che proponiamo in questo numero ci conduce in Grecia, dove Flavio Russo ci rivela le tracce di una delle piú straordinarie imprese ingegneristiche dell’antichità. Attraverseremo il Mar Egeo, per approdare sulla costa dell’Asia Minore, all’altezza di Bodrum, l’antica Alicarnasso. Da qui ci inerpicheremo, guidati da Fabrizio Polacco e dal ricordo di miti antichissimi, lungo percorsi nascosti ed esplorati in esclusiva per i nostri lettori. Proseguiremo poi verso sud, attraccheremo sulla costa del Levante e ci inoltreremo lungo le rotte carovaniere che attraversavano la Penisola Arabica, per rievocare, con l’arabista Irene Rossi, la memoria di misteriosi e affascinanti popoli della Bibbia. Infine, torneremo in Italia: alle pagine 32-45 potrete leggere della straordinaria vicenda dello
scavo di un cimitero medievale scoperto nel centro di Bologna. Scoprirete, cosí, che anche gli archeologi, quando meno se lo aspettano, possono trovarsi di fronte a questioni... piú grandi di loro. Andreas M. Steiner
SOMMARIO EDITORIALE
Di leoni e altre storie...
3
di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
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SCOPERTE L’eccezionale abbassamento del lago artificiale creato dalla diga di Mosul fa emergere i resti di un grande complesso palaziale del regno di Mitanni 6 PASSEGGIATE NEL PArCo Il cantiere per la realizzazione della fermata «Fori Imperiali» della Metro C è stato trasformato in un veicolo di notizie storiche e informazioni pratiche per i visitatori del Colosseo 12 MOSTRE Il Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia rievoca la battaglia di Alalía, scontro che segnò la storia del Mediterraneo antico 14
ALL’OMBRA DEL VULCANO Replicando quella che è ormai divenuta una tradizione, nei vigneti dell’antica Pompei è giunto il tempo di una nuova vendemmia 18 A TUTTO CAMPO Le scoperte compiute sotto il pavimento del Duomo di Grosseto fanno luce sulla vita quotidiana della Maremma in epoca medievale 22
SCAVI
Vulci prima di Vulci 48 di Carlo Casi e Patrizia Petitti
48 POPOLI DELLA BIBBIA/9 Gli Arabi
MOSTRE
Nella Casa della Vita 32 testi di Renata Curina, Valentina Di Stefano, Cristina Ambrosini, Maria Giovanna Belcastro, Alberto Sermoneta, Valentina Rizzo, Vincenza Maugeri e Caterina Quareni; fotografie di Roberto Macrí
«Questa è la discendenza di Ismaele...» 56 di Irene Rossi
56 ARCHEOTECNOLOGIA
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Il tiranno e il mare
74
di Flavio Russo In copertina le montagne in pietra rossa nei pressi dell’oasi di al-‘Ula (Arabia Saudita nord-occidentale), luogo dell’antica Dedan.
Presidente
Federico Curti Anno XXXV, n. 415 - settembre 2019 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Comitato Scientifico Internazionale
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it
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Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it
Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Cristina Ambrosini è Soprintendente ABAP per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Maria Giovanna Belcastro è professore associato confermato di antropologia all’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Elisa Cella è funzionario archeologo presso il Parco archeologico del Colosseo. Francesco Colotta è giornalista. Renata Curina è funzionario archeologo della Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Valentina Di Stefano è archeologa della Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Roberto Farinelli è ricercatore e professore aggregato di archeologia cristiana e medievale all’Università di Siena. Barbara Fiorini è architetto. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Roberto Macrí è fotografo della Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di
Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO
Studiare l’ordine perduto 104 di Daniele Manacorda
104 QUANDO L’ANTICA ROMA...
...s’accordava con Cartagine per una coesistenza pacifica 108 di Romolo A. Staccioli
82 SPECIALE
Caria, quel che resta del mito
82
di Fabrizio Polacco
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Assassinio allo specchio
108
112
di Francesca Ceci
LIBRI
Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Vincenza Maugeri è direttore del Museo Ebraico di Bologna. Patrizia Petitti è stata funzionario della Soprintendenza ABAP per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale. Fabrizio Polacco è coordinatore nazionale del «PRISMA». Caterina Quareni è funzionario del Museo Ebraico di Bologna. Rossella Rea è funzionario archeologo presso il Parco archeologico del Colosseo. Federica Rinaldi è funzionario archeologo presso il Parco archeologico del Colosseo. Irene Rossi è semitista e ricercatrice del Consiglio Nazionale delle Ricerche presso l’istituto di Studi sul Mediterraneo Antico (Roma). Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Alberto Sermoneta è Rabbino capo di Bologna. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma.
Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: Emin Dzhafarov/Kommersant/Sipa USA: copertina (e p. 60); Album: pp. 56/57, 101; AKG Images: p. 58 (alto), 62, 65, 68-71, 110; Age: pp. 62/63; Werner Forman Archive/British Museum, Londra/Heritage Images: p. 88; CM Dixon/ Heritage Images: p. 109 (basso); Album/Metropolitan Museum of Art, New York: p. 112 (alto) – Cortesia Fondazione Vulci: pp. 3, 48-55 – Cortesia Università di Tubinga-KAO, Kurdistan Archaeology Organization: pp. 6 (alto), 7-10: eScience Center: p. 6 (basso) – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: pp. 12-13 – Cortesia Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi», Vetulonia: pp. 14/15, 15, 16; Paolo Nannini: p. 14, 17 (alto) – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 18-19 – Cortesia degli autori: pp. 22-23, 75, 76, 77, 78, 78/79, 112 (basso) – Cortesia Museo Ebraico di Bologna: Roberto Macrí: pp. 32-45 – Shutterstock: pp. 58 (basso), 61, 72/73, 76/77, 79, 86-87 – Doc. red.: pp. 64, 66-67, 72, 92, 95 (destra), 104-106, 113 – MODIS Rapid Response: p. 74 – Flavio Russo: p. 80 – Fabrizio Polacco: pp. 82/83, 85, 89, 90-91, 93, 94, 95 (sinistra), 96-100, 102 – DeA Picture Library: Archivio J. Lange: p. 83; G. Dagli Orti: p. 108 – Cippigraphix: cartine alle pp. 59, 84, 109. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano
n otiz iari o SCOPERTE Iraq
QUASI COME VENERE...
U
n inaspettato fascio di luce illumina la storia del regno di Mitanni, una delle maggiori potenze della Mesopotamia settentrionale e della regione siriana tra il XV e il XIV secolo a.C. Tutto si deve al ritiro delle acque del bacino artificiale creato dalla diga di Mosul, nel Kurdistan iracheno: il fenomeno, verificatosi nello scorso autunno, ha infatti determinato, nel sito di Kemune, sulla sponda orientale del Tigri, l’affioramento di un’antica città. A imbattersi nella straordinaria
A destra: Ivana Puljiz, l’archeologa che ha guidato le indagini nel sito di Kemune, nel Kurdistan iracheno. In basso: una veduta aerea del sito, con le strutture emerse grazie al ritiro delle acque del bacino artificiale.
In alto: Kemune. Un settore dell’area indagata, nel quale sono state localizzate strutture riferibili a un terrazzo artificiale su cui insisteva il palazzo.
6 archeo
A destra: un’immagine dello scavo che permette di apprezzare l’eccezionale stato di conservazione delle murature, che in alcuni punti raggiungono i 2 m d’altezza.
Errata corrige con riferimento all’articolo Il tesoro del lago (vedi «Archeo» n. 413, luglio 2019), desideriamo precisare che nella didascalia della ricostruzione grafica di una delle navi di Nemi, queste ultime sono state erroneamente attribuite a Caracalla e non a Caligola. Dell’errore ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori.
archeo 7
n otiz iario «emersione» sono stati gli archeologi della missione dell’Università di Tubinga, che lavora nella regione in collaborazione con la Direzione alle Antichità di Dohuk, nell’ambito della KAO (Kurdistan Archaeology Organization). Ivana Puljiz, che guida la missione, ha dichiarato che il sito presenta edifici progettati con notevole cura, caratterizzati da murature in mattoni crudi molto robuste, che in alcuni casi si sono presentano ancora rivestite dall’intonaco e conservano perfino resti di pitture murali. Spiccano, in particolare, i resti di un palazzo – con muri che in alcuni tratti raggiungono i 7 m
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d’altezza –, del quale sono state accertate almeno due distinte fasi di frequentazione, segno della prolungata utilizzazione dell’edificio. Al suo interno sono state identificate numerose stanze, otto delle quali sono state scavate, e l’indagine ha rivelato, fra l’altro, la presenza di grandi mattoni combusti che erano stati utilizzati come lastre pavimentali. Gli scavi hanno anche restituito dieci tavolette cuneiformi che sono attualmente allo studio. Una di esse suggerisce che Kemune fosse con ogni probabilità l’antica città di Zakhiku, menzionata in testi del Vicino Oriente antico risalenti all’età del Bronzo Medio (1800 a.C.
In alto, a sinistra: frammenti di intonaco che conservano tracce di pitture murali. In alto, a destra: un altro settore del palazzo. A sinistra: Hasan Qasim, della Direzione alle Antichità di Dohuk, condirettore degli scavi di Kemune.
circa). Tale notizia implicherebbe che la città fu abitata per almeno quattrocento anni e dunque si spera che l’approfondimento degli studi e la traduzione di tutte le tavolette possa offrire dati utili a confermare l’identificazione dell’abitato. In epoca antica il palazzo si stagliava sopra un terrazzo che dominava la valle, a non piú di una ventina di metri da quella che era allora la sponda orientale del Tigri. Al tempo dell’impero di Mitanni, per consolidare il terreno, che mostrava segni di scivolamento, fu costruita una terrazza monumentale in mattoni crudi, addossandola alla fronte
occidentale del palazzo, cosí da consolidare l’intera area. Nell’insieme, il complesso, che guardava la valle del grande fiume, doveva costituire una presenza di notevole impatto. Ricognizioni di superficie condotte nelle vicinanze del palazzo hanno peraltro accertato la presenza di una città di dimensioni ancora maggiori a nord del sito appena scoperto o, per meglio dire ri-scoperto. L’esistenza di strutture nella località di Kemune era infatti già stata rilevata nel 2010, quando il livello del bacino creato dalla diga era inferiore e in quell’occasione erano anche state recuperate alcune tavolette cuneiformi e resti
archeo 9
n otiz iario In alto e in basso: altre immagini del palazzo e del terrazzo artificiale. La scoperta di Kemune getta nuova luce sul regno di Mitanni, che fu una delle maggiori potenze della regione tra il XV e il XIV sec. a.C.
10 a r c h e o
di pitture murali con tracce di colore rosso e blu. Soltanto nei mesi scorsi, però, è stato possibile avviare uno scavo vero e proprio, grazie al ben piú consistente abbassamento delle acque, dovuto a eccezionali condizioni di siccità. Come ha dichiarato Ivana Puljiz, l’importanza della scoperta del palazzo di Kemune deriva dal fatto che «l’impero di Mitanni è uno dei meno studiati fra quelli del Vicino Oriente antico e le notizie sui suoi complessi palaziali erano state finora fornite soltanto dalle ricerche condotte a Tell Brak, in Siria, e nelle città di Nuzi e Alalah, centri che però erano entrambi situati ai margini di quel regno». Stefano Mammini
PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Alessandro D’Alessio
UN CANTIERE «PROMOZIONALE» NEL CUORE DELLA PIAZZA DEL COLOSSEO UNA RECINZIONE CHIUDE GLI SCAVI ARCHEOLOGICI PER LA COSTRUZIONE DELLA STAZIONE «FORI IMPERIALI» DELLA METRO C. LA TEMPORANEA INAGIBILITÀ DI QUESTO SPAZIO È STATA SFRUTTATA PER FAR CONOSCERE LE MOLTEPLICI POSSIBILITÀ DI FRUIZIONE DEL PARCO ARCHEOLOGICO
L
a piazza del Colosseo si è vestita di un nuovo racconto: là dove gli oltre 200 m di recinzione del «pozzo» della futura stazione Fori Imperiali della linea C della Metropolitana di Roma racchiudono gli scavi archeologici che hanno riportato alla luce nuove vestigia della storia di questo luogo iconico per la cultura occidentale, un’installazione realizzata con un telo di colore giallo sfumato,
posta a rivestimento del perimetro del cantiere, accoglie le migliaia di persone che quotidianamente sostano ai piedi dell’Anfiteatro Flavio, dialogando con il pubblico della piazza attraverso contenuti inediti e immagini. Il «pozzo» si colloca tra via dei Fori Imperiali (altezza uscita della metro B) e la piazza del Colosseo, inserendosi tra il clivo di Venere Felice che porta al tempio di Venere e Roma/
basilica di Massenzio e la fermata Atac in direzione via Labicana. Per la sua collocazione e in considerazione del fatto che tale posizione crea due punti di accesso all’area della piazza – dove sono collocate le biglietterie e gli ingressi ai monumenti del Parco archeologico del Colosseo –, le informazioni sulla storia della piazza piú nota della Città Eterna, dall’età imperiale fino alla contemporaneità, e le indicazioni di orientamento alla visita del Parco sono state diversificate a seconda della relazione con gli spazi circostanti e con il loro uso preferenziale da parte del pubblico.
NOTIZIE STORICHE E INFORMAZIONI PRATICHE Ciascun «lato» del «pozzo» presenta cosí contenuti autonomi, che possono essere letti anche singolarmente, sebbene la forma del «pozzo» favorisca di per sé una lettura integrata. Lungo il tratto di recinzione che costeggia via dei Fori Imperiali, i turisti e i cittadini La segnaletica trilingue nel tratto di recinzione del «pozzo» della Metro C che corre fra l’attuale stazione Colosseo della Metro B e l’Anfiteatro Flavio, ben riconoscibile sullo sfondo.
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approfondimenti sui monumenti e reperti rinvenuti. Ma è senza dubbio sul lato opposto a via dei Fori Imperiali, là dove la recinzione fiancheggia la piazza, che l’installazione prende la forma di una narrazione: una time-line articolata in 14 tappe racconta, infatti, 20 secoli di storia e guida lo sguardo del pubblico sui monumenti circostanti.
UNA PRESENZA DA SEMPRE DOMINANTE
romani in uscita dalla stazione della Metro B trovano con rapidità tutte le informazioni riguardanti i principali ingressi al Parco (Domus Aurea e Colosseo/ingresso Stern, Colosseo Foro Romano Palatino), la posizione delle biglietterie, il prezzo del biglietto integrato Colosseo-Foro Romano-Palatino. Sul medesimo lato, in direzione del clivo di Venere Felice e verso le biglietterie sotto il tempio di Venere e Roma, viene invece illustrata tutta la gamma di biglietti disponibili (oltre a quello integrato, il biglietto Arena, la formula SUPER, e il nuovo Forum Pass, che mette in collegamento Palatino-Foro Romano e Fori Imperiali), con un approfondimento su servizi, norme di visita, orari, e le diverse tipologie di visite didattiche. Sul lato speculare a questo, all’altezza della fermata Atac, è stata invece affiancata alla finestra aperta sullo scavo archeologico in corso della Metro C l’illustrazione delle indagini e delle scoperte realizzate fino a oggi, con
Entro ovali che simulano il profilo dell’Anfiteatro Flavio il racconto per immagini e testi – in italiano, inglese e cinese – esordisce con il disegno della piazza quando era occupata dallo stagno di Nerone con il maestoso Colosso dell’imperatore, l’uno presto sostituito dall’anfiteatro, l’altro spostato da Adriano per la costruzione del suo grandioso tempio di Venere e Roma. La narrazione prosegue con l’illustrazione della fontana della Meta Sudans (oggi non piú esistente, perché demolita negli anni Trenta del Novecento, n.d.r.) e con l’arco di Costantino, testimone delle nuove destinazioni d’uso del Colosseo, che rimane l’elemento dominante di tutta l’area monumentale e di tutta la piazza anche nei secoli a seguire.
Ma è la piazza stessa che nel tempo si trasforma e, dopo lo sventramento fascista per l’apertura di un nuovo asse viario (via dell’Impero, oggi via dei Fori Imperiali) tra piazza Venezia e il Colosseo, viene tagliata dagli scavi a cielo aperto della imponente trincea della Metro B, per poi rinascere con una nuova funzione, come testimoniato nelle immagini che ritraggono Gregory Peck e Audrey Hepburn nel celebre film Vacanze romane, anticipatrici della restituzione a nuova vita con la definitiva pedonalizzazione. La time-line si conclude (o si apre, a seconda del percorso di lettura) con un invito alla collaborazione per tutelare un patrimonio millenario, un appello al rispetto di luoghi che da 2000 anni accolgono chiunque cammini sulla loro storia, un augurio a voler condividere con tutto il pubblico e tutta la città di Roma il passato, per trasmettere alle generazioni future la bellezza e il significato di uno dei luoghi piú iconici del mondo occidentale. Il progetto è stato promosso dal Parco archeologico del Colosseo, con la progettazione di Electa e la realizzazione di Metro C per conto di Roma Metropolitane-stazione appaltante di Roma Capitale. Elisa Cella, Rossella Rea, Federica Rinaldi
Altre immagini dell’apparato informativo allestito in corrispondenza del «pozzo», con testi che ripercorrono la storia della Valle del Colosseo, dall’età antica fino ai giorni nostri.
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n otiz iario
MOSTRE Vetulonia
SCONTRO ALL’ULTIMA ONDA
L
a battaglia di Alalía è il tema della nuova mostra allestita nel Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia: uno scontro navale che, intorno al 540 a.C., ha segnato la storia del Mediterraneo per alcuni decenni, ma che ne ha condizionato le dinamiche politiche ed economiche per un tempo assai piú lungo. L’episodio è narrato nei particolari dallo storico Erodoto (I, 163-167), che mostra di averne compreso a pieno l’importanza. Egli afferma che i Focesi avevano fondato, intorno al 565 a.C., un insediamento – Alalía – sulle coste della Corsica e, una ventina d’anni piú tardi, a seguito del responso di un oracolo rivelatosi poi non compreso nel senso giusto, decisero di aumentarne sensibilmente il numero degli abitanti, dando una forma pienamente urbana all’abitato. Dopo cinque anni, coi vecchi e i nuovi coloni integrati, decisero d’intraprendere scorrerie verso le popolazioni vicine. Questo spinse gli Etruschi e i Cartaginesi, alleati tra loro, a riunire una flotta di sessanta navi e a sfidarli in battaglia. I Focesi riunirono lo stesso numero di navi e andarono loro incontro. La battaglia si svolse nel tratto di «mare che si chiama Sardonio» e vide i Focesi soccombere: quaranta navi vennero distrutte e le altre venti riportarono seri danni con la rottura dei rostri. A questo punto, gli sconfitti, ritornati ad Alalía,
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presero a bordo «i figli, le donne e quanti dei loro beni potevano trasportare» e lasciarono la Corsica, facendo rotta verso l’Italia meridionale e, in particolare, in direzione di Reggio da dove successivamente ripartirono per fondare Velia.
Grazie all’archeologia, la storiografia contemporanea illumina bene il racconto erodoteo e le cause dello scontro: in ballo era il controllo degli intensi traffici commerciali che si svolgevano nel Mar Tirreno. I Focesi, che intorno al 600 a.C. avevano fondato la colonia di Massalía (l’odierna Marsiglia), sulle coste meridionali della Francia, con l’insediamento sulle coste della Corsica divenivano troppo pericolosi per Etruschi e Cartaginesi, poiché si trovavano a poter cosí disporre di una tappa intermedia sulla rotta verso il mondo dei Celti, di cui una delle porte era divenuta Massalía. Sappiamo che i vincitori, oltre a dividersi i prigionieri, si spartirono il controllo delle coste della Corsica e della Sardegna: agli Etruschi toccarono quelle dell’isola piú settentrionale, ai Cartaginesi – che
francesi e presentati in un allestimento suggestivo, che cerca di «contestualizzare» il fatto storico. Tra essi vi sono capolavori, come il dinos frammentario firmato dal maggiore ceramista attico nella tecnica a figure nere, vale a dire Exekias. Del vaso si conservano purtroppo soltanto sette frammenti relativi alla spalla e a parte dell’orlo. Reca due iscrizioni: la firma dell’artista, in alfabeto attico, eccezionalmente incisa e non dipinta come nelle altre attestazioni, e la dedica del dinos, scritta in alfabeto sicionio, a Charopos da parte di un certo vi avevano già interessi consistenti – quelle dell’altra. La vicenda in sé, le cause che la determinarono e le sue conseguenze sono illustrate lungo il percorso espositivo della mostra attraverso 150 reperti archeologici provenienti da musei italiani e
ALALÍA (ALÉRIA)
La scoperta dello scrittore archeologo Il sito di Alalía (Aléria) venne segnalato, per la prima volta, nel 1840 dallo scrittore Prosper Mérimée, che svolgeva la funzione di Ispettore dei monumenti storici. Tra il 1954 e il 1984 l’area è stata interessata da scavi sistematici, che si sono concentrati sulla città romana e sulla necropoli etrusca. L’area d’indagine si estende su 27 ettari, 5 dei quali visitabili. La ricerca e la valorizzazione del sito è rientrata di recente nel Projet Collectif de Recherche (PCR) «Aléria et ses territoires», programmato per tre anni. In tale ambito è stata allestita la mostra nel Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia, diretto da Simona Rafanelli.
Epainetos. In proposito va segnalato che Charopos potrebbe essere un riferimento a Eracle che, in Beozia, era venerato con l’appellativo di Charops («dagli occhi luminosi»). La decorazione di quel che resta del vaso è d’interesse notevole: all’interno della sua imboccatura corre infatti un fregio miniaturistico raffigurante alcune navi da guerra. Le imbarcazioni sono pentecontere e quindi mosse da cinquanta rematori come suggeriscono i venticinque remi indicati sulle fiancate e presentano una prua configurata a testa di cinghiale.
In alto: un particolare dell’allestimento della mostra sulla battaglia di Alalía in corso a Vetulonia. Nella pagina accanto: balsamario in pasta vitrea di produzione cartaginese, dalla necropoli di Casabianda ad Alalía (Aléria). V sec. a.C. A destra: particolare del manico di una brocca in bronzo raffigurante un aruspice nell’atto di cogliere gli auspici divini leggendo il volo degli uccelli, dalla necropoli di Casabianda.
a r c h e o 15
n otiz iario
Al di sopra della prua si nota uno spazio protetto per gli arcieri; al centro della tolda si erge l’albero maestro che verosimilmente era raffigurato con le vele spiegate; a poppa è posizionato il timoniere mentre manovra i due remi di governo. Il vaso è databile negli anni dello scontro di Alalía e può quindi offrirci un’idea della forma e delle caratteristiche delle navi che si affrontarono in quella battaglia. Tra le marinerie delle diverse poleis
greche e tra queste e quelle etrusche vi erano differenze, ma la testimonianza è sicuramente preziosa per la capacità di Exekias di rendere i dettagli. In mostra sono confluiti anche i risultati delle indagini portate avanti negli ultimi anni a Olbia e sull’isola di Tavolara. Su quest’ultima, in località Spalmatore di Terra, gli scavi hanno portato alla scoperta di un insediamento etrusco risalente a quattro secoli
prima della battaglia di Alalía e quindi all’inizio della talassocrazia etrusca nel Mar Tirreno. Secondo gli scavatori, dovrebbe trattarsi di uno scalo concesso dalle comunità locali a navigatori-mercanti etruschi, dove potevano vivere «more villanoviano» e quindi secondo il proprio stile di vita. In ogni caso la scoperta getta luce sui contatti già ben attestati tra la Sardegna e l’Etruria e rende ancor piú articolata la comprensione delle
IL DINOS DI EXEKIAS
Acqua e vino
Il dinos è un vaso di grandi dimensioni da utilizzare durante il banchetto per miscelare il vino con l’acqua. L’esemplare esposto in mostra e al quale si riferiscono queste foto è stato scoperto a Cerveteri in scavi eseguiti prima del 1861 e ha fatto
parte della collezione di Augusto Castellani. La sua raccolta fu donata allo Stato italiano, nel gennaio del 1919, ed è ora conservata nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma.
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POPULONIA
Un’attesa lunga cento anni A sinistra: elmo in bronzo di tipo Negau. Nella pagina accanto: veduta d’insieme e particolari del dinos di Exekias; nella foto in alto si legge la firma del maestro.
dinamiche commerciali tra Fenici, Cartaginesi, Greci, Etruschi e le genti di Sardegna e Corsica. In questa ottica rientra a pieno la lettura offerta da Rubens D’Oriano dei risultati delle ricerche che ha diretto a Olbia e riproposta in sede di mostra. La città appare ora come una fondazione dei Fenici, probabilmente di Tiro, attorno al 775-750 a.C. Un insediamento che raggiunse dimensioni ragguardevoli, 18 ettari circa, e assunse uno «status di area urbana e non solo di sito emporico». Tra il 630 e il 510 a.C. le testimonianze archeologiche cambiano d’indirizzo e rinviano al mondo focese: si tratterebbe della «prima proiezione insediativa di Focea nel Mediterraneo Occidentale» con un trentennio di anticipo rispetto a Massalía (Marsiglia). Una tappa intermedia quindi nell’ambizioso progetto di raggiungere le coste della Francia meridionale. Nonostante la comune origine focese, la polis di Olbia non sarebbe intervenuta nella battaglia di Alalía (una neutralità, d’altronde, attribuita anche a Massalía), ma la scelta non la preservò dai cambiamenti in corso. Dal 510 a.C., infatti, la documentazione archeologica muta radicalmente di nuovo e assume caratteri che
indicano un controllo da parte di Cartagine. Sono d’altronde gli anni del primo trattato tra Cartagine e Roma (510-509 a.C.), dove la metropoli africana mostra di controllare la Sardegna e, in ogni caso, le sue coste. La vivacità del Mediterraneo, le occasioni d’incontro e di scontro nel VI secolo a.C. sono il filo conduttore della mostra allestita a Vetulonia: un’esposizione tra storia e archeologia. Giuseppe M. Della Fina
Torna a Populonia dopo 111 anni dalla scoperta il capolavoro dell’arte etrusca che raffigura Aiace Telamonio nell’atto del suicidio. La statuetta, forse l’applique di un tripode o di un calderone, fu trovata nel 1908 nella Tomba dei Letti funebri, oggi visibile nel Parco Archeologico di Baratti. Appena scoperto, Aiace fu trasferito a Firenze ed esposto al Museo Topografico dell’Etruria, finché, vittima dell’alluvione del 1966, venne trasferito nei magazzini del Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Curata da Carolina Megale e Marco Sofia, la mostra pone al centro Aiace e i cittadini che fino a oggi non hanno potuto ammirare questo piccolo capolavoro della bronzistica etrusca degli inizi del V secolo a.C. prodotto in una bottega che aveva sede proprio a Populonia. A sostenere il ritorno dell’eroe è stato il gruppo di Past in Progress, in collaborazione con il Castello di Populonia e la Fondazione Livorno e la Fondazione Livorno Arte e Cultura. La mostra «Il ritorno dell’Eroe» è visitabile fino al 3 novembre nel Museo Etrusco di Populonia Collezione Gasparri.
DOVE E QUANDO «Alalía, la battaglia che ha cambiato la storia: Etruschi, Greci e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C.» Vetulonia, Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 3 novembre Orario ma-do, 10,00-18,00; chiuso il lunedí Info tel. 0564 948058; www.museoisidorofalchi.it; www.museidimaremma.it
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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
IL TEMPO DEI VIGNAIOLI COME ACCADE ORMAI DA OLTRE VENT’ANNI, NELL’ANTICA POMPEI STA PER AVERE INIZIO UNA NUOVA VENDEMMIA: UN ESPERIMENTO AVVIATO NEL PIENO RISPETTO DEI CRITERI ADOTTATI IN EPOCA ANTICA, GRAZIE AL QUALE POSSIAMO OGGI GUSTARE LE STESSE «DOC» DEI VETTII E DEGLI ARRII...
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ettembre, tempo di vendemmia! E il suo atteso frutto è il vino, bevanda diffusa fra tutti i ceti sociali di età romana. Catone ne raccomanda, per gli schiavi impegnati a vendemmiare, una razione di almeno mezzo litro al giorno, sebbene si tratti di lora, un vinello ricavato dalla torchiatura delle vinacce residue. A Pompei, dal 1996, è stato attivato il progetto «Villa dei Misteri», con l’obiettivo di ripristinare l’antica
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viticoltura nei luoghi deputati della città e con gli stessi vitigni dell’epoca dell’eruzione. Sono state reimpiantate alcune delle specie che producevano il richiestissimo Vesuvinum, le cui anfore ricolme raggiungevano Spagna, Gallia fino alla Britannia. L’uvaggio è costituito dall’aglianico, dello sciascinoso e del piedirosso. I Pompeiani conoscevano molti segreti della coltivazione della vite, grazie ad anni di sperimentazioni e
di specializzazioni della manodopera: fra i vitigni che per primi appassionarono gli agricoltori locali spicca sicuramente la «Murgentina», originaria della città siciliana di Morgantina, che a Pompei ebbe cosí tanto successo da cambiare perfino il nome in «Pompeiana» – in una sorta di appropriazione indebita, come qualcuno oggi considera la denominazione «Prosecco» presa dalle colline di
l’immagine piú curata è proprio la scena della vendemmia con la raccolta, la spremitura, i tini pieni, la mescita del vino e il trionfo di Bacco e Arianna.
UNA CANTINA BEN FORNITA
In alto: i filari delle vigne inpiantate nell’area dell’antica Pompei. La sperimentazione ha avuto inizio nel 1996 e sono stati messi a coltura gli stessi vitigni utilizzati in epoca antica,
piantati con i medesimi criteri adottati dai viticoltori romani. Nella pagina accanto: particolare del fregio della Casa dei Vettii con amorini intenti alla vinificazione.
Conegliano e Valdobbiadene dall’omonimo paese del Carso triestino –, ma anche l’Holconia, che invece veniva dalla ferace Etruria.
racemato, una DOC dell’epoca. Un’altra celebre famiglia, gli Eumachi, fece fortuna anche con la lavorazione della vite e l’esportazione della bevanda soprattutto a Cartagine. Famosi erano i fratelli Vettii, Conviva e Restituto, ex liberti che proprio con il vino si erano arricchiti tanto da costruirsi una delle dimore piú fastose della città. La coltura della vite era molto piú redditizia della cerealicoltura, perciò questa pratica poteva essere intrapresa solo da ricchi proprietari, in grado di anticipare le costose spese d’impianto dei vigneti e di attendere il tempo necessario a ottenere i raccolti. La Casa dei Vettii è posta sotto l’egida di Priapo, dio della prosperità, dipinto in bella vista sulla porta d’ingresso. Le stanze piú ricercate si affacciano sul peristilio con lussureggiante giardino, fra cui risalta il salone – concepito come una sala di rappresentanza – con i celebri amorini affrescati intenti a svolgere i mestieri pompeiani;
CONSERVATO CON CURA Nelle piú importanti ville del circondario pompeiano sono presenti locali per la lavorazione del vino (torcularia), occupati da grandi presse (come nel caso della Villa dei Misteri) necessarie per ottenere una maggiore quantità di succo; questo veniva poi incanalato e condotto nella cella vinaria, dove si conservava in orci di terracotta allineati e seminterrati per evitare che gli sbalzi di temperatura potessero danneggiarne la fermentazione. Infine il vino veniva travasato in anfore rese impermeabili spalmandone l’interno con resina di pino e messo a invecchiare anche per diversi anni. Nota famiglia di produttori di vini a Pompei erano gli Arrii; assieme a loro, Asinio Proculo, conosciuto invece per una particolare qualità, l’Asiniano
Nella fornita cella vinaria sono state trovate anfore contenenti un vino pregiato, come menzionano le iscrizioni dipinte sui recipienti con l’indicazione della qualità, delle origini e della data di lavorazione, come per un’odierna DOCG. Popolare in città anche l’oste Eusino, tanto che bastava solo scrivere «a Euxino» sulle anfore a lui destinate, che il prodotto di qualità giungeva direttamente nelle sue capienti cantine. I vigneti attuali sono stati ripiantati a Pompei secondo le modalità antiche: i filari ravvicinati si dispongono esattamente sulle impronte delle trincee antiche, individuate grazie ai calchi in gesso delle radici delle piante, a circa 4 piedi di distanza tra loro (ogni piede misura 29,64 cm), sostenuti da impalcatura di castagno secondo il sistema della vitis compluviata, descritto nella Naturalis Historia da Plinio il Vecchio, illustre vittima dell’eruzione vesuviana; il naturalista, nell’elogiare la bontà dei vini pompeiani che raggiungevano il massimo del pregio nell’arco di 10 anni, avverte però della loro pesantezza in quanto capaci di procurare terribili mal di testa se bevuti in eccesso. Le aree a vigneto si trovano nelle Regioni I e II, presso l’Anfiteatro (vigneto dell’oste Eusino, della Casa della Nave d’Europa, dell’Osteria del Gladiatore, del Foro Boario, della Casa del Triclinio estivo), e coprono un’estensione di circa 1 ettaro. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; pagina Fb Pompeii-Parco Archeologico.
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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a
n otiz iario
MERCATO ANTIQUARIO Firenze
ALLA CORTE DEL «PRINCIPE DEGLI ANTIQUARI»
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a Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze celebra i 60 anni di attività (1959-2019) promuovendo la prima «Florence Art Week» una settimana di eventi, mostre, performance e incontri destinata a coinvolgere tutte le gallerie fiorentine, dall’arte antica al contemporaneo. La BIAF lancia anche un nuovo «Premio per le arti decorative o di design» grazie alla sponsorizzazione di Ronald S. Lauder, che lo assegnerà nel corso della rassegna, su una terna di opere segnalate da un’apposita giuria. L’importo di 25 000 euro consentirà il restauro di alcune opere d’arte decorativa appartenenti al patrimonio culturale pubblico. Inoltre, al primo piano di Palazzo Corsini all’interno dell’Alcova, si potrà ammirare «UNIVERSO BARDINI», un progetto espositivo a cura di David Lucidi sulla figura di Stefano Bardini «principe degli Antiquari», dedicato non alla sua consueta accezione di mercantecollezionista, ma a quella di protagonista nelle vicende del collezionismo d’arte tra Otto e Novecento, del suo numerosi collezionisti privati, Direttori di Musei, Soprintendenti e curatori provenienti da tutto il mondo. La mostra ha per missione la promozione dell’arte italiana e del suo mercato. La qualità e la concretezza delle proposte d’arte esposte in mostra, insieme all’unicità del luogo, Palazzo Corsini affacciato sull’Arno e Firenze tutto intorno, sono gli elementi che la contraddistinguono e ne fanno la seconda manifestazione al mondo per l’arte antica. «Il mio sogno – afferma Fabrizio Moretti, Segretario Generale – è che la BIAF possa portare alla luce tutte quelle opere che sono importanti documenti della storia dell’arte, grazie all’appassionato impegno di tutti i suoi galleristi, diventando cosí un punto di riferimento per il mercato dell’arte ma anche per un pubblico piú vasto in Italia e non solo». ruolo fondamentale per l’allestimento di importanti raccolte internazionali. Per l’occasione verranno esposte opere che oggi fanno parte del Museo Bardini, quelle che maggiormente rappresentano la sua estetica espositiva di attento collezionista e altre prestate da collezionisti privati e antiquari. A Palazzo Corsini dal 21 al 29 settembre la 31ma edizione della BIAF Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze vedrà protagoniste 77 gallerie del panorama internazionale specializzate nelle piú diverse discipline artistiche, che sapranno affascinare con una ricercata selezione di opere i
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A TUTTO CAMPO Roberto Farinelli e Barbara Fiorini
MEDIOEVO MAREMMANO LO SCAVO DI UN POZZO SCOPERTO SOTTO IL PAVIMENTO DEL DUOMO DI GROSSETO HA OFFERTO UN’OPPORTUNITÀ PREZIOSA: SONO INFATTI VENUTE ALLA LUCE MIGLIAIA DI TESTIMONIANZE DI VITA QUOTIDIANA. ORA RACCONTATE IN UN’ESPOSIZIONE RICCA E ARTICOLATA
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n tesoro in fondo al pozzo, come nelle fiabe. In questo caso, però, la realtà ha superato la fantasia. Nel 2010, la scoperta di un ambiente sotterraneo che si apre a 4 m circa sotto l’attuale pavimento del coro della cattedrale di Grosseto e di un pozzo di butto profondo quasi 10 m ha innescato le ricerche di un gruppo multidisciplinare di studio, impegnato nella ricostruzione della vita quotidiana nella Maremma medievale. Il pozzo ha infatti riportato alla luce reperti d’ogni genere – migliaia di frammenti ceramici, vitrei, metallici, botanici e faunistici – da porre in relazione con i documenti d’archivio e con le memorie epigrafiche e araldiche coeve. Le strutture indagate vennero abbandonate in occasione dell’ampliamento del duomo di Grosseto, promosso agli inizi del Cinquecento, alle soglie della grande trasformazione rinascimentale dell’edificio medievale. Si trattava della pieve altomedievale intitolata a santa Maria, ove, nel 1138, venne traslata la cattedra vescovile di S. Lorenzo di Roselle. Utilizzato nel corso del XIII secolo anche come aula di tribunale e sala consiliare, l’edificio
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religioso, venne radicalmente trasformato in forme gotiche a partire dagli anni Novanta del Duecento, sino a quando la crisi di metà Trecento determinò l’interruzione del cantiere.
BOCCALI PERSONALIZZATI Tra i rifiuti utilizzati per riempire il pozzo, spicca un corredo di boccali prodotti nel primo Quattrocento. Inizialmente questo corredo omogeneo venne utilizzato nella mensa comune del vescovo, che ebbe un boccale in zaffera a rilievo, e dai canonici della cattedrale, ciascuno dei quali incise un simbolo o una lettera che ne indicavano l’uso esclusivo. Pochi anni piú tardi, terminato l’uso nel refettorio canonicale, i boccali vennero reimpiegati in una bottega destinata alla mescita di vino al minuto, come testimoniano sia alcuni segni d’uso sul piede, sia i sigilli di garanzia in piombo, con la K
Nella pagina accanto e a destra: l’ambiente sotterraneo e il pozzo/cisterna utilizzato come butto scoperti sotto il pavimento del Duomo di Grosseto. In basso: boccale in zaffera a rilievo prodotto nella bottega fiorentina di Giunta di Tugio. Secondo quarto del XV sec.
di Kamarlengo (= tesoriere), apposti dalle magistrature senesi deputate al controllo di pesi e misure.
UNA MOSTRA DIFFUSA Dalla scoperta è nata l’esposizione «Oltre il duomo. Il pozzo del vano ipogeo e le sue ricchezze», curata dall’architetto Barbara Fiorini, che ha concepito una mostra diffusa tra Grosseto, l’area archeologica di Roselle e il Parco della Maremma, dove è possibile visitare l’esposizione dei risultati delle indagini archeologiche e gli stessi resti monumentali dell’abbazia di S. Maria all’Alberese (oggi S. Rabano), la cui storia s’intreccia con quella della cattedrale grossetana. Visitabile sino al 2 febbraio 2020, la mostra prevede numerose iniziative e la visita di diversi luoghi di interesse correlati e in rete. Grosseto: Museo Archeologico e d’Arte della Maremma, Cattedrale, Vano ipogeo, la Via dei Pozzi e delle Cisterne, Museo di Storia Naturale della Maremma, MuseoLab, il Giardino dell’Archeologia; Roselle: Area
Archeologica; Parco Regionale della Maremma: Centro Visite, abbazia di S. Maria all’Alberese/S. Rabano. (roberto.farinelli@unisi.it, fioriniarchitettura@gmail.com)
DOVE E QUANDO «Oltre il duomo. Il pozzo del vano ipogeo e le sue ricchezze» fino al 6 febbraio 2020 Grosseto, MAAM-Museo Archeologico e d’Arte della Maremma Info tel. 0564/488752; www.maam.comune.grosseto.it Grosseto, Museo di Storia Naturale della Maremma Info tel. 0564 488571; www.museonaturalemaremma.it Alberese, Parco Regionale della Maremma Info tel. 0564 393238 o 407098 www.parco-maremma.it Roselle, Area Archeologica Info tel. 0564 402403 oppure 335 1450361; www.archeotoscana.wordpress. com/about/roselle-areaarcheologica
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n otiz iario
ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
UNA TERRA «BENEDETTA» L’articolo di Irene Rossi dedicato agli Arabi (vedi alle pp. 56-73) inizia e si conclude con il riferimento alla «mitica» 2 3 Regina di Saba (1) la cui reale esistenza, a oggi, non è stata provata, nonostante il racconto biblico della sua 1 visita al re Salomone (2), a cui portò «gran quantità d’oro, di aromi e pietre preziose». L’ampio excursus sull’Arabia preislamica fornisce un quadro delle terre e delle genti che vivevano nella parte meridionale (3) della Penisola Arabica. Innanzitutto, la sua posizione, dal clima mite, ove si produceva una sostanza molto richiesta nella zona, l’incenso (4), che divenne pregiata merce di scambio con 4 i regni confinanti, soprattutto dopo l’inizio dell’utilizzo 5 del dromedario per il trasporto merci e l’apertura della «via dell’incenso» (5): attraverso il deserto e nelle oasi (6) lungo i percorsi carovanieri (7) sorsero molti insediamenti. Fin dalla metà del IX secolo a.C., con il termine «arabo» si identificarono tutti i popoli nomadi 7 6 che si muovevano e trafficavano in quelle aree. Le Scritture citano le genti del Qedar, elencate come discendenti di Ismaele, figlio di Abramo e Agar 8 (quest’ultima in un particolare de L’angelo che appare ad Agar e Ismaele del Tiepolo, 8), e quindi Ismaeliti. Poi i Medianiti, dislocati nella zona di Aqaba, che avevano contatti con i Fenici, come provano le vesti color porpora dei loro re, e con gli Egiziani, in quanto 9 citati per l’aiuto dato a Mosè nella fuga dall’Egitto (9). 10 Citazioni anche per i Nabatei, con la loro capitale Madain Salih, la Petra dell’Arabia Saudita (10), che controllavano la via dell’incenso in un ampio territorio 11 (il francobollo di Israele ne illustra il tracciato e riporta testualmente: «I Nabatei (...) trasportano al mare incenso e mirra dalla terra chiamata “benedetta 13 12 Arabia’’», Geronimo di Cardia, 11). Il regno di Saba, con la capitale Marib (12), è presentato piú volte come primo esportatore di incenso e come il piú potente di tutta la Penisola Arabica; i Sabei forse hanno dominato anche una parte dell’Etiopia e, secondo la Genesi, provenienti dalla stessa. Il 16 14 legame tra Saba ed Etiopia è dimostrato anche dalla scrittura: le antiche scritture dell’Arabia del 15 Sud (13) si sono praticamente estinte, salvo che in Etiopia, come risulta dal francobollo che riproduce IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può proprio alcune «iscrizioni sabee» (14). Infine i Minei. scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi Il piccolo regno di Ma’in (15) era in posizione altro tema, ai seguenti indirizzi: strategica come punto di partenza delle carovane Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, verso il Nord con destinazioni lontanissime, stando Via Tavanti, 8 C.P. 17037 ai nomi delle località da loro toccate, fino all’Egitto e alla 50134 Firenze Grottarossa info@cift.it, 00189 Roma. Grecia: infatti nell’isola di Delo (16), nella zona dei templi, oppure lcalenda@yahoo.it; www.cift.it dedicarono un altare alle proprie divinità.
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LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO
MERCANTI
SENZA FRONTIERE TRAFFICI, COMMERCI E VIAGGI ALLE ORIGINI DELLA CIVILTÀ di Massimo Vidale
Persepoli (Iran). Particolare dei rilievi della scala est dell’Apadana (sala delle udienze) raffigurante inviati di Lidia che portano doni al trono imperiale. Probabile opera di scultori greci, fine del VI-inizi del V sec. a.C.
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enomeno modernissimo eppure antichissimo: questo è il commercio, motore primo dell’economia. E dunque sinonimo di grande e piccola finanza, imprenditoria, globalizzazione e, soprattutto, monete e sistemi bancari. Ma non fu sempre cosí e, anzi, le forme embrionali dell’attività mercantile nemmeno si avvalevano dei soldi, basate com’erano sul baratto. È dunque una storia lunga e affascinante quella che Massimo Vidale racconta nella nuova Monografia di «Archeo», prendendo le mosse dal Vicino Oriente preistorico, dove l’archeologia colloca le prime testimonianze di transazioni regolari. Per svelare la sorprendente modernità di pratiche che, già allora, comprendevano registrazioni dei beni, «certificati» d’origine delle materie prime, affidamento delle spedizioni a vere e proprie compagnie specializzate… L’uomo insomma, seppe farsi mercator quasi subito dopo essersi fatto faber. Altrettanto velocemente, i nostri predecessori scoprirono gli effetti collaterali della nascente economia di mercato, perché commerci e scambi crearono progresso, solidarietà, nuovi modi di vita, ma anche rovinosi fallimenti e sopraffazione.
GLI ARGOMENTI • L e forme dello scambio • I primi mercanti • L a navigazione •C olonie e colonialismo • L e vie del lapislazzuli • I Fenici
IN EDICOLA a r c h e o 29
CALENDARIO
Italia ROMA Volti di Roma alla Centrale Montemartini
Fotografie di Luigi Spina Musei Capitolini, Centrale Montemartini fino al 22.09.19
Antico Siam
Lo Splendore dei Regni Thai Museo delle Civiltà fino al 30.09.19
Il ciclo della vita
Nascere e rinascere in Etruria Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 06.10.19
AQUILEIA Bestie e mostri ad Aquileia Palazzo Meizlik fino al 15.09.19
Magnifici Ritorni
Tesori aquileiesi dal Kunsthistorisches Museum di Vienna Museo Archeologico Nazionale fino al 20.10.19
BOLOGNA Ex Africa
Storie e identità di un’arte universale Museo Civico Archeologico fino all’08.09.19
La Casa della Vita
Ori e storie intorno all’antico cimitero ebraico di bologna Museo Ebraico fino al 06.01.20
BRINDISI Nel mare dell’intimità L’archeologia subacquea racconta il Salento Aeroporto del Salento fino al 05.07.20
CATANIA Il kouros ritrovato Mortali Immortali
Tesori del Sichuan nell’antica Cina Mercati di Traiano, Museo dei Fori Imperiali fino al 18.10.19
Claudio Imperatore
Messalina, Agrippina e le ombre di una dinastia Museo dell’Ara Pacis fino al 27.10.19
Ars erotica
L’arte dell’amore non violento nell’antica Roma Stadio di Domiziano fino al 06.11.19
L’Arte ritrovata
L’Arma dei Carabinieri per il recupero e la salvaguardia del patrimonio culturale italiano Musei Capitolini fino al 26.01.20
Colori degli Etruschi
Tesori di terracotta presso la Centrale Montemartini Musei Capitolini, Centrale Montemartini fino al 02.02.20 30 a r c h e o
Museo Civico di Castello Ursino fino al 03.11.19
CECINA (LI) Nudo! Tesori del Museo delle Antichità di Basilea
Fondazione Culturale Hermann Geiger fino al 13.10.19
CERVETERI e TARQUINIA Etruschi maestri artigiani
Nuove prospettive da Tarquinia e Cerveteri Cerveteri, Museo Nazionale Archeologico Cerite Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale fino al 31.10.19
COMACCHIO Troia
La fine della città, la nascita del mito Palazzo Bellini fino al 27.10.19
FINALE LIGURE BORGO (SAVONA) Clarence Bicknell e la Preistoria nel Finale: una riscoperta Museo Archeologico del Finale fino al 03.11.19
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
FIRENZE L’arte di costruire un capolavoro
TARANTO MitoMania
Mummie
TORINO Archeologia Invisibile
La Colonna Traiana Giardino di Boboli, Limonaia fino al 06.10.19
Viaggio verso l’immortalità Museo Archeologico Nazionale fino al 02.02.20
Storie ritrovate di uomini ed eroi Museo Archeologico Nazionale di Taranto fino al 10.11.19
Museo Egizio fino al 06.01.20
Francia PARIGI Tutankhamon
Il tesoro del faraone Grande Halle de la Villette fino al 15.09.19
LIONE Ludique
Giocare nell’antichità Lugdunum-Musée et théâtres romains fino al 01.12.19
MASSA MARITTIMA (GROSSETO) La Sfinge di Vulci Museo Archeologico «Giovannangelo Camporeale» fino al 03.11.19
MILANO Il viaggio della Chimera
Gli Etruschi a Milano tra archeologia e collezionismo Civico Museo Archeologico fino all’08.09.19
VALLON-PONT-D’ARC Di leoni e di uomini
Leggende feline: 400 secoli di fascino Grotte Chauvet 2 fino al 22.09.19
Germania BERLINO Figure possenti
Ritratti dalla Grecia antica Altrs Museum fino al 02.02.20
NAPOLI Gli Assiri all’ombra del Vesuvio
Grecia
Paideia
ATENE Gli infiniti aspetti della bellezza
Sacra Neapolis
USA
Museo Archeologico Nazionale fino al 16.09.19
Giovani e sport nell’antichità Museo Archeologico Nazionale fino al 04.11.19 Culti, miti, leggende Lapis Museum, Basilica della Pietrasanta fino al 15.12.19
SIRACUSA Archimede a Siracusa Experience exhibition Galleria Civica Montevergini fino al 31.12.19
Museo Nazionale Archeologico fino al 31.12.19
NEW YORK Acquerelli dell’Acropoli
Émile Gilliéron ad Atene The Metropolitan Museum of Art fino al 03.01.20 Acquerello con le figure note come Barbablú, dall’Acropoli. a r c h e o 31
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NELLA CASA
DELLA VITA
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UNO DEI PIÚ AMPI CIMITERI EBRAICI MEDIEVALI DEL MONDO È STATO SCOPERTO, ALCUNI ANNI FA, A BOLOGNA, NELL’AREA UN TEMPO OCCUPATA DAL MONASTERO DI S. PIETRO MARTIRE. OGGI, DOPO ANNI DI INDAGINI, UNA MOSTRA ESPONE GLI STRAORDINARI REPERTI RESTITUITI DALLO SCAVO. PER RACCONTARE LA STORIA DELLA COMUNITÀ EBRAICA CITTADINA NEI SECOLI DEL SUO MASSIMO SPLENDORE testi di Renata Curina, Valentina Di Stefano, Cristina Ambrosini, Maria Giovanna Belcastro, Alberto Sermoneta, Valentina Rizzo, Vincenza Maugeri e Caterina Quareni; fotografie di Roberto Macrí 4
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Sulle due pagine: un particolare dell’allestimento della mostra «La Casa della Vita» che presenta per la prima volta i materiali recuperati grazie allo scavo del cimitero ebraico di Bologna scoperto in via Orfeo nel 2012. Nella pagina accanto: alcuni dei reperti restituiti dalle tombe: 1. anello con candelabro a sette bracci; 2. collana in vaghi di ambra, calcedonio e agata; 3. ciondolo in bronzo argentato; 4-5. anello in oro con iscrizione interna in lettere gotico-francesi e sviluppo dell’iscrizione.
MOSTRE • BOLOGNA
N
el 2012 la richiesta presentata da un’impresa per la costruzione di un nuovo edificio residenziale nel centro di Bologna determina l’avvio di un’indagine archeologica, diretta dalla Soprintendenza di Bologna e condotta sul campo da Cooperativa Archeologia, con il coordinamento di Laura Buonamico. Un cantiere avviato come tanti, dunque, ma che, con il passare dei mesi, svela una pagina finora sconosciuta della storia della città, una pagina tanto appassionante quanto drammatica (della quale avevamo offerto un primo resoconto proprio sulle pagine di «Archeo»: vedi n. 394, dicembre 2017; anche on line su issuu.com). Le ricerche si collocano in via Orfeo, nel quadrante sud-orientale del centro storico bolognese, che ha il suo fulcro nella basilica di S. Stefano e nel piú recente complesso del Baraccano. Le indagini archeologiche, che hanno raggiunto quasi i 5 m di profondità, hanno permesso di portare alla luce una sequenza straIn alto: mappa dello sviluppo topografico di Bologna tra l’epoca tardo-antica e il XVI sec. A sinistra: fotoelaborazione che mostra l’inquadramento topografico dell’area dello scavo di via Orfeo. Nella pagina accanto: riassunto notarile dell’acquisto del terreno del cimitero. 8 agosto 1393. Bologna, Archivio di Stato.
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tigrafica che registra una frequentazione dell’area dall’età moderna fino all’età preistorica. In questo vasto panorama cronologico risulta di particolare interesse la fase bassomedievale, caratterizzata dalla scoperta della piú vasta area cimiteriale finora indagata a Bologna, con circa 400 sepolture individuate.
UNA PRIMA (ERRATA) IDENTIFICAZIONE L’area di scavo si inserisce nella fascia di terreno compresa tra la seconda e la terza cerchia di mura, quest’ultima terminata nel tardo Trecento, in una zona che, dal punto di vista insediativo, risulta caratterizzata da destinazioni d’uso diversificate. Pur delineandosi una connotazione prevalentemente abitativa, che si articola lungo i principali assi viari – come nel caso della via Emilia o delle sue diramazioni –, nelle aree lasciate libere dalle abitazioni, si registrano gli inserimenti di istituti ecclesiastici e di attività artigianali. Una situazione analoga si verifica anche nel settore piú prossimo all’area indagata in via Orfeo e dove, fin dal XIII secolo, risulta molto evidente la presenza di istituti religiosi che diventano poli aggregatori di insediamenti stabili e organizzati. Tra questi si riconoscono le pertinenze di S. Pietro Martire e S. Giuliano (XIII secolo), di S. Huomobuono (XIV-XV secolo), delle Putte del Baraccano e della Beata Vergine del Baraccano (XV secolo). Durante le operazioni di scavo, l’area cimiteriale era stata erroneamente associata proprio a uno di questi complessi ecclesiastici, il vicino monastero di S. Pietro Martire, e interpretata come cimitero cristiano medievale. La registrazione di alcuni elementi e caratteristiche difficilmente assimilabili ai coevi cimiteri cristiani noti, l’approfondimento delle ricerche e lo studio delle fonti d’archivio hanno
UN PROGETTO INTERDISCIPLINARE Lo studio del cimitero ebraico di Bologna permette di addentrarsi in una fase complessa e drammatica della storia della città tra Medioevo e Rinascimento, dapprima con approccio archeologico, ma affrontando le fasi immediatamente successive a quelle dello scavo sul campo, adottando un processo continuo di confronto e di mediazione culturale condotto con rispetto ed equilibrio tra archeologi, antropologi ed esperti della tradizione religiosa ebraica. L’accurato lavoro di squadra tra Soprintendenza, Università e Comunità Ebraica di Bologna riservato, per quanto è stato possibile, alla documentazione e all’interpretazione delle testimonianze relative alla componente ebraica della
popolazione di Bologna tra la fine del XIV e il XVI secolo, si pone a garanzia e stimolo per ulteriori sviluppi di ricerca, con l’auspicio dell’innesto di tale studio in un progetto interdisciplinare, che favorisca dialogo e confronto su questi temi e i nuovi dati in una cornice internazionale. Il progetto di ricerca sul cimitero ebraico ha aperto la strada a un processo di conoscenza piú sistematica e di conseguente maturazione su periodi e aspetti della storia di Bologna, delle tradizioni e delle abitudini di vita dei suoi abitanti, che offre abbondante materia di riflessione per individuare modalità di restituzione della memoria e di valorizzazione di tale patrimonio culturale con l’impegno a sperimentarne l’efficacia. Cristina Ambrosini
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
poi suggerito di identificare il sepolcreto con quell’«Orto degli Ebrei» piú volte citato dalle fonti. Lo studio delle fonti archivistiche e storiche è stato determinante nella conduzione delle ricerche, perché i casi di cimiteri ebraici medievali scavati e pubblicati sono molto rari, dunque i confronti archeologici sono esigui.
di York –, in Francia e in Spagna, dove negli ultimi anni si è andato costituendo un vero e proprio filone di studi, a seguito di alcune efficaci ricerche condotte a Ennazat, Chateauroux,Toulouse,Toledo,Tarrega, Barcellona. La documentazione disponibile per i casi francesi e spagnoli risulta di particolare interesse per lo studio del cimitero bolognese, poiché gli eventi drammatici legati alle cacciate subite nei UN NUOVO due paesi nel XV secolo incremenFILONE DI STUDI I pochi contesti indagati si concen- tarono un flusso di migrazioni verso trano, soprattutto, in Inghilterra – l’Europa meridionale che portò con il caso eccezionale del cimitero molti Ebrei fuoriusciti da Francia e a r c h e o 35
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UN PATRIMONIO SENSIBILE Dal cimitero di via Orfeo di Bologna si trae una storia in cui è incisa una catena di eventi distruttivi, una vera e propria damnatio memoriae, che ha tentato di cancellare ogni traccia della presenza ebraica in città, ma che, come dimostrano i documenti relativi alla storia della città, persiste e che fa ripensare agli spazi come luoghi. Queste manifestazioni di persistenza sono incisivi segni nello spazio cittadino, che contribuiscono a configurare il processo della restituzione della memoria non solo ai fini della comunità ebraica, ma complessivamente della città. Nel processo di elaborazione di un nuovo codice di trasmissione della memoria del cimitero, uno degli aspetti piú innovativi della ricerca ha riguardato le modalità di restituzione dei resti umani alla Comunità Ebraica di Bologna. Lo studio critico sulle norme e sul valore dei resti umani è ancora embrionale in Italia e aver deciso metodologicamente di cogliere il valore delle testimonianze-resti-umani, da una parte come patrimonio culturale in generale e dall’altra come patrimonio sensibile, rende quello di via Orfeo uno dei primi casi italiani di riflessione interdisciplinare applicata sul campo dall’origine. Quando provenienti da contesti di scavo, la prassi vuole che i resti umani vengano studiati in laboratorio dagli antropologi fisici e, in alcune circostanze, diventino parte delle collezioni scheletriche ed eventualmente esposti nei musei scientifici. In questo caso la prassi è stata rimodulata. La fattiva collaborazione tra Soprintendenza, Università di Bologna e Comunità Ebraica ha aperto la strada a un nuovo e complessivo ragionamento sul metodo di ricerca e sulla negoziazione, individuando la restituzione piú che come finalità, quale sintesi di un percorso condiviso e riflettuto. Valentina Rizzo
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Spagna a ritirarsi in Italia, unendosi alle compagini ebraiche già presenti e attive nella Penisola. Molte sono le fonti documentarie che riferiscono dell’esistenza di quello che viene citato come Cimitero degli Ebrei o Orto degli Ebrei, sempre posto in relazione al monastero di S. Pietro Martire e a via Orfeo, precedentemente nota nella cartografia storica come via di San Pietro Martire. Le fonti archivistiche e storiche evidenziano il legame della zona di via Orfeo e, piú in generale, del quadrante urbano gravitante sulla basilica di S. Stefano con la componente ebraica della popolazione di Bologna fin dal XIV secolo. Una comunità strutturata, in questa fase, ancora non è istituita ed è, dunque, piú corretto il riferimento a una componente o gruppo in relazione agli Ebrei piú o meno stabilmente resiIn alto: il bando di denti e attivi in città. Oltre a quanto riportato dall’Epistoespulsione degli Ebrei da Bologna, la di sant’Ambrogio del IV secolo emanato nel 1593. in riferimento alla seIl bando recepiva poltura dei martiri Vitale e Agricola in Iula volontà espressa da papa deorum solo, la presenClemente VIII con za ebraica a Bologna è attestata dal XIV la bolla Caeca et secolo ed è legata ad obdurata. attività economiche Nella pagina e commerciali quali i accanto: le banchi di prestito, sepolture l’esercizio della procomprese nel fessione medica, il settore commercio di stoffe occidentale del e spezie. cimitero ebraico La stabilizzazione di via Orfeo. della presenza e A destra: anello della partecipain bronzo zione attiva alla decorato con il vita economica e motivo della sociale della città, dextrarum rafforzata dall’eiunctio, che quilibrio costruito rappresenta con il potere politisimbolicamente co bolognese, fino l’unione nel anche ai primi dematrimonio. cenni del governo dello Stato Pontificio,
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crearono le condizioni perché BoIn alto: strutture logna divenisse uno dei principali murarie nella centri dell’ebraismo italiano. Dal zona occidentale XV secolo la presenza ebraica a del cimitero. Bologna sarà, dunque, fortemente A destra: basi in caratterizzata dalle attività di immuratura per le portanti intellettuali, tra cui spicca lapidi funerarie. Ovadia Sforno, esegeta biblico, Nella pagina medico e filosofo, da una floridis- accanto: la lapide sima e innovativa produzione tipodi Yoav Da Rieti, grafica e da una scuola di studi Ebreo bolognese ebraici di notevole rilievo, che pormorto nel 1547. terà all’istituzione, presso lo Studio Bologna, Museo bolognese, dell’insegnamento di Civico Medievale. lecturas ad literas ebraicas fin dalla metà del XV secolo.
ELIA E QUELLA «TERRA ORTIVA E ALBERATA»... Le fonti archivistiche restituiscono i due riferimenti cronologici che indicano la data di impianto e quella della drammatica conclusione del cimitero. L’Archivio di Stato 38 a r c h e o
di Bologna conserva un riassunto notarile, datato 8 agosto 1393, che riporta le informazioni relative alla compravendita di un terreno riconosciuto come quello dove verrà poi istituito il cimitero. Un «Elia ebreo» della famiglia dei Di Orvieto, residente della città di Bologna, acquista un appezzamento di «terra ortiva e alberata», in contracta Sancti Petri Martiris, per lasciarlo in uso ai correligionari affinché sia utilizzata come luogo di sepoltura. La dismissione del cimitero si inserisce invece nella fase di inasprimento dei rapporti tra Chiesa di Roma ed Ebrei della Penisola che, nel corso del XVI secolo, vedrà prima l’istituzione dei ghetti e le prime pesanti restrizioni nel 1555, con la bolla di papa Paolo IV Cum nimis absurdum,
morie, anche scolpite nel marmo». A seguito di tale intervento pontificio, le suore conserveranno a lungo il terreno dandolo in locazione e registrandone i ricavi con la dicitura di «Orto degli Ebrei» almeno IL PAPA AUTORIZZA fino al XVIII secolo inoltrato, coLA DISTRUZIONE Il 29 novembre 1569 tali persecu- me si legge nei Bilanci del monazioni si scagliano contro Bologna, stero di S. Pietro Martire. dove si registra un intervento di- 1393-1569: 176 anni nei quali soretto di Pio V, il quale, con il Breve no racchiuse alcune delle pagine n. 26, concede la proprietà del ter- tanto culturalmente entusiasmanti reno del cimitero alle monache di quanto politicamente drammatiS. Pietro Martire e le autorizza a che della storia di Bologna tra Me«disseppellire e far trasportare, dove dioevo e Rinascimento. loro piaccia, i cadaveri, le ossa e gli Lo scavo archeologico del cimitero avanzi dei morti; di demolire o trasmu- di via Orfeo ha portato alla luce tare in altra forma i sepolcri costruiti 414 fosse sepolcrali, che non rapdagli ebrei, anche per persone viventi; presentano la totalità del cimitero, di togliere affatto, oppure raschiare e cancellare le iscrizioni e altre me-
poi la prima cacciata dai territori dello Stato Pontificio, a eccezione di Roma e Ancona, nel 1569 con la bolla Hebraeorum gens di papa Pio V.
IL PASSAGGIO ALLA VITA CELESTE Gli Ebrei chiamano il cimitero Bet ha Chajjm, «Casa della vita», o, raramente, Bet ha Kevarot, «Casa dei sepolcri», oppure Bet mo’ed lekhol chai, «Casa di incontro per tutti i viventi». Nella maggior parte dei casi, nella tradizione ebraica la parola morte viene omessa o paradossalmente sostituita dalla parola vita; questo avviene soprattutto nel testo biblico quasi come forma scaramantica. Si preferisce parlare della morte come momento di passaggio dalla vita «terrena» a quella «celeste». La Torà stessa, è chiamata Torat Chaim, la «Torà della vita», poiché in essa il valore della vita viene esaltato, cosí come viene esaltata la funzione dell’Uomo sulla Terra in mezzo al resto del Creato. Il cimitero è considerato una fra le testimonianze piú valide di una Comunità ebraica: anche nel caso in cui – Dio non voglia – una Comunità Ebraica scompaia da una città, esso rimanendo nell’eternità sarà la testimonianza indissolubile dell’antica presenza ebraica locale. Sin dall’antichità gli Ebrei si sono sempre adoperati per possedere un terreno nel quale seppellire i propri cari appartenenti all’ebraismo. L’esempio piú lampante e ancora attuale per la sua modernità, lo troviamo nel libro della Genesi, al capitolo 23, dove si narra che Abramo al momento della morte di sua moglie Sara, si adopera per acquistare un appezzamento di terra per poterla seppellire. Alberto Sermoneta
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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poiché l’area funeraria doveva estendersi ben oltre i limiti del cantiere. Il sepolcreto è caratterizzato da una coerente organizzazione degli spazi, con le sepolture disposte ordinatamente su file parallele con andamento nord-sud e una fascia di rispetto tra le sepolture che varia tra i 20 e i 60 cm. Il
rispetto dell’individualità e della integrità della sepoltura è una delle caratteristiche determinanti delle pratiche di sepoltura nella tradizione religiosa ebraica, elemento imprescindibile per garantire il rispetto delle norme e della sacralità dello spazio dedicato al defunto. Le tombe sono tutte orientate ovestOggetti in oro Oggetti in argento Oggetti in bronzo
XIV-XV SECOLO XV SECOLO XVI SECOLO
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est con gli inumati deposti con il capo a ovest e le fosse sono poste a profondità diverse, comprese tra i 10 e gli 80 cm. La regolare disposizione topografica, l’assenza di sovrapposizioni e interferenze tra le tombe, l’area di rispetto garantita a ogni sepoltura costituiscono alcuni degli elementi In alto, sulle due pagine: anello in oro che reca la citazione evangelica «os non cominuetis ex eo» («non ne spezzerete alcun osso»; Giovanni 18,36) e sviluppo dell’iscrizione. Sulle due pagine, in basso: planimetria generale dello scavo con la distribuzione dei materiali e dei gioielli nelle sepolture.
di maggiore differenziazione rispetto ai coevi cimiteri di rito cristiano. Gli inumati sono sepolti prevalentemente in posizione di decubito dorsale e in quasi tutte le tombe sono stati recuperati frammenti di chiodi in ferro, che indicano la presenza di casse di legno.
AVVOLTI NEL SUDARIO Gli scheletri presentano molto frequentemente le braccia strette al torace, gli avambracci che convergono sul bacino e le spalle con tracce di compressione, caratteristiche ascrivibili alla prassi di avvolgere l’inumato in un sudario, un telo per fasciarne il corpo nudo. Tale pratica è confermata anche dall’assenza di oggetti riferibili a Nella pagina accanto, al centro, a destra: anello in oro a fascia con iscrizione «AVE MARIA».
elementi di abbigliamento, che vengono invece rinvenuti nei cimiteri cristiani perché i defunti venivano seppelliti vestiti. Nell’articolazione topografica del sepolcreto si riconoscono una maggiore regolarità e un piú rigido ordine nel settore occidentale, mentre nella zona orientale, le sepolture hanno dimensioni medie superiori e sono distribuite in modo meno sistematico. Il settore orientale sembrerebbe quindi rappresentare una zona di ampliamento del cimitero, successivo al primo impianto. Tale intervento potrebbe essere stato realizzato a seguito della donazione di 150 ducati, citata nel testamento del banchiere Manuele di Musetto da Modena, attivo in città nella metà
del XV secolo, che era destinata all’acquisto di un terreno, da acquistare nei pressi del cimitero già in uso, per ospitare altre sepolture di Ebrei bolognesi. Nel settore occidentale del cimitero si concentrano i resti di alcune strutture murarie, tutte con andamento nord-sud, che risultano costruite nel rispetto dell’orientamento delle vicine sepolture e poste a monte del capo del defunto, con la funzione di dare rilievo alle tombe a cui sono associate, probabilmente appartenenti a personaggi di rilievo all’interno del gruppo ebraico che aveva in uso il cimitero. Tali strutture, dunque, possono essere interpretate come le basi in muratura dove venivano alloggiate le
UN CAMPIONE ALTAMENTE RAPPRESENTATIVO Lo studio antropologico degli inumati del cimitero ebraico medievale di via Orfeo è iniziato nel 2014 presso il Laboratorio di Antropologia Fisica dell’Università di Bologna. Sebbene non ancora concluso, lo studio dei resti umani ha consentito di ricostruire le caratteristiche fisiche e demografiche del campione rinvenuto e di ottenere informazioni su dieta, stato di salute e stile di vita della popolazione ebraica bolognese tra il XIV e il XVI secolo. Date le dimensioni del cimitero e il numero complessivo di inumati, 400 circa, emerge che esso doveva rappresentare l’area funeraria dell’intera comunità ebraica medievale bolognese. Sono stati rinvenuti scheletri di individui di tutte le fasce di età e di entrambi i sessi. Gli individui in
crescita (categoria di quelli di età inferiore a 18 anni circa) sono in prevalenza neonati e bambini, entro i 12 anni di età e rappresentano circa il 20% della popolazione inumata. Tra gli adulti, la fascia piú rappresentata è quella degli individui compresi tra 36 e 55 anni. Le elevate frequenze di carie e di tartaro, che colpiscono rispettivamente circa l’80% del campione, sono indicative di dieta mista, caratterizzata sia dalla presenza di zuccheri sia da un elevato contenuto proteico. I dati ottenuti consentono di inquadrare la popolazione inumata in via Orfeo nell’ambito dello stile di vita e dello stato di salute delle popolazioni medievali del territorio italiano. Maria Giovanna Belcastro
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In alto: orecchino in lega d’argento a tre globetti. Nella pagina accanto, in alto: ricostruzione virtuale della collocazione delle lapidi (oggi conservate nel Museo Civico Medievale di Bologna) nel cimitero all’epoca in cui era ancora in uso. Nella pagina accanto, in basso: ditale tronco-conico in lega di rame con bulinatura. In basso: chiave in ferro.
lapidi che fungevano da segnacolo per le relative tombe. Purtroppo gli eventi storici che hanno condannato il cimitero di via Orfeo alla parziale distruzione, non permettono di avanzare ipotesi circa l’identità dei defunti sepolti. È però impossibile nascondere la tentazione di interpretare queste strutture come le basi delle quattro splendide lapidi ebraiche conservate nel Museo Civico Medievale di Bologna, indicate dalle fonti di archivio come provenienti dal cimitero ebraico di via Orfeo. L’indicazione del Breve del 1569 di vendere le lapidi del cimitero ebraico sembra essere confermata dalla splendida iscrizione del 42 a r c h e o
banchiere bolognese Rinaldo De Duglioli, incisa nel 1571 su una lastra che, sull’altra faccia presenta l’iscrizione funeraria di Yoav di Rieti, ebreo bolognese morto nel 1547, come ricostruito dallo studio di Giuseppe Maino. Nell’Eletta dei Monumenti delle Lapidi si scrive «Come essi monumenti (…) è a supporre che in antico ornassero il Cimitero degli Ebrei in quella parte di terreno, data poi alle monache di San Pietro Martire appresso il Baracano, e trasportati all’Università come luogo piú acconcio in quel tempo che distrutta la loro necropoli gli fu forza di abbandonare Bologna». E ancora «Allora fu che i cippi sepolcrali degli Ebrei vennero sparsi per la città, e dati a chi li comprasse come pezzi di marmo e nulla piú».
SCONCERTO E RIFLESSIONI Ritenendo plausibile l’ipotesi dell’appartenenza delle lapidi a personaggi di spicco del gruppo ebraico bolognese, restano aperte le domande su perché si siano conservate queste iscrizioni, come sia stato possibile ricoverarle e occultarle affinché si conservassero e, anche, chi può aver provveduto a tale operazione e quali rapporti doveva avere con il governo cittadino per avere avuto la concessione di procedere al recupero e all’occultamento ai fini della loro conservazione. Un ulteriore elemento rende il contesto funerario bolognese peculiare rispetto ad altri noti: circa la metà delle sepolture risulta danneggiata a causa di evidenti interventi antropici. L’alta percentuale di tombe con segni di manomissioni e la loro concentrazione in alcune zone dell’area cimiteriale indicano un intervento volontario e programmato, da porre in
relazione all’autorizzazione alla distruzione delle sepolture al fine della cancellazione della memoria degli Ebrei bolognesi contenuta nel Breve papale del 1569. Le manomissioni individuate si concentrano in particolare nella parte superiore degli scheletri, nelle zone del torace e del bacino. Lo scavo archeologico ha restituito numerosi oggetti di ornamento personale recuperati nelle tombe, oggetti preziosi non trafugati, perché l’obiettivo delle manomissioni era, probabilmente, la volontà di profanare le sepolture e cancellare la memoria degli Ebrei bolognesi. Vedere materializzate, in modo cosí nitido, la violenza e la sofferenza imposta a un popolo ha suscitato nel corso dello scavo, e poi dello studio, grande sconcerto e ha
generato profonde riflessioni sulle implicazioni etiche del nostro operato e sul valore culturale e politico dei nostri studi; riflessioni che hanno reso necessario un tempo piuttosto lungo per sedimentare il processo di diffusione della notizia della scoperta.
ANELLI E FEDI NUZIALI Durante lo scavo archeologico del cimitero di via Orfeo sono stati recuperati numerosi oggetti deposti insieme ai defunti, sia in funzione personale, sia simbolica. Tra i materiali rinvenuti si segnalano soprattutto anelli d’oro. Gli anelli a castone, piú o meno pronunciato, presentano diversi tipi di pietre, tra le quali la piú utilizzata è il granato rosso, tagliato à cabochon, a ta-
vola piana o con sfaccettature. Tre sono le fedi nuziali decorate con il motivo della dextrarum iunctio, che rappresenta simbolicamente l’unione nel matrimonio. Alcuni anelli d’oro presentano decorazioni che rimandano a simboli riferibili alla tradizione ebraica, tra cui spicca l’anello con zaffiro ai cui lati sono
rappresentati due candelabri a sette bracci. Di particolare interesse sono alcuni orecchini in bronzo, a cerchio semplice o a cerchio con tre globetti cavi, dei quali sono noti altri esemplari provenienti da contesti funerari ebraici. Lo scavo ha poi restituito quattro chiavi in ferro, di dimensioni tali da determinarne una interpretazione rituale e simbolica, quattro ditali e un paio di forbici in ferro, che si riferivano probabilmente al lavoro svolto in vita dalle defunte. Tra gli oggetti recuperati nelle sepolture si segnalano alcuni oggetti che riportano incisioni che rimandano alla tradizione sia biblica sia cristiana. Su un anello d’oro si legge «os non cominuetis ex eo» («non ne spezzerete alcun osso»), citazione del a r c h e o 43
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STORIA DI UNA COMUNITÀ Visitabile fino al 6 gennaio 2020, la mostra «La Casa della Vita. Ori e Storie intorno all’antico cimitero ebraico di Bologna» è curata e organizzata dal Museo Ebraico di Bologna, dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio della Città metropolitana di Bologna e con la collaborazione della Comunità ebraica di Bologna. «La Casa della Vita» o Bet ha Chajjm è uno degli eufemismi con cui gli
Ebrei tradizionalmente indicano il cimitero (Bet ha Kevarot). L’esposizione permette di ammirare gli straordinari reperti provenienti dal Cimitero ebraico medievale di Bologna: anelli d’oro, pietre colorate, oggetti in bronzo. Nel percorso si racconta la storia della comunità ebraica cittadina nei secoli del suo massimo splendore, tra Medioevo e In alto: anelli in oro con iscrizione «AMORE» (in alto) e decorazione fitomorfa. A sinistra: vetrina che riunisce materiali d’uso comune rinvenuti nelle tombe. In basso: documenti esposti nella mostra.
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Rinascimento, quando a Bologna era stata già istituita una cattedra di Ebraismo, erano attivi intellettuali, medici, tipografi e mercanti ebrei. Il racconto si snoda dalla fine del XIV fino al XVI secolo, quando la storia della Bologna ebraica si interrompe drasticamente con l’istituzione del ghetto nel 1555, la distruzione del Cimitero nel 1569 e la definitiva cacciata degli Ebrei dallo Stato Pontificio nel 1593. Vincenza Maugeri e Caterina Quareni
Vangelo di Giovanni 18,36, che riprende a sua volta le Prescrizioni sulla Pasqua contenute in Esodo 12,46 e in Numeri 9,12. E su una fede d’oro, come interpretato da Sabina Magrini, è riportata l’iscrizione «Christe si oportuerit me mori non te negabo» («Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò»), che rimanda all’esclamazione dell’apostolo Pietro prima di recarsi al Getsemani la sera del Giovedí Santo. Gli elementi paleografici indicano per l’anello una produzione francese della fine del XV secolo. Un terzo anello d’oro a fascia riporta l’incisione «Ave Maria». La presenza di tali elementi riconducibili alle tradizioni religiose cristiane in un contesto ebraico permette di avanzare diverse ipotesi: gli anelli sarebbero appartenuti a componenti femminili di matrimoni misti, tra Ebrei e cristiani; i preziosi potrebbero essere stati lasciati in pegno per un prestito e mai riscattati presso i banchi feneratizi gestiti dai membri della stessa comunità e, in seguito, utilizzati come semplici oggetti di ornamento personale da non interpretarsi come strumenti di identificazione religiosa.
NESSUNA TRACCIA DI RIUTILIZZAZIONE Nonostante il passaggio di proprietà del terreno del cimitero alle monache del monastero di S. Pietro Martire, le fonti ne attestano un uso esclusivamente a scopi ortivi e non sono registrate notizie di sepolture delle religiose all’interno dello spazio cimiteriale ebraico, anche dopo la loro cacciata dalla città. I rapporti tra la componente ebraica della popolazione bolognese e la parte cristiana delle città sono sottoposti agli altalenanti indirizzi politici che derivano dalla gestione del governo della città, prima laico poi religioso, e dalle misure imposte, in particolare, per la concessione delle condotte e per il controllo delle attività legate ai banchi ebraici.
La vetrina dedicata alle oreficerie restituite dalle tombe del cimitero di via Orfeo. Spicca, in particolare, la diffusa presenza di anelli in oro.
A seguito della cacciata del 1569, qualche anno dopo, nel 1586, gli Ebrei poterono tornare in città a seguito dell’emanazione della bolla papale di Sisto V Christiana pietas, a cui seguirà la definitiva espulsione nel 1593 con la bolla Caeca et obdurata di papa Clemente VIII, che sancí una cesura storica gravissima nella storia degli Ebrei bolognesi, che poterono tornare a risiedere e ad avere attività in città solo con lo Stato napoleonico. L’individuazione del luogo piú sacro della componente ebraica della popolazione di Bologna in età medievale e rinascimentale, legato alle tristi conseguenze delle persecuzioni subite, ha generato un profondo senso di responsabilità nel diffondere tale notizia e ha imposto ulteriori riflessioni e revisione della documentazione raccolta, consapevoli dell’eco che tale scoperta avrebbe avuto. Tali ricerche non si sarebbero potute condurre senza l’essenziale supporto della Comunità Ebraica e del Rabbino Capo di Bologna, a cui come archeologi dobbiamo molti insegnamenti in merito ai riti e alle pratiche
della tradizione religiosa ebraica. La consapevolezza della rilevanza della scoperta del Cimitero ha determinato l’esigenza di costruire progetti per promuovere la valorizzazione del patrimonio culturale ebraico di Bologna, come elemento costitutivo del patrimonio culturale della città, al fine di contribuire al processo di costruzione di una memoria cittadina attiva e partecipata. Valentina Di Stefano, Renata Curina DOVE E QUANDO «La Casa della Vita. Ori e Storie intorno all’antico cimitero ebraico di Bologna» Bologna, Museo Ebraico fino al 6 gennaio 2020 Orario do-gio, 10,00-17,30; ve, 10,00-15,30; sabato e festività ebraiche chiuso Info: tel. 051 2911280; e-mail: info@museoebraicobo.it; http://www.museoebraicobo.it a r c h e o 45
VULCI PRIMA DI VULCI IL GRANDE INSEDIAMENTO SVILUPPATOSI NELLA VALLE DEL FIUME FIORA FU UNO DEI MAGGIORI CENTRI DELL’ETRURIA MERIDIONALE. MA GIÀ IN EPOCA PROTOSTORICA SI POSSONO, OGGI, INDIVIDUARE I PRIMI SEGNI DELLA SUCCESSIVA DIMENSIONE URBANA
I
processi di formazione delle prime società urbane dell’Italia tirrenica sono un tema cruciale delle ricerche archeologiche protostoriche. Secondo una linea interpretativa che si contrappone alla tesi
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di Carlo Casi e Patrizia Petitti
centrata sul sinecismo di piccoli villaggi distinti e indipendenti, la formazione dei centri protourbani conclude il processo evolutivo delle comunità attestate tra la fine del II e degli inizi del I millennio a.C.: studi
di carattere territoriale incentrati sull’Etruria meridionale propongono una ricostruzione storica che si sviluppa all’interno di un ciclo unitario compreso tra l’età del Bronzo Medio e la Prima età del Ferro. Si
tratta di un processo complesso in cui le trasformazioni interne alle società hanno un peso determinante rispetto ai rapporti di interazione tra comunità, soprattutto quelli intercorsi con la Grecia e l’Egeo. L’espressione piú immediata di tale processo socio-politico è la radicale ristrutturazione dell’insediamento che produce l’abbandono dei villaggi occupati nel Bronzo Finale e, al contempo, l’occupazione dei grandi pianori destinati a ospitare le città etrusche di Veio, Cerveteri, Tarquinia e Vulci: questo vasto fenomeno, noto come «svolta» protourbana, risale, secondo l’attuale stato della ricerca, ai decenni intorno al 1000 a.C., in un momento quindi anteriore alla colonizzazione greca e ai traffici cosiddetti «precoloniali».
IL POSSESSO DELLE ARMI A partire dall’età del Bronzo Medio le piccole comunità capillarmente distribuite sul territorio tendono a stabilizzarsi e a concentrarsi in siti con caratteristiche naturali di difendibilità e di dominanza, ampiezza dell’area difesa, continuità e intensità di occupazione. Parallelamente, le sepolture indicano l’emergere di un ceto contraddistinto dal possesso di armi e ornamenti di pregio e che probabilmente gestiva le attività economiche dell’intera comunità. Il complesso dei dati suggerisce dunque la formazione di una società gentilizio-clientelare preurbana e questi processi subiscono un’accelerazione durante il Bronzo Recente e, soprattutto, Finale. Il sistema consolidatosi in Etruria meridionale durante l’età del Bronzo Finale collassa nell’ultima fase del periodo, quando, in un arco di tempo non valutabile con precisione, quasi tutti gli insediamenti distribuiti sul territorio sono abbandonati; in aree non lontane dalla valle del Fiora, strutture che sono state interpretate
come sedi di una stabile autorità locale appaiono distrutte da incendi e mai piú ricostruite, suggerendo che l’abbandono di siti che avevano già una lunga storia non sia stato un processo indolore. Come già detto, tale fenomeno di spopolamento è contemporaneo e, probabilmente, condizionato dalla formazione dei grandi centri protourbani del Primo Ferro che suc-
cessivamente si trasformeranno nelle città etrusche di epoca storica; questi siti erano già occupati nel Bronzo Finale, ma i dati archeologici sembrano escludere che si trattasse di preesistenze estranee al fenomeno dell’urbanizzazione e autorizzano a credere che la formazione dei centri protourbani abbia avuto inizio già in una fase avanzata del Bronzo Finale (X secolo a.C).
Salvo diversa indicazione, tutti i reperti riprodotti in questo articolo sono esposti nel Museo Archeologico Nazionale di Vulci.
LA «SVOLTA» PROTOURBANA L’estensione dei pianori occupati durante la «svolta» protourbana sembra documentare l’esigenza di disporre di aree assai ampie, non solo per la pressione demografica prodotta dalla concentrazione della popolazione, ma anche per la necessità di pianificare l’uso del territorio in modo unitario secondo una strutturazione estensiva dell’abitato. Ciò implica il rivolgimento del modo di produzione e dell’organizzazione socio-politica: l’attuale stato della ricerca ipotizza l’esistenza, a partire dal X secolo a.C., di grandi comunità, costituite da una pluralità di nuclei familiari, probabilmente proprietari di appezzamenti di terra. In breve, la progressiva concentrazione delle proprietà terriere porta all’affermazione di forme di accumulazione a carattere familiare. La conseguente gerarchizzazione sociale sembra cogliersi già nella fase iniziale del Primo Ferro a Tarquinia, dove, nella necropoli di Villa Bruschi Falgari, i medesimi ruoli, propri di gruppi di élite, sono riconosciuti ad adulti e bambini, chiara evidenza di forme di ereditarietà del rango; a Vulci, dove purtroppo mancano scavi moderni di necropoli del periodo, risale a un momento centrale della fase iniziale del Primo Ferro la Tomba dei Bronzetti Sardi. Si tratta di un complesso straordinario, che
Nella pagina accanto: ricostruzione di tombe villanoviane a pozzetto e a fossa, nelle quali sono inseriti vasi cinerari di varia foggia (in particolare biconici e urne a capanna). IX-VIII sec. a.C. In basso: urna cineraria biconica in ceramica d’impasto. Cultura villanoviana, IX-VIII sec. a.C.
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SCAVI • VULCI
raccoglie, con un corredo particolarmente ricco e complesso, i resti combusti di una donna e di un infante, una bambina in base alla ripetizione di alcuni oggetti di corredo di particolare valenza rituale (vedi box alle pp. 52-53). Si assiste cioè in questo momento all’inizio del processo che porterà alla nascita delle aristocrazie etrusche.
VULCI E LA VALLE DEL FIORA A Vulci, l’area della città etrusca e delle circostanti necropoli è stata interessata da ricognizioni di superficie dagli anni Settanta del Novecento, ma solo lo scavo condotto nel 2002-2003 nell’area urbana ha raggiunto gli strati di occupazione 50 a r c h e o
piú antichi. Le ricognizioni hanno evidenziato aree di affioramento di materiali ceramici pertinenti all’abitato concentrate nell’unità orografica naturale che comprende il pianoro de La Città, riconosciuto come sede della città storica, e l’adiacente piano di Pozzatella, aree separate da una strozzatura. In particolare, la Pozzatella presenta fitti affioramenti di materiali d’abitato, riferibili soprattutto alla Prima età del Ferro e alle successive età orientalizzante e arcaica: la loro presenza dimostra che il piano de La Città, tradizionalmente ritenuto sede esclusiva dell’insediamento, e il piano di Pozzatella hanno costituito un’area unitaria, la cui estensione è calcolabile in 125 ettari circa. In diversi punti di entrambi i pianori sono stati raccolti frammenti ceramici pertinenti al Bronzo Finale, caratterizzati dalla tipica decorazione detta dagli studiosi «protovillanoviana»; di particolare interesse è inoltre la recente scoperta, lungo tutto il versante nord dell’Acropoli, di una stratigrafia relativa alla frequentazione protostorica dell’area: la sequenza, intaccata dagli agenti atmosferici, ha rivelato notevoli concentrazioni di materiali del Bronzo Finale e del Primo Ferro. Rispetto al tipico insediamento d’altura del Bronzo Finale, l’ampia distribuzione di reperti protovillanoviani costituisce un valido indizio di un abitato molto piú vasto, probabilmente quanto quello della Prima età del Ferro. I rari reperti fittili protovillanoviani di carattere funerario si distribuiscono intorno ai due pianori come accadrà, con un peso statistico decisamente maggiore, nel successivo Primo Ferro; in genere questi materiali provengono da aree poi occupate dalle vaste necropoli storiche e la cui destinazione funeraria inizia quindi già nel Bronzo Finale. Il quadro definito dalle ricerche di superficie è stato confermato dallo
scavo di Porta Ovest condotto nel 2002-2003 dalla Soprintendenza, nell’ambito dell’attività del Parco Naturalistico e Archeologico di Vulci (vedi box a p. 54).
UNO SNODO NEVRALGICO La Porta Ovest è un punto particolarmente vulnerabile del centro urbano, poiché si trova in corrispondenza della strozzatura che collega il piano de La Città con quello di Pozzatella. Questo snodo è protetto dalle imponenti fortificazioni costruite tra la seconda metà del IV e
gli inizi del III secolo a.C., cioè poco prima della conquista romana del 280 a.C. Di grande interesse è lo scavo della porzione settentrionale del terrapieno che si addossa al tratto meridionale delle mura. Il deposito protostorico di Porta Ovest si articola in due fasi distinte: alla piú antica, che documenta una funzione abitativa dell’area, sono riferibili i resti di tre diverse strutture successive, alle quali si può attribuire una funzione abitativa sia per gli elementi architettonici isolati che per le classi di materiale cerami-
Nella pagina accanto, in alto: urne cinerarie a capanna in ceramica d’impasto, fra le quali è esposto l’apice di un elmo fittile configurato a tetto di capanna sostenuto da tre colonne. Età del Ferro. Nella pagina accanto, in basso: urna
cineraria a capanna in bronzo, da Vulci, forse dalla necropoli dell’Osteria. Prima metà dell’VIII sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. In basso: urne cinerarie biconiche con coperchio. Cultura villanoviana.
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SCAVI • VULCI
co associato, per esempio fornelli e rocchetti. Alla base della stratigrafia è stato individuato un manufatto definito da canalette rettilinee e buchi di palo scavati nel banco roccioso: i materiali archeologici indicano una datazione al Bronzo Finale evoluto (X secolo a.C.). A questa struttura se ne sovrappone una successiva documentata da una canaletta, che probabilmente definiva un manufatto a pianta quadrilatera e che si può collocare in un momento piuttosto antico della fase iniziale del Primo Ferro (IX secolo a.C.). Al Primo Ferro iniziale è assegnabile anche lo strato che copre la seconda struttura e costituisce il pavimento della terza, documentata da un focolare. Questa terza struttura abitativa, che chiude la fase piú anti-
Laghetto del Pellicone
ca della sequenza di Porta Ovest, è di difficile datazione per la mancanza di materiali a essa sicuramente associati: sembra dunque probabile che il manufatto sia stato abbandonato intenzionalmente e che il suo alzato si sia disfatto prima che la zona cambiasse destinazione d’uso.
NUOVE FUNZIONI La fase piú recente del deposito protostorico di Porta Ovest presenta infatti una successione di livelli di accumulo di formazione secondaria probabilmente pertinenti a un apprestamento difensivo. Questo nuovo uso della zona sembra assegnabile a un momento molto avanzato o addirittura conclusivo del Primo Ferro (seconda metà-fine dell’VIII secolo a.C.). Tale situazione sembra restare a lungo inalterata: la sequenza stratigrafica registra mutamenti solo in epoca tardo-arcaica, a cui sono riconducibili alcuni strati che mostrano andamento coerente con quelli piú antichi. Allo stato attuale delle ricerche è quindi possibile ipotizzare, anche per Vulci, un vasto abitato stabile già durante l’ultima fase del Bronzo Finale, nonostante i caratteri organizzativi siano ancora da definire; inoltre lo sca-
Ingresso al Parco Centro Visite
La Città Porta Ovest Cinta muraria Pozzatella
Necropoli orientale
52 a r c h e o
Nella pagina accanto: l’urna cineraria e il corredo della Tomba dei Bronzetti Sardi. Seconda metà del IX sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. A sinistra: pianta a volo d’uccello del Parco Archeologico e Naturalistico di Vulci.
LA TOMBA DEI BRONZETTI SARDI: UN CASO UNICO A oltre mezzo secolo dalla scoperta (1958) nella necropoli di Cavalupo, sulla riva sinistra del Fiora, la Tomba dei Bronzetti Sardi continua a costituire un punto di riferimento per gli studi sulla fase iniziale della Prima età del Ferro di Vulci (1020/960-880/850 a.C. circa), come anche sui coevi rituali funerari relativi a sepolture di personaggi femminili di altissima condizione sociale. Il recente riesame di questo famoso contesto, esposto nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, ha permesso di ricomporre il corredo funerario e di evidenziare, attraverso le analisi antropologiche, la presenza nell’urna di due individui, cremati e deposti simultaneamente: un’adulta di età compresa tra i 25 e 35 anni e un individuo infantile di 8-10 anni, forse figlia della donna. Se il ricorso al rito dell’incinerazione risulta pienamente aderente alla norma che impone, nella stessa epoca, la cremazione dei defunti e il seppellimento dei resti entro un ossuario, piú di un elemento conferisce al complesso funerario il suo carattere di unicità. La particolarità della struttura tombale, costituita da una grande custodia litica cilindro-ovoide che, assai rara a Vulci, utilizza una roccia non locale, il tufo; la singolarità dell’ossuario e della scodella-coperchio in impasto, insolitamente adorni di un’elaborata decorazione geometrica ottenuta nella non comune tecnica delle lamelle metalliche applicate, in cui il reciproco richiamo dei motivi crea un insieme omogeneo, realizzato
appositamente per la sepoltura. Ma, soprattutto, a rendere unica questa tomba è l’eccezionalità qualitativa e quantitativa del corredo, che annovera, oltre agli utensili tipicamente femminili per la filatura, numerosi ornamenti in bronzo (fra cui 15 fibule e diverse catenelle, bottoncini e anellini), quasi tutti di produzione locale, ma anche pregiati oggetti in oro (due coppie di fermatrecce, 5 bottoni, 6 elementi cilindrici di collana e 5 anelli) e pasta vitrea (elementi di collana), importati da altre regioni, al pari del gruppo di bronzi di manifattura sarda. Attestata dalla stessa temperatura di combustione che si riscontra sui resti degli individui cremati insieme, la deposizione simultanea nella medesima urna di uno o piú adulti e di un infante è documentata dalle sole analisi in numerose necropoli tirreniche, ed è stata spesso messa in relazione, al pari dei seppellimenti di coppia, con il sacrificio di uno dei defunti, forse di condizione sociale subordinata, sebbene oggi prevalga l’ipotesi di morti naturali (di consanguinei?) succedutesi in un lasso di tempo compatibile con la deposizione simultanea. La duplice deposizione spiega ora sia l’iterazione di oggetti di solito attestati singolarmente quali la fusaiola di impasto e la rotella di fuso in bronzo, quanto il numero eccezionale delle fibule, delle quali i tre esemplari di dimensioni ridotte che non formano coppia sono forse riferibili alla defunta piú giovane, secondo uno schema noto per gli individui che non hanno ancora raggiunto la classe d’età per contrarre matrimonio. Databili entro l’età del Bronzo Finale e destinati in madrepatria a un uso esclusivamente cultuale, i bronzetti – dei quali quello a figura
umana costituisce tuttora un’attestazione unica nei contesti funerari dell’Italia continentale – oltre ad assumere una valenza di esotici beni di prestigio, vengono a connotarsi come veri e propri simboli di rango e concorrono a sottolineare la condizione sociale elevata delle titolari della tomba, ulteriormente accreditata da alcuni aspetti del rituale funerario. Le catenelle, i bottoncini e gli anellini di bronzo rinvenuti nella custodia all’esterno del cinerario documentano, infatti, la rarissima pratica della vestizione dell’ossuario, per la quale l’urna viene deposta dopo essere stata avvolta da un tessuto, spesso adorno di applicazioni metalliche, mentre la collana di bronzo posta intorno al collo del cinerario, enfaticamente collocato su un piedistallo mobile pure di tufo, connota simbolicamente il vaso di una valenza antropomorfa. I confronti per il repertorio
ornamentale del vaso cinerario e per la tipologia delle fibule piú antiche, fanno guardare verso quel comparto della Campania meridionale caratterizzato da precoci rapporti con Tarquinia e Vulci e a sua volta aperto agli scambi con la Sardegna, come documenta, fra l’altro, la presenza di una cesta di bronzo analoga a quella del corredo vulcente rinvenuta in una tomba maschile di Pontecagnano della fase IB finale. E i bronzi di manifattura sarda, verosimilmente conservati per piú generazioni, sembrano collegati da un tenue filo che potrebbe alludere al ruolo rivestito dalla maggiore delle due defunte, forse connesso alla sfera magico-religiosa. In linea con tale ipotesi appare lo scettro con i sonagli, con il quale peraltro ben si coniugherebbero la figuretta, che forse ritrae un sacerdote, e la cesta miniaturistica, che potrebbe aver contenuto preziose sostanze aromatiche.
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SCAVI • VULCI
vo di Porta Ovest evidenzia la continuità di occupazione dalla fase finale del Bronzo Finale al Primo Ferro: si può dunque ragionevolmente collocare le origini del centro protourbano già durante l’ultima fase del Bronzo Finale.
COINCIDENZE SIGNIFICATIVE Le aree di affioramento dei materiali villanoviani pertinenti all’abitato del Primo Ferro sono distribuiti sia sul pianoro de La Città che su quello di Pozzatella. Come già osservato, l’estensione totale dei due pianori è di 125 ettari circa; questa misura riconduce l’ampiezza dell’abitato villanoviano allo stesso campo di variabilità degli altri centri protourbani della fascia costiera: ciò conferma l’esigenza di disporre di un’estensione superiore ai 91 ettari circa del solo pianoro de La Città. Durante le ricognizioni, sono state esaminare in dettaglio una zona ai margini orientali di Pozzatella e
In alto: foto aerea del Castello e del Ponte della Badia di Vulci. Nella pagina accanto, in alto: vasellame di varie forme e produzioni: vi sono manufatti in bucchero, la tipica ceramica nera degli Etruschi, vasi dipinti etrusco-corinzi e grandi contenitori in impasto rosso-bruno. 54 a r c h e o
IL MUSEO E IL PARCO Museo Archeologico Nazionale di Vulci. La raccolta ha sede nel Castello della Badia, un suggestivo edificio che sorge a controllo del ponte omonimo, una struttura di impianto etrusco che raggiunge un’altezza di oltre 30 m dall’alveo del fiume. Dal 2012 il pianterreno del museo ospita mostre temporanee, mentre nelle sale al piano superiore l’esposizione permanente consente di cogliere l’evoluzione artistica delle diverse produzioni ceramiche in uso a Vulci, in un arco cronologico che va dai secoli di massima fioritura dell’antica metropoli (VIII-VII a.C.) alla conquista da parte di Roma (280 a.C.). Parco Archeologico e Naturalistico. Nel territorio del Parco ricadono i resti dell’antica città etrusco-romana. Gli scavi archeologici hanno riportato alla luce tratti di mura di cinta e alcuni monumentali ingressi alla città, tra i quali Porta Ovest, difesa da un avancorpo triangolare in blocchi di tufo rosso. Lungo il decumano massimo si affacciano edifici pubblici, come il Tempio Grande, e privati, come la Domus del Criptoportico, di epoca romana, della quale si ammirano i raffinati ambienti del pianterreno e i sotterranei. Nella vallata lambita dal Fiora sono visibili i resti di imponenti strutture murarie, poste un tempo ad arginare le sponde del fiume e a difesa della città. I diversi itinerari di visita conducono poi i visitatori ad ammirare il suggestivo Laghetto del Pellicone. Nella Necropoli Orientale è possibile visitare, oltre al Tumulo della Cuccumella e alla Tomba delle Iscrizioni, anche la celebre Tomba François, aperta al pubblico nel corso delle visite guidate in programma nel calendario degli eventi del parco.
Nella pagina accanto, in basso: il Castello della Badia, che dal 1975 è sede del Museo Archeologico Nazionale di Vulci. La magnifica rocca si presenta oggi nelle forme assunte nel XII sec. e per effetto degli ampliamenti operati all’inizio del Cinquecento dai Farnese.
un’altra area all’estremità meridionale de La Città. In entrambe le aree campione gli affioramenti di reperti villanoviani presentano estensione modesta, tra i 300 e i 1000 mq circa, le concentrazioni di materiali sono fitte, distribuite a distanze piuttosto ravvicinate; materiali villanoviani sono stati raccolti anche in altri punti dei due pianori ma non intorno alla città, dove le ricognizioni hanno evidenziato l’assenza di affioramenti di ceramiche d’abitato della prima età del Ferro. Quanto alle necropoli villanoviane, esse si sviluppano intorno all’abitato, confermando la stretta correlazione fin dalle origini tra i due pianori e l’insediamento. La realizzazione del terrapieno di Porta Ovest suggerisce una riorganizzazione dell’insediamento già alla fine del Primo Ferro. Il centro diVulci viene infatti protetto, ma anche delimitato, da strutture difensive che in questa zona rompono l’unità originale dell’insedia-
mento, separando il pianoro de La Città da quello di Pozzatella. Altri due importanti settori di indagine sono stati da poco intrapresi. Il primo è relativo all’espansione sul litorale marino: materiale fittile del Primo Ferro è stato raccolto nell’area di Regae, il futuro porto della città storica. Si tratta dell’unico, seppur modesto, promontorio esistente sulla costa e sembra ragionevole supporre che il sito avesse una funzione di controllo delle rotte tirreniche. Il secondo settore d’indagine è la cintura dei santuari extraurbani, che appaiono nel Primo Ferro. Il sito di Banditella, a soli 5 km da Vulci, esaurisce la sua funzione residenziale con il Bronzo Recente; dal Bronzo Finale fino alle soglie dell’età arcaica la sorgente e il piccolo specchio d’acqua da essa alimentato documentano una frequentazione a scopo rituale; ed è probabile che durante l’età del Ferro il culto consistesse soprattutto in
libagioni, a cui seguiva la deposizione in acqua di vasi miniaturistici. Il profilo della Vulci villanoviana appare insomma articolato e comprende molti degli elementi quali-
ficanti della successiva città etrusca. Gli autori ringraziano il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia ed il Polo Museale del Lazio. DOVE E QUANDO Museo Archeologico Nazionale di Vulci Vulci, Castello della Badia Orario ma-do, 8,30-19,30; lu chiuso Info tel. 0761 437787; www. etruriameridionale.beniculturali.it Parco Archeologico e Naturalistico di Vulci Località Vulci (Montalto di Castro, VT) Orario tutti i giorni, 9,00-19,00 (estate), 9,00-18,00 (primavera e autunno) e 9,00-17,00 (inverno) Info tel. 0766 89298; e-mail: info@vulci.it; www.vulci.it; Facebook: Parco di Vulci e Parco diVulci Gli Amici a r c h e o 55
POPOLI DELLA BIBBIA/9 – ARABI
«QUESTA È LA
DISCENDENZA DI
ISMAELE...»
Elencati nel libro della Genesi come figli del fratellastro di Isacco, gli Arabi sono coinvolti in numerose vicende narrate nella Bibbia: dall’episodio di Giuseppe, figlio di Giacobbe, venduto dai fratelli invidiosi ai mercanti provenienti dalla terra di Madian, all’incontro, straordinario e simbolico, tra Salomone e la regina di Saba. Sono racconti ispirati a una terra che, sin dagli inizi del I millennio a.C., fece da scenario a commerci e mercati tra i piú dinamici del mondo antico di Irene Rossi
L’
Arabia preislamica fu terra di popolazioni che seppero sfruttare come motore di forza economica la peculiare situazione geografica e ambientale della penisola. L’estremità meridionale di questo immenso territorio, isolata dal mare a sud-ovest e sud-est, e dal grande deserto siro-arabico a nord, godeva di un clima mite rispetto al resto della penisola. Vi si produceva una sostanza pregiata, richiesta sui mercati del Mediterraneo e del Vicino Oriente: l’incenso. Quando l’utilizzo del dromedario come animale da soma aprí la strada 56 a r c h e o
del trasporto di merci a lunga distanza attraverso gli ambienti aridi, la Penisola Arabica divenne parte di un ampio circuito commerciale di beni di lusso via terra, tra l’Africa, il Levante e la Mesopotamia. Il racconto biblico della visita a Salomone da parte della regina di Saba – venuta dallo Yemen antico, l’Arabia Felix degli autori classici – richiama proprio l’apertura della via dell’incenso, avvenuta all’inizio dell’età del Ferro. Fiorirono allora i regni dell’Arabia meridionale, la cui storia sarebbe durata fino all’avvento dell’Islam, e crebbero gli
Giuseppe venduto dai fratelli, olio su tela del Raffaellino (al secolo Giovanni Maria Bottalla). 1640. Genova, Galleria Nazionale di Palazzo Spinola.
POPOLI DELLA BIBBIA/9 • ARABI
QUANDO DICIAMO «ARABO»...
insediamenti nelle oasi lungo i percorsi carovanieri della penisola. Sebbene si facciano sempre piú imprecisi con l’aumentare della distanza geografica, i numerosi riferimenti della Bibbia a popoli e città dell’Arabia sono l’eco dei contatti del mondo levantino con questa variegata realtà.
RE E REGINE DI QEDAR Dalla metà del IX secolo a.C., il termine «Arabo» ricorre nei testi dei sovrani assiri per indicare le popolazioni nomadi e seminomadi del vicino deserto siro-arabico. Compare per la prima volta negli Annali del re Salmanassar III, che, nella battaglia di Qarqar (853 a.C.), dovette fronteggiare un contingente di cammellieri mandati dalla regina degli Arabi, Gindibu, a sostegno di una vasta coalizione anti-assira. I ripetuti scontri con re e regine degli Arabi dimostrano che l’impero neo-assiro mirava, con scarsi 58 a r c h e o
In alto: particolare di un rilievo raffigurante la vittoria degli Assiri sugli Arabi, dal palazzo di Assurbanipal a Ninive. 645-335 a.C. Londra, British Museum. A destra: «lacrime» del lattice resinoso che sgorga da un albero di incenso e dal quale si ricavano poi i grani che, bruciati, emettono il caratteristico aroma profumato.
In alcuni passi della Bibbia, la denominazione «arabo» allude a uno stile di vita piú che indicare l’appartenenza a un popolo. Cosí, nel libro di Isaia (13,19-20), l’immagine dell’Arabo che non pianterà piú la sua tenda nella terra di Babilonia, punita dal castigo divino, richiama la figura del nomade, che rifuggirà un luogo divenuto ancora piú inospitale del deserto cui è abituato. Nelle fonti scritte delle popolazioni dell’Arabia, il termine «arabi» indica, appunto, la componente nomade della società (per contrapposizione ai sedentari) o le genti che abitano nel deserto.
È questo, probabilmente, il senso originario del termine, che deriva dalla radice semitica ‘RB. Esso non individua un popolo; men che meno è utilizzato come autodefinizione (per questo si dovrà attendere il IV secolo d.C., quando le popolazioni dell’Arabia Deserta cominceranno a rivendicare il nome di Arabi). Pertanto, sarebbe storicamente errato tracciare un’equivalenza fra gli Arabi delle fonti assire e veterotestamentarie e gli abitanti dell’Arabia. Tanto piú scorretto sarebbe immaginare un’Arabia popolata di soli «arabi» (nomadi).
Mar Mediterraneo
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Mar Rosso
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Tayma Dedan (al-’Ulâ) Yathrib (al-Madîna)
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Mare Arabico
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Golfo di Aden
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Somalia Mirra
Oceano Indiano
Incenso
Area di diffusione della pianta d’incenso in età moderna
risultati, al controllo di queste genti, coinvolte nel commercio transarabico di beni di lusso: Tiglath-Pileser III sottrasse una quantità straordinaria di cammelli (trentamila!) e aromi alla regina degli Arabi Samsi; la quale, una quindicina di anni piú tardi, nel 716 a.C., fu tra i sovrani che portarono doni preziosi a Sargon II assieme a un
re di Saba, il regno sudarabico che commerciava l’incenso. Questi «Arabi» erano, piú precisamente, le genti della confederazione di Qedar, che aveva il suo centro nella città chiamata Adummatu dagli Assiri, cor r ispondente all’odier na Dumat al-Jandal, in Arabia Saudita. Situata all’estremità settentrionale della Penisola
Arabica, essa era l’ultima grande oasi della via carovaniera che conduceva dall’Arabia del Sud verso la Mesopotamia. Riferimenti a questo popolo e alla sua capitale Duma si trovano nei libri dei profeti Isaia, Geremia ed Ezechiele, che dipingono i Qedariti come ricchi di greggi, attivi commercianti e valorosi in guerra. a r c h e o 59
POPOLI DELLA BIBBIA/9 • ARABI
Gli Ismaeliti sono protagonisti del salvataggio di Giuseppe, gettato in una cisterna dai fratelli invidiosi In epoca achemenide, intorno alla metà del V secolo a.C., il profeta Neemia tornò a ricostruire le mura di Gerusalemme col beneplacito del re Artaserse I, ma dovette fronteggiare l’ostilità di una coalizione di genti vicine. Fra i capi di questa coalizione si trovava «Ghesem, l’Arabo» (Neemia 6,1-2), l’unico personaggio indicato con il proprio nome fra le varie menzioni di «Arabi» nella Bibbia. Egli è stato identificato con il padre del re di Qedar Qaynu, il cui nome compare in un’iscrizione aramaica,
su un recipiente d’argento rinve- generazione: il primogenito di Ismaele nuto alla metà del secolo scorso a è Nebaiòt, poi Qedar, Adbeèl, Mibsam, Tell al-Maskhuta in Egitto. Misma, Duma, Massa, Adad, Tema, Ietur, Nafis e Qedma» (Genesi 25,1215; cf. anche 1 Cronache 1,28-31). LA CAROVANA L’appellativo collettivo di «IsmaeDEGLI ISMAELITI Le genealogie del libro della Gene- liti», che ha avuto fortuna nella si elencano i Qedariti e altre genti tradizione musulmana per identidell’Arabia come discendenti di ficare gli Arabi, è tuttavia poco Ismaele, fratellastro maggiore di usato nella Bibbia. Isacco: «Questa è la discendenza di La vicenda piú eclatante che li veIsmaele, figlio di Abramo, che gli aveva de coinvolti è il salvataggio di Giupartorito Agar l’Egiziana, schiava di seppe – figlio di Giacobbe e RaSara. Questi sono i nomi dei figli d’I- chele, nipote di Isacco – gettato in smaele, con il loro elenco in ordine di una cisterna dai fratelli invidiosi e
sul punto di essere ucciso: «Quand’ecco, alzando gli occhi, [i fratelli di Giuseppe] videro arrivare una carovana di Ismaeliti provenienti da Gàlaad, con i cammelli carichi di resina, balsamo e làudano, che andavano a portare in Egitto». Attratti dalla prospettiva del guadagno, i fratelli estrassero Giuseppe dal pozzo e lo vendettero ai mercanti. Al padre raccontarono che Giuseppe era morto; «intanto i Madianiti lo vendettero in Egitto a Potifàr, eunuco del faraone e comandante delle guardie» (Genesi 37,12-36). L’alternanza della denominazione «Ismaeliti» e «Madianiti» introduce un elemento di confusione nel racconto di Giuseppe, in quanto Madian è un popolo che Genesi inserisce in una discendenza diversa da quella di Ismaele (figlio di Abramo e Agar), cioè quella di Abramo e della concubina Qeturà. Tuttavia, anche quest’ultima genealogia comprende genti dell’Arabia; fra di esse, oltre a Madian, compaiono anche Saba, Dedan ed Efa (Genesi 25,1-4; 1 Cronache 1,32-33). Nella Bibbia, fra i riferimenti ai popoli dell’Arabia, quelli a Madian sono i piú numerosi, nonché i piú
dettagliati. I conflitti narrati nel libro dei Giudici, che ebbero luogo fra Madian e Israele agli inizi dell’XI secolo a.C., indicano che si trattava di un paese vicino. Il bottino di guerra preso dal giudice Gedeone attesta la ricchezza dei Madianiti e suggerisce che essi intrattenessero relazioni commerciali con la Fenicia, dove si produceva il prezioso colorante rosso delle vesti indossate dai loro re: «Il peso degli anelli d’oro, che egli aveva chiesto, fu di millesettecento sicli d’oro, oltre le lunette, le catenelle e le vesti di porpora, che i re di Madian avevano addosso, e oltre i collari che i loro cammelli avevano al collo» (Giudici 8,26). Il ruolo positivo di Madian nelle vicende relative all’Esodo (l’accoglienza di Mosè che vi trovò moglie e il supporto fornito nell’attraversamento del deserto in Esodo 2,15-22, 4,19 e Numeri 10,29-33), dimostrano che il paese era vicino anche all’Egitto. Le fonti arabo-musulmane lo situano nell’estremità nord-occidentale dell’Arabia, a ridosso del golfo di Aqaba; l’importante insediamento messo in luce in questa zona, a Qurayya, potrebbe essere dunque una delle città di Madian. Questa posi-
zione era strategica: la presenza di iscrizioni rupestri di Ramesse III (1183/82-1152/51 a.C.) nel Sinai, nel sud del Negev e nello wadi alZaydiniyya vicino a Tayma (la biblica Tema, che fu uno dei centri piú importanti del commercio nell’Arabia del Nord), dimostra la frequentazione di una via fra l’Egitto e l’Arabia che doveva appunto attraversare la regione di Madian. Un breve graffito in scrittura taymanita, recentemente rinvenuto su una roccia a un centinaio di metri dall’iscrizione di Ramesse III nello wadi al-Zaydiniyya, contiene la prima attestazione epigrafica del nome di Madian, da datare ai primi secoli del I millennio a.C.
L’OASI CONTESA Queste iscrizioni, che confermano i contatti fra Egitto, Madian e Tayma, furono lasciate lungo un tragitto che era dunque battuto sin dal XII secolo a.C., ben quattro secoli prima delle piú antiche testimonianze dirette del commercio transarabico. Fra queste ultime spicca il racconto di Ninurta-kudurri-usur, governatore del paese di Suhu e Mari sul Medio Eufrate. Questi si vantava
A destra: Madain Salih (l’antica Hegra, Arabia Saudita nordoccidentale). Tombe rupestri risalenti al periodo dell’insediamento nabateo. I sec. a.C. Nella pagina accanto: le montagne in pietra rossa nei pressi dell’oasi di al-‘Ula (Arabia Saudita nordoccidentale), luogo dell’antica Dedan. a r c h e o 61
POPOLI DELLA BIBBIA/9 • ARABI A sinistra: una tomba rupestre ad al-‘Ula, l’antica Dedan, tappa obbligata per le carovane che attraversavano l’Arabia nord-occidentale. A destra: graffiti rupestri ad al-‘Ula. Queste e altre testimonianze furono documentate da Antonin Jaussen e Raphaël Savignac, padri domenicani dell’École Biblique et Archéologique Française di Gerusalemme, che intrapresero tre missioni archeologiche ed epigrafiche nel Nord dell’Arabia agli inizi del XX sec.
d’essersi impadronito del prezioso carico di una carovana di passaggio, condotta da genti di Tayma e di Saba; la lana color porpora che si trovava fra le loro merci rivela che essi erano di ritorno dalla Fenicia. Tayma e Saba furono anche tributarie di Tiglath-Pileser III nella seconda metà dello stesso secolo. Alla metà del VI secolo a.C., l’ultimo sovrano babilonese, Nabonedo (556-539 a.C.), abbandonò la sua capitale per conquistare le oasi dell’Arabia fino a Yathrib (odierna Medina). Nabonedo si installò a Tayma per dieci anni, forse nel tentativo di rafforzare il controllo su questo difficile territorio, perdendo poi quello su Babilonia. Le iscrizioni rinvenute nell’oasi, in diverse lingue e scritture, hanno fornito il riscontro diretto della 62 a r c h e o
presenza del sovrano babilonese e dell’importanza internazionale del sito. Intorno al IV secolo a.C., dopo alcune guerre contro le genti di Massa e Nebayot che controllavano il territorio verso Duma, Tayma passò a far parte del regno di Lihyan, che aveva il suo centro nell’oasi di al-‘Ula, l’antica Dedan.
FRA LIHYAN E MA‘IN Il forte nesso fra le due vicine città carovaniere dell’Arabia nord-occidentale è attestato nei libri di Isaia (21,14) e di Geremia che scrive: «Presi dunque la coppa dalla mano del Signore e la diedi a bere a tutte le nazioni alle quali il Signore mi aveva inviato: (…) a Dedan, a Tema [Tayma], a Buz e a quanti si radono le tempie, a tutti i re degli Arabi che abitano nel deserto» (25,17-23). Immensa oasi
verdeggiante fra montagne di pietra rossa nel deserto, ricca di acqua e quindi estensivamente coltivata, al‘Ula era una tappa obbligata per le carovane: lí si incrociavano le vie che provenivano da sud (Yemen), da nord-ovest (golfo di Aqaba e Gaza) e da nord-est (Tayma). Dedan era il nome antico del sito, che fra il VII e il VI secolo a.C. ospitò un regno omonimo. Il profeta Ezechiele, nel VI secolo a.C., ne attesta l’attività commerciale, associandola a Saba (Ezechiele 38,13). Successivamente, la titolatura di «re di Dedan» fu sostituita da quella di «re di Lihyan», nome di una tribú. Nel IV secolo a.C., per un certo periodo di tempo, il regno di Lihyan inglobò Tayma, dove sono state rinvenute colossali statue dei re lihyaniti, identiche a quelle trovate a
di Hegra (odierna Madain Salih, la Petra dell’Arabia Saudita), situata a soli 20 chilometri da Dedan, divenne il centro principale della regione. La prima menzione di un re dei Nabatei, una popolazione conosciuta nelle fonti sin dalla fine del IV secolo a.C., si trova nella Bibbia, nel libro dei Maccabei, una dinastia ebraica del II secolo a.C. con cui i Nabatei intrattennero buoni rapporti (1 Maccabei 5,25; 2 Maccabei 5,8 e 12,10). Il regno nabateo controllava le vie commerciali di un ampio territorio, che andava delle attuali Arabia Saudita settentrionale e Giordania, fino al deserto siriano. E fu nella città siriana di Damasco LA CONCORRENZA che, nel I secolo d.C., san Paolo riDEI NABATEI Alla fine del I millennio a.C. l’Ara- uscí a sfuggire in modo rocambolebia nord-occidentale venne inglo- sco (calandosi da una finestra, nabata nel regno dei Nabatei e la città scosto in una cesta; 2 Corinzi 11,32Dedan. L’oasi ospitò anche un importante avamposto commerciale del regno sudarabico di Ma‘in. La scarsità di scavi archeologici nell’oasi, che si sono concentrati per ora sull’abitato lihyanita, non ha permesso di comprendere le dinamiche del rapporto fra i due regni.Tuttavia, a giudicare dalla presenza di iscrizioni linguisticamente e culturalmente «miste», fra le centinaia di testi minei e dedanitici rinvenuti nell’oasi, è verosimile che, almeno per un certo tempo, i due regni fossero alleati commerciali o quanto meno buoni vicini.
33) alla cattura ordinata dal re dei Nabatei Areta, forse infastidito dall’attività di predicazione dell’apostolo in Arabia (Galati 1,17). Al regno di questo stesso sovrano, Areta IV, e piú precisamente al 7/6 a.C., risale un’iscrizione bilingue dedicata da un nabateo al proprio dio Dhu-Shara nella città sabea di Sirwah, nell’odierno Yemen. Essa è un indizio di buone relazioni fra i due regni carovanieri, che erano situati alle opposte estremità della via transarabica. Verso la metà del I secolo a.C., per evitare l’occupazione di Petra, i Nabatei si piegarono a Roma, ma mal ne sopportavano le mire espansionistiche sulle vie commerciali dell’Arabia. Quando Augusto tentò di conquistare l’Arabia meridionale nel 26-25 a.C., i a r c h e o 63
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Nabatei fornirono un contingente agli ordini del ministro del re Oboda III, Silleo. Al suo presunto tradimento venne poi imputato l’insuccesso dell’impresa. L’Arabia del Sud non fu mai conquistata dai Romani. Il regno nabateo fu annesso all’impero nel 106 d.C., sotto il nome di «Provincia Arabia».
LA PORTA DEL SUD... La prima città conquistata dalla spedizione dei Romani, una volta giunti nel sud, fu «Negrana», l’odierna Najran, all’estremità meridionale dell’Arabia Saudita. Si trattava dell’oasi in cui le carovane si dividevano per proseguire lungo lo Hijaz, o per piegare a nord-est, verso l’immensa distesa del deserto del Rub’ al-Khali. Almeno dall’VIII secolo a.C., l’oasi ospitava la capitale del regno di Muha’mir: Ragmat (la biblica Nella pagina accanto: stele con volto e iscrizione aramaica. Tayma, Museo. In basso: rilievo raffigurante il reggente Yariris e suo figlio Kamani, da Karkemish. VIII sec. a.C. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche.
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Raamà), associata a Saba e Dedan nelle genealogie di Genesi (10,7) e 1 Cronache (1,9). Per Ezechiele, i mercanti di Saba e Ragmat scambiavano le merci di Tiro «con i piú squisiti aromi, con ogni sorta di pietre preziose e con oro» (Ezechiele 27,22). Intorno al 300 a.C. l’oasi passò sotto il regno degli Amir, la cui attività commerciale era protetta dal dio dhu-Samawi, «Quello dei Cieli». L’elevato numero di insediamenti nell’oasi, l’imponenza delle strutture architettoniche della capitale e, infine, le iscrizioni regali rinvenute dimostrano che non si trattava di genti nomadi, ma di cittadini dediti all’agricoltura e alla gestione del commercio. Qualche decennio dopo la spedizione di Elio Gallo, Najran fu conquistata da Saba e passò poi sotto il controllo del regno sudarabico di Himyar, per lungo tempo.
...E LA TERRA DELL’INCENSO «Perché mi offrite incenso di Saba e la preziosa cannella che viene da lontano?» (Geremia 6,20). Alla fine del VII secolo a.C., l’epoca di Geremia, il regno di Saba compare nella Bibbia come un rinomato esportatore d’incenso. Fuori dall’Arabia, Saba fu il primo e piú famoso rappresentante di quella civiltà semitica che fiorí nel I millennio a.C. all’estremità meridionale della Penisola Arabica. Le numerose e importanti vestigia archeologiche e la vasta eredità epigrafica della civiltà dell’Arabia del Sud descrivono una lunga e complessa storia, le cui radici affondano nella locale cultura dell’età del Bronzo e che durò senza soluzione di continuità per piú di un millennio e mezzo, fino alla nascita dell’Islam. A condizionare l’intera storia sudarabica fu l’agricoltura: lo sviluppo di entità statali fu stimolato dalla necessità di controllare e redistribuire, attraverso una tecnologia sapiente e un’efficiente organizzazione ammi-
COSÍ SCRIVEVANO In un curioso aneddoto, riportato in un testo in luvio geroglifico dell’VIII secolo a.C., proveniente da Karkemish (Siria settentrionale), il reggente Yariris si vanta di conoscere dodici lingue e quattro scritture: la scrittura di Karkemish (il geroglifico luvio); quella di Tiro (l’alfabeto fenicio); quella dell’Assiria (il cuneiforme); e infine quella di Taiman, ovvero, molto probabilmente, la scrittura utilizzata a Tayma. Questo alfabeto appartiene alle scritture dette «sud-semitiche», di cui si contano numerose varietà. Tayma è stata indicata come il probabile centro in cui, verso la fine del II millennio a.C., questa tradizione di scrittura venne elaborata, parallelamente alla tradizione fenicio-aramaica e a partire da una comune matrice levantina. Questi alfabeti consonantici, graficamente simili fra di loro, venivano utilizzati per trascrivere le varie lingue autoctone della Penisola Arabica: essi sono attestati da alcune centinaia di testi monumentali nelle oasi del Nord e del Centro, in decine di migliaia di graffiti lasciati da popolazioni nomadiche nei deserti, e da circa 15 000 iscrizioni dei regni dell’Arabia del Sud. Questi alfabeti sono attualmente estinti. L’unico superstite si trova fuori dall’Arabia: è la scrittura etiopica. La lingua araba antica, che era una delle varietà linguistiche parlate nell’Arabia del Nord, cominciò a essere messa per iscritto «prendendo in prestito» scritture già in uso per trascrivere altre lingue. Fra queste, si impose la scrittura nabatea (una varietà dell’alfabeto aramaico, attestato sia nel Nord dell’Arabia che nella regione del Golfo). L’alfabeto arabo classico è dunque l’elaborazione di una forma tarda di scrittura aramaica.
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nistrativa, le risorse idriche in un A destra: statua territorio ai bordi del deserto, carat- in bronzo recante terizzato dalla presenza di ampie sul busto valli, gli wadi, soggette a inondazioni l’iscrizione periodiche. Qui sorsero i quattro del sabeo regni che si spartivano il territorio Hawatar’athat, corrispondente ai moderni Yemen, dalla città di Oman occidentale e Arabia Saudita Nashqum meridionale. Da ovest a est: Ma‘in, (Yemen). Saba, Qataban e Hadramawt. Saba I mill. a.C. San’a, dominò anche una parte dell’attua- Museo Nazionale. le Etiopia, nella prima metà del I Nella pagina millennio a.C., ed è probabile che accanto: testa di fra i beni commerciati dai Sabei ve donna in ne fossero anche di origine africana; alabastro, stucco si pensi all’oro descritto in Ezechiele e lapislazzuli, (38,13). Forse per questo, o piú dalla tomba 10 semplicemente per l’estrema vici- della necropoli di nanza dell’Arabia del Sud alla costa Hayd bin Aqil di africana, in Genesi (10,6-7) Saba Tamna. Inizi viene elencata fra i popoli camiti, e del I sec. d.C. in particolare fra i discendenti di Falls Church Etiopia, assieme a Najran e Dedan (Virginia), (cf. 1 Cronache 1,8-9), benché riAmerican compaia una seconda volta come Foundation for the discendente di Sem (Genesi 10,28) Study of Man. e persino una terza volta, con Dedan, come discendente di Abramo e Qeturà (Genesi 25,1-3).
I MERCANTI SABEI Nella prima metà del I millennio a.C. sono proprio i Sabei a imporsi sulla scena del commercio internazionale, percorrendo distanze di oltre duemila chilometri per raggiungere Levante, Siria e Mesopotamia. Con Saba vengono in contatto i sovrani assiri, che nei loro Annali descr ivono i doni portati da «Ita’amra il Sabeo» a Sargon II, intorno al 716, e da «Karibilu re di Saba» a Sennacherib, intorno al 689: è quello che negli studi sudarabici viene chiamato «sincronismo assiro», una delle rare corrispondenze cronologiche fra le fonti dell’Arabia del Sud e il mondo esterno. Esso ha permesso di datare con precisione i regni dei due sovrani sabei citati dagli omologhi assiri, Yatha‘’amar Watar e Karib’il Watar. Di conseguenza, in base alla ricostruzione della successione dinasti-
ca e dell’evoluzione paleografica delle iscrizioni, è stato possibile riordinare buona parte dei testi sudarabici della prima metà del I millennio a.C. in un quadro cronologico coerente. Sia Yatha‘’amar che Karib’il decisero di immortalare le vittoriose campagne militari condotte in tutta l’Arabia del Sud durante il loro regno, incidendone una celebrazione di stampo «annalistico» su due monumentali pannelli di pietra eretti nel tempio del dio Almaqah nella città di Sirwah. Per contro, in questi testi non com-
pare alcun riferimento a spedizioni verso il Nord. Per trovare un testo sabeo che menzioni per la prima volta dei rapporti con il mondo esterno bisognerà attendere il resoconto delle spedizioni condotte da un sabeo originario della città di Nashqum (avamposto sabeo in un territorio dominato da Ma‘in), per conto del suo sovrano Yada‘’il Bayyan (è il testo detto «Demirjian 1»; vedi box alle pp. 72-73). L’iscrizione, la cui datazione è tuttora oggetto di dibattito per la diversa identificazione della «guerra a r c h e o 67
Resti dell’antica città di Tema (oggi Tayma, Arabia Saudita), piú volte citata nella Bibbia.
fra i Caldei e la Ionia» menzionata nel testo (prima metà del VI o inizio del IV secolo a.C.), descrive le missioni militari condotte con successo contro i regni di Ma‘in e Hadramawt, e le missioni diplomatiche e commerciali nel Nord; non soltanto in Arabia, ma fino a Gaza e alle «città di Giuda». Questo testo mostra che i Sabei dovevano fronteggiare la concorrenza dei Minei, alleati commerciali dei regni in cui si produceva l’incenso (Hadramawt) e attraverso cui transitava (Qataban) prima di lasciare l’Arabia del Sud. Tuttavia, l’attività carovaniera di Saba non dovette interrompersi nemmeno nella seconda metà del millennio: due diverse iscrizioni, datate al regno di Seleuco I e precisamente fra il 303 e il 297 a.C., furono lascia-
te nella capitale sabea Marib e nella già citata Nashqum da persone provenienti dall’Arabia orientale, che erano probabilmente in visita d’affari.
LE SPOSE STRANIERE DEI MINEI Regno piccolo, ma insediato nel punto di partenza della via carovaniera verso il Nord, Ma‘in seppe ritagliarsi uno spazio economico privilegiato nella gestione del traffico commerciale via terra. Lunghe iscrizioni a Qarnaw, capitale del regno, registrano i nomi e la provenienza di spose straniere; la maggior parte delle donne era originaria di Gaza e dell’Egitto, ma ve n’erano anche di altri regni e città dell’Arabia, dei regni transgiordani (Ammon, Moab ed Edom), della Fenicia e della Grecia.
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UNA FONTE PREZIOSISSIMA Lo studio dell’immenso patrimonio epigrafico dell’Arabia del Sud è iniziato nella seconda metà del XIX secolo. A oggi si contano circa 15 000 iscrizioni, nelle lingue sabea (la piú attestata), qatabanica, minea e hadramawtica. L’alfabeto sudarabico era una varietà della famiglia di scritture «sud-semitiche», come gli alfabeti dell’Arabia del Nord. L’eleganza di questa scrittura e la canonicità dei modelli testuali e degli stilemi linguistici, già evidenti nelle piú antiche iscrizioni (VIII secolo a.C.), presuppongono una lunga fase di elaborazione della
tradizione scrittoria. Da questa scrittura geometrica fu anche elaborata una grafia piú corsiva, incisa o dipinta con l’inchiostro su bastoncini di legno. Le analisi al C14 hanno datato i bastoncini paleograficamente piú antichi tra la fine del II e l’inizio del I millennio a.C. Tale datazione, combinata con la peculiarità di un diverso ordine mnemonico delle lettere dell’alfabeto sudarabico rispetto a quello fenicio, toglie fondamento alla teoria, a lungo sostenuta, che affermava una derivazione del primo (e quindi dell’intera famiglia di scritture sud-semitiche)
A questa strategia «sociale», consistente nel tessere legami di parentela con le genti con cui venivano in contatto nei loro traffici, si uní quella della presenza in loco, che portò alla fioritura di due insediamenti lungo le vie carovaniere: Qaryat alFaw in Arabia centrale, una ricchissima città internazionale sulla rotta verso importanti città dell’Arabia orientale come Gerrha e Mleiha, e Dedan, punto strategico per il commercio verso nord. Da questi siti essi raggiungevano facilmente i terminali piú lontani del loro commercio, elencati nelle iscrizioni incise sulle monumentali mura della città di Yathill (odierna Baraqish, in Yemen):Assiria,Transeufratene, Sidone e Tiro, Gaza, Egitto. La prova della presenza all’estero dei Minei è costituita dalle iscrizioni che essi hanno lasciato fino nel cuore del Mediterraneo: nel santuario dell’isola di Delo, porto franco dal 70 a r c h e o
167 a.C., essi dedicarono un altarino alle proprie divinità. Al pari del dignitario sabeo scampato alla guerra fra i Caldei e la Ionia, anche i Minei si trovarono coinvolti in un conflitto all’estero, «fra i Medi e l’Egitto»; e anche questo è un sincronismo dibattuto, che potrebbe riferirsi a eventi dell’inizio del IV secolo a.C. Alcuni Minei erano sicuramente presenti in Egitto: l’iscrizione funeraria, incisa in lingua e scrittura minea su un sarcofago conservato al Museo Egizio del Cairo, ricorda che il defunto procurava «le essenze di mirra e calamo ai templi degli dèi d’Egitto», al tempo di «Tolomeo figlio di Tolomeo». Si tratta probabilmente di Tolomeo II Filadelfo, sotto il cui regno iniziò l’opera della «Settanta». Questa traduzione in greco della Bibbia cita i «Minaioi» (2 Cronache 26,7), laddove nel testo originale ebraico compare un riferimen-
to ai Meuniti; un errore interessante, che potrebbe riflettere la fama di cui godevano questi commercianti sudarabici nel periodo ellenistico.
NUOVE DIRETTRICI Alla fine del I millennio a.C., il regno di Ma‘in scompare improvvisamente dalle fonti e nel suo territorio diventa sempre piú importante la presenza della tribú degli Amir di Najran. Al crollo del regno mineo contribuí il mutamento del panorama politico del Nord dell’Arabia, ormai dominato dagli attivi mercanti nabatei, ma anche la concorrenza del commercio via mare, praticato da tempo nell’Oceano Indiano, ma esploso con l’interesse romano nel Mar Rosso. Il regno di Ma‘in ne rimaneva escluso, non
dal secondo. La scrittura corsiva sui bastoncini era usata per registrare missive, testi d’archivio, esercizi scolastici; le iscrizioni monumentali, incise su una grande varietà di tipologie di supporto, che sono spesso di rilevante valore artistico, commemoravano dediche e costruzioni, o registravano testi funerari o legali. A oggi, non è noto alcun testo di contenuto narrativo o mitologico/rituale. Tuttavia, le iscrizioni
sono una ricchissima fonte di informazioni sulla storia e sulla società, in particolare sulla religione, poiché conservano decine di nomi di divinità e riferimenti al loro culto. Come denunciato dall’UNESCO, quello yemenita è oggi uno dei patrimoni piú a rischio del mondo e ha già subito atroci devastazioni nella guerra in corso; una catastrofe umanitaria e culturale che continua a restare lontana dalla nostra attenzione.
Nella pagina accanto: testa in pietra raffigurante una dama del regno di Saba, il cui nome è scritto in lingua sabea sopra la fronte. I mill. a.C. A destra: altare bruciaprofumi con iscrizione sabea di dedica e decorazioni. I mill. a.C. San’a, Museo Militare.
In alto: frammento in bronzo con iscrizione dedicatoria ad Almaqah, dal suo tempio confederale a Marib. Prima metà del I mill. a.C. San’a, Museo Nazionale.
avendo sbocco al mare. Nel tempo, erano mutate anche le condizioni ambientali. L’accumulo di limo negli wadi verso il deserto, che erano il cuore dei regni carovanieri come Ma‘in, aveva portato all’innalzamento dei livelli del suolo, con negative ripercussioni sull’agricoltura e sul popolamento. Le genti dell’umido altopiano a sud, dove terrazzamenti e cisterne erano sufficienti a garantire lo sfruttamento agricolo, divennero allora sempre piú importanti nella storia politica dell’Arabia meridionale. Si determinò una situazione di guerre diffuse, che vide anche intervenire gli Abissini e terminò con la supremazia di Himyar, la vasta confederazione delle tribú dell’altopiano, che ebbe cosí il controllo delle vie commerciali per terra e per mare.
Il passaggio all’enoteismo (l’atteggiamento di chi invoca come unica una determinata divinità, senza per questo giungere al monoteismo, n.d.r.), nel culto di Almaqah, dio principale di Saba, e poi, dalla fine del IV secolo d.C., l’adozione di una forma di monoteismo giudaizzante come religione di Stato contribuirono a omogeneizzare un panorama culturale fino ad allora estremamente variegato. Himyar riuscí a imporre il proprio dominio anche su gran parte dell’intera Penisola Arabica. Nel 523 d.C., il re sudarabico di fede ebraica Yusuf (piú conosciuto con l’appellativo arabo di dhu Nuwas, «quello dei riccioli») ordinò il massacro degli abitanti di Najran, convertitisi al cristianesimo, e suscitò la reazione del regno di Aksum. Per difendersi dall’invasione degli
Etiopici, vennero chiamati in aiuto i Persiani, che presero il controllo della regione fino al 632, quando le tribú sudarabiche si unirono allo Stato islamico. Iniziò allora un’epoca storica completamente nuova.
UNA REGINA A SABA? Per chiudere il cerchio, torniamo indietro di un millennio e mezzo,
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alla corte del re d’Israele, per presenziare al ricevimento a dir poco straordinario che ha aperto questa storia: «La regina di Saba, sentita la fama di Salomone, dovuta al nome del Signore, venne per metterlo alla prova con enigmi. Arrivò a Gerusalemme con un corteo assai numeroso, con cammelli carichi di aromi, d’oro in grande quantità e di pietre preziose». Ricevuta da Salomone, ne ammirò la sapienza e benedisse il Dio di Israele per averlo collocato sul trono. «Ella diede al re centoventi talenti d’oro, aromi in gran quantità e pietre preziose. Non arrivarono piú tanti
aromi quanti ne aveva dati la regina di Saba al re Salomone» (1 Re 10,1-13; 2 Cronache 9,1-12). Il racconto sapienziale della visita della regina di Saba a Salomone ha goduto di lunga fortuna. Forse anche grazie alla sua aura esotica, ha trasceso religioni e culture. Formulato nel canone veterotestamentario, si ritrova accennato nei Vangeli (Matteo 12,42 e Luca 11,31), rielaborato nel Corano (sura 27,20 ss.) e nel Kebra Nagast etiopico, per poi figurare nella tradizione della Vera Croce del cristianesimo medievale, approdare nell’arte figurativa occi-
Sulle due pagine: Marib. Veduta del grande santuario confederale del dio sabeo Almaqah. Nella pagina accanto: placca in bronzo con iscrizione sabea, che cita
una battaglia combattuta contro gli Arabi nel Jawf; la decorazione di due file di mani aveva valore votivo o di protezione. II-III sec. d.C. Londra, British Museum.
LA SPEDIZIONE SABEA VERSO LE CITTÀ DI GIUDA Ecco, qui di seguito, la trascrizione del testo superstite dell’iscrizione incisa sulla placca di bronzo nota come «Demirjian 1», che ricorda le spedizioni condotte da un Sabeo per conto del suo re, Yada‘’il Bayyan: «Sabahhumu, figlio di ‘Ammshafaq, della famiglia Rashwan, della città di Nashqum, ha dedicato al dio Almaqah, Signore di Mayfa’um, questa iscrizione e il suo
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supporto, tutti i suoi figli e tutte le sue proprietà in Nashqum e nel suo territorio, quando partí in una spedizione militare con (le tribú) Saba e Rakban e attaccarono l’esercito (o, la carovana) di Ma‘in nella piana di ‘tmy; e quando partí in una spedizione con la sua tribú Rakban assieme all’esercito di Saba verso la terra dello Hadramawt e distrussero tre […] e attaccarono (la
dentale e divenire soggetto di letteratura, opera, balletto e cinema. È possibile, dunque, rintracciare la figura storica di una regina di Saba? A molti è piaciuto provarci, ma la risposta è negativa, almeno allo stato attuale delle conoscenze. La società sudarabica era spiccatamente patriarcale e non sembra aver contemplato l’investitura regale femminile: nelle fonti sono attestate donne importanti, sacerdotesse e anche mogli di re, sebbene poche, ma donne al governo, per ora, non sono note. Può darsi che nella redazione del passo biblico siano state sovrapposte la realtà lontana di Saba e quella piú nota di Qedar, con le sue regine. Ma questa è solo una fra le varie spiegazioni possibili e non verificabili di questa storia. Una bella storia, di sapienza e di confronto, che le tre
religioni monoteiste e l’immagina- NEL PROSSIMO NUMERO rio collettivo hanno declinato in vario modo e caricato di valore • I Fenici simbolico. E che merita di essere conservata come tale. PER SAPERNE DI PIÚ Sabina Antonini, Paola D’Amore, Michael Jung (a cura di), Il trono della regina di Saba. Cultura e diplomazia fra Italia e Yemen. La Collezione sudarabica del Museo Nazionale d’Arte Orientale, Artemide, Roma 2012 Alessandra Avanzini, By Land and by Sea. A History of South Arabia before Islam recounted from Inscriptions, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2016 Ali I. al-Ghabban, Béatrice André-Salvini, Françoise Demange, Carine Juvin, Marianne Cotty (a cura di), Routes d’Arabie: archéologie et histoire du royaume d’Arabie Saoudite, Musée du Louvre, Parigi 2010 DASI-Digital Archive for the Study of pre-Islamic Arabian Inscriptions; http://dasi.cnr.it/. OCIANA-The Online Corpus of the Inscriptions of Ancient North Arabia; http://krc2.orient.ox.ac.uk/ociana/. UNESCO; http://en.unesco.org/galleries/heritage-risk-yemen.
città di) Mayfa’at e […] Mfgrt, e attaccarono (la tribú) Kahad di […]’brt, e attaccarono (la tribú) Kahad di Tdn[…]; e quando partí per una spedizione commerciale verso Dedan e Gaza e le città di Giuda; e quando si salvò ciò che aveva (o, lui che era stato) inviato da Gaza a Kition (Cipro) durante la guerra fra i Caldei e la Ionia; e quando Yada‘’il Bayan, figlio di Yatha‘’amar, re di Saba,
lo incaricò di andare come messaggero verso la terra di Dhakarum, Lihyan, ‘b’s e Hnk ‘lhn in quattordici spedizioni, ed egli portò a termine tutto ciò di cui Yada‘’il lo aveva incaricato come messaggero; e Yada‘’il gli attribuí riconoscimenti e tre onorificenze, e gli assegnò mille monete, e lo vestí (con un abito onorifico); e quando partí in una spedizione militare con la sua tribú […]».
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ARCHEOTECNOLOGIA • DIOLKOS
Golfo di Corinto
Canale di Corinto Corinto
Golfo Saronico
IL TIRANNO E IL MARE FORSE FU UNA PROFEZIA DELL’ORACOLO DI DELFI A IMPEDIRE IL PROGETTO DI TAGLIARE L’ISTMO CHE SEPARA IL GOLFO DI CORINTO DAL MAR EGEO. L’IMPRESA FU REALIZZATA SOLO OLTRE UN MILLENNIO DOPO, IN PIENA ETÀ MODERNA. NELL’ANTICHITÀ, PERÒ, VENNE MESSA A PUNTO UN’INGEGNOSA ALTERNATIVA. DI CUI ANCORA OGGI SI POSSONO RICONOSCERE LE TRACCE... di Flavio Russo 74 a r c h e o
F
ino al taglio dell’istmo di Corinto, la Grecia meridionale era una penisola, chiamata dai suoi remoti abitanti «Peloponneso», dal nome di Pelope, figlio di Tantalo, re di Lidia, che l’aveva conquistata. Nel XII secolo, i crociati ne mutarono a loro volta il toponimo in «Morea», per via della forma, che ricordava una foglia di gelso. Fra le sue giogaie montuose fiorirono le piú famose città dell’età classica, oggi altrettanti suggestivi siti archeologici, quali Olimpia, Micene, Argo e Sparta, solo per ricordarne alcune. A separarla quasi del tutto dalla Grecia settentrionale è il braccio di mare noto come golfo di Corinto, un lungo canale naturale, chiuso a levante da un sottile istmo, interposto fra le acque dello Ionio e dell’Egeo. Largo poco piú di 6 km, suggerí a chi contemplava dall’alto quei mari contrapposti, il vantaggio che il suo taglio avrebbe potuto assicurare alla navigazione: una riduzione del periplo di oltre 700 km per le navi che andavano dal golfo di Corinto a quello Saronico e viceversa.
I PRIMI PROGETTI Per quanto ne sappiamo, il primo ad accarezzare l’idea di quell’ambizioso progetto, in estrema sintesi un canale scavato tra due pareti roccio-
In alto: lastra in terracotta raffigurante Pelope su un carro con Ippodamia, della quale aveva ottenuto la mano dopo averne vinto il padre, Enomao. Età augustea o giulio-claudia. New York, The Metropolitan Museum of Art.
Nella pagina accanto: foto da satellite dell’istmo di Corinto, oggi tagliato dal canale omonimo. In basso: tavola a colori che illustra l’inaugurazione solenne del canale di Corinto, avvenuta nel 1893.
se alte circa una novantina di metri sul livello del mare, fu Periandros, tiranno di Corinto, figlio di Cipselo, succeduto al padre intorno al 627 a.C. e incluso, per la sua vasta cultura, fra i Sette Savi. La sua signoria è
reputata una continuazione della sagace politica paterna, tanto che sotto la sua guida la città raggiunse una prosperità senza precedenti, contribuendo a quell’esito la formazione di una poderosa flotta, la
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maggiore dell’intera Grecia, che di fatto rese Corinto una temuta talassocrazia. E proprio in relazione alla politica navale, la realizzazione del canale avrebbe costituito un’infrastruttura strategica, ma l’opera tanto facile da immaginare si dimostrò subito altrettanto complessa e ardua da concretizzare, per cui, valutatone sommariamente l’ingente costo e le immani difficoltà tecniche, si decise di rinviarne l’attuazione. Secondo una plausibile leggenda, contribuí a disincentivare l’impresa una profezia della Pizia, che intimava di non tagliare l’istmo, essendo volontà di Giove che la penisola del Peloponneso restasse tale. Al suo posto, però, si costruí poco dopo un’alternativa ingegnosa alla via d’acqua, che da un lato ne attenuò l’esigenza e dall’altro forní significativi proventi. Un secondo tentativo 76 a r c h e o
(vedi oltre) di taglio dell’istmo fu ipotizzato nel 307 a.C. dal sovrano macedone Demetrio Poliorcete (337-283 a.C.), che convocò ingegneri egizi per pianificare lo scavo. Ma a farlo desistere fu questa volta il timore, forse pretestuoso, che la differenza di livello fra i due mari avrebbe determinato nel canale una violenta corrente, tale da impedirvi ogni navigazione.
SCARNE CITAZIONI Nel frattempo il dispositivo alternativo, in servizio già da oltre tre secoli, continuava a fornire la sua preziosa prestazione, trovandosene menzioni piú o meno laconiche nelle fonti classiche. Stando a Strabone, infatti, il periplo del Peloponneso per chi «non si proponga di costeggiare ogni golfo, è di quattro mila stadii (lo stadio attico era pari a 177,6 m circa) come afferma Polibio. Ma Artemidoro ne aggiunge altri quattrocento. Qualora poi si vogliano secondar tutti i seni, il numero degli stadii è di cinque mila e seicento. Rispetto all’istmo, nel luogo dove le navi soglionsi trasportare per terra dall’uno all’altro mare è di quaranta stadii (7 km circa)» (Geographica VIII, 2).
La grandiosità del progettato canale, che aveva fatto desistere Periandros e spaventato Demetrio Poliorcete, agí da stimolo tre secoli piú tardi su Nerone (37-68 d.C.), fra gli imperatori romani il piú attratto dalle opere colossali. Pertanto nell’anno 67, inviò in zona una «squadra» di 6000 sterratori e maestranze varie per eseguire quel grandioso taglio, lungo 6,5 km circa e largo, all’epoca, almeno una quindicina di metri, con una profondità di 3 m circa (a titolo di raffronto, la larghezza attuale è di 25 m, per una profondità di 8). Sebbene irto di difficoltà, lo scavo del canale rientrava fra le potenzialità tecniche dei Romani. Basti al riguardo ricordare la Fossa Drusiana, fatta costruire da Druso Maggiore durante le campagne militari condotte in Germania a partire dal 12 d.C. Grazie a questo canale navigabile, che metteva in comunicazione il Reno con il Mare del Nord, l’Oceanus Germanicus, la flotta stanziata lungo il limes poteva tenere a bada le tribú germaniche residenti lungo la costa. Altrettanto celebre è la Fossa Corbulonis, un canale lungo 34 km, scavato nel 47 d.C. dalle stesse legioni d’ordine di Gneo Domizio Cor-
bulone, legatus Augusti pro praetore della Germania Inferior, che, nell’attuale Olanda, collegava la Mosa e il Reno. Quel taglio, da sei secoli tanto auspicato, non presentava quindi alcuna difficoltà insormontabile per gli ingegneri imperiali.
Sulle due pagine: il canale di Corinto. Nella pagina accanto: ritratto di Nerone. XVII sec. (solo parte del volto è antica). Roma, Musei Capitolini. In basso: erma di Demetrio Poliorcete, da Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
NERONE DÀ IL VIA AI LAVORI L’avvio dei lavori fu sancito personalmente dall’imperatore, che nella circostanza inferse il primo colpo alla terra dell’istmo, con una dolabra (una sorta di piccozza, n.d.r.)d’oro. Posta l’immancabile edicola commemorativa, Nerone dovette lasciare velocemente la Grecia, richiamato a Roma per affrontare l’insurrezione di Servio Suplicio Galba. Di li a poco, però, abbandonato da tutti, fu costretto a uccidersi e, con la sua morte, svaní anche il progetto del canale, quando già l’avanzamento degli scavi era arrivato a 3300 m di lunghezza per 40 di larghezza, lasciando a perenne ricordo proprio quei prodromi dell’opera. Stando a Plinio il Vecchio, in diverse occasioni si tentò di tagliare la lingua di terra alla quale è attaccato il Peloa r c h e o 77
ARCHEOTECNOLOGIA • DIOLKOS
ponneso chiamata: «Istmo (…) le due coste sono state intaccate al punto da misurare una distanza reciproca di sole 5 miglia (…) Lungo e rischioso è il periplo di quelle navi che, a causa delle loro dimensioni, non si possono trasbordare sui carri all’altro lato dell’Istmo. Per tale motivo si è cercato di scavare un canale navigabile attraverso la strettoio, da parte di re Demetrio, del dittatore Cesare, dell’imperatore Gaio Caligola, e di Nerone» (NH IV, 9). La morte violenta di tutti i personaggi ricordati da Plinio, sembrò avallare la profezia della Pizia, contribuendo a impedire ogni ulteriore tentativo. Esplicita, comunque, è la sua precisazione al dispositivo che consentiva alle imbarcazioni mercantili di evitare il periplo dell’intera penisola, a patto che non eccedessero un modesto dislocamento.
A destra: resti del basolato del Diolkos, con i solchi guida-ruote ancora evidenti. Si può notare la singolare somiglianza con un moderno binario ferroviario. Nella pagina accanto: un’altra immagine del Diolkos, che si presenta come una massiccia strada lastricata con grandi blocchi di calcare.
IN ETÀ MODERNA Intorno al 1870 i lavori vennero finalmente ripresi dopo l’inaugurazione del canale di Suez, con dimensioni accresciute rispetto al progetto neroniano, conseguenza del coevo incremento della grandezza delle navi; larghezza e profondità, tuttavia, che già allora si rivelarono insufficienti per le maggiori imbarcazioni da guerra e per vari mercantili. La nuova tornata di scavo si interruppe ben presto per sopraggiunte difficoltà economiche
della società appaltante e i lavori ripresero solo nel 1881, con nuovi progettisti e nuova impresa, che riuscirono questa a volta a completare il canale nel 1893. Tuttavia, in quel breve lasso di tempo, le navi sempre piú grandi avevano reso il canale già obsoleto, decretandone in compenso l’indubbio fascino: la caratteristica piú sorprendente erano le sue pareti altissime, con un’inclinazione prossima alla verticale e conseguente instabilità accentuata dalla sismicità del luogo; Foto satellitare sulla quale è evidenziato il tracciato del Diolkos, rispetto all’attuale canale di Corinto.
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una seconda, e non minore, curiosità è fornita dai suoi due ponti, che, al passaggio delle navi, invece di sollevarsi, si immergono! A differenza della notorietà di cui gode il canale di Corinto, è pressoché ignota la sua alternativa voluta da Periandros, i cui resti ancora si scorgono lungo la sua sponda settentrionale. Si tratta, in pratica, di una sorta di massiccia strada lastricata con enormi blocchi di calcare, incisi da due solchi paralleli, che, partendo dalla riva di un mare, si arrampicava sull’istmo per discendere fino alla riva dell’altro. La straordinaria pista fu denominata Diolkos, dal greco dia, attraverso, e olkòs, trazione, ovvero trazione attraverso l’istmo, un’etimologia che suggerisce un’azione di tiro effettuata da squadre di serventi e buoi, per far prima salire le imbarcazioni e poi per frenarle nello scendere. Nei menzionati solchi – antesignane rotaie, da definirsi guida-ruote –, si impegnavano le ruote di robustissimi carrelli, sui quali venivano caricate barche e navi per trasferirle via terra dall’Egeo allo Ionio e viceversa. A coadiuvare gli sforzi di uo-
mini e animali provvedevano paranchi, cabestani e verricelli, oltre a un’abbondante lubrificazione dei solchi con grasso. Le fonti non tramandano la modalità di movimentazione delle navi, costringendoci a dedurla dalle residue tracce archeologiche, che suggeriscono necessariamente l’utilizzo di appositi carrelli con le ruote inserite nei solchi, come già se ne avvalsero gli architetti Chersifrone di Cnosso e Metagene, suo figlio, entrambi del VI secolo a.C. per l’approvvigionamento dei grandi blocchi calcarei al leggendario Artemision di Efeso. Le tracce, infatti, confermano che il trasporto delle navi avveniva su appositi veicoli ruotati e, sebbene, un’accurata analisi tecnica abbia dimostrato che anche il trasferimento delle triremi – del peso di circa 25 tonnellate su 35-40 m di lunghezza e 4,5 di larghezza –, per quanto difficile, fosse comunque cosí possibile, è sensato ritenere che la stragrande maggioranza delle imbarcazioni condotte attraverso il Diolkos fossero piccoli mercantili. Tenendo debito conto del suo nutrito traffico giornaliero, testimo-
niato dalle fonti, e del dislivello da superare, non appare inverosimile immaginare che l’imbarcazione discendente trainasse, o almeno contribuisse a farlo, l’ascendente limitando cosí notevolmente il dispendio di energia necessaria! Stando ai calcoli di Andrew Tolley, professore di fisica teorica presso l’Imperial College London, per issare le navi sulla sommità dell’istmo, supponendo che una trireme, compreso l’indispensabile carrello, pesasse 38 tonnellate circa, e che un uomo possa erogare una forza di 300 N (newton), le squadre di tiro avrebbero dovuto contare tra le 110 e le 150 persone, con uno sforzo combinato da 33 a 42 kN. Dando per scontata una squadra del genere, l’avanzamento sarebbe potuto avvenire a una velocità media di 2 kmh circa, per cui l’intero Diolkos sarebbe stato percorso in 3 ore circa. Riducendo il carico e il coefficiente di attrito, grazie a opportune rotelle, la forza necessaria sarebbe scesa a 27 kN, ovviamente con un minor numero di uomini. Appare logico concludere che il Diolkos non era stato
concepito per simili navi, che richiedevano, come precisato, un gran numero di uomini per il traino: va però osservato che squadre del genere, nel caso delle triremi, erano facilmente disponibili, essendo abitualmente ai loro remi circa 200 uomini, robusti e allenati, per i quali quel compito risultava assolutamente compatibile.
LE TRIREMI DI SPARTA Le fonti ci hanno del resto tramandato numerosi casi d’impiego militare del Diolkos, a partire dal brano di Tucidide relativo alla campagna del 428 a.C., in cui allude ai dispositivi costruiti dagli Spartani per agevolare il trasporto delle loro triremi, verosimilmente grossi piani inclinati per alarle sui carrelli, fino ad allora inesistenti. Cosí Tucidide: «I Lacedemoni vi giunsero primi, e andavano disponendo sull’Istmo le macchine per il trasporto delle navi, giacché intendevano far passare la loro flotta da Corinto al mare che bagna Atene, per una doppia offensiva di terra e di mare» (Guerra del Peloponneso, III 15). Ulteriori menzioni dello stesso au-
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ARCHEOTECNOLOGIA • DIOLKOS A sinistra: ricostruzione grafica del trasporto attraverso il Diolkos di piccoli mercantili su appositi carrelli. Qui sotto: il sistema ideato da Chersifrone di Cnosso e Metagene per trasportare i grandi blocchi calcarei per l’Artemision di Efeso.
lembi [navi da guerra leggere, n.d.A.] e a piombare addosso agli Etòli durante la traversata. Demetrio (…) ascoltò volentieri l’invito di Taurione, anche perché questo si assumeva la spesa del trasporto delle imbarcazioni» (Le Storie IV, 19). E ancora nel 218 a.C., quando «Filippo intanto (…) trasportate poi attra- per contro, disponevano di un equiverso l’istmo le altre navi ordinò a tutte paggio molto ridotto. Infatti, rispetdi gettare le ancore a Levrea» (V, 101). to alle unità militari, nella cui costruzione si perseguiva la massima leggerezza per conseguire le massiTRASPORTI PARZIALI Se era possibile trasferire le triremi, me velocità, nei mercantili si puntanon altrettanto poteva effettuarsi va alla robustezza, che implicava riper tutti i mercantili, come ricorda- levanti dislocamenti. Non era perva Plinio, dal momento che non di ciò possibile trasportare l’intera narado superavano le 70 tonnellate e, ve, ma solo il suo carico sui normali carrelli, stivandolo su di una seconda imbarcazione una volta giunRicostruzione grafica del possibile trasporto di una triremi collocata su di to nell’altro mare. una coppia di carrelli compatibili con il tracciato del Diolkos. Al di là di sporadici utilizzi militari dettati da stringenti esigenze strategiche, il Diolkos fu insomma costruito principalmente per il traffico commerciale sostenuto dai piccoli mercanti. Solo a queste imbarcazioni conveniva pagare i pedaggi, sicuramente non trascurabili, per abbreviare il periplo della penisola, tanto piú che l’Egeo era spesso burrascoso, un particolare, quest’ultimo, che giustifica l’ampio ricorso al Diolkos, chiarendo le ragioni della sua eccezionale longevità: è infatti legittimo ipotizzare che il suo impiego si sia protratto per 650 anni circa.
tore si riferiscono all’impiego militare del Diolkos nella campagna del 412: «E Sparta manda a Corinto tre Spartiati, affinché operato al piú presto il trasporto delle navi oltre l’Istmo – dal lato opposto verso quello che guarda Atene – le facessero salpare tutte per Chio (...) Avrebbe per prima passato l’Istmo metà della flotta, e subito questa avrebbe salpato» (VIII, 7-8). Anche in Polibio, circa due secoli dopo, nel 220 a.C., si rintracciano riferimenti all’impiego militare del Diolkos: «Taurione intanto (…) poiché Demetrio Fario dalle Cicladi ritornava a Cencrea, lo esortava ad aiutare gli Achei, a trasportare attraverso l’Istmo i
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SPECIALE • TURCHIA
CARIA, QUEL CHE RESTA DEL MITO SECONDO OMERO, GLI ABITANTI DI QUESTA ANTICA REGIONE – OGGI COMPRESA NEI CONFINI DELLA TURCHIA – PARLAVANO «CON SUONI BARBARI». MA QUANDO I GRECI NE COLONIZZARONO LE SPONDE, I DUE POPOLI DIEDERO VITA A UNA CIVILTÀ MISTA, ORIGINALE E AFFASCINANTE PROPRIO IN VIRTÚ DI TALE FUSIONE di Fabrizio Polacco
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ui fu creato Ermafrodito, metà uomo e metà donna; qui fu scorticato vivo il povero satiro Marsia, che aveva osato sfidare Apollo per stabilire chi fosse il migliore come suonatore di flauto; e sempre qui riposava sonni eterni il bellissimo Endimione. Infatti, che la chiamassero Selene, o Ecate o Mene, la dea lunare che si innamorò per l’eternità di quel giovane pastore era sovrana in quest’angolo sud-occidentale dell’Anatolia: la Caria. Terra di mare, di navigatori e, un tempo, di pirati: senza essere un’isola, ha coste lunghe come quelle della Sicilia, e tra le piú tortuose e frastagliate del Mediterraneo. Cosí come tortuoso e sinuoso fin dal nome è il Meandro, grande fiume anatolico che ne segna i confini a settentrione. Ma è anche dotata di pianure fertilissime, ricca di acque sorgive e baciata dal sole: non per nulla il Colosso bronzeo di Helios svettava su Rodi, la grande isola greca A destra: statua raffigurante il satiro Marsia,da Tarso. Copia romana da un originale greco del III sec. a.C. Istanbul, Museo Archeologico. Sulle due pagine: Gherga. Monolite probabilmente facente parte di un assemblaggio riferibile a una delle edicole sacre presenti nel sito. Sullo sfondo, la valle del fiume Marsia.
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SPECIALE • TURCHIA
antistante. E tuttavia, la struttura geologica è prevalentemente costituita da montagne, disposte non a catene, ma a massicci e cime variamente articolati: non impervi, anzi agevoli da superare, che talora declinano fino al mare, e le cui pendici brillano, qua e là, di cave di marmo e di quarzo sopraffino. Efeso
provenivano dalle isole dell’Egeo); ma quando i Greci approdarono sulle sue rive si mescolarono a loro, creando una civiltà mista, che divenne unica e affascinante anche grazie a tale fusione. E una simile varietà di aspetti, di influssi e di caratteri, aggiunta alla collocazione della regione al confine tra grecità e civiltà anatoliche, tra resEuropa e Asia, Mende Aydin tra Mar Egeo e Mediterraneo orientale, non DONNE ARDITE ESamos COMBATTIVE poteva che manifestarsi in una molteplicità Madre di bellicosi guerrieri, a volte merceAfrodisia Priene Alabanda quanto suggestivi. nari, altre volte pronti a battersi fino allo di miti, tanto ambigui Alinda turisti e viaggiatori hanno già messo stremo per l’indipendenza (vedi box aMileto p. 88), Molti Gherga piede in Caria, magari senza saperlo: per la Caria era nondimeno celebre perLago le sue Besparmak di Bafa esempio, scendendo da una nave da crociera donne ardite e combattive: una, Artemisia I, Kapikiri Labranda (Eraclea al Latmo) a visitare BodrumLagina (l’antica Alicarnasso) o lottò valorosamente sul mare a Didyma Salamina dalla parte dei Persiani; un’altra, Ada, si alleò Marmaris Euromos (l’antica Physkos). Oppure aggiranStratonicea rovine suggestive e disabitate di con Alessandro il Grande, che poi adottò e dosi tra le Milas ancora, spingendosi un paio di fece erede. I suoi abitanti originari erano Mileto. O, (Mylasa) Mugla anatolici (o, secondo altri storici antichi, centinaia di chilometri piú all’interno, per Bodrum (Alicarnasso) Kos Priene Mileto
Labranda Lagina
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A sinistra: mappa dell’antica Caria con le località citate nel testo. Nella pagina accanto, in alto: Eraclea sul Latmo. Tombe carie oggi parzialmente sommerse dalle acque del lago di Bafa (l’antico golfo Latmiaco). Nella pagina accanto, in basso: il monte Latmo, oggi ribattezzato Besparmak, «il Cinque dita» per via della sua cresta.
nomici, pronti a fermarsi se ti vedono in attesa sul ciglio della strada: provvidenziali, soprattutto su quei nastri d’asfalto attorniati da pascoli e da boschi che intersecano l’interno dell’Anatolia. Mylasa fu l’antica, signorile capitale della regione, dove si affermò la dinastia degli Ecatomnidi: quella di re Mausolo, fratello e marito di Artemisia II, colei che innalzò in suo onore il Mausoleo di Alicarnasso, una delle sette meraviglie del mondo.
COME UN’ARPA FRA I MONTI E dunque, in quella mattina d’aprile, mi faccio depositare dal dolmus là dove una tabella segnala la zona archeologica di Euromos. Sono l’unico a scendere e sono ancora solo quando mi appare, snello ed elegante come un’arpa poggiata tra i monti – tanto slanciate e sottili s’allungano le sue colonne – il tempio di Zeus Lépsynos: uno dei tanti, sontuosi regali lasciati a noi posteri da quel benefattore dell’arte classica e amante delle province orientali che fu l’imperatore Adriano (vedi foto a p. 89). Sembra quasi un miracolo potersi trattenere in solitudine in questo sacro recinto di pietra immerso nel verde silente di un bosco. Poco oltre – quasi fosse un presagio del seguito di questo viaggio, come di altri fatti poi in terra di Caria – attira la mia attenzione il misterioso e inquietante simbolo della doppia ascia, scolpito su una pietra d’architrave caduta al suolo. Come a temperarne la drammatica valenza – che richiama sacrifici cruenti, ordini perentori, poteri di vita o di ammirare la sorprendente Afrodisia: quasi un’antica Roma trapiantata in terra d’Asia, per grandiosità e ricchezza di vestigia (vedi box alle pp. 86 e 87). Tuttavia, la Caria non è solo questo. Anzi, la parte meno frequentata della regione è costellata di località affascinanti dai nomi ignoti ai piú, citati di rado perfino nei testi di storia antica, e che segnano le sue coste, ma soprattutto il vasto interno, di città vetuste, di templi abbaglianti, di santuari solenni; con teatri, edifici pubblici e privati, torri, piazze e mercati dalle dimensioni imponenti e molto ben conservati, tanto che già una semplice loro foto lascia stupiti. Una mattina, per esempio, a Milas (l’antica Mylasa), sono salito a bordo di un dolmus, uno di quei furgoni privati per passeggeri, piú o meno ben messi, che fanno la spola tra i vari centri della Turchia. Sono frequenti ed ecoa r c h e o 85
SPECIALE • TURCHIA
MILETO, CITTÀ DELLA RAGIONE Per oltre un millennio, Mileto fu uno dei maggiori centri della grecità d’Asia. Già esistente in età micenea, divenne, a seguito della prima colonizzazione ellenica (XI-IX a.C. secolo), la pòlis maggiore della Ionia. Fu a sua volta madrepatria di numerose fondazioni coloniali, tra il Mar di Marmara e il Mar Nero, ed epicentro della cultura greca arcaica: luogo di nascita dell’indagine razionale sulla natura e sull’uomo, in pratica della scienza
antica e della filosofia. Capofila della fallita ribellione contro i Persiani (499/494 a.C.), che la distrussero, fu ricostruita a partire dal V secolo a.C. con impianto ortogonale dal celebre urbanista Ippodamo. Fu abbellita e ingrandita fino alla tarda età imperiale: passeggiare oggi tra le sue grandiose rovine, lontane dai centri abitati moderni, provoca grande emozione, visto che qui è nata gran parte di quella che chiamiamo civiltà occidentale.
A destra: planimetria di Mileto: si può constatare l’organizzazione regolare degli spazi, articolati secondo linee ortogonali, frutto del piano urbanistico elaborato dall’architetto Ippodamo. In basso: Mileto. I resti di una stoà ionica nei pressi del tempio di Apollo.
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AFRODISIA, O LA BELLEZZA Afrodisia ha rovine estese per ben 520 ettari, sorge all’interno dell’Anatolia ed è oggetto di importanti campagne di scavo che continuano a portare alla luce e restaurare magnifici edifici, soprattutto di età imperiale. Tuttavia ha una storia plurimillenaria, poiché nacque come santuario della Dea Madre, che, sotto diverse denominazioni, costituisce il fulcro di tutte le antiche religiosità anatoliche. Afrodite è perciò solo l’ultimo dei nomi assunti dalla dea, e la conseguente identificazione con Venere accrebbe ancor piú il rilievo della città quando l’Asia Minore entrò a far parte dei domini romani nel II secolo a.C. Infatti, il legame di Enea e dei suoi discendenti romulei con la madre
morte – lo affiancano curiosamente due orecchie tese, anch’esse in rilievo. Dunque tra queste colonne abitava un dio, un tempo forse terribile, ma che talvolta si piegava ad ascoltare le richieste sommesse, le preghiere accorate degli uomini? Non lo sappiamo, né forse lo sapremo mai: poiché la lingua dei Cari è per noi ancora muta; cosí come è muta la «lineare A» di quella civiltà minoica a cui il simbolo religioso della doppia ascia fu probabilmente trasmesso. Frammisti com’erano ai Greci – presenti qui di volta in volta come migranti o despoti, colonizzatori o liberatori – e quindi, volenti o nolenti, loro stretti frequentatori, i Cari sono un popolo antichissimo, ma ormai da tempo scomparso: la loro
Venere rese il santuario oggetto delle attenzioni e della munificenza di uomini politici, generali e imperatori: Silla per esempio, che ebbe il titolo di Epafrodito («caro ad Afrodite»), fu invitato dall’oracolo delfico a dedicare nella città una corona d’oro, ma anche una doppia ascia: tradizionale simbolo sacro presso i Cari. È impossibile elencare qui anche solo gli edifici di maggior rilievo, per non parlare delle magnifiche sculture raccolte nel locale museo: ma una menzione speciale meritano il Tetrapylon, un arco trionfale a quattro fornici superbo esempio del «barocco» romano; e l’enorme stadio, il piú grande e meglio conservato dell’antichità.
In alto: Afrodisia. Il Tetrapylon, un arco trionfale a quattro fornici considerato come una delle migliori espressioni del «barocco» romano. Seconda metà del II sec. d.C.
lingua non può neppure essere considerata con sicurezza appartenente alla famiglia indoeuropea. Mi fermo perciò a lungo, incuriosito e perplesso, davanti alla prima epigrafe in caratteri cari che trovo al museo archeologico di Milas, collocata un po’ in disparte ma comunque in evidenza tra ritratti ellenistico-romani di squisita fattura e rilievi greco-arcaici che non sfigurerebbero al Museo dell’Acropoli di Atene. «Barbarofoni», cioè, alla lettera, «parlanti con suoni barbari», definisce Omero i Cari: unici tra i contingenti orientali combattenti a favore di Troia a meritarsi questo epiteto. Eppure, tra tanti altri popoli dell’Asia Minore, e benché fossero notoriamente riottosi e bellicosi, furono quelli che ospitarono alcune delle piú a r c h e o 87
SPECIALE • TURCHIA
TRE CELEBRI INVENZIONI Secondo il geografo Strabone, ai Cari si devono l’invenzione e la successiva introduzione in Grecia di alcuni elementi dell’armatura senza i quali nemmeno riusciremmo a immaginare un guerriero ellenico. Anzitutto il cimiero, l’ornamento o il pennacchio posto sulla parte culminante (cima) dell’elmo. Poi, la maniglia all’interno dello scudo, che ne rese la tenuta piú salda e piú maneggevole l’utilizzo. La terza invenzione fu quella di porre uno stemma figurato al centro dello scudo medesimo. Queste tre caratteristiche hanno fatto
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ipotizzare che siano stati i Cari a introdurre in Grecia la tattica di combattimento oplitica: schieramento di guerrieri in formazione compatta, serrati dietro un muro di scudi. Una tattica forse derivata dagli Assiri, o, addirittura, dagli Ittiti. A oggi, però, non esistono conferme archeologiche della paternità caria di tali innovazioni. È comunque un dato di fatto che i Cari furono apprezzati come truppe mercenarie fin dall’età arcaica in tutto il Mediterraneo orientale, tanto che li troviamo a combattere anche sotto i faraoni del tardo Egitto.
antiche e fulgide colonie elleniche, e ingentilirono i propri costumi grazie all’influsso di una civiltà che, almeno per qualche secolo, si presentava sicuramente come piú avanzata (vedi box a p. 92).
IL DISPREZZO DEI GRECI Metà barbari e metà greci, insomma; metà occidentali e metà orientali, i Cari. E, come se non bastasse, per una metà virili e bellicosi, per l’altra dissoluti ed effeminati: del resto, cosí spesso i Greci consideravano, con qualche punta di disprezzo, i popoli dell’Asia. Che cosa si cela, per esempio, dietro il mito dell’Ermafrodito? Quando si entra nel porto di Alicarnasso provenienti dal mare, a consolare la delusione di non avvistare piú la mole dello spettacolare Mausoleo che rese celebre la città nel mondo, ci sono tuttavia due magnifici avamposti: il Castello dei Cavalieri, ricostruito saccheggiando proprio le magnifiche pietre marmoree del Mausoleo; e, dalla parte opposta della baia, la collina di Salmacide.
In questa pagina: Euromos. Un’immagine del tempio di Zeus Lepsynos (età adrianea) e, a sinistra, uno dei blocchi sui quali compare, a rilievo, una doppia ascia affiancata da due orecchie. Nella pagina accanto: fregio raffigurante un combattimento tra Greci e Amazzoni, dal Mausoleo di Alicarnasso. 350 a.C. Londra, British Museum.
Salmacide è la ninfa Naiade che, invaghitasi del bellissimo quindicenne figlio di Ermes e di Afrodite, lo sedusse e lo trascinò nelle acque, avvinghiandosi a lui in modo tale che gli dei, alla fine, non trovarono altra soluzione a quella passione violenta e insaziabile che fondere i due corpi, quello del ragazzo e quello della giovane, in una sola persona dal duplice sesso. Ma Salmacide è anche una fonte, di cui si diceva che bere le acque inducesse gli uomini all’effeminatezza: e fu invitandoli a bere lí che i coloni greci avrebbero avuto, alfine, ragione della rozza indole dei Cari (vedi box a p. 95). Ma Bodrum (o Alicarnasso) è oggi quasi Europa, e ha una vita estiva in fondo non troppo diversa da Dubrovnik, Kos o Rodi. Con il suo panoramico teatro antico, la porta fortificata di Mindos e l’antiquarium dedicato al Mausoleo, sembra rimasta ancora fedele al suo nome originario di Zefiria: di città esposta al vento, agli influssi spiranti da Occidente. Ma basta spingersi una cinquantina di chilometri piú all’interno, nella Milas/Mylasa che abbiamo già incontrato e che fu capitale della Caria
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SPECIALE • TURCHIA
ancor prima di Alicarnasso, per essere avvolti da un’atmosfera del tutto differente. Qui i turisti stranieri sono pochissimi, i ritmi di vita sono quelli turchi, e vi si respira un’aria piú autentica, tradizionale: sia che tu vada a cercare i resti grandiosi – ma nulla piú di qualche possente basamento in pietra – del tempio di Zeus Osogos; sia che ti aggiri, nella parte piú alta della cittadina, quasi un’acropoli fatta di viuzze e di botteghe, attorno alla colonna superstite del santuario di Zeus Cario: svettante sulle antiche rovine per la sua snellezza, è coronata perennemente da un nido di cicogne, e segnava un tempo il recinto sacro della nazione. Vi potevano accedere, dice Strabone, solo quanti erano
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Cari di nascita o loro affini come i vicini Lidi e i Misi (vedi box a p. 96). Da lí scendo verso il corso d’acqua che traversa la città e lo supero per giungere al bazar. Tra bancarelle rese multicolori dai frutti, dagli ortaggi, dalle spezie immancabili in tutti i mercatini d’Anatolia, ecco ergersi un altro monumento, con un simbolo già incontrato. Si tratta di una porta ad arco delle antiche mura romane, ma quell’architetto di un’antichità relativamente tarda ha voluto inserire sotto la chiave di volta, rispettando la tradizione, l’arcaico emblema della doppia ascia: e infatti Baltalı Capı, «Porta dell’Ascia», si chiama oggi in turco il monumento. La attraverso, ma senza proseguire: so che la via che si in-
In basso, sulle due pagine: Alicarnasso (Bodrum). Una veduta del teatro, con il castello sulla sinistra e la collina di Salmacide sulla destra.
A destra: Alicarnasso (Bodrum). Il torrione del castello, con il minareto della moschea interna e, a sinistra, sullo sfondo, la collina di Salmacide.
UN AMORE FILIALE Quando giunse in Caria, Alessandro Magno si vide obbligato ad affrontare le possenti difese della capitale, Alicarnasso. Il re trovò aiuto in Ada, illustre esponente della dinastia locale, gli Ecatomnidi. I figli di Ecatomno furono cinque: Mausolo, Artemisia, Idrieo, Pissodaro e, appunto, Ada. Mausolo aveva sposato Artemisia (il matrimonio tra fratelli e sorelle nelle famiglie regnanti sarà tipico anche nella dinastia dei Tolomei, in Egitto), la quale alla morte gli succedette (353 a.C.), proseguendo la costruzione del Mausoleo, ma sopravvivendogli solo altri due anni. Dopodiché salí al potere l’altro fratello, Idrieo, marito a sua volta della sorella Ada. Quando anche Idrieo morí nel 344 a.C., secondo le consuetudini carie avrebbe potuto benissimo succedergli una donna: Ada, appunto. Ma costei venne defenestrata dal fratello superstite, Pissodaro, e si rifugiò nella città fortificata di Alinda. Lí Ada accolse Alessandro a braccia aperte, sperando che la aiutasse a riprendere il potere. Non osò proporglisi come sposa, ma lo adottò come un figlio, cosa che il Macedone accettò di buon grado, poiché quell’alleanza gli facilitava la conquista della regione e il suo successivo controllo. E infatti, dopo aver cacciato gli usurpatori, Alessandro installò Ada al potere, certo che alla morte di lei la regione sarebbe passata al suo amato «figlio».
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traprende da qui mi condurrebbe ancora per altri quattordici chilometri, piú in alto, fino a un santuario disperso tra i monti, dove sarà meglio giungere in auto. Il santuario in questione, manco a dirlo, richiama fin dal nome la doppia ascia, la labrys, parola talmente arcaica da essere ritenuta preellenica. Quassú, nel santuario di Labranda, Zeus era soprannominato Stratios: traducendo, una sorta di «dio degli eserciti». Qui si radunarono in estrema, eroica difesa, i Cari che si erano ribellati ai Persiani, dando man forte agli Ioni e agli
Iscrizione in lingua caria, idioma a tutt’oggi non decifrato e che non può essere assegnato con sicurezza al ceppo indoeuropeo. Milas, Museo.
UNA QUESTIONE DI ACCENTI Perché, fra tanti popoli dell’Asia che combattevano contro gli Achei in difesa di Troia, solo i Cari vengono definiti da Omero «barbarofoni» («dai suoni barbari»)? Va ricordato che allora «barbaro» non implicava connotazioni dispregiative, ma si riferiva semplicemente a chi parlava in modo diverso dai Greci. Forse l’antico cario era percepito come piú estraneo e insolito, rispetto alle altre parlate non greche dell’Anatolia? Ciò pare improbabile, poiché nella penisola le lingue indigene erano molte, oscure e comunque di difficile comprensione per un greco. Inoltre, sappiamo da Erodoto che proprio i Cari erano spesso e volentieri bilingui, e usati perciò come interpreti. Cosí, già in passato, si accese una disputa tra filologi e studiosi, che Strabone, nel libro XIV della Geografia, risolve in questo modo: proprio perché i Cari, piú di altri, erano da molto tempo frammisti ai Greci, ne parlavano quasi tutti la lingua, ovviamente con un accento straniero piú o meno marcato. Mentre gli altri parlavano lingue «barbare» e basta, solo dai Cari si sentiva dunque parlare un greco con inflessione «barbarica». Il riferimento, dunque, sarebbe rivolto non alla lingua dei Cari, ma alla loro pronuncia del greco.
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Eoli nella rivolta promossa da Mileto nel 499 a.C.: prodromo delle guerre persiane e del primo scontro «tra Oriente e Occidente». Dopo aver risalito una serie di spettacolari tornanti stradali raggiungo il santuario, addossato, come quello di Delfi, al costone di un monte e posto su terrazze a piú livelli (vedi foto alle pp. 98-99). Da quassú si domina l’intera fertile piana di Mylasa e, piú oltre, lontana, si scorge la rocca scoscesa di Peçin Kale, una cittadella che forse fu anch’essa capitale della regione ancor prima di Mylasa. Anche a Labranda sono il solo visitatore e ad accogliermi, gentilissimo e ospitale, trovo Alí, il sorvegliante del sito. Risalita la scalinata dei propilei accediamo assieme al santuario: dapprima, alla terrazza del tempio di Zeus, di cui restano estese fondamenta; poi, in visita alle Sale degli Uomini (gli «Androni», destinati a ospitare i visitatori illustri o i sacerdoti), rimaste pressoché intatte fin sopra i vani delle finestre. Quindi ci allontaniamo di poco e, superato un tratto boscoso, arriviamo ai resti di uno stadio, il cui terrazzamento fu prolungato perché raggiungesse la lunghezza canonica adatta alle gare di corsa, fino a scavalcare una forra. Ma il corso d’acqua che la riempie durante le piogge venne rispettato, e lasciato libero di fluire, con un’elegante architettura idraulica. Infine, a coronamento del tutto, arriviamo al magnifico, solenne viale lastricato a gradoni, che è il tratto terminale della Via Sacra che saliva qui da Mylasa, percorsa in processione ogni anno per la festa del dio. Sazio di visioni fenomenali, ma digiuno da ore, domando dove sia il ristorante piú vicino: per tutta risposta, Alí mi conduce nella sua piccola dimora tra le rovine e mi offre lo yogurt delle sue pecore, le uova del pollaio, pane cotto in casa e l’immancabile, vigoroso tè turco. Quando sta ormai per calare il sole sul santuario di Zeus Stratios mi congedo, e vorrei ricompensarlo. Ma lui mi ferma: «Se vuole, quando scriverà di questo luogo, ringrazi semplicemente Alí, e lo Stato turco».
QUASI UNA CAPITALE Dopo Labranda la strada prosegue, risalendo ancor piú verso l’interno, e attraversa altri monti, altre valli, per scendere poi al corso del fiume che una volta era detto Marsia, mentre oggi è il Çine çay. Ma prima di raggiungere quella piana che vide compiersi un altro drammatico episodio del mito classico, sarà
bene scegliere un nuovo punto di partenza, una base diversa da Milas, che sia al centro delle vie di comunicazione della Caria odierna. Occorre infatti ricordare che l’antica regione è oggi occupata in massima parte da una «il» – provincia – turca.Viste le dimensioni del Paese, una provincia è in genere estesa quanto una nostra regione, e il ruolo occupato una volta da Mylasa e poi da Alicarnasso, cioè di centro politico, commerciale e amministrativo dell’area, è ora ricoperto dall’ospitale Mugla, cittadina di 100 000 abitanti circa, che ha la dignità, il lustro e l’eleganza di una piccola capitale. Si trova su una piana a 600 m sul livello del mare, è fresca anche in estate e resa gradevole dal suo centro storico, con le numerose botteghe artigiane tradizionali, i provvidenziali giardini da tè e alcuni monumenti di età ottomana ben conservati. In quanto capoluogo dell’omonima il, Mugla ha anche un museo ben organizzato, che si sviluppa attorno a un grande patio centrale punteggiato di sculture classiche. La sala piú interessante è senz’altro quella dedicata alle tombe dei gladiatori. Fa impressione pensare che qui, duemila anni fa, si organizzavano regolarmente ludi simili a quelli del Colosseo. Si svolgevano nella vicina Stratonicea, città di fondazione ellenistica le cui rovine sono a tutt’oggi ricche e spettacolari. La cosa che sorprende fin dall’inizio è la bellezza e la lucentezza del marmo di questa antica città, la pietra locale con cui sono stati costruiti i suoi edifici: un’imponente e son-
In questa pagina: due immagini di Alicarnasso. In alto, i resti del Mausoleo; in basso, la porta di Myndos.
tuosa agorà, una sala del Consiglio (bouleutèrion) talmente ben conservata che se ne potrebbero ancora utilizzare i sedili disposti a semicerchio, tra scale d’accesso e pareti ricoperte di nitide iscrizioni classiche. E, infine, il teatro: che è grandioso, pari per dimensioni solo a quello di Alicarnasso. Ma i sedili della cavea paiono curiosamente deformati, quasi fossero di gomma, da una forza immensa: quella dei violenti terremoti che nei secoli hanno afflitto questa, come altre terre del Mediterraneo orientale. Sopra il teatro, risalgo fino alla terrazza del tempio dedicato ad Augusto e Roma (vedi box a p. 101). Da qui la vista si spinge fino a una odierna cava ancora in funzione, e, ancora piú oltre, al santuario dedicato alla dea piú inquietante e
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Mylasa (Milas). Il GĂźmĂźskesen, mausoleo che, in dimensioni minori, imita la struttura del grande modello alicarnasseo. EtĂ romana.
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DA MAUSOLO AI MAUSOLEI Il Mausoleo di Alicarnasso è forse l’unico esempio di tipologia di edificio che abbia preso nome da una persona. Il monumento funebre eretto in onore del re di Caria, Mausolo, nel IV secolo a.C. fu annoverato tra le sette meraviglie del mondo per le imponenti dimensioni (il recinto che lo circondava era di 242 x 105,50 m; sormontato da una quadriga al culmine di un tetto a sezione piramidale, l’edificio raggiungeva i 45 m circa d’altezza); per la quantità delle statue in marmo, che lo adornavano lungo i vari ripiani, piú di 300; ma anche per la qualità artistica: vi lavorarono scultori come Skopas e Leochares, e architetti come Pytheos e Satyros. Dell’intero edificio resta molto poco: dopo un violento terremoto del 1304, l’ingente materiale edilizio fu infatti utilizzato dai Cavalieri Gerosolimitani per erigere il Castello di San Pietro, iniziato nel 1402, a difesa
dell’avanzata ottomana. Chi voglia farsi un’idea del suo aspetto e della sua eleganza, può però recarsi a Milas, per ammirare il mausoleo detto Gümüskesen, ben conservato e risalente all’età romana: in dimensioni minori, ripete piú o meno la struttura del grande modello alicarnasseo.
misteriosa della regione: Ecate tricorpore. Sono rarissimi i santuari dedicati nel mondo antico a questa divinità. Quello di Lagina era strettamente legato alla vicina Stratonicea anche attraverso una via sacra di cui non resta che il tratto iniziale. Lungo quella strada, ogni anno, muoveva la processione in onore della dea. Multiforme, ambigua, potente, ancor piú antica degli dèi omerici poiché figlia di due Titani (Perse e Asteria), Ecate aveva tre corpi o tre teste che volgevano in direzioni diverse. Erano infatti di sua competenza le tre sfere del cielo, del mare e degli inferi. Tuttavia, col passare dei secoli, il suo ruolo si concentrò in quello di guida delle anime, uno «psicopompo» al femminile, tanto che viene celebrata al principio dei cosiddetti Inni orfici, legati al culto dell’eroe Orfeo, capace di scendere e poi risalire dall’Ade.
In alto, a sinistra: particolare del soffitto a cassettoni del Gümüskesen di Mylasa. In alto, a destra: modellino del Mausoleo di Alicarnasso.
Anche a Lagina arrivo di buon ora, al mattino,. Il cielo, in questa primavera incipiente, è rannuvolato, e solo a tratti lascia spazio a un pallido sole, quasi per intonarsi allo spirito mesto del luogo, di passaggio tra il mondo dei vivi e quello dei defunti. Dal verde intenso dell’erba alta, inframmezzata per ogni dove da candidi frammenti di edifici abbattuti, spuntano, come gocce di sangue, brillanti papaveri. I propilei sono forse la parte piú originale del santuario, poiché hanno un portico con un elegante colonnato ellittico. Ma anche quel che resta del monumentale altare ove salgo alla fine della mia visita è impressionante: oggi è un ammasso voluminoso di marmi purissimi che brillerebbero, se vi fosse il sole. Come a un centro di gravità pulsante a cui ogni volta ritorno, è sempre da Mugla che poi riparto, con destinazioni a raggiera, per le a r c h e o 95
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Turchi questo golfo è oggi detto di Gökova, della «Piana Celeste». Oggi, quello che fu l’antico centro di Kèramos, una polis ellenica, è raggiungibile con un lungo percorso litoraneo dal fondo del golfo. Con l’aiuto di un falegname locale, che volentieri mi sacrifica la pausa di metà giornata, andrò a scoprirvi testimonianze per me altrimenti introvabili: tratti di mura e di portali antichi, nonché il podio marmoreo di un alto tempio.
ulteriori escursioni. La successiva, mi porta a fare un precoce bagno marino di metà aprile. Una delle spiagge forse piú belle della regione è anche una delle piú piccole, e si trova su una minuscola isola turca dell’Egeo. Siamo in quello che fu una volta il golfo Ceramico (Keramikòs): una profonda insenatura di decine di chilometri, che accoglie un mare dall’azzurro intenso, tra le frastagliate e verdeggianti coste della regione: tanto che per i
In alto: Mylasa (Milas). I resti del tempio di Zeus Cario.
I MOLTI NOMI DI ZEUS Lepsynos, Osogos, Stratios, Karios: ma anche Labraundos, Chrysaoris, Idrieos... Gli studiosi hanno enumerato oltre 20 nomi, o epiteti, che accompagnavano quello di Zeus in altrettante località della Caria. Sotto l’egida di Zeus Karios, il cui tempio sorgeva a Mylasa o nella vicina cittadella di Peçin Kale, si riuní la prima confederazione regionale, per contrastare i Persiani che avevano abbattuto e conquistato il vicino regno di Lidia (547/6 a.C.). Solo con gli Ecatomnidi, in origine satrapi locali, la Caria conseguí nel IV secolo a.C. unità e indipendenza, pur sotto il formale dominio persiano. Sotto Mausolo (377-53 a.C.), il regno raggiunse l’apice della potenza e della ricchezza, come dimostra anche l’intera riprogettazione, della nuova capitale, Alicarnasso, tanto scenografica quanto efficace ai fini commerciali e difensivi. In età ellenistica, infine, quando le leghe locali si affermarono un po’ ovunque per consentire alle città-stato di far fronte, unendosi, allo strapotere dei diadochi, fu formata la Lega Chrisaorica, che ebbe il suo centro nel tempio di Zeus Chrisaoris, nei pressi del quale sarà poi costruita la città di Stratonicea (vedi anche il box a p. 101).
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LA PERLA DEL GOLFO Ma la perla del golfo è appunto la piccola isola nascosta, quasi invisibile da lontano per quanto è esile e prossima alla terraferma. Ci arrivo da uno degli scali meno vicini, con una modesta imbarcazione che effettua proprio quel giorno la prima corsa. Apre infatti al pubblico solo a primavera Sedir Adası, l’«Isola
QUINDICI NAVI PER UN DONO D’AMORE Il colore chiaro della spiaggia di Sedir Adası è dovuto a un tipo particolare di sabbia, composta da ooidi, vale a dire granuli, dalla forma sferica o quasi e di dimensioni comprese tra 0,2 e 1 mm., costituiti da carbonato di calcio. Poiché una simile sabbia non si trova in tutta la Turchia, ma solo in pochissimi altri luoghi del Mediterraneo, i geologi hanno effettuato studi comparati tra la sabbia dell’isoletta e quella del litorale attorno ad Alessandria d’Egitto, cercando di verificare la fondatezza della leggenda che vede in
dei Cedri». Un tempo fu una polis in piena regola, abitata da Cari, poi ellenizzata e romanizzata; per accedervi si paga un biglietto, dato che è zona archeologica. Visito il teatro dalle classiche proporzioni, la cui cavea è ombreggiata da ulivi cresciuti nei secoli tra le file dei sedili; e poi un’acropoli, affacciata sul mare, coi resti del tempio di Apollo. E, alla fine di una lunga passeggiata all’ombra dei cedri (questo vuol dire Sedir in turco, cosí come il nome ellenico della città-isola, Kedrai), raggiungo la spiaggia piú luminosa e insolita della regione. Una leggenda dice che qui Antonio e Cleopatra avessero trascorso la loro luna di miele, e che per fare cosa gradita alla regina il pro-
questa spiaggia un singolare, costosissimo dono di Antonio a Cleopatra. In effetti, sono risultate forti similarità tra le sabbie delle due località. Alcuni studiosi, tuttavia, non escludono la possibilità di una formazione in loco del materiale. Altri invece la giudicano improbabile, e, come Amr El-Sammak e Maurice Tucker, propongono perfino una stima sulle modalità del trasporto: Antonio avrebbe impiegato 15 navi da carico per trasferire sin qui tutta quella sabbia dalla costa opposta del Mediterraneo.
Sedir Adası (Isola dei Cedri). La spiaggia detta «di Cleopatra». Nella pagina accanto, in basso: testa di Zeus. Epoca ellenistica. Milas, Museo.
console avesse fatto trasportare dalle navi addirittura la soffice, candida sabbia dell’Egitto (vedi box in questa pagina). Ma la Caria antica non è solo terra di mari e di monti, poiché in essa sono compresi almeno due grandi laghi: quello di Köycegiz, ove sorgono le rovine dell’antica Kaunos, che però culturalmente è in qualche modo distinta sia dalla Caria, sia dalla confinante Licia; e quello piú settentrionale, detto di Bafa, ai piedi del Latmo. Il Latmo è uno dei monti piú spettacolari dell’Anatolia: alto 1300 m circa, ha una cresta a cinque punte, cosí che i Turchi lo hanno ribattezzato Besparmak, «il Cinque dita». Ma il lago di Bafa è ancor piú singolare, poiché una volta non era un lago, a r c h e o 97
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bensí un golfo: il golfo Latmiaco, appunto. Le sue acque sono salate: il mare pare oggi lontano, ma in realtà si nasconde appena dietro alcune basse alture. L’autore di questo sconvolgimento geologico è stato il copioso, lento fluire del Meandro, che, passando pochi chilometri piú a settentrione, ha mutato il volto di queste terre coi detriti alluvionali. Il porto di Mileto, per esempio, è completamente interrato: dava accesso diretto al cuore della città, e un muretto di pietre a secco vi segna oggi il varco tra i due moli d’ingresso, tagliato una volta dalle prore delle navi. Il lago di Bafa non è dunque che un residuo marino. Sicché l’antica città di Eraclea sul Latmo, che sorgeva alta sulle sue sponde, ci offre oggi un panorama assai suggestivo, ma che ha poco a che vedere con quello di un tempo.
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Arrivo cosí nel villaggio di Kapıkırı, che si sviluppa in mezzo alle possenti rovine dell’antica Eraclea. Scelgo come guida un giovane contadino, felicissimo di portarmi sulle alte mura ellenistiche, lunghe ben 4 miglia, e dotate di 65 torri, alcune delle quali ancora ben conservate. Grazie a lui, scopro un bouleuterion nel cortile di una fattoria; un’agorà con un mercato monumentale; ma, soprattutto, salgo, quando il sole è ormai al culmine, sulla cella di quello che fu il tempio di Atena, che si erge come la polena di una nave su un promontorio che oggi domina il lago, che una volta fu mare. Da uno sperone di pietra ancor piú proteso verso le acque e oggi occupato da un castello medievale, godo di una visione incredibile: in mezzo all’acqua, gruppi di tombe antiche intagliate nella roccia, prive di coperchio e rimaste coi
vani vuoti e ciechi, sono lambite e battute regolarmente dalle onde, che ora le sommergono, ora le rilasciano al sole, cingendole di un funereo festone di schiuma.
L’ETERNA GIOVINEZZA Ma resta ancora una cosa, da vedere, prima di ripartire per Mugla: il santuario-tomba di Endimione. Le fonti antiche hanno portato a individuare in una specie di esedra quadrangolare, addossata su una roccia, la grotta ove il bel pastore cario fu scoperto, corteggiato e amato dalla Luna (o Selene, Ecate o Artemide, come la si voglia chiamare): finché Zeus gli concesse un sonno eterno e dolcissimo, cosicché ogni notte la dea potesse ca- In alto: fregio a rilievo. Mugla, Museo. rezzarlo, dall’alto, con i suoi raggi. Senza In basso, sulle due pagine: Labranda. Veduta dimenticare, cosa fondamentale, di conce- panoramica della terrazza principale del santuario. dergli anche l’eterna giovinezza.
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Cosí anche Alinda e Alabanda, due antiche città carie non lontane dal corso del Marsia, che taglia una bellissima vallata tra le alture interne della regione prima di gettarsi sul Meandro, le ho viste quasi deserte, in compagnia di sorveglianti gentili e ospitali. Alinda è erta, arrampicata su un’altura, con un teatro che sembrerebbe quasi sul punto di franare se non fosse per gli enormi contrafforti ancora intatti che lo trattengono con i loro conci regolari, perfetti.Vanta poi una torre d’avvistamento pressoché integra, numerose arcate d’acquedotto, e un portico di mercato che, per dimensioni, è senz’altro uno dei monumenti piú impressionanti di tutta la Caria. Alabanda è piú in piano, ha anch’essa un bel teatro che si addossa a una collinetta: fino a pochi anni fa la cavea era occupata da povere case, ma è stata ora finalmente liberata. Anche qui, il mio improvvisato cicerone mi fa notare, su blocchi riutilizzati nell’edificio di scena, o collocati come piedistalli di statue presso il tempio dorico, i rilievi scolpiti con la doppia ascia. 100 a r c h e o
Al termine di una lunga giornata di visite, ora meno calda ma pur sempre luminosa, stavo quasi per rinunziare a salire fino a Gherga, sito di cui si sa poco o nulla: nessuna carta lo riporta, nessuna indicazione vi conduce. Ne ho scoperto l’esistenza su vecchi libri ormai fuori commercio e in altrettanto datate foto in bianco e nero. Ma per
In questa pagina: due immagini di Stratonicea. In alto, il teatro; qui sopra, il bouleterion (la sala del Consiglio).
QUEL DIVORZIO... «TERAPEUTICO» Seleuco I Nicatore, uno dei successori di Alessandro (i diadochi), aveva avuto da una prima moglie il figlio Antioco. Come scrive Plutarco, quando costui era già grande e aveva dato prova di sé in numerose battaglie, il padre prese in moglie la ben piú giovane Stratonice, figlia di Demetrio Poliorcete. Antioco però fu subito preso da ardente amore per la matrigna, a tal punto che, conscio di non poterlo né soddisfare né rivelare, cadde in profonda prostrazione e si ammalò. Angosciato per quel male misterioso, il padre si rivolse a un uomo a lui fedele, Erasistrato, che era anche medico di fama; costui, notando che le condizioni del giovane si alteravano e peggioravano proprio quando Stratonice si presentava al suo capezzale, intuí l’origine del male. Temendo però di rivelare la verità al sovrano, lo affrontò con uno stratagemma. Gli confidò sí che il figlio era malato d’amore non corrisposto: ma per la propria moglie, quella di Erasistrato, non quella del re. Venuto a conoscenza del fatto, Seleuco lo scongiurò: «Tu hai cari sia me, che mio figlio: liberalo dunque dal male, salva la mia dinastia, cedendogli tua moglie!». Al che il medico: «E però nemmeno tu lo faresti, se la moglie fosse la tua». «Ma certo che lo farei, ribatté Seleuco, anzi, volessero gli dèi che fosse la mia e che potessi in tal modo salvarlo!». A quel punto Erasistrato disse la verità. Seleuco non potè tirarsi indietro: divorziò dalla moglie e le lasciò sposare Antioco, che la riempí di tutte le gioie e gli onori, dedicandole una nuova città: Stratonicea.
fortuna ho avuto un ripensamento, e ho iniziato a risalire i tornanti di una stradina che parte dal fiume Çine, l’antico Marsia, avventurandomi tra i monti.
UN INCONTRO PROVVIDENZIALE Umili, minuscoli villaggi, dove nell’ora del primo pomeriggio nessuno pare in grado di darmi informazioni, si annullano all’inizio di una strada bianca. Capisco che Gherga deve essere lí, al culmine di un’altura che domina la vallata del Marsia, e cosí mi inoltro con l’auto. Dapprima non trovo nulla, né scorgo nessuno che possa aiutarmi, finché non vedo venire in senso opposto al mio un furgoncino. Lo fermo e spiego al guidatore che sono straniero e che sto cercando le rovine di Gherga. Il mio interlocutore fa una rapida telefonata e poi mi dice: «Ecco, mi sono liberato, salga con me». E mi piace pensare che siano gli dèi di Caria ad avermelo fatto incontrare, perché scopro che è il proprietario terriero di tutta la zona in cui sorgono i resti dell’antica città. Dopo un altro tratto di strada dissestata scendiamo dal mezzo, e procediamo camminando. La malattia di Antioco (o Antioco e Stratonice), olio su tela di Jean-Auguste-Dominique Ingres. 1840. Chantilly, Musée Condé.
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Siamo ora sul culmine di un’altura, quasi priva di alberi. Ciò mi stupisce, in una regione tanto verde e boscosa, ma, guardando ai miei piedi, mi do una risposta: rocce, rocce a fior di terra. E però lucenti, stranamente lucenti. Non credo ai miei occhi: a parte qualche anfratto dove cresce l’erba, sto camminando su un suolo fatto di quarzo. E intagliato nel quarzo è il sentiero che percorriamo. Quando giungiamo nel sito antico, ecco di fronte a me i singolari edifici in pietra che cercavo: pochissimo studiati, mai scavati né restaurati. Ma sono intatti grazie alla modalità della loro costruzione: attorno a essi la vege-
In alto: Gherga. L’edicola sacra meglio conservata fra quelle presenti nel sito. In basso: Lagina. I resti del tempio dedicato a Ecate.
tazione ritorna folta, e cosí troneggiano nel verde come tante, isolate edicole sacre, cappelle di pietra strutturate da un assemblaggio di monoliti che potevano ospitare al massimo sette, otto persone. Tranquille greggi belano attorno a noi. Alcune edicole, piú basse, paiono aver ospitato fonti sacre. Altre ancora, ninfe o demoni del luogo. Mi ricordo, finalmente, del povero Marsia: dell’eccellenza del suo flauto, dal suono tanto bello e spensierato da far dire a tutti ch’era piú incantevole della lira di Apollo. E poi della sfida col dio, una sfida che, per comune accordo, avrebbe lasciato il vinto alla mercé del vincitore. E la temporanea prevalenza dell’irsuto Marsia, con giudice un re Mida che, per avergli promesso la vittoria, rimedia da Apollo un bel paio di orecchie asinine. E poi l’inganno del dio, la sfida truccata: si dovrà ora suonare il proprio strumento anche a rovescio. E se con la lira ciò è possibile, con il flauto non lo è. Il lamento dello strumento a fiato si tramuta presto nelle urla disperate del satiro, legato e scorticato vivo dal suo immortale vincitore. E tutti piansero, per giorni, a quello strazio: le ninfe e gli altri satiri, i pastorelli e i semidei, forse anche i quarzi, si rabbuiarono. E da quelle infinite lacrime nacque, letteralmente, un fiume, il Marsia: scorre ancora oggi ed è tutto quel che resta del mito.
IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda
STUDIARE L’ORDINE PERDUTO È POSSIBILE PRATICARE UN’«ARCHEOLOGIA DEL SACCHEGGIO»? CERTAMENTE SÍ. E SE LE TRACCE MATERIALI LASCIATE DA AZIONI DEL GENERE SONO SFUGGENTI, SI PUÒ RICORRERE ALLA LETTERATURA...
L’
archeologo si imbatte spesso nei segni della storia militare. La vita quotidiana lascia in genere poche tracce (i luoghi dell’abitare vengono periodicamente puliti e tenuti in ordine), la morte ne lascia assai di piú. Sono gli strati di distruzione, accumuli che – quando non possano essere attribuiti a eventi naturali catastrofici – sono il piú delle volte frutto della violenza degli uomini. Tracce vistose di incendio, tetti crollati, mura diroccate: sono queste le evidenze materiali di una città conquistata, magari dopo un lungo assedio. Le persone sono per la maggior parte sparite dai luoghi della loro vita: è molto raro trovare la traccia
archeologica della loro presenza, della loro morte e della violenza subita (anche se in qualche caso ci pare di poterle intuire: vedi «Archeo» n. 382, dicembre 2016; anche on line su issuu.com). La conquista di una città comporta violenti scontri tra le truppe degli assediati e degli assedianti e poi, al prevalere dei secondi, una violenza senza remore si riversa sui civili: la brutalità tenuta a freno nei giorni dell’assedio si abbandona a uccisioni selvagge, stupri di massa, saccheggi. Possiamo parlare di una archeologia del saccheggio? Quante volte gli strati di distruzione di un ambiente, una casa, un quartiere sono stati identificati
Lo scheletro di una bambina uccisa durante la guerra sertoriana e forse violentata a Libisosa (centro ibero-romano non lontano da Albacete, nell’entroterra valenziano). 80 a.C. circa. Lezuza, Museo Archeologico.
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come l’esito finale di un saccheggio e non come l’ultima pagina di una lenta storia di abbandono, degrado, sgretolamento di mura un tempo vissute e dei loro arredi? Insomma, come si presenta agli occhi di un archeologo una casa saccheggiata?
UNA VIA ALTERNATIVA Invece di andare a cercarne i possibili esempi nella vastità delle casistiche archeologiche, possiamo provare a ricostruire le scenografie attraverso la letteratura. Pagine di scrittura che, proprio perché del tutto disinteressate a descrivere situazioni che noi potremmo definire archeologiche, ci mettono di fronte a quell’intreccio apparentemente caotico che è il prodotto involontario di azioni volontarie. È questo, infatti, il grande rebus dell’archeologia, le cui fonti nascono quasi sempre da coscienti azioni umane, che modificano radicalmente i contesti di vita, e quasi sempre si traducono nella formazione di nuovi contesti apparentemente privi di senso. Infatti, se scaviamo una casa di Pompei, troviamo generalmente le stanze con i loro arredi ancora ognuno approssimativamente al suo posto: non è casuale la disposizione delle cose. Ma se scaviamo un insediamento la cui esistenza sia segnata dalla razzia di un’invasione armata, e poi dall’abbandono e infine dalla coltivazione dei campi formatisi
sopra le rovine, i frammenti di ceramiche, ferro, vetro, che troviamo casualmente sparsi al suo interno palesano una disposizione, che non è il risultato della volontà di chi ha abitato quei luoghi, ma di un improvviso sconvolgimento: è il prodotto di un’azione umana che non mirava a dare un senso alla collocazione degli oggetti in quell’ambiente.
CON GLI OCCHI DI UN ADOLESCENTE C’è una narrazione, tra le piú belle della letteratura italiana della metà del Novecento, nella quale il giovane Italo Calvino ci descrive la «scoperta» di un saccheggio, vista con gli occhi di lui stesso adolescente. Nel raccontotestimonianza dal titolo Gli avanguardisti a Mentone, Calvino, ormai trentenne, rivive una giornata irripetibile trascorsa a scorrazzare tra le case deserte di una città saccheggiata. Nel giugno del 1940, quando Mussolini riempí
In alto: Mentone, giugno 1940. Un gruppo di camicie nere posa davanti a un albergo dopo l’occupazione della città francese. A sinistra: la prima pagina del quotidiano La Stampa dell’11 giugno 1940, all’indomani della dichiarazione di guerra all’Inghilterra e alla Francia da parte dell’Italia fascista.
di vergogna l’Italia dichiarando vilmente guerra alla vicina Francia – ormai piegata dall’invasione nazista –, in pochi giorni e al prezzo di qualche centinaio di morti le truppe italiane occuparono la prima cittadina al di là della frontiera, Mentone, che venne baldanzosamente annessa. Evacuata dai suoi abitanti senza opporre una resistenza armata, la città fu sistematicamente saccheggiata dai militari italiani casa per casa. A pochi mesi di distanza un gruppo di giovani avanguardisti viene trasferito a Mentone per dare il benvenuto a un reparto di falangisti spagnoli: sarà l’occasione per provare l’emozione di un goliardico saccheggio, che la
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penna di Calvino restituisce con l’intensità e la leggerezza di cui fu capace. Le cose rimaste nelle case abbandonate diventano cosí preda di un gruppo di giovani che perpetrano un misfatto piú grande di loro sotto gli occhi benevoli dei loro capi: «Ragazzi, non dimentichiamocene, questa è una città conquistata e noi siamo i vincitori. Tutto quel che c’è è nostro, nessuno può dirci niente!... Io vi dico questo, (…) che un giovane che si trova oggi qui, e non porta via niente, è un fesso! Sissignore: un fesso, e io mi vergognerei di stringergli la mano!».
UNA PROSA ASCIUTTA Il racconto è scarno, privo di moralismi o di compiacimenti. «Girammo intorno alla villa che pareva chiusa, ma trovammo, in una veranda dai vetri rotti, una portafinestra scardinata. Entrammo in un salotto con poltrone e sofà scomposti, ricoperti d’una pioggia di piccoli cocci; i primi saccheggiatori avevano cercato l’argenteria negli stipi e buttato all’aria i servizi di ceramica; e avevano tirato via i tappeti di sotto ai mobili, che erano rimasti in posizioni stravolte come dopo un terremoto. Passavamo per stanze e corridoi oscuri o luminosi a seconda se le persiane erano chiuse o aperte o addirittura asportate, e continuavamo a incontrare oggetti, fermi su casuali sostegni o seminati in terra e calpestati: pipe, calze, cuscini, carte da gioco, filo elettrico, riviste, lampadari…». L’immagine di quegli oggetti rimasti alla rinfusa per terra fa alzare il livello di attenzione dell’archeologo. «Le porte degli appartamenti erano state forzate e sui pavimenti era sparsa la roba dei cassetti rovesciati, per cercar soldi o preziosi; e rovistando in quegli strati di panni, cianfrusaglie, carte, si poteva ancora trovare qualche oggetto di valore. Ormai i
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nostri compagni battevano con metodo ogni casa, arraffando quello che restava di buono; (…) quando trovavano un oggetto interessante o vistoso lo prendevano, avventandosi con un urlo prima che gli altri ci arrivassero; poi magari lo buttavano via, se impicciava o se ne trovavano uno meglio». Il saccheggio non aveva guardato in faccia a nessuno: povere o ricche che fossero, quelle case avevano subito lo stesso trattamento. «D’una casa in un’altra, entrammo in quartieri vecchi e poveri. Le scale erano strette; le stanze, dallo stato dei loro stracci, parevano saccheggiate anni e anni prima e lasciate a imputridire al vento che veniva dal mare. I piatti in un acquaio erano sporchi; le casseruole grasse aggrumate, e forse salve solo per questo…». La vita si è fermata da poco, d’un tratto. «Aprii una porta. Ero in una stanza d’artigiano. C’era un banco di falegname da un lato e un deschetto forse da ebanista o da intagliatore in mezzo alla stanza. C’erano ancora i trucioli in terra, le schegge di legno, le cicche, come avesse smesso di lavorarci due minuti prima; e sopra, sparsi e spezzati, c’erano le centinaia di utensili, le centinaia di lavori che quell’uomo aveva fatto: cornici, astucci, spalliere di sedie, e non so quanti manici d’ombrelli». Le cose sparse in disordine, frugate, scartate, parlano ancora delle persone cui erano appartenute, delle loro vite, dei loro sentimenti: «Apersi ancora una porta. C’era un letto, una culla intatta; un armadio
Lo scrittore Italo Calvino (1923-1985) e, a sinistra, la copertina de L’entrata in guerra, raccolta che comprende il racconto Gli avanguardisti a Mentone.
spalancato e vuoto. Entrai in un’altra stanza: c’era in terra un mare di lettere, cartoline, foto. Vidi una fotografia di fidanzati: lui soldato, lei biondina. Mi accoccolai a leggere una lettera: Ma chérie… Era la camera di lei». La letteratura arriva a cogliere sentimenti e sfumature, che si integrano con i paesaggi in cui agiscono i suoi protagonisti, ricostruendo sintonie. Ma anche l’archeologia ricerca e restituisce ordini perduti, dando un senso alle cose e alle loro disposizioni contestuali, cosí come le ritrova. Anche i resti di un saccheggio hanno un loro ordine: non è quello della natura, disinteressata alle sorti dell’umanità, che sommerge e priva di funzioni gli arredi delle case di Pompei, è l’ordine insensato che nasce dal piú disperato disordine, quello di cui l’anima umana ha ripetutamente dato prova nella storia.
QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli
…S’ACCORDAVA CON CARTAGINE PER UNA COESISTENZA PACIFICA PRIMA DI DARE VITA A UNA RIVALITÀ DIVENUTA QUASI PROVERBIALE E DI INCROCIARE LE ARMI NEL PIÚ LUNGO CONFLITTO MAI COMBATTUTO IN EPOCA ANTICA, LE DUE CITTÀ, PER BEN QUATTRO VOLTE, RAGGIUNSERO ACCORDI MIRATI A SPARTIRSI IL CONTROLLO DELLA REGIONE MEDITERRANEA
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no degli avvenimenti piú significativi che la tradizione annalistica romana si compiacque di fissare al primo anno della repubblica, il 509 a.C., è la stipulazione di un trattato fra Roma e Cartagine: il primo di una serie di quattro che, fino al 279 a.C., definirono, di volta in volta, i rapporti di coesistenza pacifica tra le due potenze prima che esse entrassero, fatalmente, in rotta di collisione. Gli studiosi hanno discusso a lungo sulla storicità di quell’accordo, da molti ritenuto troppo antico; ma oggi l’opinione prevalente è che la tradizione debba essere accettata. Anche se la data non può essere presa alla lettera. Essa, infatti, dovette essere stata scelta ad arte, per dare lustro alla neonata repubblica (in un anno, del resto, stabilito anch’esso grazie a un artifizio ben calcolato). Tuttavia, non si dovrebbe essere troppo lontani dal vero giacché il trattato s’inserisce bene in un piú vasto orizzonte di contatti diplomatici, di intese e di vere e proprie alleanze che, per esempio, caratterizzarono in quell’epoca i rapporti tra la stessa Cartagine e le città etrusche tra le quali, fin dal tempo della monarchia dei Tarquini, anche Roma era di fatto annoverata.
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Come di norma, il testo del trattato venne inciso dai Romani su una tavola di bronzo e conservato in Campidoglio, in un sacello presso il tempio di Giove (forse non ancora inaugurato). Lí dovette vederlo, nel II secolo a.C., lo storico greco Polibio che ce lo ha tramandato in una trascrizione e con un commento nel quale sottolineava l’arcaicità della lingua.
DIVIETI RECIPROCI Quanto al contenuto, l’accordo proibiva la circolazione marittima dei Romani sulle coste dell’Africa settentrionale controllate da Cartagine, offrendo come contropartita il rispetto da parte dei Cartaginesi dell’egemonia di Roma sul Lazio. Piú in particolare, esso stabiliva che i Romani e i loro alleati non potevano navigare e commerciare a ovest del Promontorio Bello (il moderno Capo Farina, a nord di Tunisi); che sul resto delle coste africane e in Sardegna il loro commercio era permesso a determinate condizioni e sotto stretta sorveglianza, infine che esso era libero nella Sicilia occidentale dominata dai Cartaginesi cosí come doveva essere libero per i Cartaginesi lungo le coste del Lazio. Quanto a queste ultime, poi,
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Charax Arae Philaenorum
Il dominio cartaginese all’inizio dello scontro con Roma Territori cartaginesi nel 265 a.C.
Conquiste dei Barcidi in Spagna fino al 219 a.C.
Territorio di Massalia (Marsiglia)
Territori persi da Cartagine dopo il 238 a.C.
Domini romani
Regno di Massinissa (201-148 a.C.)
Limite delle zone d’influenza secondo i trattati del 348 e 306 a.C. tra Roma e Cartagine
In alto: l’assetto geopolitico del Mediterraneo, con l’indicazione dei territori sotto l’influenza di Roma e di Cartagine, agli inizi dello scontro tra le due città (264 a.C.). Nella pagina accanto: cippo che
raffigura una bottiglia su un altare, sormontata dal simbolo della dea Tanit, da Cartagine. IV sec. a.C. Tunisi, Museo Nazionale del Bardo. A destra: statere aureo di Pirro, re dell’Epiro. III sec. a.C.
era vietato ai Cartaginesi compiervi azioni ostili, come saccheggi e razzie, e costruirvi punti d’appoggio fortificati. A conti fatti, venivano definite tre aree geografiche, nella prima delle quali, quella piú propriamente tirrenica, i diritti tra i due contraenti erano paritari; nella seconda, quella intermedia, le condizioni erano marcatamente a favore di Cartagine; nella terza, quella africana, si sanciva la costituzione di una vera e propria «riserva» cartaginese. Cartagine, insomma, si assicurava una netta posizione di privilegio, mentre Roma, ancora un piccolo Stato «italico» di fronte alla
grande potenza mediterranea, oltre a farsi riconoscere come soggetto e partner di politica internazionale – capace di trattare anche a nome dei suoi alleati –, riuscí a sottrarre il Lazio, oggetto dei suoi piú immediati interessi, alle mire di Cartagine le cui navi erano forse già solite «frequentare», non sempre pacificamente, le coste pontine.
UN NETTO PRIVILEGIO Com’è stato giustamente osservato, la situazione di accentuata diseguaglianza e la posizione di netto privilegio riconosciuta a Cartagine giocano del tutto a favore della
verosimiglianza del trattato e della sua alta datazione. Tanto piú che qualcosa di simile (com’è stato confermato, sia pur indirettamente, dalle «lamine d’oro» di Pyrgi nei confronti dell’etrusca Caere) doveva accadere anche nei già ricordati rapporti etrusco-cartaginesi, regolati da trattati il cui schema (commercio libero, limitato o precluso a seconda delle aree geografiche) è probabile fosse ricalcato dal trattato romanocartaginese. Non a caso, Diodoro
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Incisione raffigurante la distruzione di Cartagine, nel 146 a.C., dopo la presa della città da parte di Scipione l’Africano, dall’Historische Chronica di Johann Ludwig Gottfried. 1630.
Siculo riferisce di un progetto etrusco di «colonizzare» un’isola dell’Atlantico prontamente sventato da Cartagine. Poco sappiamo dei successivi trattati stipulati tra Cartagine e Roma, in momenti cruciali per la storia romana, nel 348, nel 306 e nel 279 a.C. Essi dovettero però risolversi ogni volta nel rinnovo dei precedenti, salvo gli opportuni aggiornamenti e fino ad arrivare con l’ultimo, a un tentativo di vera e propria alleanza militare. Nel secondo trattato, oltre a figurare anche le città di Utica, in Africa, e persino Tiro – la madrepatria di Cartagine –, la zona preclusa ai commerci e alla colonizzazione romana venne estesa fino in Spagna (dove si trovava la colonia fenicia di Cartagena, nel territorio di Tartessos), mentre nella sfera di esclusiva influenza cartaginese fu compresa anche la Sardegna. Nel terzo trattato s’aggiunse il riconoscimento, da parte di Cartagine, dell’egemonia romana nell’Italia meridionale. Quanto all’ultimo trattato, esso venne stipulato mentre Roma si trovava impegnata nella guerra contro Pirro, con Cartagine preoccupata che il re epirota, una volta vinta Roma, non si rivolgesse poi contro se stessa in Sicilia. Cosí,
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nel 278 a.C., una flotta cartaginese di centoventi navi accorse a Ostia in aiuto dei Romani e, soprattutto, per convincere il Senato a non far la pace con Pirro (mentre poi, in spregio ai patti, fu proprio Cartagine a offrire al re una pace separata quando quello, passato in Sicilia l’anno dopo, la sconfisse, finendo con l’impadronirsi di buona parte dell’isola). Sorprende – ma fino a un certo punto, vista la crescente ambiguità dei rapporti tra le due parti conseguente alla progressiva ascesa di Roma – che negli ultimi due trattati sia stata omessa, a quanto pare, la precisazione delle reciproche sfere d’influenza proprio in Sicilia, dove, in urto con la tradizionale politica espansionistica di Cartagine, Roma andava via via acquisendo interessi commerciali e politici sempre piú importanti.
L’ESITAZIONE DEI ROMANI Il vuoto si rivelò in tutta la sua gravità quando si verificò il caso di Messina, diventata una repubblica indipendente, dopo essere stata occupata, intorno al 288 a.C., dalla «compagnia di ventura» dei Mamertini campani licenziati da Gerone di Siracusa. Assediata dai Siracusani, nel 264 a.C., essa chiese aiuto a Cartagine, la cui flotta indusse Gerone a ritirarsi. Passato
però il pericolo, i Mamertini, per sottrarsi all’«abbraccio» dei Cartaginesi, pensarono bene di offrirsi come alleati ai Romani, i quali, pur tra molte incertezze, inviarono a Messina un reparto armato che senza colpo ferire convinse i Cartaginesi a lasciare la città. Tuttavia, Cartagine non poteva tollerare una cosí diretta interferenza romana in Sicilia (peraltro esclusa dai patti) e si ripresentò subito in forze, dopo aver indotto i Siracusani a tornare in campo. Ciò condusse al potenziamento del contingente romano con un vero e proprio esercito consolare e infine allo scoppio della guerra: la prima guerra «punica» (o «romana», per i Cartaginesi), protrattasi per oltre vent’anni, fino al 241 a.C.: la piú lunga di tutta l’antichità! Dopo due secoli e mezzo di intese, di accordi e perfino di alleanze, divenuta anche Roma una «grande potenza» e, di fatto, dopo la sua vittoria su Pirro, l’erede anticartaginese del mondo greco, lo scontro fu inevitabile (e pare che lo stesso re epirota lo avesse facilmente previsto, se è vero che, lasciando la Sicilia, avrebbe esclamato: «che bel campo di battaglia lascio ai Cartaginesi e ai Romani»!): nel Mediterraneo occidentale non v’era posto per due Stati di uguale forza e di uguali e dunque contrastanti interessi. Cosí, per oltre cento anni si succedettero tre guerre, la seconda delle quali duramente combattuta per quasi un ventennio sul suolo italiano, salvo la battaglia finale di Zama, in Africa. E lo scontro terminò, nel 146 a.C., a favore di Roma, con l’assedio, da parte di questa, e la distruzione di Cartagine.
presenta
NASCITA
LA DEL MEDIOEVO
Crisi, guerre e conversioni alle origini dell’età di Mezzo Il nuovo Dossier di «Medioevo» si interroga sull’inizio dell’età di Mezzo, spostando l’attenzione del lettore da una data convenzionale, il 476 d.C. – quando fu deposto l’ultimo imperatore d’Occidente, Romolo Augustolo – ad alcuni degli eventi piú significativi del tormentato periodo compreso tra il IV e l’VIII secolo. Quattrocento anni durante i quali le incursioni di popoli germanici, la crisi economica, la fame, le epidemie ebbero conseguenze gravi sul tessuto sociale, demografico e istituzionale del continente europeo. Un’epoca complessa, in cui il cristianesimo svolse un ruolo sempre piú importante nella storia d’Europa e nella definizione della sua identità, e – attraverso la conversione – la Chiesa consentí anche l’inserimento delle stirpi «barbare» nel solco profondo della civiltà romana. L’immagine dell’Augusto, Costantino I, assiso tra i vescovi al primo concilio ecumenico di Nicea, tenuto nel 325, diventa l’icona di questa mutazione e sembra prefigurare l’imperatore franco Carlo Magno attorniato dal clero della sua corte, ad Aquisgrana.
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
ASSASSINIO ALLO SPECCHIO LA TRAGICA E INGIUSTA STORIA DELLA MEDUSA, LETALE SUO MALGRADO, LE HA DONATO, COMUNQUE, FAMA IMPERITURA
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n aspetto della linguistica di grande fascino è l’etimologia, che indaga l’origine prima delle parole, qualora sia riscontrabile scientificamente o per tradizione popolare; già la derivazione greca del lemma sembra dischiudere un mondo da scoprire a chi vi si avvicina: étymos riporta al primo e intimo significato della parola, e lógos al suo studio. E particolarmente interessante, ai fini del tema di questa puntata, è l’origine del verbo francese
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méduser, che significa «sbigottire, sbalordire, ammaliare», e il cui suono riporta facilmente alla triste vicenda di Medusa, amaramente contraddistinta da uno sguardo che pietrificando, uccide.
BELLISSIMA E VERGINE La storia è nota, e anche qui ricorre il numero tre, che abiamo già piú volte trattato negli ultimi mesi, in questo caso riferito alle Gorgoni: Medusa, figlia delle divinità marine primigenie Forco e Ceto, aveva due sorelle, di cui conosciamo i nomi dalla Teogonia (vv. 280-286) di Esiodo, che cosí sintetizza la sua vicenda: «Stenno, Euríale e Medusa funesta. Era mortale questa, immuni da morte o vecchiezza le prime due: con quella s’uní, sui fiori d’un morbido prato a Primavera, il Nume dalla chioma azzurrina (Nettuno). E quando a lei Perseo dal collo recise la testa, ne balzò il grande Crisàore, e Pègaso». Per aver suscitato le brame sensuali di Nettuno, Medusa doveva essere bellissima e certo vergine: il dio ne abusò con la forza nel tempio di Atena e la dea, infuriata per l’azione sacrilega, non puní il suo parente lussurioso, ma si vendicò sull’incolpevole giovane, che già
nata mortale, fu trasformata in mostro anguicrinuto e zannuto, capace di volare e di pietrificare chi la guardava. Per una serie di vicende, Perseo, eroe figlio di Danae e Zeus, volle uccidere Medusa, aiutato da altre divinità, tra cui la stessa Atena e Mercurio, e vi riuscí, in alcune versioni usando uno scudo come specchio per non doverla guardare negli occhi. Egli scoprí il luogo
In alto: pelike a figure rosse con la decapitazione di Medusa da parte di Perseo. 450-440 a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art. A sinistra: emissione in bronzo di Gordiano III (238-244 d.C.), da Daldis (Lidia). Al dritto, il busto
dell’imperatore; al rovescio, Perseo si avvicina per decapitare Medusa che dorme con le sorelle sotto un albero. Nella pagina accanto: coperchio di una pisside a figure nere con Perseo e le Gorgoni, da Atene. 470 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
segreto dove risiedevano le sorelle, ai limiti estremi della terra, presso l’Oceano occidentale; le trova dormienti, riconosce Medusa e la decapita nel sonno, portando con sé la testa, ancora capace di pietrificare, e infine donandola ad Atena, che la porrà sulla sua egida. All’uccisione seguono la nascita dal sangue dei figli di Medusa, il cavallo Pegaso e il gigante Crisaore, e l’urlo di dolore delle sorelle che inseguirono, inutilmente, Perseo. Per la molteplicità dei suoi aspetti – sesso, amore, violenza, sangue, morte ed elementi fantastici mostruosi si fondono in un mix perfetto –, questo mito divenne celeberrimo e ha goduto di enorme fortuna nell’arte (basti pensare a Caravaggio) e nella poesia: si pensi a Dante, che cosí descrive il suo ingresso nella Città di Dite insieme a Virgilio: «“Vegna Medusa: sí ‘l farem di smalto”, // dicevan tutte riguardando in giuso; (…) “Volgiti ‘ndietro e tien lo viso chiuso; // ché se ‘l Gorgón si mostra e tu ‘l vedessi, // nulla sarebbe di tornar mai suso”» (Inferno, canto IX, vv. 52-63). Dal punto di vista iconografico, non fu soltanto la testa di Medusa, orrenda o dolente, a essere rappresentata su molteplici supporti, ma, soprattutto nella ceramografia greca, ricorrono anche altri momenti della storia. La decapitazione di Medusa, anche alla presenza delle sue sorelle e di divinità, si ritrova infatti su alcuni vasi attici a figure sia nere che rosse, come sulla pyxis (scatola per cosmetici) attribuita alla cerchia del Pittore di Haimon datata al 525-475 a.C., dove i personaggi del dramma sembrano rincorrersi in un tragico girotondo. Oppure, il momento della decapitazione della dormiente Gorgone avviene solo al cospetto di una compiaciuta Atena, e la testa di Medusa è quella di una giovane dalle belle fattezze, e la sua stranietà è rappresentata
solamente dalle ali, come su una pelike (vaso simile all’anfora, ma con corpo piú panciuto e bocca piú larga, n.d.r.) del 450-440 a.C.
SOLO CINQUE ESEMPLARI Ma l’immagine piú completa del cruciale momento della vicenda di Medusa e Perseo compare su una moneta provinciale in bronzo di Daldis, in Lidia (Provincia d’Asia), battuta a nome di Gordiano III (238244 d.C.) sotto l’arconte (magistrato locale) Lucio Aurelio Hephaïstion. Si tratta di una rara emissione, nota in soli cinque esemplari, che propone una vera e propria scena teatrale: al centro le tre Gorgoni, con lunga veste, sono distese inermi, immerse nel sonno sotto un albero, sovrastate da Hypnos, dio del sonno, in volo; Perseo si avvicina a loro alle spalle, pronto all’azione omicida, certo di individuare l’unica Gorgone mortale e mortifera, Medusa. Un
cavallino a bordo scena si gira verso le tre. Conclude la composizione un tempietto tetrastilo nel quale si scorge la statua seduta di Apollo Citaredo. A Daldis vi era appunto un tempio di Apollo, venerato come Mystis, e il tempio raffigurato vuole richiamare appunto quello della città, per celebrarlo nell’emissione monetale. Il collegamento tra la decapitazione di Medusa e Daldis con il suo dio resta oscura, ma questo tipo monetale è importante per la scena che raffigura e che si può supporre derivi, per il complesso impianto, da una perduta opera di grande formato, nota all’incisore del conio.
PER SAPERNE DI PIÚ Carla Rossi, Dante, Inferno, IX, 51-57: Medusa, lo sguardo che fa peccare, in Rassegna europea di letteratura italiana, 2010, 35; pp. 37-49,
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Eugenia Segre Naldini
CORALLIUM RUBRUM Il corallo mediterraneo dal neolitico a oggi Edizioni ETS, Pisa, 93 pp., ill. col. 12,00 euro ISBN 978-884675483-7 www.edizioniets.com
Eugenia Segre Naldini ripercorre la lunga storia del Corallium rubrum (corallo rosso) tipico del Mediterraneo, soffermandosi attraverso una preziosa raccolta di immagini sulle tecniche della pesca, la lavorazione e il suo commercio, dall’antichità fino agli anni Sessanta del secolo scorso. Scopriamo cosí che questo prezioso materiale, per via del colore e della giacitura negli oscuri anfratti marini, fu considerato una pianta fino al XVII secolo e che il primo ad assegnarlo al mondo animale fu lo speziale anconetano Diacinto Cestoni. Sarà, però, lo scienziato francese Lacaze-Duthiers, alla metà dell’Ottocento, a descrivere le caratteristiche biologiche del corallo come «un prodotto» di colonie di minuscoli polipi. I piú antichi ritrovamenti di coralli lavorati in Italia risalgono all’età neolitica e si datano tra il 5000 e il 3000 a.C.; si tratta di perle, amuleti e pendagli provenienti da grotte vicino alla linea di costa o anche da siti 114 a r c h e o
interni, molto distanti dal mare che testimoniano il commercio di questo prodotto già in epoche molto antiche. Da allora, la raccolta e la lavorazione del corallo è proseguita, nei secoli, senza sosta, anche per le proprietà magiche e afrodisiache che dall’antichità gli sono state attribuite, oltre a quelle salutari, se Avicenna ne raccomanda l’uso (in polvere) in alcuni impasti farmaceutici. A partire dall’anno Mille, la lavorazione del corallo è legata alla presenza, lungo la costiera amalfitana e in Sicilia, delle comunità ebraiche, che si dedicarono al suo commercio verso l’Egitto e l’estremo Oriente. Fino al Novecento, i piú
famosi opifici di Pisa e Livorno rimasero una prerogativa di alcune importanti famiglie ebree, che compravano il corallo pescato grezzo proveniente dalla Sicilia e lo rivendevano, una volta lavorato, nei mercati di Londra e Lisbona. A Livorno, tra il Settecento e l’Ottocento, sorsero laboratori importanti, che avevano i nomi dei Franco, dei Medina e degli Attias, i quali sostennero economicamente anche le scuole in cui apprendere l’arte del corallo. La lunga storia dell’industria del corallo in Italia si conclude, infine, negli anni Sessanta: l’ultimo opificio di coralli a Livorno è quello di Giovanni Lazzara, che
rimase attivo sino al 1959. Sono comunque ancora attivi gli opifici campani di Torre del Greco e Ravello. L’excursus di Segre Naldini (autorevole studiosa, già direttrice dell’Istituto Italiano di Paleontologia Umana, e dai natali pisani) nel mondo del corallo rosso marino termina con splendide fotografie di monili e altri oggetti in corallo da collezioni private di Pisa e Livorno. Lorella Cecilia