Archeo n. 416, Ottobre 2019

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ISOLA D’ELBA

SALVARE NINIVE POPOLI DELLA BIBBIA

IL MISTERO DEI FENICI

TOSCANA

SALVARE NINIVE

TESORI DELL’ISOLA D’ELBA LAZIO

NELLA VILLA DI MUZIO SCEVOLA

POPOLI DELLA BIBBIA/10 FENICI

MUZIO SCEVOLA

SPECIALE GLADIATORI

GLADIATORI

UNA GRANDE MOSTRA A BASILEA

LA VERA STORIA

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 9 OTTOBRE 2019

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GL SPE AD CI IAT ALE ww OR w. a rc I he o

2019

Mens. Anno XXXV n. 416 ottobre 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 416 OTTOBRE

IRAQ

€ 5,90



EDITORIALE

IL «DOVERE» DELLA VIOLENZA Interrogata su cosa pensasse della nostra Monografia sul Colosseo – pubblicata nel giugno 2016 (n. 13, anche on line su issuu.com) e di cui andavamo, a ragione o meno, piuttosto fieri – una nostra autorevole collaboratrice rispondeva che «non ne voleva neanche sentire parlare»: detestava quell’enorme rudere e, pur essendo costretta a passarci vicino ogni giorno, in lei non era mai venuto meno l’orrore che le evocava quel luogo di mortale violenza, esercitata da uomini su altri uomini, ma anche e soprattutto (ci teneva a sottolineare) da uomini su animali, per giunta al cospetto di una massa esultante e come lobotomizzata per la totale assenza di umana compassione. In un’età non certo esente da violenze di ogni genere, quella simboleggiata dal monumento archeologico piú visitato al mondo continua, tuttavia, a sfuggire alla nostra comprensione. Qui la storia, e solo la storia, può venirci in soccorso. È quanto tenta di fare la mostra di cui parliamo nello Speciale, indagando le sfaccettature di un mondo in verità lontanissimo, difficilmente riconducibile a noi attraverso gli ingannevoli confronti con talune manifestazioni del mondo contemporaneo (le arene dei Romani come gli odierni stadi?). A Roma, i combattimenti gladiatori dei primi secoli a.C. non erano spettacoli a sfondo politico propagandistico, bensí espressione di un dovere da compiere per onorare un membro defunto della famiglia (la parola con cui i Romani designavano i combattimenti gladiatori era proprio munus, «dovere»). Facevano parte di una ritualità funeraria che affondava le sue radici nell’antichità greca: il sangue versato placa l’anima turbata del defunto. Durante i giochi funebri in onore di Patroclo, e dopo aver sacrificato già dodici tra i piú nobili figli dei Troiani, Achille indice un combattimento tra gli eroi Aiace e Diomede. Il sacrificio umano era un’usanza diffusa presso molte popolazioni del mondo antico: scrive Servio, grammatico latino e commentatore di Virgilio, che «era consuetudine sacrificare i prigionieri sulle tombe dei guerrieri valorosi; ma quando la crudeltà di quell’uso divenne lampante a tutti, si decise di far combattere i gladiatori davanti ai luoghi di sepoltura…». Da queste premesse d’ordine religioso e cultuale prende avvio la lunga parabola dei combattimenti gladiatori. Un fenomeno universalmente – e piú di ogni altro – collegato all’immagine del mondo romano, di cui si propone di rappresentare le principali virtú: lo spirito combattivo, il coraggio, il disprezzo della morte, della viltà e dell’ingiustizia. Quelle virtú che – come ci ricorda Andrea Bignasca, uno dei curatori della mostra – saranno garanti della superiorità morale, della straordinaria capacità organizzativa e dell’ordine sociale di Roma. I combattimenti gladiatori sarebbero, dunque, la grandiosa messa in scena di un messaggio etico-politico e monito contro «le forze del male» e la barbarie? Proporremo la questione alla riflessione della nostra, scettica, collaboratrice… Una cosa, però, è certa: tutto soggiace al divenire e alle trasformazioni della storia. E ciò vale anche per la violenza, il sangue e la morte. Andreas M. Steiner In alto: ricostruzione virtuale dell’anfiteatro e, in primo piano, della scuola gladiatoria, nella colonia di Carnuntum (oggi in Austria).


SOMMARIO EDITORIALE

Il «dovere» della violenza

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Uno studio sul DNA delle antiche popolazioni asiatiche svela sorprendenti novità sull’origine delle genti europee 24

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STORIA

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

SCOPERTE Ecco il volto dei nostri piú antichi antenati, dall’Africa orientale alla Grotta di Denisova 6 PASSEGGIATE NEL PArCo Al termine di un articolato intervento di restauro, si può tornare a passeggiare negli eleganti e ariosi spazi dello Stadio Palatino

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di Felice Costabile

di Stefano Mammini

62 POPOLI DELLA BIBBIA/10 I Fenici

Quel popolo senza nome

REPORTAGE 10

La formula di Mucio 62

40

40

ALL’OMBRA DEL VULCANO Recenti scoperte nella Regio V gettano luce sulle superstizioni degli antichi Pompeiani 12 MOSTRE La grande nemica di Roma, Cartagine, «conquista» il Colosseo

L’isola del ferro e del vino

SCOPERTE

La seconda caduta di Ninive

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70

di Fabio Porzia

di Stefania Berlioz e Massimo Vidale

70

52

In copertina elmo da gladiatore, dalla Caserma dei Gladiatori di Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Presidente

Federico Curti Anno XXXV, n. 416 - ottobre 2019 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Comitato Scientifico Internazionale

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

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Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Stefania Berlioz è archeologa. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Cristina Collettini è funzionario architetto del Parco archeologico del Colosseo. Francesco Colotta è giornalista. Felice Costabile è professore ordinario di diritto romano presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Giovanna Ferroni è restauratrice. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Laura Pagliantini è responsabile degli scavi archeologici della villa rustica di San Giovanni (Isola d’Elba). Fabio Porzia è post-dottorando presso l’Università di Tolosa Jean Jaurès (Francia) come storico del Levante antico. Maria Aurora Salto von Hase è studiosa di storia romana. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Friedrich-Wilhelm von Hase


86 SPECIALE

Gladiatori. La vera storia

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testi di Friedrich-Wilhem von Hase e Maria Aurora Salto von Hase

Rubriche

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

SCAVARE IL MEDIOEVO La Versailles del califfo di Andrea Augenti

Terzetti illustri 110

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di Francesca Ceci

LIBRI

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è professore onorario di archeologia classica all’Università di Vienna. Enrico Zanini è professore ordinario di metodologia della ricerca archeologica all’Università di Siena.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534

Illustrazioni e immagini: Landesamt für Denkmalpflege und Archäologie Sachsen-Anhalt: Juraj Lipták: copertina (e p. 88) e pp. 89 (basso), 92 – © 7reasons: p. 3 – Cortesia Cleveland Museum of Natural History: p. 6 – Cortesia Hebrew University, Gerusalemme: Maayan Harel; p. 7 – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: p. 10 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 12-13 – Cortesia degli autori: pp. 14, 24, 26, 54, 56, 58-60, 62/63, 65 (basso), 66-69, 112-113 – Stefano Mammini: pp. 16 (alto, a sinistra), 48 (basso), 49 (basso) – Doc. red.: pp. 16 (alto, a destra), 18, 55 (basso), 72 (basso), 75, 81, 86/87, 90, 105 – Cortesia Ufficio Stampa Electa: SABAP Trapani: p. 20 (alto); Soprintendenza del Mare: Palermo p. 20 (basso) – Cortesia Ufficio Stampa Civita: p. 22 – Roberto Ridi: pp. 40/41, 42 (alto), 42/43, 44-45, 48 (alto), 49 (alto) – Cortesia Università degli Studi di Siena: pp. 46-47 – Getty Images: AFP/Aris Messinis: pp. 52/53, 57 – Mondadori Portfolio: Electa/Antonio Guerra: p. 64; AKG Images: pp. 73 (alto), 76, 78/79, 83, 102/103, 107; Erich Lessing/Album: pp. 76/77; Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: p. 78; Age: p. 104 – Bridgeman Images: pp. 70/71 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Franck Raux: pp. 74, 84 – Shutterstock: pp. 80, 82, 110 – Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig: Ruedi Habegger: pp. 89 (alto), 90/91, 92/93, 93-95, 98/99, 100 (basso) – Avenches, Site et Musée romains: NVP3D: p. 96 (basso, a destra) – Augusta Raurica: H. Grauwiler: p. 98 – Römerstadt Augusta Raurica, Augst: Ursi Schild: p. 99 – York Archaeological Trust: p. 100 – Schweizerisches Nationalmuseum: p. 101 – DeA Picture Library: p. 106; G. Dagli Orti: pp. 108/109 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 25, 55 (alto), 42, 65 (alto), 72, 72/73.

Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI)

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano


n otiz iari o SCOPERTE Africa orientale/Siberia

CON QUELLE FACCE UN PO’ COSÍ...

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a galleria dei nostri piú antichi antenati si arricchisce di due nuovi ritratti, riferiti ad altrettante specie di primaria importanza nella storia dell’uomo. Nel primo caso si tratta, infatti, dell’Australopithecus anamensis, un ominide che comparve sul palcoscenico africano poco meno di 4 milioni d’anni fa, precedendo di circa 100 000 anni l’esponente forse piú noto di questa famiglia, vale a dire l’Australopithecus afarensis, specie a cui appartiene la celebre Lucy. La ricostruzione delle fattezze di questo «nonno»

Yohannes Haile-Selassie, il paleoantropologo che guida la missione nell’Afar del Cleveland Museum of Natural History, mostra il cranio di Australopithecus anamensis rinvenuto a Woranso-Mille.

A sinistra: ricostruzione in 3D del volto dell’Australopithecus anamensis, ominide che visse intorno ai 3,8 milioni di anni da oggi e che è stato identificato come progenitore dell’Australopithecus afarensis, la specie a cui appartiene Lucy. dell’australopitecina rinvenuta nel 1974 da Donald Johanson, è stata resa possibile dal ritrovamento di un cranio eccezionalmente ben conservato nel sito di WoransoMille, nella regione etiopica dell’Afar, che già in passato aveva restituito importanti fossili umani. Il reperto, ascrivibile a un individuo vissuto intorno ai 3,8 mlioni di anni da oggi, è stato individuato all’interno di depositi sabbiosi formatisi in corrispondenza di un antico delta fluviale. Presenta caratteri particolarmente interessanti, che inducono a considerarlo come una sorta di cerniera fra specie ancora piú antiche e alcune di quelle che si

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affermarono in seguito. In particolare, sono state osservate significative affinità con l’afarensis, tanto da suggerire che, seppur per un periodo di tempo limitato, le due specie abbiano convissuto. Il secondo ritratto è invece quello di un individuo appartenente alla specie che piú di altre ha fatto parlare la comunità scientifica nel corso degli ultimi anni, quella dell’Uomo di Denisova. Si tratta di un gruppo umano che ha preso nome dalla grotta siberiana, scoperta nei Monti Altai, al cui interno sono stati recuperati per la

prima volta i suoi resti ossei. Rispetto all’Australopithecus anamensis, siamo quasi in età «moderna», poiché in questo caso parliamo di un antenato vissuto fra i 70 e i 50 000 anni fa. Ma al di là della cronologia, questo parente siberiano ha innescato un acceso dibattito perché, dopo essere stato considerato un membro della famiglia neandertaliana, è stato successivamente distinto come specie a sé stante, non senza qualche polemica. Gli studi di cui sono stati appena annunciati i risultati sono stati

condotti da un team della Hebrew University di Gerusalemme, che ha sottoposto i resti ossei a oggi noti a nuovi esami sul DNA antico e, in particolare, sulla sua metilazione, ovvero sulla modificazione del genoma. Le analisi hanno permesso di definire ben 56 elementi di diversità fra Denisoviani e Neandertaliani, 34 dei quali concentrati nel solo cranio. Risultati che hanno contribuito a rendere particolarmente attendibile la ricostruzione che qui presentiamo. Stefano Mammini

Ricostruzioni 3D e pittorica di una ragazza denisoviana, appartenente cioè alla specie distinta all’indomani dei ritrovamenti di ossa fossili nella Grotta di Denisova, nei Monti Altai, in Siberia. Questi nostri antenati vissero fra i 70 e i 50 000 anni da oggi.

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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

INCONTRI Paestum

NEL SEGNO DELLE INNOVAZIONI E DELLA SOSTENIBILITÀ

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dotazioni con piú espositori presenti a XXII edizione della Borsa 19 98 20 19 per la prima volta: Agenzia di Mediterranea del Turismo Strategia Turistica delle Isole Archeologico si svolgerà a Baleari, Ambasciata del Guatemala Paestum presso il Centro e Istituto Colombiano di Espositivo Savoy Hotel, la Antropologia e Storia, ICOMOS Cina Basilica, il Museo Nazionale, il 14 - 17 novembre 2019 con una delegazione di 20 persone Parco Archeologico da giovedí Paestum Salerno in rappresentanza di prestigiosi siti 14 a domenica 17 novembre Unesco, Città Metropolitana di 2019. La Borsa è sede del piú Reggio Calabria con il Museo Archeologico Nazionale grande Salone espositivo al mondo dedicato al di Reggio Calabria, Confturismo Marche Nord, Crotone patrimonio archeologico: luogo di approfondimento Sviluppo, Destinazione Turistica Romagna, Etruria e divulgazione di temi dedicati all’archeologia e Experience, Le Navi Antiche di Pisa, Rete Museale della al turismo e occasione di incontro per addetti ai Provincia di Grosseto «Musei di Maremma». lavori, operatori turistici e culturali, viaggiatori, Molte le novità anche per le sezioni della Borsa: appassionati, mondo scolastico e universitario. Per migliorare i servizi agli espositori e rendere quanto nell’intento di favorire l’incontro anche con la domanda nazionale, esordirà ArcheoIncoming, spazio piú efficace la loro partecipazione, quest’anno il espositivo e workshop con i tour operator specialisti Salone Espositivo presenta nuova immagine e nuove delle destinazioni italiane archeologiche per svilupparne l’incoming; per la prima volta i Paesi Esteri Espositori avranno la possibilità di divulgare la propria offerta con la presentazione dei siti e degli itinerari archeologici del proprio Paese nell’ambito di ArcheoIncontri; rinnovata la sezione ArcheoStartUp con la collaborazione dell’Associazione Startup Turismo, le cui giovani imprese, che offrono nuovi prodotti e servizi digitali nel turismo e nei beni culturali, saranno presenti con uno spazio espositivo e un’iniziativa a loro dedicata. Venerdí 15 novembre si svolgerà l’Audizione Pubblica «Una nuova agenda europea per il turismo e la cultura» del CESE Comitato Economico e Sociale Europeo, organo consultivo dell’Unione Europea, che comprende rappresentanti delle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro e di altri gruppi d’interesse. Interverranno il Presidente del CESE Luca Jahier e i protagonisti del turismo e della cultura europei e nazionali. Trenitalia, vettore ufficiale, riserverà ai visitatori il 30% di sconto e dal 14 al 16 novembre sarà disponibile per la prima volta il servizio ArcheoTreno, a cura della Fondazione FS Italiane, che permetterà di raggiungere Paestum da Napoli e Salerno a bordo del treno storico con le «Centoporte» carrozze degli anni Trenta e le «Corbellini» carrozze degli anni Cinquanta, trainate da una locomotiva elettrica degli anni Sessanta in livrea d’origine. In occasione della Borsa porte aperte al Parco Archeologico di Paestum, al Parco Archeologico di Elea Velia e alla Certosa di S. Lorenzo di Padula.

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PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Alessandro D’Alessio

PER LO SVAGO DEL PRINCIPE IL PALATINO OSPITÒ LE RESIDENZE IMPERIALI, MA ANCHE STRUTTURE D’ALTRO GENERE, COME LO «STADIO» CHE PORTA IL NOME DEL COLLE: UN IMPIANTO ARIOSO ED ELEGANTE, TORNATO FRUIBILE GRAZIE AI NUOVI RESTAURI

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iportato alla luce alla fine del XIX secolo, il cosiddetto Stadio Palatino è un edificio a pianta rettangolare allungata (161 x 48 m), con il lato sudoccidentale curvilineo, circondato su almeno tre lati da un portico a tre piani/ordini sovrapposti (l’inferiore dei quali, parzialmente conservato, costituito da una sequenza di pilastri e semicolonne in laterizio originariamente rivestiti da una decorazione marmorea in stile tuscanico sorreggenti una volta a botte cassettonata) e dotato su quello orientale di una gigantesca esedra con copertura a calotta (forse un ninfeo o un triclinio estivo piú che una tribuna). Ridossato al lato orientale della Domus Flavia-Augustana, ma a una quota di spiccato piú bassa di 10 m circa, fu realizzato da Domiziano nel tardo I secolo d.C. e ripetutamente restaurato nella successiva età imperiale, certamente da Adriano e poi in maniera preponderante da Settimio Severo (fine II-inizi III

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Nella pagina accanto: due immagini dello Stadio Palatino all’indomani dei recenti interventi di restauro. Il monumento è oggi nuovamente fruibile e viene anche utilizzato come spazio espositivo per mostre temporanee: una «seconda vita» che ha preso il via con la mostra «Roma Universalis» e attualmente continua con la rassegna «Kronos e Kairos».

secolo), il quale ne trasformò radicalmente anche l’apparato decorativo (per esempio nelle tre sale inferiori dell’esedra, ornate ora con raffinate pitture e mosaico pavimentale bianco-nero).

UNA SORTA DI PALESTRA Per quanto riguarda la funzione, la definizione di Stadio è verosimilmente impropria (nonostante il lato curvo), ma è possibile che venisse utilizzato per lo svolgimento di esercizi ginnico-atletici (sorta di palestra), mentre sembra da respingere l’identificazione con l’Hippodromus Palatii citato nella Passione di San Sebastiano (Act. Sanct. Ian. II, 278). Piú probabilmente (e genericamente), l’edificio era destinato a giardino e luogo di svago della famiglia e della corte imperiale e solo in età tarda, forse all’epoca di Teoderico, vi fu inserito, nella metà meridionale, un grande recinto di forma ovale di incerta funzione. Oggi lo Stadio ha acquisito una rinnovata destinazione: riaperto al pubblico in occasione della mostra «Roma Universalis», ospita attualmente una mostra d’arte contemporanea sul ruolo e significato del tempo dal titolo «Kronos e Kairos». Per rendere ancor piú amene le «passeggiate» in questo luogo, sono in corso importanti interventi di restauro, che rientrano nella continua prassi di cura e manutenzione del Parco. Alessandro D’Alessio

LE METODOLOGIE D’INTERVENTO

Un connubio felice

Poche sono oggi le strutture rimaste di quello che era uno degli edifici piú maestosi del Palatino: i muri di confine e l’imponente lato corto curvilineo, ancora svettante in altezza, la serie di pilastri che delimitava il portico, mozzati dal tempo e dall’uso e in alcuni casi crollati a terra. Paradossalmente, lo Stadio Palatino si comprende oggi meglio dall’alto, grazie al vuoto lasciato dalle strutture che non vi sono piú. Cortine murarie, piú volte reintegrate in occasione di restauri passati e attaccate dalla vegetazione infestante, malte erose e decoese, paramenti distaccati, nuclei sfarinati e gli impattanti bauletti sommitali, a protezione di creste murarie perlopiú ad altezza d’uomo, dal forte impatto visivo e quasi predominanti rispetto alle strutture romane: questo era lo stato di fatto prima di intraprendere un’azione di restauro che si presentava molto complessa nel suo indirizzo metodologico. L’intervento ha interessato in questa fase i soli pilastri centrali del portico, al fine di

«congelare» le strutture superstiti e di proteggerle per rallentarne il futuro, inevitabile attacco del tempo. Il restauro ha rispettato l’antico, non lo ha imitato, né ha inteso competere con esso, senza però disdegnare l’uso dei materiali moderni, introducendo una resina polisillossanica che crea una pellicola protettiva in grado di rallentare il degrado sulle superfici piú esposte alle intemperie. La fase piú complessa di un intervento di restauro è la traduzione in cantiere degli indirizzi metodologici forniti dalla direzione scientifica e dalla direzione dei lavori. Nel caso dello Stadio Palatino, il felice connubio tra tecnici e maestranze ha permesso la perfetta traduzione dell’idea in materia attraverso continue prove, sperimentazioni e finanche ripensamenti, per arrivare al risultato finale, quello di un monumento segnato dal tempo, che nella cristallizzazione dei suoi resti mostra il fascino indiscusso della rovina e della sua vetustà. Cristina Collettini

I CRITERI DELLA RICOSTRUZIONE

Osservare l’antico

La teoria dei pilastri con semicolonne in laterizio che caratterizza lo Stadio Palatino, anticamente rivestiti da pregiate lastre lapidee, racchiude in ogni singolo elemento un nucleo cementizio realizzato «a sacco» con materiale di risulta. Proprio dall’osservazione puntuale della tecnica di costruzione si è ritenuto di riproporne, seppure in una lettura moderna, l’aspetto originario, ricorrendo all’impiego di materiali idonei alla sua conservazione e protezione. Nel corso della prima fase si è proceduto all’asportazione dei «bauletti» sommitali, opera di precedenti restauri, ormai non piú valido ausilio protettivo per carenza di adesione e coesione. Consolidata e risanata la mura-

tura, ci si è dunque concentrati sulla ricostruzione delle «creste», operazione questa che avrebbe dato voce a gran parte dell’estetica dell’intervento. Laterizi e malte pozzolaniche hanno permesso cosí di risarcire la parte sommitale dei pilastri e delle semicolonne, imitandone la tecnica di costruzione, ma mantenendo in ogni caso l’intervento ben riconoscibile, al punto che oggi è possibile osservare dall’alto le strutture verticali «erose» dal tempo con superfici senza schema né disegno, ma che permettono in realtà, grazie allo studio attento delle pendenze dei piani durante il posizionamento del materiale, un ottimo deflusso delle acque. Giovanna Ferroni

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

POMPEI MAGICA ABBANDONATO DA UN’IGNOTA SIGNORA CHE NON POTÉ MAI RECUPERARLO A CAUSA DELL’ERUZIONE, UN TESORETTO DI GIOIELLI ED ELEMENTI D’ORNAMENTO È VENUTO ALLA LUCE NELLA CASA DEL GIARDINO. E GETTA LUCE SULLE CREDENZE E LE SUPERSTIZIONI DEI POMPEIANI

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omunemente vi si crede in ogni ora della vita, magari senza accorgersene!» scrive Plinio il Vecchio (NH XXVIII, 10) riguardo alle pratiche svolte quotidianamente per scongiurare ogni maleficio. Gesti, formule e oggetti «magici» sono componenti immerse nell’universo romano, radicate in ogni livello e ceto sociale, molto piú di quanto possano immaginare gli intellettuali dell’epoca cosí aggrappati ai rigori scientifici e quindi profondamente scettici nei confronti di queste azioni. Generazioni di archeologi succedutesi a Pompei si sono soffermate soprattutto sugli aspetti piú appariscenti e monumentali della città antica, mentre oggi ci si interroga ancora sulle tracce di rituali e credenze rimaste ancora imperscrutabili. Le pratiche magiche si servono di segni e di strumenti che gli scavi hanno puntualmente evidenziato, ma la loro interpretazione e definizione appaiono piuttosto complesse, perché trasmesse nell’antichità per via orale e privata piú che ufficiale. La recente scoperta nella Regio V di Pompei rappresenta uno di questi discussi casi, che molti hanno collegato alla sfera magica:

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in una stanza di servizio della Casa del Giardino, forse adibita a deposito, i resti di una cassa in legno affiorata dai lapilli custodivano un piccolo tesoro.

PER SCACCIARE LA MALASORTE Un ricco gruppo di ornamenti femminili costituiti da amuleti, gemme e svariati elementi in faïence, bronzo, osso e ambra, ma non d’oro. Monili gelosamente raccolti e purtroppo mai piú recuperati dalla loro proprietaria, che abbandonò in gran fretta la

propria abitazione. Prontamente restaurati nel Laboratorio di Restauro del Parco Archeologico, gli ornamenti erano sicuramente utilizzati per abbellirsi, ma avevano, per certe configurazioni, anche una funzione protettiva, destinata a scacciare ogni malasorte. La cassa conservava due specchi, vaghi di collana, pendenti ed elementi decorativi, un unguentario in vetro, amuleti fallici, due frammenti di una spiga e una figurina umana, tutti in ambra, nonché diverse gemme, fra cui un’ametista con figura femminile e una corniola con


l’immagine di un artigiano; spiccano per qualità poi due paste vitree, con la testa di Dioniso e un satiro danzante finemente incisi. Altri preziosi sono stati trovati in una seconda stanza della casa, in prossimità dell’atrio, assieme ai resti scheletrici di donne e bambini, sconvolti da vecchi saccheggi, da identificare come parte del nucleo familiare residente nella casa. Massimo Osanna, direttore degli scavi, ha osservato che «gli oggetti femminili sono straordinari, perché raccontano microstorie degli abitanti della città che tentarono di sfuggire all’eruzione. In questa casa abbiamo scoperto un ambiente con dieci vittime, di cui stiamo cercando di stabilire le relazioni di parentela e ricomporre la biografia del gruppo familiare attraverso le analisi sul DNA. E la cassetta con i piccoli preziosi potrebbe appartenere proprio a una di queste vittime, particolarmente sensibile al mondo della magia. Dal punto di vista iconografico è infatti interessante il ricorrente richiamo degli oggetti custoditi a temi connessi alla fortuna, alla fertilità e alla protezione contro la malasorte. I pendenti di collana a forma di

piccoli falli, la spiga, il pugno chiuso, il cranio, la figura di Arpocrate e gli scarabei sono simboli che avevano all’epoca un preciso significato e funzione».

Sulle due pagine: gli oggetti «magici» (comprendenti gemme e svariati elementi in faïence, bronzo, osso e

ambra) rinvenuti in una stanza di servizio della Casa del Giardino» e, qui sotto, il cantiere di scavo.

LA CASA È SACRA Di questi ornamenti, alcuni avevano certamente un valore nelle credenze domestiche e nella vita quotidiana della familia, nel cui ambito ogni attività – dalla nascita alla morte, dal lavoro allo svago – è profondamente contaminata e scandita dalla presenza del segno divino tramite presagi, prodigi, profezie, quelle che definiremmo pratiche di superstizione religiosa. Per esempio, l’ingresso della casa prevede una complessità dei riti privati sin dai primordi della religione romana, poiché nella mentalità romana l’intera dimora è percepita come un sistema sacro, capace di una volontà e di una sorta di potenza magica da cui dipende la sicurezza di tutta la famiglia. Lo storico Polibio riconosceva nella superstizione religiosa perfino il fondamento della res publica romana, un formidabile strumento di controllo nelle mani dell’élite senatoria per dominare le passioni

istintuali e i volubili umori della moltitudine: «a mantenere unito lo stato romano sia proprio un aspetto biasimato presso gli altri popoli, ovvero la superstizione», poiché presso di loro «è stata introdotta con tanta enfasi sia nella vita privata, sia negli affari pubblici della città, che non sarebbe possibile fare di piú» (Storie I, 56, 6-11). Il mondo romano riconosceva nella superstizione (superstitio) il timore eccessivo nei confronti degli dèi; il superstizioso infatti eccede nei rituali, insiste nella loro ripetizione, regola ogni momento della propria vita quotidiana a partire dal timore dell’intervento divino. Pompei annovera numerose testimonianze sui riti magici: dall’utilizzo dell’ossidiana, usata, come nella Casa dell’Efebo, a mo’ di specchio in funzione protettiva della dimora familiare. Oppure il complesso «dei Riti magici», all’interno del quale si praticava un culto misterico legato al dio d’origine orientale Sabazio (divinità della vegetazione, che in Campania pare abbia goduto del favore speciale delle puerpere), a cui fanno riferimento in funzione sempre protettiva le due mani magiche in bronzo e i vasi crateriformi in terracotta usati per le offerte, decorate da piccole coppette e applicazioni con raffigurazioni di piante, animali e strumenti musicali (all’Antiquarium di Boscoreale). Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; pagina Fb Pompeii-Parco Archeologico.

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A TUTTO CAMPO Enrico Zanini

FRUGANDO NELLA SPAZZATURA I RIFIUTI SONO UNA DELLE «PREDE» PIÚ AMBITE PER GLI ARCHEOLOGI: IMMONDEZZAI, POZZI, ACCUMULI DI SCARTI DI LAVORAZIONE SONO INFATTI ALTRETTANTE MINIERE DI INFORMAZIONI SULLA VITA DI UNA COMUNITÀ. ANCHE SE, TALVOLTA, POSSONO RIVELARSI ALL’APPARENZA INSPIEGABILI...

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a sempre gli archeologi hanno la passione della spazzatura. Perché studiare i grandi monumenti del passato va benissimo per comprendere alcuni aspetti della «grande» storia, ma, se si vuole avere uno sguardo diretto sulla vita quotidiana di chi ci ha preceduto, nulla è meglio del dare un’occhiata ai rifiuti che ha lasciato dietro di sé. Che significa analizzare le tracce del comportamento dei singoli e delle collettività, delle loro scelte in campo alimentare, della reale disponibilità di questo o quel materiale, delle strategie di uso,

riuso e scarto dei manufatti, del modo di gestire il problema dei rifiuti nelle città e in campagna. Da questa idea prese le mosse, ormai quasi cinquant’anni fa, il Tucson Garbage Project (letteralmente Progetto spazzatura di Tucson; vedi «Archeo» n. 281, settembre 2008), un progetto che ha fatto epoca ed è entrato in tutti i manuali di archeologia, perché rende chiaro il delicato rapporto tra fonti volontarie e involontarie. In breve, i ricercatori incrociarono le informazioni raccolte attraverso questionari distribuiti alla popolazione di Tucson con le

Roma. La targa affissa nel 1727 in via del Monte della Farina che proibiva «espressamente a qualunque persona di gettare immondezza di sorta alcuna».

informazioni ricavabili dall’esame dei rifiuti, raccolti e analizzati all’insaputa di coloro che avevano risposto alle interviste. Celebre è rimasta la clamorosa incongruenza registrata tra le due fonti di informazione a proposito del consumo di birra. Stando alle interviste dirette, il consumo domestico di birra era estremamente limitato, al massimo qualche lattina a settimana, ma nella grande maggioranza dei casi neanche quello. Peccato però che i sacchi della spazzatura delle stesse famiglie traboccassero letteralmente di lattine di birra vuote. Un comportamento percepito come socialmente poco virtuoso (bere molta birra a casa, oltre a quella consumata al pub con gli amici) non veniva dichiarato, seppur ampiamente praticato. Un altro paradiso terrestre per chi voleva riaffermare la superiorità delle fonti archeologiche (i rifiuti) su quelle storiche (le interviste).

LE APPARENZE INGANNANO Ma le cose – come sempre accade in archeologia – non sono cosí semplici come sembrano. Perché anche dietro ai rifiuti ci sono (segue a p. 16)

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comportamenti complessi, sia a livello individuale che a livello collettivo: fra gli esperimenti come il Tucson Garbage Project e la realtà dello scavo archeologico ci sono differenze importanti. I rifiuti che troviamo negli scavi sono il prodotto di meccanismi molto complessi che riguardano sí i comportamenti di coloro che li hanno prodotti, ma anche tutto quello che è avvenuto dopo che lo scarto originario si è formato. Tutte le società del passato – e come sappiamo tutti molto bene anche le società del presente – hanno avuto a che fare con il problema della gestione dei rifiuti urbani e lo hanno risolto in modi diversi. A volte, hanno scelto di allontanarli il piú possibile dalle città, creando discariche nelle quali concentrare la spazzatura e dando vita quindi a una immagine falsata: i rifiuti che noi troviamo in città sono solo una frazione di quelli realmente prodotti; quelli che sono per l’appunto sfuggiti alle procedure di raccolta e smaltimento. In altri casi, e per una quantità di motivi diversi, i rifiuti non sono stati cosí sistematicamente allontanati e sono rimasti piú vicini al luogo dove gli uomini li hanno prodotti. E non è detto che lo smaltimento sistematico sia indizio di una società piú ricca rispetto a quella che non prevedeva un tale sistema.

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In alto: un’eloquente immagine dell’«emergenza rifiuti» che attanaglia Roma. A destra: membri del Tucson Garbage Project al lavoro sui reperti recuperati nelle discariche cittadine.

LE TABELLE DEI MONDEZZARI Per esempio, in una città importante, certamente ricca e relativamente civile come la Roma rinascimentale e barocca – la città, per intenderci, dei papi, delle grandi famiglie e dei grandi artisti, da Michelangelo, a Caravaggio, a Bernini, a Borromini, ecc. – la pratica di abbandonare i rifiuti per strada era ampiamente consolidata, come ci ricordano le cosiddette «tabelle dei mondezzari», che campeggiano ancora agli angoli di molti palazzi nobiliari del centro storico della città eterna: una serie di diffide che prevedevano pene pecuniarie e corporali severissime per coloro che osavano deporre le loro immondizie accanto ai palazzi della Roma bene.

Quando guardiamo con legittimo disappunto i cumuli di rifiuti che crescono nelle nostre strade, che cosa stiamo guardando? Stiamo registrando l’incapacità delle amministrazioni locali a gestire un servizio fondamentale, oppure l’inciviltà della popolazione che ha perso la buona creanza nel depositare i rifiuti nei luoghi appropriati, oppure il crescere esponenziale degli imballi nella società dell’iperconsumo e della grande distribuzione? Probabilmente tutte e tre le cose insieme; e molte altre. Tutte molto interessanti per chi vuol capire come funziona una società a partire dalle tracce materiali che lascia. Per questo gli archeologi amano cosí tanto la spazzatura. (enrico.zanini@unisi.it)



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INCONTRI Toscana

MODELLO VINCENTE

A

l termine della V edizione di Bluetrusco, abbiamo incontrato Davide Ricci, sindaco di Murlo, la cittadina toscana che ospita la rassegna, conclusasi anche quest’anno con risultati piú che lusinghieri. Sindaco Ricci, che cosa rappresenta il festival Bluetrusco per Murlo? «La mia amministrazione è entrata in carica all’inizio del mese di giugno di questo anno e, di conseguenza, siamo entrati in corsa nell’organizzazione della V edizione del festival che si è tenuto nella seconda metà del mese di luglio. Voglio, innanzitutto, ringraziare chi ha immaginato e realizzato il festival negli anni scorsi offrendo un’opportunità di particolare rilievo a Murlo. Si tratta della nostra manifestazione piú prestigiosa che riesce a coniugare la nostra storia con la musica e lo spettacolo». Quali prospettive intravede per il festival? «Il nostro compito sarà quello di accompagnarne la crescita e di svilupparlo ulteriormente. Mi piacerebbe, per esempio, che, nell’ambito di Bluetrusco, venisse realizzata una mostra itinerante sulla fase etrusca di Murlo che possa raggiungere sedi prestigiose in Italia e all’estero, soprattutto negli Stati Uniti d’America. Si ricordi che le campagne di scavo sono portate avanti da piú di cinquant’anni da archeologi statunitensi. Questo progetto andrà realizzato con la piena collaborazione della missione di scavo, diretta attualmente da Anthony Tuck, e della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Siena, Arezzo e Grosseto che ha Jacopo Tabolli come funzionario di

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A destra: Davide Ricci, sindaco di Murlo. In basso: l’acroterio etrusco in terracotta noto come il cowboy di Murlo, da Poggio Civitate. 600-550 a.C. Murlo, Antiquarium di Poggio Civitate.

zona. Voglio anticipare che – già quest’anno – reperti provenienti da Murlo saranno esposti nell’importante mostra “Etruschi. Un viaggio nelle terre dei Rasna”, che verrà allestita negli spazi del Museo Civico Archeologico di

Bologna (dal 7 dicembre 2019)». Qual è il rapporto fra la comunità locale e il festival? «Buono. C’è un notevole interesse. Quest’anno la manifestazione ha toccato le due frazioni piú grandi del Comune di Murlo – Casciano e Vescovado –, oltre a quella tradizionale del Castello, proprio per contribuire a creare un legame sempre piú stretto con la comunità locale. L’esperimento è andato bene. In questa ottica si potrebbero ipotizzare iniziative specifiche (conferenze, presentazioni di libri, escursioni, ecc.) lungo l’intero arco dell’anno e in coincidenza con altre iniziative presenti da tempo a Murlo. Cosí da creare un confronto con la nostra gente per ipotizzare insieme un futuro non svincolato dal suo passato. Voglio, infine, ringraziare chi rende possibile il festival, il suo direttore scientifico, Giuseppe M. Della Fina, il personale del Comune di Murlo, il mondo del volontariato e, in particolare, l’Associazione Culturale di Murlo, la Pro Loco e l’Associazione Sportiva La Sorba di Casciano». (red.)



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MOSTRE Roma

LA NEMICA IN PASSERELLA

I

monumentali spazi del Colosseo e del Foro Romano ospitano la prima grande mostra interamente dedicata alla storia e alla civiltà di una delle città piú potenti e affascinanti del mondo antico, forte di oltre quattrocento reperti, provenienti dalle piú prestigiose istituzioni museali italiane e straniere. L’esposizione lega le vicende delle due grandi potenze del mondo antico – Cartagine e Roma –, lungo un percorso narrativo che si snoda dalla fondazione dell’Oriente fenicio, passando per la storia della città e dei suoi abitanti, l’espansione nel Mediterraneo e la

In alto: ritratto di Caio Giulio Cesare, dell’acropoli di Kossyra (Pantelleria). I sec. d.C. Pantelleria, Antiquarium comunale. A sinistra: il rostro Egadi 4, dall’area della battaglia delle Egadi (isola di Levanzo). III sec. a.C. Favignana, Antiquarium ex stabilimento Florio.

ricchezza degli scambi commerciali e culturali nella fase che va dalle guerre puniche all’età augustea, sino a giungere alla complessità del processo di romanizzazione che ha portato Roma ad annientare, nella battaglia delle Egadi (241 a.C.), quella che era ormai divenuta l’unica temibile rivale per il controllo del mare. E proprio dalle acque delle Egadi provengono reperti mai esposti prima, risultato delle campagne di ricerca condotte dalla Soprintendenza del Mare siciliana. Il percorso prosegue con la rifondazione della nuova Colonia Iulia Concordia Carthago, che, per tutta l’età imperiale, si distinguerà per la sua superficie di oltre 200 ettari e che diverrà a tutti gli effetti una città dotata di edifici da spettacolo e lussuose abitazioni private, famose ovunque per la ricchezza dei loro mosaici policromi di cui si avranno in mostra alcuni straordinari esemplari; si conclude quindi con testimonianze del nascente cristianesimo, di cui Cartagine è in seguito diventata il centro propulsore, e con un’appendice sulla riscoperta della città alla luce dell’immaginario moderno e contemporaneo. (red.)

DOVE E QUANDO «Carthago. Il mito immortale» Roma, Colosseo, Foro Romano fino al 29 marzo 2020 Orario aperto tutti i giorni, con i seguenti orari stagionali: fino al 26.10.19 8,30-18,30; 27.10.19-15.02.20 8,30-16,30; 16.02-15.03.20 8,30-17,00; 16/28.03.20 8,30-17,30 Info www.parcocolosseo.it

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MOSTRE Lazio

ECCELLENZE ETRUSCHE

L’

esposizione rilegge le prestigiose raccolte già esistenti nei musei di Cerveteri e Tarquinia, anche grazie ai confronti offerti dalla presenza di importanti prestiti come alcuni capolavori ceramici conservati a Roma, al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e alcuni celebri oggetti preziosi della Tomba Regolini Galassi, appartenenti alle collezioni dei Musei Vaticani, che per la prima volta tornano a Cerveteri, dove furono scoperti. Vengono inoltre proposti reperti particolarmente significativi provenienti dalle necropoli delle due città etrusche. Nella prospettiva prescelta e con l’intento di far apprezzare la complessità delle operazioni richieste dall’articolata catena artigianale, si è quindi deciso di riprodurre come oggetto-campione un elmo bronzeo di particolare

prestigio e significato socioeconomico della prima età del Ferro (fine X-VIII secolo a.C.), riprendendo in video le fasi della sequenza produttiva per mostrarle accanto agli oggetti originali e alle riproduzioni. In questo modo è possibile verificare quali cognizioni tecniche e quanto sapere artigianale si celino in oggetti, ai quali perlopiú non si concede che un’occhiata frettolosa. I visitatori possono inoltre ammirare sotto una nuova luce oggetti di raro pregio, come l’eccezionale corredo della tomba tarquiniese con la celebre situla (un particolare tipo di vaso cilindrico) dell’inizio del VII secolo a.C. recante il nome in caratteri geroglifici del faraone Bocchoris, ma anche una tromba-lituo, uno scudo e una scure in bronzo finemente decorati, sepolti nel VII secolo a.C. come Fronte di un’urna cineraria fittile dipinta, dall’area dei Secondi Archi (Tarquinia). 520-500 a.C. Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale.

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offerta rituale in un antico deposito votivo di Tarquinia. (red.)

DOVE E QUANDO «Etruschi maestri artigiani. Nuove prospettive da Cerveteri e Tarquinia» Cerveteri, Museo Nazionale Archeologico Cerite e Necropoli della Banditaccia Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale e Necropoli dei Monterozzi fino al 31 ottobre Orario Museo Nazionale Archeologico Cerite e Necropoli della Banditaccia (Cerveteri), Museo Archeologico Nazionale e Necropoli dei Monterozzi (Tarquinia): ma-do, 8,30-19,30 chiuso il lunedí Info www.art-city.it/



PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

NOI SIAMO FIGLI DELLE STEPPE... DA TEMPO, LO STUDIO DEL DNA ANTICO È UN ALLEATO PREZIOSO PER GLI ARCHEOLOGI E PUÒ OFFRIRE INDICAZIONI CAPACI DI RIVOLUZIONARE I QUADRI STORICI E CULTURALI. E, COME NELLA RICERCA DI CUI CI PARLA MASSIMO VIDALE, FARE LUCE ANCHE SULLA NASCITA DELLE LINGUE ANTICHE

L

a rivista Science ha appena pubblicato i risultati del piú vasto studio finora condotto sul DNA antico dell’uomo nel continente euroasiatico: un progetto durato anni e condotto da David Reich, del Department of Genetics della Harvard Medical School di Boston, con la partecipazione di un pool internazionale di centri di ricerca, tra cui il Dipartimento dei Beni Culturali dell’Università di Padova, l’Università «Sapienza» di Roma e l’ISMEO di Roma. Ce ne parla un collaboratore storico di «Archeo», Massimo Vidale, docente di archeologia del Vicino Oriente presso l’Università di Padova, che ha seguito sul campo il progetto. Professor Vidale, per usare le sue parole, siamo tutti «figli delle steppe»: che cosa ha voluto intendere? «Il senso del nostro progetto è indagare, attraverso lo studio del DNA antico, l’etnogenesi Massimo Vidale impegnato in uno scavo nella valle dello Swat, in Pakistan. Docente di archeologia del Vicino Oriente all’Università di Padova, nonché membro del Comitato Scientifico di «Archeo», Vidale ha partecipato al piú vasto progetto di studio sul DNA antico dei gruppi umani del continente euroasiatico, dal quale sono emerse indicazioni importanti sull’origine delle comunità dell’Occidente europeo e sulla formazione delle lingue indoeuropee.

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Il nostro studio scinde le due cose, imponendo di rivedere l’ipotesi anatolica sulla migrazione delle popolazioni indoeuropee». Che cosa avete scoperto, analizzando il DNA di centinaia di individui antichi con una metodologia di dettaglio che non ha precedenti? «I codici genetici studiati confermano che l’agricoltura nasce intorno al 10 000 a.C. fra l’Anatolia, le alture della Siria e della Mesopotamia: questo rimane un dato assodato, come il fatto che gli agricoltori neolitici dell’Europa siano stati in contatto diretto, e si siano mescolati, con genti provenienti dall’Anatolia. Tuttavia, l’introduzione dell’agricoltura non ha nulla a che vedere con la diffusione delle lingue indoeuropee, che risulta invece essere un fenomeno piú tardo e generato da dinamiche diverse. Un evento, soprattutto, molto piú legato alla pastorizia e alla cultura dei nomadi dell’età del Rame detta Yamnaya: le lingue

dell’Europa, dell’Asia Centrale e del mondo indiano. E i risultati sembrano dire proprio che noi Europei siamo “figli delle steppe”, almeno per quanto riguarda la nostra preistoria piú recente. Perché l’apporto genetico dei gruppi di pastori nomadi delle steppe dell’età del Rame sembra aver radicalmente modificato anche il patrimonio genetico delle popolazioni europee». Ci vuole spiegare meglio? «Lo studio abbraccia due fenomeni: la diffusione dell’agricoltura e della vita sedentaria, legata alla cosiddetta “rivoluzione neolitica”, che in Anatolia avviene a partire dal 10 000 a.C. (mentre in Europa l’agricoltura compare intorno al 6500 a.C.), e la diffusione delle lingue indoeuropee. Due temi che molti studiosi considerano legati, da quando il famoso archeologo inglese Colin Renfrew ha teorizzato che le lingue indoeuropee si fossero diffuse cavalcando l’onda della propagazione dell’agricoltura dal Vicino Oriente in Europa.

indoeuropee nascono nelle pianure fra Mar Nero e Mar Caspio, dopo il 5000 a.C., dove si formò la comunità linguistica protoindoeuropea, cioè un gruppo di lingue da cui si originarono successivamente le altre». E che cosa aggiunge a questo quadro la genetica? «Abbiamo analizzato i genomi di 524 individui antichi mai studiati prima, provenienti da regioni che vanno dall’Asia centro meridionale, all’Afghanistan, all’Altopiano Iranico, alle foreste della Siberia, all’immensa distesa delle steppe centro-asiatiche, fino al Pakistan. Tra questi, 269 individui sono stati datati con il radiocarbonio». Che cosa è emerso? «Il patrimonio genetico delle popolazioni che intorno al 3300 a.C. abitavano nelle pianure tra Mar Nero e Mar Caspio, cioè i pastori della cultura Yamnaya, si diluisce man mano che ci allontana verso est e verso ovest lungo i corridoi delle steppe, che attraversano come una spina dorsale l’intero

Mappa che riassume le principali indicazioni emerse dallo studio del DNA antico descritto nell’intervista. L'impatto della cultura pastorale Yamnaya

Il patrimonio genetico dei pastori della cultura Yamnaya è strettamente legato alla distribuzione delle piú tarde lingue indoeuropee prima diffusione della culturaYamnaya, 1 Una a est sui Monti Altai e a ovest in direzione dell'Europa, può forse spiegare il distacco della lingua tocarica da tutti gli altri idiomi indoeuropei

genetica del ceppo Yamnaya 2 L’ascendenza diffusosi a Occidente fu verosimilmente l'origine di molte lingue indoeuropee nell'Europa occidentale e meridionale

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Cultura centroeuropea del bicchiere campaniforme -2500 a.C.

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i m Culture dello Swat Valle dello Swat a l -1000 a.C. e del Turan. Età del Bronzo Gan Indiani del Nord -2000 a.C. ge ancestrali Tr e 2000-1000 a.C. n Si ignora il percorso seguito da queste comunità per raggiungere l'Asia meridionale d

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-2700 a.C.

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Isole Britanniche -2400 a.C.

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Altai Le date si riferiscono -3000 a.C. ai piú antichi individui M o n ti A lt a i con caratteri di origine Kamennyi Ambar Yamnaya per i quali Volga -2000 a.C. disponiamo del DNA. Kazakistan Al momento non si A oggi non si conosce la sede dispone di DNA antico della prima ascendenza genetica per gli Indiani del Nord e della cultura Yamnaya del Sud, le cui datazioni Culture delle n steppe centrali. sono state dunque ha S Media e Tarda dedotte su base statistica età del Bronzo Aral an 1 i Bacino T -1700 a.C. 3 Yamnaya del Tarim Culture delle steppe meridionali. ir -3300 a.C. Dnieper Pa m Media e Tarda età del Bronzo -1700 a.C.

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Steppa euroasiatica

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Direttrici della diffusione dei caratteri Yamnaya i percorsi sono approssimativi

europee vanno verosimilmente attribuite innovazioni de linguistiche che accomunano gli idiomi balto-slavi Indiani del Sud r n o in Europa (diffusi dalla ceramica cordata) ancestrali a quelli indo-iraniani dell'Asia meridionale 2000-1000 a.C. (diffusi fino al Kazakistan con limitati casi di mescolanza con gruppi locali, prima della diffusione nell'Asia meridionale accompagnata da mutamenti sostanziali)

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500 Km

Distribuzione attuale delle lingue indoeuropee

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Yamnaya Altre origini

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Penisola iberica -2300 a.C.

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un’ascendenza genetica dei gruppi Yamnaya diffusisi 3 A a occidente e mescolatisi con comunità agricole

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Statuetta in alabastro di dignitario o sacerdote, presumibilmente proveniente dalla Margiana (Turkmenistan). Civiltà dell’Oxus, 2200 a.C. circa. Dal punto di vista genetico, le popolazioni di questa civiltà risultano legate agli agricoltori dell’altopiano iranico, e solo alla fine del III mill. a.C. entrarono in contatto con i pastori nomadi delle steppe della cultura di Yamnaya.

continente euroasiatico. Questo vuol dire che, migrando a oriente e occidente, queste genti si mescolavano con popolazioni locali. Non a caso, le popolazioni della metà del II millennio a.C. della valle dello Swat, studiate dalla missione archeologica italiana in Pakistan, diretta da Luca Olivieri, possiedono la metà del patrimonio genetico delle steppe. E cosí pure a ovest: quando questi nomadi arrivano nella penisola iberica, i loro patrimoni genetici originari sono ancora riconoscibili, ma appaiono “diluiti” con quelli

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delle popolazioni locali. In questo senso noi Europei siamo tutti “figli delle steppe”: perché c’è stato un apporto genetico molto importante da parte di questi gruppi di pastori nomadi. Questo dimostra che la diffusione delle lingue indoeuropee non ha nulla a che vedere con gli agricoltori del Neolitico, ma proviene dalla cultura delle steppe». Un altro dato interessante emerso dal vostro studio è quello relativo all’India, dove l’agricoltura sarebbe nata indipendentemente, non è vero?

«Per l’India, al momento, abbiamo a disposizione i dati di un solo individuo, una donna della civiltà della Valle dell’Indo, vissuta 4500 anni fa: la cosa interessante è che il genoma di questa signora non ha nulla a che vedere con quello degli agricoltori neolitici del Vicino Oriente, né con i pastori dell’età del Bronzo delle steppe, ma sembra appartenere a un substrato puramente locale. Il suo DNA ha invece elementi in comune con quello dei popoli delle isole Andamane, i quali hanno tratti genetici che ancora risentono di quelli dei cacciatori e raccoglitori della preistoria del Subcontinente Indo-Pakistano. Ciò significa che in questa parte del mondo, il Neolitico – con la domesticazione animale e l’agricoltura – è stato un processo del tutto autonomo da quello dell’Occidente, indipendente dalle migrazioni. I dati genetici sullo zebú indiano combaciano con questo quadro: lo zebú in India sembra essere stato addomesticato in un periodo piú antico di quello della domesticazione dei bovini europei». La genetica sta insomma «riscrivendo» la storia delineata dagli archeologi? «La genetica sta avendo un impatto fortissimo sulla storia dell’archeologia: le ceramiche, le stratigrafie, le iscrizioni diventano parte di un quadro scientifico sempre piú ampio e diverso, in cui i diversi ambiti della ricerca si integrano, con risultati dirompenti».





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ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

I «ROSSI» DEL LIBANO Come sottolinea Fabio Porzia (vedi l’articolo alle pp. 70-84) anche i Fenici sono un «non popolo». Il termine «Fenici», coniato dai Greci, si riferisce infatti in modo generico alle genti con una certa omogeneità culturale, linguistica e religiosa che vivevano sulla costa levantina del Mediterraneo, piú o meno il Libano odierno (1). Essi sono passati alla storia essenzialmente come inventori e diffusori dell’alfabeto (2), per le doti di costruttori di grandi navi (3) – per le quali utilizzavano i famosi alberi di cedro (4) – e come fondatori di colonie nelle terre d’Occidente (5), la piú famosa delle quali fu Cartagine (6), nonché, infine, come audaci esploratori addirittura oltre le colonne d’Ercole (7). Ecco dunque alcuni collegamenti filatelici con le citazioni della Bibbia che parlano dei Fenici, delle terre e delle città in cui abitavano e di personaggi a loro riconducibili. Innanzitutto il nome, legato al colore «rosso» della loro pelle e non, come comunemente si ritiene, alla colorazione della porpora da loro prodotta (emblematico è il francobollo di Gibilterra che, narrando della propria storia, mostra un navigante fenicio che offre stoffa rossa a un abitante della rocca, 8). Poi il termine generico phoinikes, usato indifferentemente da Omero sia per le genti della costa mediterranea, sia per gli abitanti di Sidone (9) e di Tiro (10). Porzia spiega come sia difficile tracciare una separazione netta tra Fenici e Israeliti, tanto che la Bibbia giustifica questa vicinanza con gli antichi rapporti di amicizia tra Davide (11) e Hiram di Tiro e con i matrimoni tra i due popoli, come quello di Acab, figlio di Omri, fondatore della capitale del regno di Israele, Samaria (12), con Gezabele, figlia del re di Sidone, Ittobaal. Quest’ultima è citata piú volte nella Bibbia ed è considerata l’archetipo della donna malvagia per le sue minacce di morte al profeta Elia (13) e per aver causato l’ingiusta condanna a morte di Nabot per impadronirsi della sua vigna (14). Tra i personaggi fenici visti invece in modo positivo dalla Bibbia c’è sicuramente il citato Hiram per l’aiuto fornito agli Israeliti per la costruzione del tempio di Salomone (15). Infine, tornando ai Fenici «navigatori», la prova del loro cosmopolitismo è data dall’iscrizione bilingue (fenicio e greco) su due cippi del II secolo a.C. trovati a Malta (16) alla fine del XVIII secolo e che permisero quindi di decifrare la scrittura fenicia (17).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO

• TUTTI GLI IMPERATORI • LEGIONARI AI CONFINI DEL MONDO • I GRANDI CONDOTTIERI • NEI LUOGHI DEL POTERE • L’ORGANIZZAZIONE DELLO STATO • BARBARI E CRISTIANI • UN GIORNO NELL’URBE


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Disegno ricostruttivo dell’area centrale del Foro Romano, attraversata dalla via Sacra. Vi si possono riconoscere, fra gli altri: la sommità dell’arco di Settimio Severo, sormontato da una quadriga in bronzo; i Rostri; le colonne onorarie, alle cui spalle è la facciata della Basilica Giulia; i Rostri del Divo Giulio, dietro i quali è l’omonimo tempio; alla sinistra di quest’ultimo, si succedono il portico di Gaio e Lucio Cesari e la Basilica Emilia.

a storia dell’impero romano non è fatta solo di conquiste e condottieri, ma è una vicenda ben piú articolata e complessa. Al di là dei confini geografici e dell’estensione dei territori che Roma arrivò a controllare, la formazione e la vita del suo impero poterono infatti avere luogo grazie alla costruzione di una macchina amministrativa straordinariamente efficiente, in grado di gestire tutti gli apparati dello Stato. Come dunque leggerete nella nuova Monografia di «Archeo», firmata da Livio Zerbini, le vicende che segnarono l’avvento della prima superpotenza della storia furono sí di natura innanzitutto bellica, ma, dalle armi, la parola passò poi alla fitta rete di funzionari incaricati di garantire l’allineamento di tutte le province via via istituite, fino alle piú lontane. Ed è altrettanto importante ricordare l’accorta politica dei nuovi padroni del mondo, che cercarono sempre di evitare che l’esercizio del potere, seppur ferreo, si trasformasse in abuso. Un modello a lungo vincente, ma che, logoratosi dall’interno, nulla poté di fronte agli scenari disegnati dall’entrata in scena delle genti barbariche.

GLI ARGOMENTI •R OMA • Profilo di una capitale •G RANDI CONDOTTIERI • Vite al comando • I NEMICI DELL’IMPERO • Avversari irriducibili • I CRISTIANI • Dall’aquila alla Croce •L E GENTI STRANIERE • Un impero multietnico

IN EDICOLA

•A I CONFINI DEL MONDO • La Cina è vicina

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CALENDARIO

Italia ROMA Mortali Immortali

Tesori del Sichuan nell’antica Cina Mercati di Traiano, Museo dei Fori Imperiali fino al 18.10.19

Claudio Imperatore

Messalina, Agrippina e le ombre di una dinastia Museo dell’Ara Pacis fino al 27.10.19

Ars erotica

L’arte dell’amore non violento nell’antica Roma Stadio di Domiziano fino al 06.11.19

L’Arte ritrovata

L’Arma dei Carabinieri per il recupero e la salvaguardia del patrimonio culturale italiano Musei Capitolini fino al 26.01.20

Colori degli Etruschi

Tesori di terracotta presso la Centrale Montemartini Musei Capitolini, Centrale Montemartini fino al 02.02.20

Carthago

Il mito immortale Colosseo-Foro Romano fino al 29.03.20

AQUILEIA Magnifici Ritorni

Tesori aquileiesi dal Kunsthistorisches Museum di Vienna Museo Archeologico Nazionale fino al 20.10.19

BOLOGNA La Casa della Vita

Ori e storie intorno all’antico cimitero ebraico di bologna Museo Ebraico fino al 06.01.20

BRINDISI Nel mare dell’intimità

L’archeologia subacquea racconta il Salento Aeroporto del Salento fino al 05.07.20

CATANIA Il kouros ritrovato

Museo Civico di Castello Ursino fino al 03.11.19 38 a r c h e o

CECINA (LIVORNO) Nudo! Tesori del Museo delle Antichità di Basilea

Fondazione Culturale Hermann Geiger fino al 13.10.19

CLASSE (RAVENNA) Tessere di mare

Dal mosaico antico alla copia moderna Museo Classis Ravenna fino al 06.01.20 (dal 13.10.19)

CERVETERI e TARQUINIA Etruschi maestri artigiani

Nuove prospettive da Tarquinia e Cerveteri Cerveteri, Museo Nazionale Archeologico Cerite Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale fino al 31.10.19

COMACCHIO Troia

La fine della città, la nascita del mito Palazzo Bellini fino al 27.10.19

ESTE Veleni e magiche pozioni Grandi storie di cure e delitti Museo Nazionale Atestino fino al 02.02.20 (dal 19.10.19)

FINALE LIGURE BORGO (SAVONA) Clarence Bicknell e la Preistoria nel Finale: una riscoperta Museo Archeologico del Finale fino al 03.11.19

FIRENZE Mummie

Viaggio verso l’immortalità Museo Archeologico Nazionale fino al 02.02.20


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

MASSA MARITTIMA (GROSSETO) La Sfinge di Vulci Museo Archeologico «Giovannangelo Camporeale» fino al 03.11.19

NAPOLI Paideia

Giovani e sport nell’antichità Museo Archeologico Nazionale fino al 04.11.19

Sacra Neapolis

Culti, miti, leggende Lapis Museum, Basilica della Pietrasanta fino al 15.12.19

PAESTUM Poseidonia

Storia e futuro di una città d’acqua Museo Archeologico Nazionale fino al 31.01.20

POPULONIA (LIVORNO) Il ritorno dell’Eroe

Museo Etrusco di Populonia Collezione Gasparri fino al 03.11.19

SIRACUSA Archimede a Siracusa Experience exhibition Galleria Civica Montevergini fino al 31.12.19

TARANTO MitoMania

Storie ritrovate di uomini ed eroi Museo Archeologico Nazionale di Taranto fino al 10.11.19

TORINO Archeologia Invisibile Museo Egizio fino al 06.01.20

Sulle sponde del Tigri

Suggestioni dalle collezioni archeologiche del MAO: Seleucia e Coche MAO Museo d’Arte Orientale fino al 12.01.20

VETULONIA (GROSSETO) Alalía, la battaglia che ha cambiato la storia

Etruschi, Greci e Cartaginesi nel Mediterraneo del VI secolo a.C. Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 03.11.19

VOLTERRA I Signori de l’Ortino

Aristocrazie gentilizie all’alba della città di Velathri Palazzo dei Priori fino al 03.11.19

Francia LIONE Ludique

Giocare nell’antichità Lugdunum-Musée et théâtres romains fino al 01.12.19

Germania BERLINO Figure possenti

Ritratti dalla Grecia antica Altrs Museum fino al 02.02.20

Grecia ATENE Gli infiniti aspetti della bellezza

Museo Nazionale Archeologico fino al 31.12.19

Paesi Bassi LEIDA Cipro

Un’isola dinamica Rijksmuseum van Oudheden fino al 15.03.20 (dall’11.10.19)

Particolare del Mosaico dei Gladiatori, da Augusta Raurica (Augst). 200 a.C. circa.

Svizzera MENDRISIO India antica

Capolavori dal collezionismo svizzero Museo d’Arte Mendrisio fino al 26.01.20 (dal 27.10.19)

BASILEA Gladiatori

La vera storia Antikenmuseum fino al 22.03.20

USA NEW YORK Acquerelli dell’Acropoli

Émile Gilliéron ad Atene The Metropolitan Museum of Art fino al 03.01.20 a r c h e o 39


STORIA • ISOLA D’ELBA

L’ISOLA DEL FERRO E DEL VINO

A

vvicinandosi all’Elba, soprattutto quando l’isola è nel pieno della sua stagione turistica, si fatica a credere che gli antichi la conoscessero come la «fuligginosa», ovvero con l’epiteto evocato dal nome – Aethalia o Aithale –, che i Greci le avevano assegnato. E né a Portoferraio o altrove s’incontrano le «moltitudini di fabbri» o le «fornaci costruite a re-

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gola d’arte» descritte dallo storico greco Diodoro Siculo, il quale, peraltro, forse parlava per sentito dire, dal momento che non si hanno prove certe di un suo effettivo soggiorno nell’isola (vedi box a p. 43). Per avvicinarsi all’anima della piú grande fra le magnifiche sette dell’Arcipelago Toscano (le altre sono Capraia, Pianosa, Montecristo, Gorgona, Giglio

e Giannutri), occorre dunque accantonare per un momento il richiamo del mare e delle spiagge e scegliere una prospettiva diversa.

I PRIMI STANZIAMENTI La storia del popolamento dell’Elba ebbe inizio prima che cominciassero a levarsi i proverbiali fumi, poiché, sebbene a oggi limitate a poche attesta-


BATTEZZATA «FULIGGINOSA» DAI GRECI, L’ELBA FU UNO DEI MAGGIORI POLI SIDERURGICI DELL’ANTICHITÀ. ANCHE IN EPOCA MODERNA LE SUE RISORSE MINERARIE SONO STATE A LUNGO UNO DEI MOTORI ECONOMICI DELL’ISOLA, MA NON MENO IMPORTANTI FURONO ALTRE ATTIVITÀ PRODUTTIVE, PRIMA FRA TUTTE LA VITICOLTURA... ECCO DUNQUE UN VIAGGIO ALLA SCOPERTA DELLE TESTIMONIANZE DI QUESTE DUE ANIME, FRA ARCHEOLOGIA CLASSICA E INDUSTRIALE di Stefano Mammini

Capoliveri. Veduta di Punta Calamita, area nella quale fu individuato e sfruttato uno dei principali giacimenti di minerale ferroso dell’Elba. L’isola divenne famosa già in antico per la produzione del metallo, mentre lo sfruttamento moderno delle miniere si è protratto fino al 1981.

zioni, le piú antiche tracce di frequentazione risalgono alla preistoria e, in particolare, al Paleolitico. Fin da tempi cosí remoti l’isola dovette attirare la presenza dell’uomo sia perché collocata al centro delle rotte che dalla costa puntavano alla Corsica e alla Sardegna, sia perché – prima che ne venissero scoperte le risorse minerarie – offr iva ampia disponibilità

d’acqua dolce e terreni adatti alla pratica dell’allevamento e dell’agricoltura. Una svolta decisiva si registra nell’età del Rame, quando furono scoperti i primi affioramenti dell’omonimo minerale: anche in questo caso, dal punto di vista quantitativo, le testimonianze finora note sono ancora poche, ma piuttosto significative. All’Eneolitico vengono in-

fatti ricondotte sia alcune tombe a circolo, sia l’allineamento megalitico dei Sassi Ritti (vedi foto a p. 48), situato nel quadrante occidentale dell’isola, là dove il ferro cede il passo a quella che fu un’altra delle grandi ricchezze locali: il granito. Scendendo nel tempo, il panorama storico e archeologico si fa piú ricco: fra l’età del Bronzo e l’età del Ferro le presenze a r c h e o 41


STORIA • ISOLA D’ELBA

si moltiplicano e sembrano rispondere a un’occupazione del territorio piú strutturata, che pone le basi per il successivo avvento della cultura etrusca. Un esordio che è anche il punto di partenza del percorso espositivo allestito nel Museo Civico Archeologico della Linguella, a Portoferraio, che può costituire l’avvio del viaggio alla scoperta delle antichità elbane.

FORTEZZE D’ALTURA Il museo ha sede negli spazi della fortezza medicea un tempo adibiti a depositi del sale e, articolato in due piani, offre una panoramica completa di tutte le vicende che maggiormente connotarono l’età etrusca e poi quella romana. Per la prima, si possono ricordare i materiali riferibili alle fortezze d’altura, che costituivano un efficiente sistema di controllo del territorio, mentre per la seconda spiccano i raffinati materiali provenienti da ville residenziali sorte quando la vocazione siderurgica dell’Elba s’era notevolmen-

te ridimensionata. Una flessione verosimilmente dovuta all’emanazione di un senatoconsulto che imponeva la chiusura delle miniere presenti sul suolo italico (vedi box a p. 45). Da segnalare è anche la scelta dei materiali restituiti dalle esplorazioni archeologiche subacquee, che hanno permesso la localizzazione di numerosi relitti. All’esterno del museo si conservano i resti di uno dei già citati grandi complessi residenziali di età romana – in uso fra il I secolo a.C. e il III

In alto: veduta a volo d’uccello di Portoferraio, che permette di apprezzare l’impronta data alla città dalla realizzazione di Cosmopoli, la città ideale fortificata voluta dal granduca Cosimo I de’ Medici.

Cavo

SP26

SP33

Nisporto

Zanca Colle D’Orano

SP25

Arcipelago Toscano Sant’Ilario SP37

Sassi Ritti

San Piero in Campo

Vallebuia Fetovaia

delle Grotte

Colle di Cavoli Palombara SP25

Casa del Duca

Valcarene

SP28

Ortano

Acquabona

Colle di Villa San Martino Procchio

Capo d’Arco SP26

SP30

La Pila SP25

SP30

Lacona

Vigneria Rio Marina

Parco Minerario

SP32

Magazzini

SP26 SP24

Procchio

Poggio

Pomonte

Portoferraio Villa romana Bagnaia

Biodola

SP25

Marciana

Monte Capanne

Chiessi

Scaglieri

Marciana Marina

Sant’Andrea

Rio Nell’Elba

Porto Azzurro

Lido di Capoliveri

Naregno SP31

Marina di Campo

Capoliveri Peducelli N

Pareti Innamorata

Parco Minerario

NO

NE

SO

SE

E

O

S

42 a r c h e o


secolo d.C. – e, poco oltre, troneggia la Torre del Martello, ultimata nel 1550 e che, dopo essere stata pesantemente danneggiata dai bombardamenti subiti dall’Elba nel secondo conflitto mondiale, ha ri-

acquistato la sua fisionomia originaria grazie a un ampio intervento di restauro. La massiccia struttura è nota anche come Torre del Passannante, perché, al tempo in cui era stata trasformata in carcere, vi fu

FORNACI COSTRUITE A REGOLA D’ARTE «Vicino alla città chiamata Populonia v’è un’isola dell’Etruria di nome Aethalia. Questa, distante dalla riva 100 stadi, prese nome dalla quantità di fuliggine presente su di essa. Difatti contiene minerale di ferro in gran quantità e di alto tenore, che viene ridotto in pezzi per essere fuso e per ottenere il ferro. I lavoratori spezzano la pietra e bruciano i vari pezzi in fornaci costruite a regola d’arte: fondendoli in queste con una gran quantità di fuoco ripartiscono le pietre a

seconda della grandezza e ne fanno pezzi simili a grandi spugne. Trafficanti li comprano e li smistano a Dicearchia (cioè Pozzuoli, n.d.r.) e ad altri empori. Alcuni, acquistando questa merce e riunendo una moltitudine di fabbri, la lavorano e fanno svariati oggetti di ferro. Foggiano armi, e anche zappe, falci e altri attrezzi. Siccome queste cose sono diffuse dai mercanti dappertutto, molte parti del mondo ne traggono vantaggio» (Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, V 13, 1-2).

I resti della villa romana della Linguella, un sontuoso complesso residenziale in uso fra il I sec. a.C. e il III sec. d.C. Alle sue spalle si staglia la cinquecentesca Torre del Martello o di Passannante.

rinchiuso per dieci anni l’anarchico lucano Giovanni Passannante, reo di avere attentato – senza riuscirvi – alla vita del re d’Italia Umberto I di Savoia, nel 1878. L’uomo vi trascorse dieci anni, in condizioni disumane, che lo portarono a gravi infermità e alla pazzia.Trasferito nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino, finí i suoi giorni nel 1910, ma solo nel 2007, e non senza polemiche, i suoi pochi resti hanno potuto essere sepolti. Dalla Linguella, si può salire al Forte Falcone, che, oltre a essere un altro superbo esempio di architettura militare, offre una ricca documentazione su uno dei persoa r c h e o 43


STORIA • ISOLA D’ELBA

naggi che hanno fatto la storia dell’isola: Cosimo I de’ Medici, il quale volle trasformare Portoferraio in una città ideale, a cui diede il nome di Cosmopoli. Un progetto ambizioso, al quale lavorarono gli architetti Giovanni Battista Bellucci e Giovanni Camerini, e delle cui strutture si conservano vaste porzioni, che ancora oggi connotano il tessuto urbanistico del primo comune elbano. Forte Falcone offre splendide vedute sull’intera

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Portoferraio e permette anche di cogliere alcuni degli apprestamenti tipici di Cosmopoli, come i grandi terrazzamenti.

VILLA CON VISTA MARE Non meno suggestivo è il sito nel quale si possono ammirare i resti della Villa Romana delle Grotte, che si affaccia sulla rada di Portoferraio su un promontorio opposto a quello della cittadina. Le strutture oggi affioranti – il complesso è stato

solo parzialmente indagato e si spera di poter presto avviare nuove indagini – lasciano intuire la grandiosità di un edificio che, innalzato sul finire del I secolo a.C., fu ristrutturato e ampliato nel I secolo d.C. La villa appartenne alla famiglia dei Valerii e si articolava su due livelli, il superiore dei quali era riservato alla parte residenziale. Particolarmente spettacolare doveva risultare la piscina, circondata su tre lati da un elegante portico colonna-


to, al di là del quale si estendeva il giardino. Ma forse ancor piú stupefacente doveva essere, soprattutto arrivando dal mare, la visione delle «grotte» che hanno dato nome al complesso: lungo i fianchi correva infatti una teoria di strutture voltate – in parte funzionali al contenimento del terreno su cui la villa era costruita, in parte pensate come elemento puramente scenografico –, realizzate con pietre di colore verde scuro e bianche alter-

Stop alle miniere! Citato da Plinio il Vecchio come vetus senatusconsultum, del provvedimento che proibiva la pratica delle attività minerarie in territorio italico s’ignora a tutt’oggi la data di promulgazione. È tuttavia probabile che fosse stato emanato nel I secolo a.C., se Plinio, che scrive nella seconda metà del I secolo d.C., lo cita come «vecchio». Altrettanto incerte sono le ragioni che potrebbero averlo dettato e sono state avanzate varie ipotesi, che vanno dal difficile reperimento di filoni redditizi allo scarseggiare della manodopera, dalla maggiore ricchezza dei giacimenti sardi o spagnoli alla volontà di eliminare, soprattutto nelle zone piú vicine a Roma, potenziali focolai di insurrezioni, visto che il lavoro in miniera veniva svolto da schiavi. Una motivazione, quest’ultima, probabilmente giustificata dal ricordo, ancora bruciante per l’establishment politico romano, della rivolta capeggiata da Spartaco. Ma è anche possibile, come ha scritto l’etruscologo Giovannangelo Camporeale, che «la ragione non sia stata una sola» (L’Etruria mineraria, Milano 1985).

Sulle due pagine: i resti della Villa Romana delle Grotte, sorta in splendida posizione panoramica sulla rada di Portoferraio. Proprietà della famiglia dei Valeri, la residenza venne edificata nel I sec. a.C. e poi ampliata e ristrutturata nel I sec. d.C. A destra, in alto: il tratto di una delle gallerie della miniera del Ginevro, presso Capoliveri, oggi visitabile. A destra, in basso: strutture per la lavorazione del minerale ferroso nell’area di Monte Calamita. a r c h e o 45


STORIA • ISOLA D’ELBA

UN’AZIENDA MODELLO di Laura Pagliantini

Dal 2012 sono in corso in località San Giovanni, sulla rada di Portoferraio, scavi archeologici (condotti dall’Università degli Studi di Siena) che stanno riportando in luce un’estesa villa romana costruita in riva al mare, dotata di una cantina con sei grandi dolia per la fermentazione del vino e di un ambiente per la conservazione in anfora dell’aceto di mele. Le testimonianze epigrafiche rinvenute sui dolia, hanno permesso di stimare una produzione vitivinicola importante, che doveva aggirarsi attorno agli 8000 litri, affiancata da quella di prodotti derivati dagli alberi da frutto. La villa era molto estesa (l’aerea finora indagata occupa 30 x 30 m circa) e la sua pars fructuaria, dedicata alla produzione e all’immagazzinamento, era collocata ai piani inferiori, mentre quelli superiori erano riservati alle funzioni abitative, con stanze e ambienti

riccamente decorati e affacciati verso mare. Le merci giungevano attraverso un piccolo porto, come sembrerebbero indicare alcune strutture sommerse, funzionali all’approdo, indagate nel corso di ricognizioni subacquee nello specchio di mare antistante. La conservazione della villa è apparsa fin da subito straordinaria: costruito alla fine del II secolo a.C. perlopiú in argilla cruda, l’edificio, fu distrutto nel I secolo d.C. da un incendio che, «cuocendo» le strutture ne ha garantito la sopravvivenza. Oltre che dai dati di scavo, l’incendio è testimoniato anche dalle analisi palinologiche e antracologiche. In particolare, gli esami condotti da Claudio Milanesi (Dipartimento di Scienze della Vita, Università di Siena) sui semi di mela combusti nelle anfore suggeriscono che le fiamme siano divampate tra settembre e ottobre, durante la

2

1

nate. Alla Villa delle Grotte si lega la sottostante villa rustica in località San Giovanni, che, nata in precedenza come complesso a sé stante, ne divenne in seguito parte integrante (vedi box in queste pagine). Addentrandosi nel settore orientale 46 a r c h e o

dell’isola, il filo conduttore continua a essere l’archeologia, ma in questo caso industriale. E qui il ferro torna protagonista, non piú soltanto nelle antiche cronache, ma in tutta la sua concretezza. In questa zona, infatti, si concentravano i piú ricchi giaci-

menti e qui, dunque, sono state scritte le pagine di una storia fatta di tenacia, inventiva, ma, soprattutto, grande fatica. Comunque si voglia considerarlo, il lavoro in miniera era fra i piú duri e non è un caso, del resto, che già i Romani avessero


In basso: un dolium in corso di scavo. Nella villa di San Giovanni questi grandi contenitori, interrati fin quasi alla loro sommità, erano adibiti alla fermentazione del vino.

In alto: ortofoto dello scavo della villa di San Giovanni. Sulla destra si riconoscono gli alloggiamenti dei dolia. Nella pagina accanto: veduta che evidenzia il rapporto spaziale fra le ville di San Giovanni (1) e delle Grotte (2).

macerazione delle mele stoccate e chiuse nelle anfore per produrre aceto di mele e comunque prima della loro fermentazione, prevista per la fine di ottobre. Il complesso venne eretto alcune generazioni prima della grande Villa delle Grotte, di epoca augustea e situata sul promontorio soprastante, ma di quest’ultima rappresenterà in seguito la pars rustica, funzionale alla conservazione del vino e delle derrate alimentari. Gli scavi archeologici hanno permesso di attribuire la proprietà della villa di San Giovanni e della Villa delle Grotte alla potente famiglia romana dei Valerii, radicata saldamente lungo tutta la costa Toscana. In particolare, i rappresentanti piú illustri della gens che possiamo collocare nelle due ville elbane, sono Marco Valerio Messalla Corvino, condottiero, oratore e protettore di lettere e arti (fondatore del «Circolo di Messalla»), e il figlio Aurelio Cotta Massimo Messalino, che avrebbe avuto come ospite il poeta Ovidio prima della partenza di quest’ultimo per l’esilio nel Mar Nero. Le campagne di scavo attualmente in corso si stanno concentrando nella parte ovest della villa, dove i crolli degli ambienti dei piani superiori stanno rivelando un ricco apparato decorativo: le stanze erano affrescate

inserito la damnatio ad metalla fra le pene piú pesanti a cui si poteva essere condannati. Echi della vita d’ogni giorno dei minatori sono offerti dal Museo della Vecchia Officina, presso Capoliveri, nel quale sono riunite

con intonaci di I stile pompeiano (202-80 a.C.) e modanature in stucco e si camminava su pavimenti in opus signinum con inserti di tessere di mosaico disposte a creare motivi geometrici. Il portico colonnato, che delimitava la cantina con i dolia dall’ampio spazio aperto verso mare, doveva essere impreziosito da lastre architettoniche, come dimostrano alcuni frammenti decorati a rilievo con scene di vendemmia e figure di satiri.

attrezzature, arredi e suppellettili che documentano le varie fasi della catena operativa. Una catena che all’Elba ha girato fino al 1981, anno cui l’attività estrattiva fu definitivamente interrotta, poiché ormai non piú redditizia. E colpisce,

quando dal Museo si passa a visitare le aree di miniera oggi praticabili – come per esempio quelle di Monte Calamita o del Ginevro – il senso di abbandono repentino emanato da quei siti. Quasi fossero una Pompei senza eruzione, quei a r c h e o 47


STORIA • ISOLA D’ELBA

UVA... SUBACQUEA C’è stato un tempo in cui il vino, piú del ferro, divenne il simbolo (e la principale fonte di ricchezza) dell’Elba: stando a un censimento effettuato nel 1870, risultavano destinati a vigneto circa 5000 ettari di terra, pari al 20% della produzione dell’isola. I numeri attuali sono ben diversi, ma, come è accaduto nel resto d’Italia, anche la produzione elbana ha scelto la via della qualità e fra quanti stanno adoperandosi per ridare lustro ai vini isolani c’è Antonio Arrighi, il quale, negli ultimi anni, ha voluto imprimere una svolta «archeologica» alla sua attività. Già da tempo, nelle sue cantine, ha introdotto l’affinamento del vino in grandi anfore realizzate a mano, proponendo una sorta di replica dei

procedimenti che dovevano svolgersi nella villa di San Giovanni (vedi box alle pp. 46-47). E, nei mesi scorsi ha voluto tentare un esperimento ancor piú ambizioso: riprodurre il vino che si faceva nell’isola greca di Chio, nell’Egeo orientale. La tecnica, suggerita ad Arrighi da Attilio Scienza (che, come

i lettori piú affezionati ricorderanno, già aveva partecipato alle ricerche di Andrea Zifferero e Andrea Ciacci sul vino etrusco: vedi «Archeo» n. 333, novembre 2012, anche on line su issuu.com), consiste nel tenere le uve per alcuni giorni in mare, dentro nasse di vimini, affinché l’acqua salata elimini dagli acini la pruina,

luoghi sembrano essere stati lasciati all’improvviso, poco prima del nostro arrivo, e non quarant’anni fa. E solo osservando la ruggine che sta lentamente consumando le strutture ancora oggi visibili si intuisce quanto sia invece lungo il

tempo ormai trascorso dal giorno in cui per l’ultima volta le squadre dei minatori scesero nelle viscere dell’isola. Anche il visitatore ha oggi l’opportunità di sperimentare questa «discesa agli inferi», poiché alcune delle gallerie sono visitabi-

li e senza dubbio, al di là dei suggestivi effetti creati dalle fioche luci che rischiarano il percorso, è fin troppo facile immaginare quanto faticoso fosse il lavoro svolto lí dentro.

Recuperate dal mare, le uve contenute nelle nasse vengono stese ad asciugare e appassire.

A sinistra: l’allineamento megalitico dei Sassi Ritti, presso San Piero in Campo, verosimilmente databile all’età del Rame. Nella pagina accanto: una cava di granito d’epoca romana con colonne abbandonate sul posto in stadi diversi di lavorazione.

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LA VIA DEL GRANITO Come accennato all’inizio, sull’isola d’Elba non c’erano soltanto rame e ferro, ma anche granito. Una presenza che si fa spettacolare, anche archeologicamente, nei pressi di San Piero in Campo. In particolare, oltre ai monoliti che formano l’allineamento dei Sassi Ritti, merita una visita (il sentiero è indicato, si tratta appunto della via del Granito) la cava utilizzata in epoca romana, che con le miniere di ferro condivide l’abbandono. Il sito si trova, in quota, sopra una delle spiagge elbane piú rinomate, quella di Cavoli (che può essere una meta ideale per cercare un po’ di ristoro dopo tanto girovagare…), e offre un colpo d’occhio singolare: quasi a voler offrire un manuale sulle tecniche


una sostanza cerosa che protegge i chicchi: in questo modo si accelera il tempo di disidratazione dell’uva, portandola a perfetta maturazione. L’uva viene quindi fatta asciugare e appassire sugli incannucciati per essere in seguito vendemmiata nelle anfore. Il primo tentativo è stato compiuto nel settembre del 2018 e ha dato risultati incoraggianti: in attesa che la produzione entri a regime e venga commercializzata, il prossimo 14 ottobre, a Parigi, verrà premiato Vinum Insulae, il cortometraggio che documenta la «rinascita» del vino chiota. Le nasse riempite d’uva vengono calate in mare, dove saranno lasciate per alcuni giorni.

DOVE E QUANDO Museo Civico Archeologico e Area archeologica della Linguella, Torre del Martello Portoferraio, Darsena Medicea Info tel. 0565 914121; www.visitaportoferraio.com Fortezze Medicee, Forte Falcone Portoferraio, Calata Mazzini Info tel. 0565 914121; www.visitaportoferraio.com

di lavorazione, sono ancora in posto varie colonne, che comprendono esemplari appena sbozzati, semifiniti e ultimati. Nella stessa zona vale la pena notare un’altra espressione dell’atavico rapporto fra l’uomo e la pietra: sono i caprili, ricoveri realizzati dai pastori per gli animali, gli attrezzi o anche per se stessi. Fatti di pietre irregolari, scaglie e blocchetti, si presentano come strutture solitamente circola-

ri, di altezza variabile, che possiamo considerare membri di quella sterminata famiglia di cui fanno parte, per esempio, i nuraghi o i trulli. Anche la via del Granito offre infine un passaggio di testimone dall’archeologia classica a quella industriale: il sentiero lambisce infatti il mulino del Moncione, utilizzato per macinare il grano e provvisto di una singolare ruota orizzontale idraulica, detta ritrécine.

Villa Romana delle Grotte Strada provinciale ovest-località Le Grotte Portoferraio Info tel. 327 8369680; e-mail: villadellegrotte@gmail.com Museo della Vecchia Officina, Miniere di Capoliveri Località Calamita, Capoliveri Info tel. 0565 935492, 393 9059583 o 393 8720018; e-mail: info@minieredicalamita.it, minieracalamita@gmail.com; https://minieredicalamita.it a r c h e o 49




REPORTAGE • NINIVE

LA SECONDA

CADUTA DI NINIVE COINVOLTA NEI DURISSIMI COMBATTIMENTI INGAGGIATI PER IL CONTROLLO DI MOSUL, LA SPLENDIDA CAPITALE ASSIRA È STATA PESANTEMENTE DANNEGGIATA. PER SALVARNE I MONUMENTI SUPERSTITI, OCCORRE AVVIARE AL PIÚ PRESTO PROGETTI DI RECUPERO E RESTAURO di Stefania Berlioz e Massimo Vidale

N

egli ultimi due anni, Ninive e l’impero assiro sono stati protagonisti di mostre di grande successo al Rijksmuseum van Oudheden di Leida, al British Museum di Londra e piú recentemente al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (vedi «Archeo» nn. 396, 407 e 414, febbraio 2018, gennaio e agosto 2019: anche on line su issuu.com). Piú che di un revival, si potrebbe parlare di una vera e propria «assiromania», se consideriamo anche che, nell’ottobre 2018, la sede 52 a r c h e o


Un tratto di una delle gallerie scavate sotto le rovine della moschea di Nebi Yunus (moschea del profeta Giona), nel quale sono inaspettatamente comparsi preziosi altorilievi assiri.

newyorchese della Christie’s ha venduto all’asta un rilievo proveniente dal palazzo reale di Ashunasirpal II a Nimrud per la cifra record di 31 milioni di dollari. Genera una sorta di inquietudine pensare che qualche migliaio di chilometri a est di Londra e New York, anni luce dai riflettori puntati sulle antichità assire – in esposizione o in vendita – Ammar e Rowaed, due giovani archeologi dell’Ispettorato di Mosul combattano la loro solitaria battaglia in difesa di quel po-

co che resta dell’ultima capitale assira: Ninive. Per 32 mesi, dal giugno 2014 al gennaio 2017, l’area archeologica, inglobata nella moderna città di Mosul, è stata infatti bersaglio della furia iconoclasta delle milizie dell’ISIS. Le ferite inferte sono ancora aperte, e a rischio di infezione. Una missione italiana, facente capo al Ministero dei Beni Culturali e diretta da Alessandro Bianchi (MiBAC, Segretariato Generale) si è recata sul sito per valutare i danni e pianificare i futuri interventi (vedi anche a r c h e o 53


REPORTAGE • NINIVE

«Archeo» n. 411, maggio 2019; on line su issuu.com). Ciò che abbiamo visto supera ogni immaginazione.

LE MURA 80 chilometri separano Erbil, base della missione, da Mosul. Una distanza che si percorre, quando va bene, in due ore. La guerra contro l’ISIS è finita da oltre un anno, ma l’insicurezza regna ancora. Bisogna attraversare due posti di blocco, distanti poche centinaia di metri l’uno dall’altro: si esce dalla Regione Autonoma del Kurdistan, si entra nel Governatorato di Ninive, ex roccaforte dello Stato Islamico. I segni del recente conflitto sono ovunque e ci accompagnano sino alle periferie orientali di Mosul. Qui, strette in una morsa di cemento, sono le rovine di Ninive. Le mura della città compaiono alla vista all’improvviso, girato un angolo di strada di un anonimo quartiere popolare. 12 km di lunghezza e oltre 20 m di altezza: maestose, «alte come una montagna», cosí come le aveva immaginate e realizzate, agli inizi del VII secolo a.C. il grande re Sennacherib (705 circa-681 a.C.). La cortina difensiva si articolava, in origine, in una cinta interna in mat-

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In alto: cumuli di rifiuti addossati al tratto orientale delle mura di Ninive. In basso: una delle trincee scavate dai miliziani dell’ISIS nelle mura, al fine

di installarvi le proprie postazioni antiaeree. Come si vede, la scarpa del muro è stata ampiamente distrutta dai mezzi meccanici.

toni crudi, spessa dai 15 ai 45 m, e una linea esterna in pietra grezza, foderata da un paramento in blocchi squadrati. Sulla sommità correva un camminamento di ronda, delimitato da merli a gradoni. Immagini di questo sistema difensivo esterno, che, soprattutto sui lati settentrionale e orientale, regolava anche la distribuzione dell’acqua in canali e fossati affiancati da rigogliosi palmeti, comparivano sui famosi rilievi in gesso dei palazzi reali. Ancora oggi, pure spogliate del loro paramento in pietra ed erose dall’a-

zione dell’acqua e del vento, le mura di cui Sennacherib menava vanto sono impressionanti. Bisogna salire sulla cima e camminare in fila, come soldati di ronda, per capire quanto questa cinta leggendaria sia stata mortificata negli anni di occupazione. Il cammino inizia dal tratto sudorientale. Pochi metri e subito affondiamo in un enorme cratere, con vistosi segni di esplosione all’interno. Qui, ci spiegano, erano appostati i cecchini dell’ISIS. Li ha colpiti una bomba della coalizione internazionale. Enormi trincee si susseguono a distanze regolari sul lato interno delle mura. Sono tutte postazioni militari jihadiste, con funzione anti-aerea e anti drone, piazzate nell’estremo tentativo di frenare l’avanzata degli infedeli dal lato orientale del complesso (l’area di Ninive in realtà fu rapidamente conquistata dal lato meridionale, vanificando la linea di difesa predisposta dall’ISIS). È infuriata la battaglia lungo le mura di Ninive, e non è la prima volta. Torna in mente la profezia di Nahum (profeta ebreo, settimo del gruppo dei Profeti minori, n.d.r.). sulla caduta della città, infine verificatasi nel 612 a.C. a opera di Medi, Babilonesi e Sciti alleatisi nella storica impresa: «Per le vie avanzano i carri, si precipitano sulle piazze, il loro


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SOTTO LA TOMBA DEL PROFETA Risaliamo, questa volta in pulmino, la linea occidentale Ale delle mura, letessa ssandr n ria ia teralmente incastrata tra iSai moderni Sais s quartieri della città. Non sono pre-

Bogazk Bog a öy azk

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aspetto è come di torce, guizzano come saette. Si chiamano all’appello i piú coraggiosi, che accorrendo si urtano: si slanciano verso le mura, la difesa di scudi è formata. Le porte dei fiumi si aprono, il palazzo trema». Della sanguinosa rovina della capitale neoassira si sono trovate eloquenti prove in corrispondenza di alcuni dei principali accessi alla città murata: strati di crollo e distruzione, scheletri di difensori caduti e rimasti per sempre insepolti tra Mar le rovine. Mediterraneo

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Città moderna

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Sito archeologico L’impero assiro nel X sec. a.C. L’impero assiro nel IX sec. a.C.

Teb ebe eb e Mar Rossso

L’impero assiro nel tardo VIII sec. a.C. L’impero assiro nel VII sec. a.C.

In alto: mappa dello sviluppo e dell’estensione dell’impero assiro (X-VII sec. a.C.). A sinistra: planimetria del sito archeologico di Ninive, circondato e in parte coperto dalle abitazioni della moderna città di Mosul.

viste soste prolungate: due attentati, a distanza di poche ore, hanno ancora insanguinato il centro della città. Ci avviciniamo alla moschea del Profeta Giona, centro identitario per la locale comunità musulmana, ma anche per Ebrei e cristiani, perché ritenuto luogo di sepoltura del profeta. Il 24 giugno del 2014, a un mese dalla proclamazione del califfato, la moschea è stata polverizzata dalla deflagrazione di bombe a barile, collegate a un detoa r c h e o 55


REPORTAGE • NINIVE

DENTRO I GRANAI DEL CALIFFATO È stata forse la scoperta piú scioccante della nostra missione: undici gigantesche trincee, lunghe tra i 50 e i 100 m, larghe circa 15-20 m e profonde sino a 7. Queste vere e proprie voragini erano state accuratamente coperte con teloni di plastica fissati al suolo, sospesi su intelaiature interne rimovibili. Scavate dall’ISIS con orientamento est-ovest, allo scopo di risultare meno visibili, come ombre, dall’osservazione aerea, queste enormi fosse contenevano, a quanto riferito da testimoni oculari, sacchi di cereali, zucchero e altre provviste di prima necessità. La scelta di scavarle entro il perimetro delle mura neo-assire derivava probabilmente dalla certezza che questi magazzini non sarebbero stati bombardati dalla coalizione internazionale per timore delle critiche mediatiche causate da un’ulteriore azione distruttiva del sito. Dentro queste enormi e in qualche modo sinistre cavità abbiamo camminato tra rifiuti di ogni genere, bossoli di munizioni e caricatori arrugginiti di Kalashnikov, carcasse di animali morti e giocattoli rotti. Lungo le pareti, l’occhio dell’archeologo riconosceva pozzi, muri e pavimenti delle case neo-assire sezionati dalle ruspe dell’ISIS; mura fatte di mattoni crudi spesse fino a 4-5 m, certamente appartenenti a grandi edifici dell’élite cittadina. Dispersi al suolo tra i rifiuti odierni, frammenti ceramici e di vasi in pietra, strumenti litici per macinare il grano, i resti delle canalette degli impianti idraulici, e frammenti delle soglie di grandi case accuratamente scolpiti per ospitare i cardini delle porte. Cinque trincee hanno inciso in profondità il nucleo interno dell’immensa fortificazione in mattoni crudi realizzata da Sennacherib, e con esso, piú all’interno, tratti di quella che, a un primo esame, sembra una linea di difesa di età precedente, costruita lungo il ramo di un canale, forse naturale. A una prima ispezione, questo argine sembrerebbe essere stato realizzato con blocchi di arenaria, sabbie e conglomerato estratti dai substrati geologici naturali del luogo, forse con il concorso di palificazioni lignee. Esiste veramente questo primo sistema di difesa? Quanto esso può essere considerato una costruzione artificiale, e, in tal caso, chi lo costruí? A queste domande potranno rispondere solo successive campagne di studio sul campo. Le lame delle ruspe dell’ISIS sono penetrate in profondità anche nei conglomerati basali del sito, portando in luce strumenti in pietra scheggiata del Paleolitico Inferiore e Medio, a dimostrare l’enorme antichità della presenza umana su questi terrazzi del Tigri. Abbiamo cercato di documentare quanto possibile di questi affioramenti, che tuttavia richiederebbero, al piú presto, apposite campagne di studio, prima che le pareti dei «Granai» cedano sotto la forza degli agenti atmosferici. Dalle distruzioni emergono, inaspettate, nuove scoperte: certo un risultato ironico per chi si proponeva di sradicare ogni traccia di «antiche culture pagane». È una confortante conferma – se mai ve ne fosse stato bisogno – dello straordinario potenziale del patrimonio archeologico iracheno. Ma c’è ben poco da gioire, i danni sono stati gravissimi, e le sfide che si prospettano al Paese nell’emergenza post-bellica e nel difficile quadro internazionale sono e saranno altrettanto straordinarie. 56 a r c h e o


natore (vedi box in questa pagina). In pochi secondi sono stati spazzati via straordinarie architetture e secoli di storia: risalente ai tempi di Tamerlano, la moschea venne costruita sui resti di una chiesa nestoriana preceduta da luoghi di culto cristiani piú antichi, a loro volta edificati su una reggia neo-assira, l’ekal masharti – l’arsenale – di Sennacherib. La sacralità del luogo, come spesso accade, aveva prevenuto ricerche archeologiche di dettaglio sulle complesse stratificazioni del sito. Nel febbraio 2017, mentre la parte occidentale di Mosul era ancora sotto il controllo militare dell’ISIS, i militari dell’esercito iracheno tornano a visitare quanto resta della grande moschea. Si diffonde, rapida, la notizia della scoperta di tunnel scavati al di sotto delle rovine. Giornalisti e archeologi entrano nei cunicoli, e restano stupefatti. Lungo le pareti delle gallerie sfilano, del tutto intatti, e ancora al loro posto, tori alati androcefali, imponenti rilievi in pietra e lastre ricoperte di iscrizioni cuneiformi. Le gallerie, scavate a partire dalle rovine della moschea distrutta, sono penetrate nei corridoi di un imponente palazzo regale neo-assiro. Sulle pareti dei passaggi, davanti alle

VITTIME DI UNA «PULIZIA RELIGIOSA» Perché uomini di fede musulmana si sono dedicati con tanto impegno alla distruzione delle moschee funerarie dedicate a santi, profeti e imam della propria religione? La risposta si cela nei dettami dell’ortodossia coranica sunnita, che proibisce la venerazione delle tombe. Al contrario, questa pratica devozionale è molto comune nella tradizione sciita, diffusa in Iran, nel Sud dell’Iraq e in altre regioni del mondo islamizzato. Storicamente, la tradizione sciita, soprattutto in Iraq, in Iran e in Pakistan, ha importanti margini di sovrapposizione con altri sistemi di pensiero considerati «eretici» dagli ortodossi sunniti, come il sufismo, di vocazione universalistica e sincretistica, o con un variegato

lastre scolpite, si intuiscono gli enormi crolli di mattoni crudi che sigillano ancora le sale dell’antico palazzo sepolto. Difficile avanzare ipotesi sul complesso assiro cosí scoperto: lo stile di parte degli altorilievi sembrerebbe piuttosto arcaico, come nel caso di file di personaggi

insieme di scuole religiose di impronta mistica, filosofica e speculativa. Il califfato nero, fino a che ha potuto, ha messo in atto un sistematico progetto di «pulizia religiosa», oltre che etnica, cercando di sradicare totalmente non solo ogni contiguità con ebraismo e cristianesimo, ma anche ogni culto diverso dalla propria ortodossia. Se le distruzioni sono state materialmente opera di persone ignoranti, queste sono state oculatamente indirizzate, antichi testi alla mano, da un clero ben informato ed erudito negli sviluppi e nelle implicazioni di secoli di diatribe e aspri conflitti religiosi. E Nebi Yunus (la moschea del profeta Giona) ne è stata la vittima esemplare.

femminili stanti che sembrano rappresentare file di dee o semidee che recano in mano un oggetto a forma di tridente. Forse, come hanno pensato gli archeologi iracheni il tridente serviva alle dee «per spargere l’acqua della vita». Altri vi riconoscono, sulla base di confronti iconoNella pagina accanto: una stratigrafia archeologica esposta dagli sbancamenti compiuti dall’ISIS per ricavare depositi di grano. A sinistra: rilievi con figure femminili a testa in giú scoperti in una galleria scavata sotto la moschea del profeta Giona.

a r c h e o 57


REPORTAGE • NINIVE A sinistra e in basso: frammenti di iscrizioni in cuneiforme e di rilievi nella sala del trono, devastata, del «Palazzo senza Uguali» di Sennacherib. Nella pagina accanto, in alto: resti di una torre sul lato sud delle mura.

Nella pagina grafici, tralci di papavero da oppio. Un altro enigma è rappresentato da accanto, in basso: veduta tratti delle gallerie nei quali le stesdell’area in cui se figure femminili sono allineate a sopravvivono i testa in giú. L’unica spiegazione è che, in tal caso, le gallerie abbiano resti della sala intercettato, piuttosto che le pareti del trono del degli ambienti, il nucleo interno di «Palazzo senza grandi muri costruiti in mattone Uguali». Si crudo; e che tali lastre siano state riconoscono i riutilizzate inglobandole in una poderosi muri in successiva costruzione. Se questo mattoni crudi, fosse vero, sul lato opposto delle pesantemente lastre futuri scavi metteranno in danneggiati dai luce un secondo, piú tardo ciclo di combattimenti e sculture parietali. Sarà questo il minacciati dal difficile compito della missione degrado. tedesca diretta da Peter Miglus, dell’Università di Heidelberg. petrolio, all’acqua di falda e alle miniere metallifere. EDILIZIA ABUSIVA Da un passaggio lungo le mura Caduto l’apparato protettivo statale, entriamo nel settore di Ninive a le popolazioni locali hanno realiznord del fiume Khosr, l’affluente zato progetti di sviluppo prima del Tigri che tagliava in due la bloccati dall’intervento governaticittà antica. Sino alla fine degli vo, portando a termine senza oppoanni Novanta del secolo scorso, sizione alcuna, per esempio, la quest’area era stata risparmiata, grande arteria stradale che attravergrazie all’autorità del Dipartimen- sa da est a ovest la parte meridionato di Archeologia e alla fattiva pro- le del sito, a sud del Khosr. A nord, tezione governativa, dall’espansio- su quella che era la superficie prone urbana di Mosul. Durante l’oc- tetta di Ninive, oggi si estende il cupazione dell’ISIS, i beni cultura- flebile reticolo stradale di una illeli sono diventati ufficialmente una gale pianificazione urbana, abortita delle tante risorse sotterranee, ab- (in parte) con la sconfitta militare binate dalla legislazione islamica al del califfato. Economicamente par58 a r c h e o

lando, lo spazio che si può ricavare dall’interno del sito appare quanto mai appetibile: in quanto generalmente disponibile come «terra di nessuno», ma destinato a un forte incremento di valore, se la protezione archeologica dovesse cedere del tutto, condonando gli acquisti e le costruzioni illegali. Oggi, a tratti, le trincee scavate dai mezzi meccanici per le nuove strade hanno disperso tra i campi e gli scarichi i basoli di calcare giallodorato di quella che il costruttore Sennacherib descriveva come l’arteria piú bella e risplendente della

sua capitale. Se le case delle famiglie piú povere e sprovvedute sono state in buona parte rimosse con le ruspe, rovinando inevitabilmente la superficie del sito con residui di mura e cemento armato, resistono indisturbate le residenze di persone e famiglie influenti, capaci di condizionare il ripristino di condizioni di legalità. Oltre alle costruzioni, ai cantieri interrotti e a poveri edifici via via smantellati, Ninive è deturpata da ettari di scarichi di rifiuti, sia macerie di abitazioni completamente distrutte durante i bombardamenti della liberazione, sia immondizie di


ogni genere provenienti dai quartieri circostanti e dalle abitazioni che si stanno allargando entro le mura. È desolante che tutto ciò colpisca la piú grande e orgogliosa delle città menzionate nell’Antico Testamento, nella totale indifferenza della comunità internazionale. La strada per raggiungere la sommi-

tà di Tell Kuyunjik, la cittadella reale di Ninive, è lunga e tortuosa. Le pendici del tell – la collina artificiale creata nel corso dei millenni dall’accumulo di materiali depositati dall’attività umana – sembrano rosicchiate da topi giganteschi. Ovunque scopriamo buchi, anfratti, gallerie che si addentrano profon-

damente nella collina, trapassandola da parte a parte. Alcune di queste ferite risalgono agli scavi inglesi ottocenteschi, altre sono recenti. Proseguiamo con passo incerto, scavalcando cumuli di macerie e spazzatura, una delle piaghe dell’area archeologica. Ci giunge una voce dall’alto. Alziamo lo sguardo: è un uomo, capo coperto e bastone sollevato al cielo, che ci invita nella sua casa. È lui l’ultimo re di Ninive. Si chiama Allawi, è un pastore arabo, profugo di guerra. Ha montato le sue tende nell’area un tempo consacrata a Ishtar, la piú grande delle divinità assire e protettrice di Ninive. Una tenda non compromette l’integrità del sito archeologico, ma indica la totale mancanza di controllo da parte delle autorità governative. Sede dei templi e dei palazzi reali di Ninive, Tell Kuyunjik appare oggi brulla, battuta dai venti. La superfice è ondulata, a tratti depressa: sono questi i resti degli scavi che si sono

a r c h e o 59


REPORTAGE • NINIVE

La Missione La missione a Ninive (ottobrenovembre 2018), diretta da Alessandro Bianchi, ha avuto come obiettivo la verifica sul campo delle distruzioni inflitte dalle milizie dell’ISIS tra il Giugno 2014 e il gennaio 2017. L’iniziativa rientra in un piú vasto progetto di monitoraggio e salvaguardia del patrimonio archeologico e culturale iracheno promosso dal Ministero dei Beni Culturali Italiano e finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo e dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Alla missione hanno partecipato, oltre chi scrive, Stefano Campana e Matteo Sordini (Università di Siena), Adib Fateh Ali (AskaNews). Ci hanno affiancato tre colleghi iracheni del Dipartimento di Remote Sensing dell’Iraqi State Board of Antiquities: Riyadh Hatem Muhammad, Alauldeen Hammoodi Mutlag e AbdulAzeez Kadhim Sachit; e due archeologi dell’Inspection Office di Mosul: Rowaed Muwafaq Mohammed e Ammar Hatem Najm.

60 a r c h e o

In questa pagina: due immagini dei sopralluoghi compiuti dalla missione

italiana. Nella foto in basso, Alessandro Bianchi.

susseguiti per 150 anni dalla metà dell’Ottocento. La recinzione che delimitava l’area archeologica è stata divelta, sul terreno si scorgono le tracce del passaggio di mezzi pesanti. Ma lo scenario piú desolante deve ancora arrivare.

denti spezzati, tra i cumuli affiorano, biancastri, frammenti di iscrizioni regali, e pezzi di teste e barbe di quelli che erano i colossali lamassu (tori alati androcefali) posti dai sovrani a sovrannaturale protezione delle proprie porte. I pezzi dei pannelli e delle sculture in gesso stanno rapidamente dissolvendosi sotto l’azione incontrastata delle piogge stagionali. In alto, come un sinistro trofeo, la testa di un altro lamassu rimane appesa alle barre di ferro di un vecchio restauro. Le stesse distruzioni sono state fatte a Nimrud e Khorsabad. Fino a che, anche a Ninive, non prenderanno il via appositi progetti di recupero e restauro, le strategie mediatiche dell’ISIS continueranno ad averla vinta. Non ci resta che lanciare un appello, affidandoci alle profetiche parole di Sennacherib, il grande re di Ninive: «Nei giorni a venire, il principe, tra i miei figli, il cui nome Ashur e Ishtar chiameranno per regnare su terre e popoli, quando il palazzo diverrà vecchio e cadrà in rovina, possa costui restaurare le sue rovine, possa leggere le memorie iscritte con il mio nome, possa consacrarlo con olio e offrire sacrifici, e restaurarlo per farne la propria dimora. Allora, Ashur e Ishtar ascolteranno le sue preghiere» (Annali di Sennacherib, Prisma BM 103.000; 694 a.C.).

NELLA SALA DEL TRONO Entriamo nella trincea che un tempo ospitava i resti dei poderosi muri in crudo della Sala del Trono del «Palazzo senza Uguali» di Sennacherib. Non distante da qui era stata trovata la prima tavoletta con la storia del Diluvio Universale, parte della versione classica dell’Epopea di Gilgamesh, tradotta con successo nel 1872 dall’assiriologo George Smith (1840-1876). Le ruspe dell’ISIS, calate tra le rovine, hanno travolto quanto restava delle possenti mura in crudo del palazzo, lungo le quali sopravvivevano lacerti dei famosissimi rilievi in gesso argenteo che immortalavano le gesta cruente dei re di Ninive. Sono gli stessi rilievi che ancora travolgono gli occhi e l’immaginazione di milioni di visitatori nelle gallerie del British Museum. Ora qui è tutto distrutto. Pile di mattoni crudi delle antiche murature, mescolati a quelli di recenti restauri, si affollano tra i resti accartocciati di putrelle metalliche e lembi di lamiere ondulate. Come



SCOPERTE • LAZIO

LA FORMULA DI MUCIO IL RICONOSCIMENTO DELLA VILLA DEL GIURISTA QUINTO MUCIO SCEVOLA (140-82 A.C.) RIVELA GLI STRAORDINARI AFFRESCHI FATTI REALIZZARE DA SUO FIGLIO. PITTURE ATTRAVERSO LE QUALI, MENTRE CESARE SI ACCINGEVA A RIFORMARE LA GIURISPRUDENZA, RIVENDICÒ COME «GLORIA DI FAMIGLIA» L’INNOVATIVA INTRODUZIONE DELLA SCRITTURA IN SOSTITUZIONE DELL’ARCAICA ORALITÀ NEL PROCESSO PRIVATO ROMANO E L’INVENZIONE DI UNA «FORMULA» ADATTA AL CASO PORTATO IN GIUDIZIO di Felice Costabile

C

hi non ricorda Mucio Scevola, il cui nome fu consacrato dalla leggenda quando attentò alla vita di Porsenna, il re di Chiusi che assediava Roma dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo? L’attentato fallí e Mucio puní la sua mano destra bruciandola sopra un braciere di fronte al re, il quale, ammirato di tanto coraggio, tolse l’assedio: da quel giorno Mucio venne detto Scevola, cognomen che si voleva significasse «che ha solo la mano sinistra» (scaeva), trasmesso con 62 a r c h e o

orgoglio di padre in figlio a memoria dell’eroe. Da lui era convinta di discendere una delle famiglie piú illustri della nobiltà plebea del IIII secolo a.C., che diede a Roma alcuni fra i maggiori giuristi. Tutti si chiamavano, di generazione in generazione, Mucii Scevolae e il loro prenome, con poca fantasia, era immancabilmente Publio o Quinto. Fra costoro, vi è quel Quinto che, assassinato durante i disordini civili dell’82 a.C. malgrado fosse pontefice massimo, fu cele-

berrimo interprete del diritto, ma famoso anche per la frugalità dei costumi spartani, o meglio catoniani. Lo scorso anno, chi scrive ha potuto identificare la sua villa nel suburbio di Roma, una decina di chilometri fuori delle Mura Aureliane, sotto il cavalcavia di Salone del Grande Raccordo Anulare dell’A24. Lo scavo archeologico era stato condotto nel 2013 per la Soprintendenza Speciale di Roma, sotto la direzione del compianto Stefano Musco, da Clau-


dia Angelelli: si deve loro la pubblicazione di puntuali relazioni preliminari, rilievi e studio delle varie fasi della villa, in uso per oltre tre secoli. Costruita fra il 120 e il 90 a.C. sulla riva destra dell’Aniene, solo attorno al 60-50 a.C. la parte signorile dell’abitazione fu ornata da un raffinato ciclo pittorico con i piú diversi e consueti motivi figurativi, at-

tribuiti da Stella Falzone al secondo stile. Fra questi, meno frequente è la rappresentazione della strumentazione per scrivere, riconosciuta da Giulia Baratta: calamai, penne per inchiostro e stili per incidere sulla ceralacca, tavolette lignee cerate, papiri e casse cilindriche per contenerli, scrigni, tutti esposti su una mensa modanata o sotto di essa.

Frammenti di affreschi raffiguranti una mensa con bordo modanato e varia strumentazione scrittoria sia sul ripiano che sotto il tavolo (vedi anche alle pp. 68-69); sulla destra compare un frammento di vaso in bronzo con manico a forma di satiro e busto acefalo di sfinge (riconoscibile dal lembo di ginocchio della zampa ferina), dalla «Villa del Giurista» sull’Aniene, nel suburbio orientale di Roma. a r c h e o 63


SCOPERTE • LAZIO

Pompei ed Ercolano ci hanno abituati a vedere l’ostentazione di tale messaggio di acculturazione nella casa romana, ma è un unicum sia la «concentrazione» nello stesso affresco di tanti instrumenta scriptoria, sia che essi annoverino alcune eccezionali epigrafi rimaste inedite, che ho

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potuto leggere e pubblicare nel 2018 per incarico del Soprintendente Speciale di Roma pro tempore Francesco Prosperetti. Il documento piú stupefacente reca scritto un nome, quello di Mucio Scevola, che fu portato da almeno quattro o cinque giuristi fra il 225 e

l’82 a.C. I soli nomen e cognomen di famiglia, comunque, non basterebbero ad accertare l’identità del costruttore della villa sull’Aniene.Tuttavia Columella, nel trattato De agricultura, e Plinio, nella Naturalis Historia, additano la villa costruita dal giurista Quinto Mucio Scevola


(140-82 a.C.) come unica per la ridottissima estensione. Plinio, anzi, ironizza sul fatto che, mentre la confinante e contemporanea villa di Lucullo – notoriamente smodato nel lusso e nei piaceri – era cosí grande da avere piú terra da scopare sui pavimenti che da dissodare nei campi, quella di Mucio, per la sua smania d’essere piú austero e parsimonioso dello stesso Catone il Censore, era invece cosí piccola da non potervi stoccare nemmeno i prodotti dei terreni: due eccessi opposti, che il bravo conduttore di un’azienda agricola non avrebbe dovuto imitare! Ora, pur con gli ampliamenti successivi alla morte del parsimonioso costruttore, la villa sull’Aniene non arriva a 1 ettaro, contro uno standard delle ville romane dell’epoca che va da 4 a 10.

UN’INSOLITA SOBRIETÀ Del resto, la testimonianza di uno degli affreschi sulla straordinaria frugalità della mensa della villa coincide puntualmente con quanto le fonti storiche tramandano per Quinto Mucio. Ateneo, infatti, riprovando lo sperpero generale dei pranzi pantagruelici a base di stravaganti prelibatezze d’importazione

A destra: mappa del suburbio romano con l’ubicazione della «Villa del Giurista». Nella pagina accanto: Muzio Scevola davanti a Porsenna, olio su tela del Guercino (al secolo Giovan Francesco Barbieri). 1647 circa. Genova, Palazzo Durazzo Pallavicini.

Mentana SS2BIS

Settebagni

Fonte Nuova

A90

Villa del Giurista Aniene

A24

Roma

SS1 A12

E80 A91

Tevere Fiumicino Lido di Ostia

(come ostriche, murene, pavoni ecc.), loda l’insolita sobrietà della tavola di Quinto Mucio Scevola, del suo amico Publio Rutilio Rufo, anch’egli giurista e ricordato nel lembo superstite di una tavoletta cerata dipinta su una parete della villa, e di Elio Tuberone: erano questi i soli tre romani, «fra decine di migliaia di persone», rispettosi della legge fatta votare invano da Fannio contro il lusso nei banchetti (lex Fannia sumptuaria). Ebbene, in un affresco della villa è rappresentata una pergamena sroto-

SS148

Monte Porzio Catone Ciampino

Grottaferrata Marino Castel Gandolfo Albano Laziale Ariccia

lata sul tavolo e scritta con una «lista della spesa» (memorandum sumptuarium) di generi alimentari, completi di quantità e prezzo, molto popolari e di basso costo, ben diversi dalle esotiche e dispendiose pietanze ancor oggi dette «luculliane». La pergamena indica perfino il giorno e il luogo dell’acquisto: il 16 gennaio, dall’ortolano Genzio. Conosciamo altri memoranda sumptuaria nelle città romane, graffiti o dipinti sui muri dei ristoranti e degli alberghi con la stessa funzione pratica, ed effimera per la sua A sinistra: elaborazione di foto aeree con indicazione dello scavo della «Villa del Giurista» (con la viabilità attuale in sovrapposizone), l’area portuale e l’area delle cave.

a r c h e o 65


SCOPERTE • LAZIO

quotidianità, dei nostri menú. Qui, invece, un’apparentemente banale lista della spesa di un giorno qualsiasi assurge alla massima ostentazione in un ciclo pittorico, che trasmette un messaggio destinato a durare virtualmente nel tempo, e che rimase esposto almeno due secoli prima di essere staccato e scaricato in una cantina, per giungere infine a noi. Il motivo non poteva che essere la celebrazione della proverbiale frugalità di Quinto Mucio, tale da essere celebrata a secoli di distanza da Columella e da Plino il Vecchio! Nella lista, l’unità monetaria è il tipico numerario: infatti, in funzione di essa sono misurati tutti gli altri beni, cioè scorza (cutis), focaccette dolci (offulae = le nostre «offélle», due delle quali rappresentate accanto alla pergamena), verdure (holera), ceci (ciceres), sfoglie (sollae), grano (triticum) e, unico prodotto un po’ piú costoso, il vino,

Plinio il Vecchio ebbe a ironizzare sulla parsimonia di Quinto Mucio Scevola 66 a r c h e o

menzionato anche in una tavoletta cerata. Come ha rilevato il matematico economista Massimiliano Ferrara, l’aspetto stupefacente sta nel fatto che già nel I secolo a.C. si facesse uso, nella pratica commerciale, di un concetto assurto a strumento teorico della trasposizione di beni solo nel periodo economico neoclassico dello scorso secolo.

GIUSTINIANO IN CINA L’eccezionalità della scoperta sta però anche nel fatto che le iscrizioni dipinte si sono rivelate di un interesse fuori del comune pure per la conoscenza della giurisprudenza, la grande eredità che Roma ha lasciato a tutto il mondo moderno (il diritto romano è oggetto di studio dal Giappone all’Asia, dall’Europa all’America Latina, e in Cina, dopo la traduzione in cinese dei Digesta di Giustiniano, è usato nella prassi dei tribunali). Per questa ragione gli affreschi co-

stituiscono un unicum fra le scoperte archeologiche del genere: nella rappresentazione degli strumenti scrittorî raramente la scrittura è dipinta per essere intellegibile e quando lo è non reca né nomi illustri, né formule giuridiche. Questi affreschi, invece, ritraggono alcune tabelle cerate con nomi di famosissimi giuristi e due di queste, le meglio conservate, costituiscono un dittico aperto, sono cioè due tavolette congiunte da una cerniera e poggiate sul bordo di un tavolo, con la prima pagina in penombra sul ripiano e la seconda, pendente dal bordo, in piena luce. Sulla prima pagina cerata si legge, in caratteri corsivi arcaici su fondo rosso, l’inizio di una frase propria di una serie di formule dell’Editto o Albo del pretore, che era una sorta di «codice di procedura civile» e di «codice civile» insieme, costituito da singole «formule» come i nostri codici lo sono da singoli «articoli». Non si

Frammenti pittorici pertinenti a un fregio con maschere e bucrani, attribuibile al secondo stile pompeiano (80-27 a.C.).


tratta dunque di una formula determinata, ma del prototipo di una serie, al quale, proprio per la sua generalità, si attribuiva valore simbolico. Tale prototipo consiste nella nomina, da parte del pretore, del giudice di una causa, in forma però anonima, e dunque generica, cioè senza il nome personale: «Iudex esto. Sei parret e...», cioè «Vi sia il giudice [della causa]. Se è dimostrato... ». La «paternità» di questo incipit, comune a tutta una categoria di azioni processuali, è attr ibuita dall’iscrizione stessa a un Mucio Scevola, del quale è omesso il prenome, abitualmente indicato prima del nomen di famiglia (Mucius) e del cognomen personale (Scaevola), i tria nomina che individuavano

Fotomosaico dell’area della villa al termine dello scavo (2013), messo a confronto con la planimetria del sito nella quale sono indicate le sue diverse fasi di frequentazione.

il cittadino romano. Sulla seconda pagina del dittico si legge infatti: «Formula Mucci Scaevlae» (nel parlato per Mucii Scaevolae), cioè «Formula di Mucio Scevola».

PAROLE NOTE Tuttavia, questi sette vocaboli comunicavano un intero universo a chi sapesse intenderli, come se oggi si dipingessero su una parete le parole «Nel mezzo del cammin di nostra vita...», o, appunto, la «formula» di Einstein «E = mc2». Tutti capivano che il testo doveva integrarsi cosí: «Si parret (...) iudex

condemnato, si non parret absolvito», cioè «Se è dimostrato che (...) il giudice condannerà, se non è dimostrato assolverà». Questo tipo di azione del processo civile romano è detta «con intentio certa», cioè con una richiesta di chi prende l’iniziativa dell’azione giudiziaria (attore) esattamente determinata nell’oggetto rivendicato. Essa comportava una precisa corrispondenza fra pretesa dell’attore e prova che doveva fornire del suo diritto: se la controparte convenuta in giudizio provava che la pretesa era errata anche per 1 solo sesterzio (= 1 euro) su 1 milioa r c h e o 67


SCOPERTE • GERICO A sinistra: frammento di affresco raffigurante una pergamena srotolata sul tavolo con la «lista della spesa» (memorandum sumptuarium) da fare il 16 gennaio dall’ortolano Genzio. Sono elencati generi alimentari di basso costo e comuni: la pittura intende esaltare la proverbiale frugalità della mensa di Quinto Mucio Scevola, il costruttore della villa sull’Aniene. Nella pagina accanto, in alto: frammento di affresco raffigurante il lembo superstite di una tavoletta cerata sulla quale si legge il nome Publio Rutilio Rufo, giurista e amico di Quinto Mucio Scevola. Nella pagina accanto, in basso: particolare dell’affresco (e sua restituzione grafica) raffigurante un dittico aperto sul quale si legge la «formula» di Mucio Scevola: «Iudex esto. Sei parret e...», cioè «Vi sia il giudice [della causa]. Se è dimostrato... ».

ne, l’attore perdeva la causa, contrariamente a quanto avveniva nei processi di buona fede, nei quali il giudice poteva stabilire un approssimativo ma equo risarcimento. Si apre cosí una finestra su una realtà sconosciuta finora, e la tradizione giurisprudenziale della famiglia dei Mucii Scaevolae, orientata sui principi di equità e buona fede, rivela fin dall’origine grande attenzione all’opposto severo principio di certezza (verum) del diritto, che ancor oggi chiamiamo ius strictum. Certamente ciò accadde in epoca 68 a r c h e o

precedente sia a Publio († 115 a.C.) sia al figlio Quinto († 82 a.C.), a opera di un loro antenato riconoscibile in uno dei giuristi operanti negli anni 225-175 a.C.

DALLA PAROLA ALLA PENNA Tali azioni create da un Mucio Scevola segnarono, secondo una convincente ipotesi di Rossella Laurendi, la nascita di un nuovo tipo di processo scritto, detto per formulas (cioè impostato sulla scelta del piú adatto al caso fra i numerosissimi

«articoli» del «codice»), un processo evoluto e «moderno», tuttora remota origine del nostro. Esso si affiancò e gradualmente sostituí, fino a soppiantarlo, l’arcaico processo orale per legis actiones, fondato soltanto su cinque formule facilmente memorizzabili, ma inadeguate alla molteplicità dei casi di una economia globale e «internazionale», qual era divenuta quella della tarda repubblica. Di tutto ciò abbiamo per la prima volta una documentazione pressoché contemporanea, precedente di sei/sette secoli a tutte le notizie che ce ne erano giunte. Il programma pittorico costituisce dunque la celebrazione di «glorie di famiglia» nella tradizionale severità dei costumi e nella creatività della giurisprudenza. Ma chi fu il committente degli affreschi? La loro cronologia è stilisticamente posteriore di circa un quarto di secolo all’uccisione, nell’82 a.C., del Quinto Mucio che costruí la villa. Pertanto committente ne fu probabilmente il figlio: sembra che egli, di fronte ai dotti frequentatori della


villa ereditata dal padre, abbia voluto rivendicare il retaggio intellettuale dei suoi antenati e il primato di famiglia nell’invenzione del nuovo tipo di processo.

PITTURE CELEBRATIVE Era l’epoca in cui prima Pompeo e poi Cesare avevano meditato una profonda riforma e razionalizzazione del diritto civile sulla base dell’equità e Cesare ne aveva dato incarico ad Aulo Ofilio, un cavaliere, che per la prima volta spezzava il mono-

polio della nobiltà nella creazione e nell’interpretazione del diritto. Il committente degli affreschi ricordava dunque agli illustri frequentatori della sua dimora che non bisognava dimenticare i meriti della sua famiglia e della nobiltà repubblicana di fronte al nuovo emergente e rampante ceto equestre. Una grande quantità di affreschi, pavimenti e ceramiche della villa attende ancora di essere restaurata e studiata. Per richiamare l’attenzione su tale urgenza, e per promuovere lo scambio interdisciplinare delle opinioni, ho ritenuto doveroso promuovere un convegno internazionale, sotto l’alto patrocinio del Ministero dell’Università e della Ricerca, grazie al supporto dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Il convegno si è tenuto in settembre a Roma, presso il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo e nella sede dell’Istituto Archeologico Germanico. La speranza è di evitare che una scoperta cosí straordinaria per la storia di Roma e per l’origine del processo privato finisca nel dimenticatoio e possa invece essere indagata nella interezza della sua documentazione. PER SAPERNE DI PIÚ Felice Costabile (con due saggi di Claudia Angelelli-Stefano Musco e di Giulia Baratta e due note tecniche di M. Laura Santarelli e di Massimiliano Ferrara), L’archetipo di formula processuale dell’Editto «Iudex esto. Si paret...»: l’invenzione di Mucio Scevola delle azioni con intentio certa. La scoperta degli affreschi della «Villa del Giurista» sull’Aniene a Roma, in Minima Epigraphica et Papyrologica, XXI (2018) 23, «L’Erma» di Bretschneider, Roma, pp. 9-126. a r c h e o 69


POPOLI DELLA BIBBIA/10 – FENICI

QUEL POPOLO

SENZA NOME

Grazie a loro abbiamo imparato a scrivere, eppure hanno lasciato pochissime tracce di sé, se si eccettuano qualche breve e ripetitiva iscrizione funeraria e religiosa. Dei Fenici ci parlano, soprattutto, gli «altri» e fra questi spiccano i redattori del testo biblico. Che ne tracciano un’immagine prevalentemente positiva, contrariamente a quanto accade per gli altri popoli emergenti nelle terre bibliche dell’età del Ferro. Un rapporto ambivalente, quello tra mondo fenicio e mondo israelitico, oggi al centro dei piú recenti e affascinanti studi sulla storia del Levante mediterraneo… di Fabio Porzia

N

avigator i, commercianti, inventori dell’alfabeto che trasmisero ai Greci, questo «non popolo» dell’antichità ha goduto da sempre di una grande notorietà che, pur nella dimensione limitata dei suoi territori d’origine e nell’evanescenza dei suoi tratti distintivi, lo ha reso tra i piú famosi del mondo antico. Ma perché «non popolo»? Perché i Fenici non si definirono mai tali, non ebbero cioè mai un senso di unitarietà che consentisse loro di sviluppare una coscienza di appartenere a un gruppo omogeneo di carattere ultracittadino. I Phoinikes furono quindi tali soprattutto nella visione esterna che ne diedero i Greci, i quali crearono questa definizione per indi70 a r c h e o

care gruppi di persone con le quali vennero in contatto e che, provenendo dalle città della costa levantina, condividevano una certa (e mai totale) omogeneità da un punto di vista linguistico, religioso e di cultura materiale. La complessità di definizione di questo «universo» ha fatto sí che lo studio dei «Fenici» abbia avuto sorti alterne, derivate anche da un destino beffardo: degli inventori dell’alfabeto sono giunte fino a noi solo iscrizioni, spesso ripetitive, e frammenti della loro storiografia in modo indiretto, attraverso i testi degli autori greci e latini. Fondatori di colonie lungo il Mediterraneo ed esploratori delle rotte atlantiche della penisola iberica, oltre le Colonne

Gezabele e Acab, olio su tela di Frederick Leighton. 1863 circa. Scarborough, Scarborough Borough Council. I protagonisti della composizione sono, rispettivamente Gezabele (la figlia del re di Sidone) e Acab (il figlio di Omri, fondatore della dinastia del potente regno di Israele), che si unirono in un matrimonio dinastico. A destra, sulla soglia, il profeta Elia, perseguitato dalla regina e annunciatore della morte di Acab.



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POPOLI DELLA BIBBIA/10 • FENICI

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d’Ercole, essi videro la loro identità di gruppo rafforzarsi nel confronto con le popolazioni con cui si incontrarono nel loro viaggiare senza sosta. Nell’Occidente mediterraneo, infatti, è forse piú agevole rintracciare i Fenici di cui parlano i Greci perché si trovano in un mondo completamente diverso da quello da cui provenivano e non è escluso che in questo mondo abbiano sviluppato legami forti e identitari, dettati appunto dalla distanza dalle terre di origine. Nella regione mediterranea e con particolare riferimento alla colonia di Cartagine fu usato nei testi latini il termine Poeni, Punici (traduzione del greco Phoinikes). La rivalità fra Roma e Cartagine è entrata nella leggenda e le imprese della città nordafricana, alcune davvero grandiose, ci vengono raccontate dai vincitori, i Romani, i

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In alto: placca in avorio con una possibile rappresentazione della dea Astarte come «donna alla finestra». VIII sec. a.C. A sinistra: cartina della regione mediterranea con le principali città fenicie. Nella pagina accanto, in basso: la conchiglia di un murice (Murex), mollusco dalla cui secrezione si ricava la preziosa porpora. a r c h e o 73


POPOLI DELLA BIBBIA/10 • FENICI

IL SARCOFAGO DI ESHMUNAZOR II Questo sarcofago egiziano in anfibolite nera, del tipo detto mummiforme, fu portato a Sidone forse in seguito alla spedizione del re persiano Cambise del 525 e accolse i resti mortali del re della città, Eshmunazor II. L’utilizzo di un sarcofago egiziano da parte di un sovrano fenicio testimonia del fascino esercitato dalla cultura egizia su quella delle città levantine e che si può far risalire al III millennio, quando sono attestati i primi rapporti tra Biblo e l’Egitto. L’iscrizione incisa

quali, inevitabilmente, ne consegnano alla memoria collettiva soprattutto i fallimenti: gli elefanti morti nella traversata delle Alpi, la sconfitta di Annibale, la distruzione di Cartagine (famosa è la condanna Carthago delenda est di Catone il Censore e la minaccia di radere al suolo la città affinché nulla potesse piú crescervi). Piú poetico è il racconto su Didone, regina e fondatrice di Cartagine, rivolto a dare fondamento mitologico per l’inimicizia fra Romani e Cartaginesi, in una tragica storia delicatamente narrata da Virgilio nell’Eneide. Ma che cosa raccontano, dei Fenici, la Bibbia e gli storici, antichi e moderni?

SCOPERTA E RISCOPERTA I Fenici, termine utilizzato convenzionalmente dall’intera comunità scientifica, pur nella coscienza delle problematiche legate alla sua definizione di cui si è detto, hanno goduto di alterne fortune nella storia degli studi. Il primo a interessarsene in modo approfondito fu il linguista e orientalista francese Ernest Renan (1823-1892) nella sua Mission de Phénicie. A partire da quest’opera si diffonde il giudizio ambivalente sui Fenici, che ripren74 a r c h e o

Sulle due pagine: veduta d’insieme e particolare dell’iscrizione del sarcofago di Eshmunazor II, re di

Sidone, dalla necropoli sidonia di Magharat Abloun. Primo quarto del V sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

de una fama attribuita a queste genti fin dall’antichità: accusati di scaltrezza e opportunismo, ma al contempo ammirati come popolo pragmatico e avventuroso. Un po’ come i Veneziani in tempi piú recenti: perfetta fu quindi la scelta della città lagunare per l’allestimento a Palazzo Grassi della mostra «I Fenici», con la quale, nel 1988, Sabatino Moscati (19221997) puntò le luci, in modo plateale e provocatorio, su questo popolo, a suo giudizio negletto nella tradizione di studi del Mediterraneo. Ma perché è stato necessario «riscoprire» questa civiltà? A differenza di molti popoli dell’antichità, i Fenici sono il risultato di un’operazione storiografica importante. Se i mondi greco e romano, con i loro testi e i loro resti, sono

stati sempre sotto gli occhi degli studiosi del continente europeo – che li hanno spesso studiati come blocchi culturalmente unitari all’origine della cultura del Vecchio Continente –, lo studio del Vicino Oriente è esperienza piú recente. Essa si lega alle imprese coloniali della fine del XVIII secolo, alle spedizioni in Egitto, Levante e Mesopotamia, ai leggendari scavi dei siti resi famosi dal testo biblico e alla decifrazione delle scritture orientali (geroglifico, cuneiforme, ugaritico e fenicio, per esempio), nonché al trasporto di reperti piú preziosi nei maggiori musei europei. Vennero cosí alla luce le città degli Egiziani, Assiri e Babilonesi, note sia attraverso i racconti delle fonti classiche – che ne veicolavano descrizioni fortemente stereotipate e subordinate


sulla parte frontale del sarcofago è uno dei piú lunghi testi epigrafici fenici. In esso si lamenta la morte prematura del re ancora ragazzo, ricordando che, sotto la tutela della madre, il giovane sovrano conquistò i territori delle città di Dor e Giaffa e costruí templi a Eshmun e Astarte sia nella città di Sidone che nei suoi dintorni. Inoltre, per ben due volte, il testo scoraggia eventuali malintenzionati a profanare e saccheggiare la sepoltura, evocando il castigo divino che un tale sacrilegio causerebbe.

al mondo greco-romano – oppure raccontate nell’Antico Testamento, che assicurava a questi pregiudizi una circolazione ancor piú larga. In questo senso, per esempio, la democrazia greca fu recepita a partire da Erodoto come opposta al dispotismo orientale o, per il caso dei Fenici, l’opposizione fra Roma e Cartagine fu connotata moralmente, denunciando vizi e rituali ritenuti tipicamente fenici come l’attaccamento al denaro o l’infamante pratica del moloch, il sacrificio dei bambini.

LA VISIONE DEI VINTI La riscoperta dei Fenici, inoltre, ha in qualche modo rappresentato la volontà di scrivere la storia dal punto di vista dei vinti. Una storia scritta utilizzando un alfabeto derivato da quello che proprio costoro contribuirono a diffondere e che godette di grande fortuna in tutto il Levante, al punto che l’alfabeto fenicio fu utilizzato per scrivere altre lingue come, per esempio, l’aramaico antico. Certamente i Fenici lo utilizzarono per narrare le proprie storie, su supporti che si sono degradati nel tempo (la pergamena e quel papiro che lega appunto il suo nome alla città fenicia di Biblo); storie che ci


POPOLI DELLA BIBBIA/10 • FENICI

sono giunte solo in piccola parte nella tradizione manoscritta, per il tramite di scrittori greci. È il caso, per esempio, di alcuni estratti di Annali della città di Tiro, riportati da Giuseppe Flavio (I secolo d.C.), il quale afferma di averli a sua volta ripresi da Menandro di Efeso; e anche alcuni stralci della Storia Fenicia scritta da Filone di Biblo (I-II secolo d.C.) e ripresa da alcuni Padri della Chiesa come Eusebio di Cesarea. Per ricostruire la storia fenicia ci si deve perciò valere delle poche iscrizioni ritrovate in Oriente (come

quella insolitamente lunga del sarcofago di Eshmunazor II di Sidone vedi box alle pp. 74-75). Quanto, invece, alle numerosissime ma ripetitive iscrizioni votive delle stele dei santuari detti «tofet» nel Mediterraneo occidentale, esse offrono allo storico davvero poco materiale. La storia dei Fenici d’Oriente, almeno quella basata sui testi, è dunque una vicenda largamente scritta dagli altri, in particolare dai redattori del testo biblico. Una nuova storia è quella che si sta riscrivendo ai giorni nostri, grazie alle ricerche

Qui accanto: «trono di Astarte», da Ayn Baal (Tiro). Età ellenistica. Beirut, Museo Archeologico Nazionale. Sulle due pagine: resti di una torre facente parte delle fortificazioni di Samaria, la città scelta come capitale da Omri, fondatore della dinastia del regno di Israele e padre di Acab, il marito di Gezabele.

76 a r c h e o

archeologiche in Siria, Libano e Israele, che vanno restituendo a questi protagonisti della storia mediterranea il giusto ruolo che le fonti letterarie sulla colonizzazione greca prima e dell’espansionismo e dell’egemonia di Roma poi hanno sempre adombrato, ma mai correttamente raccontato.

I «PELLEROSSA» DEL LEVANTE Il nome «Fenici» (Phoinikes) compare nella letteratura greca a partire dai testi omerici, anche se sembra


già documentato in alcune tavolette in Lineare B, un sistema di scrittura attestato a Creta e in alcuni siti della Grecia continentale fra XIV e XIII secolo a.C. Il significato del termine è legato al colore «rosso» (phoinix) e, benché sia stato spesso collegato alla colorazione della porpora ottenuta dai murici, della cui lavorazione i Fenici furono grandi maestri, si tratta piú probabilmente del colore della pelle di queste popolazioni orientali. L’origine non sarebbe cioè diversa dal nome «pellerossa» usato per designare gli In-

diani d’America. D’altronde, lo stesso termine «Canaan», che individua la regione levantina nella documentazione precedente il I millennio a.C., compresa quella biblica (per una delimitazione geografica si veda Num 34,1-12), sembra avere analoga origine etimologica. Il colore della pelle doveva accomunare tutti i popoli delle coste levantine ed è quindi difficile stabilire i contorni identitari delle genti descritte dai Greci come Fenici. L’idea che possa trattarsi degli abitanti della regione corrispondente, grosso

modo, all’attuale Libano, nasce dal fatto che nei testi greci, e in particolare Omero, per definirli vengono utilizzati alternativamente l’espressione generica phoinikes e altre piú specifiche, che fanno riferimento alle città di origine dei singoli, per esempio Sidone e Tiro. Il riferimento all’orizzonte cittadino piuttosto che a quello di un gruppo omogeneo afferente a un’unica comunità dai contorni extracittadini, ben si adatta al quadro storico della regione costiera del Levante nel I millennio a.C. Le iscrizioni locali, i testi

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POPOLI DELLA BIBBIA/10 • FENICI

vicino-orientali (mesopotamici o egiziani) e i resoconti biblici non parlano mai di un gruppo nel quale si possono riconoscere i Fenici delle fonti greche, ma sempre e soltanto di Tirii, Sidonii, Gubliti, e cosí via.

UN RE PER OGNI CITTÀ Come si è già visto per i Filistei (vedi «Archeo» n. 410, aprile 2019; anche on line su issuu.com), questa nomenclatura rispecchia dunque il panorama politico in cui vivevano queste popolazioni, erede dell’assetto territoriale dell’età del Bronzo in un territorio particolarmente frammentato, stretto fra la costa mediterranea e le catene montuose del monte Libano e dell’Antilibano che corrono parallele. È il territorio che nella geografia greca prenderà il nome di «Fenicia» e che si estende dal monte Casio al Carmelo, spingendosi, secondo le epoche, fino ai luoghi dell’odierna Tel Aviv. Le let-

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tere di Tell el-Amarna, ma anche i resti archeologici e qualche iscrizione del II millennio a.C., attestano infatti che il panorama politico della costa levantina è ininterrottamente caratterizzato dall’esistenza di vari re, ciascuno a capo di una città e del territorio circostante. Queste piccole realtà condividono aspetti linguistici, religiosi e quindi culturali in senso largo, in continuità tra la fine del II e l’inizio del I millennio. Spesso interpretato come una delle componenti emergenti nell’età del Ferro assieme ai Filistei e gli Israeliti, il fenomeno dei Fenici mostra che invece la regione continua in gran parte a essere abitata dalle stesse popolazioni, in un contesto socio-culturale caratterizzato da una profonda continuità. È inoltre difficile tracciare una frontiera fra mondo fenicio e mondo israelitico. Per esempio, la vicinanza dei regni di Samaria e Tiro (le due

A destra: Sidone. Resti del tempio di Eshmun, divinità fenicia della guarigione. In basso: Siena, Duomo. Particolare del pavimento a commesso marmoreo raffigurante Elia che resuscita il figlio della vedova fenicia.


capitali distano poco piú di 50 km in linea d’aria) non è soltanto geografica. Alcuni elementi linguistici, attestati per esempio dagli ostraca (plurale di ostracon, «conchiglia», «coccio», termine greco che indicava frammenti ceramici usati come supporto scrittorio, n.d.r.) di Samaria, mostrano linguistiche leggermente diverse da quelle attestate piú a sud, in Giudea, ma identiche a quelle della regione di Tiro. La differenza fra lingua ebraica e fenicia è infatti piccola e, nel caso della Samaria, minima. Anche la circolazione di beni e prodotti è perfettamente attestata archeologicamente, come mostra, per esempio, la diffusione in Galilea di anfore di stoccaggio tipicamente tirie. Dal canto suo, la Bibbia giustifica l’avvicinamento dei costumi samaritani a quelli fenici con un’amicizia dai tempi antichi fra Davide e Hiram di Tiro, oppure grazie alla pratica comune dei matrimoni dinastici, come nel caso di quello fra Acab, figlio di Omri, il fondato-

re della capitale del regno di Israele, Samaria, e la figlia del re di Sidone Ittobaal, Gezabele.

UNA CONCORRENZA RELIGIOSA Forse proprio a causa di questi contatti, la percezione dei Fenici nella Bibbia ebraica è meno netta di quella destinata ai Filistei. I Fenici, in sostanza, non furono sistematicamente percepiti come una minaccia militare, benché spesso associati agli oracoli contro le nazioni nemiche di Israele o piú semplicemente in rapide invettive disseminate qua e là nel testo biblico (Salmo 84, 87). Piú pericolosa degli eserciti delle loro città fu la concorrenza religiosa di Baal e Ashera, che la Bibbia ebraica rimprovera a piú riprese. Alcuni ritratti biblici esprimono al meglio le possibili sfumature con le quali il testo biblico descrive i rapporti col mondo fenicio. Il primo riguarda uno dei personaggi piú negativi della Bibbia ebraica: Gezabele, la figlia del re di Sidone presa in

sposa da Acab, figlio di Omri, fondatore della dinastia del potente regno di Israele. Questo matrimonio dinastico, che peraltro era prassi comune ed è storicamente plausibile, mostra, da un lato, la vicinanza del regno di Israele con le città costiere fenicie da un punto di vista culturale ed economico e, dall’altro, l’ascesa politica di questa dinastia che, recentemente installatasi nella nuova capitale Samaria (1 Re 16,24), si trovava a capo di un regno consolidato da pochi anni ma in piena espansione. Gezabele è descritta come una donna forte e manipolatrice, capace dei peggiori intenti pur di perseguire i propri fini. La fine del racconto delle gesta di Acab e Gezabele è laconica e lapidaria: «In realtà nessuno si è mai venduto a fare il male agli occhi del Signore come Acab, istigato dalla propria moglie Gezabele» (1 Re 21,25). La lista di crimini imputati a Gezabele in 1 Re 18-21 è lunga: travia la fede del marito inducendolo a promuovere il culto di divinità fenicie e addirittura a erigere un tempio per Baal a Samaria, è la mandataria degli omicidi dei profeti yahwisti e minaccia di morte il piú grande di loro, il profeta Elia. Proprio Elia è protagonista della celebre disputa con i 450 profeti di Baal e i 400 profeti di Ashera (1 Re 18). Per porre fine a una carestia nel regno di Samaria, Elia invita il re Acab a radunare sul Carmelo i profeti delle divinità fenicie che egli da solo sfida. Chi, soltanto invocando il nome del proprio dio, sarebbe riuscito ad appiccare il fuoco sul sacrificio già preparato, avrebbe mostrato quale divinità fosse piú potente in Israele. Da mattino a mezzogiorno i profeti di Baal invocano invano la propria divinità, sopportando le beffe di Elia (18,27). A Elia basta invece pronunciare per tre volte il nome del Signore per far scendere un fuoco dal cielo che brucia l’olocausto. Decretata la vittoria del Dio di Israele, Elia passa a scannare uno a uno i profeti di Baal. a r c h e o 79


POPOLI DELLA BIBBIA/10 • FENICI

Anche l’episodio della vigna di Nabot (1 Re 21) è tristemente famoso e conclude le vicende della coppia reale. Nabot, un privato cittadino, possiede una vigna accanto al palazzo reale. Quando Acab decide di dotare il proprio palazzo di un orto, entra in trattativa con Nabot per l’acquisto della vigna. Davanti al suo rifiuto – la vigna è infatti un bene di famiglia da varie generazioni – Acab rimane amareggiato ma impotente. Gezabele, al contrario, non si perde

d’animo: sostituendosi al marito, ordina che Nabot sia pubblicamente incriminato con false accuse. Condannato e lapidato a morte Nabot, Gezabele può finalmente entrare in possesso della vigna. All’interno dei ritratti negativi si possono contare anche gli «oracoli contro le nazioni», nei quali figurano spesso le città di Tiro e Sidone. A tal proposito è necessario ricordare che l’alternanza delle due città dipende dal momento storico in

cui il testo ha origine. In linea generale, infatti, si può considerare piú antico un testo che dà piú importanza a Sidone, mentre piú recente è un testo che si concentra su Tiro. Se in un primo tempo fu Sidone a giocare un ruolo egemone nella regione, furono le conquiste nel Levante dei neo-assiri (le stesse che portarono alla caduta del regno di Israele nel 722) a decretare la fine dell’egemonia di questa città, sprovvista ormai dei suoi possedimenti

UN’INDISCUTIBILE IMPRONTA FENICIA Il tempio di Gerusalemme, altrimenti chiamato «di Salomone» o «Primo Tempio», perché fu distrutto nel 586 e a cui seguí il «Secondo Tempio» ricostruito verso il 515, è uno degli edifici piú noti dell’antichità. Edificato per contenere l’arca dell’alleanza, con le tavole dei comandamenti consegnate da Dio a Mosè sul Sinai, ha avuto un ruolo preminente nella Bibbia. Ancora oggi ciò che rimane delle ricostruzioni successive, in particolar modo il muro delle lamentazioni che è parte della piattaforma sulla quale si erigeva il tempio massicciamente ristrutturato da Erode, è al centro del

pellegrinaggio degli Ebrei da tutto il mondo. Protagonisti di questa impresa architettonica furono, assieme a Salomone, proprio i Fenici, che, data l’amicizia fra il re di Tiro Hiram e Salomone, inviarono a Gerusalemme la loro manodopera specializzata e, soprattutto, carpentieri, muratori e lavoratori di metallo (fra cui un omonimo del re, Hiram, le cui opere sono narrate in 1 Re 7,13-51). Tra l’altro, Hiram fu già amico di Davide, a cui aveva fatto costruire un primo palazzo subito dopo la conquista di Gerusalemme (2 Samuele 5,11). È difficile valutare la storicità dei testi che raccontano i rapporti fra A sinistra: Gerusalemme. Particolare del monte del Tempio. Nella pagina accanto: plastico ricostruttivo di Gerusalemme al tempo di Salomone, di cui si riconosce, sulla destra, il tempio. Gerusalemme, Bible Lands Museum.

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Hiram e Salomone: le informazioni sono talvolta contraddittorie, se si confrontano i dati dei libri di Samuele, dei Re e delle Cronache con le informazioni fornite, per esempio, da Giuseppe Flavio nel I secolo d.C. Inoltre, la descrizione di Salomone dal punto di vista storico è stata fortemente ridimensionata e tutte le sue costruzioni enumerate dalla Bibbia sono state datate dagli archeologi alla dinastia omride, quindi con uno scarto di oltre un secolo. Se l’imponente attività costruttiva di Salomone è stata drasticamente ridimensionata, quale valutazione dare dei racconti della costruzione del Primo Tempio e della collaborazione dei Fenici? Dal punto di vista tecnico, il coinvolgimento di materiali e maestranze fenicie è del tutto verosimile. Anche in altri settori, le produzioni palestinesi sono particolarmente simili a quelle fenicie, come nel caso degli avori ritrovati alla corte di Samaria. Quanto ai materiali, e in particolare al legno, non v’è dubbio che il migliore sul mercato fosse quello di cedro proveniente dalle montagne della Fenicia. Nell’arte costruttiva i Fenici godevano, infatti, di una fama internazionale, soprattutto grazie al pregiatissimo legno di cedro, ricercato per la costruzione non


settentrionali. Al contrario, Tiro, pur sottomessa al pagamento di un tributo, mantenne una certa autonomia e poté finalmente ritagliarsi un ruolo da protagonista sulla scena levantina e mediterranea. Alcuni degli episodi che hanno luogo in Fenicia, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, sono invece altrettanti ritratti positivi. Il primo è senza dubbio il racconto della collaborazione di Hiram di Tiro nella costruzione del Tempio di Salomo-

ne (vedi box in queste pagine). Oltre a questa partecipazione, fondamentale nella realizzazione dell’edificio di culto centrale del giudaismo dall’antichità ai giorni nostri, alcuni esponenti dei Fenici godono di un privilegio eccezionale.

soltanto di edifici ma anche d’imbarcazioni. D’altronde, proprio il commercio del cedro del Libano è spesso raccontato o raffigurato, come nel caso dei bassorilievi assiri rappresentanti il trasporto via acqua degli imponenti tronchi. Inoltre, dal punto di vista architettonico, la costruzione di edifici su un terrapieno fortificato, come nel caso della capitale settentrionale Samaria o dei templi di Tel Dan e di Gerusalemme, ha paralleli in Fenicia, dove sono stati rinvenuti edifici cultuali su

podio, come nel principale complesso sacro presso Sidone, nel sito di Bostan esh-Sheikh. Benché, dunque, la costruzione del tempio di Gerusalemme difficilmente risalga al Salomone del X secolo di cui parla la Bibbia,

DUE DONNE FENICIE Il messaggio del Dio biblico, in entrambi i Testamenti, è originariamente rivolto al popolo di Israele. Soltanto le vicende di quest’ultimo,

in particolare l’esilio babilonese e la diaspora, imposero agli autori biblici di porsi la questione di quale fosse il destino degli altri popoli agli occhi del Dio di Israele. La risposta a questa problematica fu laboriosa ed è al cuore dell’elaborazione del concetto stesso di monoteismo, quale si svilupperà progressivamente nella coscienza ebraica. Qualche apertura del Dio di Israele agli altri popoli è presente già nell’Antico Testamento, come nella cosiddetta «apocalisse di

e sia da considerare piú tarda di un paio di secoli, come sembra suggerire anche il coinvolgimento di Tiro piuttosto che Sidone, i materiali, le maestranze, nonché il modello architettonico del Tempio devono certamente molto ai Fenici.

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Isaia» (capitoli 24-27), introdotta da un redattore tardivo nella prima parte del Libro di Isaia. In simili contesti, per esempio, fa capolino nell’Antico Testamento una sorta di universalismo della religione yahwista: in questo caso, sul monte Sion, ossia sul luogo dove sorgeva il Tempio di Gerusalemme, «Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati» (Isaia 25,6). Altrimenti, il testo biblico è scritto da Israeliti e per Israeliti, con poca attenzione, o meglio poco interesse per i popoli circostanti. Contro questa visione comune, due episodi – uno dal Libro dei Re e uno dal Vangelo di Marco – mostrano come il territorio della Fenicia possa esser usato nella riflessione teologica. Il profeta Elia, scampato a Gezabele, è protagonista del primo (1 Re 17,7-24), che ha poi un parallelo in un analogo episodio avente come protagonista Eliseo, il discepolo di Elia (2 Re 4,1-37): la vicenda è ambientata a Sarepta, nella zona controllata dalla città-stato di Sidone, nell’odierno Libano, ai tempi della carestia all’origine dell’episodio con i profeti di Baal. La storia narra due atti di misericordia, nello spazio misero di una famigliola costituita solo da una vedova e da suo figlio. Da un lato si racconta la generosità della donna, che, non posse82 a r c h e o

dendo che un pugno di farina e un po’ d’olio, medita di preparare per sé e per il figlio una focaccia come ultimo pasto. Alla richiesta di Elia di condividere con lui la focaccia, la donna accetta, fidandosi della promessa del profeta: «La farina della tua giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà» (17,14). Dal canto suo, Elia ricambierà la bontà della vedova in modo ben piú grandioso e inatteso: il figlio della donna è colto da un grave malore che lo conduce alla morte. Pregato da Elia, il Dio di Israele risuscita il ragazzo, che il profeta restituisce alla madre. Il finale del racconto è dominato da una sorta di professione di fede di questa vedova pagana: «Ora so veramente che tu sei uomo di Dio e che la parola del Signore nella tua bocca è verità» (17,24). Simile è l’episodio nella regione di Tiro con protagonista Gesú di Nazaret, inserito nel racconto del suo unico viaggio fuori Galilea o Giudea, poiché la sua predicazione è sempre rimasta confinata al popolo di Israele (Marco 7,24-30, Matteo 15,21-28). Il fatto di accettare la richiesta di guarire la figlia di una donna siro-fenicia costituisce dunque un’eccezione che anticipa nondimeno l’apertura universalista del messaggio cristiano, sostenuta in particolare da Paolo di Tarso. In entrambi gli episodi, due donne fenicie hanno la possibilità di raccogliere il favore del Dio biblico:

personaggi minori nella narrazione biblica, e certamente figure ai margini delle società a cui appartenevano, queste due donne fenicie mostrano che il Dio biblico è capace di far loro grazia e, in sostanza, di essere riconosciuto in quanto Dio onnipotente anche al di fuori dei confini etnici o territoriali del popolo di Israele.

RITRATTI ALLO SPECCHIO Un terzo tipo di ritratto dei Fenici, presente nella Bibbia ebraica potrebbe infine essere definito come un ritratto «allo specchio». I capitoli da 26 a 28 del Libro di Ezechiele contengono tre profezie: una piuttosto lunga contro la città di Tiro, una contro il suo principe e una piú breve e generica contro Sidone (Ezechiele 28, 20-26). Il livello di dettaglio del testo contro Tiro è certo eccezionale e potrebbe essere considerato come uno dei vari ritratti negativi destinati alla città rivale, di cui il profeta annuncia la distruzione e la fine della casa regnante.Tuttavia, soprattutto l’insolita parte riguardante il «principe di Tiro» (Ezechiele 28, 1-19), suggerisce che il profeta parli di Tiro ma pensi a Gerusalemme e ai suoi regnanti. Lo straordinario elogio della città e del principe di Tiro funziona da specchio per i lettori israeliti: attraverso la profezia contro la città fenicia, il popolo di Israele viene


sollecitato e, in ultima istanza, descritto in maniera piú chiara del solito. Un po’ come le donne incontrate da Elia o da Gesú, le città fenicie possono diventare per l’Israelita un esempio da cui imparare. Dal punto di vista storico, la possibilità di una lettura «allo specchio» delle sorti di Tiro implica due aspetti. Il primo è che la società fenicia era intimamente connessa all’entroterra levantino, come mostra proprio il testo di Ezechiele 27. Elencando la provenienza dei diversi prodotti che confluiscono da tutto il Vicino Oriente verso Tiro, questo capitolo ricorda un elemento spesso dimenticato quando si parla dei Fenici. Enfatizzando oltremodo la loro proiezione mediterranea, rischiamo di sottovalutare il loro radicamento nel Vicino Oriente, dal quale invece trassero gran parte delle loro risorse, oltre che del loro retaggio culturale. Questo testo aiuta allora anche a pensare ai Fenici come a una vera e

propria interfaccia nel Levante, che permise cioè una continua trasmissione di merci, prodotti, idee e persone dalle regioni piú lontane dell’Oriente e dell’Occidente.

AFFINITÀ NEL CULTO Il secondo aspetto da considerare riguarda le somiglianze specifiche fra mondo fenicio e mondo israelitico, anche a livello religioso. Non a caso, infatti, il testo biblico critica frequentemente le pratiche religiose fenicie: non solo esse dovevano essere largamente diffuse nell’antico Israele, ma erano anche probabilmente affini a quelle israelitiche. A differenza dei pantheon mesopotamici, hittiti o egiziani, il panorama religioso fenicio è caratterizzato da un numero ridotto di divinità cittadine, fra le quali emerge la coppia poliade. Benché queste strutture ereditino elementi del Tardo Bronzo, a partire dall’età del Ferro la religione fenicia attesta alcuni risvolti talvolta

convergenti con il mondo biblico, che divenne rigidamente monoteista solo tardivamente. Fra questi risvolti possiamo citare l’emergenza e la diffusione in tutto il Levante di una forma di Baal (un titolo che significa «Signore» e che non è distante dall’ebraico Adonai): Baal Shamem, o il «Signore dei cieli». Come il Dio di Israele, il Signore dei cieli è una divinità slegata dalla geografia terrestre, a differenza dei precedenti Baal di Tiro, di Sidone, ecc. Si tratta, inoltre, di un dio per il quale non è attestata una paredra: è, quindi, un dio «celibe», diremmo, proprio come il Dio biblico filtrato dall’ideologia monoteista, che contravviene alla pratica di avere una divinità maschile sistematicamente accompagnata da una controparte femminile (Astarte in Fenicia, Ashera in Israele). Anche la questione dell’aniconismo biblico, fondata sul secondo comandamento, ossia sul divieto di rappre-

Nella pagina accanto: un’altra veduta del Monte del Tempio a Gerusalemme. In basso: figurine di divinità e musici, testimonianza dell’adozione, da parte dei Fenici, di modelli greci per la rappresentazione di divinità locali, dal sito di Kharayeb. Età ellenistica. Beirut, Museo Archeologico Nazionale.

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POPOLI DELLA BIBBIA/10 • FENICI

sentare il divino (Esodo 5,8 e Deuteronomio 20,4), può essere meglio compresa a partire da raffigurazioni aniconiche o comunque simboliche in ambito fenicio. L’esempio piú eloquente è quello dei cosiddetti «troni di Astarte» ellenistici, nei quali l’iconografia classica della divinità seduta in trono è sostituita dalla rappresentazione di un trono vuoto o contenente un simbolo della divinità. Se dunque i nomi di Fenici e Israeliti sono utili per raggruppare fenomeni simili ai nostri occhi, dobbiamo far attenzione a non far prevalere il nostro punto di vista esterno e a non semplificare la complessa situazione geopolitica del Levante con mappe mentali semplificate, dove, per esempio, ciò che non è israelita è fenicio e ciò che non è fenicio è israelita, o ancora filisteo o arameo. Cosí come le frontiere politiche sono fluide in questa regione, quelle culturali lo sono ancor di piú.

LA STORIA CONTINUA I Fenici vissero in una costa che fu interfaccia tra mondi lontani come quello mediterraneo e quello mesopotamico e furono protagonisti della storia di una regione sottoposta a continui stimoli e cambiamenti. Il rapporto con il mondo greco fu sempre importante e vivace. In particolare, dal IV secolo a.C., pur mantenendo vive le proprie tradizioni, l’universo fenicio diede prova di un cosmopolitismo e di una fluidità culturale eccezionali: in alcuni ambienti furono adottati sia la lingua che i costumi greci, spesso modificati secondo la lettura locale, e le figurazioni delle divinità elleniche piacquero cosí tanto da venire utilizzate per rappresentare gli dèi locali. L’immagine del confronto col mondo greco ci è fornita da alcune iscrizioni bilingui come l’iscrizione di due cippi ritrovati a Malta, risalenti al II secolo a.C. e che permisero, alla fine del XVIII secolo, di decifrare la scrittura fenicia. L’iscrizione mostra l’esistenza, piuttosto comune all’epo84 a r c h e o

ca, di una doppia nomenclatura non solo per la divinità invocata («Melqart Signore di Tiro», in fenicio, diventa «Eracle fondatore» in greco), ma anche degli attori umani all’origine della dedica (la coppia di fratelli Abdosir e Cippo con dedica bilingue (in greco e fenicio) a «Melqart, Signore di Tiro», da Malta. II sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. Insieme a un esemplare simile, il reperto permise all’abate Barthélemy, nel 1758, la decifrazione della scrittura fenicia.

Osirshamar, in fenicio, diventa in greco Dioniso e Serapion). Lo spostamento di genti orientali dalle coste del Levante al Nord Africa, alla Sicilia, alla Sardegna e alla penisola iberica ha lasciato un’impronta importante nella storia di quelle terre. In epoca romana sant’Agostino testimonia che la lingua punica era parlata nel V secolo d.C. e che chi la parlava si definiva ancora Cananeo (non Fenicio!). La travagliata storia degli studi fenici testimonia probabilmente della difficoltà di dedicarsi a questo universo di popoli levantini, la cui identità plastica, il cui cosmopolitismo, la cui capacità di trasportare le proprie tradizioni in nuovi territori e di tradurle in nuove lingue li rendono a volte sfuggenti. Quando si osserva la narrazione biblica, è evidente che la regione levantina è un moltiplicarsi di ritratti nel quale «gli altri» hanno un ruolo centrale, fondamentale, nella definizione di se stessi (in senso etnico e religioso). Per questo, i nuovi studi sul Levante e sul Mediterraneo «fenicio» mostrano, oggi, un’attenzione sempre crescente verso i meccanismi d’interazione dei popoli, piuttosto che sulla rigida definizione di essi. In questo senso, lo studio del «nonpopolo» fenicio è non solo affascinante ma estremamente attuale. NEL PROSSIMO NUMERO • Greci e Seleucidi

PER SAPERNE DI PIÚ Sandro Filippo Bondí, Massimo Botto, Giuseppe Garbati, Ida Oggiano, Fenici e Cartaginesi: Una civiltà mediterranea, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato Corinne Bonnet, I Fenici, Roma Carocci Editore Carolina Lopez-Ruiz, Brian R. Doak (a cura di), The Oxford Handbook of the Phoenician and Punic Mediterranean, Oxford, OUP



SPECIALE • GLADIATORI

GLADIATORI LA VERA STORIA testi di Friedrich-Wilhem von Hase e Maria Aurora Salto von Hase

Pollice verso, olio su tela di Jean-Léon Gérôme. 1872. Phoenix, Heard Museum. 86 a r c h e o


Il Museo delle Antichità di Basilea ospita, fino al 22 marzo dell’anno prossimo, la mostra «Gladiatori. La vera storia». L’istituzione museale svizzera è nota (anche ai nostri lettori, vedi «Archeo» n. 372, febbraio 2016, anche on line su issuu.com), sia per l’originalità e la qualità scientifica delle sue proposte espositive, sia per l’apertura internazionale che ne caratterizza la gestione. E cosí, anche «Gladiatori» è una mostra nata dalla stretta collaborazione tra il museo di Basilea e il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Grazie a questa sinergia è stato possibile riunire una serie di reperti eccezionali, provenienti da Napoli, Pompei, Capua Vetere, Roma, ma anche da Augusta Raurica (il grande sito archeologico distante una ventina di chilometri da Basilea – corrispondente alla moderna cittadina di Augst – e che conserva i resti monumentali della colonia romana fondata qui, sulla riva del Reno, verso la fine del I secolo a.C.) e perfino dalla lontana York, in Inghilterra. Ma perche i gladiatori? Perché dedicare una mostra a un fenomeno caricato di tanti luoghi comuni? In un’età per giunta (la nostra) in cui sarebbe meglio distogliere l’attenzione da ogni tipo di manifestazione – passata e contemporanea – che spettacolarizzi la violenza..? La risposta risiede nel progetto stesso dell’allestimento, elaborato da Andrea Bignasca, direttore del museo di Basilea, da Paolo Giulierini, direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, e da Lilian Raselli, curatrice del Museo Romano di Augusta Raurica: la mostra non si pone come mera esposizione di oggetti d’arte, per quanto ve ne siano di qualità eccelsa, unica e in molti casi mai prima presentati al pubblico. Vuole, invece, affrontare l’argomento «gladiatori» in tutte le sue sfaccettature: rituale, etica, sociale e politica. Partendo dal mondo greco e magno-greco, la narrazione della mostra sottolinea come la messa in scena dei combattimenti tra singoli fosse parte del rituale funebre delle classi aristocratiche, prima di assumere, con l’avvento di Roma, la valenza di spettacolo pubblico con intenti politico-propagandistici; esamina il significato rituale insito in un’esaltazione della morte che oggi fa inorridire; illumina la personalità del gladiatore, contestualizzandola all’interno del sistema sociale e culturale di Roma imperiale. Nelle pagine che seguono, presentiamo due contributi pubblicati nel catalogo della mostra, a firma di nostri «storici» collaboratori: vi incontreremo – protagonisti e vittime di una violenza oggi impossibile da giustificare – non solo gli esseri umani ma anche… gli animali. Un altro, grande tema su cui la mostra di Basilea accende i riflettori… (A. M. S.) a r c h e o 87


SPECIALE • GLADIATORI

«P

anem et circenses», «pane e spettacoli»: cosí il poeta satirico latino Giovenale sintetizzava le istanze del popolino all’imperatore. Erano veri e propri «doni» politici i giochi pubblici (munera), che venivano concessi piú volte all’anno, sempre piú spesso, con incredibile pompa, con l’impiego d’ingenti capitali e con il sussidio di una logistica e di una tecnologia altamente specializzate. Dispendiosi spettacoli si organizzavano anche a Capua e a Ravenna, meno grandiosi in tutti gli altri anfiteatri dell’impero e soprattutto nella sua parte occidentale, ma naturalmente i piú scenografici erano appannaggio della capitale. In tarda età repubblicana anche privati cittadini con ambizioni politiche si delinearono come sponsor, e poi i generali vittoriosi, come Cesare e Pompeo, e i magistrati – pretori e questori. Infine gli imperatori avocarono a sé l’onere e il prestigio di soddisfare il popolo, almeno fino a Costantino. Le fonti scritte, le rappresentazioni figurative, i ritrovamenti di armi, nonché numerosi graffiti degli spettatori forniscono agli storici e agli archeologi informazioni sul carattere di questi spettacoli. Non sempre corrette, ma proprio per questo tanto piú suggestive per il vasto pubblico sono le ricostruzioni operate dai film peplum, tra cui ultimamente ha brillato il premiatissimo Gladiatore. Ma per quanto il tema e l’intero contesto possano essere di grande interesse per le implicazioni d’ordine storico e storico-culturale, tanta crudeltà organizzata ripugna alla mentalità odierna. Non era cosí, però per la grande maggioranza dei contemporanei, tra cui eccezionalmente si elevavano voci di dissenso (Cicerone, Seneca, e poi Agostino e Tertulliano e pochi altri). 88 a r c h e o

In alto e nella pagina accanto, in basso: elmo di gladiatore (murmillo), dalla Caserma di Pompei. I sec. d.C. Le prime armi di gladiatori furono rinvenute durante gli scavi del teatro di Pompei, il 31 ottobre del 1766, quando venne alla luce un elmo bronzeo con crista, riccamente decorato.

Le due attrazioni principali degli anfiteatri erano i combattimenti gladiatori e le venationes (le cacce), due forme diverse di spettacolo, originate da matrici diverse. Gli inizi dei combattimenti gladiatori a Roma si datano a partire dal 264 a.C., quando si celebrarono duelli mortali per i funerali di Bruto Pera. Le testimonianze di simili riti sanguinari in onore del defunto sono ancora affrescate in tombe a camera in Etruria, in Campania e in Lucania. Nel tempo questi duelli, emancipandosi dai riti funerari solenni, si trasformarono in scenografici spettacoli popolari, finché Costantino non li proibí nell’impero orientale nel 325 d.C. Infine Onorio, all’inizio del V secolo, o, secondo altri, Valentiniano III, nel 438, li vietarono su tutto il territorio dell’impero. Tuttavia, seppure a stento, la tradizione un tempo amatissima perdurava ancora: l’ultimo spettacolo fu concesso nel Colosseo da Teodorico, che pure aborriva i giochi, ad Anicio Massimo, perché vi festeggiasse l’elezione a console nel 523. Per gli appassionati il punto focale degli spettacoli, che potevano protrarsi per giorni e giorni, erano i combattimenti gladiatori, che iniziavano nel pomeriggio, dopo che l’intera mattinata era stata occupata dalle cacce alle piú varie specie di animali.

UNA CERTA PARITÀ Addestrati in apposite scuole (i ludi gladiatorii), i gladiatori combattevano a coppie, armati secondo regole fisse. C’erano il secutor (il persecutore), il retiarius (armato di una rete), il Trace, il catafratto, che, a seconda dei casi, si servivano di spade corte (gladia), di pugnali, di tridenti o di reti. Per acuire la tensione, le coppie non erano assortite con le stesse armi, anche se si voleva garantire una certa parità di chance: il secutor, per esempio, era armato di


A sinistra: stele funeraria del gladiatore Peneleos. III sec. d.C. Non di rado i nomi assunti dai gladiatori, specialmente quelli di origini orientali, erano ispirati a figure eroiche quali Achille, Polinice, Aiace, Peneleo e simili.

nalità. Essi erano proprietà privata di un imprenditore (lanista), al quale dovevano giurare la piú assoluta obbedienza, ricevendone in cambio vitto, formazione professionale e assistenza sanitaria. Il lanista investiva molto denaro nei suoi uomini, e quindi il loro destino non poteva essergli indifferente. Eccezionalmente anche aristocratici impoveriti si impegnavano al servizio di un lanista, come sappiamo da Giovenale, mentre l’arena non era preclusa alle donne (Tacito, Petronio). I gladiatori vivevano in apposite caserme, che dovevano essere numerose. Resti imponenti di un edificio del genere sono tornati recentemente alla luce a Roma, in prossimità del Colosseo. Un altro alloggio-scuola per i gladiatori ci è noto a Pompei, dove il Quadriportico presso il Teatro Grande

gladio e difeso da un tipico scudo arcuato, e il suo avversario era il retiarius, equipaggiato di rete e di tridente. Numerose rappresentazioni di gladiatori – in affreschi, mosaici, statuette, lampade – e i ritrovamenti di armi c’informano dell’aspetto dei contendenti, aitanti, irrobustiti da duri allenamenti. Cosí non stupisce che, come narra Tacito, queste «macchine da guer ra» fossero ascritte in caso di necessità a corpi speciali dell’esercito, o che fossero richiamate come istruttori per i legionari. Quale pericolo potevano rappresentare per lo Stato, lo dimostrò la rivolta di Spartaco (74-71 a.C.), il quale aveva fatto dei gladiatori di Capua il nocciolo duro del suo esercito, per lungo tempo vittorioso. E, come testimonia Sallustio, i gladiatori furono coinvolti anche nella congiura di Catilina. Reclutati per la maggior parte fra i prigionieri di guerra e gli schiavi, i gladiatori erano delle piú varie nazioa r c h e o 89


SPECIALE • GLADIATORI

fu adibito a quest’uso dopo il terremoto del 62 a.C. Proprio là si rinvennero, nel 1776-77, due casse contenenti le tipiche armi gladiatorie, catene per i piedi e resti di stoffe colorate. Sono oggetti di qualità sorprendente, che offrono un’idea di quanto dovesse essere sfarzoso l’equipaggiamento gladiatorio anche in altre località dell’impero, ma soprattutto nella capitale. La sera precedente i giochi, i combattenti partecipavano a una cena, aperta a chi li voleva osservare da vicino e saggiare mentalmente la capacità di vittoria per le scommesse dell’indomani. Al mattino i giochi venivano inaugurati da una solenne parata, la pompa (da cui l’espressione: in pompa magna), e i combattenti salutavano l’organizzatore e il pubblico, che osservava in un’attesa carica di tensione. Seguiva la probatio armorum, a dimostrazione ch’era tutto in regola, e al segnale dato da uno squillo di tuba lo spettacolo incominciava. I duellanti lottavano a coppie, ma spesso anche in gruppi. Se lo spettacolo era all’altezza delle aspetta-

tive, si creava un’atmosfera d’incredibile entusiasmo, e la passione contaminava anche categorie la cui partecipazione risulta davvero sorprendente, come nel caso le Vestali. Secondo recenti calcoli, il piú grande anfiteatro dell’impero, il Colosseo, a Roma, poteva contenere circa 50 000 spettatori. Quello di Verona, il terzo in ordine di grandezza dopo quello di Capua, aveva pur sempre una capienza di 30 000 persone. L’arena ovale del Colosseo misura 86 m di lunghezza e 54 di larghezza, con un perimetro di 524 m.

DAL LEGNO ALLA PIETRA I primi anfiteatri erano in legno, mentre il primo in muratura, quello di Pompei – la cui arena misura 67 x 36 m – venne eretto nel 70 a.C.; il primo costruito a Roma fu invece quello di Statilio Tauro, nel 29 a.C. L’assegnazione dei posti dipendeva dal rango sociale e nel Colosseo si può ancora ricostruire grazie alla presenza dei relativi contrassegni. L’imperatore con la corte prendeva posto in una sorta di

Film come Spartacus e Il Gladiatore hanno diffuso ritratti affascinanti, ma non sempre attendibili, di chi combatteva nelle arene

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In basso: Russell Crowe nei panni di Massimo Decimo Meridio, protagonista de Il Gladiatore, film girato da Ridley Scott nel 2000 e premiato da uno straordinario successo di pubblico in tutto il mondo. Nel 2001, la pellicola ha ottenuto 5 premi Oscar, fra cui quello per il miglior attore protagonista, assegnato allo stesso Crowe.


In basso: la sezione della mostra nella quale è esposto il rilievo raffigurante un combattimento fra gladiatori proveniente da una tomba scoperta sulla via Ostiense. 30-20 a.C.

tribuna reale, troneggiando su tutti, ma anche i senatori e i cavalieri, nonché le Vestali, sedevano nelle immediate vicinanze dello spettacolo. I semplici cittadini occupavano posti sempre piú in alto, da ultimo le donne. I combattimenti non avevano obbligatoriamente esito mortale: se lo sconfitto si era battuto con destrezza e con coraggio, stava al pubblico, all’organizzatore e all’imperatore decidere della sua sorte. Se non veniva risparmiato, doveva attendere il colpo di grazia con estrema dignità e disciplina, in ginoc-

chio, con l’elmo calato sul volto. Al vincitore spettavano ricchi premi, cosí che alla fine della sua carriera –sembra dopo dieci vittorie – poteva comprarsi la libertà, a meno che non preferisse continuare a combattere. Benché occupassero il posto piú basso nella scala sociale, i gladiatori potevano raggiungere la gloria, assurgendo a beniamini del pubblico, anzi a divi, a cui anche le matrone piú altolocate erano impazienti di far posto nelle loro alcove. Cosí riferiscono con toni coloriti Giovenale e Tertulliano.

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SPECIALE • GLADIATORI

Sulle due pagine: un altro particolare del percorso espositivo nel quale figurano elmi, schinieri e pitture parietali. Uno degli elmi, proveniente anch’esso dalla Caserma di Pompei, è riprodotto in dettaglio qui accanto.

A quali eccessi poteva abbandonarsi per futili motivi un pubblico giunto al colmo dell’eccitazione è dimostrato dalla lite con esiti mortali sorta nel 59 d.C. nell’anfiteatro di Pompei fra spettatori pompeiani e visitatori provenienti dalla vicina Nuceria, che ebbero la peggio: episodio immortalato in un affresco pompeiano e ricordato da Tacito negli Annali. Le cacce (venationes) furono introdotte piú tardi dei giochi gladiatorii, ma persistettero piú a lungo. La loro istituzione si fa risalire al 186 a.C. a opera di Marco Fulvio Nobiliore e la fine avvenne nel 523, sotto Teodorico, circa 700 anni piú tardi. L’apprezzamento di questo genere di spettacoli era favorito dalla passione per la caccia, che si diffuse soprattutto fra i patrizi, e fino agli imperatori, secondo il motto: «Venari, lavari, ludere, ridere, hoc est vivere» (CIL VIII 17938; «andare a caccia, fare il ba92 a r c h e o


UNA VERA RISSA «DA STADIO»... «Un futile incidente provocò un terribile massacro gra i coloni di Nocera e quelli di Pompei: avvenne durante un combattimento di gladiatori (...) si cominiciò con i lazzi alquanto pesanti, poi volarono pietre e si finí arrivando alle armi. La plebe di Pompei ebbe la meglio». (Annali, XIV, 17). L’episodio riportato da Tacito avvenne nel 59 d.C. ed è stato «fotografato» nella celebre pittura muraria rinvenuta a Pompei, in questi giorni esposta a Basilea.

gno, giocare e ridere: questo è vivere»). A ciò si aggiungeva la convinzione che la caccia a belve pericolose promuovesse le virtú militari, come il coraggio e la tenacia. E infatti i venatores dovevano essere forniti d’imperterrita audacia e di assoluto sprezzo della morte, per potersi produrre sull’arena. Preparati da intensi allenamenti, scendevano in campo vestiti leggermente e armati solo di aste o di lance contro bestie feroci di tutte le specie. Ma del resto, come afferma Plinio il Giovane nel Panegyricus, il coraggio apparteneva alla piú pura tradizione romana.

400 LEONI IN UN GIORNO L’incredibile diffusione raggiunta dalle venationes già alla fine dell’età repubblicana ci è riferita da Cassio Dione (Historia Romana, XXXIX, 38): Cesare spedí sull’arena 400 leoni in solo giorno, il rivale Pompeo 500. Le cifre fornite dagli storici antichi possono essere esagerate, ma che un numero esorbitante

In alto, a destra: affresco con la rissa tra Pompeiani e Nucerini scoppiata nell’anfiteatro nel 59 d.C., dalla Casa di Anicetus.

di animali trovasse sull’arena una fine impietosa è incontestabile. Secondo uno studio condotto presso l’University of North Texas, nel corso di 5 secoli di venationes sarebbero stati uccisi nell’impero romano almeno 2 milioni e mezzo di animali. Le belve per gli spettacoli s’importavano da tutte le province imperiali: dall’Africa settentrionale, dall’Asia Minore, dalla Germania. A Roma doveva sempre esserci un contingente di bestie adeguato alle richieste. Cosí, anche gli spettatori che mai avevano viaggiato conobbero da vicino le belve piú pericolose senza alcun pericolo per la loro vita: balaustre, inferriate e reti di sicurezza stavano a garanzia della loro incolumità. E per ogni eventualità stazionava un servizio stabile di arcieri. Ma prima che si potesse procedere a catturare gli animali nei loro Paesi di origine, le competenti autorità provinciali dovevano dichiarare il proprio consenso e offrire sostegno all’impresa, secondo una ben collaudata a r c h e o 93


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prassi amministrativo-burocratica. Un’interessante testimonianza in questo senso ci è offerta dalla corrispondenza intercorsa fra il famoso oratore e avvocato Cicerone, allora governatore della Cilicia in Asia Minore, e il suo amico M. Celio Rufo, che chiedeva insistentemente alcune pantere. Uomo veramente incorruttibile, Cicerone tergiversò, adducendo tutti i pretesti burocratici, finché Celio Rufo non gl’indirizzò una richiesta ufficiale, esonerandolo cosí dal corrispondere per favoritismo alla richiesta di un amico. La cattura delle bestie feroci non era impresa da poco, ed era demandata a personale specializzato, i bestiarii, o a soldati stanziati nei pressi dei luoghi di caccia, come avvenne per la legione

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Minerva I, che dovette dedicarsi in Renania alla cattura di orsi. In 6 mesi riuscirono a prenderne 50. Non ci mancano informazioni né sui sistemi di cattura – reti, fossati, gabbie –, né sui trasporti, che avvenivano per mare e per terra. I famosi mosaici siciliani della Villa del Casale, a Piazza Armerina (prima metà del IV secolo d.C.), e numerosi altri rinvenuti in altre regioni dell’impero, soprattutto in Nordafrica, tramandano scene realistiche e vivaci. Ma dopo il trasporto, c’era ancora da provvedere al nutrimento e all’alloggiamento degli animali, ch’erano trattenuti in appositi vivaria. E infine, da lí venivano forniti agli anfiteatri. Nei sotterranei del Colosseo si possono ancora (segue a p. 101)


Sulle due pagine: rilievo con scene gladiatorie e cacce di animali, dalla tomba dell’impresario Cn. Alleius Nigidius Maius, scoperta presso Porta Stabia, a Pompei, nel 2017. Nella mostra, lo spettacolare fregio fronteggia la pittura murale con la rissa nell’anfiteatro (vedi foto qui sopra), poiché l’evento è citato nell’iscrizione incisa sul monumento funerario di Nigidius.

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I GLADIATORI: CLASSI E ARMAMENTI Le classi dei gladiatori hanno subíto nel tempo alcuni mutamenti. Le piú antiche prendevano nome dall’armamento dei principali popoli nemici di Roma, come Samnites, Galli e Thraeces: questi ultimi continuarono a esistere fino alla tarda età imperiale, mentre i Galli assunsero il nome di murmillones già in età tardo-repubblicana e i Samnites scomparvero all’inizio dell’età imperiale. Dall’età augustea, le varie classi erano ormai definite e ne riportiamo una descrizione in queste pagine.

THRAECES Caratterizzati dall’elmo con un’alta cresta a forma di grifone, erano armati di una corta spada ricurva (sica) e portavano alti schinieri per coprire le gambe (cnemides), una protezione al braccio (manica) e un piccolo scudo rettangolare.

PROVOCATORES Evoluzione dei Samnites, erano dotati di un armamento leggero, simile a quello dei murmillones, e versati nel combattimento veloce. Portavano elmo, manica al braccio destro e arma da taglio a corto raggio, scudo rettangolare ricurvo e schiniere alla gamba sinistra (ocrea).

Statuetta di secutor. II-III sec. d.C. Avenche (Svizzera), Sito e Museo Romano.

RETIARII Il loro equipaggiamento consisteva in una placca metallica fissata sulla spalla sinistra per proteggere la gola (galerus) e una manica al braccio sinistro, nella rete, nel tridente e in una spada corta. 96 a r c h e o


SCISSORES Contrapposti ai retiarii, impugnavano nella destra un gladius e il loro braccio sinistro era equipaggiato con un tubo troncoconico terminante in una affilata mezzaluna. Questa poteva tranciare la rete dell’avversario o arrecargli danni micidiali sulle aree non corazzate. Privi di scudo, erano protetti da una manica sul braccio destro e da una lorica fino alle ginocchia.

OPLOMACHI Gladiatori con armamento pesante, in genere opposti al thraex e al murmillo, che compaiono in alcuni rilievi da Pompei, con alti schinieri alle gambe (cnemides), scudo circolare e lancia.

MURMILLONES Erano la classe piú comune, contrapposta nei combattimenti a quella del thraex; il loro armamento difensivo comprendeva un elmo con tesa ripiegata sui lati, uno scudo rettangolare ricurvo, un gambale alla gamba sinistra (ocrea) e una manica al braccio destro; come arma di offesa avevano invece il gladio.

SECUTORES Assieme agli scissores si battevano contro i retiarii ed erano dotati di un armamento simile a quello dei murmillones, da cui si differenziavano, però, per lo scudo rettangolare l’assenza di lorica e l’elmo perfettamente liscio, che rendeva più agevole liberarsi dalla rete dell’avversario. a r c h e o 97


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I GLADIATORI DI AUGUSTA RAURICA Nell’ottobre del 1961, archeologi del cantone di Basilea guidati da Ludwig Berger portarono alla luce questo straordinario mosaico di 9,80 x 6,55 m, destinato ad abbellire la sala tricliniare di un quartiere abitativo (insula) di Augusta Raurica, nell’ultimo quarto del II sec. d.C. Danneggiato in piú parti, conserva ancora, tuttavia, la raffigurazione di cinque scene

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gladiatorie, tra cui quella di un Murmillo che sconfigge un Thraex (nell’immagine qui accanto). Ăˆ l’unico mosaico figurativo dei circa settanta pavimenti musivi di Augusta Raurica. La rappresentazione di scene gladiatorie era molto popolare nelle province germaniche.

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SPECIALE • GLADIATORI QUEI MISTERIOSI SCHELETRI DI EBORACUM Negli anni 2004/2005 fu scoperto, nella periferia sud di York (Inghilterra nordorientale) – la romana Eboracum, fondata nel 71 d.C. e divenuta colonia nel 237 d.C. – un insieme di 83 sepolture umane, databili tra l’inizio del II e la fine del III secolo d.C. (a destra un’immagine delle indagini sui resti scheletrici). I personaggi, tutti maschili tranne un’unica donna, erano tutti di corporatura massiccia. Gli scheletri mostrano inequivocabili segni di collutazioni, colpi di fendenti, ferite al cranio e alla spina dorsale. 39 individui erano stati messi a morte mediante decapitazione. Su uno di essi erano ancora evidenti le tracce del morso di un grosso felino, un altro personaggio era stato sepolto con, addosso, una cavigliera di ferro. Per quanto non vi sia ancora certezza circa l’identità dei personaggi sepolti, la piú accreditata delle ipotesi propende a riconoscervi dei gladiatori. In basso: la sezione della mostra nella quale sono esposti alcuni degli scheletri provenienti da Eboracum.

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IL DITTICO DEL CONSOLE AREOBINDO Nel gennaio del 506 d.C., durante le celebrazioni per la sua nomina a console, il generale dell’impero romano d’Oriente Flavio Areobindo distribuí agli ospiti di riguardo alcune preziose tavolette scrittorie (chiamate «dittici» perché composte da due valve) in avorio, una delle quali, conservata presso il Museo Nazionale Svizzero di Zurigo, è qui riprodotta. Nella parte inferiore figurano combattimenti e giochi con animali, divenuti vieppiú popolari dopo l’abolizione dei combattimenti gladiatori.

oggi vedere le celle nelle quali le bestie venivano rinserrate prima di essere trasportate con appositi ascensori sull’arena. E allora cominciava lo spettacolo, in cui enormi quantità di animali venivano macellate per la gioia degli spettatori. Le cacce (venationes), che iniziavano al mattino la giornata all’anfiteatro, costituivano per gli spettatori un eccezionale mezzo introduttivo e un appassionante stimolante. Senza riguardi per la propria

vita, i bestiarii dovevano combattere con le loro lance contro le belve piú feroci, leoni, tigri, orsi, tori selvaggi. Ma non solo. Si provvedeva anche ad aizzare l’uno contro l’altro in lotte contro natura animali di specie diversa: elefanti contro tori, tigri contro leoni. Marziale (40-103 d.C.) riferisce di un rinoceronte che dovette dapprima lottare contro un bufalo, poi contro un bisonte, e infine contro un orso. Un venator circense per passione fu l’imperatore Commodo, che si dilettava a colpire con mira sicura, ma a rispettosa distanza, gli orsi che gli servivano da bersaglio.

CONDANNE A MORTE Un intermezzo particolarmente crudele, posto a metà della giornata fra le venationes della mattina e i munera gladiatoria del pomeriggio, era costituito dalla pubblica esecuzione delle condanne a morte. Secondo la mentalità dell’epoca, la pena corrispondeva al misfatto e doveva servire da deterrente: una concezione che si è conservata a lungo nel tempo. Basti pensare ai roghi delle streghe e alle esecuzioni pubbliche in età moderna. Come sappiamo da Seneca e e Marziale, negli anfiteatri le pene di morte venivano inscenate scenograficamente, con ricchezza di costumi e di requisiti, spesso ispirandosi a episodi della mitologia dal finale tragico. Particolarmente atroce era la damnatio ad bestias (condanna in pasto alle fiere): il condannato veniva legato a un palo e abbandonato cosí, nudo e inerme, alla fame e alla furia delle belve. Un altro tipo di pena consisteva nel fare duellare corpo a corpo, fino alla morte, due condannati armati di spada, ma privi di armi da difesa. Il celebre archeologo tedesco Ludwig Curtius (1874-1954) definí il Colosseo «la piú grandiosa espressione della romanità». E in effetti la gigantesca rovina, benché defraudata dei rivestimenti e delle statue che l’adornavano, stupisce ancor oggi per la cadenzata disposizione delle arcate, armoniosamente concluse dal coronamento, cosí come per la razionale struttura dell’interno e dei sotterranei. Ma pur ammirando l’architetto che pianificò un’opera cosí grandiosa e gli artigiani che l’eseguirono, non possiamo dimenticare quali atroci eccessi di crudeltà si celebrarono sul suolo di quella vastissima arena, fra lotte gladiatorie, cacce, pubbliche esecuzioni, di fronte a migliaia di spettatori plaudenti. a r c h e o 101


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UOMINI E TORI di Maria Aurora Salto von Hase

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oma mostrò sempre grande disponibilità ad accogliere le nuove divinità straniere via via incontrate nel suo lungo cammino d’espansione. La mitologia greca e le arti divinatorie etrusche confluirono ben presto nei culti autoctoni locali, dando vita a una religione ufficiale che, lungi dall’essere espressione individuale delle coscienze, rappresentava il criterio stesso di legittimazione dello stato. Nessun evento pubblico si poteva intraprendere, se non era preceduto e come «autorizzato» dai sacrifici e dalle operazioni divinatorie rituali.Tuttavia, la mentalità romana mal si prestava ad adorare animali. Con la sempre maggiore diffusione, dal III secolo d.C., di culti orientali, esoterici e salvifici, accolsero Serapide, fusione di Osiride con il toro Api, e si lasciarono conquistare dai misteri mitraici, ma non si trattò in nessun modo di venerazione del toro. Il toro, quindi, in quanto mero esemplare della fauna, avulso da ogni implicazione religiosa, non godette di alcun trattamento di favore nel gigantesco macchinario delle cacce. Dovette combattere e uccidere o essere ucciso, come ogni altro animale, erbivoro o carnivoro che fosse; o in combattimenti misti, in una ridda disordinata di specie diverse, o in coppie volutamente non assortite – contro orsi o elefanti, contro molossi, contro l’uomo.

LE CACCE TESSALICHE Ecco però che a questo punto una scarsa, ma significativa documentazione, interviene a suggerire anche un altro impiego del toro, diverso, privilegiato e del tutto particolare. In termini cronologici, la prima comparsa a Roma di tori usati in questo senso è documentata da Plinio il Vecchio: «I Tessali sono stati i primi a inventare un gioco d’ardimento, in cui cacciatori a cavallo inseguono da presso i tori, li agguantano per le corna e li uccidono, torcendogli il collo; e Cesare, il dittatore, è stato il primo a offrire a Roma questo spettacolo» (Naturalis Historia, VIII, 182). L’occasione fu il quadruplice trionfo di Cesare su Gallia, Egitto, Ponto, Numidia, che il generale celebrò con grande sfarzo per 5 102 a r c h e o

giorni consecutivi nel 46 a.C., con 400 leoni e 20 elefanti, assaliti da 500 uomini a piedi, e poi con altri 20 elefanti, ognuno montato da 3 uomini, che combatterono gli uni contro gli altri, e poi con 500 fanti e 500 cavalieri. E fu mostrata ai Romani la prima giraffa mai comparsa in Italia. Furono giornate di spettacoli mozzafiato, scenografici, dispendiosi, cruenti; ma l’episodio che è passato alla storia è proprio quello dove comparivano i tori. L’innovazione prese piede, come sappiamo da Svetonio: «Il Circo Massimo fu ornato di barriere di marmo, e le mete, fino ad allora di tufo e di legno, furono rifatte dorate; e posti particolari furono assegnati ai senatori, fino ad allora confusi in mezzo alla folla; e oltre alle corse di quadrighe, organizzò anche i giochi troiani [gare ippiche di corse] (…); inoltre vi fece comparire quei cavalieri tessali che inseguono i tori selvaggi per tutta la lunghezza del circo, e una volta sfiancati, gli balzano in groppa e infine li atterrano afferrandoli per le corna» (Vita di Claudio, 21). La Tessaglia era una regione della Grecia ricca di cavalli e di tori. Nell’età del Bronzo la Grecia del Nord, con Creta e l’Asia Minore, furono accomunate dalla stessa cultura, cretese e poi micenea. E da Creta, e piú esattamente dal palazzo di Cnosso, vagheggiato dagli antichi come il Labirinto di Minosse e del Minotauro, proviene il famoso affresco della taurocatapsia, in cui è rappresentato il salto dell’atleta sul toro infuriato (XVI secolo a.C., oggi nel Museo di Heraklion; vedi foto a p. 104). E se anche il gioco era incruento, faceva parte di un importante culto del toro, né si può escludere che i tori a Creta dovessero anche essere immolati, come testimoniano le asce bipenne, armi a doppio taglio riprodotte nella decorazione del palazzo. Certamente anche i «giochi tessalici» erano sorti in un contesto rituale. L’originaria matrice religiosa che sottostava anche ai giochi romani, si stemperava sempre piú nel piacere del divertimento da parte del pubblico, nel valore propagandistico e politico da parte degli organizzatori. D’altronde, anche per il pubblico il godimento non era fine a se stesso: il gioco con la morte aveva sempre un

Mosaico raffigurante giochi circensi, fra cui, in alto, il combattimento fra un orso e un toro, dalla villa di Dar Buc Ammera (nei pressi della moderna Zliten, Libia). 200 d.C. circa. Tripoli, Museo Nazionale.


naggio fu per tre volte duomviro a Pompei (la terza volta nel 2 a.C.) e sulla sua pietra tombale tramandò ai posteri il vanto del suo evergetismo, la prodigalità a favore dei contemporanei, ch’era il mezzo costosissimo e sicuro per propiziarsi in cambio il favore degli elettori. A seconda dei casi, l’offerta andava dalla costruzione di edifici pubblici, all’elargizione di viveri, al finanziamento dei giochi. Meno grandioso, si direbbe dal resoconto lo spettacolo offerto per il terzo triumvirato (forse perché non poteva piú essere rieletto?). Ma fra i giochi per il primo e il secondo incarico è registrata la presenza di tori, con toreri e con aiutanti. Ma quale tipo di spettacolo offrí Aulo Clodio con i toreri e i tori? Nella dettagliata enumerazione degli uomini e delle bestie, non si accenna a cavalli o a cavalieri. Non si trattò quindi di cacce tessaliche. L’iscrizione attesta però la presenza di un corpo di venatores specializzati solo per i tori: taurarii, taurocentae, taurocontae. L’esistenza di vari sinonimi indica che l’intervento di questi specialisti era IL FAVORE DEGLI ELETTORI Di un altro tipo di caccia con i tori testimo- tutt’altro che raro. Quindi non doveva essere nia nell’epoca augustea l’iscrizione pompe- rara la presenza dei tori nell’arena. I taurarii a iana di Aulus Clodius Flaccus. Questo perso- piedi combattevano con lance, picche o aste sottofondo religioso e le pene dei condannati eseguite pubblicamente assolvevano al compito sociale dell’amministrazione della giustizia retributiva e all’effetto di deterrenza dal delitto. Si trattava di valori pienamente condivisi ancora all’epoca della Rivoluzione Francese, quando nel 1793, l’anno del Terrore, Parigi divenne ripetutamente teatro dello spettacolo delle esecuzioni. Comunque a Roma non c’era spettacolo senza l’esecuzione di minuziosi immutabili rituali, sebbene, già nel primo impero, se ne fosse persa la partecipazione intima. Nell’interesse di chi guadagnava dal protrarsi dei giochi, operatori senza scrupoli compivano di proposito errori nel rituale, perché i giochi venissero invalidati, e quindi ricominciati dal principio, anche 10 volte, anche per giorni. Claudio dovette intervenire, ordinando che si potesse replicare una volta sola, e in un solo giorno (Dione Cassio, Storia Romana LX, 6, 4).

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con la punta metallica (venabula), in tutto simili alle «vare de picar» dei moderni picadores. Anche i toreri romani avevano gli aiutanti, i succursores, incaricati, fra l’altro, di aizzare le bestie. E per i tori i mezzi usati nell’antica Roma erano gli stessi che poi sarebbero invalsi nelle moderne corride: i pungolamenti, i manichini, i drappi rossi. Com’è noto, il toro non distingue i colori, ad agitarlo è sufficiente il movimento abilmente gestito del drappo; eppure anche sulle scene romane si ricorreva al rosso, come testimonia Seneca: «Hai visto quanto poco basta agli inservienti per aizzare le belve e spingerle all’offensiva? Il toro si eccita già solo alla vista del colore rosso» (De ira, 30, 1). I manichini erano di paglia: homines foeni. Ma ci è documentato anche l’uso di palloni di stoffa colorata. Certo negli inserti comici, che servivano a variare e ad alleggerire la tensione, come i balletti nelle opere liriche, già solo i 104 a r c h e o

colori vivaci dei palloni contribuivano a creare un clima allegro e festoso, mentre la loro stessa forma, sfuggente a qualunque infilzata, era adatta piú dei manichini a suscitare il riso degli spettatori. Inoltre esisteva a Roma anche un mezzo piú radicale per far fuggire l’animale nella direzione voluta: l’inseguimento con aste dalle punte arroventate o addirittura con fascine accese.

ASSALTO MORTALE Cosí scrive Marziale, nel De Spectaculis (80 d.C.): «Un toro che correva per tutta l’arena incalzato dal fuoco [con possenti cornate] aveva scagliato i palloni in alto, fin quasi alle stelle. Ma gli è toccato di soccombere all’assalto di un corno ben piú potente [s’intende qui la proboscide], mentre pensava che fosse altrettanto facile lanciare in aria un elefante» (epigramma XIX). La corsa di questo toro inseguito con il fuoco tra i balzi dei palloni colorati fino all’improv-

Affresco parietale con scena di taurocatapsia (gara rituale consistente in un salto acrobatico sul toro, animale sacro nella Creta minoica), dall’ala est del Palazzo di Cnosso. XVI sec. a.C. circa. Heraklion, Museo Archeologico.


viso apparire dell’elefante pare riempire da sola tutta la scena. La presenza di combattimenti simultanei avrebbe disturbato lo svolgimento della fuga e gli inservienti che recavano il fuoco, se impediti nel loro percorso, avrebbero potuto creare degli incidenti. Piú di 200 anni dopo, nel 238, una moneta di Gordiano III ripropone gli stessi due antagonisti – un toro e un elefante – nel Colosseo (vedi foto a p. 106). Ma forse anche in caso di numeri di particolare impatto emotivo, l’arena intera era lasciata a un solo protagonista. Potrebbe essere il caso del già citato episodio dell’assunzione al cielo di Ercole, o anche della situazione adombrata all’inizio dell’epigramma IX: «Superiore a tutte le bestie della giornata ha brillato un rinoceronte, che si è esibito, o Cesare, percorrendo come in parata tutta l’arena, e lasciando presagire combattimenti straordinari». Che tutto lo spazio dell’arena potesse essere concesso a un incontro particolarmente eccitante potrebbe essere suggerito anche da una moneta di Gordiano III del 238 che mostra l’incontro di un toro contro un elefante. Tuttavia, la necessità di sintesi e la stilizzazione, le convenzioni e l’allusività inerenti al mezzo, insieme con l’eventuale imperizia dell’artista ne limitano di molto il valore documentario. Altri episodi ci danno invece l’idea di quell’orgia disordinata di bestie miste di specie diverse che combattevano fra loro

contemporaneamente o venivano cacciate in un sabba disordinato come in una ridda di carnevale non a tema, dove s’incontrano senza regole maschere di tutte le epoche e di tutti i paesi. Qui tutti i partecipanti erano comparse o al massimo comprimari. È l’effetto suggerito anche da tante rappresentazioni musive, dove però la vicinanza locale e temporale degli attori e degli episodi è dovuta anche al mezzo stesso della rappresentazione figurativa, costretta a mettere gli uni accanto agli altri sullo stesso piano eventi che si svolgono in dimensioni drammatiche e temporali diverse e successive.

FRA GRIDA E RISATE Ancora Marziale descrive questa scena buffa e quasi idilliaca: «Oggi hanno permesso a dei ragazzi di entrare nell’arena per sfottere un toro troppo placido. Ma quel pigro animale ha continuato a starsene immobile e imperturbabile, mentre uno gli balzava in groppa, levando in aria le armi, e un altro gli si appendeva alle corna fra grida e risate. Dal palco le autorità hanno assegnato la palma della vittoria, com’era giusto, ai ragazzi» (Epigrammata, V, 31). Sulla stessa linea si pone l’intervento dell’imperatore Gallieno, il quale, nel 262, premiò un venator che non era riuscito ad abbattere un toro dopo 10 tentativi. Perché non riuscirci con 10 assalti, andati tutti a vuoto, era difficile (Scrittori di Storia Augusta, Vita di Gallieno).

Particolare di un mosaico policromo raffigurante il combattimento fra un taurarius a piedi e un toro: l’uomo, che ha già conficcato un’asta nella schiena dell’animale, pare tenga nella destra un piccolo drappo, da Bad Kreuznach (Germania). 250 circa d.C.

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Nel complesso, però, i tori erano proverbiali per l’energia e la furia, tanto da essere presi come pietre di paragone per altre belve infuriate. Fornisce una testimonianza in questo senso l’epigramma IX del De Spectaculis, in cui un rinoceronte tratta un toro immesso nell’arena cosí come i tori trattano i palloni di cenci colorati: «Com’era terribile nella sua ira, mentre irrompeva a muso basso a sferrare i suoi poderosi attacchi! Com’era taurino, e il toro era per lui un fantoccio!». In ogni caso, o placidi o furenti che fossero, la partecipazione dei tori alle venationes era imprescindibile e inderogabile, cosí da essere assurta nella lingua parlata a topos, a dato di fatto da potersi usare con valore proverbiale. Emblematico in questo senso è un passo di Varrone del 37 a.C., in cui i tori sono menzionati per inciso in tutt’altro contesto, ma con valore esemplare, e per ciò stesso tanto piú probante. Varrone insegna come costruire le voliere per l’allevamento degli uccelli: «La porta dev’essere piccola e stretta, il piú possibile del tipo che si vede nelle cochlee in uso nelle arene, dove sono soliti combattere i tori» («in cavea, in qua tauri pugnare solent», De Re Rustica, III, 5, 3). La cochlea è nota come strumento a garanzia, sia pure aleatoria e temporanea, dell’incolumità dei venatores. Era infatti una una sorta di finta porta a piú ante girevoli intorno a un perno centrale verticale, che eccitava e disorientava l’animale, mentre l’uomo vi si rifugiava dietro.

CINQUE STRANI COMMENSALI Una documentazione sibillina dell’importanza dei tori ci è fornita dal mosaico detto «del banchetto in maschera», proveniente da El Djem e conservato a Tunisi al Museo Nazionale del Bardo (età severiana, ultimo quarto del III secolo d.C.; vedi foto a p. 107). Nella scena, incorniciata da rami di miglio, compaiono nella parte superiore 5 commensali, non proprio mascherati, ma identificabili o dalle acconciature, o dagli attributi che recano in mano. Si tratta di 5 rappresentanti delle agenzie o società che organizzavano battute di caccia per rifornire gli anfiteatri di belve. Oltre ad assolvere alla funzio106 a r c h e o

In alto: moneta di Gordiano III raffigurante l’arena del Colosseo occupata dalla lotta fra un toro e un elefante; il pachiderma è montato da un venator che lo guida. 238 d.C. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto: mosaico detto «del Banchetto in maschera», da El Djem. Ultimo quarto del III sec. d.C. Tunisi, Museo Nazionale del Bardo.

ne di approvvigionamento, a cui molto provvedevano sul proprio suolo anche le agenzie del Vicino Oriente, l’Africa era anch’essa convinta utente del materiale ottenuto, e patria di diversi esponenti del personale addetto sia al reperimento della materia prima, che all’allestimento finale, come si può dedurre dalle numerose decorazioni musive a soggetto venatorio giunte fino a noi. I 5 personaggi parlano fra di loro per mezzo delle iscrizioni al di sopra delle loro teste, autentici fumetti anti litteram. Sotto la mensa curvilinea giacciono in riposo 5 tori, o piú propriamente zebú. Ognuno reca sulle natiche un marchio: un venator, un pesce, un sistro – uno strumento musicale collegato al culto di Iside –, una foglia d’edera e un rametto di miglio, simboli di riconoscimento di altrettante agenzie. Due giovani servi armeggiano presso un tavolino con due brocchette, un’anfora è poggiata a terra, e un’iscrizione ci tramanda ancor oggi le loro parole: «Silent u[t] tauri dormiant» («Facciano silenzio, cosí che i tori possano dormire»). L’interpretazione del mosaico è ancora molto controversa, ma, ancora una volta, ribasdisce l’importanza dei tori nell’economia delle venationes. In Italia i tori non mancavano, e in piú dovevano esserci allevamenti specializzati. Tuttavia, per soddisfare la domanda, e anche per offrire agli spettatori l’emozione di specie esotiche e sconosciute, si ricorreva alla cattura di tori selvaggi da altre regioni dell’impero. Le imprese romane che operavano nel settore della cattura delle bestie avevano sviluppato, a seconda delle specie, diverse tattiche ed espedienti: corde e lacci, reti, fosse, tagliole senza denti, recinti in cui gli animali venivano sospinti da mute di cani. Nel mosaico della Grande Caccia di Piazza Armerina si vede addirittura una tigre confusa davanti a uno specchio. Per i tori il metodo di cattura era quello delle fosse. Cesare ne parla a proposito dei bisonti, i tori selvatici «che chiamano uri. Hanno una mole di poco inferiore a quella degli elefanti, ma l’aspetto, il colore e la figura è di toro. Sono fortissimi e velocissimi e non risparmiano né uomo né


Come in un grande fumetto, il magnifico mosaico tunisino mostra il colloquio fra cinque ÂŤagentiÂť di battute di caccia a r c h e o 107


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animale che abbiano scorto. I Germani li catturano col mezzo delle fosse, e poi li uccidono: i giovani si esercitano e si temprano in queste faticose imprese. Chi di loro ne ha uccisi di piú, ne espone le corna a testimonianza della sua impresa, ricevendone grandi onori. Ma queste bestie non si abituano all’uomo e non si lasciano addomesticare, neanche se prese da cuccioli. L’ampiezza, la forma, l’aspetto delle loro corna differisce molto dalle corna dei nostri buoi. I Germani ne incastonano il bordo in argento e le usano come coppe nei banchetti piú ricchi» (De Bello Civili, 6, 28) . Gli uri, come nota Rossella Rea, vengono menzionati anche da Tacito, da Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, 8, 48) e da Oppiano (Cinegetica, 1, 71, 414). E tori selvaggi venivano cacciati anche in Libia (Eliano, Sulla natura degli animali, 14,11) e in Etiopia, come attesta ancora Plinio.

ANIMALI FANTASTICI Dopo il 212 d.C. Oppiano da Apamea dedicò a Caracalla il Cinegetico, poemetto sulla caccia in 4 libri. Dopo il primo libro, introduttivo, il secondo è dedicato al toro, il terzo al leone. Questa scelta dimostra l’importanza attribuita al toro, che viene cosí messo alla pari, anzi avanti all’animale che gode tutt’oggi del titolo incontrastato di re della foresta. Già centocinquant’anni prima di Oppiano, intorno al 77 d.C., Plinio il Vecchio aveva espresso press’a poco la stessa opinione. Ora, la Naturalis Historia di Plinio trabocca di descrizioni di animali fantastici, come i grifi e le sfingi, e infatti serví ampiamente di materiale ai fantasiosi bestiari medievali; ma quando l’autore era testimone oculare la sua testimonianza, fatta eventualmente la tara, è attendibile e significante. Anche per lui il leone è generoso. Risparmia la vittima che invoca pietà, e attacca secondo un codice di regole cavalleresche: prima gli uomini, poi le donne, e i bambini solo in ultima istanza, e solo se costretto dall’inedia. La magnanimità del leone si manifesta nel disprezzo del pericolo. Riguardo al toro, Plinio gli attribuisce la «generositas»: il suo aspetto ispira magnanimità, vigore e coraggio, e le corna sembrano anelare alla lotta. E mentre cita il culto del dio Api e dei tori sacri ad Api in Egitto, ricorda che a Roma i tori vengono offerti in sacrificio, rappresentando la vittima migliore in assoluto, «optima», e il piú lauto mezzo per placare gli dei («victimae optimae et lautissima deo108 a r c h e o

rum placatio», 8, 183). Né tralascia di riferire Particolare del che fra i prodigi annoverati nei tempi antichi, Mosaico è frequente il caso di buoi o di tori sacrificaBorghese, con li parlanti. Segue un’informazione molto in- scena di venatio. teressante: perfino i tori venivano ammaestra320 d.C. circa. ti per gli spettacoli: «Abbiamo visto tori che Roma, Galleria combattono a comando e tori che ruotano giocosaBorghese. Nella mente intorno a se stessi. Vengono sostenuti per le mischia di tante corna quando cadono e sorretti per le corna a rial- lotte concomitanti zarsi.Altre volte stanno fermi ed eretti come aurighi il toro selvaggio, su carri lanciati a grande velocità». immane, torreggia Un tratto del comportamento del toro irricon la sua mole. tato che colpisce molto gli scrittori romani era il movimento degli arti anteriori; l’insistenza con cui ritornano su questo punto sembrerebbe derivata dall’impressione di riconoscervi un tratto quasi umano: «In un crescendo d’ira poggia ora su una, ora sull’altra zampa, insozzandosi il ventre di sabbia; ed è il solo animale infuriato che manifesti la sua ira cosí». Anche Seneca nel De ira (1, 5): «I tori agitano le corna a vuoto e sollevano in aria la sabbia dell’arena per il gran pestare che fanno con le zampe sul suolo». E piú poeticamente Ovidio, nei Tristia (El. IV, v. 29): «E il toro sfrenato sparge l’arena tutt’intorno, pestando la polvere con la furia delle zampe impetuose».

APPROPRIARSI DELLA VITA ALTRUI Imprigionando dentro di sé l’eco degli antichi culti, dei miti, degli ideali di una virilità intesa a coltivare la forza, il toro sembrava predestinato alla lotta con l’uomo. E se immolare il toro significava propiziare col suo sangue la vita e la fertilità – qualità esplicitamente espresse nelle corna –, vincerlo in combattimento era come provare a se stessi la propria forza e appropriarsi come in un rito carnivoro della sua. Delle lotte corpo a corpo dei vari taurarii, taurocentae e taurocontae con il toro ci è pervenuta un’esigua, ma significativa documentazione figurativa. Esemplare è il mosaico di Bad Kreuznach (Germania), in cui sembra che il torero agiti in mano un piccolo drappo. Mentre i giochi tessalici possono essere considerati i veri antesignani della prima forma della corrida spagnola dopo il Mille, quando i nobili catalani e gli Arabi cacciavano i tori a cavallo. Nel saggio Origines de la tauromaquia (Siviglia 2006), Juan Carlos Fernández Truán vede nella romanizzazione un elemento determinante per la nascita


delle corride, dopo l’influenza delle colonie elleniche e fenicie e con piú diretta discendenza che non dai riti funebri autoctoni iberici, tesi a placare con il sangue la terra. Lo studioso mette l’accento sul «piacere gratuito di misurare contro il toro la propria forza», un tratto che, secondo Truán, faceva degli iberici i taurarii ideali nelle arene romane, anzi, tutti i taurarii erano iberici. E questo gusto di misurarsi con la morte, che sottostà

a ogni corrida odierna, già in epoca visigotica spingeva i giovani a mettere a repentaglio la propria vita non costretti, per espiare un crimine, come nell’epoca romana, ma volontariamente, solo per ottenerne fama e onore; e inutilmente li ammoniva Isidoro (560-636) nelle Etimologiae. A Roma antica e alle venationes fa risalire il primo, potentissimo impulso a coniugare il gusto della forza con l’emozione di una gara e il piacere dello spettacolo. DOVE E QUANDO «Gladiatori. La vera storia» Basilea, Antikenmuseum fino al 22 marzo 2020 Orario martedí-domenica, 11,00-17,00 (il venerdí apertura serale fino alle 22,00); chiuso il lunedí Info www.antikenmuseumbasel.ch/ a r c h e o 109


SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

LA VERSAILLES DEL CALIFFO SALITO AL POTERE FRA IL X E L’XI SECOLO, ABD AL-RAHMAN III SEGNA LA STORIA DI AL-ANDALUS, TENENDO A BATTESIMO UNA VERA E PROPRIA ETÀ DELL’ORO. TESTIMONIATA DA MADÎNAT AL-ZAHRÂ, LA SONTUOSA REGGIA FATTA COSTRUIRE NON LONTANO DA CORDOVA

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el 476 d.C., dopo la caduta dell’impero romano, la penisola iberica condivide il destino del resto d’Europa e della regione mediterranea: ai Romani subentra una popolazione di origine germanica, i Visigoti, che fondano un regno, con capitale Toledo, e governano per poco piú di due secoli. Nel 711, sulla scena si affaccia un nuovo protagonista: gli Arabi. Ha inizio una rapida conquista, che parte dal Sud e poi prosegue, annettendo in progressione le principali città. L’istituzione del primo emirato di al-Andalus risale al 756: la penisola iberica è ora uno Stato islamico indipendente, non piú subordinato alla nuova dinastia regnante degli Abbasidi. Il primo emiro è Abd al-Rahman I e la capitale dell’emirato è Cordova. Tuttavia, nel 929, le cose cambiano ancora: dopo un periodo di crisi politica, prende il potere Abd al-Rahman III, il quale cambia la sua carica e la forma stessa dello Stato: in Spagna c’è

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I resti di Madînat al-Zahrâ, «La città splendente» fondata dal califfo Abd al-Rahman III 5 km a ovest di Cordova. ora un califfato, e ha inizio un periodo molto florido per il Paese, che durerà circa cento anni, fino al 1009. Il califfo Abd Al-Rahman III è un monarca molto deciso: consolida il suo potere dal punto di vista amministrativo e fiscale, e compie gesti fortemente simbolici. Tra questi, fonda varie città, una delle quali si chiama Madînat al-Zahrâ, «La città splendente».

UNA FORTEZZA NELLA FORTEZZA Difesa da mura, la città ha forma rettangolare e occupa un’area pari a 112 ettari circa. Si articola su grandi terrazzamenti, ed è divisa in settori. Partendo dall’alto, abbiamo la zona che ospita l’Alcazar, il palazzo del califfo; segue una fascia occupata da orti, giardini e dagli uffici dell’amministrazione; e infine l’area dell’abitato, con case e botteghe, e la moschea. Il palazzo è

fortificato, una fortezza nella fortezza: è circondato da mura massicce, costruite con grossi blocchi di calcare, spesse piú di due metri e mezzo e munite di torri. L’accesso dal resto della città è garantito dalla Porta de la Azuda: quindici archi affacciati da un lato su una sterminata piazza d’armi, e dall’altro su un cortile porticato. Sono architetture del potere, che comunicano in maniera altisonante la grandezza del sovrano. Da qui si entra nell’Alcazar. Dopo aver percorso una rampa, prima di tutto si raggiunge un cortile, sul quale si affaccia la Casa dell’Esercito, una vera basilica divisa in cinque navate. Qui i dignitari e gli ambasciatori potevano sostare, seduti per terra su preziosi cuscini di broccato. Dal cortile principale si accede anche a uno degli edifici principali: il Salone Ricco. È la sala delle


udienze. Anche questo monumento è diviso in navate, separate da file di colonne che sostengono archi a ferro di cavallo. Le pareti sono ricoperte da pannelli in pietra, finemente scolpiti con decorazioni a fiori e piante, e con iscrizioni. Alle spalle del Salone si apre un grande spazio con piscine e alberi, fiori, piante: è il Giardino Alto, un vero tripudio di verde urbano. E acqua: ancora oggi Madînat al-Zahrâ colpisce per il verde e la forte presenza dell’acqua, che il califfo fa arrivare ripristinando le condutture di un acquedotto costruito dai Romani. Tra la terrazza piú alta e quella intermedia si trova il tempio piú importante della città: la moschea, che, con i suoi 2400 mq poteva contenere fino a 1500 persone. Gli autori antichi raccontano che fu realizzata in soli 48 giorni, con una forza-lavoro davvero spropositata: 1000 fra operai muratori, carpentieri e altri specialisti.

Quasi una piccola città rampa; 11. Mezquita Aljama; 12. alloggi antistanti la Mezquita; 13. Salone Ricco; 14. Giardino Alto; 15. padiglione centrale della Terrazza Alta; 16. bagno; 17. Giardino Basso; 18. appartamenti reali.

1. Porta Nord; 2. alloggi al piano superiore; 3. corpo di guardia; 4. scuderie; 5. casa di Ya’far; 6. alloggi di servizio; 7. casa della Alberquilla; 8. patio delle Colonne; 9. Casa dell’Esercito; 10. portico e 1 1

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AVORIO E CERAMICHE Oltre la moschea, verso est, si estende l’abitato vero e proprio: la zona residenziale dei cittadini comuni. Qui la gente vive e produce, perché la città ospita moltissimi artigiani, dediti soprattutto a produzioni di lusso, due delle quali spiccano sulle altre. Innanzitutto quella degli oggetti in avorio: scatole di varie forme, finemente intagliate, utili per conservare i profumi. E poi la ceramica. Madînat al-Zahrâ è famosa per una fiorente manifattura di ceramiche molto particolari, che si diffondono in tutto il regno di al-Andalus: sono recipienti coperti da una vernice vetrosa, resa bianca grazie all’aggiunta di ossido di stagno, sulla quale vengono dipinte delle decorazioni in verde e bruno. Soprattutto motivi geometrici, vegetali e animali. Ma gli artigiani fabbricano anche armi, gioielli,

oggetti in vetro, tessuti preziosi… E si batte moneta: il califfo trasferisce qui la zecca, che prima era a Cordova. È il quadro di un periodo ricchissimo, una vera età dell’oro di al-Andalus. Del resto, la ricchezza è testimoniata anche dalla quantità e dalla qualità delle importazioni: nel califfato arrivano marmo, oro, seta, lino, zafferano, porpora. È uno dei regni piú floridi d’Europa, e dell’intero Mediterraneo. Nel 961, alla morte di Abd al-Rahman III, sale al trono suo figlio, al-Akham II, ma la situazione precipita presto. Nel 976 il califfo muore, e il successore prescelto è suo figlio, Hisham II, che però ha appena 11 anni. Scoppia una rivolta di corte e del potere si impadronisce un usurpatore: un certo Almanzor. Il legittimo erede,

però, non viene ucciso: Almanzor lo confina nel palazzo di Madînat al-Zahrâ e regna al suo posto; fonda quindi una nuova città palatina, a est di Cordova: Madînat al-Zahirâ. E questo è davvero l’inizio della fine per Madînat al-Zahrâ, perché il ruolo di centro del potere passa alla nuova fondazione. Ma è anche l’inizio di uno dei periodi piú difficili e turbolenti della dominazione islamica in Spagna, uno snodo che, di fatto, segna la fine del califfato di Cordova. Nel 1010, ormai debole e trascurata, Madînat al-Zahrâ subisce l’assedio e la distruzione da parte di soldati berberi. Comincia una storia di saccheggi, ruberie, e di progressivo abbandono. Pochi decenni piú tardi, della grande città si vedevano solo i resti dei grandi saloni abbandonati, e una desolata distesa di pietre.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

TERZETTI ILLUSTRI ALCUNE EMISSIONI DELL’EPOCA AUGUSTEA POSSONO ESSERE LETTE NON SOLTANTO COME MANIFESTI DI PROPAGANDA IMPERIALE, MA COME SPECCHIO DI TRAGICI DRAMMI FAMILIARI

L

a funzione celebrativa della monetazione post-cesariana, quando la raffigurazione di personaggi viventi sul tondello non fu piú oggetto di divieto, fece sí che i volti di uomini (e donne) politici e poi degli imperatori con i loro familiari ricorressero con abbondanza su tutte le emissioni romane. Di regola, il lato convenzionalmente indicato come dritto è riservato al profilo del regnante (oppure della consorte, dei figli, dei parenti titolati), mentre il rovescio è dedicato a tipi che comunque esaltano Roma e tutto ciò che essa ideologicamente rappresenta. In alternativa, l’altra faccia della moneta può essere sfruttata per celebrare eventi familiari importanti

Medaglione in terracotta policroma invetriata con i busti di Giulia, Augusto e Agrippa, opera di Giovanni Della Robbia. 1520 circa. Londra, Victoria and Albert Museum. Il grande scultore e ceramista fiorentino, figlio di Andrea, realizzò il tondo forse per una villa o per un palazzo di Firenze, ispirandosi chiaramente a modelli antichi e, in particolare per Augusto e Agrippa, ai busti conservati nelle collezioni medicee.

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per la dinastia, come nascite, divinizzazioni e anche adozioni, che avrebbero assicurato continuità alla stirpe regnante. In questi casi, mentre la moneta alla sua epoca svolgeva al meglio il ruolo propagandistico che le era proprio, essa diviene oggi, agli

occhi di noi moderni, un prezioso documento iconografico, che supporta notizie e fatti storici testimoniati dalle fonti letterarie. Si pensi, per esempio, ai denari battuti nel 13 a.C. dal monetiere Caio Mario Tromentino per Augusto: al dritto compare


l’affilato e gradevole profilo di Augusto, a volte entro corona di quercia, celebrato quale figlio del Divo Giulio, e, al rovescio, si ritrova un completo ritratto della discendenza di «sangue» dell’imperatore.

all’altro, il potere assoluto. La corona civica, in particolare, veniva assegnata a chi aveva salvato la vita a un cittadino romano in pericolo e, attribuendola ad Augusto, si voleva riconoscere, da parte del Senato, la pace e la concordia sociale da lui ristabilita dopo i drammatici eventi seguiti alla morte di Cesare. Alcuni studi hanno voluto riconoscere nelle due teste che affiancano Giulia non quelle dei figli, bensí le effigi di Augusto e Agrippa; ma, se si considerano i programmi iconografici ufficiali romani, ciò sembra difficilmente concepibile a livello ufficiale.

FIGLIA SVENTURATA In una perfetta composizione a tre, si allineano le testine dei nipoti di Augusto, Gaio e Lucio, e, al centro, quella della madre, Giulia, l’unica figlia dell’imperatore avuta dalla seconda moglie Scribonia, che la diede alla luce nel giorno del loro divorzio (Cassio Dione, Storia romana, XLVIII, 34; nella stessa occasione Augusto si tagliò la barba e rimase sempre rasato, quindi, poco dopo, si sposò con Livia). Nata sotto un cattivo auspicio affettivo, Giulia non ebbe una vita personale felice, con matrimoni improntati alla ragion di stato, come peraltro normale per il suo lignaggio, seguiti dall’arresto per congiura e condotta scandalosa verso il terzo marito Tiberio, dall’esilio a Ventotene (2 a.C.) e dalla morte avvenuta a Reggio nel 14 d.C. Dal secondo marito, il potente e celebre Marco Vipsanio Agrippa, Giulia ebbe cinque figli: tra questi, Gaio e Lucio. Il denario di Augusto vuole dunque celebrare – in quanto documento ufficiale della politica romana – la sua discendenza diretta e l’adozione dei due nipoti, all’epoca ancora bambini, secondo un programma politico che ne prevedeva l’elezione al trono, certamente concordato con il Senato. Va rilevato che nel ritratto di famiglia manca il padre dei giovinetti, Agrippa, che morirà un anno dopo: evidentemente quello che contava – e che il messaggio della moneta doveva esplicitare – era il valore del sangue d’Augusto.

BELLA E DOLENTE

Denario battuto per Augusto da C. Mario, della tribú Tromentina. 13 a.C. Al dritto, profilo di Augusto e lituo alle spalle, leggenda AVGVSTVS; al rovescio, tre profili allineati e riconosciuti come Giulia e i suoi figli, sovrastanti la linea d’esergo; sulla testa della donna campeggia una corona di quercia. Legenda C. MARIVS TRO III VIR. Infatti la testina centrale del rovescio dei denari, quella di Livia, è sormontata dalla corona di quercia o civica, la stessa che racchiude in alcuni esemplari il volto imperiale sul dritto, a memoria degli onori concessi ad Augusto a partire dal 27 a.C. che gli conferirono, posti uno accanto

Esiste sí una raffigurazione dei volti di padre-figliagenero insieme, ma bisogna fare un salto di piú di 1500 anni in avanti per ritrovarla: si tratta di un bellissimo tondo ad altorilievo in terracotta invetriata eseguito da Giovanni Della Robbia intorno al 1520, forse per una villa o un palazzo a Firenze e oggi conservato al Victoria and Albert Museum di Londra. Il leggiadro medaglione racchiude entro una policroma ghirlanda fiorita il busto di Giulia, in alto, quello di Augusto a sinistra e quello di Agrippa a destra. Il volto della sfortunata giovane è segnato dallo sguardo pensoso e da una raffinata pettinatura che le si intreccia a mo’ di collana sotto il collo, che ricorda i volti di Medusa nella versione «bella e dolente» (tipo Rondanini), mentre quelli dei suoi uomini, alquanto corrucciati anch’essi, sono chiaramente ispirati ai busti antichi dei due appartenenti alle collezioni di Lorenzo de’ Medici, conservate agli Uffizi e fonte di ispirazione per le opere rinascimentali improntate all’antico.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Giuliana Steffè e Nicola Degasperi (a cura di)

IL VILLAGGIO NEOLITICO DI LUGO DI ROMAGNA-FORNACE GATTELLI Strutture Ambiente Culture Origines 34, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze, 668 pp., ill. col. e b/n 80,00 euro ISBN 978-88-6045-074-6 www.iipp.it

È una storia esemplare quella raccontata in questo ponderoso volume, di taglio specialistico, che va ben oltre lo specifico del contesto documentato. A cominciare dalla prima segnalazione dei resti poi riconosciuti come appartenenti all’insediamento neolitico di cui l’opera dà conto, che fu merito di volontari locali, al proficuo coinvolgimento dell’amministrazione locale nelle indagini condotte sul campo per quasi vent’anni, dall’impegno profuso nelle varie campagne da decine di archeologi

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professionisti e appassionati a una pubblicazione dei dati che si impone per la ricchezza dei dati offerti. Se già negli anni dello scavo il villaggio localizzato nell’area della Fornace Gattelli s’era imposto all’attenzione della comunità scientifica, che ne aveva intuito il potenziale informativo, ora, potendo disporre della sua edizione completa, si è passati dall’intuizione alla conferma della rilevanza del sito nel piú ampio quadro della preistoria italiana e, in particolare del Neolitico. L’esplorazione dell’abitato, occupato a partire almeno dal V millennio a.C. e riferibile alla Cultura di Fiorano, ha rivelato una situazione archeologicamente ideale: il sito venne infatti distrutto da un incendio e subito dopo abbandonato, permettendo cosí che le sue strutture fossero velocemente coperte da una spessa coltre alluvionale. Rimuovendo la quale, come si può dunque immaginare, ci si è trovati di fronte a una sorta di fermo immagine della vita quotidiana di una comunità vissuta oltre seimila anni fa. Se a ciò si aggiunge che le indagini hanno riportato alla luce i resti di un’intera capanna, corredata di strutture accessorie, di palizzate e altri apprestamenti, nonché una mole considerevole di materiali ceramici, resti di

faune, semi e molto altro ancora, il villaggio di Lugo si impone in tutta la sua pregnanza. Un panorama che il volume, integrato da un supplemento digitale Open Access (https://www.iipp.it/ le-nostre-pubblicazioni/ origines/lugo-diromagna/), descrive in maniera sistematica e approfondita. Dopo un’ampia Introduzione, i contributi sono riuniti in tre macrosezioni principali (Strutture, Ambiente e Culture), che trovano la loro sintesi naturale nelle Conclusioni. Sarebbe qui arduo segnalare i molti elementi d’interesse e i possibili spunti per ulteriori approfondimenti suggeriti nell’arco di quasi 700 pagine, ma, fra i tanti, possiamo ricordare le considerazioni sulla natura dell’incendio che pose fine alla vita dell’insediamento: come spiega Andrea Pessina, potrebbe infatti non essersi trattato di un episodio accidentale

o dell’esito di un’azione ostile da parte di un’altra comunità. Sulla base di confronti archeologici ed etnografici, non si può infatti escludere che le fiamme fossero state deliberatamente appiccate dagli abitanti del villaggio e che il gesto possa avere avuto un significato rituale. Interrogativi destinati a rimanere tali, ma che certamente rendono ancor piú accattivante la vicenda degli uomini e delle donne che scelsero di vivere in quest’angolo di Romagna. E che forse sorriderebbero nel constatare che, per un curioso scherzo del destino, le loro case finite nel fuoco sono oggi sommerse dall’acqua del bacino venutosi a creare dopo che la fornace ha cessato la propria attività e ha sospeso le periodiche operazioni di pompaggio dell’area in cui un tempo si estraeva l’argilla. Stefano Mammini

Ortofotopiano dei piani della capanna-fase 3.


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