Archeo n. 417, Novembre 2019

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2019

POSEIDONIA

CARTAGINE

POPOLI DELLA BIBBIA/11 GRECI

NAPATA

SPECIALE ANTIOCHIA RISCOPERTA

Mens. Anno XXXV n. 417 novembre 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

PAESTUM E IL FUTURO DEL MONDO

IL MITO DI CARTAGINE IN MOSTRA

LA RISCOPERTA DI ANTIOCHIA ROMANA

IN ESCLUSIVA

SUDAN

SCAVI NELLA CITTÀ DI NAPATA

PROGRAMMA COMPLETO

XXI I BORSA MEDITERRANEA DEL TURISMO ARCHEOLOGICO

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 9 NOVEMBRE 2019

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ARCHEO 417 NOVEMBRE

ROMA

€ 5,90



EDITORIALE

ATTUALITÀ DI POSEIDONIA Da piú di vent’anni, ogni autunno Paestum si trasforma per qualche giorno da splendido e silenzioso luogo di ricerca e meditazione in un grande momento di incontri e commerci internazionali. L’antica città si anima, accoglie centinaia di oratori provenienti da ogni angolo del globo, riunisce in una reinventata piazza del mercato venditori che decantano la propria merce. Anche quest’anno – dal 14 al 17 novembre – si terrà la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, giunta, grazie all’iniziativa del suo ideatore e instancabile promotore, Ugo Picarelli, alla sua 22esima edizione. E cosí, Paestum riapre le sue porte al mondo. Per chi non abbia ancora visitato questo luogo straordinario, dobbiamo ricordare che Paestum è una città greca su suolo italico come non se ne conoscono altre, la piú importante di tutti i centri urbani dei Greci in Occidente. Ancora oggi si presenta racchiusa da una cinta muraria munita di torri e porte, lunga quasi 5 km, in massima parte conservata e magnificamente restaurata con, al suo interno, tre grandiosi templi, dominanti un’area che, questa sí, merita la qualifica di «parco» archeologico. Paestum, infatti, ancora oggi deve la sua bellezza alla – faticosa – applicazione dei dettami di una legge (voluta dal grande archeologo Umberto Zanotti Bianco e varata nel 1957 e che rende tutta l’area archeologica libera dalle brutture moderne che tanto compromettono la percezione di tanti dei nostri siti archeologici) e alla altrettanto faticosa cura che le donne e gli uomini, succedutisi negli ultimi decenni alla guida della soprintendenza e alla direzione dello splendido Museo archeologico, le hanno dedicato, facendo di questo luogo una luminosa eccezione all’amara regola del degrado imperante. La suggestione di Poseidonia/Paestum, però, non si esaurisce nella nostalgica contemplazione della sua gloria passata e presente. La città sollecita riflessioni impellenti, inaspettatamente attuali. A rivelare questa nuova (ma solo in apparenza) chiave di lettura del sito archeologico è una mostra che, proprio in questi giorni, si è inaugurata al Museo pestano. Ce ne parla, in apertura, Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco archeologico di Paestum. Ma sull’argomento torneremo ancora. Perché le prospettive che la «città d’acqua» può aprirci sul nostro stesso futuro sono, davvero, di interesse… vitale. Andreas M. Steiner Metamorfosi, installazione video di Alessandra Franco, che utilizza il Tempio di Nettuno di Paestum come tela-schermo.


SOMMARIO EDITORIALE

Attualità di Poseidonia

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

6

SCOPERTE Dalla terra di Canaan riemergono i resti di una vera e propria metropoli dell’età del Bronzo 6 PASSEGGIATE NEL PArCo Il matrimonio «perfetto» fra tecnologia e divulgazione è una delle linee guida sperimentate con successo dal Parco archeologico del Colosseo 10 ALL’OMBRA DEL VULCANO La vivace scena di un duello fra gladiatori torna alla luce in un umile sottoscala 12 A TUTTO CAMPO Le nuove indagini in corso a Roselle confermano l’importanza del locale culto di Artemide 16

PAROLA D’ARCHEOLOGO Raccogliendo il testimone lasciato da Sebastiano Tusa, la Regione Sicilia mette a sistema i suoi Parchi archeologici 18

PATRIMONIO UNESCO

«Valorizzare Cartagine!» 60 di Mustapha Khanoussi

MOSTRE/1

Paestum. L’acqua e il futuro del mondo 36 di Gabriel Zuchtriegel

60

36

POPOLI DELLA BIBBIA/11

MOSTRE/2

Greci e Seleucidi

Roma

Quasi amiche

50

testi di Martina Almonte, Francesca Guarneri, Paolo Xella, Federica Rinaldi, Alfonsina Russo e José Ángel Zamora Lopez

50

Un’apparizione tardiva 70 di Alessandro Locchi

70 In copertina Metamorfosi, installazione video di Alessandra Franco che utilizza come tela-schermo il Tempio di Nettuno di Paestum

Presidente

Federico Curti Anno XXXV, n. 417 - novembre 2019 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Comitato Scientifico Internazionale

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Italiano

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Martina Almonte è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Stefano Borghini è funzionario architetto presso il Parco archeologico del Colosseo. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Emanuele M. Ciampini è professore associato di egittologia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Francesco Colotta è giornalista. Alessandro D’Alessio è funzionario archeologo presso il Parco archeologico del Colosseo. Andrea De Pascale è archeologo e conservatore del Museo Archeologico del Finale. Valerj Del Segato è specializzanda in archeologia all’Università degli Studi di Padova. Francesca Guarneri è funzionario archeologo della Soprintendenza ABAP per l’Area Metropolitana di Roma la Provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale. Mustapha Khanoussi è stato dirigente di ricerca dell’Institut National du Patrimoine di Tunisi. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Alessandro Locchi è dottore di ricerca in storia delle religioni. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Mirko Marconcini è collaboratore del Dipartimento


MOSTRE/3

All’ombra della «Montagna Pura»

78

di Emanuele M. Ciampini

78 MOSTRE/4 Ravenna

Com’è vicino il mare...

90

a cura della Redazione

96

90

SPECIALE

Rubriche LIBRI

Antiochia ritrovata 114

96

di Andrea De Pascale, con un reportage fotografico di Roberto Russo

di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Federica Rinaldi è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Alfonsina Russo è direttore del Parco archeologico del Colosseo. José Angel Zamora Lopez è responsabile della sezione di storia antica della Scuola Spagnola di Storia e Archeologia di Roma. Gabriel Zuchtriegel è direttore del Parco archeologico di Paestum. Paolo Xella è stato dirigente di ricerca presso l’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico del CNR.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534

Illustrazioni e immagini: Cortesia Parco archeologico di Paestum: copertina e pp. 3, 36/37, 38 (basso), 39, 41 (basso), 44-46 – Cortesia Israel Antiquities Authority: Clara Amit: pp. 6 (alto); Yoli Schwartz: pp. 6 (basso), 7 (basso); Assaf Peretz: pp. 6/7 – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: pp. 10-11; Soprintendenza del Mare, Palermo: p. 50; Claudia Pescatori: pp. 51, 54, 55 (basso); DeA Picture Library/A. Dagli Orti/Bridgeman Images: p. 52; Cartagine, Museo Nazionale: pp. 53, 56, 57 (alto); Punto Rec Studios: p. 55 (alto); Ibiza, Museo Archeologico di Ibiza e Formentera: p. 57 (basso); Fethi Belaid/AFP/Getty Images: p. 58 (alto); Bruno Angeli: p. 58 (basso); Torino, Museo Nazionale del Cinema: p. 59 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 12-13 – Cortesia degli autori: pp. 100-101, 103, 104, 105 (alto); Archivio UniSiena: p. 16; Paolo Nannini, SABAP per le province di Siena, Grosseto e Arezzo: p. 17 – Doc. red.: pp. 18 (basso), 19 (alto), 20 (basso), 40, 40/41, 41 (alto), 42-43, 71, 74 – Cortesia Mustapha Khanoussi: pp. 60/61 (alto), 62 (basso) – Cortesia Jean-Jacques Galbart: pp. 60/61 (basso), 61, 62 (alto), 63 – DeA Picture Library: G. Cigolini: pp. 66/67 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 69, 73, 75; Picture Press: p. 70 – Archivi Alinari, Firenze: Château de Versailles, Dist. RMN-Grand Palais/Christophe Fouin: p. 72 – Getty Images: Gali Tibbon: p. 76 – Cortesia Missione Archeologica Italiana in Sudan-Jebel Barkal: pp. 78-79, 81, 82, 83, 84, 86-88; M. Gottardo: elaborazione pianta alle pp. 82/83 – Shutterstock: p. 80 (sfondo) – Ufficio Stampa Fondazione RavennAntica: pp. 90-94 – Cortesia Roberto Russo: pp. 96/97, 98, 102, 102/103, 105 (basso), 106-112 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 38, 68, 80, 98, 99.

Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI)

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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n otiz iari o SCOPERTE Israele

UNA METROPOLI NELLA TERRA DI CANAAN

P

resso Ramat HaSharon, una città poco a nord di Tel Aviv, scavi condotti dalla Israel Antiquities Authority (la Soprintendenza alle Antichità di Israele), in occasione dei lavori per la costruzione di un nuovo snodo autostradale, hanno rivelato quello che sembra essere il piú vasto insediamento protostorico a oggi noto nell’area. Gli scavi si sono svolti nel sito di En Esur (Ein Asawir), per la durata di due anni e mezzo, e hanno visto la partecipazione di oltre 5000 archeologi volontari. Il quadro emerso è quello di un insediamento esteso su circa 65

Qui accanto: figurina in pietra, sulla quale si riconoscono, incisi, i tratti di un volto umano, dagli scavi di En Esur (presso Ramat HaSharon, Israele). A destra, sulle due pagine: veduta aerea di un settore dello scavo di En Asur, con resti di strutture dell’abitato. A sinistra: una delle vasche in pietra verosimilmente utilizzate per abluzioni rituali. Nella pagina accanto: sigillo nel quale si riconosce una mano alzata vicino a un animale.

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ettari, databile alla fine del IV millennio a.C., con aree pubbliche e residenziali collegate da una fitta rete di strade, il tutto circondato da un muro di fortificazione. Le indagini piú recenti, condotte al di sotto delle abitazioni dell’età del Bronzo, hanno inoltre accertato la presenza di una fase insediativa ancora piú antica, risalente all’età calcolitica, ovvero a settemila anni fa. Sembra che l’area fosse dotata, in antico, di ben due sorgenti. Nel quartiere pubblico dell’insediamento, gli archeologi hanno portato alla luce una vastissima area, identificata come appartenente a un santuario, un «tempio» con un ampio cortile munito di una grande vasca in pietra, forse usata come recipiente per l’acqua o altri liquidi impiegati durante i rituali religiosi. In una struttura adiacente sono stati trovati resti ossei di animali

– verosimilmente offerte sacrificali – insieme a figurine animali, il «ritratto» di una testa umana con i tratti del volto ben caratterizzati e lo stampo di un sigillo raffigurante una mano alzata vicino a un animale. Secondo i direttori dello scavo, Itai Elad,

Yitzhak Paz e Dina Shalem, «la scoperta è destinata a rivoluzionare le conoscenze di cui fino a oggi disponevamo sulle origini dell’urbanizzazione nella terra che un tempo era nota come Canaan» in un periodo in cui la popolazione, in origine dedita a un’economia rurale, si insediò in agglomerati urbani piú o meno vasti. Una «città» come quella scoperta a En Esur non poteva non disporre di una struttura gerarchica ben definita e di un sofisticato sistema amministrativo. Per l’epoca quella di En Esur era una vera e propria megalopoli della prima età del Bronzo, abitata da una popolazione di svariate migliaia di persone e frequentata da commercianti che qui giungevano provenienti da regni e dalle culture piú diverse e che nella città si incontravano e scambiavano le loro merci. Andreas M. Steiner

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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

INCONTRI Paestum

TUTTI I VALORI DELL’ANTICO

È

ai nastri di partenza la XXII edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum, in programma da giovedí 14 a domenica 17 novembre presso il Centro Espositivo Savoy Hotel, la Basilica, il Museo Nazionale, il Parco Archeologico. Obiettivo dell’iniziativa è valorizzare i siti e promuovere le destinazioni di richiamo archeologico, favorire la commercializzazione, contribuire alla destagionalizzazione e incrementare le opportunità economiche. Cuore della rassegna è il Salone espositivo: luogo di approfondimento e divulgazione di temi dedicati all’archeologia e al turismo culturale e occasione di incontro per addetti ai lavori, operatori turistici e culturali, viaggiatori, appassionati, mondo scolastico e universitario. E sono molti, quest’anno, gli espositori presenti per la prima volta: Città Metropolitana di Reggio Calabria con il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, Comune di Crotone con Crotone Sviluppo, Regione Marche con Confturismo Marche Nord, Destinazione Turistica Romagna, Le Navi Antiche di Pisa, Rete Museale della Provincia di Grosseto «Musei di Maremma» e Ambito Territoriale Turistico Maremma Toscana - Area Nord e Area Sud, nonché, a livello internazionale, l’Agenzia di Strategia Turistica delle Isole Baleari e ICOMOS Cina; numerosa la presenza dell’America Latina con Colombia, Cuba, Guatemala, Honduras, Perú. In parallelo, saranno attive tutte le sezioni che ormai costituiscono appuntamenti consolidati, come Archeoexperience, Laboratori di Archeologia Sperimentale sulle tecniche utilizzate dall’uomo nel realizzare i manufatti di uso quotidiano; Archeoincoming, spazio espositivo e workshop con i tour operator specialisti delle destinazioni italiane per sviluppare l’incoming del turismo archeologico, o Archeolavoro, spazio per l’orientamento post diploma e post laurea con la presentazione dell’offerta formativa a cura delle Università presenti nel Salone. Fra gli eventi previsti dal fitto calendario, ricordiamo anche, in collaborazione con «Archeo», la V edizione dell’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», il Premio alla scoperta archeologica dell’anno intitolato all’archeologo di Palmira, che ha pagato con la vita la difesa del patrimonio. Le cinque finaliste sono: Bulgaria, nel Mar Nero il piú antico relitto intatto del mondo; Egitto, a Saqqara, a sud del Cairo, un antico laboratorio di 8 archeo

mummificazione; Giordania, nel Deserto Nero, il pane piú antico del mondo; Italia, l’iscrizione e le dimore di pregio scoperte a Pompei; Svizzera, la piú antica mano in metallo trovata in Europa. Negli stessi giorni della Borsa è anche in programma il IV Convegno Internazionale della Fondazione Paestum «Dialoghi sull’archeologia della Magna Grecia e del Mediterraneo»: dal 15 al 17 novembre studiosi italiani e stranieri si confrontano sul tema «Fenomenologia e interpretazioni del rito». Nella prima parte si parla di antropologia del rito, attraverso riflessioni teoriche e di una serie di casi di studio emersi da alcune recenti spettacolari scoperte archeologiche; nella seconda, 60 relatori e 25 autori di poster presenteranno le piú importanti ricerche in corso nel Mediterraneo antico. Nell’ambito degli «Incontri con i Protagonisti», sarà presentato il Protocollo di collaborazione culturale tra il Parco archeologico del Colosseo e il sito UNESCO di Cartagine. E, nella stessa cornice, sarà celebrato il 50° anniversario del Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale con Roberto Riccardi, Comandante del Comando, che presenterà il libro Detective dell’arte. Dai Monuments Men ai Carabinieri della Cultura. Per ulteriori informazioni: www.bmta.it



PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Alessandro D’Alessio

LA TECNOLOGIA? È AMICA DELL’ANTICO REALTÀ VIRTUALE, VIDEOMAPPING, SPETTACOLI MULTIMEDIALI SONO ORMAI FAMILIARI PER IL PUBBLICO DEL PARCO ARCHEOLOGICO DEL COLOSSEO, NEL SEGNO DI UNA DIVULGAZIONE MODERNA E ACCATTIVANTE

D

alle Case di Livia e Augusto alle Domus Transitoria e Aurea, dal Criptoportico neroniano al Museo del Palatino e alla chiesa di S. Maria Antiqua con l’annesso Oratorio dei Quaranta Martiri, dal fortunato spettacolo serale del Sogno del gladiatore nel Colosseo agli altri allestimenti temporanei realizzati in occasione dalle mostre «Il Palatino e il suo giardino segreto», «Roma Universalis», e «Carthago», il Parco archeologico del Colosseo offre oggi un’ampia e molto diversificata gamma di esperienze multimediali, dai videomapping alla realtà virtuale

immersiva, che ne accrescono considerevolmente il potenziale non solo comunicativo – in risposta alle istanze della società contemporanea e in linea con i piú aggiornati orientamenti del MiBACT (Direzione Generale Musei) –, ma la stessa capacità di studio, ricomposizione e ricostruzione/restituzione scientifica del proprio patrimonio monumentale e storico-artistico. Molto resta ancora da fare – e lo faremo – lungo questo solco. Eppure il tempo ci sembra maturo per tracciare un primo bilancio, una prima riflessione: quali devono

essere la natura, le funzioni e il piú efficace impiego delle tecnologie nella ricostruzione, narrazione e divulgazione del passato? Quali sono i limiti, intrinseci e prima ancora epistemologici e di metodo, di questo nemmeno troppo nuovo deal della conoscenza e di comunicazione dell’antico (e non solo)? Quali le prospettive per i futuri sviluppi nel campo? Su questi e altri interrogativi di simile portata vorremmo iniziare a riflettere, passando in rassegna le principali e specifiche esperienze messe in atto al Parco archeologico del Colosseo. Alessandro D’Alessio

DECLINAZIONI DIFFERENTI Parlare della tecnologia applicata alla ricostruzione e alla comunicazione dell’antico, o piú in generale, del bene culturale, vuol dire in realtà parlare di cose molto diverse tra loro, che possono assumere declinazioni differenti, sia in base al tipo di comunicazione che si vuole instaurare con il pubblico, sia in relazione alle caratteristiche del monumento o dell’oggetto «raccontato», e ancora in rapporto alla sensibilità e di conseguenza alla

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A sinistra: l’uso dei visori che permettono di fruire dell’installazione di realtà virtuale proposta nella Domus Aurea. Nella pagina accanto: il videomapping realizzato nel Criptoportico neroniano. qualità dell’approccio culturale tentato dagli operatori di settore e dagli stessi amministratori del bene. Non c’è un’«unica via del multimediale», cosí come avviene nel campo ben piú strutturato e teorizzato del restauro, perché non esistono, né potrebbero esistere, un’unica soluzione e un’unica ricetta in grado di adattarsi come una «panacea» a qualsivoglia realtà complessa. Anzi, proprio l’incontro tra le indicazioni provenienti dalle intrinseche caratteristiche del bene e la sensibilità comunicativa o, direi di piú, artistica, degli operatori, fa sí che si possa tracciare una strada efficace, e di volta in volta diversificata, per le scelte tecnologiche effettuate. Il Parco archeologico del Colosseo sta da tempo sperimentando le diverse vie possibili. A partire dalle scelte fatte nel Museo Palatino nel 2014, la Soprintendenza e poi il Parco, sono andati alla costante ricerca di linguaggi e soluzioni in grado di intercettare i valori culturali ed estetici piú rilevanti e di renderli attraenti per il visitatore. Se all’interno del Museo spiccano, in modo ancora un po’ tradizionale, i racconti basati sul doppio livello di filmati proiettati a parete o su videowall e di proiezioni «parlanti» sui plastici, nella chiesa di S. Maria Antiqua, con il suo straordinario palinsesto di pitture altomedievali, la scelta è ricaduta su una serie di

videomapping, capaci di restituire una sorta di restauro virtuale, realizzato con la luce, degli affreschi frammentari ancora in situ (vedi «Archeo» n. 385, marzo 2017; anche on line su issuu.com). Una reintegrazione immersiva ed effimera che restituisce al visitatore la sensazione di ritrovarsi tra le pareti dell’antica chiesa, avvolto dalle pitture restituite e dai cori medievali del «canto della Sibilla».

EMOZIONI E VIDEOARTE Nelle Domus di Augusto e di Livia i videomapping guidano i fruitori, con linee di luce, giochi geometrici e ricostruzioni, in un vero e proprio percorso divulgativo ed emozionale, fatto anche di suoni e voci narranti, alla scoperta degli antichi spazi pubblici e privati. Fino a spingersi, nel Criptoportico neroniano, a creare un vero e proprio gioco grafico con le pitture antiche del Palatino; un gioco evocativo ed emozionale, fatto di suoni e immagini, dove la lunga parete del Criptoportico stesso si trasforma in un grande schermo immaginifico attraverso il quale si anticipano forme e colori degli affreschi di cui si potrà godere durante il prosieguo della visita. Ancora sulle corde dell’emotività e della narrazione, con latenze nel campo della videoarte, si muove il progetto degli spettacoli notturni nel Colosseo: anticipato dalle

ombre e dalle voci di antichi testimoni del passato (proiettate sulle arcate e sui muri del primo livello e dei sotterranei), il racconto finale del sogno di un gladiatore la notte prima di un combattimento viene proiettato su tre vele dispiegate al centro dell’arena. Un crescendo emozionale e narrativo, tutto incentrato sulla rarefazione dei suoni e delle atmosfere notturne. Infine, le straordinarie esperienze sperimentate nella Domus Transitoria e nella Domus Aurea hanno dato forma a vere e proprie installazioni di realtà virtuale fruite attraverso visori fissi, che rappresentano forse la punta di diamante di queste sperimentazioni, capaci di immergere i visitatori in un «restauro della luce e degli spazi» di edifici straordinari oggi di difficile comprensione. Quello fin qui esposto è solo un breve panorama delle installazioni residenti nel Parco, per non parlare di quelle, sempre piú presenti e mutevolmente declinate, legate agli allestimenti temporanei, delle quali non sembra piú possibile fare a meno. E in effetti, sebbene si avverta l’esigenza di controllare il livello della qualità, per evitare il rischio di una «bulimia» tecnologica di scarso valore e dell’assuefazione del pubblico, i minimi comuni denominatori dell’emozione e dell’estetica sembrano essere davvero i veicoli preferenziali imprescindibili per divulgare la conoscenza. Attraverso di essi riusciamo in breve tempo a far riemergere i frammenti di DNA di cui siamo fatti, i mattoni piú intimi della nostra cultura. E a far riaffiorare un passato, che tenta e tenterà sempre di essere riconosciuto e ricostruito, attraverso i nostri strumenti tecnologici cosí come, prima ancora, attraverso i nostri pensieri. Stefano Borghini

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

FOTOGRAFIA DI UN DUELLO

ECCO LE IMMAGINI DELLA VIVACE PITTURA RAFFIGURANTE IL COMBATTIMENTO FRA DUE GLADIATORI VENUTA ALLA LUCE NELLA PARTE SETTENTRIONALE DI POMPEI. È LA TESTIMONIANZA PREZIOSA DI UNA DELLE FORME DI INTRATTENIMENTO PIÚ APPREZZATE DAI ROMANI

C

hissà se il «Trace» sanguinante, dipinto su una parete appena scoperta negli scavi in corso nella Regio V di Pompei, si era confrontato cosí valorosamente con l’avversario da meritare, con quel gesto di attesa e allo stesso tempo di supplica, la grazia degli spettatori, a cui l’organizzatore dei

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giochi cedeva spesso il «diritto» di vita o di morte? L’affresco che rappresenta l’epilogo di uno scontro fra una coppia di gladiatori – un «Mirmillone» a sinistra e un «Trace» soccombente, ormai quasi inginocchiato, a destra –, costituisce l’ultima sorpresa apparsa, con i suoi vividi

colori, nel sottoscala di un ambiente situato in prossimità dello slargo tra il vicolo dei Balconi e il vicolo delle Nozze d’Argento, nell’area settentrionale della città, dove da tempo si concentrano lavori di messa in sicurezza e indagini esplorative da parte del Parco Archeologico di Pompei.


Una fascia rossa delimita la scena delle dimensioni di circa 1,1 x 1,5 m, realizzata su intonaco bianco per vivacizzare l’angolo di una bottega o di uno spazio frequentato da gladiatori e appassionati di giochi ludici, forse una bettola dotata di un piano superiore per l’alloggio dei proprietari o per l’esercizio della prostituzione.

RIUNITI IN «FAMIGLIE» La presenza di gladiatori in questo quartiere potrebbe essere spiegata con la vicinanza della loro caserma, al cui interno sono state individuate circa 120 iscrizioni a tema gladiatorio. Gli organizzatori dei giochi mantenevano riuniti in familiae i gladiatori, in scuole o in palestre come quella di Pompei. Erano ben alimentati, allenati da maestri d’armi e suddivisi in classi variamente designate in base alle armi che usavano e al loro modo di combattere. Le divinità invocate dai gladiatori erano soprattutto Marte, Diana, Ercole e Silvano. Il prosieguo degli scavi permetterà di precisare la funzione dell’ambiente con l’affresco appena ritrovato, messo in luce solo parzialmente, su un altro lato del quale è affiorata una figura maschile panneggiata, purtroppo deteriorata nella parte superiore. Nell’ultimo Speciale di «Archeo» (vedi n. 416, ottobre 2019; anche on line su issuu.com) si è trattato proprio del tema dei gladiatori, oggetto della mostra in corso a Basilea. I due combattenti pompeiani sono diversamente armati e si sono appena affrontati in un combattimento singolo, sotto gli occhi attenti degli arbitri. Appartengono alle piú antiche classi gladiatorie che prendevano nome dall’armamento che caratterizzava i principali popoli nemici di Roma. Il «Mirmillone» (in passato detto anche «Gallo», una delle classi piú diffuse), impugna il gladius (corta spada da cui deriva il

Sulle due pagine: una veduta d’insieme e un particolare della vignetta affrescata nel sottoscala di un ambiente situato nel quadrante settentrionale della città di Pompei. Colpiscono la vivacità e il realismo

della raffigurazione, con lo sconfitto, un «Trace» che sanguina vistosamente e solleva una mano per implorare la grazia del vincitore, che è invece un «Mirmillone», armato di una corta spada (gladius) e scudo ricurvo.

termine «gladiatore») e un grande scudo rettangolare ricurvo (scutum), indossa poi un gambale alla gamba sinistra (ocrea) e una manica al braccio destro oltre al caratteristico elmo a larga tesa dotato di visiera e vistoso cimiero; l’altro combattente è invece un «Trace», con lo scudo a terra e spada ricurva, rappresentato con alti schinieri per coprire le gambe (cnemides), una protezione al braccio (manica) ed elmo (galea) a tesa larga e ampia visiera a protezione del volto, anch’esso sormontato da cimiero.

sul petto, da cui fuoriesce tanto sangue da bagnare i suoi gambali; dall’altro la gestualità del poveretto, che con la mano sembrerebbe implorare la grazia. Quando un gladiatore era ferito, invocava abitualmente la clemenza degli spettatori alzando l’indice; se questi volevano fargli grazia sollevavano il pugno chiuso e il pollice ripiegato all’interno (pollicem premere), se la volontà era invece quella che il vinto venisse finito dall’avversario si indicava la scelta con la mano tesa (pollice verso). Il popolo che assisteva ai giochi incitava freneticamente lo scontro, finché uno dei combattenti non finiva male e i tifosi del vincitore prorompevano nel molteplice grido di giubilo habet, hoc habet! («colpito!»). Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; pagina Fb Pompeii-Parco Archeologico.

UN FIUME DI SANGUE Nella vignetta ludica, che doveva rappresentare una coppia solita a confrontarsi sull’arena pompeiana, colpisce in particolare l’accento realistico riflesso sull’immagine del gladiatore battuto: da un lato le profonde ferite inferte sul polso e

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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

TURISMO ARCHEOLOGICO Romagna

DA UNA COSTA ALL’ALTRA, SULLE ORME DEI ROMANI

I

l potenziamento dei due Visitor Center di Rimini e di Classe in provincia di Ravenna, che diventano sempre piú tecnologici e internazionali; la realizzazione e la distribuzione in piú di mezzo milione di copie di un nuovo strumento di promozione degli itinerari, che da semplici percorsi si trasformano in racconti; la formazione degli operatori del turismo culturale nella direzione dell’interpretazione del patrimonio, che si rivela cosí capace di trasmettere esperienze; lo sviluppo di un itinerario culturale europeo sui Romani in Adriatico, che fa dialogare le coste dell’Italia e della Croazia. Sono questi i primi risultati raggiunti in Romagna dal progetto europeo Hercultour, che fa parte del Programma Interreg Italia-Croazia e mira a creare un’offerta turistica integrata, valorizzando le bellezze culturali e naturali dei territori che si affacciano sull’Adriatico per favorirne la destagionalizzazione. I Visitor Center di Rimini e di Classe fungono da veri e propri punti di partenza per l’esplorazione del territorio alla ricerca dei segni dell’eredità romana e, per raccontare e promuovere questi percorsi, Visit Romagna si è anche affidata a un nuovo tipo di strumento: una guida non didascalica ma narrativa, che presenta quattro itinerari attraverso le voci di quattro protagonisti della Storia – Giulio Cesare, Augusto, Eutiches, Galla Placidia – e la penna dello scrittore Matteo Cavezzali, «Romagna Empire in quattro racconti».

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All’interno del progetto Hercultour sono stati poi organizzati momenti di formazione con gli operatori della cultura, dalle guide agli addetti ai musei, per presentare il «Manuale di interpretazione del patrimonio storico culturale», una guida scritta da Andrea Vugrinovic per la Regione Dubrovnik-Neretva che indica nell’approccio interpretativo il superamento della funzione meramente informativa degli strumenti divulgativi per creare un legame con le persone, mediante l’immaginazione, la suggestione e la narrazione stimolandone maggiormente la curiosità, la volontà di scoperta e approfondimento. E sempre grazie a Hercultour, Visit Romagna ha avviato, insieme agli altri partner, lo studio per la realizzazione di un itinerario romano in Adriatico all’interno dei percorsi riconosciuti dal Consiglio d’Europa. Il tema portante scelto è stato quello di «via», da intendere non soltanto come le vie consolari o militari ma anche come un modo per rappresentare i processi sociali, economici e culturali. La strategia adottata non è stata quella dello sviluppo di lunghi tour, ma di fornire esperienze coinvolgenti in ciascun punto del circuito, in modo che ogni nodo possa sviluppare i propri prodotti valorizzando l’appartenenza a uno stesso circolo di qualità, a partire per esempio da una comune identità grafica e da standard di servizi comuni. Per maggiori informazioni: www.visitromagna.it



A TUTTO CAMPO Valerj Del Segato e Mirko Marconcini

ALLA RICERCA DI ARTEMIDE ETRUSCA IN MAREMMA, GRAZIE A UN PROGETTO PROMOSSO DALL’UNIVERSITÀ DI SIENA, L’AREA ARCHEOLOGICA DI ROSELLE È AL CENTRO DI ATTIVITÀ DI RICERCA E VALORIZZAZIONE. LA SCOPERTA DI UNA NUOVA DEDICA ALLA DIVINITÀ RIAPRE GLI INTERROGATIVI SULL’ESISTENZA DI UN GRANDE SANTUARIO DI ARTEMIDE SULLA COLLINA SUD DELLA CITTÀ ETRUSCA

«Q

uesta è la grande particolarità del luogo: essere l’area di una città etrusca menzionata dalle fonti letterarie antiche tra le città capitali, ed essere intatta. (…) Roselle è l’unico luogo che può dirci che cosa fosse una città etrusca». Cosí scriveva l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975) nel 1959, esprimendo il proprio interesse per il sito. Dopo i primi scavi ottocenteschi condotti in prevalenza nelle necropoli, dal secondo dopoguerra il centro, posto a brevissima distanza da Grosseto, diviene oggetto di indagini sistematiche curate dalla Soprintendenza Archeologica della Toscana, che si protraggono per un trentennio e portano in luce i monumenti oggi visitabili. Tuttavia, la superficie esposta documenta in massima parte

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l’urbanistica e l’architettura di una città romana, cresciuta sulla stessa superficie dell’abitato etrusco (esteso su 50 ha) e distribuito su due colline, chiamate Collina Nord e Collina Sud, racchiuse entro la cerchia delle mura poligonali.

UNA STRATIFICAZIONE COMPLESSA Considerando che la costruzione della piazza del Foro di età romana ha sepolto la valle compresa tra le due Colline, già abitata nel periodo etrusco, si capisce come oggi sia complicato distinguere le fasi di crescita e sviluppo di Roselle dalla nascita, avvenuta alla fine dell’età del Bronzo, fino all’abbandono, risalente al XII secolo dell’era moderna. Tale continua sovrapposizione di epoche condiziona non soltanto il

In alto: frammento di piede di una coppa di produzione attica sotto il quale è graffita, con scrittura ad andamento sinistrorso, la dedica ad Artemide (artamasal), e la restituzione grafica dell’iscrizione. V sec. a.C. lavoro degli archeologi, ma anche e soprattutto la leggibilità del sito da parte dei visitatori, che incontrano oggettive difficoltà nel capirne la stratificazione e lo sviluppo monumentale. Da qui la necessità di un diverso approccio alla ricerca


e allo scavo, che ha stimolato l’avvio di un nuovo progetto, costruito su criteri di maggiore efficacia in materia di fruibilità dell’area archeologica. Nel 2018 perciò, in un clima di stretta collaborazione consolidato negli anni precedenti, si è giunti alla stesura di un protocollo quinquennale, con il fine di coordinare tutti gli interventi legati all’area archeologica: l’accordo vede, infatti, riunite le principali istituzioni di riferimento facenti capo a Roselle: l’Università di Siena, il Comune di Grosseto con il suo Museo Archeologico e d’Arte della Maremma, la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Siena, Grosseto e Arezzo e il Polo Museale della Toscana. Tale unione di intenti ha generato il programma delle indagini in corso, esito di una concessione di ricerca triennale (2018-2020), in capo al Comune di Grosseto, che

ne ha affidato la direzione scientifica all’Università degli Studi di Siena (Andrea Zifferero). Il programma ha individuato gli obiettivi principali, partendo dalla revisione delle modalità di approccio al sito e punta ad ampliare i percorsi di visita, includendovi i nuovi monumenti, il cui scavo è appena iniziato.

RILETTURA DEI PRIMI INTERVENTI Tra questi, il recupero e l’esplorazione del grande terrazzamento posto sul lato meridionale della Collina Sud, noto come Tempelterrasse (ovvero «terrazza del tempio»), scavato dall’Istituto Archeologico Germanico di Roma nel biennio 1957-1958, sotto la direzione di Rudolf Naumann e Friedrich Hiller. L’intervento portò in luce un’imponente e articolata opera di terrazzamento con muri a secco, i cui riempimenti hanno restituito

Ripresa zenitale dello scavo 2019 alla Tempelterrasse: in basso, il grande muro di terrazzamento sostenuto dai contrafforti a camera quadrangolare; in alto, le grandi cisterne romane in opera cementizia.

quantità consistenti di terrecotte architettoniche di età etrusca, che di solito rivestivano edifici pubblici come i templi, oltre ad abbondante ceramica fine, anche di importazione. Lo scavo, iniziato nel 2018 e tuttora in corso, ha in primo luogo chiarito le modalità di intervento dei due studiosi tedeschi, permettendo di circoscrivere i depositi rimasti in situ: sono cosí state individuate, mappate e riscavate le trincee e gli approfondimenti effettuati al tempo, che hanno risparmiato buona parte dei depositi di sommità, limitandosi a mettere in luce il grande terrazzamento, formato da un muro imponente, a cui si appoggiano contrafforti a cella quadrangolare. La prosecuzione dello scavo del grande muro e dei contrafforti ne ha definito meglio le fasi costruttive, fissandole tra la fine del VI e la seconda metà del V secolo a.C., mentre i materiali rinvenuti nell’unica cella non scavata dai Tedeschi confermano oltre ogni dubbio la presenza di una struttura cultuale in questo settore della città, i cui rivestimenti in terracotta sono stati rinnovati nel corso del tempo e poi sepolti all’interno dei contrafforti. La scoperta piú rilevante è un’iscrizione (risalente al pieno V secolo a.C.), graffita sotto il piede di una coppa di produzione attica, con dedica ad Artames (artamasal = di Artemide). Quelle poche lettere forniscono una prova significativa circa l’esistenza di un tempio alla divinità (corrispondente alla Diana romana), nella sua versione etrusca Artames/Artumes, sulla Collina Sud: del resto, il culto era già stato indiziato dal ritrovamento casuale di un’iscrizione con la medesima modalità di offerta, graffita sotto il piede di una coppa attica a figure rosse, proveniente dal riempimento delle grandi e contigue cisterne romane.

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

SOGNANDO LA SICILIA DEI PARCHI REALIZZANDO UN AUSPICIO DI SEBASTIANO TUSA, L’ISOLA HA INCREMENTATO LA FRUIBILITÀ DEL PROPRIO PATRIMONIO ARCHEOLOGICO E DATO VITA A UN SISTEMA ORGANICO E ARTICOLATO, ILLUSTRATO DALLA GUIDA ALLEGATA A QUESTO NUMERO DI «ARCHEO»

P

er la prima volta, i 14 parchi archeologici della Sicilia – compresi i dieci appena istituiti dalla Regione – sono riuntiti in una guida: Sicilia archeologica. Il sistema dei Parchi, pubblicata dall’Assessorato ai Beni culturali della Regione Siciliana e allegata a questo numero di «Archeo». Come spiega il suo curatore, Giuseppe Parello, Dirigente del Servizio Gestione Parchi e Siti UNESCO della Sicilia e già Direttore del Parco Archeologico di Agrigento, l’opuscolo intende offrire un’informazione unitaria alla Il tempio di Segesta, la cui costruzione fu avviata dagli Elimi intorno al 420 a.C., ma venne interrotta quattro anni piú tardi, probabilmente a causa del conflitto con Selinunte.

nuova rete dei parchi della regione. «La guida – ci dice dunque Parello – nasce dalla necessità di definire un’immagine coordinata dei parchi archeologici siciliani come sistema. Insieme all’opuscolo, non a caso, stiamo elaborando un’applicazione che permette di orientarsi nella visita dei siti, dotata degli stessi layout di impaginazione scelti per la guida cartacea». La nuova rete dei parchi della Sicilia conta parchi «vecchi» e nuovi: a siti universalmente noti, infatti – come la Valle dei Templi di Agrigento, Taormina, Segesta o Selinunte –, si sono aggiunti siti piú piccoli, per un totale di dieci nuovi parchi. Quali sono? «I nuovi parchi appena istituiti sono Gela, Catania e Valle dell’Aci, Isole Eolie, Tindari, Himera, Solunto e

Monte Iato, Kamarina e Cava D’Ispica, Siracusa, Eloro e Villa del Tellaro, Lilibeo, Morgantina e Villa romana del Casale, Leontinoi. Cosí la rete dei parchi archeologici viene a coprire l’intero territorio dell’isola e, cronologicamente, un arco temporale che spazia dalla preistoria fino alla tarda antichità, dando un’immagine diacronica della storia della Sicilia e di tutto il Mediterraneo». Mettere a sistema i parchi della Sicilia era il sogno del compianto archeologo Sebastiano Tusa, già Soprintendente del Mare e poi Assessore ai Beni Culturali della Regione Siciliana, recentemente scomparso. Un progetto nato, peraltro, quasi venti anni fa… «Sí. L’idea del sistema parchi archeologici della Sicilia è di

A COLLOQUIO CON SERGIO ALESSANDRO

Nel segno della sussidiarietà Con l’istituzione dei 14 Parchi archeologici della Sicilia, arriva anche l’autonomia finanziaria: i proventi dei biglietti di ingresso saranno versati nelle casse del parco stesso. Un modo per valorizzare anche i siti minori, come ci spiega Sergio Alessandro, Dirigente generale del Dipartimento regionale Beni Culturali e Identità Siciliana... «I biglietti d’ingresso finanzieranno gli in-

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terventi di manutenzione del sito archeologico in questione. Ma soprattutto, le aree minori godranno di una maggiore attenzione, poiché saranno parte di un sistema satellitare che ha il suo centro nel parco: un nuovo modello in fase di sperimentazione, in cui il parco è il sistema portante della valorizzazione del patrimonio archeologico siciliano». Ma questo basterà a risolvere il problema


Sebastiano Tusa. Era la tematica a cui ha lavorato alacremente come assessore fino al giorno della sua scomparsa. Il tema era già stato disegnato dalla legge regionale 20 del 2000, ma ci sono voluti tutti questi anni e la forza e l’energia di Sebastiano per renderlo attuale e attuabile». Concretamente, come verranno messi in rete i 14 parchi archeologici siciliani? «Questa è la vera scommessa! Intanto, serve una comunicazione unitaria. Occorre quindi proporre un’offerta coordinata di fruizione dei siti, sia ai turisti (con aperture sincronizzate tra i parchi) che ai tour operator, in occasione di eventi come la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, in corso dal 14 al 17 di questo mese a Paestum

(vedi, in questo numero, a p. 8). Infine, serve un’azione condivisa nella gestione. Ma anche la ricerca archeologica deve essere coordinata tra i vari parchi. Vogliamo riproporre in tutti i siti il cosiddetto “modello Agrigento”, già sperimentato nella Valle dei Templi quando sono stato direttore del parco: cioè la diffusione immediata delle indagini e delle scoperte archeologiche, anche grazie alla generalizzazione dell’uso del web-gis e di un sistema di open data che metta in rete i dati e le ricerche in corso in tutti i parchi. Si sono rivelate molto fruttuose, inoltre, per la divulgazione, le pratiche di «archeologia pubblica», con la formula del cantiere aperto ai visitatori, dove insieme allo scavo archeologico c’è spazio per il

dell’abbandono dei siti archeologici minori della Sicilia? «Stiamo lavorando anche a un sistema di sussidiarietà: i parchi con maggiore disponibilità economica potranno venire incontro alle esigenze di quelli piú piccoli. Già Sebastiano Tusa aveva predisposto un apposito disegno di legge». Quali sono le principali difficoltà alla realizzazione del progetto parchi?

«Sicuramente, la sostenibilità economica dei siti piú piccoli, come Gela, Leontinoi o Lilibeo. Rendere economicamente autonomi questi parchi è il vero obiettivo del progetto. E poi ci sono i primi interventi di necessità, dall’installazione delle telecamere di videosorveglianza, ai pannelli esplicativi, alla cartellonistica: anche questa deve essere sempre gestita a livello unitario, con un’unità grafica in primo luogo».

Il teatro di Segesta. Seconda metà del II sec. a.C. Presenta le forme tipiche dell’architettura greca, a differenza della quale, tuttavia, la cavea, che poteva accogliere 4000 spettatori, fu interamente costruita e sostenuta da un muro di contenimento. racconto diretto a turisti e scolaresche». Tutti esperimenti che, negli ultimi anni, hanno dato eccellenti risultati in termini sia di visite che di fatturato. Con un raddoppio delle «entrate», non è vero? «In questi anni, la reputazione del Parco di Agrigento ha compiuto un grande balzo in avanti. Fino a poco tempo fa, nell’immaginario collettivo, l’associazione piú prossima alla Valle dei Templi era quella con le case abusive

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INCONTRO CON NELLO MUSUMECI

Un valore aggiunto

Ha preso forma il sistema dei Parchi archeologici in Sicilia, con la firma da parte del Presidente della Regione Siciliana, Nello Musumeci, dei decreti per l’istituzione degli ultimi parchi: Gela, Catania e Valle dell’Aci, Isole Eolie, Tindari, Himera, Solunto e Monte Iato, Camarina e Cava D’Ispica, Siracusa, Eloro e Villa del Tellaro, Lilibeo. Il piano prevede, inoltre, l’accorpamento di «Morgantina e Villa Romana del Casale» e di «Selinunte, Cave di Cusa e Pantelleria». Ma il progetto viene da lontano... Presidente Musumeci, come nasce l’idea di questa rete dei parchi? E quale ruolo ebbe Sebastiano Tusa, assessore ai Beni Culturali della Sicilia e già Soprintendente del mare? «La Sicilia si dotò nel 2000 di una legge sui Parchi archeologici: un’ottima legge, ma mal applicata. In poco meno di un ventennio erano stati istituiti solamente quattro parchi: Agrigento, Selinunte, Naxos e Segesta. Il mio governo ha voluto dare attuazione completa alla legge, pienamente condivisa dal nostro indimenticabile professor Tusa, mio assessore e amico. Si è concretizzato un passaggio storico per il quale egli ha profuso impegno quotidiano, infaticabile lavoro istituzionale e grande passione civile. Tusa aveva studiato in prima persona, concordandoli con me, alcuni accorpamenti minimi, per impedire che i siti archeologici minori finissero nell’abbandono a causa di esigue entrate dovute al minore afflusso dei visitatori. L’istituzione dei Parchi archeologici – che sono complessivamente 14 – ha come effetto principale che i proventi dei biglietti di ingresso restino nelle casse dei Parchi stessi e quindi con la possibilità di essere impiegati per la conservazione e valorizzazione dei siti archeologici. Risorse quindi che rimangono sui territori, tutti rappresentati nei comitati tecnico-scientifici da parte dei sindaci dei Comuni interessati».

moderne. Adesso è «la grande bellezza». Il parco archeologico è diventato meta ambita per gli eventi dei grandi brand della moda o del mondo dell’informatica, un

Come intende risolvere le criticità di realizzazione del sistema parchi, in particolare quelle relative alla sostenibilità economica dei siti piú piccoli e al reperimento delle risorse utili alle prime necessità di intervento? «Il governo regionale ha richiesto a tutti i nuovi Parchi archeologici un quadro delle esigenze di primo impianto per la realizzazione di interventi strutturali come per esempio la segnaletica, le strade di accesso ai siti, le recinzioni, gli impianti di videosorveglianza, la scerbatura per la pulizia delle aree archeologiche. Inoltre, un disegno di legge, ideato da Sebastiano Tusa, prevede già l’istituzione di un Fondo di solidarietà, in base al quale parte degli introiti dei Parchi maggiori potranno essere utilizzati per il funzionamento di quelli piú giovani che registrano un numero di visite minori». Molti dei parchi appena istituiti non hanno ancora disponibilità economica, quanto – in termini di tempo e di denaro – ci vorrà per garantire questa copertura economica? «L’Assessorato dei Beni Culturali ha creato un nuovo Servizio per il coordinamento dei Parchi archeologici siciliani. Su mia disposizione, l’ufficio ha registrato le esigenze dei nuovi Parchi, stilando una tabella di priorità che stiamo già mettendo in atto». Quali sono le sue aspettative in merito a questo progetto unitario? E quale è il suo obiettivo, in termini di indotto turistico? «La Sicilia si colloca nel mercato turistico internazionale ai primi posti, grazie all’identità di un territorio dove coesistono innumerevoli tracce del passato: è il posto al mondo dove piú ricca è la varietà delle culture che si sono succedute. E il nuovo sistema dei Parchi sarà certamente il valore aggiunto all’offerta turistica di una terra dove culture millenarie hanno lasciato straordinarie testimonianze storico-artistiche e archeologiche».

luogo da valorizzare. E nei sette anni della mia gestione, i visitatori sono passati da 550mila a 940mila l’anno, mentre gli incassi da 3,5 milioni a 7 milioni».

Taormina. Il teatro detto «greco-romano» (anche se l’impianto oggi visibile è del tutto romano). Ampliato in età augustea, arrivò a contenere 10 000 spettatori.

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presenta

NOSTRADAMUS Un profeta senza tempo

Figura a dir poco enigmatica, Michel de Nostre-Dame – che scelse il nome di Nostradamus dopo la laurea in medicina conseguita all’Università di Montpellier – suscitò, già presso i suoi contemporanei, un’attrazione irresistibile. Fu per molti aspetti uno scienziato evoluto, un medico in grado di curare malattie all’epoca inguaribili, un ricercatore dedito allo studio profondo degli elementi naturali. Ma fu inesorabilmente attratto dalla vocazione divinatoria, indulgendo a predire il futuro mediante versi divenuti popolarissimi nonostante la loro indecifrabilità, considerata dai detrattori alla stregua di mera astrusità e dagli esegeti come una misura di prudenza, volta a velare verità spaventose. Fu dunque tra i protagonisti di quel Medioevo trasversale a ogni altra età della storia, che nessun evolversi della società e del costume potrà mai sopprimere, trattandosi di una componente naturale dell’animo umano. Venerato finché visse dalle personalità piú potenti di Francia, con in testa Caterina de’ Medici e gli ultimi sovrani della casa di Valois, Nostradamus venne gratificato nei secoli da una popolarità crescente, che non conosce flessioni. Una parabola straordinaria e avvincente, ora ripercorsa dal nuovo Dossier di «Medioevo».

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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

VALORIZZAZIONE Turchia

INCONTRIAMO I MISTERI DEL PIÚ ANTICO TEMPIO DELLA STORIA, OGGI PATRIMONIO MONDIALE UNESCO

S

i trova in nella Turchia sud-orientale, a circa 18 km dalla citta di Sanliurfa, il grandioso sito archeologico di Göbeklitepe, scavato, a partire dal 1995 fino al 2014 dall’archeologo Klaus Schmidt. La scoperta di quelli che lo stesso studioso tedesco amava definire «i primi templi dell’umanità» rappresenta, di fatto, una sfida ancora aperta alla conoscenza delle prime forme di monumentalizzazione del potere ideologico e religioso dell’umanità. Formati da stele istoriate con immagini di animali, esseri umani e simboli astratti, i circoli furono eretti circa 11 500 anni fa e sono, pertanto, piú antichi di 7000 anni rispetto alle prime piramidi egizie e 6000 anni piú antiche della stessa Stonehenge. Sembra che proprio l’organizzazione sociale necessaria alla costruzione di questo tempio abbia portato alla nascita di un centro abitativo con la conseguente necessità di sviluppare alcune pratiche agricole. Göbeklitepe ha cosí profondamente scosso le vecchie teorie sull’archeologia: mentre precedentemente si pensava che fossero nate prima le

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città e poi i luoghi di culto, ora sembra che proprio la religione sia stata la causa dell’organizzazione di un centro abitativo complesso. Nel luglio del 2018, Göbeklitepe è stato inserito nella Lista del Patrimonio Mondiale, diventando cosí il diciottesimo sito UNESCO della Turchia. Il Comitato del Patrimonio Mondiale ha giustificato cosí questo inserimento: «Questo sito presenta monumentali strutture megalitiche circolari e rettangolari, interpretate come recinti, che furono eretti dai cacciatori-raccoglitori nell’era neolitica – prima dello sviluppo dell’agricoltura – tra il 9600 e l’8200 a.C. È probabile che questi monumenti siano stati usati per rituali di natura probabilmente funeraria. I caratteristici pilastri a forma di T sono scolpiti con immagini di animali selvatici, fornendo informazioni sul modo di vivere e sulle credenze delle popolazioni che vivevano nell’Alta Mesopotamia superiore circa 11 500 anni fa». E a pochi mesi fa risale la musealizzazione del grandioso sito: una serie di impegnativi interventi rendono ora il sito visitabile agevolmente e in tutta sicurezza. Ulteriori informazioni sono disponibili all’indirizzo www. turchia.it Seguiteci su ... : Turchia Ufficio Cultura e Informazioni



n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

L’ELLENISMO COME SPARTIACQUE Nella puntata della serie dedicata ai popoli della 2 3 Bibbia (vedi alle pp. 66-76), Alessandro Locchi richiama molte citazioni che collegano i Greci ai sacri 1 testi partendo, però, da una premessa: in terra di Palestina si diede scarsa attenzione al sorgere delle potenti città-stato elleniche, cosí come in Grecia vennero 4 praticamente ignorate tutte le vicende del popolo di Israele. Il vero spartiacque fu la travolgente azione di Alessandro il Macedone (1), nel 332 a.C., con la conquista della fenicia Tiro (2, marca fiscale), poi 5 di Gaza (3) e con la decisione di Gerusalemme (4) di sottomettersi al giovane condottiero. A quel momento si fanno risalire i primi contatti tra le due culture, come si deduce dall’aneddoto di 6 Alessandro che, entrato a Gerusalemme, si reca al Tempio, ove gli mostrano il libro di Daniele (5, Cappella Sistina), contenente una 7 profezia circa «la distruzione dell’impero persiano a opera del popolo ellenico», il cui condottiero viene identificato col re macedone che ne fu compiaciuto. Iniziò, cosí, un lungo periodo di ellenizzazione della Giudea, fino a Tolomeo I, re d’Egitto, che si chiuse con l’avvento di Antioco III, della dinastia dei Seleucidi che discendeva da Seleuco, il generale macedone che fondò Antiochia, 8 oggi Antakya (6) in Turchia, in onore del padre Antioco. Tornando alla Bibbia, un richiamo indiretto a Eliodoro, quello della «cacciata dal tempio», di cui al noto episodio biblico (7, Raffaello, 9 Stanza di Eliodoro), ha trovato una conferma archeologica con il ritrovamento della stele di Tel Maresha (8) che riporta proprio il suo nome. Quanto alla citazione dei Maccabei, si può documentarne il sacrificio (9, cartolina illustrata, opera di Antonio Cisseri, metà del 1800) in seguito al rifiuto del sacerdote Mattatia di riconoscere gli dèi ellenici, episodio accaduto nel villaggio di Modin (10). Per ricordare alle future generazioni questo 10 11 episodio, furono istituite nel 1932 le Maccabiadi (11), Giochi sportivi riservati ad atleti di religione ebraica che sono la terza manifestazione multisportiva al mondo, dopo le Olimpiadi e le Universiadi. Di rilievo il ruolo di Giuda Maccabeo (12), uno dei figli di Mattatia, che riuscí a espugnare la cittadella 14 13 seleucide, riconquistare Gerusalemme e purificare il 12 Tempio. Per festeggiare l’evento, Giuda indisse una speciale cerimonia, la Chanukkah (13), la festa delle IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italuci, che ancora oggi si celebra in dicembre con l’accensione liano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al progressiva dei lumi di una lampada per otto giorni; alla sua CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi: morte il fratello Simone completò l’uscita definitiva dei Segreteria c/o Alviero Luciano Calenda, Seleucidi dalla terra di Israele. I Maccabei regnarono fino al Batistini C.P. 17037 63 a.C. con l’inizio della dominazione romana della Palestina Via Tavanti, 8 Grottarossa con Pompeo. In questa fase ebbero luogo la completa 50134 Firenze 00189 Roma. distruzione del Tempio e la nascita di una nuova istituzione info@cift.it, lcalenda@yahoo.it; www. oppure cift.it che indica comunità e aggregazione: la sinagoga (14).

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LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca.

TESTATINA BOX

Titolo box

I Romani fecero ricorso all’acqua ad alta pressione per frantumare la roccia e rimuovere i sedimenti per la prima volta in Spagna e nel Galles, nelle miniere aurifere di Dolaucothi, definendo tale sistema, non senza ragione, ruina montium (vedi «Archeo» n. 294, agosto 2009). Essa costituisce ancora oggi una forma di estrazione mineraria, sebbene molti Stati l’abbiano vietata per i permanenti danni ambientali che provoca. Nella Gran Bretagna venne usata in età elisabettiana, nella seconda metà del Cinquecento, per le coltivazioni di piombo, stagno e rame. In età moderna l’energia idraulica venne utilizzata nella metà dell’Ottocento durante la corsa all’oro nelle coltivazioni minerarie in California, presso Nevada City. Verso la metà degli anni Ottanta del XIX secolo, dopo soli 30 anni di impiego, si calcola che l’applicazione dello scavo a getto d’acqua abbia fruttato circa solo 311 850 d’oro, per un a storia dell’impero romano non è fatta dikg conquiste e • TUTTI GLI IMPERATORI valore attuale intorno ai 7,5 miliardi di dollari. L’impiego di questa tecnica condottieri, ma è una vicenda ben piú articolata e ha tuttavia • LEGIONARI AI CONFINI DEL MONDO devastato l’ambiente e l’agricoltura con effetti eancora evidenti dopo complessa. Al di làdella dei California, confini geografici dell’estensione oltre un secolo.dei I milioni di tonnellate di sedimenti prodotti, che la si sono depositatie ala territori che Roma arrivò a controllare, formazione • I GRANDI CONDOTTIERI causa delle escavazioni nel letto dei fiumi,infatti hannoavere modificato l’alveo di scorrimento e vita del suo impero poterono luogo grazie alla • NEI LUOGHI DEL POTERE la portata dai corsi d’acqua, frequenti e gravi inondazioni. Queste costruzione di unaprovocando macchina tuttora amministrativa straordinariamente • L’ORGANIZZAZIONE DELLO STATO coltivazioni ottocentesche hanno dato vita a un nel Parco storico efficiente, in grado di gestire tutti glipaesaggio apparativisibile dello Stato. Come statale di Malakoff Diggins, a Nevada County, non dissimile da quello prodotto dai dunque leggerete nella nuova Monografia di «Archeo», firmata da • BARBARI E CRISTIANI RomaniLivio a LasZerbini, Médulas,le nella comunità di Castiglia e León (Spagna). vicende cheautonoma segnarono l’avvento della prima • UN GIORNO NELL’URBE superpotenza della storia furono sí di natura innanzitutto bellica, ma, dalle armi, la parola passò poi alla fitta rete di funzionari incaricati di garantire l’allineamento di tutte le province via via istituite, fino alle piú lontane. Ed è altrettanto importante ricordare l’accorta politica dei nuovi padroni del mondo, che cercarono Titolo finto dida box E QUANDO sempre di evitare che l’esercizio DOVE del potere, seppur ferreo, si trasformasse in abuso. Un modello a lungo vincente, ma che, Mus inullac eaquam aspellandi logoratosi dall’interno, nulla poté di fronte agliXxxxxx scenari disegnati dicto imus, con repel iur, tempedic Museo Xxxxx dall’entrata in scena delle genti barbariche. tempos andit ulpa est et versper Roma, Largo di Villa Peretti 1 estions erovid essitat ecearum Orario tutti i giorni, 9,00-19,45; volo dus etur? Quibus rehenti chiuso lunedí, il 1° gennaio e il 25 GLI ARGOMENTI ditius doloritamet alis ipsant dicembre facero ipsumet ellest magniet ma • I visite Info e guidate tel. 06 •R OMA CRISTIANI exped qui. • Profilo di una capitale • Dall’aquila alla Croce 39967700;

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CALENDARIO

Italia ROMA Pompei e Santorini L’eternità in un giorno Scuderie del Quirinale fino al 06.01.20

Il leone e la montagna

Scavi italiani in Sudan Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco fino al 19.01.20

L’Arte ritrovata

L’Arma dei Carabinieri per il recupero e la salvaguardia del patrimonio culturale italiano Musei Capitolini fino al 26.01.20

Colori degli Etruschi

Tesori di terracotta presso la Centrale Montemartini Musei Capitolini, Centrale Montemartini fino al 02.02.20

Carthago

FIRENZE Mummie

Viaggio verso l’immortalità Museo Archeologico Nazionale fino al 02.02.20

NAPOLI Sacra Neapolis

Il mito immortale Colosseo-Foro Romano fino al 29.03.20

Culti, miti, leggende Lapis Museum, Basilica della Pietrasanta fino al 15.12.19

AMELIA Germanico Cesare…

PAESTUM Poseidonia

a un passo dall’impero Museo Archeologico e Pinacoteca fino al 31.01.20

Storia e futuro di una città d’acqua Museo Archeologico Nazionale fino al 31.01.20

BOLOGNA La Casa della Vita

Ori e storie intorno all’antico cimitero ebraico di bologna Museo Ebraico fino al 06.01.20

BRINDISI Nel mare dell’intimità

L’archeologia subacquea racconta il Salento Aeroporto del Salento fino al 05.07.20

CLASSE (RAVENNA) Tessere di mare

Dal mosaico antico alla copia moderna Museo Classis Ravenna fino al 06.01.20

ESTE Veleni e magiche pozioni Grandi storie di cure e delitti Museo Nazionale Atestino fino al 02.02.20 34 a r c h e o

SIRACUSA Archimede a Siracusa Experience exhibition Galleria Civica Montevergini fino al 31.12.19


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

TARANTO MitoMania

Storie ritrovate di uomini ed eroi Museo Archeologico Nazionale di Taranto fino al 10.11.19

TORINO Archeologia Invisibile Museo Egizio fino al 06.01.20

Sulle sponde del Tigri

Suggestioni dalle collezioni archeologiche del MAO: Seleucia e Coche MAO Museo d’Arte Orientale fino al 12.01.20

Francia LIONE Ludique

Giocare nell’antichità Lugdunum-Musée et théâtres romains fino al 01.12.19

Germania BERLINO Figure possenti

Ritratti dalla Grecia antica Altes Museum fino al 02.02.20

Paesi Bassi LEIDA Cipro

Un’isola dinamica Rijksmuseum van Oudheden fino al 15.03.20

Regno Unito LONDRA Ispirati dall’Oriente

Come il mondo islamico ha influenzato l’arte occidentale British Museum fino al 26.01.20

Troia

Grecia

Mito e realtà British Museum fino all’08.03.20 (dal 21.11.19)

ATENE Gli infiniti aspetti della bellezza

Svizzera

Museo Nazionale Archeologico fino al 31.12.19

MENDRISIO India antica

Capolavori dal collezionismo svizzero Museo d’Arte Mendrisio fino al 26.01.20

BASILEA Gladiatori

La vera storia Antikenmuseum fino al 22.03.20

USA NEW YORK Acquerelli dell’Acropoli

Émile Gilliéron ad Atene The Metropolitan Museum of Art fino al 03.01.20 a r c h e o 35


MOSTRE • PAESTUM

PAESTUM,

L’ACQUA E IL FUTURO DEL MONDO

Quale sarà il futuro della memoria in un mondo segnato dalle catastrofi ambientali e dai cambiamenti climatici? «Studiando l’archeologia possiamo facilmente capire che l’uomo ha cambiato l’ambiente sin dal Neolitico, che le civiltà possono collassare e che i cambiamenti in corso oggi superano di gran lunga quelli che l’umanità ha affrontato negli ultimi cinquemila anni. Ma sappiamo anche che noi umani abbiamo una straordinaria capacità di adattarci e di reinventarci. E di queste capacità dovremmo fare uso anziché prendercela con una ragazza come Greta Thunberg che dice semplicemente quello che la scienza ha dimostrato». Lo afferma Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco archeologico di Paestum e promotore, insieme a Paul Carter e Adriana Ruspoli, di una mostra allestita al Museo Archeologico Nazionale di Paestum. Apre il percorso un dipinto di fine Ottocento dal titolo Ruderi di un mondo che fu..., in cui si riconoscono le rovine dell’antica Poseidonia invase dall’acqua. Una visione di indubbia suggestione ma con un particolare che, oggi, assume una valenza inquietante: nel quadro, infatti, non vi è traccia di presenza umana… di Gabriel Zuchtriegel 36 a r c h e o


Ruderi di un mondo che fu..., olio su tela di Federico Cortese. 1890 circa. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea.

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el 1891, Federico Cortese (1829-1913), pittore quotato e membro dell’accademia delle belle arti di Bologna, si concede un capriccio: dipinge i templi di Paestum, in forma leggermente rivisitata, inondati dall’acqua. Il dipinto, che porta il titolo Ruderi di un mondo che fu…, si inserisce in una tradizione risalente al primo Ottocento che esalta il paesaggio paludoso che circondava i templi dell’antica Poseidonia, la colonia greca fondata sul golfo di Salerno intorno al 600 a.C. La palude, l’acqua, e infine anche il mare nel quadro di Cortese, sono elementi che nella visione romantica dell’Ottocento distanziano i monumenti sublimi, testimonianze di un passato remoto (un «mondo che fu»), da un presente segnato dalla modernità, dall’industrializzazione e dalla perdita di un rapporto organico e autentico con la terra da parte dei ceti medi ed elevati. Oggi, però, tali visioni assumono una valenza diversa. Dal momento che l’innalzamento del livello del mare a causa dei cambiamenti climatici minaccia

molti siti UNESCO intorno al Mediterraneo, tra cui anche Paestum, il quadro di Cortese appare come una visione apocalittica di un mondo che sta per precipitare: il nostro. Il riscaldamento globale, causato almeno in parte dall’uomo attraverso l’emissione di CO2, comporta lo scioglimento dei poli e dei ghiacciai. Enor mi quantità di ghiaccio si trasformano in acqua, facendo salire il livello dei mari. Sono inoltre in aumento fenomeni di erosione della costa.

UNA MINACCIA ANTICA Tali fenomeni mettono a rischio le rovine dell’antica Paestum, ma anche molti territori lungo le coste del Mediterraneo quale base vitale di uomini, animali e piante. Se la dimensione della minaccia è nuova, la minaccia in sé non lo è. Da millenni gli uomini hanno vissuto e combattuto con l’acqua, o con la carenza dell’acqua, a Paestum e in molti altri luoghi intorno al Mediterraneo. Quando i Greci vennero a Paestum intorno al 600 a.C. a fondare una città, la chiamarono

Poseidonia, da Poseidone, il dio del mare e dell’acqua. L’intestazione di luoghi, città e santuari, a determinate divinità non è mai casuale nel mondo greco. Tutti i luoghi dedicati a Poseidone sono caratterizzati da un paesaggio fortemente segnato dal dominio del dio, che non è solo il mare, ma anche la terra, in quanto nella immaginazione degli antichi essa galleggia sull’Oceano che circonda il mondo. Si spiega cosí il fatto che alcune sorgenti del Peloponneso e dell’Attica sono sacre a Poseidone, il quale è anche lo «scuotitore della terra», ennosigaios, come lo chiama già Omero. Poseidone domina, dunque, sul mare e sulla terra; è il grande dio dell’arcipelago egeo, secondo un’ipotesi corroborata da ritrovamenti risalenti al II millennio a.C. Nel cosiddetto periodo miceneo, infatti, Poseidone era già venerato in Grecia. A Pilo, la città di Nestore, sembra che fosse addirittura il dio principale, insieme alla sua sposa Poseideia, venerata come Poseidonia a Naxos, omonima della città fondata molti secoli dopo sulla costa tirrenica dell’Italia del Sud. Attestato in molteplici varianti (oltre a Poseidon, troviamo Poseideon, Posidaon, Poteidan, Potedan, Posoidan, Pohoidan, Posdan), il nome del dio deriverebbe da una lingua pregreca; nella cultura greca d’epoca storica, il grande signore dell’Egeo sarebbe poi stato «addomesticato» e integrato nel pantheon classico come fratello di Zeus. Importanti santuari del dio sorgevano sui promontori di Tainaron sulla punta meridionale del Peloponneso e di Sounion nell’Attica, sull’isola di Kalauria, sull’Istmo di Corinto e presso l’antica città di Helike nel Peloponneso settentrionale. L’unica a r c h e o 37


MOSTRE • PAESTUM

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strada che porta a Keryneia. E il popolo di Helike, vedendo accadere ciò, era pieno di sgomento, ma non ne riuscivano a capire la ragione. Ma dopo che queste creature se ne furono andate, ci fu un terremoto nella notte; la città sprofondò; un’onda immensa la inondò ed Helike scomparve, mentre tre navi spartane che si trovavano all’ancora furono perdute con la città» (Della natura degli animali, XI 19). Pausania, nella sua Descrizione della Grecia (II secolo d.C.),

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HELIKE, UN MONDO CHE FU Tutti questi luoghi incarnano la doppia natura di Poseidone come dio dell’acqua e della terra, ma anche l’ambivalenza delle forze elementari da lui personificate. Cosí come la terra, quando trema, si trasforma in una forza distruttiva, anche il mare può diventare un pericolo mortale. Nessun altro luogo ne è testimone come la città Helike, sacra a Poseidone. Nel 374 a.C., a seguito di un terremoto, Helike viene sommersa dal mare. L’evento catastrofico – che forse ispirò Platone a inventare il mito di Atlantide, città, appunto, di Poseidone – fu descritto dallo scrittore antico Eliano cosí: «Per cinque giorni prima che Helike scomparisse, tutti i topi, le martore e i serpenti e i centopiedi e gli scarafaggi e ogni altra creatura del genere lasciò in massa la città per la

A destra: il territorio di Poseidonia, con l’area urbana e l’Heraion alla foce del Sele. Nella pagina accanto, in alto: statere di Poseidonia incuso. Seconda metà del VI sec. a.C. Paestum, Museo Archeologico Nazionale. In basso e nella pagina accanto, in basso: due immagini di Metamorfosi, installazione di Alessandra Franco.

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altra città che porta il nome di Poseidone, nella forma Poteidaia, è una colonia fondata da Corinto intorno agli stessi anni in cui nacque Poseidonia/Paestum (600 a.C. circa). È ubicata nell’odierna regione di Macedonia, sull’istmo di una delle «dita» della penisola calcidica. Le sue monete mostrano Poseidone a cavallo con un tridente in mano.

rammenta che il mare inondò anche il bosco sacro di Poseidone, la cui effige adornava le monete della città, in maniera tale che «solo le chiome degli alberi rimasero visibili» e che «le rovine di Helike si possono ancora intravedere, seppure non come prima, poiché l’acqua del mare le ha corrose» (VII 24). Un paesaggio, dunque, che raccontava, attraverso le rovine dell’antica città sacra al dio del mare, un «mondo che fu». Non sappiamo fino a che punto i pittori ottocenteschi erano consapevoli delle varie analogie tra Helike e Poseidonia, ma fatto sta che quando i Greci arrivarono sulla costa tra Agropoli e il Sele, dovettero confrontarsi


con un paesaggio ben diverso da quello odierno. C’era acqua da tutte le parti. Come carotaggi eseguiti nella zona di Porta Marina hanno dimostrato, il mare era piú vicino; arrivava quasi fin sotto il plateau roccioso su cui sorgeva la nuova città. A sud correva il Capodifiume, l’antico Salso, un corso d’acqua ricco di calcare, e perciò malsano. A nord, infine, si estendevano ampie paludi, che i Greci dovettero bonificare per renderle coltivabili. La colonizzazione del territorio da parte dei Greci comportò profondi cam-

biamenti nella conformazione del paesaggio, che era segnato dalla presenza di nuclei insediativi sin dall’età neolitica, ma che fino a quel momento non aveva mai subíto una trasformazione cosí radicale. Non solo il sito della colonia in origine era circondato da un paesaggio acquatico, umido e fluido. Anche la terra si muoveva; Paestum/Poseidonia, infatti, si trova in una zona a elevato rischio sismico. Se i coloni greci insediatisi a Poseidonia non lo sapevano già grazie alle frequentazioni

L’attribuzione a Poseidone/Nettuno del piú grande dei templi dorici è una mera congettura

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MOSTRE • PAESTUM

rizza gli edifici sacri, ma non solo, della città. È come se contro l’ambiente umido, fluido e instabile delle terre tra Sele e Cilento, i Greci avessero voluto erigere una città di pietra destinata a sfidare inondazioni e terremoti. Oltre ai templi, che effettivamente hanno sfidato i secoli, in questo quadro si inseriscono anche le tombe monumentali del periodo tardo-arcaico (520-480 a.C. circa), come quella del Tuffatore. Tombe che in un qualche modo riprendono il simbolismo – piú etrusco-italico che greco – della sepoltura quale «casa dei morti», con decorazioni parietali che richiamano il cosiddetto stile strutturale, ovvero gli schemi di decorazione parietale delle case dei ricchi.

con naviganti euboici che salivano lungo la Costa Tirrenica sin dall’VIII secolo a.C., lo vennero a sapere presto. Lo dimostrano le tecniche costruttive applicate dai Greci di Poseidonia per rendere i templi di VI e V secolo a.C. resistenti alle scosse sismiche. Un saggio stratigrafico eseguito all’angolo sud-ovest del podio del Tempio di Nettuno nel 1952 ha rivelato l’esistenza di un «cuscino» di sabbia, spesso circa 30/40 cm, al di sotto delle fondamenta dell’edificio dorico. Le ricerche portate avanti negli ultimi anni dalle università di Salerno e di Kassel, in Germania, hanno evidenziato come questa tecnica costruttiva fosse integrata con altre misure atte a ridurre il rischio di un crollo nell’eventualità di un terremoto.

UN AMBIENTE FLUIDO E INSTABILE Sin dall’inizio, la vita della colonia era dunque una lotta di sopravvivenza con gli elementi dominati da Poseidone. Da lí l’esigenza di invocare il dio come alleato, dando il suo nome alla colonia. Da lí anche l’estrema monumentalità che caratte40 a r c h e o

Lo sviluppo urbanistico È stato accertato che già al momento della fondazione della città l’area urbana fu divisa in grandi zone funzionali. I primi coloni riservarono un’ampia fascia centrale alla costruzione dei santuari urbani e all’agorà, mentre a ovest sorse un’area residenziale. Poco dopo il 550 a.C., si assiste a un vero e proprio boom edilizio: sorge l’imponente Basilica (quasi certamente un tempio dedicato a Hera); si realizzano grandi strade perpendicolari; e, verso la fine del secolo, è la volta del sacello ipogeico nella zona dell’agorà e del tempio di Cerere nel santuario settentrionale, in realtà attribuibile ad Atena.

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Se solo i ricchi si potevano permettere di vivere in case solide e di farsi seppellire in vere e proprie «case ben costruite dell’Ade», come recita un’iscrizione orfica da Hipponion (Vibo Valentia), l’approvvigionamento e la gestione delle acque era un aspetto della vita che riguardava tutti i ceti sociali. Anzi, erano proprio i poveri e gli schiavi che dove-

1 Basilica 2 Tempio di Nettuno 3 Via Sacra 4 Quartieri di abitazioni 5 Foro 6 Larario 7 Comitium 8 Tempio italico

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vano provvedere allo scavo di canali, cunicoli e pozzi, spesso rischiando la vita. Serve e schiave venivano mandate a portare l’acqua in grandi vasi sulla testa. I dati a nostra disposizione fanno intuire come sin dal VI secolo a.C. la gestione delle acque piovane e di scarico fosse una priorità della giovane colonia, che investiva risorse cospicue in interventi

9 Piscina 10 Anfiteatro 11 Portico meridionale dell’agorà 12 Sacello 13 Ekklesiasterion 14 Tempio di Atena (detto «diCerere») 15 Museo Nazionale

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Gabriel Zuchtriegel con la scrittrice Andrea Marcolongo in visita nel Tempio di Nettuno.

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volti a bonificare e regolare sia il paesaggio urbano sia quello rurale, la chora, come la chiamavano i Greci. Nell’uso, nella gestione e nell’accesso all’acqua si riflette la struttura sociale di una comunità. In epoca greca e fino al I secolo a.C., l’approvvigionamento dell’acqua avveniva attraverso pozzi scavati nel plateau roccioso della città. Lo scavo di uno di questi pozzi, profondo piú di 11 m, illustra quanto fosse faticoso e pericoloso fornirsi dell’acqua. Gli antichi dovettero perforare la roccia per una profondità di 10 m circa– ovviamente senza le misure di sicurezza che oggi sono indispensabili per eseguire un lavoro del genere. Chi non se lo poteva permettere, doveva rifornirsi ai pozzi pubblici. In epoca romana, che inizia con la deduzione di una colonia latina a Poseidonia nel 273 a.C. e con il cambio del nome in Paestum, il divario tra ricchi e poveri nell’accesso all’acqua diventa ancora piú palese. Quando nel I secolo a.C. si costruisce un acquedotto che fornisce la città d’acqua proveniente dal Monte Fiesole nell’entroterra, gli antichi pozzi man mano vanno fuori uso. Il pozzo scavato nel 2019 nell’isolato S 2/4 a ovest del Tempio di Nettuno, per esempio, durante il I secolo d.C. viene trasformato in una discarica e riempito d’immondizia.

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MOSTRE • PAESTUM

Il percorso delle mura Fin dalla sua fondazione, Paestum fu protetta da una poderosa cinta muraria del perimetro di 5 km circa, realizzata con blocchi di grandi dimensioni, ricavati dall’immenso banco di travertino che si estende nei pressi dell’area scelta per

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l’insediamento. Le mura oggi visibili sono in gran parte di epoca ellenistica e romana. Lo sviluppo della cinta è facilmente distinguibile nella foto aerea a centro pagina, di cui si propone (qui sopra) una rielaborazione grafica, con l’indicazione dei quartieri della città. Nelle foto (dall’alto, in senso orario): il settore occidentale delle mura di Paestum; un torrione difensivo in corrispondenza dell’angolo; la porta orientale, detta Porta Sirena; un tratto sud-orientale delle mura, con una torre sullo sfondo; la porta occidentale, detta Porta Marina.

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1 Porta Marina 2 Porta Aurea 3 Porta Sirena 4 Porta Giustizia 5 Quartieri di abitazione 6 Santuario meridionale 7 Foro 8 Agorà 9 Santuario settentrionale


stum viene lentamente abbandonata e la popolazione si ritira sulle colline dove nasce l’abitato di Capaccio (da Caputaquis, «sopra le acque»), sono i piú poveri che restano indietro. Nella palude malarica, che si ricrea una volta interrotta la manutenzione del sistema di canali e cunicoli, e dove pascolano le greggi, gli abitanti della piana devono bere l’acqua malsana del Capodifiume e di altri corsi d’acqua. Risorsa indispensabile per la sopravvivenza, l’acqua ha anche un forte valore religioso e rituale. La sacralità dell’acqua quale caratteristica di tutte le civiltà antiche sopravvive persino nel cristianesimo. L’acqua santa presso le porte di molte chiese in Italia e altrove ricorda i louteria (lavabi) che erano posizionati all’ingresso dei santuari greci. Servivano per le lavande rituali prima di entrare nel temenos, lo spazio sacro.

I ricchi potevano farsi arrivare una diramazione dell’acquedotto attraverso un tubo di piombo direttamente in casa. Lí, usavano l’acqua come acqua potabile, per la cucina e per lavarsi, ma anche per alimentare lussuose terme private e piscine. I meno abbienti, invece, dovevano recarsi a una delle undici fontane pubbliche gestite da un collegio di due magistrati, i duo vires, e poste lungo le assi viarie principali dell’abitato. E ancora, quando a partire dal VIII secolo d.C., la città di Pae-

DOV’È IL VERO «TEMPIO DI NETTUNO»? Se la conformazione del paesaggio naturale e il rapporto dei coloni greci con l’elemento umido caratterizzano dunque la città nel suo complesso come un luogo al quale il nome di Poseidone ben si addice, resta da chiedersi dove il culto specificatamente dedicato al dio trovava spazio in tutto questo contesto. Nel centro urbano, incluso il cosiddetto «Tempio di Nettuno», non ce ne sono tracce. L’ascrizione del piú grande e meglio conservato dei tre templi dorici di Paestum a Poseidone (Nettuno in latino) è una mera congettura settecentesca priva di fondamento. Sulla base di fonti scritte e ritrovamenti archeologici possiamo ipotizzare che il vero tempio di Poseidone si trovava sul promontorio di Agropoli, sotto il castello medievale (vedi pianta a p. 38). Sulla rocca ai cui piedi è ubicato un ottimo porto naturale (tuttora in uso), con ogni probabilità sorgeva una fortezza quale primo stanziamento dei Grea r c h e o 43


MOSTRE • PAESTUM

ci, prima ancora che fondassero la città di Poseidonia. Il primo stanziamento greco sul promontorio di Agropoli, con il suo porto naturale, posto all’estremità meridionale del territorio della futura colonia di Poseidonia, ospitava dunque il tempio del dio che diede il nome alla città. Sull’estremità settentrionale, presso la foce del fiume Sele che fece da linea di confine tra il territorio di Poseidonia e quello del grande centro etrusco-campano di Pontecagnano, troviamo invece un altro culto principale della città, quello di Hera Argiva. Fondato sul posto di un villaggio indigeno presso la foce del fiume – che probabilmente già nei secoli VIII e VII a.C. serviva come approdo ai naviganti euboici che salivano lungo la costa verso Ischia e Cuma – il santuario di Hera veniva fatto risalire a tempi remotissimi. Secondo la leggenda fu Giasone che, alla guida degli Argonauti e tornando dalla lontana Colchide sul Mar Nero in compagnia di Medea, fondò il santuario.

centralità del culto di Athena nel erano appesi scudi e altre armi voticentro urbano, che emerge dalle piú ve. Verso la fine del VI secolo a.C., recenti indagini stratigrafiche e dallo un incendio lo distrugge, e viene studio degli oggetti votivi conserva- eretto il tempio periptero ancora ti nel Museo Archeologico Nazio- oggi visibile (detto «di Cerere», n.d.r.). Un dato sorprendente consinale di Paestum. Il piú antico tempio nel centro ur- ste nel fatto che la collina sulla quabano noto finora è il cosiddetto le sorge il tempio di Athena sembra oikos nel santuario di Athena, atte- in parte essere artificiale, come se si stato da un tetto in terracotta ricca- fosse voluta accentuare la posizione mente decorato e databile agli anni dominante della dea, quasi fosse una 580/70 a.C. Le ricerche di Fausto piccola acropoli. Longo e Carlo Rescigno suggeri- A tal proposito, va ricordato che DIVINITÀ DELL’ACAIA Gli scavi archeologici eseguiti sin scono che si trattasse di un edificio anche in molte città della madrepadagli anni Trenta del secolo scorso piuttosto grande, sulle cui pareti tria, come Atene e Sparta, Athena hanno dimostrato che sin dal momento della fondazione di Poseidonia (600 a.C. circa), o poco dopo, il santuario di Hera era già attivo. Troviamo dunque due grandi divinità dell’Acaia – terra d’origine dei coloni di Sibari in Calabria, la quale a sua volta è la madrepatria di Poseidonia – ai due punti estremi del territorio della nuova città. E il centro urbano? Si ipotizza che nel santuario meridionale fossero presenti i culti di Hera, forse insieme a Zeus, e di Apollo, anche se non sappiamo quale delle divinità fosse venerata in quale dei due grandi templi («Basilica» e «Tempio di Net- Una materia prima ideale tuno»). Hera e Apollo rivestono un Campione di una delle varietà di travertino impiegate per la costruzione dei posto di rilievo in quasi tutte le co- templi pestani. Tagliata in grandi blocchi, la pietra, sempre considerata un lonie d’occidente, specie quelle materiale formidabile per l’edilizia, proviene da differenti banchi di roccia achee come Metaponto e Crotone. che occupano la piana di Paestum. Quello che invece sorprende è la 44 a r c h e o


«abitava» sull’acropoli, in una posizione dominante rispetto allo spazio urbano. Al di là della collinetta coronata dal tempio di Athena si estende poi un’altra area aperta, mai edificata, che occupa tutto lo spazio tra il santuario e le fortificazioni settentrionali. Aree libere di questo genere di solito si trovano in prossimità di santuari importanti, dove servivano per grandi feste e processioni e per raduni religiosi e militari. La centralità del tempio di Athena che emerge da queste osservazioni è comprensibile se consideriamo che anche in altre città, prima di tutte Atene, esisteva un forte legame tra Athena e Poseidone. Se la funzione portuale di Agropoli da un lato e della foce del Sele dall’altro è attestata dalla documentazione archeologica e dalle fonti scritte, meno chiaro è il rapporto del centro urbano con il mare. Che la città comunicasse con il mare è Nella pagina accanto, in alto: vasi miniaturistici, dall’Heraion alla foce del Sele. Seconda metà del VI-inizi del IV sec. a.C. Paestum, Museo Archeologico Nazionale.

accertato dal fatto che una delle quattro porte pr incipali dell’insediamento, detta «Porta Marina», si apre verso la spiaggia, che in antico doveva essere piú vicina, come accennato sopra. Una serie di ricerche condotte di recente attraverso carotaggi e analisi del sottosuolo suggeriscono però che tra la porta e il mare aperto esistevano una o piú lagune, che comunicavano con il mare e che pertanto potevano servire come porto dell’abitato urbano.

IL MISTERO DEI TRE PORTI A questo punto, viene da domandarsi perché la città avesse ben tre attracchi: Agropoli, Porta Marina e Foce Sele. La risposta sta nel fatto che le vie d’acqua evidentemente non servivano soltanto per mettere in rete il territorio con il Mediterraneo, ma anche per il traffico interno. Poseidonia era una città d’acqua anche per quanto

riguarda le vie di comunicazione. Le enormi quantità di legno che servivano per la costruzione di templi e case, per le fornaci ceramiche e per i cantieri navali potevano essere reperite nelle montagne boscose dell’entroterra, trasportate sul Sele e poi trasferite lungo la costa fino agli scali di Porta Marina e Agropoli. Anche i blocchi di arenaria che servivano per realizzare il fregio del piú antico tempio di Hera sul Sele nonché una parte dell’epistilio dei templi di Athena e «Basilica» nel centro urbano, potevano essere trasferiti via mare ai rispettivi cantieri. La connettività garantita dal sistema portuale e dai fiumi che attraversano il territorio veniva meno forse già nell’epoca imperiale (I-IV secolo d.C.), ma sicuramente nel Medioevo. È vero che il porto di Agropoli continuava a funzionare. Negli anni dal 882 al 915 d.C. il sito fu occupato dai In questa pagina: il tempio detto «di Cerere», nel santuario settentrionale. 510-500 a.C. Si tratta, in realtà, di un Athenaion, cioè di un edificio destinato al culto della dea Atena.

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MOSTRE • PAESTUM

Ottocento. Goethe, nel suo Viaggio in Italia (sotto la data del 27 marzo 1787), descrive cosí il suo approccio alla città di Poseidone: «Di buon mattino ci avviammo a traverso di una regione incolta e paludosa, verso due monti di forme bellissime, e giunti a un torrente, vi potemmo scorgere buffali dall’aspetto selvaggio, cogli occhi infuocati. La contrada sempre piana, diventava ognora piú deserta, e la poca frequenza di abitazioni, spiegava come fosse per la massima parte incolta. Finalmente, incerti di sapere se camminavano fra rocce ovvero fra rovine, potemmo scorgere distintamente alcune moli grandiose, di In alto e in basso: particolari forma quadrata, che ci erano apparse di dell’allestimento della mostra. già in distanza, e che riconoscemmo esSaraceni proprio in virtú della sua sere rovine di templi, di monumenti, di posizione strategica determinata città, un tempo splendidissime». dalla rocca e dal porto. Ma le lagune a Porta Marina erano ormai insabFRA PANTANI FANGOSI biate, mentre la piana del Sele si Un’impressione simile la ebbe, nel stava ritrasformando in una palude. 1844, il duca di Rivas don Angel de Nei secoli VIII-IX d.C., il centro Saavedra, Ambasciatore spagnolo a abitato dell’antica Poseidonia veniva Napoli. Una volta superato il Sele lentamente abbandonato. Il Capo- «con una pessima e pericolosa barca», si difiume, ormai fuori controllo, spes- attraversava una «campagna vasta ed so esondava, fino al punto da cam- eguale, coperta di giunchi e canneti, che biare il suo percorso che irrompeva crescono fra pantani fangosi, dove, come nell’antica città di Paestum. In vari per dare un aspetto piú tetro e selvaggio punti si possono ancora vedere le al paese, pascolano un gran numero di potenti concrezioni di travertino bufali coi loro piccoli». In mezzo a quecreatesi in seguito. sto paesaggio malsano e malarico, i A causa della mancata manutenzio- cui abitanti sono descritti da de ne del sistema di canali e vie d’ac- Saavedra come «pallidi, gonfi, contrafqua creato dai Greci, la zona di fatti, vittime infine della insalubrità del Poseidonia/Paestum si trasformava territorio», ecco la «insigne città» che sempre di piú in quel luogo isolato «ebbe il nome di Posidonia»: «Accolse gli e inospitale che accoglieva i viag- argonauti e ricevette nel suo porto Ulisgiatori del Grand Tour tra Sette e se; fu occupata dai Sibariti e dai Lucani,

si sottomise, già ormai in decadenza, alla Repubblica Romana, sotto la cui potestà finí di perdere la sua importanza e i resti della sua grandezza, e in ultimo fu saccheggiata e incendiata dai Saraceni. Nell’abbandonarla la fortuna, la abbandonò pure il mare, giacché consta che fu un buon porto, e oggi la si vede piú di due miglia dentro terra». Quando Federico Cortese dipinse i templi di Paestum inondati dal mare, probabilmente non era a conoscenza di tutti questi legami mitologici, storici, geologici, paesaggistici tra il sito e l’acqua. Ma la sua fu comunque un’intuizione geniale, in grado di trasmettere l’ambivalenza del rapporto tra il sito e l’acqua. Un’ambivalenza che oggi è palese come non mai. Cosí come Poseidone, una volta offeso, non si placa facilmente – ne sa qualcosa Ulisse il quale, avendo provocato l’ira del dio, per dieci anni doveva lottare –, il mare, riempito di plastica e riscaldato a causa dei cambiamenti climatici provocati dall’uomo, si può trasformare da una sorgente di ricchezza, di scambi e di benessere in una forza distruttiva. Visto cosí, la storia di Poseidonia come storia del rapporto tra gli uomini e l’acqua, il mare e l’ambiente, non è ancora finita. Il testo dell’articolo è tratto dal catalogo della mostra e compare per gentile concessione del suo autore e delle Edizioni Pandemos. DOVE E QUANDO «Poseidonia città d’acqua. Archeologia e cambiamenti climatici» fino al 31 gennaio 2020 Capaccio Paestum, Museo Archeologico Nazionale di Paestum Orario tutti i giorni (escluso il lunedí), 8,30-19,30 Info tel. 0828 811023; http://poseidonia-citta-dacqua.eu/

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MOSTRE • CARTAGINE E ROMA

QUASI AMICHE testi di Martina Almonte, Francesca Guarneri, Paolo Xella, Federica Rinaldi, Alfonsina Russo e José Ángel Zamora Lopez

C

on la mostra «Carthago. Il mito immortale», il Parco archeologico del Colosseo vuole presentare ancora una volta aspetti importanti della storia antica del Mediterraneo e dell’incontro tra le diverse culture insediate lungo le sue rive. In questo caso l’incontro/scontro è tra due civiltà, quella romana e quella punica, tra Roma e Cartagine, città che hanno avuto un ruolo decisivo nelle dinamiche culturali e politiche del mare nostrum. Nell’analizzare i rapporti tra queste due città, la storiografia moderna si è da sempre concentrata sulle vicende delle guerre puniche e sulla figura emblematica di Annibale, ma la ricerca archeologica mette in luce relazioni molto piú articolate tra le due metropoli, caratterizzate anche da momenti di dialogo e da relazioni commerciali di particolare rilievo. Oltre ai numerosi reperti giunti dai principali musei italiani e internazionali (Spagna, Malta, Libano, Germania), l’esposizione presenta testimonianze provenienti dalla Tunisia (Museo di Cartagine) e, in particolare, dal Museo del Bardo di Tunisi, e intende anche contribuire a rilanciare l’immagine, a livello interna-

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zionale, di quella istituzione, colpita al cuore dall’attacco terroristico compiuto il 18 marzo 2015, durante il quale morirono ventiquattro persone, tra cui quattro turisti italiani: una testimonianza di grande rispetto per uno tra i musei archeologici piú importanti di tutto il bacino del Mediterraneo. Non è un caso che, nel momento in cui si voglia attentare alla vita politica e civile di una comunità, i musei e i monumenti siano considerati obiettivi prioritari, ma dalla cultura si può e si deve ripartire per riaffermare l’identità e la coesione sociale di una nazione, per costruire una rete di solidarietà internazionale, estremamente efficace per evitare l’isolamento di un popolo. La mostra «Carthago. Il mito immortale» ha anche questa finalità, forse la principale. Non a caso, in collaborazione con il Ministero della cultura della Repubblica di Tunisia, saranno organizzate, nell’ambito della rassegna «I martedí di Carthago», manifestazioni volte a far conoscere espressioni e testimoni importanti della cultura di questa nazione e a riaffermare e consolidare la vicinanza e l’amicizia tra l’Italia e la Tunisia. Alfonsina Russo


I

l nome di Cartagine evoca ancora oggi una civiltà esotica e inquietante, un nemico temibile, un’alterità radicale: una visione che la modernità ha ereditato dalla tradizione classica. In effetti, sono stati soprattutto gli autori latini a informarci sulla civiltà cartaginese, a raccontarne la storia come parte della propria, trasmettendoci la loro visione: di fatto, noi vediamo Cartagine con gli occhi di Roma. Una prospettiva non sempre solo negativa, ma molto condizionata da una rivalità andata via via crescendo. La ricerca scientifica è però intervenuta, con un paziente lavoro storico e archeologico ed è riuscita a restituire voce autonoma alla cultura di Cartagine. Il titolo scelto per la mostra, «Carthago» (resa latina del nome punico della città), evidenzia la centralità di Cartagine, ma, al contempo, sottolinea l’importanza della dialettica con Roma. La stessa Roma, sede dell’esposizione, è chiamata a raccontare Cartagine in modo diverso, in un grande affresco storico generale, con varie possibilità di fruizione. Il discorso parte dalle radici fenicie di Cartagine nel Levante, ripercorre le fasi formative e di espansione e giunge ai definitivi scontri con Roma, che segnano la sua distruzione, ricostruzione e integrazione definitiva nel mondo romano e poi cristiano. La presentazione si chiude sulla visione di Cartagine nell’immaginario moderno e contemporaneo. Si sottolinea cosí la traccia incancellabile lasciata da una civiltà restituita scientificamente dalla ricerca, ma tuttora prigioniera di cliché creati da altri. Per ogni fase storica, si offrono chiavi di lettura che consentono al visitatore una riflessione su fenomeni moderni in qualche modo comparabili. Viviamo un’epoca in cui sono ineludibili le questioni della convivenza tra genti in cre-

Nella pagina accanto: tessera ospitale a forma di felino con iscrizione etrusca, dal Foro Boario, area sacra di S. Omobono (Roma). Copia di età moderna di un originale della metà del VI sec. a.C. Roma, Musei Capitolini.

In alto: ossuario in pietra calcarea con figura maschile, dalla necropoli di Santa Monica a Cartagine, esposto nella sezione della mostra allestita nel Colosseo. IV-III sec. a.C. Cartagine, Museo Nazionale. a r c h e o 51


MOSTRE • CARTAGINE E ROMA

scente mobilità, della necessità d’integrazione socio-culturale tra popoli di tradizioni e lingue diverse, dell’accoglienza dell’altro senza strumentalizzazioni o pregiudizi: una rievocazione storica documentata dell’esperienza feniciopunica nel Mediterraneo, che ha lasciato tracce profonde fino ai nostri giorni risulta, dunque, di straordinaria attualità.

LA SEZIONE AL COLOSSEO Cartagine venne fondata dai Fenici, popolo della costa orientale del Mediterraneo conosciuto soprattutto nel I millennio a.C. (con un nome dato loro dai Greci) quando, partendo dalla madrepatria (piú o meno coincidente con l’odierno Libano) avviarono la propria espansione nel Mediterraneo. Mai uniti in un’unica realtà politica, i Fenici d’Oriente si organizzarono in città-stato, capitali di picCorazza con decorazioni geometriche, vegetali e figurative (volto di dea guerriera), da Ksour es-Saaf. III-II sec. a.C. Tunisi, Museo del Bardo.

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coli regni: Arwad, Biblo, Sidone, Tiro (con un ruolo di spicco nell’espansione: è, infatti, la «madre di Cartagine»). A favorire le imprese mercantili furono la particolare ubicazione lungo la costa, che incoraggia i collegamenti via mare, e la presenza di botteghe specializzate nella lavorazione di prodotti di lusso, che conquistarono i mercati internazionali. L’interesse per i metalli, reperiti nei principali luoghi di estrazione, diffuse tecnologie avanzate, modificò l’organizzazione dei trasporti, creò nuove reti commerciali. Nel Mediterraneo, i Fenici giocarono un ruolo di primo piano nei rapporti economici, sociali e culturali. Sino alla fine del IX secolo a.C. cercarono nuove reti commerciali accanto ad altre genti levantine, cipriote ed egee; tra la fine del IX e gli inizi dell’VIII secolo a.C. diedero vita a un’espansione che assunse il carattere di una presenza

diffusa, con insediamenti in molte aree del Mediterraneo centro-occidentale (Malta, Sicilia, Nord Africa, Sardegna e Penisola Iberica). Agli obiettivi commerciali si aggiunse quindi la necessità di garantire alle nuove fondazioni sicurezza e approvvigionamento. Una nuova ondata colonizzatrice ebbe luogo nel VII secolo a.C., quando il dominio assiro sconvolse le dinamiche politiche e commerciali, prima in Oriente e poi in tutto il Mediterraneo. Con l’affermarsi di Cartagine, la città intervenne direttamente in queste reti e nello sviluppo di nuovi circuiti. Cartagine divenne la piú importante delle colonie fondate in Occidente dai Fenici. In origine, essa non aveva un ruolo prioritario; in seguito, grazie alla posizione geografica favorevole rispetto alle principali rotte marittime e a un entroterra ampio e fertile, Cartagine si sviluppò urbanisticamente e


A sinistra: collana con vaghi e pendenti, da Cartagine. VII-VI sec. a.C. Cartagine, Museo Nazionale. In alto: collana con vaghi e amuleti. Provenienza sconosciuta, età punica. Cartagine, Museo Nazionale.

crebbe prima commercialmente e disponibili. I circa sette secoli dell’epoi in termini di dominio cultura- sistenza di Cartagine – dalla fondazione, verso la fine del IX secolo le, politico e militare. a.C., alla distruzione, nel 146 a.C. – sono noti soprattutto per le vicenFONDAZIONE E STORIA Per molti autori antichi, la nascita di de militari, ma l’archeologia ha moCartagine (in fenicio Qrthdšt, la strato l’importanza della città nei «Città Nuova») è legata a Elissa/ fenomeni di espansione, commercio Didone (vedi box in questa pagina), e interrelazione culturale. che l’avrebbe fondata dopo una lunga fuga da Tiro. Sempre dal mito UNA GRANDE POTENZA di Didone deriva la spiegazione, in Il progressivo controllo del Nord chiave greca, del nome del vecchio Africa, di aree in Sicilia e Sardegna, nucleo della città, byrsa («pelle di i contatti e gli insediamenti nelle bue» in greco).Tradizioni minorita- principali zone del Mediterraneo, la rie parlano di una fondazione da vittoria navale di Cartagine, alleata parte dei tirii Azoros e Carchedon degli Etruschi, ad Alalía (Corsica) (eponimi di Tiro e Cartagine). sui Focei, sanciscono il suo ruolo di Queste ultime tradizioni collocano grande potenza, nonostante le alterla fondazione di Cartagine prima ne vicende con i Greci di Sicilia. della guerra di Troia (nel II millen- Cartagine stabilisce importanti relanio a.C.), mentre quelle piú diffuse zioni con i popoli dell’Italia mediola datano all’ultimo quarto del IX tirrenica. Oltre alla coalizione punisecolo a.C.: una data piú recente di co-etrusca contro i Focei (suggellaaltre fondazioni fenicie (Lixus, Ca- ta nel santuario di Pyrgi, il porto di dice, Utica) e piú compatibile con Caere/Cerveteri, con lamine d’oro le testimonianze archeologiche oggi iscritte nelle due lingue), decisivi

saranno i rapporti con Roma. Dopo vari trattati nati da volontà di pacifica coesistenza (509, 348, 338 e forse 306 a.C.), scoppiano le guerre puniche, che saranno fatali per Car tag ine. La pr ima guerra punica (264-241 a.C.) comporta la perdita di Sicilia e Sardegna. Per compensare tali perdite, la famiglia Barca, tra le piú in vista, promuove il dominio cartaginese su vasti territori della Penisola Iberica. Della seconda guerra punica (218-201 a.C.) è protagonista Annibale Barca, che da lí progetta una guerra lampo in Italia. Roma, con risorse militari molto superiori, resiste e, abbattuto il dominio punico in Iberia, P. Cornelio Scipione l’Africano porta la guerra in Africa e ottiene la vittoria a Zama. La successiva ripresa di Cartagine spaventa Roma. Quando i

REGINA FONDATRICE Didone/Elissa, leggendaria fondatrice di Cartagine, è nota per l’infelice amore per Enea, narrato da Virgilio. Nelle versioni piú antiche, Didone, sorella del re di Tiro, sposa lo zio, ucciso poi dal re, e fugge, prima a Cipro e poi in Africa. Lí ottiene dai locali tanta terra quanta avrebbe potuto coprirne con una pelle di bue; fa quindi tagliare la pelle a striscioline per recingere un’ampia area. Un re indigeno pretende poi di averla in moglie, minacciando altrimenti guerra; Didone indugia, ma alla fine si suicida su una pira. Alcuni tratti della vicenda riflettono una rilettura classica; altri, come la morte nel fuoco e il rifiuto delle nozze con individui estranei alla propria comunità, potrebbero risalire all’ideologia cartaginese.

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MOSTRE • CARTAGINE E ROMA

Cartaginesi rifiutano di abbandonare la città e rifondarla nell’entroterra, scoppia una nuova guerra. Dopo due anni di assedio, P. Cornelio Scipione Emiliano, nel 146 a.C., espugna e distrugge la città. Cultura e lingua però resisteranno fino al V secolo d.C.

LA BATTAGLIA DELLE EGADI Durante la prima guerra punica (264-241 a.C.) Cartagine detiene quasi sempre la superiorità sul mare. Nell’ultima fase del conflitto, dopo forti perdite, le principali famiglie romane devono finanziare privatamente 200 navi, inviate poi, al comando di C. Lutazio Catulo, per assediare le piazzeforti cartaginesi nella Sicilia occidentale. I Cartaginesi allestiscono in fretta una flotta per

LA CITTÀ Cartagine è situata su una penisola, con una collina difendibile (Byrsa, sulle cui pendici si trovano i resti abitativi piú antichi), un entroterra coltivabile (Megara) e due buoni punti di or meggio, a nord (dove in epoca tarda sono stati costruiti due famosi porti) e a sud (nel Lago di Tunisi). Già nel VII secolo a.C. la superficie abitata è di circa 25 ettari, protetta da mura che si moltiplicano con la crescita della città. Una prima espansione segue i contorni di Byrsa, poi si sviluppa il «Quartiere di Magone» parallelamente alla costa e, verso il 200 a.C., si forma, a ventaglio, il «Quartiere di Annibale».Varie necropoli circondano la città e sobborghi semi-rurali sorgono a Megara. Nel II secolo a.C. la popolazione di Cartagine rag- dell’oligarchia. Sue prerogative giunge e probabilmente supe- sono: la convocazione dell’Asra i 500 000 abitanti. semblea del popolo (un collegio di magistrati con poteri civili e/o militari), la presentaPOLITICA, zione degli affari da discutere, ECONOMIA E SOCIETÀ Nonostante le tradizioni su Di- la facoltà di giudicare e nomidone, Cartagine probabilmente nare i comandanti militari. Il non fu mai una monarchia, ma territorio è suddiviso in distretuno Stato oligarchico, retto da ti amministrativi e nella società due magistrati annuali, i Sufeti, vi sono cittadini liberi, semilie da due assemblee: il Senato e beri e schiavi. la Corte dei 100. Quest’ultima Il Mediterraneo occidentale teè un organo di alta giustizia e stimonia, fino alla conquista di controllo dei comandanti romana, la continuità delle immilitari, ma tende ad assumere portazioni fenicie, greche ed un ruolo piú politico, discipli- etrusche, frutto di una ricca nare e giudiziario. Il sufetato è rete commerciale e di relazioni la suprema carica, appannaggio politiche. Parallelamente, con 54 a r c h e o

portare rifornimenti alle loro forze. Il 10 marzo del 241 a.C., quando attraversa le Egadi appesantita da approvvigionamenti, la flotta è sorpresa da quella romana, pronta per il combattimento e in posizione di vantaggio. La pesante sconfitta cartaginese pone fine alla guerra. Testimonianze della battaglia (rostri, elmi) sono state ritrovate recentemente sui fondali circostanti l’isola di Levanzo.

la crescita dell’influenza cartaginese, le produzioni iniziano a essere esportate, soprattutto a partire dal IV secolo a.C. L’artigianato punico si diffonde in un’area ampia (Nord Africa, Malta, Sardegna, Sicilia, Ibiza): conserva caratteristiche dell’artigianato del Levante, ma sviluppa temi e tipologie proprie. I forti legami tra le città del Mediterraneo occidentale, spesso in funzione anti-greca e romana, fanno sí che le caratteristiche dell’artigianato cartaginese si ritrovino nelle colonie puniche: si percepisce la realizzazione di un linguaggio di base unitario.


CULTI E RITI Cartagine mantiene culti e riti della madrepatria, ma con forme a volte caratteristiche. Le offerte agli dèi sono varie e regolate nelle «Tariffe sacrificali». Gli animali immolati sono volatili, bovini e soprattutto ovicaprini. Sono attestate diverse cariche sacerdotali, maschili e femminili, anche di specialisti come l’«Addetto al sacrificio» o il «Resuscitatore del dio (Melqart)». Esiste anche un’associazione cultuale detta Marzeah, che istituisce banchetti e libagioni in onore di varie divinità. Tra le divinità venerate a Cartagine emergono Melqart e la coppia Baal Hammon/Tinnit. Melqart è il fondatore-civilizzatore divino, che accompagna l’espansione mediterranea. Baal Hammon e Tinnit, detta

In alto: ricostruzione grafica del porto di Cartagine e dell’area del tofet. L’assetto generale è quello che dobbiamo immaginare nel 150 a.C. Nella pagina accanto: alcuni dei rostri rinvenuti nelle acque dell’isola di

Levanzo e appartenuti a navi che si scontrarono nella battaglia delle Egadi, combattuta nel 241 a.C. In basso: un altro particolare dell’allestimento della sezione della mostra ospitata nel Colosseo.


MOSTRE • CARTAGINE E ROMA

«Volto di Baal», sono i divini progenitori legati al tofet, a cui i devoti si rivolgono in momenti critici. Baal Hammon ha prerogative che spaziano dalla fertilità umana alla fecondità della natura. La sua importanza è confermata dalla popolarità del culto di Saturno, dio con cui è identificato dai Romani, dopo la distruzione di Cartagine, quando Tinnit viene a sua volta identificata con Giunone Celeste. Molte altre divinità sono veneSarcofago detto «della sacerdotessa alata», da Cartagine, necropoli di Santa Monica. IV-III sec. a.C. Cartagine, Museo Nazionale.

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rate, ognuna con proprie caratteristiche e templi: l’uranico Baal Shamem, Eshmun il guaritore, la grande dea Astarte, e ancora Sid, Baal Safon, Reshef, Shadrafa, Sakon, oltre a divinità greche (Demetra e Core) e egiziane (Iside, Horus, Bastet e Bes). Presso alcuni importanti centri punici del Mediterraneo (Nord Africa, Sicilia e Sardegna) si trovano santuari definiti con il termine ebraico tofet: aree a cielo aperto, sedi di riti testimoniati da urne cinerarie e stele votive, a volte con iconografie e iscrizioni in rendimento o richiesta di grazie agli dèi (Baal Hammon e Tinnit). Le urne contengono resti combusti di neonati (in alcuni casi di bambini piú grandi), di animali (ovicaprini giovanissimi) o di entrambi. La documentazione disponibile, archeologica e letteraria, fa preferire l’interpretazione del tofet come santuario sacrificale, sede di riti anche cruenti, voti promessi e/o portati a termine col sacrificio per ottenere aiuto e protezione divina in circostanze importanti nella vita individuale e sociale. Le stele del tofet possono presentare varie iconografie (rappresentazioni figurative o astratte) che alludono ai riti e ai loro protagonisti: offerenti, operatori del culto, animali sacrificali, raramente bambini, oltre a oggetti d’uso rituale e simboli forse divini (il «simbolo di Tanit», la mano benedicente, il caduceo, astri, vegetali e il cosiddetto idolo a bottiglia). Una celebre stele da Cartagine rappresenta un sacerdote con in braccio un bambino; un’altra un neonato; altre raffigurazioni infantili provengono da Tharros, Sulci e Monte Sirai. A Mozia, una stele rappresenta un

personaggio che impugna un coltello sacrificale e un’altra un personaggio maschile che trasporta un’urna.

IL MONDO FUNERARIO La morte è considerata l’inizio di un viaggio, facilitato dalla disponibilità di provviste, verso la dimora dei morti; l’evento è accompagnato da lamentazioni, riti di passaggio e banchetti funebri. In Fenicia l’inumazione (interramento) dei defunti predomina fino a circa l’XI secolo a.C., tornando a prevalere dal VI secolo a.C. L’incinerazione (cremazione) è diffusa invece tra X e VII secolo a.C. e si estende a tutte le colonie nei secoli VIII-VI a.C. L’inumazione in ipogei, sarcofagi o fosse s’impone nuovamente a partire dal V secolo a.C. Cartagine rappresenta però un’eccezione: qui i due riti coesistono, prevalendo l’incinerazione in epoca arcaica, poi l’inumazione, a eccezione della necropoli di Giunone. F. G., P. X, J-Á. Z. NEL TEMPIO DI ROMOLO La sezione della mostra allestita nel Tempio di Romolo, nel Foro Romano, è dedicata al rapporto tra le diverse culture che si affacciavano sul Mediterraneo, quella punica e quella romana per prime. Se infatti il racconto delle guerre puniche scandisce il passaggio tra le due culture in un susseguirsi di episodi bellici, le evidenze materiali ne indicano la complessità. Per illustrarla sono stati scelti tre casi di studio: Pantelleria in Sicilia, Nora in Sardegna e il culto di Saturno in Nord Africa. I contesti esposti testimoniano l’alternarsi di atteggiamenti conservativi e innovativi attra-


verso lingua, monetazione, apparati decorativi, riti funerari e usi cultuali. La documentazione tratteggia un métissage culturale, veicolato dai traffici commerciali, che ci ricorda che l’Europa non è divisa dall’Africa da una faglia tettonica tra due continenti, bensí ricucita e unita a essa dalle coste e dalle piccole e grandi isole che punteggiano il Mediter raneo, in una stor ia di scambi, piú o meno pacifici, e contatti che non si sono mai interrotti e hanno dato vita alla koiné culturale da cui origina il mondo occidentale. Per la Sicilia, si presenta lo straordinario sito dell’Acropoli di Cossyra a Pantelleria, isola situata nello stretto di Sicilia a metà strada tra l’isola e la Tunisia che ha ospitato una colonia prima punica e poi romana e da cui provengono due straordinari contesti. Il primo, databile in età tardo-repubblicana, è stato trovato in crollo, immediatamente fuor i del santuar io principale ed è per la prima volta esposto al grande pubblico: alcuni arredi sacri erano posizionati al di sopra di un tavolo per l’offerta alle divinità (trapeza) composto da una lastra modanata in marmo greco peloponnesiaco poggiata su due sostegni laterali in materiale calcareo bianco, con or namenti molto elaborati, di provenienza campana; sul lato frontale della lastra è incisa un’iscrizione punica che menziona forse un soprannome o epiteto del dio Melqart/Ercole come figlio di Baal. Il rinvenimento di frammenti di statue, tra cui le teste di Cesare, Antonia Minore e Tito,

attesta invece l’affermarsi del culto imper iale nel cuore stesso dell’Acropoli, segnando la definitiva romanizzazione del sito. Per la Sardegna sono documentate le pratiche funerarie ed è esposto un tesoretto monetale da Nora (Pula, Cagliari), fondaco fenicio e poi colonia cartaginese. La ricostruzione di una tomba a incinerazione databile al VII secolo a.C. mostra come sul fondo delle fosse venissero deposti, insieme alle ossa calcinate dei defunti, i vasi di corredo che alludono al consumo di vino e confermano gli stretti contatti con l’Italia medio-tirrenica. Il corredo della tomba di età punica è invece caratterizzato da vasi di produzione attica, a testimonianza dell’apertura

Aryballos in pasta vitrea, dalla necropoli di Puig des Molins, Ibiza. Fine del V-inizi del IV sec. a.C. Ibiza, Museo Archeologico di Ibiza e Formentera.

Pendente aureo raffigurante l’occhio di Horo, da Cartagine. V sec. a.C. Cartagine, Museo Nazionale.

della florida società norense dell’epoca ai commerci mediterranei. L’eccezionale tesoretto rinvenuto presso il cosiddetto Tempio romano, costituito da un gruzzolo di 18 monete d’argento e da una maschera fittile antropomorfa, testimonia la devozione verso la religiosità della comunità punica ostentata da parte di un magistrato romano, nel momento dell’istituzione della Provincia Sardinia et Corsica nel 227 a.C. M. A.

DA BAAL HAMMON A SATURNO Dopo la caduta di Cartagine, in Nord Africa si verifica la rapida diffusione del culto di Saturno (erede del punico Baal Hammon), il cui culto, di carattere prevalentemente rurale, è attestato fino al VI secolo. La romanizzazione modifica la natura dei sacrifici e i luoghi di culto. I sacrifici infantili, proibiti, proseguono in privato fino alla fine del II secolo, e sono sostituiti dal sacrificio di vittime animali e offerte non cruente. L’influsso romano si coglie anche nelle iconografie delle stele, nelle vesti e acconciature dei fedeli. I santuari-tofet, in origine a a r c h e o 57


MOSTRE • CARTAGINE E ROMA A sinistra: mosaico della Dama di Cartagine, dall’omonima casa di Cartagine. V-VI sec. d.C. Cartagine, Museo Nazionale. In basso: formelle fittili con scene bibliche (Adamo ed Eva) e soggetti cristiani, da Tunisi. VII sec. d.C. Tunisi, Museo del Bardo.

cielo aperto, vengono progressivamente monumentalizzati. Saturno è concepito come sovrano onnipotente: domina i cieli, la terra e l’oltretomba. Saturno e Caelestis, erede di Tinnit, sono i progenitori divini che reggono le sorti planetarie. P. X.

LA SEZIONE ALLA RAMPA IMPERIALE Nel 146 a.C., all’indomani della fine della terza guerra punica, il Senato romano decide di radere al suolo Cartagine: la città viene abbandonata e i simulacri delle divinità trasferiti a Roma sul Campidoglio. Dopo la vittoria di Azio e la sconfitta di Antonio e Cleopatra, Augusto invia oltre 3000 coloni per rifondare la Colonia Concordia Iulia Carthago. Nel giro di poco tempo, il grande progetto di rifondare una seconda Roma in Africa si realizza. Nella Rampa imperiale che unisce il Foro Romano al Palatino vengono illustrati gli aspetti piú significativi della grande metropoli del Mediterraneo, attraverso l’edilizia pubblica e quella privata. I lavori piú imponenti si concentrano sulla collina della Byrsa; qui, con una superficie di oltre 7 ettari, si erge la gigantesca piattaforma artificiale del Foro. Il segno della grandezza della città romana è però nella presenza delle Terme Antoniniane e di monumentali edifici pubblici per spettacoli: il teatro di età augustea – che ospitava oltre 10 000 spettatori –, l’anfiteatro, il circo e l’odeion del II secolo d.C. Ma la Cartagine di epoca romana è universalmente nota soprattutto per le sue domus e la decorazione 58 a r c h e o


pavimentale: nell’allestimento delle residenze delle élite romane giocavano infatti un ruolo chiave i temi scelti dal padrone di casa per esaltare il proprio status politico e sociale. I mosaici figurati costituivano il sistema piú immediato per veicolare e comunicare ai clientes il proprio potere derivante dalla proprietà degli estesi latifondi nei quali si svolgeva gran parte della «vita in villa».Venivano altresí esaltati gli interessi culturali dei proprietari e la conoscenza dei miti antichi. Senza dubbio i temi piú ricercati erano legati agli spettacoli nel circo e nell’anfiteatro consistenti nei combattimenti tra gladiatori e nelle venationes, ovvero scontri tra animali feroci e tra belve e cacciatori professionisti. All’interno di questo sostrato politico e culturale, si sviluppa, già nel corso del II secolo d.C., la religione cristiana, i cui principali artefici furono Tertulliano, san Cipriano e soprattutto sant’Agostino, vissuti tra il II e il V secolo d.C. Nonostante le persecuzioni ben documentate nel corso del III secolo, la diffusione della nuova fede si trasforma progressivamente in una forma di resistenza contro il conquistatore romano e le sue religioni. Dopo l’Editto di Milano del 313, i cristiani iniziano a moltiplicarsi. La conquista vandala del 439 mette in ginocchio la città, ma all’indomani della riconquista bizantina dell’Africa, nel 533 il vescovo di Cartagine torna a essere il garante dell’unità della Chiesa d’Africa: il mosaico della cosiddetta Dama di Cartagine rappresenta, se la lettura è corretta, la personificazione della città al momento del suo massimo splendore. Nel corso di questo lungo periodo il linguaggio figurativo cambia radicalmente: con l’avvio dei cantieri delle basiliche, i temi legati al Vecchio e Nuovo Testamento entrano a far parte degli apparati decorativi degli edifici religiosi e

Locandina del film Cabiria (1914), di Giovanni Pastrone (con interventi nella sceneggiatura di Gabriele D’Annunzio). Torino, Museo Nazionale del Cinema.

Le potenzialità espressive di personaggi come Didone o Annibale sono state sfruttate da letteratura, musica o arti plastiche come veicolo di temi di interesse nell’età moderna. Queste figure possono però anche incarnare l’alterità. Il Romanticismo crea infatti una Cartagine eccessiva, esotica, propria dell’Oriente immaginato allora in Occidente. Il cinema estende questi stereotipi e incorpora icone riprese poi da fumetti e videogiochi: cosí, attraver so nuove strade come la fantascienza, si costruiscono nuove Cartagini. J-Á. Z.

di quelli privati. Li ritroviamo, oltre che sui mosaici, soprattutto su una particolare categoria di reperti che rappresentano una specialità della regione dell’odierna Tunisia: si tratta di formelle di terracotta, di 30 cm circa di lato, usate per la decorazione interna degli ambienti liturgici. Da segnalare anche la diffusione di un nuovo tipo di mosaico, innovativo nel linguaggio, ma anche nella funzione (funeraria), in quanto caratterizzato dall’immagine del defunto, accompagnato da un epitaffio, intento nelle sue attività quotidiane o DOVE E QUANDO disteso su un letto di rose. F. R. «Carthago. Il mito immortale»

L’IMMAGINARIO MODERNO La tradizione restituisce un’immagine di Cartagine condizionata dallo sguardo dei rivali greci e romani, che costruirono un’alterità funzionale alla propria affermazione. Come parte dell’eredità classica, tale immagine risulta comunque attraente per la modernità, che su di essa costruisce le sue diverse visioni.

Roma, Parco archeologico del Colosseo fino al 29 marzo 2020 Orario aperto tutti i giorni, con i seguenti orari stagionali: fino al 15.02.20 8,30-16,30 16.02-15.03.20 8,30-17,00 16/28.03.20 8,30-17,30 Info tel: 06 39967700; www.parcocolosseo.it Catalogo Electa a r c h e o 59


PATRIMONIO UNESCO • CARTAGINE

«VALORIZZARE CARTAGINE!» di Mustapha Khanoussi

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artagine celebra quest’anno il 40° anniversario della sua iscrizione nella «Lista del Patrimonio Mondiale Culturale e Naturale dell’UNESCO». È in effetti nel 1979, con il numero C37, che il sito comprendente le vestigia archeologiche della città fondata da Elissa/Didone è stato iscritto in questo prestigioso elenco, rispondendo ai previsti seguenti criteri: il 2° («Documentare un notevole scambio d’influenze durante un dato periodo o in una determinata area culturale, relativamente allo sviluppo dell’architettura o della tecnologia, di arti monumentali, urbanistica o realizzazione di paesaggi»), il 3° («Apportare una testimonianza unica o quanto meno eccezionale su una tradizione culturale o una civiltà ancora esistente o scomparsa») e 6° («Essere direttamente o materialmente associato a eventi o tradizioni viventi, idee, credenze od opere artistiche e letterarie di significato universale eccezionale»).

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A destra: scolaresche in visita nell’area archeologica della collina di Byrsa. Il sito di Cartagine è stato inserito dall’UNESCO fra i beni del Patrimonio dell’Umanità nel 1979.

Fondata dalla principessa fenicia Elissa/Didone alla fine del IX secolo a.C., e piú precisamente nell’814 stando alle fonti, dopo essere stato il faro che ha illuminato la notte del bacino occidentale del Mediterraneo con l’introduzione dell’alfabeto e la diffusione della civiltà della scrittura, Cartagine fu distrutta da Scipione l’Africano nel 146 a.C.,

dopo aver perso tre guerre estenuanti contro Roma, e il suo terreno cosparso di sale e maledetto. Rifondata da Giulio Cesare come colonia romana, divenne la capitale di una delle province piú opulente dell’impero e uno dei centri piú brillanti della civiltà romana in tutto il Mediterraneo. Il sangue dei primi martiri cristiani


la penisola iberica, e dopo aver attraversato lo stretto di Gibilterra, procedettero lungo la costa settentrionale del Magreb in direzione est per arrivare sotto le mura di Cartagine e conquistarla. Essa sarà poi, per un secolo, anche la capitale di una provincia bizantina, prima di cadere nel 698, conquistata da un esercito giunto dall’Oriente, che sventolava lo stendardo di una nuova religione: l’Islam.

spazio piú grande di quanto sembrasse aver chiesto: da qui il nome di Byrsa, che in seguito fu dato a questo luogo. Cosi fu fondata Cartagine» (Giustino, Storie filippiche, 18,4-6).

SOTTO IL SEGNO DELLA... ASTUZIA! Questa lunga storia è caratterizzata da grandi figure, famose come l’astuta fondatrice dell’abitato, la principessa tiria Elissa la cui leggendaria vicenda d’amore con l’eroe troiano Enea è stata cantata da Virgilio. Secondo il racconto delle fonti classiche, giunta nel Golfo di Tunisi, riuscí con l’inganno a ottenere un ter-

EROICI FRATELLI Ma anche altre figure meritano di essere ricordate, sicuramente meno conosciute rispetto al celeberrimo Annibale, uno dei piú grandi strateghi militari della storia. È il caso dei due fratelli Fileni. La loro storia è raccontata da vari scrittori antichi. L’episodio che li ha resi famosi ha avuto luogo nel contesto del conflitto tra la metropoli punica e la città greca di Cirene (presso l’attuale Bengasi, sulla costa orientale della Libia) legato alla definizione dei confini. Questi due cartaginesi hanno infatti offerto la vita, accettando di lasciarsi seppellire vivi per difendere gli interessi di Cartagine.

ritorio abbastanza grande da contenere il nucleo di un insediamento stabile. Negoziò infatti con un capo locale il diritto di stabilirsi in un suolo che potesse essere coperto dalla pelle di un bue. Una volta raggiunto l’accordo, tagliò la pelle in sottili strisce e con esse segnò i confini di un territorio che comprendeva l’intera collina oggi detta Byrsa e un tempo chiamata la collina di San Luigi: «Comprò tanta terra quanta ne poteva coprire una pelle di bue, per consentire ai propri compagni stanchi da una lunga navigazione di riposare fino alla loro partenza. Ma poi ordinò di tagliare la pelle in strisce molto sottili, e quindi recinse uno

Fecero una gara con due campioni avversari, per risolvere la guerra. Ma, come scrive Sallustio ne La guerra di Giugurta, «i Cirenesi, vedendosi molto arretrati e temendo la punizione che li avrebbe colpiti nel loro paese per il fallimento della missione, accusarono i due Cartaginesi di essere partiti in anticipo, contestarono il risultato della prova, tutto preferendo anziché tornare sconfitti. E poiché i Cartaginesi chiedevano altri patti, purché giusti, i Greci lasciarono ai Fileni la scelta: o essi, in quel luogo che pretendevano per confine al loro popolo, si lasciavano seppellire vivi o, alle stesse condizioni, consentivano agli avversari di avanzare fin dove volessero. I Fileni, accettato il patto,

ha santificato la sua terra e reso l’insediamento un luogo elevato di memoria del cristianesimo. Per un secolo, il V, la città è stata innalzata a capitale del regno fondato sul suolo africano da tribú barbare, quelle dei Vandali, discese dalla Germania orientale, che dopo lunghe peregrinazioni per tutta l’Europa occidentale fino alla punta meridionale delA destra: i resti dell’anfiteatro. A sinistra, sulle due pagine: le terme di Antonino.

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PATRIMONIO UNESCO • CARTAGINE

sacrificarono se stessi e la loro vita alla patria: cosí furono sepolti vivi. In quel luogo, i Cartaginesi dedicarono altari ai fratelli Fileni e altri onori furono loro decretati in patria».

MARTIRI DI DIO Tra i martiri cristiani piú famosi, vittime delle persecuzioni inflitte a Cartagine, troviamo le sante Perpetua e Felicita; la prima era una giovane madre della nobiltà cittadina, la seconda era la sua schiava, martirizzate insieme a cinque compagni. Arrestati nella colonia romana vicina a Cartagine di Thuburbo Minus (oggi Tébourba a una trentina di In alto: una veduta del tofet. A destra: particolare delle strutture delle cisterne della Malga. Nella pagina accanto: il mosaico dei Cavalli, nel quale sono associati pannelli realizzati in opera musiva vera e propria e pannelli in opus sectile.

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chilometri a ovest di Tunisi), si presentarono davanti al procuratore che li condannò ad bestias. Furono giustiziati il 7 marzo 203, nell’arena dell’anfiteatro di Cartagine e la storia del loro martirio è raccontata dalla Passio a loro intitolata, La Passione di Perpetua e Felicita. La persecuzione dei cristiani riprese con vigore anche maggiore sotto i Vandali. Molti membri del clero furono esiliati in diverse regioni del Paese e anche in Sardegna. Altri pagarono con la vita l’attaccamento alla fede, come i sette monaci di Capsa (oggi Gafsa, nella Tunisia sudoccidentale) che furono martirizza-

ti dal re Unerico il 2 luglio 483; i loro resti furono tumulati a Cartagine, dove successivamente fu loro dedicato un culto. Il luogo della loro sepoltura (locus) è stato ritrovato nell’area delle ville romane, tra le rovine di una casa trasformata in monastero. Lo dimostra in modo certo un medaglione di mosaico, scoperto nel 1957, che reca la seguente iscrizione, preceduta da una croce greca: Locus sa/nctorum / septe(m) fratrum / Ic me(moria) Maca/beorum, che può essere tradotto con «Luogo di deposizione dei sette fratelli santi. Qui è venerata la memoria dei Maccabei». Come si vede, l’iscrizione associa i sette martiri cristiani di Capsa ai Maccabei martirizzati ad Antiochia in Siria, sotto il regno di Antioco Epifane (175-164 a.C.), assimilati ai santi cristiani proprio per la difesa della loro fede.

LA «CALDAIA DEGLI AMORI» Non doveva essere difficile divertirsi nella Cartagine romana, città portuale che era la seconda metropoli dell’impero, dopo Roma. Tra le


In epoca imperiale, Cartagine era divenuta una vera e propria metropoli, seconda soltanto a Roma molte occasioni di svago, legittimi come i pubblici spettacoli, ma anche e soprattutto illeciti, non c’era che l’imbarazzo della scelta. Persino un futuro Dottore della Chiesa come sant’Agostino non resistette. Nelle sue Confessioni, ammette che quando giovane adolescente, dalla città natale di Tagaste (oggi Souk Ahras, nella parte orientale dell’Algeria) arrivò a Cartagine per proseguire gli studi secondari, qui fece la scoperta dei piaceri carnali e qualificò la città di «caldaia ribollente di amori colpevoli», pur riconoscendo che «con vampate, cominciò a salire in me il desiderio di saziare con gioie infernali l’universo della mia adolescenza e non rifiutavo l’esuberanza di amori tanto volubili quanto tenebrosi». Questa Cartagine di grandi figure della Storia, ma anche di nomi meno conosciuti, è stata una delle gran-

di città del Mediterraneo. In quanto tale, deve essere considerata oggi come un sito di riferimento della civiltà universale, a pari titolo di Atene o Roma. Il suo passato millenario ha lasciato molti resti archeologici, tra i quali i piú importanti sono la collina di Byrsa, il tofet, i porti punici, l’anfiteatro, gli impianti idrici della Malga, che per molti secoli sono stati oggetto d’una spoliazione su vasta scala. L’antica città è stata utilizzata come una grande cava, dove trovare materiali da costruzione come colonne e capitelli pronti per essere riutilizzati. Preservato dalla costruzione di edifici moderni fino alla metà del XIX secolo, il sito di Cartagine cominciò in questo periodo a essere urbanizzato, con un ritmo sempre piú accelerato. Un secolo piú tardi, l’intera zona costiera è stata occupata

quasi completamente da costruzioni moderne, e l’urbanizzazione ha iniziato a diffondersi anche verso l’interno, minacciando quel che restava del sito archeologico.

SOTTO L’EGIDA DELL’UNESCO Nei primi anni Settanta del secolo scorso, queste gravi minacce hanno spinto le autorità tunisine a sollecitare il sostegno dell’UNESCO per avviare, con il supporto della comunità internazionale, un ambizioso programma di studio e di ricerca, di conservazione e valorizzazione del sito di Cartagine. Cosí, il 19 maggio 1972, dalla cima della collina Byrsa, il Segretario di Stato tunisino per gli Affari Culturali del tempo, Chedli Klibi, e il Direttore Generale dell’UNESCO, il compianto René Maheu, hanno lanciato un a r c h e o 63


PATRIMONIO UNESCO • CARTAGINE

appello solenne alla comunità mondiale per l’organizzazione di una campagna internazionale detta «Per salvare Cartagine». Molti Paesi, in Europa e in America, hanno risposto all’invito e hanno mandato équipe per condurre ricerche e intraprendere scavi. L’Italia è stata tra le prime e ha svolto un ruolo importante sia durante lo sviluppo del programma d’azione da parte delle autorità tunisine che nel corso della campagna internazionale. L’iniziativa è durata ben vent’anni, dal 1972 al 1992, e ha fatto di Cartagine un cantiere internazionale di scavi archeologici e un grande laboratorio di ricerca a cielo aperto, dove decine di archeologi di spicco hanno condiviso i loro metodi e nel quale giovani professionisti hanno vissuto le loro prime esperienze. Ha anche permesso un considerevole progresso delle conoscenze sulla storia e l’evoluzione urbana di questa antica metropoli. Inoltre, e soprattutto, tale campagna ha consentito di concorrere significativamente a fronteggiare l’urbanizzazione e impedire nuove costruzioni sui resti del sito archeologico, cosí da garantirne la salvaguardia. Da questo punto di vista, si può ritenere che l’obiettivo sia stato ampiamente raggiunto e che la campagna sia stata un successo, benché la valorizzazione del sito sia comunque rimasta al di sotto delle aspettative.

aprire nuovi cantieri di scavo, restauro e valorizzazione». È quanto si può leggere nella Nota di presentazione dell’Incontro internazionale su Cartagine, organizzato dal 16 al 18 novembre 2000 dall’Istituto Nazionale del Patrimonio tunisino, con il sostegno dell’UNESCO. Scopo principale dell’incontro era quello di discutere le possibilità di organizzare una seconda campagna internazionale sotto l’egida dell’UNESCO per continuare la ricerca scientifica sul

sito e, soprattutto, per sostenere il raggiungimento delle azioni di valorizzazione programmate nel sito di Cartagine, nell’ambito del progetto di gestione e valorizzazione del patrimonio culturale, appena avviato dal governo locale con il UNA CAMPAGNA sostegno della Banca InternazionaINTERNAZIONALE «La ripresa del lavoro scientifico a le per la Ricostruzione e lo SvilupCartagine è ormai una necessità po (IBRD), meglio nota come la assoluta. La Tunisia è quindi deter- «Banca Mondiale». minata a continuare a lavorare per Dopo circa vent’anni e la Rivoluproteggere Cartagine, e per questo, zione della Dignità e della Libertà, a organizzare nuove campagne, tale necessità è diventata un’emer-

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genza! Nel parafrasare la Nota della riunione del 2000, si potrebbe scrivere che la valorizzazione di Cartagine appare oggi piú che mai necessaria e come un’urgenza assoluta, imposta dalle gravi minacce che pesano di nuovo sul sito e per il suo ruolo ancora troppo modesto quale centro culturale internazionale e vettore per uno sviluppo socioeconomico sostenibile.

PROGETTI AMBIZIOSI A dire il vero, molti progetti in tal senso sono già stati identificati. Includono i porti punici, il tofet, la collina di Byrsa e il Museo Archeologico, poi il grande complesso idraulico romano della Malga, l’anfiteatro, il circo romano, le terme di Antonino, tutte le ville romane e i monumenti paleocristiani. La realizzazione di questo ambizioso progetto necessita di finanziamenti il cui importo complessivo è superiore alle attuali possibilità della Tunisia, che si trova ad affrontare altre priorità, tra le quali non sono certo di minore peso la lotta al terrorismo e la piaga dell’immigrazione clandestina. Il concorso della comunità internazionale in tale situazione è piú che desiderabile. Si tratta d’una necessità, e non sarà altro che l’espressione concreta degli impegni assunti da parte degli Stati firmatari della Convenzione sulla protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale, adottata dalla Conferenza Generale dell’UNESCO nel corso della sua diciassettesima sessione, a Parigi il 16 novembre 1972. Confidiamo dunque, vivamente, in una nuova campagna internazionale sotto l’egida dell’UNESCO: questa volta «Per valorizzare Cartagine»!



POPOLI DELLA BIBBIA/11 – GRECI E SELEUCIDI

UN’APPARIZIONE

TARDIVA

Una bizzarra – e quasi inspiegabile – coincidenza storica ha voluto che il mondo della Grecia classica abbia «ignorato» l’epos della nascita di Israele e che, di converso, la Bibbia non faccia menzione alcuna della civiltà greca, fino all’avvento, nello scenario siro-palestinese, della figura di Alessandro. Da quel momento in poi, però, il confronto con la politica, la religione e la cultura ellenistica diventa, per il popolo di Yahweh, sempre piú intenso e drammatico. Mentre, ad Alessandria, alcuni saggi traducono dall’ebraico in greco il testo sacro del giudaismo… di Alessandro Locchi

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offermarsi sul ruolo e sulla presenza dei Greci nell’ambito della Bibbia significa rimuovere in partenza una probabile idea preconcetta, ovvero che al riguardo sussista una documentazione particolarmente copiosa e articolata. La realtà è ben diversa: i grandi accadimenti o la fioritura delle potenti città-stato dell’Ellade (con le loro istituzioni e i loro protagonisti) in epoca arcaica e classica risultano infatti totalmente assenti in larga parte dei testi biblici. Volgendo lo sguardo all’altro lato del Mediterraneo, del tut66 a r c h e o

to analoga è la situazione riscontrabile sul suolo ellenico, dove, nel lungo arco di tempo appena menzionato, insieme alle ben note vicissitudini storiche, appaiono praticamente ignorate perfino le caratteristiche etnografiche e geografiche di base dell’antico popolo d’Israele, a fronte di un notevole interesse culturale puntualmente registrato nei confronti della restante area siro-palestinese. Rispetto al quadro fin qui tracciato, costituisce un vero e proprio spartiacque il periodo delle conquiste di Alessandro il

Macedone e in particolare l’anno 332 a.C. quando, nel suo inarrestabile espandersi a spese dell’impero persiano, il giovane condottiero si avventura nel complicato assedio della città di Tiro. La conquista – faticosamente ottenuta (vedi box alle pp. 68-69) – della metropoli fenicia, seguita a stretto giro da quella (piú a sud) di Gaza e dalla scelta di Gerusalemme di consegnarsi all’invasore straniero senza opporre resistenza, ebbe come risultato il passaggio del territorio giudaico nell’orbita greca (nella fattispecie, macedone).


La Cacciata di Eliodoro, affresco da cui prende il nome una delle quattro stanze dette di Raffaello comprese nell’appartamento papale situato al secondo piano del Palazzo Pontificio, in Vaticano. La decorazione pittorica fu realizzata da Raffaello e dai suoi allievi tra il 1508 e il 1524. La scena illustra l’episodio biblico (2 Maccabei, 3, 21-28) di Eliodoro, inviato dal re di Siria Seleuco a impossessarsi del tesoro conservato nel Tempio di Gerusalemme. Su preghiera del gran sacerdote Onia, Dio invia un cavaliere con due giovani che lo percuotono e lo cacciano.


POPOLI DELLA BIBBIA/11 • GRECI E SELEUCIDI

TIRO, ULTIMO ATTO La conquista della metropoli fenicia (notissima nell’antichità per la produzione della porpora) da parte di Alessandro fu impresa di particolare complessità: Tiro infatti, oggi collegata alla terraferma, sorgeva all’epoca su un isolotto, protetto da un poderoso sistema difensivo. Dopo mesi di vano assedio, i Macedoni, sfruttando un istmo sommerso, crearono un lungo terrapieno, delimitato da due altissime torri, dal quale dare l’assalto alla città. Fallito anche questo tentativo, l’esercito di Alessandro riuscí ad avere la meglio, sferrando un massiccio attacco via mare e spezzando le difese nemiche. Ecco come Plutarco descrive le ultime, concitate fasi dell’impresa: «L’assedio di Tiro si concluse nel modo seguente. Alessandro aveva messo a riposo il grosso delle sue forze, stanco per i molti scontri che

A questa specifica fase, dominata dalla carismatica figura del figlio di Filippo II, si fanno appunto risalire le prime concrete attestazioni dell’incontro tra le due culture, come si evince da un aneddoto significativo, tramandatoci da una fonte piú tarda (lo storico Giuseppe Flavio, nelle Antichità Giudaiche). Stando a questa testimonianza, Alessandro, entrato a Gerusalemme, si sarebbe recato al Tempio, dove i sacerdoti gli avrebbero mostrato il libro di Daniele, segnalandogli, in particolare, la profezia che si riteneva alludesse alla distruzione della potenza persiana a opera del popolo ellenico. Non difforme sarebbe stata anche l’interpretazione del conquistatore straniero, il quale, pieno di gioia, da quel momento in poi si sarebbe mostrato benevolo e accondiscendente a tutte le richieste dei Giudei. Sul fronte opposto, vale la pena di 68 a r c h e o

Flotta cipriota

Porto di nord-est (verso Sidone)

Tempio di Melqart

Istmo costruito da Alessandro

Città nuova di Tiro

Porto di sud-est (verso l’Egitto) Assalto finale e sfondamento

Città vecchia di Tiro

Flotta fenicia

Mar Mediterraneo Mura innalzate lungo l’intero perimetro dell’isola

aveva sostenuti, e mandava all’assalto delle mura pochi uomini per non dar tregua al nemico. Un giorno l’indovino Aristandro, che

aveva immolato alcune vittime, osservò nei loro visceri segni tali, da fargli dire con una certa baldanza ai presenti che la città

ricordare come, in ambito biblico, il Primo libro dei Maccabei si apra proprio enfatizzando la figura di Alessandro e le sue conquiste in questi termini: «Queste cose avvennero dopo che Alessandro il Macedone, figlio di Filippo, uscito dalla regione dei Chittím sconfisse Dario, re dei Persiani e dei Medi, e regnò al suo posto cominciando dalla Grecia. Egli intraprese molte guerre, si impadroní di fortezze e uccise i re della terra; arrivò sino ai confini della terra e raccolse le spoglie di molti popoli».

tamento alle istituzioni e agli schemi dell’allora dominante cultura ellenica (poi ellenistica). Tale fenomeno, non nuovo, ma in precedenza di portata assai limitata e senz’altro collegato ai Giudei della Diaspora stanziatisi altrove, si intensificò dopo la precoce fine di Alessandro e la consequenziale spartizione dell’immenso impero tra i suoi generali, quando, a partire dal 319 a.C., il potente Tolomeo I Sotere, signore dell’Egitto (vedi il ritratto a p. 71), si insediò nell’area in esame. Il lungo periodo (oltre un secolo) di relativa tranquillità vissuto dalla Giudea sotto i Tolomei si chiuse in modo repentino a seguito della sconfitta subíta intorno al 198 a.C. da Tolomeo V a Paneion (o Paneas), presso le sorgenti del Giordano, per mano di Antioco III il Grande, della rivale dinastia dei Seleucidi. A determinare le fortune (nonché

DA ALESSANDRO AI SELEUCIDI Sta di fatto che il 332 a.C., con l’affermazione dell’esercito macedone, sembra concretamente inaugurare, nell’antica Palestina, l’avvicinamento tra i due mondi in esame e, al contempo, segnare l’avvio di un deciso processo di «ellenizzazione», ovvero di trasformazione e di adat-


sarebbe assolutamente caduta entro quello stesso mese. Tutti scoppiarono a ridere e lo canzonarono, perché quel giorno era l’ultimo del mese; ma il re, vedendo l’indovino tutto confuso, e sempre desideroso di avallare una profezia, diede ordine di considerare quel giorno non piú come il 30, ma come il 28; e fatto dare il segnale dalla tromba, sferrò contro le mura un attacco piú violento di quanto si era proposto di fare inizialmente. L’assalto divenne gagliardo: le truppe che stavano a riposo nell’accampamento non poterono trattenersi e corsero in massa a dare man forte ai compagni. I Tiri cedettero. Quel giorno stesso Alessandro prendeva la città» (Plutarco, Vite parallele, Alessandro 25, 1-2, traduzione di Carlo Carena, volume secondo, Mondadori, Milano 1984).

la denominazione stessa) di quest’ultima era stata l’intraprendenza del generale macedone Seleuco (al potere come Seleuco I Nicatore), il quale, non contento del territorio affidatogli (la satrapia di Babilonia), ne aveva col tempo allargato i confini, estendendosi in direzione dell’India e successivamente annettendo la Siria. Qui, sulle rive del fiume Oronte, aveva fondato la nuova capitale del regno che, dal nome del padre Antioco, aveva chiamato Antiochia, oggi Antakya, nella Turchia meridionale (città della quale, in questo numero, si parla anche alle pp. 96-112). L’affermazione militare del 198 a.C. ebbe come conseguenza immediata la sistemazione dell’antico santuario locale dedicato al dio Pan (di cui sopravvivono alcuni resti): dal culto in questione – in origine localizzato in una grotta – Paneion/Paneas ave-

In alto: miniatura raffigurante l’assedio di Tiro da parte di Alessandro il Macedone, da un’edizione del Livre des fais d’Alexandre le grant. 1470-1475. Los Angeles, J. Paul Getty Museum. Nella pagina accanto: carta dell’assedio di Tiro da parte di Alessandro. Il Macedone riuscí a prendere la città realizzando un istmo che trasformò la sua parte insulare in una penisola.

va tratto il suo nome, mantenutosi fino all’età romana, quando la località rinacque come importante centro, ricordato nel Nuovo Testamento come Cesarea di Filippo.

UNA SVOLTA DECISIVA A prescindere da ciò, la vittoria alle sorgenti del Giordano inaugura soprattutto la fase gloriosa e travagliata della dominazione seleucide che, soprattutto durante il regno di An-

tioco IV Epifane, rappresentò, nel territorio degli Israeliti, una decisa svolta di impronta greca rispetto alla precedente dinastia al potere. Va peraltro sottolineato come, nel lungo arco di tempo fin qui preso in considerazione, dall’arrivo di Alessandro ai Seleucidi (IV-II secolo a.C.), si riscontri finalmente un innegabile crescendo di contatti e di richiami culturali tra il mondo greco e quello giudaico. a r c h e o 69


POPOLI DELLA BIBBIA/11 • GRECI E SELEUCIDI

Questa inedita situazione si rivela però tutt’altro che simmetrica: a fronte, infatti, del diffuso interesse dell’ambiente intellettuale greco nei confronti della vita e delle istituzioni degli Ebrei, sul versante opposto si scopre invece un quadro assai piú contrastato, caratterizzato

dalla netta demarcazione tra i Giudei fuoriusciti della Diaspora e quelli della Palestina. I primi, insediati da tempo al di fuori della terra dei loro avi, risiedono nelle metropoli ellenistiche del Mediterraneo (in particolare ad Alessandria d’Egitto), dove si riuniscono nelle

In basso: l’assetto geopolitico della Giudea prima dello scoppio della rivolta maccabaica. Nella pagina accanto: testa in marmo di Tolomeo I Sotere, dalla Grecia o

dall’Asia Minore. III sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. L’identificazione del ritratto è venuta dal confronto dell’opera con monete battute al tempo del sovrano.

La Giudea prima della rivolta maccabaica ESPANSIONI TERRITORIALI Sotto Gionata (152-143 a.C.) e Simone (142-135 a.C.)

Acco

Sotto Giovanni Ircano (135-104 a.C.)

GALILEA Lago Kinneret (Lago di Tiberiade)

Sotto Aristobulo I (104-103 a.C.) e Alessandro Ianneo (103-76 a.C.)

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sinagoghe e si mostrano comprensibilmente piú aperti nei confronti della cultura ellenica: non a caso, proprio ad Alessandria, si dispone per loro una traduzione in greco della Bibbia, la cosiddetta versione dei Settanta (vedi box a p. 73). I secondi, viceversa saldissimi nelle proprie credenze, hanno un’esistenza incentrata sul Tempio di Gerusalemme e sulla rigorosa osservanza della legge mosaica: come è intuibile, sono decisamente chiusi e restii rispetto al mondo ellenistico. Se per costoro, la dominazione tolemaica e quella successiva, seleucidica, di Antioco III il Grande si rivelano nel complesso tolleranti, poiché non creano particolari limitazioni nel culto, tutto cambia drasticamente con i successori di Antioco III, all’epoca in serie difficoltà rispetto alla crescente potenza di Roma.

LA CACCIATA DI ELIODORO In quegli anni, infatti (192-188 a.C.), il conflitto romano-siriaco si era concluso a vantaggio dei Romani e l’accordo di pace di Apamea (188 a.C.) si era rivelato particolarmente gravoso per i re di Siria, che si vedevano ridimensionati nei propri confini e costretti a pagare un pesantissimo debito di guerra. Le conseguenti difficoltà economiche indussero il nuovo monarca, Seleuco IV, figlio di Antioco III, a intraprendere una spregiudicata politica finanziaria, volta a rimpinguare le casse del regno, politica nella quale egli trovò un valido collaboratore nel primo ministro, l’ambizioso tesoriere Eliodoro. Recenti scoperte archeologiche ci hanno restituito una preziosa testimonianza di questa specifica situazione: alcuni fram-


del citato Onia, il quale, intorno al 175 a.C., sarebbe riuscito ad accaparrarsi la suprema carica sacerdotale, ricorrendo alla corruzione. Stando infatti al prosieguo del libro dei Maccabei (2, capitolo 4), egli avrebbe promesso al nuovo sovrano Antioco IV, insieme a generose largizioni di denaro dal tesoro del Tempio, la creazione di un ginnasio (ai piedi dell’acropoli di Gerusalemme) e di un’efebia, strutture nelle quali indurre i giovani ebrei di alto lignaggio a portare il petaso (il copricapo a larga falda, caratteristico del dio Hermes), in altre parole a ricevere un’educazione di tipo greco. L’ulteriore svolta repressiva a danno dei Giudei (con l’evidente proposito dell’ambizioso Giasone di trasformare Gerusalemme in una vera e propria polis greca) è però a questo punto da inquadrare nel contesto delle idee politiche del nuovo dinasta seleucide.

menti, perlopiú recuperati da scavi eseguiti a Tel Maresha di Beit Guvrin (presso Gerusalemme) tra il 2005 e il 2006, hanno consentito di ricomporre, quasi per intero, una stele in pietra calcarea (vedi foto a p. 74), con un’epigrafe databile al 178 a.C. nella quale Seleuco comunica a Eliodoro di aver incaricato un certo Olimpiodoro di raccogliere denari da tutti i santuari presenti nelle province (inclusa la Giudea).

UN TESORIERE ZELANTE Al di là della sua rilevanza storica, l’iscrizione di Tel Maresha riveste particolare interesse soprattutto come integrazione e suggestiva conferma di un noto episodio biblico, collegato al succitato Eliodoro e reso celebre dall’affresco eseguito da Raffaello in una delle famose «Stanze» (quella detta appunto «di Eliodoro») dell’appartamento di Papa Giulio II, in Vaticano. Nel Libro secondo dei Maccabei (capitolo 3) si riferisce che, a seguito di una delazione, lo zelante tesoriere venne inviato al Tempio di Gerusalemme per requisirne le enormi ricchezze e trasferirle all’erario del sovrano. Il giorno convenuto però, mentre da ogni parte si levavano suppliche a Yahweh, il progetto del nobile antiocheno non poté concretizzarsi per via di un evento prodigioso: l’apparizione improvvisa, nel luogo di culto, di un terribile cavaliere, dall’armatura d’oro, e, insieme a lui, di due splendidi e fortissimi giovani che, a furia di percosse, lo avrebbero ridotto quasi in fin di vita ed egli si sarebbe salvato (per poi con-

vertirsi) solo grazie a un sacrificio compiuto dal sommo sacerdote Onia. L’episodio non va considerato come un fatto a sé stante, bensí come segnale di un radicale mutamento: la scomparsa di quell’atteggiamento rispettoso e conciliante che aveva fino ad allora garantito una serena convivenza tra i Giudei della Terra Santa e i monarchi ellenistici. A riprova di ciò è da notare come proprio all’indomani della traumatica vicenda di Eliodoro si registri l’operato di un discutibile personaggio di nome Giasone: si tratta del fratello

ELLENIZZAZIONE FORZATA Salito al potere nel 175 a.C., Antioco IV Epifane (vedi box alle pp. 74-75), si mostrò fin dall’inizio risoluto a mantenere e a rafforzare l’estensione territoriale del proprio impero. Nell’ambito di tale strategia di consolidamento, il figlio di Antioco III decise di intervenire drasticamente in quel focolaio di disordini che era la Giudea e lo fece, in prima battuta, con una terribile razzia ai danni del Tempio che troviamo descritta in questi termini (1 Maccabei 1, 21-23): «[Antioco] entrò con arroganza nel santuario e ne asportò a r c h e o 71


POPOLI DELLA BIBBIA/10 • FENICI

Tolomeo II Filadelfo a colloquio con alcuni sapienti ebrei, olio su tela di Jean-Baptiste de Champagne che decora una delle volte del Salone di Mercurio nel castello di Versailles. 1672 circa. Nella pagina accanto: pagina di un’edizione manoscritta della Bibbia dei Settanta. III sec. d.C.

l’altare d’oro e il candelabro dei lumi con tutti i suoi arredi, la tavola dell’offerta e i vasi per le libagioni, le coppe e gli incensieri d’oro, il velo, le corone e i fregi d’oro della facciata del tempio e lo spogliò tutto; s’impadroní dell’argento e dell’oro e di ogni oggetto pregiato e asportò i tesori nascosti che riuscí a trovare». Il traumatico saccheggio non è che il preludio di una successiva inaudita operazione finalizzata a sopprimere del tutto la religione giudaica e a imporre, al suo posto, culti, educazione e uno stile di vita greco. Eloquente al riguardo risulta la sequenza di draconiane disposizioni stabilite ad hoc: distruzione dei libri della Legge, proibizione della circoncisione, dell’osservanza del sabato, delle varie feste e dei sacrifici in onore di Yahweh, alla cui sostituzione con Zeus Olimpio sul grande altare degli olocausti fa riferimento il Libro primo dei Maccabei definendola «abominio di devastazione». I 72 a r c h e o

contravventori sarebbero stati puniti con la morte. Per l’attuazione di quella repentina e brutale riforma, l’Epifane procede alla militarizzazione del territorio, creando, nella città santa, un presidio fortificato: «costruirono attorno alla Città di Davide un muro grande e massiccio, con torri solidissime, e divenne per loro una cittadella. Vi stabilirono una razza perversa, uomini scellerati, che vi si fortificarono, vi collocarono armi e vettovaglie e, radunato il bottino di Gerusalemme, ve lo depositarono e divennero un grande tranello» (1 Maccabei 1, 33-35). La roccaforte in questione (denominata Acra o Acra seleucide), completamente distrutta nei decenni successivi, è stata oggetto a piú riprese di studi e di ricerche, fino alla sua recente localizzazione (nel corso di lavori per un parcheggio) nella Città Bassa, a sud-est del Monte del Tempio: archeologi israeliani hanno

riportato in luce poderose strutture fortificate a essa pertinenti, insieme a suggestivi ritrovamenti, come resti di armi e proiettili, metallici e in pietra, contrassegnati dal tridente, simbolo del regno di Antioco IV.

SCOPPIA LA RIVOLTA L’ellenizzazione forzata, voluta dal sovrano seleucide, si rivelò particolarmente divisiva per l’antico popolo israelita, creando una profonda lacerazione tra coloro che (per lo piú in ambito cittadino), convinti o rassegnati, aderivano a essa e quella parte intransigente della popolazione che rimaneva invece legata alle forme tradizionali della religione. Ad acuire il contrasto contribuirono alcune specifiche disposizioni del monarca, in primo luogo il consumo di cibo sacrificale (come il maiale) espressamente interdetto dalla Legge mosaica. In contrapposizione a ciò, «molti in Israele si fecero forza e


animo a vicenda per non mangiare cibi impuri e preferirono morire pur di non contaminarsi con quei cibi e non disonorare la santa alleanza, e per questo appunto morirono» (1 Maccabei 1, 62-63). Tra costoro è annoverabile l’anziano e stimato scriba Eleazaro, che a un certo punto si trova costretto a cibarsi della carne del suino immolato. Di fronte al suo fermo diniego, i supervisori della cerimonia, decisi a salvarlo, lo sollecitano almeno a simulare di ingerire la porzione del pasto sacrificale e, al suo ostinato rifiuto (per non venir meno ai propri principi), ne decretano la brutale fine, come martire. Alla stessa ingestione forzata di carni suine proibite troviamo sottoposti anche donne e fanciulli: è il caso di un intero gruppo familiare, con una madre e i suoi sette figli (i cosiddetti sette fratelli «Maccabei»). Al pertinace rifiuto del maggiore, al cospetto di un indispettito Antioco, segue la sua immediata e cruenta uccisione, tra torture inenarrabili. La scena si ripete con gli altri cinque fratelli, dinnanzi all’impassibile madre, la quale, dopo aver incoraggiato il piú giovane a non cedere all’estremo tentativo di corruzione da parte del sovrano (risoluto a farne capitolare almeno uno), affronta per ultima il martirio. Questi episodi di «disobbedienza religiosa» si inquadrano all’interno di un vero e proprio scontro scatenato contro il dinasta seleucide e la fazione giudea ellenizzata, la ben nota rivolta dei Maccabei, cosí gravida di conseguenze per il successivo assetto politico del territorio. Scenario del casus belli della vicenda è il villaggio di Modin (ogg i Modi’in-MaccabimRe’ut, località israeliana situata 30 km a ovest di Gerusalemme) nel quale si presentano gli emissari del re per indurre gli abitanti del luogo all’apostasia, offrendo sacrifici alle divinità elleniche. Tra i piú ri-

LA BIBBIA DEI SETTANTA In uno scritto apocrifo del II secolo a.C., la Lettera di Aristea a Filocrate, si racconta che il sovrano lagide Tolomeo II Filadelfo (285-246 a.C.) avrebbe accolto ad Alessandria d’Egitto 72 sapienti inviati da Gerusalemme (in numero proporzionale alle dodici tribú di Israele) con l’incarico di tradurre in greco dall’ebraico i primi cinque libri della Bibbia, il cosiddetto Pentateuco. Gli esperti gerosolimitani (al cui tradizionale numero, arrotondato, si fa risalire lo specifico appellativo di questa versione del testo sacro) avrebbero lavorato alacremente, portando a termine il compito loro assegnato in 72 giorni. L’episodio, nella sua interezza, non appare particolarmente attendibile e alla sua credibilità certo non contribuiscono dettagli riferiti da autori successivi: il piú noto è che i dotti personaggi, pur avendo lavorato in modo separato, al

momento del confronto, avrebbero riscontrato una totale identità nelle loro traduzioni. Rimanendo ai dati certi, risulta plausibile che nel clima cosmopolita dell’Alessandria tolemaica del III secolo a.C. sia stata commissionata questa ambiziosa operazione, che ebbe sicuramente tempi di gestazione ben piú lunghi, protraendosi fino al II secolo a.C. (e oltre) e interessando numerosi altri scritti dell’Antico Testamento. Il successo della Bibbia dei Settanta (piú spesso, semplicemente la Settanta) è anche da collegare alle modalità adottate dai vari suoi compilatori, i quali, applicando al testo sacro le categorie della filosofia greca, lo resero accessibile ai Giudei ellenizzati, ma anche ai pagani, assicurandone in qualche modo la successiva considerazione nel mondo cristiano.


POPOLI DELLA BIBBIA/11 • GRECI E SELEUCIDI

ANTIOCO IV EPIFANE, UN SOVRANO DISCUSSO Ultimo figlio di Antioco III il Grande, il futuro Antioco IV ebbe la ventura di conoscere, in giovane età, la cultura e le istituzioni della Roma repubblicana: a seguito della sconfitta dei Seleucidi a Magnesia del Sipilo (190 a.C.), venne infatti inviato dal padre come ostaggio nell’Urbe, dove rimase fino all’ascesa al trono del fratello Seleuco IV, che lo richiamò in Siria, sostituendolo col proprio figlio Demetrio. L’improvvisa scomparsa

ottosi, vi è il vecchio sacerdote Mattatia, il quale, tenutosi in disparte insieme ai cinque figli (Giovanni, Simone, Giuda, Eleazaro, Gionata), cosí avrebbe replicato all’invito rivoltogli a dimostrare per primo la propria lealtà ad Antioco: «Anche se tutti i popoli che sono sotto il dominio del re lo ascoltassero e ognuno abbandonasse la religione dei propri padri e volessero tutti aderire alle sue richieste, io, i miei figli e i miei fratelli cammineremo nell’alleanza dei nostri padri. Non sia mai che abbandoniamo la Legge e le tradizioni. Non ascolteremo gli ordini del re per deviare dalla nostra religione a destra o a sinistra» (1 Maccabei 2, 19-22). Di seguito, spinto dall’ira, per aver visto un Giudeo idolatra che si accingeva a eseguire gli ordini reali, Mattatia lo avrebbe repentinamente ucciso, provvedendo al contempo a eliminare l’incaricato di Antioco IV e a distruggere l’abominevole ara dei sacrifici. Il discusso episodio di Modin, seguito dalla precipitosa fuga sui monti del vecchio sacerdote e della sua prole, segna di fatto l’inizio di una vera e propria insurrezione anti-ellenica che, fin da subito, vide il gruppo dei cosiddetti Asidei (di costoro si avrà modo di riparlare) schierarsi al fianco dei ribelli. 74 a r c h e o

di Seleuco IV (ucciso a tradimento dal tesoriere reale Eliodoro) rappresentò l’occasione propizia per la sua ascesa al potere: col sostegno dei sovrani di Pergamo e dei Romani, riuscí infatti a ottenere il trono (pressoché simultanea è l’attribuzione dell’epiteto Epifane, cioè «visibile», «illustre», che sembra conferirgli un’aura soprannaturale). Fin dall’inizio, il suo operato puntò alla riorganizzazione e al rafforzamento

territoriale del suo vasto impero: a tal fine, approfittando di una fase di debolezza dei Tolomei, riuscí ad assicurarsi la contesa regione della Celesiria e a riportare una serie di successi militari. L’intraprendenza di Antioco finí col preoccupare non poco i Romani i quali intervennero con decisione, forzandolo a ritirarsi dal territorio egiziano (168 a.C.): stando a un celebre aneddoto, il legato Gaio Popilio Lenate, raggiunto il sovrano seleucide in un

Ben presto funestato dalla scomparsa del suo leader, il movimento trovò una nuova, valida guida in uno dei cinque figli, Giuda, soprannominato Maccabeo (dal probabile significato di «martello», «martellatore»), appellativo poi riferito agli eventi bellici in esame, ma anche a tutti gli altri esponenti della famiglia in essi coinvolti. Di particolare rilievo sembrerebbero essere le qualità del successore di Mattatia, il quale, dopo i primi isolati successi – spesso conseguiti con la tecnica della guerriglia notturna –, riesce efficacemente a motivare i propri uomini, imponendosi a piú riprese sulle forze nemiche e sul dominatore seleucide, sempre piú in difficoltà e prossimo ormai alla fine.

IL TRIONFO MACCABAICO Antioco IV muore nell’autunno del 164 a.C. Nei libri dei Maccabei, la sua dipartita è descritta con modalità diverse e contrastanti, al di là delle quali è però facile ravvisare un motivo ricorrente della letteratura giudaica e cristiana: la fine dell’empio persecutore, enfatizzata come risultato della punizione divina. Nel caso specifico, in una prima


sobborgo di Alessandria, lo avrebbe messo alle strette, tracciandogli intorno, sulla sabbia, un cerchio e obbligandolo, prima che uscisse da esso, a dargli una risposta in merito alle sue intenzioni. Il figlio di Antioco III, frustrato nelle sue mire espansionistiche, si sarebbe allora rivolto verso est e verso le parti malsicure del proprio regno, accanendosi in modo particolare sulla Giudea (anche se, diversamente dalla

narrazione biblica, sembra che l’operazione repressiva, da lui scatenata, non abbia avuto un ruolo cosí centrale nell’ambito della sua biografia). In realtà, a decretarne la caduta in disgrazia e la successiva fine (nel 164 a.C.) furono verosimilmente la megalomania, l’amore per il lusso smodato e certe bizzarrie, che gli fecero guadagnare, con un gioco di parole, il nomignolo Epimane («il folle»).

Nella pagina accanto: stele in pietra calcarea, con un’epigrafe databile al 178 a.C. nella quale Seleuco comunica a Eliodoro di aver incaricato un certo Olimpiodoro di raccogliere denari da

tutti i santuari delle province (inclusa la Giudea), da Tel Maresha. Gerusalemme, Israel Museum. A destra: moneta di Antioco IV Epifane. 175-164 a.C.

versione, egli appare nuovamente protagonista di un saccheggio ai danni di un luogo di culto, questa volta però in territorio persiano, nell’Elimaide: si sarebbe infatti presentato, col suo esercito, nel santuario di una divinità locale, Nanea (talvolta assimilata alla greca Artemide), e, col pretesto di unirsi a essa in un sacro rito nuziale, avrebbe richiesto in dote le enormi ricchezze ivi custodite. I sacerdoti, decisi a proteggere i loro tesori, avrebbero accolto lui e il suo seguito all’interno del tempio e una volta dentro, li avrebbero rinchiusi e poi, da un’apertura del soffitto, avrebbero scagliato contro di loro una gran quantità di pietre, uccidendoli tutti all’istante per poi gettarne le teste mozzate all’esterno. In un’altra versione, abbandonando la Persia dopo il fallito tentativo di depredare il ricchissimo santuario appena menzionato, Antioco viene colto da un improvviso morbo insanabile, che lo consuma di giorno in giorno, devastandolo fisicamente. In questa seconda narrazione ci si diffonde sulla sua lunga agonia e su

tardive forme di pentimento e di riparazione: sentendosi ormai vicino alla fine dei suoi giorni, egli cerca di impetrare il perdono dei Giudei, promettendo loro di liberare la città santa e di ripristinare il culto tradizionale nel Tempio (opportunamente risarcito dei suoi tesori). Al di là di tali racconti, il cambio al vertice del trono di Siria (con la morte dell’Epifane e l’ascesa al trono dell’erede prescelto, il figlio Antioco V Eupatore) si concretizza all’interno di un quadro storico turbolento, ancora scandito dai successi militari di Giuda Maccabeo, il quale, alla fine, riesce a espugnare la cittadella seleucide e a riconquistare Gerusalemme. In contemporanea, ci si preoccupa della ridedicazione del Tempio a Yahweh: avendolo trovato in condizioni di estremo degrado, il figlio di Mattatia procedette anzitutto alla purificazione del luogo, rimuovendo completamente le varie installazioni connesse con i culti greci (in particolare, il sacrilego altare degli olocausti, innalzato a Zeus Olimpio). Si intraprese quindi la ricostruzione del complesso, che

una volta ultimato venne subito predisposto per la riattivazione del culto: «collocarono il candelabro e l’altare degli incensi e la tavola nel tempio. Poi bruciarono incenso sull’altare e accesero sul candelabro le lampade che splenderono nel tempio. Posero ancora i pani sulla tavola e stesero le cortine» (1 Maccabei 4, 49-51). A suggellare la gloriosa impresa, in significativa coincidenza con la data in cui era avvenuta la profanazione del Tempio a opera di Antioco IV, si tenne, con grande giubilo, la solenne cerimonia di riconsacrazione, protrattasi per otto giorni. Per volere di Giuda, quella cerimonia non rimase un evento isolato ma venne istituzionalizzata, come festività annuale, nel calendario liturgico ebraico: si tratta di Chanukkah, la festa delle luci, che, ancora oggi si celebra in dicembre, con l’accensione progressiva dei lumi di una lampada, per otto giorni.

LA FINE DEL DOMINIO ELLENISTICO Nell’ambito delle relazioni tra i Greci e il popolo di Israele, il regno di Antioco IV rappresentò il a r c h e o 75


POPOLI DELLA BIBBIA/11 • GRECI E SELEUCIDI

momento di maggiore criticità, di massimo contrasto; ma con la laboriosa riconquista di Gerusalemme non si chiusero le ostilità, che anzi perdurarono nei decenni successivi, trascinandosi con alterne vicende e coinvolgendo ora nuovi attori, come i Romani. A essi si rivolse Giuda Maccabeo in cerca di amicizia e di alleanza, in altri termini, di protezione dai potenti avversar i. Tale sostegno venne concesso volentieri dal popolo romano, che in quel periodo storico puntava anche all’assoggettamento dell’impero antiocheno.

A destra: punta di freccia marchiata con il tridente, simbolo del regno di Antioco IV, dagli scavi condotti nella Città Bassa, a sud-est del Monte del Tempio, dove sono emersi i resti della roccaforte denominata Acra o Acra seleucide (foto in basso).

ALLEATI CON I ROMANI Nel 160 a.C., nel corso di una grande battaglia a Berea, in territorio gerosolimitano, il figlio di Mattatia fu travolto dall’imponente esercito nemico e ucciso. A succedergli furono due suoi fratelli, i quali, uno dopo l’altro, assunsero il sommo sacerdozio e mantennero l’alleanza con i Romani: per primo Gionata e poi (dal 143 a.C.) Simone. Grazie alle vittorie di quest’ultimo, il lungo conflitto si concluse con il trionfo maccabaico: tra il 142 e il 141 a.C., a seguito della capitolazione del re Demetrio II e della definitiva presa della cittadella di Gerusalemme, i Giudei furono liberi dalla dominazione ellenistica dei Seleucidi. In 1 Maccabei 13, 41-42 lo storico avvenimento si registra in questi termini:

«Nell’anno centosettanta (del calendario seleucide) fu tolto il giogo dei pagani da Israele e il popolo cominciò a scrivere negli atti pubblici e nei contratti: “Anno primo di Simone, sommo sacerdote insigne, stratega e capo dei Giudei”». Da questa sobria enunciazione apprendiamo dunque che il territorio in questione, tornato indipendente, ebbe come primo governatore (oltre che come sommo sacerdote) il valoroso fratello di Giuda Maccabeo, che fu anche l’iniziatore di una dinastia mantenutasi al potere fino al secolo successivo, gli Asmonei, il cui nome (di carattere familiare) viene fatto risalire a un antenato di Mattatia, di nome Asmon. Benché finalmente liberi dall’opprimente «giogo dei pagani», i Giudei non riuscirono comunque a ri-

guadagnare uno stabile assetto politico, anche a causa delle divisioni e della smodata ambizione dei nuovi regnanti: uno di loro, Aristobulo, significativamente salutato come Filelleno per l’inclinazione verso il mondo greco, si fece assegnare, per primo, il titolo di re. Tra misfatti e lotte fratricide, questi sovrani discendenti dai Maccabei rimasero al potere fino all’arrivo di Pompeo a Gerusalemme nel 63 a.C., data che segna l’inizio della dominazione romana. In questa fase (non meno tumultuosa di quella antiochena), un evento fortemente traumatico come la definitiva distruzione del Tempio determinò l’affermarsi di quell’istituzione, definita per la prima volta, proprio a partire dal periodo in questione, con un termine greco che indica una comunità, un’aggregazione di persone: synagogé (la sinagoga). NEL PROSSIMO NUMERO • I Romani

PER SAPERNE DI PIÚ Manfred Clauss, Israele nell’età antica, il Mulino, Bologna 2003 Rainer Albertz, Storia della religione nell’Israele antico. Vol. 2: Dall’esilio ai Maccabei, Paideia, Brescia 2005 76 a r c h e o



ALL’OMBRA DELLA «MONTAGNA PURA» UNA MOSTRA AL MUSEO BARACCO DI ROMA DOCUMENTA LE RICERCHE DELLA MISSIONE ARCHEOLOGICA ITALIANA IN SUDAN, VOLTE A SCOPRIRE IL RICCO PALINSESTO ARCHITETTONICO DELL’ANTICA CITTÀ DI NAPATA. E RACCONTA L’AFFASCINANTE SCOPERTA DEI RESTI DI UN GRANDIOSO COMPLESSO PALAZIALE, APPARTENUTO A UNO DEGLI ULTIMI GRANDI SOVRANI MEROITICI

N

el Museo di Scultura Antica «Giovanni Barracco» di Roma sono per la prima volta esposti in mostra materiali rinvenuti nel sito dell’antica Napata, uno dei maggiori centri dell’archeologia sudanese. Agli oggetti provenienti dal Sudan si aggiunge un nucleo di reperti appartenenti alle 78 a r c h e o

di Emanuele M. Ciampini

collezioni del Museo del Vicino Oriente, Egitto e Mediterraneo della Sapienza Università di Roma, dove giunsero grazie all’operato del fondatore della Missione Archeologica Italiana, Sergio Donadoni (1914-2015). Questa selezione di materiali vuol essere il pretesto per una revisione critica dei dati acqui-

siti negli anni di ricerca sul campo e, al contempo, fornire prospettive di ricerca per le indagini future.

L’AREA DI SCAVO La Missione Archeologica Italiana opera nel settore nord-est del sito di Jebel Barkal, dove lo scavo ha rivelato una serie di edifici monumen-


GLI ITALIANI IN SUDAN Una cinquantina d’anni fa, Sergio Donadoni (Sapienza Università di Roma) partecipò al progetto UNESCO per il salvataggio delle antichità di Nubia, minacciate dalle acque del Lago Nasser, formatosi a seguito della costruzione della Grande Diga di Aswan. Al termine dell’intervento, l’egittologo italiano ebbe la possibilità di aprire un cantiere di scavo in Sudan, e la scelta cadde sull’antica Napata. Le prime campagne furono condotte in una zona piú vicina alle coltivazioni, dove furono scavati due edifici sacri, risalenti al periodo meroitico (I secolo d.C.). In un secondo momento, il cantiere si spostò verso la montagna, dove la missione esplorò un’area in cui affioravano elementi architettonici in pietra. Anno dopo anno, fu rilevato il profilo di una monumentale piattaforma di fondazione (61 m di lato circa), con quattro ingressi, su cui era stato eretto un palazzo regale. Gli scarsi resti della decorazione sono ancora in grado di farci immaginare la ricchezza originaria di una struttura che doveva essere l’edificio principale dell’area, circondato da costruzioni che facevano parte di un sistema architettonico complesso, paragonabile al modello della città regale ellenistica.

tali, dominata da un grandioso palazzo a pianta quadrata, costruito su una piattaforma, con quattro ingressi, uno per ogni lato. Il nome del suo fondatore rimase a lungo sconosciuto, finché non fu rinvenuta una stele con un testo in meroitico corsivo (scrittura della lingua ufficiale del regno che aveva soppiantato, insieme con una versione geroglifica, la scrittura egizia nell’epigrafia regale). Nonostante il degrado della superficie, il testo restituí il nome di Amanitore, regina ben conosciuta nelle fonti insieme con il re Natakamani – uno degli ultimi grandi sovrani di Meroe (ora datato al I secolo d.C., ipoteticamente contemporaneo alla dinastia flavia della Roma imperiale) – e la cui attività costruttiva aveva interessato tutto il regno, da Meroe ai maggiori centri del Sud (Mussawwarat es-Sufra e Naqa), e ovviamente a Napata. Il programma architettonico di

Nel tempo, il cantiere vide operare archeologi e specialisti che qui si formarono e misero a frutto le proprie competenze, contribuendo alla ricostruzione del sistema di edifici regali. Dopo il pensionamento del professor Donadoni, la responsabilità dello scavo venne assunta dal suo successore, Alessandro Roccati. All’indomani del suo ritiro dalla docenza, la direzione passò al responsabile attuale, Emanuele M. Ciampini, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Nel corso degli anni, la Missione ha mantenuto rapporti costanti con i cantieri che operano nelle aree contigue del Jebel Barkal, come anche con istituzioni sudanesi, prime fra tutte l’autorità per la protezione delle antichità (National Corporation for Antiquities and Museums), e alcuni atenei, garantendo attività di formazione per studenti di diverse università. La Missione è anche parte del Qatar Sudan Archaeological Project, che del 2014 ha garantito un supporto finanziario e istituzionale essenziale, che va ad affiancarsi a quello garantito dalle istituzioni italiane. In questo ambito, la Missione ha condotto un ampio programma di indagini e di attività di divulgazione, di cui è parte anche la mostra «Il Leone e la Montagna».

Natakamani a Napata costituisce l’ultima fase di una «presenza» regale nella città, da sempre centro religioso legato al culto di Amon e, nello stesso tempo, luogo di legittimazione del potere regale. Al

termine della dominazione egizia, Napata divenne uno dei centri piú rappresentativi dei re di Nubia e ciò spiegherebbe il forte legame architettonico tra il tempio e un primo palazzo regale (B1200), lo-

Nella pagina accanto: un gruppo di statue di leoni al momento del ritrovamento, originariamente collocati presso l’ingresso nord del palazzo fatto costruire a Napata dal re

Natakamani, uno degli ultimi grandi sovrani di Meroe. In basso: il Jebel Barkal, la Montagna Pura, che domina il paesaggio dell’antica città di Napata.

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MOSTRE • ROMA

IL QUADRO GEOGRAFICO

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Sennar La moderna città di Karima, vista dal Jebel Barkal.

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Posta presso la IV cateratta del Nilo, l’area archeologica del Jebel Barkal, a ridosso del moderno centro abitato di Karima (North Sudan), ha costituito sin dalle origini un importante crocevia per le rotte carovaniere che si spingono a nord, verso la regione di Kerma (da indentificare con l’antica terra di Yam, di cui ci danno notizia i viaggiatori egiziani dell’Antico Regno), e a sud, attraverso il deserto del Bayuda, verso la congiunzione del Nilo Bianco con il Nilo Azzurro, dove è la capitale del moderno Sudan, Khartoum. In questa regione, crocevia di traffici e di genti, le fonti egizie descrivono un sito già prestigioso presso le popolazioni locali: l’area pianeggiante bagnata dal Nilo, che in questo tratto inverte il suo corso scorrendo da nord-est verso sud-ovest, è infatti caratterizzata da un massiccio roccioso, il Jebel Barkal, che sin dall’età piú antica deve aver colpito l’immaginario delle genti locali, che ne fecero un luogo sacro, associato a una divinità della fertilità, rappresentata in forma di ariete.

Diga Sadd al Ali

Città attuali Cateratte

Kosti


monialità legata alla presenza del re. Nonostante le distruzioni subite, l’edificio presenta le caratteristiche proprie di altri palazzi meroitici (Meroe, Muweis, Uad Ben Naqa, ecc.), anche se alcuni elementi della pianta, come, per esempio, l’insieme formato dalla corte a peristilio e l’ingresso monumentale a nord, possono essere letti come l’interpretazione meroitica del modello ellenistico di palazzo regale. Se la pianta richiama modelli esterni, lo stile è nubiano, come nel caso dei capitelli campaniformi delle colonne, a cui corrispondono lesene con capitelli compositi di stile ellenistico nei padiglioni degli ingressi monumentali. La pianta del palazzo evidenzia come le quattro entrate non siano in asse fra loro, ma presentino variazioni minime nella disposizione; l’ingresso ovest, inoltre, è provvisto di una rampa d’accesso tangente alla facciata della piattaforma, forse per la presenza di un altro edificio a ridosso del palazzo.

In alto: uno dei templi meroitici, dove la Missione Archeologica Italiana ha operato nel corso delle prime campagne di scavo.

Qui sopra: il re Natakamani (a sinistra) e la regina Amanitore ritratti sui piloni della facciata del tempio di Naqa, uno dei principali centri meroitici.

calizzato a sud del grande santuario di Amon. Fulcro della città regale meroitica, il palazzo di Natakamani, denominato B1500, determinò un piano

urbanistico che modificò in modo sostanziale un’area già occupata da edifici piú antichi e che si caratterizzò per l’assenza di edifici sacri, mentre risultava essenziale la ceri-

LE TECNICHE COSTRUTTIVE L’indagine delle murature ha individuato alcune tecniche dell’architettura meroitica, come l’uso di mattoni disposti verticalmente nelle fondazioni; altrettanto tipico è l’uso del mattone cotto per gli esterni, unito con intonaco idraulico che doveva proteggere la struttura dall’acqua della piena e (segue a p. 84)

Nella terra dei datteri L’area archeologica del Jebel Barkal è delimitata, a nord, dal moderno centro abitato di Karima, nata con l’arrivo della ferrovia progettata durante la dominazione inglese. Seguendo il corso del Nilo, la linea raggiungeva a sud Khartoum, mentre a nord si spingeva sino a Uadi Halfa, posto di frontiera con l’Egitto. Storicamente, la posizione di Karima è complementare a Marawy, capoluogo della regione e sede del governatorato durante la dominazione inglese,

sorta sulla riva opposta del Nilo; Karima e Marawy sono oggi collegate da un ponte e da una strada che, attraverso il deserto del Bayuda, consentono di raggiungere a sud Khartoum, e, a est, attraverso Atbara, Port Sudan. L’economia della regione si sostiene sulla palma da dattero, vera ricchezza dei campi che si estendono a ridosso del Nilo. Particolarmente rinomato è il mercato cittadino, che ben rappresenta il variegato mondo del Sudan moderno.

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Sulle due pagine: l’area archeologica del Jebel Barkal con il settore della città regale di Natakamani e gli edifici che lo compongono. 1. Uno dei due bacini in pietra rinvenuti nell’Edificio delle Vasche (B2200). 2-3. Il tempio di Amon di Napata (a sinistra) e il palazzo regale di Natakamani ripresi dalla sommità del jebel. 82 a r c h e o


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4. Resti delle strutture murarie pre-palaziali, sepolte sotto le fondazioni del palazzo regale di Natakamani. 5. Base di colonna e capitello campaniforme in stile nubiano dall’edificio B2100. 6. Statua di leone, dall’ingresso sud del palazzo di Natakamani. Karima, Museo.

IL SITO ARCHEOLOGICO Dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, l’area del Jebel Barkal corrisponde alla parte cerimoniale dell’antica Napata; il sito comprende tre diversi settori. Il settore templare, dove sono state trovate le piú antiche attestazioni faraoniche (Thutmosi III, XVIII dinastia, XV secolo a.C.), comprende edifici di varia epoca, legati al culto di Amon della Montagna Pura (antico nome del Jebel Barkal).

A ridosso dei templi, verso sud-ovest, è una vasta area cimiteriale, dominata da due complessi monumentali con piramidi, la cui datazione è piú bassa del settore dei templi (dal periodo napateo al meroitico iniziale, VIII-III secolo a.C. circa). Ultimo in ordine cronologico è il settore palaziale, che si estende a nord-ovest dell’area sacra, legato all’attività di uno dei piú potenti sovrani del regno di Meroe, Natakamani (I secolo d.C.).

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MOSTRE • ROMA

LA RISCOPERTA DI NAPATA La riscoperta dei monumenti ai piedi del Jebel Barkal comincia all’inizio del XIX secolo, quando il francese Frédéric Caillaud (17871869) visita l’area e ne dà notizia nel Voyage à Meroë, au fleuve Blanc, au-delà de Fazoql dans le midi du royaume de Snnâr à Syouah et dans cinq autres oasis, edito a Parigi (1826-1827). I suoi disegni costituiscono una testimonianza preziosa di strutture che, successivamente, sono state oggetto di distruzioni piú o meno estese; un caso emblematico è il tempio di Mut (B300), che ai tempi di Caillaud ancora conservava

numerose colonne del cortile, poi abbattute. In seguito, Richard Lepsius (1851-1915), a capo di una spedizione scientifica prussiana, documenta in modo eccezionale i monumenti di Napata, lasciandoci una serie di tavole nel V volume dei Denkmaeler aus Aegypten und Aethiopien (1849), ancora oggi supporto essenziale per lo studio delle antichità del sito. Nella prima metà del XX secolo, il sito venne investigato dall’archeologo statunitense George Reisner (1867-1942), che qui aprí un cantiere di scavo sotto l’egida del Museum of Fine Arts di

della pioggia; in alcuni punti, come le lesene, l’intonaco era dipinto con colori che comprendono il rosso, il giallo e il blu insieme con il bianco di fondo. Per l’interno dei muri si impiegava invece il mattone crudo, il materiale per eccellenza dell’architettura meroitica. L’uso della pietra si limitava a parti specifiche (soglie, basi e fusti di colonne, capitelli, cornici); si

tratta in genere di arenaria locale, rifinita con uno strato d’intonaco che poteva essere poi dipinto. Strutture piú antiche individuate al di sotto delle fondazioni del palazzo testimoniano l’uso dell’area già nel III-II secolo a.C.; una fase piú antica si riconosce, per esempio, in un settore chiuso dalle murature di fondazione a casematte della piattaforma palaziale, presso l’ingresso

Boston e della Harvard University, prestando particolare attenzione agli edifici in pietra, primi fra tutti i templi. Il suo intervento è stato determinante anche per la mappatura dei monumenti, ancora oggi identificati per mezzo di sigle stabilite secondo il suo criterio. L’area archeologica è stata in seguito indagata da varie équipe di ricerca: la missione del National Corporation for Antiquities and Museums sudanese, succeduta al cantiere del Fine Arts Museum di Boston nell’area dei templi; la Missione Archeologica spagnola, che ha lavorato nell’area della

In alto: capitello di lesena in stile composito alessandrino, intonacato e dipinto. A sinistra: base di lesena della facciata del palazzo con intonacatura e resti di pittura.

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necropoli ai piedi del Jebel (a cui è poi succeduta un’altra missione dell’Università di Barcellona, che ha scavato un edificio sacro nel centro abitato di Karima); l’Università di Cassino, che ha investigato l’area di Sanam, sulla riva opposta del Nilo; infine, la missione della Michigan University di Chicago, che esplora l’area coltivata, a est della zona piú a ridosso del Jebel. Di questo gruppo di cantieri fa parte la Missione Archeologica Italiana in Sudan-Jebel Barkal, che, fin dalla sua fondazione, ha garantito una presenza costante sul sito.

prevedeva anche strutture minori, come le due piattaforme identificate a nord e a ovest: la prima, adiacente alla facciata nord, fu inizialmente interpretata come accesso secondario, per poi essere identificata come funzionale a cerimo-

nie regali; la seconda sorge invece in corrispondenza della rampa d’ingresso ovest, tangente alla facciata del palazzo e forse orientata verso un percorso cerimoniale legato al grande tempio di Amon. Di questo superbo edificio riman-

ovest: nel 2016, qui è stato individuato un magazzino con vasi capovolti, parzialmente sepolti dalle fondazioni; al centro vi era un’installazione di cucina datata al periodo d’uso del palazzo, con fuochi che conservavano ancora tracce di cenere e carbone. Connessa con questo settore è poi un’area destinata allo stoccaggio di beni e derrate. Nel 2017, poi, sono stati portati alla luce ulteriori tratti murari pertinenti alla fase pre-palaziale e conservati probabilmente per conferire maggiore stabilità alla parte centrale dell’edificio, in un punto non pianeggiante.

QUANDO APEDEMAK SOPPIANTÒ AMON I quattro ingressi del palazzo presentavano padiglioni colonnati, decorati con statue di leoni, riproponendo cosí un tema decorativo già conosciuto in Egitto, ma che il regno di Meroe declinò in una forma nuova e caratteristica: il leone incarnava infatti la regalità, e, nello stesso tempo, evocava Apedemak, figura di spicco del pantheon meroitico che si sovrappose ad Amon. L’arredo architettonico del palazzo

Echi ellenistici Ricostruzione grafica della corte a peristilio del palazzo di Natakamani, uno degli elementi architettonici intepretabili come una rilettura dei modelli ellenistici (ricostruzioni di S. Callegher, in alto, e S. Barberini, in basso).

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MOSTRE • ROMA

gono oggi ben poche vestigia: l’abbandono conseguente al declino del regno di Meroe e la successiva spoliazione ne hanno causato il progressivo degrado, a cui si sono aggiunte le ripetute asportazioni di mattoni crudi, utilizzati come fertilizzante nei campi. Le poche strutture superstiti vennero poi usate da popolazioni locali seminomadi, che si insediarono nell’area, dopo il crollo del regno di Meroe.

LA CITTÀ REGALE Il grande palazzo di Natakamani costituisce il nucleo di un sistema di edifici che formano un’area omogenea, definibile, con una terminologia mutuata dalla cultura ellenistica, città regale. Sebbene la comprensione completa di questo sistema sia ancora lontana, la sua natura doveva essere funzionale non soltanto allo spazio cerimoniale di Napata, ma all’ideologia stessa del regno di Meroe. Della città fanno parte edifici tipici della cultura meroitica, come i chioschi, ma anche strutture peculiari, come quella ancora in corso di indagine e caratterizzata dalla presenza di una coppia di vasche in pietra. L’impianto di questi edifici ha almeno in parte sfruttato strutture piú antiche che, come nel caso del palazzo, furono usate come fondazione. Un dato significativo, se legato al programma architettonico di Natakamani: la scelta di questo settore, già occupato da altre fondazioni e da almeno un palazzo piú antico (B2400), dovette infatti comportare un notevole impegno di maestranze e di risorse, ancor prima di procedere all’edificazione della città regale, la cui creazione è quindi segno di una precisa volontà da parte del sovrano, che configura cosí un ampio settore dell’antica Napata e ne sottolinea la sua funzione di centro della regalità, dove si svolgono cerimonie di incoronazione e legittimazione. In attesa di chiarire la funzione 86 a r c h e o

specifica di ogni singolo edificio, se ne può delineare la funzione generale e, in un caso almeno, ipotizzarne l’uso con una maggiore precisione. Si tratta, nel complesso, di strutture e spazi funzionali alle cerimonie della regalità; una tipologia ricorrente di edificio è il chiosco monumentale che, insieme con i padiglioni, caratterizza l’area e i percorsi che dovevano diramarsi intorno al palazzo, creando uno scenario spettacolare per lo svolgimento delle cerimonie di corte. Il chiosco sembra essere un elemento tipico dell’architettura meroitica, e ritorna in contesti templari, come dimostra il celebre chiosco ellenistico di Naqa, o il padiglione eretto da Natakamani nel tempio di Amon a Napata. Un esempio di chiosco monumentale nella città regale di Napata è il B2300, eretto ai piedi del jebel e caratterizzato da un’architettura eclettica, in cui lo stile nubiano dei

capitelli si sposava con modelli compositi di tradizione faraonica ed ellenistica. Un eclettismo simile caratterizza l’edificio B2100, eretto a ovest del palazzo, consistente anch’esso in un impianto con colonne che chiudono uno spazio (forse un chiosco); accanto allo

In alto: statuetta raffigurante il dio leone Apedemak a corpo di serpente, dall’Edificio delle Vasche (B2200). Apedemak era una figura di spicco del pantheon meroitico e si sovrappose ad Amon. In basso: frammento di vaso per cerimonie lustrali in ceramica dipinta

sul quale sono rappresentate rane alternate con l’ankh, il simbolo egiziano della vita, dall’Edificio delle Vasche. Nella pagina accanto: frammento di terracotta architettonica con testa di tipo ellenistico, che in origine decorava la facciata del palazzo.


CRONOLOGIA Anni

Periodo

1500 a.C Dominazione egiziana

Fatti Thutmosi III (stele con la prima testimonianza della presenza egizia al Jebel Barkal, XV sec. a.C.). Vicereame di Kush (controllo amministrativo e politico della Nubia). Edificazione e ampliamento del tempio di Amon di Napata (epoca ramesside, XIII-XII sec. a.C.). Fine della dominazione egizia in Nubia (X sec. a.C.).

1000 a.C Periodo napateo

Affermazione di un casato locale; necropoli a el-Kurru. Piankhi (VIII sec. a.C.: spedizione in Egitto; inizio del periodo napateo). XXV dinastia (VIII-VII sec. a.C.: casato che unisce Egitto e Nubia. Napata è città regale; necropoli regale a Nuri). Invasione assira: il potere nubiano abbandona l’Egitto. Casato che controlla la Nubia. Sviluppo di una cultura e un’ideologia impregnati di elementi faraonici.

500 a.C. Periodo Meroitico

Spostamento della capitale e della necropoli regale a Meroe (IV sec. a.C.). Periodo di fioritura del regno di Meroe. Rapporti con Roma; trattato di Samo. Regno di Natakamani (I sec. d.C.: edificazione della città regale meroitica di Napata).

0

Declino del regno di Meroe. Collasso del regno di Meroe (IV sec.: stele di Ezana, re di Axum: Meroe è ormai abbandonata). Periodo post-Meroitico 500 d.C.

Nascita di regni autonomi in Nubia: Nobades e Nuba (V sec. d.C.). Nascita dei regni cristiani di Alodia, Makuria e Nobadia.

stesso eclettismo che caratterizza il B2300, si nota in questo caso anche la presenza di una tipologia di colonna con capitello a cubo, proprio dell’architettura meroitica. Analogo ai chioschi sembra essere anche il padiglione B3200, solo in parte scavato, con corridoi che delimitano uno spazio centrale con

due passaggi che lo identificano come struttura di transito eretta su un percorso cerimoniale. L’uso di colonne come tratto distintivo dell’architettura ritorna anche nell’edificio B1800, il cui fronte si apriva verso la zona dei templi e con i quali doveva avere una qualche relazione. a r c h e o 87


MOSTRE • ROMA

egiziano (ankh), decoravano un grande vaso i cui frammenti sono stati scoperti nell’Edificio delle Vasche, e il cui uso era funzionale alle cerimonie di lustrazione svolte nell’edificio stesso. La ricchezza del palazzo è anche riflessa dai resti dei sistemi di gestione dei magazzini di beni e prodotti, funzionali alla presenza del re nel palazzo; il controllo delle ricchezze è testimoniato dalle cretule, sulle quali troviamo riproposti temi diversi, alcuni conosciuti anche in altri siti del regno; un patrimonio di rappresentazioni che ci dà testimonianza di un sistema di controllo riIn alto: l’impianto dei focolari nel settore ovest del palazzo di Natakamani; goroso ed efficiente, in primo piano, vasi da stoccaggio datati al periodo pre-palaziale, in grado di supportare la sepolti al di sotto delle fondazioni palaziali. presenza del re e della sua A destra: ansa di recipiente (?) in bronzo decorata in forma di ureo. corte durante i periodi d’uPiú particolare è invece il cosid- dimostrano gli influsso del palazzo. detto Edificio delle Vasche si ellenistici, integrati Di questo mondo lontano, la (B2200), caratterizzato appunto in un insieme eclettico e orMissione Archeologica Italiana da due vasche in pietra, probabil- ganico. Un buon esempio sono i cerca di restituire l’antico splendomente usate nel corso di cerimo- frammenti di elementi in bronzo, re: un lavoro affascinante, che, tasnie legate alla festa del Nuovo una produzione che testimonia un sello dopo tassello, ricostruisce il Anno, quando la piena del Nilo gusto definito, espressa anche in quadro complesso di una cultura e rappresentava il rinnovamento del produzioni di foggia ellenistica, di un regno che seppe misurarsi mondo e del potere regale; nel come la lampada che appartiene a con la potenza imperiale di Roma, corso della festa, la coppia regale si una tipologia ben conosciuta a con la quale ebbe scontri militari e bagnava probabilmente nelle va- Meroe. Al gusto eclettico appar- rapporti diplomatici, nonché insche, e l’acqua che usciva dagli tengono le terracotte architetto- tensi scambi commerciali. alvei per mezzo di appositi fori, niche che decoravano la facciata dopo aver percorso un corridoio del palazzo e alcune parti interne; DOVE E QUANDO sinuoso, si disperdeva in una corte, questi elementi r ipropongono evocando il percorso del fiume e motivi meroitici, come il leone di «Il Leone e la Montagna. la sua potenza vitale e rigenerante. Apedemak, insieme con altri dio- Scavi Italiani in Sudan» nisiaci di tradizione ellenistica. Roma, Museo di Scultura I MATERIALI E GLI ARREDI Altrettanto rappresentativa del gu- Antica Giovanni Barracco La distruzione degli edifici della sto del tempo è la produzione ce- fino al 19 gennaio città regale di Natakamani si è ramica, che, accanto a tipologie piú Orario ma-do, 10,00-16,00; accompagnata alla sistematica spo- comuni, è rappresentata da forme 24 e 31 dicembre, 9,00-14,00; liazione dei materiali di pregio raffinate, con decorazione dipinta chiuso lunedí, 25 dicembre, delle architetture e dei suoi ricchi che ripropone temi cari alla tradi- 1° gennaio elementi di arredo; ciononostante, zione meroitica. Troviamo motivi Info tel. 06 06 08 le tracce superstiti sono in grado di origine vegetale (festoni, rami di (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00) di restituirci un’idea della loro palma, ecc.), uniti a motivi animali www.museobarracco.it; antica ricchezza e raffinatezza. I quali rane e scimmie; in alcuni www.museiincomune.it resti degli arredi sono importanti, casi, la decorazione si lega a conce- Note nel febbraio 2020 la mostra perché testimoniano una cultura zioni particolari, come le rane che, sarà ospitata dall’Università che si apre a modelli esterni, come alternate con il segno della vita Ca’ Foscari di Venezia 88 a r c h e o



MOSTRE • RAVENNA

COM’È VICINO IL MARE... IL MUSEO CLASSIS RAVENNA INAUGURA GLI SPAZI DESTINATI ALLE ESPOSIZIONI TEMPORANEE CON UNA RASSEGNA DI MAGNIFICI MOSAICI PAVIMENTALI DI EPOCA ROMANA A SOGGETTO MARINO, DIFFUSI SOPRATTUTTO NELLA DECORAZIONE DELLE RESIDENZE DI LUSSO a cura della Redazione 90 a r c h e o


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e potenzialità espressive dell’arte del mosaico e l’ancestrale rapporto fra Ravenna e il mare sono i temi portanti di «Tessere di mare. Dal mosaico antico alla copia moderna», la mostra con cui il Museo Classis Ravenna (vedi «Archeo» n. 409, marzo 2019; anche on line su issuu. com) inaugura gli spazi riservati alle esposizioni temporanee. Protagonisti della rassegna sono dunque mosaici pavimentali romani a soggetto marino di particolare impatto provenienti dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli e un grande mosaico antico, sempre a tema marino, rinvenuto a Populonia. Di quest’ultimo la Fondazione Parco Archeologico di Classe ha realizzato una copia da collocare nel luogo del rinvenimento al posto dell’originale. Questa operazione è la premessa al secondo tema dell’esposizione, che è quello dei mosaici esposti per ragioni di tutela nei musei, ma «evocati» da copie moderne realizzate per essere collocate in situ, con modalità di tutela e valorizzazione fortemente innovative. Il percorso espositivo si completa pertanto con tre repliche di mosaici antichi, anch’esse a tema marino, provenienti dalla collezione del maestro Severo Bignami, che testimoniano l’abilità artigianale del mosaico nel solco della tradizione ravennate delle copie d’autore.

DALLA CASA DEL FAUNO Il mosaico con scena marina e pesci esposto nella sala dei mosaici dalla Casa del Fauno di Pompei confluí nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli per ragioni conservative in seguito alle esplorazioni archeologiche del XIX secolo. La Casa del Fauno è una delle domus romane piú ricche e famose della città vesuviana e si estende su circa 3000 mq. Nella prima metà del II secolo a.C. l’edificio venne ricostruito, abbattendo il precedente del III secolo

In alto: mosaico con pesci e scena di naufragio, da Populonia. I sec. a.C. Piombino, Museo Archeologico del Territorio di Populonia. Nella pagina accanto: mosaico con fauna marina, dalla Casa del Fauno di

Pompei. Fine del II sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In basso: mosaico con scena nilotica e pigmeo pescatore, dall’area vesuviana. Fine del II o inizi del I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

a.C., nelle forme di cui si conservano la maggior parte degli ambienti. La casa aveva due atri e due peristili con molti altri vani. Piú tardi, alla fine del II secolo a.C., fu realizzato un nuovo apparato decorativo, al quale appartiene il mosaico ora a Ravenna, grazie all’eccezionale prestito concesso dal MANN. Il tappeto musivo corrisponde alla

parte centrale del piú ampio pavimento di una sala da pranzo (triclinio). In basso, al centro, si vede lo sfondo di una veduta marina, chiusa ai lati da scogli, con una lotta fra un polpo e un’aragosta. Tutt’intorno si distribuiscono altri pesci, crostacei, molluschi marini e uccelli. Il soggetto e le tecnica finissima del mosaico risentono del modello

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MOSTRE • RAVENNA

adottato dalla committenza nel complessivo programma decorativo della casa, che evoca un ambiente culturale specifico, allineato soprattutto con Alessandria d’Egitto, centro del mondo ellenistico. Non a caso, alla stessa domus appartiene il celeberrimo mosaico con la battaglia di Alessandro. Un contesto culturale che matura quando, dalla fine del III secolo a.C., le alleanze poli92 a r c h e o

In questa pagina: copie da mosaici originali romani. Da sinistra, in senso antiorario: pseudoemblema con scene di pesca, da Leptis Magna (III sec. d.C.); emblema con pesci e anatre, dalla Casa del Granduca di Toscana a Pompei (I sec. d.C.); barca con marinai, pannello del pavimento della basilica di Olbia (VI sec. d.C.).

È altresí probabile che la composizione sia opera di una bottega di mosaicisti nutriti di cultura attinente al mondo ellenistico orientale.

tiche e le conquiste romane innescano gli scambi commerciali e culturali con il Mediterraneo orientale, con partenze e arrivo di merci e relazioni attraverso collegamenti marittimi da e per Pozzuoli. Ad Alessandria si coltivava lo studio della flora e della fauna e si suppone che la precisa descrizione delle specie animali e vegetali che caratterizza il mosaico sia di scuola alessandrina.

scena nilotica con figure di animali e un pigmeo pescatore, sopra il quale si trova una maschera teatrale. Si tratta dei cosiddetti paesaggi nilotici, caratterizzati da visioni esotiche e attraenti, con raffigurazioni d’acqua e di terra che si mescolano in una sorta di caos primigenio, come avviene nel delta del Nilo, pullulante di animali e di uccelli, di uomini (nella maggior parte dei

PROSPERITÀ DALL’ACQUA È invece ignota la provenienza delle due lastre di mosaico dall’area vesuviana, riscoperte nei depositi del Museo Archeologico Nazionale di Napoli in occasione della mostra «Mito e Natura» svoltasi nel 2016. Le lastre sono costituite dall’assemblaggio di parti a mosaico non coerenti anche se riferibili a un unico pavimento. La prima lastra presenta una scena di carattere nilotico al di sopra della quale ci sono i resti di un «quadro» con maschera teatrale poggiata su uno sfondo di foglie di vite. La seconda rappresenta una


casi pigmei) in un coloratissimo melange di vita e di piante lussureggianti, descritto pittoricamente o, attraverso le tessere dei mosaici. I modelli figurativi derivavano dalla pittura ellenistica alessandrina che si diffondono in ambito romano, fino all’epoca imperiale, grazie ai rapporti culturali e commerciali tra Alessandria d’Egitto e l’Italia. Molti artefici di questi mosaici provengono da centri ellenistici ed erano reclutati per decorare le sontuose dimore romane. La penetrazione di un paesaggio «alternativo» negli spazi della vita quotidiana, all’interno delle abitazioni aristocratiche, non testimonia soltanto il desiderio di evocare atmosfere lontane, ma si collega al segno distintivo dell’abbondanza del Nilo come elemento

In questa pagina: particolari dell’allestimento della mostra, che segna l’inaugurazione dell’area del Museo Classis Ravenna adibita alle esposizioni temporanee.

propiziatorio collegato alla prosperità e alla fortuna. Lo sviluppo di questa tipologia figurativa ha lasciato eccezionali sperimentazioni in Italia, come il celeberrimo mosaico nilotico di Palestrina. La lettura delle lastre risulta alterata dall’assemblaggio effettuato in passato, ma è probabile che esse costituissero la cornice di un mosaico pavimentale con una rappresentazione centrale (emblema), il cui soggetto rimane sconosciuto. La lavorazione dei mosaici suggerisce una datazione tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C., nell’ambito degli ambienti di maggior rappresentanza delle ricche case romane dell’area vesuviana.

UN PAVIMENTO MUSIVO Nel 1842, presso l’acropoli di Populonia, durante lavori agricoli nella vigna di un privato, posta sopra ai resti monumentali de «Le Logge», si rinvenne casualmente un magnifico mosaico con raffigurazione di pesci e scena di naufragio, datato al I secolo a.C. La composizione rappresenta un fondo marino popolato di pesci e molluschi di diverse specie – granceole, granchi, scorfani, seppie, murene, spigole – e un’insolita a r c h e o 93


MOSTRE • RAVENNA

In alto: fascia a mosaico con scena nilotica, dall’area vesuviana. Fine del II o inizi del I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In basso: ancora un’immagine dell’allestimento della mostra.

scena di naufragio. Al pari degli altri esemplari presenti in mostra, il mosaico si inserisce in una serie di raffigurazioni di genere che hanno il loro prototipo in originali dipinti noti ad Alessandria d’Egitto. Cosí come si presenta oggi, l’opera – conservata nel Museo Archeologico del Territorio di Populonia a Piombino – è il risultato di una serie di interventi successivi al rinvenimento, che è bene ricordare. In origine, esso presentava un’ampia lacuna centrale e una piú piccola nel lato destro. Nel 1932, durante

un trasferimento, subí uno sfortunato incidente stradale: «Il mosaico andò in mille pezzi ed è stato poscia restaurato (...) la parte antica è stata restaurata assai bene; ma la parte centrale, che mancava, è stata completata dal restauratore in modo non troppo soddisfacente». Un recente restauro è stato finalizzato alla sola rimozione del cemento armato che fungeva da supporto, mentre le integrazioni storiche, ritenute ormai parte integrante dell’opera, non sono state rimosse. Diverso è stato invece l’approccio

nella realizzazione della replica da collocare in situ, curata dal Laboratorio di Restauro di RavennAntica. La direzione dei lavori ha deciso di realizzare una copia fedele all’antico solo per la porzione di mosaico originale, utilizzando materiale della stessa tipologia e colore; mentre per la porzione di rifacimento è stato realizzato un calco monocromo in resina. Una soluzione entrata a buon diritto a far parte di una nuova metodologia di conservazione, coadiuvata da ulteriori aspetti finalizzati alla didattica e alla valorizzazione. DOVE E QUANDO «Tessere di mare. Dal mosaico antico alla copia moderna» Classe-Ravenna, Classis RavennaMuseo della Città e del Territorio, Parco Archeologico di Classe fino al 6 gennaio 2020 Orario fino al 24 dicembre: ma-do, 10,00-18,00; 25 dicembre chiuso; dal 26 dicembre al 6 gennaio 2020: tutti i giorni, 10,00-18,00 Catalogo Fondazione RavennAntica Info tel. 0544 473717; classisravenna.it

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SPECIALE • ANTIOCHIA

ANTIOCHIA RITROVATA

CAPITALE DELLA PROVINCIA ROMANA DI SIRIA, LA CITTÀ SULL’ORONTE FU, DA SEMPRE, CELEBRE PER LA SUA RICCHEZZA E MAGNIFICENZA. UNA FAMA CONFERMATA, IN ETÀ MODERNA, DAI MERAVIGLIOSI MOSAICI RIPORTATI ALLA LUCE DURANTE GLI SCAVI ARCHEOLOGICI CONDOTTI NEGLI ANNI TRENTA DEL NOVECENTO, MA IN SEGUITO DISPERSI, IN GRAN PARTE, IN MUSEI E COLLEZIONI DI TUTTO IL MONDO. OGGI, LA COSTRUZIONE DI UN HOTEL NEL CENTRO CITTADINO HA PORTATO A UNA SCOPERTA INATTESA E DEL TUTTO STRAORDINARIA. NE DIAMO NOTIZIA IN QUESTE PAGINE, IN UN REPORTAGE ESCLUSIVO PER I NOSTRI LETTORI di Andrea De Pascale, con un reportage fotografico di Roberto Russo 96 a r c h e o


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ià nell’antichità, molte città suscitavano, anche solo per sentito dire, grande ammirazione per la loro estensione, per la loro ricchezza e per la quantità e qualità di merci provenienti da tutto il mondo allora conosciuto. Una di esse fu Antiochia sull’Oronte, che superò molti altri centri urbani per dimensioni e fasti, tanto da essere ritratta come una figura seduta in trono al pari di Roma e Costantinopoli nella Tabula Peutingeriana, celebre copia medievale di un’antica carta romana che mostra le vie militari dell’impero. Numerose fonti antiche tratteggiano l’immagine di una metropoli ricca e stupenda. Dal punto di vista archeologico conosciamo poco della sua esatta topografia, dell’urbanistica e dei suoi monumenti. Infatti, terribili terremoti la sconvolsero, gli scavi degli anni Trenta del Novecento furono limitati e oggi vi è difficoltà a raggiungere i resti archeologici sotto la città moderna, a diversi metri di pro-

Salvo diversa indicazione, tutte le immagini si riferiscono al Museum Hotel di Antakya (Antiochia) e ai resti archeologici musealizzati al suo interno. Sulle due pagine: una veduta d’insieme del sito: dai passaggi aerei dell’hotel e dalle camere sono ben visibili i resti archeologici sottostanti.

fondità, a seguito delle devastanti alluvioni verificatesi nel corso dei secoli.

POPOLOSA E FIORENTE La sua magnificenza è dovuta al fatto che Antiochia fu, per quasi un millennio, uno dei centri piú importanti degli imperi greco, romano e bizantino (vedi box alle pp. 100-101). Nel I secolo d.C. la sua popolazione era al terzo posto dopo Roma e Alessandria d’Egitto, con oltre 300 000 abitanti (500 000 contando anche gli schiavi), vera e propria metropoli del Mediterraneo orientale, capitale politica e commerciale del Vicino Oriente. Oggi Antiochia è un vivace e multietnico centro economico nella moderna Repubblica di Turchia, punto d’incontro e di dialogo tra musulmani, cristiani cattolici, ortodossi e siriaci, tutti con i loro luoghi di culto regolarmente officiati, capoluogo della provincia di Hatay, al confine con la Siria. Una città con un bel centro storico, caratterizzato da antichi a r c h e o 97


SPECIALE • ANTIOCHIA

caravanserragli e case di stile ottomano. Un’antica capitale, insomma, al cui già rilevante patrimonio archeologico si è aggiunto, da poco piú di un mese, un sito unico al mondo per caratteristiche e stato di conservazione dei ritrovamenti.

NEI PRESSI DELL’ANTICA STRADA Nel 2009, a poche centinaia di metri dal Museo Archeologico Nazionale di Hatay (vedi box alle pp. 106-107) e dalla chiesa di S. Pietro (vedi box a p. 103), in un’area di circa 20 000 mq, furono avviati i lavori per la realizzazione di un grande albergo, il cui progetto prevedeva 400 camere e un piano interrato da destinare a parcheggi e servizi. La zona era considerata ad alto rischio archeologico, in quanto adiacente al tracciato dell’antico cardo massimo, oggi Kurtulus Çaddesi. Questo asse viario romano, orientato nord-sud, attraversava per oltre tre chilometri la città. Fu pavimentato in marmo a spese di Erode il Grande, re della Giudea sotto il protettorato romano dal 37 al 4 a.C., mentre

Nella pagina accanto: mappa dell’antica Antiochia. Il rettangolo rosso indica la posizione del Museum Hotel. In basso: l’edificio del Museum Hotel.

l’imperatore Tiberio, agli inizi del I secolo d.C., vi fece aggiungere un portico colonnato su entrambi i lati. Iniziati gli scavi, furono rinvenuti pochi resti archeologici. Le scoperte piú sensazionali hanno avuto luogo quando si è deciso di approfondire le indagini per realizzare un ulteriore piano interrato rispetto al progetto originario. Senza tale modifica progettuale oggi non potremmo godere degli inestima(segue a p. 102)

L’area scelta per la costruzione del Museum Hotel era ritenuta ad alto rischio archeologico e gli scavi lo hanno confermato, ben oltre le previsioni


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SPECIALE • ANTIOCHIA

UNA LUNGA E GRANDE STORIA Antiochia venne fondata nel 300 a.C. da Seleuco I Nicatore (358-281 a.C.), diadoco di Alessandro Magno e primo sovrano dell’impero seleucide a cui diede il nome, poco dopo aver sconfitto il rivale Antigono nella battaglia di Ipso, aggiungendo cosí l’Asia minore e la Siria ai suoi domini. Posta al centro di un piana tra i ripidi pendii del monte Silpius e la riva sinistra del fiume Oronte, la città venne cosí chiamata dal nome di suo padre. Ampliata per ben tre volte in età ellenistica, rimase

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nominalmente la capitale seleucide, ma, a seguito della frammentazione dell’impero alla fine del II secolo a.C., vide passare gran parte della sua autorità verso altri centri, tra cui Damasco. In seguito a un periodo di anarchia, i Romani ne assunsero il controllo nel 64 a.C. quando il generale Pompeo si spostò a sud dopo aver ripristinato l’ordine in Cilicia e quindi puntò a est. I Romani mantennero Antiochia come capitale della nuova provincia della Siria, confermandole il ruolo

di grande metropoli della regione. Molti imperatori la abbellirono con splendidi edifici, santuari e opere d’arte. Diversi autori antichi, tra cui Libanio, Procopio e Malala, ritenevano che alcuni suoi monumenti fossero piú sontuosi di quelli che adornavano Roma. Tra questi vi erano un grande stadio e il palazzo voluto da Diocleziano (imperatore dal 284 al 305), costruito a nord della città ellenistica, su un terreno che all’epoca si trovava su un’isola formata dalla divisione del letto


principale dell’Oronte. Con il procedere delle guerre contro Parti e Sasanidi, Antiochia divenne di fatto la sede degli imperatori desiderosi di condurre personalmente le campagne contro gli unici rivali che potevano realmente minacciare Roma. Tuttavia, la città cadde piú volte in mano alle potenze orientali. Nel 260 Shapur I, il sovrano sasanide che regnò sulla Persia dal 241 al 270, sconfiggendo ben tre imperatori romani, entrò a sorpresa in Antiochia, mentre la maggior A destra: ricostruzione di Antiochia agli inizi del IV sec. d.C. L’ovale rosso indica il punto in cui oggi sorge il Museum Hotel di Antakya (da Kayhankaplan, deviantart.com). A sinistra: Antiochia in epoca ottomana, alla base della catena di rilievi chiamati nell’antichità monte Silpius e monte Stauris, incisione di William Miller su schizzo di Byam Martin. 1866.

parte dei suoi abitanti era a teatro per assistere a uno spettacolo, seminando il panico. Pochi anni piú tardi, dal 266 al 272, la città fu assoggettata dalla regina Zenobia. Anche il re sasanide Cosroe I la conquistò nel 540, quando il prestigio di Roma in Oriente toccò uno dei suoi livelli piú bassi. Antiochia divenne precocemente un importante centro cristiano. San Pietro visse qui per un certo periodo, predicando il nuovo credo. Con il Concilio di Nicea del 325, la città venne riconosciuta come una delle tre sedi patriarcali della Chiesa e svolse un ruolo vitale nello sviluppo teologico, in particolare nelle lotte contro arianesimo, nestorianesimo e monofisismo, le «eresie» orientali. Nel corso dei secoli la città fu colpita da numerosi terremoti, almeno tredici tra il 148 a.C. e il 589 d.C.: come racconta lo storico romano Lucio Cassio Dione (155-235 d.C.), anche Traiano, nel 115 d.C., mentre si trovava nel palazzo imperiale antiocheno, fu coinvolto nel sisma che quell’anno distrusse

gran parte della metropoli e uccise migliaia di persone. L’imperatore, ferito, si salvò fuggendo da una finestra e riparò nel circo, dove rimase alloggiato in una tenda per alcuni giorni. Il VI secolo d.C. fu particolarmente pesante: un terribile incendio nel 525, poi i terremoti nel 526 e nel 528, oltre al già ricordato saccheggio dei Sasanidi nel 540, portarono la città al collasso, rendendo necessaria una profonda ricostruzione sotto Giustiniano. Furono rinnovate le mura difensive, ma Antiochia non tornò piú ai fasti precedenti, rimanendo per circa un secolo sospesa in una dimensione lontana dall’antica gloria, fino al 637, quando cadde sotto il dominio degli Arabi, che la governarono per oltre tre secoli. Nel 969 la città venne sottratta agli Arabi e tornò a essere bizantina, fino al 1084, quando arrivarono i Turchi Selgiuchidi. Ripresa dai crociati nel 1098, rimase un principato franco fino al 1268, ma venne poi annientata dal sultano mamelucco Baybars I.

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bili ritrovamenti che caratterizzano il Museum Hotel di Antakya. Se quanto tornato alla luce già nei primi metri di scavo mise immediatamente in chiaro che l’area non avrebbe potuto ospitare un edificio come quello inizialmente pensato, gli ulteriori saggi a maggiore profondità realizzati attraverso ventinove pozzi, aprirono la questione cruciale: che cosa fare? La famiglia Asfuroglu, a capo dell’operazione per la realizzazione dell’albergo, imprenditori attivi nel settore energetico e turistico, non ha avuto dubbi sulla risposta: proseguire i lavori e trovare l’equilibrio perfetto tra conservazione archeologica e business. Con un pizzico di follia e lo spirito di mecenati di altri tempi, gli Asfuroglu hanno comunicato al Ministero della Cultura di Turchia di volere procedere con le indagini e di essere disposti ad accollarsi tutti gli oneri per riportare alla luce in102 a r c h e o

Qui sopra, a sinistra: uno dei nove pannelli del grande mosaico con motivi geometrici. IV sec. d.C. Si notano le deformazioni «a onda» causate dal terremoto del 526 d.C. che distrusse la città. Nelle zone danneggiate, emerge il sottostante livello di preparazione costituito da ciottoli e malta.


tegralmente l’area archeologica e, nel contempo, trovare una soluzione per realizzare un albergo unico al mondo.

DALLO SCAVO ALLA MUSEALIZZAZIONE Gli scavi sono cosí stati affidati al Museo Archeologico di Antakya, sotto la direzione di Nalan Çopuroglu Yastı, e alla locale università, con la direzione della professoressa Hatice Pamir, una delle maggiori esperte sui mosaici di Antiochia (vedi box alle pp. 104-105). Per la progettazione del nuovo albergo, è stato invece scelto Emre Arolat, architetto turco di fama Nella pagina accanto, in alto, a destra e in basso sulle due pagine: fra le strutture archeologiche riportate alla luce, vi è una grande strada lastricata, con le sue opere di scolo delle acque, fiancheggiata da edifici. IV-V sec. d.C. A destra: la chiesa di S. Pietro, che sorge alla base della falesia del monte Habib-i Neccar. Presenta una facciata di epoca medievale, risalente al periodo delle crociate.

LA CHIESA DEI PRIMI CRISTIANI La storia di Antakya è profondamente legata al cristianesimo e, in particolare, la chiesa di S. Pietro ricopre un significato speciale. Pur non essendo nota la precisa data di costruzione di questo ambiente di culto ricavato all’interno di una grotta naturale, parzialmente modificata nei secoli dall’uomo, sul fianco occidentale del monte Habib-i Neccar, che domina la città, si crede che sia stato il luogo in cui l’apostolo divenne il primo vescovo. I seguaci di Gesú furono qui chiamati cristiani per la prima volta e la struttura è considerata la chiesa originaria del cristianesimo. Oggi presenta alcune parti aggiunte, probabilmente risalenti all’epoca delle

crociate, quale la facciata addossata alla falesia nella quale si apre la grotta, che le donano un aspetto ancora piú affascinante. Delle fasi piú antiche rimangono tracce di affreschi e parti dei mosaici che decoravano il pavimento, risalenti al IV e V secolo. Secondo la credenza popolare, l’acqua che cola dalla roccia nella grotta avrebbe proprietà curative e veniva originariamente raccolta in una vasca, utilizzata come fonte battesimale. Altro elemento particolare della grotta è un tunnel che si apre nella montagna dietro alla vasca: la galleria avrebbe permesso alla comunità cristiana qui riunita di fuggire di nascosto in caso di attacchi o assalti improvvisi.

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SPECIALE • ANTIOCHIA

UN PATRIMONIO DISPERSO Antiochia fu al centro dell’interesse di diverse istituzioni europee e statunitensi negli anni Trenta del Novecento. Per questo motivo, gran parte del suo patrimonio archeologico, e in particolare i preziosi mosaici che abbellivano dimore ed edifici pubblici della città in età ellenistica, romana e bizantina, sono purtroppo sparsi in oltre trenta musei e collezioni nel mondo. I materiali esposti nel Museo Archeologico di Hatay,

infatti, sono solo una parte di quanto venne alla luce in passato. Nella primavera del 1932 furono avviati i primi scavi che proseguirono intensamente fino allo scoppio della seconda guerra mondiale nel 1939. L’ambizioso progetto di ricerca venne promosso e diretto dalla Princeton University, per iniziativa di Charles Rufus Morey, in collaborazione con i Musées Nationaux de France e con il sostegno finanziario del

mondiale, che ha accettato la sfida di progettare un complesso museo-hotel sul sito, preservando le eccezionali scoperte archeologiche, creando uno spazio per esporre alcuni dei manufatti ritrovati, in un dialogo unico e sorprendente con camere d’albergo, ristoranti e servizi della struttura ricettiva.

COME UNA PALAFITTA Arolat ha ideato una grande struttura in acciaio, una sorta di enorme palafitta. Possenti colonne poggiano nei punti del sito privi di strutture archeologiche, per non danneggiarle, quali il paleoalveo di un fiume. Una griglia di robuste travi sostiene, sospesi sull’area, i moduli prefabbricati con duecento camere e altri ambienti dell’hotel, che si affacciano direttamente su secoli di storia. È stata in prati104 a r c h e o

I mosaici che decoravano uno degli impianti termali di Antiochia riemergono durante gli scavi del 1933, in un’area ormai destinata a frutteto.

Worcester Art Museum e del Baltimore Museum Art. Queste istituzioni diedero vita a un «Comitato per gli scavi di Antiochia e le sue vicinanze», al quale si aggiunsero, negli anni, altri musei e istituzioni accademiche statunitensi, tra cui il Fogg Art Museum dell’Università di Harvard e la Dumbarton Oaks. In quegli anni Antiochia era parte del «Mandato francese della Siria e del Libano», creato dopo la prima guerra mondiale in seguito alla spartizione dell’impero ottomano da parte delle potenze europee. Nel 1939, a seguito di un referendum, la regione di Alessandretta (odierna Hatay), che comprendeva Antiochia, passò alla Repubblica di Turchia, mentre la Francia continuò a dominare fino al 1943 i territori circostanti quando sorse la moderna Siria (anche se le truppe francesi lasciarono la zona solo nel 1946). Per le leggi dell’epoca, poco attente alla conservazione e alla tutela del patrimonio archeologico, i membri del «Comitato per gli scavi di Antiochia» poterono dividersi, sulla

ca creata un’estesa struttura a baldacchino, possente, ma allo stesso tempo non pesante, che ripara l’intera zona archeologica e la valorizza attraverso percorsi aerei e un sapiente sistema di illuminazione. Il costo dell’intero progetto, inizialmente previsto in circa 30 milioni di euro, è cosí passato a oltre 110 milioni d’investimento, interamente sostenuti da capitale privato. In un’intervista rilasciata all’emittente americana NBC, Necmi Asfuroglu ha dichiarato che con tale cifra avrebbe potuto costruire tre hotel, ma visti i ritrovamenti non ha saputo resistere alla sfida. Gli scavi sono proseguiti per nove anni, impegnando oltre trenta archeologi, decine di restauratori e centoventi operai, che hanno riportato alla luce, su una vasta e profonda


Questa foto, scattata il 9 maggio 1936, mostra uno dei mosaici scavati ad Antiochia in quegli anni e sottoposto, insieme a centinaia di altri, alla pratica dello «strappo»: dopo essere stati riportati in luce e puliti, i decori pavimentali venivano coperti con carta e stoffa impregnate di colla al fine di staccare in maniera compatta le tessere, che erano poi assicurate a un pannello.

base della rispettiva partecipazione finanziaria, quasi trecento mosaici tra quelli rinvenuti e numerosi altri reperti. Circa una dozzina di

mosaici finirono cosí al Museo del Louvre di Parigi, mentre oltre 160 finirono negli Stati Uniti e risultano oggi dispersi in una trentina di

area, una complessa storia d’utilizzo attraverso cinque fasi principali che, dall’età ellenistica (III secolo a.C.), giungono al periodo ottomano (XIX secolo). Durante le indagini sono stati ritrovati oltre 30 000 manufatti in ceramica, numerose statuette, monete e oggetti in metallo: una scelta di circa 200 reperti tra i piú significativi verranno presentati in uno spazio espositivo all’interno dell’area archeologica, posto al di sotto dell’ingresso dell’hotel. Impressionanti sono le strutture monumentali riemerse. La piazza principale della città del V secolo d.C., l’agorà, con la sua pavimentazione in lastre di marmo bianco, le canalizzazioni per il deflusso delle acque con tubi in terracotta e canali in pietra, su cui si affacciava un grande edificio adibito a magazzino

musei e istituzioni accademiche, dove piú volte hanno subito trasferimenti e compravendite sul mercato antiquario.

Una fase dell’intervento di consolidamento e di restauro dei mosaici del Museum Hotel di Antakya.

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con decine di enormi contenitori (dolia), destinati a conservare derrate di vario genere. Poco distante, una superficie di oltre 1000 mq interamente coperta da una decorazione musiva composta da nove pannelli con diversi motivi geometrici multicolore: si tratta della superficie a mosaico piú grande mai ritrovata al mondo e conservata in situ, datata al IV secolo d.C., che doveva appartenere molto probabilmente a un edificio di una famiglia particolarmente ricca o a una struttura pubblica di fondazione imperiale. Quello che rende ancora piú sorprendenti questi mosaici è l’aver registrato la forza di contrazione e deformazione del terreno causata dal terribile terremoto del 526 d.C. che distrusse la città: per questo i mosaici si presentano con una particolare forma a onda e in alcuni punti risultano «esplosi», mettendo in luce il sottostante livello di preparazione costituito da ciottoli e malta. Oltre l’antico letto del Parmenius, affluente dell’Oronte, che attraversava la zona indagata, ben protetto da un possente muraglione che funzionava da argine, si trova un impianto

Stele in basalto con il dio della tempesta che tiene per mano presumibilmente un re. Fine del X sec. a.C. Antakya, Museo Archeologico Nazionale di Hatay. L’iscrizione descrive il successo di alcune campagne di guerra e identifica Suppiluliuma, figlio del re Manana.

IL MUSEO ARCHEOLOGICO DI HATAY Inaugurato nel 2014 il Museo Nazionale raccoglie migliaia di reperti archeologici provenienti dall’intera provincia di Hatay e che raccontano la presenza dell’uomo in questo territorio, in un arco di tempo compreso fra il Paleolitico Superiore (che in queste regioni ha inizio intorno ai 45 000 anni da oggi) e l’età ottomana (XIX secolo). Dopo il Museo del Bardo a Tunisi, questo centro espositivo e di ricerca possiede la piú ricca collezione di mosaici risalenti al periodo romano e bizantino. Famosi per dimensioni, tecniche di produzione e varietà di temi, furono recuperati soprattutto durante gli scavi degli anni Trenta del Novecento, ma non mancano acquisizioni piú recenti, frutto dell’attività di tutela e ricerca avviata negli ultimi anni dalla direzione del museo. I mosaici provengono da bagni ed edifici pubblici, case private e chiese di Antakya e dei suoi diversi sobborghi, in particolare Daphne (Harbiye), nonché da altri siti della provincia, quali Seleucia Pieria (Samandag). Il museo espone anche molte sculture di età romana, tra cui spicca il piccolo bronzo raffigurante Tyche, dea greca personificazione della sorte, rappresentata con la corona muralis – che la identifica come divinità tutelare e personificazione della città – seduta con le gambe accavallate su una roccia, con ai piedi il fiume Oronte e un fascio di spighe in mano. Il primo museo venne costruito nel 1934, su raccomandazione dell’archeologo Claude M. Prost e su progetto dell’architetto francese Michel Ecochard, quando 106 a r c h e o


termale risalente alla metà del V secolo d.C. Completo di tutti i suoi tipici ambienti, colpiscono per stato di conservazione gli elevati, il sistema di riscaldamento a ipocausto e la fitta rete di canalizzazioni che garantiva la circolazione delle acque e i sistemi di scarico e drenaggio che si aprono sul letto del torrente. Una strada lastricata con grandi blocchi in pietra locale, realizzata tra il IV e il V secolo d.C., è stata rimessa in luce per diverse decine di metri insieme ai muri degli edifici che si aprivano su di essa.

L’ANIMA CREATIVA E poi, ancora, si può ammirare un grande mosaico risalente al V secolo d.C. decorato con una figura femminile al centro – la Megalopsychia, l’anima creativa – circondata da numerose coppie di uccelli, dei quali si identificano bene maschi e femmine di ciascuna specie per il differente piumaggio e le dimensioni. In un dialogo tra passato e presente, questi animali sono anche stati riprodotti, in forma di sagome, nel soffitto della hall dell’albergo, dal cui pavimento in vetro si gode una

Frammento di ansa in bronzo raffigurante la Tyche, dea greca della sorte, rappresentata con la corona muralis, che la identifica come divinità tutelare e personificazione della città. Età imperiale romana. Antakya, Museo Archeologico Nazionale di Hatay.

spettacolare visione sul ritrovamento piú sensazionale dell’intera area archeologica. Come già detto, l’area del Museum Hotel era considerata ad alto rischio archeologico, ma non si poteva certo prevedere con esattezza la quantità e la qualità delle scoperte. La sorpresa maggiore si è avuta, nel 2011, durante la realizzazione di uno dei pozzi per la posa di una delle colonne in acciaio della struttura sospesa dell’hotel. In un punto che fino a quel momento non aveva rivelato resti antichi, a diversi metri di profondità, si è invece intercettato un mosaico in perfetto stato di conservazione. A quel punto l’area di indagine è stata ampliata fino a un’estensione di 200 mq circa ed è stato cosí riportato alla luce un insieme di mosaici appartenenti a un triclinium, la sala da pranzo, di una ricca domus del II secolo d.C. Come spesso accade in

la regione di Antakya era ancora sotto il protettorato francese. Completato nel 1938, passò nel 1939 alla Repubblica di Turchia, in base ai nuovi accordi e al referendum sui confini nazionali. Dopo nove anni di allestimento, dovuti alla quantità dei reperti e alla complessità di esporre mosaici di notevoli dimensioni dopo i necessari restauri, venne simbolicamente aperto al pubblico il 23 luglio 1948, giorno dell’indipendenza della provincia di Hatay. Importanti lavori di ristrutturazione e ampliamento, avviati nel 1969, portarono alla chiusura e alla realizzazione di un nuovo percorso espositivo, aperto al pubblico nel 1975. Oggi il museo non occupa piú la sede storica, ma è ospitato in un edificio di nuova costruzione, voluto dal Ministero della Cultura di Turchia per ampliare e presentare la già notevole collezione con ulteriori nuovi ritrovamenti, secondo criteri museografici moderni: un’area di 50 000 mq, con 12 000 mq dedicati all’esposizione, di cui i soli mosaici ne occupano 5000 mq circa. Il percorso di visita presenta anche gli importanti ritrovamenti paleolitici dalle grotte di Üçagız, alcuni reperti dei primi contadini-allevatori del Neolitico e una ricca sezione dedicata agli Ittiti, con sculture – tra cui quella di notevoli dimensioni del re Suppiluliuma –, elementi architettonici decorativi, stele, un altare sacrificale e bassorilievi. Notevole è anche la collezione numismatica che, per dimensioni e varietà delle monete conservate, propone un affascinante viaggio nella storia della monetazione dagli albori all’età ottomana. a r c h e o 107


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ambienti di questo tipo, il mosaico venne disposto in modo che i quadrati con le figure e le scene principali potessero essere facilmente visti dai partecipanti al banchetto, mentre le zone che rimanevano sotto i divani da pranzo (kline), disposti su tre lati dell’ambiente, vennero decorati con motivi geometrici.

Nel quadro principale del mosaico si trova Pegaso, il cavallo alato, mentre viene abbellito in una zona boschiva da tre ninfe, divinità dei boschi nel pantheon greco. L’azione avviene sotto lo sguardo di una femmina di centauro, rappresentante dei fantastici abitatori della Tessaglia che avevano testa e busto

Sulle due pagine: resti dell’impianto termale. Metà del V sec. d.C. Si riconoscono gli ambienti con l’ipocausto, il sistema con pilastrini che servivano a creare un’intercapedine al di sotto del pavimento dove circolava aria calda. Nella pagina accanto, in alto: il medaglione centrale del grande mosaico raffigurante coppie di uccelli che circondano la personificazione della Megalopsychia, l’anima creativa. V sec. d.C.

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Il magnifico mosaico che abbelliva la domus del II secolo d.C. era disposto in modo da poter essere ammirato dai commensali riuniti a banchetto nel triclinium


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IL MITO DI PEGASO Atena, dea della guerra, incaricò Perseo di decapitare Medusa, nota per la testa ricoperta di serpenti e lo sguardo che pietrificava le persone. Quando egli completò con successo la sua missione, dalla testa tagliata di Medusa uscirono due creature, una delle quali era Pegaso. Un cavaliere valoroso e ambizioso, chiamato Bellerofonte, di Corinto, prese Pegaso e completò con il cavallo alato diverse imprese. La piú importante di queste fu l’uccisione della Chimera, un mostro composto da tanti animali (leone, capra, serpente e toro) che vomitava fuoco e fiamme. Bellerofonte divenne cosí famoso che il re della Licia, antica regione mediterranea dell’odierna Turchia, gli diede in sposa la figlia. Pegaso, inseparabile da Bellerofonte, venne quindi preparato con l’aiuto delle ninfe per recarsi alla cerimonia di matrimonio. Gli furono lavati gli zoccoli, ornato il collo con una ghirlanda e coperto il corpo con un tessuto prezioso riccamente decorato. Questo esatto momento è proprio quello raffigurato nel raffinato mosaico del triclinium ora visibile nel Museum Hotel di Antakya.

umani con groppa e zampe di cavallo. Un episodio chiaramente riferibile alla mitologia classica (vedi box a p. 110). Nelle cornici rettangolari che circondano la scena principale compaiono diversi animali, secondo l’approccio artistico di quel periodo. Nel pannello piú alto, l’artefice di questo capolavoro ha lasciato la sua firma: «Io, Euphoros ho sistemato queste pietre». Chi entrava nella sala decorata da questa magnifica opera vedeva per primi altri tre quadri. 110 a r c h e o

Nel primo a sinistra poteva ammirare due personificazioni geografiche con i nomi in greco: una figura maschile giovane, in piedi con una capra tra le braccia, rappresenta la Beozia, l’altra figura maschile seduta riproduce invece il monte sacro Helikon (Elicona), situato nella stessa regione. Nel quadro di destra, Calliope, la piú illustre delle Muse e rappresentante della poesia epica, concede a Esiodo, il celebre autore della letteratura greca vissuto nel VII secolo a.C., l’abilità di esse-

A sinistra: il triclinium, la sala da pranzo, ornato dal grande mosaico con la scena centrale dedicata a Pegaso e alcuni riquadri con le Muse. II sec. d.C.


Sulle due pagine: il grande riquadro a mosaico raffigurante le ninfe che preparano Pegaso per il matrimonio di Bellerofonte. II sec. d.C.

re poeta, allungando un rotolo tra le sue mani. Esiodo era originario di Ascra, villaggio della Beozia, sulle pendici dell’Elicona, dove le Muse vivevano e si trovava una sorgente che, secondo la tradizione, iniziò a zampillare per un colpo di zoccolo dato da Pegaso. L’artista, dunque, ha voluto descrivere nei quadri a mosaico tre soggetti tra loro connessi. Infatti, nel pannello centrale, sono descritte le altre otto Muse, ninfe ispiratrici, ognuna delle quali presiede a un’arte e i cui

nomi sono scritti vicini a ciascuna, che fanno compagnia a Apollo, dio rappresentante delle belle arti. Da sinistra a destra, Urania, con un globo tra le mani, rappresenta l’astronomia; Euterpe, con un flauto, la poesia lirica; Polimnia, con la verga, il canto sacro; Erato, che regge un plettro, la poesia amorosa/erotica; Clio rappresenta la scienza storica; Tersicore, con una lira, il canto corale e la danza; Melpomene, con una maschera tragica, rappresenta la tragedia; Thàlia, con una a r c h e o 111


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In alto: lo scheletro del Museum Hotel di Antakya, progettato da Emre Arolat, è un’immensa struttura in acciaio con possenti colonne al di sopra dell’area archeologica. A sinistra: i resti di un grande edificio adibito a magazzino, nel quale erano stipate decine di enormi contenitori (dolia), destinati a conservare derrate di vario genere.

differente maschera, presiede alla commedia. L’alta manodopera e la complessità intellettuale dei soggetti raffigurati nel pavimento a mosaico portano a pensare che il proprietario di questa abitazione doveva essere un importante personaggio intriso di cultura ellenistica, con un’elevata conoscenza della letteratura greca antica. Questi mosaici ben si relazionano con gli spettacolari ritrovamenti effettuati in passato ad Antakya, purtroppo oggi decontestualizzati e dispersi nel mondo, in parte esposti nel vicino museo nazionale. E l’area archeologica del Museum Hotel offre ora la possibilità di ammirare in situ notevoli resti monumentali dell’antica Antiochia, restituendoci un’affascinante e impressionante finestra su secoli di storia. 112 a r c h e o



I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Stefano Alessandrini

LA DIPLOMAZIA CULTURALE ITALIANA PER IL RITORNO DEI BENI IN ESILIO Edizioni Efesto, Roma, 182 pp., ill. col. e b/n 15,00 euro ISBN 9788894855883 www.edizioniefesto.it

Il patrimonio italiano è stato per secoli martoriato da saccheggi conseguenti alle invasioni di eserciti stranieri e al collezionismo. E l’Italia ha subito gravissime perdite prima di definire le linee operative per una reazione efficace volta al recupero dei nostri beni. Con un decisivo impulso proveniente dai clamorosi risultati delle indagini sul traffico dei reperti da scavi clandestini, che ha causato la distruzione di innumerevoli siti archeologici, lo Stato ha avviato, nell’ultimo ventennio, una decisa azione di diplomazia culturale per l’avvio di trattative internazionali. L’Avvocatura dello Stato ha condotto, in

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rappresentanza del MiBACT, le operazioni, in coordinamento con la magistratura e le forze dell’ordine. I negoziati per le restituzioni hanno ottenuto risultati soddisfacenti o addirittura eccezionali. Straordinari capolavori sono cosí rientrati in patria, contribuendo a ridestare l’interesse del pubblico per la tutela del nostro patrimonio artistico e per la lotta al traffico illecito dei beni archeologici. Francesca Ceci

DALL’ESTERO Samir Aounallah e Attilio Mastino (a cura di)

CARTHAGE Maïtresse de la Méditerranée,

Capitale de l’Afrique AMVPPC, Tunisi, 416 pp., ill. col. 75,00 euro ISBN 978-9938-940-230-7 www.patrimoinedetunisie. com.tn

Curato da Samir Aounallah e Attilio Mastino e pubblicato con il sostegno del Ministero per gli Affari Culturali della Tunisia, l’Istituto Nazionale per il Patrimonio e la Scuola Archeologica Italiana di Cartagine, questo volume, corredato da un eccellente apparato iconografico, presenta i risultati delle piú recenti ricerche storiche e archeologiche sulla leggendaria metropoli mediterranea. Due sono i temi principali:

l’individuazione del luogo, sulla collina della Byrsa, dove sorse il primo insediamento punico e la nascita della seconda Cartagine, quella ricostruita da Roma come Colonia Concordia Iulia Carthago oltre un secolo dopo la distruzione della città punica. A. M. S.



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