CIVILTÀ DELL’EGEO
Louis Godart racconta la
CIVILTÀ DELL’EGEO
BRESCIA ROMANA
LONDRA
IL MITO DI TROIA
ROMA
GERMANICO
RICORDANDO GERMANICO
MUSEI
MITO DI TROIA
ALLA SCOPERTA DI BRESCIA ROMANA
SPECIALE TESORI D’ARABIA
SPECIALE
TESORI D’ARABIA
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www.archeo.it
IN EDICOLA L’ 11 FEBBRAIO 2020
2020
Mens. Anno XXXV n. 420 febbraio 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
ARCHEO 420 FEBBRAIO
ANTEPRIMA
€ 5,90
EDITORIALE
MEGLIO DI UNA CASA BEN COSTRUITA... In una memorabile lezione tenuta lo scorso 26 gennaio al Teatro Argentina, in occasione della seconda conferenza del ciclo «Luce sull’Archeologia» dedicata alla figura di Enea, Antonio Marchetta – professore di lingua e letteratura latina alla «Sapienza» di Roma – ha aperto il suo intervento con il seguente ammonimento: «La memoria è la luce della nostra vita, personale e collettiva; ma della luce della memoria accade come della luce del sole, la quale è sí fonte di vita, ma se la fissiamo in modo sbagliato, può accecarci. Dunque, complesse e controverse sono le dinamiche della memoria nel farsi e disfarsi delle vicende umane». Riferita all’esempio straordinariamente articolato e profondo offerto, in questo caso, dalla dialettica fra memoria troiana e la nuova realtà territoriale del Lazio quale emerge nell’Eneide di Virgilio, la metafora solare ce ne ha ricordata un’altra, questa volta acquatica, espressa in un contesto diverso – l’inaugurazione, nel 2015, della Biblioteca Florio all’Ateneo di Udine – dal nostro Louis Godart: «Le società contemporanee – scrive l’archeologo e grecista – hanno una conoscenza molto relativa del loro passato. Ai loro occhi le esperienze e gli insegnamenti tramandati dalle generazioni precedenti sono come l’immagine riflessa da uno specchio d’acqua battuto dai venti: i contorni della figura sono sbiaditi, i colori si accavallano ed è pressoché impossibile scorgere il riflesso della figura che s’inginocchia sull’elemento liquido…». Come recuperare, allora, quella luminosa, ma altrettanto malleabile, sfuggente condizione della nostra esistenza individuale e comunitaria? In un mondo scosso e disorientato, segnato perlopiú da una rivoluzione dei meccanismi di trasmissione del sapere di dimensioni copernicane, Godart ravvisa nel lavoro editoriale – e, nella fattispecie, nel suo prodotto per eccellenza, il libro – uno strumento imprescindibile. Sono solo le considerazioni di un nostalgico homme des lettres, destinate a capitolare di fronte alla travolgente onda anomala della memoria virtuale, onnipresente e infinita? Non lo crediamo, se già 4400 anni fa un ignoto scriba egiziano aveva sostenuto che – ed è sempre Godart a ricordarcelo – «un libro è meglio di una casa ben costruita, meglio di una stele in un tempio». Andreas M. Steiner
SOMMARIO EDITORIALE
Meglio di una casa ben costruita
3
di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
SCOPERTE Una grotta scoperta sull’isola indonesiana di Sulawesi restituisce eccezionali testimonianze d’arte rupestre risalenti a oltre 40 000 anni fa
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strisce a Iwo Jima fosse «figlia» della Gemma Augustea? 14
MONDO EGEO
PAROLA D’ARCHEOLOGO Al via la prima International School of Cultural Heritage, corso di aggiornamento professionele nel segno del Mediterreneo 18
di Louis Godart
DA ATENE
Aristocrazie micenee 28 di Valentina Di Napoli
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Un mare alle origini della civiltà
34
34 MUSEI/1 Brescia
Brixia. Uno sguardo nuovo 50 di Cristina Ferrari
PASSEGGIATE NEL PArCo La scoperta di un’opera inedita di Galeno riscrive la storia dell’area degli Horrea Piperataria 8 EDITORIA Archeologia e Calcolatori festeggia i suoi primi 30 anni, confermandosi rivista di punta per l’informatica archeologica 13 A TUTTO CAMPO E se la foto dei Marines che issano la bandiera a stelle e
28 LA DEMOCRAZIA NEL CUORE
Quel messaggio (potente) della classicità 32 di Louis Godart
50
In copertina maschera funeraria in oro, da Thaj, Tell al-Zayer. I sec. d.C. Riad, Museo Nazionale.
Presidente
Federico Curti Anno XXXVI, n. 420 - febbraio 2020 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Comitato Scientifico Internazionale
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it
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Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it
Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Andrea Bellotti è archeologo. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Cristina Collettini è funzionario architetto del Parco archeologico del Colosseo. Francesco Colotta è giornalista. Alessandro D’Alessio è funzionario archeologo presso il Parco archeologico del Colosseo. Valentina Di Napoli è archeologa. Cristina Ferrari è archeologa. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Louis Godart è stato professore di civiltà egee all’Università Federico II di Napoli. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Romolo Loreto è professore associato di archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente antico. Luca Luppino è archeologo. Sabina Malgora è direttore del Mummy Project Research. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Mara Sternini è professore associato di archeologia classica all’Università degli Studi di
MUSEI/2
MOSTRE/2
Le mummie raccontano... 62
La guerra infinita
Brescia
Londra
80
di Stefano Mammini
di Sabina Malgora
80
62
Rubriche
MOSTRE/1 Roma
Germanico, il prescelto a cura della Redazione
72
SCAVARE IL MEDIOEVO Il guerriero che visse tre volte
110
di Andrea Augenti
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
Il silenzio è d’oro
72
SPECIALE Arabia Saudita
112
di Francesca Ceci
LIBRI
94
114
Tutto l’oro d’Arabia 94 testi di Abdullah A. Al-Zahrani e Romolo Loreto
Siena. Abdullah A. Al Zahrani è direttore generale delle ricerche e studi di archeologia della Saudi Commission for Tourism and National Heritage (SCTH).
Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534
Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio Stampa Museo Nazionale Romano-Ministero della Cultura dell’Arabia Saudita: copertina (e p. 95) e pp. 96-97, 98/99, 101 (basso), 105, 106, 109 (alto) – Shutterstock: pp. 3, 34/35 – Adam Brumm, Ratno Sardi e Adhi Agus Oktaviana: p. 6 (alto) – Kim Newman: p. 6 (basso) – Ratno Sardi: p. 7 – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: pp. 8-9 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 10-11 – Cortesia degli autori: pp. 12, 15, 18-20, 22-23, 112 – Doc. red.: pp. 14, 42-43, 46-47, 102/103, 110-111, 113 (basso) – Cortesia Archivio della Società Archeologica di Atene: p. 28 (alto) – Cortesia Soprintendenza Ellenica alle Antichità delle Cicladi: p. 29 (basso); K. Xenikakis: pp. 28 (basso), 29 (alto e centro) – Bridgeman Images: pp. 32, 44/45 – Mondadori Portfolio: Mauritius Images/Hiroshi Higuchi: p. 36 (basso); Album/Prisma: pp. 37-39; AKG Images: pp. 40, 72/73; Album: pp. 41, 75; Historisk Bildbyrå/Mustang media/Heritage Images: p. 45; Album/Florilegius: p. 113 (alto) – Cortesia Archivio Fondazione Brescia Musei: pp. 50-52, 53 (sfondo), 54-61 – Cortesia Museo Civico di Scienze Naturali, Brescia-Mummy Project: pp. 62-71 – Cortesia Fondazione Sorgente Group: pp. 72, 74, 76-79 – Cortesia Ufficio Stampa British Museum, Londra: The Trustees of the British Museum: pp. 80/81, 82, 83 (alto), 84, 85, 87, 90, 91, 92 (basso); National Museet Denmark: p. 83 (basso); Ashmolean Museum, University of Oxford: pp. 84/85 (basso); Museo Archeologico Nazionale, Sperlonga: p. 86; The Devonshire Collections, Chatsworth, su concessione Chatsworth Settlement Trustees: pp. 86/87; Eleanor Antin/cortesia dell’artista e Ronald Feldman Gallery, New York: pp. 88/89 – Stefano Mammini: pp. 84/85 (alto), 90/91, 92 (alto) – Andreas M. Steiner: pp. 94, 99, 100, 101 (alto), 104, 107, 108, 109 (basso) – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 36, 53.
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Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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n otiz iari o SCOPERTE Indonesia
CACCIATORI MISTERIOSI
U
na missione archeologica guidata dall’Università australiana di Griffith ha annunciato la scoperta, in Indonesia, di testimonianze d’arte rupestre che riporterebbero ancora piú indietro le lancette dell’orologio di questo fenomeno. Le pitture parietali sono state individuate sull’isola di Sulawesi, in un sito sotto roccia denominato Leang Bulu’ Sipong 4, che l’équipe indaga da alcuni anni, nell’ambito In alto: Sulawesi (Indonesia). Foto panoramica e restituzione grafica delle figure scoperte nel sito denominato Leang Bulu’ Sipong 4. Questa eccezionale testimonianza d’arte rupestre è stata datata ad almeno 44 000 anni fa. A sinistra: uno dei componenti dell’équipe che conduce le ricerche nel sito accanto alla parete sulla quale sono state individuate le raffigurazioni.
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di un piú vasto progetto di ricerca sulla frequentazione di questa regione in epoca preistorica. Sulla parete rocciosa sono state individuate varie figure, fra le quali spiccano quelli che gli archeologi hanno ribattezzato «teriantropi», vale a dire esseri che presentano un corpo per metà umano e per metà animale. Queste bizzarre creature appaiono impegnate in battute di caccia a grandi mammiferi – identificati come esemplari di maiali delle verruche, suini simili a cinghiali, e bufali nani –, che cercano di abbattere o catturare servendosi di zagaglie e corde. Scene che, nel loro insieme, sono state giudicate dagli studiosi come espressione di capacità cognitive prettamente moderne. Un dato che sorprende ancor di piú qualora si consideri che, se le analisi fin qui condotte troveranno ulteriori conferme, le pitture di Leang Bulu’ Sipong 4 sono state datate ad almeno 44 000 anni da oggi e si candidano dunque al ruolo di piú antica testimonianza d’arte
In questa pagina: a destra, particolare di una scena di caccia; in basso, particolare di una figura definita teriantropo, perché avente un corpo per metà umano e per metà animale.
rupestre a oggi nota. È stata inoltre avanzata l’ipotesi che la scelta di affidare ai teriantropi il ruolo di cacciatori potrebbe riflettere la capacità di immaginare l’esistenza di esseri soprannaturali, ponendo quindi le basi per lo sviluppo un vero e proprio pensiero religioso. Il sito di Leang Bulu’ Sipong 4 era stato localizzato nel 2017 e arricchisce la carta di distribuzione della regione di Maros-Pangkep, nel quadrante meridionale dell’isola di Sulawesi, che conta già
centinaia di presenze simili. E già nel 2014, la medesima équipe di ricerca aveva individuato tracce d’arte rupestre – mani dipinte in negativo – che però risalivano ad «appena» 40 000 anni fa. Le nuove datazioni sono state ricavate misurando il decadimento radioattivo dell’uranio e di altri elementi presenti nelle formazioni mineralizzatesi nella grotta di Leang Bulu’ Sipong 4 e hanno fornito una forchetta che oscilla fra i 35 100 e i 43 900 anni da oggi per le pitture coperte da questi strati. L’importanza della scoperta è stata ben sintetizzata da uno degli studiosi che l’hanno annunciata, Adhi Agus Oktaviana, il quale ha dichiarato che «queste antichissime testimonianze d’arte rupestre di Sulawesi gettano una luce inattesa e potente sulla genesi e l’evoluzione della spiritualità umana, nonché sulle ideologie e le pratiche artistiche che hanno plasmato la mente dell’uomo moderno». Stefano Mammini
archeo 7
PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Alessandro D’Alessio
SAPORE DI PEPE IL CELEBRE MEDICO GALENO ESERCITAVA A POCHI PASSI DAL MAGAZZINO DELLE SPEZIE, NEL CUORE DEL FORO ROMANO. UNA NOTIZIA SCOPERTA SOLO POCHI ANNI FA, DA CUI È NATO UN IMPORTANTE E ARTICOLATO PROGETTO DI INDAGINE ARCHEOLOGICA E TOPOGRAFICA
N
el 2005, l’inaspettata e fortunatissima scoperta, nel monastero di Vlatadon (Salonicco), di un manoscritto greco del XV secolo contenente 4 opere autobiografiche di Galeno (130-210 d.C. circa), ha dato il via a un processo di rilettura e revisione della topografia del Foro Romano-Palatino, in particolare del percorso della via Sacra e dei luoghi frequentati dal grande medico pergameno nella seconda metà del II secolo d.C. In una di quelle opere infatti, non precedentemente nota (L’imperturbabilità), Galeno cita il devastante incendio che, nel 192, aveva colpito ampia parte dell’area centrale di Roma, distruggendo anche il suo «laboratorio» e quanto v’era custodito (libri, strumenti, preparati farmaceutici). Sorte tanto piú beffarda se si pensa che il celebre medico di corte aveva scelto quel luogo perché prossimo agli Horrea Piperataria (i magazzini delle spezie costruiti da Domiziano), edificio che proprio per il valore di quanto vi si conservava era ritenuto fra i piú solidi e sicuri di Roma, in quanto ignifugo e costantemente sorvegliato. Qui, all’interno degli spazi superstiti e ancora agibili degli Horrea, al di
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sotto della basilica di Massenzio costruitavi al di sopra agli inizi del IV secolo, si è svolta, nel primo semestre del 2019, una lunga campagna di scavo archeologico. Scopo delle ricerche, oltre che di natura squisitamente conoscitiva dei contesti stratigrafici e della topografia dell’area, è pur quello di attuare una serie di interventi di messa in sicurezza, restauro e valorizzazione del complesso monumentale in vista della sua prossima apertura al pubblico.
I RIFACIMENTI DOPO L’INCENDIO Allo stato attuale l’edificio si presenta sostanzialmente nel suo impianto di età flavia, sebbene interessato da alcuni interventi di rifacimento in età adrianea e poi dal solo inserimento di una fogna in età severiana, evidentemente a seguito dell’incendio del 192, che non sembra tuttavia aver coinvolto e danneggiato la costruzione in questa sua parte. Anche la pavimentazione in opera spicata, conservata per grandi porzioni sia all’esterno che all’interno e su livelli decrescenti da est verso ovest, è di epoca domizianea e fu pesantemente intaccata dai crolli di consistenti parti delle coperture
della soprastante basilica (alcune ancora in situ con i relativi cassettoni in stucco) quando questo settore degli Horrea era stato nuovamente scoperto. Rimossa la pavimentazione, l’indagine è stata approfondita, mettendo in luce la possente fondazione in opera cementizia dei pilastri del lato sud e un grande dado, pure in cementizio, databile in età neroniana e da riferire con ogni probabilità al grandioso progetto della Domus Aurea in quest’area (portici?), opera tuttavia interrotta alla morte dell’imperatore nel 68 d.C. e abbandonata dai Flavi. A breve distanza dal dado, in corrispondenza di un’analoga struttura non piú esistente ma che l’aveva precedentemente tagliato, è emerso infine un alto e possente fronte di sostruzione/contenimento in opera laterizia, articolato in nicchie semicircolari (due visibili) e costruito contro un taglio nel retrostante terreno vergine della Velia, con una soluzione «scenografica» che potrebbe aver contemplato anche l’uso dell’acqua. Ai suoi piedi è una splendida pavimentazione anch’essa in opera spicata, solo in parte visibile, il tutto databile forse in età augustea/giulio-claudia.
In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca.
Planimetria dell’area del Foro Romano nella quale sono situati i resti degli Horrea Piperataria (evidenziati in rosso), i magazzini delle spezie, sopra i quali fu eretta la basilica di Massenzio. Nel riquadro, un particolare delle strutture superstiti dei depositi, nei cui pressi Galeno aprí il suo studio di medico di corte. Ma come raccontare questa straordinaria sequenza storica? Un enorme frammento della decorazione a lacunari della volta della basilica di Massenzio cristallizzato nel momento del crollo accoglie il visitatore all’ingresso dei suggestivi spazi degli Horrea Piperataria. È un senso di precarietà e di instabilità quello che si prova entrando per la prima volta in questo luogo, dove il tempo sembra essersi fermato, ma anche di disorientamento, come visto, per la complessità della stratigrafia dell’architettura, con fasi storiche che si susseguono, si sovrappongono e talora si sostituiscono. Ed è questo anche il senso del progetto di restauro e
valorizzazione dell’edificio, che consentirà di aprire alla pubblica fruizione un sito poco noto del Foro Romano e che si presenta oggi come un vasto ambiente sotterraneo, con copertura in cemento armato sostenuta da pilastri (realizzata negli anni Trenta del Novecento) e privo di aperture, a esclusione dell’unico varco di accesso e di un paio di feritoie sulla copertura lungo il lato est.
DAL RESTAURO ALL’ALLESTIMENTO Il progetto di restauro mira a «congelare» le strutture antiche cosí come il tempo le ha lasciate, mantenendo i crolli a terra, le concavità della pavimentazione, i fuori piombo dei pilastri, gli
spanciamenti delle murature. Già durante il restauro verrà avviato il progetto di allestimento vero e proprio, che racconterà la complessa stratificazione del luogo e tutte le modifiche succedutesi nel tempo. L’allestimento consentirà una lettura progressiva del sito, percorrendo una passerella metallica sospesa e agganciata al solaio in cemento armato, senza toccare il piano pavimentale antico, attraverso giochi di luce e proiezioni a muro che accompagneranno il visitatore lungo il percorso di visita, in un contesto cristallizzato nella sua precarietà, nel suo «equilibro instabile». Cristina Collettini e Alessandro D’Alessio
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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
RAPSODIA IN ROSSO UNA DELLE DOMUS TIPICHE DEL QUARTIERE A RIDOSSO DEL FORO RIAPRE AL PUBBLICO NELL’AMBITO DEL GRANDE PROGETTO POMPEI
I
toni accesi e dilatati del colore simbolo di Pompei hanno suggerito subito il suo nome. La Casa delle Pareti Rosse è stata temporaneamente riaperta per mostrare una ricca residenza rimasta a lungo inaccessibile e oggi restituita grazie agli interventi del Grande Progetto Pompei. Situato nella Regio VIII, corrispondente al quartiere sud-occidentale della città compreso fra il tratto iniziale di via dell’Abbondanza e il ciglio meridionale del pianoro, l’edificio fu scavato fra il 1832 e il 1882.
A destra: il larario a edicola nell’atrio della Casa delle Pareti Rosse. In basso: il larario al momento del ritrovamento, completo di lucerna e statuine in bronzo delle figure protettrici del focolare domestico. L’impianto originale, di dimensioni ridotte, risale all’età repubblicana, quando la residenza fu realizzata, forse dopo l’89 a.C., per un esponente dell’èlite coloniale pompeiana. Al momento della sua scoperta si trovava in buona parte in rifacimento, in seguito ai gravi danni subiti dal terremoto del 62 d.C., come dimostrano, per esempio, le pareti di alcuni ambienti appena intonacati ma non ancora dipinti, come prevedevano le linee in rosso a tracciare la ripartizione geometrica della nuova decorazione. Le due stanze piú
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significative della casa sono la 13 e la 14, affacciate sul lato sinistro dell’atrio e utilizzate come soggiorni (oeci), fra le prime a essere completate nei lunghi lavori di ristrutturazione; entrambe accolgono una raffinata decorazione parietale in IV stile, costituita da pareti ravvivate dal brillante colore pompeiano. Nella prima delle due sale troviamo eleganti pannellature verticali in rosso comprese fra lesene e architravi a fondo bianco arricchite da architetture illusionistiche e ravvivate da belle figurine (eroti,
A sinistra: i raffinati motivi decorativi della prima sala. A destra: la seconda sala, decorata con motivi architettonici e quadretti con personaggi mitologici. In basso: raffigurazione di una coppia di eroti alati. pavone, uccelli), il tutto sostenuto da una zoccolatura nera che include altre metope con piccole raffigurazioni. Nei quadretti che spiccano al centro delle pareti rosse compaiono soggetti mitologici, evidentemente cari ai colti padroni di casa, quali il supplizio di Marsia, il sileno che osò sfidare Apollo, o il molle corpo di Narciso disteso, oppure Apollo citarista accompagnato da una Musa.
MITI E CULTI DOMESTICI Nella stanza accanto si ha invece la percezione di un rosso immersivo, che domina lo spazio movimentato solo da esili e sinuose architetture. Nell’accuratezza delle pitture si distaccano anche qui riquadri centrali con l’immagine di un sileno e di una ninfa, secondo alcuni gli amanti Galatea e Polifemo, o di Frisso e l’ariete dal vello d’oro, e infine la tenera coppia di Marte e Venere. Sulla parete est dell’atrio è sistemato un ricercato larario a edicola, con due colonnine a imitazione del marmo e un timpano con dipinte armi gladiatorie purtroppo scomparse, destinato al culto domestico e rinnovato un decennio prima dell’eruzione. All’epoca della scoperta conservava sull’altare sei statuine in bronzo delle divinità protettrici della casa: illuminate da una lucerna, c’erano
le immagini tipiche del pantheon domestico costituite dai due Lari con rhyton e patera (vasi da libagione), da Esculapio, da Apollo con cetra, da Mercurio con petaso e da Ercole con clava, queste due ultime sono le divinità piú rappresentate negli altari privati pompeiani dopo gli stessi Lari. Sulla parete interna dell’edicola è ancora raffigurato il Genio paterfamilias con cornucopia, vestito della toga praetexta (interamente bianca, sinonimo di purezza) alzata a coprire il capo, mentre compie una libagione con la patera su un altare circolare con accanto i Lari; la fronte del podio sacro era invece dominata da un serpente strisciante tra le piante. Accanto al larario, sull’ingresso di una stanza, è sistemato un puteale scanalato di travertino, ornato da fregio dorico di epoca repubblicana; questo è stato spostato dalla sua posizione originaria, verosimilmente la bocca della cisterna dell’atrio. Un altro puteale, stavolta in terracotta, è stato appoggiato durante i lavori di sistemazione in un angolo del tablino, in questa casa costituito da uno spazio quadrato ben definito di fronte all’atrio tuscanico. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; pagina Fb Pompeii-Parco Archeologico.
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n otiz iario
MUSEI Campania
I SANNITI IN IRPINIA
È
stato inaugurato a Carife (Avellino), nel cuore dell’Irpinia, il Museo Archeologico della civiltà preromana della Baronia. Il progetto è finalizzato al racconto della storia del popolamento della Baronia in età sannitica (seconda metà del V-IV secolo a.C.), periodo in cui – secondo il compianto archeologo Werner Johannowsky (1925-2010) – in quest’area doveva essere ubicata la città di Romulea, distrutta nel 296 a.C. dalle legioni dei consoli P. Decio Mure e Q. Fabio Massimo Rulliano durante la terza guerra sannitica (Livio X,17). I reperti sono distribuiti in piú ambienti, ciascuno dei quali illustra i contesti archeologici prevalenti. La prima sala riunisce i corredi funerari di Castel Baronia, dove in località Serra di Marco, è stata esplorata una necropoli che ha restituito 135 sepolture (VI-V secolo a.C.). Le tombe dei maschi adulti sono contraddistinte da armi da offesa, rasoi in bronzo o in ferro, ma anche da cinturoni in lamina di bronzo, che enfatizzano sia la funzione guerriera del defunto sia il suo status sociale. Nelle sepolture femminili prevalgono invece gli elementi di ornamento personale: fibule di bronzo e di ferro, collane d’ambra, armille, anelli, pendagli. Al piano superiore sono invece ospitati i reperti provenienti dalle due necropoli di Carife. La prima, in località Piano La Sala, ha restituito 80 tombe a fossa (V-III secolo a.C.). Sono in mostra i reperti selezionati di 15 sepolture: i corredi femminili sono contraddistinti dalla presenza di fibule di bronzo o di ferro e di oggetti di ornamento personale in bronzo e in qualche caso di argento, mentre quelli maschili si caratterizzano per la presenza in genere di armi da offesa, rasoi di ferro e in alcuni casi di cinturoni a
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fascia di bronzo. I corredi vascolari risultano composti da un numero limitato di forme, connesse al consumo del vino. La seconda necropoli è quella dell’Addolorata. Dall’analisi dei corredi si rileva che il prestigio sociale del defunto non si traduceva piú nella loro ricchezza numerica, bensí nella loro qualità (il vasellame metallico prevale rispetto a quello ceramico) e nella monumentalità del sepolcro. I corredi femminili si caratterizzano In alto: una delle sale del nuovo Museo Archeologico di Carife. In basso: oinochoe (brocca da vino) con decorazione subgeometrica, dalla necropoli di Piano La Sala.
per la presenza di oggetti di ornamento personale, pendenti di collana in ambra, un raro disco d’avorio in funzione di pendaglio in associazione con una fibula «da parata» d’argento, un raro fermatreccia di bronzo e una rara situla di derivazione celtica. Le tombe maschili si distinguono per la presenza di cinturoni bronzei, coltelli-rasoi, punte di lance o di giavellotti. Strigili di ferro e di bronzo, utilizzati per detergere il sudore dopo gli esercizi ginnici, si trovano sia nelle tombe a incinerazione sia in due a inumazione. Alari e spiedi di ferro richiamano il protrarsi del rituale del simposio, mentre alcune borchie di bronzo costituiscono elementi decorativi di letti funebri. All’ingresso è allestito uno spazio dedicato a reperti recuperati in località Tierzi grazie allo scavo di un complesso artigianale di fornaci di epoca romana, mentre una terza sala è utilizzata come spazio didattico, arricchito dalla presenza della ricostruzione in scala 1:1 di una tomba a camera che riproduce una delle sepolture monumentali scoperte nell’area archeologica dell’Addolorata. Giampiero Galasso
DOVE E QUANDO Museo Archeologico di Carife Civiltà preromana della Baronia Carife (Avellino), Orario ma-do, 9,00-14,00; lu chiuso Info tel. 0827 1810434; www.comune.carife.av.it
EDITORIA Roma
INCONTRI Siena
UN TRAGUARDO DI PRESTIGIO
ARCHEOLOGIA IN STREAMING
L
a rivista Archeologia e Calcolatori (http://www. archcalc.cnr.it/) ha salutato il suo trentesimo numero, pubblicando un volume che si apre con un inserto speciale dedicato al traguardo raggiunto. Alle introduzioni di François Djindjian e di Paola Moscati, che delineano un quadro dell’informatica archeologica, seguono gli articoli dei membri del Comitato di Redazione, a testimoniare l’attività di sperimentazione che ha caratterizzato il cammino editoriale della rivista, che dal 2005 ha aderito all’Open Archives Initiative e quindi alle politiche di accesso aperto alla letteratura scientifica. L’inserto si chiude con il contributo di una laureata dell’Università Bocconi, che ha collaborato con il team di Archeologia e Calcolatori per una tesi sulle strategie di Audience Development nel settore dei beni culturali. La parte centrale del volume contiene gli articoli proposti dagli autori, da cui emergono gli aspetti applicativi piú qualificanti dell’informatica archeologica (banche dati, GIS,
analisi statistiche, sistemi multimediali), ma anche l’interesse per gli strumenti di visualizzazione scientifica e di comunicazione delle conoscenze. In chisuura, gli Atti del XII Workshop ArcheoFOSS (Free, Libre and Open Source Software e Open Format nei processi di ricerca archeologica), un’iniziativa nata nel 2006, a cui si è piú volte dato spazio nelle pagine della rivista. Nell’Editoriale d’apertura si traccia un bilancio della solidità delle scelte editoriali della rivista, fondata nel 1990, e della vitalità dell’argomento trattato. A questo scopo vengono indicati alcuni dati quantitativi: il repository di Archeologia e Calcolatori contiene 1080 risorse digitali, pari ad altrettanti articoli, per un totale di oltre 15 000 pagine; di questi articoli, ben 930 sono liberamente accessibili on line. Gli autori sono oltre 1300 e provengono da quasi tutte le nazioni europee e dai continenti extraeuropei, anche grazie alla scelta del multilinguismo come fonte di arricchimento nel panorama internazionale. (red.)
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al 20 al 22 marzo l’Università degli Studi di Siena ospiterà il convegno Spring Archaeology, nato per creare e sollecitare il dialogo tra giovani ricercatori e professionisti operanti in Italia nel settore archeologico. L’iniziativa si articola in due giorni di relazioni tematiche su aspetti di ricerca, metodologia, valorizzazione e comunicazione dei beni archeologici, e si concluderà con una tavola rotonda sull’accesso alla professione nel nostro Paese. Uno dei principali obiettivi è stato, sin dall’inizio, la diffusione dell’evento: da qui è nata la collaborazione con Let’s Dig Again, la prima web radio italiana interamente dedicata all’archeologia. Nata a Siena nel 2013, Let’s Dig Again si propone come canale di informazione e divulgazione rivolto non solo agli specialisti del settore, ma anche ad appassionati e cultori di archeologia. Nei giorni del convegno, Let’s Dig Again, in qualità di social media partner, sarà responsabile della cura e divulgazione dell’iniziativa, nonché di approfondimenti, tra cui interviste a relatori e organizzatori e la diretta della tavola rotonda di chiusura, prevista per domenica 22 marzo. Vi invitiamo quindi a visitare le pagine Facebook, Instagram e Twitter di Spring Archaeology, e vi aspettiamo a Siena il 20, 21 e 22 marzo! Per informazioni: www.letsdigagain.it; e.mail: springarchaeology@gmail.com Andrea Bellotti e Luca Luppino
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A TUTTO CAMPO Mara Sternini
I TROFEI DEI NOSTRI PADRI L’ESALTAZIONE DELLA FAMIGLIA DI AUGUSTO E LA CELEBRAZIONE DELLA VITTORIA AMERICANA A IWO JIMA: EVENTI FRA LORO DISTANTI NEL TEMPO, MA, CONCETTUALMENTE, PIÚ VICINI DI QUANTO SI POTREBBE PENSARE
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lags of our fathers e Letters from Iwo Jima sono due film diretti nel 2006 da Clint Eastwood, nei quali si racconta la stessa battaglia, combattuta tra il 19 febbraio e il 26 marzo del 1945 nell’isola di Iwo Jima, punto nevralgico per un eventuale sbarco alleato in Giappone e, per questa ragione, ben difesa dall’impero del Sol Levante. Nella prima pellicola la storia è narrata dal punto di vista
statunitense, mentre nella seconda l’evento viene rievocato secondo l’ottica dei Giapponesi. L’intero progetto ha preso le mosse dalla pubblicazione di un libro firmato da James Bradley e Ron Powers, nel quale viene ricostruita la complessa macchina propagandistica messa in piedi dal governo degli USA, e appoggiata dall’allora presidente Franklin Delano Roosevelt, per diffondere
tra i cittadini l’idea dell’imminente vittoria e, allo stesso tempo, favorire la raccolta di fondi per nuovi armamenti.
UN’ICONA DEL PATRIOTTISMO Il progetto prese spunto dalla celebre fotografia scattata dal fotografo Joe Rosenthal, nella quale si vedono sei militari intenti a innalzare la bandiera a stelle e strisce sul Monte Suribachi; l’immagine era corredata dalla didascalia Raising the Flag on Iwo Jima (Innalzando la bandiera a Iwo Jima). In realtà, la foto non fu scattata alla fine della battaglia, ma solo all’inizio di uno scontro feroce (che costò la vita a migliaia di soldati americani), precisamente il 23 febbraio 1945, tanto che alcuni dei soldati ritratti nella foto non sopravvissero. La macchina della propaganda, però, funzionò ugualmente e lo scatto divenne un’icona del valore militare, tanto da essere preso a modello per il monumento dedicato al Corpo dei Marines, innalzato ad Arlington, in Virginia, e inaugurato il 10 La Gemma Augustea, cammeo in onice attribuito a Dioscuride o a uno dei suoi allievi. I sec. d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum.
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novembre 1954 dal presidente Dwight Eisenhower, alla presenza dei tre militari sopravvissuti, fra i sei ritratti da Rosenthal. L’uso propagandistico delle immagini è da sempre uno strumento utilizzato dai vincitori a proprio vantaggio e la storia dell’arte classica ce ne mostra ripetuti esempi. A questo proposito possiamo ricordare la famosa Gemma Augustea, un prezioso cammeo datato intorno al 12 d.C., conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna e attribuito, forse, alla bottega di Dioscourides, rinomato incisore della prima età imperiale. Intagliata su onice, la Gemma è divisa in due registri; in quello superiore è rappresentato il trionfo di Tiberio, appena tornato dalla vittoriosa spedizione contro Dalmati e Pannoni; l’erede al trono è raffigurato a sinistra, mentre scende dal carro del trionfatore per
dirigersi verso Augusto, seduto in trono accanto alla personificazione della dea Roma in armi. Alle spalle di Augusto compare Oikoumene, cioè la personificazione del mondo abitato, che a sua volta incorona il principe con la «corona civica» di foglie di quercia.
SIMBOLO DI VITTORIA Nel registro inferiore, invece, sono presenti alcuni prigionieri, con le mani legate dietro la schiena, mentre i soldati romani sono impegnati a innalzare un trofeo composto da un palo, a cui sono state attaccate armature, scudi ed elmi sottratti ai nemici. L’idea del gruppo di soldati che insieme innalzano il simbolo della vittoria avvicina in modo stupefacente la Gemma Augustea alla foto di Rosenthal; nel primo caso è un trofeo di armi prese ai nemici sconfitti, nel secondo è la bandiera
americana innalzata sulla sommità del Monte Suribachi, utilizzando un palo di fortuna. Con le dovute differenze, emerge tuttavia in modo chiaro l’immediatezza comunicativa della scena, il cui messaggio di vittoria e trionfo è cosí efficace che il modello viene riproposto nella foto. Sarebbe bello credere che Rosenthal avesse in mente la Gemma Augustea quando riprese l’immagine, ma in realtà sembra che lo scatto fosse solo uno dei tanti fatti in quell’occasione e che lo stesso fotografo non ne avesse intuito la potenzialità comunicativa finché non venne pubblicata due giorni dopo sulle prime pagine di moltissimi quotidiani, diventando subito un simbolo della vittoria statunitense sui Giapponesi. Un’icona dei nostri tempi, ma che in realtà ha radici molto lontane. mara.sternini@unisi.it
Arlington, Virginia. Il Marine Corps War Memorial, detto anche Iwo Jima Memorial, inaugurato nel 1954 dal presidente Eisenhower. Nel riquadro: Raising the Flag on Iwo Jima (Innalzando la bandiera a Iwo Jima), fotografia scattata da Joe Rosenthal sul Monte Suribachi il 23 febbraio 1945.
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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
ARCHEOLOGI DEL MEDITERRANEO E... DEL FUTURO HA PRESO IL VIA LA PRIMA EDIZIONE DELLA INTERNATIONAL SCHOOL OF CULTURAL HERITAGE, VOLUTA DALLA FONDAZIONE SCUOLA DEI BENI E DELLE ATTIVITÀ CULTURALI. NE ABBIAMO PARLATO CON CARLA DI FRANCESCO, COMMISSARIO STRAORDINARIO DELLA FONDAZIONE
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primi venti allievi vengono da Egitto, Iraq, Israele, Giordania, Libano, Libia, Marocco, Palestina, Tunisia, Turchia. Sono archeologi, architetti, manager culturali, venuti a Roma per inaugurare la prima edizione della International School of Cultural Heritage, il
neonato corso di aggiornamento professionale della Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali, l’ente fondato dal MiBACT per la ricerca e l’alta formazione nel settore. Dell’iniziativa ci parla Carla Di Francesco, Commissario
Straordinario della Fondazione... «Gli allievi si trovano al momento in varie città italiane, per seguire tre mesi di tirocini e attività sul campo presso i nostri musei e siti archeologici. Il tema della prima edizione dell’International School of Cultural Heritage è infatti la gestione dei siti archeologici, con il corso “Managing Mediterranean archaeological heritage: challenges and strategies”. La scuola vuole esportare l’eccellenza italiana nella tutela e gestione del patrimonio, attraverso un’esperienza di formazione destinata a funzionari
Allievi della International School of Cultural Heritage durante una visita alla sede di Palazzo Altemps del Museo Nazionale Romano.
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ministeriali, dirigenti e operatori della cultura che già lavorano nel settore provenienti da Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Che hanno, quindi, una storia comune. Sono stati invitati in Italia per aggiornarsi su temi specifici: sistemi di catalogazione, comunicazione culturale, protezione del patrimonio dai danni naturali (catastrofi,
La locandina del programma dell’International School of Cultural Heritage.
INCONTRO CON CHRISTIAN GRECO, DIRETTORE DELL’EGIZIO DI TORINO
Una preziosa opportunità di scambio Tra le istituzioni che offrono tirocini agli studenti dell’International School of Cultural Heritage c’è il Museo Egizio di Torino e ne abbiamo perciò intervistato il direttore, Christian Greco. Professore, perché, a suo avviso, è importante l’esistenza di questa scuola di formazione internazionale? «L’International School of Cultural Heritage ha un valore fondamentale, perché fa sedere allo stesso tavolo esperti provenienti da tutto il Mediterraneo, dal Maghreb al Levante, in un dialogo che mette al centro il nostro mare e l’interconnettività di persone e di idee che lo hanno reso grande. È molto bello poter mettere a confronto persone diverse, che già lavorano nei vari uffici di antichità o nei ministeri dei beni culturali, per capire come ciascun Paese declina il tema della cura del patrimonio e come ci si possa arricchire reciprocamente. Gli studenti sono venuti in primis a Roma, poi sono entrati in contatto con istituti e centri culturali, per formarsi alla tradizione di cura del patrimonio culturale che costituisce l’eccellenza italiana. In questo momento gli allievi sono impegnati in un praticantato di tre mesi sul campo, anche presso l’Egizio di Torino: per noi è un importante momento di confronto. Per loro è un’opportunità per conoscere i vari dipartimenti (gestionali e operativi) e capire come funziona un’istituzione museale. E per imparare, per esempio, come esporre le antichità egizie, come restituire gli oggetti al paesaggio di appartenenza, come mettere la ricerca al centro dell’esposizione e come comunicare l’archeologia al pubblico». Questi sono i temi da lei affrontati anche nella lectio magistralis sull’«umanesimo digitale». Come vede, dunque, il rapporto tra archeologia e cultura digitale? «Vorrei fare un paragone forse un po’ ardito e citare il Fedro di Socrate. Nell’opera, che rispecchia l’Atene del V secolo a.C., in cui parola scritta e orale si contrappongono, Socrate rifiuta la parola scritta, poiché ritiene che cristallizzi la realtà e non permetta di essere piegata alle varie situazioni. Possiamo fare un paragone con il museo di oggi. In che modo affrontare la rivoluzione digitale? Rifiutare il cambiamento o porsi in dialogo?
Il museo non può far finta di essere sospeso, dev’essere inserito nella società di cui fa parte. Deve partecipare alla rivoluzione digitale. Le nuove tecnologie possono aiutarci a comprendere meglio i reperti esposti: la loro biografia, le storie che raccontano, quando furono concepiti, come funzionavano, come furono dimenticati e per cosí dire “morirono”, per essere poi recuperati da archeologi e collezionisti. La tecnologia digitale può creare un dialogo tra reperto e visitatore, ma anche aiutare gli archeologi a studiare le varie fasi di un oggetto e come si è modificato nel tempo (come nel caso dei sarcofagi egizi, spesso restaurati e riutilizzati in epoca antica). Il museo deve trovare modalità di comunicazione che appartengono alla società contemporanea. Il digitale non deve sostituirsi agli strumenti del passato, ma essere un mezzo che permette di comprendere la materialità dell’oggetto e la sua biografia, rendendo visibile anche ciò che non si vede: per esempio, analizzando il liquido all’interno di un vaso, posso ricostruire il rituale per cui era usato». Ma in che modo la tecnologia digitale applicata all’archeologia permette di vedere l’«invisibile»? «Le faccio lo stesso esempio che ho fatto agli studenti. Il 15 febbraio 1906 la Missione Archeologica Italiana in Egitto scopre la tomba dell’architetto Kha e Merit: 467 reperti che vengono portati a Torino e tuttora costituiscono l’unico nucleo di una tomba del Nuovo Regno completamente intatta. Le mummie non sono state sbendate, sono ancora integre. Oggi, grazie alla TAC, è possibile penetrare al loro interno e scoprire, per esempio, la patologia di cui soffrivano i defunti, la causa della morte, se avevano arteriosclerosi o l’artrosi, se indossavano gioielli e amuleti, come Kha, oppure se, come Merit, avevano un collare e una seconda parrucca di cui ignoravamo l’esistenza. La mummia poi, ancora bendata, è stata restituita ai visitatori attraverso un video. Siamo felici di mostrare queste soluzioni agli studenti dell’International School of Cultural Heritage, che ho visto emozionati e interessati. È un’iniziativa encomiabile che il Mediterraneo diventi un centro di interscambio di persone e idee anche per la cura del patrimonio culturale».
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Un allievo della International School of Cultural Heritage documenta l’allestimento di uno dei musei visitati.
terremoti e guerre), gestione delle collezioni museali, sviluppo del territorio attraverso il management heritage. Le richieste di approfondimento sono venute dagli studenti stessi. Attraverso lezioni, visite ai siti archeologici e alle piú importanti istituzioni per la gestione del patrimonio culturale, hanno approfondito casi specifici. Tra questi, la valorizzazione dei ritrovamenti degli scavi di archeologia preventiva per la metro C di Roma, in corrispondenza delle stazioni Rinascente e San Giovanni: un esempio di come in Italia si sia risolto il rapporto tra stratificazione storica e città moderna». La Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali fa parte del progetto di alta formazione del nostro Ministero dei Beni Culturali, quindi è rivolta anche a specialisti italiani? «Sí, certo. Il prossimo anno inizieremo la formazione continua per i dipendenti del MIBACT, ma già adesso è attivo il primo biennio della Scuola del Patrimonio del ministero dei Beni culturali, rivolta a giovani già diplomati, specializzati
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o con dottorato in archeologia, architetti, archivisti, bibliotecari e storici dell’arte. Gli studenti lavorano su esempi concreti e case study che essi stessi hanno proposto, con esperienze di scavo e ricerca sul campo». Rispetto ad altre scuole di formazione, che cosa offre di nuovo l’International School of Cultural Heritage? «Ogni anno la scuola cambierà tema e collocazione geografica, con il supporto dell’UNESCO e degli ambasciatori del Ministero degli Esteri. Quest’anno il focus è archeologia e Mediterraneo. Quello che offre in piú rispetto ad altre istituzioni è che il corso viene modulato sugli interessi scientifici e gestionali di chi partecipa e, soprattutto, offre esempi di gestione del patrimonio concreti, che mancano all’estero e che sono vero il know how italiano. Dopo la parte teorica, ogni studente svolge tre mesi di tirocinio sul campo, con esercitazioni e approfondimenti presso le nostre istituzioni della cultura: l’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro (ISCR), siti come Pompei, il Museo
Archeologico di Napoli, quello Etrusco di Villa Giulia». La lectio magistralis che ha inaugurato il corso è stata affidata a Massimo Osanna, direttore del Parco archeologico di Pompei… che cosa ha raccontato? «Il professor Osanna ha parlato di archeologia, conservazione e ricerca. In siti complessi come Pompei, questo vuol dire innanzitutto affrontare il problema dei crolli derivanti dalla mancata manutenzione dei fronti di scavo. A Pompei, in occasione del consolidamento delle sezioni a vista, sono stati effettuati nuovi scavi archeologici, che hanno portato a scoprire testimonianze del tutto sconosciute, come lo splendido affresco con Leda e il Cigno. Questo mostra come, anche in un sito molto indagato, grazie agli interventi di manutenzione, siano possibili nuove scoperte archeologiche. Pompei oggi è un simbolo di rinascita: finalmente, dopo tanti anni, si riesce a gestire un territorio molto difficile. Il sito è l’esempio di come conservazione e restauro possono essere una preziosa occasione di studio e ricerca».
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MOSTRE Basilicata
TESORI DALL’ANTICO VULTURE
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i è inaugurata nel Museo Archeologico Nazionale «Massimo Pallottino» di Melfi (Potenza) la mostra «Capolavori in rilievo», che vede eccezionalmente insieme due capolavori dell’arte romana: il sarcofago di Rapolla, afferente alla collezione del museo di Melfi, e il sarcofago di Atella, straordinario prestito del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Il monumentale sarcofago marmoreo di Rapolla (1,80 x 2,50 x 1,20 m), prodotto in una raffinata officina asiatica intorno al 170 d.C., è stato ritrovato nel 1856 in località Albero in Piano, località Fontana Teora, nel comune di Rapolla (Potenza), lungo la via Appia. La cassa è scandita da sei colonne scanalate con capitelli corinzi sui lati lunghi e quattro su quelli brevi,
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che individuano edicole dall’elaborata struttura architettonica entro cui sono collocate ad altorilievo figure di divinità (Afrodite, Apollo, Ade, Ermes) e di eroi omerici (Ulisse, In alto: il sarcofago di Rapolla. 170 d.C. Melfi, Museo Archeologico Nazionale «Massimo Pallottino». A destra: particolare del sarcofago di Atella. Fine del II sec. d.C. Napoli, MANN.
Diomede). Sul coperchio, a forma di letto da banchetto, è ritratta una giovane donna distesa, dormiente, chiaro riferimento alla defunta, dal volto dolce ed elegante incorniciato da un’acconciatura in voga in età
ROMA
Storie fatte di parole e di musica antoniniana. Sulla fronte il materasso è impreziosito da motivi geometrici, mentre a fianco alla testata del letto è un amorino: lungo il bordo inferiore corre infine un fregio di tritoni e mostri marini. Il sarcofago marmoreo di Atella, di produzione attica della fine del II secolo d.C. (1,04 x 2,55 x 1,12 m), è stato scoperto nel 1740 in località Magnone nelle immediate vicinanze di una villa imperiale romana nel territorio di Atella (Potenza). Ricca è la decorazione scultorea a rilievo che raffigura nella scena centrale, su uno dei lati lunghi della cassa, l’episodio del riconoscimento nell’isola di Sciro, da parte di Ulisse, del mitico Achille nascosto tra le figlie del re Licomede dalla madre Teti, che voleva evitargli una precoce morte. La scena coglie il momento in cui Ulisse, tra lo spavento delle giovani donne, si lancia verso Achille che aveva già impugnato l’asta e imbracciato lo scudo per colpirlo, trattenuto nello slancio in avanti per il braccio destro da Deidamia, una delle figlie del re Licomede di cui Achille si era innamorato. Tra le figure di questa scena è inciso il nome di Metella Torquata, della potente famiglia dei Metilii, cui il sarcofago era probabilmente destinato. Su uno dei lati brevi della cassa è sempre l’eroe acheo con il centauro Chirone, suo educatore, e su quello opposto è di nuovo Deidamia, che dopo la partenza dell’eroe viene confortata dalle sue ancelle. Sul retro della cassa sono infine a rilievo raffigurate due voluminose e ricche ghirlande sorrette da un’aquila e sormontate da grifi. Insieme, i due sarcofagi permettono di ricostruire un articolato panorama di relazioni sociali, politiche ed economiche in questa regione negli ultimi decenni
Particolare del sarcofago di Rapolla. 170 d.C. Melfi, Museo Archeologico Nazionale «Massimo Pallottino». del II secolo d.C., e documentano lo scambio culturale tra il mondo microasiatico e attico, alle cui botteghe scultoree sono attribuiti, e la società che anima la vita economica e culturale dell’entroterra lucano e che popola le ville distribuite lungo l’Appia. Giampiero Galasso
«Alle origini di Roma. Miti, Popoli, Culture» è il tema di «Luce sull’Archeologia 2020» ciclo di conferenze, che si al Teatro Argentina, la domenica mattina alle 11,00. L’affascinante vicenda della nascita dell’Urbe e della progressiva conquista del Lazio – analizzando i miti di fondazione e i popoli con cui Roma si è confrontata – viene esplorata da storici, filologi, archeologi, storici dell’arte, architetti, epigrafisti, scienziati, ai quali si unisce la preziosa partecipazione di musicisti e specialisti di strumenti musicali del mondo antico. Questi i prossimi appuntamenti: 9 febbraio, Per volere degli dèi, con Claudio Strinati, Massimiliano Ghilardi, Andreas M. Steiner, Piero Bartoloni e Annalisa Lo Monaco, nonché un excursus lirico tratto da opere di Vinci, Cavalli, Mercadante, Purcell eseguito da Silvia Pasini, Andrea Fossa e Marco Silvi; 23 febbraio, La conquista del Lazio, tra storia, mito e religione, con Claudio Strinati, Massimiliano Ghilardi, Andreas M. Steiner, Marisa de’ Spagnolis, Massimiliano Di Fazio e Alessandro Pagliara.
DOVE E QUANDO «Capolavori in rilievo. I sarcofagi di Atella e Rapolla» Melfi (Potenza), Castello Federiciano, Museo Archeologico Nazionale «Massimo Pallottino» fino all’8 novembre Orario lu, 14,00-19,30; ma-do, 9,00-20,00 Info tel. 0972 238726; e-mail: pm-bas.museomelfi@beniculturali.it
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ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
LA «NOSTRA» CIVILTÀ In questo numero viene presentato in anteprima l’ultimo libro di Louis Godart, Da Minosse a Omero, i cui contenuti sono efficacemente esplicitati dal sottotitolo: Genesi della prima civiltà europea (vedi alle pp. 34-47). Qui, in pillole filateliche, cerchiamo di sintetizzare il percorso seguito dal professor Godart, sperando che non ce ne voglia troppo… Si parte con un intero postale italiano di franchigia militare che raffigura il Mar Egeo (1), dove tutto è nato, e sul quale sono segnalati alcuni dei luoghi (Micene, Troia, Creta, Cnosso, Santorini) dove persone e accadimenti hanno fatto la leggenda e la storia della civiltà mediterranea. L’incipit del libro rende omaggio a due giganti dell’archeologia classica che hanno contribuito alla riscoperta delle civiltà egee – Heinrich Schliemann (2) e Arthur Evans (3, sulla copertina del libretto) –, nonché a Michael Ventris, lo studioso inglese che decodificò la scrittura Lineare B (4) come antica lingua greca parlata a Creta. Quindi, in estrema sintesi, ecco un elenco di luoghi e oggetti significativi citati da Godart. Micene, con la famosa Porta dei Leoni su una vecchia cartolina postale di Grecia (5), e Troia (6) col tesoro di Priamo (7) sono frutto delle ricerche di Schliemann, mentre il palazzo di Cnosso (8), a Creta, che con le sue innumerevoli stanze viene considerato il famoso labirinto (9) di cui alla leggenda di Teseo e il Minotauro (10), è legato a Evans. Molte sono le testimonianze della civiltà cicladica citate nel volume, delle quali possiamo qui ricordare: la statuetta dell’arpista in marmo di Paro (11), i magnifici affreschi del palazzo di Minosse (12-13) che si completano con quelli venuti alla luce dagli scavi di Santorini, «la Pompei dell’età del bronzo», sotto la cenere del vulcano Thera (14-15). Con la civiltà micenea si è avuta una evoluzione della vita sociale in tutta l’area dell’Egeo che può essere simboleggiata dai ricchi corredi funerari (16) trovati nelle sepolture a fossa (17) e a camera (18) di Micene, dall’arrivo della scrittura e, nel campo dei poemi epici, dall’epopea di Gilgamesh fino ai grandi componimenti omerici, l’Iliade (19) e l’Odissea (20).
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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure
Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it
CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli
ARISTOCRAZIE MICENEE UNA MOSTRA IN CORSO AD ATENE DEDICATA ALL’ISOLA DI TINO, NELLE CICLADI, DOCUMENTA UN CAPITOLO ANCORA POCO NOTO, MA CRUCIALE NELLA STORIA DELL’ARCIPELAGO: QUELLO DELLA PRESENZA MICENEA, ATTESTATA, IN PARTICOLARE, DA RICCHI MONUMENTI FUNERARI
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n quest’ultimo lustro, le mostre a tema archeologico in Grecia si sono davvero contate sulla punta delle dita. Del resto, i tagli imposti dall’austerity non hanno lasciato molto spazio a ciò che purtroppo è ormai considerato un genere di lusso: lo studio dell’antichità. Da qualche mese, si sta però registrando un’inversione di tendenza e ne è testimone l’esposizione «Il mondo di Omero: Tino e le Cicladi in epoca micenea», frutto della collaborazione tra la Soprintendenza Ellenica alle Antichità delle Cicladi, il Museo Benaki e la Fondazione Culturale del Gruppo Pireos, legata a una delle
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In alto: veduta degli scavi di Haghia Thekla, a Tino (1979). In primo piano, i resti della tomba a tholos e, in secondo piano, la chiesetta che ha dato il nome al rinvenimento. A destra: la tomba a tholos di Haghia Thekla, cosí come appare oggi.
Kourkoulas e Kokkinou, che solitamente ospita eventi d’arte moderna e offre la possibilità di visitare piú mostre con lo stesso biglietto, in una zona della città un tempo degradata e ormai quartiere emergente, che pullula di bar, ristoranti, locali dove si fa musica. La mostra si propone di illustrare, attraverso vasi di ceramica, oggetti in metallo, statuette fittili e gioielli, un periodo della civiltà cicladica al quale spesso gli specialisti prestano poca attenzione: si tratta dell’epoca micenea, che nelle Cicladi trova attestazioni ricche e confrontabili con centri-chiave del mondo egeo.
TOMBE A THOLOS
In alto: placchetta in avorio con figura di guerriero, dal santuario di Artemide a Delo. XIV-XIII sec. a.C. A destra: vaghi in oro dalla tomba a tholos di Haghia Thekla. XIII sec. a.C. In basso: hydria con figure di pescatori, dalla necropoli di Aplomata a Nasso. XII-inizi dell’XI sec. a.C. banche piú importanti del Paese. Una sinergia in cui la Soprintendenza ha messo a disposizione ben 151 reperti, mentre il Museo Benaki ha offerto gli spazi espositivi e si è occupato di pubblicizzare l’evento. A tal proposito, è interessante la scelta del luogo: non lo storico edificio del Museo Benaki nell’elegante quartiere di Kolonaki, al centro di Atene, bensí quello, molto piú ampio, di od. Pireos 138, progettato dagli architetti greci
A rivestire il ruolo principale nel progetto espositivo (che si snoda attraverso unità piuttosto tradizionali: vita quotidiana, religione, usanze funebri, guerra) è la cultura micenea di Tino, rappresentata per ora da un solo sito sicuramente identificato sull’isola, ma d’importanza notevole: la tomba a tholos (falsa cupola) di Haghia Thekla. È un sepolcro di piccole dimensioni, rinvenuto nel 1979 dall’archeologo Yorgos Despinis, originario di Tino, poi divenuto uno studioso di scultura greca di fama mondiale, assieme al nostro genio, con cui non a caso strinse una lunga e feconda amicizia, Luigi Beschi. La tomba di Haghia Thekla è una delle sole tre tombe micenee a tholos finora rinvenute nelle Cicladi ed è stata interpretata come il luogo di sepoltura di una stirpe «aristocratica» del XIII-XII secolo a.C. Impiegata per numerose
sepolture, questa tomba si distingue per i ricchi rinvenimenti che includono vasi fittili, gioielli e oggetti in bronzo, preziosa fonte di informazioni circa le pratiche funerarie, l’organizzazione sociale e le espressioni artistiche delle Cicladi negli ultimi due secoli del II millennio a.C. La Tino micenea non è l’unica delle Cicladi a essere rappresentata nella mostra: sono infatti esposti anche reperti da Nasso, Delo, Mykonos, Paro, Melo, Sifno, Thera e Kea. Il visitatore, cosí, può avere una visione abbastanza completa delle caratteristiche, nonché della rilevanza, della civiltà micenea in questo arcipelago. Tra gli oggetti esposti, merita d’essere ricordata la splendida «signora di Phylakopí», uno dei capolavori della plastica fittile egea, risalente alla metà del XIV secolo a.C. La statuetta, che deve il suo nome al santuario di Melo in cui è stata rinvenuta, accoglie il visitatore coi suoi grandi occhi espressivi, sorprendendo non solo per le sue dimensioni, ma anche per la qualità eccellente della lavorazione. La mostra segna, senza dubbio, un nuovo capitolo nella storia delle esposizioni archeologiche in Grecia; a fare da protagonista, stavolta, è la splendida eredità del mondo miceneo, che ha ispirato i capolavori dell’Iliade e dell’Odissea. Per tutte le novità su questo evento, basta seguire l’hashtag #MycenaeanCycladesBM.
DOVE E QUANDO «Il mondo di Omero: Tino e le Cicladi in epoca micenea» Atene, Museo Benaki fino all’8 marzo Orario gio e do, 10,00-18,00, ve-sa, 10,00-22,00; lu-me chiuso Info www.benaki.org
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CALENDARIO
Italia ROMA Germanico e la discendenza di Augusto Spazio Espositivo Tritone, Fondazione Sorgente Group fino al 28.02.20
Roads of Arabia
Tesori dell’Arabia Saudita Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano fino al 01.03.20
Carthago
Il mito immortale Colosseo-Foro Romano fino al 29.03.20
Civis, Civitas, Civilitas
Roma antica modello di città Mercati di TraianoMuseo dei Fori Imperiali fino al 06.09.20
BOLOGNA Etruschi
Viaggio nelle terre dei Rasna Museo Civico Archeologico fino al 24.05.20
BRINDISI Nel mare dell’intimità
Testa in marmo di Ulisse, da Sperlonga.
L’archeologia subacquea racconta il Salento Aeroporto del Salento fino al 05.07.20
FORLÍ Ulisse
L’arte il mito Musei San Domenico fino al 21.06.20 (dal 15.02.20)
NAPOLI Thalassa
Meraviglie sommerse dal Mediterraneo Museo Archeologico Nazionale fino al 09.03.20
Lascaux 3.0
Museo Archeologico Nazionale fino al 31.05.20
Statuina in avorio della dea Lakshmi, da Pompei.
Aspettando l’Imperatore Monumenti, Archeologia e Urbanistica nella Roma di Napoleone, 1809-1814 Museo Napoleonico fino al 31.05.20 30 a r c h e o
ODERZO L’anima delle cose
Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium Palazzo FoscoloMuseo Arcehologico Eno Bellis fino al 31.05.20
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
PADOVA L’Egitto di Belzoni
Un gigante nella terra delle piramidi Centro Culturale Altinate San Gaetano fino al 28.06.20
PALERMO Quando le statue sognano Frammenti da un museo in transito Museo Salinas fino al 29.03.20
SAN GIMIGNANO Hinthial. L’Ombra di San Gimignano
L’Offerente e i reperti rituali etruschi e romani Museo Archeologico fino al 31.05.20
TORINO Archeologia Invisibile Museo Egizio fino al 07.06.20
Città del Vaticano CITTÀ DEL VATICANO Tempo divino
I sarcofagi di Bethesda e l’avvento del Salvatore nel Mediterraneo antico Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano fino al 29.03.20
Regno Unito LONDRA Troia. Mito e realtà British Museum fino all’08.03.20
Svizzera BASILEA Gladiatori
La vera storia Antikenmuseum fino al 22.03.20
USA NEW YORK Sahel
Paesi Bassi LEIDA Cipro
Un’isola dinamica Rijksmuseum van Oudheden fino al 15.03.20
Arte e imperi sulle coste del Sahara The Metropolitan Museum of Art fino al 10.05.20
Arte del mar
Scambi artistici nei Caraibi The Metropolitan Museum of Art fino al 10.01.21 a r c h e o 31
LA DEMOCRAZIA NEL CUORE Louis Godart
QUEL MESSAGGIO (POTENTE) DELLA CLASSICITÀ LE SUPPLICI, UNA DELLE TRAGEDIE PIÚ NOTE DI ESCHILO, ANDÒ IN SCENA PER LA PRIMA VOLTA BEN VENTICINQUE SECOLI FA. MA LA LEZIONE DI CIVILTÀ DELL’OPERA CONTINUA A RIVELARSI STRAORDINARIAMENTE ATTUALE
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re degli eroi eponimi delle civiltà che hanno fatto grande la storia del Mediterraneo sono migranti spinti dagli dèi alla ricerca di nuovi lidi. Il primo è Abramo, che, su ordine dell’Onnipotente, deve lasciare Ur in Caldea per raggiungere la terra promessa.
Nella Genesi (12,1-2) è scritto: «Il Signore disse ad Abram: “Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò”». Gli altri due sono Ulisse ed Enea. Ambedue lasciano una città in fiamme, Troia: il primo dopo essere
stato uno dei responsabili della sua distruzione; il secondo, sconfitto, ha l’arduo compito di fondare in Occidente una nuova Troia, la cui fama supererà quella della Ilio distrutta dai Greci. Ambedue sono anche vittime dello phthonos theon, l’invidia che gli dèi non
Illustrazione ottocentesca ispirata alle Supplici, tragedia composta da Eschilo nel V sec. a.C., nella quale, attraverso la vicenda di Io, sacerdotessa di Era ad Argo, viene trattato il tema della violenza sui piú deboli e, in particolare, sulle donne.
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mancano di nutrire verso gli uomini quando questi ultimi s’illudono di aver trovato la felicità. Giunto nell’isola di Calipso, ai confini del mondo, Ulisse trova l’amore. È appagato e, per sette lunghi anni, riesce a dimenticare tra le braccia della ninfa sia gli orrori della guerra, sia le insidie poste sulla rotta di chi deve affrontare i mari. Enea, giunto a Cartagine, racconta la propria storia alla bella Didone, la regina della grande città punica. L’eroe troiano è bello, forte, determinato, eloquente. La regina se ne innamora e il suo amore è ampiamente corrisposto. Quando i nostri eroi sembrano essere approdati ai sospirati lidi del mondo incantato dove pace e amore convivono, l’inviato degli dèi, Ermete/Mercurio, li strappa al loro sogno e li getta di nuovo in mezzo alla bufera. Ulisse riprende il suo viaggio verso Itaca tra tempeste e tranelli ed Enea, lasciando di nuovo dietro di sé lacrime e dolori, riparte per compiere il proprio destino, accettando, volente o nolente, di affrontare battaglie cruenti e pericoli immani. Non è certo un caso se gli eroi oggetto di due delle piú grandi epopee della classicità, l’Odissea e l’Eneide, sono al centro di peregrinazioni che hanno per teatro l’intero bacino del Mediterraneo. È come se Omero e Virgilio si ricordassero o anticipassero le tante migrazioni che hanno interessato un’area che piú di qualunque altra ha segnato la storia dell’umanità.
LE MIGRAZIONI ODIERNE Dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso e, soprattutto, all’indomani della caduta del muro di Berlino, nuove migrazioni hanno preso di mira il Mediterraneo. La Grecia, l’Italia, soprattutto l’Italia meridionale, la Spagna vedono,
giorno dopo giorno, approdare sulle loro spiagge migliaia di disperati provenienti dal Vicino e Medio Oriente e soprattutto dall’Africa. Sono le avanguardie delle masse infinite che compongono ilTerzo Mondo. Bussano alle porte dell’Occidente benestante per chiedere le briciole del festino. Eschilo, già nel V secolo a.C., ha affrontato il problema dell’accoglienza ai profughi in una delle sue tragedie: Le Supplici. La leggenda da lui evocata può riassumersi in poche parole: Io, sacerdotessa di Era ad Argo, era amata da Zeus. Era, gelosa, la trasformò in giovenca, ma Zeus continuò ad amarla e ad avvicinarla prendendo le sembianze di un toro. Era, furibonda, scagliò contro la povera Io un tafano che la fece impazzire e la inseguí attraverso l’Europa e l’Asia. Finalmente Io giunse in Egitto, dove Zeus toccò la sua fronte e soffiò sul suo volto. La pazzia scomparve immediatamente e Io tornò a essere la bella ragazza che aveva affascinato Zeus. Partorí un figlio, Epafo, il «Tocco» di Zeus. I re d’Egitto discendevano da questo lontano antenato, figlio del re degli dèi. I pronipoti di Epafo, Danao ed Egitto, entrarono in conflitto. Il primo era padre di cinquanta figlie e il secondo di cinquanta maschi che volevano prendere per spose le figlie di Danao. Queste, inorridite, rifiutarono di unirsi ai loro cugini. Scoppiò la guerra. Danao vinto fuggí insieme alle figlie, le Danaidi, su una nave che li portò ad Argo. I Pelasgi abitanti dell’Argolide, su suggerimento del loro re, Pelasgo, accettarono di dare asilo ai fuggitivi. Poco meno di 2500 anni sono trascorsi dalla prima rappresentazione delle Supplici, ma il tema trattato da Eschilo appare straordinariamente attuale, sia per quanto riguarda le violenze di cui i
deboli e in particolare le donne sono vittime, sia per il dramma vissuto dai profughi che la violenza cieca costringe ad abbandonare la propria terra per cercare salvezza, e possibilmente fortuna, presso altri lidi. Venticinque secoli fa il re Pelasgo e il popolo di Argo hanno mostrato comprensione e compassione nei confronti di chi chiedeva loro salvezza e ospitalità. Hanno voluto accogliere e dare asilo a chi era perseguitato.
L’ESORTAZIONE DEL RE Quanti dei nostri Stati moderni adottano lo stesso atteggiamento di comprensione e di apertura verso chi, al termine di un’odissea spesso drammatica, approda nei porti dell’Occidente? Quanti tra coloro che chiedono asilo sono pronti a seguire i consigli proferiti da Danao alle proprie figlie: «Figlie mie, dovete offrire ai cittadini di Argo preghiere, sacrifici e libagioni come se fossero dèi dell’Olimpo perché all’unanimità sono stati i nostri salvatori. Hanno ascoltato il mio racconto con la simpatia che è propria dei parenti e si sono adirati contro i vostri cugini. Mi hanno anche assegnato questa scorta di guardie armate, attribuendomi cosí un privilegio che mi onora e impedendo che sia colpito da un dardo improvviso, il che avrebbe macchiato eternamente questa terra. Di fronte a tanti favori, dobbiamo loro, se la nostra anima è guidata da sani principi, l’omaggio di una gratitudine che li onori eternamente». La storia ci spinge a considerare inevitabili i flussi migratori che stanno modificando la fisionomia delle nazioni del Mediterraneo e dell’Europa e a respingere eventuali reazioni settarie o razziste di fronte a questo fenomeno. Chi sa recepire le lezioni del passato capisce che ogni civiltà chiusa è già una civiltà morta.
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UN MARE ALLE ORIGINI
DELLA CIVILTÀ
Viaggio alla riscoperta dell’universo egeo di Louis Godart
Louis Godart ha insegnato Civiltà egee all’Università Federico II di Napoli ed è stato consigliere per la conservazione del patrimonio artistico presso la Presidenza della Repubblica italiana. È membro dell’Accademia dei Lincei, dell’Institut de France e dell’Accademia di Atene. 34 a r c h e o
Isola di Santorini, Grecia. Veduta a volo d’uccello del villaggio di Oia e della baia di Ammoudi.
Presentiamo in anteprima per i nostri lettori alcuni brani del nuovo libro del nostro collaboratore Louis Godart, pubblicato per i tipi dell’editore Einaudi e a giorni in libreria. Da Minosse ad Omero, genesi della prima civiltà europea è un appassionante viaggio nell’arcipelago egeo, quell’angolo di Mediterraneo dove, come in una profezia, l’Occidente sembra aver avuto origine. Il racconto inizia con la riproposizione di alcune biografie d’eccezione, quelle di Heinrich Schliemann, Arthur Evans e Michael Ventris, personaggi straordinari che, tra Ottocento e Novecento, hanno restituito alla storia i mondi dell’epos omerico, scoprendo la leggendaria città di Troia e decifrando una scrittura rimasta per lungo tempo misteriosa. Due isole sono, poi, i veri «protagonisti» del racconto di Godart: la cicladica Santorini, al centro di un evento catastrofico qual è stata l’esplosione del vulcano che distrugge la città di Thera ma ne conserva le pitture murali; un evento che forse è alle origini di un mito, quello di Atlantide, mai tramontato. E poi Creta, vero crocevia mediterraneo, dove si incontrano le civiltà del Vicino e Medio Oriente e l’Egitto dei Faraoni, l’isola di Minosse – figlio di Europa e di Zeus – in cui possiamo assistere al passaggio dalla civiltà minoica alla potenza mercantile dei Greci micenei… a r c h e o 35
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Q
uando si è trattato di redigere una Costituzione europea, un dibattito vivace ha opposto chi voleva richiamare nella Costituzione stessa le radici cristiane europee a chi, invece, vedeva nell’Illuminismo il cemento della nuova Europa. Per lo storico polacco Bronisław Geremek (19322008) era venuto il momento di «fare dell’Europa non solo una federazione di Stati, ma anche una comunità di cittadini animati dal desiderio di promuovere le stesse aspirazioni culturali». Per giungere a questo risultato, gli Europei dovevano sentirsi portatori di valori comuni, iscritti in una tradizione culturale condivisa. In questo modo potrà affermarsi, come sottolineava Romano Prodi quando era presidente della Commissione europea, una identità europea che renderà possibile la nascita di una «società
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Mar N e r o Istanbul
Troia Grecia
Mar Egeo Atene
Micene
Itaca
Tu r c h i a
Tirinto
Pilo
Sparta Rodi
M
Cnosso
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r
Creta
e o M e d i t e r r a n
civile europea». Ma quali sono questi valori comuni? L’appartenenza a una millenaria tradizione cristiana oppure all’universo dominato dalla Ragione auspicato dai filosofi del Settecento? O, forse, qualcosa di diverso ancora? È incontestabile che durante un lungo periodo della sua storia l’Europa sia stata unita sotto la bandiera della fede. Nei secoli X-XII i Paesi occidentali erano ben poca cosa di fronte alla grande patria ecumenica rappresentata dalla cristianità. Esistevano Francesi, Inglesi, Fiamminghi, Olandesi o Tedeschi, ma si trattava di uomini e donne che si sentivano probabilmente piú cristiani che figli di una determinata entità territoriale chiamata patria.
IL VALORE DELLA CLASSICITÀ È altrettanto incontestabile che sono i Lumi ad aver consentito all’Europa moderna di emergere dal letargo. I valori etici promossi dal cristianesimo e dall’Illuminismo fanno indubbiamente parte dell’immenso patrimonio che l’Europa ha saputo costituire durante millenni di storia; tuttavia ritengo che a questi valori vadano aggiunti quelli della Classicità, di cui i Greci sono stati i promotori. Gli antichi Greci si sono sempre interrogati sulle loro radici e hanno fatto ricorso ai miti per dare un’immagine coerente della loro presenza nel mondo. Da quando la ricerca moderna ha scoperto che le vecchie leggende e gli antichi miti affondano sempre le loro radici nella storia, il mito di Europa, tramandato dalla tradizione greca, appare sotto una luce nuova. Secondo i Greci, Europa sarebbe stata la giovane e bella figlia di Agenore, re della Fenicia. Mentre passeggiava sulla spiaggia, sarebbe stata ammirata da Zeus, il re degli dèi, il quale, prese le sembianze di un toro, la rapí e la portò nell’isola di Creta. Giunto nella città di Gortina, Zeus
In alto: particolare di un affresco raffigurante una sacerdotessa che brucia incenso, da Akrotiri (Santorini). XVI sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: l’affresco detto «della primavera», da Akrotiri.
XVI sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale. È il solo affresco di Akrotiri rinvenuto in situ e si estende su tre pareti della stessa sala. Raffigura il paesaggio roccioso dell’isola di Thera (Santorini) prima dell’eruzione del vulcano. a r c h e o 37
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riprese il suo aspetto divino e si uní a Europa sul monte Ditte, una delle tante montagne cretesi associate ai culti primordiali che hanno segnato la mitologia greca. Dalla loro unione nacquero Minosse, Sarpedonte e Radamante. Ed è proprio a
Creta, intorno al 3200 a.C., che apparirà la prima civiltà europea, quella minoica. Dal 1600 a.C. gli artisti minoici cominciano a decorare con affreschi le pareti delle stanze di rappresentanza dei loro palazzi e delle loro
case private. La maggior parte di questi dipinti tratta della vita di corte, raffigurando soprattutto personaggi femminili, tra cui mi preme ricordare la «Parigina», «le Dame in blu» della reggia di Cnosso o le mirabili pitture che abbellivano le ric-
L’EGEO, UN POSTO PRIVILEGIATO NEL NOSTRO IMMAGINARIO COLLETTIVO «Nell’immenso passato del Mediterraneo, la piú bella testimonianza è quella del mare stesso», scrive Fernand Braudel (1902-1985). Il Mediterraneo appare come un semplice taglio nella scorza terrestre, una sorta di fuso allungato da Gibilterra a ovest fino all’istmo di Suez e al Mar Rosso a est. Nel corso dei millenni, in seguito all’urto tra la placca tettonica euroasiatica a nord e quella africana a sud, poche altre zone sono state segnate da spaccature, crolli, corrugamenti ercinici come lo spazio mediterraneo. Sono apparsi abissi liquidi come quello di Capo Matapan con i suoi 4600 metri di profondità. Di fronte alle fosse sono sorte catene montuose che sembrano lanciarsi all’assalto del mare fino,
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in alcuni casi, come a Gibilterra, nelle Bocche di Bonifacio, nello stretto di Messina o sulle rive del Bosforo, a ridurlo a un semplice corridoio di acqua salata. Insenature, stretti e montagne disegnano lo spazio liquido e vi delimitano tante patrie autonome: il Mar Nero, l’Adriatico, il Tirreno, lo Ionio, il Mar Libico, l’Egeo. Tra queste, nell’immaginario collettivo l’Egeo occupa un posto privilegiato. È il mare delle vacanze e delle crociere spensierate, il lembo estremo d’Europa che abbraccia l’Oriente dove è nata la Storia e l’Egitto dei faraoni che osava sacrificare all’aldilà l’essenziale delle sue ricchezze. In una delle isole dell’Egeo Zeus, il signore degli dèi, scelse di unirsi a
che dimore di Thera-Santorini. L’introduzione del paesaggio costituisce a sua volta uno dei grandi temi dell’arte minoica dell’affresco. I fiori e gli animali hanno un ruolo essenziale in tutte le composizioni e la loro presenza congiunta contribuisce a creare un’atmosfera di fantasia e di poesia fino allora completamente assente in tutta la storia dell’arte. Gli affreschi di Thera-Santorini, con le antilopi, i lottatori, le sacerdotesse, le portatrici di offerte,
il paesaggio nilotico, l’affresco della battaglia navale, sono altrettante composizioni che fanno capire, meglio forse di qualunque altro reperto, l’essenza del mondo minoico. Illustrano una civiltà dolce e cortese, dove la donna è tenuta in grande considerazione in seno a una corte raffinata e dove risulta evidente l’amore per gli animali, i fiori e la natura; dappertutto la sensibilità prevale sull’intelletto. Anche se l’ossatura politico-economica della ci-
A sinistra e in basso: affresco raffigurante una spedizione navale e un paesaggio fluviale, da Akrotiri. XVI sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: affresco
raffigurante Europa sulla groppa del toro nelle cui sembianze, per rapirla, si è nascosto Giove, dall’oecus (sala da ricevimento) della Casa di Giasone a Pompei. III stile Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Europa, la bella figlia del re di Tiro, Agenore, e dall’unione nacque, tra l’altro, Minosse, il primo sovrano che la storia d’Europa ricordi. Sulle spiagge di Creta è morta come una marea stanca la fase orientale della storia dell’umanità. In una delle isole dell’Egeo, Delo, Latona ha partorito Apollo e sua sorella Artemide. Il dio afferma costantemente la propria presenza nell’Egeo colorando di blu intenso il mare e carezzando della sua luce abbagliante il bianco delle case degli abitanti delle isole. All’Egeo appartiene anche l’infinito corteggio dei miti che fanno sognare. Chi non ricorda Teseo guidato nel labirinto di Cnosso dal filo di Arianna, il Minotauro frutto degli amori tra Pasifae, la regina, e
il bel toro bianco regalato a Minosse da Posidone, Troia e i protagonisti della guerra che segnò la caduta della città, Micene e la tragica fine della coppia regale che ne reggeva le sorti: Agamennone ucciso dalla moglie fedifraga e dal suo amante Egisto al rientro dalla guerra di Troia e Clitemnestra sacrificata dal figlio Oreste a un implacabile spirito di vendetta? Dalla fine dell’Ottocento, grazie all’entusiasmo e alla perseveranza di tre protagonisti, Heinrich Schliemann, Arthur Evans e Michael Ventris, gli antichi miti dell’Egeo sono diventati storia e il mondo delle civiltà egee è uscito dalle nebbie del passato per materializzarsi davanti ai nostri occhi incantati.
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viltà minoica è imperniata sul modello palaziale, il cui archetipo è indubbiamente vicino-orientale, l’arte egea nelle sue espressioni multiformi rappresenta una totale soluzione di continuità rispetto alle civiltà precedenti o coeve della Mesopotamia, della costa siro-palestinese, dell’Anatolia e dell’Egitto. Si afferma davvero come l’espressione artistica della prima grande civiltà europea. I Greci dell’Antichità, nel corso della loro storia, hanno attraversato infinite vicissitudini che li hanno visti abbandonare l’organizzazione politica ed economica monarchica ereditata dai Minoici, organizzarsi in città che si sono a volte alleate, a volte combattute, per finire con l’adottare ad Atene, nel 508 a.C., un sistema politico che è quello che regge ancora oggi non soltanto i paesi europei ma la stragrande maggioranza degli Stati del mondo: la democrazia. Questi Greci, spinti dal desiderio di commerciare o anche costretti ad abbandonare la terra natia in seguito a turbolenze economiche e politiche, si sono lanciati alla scoperta del Mediterraneo, creando cosí la prima grande civiltà pan-mediterranea. Da queste vicissitudini è nato il volto della prima Europa disegnato dalla Grecia antica. I valori di centralità dell’uomo nella storia e la democrazia sono alla base della Grecia classica. Il grido di ribellione di Prometeo incatenato alle pareti di uno dei monti del Caucaso perché colpevole, agli occhi di Zeus, di aver amato troppo gli uomini, è quello dell’antica Grecia che ricorda André Malraux: «Ho cercato la verità; ho trovato la giu40 a r c h e o
stizia e la libertà. Ho fatto rialzare l’uomo prosternato davanti agli dèi da oltre quattro millenni e cosí l’ho liberato dal despota». È il grido di Elena, Arianna, Antigone, Clitemnestra, Saffo, Medea e delle umili contadine dei villaggi di Creta o della Tessaglia che osavano sfidare i nazisti per andare a seppel-
In alto: Maria Callas nei panni di Medea, in una messa in scena dell’omonimo melodramma allestita nel 1961 nel teatro di Epidauro. Nella pagina accanto: La punizione di Tizio, olio su tela di Tiziano Vecellio, 1548-49. Madrid, Museo del Prado. Il gigante Tizio fu condannato ad avere il fegato costantemente divorato da un avvoltoio per aver violentato Latona.
lire gli eroi della Resistenza, è l’eterno grido dell’Europa che non accetta la tirannia. L’insegnamento che le civiltà classiche hanno trasmesso al mondo rappresenta un primo sostanziale amalgama che accomuna i popoli d’Europa. Nel discorso pronunciato nel 431 a.C. per onorare i caduti nella guerra del Peloponneso, Pericle forní una mirabile analisi della civiltà e della Costituzione degli Ateniesi. Nel momento in cui gli Europei s’interrogano sul futuro dell’Unione, non è inopportuno meditare sulla lezione impartita da Pericle: «Abbiamo una costituzione che non emula le leggi dei vicini, in quanto noi siamo piú d’esempio ad altri che imitatori. E poiché essa è retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia». Nella parola demokratia ritroviamo ovviamente il termine da-mo = demos «popolo» abbondantemente attestato nei documenti in lineare B del XIV-XIII secolo a.C. Già allora il «popolo» aveva dei diritti che faceva valere, come vedremo analizzando alcuni testi provenienti dall’archivio del palazzo di Pilo in Messenia. I grandi valori dell’Europa odierna, la «democrazia» e la «capacità di ribellarsi all’ingiustizia», proclamati nell’Atene del VI secolo a.C. rappresentano il punto d’arrivo di una lunghissima storia che affonda le radici nel II millennio a.C. Ripercorrere la storia dell’Egeo e della Grecia dai tempi di Minosse fino a Omero significa raccontare la genesi della prima civiltà europea.
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HEINRICH SCHLIEMANN E L’ARCHEOLOGIA OMERICA
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l mondo mitico di Troia e degli eroi che combattevano sotto le mura della città di Priamo per vendicare l’offesa subita da Menelao, re di Sparta, al quale Paride, figlio del sovrano di Troia, aveva portato via la bella moglie Elena, apparteneva all’immaginario collettivo dell’Occidente e per oltre due secoli nessuno ha pensato che al mito potesse corrispondere una qualche verità storica. Poi tre colpi di scena hanno restituito alla Storia i mondi scomparsi dell’epopea omerica. Heinrich Schliemann è il primo dei tre protagonisti della riscoperta del mondo degli eroi. La storia della sua vita è profondamente diversa da quanto emerge dalla lettura della sua autobiografia. Basandomi sui numerosi lavori che sono stati dedicati al personaggio negli ultimi anni e sulla lettura della sua abbondante corrispondenza ho tentato di gettare una nuova luce sulle vicissitudini che l’hanno portato nella Troade poi a Micene, Tirinto e Orcomeno nella Grecia continentale. Nato il 6 gennaio del 1822 a Neubukow, nel MeclemburgoSchwerin, trascorse l’infanzia a Ankershagen, un piccolo paese della Germania profonda, dove il padre, Ernst, era pastore protestante. Dopo una vita di stenti, nel 1833, la famiglia Schliemann si vide privata degli emolumenti del padre sottoposto a un’inchiesta da parte delle autorità ecclesiastiche. Il piccolo Heinrich dovrà ormai cavarsela da solo. Lo farà egregiamente sviluppando un incredibile senso degli affari: nel 1847 lo ritroviamo commerciante all’ingrosso; nel 1852
apre a Mosca una succursale della sua impresa specializzata nella vendita dell’indaco. Il 4 ottobre del 1854 scoppiò la guerra di Crimea. La Russia si schierò contro una coalizione formata tra l’altro da Turchia, Gran Bretagna e Francia. I porti russi furono tutti sottoposti a embargo. Tutte le merci destinate a San Pietroburgo furono forzatamente deviate verso i porti prussiani di Königsberg e di Memel e da Nella pagina accanto: particolare di una lekythos magno-greca raffigurante la contesa per le armi di Achille. V sec. a.C. Taranto, Museo Archeologico Nazionale. In basso: busto in marmo di Omero, copia romana di un originale d’epoca ellenistica. Basilea, Antikenmuseum.
qui convogliate via terra verso la loro destinazione finale. Molte centinaia di casse d’indaco spedite da Amsterdam agli agenti di Schliemann a Memel dovevano raggiungere San Pietroburgo.
RICCO, MA INFELICE Un incendio terrificante devastò completamente Memel e, con incredibile fortuna, i soli magazzini di Schliemann furono risparmiati dalle fiamme. I prezzi dell’indaco salirono vertiginosamente e Schliemann si lanciò in una speculazione spregiudicata su tutti i materiali e i prodotti di cui i belligeranti avevano urgente necessità. Cosí si dedicò non solo al commercio dell’indaco ma anche del legname, delle armi, dello zolfo e del piombo. In un anno riuscí a raddoppiare il proprio capitale. Heinrich Schliemann diventato ricco non era felice. L’intellighenzia di San Pietroburgo, dove si era sposato e viveva, disdegnava questo parvenu che non riusciva a brillare nei salotti. I professori dell’Università, gli scrittori, gli intellettuali della città imperiale amante del lusso e dell’ozio salottiero diffidavano di questo nuovo ricco, per di piú tedesco, che parlava un russo stentato. La diffidenza e l’altezzosa indifferenza dimostrate dagli intellettuali russi ferirono Schliemann. Il suo carattere ostinato e duro non accettava un tale ostracismo. Perciò decise di forzare le porte della buona società di San Pietroburgo. Come? Occorreva imporsi con una grande impresa che potesse suscitare l’ammirazione dell’inaccessibile intellighenzia russa. Dal 1842 alcuni intrepidi diplomatici si erano lanciati a r c h e o 43
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alla scoperta delle civiltà scomparse dell’Antico Oriente. Paul-Émile Botta, console di Francia a Mossul, iniziò a scavare Ninive e Khorsabad; l’inglese Austen Henry Layard a sua volta, tra il 1845 e il 1847, intraprese delle ricerche archeologiche su tre grandi siti assiri: ancora Ninive, Nimrud e Assur. Grazie a queste iniziative le prime collezioni di antichità assire giunsero in Europa: il 1° maggio 1847 al Louvre e nell’ottobre del 1848 al British Museum. L’Oriente attirava ormai gli amanti del passato: Fulgence Fresnel, console di Francia a Baghdad, iniziò nel 1852 l’esplorazione di Babilonia; l’inglese William Loftus lavorò a Uruk e a Susa tra il 1851 e il 1853 e il suo concittadino J.E. Taylor scavò
Nella pagina accanto: Heinrich Schliemann in una fotografia d’epoca. Sulle due pagine: gli scavi di Heinrich Schliemann e Wilhelm Dörpfeld sulle rovine della città di Hissarlik, alla ricerca dei resti di Troia. 1890 circa.
a Ur tra il 1854 e il 1855. Il mondo parlava di queste scoperte e Schliemann seguiva attentamente l’attività archeologica orientale, come dimostra una lettera speditagli da Frank Calvert il 26 dicembre 1868.
AMATORI ALL’ASSALTO I protagonisti di queste importanti scoperte non erano professionisti del Mondo Antico come i filologi classici o gli storici dell’Antichità cosí graditi ai salotti di San Pietroburgo. Si trattava di persone che avevano improvvisamente deciso di ricercare, scavando la terra, le antiche civiltà di cui parlava la Bibbia. Schliemann era come loro, senza preparazione specifica ma in possesso di mezzi economici che gli con-
sentivano di affrontare senza problemi una simile avventura. Come loro, attraverso l’una o l’altra impresa archeologica, egli sarebbe riuscito a farsi accettare da chi finora lo aveva umiliato! Il suo desiderio di imporsi nei salotti appare chiaramente in una lettera spedita al figlio Sergio e datata 1° novembre 1868: «Lavoro giorno e notte alla mia opera archeologica perché spero di crearmi con questo libro una piccola reputazione come autore [si tratta di Ithaque, le Péloponnèse et Troie] (…) Se questo volume raccoglierà consensi, continuerò a scrivere libri
per tutto il resto della mia vita perché davvero non posso immaginare carriera piú interessante di quella dell’autore di libri seri. Scrivendo, uno è cosí felice, contento, raccolto e si possono inventare, trovandosi in società, mille e mille cose interessanti da raccontare. Queste storie poi che sono il frutto di lunghe ricerche e profonde meditazioni divertono tutti quanti. Perciò lo scrittore è sempre ricercato e sempre benvenuto; benché io sia soltanto un principiante in materia, oggi mi ritrovo con dieci volte piú amici di quanti sognavo di avere».
Cominciò quindi ad accarezzare il sogno di portare alla luce i resti di antiche civiltà. Dove andare a cercarli? In Oriente? I siti erano ormai affollati. Il mondo egeo era piú vicino, in particolare il mondo greco. Perché non cercare di scavare nel bacino orientale del Mediterraneo? Nomi mitici erano legati alle vicissitudini del lontano passato del Mediterraneo e dell’Egeo: Itaca, patria di Ulisse, Micene, antica reggia dei discendenti di Atreo, Troia cantata da Omero. Quest’ultima città, grazie all’Iliade, occupa un posto privilegiato nell’immaginario dell’Occidente. Gli scrittori antichi ritenevano che Troia si trovasse laddove sorgeva la collina di Hissarlik. Secondo Erodoto, Serse, re di Persia, intenzionato a sottomettere la Grecia, aveva sostato in quei luoghi durante la marcia attraverso l’Asia Minore. Era salito sull’antica cittadella e si era fatto raccontare la storia dell’assedio. Commosso, il Re dei re sacrificò mille pecore ad Atena Troiana e ordinò ai sacerdoti di versare il vino sui resti delle mura di Troia in onore delle grandi anime del passato.
LA CORSA DI ALESSANDRO La città cantata da Omero, la cui storia aveva colpito il re persiano, esercitò anche un immenso fascino sui grandi capitani d’Occidente. Quando Alessandro il Grande attraversò l’Ellesponto per portare la guerra in Asia, si fermò a Troia e corse nudo e unto d’olio intorno alla presunta tomba di Achille. Poi penetrò nel tempio di Atena e indossò le armi che vi erano custodite. Cesare inseguendo Pompeo attraversò le rovine della città bruciata quarant’anni prima da una spedizione romana. Trovò fitte querce che crescevano in mezzo a quelli che erano stati gli orgogliosi palazzi e le dimore degli dèi. Pur non ritrovando tra le rovine e i cespugli a r c h e o 45
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LA CITTADELLA Pianta delle mura di Troia VI con il disegno ricostruttivo (1) della Porta Sud e della antistante città bassa di Troia VI e la ricostruzione del Bastione Nord (2) con le scale e i camminamenti esterni. Sulle due pagine: i resti delle mura della cittadella di Troia VI.
lo splendore delle costruzioni di una volta, Cesare capí di camminare su una terra sacra; perciò eresse un altare di terra coperto di zolle, bruciandovi sopra l’incenso e pregando gli dèi immortali che custodivano quelle fatali reliquie di accordargli protezione; in cambio giurò di ricostruire le mura distrutte e di ridare loro lo splendore dei tempi che furono. Altri condottieri dell’Antichita passarono per Troia e meditarono sulle rovine della città di Priamo. Vi fu Caracalla che nella sua pazzia pensava di essere Alessandro il Grande e, ricordandosi del dolore di Achille per la morte di Patroclo, avvelenò l’amico prediletto Festo affinché quest’ultimo non soffrisse al momento della propria morte. Andò Giuliano nel 124 d.C. e diede nuova sepoltura alle ossa di Aiace, poi Costantino che pensò di costruire a Troia la nuova capitale dell’Impero romano d’Oriente prima di sceglie46 a r c h e o
re Costantinopoli. Giunsero anche i Barbari, dal sassone Beowulf ai viaggiatori diretti verso Oriente o la Terra Santa. Nessuno passò attraverso la Troade senza fermarsi sulla collina sacra di Hissarlik e rivolgere, per un fugace istante, un pensiero agli eroi cantati da Omero. Nel 1785 un certo Lechevalier, amante dell’antichità e consigliere d’ambasciata a Istanbul, fu incaricato dall’ambasciatore di Francia Choiseul-Gouffier di fare una ricognizione nella Troade. Per la prima volta Lechevalier scrisse che la collina di Hissarlik corrispondeva probabilmente alla Troia ellenisticoromana ma che l’antica città di Troia, quella omerica, era invece da ricercare nella regione di Bunarbashi.
LA PRIMA RICOGNIZIONE All’inizio dell’Ottocento l’interesse degli archeologi fu di nuovo rivolto alla collina di Hissarlik. Nel 1822 uno studioso scozzese, Charles Ma-
claren, riprese in esame il problema della localizzazione della Troia omerica e arrivò alla conclusione che la collina di Hissarlik era davvero la sede dell’antica Troia, ivi compresa quella omerica. Il viceconsole degli Stati Uniti d’America nei Dardanelli, Frank Calvert, dopo aver letto il lavoro di Maclaren, decise di intraprendere degli scavi per tentare di riportare alla luce i resti della Troia omerica. Perciò comprò metà della collina di Hissarlik e, nel 1863, tentò di coinvolgere il British Museum in una campagna di scavo. Le richieste di Calvert non erano certo eccessive; sollecitava una somma di cento sterline per finanziare alcuni scavi sistematici a Hissarlik. Il direttore del British Museum, Charles Newton, appoggiava la sua richiesta ma le autorità britanniche rifiutarono la proposta di collaborazione avanzata da Calvert. Nonostante il rifiuto Calvert iniziò per conto proprio gli scavi nel 1865, aprendo
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quattro trincee nella parte orientale della collina. Nell’agosto del 1868 Schliemann sbarcò a Istanbul. Era diretto ai Dardanelli alla ricerca di un luogo dove scavare. Il 10 agosto si fece condurre da un arabo di Chiplak, un modesto villaggio a poco piú di un chilometro dalla collina di Hissarlik, e vide «su una collina di almeno cento piedi d’altezza, in gran parte coperta di terra argillosa, un tempio o un palazzo costruito con pietre ciclopiche d’ottima fattura»: stava ammirando gli scavi e i resti portati alla luce da Calvert nel 1865. Qualche giorno dopo, il 15 agosto, Calvert e Schliemann s’incontrarono per la prima volta ai Dardanelli. L’americano capí immediatamente che quel singolare dilettante era pieno d’entusiasmo e soprattutto possedeva i mezzi finanziari necessari per proseguire lo scavo di tutta la collina. Gli spiegò pazientemente le sue teorie sul sito dell’antica Troia; gli
parlò del lavoro di Maclaren e mostrò anche la bella collezione d’antichità che era riuscito a radunare durante le varie spedizioni compiute sui siti della Troade. Tra i resti provenienti dalla collina di Hissarlik si potevano ammirare vasi risalenti al VI o VII secolo a.C. insieme a sculture appartenenti al tempio ellenistico. Schliemann rimase impressionato e decise di collaborare con Calvert iniziando gli scavi a Hissarlik nella primavera seguente. Schliemann era deciso a stringere Calvert in un abbraccio soffocante e ad appropriarsi delle sue idee per proseguire le ricerche a Troia e raggiungere finalmente la gloria tanto sospirata. È facile capirlo leggendo il suo diario alla pagina datata 16 agosto 1868: «Ho fatto ieri la conoscenza di Frank Calvert che condivide la mia opinione che la Troia omerica non può che trovarsi a Hasserlik [Schliemann non ha ancora imparato il vero nome della
collina]. Mi ha incoraggiato fortemente a scavare lí. Assicura che la collina è interamente frutto della mano dell’uomo. Mi ha fatto vedere la sua grande collezione di vasi e d’altre antichità che provengono dai suoi scavi». In data 22 o 24 agosto spedisce una lettera al padre e alla sorella Doris che contiene la seguente dichiarazione: «Nel prossimo mese d’aprile, intendo denudare l’intera collina di Hissarlik perché sono sicuro di trovare lí Pergamo, la cittadella di Troia». DA LEGGERE Louis Godart, Da Minosse a Omero. Genesi della prima civiltà europea, Einaudi, Torino 40,00 euro ISBN 978-88-06-24380-7 a r c h e o 47
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BRIXIA UNO SGUARDO NUOVO UN PATRIMONIO MONUMENTALE DI GRANDE PREGIO E AD ALTO LIVELLO DI CONSERVAZIONE, UN MUSEO CITTADINO ALLESTITO ALL’INTERNO DI UN MONASTERO FONDATO DALL’ULTIMO RE LONGOBARDO. COSÌ, IN TUTTA LA SUA MAGNIFICENZA, BRESCIA ROMANA SI PRESENTA AI SUOI VISITATORI. CHE OGGI POTRANNO AVVALERSI DI UN ULTERIORE, AFFASCINANTE STRUMENTO DI CONOSCENZA… di Cristina Ferrari
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces. 50 a r c h e o
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a mostra «Roma e le Genti del Po. Un incontro di culture III-I secolo a.C.» (presentata fra il 2015 e il 2016) fu scelta come occasione per inaugurare, nel Parco Archeologico di Brescia, un percorso di realtà aumentata. Grazie all’applicazione ArtGlass e all’uso degli occhiali
indossabili Smart Glass, forniti di audio-guida, quel percorso consentiva per la prima volta ai visitatori di entrare nella Brixia romana, con una ricostruzione virtuale a 360° e un effetto «macchina del tempo» che permette di muoversi contemporaneamente su due livelli: nel passato, con il paesaggio ur-
bano originale della città antica, e nel presente, conservando il contatto diretto con la città attuale. Ma Brescia non era certo nuova a esperienze di utilizzo di moderne tecnologie (realtà multimediale e ricostruzione in 3D) applicate all’archeologica: già dal 2003, con l’apertura delle Domus dell’Ortaglia
Sulle due pagine: veduta del triclinio della Domus di Dioniso (II sec. d.C.) e particolare del riquadro centrale del mosaico che dà nome all’edificio, raffigurante appunto il dio Dioniso con una pantera.
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nel Museo di Santa Giulia, la visita è integrata dalla proiezione di un filmato che mostra la ricostruzione virtuale dell’area, cosí come doveva apparire nell’antichità. E un’esperienza analoga si può vivere nel percorso archeologico sotto Palazzo Martinengo Cesaresco, accessibile da via dei Musei, e, dal 2015, nel Tempio Repubblicano. «L’esigenza di creare il percorso di realtà aumentata – spiega Francesca Morandini, archeologa della Fondazione Brescia Musei – è nata da due caratteristiche del nostro patrimonio: la presenza di consistenti resti archeologici relativi agli edifici monumentali dell’area capitolina della città antica, la maggior parte dei quali con un alto livello di conser-
vazione e di lettura, e, nello stesso tempo, la necessità di renderli ancora piú fruibili e accessibili, senza però gravarli di eccessive informazioni didascaliche scritte (pannelli)».
TRE PIANI DIVERSI «Per farlo – continua l’archeologa – il Comune di Brescia e la Fondazione Brescia Musei, con il supporto di Soprintendenza e Regione Lombardia, hanno deciso di affidare le conoscenze sul patrimonio alle nuove tecnologie. Si è quindi lavorato su 3 piani diversi: pubblicazioni specialistiche di approfondimento, completate anche da disegni di fase e ricostruzioni, video, e dispositivi indossabili per realtà virtuale e aumentata».
Il percorso dell’area archeologica tocca i monumenti piú significativi della città antica, che si affacciano sull’attuale Piazza del Foro: il Santuario di età repubblicana (I secolo a.C.), il Capitolium (73 d.C.), il Teatro (I-III secolo d.C.) e il tratto del lastricato del decumano massimo, (su cui oggi insiste via dei Musei). Il primo punto di osservazione del percorso fruibile con gli ArtGlass, di fronte all’area archeologica, mostra la Brixia di epoca repubblicana, con il decumano massimo, la piazza e una cella del Santuario (dedicato alla triade capitolina, rappresentata da Giove, Giunone e Minerva, e a una divinità locale, forse Bergimus, dio protettore della città) con la statua di una dea. Il visitatore può
Sulle due pagine: vedute dei resti del Capitolium, associate a una ricostruzione virtuale dell’aspetto originario del monumento. Datato al 73 d.C., il santuario era dedicato alla triade capitolina composta da Giove, Giunone e Minerva.
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abbracciare con lo sguardo tutta l’area circostante, ruotando a 360°, fino ad arrivare al tempio posto sulla sommità del colle Cidneo, alle cui pendici si estende l’area archeologica. Ci si sposta quindi sotto le colonne del Capitolium (a sua volta dedicato alla triade capitolina), mentre viene raccontata la storia delle scoperte e della città dall’epoca romana a oggi, anche tramite disegni dell’epoca. Si viene quindi trasportati nell’età imperiale, di fronte al Capitolium, presentato frontalmente e a volo d’uccello, che domina con la propria imponenza la piazza del Foro, con la cella centrale caratterizzata dalla statua colossale di Giove, le lunghe rampe di scale in pietra bianca di Botticino e i colonnati dei portici. L’effetto è
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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stupefacente: salendo le rampe di scale e raggiungendo il pronao, si cammina nello stesso istante in Brescia e in Brixia, ammirando i monumenti reali come restano oggi e nella loro maestosità del passato, arrivando a vedere dall’alto tutta la piazza del Foro e parte della città antica, fino alla Basilica (oggi inglobata nel Palazzo della Soprintendenza, in piazzetta Labus) e alle mura.
UN TEATRO GRANDIOSO Si viene quindi invitati a raggiungere il Teatro, che con la capienza di 15 000 posti era secondo solo a Verona, per ammirarlo nella sua ricostruzione a 360°, che prende vita e si sovrappone alle evidenze archeologiche. Il primo impianto risale all’età augustea (fine del I secolo a.C.-I secolo d.C.), ma l’edificio per spettacoli fu soggetto nei secoli a ripetuti ampliamenti e arricchimenti, sino
al rifacimento della decorazione architettonica della scena tra II e III secolo d.C. La visita si conclude nella cella centrale del Capitolium, per rendere omaggio alla statua di Giove e ammirare uno scorcio della città attraverso gli imponenti portali di bronzo, oltre a scoprire le epigrafi murate nella cella stessa, per poi passare
nella cella a sinistra ad ascoltare la storia degli scavi e dei ritrovamenti e a scoprire alcuni dei reperti piú significativi, quali la Vittoria Alata e le teste dorate di imperatori, conservati nel Museo di Santa Giulia. Il grande successo della realtà aumentata nell’area archeologica ha portato a inaugurare, nel 2018, un nuovo viaggio nel
Nella pagina accanto, in alto: l’utilizzo dell’applicazione ArtGlass associato alla consultazione di una guida del Parco archeologico. A destra: l’interno della cella centrale del Capitolium. Nella pagina accanto, in basso: la ricca decorazione pittorica del Capitolium. II stile.
tempo nelle Domus dell’Ortaglia, una delle sezioni piú suggestive e visitate nel Museo di Santa Giulia. «Il percorso, della durata di circa 25 minuti, ricalca – spiega ancora Morandini – una visita guidata corredata da ricostruzioni, video e contenuti con una migliore definizione delle immagini, animazioni piú spettacolari e una maggiore precisione nel collocare le informazioni nello spazio virtuale, senza però eccedere nel fornire informazioni e senza abbandonarsi a effetti puramente spettacolari». Si «parte» dall’ingresso della sala, dove è possibile ammirare la città antica visualizzata a volo d’uccello, con gli edifici pubblici e il tratto orientale delle mura urbiche, per poi muoversi lungo il cardo e da qui accedere al cortile lastricato, affrescato con una scena fluviale di ispirazione nilotica, della Domus di Dioniso databile al II secolo d.C.
(presentata in un video introduttivo, terrottamente dalla fine del I all’iniche ne mostra la planimetria). zio del IV secolo d.C., si apre, dopo un video introduttivo, a partire dal NELLA CASA DI DIONISO suo cortile lastricato, che presenta al Dal cortile si raggiungono in segui- centro la vasca per la raccolta to la cucina e il triclinio, sofferman- dell’acqua piovana (impluvium), da dosi sullo splendido pavimento mo- cui si può «sbirciare» l’interno di saicato con riquadro centrale che altre sale, e dal piccolo triclino (riraffigura Dioniso con una pantera. cavato tamponando parte del portiSeguendo le indicazioni, ci si sposta co) arredato con letti, tavolini, cansulla passerella, sopra i resti archeo- delabri e suppellettili. logici, immersi nella realtà aumen- Si viene quindi trasportati dentro la tata: muovendosi nello spazio il vi- Sala della Fontana, un ampio amsitatore vede tutte le varie parti biente di rappresentanza che prende dell’antica abitazione, soffermando- appunto nome dalla fontana posta al si sui pavimenti a mosaico, i soffitti, suo interno, con una decorazione i muri affrescati, i mobili e le sup- parietale ad affresco, giocata su conpellettili, oltre a scorci di altre sale trasti cromatrici di rosso e giallo. Il che si aprono al di là delle porte tour prosegue nella Sala delle Staaperte, proprio come se si fosse gioni, con un pavimento a mosaico dentro le stanze stesse, con la natu- che, dentro una composizione georalezza di un ospite che cammina metrica, presenta ottagoni con la tra un ambiente e l’altro di una casa. personificazione delle stagioni (oggi Anche la seconda abitazione, la Do- si conservano solo l’Estate e l’Aumus delle Fontane, utilizzata inin(segue a p. 58) a r c h e o 55
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COMUNICARE UN’IDENTITÀ Incontro con Stefano Karadjov Esperto nella gestione organizzativa di imprese e istituzioni culturali, Stefano Karadjov è stato scelto come direttore della Fondazione Brescia Musei nel gennaio del 2019. A un anno dal suo insediamento, lo abbiamo incontrato per chiedergli un bilancio di questi primi dodici mesi di attività e, soprattutto, di illustrarci i piú significativi progetti in cantiere.
◆ Dottor Karadjov, a un anno
dalla sua nomina a direttore della Fondazione Brescia Musei, quali ritiene siano i «punti di forza» della rete museale e quali realtà possono a suo avviso essere ulteriormente migliorate?
«La Fondazione Brescia Musei gestisce Santa Giulia Museo della Città, il Parco archeologico di Brescia romana, la Pinacoteca Tosio Martinengo, il Museo delle Armi “Luigi Marzoli” e il Museo del Risorgimento (oltre al Cinema Nuovo Eden), poli di grande interesse e
ricchezza sia per i contenuti che per le opere e i reperti conservati. È stato quindi di primaria importanza creare una sorta di “ossatura”, in grado di legare tutte queste realtà e stabilire un programma pluriennale per la comunicazione di un’identità bresciana, che si basa sulla cultura romana (area archeologica e Museo di Santa Giulia), sulla cultura figurativa del XV-XVI secolo che si afferma a Brescia e diventa un tratto tipico della pittura lombarda (Pinacoteca) – da Romanino, Moretto e Savoldo fino a Ceruti –, oltre che sulla forte presenza, anche topografico/geografica, rappresentata dal Castello (sede del Museo delle Armi e del Museo del Risorgimento), che attraversa la storia della città dall’età romana fino all’Ottocento e incarna perfettamente il territorio sia come realtà fisica che culturale. Inoltre l’area archeologica è stata progressivamente aperta e restituita alla città in anni differenti, in modo frammentato, senza una visione d’insieme coerente, dovuta anche all’assenza di un unico grande “caposaldo”, e viceversa alla presenza di molti capolavori di altissima qualità, quali la Vittoria La Vittoria Alata, statua in bronzo rinvenuta presso il Capitolium. La sua realizzazione è stata assegnata a una bottega di alto livello dell’Italia settentrionale, che la realizzò nel corso del I sec. d.C. L’opera fu probabilmente dedicata alla dea Vittoria da un personaggio importante come ringraziamento (ex voto) in seguito a un successo militare.
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Alata: l’obiettivo è raggiungere ora una nuova visione integrata che armonizzi tutte le parti in un progetto unitario. ◆ Quali sono, dunque, i progetti futuri piú importanti? «Partiamo proprio dalla Vittoria Alata. Nel prossimo giugno, dopo quasi 2 anni di restauro, verrà finalmente restituita alla città e, nell’anno in corso, sarà la grande protagonista di un ricco palinsesto di attività a lei legate. La statua verrà trasferita dal Museo di Santa Giulia alla cella orientale del Capitolium, su un piedistallo cilindrico in marmo bianco di Botticino, a un’altezza analoga a quella dell’altare di età romana, con una nuova posizione dominante sullo spazio, a garantirne la visione immediata. L’allestimento, curato dall’architetto, artista e scultore spagnolo Juan Navarro Baldeweg, attribuirà all’aula caratteri contrastanti che la renderanno al contempo astratta e simbolica, architettonica e illusoria: le pareti saranno avvolte in una pelle di mattoni a base naturale, rossa, che ricorda le pareti esterne del tempio, realizzate nell’Ottocento a imitazione dell’opus listatum di età romana. Nel mese di aprile, sarà inaugurata una mostra di opere pittoriche, sculture e modelli o plastici architettonici dello stesso Baldeweg, distribuiti fra la chiesa di S. Giulia, la basilica e la Cripta di S. Salvatore. A maggio vi sarà il consueto appuntamento con il Brescia Photo Festival, che quest’anno presenterà 150 immagini tratte dal progetto IMPERIVM ROMANVM dell’artista austriaco Alfred Seiland, scattate in oltre 40 Paesi, un vero e proprio spaccato di siti archeologici romani, ma anche di edifici moderni. Verranno inoltre proposte 30 fotografie inedite, 8 delle quali scattate a Brescia, che colgono il patrimonio antico della città in diverse stagioni e situazioni.
Con la riapertura del Capitolium e il nuovo allestimento della Vittoria Alata, verrà proposto uno spettacolo teatrale che consentirà di compiere un viaggio nel tempo, attraversando l’area archeologica e monumentale del Capitolium e di Santa Giulia, ovvero un percorso teatrale per incontrare personaggi veri e immaginari di varie epoche, la cui vita è stata segnata dall’incontro con la Vittoria Alata. Da luglio avranno luogo gli interventi di Francesco Vezzoli, radunati attorno al titolo di Palcoscenici archeologici, capaci d’instaurare una relazione tra le sue sculture, il sito archeologico di Brescia romana e il Museo di Santa Giulia. A novembre verrà infine inaugurata la grande mostra “Vittoria. Il lungo viaggio di un mito” al Museo di Santa Giulia, che approfondirà il tema della Vittoria, indagandone storia, aspetti e fortuna (anche nell’età moderna e contemporanea), attraverso opere provenienti da tutto l’impero romano, in un viaggio lungo 2500 anni. Verranno presentate opere e reperti eterogenei, eccentrici, dall’arte, all’archeologica al bric-à-brac, per mettere in luce le numerose facce della Vittoria, grazie anche al supporto di installazioni multimediali. La fortuna della statua portò alla realizzazione di riproduzioni in ogni dimensione e materiale, copie fedeli, gessi richiesti in ogni angolo del mondo (anche dal presidente statunitense Thomas Woodrow Wilson). Con lo spostamento della Vittoria, la sezione del Museo dedicata all’età romana verrà rinnovata nella seconda parte dell’anno, con l’esposizione di nuovi reperti provenienti da recenti scavi e un aggiornamento delle modalità di presentazione dei contenuti: sono previsti nuovi ambienti “immersivi”, con ricostruzioni digitali degli ambienti dell’epoca. I due siti (l’area
Un momento delle indagini a cui la Vittoria Alata è stata sottoposta in occasione dell’intervento di restauro.
archeologica e il Museo), oggi separati tra loro, verranno collegati fisicamente con la “passeggiata dei Fori”, un passaggio pedonale molto scenografico che unirà direttamente il teatro romano al chiostro di S. Salvatore, agli altri chiostri del complesso e al Viridarium: un vero e proprio “corridoio UNESCO”, che sarà ultimato nel 2021. Importanti novità riguardano anche il primo piano del Museo, che verrà trasformato definitivamente in spazio per le mostre temporanee, ma con una sezione dedicata ai depositi del Museo stesso, che verranno resi fruibili con percorsi temporanei per conoscere nuovi tasselli della storia della città, soprattutto per quanto riguarda i “patrimoni minori”, ovvero l’età dei Comuni e delle Signorie e l’epoca veneta».
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tunno), motivo molto in voga tra il II e il III secolo d.C., e nella Sala della Brocca, un ambiente aperto sul «giardino» e ornato con un mosaico in cui spicca una brocca metallica. Splendido è il ninfeo decorato con tessere in pasta vitrea e conchiglie, oggi non piú esistente. Nel cubiculum (il Vano del Mosaico a scacchiera) si può anche osservare il soffitto della Vittoria in Volo, una vera rarità per il Nord Italia, posizionato sopra la sala stessa come doveva essere in origine, di cui si conservano numerosi frammenti affrescati con sfondo giallo, al cui interno erano raffigurate edicole ornate con elementi vegetali e attributi dionisiaci, e al centro una Vittoria alata. La visita si conclude nella Sala delle Colonne, uno degli ambienti piú significativi dell’antica dimora, diviso in tre spazi ben distinti da tre diverse decorazioni del pavimento a mosaico (e da due colonne tra la zona centrale e quella a sinistra), in cui l’ospite, se stanco, potrebbe «accomodarsi» sui divani e dissetarsi con le bevande forse contenute nei vasi posti sui tavolini, oltre ad osservare uno scorcio sul Viridarium, il «giardino» della domus visibile da una finestra, o il forziere già incontrato in una vetrina, in bella mostra su un tavolo in fondo alla sala, proprio nello spazio delimitato dalle colonne.
LA BASILICA DEI RE Nella scorsa estate il percorso è stato arricchito con una nuova sezione, dedicata alla basilica altomedioevale di S. Salvatore, la chiesa del monastero fondato nel 753 d.C. da Desiderio e Ansa, re e regina dei Longobardi, molto ben conservata anche nell’alzato, e, come le domus romane, parte integrante del Museo. All’interno della basilica sono visibili parti delle murature originarie, decorazioni di epoche successive, resti di una domus romana del I-III secolo d.C., strutture della prima 58 a r c h e o
LE DOMUS DELL’ORTAGLIA Le Domus dell’Ortaglia (Domus di Dioniso e Domus delle Fontane), erano parte del quartiere romano residenziale nord-orientale, situato alle pendici del colle Cidneo, tra l’area pubblica monumentale (la piazza del Foro) e le mura orientali, costruite in età augustea, e furono abitate tra il I e il IV secolo d.C. Dopo l’abbandono, si trasformarono, in età longobarda, nell’«ortaglia» (l’orto) del monastero femminile di S. Giulia, da cui prendono il nome. Scoperte casualmente nel 1967, le antiche dimore sono state studiate e restaurate per la prima volta tra il 1967 e il 1971. Gli scavi sono poi stati ripresi tra il 1980 e il 1992, portando alla luce tutti gli ambienti della Domus di Dioniso e quelli settentrionali della Domus delle Fontane; ulteriori indagini svolte tra
il 2001 e il 2002 hanno permesso di ritrovare tutti i restanti ambienti. Nel 2003 l’area archeologica è stata annessa al Museo di Santa Giulia, con una sala dedicata: le strutture sono visibili da una passerella sospesa sopra la pavimentazione delle domus e del fondo stradale, che permette di «entrare» in tutte le stanze e di raggiungere un’area distaccata, in cui vengono presentati alcuni dei reperti piú significativi ritrovati nelle abitazioni e viene trasmesso un filmato con la ricostruzione virtuale dell’area stessa. Una grande finestra offre infine una visione del Viridarium, il «giardino» ricostruito come doveva apparire in epoca romana, con strutture architettoniche, alberi, fiori ed erbe utilizzati per scopi decorativi, culinari e terapeutici.
età longobarda e le fondamenta di una chiesa piú antica. Nel 761, con la traslazione delle reliquie di santa Giulia, la chiesa venne dotata di una cripta, che subí diverse trasformazioni, sia in antico, sia in età romanica, quando venne ampliata verso ovest. L’armonicità della struttura, frutto di un cantiere unitario, è stata «turbata» per la prima volta intorno al 1300, con la costruzione del campanile, mentre nell’ultimo decennio del XIV secolo sono state aperte le cappelle nel fianco settentrionale. La facciata è stata poi demolita nel 1466 per costruire il Coro delle Monache (attualmente annesso alla chiesa), il cui piano inferiore funge oggi da atrio di S. Salvatore. La struttura ha poi subito continue modifiche, fino alla soppressione avvenuta del 1798. La visita parte dall’atrium prima dell’ingresso nella basilica vera e propria, con un’introduzione sulla storia del monastero e una panoramica dei monumenti del sito seriale patrimonio UNESCO «I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.)» che comprende le principali testimonianze
archeologiche di epoca longobarda nella Penisola, e di cui il complesso fa appunto parte. Il viaggio nel tempo riporta quindi il visitatore al portale della basilica originaria, di cui si può ammirare la facciata, grandiosa nella sua semplicità, e vedere sulla destra uno scorcio dei tre chiostri. Il «pellegrino» può quindi varcare la soglia, essere accolto da una panoramica delle fotografie degli scavi archeologici condotti nel 1958-62 e ammirare il ciclo di affreschi con la Vita di Sant’Obizio di Girolamo Romani, detto il Romanino (prima metà del XVI secolo), alla base del campanile. Infine, la struttura attuale si trasforma nella basilica originaria, un semplice edificio a pianta rettangolare diviso in tre navate (con la centrale piú ampia), scandite da colonne simmetriche per fusto e materiale (lisce e in marmo, provenienti da monumenti di epoca romana, quelle piú lontane dall’abside, in calcare e realizzate ad hoc quelle piú vicine all’abside stessa); spiccano due capitelli «a paniere» di fattura bizantina, probabilmente provenienti da Ravenna.
In questa pagina: il cubiculum della Domus delle Fontane con il soffitto sul quale si può vedere la Vittoria in Volo nelle sue sembianze reali e nella ricostruzione virtuale di ArtGlass. Nella pagina accanto, in alto: ricostruzione dell’area del Capitolium e dell’antistante piazza del Foro. Nella pagina accanto, in basso: ricostruzione virtuale della stanza di una delle Domus dell’Ortaglia. a r c h e o 59
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IL MUSEO DI SANTA GIULIA Fondato nel 753 da Desiderio, ultimo re dei Longobardi, il monastero benedettino di S. Salvatore ha subito nei secoli varie trasformazioni e si è arricchito di nuovi edifici (tra cui S. Maria in Solario, il Coro delle Monache, la cinquecentesca chiesa di S. Giulia e i chiostri), fino alla soppressione napoleonica del 1798. Un secolo dopo è stato creato al suo interno il Museo dell’Età Cristiana o Museo Medioevale e, dopo la seconda guerra mondiale, fu acquistato dal Comune di Brescia che nel 1998 vi ha inaugurato le prime sale del Museo della Città. Il Museo di Santa Giulia si è quindi evoluto con l’apertura di nuove sale e sezioni, fino a raggiungere il suo assetto definitivo nel 2004. Oggi la struttura si estende su circa 14 000 mq e ospita 1200 opere, divise in due percorsi, che seguono la storia della città (e del suo territorio) dal III millennio a.C. fino all’epoca rinascimentale. Il primo percorso si snoda attraverso le sale dell’oratorio di S. Maria in Solario (XII secolo), in cui sono conservati alcuni tra i capolavori della raccolta, tra cui la Lipsanoteca, una cassetta d’avorio istoriata del IV secolo d.C. Al piano superiore, con pareti affrescate da Floriano Ferramola tra il 1513 e il 1524 e una volta stellata, è conservata la Croce di Desiderio, una splendida croce astile della prima età carolingia (IX
secolo d.C.), con elementi ornamentali di epoca romana e longobarda e gemme, cammei e paste vitree. Il secondo percorso si snoda fra l’antico monastero, i chiostri, la basilica di S. Salvatore e il Coro delle Monache. Il tragitto parte dal seminterrato, che ospita la sezione di preistoria e protostoria, con reperti provenienti dalla città e dalla provincia, databili dal III millennio a.C. all’età del Ferro, e dal VI secolo a.C. al II secolo a.C. Un approfondimento è riservato alla dominazione dei Celti e alle loro necropoli, e qui sono esposte le falere di Manerbio, 14 dischi d’argento del I secolo a.C., probabilmente usati come ornamenti per i finimenti dei cavalli. La sezione dedicata all’età romana si articola in quattro settori: il primo è dedicato alle testimonianze presenti nel territorio e nella città, e conserva gli affreschi provenienti dal tempio repubblicano e i bronzi rinvenuti nel «ripostiglio» scoperto nel 1826 tra il Capitolium e il colle Cidneo, tra cui 6 ritratti di imperatori e membri della famiglia imperiale in bronzo dorato, il Prigioniero, forse elemento decorativo di una biga sempre in bronzo dorato, e la splendida Vittoria Alata, attualmente in restauro. Il secondo percorso riguarda la sala delle Domus romane e il Viridarium, mentre il terzo raccoglie A sinistra: la sala, affrescata da Floriano Ferramola tra il 1513 e il 1524, in cui è esposta la Croce di Desiderio. IX sec d.C. Nella pagina accanto: la chiesa di S. Salvatore.
Molto interessante è il recinto in pietra che delimitava l’area dedicata alle funzioni, appena prima del quale si vedono tre sepolture alla cappuccina (con tetto di tegole a spiovente, di cui la centrale scoperchiata per ammirarne gli affreschi interni), oggi visibili al di sotto del pavimento, protette da una grata. Tali sepolture erano destinate probabilmente ad accogliere i corpi del padre e dei fratelli della regina, Ansa (la basilica svolgeva la funzione di chiesa-mausoleo della famiglia reale), la cui tomba si trova in asse, in una nicchia nella parete destra. Il visitatore viene quindi invitato a concentrarsi sugli stucchi di epoca 60 a r c h e o
lapidi, oggetti funerari e corredi da sepolture e il quarto le iscrizioni (databili tra il I secolo a.C. e il V secolo d.C.). Nel Museo sono inoltre conservati mosaici provenienti da ricche dimore cittadine. La terza sezione, relativa all’età altomedievale, comprende anche la basilica di S. Salvatore e il cinquecentesco Coro delle Monache, e custodisce reperti della dominazione dei Longobardi e dei Carolingi (dal VI e all’XI secolo) prima della nascita dei Comuni, soprattutto di tipo bellico (armi e equipaggiamenti, spesso provenienti da tombe) e domestico (gioielli e oggetti d’uso quotidiano) oltre a oggetti artistici e religiosi, fra cui il gallo di Ramperto. La quarta sezione, dedicata alle età del Comune e delle Signorie, ripercorre la storia della città dalla nascita del Comune (XI secolo) all’inizio della dominazione della Repubblica di Venezia, passando per l’età delle Signorie e del governo dei Visconti. L’ultima sezione comprende infine le opere databili al dominio della Repubblica di Venezia (1426-1797), con sculture provenienti dal contesto pubblico cittadino ed elementi d’arredo da palazzi nobiliari. Il primo piano, che in origine raccoglieva le collezioni della città e il settore dedicato alla «dimora», ospita attualmente le mostre temporanee.
carolingia che ornavano gli archi, i sottarchi e le ghiere tra le colonne, di cui oggi restano vari frammenti reinseriti nella collocazione originaria. Gli elementi floreali delle ghiere erano impreziositi con ampolle di vetro colorato inserite al centro dei petali dei fiori.
PITTURE DIDATTICHE Non mancano gli arredi liturgici: spostandosi piú avanti, verso l’abside, si può vedere il raffinatissimo ambone (pulpito) marmoreo dell’VIII-IX secolo, con i lati delle scale ornati da due lastre trapezoidali simmetriche con raffigurazione a bassorilievo di flessuosi pavoni, circondati da foglie di vite e grappoli d’uva, di cui si conserva una lastra integra e alcuni frammenti della seconda, posizionate in loco. In un’età di diffuso analfabetismo, gli edifici religiosi si rivestivano di apparati decorativi con scopi dida-
scalici, chiari e semplici per i fedeli dell’epoca, ma oggi non sempre di facile comprensione: al visitatore vengono quindi spiegati i cicli di affreschi che ornavano le pareti al di sopra degli archi, divise in tre fasce (l’ultima tra le finestre che si aprono in alto), con le due inferiori a loro volta divise in riquadri progressivamente estesi verso l’alto, in origine separati da cornici di porfido. Sfilano storie della vita di Cristo (registro superiore) e delle sante martiri Giulia, Pistis, Elpis e Agape (registro inferiore), le cui reliquie erano conservate nella cripta. Tra le colonne erano affrescati anche clipei con volti maschili, probabilmente gli Apostoli. La visita si conclude di fronte all’abside, al calar della sera, con lucerne che si accendono tra le finestre, da cui si vede il cielo ormai scuro. La vista spazia a 360° e arriva fino al portale di accesso della basilica,
aperto su uno scorcio di cielo ugualmente scuro. Il visitatore viene quindi invitato a tornare nel XXI secolo e a scendere nella cripta, ma anche ad ammirare nuovamente la basilica nel presente, sempre maestosa e imponente. DOVE E QUANDO Museo di Santa Giulia Domus dell’Ortaglia Brescia, via Musei 81/b Brixia. Parco archeologico di Brescia romana Brescia, via Musei 55 Orario ma-ve, 9,00-17,00; sa, do e festivi, 9,00-18,00; chiuso tutti i lunedí non festivi Info e prenotazioni CUP Centro Unico Prenotazioni, presso Museo di Santa Giulia: lu-do, 10,00-16,00; tel. 030 2977833-834; e-mail: santagiulia@bresciamusei.com a r c h e o 61
MUSEI • BRESCIA
LE MUMMIE RACCONTANO...
IL MUSEO CIVICO DI SCIENZE NATURALI DI BRESCIA HA SALUTATO L’APERTURA DI UNA SEZIONE DEDICATA ALLA COLLEZIONE DI PREZIOSI REPERTI EGIZIANI RINVENUTI NEI DEPOSITI POCO PIÚ DI VENT’ANNI FA. UN’ESPOSIZIONE INNOVATIVA E ORIGINALE, ISPIRATA AL PASSATO NEL NOME, «CAMERA DELLE MERAVIGLIE», MA PROIETTATA NEL PRESENTE PIÚ MODERNO, GRAZIE ALL’IMPIEGO DELLE TECNOLOGIE AVANZATE di Sabina Malgora
In alto: un particolare del percorso espositivo. A sinistra: mummia di gatto (altezza 28 cm) di epoca tarda-romana.
L
e Camere delle Meraviglie o Wunderkammern sono ambienti in cui, dalla fine del Cinquecento al Settecento, si conservano oggetti di varia natura, caratterizzati dall’idea di straordinarietà: vere e proprie collezioni provenienti da Paesi lontani, ma anche di tesori locali, acquistate nei mercati antiquari durante i Grand Tour. Piante rare, esotiche, animali impagliati, reperti archeologici, fossili, libri antichi, stampe, maschere, elementi etnici, animali deformi, rocce o pietre rare, zanne di elefante, rami di 62 a r c h e o
corallo, quadri, cammei, filigrane, collane di perle… erano esposti in vetrine, stipati in cassetti, nei salotti delle famiglie nobili, ma anche appesi a soffitti e pareti. Raccolte che, pur non possedendo alcun criterio espositivo, possono essere considerate le antesignane delle collezioni museali. Principi, nobili e studiosi quasi gareggiavano nel realizzarle, contribuendo alla diffusione del collezionismo, fenomeno già conosciuto nell’antichità, che spingeva ad acquistare, anche a cifre considerevoli, ogget-
L’ingresso alla Camera delle Meraviglie, che riproduce la macchina per la tomografia assiale computerizzata (TAC) utilizzata per le indagini sui reperti.
ti straordinari provenienti dal mondo della natura o creati dalle mani dell’uomo detti mirabilia, ovvero cose che suscitavano la meraviglia.
DA «CAMERE» A MUSEI Tra le piú note Camere delle Meraviglie possiamo ricordare quelle di Rodolfo II d’Asburgo (1552-1612), di Federico Augusto il Forte, principe elettore e re di Polonia (1670-1733) – di cui esiste ancora la Grünes Gewölbe («Volta verde») a Dresda –, di Anna Maria Luisa de’ Medici (1667-1743), la Ca-
mera dell’arte e delle curiosità di Ferdinando II d’Asburgo. Tali collezioni confluirono, a seguito di donazioni, nei musei che oggi visitiamo, come i Musei Capitolini (1734), il British Museum di Londra (1753), il Musée Rivoluzionaire du Louvre a Parigi (1793), l’Istituto delle Scienze (1714) e i Musei Universitar i a Bologna (1742-1743), mentre il Museo di Storia Naturale di Pisa ospita la ricostruzione completa di una Wunderkammer, quella che alla fine del XVI secolo ne ha costituito il nucleo originario.
Oggi una moderna Camera delle Meraviglie è costituita dalla ricerca multidisciplinare del Mummy Project, che attraverso nuovi strumenti di indagine – quali TAC (tomografia assiale computerizzata; vedi box a p. 69), analisi chimiche, fisiche, mediche e antropologiche – e un rigoroso protocollo, permette di recuperare informazioni preziose sui reperti e di trasmetterle ai visitatori. In concreto, la TAC apre le porte alla Camera delle Meraviglie realizzata nel Museo Civico di Scienze Naturali di Brescia, a r c h e o 63
MUSEI • BRESCIA
proponendo una copia fotografica ingigantita, attraverso la quale i visitatori passano per entrare nell’esposizione. Un’immagine scelta per sottolineare come, prima ancora delle mummie, la protagonista del percorso espositivo – punto di arrivo di un sofisticato progetto di ricerca nato nel 2012 e sviluppato dal Mummy Project in collaborazione con Paolo Schirolli, direttore e oggi conservatore del Museo – sia la ricerca scientifica, con i suoi metodi rigorosi. Nel panorama museale italiano, la ricerca multidisciplinare è per la prima volta la chiave di lettura di un’esposizione che porta alla luce e illustra al pubblico una collezione di mummie inedita, per anni custodita come un tesoro nei depositi del Museo bresciano e ritrovata nel 1996 da Schirolli – allora giovane conservatore – durante il lavoro di inventariazione e catalogazione di tutti i reperti relativi alle Scienze
In alto: un momento dell’inaugurazione della nuova sezione del Museo. Sabina Malgora e Vittoria Oglietti toccano le repliche delle mummie appositamente realizzate per la fruizione tattile. In basso: alcuni membri dell’équipe del Mummy Project durante la TAC al Fatebenefratelli di Milano: a sinistra, Sabina Malgora e Antonio Curci; a destra, Paolo Schirolli, Francesca Motta e Vittoria Oglietti.
La piú antica illustrazione di un Gabinetto di Storia Naturale, tratta dal volume Dell’Historia Naturale di Ferrante Imperato (Napoli, 1550-1631), naturalista e farmacista. Egli allestí presso la sua casa, Palazzo Gravina, un museo naturalistico, che divenne uno dei piú noti in Europa e fu visitato da numerosi studiosi.
della Terra. Donate al Comune tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento da privati (tra cui l’avvocato Achille Cortesi e la sua famiglia e la «Sig.ra E. Reiss vedova Guglielmo Reiss, Consigliere di Governo,Villeggiante alla Villa Leone di Salò»), le mummie furono schedate e sottoposte a restauro nel 2003/2004 e, nel 2012, confluirono in un progetto di ricerca del Mummy Project finalizzato allo studio e all’esposizione. La donazione da collezioni private, anziché il recupero da scavi, non permette di conoscerne il luogo di provenienza. Si tratta, in tutto, di 27 reperti organici, zoologici e antropologici, che
compongono una piccola, ma pre- ca Bernardo e Giancarlo Oliva. Per ziosa collezione. alcune di esse sono state effettuate analisi molecolari. La ricerca ha fornito le informazioUOMINI E ANIMALI Tredici sono le mummie di animali: ni, che, proiettate nel panorama sette gatti, due coccodrilli, due fal- scientifico e storico, hanno permeschi, un serpente e una pseudomum- so di creare l’articolato percorso mia simile a una di cane. Vi sono espositivo. Come già detto, si entra quindi un involto con fibre vegeta- attraverso una grande TAC e si inili, tre teste umane, dieci frammenti zia un viaggio in una cornice affadi mummie umane di cui tre mani, scinante, in cui video, pannelli e tre piedi, una tibia-fibula, un fram- immagini accompagnano i visitatomento di bende e due pacchetti di ri alla scoperta delle mummie. Le frammenti ossei e dita. I reperti so- mummie sono letteralmente, ma no stati sottoposti a TAC presso la virtualmente sbendate, grazie al Gemini RX di Travagliato, diretta supporto di video che permettono da Valentino Rubetti, e presso il una sorta di autopsia, sfruttando le Fatebenefratelli di Milano, con Lu- immagini 3D della TAC: dagli strati a r c h e o 65
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superficiali delle bende, si scende a quelli sottostanti dei tessuti e delle ossa, scoprendo chi e che cosa si celi sotto le bende, come sono state mummificate e le diverse tecniche di mummificazione. Tali indagini permettono di passare dal fenome-
no irreversibile della morte alla vita, potendo cosí ammirare l’ambiente in cui vissero gli individui mummificati e delineare la società complessa sviluppatasi lungo le rive del Nilo. Non meno affascinante è la possibilità di conoscere anche le diver-
Erede di un’antica e nobile tradizione Il Museo Civico di Scienze Naturali di Brescia trae le proprie origini dal Museo di Storia Naturale «G. Ragazzoni», nato nel 1902 all’interno dell’Ateneo di Scienze, Lettere e Arti di Brescia, istituzione fondata nel 1802, in epoca napoleonica, quale erede dello spirito scientifico che animava le accademie bresciane sei-settecentesche. Le prime collezioni che danno corpo al museo sono proprio quelle naturalistiche (minerali, rocce, fossili, conchiglie, erbari, insetti), che per oltre un secolo si erano andate accumulando nelle sale dell’Ateneo. In particolare l’imponente raccolta di rocce realizzata a partire dalla metà dell’Ottocento dal pioniere della geologia bresciana, il farmacista Giuseppe Ragazzoni, costituita da alcune migliaia di campioni provenienti da tutta la Provincia di Brescia e aree contermini, unitamente al suo famoso «profilo geognostico del pendio meridionale delle Alpi lombarde», andrà a creare le condizioni per la nascita della prima area espositiva museale pubblica dedicata alle Scienze Naturali a Brescia. Dopo la seconda guerra mondiale, in seno all’Ateneo viene presa la decisione di donare le collezioni naturalistiche al Comune di Brescia, perché queste possano trovare migliore e piú adeguata collocazione, con l’impegno di costituire quel Museo Civico di cui la città non era ancora dotata, pur sentendosene ormai da tempo la necessità. Nei primi anni Cinquanta del 1900 le collezioni riaprono al pubblico nel Castello di Brescia con sale dedicate alla zoologia, alla geologia e alla preistoria bresciana. Agli inizi degli anni Ottanta, il Museo Civico di Scienze Naturali trova quindi collocazione in un nuovo edificio appositamente costruito, che ne costituisce la sede attuale. Oltre 200 000 reperti raccolti sul territorio in circa due secoli costituiscono oggi il patrimonio di questo Museo e rappresentano una preziosa banca dati sulla geodiversità e sull’evoluzione recente della biodiversità nella provincia di Brescia.
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se scienze coinvolte nello studio e il lavoro svolto dai r icercator i dell’équipe multidisciplinare. Dalla campagna napoleonica in Egitto (1798-1801) e dalla conseguente pubblicazione della Description de l’Égypte, le mummie sono sempre state al centro dell’attenzione, considerate oggetti curiosi da acquistare, ma anche dotati di proprietà terapeutiche – tanto da indurre alla loro polverizzazione – per curare patologie che andavano dal raffreddore all’impotenza. Furono inoltre sfruttate per creare colori usati dai pittori preraffaelliti, sbendate per recuperare oggetti preziosi, bruciate come combustibile, studiate e indagate con vere e proprie autopsie fino ad arrivare alle ricerche piú avanzate con raggi X e TAC.
UN MONDO TANGIBILE Nell’esposizione bresciana è stata trasposta la filosofia del Mummy Project, accolta pienamente dal Museo, che vede le mummie come capsule del tempo, veri e propri musei biologici, un dono per antropologi ed egittologi. Prima di essere reperti, le mummie sono persone, testimoni silenziosi di un tempo lontano e custodi di numerosissime e preziose informazioni. Esse raccontano un mondo vero e tangibile, dove si affrontano problemi sociali, politici ed economici: una quotidiana realtà, spesso diversa da quella stabile e perfetta rappresentata nei bassorilievi e nelle iscrizioni delle tombe, dei templi, nei testi religiosi e funerari dei papiri. Le numerose mummie di animali permettono di ricostruire il paleoambiente, ma anche di vedere gli Egizi sotto una luce diversa, come persone simili a noi. Uomini e donne che avevano un grande rispetto dell’ambiente e amavano avere animali domestici in casa, come i gatti. Cosí nel percorso espositivo si approfondiscono numerosi temi, come il credo religioso, l’adorazione degli animali, l’am-
biente nilotico, ma anche la mummiamania. Un percorso nel quale giocano un ruolo primario le foto che raccontano l’Antico Egitto, scattate da Michele e Daniela dello Studio Alquati e membr i del Mummy Project. Tale visione, che sottintende una corretta etica e un adeguato trattamento nei confronti dei resti In questa pagina: alcune immagini della mummia inv. n. E00002. In alto, un’immagine radiografica in cui sono ben apprezzabili lo scheletro avvolto in numerosi strati di bende e le orecchie finte realizzate con tessuto e resine; a destra, un particolare del muso; in basso, immagine tomografica che mostra sia il distaccamento della testa, sia numerosi spilloni, inseriti in epoca moderna. Nella pagina accanto: mummie di gatto esposte nella nuova sezione del museo bresciano.
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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Paolo Schirolli e Sabina Malgora nella fase dei prelievi durante lo studio delle mummie.
Qui sopra: la dottoressa Margaret Murray e il suo team durante l’autopsia della mummia di Khnum-Nakht, al Chemistry Lecture Theatre dell’University of Manchester, condotta davanti a un pubblico di 500 membri della Manchester Egyptian Association, il 6 maggio 1908. 68 a r c h e o
umani, si manifesta anche attraverso la ricostruzione del volto di una delle mummie: la testa maschile (inv. n. E 00015), databile alla XXVI dinastia. Dopo aver sottoposto la mummia a tomografia computerizzata e averla analizzata per stendere il profilo antropologico, il cranio è stato stampato in 3D con un processo noto come «prototipazione rapida» o «stampa 3D». Su tale modello sono stati successivamente attaccati, in specifici punti anatomici, trenta marcatori di spessore dei tessuti molli (adatti a un soggetto maschile di età superiore ai 30 anni), seguendo quello che viene denominato Metodo Manchester, per sviluppare una stima ragionevole dell’aspetto del suo volto. I marcatori rappresentano la stretta relazione tra osso e tessuto. I diversi gruppi muscolari sono stati modellati con l’argilla, seguiti da uno strato cutaneo. Un osso piú spesso e strutturato, inserzioni muscolari marcate, in genere, supportano uno spessore maggiore di tessuto molle. Questi valori, misurati in millimetri, sono basati su studi statistici su diverse popolazioni. La ricostruzione del volto ha ovviamente tenuto in considerazione il profilo antropologico del soggetto: un adulto di età superiore ai 35 anni, al momento della morte, con scheletro facciale abbastanza robusto (con creste sopra-orbitali sviluppate) e con una mandibola con perdita parziale dei denti.
MUMMIE DA TOCCARE Una piccola sezione è dedicata all’apprendimento attraverso la manipolazione: qui alcune repliche di mummie si possono prendere tra le mani, nella convinzione che in museo si possa e si debba toccare! L’esposizione traduce cosí il desiderio degli ideatori di fare del Museo un’esperienza a 360 gradi, che coinvolge tutti i sensi, aprendosi a tutti i visitatori, anche con sensibilità e
Alcuni membri del Mummy Project durante la TAC alla testa di mummia femminile presso Gemini RX di Travagliato. Da sinistra: Valentino Rubetti, Andrea Pietro Vacis, Elena Lancetti, Sabina Malgora, Paolo Schirolli, Francesca Motta e Vittoria Oglietti.
abilità diverse. Per questo, grazie all’applicazione di nuove tecnologie sono state realizzate copie di reperti da toccare, per emozionare visitatori di ogni età. Le repliche sono state realizzate partendo dalle scansioni ottenute grazie alla tomografia computerizzata (TC) e stampando in 3D in un materiale sintetico chiamato acrilonitrile butadiene stirene (ABS; è lo stesso che viene usato per produrre i mattoncini Lego). Queste repliche sono state prodotte dal Consorzio Akhmim Mummy Studies (AMSC Research LLC, Carlisle Pennsylvania), membro del Mummy Project, che è pioniere nella stampa 3D, occupandosene dal 2004, con collaborazione di Robert D. Hoppa dell’Università di Manitoba e del suo laboratorio (BDIAL: Laboratorio per
LA PORTA DELLA CAMERA DELLE MERAVIGLIE L’acronimo TAC indica in radiologia la tomografia assiale computerizzata (oggi solo TC, tomografia computerizzata). Si tratta di una metodica di diagnostica per immagini, che sfrutta radiazioni ionizzanti (raggi X) e consente di riprodurre sezioni o strati corporei di una persona (tomografia) elaborati da un computer (computerizzata) e, successivamente, di effettuare elaborazioni tridimensionali tramite appositi software. Le macchine di ultima generazione, come quelle usate nelle indagini alla base di questa mostra, acquisiscono direttamente un volume intero (acquisizione spirale), permettendo piú facilmente le successive ricostruzioni tridimensionali. La prima apparecchiatura TAC fu realizzata nel 1967 dall’ingegnere inglese Sir Godfrey Hounsfield con il fisico sudafricano Allan Cormack, presso il Central Research Laboratories della EMI (Electronic and Musical Industries, nota
etichetta discografica britannica) a Hayes nel Regno Unito. I due ricercatori furono onorati del premio Nobel per la medicina nel 1979. Il primo tomografo computerizzato consentiva esclusivamente lo studio delle strutture del cranio e fu installato all’Atkinson Morley Hospital di Londra nel 1971. In Italia la prima TAC EMI fu installata a Bologna nel 1974 presso l’Ospedale Bellaria. Il primo procedimento di scansione richiedeva dai 5 ai 10 minuti, mentre l’elaborazione delle immagini ottenute richiedeva 2 ore e mezza. Oggi bastano una decina di secondi e l’elaborazione delle immagini è pressoché immediata. Il suo impiego principale è funzionale all’elaborazione delle diagnosi in medicina, ma la TAC può essere usata anche in altri ambiti, come, per esempio, nel settore antropologico forense e medico-legale o in archeologia, per indagare in modo non distruttivo le mummie, i contenuti di vasi, sarcofagi, ecc.
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IDENTIKIT DEL MUMMY PROJECT Con sede operativa a Milano, all’Ospedale Fatebenefratelli, il Mummy Project ha come fine lo studio approfondito dei reperti organici, in particolare mummie umane e di animali attraverso analisi effettuate con le piú moderne tecniche di indagine medica e investigativa, eseguite da un’équipe multidisciplinare, in grado di recuperare tutte le informazioni disponibili e di confrontarle nel panorama scientifico, nel completo rispetto della integrità e della conservazione dei reperti. Restituisce un’identità, il piú possibile esaustiva, alle mummie oggetto di indagine, completando il quadro storico e culturale da cui provengono. Collabora con università, musei, fondazioni e istituzioni culturali. Si occupa dello sviluppo e della realizzazione di progetti non solo di ricerca, ma anche di carattere culturale e In basso: testa di mummia maschile (inv. n. E 00015) di epoca tardo-romana.
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In alto: testa di mummia femminile (inv. n. E 00016). Seconda metà dell’Epoca Tarda-inizio Periodo Romano, 168-4 a.C. (datazione C14).
divulgativo quali mostre, eventi culturali convegni, conferenze, dibattiti, seminari, proiezioni di documentari, ecc. Promuove la valorizzazione del patrimonio storico, antropologico e artistico. Ha al suo attivo pubblicazioni scientifiche e divulgative. Al suo interno vi è il Children Lab che si occupa di attività didattico creative per bambini e ragazzi. Fondatori del Mummy Project sono Sabina Malgora (che ne è anche la direttrice), curatore delle collezioni egizie del Castello del Buonconsiglio di Trento e delle mummie del Museo Archeologico dell’Università di Pavia, e Luca Bernardo, Direttore Dipartimento Medicina dell’Infanzia e dell’Età Evolutiva, Pediatria P.O.FBF, Pediatria P.O. e Terapia Intensiva Neonatale P.O. Macedonio Melloni. Dell’équipe fanno parte: Chantal Milani, antropologa e odontologa forense; Micaela Cellina, medico Radiologo; Jonathan Elias, direttore dell’Akhmim Mummy Studies Consortium; Albert Zink, direttore dell’Istituto per lo Studio delle Mummie-Eurac, Bolzano, e Frank Maixner, ricercatore presso lo stesso istituto; Lidija McKnight, Ricercatrice del KHN Centre for Biomedical Egyptology, University of Manchester, UK; Salima Ikram, professore di egittologia, American University in Cairo; Wilfried Rosendahl, direttore del German Mummy Project; Carter Lupton, curatore emerito-sezione di Archaeologia, Milwaukee Public Museum (USA); Marco Nicola, direttore di Adamantio srl, Torino; Francesca Motta, archeoantropologa; Maria Belen Daizo, archeoantropologa; Elena Lancetti, collaboratore tecnico; Gianluigi Nicola, direttore della Nicola Restauri, Aramengo; Roberto Poli, videomaker di Elexa Service, Biella; Michele Alquati e Daniela Bardelli, fotografi dello Studio Alquati, Milano; Vittoria Oglietti, Smov Eventi, pubbliche relazioni.
A sinistra: ricostruzione tridimensionale da immagini topografiche della testa di mummia femminile (inv. n. E 00016, II sec. a.C.), in diverse vedute. Il cranio è piuttosto gracile e appartiene ad una donna tra i 23 ed i 40 anni, con una percentuale prevalente di caratteristiche negroidi e una minima componente caucasica. Vi sono lesioni sul lato destro, che interessano la mandibola, parte del mascellare superiore, dell’osso zigomatico e dell’orbita. In basso: ricostruzione forense realizzata da Jonathan Elias della testa di mummia maschile (inv. E 00015).
le analisi di Bioarcheologia e Immagini Digitali). Sebbene la realizzazione di copie sia nata per coloro che non possono vedere, è evidente come il bisogno di toccare sia innato, piú spontaneo nei bambini, ma ancora forte negli adulti: l’esperienza multisensoriale e la manipolazione sono un modo molto efficace per imparare. Anche grazie a questa sezione, il Museo Civico di Brescia è all’avanguardia e si colloca come eccellenza nel panorama italiano. Nella città lombarda si può insomma scoprire un allestimento innovativo, corredato da un ricco catalogo, che pone in primo piano la ricerca multidisciplinare e il metodo scientifico, senza però tralasciare la capacità di emozionare. Emozioni che perdurano sino alla fine della visita, quando si esce attraverso un corridoio fiancheggiato dalle acque del Nilo alla prima cataratta e la montagna di Assuan all’orizzonte, in una immagine realizzata da Paolo Bondielli, cosí viva da poter quasi sentire il vento e il rumore dell’acqua. L’allestimento della Camera delle Meraviglie nel Museo Civico di Scienze Naturali di Brescia e il progetto di ricerca che ne è alla base sono stati possibili grazie all’impegno del Comune di Brescia, del Mummy Project, ma anche di una cordata di sponsor, quali GP Batteries, Enzo Omodei Srl, Industria Colori, Morreale S.n.c., Gemini Rx di Travagliato, ASST Fatebenefratelli-Sacco di Milano. DOVE E QUANDO Museo Civico di Scienze Naturali Camera delle Meraviglie Brescia, via Ozanam 4 Orari e attività www.comune.brescia.it Info tel. 030 2978672; e-mail museo.scienze@comune.brescia.it Catalogo Mummy Project Research a r c h e o 71
MOSTRE • ROMA
GERMANICO IL PRESCELTO
Sulle due pagine: La morte di Germanico, copia ottocentesca di un originale realizzato da Nicolas Poussin nel 1627 (e oggi conservato presso il Minneapolis Institute of Arts). Collezione privata. A sinistra: ritratto in marmo pario di Germanico. 19 d.C. circa. Roma, Fondazione Sorgente Group. 72 a r c h e o
NEL BIMILLENARIO DELLA MORTE DI GERMANICO (19 D.C.-2019), LA FONDAZIONE SORGENTE GROUP CELEBRA IL PRINCIPE EREDITARIO E DISCENDENTE DELLA DINASTIA GIULIO-CLAUDIA DESIGNATO ALLA SUCCESSIONE IMPERIALE CON UNA MOSTRA NELLO SPAZIO ESPOSITIVO TRITONE A ROMA. ED ESPONE UN RITRATTO DEL GIOVANE DESTINATO ALLA SUCCESSIONE IMPERIALE DI PARTICOLARE SUGGESTIONE
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MOSTRE • ROMA
S
e non fosse morto prematuramente – aveva 34 anni – Germanico sarebbe diventato princeps della dinastia giulio-claudia perché figlio di Antonia Minore (figlia di Ottavia, sorella di Augusto) della gens Iulia e di Druso Maggiore (figlio di Livia, moglie di Augusto, e di Tiberio Claudio Nerone) della gens Claudia. E Augusto avrebbe concretizzato il suo sogno di unire le due famiglie piú prestigiose di Roma, dando successione a un giovane che era riuscito anche a riscuotere grande successo tra le truppe e nel cuore del popolo romano. Nato ad An-
zio nel 15 a.C., venne chiamato «Germanico» in seguito ai successi del padre, comandante in Germania tra il 12 e il 9 a.C.
LA LINEA DINASTICA Per volere di Augusto, nel 4 d.C. venne adottato da Tiberio, e designato alla successione imperiale con il nome di Giulio Cesare Germanico: veniva cosí preparata la linea dinastica al potere che avrebbe portato alla genealogia giulioclaudia. Nel 4 d.C. Germanico sposò Agrippina Maggiore, figlia di Giulia e Agrippa, quindi, nipote
dello stesso imperatore Augusto, rafforzando cosí la linea dinastica. Da questa unione nacquero nove figli tra cui il futuro imperatore, «Caligola» e Agrippina Minore, che sarà madre di Nerone. Germanico partecipò e poi condusse importanti spedizioni militari in Germania dal 10 al 16 d.C. Negli Annales Tacito, parlando dell’imperatore Tiberio, ricorda Germanico che nel 14 d.C. sedando le rivolte militari in Germania e poi in Pannonia, avrebbe suscitato astio e gelosia nel principe. Alla morte di Augusto, Tiberio convin-
Un particolare dell’allestimento della mostra dedicata a Germanico, che, per volere di Augusto, fu adottato nel 4 d.C. da Tiberio e designato alla successione imperiale. Un progetto che non poté compiersi a causa della sua morte prematura.
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Il Gran Cammeo di Francia, la piú grande fra le sardoniche antiche, lavorata a ben cinque strati con raffigurazioni di personaggi imperiali romani. Età augustea. Parigi, Bibliothèque nationale de France, Cabinet des Medailles. La decorazione si articola in tre registri: nel superiore si riconosce Augusto, al centro, con il capo velato e cinto da una corona, attorniato da Germanico, che cavalca Pegaso, e da Druso il Giovane; nel registro mediano si vedono invece Tiberio, in trono, con la madre Livia, che presiede una cerimonia solenne e davanti al quale, in armi, sta Nerone Cesare, primogenito di Germanico, mentre alle spalle dell’imperatore se ne riconosce il secondogenito, Druso Cesare; il registro inferiore è un’allegoria del mondo dei vinti, impersonati da prigionieri parti e germanici. a r c h e o 75
MOSTRE • ROMA
Un’altra immagine del ritratto in marmo pario di Germanico. 19 d.C. circa. Roma, Fondazione Sorgente Group. Nella pagina accanto, a sinistra: ritratto in terracotta di Agrippa Postumo, dall’originale greco in marmo pario (inizi del I sec. d.C.) conservato presso i Musei Capitolini. Roma, Fondazione Sorgente Group. Nella pagina accanto, a destra: ritratto in marmo pario di Marcello, figlio di Ottavia e nipote prediletto di Augusto. 25-20 a.C. Roma, Fondazione Sorgente Group. 76 a r c h e o
UNO SGUARDO FERMO E FIERO Il ritratto di Giulio Cesare Germanico facente parte della collezione della Fondazione Sorgente Group ( foto alla pagina accanto ) presenta alcune parti integrate di restauro: la parte superiore della calotta, la punta del mento e il naso. Esso conserva comunque le caratteristiche fisiognomiche identificabili con il volto di Germanico: la forma degli occhi dal taglio a mandorla allungato con palpebre sottili, l’impianto
se il Senato a concedere al giovane Germanico l’imperium proconsulare, che gli avrebbe dato grande autonomia decisionale rispetto a Tiberio stesso sull’impostazione della guerra in Germania. Germanico si dimostrò all’altezza dell’importan-
largo della fronte, il mento tondeggiante e in particolare le labbra sottili e corte serrate con le fossette laterali. Il volto del principe, che originariamente doveva essere volto a destra, si mostra cosí come un giovane dalla decisa volontà, lo sguardo fermo e fiero del ruolo che avrebbe ricoperto e le labbra sono serrate nel momento di concentrazione.
te compito, poiché non solo sedò la rivolta delle legioni in Pannonia e lungo il confine germanico, concedendo concessioni ai militari, che poi Tiberio attuò, ma riuscí a ottenere una serie di vittorie, pacificando la regione a ovest del Re-
no: l’obiettivo era vendicare Varo e frenare ogni volontà espansionistica dei Germani. Durante il comando delle legioni del Reno dal 14 al 16 d.C., Germanico riscattò l’onore di Roma, riuscendo a recuperare due delle tre
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MOSTRE • ROMA
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LA MOSTRA Il ritratto di Germanico è esposto fino al 28 febbraio 2020, grazie a un allestimento curato da Paola Mainetti, Vicepresidente della Fondazione Sorgente Group, supportata da Valentina Nicolucci, curatrice per l’Archeologia. Pannelli esplicativi, la proiezione di un filmato multimediale e le copie dei ritratti imperiali della collezione Fondazione Sorgente Group illustrano la nobile discendenza e la storia del giovane principe.
«La passione per l’archeologia classica – ha dichiarato Valter Mainetti, Presidente della Fondazione Sorgente Group – ci ha spinto nel corso degli anni a raccogliere una significativa Collezione di ritratti imperiali della dinastia giulio-claudia che promuoviamo con convinzione, consentendone la fruizione al grande pubblico attraverso prestiti a istituzioni museali, nazionali e internazionali».
Sulle due pagine: un’altra immagine dell’allestimento della mostra. In basso, a sinistra: ritratto di Lucio Cesare, replica in gesso dell’originale in marmo pario (fine del I sec. a.C.). Roma,
Fondazione Sorgente Group. In basso, a sinistra: ritratto di Gaio Cesare, replica in gesso dell’originale in marmo pario (fine del I sec. a.C.). Roma, Fondazione Sorgente Group.
insegne delle legioni di Varo, massacrate dai Germani, guidati da Arminio, che aveva tradito la romanità acquisita, durante la battaglia di Teutoburgo nel 9 d.C. Nonostante le vittorie riportate, Germanico fu richiamato da Tiberio in patria nel 16 d.C. ponendo fine alle mire espansionistiche romane al di là del Reno, cosí come aveva indicato Augusto.
SOSPETTI E DOLORE Nel 18 d.C.,Tiberio inviò in Oriente il figlio adottivo, Germanico, a cui fu concesso l’imperium proconsulare maius su tutte le province orientali per il controllo della Cappadocia, Commagene e Cilicia, affiancandogli il fidato e inflessibile Gneo Calpurnio Pisone. I rapporti fra i due si deteriorarono e, quando Pisone fece ritorno a Roma, improvvisamente Germanico cadde malato ad Antiochia e morí poco dopo il 10 ottobre del 19 d.C., alla fine di lunghe sofferenze.Tacito racconta che lo stesso Germanico avrebbe sospettato di essere stato avvelenato da Pisone, chiedendo alla moglie Agrippina di vendicarsi (Annales II, 72). A Roma la morte di Germanico suscitò grandissimo dolore, e la vicenda danneggiò anche la popolarità dello stesso Tiberio, poiché fu lui stesso sospettato, avendo voluto che lo stesso Pisone accompagnasse in Oriente il giovane Germanico. Le sue ceneri, riportate in patria dalla moglie Agrippina, vennero collocate nel mausoleo di Augusto. DOVE E QUANDO «Germanico e la discendenza di Augusto» Roma, Spazio Espositivo Tritone, Fondazione Sorgente Group fino al 28 febbraio Orario lu-ve, 10,30-18,30 Info tel. 06 58332919; e-mail: segreteria@ fondazionesorgentegroup.com; www.fondazionesorgentegroup. com/ a r c h e o 79
MOSTRE • LONDRA
Achille trascina il corpo di Ettore intorno alle mura di Troia, incisione di Pietro Testa. 1645-1650. Londra, British Museum. 80 a r c h e o
LA GUERRA INFINITA UNA MOSTRA AL BRITISH MUSEUM DI LONDRA CONFERMA LA FORTUNA DEL MITO RACCONTATO PER LA PRIMA VOLTA DA OMERO: IL DECENNALE CONFLITTO TRA GRECI E TROIANI, INSIEME AI SUOI PROTAGONISTI, ALIMENTANO ANCORA OGGI L’IMMAGINARIO ARTISTICO DELL’OCCIDENTE. FINO A GIUNGERE A QUALCHE STRAVAGANTE LICENZA... di Stefano Mammini
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MOSTRE • LONDRA
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e consideriamo attendibili le ipotesi tradizionalmente avanzate sull’epoca in cui Omero compose i suoi poemi, l’Iliade e l’Odissea, la storia della guerra di Troia continua a essere raccontata da almeno tremila anni. Il grande cantore – ammettendo che sia realmente esistito – sarebbe infatti vissuto secondo alcuni nel IX secolo a.C. e, per altri, nel secolo successivo. Questioni cronologiche a parte, la vicenda bellica mantiene intatto il suo fascino e la mostra allestita al British Museum di Londra ne offre una riprova eccezionalmente convincente e, occorre dirlo subito, assai suggestiva. Visitando l’esposizione infatti, anche senza avere alle spalle memorie scolastiche specifiche, si viene subito catturati dalla chiave scelta dai curatori – Alexandra Villing, Victoria Donnellan, J. Lesley Fitton e Andrew Shapland – A destra: busto del poeta Omero, copia romana di un originale greco di epoca ellenistica (II sec. a.C.). II sec. d.C. Londra, British Museum. Nella pagina accanto, in alto: anfora attica a figure nere con l’uccisione di Pentesilea da parte di Achille, da Vulci. 530 a.C. circa. Londra, British Museum.
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per affrontare l’argomento: una chiave che, a ben pensarci, è forse la piú «omerica» che si potesse ideare. Perché la storia della città di Priamo viene proposta proprio come un grande racconto, a tratti quasi una favola, nel quale sfilano tutti i protagonisti della saga con le loro virtú semidivine e le loro umanissime debolezze. Al tempo stesso, i temi portan-
ti sono sviluppati cercando sempre di proporre agganci con la realtà moderna e contemporanea, senza però scadere in concessioni alle mode del momento, quali avrebbero potuto essere una lettura «di genere» o facili affratellamenti con i molti conflitti che tuttora dilaniano ampie regioni del globo. E a sintetizzare lo spirito che guida l’intero progetto si può citare la frase che segna l’inizio del percorso espositivo: «La storia di Troia parla alle persone di ogni luogo e di ogni tempo». Una trasversalità plasticamente incarnata dall’installazione di Anthony Caro (1924-2013) scelta per accogliere i visitatori, The Death of Hector, King Priam and The Skaian Gate (La morte di Ettore, il re Priamo e la Porta Scea), facente parte de La guerra di Troia, una serie di 40 sculture realizzate dallo scultore inglese nei primi anni Novanta. Nella pagina accanto, in basso: tazza in argento sulla quale è raffigurato il vecchio Priamo che implora Achille affinché gli renda il corpo del figlio Ettore, per poterlo seppellire, da Hoby (Danimarca). Produzione romana, 30 a.C.-40 d.C. Copenaghen, Nationalmuseet.
Sulla scena irrompono quindi Omero e i numerosi colleghi – greci e latini – che, insieme a lui, hanno contribuito a tramandare l’epopea dello scontro fra Troiani e Achei e le storie che nel tempo hanno preso forma da quella matrice, in una sorta di gemmazione.
I GRANDI NARRATORI Il poeta che la tradizione vuole cieco è il primattore, ma non mancano comprimari di rango, primo fra tutti Virgilio: le loro figure sono evocate attraverso reperti assai variegati, che alternano opere e oggetti a molti familiari – come il busto marmoreo di Omero proveniente da Baia (copia romana del II secolo d.C. di un originale ellenistico del II secolo a.C.) o il quadretto a mosaico con Virgilio affiancato dalle Muse (trovato a Hadrumetum, l’odierna Sousse, in Tunisia) e qui presente grazie al prestito concesso dal Museo del Bardo – a materiali che piú raramente
finiscono sotto i riflettori, come nel caso della tavoletta in legno sulla quale si conserva l’esercizio di un alunno, che su quel supporto trascrisse alcuni versi dell’Iliade. Nelle sezioni iniziali, attingendo in primo luogo alla ricchissima collezione permanente dello stesso British Museum, la narrazione della guerra e dei suoi episodi collaterali è affidata soprattutto ai vasi figurati di produzione greca, attraverso i quali è facile intuire quale formidabile repertorio i poemi omerici avessero messo a disposizione di pittori e vasai. Su coppe, crateri e piatti è dunque facile individuare tutti gli episodi piú celebri delle saghe e riconoscere i profili di volta in volta assegnati agli uomini e alle donne che ne furono protagonisti, da Achille a Ettore, da Ulisse a Briseide, in un ideale e vivace «album di famiglia». Accanto ai quali, immancabili, compaiono tutte le divinità dell’Olimpo, i
cui interventi sono uno degli elementi ricorrenti nei racconti di Omero. A questo proposito, spicca lo spazio riservato al magnifico dinos (un grande vaso per il vino o altre bevande) firmato dal pittore Sophilos sul quale sono
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MOSTRE • LONDRA
In alto: la spettacolare evocazione del cavallo di Troia, affidata a una struttura composta da archi in legno che suggeriscono la sagoma della «macchina» ideata dai Greci. A sinistra: dinos del pittore Sophilos con le nozze di Peleo e Teti e un corteo di divinità dell’Olimpo. 580-570 a.C. Londra, British Museum. 84 a r c h e o
In alto: hydria (vaso per acqua) attica a figure rosse sulla quale compare la rappresentazione del giudizio di Paride, da Capua. 470 a.C. circa. Londra, British Museum.
In basso: coperchio di sarcofago decorato da rilievi raffiguranti scene della guerra di Troia. 175-200 d.C. Oxford, Ashmolean Museum. A sinistra si riconosce il cavallo di legno.
raffigurate le nozze fra Peleo e Teti. Il vaso, databile al 580-570 a.C., offre una sorta di catalogo degli dèi, qui immortalati mentre animano il corteo organizzato per il festoso evento. E le scene, oltre a poter essere osservate sul dinos stesso, scorrono in una animazione luminosa alla base della vetrina, che mostra, in
sequenza, i diversi registri della decorazione. Una soluzione espositiva a cui fa da corollario il grande pannello nel quale sono illustrate le scelte di campo di ogni divinità , che si divisero equamente nel sostenere gli Achei e i Troiani. Gli spunti offerti dalla ricca produzione vascolare attica non sono però
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MOSTRE • LONDRA A sinistra: testa in marmo di Ulisse. I sec. d.C. Sperlonga, Museo Archeologico Nazionale. In basso, sulle due pagine: L’Achille ferito, scultura in marmo di Filippo Albacini. 1825. Bakewell, Chatsworth House.
soltanto iconografici, perché possono prestarsi anche a interessanti letture e interpretazioni, come per esempio, è stato fatto per un’elegante anfora a figure rosse proveniente da Vulci. Sulle due facce del vaso compaiono infatti un guerriero e una figura femminile ammantata, dalla quale l’uomo si sta allontanando, come suggerisce il gesto del bambino tenuto in braccio dalla donna, che protende le mani verso quello che si intuisce esserne il padre. Come spiega la didascalia – e 86 a r c h e o
piú ampiamente il catalogo – si tratta dunque di una famiglia costretta alla separazione dalla guerra ed è perciò possibile che i personaggi non siano figure anonime, bensí Ettore, Andromaca e il piccolo Astianatte.
A sinistra: stamnos attico a figure rosse con l’episodio di Ulisse che si fa legare all’albero della nave per resistere al canto ammaliatore delle Sirene, da Vulci. 480-470 a.C. Londra, British Museum.
Giunti a questa parte del percorso la guerra si fa idealmente incombente anche per chi visita la mostra: in una sequenza di notevole impatto scenografico, sono infatti sospese scritte, in greco e in inglese, che sintetizzano momenti chiave della vicenda troiana: la discordia (eris), la guerra (polemos), la caduta (alosis) e il ritorno (nostos). Altrettanto spettacolare è lo spazio riservato ai rilievi di un sarcofago monumentale di produzione attica, databile al III secolo d.C., che furono reimpiegati fra il 500 e il 600 d.C. come decorazioni di una delle porte della città di Efeso. Sulle quattro facce dell’arca sono scolpiti altrettanti momenti della vicenda di Achille, fra i quali spiccano le intense rappresentazioni della morte di Patroclo e della rabbia scatenata nel campione degli Achei dal luttuoso evento.
IL FATALE STRATAGEMMA Dal punto Didascalia da fare di vista Ibusdae dell’allestimento, l’invenzione felice è evendipsam, officte erupitpiú antesto l’evocazione dello stratagemma taturi cum ilita aut quatiur restrum che permise Greci diiumentrare eicaectur, testo ai blaborenes nella città la nonem sagoma quasped quosassediata: non etur reius del cavallo è tracciata archi quam expercipsunt quos restda magni di legno autatur apicche tecesabbracciano enditibus teces.l’intera sezione dedicata alla trappola escogitata da Ulisse. Il destino della città di Priamo si compie e proprio per l’uomo (segue a p. 90)
Sui vasi dipinti sfilano tutti i protagonisti della guerra, mortali e divini a r c h e o 87
MOSTRE • LONDRA
Il Giudizio di Paride (da Rubens), stampa cromogenica di Eleanor Antin, dalla serie L’Odissea di Elena. 2007. New York, Ronald Feldman Fine Arts.
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MOSTRE • LONDRA
perlopiú letterarie, nell’Ottocento si cominciò a cercare i possibili riscontri concreti di ciò che Omero aveva raccontato. E gli interessi maggiori non potevano non concentrarsi su Troia. Piú d’uno studioso si cimentò nella sua localizzazione, giungendo, come nel caso di Frank Calvert, a risultati di una certa consistenza.
che l’aveva segnato inizia la peregrinazione destinata a tenerlo lontano da Itaca per altri vent’anni. Anche lo scaltro Odisseo ha goduto di eccezionale fortuna fra gli artisti e tra le molte opere riunite nella sezione a lui dedicata figura anche la testa facente parte del gruppo con l’accecamento di Polifemo. Opera che, a oggi, è uno dei ritratti piú espressivi del re di Itaca (al quale anche l’Italia rende ora omaggio, con la mostra in pro-
E VENNE UN UOMO DALLA GERMANIA... Tuttavia, solo l’irrompere sulla scena dell’autodidatta tedesco Heinrich Schliemann svelò al mondo intero i resti dell’antica Ilio. A un secolo e mezzo dagli scavi condotti sulla collina di Hissarlik (oggi in Turchia), la comunità scientifica ha unanimegramma a Forlí dal 15 febbraio e mente riconosciuto gli errori comalla quale dedicheremo ampio spazio nel prossimo numero). Autentica icona del mito di Ulisse è anche lo stamnos a figure rosse con la rappresentazione dell’eroe che si lega all’albero maestro della sua nave per resistere al canto ammaliatore delle Sirene, con una delle leggendarie creature che il pittore ha reso in un curioso tuffo a capofitto. Ma se per secoli l’Iliade e l’Odissea furono oggetto di speculazioni In alto: Achille spaventa il Troiano, litografia di Max Slevogt facente parte della serie dedicata dall’artista tedesco all’Iliade. 1907. Londra, British Museum. A sinistra: vaso con decorazione antropomorfa, da Troia. 2550-1750 a.C. Londra, British Museum.
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messi dall’ex commerciante originario del Meclemburgo nell’interpretazione della stratigrafia da lui riportata alla luce. Ciononostante, Schliemann resta lo «scopritore di Troia» e la mostra gli dedica ampio spazio, sottolineando le ragioni per le quali le sue teorie si sono poco a poco rivelate insostenibili e illustrando quale sia oggi la lettura dei livelli di frequentazione riconosciuti nel sito. Che mantiene intatta la sua suggestione, perché la guerra di Troia raccontata dall’Iliade resta un evento leggendario, ma aver ritrovato a Hissarlik tracce inequivocabili di combattimenti, incendi e distruzioni ha confermato quel che da tempo viene ragionevolmente ipotizzato: nel narrare le gesta di Achei e Troiani, non si fece
In alto: la trincea di scavo aperta da Heinrich Schliemann a Hissarlik in una foto scattata nel 1874. In basso: la sezione della mostra dedicata alle esplorazioni di Schliemann.
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MOSTRE • LONDRA
altro che mettere in forma di poema lo stato di belligeranza che certamente segnò a piú riprese i rapporti fra Grecia e Asia Minore.
FORTUNA DEL MITO Come già accennato, la fortuna non archeologica della guerra di Troia aveva avuto inizio ben prima che Schliemann avviasse le sue esplorazioni ed è questo il filo conduttore delle successive e conclusive sezioni finali del percorso espositivo. In particolare, nel Medioevo, si compie uno dei passi fondamentali, che è quello della trascrizione delle opere di Omero, che ne assicura la trasmissione ai posteri. Accanto a splendide edizioni manoscritte e miniate, sfilano dipinti e sculture, che riprendono, fanno propria e declinano in forme nuove la lezione della classicità. I supporti si moltiplicano e comprendono, per esempio, i cassoni nuziali, fra i quali spicca quello dipinto da Biagio d’Antonio alla fine del Quattrocento, nel quale l’eleganza e la ricercatezza degli abiti rinascimentali non attenua la drammaticità delle scene, come si può notare nel trascinamento del corpo 92 a r c h e o
esanime di Ettore da parte di un Achille lanciato al galoppo e con il mantello svolazzante. Né manca la dissacrazione: molto liberamente ispirandosi al Giudizio
di Paride dipinto da Rubens alla metà del Seicento, Eleanor Antin propone una rappresentazione del celebre episodio al centro del quale spicca un’Elena a cui l’artista e perfomer statunitense assegna le fattezze di una dark lady in abiti paramilitari, con tanto di bandoliera a tracolla e mitra levato verso il cielo in gesto di sfida... Un’immagine ben diversa da quella del preraffaellita Edward Burne-Jones, che ritrae in lacrime la donna che, fin dall’antichità, è stata additata come causa scatenante della guerra che, per dieci lunghi anni, si combatté sotto le mura della città di Priamo. DOVE E QUANDO
In alto: particolare di un cassone nuziale raffigurante Achille che trascina il corpo di Ettore, tempera su tavola di Biagio d’Antonio. 1490-1495 circa. Cambridge, Fitzwilliam Museum. Qui sopra: Le lacrime di Elena, acquarello con ritocchi in oro di Edward Burne-Jones. 1882-1898. Londra, British Museum.
«Troia. Mito e realtà» Londra, British Museum, Sainsbury Exhibitions Gallery fino all’8 marzo Orario tutti i giorni, 10,00-17,30 (venerdí apertura serale fino alle 20,30) Info www.britishmuseum.org
SPECIALE • ARABIA
TUTTO L’ORO D’ARABIA testi di Abdullah A. Al-Zahrani e Romolo Loreto
Le magnifiche aule in laterizio romane delle Terme di Diocleziano ospitano, ancora per tutto il mese di febbraio, la grande mostra internazionale «Roads of Arabia», allestita a Roma dopo le precedenti tappe europee di Parigi e Berlino. Per la prima volta, centinaia di reperti di eccezionale qualità, provenienti dalle ricerche archeologiche condotte nel regno saudita negli ultimi tre decenni del secolo scorso da archeologi sauditi e stranieri – compresa l’importante attività di una missione archeologica italiana – offrono al pubblico europeo la possibilità di confrontarsi con millenni di vita e di storia della penisola arabica, a partire dai piú
antichi insediamenti neolitici per arrivare all’età imperiale e, attraverso la tarda antichità, al Medioevo islamico. Enigmatiche e affascinanti sculture di animali e raffigurazioni umane risalenti a piú di ottomila anni fa, oggetti d’uso comune, vasellame in metallo prezioso, vetri, gioielli e manufatti in oro scandiscono il racconto di uomini e merci che, in un incrocio di culture millenarie, hanno attraversato il Paese da nord a sud e da est a ovest per il trasporto di beni preziosi. Favorendo cosí il contatto tra genti e culture provenienti dalle regioni circostanti, come la Mesopotamia e l’Egitto, ma anche dalla lontana città di Roma…
In alto: l’allestimento di un corredo funerario in oro composto da maschera, collana con pendaglio, bracciali, elementi di rivestimento per bare (in foglia d’oro), guanto funerario, collana, da Thaj, Tell al-Zayer. I sec. d.C. Riad, Museo Nazionale. Nella pagina accanto: maschera funeraria in oro, da Thaj, Tell al-Zayer. I sec. d.C. Riad, Museo Nazionale. 94 a r c h e o
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SPECIALE • ARABIA
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ituato in posizione strategica tra l’Africa e l’Asia, il Regno dell’Arabia Saudita è di fatto un ponte che collega i due continenti con le loro antiche civiltà. La ricchezza del suo patrimonio culturale ha fatto sí che già nel 1383 AH/1963 il governo istituisse un dipartimento speciale all’interno del Ministero dell’istruzione. Nel 1392 AH/1972 venne creato il Consiglio supremo delle antichità che aveva il compito di determinare gli obiettivi del dipartimento e di sovraintendere ai lavori in corso. Le mansioni del Consiglio si sono ulteriormente ampliate all’inizio degli anni Settanta con la creazione di un centro per la registrazione di tutti i siti archeologici; nello stesso periodo venivano presi i primi provvedimenti per preservare i reperti e finanziare l’istituzione di nuovi musei. Nel 1396 AH/1976 venne avviato un progetto a lungo termine per la documentazione dei siti archeologici, che prevedeva anche la creazione di un museo nazionale a Riad. Un’altra tappa importante è stata la creazione di una rivista professionale di archeologia dal titolo «Atlal: the Journal of Saudi Arabian Archaeology» (pubblicata regolarmente dal 1397 AH/1977).
SCAVI E RESTAURI Negli ultimi quarantacinque anni piú di diecimila aree archeologiche sono state documentate in varie regioni e province del Regno. Esplorazioni e scavi sono stati effettuati nei celebri siti di Qaryat al-Faw e al-Rabadha. Queste iniziative hanno contribuito alla formazione dei giovani archeologi e hanno dato impulso alla ricerca scientifica e all’implementazione di progetti archeologici finanziati dal governo. Grazie all’istituzione del Dipartimento per le antichità e i musei, è stato avviato un programma di restauro di importanti edifici storici – tra cui quelli di Gedda e Ta’if, poi convertiti in spazi espositivi – e musei allestiti nei pressi dei siti archeologici. Vista la necessità di aggiornare le metodologie, nel 1424 AH/2003 il Dipartimento è stato incorporato nella Commissione per il Turismo e le Antichità 96 a r c h e o
A sinistra: statua stele in arenaria, dal villaggio di al-Kaafa vicino Ha’il. IV mill. a.C. Riad, Museo Nazionale. Nella pagina accanto: statue stele in arenaria con disegni a rilievo, da al-’Ula. IV mill. a.C. Riad, Museo Nazionale. In basso: statua stele in arenaria, dal villaggio di al-Kaafa vicino Ha’il. IV mill. a.C. Riad, Museo Nazionale.
dell’Arabia Saudita. È seguito l’avvio di un piano quinquennale, che comprendeva un programma strategico per il finanziamento e la valorizzazione dell’archeologia e della museologia nel Regno e lo sviluppo di metodologie in linea con le pratiche della ricerca scientifica applicata e certificata a livello globale. In questo modo è stata stabilita una linea guida che regola la realizzazione di importanti progetti in ambito storico e archeologico, l’esplorazione e la ricerca, nonché la documentazione del patrimonio urbano e degli edifici storici. Tra gli obiettivi che ci si era prefissi vi erano anche la creazione di nuovi musei e la conservazione e il restauro
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SPECIALE • ARABIA
del patrimonio culturale del Regno. Sono stati inoltre stabiliti i criteri per la creazione di archivi e per la documentazione e la gestione dei siti archeologici. In collaborazione con il Ministero degli affari municipali e rurali, la commissione ha avviato un programma per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio urbano e delle aree di rilevanza storico-architettonica. L’obiettivo è quello di introdurre meccanismi funzionali e criteri atti a monitorare lo 98 a r c h e o
Cartina della penisola arabica con l’indicazione delle direttrici commerciali e religiose che la interessarono nell’antichità.
stato di tali siti al fine di prevenirne la distruzione. La commissione è inoltre responsabile della definizione delle norme relative alla cura dei siti archeologici e degli edifici storici di proprietà privata.
PER LO SVILUPPO DEI SITI STORICI Nel medesimo contesto è stato elaborato un piano per lo sviluppo e l’espansione dei villaggi storici. Nella prima fase sono stati sele-
A destra: frammenti di sculture e strumenti in selce di epoca neolitica, tra cui, al centro, una raffigurazione in pietra di Saluki (levriero), cultura di Al-Magar, 8100 a.C. circa. Riad, Museo Nazionale. In basso: frammento di una scultura in pietra raffigurante un cavallo, cultura di Al-Magar. 8810 a.C. circa. Riad, Museo Nazionale.
Rotte dei pellegrinaggi alla Mecca
accertate ipotetiche
Vie dell’incenso (in epoca antica)
terrestri marittime
Rotte commerciali nell’età del Bronzo
terrestri marittime
città saudite piú attraenti per il turismo, preservando al tempo stesso la loro identità culturale e storica. Il restauro di monumenti di rilevanza architettonica nei porti di Yanbu’, Amlaj, al-Wajh e Dhaba sul Mar Rosso è uno dei progetti di spicco del Dipartimento per le antichità e i musei; lo scopo è quello di preservare i centri storici delle città lungo la costa settentrionale del Mar Rosso. Un altro piano è dedicato alla conservazione e all’espansione dei mercati locali per sostenere l’economia del Paese attraverso lo sviluppo di enti culturali e turistici, con la programmazione di eventi settimanali o stagionali orientati al commercio e alla promozione del turismo. Nel quadro della supervisione e del controllo del patrimonio urbano, la commissione, in collaborazione con il Ministero degli affari
zionati cinque villaggi e comuni che comprendono gli antichi insediamenti di al-Ghat e al-’Ula nella provincia di Medina, il comune di Jubbah a Ha’il, e i villaggi di Rijal alMa’a in ‘Asir e Dhi ‘Ain presso al-Baha, nella regione montuosa sud-occidentale della Tihama. Abbiamo inoltre avviato un piano per il miglioramento delle città e dei centri storici che contengono importanti esempi di architettura tradizionale o altri edifici di valore storico. L’obiettivo è quello di rendere le a r c h e o 99
SPECIALE • ARABIA Qui accanto: piccolo altare decorato a rilievo con l’immagine di un serpente. A sinistra: statua maschile in arenaria, da Tarut. Metà del III mill. a.C. circa. Riad, Museo Nazionale.
religiosi e l’Autorità per lo sviluppo di Riad, ha pubblicato un manuale per il restauro dei monumenti in mattoni di fango allo scopo di sostenere e fornire orientamenti a esperti e imprenditori responsabili del restauro e dell’uso di tali edifici. Negli ultimi anni oltre cinquanta siti del patrimonio architettonico, tra cui città grandi e famose, sono stati al centro di un programma di sviluppo turistico; ne seguiranno altri dieci, che diverranno accessibili nel prossimo futuro. Dei nove siti storici e archeologici selezionati dal governo per richiedere la loro inclusione nella lista del patrimonio dell’UNESCO, cinque sono già stati iscritti. Ciò impone il miglioramento delle strutture che consentono di 100 a r c h e o
accogliere turisti e visitatori offrendo loro le migliori condizioni possibili e garantendo al tempo stesso la conservazione e la protezione dei siti. Un altro progetto è dedicato al restauro del patrimonio architettonico risalente all’epoca del re ‘Abd al-’Aziz al Sa’ud, fondatore del Regno. Gli edifici costruiti durante la sua monarchia, oggi al centro di un notevole sviluppo urbano, sono stati restaurati con materiali locali dell’epoca. Essi rispecchiano l’unità della nazione sotto un regno ormai consolidato e offrono un buon esempio della natura e della qualità dell’architettura di quel tempo. Piú in generale l’obiettivo è il restauro di tutti gli edifici che testimoniano la storia della fondazione del moderno Stato saudita e la sua unificazione sotto ‘Abd al-’Aziz – il quale faceva costruire palazzi in quasi tutte le città che visitava. Il loro restauro non serve solo a ripercorre i vari passaggi della storia, ma mette in evidenza lo stile e le modalità di costruzione degli edifici, fornendo spazi adeguati per musei e centri culturali.
NUOVI MUSEI In ciascuna delle tredici regioni amministrative del Regno è prevista l’istituzione di nuovi musei che esporranno al pubblico il patrimonio culturale e soprattutto architettonico, con una particolare attenzione all’artigianato tradizionale. I musei esistenti saranno modernizzati per adeguarli ai piú recenti standard internazionali. L’attenzione è concentrata soprattutto sulle attività culturali, sui pro-
grammi didattici e sull’espansione del turismo. Inoltre, saranno istituiti musei pubblici incentrati su temi speciali, come i tesori della Sacra Moschea della Mecca. Anche i musei gestiti da collezionisti privati verranno aiutati a farsi conoscere da un pubblico piú ampio e a presentare le loro collezioni facendo uso dei media e delle tecnologie piú recenti. Un altro importante progetto è la digitalizzazione del patrimonio culturale ed etnografico del Regno. Una banca dati centrale conterrà informazioni su tutti i siti archeologici e sui manufatti e gli edifici storici piú importanti. Grazie al finanziamento e alla collaborazione della Saudi ARAMCO, la compagnia nazionale di idrocarburi, verrà approntata una banca dati centrale digitale dei beni architettonici, archeologici e storici che consoliderà le risorse archeologiche e bibliografiche. La banca dati centrale permetterà anche di incrementare la tutela del patrimonio archeologico nazionale e il rispetto delle normative nazionali e internazionali in ma(segue a p. 104)
In questa pagina: statuette di cammelli e dromedari in materiali diversi. In particolare, qui accanto, è una versione in argilla, da Qaryat al-Faw. III sec. a.CIII sec. d.C. Riad. Museo del Dipartimento di Archeologia, King Saud University. a r c h e o 101
SPECIALE • ARABIA
LA MISSIONE ITALIANA NEL REGNO DELL’ARABIA SAUDITA Le attività archeologiche italiane nel Regno dell’Arabia Saudita hanno avuto inizio nel 2008, quando Alessandro de Maigret (1943-2011), professore ordinario presso l’Università degli studi di Napoli «L’Orientale» (UNO) e dal 1980 al 2010 direttore della missione archeologica italiana nella Repubblica Araba dello Yemen, fu invitato dall’allora Commissione per il Turismo e le Antichità dell’Arabia Saudita a visitare il sito di Dumat al-Jandal, nella regione del Jawf. Scopo della missione doveva essere quello di indagare il nucleo storico dell’oasi che si credeva essere l’antica Adummatu, la capitale delle regine degli Arabi e dei re della confederazione di Qedar citati nelle fonti dei sovrani neo-assiri e che per due secoli, tra l’VIII e il VII a.C., si opposero all’imperialismo assiro in Arabia. La missione archeologica italiana, tra le primissime europee a operare nel Regno (dopo quella francese a Mada’in Salih e quella tedesca a Tayma), nacque quindi nel 2009, con il patrocinio del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente di Roma. Da allora, le attività della missione archeologica si sono moltiplicate, coinvolgendo piú ampi settori di ricerca scientifica e implementando la presenza italiana con la piú recente missione italiana di restauro, inaugurata nel 2013 grazie al patrocinio del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. A oggi, le attività di ricerca che coinvolgono esperti e studenti italiani, da un lato, e il personale della SCTH (la Commissione per il Turismo e le Antichità dell’Arabia Saudita) e delle università saudite, dall’altro, sono intese allo studio della regione nordarabica del Jawf, sia in ambito preistorico che storico. Le scoperte archeologiche che hanno confermato l’identificazione di Dumat al-Jandal quale l’antica capitale Adummatu sono infatti inquadrate, oggi, in un piú ampio progetto che ha messo in luce l’immenso patrimonio archeologico del Jawf relativo alle epoche preistoriche, dai primi ominidi all’epoca neolitica dell’Arabia verde e alle culture dell’Età del Bronzo. Le attività di ricerca sul campo sono state poi implementate da una serie di attività di formazione del personale saudita, grazie al crescente impulso che la Commissione per il Turismo e le Antichità dell’Arabia Saudita (SCTH) ha dato alla trasmissione di tecnologie, metodologie di ricerca e sistemi di gestione del patrimonio culturale, con la collaborazione tra esperti italiani e personale saudita del Museo Nazionale di Riad e l’autorità che gestisce il parco archeologico di
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ad-Diriyyah, la prima capitale degli al-Saud. Una prima eco dei rapporti interculturali tra Repubblica Italiana e Regno dell’Arabia Saudita si è avuta nel 2013, con la celebrazione degli 80 anni di relazioni diplomatiche tra i due Paesi e l’evento espositivo che ebbe luogo presso il Complesso Monumentale del Vittoriano, con una breve mostra che per la prima volta permise di ammirare alcuni tra
Uno dei giardini nell’oasi antica di Dûmat al-Jandal, nel Nord-Ovest dell’Arabia Saudita. In primo piano, la moschea di ‘Umar Ibn al-Khattâb (581circa-644).
i grandi tesori dell’Arabia antica. In quell’occasione, tra l’altro, si finalizzò un secondo accordo di concessione per ricerche archeologiche italiane a Dumat al-Jandal per gli anni 2013-2018, alla quale ne è seguito un terzo tutt’ora in corso. Piú recentemente, la SCTH ha avviato una serie di attività di ricerca volte a indagare le aree costiere del Regno, con particolare interesse verso
l’archeologia marittima e il recupero del suo patrimonio sommerso. In questo ambito, nel 2015 l’UNO è stata coinvolta nell’indagine archeologica di un relitto mercantile del XVIII secolo al largo delle coste saudite nel nord del Mar Rosso, presso Ummlujj, con un progetto codiretto da chi scrive e da Chiara Zazzaro, docente di archeologia marittima. Romolo Loreto
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teria di trattamento e salvaguardia delle antichità. Una questione importante agli occhi del Dipartimento per le antichità e i musei, oltre all’individuazione e alla conservazione del patrimonio culturale e naturale, è la lotta sistematica al furto d’arte. Il degrado degli edifici storici a causa delle condizioni climatiche e degli sviluppi socioeconomici richiede un’azione determinata; lo stesso vale per i monumenti e gli edifici di privati, ai quali verrà offerta la necessaria assistenza tecnica. Le autorità saudite hanno avviato una campagna per sensibilizzare l’opinione pubblica – di tutte le fasce d’età – sull’importanza del patrimonio culturale nazionale, dei musei e dei siti archeologici, fornendo informazioni sull’autenticità e sul valore storico delle tradizioni e dei costumi. Un obiettivo importante di questo programma è quello di coinvolgere il pubblico nella conservazione dei beni culturali e, cosí facendo, di accrescere la consapevolezza della popolazione riguardo al patrimonio culturale del Paese. Dal 1975 il dipartimento gestisce programmi di esplorazione archeologica e scientifica in tutta l’Arabia Saudita per accertare l’importanza dei siti archeologici e di registrarli come patrimonio culturale di valore. In tutti i siti
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conservati e restaurati sono stati condotti studi scientifici e indagini volte a scoprire manufatti di particolare importanza. Tutti i ritrovamenti vengono analizzati in modo approfondito con l’obiettivo di restaurarli per poi esporli in musei locali o nazionali.
COOPERAZIONE CULTURALE Nel frattempo sono stati avviati programmi di cooperazione con università, organizzazioni e istituti internazionali specializzati in archeologia al fine di sviluppare progetti di ricerca e mettere a frutto l’esperienza di altre istituzioni: attualmente l’Arabia Saudita collabora con Francia, Italia, Gran Bretagna, Germania, Stati Uniti, Australia, Giappone, Cina e molti altri Paesi. Il Dipartimento per le antichità e i musei ha all’attivo cinquantasette volumi pubblicati e altri in via di pubblicazione. A questo proposito è stato formulato un progetto di ampio respiro, volto a migliorare i metodi di comunicazione e i prodotti editoriali, tramite una nuova veste grafica per riviste e periodici, la creazione di siti web e la preparazione di guide e mappe dei siti archeologici. La mostra «Roads of Arabia» è frutto delle indagini e degli scavi intrapresi dalla Commissione per il Turismo e le Antichità dell’Arabia Saudita in tutto il Regno, che hanno coinvolto archeologi sauditi e missioni internazionali nella scoperta dell’antica civiltà e del patrimonio dell’Arabia Saudita. Le campagne archeologiche hanno portato alla luce la ricchezza di una cultura che risale a migliaia di anni prima dell’avvento dell’Islam e che ha esteso la sua influenza agli angoli piú remoti della terra, da est a ovest. Nel Paese vi sono ancora tesori nascosti, la cui scoperta aggiungerebbe nuove informazioni sull’antica cultura del Regno e sulla storia degli scambi reciproci con altre civiltà.
A sinistra: vasi in ceramica, alabastro e clorite e sigilli in clorite e steatite, da Tarut. III mill. a.C. Riad, National Museum. In basso: testa di statua in arenaria rossa, da al-’Ula. IV-III sec. a.C. Riad, Museo del Dipartimento di Archeologia, King Saud University. Nella pagina accanto: stele in arenaria con occhi e iscrizione aramaica, da Tayma. V-IV sec. a.C. Tayma, Museo di Tayma.
LE EPOCHE IN MOSTRA
L
e piú antiche tracce lasciate da insediamenti umani nella penisola arabica sono rappresentate da utensili in pietra risalenti a circa 1,3 milioni di anni fa. Gli archeologi definiscono questo periodo Paleolitico inferiore. I manufatti esposti sono stati riportati alla luce a Shuwayhitiyah e a Bir Hima, rispettivamente nel Nord e nel Sud-Ovest dell’Arabia. Circa 10 000 anni fa, agli inizi del Tardo Neolitico, l’Arabia era caratterizzata da un clima umido. La sua vegetazione rigogliosa, i laghi profondi, le paludi fertili e l’abbondanza di selvaggina attrassero qui non solo cacciatori e raccoglitori, ma anche pastori nomadi provenienti dalle regioni del Mediterraneo orientale. Dai ritrovamenti si desume che queste popolazioni lavorassero la pietra per ricavarne armi e strumenti di vario genere. Intorno al 5500 a.C., lungo le coste e intorno alle oasi della penisola arabica figurano stanziate diverse comunità. Praticavano l’agricoltura, l’allevamento, la caccia e la pesca. Un migliaio di anni dopo, quando il clima tornò a essere progressivamente piú secco, queste popolazioni ripresero a praticare uno stile di vita piú nomade. Utensili, tra cui anche punte di frecce e lame, sono stati rinvenuti in tutta la penisola arabica.
L’ISOLA DI TARUT, DILMUN E GERRHA L’isola di Tarut è una delle piú vaste oasi di palme da dattero dell’Arabia nord-orientale. La costruzione di una sopraelevata negli anni Sessanta del Novecento è stata all’origine di varie importanti scoperte archeologiche. Alcuni dei ritrovamenti piú antichi risalgono al 2000 a.C. e attestano l’esistenza di relazioni commerciali tra Tarut e la Mesopotamia. Altri manufatti provano legami tra l’isola e la Persia sud-orientale, terra di origine di una grande quantità di recipienti in clorite finemente lavorati. In questa epoca, Tarut rappresenta uno dei centri principali della civiltà Dilmun, un’antica cultura a r c h e o 105
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citata nei testi mesopotamici. Gli archeologi ritengono che, tra la fine del IV e l’inizio del III millennio a.C., la civiltà Dilmun r isiedesse sull’isola di Tarut e nelle aree circostanti della terraferma. Una vasta collina, sulla quale sorge ogg i una fortezza, è indizio forse dell’esistenza di un ampio porto legato alla fiorente attività marittima della civiltà Dilmun, la cui presenza è attestata oltre che a Tarut e lungo la costa, anche sull’isola di Bahrain. Nel IV secolo a.C., A l e s s a n d ro M a g n o conquistò la Mesopotamia, che r imase sotto l’influenza g reca fino all’arrivo dalla Persia dei Sasanidi, nel III secolo d.C. Poiché nel Nord-Est dell’Arabia non stati riportati alla luce insediamenti greci significativi, sembra che questa influenza fosse dovuta essen- Testa di una zialmente al commercio di oggetti: statua gioielli in oro, monete e sculture. monumentale
TAYMA, AL-‘ULA E QARYAT AL-FAW Tayma rappresenta uno dei principali siti archeologici della regione. I piú antichi insediamenti umani stabili in quest’area risalgono al V millennio a.C. La collocazione lungo la leggendaria Via dell’Incenso, che univa l’Arabia meridionale alla Siria e alla Mesopotamia a nord, e all’Egitto e al Mediterraneo a est, fu all’origine della sua rilevanza e della sua ricchezza. Tayma attirò l’attenzione dell’ultimo re babilonese, Nabonide (sul trono dal 556 al 539 a.C.), che si stabilí qui per 106 a r c h e o
della dinastia lihyanita, da Tayma. V-II sec. a.C. Tayma, Museo di Tayma.
dieci anni, ser vendosi dell’oasi come base per le sue incursioni nell’Arabia nord-occidentale. In quest’epoca si assiste a un rinnovamento del repertorio artistico e delle tecniche che vanno a fondersi con le tradizioni locali. Fino all’ar r ivo dell’Islam (VII secolo d.C.), Tayma continuò a svolgere un ruolo significativo nella regione. Al-‘Ula è la denominazione moder na dell’antica Dedan, importante stazione di sosta lungo la Via dell’Incenso nell’Arabia nordoccidentale. Nel VI secolo a.C., sotto la guida della tribú locale dei Lihyaniti, Dedan divenne un centro di una certa rilevanza. Grazie ai pedaggi, imposti in cambio di protezione e forniture a tutte le carovane dirette dall’Arabia meridionale verso il Mediterraneo e la Mesopotamia, la città si arricchí enormemente. La crescita economica e di prestigio favorí la nascita di una lingua scritta e creò i presupposti per lo sviluppo di una ricca produzione artistica, originale di Dedan. I Lihyaniti fecero edificare numerosi templi. che ornarono di monumentali statue. Erano soliti, inoltre, onorare i defunti scavando delle tombe nella parete rocciosa di al-Khurayba, uno dei piú antichi siti di Dedan. Qaryat al-Faw fu una delle città piú ricche tra quelle che sorgevano lungo le antiche vie carovaniere. Era situata ai margini del Quarto Vuoto (una delle aree desertiche sabbiose piú vaste del mondo, estesa per 650 000 kmq, n.d.r.), nel punto d’incontro di diverse
rotte commerciali che collegavano il sud con il Nord-Est dell’Arabia. Il suo mercato, i templi, il cimitero, dislocati tra rigogliosi boschetti di palme, valsero al sito l’appellativo di Dhat al-Jnan (città paradisiaca).
LA MECCA E IL PELLEGRINAGGIO La Mecca, cuore sacro dell’Islam, può contare su una fornitura costante di acqua che, scendendo dalle colline circostanti, alimenta la celebre fonte Zemzem proprio nei pressi della Kaaba (il piccolo edificio in muratura di forma cubica che si trova al centro del sacro recinto della Mecca e che conserva, incastrata in uno spigolo, la pietra
In alto: la sezione della mostra in cui sono esposte due sculture maschili in arenaria rossa, dall’area del tempio di al-’Ula. IV-III sec. a.C. A destra: stele lihyanite, da al-’Ula. V-II sec. a.c. Riad. Museo del Dipartimento di Archeologia, King Saud University. a r c h e o 107
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LE TERME DI DIOCLEZIANO: UN MONUMENTO ALLA CULTURA A fare da cornice alla mostra «Roads of Arabia» sono le Terme di Diocleziano, le piú estese del mondo antico, che costituiscono la sede storica del Museo Nazionale Romano. Nel 1889, i resti dell’impianto furono infatti trasformati in uno dei principali centri di cultura storica e artistica dell’Italia unita, voluto per accogliere ed esporre le opere di collezioni storiche passate allo Stato e le numerose antichità che emergevano dai lavori di adeguamento di Roma al suo nuovo ruolo di Capitale del Regno d’Italia. Le Terme di Diocleziano furono erette in soli otto anni, tra il 298 e il 306 d.C., nella zona tra i colli Viminale e Quirinale e si estendevano su una superficie di oltre 13 ettari. Erano delimitate da un ampio recinto e da una grande esedra con gradinate, corrispondente all’odierna piazza della Repubblica; ai lati dell’esedra si trovavano due biblioteche affiancate, ai margini del recinto, da due sale circolari: una trasformata nel 1598 nella chiesa di S. Bernardo, l’altra tuttora visibile all’inizio di via del Viminale. Gli ambienti principali – frigidarium, tepidarium e calidarium – erano posti in successione lungo un asse centrale ai lati del quale si articolavano simmetricamente tutte le altre aule: accanto al frigidarium erano poste due grandi palestre scoperte. Allineate con il calidarium erano due aule ottagone, una delle quali fu utilizzata dal 1928 agli anni Ottanta del secolo scorso come Planetario.
Ancora un particolare dell’allestimento, all’interno della splendida cornice delle Terme di Diocleziano. 108 a r c h e o
nera venerata nel rituale pellegridalla Mecca poteva durare mesi, a naggio islamico, n.d.r.). Grazie volte persino anni. Per sopperialla sua vicinanza alla Via re in parte alle spese, i pelledell’Incenso, la Mecca digrini portavano con sé beni La frequentazione venne uno snodo comtrasportabili come ceramimerciale importante nel che, vetro, oggetti in medella penisola V secolo d.C., quando tallo e stoffe da poter la tribú dei Qurayshiti, scambiare o vendere. arabica iniziò oltre attivamente impegnata un milione d’anni nel commercio caroLO STATO vaniero, si stabilí qui. Il SAUDITA fa e, da allora, profeta Maometto I poeti arabi furono nacque alla Mecca nel forse tra i primi a esploè stata segnata 571 d.C. Nel 622 d.C. rare il passato della prodall’avvento partí per Medina, nota pria terra. Nei loro versi anche come Yathrib, sispesso descrissero rovine e di importanti tuata a piú di 300 km dalmonumenti antichi. Anche la Mecca, per andare a previaggiatori e pellegrini, duculture e civiltà dicare la nuova religione. Il rante tutta l’età islamica, ci memorabile viaggio dalla Mechanno lasciato le loro osservaca a Medina (Egira) segna l’inizio zioni su siti importanti. La codel calendario islamico. struzione, agli inizi del NovecenAlla fine del VII secolo, la rapida to, della ferrovia dell’Hegiaz, che espansione dell’Islam oltre i confini trasportava i fedeli da Damasco alla dell’Arabia determinò l’esigenza di Mecca, rese la penisola arabica piú una complessa rete viaria in grado di accessibile ai viaggiatori europei. accogliere la folla di pellegrini in visita A partire dagli anni Sessanta, il Regno alla Mecca. Le strade su cui un tempo Saudita ha avviato un vasto programma avevano viaggiato le merci destinate a di esplorazione archeologica della Penisoterre lontane furono sostituite da nuovi la. Il progetto ha previsto anche uno studio itinerari diretti alla città santa. Lungo alcune dettagliato della via di pellegrinaggio Darb delle vie principali furono costruiti di con- In alto: collana in Zubaydah e campagne di scavo presso Qaryat seguenza nuove stazioni di sosta, pozzi e oro, con perle, al-Faw e al-Rabadha. Malgrado negli ultimi centri di rifornimento. decenni questi programmi siano stati signifiturchesi e rubini, Il difficoltoso viaggio di andata e ritorno da Thaj, Tell cativamente ampliati, lo studio archeologico della penisola arabica è ancora agli albori. al-Zayer. Molti degli oggetti esposti I sec. d.C. Riad, Museo Nazionale. in questa mostra sono stati riportati alla luce solo A sinistra: una nell’ultimo decennio, aldelle vetrine cuni addirittura soltanto della mostra con, pochi anni fa. al centro, una testa virile in bronzo, da Qaryat al-Faw. I sec. a.C.I sec. d.C. Riad. Museo del Dipartimento di Archeologia, King Saud University.
DOVE E QUANDO «Roads of Arabia. Treasures of Saudi Arabia» Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano fino al 1° marzo Orario ma-do, 9,00-19,30; lu chiuso Info tel. 06 39967700; https:// museonazionaleromano.beniculturali.it/; roadsofarabia.sa; #roadsofarabia a r c h e o 109
SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti
IL GUERRIERO CHE VISSE TRE VOLTE
PER QUASI UN SECOLO, SULLE SPOGLIE DI UN UOMO SEPOLTO NEL CASTELLO DI PRAGA SI È GIOCATA UNA PARTITA POLITICA, PRIM’ANCORA CHE ARCHEOLOGICA. MA SEMBRA FINALMENTE GIUNTA L’ORA DELLA VERITÀ
A
volte l’archeologia si tinge di giallo. E i gialli non sempre si risolvono subito, ma si trasformano in quelli che, grazie alle serie tv, abbiamo imparato a chiamare «cold cases», cioè misteri necessitano di molto tempo per
La sepoltura del guerriero di Praga, nell’allestimento all’interno del Museo del Castello di Praga. La tomba fu rinvenuta in un cortile del Castello stesso nel 1928.
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essere risolti. Una tipologia a cui possiamo senz’altro ascrivere la storia avvincente e rocambolesca scelta per questo mese, che a tratti sembra un’avventura di Indiana Jones: ne sono infatti protagonisti una tomba, alcuni oggetti antichi e
perfino i nazisti. Ma andiamo con ordine. Siamo nel 1928. A Praga, in Cecoslovacchia, gli scavi in un cortile del castello portano alla scoperta della tomba di un uomo. Lo scheletro – appartenente a un uomo di circa 40 anni – giace in una
camera funeraria in legno di quercia, insieme ad alcuni oggetti. Tra questi ci sono una grande spada, un’ascia, alcuni coltelli, un secchio, un rasoio e un acciarino.
LA PRIMA IPOTESI È una tipica sepoltura con armi e corredo, e gli oggetti sembrano indicare una datazione intorno al Mille. Una delle prime interpretazioni è che si tratti di un membro della famiglia reale ceca dei Premyslidi, che regnarono in Boemia e Moravia tra il IX e il XIV secolo. Ma nel 1939 la Germania nazista invade la Cecoslovacchia, e – tra le altre cose – inizia la sua campagna di revisione della storia: come avevano già fatto e poi faranno anche altrove gli archeologi tedeschi (e quelli locali, forzatamente) vanno alla ricerca di prove che dimostrino un passato germanico delle popolazioni di quella zona. E il morto del castello di Praga diventa un guerriero vichingo: i Vichinghi erano Germani, e cosí il cerchio si chiude. Terminata la guerra, la Cecoslovacchia entra nell’orbita sovietica, e il morto continua a non riposare in pace. Si torna a identificarlo come un membro della famiglia dei Premyslidi: e questa volta la proposta viene accolta piú che favorevolmente dal regime sovietico, che non può tollerare
tracce di cultura germanica in un regno slavo delle origini. Per quasi cento anni, insomma, l’uomo del castello di Praga è stato uno dei molti esempi di strumentalizzazione politica dell’archeologia. Prima autoctono (quindi slavo), poi vichingo e poi nuovamente autoctono, questo scheletro ha mutato identità in ben tre occasioni nel corso del tempo a seconda del contesto politico che di volta in volta lo circondava. Oggi, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli archeologi cechi stanno riconsiderando con la dovuta calma e attenzione tutta la scoperta: lo scheletro, i reperti, la topografia… Le analisi piú sostanziali, quelle che probabilmente metteranno la parola fine a ogni controversia (DNA, isotopi stabili e altro ancora) sono ancora in corso; ma già uno sguardo analitico e aggiornato sugli oggetti sembra indicare una nuova ipotesi per la datazione e l’interpretazione della tomba.
Dida digendis poreic tem iust et qui dus eicat pratia dita que omnis nem videlessent aut ut volorat emporit iostia quiasintiur alitatem denimol orepero enihici dellat eicatur? Modi beribus aperior possimos reiciUcil et autectempos sunt illitas
UN ESPONENTE DELL’ÉLITE BOEMA? Alcuni dei reperti sono stati effettivamente riconosciuti come tipici della cultura vichinga (la spada, l’acciarino e forse l’ascia); ma altri sembrano di matrice nettamente slava (uno dei coltelli e il secchio). L’interpretazione che ora In alto, a destra: veduta zenitale della sepoltura. A sinistra: rilievo della sepoltura con dettaglio dei diversi oggetti rinvenuti al suo interno. Le analisi piú recenti sembrano confermare la datazione al X sec. proposta per la tomba.
si sta facendo largo è che il defunto di Praga possa essere stato uno slavo, un membro dell’élite boema del X secolo, che per qualche motivo era in possesso di armi vichinghe. Forse si considerava egli stesso un Vichingo: una stirpe di grandi guerrieri, ai quali guardare con ammirazione e con cui era probabilmente entrato in contatto. Gli oggetti del corredo della tomba rifletterebbero quindi un problema di identità, piú che di etnicità. Il cold case di Praga non è ancora risolto del tutto, ma le nuove indagini ci suggeriscono una interpretazione piú complessa e affascinante di quelle elaborate nel passato; e sicuramente meno condizionata dal punto di vista ideologico.
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
IL SILENZIO È D’ORO IL DITO PORTATO ALLA BOCCA COME INVITO A TACERE È UN GESTO ANTICO. E, COME SUGGERISCE UN BELL’AUREO DI CLAUDIO, LA SUA ORIGINE POTREBBE ESSERE ATTRIBUITA A UNA DEA ANCORA POCO NOTA
I
n un congresso di scienze storiche tenutosi a Oslo nel 1928, lo storico e iconografo olandese Godefridus Johannes Hoogewerff (1884-1963) diede la definizione compiuta – e la differenziazione – dei termini «iconografia» e «iconologia» (tema scelto come filo conduttore di questa rubrica): «Tra l’iconologia ben concepita e l’iconografia ben esercitata intercorre il medesimo rapporto che tra la geologia e la geografia; la geografia (...) è fatta di osservazioni, si limita all’aspetto esteriore delle cose terrestri. La geologia studia la struttura, la formazione interna, l’origine, la coerenza dei diversi elementi e materiali da cui il nostro globo trae origine e struttura. (...) L’iconologia propone il problema dell’interpretazione. Interessandosi piú del contenuto che non della materia delle opere d’arte, si propone (...) di comprendere il senso simbolico, dogmatico o mistico, espresso (e forse anche nascosto) nelle forme figurative». L’iconografia descrive dunque l’immagine e la definisce, mentre l’iconologia cerca di interpretarla e comprenderla appieno inserendola nel contesto storico in cui è stata realizzata. Nell’arte antica romana e nel suo rapporto con i tipi monetali si riscontra un rimando continuo tra i modelli «alti» della produzione artistica – compresa la letteratura e l’architettura –, e le figurazioni dei
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come fossero un’eco, dalla scultura monumentale alla moneta. Tale rapporto si ripropone anche nelle immagini degli dèi. Le divinità, infatti, sono uno dei temi tipici della monetazione romana, insieme alle personificazioni; relativamente a quest’ultime, la loro individuazione, talvolta non immediatamente percepibile da noi moderni, è chiarita dagli attributi e dalle leggende.
IDENTIFICAZIONI SFUGGENTI
tondelli, che, va ricordato, sono sempre espressione del potere ufficiale. In queste pagine si è parlato piú volte di uno dei monumenti simbolo della Roma augustea, l’Ara Pacis con i suoi personaggi, e dei volti dei familiari di Augusto riprodotti sui denari imperiali: volti che ricorrono e che rimbalzano,
Vi sono casi, però, in cui l’identificazione, nonostante l’iscrizione, è ancora oggetto di dibattito tra gli studiosi e simili circostanze ci riportano a quanto esposto in apertura, ovvero l’importanza dell’analisi dell’immagine per esplicitare ciò che è stato rappresentato, inserendola nell’ambito cronologico, socio-politico e religioso in cui fu realizzata. Si prendano a esempio i bei denari e gli aurei di Claudio emessi nelle zecche di Roma e Lugdunum (Lione) negli anni 41-42 d.C., sui quali campeggia, al dritto, il profilo imperiale con la relativa titolatura, mentre al rovescio vi è una figura femminile su sella curule, riccamente vestita e ammantata, con i piedi su un elegante poggiapiedi. Essa ha la mano sinistra sul fianco con il gomito appoggiato forse su un cuscino, mentre la destra è alzata, con un
dito – che sembrerebbe l’indice – portato verso le labbra. La leggenda soprastante celebra la Constantia Augusti e quindi nei cataloghi è letta come la personificazione della Costanza; lo storico e numismatico inglese Michael Grant (1914-2004) ha però notato che in questo caso l’iscrizione potrebbe riferirsi all’imperatore piuttosto che alla figura femminile, dato che la costanza, insieme al valore militare e anche al saper tacere quando necessario, rientra fra le qualità di un buon principe. Il silenzio è infatti una virtú, quando non addirittura un obbligo: Orazio scrive che «anche il fido silenzio ha premio certo» (Carmina, III, 2, 25), alludendo all’obbligo di non svelare i sacri Misteri di Cerere.
E SE FOSSE ANGERONA? Questa prescrizione rituale riguarda in particolare il nome segreto di Roma, posto sotto la tutela di Angerona; Macrobio ricorda che la dea invita a tacere questo nome portando un dito davanti alla bocca («Digito ad os admoto silentium», Saturnalia, III, 9.4), segno peraltro già usato nell’Antico Testamento per indicare il silenzio: «Taci e mettiti il dito
Nella pagina accanto: aureo dell’imperatore Claudio. Zecca di Roma, 41-42 d.C. Al dritto, la testa di Claudio; al rovescio, figura femminile su seggio e poggiapiedi che appressa la mano alla bocca. A destra: disegno di AngeronaPoliminia, da Il Museo Capitolino e li monumenti antichi che sono nel Campidoglio, Roma, 1820. In basso: disegno di donna seduta, dalla Casa di Castore e Polluce a Pompei. 1839. Napoli, Real Museo Borbonico.
sulla bocca» («Tace et pone digitum super os», Giudici, 18. 19). A oggi non si conosce alcuna raffigurazione di Angerona, ma chi scrive ha suggerito, in maniera del tutto ipotetica, di vedere proprio questa dea o una sua sacerdotessa nella figura femminile ammantata e con un dito davanti alla bocca che compare su un pannello dell’Ara Pacis tra i familiari di Augusto. Nell’antiquaria ottocentesca ci sono due disegni con didascalia «Angerona»: si tratta di «Angerona ovvero Polimnia» riprodotta nel volume di Pietro Paolo Montagnani-Mirabili, Il Museo Capitolino e li monumenti antichi
che sono nel Campidoglio (tomo II, tav. CXXXVI, Roma 1820) e del disegno di una «donna seduta» con ricca veste che porta un dito avanti la bocca, ritrovata nella Casa di Castore e Polluce a Pompei (Bernardo Quaranta, in Antonio Niccolini, Real Museo Borbonico, vol. XII, Napoli 1839, tav. XIX, pp. 1-6.). Qui il dotto commentatore si interroga sul gesto della donna, proponendo per lei con somma incertezza il nome di Angerona, ed elenca poi con l’erudizione tipica dell’epoca le fonti letterarie relative a questo gesto, partendo dalla Bibbia e concludendo con l’Inferno (25, v. 45) di Dante Alighieri.
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Sergio Fontana
H. MEMORIE DI ERACLE Edipuglia, Bari, 335 pp. 16,00 euro ISBN 978-88-7228-887-0 www.edipuglia.it
Questo H. Memorie di Eracle è un libro divertente, originale, godibile: in una parola, riuscito. Che viene voglia di leggere tutto d’un fiato, grazie allo stile adottato da Sergio Fontana e al fascino sempreverde del protagonista. A conferma, semmai ve ne fosse ancora bisogno, di quanto la mitologia possa ancora attrarre e far sognare, lasciandosi coinvolgere dalle mirabolanti avventure dei suoi protagonisti. Non a caso, del resto, fin dalle prime pagine, il pensiero di chi scrive è andato all’indimenticato Storie della storia del mondo di Laura Orvieto – e auguro a Fontana che il suo H possa godere di una fortuna altrettanto duratura –, rispetto al
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quale, tuttavia, queste Memorie di Eracle offrono una trattazione assai piú corposa, corroborata dalle ampie note bibliografiche che corredano ciascun capitolo. Tanto felicemente l’autore si è cimentato nell’attualizzazione del lessico che mette in bocca all’eroe e agli altri personaggi, quanto rigorosamente ha infatti indicato le fonti delle quali si è servito, mettendo a confronto, ove necessario, le diverse versioni fornite dagli autori delle vicende che compongono la saga eraclea. Dal volume emerge il profilo a tutto tondo di un essere eccezionale, perché semidivino, ma al tempo stesso animato da pulsioni del tutto normali e «umane», la cui sottolineatura – penso, per esempio, alle strabilianti imprese sessuali di cui Eracle sarebbe stato capace con le cinquanta (o quarantanove?) figlie di Tespio – costituisce una delle chiavi del libro, anche per la sottile venatura ironica che connota il racconto delle gesta piú inverosimili agli occhi di noi comuni mortali. Questa sorta di autobiografia si apre con la venuta al mondo dell’eroe, ufficialmente figlio di Anfitrione e Alcmena, ma in realtà concepito da quest’ultima grazie
all’intervento di Zeus, la cui infatuazione per la donna sarà la causa prima delle disavventure che Eracle si troverà ad affrontare: secondo uno schema ricorrente nelle storie legate agli dèi dell’Olimpo, anche in questo caso la moglie del dio padre, Hera, non sarà capace di trattenere la propria gelosia nei confronti del consorte e si vendicherà sull’ennesimo frutto della sua incontinenza amorosa cercando dapprima di ucciderlo e poi condannandolo alle proverbiali fatiche. Sventato l’attacco dei serpenti inviati appunto dalla dea, Eracle cresce forte e vigoroso e quando è ancora un ragazzo viene inviato sui monti, dove diventa un eccellente mandriano. Giunto all’età adulta, dopo varie vicissitudini, si ritrova al servizio di Euristeo, re di Micene, scelto dagli dèi come veicolo attraverso il quale mettere alla prova le sue capacità. È l’inizio della saga piú nota, quella delle dieci fatiche, che salgono a dodici dopo che lo stesso Euristeo ritiene che Eracle abbia colto alcuni dei suoi primi successi contravvenendo alle regole pattuite. L’eroe, è il caso di dirlo, ha però spalle larghe e non si dà per vinto, superando una prova dopo l’altra. Sfilano cosí il leone di Nemea, l’idra di Lerna, i buoi di Gerione, la
cerva di Cerinea e tutto il ricco e variegato esercito di esseri fantastici con i quali il nostro deve misurarsi. Per ogni episodio, come detto, Fontana indica i riferimenti bibliografici, ma soprattutto, da archeologo, ambienta le vicende in contesti immaginati sulla scorta delle testimonianze a oggi note sulla Grecia antica e in particolare dell’età del Bronzo: ecco dunque citati vasi e utensili realmente prodotti in quelle epoche, ma ecco anche invenzioni davvero efficaci, come quella di attribuire una parlata simile al dialetto veneto ai cercatori di metalli che Eracle incontra durante l’inseguimento della cerva cerinite, basata sulla possibilità – suggerita dall’archeologia – che potesse appunto trattarsi di genti paleovenete. Nonostante i quarti di divinità, anche quella dell’eroe è però una parabola destinata a concludersi e cosí, negli ultimi capitoli, viene raccontata la sua fine, che non può comunque essere simile a quella di un uomo qualunque e si trasforma in una vera e propria apoteosi. E dopo aver letto che Hera decide a quel punto di accoglierlo e proteggerlo, si chiude il libro con la speranza che il suo autore replichi presto l’esperimento. Stefano Mammini