Archeo n. 419, Gennaio 2020

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2020 CIPRO SANTA SEVERA

VOLTERRA

PRIMA DEGLI ETRUSCHI

VOLTERRA

CIPRO

SANTA SEVERA

MARHASHI SPECIALE BELZONI A PADOVA

Mens. Anno XXXV n. 419 gennaio 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

L’ARTE DELLE SITULE

SULLA COLLINA DEGLI ARTIGIANI IL CASTELLO SI RACCONTA IRAN

LOUIS GODART

SULLE ORIGINI DELLA DEMOCRAZIA

MERAVIGLIE DAL MONDO PERDUTO

BELZONI

IL GIGANTE DEL NILO RITORNA A PADOVA

www.archeo.it

IN EDICOLA L’ 8 GENNAIO 2020

eo .it

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ARCHEO 419 GENNAIO

€ 5,90



EDITORIALE

DEMOCRAZIA NEL CUORE Dalla (pre)etrusca Volterra agli scavi di una missione italiana nell’isola di Cipro; da una nostrana civiltà del Ferro per certi versi ancora misteriosa, alle ultime rivelazioni intorno al piú affascinante enigma dell’età del Bronzo centro-asiatica; senza dimenticare un castello affacciato sul mare che, oltre ad aver ospitato illustri personaggi provenienti dall’Estremo Oriente, può fregiarsi a buon diritto di un riconoscimento internazionale; infine, ma non meno importante, la vita e i miracoli (questa volta nel vero senso della parola) di un personaggio assolutamente fuori dal comune e a cui la sua città natale, Padova, dedica una mostra geniale e poliedrica come lo era egli stesso. Ecco, dunque, un breve sommario dei temi affrontati in questo primo numero del 2020. Al quale, però, si aggiunge una piccola ma preziosa novità: per tutto l’anno, la sezione degli articoli si aprirà – subito dopo il notiziario – con una serie di riflessioni che abbiamo affidato a un nostro «antico» collaboratore, un archeologo e studioso di – come si diceva una volta – «chiara fama»: mi riferisco a Louis Godart, già professore di Civiltà Egee all’Università Federico II di Napoli, per tredici anni Consigliere per il Patrimonio Artistico dei Presidenti della Repubblica, esperto dei problemi legati alla nascita della scrittura e alle origini dello Stato, autore di centinaia di articoli e monografie sulla storia della civiltà del Mediterraneo e dell’Europa. Insignito di riconoscimenti plurimi (è, tra l’altro, Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana e Chevalier de la Légion d’honneur) ha scavato nell’isola di Creta, nei siti di Malia, Canea, Monastiraki e Apodoulou. Di Louis Godart sta per essere pubblicato un volume di fondamentale importanza, intitolato Da Minosse a Omero. Ne parleremo ampiamente nel prossimo numero. La sua nuova rubrica, invece, ha un titolo al contempo antico e moderno (e anche, provocatoriamente, sentimentale!): l’abbiamo chiamata «La democrazia nel cuore». Ben consapevoli, naturalmente, che quell’antica invenzione non alberga nel cuore di tutti e che forse non lo farà mai. Del resto, però, quello di Godart non vuole essere un manifesto politico. Le sue sono riflessioni di uno storico. Riflessioni su un’avventura che, nei millenni, ha visto conquiste e fallimenti… Andreas M. Steiner Particolare di una stampa ottocentesca raffigurante Pericle.


SOMMARIO EDITORIALE

Democrazia nel cuore

SCAVI 3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

Sulla collina degli artigiani

28

di Luca Bombardieri

Valeria d’Aquino, Elena Sorge; testi di Giacomo Baldini, Fabrizio Burchianti, Valeria d’Aquino, Emanuele Mariotti, Lilia Silvi ed Elena Sorge

6

SCAVI Grazie alle attività di tutela, il patrimonio archeologico del Molise si arricchisce di nuove e importanti acquisizioni 6

28

ALL’OMBRA DEL VULCANO La pubblicazione di un inedito album fotografico svela immagini della città vesuviana di straordinaria suggestione 10

di Flavio Enei

PAROLA D’ARCHEOLOGO Appena nominato alla guida del Comando Tutela Patrimonio Culturale, il generale Roberto Riccardi illustra i suoi obiettivi 14

LA DEMOCRAZIA NEL CUORE

MUSEI

È arrivato l’ambasciatore! 40

50 ITALIA PREROMANA

Quelle storie scritte sul bronzo

66

di Luca Zaghetto

40 SCOPERTE

Atene: V secolo a.C... 26

La città di vento e di macigno

di Louis Godart

a cura di Giacomo Baldini,

50

66

In copertina particolare di un vaso cilindrico scolpito in cloritoscisto, con un serpente dalle fauci spalancate intarsiato di conchiglia e madreperla. 2500-2400 a.C. circa. Jiroft (Iran), Museo.

Presidente

Federico Curti Anno XXXVI, n. 419 - gennaio 2020 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Comitato Scientifico Internazionale

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Italiano

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Giacomo Baldini è co-curatore della mostra «I Signori dell’Ortino. Aristocrazie gentilizie all’alba della città di Velathri». Luca Bombardieri è professore associato di archeologia egea e cipriota all’Università degli Studi di Torino. Fabrizio Burchianti è direttore del Museo Etrusco «Mario Guarnacci» di Volterra. Irene Caldana è laureanda in archeologia all’Università degli Studi di Padova. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Luisa Dallai è archeologa e coordina il Laboratorio di Topografia dei Territori Minerari dell’Università degli Studi di Siena. Valeria d’Aquino è co-curatrice della mostra «I Signori dell’Ortino. Aristocrazie gentilizie all’alba della città di Velathri». Rita Deiana è professore associato di prospezioni geofisiche per l’archeologia all’Università degli Studi di Padova. Francois Desset è ricercatore associato presso CNRS, Laboratoire Archéorient, Lione, Francia. Flavio Enei è direttore del Polo Museale Civico del Castello di Santa Severa. Nasir Eskandari è professore di archeologia presso l’Università di Jiroft.


VICINO ORIENTE

Il mondo perduto di Marhashi

78

di Nasir Eskandari, Massimo Vidale, Francois Desset, Irene Caldana, Martina Patriarca, Rita Deiana e Cristiano Nicosia

90 SPECIALE

78 Rubriche QUANDO L’ANTICA ROMA...

...diventava un’unica, grande «isola pedonale» 106 di Romolo A. Staccioli

106

Giovanni Battista Belzoni

Il gigante del Nilo

90

testi di Francesca Veronese e Marco Zatterin

SCAVARE IL MEDIOEVO Meglio tardi che mai...

110

di Andrea Augenti

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Chi trova un amico trova un... parente

112

di Francesca Ceci

LIBRI

114

110

Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Giulia Giovanetti è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Louis Godart è stato professore di civiltà egee all’Università Federico II di Napoli. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Emanuele Mariotti è archeologo professionista. Cristiano Nicosia è professore associato di stratigrafia e processi formativi all’Università degli Studi di Padova. Martina Patriarca è restauratrice. Federica Rinaldi è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Mickey Scarcella è archeologo. Lilia Silvi è referente per «Spazio Volterra». Elena Sorge è co-curatrice della mostra «I Signori dell’Ortino. Aristocrazie gentilizie all’alba della città di Velathri». Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Francesca Veronese è direttrice scientifica della mostra «L’Egitto di Belzoni». Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Luca Zaghetto è archeologo. Marco Zatterin è membro del comitato scientifico della mostra «L’Egitto di Belzoni».

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534

Illustrazioni e immagini: Cortesia degli autori: copertina (e p. 78) e pp. 66-70, 71 (alto), 72-77, 78-79, 80 (basso), 81-87, 112-113 – Doc. red.: pp. 3, 41, 97, 106-109, 111 – Cortesia SABAP Molise: pp. 6-7 – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: pp. 8-9 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 10-11 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 12-13 – Archivio UniSiena: pp. 14-15 – Cortesia Comando Carabinieri TPC: pp. 16-19 – Cortesia Erimi Archaeological Project, Università di Torino: pp. 28/29, 30-39 – NASA GSFC Landsat/LDCM EPO Team: p. 29 (basso) – Shutterstock: pp. 40/41, 43 (alto), 50/51 – Archivio GATC: pp. 42 (alto) – Cortesia Flavio Enei: pp. 42 (basso) – Archivio Museo Civico di Santa Marinella: pp. 43 (basso), 44-45 – Cooperativa Archeologia, Firenze: pp. 51, 60 (alto), 61 (alto), 62/63, 64/65 – Giacomo Baldini, San Gimignano: p. 52 (basso) – Massimo Pianigiani, Cooperativa Archeologica A.R.A: p. 53 – Emanuele Mariotti, Siena: p. 54 – Valeria d’Aquino, Firenze: pp. 54/55, 56, 57 (alto), 59 (alto), 64 – Elisa Caselli, Firenze: pp. 57 (basso), 58 (sinistra), 59 (basso) – Sabino Cozza: p. 58 (destra) – Damiano Dainelli, Volterra: pp. 60 (basso), 61 (basso), 63 – Mimmo Frassineti: p. 65 – Mondadori Portfolio: Erich Lessing/Album: p. 71 (basso); Electa/ Remo Baldazzi: p. 110 – Cortesia Ufficio stampa mostra «L’Egitto di Belzoni»: pp. 90-96, 98-105 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 52, 80.

Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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n otiz iari o SCAVI Molise

UN NUOVO TEMPIO PER SAEPINUM

I

mportanti scoperte archeologiche si sono succedute in territorio molisano grazie all’attività della locale Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio: controlli e indagini preliminari in attuazione delle norme sull’archeologia preventiva hanno permesso di raggiungere risultati entusiasmanti per la conoscenza del territorio e una maggiore fruizione dei siti e delle aree archeologiche. Nell’ambito della tutela del territorio, i lavori del Metanodotto S.G.I. Larino-Chieti – il cui tracciato interessa sette comuni molisani

immediatamente prospicienti la costa – hanno finora permesso di riportare alla luce siti che consentiranno di riscrivere la storia del popolamento di quest’area dalla preistoria al Medioevo. La scoperta di ricche tombe principesche, insediamenti produttivi e abitativi, sistemazioni in antico del paesaggio agrario e ambientale hanno delineato un inedito quadro composito fatto di contatti e scambi culturali, anche a lungo raggio. I ritrovamenti piú interessanti sono stati quelli delle due necropoli di Montenero di Bisaccia (VIII-V secolo a.C.) e

Montecilfone (fine del VI-metà del IV secolo a.C.), che hanno restituito numerose sepolture monumentali a tumulo o delimitate da recinti, con eccezionali corredi funerari composti da una grande quantità di ceramiche (bucchero, ceramica dauna e di produzione locale) e numerosi oggetti di ornamento personale (ambra, pasta vitrea, monili in bronzo), chiari segni di uno status sociale privilegiato. Nuove scoperte si sono registrate anche a Saepinum (Campobasso), nell’ambito dei lavori condotti dalla Soprintendenza per il recupero e la valorizzazione del noto sito A sinistra: i resti del tempio riportato alla luce nell’area archeologica di Saepinum (Campobasso). Nella pagina accanto, in alto: modello 3D fotogrammetrico del tempio. Nella pagina accanto, in basso: i materiali di una delle tombe scoperte a Montenero di Bisaccia (Campobasso), dove sono state individuate due necropoli, in uso fra l’VIII e il V sec. a.C.

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massiccio saccheggio. Tra il XVI e il XVIII secolo, i materiali di spoglio furono riutilizzati per la costruzione delle vicine case rurali». Gli scavi delle emergenze sono stati eseguiti da Cooperativa Archeologia di Firenze con la supervisione dei funzionari della SABAP del Molise Flavia Micucci e Mariachiara Santone. Gli scavi del tempio sono stati seguiti da Maria Maddalena Sica per la SABAP del Molise, con la direzione scientifica di Teresa E. Cinquantaquattro, Maria Diletta Colombo, Gabriella Carpentiero. Giampiero Galasso archeologico, dove è stata portata alla luce un’area sacra che aggiunge nuovi dettagli sulla storia urbanistica, architettonica e sacrale del municipium. «Nel settore dell’area tra il Foro e le mura meridionali – spiega Dora Catalano, Soprintendente SABAP del Molise – è stato portato in luce un tempio della prima metà del I secolo d.C., realizzato su un podio e racchiuso all’interno di un temenos a cui si accedeva direttamente dal Foro. Il tempio, di 7,70 x 17,40 m, è orientato in direzione nord-est/sud-ovest e si inserisce perfettamente nel piano urbanistico di età augustea. Della struttura si conservano parte di una gradinata di accesso rivolta verso il Foro e il podio rivestito da lastre di calcare sovrapposte alla cornice di base sagomata, con all’interno gli ambienti seminterrati voltati e illuminati da bocche di lupo strombate. Nell’ambiente

posto al di sotto del pronao è stato rinvenuto un deposito votivo caratterizzato dalla frantumazione rituale del materiale e poi sigillato attraverso la deposizione di quattro antefisse a testa di Medusa e di un balsamario che permettono quindi di identificare il luogo come lo spazio della ritualità rinnovatrice e fondativa. Nell’area esterna, probabilmente delimitata da portici, in asse con l’edificio, era posto l’altare, di cui si conservano in situ alcuni blocchi della base. Il complesso fu sottoposto a piú riprese e in un lungo lasso di tempo a pesanti interventi di distruzione, testimoniati da estesi scarichi di materiale edilizio. Dopo un primo intervento di spoliazione risalente alla prima metà del V secolo, l’area tra il tempio e il Foro fu occupata da sepolture, che tra il XVI e gli inizi del XVIII secolo, furono a loro volta sottoposte a un piú esteso e

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PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Alessandro D’Alessio

ARCHEOLOGIA PER TUTTI TRAMANDARE LE RADICI DELLA NOSTRA STORIA ALLE NUOVE GENERAZIONI È L’OBIETTIVO PRINCIPE DEL PARCO ARCHEOLOGICO DEL COLOSSEO. CHE SULL’ARGOMENTO SI È CONFRONTATO CON UN’INIZIATIVA SU SCALA EUROPEA

I

l Parco archeologico del Colosseo ha come obiettivo prioritario la costante educazione alla memoria e al patrimonio culturale, attraverso la relazione con un pubblico variegato e l’impegno a instaurare un rapporto continuo con le nuove generazioni, tramandando le radici della nostra storia. All’interno di questa missione, l’obiettivo del coinvolgimento del pubblico dei residenti ha portato, nel 2018, al progetto «Il Parco fuori dal Parco» – che ha ricevuto il marchio dell’Anno Europeo del Patrimonio Culturale – per restituire ai cittadini di Roma il ruolo identitario che l’area archeologica centrale riveste. Il progetto ha guidato una serie di attività promosse dall’Ufficio Comunicazione, come le connessioni con le scuole delle periferie in occasione delle #InvasioniDigitali 2018, il ciclo di conferenze Oltre il centro. Il Parco archeologico del Colosseo incontra i musei della città nel 2019, una serie di aperture straordinarie in occasione delle GEP (Giornate Europee del Patrimonio), e dalla Didattica, con i progetti di Alternanza Scuola Lavoro e i laboratori «Crea la tua

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didascalia» al Museo Palatino nella edizione 2019 della F@MU (giornata Nazionale delle Famiglie al Museo), tutte attività che hanno raggiunto l’obiettivo di portare nel Parco nuovo pubblico locale. Nel 2019, l’apertura all’Europa delle Giornate Nazionali dell’Archeologia in Francia coordinate dall’Institut national de recherches archéologiques préventives (INRAP), in occasione della decima edizione, ha rappresentato per il Parco una grande opportunità per avvicinare ancor di piú l’archeologia al pubblico, con un bilancio piú che positivo. L’iniziativa ha coinvolto 18 Paesi, 1160 siti, tra cui 14 iscritti nella Lista dei Patrimoni dell’Umanità UNESCO. Per il Parco il confronto con l’esperienza delle precedenti edizioni in Francia e il materiale predisposto dall’INRAP hanno offerto numerosi stimoli innovativi.

NUOVI PUBBLICI La partecipazione a un evento su scala europea della durata di tre giorni ha permesso infatti l’apertura del Parco a nuovi pubblici, la programmazione di attività didattiche specifiche e l’avvio di collaborazioni con le realtà attive

nel mondo dell’archeologia: dalle associazioni, ai musei delle periferie, ai professionisti della ricerca e dell’archeologia sperimentale, valorizzando il tema dell’accessibilità. Le attività, anche in lingua inglese, sono state pensate per tutti: cittadini e turisti, adulti e bambini, con possibilità di visite tattili e segnatura in LIS, per promuovere la conoscenza del patrimonio attraverso l’archeologia, come veicolo di educazione e di condivisione per la comunità. Nella pianificazione delle Giornate dell’Archeologia, obiettivo prioritario è stato quello di rappresentare e comunicare la ricchezza, la diversità e le specificità del patrimonio archeologico del Parco, coinvolgendo l’ampio ventaglio di professionalità e di istituzioni operanti nel settore. Si è scelto di realizzare un «villaggio archeologico» nel Parco,


trasformando in un percorso a tappe nel tempo e nello spazio la storia millenaria del luogo: postazioni di archeologia sperimentale, esposizioni e ricostruzioni storiche hanno permesso di valorizzare la diacronicità del patrimonio del Parco, caratterizzato da una stratificazione che va dalla preistoria all’età moderna. Una postazione di industria litica del Paleolitico è stata posizionata sul Palatino, presso il tempio della Vittoria, nell’area che ha restituito reperti in selce d’età preistorica; una seconda postazione di archeologia sperimentale sulla tessitura protostorica è stata collocata sulle pendici SW del colle, nei pressi delle Scalae Caci e del villaggio dell’età del Ferro; nei pressi della Regia nel Foro Romano ha trovato spazio un’esposizione di ceramica protostorica, orientalizzante e arcaica, realizzata anche ad hoc per l’evento come riproduzione dei reperti qui rinvenuti nelle indagini. Al villaggio sono state affiancate

Materiali realizzati nel laboratorio didattico «Costruiamo una lucerna romana», sulla Vigna Barberini.

ulteriori attività, rivolte a pubblici diversi: laboratori e cacce al tesoro per bambini, ricostruzioni storiche e visite guidate, con aperture straordinarie di siti, tra cui la cosiddetta Domus di Marcus Aemilius Scaurus, presso l’Arco di Tito, preziosa testimonianza dell’edilizia privata tardo-repubblicana.

DA ROMA ALL’EUROPA I laboratori didattici – «Costruiamo una lucerna romana» e «L’affresco romano» – e le cacce al tesoro – con un percorso di scoperta delle pendici meridionali del Palatino – eventi gratuiti dedicati ai bambini, Nella pagina accanto: un telaio dell’età del Ferro nella postazione protostorica di archeologia sperimentale, con dimostrazione di tessitura (foto qui accanto) presso le Scalae Caci e il villaggio dell’età del Ferro (Palatino).

hanno registrato in alcuni casi il tutto esaurito, raggiungendo l’obiettivo di avvicinare il pubblico locale e le famiglie. I risultati della prima edizione delle Giornate dell’Archeologia al Parco sono stati presentati presso l’UNESCO a Parigi il 3 dicembre scorso, nel workshop internazionale «Sharing archaeological heritage: the Archaeological Days across Europe» organizzato dall’INRAP, dove il Parco è stato invitato, insieme ad altre nove istituzioni, come rappresentante per la prima edizione europea. Nelle future edizioni, obiettivo del Parco è avvicinare ulteriormente l’archeologia al grande pubblico, coinvolgendo i professionisti. Si mira quindi a proseguire non solo nella direzione dell’archeologia pubblica, aprendo i cantieri di scavo da noi condotti o in concessione, ma anche rendendo fruibili quelli di restauro e permettendo di assistere e conoscere le attività di catalogazione e di studio dei reperti, avvicinando gli specialismi e la realtà dell’archeologia ai cittadini e al pubblico. Le Giornate sono state realizzate dal PArCo in collaborazione con Museo di Archeologia per Roma APR – dell’Università di Tor Vergata, l’Associazione di archeologia sperimentale Paleoes – ExTAD e Luca Bedini, Cerealia – La festa dei cereali e il gruppo di rievocazione storica «Legio II Parthica Severiana Albana». Giulia Giovanetti e Federica Rinaldi

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

POMPEI IN BIANCO E NERO LA RECENTE PUBBLICAZIONE DI UN INEDITO ALBUM DEL TEDESCO GIORGIO SOMMER OFFRE IMMAGINI DI STRAORDINARIA SUGGESTIONE DELLA CITTÀ VESUVIANA. E SOTTOLINEA L’ECCEZIONALE RUOLO DI NAPOLI, CHE FU A LUNGO UNA VERA E PROPRIA CAPITALE DELLA FOTOGRAFIA

F

in dai primi scavi intrapresi a Ercolano nel 1738 e a Pompei nel 1748, la scoperta delle città vesuviane, esercitò un’attrazione irresistibile su intere generazioni di artisti, che ritrassero nelle loro opere edifici, decorazioni e oggetti miracolosamente ritornati alla luce. Nella produzione fotografica si

afferma, dalla metà dell’Ottocento, il valore dell’immagine come documentazione diretta del passato per tramandarlo ai posteri. Lo sguardo del fotografo focalizza aspetti artistici, architettonici e paesaggistici fra loro ben calibrati, trasmettendo, alla colta e sensibile società dell’epoca la percezione

di un’Italia incantata, immersa in una classicità composta da rovine e muschi. Si comprende pertanto l’elevato interesse storico delle raccolte di fotografie che si formano nella seconda metà dell’Ottocento, in particolare negli atelier commerciali avviati nelle principali città italiane, fra cui spicca Napoli, dove, nel 1875, si contavano ben 56 studi fotografici.

UNA STAGIONE IRRIPETIBILE Il fotografo non poteva certo rimanere estraneo all’indagine archeologica di Pompei e al continuo fluire di notizie sensazionali, diventando, grazie al suo insito potere di fermare l’immagine, la principale fonte documentaria degli scavi, oltre a riprodurre le varie categorie di arredi, suppellettili e utensili allo scopo di facilitare la catalogazione e il relativo studio. Questa straordinaria stagione di riprese pompeiane è raccontata in un libro di Ernesto De Carolis, archeologo che per lungo tempo ha prestato servizio a Pompei, nel quale ci si sofferma sull’attività del tedesco Giorgio Sommer (1834-1914), considerato fra i protagonisti della storia della fotografia in Italia,

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Sulle due pagine: vedute di Pompei realizzate dal fotografo tedesco Giorgio Sommer: a sinistra, Porta Ercolano; nella pagina accanto, il Foro Triangolare; in basso, il Tempio della Fortuna Augusta. Le immagini, finora inedite, furono realizzate fra il 1860 e il 1867 e sono state pubblicate in un volume curato da Ernesto de Carolis.

ricoprendo un ruolo primario fra gli atelier napoletani. Sommer esegue numerosi scatti sia a fine documentario, su incarico dell’Amministrazione degli scavi, che commerciale, per avere un repertorio da mettere in vendita per le richieste del mercato turistico soprattutto tedesco, da sempre affascinato dalle antichità grecoromane. La collaborazione di Sommer con il direttore degli scavi Giuseppe Fiorelli fu stretta e proficua: il fotografo tedesco realizza immagini esclusive che confluirono in una serie di Cataloghi rimasta estremamente rara. La scelta delle immagini comprende edifici pubblici e privati, progressivamente integrate dai nuovi rinvenimenti per venire incontro alle richieste turistiche.

I CALCHI DELLE VITTIME Non potevano mancare le fotografie dei primi calchi delle vittime dell’eruzione ottenuti, secondo il metodo canonizzato dal Fiorelli, versando gesso liquido nelle cavità che si rinvenivano nello strato di cenere della seconda fase eruttiva. L’Album pubblicato da De Carolis si sofferma su 62 foto di Sommer – scattate fra il 1860 e il 1867 – che riprendono luoghi e

opere di un’ideale visita agli scavi pompeiani nella seconda metà dell’Ottocento. Mozzafiato sono per esempio le riprese dall’alto dei settori della città riportata alla luce, in cui le rovine si fondono armonicamente con il paesaggio circostante, dominato dalla mole del Vesuvio o dai Monti Lattari digradanti verso il mare. In altre immagini viene invece scelto un asse compositivo lungo diagonali, come accade per le riprese di via delle Tombe, di via dell’Abbondanza e del Foro Triangolare con persone riprese in diversi atteggiamenti, sempre a mezzo campo per indirizzare lo sguardo dell’osservatore verso l’orizzonte. Per i singoli edifici viene scelta una ripresa da terra frontale o laterale che conferisce vigore ai volumi architettonici ed esalta la profondità spaziale conseguendo risultati di alto valore compositivo. Nella ripresa dell’Anfiteatro risalta il vuoto centrale dell’arena, delimitata dalle gradinate con la parte superiore incorniciata dalla vegetazione e dal terreno circostante ancora da scavare. Le figure umane sono posizionate sedute, in piedi o dialoganti fra di loro nell’atteggiamento di

ammirare gli edifici e, in alcuni casi, sono riconoscibili anche i guardiani degli scavi con il loro caratteristico copricapo a bustina e la tenuta chiara; la presenza delle persone è sempre discreta, di preferenza inserita ai margini della foto, confondendosi quasi con gli elementi architettonici. Compaiono lo stesso Sommer e sua moglie Antonia, lui in abito scuro e tuba seduto sulla scalinata del Tempio di Apollo o in piedi nel Foro, lei avvolta invece in un mantello nel Tempio di Apollo e nella Casa di Sallustio.

PER SAPERNE DI PIÚ Ernesto De Carolis, Pompei nell’obiettivo di Giorgio Sommer. Un album fotografico inedito, Bibliopolis, Napoli, 172 pp., ill. b/n 40,00 euro ISBN 978-88-7088-664-1 www.bibliopolis.it

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ROMA

Cosí nacque l’Urbe

MOSTRE Svizzera

DIVINITÀ VENERATE E MUTEVOLI

C

ulla di tre religioni – buddismo, induismo e giainismo – tuttora praticate, l’India possiede un patrimonio culturale ricco e questa eredità racconta il rapporto dell’umanità con le forze che la sottendono e con l’universo in generale. Nel grande Paese asiatico si venerano numerose «divinità», che rappresentano altrettante forze spirituali e il loro travalicamento e che, pur conservando il proprio nome, vedono costantemente rielaborato e cambiato il loro significato. La mostra allestita nel Museo di Mendrisio (Canton Ticino, Svizzera) si concentra proprio su queste trasformazioni, dalle prime

«Alle origini di Roma. Miti, Popoli, Culture» è il tema del nuovo ciclo di conferenze, che, come ogni anno, si svolgono nella splendida sala settecentesca del Teatro Argentina, la domenica mattina alle 11,00. L’affascinante vicenda della nascita dell’Urbe e della progressiva conquista del Lazio – analizzando i miti di fondazione e i popoli con i quali Roma si è trovata a confronto – sarà esplorata da storici, filologi, archeologi, storici dell’arte, architetti, epigrafisti, scienziati, ai quali si unisce la preziosa partecipazione di musicisti e specialisti di strumenti musicali del mondo antico. Il primo appuntamento, domenica 12 gennaio, ha per tema «Le origini di Roma tra mito e storia», e vede gli interventi di Claudio Strinati, Andreas M. Steiner, Carmine Ampolo, Orietta Rossini e Anna Mura Sommella.

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In alto: testa in stucco del Buddha. Gandhara, Taxila (?), IV-V sec. d.C. A sinistra: gruppo in scisto verde raffigurante Shiva e Parvati abbracciati. Uttar Pradesh, Almora, IX sec. d.C. Nella pagina accanto: terracotta raffigurante Gajalaksmi. India settentrionale, V sec. d.C.


INCONTRI Siena

UNA RISPOSTA INCORAGGIANTE

S

rappresentazioni figurative delle divinità fino alle loro espressioni esoteriche (tantriche). I cambiamenti di significato possono essere descritti solo parzialmente dai testi, mentre le immagini parlano anche da sole oppure in relazione ad associazioni poetiche universali. Uno yaksi seducente e graziosamente modellato, spirito che sorge dalla terra, responsabile della fertilità e del benessere, può, per esempio, chiacchierare con un pappagallo per impedire che esso sveli quanto successo la notte precedente. Al contrario, l’immagine di un Buddha seduto e riccamente ingioiellato allude a un risveglio reinterpretato nella prospettiva del buddhismo esoterico. Gli oggetti esposti – oltre 70 sculture di piccole, medie e grandi dimensioni – non pretendono di essere rappresentativi dell’arte antica indiana nel suo insieme, ma rappresentano comunque una straordinaria introduzione a vasto raggio sull’arte antica di una delle nostre piú complesse e affascinanti

civiltà. La scelta del curatore, Christian Luczanits, ha rispecchiato l’interesse occidentale nell’antica arte indiana, con una predominanza di temi buddisti e pacifici. Il percorso espositivo si compone di nove capitoli: Metafore poetiche; Animali leggendari; Tradizioni a confronto; Storie narrate; Potere femminile; Elementi esoterici; Miracoli; Coppia divina; Divinità cosmica e comprende sculture provenienti da diverse regioni dell’India, Pakistan e Afghanistan, coprendo un arco temporale che va dal II secolo a. C. al XII secolo d.C. (red.)

DOVE E QUANDO «India antica. Capolavori dal collezionismo svizzero» Mendrisio (Svizzera) Museo d’arte Mendrisio fino al 26 gennaio Orario ma-ve, 10,00-12,00 e 14,00-17,00; sa-do e festivi, 10,00-18,00; lunedí chiuso, tranne festivi Info www.mendrisio.ch/museo

pring Archaeology è un’occasione di incontro tra i giovani archeologi italiani, nata da un gruppo di studenti e laureati in Archeologia all’Università di Siena, per stimolare la discussione e la comunicazione tra studenti, ricercatori e giovani professionisti che operano nel settore dei beni culturali. Alla call for papers and posters hanno risposto 123 candidati con 96 contributi, la cui valutazione è stata affidata a un Comitato Scientifico formato da giovani ricercatori insieme ai docenti dell’Università degli Studi di Siena, che patrocina l’iniziativa insieme con i Dipartimenti di Scienze Storiche e dei Beni Culturali, di Filologia e Critica delle Letterature Antiche e Moderne e di Scienze Fisiche, della Terra e dell’Ambiente. Durante i tre giorni dell’evento, previsto per il 20, 21 e 22 marzo 2020 al Santa Chiara Lab di Siena, i progetti selezionati saranno al centro della scena, con ampi spazi dedicati alla discussione e al confronto. Obiettivo dell’iniziativa è quello di lasciare ai partecipanti piena libertà di espressione, attraverso la suddivisione dei contributi in cinque macro-tematiche: archeologia e nuove tecnologie; comunicazione e valorizzazione; cultura materiale; scavo e ricerca; teoria e metodo. Vi aspettiamo quindi a Siena per conoscere e discutere, insieme a noi, il futuro dell’archeologia italiana. Info: springarchaeology@gmail.com

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A TUTTO CAMPO Luisa Dallai

UN MINERALE MOLTO RICERCATO A MONTEROTONDO MARITTIMO, NEL GROSSETANO, LO SCAVO DEI RESTI DI UNA ALLUMIERA TARDO-MEDIEVALE DOCUMENTA IL CICLO PRODUTTIVO DI UNA MATERIA PREZIOSA E ANCORA POCO CONOSCIUTA

C

on il termine allume le fonti antiche indicano un gruppo di sostanze eterogenee, sia minerali che vegetali, accomunate da proprietà mordenzanti (che agiscono cioè come mordente, n.d.r.). Gli allumi sono noti per l’impiego in farmacia e alchimia, ma l’utilizzo piú conosciuto era legato alla tintura dei tessuti; in particolare, l’allume di potassio rappresentava un mordente pregiatissimo e costoso, usato per fissare il colore sulle fibre. L’allume era inoltre impiegato nella concia del pellame e, sin dall’antichità, se ne conosce l’uso in vari campi della metallurgia.

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Oltre alle sostanze mordenzanti già disponibili in natura, i cosiddetti «allumi naturali», un prodotto particolarmente pregiato si ottiene dal trattamento termico dell’alunite, solfato idrato di potassio e alluminio (Kal3(SO4)2(OH)6).

NUOVI GIACIMENTI Ricchissimi giacimenti di alunite erano dislocati in varie regioni dell’Asia Minore e nelle isole dell’Egeo: proprio da qui, fino alla metà del XV secolo, proveniva la stragrande maggioranza di sali di allume. Nella seconda metà del Quattrocento, tuttavia, anche a seguito della conquista turca di

Bisanzio e del ridotto approvvigionamento dall’Oriente, una stagione di intenso sfruttamento interessò i principali giacimenti di alunite italiani: il bacino dei Monti della Tolfa (nell’alto Lazio), la solfatara napoletana e i depositi di alunite della Toscana meridionale. La produzione di allume, i cui consistenti ricavi erano stati fino ad allora nelle mani di abili imprenditori e commercianti, provenienti soprattutto da importanti famiglie dell’aristocrazia genovese, divenne cosí un terreno di scontro fra principi e papi, consapevoli dell’importanza


cruciale di tale materia prima per le manifatture cittadine. Nella Toscana della fine del Medioevo, l’attività estrattiva e produttiva fu condotta da vere e proprie società industriali, controllate da numerosi attori della vita pubblica senese e fiorentina, tra cui gli stessi Medici. Si inserisce in questo quadro di vitalità imprenditoriale anche la nascita dell’allumiera di Monteleo (1502), l’ultimo di sette complessi produttivi che videro la luce a partire dal 1470 nel territorio delle Colline Metallifere. A Monteleo l’alunite fu lavorata a piú riprese, fino alla metà del XVIII secolo: di questa lunga storia produttiva si sono conservati numerosi resti, indagati dall’Università di Siena, in collaborazione con l’Amministrazione Comunale di Monterotondo Marittimo.

IL CICLO PRODUTTIVO I quattro passaggi che permettono di trasformare l’alunite in allume, noti in Occidente sin dalla metà del Trecento, sono descritti in dettaglio da Vannoccio Biringuccio alla metà del Cinquecento, nel secondo libro del trattato De la Pyrotechnia: calcinazione del minerale in apposite fornaci a una temperatura

elevata di circa 700 gradi; successiva macerazione della pietra cotta in piazze aperte con l’uso di acqua abbondante; lisciviazione della pasta alluminosa in caldaie e cristallizzazione finale del prodotto in vasche di legno. Le indagini condotte a Monteleo hanno messo in luce molti degli apprestamenti necessari alla suddetta sequenza operativa, in primo luogo le fornaci da calcinazione, posizionate a breve distanza dal fronte di cava che ancora mostra i segni del lavoro di escavazione del minerale. La grande struttura in pietre calcaree irregolari legate da malta, alta 3 m e lunga circa 27 m, fu costruita tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo: In alto: Monteleo (Monterotondo Marittimo, GR). Un canale che portava l’acqua alle piazze di macerazione e alle caldaie di lisciviazione. A sinistra: la caldaia da lisciviazione. Nella pagina accanto: le fornaci da calcinazione.

al suo interno ospitava 4 fornaci di forma cilindrica con fodera in laterizio, alte piú di 2 m. Nelle fornaci la pietra alluminosa, preventivamente selezionata dai cavatori, subiva la prima cottura, prima di essere avviata alle piazze di macerazione, poste sull’altra sponda del corso d’acqua che attraversa l’allumiera. Il ruolo dell’acqua nei passaggi successivi era cruciale e perciò essa era distribuita a tutti gli impianti da una articolata rete di canalizzazioni. Lo scavo ha individuato porzioni delle piazze di macerazione, su cui il minerale calcinato era ridotto in pasta attraverso la continua irrorazione di acqua, alternata all’esposizione al sole e all’aria. La pasta alluminosa veniva quindi introdotta, assieme all’acqua, in apposite caldaie di lisciviazione. Queste prevedevano la presenza di vasche metalliche (in rame o anche in piombo) incassate in strutture in muratura di forma tronco-conica o cilindrica. La soluzione era quindi scaldata e concentrata fino alla giusta saturazione. Il liquido veniva infine travasato in vasche lignee, dove si attendeva la cristallizzazione finale. Un monumento che testimonia una produzione di età pre-industriale importante, quello di Monteleo, in attesa di essere valorizzato per garantirne la fruizione al grande pubblico. (luisa.dallai@unisi.it)

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

I DETECTIVE DELL’ARTE PERDUTA ABBIAMO INCONTRATO IL GENERALE ROBERTO RICCARDI APPENA INSEDIATOSI ALLA GUIDA DEL COMANDO CARABINIERI TUTELA PATRIMONIO CULTURALE: ECCO GLI OBIETTIVI CHE INTENDE RAGGIUNGERE E UN PRIMO BILANCIO DELLE ATTIVITÀ FIN QUI COORDINATE

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reperti archeologici erano «asparagi» o «appartamenti», il metal detector era la «motosega», nei messaggi in codice tra due tombaroli, adesso in carcere. A identificarli e assicurarli alla giustizia sono stati i Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale, con l’operazione «Achei», che ha portato a 23 arresti e 80 perquisizioni, smantellando una holding criminale radicata nella provincia di Crotone ma ben ramificata in Italia e all’estero, che aveva sottratto beni archeologici per diversi milioni di euro. Attraverso una fitta rete di intermediari e ricettatori, gli «asparagi» finivano in Francia, Inghilterra e Serbia. Per comprendere un fenomeno cosí

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vasto e sfaccettato quale è il traffico di beni archeologici, abbiamo intervistato il Generale di Brigata Roberto Riccardi, in occasione del suo recente insediamento come Comandante del Comando dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, forza che, nel 2019 appena trascorso, ha festeggiato i 50 anni di attività. Generale Riccardi, innanzitutto, con quale spirito affronta l’incarico appena assunto? «Sono immensamente felice, perché quella che è stata sempre una passione, l’arte, diventa un lavoro. Sono consapevole della responsabilità di un incarico legato alla tutela della nostra storia e della nostra identità, che dev’essere affrontato con impegno assoluto e

dedizione. Anche perché il nostro è un patrimonio vastissimo». E soprattutto, a rischio. Che cosa c’è ancora da fare, sul fronte della lotta al traffico illecito di reperti archeologici? Quali sono i suoi obiettivi? «Intanto, cercare le opere che ancora mancano all’appello: la nostra banca dati contiene, a oggi, 1 milione e 300mila file, relativi ad altrettante opere trafugate. Per questo è necessario sviluppare a fondo le tecnologie, sfruttando programmi in grado di mettere a confronto i reperti, non appena questi compaiono in rete. È il futuro che restituisce il passato. Grazie a tecnologie come queste potremo individuare tutti i reperti immessi illecitamente sul mercato: è questo il primo grande obbiettivo a cui stiamo lavorando». Poi c’è il fronte degli scavi clandestini. In Calabria, i Carabinieri del Comando TPC hanno colto in flagrante i saccheggiatori appartenenti a un’associazione a delinquere capillarmente organizzata, che avrebbe depredato per anni i siti archeologici tra Crotone e Cosenza… «Con l’operazione “Achei”, abbiamo smantellato un sodalizio criminale articolato e con ruoli suddivisi (tra tombaroli, intermediari e ricettatori) in grado di gestire tutte le fasi del


A sinistra: un momento dell’Operazione «Achei». Nella pagina accanto: uomini del Comando TPC impegnati in Iraq nell’Operazione «Antica Babilonia». In basso: il cratere di Euphronios. 510 a.C. circa. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

traffico illecito e di alimentare il reddito di interi gruppi familiari. A capo vi erano personaggi con competenze specifiche, che conoscevano bene i suoli piú ricchi di testimonianze archeologiche e vi pianificavano le spedizioni clandestine. Il traffico illecito colpisce soprattutto le regioni piú ricche di archeologia: Calabria ma anche Sicilia, Puglia e Campania. I reperti vengono immessi sul mercato internazionale e finiscono nei Paesi nei quali vi è il maggior numero di musei e collezioni, ovvero Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Belgio. Per individuare i canali illeciti occorre partire proprio dalle “buche” dei tombaroli, sorprendendoli nel momento in cui effettuano gli scavi clandestini. Nel caso dell’operazione “Achei», li abbiamo colti in flagranza di reato grazie a droni ed elicotteri». In Calabria i vostri uomini, nel visionare le immagini riprese dal drone, sono rimasti colpiti dalla violenza con la quale ci si è accaniti sull’area archeologica, martoriata a colpi di escavatore. Non è vero?

«Purtroppo sí. I siti archeologici e i terreni della zona sono stati colpiti con violenza impietosa dai tombaroli, nell’ingordo tentativo di depredare il sottosuolo. Anche in quel caso la tecnologia ha avuto un ruolo importante per la prevenzione: abbiamo colto in flagranza i malviventi durante lo scavo clandestino. La tecnologia è essenziale per intercettare e seguire i mille rivoli del mercato illecito di beni archeologici». Giornalista e scrittore con diversi romanzi all’attivo, lei ha raccolto

aneddoti come questo nel libro Detective dell’arte. Dai Monuments Men ai Carabinieri della cultura (Rizzoli 2019). Una sorta di «viaggio» nei cinquant’anni di attività dell’Arma in difesa della cultura, che racconta il rientro di centinaia di opere trafugate… «Il Comando Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri, che nel 2019 ha celebrato il suo cinquantenario, è il primo nucleo al mondo dedicato all’archeologia. Il volume racconta questi 50 anni di attività dell’Arma, in cui sono stati recuperati due milioni di oggetti – tra beni culturali e reperti archeologici – e sequestrati 1 milione e 300 mila falsi». Tra i pezzi recuperati c’è il «vaso piú costoso del mondo», cosí venne chiamato il cratere di Euphronios, quando, negli anni Settanta del Novecento, venne rubato e venduto a un noto museo statunitense. Vuole ricordare la vicenda? «Si tratta forse del piú celebre rientro di un’opera trafugata. Il cratere, firmato dal pittore greco Euphronios, venne scavato e

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trafugato a Cerveteri da alcuni tombaroli, agli inizi degli anni Settanta. Finí al Metropolitan Museum of Art di New York e, dopo anni di attività investigativa, mediazioni e ricerche dei Carabinieri, venne recuperato, per tornare finalmente, nel 2008, in Italia. Abbiamo dovuto provare la provenienza illecita dell’opera e documentare tutti i passaggi, dallo scavo clandestino fino alla vendita al museo, per poterla chiedere indietro agli Stati Uniti. In questo senso è stata fondamentale l’azione diplomatica, che ha coinvolto i ministeri degli Esteri e dei Beni Culturali e l’Avvocatura dello Stato. In casi come quello del cratere di Euphronios, sussistono due diritti: il diritto di proprietà di uno Stato che rivendica il bene (l’Italia), e il diritto di possesso di chi ha effettuato l’acquisto, ovvero il museo statunitense che ha pagato l’Atleta di Fano 4 milioni di dollari, oppure il MET che ha comprato il vaso di Euphronios per 1 milione di dollari». Nel caso del cratere, determinanti furono la fotografia che Giacomo Medici si scattò durante lo scavo clandestino a Cerveteri, con il vaso in frantumi ancora nella terra, e quella del trafficante stesso davanti alla vetrina del museo di New York, insieme al mercante d’arte Bob Hecht, dopo che il reperto era stato venduto al Metropolitan… due scatti che per voi sono state la prova provata del furto e della vendita illecita. Non è vero? «Abbiamo potuto provare che il pregiato vaso attico proveniva da una necropoli etrusca, dando nuova vita a un reperto che sarebbe stato decontestualizzato, se fosse rimasto nella vetrina di un museo d’oltreoceano, senza alcuna indicazione di provenienza. Se non l’avessimo recuperato,

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non avremmo mai saputo che quel vaso proveniva da Cerveteri, che in Etruria all’epoca esistevano notabili locali in grado di tessere commerci di cosí alto livello con la Grecia. Lo abbiamo potuto provare anche grazie al ritrovamento, in Svizzera, di una lista di beni trafugati…». Tra le storie narrate in Detective dell’arte, ci sono anche quelle di molti mafiosi «innamorati» dell’archeologia, tra cui il ricercato

La copertina del volume pubblicato in occasione del cinquantenario dalla creazione del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, la cui attività ebbe inizio nel maggio 1969. numero uno al mondo, Matteo Messina Denaro, ancora latitante. Ci vuole raccontare? «Il padre di Matteo Messina Denaro, Francesco, proviene da un’area ricchissima di reperti archeologici: Castelvetrano, in provincia di Trapani, dove si estende il parco archeologico di Selinunte, che, con i suoi 270 ettari, è il piú vasto di Europa. Era

coinvolto in traffici di beni archeologici e fu autore di un furto clamoroso: quello della statuetta dell’Efebo, un raro bronzo del V secolo a.C., rubato dall’ufficio stesso del sindaco di Castelvetrano nel 1962. La statua finí in Umbria: era destinata a partire per la California, alla volta del Paul Getty Museum di Los Angeles, ed era già stata fatta in pezzi per essere venduta, quando venne recuperata dai Carabinieri. Secondo i collaboratori di giustizia, lo stesso Matteo Messina Denaro avrebbe progettato di rubare il Satiro danzante di Mazara del Vallo, eccezionale bronzo greco ellenistico». Ma perché tanta «passione» per l’archeologia da parte dei mafiosi? «Per il guadagno economico che ne traggono e per la vicinanza geografica a luoghi molto ricchi di archeologia. Gli scavi clandestini sono un’attività redditizia e a portata di mano. Negli anni, personaggi come questi hanno potuto fare di tutto». Un contesto in cui è cruciale anche il ruolo, spesso ambiguo, di case d’asta e musei di antichità. Quanto crede alla loro buona fede? «Le case d’asta non rispondono né dell’autenticità, né della provenienza delle opere: la responsabilità rimane in capo al venditore. Le case d’asta sono intermediari e devono solo dimostrare di aver utilizzato la due diligence, cioè l’adeguata attenzione, al momento dell’acquisto. Oggi, tuttavia, non sarebbe piú possibile acquistare beni di sospetta provenienza come in passato, quando simili operazioni erano piú facili. È questo il motivo per cui in vari musei del mondo ci sono reperti archeologici provenienti da scavi clandestini».



n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

UN ARCHEOLOGO... «COLOSSALE»! Lo Speciale di questo numero narra della vita avventurosa, poliedrica e sfortunata di Giovanni Battista Belzoni (vedi alle pp. 90-105), un personaggio 2 1 sicuramente fuori dal comune per l’epoca in cui è vissuto, anche per la sua possanza fisica essendo alto 2 metri e 10 (1). Fu archeologo «per caso», ma le sue intuizioni, la sua intelligenza e la sua caparbietà ne hanno fatto un personaggio mitico dell’archeologia, che ha contribuito alla scoperte di alcune delle meraviglie 4 3 dell’antico Egitto. Dopo aver vissuto in varie nazioni europee e del Mediterraneo, approdò infatti nel Paese dei faraoni per un lavoro, che poi venne meno, ma colse l’occasione per effettuare un viaggio lungo il Nilo. Era il 1816 e l’interesse per ciò che vedeva si trasformò subito in passione tumultuosa per le antichità di quelle regioni, dove tornò nei due anni successivi per 6 altri viaggi e altre imprese. A nostra memoria, non esiste, purtroppo, alcun ricordo filatelico per questo personaggio anche se è uno degli Italiani piú conosciuti al mondo; riusciamo comunque a rendergli un omaggio «dentellato», con francobolli e 5 cartoline che raffigurano molte delle meraviglie che oggi, grazie a lui, possiamo ammirare in Egitto e in altre città del mondo. Tra le sue prime imprese, Belzoni riuscí a organizzare il trasporto del busto di una gigantesca statua 8 di Ramesse II giovane (2, cartolina) da Tebe ad Alessandria e da lí a Londra, dove fa tuttora bella mostra di sé nel British Museum. A lui si deve anche la liberazione dalla 7 sabbia, portata a termine in proibitive condizioni climatiche, del complesso di Abu Simbel, il 1° agosto del 1817 (3, bicentenario dell’evento: immagine del sito prima dell’innalzamento). Ancora Belzoni riuscí a far arrivare in Inghilterra uno dei due obelischi dell’isola di File (4, l’isola già senza obelischi) e a 9 condurre scavi nel tempio di Karnak (5) e nella Valle dei Re, ove trovò la tomba di Sethi I (6) padre di Ramesse II. Nel 1818 il «gigante» scopre, con intuito e osservazione, l’ingresso nascosto alla piramide di Chefren (7), fino ad allora ritenuta impenetrabile, lasciando al suo interno una 11 10 testimonianza autografa (8, foto). Verso la fine del 1818 Belzoni rientrò in Europa e inviò nella sua città, Padova, due IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di colossali statue di diorite raffiguranti la dea Sekhmet Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può con sembianze leonine (9). La sua inquietudine lo scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi: riportò ancora in Africa nel 1823, alla ricerca delle misteriose sorgenti del fiume Niger (10) e Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, dell’altrettanto misteriosa città di Timbuctu, oggi in Via Tavanti, 8 C.P. 17037 Mali (11, uno dei mausolei della città). Arrivato in 50134 Firenze Grottarossa info@cift.it, 00189 Roma. Benin, per risalire il fiume Niger fino a Timbuctu, oppure lcalenda@yahoo.it; www.cift.it morí di dissenteria dopo pochi giorni, il 3 dicembre.

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CALENDARIO

Italia

BOLOGNA La Casa della Vita

ROMA Pompei e Santorini

Ori e storie intorno all’antico cimitero ebraico di bologna Museo Ebraico fino al 06.01.20

L’eternità in un giorno Scuderie del Quirinale fino al 06.01.20

Etruschi

Il leone e la montagna

Viaggio nelle terre dei Rasna Museo Civico Archeologico fino al 24.05.20

Scavi italiani in Sudan Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco fino al 19.01.20

L’Arte ritrovata

L’Arma dei Carabinieri per il recupero e la salvaguardia del patrimonio culturale italiano Musei Capitolini fino al 26.01.20

Colori degli Etruschi

Tesori di terracotta presso la Centrale Montemartini Musei Capitolini, Centrale Montemartini fino al 02.02.20

BRINDISI Nel mare dell’intimità

L’archeologia subacquea racconta il Salento Aeroporto del Salento fino al 05.07.20

Germanico e la discendenza di Augusto

CLASSE (RAVENNA) Tessere di mare

Spazio Espositivo Tritone, Fondazione Sorgente Group fino al 28.02.20

Dal mosaico antico alla copia moderna Museo Classis Ravenna fino al 06.01.20

Roads of Arabia

Tesori dell’Arabia Saudita Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano fino al 01.03.20

Carthago

Ritratto di Giulio Cesare Germanico. 17-19 d.C.

Il mito immortale Colosseo-Foro Romano fino al 29.03.20

Aspettando l’Imperatore Monumenti Archeologia e Urbanistica nella Roma di Napoleone 1809-1814 Museo Napoleonico fino al 31.05.20

Civis Civitas Civilitas

Roma antica modello di città Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 06.09.20

AMELIA Germanico Cesare…

a un passo dall’impero Museo Archeologico e Pinacoteca fino al 31.01.20 24 a r c h e o

ESTE Veleni e magiche pozioni Grandi storie di cure e delitti Museo Nazionale Atestino fino al 02.02.20

FAENZA Sulla via dell’Oriente

Ceramiche dal Museo delle Civiltà di Roma Museo Internazionale delle Ceramiche fino al 06.01.20


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Città del Vaticano

FIRENZE Mummie

CITTÀ DEL VATICANO Tempo divino

Viaggio verso l’immortalità Museo Archeologico Nazionale fino al 02.02.20

MILANO L’esercito di Terracotta e il Primo Imperatore della Cina Fabbrica del Vapore fino al 09.02.20

I sarcofagi di Bethesda e l’avvento del Salvatore nel Mediterraneo antico Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano fino al 29.03.20

NAPOLI Thalassa

Germania

Meraviglie sommerse dal Mediterraneo Museo Archeologico Nazionale fino al 09.03.20

BERLINO Figure possenti

ODERZO L’anima delle cose

Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium Palazzo Foscolo-Museo Arcehologico Eno Bellis fino al 31.05.20

Statuina in avorio della dea Lakshmi, da Pompei.

Ritratti dalla Grecia antica Altes Museum fino al 02.02.20

Paesi Bassi

PADOVA L’Egitto di Belzoni

LEIDA Cipro

PAESTUM Poseidonia

Regno Unito

Un gigante nella terra delle piramidi Centro Culturale Altinate San Gaetano fino al 28.06.20

Storia e futuro di una città d’acqua Museo Archeologico Nazionale fino al 31.01.20

PALERMO Quando le statue sognano

Frammenti da un museo in transito Museo Salinas fino al 29.03.20

SAN GIMIGNANO Hinthial. L’Ombra di San Gimignano L’Offerente e i reperti rituali etruschi e romani Museo Archeologico fino al 31.05.20

TORINO Archeologia Invisibile Museo Egizio fino al 07.06.20

Sulle sponde del Tigri

Suggestioni dalle collezioni archeologiche del MAO: Seleucia e Coche MAO Museo d’Arte Orientale fino al 12.01.20

Un’isola dinamica Rijksmuseum van Oudheden fino al 15.03.20

LONDRA Ispirati dall’Oriente

Come il mondo islamico ha influenzato l’arte occidentale British Museum fino al 26.01.20

Troia. Mito e realtà British Museum fino all’08.03.20

Svizzera MENDRISIO India antica

Capolavori dal collezionismo svizzero Museo d’Arte Mendrisio fino al 26.01.20

BASILEA Gladiatori

La vera storia Antikenmuseum fino al 22.03.20 a r c h e o 25


LA DEMOCRAZIA NEL CUORE Louis Godart

ATENE: V SECOLO A.C... «POICHÉ ESSA È RETTA IN MODO CHE I DIRITTI CIVILI SPETTINO NON A POCHE PERSONE, MA ALLA MAGGIORANZA, ESSA È CHIAMATA DEMOCRAZIA...»: CON QUESTA CELEBRE CITAZIONE DI PERICLE INAUGURIAMO UNA NUOVA RUBRICA AFFIDATA ALLO STUDIOSO LOUIS GODART

S

u invito di Andreas Steiner, ho accettato di affidare mensilmente ad «Archeo» alcune mie riflessioni sull’avventura che nel corso dei millenni ha visto, in mezzo a grandi conquiste e paurosi regressi, l’umanità inventare vari codici di valori che hanno fatto progredire la nozione di diritti umani e portato alla nascita la democrazia. L’antica Grecia merita che le sia dedicato questo primo intervento.

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Nel corso della loro lunghissima storia, i Greci dell’antichità hanno attraversato infinite vicissitudini, che li hanno visti abbandonare l’organizzazione politica e economica monarchica ereditata dai Minoici, organizzarsi in città che si sono a volte alleate, a volte combattute, per finire con l’adottare ad Atene, nel V secolo a.C., un sistema politico che è quello che regge ancora oggi non soltanto i Paesi europei, ma la stragrande

maggioranza degli Stati del mondo: la democrazia. Spinti dal desiderio di commerciare o anche costretti ad abbandonare la terra natia in seguito a turbolenze economiche e politiche, questi Greci, si sono lanciati alla scoperta del Mediterraneo, creando cosí la prima grande civiltà pan-mediterranea. Da queste vicissitudini è nato il volto della prima Europa disegnato dalla Grecia antica. Due dei grandi valori dell’Europa odierna – l’idea di


Una rappresentazione ideale dell’età di Pericle: il leader ateniese esalta la gloria di Atene, attorniato dagli artisti e letterati di cui aveva promosso le attività. Seconda metà del XIX sec. «democrazia» e la convinzione che l’uomo abbia il dovere di ribellarsi all’ingiustizia – sono nati nell’Atene del V secolo a.C. Il grido di ribellione di Prometeo incatenato sulle pareti di uno dei monti del Caucaso perché colpevole, agli occhi di Zeus, d’aver amato troppo gli uomini, è quello dell’antica Grecia che André Malraux, in un discorso pronunciato nel 1958 in occasione della prima illuminazione dei monumenti dell’Acropoli, ha saputo riassumere con queste parole attribuite da lui a Prometeo: «Ho cercato la verità; ho trovato la giustizia e la libertà. Ho fatto rialzare l’uomo prosternato davanti agli dei da oltre quattro millenni e cosí l’ho liberato dal despota». È il grido di Elena, Arianna, Antigone, Clitemnestra, Saffo, Medea e delle umili contadine dei villaggi di Creta o della Tessaglia che osavano sfidare i nazisti per andare a seppellire gli eroi della Resistenza, è l’eterno grido dell’Europa che non accetta la tirannia. L’insegnamento che le civiltà classiche hanno trasmesso al mondo rappresenta un primo sostanziale amalgama che accomuna i popoli d’Europa. Ancora Malraux, parafrasando il discorso di Pericle pronunciato all’inaugurazione dei monumenti dell’Acropoli risorti dopo la terribile distruzione provocata nel 480 a.C. dalla seconda guerra persiana, gli attribuisce queste parole, che riassumono molto bene lo stato d’animo dei cittadini dell’Atene del V secolo: «Possiate dire di noi secoli futuri che abbiamo costruito la città piú bella e piú felice». Nessuno prima aveva mai osato interpellare il futuro! Uscito dall’esperienza della guerra, Pericle

e i suoi concittadini avevano compreso che la creazione di opere di pace in grado di sfidare i secoli era la sola cosa che potesse generare la felicità. Ma il grande stratega ateniese non si è accontentato di lanciare un messaggio ai secoli futuri; fece anche, nel 431 a.C., una mirabile analisi della civiltà e della costituzione degli Ateniesi, in occasione dell’elogio funebre pronunciato in onore dei primi caduti nella guerra del Peloponneso.

UNA MIRABILE LEZIONE Nel momento in cui molti Europei s’interrogano sul futuro dell’Unione faticosamente costruita passo dopo passo all’indomani della seconda guerra mondiale, non è inopportuno meditare sulla lezione impartita da Pericle: «Abbiamo una costituzione che non emula le leggi dei vicini, in quanto noi siamo piú d’esempio ad altri che imitatori. E poiché essa è retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia: di fronte alle leggi, per quanto riguarda gli interessi privati, a tutti spetta un piano di parità, mentre per quanto riguarda la considerazione pubblica nell’amministrazione dello Stato, ciascuno è preferito in base alla sua competenza in un determinato campo, non per la provenienza da una classe sociale ma piú per quello che vale. E per quanto riguarda la povertà, se uno può fare qualcosa di buono per la città, non ne è impedito dall’oscurità del suo rango sociale. (...) Amiamo il bello ma con semplicità, e ci dedichiamo al sapere, ma senza debolezza; adoperiamo la ricchezza piú per la possibilità di agire che essa offre, che per sciocco vanto di discorsi, e la povertà non è vergognosa ad ammettersi per nessuno, mentre lo è assai piú il non darsi da fare per

liberarsene. Riuniamo in noi la cura degli affari pubblici insieme con quella degli affari privati, e se anche ci dedichiamo ad altre attività, pure non manca in noi la conoscenza degli interessi pubblici. Siamo i soli, infatti, a considerare non già ozioso ma inutile chi non se ne interessa, e noi ateniesi o giudichiamo o, almeno, ponderiamo convenientemente le varie questioni, senza pensare che il discutere sia un danno per l’agire, ma che lo sia piuttosto il non essere informati dalle discussioni prima di entrare in azione. E di certo noi possediamo anche questa qualità in modo differente dagli altri, cioè noi siamo i medesimi e nell’osare e nel ponderare al massimo grado quello che ci accingiamo a fare, mentre negli altri l’ignoranza produce audacia e il calcolo incertezza. È giusto giudicare superiori per forza d’animo coloro che distinguono chiaramente le miserie e i piaceri, ma non per questo si lasciano spaventare dai pericoli. E anche per quanto riguarda la nobiltà d’animo, noi ci comportiamo in modo opposto a quello della maggioranza: ci procuriamo gli amici non già col ricevere i benefici ma col farli. (...) E siamo i soli a beneficare qualcuno senza timore, non tanto per aver calcolato l’utilità del beneficio ma per la fiducia che abbiamo negli uomini liberi. Concludendo, affermo che tutta la città è la scuola della Grecia, e mi sembra che ciascun uomo della nostra gente volga individualmente la propria indipendente personalità a ogni genere di occupazione, e con la piú grande versatilità accompagnata da decoro. (...) Noi saremo ammirati dagli uomini di ora e dai posteri (...) per aver costretto tutto il mare e la terra a divenire accessibili alla nostra audacia, stabilendo ovunque monumenti eterni delle nostre imprese fortunate o sfortunate».

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SCAVI • CIPRO

SULLA COLLINA DEGLI ARTIGIANI UNA MISSIONE ITALIANA A CIPRO INDAGA IL SITO DI UNA FIORENTE COMUNITÀ DI TESSITORI DELL’ETÀ DEL BRONZO. LA CUI ATTIVITÀ S’INTERRUPPE IMPROVVISAMENTE. PER VOLERE, PARE, DEI SUOI STESSI ARTEFICI... di Luca Bombardieri

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A

Sulle due pagine: Erimi. Foto aerea da drone che mostra la collina con l’insediamento protostorico. In basso: foto satellitare con la localizzazione di Erimi, della regione di Kourion e della penisola di Akrotiri.

l mattino, quando il cielo è limpido, dalla collina di Erimi si può spingere lo sguardo lungo la costa meridionale dell’isola: da Limassol, la moderna città le cui propaggini coprono l’antica Amatounte, al promontorio di Kourion, il ricco centro che fiorí sotto i sovrani tolemaici e ospita il tempio di Apollo Hylates; si vede il profilo sfuggente della penisola di Akrotiri, dove approdarono i primi cacciatori che si spinsero fino a Cipro nel Paleolitico Superiore e si scorge il massiccio castello di Kolossi, alla cui ombra fu allestito il banchetto di nozze fra Riccardo Cuor di Leone e la futura regina di Inghilterra Berengaria. Dieci millenni di storia in venti chilometri di costa. Dalla sommità della stessa collina doveva spaziare anche lo sguardo di chi, sullo scorcio dell’età del Bronzo Antico, quattromila anni fa circa, scelse di stabilirsi e costruire qui, lungo il corso del fiume Kouris, un piccolo centro, destinato a divenire nei secoli successivi una ricca comunità artigianale, dedita alla produzione e al commercio di tessuti, e la cui organizzazione diviene un modello e una premessa per lo sviluppo della cultura urbana e della vocazione internazionale di Cipro, nei secoli conclusivi dell’età del Bronzo.

Distretto di Limassol

Diga di Kouris

Limassol

Erimi Baia di Akrotiri

Episkopi

Baia di Episkopi

Akrotiri

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SCAVI • CIPRO

In quest’area opera – e nel 2019 A destra: ripresa ha festeggiato i dieci anni di da drone della attività – il team di ricerca della sommità della Missione Archeologica Italiana, collina, con l’Erimi Archaeological Project l’atelier dell’Università di Torino, grazie artigianale alla collaborazione con il Dedell’età del par tment of Antiquities, Bronzo Medio. Cyprus, e al supporto del MiniIn basso: Digital stero degli Affari Esteri e di Elevation Model numerose istituzioni partner. da foto satellitare La scelta di indagare estensivache mostra mente l’area di questa collina è l’insediamento e l’esito finale di un’ampia racla necropoli colta di dati di superficie, indell’età del crociata con lo studio della toBronzo Medio.

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pografia storica e l’analisi del paesaggio antico su un’area di 9 kmq lungo la valle del Kouris. Il fiume, oggi interrotto dal grande invaso artificiale della diga costruita negli anni Ottanta del Novecento, scende lungo le pendici del massiccio montuoso del Troodos per sfociare nella baia di Akrotiri, formando, con altri corsi d’acqua, un caratteristico paesaggio solcato da profonde valli, che hanno sempre rappresentato e ancora creano naturali vie di comunicazione fluviale fra l’interno e gli approdi costieri. La ricognizione di superficie ha rivelato per la prima volta la densità del popolamento antico lungo la valle, confermando quanto suggerito dalla tradizione e dalle fonti e solo parzialmente noto alla ricerca archeologica. Dei 13 siti definiti e localizzati nel corso del survey, la collina di Erimi ha rappresentato la scelta piú attraente per le strutture emergenti e la ricchezza e omogeneità dei materiali documentabili in superficie, e, al tempo stesso, la piú stimolante per poter programmare un’indagine sistematica e di lunga durata. Tuttavia, se le ragioni che hanno portato gli archeologi alla scelta di questo sito possono essere di un qualche interesse, certamente molto piú interes-

sante è cercare di ricostruire le motivazioni ultime, le necessità e la progettualità che hanno indirizzato la scelta del gruppo umano che qui si insediò e, nell’arco di quattro secoli, dal 2000 al 1600 a.C., costruí non soltanto un agglomerato abitato, ma una comunità con un’economia e un’ideologia del tutto peculiari.

UNA COMUNITÀ BEN ORGANIZZATA L’indagine a largo raggio del sito ha permesso al team di ricerca italiano di individuare tre principali aree con funzioni differenti e diversa localizzazione, in cui la comunità antica aveva deciso di organizzare il suo spazio per vivere, lavorare, riunirsi e per seppellire o ricordare i propri defunti. Sulla sommità della collina si trova il complesso centrale con la principale (ma non esclusiva) funzione di atelier artigianale (Area A). Nella vasta terrazza naturale che si sviluppa a sud del quartiere artigianale si estende la città bassa, con il denso tessuto delle unità abitative del quartiere domestico (Aree B e T) delimitato e protetto da un imponente muro di cinta che separa l’insediamento (e il mondo dei vivi) dalla necropoli (e l’area sacra dei defunti) (Area E). Qui, grandi

In alto: Luca Bombardieri, direttore dell’Erimi Archaeological Project dell’Università di Torino. Sulle due pagine: Erimi. Una suggestiva veduta della collina al tramonto, dopo una giornata di scavo.

tombe familiari a camera e piú piccole tombe a fossa sono scavate nelle terrazze calcaree che digradano verso sud. Il grande complesso centrale sulla sommità della collina, ancora non delimitato completamente, supera i 700 mq di estensione e venne costruito e ristrutturato attraverso due fasi di occupazione successive senza soluzione di continuità (Fase A e Fase B). Le strutture di lavorazione e gli ambienti di stoccaggio, insieme ai materiali associati sui pavimenti della a r c h e o 31


SCAVI • CIPRO Nella pagina: immagini del complesso artigianale dell’età del Bronzo Medio. A sinistra: modello ricostruttivo 3D degli ambienti SA I-SA III. Qui sotto: foto aerea da drone dell’ambiente SA I, utilizzato per attività di produzione tessile e magazzino. In basso: modello ricostruttivo 3D dell’ala Sud.

Ambienti coperti e aree all’aperto caratterizzano gli spazi di lavorazione

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fase piú recente di vita, indicano chiaramente che l’atelier era destinato alla produzione tessile, documentando l’intera catena operativa costituita dalle successive e diversificate attività di filatura, tessitura e tintura dei filati e delle stoffe (vedi box in questa pagina). La necessità di organizzare tempi di

lavoro e specializzazioni diverse in questo ampio complesso si rispecchia nella planimetria regolare e nella coerente organizzazione degli spazi, suddivisi fra ambienti coperti e aree di lavorazione all’aperto. Queste ultime, disposte nel settore Nord, sono caratterizzate da pavimenti regolarizzati e da una serie di vasche

quadrangolari scavate direttamente nel calcare della collina e, in alcuni casi, collegate fra loro da canalette. Oltre alle vasche e a tracce di palizzate allineate sul fronte settentrionale, la localizzazione sulla sommità in un’area raggiunta dal vento che si incanala naturalmente lungo la valle soffiando da nord, suggeriscono che

Gli strumenti del tessitore Non ci è difficile comprendere l’importanza dei tessuti, poiché essi occupano un ruolo fondamentale nella vita quotidiana. La natura organica dei reperti rende complessa l’analisi dei tessuti antichi e un attento esame degli strumenti tessili è il mezzo principale che ci consente di approcciare questa produzione artigianale. A Cipro, nella preistoria, le fusaiole venivano inserite nella parte inferiore del fuso e fornivano il peso necessario per far ruotare lo strumento su se stesso; questo, torcendo le fibre, permetteva di formare il filo. La presenza di diverse classi di peso ci consente di ipotizzare che una vasta gamma di fili, da quelli piú fini al cordame, venisse prodotta utilizzando le materie prime disponibili sull’isola, lana e lino. I pesi da telaio, invece, di forma conica, corrispondono all’unico elemento dei grandi

telai verticali sopravvissuto fino a noi. Grazie all’uso sapiente di questi strumenti, si tessevano stoffe semplici o decorate. Infine, gli aghi, in osso o metallo, ci riportano al lavoro di confezionamento di vesti, coperte, contenitori, e molto altro ancora.

In alto: set di fusaiole in terracotta dall’ambiente SA II del complesso artigianale (età del Bronzo Medio). Qui sopra: pesi da telaio conici in argilla dall’ambiente SA XII del complesso artigianale (età del Bronzo Medio).

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SCAVI • CIPRO

Per l’ultima vestizione Fra gli oggetti di ornamento in rame deposti nella Tomba 429 è conservato anche questo lungo spillone a testa quadrata e decorazione spiraliforme, lungo 55 cm. Le dimensioni ci inducono a escludere che si trattasse di un semplice accessorio del vestiario e suggeriscono, al contrario, che doveva trattarsi di un elemento dell’abito funerario,

quest’ala del complesso fosse destinata alla preparazione delle fibre, alla tintura e all’essiccamento dei filati. Gli ambienti coperti sono disposti nell’ala meridionale e occidentale e sono caratterizzati da vani a pianta rettangolare con superfici che variano fra i 15 e i 55 mq. Sulla parete di fondo o lungo i lati lunghi sono stati trovati ancora in posto al di sotto del crollo delle strutture in elevato numerosi grandi contenitori per lo stoccaggio di materie prime e prodotti finiti; mortai e macine in pietra, piccole vasche per la decantazione, focolari circolari in argilla e contenitori ceramici da fuoco, generalmente tripodi, venivano impiegati per l’estrazione del pigmento necessario al processo di tintura. Le analisi sui macroresti botanici rinvenuti all’interno di alcune di queste strutture, realizzate grazie alla collaborazione del The Cyprus InstituteSTARC, hanno indicato che le piante raccolte e lavorate erano specie della famiglia delle Borraginacee, la cui radice, una volta essiccata e fatta bollire in acqua, produce un pigmento dai toni rosso-violacei. Il valore attribuito da questa comunità ai materiali e ai prodotti dell’artigianato tessile si rispecchia nella progressiva at-

impiegato per fermare il sudario sul petto del defunto. I tessuti rimasti a contatto diretto con oggetti in rame subiscono un processo di mineralizzazione che permette di conservarne l’»impronta». Grazie a questo processo tracce mineralizzate del tessuto e dei sottili lacci con cui era assicurato sono ancora visibili sullo spillone.

tenzione data alla sicurezza e alla «monumentalizzazione» del complesso centrale. Le successive ristrutturazioni prevedono, infatti, la costruzione di soglie monolitiche di grandi dimensioni, in cui vengono realizzati anche gradini per l’accesso e sistemi di alloggiamento per paletti e altre forme di chiusura, che indicano chiaramente la necessità di mettere al sicuro questi ambienti e il loro prezioso contenuto.

UN CONCORSO DI FATTORI Quanto abbiamo sin qui descritto della comunità protostorica di Erimi può aiutarci a intuire le motivazioni che hanno portato a scegliere questa collina? Possiamo ragionevolmente pensare che possano aver pesato vari fattori coincidenti, anzitutto naturali, necessari a far sviluppare un atelier per la produzione tessile. E dunque: di cosa non si può fare a meno per intraprendere questa impresa? Certamente del vento, dell’acqua e delle materie prime vegetali essenziali. Sulla collina che rappresenta l’altura piú esposta della valle, il vento è garantito. Allo stesso modo, la vicinanza del fiume non rappresenta soltanto l’accesso a una via di comunicazione, ma anche (e forse piú)


una fonte di approvvigionamento d’acqua da aggiungere a quella assicurata da una sorgente a breve distanza in una valle minore. Infine, le materie prime vegetali, in primo luogo le Borraginacee che costituivano la copertura vegetale spontanea nell’area, sono di facile accessibilità e garantiscono un elemento fondamentale per il processo di tintura. La scelta quindi ha queste radici e l’impresa inizia con queste premesse. Ma il suo sviluppo ha una natura inattesa e cosí le modalità con cui questa produzione prende spazio nella comunità ne plasmano le strutture economiche e sociali, ne definisce il quadro delle gerarchie interne e delle relazioni esterne e ne influenza l’ideologia. In questa pagina, dall’alto, in senso orario: la terrazza inferiore della necropoli Sud con le tombe a fossa e a camera; bacini e ciotole emisferiche impilate sul pavimento dell’ambiente SA IV del complesso artigianale (età del Bronzo Medio); askos zoomorfico dall’ambiente SA III del complesso artigianale dell’età del Bronzo Medio.

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SCAVI • CIPRO

L’atelier è il motore di una produzione fortunata e l’ascesa economica che questa produzione innesca è testimoniata dalla graduale apertura della comunità verso i commerci, che si estendono dapprima su scala regionale, per poi allargarsi a tutta l’isola negli ultimi secoli del Bronzo Medio. Lo testimoniano le importazioni di vasellame di pregio che arrivano a Erimi dai ricchi centri del Nord dell’isola, dove, all’inverso, arriva l’eco della lontana comunità tessile e della sua importanza. Il corredo funerario femminile della Tomba 201 a Lapithos, ricco centro del distretto di Kyrenia, sulla costa settentrionale, comprende un set di strumenti tessili e un pendente che riproduce un pettine per la cardatura della lana. È importante notare che l’insieme di questi oggetti, che fanno parte dello stesso corredo, è estraneo allo standard della produzione locale del Nord dell’isola in questo periodo. Il pendente a petti-

Corredo ceramico dal deposito funerario della Tomba 248.

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ne è realizzato in picrolite, una pietra tenera di fiume la cui primaria fonte di approvvigionamento è proprio la valle del Kouris, ed è del tutto simile ai pendenti che a Erimi sono stati trovati nell’atelier e come oggetti di parure indossati dai defunti sepolti nella necropoli, come nel caso della collana in conchiglia e pendenti in picrolite dalla Tomba 240.

DA STRUMENTO A SIMBOLO Indossare la riproduzione in miniatura di un pettine per la cardatura ha un senso particolare a Erimi: significa riconoscersi in uno strumento di lavoro che è trasformato in un simbolo e identifica l’appartenenza alla comunità. Non è cosí strano, in effetti. Esempi piú vicini a noi ci raccontano di come le arti medievali abbiano trasformato lo strumento principe della loro industria in simbolo della loro corporazione, e cosí altri strumenti di lavo-

Cosí mangiavano La ricostruzione della paleodieta è un procedimento di calibrazione isotopica che si basa su un principio analogo alla datazione assoluta (C14). Infatti, la composizione isotopica del collagene delle ossa riflette la composizione degli alimenti consumati nel corso della vita; inoltre, i vari alimenti presentano distinte «firme isotopiche» e permettono cosí di risalire al tipo di alimento che le ha prodotte. Questa analisi permette, quindi, di fornire indicazioni sull’alimentazione di un individuo nei 10-15 anni prima della sua morte. A Erimi, queste analisi, condotte in collaborazione con la Seconda Università di Napoli e incrociate con i risultati dello studio antropologico sui resti ossei degli inumati, hanno stabilito che la dieta della comunità era prevalentemente terrestre e prevedeva largo consumo di cereali e legumi, di frutta (uva e fichi, in particolare) e di carne animale, specialmente di caprovini, suini e cervo selvatico. Al contrario, la «straniera» deposta nella Tomba 248 sembra aver consumato nell’arco degli ultimi 10-15 anni della sua vita cereali, quali il miglio e il sorgo, che non erano presenti a Erimi.


ro divengono i piú pervasivi simboli identitari e di appartenenza anche nel nostro Novecento. A Erimi, quindi, la produzione tessile e il commercio su scala sempre piú larga diventano non soltanto la molla dell’ascesa economica, ma il collante fra i membri della comunità, impegnati nell’impresa comune. Alla fine dell’età del Bronzo Medio, la fortuna del commercio porta Erimi a consolidare la crescita economica e la nascita di una élite fondata sul prestigio di alcuni gruppi o clan familiari. Ne sono testimonianza le grandi tombe a camera con sepol-

ture multiple, che vengono riutilizzate attraverso le generazioni e raccolgono corredi sempre piú ricchi e diversificati. Al corredo di vasellame si affianca una collezione di oggetti di ornamento personale in rame nel deposito della Tomba 429 (vedi box a p. 34).

LA «STRANIERA» Un’altra di queste ampie camere funerarie è la Tomba 248, scavata nel 2013, arricchita da una banchina al fondo su cui erano disposti (ed esposti) i vasi ceramici del corredo a ogni successiva inumazione, som-

mandosi cosí ai precedenti, fino a formare un deposito di 92 oggetti. In questa camera sono strati trovati i resti di 4 individui (due individui di sesso maschile ed età matura, una giovane donna e un adolescente) che dovevano far parte dello stesso clan familiare. Fra di loro, tuttavia, si trova probabilmente un’ospite. La ricostruzione della paleodieta ha rivelato che una delle inumate non ha avuto il regime alimentare standard che è stato ricostruito per tutti gli altri individui della comunità (vedi box a p. 36). Per quanto queste analisi non ci consentano concluIn alto: la Tomba a fossa 467 nella terrazza superiore della necropoli Sud, in corso di scavo. A sinistra: modello 3D di parte dell’asse viario che collegava il quartiere domestico ed il complesso artigianale sulla sommità della collina di Erimi. a r c h e o 37


SCAVI • CIPRO

sioni inequivocabili, è suggestivo immaginare che la donna, la «straniera» deposta nella tomba di famiglia di un clan di elevato prestigio nella comunità sia arrivata a Erimi proprio dal Nord, magari nell’ambito di un accordo matrimoniale destinato a rafforzare i legami commerciali con quell’area dell’isola. È lecito immaginarlo. Nel corso del XVIII secolo a.C., all’apice del successo, gli equilibri di questa ricca comunità cominciano a scricchiolare. La ricchezza crescente, da un lato, e, dall’altro, la frammentazione in clan che potevano concorrere (e anche scontrarsi) gli uni con gli altri per trarre il maggior interesse dalla gestione della produzione dell’atelier e dal commercio dei tessili innescano frizioni e contrasti all’interno della comunità e la necessità di difendersi da possibili minacce esterne. Nel 2016, gli scavi nell’area T1, al limite meridionale dell’abitato, hanno portato alla luce i resti di un’im38 a r c h e o

In alto: lo scavo dell’ambiente SA V del complesso artigianale.

Qui sopra: il corredo della Tomba 467 (età del Bronzo Antico e Medio).

ponente struttura muraria, eretta proprio in questa fase. Il muro di cinta ha una fossa di fondazione direttamente scavata nella roccia calcarea della collina, uno zoccolo in pietre sbozzate e poteva essere

sormontato da una struttura piú leggera in legno, con l’aspetto di una palizzata. Oltre ad assolvere a una funzione difensiva, questa struttura aveva certamente un significato monumentale; attirava l’attenzione


da lunga distanza e accresceva la visibilità e il prestigio della comunità nei confronti dei centri circostanti lungo la valle. Ma la costruzione del muro di cinta è anche il segnale di una nuova instabilità e indica il punto di non ritorno nella lenta caduta che porterà alla crisi della comunità e del suo sistema economico e sociale. In questa fase, la Tomba 248 è oggetto di un’azione rituale distruttiva che non trova paralleli nel resto della necropoli: viene rimossa la lastra che chiudeva l’accesso alla camera funeraria e un elevato numero di pietre, blocchi e altro materiale litico viene letteralmente scagliato all’interno, contro gli oggetti del corredo e profanando i resti dei defunti. La camera viene cosí sigillata e resa inaccessibile, con un’azione violenta, dal forte valore simbolico e specificatamente indirizzata verso il ricco clan familiare che vi era deposto.

«Affettare» la storia La micromorfologia archeologica, come la pedologia da cui deriva, si basa sullo studio dei suoli, ossia la parte piú superficiale della crosta terrestre. Attraverso questa analisi è possibile determinare quali dinamiche hanno dato origine alla stratificazione archeologica e dedurre quindi informazioni di dettaglio e non visibili a occhio nudo sull’ambiente indagato. La procedura comprende la raccolta di blocchi stratigrafici, successivamente consolidati e preparati per ottenere una sezione sottile, cioè una «fetta» di sedimento archeologico di spessore pari a 30 micron (millesimi di millimetro) che, montata su apposito vetrino, viene analizzata al microscopio ottico a luce polarizzata.

Un momento delle attività di analisi e restauro in laboratorio dei materiali.

La crisi viene da lontano, naturalmente, ed Erimi – insieme agli altri centri protourbani dell’ètà del Bronzo Medio – dimostra di non reggere ai mutamenti profondi che di lí a pochi decenni vedranno fiorire sull’isola le prime città. La crisi progressiva culmina con l’abbandono della collina. Si lasciano cosí le abitazioni nel quartiere domestico, portando con sé i propri beni e averi, come ben documentato dagli ultimi livelli scavati nelle aree residenziali.

UN INCENDIO APPICCATO DI PROPOSITO Ma per il complesso centrale sulla sommità si immagina e pianifica un destino diverso. A differenza delle abitazioni, sul pavimento degli ambienti interni del complesso troviamo moltissimi oggetti, apparentemente sistemati o lasciati al loro posto prima dell’abbandono. Oggetti significativi, utili o di valore: pesi da telaio e fusaiole raccolti in piccoli lotti, un pendente a pettine e un vaso configurato (askos) a forma di capro, oltre a contenitori ceramici impilati di fronte all’ingresso delle stanze. Il crollo dei muri e del tetto seguito a un incendio ha con-

servato questi oggetti fino a oggi; lo studio della stratigrafia e le analisi micromorfologiche e microstratigrafiche, condotte a partire dal 2014 in collaborazione con l’Università di Reading, hanno rivelato che si tratta probabilmente di un incendio indotto, appiccato e guidato (vedi box in questa pagina). In questa articolata operazione possiamo riconoscere un rituale complesso di abbandono e l’eco del profondo significato simbolico che per la comunità aveva rappresentato e rappresentava questo edificio? Un rituale del genere è riservato a questo edificio nel quale si riconosce non soltanto un atelier per la produzione, ma lo spazio dell’ascesa e la fucina dell’identità comune di questa comunità. Eppure - non sappiamo perché – nella cocciuta volontà che questo gruppo di uomini e donne dimostra distruggendo per conservare proprio il complesso centrale, il proprio centro nevralgico e ideologico, ci sembra di intravedere l’idea di tornare indietro un giorno. Dal futuro che li stava per assorbire verso la vecchia collina dei tessuti, l’ultima Thule del loro passato fortunato. a r c h e o 39


MUSEI • LAZIO

È ARRIVATO

L’AMBASCIATORE! NEL 2019, IL SETTIMANALE STATUNITENSE TIMES HA INSERITO IL CASTELLO DI SANTA SEVERA, SUL LITORALE LAZIALE A NORD DI ROMA, TRA I «WORLD’S GREATEST PLACES», L’ELENCO DEDICATO ALLE 100 ESPERIENZE AL MONDO DA VIVERE, PER LA SUA BELLEZZA, L’UNICITÀ E L’ESSERE ACCESSIBILE A TUTTI, GRAZIE ANCHE ALLA PRESENZA DEL MUSEO. UN RICONOSCIMENTO CHE, FORSE, AVREBBE TROVATO CONCORDE ANCHE UN ILLUSTRE OSPITE CHE, VENUTO DAL LONTANO GIAPPONE, VI SOGGIORNÒ AGLI INIZI DEL SEICENTO... di Flavio Enei


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opo anni di battaglie, progetti e attese, è nato il Museo del Castello di Santa Severa, allestito nei locali della Rocca e della Torre Saracena, nell’ambito della straordinaria area archeologica e monumentale di Pyrgi e del Castello di Santa Severa, un luogo di grande importanza storica per il litorale a nord di Roma, frequentato dalla preistoria fino ai giorni nostri in maniera ininterrotta. Il Comune di Santa Marinella ha cosí potuto istituire il Polo Museale Civico del Castello di Santa Severa, composto dal Museo del Mare e della Navigazione Antica e, appunto, dal neonato Museo del Castello di Santa Severa. Insieme all’Anti-

Sulle due pagine: uno scorcio della poderosa mole del Castello di Santa Severa (Santa Marinella, Roma). In alto: l’ambasciatore giapponese Hasekura Tsunenaga durante il suo soggiorno a Roma, olio su tela di Claude Deruet. 1615. Roma, Galleria Borghese. a r c h e o 41


MUSEI • LAZIO

quarium Pyrgense della Soprintendenza, ha cosí preso forma un importante sistema museale pubblico, che consente ai visitatori di conoscere la storia e l’archeologia di Pyrgi (che, lo ricordiamo, fu uno dei porti della vicina città etrusca di Cerveteri, n.d.r.) e del complesso monumentale di Santa Severa, dalla preistoria ai giorni nostri, attraverso migliaia di anni di frequentazione da parte dell’uomo.

UNA GESTAZIONE LUNGA E DIFFICILE La nuova struttura museale, allestita nella Rocca del Castello, raccoglie, conserva e divulga le testimonianze, la storia e l’archeologia dell’insediamento medievale attraverso i secoli, dal presunto martirio di santa Severa ai giorni nostri. Dall’epoca tardoantica, attraverso le vicende medievali, il Rinascimento e l’epoca moderna si sviluppa un percorso didattico che racconta in vario modo la storia, gli avvenimenti e la vita castellana, sulla base dei reperti prove-

nienti dagli ultimi scavi archeologici e dai documenti di archivio recuperati in tanti anni di ricerche. Il Museo è nato grazie alla lunga battaglia, avviata dal Gruppo Archeologico del Territorio Cerite, promotore nel marzo del 2012 del Comitato Cittadino per il Castello di Santa Severa, che si è battuto affinché il complesso monumentale non fosse alienato dal patrimonio pubblico e trasformato in albergo di lusso. Il Museo, ideato e definito nei suoi contenuti già nel progetto di valorizzazione del Castello, redatto a suo tempo dallo scrivente, insieme al Comitato, approvato dal Consiglio Comunale di Santa Marinella (delibera n. 13 del 15.7.2013) e dai Comuni vicini, era stato previsto nella Rocca, per fare in modo che il bene culturale restasse fruibile per i cittadini e potesse essere messo in condizione di raccontare a tutti la sua storia plurisecolare. Dopo gli scavi condotti tra il 2003 e il 2009 e le aperture sperimentali al pubblico, curate nel 2014 dal Co-

mitato Cittadino (piú di 8000 persone guidate in soli dieci giorni!) e nel 2015-2016, in collaborazione con la Regione Lazio e il Comune di Santa Marinella, finalmente si è giunti all’apertura definitiva dell’intero borgo, grazie all’intervento de-

CASTELLO E BORGO DI SANTA SEVERA AEREA ARCHEOLOGICA DI PYRGI Pianta generale

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In alto: un momento degli scavi condotti nel piazzale del Castello di Santa Severa. Nella pagina accanto, in alto: il castello e il borgo di Santa Severa in una ripresa aerea. Nella pagina accanto, in basso: il trasporto del grano con una «barrozza» nel Castello di Santa Severa negli anni Trenta del Novecento.


ciso e importante del governo regionale. Per mezzo della Società in house Lazio Crea, l’amministrazione regionale ha voluto e finanziato la rinascita del Castello, anche tramite il riallestimento del Museo (aprile 2018), dando vita ai sogni, alla volontà, alle speranze e all’impegno civile di tutti coloro che per lungo tempo si sono adoperati per difendere, studiare, far conoscere e valorizzare il Castello di Santa Severa.

VALORIZZARE IL PATRIMONIO Il complesso monumentale, finalmente recuperato, va ora affermandosi come centro culturale importante, un luogo ameno, di pace, svago e divertimento, un esempio di come sia possibile creare sviluppo, occupazione e crescita civile attraverso la corretta valorizzazione del nostro patrimonio. In questo nuovo Museo, a corona-

mento di anni di ricerche, si presentano ai visitatori i risultati di quella che, allo stato attuale, appare come una delle piú avvincenti avventure archeologiche che negli ultimi tempi hanno interessato il sito di Pyrgi e il Castello di Santa Severa.

Dopo i grandi scavi del santuario etrusco, avviati da Massimo Pallottino e condotti da Giovanni Colonna, con l’enorme messe di dati recuperati alla conoscenza dal lungo e proficuo lavoro di generazioni di studiosi, si è ora riusciti a gettare a r c h e o 43


MUSEI • LAZIO

un occhio anche sulle stratigrafie di epoca romana e medievale, sepolte sotto il castello e il suo borgo. Per la prima volta è stato possibile esplorare stratigraficamente alcuni piccoli, ma significativi, settori dell’enorme deposito archeologico situato all’interno del castrum romano, edificato sulla città etrusca nel III secolo a.C., sul quale si è sviluppato, in seguito, l’insediamento medievale di Santa Severa.

IL PERCORSO ESPOSITIVO Il Museo si articola in 14 sale espositive distribuite fra la Rocca del Castello e la Torre Saracena per una superficie totale di 850 mq circa; il percorso museale si sviluppa su tre livelli, dal pianterreno al secondo piano, raccontando la storia dell’insediamento dall’epoca tardo-antica al Medioevo (piano terreno, sale 1-4); la fase rinascimentale, l’epoca moderna e lo studio antropologico sulla popolazione medievale del borgo (primo piano, sale 5-10); il porto di Pyrgi, con le ricerche di archeologia subacquea in essere nello specchio di mare antistante il castello e nel sito di Castrum Novum a Santa Marinella (piano secondo, sale 11-13); l’armamento della Torre 44 a r c h e o

Saracena attraverso i secoli (sala 14 nella Torre Saracena). Un sistema di comunicazione costituito da testi in italiano/inglese, immagini, esposizione di reperti, modelli r icostruttivi, video e un’App interattiva per smartphone, consente una fruizione semplice e gradevole dei contenuti. Il visitatore viene accolto dalla prima sala dedicata alle ultime scoperte avvenute in seguito ai lavori di restauro degli anni scorsi, tra le quali si annovera lo straordinario ritrovamento della chiesa paleocristiana

di S. Severa. Oltre all’illustrazione dei recenti scavi, tre postazioni di realtà virtuale consentono un viaggio nella Pyrgi etrusca, porto dell’antica Caere, tra le case e il famoso santuario emporico con i suoi due templi monumentali. Le sale del piano terra, dalla 2 alla 4, documentano la storia del martirio di santa Severa e i resti della relativa chiesa scoperti nel cortile della piazza della Rocca, l’epoca del possedimento farfense e benedettino (XI-XII secolo) e il successivo passaggio della proprietà nelle


mani delle famiglie romane dei Tignosi, Bonaventura-Venturini, degli Anguillara e dei Di Vico, tra il XIII e il XIV secolo. Nelle vetrine delle sale 3 e 4, numerosi reperti raccontano la vita di ogni giorno, con oggetti pertinenti al vestiario, all’armamento, alle attività artigianali, alla cucina e alla mensa: tra questi, un prezioso coperchio con castoni in pasta vitrea, il sigillo del signore del castello Pietro Romano Bonaventura De’ Cardinali, monete, punte di freccia, coltelli, attrezzi da ebanista, vasellame da cucina e da portata, ossa di animali cacciati e allevati, pescati e raccolti in mare. Spiccano anche i resti del cane sepolto con ogni cura nel riempi-

mento della chiesa. Segno che l’animale, vissuto presumibilmente tra la fine del XIV e la prima metà del XV secolo, doveva godere dell’affetto del suo padrone.

VISITATORI ILLUSTRI Al primo piano, nelle sale 5-7, il percorso storico prosegue dall’epoca rinascimentale fino a quella moderna, secoli in cui il castello – fortezza e borgo produttivo del Santo Spirito – divenne meta di molte visite papali – da Leone X e la sua corte, fino a Urbano VIII e Pio IX –, dell’arrivo in Occidente del primo ambasciatore del Giappone – Hasekura Tsunenaga –, del passaggio di studiosi, ricercatori e artisti, fra cui i topografi Filippo Cluverio e Luca Holstenio,

i pittori Antoniazzo Romano, Claude Lorrain e Enrico Coleman, il revisore delle fortezze pontificie Giuseppe Miselli. Le sale ospitano ricostruzioni di armi antiche e armature, le pitture originali del XVIII secolo, riemerse in occasione dei restauri, le repliche di costumi medievali, rinascimentali e dell’epoca moderna. Molto interessanti sono anche le sale 8-10, che descrivono la popolazione medievale del castello, cosí come è stata ricostruita dagli studi antropologici svolti sui resti rinvenuti nello scavo del cimitero circostante la chiesa paleocristiana. Le analisi condotte su oltre 400 individui hanno permesso di definire le caratteristiche fisiche, la salute, l’alimentazione Nella pagina accanto, dall’alto: la sala 4, dedicata alla vita quotidiana, e la sala 5, dedicata alla storia rinascimentale, del Museo del Castello di Santa Severa. A sinistra: coperchio di probabile contenitore cilindrico o di un astuccio per specchio, decorato con motivo floreale con castroni in pasta vitrea policroma. XIII-XIV sec.

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MUSEI • LAZIO

e l’aspettativa di vita degli abitanti del castello tra il X e il XIV secolo. Le sale ospitano la riproposizione della sepoltura anomala dell’«Uomo del sarcofago», vissuto nell’VIII secolo d.C., un sarcofago a lastre di tufo, le ricostruzioni facciali di due individui e un videoracconto della vita quotidiana che si svolgeva nel castello, destinato ai ragazzi, con protagonista un teschio parlante intervistato dal divulgatore scientifico Mario Tozzi. Il secondo piano della Rocca è, infine, dedicato alle ricerche di archeologia subacquea che si svolgono da un decennio sui fondali dell’antico litorale pyrgense e comprende un laboratorio di primo intervento di restauro archeologico, operante sui materiali recuperati nel castello e nel corso degli scavi condotti nel territorio.

Modelli di navi etrusche e fenicie, video e pannelli raccontano l’antico scalo portuale attraverso i millenni, dall’età neolitica a quella moderna, attraverso l’epoca etrusca, romana e medievale. Nelle vetrine sono esposti numerosi reperti provenienti dal fondale antistante il castello e il santuario monumentale, tra i quali il vasellame recuperato in un pozzo etrusco sommerso.

STORIE DI ANTICHI MARINAI Altre vetrine ospitano, inoltre, interessanti materiali etruschi e romani rinvenuti durante le ricerche del Centro Studi Marittimi del Museo nella rada portuale di Castrum Novum, presso Capo Linaro a Santa Marinella. Il pecorso si chiude con un video che riassume la valenza culturale e storica del sito

UN CASTELLO (ANCHE) DA LEGGERE A naturale complemento della visita del Castello di Santa Severa e del museo che ne racconta la vicenda plurisecolare si pone questo volume, riccamente illustrato, e nel quale si dà conto, fra l’altro, dei dati piú significativi emersi dagli scavi archeologici

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condotti nel sito. Indagini che hanno confermato la lunghissima frequentazione dell’area oggi occupata dal borgo e dal castello, dalla preistoria fino all’età moderna. Si tratta di una guida agile, ma al tempo stesso esauriente, che, dopo un opportuno riepilogo dei fatti storici piú significativi, espone i diversi temi con il medesimo criterio scelto per il percorso espositivo del museo. Il lettore può dunque ritrovare tutti i protagonisti principali, dalla martire Severa – messa a morte, secondo la tradizione, nel III secolo – al misterioso «Uomo del Sarcofago», dai numerosi papi che nel castello vollero fermarsi a soggiornare, fino agli archeologi che, negli anni piú recenti, sono stati gli artefici principali della riscoperta e della valorizzazione di un sito davvero straordinario. Per info, distribuzione e vendita: Antiquares2019@gmail.com

di Pyrgi e del Castello di Santa Severa, con suggestive riprese aeree e immagini degli scavi condotti nel borgo e nella chiesa paleocristiana. L’intero percorso offre al visitatore la possibilità di approfondimento dei temi trattati tramite un’apposita App, scaricabile su smartphone, attivabile inquadrando i codici QR presenti nei pannelli. Il Museo del Castello di Santa Severa è stato ufficialmente inaugurato il 25 aprile del 2017, alla presenza del presidente della Regione Lazio, e di numerose altre autorità istituzionali. L’importante iniziativa culturale è stata resa possibile grazie al finanziamento regionale e al contributo scientifico del Museo Civico di Santa Marinella, della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per l’Area Metropolitana di Roma, la Provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale e del Gruppo Archeologico del Territorio Cerite (GATC). Il nuovo allestimento, diretto e curato dallo scrivente, è stato realizzato su progetto elaborato dallo Studio di Architettura Lococo di Roma. Hanno contribuito alla redazione dei contenuti e all’allestimento il Comune di Santa Marinella, il Gruppo Archeologico del Territorio Cerite e il Laboratorio di Antropologia Molecolare dell’Università di Roma Tor Vergata, coordinato dalla professoressa Olga Rickards. Lazio Crea per i supporti tecnici e multimediali. DOVE E QUANDO Castello di Santa Severa SS1 via Aurelia, km 52,600, Santa Marinella (Roma) Museo del Castello di Santa Severa, Museo del Mare e della Navigazione Antica Orario ma-ve, 9,00-16,00; sa-do, 10,00-17,00; lu chiuso Info e prenotazioni tel. 06 39967999 (attivo lu-ve, 9,00-13,00 e 14,00-17,00; sa, 9,00-14,00); www.museosantasevera.it



presenta

RELIGIONE E VIOLENZA Affidato alla penna di Renata Salvarani, autorevole studiosa di storia delle religioni e del Medioevo, il nuovo Dossier di «Medioevo» affronta un tema antico eppure di straordinaria attualità: il rapporto fra l’uso della violenza e la fede religiosa. Fin dalle età piú antiche, infatti, nel nome della fede si è combattuto, sono state inflitte torture, sono state organizzate grandi spedizioni militari… Fenomeni che, nell’età di Mezzo, si sono ripetuti con particolare frequenza e ai quali sono associate pagine decisive della storia di quel tempo: dalle crociate alla lotta alle eresie, dalla fondazione dei grandi ordini cavallereschi alla creazione dell’Inquisizione. Costante è il confronto tra le fonti che, da prospettive diverse, hanno tramandato i medesimi eventi: ecco perché i «campioni della fede» degli uni divennero gli «infedeli» degli altri, o cocenti e sanguinose sconfitte furono celebrate come fulgidi esempi di sacrificio collettivo. Un panorama ricco e articolato, dunque, che nel nuovo Dossier viene sapientemente descritto e analizzato, offrendo al lettore chiavi di lettura puntuali e originali.

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SCOPERTE • VOLTERRA

LA CITTÀ DI VENTO E DI MACIGNO

VOLTERRA FU UNO DEI CENTRI PIÚ IMPORTANTI DELL’ETRURIA E, IN SEGUITO, UN RILEVANTE MUNICIPIUM ROMANO. LA SUA STORIA, PERÒ, È BEN PIÚ ANTICA E LE RECENTI INDAGINI CONDOTTE NELL’AREA DE L’ORTINO HANNO GETTATO NUOVA E SIGNIFICATIVA LUCE SULLE FASI PREURBANE DELL’INSEDIAMENTO di Giacomo Baldini, Valeria d’Aquino, Elena Sorge; testi di Giacomo Baldini, Fabrizio Burchianti, Valeria d’Aquino, Emanuele Mariotti, Lilia Silvi ed Elena Sorge

U

n nido d’aquila in bilico tra cielo e terra, mura possenti che si confondono con la roccia e, come questa, fragili per la continua esposizione al vento e all’acqua. Cosí, da lontano, appare all’improvviso Volterra «di là dalla collina gessosa (...) su la sommità del monte come sull’orlo d’un girone dantesco il lungo lineamento murato e turrito, la città di vento e di macigno», come scrisse 50 a r c h e o

Gabriele d’Annunzio in Forse che sí forse che no (1910), il romanzo che narra la storia tragica di Isabella Inghirami. Questa, nell’immaginario letterario (e non solo), è Volterra. Eppure a ogni tornante, a ogni strappo verso la vetta, la sensazione di città fredda, quasi inospitale nel paragone con l’Inferno dantesco, sferzata dal vento e protetta dalle solide mura di pietra, si perde. Quando il sole primaverile illumina

i campi coltivati e, d’estate, le dolci colline d’argilla si colorano del verde intenso dei boschi, alternato al giallo oro delle spighe di grano, è difficile non sentire echeggiare sui salti grigi della Balze o sulla terrazza, che fu sede della dogana, lo spirito di Giosuè Carducci «Pace dicono al cuor le tue colline» (Traversando la Maremma, 1885). Proprio allora, mentre sul mare lontano scivola una vela bianca, moder-


storia piú antica della città. Il flusso dei ritrovamenti doveva essere tale da suscitare la reazione degli eruditi locali, che si lamentavano perché «fuori di alcune urne conservate meglio (...) tutto si disperdeva con incuria per le ville e gli orti, dov’erano ben presto guaste e corrose per le intemperie dell’aria». La quantità delle scoperte, oltre a generare fenomeni di falsificazione per fini celebrativi (come nella vicenda degli Scaritti di Curzio Inghirami), favorí fin dalla primissima età moderna un’attenzione per le antichità che travalicava l’aspetto encomiastico o collezionistico, per acquisire un valore civico. Cosí, mentre ancora nel Borgo e nel Castello fumavano le macerie dell’assedio di Federico da Montefeltro (1472) e le bramosie di Lorenzo il Magnifico avevano acquistato

le forme rinascimentali del Mastio, «nella via di Corso Martio» – secondo la testimonianza del naturalista e scultore volterrano Zaccaria Zacchi (1474-1544) – erano esposte statue, urne ed epigrafi per il pubblico godimento, una sorta di museo all’aperto o di passeggiata archeologica ante litteram. Fenomeno, del resto, non isolato, se a Roma lo stesso papa Sisto IV aveva donato al popolo romano alcuni bronzi antichi (come lo Spinario e, soprattutto, la Lupa) che costituirono il primo nucleo del museo capitolino. Ma questo interesse per il bene e il decoro pubblico si manifestò in maniera ancor piú significativa nel 1732, quando, a seguito della scoperta nella necropoli del Portone di una tomba a camera ricca di oltre quaranta urne cinerarie, il canonico Pietro Franceschini, nonostante le

A sinistra: il teatro romano di Volterra, la cui costruzione, fra il 1 a.C. e il 20 d.C., fu interamente finanziata da due membri della gens dei Cecina, A. Caecina Severus e C. Caecina Largus.

In basso: ricostruzione della sepoltura entro dolio rinvenuta negli scavi in località L’Ortino: i contenitori sono rappresentati sezionati per evidenziare l’interno.

no naviglio che costeggia i lidi tirrenici alla maniera dei mercanti greci o levantini, anche il piú distratto ospite della città sente che è giunto in un luogo abitato da sempre, dove ogni zolla profuma del lavoro dell’uomo e della natura; ogni radice protegge un anfratto, profetico specchio di un passato glorioso.

L’ETRUSCHERIA Fin dal Secolo dei Lumi, Volterra è stata visitata per le sue antiche vestigia. L’etruscheria è stata alimentata per decenni da importanti ritrovamenti volterrani e molte sono le collezioni che si sono formate in città tra il XVIII e il XIX secolo. Non è insolito trovare nei giardini delle ricche residenze aristocratiche, negli atri o nei corridoi dei palazzi nobili, relitti delle passate genti: figure di pietra o semplice vasellame, lapidi e gioielli, vivi testimoni della a r c h e o 51


SCOPERTE • VOLTERRA

richieste di facoltosi antiquari fiorentini, donò il prestigioso complesso al Municipio di Volterra «perché fossero di pubblico ornamento alla città natale». Nacque cosí il primo nucleo del museo civico, che, qualche anno dopo, si arricchí delle donazioni Falconcini (1740) e Incontri (1741), ma soprattutto del Museo e della Biblioteca Guarnacci (1761). In questo modo, nel corso del XVIII secolo, la comunità di Volterra non solo si dotò di un museo pubblico (tra i primi in Europa), ma prese consapevolezza del proprio antico passato: non a caso, nel 1744, il magistrato di Volterra riuscí a far emettere un provvedimento granducale

Bastione Mediceo Porta Fiorentina

Porta S. Felice

Porta di Docciola

Palazzo Viti Palazzo Pretorio Duomo

L'Ortino

S. Andrea

Porta all’Arco

Porta Marcoli

Volterra

Palazzo Inghirami Mu ra M edieva li

Borgo Sant’Alessandro

Museo Etrusco Rocca Nuova (Maschio)

Fortezza

Porta a Selci Rocca Vecchia (Femmina)

LA RICERCA «PER LEGGE» Nella storia della ricerca ci sono date che fanno sí che si possa dire: «da oggi tutto cambia». Il 12 aprile 2006 entra in vigore il Codice degli Appalti, col decreto legislativo 163/2006. Nasce cosí ufficialmente, con gli articoli 95 e 96 dello stesso decreto, la Verifica Preventiva dell’Interesse Archeologico. Dopo alcuni anni di «rodaggio», l’applicazione sistematica della normativa ha iniziato a dare i suoi frutti, in particolare in contesti pluristratificati come Volterra, nei quali il prosieguo della vita impone continue opere di manutenzione e interventi di ogni genere.

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Volendo quindi presentare una sintesi dei nuovi risultati emersi dalle indagini, potremmo ricordare innanzitutto le asce neolitiche da Sant’Alessandro, che costituiscono, a oggi, il piú antico rinvenimento documentato nel centro abitato. Significativo è anche il recupero effettuato alle Ripaie, in prossimità dell’area necropolare – da sempre considerata «l’archivio della piú antica storia di Volterra» per la presenza di oltre sessanta sepolture comprese tra la facies Volterra I e l’Orientalizzante recente –, dove è venuto alla luce un contesto di lavorazione dei metalli

probabilmente risalente all’incipiente Bronzo Finale. Da qui, risalendo il corso della storia, giungiamo a una costellazione di attestazioni dell’età del Ferro, delle quali ricordiamo qui, per l’attinenza al tema della mostra, le scoperte in località La Torricella. Non meno interessanti sono le altre scoperte urbane, tra cui quelle in Piazzetta dei Fornelli, le scoperte dall’Acropoli, le indagini in via Porta Diana, l’individuazione di un nuovo ingresso al teatro romano, fino a giungere alla scoperta dell’anfiteatro (vedi «Archeo» n. 392, ottobre 2017; anche on line su issuu. com), sorvolando su L’Ortino, oggetto della mostra. Nuovi, abbondanti dati sono giunti poi dalle indagini archeologiche attivate a seguito dei due crolli che hanno funestato Volterra tra gennaio e marzo 2014. Nel crollo di un’ampia porzione delle mura medievali in via Lungo le Mura, le indagini archeologiche hanno messo in luce una sezione di 8 m di altezza, uno straordinario palinsesto della storia di Volterra dall’epoca villanoviana


per evitare che si conducessero scavi senza un’autorizzazione dell’apposita Deputazione comunale. Le importanti scoperte dei secoli XVIII e XIX permisero di ricostruire la fisionomia di una città ricca e importante, dotata di mura possenti e di grandi necropoli. Un centro, tuttavia, dove l’assenza di contesti piú antichi e la quasi totale mancanza di reperti del periodo di formazione del centro protostorico suggerivano uno sviluppo tardivo rispetto ad altri centri dell’Etruria (Cerveteri,Tarquinia eVulci, ma anche Chiusi): ancora fino alla fine del XIX secolo il volto della Volterra antica era ricostruito quasi esclusivamente sulla base delle testimonianze funerarie

sino al XIX secolo. Collegata a queste indagini è poi la scoperta, lungo viale Lorenzini (all’epoca dell’intervento chiamato viale Trento e Trieste), di un ulteriore bacino archeologico che ha restituito, tra l’altro, parte di una struttura insediativa villanoviana con importanti tracce del rito di fondazione. Tutti questi dati, provenienti da indagini degli ultimi

d’età ellenistica. Solo con gli scavi a Monte Bradoni (Tomba Manetti 1875), a La Badia (1885) e alla Guerruccia (scavi Cherici-Ghirardini 1892-1898) iniziò la lenta riscoperta della storia della prima Volterra: testimonianze funerarie di un passato allora inaspettato (quanto atteso), che ha trovato significativa conferma negli studi di Enrico Fiumi e di Gabriele Cateni, soprattutto grazie alle scoperte de Le Ripaie (1969).

LE NUOVE ACQUISIZIONI Nonostante queste notevoli testimonianze, a cui, nel 1996, si è aggiunto lo straordinario complesso della Tomba del Guerriero di Poggio alle Croci, fino a pochi decenni

anni condotte dalla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Pisa e Livorno (all’epoca di molti dei ritrovamenti ancora Soprintendenza Archeologia per la Toscana), sono stati sommati ai dati bibliografici e a quelli forniti dall’Università degli Studi di Pisa e stanno confluendo nella carta archeologica della città di Volterra in corso di redazione, grazie a un finanziamento erogato tramite Art Bonus dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra. Nell’esposizione sui ritrovamenti de L’Ortino abbiamo quindi creduto opportuno presentare una selezione, piccola ma significativa, dei reperti provenienti dagli scavi recenti che hanno restituito materiali coevi. Questi oggetti, spesso frammentari, provengono da siti non noti in precedenza, e hanno contribuito, assieme a infinite attestazioni bibliografiche o documentate da rinvenimenti ancora inediti, a fornire un quadro piú completo della nasciata del centro urbano volterrano. Elena Sorge

fa sfuggivano ancora le dinamiche insediative dell’acrocoro volterrano, suggerite da rari frammenti ceramici (spesso decontestualizzati) e dai materiali residuali trovati sull’acropoli di età storica (scavi Bonamici). Al contrario oggi, grazie agli scavi condotti in regime di assistenza in relazione ai lavori pubblici (vedi box in queste pagine) o agli interventi di archeologia preventiva in aree particolarmente sensibili (come nel caso di Piazzetta dei Fornelli: vedi «Archeo» n. 392, ottobre 2017; anche on line su issuu.com), non solo possediamo cospicue informazioni sulla vita e sui sistemi insediativi dell’età del Ferro, ma riusciamo a definire in maniera piuttosto precisa la valenza e l’importanza del centro protourbano su cui sorse la Velathri (nome etrusco di Volterra, n.d.r.) di età storica. In questo contesto, in questo rinnovato interesse per la storia piú antica di Volterra, a seguito dello scavo e delle importanti testimonianze recuperate in località L’Ortino, è stata realizzata, fra il 2018 e il 2019, la mostra «I signori de L’Ortino. Aristocrazie gentilizie all’alba della città di Velathri», una iniziativa promossa dalla SABAP Pisa e Livorno e dal Comune di Volterra, con il contributo di Art-Bonus e della Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra e organizzata dalla Cooperativa Archeologia. Una mostra che, accanto alle testimonianze materiali provenienti dal nuovo contesto archeologico, ha cercato di mettere a fuoco le dinamiche che, dalla nascita del centro protourbano, nella tarda età del Bronzo, portarono alla formazione della città di età storica. Giacomo Baldini A sinistra: Volterra, via Lungo le Mura: foto scattata al termine dello scavo condotto nell’area del crollo delle mura del 31 gennaio 2014. Nella pagina accanto: Volterra, Acropoli: rimozione delle macerie dello sperone crollato il 3 marzo 2014. a r c h e o 53


SCOPERTE • VOLTERRA

Nell’ambito del progetto di edificazione del nuovo asilo nido comunale, a Volterra, in località L’Ortino, nel marzo 2014 è iniziata un’attività di archeologia preventiva. L’area riveste un notevole interesse dal punto di vista archeologico: poco distante, infatti, Mario Guarnacci prima (1758) e Annibale Cinci poi (1874-1884) scavarono le terme romane di San Felice, mentre, in località Le Colombaie,

nomastica: nei pressi è attestato il toponimo Sburleo, volgarizzazione del latino mausoleum, che potrebbe indicare la presenza di strutture funerarie, cosí come testimonia l’edicola laterizia di Spedaletto, nell’omonima località in Valdera, proprio ai piedi di Volterra. A poca distanza dal terreno, infatti, subito fuori Porta all’Arco, secondo Luigi Falconcini, storico del XVI secolo, si trovava un monumento sepolcrale.

In alto: Volterra, L’Ortino. La cisterna con copertura «a tholos» individuata e parzialmente scavata nella campagna di scavo del 2016, costruita verosimilmente nella tarda età

ellenistica e in uso fino all’età romano-imperiale. A destra: Volterra, L’Ortino. Particolare dei resti dell’edificio con pilastri. Fine del VII-prima metà del VI sec. a.C.

agli inizi del XX secolo, fu rinvenuta una tomba a camera orientalizzante, oggetto di un nuovo intervento (tuttora in corso in regime di concessione di scavo) da parte dell’insegnamento di etruscologia del Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa (scavi Rosselli). Del resto, anche Enrico Fiumi (1908-1976) – che fu ispettore onorario delle Antichità e Belle Arti e direttore del Museo e della Biblioteca Guarnacci – aveva sottolineato l’importanza dell’area su base topo-

Nel corso delle indagini, effettuate su finanziamento del Comune di Volterra, è stato portato alla luce un bacino archeologico di grande rilevanza, con una complessa sequenza stratigrafica, compresa fra l’età del Ferro e la piena romanità. Dopo svariati mesi di indagine, attualmente sospesa ma non ancora terminata, un accordo tra il Comune e la Soprintendenza Archeologia per la Toscana, divenuta, a seguito della riforma, Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Pisa e Livorno, ha consentito la co-

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struzione del nuovo edificio, con l’impegno da parte del Comune di risparmiare nel progetto le porzioni ancora da scavare o di utilizzarle come spazi di servizio (per esempio parcheggi o aree a verde), per permettere di proseguire nel tempo le indagini, cosí da poter giungere, ove possibile, a una valorizzazione.

LA PRIMA OCCUPAZIONE La presenza di materiali residuali suggerisce che il sito fu frequentato già dalla primissima età del Ferro, anche se la prima fase di occupazione stabile è da riferire al pieno VIII secolo a.C., come sembrano attestare i resti di strutture capannicole individuate nel corso delle indagini, seguita da una profonda ristrutturazione rappresentata anche da opere di terrazzamento. Di grande rilevanza è l’edificio realizzato nel corso dell’età orientalizzante e in uso almeno fino alla metà del VI secolo a.C. – di cui si conservano tratti di muri e basi per pilastri –, interpretabile, sulla base dei ricchi materiali e del tipo di struttura, come una residenza di alto rango, sul modello dei «palazzi» di Murlo e Casale Marittimo: a strutture aristo-


Il contesto Volterra, L’Ortino. Planimetria delle principali emergenze alla conclusione dell’intervento del 2017 (rilievo ed elaborazione grafica di Emanuele Mariotti).

cratiche e allo scambio di dono tra capi sembrano rimandare anche i materiali recuperati, tra cui si segnalano sontuose coppe in bucchero decorate (vedi box alle pp. 60-61). La funzione di questo edificio, obliterato alla metà del VI secolo, ha suscitato nuovi interrogativi, perché, per certi aspetti, esso sembra connotato in senso religioso. Infatti, nonostante sia chiara la doppia valenza dei palazzi in età orientalizzante e arcaica, in questo caso il recupero di elementi di età ellenistica dalla va-

lenza specificatamente sacra (come i piccoli balsamari o una fiaccola fittile che troviamo significativamente associati anche nel complesso dell’acropoli), sembra suggerire un utilizzo per fini cultuali fino alla piena romanità. Tra la fine dell’età villanoviana e l’Orientalizzante (VII secolo a.C.) l’area fu utilizzata anche come necropoli, come dimostrano le tre tombe scavate. Dopo un periodo di apparente abbandono, forse in relazione con la strutturazione del a r c h e o 55


SCOPERTE • VOLTERRA A sinistra: Volterra, L’Ortino. Scavo in laboratorio del cinerario: si notano i reperti del corredo e i resti ossei della cremazione. Seconda metà dell’VIII sec. a.C. Nella pagina accanto, in alto: Volterra, L’Ortino. La tomba a dolio (tomba B) in corso di scavo: in evidenza la seconda cortina di pietre inserite tra il taglio nella roccia e il dolio per assicurare la stabilità. Seconda metà dell’VIII sec. a.C.

centro urbano di Velathri, tra l’età tardo-ellenistica e la prima età romana, venne costruita una imponente cisterna circolare rivestita di grosse pietre sbozzate e legate con argilla, alimentata da canali di adduzione e coperta con una struttura «a tholos», il cui scavo dev’essere ancora terminato. Elena Sorge Tra i molti dati che arricchiscono il quadro relativo alle fasi di occupazione piú antiche, di particolare rilievo sono due sepolture, una a fossa (tomba A), l’altra a dolio (tomba B). La seconda, individuata nella parte centrale dell’area di indagine, era in origine probabilmente coperta con un tumuletto di terra sul quale era infisso un cippo, trovato crollato all’interno del dolio. Fu realizzata scavando nel «sabbione» locale una fossa circolare, al cui interno venne calato il vaso (una sorta di custodia del cinerario vero e proprio), sigillato con tre filari di 56 a r c h e o

Qui sopra: Volterra, L’Ortino. Scavo in laboratorio del dolio: lo strato nero a sinistra è il residuo della terra del rogo. In alto, una fibula in bronzo atta alla vestizione del cinerario. Seconda metà dell’VIII sec. a.C. Nella pagina accanto, in basso: Volterra, L’Ortino. Il cinerario al termine del restauro. Seconda metà dell’VIII sec. a.C.


pietre disposte a raggiera e alternate a livelli di sabbia. Il trasporto del dolio in laboratorio ha permesso lo scavo accurato della tomba e la ricostruzione del complesso rito di sepoltura (vedi box alle pp. 58-59). Il cinerario (un vaso di impasto con decorazione incisa a pettine di tipo villanoviano), verosimilmente vestito con tessuti, come dimostrano le fibule e lo spillone in bronzo trovati all’esterno dell’urna, era adagiato sui resti del rogo funebre (ustrinum), rievocando la posizione del corpo del defunto sulla pira. All’interno del vaso, insieme ai resti ossei, sono state trovate fibule, fermatrecce e una rara armilla ad arco trinato in bronzo, oltre a una fuseruola in impasto, che connotano la sepoltura come femminile di alto rango. Sulla base delle caratteristiche della sepoltura

e del corredo di accompagno, il sepolcro va collocato entro la seconda metà dell’VIII secolo a.C. Giacomo Baldini,Valeria d’Aquino A pochi metri di distanza dalla tomba a dolio, in una porzione di terreno caratterizzata da livelli di sabbie e affioramenti di panchino, è stato messo in luce il taglio per una sepoltura a inumazione (tomba A), profondamente manomessa in età moderna dall’uso agricolo dell’area. Dell’individuo, sepolto in fossa semplice, orientata in senso estovest, si conservano alcuni frammenti dell’occipitale, della mandibola e della mascella (con denti annessi), l’emitorace destro, l’arto superiore destro, clavicola e scapola destre, parte del bacino, entrambe le tibie e i piedi. L’analisi antropologica permette di stabilire una de(segue a p. 60) a r c h e o 57


SCOPERTE • VOLTERRA

QUANDO LO SCAVO SI FA IN LABORATORIO A seguito dell’asportazione della sepoltura villanoviana entro dolio dal contesto originario e prima del suo trasferimento in laboratorio, la Soprintendenza ha ritenuto opportuno svolgere un’indagine diagnostica preliminare sul vaso cinerario. Presso il reparto di Radiologia dell’Ospedale di Volterra, grazie alla disponibilità di Sabino Cozza e della sua équipe, il manufatto in impasto è stato sottoposto a una Tomografia

computerizzata, che ha consentito di stabilire il numero, l’esatta collocazione e lo stato di conservazione degli oggetti del corredo ivi contenuti. Le informazioni raccolte hanno quindi guidato la mano degli archeologi nella fase di microescavazione del cinerario al Centro di Restauro. In questa stessa sede ha anche preso il via l’attività di restauro, che ha previsto la ripulitura, il consolidamento, la

ricerca degli attacchi e la ricomposizione del dolio e del cinerario, nonché il restauro e il consolidamento delle fibule e degli altri reperti in metallo. Conservato nelle condizioni di rinvenimento e recupero, il dolio si presentava in un discreto stato di conservazione, a eccezione della parte sommitale. Le superfici, avvolte da garzature e strisce di tessuto bloccato da nastro adesivo, relative al primo intervento A sinistra: il cinerario in fase di restauro presso il Centro di Restauro della Soprintendenza Archeologica della Toscana a Scandicci. In basso: immagine delle tomografie effettuate sul cinerario presso l’Ospedale di Volterra che hanno evidenziato la presenza del corredo.

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In questa pagina: lo scavo (qui accanto) e il restauro (in basso) del dolio, condotti presso il Centro di Restauro della Soprintendenza Archeologica della Toscana a Scandicci.

conservativo necessario per il trasferimento del contenitore in sicurezza da Volterra a Firenze, presentavano localizzate e consistenti incrostazioni terrose e calcaree ben aggregate alle superfici. È stato necessario realizzare varie integrazioni per sorreggere i pesanti frammenti dell’orlo ricollocati e per restituire una corretta leggibilità all’oggetto. Le nuove integrazioni sono state eseguite con gesso dentistico, pigmentato con terre naturali, e ritoccate con la tecnica del puntinato. Il vaso cinerario biconico rinvenuto nel dolio si presentava frammentario, con superfici interessate da spesse incrostazioni terrose e calcaree. L’impasto ceramico era molto friabile con tendenza a perdere facilmente piccole porzioni di materiale. Tutte le fratture e le microfratture dei frammenti, divenute ben visibili dopo la pulitura, sono state consolidate con una resina termoplastica a freddo. Le integrazioni delle parti mancanti

sono state realizzate con gesso dentistico, pigmentato con terre naturali, per restituirgli leggibilità nella forma e soprattutto una completa stabilità. Gli interventi di restauro, che hanno interessato il corredo, sono stati eseguiti su materiali metallici in lega di rame: fibule, anellini, diversi frammenti di fibule oltre a una fuseruola di ceramica. Gli oggetti in lega di rame presentavano un buono stato di conservazione, anche se frammentari e interessati da differenti tipologie di corrosione e patine superficiali. Tutte le operazioni di «prima pulitura» del corredo, finalizzate alla rimozione dei prodotti di corrosione e delle incrostazioni terrose piú consistenti, sono state eseguite in modo esclusivamente meccanico, tramite microscopio ottico e con l’ausilio di utensili come bisturi, strumenti acuminati, thomas e spazzoline a setole morbide. Il trattamento di tutti gli oggetti con inibitori di corrosione, ha consentito la stabilizzazione delle leghe evitando la nuova

formazione di prodotti di corrosione. L’intervento di restauro della tomba de L’Ortino, accompagnato in ogni fase da accurata documentazione fotografica e note dettagliate delle singole operazioni, ha permesso un’ottima ricostruzione e identificazione di gran parte del corredo e del vaso cinerario, restituendo leggibilità alle sottili decorazioni a incisione. Elisa Caselli, Valeria d’Aquino

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SCOPERTE • VOLTERRA

composizione, almeno parziale, in spazio vuoto, e il rinvenimento di alcuni chiodi a ridosso delle vertebre cervicali potrebbero effettivamente confermare la presenza di un assito a copertura e protezione del corpo durante la deposizione. Le profonde arature hanno livellato il bacino stratigrafico fino alla roccia vergine, impedendo l’inquadramento della sepoltura su base stratigrafica. Tuttavia il ritrovamento di due fibule a drago in ferro sul bacino, di un tipo diffuso nella prima metà del VII secolo a.C., di pertinenza maschile, suggeriscono di inquadrare la sepoltura tra l’Orientalizzante antico e medio. Valeria d’Aquino A destra: frammento di ansa di kyathos in bucchero di produzione settentrionale, con decorazione a stampiglia e a falsa cordicella, da L’Ortino. Seconda metà del VII sec. a.C. In basso: l’allestimento della mostra «I signori dell’Ortino. Aristocrazie gentilizie all’alba della città di Velathri» presso il centro espositivo Santa Maria Maddalena «Spazio Volterra» (21 giugno-3 novembre 2019).

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LA STORIA IN UN FRAMMENTO Lo scavo de L’Ortino, oltre ad aver concorso a definire le dinamiche di sfruttamento a fini abitativi della pendice sud-occidentale del colle volterrano, rilevando la presenza di un nuovo nucleo con capanne e di una necropoli utilizzata dalla prima età del Ferro fino all’Orientalizzante medio (seconda metà dell’VIII- prima metà del VII secolo a.C.), ha portato alla luce i resti di un edificio di straordinario valore storico. In uso tra la fine del VII e la prima metà del VI secolo a.C., ha lo zoccolo di fondazione costituito da pietre legate ad argilla: significativa è la presenza di un lungo muro fronteggiato da tre grossi blocchi equidistanti, interpretabili come basi di colonne, relative verosimilmente a un portico. Molti sono i materiali recuperati, alcuni sicuramente in fase con l’edificio. Tra questi, oltre a frammenti di ceramica etruscocorinzia e a impasti con superficie

steccata e decorata, notevoli sono i reperti di bucchero: vasi con stampiglie (una vera rarità a Volterra), incisioni e lettere iscritte. A rafforzare l’idea di luogo eminente nella società del tempo, vanno segnalati i numerosi frammenti relativi ad almeno tre calici di bucchero sottile. Questa


In alto: frammento di ansa di kyathos in bucchero di produzione ceretana, da L’Ortino. Terzo quarto del VII sec. a.C.

particolare tipologia vascolare, che negli esemplari della Tomba Calabresi di Cerveteri, della Tomba del Duce di Vetulonia, della Tomba di Santa Teresa di Gavorrano e nel kyathos da Monteriggioni raggiunge livelli di artigianato artistico di altissimo pregio, attesta l’uso di scambio di doni tra capi, come è evidenziato dal ricorrere di iscrizioni di dedica.

Alla piena età orientalizzante appartiene anche la sepoltura di un infante di 4-6 mesi circa, deposto entro una piccola fossa terragna di forma sub-circolare. Il corpo era stato collocato in posizione fetale, leggermente girato verso destra, con le gambe rannicchiate in prossimità del tronco e la testa verso sud. Lo studio tafonomico permette di ipotizzare che fosse originariamente avvolto in un sudario o in un involucro in materiale deperibile che, deteriorandosi, ha causato lo scivolamento delle ossa degli arti inferiori ai lati del tronco. All’interno della tomba non è stato rinvenuto materiale di corredo, ma accanto alla sepoltura del bambino, in adiacenza alla fossa e sicuramente in fase con essa, sono

Un caso fortunato ha permesso il recupero, insieme ai frammenti di un prezioso esemplare exciso di produzione ceretana, di un piccolo lacerto di piede in cui si conserva parte dell’iscrizione. La ricorrenza riveste un particolare valore nella ricostruzione della diffusione di questi oggetti e, soprattutto, nello studio delle dinamiche produttive del bucchero in area settentrionale, andando ad aggiungersi al novero degli esemplari che, grazie alle scoperte degli ultimi decenni, è andato progressivamente ad aumentare. Tali sono la quantità e la qualità dei vasi, spesso distinti da specifici caratteri formali, che gli studiosi sono in grado di ricostruire l’evoluzione della bottega che li ha prodotti: da Cerveteri, dove secondo la maggior parte della critica ebbe avvio la produzione, il maestro spostò la sua attività a Vetulonia, dove impiantò un atelier. Kyathos in bucchero con iscrizione di dono, dalla tomba n. 150 della necropoli del Casone a Monteriggioni. Terzo quarto del VII sec. a.C. Volterra, Museo Etrusco «Mario Guarnacci».

In questa bottega non solo furono realizzati gli esemplari trovati in Etruria settentrionale, ma proprio la vivacità del fiorente centro sulle rive del Prile, sullo scorcio del VII secolo a.C., dette l’impulso decisivo per lo sviluppo di importanti manifatture ceramiche, specializzate nella realizzazione di sontuosi vasi di bucchero, stimolando produzioni locali. Per l’area volterrana sembra confermata l’ipotesi di una rotta che da Vetulonia diffondeva questi particolari oggetti (e le maestranze?) lungo la costa e, risalendo il Cecina, penetrava nell’interno, raggiungendo non solo i (piccoli) potentati aristocratici disseminati sul territorio (Monteriggioni e San Gimignano), ma le stesse élite volterrane. Solo ulteriori studi potranno specificare il contributo degli artigiani vetuloniesi nello sviluppo della produzione di bucchero a Volterra. Giacomo Baldini

stati individuati i resti di un piccolo animale entro una buca circolare di dimensioni molto modeste, deposto di fianco e con il muso rivolto verso la sepoltura infantile, in connessione anatomica e senza segni di macellazione. Sotto lo scheletro animale, un piccolo maialino di poche settimane di vita, sono stati recuperati un corno e un piccolo oggetto fittile a forma di parallelepipedo. Sulla base delle modalità di deposizione, appare suggestiva l’ipotesi che il sacrificio dell’animale fosse finalizzato ad accompagnare l’infante nel suo ultimo viaggio insieme a due oggetti il cui significato simbolico ancora ci sfugge. Fabrizio Burchianti, Emanuele Mariotti a r c h e o 61


SCOPERTE • VOLTERRA

LO SPAZIO VOLTERRA Il complesso di Santa Maria Maddalena si trova in piazza San Giovanni a Volterra, nel cuore religioso della città, tra la Cattedrale e il Battistero. Nove secoli di storia racchiusi nell’ampio perimetro che costituí, fin dagli inizi del secondo millennio dell’era cristiana, l’omonimo complesso ospedaliero. Le prime notizie risalgono al 1161, quando è menzionato nel calendario dell’arciprete Ugo. Nel 1271 l’espressione «domum novam hospitalis S. Mariae» suggerisce che nella seconda metà del XIII secolo l’edificio venne totalmente o parzialmente ricostruito, come del resto è avvenuto in epoca rinascimentale e moderna per adeguare il complesso alle nuove esigenze. L’ultima grande modifica risale agli anni Trenta del XX secolo, ma poiché le strutture da tempo erano diventate inadeguate, negli anni Ottanta fu deciso di spostare l’ospedale, iniziando un percorso di restauro e qualificazione terminato nel 2018. Il lungo e complesso restauro dell’edificio che un tempo ospitava l’Ospedale Civile ha permesso alla

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Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra di mettere a disposizione un luogo che non è puramente espositivo ma adattabile a diverse finalità di progettazione e produzione culturale, tanto da generare conseguenze ricche di opportunità per lo sviluppo e il benessere del territorio. Le finalità istituzionali della Fondazione si realizzano pienamente, sottolineando l’importanza dell’azione di sostegno svolta all’interno del territorio, quale motore di benessere e sviluppo non solo sociale e culturale, ma anche economico. Inaugurato nell’ottobre 2018 in occasione del 25° anniversario dalla costituzione della Fondazione stessa, dall’aprile 2019, negli ampi saloni al piano terreno, Spazio Volterra accoglie mostre temporanee di artisti volterrani. Un percorso espositivo proposto al primo piano valorizza, attraverso le collezioni d’arte della Fondazione, la sapienza artistica e il valore creativo del territorio volterrano. Al di sotto del salone centrale è accessibile un’area archeologica di epoca romana, attualmente in corso di studio da parte dell’Università di


Pisa. Una delle sale del primo piano, grazie all’interessamento e alla collaborazione di Elena Sorge, funzionario archeologo della SABAP Pisa e Livorno, ha ospitato la mostra «I Signori dell’Ortino. Aristocrazie gentilizie all’alba della città di Velathri».

In alto: una sezione della mostra «I signori de L’Ortino. Aristocrazie gentilizie all’alba della città di Velathri», nell’allestimento del Palazzo dei Priori. A sinistra: il Centro espositivo Santa Maria Maddalena «Spazio Volterra».

La recente mostra allestita nei locali del Centro Studi Espositivo «Santa Maria Maddalena» ha fatto luce sul ruolo svolto dalla comunità volterrana fin dai primordi della storia. La tradizione antiquaria risalente a Servio attribuisce la fondazione della «colonia» di Populonia ai Volterrani. A prescindere dalla storicità del fatto, le ricerche archeologiche hanno dimostrato come il colle su cui sorse la città sia stato abitato almeno dalla tarda età del Rame, acquisendo un ruolo egemone sul territorio sicuramente dalla prima età del Ferro. In questa fase (IX secolo a.C.) sono noti i primi nuclei abitativi (l’Acropoli, Porta San Felice, Piazzetta dei Fornelli), con una importante necropoli (Le Ripaie), evidenze concentrate tutte sul versante sud-occidentale del colle. Con l’VIII secolo a.C., le testimonianze si fanno piú numerose, doa r c h e o 63


SCOPERTE • VOLTERRA

OLTRE VELATHRI: NOVITÀ SULL’ANFITEATRO DI VOLATERRAE Dopo l’eccezionale scoperta avvenuta a seguito dell’applicazione delle norme sull’archeologia preventiva nel luglio del 2015 e le due brevi campagne nell’autunno dello stesso anno e del 2016 – sostanzialmente finalizzate all’acquisizione di dati preliminari relativi all’estensione e alla natura dell’interro del poderoso monumento (vedi «Archeo» n. 392, ottobre 2017; anche on line su issuu.com) –, si è dato il via, nel 2019, a un’indagine estensiva nell’anfiteatro di Volaterrae. La struttura sorgeva nella vallecola che significativamente si colloca a ridosso di Porta Diana, principale accesso settentrionale aperto nelle mura di epoca ellenistica, lungo una viabilità di origine etrusca, ma ribadita dal principale asse viario nord-sud della città romana. I cospicui fondi messi a disposizione da Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra hanno permesso di 64 a r c h e o

concentrare l’investigazione nel settore nord-orientale dell’edificio, già messo in luce in forma parziale, ove si segnalavano una serie di accessi e/o aperture lungo l’anello piú esterno e un passaggio sostruito, identificabile come una galleria anulare sotto la gradinata della summa cavea, obliterata da poderosi livelli di materiale in crollo. Se già nelle prime fasi di indagine si poteva porre l’accento sulle ragioni pratiche che potevano aver guidato la scelta del luogo, alla periferia del nucleo urbano, ma posto sul medesimo versante del teatro di Vallebuona rispetto all’acrocoro volterrano, le ricerche attuali stanno consentendo di raccogliere notevoli informazioni di carattere tecnico-costruttivo. Questi dati si legano alla configurazione architettonica del luogo e indicano un edificio la cui realizzazione presenta aspetti sincretici di tipo strutturale,

essendo in parte incassato nella roccia di panchino, appositamente regolarizzata, specie nella zona a monte della valle, e organizzato in terrapieni divisi in settori con muri o cassoni, e in parte sostruito sui classici sistemi murari voltati organizzati in una configurazione


A sinistra: Volterra, Anfiteatro: panoramica a fine scavo (ottobre 2019). A destra: Volterra, la Porta all’Arco. IV-II sec. a.C. Nella pagina accanto, in basso: Volterra, Anfiteatro: sezione del deposito stratigrafico messo in luce in uno dei corridoi di passaggio.

anulare. Tali scelte, da legarsi, oltre alle caratteristiche geomorfologiche del suolo, a ragioni di natura economica e alla rapidità di esecuzione, riportano senza dubbio a quanto già osservato per le opere di monumentalizzazione dell’area di Vallebuona, alle cui fasi cronologiche di sistemazione, fra l’età augustea e quella giulioclaudia, sono riferibili i pochi materiali per ora recuperati. Peraltro non mancano importanti tracce di un riuso posteriore della struttura attraverso fabbriche murarie attualmente in fase di indagine e la conferma di una pressoché definitiva scomparsa del monumento in epoca bassomedievale, con sfruttamento agricolo dell’area, come attesterebbe un documento d’archivio recentemente valorizzato. Valeria d’Aquino, Elena Sorge

cumentando forme stabili su gran parte dell’acrocoro (oltre ai luoghi già citati, Vallebuona, La Torricella, Chiesa di San Michele al Foro, viale Trento e Trieste).

UN ASSETTO PIÚ STRUTTURATO Piú strutturato e complesso è il quadro in età orientalizzante. L’Acropoli, infatti, acquisisce i tratti peculiari di santuario poliadico già alla metà del VII secolo a.C., mentre, in continuità con le frequentazioni del periodo precedente, si individuano forme di occupazione specializzata: in via Lungo le Mura sono stati trovati i resti di una palificata, databile all’età orientalizzante, che potrebbe testimoniare l’esistenza di una prima forma di delimitazione del colle in materiale deperibile («recinto urbano»?); a L’Ortino, dopo la fase di occupazione di capanne, venne edificato un edificio tipo anaktoron, in uso

dalla fine del VII fino alla metà del VI secolo a.C. e abbandonato in concomitanza con la strutturazione della città di Velathri, con una dinamica del tutto identica a quella riscontrata sul territorio. Alla metà del VI secolo a.C., infatti, il processo formativo del centro è concluso, con la definizione e la specializzazione degli spazi urbani: la città si dota di possenti mura. Nei decenni successivi, dinamiche politiche e sociali portarono l’oligarchia volterrana a promuovere un controllo sul territorio sempre maggiore, con la progressiva messa a silenzio dei piccoli potentati aristocratici locali, fenomeno potente che permise a Velathri non solo di diventare una delle città piú grandi d’Etruria in età ellenistica, ma, soprattutto, le consentí di dominare un territorio vastissimo, dal mare alla Valdera, dalla Valdelsa alle Colline Metallifere, fino all’arrivo di Roma. Giacomo Baldini a r c h e o 65


ITALIA PREROMANA • L’ARTE DELLE SITULE

QUELLE STORIE SCRITTE SUL BRONZO

DENOMINATE «SITULE», ALLA LATINA, O PIÚ SEMPLICEMENTE «SECCHIELLI DI BRONZO», FURONO CREATE DA UNA CIVILTÀ DIFFUSA A NORD DEGLI APPENNINI DURANTE IL I MILLENNIO A.C. QUESTI PREZIOSI RECIPIENTI – INSIEME AD ALTRI REPERTI CHE ALLA LORO ARTE SI ISPIRANO – SONO I RARI PORTATORI DI UN MESSAGGIO ICONOGRAFICO ANCORA TUTTO DA INTERPRETARE. OGGI, UN NUOVO METODO DI LETTURA DELLE LORO DECORAZIONI APRE LA STRADA A UN’IPOTESI AFFASCINANTE... di Luca Zaghetto

«È

figurata, è figurata!!!». Con queste parole nell’inverno del 1869-70, Antonio Zannoni (1833-1910) accoglieva fra le proprie mani, dall’assistente di scavo che glielo stava porgendo, uno dei piú importanti reperti della protostoria europea, la situla della Certosa di Bologna. Solo pochi anni dopo, nel 1876, un altro grande archeologo, Alessandro Prosdocimi (1843-1911), impegnato nello scavo di una delle necropoli di Este, rinvenne l’altro simile capolavoro in bronzo, la situla Benvenuti. In quella fortunata stagione, studiosi di varia formazione stavano facendo le prime importanti scoperte sulle civiltà fiorite nel I millennio a.C. a nord degli Appennini; come quella che prosperava grazie all’estrazione del sale dalle miniere alpine di Hallstatt, nel salisburghese, o quella veneta che stava delineandosi soprattutto con lo studio delle necropoli di Este, o quella etrusco66 a r c h e o

La situla Benvenuti, rinvenuta nell’omonima necropoli atestina da Alessandro Prosdocimi, nel 1880, all’interno di una tomba femminile. 625 a.C. circa. Este, Museo Nazionale Atestino.

villanoviana dell’antica Felsina, l’odierna Bologna. Civiltà che erano rimaste ai margini della grande storia, quella dei Greci e dei Latini, ma che proprio in quei decenni stavano rapidamente e prepotentemente riguadagnando il loro posto. Dai sepolcreti del bacino alto-adriatico iniziò a riaffiorare una sorprendente e al tempo stesso omogenea classe di manufatti: i bronzi di quella che venne presto chiamata «arte delle situle». Di che cosa si trattava? Perlopiú di veri e propri «secchi», traduzione italiana del latino situla, usati per contenere liquidi e caratterizzati da una decorazione figurata, resa a sbalzo e a incisione, recante una ampia varietà di immagini naturalistiche. Descrivendo, come apparve chiaro anche ai primi studiosi, proprio le genti locali, la loro vita, i loro costumi, i loro oggetti quotidiani e finanche i loro cerimoniali, queste immagini, la cui produzione oggi collochiamo fra il 650 e il 400 a.C.


Un’altra immagine della situla Benvenuti e, in alto, la restituzione grafica delle scene scolpite a rilievo sulla lamina bronzea. 625 a.C. circa. Este, Museo Nazionale Atestino. a r c h e o 67


ITALIA PREROMANA • L’ARTE DELLE SITULE

circa – con una coda fino al 280 A destra: a.C. –, possono essere paragonate a particolare del preziosissime istantanee dell’epoca. terzo registro Tanto piú preziose perché relative a della decorazione popoli di cui poco o nulla si sa dalle della situla fonti storiche e che, tranne in parte i Benvenuti. Veneti e l’etrusca Felsina, non aveva625 a.C. circa. no al tempo ancora conosciuto o Este, Museo adottato diffusamente la scrittura, e Nazionale dunque non hanno lasciato testimoAtestino. nianze dirette. In basso: profilo Tali «fotografie» restituiscono i del prezioso dettagli dell’epoca, come il mobilio manufatto, che e l’abbigliamento – altrimenti quaGiulia Fogolari si completamente perduti –, ma definí «poema ancor piú la vita vera e propria, delle genti fatta di azioni, gesti, riti, insomma venete». tutto ciò che il reperto archeologico (da solo) non può quasi mai raccontare. Per esempio, una «modernissima» corsa di carri leggeri, dove le casacche degli aurighi sono decorate in modo da distinguere bene, come nella tradizione medievale, i quattro contendenti.

UNA FASE CRUCIALE Si aggiunga poi l’importanza del periodo in questione. Siamo infatti, con le prime situle, al passaggio fra l’età orientalizzante e l’arcaismo: non molto diversamente da quanto accade in Grecia o in altre parti d’Italia, ci troviamo nella fase cruciale di nascita e consolidamento del nuovo modello di comunità, ossia quello urbano, che vede quindi in formazione tutte le sue strutture, da quelle sociali, a quelle religiose e culturali. Anche in questo caso, tratti estremamente difficili da individuare in assenza di fonti scritte o, appunto, iconografiche. Tuttavia, per varie ragioni, pur attirando l’attenzione della maggior parte degli studiosi che si sono occupati di protostoria europea, l’arte delle situle non è quasi mai stata oggetto di studi esaustivi. Fino a qualche anno fa si poteva anzi dire che si trattasse di un fenomeno che suscitava piú domande che risposte. Alcune anche decisamente «scomo68 a r c h e o


de». Dov’è nata quest’arte? Perché si diffonde in un’area periferica? Perché si presenta in forma omogenea in un territorio invece frazionato e abitato da popoli di molte e diverse lingue e formazione? A molti di questi interrogativi si riesce oggi a dare risposte plausibili, in particolare se si tratta di ciò che vi è «dietro» le opere. Resta invece ancora aperta la questione riguardo al tema cruciale di quest’arte, e cioè che cosa le immagini rappresentino, di che cosa parlino i racconti. Per sciogliere l’enigma a un secolo e

mezzo dalle prime scoperte, il quadro generale va ripreso con occhi nuovi, in particolare attraverso un nuovo metodo di lettura delle immagini, che chi scrive ha ideato e «testato» su due monumenti fondamentali dell’arte delle situle, come si dirà meglio piú avanti.

LA DISTRIBUZIONE Attualmente si contano in totale circa centocinquanta opere, distribuite in poco meno di cinquanta siti; una sorta di triangolo, che va dal Conero ai laghi lombardi, da questi

alla bassa Austria, e da qui, includendo l’importante serie di centri nella regione di Lubiana, fino alla punta meridionale dell’Istria. Si tratta sempre di opere in bronzo, perlopiú lavorate a sbalzo e incisione. Le piú caratteristiche rimangono le situle, e con esse talvolta anche i coperchi. Numerosi sono però anche i ganci di cintura, cioè le placche metalliche usate per fermare i cinturoni in cuoio che erano in gran voga sia fra uomini che fra donne. Rispetto proprio alla questione di «genere», va detto che si

Carta con le aree di diffusione delle culture presso le quali è attestata la presenza di manufatti riconducibili all’arte delle situle.

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ITALIA PREROMANA • L’ARTE DELLE SITULE

A oggi conosciamo circa centocinquanta opere riferibili all’arte delle situle, perlopiú lavorate a sbalzo e incisione e provenienti da poco meno di cinquanta siti annoverano manufatti decisamente maschili, come elmi militari e foderi di coltello, ma anche, seppur in numero minore, manufatti tipicamente femminili, come per esempio un paio di specchi, o oggetti piú rari, come il tintinnabulo della Tomba degli Ori di Bologna, dalla funzione ancora enigmatica, ma decorato con una eccezionale sequenza di scene di filatura e tessitura. A fronte, si diceva, di circa 150 opere, si contano circa 5000 «parole iconiche», vale a dire rappresentazioni di uomini, donne, animali, elementi vegetali o singoli oggetti della cultura materiale, quali, per esempio, capi d’abbigliamento, armi, strumenti da lavoro, ecc., e circa 500 «frasi iconiche», cioè sequenze narrative, come nel caso di un cacciatore che insegue una preda o di una

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donna in piedi che porge da bere a un uomo seduto su un trono, ecc. Le rappresentazioni sono, naturalmente, di varia natura e lunghezza: racconti molto estesi, sviluppati su tre o anche quattro registri e dotati di un’impaginazione raffinata e complessa, oppure narrazioni molto piú brevi, costituite anche da una sola scena. Di norma i temi sono piuttosto ripetitivi: fra i piú rappresentati si contano sfilate di personaggi in abiti civili in cui si colgono i principi dell’epoca, i loro «clienti» e le vittime sacrificali, oppure libagioni, di cui sono in genere protagonisti gli stessi principi e il loro personale di servizio, o ancora agoni, fra pugili, musici o fra carri, oppure scene di caccia, di aratura ed erotiche. Non mancano, infine, episodi a sfondo militare, sia scontri fra avver-

sari, sia parate di interi eserciti. I protagonisti sono perlopiú figure maschili, ma vi sono pure, come già visto nel caso del tintinnabulo di Bologna, rappresentazioni interamente dedicate al mondo muliebre. Da citare, a tal proposito, la situla da Pieve d’Alpago, recentemente rinvenuta in Cadore (Belluno). Nella decorazione si osserva un’inedita serie di avventure erotiche di natura sempre eterosessuale, che terminano con un’unione amorosa fra due amanti distesi su un letto – che nella «lingua» dell’arte delle situle indica quasi certamente un’unione fra sposi – e infine un soggetto unico nella cerchia, una scena di parto. Numerose sono anche le figure animali, spesso ritratte in sequenze interamente a loro dedicate. In questi soggetti si percepisce bene la paren-


tela con l’orientalizzante, cioè con la corrente artistico-artigianale che, ispirandosi ai repertori orientali, fiorí in Grecia e in Etruria fra il 750 e il 600 a.C. circa. Ciò vale soprattutto per le creature fantastiche che compongono il bestiario dell’arte delle situle: leoni e cavalli alati, sfingi, grifoni sono gli indicatori di un mondo sovrannaturale che, nei nostri racconti, sembra convivere con quello apparentemente piú prosaico delle bestie realistiche, come i buoi condotti dal contadino munito di aratro verso i campi da dissodare.

ARTIGIANI ABILISSIMI Proprio l’evidente discendenza di questo bestiario da quello dell’orientalizzante e, soprattutto, dai prodotti rinvenuti in Etruria – come, per esempio, i buccheri figurati o le ceramiche dipinte etrusco-corinzie –, aiuta a rispondere a una delle prime domande, cioè dove nacque l’intero movimento. A oggi resta infatti valida l’ipotesi formulata da Giovanni Colonna alla fine degli anni Set-

In questa pagina: fotografia e restituzione grafica del tintinnabulo della Tomba degli Ori di Bologna. 630 a.C. circa. Bologna, Museo Civico Archeologico. Sul manufatto corrono scene di filatura e tessitura. Nella pagina accanto: restituzioni grafiche della decorazione delle situle della Certosa (in alto). e da Pieve d’Alpago (Cadore; in basso).

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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ITALIA PREROMANA • L’ARTE DELLE SITULE

tanta, e cioè che il toreuta e/o l’officina iniziale fossero di origine appunto etrusca e che in qualche modo la scintilla fosse scoccata a Bologna. Lí peraltro erano attivi già da decenni abili artigiani esperti in arti figurative, provenienti dall’Oriente, e in particolare dalla Siria, come testimonia la fiorente produzione felsinea di stele funerarie. Molto probabilmente, visti e apprezzati a Bologna e a Este – dove si contano, come a Bologna, i pezzi pregiati piú antichi –, i bronzi figurati iniziarono a essere richiesti anche presso aree periferiche, ove giunsero dapprima forse solo prodotti già decorati, come per esempio coperchi con scene animali, e successivamente le maestranze, cioè quegli artigiani cesellatori che si fermarono poi a lavorare nei luoghi dove c’era maggiore richiesta. È questo il caso, probabilmente, delle

Alpi Retiche e, soprattutto, della Dolenjska, la regione di Lubiana, dove dal 600 a.C. in poi, come già accadeva nelle succitate città della Pianura Padana, iniziarono a essere realizzate situle e altri bronzi con forme locali e che, soprattutto, ritraevano la realtà ugualmente locale.

ANTICHI RESTAURI Un altro importante passo in avanti è stato quello di riconoscere la funzione originaria dei nostri bronzi. Quasi tutti presentano infatti tracce d’uso e alcuni, come la situla Benvenuti, persino segni di restauri e riparazioni fatte in antico. Benché deposti in tomba, tali manufatti dovevano quindi essere stati ideati e poi prodotti per essere utilizzati principalmente nella vita quotidiana: le situle per contenere liquidi e per essere, con ogni probabilità, mostrate agli ospiti in occasioni di incontri im-

portanti, i cinturoni e i foderi di coltello per essere indossati, e cosi via. Il loro rinvenimento in tomba va quindi letto come esito secondario: alla morte del proprietario, il singolo manufatto poteva cioè, come molti altri, essere deposto assieme al defunto come oggetto di corredo. Il che, di riflesso, porta a supporre che le opere circolanti fossero molte di piú di quelle trovate e che gli scavi futuri potranno riservare ancora molte sorprese. Venendo ai significati, sin dalla fine dell’Ottocento ha continuato ad avere grande credito l’ipotesi funeraria/oltremondana, l’idea cioè che le raffigurazioni rappresentino cerimonie funebri, o comunque una sorta di Aldilà in cui ritroviamo il principe e i suoi pari. Per altro verso, c’è invece l’ipotesi realistica, ovvero che si debba trattare di «semplici» rappresentazioni della

La situla della Certosa, dall’omonima necropoli. Prima metà del VI sec. a.C. Bologna, Museo Civico Archeologico. Nei quattro registri vi sono: una parata militare; una sfilata di civili; una festa con giochi atletici, musicali e libagioni; due scene di genere, con rimandi all’agricoltura e alla caccia; una teoria di animali, perlopiú fantastici e feroci.

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A sinistra: particolare della decorazione della situla della Certosa. Prima metà del VI sec. a.C. Bologna, Museo Civico Archeologico. In basso: restituzione grafica della corsa di carri leggeri raffigurata sulla situla di Kuffarn (il manufatto originale è conservato presso il Naturhistorisches Museum di Vienna). Le casacche degli aurighi sono decorate in modo da distinguere bene i quattro contendenti.

vita reale. E terza, vi è, piú recente, l’ipotesi mitologica, ossia l’opinione che si tratti di miti e leggende dell’immaginario delle popolazioni altoadriatiche. A tirare le somme, l’ipotesi che oggi risulta forse piú debole è proprio quella che ha avuto maggior fortuna, vale a dire quella funeraria. Sia perché, come detto, si tratta di og-

getti che facevano parte della quotidianità e che quindi non avevano apparente ragione di recare immagini funebri, sia perché sta emergendo un quadro molto piú articolato, dove la chiave interpretativa unica non pare poter funzionare per tutte le narrazioni figurate. Quale tipo di significati dobbiamo dunque aspettarci? Vista la presenza

del ricco bestiario fantastico, vi sono con ogni probabilità racconti di ambientazione oltremondana e/o mitologica: è il caso, per esempio, della decorazione dell’elmo di Pitino, nelle Marche, dove fra i vari animali campeggiano due sfingi in lotta, in una probabile rappresentazione del conflitto fra elementi primordiali. Ma ciò che sembra essere il focus della raffigurazione è il rito; e, con esso, la storia, cioè episodi, seppur eccezionali, realmente accaduti.

SCENE DA UN MATRIMONIO Alcune opere lo suggeriscono anche a prima vista. Per esempio, la situla di Nesazio, in Istria – regione nota per la marineria e per le sue azioni di pirateria –, dove troviamo le immagini di uno scontro fra una nave in assetto da guerra all’assalto forse di un sito terrestre. Oppure, passando a tutt’altra sfera, lo specchio di Castelvetro (Modena), ugualmente del 500 a.C.: il manufatto in bronzo, di proprietà di una donna, reca appropriatamente una narrazione a sfondo matrimoniale, in cui si colgono la trattativa per la dote, la consegna della stessa sotto forma di cavalli e infine il compimento dell’atto sessuale sotto lo sguardo del capofamiglia. Ma i responsi piú stimolanti vengono dalle due situle «maggiori», soprattutto, come detto, dopo il loro recente e dettagliato riesame. Iniziamo dalla piú antica, la situla Benvenuti di Este (625-620 a.C. circa), «poema delle genti venete» come la definí Giulia Fogolari (1916-2001).

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ITALIA PREROMANA • L’ARTE DELLE SITULE

LO SPAZIO E IL TEMPO Come buona parte delle opere figurate di età orientalizzante, le narrazioni dell’arte delle situle sono composte con metodo «sinottico». Seguendo tale metodo, l’artista tende a concentrare in un unico quadro episodi legati concettualmente, ma lontani nel tempo e nello spazio. Quella che dunque può sembrare un’impaginazione ingenua e scoordinata, a un esame piú attento può rivelarsi invece una complessa costruzione, ricca di riferimenti di vario tipo. E cosí si sono rivelate

tanto la situla della Benvenuti quanto quella della Certosa. In quest’ottica diventa fondamentale, dunque, individuare i nessi celati, e in particolare quelli spazio-temporali, che sono anche quelli di norma piú difficili da cogliere nei linguaggi delle immagini. Nell’arte delle situle, a fornire le indicazioni di spazio e tempo, secondo l’ipotesi elaborata da chi scrive, sarebbero le figure animali. Nella situla Benvenuti, la sequenza che occupa il secondo registro

consiste infatti di figure utilizzate per esprimere i loro diversi habitat. Tali habitat da un lato corrispondono a quelli che via via si susseguono allontanandosi da un ipotetico centro cittadino, dall’altro mostrano anche una valenza orografica: in essi si colgono infatti riferimenti alla bassa, media, alta montagna, nonché alle vette. Collocata fra i due eventi principali della narrazione, e cioè la vittoria dei militari di Este su un contingente di «barbari» e le feste che ne conseguono, tale sequenza Lettura in chiave diatopica del secondo registro della situla Benvenuti: l’allevamento potrebbe indicare i pascoli (ed eventualmente i territori piú vicini al mare); la predazione, con protagonista un felino alato, può invece indicare la selva, i territori piú distanti da predatori feroci e (già) sovrannaturali; il grifo e la sfinge possono infine indicare le regioni piú remote.

vetta parete alta montagna collina, montagna, selva

territori extracittadini regno delle fiere

In una sapiente e sofisticata impaginazione delle immagini, il registro inferiore racconta di un’importante vittoria militare: un esercito di opliti, verosimilmente i militari di Este, equipaggiati come gli opliti greci, sconfigge uno o piú contingenti di «barbari»; un princi74 a r c h e o

pe su carro guida il ritorno in patria del corteo di vincitori e prigionieri, in attesa, sembra, che gli venga riservato il trionfo. Nel registro superiore sembrerebbe ritratta invece la festa successiva al trionfo: qui il principe, seduto su trono e assieme ad altri dignitari di

pianura (ed ev. vie per alpeggi)

territorio cittadino regno degli umani

rango elevato, ugualmente intenti a bere (vino), celebra un cavallo prima del suo sacrificio. Ma il dato rilevante non è tanto e solo nella (notevole) coerenza del racconto (vedi box in queste pagine), quanto piuttosto la coincidenza fra ciò che viene messo in scena e un rituale


sembra dunque consegnare al lettore le chiavi per collocare gli eventi, che si possono cosí (provare a) parafrasare: i militari avrebbero condotto le loro imprese lontano da Este, in direzione nord, oltre il crinale montano, presso regioni boscose, tornando poi vincitori in terra patria e con il bottino di prigionieri. Quanto al tempo, esso sembrerebbe essere rappresentato dalla figura del Centauro, ritratto (significativamente) a fianco delle feste. Se esso, come da ipotesi, può rappresentare la costellazione del Centauro – una delle piú note nella protostoria mediterranea – la colomba, come da tradizione, potrebbe rappresentare le Pleiadi (e la sfinge il sole o un traguardo solare). Se si torna al cielo di Este

agli anni in cui venne realizzata la situla, se ne ricava che Centauro e Pleiadi innanzitutto in levata eliaca formano un allineamento, episodio difficilmente casuale; lo formano poi muovendosi in direzione contraria (il primo sorgendo all’alba, il secondo occultandosi al tramonto), proprio come nella raffigurazione; e fatto assolutamente da rimarcare, per pochissimi giorni all’anno: i giorni attorno alla metà di ottobre. Gli stessi in cui a Roma si esegue l’october equus, il sacrificio del cavallo. Il medesimo sacrificio, di antichissima tradizione indoeuropea, che si suppone sia rappresentato dal toreuta sulla situla Benvenuti. E qui, con due date pressoché coincidenti, pensare a una pura casualità non è cosí facile.

tipicamente romano, quello del sacrificio del cavallo, noto come october equus. Si teneva a metà ottobre, il mese di Dioniso (e dell’imbottatura del vino), a conclusione della stagione bellica e nell’area del Campo Marzio, dove, con notevoli similitudini con la narrazione della situla di

Este, si trovavano sia la fine della via triumphalis, sia lo stadio in cui doveva aver gareggiato il cavallo prescelto per il sacrificio, sia le Nixae, il luogo dove il cavallo, unico fra le vittime sacrificali, veniva eccezionalmente abbattuto con una lancia. Veramente sorprendente, infine, ri-

A sinistra: la volta celeste sopra a Este il 15 ottobre del 620 a.C. nel momento della levata eliaca. Sole, Centauro e Pleiadi risultano allineati lungo la linea dell’orizzonte per pochi giorni. In basso: posizione reciproca di Sole, Centauro e Pleiadi nel cielo autunnale di Este nel 620 a.C., tenendo come punto fisso il sorgere del Sole: 1) il 30 settembre, al levarsi del Sole le Pleiadi sono al tramonto e ancora visibili, ma il Centauro non è ancora sorto; 2) all’alba del 15 ottobre, Sole, Centauro e Pleiadi sono tutti visibili in allineamento (Sole e Centauro in fase di levata, le Pleiadi al tramonto); 3) il 30 ottobre, al sorgere del Sole, il Centauro è già ben elevato e riconoscibile, ma le Pleiadi, ormai scese sotto la linea dell’orizzonte, non sono piú visibili.

sulta l’ipotesi che il centauro ritratto sulla Benvenuti, vicino agli episodi festivi, raffiguri un allineamento astronomico e quindi una possibile data, perché in questo caso i calcoli concedono un unico breve periodo: i giorni attorno alla metà di ottobre, esattamente quando a Roma si saa r c h e o 75


ITALIA PREROMANA • L’ARTE DELLE SITULE

In alto: restituzione grafica della situla di Nesazio (Istria), sulla quale compaiono immagini di uno scontro fra una nave in assetto da guerra all’assalto forse di un sito terrestre.

In basso: restituzione grafica dell’elmo di Pitino (Marche). Fra i vari animali, campeggiano due sfingi in lotta, in una probabile rappresentazione del conflitto fra elementi primordiali.

crificava il cavallo d’ottobre! I Veneti e forse anche altre culture alto-adriatiche praticavano dunque un cerimoniale quasi identico a quello che si teneva nell’Urbe, e persino nello stesso periodo dell’anno? Possibile, anzi probabile, non solo perché si trattava di un rituale antichissimo, di eredità indoeuropea, ma anche alla luce di altri ri-

scontri. Su alcuni frammenti dell’arte delle situle dalla Slovenia, per esempio, si vedono cavalli (e solo cavalli!) pronti a essere sacrificati, come a Roma, con la lancia; o, ancor piú eloquentemente, la pariglia di cavalli sacrificati rinvenuta nel cuore di Bologna, in via Belle Arti, di cui uno con ancora la cuspide della lancia nel collo.

E veniamo dunque a Bologna. Anche la situla della Certosa presenta una complessa e coerente impaginazione, questa volta su quattro registri. Anche qui, la difficoltà principale sta nel legare assieme temi che apparentemente hanno poco in comune: la parata militare di un prestigioso esercito che, per inciso, nella suddivisione dei corpi e nell’armamento ricorda da vicino quello riformato da Servio Tullio a Roma nel 570 a.C.; una sfilata civile con vittime sacrificali; una festa fra dignitari all’interno di un’abitazione con giochi atletici, musicali e libagioni, due scene di genere ai lati, con rimandi all’agricoltura e alla caccia; un quarto registro interamente occupato da animali, perlopiú fantastici e feroci. Un particolare sembra essere però risolutivo: le vittime sacrificali del corteo civile sembrerebbero tre, un bue, un capro e un maiale. Le stesse che si ritrovano nei suovetaurilia, riti sacrifi-

Le decorazioni osservate sulle situle mostrano sorprendenti affinità con culti e tradizioni attestati nella Roma dei re 76 a r c h e o


cali espressione della cultura religiosa romana e italica. Tali riti ci sono noti sulla base di varie fonti, fra le quali le Tavole Iguvine e, per Roma, i documenti dei Fratelli Arvali, i sacerdoti preposti al rito. Nella versione maggiore, quella cioè compiuta dalla comunità di Gubbio una volta l’anno, un collegio di sacerdoti usciva dalla città per purificare le armate schierate in Campo Marzio – operazione simile a quella introdotta da Servio Tullio –; dopodiché ritornava alle mura urbiche per girarci attorno e purificare cosí la città e i suoi abitanti, rivolgendo preghiere anche nei confronti dei beni della terra e degli animali. Stando poi alle fonti latine, la cerimonia si concludeva nella casa del priore, dove si svolgevano giochi e libagioni. Le coincidenze fra i suovetaurilia e la raffigurazione sono molte altre, a cominciare dal fatto che i dignitari (sacerdoti?) della sfilata della Certosa sono dodici, come dodici erano inizialmente i Fratelli Arvali a Roma; in numero di sei sono poi le figure femminili della raffigurazione (sacerdotesse?), come sei erano le Vestali, le sacerdotesse addette alla preparazione della farina lavorata con cui si cospargevano le vittime dei sacrifici pubblici. E si potrebbe continuare a lungo.

LE GESTA DI UN PRINCIPE Per concludere, le due situle «maggiori» sembrano trovare una buona spiegazione dove e quando si inizi a guardare nel retroterra culturale dal quale provengono. E ciò che mettono in scena, benché per certi aspetti risulti sorprendente, è comunque in linea con il patrimonio piú generale delle popolazioni italiche. Fosse anche solo per l’ordine cronologico, con la Benvenuti che coerentemente racconta le gesta di un principe sullo sfondo di un cerimoniale antico, collegato alla regalità, e la Certosa che, piú recente ed espressione di una realtà (Bologna etrusca) piú matura, mostra invece un collegio

Restituzione grafica dello specchio di Castelvetro (Modena). Il manufatto mostra una narrazione a sfondo matrimoniale, in cui si colgono la trattativa per la dote (1), la consegna della stessa sotto forma di cavalli (2) e infine il compimento dell’atto sessuale, sotto lo sguardo del capofamiglia (3).

di dignitari e un cerimoniale che diventerà l’emblema della città e delle sue gentes. Che si tratti poi di riti, e non di miti o di altro, ben si motiva, perché fra questo patrimonio si conta anche la tendenza, tutta romana e italica, a trasformare in «storia» gli eventi, anche quelli appartenenti al mito. È noto come cioè gli Etruschi, alla pari dei Greci, amassero comunicare attraverso miti; ed è altresí noto come i Romani, e gli Italici, preferissero invece il rito e la storia/le storie. E con ciò si arriva anche a soddisfare una delle domande di fondo sull’arte delle situle; perché questi prodotti trovano fortuna in ambito rigorosamente transappenninico? Perché, rispondiamo, essi si esprimono in una «lingua» e con contenuti che sono quelli delle genti di quei luoghi, votati, come altre genti itali-

che, al rito e non al mito. E proprio la diffusione della scrittura in ambito nord-italico, dove l’alfabeto etrusco fu adottato e riadattato per far parlare la lingua veneta o quella retica, sembra costituire un modello non troppo lontano per tentare di immaginare quel che avvenne, poche decine di anni prima, con la lingua delle immagini veicolata dall’arte delle situle, scritta usando un «alfabeto» originariamente altrui, ma in idioma locale. PER SAPERNE DI PIÚ Luca Zaghetto, La situla Benvenuti di Este. Il poema figurato degli antichi Veneti, Ante Quem, Bologna, 320 pp., ill. b/n e col. ISBN 978-88-7849-122-9 www.antequem.it/ a r c h e o 77


VICINO ORIENTE • IRAN

IL MONDO DI

PERDUTO

MARHASHI

CON GLI ULTIMI RITROVAMENTI NEL SITO DI KONAR SANDAL, NELL’IRAN SUD-ORIENTALE, PROSEGUE LA GRANDE EPOPEA INIZIATA NEI PRIMI ANNI DEL NOSTRO SECOLO, VOLTA A RIVELARE LA PRESENZA DI UNA MISTERIOSA CIVILTÀ DELL’ETÀ DEL BRONZO. OGGI, QUEGLI STRAORDINARI MANUFATTI, COSPARSI DI SIMBOLI E SEGNI DI UNA SCRITTURA ANCORA DA DECIFRARE, INIZIANO A «PARLARE»... di Nasir Eskandari, Massimo Vidale, Francois Desset, Irene Caldana, Martina Patriarca, Rita Deiana e Cristiano Nicosia

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In alto: un momento degli scavi condotti dalla missione iraniano-italiana nel sito di Mahtoutabad, presso Konar Sandal Sud. Nella pagina accanto: vaso cilindrico scolpito in cloritoscisto, con un serpente dalle fauci spalancate intarsiato di conchiglia e madreperla. 2500-2400 a.C. circa. Jiroft (Iran), Museo.

S

ono passati quasi vent’anni da quando, nell’inverno tra il 2000 e il 2001, dopo anni di assoluta siccità, il livello del fiume Halil (presso Jiroft, nell’Iran sudorientale), gonfiato da violente intemperie, crebbe improvvisamente di 4 m rispetto alla sua quota normale. Il fiume incise i propri argini, vecchi e nuovi, portando alla luce numerose necropoli del III millennio a.C. I resoconti di allora parlano di vasi preistorici che scivolavano dalle tombe dissolte e fluttuavano come pesci nelle onde vorticose. La drammatica esondazione, che causò decine di vittime, la morte di moltissimi animali e danni materiali per milioni di dollari, diede cosí inizio a una devastante stagione di saccheggi di massa a cielo aperto, durata diversi mesi, nel corso della quale decine di migliaia di reperti di inestimabile valore scientifico finirono sul mercato antiquario, per approdare infine in molte collezioni museali e private. Manufatti dell’età

del Bronzo, soprattutto della metà del III millennio a.C., che erano stati pagati ai contadini una manciata di dollari finirono in vendita, a prezzi vertiginosi, nelle «vetrine elettroniche» dei siti web delle case d’asta in Europa e negli Stati Uniti (vedi «Archeo» nn. 229 e 274, marzo 2004 e dicembre 2007).

VASI MERAVIGLIOSI Lo scempio cessò quando le autorità della Repubblica Islamica dell’Iran intervennero, con decisione e armi alla mano, bloccando i saccheggiatori e confiscando migliaia di reperti, che furono destinati alle collezioni dei Musei di Kerman e di Jiroft. Tra gli oggetti spiccavano, in grande quantità, quelli scolpiti nella clorite (o cloritoscisto): meravigliosi vasi incisi con paesaggi montani popolati di bellissimi animali, inedite scene mitologiche, palmeti stilizzati, immagini di portali a stipiti concentrici, motivi a onde e a «ciocche di lana»,

altri a imitazione degli intrecci di stuoie e canestri, e spesso finemente intarsiati con inserti di madreperla, turchese e calcare rosso. Lo stile era ben noto, grazie al ritrovamento – in Mesopotamia, in Siria, nel Golfo Persico, in Asia Centrale e persino in India – di oggetti finemente lavorati nello stesso stile, fino ad allora definito appunto «interculturale», per sottolinearne la vasta diffusione tra le civiltà del tempo. L’idea era che comunità marginali di abili artigiani, condannate a vivere nell’aridità dell’Altopiano Iranico, avessero inventato uno stile capace di soddisfare un po’ tutti, per meglio «piazzare» i propri raffinati prodotti. Ora, lo stesso stile emergeva con prepotenza visiva nei preziosi oggetti dispersi sul mercato. E, improvvisamente, ci si accorse che, oltre alle necropoli, la valle dell’Halil era costellata di centinaia di tepe (la parola persiana corrispondente all’arabo tell), le colline artificiali create dalla a r c h e o 79


VICINO ORIENTE • IRAN

sovrapposizione secolare delle case e TURKMENI Mar STA N delle loro rovine in mattone crudo, a Caspio volte estese per centinaia di ettari. Dal 2002 al 2008, l’archeologo Ira- T U R C H I A niano Youssef Madjidzadeh condusA Teheran se lunghe campagne di scavo, riveFG DASHT-I KAVIR H A lando parte dei complessi palaziali N IS TA di Konar Sandal Sud (probabilmenN AKKAD IRAN te una delle capitali dell’antico IRAQ Marhashi), opere colossali in muraDASHT-I LUT SUMER tura di mattone crudo, un quartiere abitato da metallurgi e case private ANSHAN della metà del III millennio a.C. Frammenti e contenitori in clorite Jiroft finemente scolpita e intarsiata con Golfo Persico pietre dure trovati nelle rovine rivelavano che si trattava delle residenze OMAN in cui avevano vissuto le persone che sarebbero state sepolte, nei cimiteri circostanti, con gli stessi me- In alto: mappa dell’Altopiano Iranico saccheggiata di Mahtoutabad (metà ravigliosi manufatti. del III mill. a.C.). Setacciando la terra con i principali siti del Bronzo Antico. Anau

Tabriz

Urmia

Tureng Tepe Gorgan

Lago di Urmia

(Asterabad)

Marlik

Hasanlu

Rubdar

Shah Tepe

Mashhad

Yarim Tepe Tape Hissar Damghan

Ziwiyeh

Ray

Qom

Bisitun

Kermanshah

Sippar

Kashan

Tepe Giyan

Tepe Baba Jan

Khafaja

Kish

Nippur

Uruix

Tabas

Lago di Namak

Tepe Sialk

Mundigak

Isfahan

Kuh-i Kwaja

Susa

Yazd

Shahdad

Choga Zanbil Lagash

Kerman

Ur

Pasargadae

Tall-i Malyan

Shahr-i Sokhta

Tell-i Ibis

Tepe Yahya

Bam

A

Persepolis Shiraz

P

(Anshan)

d man Hil

Zabul

K

Bampur

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N

Ba m p u

TA

H a li l R u d

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Konar Sandal

Bandar Abbas

Jazmurian

Minab

Tarut

DUBBI E INSINUAZIONI L’inattesa scoperta causò un grande scompiglio sulle scene accademiche, e, come sempre accade di fronte a una improvvisa novità, la prima reazione fu di grande cautela e, spesso, di aperta e aprioristica negazione. Come poteva essere possibile che una simile, grande civiltà fosse rimasta ignorata per un intero secolo

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In basso: il paesaggio della necropoli di Mahtoutabad, presso Konar Sandal, sconvolto dagli scavi clandestini. Nella pagina accanto: un momento degli scavi di recupero nella necropoli

gettata dai clandestini, sono stati rinvenuti frammenti di vasi scolpiti in cloritoscisto, perline, sigilli e innumerevoli frammenti di vasi in rame e ceramica.

di ricerche archeologiche? Non poteva forse trattarsi di un «complotto» astutamente ordito da falsari e archeologi compiacenti? Di una frode colossale?

I dubbi degli «esperti» continuarono ad alimentarsi sull’onda di una copiosa produzione di falsi fabbricati in loco, spesso molto poco plausibili, che finirono sul mercato a fianco


Dai cumuli di terra sconvolta dai ladri emergono i frammenti dei preziosi vasi scolpiti in clorite, vanto degli artigiani dell’antica Marhashi a r c h e o 81


VICINO ORIENTE • IRAN

degli oggetti originali. E come avrebbe mai fatto una simile civiltà a sbucare improvvisamente dal nulla, senza antecedenti conosciuti? Nel frattempo, l’intera cittadina, dopo il disastro archeologico, trasfor-

mava orgogliosamente i reperti del saccheggio in clamorosi simboli identitari, costellando le principali strade di Jiroft di grandi statue in cemento che riproducevano vasi e statuette in clorite, e di murales fedelmente ispirati alle scene mitologiche che vi apparivano. Oggi, gradualmente sedimentatisi il clamore mediatico e le polemiche piú accese, questa drammatica e del tutto inattesa scoperta sta acquistando coordinate storiche abbastanza nitide. Gli studi di Piotr Steinkeller,

assiriologo dell’Università di Harvard, dimostrano con chiarezza che la misteriosa civiltà dell’Halil Rud era ben nota nella Mesopotamia sumerica già a partire dal periodo antico-dinastico con il nome di Marhashi; e che tra i secoli dell’impero akkadico e della IIIa dinastia di Ur, e poi ancora in età paleo-babilonese (2350-1800 a.C. circa) proprio Marhashi era stato prima pericoloso avversario, poi potenziale alleato delle potenze mesopotamiche contro i vicini dell’Iran sudoccidentale. Marhashi, infatti, è la potenza orientale che con maggior frequenza fu citata e chiamata in causa dalle tavolette cuneiformi: una terra, una nazione e un popolo spesso collocati in una specie di favoloso Eldorado, ricco di gemme e animali esotici, annidato nelle cupe montagne di una terra lontana ed endemicamente ostile.

PROPAGANDA REALE Steinkeller ha raccolto le roboanti iscrizioni propagandistiche di Sargon (2334-2279 a.C.), che menziona tra le personalità sconfitte di Marhashi un certo Dagu, fratello del re; Sidgau, un generale; e Kumduba, un giudice, tutti catturati dal-

Le misteriose tavolette di Konar Sandal Sud Le tavolette in terracotta rinvenute grazie agli scavi del sito di Konar Sandal Sud costituiscono a tutt’oggi un enigma irrisolto per gli assiriologi. La scrittura geometrica del lato principale è infatti intraducibile. Si è dubitato a torto

FRONTE

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RETRO


le forze reali. Altre iscrizioni rivelaSulle due no che Rimush, suo figlio (2278pagine: vasi in 2270 a.C.), nel corso delle sue incloritoscisto cursioni orientali, si vantava di aver figurati e estirpato le radici di Marhashi dalla intarsiati al terra dell’Elam (il territorio della Museo di Jiroft. piana di Susa, oggi Khuzistan, e delTra i repertori le valli meridionali dei monti Za- figurativi dei vasi gros); Abalgamash, il re di Marhashi, depredati dalle e il suo generale Sidgau, figurano tra necropoli, e i nemici sconfitti in questa seconda recuperati dalle aggressione. E ancora, i testi di Na- forze di sicurezza ram-Sin, nipote di Sargon, ricordairaniane, no Humshumkipi come un altro spiccano motivi signore di Marhashi. come la lotta tra A un certo punto le cose cambiaserpenti e altri rono. Un figlio di Naram-Sin, foranimali (nella se il re Shar-kali-sharri, sembra pagina accanto), aver radicalmente mutato le vecla facciata o chie politiche di aggressione nei portale confronti di Marhashi, recandosi architettonico nel cuore dell’altopiano Iranico in (a destra, in alto), missione diplomatica per prendere palme da dattero, in sposa una principessa reale della composizioni corte straniera, poi riportata ad geometriche di Akkad. Si inaugurava cosí una stravario tipo, tegia diplomatica di matrimoni complicate scene incrociati, destinata a protrarsi per mitologiche e file secoli: una tavoletta del 18° anno di scorpioni che del re Shulgi (2094-2047 a.C.), brulicano in file a ricorda come sua figlia fosse anda- direzione alterna ta in sposa a un re di Marhashi che (qui accanto). non viene nominato.

della loro autenticità: ritrovate in strato nel corso di uno scavo controllato, dimostrano che l’invenzione della scrittura, nel III mill. a.C., fu più policentrica e indipendente di quanto non si pensasse.

FRONTE

RETRO

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VICINO ORIENTE • IRAN

A Ur, al tempo, affluivano numerose missioni diplomatiche di Marhashi, nonché corpi di mercenari dello stesso paese; la comunità orientale a Ur era tanto importante che vi si organizzarono delle festività e celebrazioni appositamente in loro onore. In queste congiunture, ci sono giunti i nomi di Arwilupi e Lipan-ukshapash, signor i di Marhashi, e degli inviati Amur-ilum e Lipan-ashkupi. Sono nomi che non appartengono ai repertori akkadici; hanno qualche assonanza elamita, ma sembrano perlopiú appartenere a una lingua ignota, forse proprio quella, oggi perduta, che si parlava nella valle dell’Halil Rud. A una lingua ignota, corrisponde una scrittura sinora sconosciuta. Tre tavolette in terracotta ritrovate da Youssef Madjidzadeh negli scavi di Konar Sandal Sud, a circa 30 km a sud dell’attuale città di Jiroft, accostano un sistema di segni geometrici (linee, croci, punti, losanghe, triangoli, rettangoli, cerchi e griglie) sul quale sono state fatte molte ipotesi, ma senza alcuna certezza.

SEGNI INDECIFRABILI Alla misteriosa scrittura geometrica (che potrebbe anche esprimere numerali, o simboli relativi a qualsiasi altra concettualizzazione e registrazione umana) le nuove tavolette accompagnano una linea di caratteri in un diverso sistema scrittorio,

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noto agli archeologi come «Elamita-Lineare»: una scrittura inventata e usata a Susa e altre località dell’ Iran negli ultimi secoli del III millennio a.C., attualmente in corso di decifrazione. La linea in caratteri elamiti-lineari, in due casi sul retro, sembrerebbe rappresentare una sorta di compendio o certificazione di quanto sopra espresso con i segni geometrici. Pochi ritrovamenti come questi comunicano quanto poco in realtà ancora sappiamo dello sviluppo della civiltà urbana dell’età del Bronzo a est della Mesopotamia. Le ricerche archeologiche degli ultimi vent’anni confutano totalmen-

te uno degli argomenti preferiti dai sostenitori della «teoria del complotto» e delle falsificazioni: l’assenza di antiche testimonianze archeologiche di fasi formative della civiltà dell’Halil Rud-Marhashi. Scavi eseguiti nelle valli a nord-ovest di Jiroft a opera di Nader Solaimani hanno portato in luce una fiorente cultura neolitica del VII-VI millennio a.C., con edifici intonacati in rosso e una ceramica dipinta con motivi finissimi e intricati. Un progetto archeologico dell’Università tedesca di Tubinga sta esplorando la porzione centro-meridionale delle pianure a sud di Jiroft, individuando


Cosí rivive l’arte dell’antico paese di Marhashi Fortunatamente finita la stagione dei saccheggi, il centro dell’attuale cittadina di Jiroft è affollato da colossali sculture che rappresentano i vasi intarsiati e altri manufatti scolpiti in cloritoscisto, mentre sui muri scorrono motivi tratti dalle stesse opere, sotto forma di murales. I manufatti dell’antica età del Bronzo, pur nella scia della distruzione del patrimonio archeologico, diventano così dei forti simboli identitari per l’intera comunità.

centinaia di nuovi siti datati tra il V e il III millennio a.C. Per l’Italia, una missione archeologica organizzata dall’ISMEO insieme all’Università di Jiroft e al Dipartimento dei Beni Culturali dell’Università di Padova, in collaborazione con l’ICAR (Iranian Center for Archaeological Research) effettua da anni saggi di scavo e ricognizioni nell’area di Konar Sandal. Ai saggi di scavo e alle esplorazioni di superficie si aggiungono studi stratigrafici e campionature per lo studio micromorfologico dei suoli, e i primi test di prospezione radar delle caratteristiche sepolte del sottosuolo.

LA «SEQUENZA ARCHEOLOGICA» Sta cosí lentamente prendendo forma, in modo quasi pioneristico, quella che tecnicamente si chiama la «sequenza archeologica» della regione: una successione di località, depositi archeologici e strati, ciascuno legato a tipi di ceramica distintiva, che aiuterà a riconoscere sull’intero territorio le dinamiche del popolamento e le sue variazioni nel corso dei secoli. Stanno cosí emergendo, anche nelle pianure della valle, i resti di abitati del tardo V-IV millennio a.C., villaggi di allevatori di bovini che abitavano in grandi capanne ovali di pali, frasche e argilla, usavano

In alto: un «graffito urbano» con la scena del combattimento tra l’avvoltoio barbuto e i serpenti. A destra: una grande scultura che riproduce un fiasco decorato con il tema dell’unicorno. Nella pagina accanto, in alto: VaraminHajiabad. La missione iraniano-italiana recupera una grande «a catacomba», datata al 3000 a.C. circa. Nella pagina accanto, in basso: VaraminHajiabad. Il monticolo principale del sito. In primo piano, i resti di un’area di lavorazione dei vasi in calcite alabastrina. a r c h e o 85


VICINO ORIENTE • IRAN

una ceramica tecnicamente molto avanzata – decorata con motivi in rosso, arancio, porpora e bianco – e già lavoravano alabastro, clorite e lapislazzuli, anticipando cosí la grande vocazione artigianale di Marhashi nei millenni seguenti. A questo orizzonte, intorno alla metà del IV millennio a.C., si sosti-

tuí un altro e piú vasto sistema insediativo, contraddistinto dalla ceramica detta di «Aliabad», dal nome del luogo in cui essa fu descritta per la prima volta. Gli insediamenti di questo periodo, estesi su un’area vastissima, sono ancora tutti da esplorare: alcuni sono villaggi di agricoltori e artigiani; altri, composti di capanne ovali simili a quelle dell’età precedente, sembrano zone di sosta temporanea di pastori nomadi. Altri, ancora visibili nelle zone pedemontane, perché perfettamente conservati in superficie, posti a controllare i valichi che davano accesso alla valle, assunsero l’aspetto di vasti complessi fortificati, con grandi sale interne e magazzini.

Lo scettro del re di Mahrashi? Questo grande scettro in rame arsenicale, intarsiato con centinaia di piccole tessere di conchiglie bianche e rosse (vedi i particolari nella pagina a fianco), è stato pazientemente ricostruito da Arnaldo Cherubini nel modello in AUTOCAD che compare nella pagina accanto, a destra. Qui a sinistra, la ricostruzione ideale di un capo dell’antica civiltà che impugna questo imponente segno di autorità. Il disegno è di Nicolas Jamme.

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A partire dal 3400 a.C., in una società cosí strutturata giunsero gruppi che usavano l’inconfondibile ceramica detta «di Uruk», in quanto ispirata a tipi e modelli usati in Mesopotamia alla fine del lungo periodo culturale omonimo. Queste genti sembrano aver vissuto, come in altri simili casi osservati in altre re-

gioni dell’Altopiano Iranico, in parziale isolamento, usando i propri oggetti, apparentemente senza mescolarsi con la popolazione locale. I motivi dell’arrivo e della scomparsa di questi insediamenti sono ancora ignoti, ma molti pensano che si trattasse di empori di commercianti di materie prime e, soprattutto, di lane di elevate qualità allora richieste con insistenza da una Mesopotamia già fortemente industrializzata.

PALAZZI E LABORATORI Quando gli abitati del tardo Uruk si dissolsero, la civiltà dell’Halil Rud continuò a fiorire. L’età delle necropoli saccheggiate si estende, probabilmente, dal 3000 al 2400 a.C. circa. Nel sito satellite di HajiabadVaramin, 5 km a sud-ovest di Konar Sandal, una ricognizione sistematica e numerosi saggi di scavo stanno portando in luce resti di edifici dalle murature spesse, importanti aree di attività artigianale per la produ-

zione di perline e vasi in alabastro, e una grande necropoli con ricche sepolture «a catacomba» contenenti fino a un centinaio di oggetti. Intorno alla metà del III millennio a.C., l’abitato di Konar Sandal era dominato da una cittadella fortificata da un muro in crudo spesso 5 m, e abbellito da una serie ininterrotta di semipilastri; fu successivamente ricostruita con mura altrettanto spesse, difese da grandi torrioni circolari. Si tratta probabilmente della residenza regale in cui visse e morí, sposo in terra straniera, il principe figlio del «divino Shulgi». All’interno, vi era quello che sembra un sacello che ospitava grandi statue in argilla cruda, decorate con colori vivaci. Uno scettro in rame arsenicale alto piú di 1 m, intarsiato con fitte spirali di losanghe in conchiglie bianche e rosse, recuperato dal magazzino di un trafficante, è uno dei piú grandi oggetti in rame dell’Asia Media protostorica. Apparteneva forse a una tomba reale, perduta per sempre durante la stagione dei saccheggi. Ettari di rovine sagomate da millenni di piogge, vento ed erosione sono cosparsi dei frammenti ceramici lasciati in loco dopo l’abbandono dell’intera regione, forse a causa della stessa crisi climatica di vasta scala alla quale molti oggi imputano la fine della vita civile nell’Asia Media, e il rifluire delle popolazioni in un sistema decentrato di oasi e di vita di villaggio. La freccia temporale di eventi preservati dalle scarne menzioni dei testi cuneiformi sta faticosamente combaciando, non senza problemi e contraddizioni, con lo scheletro delle sequenze archeologiche e delle loro aride schematizzazioni. Oggi le ricerche sul campo continuano, segnate dalla scarsità dei mezzi, ma anche da ulteriori ed eccitanti scoperte, che stanno radicalmente cambiando, con l’emergere di un nuovo protagonista, importanti pagine della storia del Vicino Oriente antico. a r c h e o 87




SPECIALE • BELZONI

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IL GIGANTE DEL NILO

Padova rende omaggio a un suo «figliol prodigo», l’esploratore Giovanni Battista Belzoni, nel duecentesimo anniversario del ritorno nella sua città natale, dopo una vita trascorsa all’estero, tra Francia e Inghilterra, Spagna, Malta e... l’Egitto. E lo fa con una grande mostra, intesa a celebrare le gesta di un personaggio straordinario e inneffabile, paradossalmente sconosciuto ai piú, forse anche a causa di una indebita damnatio memoriae, decretata da un mondo accademico gretto e geloso della sua statura, davvero eccezionale (e non solo in senso figurato). Belzoni, infatti, contribuí in modo significativo a far conoscere in Europa le meraviglie della terra del Nilo: fu vero apripista nelle esplorazioni dell’Egitto faraonico, in un’epoca in cui studiosi, archeologi, diplomatici e avventurieri soggiacevano al fascino di quell’antica civiltà. La mostra padovana, oltre a raccogliere piú di 150 opere provenienti dai principali musei europei e italiani (alla creazione delle cui collezioni, sia detto, Belzoni ha contribuito in maniera significativa), si offre al visitatore con un allestimento multimediale e ricostruzioni ambientali evocative delle eccezionali imprese belzoniane. In un percorso immersivo, dunque, atto a restituire la complessità di una figura che ispirò George Lucas quando, nel 1981, creò il mitico archeologo cinematografico Indiana Jones de I predatori dell’arca perduta. Nelle pagine che seguono ce ne parlano la direttrice scientifica della mostra, Francesca Veronese, insieme allo scrittore Marco Zatterin, uno dei massimi conoscitori della figura del «grande Belzoni».

Particolare di un gruppo scultoreo in granito rosa raffigurante il dio Osiride tra il figlio Horo, dalla testa di falco, e un sovrano, da Tebe o Abido. XX dinastia, 1186-1069 a.C. Parigi, Museo del Louvre. a r c h e o 91


SPECIALE • BELZONI

UN PROTAGONISTA DI IMPRESE IMPOSSIBILI di Francesca Veronese

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iovanni Battista Belzoni è un personaggio controverso. Ai piú sconosciuto, è guardato con sospetto dal mondo della scienza. Per qualcuno le «imprese impossibili» di cui si è reso protagonista ne hanno fatto un mito, per altri il pensiero di accostarlo all’egittologia risulta tuttora inaccettabile. Peggio ancora vederne il padre. La mostra ha voluto raccontare il personaggio, ma è soprattutto l’occasione per farlo conoscere, mettendone in luce i pregi, senza tralasciare i difetti. E lasciando il giudizio al visitatore. Del personaggio si è cercato di restituire lo spessore, di rendere onore al suo ingegno e nel contempo alla sua forza fisica e alla sua determinazione. La prova delle sue capacità è, del resto, nelle sale del British Museum: spostare tonnellate con i pochi mezzi a disposizione ha significato dimostrare di saper raggiungere obiettivi per altri inarrivabili. Ma la narrazione è sempre partita dai dati oggettivi, dai fatti, dai documenti.

SOTTO IL SOLE D’EGITTO Lungo tutto il percorso espositivo, di Belzoni emerge un ritratto a tutto tondo, a partire dalle sue umili origini al Portello, nella Padova sonnacchiosa della fine del Settecento, per passare agli esordi sul palcoscenico polveroso del Sadler’s Wells e arrivare quindi al sole cocente dell’Egitto. È qui, in quel mondo che allora iniziava a svelare i segreti della sua storia, che la passione per la ricerca si fa per Belzoni dirompente, è qui che il desiderio di esplorare mondi ignoti si trasforma nella molla che lo porta a compiere i tre viaggi lungo il Nilo. E a compiere quelle imprese che sono passate alla storia. L’intreccio tra la vita del «gigante» padovano e l’ Egitto ha quindi offerto l’occasione di delineare la storia di quest’antica civiltà con gli occhi di chi di quelle scoperte si è reso protagonista. La mostra non è infatti stata concepita come una mostra sull’Egitto antico, ma è stata pensata come una mostra sull’Egitto di 92 a r c h e o

Belzoni. La mostra ha voluto cioè raccontare come, in quei primi anni dell’Ottocento, Belzoni e con lui Bernardino Drovetti, Henry Salt,Johann Ludwig Burckhardt e molti altri abbiano iniziato a disseppellire quel mondo su cui era sceso l’oblio dei secoli, alcuni rimanendo affascinati e interrogandosi su quanto andavano trovando, altri razziando e depredando senza esclusione di colpi. Per raccontare l’Egitto di Belzoni i reperti presenti in mostra sono stati quindi accuratamente scelti tra le Collezioni legate a questi personaggi, oggi disperse in diversi Musei italiani e stranieri. Ecco quindi che, per quest’occasione, è stato possibile far convergere oggetti della Collezione Drovetti di Torino, delle Collezioni Salt e Drovetti del Louvre, ma anche alcuni straordinari reperti «belzoniani» del British Museum di Londra. E ancora, disegni realizzati da Belzoni e da Alessandro Ricci, normalmente conservati al Museo di Bristol, e disegni dello stesso Ricci, normalmente conservati al Museo Egizio di Firenze e qui presentati per la prima volta, unitamente a una cospicua rappresentanza di oggetti rinvenuti dalla spedizione FrancoToscana del 1828. Le poche eccezioni alla linea cosí individuata si sono rese necessarie per dare completezza alla narrazione, permettendo al visitatore di cogliere, parallelamente alle vicende belzoniane, la storia dell’Egitto faraonico attraverso specifici affondi tematici.

A sinistra: statuetta bronzea di Thot in forma di ibis. Epoca Tarda. Torino, Museo Egizio. Nella pagina accanto: il celebre ritratto di Giovanni Battista Belzoni come esploratore, opera del litografo Jean François Villain. XIX sec.


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SPECIALE • BELZONI SCENE DI UN’ESPOSIZIONE Presentiamo in queste pagine alcune immagini dell’allestimento della mostra. In particolare, nella pagina accanto, sono illustrate le sezioni in cui sono esposti: in alto, il sarcofago mediano di Padiamenemope (747-656 a.C., XXV dinastia, prestito del Museo Egizio di Torino), e, in basso, una lanterna magica doppia per fantasmagoria in legno ferro e ottone (1870 circa, Padova, Museo del Precinema).

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SPECIALE • BELZONI

UN PERSONAGGIO FUORI DAGLI SCHEMI di Marco Zatterin

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icono fosse un bell’uomo e venisse da Roma, anche se poi romano non era, bensí padovano da generazioni. Colpiva anzitutto l’altezza, i due metri portati senza fatica apparente, come le quindici persone che caricava su di sé quando, nei giorni del Sadler’s Wells, entrava in scena con la sua piramide umana. «Era il modello perfetto del corpo umano», scrisse di Giovanni Battista Belzoni il notista britannico Cyrus Redding. Un’aria gentile raddolciva l’impressionante misura della sua persona, aiutata dagli occhi chiari e gli insoliti capelli rossi. Era mite sino a prova contraria, perché la collera poteva essere incontenibile. Aveva la forza di un leone e il dono della pazienza germogliato nella convinta fede cristiana, che gli insegnò ad accettare con relativa serenità la buona e la cattiva sorte. Si fece crescere a malavoglia la barba negli anni passati in

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Nella pagina accanto, in alto: Giovanni Battista Belzoni nella litografia sul frontespizio della II edizione del Narrative. 1821. Collezione privata. Nella pagina accanto, in basso: documenti riguardanti la famiglia Belzoni. Padova, Archivio Diocesano. A destra: Belzoni, come «Sansone patagonico», sostiene una piramide umana, in un acquerello del 1803. In Inghilterra, dove risiedette per nove anni, Belzoni si guadagnò da vivere esibendosi appunto con quel curioso soprannome in circhi e teatri.

Egitto, poi la corresse al rientro in Europa, radendosi regolarmente almeno il mento. Alla sua morte, i giornali francesi trovarono anche l’estro per polemizzare coi colleghi inglesi sul fatto che avesse o meno fatto crescere il pelo sul suo bel viso. L’avventuriera olandese Ida Saint-Elme, che lo incontrò a Brighton nel 1820, fu impressionata da «i grandi favoriti e la figura italiana». Sono dettagli importanti, soprattutto perché Belzoni non è prodigo di informazioni su se stesso, sulle questioni personali e familiari. Giustificato è il dubbio che spesso non sappia resistere alla tentazione di spiazzare il lettore

costruendosi un profilo biografico ed emotivo ritoccato a uso del pubblico. Le notizie riescono anche a scomporre un flusso biografico già di per sé piuttosto intricato. Si finisce cosí per incocciare in date non compatibili e in profili pasticciati che, alla fine, si ricompongono e si chiariscono negli oggetti esposti. Una parata di documenti e articoli risolve una volta per tutti alcuni bisticci storici relativi alla storia della vita del viaggiatore padovano. Il quale, secondo Walter Scott, era «l’uomo piú bello (per essere un gigante) che avessi visto o potessi immaginare» (lettera all’amico John Morrit, 19 maggio 1820).

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SPECIALE • BELZONI

GIOVANNI VISTO DA VICINO di Marco Zatterin

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iovanni Battista Belzoni ha preso per mano l’egittologia che era bambina e l’ha fatta diventare una scienza adulta e diffusa. La sua vocazione pedagogica, il desiderio di condividere le scoperte e l’intuizione, con un termine moderno, potrebbero oggi essere definiti «social». Il padovano sapeva parlare da re con i re e da marinaio coi barcaioli. Era curioso del passato e mai rinunciava a capire le genti con la semplice tecnica del mescolarsi tra loro. Dopo la scoperta della tomba piú bella, quella di Sethi I che ancora oggi è nota come «Tomba Belzoni», ebbe subito l’intuizione di andare oltre la ricerca di tesori. Si trovava ancora dentro il sepolcro, rapito dalle fantastiche pitture, che già immaginava di copiarle e di ricomporle in una esposizione a Londra. Gli pareva che la fascinazione per la bellezza non potesse che essere diffusa. Nel maggio 1821 s’inaugurò alla Egyptian Hall di Piccadilly la prima mostra egittologica della storia, con tanto di catalogo, modelli ed effetti speciali. Nacque a Padova, il 5 marzo 1778 alle undici post-meridiane, figlio del barbiere Giacomo Bolzon e di Teresa Pivato. Fu battezzato a Santa Sofia il 7 novembre. Era un ragazzo vivace, si capiva subito che si sarebbe fatto alto. Le poche notizie che abbiamo raccontano del grande interesse che suscitava in lui il viavai delle genti che arrivavano

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sul burchiello a Porta Portello e aggiungono una passione profonda per Roma e la sua tradizione classica. Tanto che, sedicenne, fu soddisfatto solo quando ebbe modo di trasferirsi nella città dei papi, con ogni probabilità per darsi alla vita monastica. L’esperimento non funzionò, ma serví a famigliarizzarlo con le magie dell’idraulica che gli sarebbero tornate parecchio utili per tutta la sua non lunga vita. Quando nel 1798 i Francesi sciamarono per Roma, al giovane padovano il rischio di una coscrizione consigliò di cambiare aria. Lo ritroviamo nel 1803 malaticcio ad Amsterdam, concentrato a trattare mercanzie non meglio identificate, e poi a Londra, dove la sua esistenza sarebbe cambiata definitivamente.

IL «SANSONE PATAGONICO» Sulle rive del Tamigi si diede al teatro. Era alto oltre due metri, dunque candidato alle parti piú bizzarre. Cambiò il cognome in Belzoni, perché aveva bisogno che suonasse piú italiano. Sposò una donna speciale quanto lui, Sarah Parker-Brown, probabilmente di Bristol. Gli piacevano le favolose macchine di acqua e fuoco, ma divenne piú famoso come il «Sansone Patagonico», gigantesca creatura da mito, che conquistava le platee quanto le piramidi umane, esercizio nel quale conduceva anche quindici persone in giro per il pal-

Nella pagina accanto: rilievo in calcare dipinto raffigurante la dea Maat, dalla tomba di Sethi I a Tebe (KV 17). 1290-1279 a.C. (XIX dinastia, regno di Sethi I). Firenze, Museo Archeologico Nazionale. A sinistra: litografia dal Narratives che illustra il trasporto del busto colossale del faraone Ramesse II dal Memnonium alla sponda del Nilo, difficile impresa realizzata da Belzoni durante il primo viaggio lungo il Nilo. 1820. Padova, Biblioteca Civica.


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SPECIALE • BELZONI A sinistra e nella pagina accanto: riproduzioni di pitture funerarie facenti parte della magnifica decorazione realizzata all’interno della tomba della regina Nefertari (KV 66), scoperta da Ernesto Schiaparelli, nel 1904, nella Valle dei Re.

coscenico del teatro Sadler’s Wells. Per anni sarebbe stato questo il suo mestiere, attore e ingegnere di prodigi meccanici, in giro per il Regno Unito e l’Europa. «Avrebbe potuto posare da Apollo, per la simmetria della persona e la muscolatura ben sviluppata», annoterà Cyrus Redding, un commentatore dell’epoca che lo vide all’opera. La svolta avvenne a Malta, nel maggio 1815, proprio mentre l’Europa si apprestava a congedarsi da Napoleone. L’incontro con un diplomatico di Mehmet Ali, il pascià egiziano, gli valse un ingaggio al Cairo per costruire una nuova macchina idraulica che avrebbe consentito di migliorare le attività agricole e sostenere cosí le riforme avviate nel Paese. Giovanni, con Sarah e il servitore James Curtin, arrivò al Cairo in piena estate e si mise al lavoro sul prodigio meccanico. Fu un fallimento, l’intera operazio100 a r c h e o


In basso, sulle due pagine: ushabti del faraone Sethi I, dalla tomba di Sethi I a Tebe (KV 17). Legno di tamerice e cedro. XIX dinastia, regno di Sethi I, 1290-1279 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Egizio.

ne venne osteggiata dalla nobiltà locale e dai proprietari terrieri che temevano le complicanze di un taglio della manodopera dovuto al salto tecnologico. Belzoni si trovò costretto a rinunciare alla macchina e cercare un nuovo lavoro. Questa fu la sua fortuna. In Egitto ferveva la prima grande stagione degli scavi archeologici. La gestiva in regime di semi-monopolio un canavesano ex ufficiale napoleonico, a lungo console francese ad

Alessandria, Bernardino Drovetti. Nel 1816 sulla scena era entrato un uomo ambizioso quanto timido, il nuovo console inglese Henry Salt. Consigliato dal grande viaggiatore svizzero Johan Ludwig Burckhardt – appena rientrato da un lungo peregrinare che lo aveva condotto a Petra, Gerusalemme, quindi su e giú per il Nilo sino ad Abu Simbel –, il diplomatico britannico vide nella mole e nel (segue a p. 104)

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SPECIALE • BELZONI

UNA GRANDE AVVENTURA N

ato nel borgo del Portello nel 1778, Belzoni fu uomo dall’intelligenza acuta ed esploratore infaticabile. Figlio di un barbiere, Giovanni Battista fin da giovane si sentí imprigionato in un mondo dagli orizzonti troppo angusti e, sedicenne, riuscí a lasciare l’ambiente padovano per avviarsi a Roma. Qui intraprese la via degli studi, dedicando particolare attenzione al settore dell’idraulica. Dopo aver vissuto a Parigi, e poi in Olanda, nel 1803 approdò in Inghilterra, dove sposò una giovane donna di Bristol, Sarah Banne, ed entrò nel mondo dello spettacolo nella compagnia teatrale di Isac Dibdin. Era infatti divenuto un uomo dall’eccezionale altezza – era un gigante alto 2 metri e 10 – che si faceva notare anche per la bellezza, visto che, come riferisce Stanley Mayes, era dotato di «spalle larghe, petto profondo, gambe lunghe, testa nobile portata splendidamente eretta su un forte collo, andatura aggraziata (…) volto bello con lineamenti aquilini fini e nobili, bocca grande e sensuale narici delicate, occhi azzurri ricchi di dolcezza, ma nello stesso tempo di fuoco». Avvenenza e prestanza fisica lo portarono a perfezionare sul palcoscenico un numero di abilità, la cosiddetta «piramide umana», nel corso del quale, grazie a un’apposita cintura, riusciva a tenere sulle proprie spalle ben 11 persone. In questo ruolo divenne un personaggio molto popolare e si guadagnò l’epiteto di «Sansone Patagonico». Spesso poi gli spettacoli si concludevano con giochi d’acqua di sua invenzione, molto apprezzati dal pubblico. Ma di questa fase della sua vita successivamente non andò fiero.

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Nel 1813 intraprese un viaggio in Spagna in compagnia di Sarah e del domestico James Curtin; di qui si spostò poi in altre zone del Mediterraneo. L’anno successivo, mentre si trovava a Malta, venne a sapere che il pascià dell’Egitto Mohamed Alí cercava degli Europei in grado di sottoporgli un’invenzione utile a risolvere la siccità che affliggeva il Paese. Fu cosí che Belzoni, grazie alle ottime conoscenze di idraulica, nel 1815 sbarcò in Egitto, progettò una macchina per l’irrigazione dei campi e la presentò al pascià. La macchina idraulica fu messa in moto, sia pure con qualche disavventura iniziale, ma il progetto finí con il naufragare a causa del malumore che suscitò tra la popolazione, allarmata nel vedere la manodopera soppiantata dalla macchina. Giunto in Egitto, Belzoni iniziò a subire il fascino di una cultura tanto antica, quanto ancora quasi sconosciuta. In poco tempo conobbe diversi personaggi di rilievo: primo fra tutti Gian Luigi Burckhardt, studioso e noto orientalista svizzero, a cui lo legò una sincera amicizia. Conobbe poi Henry Salt, console inglese al Cairo e appassionato ricercatore di antichità, con cui i rapporti non furono sempre facili. Conobbe, infine, Bernardino Drovetti, console francese al Cairo, di origini piemontesi. Personaggio determinato, ex soldato napoleonico, anche Drovetti era un appassionato di antichità egizie. Inizialmente i rapporti tra i due furono buoni, poi finirono per guastarsi in modo irrimediabile. Nel 1816 Belzoni decise quindi di intraprendere un viaggio lungo il Nilo, nel corso del quale rimase letteralmente abbagliato da ciò che andava vedendo. Primo a mettere

piede in luoghi inesplorati, Belzoni si sottopose a sforzi fisici enormi, si adattò a vivere in condizioni estreme all’interno di tombe usate come riparo di fortuna, a soffrire il caldo, la sete e la fame. Ma il desiderio di scoprire, di comprendere e di documentare ebbe sempre il sopravvento. Al primo viaggio ne seguirono altri due, nel 1817 e nel 1818 e Sarah fu sempre al suo fianco. La sua arguzia, l’intelligenza e la forza fisica si unirono a una straordinaria capacità di dialogo con le popolazioni locali, da cui riuscí a ottenere l’aiuto necessario per compiere imprese al limite dell’impossibile. A lui si deve il trasporto del busto colossale del «giovane Memnone» – in realtà Ramesse II, dal peso di circa 7 tonnellate – da Tebe ad Alessandria e da lí a Londra, dove oggi campeggia al British Museum. A lui si deve anche il disseppellimento delle strutture templari di Abu Simbel, nella Nubia: voluti da Ramesse II, i due templi, scavati nella roccia, nel corso dei secoli erano stati completamente ricoperti dalla sabbia. Dopo un lavoro estenuante, condotto a temperature al limite della sostenibilità fisica e con la riluttanza della manodopera, Belzoni riuscí ad entrare nel tempio principale il 1° agosto del 1817. Qui, sul muro settentrionale del santuario, appose la sua firma: un segnale indispensabile, vista la corsa alle antichità che si stava mettendo in moto, senza esclusione di colpi da parte dei partecipanti. Ancora a Belzoni si deve il trasporto in Inghilterra dell’obelisco da lui rinvenuto nell’isola di File, oggetto di un’aspra contesa con Drovetti: un monumento alto quasi 7 m, oggi esposto Kingston Lacy nel Dorset,


Coppia di statue in diorite raffiguranti la dea Sekhmet, dal tempio di Mut a Karnak (Tebe). XVIII dinastia, regno di Amenofi III, 1387-1348 a.C. Padova, Musei Civici.

the Operations and Recent Discoveries Within the Pyramids, Temples, Tombs and Excavations in Egypt and Nubia and of a Journey to the Coast of the Red Sea, in search of the ancient Berenice; and another to the Oasis of Jupiter Ammon, una sorta di reportage delle sue esplorazioni in Egitto e in Nubia da cui emergono la grande conoscenza acquisita sull’antico Egitto, ma anche osservazioni e considerazioni di notevole rilievo. che si rivelerà fondamentale per la decifrazione dei geroglifici. E ancora sono opera di Belzoni gli scavi nel tempio di Karnak e la scoperta di numerose tombe faraoniche nella Valle dei Re. Tra queste, la tomba Sethi I, padre di Ramesse II: una tomba sotterranea «grande e magnifica», come egli stesso la definí, lunga circa 140 m, dotata di 11 stanze, tutta rivestita di decorazioni e contenente uno splendido sarcofago in alabastro. È ancora merito del nostro padovano la scoperta del varco d’accesso alla piramide di Chefren, ritenuta fino ad allora impenetrabile. Dopo giorni di indagini, di osservazioni e tentativi, riuscí finalmente a capire dove scavare per entrare, per poi strisciare lungo cunicoli e corridoi fino alla camera sepolcrale. Anche qui egli pose la sua firma, a scanso di equivoci e rivendicazioni sulla scoperta: «Scoperta da G. Belzoni. 2.mar.1818». E a lui si deve anche la scoperta di Berenice, ricca città

carovaniera affacciata sul Mar Rosso, di cui nei secoli era andata perduta la memoria. Alla fine del 1818 Belzoni decise di rientrare in Europa a causa di dissidi e spiacevoli incidenti con Drovetti. Nel frattempo, per amore nei confronti della sua città natale, inviò a Padova due colossali statue in diorite raffiguranti la dea leontocefala Sekhmet, rinvenute durante gli scavi nell’antica Tebe: inizialmente collocate nel Salone del Palazzo della Ragione, oggi le due statue accolgono il visitatore nella sala dedicata a Belzoni del Museo Archeologico. Rientrato in Europa, nel 1819 giunse a Padova, dove venne accolto con grande festa da cittadini e notabili padovani ed entrò in amicizia con l’architetto Giuseppe Jappelli, che si lasciò forse in parte suggestionare dai racconti belzoniani sull’Egitto quando progettò la sala egizia al piano nobile del Caffè Pedrocchi. Di seguito tornò a Londra e nel 1820 pubblicò in inglese il Narrative of

Divenuto un personaggio assai celebre, ma sempre inquieto e alla ricerca di nuovi orizzonti, nel 1823 decise di partire nuovamente per l’Africa. Questa volta ad attirarlo fu il versante occidentale. Molto si favoleggiava sulle sorgenti del Niger, allora sconosciute, e sulla città di Timbuctu: tutti gli esploratori che si erano addentrati lungo il corso del fiume, non avevano fatto piú ritorno. Organizzata la spedizione, alla quale non prese parte la moglie Sarah, Belzoni sbarcò nel possedimento britannico di Cape Coast, con il commerciante John Houtson, il 22 novembre. Di lí, con un salvacondotto del re del Benin, si avviò verso l’interno, ma il 3 dicembre morí a Gwato (Regno del Benin, oggi Ughoton, Nigeria), a 45 anni, in circostanze non del tutto chiare: forse un avvelenamento, ufficialmente una malattia tropicale. La notizia della sua morte arrivò in Europa 5 mesi dopo. La moglie Sarah gli sopravvisse per 47 anni e trascorse tutta la vita nel ricordo del marito, coltivandone la memoria. a r c h e o 103


SPECIALE • BELZONI Particolare del coperchio del sarcofago mediano di Padiamenemope. Legno, stucco e pittura. XXV dinastia, 747-656 a.C. Torino, Museo Egizio. In basso: sfinge a testa di falco in arenaria, dal tempio maggiore di Abu Simbel. XIX dinastia, regno di Ramesse II, 1279-1212 a.C. Londra, British Museum.

fuoco di Belzoni quello che gli occorreva per farsi largo anche lui nel mondo delle antichità sinora sepolte sotto un dito di sabbia. I tre misero su una sorta di società di esplorazioni e il padovano partí alla volta di Tebe per tentare di recuperare un busto grande e magnifico, sorridente, detto del Giovane Memnone, ma che in realtà raffigurava Ramesse II. Ci avevano già provato gli scienziati di Napoleone con la spedizione del 1798, invano. Giovanni ci riuscí, non senza fatica, facendo scorrere il colosso dal Ramesseum al Nilo su tronchi di legno. La notizia del suo trionfo raggiunse in fretta il Cairo, regalandogli fama e nemici. Quelli che considerava i soci britannici stavano decidendo di continuare a investire su di lui, cosa che accadrà per i successivi tre anni fra alterne vicende. Con i Francesi il clima si sarebbe fatto teso, con qualche colpo basso di troppo.

IN VIAGGIO SUL NILO Fra l’estate 1816 e l’autunno 1818 Belzoni risalí il Nilo tre volte, arrivando sino alla seconda cataratta nell’Alta Nubia, entrando nel territorio che oggi è del Sudan. Alla fine di questa lunga e fruttuosa stagione, potrà dire di essere stato il primo a violare il tempio perduto di Abu Simbel, grazie alle doti di osservazione e al molto sudore della sua fronte. Ma anche di esser diventato il recordman di sepolcri svelati nella Valle dei Re, sei in totale, com104 a r c h e o

preso quello di Sethi I, il piú bello, la «Tomba Belzoni». Ancora, era stato il primo a entrare nella seconda grande piramide detta di Chefren, oltre ad aver recuperato l’ obelisco di File, ritrovato la città di Berenice sulle rive del Mar Rosso, e identificato la «Valle delle Mummie» che gli Egiziani avrebbero ritrovato negli anni Novanta del secolo scorso. Nel frattempo, aveva accumulato una collezione preziosa che il console Salt smistò verso Londra e che il padovano rivendette (o regalò) in parte negli anni successivi senza mai davvero arricchirsi. Il cuore della collezione egizia del British Museum è passato per le mani di Belzoni, cosí come quello dell’Egizio di Torino è stato trattato da Drovetti. Fu una stagione eroica, ma il deteriorarsi dei rapporti con la fazione francese – con piú di un tentativo di farlo fuori fisicamente – fu la goccia che convinse il gigante padovano a chiudere le sue casse e a lasciare l’Egitto. Desiderava rivedere la terra natale, la madre sofferente di emicranie, i fratelli e le zie di cui chiedeva sempre notizie. Inseguiva un nuovo destino in una vecchia nazione.Verso la fine del 1819 sbarcava a Venezia e di lí si recava a Padova, ritrovando le sue radici laddove nessuno sapeva veramente chi fosse, ma dove tutti lo accolsero come un eroe, se non altro per le due straordinarie statue che aveva regalato alla città. Nel febbraio 1820 era nuovamente a Londra


con Sarah, impegnato a scrivere il suo libro, a tessere relazioni sociali che lo portarono a stretto contatto con la famiglia reale e il meglio della società culturale della capitale. Narrative ol the Operations and Recent Discoveries Within the Pyramids, Temples, Tombs and Excavations in Egypt and Nubia; and of a Journey to the Coast of the Red Sea, in Search of the Ancient Berenice; and Another to the Oasis of Jupiter Ammon fu stampato da John Murray nel corso dell’estate, insieme con un Atlante di 44 tavole disegnate e colorate a mano dalla famiglia Belzoni allargata. Fu un successo, tanto da portare altre due edizioni, una nel 1821 e un’altra nel 1822 (in due volumi). Ai primi di maggio del 1821 s’inaugurò la mostra su Sethi I alla Egyptian hall di Piccadilly: il primo giorno, riportò il Times, la gente fece la coda sotto la pioggia per essere rapita dalla ricostruzione di tre camere del piú bell’ipogeo della Valle dei Re. Belzoni era una star. Ma a lui non bastava. Come spesso capita agli uomini partiti dal poco o nulla, Giovanni pativa le differenze sociali e temeva che il suo lavoro non fosse riconosciuto. Serviva una nuova impresa, un altro viaggio. Nel marzo 1823 lasciò Londra diretto a Timbuctu. Provò dal Marocco, ma un conflitto regionale lo costrinse a cambiare itinerario. Entrò dalla costa di quella che oggi si chiama Nigeria, per arrivare da sud. Col senno di poi possiamo pensare che avesse sottovalutato la sua missione. Pochi giorni dopo essersi incamminato sulla terraferma fu

in apparenza colto da un virus che ne provocò la rapida morte in un villaggio di nome Gwato. C’è chi dice che fu ucciso. Spirò il 3 dicembre, sereno nella sua fede, e la moglie Sarah fu certa per tutta la vita di aver visto quella stessa notte il fantasma del marito entrare nella sua camera a Parigi. L’ennesimo prodigio, si direbbe.

UNA VISIONE DI AMPIO RESPIRO A duecento anni da quei gloriosi eventi, rimane sconosciuto ai piú e misterioso per molti. Poco amato dagli accademici che lo riducono al ruolo di saccheggiatore col disprezzo che si ama dispensare ai dilettanti di talento, colpisce chiunque abbia dentro il cuore un pezzo di Indiana Jones, che ha fatto nascere nella mente di George Lucas. Belzoni è il padre dell’egittologia moderna, dei faraoni che danno spettacolo. Usò metodi rozzi, ma propose una visione di ampio respiro e un metodo «scientifico» inedito. Era «il piú grande saccheggiatore di tutti», come disse un presidente dell’Associazione Archeologica d’America, in piena conformità con Bernardino Drovetti, il nemico di Giovanni che aveva cosí tanti motivi per essere arrabbiato con lui? «Uno degli uomini piú illustri d’Europa – ha risposto Charles Dickens – , un esempio incoraggiante per chi non solo ha una mente lucida per le idee, ma anche un cuore per realizzarle». Mentre Howard Carter, lo scopritore di Tutankhamon, lo definí «uno dei protagonisti piú straordinari dell’intera storia dell’archeologia». I testi di questo Speciale sono tratti dal catalogo della mostra e appaiono per gentile concessione di Biblos srl. DOVE E QUANDO «L’Egitto di Belzoni. Un gigante nella terra delle piramidi» Padova, Centro Culturale Altinate San Gaetano fino al 28 giugno Orario lu-gio, 9,00-19,00; ve-sa, 9,00-24,00; do e festivi, 9,00-20,00 Info e prenotazioni tel. 02 92897792 (attivo lu-ve, 9,00-18,00; sa, 9,00-14,00) a r c h e o 105


QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

...DIVENTAVA UN’UNICA, GRANDE «ISOLA PEDONALE» TRAFFICO, INQUINAMENTO ACUSTICO, PERMESSI DI CIRCOLAZIONE RISERVATI SOLO A POCHI: ECCO COME VIENE DESCRITTA DAGLI AUTORI LA CAPITALE DELL’IMPERO, ALMENO IN QUESTO DECISAMENTE SIMILE ALLA ROMA DEI GIORNI NOSTRI...

«D

al prossimo primo gennaio nessuno potrà piú usare o condurre carri nella città di Roma dal sorgere del sole fino all’ora decima». Cosí recitava il drastico provvedimento (che anticipò di oltre duemila anni quelli,

analoghi, dei nostri giorni per il traffico limitato!) sancito dalla Lex Iulia Municipalis emanata da Cesare nel 45 a.C. Ma, in assoluto, non dovette essere, quella, nemmeno la prima volta in cui la legge interveniva, a Roma, per

regolare problemi connessi con la circolazione dei carri all’interno dell’area urbana. Se, infatti – stando a quel che riferisce Tito Livio (V 25,9) – nel 396 a.C., alla fine della guerra vittoriosa contro Veio, si concedeva alle matrone – in segno

Ricostruzione di una carruca dormitoria, carro da viaggio, di origine gallica, utilizzato per lunghe percorrenze e attrezzato per le soste notturne. Roma, Museo della Civiltà Romana. Nella pagina accanto: ricostruzione di un cisium, un piccolo carro da trasporto. Roma, Museo della Civiltà Romana.

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di gratitudine per il dono dei loro ornamenti d’oro allo Stato da destinare a una pubblica offerta di ringraziamento nel santuario di Apollo, a Delfi – il «privilegio» di recarsi alle cerimonie religiose e ai giochi pubblici usando il pilentum (un carro, forse di origine etrusca, a due o quattro ruote) e, nei giorni festivi, il piú modesto carpentum, vuol dire che a tutti gli altri cittadini l’uso di un mezzo di trasporto personale era precluso all’interno della città. Né esistevano, nell’antichità, mezzi pubblici di trasporto collettivi. Quanto al privilegio concesso alle matrone, occorre aggiungere che esso venne abolito nel 215 a.C., durante la seconda guerra punica, con la sola eccezione relativa alla partecipazione alle cerimonie religiose piú importanti: «Nessuna donna può viaggiare in vettura trainata da giumenti entro le mura (...) tranne che in occasione di sacrifici pubblici».

Tornando alla «legge Giulia», va ricordato che il divieto da essa sancito non valeva quando si trattava di «trasportare materiali da costruzione per i templi degli Dèi immortali e per le altre grandi opere pubbliche o per asportare materiali di demolizioni».

LE AREE DI SOSTA Non solo, ma anche – e, sia pur temporaneamente – in altri tre casi: per i carri impiegati dalle Vestali, dal Re dei sacrifici e dai Flamini, in occasione di importanti cerimonie religiose, per il carro del trionfatore nel giorno del trionfo, per i carri da corsa nei giorni delle gare nel circo. Godevano inoltre dell’eccezione (per non aggravare il serio stato di inquinamento da rifiuti che già allora affliggeva la città) i carri adibiti al trasporto delle immondizie. Quanto, infine, ai carri che, entrati in città durante la notte, non ne fossero usciti prima dell’alba, a essi era consentito di

restare in strada durante il giorno, ma fermi e opportunamente «parcheggiati» e senza carico. Si deve però anche dire che, immediatamente fuori le porte urbane – almeno di quelle a cui facevano capo le piú importanti vie «consolari» (come l’Appia, l’Aurelia, la Cassia, ecc.) si trovavano aree almeno in parte riservate al parcheggio e alle soste notturne dei carri. Quelle stesse dove stazionavano le carrozze (con vetturino) che si potevano «noleggiare» per recarsi fuori città. Tale era la cosiddetta Area Carruces (documentata, purtroppo, solamente per via epigrafica) che doveva trovarsi subito fuori Porta Capena (aperta nelle mura urbane della prima metà del IV secolo a.C.), al lato del tratto inziale della via Appia (nei pressi dell’odierno piazzale Numa Pompilio). Una ubicazione che induce a pensare che la «città proibita», oggetto della legge di Cesare, fosse

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quella compresa entro la vecchia cerchia muraria repubblicana: cioè la città dei sette colli, dalla quale restavano pertanto fuori la vasta zona pianeggiante del Campo Marzio e quelle del Trastevere e del Testaccio, nelle quali Roma aveva iniziato variamente a espandersi. Riprendendo ancora il drastico provvedimento preso da Cesare, si deve osservare come esso si fosse reso necessario, in conseguenza della grande espansione edilizia e dell’eccezionale aumento di popolazione, per evitare il completo collasso della circolazione nelle vie cittadine, in media non piú larghe di 5 m e spesso rese pressoché impraticabili per la ressa dei frequentatori che arrivava a provocare dei veri e propri ingorghi. Come si deduce da resoconti e soprattutto da lamentele quanto mai... vivaci, quali quelle, per esempio, espresse da Giovenale: «A me che m’affretto fa da ostacolo la folla che precede, mentre da dietro preme la calca come una falange: uno mi pianta un gomito nelle costole, un altro una pertica; uno mi colpisce alla testa con una trave e un altro con una botte. Le mie gambe sono

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sporche di fango, presto mi pestano da ogni parte grosse suole e il chiodo dello stivale di un soldato mi rimane infisso in un dito del piede» (Sat. III, 243 segg.).

NOTTI INSONNI In una situazione come quella cosí efficacemente descritta, era problematico e anche d’intralcio perfino l’uso di lettighe e portantine, sicché, quando esso divenne un «abuso», tentò di porvi rimedio lo stesso Cesare (e poi Claudio e Domiziano) con editti che ne limitavano l’impiego e lo vietavano alle donne nubili e alle prostitute. Né è difficile immaginare cosa potesse succedere dopo lo scadere del divieto di circolazione, dal tardo pomeriggio e per tutta la notte fino all’alba del giorno successivo. E non mancano, anche in proposito, eloquenti testimonianze degli antichi. Come le ripetute e disperate lamentele ancora di Giovenale e di Marziale, che paragonano i disagi provocati dal frastuono assordante e ininterrotto della circolazione notturna a un’autentica condanna per la maggior parte degli abitanti dell’Urbe. I veicoli rimasti fermi di

giorno alle porte della città si mettevano in movimento tutti insieme: quelli dei contadini che portavano in città i loro prodotti, quelli che trasportavano materiali per l’edilizia privata o generi alimentari e ogni altro tipo di mercanzia, quelli adibiti al trasporto delle persone... Lo strepitus rotarum – per usare un’espressione di Orazio –, ossia il fracasso delle grandi ruote spesso cerchiate di ferro, lo scalpitio sul selciato degli zoccoli degli animali da tiro, le urla (e le liti) dei carrettieri provocavano un rumore infernale che a molti abitanti levava letteralmente il sonno. «Quale casa d’affitto consente mai il sonno?», si chiede appunto Giovenale (Sat. III, 236-238), «il viavai dei carri nelle voltate dei vicoli angusti toglierebbe il sonno anche a Druso» (celebre per la pesantezza del suo dormire), «anche alle foche» (ritenute, all’epoca, fortemente sonnacchiose). «Certo, si dorme bene a Roma, ma nelle case dei ricchi che hanno la campagna in mezzo alla città» conclude, da parte sua, Marziale (XII 57, 20 seg.). Il quale, peraltro, scrivendo un’altra volta della casa del suo intimo


In alto: ricostruzione del Foro Romano, cosí come doveva presentarsi agli inizi del III sec. d.C. Nella pagina accanto: calco di un rilievo raffigurante un plaustrum, un carro a trazione animale per il trasporto agricolo. Roma, Museo della Civiltà Romana. amico e omonimo Giulio sul Gianicolo, osserva, non a caso (IV, 64,19), come da essa non si senta il rumore dei carri, né blando rota sit molesta somno («né la ruota disturba un dolce sonno»). Si potrebbe allora concludere che, come spesso accade, un provvedimento preso per risolvere un problema ne creò subito almeno un altro. Tuttavia, a dimostrare che le disposizioni di Cesare furono le uniche possibili e che altro non si poté fare nei secoli successivi, sta il fatto che il divieto della circolazione diurna dei carri rimase in vigore per tutto il resto dell’età imperiale. Esso, anzi, fu piú volte ribadito, specialmente nel I e nel II secolo

d.C., e in qualche caso persino inasprito: per esempio quando l’imperatore Adriano giunse a limitare il «tiro» e la portata dei carri autorizzati a entrare in città, sia pure di notte.

ECCEZIONI ILLUSTRI È anche vero, però, che, con il tempo, non mancarono di crescere le eccezioni e queste, anche se piuttosto contenute, ebbero sempre il carattere di privilegi belli e buoni. Ne beneficiarono, infatti, solo pochi «personaggi»: prima di tutti gli imperatori e le loro mogli, poi anche i senatori (che, secondo il permesso loro concesso da Alessandro Severo, potevano usare

carrozze anche a quattro ruote, «purché dotate di rifiniture argentate») e alcuni alti funzionari, come per esempio, il prefetto del pretorio e il prefetto di città. Settimio Severo concesse invece l’uso di un veicolo per i loro spostamenti in città anche agli «ambasciatori» qui antea pedibus ambulavant. Infine, nel 386 d.C., Graziano, Valentiniano e Teodosio estesero l’uso delle carrucae biiugae, tirate cioè da una coppia di cavalli, a tutti gli honorati (potremmo tradurre «gli onorevoli»): vogliamo parlare di... «antenati» dei privilegiati utilizzatori delle «auto blu» dei giorni nostri?

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SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

MEGLIO TARDI CHE MAI... OLTRE UN SECOLO FA, PAOLO ORSI LAMENTAVA L’ASSENZA DI UN’ARCHEOLOGIA DEL MEDIOEVO. UNA LACUNA DA TEMPO SANATA, ANCHE GRAZIE ALL’AVVIO DEI CATALOGHI RAGIONATI DELLE TESTIMONIANZE EPIGRAFICHE

N

el 1887, il grande archeologo Paolo Orsi (1859-1935), capace di intuizioni decisamente moderne, scrive un articolo molto importante su due piccole croci in oro conservate al Museo di Bologna. È un saggio lungo e denso, nel quale lo studioso dà prova della sua notevole accuratezza, addentrandosi nella descrizione e nell’analisi dei due oggetti per metterli nella giusta prospettiva storica e archeologica. L’inizio dell’articolo è però una denuncia, una vera bomba nel panorama dell’archeologia italiana. Scrive infatti Orsi: «A buon diritto si può affermare non esistere (…) un ramo delle discipline storiche, che rigorosamente possa chiamarsi l’archeologia del medioevo». E ancora: «Il prezioso sussidio che l’archeologia classica, e piú ancora quella orientale e la preistorica hanno portato alla completa conoscenza dell’antichità manca presso che del tutto pel medioevo».

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E dà anche una spiegazione di questo fenomeno, di tipo culturale: «Forse il nome della barbarie ha ispirato un senso di repulsione da tutto ciò che non era classico».

LE POSSIBILI SOLUZIONI Poi, come soluzione a questa impasse, Orsi suggerisce di darsi da fare. Che gli archeologi si rimbocchino le maniche e inizino ad affrontare anche lo studio dei monumenti e dei reperti medievali, di qualunque tipo! C’è un’intera epoca storica, un intero mondo che aspetta soltanto di essere indagato con i metodi e le domande dell’archeologia. A rileggere oggi quelle considerazioni, si resta sbalorditi e ammirati, di fronte a tanta lucidità e lungimiranza; al contempo, a piú di cento anni da quell’articolo, sappiamo che la voce di Orsi rimase quasi del tutto inascoltata: i tempi non erano maturi, e ci volle molto tempo prima che l’archeologia medievale si affermasse anche in Italia, come accadde in modo compiuto solo a partire dal secondo dopoguerra. Ma c’è un passo che fa particolarmente riflettere. Quello in cui l’archeologo auspica che si inizino a raccogliere e studiare le iscrizioni, le epigrafi del Medioevo. La raccolta delle iscrizioni antiche esiste già, dice Orsi (il Corpus Inscriptionum Latinarum): sarebbe bene proseguire quel lavoro perlomeno fino all’anno Mille. Finalmente, dopo piú di un secolo, il Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo (con base a Spoleto) ha raccolto la sfida lanciata dall’illustre studioso. E cosí, nel 2002, è nata la collana delle Inscriptiones Medii Aevi Italiae, che raccoglie appunto tutte le testimonianze epigrafiche del nostro Paese. Finora sono stati pubblicati quattro volumi, e i risultati parlano già da soli. È piuttosto impressionante vedere riunite tutte le iscrizioni di uno stesso ambito geografico, che siano

Nella pagina accanto: San Sebastiano, tempera su tavola di Andrea Mantegna. 1457-1459, Vienna, Kunsthistorisches Museum. A destra: l’archeologo Paolo Orsi (1859-1935) a Locri, in Calabria, nel 1889. Rovereto, Museo Civico.

una zona (un distretto del Veneto, per esempio) o una città (tra quelle pubblicate, Viterbo). Colpisce l’ampio orizzonte cronologico al cui interno si distribuiscono queste testimonianze e la loro multiformità: iscrizioni funerarie, commemorative, celebrazioni per i restauri di chiese…

DAI RIONI DI ROMA L’ultimo, ottimo volume della serie, a cura di Giorgia Maria Annoscia, è dedicato a una zona di Roma: il Campo Marzio (rioni Ponte, Parione, Regola e S. Eustachio). Ogni epigrafe è affrontata con il giusto taglio filologico: l’autrice ricostruisce il contesto originario di appartenenza, e a volte si tratta di chiese oggi scomparse. Come in una sorta di Antologia di Spoon River del Medioevo, grazie al suo epitaffio conosciamo Praetextatus Salventius Verecundus Traianus, membro di un’antica e importante famiglia senatoria, morto nel 533; e poi vediamo la comparsa di una nuova aristocrazia, quella del pieno Medioevo: in un’altra iscrizione, il prefetto Giovanni di Crescenzo e sua moglie, Rogata, «per la salvezza

della loro anima», rinunciano alla chiesa di S. Barbara dei Librari. E poi sfilano gli straordinari elenchi delle reliquie contenute negli altari delle chiese: le spine della corona di Cristo, le frecce del martirio di san Sebastiano, le vesti e la cintura della Madonna, un dente di sant’Andrea… Attraverso le iscrizioni ascoltiamo la viva voce degli uomini del Medioevo, li conosciamo per nome e cognome, entriamo in contatto con il loro mondo e con il loro immaginario. E cosí l’epigrafia si conferma una miniera di informazioni, che integra i dati raccolti nel sottosuolo dall’archeologia e offre angoli di passato che altrimenti ignoreremmo.

PER SAPERNE DI PIÚ Giorgia Maria Annoscia, LAZIORoma. Rioni V-VI-VII-VIII, Inscriptiones Medii Aevi Italiae (saec. VI-XII), IV, Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2017

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

CHI TROVA UN AMICO, TROVA UN... PARENTE AUGUSTO SEPPE CIRCONDARSI DI UOMINI DI PROVATA FIDUCIA, CON I QUALI STABILÍ LEGAMI SALDISSIMI. FINO A SUGGERIRGLI LA SCELTA DI AMMETTERLI A FAR PARTE DELLA PROPRIA FAMIGLIA

U

na delle qualità del principe lungimirante e magnanimo consiste nel circondarsi di persone di fiducia, certamente poche, alle quali delegare ampi margini di azione, e nel saperle legare a lui non solo dalla prospettiva di potere e ricchezze, ma anche – e forse soprattutto – da affetto, stima e anche riconoscenza. Sono celeberrimi gli amici piú stretti e intimi di Augusto, che, quand’era ancora giovane e non aveva ancora questo nome (nato come C. Octavius, divenne C. Iulius Ceasar Octavianus, dopo essere stato adottato da Cesare, e quindi, dal 27 a.C. in poi, Imp. Ceasar Augustus), che ebbe la ventura, o meglio la fortuna, nel corso della sua formazione militare, politica e culturale, di incontrare e legarsi a due personalità eccellenti. Si tratta di Gaio Cilnio Mecenate, di ricchissima famiglia di origine etrusca, che fu un brillante consigliere e patrono delle arti e dei letterati (si pensi al termine moderno di «mecenatismo», che deriva dalla fama della sua opera quale protettore di artisti), e quindi di Marco Vipsanio Agrippa (63 a.C. circa-12 a.C.), di umili origini, ma giunto per le sue qualità e capacità ai piú alti gradi

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dell’impero e della familiarità con il principe. Al fianco di Augusto nella sua ascesa al potere, Agrippa fu lo stratega eccellente e il brillante generale che ebbe ruoli decisivi in tutte le vicende belliche legate alla conquista del dominio assoluto del futuro imperatore, dalle battaglie a Filippi e a Perugia contro Bruto e i partigiani di Antonio, alla sconfitta navale di Pompeo a Nauloco nel 36 a.C. e quindi alla disfatta di Antonio e Cleopatra ad Azio nel 31 a.C. Diplomatico e uomo politico a Roma, si distinse poi nel corso della sua edilità nel 27 a.C. per le importantissime opere pubbliche promosse in particolare nella zona del Campo Marzio: si pensi per tutti al Pantheon, uno dei monumenti-simbolo dell’Urbe. Fu inoltre scrittore e studioso, e raccolse il materiale utile alla redazione di una carta geografica del mondo, un orbis pictus purtroppo perduto.

MATRIMONI DINASTICI Denario del monetiere Cossius Cornelius Lentulus. Zecca di Roma, 12 a.C. Al dritto, Augusto con corona di quercia; al rovescio, Agrippa con corona turrita e rostrata.

Considerando l’amicizia strettissima che lo legava all’imperatore – il quale, essendo morto di vecchiaia nel suo letto dopo una vita eccezionale di


successi, è evidente sapesse ben valutare le persone – non sorprende di essere stato da lui voluto anche come parente. Il generale ebbe tre mogli, tutte di illustri casati: la prima fu Pomponia Cecilia Attica, e poi due strette parenti di Augusto, che con questi matrimoni voleva rinsaldare e rendere evidente il legame tra loro. Agrippa sposò in seconde nozze la nipote diretta di Augusto, Claudia Marcella Minore, dalla quale divorziò, probabilmente per volere dello stesso imperatore, per sposarne la figlia Giulia, rimasta vedova di Marcello. Tutti i suoi matrimoni furono fertili e cosí anche l’ultima unione, che durò sino alla morte di Agrippa, a soli 51 anni. Ebbene, tutte queste vicende umane – in cui le guerre, le strategie politiche, la munificenza, ma anche i sentimenti si intrecciano in un nodo strettissimo – hanno lasciato memoria dei volti e dei legami anche nell’iconografia monetale. Augusto volle celebrare l’adozione dei nipoti nati da Agrippa e Giulia e quindi la loro successione al soglio imperiale, scegliendo come tipo iconografico i loro volti con quello della madre Giulia, progetto che la morte dei due giovani vanificò. In quelle monete, contraddistinte al dritto dal profilo di Augusto, manca però Agrippa, quasi a voler sottolineare l’importanza del solo sangue augusteo in fatto di successione.

LA CORONA ROSTRATA Il volto virile, con il profilo marcato e volitivo, di Agrippa è però ricorrente nella monetazione coeva, dove compare da solo sulle emissioni a suo nome quale magistrato, oppure insieme ad Augusto, secondo varie modalità

Dupondio della zecca di Nemausus. 9-3 a.C. Londra, British Museum. Al dritto, Agrippa con corona rostrata e Augusto con corona di quercia; al rovescio, un coccodrillo incatenato alla palma, allusione alla sconfitta di Cleopatra. iconografiche. Va poi ricordata la presenza di Agrippa nel fregio dell’Ara Pacis, dove figurano tutti i membri della famiglia imperiale. In alcuni denari il dritto e il rovescio sono destinati ai due uomini, quasi a specchiarli in un confronto paritetico nel potere e nel valore, come negli esemplari emessi a Roma nel 12 a.C. dove la testa di Augusto è cinta dalla corona di quercia, ob cives servatos, mentre il capo di Agrippa ha la corona turrita (corona muralis), completa di rostri, simbolo del valore e delle onorificenze ottenute dal generale

per le sue vittorie di mare e di terra. In altre emissioni, come quelle in bronzo della zecca gallica di Nemausus (l’odierna Nîmes, in Francia), il dritto unisce entrambe le teste dei due con le loro corone, che guardano come un Giano bifronte all’esterno del tondello, mentre al dritto un realistico coccodrillo è incatenato a una palma, allusione alla conquista dell’Egitto e all’apporto fondamentale dato da Agrippa nell’aver assicurato la vittoria al giovane erede di Cesare, e aver contribuito cosí alla nascita dell’impero.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Elisabetta Borgna, Paola Càssola Guida, Susi Corazza (a cura di)

PREISTORIA E PROTOSTORIA DEL CAPUT ADRIAE Studi di Preistoria e Protostoria-5, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze, 568 pp., ill. b/n + 1 CD 90,00 euro ISBN 978-88-6045-069-2 www.iipp.it

Opera di taglio specialistico, il volume dà conto dei contributi presentati in occasione della XLIX Riunione Scientifica dell’IIPP (svoltasi a Udine e Pordenone nell’ottobre del 2014), organizzata con l’intento di fare il punto sulle conoscenze acquisite per la regione friulana relativamente all’ampio orizzonte cronologico compreso fra il Paleolitico e la tarda preistoria. L’incontro, in realtà, estese i suoi orizzonti geografici anche oltre i confini del Friuli e ha cosí dato modo di

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tracciare un quadro che abbraccia un piú vasto areale, dall’alto Adriatico all’arco alpino orientale. Logica conseguenza è stato l’elevato numero degli interventi allora proposti e che hanno ora dato vita a una raccolta corposa, alle cui pagine stampate, quasi 600, si aggiungono i materiali raccolti nel CD, le Brevi note. La rassegna si apre con una interessante ricostruzione della nascita della paletnologia in Friuli e in quello che, quando ancora vigeva l’impero asburgico, era chiamato Österreichisches Küstenland, ovvero litorale austriaco, e che poi, accogliendo la proposta del glottologo

goriziano Graziadio Isaia Ascoli, assunse l’attuale denominazione di Venezia Giulia. Dopo le quattro Relazioni generali, dedicate ad altrettanti ambiti cronoculturali (Paleolitico e Mesolitico; Neolitico ed Eneolitico; Bronzo Antico e Bronzo Recente; Bronzo Finale e antica età del Ferro), si susseguono quindi i testi dei molti studiosi e specialisti, italiani e stranieri, coinvolti nel progetto, suddivisi per sezioni tematiche, dalle questioni legate al paesaggio e all’ambiente agli insediamenti all’aperto, dalle palafitte agli aspetti funerari. Attraverso presentazioni di singoli casi di studio

e scavi anche molto recenti o rassegne di contesti piú articolati, emerge un panorama vivace e aggiornato, che prova la marginalità solo geografica dei territori esaminati. La frequentazione umana del Caput Adriae fu infatti significativa e ha lasciato testimonianze di rilevanza indiscutibile – basti solo pensare agli insediamenti in grotta o ai castellieri (che di queste zone rappresentano una delle manifestazioni culturali piú peculiari) – e delle quali sono stati a piú riprese sottolineati i contatti con culture di altre regioni, prima fra tutte quella adriatica. Stefano Mammini



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