Archeo n. 418, Dicembre 2019

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2019 L’OMBRA DI SAN GIMIGNANO

L’«OMBRA» DI SAN GIMIGNANO MOZIA

MOZIA

UNA NUOVA ISCRIZIONE FENICIA

CERVETERI SPECIALE ETRUSCHI

Mens. Anno XXXV n. 418 dicembre 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

POPOLI DELLA BIBBIA/12 ROMANI

SPECIALE

ETRUSCHI LE ULTIME RIVELAZIONI IN UNA GRANDE MOSTRA A BOLOGNA

CERVETERI

LA STORIA IN FONDO AL POZZO POPOLI DELLA BIBBIA

I ROMANI IN TERRA SANTA

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 10 DICEMBRE 2019

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ET SPE RU CIA LE S CH ww w. a rc I he o

ARCHEO 418 DICEMBRE

ESCLUSIVA

€ 5,90



EDITORIALE

DUE REGALI MOLTO SPECIALI «Quando cade un lampo e riecheggia un tuono possono verificarsi eventi umani e sovrannaturali». Lo sostiene una delle rarissime fonti scritte di cui disponiamo per la conoscenza del pensiero religioso degli Etruschi, il cosiddetto calendario «brontoscopico». Ora, non sappiamo se il brontolio di un tuono (in greco bronté, appunto) – alla cui osservazione gli antichi si dedicarono allo scopo di trarne presagi – abbia accompagnato o meno le due notevoli scoperte di cui parliamo in questo numero. Dovremmo chiederlo agli scopritori stessi. Sicuramente, però, si tratta di due «eventi»: il piú sensazionale risale – pensate – al settembre del 2010 ed è rimasto nascosto per tutti questi anni («Archeo» ne dà la notizia in esclusiva, a partire dalla copertina). Il secondo, invece, risale al settembre scorso… La presentazione al pubblico di un «nuovo» bronzetto etrusco, di altissima qualità e in ottimo stato di conservazione, rappresenta, di per sé, un fatto del tutto eccezionale. Inoltre, coincide con l’inaugurazione di un’importantissima mostra, allestita al Museo Civico Archeologico di Bologna, dal titolo: «Etruschi. Viaggio nelle terre dei Rasna» e di cui parliamo nello Speciale. Alla luce del sunnominato calendario c’è da chiedersi se di pura coincidenza si tratti, o se, invece, qualche divina provvidenza non abbia pensato a indire un nuovo Anno degli Etruschi (l’ultimo – e i piú «grandi» dei nostri lettori lo ricorderanno, risale proprio all’anno di fondazione della nostra rivista, l’ormai lontano 1985): un anno dedicato a quella nostra Italia in cui – come scriveva il viaggiatore inglese David Herbert Lawrence, ricordato da Giuseppe M. Della Fina – «c’è assai piú sangue etrusco che romano»… Concludiamo con un’altra coincidenza, questa volta del tutto profana: la notizia del rinvenimento, durante gli scavi nell’isola di Mozia diretti da Lorenzo Nigro, di una (rarissima) iscrizione fenicia in cui si menziona Melqart, dio poliade della città di Tiro, è giunta proprio mentre stavamo allestendo la nuova Monografia di «Archeo» – in edicola questo mese – dedicata alla riscoperta di Cartagine. Città – come è noto – fondata da coloni fenici provenienti da Tiro e guidati dalla mitica regina Elissa/Didone, nipote (e poi sposa) del sacerdote di Melqart. E che da Mozia dista appena 125 miglia di navigazione… Buona lettura, dunque, e i nostri migliori Auguri per il Natale e per un Felice Anno Nuovo! Andreas M. Steiner A destra: il bronzetto etrusco, un’Ombra, scoperto a San Gimignano e, in secondo piano, la stele rinvenuta a Mozia sulla quale è incisa un’iscrizione monumentale in lettere fenicie.


SOMMARIO EDITORIALE

Due regali molto speciali

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di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

6

PASSEGGIATE NEL PArCo Il Parco archeologico del Colosseo sperimenta con successo il valore terapeutico della fruizione dei beni culturali 8 ALL’OMBRA DEL VULCANO Riapre al pubblico la Villa Regina di Boscoreale, il solo impianto rustico dell’area vesuviana integralmente visitabile 12

SCAVI

Per la «Signora delle fonti»

50

di Vincenzo Bellelli

ESCLUSIVA

SCAVI Le ultime indagini a San Giuliano, nel Viterbese, rivelano la tomba di una bambina deposta con un corredo di eccezionale ricchezza 6

INCONTRI È ormai imminente l’inizio della nuova edizione di Luce

sull’Archeologia, i cui incontri saranno questa volta dedicati al tema delle origini di Roma 14

L’Ombra di San Gimignano

26

di Enrico Maria Giuffrè e Jacopo Tabolli, con un contributo di Giuseppe M. Della Fina

50

26 SCOPERTE

Il servo di Melqart

42

POPOLI DELLA BIBBIA/12 I Romani

Una storia di amore e odio

64

di Alessandro Locchi

di Lorenzo Nigro

42

64 In copertina due immagini del bronzetto di Offerente rinvenuto in località Torraccia di Chiusi, a San Gimignano, e ora esposto nella mostra «Hinthial. L’Ombra di San Gimignano»

Presidente

Federico Curti Anno XXXV, n. 418 - dicembre 2019 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Comitato Scientifico Internazionale

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

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Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Vincenzo Bellelli è ricercatore presso l’ISPC del CNR. Andrea Bellotti è archeologo. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Alessandro D’Alessio è funzionario archeologo presso il Parco archeologico del Colosseo. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Anna Dore è funzionaria archeologa presso il Museo Civico Archeologico di Bologna. Catia Fauci è archeologa. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paola Giovetti è responsabile del Museo Civico Archeologico di Bologna. Enrico Maria Giuffrè è dottore di ricerca in archeologia preistorica. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Fabio Lanzalacqua è archeologo. Alessandro Locchi è dottore di ricerca in storia delle religioni. Daniele Manacorda è professore ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Maria Messineo è archeologa. Laura Minarini è funzionaria archeologa presso il Museo Civico Archeologico di Bologna. Lorenzo


Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO

Sichuan: terra dei panda e dei musei

104

di Daniele Manacorda

104 L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Quel nome segreto... 110 di Francesca Ceci

80 SPECIALE

Nella terra dei Rasna 80

110 LIBRI

112

a cura di Giuseppe M. Della Fina, con testi di Giuseppe Sassatelli, Vincenzo Bellelli, Giuseppe M. Della Fina, Anna Dore, Paola Giovetti e Laura Minarini

Nigro è professore associato di archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente antico presso Sapienza Università di Roma. Federica Rinaldi è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Alfonsina Russo è direttore del Parco archeologico del Colosseo. Giuseppe Sassatelli è stato professore ordinario di etruscologia e antichità italiche all’Università di Bologna. Mickey Scarcella è archeologo. Giuseppe Schillaci è architetto. Jacopo Tabolli è funzionario archeologo presso la SABAP per le province di Siena, Grosseto e Arezzo.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534

Illustrazioni e immagini: Cortesia SABAP per le province di Siena, Grosseto e Arezzo: p. 29; B. Bruchi: copertina e pp. 3 (primo piano), 26-27, 32-33, 34, 35 (destra), 36-37, 40; Paolo Nannini: p. 17; D. Sandrelli: pp. 28/29; L. Marasco: p. 30 – Cortesia Sapienza Università di Roma-Missione Archeologica a Mozia: pp. 3 (secondo piano), 42-46 – Cortesia Antrophology Department Baylor University: pp. 6-7 – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: pp. 8-9 – Cortesia degli autori: pp. 10, 104-108, 110 – Cortesia Università di Groningen: p. 11 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 12-13 – Cortesia Teatro Argentina, Roma: p. 14 – Archivio UniSiena: p. 16 – Doc. red.: pp. 35 (sinistra), 38-39, 65, 66, 68/69, 69, 70 (alto), 71 (basso), 72-76, 78-79, 94/95, 96 – Cortesia M. Cavalieri/© UCLouvain: pp. 40/41 – Archivio CNR-ISPC: pp. 50-53, 55-63 – Roberto Petacco: disegno ricostruttivo a p. 54 – Shutterstock: pp. 70 (basso), 80/81, 90-93, 94, 111 – Cortesia Ufficio Stampa mostra «Etruschi. Viaggio nelle terre dei Rasna»: pp. 81, 82-83, 84 (alto), 85-89, 97, 98-103 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 28, 68, 71, 77, 84.

Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI)

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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n otiz iari o SCAVI Lazio

IL TESORO DELLA PRINCIPESSA BAMBINA

A

Barbarano Romano (Viterbo), all’interno del suggestivo Parco Naturale Regionale Marturanum, noto sito etrusco e medievale ubicato in località San Giuliano a nord-est dell’attuale centro urbano, opera da quattro anni un complesso progetto di ricerca archeologica (SGARP, San Giuliano Archaeological Research Project), messo in atto da un consorzio nato dalla collaborazione dell’Università di Baylor, per la direzione di Davide Zori, con la Virgil Academy, la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma e l’Etruria meridionale e il Comune di Barbarano Romano. Obiettivo del progetto è quello di ricostruire le interazioni a lungo termine tra le culture umane e l’ambiente naturale, con particolare attenzione agli spostamenti ciclici dell’insediamento tra pianura e località collinari, dalla preistoria sino alla fine dell’età medievale. Le indagini archeologiche hanno

A destra: Colle San Simone (San Giuliano, Viterbo). La tomba che accoglieva le spoglie di una bambina di soli tre anni, deposta con un corredo di straordinaria ricchezza. Inizi del VII sec. a.C. In basso: ortofoto del vano principale del fortilizio medievale. Nella pagina accanto, in alto: un’altra tomba del Colle San Simone. Nella pagina accanto, in basso: spirali in bronzo dalla tomba della bambina.

finora portato alla luce un complesso castellare fortificato di età medievale, dotato di una torre centrale, un grande ambiente per le feste e un altro vano simile a una cripta, associato a una cappella non ancora esplorata, in cui erano inumati i corpi di oltre venti individui. Dall’analisi dei dati analizzati nel corso dell’esplorazione archeologica, il fortilizio, che venne frequentato tra l’XI e gli inizi del XIII secolo, risulta essere stato abbandonato all’improvviso

6 archeo


intorno all’anno 1250. Da questo settore i recenti scavi hanno portato al recupero, fra gli altri, di un elemento degli scacchi antropomorfo e di un ciondolo a croce d’oro. Nell’area occupata dalla necropoli etrusca, che circonda l’altopiano di San Giuliano, sono invece state indagate quattro sepolture, parzialmente depredate, datate tra il VI e il V secolo a.C., che hanno restituito numerosi frammenti ceramici e resti osteologici, sottoposti ad analisi isotopiche. Si tratta di tombe a fossa ricavate nel banco roccioso di tufo. Le deposizioni hanno rivelato in qualche caso la presenza di corredi principeschi, come quello scoperto l’anno scorso e appartenente a una donna adulta dell’élite indigena, vissuta tra la metà dell’VIII e la prima metà del VII secolo a.C., dotata di un ricco corredo

vascolare e di preziosi monili di bronzo che decoravano l’abito funebre (sette fibule, una catenella ad anelli, un prezioso disco circolare d’ambra rossa). L’ultima campagna di scavo, infine, ha portato all’individuazione, sulla cima del San Simone – una delle cinque colline che circondano San Giuliano –, di altre tre sepolture indigene, tra cui spicca la tomba intatta di una bambina qui inumata agli inizi del VII secolo a.C. Ricco è il corredo ceramico che accompagnava la defunta, ma, soprattutto, splendidi sono i monili di bronzo che ornavano il suo corpo, come una coppia di braccialetti e bracciali a spirale e una dozzina di vaghi in pasta vitrea rinvenuti all’altezza del capo e forse fissati a un velo che avvolgeva i capelli. Una catenella di bronzo, infine, pendeva da un filare di fibule ed era fissata alla caviglia sinistra della bambina da un’altra fibula di bronzo, decorata con ambra di provenienze baltica. «La sorpresa piú grande – ha dichiarato Davide Zori, Assistant professor of history and archaeology Baylor Interdisciplinary Core – è stata l’attribuzione dell’età della piccola defunta, che al momento della sua deposizione non aveva piú di tre anni, e per una bambina cosí piccola la straordinaria ricchezza degli oggetti di ornamento personale e del corredo funebre non può che indicare la sua appartenenza a una famiglia dell’aristocrazia indigena locale». Giampiero Galasso

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PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Alessandro D’Alessio

STAR BENE CON L’ARTE A CARATTERIZZARE L’ATTIVITÀ DEL PARCO ARCHEOLOGICO DEL COLOSSEO NON È SOLO LA VALORIZZAZIONE DEL PROPRIO PATRIMONIO, MA ANCHE L’IMPEGNO A RENDERNE IL PIÚ POSSIBILE INCLUSIVA LA SUA FRUIZIONE

F

requentare i luoghi d’arte fa bene. A tutti, senza dubbio. Ma alcune categorie di visitatori possono trarre benefici particolari dall’osservazione delle opere d’arte e dal partecipare ad attività condotte in contesti che, con i loro scenari storici e archeologici, riverberano il fascino del mondo antico, innescando nuovi stimoli cognitivi. Non è certo una scoperta recente, ma è altrettanto vero che il salutare connubio tra arte e benessere, all’insegna di Cura, Cultura e Bellezza, raccoglie adesioni in numero sempre maggiore sia in Italia sia all’estero, grazie all’impegno congiunto di MiBACT, istituti, medici e associazioni del terzo settore. E qui al PArCo siamo sempre piú convinti che l’arte, in ogni sua declinazione, comprese la danza, il teatro, la musica, sia sinonimo di benessere: il bello provoca emozioni capaci di agire sulla mente anche piú dei farmaci, affermano per esempio molti neurologi. Addirittura, in Canada, dalla fine del 2018, i medici prescrivono come terapia visite nei musei, con ingresso gratuito per i malati come fosse un medicinale garantito dallo Stato, grazie all’accordo fra il Museo delle Belle Arti di Montreal e un’Associazione dei Medici Francofoni Canadesi.

8 archeo

Un recente studio del British Journal of Psychiatry (https://www. cambridge.org/core/journals/thebritish-journal-of-psychiatry) conferma che «visitare i musei mantiene il cervello attivo, potenzia la riserva cognitiva e può aiutare, tra le altre cose, a prevenire la demenza senile».

«SPOLVERARE» L’ANIMA Del resto, anche Pablo Picasso, convinto delle proprietà terapeutiche dell’esperienza artistica, sosteneva che «l’arte scuote dall’anima la polvere accumulata dalla vita di tutti i giorni». Condividendo senza remore questa visione di un’esperienza di visita estesa a forme alternative utili

al benessere psico-fisico, il Parco archeologico del Colosseo, fin dalla sua istituzione, ha voluto dare un forte impulso alle attività orientate in questa direzione. Avviando, per esempio, alla fine del 2018, insieme all’Associazione ParkinZone Onlus, il progetto «Parkin-PArCo»: un ciclo biennale di laboratori gratuiti di discipline artistiche e motorie, tuttora in corso, mirati a fornire alle persone con malattia di Parkinson, e non solo, occasioni alternative di riabilitazione da vivere nello scenario unico dell’area archeologica. Un progetto che ha avuto il suo momento centrale nel convegno «Salus per Artem», tenutosi simbolicamente in occasione della


A sinistra: un’esperienza tattile nel Museo Palatino a beneficio di ciechi e ipovedenti. Nella pagina accanto: un laboratorio di danza organizzato nell’ambito del progetto «Parkin-PArCo», che ha avuto per scenario l’area archeologica del Palatino.

Giornata internazionale dei Musei di ICOM del 2019. E d’ora innanzi, sulla scia della positiva esperienza di Park-in-PArCo e con il crescere dell’interesse del pubblico, Salus per artem è divenuto un programma con identità e struttura sue proprie nell’ambito del quale rientreranno tutte le numerose iniziative del PArCo in materia di arte e benessere, attualmente in corso di svolgimento e di sviluppo. In questa convinta propensione verso l’arte-terapia, si è inserito l’importante accordo firmato il mese scorso con Komen Italia, associazione da vent’anni attiva per la promozione della salute della Donna. Un accordo che fa seguito all’atto d’intesa tra MiBACT e la stessa Komen firmato nel 2018, avente per oggetto «L’Arte per la prevenzione e la ricerca» e mirato alla sensibilizzazione delle donne sull’importanza vitale della diagnosi precoce dei tumori. Sono cosí in programma nei prossimi mesi seminari informativi e dimostrativi delle piú recenti risorse terapeutiche e periodiche sessioni di musicoterapia, Qi Gong, camminata dinamica, mindfulness.

Allo stesso tempo si è ben consapevoli delle notevoli difficoltà, in termini di accessibilità, recate a un’area morfologicamente difficile come quella del PArCo dall’organizzazione di tante attività dedicate a un pubblico spesso gravato da serie disabilità, di tipo motorio in primo luogo. In questo senso, progetti gradualmente risolutivi sono in rapido corso d’attuazione, grazie anche all’accelerazione prodotta dalla sopraggiunta autonomia amministrativa dell’istituto.

PERCORSI ATTREZZATI E alcuni percorsi sono già attrezzati e fruibili, come nel caso della visita tattile al Museo Palatino, arricchita da postazioni tattili, riproduzioni di manufatti e a breve anche di una guida che ripercorre la collezione con opere originali, cassetti immersivi, disegni e stazioni tattili. Si tratta del primo di una serie di itinerari per ciechi e ipovedenti, denominati «Il PArCo tra le mani» e in preparazione nel Foro Romano, sul Palatino e nel Colosseo, dove sono stati intanto installati pannelli tattili orientativi ed esplicativi,

peraltro letti e apprezzati da tutti i visitatori, che a breve saranno anche implementati da QRcode con contenuti audio, video e testuali in 9 lingue. Un primo test si è avuto in occasione della Giornata delle Famiglie al Museo F@Mu del mese scorso, grazie alla partecipazione dell’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti di Roma. Inoltre, è stato sottoscritto un accordo con l’Istituto Statale Sordi di Roma che prevede l’attivazione, dal prossimo gennaio, di laboratori didattici per le scuole, appositamente strutturati a completamento e integrazione della formazione in aula; laboratori e visite per famiglie, organizzate prevalentemente nei fine-settimana e corsi di formazione per guide archeologiche in LIS, dedicate ai percorsi tematici fruibili nel PArCo. A ben vedere, quindi, la direzione presa è verso un PArCo per tutti (https://parcocolosseo.it/visita/ il-parco-per-tutti ). Non a caso, Salus per Artem nasce come naturale effetto del piú ampio progetto «Il PArCo fuori dal PArCo», che nel 2019 ha ricevuto il Marchio dell’Anno Europeo del Patrimonio, in quanto volto a garantire una sempre maggiore accessibilità dei luoghi, in un’ottica di inclusione e apertura verso i cittadini di Roma e verso i pubblici piú fragili. Ma forse la migliore sintesi di tutto ciò si deve a Bertold Brecht, che recita: «Tutte le Arti contribuiscono all’Arte piú grande di tutte: quella di vivere». «Il Parco fuori dal Parco» è un progetto del Servizio Comunicazione, relazioni con il pubblico, la stampa, i social network e progetti speciali. Le attività rientranti nel programma Salus per Artem sono condotte congiuntamente dai servizi Comunicazione e Didattica, in collaborazione con le associazioni coinvolte nei diversi progetti. Alfonsina Russo, Federica Rinaldi e Andrea Schiappelli

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n otiz iario

SCOPERTE Sicilia

UN SANTUARIO D’ALTURA?

I

l Pizzo della Rondine (1246 m) è un rilievo dei monti Sicani Orientali, nel territorio di Cammarata (Agrigento). La cresta sommitale si conforma come un lungo pendio, leggermente inclinato a nord-est e si caratterizza per la presenza di affioramenti rocciosi di lastre calcaree disposte in verticale, tra le quali cresce il bosco naturale, a tratti interrotto da piccole radure. Sopralluoghi condotti da chi scrive sul Pizzo della Rondine e sui suoi versanti hanno portato al rinvenimento di numerosi frammenti ceramici appartenenti a vasellame vario e a oggetti di uso domestico. La maggiore concentrazione di ceramica è stata osservata sulla sommità dell’acrocoro. Le ricognizioni non hanno finora rilevato la presenza di strutture architettoniche, né di elementi che possano ricondurre a qualsivoglia tipologia di sepoltura. Tuttavia, la ceramica ritrovata è ascrivibile a una vasta gamma di tipologie. La quantità maggiore appartiene a vasellame, una modesta quantità a frammenti di tegole e una piccola parte a oggetti di altra natura, come una fuseruola, un frammento di macinello in granito rosso e quella che sembrerebbe essere una cretula-sigillo. Tra i frammenti ascrivibili a diverse tipologie vascolari – anse, orli, fondi e pareti di diverso spessore, diametro e tipologia di impasto –, una percentuale significativa presenta apparati decorativi utili per stabilire paralleli con ritrovamenti effettuati in contesti archeologici già conosciuti e documentati.

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A destra: un campione dei materiali ceramici rinvenuti grazie alle ricognizioni di superficie sul Pizzo della Rondine (Cammarata, Agrigento). In basso: una veduta del Pizzo.

Tra questi spiccano i frammenti a decorazione impressa e incisa, eseguita secondo motivi decorativi molteplici: fasce orizzontali singole o doppie, diametrali, accompagnate a triangoli campiti a puntini o onduline; doppie fasce continue correnti a zig-zag lungo il diametro; impressioni di rosette di varie dimensioni; incisioni a «S» riunite in gruppi entro riquadri di doppie linee verticali e orizzontali. Sono presenti anche combinazioni miste tra i vari motivi decorativi precedenti. Sono altresí presenti sul sito frammenti sporadici di vasellame minuto a vernice nera, tra cui un’ansa e una base riconducibili a una kylix. Grazie a confronti con reperti provenienti da altre località della Sicilia occidentale, il sito di Pizzo della Rondine può essere considerato omogeneo e compreso

tra i secoli VII e VI a.C., ascrivibile alla facies culturale di Sant’Angelo Muxaro-Polizzello. Circa la natura dell’insediamento, al momento si possono solo avanzare ipotesi. È difficile immaginare fosse un insediamento abitativo, non essendo presenti nelle immediate vicinanze fonti di approvvigionamento idrico. Chi scrive è quindi propenso a considerare la frequentazione del luogo legata a motivi cultuali e a identificarlo con un santuario d’altura, in virtú anche delle sue caratteristiche geomorfologiche: accessibilità visiva, particolare suggestività dell’ambiente naturale connotato da monumentali pareti rocciose, identificabilità del rilievo come punto di riferimento per il contesto territoriale circostante. Giuseppe Schillaci e Fabio Lanzalacqua


SCAVI Calabria

TREMILA ANNI FA, NELLA SIBARITIDE

C

ivita, comune della Calabria nord-orientale in provincia di Cosenza, è stata teatro di recenti scoperte archeologiche, frutto della sinergia fra l’Università di Groningen, la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Cosenza, il Polo Museale della Calabria e le amministrazioni locali. Ricerche nel bacino del fiume Raganello erano state già avviate dall’Istituto di Archeologia dell’Ateneo olandese nel ventennio scorso nei dintorni di Timpone della Motta a Francavilla Marittima. Dal 2000, nell’ambito del Raganello Archaeological Project, diretto da Peter Attema e Martijn van Leusen, le attività si sono estese a Cerchiara, Frascineto, Cassano Jonio, San Lorenzo Bellizzi e dallo scorso anno a Civita, in località Monte San Nicola. Incorporando anche i dati acquisiti tramite le ricerche del Gruppo Speleologico Sparviere, il progetto ha permesso di individuare numerosi siti archeologici, databili fra il Neolitico e gli inizi dell’età del Ferro. Le recenti ricerche hanno previsto scavi, ricognizioni di superficie e prospezioni magnetometriche, che hanno fornito dati importanti sullo sviluppo insediativo di lunga durata di un territorio chiave per la comprensione della protostoria e sulle dinamiche che hanno caratterizzato la colonizzazione greca nella Sibaritide: solo sulla sommità della collina di San Nicola le indagini preliminari hanno portato all’individuazione di oltre trenta anomalie positive, perlopiú circolari, distribuite su due terrazzi a nord e a sud-ovest del colle, indicandone un intenso utilizzo soprattutto in fase protostorica. «Gli scavi impostati sulla base di precedenti indagini di superficie e geofisiche – afferma l’archeologa

Francesca Ippolito, ricercatrice presso l’Institute of Archaeology dell’Università di Groningen – hanno permesso di portare alla luce strutture in fossa relative a un’area di attività antropica connessa a un insediamento inquadrabile fra la fine dell’età del Bronzo e gli inizi dell’età del Ferro. Lo scavo, effettuato in corrispondenza di una delle anomalie geofisiche, ha interessato una struttura da fuoco sub-circolare (diametro massimo

interno 1,20 m) identificata come forno per la cottura dei cibi e caratterizzata da una fodera di argilla concotta fortemente arrossata dal fuoco. Gli strati di riempimento della struttura contenevano ceramica di impasto e figulina, databili fra l’ultima fase del Bronzo Finale e la prima fase dell’età del Ferro: si tratta di olle, ciotole, frammenti fittili decorati. Il riempimento della struttura includeva inoltre frustoli di carbone, frammenti di concotto, di rachidi di monococco-dicocco, frammenti osteologici di animali e malacofauna (dentalium). Fra le strutture infossate, sono state scavate due fosse di scarico di materiali che includevano, oltre a ceramiche d’impasto, frammenti di ceramica protogeometrica, finora poco attestata nella Sibaritide. Il prosieguo delle indagini mirerà alla scoperta del resto dell’insediamento o villaggio a cui queste strutture afferiscono, in modo da restituire uno spaccato di vita di 3000 anni fa, periodo cruciale per capire come si siano svolti in questa regione gli incontri e gli scambi con quei Greci che poi fonderanno la colonia di Sibari». G. G.

In alto e in basso: due immagini delle strutture in fossa individuate nel corso degli scavi condotti sulla collina di San Nicola, nel territorio di Civita, in provincia di Cosenza. Fine dell’età del Bronzo-inizi dell’età del Ferro.

a r c h e o 11


ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

LA REGINA DELLE VILLAE TORNA VISITABILE, A BOSCOREALE, VILLA REGINA, IL MEGLIO CONSERVATO FRA GLI ANTICHI IMPIANTI RUSTICI PRESENTI NEL TERRITORIO VESUVIANO. UN’OCCASIONE PER SCOPRIRE QUANTO FOSSERO «MODERNI» I METODI DI PRODUZIONE E TRATTAMENTO DEI FRUTTI DELLA TERRA

L

e assolate falde del Vesuvio che si distendono nel suburbio a nord di Pompei erano punteggiate da oltre sessanta fra ville e fattorie impegnate, prima del 79 d.C., nella lavorazione della fertile terra vulcanica, e in particolare nella coltura della vite e dell’olivo e in quella delle piante tessili. Sono perlopiú villae rusticae che segnavano il paesaggio agrario pompeiano con la loro fitta trama di insediamenti di piccole e medie dimensioni a conduzione familiare oppure di complessi piú grandi affidati al lavoro degli schiavi, con settori residenziali saltuariamente frequentati dai loro ricchi proprietari. Fra questi impianti, sorti al tempo della deduzione sillana della colonia pompeiana (80 a.C.), spicca Villa Regina a Boscoreale. Salvata dal moderno sviluppo edilizio, la scoperta dell’edificio avvenne nel 1977: si tratta di una piccola e intatta fattoria appena restituita alla visita del pubblico grazie a importanti interventi di restauro. La costruzione rurale, posta a circa un chilometro dall’uscita di Porta Ercolano, è sorta all’interno di un piú antico fondo agrario frequentato sin dal IV secolo a.C. L’attuale fisionomia risale alla metà

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In alto: Boscoreale. Veduta d’insieme di Villa Regina, impianto rustico che fu in uso almeno dal IV sec. a.C.

Nella pagina accanto: l’ambiente con i dolia per la fermentazione e la conservazione del vino.

del I secolo a.C., con ristrutturazioni successive, come rivelano l’aspetto di alcune stanze e l’ambiente residenziale ornato con pitture del tardo III stile pompeiano.

restauro dopo i danni subiti dal terremoto del 62 d.C. e che la cucina era praticamente in disuso. L’eccezionale stato di conservazione della villa ci permette di conoscere, in particolare, l’organizzazione di questa categoria di edifici romani funzionali. All’esterno, il giardino di rispetto era lambito da una stradina di cui restano i solchi lasciati dai carri da trasporto, mentre il resto era piantumato con vari alberi, un

UN USO LIMITATO Al momento della distruzione, l’edificio veniva probabilmente utilizzato solo durante le stagioni agricole, considerato che piú di un locale era ancora in attesa di


calco dei quali, posto di fronte all’ingresso del fabbricato, rappresenta, con l’innaturale ripiegamento del fusto, la furia eruttiva del Vesuvio che si scatenò su Pompei. Il giardino era circondato da un bel vigneto, organizzato in filari sostenuti da palificazioni (vitis compluviata); accanto alle tracce archeologiche delle coltivazioni sono state ripiantate le viti per una ricostruzione sperimentale del vigneto antico. L’intero edificio ruotava intorno al triportico affacciato su un cortile che fungeva da cella vinaria: sul piano di calpestio sono infatti infossati 18 grandi contenitori chiusi da coperchi fittili (dolia), che garantivano la fermentazione e la conservazione di circa 10 000 litri di vino, pari a 20 cullei; Catone sosteneva che 10 cullei di vino si ricavavano normalmente da 1

jugero (equivalente a circa un quarto di ettaro), e che pertanto la terra rendeva molto di piú rispetto al commercio marittimo.

LA SALA DEL TORCHIO L’ingresso alla costruzione immetteva sul lato settentrionale del triportico, sul quale si aprivano subito gli ambienti destinati alla produzione di vino: troviamo lo spazio per la torchiatura (torcularium) – con il calco del torchio ligneo, la vasca di premitura e il contenitore per la raccolta del mosto – suddiviso in due parti da un muro sul quale era stato allestito un larario a tempietto che conteneva, non a caso, l’immagine di Bacco. L’ala residenziale era molto ristretta e occupava il lato orientale con il triclinio aperto sul portico e dipinto con pannelli rossi, gialli e neri fra prospettive architettoniche. Accanto è un altro

ambiente, reimpiegato al momento dell’eruzione come fienile. Nell’adiacente Antiquarium si possono vedere gli oggetti trovati nella fattoria, fra cui una lucerna di età tardo-antica che indica la frequentazione di quest’area dopo la sua distruzione, oltre ai materiali recuperati nelle altre ville e fattorie della zona, ben raccontati attraverso una sezione dedicata alla ricostruzione dell’ambiente vesuviano dell’epoca. Da segnalare, per lo straordinario valore documentario, la sequenza piroclastica conservata sul margine occidentale dello scavo della fattoria, una potente stratigrafia che racconta, quasi attimo dopo attimo, l’azione devastatrice abbattutasi su questo impianto e sulla città di Pompei. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; pagina Fb Pompeii-Parco Archeologico.

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n otiz iario

INCONTRI Roma

LUCE SULL’ARCHEOLOGIA 2020: ALLE ORIGINI DI ROMA

A

l Teatro di Roma prende il via dal prossimo gennaio la VI edizione di «Luce sull’Archeologia. Incontri di Storia e Arte» e, come ogni anno, gli appuntamenti si svolgono nella splendida sala settecentesca del Teatro Argentina la domenica mattina alle 11,00. «Alle origini di Roma. Miti, Popoli, Culture», è questo il tema della sesta edizione, che sarà esplorato

da storici, filologi, archeologi, storici dell’arte, architetti, epigrafisti, scienziati e una preziosa partecipazione di musicisti e specialisti di strumenti musicali del mondo antico. Tra i numerosi miti legati alla fondazione di Roma, quello del drammatico amore tra Enea e Didone, la regina di Cartagine, morta suicida a seguito dell’abbandono dell’eroe troiano, è

In alto: maschera in marmo che decorava i fornici del Teatro di Marcello e ora conservata nel Teatro Argentina. I sec. d.C. senz’altro uno dei piú toccanti e suggestivi. Molti artisti vi si sono ispirati e tra questi numerosi musicisti. Proporremo quindi in questa edizione, per la prima volta, nell’incontro del 9 febbraio, a corredo dei contributi di storia dell’arte e storico-archeologici, un suggestivo excursus lirico di arie ispirate all’infelice regina, amata e abbandonata da Enea durante il suo viaggio verso le coste del Latium Vetus, al quale è destinata una discendenza regale: «Il fato ha stabilito che egli si salvi, affinché non perisca, sterile, annientata, la stirpe di Dardano (…) Ora il Cronide ha preso in odio la stirpe di Priamo. Ma sui Troiani ormai regnerà il potente Enea, e i figli che nasceranno nell’avvenire» (Iliade XX, 302-308). Un viaggio emotivo, quello di «Luce sull’Archeologia», che sta diventando sempre piú un riferimento culturale per la città di Roma, testimoniato dalla numerosa affluenza del pubblico e dal grande interesse riscontrato. Otto gli

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INCONTRI Siena

L’ARCHEOLOGIA SI SVEGLIA A PRIMAVERA incontri del 2020, da gennaio ad aprile: 12 e 26 gennaio, 9 e 23 febbraio, 8 e 22 marzo, 19 aprile, 21 aprile, con i quali si propone un ricco palinsesto dedicato non solo alla storia piú antica di Roma, ma anche alla progressiva conquista del Lazio, analizzando i miti di fondazione e i popoli con i quali Roma si è trovata a confronto. Il racconto di una storia che ha la forza di una epopea, un patrimonio di tradizioni fiabesche, come la storia dei gemelli Romolo e Remo nati da Rea Silvia e dal dio Marte, esposti alle acque del Tevere, nutriti da un lupa e salvati dal pastore Faustolo. Una storia di scontri, ma anche di incontri di civiltà, di sopraffazione e di profonda integrazione. Una riflessione, quindi, sulla memoria e le testimonianze materiali della piú antica storia di Roma e della sua regione, partendo da un confronto tra leggenda e realtà archeologica e articolando in ogni incontro i diversi punti di vista per coniugare al meglio filologia e narrazione. Avere assicurato continuità a questo ciclo di incontri, ha consentito di raggiungere un risultato di eccellenza nella divulgazione e fruizione pubblica dei dati scientifici, grazie anche al prosieguo della collaborazione con lo storico dell’arte Claudio Strinati, col direttore delle riviste «Archeo» e «Medioevo», Andreas M. Steiner, e col direttore associato dell’Istituto Nazionale di Studi Romani Massimiliano Ghilardi. Il primo appuntamento, domenica 12 gennaio, avrà per tema «Le origini di Roma tra mito e storia», e vedrà gli interventi di Claudio Strinati, Andreas M. Steiner, Carmine Ampolo, Orietta Rossini e Anna Mura Sommella. Catia Fauci

S

pring Archaeology è un progetto nato dall’iniziativa di un gruppo di studenti e laureati in archeologia dell’Università degli Studi di Siena, con il fine dichiarato di proporre ai giovani ricercatori italiani un’occasione per presentare e discutere in pubblico il proprio lavoro. L’archeologia, oggi, è sempre piú caratterizzata da un approccio multidisciplinare, che tende a integrare lo studio delle fonti antiche e dei resti materiali propri di un dato luogo e di un dato momento con diverse discipline, che spaziano dallo studio delle architetture all’analisi della cultura materiale, dall’archeologia sperimentale ai metodi e alle strategie di comunicazione dei beni culturali, dalle ricostruzioni paleoambientali a quelle digitali, passando per numerose specializzazioni e contaminazioni. Per questa ragione il convegno ha ottenuto, oltre al patrocinio dell’Ateneo senese, anche quelli del Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali, del Dipartimento di Scienze Fisiche, della Terra e dell’Ambiente e del Dipartimento di Filologia e Critica delle Letterature Antiche e Moderne: lo scopo è di incoraggiare la presentazione di contributi multidisciplinari, la cui valutazione è affidata a un comitato scientifico formato da dottorandi, dottori di ricerca e docenti afferenti ai Dipartimenti patrocinanti, ancora una volta nella prospettiva di mettere al centro della scena i futuri specialisti italiani. Il convegno Spring Archaeology sarà realizzato con il contributo dell’Università degli Studi di Siena e il supporto della Fondazione USiena Alumni, della

Fondazione Musei Senesi e dell’Associazione Nazionale Città del Vino. Il programma prevede due giorni di relazioni, con ampio spazio riservato alla discussione, una presentazione di poster, e, infine, una tavola rotonda con i rappresentanti delle due principali associazioni di categoria: l’Associazione Nazionale Archeologi e la Confederazione Italiana Archeologi. L’obiettivo finale dell’iniziativa sarà la creazione di un’occasione inclusiva di incontro, in cui dare spazio ai giovani archeologi in formazione, siano essi studenti, laureandi o laureati che continuano il percorso formativo attraverso il dottorato di ricerca o si avviano verso un percorso professionale: una call for papers condotta a livello nazionale ci ha infatti consentito di raggiungere realtà diverse, universitarie e non, per realizzare un momento che, ci auguriamo, possa essere di crescita e di arricchimento per tutti coloro che decideranno di raggiungerci a Siena nei giorni del 20, 21 e 22 marzo 2020. Per informazioni: springarchaeology@gmail.com Andrea Bellotti, Mickey Scarcella e Maria Messineo

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A TUTTO CAMPO Elisa Papi e Giulia Reconditi

ARTEMIDE, DEA DI BOSCHI, ALTURE E FRONTIERE GLI SCAVI DELL’UNIVERSITÀ DI SIENA A ROSELLE STANNO APRENDO NUOVE PROSPETTIVE SUL CULTO DI ARTEMIDE ETRUSCA ALL’INTERNO DELL’AREA URBANA. I DATI SUGGERISCONO, TUTTAVIA, CHE LA DEA, OLTRE I BOSCHI E LE ALTURE NELLA VALLE DELL’OMBRONE, TUTELASSE ANCHE I CONFINI DEL TERRITORIO ROSELLANO

N

el numero scorso (vedi «Archeo» n. 417, novembre 2019; anche on line su issuu. com) sono stati presentati i primi, significativi risultati degli scavi condotti dall’Ateneo senese nella cornice del Progetto Roselle, avviato nel 2018 dal Comune di Grosseto, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Siena, Grosseto e Arezzo e il Polo Museale della Toscana. Nella Collina Sud, l’obiettivo principale è accertare la natura di una grande struttura in blocchi a secco, denominata in letteratura Tempelterrasse (cioè «terrazza del tempio»), venuta alla luce alla fine degli anni Cinquanta, grazie agli scavi promossi dall’Istituto Archeologico Germanico. Tale struttura, prossima alla cinta muraria e a una delle porte urbiche, è formata da un imponente muro di terrazzamento con grandi blocchi, messi in opera in un momento avanzato del VI secolo a.C., poi rinforzato da un muro di controscarpa collegato al precedente con setti in funzione di

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rompitratta, da attribuire alla seconda metà del V secolo a.C. Già nello scavo degli archeologi tedeschi era evidente il consistente numero di terrecotte architettoniche in frammenti, sepolte a piú riprese all’interno dei cavi quadrangolari creati tra i due muri principali e i rompitratta: in occasione dello svuotamento dei cavi, la campagna del 2019 ha restituito ulteriori frammenti di antefisse e lastre di rivestimento. In sostanza, le terrecotte, di età arcaica ed ellenistica, rappresentano la parte sopravvissuta e interrata dei successivi rivestimenti di uno o piú edifici templari dislocati sulla Collina Sud.

UN QUESITO DA SCIOGLIERE Sappiamo, dal nuovo e importante ritrovamento epigrafico, graffito sotto il piede di una coppa attica (e descritto nel precedente intervento), che la divinità, probabilmente la principale, a cui era dedicato il grande santuario della Collina Sud era Artemide, nella sua versione etrusca

Artames/Artumes. La domanda quindi è: dove era collocato il tempio e, soprattutto, sarà ancora leggibile dopo le ristrutturazioni operate in età romana? La sommità e l’area alle spalle della Tempelterrasse, oggi ricoperta da vegetazione spontanea, sembra il luogo piú indicato per ospitare un santuario, pur essendo alterata


A destra: foto zenitale dello scavo 2019 alla Tempelterrasse: a destra, il muro di terrazzamento; in alto a sinistra, le cisterne romane; al centro, le nuove strutture portate in luce. Nella pagina accanto: antefissa in terracotta, probabilmente pertinente al tempio di Artemide. Fine del VI-inizi del V sec. a.C.

dall’intrusione di lunghe cisterne romane in cementizio: nel 2019 se ne è esplorato un ampio settore, che ha rivelato una sovrapposizione di differenti edifici, riconducibili ai periodi arcaico ed ellenistico, con evidenti ristrutturazioni di età romana. In particolare, sono emersi due muri rettilinei, uno dei quali, posto in opera a secco e di rilevante spessore, mantiene il medesimo orientamento del terrazzo principale, ed è probabilmente contemporaneo a questo. Entrambe le strutture sono tuttavia obliterate da strati piú recenti, da collegare alla costruzione di un edificio con orientamento differente, certamente piú tardo poiché sostenuto da muri in malta. Solo il prosieguo degli scavi potrà però definire forma e funzione delle suddette strutture. Benchè ancora sfugga l’esatta posizione del tempio, proviamo a valutare le conseguenze della sua presenza a Roselle. Nella versione etrusca Artames/Artumes, la divinità, sorella di Aplu (Apollo), viene rappresentata, a partire dalla

metà del VI secolo a.C., con gli attributi di cacciatrice, legata ai boschi e agli animali che li popolano, quali cervi e caprioli. Poco ancora sappiamo sui suoi santuari e sulle forme che prendeva il suo culto in Etruria: simile, ma non identica, alla fisionomia di Diana romana, di cui è nota la distribuzione dei santuari sui Colli Albani, l’Artemide etrusca condivide con essa la predilezione per le alture e per i boschi.

IL LEGAME CON IL FIUME La Maremma grossetana, tuttavia, ha restituito un’eccezionale testimonianza sul culto della divinità: un frammento di epigrafe riferibile al I secolo d.C. testimonia in età romana il legame protettivo della dea con l’Ombrone, nell’epiclesi Diana Umbronensis. L’epigrafe proviene dal santuario di Diana, scoperto e scavato di recente in località Scoglietto ad Alberese, in prossimità della foce del fiume. Tale circostanza fornisce un particolare valore alla Artames/ Artumes di Roselle, se si considera lo stretto legame della città

etrusco-romana con il fiume e, soprattutto, la posizione del santuario all’interno delle mura urbane: una circostanza singolare, almeno nel mondo romano, per una divinità di per sé extraurbana, legata alle selve e alle alture. Ma non è tutto: gli elementi archeologici disponibili su Roselle etrusca (tra i quali la posizione, ai margini del territorio di Vetulonia, la cultura materiale e la scrittura, permeate di elementi settentrionali e meridionali), fanno della città un vero e proprio centro di frontiera rispetto alle pressioni esercitate dalle aree etrusco-meridionale verso nord (Vulci) e centrale verso il mare (Chiusi). Sacro ad Artemide etrusca e poi a Diana, l’Ombrone diventa presto la frontiera fisica della città etrusca, sulla linea di altri culti analoghi, ipotizzati nell’area amiatina: tra i principali quello rappresentato dal grande tempio al Poggio delle Bandite di Seggiano, toponimo che potrebbe derivare da aedes Dianae oppure da aedes Iani, cioè «tempio di Diana» oppure «tempio di Giano», altra divinità protettrice dei confini.

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

UNA LUNGA CONSUETUDINE La rassegna delle genti citate dalla fonti bibliche trova la sua conclusione «naturale» con i Romani, la cui prima citazione (1 Maccabei 8,1) viene fatta risalire a Giuda Maccabeo (1), che li elogia come popolo potente, che accordava amicizia e protezione; venivano ammirati per le 2 qualità guerriere, per la stabilità politica e per la forma 3 collegiale di governo. Questa ammirazione per Roma, 1 iniziata con l’aiuto contro i Seleucidi intorno al 140 a.C. nella presa della cittadella di Acra (2, dove oggi sorge la torre di David), durò, di fatto, fino al 63 a.C., inizio della dominazione romana in Palestina. In quegli anni i rapporti furono quasi idilliaci e, anche grazie a una citazione di Valerio Massimo, si scopre che nello stesso periodo anche 5 sul Tevere c’era una fiorente comunità ebraica (ancora oggi la sinagoga romana è proprio sul Tevere, 3). Nel 63 a.C. Gneo Pompeo Magno entra trionfalmente in Gerusalemme 4 ma, poco dopo, la tragica profanazione del Tempio (4) alienò le simpatie ebree verso Roma; un atteggiamento che 6 peggiorò quando il regno di Giudea divenne praticamente vassallo di Roma. Si arriva cosí a Erode il Grande, il quale, 7 con l’appoggio di Antonio, divenne re degli Giudei nel 37 8 a.C. e regnò fino al 4 a.C. A prescindere dalle incongruenze storiche tra la data della morte di Erode, 4 a.C., e il suo collegamento con la nascita di Cristo e la strage degli innocenti, il suo regno fu segnato dal benessere 10 economico, testimoniato dalla politica urbanistica del 9 monarca. Erode iniziò i lavori di ampliamento del secondo 11 Tempio (5), ristrutturò la fortezza di Masada (6), realizzò una città portuale chiamata Cesarea (7) e si fece costruire il 13 palazzo-fortezza dell’Herodion (8). Alla sua morte il regno si 12 disgregò e Augusto lo uní alla provincia di Siria, nominando un governatore, il piú famoso dei quali fu Ponzio Pilato (9) in carica fino al 39 d.C. Gli ultimi accenni 14 biblici a Roma sono legati al diffondersi del cristianesimo; 15 si cita san Paolo, che giunse a Roma dopo un lungo viaggio 16 (10) per sottoporsi al giudizio dell’imperatore Nerone (11). Partito da Cesarea, sbarcò a Pozzuoli (12) e, lungo la via 17 Appia (13), fu accolto dai cristiani di Roma, che gli andarono incontro in due località in provincia di Latina: Forum Appii (14) e Tres Tabernae (15). 18 In seguito, per normalizzare una Palestina scossa da continue sommosse, l’imperatore inviò forze ingenti al comando del IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di generale Vespasiano (16) e del figlio Tito per Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può conquistare Gerusalemme, missione portata a scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi termine nel 70 d.C. e documentata dai rilievi altro tema, ai seguenti indirizzi: dell’Arco di Tito (17). Questa data segna anche Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, l’avvento di un ebraismo nuovo, senza legami col Via Tavanti, 8 C.P. 17037 vecchio Tempio, che sceglie come punti di riferimento 50134 Firenze Grottarossa le sinagoghe; e a Ostia Antica (18) ci sono i resti, ben info@cift.it, 00189 Roma. oppure lcalenda@yahoo.it; www.cift.it conservati, della piú antica sinagoga in Europa.

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LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

CARTAGINE REGINA DEL MEDITERRANEO

P IN EDICOLA

ochi nomi hanno un potere evocativo tanto forte quanto quello di Cartagine, la cui fama è stata resa imperitura dall’essere stata, per lunghi anni, la «nemica numero uno» di Roma. In realtà, sebbene le tre guerre puniche abbiano costituito un momento decisivo nella sua storia, la città ha un passato plurisecolare, particolarmente ricco e articolato. La sua fondazione, che la leggenda attribuisce alla principessa Elissa/Didone e che si colloca nel IX secolo a.C., segnò l’avvio di una parabola lunga e a piú riprese gloriosa, se solo consideriamo che Cartagine si affermò come una delle piú ricche e fiorenti metropoli della regione mediterranea. Una storia, insomma, che va ben oltre gli episodi legati ad Annibale e Scipione e che nella nuova Monografia di «Archeo» viene ripercorsa da un gruppo di autorevoli studiosi, coordinati per l’occasione da Sergio Ribichini. L’opera si propone dunque come un vivace affresco storico, ma anche come un caloroso invito a visitare la città tunisina, che ha appena festeggiato il quarantesimo anniversario dell’iscrizione nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell’UNESCO.

GLI ARGOMENTI • PROLOGO • Splendori di un’antica metropoli

• La religione • I misteri del tofet

• LA STORIA • Quella sorella del re di Tiro...

• LA CITTÀ DEI CESARI • Cartagine romana, vandalica e bizantina

• VITA PUBBLICA E PRIVATA • I signori del mare • L’arte della guerra • Epigrafia e urbanistica • Arte e artigianato artistico

• I SITI E I MONUMENTI • L’area archeologica • Cartagine nel Museo Nazionale del Bardo di Tunisi

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CALENDARIO

Italia ROMA Pompei e Santorini L’eternità in un giorno Scuderie del Quirinale fino al 06.01.20

Etruschi

Viaggio nelle terre dei Rasna Museo Civico Archeologico fino al 24.05.20 (dal 07.12.19)

Il leone e la montagna

Scavi italiani in Sudan Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco fino al 19.01.20

L’Arte ritrovata

L’Arma dei Carabinieri per il recupero e la salvaguardia del patrimonio culturale italiano Musei Capitolini fino al 26.01.20

Colori degli Etruschi

Tesori di terracotta presso la Centrale Montemartini Musei Capitolini, Centrale Montemartini fino al 02.02.20

Roads of Arabia

Tesori dell’Arabia Saudita Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano fino al 01.03.20

BRINDISI Nel mare dell’intimità L’archeologia subacquea racconta il Salento Aeroporto del Salento fino al 05.07.20

CLASSE (RAVENNA) Tessere di mare Dal mosaico antico alla copia moderna Museo Classis Ravenna fino al 06.01.20

Carthago

Il mito immortale Colosseo-Foro Romano fino al 29.03.20

AMELIA Germanico Cesare…

a un passo dall’impero Museo Archeologico e Pinacoteca fino al 31.01.20

ESTE Veleni e magiche pozioni Grandi storie di cure e delitti Museo Nazionale Atestino fino al 02.02.20

FAENZA Sulla via dell’Oriente

BOLOGNA La Casa della Vita

Ori e storie intorno all’antico cimitero ebraico di bologna Museo Ebraico fino al 06.01.20 24 a r c h e o

Ceramiche dal Museo delle Civiltà di Roma Museo Internazionale delle Ceramiche fino al 06.01.20

FIRENZE Mummie

Viaggio verso l’immortalità Museo Archeologico Nazionale fino al 02.02.20

Coppa tipo slip-painted, dall’Iran. X-XI sec.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Germania

MILANO L’esercito di Terracotta e il Primo Imperatore della Cina

BERLINO Figure possenti

Fabbrica del Vapore fino al 09.02.20

Ritratti dalla Grecia antica Altes Museum fino al 02.02.20

NAPOLI Sacra Neapolis

Culti, miti, leggende Lapis Museum, Basilica della Pietrasanta fino al 15.12.19

Uno dei guerrieri dell’Esercito di Terracotta.

Thalassa

Paesi Bassi

ODERZO L’anima delle cose

LEIDA Cipro

Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium Palazzo Foscolo-Museo Arcehologico Eno Bellis fino al 31.05.20

Storia e futuro di una città d’acqua Museo Archeologico Nazionale fino al 31.01.20

PALERMO Quando le statue sognano

Frammenti da un museo in transito Museo Salinas fino al 29.03.20

SAN GIMIGNANO Hinthial. L’Ombra di San Gimignano L’Offerente e i reperti rituali etruschi e romani Museo Archeologico fino al 31.05.20

SIRACUSA Archimede a Siracusa Experience exhibition Galleria Civica Montevergini fino al 31.12.19

TORINO Archeologia Invisibile

Museo Egizio fino al 07.06.20 (prorogata)

Sulle sponde del Tigri

Suggestioni dalle collezioni archeologiche del MAO: Seleucia e Coche MAO Museo d’Arte Orientale fino al 12.01.20

ATENE Gli infiniti aspetti della bellezza Museo Nazionale Archeologico fino al 31.12.19

Meraviglie sommerse dal Mediterraneo Museo Archeologico Nazionale fino al 09.03.20

PAESTUM Poseidonia

Grecia

Un’isola dinamica Rijksmuseum van Oudheden fino al 15.03.20 Statuina in avorio della dea Lakshmi, da Pompei.

Regno Unito LONDRA Ispirati dall’Oriente

Come il mondo islamico ha influenzato l’arte occidentale British Museum fino al 26.01.20

Troia. Mito e realtà British Museum fino all’08.03.20

Svizzera MENDRISIO India antica

Capolavori dal collezionismo svizzero Museo d’Arte Mendrisio fino al 26.01.20

BASILEA Gladiatori

La vera storia Antikenmuseum fino al 22.03.20

USA NEW YORK Acquerelli dell’Acropoli

Émile Gilliéron ad Atene The Metropolitan Museum of Art fino al 03.01.20 a r c h e o 25


SCOPERTE • SAN GIMIGNANO

L’OMBRA DI SAN GIMIGNANO «Nel mese di Dicembre, nel giorno 29, se tuona, vuol dire che vi sarà la piú salvifica linearità dei corpi»: sono alcune delle misteriose parole racchiuse in uno dei pochissimi testi rituali degli Etruschi giunti fino a noi, attraverso una traduzione erudita di età bizantina. L’autore è Nigidio Figulo e il testo è il Calendario Brontoscopico. Ma che cosa si cela dietro la linearità salvifica dei corpi che si verificherebbe alla fine di dicembre, sotto i tuoni di un temporale? La risposta è avvolta nel mistero, ma fino a noi è giunto un piccolo gruppo di figure allungate in bronzo, di eccezionale fattura, la piú nota delle quali è la splendida Ombra della Sera esposta al Museo Guarnacci di Volterra. Siamo in età ellenistica, in Etruria: un tempo turbolento, quando, una dopo l’altra, capitolano le potenti città etrusche e nascono le colonie romane. Ma una nuova Ombra, recentemente scoperta a San Gimignano e ora esposta in mostra nel locale Museo Archeologico, getta nuova luce su queste splendide raffigurazioni in bronzo e aggiunge un tassello alla comprensione delle offerte rituali e sacre degli antichi Etruschi. di Enrico Maria Giuffrè e Jacopo Tabolli

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Salvo diversa indicazione, tutte le foto dell’articolo si riferiscono al bronzetto di Offerente rinvenuto in località Torraccia di Chiusi, a San Gimignano e ora esposto nella mostra «Hinthial. L’Ombra di San Gimignano» allestita nel Museo Archeologico della cittadina toscana fino al 31 maggio 2020. Sulle due pagine: vedute d’insieme, fronte e retro, e un particolare del volto dell’Offerente.


SCOPERTE • SAN GIMIGNANO

N

el settembre del 2010 durante lo scavo per la messa in opera di una canalizzazione, lungo il sentiero che risale alla sommitĂ della Torraccia di Chiusi (vedi box alla pagina seguente, in alto), a pochi passi dal corso del torrente Fosci, lungo le propaggini collinari che scendono da San Gimignano verso la Valdelsa, gli operai si imbatterono in una

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A destra: San Gimignano e i principali centri etruschi del territorio. In basso: settembre 2010, il momento del ritrovamento del bronzetto.

Gonfienti

Fiesole

N

Firenze

Pisa Pontedera Livorno

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Artimino

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San Gimignano Arezzo

Cecina

Volterra Siena Cortona Lago Trasimeno

Populonia

Chiusi


IL MISTERO DI UN NOME Il toponimo del luogo di rinvenimento dell’Offerente, la Torraccia di Chiusi, potrebbe condurci in inganno. Che cosa lega il piccolo centro etrusco di San Gimignano a Chiusi, potente città della dodecapoli? La risposta è semplice: niente. Infatti San Gimignano rientra nel territorio di Velathri/Volterra, città di cui fu un fortilizio a controllo della Valdelsa e del confine con la vicina

In alto: il sito di Torraccia di Chiusi a San Gimignano posizionato su una fotografia aerea della zona.

Vipsul/Fiesole. La «chiusa» nascosta nel toponimo della Torraccia allude alla valle stretta e al percorso stradale preromano, imperiale e poi medievale che sarà la via Francigena e che passa proprio per l’area sacra della Torraccia. Cosí le «fauci» celate nel nome del torrente Fosci, furono uno degli ingressi antichi al territorio di Velathri/Volterra.

UN FEDELE SPECCHIO DELLA SOCIETÀ ETRUSCA Il Calendario Brontoscopico venne redatto alla metà del I secolo a.C. dal «senatore, uomo di stato, grammatico, occultista e storico naturale» Nigidio Figulo. Conservato nelle pagine del De Ostensis (VI secolo d.C.), di Joannes Lydus – un burocrate pedante, dai gusti eruditi e dalle ambizioni letterarie –, il calendario è una fonte eccezionale di conoscenza della religiosità etrusca. A oggi può essere considerato a tutti gli effetti l’unico calendario etrusco conservato in integrità. A differenza del liber linteus della mummia di Zagabria (II secolo a.C.), il calendario di Nigidio Figulo è comprensibile nella sua scansione di mesi e giorni e nell’osservazione dei fenomeni atmosferici. Cade un lampo e riecheggia un tuono e si verificano eventi umani e soprannaturali. Come ha dimostrato Carmine Ampolo, il testo è un fedele specchio della società etrusca tra IV e II secolo a.C., nel momento in cui la disciplina religiosa etrusca venne ufficialmente riorganizzata. Eventi come l’alleanza tra classi servili e le donne citati nel calendario alludono proprio agli sconvolgimenti in atto nel III secolo a.C. nella compagine sociale etrusca all’alba della romanizzazione. Per approfondire: Jean Macintosh Turfa, Divining the Etruscan World: The Brontoscopic Calendar and Religious Practice (Cambridge University Press, Cambridge 2012).

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SCOPERTE • SAN GIMIGNANO A sinistra: Torraccia di Chiusi. L’area di scavo vista da sud-est, con il monolite squadrato in primo piano e i livelli combusti. In basso: particolare dei legni combusti.

scoperta a dir poco sorprendente. Emergevano dalla terra smossa tracce di un colore verde acceso. L’approfondimento immediato in prossimità di quella macchia di colore rivelò subito che sul fondo dello scasso era sepolta una figura maschile in bronzo, deposta in posizione prona. Il successivo scavo archeologico, condotto dalla Soprintendenza per

i Beni Archeologici della Toscana, portò alla luce una complessa sequenza stratigrafica con tracce evidenti di attività di combustione prossime a un blocco litico squadrato, insieme al rinvenimento di monete, frammenti ceramici, unguentari integri e frammenti di tegole e laterizi. Il bronzetto di offerente era adagiato lungo il margine meridionale del blocco,

UNA CITTÀ E IL SUO TERRITORIO Parlare di San Gimingano in età antica significa ripercorrere la storia del popolamento di Volterra. Già nel Bronzo Finale (1100-1000 a.C.), questa potente città della dodecapoli acquisisce i connotati di centro protourbano, sul modello dei centri dell’Etruria meridionale. Qui come altrove i piccoli abitati del Bronzo vengono abbandonati e i grandi pianori divengono immensi agglomerati di capanne. È la nascita della città. Ma solo con la fine del periodo villanoviano e con l’orientalizzante antico (seconda metà dell’VIII-inizi del VII secolo a.C.) il centro protourbano in via di definizione e in forte sviluppo, si espande sul territorio. E in questo momento, stando ai dati sull’abitato e sulle necropoli, dobbiamo immaginare la nascita di San 30 a r c h e o

Gimignano, un piccolo centro a controllo della Valdelsa. Con la piena età orientalizzante e l’arcaismo (metà del VII-prima metà del VI secolo a.C.), Volterra sembra subire la spinta centrifuga di cui era stata promotrice, impegnata, forse, nel definire e consolidare la compagine sociale al suo interno. I piccoli nuclei distanti dal centro, come San Gimignano, si rafforzano, strutturandosi in potentati locali. Gli anni compresi tra la metà del VI e il V secolo a.C. sono senza dubbio il periodo meglio documentato, in cui la dialettica città-territorio è meglio definita. Con la costruzione delle mura e l’affermazione di gruppi guerrieri alla guida del centro, Volterra recupera progressivamente parte del potere sul territorio, ridimensionando o annullando le

spinte autonomistiche. Con l’età ellenistica (IV-I secolo a.C.) si assiste al consolidamento del territorio di Velathri: i potentati aristocratici rurali di tradizione arcaica sono ormai pienamente assorbiti e, nonostante non siano annullati completamente, continuano la loro esistenza con un ruolo subalterno rispetto alle nuove gentes che controllano i confini e il territorio. A differenza di altri comparti dell’Etruria, l’ascesa di Roma nello scacchiere italico non rappresentò per il territorio volterrano una cesura con il periodo precedente, bensí un progressivo avvicinamento, favorito dall’oligarchia cittadina e culminato nel 90 a.C. con la concessione della cittadinanza romana. Con la nascita del municipium di Volaterrae e la


cleo iniziale costituito dal monolite e dalla deposizione del bronzetto di offerente. E anche se non possediamo il nome o i nomi degli dèi etruschi del luogo, il legame con l’Acqua e con la Terra sembra essere la chiave rituale dell’area. Questo luogo sacro potrebbe dunque corrispondere a un santuario (o stipe votiva) di confine a marcare il territorio sotto il controllo di VolIL LEGAME CON terra in età etrusca. Nel loro valore L’ACQUA E LA TERRA Tutto questo viene a descrivere originale, quelle fauces nascoste nelun’area all’aperto, posta lungo il la toponomastica del fiume Fo(s)ci, pendio della valle e prossima a una sorgente e al sentiero che risaliva la stessa, dove le attività legate all’accensione di fuochi sono con ogni probabilità da mettere in relazione con la deposizione di offerte presso il blocco litico, opportunamente alloggiato, che potrebbe aver assunto in tal modo la funzione di piccolo «altare». L’ampio arco cronologico documentato dal materiale raccolto – dal III secolo a.C. al II secolo d.C. – testimonia la vitalità di questo spazio rituale sorto sul nunon a diretto contatto con questo e con la testa deposta verso ovest. A questa prima deposizione rituale si accompagna il reiterato accumulo di materiale combusto, ricco di cenere e legni, attribuibile a una serie di focolari accesi in prossimità e forse anche al di sopra del grande monolite.

deduzione della colonia di Saena Iulia (la Siena romana), nacquero nuove esigenze. Quando il sistema delle ville e l’economia imperiale entrarono in crisi, l’occupazione delle campagne e il presidio sul territorio furono spesso garantiti proprio da queste strutture rurali su cui si impiantarono i nuovi edifici di culto. In un paesaggio a lunga continuità di vita, i resti della villa tardo-antica (IV-V secolo d.C.) di Aiano sorgono nel medio bacino del fiume Elsa, a valle della confluenza tra i torrenti Fosci e Riguardi, su un terrazzo fluviale. Dal 2005, inizio delle attività di scavo, a oggi, l’area esplorata ha raggiunto una superficie di circa 3000 mq dei quasi 10 000 stimati mediante indagini geofisiche, confermando il grande interesse archeologico e il notevole

potrebbero infatti aver segnato uno dei grandi ingressi al paesaggio archeologico etrusco e poi romano.

HINTHIAL, L’OFFERENTE Ed ecco il protagonista di questo luogo sacro, dalla cui deposizione nella ter ra tutto ebbe inizio. Hinthial è una figura maschile, un giovane adulto togato, abilmente raffigurato dall’artista che lo creò. Appare nelle vesti di offerente, con una patera ombelicata (una coppa aperta priva di anse) nella mano

I principali siti di epoca etrusca tra Volterra e San Gimignano. Rosso = tomba/ necropoli. Blu = abitato. Arancio = abitato/area sacra. Viola = area sacra. Celeste = miniera. Nero = cava. 1. Legoli (Peccioli); 2. Ortaglia (Peccioli); 3. Poggio del Boccaccio (Certaldo); 4. Poggio all’Aglione (Montaione); 5. Gli Spillocchi (Gambassi T.); 6. Cellole (San Gimignano); 7. San Martino ai Colli (Barberino Valdelsa); 8. Camporbiano (Gambassi T.); 9. San Gimignano; 10. Linari (Barberino Valdelsa); 11. Il Fornello (San Gimignano); 12. Bucciano (San Gimignano); 13. Vada (Poggibonsi); 14. Volterra; 15. Pignano (Volterra); 16. Pugiano (San Gimignano); 17. Poggio Palloro/Poggio di Gello (San Gimignano); 18. Torraccia di Chiusi (San Gimignano); 19. Mugnano (Colle di Valdelsa); 20. Dometaia (Colle di Valdelsa); 21. Campiglia dei Foci/Paganico (Colle di Valdelsa); 22. Le Vene (Colle di Valdelsa); 23. Gracciano (Colle di Valdelsa); 24. Scarna/Poggio alla Fame (Monteriggioni); 25. Il Casone (Monteriggioni).

stato di conservazione del complesso. Gli scavi hanno individuato una lussuosa villa di cui sono stati documentati vari periodi di vita: dalla fondazione del complesso, fine del III-prima metà

del IV secolo d.C. si arriva a una riorganizzazione dell’intero insediamento, che lo trasforma, per l’area toscana, in un unicum architettonico, tra la seconda metà del IV e la fine del V secolo d.C. a r c h e o 31


SCOPERTE • SAN GIMIGNANO

destra e ai piedi i calcei, sandali con alti lacci. La gamba sinistra è leggermente piegata, come a suggerire un movimento in avanti e lo sguardo, che quasi accenna un sorriso, sembra voler suggellare la reiterazione dell’offerta. Il suo nome corrisponde alla parola etrusca Hinthial, che allo stesso tempo si traduce come «anima» e «sacro», e racchiude il significato piú profondo di questo gesto di offerta.

UN GRUPPO ESCLUSIVO Nella sua unicità artistica, l’Ombra di San Gimignano si inserisce in un piccolo gruppo di ex voto raffiguranti figure allungate in bronzo provenienti dal Lazio (Nemi), dalle Marche (Ancona) e dall’Etruria centro-settentrionale (Orvieto, Chiusi, Perugia,Vetulonia,Volterra e dai rispettivi territori). A differenza della maggior parte degli altri esemplari provenienti da collezioni, l’importanza dell’Offerente di San Gimignano risiede nel fatto che conosciamo in dettaglio la provenienza da un contesto certo, per giunta sacro. Spicca rispetto agli altri per gli aspetti dimensionali, con un’altezza di 64,6 cm e un peso di 2200 g. All’interno della serie nota il riferimento immediato è all’Ombra della Sera di Volterra, che da tempo gli studiosi hanno sottratto dall’isolamento, privandola ormai definitivamente dell’accezione di oggetto affascinante e misterioso. Come

Hinthial è una figura maschile, un giovane adulto togato, abilmente plasmato dall’artista che creò il suo ritratto 32 a r c h e o


Nella pagina accanto: ancora due vedute dell’Offerente. In alto: particolare della patera ombelicata (una coppa aperta priva di anse) e del palmo della mano aperta. A destra: l’Offerente visto di profilo, con la gamba sinistra leggermente piegata. La statuetta di San Gimignano

si inserisce in un piccolo gruppo di ex voto raffiguranti figure allungate in bronzo, dalle quali lo distinguono però il fatto d’essere stato trovato in un contesto certo, e per giunta sacro, e le dimensioni, eccezionali: il manufatto misura infatti 64,6 cm di altezza e pesa 2200 gr.

l’Ombra della Sera, proprio nell’antica Velathri/Volterra, città egemone del territorio in età etrusca, dobbiamo immaginare l’opera e l’ambito culturale dell’artista che creò Hinthial. Gli altri confronti piú stringenti per l’Ombra di San Gimignano rimandano alle offerenti femminili della stipe di Casa Bianca provenienti dal territorio volterrano e conservate a Roma, nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. In questo caso ci troviamo di fronte a una peculiare visione della forma

che si diffonde dal III secolo a.C. in Etruria centro-settentrionale. Modelli che giungono grazie alla circolazione all’interno delle botteghe locali di artigiani itineranti, provenienti soprattutto dall’area tiberina. D’altro canto, la toga e i calcei del tipo «senatorio» con lacci incrociati fino al polpaccio richiamano suggestivamente la figura dell’Arringatore, un grande bronzo probabilmente votivo, che rappresenta un personaggio in atteggiamento di orante e il cui abbigliamento è quello nor-


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«DENTRO» L’OMBRA DI SAN GIMIGNANO Lo studio della complessità artistica è stato condotto di pari passo con preliminari analisi sulla tecnica di realizzazione e sulla materia. La strategia impiegata si è avvalsa di metodologie fisiche e chimiche. Le immagini restituite dalla TAC hanno sorprendentemente svelato come tra la zona sommitale delle gambe e la parte bassa del torace vi sia una traccia verticale, una sorta di bacchetta, un’anima in metallo, forse utilizzata come supporto alla modellazione della cera persa, poi inglobata nella fusione della lega. La seconda fase di test per entrare nella materia dell’Ombra di San Gimignano, si è avvalsa di un microscopio elettronico a scansione di ultima generazione (SEM TESCAN VEGA3). I primi risultati, rappresentati da una serie di immagini a profonda risoluzione, mostrano frequenti differenze di composizione che identificano due leghe principali: Lega 1: ca. 45-10% Pb – 25-30% Sn – 30-10% Cu – 5-15% As; Lega 2: ca. 95-60% Cu – 5-10% Pb con tracce talora di antimonio. La presenza di queste due leghe può avere un particolare interesse per l’interpretazione delle condizioni del processo metallurgico, per ricostruire la dinamica della fusione e raffreddamento della lega. La presenza di piombo, che abbassa la temperatura di fusione e rende piú fluido il bronzo ben si adatta con la perizia dell’artista, in linea con le evoluzioni tecnologiche che si registrano in Etruria proprio in età ellenistica.

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Particolare del volto dell’Offerente, che permette di coglierne il sorriso appena accennato.


Qui accanto: l’Arringatore, bronzo etrusco dell’80 a.C. circa, proveniente da Pila (Perugia). Firenze, Museo Archeologico Nazionale. A destra: particolare del retro dei piedi dell’Offerente e dei calcei, sandali dagli alti lacci che lo avvicinano all’Arringatore.

male in Etruria nei cortei di magistrati del secondo venticinquennio del III secolo a.C. Ma l’eccezionalità di quest’Ombra non risiede solo nella sapiente e abile mano dell’artigiano che ne realizzò la fattura (vedi box a p. 34): attorno a Hinthial ruota infatti, per oltre cinquecento anni, un regime delle offerte dedicate alle divinità del luogo sacro.

IL REGIME DELLE OFFERTE In prossimità del grande blocco in pietra, sopra alla sepoltura rituale della statua di Offerente in bronzo, a r c h e o 35


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mentre grandi fuochi venivano accesi, furono deposte nell’area sacra diverse offerte, frutto delle speranze e delle preghiere degli antichi fedeli, Etruschi prima e Romani poi. Vasi in ceramica, monete e altri piccoli oggetti in metallo descrivono un regime delle offerte caratteristico di tanti santuari di confine dell’Italia centrale (vedi box a p. 37). I vasi in ceramica deposti nell’area sacra furono plasmati durante la fase ellenistica (30090 a.C.) e nella fase imperiale romana (90-200 d.C.). Piccole

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olle e coppe in ceramica dovevano contenere le offerte vegetali, consumate presso l’altare. Molti vasi sono ridotti in frammenti, forse rotti per impedirne il riuso dopo il rito. Se escludiamo le forme d’uso comune (come la coppa a vernice nera o l’olla da fuoco), particolare rilievo rivestono i piccoli balsamari, trovati in gran numero e collegati sicuramente alle pratiche di offerta. Purtroppo non si sono conservate le tracce di oli e profumi antichi in essi contenuti, mentre, per forma, questi piccoli

contenitori di unguenti possono essere datati nel III secolo a.C., proprio come la statua di Offerente. Piú esigui sono invece i vasi di età romana, con produzioni in ceramica da fuoco, sigillata italica e un’anfora da trasporto.

CONTINUITÀ DI FREQUENTAZIONE Tra i materiali ceramici sono presenti anche alcuni frammenti che, sebbene fuori contesto e collegati verosimilmente all’insediamento rurale della Tor raccia, dimostrano una


continuità di frequentazione dell’area dall’Alto Medioevo fino al X-XIII secolo d.C. Le monete rinvenute nell’area sacra ammontano a un totale di ottanta esemplari, prevalentemente in bronzo, oricalco e argento e collocabili nell’ambito della produzione romana di età repubblicana ed imperiale, tra la fine del III secolo a.C. e la prima metà del II d.C. La piú antica è un asse connotato dal simbolo della Vittoria in volo, appartenente a un’emissione databile tra il 189 e il 180 a.C., forse attribuibile al magistrato L. Furius Philus. La piú recente è un asse dedicato dall’imperatore Antonino Pio alla consorte Faustina Maggiore (138-141 (segue a p. 40) Sulle due pagine: materiali restituiti dallo scavo in località Torraccia di Chiusi. In alto, un’olletta per offerte (metà del II sec. a.C.); a sinistra, sulle due pagine, un gruppo di balsamari (III sec. a.C.).

GLI ETRUSCHI E I SANTUARI DI CONFINE I confini dei territori delle antiche città etrusche erano spesso segnati dalla presenza di grandi santuari o piccoli tabernacoli sacri: punti di incontro e di commercio lungo le vie d’acqua, lí dove i percorsi stradali si intrecciavano. Queste zone ai margini, lontane dal centro del potere, divengono anche in ambito religioso, altrettanti mondi liminali, di passaggio, dove sfera celeste e sfera infera spesso si incontrano. La localizzazione dei luoghi del sacro diviene spesso una delle modalità per gli archeologi per comprendere la strutturazione dei territori antichi. A una cerchia piú prossima alla città, a segnare tramite il sacro, il confine urbano dei singoli centri, si oppongono invece luoghi remoti, piccoli e grandi, che circondano a corolla il territorio piú distante. Una affascinante geografia del sacro.

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ETRURIA, TERRA DI SORPRESE di Giuseppe M. Della Fina

L’Etruria continua a sorprendere: si pensa che le grandi scoperte siano già tutte avvenute, ma non è cosí. E la conferma ci viene dall’Ombra di San Gimignano, un bronzo raffigurante un offerente rinvenuto in località Torraccia di Chiusi, che testimonia, ancora una volta, il livello raggiunto dalla bronzistica etrusca. Il suo ritrovamento e ora la sua presentazione si ricollegano ad altre eccezionali acquisizioni degli ultimi anni: si pensi alla Tabula Cortonensis, una delle piú lunghe iscrizioni in lingua etrusca, scoperta solo nel 2000; alla conoscenza piú approfondita del santuario di Pyrgi, uno dei porti di Cerveteri, crocevia d’incontro per genti diverse (etrusche, greche e puniche), il cui scavo ha preso avvio nel 1957; alla nuova rilevanza e monumentalità che ha assunto la città di Marzabotto a seguito delle campagne di scavo promosse a

A destra: la Tabula Cortonensis, sulla quale è inciso un testo a carattere giuridico. Fine del III-prima metà del II sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. In basso: la Chimera di Arezzo. Lo splendido bronzo, rinvenuto nel 1553, è opera di artisti etruschi della prima metà del IV sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

partire dal 1988; o, ancora, alla scoperta del Fanum Voltumnae, il santuario federale del popolo etrusco, che, dal 2000, è oggetto di indagini sistematiche condotte ai piedi di Orvieto. Nel primo caso si è trattato di un ritrovamento accidentale, segnalato dai proprietari dei terreni; negli altri tre di campagne di scavo programmate portate avanti da Università italiane in collaborazione con altre straniere, a segnalare l’interesse che il mondo etrusco riesce a suscitare ancora anche 38 a r c h e o


L’Ombra della Sera L’Ombra della Sera è una statuetta votiva etrusca, proveniente dall’antica Velathri, l’attuale Volterra, ed è conservata da piú di due secoli al Museo Guarnacci, il piú antico museo civico di arte etrusca in Italia. Rappresenta un fanciullo nudo, raffigurato con un’eccezionale forma allungata del corpo. Da qui deriva il suo nome, perché la statuetta si allunga proprio come un’ombra, eccetto la testa, che mantiene le proporzioni esatte. Sulla scia del suggerimento di Francesco Roncalli che nell’offerta di statue votive ci si adeguasse alla mensura honorata di 3 piedi caratteristica delle statue monumentali dedicate ai cittadini benemeriti della repubblica (citate da Plinio, Nat. Hist. 34. 24: Roncalli 1982, p. 95), si è proposto di considerare l’Ombra della Sera come bronzo «monumentale» a causa delle particolari dimensioni, che nel caso dell’esemplare volterrano (57,5 cm) corrispondono quasi esattamente a un modulo di 2 piedi. Il peso dell’Ombra della Sera, 1322 gr, equivale invece, quasi esattamente, a 10 volte quello dell’asse della Zecca di Velathri con il tipo del delfino (peso medio dell’asse 132,26 gr). Proprio in base alla coincidenza cronologica con la circolazione della serie del delfino, Adriano Maggiani ha proposto di datare l’Ombra della Sera tra il terzo e l’ultimo quarto del III secolo a.C. Jacopo Tabolli

oltre i nostri confini nazionali. Il livello di questa scultura in bronzo è davvero alto e trova il confronto piú significativo in una delle opere piú note dell’arte etrusca l’Ombra della Sera, conservata nel Museo Etrusco «Mario Guarnacci» di Volterra e menzionata già da Anton

Francesco Gori nel Settecento. Entrambe rientrano in una produzione di cui sono stati sinora recuperati una ventina di esemplari, ma, all’interno della serie, occupano un rilievo particolare e suggeriscono il livello della bronzistica etrusca.

A destra: l’Ombra della Sera. Decenni finali del III sec. a.C. Volterra, Museo Guarnacci. In basso: coperchio di urna in bronzo con figura di giovane disteso, da Perugia. 400-375 a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.

In proposito si possono ricordare le testimonianze, risalenti alla seconda metà del V secolo a.C., dei due poeti attici Crizia e Ferecrate. Il primo vantava gli utensili domestici in bronzo realizzati dagli artigiani etruschi, mentre il secondo lodava, in particolare, le lucerne. Il successo di tali produzioni è testimoniato su base archeologica e suggerito dalla loro ampia diffusione nel Mediterraneo e nell’area controllata dai Celti. Tale produzione artigianale diffusa costituiva il contesto di sperimentazione e di esperienze da cui trassero beneficio gli artisti che realizzarono capolavori assoluti: il Marte di Todi, esposto nel Museo Gregoriano Etrusco (Musei Vaticani); il coperchio di un’urna in bronzo da Perugia, conservato nel Museo dell’Ermitage a San Pietroburgo; la Chimera di Arezzo confluita nel Museo Archeologico Nazionale di Firenze e la statua dell’Arringatore esposta nello stesso museo. Non va dimenticato, a proposito di Ombre di Volterra e ora di San Gimignano, l’ombra lunga della scultura etrusca, che si è proiettata fino a maestri dell’arte moderna e quali Marino Marini, Arturo Martini e Alberto Giacometti, solo per limitarci a qualche nome. a r c h e o 39


SCOPERTE • SAN GIMIGNANO

d.C.).Alcune monete sono spezzate, seguendo l’usanza romana di frazionare il valore. Il maggior numero di esemplari si data durante i regni di Tiberio e Caligola, nel I secolo d.C. A esclusione dei rinvenimenti monetali, sono pochi gli altri reperti in metallo trovati all’interno del deposito. Fra di essi spicca, per cronologia e tipo, una splendida fibula a navicella decorata, la cui datazione nei primissimi anni del VII secolo a.C. segna il rinvenimento piú antico nell’area. Si tratta probabilmente di un oggetto di pregio offerto proprio in base al suo valore materiale. Che prevalga infatti nel regime delle offerte l’aspetto del valore economico è testimoniato anche dal rinvenimento di un frammento di aes rude, una forma di metallo in bronzo pre-monetale. Né deve stupire la presenza di una punta di freccia, se consideriamo la frequente deposizione di armi anche miniaturistiche in numerosi contesti sacri (da Gravisca a Monte Giovi). Piú che immaginare la rifusione dei metalli nei pressi dell’altare, si tratterebbe di piccole offerte dove il valore del metallo è assimilabile alle altre offerte naturali: una ricchezza donata alla terra che la madre terra restituirà.

IL PERCORSO ESPOSITIVO La mostra inaugurata nel Museo Archeologico di San Gimignano il 1° dicembre dischiude al visitatore l’eccezionale scoperta avvenuta nel territorio di San Gimignano nel 2010 sull’altura della Torraccia di Chiusi. È un percorso indietro nel tempo, che percorre i paesaggi del sacro dalla Valdelsa, da San Gimignano all’antica città di Velathri/Volterra. È un viaggio che comincia nel In alto: sesterzio in oricalco, battuto dalla Zecca di Roma al tempo di Tiberio, 22-23 d.C. Sulle due pagine: Villa d’Aiano. Foto panoramica della villa, da nord-ovest. A sinistra, in basso: denario in argento, Zecca di Roma, 44 a.C.

IV secolo d.C. con la costruzione di una splendida villa tardo-antica ad Aiano, con la sua aula mosaicata (vedi box alle pp. 30-31), e si conclude seicento anni prima sull’altura della Torraccia. La mostra è concepita come un’immersione nel paesaggio sacro di San Gimignano in età etrusca e romana. Il visitatore viene cosí accompagna40 a r c h e o


to presso l’area di culto e all’incontro ravvicinato con Hinthial, attraverso un percorso rituale che richiama la gestualità e le percezioni dell’Offerente. Questo piccolo capolavoro in bronzo risorge cosí dalla sua sepoltura e ci racconta delle speranze, delle preghiere e delle offerte testimoniate per piú di cinque secoli in questo luogo sacro.

DOVE E QUANDO «Hinthial. L’Ombra di San Gimignano. L’Offerente e i reperti rituali etruschi e romani» San Gimignano, Museo Archeologico fino al 31 maggio 2020 Orario fino al 31 marzo: tutti i giorni, 11,00-17.30

1° aprile-31 maggio: tutti i giorni, 10,00-19,30; 1° gennaio: 12,30-17,30; chiuso il 25 dicembre Info tel. 0577 286300; e-mail: prenotazioni@ sangimignanomusei.it; www.sangimignanomusei.it a r c h e o 41


ESCLUSIVA • MOZIA

IL SERVO DI MELQART LA RECENTISSIMA SCOPERTA, A MOZIA, DI UNA RARA ISCRIZIONE FENICIA RIPORTA IN PRIMO PIANO L’ATTENZIONE SUL CELEBRE DIO DI TIRO, ASSIMILATO DAI GRECI ALL’EROICO HERAKLES. E CONFERMA L’ESISTENZA, NELL’ISOLA, DI UN MONUMENTALE LUOGO DI CULTO DEDICATO ALLA DIVINITÀ ORIENTALE di Lorenzo Nigro

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A

gosto-settembre 2019: trentanovesima campagna di scavi a Mozia della Sapienza Università di Roma, la diciassettesima da quando siamo tornati nel 2002, dopo la scomparsa di Antonia Ciasca, la prima dalla perdita del nostro illuminato mentore, amico fraterno, l’indimenticabile Sebastiano Tusa. Lo scavo in questi anni ha portato alla luce la grande area sacra del Kothon, il primo fondaco fondato dai Fenici sulla sponda sud dell’isola, i primi templi di Baal e Astarte, la sequenza degli strati preistorici sul pendio occidentale dell’acropoli che risale agli inizi del II mil-

lennio a.C., la Casa del Sacello domestico (vedi «Archeo» n. 220, giugno 2003), la Casa del Corno di Tritone (vedi «Archeo» n. 306, agosto 2010), residenze aristocratiche del V secolo a.C. Poi, dal 2015, la missione si è concentrata nell’esplorazione e risistemazione delle imponenti mura della città nel tratto nord-orientale, tra la Torre Orientale e la Porta Nord. Infine, dal 2017, è ripresa, dopo piú di cinquant’anni, l’esplorazione dell’altra grande area sacra della città, quella del monumentale tempio del cosiddetto «Cappiddazzu». Il tempio, che ebbe una vita lun-

In alto: Lorenzo Nigro posa insieme alla stele del «servo di Melqart» subito dopo la sua scoperta. Sulle due pagine: la camera orientale della torre 6, al cui interno è stata scoperta la stele. a r c h e o 43


ESCLUSIVA • MOZIA A sinistra: ancora un’immagine di Lorenzo Nigro che mostra la stele iscritta subito dopo il suo recupero. A destra, sulle due pagine: i resti della torre 6 della prima cinta di fortificazione di Mozia durante lo scavo della camera cieca orientale, dove è stata ritrovata la stele. Nella pagina accanto in alto: veduta aerea dell’isolotto di Mozia, situato nella laguna dello Stagnone di Marsala (Trapani).

ghissima, trasformandosi in una chiesa bizantina e anche in una piccola moschea nel corso dei secoli, ha rivelato le sue piú antiche strutture nell’ala occidentale e, diverse prove, che fosse dedicato al dio Melqart, l’Eracle dei Greci. Melqart era il dio di Tiro, ma anche il dio tradizionalmente legato alla regalità nel mondo delle città fenicie.

L’AURIGA DIVINO Il ruolo di questo dio a Mozia, come mostra anche la monumentalizzazione del tempio, costruito in grandi blocchi di calcarenite di Favignana, era divenuto centrale nel V secolo a.C., quando, forse proprio grazie alla committenza regale – una volta che la città si era allineata ai modelli tirannici della Sicilia greca – uno dei piú grandi capolavori dell’antichità, la statua del cosiddetto «Efebo di Mozia», scolpita da un greco con marmo 44 a r c h e o

pario, venne eretta nel portico anteriore del luogo di culto. Melqart/ Herakles ritratto nel momento dell’apoteosi? Quando dopo aver compiuto le 12 fatiche, auriga divino, viene introdotto da Atena nell’Olimpo? Queste le domande che ci ponevamo fino all’ultima campagna di scavi. Nel 2018 era stata intanto intrapresa l’esplorazione di un nuovo tratto di mura, sul versante nord-ovest dell’isola, tra la necropoli e il Tofet, individuando un ulteriore tratto di cortina muraria, lungo 70 m circa, e identificando un’ulteriore torre delle prime mura, la torre 6. Nella campagna appena ultimata, è stato avviato lo scavo di questa torre, distrutta da un colpo di catapulta durante l’assedio di Mozia del 397/6 a.C., conclusosi con il violentissimo attacco dei soldati del tiranno Dionigi di Siracusa. La torre è di quelle rettangolari del

primo e piú antico circuito di mura, costruito attorno alla metà del VI secolo a.C. Lunga 10 e larga 5 m, è divisa in due camere cieche, costruite livellando gli strati preesistenti. Inserita nelle mura, con il lato posteriore coincidente con esse, aggetta di circa 3 m per proteggerne il fronte esterno. Lo scavo è semplice: vengono liberate le strutture e poi si scende, prima nella camera occidentale e poi in quella orientale. Lo strato inferiore appare subito come qualcosa di diverso: è stato livellato e i resti di una tomba sono stati spianati dalla costruzione della torre. Assieme a frammenti di vasi, tutti della stessa epoca – la metà del VI secolo a.C. –, vasi di qualità, ben assortiti, nel senso che facevano parte di un corredo, ci sono molti carboncini, frammenti di un sarcofago, e diversi resti umani: le ossa di un adulto e di un bambino


nella camera orientale della torre, quelle di altri tre individui nell’altra. Decidiamo di approfondire lo scavo nella camera piú orientale. Qui c’è un piccolo salto di quota e piú facilmente potremo realizzare una sezione verticale, nella quale leggere meglio gli strati.

A DUE PASSI DAL MARE Il mare è a pochi metri e due belle palme nane sono la cornice dello scavo. Qui ci ripariamo dal vento a mangiare un grappolo di uva grillo, rubata dalle vigne di verde scintillante. Siamo arrivati all’ultima ora dell’ultimo giorno di scavo e come spesso accade nella vita degli archeologi, lo spigolo di un blocco di calcarenite giallo ocra appare nell’ultima pulizia, ai piedi del muro divisorio tra le due camere cieche della torre. Lo accarezzo con la piccozzina che tintinna. Pian piano, il blocco si lascia vedere: è rastremato,

alto circa 45 cm e largo 23 cm alla base, che è spezzata, mentre alla sommità misura 19 cm. La forma è quella di un cippo o di una stele, con una peculiarità: la testa è interamente dipinta di rosso. Puliamo il blocco, appaiono una serie di 9… ma non sono numeri! Sono lettere fenicie! L’emozione è grande. E i segni si rivelano per quello che sono: si tratta di un’iscrizione monumentale, rubricata, ossia con le lettere dipinte di rosso. In fenicio. Nella prima scrittura alfabetica. Quella che ha rivoluzionato la storia del Mediterraneo tra la fine del II e l’inizio del I millennio a.C. Quella che ha permesso a mercanti e naviganti di prendere appunti, scrivere contratti, scambiare merci e scrivere lettere, senza piú il bisogno di uno scriba e di un palazzo. Il testo è semplice e chiaro; si segue da destra a sinistra; non ci possono essere dubbi per chi legga il fenicio.

Quei nove sono le lettere B, D, R, che si scrivono tutte in modo simile. La prima linea si legge QBR, Tomba; la seconda ‘BD, del ‘servo; poi c’è un trattino verticale, molto importante: ci dice che la lettera che segue appartiene alla parola successiva; è la lettera M; la terza linea recita LQRT, insieme danno Melqart’, il nome del principale dio fenicio di

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.


ESCLUSIVA • MOZIA La stele con l’iscrizione che recita: «Tomba di Abdi-Melqart (letteralmente, del «Servo di Melqart»), figlio di…». Il testo è in lettere fenicie, alte circa 10 cm e rubricate, cioè dipinte di rosso.

Mozia, con Baal, che era adorato nel vicino Tempio del «Cappiddazzu». Melqart, identificato con Herakles, o forse sarebbe piú opportuno dire Herakles, che accolse anche alcuni caratteri di Melqart fenicio. Pamela Toti ha recuperato diversi ostraka con dediche a Melqart provenienti da quel tempio e ci sono altre due stele trovate nel secolo scorso che portano questo nome, ma nessuna è cosí monumentale, con lettere alte piú di 10 cm, dipinte di rosso. Michele De Marco finisce di pulire, in basso la stele è spezzata; sul margine, si leggono bene altre due lettere. È la quinta linea: BN, figlio di…

COME SAN GIORGIO Melqart è il dio dinastico e il suo tempio, legato alla dinastia regnante, venne fatto costruire dai re di Mozia in grandi blocchi regolarmente squadrati, molto probabilmente a breve distanza dal loro palazzo. La divinità ha le sembianze di un giovane che infilza un dragone o un grifone con una lunga lancia: un’iconografia che ricorda quella successiva di san Giorgio. Cosí, nel lindore del sole moziese splende la parola degli antichi abitanti della città: Tomba di AbdiMelqart (letteralmente, del «Servo di Melqart»), figlio di… Il passato parla. L’emozione sopraffà la felicità della scoperta. La mano ferma e allenata del lapicida ha voluto che noi sapessimo: «Qui sono le spoglie di Abdi-Melqart, figlio di…». Non è comune trovare un’iscrizione cosí ben conservata, diciamolo pure, cosí bella, e non è facile trovarla all’interno del suo contesto; è la prima dal secolo scorso. Sarà proprio il contesto a darci altre fonda46 a r c h e o

mentali informazioni su questa tomba, compresa, speriamo, la metà inferiore della stele. Scopriremo il DNA dei defunti e i loro rapporti con gli altri Moziesi, che sono stati sequenziati proprio ad agosto, dall’antropologo David Caramelli,

all’Università di Firenze. Come continua questa storia lo scopriremo tra un anno, quando avremo i risultati delle analisi, e quando, grazie alla Sapienza, alla Soprintendenza di Trapani e alla Fondazione Whitaker, torneremo qui.



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SCOPERTE • CERVETERI

PER LA

«SIGNORA DELLE FONTI»

A CERVETERI, SULLA SOMMITÀ DI UNA PICCOLA ALTURA AFFACCIATA SULLA VALLE DEL MANGANELLO, GLI ARCHEOLOGI DEL CNR STANNO ESPLORANDO UN’IMPORTANTE AREA SACRA DELLA CITTÀ ETRUSCA. E LA CAMPAGNA APPENA CONCLUSA AVVALORA L’IPOTESI CHE LA DIVINITÀ TITOLARE DEL SANTUARIO FOSSE UNI – LA GIUNONE DEI LATINI – IN UNA FORMA LEGATA ALL’ACQUA di Vincenzo Bellelli

Sulle due pagine: Cerveteri (Roma). Veduta a volo d’uccello, ripresa da drone, dell’area sacra del Manganello A sinistra: l’équipe di scavo al termine della campagna 2019.

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I

l fosso in cui scorre il torrente Manganello separa l’altopiano dei Vignali, cioè la città dei vivi, da quello della Banditaccia, la città dei morti. Siamo a Cerveteri, sul versante settentrionale della città etrusca, in un luogo di suggestiva bellezza. Gli antichi abitanti del luogo colsero immediatamente l’importanza strategica di questo lato del pianoro, posto a pochissima distanza dalla necropoli della Banditaccia, perché l’altezza della falesia dei Vignali qui diminuisce notevolmente e il profilo della rupe si interrompe bruscamente in un punto, dando cosí la possibilità a chi percorre il fondovalle, provenendo dalla costa, di accedere facilmente in città (e viceversa).

La strategicità della posizione è confermata dal presidio tedesco insediato sul posto durante la seconda guerra mondiale, di cui anche noi abbiamo trovato traccia concreta durante gli scavi, imbattendoci in alcuni involucri di cartuccia di fucili Mauser.

COME LA PRUA DI UNA NAVE L’ambiente naturale e la posizione configurano pertanto un sito di singolare importanza strategica, da cui si può controllare la viabilità extraurbana sul lato nord-ovest del pianoro cerite e si ha un accesso diretto al fondovalle, dunque all’acqua. Non stupisce allora che gli Etruschi di Caere abbiano pensato a un certo punto di sacra-

lizzare questo luogo, costruendovi un tempio e i suoi annessi, di cui oggi restano le rovine su una lingua di tufo che si protende verso sud come la prua di una nave. Qui il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) opera da oltre 10 anni, studiando il «paesaggio sacro» della città etrusca e il suo contesto topografico. Dopo anni di lavoro nel cuore dell’abitato antico, in località Vigna Parrocchiale, dal 2007 l’Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale (ISPC) del CNR, erede dell’Istituto di Studi sul Mediterraneo antico, ha spostato verso la valle del Manganello il baricentro della sua azione, concentrando negli ultimi anni la sua attenzione proprio sull’omonimo santuario. a r c h e o 51


SCOPERTE • CERVETERI

Presiede a questa scelta operativa la consapevolezza del fatto che le antiche dinamiche insediative, oltre che nel centro cittadino, possono cogliersi in maniera – se possibile – ancora piú chiara spostando l’angolo di osservazione in periferia, dove la comunità era certamente piú esposta ai pericoli, ma al tempo stesso era a contatto piú diretto con tutto il mondo esterno. Lavorando in stretta sinergia con la locale Soprintendenza e con il Comune di Cerveteri – che non hanno mai fatto mancare il loro sostegno –, da quest’anno l’ISPC ha potuto contare anche sul prezioso supporto della Fondazione Luigi Rovati di Monza, la grande istituzione culturale lombarda che sta realizzando a Milano il Museo Etrusco nella storica sede di Corso Venezia. Le ricerche condotte dall’ISPC del

CNR fra il 2007 e il 2018 hanno consentito di precisare il quadro delineato dal primo scopritore, Raniero Mengarelli (1865-1943) e di arricchirlo di dettagli decisivi, relativi all’architettura degli edifici e al culto che vi si praticava. Ne è scaturita una proposta ricostruttiva che prevede un piccolo tempio con fronte rivolta a sud, come pensava Mengarelli, circondato da varie strutture di servizio, fra le quali un ambiente coperto accanto all’ingresso dell’area sacra, alcuni pozzi, una favissa e un altare da fuoco dislocato accanto a un canale di scolo con pendenza verso il dirupo (le cartucce di fucile tedesco ricordate all’inizio sono state rinvenute in

LA RISCOPERTA Noto agli studiosi come «tempio del Manganello», il sito entra nella letteratura archeologica agli inizi dell’Ottocento, quando il prete-archeologo Alessandro Regolini, il futuro scopritore – con Vincenzo Galassi – della tomba omonima, attirato sul posto dal brusío dei paesani, «scopre» la gigantesca stipe votiva oggi in gran parte conservata al Museo Gregoriano Etrusco. Ne facevano parte terrecotte votive ben note agli studiosi, alcune delle quali entrate anche nell’immaginario collettivo, grazie ad alcune copertine di libri e di rotocalchi, in virtú del realismo sorprendente dei volti umani che raffigurano. L’area è stata poi esplorata negli anni Trenta del Novecento da Raniero Mengarelli, il funzionario della Soprintendenza locale noto soprattutto per gli scavi e per la valorizzazione turistica della necropoli della Banditaccia: nel sito del Manganello egli porta alla luce con i suoi scavi un piccolo edificio sacro, da lui interpretato come un tempio a cella unica con fronte rivolta a sud, e i relativi annessi, fra cui ben 3 serbatoi idrici (una cisterna e due pozzi) e una struttura interpretata fantasiosamente come pozzo per grano. Nei pozzi in questione Mengarelli recupera anche numerosi ex voto e alcune terrecotte architettoniche a testa di satiro, preziose per ricostruire la decorazione e la cronologia del tempio.

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In basso: testa votiva maschile trovata sul sito negli anni Trenta del Novecento, universalmente ritenuta un capolavoro della ritrattistica etruscoromana. Lo scopritore, Raniero Mengarelli, la definí «testa di un etrusco sbarbato, segaligno e forte, dai tratti rivelanti un carattere fiero, volitivo ed energico, dallo sguardo fisso, sorpreso però dall’artista in un istante in cui un impercettibile sorriso sembra ne sfiori le labbra».


questo canale). Il canale, certo non per caso, risulta costruito sul dorso di un cunicolo con volta a sesto acuto, che sfocia a sua volta sul fosso.

COME A ORVIETO Gli spazi interni dell’edificio sacro presentano tre caratteristiche interessanti: 1) la parte posteriore dell’edificio sembra prevedere una bipartizione della cella; 2) almeno la cella sinistra presenta un recesso – una sorta di opistodomo – addossato al muro di fondo dell’edificio; 3) nelle viscere del podio, in corrispondenza della cella destra, c’è una cisterna che in antico era collegata tramite un condotto ancora preservato alla cavità ipogea, esterna al tempio stesso, interpretata da Mengarelli come un pozzo per immagazzinare il grano. Tale struttura è, in realtà, un serbatoio idrico, una sorta di «fontana», simile a quella recentemente scoperta a Orvieto nel Fanum Voltumnae. I dati archeologici e il contesto ambientale – prossimità del fiume, presenza di pozzi idrici e di una fontana all’interno dell’area sacra, presenza di una cisterna interrata nel pavi-

In alto: veduta zenitale dell’area sacra (ripresa da drone, ottobre 2019). A destra: pianta ricostruttiva dell’area sacra del Manganello, con le strutture a oggi identificate.

Pozzo

AMB. DI SERV.

«Pozzo da grano»

Cisterna

FAVISSA

TEMPIO

Pozzo Pozzo

Cunicolo

ALTARE

a r c h e o 53


Gli scavi appena ultimati suffragano le ipotesi sul nesso fra acqua e rito religioso esistente nel santuario mento della cella destra del tempio – inducono dunque a ipotizzare che l’acqua giocasse un ruolo fondamentale nelle pratiche di culto e nella ritualità quotidiana. La presenza negli interri scavati nel corso degli anni di numerosissimi votivi anatomici e di molti frammenti di louteria (plurale di louterion, termine greco che indica bacini per pratiche lustrali, n.d.r.) e bacili di grandi dimensioni con relativi piedistalli, simili alle nostre acquasantiere (in entrambi i casi si tratta infatti di vasche poco profonde, montate sulla sommità di sostegni a colonnina), ha confermato questa 54 a r c h e o

ipotesi di lavoro. Per l’identità della/e divinità di culto, sebbene manchino ancora conferme definitive, possiamo dunque pensare a una o piú divinità femminili connessa/e a riti di passaggio in cui si utilizzava dell’acqua «santa»: a giudicare dagli ex voto a figura umana, questi riti riguardavano sia il genere maschile che quello femminile. L’abbondanza delle riproduzioni degli organi sessuali, sia maschili che femminili, rinvia in maniera coerente alla tutela della sfera riproduttiva. Poiché i 3 frustuli di iscrizioni rinvenute sul sito menzionano la dea etrusca Uni (Giunone) appellata

alla greca, cioè Hera, come accade spesso a Cerveteri, abbiamo proposto di identificare tale divinità con l’ipostasi della Uni etrusca legata all’acqua, il cui nome sembrerebbe Uni huinthnaia (letteralmente: «Uni delle fonti»). Nel santuario fontile di Vulci esplorato in località Legnisina, a quanto pare, era venerata la stessa divinità, in associazione alla Demetra etrusca (Vei). Grazie dunque alle ricerche del CNR nel santuario del Manganello, abbiamo forse fatto luce su un aspetto importante di questa personalità divina femminile, che sia i Latini che gli Etruschi collegavano


al potere fecondativo e rigeneratore dell’acqua. Potrebbe trattarsi della perfetta corrispondenza etrusca della divinità latina nota come Iuno Fontinalis, a sua volta corrispondente, mutatis mutandis, alla cristiana Vergine delle Rocce.

altro consimile, grazie agli speleologi, abbiamo finalmente potuto raggiungere lo strato di sabbia e di fango, che dovrebbe corrispondere a quello d’uso originario della struttura. In origine, infatti, il pozzo era

sicuramente destinato a contenere l’acqua utilizzata per il rito e non come semplice ricettacolo di offerte: il suo aspetto, infatti, è quello di una struttura per la captazione dell’acqua sorgiva e di infiltrazione,

LE TRACCE IN FONDO AL POZZO A gettare ulteriore luce sul culto praticato a Caere nel santuario del Manganello, corroborando le ipotesi di lavoro formulate sul nesso fra acqua e rito religioso è l’eccezionale scoperta compiuta durante la campagna di scavo che si è appena conclusa. Le sorprese sono venute, questa volta, dal fondo di un pozzo individuato nel 2007 che poi, per motivi di sicurezza, era stato esplorato solo fino alla profondità di 7 m, restituendo, tra l’altro, preziosi resti dell’apparato decorativo del tempio e degli altari, uno dei quali ancora provvisto di segni di montaggio. Il pozzo si trova in corrispondenza dell’angolo sud del tempio, come è documentato anche in altri contesti sacri del distretto cerite (per esempio, a Pyrgi – uno dei porti di Caere, i cui resti sono stati localizzati presso il castello di Santa Severa, n.d.r. – dove i «pozzi d’angolo» sono addirittura due). La nuova struttura organizzativa dello scavo, a cui hanno dato il loro prezioso contributo gli esperti speleologi della A.S.S.O. (vedi box alle pp. 58-59), ha consentito finalmente di completare lo svuotamento di questo pozzo, attingendo i livelli d’uso della struttura, sebbene nella fase finale del suo ciclo di esistenza. Lo scavo è stato a dir poco emozionante e i risultati hanno ripagato le aspettative: al termine dei livelli di distruzione e obliterazione volontaria, dopo metri di detriti e materiale frammentario provenienti anche dall’alzato e dalle stipi votive del tempio, nonché dal parapetto in peperino grigio (poi risultato ricomponibile!) del pozzo stesso o di

Nella pagina accanto: ricostruzione ideale del santuario del Manganello nel suo contesto topografico (vista dalla città): a sinistra, in alto, i tumuli della Banditaccia; a destra, in basso, le propaggini dell’abitato;

al centro, la lingua di tufo su cui si erge il santuario. Qui sotto: ex voto in terracotta a figura umana (volti). In basso: il tempio del Manganello (angolo nord-ovest).

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SCOPERTE • CERVETERI

che in questo caso scorreva sullo strato di argilla, posto a circa 10 m di profondità. Adagiati sul fondo del pozzo, impastati a fango e parzialmente immersi nell’acqua, giacevano i vasi integri, che evidentemente hanno galleggiato per qualche istante sull’acqua, senza rompersi, prima di andare a fondo: numerose forme vascolari sono risultate ricomponibili, per un totale di migliaia di frammenti e di centinaia di «individui». L’esame preliminare indica che, per quanto riguarda le forme chiuse, si tratta quasi esclusivamente di brocche monoansate per acqua e di umili ollette cilindro-ovoidi in argilla grezza. In altri termini, abbiamo a che fare con brocche rituali per i riti di abluzione/aspersione/ purificazione e con recipienti per offerte alimentari (probabilmente ortaggi e granaglie). Fra le sporadiche forme aperte, anch’esse sicuramente connesse alla sfera del rito, si annoverano coppette a vernice nera e piattelli del Gruppo Genucilia. Fra le forme di uso speciale, una lucerna

a vernice nera intatta, con tracce evidenti d’uso sul beccuccio. I confronti migliori, soprattutto per le forme chiuse, sono offerti dal materiale ceramico rinvenuto a Pyrgi nei livelli inferiori dei pozzi antistanti il tempio A. Conferma migliore non poteva giungerci sulla ritualità semplice che si svolgeva quotidianamente nel santuario del Manganello di Caere (e in quello monumentale di Pyrgi) e di certo anche negli altri santuari del territorio. Solo con il restauro e lo studio di tutto il materiale rinvenuto, che si preannunciano lunghi e faticosi, potremo saperne di piú, ma un dato già appare certo: i pozzi idrici che si rinvengono nelle aree sacre di Cerveteri e del suo territorio, a giudicare dal materiale che li riempiva, risultano obliterati con le stesse modalità già agli inizi del III secolo a.C., piú o meno quando i Romani arrivano nel territorio di Caere e ne confiscano la metà (273 a.C.).Anche il pozzo scoperto dagli archeologi subacquei nello specchio d’acqua antistante il castello di Santa Severa,

dove arrivavano le ultime propaggini dell’abitato etrusco di Pyrgi prima che la linea di costa arretrasse di 70 m circa, è stato sigillato con le stesse modalità e nello stesso torno di tempo. Non si tratta certamente di un caso e qui l’archeologia, possiamo dirlo con soddisfazione, oltre che sul culto e sul rito, apre uno spiraglio di luce anche sulle vicende storiche che videro la storia romana intrecciarsi a quella etrusca.

IL NUOVO SAGGIO Contemporaneamente all’intervento nel pozzo sud del santuario, l’ISPC del CNR aveva programmato quest’anno di avviare, con il sostegno della Fondazione Rovati, anche nuove indagini archeologiche all’esterno dell’area sacra. Qui, nel recente passato (2014-2015), erano state effettuate prospezioni geofisiche da una équipe dell’ISPC. Tali indagini diagnostiche miravano a predisporre un modello predittivo delle presenze archeologiche conservate in questo settore del sottosuolo di Cerveteri, prima di avviare A sinistra: l’area sacra vista dall’ingresso: in primo piano, la cavità ipogea considerata da Mengarelli come pozzo per grano, in realtà da interpretare come serbatoio idrico Nella pagina accanto, dall’alto: frammenti di brocche e ollette recuperati in fondo al pozzo; piattello del Gruppo Genucilia (IV-III sec. a.C.); piedistallo fittile scanalato pertinente a un bacino lustrale.

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uno scavo in estensione in tutta la fascia periferica del pianoro compresa fra il santuario del Manganello e l’area settentrionale della città che gravita sulle porte urbiche della Bufolareccia e di Via degli Inferi. In questo settore dell’abitato, nel recente passato, ha operato anche la Soprintendenza nel corso di un intervento di «somma urgenza» che ha fruttato importanti rinvenimenti (lastre dipinte e base di louterion con decorazione dipinta), attualmente in mostra alla Centrale Montemartini a Roma («Colori degli Etruschi», fino al 2 febbraio 2020; www.centralemontemartini.org). Ebbene, le prospezioni del CNR indicavano una situazione molto promettente per uno scavo futuro in tutta l’area posta immediatamente a nord-est del santuario, con numerose anomalie corrispondenti all’alternanza di «pieni» e di «vuoti». Esisteva, dunque, la prospettiva concreta di scoprire edifici e ambienti ipogei già a ridosso del santuario. Cosí effettivamente è stato e lo scavo di quest’anno, appena ultimato,

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SCOPERTE • CERVETERI

L’INTERVENTO DEGLI SPELEOLOGI di Mario Mazzoli, Bernardino Rocchi e Marco Vitelli

Il pozzo posto a sud dell’angolo anteriore sinistro del tempio del Manganello è stato scavato, su incarico del CNR-ISPC, da una organizzazione no profit specializzata, la A.S.S.O. (Archeologia, Subacquea, Speleologia, Organizzazione) dal 30 settembre al 4 ottobre 2019. Le modalità dell’intervento sono state concordate con gli archeologi del

CNR, che hanno garantito la supervisione scientifica di tutte le fasi del lavoro, e con i funzionari della Soprintendenza che hanno effettuato sopralluoghi periodici. Lo scavo è stato effettuato da tre operatori esperti, che hanno lavorato nel pozzo, per sorveglianza e azionamento del verricello a rotazione. È stata costantemente controllata la concentrazione di

anidride carbonica, garantendo la qualità dell’aria respirata attraverso immissione meccanica dall’esterno. Per la discesa e la risalita degli operatori, in possesso di specifica esperienza e certificazione per i lavori su corda e operatività presso ambienti «confinati», sono state impiegate attrezzature e procedure specialistiche, mentre, per l’estrazione della terra e del materiale di risulta, grazie alla predisposizione di un ponteggio, ci si è serviti di un verricello elettrico. La struttura presenta le caratteristiche tipiche dei pozzi idrici etruschi: un profondo condotto cilindrico (nel caso in questione 50 cm circa di diametro e una decina di metri di profondità), un allargamento dello stesso a forma di bulbo nella parte terminale e una parte «sopra-terra», ora perduta, che ne monumentalizzava l’imbocco e scongiurava le cadute al suo interno. La parte costruita del pozzo oggi è difficilmente immaginabile, perché l’attuale imboccatura circolare si apre al livello del suolo. Sulle pareti verticali del condotto si notano «pedarole» sfalsate a quota regolare, che consentivano agli operai etruschi di procedere, forse assicurati a una corda tenuta da un compagno e quindi con un certo livello di sicurezza, sia in discesa sia in risalita per le operazioni di scavo e per quelle di manutenzione. Il condotto cilindrico, di luce ridotta (50 cm circa), è stato scavato direttamente nella parte litoide del banco di tufo e non presenta camicie o rivestimenti di sorta. A 9 m circa di profondità, cambiano le caratteristiche geologiche dello strato in cui il pozzo è scavato; il tufo compatto cede il posto prevalentemente a sabbia che, grazie


Nella pagina accanto e in alto: speleologo della A.S.S.O. in azione sul fondo del pozzo. A sinistra: gli speleologi estraggono dal pozzo un grosso blocco di tufo in origine pertinente a un muro del tempio.

alla micro filtrazione, consentiva la creazione del deposito di acqua. In fondo è stato trovato uno strato fittissimo di cocciame, completamente immerso in un limo plastico e nell’acqua. Date le caratteristiche peculiari della struttura, coincidente con un ambiente confinato a sviluppo verticale, particolarmente angusto, ma con pareti solide, la principale difficoltà incontrata è stata la rimozione in sicurezza degli ingombranti blocchi di tufo gettati nel pozzo quando la struttura non era piú in uso e il tempio era stato demolito. Dal condotto ne sono stati estratti numerosi esemplari, insieme a ingenti qualità di tegole e coppi parzialmente ricomponibili oltre ai reperti descritti nell’articolo. Sul fondo si è invece rilevata la presenza semi esclusiva di ceramica. Info: A.S.S.O., Archeologia, Subacquea, Speleologia e Organizzazione o.n.l.u.s., e-mail: info@assonet.org a r c h e o 59


SCOPERTE • CERVETERI

ha potuto documentare una situazione molto interessante, con un tessuto continuo di presenze archeologiche, senza lacune di sorta nei livelli di frequentazione antica. Rimosso con lo scavatore meccanico lo strato superficiale di terreno, già ai primi colpi di piccone è emersa infatti una situazione ricchissima di strati intatti e strutture, sia edificate in elevato che ipogee. A coprire tutto era uno strato compatto di terra mescolato a minutissime schegge di tufo, con la superficie abbastanza regolare, evidentemente messo in opera dagli antichi costruttori per livellare l’intera area e per ottenere un piano di calpestio regolare. «In fase» con questo battuto sono risultate alcune strutture murarie realizzate, con ogni evidenza, con

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blocchi di tufo di reimpiego e semplicemente appoggiate al di sopra di una colmata artificiale composta di terra, blocchi di tufo, schegge lapidee informi di grandi dimensioni e tegolame in frantumi. In altri termini, le strutture murarie superficiali portate alla luce appaiono di scarsa consistenza struttiva, perché fondate su una potente colmata di macerie, realizzata a sua volta per obliterare edifici smantellati e per riempire cavità artificiali rimaste fino a quel momento «aperte» (per qualche motivo che ancora ci sfugge: non ne è stata ancora completata l’esplorazione). Di certo sappiamo che queste cavità, di cui non si intravede il fondo, erano state in origine create da attività di cava di cui si riconoscono ancora i

segni sul banco di tufo, soprattutto a quota alta, quando cioè il progetto di cava era ancora all’inizio.

LA CERAMICA Il materiale ceramico rinvenuto nello strato di macerie risulta, a un primo esame, di grande interesse: fra gli oggetti piú significativi, si contano numerosi reperti di età arcaica, in particolare vasi di bucchero e di impasto, e parti di instrumentum di pregio (frammento di orlo di braciere di impasto rosso decorato a cilindretto). Notevole appare anche il rinvenimento di manti fittili di tetti distrutti, ma almeno in parte ricomponibili, che includono anche frammenti combacianti di un grande coppo di colmareccio rinvenuti in zone distinte dello scavo.


In un punto in cui la stratificazione era ben conservata è stata documentata la presenza in situ di due piccole olle in ceramica grezza (in origine probabilmente deposte piene), accanto a un’area di combustione piena di ossa animali calcinate: potrebbe trattarsi del residuo di un rituale di distruzione e riedificazione, da mettere in relazione alla colmata artificiale di cui si è detto. Tale intervento fu probabilmente realizzato quando l’intera area venne interessata da un piano di riorganizzazione generale degli spazi, che comportò anche lo smantellamento di alcuni edifici preesistenti e lo smaltimento dei detriti prodotti. In questo contesto si inserisce anche una delle strutture piú interesA sinistra: ortofoto del nuovo saggio effettuato dal CNR nel 2019 all’esterno dell’area sacra. In questa pagina, dall’alto: materiali provenienti dallo strato di macerie sul quale furono innalzati vari edifici situati all’esterno dell’area sacra. In alto, frammenti di vasi di bucchero e di impasto; qui accanto, frammento di orlo di braciere di impasto rosso decorato a cilindretto.

santi del nuovo saggio di scavo, che si è rivelata, ancora una volta, di tipo ipogeo: si tratta di un pozzo rettangolare, delimitato da pareti verticali di tufo su tre lati, e aperto su un quarto lato, che però in seguito è stato accuratamente chiuso con un muro fatto con pietre a secco. La sua presenza ci è stata rivelata dal collasso verso il basso, proprio nel vuoto

dell’imboccatura del pozzo, di un blocco di tufo pertinente a una di quelle murature drizzate sulle macerie prima menzionate: evidentemente uno di questi muretti posticci, costruiti quando l’area fu riedificata, fu innalzato proprio sulla bocca di questo pozzo. Parte di quello scarico eterogeneo di cui è detto sin qui, il riempia r c h e o 61


SCOPERTE • CERVETERI

L’area del Manganello era frequentata già nel VII secolo a.C., ma solo duecento anni piú tardi ne fu avviata la monumentalizzazione mento di questo pozzo si è rivelato lo scrigno di testimonianze archeologiche preziose per la comprensione dell’intero complesso. Insieme a materiale ceramico di pregio (ceramica attica), in fondo alla cavità, giaceva infatti anche una bellissima antefissa a testa femminile diademata, databile intorno al 520 a.C., con evidenti tracce d’uso. Era stata deposta, da sola, con il volto rivolto verso il basso, probabilmente con la metà inferiore del mento già spezzata. È la conferma che nei dintorni, anche in età arcaica, esistevano edifici monumentali forse di carattere sacro, decorati con antefisse, che a un certo momento sono stati demoliti. Il dato è di un certo rilievo, perché la monumentalizzazione dell’area sacra del Manganello non 62 a r c h e o

In alto, a sinistra: l’antefissa a testa femminile diademata al momento del ritrovamento In alto, sulle due pagine: muro in blocchi rimaneggiati di tufo fondato su uno strato di macerie. A sinistra: gli archeologi rimuovono uno strato di tegolame in frantumi.


sembra anteriore al V secolo a.C., sebbene le tracce di frequentazione del sito risalgano almeno agli inizi del VII secolo a.C. Le prossime campagne di scavo, auspicabilmente, chiariranno la situazione e consentiranno di definire meglio natura, estensione e cronologia di queste fasi edilizie che precedono la sistemazione ar-

chitettonica e urbanistica che doveva essere «in fase» con il tempio del Manganello. Per il momento, quello che abbiamo riportato alla luce a Cerveteri all’esterno del santuario sembra essere una sistemazione urbanistica che comprende un piano stradale e ambienti di servizio che si sovrappongono, obliterandoli, a edifici e cavità

adoperate fino all’epoca tardo-arcaica e poi ritualmente distrutti. Lo scavo nel santuario del Manganello è condotto dall’ISPC (già ISMA) del CNR in regime di concessione da parte del MiBACT. L’autore ringrazia il soprintendente Margherita Eichberg e il funzionario di zona Rossella Zaccagnini per la fattiva collaborazione.

PER SAPERNE DI PIÚ Vincenzo Bellelli, Il santuario sulla rupe del Manganello a Cerveteri: il contesto topografico e le evidenze archeologiche alla luce delle recenti indagini del CNR-ISMA, in Luca Mercuri e Rossella Zaccagnini (a cura di), Etruria in progress. La ricerca archeologica in Etruria meridionale, Gangemi Editore, Roma 2014; pp. 67-72 Vincenzo Bellelli, Daniele Mallardi, Isidoro Tantillo, Cerveteri, area sacra del Manganello:

l’organizzazione degli spazi, l’architettura, gli arredi di culto, in Annali della Fondazione per il Museo Claudio Faina, XXV, 2017, pp. 199-243 Vincenzo Bellelli, Le terrecotte architettoniche del Santuario del Manganello (Cerveteri), in Patricia Lulof, Ilaria Manzini e Carlo Rescigno (a cura di), Deliciae fictiles V. Networks and Workshops. Architectural Terracottas and Decorative Roof Systems in Italy and Beyond, Oxbow Books, Oxford 2019; pp. 472-480 a r c h e o 63


POPOLI DELLA BIBBIA/12 – I ROMANI

UNA STORIA DI

AMORE E ODIO

Agli inizi si tratta di un rapporto segnato da stima ed esaltata ammirazione nei confronti di un alleato fondamentale per contrastare il giogo ellenico. Ben presto, però, Roma ravvisa nell’instabilità politica, religiosa e culturale della terra degli Ebrei l’opportunità di estendervi il proprio potere. Lo scenario geopolitico della regione cambia drammaticamente. I protagonisti di questo nuovo periodo, cosí epocale per la storia dell’umanità, portano i nomi di Pompeo, Erode il Grande, Vespasiano e Tito, ma anche Pilato, Giuda il Galileo e Flavio Giuseppe... di Alessandro Locchi

I

l momento in cui i testi biblici registrano la prima concreta apparizione del popolo romano nella millenaria storia di Israele coincide con la lunga fase conflittuale che vede contrapposti, da un lato, i sovrani seleucidi, e, dall’altro, i Giudei ribelli, trascinati da Giuda Maccabeo e dai suoi fratelli (vedi «Archeo» n. 417, novembre 2019; anche on line su issuu.com). Sarebbe stato per l’appunto il Maccabeo, in una delicata fase dello scontro, a rivolgersi a quella lontana popolazione di cui aveva sentito elogiare le gesta in termini entusiastici. Come si legge infatti in 1 Maccabei (8,1), «Giuda venne a conoscere la fama dei Romani che essi erano molto potenti e favorivano tutti quelli che simpatizzavano per loro e accordavano amicizia a quanti si

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rivolgevano a loro e che erano forti e potenti». Nel libro in questione, posteriore di qualche decennio rispetto ai fatti narrati, questo primo coinvolgimento viene presentato sotto i migliori auspici: alla risoluzione di Giuda segue, nel testo, un lungo encomio dei Romani, da considerarsi – al di là delle inesattezze storiche – un’interessante testimonianza sul versante vicinoorientale, delle conoscenze e dell’immagine della Roma tardo-repubblicana.

ELOGI E PLAUSI Del vagheggiato alleato si enfatizza soprattutto l’invincibilità in guerra, elencandone in termini lusinghieri le vittorie rispetto a una selezione di ostici avversari (Galli, Ispani, Greci…). L’elogio si chiude con una nota di plauso: a dispetto di

tanto consenso e di tante affermazioni militari, la potenza italica ha mantenuto la propria stabilità politica, senza precipitare in forme autoritarie o di dominio assoluto: «Con tutti questi successi nessuno di loro si è imposto il diadema né si è rivestito di porpora per fregiarsene. Essi hanno costituito un consiglio e ogni giorno trecentoventi consiglieri si consultano quotidianamente riguardo al popolo, perché sia ben governato. Affidano il comando e il governo di tutti i loro domini a uno di loro per un anno e tutti obbediscono a quello solo e non c’è in loro né invidia né gelosia» (1 Maccabei 8,14-16). La richiesta di amicizia e di alleanza avanzata da Giuda Maccabeo ai Romani venne successivamente ripresentata – e puntualmente esaudita – dai due fratelli succedutigli al potere (Gionata prima, Simone poi)


Miniatura raffigurante Pompeo e i suoi soldati nel Tempio di Gerusalemme, da un’edizione manoscritta delle Antichità giudaiche di Flavio Giuseppe illustrata dal Maestro del Boccaccio di Monaco. 1415-1470. Parigi, Bibliothèque nationale de France. a r c h e o 65


POPOLI DELLA BIBBIA/12 • ROMANI

FLAVIO GIUSEPPE: LA VITA E LE OPERE La lunga e avventurosa esistenza di Flavio Giuseppe ci è ben nota grazie all’autobiografia e ad altri interessanti riferimenti contenuti nei suoi scritti. Apprendiamo cosí che nacque tra il settembre del 37 e il marzo del 38 d.C., nel primo anno di regno di Caligola, in una famiglia di spicco (il padre, appartenente all’aristocrazia sacerdotale; la madre, discendente dai sovrani asmonei) e che, dopo un lungo periodo di studio e di riflessione, aderí alla setta farisaica e intraprese una promettente carriera nell’ambito della società gerosolimitana. Giuseppe si vide allora conferire un incarico di prestigio, ma impegnativo: recarsi

Miniatura con il trasporto dell’Arca dell’Alleanza intorno alle mura di Gerico, da un’edizione delle Antichità giudaiche. 1415/20-1470. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

nell’ambito di un conflitto ormai avviato alla sua conclusione: le concessioni del monarca seleucide Demetrio II e la successiva presa della 66 a r c h e o

in missione diplomatica a Roma, a riscattare alcuni sacerdoti giudei che erano stati deferiti al tribunale imperiale. Raggiunta l’Urbe nel 64 d.C. (curiosamente non si trovano accenni, nella sua opera, a eventi tristemente noti di quell’anno, come il devastante incendio o la successiva persecuzione anticristiana), riuscí nell’impresa grazie all’amicizia con un protetto di Nerone, l’attore di origine ebraica Alituro, e, soprattutto, al favore dell’imperatrice Poppea (nota per le simpatie giudaizzanti). Il rientro in Palestina, nel 65 d.C., coincise con il divampare della rivolta antiromana nella quale l’autore della Guerra Giudaica finí per trovarsi coinvolto, peraltro in un ruolo decisamente complesso: occuparsi del sistema difensivo di quel territorio che, per ragioni geografiche, era destinato, per primo, a subire l’assalto dei Romani: la Galilea. Come si può intuire, allo scoppio del conflitto, le milizie giudaiche si trovarono ben presto in difficoltà. Stretto d’assedio dalle legioni di Vespasiano e Tito, l’insediamento fortificato di Iotapata (in cui Giuseppe s’era asserragliato) capitolò di lí a breve. Rintracciato, con altri notabili, nel fondo di una cisterna, fu condotto al cospetto dell’abile generale avversario, al quale avrebbe predetto l’ascesa al soglio imperiale. Il successivo avverarsi

della fausta predizione avrebbe indotto il neoimperatore flavio a liberare e a tenere presso di sé (o meglio, al seguito del figlio Tito) quel nobile prigioniero di guerra, che, d’allora in poi, si sarebbe convertito in un convinto sostenitore della causa romana, guadagnandosi cosí l’odio giurato e la fama di traditore presso larga parte dei suoi conterranei. Trasferitosi a Roma, dopo la conquista di Gerusalemme del 70 d.C., lo storico ebreo (che s’era ribattezzato Flavio Giuseppe dal nomen del suo liberatore) conseguí, grazie ai suoi potenti protettori, una condizione di agiatezza tale da consentirgli di dedicarsi alla scrittura in tutta tranquillità. Frutto iniziale della sua attività letteraria fu il resoconto dettagliato degli eventi bellici di cui era stato diretto protagonista: la Guerra Giudaica, redatta in aramaico e pubblicata in greco, tra il 75 e il 79 d.C. A questo primo scritto seguí un’opera monumentale, volta a ricostruire la storia del suo popolo dalle origini al periodo immediatamente precedente il conflitto appena menzionato: le Antichità Giudaiche (in 20 libri). Prima di spegnersi in un anno imprecisato, agli inizi del II secolo d.C., fu anche autore di un’autobiografia e di un’appassionata apologia del giudaismo, rispetto alle accuse dei Greci, il Contro Apione.

cittadella avversaria di Acra implicarono infatti la definitiva liberazione d’Israele dal giogo ellenico e il conseguente ripristino della propria indipendenza (142-141 a.C. circa). Come è comprensibile, il nuovo clima instauratosi con la fine delle ostilità viene descritto in termini idilliaci: «In pace si diedero a coltivare la loro terra; il suolo dava i suoi prodot-

ti e gli alberi della campagna i loro frutti. I vecchi sedevano nelle piazze, tutti deliberavano sugli interessi comuni, i giovani indossavano splendide vesti e armature di guerra» (1 Maccabei 14, 8-9). Grazie a una rara testimonianza di Valerio Massimo, sappiamo dell’esistenza negli stessi anni d’una fiorente comunità ebraica sulle sponde del Tevere; il retore romano


MACCABEI /ASMONEI ED ERODIANI MACCABEI MATTATIA Giovanni

Simone

Giuda «Maccabeo»

Gionata

142-134 a.C.

166-160 a.C.

160-143 a.C.

Eleazaro † 163 a.C.

Giovanni Ircano I 134-104 a.C.

Aristobulo I

Alessandro Ianneo

Salomè Alessandra

104-103 a.C.

103-76 a.C.

75-67 a.C.

Ircano II ∞ IDUMEI Antipatro † 43 a.C. ∞ Kypros (Nabatea)

Aristobulo II

67-66 e 40 a.C Alessandra † 67 a.C.

Alessandra

giustiziata nel 29 a.C.

Fasaele

Giuseppe

caduto in battaglia nel 40 a.C.

caduto in battaglia nel 38 a.C.

66-63 a.C.

ERODE

Alessandro

Antigono

giustiziato nel 49 a.C.

40-37 a.C. sconfitto da Erode

Ferora † 5 a.C.

Salomè † 10 a.C.

Doris

Mariamne I

Mariamne II

Maltace

Cleopatra

(gerosolimitana)

giustiziata nel 29 a.C.

(figlia del gran sacerdote Simone)

(samaritana)

(gerosolimitana)

Antipatro

Alessandro

Aristobulo

Archelao

Erode Antipa

giustiziato il 4 a.C.

giustiziato il 7 a.C.

giustiziato il 7 a.C.

Etnarca della Galilea dal 4 a.C.-6 d.C., esiliato

Tetrarca della Galilea e Perea, esiliato in Gallia nel 39 d.C.

Agrippa I

Erodiade ∞ Erode Filippo

41-44 d.C.

Salomè

Filippo Tetrarca 4 a.C.-36 d.C.

Agrippa II † 100 d.C.

∞ in seconde nozze (confr. Vangelo di Matteo 14, 3-12) 0 d.C.

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POPOLI DELLA BIBBIA/12 • ROMANI

ricorda, infatti, che, nel 139 a.C., il pretore C. Cornelio Ispalo avrebbe espulso dall’Urbe i Giudei, colpevoli di aver contaminato i costumi locali con il culto proibito di Giove Sabazio (probabile confusione della fonte con uno degli epiteti del Dio ebraico: Sabaoth). Tornando alla Giudea, l’appa-

rente situazione di stabilità segna l’avvio di un periodo storico fluido e concitato, caratterizzato dal vorticoso avvicendarsi dei regnanti della nuova dinastia al potere degli Asmonei (discendenti dai capi religiosi Maccabei) e dalla crescente ingerenza dei Romani, interessati anche al controllo di quel diffi-

A destra: veduta di Masada, l’altura sul Mar Morto che fu l’ultima roccaforte della resistenza giudaica a Roma, prima d’essere espugnata dai legionari, nel 73 d.C., dispiegati in massa per averne ragione.

cile territorio. Tuttavia, insorge a questo punto una complicazione: l’appena menzionata epoca turbolenta non figura direttamente negli scritti biblici (benché la stesura di alcuni di essi risalga proprio al periodo in questione), ma è comunque ricostruibile, ricorrendo a fonti di ambito diverso. Fondamentali risultano, innanzitutto, i ritrovamenti archeologici: è il caso, per esempio, dell’importante recupero a Gerusalemme di una rara iscrizione in aramaico, degli inizi del I secolo a.C., che menziona la Città Santa (vedi «Archeo» n. 405, novembre 2018; anche on line su issuu. com). Ma altrettanto preziosa è la cospicua produzione letteraria dello storico Flavio Giuseppe (vedi box a p. 66).

SETTE E PARTITI Sulla scorta di tali testimonianze, possiamo dunque seguire i profondi cambiamenti che interessarono la società giudaica del tempo, assistendo idealmente al primo formarsi di quell’articolato scenario politico-religioso che troviamo ben attestato nel Nuovo Testamento: rispetto al passato, la realtà dell’antico Israele appare, ora, non piú chiusa e monolitica, bensí complessa e permeata di idee e dottrine filtrate dal mon68 a r c h e o


do ellenistico. Conformemente a questa nuova situazione, si rileva l’emergere di alcuni gruppi, destinati a un ruolo di primo piano al tempo della dominazione romana. Numericamente non molto rilevanti, essi appaiono ben distinti tra loro, sul piano politico-religioso: i Sadducei (cosí denominati in ossequio al sommo sacerdote Sadoq) rappresentano gli odiati esponenti dell’aristocrazia sacerdotale, vicini al Tempio e nettamente contrapposti ai Farisei, i quali, a dispetto dell’immagine negativa trasmessa nei Vangeli, si presentano piuttosto come un movimento rigoroso, focalizzato sulla Legge mosaica e sulle sue interpretazioni. Accostabili alla setta farisaica (per l’asserita comune derivazione dagli Asidei dell’insurrezione maccabaica), ma, al contempo, radicalmente diversi da essa – cosí come dai Sadducei – sono infine gli Esseni. Questi ultimi infatti, vivevano lontano da Gerusalemme, in un territorio desertico, dedicandosi a una vita ascetica e di studio e condividendo i frutti della terra. Fondamentali per ricostruire la dottrina e il modo di vita delle comunità esseniche sono le descrizioni di autori antichi (Filone, Flavio Giuseppe, Plinio

Nella pagina accanto, in basso: cartina che mostra l’assetto geopolitico della Palestina al tempo di Erode. A destra: Erode in un dipinto di artista anonimo, cosí descritto dal suo autore: «Erode, re dei Giudei, con il volto e il collo formati dagli Innocenti da lui fatti massacrare». Olio su tavola, XVII sec. Innsbruck, Tiroler Landesmuseum.


POPOLI DELLA BIBBIA/12 • ROMANI

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il Vecchio), nonché (con esse pienamente concordanti) i ritrovamenti archeologici effettuati nella località di Qumran, presso la sponda nordoccidentale del Mar Morto (vedi box a p. 72). Nell’ambito della dialettica fra i tre movimenti appena rammentati, giocava un ruolo di assoluta rilevanza l’antica istituzione del Sinedrio, costituito da esponenti della casta

sacerdotale (di appartenenza sadducea), dell’aristocrazia laica (gli anziani), nonché dai dottori della Legge, i cosiddetti scribi (perlopiú di tendenza farisaica). Presieduto dal Sommo Sacerdote, questo influente organo giudiziario, collegato al Tempio, era deputato a far osservare rigorosamente la Legge mosaica in ogni suo precetto. In parallelo al fermento religioso,

A sinistra, dall’alto: due dei tre beduini che trovarono i rotoli dalla Grotta 1 di Qumran: Jum’a Muhammad (a sinistra) e Muhammad edh-Dhib; Khalil Iskandar Shahin, detto Kando, il calzolaio-antiquario al quale i frammenti di rotoli furono portati per trattarne l’eventuale vendita.

Nella pagina accanto, in alto: cartina che mostra la localizzazione e la distribuzione delle grotte di Qumran. Nella pagina accanto, in basso: una delle giare che contenevano i manoscritti della Grotta 1. In basso: veduta di alcune delle grotte di Qumran.


numerosi tumulti scuotevano l’ormai decadente monarchia asmonea. Un momento di particolare criticità coincise con la morte dell’ultima sovrana degli Ebrei, Alessandra Salomè, nel 67 a.C., motivo scatenante di un acceso scontro per il potere (degenerato in una vera e propria guerra civile) tra i suoi due figli: da una parte, il legittimo erede Ircano II, debole e sobillato dall’intrigante consigliere Antipatro (proveniente da una regione a sud della Giudea, l’Idumea), dall’altra, il fratello Aristobulo. Di questa tumultuosa situazione seppero approfittare i Romani: nell’ambito delle sue conquiste orientali, il futuro triumviro Gneo Pompeo Magno decise di intervenire di persona per stabilizzare il territorio. Accostò quindi le proprie macchine da guerra a Gerusalemme (all’epoca, occupata dai partigiani di Aristobulo) e dopo tre mesi di assedio, riuscí a conquistarla nel 63 a.C., data che segna la fine della dinastia asmonea e l’inizio della dominazione romana.

L’AVVENTO DI ERODE IL GRANDE Il vittorioso ingresso nella Città Santa del generale romano fu seguito da un evento fortemente traumatico per la popolazione locale: la profanazione del Tempio da parte di Pompeo e del suo esercito. Il fatto viene cosí ricordato da Flavio Giuseppe: «Non piccola fu la trasgressione commessa verso il tempio inaccessibile, in cui prima d’allora nessuno era mai entrato né l’aveva visto. Pompeo e non pochi dei suoi videro ciò che non è lecito agli altri uomini salvo che ai sommi sacerdoti. Però, benché ci fossero, nel tesoro, la mensa d’oro e il sacro candelabro, le tazze per le libagioni e una grande quantità di aromi, e ancora le monete consacrate che ammontavano a duemila talenti, egli, per la sua pietà, non toccò nulla di tutto questo; si comportò in una maniera degna del suo carattere virtuoso» (Antichità Giudaiche XIV 4,4). Anche se alla violazione del Sancta

vrano dei Giudei, ruolo ulteriormente rafforzato dalle contemporanee nozze con una diretta discendente degli Asmonei, Mariamne.

GRANDE, MA ODIATO Uscito indenne anche dall’epocale passaggio dalla repubblica all’impero (grazie a uno strategico incontro con Ottaviano all’indomani della vittoria di Azio), Erode mantenne il suo regno per decenni, fino alla sua morte (4 a.C.), ma fu sempre oggetto

Sanctorum non si accompagnò un’odiosa depredazione del tesoro (ci si affrettò anzi a disporre un tempestivo ripristino del culto), essa rappresentò comunque un atto di particolare gravità, che scosse profondamente il popolo d’Israele, mal disponendolo verso il conquistatore straniero. Non contribuí di certo ad alleggerire tale clima il nuovo assetto geopolitico imposto dai vincitori: il loro territorio si ritrovò disgregato, con una serie di città annesse ben presto alla neonata provincia di Siria, mentre la Giudea veniva trasformata in un regno vassallo, tributario di Roma e governato dall’ex ministro di Ircano II, l’ambizioso Antipatro. Quando quest’ultimo morí, avvelenato nel corso di un banchetto (nel 43 a.C.), poteri sempre maggiori vennero riconosciuti al piú abile tra i suoi figli, Erode, il quale riuscí a ottenere il favore d’influenti personaggi della politica romana, a cominciare da Antonio che gli accordò onori e protezione. La successiva, ancorché faticosa, affermazione sull’esercito invasore dei Parti consolidò ancor di piú la sua posizione: dal 37 a.C. il figlio di Antipatro rimase unico soa r c h e o 71


POPOLI DELLA BIBBIA/12 • ROMANI

I MANOSCRITTI DEL MAR MORTO Giustamente celebrati e annoverati tra le principali scoperte dell’archeologia biblica sono i ritrovamenti effettuati, a partire dal 1947, sulla sponda occidentale del Mar Morto e scaturiti – come spesso succede – da un evento fortuito: nella primavera di quell’anno, un pastore della tribú beduina Ta’amireh, aggirandosi in cerca di una pecora, nella località di Khirbet Qumran, individuò in alto, sulla parete rocciosa, una piccola grotta che rivelò, all’interno, la presenza di antichi vasi. Il contenuto di quei manufatti deluse subito la fame di tesori dello scopritore: numerosi rotoli di papiro e di pergamena (piú o meno integri), una selezione dei quali venne celermente venduta di frodo dal pastore, insieme a un paio di complici decisi a trarne un veloce guadagno. L’acquisizione di quattro manoscritti da parte dell’archimandrita del monastero siro-ortodosso di S. Marco, a Gerusalemme, Yeshue Samuel, in qualche modo, dette l’abbrivio alla repentina valorizzazione di queste preziose testimonianze: con i primi studi di cui furono oggetto, se ne riconobbe subito l’importanza, individuandovi, per esempio, un’edizione integrale in ebraico del libro di Isaia, poi rivelatasi perfettamente corrispondente alla tradizione testuale successiva. Nel fervore di studi che ne seguí, importanti acquisizioni si aggiunsero a seguito dell’applicazione di un’innovativa metodologia di indagine scientifica, quella basata sul radiocarbonio (sperimentata con successo, proprio in quegli anni, dal chimico statunitense Willard F. Libby), ma anche grazie alla meticolosa perlustrazione del sito della scoperta.

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Le difficoltose ricognizioni in loco (rese ancora piú complicate dal clima di belligeranza tra Israeliani e Palestinesi) furono premiate dalla localizzazione di altre grotte (ben undici alla fine, piú una dodicesima – saccheggiata – scoperta di recente) e dal conseguente recupero di un’ulteriore messe di documenti. Alla fine si rintracciarono, complessivamente, circa 900 manoscritti, comprendenti testi in ebraico, aramaico e greco (in buona parte frammentari): libri canonici della Bibbia, apocrifi, nonché scritti di carattere normativo e dottrinale attribuibili all’antica comunità che possedeva quella ricchissima collezione e che, allo stato attuale, dopo lunghe discussioni, si tende a identificare con gli Esseni (o, meno probabilmente, con un gruppo a essi collegato). A orientare in tal senso furono anche le scoperte effettuate sul pianoro roccioso al di sopra delle grotte, dove si rimisero in luce i resti di una sorta di insediamento monastico, dotato di refettorio, cisterne e bagni rituali. Dall’insieme delle testimonianze materiali non appare impresa ardua risalire alle motivazioni dell’abbandono e della devastazione per il sito di Qumran: a determinarli furono, con buona verosimiglianza, l’atteggiamento fieramente anti-romano assunto dalla comunità essena al tempo della prima guerra giudaica (66-73 d.C.) e la conseguente reazione dell’esercito imperiale, con l’arrivo in loco, nell’estate del 68 d.C., della Legio X Fretensis e le dolorose ripercussioni che ciò comportò.


Qumran, il sito

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1. bagni rituali; 2. cisterne; 3. bacino di decantazione; 4. mulino e panetteria; 5. scuderie; 6. dispensa; 7. refettorio; 8. sala delle riunioni; 9. scrittorio; 10. tintoria; 11. torre-magazzino; 12. cucina 13. latrine 14. lavanderia; 15. forni per ceramica.

dell’ostinata avversione dei suoi sudditi: il monarca infatti, veniva percepito come uno straniero, proveniente da una terra di recente giudaizzazione come l’Idumea, figlio di un Edomita e di un’araba Nabatea e, soprattutto, come odioso collaborazionista dell’occupante pagano. Oltremodo negativa è anche la sua descrizione nel Nuovo Testamento: il Vangelo di Matteo (2, 1-18) lo presenta come un uomo spietato e avido di potere che non esita a compiere lo sterminio di tutti i neonati maschi del territorio di Betlemme (fino a due anni di età) pur di eliminare lo sgradito «re dei Giudei», la cui nascita gli viene segnalata dai Magi venuti da Oriente. Benché non confermato altrove, l’episodio della strage degli innocenti viene solitamente giustificato ricollegandolo alla lunga sequenza di delitti e di atrocità di cui Erode si sarebbe macchiato: avrebbe per esempio fatto uccidere la sposa Mariamne e mandato a morte tre dei suoi figli. La moderna esegesi storica ha nondimeno posto in risalto la connotazione positiva del personaggio, sotto il quale il regno di Giudea visse un prolungato periodo di benessere economico, comprovato dalla massiccia politica urbanistica avviata dal

monarca. Emulo, sotto questo profilo, di Augusto e di Agrippa, Erode concentrò i suoi interventi sulla Città Santa, dove restaurò il complesso fortificato della Torre Antonia (cosí denominata in omaggio al triumviro Antonio), eresse un enorme palazzo dinastico, ma, soprattutto, intorno al 20 a.C. (negli stessi anni in cui, a Roma, il primo imperatore era impegnato a monumen-

talizzare la pianura del Campo Marzio), diede il via ai lavori per ampliare e rinnovare il secondo Tempio, operazione ambiziosa che venne completata, decenni dopo, dai suoi successori. Non basta: sulla sponda meridionale del Mar Morto, ristrutturò la fortezza maccabaica di Masada (sinistro scenario poi, nel 73 d.C., degli ultimi strascichi della guerra giudaica)

Nella pagina accanto: particolare del Grande Rotolo di Isaia, il piú grande e meglio conservato dei manoscritti di Qumran. 125 a.C. circa. Gerusalemme, The Israel Museum.

In basso: l’area archeologica di Khirbet Qumran. Dopo il ritrovamento dei manoscritti, il sito è stato indagato e ha rivelato strutture residenziali e impianti funzionali di varia natura.

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POPOLI DELLA BIBBIA/12 • ROMANI A sinistra: l’iscrizione che recita: «Ponzio Pilato, prefetto di Giudea, ha ricostruito il Tiberieum per gli uomini del mare», da Cesarea Marittima. Nella pagina accanto: veduta di Cesarea Marittima, città nata per iniziativa di Erode il Grande.

e fece realizzare, sulla costa, una nuova città portuale che, in ossequio a Cesare Augusto, venne chiamata Cesarea. Arricchita d’imponenti edifici (palazzo erodiano, teatro, anfiteatro, ippodromo) e dotata di un efficientissimo porto artificiale, Cesarea Marittima sarebbe successivamente divenuta residenza ufficiale per i governatori romani. Il monarca di origini idumee si fece infine costruire, fuori città (circa 12 km a sud di Gerusalemme), il cosiddetto Herodion, un magnifico palazzo-fortezza, destinato, alla sua morte, ad accoglierne le spoglie. Correttamente riconosciuto nel XIX secolo in una collina artificiale dalla caratteristica forma di seno (cosí viene descritto già da Flavio Giuseppe), il complesso è stato oggetto di numerose campagne archeologiche a partire dagli anni Sessanta. Gli scavi del compianto Ehud Netzer, dell’Università Ebraica di Gerusalemme (attivo dal 1972 nel sito in questione), restituirono nell’aprile 2007 un ritrovamento di una certa suggestione: il presumibile luogo di sepoltura del sovrano, identificato sulle pendici nordorientali del rilievo, con i resti di un elegante mausoleo a cui erano connessi i frammenti di un sarcofago decorato, in pietra calcarea rossa. Questo monumento era stato 74 a r c h e o

vandalizzato già in antico, a verosimile testimonianza dell’odio mai sopito nei confronti di Erode da parte dei suoi avversari.

I ROMANI NEL NUOVO TESTAMENTO Come sopra accennato, il regno di Erode il Grande figura nel Vangelo di Matteo come discusso riferimento cronologico alla nascita del Messia: discusso perché, diversamente dalla data canonica (frutto d’elucubrazioni successive), fa risalire l’evento a una data anteriore alla morte dell’esecrato monarca che, stando alla documentazione disponibile, si può fissare, con buona approssimazione, al 4 a.C. Ben piú difficile da conciliare risulta una diversa indicazione al riguardo, questa volta rintracciabile nel Vangelo di Luca (2, 1-2): «In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria». Anche in questo caso si tratta di un dato esplicito, ma controverso: il citato Publio Sulpicio Quirinio arrivò infatti a ottenere, grazie ai propri successi militari, la carica di legato della Siria e della Giudea e, in tale frangente, procedette a un censimento della popolazione locale, menzionato anche da Flavio Giu-

seppe; ma lo fece tra il 6 e il 7 d.C., che è una data incompatibile con il regno erodiano. L’ipotesi (da alcuni sostenuta) di un precedente mandato in loco affidato al governatore in questione verrebbe a sanare l’incongruenza appena rilevata: quella ricordata dall’evangelista non sarebbe pertanto la rilevazione, storicamente documentata, del 6-7 d.C. ma una precedente, dell’epoca di Erode, forse ricollegabile – su base locale – a uno dei tre grandi censimenti dell’impero, decretati da Augusto: quello dell’8 a.C. Al di là dell’indicazione controversa, l’operazione statistica del 6-7 d.C. s’inserisce storicamente in una fase di profondi cambiamenti: l’indebolimento dei dinasti locali (alla morte di Erode, i suoi enormi possedimenti erano stati suddivisi fra i tre figli: Archelao, Filippo ed Erode Antipa), insieme al continuo susseguirsi di sommosse popolari, ferocemente avverse alla dominazione romana, indussero Augusto a spodestare Archelao e ad annettere il suo strategico regno (Giudea, Idumea e Samaria) alla provincia romana di Siria. Gli importanti territori sottratti al figlio di Erode vennero a questo punto amministrati direttamente da un governatore inviato da Roma (denominato in un primo tempo praefectus e, pochi decenni dopo, procurator), che era soggetto al legato di Siria e aveva a Cesarea Marittima la propria residenza ufficiale. Nella sequenza dei governatori, quello comprensibilmente piú ricordato è Ponzio Pilato, che fu in carica, in età tiberiana, dal 26 al 36 d.C. Notoriamente decisivo è il ruolo da lui giocato nella narrazione evangelica della Passione di Gesú, con l’iniziale tentativo di salvarlo e la successiva condanna a morte, preceduta, come ricorda il solo Vangelo di Matteo (27, 24-25), dal famoso lavacro delle mani (dettaglio, nell’ambito degli studi, discusso e da molti contestato). Al di là della scomoda posizione del pre-


fetto romano in quello specifico frangente, i Vangeli canonici segnalano il suo atteggiamento feroce e intransigente nei confronti della popolazione locale (in Luca 13,1 si racconta che aveva fatto barbaramente trucidare alcuni Galilei).

LE MALEFATTE DI PILATO A confermarlo è il solito Flavio Giuseppe, il quale, in piú di un’occasione, rievoca episodi di violento attrito tra il ferreo governatore e gli abitanti della Giudea: in un caso, egli avrebbe dato disposizione di ricorrere alle offerte del Tempio per la costruzione di un acquedotto a Gerusalemme e dinnanzi alle immediate proteste del popolo avrebbe ordinato di malmenare pesantemente i manifestanti inermi. In un’altra occasione invece, avrebbe disposto d’introdurre nella Città Santa le effigi degli imperatori, in

spregio al divieto ebraico delle immagini. Questa volta però, la ferma risposta della popolazione, che avrebbe optato per una sorta di resistenza passiva, lo avrebbe dissuaso da quella scelta infelice e avvedutamente evitata dai suoi predecessori. Oltre che dalla documentazione letteraria, la storicità della figura di Pilato emerge con chiarezza da significativi ritrovamenti. È il caso di una delle piú celebrate scoperte dell’archeologia del Nuovo Testamento: la cosiddetta iscrizione di Pilato (vedi foto alla pagina precedente). Si tratta di un blocco in pietra calcarea (82 x 68 x 20/21 cm), reimpiegato nella cavea del teatro romano di Cesarea Marittima, che venne rintracciato nel 1961 dal team di archeologi (diretti da Antonio Frova) dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere di Milano. Ben visibile, su un lato del blocco

(attualmente esposto nel Museo Ebraico di Gerusalemme), è un’epigrafe che, benché lacunosa sul lato sinistro, fa esplicito riferimento al praefectus (e non procurator, come lo indica erroneamente lo storico Tacito) Ponzio Pilato, che avrebbe edificato – secondo altri, restaurato – un Tiberieum, ovvero una costruzione dedicata all’imperatore Tiberio. Particolarmente interessante è la ricostruzione dell’epigrafista Géza Alföldy, che identificò il contesto di provenienza dell’iscrizione (l’appena citato Tiberieum) non già con un tempio riservato al successore di Augusto bensí con una torre-faro del porto di Cesarea, suggestivamente correlata a un analogo edificio dedicato invece al fratello dell’imperatore, Druso Maggiore. A prescindere dalla sua assoluta rilevanza tra le conferme storiche della figura di Pilato (ultima, in ordine di a r c h e o 75


POPOLI DELLA BIBBIA/12 • ROMANI

tempo, l’individuazione di un’antica strada gerosolimitana, diretta al Tempio, riferita al praefectus tiberiano sulla base di alcune monete), l’epigrafe di Cesarea Marittima va, in qualche modo, correlata a quella fitta sequenza di scoperte e di studi novecenteschi, focalizzati sui luoghi della vita e dell’insegnamento di Gesú, ambito al quale hanno dedicato decenni di ricerche gli specialisti dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme.

IL LUOGO DELLA CONDANNA Tra le numerose acquisizioni da essi conseguite figurano anche suggestivi ritrovamenti collegati alla dominazione romana: è il caso dello scenario della condanna a morte del Messia. Il luogo in questione, descritto nel Vangelo di Giovanni (19, 13) come Lithostrotos (in ebraico «Gabbatha»), una zona rialzata e pavimentata, ubicata

presso la residenza gerosolimitana del governatore romano, viene comunemente identificato con la Torre Antonia e riconosciuto in un’area lastricata in pietra calcarea, con scacchiere di gioco (tabulae lusoriae) ben visibili, rimessa in luce presso il Convento della Flagellazione, ovvero proprio presso la sede della prestigiosa istituzione culturale francescana. Altri invece ravvisano nei resti appena menzionati una porzione del successivo Foro di epoca adrianea, localizzando altrove lo scenario della sentenza di Pilato, nel lussuoso palazzo di Erode (sul lato interno occidentale delle mura). Come è facile immaginare, gli ulteriori riferimenti agli occupanti pagani, negli scritti neotestamentar i, r isentono del diffuso atteggiamento di ostilità nei loro confronti: va segnalata per esempio la stigmatizzazione evangelica dei famosi pubblicani, gli odiati ap-

p a l t a t o r i d e l l e i m p o s t e, nell’ambito delle province, che spesso si accanivano sui contribuenti, vessandoli o pignorando i loro beni (tra loro, due illustri seguaci di Gesú: l’esattore Zaccheo e, verosimilmente, l’evangelista Matteo). Gli ultimi accenni alla popolazione italica si trovano nei libri della Bibbia collegati al primo diffondersi del cristianesimo: vi si parla ancora di Romani, o meglio degli abitanti pagani dell’impero ai quali, non senza difficoltà, si rivolge l’opera evangelizzatrice di alcuni apostoli come Barnaba o il persecutore convertito, Paolo di Tarso. Quest’ultimo, infatti, conosciuto come «l’apostolo dei Gentili» (vedi box a p. 78), si impegnò in lunghi viaggi missionari attraverso l’impero, non mancando di segnalare, al momento opportuno, il suo status di cittadino romano per nascita (come viene precisato in Atti degli Apostoli 22, 28).

Veduta aerea di Gerusalemme con, in primo piano, il Monte del Tempio, la spianata su cui furono costruiti il Primo e il Secondo Tempio della città.

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POPOLI DELLA BIBBIA/12 • ROMANI

QUALCHE PRECISAZIONE SUI «GENTILI» In numerosi passi delle sue lettere, riferendosi al proprio mandato di evangelizzare i pagani, san Paolo si autodefinisce, piú o meno esplicitamente, «apostolo dei Gentili». Il termine, mutuato dal latino (dove solitamente sta a indicare gli appartenenti a uno stesso clan o a uno stesso gruppo gentilizio) come sinonimo di «genti», viene a tradurre il vocabolo ellenico ethne, riscontrabile nel testo paolino. In modo pressoché unanime, i commentatori biblici ravvisano nell’uso di questo specifico sostantivo il nome ebraico goy (al plurale goyim) che, dalla generica accezione iniziale di «popolo», «nazione», passa poi a designare i non-Ebrei, i non-appartenenti al popolo eletto. Di particolare suggestione poi è la presunta derivazione di goy dal nome di un antico popolo nomade della Mezzaluna Fertile, i Gutei, che, a seguito di una vittoria sugli Accadi, raggiunsero il proprio apogeo sul finire del III millennio a.C.

In virtú di tale specifica condizione, quando dovette difendersi dalle accuse dei suoi avversari ebrei, poté appellarsi «ad Caesarem» e chiedere di essere giudicato direttamente a Roma. Opportunamente scortato, affrontò, a questo punto, un travagliato viaggio alla volta dell’Urbe, approdando a Pozzuoli e proseguendo poi sull’Appia dove (stando ancora al racconto degli Atti degli Apostoli 28, 15) gli si fecero incontro i cristiani della capitale che lo raggiunsero in due località: Forum Appii e Tres Tabernae. Se del primo centro (ubicato nella provincia di Latina, presso il moderno insediamento di Borgo Faiti) sono attualmente visibili scarsi resti, rilevanti appaiono invece le testimonianze relative al secondo: un fortuito ritrovamento, nel 1992, in località Piscina di Zaino, ne ha consentito la localizzazione a pochi chilometri da Cisterna di Latina, in un’area pianeggiante dove successive indagini archeologiche hanno restituito tratti di basolato e resti di edifici, con pregevoli pavimenti musivi, riconducibili a un’antica stazione di posta, situata alla confluenza di piú strade. Dopo quel primo incontro lungo la via consolare, l’apostolo dei Gentili raggiunse finalmente la meta del suo viaggio: qui, risolte le proprie «pendenze giudiziarie», ebbe modo di diffondere la buona novella e di rinsaldare la primitiva comunità cristiana, prima di affrontarvi il martirio (come san Pietro) al tempo di Nerone.

LA FINE DI UN’EPOCA Si è già avuto modo di rimarcare come, nel corso del I secolo d.C., l’indesiderata dominazione romana fosse stata all’origine di numerose sedizioni popolari, ma anche – è il caso di aggiungere – di dottrine che auspicavano un radicale cambiamento collegato all’arrivo di un liberatore, di un Messia. In questo clima s’inquadrano le virulente sommosse provocate nel 6-7 d.C., 78 a r c h e o

all’indomani del discusso censimento di Quirinio, da un certo Giuda il Galileo. Alla cruenta repressione delle sue iniziative da parte delle milizie romane si fa riferimento, in questi termini, negli Atti degli Apostoli (5, 37): «Dopo di lui sorse Giuda il Galileo, al tempo del censimento, e indusse gente a seguirlo, ma anche lui finí male, e quelli che si erano lasciati persuadere da lui si dispersero». A dispetto della tempestiva inibizione, le idee del Galileo germinarono, originando un nuovo movimento (il quarto, dopo i Sadducei, i Farisei e gli Esseni): quello degli Zeloti, il cui nome evoca un particolare zelo nei confronti di Yahweh. Descritti come fanatici e intransigenti assertori del nazionalismo giudaico, a differenza delle altre sette, gli Zeloti non disdegnavano affatto l’uso della violenza per raggiungere i propri scopi: indicativo è l’accostamento a essi del nome di Sicarii, a meno che non si tratti di un’ala estrema o di un gruppo a essi vicino. A questa corrente e al clima di odio da essa fomentato il filoromano Flavio Giuseppe fa pertanto risalire quel drammatico momento di svolta per l’antico Israele che fu la prima guerra giudaica del 66-70 d.C. L’ennesima insurrezione, presto sfociata in un vero e proprio conflitto anche per la maldestra reazione dei procuratori romani, indusse Nerone a intervenire con decisione, inviando in Terra Santa il suo abile generale Vespasiano e il figlio Tito, con tre legioni e ulteriori forze, per riprendere il controllo dei territori. Dopo la difficoltosa stabilizzazione della Galilea, lo scenario del conflitto si spostò a Gerusalemme, dove l’arrivo degli Zeloti, che si asserragliarono nel Tempio, determinò una prolungata fase di scontri intestini tra le fazioni presenti in città. Sul versante opposto, con l’acclamazione e la successiva nomina di Vespasiano a nuovo signore dell’impero, il comando delle operazioni belliche passò a Tito, che nel marzo del


A sinistra: particolare del rilievo dell’Arco di Tito con scena raffigurante il trasporto a Roma del tesoro del Tempio di Gerusalemme. I sec. d.C. In primo piano, alcuni inservienti portano la menorah (il candelabro a sette bracci) trafugata insieme ad altri arredi del santuario. Nella pagina accanto: particolare del calco della fronte di un sarcofago con il ritratto dell’apostolo Paolo. II sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà Romana.

70 d.C. avviò il durissimo assedio della città di Davide. Fu una fase di ulteriori, enormi sofferenze per i Giudei assediati, decimati dalle stragi e dalla fame: in questa tragica situazione s’inquadra l’episodio di una donna di nome Maria, che, in un accesso di disperazione e follia, non esitò a uccidere il proprio figlio neonato e a cibarsene con lugubre calma, dinnanzi agli sguardi impietriti dei Gerosolimitani. In un parossistico crescendo, si arrivò cosí al finale della vicenda, con i legionari romani che, abbattuta la postazione fortificata della Torre Antonia, forzarono e conquistarono la zona templare, roccaforte degli Zeloti. Stando ancora una volta a Flavio Giuseppe, l’ordine impartito dal figlio di Vespasiano sarebbe stato di rispettare a ogni costo l’importantissimo fulcro del culto ebraico;

ma nella furia dei combattimenti una torcia scagliata da un soldato all’indirizzo di una delle porte avrebbe provocato un devastante incendio che, in breve tempo, avrebbe completamente distrutto lo storico complesso ampliato da Erode, a eccezione del muro occidentale del suo terrazzamento artificiale (oggi noto come «Muro del pianto»). All’indomani del terribile evento, i Romani (successivamente ancora alle prese con i ribelli Giudei) celebrarono la conquista di Gerusalemme con un trionfo imponente, immortalato nei rilievi dell’Arco di Tito, presso il Foro Romano, mentre il consistente bottino di guerra fu impiegato per realizzare importanti opere nell’Urbe, come l’Anfiteatro Flavio e il Tempio della Pace. Nell’antica Palestina, invece, gli eventi traumatici del 70 d.C. rap-

presentarono l’esordio di una fase completamente nuova dell’ebraismo, non piú legata al Tempio, ma a una miriade di sinagoghe, da tempo disseminate nel mondo orientale e nel Mediterraneo; spicca tra di esse, per antichità e per stato di conservazione, quella riportata in luce nel 1961, all’esterno delle mura di Ostia Antica. In questa nuova situazione, con l’azzeramento quasi totale dei movimenti fin qui ricordati, sarà la linea farisaica a prevalere: a essa apparterranno gli esperti della Legge (gli attuali rabbini) che, nei secoli a venire, si occuperanno di portare avanti quel legame privilegiato che risaliva a tempo immemorabile tra Yahweh e il popolo dei suoi fedeli. LE PUNTATE PRECEDENTI Gli Israeliti (n. 407, gennaio 2019); Sumeri, Assiri e Babilonesi (n. 408, febbraio 2019); Gli Egiziani (n. 409, marzo 2019); I Filistei (n. 410, aprile 2019); Gli Amorrei (n. 411, maggio 2019); Gli Ittiti (n. 412, giugno 2019); Medi e Persiani (n. 413, luglio 2019); Gli Aramei (n. 414, agosto 2019); Gli Arabi (n. 415, settembre 2019); I Fenici (n. 416, ottobre 2019); Greci e Seleucidi (n. 417, novembre 2019).

PER SAPERNE DI PIÚ Ariel Lewin (a cura di), Gli Ebrei nell’impero romano: saggi vari, Giuntina, Firenze 2001 Kenneth Hanson, Douglas E. Oakman, La Palestina ai tempi di Gesú. La società, le sue istituzioni, i suoi conflitti, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo 2003 Ehud Netzer, L’architettura di Erode. Il grande costruttore, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2012 Giovanni Brizzi, 70 d.C. La conquista di Gerusalemme, Laterza, Roma-Bari 2015 Aldo Schiavone, Ponzio Pilato: un enigma tra storia e memoria, Einaudi, Torino 2016 a r c h e o 79


SPECIALE • ETRUSCHI

NELLE TERRE

DEI RASNA

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GLI ETRUSCHI «TORNANO» A BOLOGNA, CON UNA GRANDE MOSTRA ALLESTITA NEL MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO. UN’OCCASIONE PER FARE IL PUNTO, ALLA LUCE DELLE SCOPERTE PIÚ RECENTI, SULLA STORIA, L’ARTE E LA CULTURA DEL GRANDE POPOLO PREROMANO a cura di Giuseppe M. Della Fina, con testi di Giuseppe Sassatelli, Vincenzo Bellelli, Giuseppe M. Della Fina, Anna Dore, Paola Giovetti e Laura Minarini

Sulle due pagine: Cerveteri, necropoli della Banditaccia. L’area in cui si incrociano due delle strade che attraversano il sepolcreto, sulla quale si affaccia l’ingresso della Tomba della Casetta, cosí battezzata poiché è uno dei monumenti funerari in cui piú evidente è l’imitazione di un’abitazione tipica dell’epoca. A destra: acroterio configurato a guerriero da Cerveteri, Vigna Marini-Vitalini. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek. a r c h e o 81


SPECIALE • ETRUSCHI Antefissa in terracotta policroma a testa di Acheloo, da Cerveteri, Vigna Parrocchiale. 530-520 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

L

a mostra «Etruschi. Viaggio nelle terre dei Rasna», allestita presso il Museo Civico Archeologico di Bologna, è concepita come un itinerario che si snoda non solo nell’ambito dell’Etruria, ma anche all’interno di alcuni importanti momenti e temi della storia etrusca come le città nella loro fase formativa e nella loro successiva configurazione, sia politica che urbanistica; i commerci e le relazioni in ambito mediterraneo; il rapporto degli Etruschi con le altre realtà dell’Italia antica. Temi che in mostra sono illustrati di volta in volta nei diversi territori, ma che, in queste pagine, vengono affrontati trasversalmente, per offrire una visione il piú possibile unitaria di una storia che appare ancora, del tutto immotivatamente, troppo frastagliata. Ecco qualche esempio: il problema delle origini, che ha avuto tanto peso già nella tradizione storica antica, poi nella storia della disciplina, oltre che nell’im-

maginario collettivo. Dopo la grande intuizione di Massimo Pallottino di sostituire al concetto di origine, puntuale e circoscritta, quello di formazione, intesa come processo storico lungo e complesso, il problema è stato quasi dimenticato. Ma in tempi relativamente recenti è riapparso, anche a seguito della nuova scoperta nell’isola di Lemno di alcune epigrafi anelleniche avvicinabili all’etrusco. Queste affinità linguistiche sono state però ricondotte a un lontano orizzonte protostorico, nel quale l’etrusco e il lemnio potevano essere apparentati in un unico ceppo linguistico orientale molto piú antico e, per cosí dire, affogato nella notte dei tempi anche in collegamento con altre grandi svolte storiche come la crisi dell’impero miceneo e le imprese dei «popoli del mare». Questa acquisizione ha riaperto il problema non tanto nella direzione di resuscitare i fantasmi dell’origine orientale, quanto in quella di collocare il loro processo formativo nell’età del Bronzo Finale, anche accettando l’idea dell’arrivo non di un popolo, ma solo di alcuni gruppi che potrebbero avere favorito quei radicali processi storici, tutti interni alla Penisola, che, tra il XII e il X secolo a.C., ebbero come esito la formazione dell’ethnos degli Etruschi.

ETRUSCHI A DELFI Un altro interessante aspetto al quale forse non si è finora prestata la dovuta attenzione è quello della sostanziale unità, dai connotati quasi «nazionali», che gli Etruschi mostrano in alcuni importanti momenti della loro storia. Gli Etruschi avevano due «tesori» nel grande santuario di Delfi, uno di Caere e l’altro di Spina, che erano i centri piú rilevanti di quei «due mari» di cui parla con straordinaria chiarezza ed efficacia Tito Livio, quando dice che entrambi erano controllati dagli Etruschi che avevano dato loro il nome: il «mare di sotto» o mare Tirreno, dal nome con cui i Greci chiamavano gli Etruschi; e il «mare di sopra» o mare Adriatico dal nome di Adria, colonia etrusca.


I due thesauroi di Spina e Caere a Delfi – il piú importante santuario della Grecia e del Mediterraneo – hanno tutto l’aspetto di un riconoscimento per cosí dire unitario alla «nazione etrusca», scandita e distinta nelle sue due piú importanti articolazioni marinare. Interessanti novità riguardano anche l’importante snodo storico costituito dal passaggio fra aristoi e demos. Nella Tomba delle Iscrizioni graffite (530-520 a.C.) di Cerveteri, dov’e-

ra sepolto Larece Veliinias, padre di Thefarie, almeno dieci individui non legati da parentela, né tra loro, né con il defunto – di cui sei con gentilizio e quindi liberi e quattro solo con nome individuale e quindi di condizione servile – si qualificano come sodales dello stesso Thefarie, che poi accompagnarono nell’impresa politica di porre fine al regime aristocratico. Si è molto insistito, finora, sul fatto che, rispetto al mondo aristocratico che

Frontone in terracotta policroma raffigurante episodi della saga dei Sette contro Tebe, dal Tempio A di Pyrgi. 460 a.C. circa. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. a r c h e o 83


SPECIALE • ETRUSCHI

Veneti

Galli (Celti)

Mantova

Po

Adria

Po Spina

Liguri

Bologna

Mar Adriatico Mar Ligure

Arezzo

Volterra

Cortona

Etruschi Populonia

Perugia Chiusi

Vetulonia

Umbri

Orvieto

re

e Tev

Vulci

Corsica

Tarquinia Alalia Cerveteri

Sabini

Veio ROMA

Latini

Sanniti

Mar Tirreno

Capua

Pontecagnano

Sardegna

L’Etruria «propria» Aree in cui è attestata la diffusione della cultura etrusca Città della dodecapoli Altre città di fondazione o sotto l'influenza etrusca

In questa pagina: cartina dell’Etruria «propria» e delle aree di diffusione della cultura etrusca. In alto: scarabeo con montatura, in steatite e oro, da Vulci, necropoli di Poggio Mengarelli. Inizi del VII sec. a.C. SABAP per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale. 84 a r c h e o


contribuiscono ad abbattere, queste figure tiranniche erano «uomini nuovi». Ma il caso di Thefarie sembra diverso. Pur essendo del tipo a dado, la tomba di suo padre si trovava in un luogo importante della necropoli della Banditaccia, isolata e a ridosso di due grandi tumuli orientalizzanti, quasi a voler sottolineare un qualche legame con gli aristoi della precedente fase principesca. Thefarie Velianas, quindi, non era un homo novus in senso sociale, perché discendeva di fatto da un’antica gens ceretana o aveva legami con essa. Era semmai un homo novus sul piano politico e istituzio- La tomba 74 di nale, con una posizione ambigua e in- Monte Vetrano termedia che fa riflettere. (Pontecagnano,

UN PASSAGGIO RADICALE Viene da pensare che in questo delicato passaggio storico qualche membro delle vecchie aristocrazie, ormai consapevole di un mondo in forte declino, possa avere avuto parte attiva nel sovvertimento del potere aristocratico in favore del demos attraverso la fase intermedia della tirannide. Nelle singole città questo passaggio è molto radicale, non senza qualche con-

Salerno) in corso di scavo e, in basso, una navicella nuragica facente parte del corredo. Seconda metà dell’VIII sec. a.C. SABAP per le province di Salerno e Avellino.

flittualità e contrapposizione. Nel santuario di Pyrgi, per esempio, al Tempio B – periptero, voluto da Thefarie e decorato con le imprese di Eracle, emblema del tiranno – la città contrappone il Tempio A, tuscanico, decorato con l’assalto dei Sette a Tebe, con un messaggio di condanna per qualsiasi tipo di hybris, anche – e soprattutto – quella dei tiranni. E altrettanto accade nel santuario in località Sant’Antonio, sempre a Cerveteri, se è giusta l’ipotesi che il Tempio A, piú antico e forse ancora legato al tiranno, è il meno tuscanico

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SPECIALE • ETRUSCHI A sinistra: corredo della tomba 421, maschile, dalla necropoli San Vitale, Bologna. IX se. a.C., Bologna, Museo Civico Archeologico. In basso: testa femminile, forse di una divinità, bronzo su base in pietra, da Orvieto, Campo della Fiera, area del tempio A. 490-480 a.C. Orvieto, Museo Archeologico Nazionale Polo Museale dell’Umbria.

dei due; mentre il successivo Tempio B, sicuramente commissionato dal demos, è invece attribuibile a questo ordine architettonico dai tratti piú «nazionali», forse anche per superare ed esorcizzare quell’attenzione ai modelli architettonici esterni che era stata largamente praticata dai tiranni. Anche la frequente dislocazione dei santuari ai margini dei pianori urbani è il segno di una svolta profonda, per cui da una fase in cui i luoghi di culto si trovavano all’interno delle dimore aristocratiche, si passa a una fase in cui è l’intera comunità che si circonda della protezione divina.

PRECOCITÀ DEL FENOMENO URBANO Gli Etruschi sono il popolo delle città e questo è un elemento quasi identitario ricordato dalla tradizione storica e confermato dalla documentazione archeologica. Con la prima età del Ferro (tra X e IX secolo), agli esordi della cultura villanoviana, la piú antica cultura degli Etruschi, si registra infatti la rapida e improvvisa 86 a r c h e o

concentrazione del popolamento in vasti agglomerati protourbani, un evento straordinario, che sovverte in modo radicale il precedente popolamento del Bronzo Finale e apre la grande storia degli Etruschi. Una conferma della precocità e della solidità del fenomeno urbano (o protourbano) presso gli Etruschi ci viene anche dalla terminologia per definire la città nei suoi diversi aspetti e nelle sue articolazioni, combinando gli assetti politici e istituzionali con le strutture urbanistiche. Questo lessico comprendeva il termine spura, avvicinabile al latino civitas e al greco polis, da intendersi come comunità organiz-


zata; il termine cilth a indicare l’arx; il termine methlum, assimilabile al latino urbs e forse al greco asty, per indicare una entità topografica e urbanistica; il termine rasna, avvicinabile al latino populus (greco politai?) che si riferiva alla parte dei cittadini atta alle armi, con una forte valenza socio-istituzionale; e, infine, il termine tuthina, che significava comunità rurale (pagus in latino), dipendente dalla città, a sottolineare quella gerarchia territoriale che era un tratto caratteristico del fenomeno urbano.

IL «POPOLO DELLA CITTÀ» Dal termine Rasna è derivata l’estensione di significato al nomen degli Etruschi (i Rasenna di Dionigi di Alicarnasso) molto probabilmente per il tramite della lega che riuniva i Duodecim Populi, all’interno della quale doveva essere mantenuta per le città che ne facevano parte la qualifica di rasna. Si può allora ipotizzare che ci fosse un legame tra il nome con cui questo popolo designava se stesso e il significato istituzionale di questa parola, legata alla configurazione politica delle comunità urbane pienamente strutturate, per cui i Rasenna (poi Rasna per la caduta della vocale intermedia) potevano essere effettivamente intesi come «quelli del Rasna», cioè il «popolo della città». Questo termine poteva quindi avere un duplice significato, per cui, per esempio, il rasunie di Pontecagnano in Campania significa letteralmente «quello del rasna» da intendersi sia come «quello della città» (e Pontecagnano era una città), sia «quello degli Etruschi», un’indicazione di grande peso in un’area cosí lontana rispetto alla madrepatria tirrenica. Questi antichi centri sono giustamente etichettati come protourbani perché non sono ancora poleis, in un’ottica greca; ma non sono neppure una semplice aggregazione di komai, cioè di villaggi, nonostante la loro debole coesione interna sul piano urbanistico. Della città futura hanno già il potenziale demografico, la disponibilità di un territorio e, soprattutto, un’autorità

Vaso biconico decorato a sbalzo dalla tomba 74 di Monte Vetrano, Seconda metà dell’VIII sec. a.C., Pontecagnano, Museo Archeologico Nazionale.

politica centrale che è in grado di assumere decisioni comuni. I diversi villaggi, sia pure ravvicinati, dei grandi pianori tufacei dell’Etruria meridionale o sulle diverse colline nell’Etruria settentrionale fanno pensare ad assetti riconducibili alle curiae della Roma primitiva, intese come aggregazioni politico-religiose di uomini adulti, atti alle armi, non consanguinei, che si riconoscono in un antenato comune e che adottano sacra e ritualità funerarie fortemente identitarie, sempre comunque all’interno di un contesto politico unitario. Del resto una articolazione interna di queste comunità in gruppi distinti trova molti riscontri nelle aree di sepoltura dove emergono fin dalla fase piú antica il ruolo e il rango di figure eminenti e di capi. a r c h e o 87


SPECIALE • ETRUSCHI

Nella lunga storia di queste proto-città si registra una fase principesca, con la presenza di palazzi nei quali la residenza del principe, i culti e la cerimonialità aristocratica sono perfettamente integrati e che poi vengono distrutti o smantellati nel corso della grande svolta del VI secolo, quando il demos prende il potere e pone fine al vecchio regime aristocratico. In alcuni casi i loro spazi diventano sede di culti poliadici (dedicati cioè a divinità identificate con la città, n.d.r.) e di quelle attività collettive che fanno capo alla nuova comunità cittadina. La città è ora teatro di nuovi interventi politici e di organizzazione urbanistica. Si monumentalizzano gli apparati difensivi che, al di là dell’ovvia funzione protettiva, diventano anche strumenti per l’affermazione identitaria e simbolica della città-stato sia nei riguardi della comunità urIl ricco corredo della Tomba delle hydriae di Meidias, scoperta a Populonia. Fine V sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale, Polo Museale della Toscana. A dare il nome al sepolcro sono i due vasi per acqua (hydriae, appunto) figurati che si vedono nella foto.

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bana che dell’esterno. I culti e le loro sedi recano il segno di questa importante svolta. I templi sorgono ai margini dei pianori urbani, spesso in prossimità dei relativi ingressi che monumentalizzano, in una disposizione che assume l’aspetto di una «cintura sacra» a protezione della città nella sua interezza.

PER LA DEA DELLA FECONDITÀ Usciti dai palazzi e dalle residenze aristocratiche, gli dèi sono ora al servizio dell’intera comunità cittadina che proteggono e salvaguardano dai pericoli e dal nemico. Molto significativa risulta anche la scelta di alcuni culti come quello di Vei, assimilata alla greca Demetra e alla romana Cerere, dea della fecondità della terra e dell’essere umano con un forte significato politico. Come a Roma, dove la giovane repubblica


appena costituita contrappose ai «santuari dell’acropoli» costruiti dai re un grande tempio ai piedi dell’Aventino, dedicato a Cerere, Libero e Libera, il culto di Vei aveva sicuramente in Etruria una connotazione plebea, anti-aristocratica, ma anche anti-tirannica, in parallelo con l’ascesa di quel ceto popolare che possiamo assimilare al demos. Il sacro diventa quindi un formidabile strumento di potere e di governo, sebbene a oggi non si conoscano spazi o strutture specificamente dedicati allo svolgimento delle attività pubbliche e politiche, come accadeva nel foro delle città romane o nell’agorà di quelle greche, con l’unica eccezione di un edificio ellittico scoperto a Caere, sul quale forse bisognerà riflettere, soprattutto se si considera che fu ristrutturato dall’imperatore Claudio, un «etruscologo» ante litteram, per

accogliere il ciclo dei ritratti imperiali, con un’operazione che ha tutta l’aria del recupero, in età romana, di una piú antica funzione pubblica di età etrusca. Grande spazio viene infine dedicato nella mostra all’ampia rete delle relazioni e dei commerci che gli Etruschi avevano nel Mediterraneo. Non a caso Dionigi di Alicarnasso, nonostante ne avesse una opinione sostanzialmente riduttiva, li definisce thalassokrátores, cioè «dominatori del mare». E, nell’ambito di queste relazioni, una speciale attenzione viene dedicata al rapporto degli Etruschi con gli «altri», sia per quanto riguarda le principali popolazioni dell’Italia antica, sia per quanto riguarda il mondo greco, loro partner speciale, non solo nei commerci, ma anche nei contatti culturali. Giuseppe Sassatelli

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SPECIALE • ETRUSCHI

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UOMO E TERRITORIO NELL’ETRURIA ANTICA di Vincenzo Bellelli

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Il tratto di una tipica via «cava» (cioè «scavata») etrusca. Si tratta di un elemento tipico soprattutto dell’Etruria rupestre (fra alto Lazio e Toscana), il cui paesaggio è caratterizzato da ampi pianori tufacei incisi da profonde valli. Questi sentieri ripidi, tortuosi e profondamente incassati nella roccia venivano realizzati per collegare, con tragitti piú brevi, i centri abitati con la campagna coltivata situata sulle alture circostanti o con altri insediamenti.

a sempre l’uomo interagisce in maniera dialettica con il territorio in cui vive, soprattutto da quando ha iniziato ad aggregarsi in comunità organizzate. Da un lato, infatti, gli esseri umani hanno sempre cercato di piegare l’ambiente circostante ai propri bisogni e necessità, dall’altro è stato il contesto naturale a condizionare scelte insediative e modalità organizzative dei gruppi umani. Questa simbiosi si riscontra anche nella civiltà etrusca, che si è sviluppata nel territorio italiano nel corso di circa un millennio, segnando in maniera significativa anche gli sviluppi storici successivi. Dal punto di vista del rapporto che i Rasenna instaurarono con il proprio territorio, l’Etruria che dobbiamo immaginare è un paese articolato e plurale, non riconducibile a un unico modello di sviluppo.

GLI STEREOTIPI DEGLI AUTORI ANTICHI Se consideriamo gli aspetti etnografici della questione, ovvero quelli piú legati alle genti e alle loro attitudini, ne emerge una caratterizzazione abbastanza unitaria della civiltà etrusca, sebbene nettamente bipolare. Ancora una volta ci vengono in soccorso le fonti letterarie, che ci hanno lasciato in eredità, a questo proposito, due cliché etnografici assai interessanti, che corrispondono perfettamente alla realtà storica: per gli antichi scrittori greci e latini (per esempio, Eforo, Strabone, Diodoro Siculo, Cicerone) gli Etruschi sono, da un lato, gente di mare, dall’altro un popolo continentale – di terra – formato essenzialmente da agricoltori. Sebbene sotto forma di stereotipi, da un lato la propensione per la pirateria marittima, dall’altro la degenerazione dei

costumi derivante dall’eccessiva ricchezza proveniente dall’agricoltura, questi antichi (pre-)giudizi colgono perfettamente la natura di fondo, bivalente, della civiltà etrusca: una civiltà al contempo di terra e di mare, che ebbe come culla un territorio ricchissimo posto fra le montagne dell’Italia centrale e il mare «chiuso» che proprio dagli Etruschi, non per caso, traeva il nome.

UN PAESE BIFRONTE Tale contrapposizione – il mare da una parte, l’entroterra dall’altro – ritorna significativamente anche nelle due descrizioni del paese etrusco piú famose dell’antichità, quella contenuta nella Geografia di Strabone e quella presentata da Plinio nella sua Storia Naturale. Distinguere un’Etruria costiera da un’Etruria interna non è solo un espediente espositivo, che consente ai due autori di far procedere la descrizione geografica in maniera ordinata, bensí il frutto di una (sia pure implicita) consapevolezza del fatto che, dal punto di vista dell’assetto territoriale e della ripartizione dei bacini economici, l’Etruria era un paese bifronte. Questa contrapposizione fra Etruschi del mare ed Etruschi dell’entroterra aveva pertanto basi reali e rispecchiava una realtà economica complessa, che entrava in gioco e mostrava la sua efficacia, anche in periodi di crisi internazionale come erano le carestie. Basti ricordare, a tal proposito, che in questi casi, quando Roma, per l’insostenibile pressione demografica, era costretta ad adottare procedure d’emergenza, come l’approvvigionamento granario dall’esterno (cosiddette frumentationes), ricorreva spesso e volentieri alle scorte degli Etruschi dell’interno, utilizzando la via d’acqua del Tevere per la movimentazione dei a r c h e o 91


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carichi e ciò avvenne piú volte nel corso del V secolo a.C. Delineato, nelle sue linee generali, il rapporto bivalente fra gli Etruschi e la propria terra, siamo adesso in grado di definire in maniera piú puntuale i limiti e le caratteristiche geografiche del paese etrusco. Dal punto di vista topografico, la cosiddetta Etruria propria, coincidente con il distretto tirrenico tosco-laziale, si presenta come un comparto ben definito geograficamente e con una relativa compattezza culturale, evidente anche a livello linguistico, pur con qualche ovvia differenza cantonale. Tale configurazione risaliva almeno alla fine dell’età del Bronzo, quando si era completato il lungo processo di regionalizzazione culturale dell’intera area italiana.

L’INTERAZIONE CON LE ALTRE GENTI ITALICHE Proiezioni territorialmente e politicamente autonome del paese etrusco furono poi l’Etruria campana e quella padana, aree culturalmente molto evolute, soggette però a maggiori fenomeni di interferenza etnica e culturale con gli ambienti italici circostanti, rispettivamente l’area ausone-opicio-enotria da un lato, il comparto veneto dall’altro. L’ampio territorio descritto, infine, era ricchissimo di risorse naturali, a cominciare dalla terra fertile (si pensi a cosa scriveva Tito Livio a proposito della fertilità dei campi posti fra Fiesole e Arezzo); altre fondamentali risorse erano il legname, il sale, i materiali da costruzione (pietra da taglio) e tutti quei minerali metalliferi che fecero la fortuna economica degli Etruschi. La ragguardevole concentrazione delle risorse minerarie nell’attuale Toscana (aree dell’Accesa, Colline Metallifere, Campigliese, Monte Valerio e isola d’Elba), in particolare, consente di isolare all’interno della geografia etrusca una zona mineraria fiorente e competitiva, che ebbe come capoluogo prima Vetulonia e poi Populonia. Salvo forse lo stagno, che veniva importato dal nord Europa sotto forma di cassiterite, queste zone offrivano tutto quello di cui c’era bisogno per realizzare i manufatti necessari per le attività prima-

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Orvieto. La necropoli di Crocifisso del Tufo, composta da tombe a dado costruite a partire dal VI sec. a.C.


rie dell’uomo (agricoltura e guerra), a cominciare dal ferro e dal rame. Nell’alto Lazio, una simile concentrazione di ricchezze minerarie si riscontra sui Monti della Tolfa, territorio strategico controllato politicamente da Caere e Tarquinia. Se adesso proviamo a valutare il rapporto fra uomo e territorio alla luce della moderna nozione di «paesaggio culturale», cioè del paesaggio artificiale che scaturisce dall’azione combinata della natura e dell’uomo (secondo la formulazione datane dall’UNESCO) emerge per il caso etrusco una fisionomia molto interessante. Se, infatti, prendiamo in considerazione il paesaggio costruito nelle sue manifestazioni piú importanti a fini collettivi – ponti, strade, spazi cimiteriali, strutture di difesa, strutture idriche – risulta infatti un comune denominatore inconfondibile, la mirabile simbiosi che in Etruria viene a determinarsi fra elemento naturale e manufatto, con una scarsa incidenza di parti costruite. Limitandoci all’osservatorio meridionale, che abbiamo definito paesaggio del tufo, questa simbiosi si riscontra in tutte le opere dell’uomo che rientrano nelle categorie sopra elencate: si pensi ai ponti «sodi»; alle spettacolari vie cave; alle necropoli rupestri e, piú in generale, a tutte le «città dei morti»; alle cinte murarie definibili come «ecologiche», cioè solo parzialmente costruite e ancorate al banco di roccia sagomato; ai cunicoli idraulici. In tutti questi casi l’opera dell’uomo si esplica per sottrazione di materia, scavando il tenero tufo locale, con scarse se non nulle parti aggiunte, per dare vita a un paesaggio costruito ben diverso da quello che notava Goethe nel suo Viaggio in Italia, quando ammirava i ruderi di età romana. Se quello che Goethe aveva sotto gli occhi (acquedotti sopraelevati, arterie stradali fiancheggiate da mausolei imponenti...) induceva il grande intellettuale tedesco a parlare di «una seconda Natura, che opera a fini civili», nel caso etrusco si potrebbe parlare, se possibile, di una «seconda natura» assai meno artificiale di quella romana, modellata dall’uomo in maniera molto meno invasiva.

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IL VIAGGIO ALLA SCOPERTA DELL’ETRURIA di Giuseppe M. Della Fina

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a scoperta dell’antica Etruria si deve anche ai viaggiatori che hanno attraversato la regione: antiquari, archeologi, artisti, scrittori. Ognuno ovviamente con il proprio bagaglio di conoscenze, gli «attrezzi» della professione esercitata e la propria sensibilità. Essi hanno segnalato singoli monumenti o reperti oggi magari perduti, proposto interpretazioni, ma soprattutto hanno contribuito a creare un’immagine dell’Etruria vitale ancora oggi, quando sono aumentate sensibilmente le conoscenze scientifiche sulla cultura etrusca, che ha caratterizzato la penisola italiana per quasi l’intero I millennio a.C., seppure con una forza diversa di secolo in secolo.

Nell’analisi di tale fenomeno si potrebbe partire almeno dal Cinquecento, ma si è scelto di farlo soltanto dal Settecento, ovvero dal secolo durante il quale lo studio degli Etruschi divenne una vera e propria disciplina su basi progressivamente sempre piú scientifiche. Decisivi, al riguardo, furono i viaggi di due tra i protagonisti maggiori del tempo: Anton Francesco Gori e Scipione Maffei. Il primo intraprese il suo tour in vista della stesura del volume Museum Etruscum, pubblicato nel 1737, uno dei classici della stagione di studi che ha preso il nome di «etruscheria». Gori stesso ha indicato, in apertura del volume, le diverse tappe. Il viaggio prese avvio da


In alto: Orvieto vista dalla strada per Viterbo, tavola inserita nella seconda edizione di The Cities and Cemeteries of Etruria di George Dennis. 1878. Nella pagina accanto: particolare del coperchio di un sarcofago chiusino. Chiusi, Museo Archeologico Nazionale. Nel Settecento, Anton Francesco Gori fu il primo a segnalare la dispersione del patrimonio archeologico della città etrusca.

Firenze nel mese di maggio del 1733 e il primo centro raggiunto fu Arezzo, dove l’autore ebbe come guida Gregorio Redi Baiulivi e Lorenzo Guazzesi e vide «i magnifici avanzi e gli archi superstiti dell’antichissimo anfiteatro», al tempo ritenuto etrusco, e poche iscrizioni «nella ricchissima raccolta Bacci». Da lí si spostò a Cortona dove incontrò Filippo Venuti. Insieme visitarono «il celeberrimo Museo dell’Accademia Etrusca» e Gori non mancò poi di osservare la collezione di antichità di Galeotto Corazzi. Quindi raggiunse Perugia, uscendo dal Granducato di Toscana ed entrando nello Stato Pontificio, dove poté esaminare diversi reperti etruschi riuniti nelle raccolte Ansidei, Oddi, Montemellini, Vincioli, Crispolti e, nei dintorni della città, nella collezione di Fabrizio degli Eugeni di Chiaromonte. Ebbe modo anche di osservare l’ipogeo di San Manno. Ritornato a Cortona, si mosse di nuovo per visitare Montepulciano e Chiusi. In quest’ultima città, di cui conosceva la rilevanza storica, fu stupito di riuscire a rintracciare poche vestigia. Una spiegazione la trovò nel fatto «che i monumenti migliori recuperati negli scavi vengono subiti trasferiti da commercianti verso altre raccolte». Segnalò cosí una prima dispersione del patrimonio archeologico chiusino che trovò il suo apice nel secolo successivo, dove arrivò addirittura a essere – soprattutto nei decenni iniziali – parte integrante dell’economia cittadina. Ebbe comunque modo di osservare la raccolta Paolozzi e alcune antichità presso Innocenzo Nardi.

Lasciata Chiusi, raggiunse Montepulciano per visitare «la collezione Bucelli, molto ricca di urne etrusche e di altri rari cimeli». Da lí si recò a Montalcino e Pienza, ma non vi rinvenne alcunché. Proseguí poi per Siena dove poté vedere «le raffinate raccolte dei Borghesi e dei Sani» e «molte urne in pietra e in terracotta», trovate nel 1728 tra Montaperti e Pancole, nel palazzo dei Tommasi. Fece – sempre secondo la sua testimonianza – ricerche anche in altri centri della Toscana: Panzano, Poggibonsi, San Casciano e fra «i ruderi di Pogni». Scipione Maffei, nel giro compiuto per scrivere Della nazione etrusca e degli Itali primitivi (Verona 1739), toccò invece i seguenti centri: Roma, Civita Castellana, Tarquinia (all’epoca denominata Corneto) – dove ebbe come guida Giannicola Forlivesi, uno dei pionieri delle ricerche in quell’importante città-stato etrusca –, Bolsena, Chiusi, Montepulciano, Volterra, Siena, Monteriggioni e Firenze. Scorrere l’elenco delle località raggiunte, lascia intuire che per Maffei la Toscana non aveva la stessa centralità nello sviluppo della civiltà etrusca attribuitale da Gori.

CON L’OCCHIO DELLO STRANIERO Grazie all’etruscheria, le terre etrusche divennero motivo di attrazione per i viaggiatori stranieri. Nella prima metà dell’Ottocento spiccano due resoconti di viaggio: il Tour to the Sepulchres of Etruria in 1839 della scrittrice Elisabeth Hamilton Gray, pubblicato a Londra nel 1840, e The Cities and Cemeteries of Etruria di George Dennis, pubblicato, in prima edizione, sempre a Londra, nel 1848 a seguito di varie escursioni effettuate nella regione negli anni Quaranta. Le due opere hanno punti in comune, ma differiscono sensibilmente: autrice del primo fu infatti una scrittrice, mentre del secondo fu autore un archeologo, seppure con notevoli capacità di scrittura. Inoltre i due si rivolgevano a un pubblico diverso: piú ampio quello di Hamilton Gray, che era già una scrittrice affermata quando decise di raggiungere l’Etruria, a seguito di una visita alla mostra di antichità etrusche allestita a Londra nella galleria Pall Mall dalla famiglia Campanari nel 1837; soprattutto per gli specialisti scriveva invece Dennis, che era quasi un esordiente, avendo fino a quel momento firmato un solo libro – seppure di un certo successo – A Suma r c h e o 95


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mer in Andalucia –, pubblicato nel 1839. L’opera di Hamilton Gray nacque di getto, mentre quella di Dennis ebbe una lunga preparazione, con soggiorni in Italia e la frequentazione del prestigioso Instituto di Corrispondenza Archeologica fondato a Roma nel 1829. Occorre inoltre considerare che The Cities and Cemeteries of Etruria venne rivista in profondità in occasione della seconda edizione, pubblicata sempre a Londra nel 1878, poi riproposta nel 1883: una revisione che si accompagnò a nuove escursioni. I punti di contatto comunque non mancano: in entrambi il paesaggio fa da sfondo – quasi offre un senso – alle antichità etrusche che si volevano osservare, analizzare e descrivere. In quel paesaggio si muovevano gli uomini e le donne del tempo visti come gli eredi di quel passato luminoso, cosí Dennis: «Era una giornata meravigliosa quando arrivai a Bolsena. Il cielo era senza una nube – il lago, le sue isolette, e ogni oggetto lungo le spiagge, erano immersi in una vampa di luce e di calore estivo – gli uliveti erano pieni di contadini seminudi che raccoglievano i grassi frutti – miriadi di folaghe oscuravano le acque, che nessuna vela solcava – il mio occhio spaziava per l’ampio anfiteatro formato dall’antico cratere, e da ogni lato scorgeva le colline dalla base alla cima rese oscure dalle varie tonalità del fogliame».

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Un’altra tavola inserita nella seconda edizione di The Cities and Cemeteries of Etruria di George Dennis:Tombe etrusche scavate dal signor Mancini, sotto le mura di Orvieto. 1878. L’illustrazione si riferisce alle esplorazioni condotte dall’ingegnere, archeologo e mercante di antichità Riccardo Mancini.

Altri viaggi sui quali merita di soffermarsi sono quelli dell’erudito svizzero Johann Jakob Bachofen: il primo risale agli anni 1842-1843, quando, diretto a Roma, si fermò a Pisa, Firenze e Perugia, dove s’incontrò con Giovanni Battista Vermiglioli, uno dei maggiori etruscologi del tempo. Tra il 25 ottobre e il 3 novembre 1851, fu di nuovo in Etruria e questa volta ebbe modo di visitare: Santa Maria di Falleri, Civita Castellana,Viterbo, Castel d’Asso,Vetralla, Norchia, Blera, Tuscania (Toscanella), Tarquinia (Corneto) dove ebbe come guida Agapito Aldanesi che aveva accompagnato già George Dennis. Avrebbe voluto visitare anche Cerveteri, ma la tappa saltò per il cattivo tempo. La terra degli Etruschi lo colpí favorevolmente, piú tardi nella sua autobiografia e con riferimento alle necropoli dell’Etruria meridionale annotò: «Amo i popoli e le epoche, che non lavorano per il quotidiano, ma hanno invece l’eternità dinanzi agli occhi in tutte le loro occupazioni». Un viaggiatore d’eccezione fu poi lo scrittore David Herbert Lawrence, il quale, tra mercoledí 6 e lunedí 11 aprile 1927, durante un viaggio atteso e preparato con cura, ebbe modo di visitare quattro centri etruschi: Cerveteri, Tarquinia, Vulci e Volterra. Le sue impressioni confluirono dapprima in articoli per


riviste culturali e poi in Etruscan Places (Londra 1932), pubblicato postumo. Innanzitutto, si deve segnalare che il suo innamoramento per la civiltà etrusca nacque e si sviluppò in chiave anticlassica e piú esplicitamente antiromana. Anche nell’Etruria di Lawrence centrali risultano il paesaggio e la vita degli Italiani che continuavano ad abitarla. In ogni caso l’Italia restava etrusca: «Nell’Italia di oggi c’è assai piú sangue etrusco che romano, e sarà sempre cosí. In Italia l’elemento etrusco è come l’erba del campo, i germogli del grano: sarà sempre cosí». Per il Novecento, infine, tra i resoconti di escursioni in Etruria, va ricordato almeno Viaggio in Italia (1957) di Guido Piovene, dove inevitabilmente s’incontrano gli Etruschi.

I CARATTERI RICORRENTI Ma da quali elementi appare caratterizzata l’Etruria narrata dai viaggiatori? Innanzitutto, essa si misura, fa i conti sempre con la morte, attraverso le descrizioni delle tombe e delle necropoli che la costellano e che vengono ritenute come le testimonianze uniche o, comunque, le piú significative della perduta civiltà etrusca. L’ambientazione diviene dunque «cerea», «notturna» (riproponendo aggettivi utilizzati da D’Annunzio nel romanzo Forse che sí forse che no, pubblicato nel 1910), talora inquietante; in altri casi, soprattutto nella letteratura di viaggio anglosassone, non manca l’attenzione per le necropoli, ma esse non sembrano testimoni mute della morte, della scomparsa di una civiltà. Appaiono anzi come la prova della capacità di attraversare i secoli di una cultura e quindi della sua forza, della sua vitalità. Non trasmettono inquietudine, ma serenità, forza tranquilla. Una serenità che ritroviamo anche in qualche autore italiano: Alberto Savinio, per esempio, che in Dico a te, Clio, osserva: «La necropoli continuava la città, e l’uomo, morendo, non faceva che cambiar quartiere, passando dai quartieri del centro a quelli della periferia, piú salubri e signorili». Un altro punto di forza dell’Etruria è rappresentato dalla sua luce: una luce particolare che riesce a mutare gli scenari. Questa luce, di cui si comprende la necessità, l’indispensabilità, si fa uscire spesse volte – ricorrendo magari a un artificio retorico – dalle nubi, apparire dopo un brusco temporale quasi che non se ne potesse fare a meno. Importante appare anche il rapporto con il

Testa in bronzo di giovinetto, di provenienza sconosciuta. 330 a.C. circa. Firenze, Museo Archeologico Nazionale, Polo Museale della Toscana.

mare: il poeta e scrittore Vincenzo Cardarelli ha parlato degli Etruschi come di «un popolo misterioso e sopraffatto che siede alle origini della nostra civiltà, venuto non si sa di dove, dal mare forse, ma rivolto a monte», mentre Alberto Savinio ha osservato che in Etruria «il mare chiude il paesaggio». Né manca il vento che ritorna, con una qualche presenza, nelle descrizioni dell’Etruria ed è particolarmente ben descritto da Curzio Malaparte in Maledetti Toscani (Firenze 1956). Questa (sintetica) rassegna dei viaggiatori d’Etruria si può chiudere con un’osservazione, anch’essa di Cardarelli, che, in poche righe, riesce a dare un’idea dell’interazione tra natura e storia, tra uomini e ambiente e il senso profondo della spinta a viaggiare nelle terre etrusche: «Cominciò allora quel viaggio senza ritorno della colonizzazione etrusca in Italia: favola del paesaggio italiano, storia naturale, antefatto necessario alla storia di Roma, che pare desunto dai golfi, dai promontori, dai fiumi e dalle rocce del nostro paese».

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SPECIALE • ETRUSCHI

IL MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO DI BOLOGNA E LE ANTICHITÀ ETRUSCHE di Anna Dore, Paola Giovetti e Laura Minarini

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al punto di vista dei musei, cosa videro, nei loro soggiorni a Bologna, due viaggiatori britannici: Sir Richard Francis Burton e George Dennis? L’opera del primo, Etruscan Bologna: a study, venne pubblicata a Londra nel 1876, all’altro si deve invece il ben noto The Cities and Cemeteries of Etruria. Nella seconda edizione (1878), Dennis decise di varcare gli Appennini verso «la città dei portici e delle torri pendenti, delle signore dotte e delle salse saporite», proprio per il numero e l’importanza delle scoperte compiute tra la data della prima edizione dell’opera (1848) e quella della seconda. La loro accurata descrizione delle collezioni pubbliche e private fotografa i disiecta membra di quel museo che la città già progettava, ma che ancora non riusciva a vedere la luce. Presso Palazzo Poggi, già sede dell’Istituto delle Scienze, continuava a vivere il Regio 98 a r c h e o

Museo Archeologico dell’Università, erede delle collezioni dell’Istituto, dove erano ospitate le antiche raccolte cittadine, frutto di un lungo sommarsi di passioni collezionistiche intrecciate alla sollecitudine per il bene pubblico. In esse trovavano posto anche importanti testimonianze etrusche extrabolognesi, fra le quali Burton cita la «patera cospiana» e la gemma Maffei. Qui però avevano trovato riparo anche antichità da poco scoperte a Bologna, provenienti da scavi fatti sotto l’egida dello Stato. Era il caso di alcune importanti tombe orientalizzanti scavate da Giovanni Gozzadini all’Arsenale Militare. L’Archiginnasio, già sede dell’Università e ora della Biblioteca Comunale, ospitava invece, fin dal Congresso del 1871, un primo abbozzo di Museo Civico, dove i visitatori potevano osservare i materiali restituiti dagli scavi della Certosa e dei non lontani

In alto: la sala etrusco-italica del Museo Civico Archeologico di Bologna.


In questa pagina: la sala X del Museo Civico Archeologico di Bologna (in alto) e in una foto d’epoca.

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SPECIALE • ETRUSCHI

terreni Arnoaldi, contemplare la straordinaria situla istoriata, le tombe ingegnosamente strappate dal terreno da Antonio Zannoni, ma anche ammirare parte degli innumerevoli capolavori di arte antica donati nel 1860 alla città dall’artista e collezionista Pelagio Palagi. Quanto il Comune era riuscito ad assicurare alla fruizione pubblica delle migliaia di corredi tombali e delle testimonianze di abitato, che soprattutto Zannoni aveva messo in luce in quegli anni, era conservato in diversi magazzini presso edifici confiscati, come il convento di S. Francesco. Infine, le antichità di Villanova, assieme ad altre interessanti testimonianze dal territorio, facevano mostra di sé nel museo privato del conte Gozzadini, nell’avita dimora di via Santo Stefano. Il dibattito su come e dove fondare un grande museo civico era aperto fin dall’epoca della donazione Palagi e la decisione politica di promuovere la riunione delle collezioni archeologiche e artistiche cittadine in un unico 100 a r c h e o

Elmo in bronzo, da Volterra, Tomba del Guerriero, località Poggio alle Croci. Ultimi decenni dell’VIII sec. a.C., Volterra, Museo Etrusco Guarnacci.

grande museo civico era stata assunta dal 1864. Un annoso dibattito aveva infine portato alla scelta significativa di affiancare Museo e Archivi alla Biblioteca Civica dell’Archiginnasio, racchiudendo in uno degli isolati piú centrali della città quella memoria che si voleva porre a suo fondamento. Tuttavia, il progetto tardava a concretizzarsi per il difficile accordo fra Stato e Comune sulla gestione patrimoniale delle collezioni. A sbloccare la situazione fu la nomina a direttore per la parte archeologica dell’erigendo Museo Civico di Edoardo Brizio, giovane professore di archeologia, giunto alla cattedra bolognese nel 1876 e contestualmente divenuto direttore del museo universitario. Nel 1878 si addivenne a una convenzione fra le istituzioni e, terminati gli imponenti lavori di ristrutturazione dell’edificio di Palazzo Galvani, il nuovo Museo Civico, che comprendeva una sezione antica e una medievale e moderna, poté finalmente aprire i battenti, il 25 settembre 1881. Brizio condivideva col direttore generale Gozzadini la guida del museo per la parte archeologica, in un connubio spesso burrascoso; tuttavia sembra che le scelte per l’ordinamento delle collezioni siano state affidate principalmente al giovane professore. Il museo del 1881 è dunque frutto della visione che Brizio condivideva con la prima generazione di archeologi formati come tali: una visione sorretta da quella piú ampia di una disciplina che andava definendo con sempre maggiore nettezza il suo statuto scientifico.

QUELL’«ORDINATA SUCCESSIONE» Brizio scelse di riunire i materiali delle antiche collezioni universitarie – nella quasi totalità di provenienza extra-bolognese – in sale cronolog icamente r ispecchianti l’«ordinata successione» delle civiltà, per offrire ai visitatori una congrua introduzione alle parti relative alla storia cittadina dalla preistoria all’età romana. I materiali etruschi di provenienza collezionistica vennero dunque raccolti nella collezione etrusco-italica, in gran parte esposta nella sala VIII del museo, mentre le antichità etrusche provenienti da Bologna e dal suo territorio trovarono posto nel grande salone X, cuore del museo, enfatizzato dal particolare impegno decorativo con la realizzazione della galleria delle pitture etrusche.


La scelta sulle modalità di ordinamento dei reperti seguí orientamenti differenti nelle sezioni collezionistiche e in quelle della storia del territorio. Nel primo caso, la perdita delle associazioni e spesso anche dei dati di provenienza, obbligò Brizio a un ordinamento strettamente tipologico e cronologico, con l’obiettivo di armonizzare il piú possibile le antiche collezioni universitarie con la ricca donazione Palagi. Questo, se evitava duplicazioni poco comprensibili al pubblico, comportava in alcuni casi la mancata valorizzazione di dati rilevanti. Si pensi alle ceramiche attiche provenienti da contesti etruschi, esposte nella sala greca in serie con oggetti analoghi provenienti dalla Grecia, o alla ceramica etrusco-corinzia, anch’essa esposta in sala greca, probabilmente per poter essere confrontata con gli esemplari corinzi, ma forse anche per una sorta di «gravitazione» del tema della produzione ceramica in questa sala, se qui trovarono posto anche le produzioni anelleniche dell’Italia meridionale. Ugualmente accadeva per le oreficerie e le gemme, tutte raccolte in sala greca. Nelle sezioni dedicate alla storia di Bologna, invece, si scelsce di rispettare rigorosamente – ove possibile – i contesti di scavo e di esporne quanti piú possibile nelle grandi vetrine parietali.Allo stesso tempo, la scelta dei materiali piú eclatanti ed esplicativi, esposta nelle vetrine della spina centrale, offriva al vasto pubblico una chiave di lettura piú semplice e immediata. Fiasca in bronzo,

UNA LUNGA STORIA COLLEZIONISTICA Se molto si è detto sull’importanza delle testimonianze archeologiche frutto della grande stagione di scavi del secondo Ottocento e del primo Novecento, è forse opportuno soffermarsi anche su quella della parte collezionistica del patrimonio etrusco del museo, capace di evocare momenti fondamentali della storia della disciplina etruscologica. Come si è detto, la storia collezionistica dei musei bolognesi copre infatti un arco di tempo molto lungo e percorre diverse fasi culturali, diverse attitudini, diversi modi di guardare all’antico. Si va dalle collezioni tardo-cinquecentesche e seicentesche di Ulisse Aldrovandi e Ferdinado Cospi, di stampo piú prettamente scientifico, che uniscono artificialia e naturalia, ai «capitali studiosi» dell’Istituto delle Scienze voluto da Luigi Ferdinando

da Volterra, Tomba del Guerriero, località Poggio alle Croci. Ultimi decenni dell’VIII sec. a.C., Volterra, Museo Etrusco Guarnacci.

Marsili, dove, nel corso del Settecento, si cercò di dare spazi e strumenti adeguati alla scienza sperimentale e dove, per la prima volta, le antichità assunsero uno spazio autonomo e giunsero a essere oggetto di un insegnamento pubblico, fino alla collezione di un artista a cavallo fra neoclassicismo e romanticismo come Pelagio Palagi, che della passione per l’antico fece sempre anche motivo ispiratore della sua produzione artistica. È difficile definire se e quali oggetti etruschi potessero far parte della collezione del grande naturalista Ulisse Aldrovandi, mentre è certo l’interesse per le cose etrusche del marchese Ferdinando Cospi. Questi era, per motivi familiari, strettamente legato alla corte medicea, dove fu educato, in un momento in cui i granduchi cominciavano a usare la mitologia del passato etrusco in chiave politica. Nella sua collezione, gli oggetti etruschi riconosciuti come tali e, in particolare, alcune urnette chiusine e lo specchio noto come «patera a r c h e o 101


SPECIALE • ETRUSCHI A sinistra: tridente in bronzo, dalla tomba omonima di Vetulonia. Primo quarto del VII sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale, Polo Museale della Toscana.

cospiana» – considerato il pezzo centrale del Museo – sono frutto di scambi e doni fra notabili della cerchia medicea. Al mondo dell’erudizione settecentesca rimandano invece alcuni reperti legati all’Istituto delle Scienze. Fra gli oggetti archeologici donati da Marsili – che aveva soggiornato a lungo a Roma, frequentando l’ambiente degli eruditi – troviamo alcune terracotte votive ricollegate da Gilda Bartoloni e Piera Bocci Pacini agli scavi promossi dal cardinale Flavio Chigi a Veio nel 1669. La cosiddetta «gemma Maffei», scarabeo etrusco che raffigura l’ambasceria di Ulisse ad Achille, rinvenuto nei pressi del lago di Bolsena, giunse all’Istituto per legato testamentario dell’erudito di cui porta il nome: Scipione Maffei. La gemma rinvia anche a uno dei cenacoli piú importanti dell’«Etruscheria» settecentesca, poiché era passata per le mani di Marcello Venuti, fra i fondatori dell’Accademia Etrusca di Cortona.

I PRIMI GRANDI SCAVI L’ultima tappa delle grandi collezioni bolognesi, quella della raccolta dell’artista Pelagio Palagi, si colloca appieno nell’Ottocento e ci conduce a un collezionismo del tutto diverso da quello, sostanzialmente scientifico, delle prime raccolte bolognesi. Per quanto riguarda gli oggetti etruschi o provenienti da contesti etruschi – la collezione testimonia scavi effettuati nella prima metà dell’Ottocento nei grandi centri dell’Etruria meridionale (Vulci, Cerveteri, Tarquinia) e soprattutto a Chiusi e nel suo territorio, e anche del ruolo ricoperto in quelle vicende dall’Instituto di Corrispondenza Archeologica. Al visitatore di oggi, il Museo Archeologico di Bologna, che occupa ormai da solo l’antica sede del Museo Civico, offre ancora la possi102 a r c h e o

Urna cineraria in alabastro policromo con coppia banchettante, da Perugia, località Bottarone. Prima metà del IV sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale, Polo Museale della Toscana.


A destra: fibula a sanguisuga in oro, da Vetulonia, Circolo degli Acquastrini, tomba 2. 675 a.C., Firenze, Museo Archeologico Nazionale, Polo Museale della Toscana.

bilità di respirare l’aria del museo ottocentesco, per una scelta precisa di mantenere pressoché intatta la struttura museografica dell’epoca. Pur attuando una selezione dei materiali e, dove possibile, una riorganizzazione per temi capaci di trasmettere al visitatore un’informazione generale sulla civiltà, si è fondamentalmente rispettato l’ordinamento tipologico e cronologico originario. Un momento del percorso museale esplicitamente dedicato alla storia delle collezioni e del loro profondo legame con la storia della città potrà trovare spazio nel definitivo ripensamento dell’assetto del primo piano del museo. La parte piú rilevante e culturalmente centrale del progetto non potrà che essere proprio il ripensamento delle sale dedicate alle antichità etrusche di Bologna e del suo territorio, per il quale risulta chiara, da un lato, la necessità di preservare quanto resta dell’allestimento ottocentesco, dall’altro, quella di dare ragione – con l’indispensabile apporto della locale Soprintendenza – delle nuove testimonianze di scavo. Oltre agli aspetti piú squisitamente museologici e museografici, è bene anche solo menzionare quelli di valorizzazione, mediazione, ricerca che ruotano attorno alle collezioni etrusche come a tutto il patrimonio del museo, in stretta collaborazione da un lato con le altre istituzioni museali cittadine, dall’altro con gli enti di ricerca, prima fra tutti l’Università degli Studi di Bologna. Infine, il museo ospita e promuove mostre temporanee, quando possibile creando circuiti virtuosi con l’esposizione permanente. È il caso di questa mostra, che riporta a Bologna, dopo quasi vent’anni, un grande evento sugli Etruschi, occasione per rimettere al centro il «cuore etrusco» del museo e per avviare una progettualità forte sul rinnovamento del suo assetto espositivo. DOVE E QUANDO «Etruschi. Viaggio nelle terre dei Rasna» fino al 24 maggio 2020 (dal 7 dicembre) Bologna, Museo Civico Archeologico Orario lu-me-gio-ve, 9,00-18,00; sa-do, 10,00-20,00; chiuso i martedí non festivi Info tel. 051 2757211; www.museibologna.it Catalogo Electa a r c h e o 103


IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

SICHUAN: TERRA DEI PANDA E DEI MUSEI NELLA GRANDE PROVINCIA DELLA CINA CENTRO-OCCIDENTALE ESISTE UN MUSEO «VIVO», NEL SENSO PIÚ LETTERALE DEL TERMINE. NEI SUOI SPAZI, INFATTI, LA PRODUZIONE DELLA GRAPPA SECONDO METODI TRADIZIONALI NON È SOLTANTO RACCONTATA, MA REPLICATA OGNI GIORNO DA OPERAI IN CARNE E OSSA, SOTTO GLI OCCHI DEI VISITATORI

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a detto il sociologo statunitense Richard Sennett: «Il tempo comincia a dare una determinata personalità ai luoghi quando questi non sono usati nel modo per cui erano stati concepiti». E infatti, uno dei motivi del fascino dei luoghi della storia, ben conservati o ridotti in rovine archeologiche, sta proprio nella

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loro capacità di disporre una serie di veli, quasi di sipari direi, che, rimossi a uno a uno, ci suggeriscono le tante vicende che si sono susseguite sul palcoscenico della storia. Sono questa profondità del tempo e questa sovrapposizione di funzioni che danno ai luoghi del patrimonio quel qualcosa in piú che ce li fa scoprire,

amare, preservare. Ma è sempre cosí? La perdita dell’uso originario e la comparsa di altri usi sono una condizione necessaria per dare ai luoghi il fascino di una loro «personalità»? Qualche novità interessante giunge dalla Cina, che, dopo una fase in cui prevaleva la logica della rapida modernizzazione, sta vivendo una


Chengdu (Sichuan, Cina). Uno scorcio della distilleria di epoca Ming (1368-1644) musealizzata all’interno dello Shuijingfang Museum. che si esprimono nei numerosi musei realizzati nell’ultimo ventennio, dotati di servizi efficienti e caratterizzati da una grande cura degli allestimenti e del contesto paesaggistico nei quali sono collocati.

FRA DUE FIUMI

stagione caratterizzata dal crescente interesse per il patrimonio culturale, per i musei, i parchi, i luoghi della cultura: non solo per fini turistici, ma anche per la maggiore consapevolezza del valore della memoria storica, e di quel patrimonio culturale, che ne rappresenta l’eredità. Un entusiasmo e una voglia di fare

Nella grande provincia del Sichuan, nota in tutto il mondo come la patria dei panda, la rete dei musei archeologici è particolarmente estesa e accoglie reperti straordinari, che il pubblico italiano ha potuto in parte ammirare grazie a una recente mostra, tenutasi a Napoli e a Roma (vedi «Archeo» n. 414, agosto 2019; anche on line su issuu.com). Ma il museo che piú fa pensare è una raccolta privata, lo Shuijingfang Museum, proprietà di una azienda produttrice di una famosa grappa, che si lavorava a Chengdu in un quartiere detto, sin dall’antichità, il «luogo del pozzo dell’acqua». Compreso fra due fiumi, il sito è stato identificato nel 1998 in occasione dei lavori di ristrutturazione della distilleria Quanxing, e indagato l’anno successivo con scavi archeologici, che vi riconobbero la presenza di due antiche distillerie dell’epoca Ming (1368-1644). La visita di questa antica e nuova fabbrica di distillato di riso permette di scoprire una originalissima realtà museale. Dopo gi scavi, la vecchia fabbrica è stata infatti oggetto di un restauro di grande qualità e sobrietà, curato dall’architetto Liu Jiakun, che ha intelligentemente reimpiegato nei muri dell’edificio i mattoni recuperati dalle macerie di un terremoto distruttivo che ha colpito la regione nel 2008. Un dettaglio solo apparentemente tecnico, ma carico di valori simbolici, che ci fa riflettere sulla continuità delle cose

nel tempo e sul carico di memoria di cui sono portatrici. Il Museo ha un impianto didattico, senza sbavature didascaliche. Strumenti, oggetti, pratiche di lavorazione sono esposti e raccontati, anche con bei sussidi digitali, con semplicità e profondità al tempo stesso, traendo vantaggio dalla loro stessa localizzazione spaziale. All’ingresso si è meravigliosamente colpiti da un grande plastico animato, che trae ispirazione da una splendida veduta dell’epoca Qing (l’ultima dinastia imperiale cinese). Ma la cosa piú spettacolare è l’officina stessa restaurata e rimessa in funzione dopo la campagna di scavi archeologici (ancora parzialmente esposti). Chiunque di noi sa perfettamente che «il modo migliore per conservare i luoghi è usarli». In questo caso è mantenuto l’uso tradizionale e originario: non siamo di fronte a un riuso, quindi, anche se il percorso museale, che convive con la fabbrica, rappresenta in questo caso un valore aggiunto.

TUNICHE SENZA TEMPO Tutto il ciclo produttivo del distillato viene infatti svolto in situ sotto gli occhi dei visitatori, con tecniche e strumenti tradizionali, da operai vestiti di semplici tuniche senza tempo. Usando le carriole e le pale di una volta, lavorano come in fabbrica tra caldaie e alambicchi e producono la loro ottima grappa immersi in un’aria intrisa degli odori della fermentazione (sono maestranze distaccate nella fabbrica-museo, mentre il ciclo di produzione industriale avviene nella nuova sede fuori città). La scelta preferita per conservare questo straordinario documento di archeologia industriale è stata dunque la piú intelligente: far

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continuare a vivere la produzione con operai che lavorano seguendo le procedure tradizionali, usando in modo antico gli stessi spazi, sí che il visitatore possa seguire tutte le fasi lavorative nel tempo presente, ma vivendo emozionalmente il tempo passato, non per fantasticherie, ma perché quel passato in quegli spazi è vivo, continua a vivere. Si tratta, dunque, di quello che possiamo chiamare un museo d’impresa di indubbio interesse culturale, gestito dalla società produttrice del distillato e caratterizzato da soluzioni museografiche capaci di far comprendere non solo la storia della bevanda e del suo intero processo produttivo, ma anche il tipo concreto di attività svolte, le condizioni di lavoro, il contesto urbanistico e sociale. La visita a un museo cosí bello nella architettura che lo ospita, bello negli oggetti che espone, bello

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Ogni contesto pretende la sua propria soluzione di esposizione che lo mantenga in vita, proponendo i motivi della sua persistenza in vita. Ma la lezione è grande, nella sua massima semplicità, nell’assenza di superfetazioni intellettualistiche, nella sua materiale intimità con il passato che si fa presente. La distanza fra queste due dimensioni non si presenta come una ricerca impossibile di un’armonia perduta, né come un cortocircuito, che richiami in vita con stupore un passato defunto. La storia continua imperterrita, e i luoghi accolgono, antichi e nuovi a un tempo, la sua continuità, che è fatta di persistenze e trasformazioni profonde.

Anche nella modestia non ostentata del piccolo ufficio della distilleria di età comunista, con la sua luce fioca di certe fotografie del tempo della Lunga marcia, e il suo piccolo laboratorio annesso, gli spazi muti, musealizzati, esposti a pochi passi dalla fabbrica attiva, danno il segno della continuità di una vicenda (quelle porte potrebbero riaprirsi in qualunque momento, in quelle seggiole qualcuno si potrà sedere in qualunque momento) che non ha timore a esporsi ormai storicizzata eppure ancora necessaria. Né c’è alcuna contraddizione quando la visita termina nella stanza della degustazione del brand di prima qualità, quello dei

A sinistra: nello Shuijingfang Museum, il ciclo produttivo del distillato viene replicato secondo i metodi tradizionali, da operai che si servono di utensili e macchinari d’epoca. Nella pagina accanto, in basso:

plastico ricostruttivo del quartiere di Chengdu in cui sorse la distilleria, detto, sin dall’antichità, «il luogo del pozzo dell’acqua». In basso: ricostruzione di uno degli uffici della direzione della distilleria.

negli allestimenti che spiegano e allargano il senso di ciò che gli occhi vedono, diventa pura emozione nel momento in cui gli spazi si animano di gente in carne e ossa che agisce, fa, produce.

VITA IN AZIONE Quegli operai si muovono in ambienti austeri e modesti, maneggiando secchi e badili attorno ad alambicchi fumanti, in un ordine e una pulizia quasi irreali eppure credibili e funzionali. Ma non si tratta di una recita, né di una rievocazione storica di buon gusto. È vita in azione, è verità, non è spettacolo di finzione scenica, è vita che si fa spettacolo, contesto che vive, relazioni tra uomini e cose, che ritrovano ciascuno il proprio posto, restituendo senso alla loro natura. La visita produce un’emozione forte, che suscita un fastello di pensieri. È un modello da riprodurre? Non necessariamente.

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In alto: un particolare dell’allestimento dello Shuijingfang Museum, in cui l’esposizione delle attrezzature della distilleria è integrata da supporti audiovisivi.

A sinistra: uno scorcio dell’edificio che ospita il museo, nella cui costruzione sono stati reimpiegati mattoni recuperati dalle macerie di un sisma che colpí la regione nel 2008.

duty free e della pubblicità patinata. Non c’è pudore del presente, perché non c’è ipocrita o stralunata nostalgia del passato.

Soluzioni museali di questa natura potrebbero essere adottate, con gli opportuni adattamenti alle specifiche situazioni, anche nell’allestimento dei nostri musei archeologici? Il passo da fare, in alcuni casi, sarebbe quello che porta da alcune felici forme di rievocazione storica dei gesti del passato alla loro riproduzione reale, vera, attuale. È una bella sfida, che la cultura italiana è in grado di raccogliere, se riesce a liberarsi definitivamente dei lacci imposti da una visione sacrale del passato ancora diffusa, che è la palla al piede che portiamo faticosamente con noi, ma della quale possiamo liberarci.

UNA SFIDA DA VINCERE C’è compresenza di passato e presente, come in ciascuno di noi che questo siamo e non altro, anche se la concentrazione sul presente ci impedisce spesso di pensare il futuro e ci spinge involontariamente a trasferire il passato non tanto nel mito, che sarebbe una forma di memoria e di conoscenza, ma piuttosto nel rito, che presuppone il sacro, che la conoscenza cristallizza e svuota nell’attenzione alle forme a scapito dei contenuti.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

QUEL NOME SEGRETO... L’ESORTAZIONE AL SILENZIO RICORREVA SPESSO NELL’ANTICA ROMA, SOPRATTUTTO IN AMBITO RELIGIOSO. MA UNA RAPPRESENTAZIONE DI QUESTO INVITO POTREBBE INVECE RIFERIRSI ALLA DEA INCARICATA DI PROTEGGERE LA DENOMINAZIONE ALTERNATIVA, E NASCOSTA, DELLA CITTÀ

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es magna est tacere («Gran cosa è il tacere»: Marziale, Epigrammi, Libro IV, 80, 6), Favete linguis («Non si parli»: Ovidio, Amores, III, 2; Orazio; Odi, III, 1-2; Cicerone, De divinatione, II, 40), sono due delle frasi tipiche che ricorrono nella letteratura e nella vita romana, dove il silenzio assurge a protagonista, in special modo nel campo del sacro ma anche nella ufficialità politicoreligiosa del mondo antico. Non per nulla, nella filosofia gnostica di impronta cristiana, esemplificata dal teologo Valentino (predicatore egiziano della seconda metà del II secolo d.C.) il «Silenzio», denominato Sigè (dal greco), è considerato il primo compagno del nome divino. E in tutte le religioni iniziatiche e misteriche l’obbligo di tacere su quanto solo chi è iniziato può vedere e conoscere è essenziale e imprescindibile, e violare tale norma è nefasto e degno di grave punizione. Ancora oggi, per indicare la necessità di far silenzio, non solo in campo religioso ma anche e soprattutto nella vita quotidiana, si usa il portare l’indice davanti alle labbra; originariamente il gesto contraddistingue in particolare il dio bambino egiziano Horo-Arpocrate, paffuto figlioletto di Iside e

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Osiride, con pettinatura a ciuffo, simbolo per eccellenza del silenzio iniziatico e della prudenza nel parlare di fatti religiosi (Plutarco, De Iside et Osiride, 21).

FORTUNA DI UN MODELLO E, a proposito di iconografie che trapassano i secoli, va ricordata l’immagine sacra di Horo allattato al seno dalla madre Iside, futuro modello per le Madonne allattanti il Bambino Gesú. O, ancora, per le Madonne bizantine o alla splendida Sant’Anna «che impone il silenzio», dipinta nella chiesa di Faras (Nubia) risalente intorno all’VIII secolo e oggi esposta al Museo Nazionale di Varsavia.

Il silenzio è una virtú necessaria anche per serbare la forza e la potenza intrinseca non solo degli uomini, ma anche delle città: ognuna di esse, infatti, ha un nome segreto, che deve assolutamente restare tale, perché divulgarlo potrebbe causarne la distruzione o recare grande danno da parte di eventuali avversari attraverso il rito dell’evocatio, con la quale si invitava la divinità protettrice di un luogo ad abbandonarlo al suo destino causandone la rovina e passare, per cosí dire, al nemico. Rito che peraltro Roma utilizzò in varie occasioni per accattivarsi le divinità protettrici di luoghi che essa intendeva conquistare e distruggere, si pensi tra tutti alla Giunone «strappata» a Veio da Marco Furio Camillo con la promessa di un tempio degno della sua grandezza (Tito Livio, Ab Urbe condita, V, 21,2), o all’invocazione di Scipione Emiliano per condurre dalla parte di Roma gli dèi di Cartagine (Macrobio, Saturnalia, III, IX,6). Esiste infatti una lunga tradizione religiosa, ma anche scaramantica, riguardo il potere evocativo del nome, valido per le persone cosí come per le entità urbiche o per luoghi di particolare sacralità. Il nome altro, segreto, di Roma


A sinistra: Roma, Ara Pacis. Particolare del fregio meridionale, con, in evidenza, la figura velata che invita al silenzio. Il monumento fu inaugurato il 30 gennaio del 9 a.C. Nella pagina accanto: Sant’Anna, affresco dalla chiesa di Faras (Nubia, Egitto meridionale). Varsavia, Museo Nazionale. era quindi nascosto con grande cura e conosciuto solamente ai piú alti gradi del corpo sacerdotale, per preservarlo da infausti e incauti utilizzi. Il nome occulto dell’Urbe era posto sotto gli auspici di una divinità femminile, Angerona, raffigurata secondo le fonti con il dito davanti la bocca (Macrobio, Satire, III 9, 4 e I 10), e, a volte, con la parte bassa del volto fasciata; il suo simulacro era situato nel sacello di Volupia, ai piedi del Palatino, forse nei pressi di S. Giorgio al Velabro. Non si hanno testimonianze statuarie riconosciute della divinità nel mondo antico, mentre viene raffigurata in età moderna e contemporanea, come nelle opere a stampa cinquecentesche, quali quella di Vincenzo Cartari (Le immagini de gli dei antichi, Padova, 1608) o nella leggiadra statua settecentesca che decora il parco imperiale di Schönbrunn a Vienna. Ma si può forse avanzare qualche ipotesi sull’aspetto della dea o delle sue eventuali sacerdotesse, ispirate da confronti iconografici e che si presentano come mere suggestioni, benché ardite: si pensi nella fattispecie al grande fregio dell’Ara Pacis, dove compare al

gran completo, nel momento dell’apogeo, la famiglia di Augusto imperatore, con sacerdoti e magistrati in pompa magna.

IL MISTERO DI ANGERONA Nel lato meridionale dell’ara, tra i familiari del princeps, si trova la nipote Antonia Minore, che tiene per mano il piccolo Germanico ed è accompagnata dal marito Druso in paludamentum. Tra i due coniugi si vede una donna velata con banda che le ricade sulla fronte: ha la mano sinistra coperta da una stoffa leggera e porta l’indice sulle labbra in palese segno di silenzio. Questa figura – che nel corso degli studi non sempre è stata determinata nel suo sesso – viene variamente interpretata sia come un personaggio il cui ruolo sarebbe quello di imporre il silenzio nel sacro legata al momento della fondazione del monumento, sia come un accenno a parenti premorti connessi alla famiglia augustea. A chi scrive piace invece vedervi l’immagine di Angerona o di una sua sacerdotessa, che ricorda in un contesto eccezionale quale quello raffigurato sul monumento, quanto

sia importante per il futuro di Roma tacere riguardo il suo nome segreto. A questo proposito Plinio narra la triste vicenda del politico, erudito e letterato Quinto Valerio Sorano (II secolo a.C.), che, per avere rivelato il «vero» nome di Roma, pagò questo sacrilegio con la morte (Storia naturale, III, 65) nella sua forma piú ignominiosa: la crocifissione (Servio, Ad Georg., I, 498; Ad Aen., I, 277). E come si vedrà nel prossimo articolo, anche nella monetazione romana è forse possibile ravvisare l’affascinante e silente immagine di Angerona.

PER SAPERNE DI PIÚ Giorgio Ferri, Valerio Sorano e il nome segreto di Roma, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni, 73, 2007; pp. 271-303 Ciro Parodo, Angerona e il silenzio del confine. Tempi e spazi liminari di una dea romana muta, in Medea, 1,1, 2015, DOI: http://dx.doi. org/10.13125/medea-1825 Fabio Cavallero, Ara Pacis in Campo Martio constituta est. Una nuova ipotesi di lavoro per l’iconografia dell’altare augusteo, in Ostraka, 2019 (cs)

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Lorenzo Fabbri

MATER FLORUM Flora e il suo culto a Roma Leo S. Olschki Editore, Firenze, 278 pp., 11 figg. col. f.t. 30,00 euro ISBN 978-88-222-6619-4 www.olschki.it

Tra gli Indigitamenta, cioè negli elenchi fissati dai pontefici romani per stabilire quali numi occorreva invocare in determinate circostanze e quali riti relativi dovevano essere compiuti, figura anche una «Signora dei fiori». È Flora, «colei che fa fiorire gli alberi da frutto», e compare tra i nomi delle potenze preposte alle fasi del lavoro agricolo, insieme, per esempio, a Sterculinus, che rende efficace la concimazione, a Seia, che protegge il seme nella terra, a Proserpina, che veglia sulla germinazione del grano, a Patellana, che fa germogliare la spiga. Il culto di Flora – condiviso anche da Latini, Sabelli e Osci – aveva

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un suo apposito flamine ed era celebrato alla fine del mese di aprile, con la gioiosa e licenziosa festa dei Floralia. Ma non si tratta banalmente d’una dea naturistica, d’una madre dei fiori primaverili. Lorenzo Fabbri, giovane e valente studioso che ha già dato buona prova di sé con una precedente monografia sul papavero da oppio nella religione romana, c’introduce ai vari aspetti della morfologia di questa dea e nel mentre c’invita a riflettere sulla definizione e percezione che si aveva degli dèi nel mondo classico. Flora è una dea perfettamente romana, cui non si attribuisce neppure una genealogia ma che ha rapporti con altre potenze divine; presiede alla fioritura di tutte le piante, secondo i loro sviluppi stagionali, e ha un rapporto peculiare con le api per via del loro ruolo nella produzione del miele; non è tra le divinità maggiori di Roma, ma le sue feste non sono secondarie, con pratiche rituali e spettacoli teatrali finanche sensuali che risultano adatti al divertimento del popolo e rispondono alle aspettative della plebe. È, insomma, una divinità complessa, con un culto capace di adattarsi al cambiamento dei tempi e dei costumi, che si mantiene comunque, nella sua globalità, all’interno del piú ampio ciclo delle cerimonie

agrarie. Oltre all’analisi delle competenze e dei riti, una terza sezione del libro è dedicata all’esame dei reperti iconografici, dalle rare rappresentazioni monetali dell’antichità alle opere d’arte, anche d’epoca moderna, cui è stato assegnato il nome convenzionale di Flora: con chiarezza e originalità, Lorenzo Fabbri rende conto delle attribuzioni in questione e verifica la corrispondenza effettiva tra l’oggetto raffigurato e la sua tradizionale denominazione risalente a questa antica divinità italica. Sergio Ribichini Elena Bolognesi

TERRA SANTA IN TASCA Israele e Palestina Edizioni Terra Santa, Milano, 320 pp., ill. col. 18,00 euro ISBN 978-88-6240-637-6 www.edizioniterrasanta.it

Le oltre trecento pagine di questa agile guida «tascabile» della Terra Santa (ovvero la regione compresa tra l’odierno Israele e i territori dell’Autorità palestinese) si caratterizzano per la loro vivace articolazione e per una sorprendente completezza. Appare con evidenza che l’autrice è grande e appassionata conoscitrice del territorio, e alcune sue indicazioni contengono elementi di novità anche per il lettore (e visitatore) piú esperto. Il volumetto,

piccolo, ma denso, si offre come guida dei principali siti archeologici del Paese, con dichiarata – seppur non esclusiva – attenzione rivolta ai luoghi della memoria neotestamentaria. L’itinerario proposto parte – contrariamente a quanto le guide della Terra Santa sono solite fare – da sud a nord, dall’area desertica del Neghev verso le regioni del Mar Morto e della Valle del Giordano, per approdare poi nelle città di Gerusalemme e di Betlemme, e da lí prendere la via delle grandi città costiere (Tel Aviv e Haifa) e concludere il percorso in Galilea, con la visita a Nazaret e ai luoghi della predicazione di Gesú. A quest’ultimo aspetto è dedicato il capitolo finale, Meditazioni, nel quale l’autrice rivisita i luoghi della memoria cristiana, dal luogo di nascita di Gesú, la galilea Nazaret, a quello della sua morte e resurrezione, il Santo Sepolcro. La trattazione è preceduta


presenta

NOSTRADAMUS Un profeta senza tempo

Figura a dir poco enigmatica, Michel de Nostre-Dame – che scelse il nome di Nostradamus dopo la laurea in medicina conseguita all’Università di Montpellier – suscitò, già presso i suoi contemporanei, un’attrazione irresistibile. Fu per molti aspetti uno scienziato evoluto, un medico in grado di curare malattie all’epoca inguaribili, un ricercatore dedito allo studio profondo degli elementi naturali. Ma fu inesorabilmente attratto dalla vocazione divinatoria, indulgendo a predire il futuro mediante versi divenuti popolarissimi nonostante la loro indecifrabilità, considerata dai detrattori alla stregua di mera astrusità e dagli esegeti come una misura di prudenza, volta a velare verità spaventose. Fu dunque tra i protagonisti di quel Medioevo trasversale a ogni altra età della storia, che nessun evolversi della società e del costume potrà mai sopprimere, trattandosi di una componente naturale dell’animo umano. Venerato finché visse dalle personalità piú potenti di Francia, con in testa Caterina de’ Medici e gli ultimi sovrani della casa di Valois, Nostradamus venne gratificato nei secoli da una popolarità crescente, che non conosce flessioni. Una parabola straordinaria e avvincente, ora ripercorsa dal nuovo Dossier di «Medioevo».

ORA IN EDICOLA


da un sintetico quanto utilissimo quadro cronologico, che dal Neolitico guida il lettore fino a quella che l’autrice chiama «la nuova conformazione regionale», ovvero il contesto geopolitico emerso dalla spartizione delle terre del Levante tra le grandi potenze coloniali all’indomani del primo conflitto mondiale. Andreas M. Steiner Cairoli Fulvio Giuliani

LEZIONI SULL’ARCHITETTURA ANTICA Edizioni Quasar, Roma, 120 pp., ill. b/n 18,00 euro ISBN 978-88-7140-920-7 www.edizioniquasar.it/

Il volume raccoglie cinque «conversazioni» sull’architettura antica che, in anni recenti, Cairoli Fulvio Giuliani, professore emerito di rilievo e analisi tecnica dei monumenti antichi alla Sapienza Università di Roma, ha tenuto presso l’Archivio Storico di Palazzo Altemps, una delle sedi del Museo Nazionale Romano. 114 a r c h e o

Il polo museale ospita al secondo piano, nell’antica Biblioteca seicentesca, il patrimonio archivistico della ex Soprintendenza Archeologica di Roma raccolto a partire dal 1870 e una Sala di studio che è diventata nel tempo, grazie a seminari e tirocini, un luogo d’incontro per gli studiosi. Tre anni fa, per iniziativa degli archeologi Luigia Attilia, Daniele Fortuna, Miriam Taviani e della direttrice del Museo, Alessandra Capodiferro, si svolsero a Palazzo Altemps le giornate delle «Conversazioni in Archivio», con l’intento di promuovere la conoscenza del prestigioso Archivio, scegliendo una selezione di documenti per ogni argomento trattato. Invitato a «conversare» sull’architettura romana, Giuliani tenne una serie di lezioni (o conversazioni) sui problemi strutturali di Villa Adriana, su una fase teodoriciana della domus Flavia, spaziando fino al castello di Eurialo e, infine, ai cantieri per la realizzazione dell’Emissario del Fucino. Ogni incontro fu preceduto, dunque, dalla ricerca di disegni, carteggi, fotografie d’epoca mirata all’approfondimento dei temi trattati dall’archeologo che ora possiamo vedere pubblicati nel volume. Giuliani ha voluto

aggiungere, nella trasposizione scritta dei suoi interventi, un’introduzione, per ribadire come sia ancora sottovalutato dagli archeologi lo studio dell’architettura antica, e come sia ancora diffuso trattare un edificio del passato con «i metodi propri di un normale reperto, senza avvertire pienamente le esigenze del costruito», relegando alla «periferia degli studi l’architettura piú antica». Lorella Cecilia

DALL’ESTERO Kenneth Lapatin (a cura di)

BURIED BY VESUVIUS The Villa dei Papiri at Herculaneum Getty Publications, Los Angeles, 266 pp., ill. col. 65,00 USD ISBN 978-1-60606-592-1 http://getty.edu/ publications

Pubblicato in occasione della mostra che la sede di Malibu del Getty Museum ha dedicato alla Villa dei Papiri, il volume ripercorre la storia, antica e moderna, del celebre complesso residenziale ercolanese. Si comincia dunque con l’inquadramento del sito per poi passare alle prime esplorazioni di cui fu oggetto, patrocinate da Carlo III di Borbone, e che, di fatto, furono una sorta di caccia al tesoro: intercettate casualmente durante la realizzazione di un pozzo, le strutture

della villa furono infatti raggiunte scavando ulteriori pozzi e cunicoli, per i quali si cominciò a riportare in superficie una quantità impressionante di materiali. E, fra questi, i quasi duemila papiri che hanno dato nome alla lussuosa dimora, tradizionalmente assegnata alla famiglia dei Pisoni. Avvalendosi anche di utili ricostruzioni virtuali, la sezione successiva definisce le caratteristiche del sito, la cui magnificenza era stata intuita già dai primi scavatori, ma ha trovato conferme eloquenti grazie alle nuove indagini, avviate negli ultimi decenni. Queste ultime vengono ulteriormente dettagliate nel capitolo che precede il catalogo delle opere d’arte e d’alto artigianato selezionate per l’esposizione. Un corpus di affreschi, statue ed elementi d’ornamento attraverso il quale è fin troppo evidente quanto la Villa dei Papiri fosse molto piú di una casa di villeggiatura. Stefano Mammini



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