RAZZISMO NELL’ANTICHITÀ MAUSOLEO DI ELENA
MARMI DEL PARTENONE
È L’ORA DEL RITORNO
NANOTECNOLOGIE ROMANI IN AMERICA SPECIALE ULISSE
Mens. Anno XXXV n. 421 marzo 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
NAVIGAZIONE
I ROMANI ALLA SCOPERTA DELL’AMERICA SCIENZA
RESTAURARE CON LE NANOTECNOLOGIE
SPECIALE
ULISSE
L’INCHIESTA
GLI ANTICHI ERANO RAZZISTI?
STORIE DI UN EROE MULTIFORME
www.archeo.it
IN EDICOLA IL 10 MARZO 2020
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ARCHEO 421 MARZO
€ 5,90
EDITORIALE
QUEL SENSO DI SUPERIORITÀ Paura, odio, repulsione e disprezzo sono sentimenti che appartengono alla natura umana come quelli, dal tenore diametralmente opposto, del coraggio, dell’amore, dell’attrazione e della stima. E nel loro imperscrutabile alternarsi – potremmo sbrigativamente asserire – si dispiega gran parte della nostra esistenza. Sono sentimenti che presiedono anche a un’altra, eterna istanza dell’uomo, individuale e sociale: il suo bisogno di definire la propria e l’altrui identità. Una pretesa in nome della quale l’umanità moderna ha compiuto, come tutti sappiamo, passi falsi di indicibile gravità. Definiamo razzismo l’ostentazione della presunta superiorità di un gruppo di appartenenza nei confronti di un altro. Se non opportunamente tenuto a bada, quel convincimento sfocia in atti di discriminazione e oppressione sociale, fino ad arrivare, nei casi estremi, al genocidio. Ma quel sentimento è davvero «organico» a noi? E il suo periodico risorgere è dovuto al manifestarsi di un’irrefrenabile «natura» umana? La risposta, naturalmente, è «no!». Rimane il fatto che quella del razzismo – in tutte le sue forme, passate e moderne – rappresenta forse la piú potente ideologia mai inventata dall’umanità. Ma com’è potuto accadere, e quando? E quale può essere, a riguardo, l’insegnamento tramandatoci dagli antichi? Da sempre, la notazione delle caratteristiche fisiche – tra cui, soprattutto, il diverso colore della pelle – ha svolto un ruolo importante, anche nel mondo classico, greco e romano. Un mondo non certo esente da forme di xenofobia e discriminazione sociale, e, ancor piú, da «sensi di superiorità». Eppure, come leggiamo nell’articolo di apertura, firmato dallo storico Umberto Livadiotti, quel mondo il razzismo non lo conosceva. Le diversità fisiche – per esempio del colore della pelle – non avevano alcuna influenza sull’andamento della vita sociale. E anche nella lotta per la supremazia del proprio gruppo sul nemico, quelle differenze non erano rilevanti: quando i Romani conquistarono la Germania, non era il loro diverso aspetto fisico a confortarli nella consapevolezza di vincitori superiori, quanto la convinzione che gli abitanti transrenani fossero… gente stolta e incivile. Esistevano pregiudizi, quelli sí, ma di natura culturale (riferiti a bizzarre abitudini alimentari, religiose o linguistiche) e mai irreversibili: cosí, se Alessandro Magno sosteneva che i Barbari andavano trattati come bestie, alcuni di questi, un giorno, si sarebbero emancipati diventando Elleni. E se uno sprezzante Giovenale, da bianco, poteva arrogarsi il diritto di «deridere un negro» (perlopiú di modesto rango sociale), numerosi furono gli uomini dalla «pelle bruciata» che assursero ai massimi livelli della scala sociale… Andreas M. Steiner Particolare di un rilievo raffigurante un giovane scudiero etiope che cerca di placare un cavallo imbizzarrito, da dintorni di Colono. Prima metà del III sec. a.C. Atene, Museo Nazionale Archeologico.
SOMMARIO EDITORIALE
Quel senso di superiorità
3
di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
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SCAVI Torna alla luce, sotto la Curia, nel Foro Romano, un sarcofago (vuoto), forse dedicato al culto del primo re della città, Romolo 6 SCOPERTE Un intervento d’archeologia condotto a Biandrate, nel Novarese, restituisce un nutrito gruppo di statuette femminili d’epoca neolitica 10
Guidoriccio da Fogliano alla prova dell’archeologia
MUSEI 20
DA ATENE
L’Atene che non ti aspetti
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L’Augusta, l’esorcista, e il presbitero 50 di Rocco Bochicchio, Alessandro Mascherucci e Raffaella Giuliani
di Valentina Di Napoli
LA DEMOCRAZIA NEL CUORE È l’ora del ritorno
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di Louis Godart
50 RESTAURO
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Alleati invisibili
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di Silvia Camisasca
STORIA
Non solo bianchi
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di Umberto Livadiotti
ALL’OMBRA DEL VULCANO L’avvio dell’esplorazione della rete fognaria di Pompei svela un’autentica città sotto la città 18 A TUTTO CAMPO Il paesaggio dipinto da Simone Martini nell’affresco che ritrae
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58 In copertina pendente in bronzo in forma di testa di Etiope, dall’Egitto, forse dalla regione del Delta. Epoca tolemaica, 332-30 a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.
Presidente
Federico Curti Anno XXXVI, n. 421 - marzo 2020 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Comitato Scientifico Internazionale
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it
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Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it
Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Rocco Bochicchio è funzionario archeologo della Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma. Francesca Boldrighini è funzionario archeologo presso il Parco archeologico del Colosseo. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Silvia Camisasca è giornalista. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Valentina Di Napoli è archeologa. Roberto Farinelli è ricercatore e professore aggregato di archeologia cristiana e medievale all’Università di Siena. Maria Grazia Filetici è funzionario architetto presso il Parco archeologico del Colosseo. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Raffaella Giuliani è ispettore delle catacombe di Roma presso la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Louis Godart è stato professore di civiltà egee all’Università Federico II di Napoli. Francesco Leone è membro del Comitato Scientifico della mostra «Ulisse. L’arte e il mito». Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Umberto Livadiotti è cultore
ARCHEOTECNOLOGIA
La «prima» scoperta dell’America 70 di Flavio Russo
70 Rubriche
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SCAVARE IL MEDIOEVO
SPECIALE
di Andrea Augenti
testi di Antonio Paolucci e Fabrizio Paolucci
Quei vescovi impenitenti 108
Un eroe senza tempo 82
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
Pesare le parole
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di Francesca Ceci
LIBRI
della materia in storia romana presso «Sapienza» Università di Roma. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Fernando Mazzocca è membro del Comitato Scientifico della mostra «Ulisse. L’arte e il mito». Alessandro Mascherucci è funzionario architetto della Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma. Antonio Paolucci è presidente del Comitato Scientifico della mostra «Ulisse. L’arte e il mito». Fabrizio Paolucci è membro del Comitato Scientifico della mostra «Ulisse. L’arte e il mito». Sergio Ribichini è stato dirigente di ricerca del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito.
Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: p. 42; AKG Images: copertina (e p. 39) e pp. 42/43, 72/73, 76 (alto), 77, 105, 106/107, 110; Album/Prisma: pp. 3, 46 (basso), 71; Album/ Florilegius: p. 35; Dreamworks/Universal Pictures/Jaap Buitendijk: pp. 36/37; Album/Quintlox: pp. 38, 41 (basso); CM Dixon/Heritage-Images: p. 41 (alto); Album/The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 43 (alto); Album: p. 45 (alto); Cortesia Everett Collection: pp. 46 (centro), 47; Fine Art Images/Heritage-Images: p. 70 – Doc. red.: pp. 6 (basso, a sinistra), 12 (centro e basso), 13, 14 (basso), 14/15, 21 (centro), 40, 44, 45 (basso), 46 (alto), 93 – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: pp. 6 (destra), 7, 8, 16-17, 24 – Cortesia SABAP Biella, Novara, Verbano-Cusio-Ossola e Vercelli: pp. 10-11 – Cortesia Parco archeologico di Ercolano: pp. 12 (alto), 14 (alto), 15 (basso) – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 18-19 – Inklink Musei-Simone Boni: illustrazione scientifica a p. 20 – Pier Angelo Niosi: p. 21 (alto) – Cortesia Comando Carabinieri TPC: p. 22 – Cortesia Museo dell’Acropoli, Atene: Giorgos Vitsaropoulos: p. 30 (alto); Socratis Mavrommatis: pp. 30 (basso), 31 – Shutterstock: p. 34 – Su concessione della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra: Fabio Caricchia: pp. 50/51, 54-55, 56/57 – Su concessione del MiBACT/ Archivio Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma: Fabio Caricchia: pp. 52-53, 56 – Cortesia degli autori: pp. 58-69, 111 – Cortesia Flavio Russo: pp. 73, 7475, 76 (basso), 78-81 – Cortesia Studio Esseci, Padova: pp. 82, 84-92, 94 (destra), 96-97, 98-103 – Stefano Mammini: pp. 94 (sinistra, centro e basso), 95 – Royal Albert Memorial Museum & Art Gallery, Exeter: pp. 108-109 – Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano
n otiz iari o SCOPERTE Roma
IN NOME DI ROMOLO
S
ono passati 2772 anni (e tra poche settimane saranno 2773) da quando la città di Roma venne fondata, ma il nome dell’artefice di quel memorabile gesto è piú vivo che mai e, anzi, dimostra di possedere una capacità d’attrazione invidiabile. È infatti bastato evocare Romolo, perché l’annuncio dell’ultima scoperta compiuta nel Foro Romano facesse gremire la Curia come poche altre volte abbiamo visto. Ma andiamo con ordine. Nel quadro delle ricerche sistematiche che da tempo stanno interessando un settore cruciale del Foro Romano – ovvero l’area in cui sono compresi il Lapis Niger, il Comizio e i Rostra – gli archeologi hanno potuto estendere le proprie
6 archeo
In alto e nella pagina accanto, a destra: l’interno e l’esterno del vano riscoperto ai piedi della Curia, nel Foro Romano. Già individuata nel 1899 da Giacomo Boni (vedi foto alla pagina accanto, in basso, a sinistra), la struttura accoglie una cassa in tufo. Trattandosi di un cenotafio, cioè di una tomba vuota, è plausibile che sia un luogo voluto per onorare la memoria di un personaggio di grande rilievo nella storia di Roma, che potrebbe dunque essere Romolo, il suo fondatore. indagini alla zona immediatamente antistante la Curia stessa. Un ampliamento reso possibile dalla demolizione della scala che, negli anni Trenta del Novecento, era stata costruita per colmare il dislivello fra il piano di calpestio della piazza del Foro e l’ingresso dell’aula destinata alle assemblee del Senato.
La zona era stata esplorata già da Giacomo Boni, nel 1899, e poi da Alfonso Bartoli, prima che si mettesse mano alla realizzazione della scala, e grande è stata la sorpresa quando agli occhi dell’équipe guidata da Patrizia Fortini si è rivelato l’ingresso di un piccolo vano, situato proprio al di
sotto della facciata della Curia. Ancora una volta, infatti, si è avuto modo di constatare quanto meticolosi e sistematici fossero stati gli scavi condotti da Boni, che quel contesto aveva localizzato ed esplorato, dandone successivamente conto nella rivista Notizie degli Scavi di
archeo 7
n otiz iario
Due immagini elaborate digitalmente che permettono di apprezzare il rapporto spaziale fra il cenotafio (indicato dal colore arancione), la Curia e la zona circostante.
Antichità pubblicata nel 1900. Cosí aveva scritto l’achitetto e archeologo veneziano: «A m. 3,60 dal nucleo della gradinata, trovasi una cassa a vasca rettangolare in tufo, lunga m. 1,40, larga m. 0,70, alta m. 0,77, di fronte alla quale sorge un tronco di cilindro di tufo, del diametro di m. 0,75». E aggiungeva che «La cassa di tufo conteneva ciottoli, cocci di vasi grossolani, frammenti di vasellame campano, una certa quantità di valve di pectunculus
8 archeo
(conchiglie) e un pezzetto d’intonaco colorito di rosso». Nello stesso articolo, Boni indicava anche il posizionamento del contesto, pubblicando una lunga sezione che correla il ritrovamento con le strutture archeologiche pertinenti il complesso ipogeo, appena scavato, del Comitium-Niger Lapis. In ogni caso, l’archeologo non gli attribuí una particolare importanza tanto che se ne persero la memoria e l’esatta ubicazione. Fino a ieri.
Le nuove indagini si sono infatti dipanate quasi come si trattasse di una verifica, perché, l’uno dopo l’altro, sono tornati alla luce il piccolo ambiente, la cassa, e il cilindro di tufo. Quanto ai materiali, erano stati oggetto del riesame condotto alcuni anni fa da Paolo Carafa (docente di archeologia classica alla «Sapienza» Università di Roma), nell’ambito dei suoi studi sull’area del Comizio. Rispetto a quanto accadde nel 1899, il ritrovamento ha suscitato notevole interesse e si guarda alla ripresa delle indagini, già programmata per il prossimo aprile. La speranza, fondata, è quella di trovare una chiave di lettura convincente del contesto, soprattutto perché sono già state individuate zone non toccate dalle precedenti esplorazioni e che potrebbero fornire dati decisivi a riguardo. Nell’attesa, alcuni punti sono già fermi: il piccolo vano e il suo sarcofago dovevano costituire un luogo al quale era attribuito un notevole valore simbolico, in ragione della sua collocazione in una zona tanto significativa per i Romani e per la loro storia. In termini tecnici, la vasca era un cenotafio, vale a dire una tomba vuota – come se ne conoscono in molti altri siti greci e romani –, il cui legame con Romolo e con il suo culto è stato suggerito soprattutto dalla rilettura di alcune fonti. Spicca, in particolare, la notizia tramandata da Varrone, secondo il quale il primo re sarebbe stato seppellito dietro ai Rostra, dunque proprio là dove la vasca è stata trovata. Una coincidenza suggestiva, senza alcun dubbio, a condizione di considerare Romolo un personaggio realmente esistito… Stefano Mammini
n otiz iari o SCAVI Piemonte
QUELLE ANTICHISSIME MADRI SOTTO LA VILLA ROMANA
I
n occasione dei lavori per la realizzazione della linea ferroviaria Alta Velocità TorinoMilano, in località Brietta, nel comune di Biandrate (Novara), sono stati individuati i resti di un complesso rustico di età romana. L’area è nota per aver già restituito significative tracce di un insediamento – collocato 500 m circa a ovest rispetto al cantiere attuale – abitato in età imperiale, soprattutto tra I e II secolo d.C., con strutture murarie in ciottoli e laterizi che definiscono ambienti di una villa romana distribuiti intorno a una corte rustica di cui sono stati identificati anche un torcular (ambiente per la spremitura dell’uva) e la cucina. Nuove indagini archeologiche in estensione hanno consentito di riportare alla luce un’altra serie articolata di ambienti e strutture di età romana, che confermano la consolidata occupazione della pianura novarese, soprattutto legata allo sfruttamento agricolo. «Lo scarso livello di conservazione delle strutture – spiegano Francesca Garanzini e Lucia Mordeglia, funzionarie archeologhe responsabili del progetto –, spesso limitate ai soli corsi di fondazione in ciottoli di fiume legati da argilla, e l’assenza di piani d’uso, rendono al momento problematico definire puntualmente la destinazione funzionale dei singoli ambienti. Al momento, i dati sembrano indicare la fondazione del complesso rustico in età augustea, e una continuità di occupazione, con piú fasi edilizie intermedie,
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almeno fino al V secolo d.C. Questo dato è stato confermato da alcune datazioni archeometriche, che hanno consentito di datare l’uso di alcuni ambienti al IV secolo d.C. Un elemento di significativa novità − e decisamente inaspettato − è rappresentato dal rinvenimento di reperti di età neolitica, che In alto: l’esemplare meglio conservato di statuetta neolitica che ritrae una figura femminile seduta, dagli scavi in località Brietta (Biandrate, Novara). VI-V mill. a.C. A destra: ripresa zenitale dell’area indagata, con i resti di una villa rustica di epoca romana.
sembrano indicare la frequentazione, se non l’occupazione, di questo territorio già in epoca preistorica. Tra i reperti rinvenuti meritano una menzione quattro asce in pietra verde levigata, di ottima fattura, identificate in una zona marginale del cantiere, sulla quale sono in corso approfondimenti per chiarire la natura del contesto (cultuale o insediativa?). Ma il dato piú significativo è costituito dal rinvenimento di varie statuette plastiche antropomorfe: l’esemplare meglio conservato, pressoché integro, riproduce una figura femminile seduta, con dettagli del volto appena accennati, verosimilmente ammantata.
Gli altri frammenti permettono di riconoscere una decina di manufatti. In attesa dei necessari interventi di restauro, preliminari allo studio e dell’analisi del contesto, è tuttavia opportuno porre fin d’ora l’accento sull’importanza di questo ritrovamento sotto molteplici aspetti, sia per quanto riguarda
l’aspetto qualitativo, considerata la rarità di esemplari integri e la varietà tipologica attestata, che quantitativo, dal momento che in area settentrionale appare come il secondo contesto piú consistente dopo Ponte Ghiara (Parma); ulteriore dato di notevole rilevanza significativo è la localizzazione stessa del ritrovamento, che allo stato attuale degli studi sposta sensibilmente verso nord-ovest il limite delle attestazioni delle statuette antropomorfe neolitiche. Le origini e i modelli per questi manufatti vanno ricercati nei siti neolitici dell’area balcanica e greca: infatti, se varie statuette sono già note in contesti neolitici soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, ma, in generale, lungo tutta la costa adriatica, sino a oggi precedenti in tal senso si fermavano per il Nord della Penisola all’area parmense. In sintesi, la prima fase edilizia di età romana è rappresentata da un grande edificio di forma rettangolare, forse un granaio o deposito per derrate alimentari, fondato in età augustea e probabilmente demolito sino alle fondamenta entro il II secolo d.C. In seguito, sull’area è edificato un nuovo complesso rustico con destinazione sia residenziale, sia produttiva, rimasto in uso fino all’avanzato V secolo d.C. Non è ancora chiaro il rapporto di tale complesso con un edificio rinvenuto ad alcuni metri di distanza in direzione sud-est, le cui fondazioni, in ciottoli di piccole e piccolissime dimensioni accuratamente selezionati, non
Lucerna decorata a rilievo con una maschera teatrale. A sinistra: un’altra statuetta neolitica, frammentaria, ma riferibile a una figura femminile. VI-V mill. a.C. trovano al momento riscontri nella zona. Lo studio dei materiali, appena avviato, consentirà di definire meglio la cronologia del sito e, per quanto possibile, la natura delle attività che vi si svolgevano. Risulta significativa, in tutte le fasi di età romana, la presenza di pesi fittili da telaio del tipo “a ciambella”, ben attestati in numerosi contesti rurali del Piemonte settentrionale, che testimoniano l’importanza dell’attività della tessitura sia a livello famigliare sia per il commercio». Le indagini in località Brietta sono condotte sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Biella, Novara, Verbano-Cusio-Ossola e Vercelli. Giampiero Galasso
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n otiz iario
SCOPERTE Ercolano
NELLA MENTE DEL CUSTODE
P
otrebbe sembrare una scoria di lavorazione, perché si tratta, in effetti di materiale vetrificato, ma la sua origine nulla ha a che fare con il laboratorio di un antico vetraio: si tratta, infatti, del cervello di uno degli abitanti dell’antica Ercolano, ucciso dall’eruzione che nel 79 d.C. colpí con valanghe di cenere bollente Ercolano e Pompei, causando la morte istantanea delle loro popolazioni e seppellendo in poche ore l’intera area
A destra: i resti, vetrificati dall’eruzione, del cervello del custode del Collegio degli Augustali. Qui sotto: iscrizione che ricorda l’offerta di un banchetto ai decurioni e agli Augustali. vesuviana fino a 20 km di distanza dal vulcano. Lo straordinario rinvenimento è l’ultimo ed eccezionale esito delle indagini che un team di antropologi e ricercatori, guidato da Pier Paolo Petrone dell’Università Federico II di Napoli, conduce da anni sugli effetti delle eruzioni del Vesuvio sul territorio campano e le popolazioni che lo hanno abitato nel passato. Gli specialisti hanno reso noti i risultati degli esami effettuati sui resti di materiale cerebrale rinvenuti in una delle vittime dell’eruzione, il cui scheletro si trova ancora oggi in uno degli ambienti di servizio del Collegio degli Augustali. Negli anni Sessanta del Novecento, durante
In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto do dolorest lorest, ut exereca taspisci.
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A sinistra: uno degli ambienti del Collegio degli Augustali, un ordine di sacerdoti responsabili del culto in onore dell’imperatore. I suoi membri erano personalità di riguardo e avevano diritto a posti riservati nel teatro, nei giochi e nei sacrifici. Nella pagina accanto: L’eruzione del Monte Vesuvio dal Ponte della Maddalena, olio su tela di PierreJacques Volaire (1729-1799). Quella del 79 d.C., che distrusse le città di Pompei, Ercolano, Stabia e Oplontis, è l’eruzione piú famosa, ma nel tempo ne sono seguite molte altre.
I LUOGHI DELLE SCOPERTE
Piccolo atlante ercolanese
Collegio degli Augustali Edificio pubblico a tre navate sede degli Augustali, un’associazione religiosa deputata all’organizzazione del culto dell’imperatore. Al centro dell’edificio, in asse con l’ingresso, si trova la sala di culto, con pavimento in marmo e pareti decorate con affreschi raffiguranti, rispettivamente, Ercole che entra nell’Olimpo ed Ercole che salva Deianira, sua futura sposa, da Acheloo. In fondo, a destra del sacello, si trova la stanza del custode il cui scheletro carbonizzato fu rinvenuto disteso sul letto. Secondo altri studiosi, l’edificio potrebbe essere la curia, il senato di Herculaneum. Antica Spiaggia Negli anni Ottanta del secolo scorso l’area dell’antica spiaggia è stata scavata con il duplice obiettivo di affrontare i persistenti problemi della gestione delle acque e di definire l’assetto di questa vasta area suburbana. Gli scavi portarono inaspettatamente alla luce, all’interno degli antichi ricoveri per le imbarcazioni (i cosiddetti «fornici»), circa 300 scheletri umani, morti per shock termico mentre tentavano di fuggire. Lo studio antropologico su questo notevole campione di vittime ha fornito importanti informazioni sulla stato di salute e sugli stili di vita dei fuggiaschi; sappiamo, per esempio, che l’altezza media era di circa 1,60 m per gli uomini e 1,50 m per le donne e che, generalmente, erano sani anche se l’anemia era abbastanza comune e un’alta percentuale di scheletri mostra segni di un duro e stressante lavoro, con uno sviluppo eccessivo di alcuni muscoli, lesioni e condizioni come artrosi ed ernie. Tra le vittime anche lo scheletro di un soldato dotato di gladio e pugnale. Numerosi, infine, gli oggetti rinvenuti accanto alle vit-
time: gioielli preziosi, monete, amuleti e strumenti da lavoro, fra cui s’impone all’attenzione il set del chirurgo. Fogna sotto il Cardo V (Insula Orientalis II) Nella zona dell’Insula Orientalis II è stato individuato un complesso sistema fognario che corre lungo il lato orientale del V Cardo. Lo scavo della fogna, già parzialmente esplorata nel 1949 da Amedeo Maiuri, ha portato al rinvenimento di numerosi oggetti tra cui monete, vetri e reperti ceramici. Tra i risultati piú significativi dello scavo è però il recupero di ingenti quantitativi di materiale archeobotanico, zooarcheologico e di ittiofauna in eccezionale stato di conservazione, da cui si possono ricavare importanti informazioni sull’alimentazione degli antichi ercolanesi. Nei campioni raccolti nella fogna, prelevati anche da materiale fecale umano, sono state identificate piú di 200 diverse specie di flora e fauna, comprese 94 piante, 53 molluschi, vari piccoli mammiferi e rettili, 2 uccelli (gallina e oca), 73 pesci. I resti di ittiofauna comprendono lische di piú di 50 specie di pesce, quasi tutti sono ancora presenti nel Golfo di Napoli e nel Mar Tirreno. I resti archeobotanici sono in grande parte costituiti da noccioli di olive carbonizzati (94,3%), insieme con altri semi di frutta, semi di erbacce e gusci di frutta secca; identificati inoltre nove tipi di erbe utilizzate per insaporire i pasti, quali pepe nero, aneto, finocchio, coriandolo, sedano, menta, papavero e lino. Dall’analisi dei dati spicca la notevole varietà della dieta degli Ercolanesi che, in aggiunta ai cereali e ai legumi, hanno frequentemente consumato un certo numero di alimenti di base, come uva, olive, fichi, mele, semi di papavero, miglio, finocchio, uova, patelle, vongole e ricci di mare, a cui poi si aggiungono oltre 100 diversi tipi di frutta.
gli scavi condotti dall’allora soprintendente Amedeo Maiuri, nella cenere vulcanica furono rinvenuti un letto ligneo e i resti carbonizzati di un uomo, che gli archeologi ritengono fosse il custode del Collegio consacrato al culto di Augusto. Nell’ambito della decennale collaborazione scientifica con Francesco Sirano – direttore del Parco archeologico di Ercolano – le indagini condotte da Petrone hanno portato alla scoperta nel cranio della vittima di materiale vetroso, nel quale sono state identificate
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A destra, sulle due pagine: una veduta dell’antica Ercolano. A sinistra: i resti del giaciglio nel quale il custode del Collegio degli Augustali fu sorpreso dall’eruzione, morendo all’istante. In basso: scheletri di Ercolanesi che cercarono scampo all’eruzione ammassandosi sotto i fornici della terrazza di Marco Nonio Balbo. Nella pagina accanto, in basso: il condotto fognario che corre lungo il lato est del Cardo V.
diverse proteine e acidi grassi presenti nei tessuti cerebrali e nei capelli umani. L’ipotesi è che l’elevato calore sia stato letteralmente in grado di bruciare il grasso e i tessuti corporei della vittima, causando la vetrificazione
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del cervello. La conservazione di tessuto cerebrale è un evento estremamente raro in archeologia, ma è la prima volta in assoluto che vengono scoperti resti umani di cervello vetrificati per effetto del calore prodotto da un’eruzione.
«Sin dalle eccezionali scoperte avvenute all’inizio degli anni Ottanta del Novecento presso l’antica spiaggia – ha dichiarato nell’occasione Sirano – il campione antropologico offerto dal sito di Ercolano si è rivelato di estremo interesse. Gli studi di antropologia fisica sono ora supportati da analisi di laboratorio sempre piú sofisticate. Stiamo inoltre associando a esse innovative ricerche sul DNA degenerato che, come sembrano dimostrare lavori di prossima edizione da parte del dottor Petrone, ha ancora racchiuse in sé alcune parti della sequenza del codice in grado di chiarire origine e
grado di parentela delle vittime ritrovate nelle rimesse delle barche presso l’antica spiaggia. Questi straordinari dati possono peraltro confrontarsi con quelli derivanti dalle analisi sui materiali organici e sui coproliti rinvenuti nel corso degli scavi nelle fogne sotto il cardo V (scavi condotti in collaborazione con la Fondazione Packard) che hanno chiarito tanti aspetti del regime alimentare e contribuito ad arricchire il quadro delle piú frequenti patologie che affliggevano gli abitanti di Herculaneum. Se pensiamo a tutto quanto conosciamo attraverso la variegata documentazione scrittoria antica formata da
documenti pubblici e privati (epigrafi su marmo, tavolette cerate, papiri, graffiti), davvero si comprendono l’inestimabile valore e le potenzialità ancora inespresse da questo prezioso sito UNESCO che il Parco Archeologico conserva e valorizza in un’ottica di ricerca aperta e multidisciplinare». Lo studio sui resti del custode del Collegio degli Augustali ha coinvolto il direttore del Parco archeologico di Ercolano Francesco Sirano, insieme a Piero Pucci del CEINGE-Biotecnologie Avanzate e Massimo Niola dell’Università di Napoli Federico II, con ricercatori dell’Università di Cambridge. (red.)
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PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Alessandro D’Alessio
PARLARE DI STORIA E DI... STORIE LA CURIA IULIA NEL FORO ROMANO, STORICA SEDE DELL’ANTICO SENATO, HA RIAPERTO AL PUBBLICO CON UN NUOVO RUOLO: È INFATTI DIVENUTA SEDE DI CONFERENZE ED EVENTI, NONCHÉ SPAZIO PER UN CONFRONTO TRA L’ANTICO E IL MODERNO
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on i suoi 25 m di altezza, che immediatamente catturano lo sguardo dei visitatori, la Curia Iulia è l’edificio piú imponente conservato nel Foro Romano. In origine, il termine Curia (da «co-viria») indicava un’adunanza di uomini divisi per censo: secondo la tradizione, fu Romolo a suddividere la popolazione in 30 curie, 10 per ogni tribú, che si riunivano nei «comizi curiati». Solo in seguito la parola designò il luogo in cui si radunavano le assemblee, e poi il Senato stesso. Come sede principale (anche se non unica: sappiamo infatti che i senatori si riunivano anche in templi e altri luoghi consacrati) del Senato di Roma, la Curia è stata, da sempre, un luogo di dibattito: il ruolo del Senato era infatti proprio quello di emettere pareri sulle piú importanti problematiche politiche e sociali che investivano la città, l’Italia e poi l’impero, e benché in origine non avessero carattere vincolante, i senatus consulta erano considerati inderogabili, come vere e proprie leggi. Secondo la tradizione, la Curia piú antica venne costruita dal terzo re di Roma, Tullo Ostilio, ed era per questo detta Curia Hostilia. In questo edificio si svolsero alcuni
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episodi celebri: qui, nel 63 a.C., Cicerone smascherò Catilina e la sua congiura con la famosa orazione; qui, negli stessi giorni, Giulio Cesare lo difese, opponendosi alla sua condanna a morte; qui ancora Cicerone testimoniò contro il suo avversario politico Publio Clodio Pulcro, che nella Curia Hostilia fu trasportato dopo la sua uccisione nel 52 a.C. E proprio un incendio scoppiato durante il suo funerale distrusse per sempre l’edificio. In occasione dell’edificazione del Foro di Cesare, la Curia fu ricostruita di dimensioni
maggiori e spostata per essere in asse con la nuova piazza e a essa simbolicamente «subordinata»; inaugurata da Augusto nel 29 a.C. prese allora il nome di Curia Iulia.
MISURE CANONICHE Le dimensioni (18 x 27 m), nel rispetto del canone vitruviano, e la posizione dell’edificio non cambiarono quando la Curia fu ricostruita dopo un nuovo, rovinoso incendio che la danneggiò nel 283 d.C. È infatti la Curia dei tempi di Diocleziano che possiamo ancora oggi ammirare, varcando, non
L’INTERVENTO DI RESTAURO
Tutela, accessibilità ed eleganza
La Curia Iulia è in questi mesi oggetto di un importante intervento: sono in corso i lavori di restauro delle coperture e la realizzazione del nuovo sistema di gronde e discendenti indispensabili per evitare che l’acqua piovana continui a danneggiare le pareti del monumento. I lavori non fermano le attività culturali che sono in programma, con numerosissimi eventi e incontri aperti al pubblico, per i quali è stato pensato e creato il nuovo allestimento interno della sala, progettando una diversa illuminazione artistica a basso consumo, nel rispetto degli standard di sicurezza, e un nuovo sistema di amplificazione acustico, con il quale abbiamo efficacemente risolto i fastidiosi effetti prodotti dalla coda sonora. La sala è completamente accessibile e rientra nell’impegno che nell’area archeologica del Foro Romano si sta investendo nel superamento delle barriere architettoniche, con l’inserimento di piccole pedane che consentono di superare i gradini preesistenti. L’eccellenza del design italiano è presente con la scelta della sedia Frau, con il nuovo tavolo per i relatori appositamente disegnato per il Parco e con altri dettagli architettonici che hanno previlegiato da un lato la compatibilità dei materiali e dall’altro l’attenzione del progetto nel connubio tra antico e nuovo. Maria Grazia Filetici
senza emozione, il suo ingresso monumentale: all’età dioclezianea risalgono la pavimentazione in opus sectile (oggi in gran parte restaurata con l’uso di materiali originali) e la magnifica porta bronzea, trasportata in epoca rinascimentale nella basilica di S. Giovanni in Laterano, dove chiude il portale centrale. Si conservano anche le ampie gradinate su cui erano poste le sedute dei senatori. Sulla parete di fondo si trovava la tribuna degli oratori, con l’ara e la statua della Vittoria, trasportata a
Roma da Taranto e collocata nella Curia da Ottaviano a ricordo della battaglia di Azio.
UN APPELLO INASCOLTATO Nel tardo impero l’ara e la statua, considerate un simbolo pagano, furono oggetto di accese dispute: Costanzo II le rimosse nel 367 d.C., poi forse Giuliano l’Apostata le riportò in Curia, da cui furono di nuovo allontanate da Graziano, con il plauso di Ambrogio, vescovo di Milano. I senatori pagani, Nella pagina accanto: una veduta della Curia Iulia, il piú imponente edificio conservato nel Foro Romano. A sinistra: l’interno della Curia durante una conferenza.
rappresentati da Quinto Aurelio Simmaco, chiesero allora il ripristino dell’ara al giovane Valentiniano II: è giunto fino a noi il testo di Simmaco, un accorato e raffinato inno alla tolleranza e alla convivenza, che rimase però inascoltato. Con la fine dell’impero la Curia perse la sua funzione; ma, paradossalmente, proprio grazie a questa perdita di ruolo e alla sua trasformazione, nel 630 d.C., nella chiesa di S. Adriano, l’edificio si è conservato intatto nei secoli. Dopo quasi dieci anni di chiusura, il PArCo ha avviato il restauro della Curia, riaprendola al pubblico come sede di numerose iniziative, tra cui – ma non solo – convegni e conferenze. Ricordiamo «I giovedí del Parco», con due cicli di incontri: «Radici classiche. Alle origini del femminile», organizzato in collaborazione con la Società Italiana delle Storiche, ha riflettuto, in forma di dibattito, sulle donne del passato e sui ruoli a esse attribuiti; «Oltre il centro» ha invece dato voce ai Musei della periferia della città, spesso poco noti. In collaborazione con Electa sono stati poi organizzati, il sabato mattina, «Mythologica» ed «Ephimera», due cicli di conferenze sulla mitologia antica e sulla storia della moda. Vi è stato anche spazio per i «Martedí di Carthago», una serie di appuntamenti che, a margine della mostra «Carthago. Il mito immortale», hanno approfondito la realtà dell’antica Cartagine, ma anche le voci della Tunisia moderna. Per i prossimi mesi è infine in preparazione un ciclo di incontri a cura di Andrea Giardina, in cui esponenti del mondo della cultura rifletteranno sulla storia passata e sul senso dei valori democratici nella realtà di oggi, riportando cosí la Curia al suo ruolo piú vero e attuale, di luogo di confronto e di dibattito politico e sociale. Francesca Boldrighini
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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
POMPEI UNDERGROUND GRAZIE A UN’ÉQUIPE DI SPELEOLOGI, È STATA AVVIATA LA PRIMA ESPLORAZIONE SISTEMATICA DELLA RETE FOGNARIA REALIZZATA NELLE VISCERE DELLA CITTÀ VESUVIANA. UNA RETE CAPILLARE E ACCURATAMENTE TRACCIATA, DELLA QUALE SI STA STUDIANDO LA RI-FUNZIONALIZZAZIONE
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a Cloaca Maxima di Roma, risalente all’età arcaica, è il piú grande complesso fognario romano antico ancora in funzione. Anche Pompei, nelle dovute proporzioni, aveva un suo efficiente sistema di gestione delle acque, in ingresso e in uscita, che permise alla città di accogliere una popolazione numericamente consistente.
Per i Romani l’igiene urbana fu un elemento fondamentale per garantire una buona qualità della vita in un contesto vivace e dinamico come quello di Pompei. Lo dimostra la costruzione di un sistema fognario pensato con la prima e importante definizione dell’impianto urbano. Molte abitazioni erano dotate di pozzi, Sulle due pagine: immagini relative al progetto di esplorazione sistematica della rete fognaria dell’antica Pompei. L’indagine ha interessato la rete dei cunicoli e dei canali di drenaggio delle acque che attraversa l’area del Foro, fra Porta Marina e Villa Imperiale, e sono stati esplorati oltre 450 m di percorso ipogeo.
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cisterne e cunicoli per la gestione idrica privata, mentre le maggiori infrastrutture e costruzioni pubbliche erano provviste di apprestamenti sia di fornitura che di deflusso in appositi scarichi. Oggi Pompei svela il suo mondo sotterraneo, grazie a un progetto esplorativo e di ricerca che riguarda la rete dei cunicoli e dei canali di drenaggio delle acque che attraversa l’area del Foro, fra Porta Marina e Villa Imperiale, nonché le sue relazioni con i principali monumenti presenti in questo rilevante settore urbano.
Per questa particolare indagine è stata avviata una collaborazione fra Parco e speleologi abili in cavità artificiali di tipo archeologico; 457 m di percorso ipogeo sono stati indagati dall’Associazione Cocceius che sta continuando le sue ricognizioni nei cunicoli che si diramano dal Foro Civile. L’analisi di questo complesso sistema si è rivelata impegnativa, ma estremamente utile per conoscere una serie di testimonianze ancora poco note agli archeologi, a causa di diversi fattori che ne limitavano finora l’approfondimento. Alcuni elementi dell’antico sistema di smaltimento sono stati individuati occasionalmente durante indagini svolte per altri motivi, come la realizzazione di impianti elettrici o di servizi necessari alla fruizione del sito. Inoltre, la documentazione di scavo su queste cavità è stata spesso insufficiente per precisare la funzione e soprattutto il contesto generale in cui le testimonianze scoperte si inserivano. La recente analisi del sistema di drenaggio ha, pertanto, il doppio obiettivo di fornire da un lato informazioni sull’evoluzione dell’area fra il Foro e Porta Marina – nello specifico dal punto di vista infrastrutturale – e, dall’altro, di identificare le potenziali criticità del sistema e le modalità piú opportune
In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca.
per mantenere intatta la funzione di scarico dei condotti, nel rispetto del valore archeologico dell’opera.
LO SCARICO DELLE ACQUE PIOVANE Nella prima fase del progetto si è registrata la rete di cunicoli e canali che si dirama da una coppia di cisterne poste al di sotto del Foro, impianto che corre sotto via Marina e termina nei pressi della Villa Imperiale; questa trama sotterranea permetteva di scaricare l’acqua piovana in eccesso nel condotto di via Marina all’esterno della città, verso il mare. La seconda fase del progetto, mirata alla conservazione
e alla tutela, prevede la ri-funzionalizzazione dei canali e delle cisterne evidenziate nel corso dell’indagine. La conoscenza degli aspetti idraulici pompeiani, con riferimento ai cunicoli drenanti e alle opere di canalizzazione, aggiunti a quelli antropologici connessi alle tecniche di costruzione delle opere di captazione e all’uso delle risorse idriche, e quelli culturali in funzione invece della conservazione e della valorizzazione dei cunicoli, sono un ambito di studio sul quale il Parco sta lavorando per sviluppare nuove informazioni da integrare nei percorsi di visita alla città. Un dato significativo dell’indagine è costituito dalla datazione preliminare delle strutture che compongono l’esteso sistema gravitante attorno al Foro, caratterizzato da tre fasi principali di utilizzo: la prima fase di età ellenistica, fine III-II secolo a.C., la seconda di età tardo-repubblicana, I secolo a.C., e la terza corrispondente all’età augustea e imperiale, compresa fra la fine del I secolo a.C. e la distruzione della città. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; pagina Fb Pompeii-Parco Archeologico.
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A TUTTO CAMPO Roberto Farinelli
UN CASTELLO E IL SUO DOPPIO IL CONFRONTO INCROCIATO TRA UN CELEBRE AFFRESCO, IL PAESAGGIO ODIERNO E LE TRACCE ARCHEOLOGICAMENTE RILEVABILI SUL TERRENO DANNO CONCRETEZZA A UNA PAGINA DI STORIA IMPORTANTE: QUELLA DELL’ASSEDIO PORTATO A MONTEMASSI NEL 1328 DALLE TRUPPE SENESI
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ontemassi (Roccastrada, Grosseto) è un pittoresco borgo collinare in vista della costa maremmana, noto ai piú per il celebre affresco di Simone Martini, che lo raffigura nel corso dell’assedio portato nel 1328 da Guidoriccio da Fogliano, capitano dell’esercito di Siena. La somiglianza tra il dipinto e le vestigia della rocca
è sorprendente, tuttavia... Dal confronto tra il paesaggio odierno e il dipinto gotico nasce una domanda: se il castello sulla sinistra è stato raffigurato cosí fedelmente, che cosa rappresenta la seconda fortificazione da cui muove il cavaliere protagonista della scena? Piú di un manuale di storia dell’arte la identifica con il castello di Sassoforte,
ritenendo che il pagamento versato al maestro Simone «per la dipentura che fece di Montemassi e Sassoforte» riguardasse questo solo affresco attualmente visibile nel Palazzo Pubblico di Siena. Tuttavia, anche se «generazioni e generazioni di storici dell’arte si erano estasiati per la bellezza di Sassoforte» (per usare le parole dello storico dell’arte Max Seidel), A sinistra: disegno ricostruttivo del battifolle utilizzato da Siena nell’assedio di Montemassi. Nella pagina accanto, in alto: una veduta del castello di Montemassi. Nella pagina accanto, al centro: Guidoriccio da Fogliano, affresco di Simone Martini. 1328. Siena, Palazzo Pubblico.
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Circa 200 m a nord di Montemassi si erge un colle, un tempo chiamato «del Battifoglio», abbastanza elevato da mantenere il castello, per cosí dire «a tiro di catapulta». All’occhio dell’archeologo i muretti che delimitano su tre lati l’altura ricordano il basamento della fortezza assediante, mentre la voragine circolare percepibile dalle foto aeree al centro del recinto rimanda al pozzo, dove i non tutti gli studiosi vennero tratti in inganno. Già nel XVIII secolo, per esempio, l’erudito Giovanni Antonio Pecci aveva identificato la struttura in questione con il «battifoglie» o «bastia» citato nei documenti, vale a dire un fortilizio che secondo le cronache l’esercito di Siena avrebbe eretto in meno di quaranta giorni proprio per condurre l’assedio del 1328.
L’ARMA VINCENTE Grazie a questo battifolle, infatti, i Senesi poterono mantenere una guarnigione all’assedio di Montemassi anche quando il passaggio degli eserciti ghibellini di Toscana e dello stesso imperatore Ludovico il Bavaro avrebbero potuto rompere l’accerchiamento dei difensori di Montemassi. Simone raffigurò il battifolle come una struttura che utilizzava la pietra nel basamento bastionato, mentre il coronamento a sporgere delle torri e delle mura (in terra battuta?) era sorretto da mensole di legno e anche le merlature erano in legname fissato con vistose chiodature. Al suo interno si vede spuntare una gigantesca catapulta usata per il lancio di proiettili contro il castello assediato, pesanti pietroni cilindrici che oggi decorano i giardini delle abitazioni del borgo. Montemassi fu espugnato per fame e il comune di Siena scelse di insediarvi una guarnigione nel dongione, cioè nelle torri piú alte, quelle che in
Toscana, per influenza della lingua araba, erano chiamate «cassero». Sarebbe stato pericoloso, però, lasciare sguarnita la fortezza costruita per l’assedio, che perciò venne abbattuta a opera delle stesse maestranze che l’avevano edificata pochi mesi prima.
L’OCCHIO DELL’ARCHEOLOGO Tuttavia, ormai, questa fortificazione era divenuta il simbolo del successo di Siena contro l’Imperatore, e il comune incaricò Simone Martini di raffigurarlo fedelmente assieme al castello espugnato, nel celebre affresco del Palazzo Pubblico, in modo che fossero ben riconoscibili entrambi. La rappresentazione nell’affresco del battifolle abbattuto in quegli anni conferma l’attribuzione a Simone Martini, a piú riprese messa in discussione in sedi divulgative, sebbene saldamente accertata in sede accademica. Ma che cosa rimane oggi della fortezza del Guidoriccio?
carpentieri senesi infissero un fascio di tronchi d’albero tanto robusto e flessibile da scagliare i proiettili in pietra sui difensori di Montemassi. Qui si riconosce anche uno dei punti di vista adottati dall’autore dell’affresco per disegnare la rocca di Montemassi, in una combinazione di prospettive molteplici degna di un dipinto cubista. Gli scavi condotti nel castello a partire dagli ultimi anni del Novecento da Riccardo Francovich e Giovanna Bianchi (Università di Siena), sono la base del progetto di recupero che il Comune di Roccastrada ha affidato a Riccardo Butini (Università di Firenze). Con l’allestimento di un Centro di Documentazione nella torre di Montemassi, verranno messi a disposizione dei visitatori i risultati delle indagini archeologiche, che illustrano la formazione del paesaggio maremmano, protagonista suggestivo e silenzioso del Guidoriccio. (roberto.farinelli@unisi.it)
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n otiz iario
RECUPERI Lazio
LA FINE (FELICE) DI UN ESILIO FORZATO
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i sono voluti quasi trent’anni, ma ancora una volta la pazienza, la tenacia e l’abilità investigativa del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale hanno avuto la meglio: la testa in marmo dell’imperatore Marco Aurelio che faceva bella mostra di sé sull’arco di trionfo annesso al Palazzo Rospigliosi di Zagarolo (Roma) è stata recuperata. Il ritratto era stato trafugato nel marzo del 1992, da ignoti che avevano approfittato di un’impalcatura montata per consentire il restauro della facciata del palazzo nobiliare, oggi sede del Museo del Giocattolo. L’edificio, già di proprietà delle famiglie Colonna, Ludovisi e Rospigliosi, è attualmente proprietà del Comune di Zagarolo. Ospitò, fra gli altri, Caravaggio e il poeta Vittorio Alfieri ed era stato impreziosito, nel Cinquecento, con marmi romani ed elementi
In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto do dolorest lorest, ut exereca taspisci.
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A destra: Zagarolo (Roma). L’arco di trionfo annesso al Palazzo Rospigliosi in una foto che mostra la nicchia (evidenziata dal riquadro di colore rosso) dalla quale fu asportato il ritratto dell’imperatore Marco Aurelio. In basso: la testa di Marco Aurelio nei laboratori dell’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro, ai quali il prezioso reperto è stato affidato all’indomani del recupero da parte del Comando Carabinieri TPC. architettonici provenienti dal teatro di Marcello e dalla vicina Gabii. Dopo il furto, l’opera venne ceduta a un ricettatore romano che l’aveva trasportata oltralpe e affidata a una sua persona di fiducia, ignara della provenienza illecita del bene. Una volta individuata a Campione d’Italia, la testa è stata sottoposta a sequestro e rimpatriata. La scultura è stata ora affidata ai laboratori dell’Istituto Centrale per il Restauro, il cui intervento verrà
condotto sotto la direzione della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma. Terminata l’operazione, Marco Aurelio potrà tornare al suo posto, di concerto con il Comune di Zagarolo e la direzione del Museo del Giocattolo. (red.)
n otiz iario
INCONTRI Siena
MOSTRE Roma
DOVE VA L’ARCHEOLOGIA ITALIANA?
QUANDO RAFFAELLO INCONTRÒ NERONE
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pring Archaeology è un convegno promosso da studenti e laureati in archeologia dell’Università degli Studi di Siena, desiderosi di creare un’occasione di confronto tra i giovani professionisti e ricercatori che si affacciano nel mondo dell’archeologia. Realizzato con il contributo dell’Università degli Studi di Siena, l’evento propone tre giorni dedicati alla presentazione di lavori di ricerca condotti in tutte le regioni italiane e si conclude con una tavola rotonda dedicata all’Archeologia in Italia: stato dell’arte e prospettive di sviluppo. La tavola rotonda, moderata da Enrico Zanini (Università di Siena), potrà contare sulla presenza di Alessandro Garrisi, Presidente dell’Associazione Nazionale Archeologi (ANA) e di Angela Abbadessa, Presidente della Confederazione Italiana Archeologi (CIA), ai quali si affiancheranno Giuliano Volpe (Università di Bari) e Paolo Liverani (Università di Firenze), insieme a Giovanna Bianchi, Franco Cambi, Lucia Sarti e Marco Valenti, docenti nell’Ateneo senese. Vi aspettiamo perciò numerosi il 20, 21 e 22 marzo 2020 presso le strutture del Santa Chiara Lab nel centro storico di Siena, per fare insieme il punto sul futuro della nostra disciplina! L’intero evento sarà trasmesso in diretta da Let’s Dig Again, web radio archeologica. Info: springarchaeology@ gmail.com
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i annuncia come uno degli eventi dell’anno la mostra «Raffaello e la Domus Aurea. L’invenzione delle grottesche», progetto espositivo imperniato su un ricco insieme di apparati interattivi e multimediali allestito all’interno della residenza neroniana e che costituisce una sorta di omaggio archeologico all’Urbinate, nel cinquecentenario della morte. Intorno alla metà del secondo decennio del Cinquecento, Raffaello fu infatti il primo artista rinascimentale a comprendere a fondo la logica dei sistemi decorativi del complesso voluto da Nerone. La mostra, della quale daremo prossimamente piú ampio conto, narra la storia della riscoperta della pittura antica nelle «grotte» della
In alto: rendering di una delle installazioni progettate per la mostra. In basso: Georges Chedanne, Il Laocoonte nella Domus Aurea. Rouen, Musée des Beaux-Arts.
Domus Aurea. Una storia che inizia intorno al 1480, quando alcuni pittori, tra cui Pintoricchio, Filippino Lippi e Signorelli, si calano nelle cavità del Colle Oppio – dette appunto «grotte» – per ammirare, a lume di torce, le decorazioni pittoriche, e da allora chiamate «grottesche», di antichi ambienti romani. Stavano scoprendo, senza ancora saperlo, le rovine dell’immenso palazzo di Nerone. La mostra si svilupperà nella Sala Ottagona e nei cinque ambienti limitrofi, oltre alle Stanze di Achille a Sciro e di Ettore e Andromaca ancora preziosamente affrescate, dove si possono ammirare tracce delle cosiddette «grottesche». (red.)
DOVE E QUANDO «Raffaello e la Domus Aurea. L’invenzione delle grottesche» Roma, Domus Aurea fino al 10 gennaio 2021 (dal 24 marzo) Orario tutti i giorni, 9,15-20,15 Info tel. 06 39967700; www.coopculture.it; raffaellodomusaurea.it
presenta
LE GRANDI
MONARCHIE Alla conquista dell’Europa
Il nuovo Dossier di «Medioevo» narra le vicende dei grandi regni dell’Europa medievale: Spagna, Francia, Germania e Inghilterra. L’autore, Tommaso Indelli, ricapitola dunque i fatti salienti che hanno segnato la storia delle quattro nazioni e traccia i profili dei loro protagonisti principali. Si ha cosí l’occasione di seguire, per esempio, il cammino compiuto dalla Spagna per affrancarsi dalla dominazione araba (la Reconquista) e favorire l’affermazione delle casate che la ressero a lungo e con successo, grazie a sovrani come Alfonso X il Saggio o come i re che promossero le grandi esplorazioni alla scoperta di nuove terre. La Francia, dal canto suo, fu senza dubbio una delle culle dell’Europa, quale ancora oggi la conosciamo, per impulso innanzitutto di Carlo Magno; ma anche in seguito, al trono transalpino ascesero figure di rilievo assoluto e, spesso, destinate a giocare ruoli decisivi nei rapporti – non sempre facili – fra il potere temporale e il potere religioso. Per dare quindi un’idea del peso esercitato dalla Germania, basterà ricordare che in quelle terre salirono al potere dinastie del calibro degli Ottoni e degli Svevi, i cui esponenti – si pensi, fra i tanti, a Federico II, lo stupor mundi – hanno plasmato la cultura medievale, ben oltre i confini della nazione tedesca. L’Inghilterra, infine, è senza dubbio la piú «regale» del quartetto, visto che tuttora è una monarchia anche dal punto di vista costituzionale: una corona i cui primi titolari furono uomini (e donne) del Medioevo e che è stata senza dubbio una fra le piú contese della storia, alimentando spesso cruente guerre intestine.
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ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
VAGABONDO IMMORTALE I Musei San Domenico, a Forlí, ospitano la mostra «Ulisse. L’arte e il mito», che racconta le vicende dell’eroe omerico attraverso tutte le forme d’arte che si sono a lui ispirate, in primis la ceramica e poi la scultura, la pittura e la grafica, dall’antichità fino ai nostri giorni (vedi lo Speciale alle pp. 82-107). Qui 1 2 presentiamo alcuni francobolli che riproducono molte delle avventure del re di Itaca, cosí come sono state raffigurate attraverso i singoli oggetti. La testimonianza artistica piú antica, utilizzata per il bozzetto di un francobollo, riguarda l’accecamento di Polifemo ripreso dalla mirabile illustrazione di uno sconosciuto artista sull’anfora di Eleusi del 675-650 a.C. (1; questo francobollo, e gli altri che seguono salvo due, fanno parte di una lunga serie della Grecia del 1983 dedicata all’Iliade e all’Odissea). Ma l’intera storia delle vicende di Ulisse non può non iniziare dal cavallo di Troia, frutto dell’inganno ideato dall’uomo dal «multiforme ingegno», Ulisse appunto. Anche esso è riprodotto in 3 un francobollo (2), che mostra un particolare del vaso di Mykonos risalente al 640 a.C. È curioso, in questa sede, paragonarlo al cavallo di legno che domina l’ingresso del sito di Troia come attrazione turistica (3). La narrazione dei viaggi di Ulisse da lui stesso raccontati nei quattro libri centrali del poema, dal IX al XII, inizia dopo la distruzione di Troia, passando dalla terra dei Ciconi e 4 5 da quella dei Lotofagi, vicende che non hanno molto ispirato gli artisti di tutti i tempi. Poi si arriva alla già citata avventura di Polifemo, arricchita da un altro francobollo (4) che riprende la famosa fuga dalla grotta del ciclope grazie all’espediente di Ulisse di uscire aggrappati al ventre dei suoi montoni, come rappresentato su un cratere attico del 510 a.C. Altri episodi che hanno stimolato la fantasia degli artisti come gli incontri con la 6 7 maga Circe e con le Sirene; per quest’ultimo, il francobollo greco (5) raffigura il disegno di un’anfora attica del 480/470 a.C. Anche l’incontro con la principessa Nausicaa, figlia del re Alcinoo, è ben documentato con un altro francobollo (6) che riprende il disegno di un’altra anfora, risalente al 440 a.C. e trovata a Vulci. 9 Giunto finalmente a Itaca, Ulisse può compiere la sua vendetta nei confronti dei Proci; la ben nota scena del momento in cui tende l’arco per la prova stabilita da Penelope è tratta da un vaso 8 del V secolo a.C. che ha ispirato il bozzetto del francobollo greco (7). Naturalmente si chiude con la figura di IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT Penelope e per lei si fa ricorso a un’arte piú (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ultemoderna della ceramica attica: il quadro di riori chiarimenti o informazioni, si può scrivere Francesco Primaticcio (8) è del 1563 ed è stato alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi: 10 d’ispirazione al bozzettista del francobollo francese del 1966 (9) in ricordo di Gabriel Fauré, Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, che nel 1913 compose l’opera Pénélope. Ancor Via Tavanti, 8 C.P. 17037 50134 Firenze Grottarossa piú moderna è la Penelope plasmata dallo info@cift.it, 00189 Roma. scultore greco Leonidas Drossis nel 1873 e oppure lcalenda@yahoo.it; www.cift.it ripresa da un francobollo del 1967 (10).
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A C I TE NT RA R A L’A A ITTU M P O R LA DI
LA NUOVA LA NOTIZIA MONOGRAFIA DEL MESE DI ARCHEO
introduzione alla
pittura Romana di Giulia Salvo
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Particolare dell’affresco della cosiddetta «sala del giardino», dalla Villa di Livia a Prima Porta. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. Si riconoscono alberi da frutta e uccelli di varie specie.
l grande naturalista latino Plinio il Vecchio scrive nella Storia Naturale, l’opera che lo ha reso immortale, «ma in verità non c’è gloria se non per gli artisti che dipinsero quadri». Parole che, senza possibilità di equivoco, provano l’importanza della pittura su tavola nel mondo antico e di come in essa si dovesse addirittura riconoscere la grande arte. Prende le mosse da questa affermazione il viaggio che Giulia Salvo, autrice della nuova Monografia di «Archeo», ci fa compiere attraverso una delle espressioni piú vivaci e significative della cultura di Roma. Di quell’arte si conserva un patrimonio considerevole, in larga parte composto dai magnifici affreschi di Pompei ed Ercolano, che, a oggi, sono la testimonianza piú nota della pittura romana. Composizioni che vedevano la luce grazie all’attività di un «esercito» di decoratori e artigiani e che raccontano storie di dèi e di eroi, amori leggendari, ma propongono anche paesaggi esotici, vivaci ritratti e giardini lussureggianti. Dipinti suggestivi, nei quali si mescolavano gli echi della tradizione mitologica, mode, nonché, spesso, il desiderio di autocelebrazione dei committenti.
GLI ARGOMENTI • INTRODUZIONE • L’arte di un impero • L’AFFRESCO • Creatori di bellezza • GLI ANTECEDENTI • La lezione greca • I SISTEMI DECORATIVI • Questioni di stile • I SOGGETTI • Il mondo in una stanza
IN EDICOLA a r c h e o 29
CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli
L’ATENE CHE NON TI ASPETTI IL MUSEO DELL’ACROPOLI ARRICCHISCE LA SUA OFFERTA. SVELANDO UN SETTORE DEL QUARTIERE RESIDENZALE E PRODUTTIVO SCOPERTO DURANTE LA COSTRUZIONE DELL’AVVENIRISTICA STRUTTURA FIRMATA DA BERNARD TSCHUMI
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n occasione del suo decimo compleanno, il Museo dell’Acropoli ha fatto un regalo davvero speciale a chi voglia visitarlo. Dopo una lunga attesa, resasi necessaria per delicati lavori di restauro, è finalmente visibile un reperto... di notevoli dimensioni e non certo comune: si tratta, infatti, di un intero quartiere dell’antica Atene, che torna a vivere nel sottosuolo del museo, inglobato nell’architettura di questo spazio espositivo cosí discusso fin dalla sua costruzione. Peraltro, a essere oggi visibile è solo una porzione delle antichità scavate nel «terreno Makrygianni» (con tale nome è noto il terreno su cui è stato costruito il Museo dell’Acropoli): parte dei resti è stata ricoperta;
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un’altra parte è stata rimossa al momento della costruzione della vicina fermata della metropolitana e dei livelli sotterranei del museo; mentre un altro settore si può In alto: veduta d’insieme dell’area scavata sotto il Museo dell’Acropoli. A destra: particolare dei resti della sala con triconco e dell’ambiente a pianta circolare-torre.
vedere, lo ricordiamo, attraverso il pavimento in vetro del pianterreno dell’edificio realizzato su progetto di Bernard Tschumi. Scopriamo cosí che il Museo
dell’Acropoli sorge su un’area in cui le prime tracce di attività risalgono alla seconda metà del IV millennio a.C.; qui, fino al IX secolo a.C., convivono abitazioni, botteghe di artigiani e necropoli. Dalla metà dell’VIII secolo l’area acquisisce la sua fisionomia definitiva, quella di zona residenziale, sebbene non sia ancora densamente abitata; fino alla prima epoca classica resta anzi ai margini della città, all’esterno della cinta muraria.
IL QUARTIERE CAMBIA PELLE Un mutamento notevole si osserva alla fine del V secolo a.C., quando la zona entra a far parte dell’area intra muros dell’Atene classica. Entro gli inizi del I secolo a.C. si sviluppa una fitta rete stradale e nel quartiere si moltiplicano le botteghe artigianali e le abitazioni con piccoli cortili interni. Nell’86 a.C. l’area viene distrutta dalle truppe del generale romano Silla e temporaneamente abbandonata; poco dopo, piccole unità artigianali vanno a installarsi sulle rovine del quartiere. A partire dalla metà del II secolo d.C. tutta la zona vive una nuova fioritura. Le abitazioni sono piú ampie e molte di esse sono dotate di corti porticate, vani con affreschi policromi, talvolta perfino pavimenti a mosaico e, in alcuni casi, terme private. Questa fase viene bruscamente interrotta, nel 267 d.C., dal passaggio della stirpe germanica degli Eruli, che portano la rovina in tutta la città. Una nuova riorganizzazione si registra tra la fine del IV e gli inizi del V secolo d.C. Tutte le abitazioni sono dotate di corti porticate, ma le dimensioni e le caratteristiche variano notevolmente: accanto ad abitazioni di dimensioni modeste, probabilmente da connettersi a una classe media, sorgono residenze ben piú vaste, ville urbane di cittadini facoltosi. Agli inizi del VI secolo, un lussuoso
In alto: la sala da banchetto dell’edificio theta. V sec. a.C.
Qui sopra: resti di un piccolo ambiente termale privato. II sec. d.C.
edificio della metà del secolo precedente viene ampliato con la costruzione di un’altra ala, caratterizzata da una tipologia architettonica innovativa per Atene: è l’edificio E, i cui resti non sfuggono neppure al visitatore piú distratto. Questa aggiunta, ma anche il fatto che alcuni edifici preesistenti continuano a funzionare e allo stesso tempo se ne costruiscono di nuovi, dimostra che la vita urbana è ancora viva, in un’epoca solitamente ritenuta di declino per la città. L’abbandono definitivo dell’area si colloca molto piú tardi, agli inizi del XIII secolo. Lo scavo al di sotto del Museo dell’Acropoli, accessibile dal cortile, è visitabile con lo stesso biglietto del museo. Strade, abitazioni,
terme, botteghe di artigiani e perfino tombe tornano a vivere davanti agli occhi dei visitatori, restituendo l’immagine complessa di un quartiere dell’Atene del passato in cui i resti piú visibili sono quelli della città tardo-antica: una fase spesso assente negli scavi, nei musei, nelle mostre. Il museo al momento piú visitato della Grecia ci ha fatto aspettare molto, prima di farci questo regalo: ma ne è senz’altro valsa la pena.
DOVE E QUANDO Museo dell’Acropoli Atene, Dionysiou Areopagitou 15 Orario lunedí, 8,00-16,00; martedí-domenica, 8,00-20,00 Info www.theacropolismuseum.gr
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CALENDARIO
Italia
Viaggio oltre le tenebre
Tutankhamon Real Experience Palazzo Reale fino al 14.06.20
ROMA Carthago
Il mito immortale Colosseo-Foro Romano fino al 29.03.20
Sotto il cielo di Nut
Egitto divino Civico Museo Archeologico fino al 20.12.20 (dall’11.03.20)
Aspettando l’Imperatore Monumenti, Archeologia e Urbanistica nella Roma di Napoleone, 1809-1814 Museo Napoleonico fino al 31.05.20
Civis, Civitas, Civilitas
Roma antica modello di città Mercati di TraianoMuseo dei Fori Imperiali fino al 06.09.20
NAPOLI Thalassa
Bartolomeo Pinelli, progetto di medaglia per la nascita del re di Roma.
ODERZO L’anima delle cose
I marmi Torlonia
a un passo dall’Impero Museo Archeologico fino al 24.05.20 (prorogata)
BOLOGNA Etruschi
Viaggio nelle terre dei Rasna Museo Civico Archeologico fino al 24.05.20
BRINDISI Nel mare dell’intimità L’archeologia subacquea racconta il Salento Aeroporto del Salento fino al 05.07.20
FORLÍ Ulisse
L’arte il mito Musei San Domenico fino al 21.06.20
MILANO L’esercito di Terracotta e il Primo Imperatore della Cina Fabbrica del Vapore fino al 05.04.20 (prorogata) 32 a r c h e o
Museo Archeologico Nazionale fino al 31.05.20 Museo Archeologico Nazionale fino al 31.10.20 (dal 16.03.20)
L’invenzione delle grottesche Domus Aurea fino al 10.01.21 (dal 24.03.20)
AMELIA Germanico Cesare...
Lascaux 3.0
Gli Etruschi e il MANN
Raffaello e la Domus Aurea
Collezionare capolavori Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 10.01.21 (dal 04.04.20)
Meraviglie sommerse dal Mediterraneo Museo Archeologico Nazionale fino al 09.03.20
Il Laocoonte nella Domus Aurea.
Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium Palazzo FoscoloMuseo Archeologico Eno Bellis fino al 31.05.20
PADOVA L’Egitto di Belzoni
Un gigante nella terra delle piramidi Centro Culturale Altinate San Gaetano fino al 28.06.20
PALERMO Quando le statue sognano
Frammenti da un museo in transito Museo Salinas fino al 29.03.20
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
SAN GIMIGNANO Hinthial. L’Ombra di San Gimignano
SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Da Alesia a Roma
TORINO Archeologia Invisibile
Paesi Bassi
L’Offerente e i reperti rituali etruschi e romani Museo Archeologico fino al 31.05.20
Museo Egizio fino al 07.06.20
Città del Vaticano CITTÀ DEL VATICANO Tempo divino
I sarcofagi di Bethesda e l’avvento del Salvatore nel Mediterraneo antico Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano fino al 29.03.20
Francia PARIGI Pompei
Passeggiata immersiva, tesori archeologici, nuove scoperte Grand Palais fino all’08.06.20 (dal 25.03.20)
L’avventura archeologica di Napoleone III Musée d’Archéologie nationale fino al 15.07.20 (dal 29.03.20)
LEIDA Cipro
Un’isola dinamica Rijksmuseum van Oudheden fino al 15.03.20
Regno Unito LONDRA Troia. Mito e realtà British Museum fino all’08.03.20
Svizzera BASILEA Gladiatori
La vera storia Antikenmuseum fino al 22.03.20
USA NEW YORK Sahel
Arte e imperi sulle coste del Sahara The Metropolitan Museum of Art fino al 10.05.20
Arte del mar
Scambi artistici nei Caraibi The Metropolitan Museum of Art fino al 10.01.21 a r c h e o 33
LA DEMOCRAZIA NEL CUORE Louis Godart
È L’ORA DEL RITORNO L’USCITA DEL REGNO UNITO DALL’UNIONE EUROPEA HA RIACCESO IL DIBATTITO SULLA RESTITUZIONE ALLA GRECIA DEI MARMI DEL PARTENONE. ECCO PERCHÉ SI TRATTA DI UN PASSO DA COMPIERE SENZA ULTERIORI INDUGI
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l 28 maggio del 1959, nelle vesti di ministro della cultura del governo presieduto dal generale De Gaulle, lo scrittore francese André Malraux pronunciò ad Atene un discorso intitolato «Omaggio alla Grecia» per salutare la prima illuminazione dei monumenti dell’Acropoli e definí la rocca sacra «il solo luogo al mondo dove convivono spirito e coraggio». Spirito e coraggio albergavano nella mente e nel cuore di chi aveva combattuto a Maratona e a Salamina. Eschilo e Sofocle hanno combattuto per la libertà di Atene e della Grecia e le loro opere immortali portano il marchio del genio e del coraggio. La gloria di Pericle – dell’uomo che è stato e del mito associato al suo nome – dipende dal fatto che era il primo servitore della polis, un filosofo e un artista. I Greci usciti vincitori dalle guerre persiane hanno voluto ricostruire
sulle macerie lasciate dagli invasori monumenti in grado di trasmettere al mondo il messaggio capace di ripercuotere i concetti di democrazia e di libertà germogliati nell’Atene del VI secolo a.C.
UN UOMO NUOVO La consapevolezza di dover difendere le grandi acquisizioni dell’Atene democratica li ha spinti a combattere con indicibile coraggio di fronte alla barbarie. Le parole attribuite a Pericle da Malraux esprimono chiaramente questa volontà: «Possiate dire di noi, secoli futuri, che abbiamo costruito la città piú bella e piú felice». Di fronte all’antico Oriente la Grecia aveva creato un tipo d’uomo che mai prima era esistito. La civiltà greca è la prima cresciuta senza il costante riferimento a un «Testo sacro», la civiltà per la quale intelligenza ha sempre voluto dire
interrogazione. Dopo aver dialogato con uno dei potenti di Atene, Socrate si ritenne in definitiva piú sapiente di lui perché disse: «Se tutti e due non sappiamo proprio un bel niente, lui crede di sapere e non sa nulla, mentre io, se non so niente, ne sono perlomeno convinto; perciò un tantino di piú ne so di costui, non fosse altro per il fatto che ciò che non so, nemmeno credo di saperlo». In un memorabile discorso pronunciato a Città del Messico nel 1982, Melina Mercouri (attrice e cantante greca che, come Malraux, fu anche ministro della cultura, n.d.r.) ha ricordato che il Partenone ricostruito su volere di Pericle nel 445 a.C. dopo la distruzione dell’Acropoli del 480 a.C., è diventato un simbolo di libertà e democrazia per chi nel mondo crede nei valori promossi dagli antichi Greci. Il tempio di Atena,
Atene. Il Partenone. L’aspetto attuale del tempio, dedicato ad Atena Parthenos (Vergine), è l’esito della ricostruzione avviata nel 447 a.C. da Pericle, nell’ambito della risistemazione dell’Acropoli, dopo le devastazioni persiane del 480 a.C.
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dea dell’intelligenza e del coraggio guerriero, ha attraversato i millenni e oggi come 2500 anni fa, trasmette l’intramontabile messaggio di chi, opponendosi alla forza bruta, ha saputo salvare la civiltà. Il Partenone porta le stigmate lasciate dal tempo; trasformato in chiesa dedicata a Maria Theotokos (Madre di Dio) in età bizantina, in moschea dopo la conquista ottomana di Atene nel 1456, subí una distruzione drammatica nel 1687, quando un colpo di bombarda sparato dai Veneziani di Morosini centrò la polveriera sistemata nel monumento dai Turchi e la fece esplodere. Tuttavia, l’offesa piú atroce doveva ancora venire. Tra il 1801 e il 1805, l’ambasciatore britannico a Costantinopoli, Thomas Bruce, VII conte di Elgin, falsificando un permesso rilasciato dalle autorità turche nel 1800, si comportò come un predatore vile e senza alcun rispetto per il messaggio di eternità del Partenone: smembrò il monumento, strappando al tempio le sculture di Fidia che lasciarono la Grecia per essere esposte nel British Museum. Già allora, furono molte le reazioni di sdegno. Nel suo Viaggio in Grecia, itinerario da Parigi a Gerusalemme (Parigi 1811), Chateaubriand scrive: «Elgin ha voluto togliere i bassorilievi del fregio; per poterlo fare, gli operai turchi hanno prima spezzato l’architrave e atterrato i capitelli; poi invece di estrarre le metope dai loro alloggiamenti, i barbari hanno trovato piú agevole frantumare la cornice. Dell’Eretteo hanno preso la colonna d’angolo, tanto che oggi l’architrave è sostenuto da un pilastro di pietre». Oggi molti, nel mondo, tentano di convincere le autorità del Museo britannico ad ascoltare la preghiera di Melina Mercouri, che supplicava la Gran Bretagna di consentire il ritorno in patria dei capolavori del grande Fidia. A lungo gli Inglesi
La sala dei marmi Elgin in una tavola realizzata per l’opera London Interiors with their Costumes and Ceremonies, pubblicata a Londra nel 1841.
hanno risposto che le sculture non avrebbero potuto trovare adeguata sistemazione nel vecchio museo allestito sull’Acropoli. Nel 2020 una tale obiezione non ha piú alcuna ragione di essere. Dal 2009 è stato aperto ai piedi della Rocca sacra, a poco piú di 200 m del Partenone, il nuovo Museo dell’Acropoli realizzato da Bernard Tschumi con la collaborazione di Michalis Fotiadis. Con una superficie di 25 000 mq e un’area espositiva di oltre 14 000, il museo è pienamente in grado di accogliere ed esporre nel migliore dei modi i capolavori indegnamente strappati al tempio all’inizio dell’Ottocento.
IL VALORE DI UN GESTO Nel cuore della sua storia la Gran Bretagna ha saputo dimostrare al mondo il suo profondo attaccamento ai valori di libertà e di democrazia professati dagli antichi Greci. Il mondo libero non dimentica che i piloti della Royal Air Force, nel 1940, hanno salvato la democrazia e la cultura europea fermando l’attacco della Germania nazista. Le parole pronunciate allora da Winston Churchill esprimono bene il sentimento che l’Europa deve avere nei confronti di questi uomini coraggiosi: «Never in the field of human conflict was so much owed by so many to so few»
(«Mai, nella storia dei conflitti umani, cosí tanti dovettero cosí tanto a cosí pochi»). Oggi l’Inghilterra guadagnerebbe in prestigio e autorevolezza se accettasse di favorire la riunificazione dei marmi del Partenone. Mi pare impossibile che le autorità del British Museum rimangano insensibili di fronte al grido dei tanti in tutto il mondo che vorrebbero i marmi di Fidia vicino al tempio della dea. Molti nelle Isole britanniche si sono pronunciati per il ritorno delle sculture sotto il sole che le ha viste nascere. Nel cielo delle notti di Atene e dell’Ellade le stelle hanno salutato la nascita della prima grande civiltà occidentale; insieme al guardiano sulla terrazza del palazzo di Micene hanno visto giungere la torcia che annunciava la caduta di Troia, hanno vegliato i morti di Maratona e di Salamina e hanno benedetto l’entusiasmo di Pericle e di tutti gli Ateniesi quando ricostruirono l’Acropoli. Le stesse stelle inorridite hanno visto Elgin violare la sacralità del tempio della dea e portare lontano da Atene le sculture di Fidia. Presto, mi auguro, saluteranno la riunificazione nel nuovo splendido Museo dell’Acropoli dei capolavori che sono piú che mai l’emblema della civiltà europea.
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STORIA • IL COLORE DELLA PELLE
NON SOLO BIANCHI di Umberto Livadiotti
Nell’episodio dedicato alle guerre puniche della serie Barbarians Rising prodotta nel 2016 da History Channel, il cartaginese Annibale viene interpretato dall’attore afrobritannico Nicholas Pinnock. In un cartone educativo postato su YouTube nel 2017 dalla BBC, il capo della famiglia protagonista del racconto è un ufficiale dell’esercito romano dalla pelle scura. Nella serie TV Troy: Fall of a City, cooproduzione NetflixBBC del 2018, i panni di Achille, Patroclo, Enea e persino Zeus sono vestiti, rispettivamente, da un attore di origine ghanese, uno sudafricano, uno anglo-caraibico e uno anglo-nigeriano, tutti di pelle nera. Cresce dunque la presenza di attori neri nella rappresentazione televisiva o cinematografica dell’antichità, storica o mitologica e la tendenza desta spesso reazioni scandalizzate. Vale allora la pena di approfittarne per sviluppare alcune riflessioni. 36 a r c h e o
C
i si può anzitutto chiedere quanto il mondo classico fosse multiforme dal punto di vista della colorazione della pelle e, in particolare, se e quanto fosse diffusa la presenza di uomini dalla pelle nera. Poi ci si può, anzi ci si deve, domandare se questa varietà di pigmentazione venisse percepita nella stessa maniera in cui la percepiamo noi e se avesse riflessi di ordine sociale, politico o anche semplicemente culturale. Infine, resta da interrogarsi se abbia senso tenere presente questo aspetto nella immaginazione ricostruttiva del passato o se l’attenzione a questo elemento non sia piuttosto una spia del nostro modo ossessivo di categorizzare l’umanità secondo caratteristiche fisiche a cui diamo un valore razziale. Occorre innanzitutto cercare di fare chiarezza. Che cosa intendiamo, a chi ci riferiamo quando parliamo di uomini dalla pelle nera in riferimento al mondo antico? Una scena del film Il gladiatore (2000), in cui Massimo Decimo Meridio (Russel Crowe) si batte nell’arena insieme a Juba (Djimon Hounsou, attore d’origine beninese).
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STORIA • IL COLORE DELLA PELLE
I Greci usavano un vocabolo preciso per intendere genericamente gli appartenenti alle tribú africane stanziate al di sotto dell’Egitto antico. Il termine, ripreso poi dai Romani, era aithiops, cioè «etiope» (secondo una tarda etimologia: «viso bruciato»). Dal punto di vista anatomico, l’Etiope viene descritto dalle fonti letterarie, e poi riprodotto dalle arti figurative, come un individuo dalla pelle scurissima, le
labbra turgide, la fronte ampia, i scevano tuttavia anche altre popolacapelli ricci e il naso camuso. zioni dalla pelle scura, soprattutto nella regione indiana, che nella loro FIGLI DI MONDI LONTANI immaginazione a volte si confondeL’immagine dell’Etiope greco-ro- va con l’Africa subsahariana. Ai loro mano trova una sostanziale corri- occhi molti aspetti apparentavano spondenza con il prototipo dell’A- questi mondi: vegetazione lussuregfricano subsahariano d’età moder- giante, fauna straordinaria (coccona. Greci e Romani, o almeno i piú drilli, scimmie, felini), la presenza di istruiti fra loro, oppure quei com- fiumi enormi. Non è strano, dunmercianti che si avventuravano oltre que, che Greci e Romani eticheti confini del mondo classico cono- tassero talvolta come «Etiopi» anche
PELLE, RAZZA E DNA All’inizio di questo secolo è stata ultimata la ricostruzione della sequenza completa del genoma umano (cioè le 6 miliardi di basi che costituiscono il nostro DNA). Lo sviluppo della tecnologia e il connesso abbassamento dei costi ha consentito nel successivo ventennio un accumulo inimmaginabile di dati. È potuta cosí emergere definitivamente l’infondatezza dell’ipotesi di una correlazione fra il colore della pelle e un set significativo di altre variabili genetiche tale da poter far parlare di «razza» in senso biologico. Ciò non significa che gli uomini non siano fra loro diversi, ma può succedere che un uomo di pelle chiara possa risultare, dal punto di vista genetico, piú affine a un uomo dalla pelle nera che a un altro «bianco». Anche l’archeologia ha approfittato di questo nuovo filone di ricerca. Attraverso le informazioni contenute nei cromosomi del DNA, estraibile dal tessuto osseo o da altri reperti fossili, si possono infatti ricostruire alcune caratteristiche, come, per esempio, il colore della pelle. Anche se non bisogna dimenticare che in ogni caso pure gli attributi «ereditari» subiscono l’influenza di fattori ambientali (per esempio l’alimentazione sulla statura o, per quanto riguarda la colorazione stessa dell’epidermide, l’esposizione ai raggi solari). Lo studio del DNA antico comunque non è semplice. Infatti, soprattutto nei climi caldi e umidi, il passare dei millenni ne pregiudica lo stato di conservazione. Inoltre, c’è sempre il rischio della contaminazione da parte di qualcuna delle persone che prendono parte al rinvenimento, alla catalogazione e magari anche alla esposizione museale dei reperti da cui effettuarne l’estrazione. I dati che vanno emergendo sono ancora parziali e non sempre generalizzabili. È stata verificata per esempio una sostanziale omogeneità del corredo genetico negli abitanti dell’Egitto, perlomeno dal Tardo Regno fino all’età romana. Uno studio condotto da ricercatori delle Università di Ferrara, Firenze, Pisa, Venezia e Parma per verificare la possibile continuità genetica fra antichi etruschi e toscani di oggi ha dato invece un esito sostanzialmente negativo (a eccezione dei risultati in controtendenza rilevati nel Cosentino e nel circondario di Volterra). Non stanno mancando le sorprese anche per quanto riguarda il colore della pelle: l’analisi del DNA di diversi scheletri rinvenuti in Spagna, in Svizzera e in Inghilterra e risalenti al 7000 a.C. circa ci ha rivelato, per esempio, che il colore della pelle di questi antichi europei era scuro, benché curiosamente accoppiato a occhi azzurri.
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Pendente in bronzo in forma di testa di Etiope, dall’Egitto, forse dalla regione del Delta. Epoca tolemaica, 332-30 a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art. Nella pagina accanto: bronzetto ellenistico raffigurante un Africano (noto come Etiope). III-II sec. a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art. a r c h e o 39
STORIA • IL COLORE DELLA PELLE
GLI ETIOPI NELLA MITOLOGIA GRECA I regni africani che nell’antichità si avvicendarono nell’area nubiano-etiope (Kush, Meore e Aksum) mantennero intensi rapporti, sia commerciali che diplomatico-militari, prima con l’Egitto e poi con il mondo ellenistico e romano. Ciò nondimeno, l’Etiopia, nell’immaginario letterario e mitologico classico, rimase sostanzialmente una terra liminare dalla collocazione non proprio ben definita.
queste popolazioni. Sarebbe tuttavia sbagliato sovrapporre il concetto antico di «etiope» con quello moderno di «nero», per almeno due motivi. Primo, perché l’associazione di un colore a una popolazione è un modo non solo di classificarla ma anche di valutarla, giacché i colori non sono mai culturalmente neutri e orientano emotivamente la percezione. Chiamare un gruppo umano con un etnonimo (sia pure lessicalmente associato all’idea di arsura, come nel caso appunto degli Etiopi) oppure con un colore, specie se il colore ha una 40 a r c h e o
Uno spazio semifiabesco collocato all’estremità meridionale del mondo, da cui la tradizione faceva provenire eroi ed eroine capaci di interagire senza problemi con i protagonisti della mitologia greca. Le due figure piú note sono Andromeda e Memnone. Memnone compare nel ciclo troiano: figlio dell’Aurora, alla testa dei suoi uomini si reca dall’Etiopia a Ilio a combattere al fianco dei Troiani. Qui viene ucciso da Achille. Il trasporto del corpo in patria da parte della madre costituisce il momento piú drammatico della sua vicenda. La scena chiave del mito di Andromeda, invece, presenta l’intervento di Perseo a liberare la principessa etiope legata a una roccia in attesa di essere divorata da un drago. Memnone e Andromeda furono oggetto per secoli di riproduzioni pittoriche e vascolari. Soprattutto in alcune raffigurazioni piú arcaiche, Memnone ha la pelle nera. Ma nella maggior parte dei casi è ritratto con fattezze simili a quelle degli altri eroi, sebbene sia talvolta affiancato da compagni e servitori dalla pelle scura e dall’aspetto marcatamente etiope. Altrettanto vale per Andromeda, la quale, pur accompagnata talvolta da ancelle da tratti negroidi, è sempre pitturata con la pelle candida. Questa tendenza ad assimilare personaggi che dovrebbero avere fattezze anatomiche «diverse» agli stereotipi fisionomici eroici non riflette tuttavia una forma dissimulata di xenofobia quanto piuttosto il radicamento delle convenzioni figurative nell’arte classica.
valenza semantica sostanzialmente negativa, non è la stessa cosa. In secondo luogo, perché questo vocabolo non veniva utilizzato per descrivere le popolazioni africane sahariane e subsahariane a ovest dell’Egitto, popolazioni sulla cui carnagione non siamo informati, ma che almeno in alcuni casi doveva risultare piú scura di quella (o di quelle) considerate normali fra Greci e Romani. Non a caso il termine greco e latino con cui si definivano gli appartenenti a una di queste tribú (i Mauri) è quello da cui è disceso il vocabolo «moro». Oggi in italiano questo termine è rimasto
Nella pagina accanto, in alto: particolare della decorazione di un’anfora attica attribuita a Exekias raffigurante Memnone, mitico re degli Etiopi, e un attendente africano. 535 a.C. circa. Londra, British Museum. A sinistra: affresco raffigurante Perseo e Andromeda, dalla Casa dei Dioscuri di Pompei. 62-79 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In basso: dritto di una moneta in bronzo raffigurante l’imperatore Filippo l’Arabo. 244-249 d.C.
sostanzialmente solo come aggettivo per definire una tonalità cromatica della capigliatura, ma un tempo etichettava tutta la vasta gamma di carnagioni piú scure di quella considerata «normale».
IL COLORE DELLA MINORANZA A proposito della presenza nel mondo ellenistico e romano di uomini dalla pelle scura, una prima problematica nasce dunque dall’ambiguità del lessico, incapace di corrispondere a una realtà epidermica estremamente varia e articolata.Verosimilmente gli «Etiopi» dovettero rimanere, al di fuori dell’Egitto, una impalpabile minoranza. Talvolta alcuni scrittori ce ne parlano: sappia-
mo persino di un Etiope in servizio come soldato romano in Britannia alla fine del II secolo d.C. Ma la sensazione è sempre che si tratti di eccezioni, di rarità di cui vantarsi, come lo schiavo etiope di cui si fa bello uno dei personaggi dei Caratteri di Teofrasto. Nelle arti figurative la presenza di individui dai tratti somatici corrispondenti a quelli degli «Etiopi» è meno rara, ma risulta tuttavia cristallizzata in immagini di genere. La
pittura e soprattutto la ceramica e la scultura, a cui dobbiamo riproduzioni di straordinaria finezza sin dal V secolo a.C., li raffigurano, con un alto tasso di stereotipia, come elementi di scenari esotici (per esem-
Nella pagina accanto, in basso: il cosiddetto «Tondo severiano», pittura su tavola raffigurante l’imperatore Settimio Severo e la sua famiglia. 200 d.C. circa. Berlino, Staatliche Museen, Altes Museum. a r c h e o 41
STORIA • IL COLORE DELLA PELLE
pio nella composizione, assai diffusa, del giovane tra le fauci del coccodrillo) o perlopiú come servitori domestici, lasciandoci cosí immaginare che la loro circolazione in area mediterranea extra-egizia dipendesse non tanto da fenomeni di emigrazione volontaria quanto dal commercio schiavile. Non era impossibile tuttavia incappare in «etiopi» d’alto rango. Come nel caso di uno dei figli adottivi del ricchissimo senatore Erode Attico, di cui è stato individuato persino un ritratto mar moreo ora all’Antikensammlung di Berlino.
Il discorso cambia però radicalmente se anziché limitarci a considerare gli «Etiopi» volessimo tenere in conto le tante popolazioni di carnagione scura diffuse nel Nordafrica e anche nel Medio Oriente, integrate nel mondo classico dalle conquiste macedoni e romane.
IMPERATORI DAL VOLTO SCURO La loro presenza in età ellenistica e imperiale è testimoniata ampiamente a tutti i livelli. Se margini di incertezza rimangono nella ricostruzione della carnagione dei due
imperatori (il libico Settimio Severo e l’arabo Filippo) spesso evocati dalla pubblicistica orientata a sottolineare la multietnicità del mondo romano di età imperiale, possiamo però essere ragionevolmente sicuri di altri numerosi casi di personalità di spicco il cui colore della pelle doveva essere scuro. Pensiamo a Mastànabal, il padre di Giugurta, principe numida che nel 158 a.C. concorse ad Atene alle Grandi Panatenee vincendo una competizione di bighe (come sappiamo da una iscrizione); o pensiamo a Lusio Quieto, un Africano
UNA KOINÉ DI UOMINI ROSSI? Quelli che noi chiamiamo Fenici non utilizzavano un etnonimo collettivo, ma si definivano in base alle singole città di appartenenza (Tirii, Sidonii, ecc.). Furono i Greci a etichettarli con un termine che si riferisse complessivamente ed esclusivamente a loro: Phoínikes, che poi in latino divenne Poeni (in italiano «Punici»). L’aggettivo po-ni-ki-jo/a risulta attestato già nelle tavolette in lineare B, sia col valore di «rosso», sia col valore di «fenicio» (in riferimento a una lavoratrice della lana etichettata in questa maniera). Per spiegare il legame fra i due significati, una parte di studiosi (tra cui Sabatino Moscati) ha ipotizzato una qualche connessione con la porpora, che avrebbe dato il nome sia al colore che al popolo associato alla sua lavorazione, in particolare nella tintura dei tessuti. Si tratterebbe quindi di un etnonimo che significa, grosso modo, «Gli uomini della porpora». Tuttavia, i casi in cui la parola greca phoínix si riferisce al pigmento colorato prodotto dal murice sono attestati
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solo in una fase piú tarda, in età postomerica, mentre per la porpora nelle tavolette in lineare B è usato il vocabolo po-pu-ro. È dunque possibile che si sia verificato anche il percorso inverso: il nome greco della porpora potrebbe essere derivato da quello attribuito agli abitanti della zona in cui la si lavorava. I Fenici sarebbero stati definiti quindi «uomini rossi» a prescindere dalla lavorazione della porpora. Ma allora «uomini rossi» in che senso? Dal colore delle loro vesti? O dal colore della loro pelle, come suggerito da Domenico Musti? Bisogna comunque tener conto del fatto che in Omero il termine sembra riferirsi a una koiné di popolazioni davvero molto ampia, comprendente il mondo cipriota e siriaco, per la quale immaginare la creazione di uno stereotipo somatico unico e radicalmente differente da quello greco non è facile. D’altra parte, occorre ricordare l’assonanza dell’aggettivo po-ni-ko-jo con il termine fen(e)khu, con cui gli Egizi si riferivano agli abitanti della costa mediterranea mediorientale, e di cui perciò è forse un semplice calco.
che, alla fine del I secolo d.C., scalò tutta la gerarchia militare: nel corso delle campagne daciche di Traiano guidò la cavalleria maura (che si può vedere riprodotta nel fregio della colonna coclide), divenendo poi senatore, governatore della Giudea e consigliere del principe. Qualcuno ha anche pensato di poterlo identificare fra i personaggi raffigurati in uno dei pannelli superiori dell’Arco di Traiano a Benevento. Del resto, benché dal punto di vista sociale si trattasse di un semplice liberto, non si può dimenticare che anche il commediografo Terenzio
proveniva dall’entroterra cartaginese (come sottolineava il cognome assunto dopo l’abbandono dello status servile: Afer, cioè Africano) ed era, come dice un suo tardo biografo, «scuro di pelle».
AFFETTI, TRADIZIONI, VALORI Razza è una parola dall’etimologia ancora non chiara entrata in uso solo all’inizio dell’età moderna. Gli antichi non la conoscevano. Quando i testi parlano di genos o di stirpe, intendono una comunità stretta da un vincolo di sangue (un legame
In alto: pendente in pasta vitrea in forma di testa maschile di produzione fenicia o cartaginese. V sec. a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art. Nella pagina accanto: testa maschile in terracotta in stile egittizzante, da Sant’Antioco. VI-V sec. a.C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.
Figurine in terracotta policroma raffiguranti cavalieri, da tombe fenicie di Achziv, importante città fenicia sulla costa orientale del Mediterraneo (oggi in Israele). VI-V sec. a.C.
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STORIA • IL COLORE DELLA PELLE
peraltro sempre surrogabile dall’adozione). Non si tratta di una somiglianza genetica, ma di una prossimità familiare, derivante da una comunanza di affetti, di tradizioni, di valori. In questa ottica, alcune società potevano essere gelose della propria identità etnica o civica, mostrandosi ostili a tutti gli stranieri, indipendentemente dal colore della loro epidermide. Altre, come il caso di Roma, erano piú aperte e disposte all’integrazione. Di fatto non sembra, comunque, che esistessero né teoricamente, né concretamente vincoli specifici indirizzati a limitare i diritti e le aspettative degli uomini di pelle scura. Nelle relazioni sociali contava lo status, il rango, cioè se si era liberi o schiavi, cittadini o stranieri, aristocratici o meno, e cosí via. Sotto questo profilo, a differenza di quanto accadde poi nelle Americhe, dove
negritudine e schiavitú finirono sostanzialmente col sovrapporsi e coincidere, il colore della pelle nell’antichità non costituiva un marcatore significativo: la stragrande maggioranza degli esseri umani ridotti in servitú non aveva la pelle nera. Certo la diversità d’aspetto colpiva. Ma si trattava di una semplice caratteristica fisica, come essere alto, basso, lentigginoso.
A destra: la ricostruzione del volto di Gesú proposta dal medico forense Richard Neave. Nella pagina accanto, in alto: ritratto maschile, dal Fayyum. I sec. d.C. Mosca, Museo Puskin.
Nella pagina accanto, in basso: affresco raffigurante Cristo che guarisce il paralitico, dal battistero della domus ecclesiae di Dura Europos. 232 d.C. circa. New Haven, The Yale University Art Gallery.
LO SCHERNO DI GIOVENALE Come tutti i connotati divergenti dal normotipo, la negritudine poteva essere derisa, esteticamente vituperata. La letteratura latina e greca è ricca di allusioni e insulti rivolti a individui di pelle scura di rango sociale modesto. «Che un bianco derida un negro [è naturale]» scrive Giovenale in un terribile verso. D’altra parte, come sempre, esisteva anche
IL COLORE DI GESÚ Capelli ricci, faccia larga, pelle olivastra. Sarebbe stato questo l’aspetto di Gesú secondo la ricostruzione in 3D effettuata nel 2001 da Richard Neave, medico forense britannico, resa nota dalla BBC in una puntata del programma Son of God. Naturalmente la «rivelazione» ha suscitato qualche polemica. In realtà, si tratta semplicemente della riproduzione del volto di un anonimo Ebreo del I secolo d.C., il cui teschio è stato fornito dagli archeologi israeliani all’équipe inglese. L’intento era quello di fornire un prototipo della fisionomia facciale dell’Ebreo del tempo di Gesú, in modo da poter
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immaginare, per analogia, le fattezze di Cristo, sul cui autentico aspetto non c’è alcuna testimonianza nelle Sacre Scritture. Per di piú, il colore della pelle del Gesú della BBC non è stato desunto da alcun reperto fossile, ma è stato suggerito da Mark Goodacre, docente alla Duke University di Durham (North Carolina), ispirandosi al buon senso e alle tonalità cromatiche con cui Cristo appare nelle pitture della domus ecclesiae di Dura Europos, in Siria (risalenti alla prima metà del III secolo). Concetto sostanzialmente ribadito da Joan Taylor, docente di antichità
il fascino dell’esotico. La relazione sessuale, in particolare quella fra la dama dell’alta società e l’umile negro, era un topos che stuzzicava l’immaginazione. Uno dei classici temi assegnati ai giovani studenti di retorica si intitolava «la matrona partorisce un etiope»! Ma anche in questo caso l’aspetto che noi definiremmo interrazziale non era di alcun interesse. A suscitare attenzione era il fatto che il colore della pelle in un caso come questo potesse diventare spia evidente e incontestabile dell’infedeltà coniugale. Basarsi sulla diversità dell’aspetto fisico per categorizzare le persone è un meccanismo psicologico normale; come anche sfruttare alcuni elementi della fisionomia umana come indicatori da cui inferire la provenienza geografica di una persona. Ma classificare l’umanità in razze è un’altra cosa. Significa associare rigi-
damente attitudini psicologiche e comportamentali a una particolare conformazione fisica (e spesso, ancora piú banalmente, proprio a un colore della pelle) e immaginare gruppi umani divisi da un solco invalicabile, disposti lungo un asse qualitativo, con popoli superiori a un polo e popoli inferiori all’altro.
BIANCO «COLONIALE»... Non a caso, la tendenza a classificare per razze si è radicata nella tassonomia scientifica in coincidenza con l’espansione coloniale dei «bianchi». L’elementare classificazione delle persone in base alla percezione cromatica della loro pelle, artificiosamente ridotta a pochi colori basilari, potenti dal punto di vista simbolico, ma assai poco aderenti alla reale pigmentazione dell’epidermide, ha potuto sancire infatti una gerarchia di razze che giustificasse il predominio di una sulle altre. Diversa era la situazione nel mondo classico, che pure ha conosciuto fenomeni di xenofobia e discriminazione sociale. Il fatto che conoscessero popolazioni di carnagione scura, e alcune anche di pelle molto
giudeo-cristiane al King’s College di Londra e autrice un paio di anni fa di un libro sull’aspetto di Gesú. Che il volto «scandinavo» di Gesú consegnato al nostro immaginario dalla tradizione artistica occidentale non fosse realistico dal punto di vista storico era in realtà facilmente ipotizzabile da chiunque. In particolare, la capigliatura bionda e gli occhi chiari appaiono il portato di scelte radicatesi solo in età medievale. La questione della carnagione (che nelle raffigurazioni pittoriche assume talvolta cromatismi inattesi) è venuta comunque alla ribalta solo con l’avvento, a partire dall’Ottocento,
di ideologie politiche attente alle categorizzazioni razziali. Si è parlato allora di un Gesú bianco, ariano; poi, al contrario, di un Gesú nero. Teorie proposte sulla scorta di indicazioni di testi apocrifi o interpolati, come la lettera di Lentulo (un falso, di cui abbiamo la versione rinascimentale, contenente la descrizione di un Cristo biondo e occhi azzurri) oppure la versione russa del Testimonium flavianum (un passo delle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio che contiene un ampio riferimento a Gesú, n.d.r.), in cui alcune righe mancanti nell’originale qualificano Gesú come «scuro di pelle».
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STORIA • IL COLORE DELLA PELLE
IL GLADIATORE NERO Nel 1971, senza un particolare successo di critica, né di pubblico, uscí nei cinema italiani Scipione detto anche l’Africano di Luigi Magni, una originale commedia recitata in romanesco e ambientata in una scenografia tutta di ruderi. Nel ruolo di Massinissa, il principe numida alleato dei Romani contro Cartagine (che nel quasi omonimo kolossal di regime degli anni Trenta era stato interpretato da un Fosco Giachetti ricoperto di pomata nera),
A destra: l’attore inglese d’origine ghanese David Gyasi nei panni di Achille nella serie TV Troy: Fall of a City. A sinistra: la locandina del film Scipione l’Africano, diretto da Carmine Gallone nel 1937.
si produsse Woody Strode, lo stesso attore afroamericano che una decina d’anni prima aveva ottenuto una nomination al Golden Globe come attore non protagonista per la sua recitazione nello Spartacus di Stanley Kubrick. In quest’ultima pellicola, basata sul romanzo di Howard Fast, Strode impersonava il gladiatore etiope Draba. Una presenza che richiamava
scura, non ha mai indotto Greci o Romani a sviluppare una contrapposizione binaria che marcasse questa contrapposizione, inducendoli a sentirsi e classificarsi come «bianchi». Bianco e nero rappresentavano naturalmente una polarità cromatica anche ai loro occhi, per cui può capitare per esempio che Catullo, in una delle sue invettive contro Cesare, utilizzi un’espressione dal sapore proverbiale come «sapere se sei un uomo bianco o nero». Ma non è una formulazione con implicazioni razziali. Oltre tutto, il bianco era associato semanticamente non solo alla purezza, ma anche alla femminilità e alla debolezza, proprio come per noi il rosa. 46 a r c h e o
Chiara, anzi talvolta sospettosamente pallida, risultava del resto la pelle della maggior parte delle popolazioni straniere che Greci e Romani sottomisero. Nella loro idea di umanità, priva della concezione di una fraternità originaria, non c’era bisogno di giustificare biologicamente la supremazia di un gruppo su un altro. L’inferiorità dello straniero, del diverso, veniva percepita attraverso altri canali, di natura piú propriamente culturale: la disumanità dei rituali religiosi, la bestialità dell’alimentazione, la stravaganza del linguaggio. Dalla diversa e in alcuni casi aberrante colorazione della pelle di altri gruppi umani, gli antichi si limitavano a trarre conforto per la loro visione etnocentrica dell’ecumene. Era lí dove secondo loro l’ambiente geografico e fisico si mostrava ostile alla vita uma-
probabilmente il ruolo dei neri nella lotta per l’emancipazione in America. All’epoca non ci furono reazioni. Anzi, la presenza di afroamericani nei panni di gladiatori da allora è diventato un vero topos cinematografico. Non c’è film ambientato nell’arena che ne faccia a meno (dal Gladiatore di Ridley Scott a Pompej, passando per la serie TV Spartacus). In realtà Draba
non è mai esistito e, per quanto ne sappiamo, la probabilità che un Etiope finisse a Capua a fare il gladiatore negli anni Settanta del I secolo a.C. era elevata quanto quella che un ufficiale romano in servizio in Britannia nel II sec. d.C. fosse di pelle scura. Questo ci suggerisce che il turbamento del pubblico davanti alla assegnazione di alcuni ruoli a interpreti neri sia il riflesso non tanto di un fastidio dovuto alla percezione di una scorrettezza storiografica, quanto da una dissonanza semantica: il problema infatti non sembra emergere se il personaggio nero ricopre il posto a cui è tradizionalmente associato nella fantasia collettiva (cioè il ruolo di un subalterno come uno schiavo, o un gladiatore; oppure quello del cattivo, come in 300, dove l’afrocanadese Peter Mensah impersona un improbabile messaggero persiano).
A destra: Laurence Olivier nei panni di Marco Licinio Crasso, e Woody Strode in quelli del gladiatore etiope Draba, in una scena di Spartacus, film di Stanley Kubrick del 1960. Nella pagina accanto, in basso, a destra: vaso attico in forma di testa di donna etiope. 510-490 a.C. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage.
na, infatti, che la natura non solo costringeva chi vi abitava a forme di esistenza strane e riprovevoli, ma arrivava a rimodellarne in modo anomalo l’aspetto fisico.
ipotizzata una diretta corrispondenza genetica. Questa tendenza a marcare il carattere «bianco» della cultura greco-romana ha finito per suscitare molteplici reazioni. Negli ultimi decenni, in particolare, alcuni studiosi africani e afroamericani hanno insistito nel sottolineare gli apporti e le presenze nelle antiche civiltà mediterranee di elementi provenienti dal mondo africano, spesso ambiguamente inteso come mondo «nero». Questo filone di studi, generalmente definito «afrocentrico», ha provocato la diffusione, soprattutto a livello di cultura popolare, di veri e propri miti, come la negritudine di Annibale, Settimio Severo o sant’Agostino. Si tratta certamente di distorsioni ed esagerazioni, frutto (in direzione diametralmente opposta) di quella stessa insensata smania di categorizzare le persone in base al colore
LA RISPOSTA «AFROCENTRICA» Nello stesso torno di tempo in cui gli uomini di scienza decidevano di etichettare come bianca la pelle dell’Europeo normotipo, gli studiosi dell’arte antica si sforzavano di sbiancare materialmente ogni memoria di quella antichità in cui riconoscevano le radici della civiltà occidentale.Templi, statue, abbigliamento... tutto, nelle ricostruzioni neoclassiche, tendeva alla purezza marmorea. Col mito dell’arianesimo si arrivò poi nell’Ottocento a spiegare il «miracolo greco» in termini razziali. Fra il mondo classico e la modernità nordeuropea venne
della pelle che intenderebbero denunciare. Ma la tendenza all’africanizzazione dell’immaginario massmediatico relativo all’antichità classica riflette forse anche un bisogno di avvicinamento a questo mondo da parte di nuove platee che a diverso titolo se ne sentono incuriosite. La memoria del mondo greco-romano è un bene comune dell’umanità e non solo degli individui che oggi si trovano a vivere nelle terre che hanno ospitato le antiche civiltà mediterranee.Tornando alle scelte delle produzioni televisive da cui siamo partiti, si potrebbe allora considerarle semplici «attualizzazioni» tese a intensificare la relazione fra classicità e un pubblico ormai globalizzato, senz’altro scorrette dal punto di visto storico, ma non piú scandalose di quelle effettuate, per esempio, dai pittori rinascimentali o dai drammaturghi elisabettiani. a r c h e o 47
MUSEI • ROMA
L’AUGUSTA, L’ESORCISTA E IL PRESBITERO IL QUARTIERE DI TOR PIGNATTARA, NEL SUBURBIO ORIENTALE DI ROMA, PRENDE NOME DALLE PIGNATTE, CIOÈ DALLE ANFORE ANCORA OGGI VISIBILI NELLA VOLTA DEL MAUSOLEO IN CUI COSTANTINO FECE SEPPELLIRE LA MADRE ELENA. UN MONUMENTO FUNERARIO IMPONENTE, SORTO IN CORRISPONDENZA DI UN ALTRETTANTO IMPORTANTE SITO DEVOZIONALE: LE CATACOMBE DEI MARTIRI MARCELLINO E PIETRO. UN INSIEME, DUNQUE, DI GRANDE VALORE, ORA VISITABILE NELLA SUA INTEREZZA di Rocco Bochicchio, Alessandro Mascherucci e Raffaella Giuliani
I
l mausoleo di S. Elena e le catacombe dei Ss. Marcellino e Pietro costituiscono un complesso monumentale di fondamentale importanza per il quartiere di Tor Pignattara, nel suburbio orientale di Roma. Nel 2019, dopo lunghi lavori di restauro e allestimento e grazie alla proficua collaborazione tra la Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma e la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, il Mausoleo è stato finalmente riaperto al pubblico, con la contemporanea inaugurazione di un Antiquarium, allestito al suo interno, a completamento di un percorso di visita che già annoverava, dal 2014, le sottostanti catacombe dei Ss. Marcellino e Pietro, che vantano una delle piú 50 a r c h e o
ricche espressioni della pittura pa- Roma, leocristiana giunte fino a noi. catacombe dei
AL III MIGLIO DELLA VIA LABICANA Tra il 315 e il 326 d.C., inaugurando la progressiva e programmatica cristianizzazione del suburbio, Costantino fece erigere una basilica funeraria a deambulatorio continuo, dedicata ai martiri Marcellino e Pietro, sopra la catacomba che ne custodiva i resti al III miglio dell’antica via Labicana (attuale Casilina), nella località ad (o inter) duas lauros, all’interno del possedimento imperiale noto come fundus Laurentus (o Lauretum) e già luogo di sepolcreti lungo l’antica consolare. Alla basilica era collegato – tramite un atrio rettangolare – un grande mausoleo
Ss. Marcellino e Pietro. Affresco con il Cristo tra i santi Pietro e Paolo e, in basso, l’agnello mistico acclamato dai santi Tiburzio, Gorgonio, Pietro e Marcellino. Fine del IV sec.
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MUSEI • ROMA
dinastico, nel quale, intorno al 329 d.C., l’imperatore fece seppellire la madre Elena, all’interno di un grande sarcofago di porfido rosso (oggi conservato ai Musei Vaticani nel Museo Pio Clementino). Il mausoleo era realizzato in opera laterizia (diametro interno 20,18 m, diametro esterno 27,74 m, altezza conservata 25,42 m), con un basamento cilindrico sovrastato da un alto tamburo e coperto originariamente da una cupola; il crollo di parte della volta ha lasciato in luce ancora oggi due ordini di anfore olearie betiche Dressel 20, dette anche pignatte (da cui il nome del quartiere moderno), inserite nel conglomerato cementizio forse per alleggerirne il peso o agevolarne la solidificazione. In età medievale, dopo il trasferimento del corpo di Elena in S. Maria in Aracoeli (sotto papa Innocenzo II,1130-1143), e del sarcofago nel portico del LateIn alto e in basso: due vedute del mausoleo di S. Elena, nel quale la madre di Costantino venne sepolta intorno al 329 d.C.
Un sepolcro sfarzoso Plastico ricostruttivo del mausoleo di S. Elena. Il modello permette di apprezzare l’aspetto originario del monumento, soprattutto per quanto riguarda la ricca decorazione interna, oggi non piú esistente.
rano per la tumulazione di papa Anastasio IV (1153-1154), iniziò il lungo declino della struttura, oggetto nei secoli di ripetute spoliazioni delle ricche decorazioni interne e di un progressivo degrado, a cui nemmeno alcuni interventi eseguiti nel 1836 da parte di Giuseppe Valadier riuscirono a far fronte. A partire dal 1993, dunque, l’allora Soprintendenza Archeologica di Roma avviò un esteso programma di scavo, recupero, restauro e valorizzazione del mausoleo e dell’area circostante, stilando nel contempo con la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra un’importante convenzione (rinnovata nel maggio 2019) per le attività di risanamento, l’allestimento di un Antiquarium – all’interno della chiesetta e canonica edificate in età moderna nel perimetro della rotonda – e la gestione dell’intero complesso. I lavori, condotti da un team di esperti multidisciplinare (progetto museale e restauri: Maria Grazia Filetici, Elio Paparatti; tutela e direzione archeologica: Laura Ven-
dittelli, Anna Buccellato; direzione scientifica per la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra: Fabrizio Bisconti, Raffaella Giuliani), hanno puntato al ripristino della sicurezza strutturale e conservativa degli antichi apparati, rendendo percepibili le
Il sarcofago in porfido di Elena fu riutilizzato nel Medioevo per la tumulazione di papa Anastasio IV trasformazioni del monumento nel corso dei secoli. L’Antiquarium è stato allestito secondo quattro tematiche principali per la narrazione del contesto territoriale del complesso: in particolare, la Sala I è dedicata ai reperti – soprattutto epigrafi – provenienti dal-
la località ad o inter duas lauros e dai sepolcreti presenti al III miglio della via Labicana già dal I secolo a.C.; la Sala II illustra le modalità costruttive e decorative del mausoleo, ospitando frammenti delle decorazioni interne ed esterne, un’anfora Dressel 20 posta in origine nelle reni della volta e una testa-ritratto riconducibile all’iconografia di Elena, rinvenuta nelle sottostanti catacombe; la Sala III è interamente riservata alle catacombe dei Ss. Marcellino e Pietro, con l’illustrazione dei simboli dell’arte paleocristiana e dei riti della morte in ambito cristiano, la descrizione degli importanti interventi di papa Damaso (366-384 d.C.) sulle tombe dei martiri e l’esposizione di alcuni oggetti di uso quotidiano e di lastre marmoree relative ai loculi; al Primo Piano, infine, materiali ceramici databili tra il XII e il XVIII secolo testimoniano la frequentazione del complesso tra l’età medievale e l’età moderna. Rocco Bochicchio e Alessandro Mascherucci a r c h e o 53
MUSEI • ROMA
UNA GALLERIA D’ARTE PALEOCRISTIANA
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e catacombe dei Ss. Marcellino e Pietro, aperte al pubblico nel 2014 dopo lavori di messa in sicurezza e di restauro molto complessi, formano oggi, insieme al soprastante mausoleo di Elena, un polo monumentale unico, la cui visita costituisce un’esperienza straordinaria di full immersion nella Roma tardo-antica. Come avvenne per tutte le principali catacombe romane, anche ad duas lauros l’uso funerario del sottosuolo da parte della comunità cristiana partí da piú ipogei autonomi, serviti ciascuno da scala d’accesso, che nel tempo si espansero, sino a 54 a r c h e o
fondersi fra loro, per formare uno dei piú estesi cimiteri sotterranei del suburbio romano. L’avvio del processo si inquadra al tempo della cosiddetta «piccola pace della Chiesa», nella seconda metà del III secolo, quando, sotto il principato di Gallieno (260-268) e per quasi un cinquantennio, i rapporti tra le autorità civili e la comunità cristiana registrarono un miglioramento. In questo nuovo clima la comunità cristiana poté insediare un sepolcreto ipogeo in prossimità della necropoli di superficie degli equites singulares Augusti, corpo di cavalleria emblema dell’autorità imperiale.
L’insediamento funerario cristiano si sviluppò secondo i criteri già messi in atto negli altri cimiteri del suburbio, quali S. Callisto, Domitilla e Priscilla: si scavarono lunghe gallerie (cryptae), nelle cui pareti si ricavarono tombe a loculo (loci, loculi), talvolta sormontate da un arco, dette perciò arcosoli (arcosolia, arcisolia). I loculi venivano chiusi con lastre in marmo o in laterizio, fissate con malta, su cui veniva inciso il nome del defunto. Ad duas lauros, lungo le gallerie, si aprono frequentemente cubicoli (cubicula), riservati a famiglie o associazioni, riccamente decorati da affreschi. Al lavoro di scavo
del cimitero provvedeva la potente categoria dei fossori (fossores, laborantes), che presentava al suo interno una notevole organizzazione specialistica.Talvolta sono state riutilizzate cavità già esistenti, quali cunicoli idraulici e cave di pozzolana.
INTERVENTI IMPONENTI... Se le catacombe hanno origine nella seconda parte del III secolo, è nel IV che si registra il loro maggiore sviluppo. In epoca costantiniana il sopratterra è infatti interessato da imponenti interventi edilizi intrapresi proprio dall’imperatore Costantino e che modificarono fortemente il paesaggio romano in questa parte del suburbio, con la costruzione del grandioso mausoleo destinato all’Augusta Elena e della grande basilica circiforme, una delle sei testimonianze finora note di una tipologia architettonica esclusiva degli architetti costantiniani attivi nella capitale dell’impero. Nel pavimento di tali edifici trovavano posto, ordinatamente, In alto: testa in marmo riconducibile all’iconografia di Elena. Roma, mausoleo di S. Elena, Antiquarium. Nella pagina accanto: catacombe dei Ss. Marcellino e Pietro. Volta del cubicolo di Susanna e del fossore. In basso: catacombe dei Ss. Marcellino e Pietro. L’arcosolio di Sabina, con scena di banchetto.
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migliaia di sepolture a piú piani, per rispondere all’enorme richiesta dei fedeli di sepeliri ad sanctos, cioè essere sepolti presso le tombe dei beneamati martiri. Completavano il complesso ad duas lauros due vasti recinti, che abbracciavano i fianchi della basilica, all’interno dei quali si disponevano tombe di superficie e ricchi mausolei privati.
...E MEMORIE ILLUSTRI Altro elemento che ha favorito lo sviluppo di IV secolo dell’insediamento cristiano è stata la deposizione di numerosi martiri, vittime delle grandi persecuzioni degli imperatori Valeriano e Diocleziano: oltre a Marcellino e Pietro, gli eponimi del complesso, erano venerati Gorgonio e Tiburzio, nonché alcuni gruppi martiriali, quali i Quattro
Coronati, i Trenta e i Quaranta A destra: Martiri. La presenza di queste illucatacombe dei stri memorie ha ulteriormente inSs. Marcellino e crementato il fenomeno delle se- Pietro. L’arcosolio polture ad sanctos, che portò all’e- di Orfeo. Il mitico norme ampliamento della rete catacantore della combale, ove la decorazione ad afTracia venne fresco (sono censiti 88 ambienti spesso adottato dipinti nella catacomba) raggiunse dall’arte espressioni eccezionali, che oggi cristiana, con costituiscono la principale attrazio- varie implicazioni ne per il visitatore. A puro titolo di allegoriche, tra esempio, si possono ricordare l’arcui quella del cosolio di Orfeo, forse la piú felice buon pastore. rappresentazione del mitico cantore In basso: della Tracia, la Madonna con due Mala Sala III gi, variante singolare dell’Epifania, il dell’Antiquarium cubicolo dei Santi Eponimi, con la allestito nel serie dei martiri principali del cimimausoleo tero, e, soprattutto, le tante scene di di S. Elena, banchetto funerario (refrigerium) e le interamente rappresentazioni di fossori. dedicata alle
DOVE E QUANDO Mausoleo di S. Elena e catacombe dei Ss. Marcellino e Pietro Roma, via Casilina 641 Info per la visita del complesso, scrivere a: santimarcellinoepietro@gmail.com oppure contattare i seguenti numeri di telefono: 339 6528887 o 06 2419446
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catacombe dei Ss. Marcellino e Pietro.
La presenza di numerose sepolture martiriali richiamò anche l’azione di papa Damaso (366-384), grande cultore dei martiri romani. Le maggiori testimonianze dell’intervento papale ad duas lauros riguardano la tomba dei martiri Pietro e Marcellino, anche se grandi epigrafi damasiane, segno caratteristico dell’azione di questo pontefice, ornavano certamente anche le tombe di Gorgonio e di Tiburzio. A partire dal V secolo il cimitero della Labicana non è piú un luogo di sepoltura, ma esclusivamente meta di pellegrinaggi. Fu allora che la cripta di Pietro e Marcellino, probabilmente sotto papa Onorio I (625638), venne trasformata in basilichetta sotterranea absidata. L’importanza del cimitero inter duas lauros nell’epoca dei pellegrinaggi è
ben testimoniata, oltre che dai tanti graffiti dei pellegrini – alcuni anche in alfabeto runico –, anche dagli Itinerari di VII secolo, vere e proprie guide brevi al servizio dei devoti visitatori. Con l’VIII secolo inizia la stagione delle grandi traslazioni dei corpi santi, i quali, per ragioni di sicurezza – qui come negli altri santuari suburbani – verranno trasferiti nelle chiese urbane romane o nelle grandi abbazie monastiche del centro Europa, soprattutto per iniziativa dei sovrani carolingi: fu allora che le reliquie dell’esorcista Pietro e del presbitero Marcellino furono portate in Germania da Eginardo, biografo di Carlo Magno, in un villaggio sul Meno che prese da allora il nome significativo di Seligenstadt («la citta dei Santi»). Raffaella Giuliani
PER SAPERNE DI PIÚ Rocco Bochicchio (a cura di), Il Mausoleo di Sant’Elena. Il monumento e l’Antiquarium, Electa Milano 2019 Maria Grazia Filetici, Nuovi rapporti spaziali e strutturali nel restauro del Mausoleo di S. Elena e del complesso dei SS. Pietro e Marcellino nell’antica regione ad duaslauros, in Daniele Manacorda et alii (a cura di), Arch.it.arch. Dialoghi di archeologia e architettura, Edizioni Quasar, Roma 2009; pp. 42-61 Raffaella Giuliani, SS. Marcellino e Pietro, Catacombe di Roma e d’Italia 11, Città del Vaticano 2015. Laura Vendittelli (a cura di), Il Mausoleo di S. Elena. Gli scavi, Verona 2011 a r c h e o 57
RESTAURO • NANOTECNOLOGIE
ALLEATI INVISIBILI CON IL RICORSO ALLE NANOTECNOLOGIE, ANCHE IL MONDO DEL RESTAURO ARCHEOLOGICO COMPIE UN SIGNIFICATIVO PASSO AVANTI: SPECIALMENTE NEL CAMPO DEL RISANAMENTO DEI MATERIALI LAPIDEI E DELLE ANTICHE MURATURE, AMBITI NEI QUALI SI SONO GIÀ REGISTRATI RISULTATI ECCELLENTI di Silvia Camisasca
Sulle due pagine: murature gravemente affette da erosione nell’area archeologica di Tindari (Messina). A sinistra: le ricercatrici al lavoro nei laboratori dello IEMEST (Istituto Euro Mediterraneo di Scienza e Tecnologia) di Palermo. 58 a r c h e o
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a consapevolezza del valore sociale del patrimonio storico e la volontà di preservarne la fisicità, per consegnare ai posteri le testimonianze del passato, hanno portato negli ultimi anni a interventi piú cauti e rispettosi: enti preposti alla salvaguardia vigilano, perché non si ripetano errori del passato, cosí che gli attuali progetti sono frutto di confronti interdisciplinari tra esperti – dallo storico al chimico – di settori apparentemente lontani. In particolare, l’intervento su manufatti archeologici è tra i piú complessi, per molteplici ragioni, prima fra tutte la frequente precarietà dello stato di conservazione; molte delle strutture che vengono portate alla luce dagli scavi non erano state pensate e realizzate per resistere agli agenti atmosferici: intonaci parietali o pavimentazioni in mosaico o marmo, facevano perlopiú parte di ambienti interni e, dunque, protetti dallo scorrimento di acque e dall’esposizione diretta ai raggi ultravioletti. Quanto alle murature, la loro sezione è spesso esposta agli agenti di degrado, offrendo un’insidiosa via al percorso delle acque all’interno della struttura muraria e tra i materiali di cui è composta. A ciò si aggiunga lo stress igrotermico e, in alcuni casi, fisico-meccanico, che fa seguito al disseppellimento.
LA CAUTELA INNANZITUTTO Lo stato di conservazione delle strutture archeologiche, pertanto, impone una particolare cautela nella scelta delle modalità operative e dei prodotti a cui fare ricorso. Talvolta i manufatti sono purtroppo andati perduti, come nel caso del teatro di Eraclea Minoa (Agrigento), per il quale fu realizzata una copertura che, nel tempo, ha portato al disfacimento della biocalcarenite dei gradoni della cavea. a r c h e o 59
RESTAURO • NANOTECNOLOGIE
Oggi le nanotecnologie e materiali innovativi (vedi box a p. 64) offrono in questo senso valide opportunità per una conservazione sostenibile del patrimonio culturale, a partire dalla diagnostica, finalizzata alla conoscenza, per finire alla sperimentazione, in laboratorio e sul campo, di nuovi prodotti e tecnologie. Il processo procede attraverso piú fasi e grazie all’apporto scientifico di varie discipline: primo passo è il riconoscimento del valore del bene oggetto di studio, sia esso di natura storica, documentale, estetica o materica. Segue la diagnostica preliminare alla conservazione, necessaria a individuare gli elementi che costituiscono l’opera e il suo stato di alterazione o degrado, cosí da definire il piú idoneo intervento conservativo.
LA SCELTA DEI PRODOTTI Accertate quindi le cause e le dinamiche alla base dei fenomeni a carico dei materiali, si procede alla fase di valutazione comparativa delle soluzioni alternative: tale analisi viene condotta dapprima in laboratorio, applicando i prodotti su campioni di materiale prelevato in sito, se disponibile, o avente caratteristiche affini (mineralogiche, chimiche e fisiche), effettuando una serie di test, eventualmente integrati da prove di invecchiamento accelerato artificialmente (vedi box alle pp. 6263). Individuati i prodotti che offrono le migliori «performance», in termini di efficacia e tenuta nel tempo, le analisi si svolgono in aree campione, dove i manufatti vengono testati e monitorati direttamente. Tale metodo, esteso a tutte le fasi di studio, porta a definire l’intervento piú appropriato alle reali necessità, riducendo notevolmente i rischi derivanti da scelte troppo invasive, non durature o compromettenti la sopravvivenza nel tempo di testimonianze di alto valore storico. Geologi, chimici, fisici, biologi: sono molte le professionalità al servi60 a r c h e o
L’intervento di restauro dev’essere sempre preceduto da un’attenta anamnesi, nella quale coinvolgere specialisti di varie discipline zio della diagnostica impegnate a studiare la materia e i suoi processi di alterazione. Solo un’accurata anamnesi – tesa a considerare tutti gli aspetti legati alla natura dei costituenti e le relazioni tra il manufatto e il suo contesto ambientale – può infatti definire l’intervento conservativo proporzionato alle reali necessità. Si dice, a ragione, che
la diagnostica costituisce, a oggi, lo strumento primario a evitare errori irreversibili a danno di veri e propri «pezzi» di storia, o tali da accelerare i naturali processi di alterazione, o, addirittura, da apportare nuovi fenomeni di degrado all’opera d’arte. Abbiamo quotidianamente sotto gli occhi gli effetti di molti interventi conservativi distruttivi, conseguenti anche all’impiego di materiali considerati, negli anni Settanta, innovativi, quali il Paraloid B72, una resina acrilica che nel tempo si è irrigidita e ingiallita. Altrettanto deleteria è risultata la prassi di applicare i mosaici, dopo lo stacco, su solette in cemento armato, per restituirne la planarità. Inevitabilmente, il ferro della rete di armatura delle solette tende a ossidarsi, aumentando di volume, determinando di conseguenza l’apertura di fessurazioni e fratture che compromettono irrimediabilmente la superficie musiva. Inoltre, trattandosi di un intervento altamente invasivo, e pressoché irreversibile, risulta estremamente rischioso passare, poi, al distacco dal cemento. Fortunatamente, nuovi materiali e tecnologie garantiscono adesso per i beni culturali procedure piú compatibili, di ridotta invasività e di cui sono prevedibili in anticipo gli eventuali effetti, contribuendo alla loro sostenibilità.
I PRO E I CONTRO Benché molto promettenti, le nanotecnologie presentano, tuttavia, problematiche legate al consolidamento e alla protezione del materiale lapideo degradato. I composti chimici oggi piú diffusi contengono silicio o sono polimeri organici. Inerzia chimica, fotostabilità, termoresistenza e assenza di apprezzabili alterazioni cromatiche sono le caratteristiche essenziali dei primi; di contro, i vantaggi dei polimeri organici sono dovuti a una temperatura di transizione vetrosa modu-
A destra: degradazione differenziale di murature archeologiche con grave erosione e perdita di materiale. Nella pagina accanto: le ricercatrici Roberta Basile e Silvia Germinario nei laboratori di invecchiamento artificiale dello IEMEST. In basso: degrado di roccia sedimentaria con formazione di alveoli per la quale si stanno studiando trattamenti consolidanti a base di nanosilice.
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RESTAURO • NANOTECNOLOGIE
UN LABORATORIO TUTTO AL FEMMINILE Un’équipe multidisciplinare di sole donne e da una donna capitanata. Cosí si presenta il NIMA dell’Istituto EuroMediterraneo di Scienza e Tecnologia (IEMEST) a Palermo, il laboratorio diretto da Federica Fernandez, in cui un nutrito gruppo di giovani archeologhe, biologhe, fisiche, geologhe e chimiche, «invecchiando» i reperti, valuta i meccanismi alla base dei fenomeni di alterazione, e verifica, in via comparativa, il comportamento nel tempo dei trattamenti. Il deterioramento della pietra non è che l’insieme delle modificazioni subite sotto l’azione di agenti chimici, fisici o biologici: a ogni tipo di sollecitazione ambientale – variazioni climatiche, esposizioni a temperature estreme, cristallizzazione dei sali disciolti in acqua – la risposta di un determinato materiale varia, manifestando effetti caratteristici in funzione del processo di degrado: per questo, a seconda delle specificità fisiche e composizionali, le modalità di intervento sono differenti. Oggi, grazie alle camere per invecchiamento artificiale, i piú comuni processi di alterazione e degrado a carico dei materiali lapidei, artificiali o naturali, possono essere riprodotti in laboratorio, studiandone l’evoluzione nel tempo. Attraverso trattamenti sperimentali in laboratorio (prove fisico-meccaniche), affiancati a test di invecchiamento accelerato su provini di roccia, è possibile risalire a cause ed effetti del degrado sui materiali lapidei usati a scopo ornamentale, e impiegati nell’edilizia storica e
labile, a una buona flessibilità strutturale, a discrete proprietà di adesione e a un certo grado di idrofobia, il che significa che non necessariamente al trattamento consolidante deve seguire quello protettivo. In compenso, alle superfici trattate con tali polimeri sono associate alterazioni cromatiche e perdita delle proprietà idrorepellenti. Grazie all’adozione di nanotecnologie, sono stati, per esempio, sviluppati alcuni polimeri ibridi nanostrutturati, idonei al consolidamento di materiali lapidei deteriorati. La presenza contemporanea del componente inorganico (che influenza durezza, resistenza meccanica, resistenza chimica, trasparenza ottica, ecc.) e organico (che influenza le 62 a r c h e o
moderna. Non solo: è possibile anche la valutazione dell’efficacia dei trattamenti conservativi, consolidanti e protettivi, riducendo i rischi legati all’uso di prodotti non adeguati alle reali necessità del manufatto. Eseguire una campagna di test di invecchiamento, preliminare alla scelta d’intervento, costituisce la fase fondamentale a garanzia di qualità e sostenibilità nel tempo di un lavoro conservativo. «L’invecchiamento provocato ad arte – spiega Federica Fernandez – tutela la conservazione. Nei nostri laboratori, attraverso la definizione di protocolli specifici, riusciamo a simulare e ad accelerare fenomeni naturali di alterazione, normalmente agenti sui materiali esposti in qualsiasi ambiente: un contesto
proprietà idrofobe e meccaniche) ha consentito buone prestazioni in termini di incremento della resistenza meccanica delle rocce trattate, eccellente profondità di penetrazione, elevata permeabilità al vapore, inalterazione del colore, ritrattabilità e durata nel tempo.
AL CAPEZZALE DELLE PITTURE MURALI Sempre nell’ambito del consolidamento, una delle sperimentazioni di maggior successo, anche per l’elevata compatibilità con materiali a matrice carbonatica, sono le nanocalci, ovvero nanoparticelle di idrossido di calcio di dimensioni nanometriche, disciolto in alcool isopropilico. La loro adozione per il consolida-
mento di materiali a base carbonatica (pitture murali, affreschi materiali lapidei) in realtà migliora il tradizionale consolidamento con calce spenta, storicamente in uso per far riaderire le scaglie negli intonaci. L’uso di latte di calce presentava, invece, l’inconveniente della formazione di velature bianche indelebili sulle superfici, causata dall’elevato volume dell’idrossido di calcio, che, oltre tutto, tende a separarsi dal solvente. Le nanocalci messe a punto dall’équipe dell’Università di Firenze, coordinata da Piero Baglioni, si presentano come speciali particelle di morfologia piatta-esagonale, con uno spessore mediamente inferiore ai 100 nm (milionesimo di millime-
esterno a basse temperature o una forte esposizione ai raggi ultravioletti, come all’aggressione di sali solubili in prossimità del mare. Il nostro obiettivo è quello di definire il processo di “stress” a cui sottoporre i materiali, per poi valutare, attraverso un’analisi multiparametrica, le risposta del materiale e, nel caso, l’efficacia del trattamento nel tempo». La premessa è che le condizioni ambientali a cui sono sottoposti i beni culturali sono le piú varie: immaginiamo la differenza di stress termo igrometrico esercitato sulle piramidi rispetto a quello sulle pitture parietali delle grotte di Lascaux in Francia. I casi di studio non mancano: «In questi anni – aggiunge Fernandez – abbiamo testato numerosi prodotti basati su nanotecnologie e valutato la differenza con tecnologie tradizionali nell’ambito della conservazione del patrimonio culturale, come trattamenti consolidanti, puliture, protettivi idrorepellenti per superfici porose o anticorrosivi per metalli. I prodotti che in laboratorio avevano dato gli esiti migliori sono stati testati direttamente in sito, grazie alla disponibilità con le
Soprintendenze, su aree campione accuratamente individuate». L’applicazione di nanocalci ha dato ottimi risultati, nel caso di consolidamento di pitture murali (Palazzo Ajutamicristo a Palermo), ma anche le nanosilici, con polimeri ibridi nanostrutturati sulle strutture emerse della Valle dei Templi di Agrigento, hanno portato a esiti piú che buoni. Nello stesso laboratorio sono state sperimentate nuove malte, per l’intervento in ambito archeologico, senza cemento e con additivi nanostrutturati, con caratteristiche specifiche, come per il restauro dei mosaici e la copertura delle creste murarie in contesti archeologici. L’équipe è assai attiva, come provano i diversi progetti sviluppati in cooperazione internazionale: nell’ambito della conservazione del patrimonio archeologico, CLIMORTEC (finanziato dal Governo Spagnolo Dirección General de Investigación Certificación y Técnica), attraverso lo studio di alcuni siti romani nel bacino del Mediterraneo, ha caratterizzato la composizione di malte del I e II secolo d.C. e valutato stato di conservazione e processi di alterazione relativi ai vari contesti ambientali. Il progetto, che ha visto la partecipazione dell’Università Complutense di Madrid, di Salonicco e di Malta, ha anche previsto la sperimentazione di malte innovative con additivi nanostrutturati, a scopi conservativi, estremamente compatibili con le malte storiche. Il caso studio in Italia, sotto la Soprintendenza di Agrigento, sono state le domus del sito di Eraclea Minoa. A sinistra: sperimentazione di trattamenti anticorrosivi per superfici metalliche su campioni in laboratorio. Nella pagina accanto: l’architetto Federica Fernandez (prima, a sinistra) al lavoro con le ricercatrici nei laboratori dello IEMEST.
tro): dimensioni e leggerezza garantiscono una migliore penetrabilità nell’affresco, da cui piú difficilmente si staccano, e la forma piatta rende tali particelle estremamente assorbenti, favorendo la loro trasformazione in carbonato di calcio. Quando l’alcool evapora, la carbonatazione della nanocalce forma micro-cristalli di calcite, che, fondendo con il carbonato di calcio dello strato di pittura e dell’intonaco sottostante, li salda con un legame pressoché invisibile, ripristinando le proprietà meccaniche della superficie trattata. L’utilizzo dell’alcool garantisce un’ottima penetrazione nei materiali porosi delle particelle nano-strutturate, che vanno a posizionarsi nea r c h e o 63
RESTAURO • NANOTECNOLOGIE
NANOTECNOLOGIE E NANOMATERIALI Le nanotecnologie sono tecniche che consentono la manipolazione della struttura della materia su scala nanometrica (1 nanometro = 1 milionesimo di mm): per avere un’idea della scala dimensionale, basti pensare che un foglio di carta è spesso 80 000 nanometri. Teorizzate da Richard Feynman nel 1959, le nanotecnologie sono nate sperimentalmente intorno agli anni Ottanta, grazie a strumentazioni capaci di osservare e manipolare la materia su scala sub-atomica. Negli ultimi venti anni, il ventaglio delle loro applicazioni si è enormemente ampliato: dall’agroalimentare all’energia e l’ambiente, dai mezzi di trasporto all’abbigliamento, dalla farmaceutica al biomedicale, dalla meccanica al tessile e dalla chimica alle tecnologie dell’informazione, cosí che l’uso dei nanomateriali è, a oggi, capace di incidere trasversalmente sulla quasi totalità delle attività, rivoluzionando concezione, progettazione e realizzazione di prodotti e servizi. L’Unione Europea le definisce «chiavi abilitanti» (Key Enabling Technologies, KET), ovvero fondamentali allo sviluppo di società ed economia. Il loro effetto pervasivo è dovuto, in larga misura, alla radicale trasformazione che comportano su tutti i materiali, e, dunque, sui processi di lavorazione. Tra i materiali tradizionali e quelli «nanostrutturati» la differenza è intrinseca nelle stesse proprietà: l’oro, per esempio, in forma massiva, ha colore giallo, mentre, in forma di nanoparticelle, posto in soluzione, cambia colore a seconda delle loro dimensioni e forma, presentando proprietà ottiche differenti. E ancora, nei materiali tradizionali, le
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dimensioni lineari dei cristalli di cui sono costituiti – i grani – variano indicativamente tra 0,005 e 0,1 mm (5000-100 000 nanometri), mentre i nanostrutturati sono costituiti da cristalli con dimensioni lineari comprese tra 10-100 nanometri (0,00001-0,0001 mm). I differenti comportamenti sono dettati proprio dallo scarto dimensionale dei grani, perché – a parità di volume di materiale – aumenta la superficie dell’interfaccia tra essi (bordo grano), la quale gode di proprietà diverse da quelle della massa interna al materiale, ma – poiché rappresentano solo l’1% circa del volume di un blocco policristallino comune – ha scarsa influenza sulle proprietà complessive del materiale. Il bordo grano di un solido nanostrutturato, invece – costituendo circa il 50% del volume complessivo – influenza piú pesantemente le proprietà finali del materiale. Le nanotecnologie, che consentono di manipolare i nanograni su una scala vicina a quella dei singoli atomi, rendono possibili proprietà «tagliate su misura» per ottenere specifiche prestazioni o requisiti tecnologici. Per esempio, i metalli nanostrutturati presentano una resistenza meccanica 4-5 volte piú elevata di quella degli omologhi in forma microcristallina abituale, cosí come i materiali ceramici, normalmente caratterizzati da durezza, rigidità e fragilità, possono essere prodotti in forme meno fragili e relativamente duttili. Altro esempio sono i nanocompositi polimerici, che, oltre a offrire uno straordinario rapporto resistenza/peso, se opportunamente additivati, possono trasformarsi da isolanti a conduttori di elettricità.
Applicazione a pennello di nanosilici per il consolidamento di superfici lapidee. Nella pagina accanto, in basso: campioni di malta fotocatalitica con diversi mix-design prima dei test.
gli strati micrometrici immediatamente sottostanti la superficie. L’applicazione della nanocalce si è dimostrata efficace perfino per il restauro di carta e legno: le nanoparticelle di idrossido di calcio permettono, infatti, la neutralizzazione dell’acidità di manufatti cartacei e lignei, preservandone la durata nel tempo. A tal proposito, si contano nel mondo numerosi casi risolti con successo: dai dipinti murali nei siti archeologici Maya a Calakmul, in Messico, al restauro del Cenacolo di Leonardo. Altro caso di evoluzione di tecniche tradizionali attraverso le na-
notecnologie è rappresentato dalla nanosilice, una dispersione colloidale acquosa, le cui dimensioni si attestano sotto i 20 nm. Qui, a seguito dell’evaporazione dell’acqua, le particelle si legano formando un gel di silice, analogamente a quello che si ottiene dalla reazione del tradizionale silicato d’etile, comunemente in uso nel campo del restauro per il consolidamento di materiali lapidei, creando ponti tra i granuli decoesi di una pietra o di un intonaco (effetto consolidante), oppure per legare le particelle dei pigmenti sulle superfici lapidee (patinature), o, a r c h e o 65
RESTAURO • NANOTECNOLOGIE
ancora, per mantenere uniti inerti A sinistra: test effettuato su campioni di var io tipo (realizzazione di di malte fotocatalitiche: dopo 6 ore di malte da stuccatura inorganiche). esposizione ai raggi UV, il blu di
SUI MARMI DELLA TORRE PENDENTE Tra i primi esempi di applicazione della nanosilice per la conservazione dei materiali lapidei figura il consolidamento dei capitelli del loggiato del primo ordine della Torre di Pisa, in marmo bianco di Carrara. A causa del degrado dovuto alla presenza di sali nei pori del materiale e agli effetti dell’inquinamento, gli elementi avevano perso gran parte del modellato e il marmo evidenziava un processo di polverizzazione. Per il trattamento di consolidamento, la nanosilice è stata dispersa in solvente acquoso e applicata per immersione, creando una vasca in corrispondenza di ogni capitello. Migrando all’interno della struttura porosa del materiale, la nanosilice ha potuto penetrare efficacemente, colmando le cavità e restituendo coesione al marmo, senza alterare cromaticamente i capitelli.Visti gli esiti piú che eccellenti, si è proceduto analogamente sul loggiato dell’ordine superiore. Trattandosi di una dispersione non tossica e acquosa (dunque, non infiammabile), il livel66 a r c h e o
metilene viene degradato e il
materiale si autopulisce. A destra: test effettuato su campioni di malte fotocatalitiche macchiate con il blu di metilene, un colorante organico.
lo di sicurezza è alto, sia in laboratorio che in cantiere, con conseguente riduzione di fattori di rischio e costi di trasporto e stoccaggio. Le nanosilici vengono inoltre impiegate per la realizzazione di intonaci caratterizzati da durabilità, stabilità e notevole compatibilità con
le pietre arenarie. Esempio in questo senso è il sito archeologico di Tajin, la piú grande e importante città preispanica della costa settentrionale del Golfo del Messico, circondata dalla giungla, con un clima caratterizzato da alta temperatura e umidità per la maggior parte
MALTE INNOVATIVE PER EDIFICI ANTICHI Nell’ambito del recupero e restauro di manufatti archeologici, l’impiego di leganti non compatibili con i materiali preesistenti rappresenta uno dei piú seri fattori di rischio per la salvaguardia del patrimonio storico-architettonico. A causa dell’incompatibilità chimico-fisica con i substrati tradizionali, l’uso indiscriminato di leganti impropri, in particolare di tipo cementizio, per la formulazione di malte di allettamento, stuccatura e intonaco, continua a essere tra le cause che compromettono i restauri di manufatti antichi. Nel corso degli anni, si è purtroppo, assistito a
un’accelerazione del degrado della muratura, come nel caso delle integrazioni con malta cementizia. Il progetto di ricerca, svolto nell’ambito del Master II livello «Nanotecnologie e Nanomateriali per i Beni Culturali» dell’Università degli Studi di Palermo, ha previsto la sperimentazione in laboratorio di malte innovative, con prestazioni avanzate, a base di calce idraulica, pozzolana e un additivo nanostrutturato capace di conferire alla malta migliore adesione, elasticità, lavorabilità e resistenza all’acqua, rispetto alle malte tradizionali. L’aggiunta di tale
UN «RESTAURO DEL RESTAURO» Accoppiate a diversi nuovi sistemi, le nanotecnologie si stanno rivelando assai utili anche per la pulitura delle superfici e la rimozione di vecchi trattamenti. A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, negli interventi di restauro si ricorreva spesso, e impropriamente, a prodotti organici (polimeri e copolimeri acrilici o vinilici) per il consolidamento e la protezione su dipinti
murali: avevano, infatti, costi molto contenuti, erano facilmente applicabili, e, soprattutto, garantivano – a breve termine – un recupero estetico dell’opera trattata immediatamente apprezzabile. Nel tempo, gli effetti collaterali legati all’applicazione di questi prodotti finivano però per alterare drasticamente le caratteristiche chimico-fisiche dell’opera, innescando meccanismi di degrado altamente lesivi per la conservazione dello strato pittorico. Poiché, inoltre, i polimeri invecchiati risultano solo parzialmente solubili nei solventi d’elezione, un eventuale processo di rimozione di tali sostanze, teso a un nuovo intervento di protezione, risulterebbe estremamente difficoltoso. Oltre agli ostacoli operativi, per la rimozione di tali polimeri organici dalle matrici litoidi, il consueto utilizzo di solventi organici puri è sconsigliabile anche per la tossicità di tali sostanze. Un significativo aiuto, negli ultimi anni, è rappresentato dai sistemi acquosi nanostrutturati: soluzioni miscellari e microemulsioni rimuovono selettivamente il materiale estraneo, minimizzando
additivo (a base di nanoparticelle di silice in soluzione acquosa, senza presenza di lattice) alla miscela aumenta l’adesione e l’ancoraggio delle malte sulle superfici, migliora l’elasticità e – riducendo la formazione di fessurazioni – il restringimento e la formazione di capillari che assorbono acqua. Il lavoro ha richiesto piú fasi: nella prima sono stati confezionati i provini di malta con percentuali varie di pozzolana, fibre e additivo nanostrutturato, mentre nella seconda, dopo la necessaria stagionatura dei provini, sono stati effettuati test di misura di
resistenza a flessione e a compressione della malta indurita, di aderenza al supporto e di assorbimento d’acqua per capillarità. Dopo l’invecchiamento accelerato mediante nebbia salina, i campioni, che avevano ottenuto i migliori risultati, sono stati sottoposti anche a prove di resistenza meccanica. La terza fase della ricerca è stata finalizzata a comprendere se i prodotti applicati fossero effettivamente migliorativi rispetto alle caratteristiche iniziali delle malte a base di calce idraulica naturale. Ottimi gli esiti in termini di lavorabilità, aderenza al
dell’anno. Il sito è costruito in pietra arenaria, un materiale che – nel tempo – ha subito diverse forme di degrado, come esfoliazioni ed erosioni, fino alla perdita di estese porzioni di bassorilievi. Per frenare il deterioramento, si è steso uno strato sottile di intonaco di ripristino a base di silice colloidale e pietra macinata, poiché l’analisi petrografica aveva classificato l’arenaria di Taijin come una litarenite calcarea con frammenti di rocce sedimentarie e quarzo: la silice colloidale, dunque, poteva rispettare la compatibilità chimica con il materiale originale. Il comportamento nel tempo ha dimostrato l’efficacia della scelta.
gli effetti collaterali, come la rideposizione del polimero rimosso all’interno della porosità della matrice del dipinto. Possiamo, dunque, concludere che, oggi, le nanotecnologie rendono possibile un «restauro del restauro», grazie a sistemi piú sostenibili e meno rischiosi per manufatti e operatori.
LE RISPOSTE ALLE SOLLECITAZIONI Anche per i nanomateriali, è necessaria una fase di valutazione accurata di molteplici fattori, quali lo stato di alterazione, le condizioni ambientali e il comportamento nel tempo. A ogni tipo di sollecitazione ambientale – siano esse variazioni climatiche, esposizioni a temperature estreme o cristallizzazione dei sali disciolti in acqua – un determinato materiale risponde differentemente, con effetti caratteristici del processo di degrado in corso. Attraverso, dunque, trattamenti sperimentali in laboratorio e test di invecchiamento accelerato su provini di roccia che simulano tali sollecitazioni, è possibile studiare la risposta dei materiali e risalire al loro comportamento nel tempo.
supporto, resistenza meccanica e durabilità; inoltre, mostrando anche un’eccellente resistenza all’azione aggressiva dei sali della camera climatica, le malte innovative potrebbero essere utilizzate utilmente in ambienti esposti ad aerosol marino, quali i siti archeologici in prossimità del mare. In ultima istanza, sono state dedotte alcune considerazioni comparative tra le varie malte confezionate, per contemplare la possibilità dell’adozione di malte con additivi nanostrutturati nell’ambito della conservazione di manufatti di elevato valore storico/artistico.
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RESTAURO • NANOTECNOLOGIE
I test di invecchiamento accelerato, affiancati a prove fisico-meccaniche, costituiscono oggi un valido strumento per lo studio di cause, processi ed effetti del degrado sui materiali, e per la validazione di trattamenti innovativi, comparandone i risultati con i prodotti tradizionali. Per l’invecchiamento vengono definiti specifici protocolli e adoperate le camere climatiche, che replicano condizioni ambientali del tutto similari a quelle reali, attraverso una serie di cicli a temperature e umidità controllate. La camera climatica stessa accelera l’invecchiamento artificiale dei materiali oggetto di studio – siano essi lapidei, metalli o malte –, eseguendo un programma calibrato in relazione alle peculiarità climatiche – riscontrate a seguito di una ricerca d’archivio sui dati geografici – a
cui il manufatto è sottoposto. Sulla base di tali indagini vengono «costruite» le condizioni di invecchiamento artificiale ciclico, tese a mostrare anticipatamente, seppur in modo accelerato, le naturali variazioni climatiche stagionali.
In basso: osservazione con microscopio ottico della superficie dei campioni di malta dopo l’invecchiamento.
Nella pagina accanto: test di resistenza alla corrosione effettuato su campioni di lamiera zincata trattata.
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SIMULANDO IL GRANDE FREDDO Mediante la camera climatica è possibile riprodurre anche l’effetto gelo-disgelo, che comporta la penetrazione dell’acqua in pori e fratture della pietra e i relativi passaggi di stato, da liquido a solido e viceversa, fortemente stressanti per il materiale: essendo, infatti, internamente sottoposto a continue azioni meccaniche, tenderà a microfratturarsi, a causa del venir meno della coesione tra i grani, e a espandersi in volume. Scopo dei test di gelo-disgelo è
quello di indurre nella roccia gli stress dovuti alla formazione del ghiaccio, simulando condizioni termiche estreme. Con altre finalità, si procede, al contrario, trattando le rocce con stress termici, che alterano caratteristiche fisiche e proprietà meccaniche, a seguito della modificazione delle caratteristiche tessiturali e petrografiche. La conduttività termica delle rocce – cioè, la capacità a lasciar propagare internamente calore – è direttamente relazionata alla sua tessitura e, in genere, inversamente proporzionale alla porosità. La variazione di temperatura è del resto uno dei fattori che determinano proprietà e integrità fisica delle rocce, ed è l’esito di un continuo lavoro di espansioni e contrazioni dei cristalli: in particolare, è responsabile del cambiamento microstrutturale della roccia dovuto a incremento della temperatura, formazione e sviluppo di microcrepe e, quindi, aumento di volume della porosità interna. Attraverso questo test è pertanto possibile analizzare la variazione delle proprietà fisiche delle rocce, per valutare le micro-fessure indotte termicamente a diverse temperature. Un altro significativo test di invecchiamento accelerato prevede un trattamento con soluzioni saline, teso a simulare uno stato molto frequente in natura, durante il quale sali da una soluzione salina satura, penetrata attraverso le discontinuità, precipitano, ovvero si cristallizzano. L’azione dei sali solubili sui materiali lapidei si manifesta con modalità differenti, influenzate, sia dalla natura mineralogico-petrografica e dalle caratteristiche strutturali che condizionano il percorso dei sali all’interno della pietra (a seconda che il mezzo sia fessurato e/o poroso), sia dalla concentrazione salina. La diversa permeabilità di un materiale lapideo permette al sale disciolto in acqua di circolare e inse-
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
rirsi nei pori, mentre la sollecitazione esercitata dai sali sulla superficie dei pori ne limita la durata, degradando – con il passare del tempo – in forme diverse (efflorescenze, sub-efflorescenze, cripto-efflorescenze, asportazione) il materiale. Quando una soluzione salina rimane, in condizioni di saturazione, nel materiale poroso, i cristalli di sale cominciano a precipitare all’interno degli spazi vuoti. La crescita dei cristalli dà luogo a una pressione di
cristallizzazione tanto maggiore quanto minore è il raggio medio dei pori: pressione che aumenterà con la tensione interfacciale. Gli effetti dello stress indotto all’interno del materiale dipenderanno, inoltre, dalla natura del sale e del materiale lapideo in esame. Il test viene solitamente condotto esponendo il campione a una soluzione al 14% di solfato di sodio decaidrato (Na2SO4×10H2O), uno dei piú dannosi rilevati sugli
edifici storici: si possono, tuttavia, considerare anche altre soluzioni, quali miscele di cloruro di sodio, solfato di magnesio e cloruro di magnesio, paragonabili alla composizione dello spray marino. Grazie alle simulazioni prodotte da questi procedimenti, l’invecchiamento artificiale rappresenta, attualmente, uno strumento prezioso per l’impiego consapevole e sostenibile di materiali innovativi e nanotecnologie. a r c h e o 69
ARCHEOTECNOLOGIA • TRAVERSATE OCEANICHE
LA
«PRIMA» SCOPERTA DELL’AMERICA LA DATA, COME TUTTI SANNO, FU IL 12 OTTOBRE 1492. EPPURE, DA QUALCHE ANNO, SI MOLTIPLICANO LE VOCI INTORNO A UNA NUOVA, RIVOLUZIONARIA IPOTESI: E SE NON FOSSE STATO CRISTOFORO COLOMBO A GETTARE, PER PRIMO, LE ANCORE DI FRONTE ALLE COSTE DELLE «INDIE»? di Flavio Russo
A
tutt’oggi si contano vari reperti archeologici che, inspiegabilmente, sarebbero stati rinvenuti lungo le coste del Sudamerica, del Canada, e delle isole limitrofe e che, inizialmente, sono stati assegnati alla enigmatica categor ia degli Ooparts (acronimo dell’inglese Out Of Place ARTifacts, «oggetti fuori posto»). Quando il loro numero è cresciuto, simili manufatti sono stati da alcuni considerati come una classe a sé stante e poiché sembravano possedere una qualche attinenza con il mondo classico occidentale, hanno suggerito, dapprima timidamente, poi in maniera piú insistente, una remota frequentazione del Nuovo Mondo da parte di Fenici,
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Ritratto di Eratostene di Cirene, lo scienziato greco (attivo fra il III e il II sec. a.C.) che calcolò la lunghezza del meridiano terrestre in circa 30/40 000 km.
Cartaginesi, Greci e, soprattutto, Romani. A questi ultimi, proprio per la natura e la quantità dei presunti ritrovamenti, sembrano potersi ascrivere contatti sistematici, forse persino stagionali, veri antesignani di rappor ti commerciali protrattisi per secoli. Le fonti, tuttavia, non ne fanno menzione, ma il silenzio si potrebbe spiegare anche con l’aver sempre ritenuto quelle coste come estreme propaggini dell’India (il medesimo errore che, del resto, commise anche Cristoforo Colombo, che le scambiò con quelle dell’Asia), per cui le eventuali menzioni non risulterebbero distinguibili da quelle riferite alle coste indiane propriamente dette. Per vagliare la verosimiglianza
L’Atlante Farnese, dalle terme di Caracalla a Roma. II sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
di una simile ipotesi, è necessario analizzare argomentazioni distinte e distanti, che, tuttavia, raccordate in sequenza, convergono verso un’unica conclusione: i Romani, pur non avendone contezza, andarono e tornarono piú volte dall’America! A sostegno delle traversate atlantiche vi sono le conoscenze geodetiche e astronomiche dell’epoca, la disponibilità di navi idonee, la capacità di orientarsi in mare aperto e, appunto, il repertorio archeologico recuperato in ambedue i continenti, pur con tutte le cautele del caso (vedi box alle pp. 79-83).
LO STATO DELL’ARTE L’esigenza di navigare verso ponente scaturiva, una volta assodata la sfericità della terra, dalla ricerca di una rotta alternativa per l’India, le cui ricchezze commerciali costituivano un incentivo straordinario. Non a caso, sotto Augusto, fino a 120 navi facevano annualmente rotta da Myos Hormos, porto situato presso lo sbocco del Mar Rosso, verso l’India, con costi cosí elevati da far scrivere a Plinio il Vecchio parole piene di riprovazione: «India, Cina e penisola Araba chiedono cento milioni di sesterzi dal nostro impero ogni anno: tanto ci costano i nostri lussi e le donne. Quanta parte delle importazioni è dedicata ai sacrifici agli dèi o agli spiriti dei defunti?» (Naturalis Historia XII, 41.84). Anche se, occorre dirlo, non era la vanità femminile l’unico stimolo per quei commerci, ma anche la gola, visto l’apprezzamento che riscuotevano le spezie di quelle terre lontane. a r c h e o 71
ARCHEOTECNOLOGIA • TRAVERSATE OCEANICHE
Quanto alla sfericità della terra, sin dal III secolo a.C., per i Greci prima e per i Romani poi, non sussistevano dubbi al riguardo tanto che ancora Plinio affermava: «La sua forma è arrotondata in un globo perfetto, come insegna anzitutto il nome di “globo” su cui si accorda l’umanità, ma anche per indizi concreti: non solo perché una figura del genere converge su stessa in tutte le sue parti, e deve sostenersi da se stessa (…) ma perché anche gli occhi confermano quest’idea: dovunque lo si guardi, appare come una curvatura osservata dal centro,
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il che, con altre forme geometriche sarebbe impossibile» (NH II, 2). E aggiungeva: «Questa sua forma, in una rivoluzione eterna e instancabile, con inesprimibile velocità, gira su se stessa nel tempo di ventiquattro ore: il sorgere e il tramontare del sole non ammettono dubbi in proposito» (NH II, 3). Che la terra fosse una sfera lo testimoniano senza incertezze statue e affreschi, ma, al di là della forma geometrica, i Romani sapevano quanto fosse grande, prima di intraprendere una sua parziale circumna-
vigazione? La risposta è affermativa, poiché Eratostene (276-194 a.C.), pur stimando erroneamente Alessandria e Syene (presso Assuan) sullo stesso meridiano, rapportando l’angolo sotteso alla loro distanza all’intera circonferenza, riuscí a valutarla in circa 30/40 000 km, una misura non lontana da quella in seguito effettivamente accertata. Pertanto, immaginando di navigare lungo un unico parallelo e sempre nella stessa direzione, non si sarebbe raggiunta l’agognata costa indiana, bensí quel-
la americana! Ma dopo quanti gior- A destra: schema ni di navigazione? La risposta detergrafico che mina implicitamente un secondo riassume la interrogativo: per quale rotta? misurazione della La distanza tra la costa euro-africana circonferenza e quella americana oscilla infatti da terrestre un massimo di 8000 km circa a un effettuata da minimo di 2700, fra il Senegal e il Eratostene tra Brasile, che si riducono ulteriorAlessandria e mente partendo dalle prospicienti Syene. isole di Capo Verde. Isole, queste ultime, conosciute vagamente dai Romani e ricordate da Plinio col nome di Gorgades (NH VI, 205),
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
A sinistra: replica ottocentesca del planisfero di Eratostene sul quale è evidenziata la collocazione di Alessandria e di Syene sullo stesso meridiano.
perché dimora delle Gorgoni, poste, a suo dire, a due giorni di navigazione dal continente, per noi a 500 km dal Senegal, piú a sud delle ben note Canarie. Grazie a tale ubicazione sarebbero state un’ottima base di partenza per la traversata, tanto che anche Colombo, nel suo terzo viaggio, si attenne a questa rotta, favorita per giunta dal costante spirare degli alisei, ideali per la navigazione a vela. Il tempo della traversata, da terra a terra, stimando la velocità media in 4-5 nodi circa (8-9 kmh) non avrebbe superato le 3 settimane, durata compatibile con le scorte di viveri e acqua delle navi mercantili dell’epoca. Una seconda rotta fu quella piú settentrionale, utilizzata successivamente dai Vichinghi: si snodava dalle coste normanne, costeggiando la Gran Bretagna, quindi le isole Fær Øer e l’Islanda, proseguendo lungo le coste della Groenlandia fino a Terranova.
LE NAVI IDONEE La piú frequente critica all’ipotesi della traversata atlantica da parte di navi romane insiste sulla loro inadeguatezza a sopportare le poderose onde oceaniche, critica certamente condivisibile quando riferita alle a r c h e o 73
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ancore erano legate non con funi, ma con catene di ferro, invece di vele vi erano pelli e cuoi pieghevoli e sottili (…) perché si pensava che le vele non avrebbero potuto agevolmente sostenere le grandi tempeste dell’Oceano e l’impeto dei venti, né reggere navi tanto pesanti. In confronto con queste navi, quelle della nostra flotta avevano i soli vantaggi della celerità e della forza dei rematori (…) [tanto che] le potevano danneggiare nemmeno con i rostri, tanto grande era la loro robustezza, e solo difficilmente le potevano raggiungere coi dardi, data l’altezza dei loro bordi, né per la stessa ragione gli arpioni le potevano agganciare» (La guerra gallica III, 13). In alto: immagine satellitare con la distanza fra il Senegal e il Brasile, pari a soli 2700 km; cerchiati in rosso sono i siti che i Romani avrebbero raggiunto: nel piú grande, le Canarie. A destra: la rotta per l’America del Nord seguita anche dai Vichinghi.
liburne, triremi e quadriremi. Note come navi lunghe per la notevole prevalenza della lunghezza degli scafi, 45 m circa, rispetto a una larghezza di 5 m circa, avevano uno scarso pescaggio, 1,2-1,5 m circa, con la coperta ad appena 1,20 dal pelo dell’acqua, una caratteristica, quest’ultima, che ne spiega la non idoneità alla navigazione d’altura. Inoltre, avvalendosi di propulsione remica e vela quadra, simili navi non sarebbero state in grado di affrontare la violenza dell’oceano. Il discorso si fa drasticamente diverso per le navi tonde, cioè i mercantili del tempo, lunghe mediamente fra i 30 e i 40 m, larghe una decina, con un pescaggio di 2-3 m, e un’altezza pari all’altezza del ponte sul mare: dimensioni ovviamente riferibili alle imbarcazioni piú grandi, impegnate sulle rotte nordiche per la Bretagna o per l’India. La loro vela, contrariamente a molte rievocazioni, pur essendo di tipo quadro, si trasformava, con opportune modifiche, in vela latina, consentendo 74 a r c h e o
perciò la navigazione di bolina, controvento; una mutazione che veniva spesso agevolata dall’adozione, documentata, del timone a barra.
A PROVA DI TEMPESTE Le condizioni tempestose del Canale della Manica e del Mare del Nord avevano da tempo suggerito costruzioni navali molto piú robuste, soprattutto dopo gli scontri con le navi dei Veneti, che stando a quanto scrive Cesare: «Erano costruite e attrezzate nel modo seguente: carene piatte piú di quelle delle nostre navi, per potersi adattare piú facilmente, alla poca profondità e alla bassa marea; prore e poppe molto rialzate, adatte a sopportare le grandi ondate del mare in tempesta, tutte costruite in legno di quercia,capace di resistere ai colpi piú violenti (...) le
Dei livelli raggiunti dalle costruzioni navali romane sono testimonianza la grande nave utilizzata nel 37 d.C. per il trasporto dell’obelisco che oggi si trova in piazza S. Pietro e, piú ancora – essendocene pervenuti i relitti – le navi di Nemi. Circa la prima, stando a Plinio era di grandezza tale che: «Di sicuro sul mare non si è mai visto nulla di piú sbalorditivo di questa nave: 120 000 moggi di lenticchie [pari a 800 t circa] fungevano da zavorra. Con la sua lunghezza occupava per gran parte il porto di Ostia e là in effetti affondò, durante il principato di Claudio (...) La circonferenza del suo albero era tale che occorrevano quattro uomini per abbracciarlo» (NH XVI, 76, 201). Piú precise sono le informazioni sulle navi di Nemi, attribuite all’im-
peratore Caligola, poiché furono recuperate nelle acque dell’omonimo lago con una immane operazione ingegneristica e archeologica, salvo poi andare distrutte, purtroppo, durante un incendio nel 1944. Eccezionale lo sfarzo a bordo, che ne ha suggerito un’interpretazione diversa da quella strettamente funzionale: l’una sarebbe stata, infatti, una sorta di palazzo galleggiante, mentra l’altra sarebbe stata una nave «cerimoniale», adibita alla celebrazione di riti religiosi locali. L’imponenza di quegli scafi, essendone sopravvissuta la sola opera viva, apparve immutata al loro riaffiorare dall’acqua. Molteplici i legni utilizzati – quercia, pino, abete – secondo la destinazione strutturale, mentre sul fasciame, al di sotto dello
Qui sopra: Lago di Nemi (Roma). Una foto scattata nel 1929 durante il recupero di una delle due navi dell’imperatore Caligola. In alto: particolare di un affresco pompeiano raffigurante una trireme,
dal tempio di Iside. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. A differenza delle navi mercantili, simili legni, per via delle loro caratteristiche strutturali, non avrebbero potuto affrontare la navigazione oceanica. a r c h e o 75
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strato di piombo che lo rivestiva interamente, si trovò uno strato di lana imbevuta di sostanze impermeabilizzati. Simili le dimensioni degli scafi: il primo misurava 71 m di lunghezza per una larghezza di 20; il secondo era lungo 75 m per 29 di larghezza; entrambi erano scanditi da un gran numero di bagli posti a distanza regolare, forse a supporto di una piattaforma di coperta. Tornando alle navi mercantili romane, la loro capacità media di carico oscillava fra le 700 e le 500 t, contro le appena 230 t delle caravelle di Colombo, confermandoci quatore, le coppie dei Tropici e dei ulteriormente la loro idoneità alla Circoli polari –, la capacità di oriennavigazione oceanica. tamento in navigazione consentiva di accertare con sufficiente precisione la sola latitudine. Poiché, nella ORIENTARSI sua essenza, navigare significa diriIN MARE APERTO Sebbene il globo fosse già stato gere l’imbarcazione verso un precisuddiviso con meridiani e paralleli so punto di destinazione, definendo – come prova piú di un affresco che la linea ideale che lo congiunge col mostra gli uni e gli altri, con l’E- punto di partenza «rotta», anche 76 a r c h e o
Un ausilio decisivo L’immagine in alto mostra uno dei mosaici della Villa del Casale a Piazza Armerina (IV sec. d.C.) raffigurante una nave da carico romana sulla quale si riconoscono due rulliere, poggiate sul ponte in attesa di utilizzo. Si tratta di apparecchi, dei quali si propone qui accanto la ricostruzione, ideati al fine di facilitare il trasbordo di carichi pesanti.
quando questa avesse coinciso con un parallelo, richiedeva l’uso di alcuni strumenti per i quotidiani rilevamenti astronomici. In pratica, stabilire il parallelo sul quale si trovava al momento la nave si basava sulla stima dell’altezza del sole dedotta tramite uno gnomone o, piú precisamente, un astrolabio, la cui invenzione viene attribuita a Ippar-
Particolare di un affresco raffigurante un globo, dal peristilio della Villa di P. Fannius Synistor a Boscoreale. 50-40 a.C. circa. New York, Metropolitan Museum of Art. POLO NORD
CIRCOLO POLARE ARTICO
TROPICO DEL CANCRO
EQUATORE
TROPICO DEL CAPRICORNO
CIRCOLO POLARE ARTICO
POLO SUD
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co di Nicea nel II secolo a.C. Una volta stabilita la latitudine occorreva mantenervi la nave in rotta, conduzione che per circa otto secoli fu garantita dalla bussola magnetica, compensando l’immancabile deriva non altrimenti valutabile con le anzidette osservazioni astronomiche. Ovviamente quel tipo di bussola non esisteva, ma al suo posto suppliva abbastanza bene all’esigenza quella pelasgica, detta anche «pinace» di estrema semplicità, usata dai
In alto: ricostruzione di una bussola solare (priva del liquido interno che ne assicurava l’orizzontalità). A sinistra: ricostruzione virtuale del solcometro (o odometro navale), di Vitruvio.
Greci prima e dai Romani. Consisteva in un disco di legno, una sorta di piatto orientabile manualmente, sul quale era dipinta o incisa una rosa dei venti, con i punti cardinali e le indicazioni relative e al sorgere e al tramontare del sole, scandita diametralmente da una sorta di linea di fede, che veniva fatta coincidere con l’asse della nave. Il disco era girevole e munito di due traguardi opposti, per cui stabilito il nord, o il sud, sotto l’Equatore, tramite l’ombra minima di uno gnomone consentiva di verificare l’esattezza della rotta seguita dalla nave. Piú raffinata era la bussola solare, una sorta di ciotola con diversi cerchi concentrici incisi al suo interno, che forniva il mezzodí locale e il Nord geografico quando l’ombra 78 a r c h e o
del suo gnomone risultava piú corta, avendo cura di riempirla in parte di vino rosso per verificarne l’orizzontalità. Di notte, a favorire l’orientamento del nocchiero, provvedevano le stelle.
MISURAZIONI EMPIRICHE Non esisteva invece acuna possibilità di stimare la longitudine in navigazione – una deficienza colmata solo nel 1761, anno della sperimentazione dell’H4, il cronometro marino realizzato dall’orologiaio inglese John Harrison – e quindi, per cercare di stabilire quanto percorso fosse stato coperto, si ricorreva alla stima della velocità della nave. Allo scopo si valutava, con l’approssimazione immaginabile, il tempo impiegato da un pezzo di legno getta-
to a prua per raggiungere la poppa: conoscendo la lunghezza dello scafo e supponendone costante nell’arco della giornata la velocità, si ricavava il tragitto percorso! Forse per ovviare a tale grave lacuna,Vitruvio suggerí il primo solcometro automatico marino in grado di calcolare, in condizioni di mare calmo, le miglia percorse, indipendentemente dalla velocità della nave. Strumento ingegnoso, ma non utilizzabile in Atlantico, per via delle sue grandi onde. Solo dopo aver percorso piú volte la stessa rotta, se ne conosceva con sufficiente attendibilità il tempo necessario a percorrerla, fidando nella costanza degli alisei, e di conseguenza si caricavano a bordo viveri e acqua in quantità adeguata.
UN CURIOSO REPERTORIO «ARCHEOLOGICO»
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opo avere proposto considerazioni che, in linea teorica, rendono plausibile l’ipotesi di una scoperta dell’America da parte dei Romani, la parola passa ora all’archeologia o, quanto meno, alle prove che sono state a tutt’oggi portate. Anche se, ed è bene sottolinearlo, si tratta in molti casi di ritrovamenti per i quali non esistono riscontri certi e dei quali si sono resi protagonisti personaggi ai quali la comunità scientifica guarda con una certa diffidenza. È il caso, per esempio, di Barry Fell, zoologo statunitense che trasformò la questione in una sorta di missione, firmando saggi come America BC, Saga America e Bronze Age America. Con tutte le cautele del caso, dunque, proponiamo, qui di seguito, una rassegna dei reperti piú spesso citati per argomentare la presenza nelle Americhe di navigatori venuti dall’Occidente in epoche ben anteriori al fatidico 1492. Le monete cartaginesi L’isola di Oak, nella contea di Lunenburg (Nuova Scozia, Canada) è uno dei luoghi chiave in questa vicenda. Su questo fazzoletto di terra, da alcuni anni molto popolare grazie a una serie televisiva non a caso intitolata Oak Island e il tesoro maledetto, sarebbero stati compiuti svariati ritrovamenti, fra cui quello di alcune monete identificate come cartaginesi. Pezzi che hanno sollevato piú di un dubbio, quando non addirittura accuse di vera e propria contraffazione. Basti considerare che, nel 2000, lo studioso Mark A. McMenamin ha pubblicato un articolo nel quale riteneva di avere individuato una vera e propria produzione sistematica di false monete cartaginesi e greche, che sarebbero successivamente state fatte ritrovare in diverse zone degli Stati Uniti, ancora una volta per corroborare l’idea di una loro scoperta da parte di quelle antiche civiltà. Un umbone di scudo romano Nei pressi dell’isola di Oak sarebbe stato trovato anche un umbone di scudo: si tratta della parte che si trovava al centro dell’arma, avente perlopiú forma semisferica, munito di una piccola traversa interna che fungeva da impugnatura per la mano sinistra, e che veniva fissato con 4 o 6 rivettini. Il condizionale è, in questo caso, piú che mai d’obbligo, se si considera che, almeno in rete, In alto: un umbone di scudo in bronzo, del tipo di quello che sarebbe stato rinvenuto al largo dell’isola di Oak. A sinistra: le presunte monete cartaginesei di Oak. a r c h e o 79
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negli articoli che danno notizia del ritrovamento, non compare alcuna foto dell’umbone di Oak, ma vengono proposte immagini di manufatti dichiarati «simili» a quello rinvenuto nell’area dell’isoletta canadese. La spada da cerimonia romana Le acque antistanti, ancora una volta, l’isola di Oak, avrebbero anche restituito una spada da cerimonia di bronzo di fattura romana. Sottoposta all’analisi spettrometrica XRF (X-ray fluorescence spectroscopy) che consente senza danneggiare il reperto di accertarne la composizione chimica osservandone la fluorescenza, previo irraggiamento con raggi X, o gamma ad alta energia, la lega della spada è risultata coincidente con quelle note per l’età classica. Va tuttavia osservato che, anche in questo caso, le circostanze del ritrovamento non sono del tutto chiare, in quanto il suo autore l’avrebbe a lungo tenuto nascosto per timore di possibili conseguenze legali… Le anfore brasiliane Nel 1976, un cacciatore di tesori sommersi statunitense, Robert Marx, annunciò il ritrovamento, nella baia brasiliana di Guanabara, a 24 km da Rio de Janeiro, di un relitto a bordo del quale vi sarebbero state numerose anfore tipicamente romane. Anche in questo caso l’eco della scoperta fu considerevole, soprattutto negli Stati Uniti e nello stesso Brasile, ma non fece altrettanto clamore la notizia che, qualche anno piú tardi, lo stesso Marx venne accusato di contrabbando dal governo dello Stato sudamericano, che lo diffidò dal varcare i confini del Paese… Qualche anno piú tardi, inoltre, le autorità brasiliane, all’indomani di In alto: la spada cerimoniale che sarebbe stata trovata al largo dell’isola di Oak, in Canada. A destra: la «Testa di TecaxicCalixtlahuaca», una piccola scultura ritrovata a Calixtlahuaca (Messico). 80 a r c h e o
nuovi presunti ritrovamenti, hanno vietato ogni nuova esplorazione subacquea. Le monete dell’Ecuador Nel 1986, al largo della costa di Manabi, in Ecuador, tra le località di Manta e di Puerto Cayo, alcuni ricercatori, servendosi di un metal detector, rinvennero in una piccola cavità sottomarina, alla profondità di 15 cm circa, una borsa in tessuto contenente monete di rame e di bronzo, databili fra il I e il IV secolo d.C. Tra i pezzi, anche una moneta con l’effigie dell’imperatore Claudio risalente al 41-54 e un’altra con l’imperatore Costanzo II, regnante fra il 337 e il 361. Presso Punta Carnero, ancora in Ecuador, fu poi rinvenuta un’altra moneta d’argento, ricoperta da sedimenti marini, che, una volta ripulita, mostrò su una faccia l’effigie di Filippo II di Macedonia, padre di Alessandro Magno, e sull’altra quella di Iside. In entrambi i casi, non si può escludere, però, che, se effettivamente antichi, i pezzi fossero proprietà di un Europeo con il gusto del collezionismo giunto nelle Americhe in età moderna, per esempio al tempo delle missioni compiute da Spagnoli e Portoghesi. Un’eventualità piú volte ipotizzata a fronte di simili ritrovamenti. Una testina di terracotta La «Testa di Tecaxic-Calixtlahuaca» è una piccola scultura ritrovata a Calixtlahuaca, un’area archeologica presso l’odierna città di Toluca, nello Stato del Messico, già insediamento urbano azteco, un tempo potente capitale, i cui sovrani regnavano su di un vasto territorio. Fu rinvenuta nel corso degli scavi condotti da García Payòn nel 1930 e tradisce una fattura di età classica. Le successive indagini di laboratorio, ne avrebbero Nella pagina accanto in basso a destra: affresco che mostra una coppia di uccelli identificati come ara giallo-blu, da Londinium (Londra). Età imperiale.
In alto: mosaico policromo con cesto di frutta: sulla destra, il presunto ananas. Roma, Museo Nazionale Romano. Qui accanto: monete antiche rinvenute in Ecuador.
confermato l’antichità. Ciononostante, l’ipotesi che possa trattarsi di un tipico Oopart viene considerata poco convincente dalla maggior parte degli studiosi. L’ananas di Roma e Pompei A Roma, nel Museo Nazionale Romano, si conservato un pavimento a mosaico di epoca romana, databile fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., raffigurante un cesto colmo di frutta, tra cui spicca un ananas (che alcuni interpretano però come una pigna). A Ginevra, il Musèe d’Arts et Histoire possiede una statuetta raffigurante a sua volta un ragazzo che stringe nella mano sinistra il ciuffo di foglie fuoriuscente dal sottostante ananas, opera datata fra il III e il IV secolo d.C. A Pompei, infine, un affresco mostra due serpenti eretti a fianco a un’ara, sormontata da un ananas. In tutti i casi il frutto è riconoscibile e suggerisce che lo fosse anche all’epoca. Ma se l’ananas, che cresce solo nel Centroamerica, ai Tropici, risulta ben conosciuto dai Romani tra il I e il IV secolo, ciò proverebbe che le navi romane ne
importarono in quantità per diversi secoli, avendo stabilito una antesignana rotta commerciale col Nuovo Mondo, ancorché creduto India. I pappagalli ara britannici Vi è infine un affresco romano d’età imperiale rinvenuto a Londra, nel corso di scavi condotti nel centro cittadino. Nella pittura si vedono, fra gli altri, due uccelli dal piumaggio giallo-blu: si tratta appunto di una coppia di ara giallo-blu, i magnifci pappagalli parlanti che da sempre vivono soltanto in Centro America... (a cura della redazione)
SPECIALE • ULISSE
UN EROE SENZA TEMPO
IL MITO DI ULISSE IN UNA GRANDE MOSTRA A FORLÍ testi di Antonio Paolucci e Fabrizio Paolucci
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Tre grandi miti hanno abitato e abitano questa nostra parte di mondo che chiamiamo Occidente. Il primo è il mito di Faust, la ricerca della eterna giovinezza, quel tempo felice della vita «che s’en fugge tuttavia» e di cui avvertiamo la gloria e lo splendore solo quando ci ha lasciati, quando sta irrimediabilmente alle nostre spalle. Il secondo è il mito di don Giovanni, la ricerca inesausta, compulsiva, continuamente ripetuta e continuamente delusa, dell’altra o dell’altro, di quella che chiamiamo «l’anima gemella». È un obiettivo questo che, quando e se raggiunto, ci rende simili agli dèi. Perché, come ha raccontato Raffaello negli affreschi della Farnesina e Giulio Romano in quelli di Palazzo Te a Mantova mettendo in figura la favola di Apuleio, quando Eros si congiunge con Psiche, allora gli amanti vengono assunti al banchetto dell’Olimpo. Infine c’è il terzo mito, quello di Ulisse; il ritorno a Itaca, la memoria della patria perduta, il desiderio di ritrovare le persone e i sentimenti di un tempo remoto. Se prendiamo in esame un qualsiasi prodotto letterario teatrale o filmico, dai classici della letteratura ai piú corrivi prodotti dell’industria culturale – da Madame Bovary di Flaubert alla piú banale soap opera televisiva – vediamo che in tutti è presente, in variata proporzione, ognuno di questi miti. Perché ci sarà sempre la giovinezza che cerca l’amore e sempre ci sarà il flashback sul passato, la memoria o la nostalgia dell’ieri.
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i questi tre miti, quello piú vitale e durevole è senz’altro il mito di Ulisse. In tutte le sue declinazioni, varianti e contaminazioni, la vasta ombra di Ulisse si è distesa sulla cultura d’Occidente. Dal Dante del XXVI dell’Inferno allo Stanley Kubrick di 2001. Odissea nello spazio, dal capitano Acab di Moby Dick alla città degli Immortali di Borges, dal Tasso della Gerusa-
lemme liberata alla Ulissiade di Leopold Bloom l’eroe del libro di Joyce che consuma il suo viaggio il 16 giugno del 1904, al Kafavis di Ritorno ad Itaca, là dove spiega che il senso del viaggio non è l’approdo, ma è il viaggio stesso, con i suoi incontri e le sue avventure. Che cosa incuriosiva e affascinava nella figura di Ulisse? L’avventura prima di tutto, l’incontro con l’altro e con l’altrove: i Lestrigoni, le
Nella pagina accanto: testa di Ulisse, copia in marmo da un originale ellenistico in bronzo (170-160 a.C), dall’area del bacino circolare della Grotta di Tiberio a Sperlonga. 4-26 d.C. Sperlonga, Museo Archeologico Nazionale e Area Archeologica, Polo Museale del Lazio. L’opera, che è il piú celebre ritratto di Ulisse a oggi noto, apparterrebbe al gruppo raffigurante l’accecamento di Polifemo, sebbene la non perfetta coincidenza con il corpo dell’eroe e il ritrovamento in un contesto diverso da quello degli altri frammenti non escludano la pertinenza a un altro gruppo, a noi non pervenuto. a r c h e o 83
Sirene, i Ciclopi, l’isola dei Feaci. Polifemo, il gigante monocolo che si nutre di carne umana, è l’archetipo di tutti i racconti dell’orrore che popolano la letteratura e la filmografia universali. Mentre le Sirene sono figura della tentazione carnale ma anche della pulsione verso un incognito e seducente altrove. Piacevano, inoltre, di Ulisse, del polimorfo, sagace, duttile Odisseo, l’intelligenza, l’astuzia, l’esperienza umana, la capacità di sopravvivenza nelle situazioni piú infauste. E piaceva la sua sapienza tecnologica. Ulisse è l’uomo che con il cervello e con le mani sa creare prodigi: il 84 a r c h e o
cavallo di Troia, il letto nuziale costruito ancorandolo sul ceppo di un monumentale ulivo nella reggia di Itaca, la zattera che costruisce quando lascia l’isola di Calypso.
DAL BARDO DEI FEACI ALLA PROFEZIA DI TIRESIA Poi Ulisse è un affabulatore, sa parlare, sa sedurre il suo uditorio. Come Femio, l’aedo che canta i nostoi, i ritorni degli eroi achei dopo la guerra di Troia. Come Demodoco, il bardo dei Feaci al quale si deve la frase che piacerà un giorno a Borges: «Gli dèi hanno
Sulle due pagine: particolari del fregio con scene dell’Odissea proveniente dalla cosiddetta Casa dell’Esquilino in via Graziosa a Roma. Metà del I sec. a.C. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica
Vaticana. Da sinistra: approdo della flotta di Ulisse nel paese dei Lestrigoni e incontro degli esploratori con la figlia del re; inizio della carneficina dei Greci per mano dei Lestrigoni.
voluto la guerra di Troia perché i poeti avessero di che cantare». Ulisse è il simbolo della civiltà fondata sul mare. Il mare di Conrad, di Melville e, oltre il mare, il «mondo sanza gente» di Dante e il mondo nuovo di Cristoforo Colombo sono già prefigurati dalla profezia del veggente Tiresia, quando dice che l’ultimo viaggio di Ulisse sarà nel paese dove «non conoscono le navi né il pane condito col sale». Come tutti sanno, l’ultimo viaggio di Ulisse è evocato in quel capolavoro assoluto della poesia universale che è il XXVI dell’Inferno: Lo maggior corno della fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando sí come quella che vento affatica Con questi versi di straordinaria potenza espressiva Dante racconta del suo incontro con Ulisse che vive e parla dentro la fiamma crepitante squassata dal vento. «A questa piccola vigilia de’ nostri sensi ch’è del rimanente // non vogliate negare l’esperienza di là del sol del mondo sanza gente». Sono le parole con le quali Ulisse invita i suoi compagni a correre l’azzardo del «folle volo» perché «nati non foste a viver come bruti ma perseguir virtute e conoscenza». a r c h e o 85
SPECIALE • ULISSE Busto del ciclope Polifemo. Seconda metà del II sec. d.C. Torino, Musei Reali, Museo di Antichità. Nella pagina accanto: anfora attica a figure nere e a figure rosse del Pittore di Kleophrades con scena di libazione per la partenza di un guerriero, da Vulci. 500-490 a.C. circa. Monaco di Baviera, Antikensammlungen und Glyptothek.
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Il viaggio di Ulisse si conclude col naufragio e col mare che si chiude su di lui e sui suoi compagni a sigillare l’hybris, la superba volontà di conoscenza. Tre volte il fè girar con tutte l’acque e la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giú come altri piacque infin che il mar fu sopra noi rinchiuso Eppure quel mare che sprofonda e copre per sempre l’ultima avventura di Ulisse è profezia e figura dell’inesausta passione dell’uomo verso l’ignoto. Anticipa la conoscenza e il dominio del nuovo mondo; quel mondo che nella poesia dell’Ariosto e del Tasso è immaginato come la nuova Gerusalemme di Isaia e di Giovanni e che porterà fino ai confini dell’universo gli astronauti di Odissea nello spazio. Cosí che si può dire, come scrive Piero Boitani, che l’Odissea di Dante è la dimostrazione di come la Poesia prepari, prefiguri e in certo senso condizioni e produca la Storia.
UN CONTROCANTO COSTANTE La vicenda e la persona di Ulisse cosí come sono state elaborate e trasfigurate nell’immaginario letterario e poetico dell’Occidente, e messe in figura dagli artisti, sono dunque un argomento tanto arduo quanto affascinante. Il San Domenico di Forlí, per la stagione 2020, ha voluto giocare l’azzardo, progettando una mostra che devia dalla linea tradizionale delle esposizioni forlivesi. La mostra è nata da un’idea di Gianfranco Brunelli e ha la sua matrice letteraria, la sua fonte di ispirazione negli studi di Piero Boitani oggi stretti in sintesi nel monumentale libro edito dal Mulino nel 2016 (Il grande racconto di Ulisse). L’Ulisse che abita il San Domenico di Forlí si articola in piú sezioni. La prima abbiamo voluto chiamarla il «Concilio degli dèi». È qui rappresentata con prestiti dalle piú celebri collezioni archeologiche del mondo, a r c h e o 87
SPECIALE • ULISSE
dai Musei Capitolini ai Vaticani, dal Nazionale di Napoli al Prado, l’assemblea divina, la potestà ultraterrena che orienta e governa, in un controcanto costante fra la terra e il cielo, le opere e i giorni di Ulisse. Segue poi l’elaborazione del mito nell’antichità classica, un settore affidato in gran parte alla pittura vascolare. L’Incontro con Nausicaa, l’Evocazione dell’ombra di Tiresia, la Costruzione del cavallo di Troia, l’Incontro con le Sirene, gli Eroi Achille e Aiace che giocano a dadi popolano le kylix, le anfore, i crateri della civiltà pittorica greca. Il mondo romano elabora ulteriormente il mito. Lo rappresenta in chiave emotiva, patetica, eroica e anche avventurosa. Basti pensare alle sculture di Sperlonga o agli affreschi staccati della domus di Via Graziosa sull’Esquilino e oggi custoditi nei Musei Vaticani. Di fronte a quelle pitture di vivido impianto naturalistico, brulicanti di fatti e di persone (i Lestrigoni, Circe, Ulisse nell’Ade), è facile intendere il fascino che le avventure di Odisseo dovevano esercitare sulle élite romane. Nella articolazione della mostra un capitolo è dedicato alla illustrazione del fenomeno. 88 a r c h e o
Il cristianesimo porta con sé il senso del peccato insieme all’idea della storia che muove, nel progetto divino, verso esiti fausti, insieme alla attrazione e alla curiosità per il colorito spettacolo del mondo, per l’iridescente, molteplice varietà delle azioni umane che amore, nostalgia e desiderio di conoscenza attraversano. Ed ecco le miniature e i cassoni dipinti di Apollonio di Giovanni, dello Scheggia, di Guidoccio Cozzarelli che parlano del cavallo di Troia, di combattimenti sotto le mura della città assediata, della partenza di Ulisse.
QUEL «FOLLE VOLO»... Ecco soprattutto (all’argomento è dedicata una intera sezione della mostra) il tema, tradotto per immagini, del XXVI canto dell’Inferno. Di fronte alle figure di Odisseo e di Diomede che bruciano nel fuoco dell’Inferno dantesco, di fronte a Ulisse che evoca «il folle volo, di là del sol nel mondo sanza gente» (come nelle miniature delle Bibbie della Apostolica Vaticana, della Marciana di Venezia, della British Library) noi capiamo che Ulisse, grazie a Dante, è diventato
In alto, sulle due pagine: Storie di Ulisse, dipinto su tavola di pittore fiorentino. 1475 circa. Firenze, Museo Stibbert. Sulla sinistra, scene legate all’arrivo nell’isola dei Ciclopi e all’incontro con Polifemo; sulla destra, l’incontro di Ulisse con Mercurio e poi con la maga Circe.
A destra: statua della cosiddetta «Penelope». I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
nostro contemporaneo, è ormai fraterno alle nostre paure e alle nostre speranze.
LA MAGA E LA SPOSA Nel XV e XVI secolo, nell’età che i manuali chiamano «Rinascimento», la figura di Ulisse subisce una ulteriore definizione. Affascinano le figure femminili che popolano l’Odissea, Circe soprattutto, la maga bellissima che trasfigura i viventi e governa le seduzioni d’amore. Circe rappresenta l’eros che seduce gli umani, li opprime, li trasforma e li consola. Come vediamo nei dipinti di Dosso Dossi custoditi nella Galleria Borghese di Roma e nella National Gallery di Washington. Di fronte alla Circe della Borghese, a questa maga-regina che domina una natura luminosa, scintillante, noi consideriamo che «omnia vincit amor», che nessuno può resistere al richiamo di eros. Ma c’è un’altra figura femminile che comincia a emergere in questa epoca. È Penelope, la casta Penelope che, insidiata dai Proci, attende in speranza il ritorno del marito. È una eroina degli affetti familiari, è la custode delle virtú domestiche. Cosí l’hanno rappresentato il a r c h e o 89
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Pinturicchio della National Gallery di Londra e il Beccafumi della Pinacoteca Manfrediniana di Venezia. Ma è anche la sposa fedele, teneramente innamorata del marito, cosí come ha voluto consegnarcela il Primaticcio nel dipinto del Museum of Art di Toledo. Il Seicento è il secolo delle umane passioni e dell’ideale classico virato in senso evocativo e nostalgico, è il tempo del «recitar cantando» e del teatro, del patetismo barocco e del naturalismo caravaggesco. Dentro questo crogiuolo di suggestioni diverse la figura di Ulisse e i personaggi dell’Odissea si immergono e muovono in una prospettiva e con effetti scenici. Interessa l’isola di Polifemo (il dipinto di Poussin all’Ermitage) e l’incontro col gigante monocolo (Jordaens del Puskin Museum) affascinano Nausica e Calipso e Circe, commuove il cane Argo che riconosce il suo padrone (arazzo di Chambord). Il tema dei moti dell’animo (amore, passione, stupore, meraviglia) occupa le opere del periodo e ci offre un Ulisse già moderno, vicino al nostro immaginario sentimentale.
L’EROE SI FA MODERNO Se l’età del Classicismo elabora una idea altamente idealizzata di Ulisse e dei suoi compagni con Hayez (Ulisse alla corte di Alcinoo della romana Accademia di San Luca), con Füssli, con i gessi di Canova (il Ritorno di Telemaco, la Danza dei figli di Alcinoo dei Musei Civici veneziani), è con l’ultimo Romanticismo e con il Simbolismo che Ulisse entra compiutamente nel tempo presente. L’incontro con le Sirene, l’attrazione verso un altrove cosí seducente e cosí appagante che in esso è bello perdersi fino alla morte, diventa un topos della figurazione artistica con Böcklin, con Rodin, con Bruckmann e a questo affascinante argomento la mostra dedica un prezioso cammeo. È l’Ulisse eternamente itinerante fra avventure e prodigio, fra seduzione e stupore, ad affascinare gli artisti del tardo Ottocento con Burne Jones, con Alma Tadema, con Gustave Moreau e sarà il «Novecento senza Itaca» a A sinistra: Penelope, olio su tavola di Domenico Beccafumi. 1519. Venezia, Pinacoteca Manfrediniana del Seminario Patriarcale. Nella pagina accanto: Ulisse e Nausicaa, olio su tela di Jean Alfred Marioton. 1888. Parigi, Musée d’Orsay. 90 a r c h e o
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Calypso, scultura in marmo di CélestinAnatole Calmels. 1853. Amiens, Collection des Musées d’Amiens. Nella pagina accanto: La signora Nesbitt come Circe, olio su tela di Joshua Reynolds. 1781. Northampton (Massachusetts, USA), Smith College Museum of Art.
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toccare il cuore degli artisti dello scorso secolo. I visitatori del San Domenico vedono un Ulisse che si confronta con Polifemo (Alberto Savinio, del MART di Rovereto), che viaggia sulla nave (Corrado Cagli), che vive il sogno del Ciclope come un incubo goyesco (Gustave Moreau). Soprattutto vedrà Ulisse solo, desolato irsuto e selvatico sulla spiaggia del mare, cosí come lo hanno immaginato Böcklin e Giorgio De Chirico.
UN PROGETTO AMBIZIOSO La mostra è complessa e gremita di opere. Passare dall’assemblea celeste (gli dèi che occupano lo spazio monumentale della chiesa) e dal relitto archeologico della nave degli Achei proveniente dal Museo Archeologico regionale di Gela alle seduzioni delle Sirene raccontate dalle urne etrusche, dagli affreschi romani di Via Graziosa con le vicende di Odisseo ai cassoni nuziali dipinti del Quattrocento, dalla Scilla del Montorsoli, prestito del Museo Archeologico di Messina, alle sceneggiature avventurose e patetiche degli artisti del Barocco, dalla eleganza neoattica di Canova alle invenzioni visionarie di Böcklin, può apparire arduo e certo lo sarebbe se non fosse per il nitido telaio tematico, sapientemente organizzato, che guida e orienta il percorso del visitatore. Le attese erano grandi e proporzionato alle attese è stato l’impegno. Se siamo arrivati al risultato, se siamo riusciti a toccare le sponde di questa Itaca forlivese dell’anno 2020, il merito principale va riconosciuto a Gianfranco Brunelli che ha saputo organizzare la squadra e negoziare con successo molti difficili prestiti. A lui va la gratitudine mia personale e dei colleghi che hanno curato le varie sezioni. Una qualificata élite di studiosi (archeologi, storici dell’arte e della letteratura, musicologi ed esperti di cinema e di teatro) affronta la figura di Ulisse nelle sue molteplici varianti, nelle tante sfaccettature che le opere in mostra permettono di conoscere e di valutare. Dopo «L’Eterno e il Tempo» del 2018, il San Domenico di Forlí dimostra con l’avventura di Ulisse di saper affrontare e tradurre in percorsi espositivi di suggestiva evidenza e di agevole comprensione, complessi argomenti di storia della cultura. È il segno di una maturità ormai agevolmente raggiunta, dalla «nostra» impresa del San Domenico. Antonio Paolucci
FASCINO E MISTERO Alle virtú e agli affetti domestici di Penelope sono stati sempre contrapposti il fascino e il mistero di cui era circonfusa la figura della maga Circe. Anch’essa ha goduto di una ininterrotta fortuna che si è espressa, nel Settecento, nel genere di ritratto, allora molto in voga, in cui la persona raffigurata compariva sotto vesti mitologiche. Nel 1781 l’indiscusso campione della ritrattistica mondana e il pittore piú acclamato del tempo, Sir Joshua Reynolds, ha realizzato un affascinante ritratto di Lady Mary Nesbitt dove la nobildonna, in riferimento a quella popolare figura dell’Odissea, siede sullo sfondo in un misterioso paesaggio con accanto una scimmia, un leopardo e un gatto bianco. Si tratta di un chiaro riferimento agli uomini che, travolti dalla sua forza di seduzione, erano stati trasformati da Circe in animali. Un anno dopo, il suo rivale George Romney rappresentava nelle sembianze della leggendaria seduttrice un personaggio ormai lanciato nel firmamento della mondanità come Emma Hart, la spregiudicata e discussa consorte di William Hamilton, nonché amante dell’ammiraglio Nelson. Si tratta di un dipinto monumentale, dove quella donna di straordinaria bellezza veniva raffigurata a figura intera, in piedi, mentre sembra vaticinare a Ulisse il suo travagliato destino. Fernando Mazzocca
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UNO, NESSUNO E CENTOMILA di Stefano Mammini
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n candido cavallo di legno, dal quale non esce alcun guerriero, vi dice che quello è il posto: la bianca figura è infatti collocata di fronte all’ingresso dei Musei San Domenico, nei cui spazi si celebra il mito di Ulisse, inventore dello stratagemma destinato a rivelarsi fatale per la città di Troia. Viene subito da chiedersi perché la vicenda e la figura del re di Itaca abbiano goduto e tuttora godano di una fortuna che ha pochi eguali: si
può dire, e la mostra in corso a Forlí lo conferma in modo eloquente, che quasi nessun artista – antico, moderno o contemporaneo – abbia resistito alla tentazione di rileggere la storia del re di Itaca, cantandone, dipingendone o scolpendone le gesta. Il percorso espositivo si apre nell’arioso spazio dell’ex chiesa di S. Giacomo, offrendo un colpo d’occhio di notevole impatto: al cospetto dell’Assemblea degli dèi olimpici di Rubens – scelta come punto di partenza della narrazione – sono infatti distribuite sculture di pregio, come l’Afrodite Callipige dall’Archeologico di Napoli e il Marte degli Uffizi, ma, soprattutto, al centro dell’aula, il relitto della nave greca scoperta nelle acque di Gela. Si tratta, in questo caso, di una novità assoluta, poiché l’eccezionale reperto non era mai stato prima d’ora esposto al pubblico e, dopo la mostra, tornerà in Sicilia, in attesa che venga ultimata la realizzazione del Museo archeologico destinato ad accoglierlo (il cui completamento è previsto per la fine del 2021). Quegli antichi legni – la nave è stata A destra: stauta di Afrodite cosiddetta Callipige («dalle belle natiche»). II sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. A sinistra: un ideale confronto tra la sagoma in legno di un «cavallo di Troia» collocata all’esterno dei Musei San Domenico e la scultura in alluminio Senza titolo (Cavallo) realizzata da Mimmo Paladino nel 2014 e inserita nella prima parte del percorso espositivo.
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A sinistra: la prima sezione della mostra, nella quale è esposto il relitto della nave greca rinvenuta nel mare di Gela e risalente al V sec. a.C. In basso: Laocoonte, gruppo scultoreo di Vincenzo de’ Rossi. 1570 circa. Collezione privata. L’opera non è una copia del capolavoro rinvenuto circa sessant’anni prima nella Domus Aurea, a Roma, me ne propone un’interpretazione, accentuando il carattere drammatico dell’episodio.
datata al V secolo a.C. – evocano immediatamente la natura che, dopo l’astuzia, è la piú nota di Ulisse, cioè l’essere stato un eroe errante, al quale il fato impose ben vent’anni di peregrinazioni prima di poter tornare a Itaca. Poco oltre, torna l’immagine di un cavallo, che questa volta ha le sembianze di una scultura in alluminio realizzata da Mimmo Paladino nel 2014, quasi a sottolineare che, in ogni caso, il protagonista dell’Odissea era e resta l’uomo dell’invenzione vincente o, se si vuole, dell’inganno mortale. Del resto, come la stessa mostra ribadisce a piú riprese, la prima chiave di lettura del mito di Ulisse è il dualismo, e se già Omero l’aveva definito «versatile, multiforme» il figlio di Laerte sarà sempre, pirandellianamente, uno, nessuno e centomila. Specchio di questa spiccata multiformità è la successiva sezione della mostra, della quale è in larga parte protagonista la ceramica figurata. Si ha qui l’occasione di ammirare una scelta di vasi di altissima qualità, attraverso i quali s’intuisce come le imprese di cui Ulisse si rese protagonista, dapprima sotto le mura di Troia e poi nel lungo viaggio di ritorno verso casa, costituirono soggetti particolarmente
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apprezzati dai ceramografi, che elaborarono un repertorio di notevole ricchezza. Al vasellame attico a figure nere e rosse, fanno da pendant opere di scultura altrettanto variegate, fra cui spiccano alcune raffinate urne etrusche in alabastro e la divertente rappresentazione dell’eroe che fugge dalla grotta di Polifemo aggrappandosi a uno dei montoni del ciclope, il cui artefice, sfidando le leggi della gravità, lo mostra con il suo tipico berretto conico ben fermo sulla testa… Piú avanti, dopo il suggestivo confronto fra la replica del Laocoonte rinvenuto a Roma agli inizi del Cinquecento e attribuito agli scultori Agesandro, Atenodoro e Polidoro e la variante dello stesso gruppo proposta una sessantina d’anni piú tardi da Vincenzo de’ Rossi, le pitture staccate dalla domus di via Graziosa inaugurano la ricchissima raccolta di dipinti riuniti in mostra. Anche se, prima di salire alle sale in cui sono esposti dipinti moderni e contemporanei, c’è anche spazio per una importante carrellata di opere medievali e rinascimentali, che comprendono miniature, cassoni nuziali e la splendida vetrata policroma con Storie di Ulisse concessa in prestito dall’Accademia delle Scienze di Bologna. Raggiunto il piano superiore, quasi
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A destra: Ulisse, olio su tela di Giorgio De Chirico. 1922-1924. Collezione privata. In basso: Sirena (o Abisso verde), olio su tela applicata su tavola di Giulio Aristide Sartorio. 1893. Torino, GAM-Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea. Nella pagina accanto: La sirena di Galloway, olio su tela di William Hilton. 1810 circa. Knutsford, Tabley House Collection.
come accadde all’eroe incontrando le Sirene, si viene ammaliati e quasi storditi dalla quantità e dalla qualità dei dipinti selezionati dai curatori della mostra. E l’accecamento di Polifemo, la strage dei Proci, l’incontro con Nausicaa e tanti altri episodi ancora si offrono in un gioco di confronti che mette a disposizione
del visitatore una sorta di atlante di tutte le principali correnti affermatesi nell’arte fra il Seicento e l’età contemporanea. Un vero e proprio caleidoscopio, di colori ma anche di toni e atmosfere, che trova il suo spettacolare coronamento nella sala in cui alle enigmatiche e anonime Muse inquietanti di De Chirico si contrappone l’umanissimo e dolente ritratto di Ulisse proveniente dalla Grotta di Tiberio a Sperlonga. Quella di Forlí è insomma una mostra da vedere, ma alle cui suggestioni è altrettanto essenziale abbandonarsi, cosí da cogliere il carattere fiabesco delle storie del re di Itaca. E magari, a patto d’essere non piú giovanissimi, sentire in sottofondo la voce cavernosa di Giuseppe Ungaretti…
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LA RISCOPERTA «SIMBOLISTA» DELL’ODISSEA Negli anni Sessanta dell’Ottocento, le arti figurative europee presero gradualmente ad affrancarsi dalla dimensione narrativa del realismo per aprirsi con una molteplicità di linguaggi alla concezione di un’arte «ideista», attratta dal fascino dell’irrazionale, dall’ambiguità del sogno, dai misteri dell’insondabile, dal mito delle origini, dalla forza espressiva del simbolo. Iniziava in tutta Europa, con i primi vagiti del simbolismo, un passaggio lento ma inesorabile dalla vocazione al racconto d’ispirazione classicoromantica alla definizione icastica di enigmatiche realtà interiori o dei segreti ancestrali e profondi di una natura ancorata al mito attraverso le forme sensibili dell’umano rese evidenti dalla pittura e dalla scultura. Contemporaneamente, facendo perno su pensieri filosofici incentrati sulla «nostalgia» dell’antico sorti in ambito tedesco tra fine XVIII e inizi XIX secolo, tra Goethe, Schiller, Novalis, e attualizzati dagli scritti di Bachofen e Burckhardt, dalle riflessioni speculative di Schopenhauer e poi di Nietzsche, prendeva sempre piú forza, in area tedesca ma non solo, l’aspirazione a una grecità lontana, venata di primitivismo, sentita come irrimediabilmente perduta e dunque vagheggiata con attitudine nostalgica come un luogo originario legato all’universalità del mito e al mistero degli inizi da contrapporre al progresso moderno e a una civiltà che sembrava essere giunta, un po’ come Odisseo alle Colonne d’Ercole, ai confini della sua millenaria vicenda . Nella riscoperta dell’Odissea in ambito simbolista queste due aspirazioni alle origini (dell’antichità attraverso il mito e della psiche dell’uomo contemporaneo attraverso i simboli) si incontrarono, e nelle forze ctonie del mondo arcaico che Omero chiama in causa per raccontare il viaggio di Ulisse vennero a confluire le angosce, le paure remote e inconsce, individuali e collettive, della società moderna. Francesco Leone Circe invidiosa, olio su tela di John W. Waterhouse. 1892. Adelaide, Art Gallery of South Australia.
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I MILLE VOLTI DEL LAERZIADE di Fabrizio Paolucci
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er Omero Ulisse è, in primo luogo, polytropos, cioè versatile (Od. I, 1). Sin dal suo primo apparire, nei versi dell’Iliade, la sua figura sfugge a quella ristretta casistica di virtú guerriere nella quale sono incasellati tutti gli eroi greci venuti a combattere sotto le mura di Troia. Persino il suo fisico, minuto, ma imponente e largo di spalle (Il. 3, 193-194, 210-211), sembra rispecchiare il carattere contraddittorio di un uomo goffo e incerto nell’andare che però «quando faceva uscire dal petto la voce profonda / e le parole come fiocchi di neve d’inverno» (Il. 3, 221-223) non era secondo a nessuno. Ulisse sa essere un guerriero forte sul campo di battaglia, dove è ferito e soccorre in piú di un’occasione campioni come Aiace e Menelao (Il. II, 472-488), ma al suo carattere sono di gran lunga piú congeniali le azioni stealth e beyond the lines compiute in notturna insieme a Diomede, come il ratto del Palladio e la A destra: statuetta in marmo di Ulisse. II sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. In basso: particolare di un’anfora attica del Pittore di Nausicaa con Odisseo e Nausicaa, da Vulci. 440 a.C. circa. Monaco di Baviera, Antikensammlungen und Glyptothek.
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sortita nel campo nemico che portò all’uccisione di Dolone e Reso (Il. 10, 204-217, 349-464). Il suo ruolo diventa insostituibile solo nel caso di ambasciate (come quella ai Troiani per reclamare Elena prima dell’inizio della guerra, Il. 3, 204-206), riconciliazioni (come quella fra Achille e Agamennone, Il. 19, 47-288) e mediazioni (come quando fu inviato da Agamennone per convincere Achille a tornare a combattere, Il. 9, 169173), occasioni nelle quali all’Ulisse aristocratico si sostituiva l’Ulisse politico che, nell’arte retorica, aveva la sua arma migliore.
UNA «DOPPIEZZA» CHE VIENE DA LONTANO Questa «doppiezza» si rispecchia e, anzi, forse è originata, nell’indole profondamente diversa dei suoi antenati: se, infatti, il padre Laerte era un invincibile guerriero, il nonno materno, Autolykos, era uno spergiuro e un abile ladro (Od. 19, 395-396). L’unicità del carattere di Ulisse, astuto e pragmatico, cauto e coraggioso al tempo stesso, è dunque già compiutamente definita nell’Iliade e, molto probabilmente, nei poemi perduti del ciclo di Troia, dove erano narrati episodi destinati a grande fortuna nella tradizione iconografica e letteraria dell’eroe, come la disputa con Aiace per le armi di Achille e le spedizioni per far tornare nei ranghi degli Achei personaggi come Neottolemo e Filottete. In una di queste opere, la Piccola Iliade, di cui sopravvivono soltanto una trentina di versi, era narrato anche l’inganno piú celebre del Laerziade, quello del cavallo che sancí il trionfo dell’astuzia e della tattica sull’uso della forza bruta. Sarà questa la linea di condotta che, coerentemente, Ulisse adotterà anche nel corso del suo travagliato nostos, il viaggio di ritorno in patria descritto nell’Odissea. Se restituire in immagini le gesta di un guerriero è un’impresa relativa100 a r c h e o
Hydria (vaso per acqua) del Pittore dell’Aquila con l’accecamento del ciclope Polifemo. 530-520 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
mente facile, fare lo stesso con un eroe signore degli inganni e dell’arte della parola è assai piú complesso. Questa elementare constatazione spiega l’immensa fortuna iconografica di quelle imprese di Ulisse piú agilmente traducibili in schemi figurativi chiari ed efficaci, rispetto ad altre, magari ugualmente importanti nell’economia del mito (come, per esempio, le ambascerie, la permanenza fra i Feaci o la simulazione della pazzia per evitare di partire per la guerra di Troia), ma fondate piú sul dialogo che sull’azione dei suoi protagonisti. Coerentemente con quanto visto nella tradizione epica, l’Ulisse guerriero sotto le mura di Troia non affascinò se non in misura minimale la fantasia dei ceramografi arcaici. Fu, invece, l’accecamento del Ciclope, capolavoro dell’Ulisse ingannatore, a essere la prima impresa del re di Itaca rappresentata nell’arte greca e quella che, nel corso del successivo millennio, sarà destinata a essere tradotta nei materiali e nelle dimensioni piú svariate. Sin dai primi decenni del VII secolo a.C., con una singolare coincidenza cronologica, nella ceramica figurata diffusa dalla Grecia all’Etruria, l’accecamento di Polifemo è immaginato come l’assalto di tre o piú uomini che, stringendo il palo in orizzontale come una lancia, lo conficcano nell’occhio del mostro. È interessante rilevare come, già in questa primissima trasposizione artistica delle gesta di Ulisse, i pittori si prendano una notevole libertà dal testo omerico dove il palo appuntito è, piú realisticamente, piantato dall’alto e ruotato come un trapano (Od. 9, 375-395). Le ragioni di questo allontanamento dal modello letterario si spiegano con la migliore adattabilità alla decorazione della superficie di un vaso di una scena sviluppata in orizzontale rispetto a una con andamento verticale. Questa scelta, dettata da esigenze esclusivamente funzionali, condizionò il de-
stino dell’iconografia di Polifemo nei secoli seguenti che, fino ai grandi gruppi statuari di età imperiale, riproporrà l’impianto ideato in età arcaica. Seconda alla for tuna dell’accecamento fu solo la fuga di Ulisse e dei compagni legati sotto il vello degli arieti di Polifemo (Od. 9, 415-436). La produzione ceramica attica a figure nere e rosse del VI e V secolo a.C. dette vita, infatti, a una vera e propria produzione seriale di crateri, oinochoai, skiphoi e coppe ornate con questo motivo che, ancora una volta, ben si prestava a occupare le superfici allungate dei contenitori. Nella tradizione pittorica attestataci dai vasi di epoca arcaica tanto l’episodio del Ciclope che quello della fuga dall’antro sono un’azione corale nella quale la figura di Ulisse, se non indicata dal nome dipinto accanto, non è riconoscibile con certezza. Solo nella prima metà del V secolo a.C. cominciò infatti a definirsi un’iconografia di Ulisse costruita con attributi e caratteristiche fisionomiche ricorrenti. In scene piú intime, come quelle in cui Ulisse è rappresentato a colloquio con Penelope o con Euriclea, l’eroe assume adesso tratti destinati a connotarlo costantemente in futuro. Il re di Itaca è immaginato come un uomo dall’aspetto maturo e barbato, con una capigliatura mossa da riccioli che ricadono ai lati del volto. La testa è sempre coperta da un pileo, il berretto usato dai marinai e viaggiatori ma indossato anche da altri personaggi del mito come Diomede e i Dioscuri, mentre l’abbigliamento si riduce a una semplice veste corta, l’exomide. Della Nekya, cioè del viaggio di Ulisse agli Inferi, dipinto da Polignoto di Taso nella cosiddetta Lesche degli Cnidi a Delfi intorno al 460 a.C., rimangono solo le lodi di Pausania, oltre a qualche eco nella ceramografia attica. Non era questo, però, l’unico capolavoro pittorico che avesse preso spunto dalle peripezie di Ulisse. Eufranore, artista versato tanto in scultura quanto in pittura e uno dei protagonisti dell’arte greca del IV
secolo a.C., aveva affrontato il soggetto della simulazione della pazzia da parte di Ulisse per evitare la partenza per la guerra, un tema che, probabilmente per la sua complessità narrativa, non è altrimenti attestato nelle opere di epoca ellenistica e romana giunte fino a noi. Non è improbabile, invece, che un dipinto di Athenione di Maronea, ricordato da Plinio il Vecchio e databile alla fine del IV secolo a.C. , possa essere stato il prototipo di quella ricca serie di riproduzioni dell’episodio di Ulisse a Sciro, quando l’eroe smascherò il travestimento da donna di Achille. Coppa attica di Python e Douris con la contesa fra Aiace e Ulisse per le armi di Achille. 490 a.C. circa. Vienna, Kunsthistorisches Museum.
IL REPERTORIO SI FA SEMPRE PIÚ RICCO La varietà nella scelta dei soggetti testimoniata dalla grande pittura di epoca classica trova comunque un riflesso nella produzione ceramografa attica coeva, il cui repertorio iconografico si arricchí a dismisura nell’arco di poco piú di cinquant’anni. Temi legati alla celebrazione dell’Ulisse politico e oratore, come l’ambasciata ad Achille (peraltro sempre immaginata con notevole libertà rispetto al testo omerico), rimasero comunque numericamente di gran lunga inferiori rispetto agli episodi legati al fantastico e al mostruoso, indubbiamente dotati di maggior appeal presso il pubblico. La trasformazione dei compagni di Ulisse in maiali per opera di Circe non poteva, infatti, non solleticare l’immaginazione dei pittori vascolari, al pari dell’ancor piú fortunato tema di Ulisse e le Sirene, destinato a essere particolarmente amato anche nel mondo etrusco. Proprio questo episodio offre un ulteriore, esplicito, esempio del ruolo creativo degli artisti antichi nell’immaginare l’universo omerico. Nel testo, infatti, il poeta non dà alcuna descrizione dei mostri incantatori, di cui si ricorda solo il canto melodioso capace di ammaliare tutti coloro che passavano dinanzi a loro (Od. 12, 166-200). Dovendo dar forma a queste figure, già sul a r c h e o 101
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finire del VII secolo a.C., un ignoto pittore vascolare pensò di creare un essere ibrido che unisse l’attrazione erotica del corpo di una donna con il canto melodioso di un uccello. Ecco cosí nascere quei curiosi esseri dalla testa, il seno e le braccia di aspetto muliebre, conformati, però, a volatile nel resto della figura e destinati a rimanere immutati nell’arte dei secoli successivi.
UN UOMO TORMENTATO A fronte della comprensibile fortuna di soggetti cosí fiabeschi, i momenti piú intimi e dolorosi della vicenda dell’eroe, che pure costituiscono alcuni dei passi piú memorabili del testo poetico, finiscono col rimanere in ombra. Episodi struggenti come l’incontro con il cane Argo, l’abbraccio con il padre Laerte o il dolore di Penelope persuasa del suo abbandono troveranno, forse non casualmente, maggiore fortuna in periodo romano, quando, anche nella letteratura, si affermò la figura di un Ulisse tormentato e prostrato dalle avversità. Non bisogna, infatti, dimenticare che il giudizio e la lettura dell’eroe e delle sue azioni
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furono destinate a mutare anche radicalmente nel corso dei secoli. All’immagine, sostanzialmente positiva, tramandataci dalla poesia epica si sostituí, nel corso della seconda metà del V secolo a.C., quella dell’Ulisse della grande tradizione tragica ateniese, che vide nell’eroe non tanto la vittima di un destino iniquo, quanto lo strumento di oppressione del giusto. L’Ulisse politico incarna ora tutto il peggio della demagogia che aveva avvelenato la storia ateniese dell’età di Pericle. Nell’Ecuba di Euripide, la protagonista si rivolge a Ulisse come fosse uno dei politicanti coevi all’autore inserendolo senza alcun dubbio nella schiera dei «demagoghi, razza d’in-
Oinochoe (brocca da vino) attica con la fuga di Ulisse dalla grotta di Polifemo. Primo quarto del V sec. a.C. Pontecagnano Faiano, Polo Museale della Campania, Museo di Pontecagnano.
Urna etrusca in alabastro con Ulisse e le sirene. Seconda metà del II sec. a.C. Volterra, Museo Etrusco Guarnacci.
grati, in caccia solo del favore popolare (…) Ingannate gli amici. Che v’importa? A voi basta compiacere la massa con le vostre parole» (Hec. 254-257). La capacità retorica, celebrata da Omero, alla quale Ulisse doveva tutta la sua fama, diventa ora marchio di infamia.
DA EROE INTREPIDO A POLITICANTE INGANNATORE Il Laerziade, che era stato dipinto come un guerriero prudente ma intrepido dall’epos arcaico, diviene ora un vigliacco che, privato delle uniche arti che possiede (la persuasività della sua retorica da demagogo), è incapace di confrontarsi con chi eroe lo è davvero. D’ora in poi questi due volti di Ulisse,
quello epico, dell’uomo astuto, coraggioso e intraprendente, e quello tragico, del politicante ingannatore, egoista e crudele, costituiranno i poli fra i quali oscilleranno tutti i poeti e i prosatori, anche quando il suo mito diverrà parte integrante della cultura letteraria e artistica di Roma. È senz’altro rivelatore il fatto che il primo poema epico latino di cui si abbia notizia certa e di cui restino addirittura alcuni versi saturni, sia l’Odusia di Livio Andronico. Perché, sul finire del III secolo a.C., questo tarantino naturalizzato romano, abbia deciso di realizzare una traduzione d’autore proprio dell’Odissea e non quella di uno qualsiasi fra i numerosi poemi epici esistenti nella letteratura
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greca non è semplice spiegarlo. Forse, come è stato ipotizzato, una società come quella romana della media repubblica, in piena espansione commerciale e militare nel Mediterraneo centrale e orientale, era istintivamente propensa a identificarsi con un eroe che quelle terre e quei mari aveva attraversato affrontando ogni genere di pericoli e sfide. D’ora in poi, comunque, Ulisse costituirà un personaggio focale nell’intera storia della letteratura latina che declinerà le sue gesta e il suo carattere nei modi piú diversi. L’Ulisse di Cicerone, per esempio, è un insuperabile modello di sapienza, forza e sopportazione. Trattando, nel De finibus (5, 19, 48), del mito delle Sirene, l’oratore afferma che il fascino del canto dei mostri non consisteva nella melodia e nel suono della voce, bensí nel fatto che quegli esseri promettevano di svelare segreti e conoscenze note solo a loro e conclude che «non c’era da meravigliarsi che chi andava in cerca della sapienza la tenesse piú cara della patria. Desiderare di conoscere ogni cosa, di qualunque genere è proprio dei curiosi, ma lasciarsi attrarre verso il desiderio di conoscere, dalla contemplazione di ciò che è piú grande, va ritenuta cosa appropriata agli uomini sommi». Non vi sono dubbi che l’Ulisse dantesco, desideroso di «seguir virtute e conoscenza», trovi la sua prima ispirazione proprio nell’Ulisse ciceroniano, dove l’eroe incarna un ideale etico di ispirazione stoica e moraleggiante.
IL PIÚ PERICOLOSO DEGLI ACHEI Se Virgilio, invece, attinge a piene mani dalla tradizione dell’Ulisse tragico, dipingendolo nell’Eneide come il piú spregevole e pericoloso degli Achei, nella quinta satira del secondo libro di Orazio il protagonista è l’Ulisse comico, che già in età classica aveva ispirato una ricca tradizione teatrale di commedie e parodie. Nell’opera del poeta di Venosa l’ironia del componimento risiede tutta nell’inversione dei luoghi comuni: Ulisse è un ingenuo credulone nelle mani di Tiresia che, fra i vari consigli impartitigli per arricchirsi, suggerisce addirittura di far prostituire Penelope, da secoli indiscusso prototipo di fedeltà coniugale, senza, per questo, suscitare alcuna indignazione o stupore nel suo interlocutore. Sarà, però, Ovidio a concepire l’interpretazione forse piú originale e dissacrante che la cultura romana abbia dato di Ulisse. Il re di 104 a r c h e o
Itaca descritto nei versi dell’Ars Amatoria, infatti, non vanta certo un fisico invidiabile, ma è abile con le parole («non formosus erat, sed erat facundus», Ars 2,123), riuscendo, grazie a questa dote, a divenire l’amante di donne bellissime come Calipso e Circe; l’eroe di Troia diventa, cosí, un modello e un motivo di speranza per tutti coloro che, non potendo contare sulla prestanza fisica, dovranno affidare a un’abile dialettica ogni possibilità di conseguire successi amorosi. A questa molteplicità di sfaccettature che la figura di Odisseo aveva assunto nella lirica non sempre è facile trovare una diretta rispondenza nell’arte coeva. Come già nel mondo etrusco di epoca ellenistica, i soggetti legati alla saga di Ulisse furono spesso utilizzati anche nel repertorio funerario di età repubblicana e imperiale, probabile eco di quell’interpretazione moraleggiante del mito del Laerziade di cui Cicerone si faceva portavoce. L’accecamento di Polifemo, ben attestato su affreschi di tombe etrusche e sui rilievi delle urnette volterrane, forse conserva ancora sui sarcofagi romani il significato di una metafora della vittoria della forza intellettuale sulla natura selvaggia e sulla morte o, forse, un augurio al defunto di trionfare sui pericoli dell’Aldilà. Piú trasparenti, invece, sono scelte come quelle di utilizzare soggetti come Ulisse e le Sirene, tema amatissimo sulle urnette etrusche e, come vedremo, non privo di confronti ancora nella decorazione di sarcofagi del III secolo d.C. In questo caso, all’idea del viaggio del defunto verso l’Isola dei Beati, non sarà da escludere, in epoca romana, anche un desiderio di identificazione con quell’ideale dell’uomo saggio alla ricerca della conoscenza identificato in Ulisse dalla tradizione stoica e neoplatonica. È, invece, il tema del distacco definitivo da una persona amata ad aver suggerito l’adozione di altre iconografie, come quella di Ulisse e Argo, mentre la scelta di un soggetto come la strage dei Proci potrà forse alludere a una morte imprevista e improvvisa del defunto. Ancora una volta, però, nell’arte romana come già in epoca classica, sarà l’episodio del Ciclope a suggestionare maggiormente scultori e pittori. Forse già in età tardo-ellenistica, fu elaborato un prototipo, molto probabilmente scultoreo, destinato a influenzare profondamente l’arte di età tardo-repubblicana e imperiale. Su una varietà
Particolare di uno stamnos attico a figure rosse con l’episodio di Ulisse che si fa legare all’albero della nave per resistere al canto ammaliatore delle Sirene, da Vulci. 480-470 a.C. Londra, British Museum.
di supporti estremamente diversificata, dai mosaici ai sarcofagi, dalle gemme alle lucerne, a partire dal I secolo a.C., si affermò infatti uno schema iconografico con il Ciclope posto al centro e uno dei compagni di Ulisse ormai morto riverso sulla sua gamba; alla sua sinistra si avvicina, invece, Ulisse protendendo la coppa colma di vino con il quale ubriacare il mostro. Il gruppo poteva o meno essere integrato dalle figure di due o tre greci, uno dei quali raffigurato con l’otre da cui attingere il vino per Polifemo.
MARCO ANTONIO COME DIONISO Sarà questa teatrale e concitata restituzione dell’episodio omerico quella a essere tradotta anche in gruppi statuari di dimensioni colossali direttamente legati alla piú alta committenza politica dello Stato romano, nei quali, inevitabilmente, la figura di Ulisse verrà caricandosi di valori propagandistici e celebrativi fino ad allora ignoti. È questo il caso del gruppo delle nove statue rinvenute a Efeso
come decorazione di una grandiosa fontana pubblica di età flavia, il ninfeo di Pollione. I marmi, in realtà, non erano stati concepiti sin dall’origine per questa sistemazione, ma erano stati scolpiti oltre un secolo prima, intorno agli anni 30 del I secolo a.C., per ornare il frontone di un tempio consacrato a Dioniso. È probabile che la sua realizzazione si dovesse a una precisa volontà di Marco Antonio, che la propaganda acclamava come Nuovo Dioniso opposto al filo apollineo Ottaviano. Plutarco, nella sua biografia del generale romano, ricorda che, in occasione proprio dell’ingresso a Efeso, Marco Antonio volle addirittura farsi precedere da donne vestite da Baccanti. Al Dioniso portatore di gioia, per qualunque efesino del I secolo a.C. trasparente metafora del Triumviro, fu dunque dedicato il tempio la cui decorazione frontonale non poteva che essere un’altrettanta esplicita allusione alla celebrazione politica dell’ex luogotenente di Giulio Cesare. Nell’Ulisse che grazie al vino a r c h e o 105
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inebria il Ciclope prima di accecarlo, era facile riconoscere la metafora di Marco Antonio che, grazie alla sua astuzia e all’aiuto del suo dio protettore, avrebbe vinto il mostro Ottaviano che lo minacciava. La sconfitta di Azio e il rapido declino della fortuna dell’ex generale di Cesare sancirono anche la fine del progetto. Il tempio fu ultimato, ma dedicato alla piú neutra dea Roma, mentre le statue del frontone, dimenticate per oltre un secolo, furono poi riutilizzate per la decorazione di una fontana pubblica. Ridotto alle sole figure di Ulisse, di un compagno con l’otre e a quella del Ciclope, lo stesso gruppo ornava anche il ninfeo con funzione triclinare di Punta dell’Epitaffio a Baia, appendice, oggi sommersa dalle acque del mare, di una ben piú vasta villa di piacere di proprietà imperiale. Il gruppo, che ci è giunto privo della figura del Ciclope, occupava l’abside di una vasta sala percorsa dall’acqua e mossa lungo le pareti da nicchie popolate da statue, solo in parte sopravvissute. La pre-
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senza, però, almeno dell’effigie di Antonia Minore come Augusta e di una fanciulla della casa imperiale, secondo alcuni interpreti Ottavia la futura moglie di Nerone, non lascia dubbi sulla volontà di proiettare in un passato mitistorico la gloria della gens Claudia. Le ragioni di questo legame con Ulisse devono probabilmente essere ricercate nell’origine da Tusculum della stirpe, una città, questa, che secondo una tradizione ben radicata, fu fondata da Telegono figlio di Ulisse e Circe.
UN’ANTOLOGIA DI MARMO Anche Tiberio, il predecessore di Claudio, apparteneva alla stessa gens e questa potrebbe essere una delle ragioni che lo spinsero a creare una vera e propria antologia in scultura delle imprese di Ulisse nella grotta della sua villa di Sperlonga per mano di artisti di formazione rodia o microasiatica. I gruppi illustravano momenti legati, due a due, alle stagioni fondamentali della saga del Laerziade: alla guerra troiana, infatti, dovevano
Testa di Polifemo, particolare del gruppo scultoreo raffigurante l’accecamento del ciclope, dalla Grotta di Tiberio a Sperlonga. 4-26 d.C. Sperlonga, Museo Archeologico Nazionale e Area Archeologica, Polo Museale del Lazio.
essere ricondotti il gruppo del Pasquino, in questo contesto interpretato come Ulisse con il corpo di Achille alla luce di un passo del XIII libro delle Metamorfosi di Ovidio, e quello del ratto del Palladio. Alla saga del nostos, invece, appartenevano le altre due grandiose compagini scultoree, una raffigurante l’accecamento di Polifemo e la seconda la lotta dell’eroe contro i mostri marini Scilla e Cariddi. La semplice origine tuscolana della gens Claudia e la prossimità della villa a un luogo cosí legato a Ulisse come il Circeo, identificato in età romana con la sede della maga Circe, non sembrano però essere sufficienti a spiegare una celebrazione cosí grandiosa e articolata dell’eroe omerico. Anche in questo caso, probabilmente, Ulisse finiva con l’incarnare una piú complessa architettura simbolica e celebrativa, strettamente legata al mito di Roma. Fu grazie, infatti, al ratto del Palladio che Ulisse privò Troia della protezione divina ed è stato grazie alle armi divine del padre Achille che Neottolemo espugnò la città. Il re di Itaca fu, quindi, il primo motore di quella concatenazione dei tragici eventi troiani (i fatalia troiana) grazie ai quali Enea fu costretto ad abbandonare la sua patria e a dar inizio a quella stirpe Iulia di cui Tiberio era membro adottivo. Nella figura dell’imperatore, quindi, sembravano confluire due destini strettamente legati fin dalla notte dei tempi: quello di Ulisse, il cui figlio Telegono avrebbe fondato la città d’origina della gens claudia, e quello di Enea, ai cui discendenti era stato affidato lo scettro di Roma.
noscevano nelle peregrinazioni del sapiens Ithacus la metafora delle prove alle quali è sottoposta l’anima del giusto in vita prima della sua ricompensa celeste, gli scrittori paleocristiani videro nella nave di Ulisse il simbolo stesso della Chiesa, strumento della Salvezza, alla quale Ulisse si fa legare per sottrarsi alle tentazione delle Sirene, sintesi, per Ambrogio, di ogni lussuria e adulazione. È, forse, proprio questa lettura che spiega la singolare fortuna di quell’episodio mitico sui coperchi di sarcofagi del III secolo d.C. che, per l’associazione con le scene bucoliche o i colloqui filosofici raffigurati sulle casse, è assai probabile fosse da interpretare secondo una chiave salvifica di matrice neoplatonica o addirittura cripto-cristiana. È comunque seguendo questo percorso esegetico che si possono spiegare le parole di Onorio di Autun che, ormai in pieno Medioevo, non esita a riconoscere in Ulisse addirittura un’Imago Christi. L’albero della nave alla quale si fa legare il Laerziade diventa infatti, nella visione di Onorio, metafora della croce e del sacrificio del Figlio di Dio, nella cui fede soltanto sarà possibile vincere le lusinghe del peccato, incarnato dalle Sirene, e giungere cosí alla meritata ricompensa del Regno dei Cieli, cosí come Ulisse ottenne di ritornare nella tanto amata Itaca.
Con l’eccezione del box alle pp. 94-97, i testi pubblicati sono tratti dal catagologo della mostra e appaiono per gentile concessione dell’editore, Silvana LA RILETTURA CRISTIANA In oltre mezzo millennio di storia letteraria Editoriale, e del comie artistica, il carattere versatile di Ulisse e le tato organizzatore sue imprese talora ambigue e contraddittorie dell’esposizione. hanno offerto lo spunto a una caleidoscopica varietà di possibili esegesi che lo hanno DOVE E QUANDO dipinto ora come un guerriero coraggioso, ora come un abile demagogo, ora come un «Ulisse. L’arte e il mito» ammaliante seduttore, ora come un marito Forlí, Musei San Domenico infelice perseguitato dalla sorte, ora come fino al 21 giugno uno potente strumento della propaganda Orario ma-ve, 9,30-19,00; politica romana, ora come un modello delle sa-do e festivi, 9,30-20,00; virtú del saggio stoico. lu chiuso; 13 aprile e 1° giugno Manca solo l’ultimo tassello per chiudere la apertura straordinaria parabola della saga di Ulisse nel mondo anti- Info tel. 199 151 134; co: l’interpretatio christiana dell’eroe. Attingen- e-mail: mostraforli@civita.it; do a una lettura che era stata già degli intel- www.mostraulisse.it lettuali neoplatonici tardo-antichi, che rico- Catalogo Silvana Editoriale a r c h e o 107
SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti
QUEI VESCOVI IMPENITENTI TROVATO PER CASO ALLA FINE DELL’OTTOCENTO, IL BOCCALE DI EXETER È UN CURIOSO E DIVERTENTE ESEMPIO DI OGGETTO «PARLANTE». E PORTATORE DI UN MESSAGGIO A DIR POCO... DISSACRANTE
A
nche gli oggetti possono trasmettere messaggi. Lo hanno fatto in ogni epoca, compreso, naturalmente, il Medioevo. A volte si tratta di messaggi legati all’identità dei loro proprietari: basti pensare al corredo deposto nella tomba del re Childerico (uno tra i primi re dei Franchi, morto nel 481). Fra quei reperti, trovati casualmente nel 1653 durante il restauro di un edificio a Tournai, in Belgio, figurava una franziska, ovvero un’ascia da lancio: un’arma che qualificava il re come un guerriero, appartenente al popolo dei Franchi (erano soprattutto loro a usarla, in battaglia). E c’era una fibula, una spilla per fermare il mantello, simbolo evidente del potere, del tipo «a testa di cipolla», di tradizione romana. Quell’accessorio, però, sottolineava anche un altro aspetto della vita di Childerico, che prima di diventare sovrano era stato un generale alleato con i Romani e aveva combattuto per l’impero. In poche parole, entrambi gli oggetti affermavano in maniera piuttosto esplicita che Childerico era stato un potente re dei Franchi, un valoroso soldato, e che – in un certo senso – era stato anche un po’ romano.
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Fra i molti esempi di «oggetti parlanti» del Medioevo, abbiamo scelto un vaso in ceramica, noto – soprattutto agli addetti ai lavori – come The Exeter Jug (letteralmente, la «Brocca di Exeter»).
UNA FORMA COMPLESSA Si tratta di un boccale da vino in maiolica, quindi rivestito di smalto e poi dipinto con colori differenti. Ha una forma molto complessa: la parte bassa, il vero contenitore, panciuto, svolge la funzione di base per una torre a piú piani. La torre si raccorda da un lato a una lunga ansa, il manico del boccale; dall’altro a un lungo versatoio a forma di animale, molto probabilmente un asino. La decorazione dipinta è piuttosto elaborata: la zona in basso è ornata da tralci e foglie, il collo dell’animale è scandito da righe a colori alternati (nero, verde, rame), mentre alcuni scudi araldici occupano l’ultimo piano della torre. Ma la cosa piú straordinaria sono le figure umane, un rarissimo caso di decorazione del genere in un vaso
medievale. I personaggi danno vita a una scena che si replica, identica, su entrambi i lati dell’oggetto, cosí che tutti la possano vedere quando il vaso è in tavola. Ai piedi della torre, due musicisti stanno evidentemente suonando una serenata a una ragazza, che si affaccia dal primo piano e ascolta la musica, rapita. Ma dentro la torre ci sono altri due uomini, completamente nudi, se non fosse che in testa hanno la mitra e in mano il pastorale, e che
dunque possiamo identificare come… vescovi! Ma qual è dunque il messaggio del boccale? Innanzitutto, è stato accertato che il boccale fu prodotto intorno al 1300 nella Saintonge (regione storica della Francia centrooccidentale, oggi coincidente, grosso modo, con il dipartimento Charente-Maritime, n.d.r.).
UNA CRITICA FEROCE Venne quindi importato in Inghilterra (a riprova dei contatti commerciali tra le due aree) e si pensa che lo abbia comprato un ricco mercante di Exeter. La scena andrebbe intesa come una feroce
Sulle due pagine: l’Exeter Jug, un boccale in ceramica smaltata e dipinta di produzione francese. XIV sec. Exeter, Royal Albert Memorial Museum. La ricca decorazione plastica mostra una curiosa scena di sapore «anticlericale». critica sociale e morale, rivolta contro i facili costumi del clero, e racchiusa in un oggetto bello e sofisticato, che faceva mostra di sé sulla tavola del mercante, soprattutto – immaginiamo – nelle grandi occasioni. Il boccale è insomma un piccolo trattato satirico sui costumi dell’epoca, scritto nella ceramica con grazia, eleganza e notevole raffinatezza.
Il boccale di Exeter è stato trovato per caso nel 1899, in pezzi, dentro la conduttura di una fogna e fu subito consegnato dallo scopritore alle autorità. Oggi è uno dei pezzi piú ammirati del museo di quella città (il Royal Albert Memorial Museum) e piú di settecento anni dopo la sua fabbricazione, continua a farci sorridere e riflettere grazie al messaggio che trasmette.
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
PESARE LE PAROLE LE MONETE AVEVANO IL COMPITO DI CELEBRARE LE VIRTÚ POSSEDUTE DALL’IMPERATORE. FRA QUESTE FIGURAVA ANCHE LA COSTANZA, SCELTA DA CLAUDIO COME CIFRA DELLA SUA AZIONE DI GOVERNO, FORSE PER FAR DIMENTICARE IL BURRASCOSO IMPERIO DEL SUO PREDECESSORE, CALIGOLA
L’
iconografia numismatica romana riserva un vasto spazio alle personificazioni che, come riporta l’Enciclopedia Italiana Treccani, consistono nell’«attribuzione di personalità divina a oggetti inanimati, fenomeni naturali o idee astratte», percepiti e rappresentati in forma umana. E tra le idee astratte rientrano le virtú, quelle qualità positive (naturalmente secondo il contesto sociale che le pratica) che caratterizzano l’uomo esemplare; non per nulla l’etimologia della parola italiana deriva dal latino virtus (forza, coraggio), derivato a sua volta da vir (uomo). Nel mondo romano l’imperatore incarna – o dovrebbe incarnare – una serie di qualità e virtú anelate dal popolo, che ne fanno un principe forte, giusto e buono, quali l’Aequitas, la Clementia, la Fides, l’Indulgentia, la Iustitia, la Constantia. Una volta personificate, esse entrano a far parte del pantheon romano, seppure prive del background miticoavventuroso che contraddistingue le divinità grecoromane e le varie narrazioni che le vedono protagoniste. Come le divinità trovano abbondantemente posto
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sui rovesci delle monete imperiali (mentre in età repubblicana appaiono anche sul dritto), cosí le personificazioni sono saldamente radicate nei tipi prescelti dai magistrati preposti alle coniazioni e alla scelta delle immagini. A partire dalla Vittoria, le personificazioni
sono spesso femminili (Honos e Virtus, per esempio, possono essere sia maschili che femminili, mentre il Genius è sempre maschile) e hanno attributi che, insieme con la leggenda che ne riporta il nome, le identificano.
PROPRIA DEGLI STOICI Tra queste si distingue, per la sua sottigliezza semantica, la Costanza (Constantia), che copre un ampio spettro di qualità apprezzate dal mondo romano, quali la perseveranza, la fermezza, la tenacia, la forza d’animo e che ne fa una virtú tipicamente romana, riconosciuta come vincente anche dai nemici dell’Urbe quando applicata in campo bellico (Livio, Ab Urbe condita, 26, 12). La Constantia è anche una peculiarità del filosofo stoico, come prova il Dialogo di Seneca intitolato De constantia sapientis (La fermezza, la coerenza del saggio, 55-56 d.C.), nel quale si dimostra, attraverso sillogismi, che il vero saggio, essendo estraneo a ogni male non può essere toccato dal male stesso essendone immune: «Il sapiente è al sicuro. E non può essere
colpito da alcuna offesa o contumelia». Seneca immerge il saggio non solo in un astratto filosofeggiare, ma nell’arena politica, dove questo tipo di uomo è incarnato da Catone l’Uticense, il quale, basando la propria coerenza sulla razionalità etica, diviene inattaccabile, anche quando non goda del favore dell’opinione pubblica, e rappresenta il «buon» politico. Giunto al potere, l’imperatore Claudio dedicò per primo alla Constantia diversi conii delle sue emissioni. Tale scelta è stata a lungo dibattuta tra gli studiosi per arrivare a coglierne la motivazione; è possibile che l’imperatore intendesse cosí manifestare l’intenzione di assumere una personale e precisa responsabilità etico-politica innanzi ai suoi sudditi, allontanandosi nettamente dall’instabile principato tirannico di
In alto: aureo di Claudio per la madre Antonia Minore. 41-45 d.C. Al dritto, il busto di Antonia; al rovescio, una figura femminile stante, che tiene in una mano una lunga torcia e nell’altra una cornucopia. Nella pagina accanto: busto dell’imperatore Claudio, da Priverno.
I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Chiaramonti-Braccio Nuovo. In basso: sesterzio di Claudio. 41-50 d.C. Al dritto, il busto dell’imperatore; al rovescio, figura femminile in abito militare, che porta un dito verso il viso.
Caligola. Come è stato notato, Claudio preferisce legare l’immagine del suo regno a una personificazione nuova, la Constantia appunto, che rappresenta la tenacia con cui il principe volle perseguire riforme e iniziative politico-giudiziarie che dovevano avere importanti ricadute sulla vita del popolo romano.
Una seconda emissione presenta invece una figura femminile in armi, simile a una Minerva elmata e armata, ma con un abito piú corto che lascia scoperte gambe e calzari. Anche qui la personificazione, posta di tre quarti, ha il braccio destro piegato verso il viso, con il dito indice verso la bocca. Chiude la serie dedicata alla Costanza di Augusto un’altra immagine femminile, stavolta destinata agli aurei emessi a nome della madre Antonia. Qui la figura è frontale, riccamente abbigliata, con le mani che reggono una lunga torcia e una cornucopia, senza alcun gesto. Ma il messaggio pare essere sempre lo stesso: la costanza, la coerenza e la perseveranza del regno di Claudio sono incarnate dalla figura armata, dalla donna con la cornucopia dell’abbondanza, dalla matrona seduta in trono con sgabello, che, indicando la bocca con il dito, testimoniano l’importanza in ogni buono e saggio regnante del saper parlare avvedutamente e del saper tacere quando è opportuno.
UN GESTO ENIGMATICO Nella monetazione la leggenda («alla Costanza di Augusto») tende a sottolineare che questa virtus è propria dell’imperatore, e l’iconografia scelta per rappresentare tale concetto è triplice: si è già parlato della Constantia seduta battuta su bronzi, denari e aurei, e dell’enigmatico gesto che essa fa portando un dito della mano destra davanti alla bocca (vedi «Archeo» n. 420, febbraio 2020; anche on line su issuu.com). Gesto che pare senza dubbio collegato alla facoltà della favella e, come si è proposto, del valore del silenzio, associato anche a divinità che con esso hanno a che fare.
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Alessandro Pace
IMMAGINI DI GELA Le necropoli e il profilo culturale della polis tardoarcaica. I materiali della collezione e del predio Lauricella All’insegna del Giglio, Sesto fiorentino, 304 pp., tavv. e figg. nt 40,00 euro ISBN 978-88-7814-905-2 www.insegnadelgiglio.it
Le «immagini di Gela» oggetto di questo studio costituiscono una collezione archeologica creata da Emanuele Lauricella alla fine dell’Ottocento, a seguito di scavi non autorizzati in terreni di sua proprietà. Su iniziativa di Paolo Orsi, i materiali in questione furono acquistati nel 1900 per il Museo di Siracusa e nuovi scavi furono intrapresi nella proprietà fondiaria del collezionista; sicché i reperti, pur estrapolati dal loro contesto originario, rimasero suscettibili di essere adeguatamente ricollocati nel preciso tessuto urbano, antico e moderno. Il libro presenta i risultati di questo riuscito progetto di ricomposizione storica, che, collimando i dati archeologici con quelli archivistici e cartografici, giunge anche a delineare il quadro socio-culturale della società di Gela tra la fine del VI secolo a.C. e la prima metà del successivo, periodo nevralgico per la storia 112 a r c h e o
cittadina. L’analisi del sepolcreto è introdotta dalla ricostruzione storiografica degli avvenimenti che dettero origine alla collezione, evitarono il pericolo della sua dispersione e favorirono indagini piú accurate. Il catalogo presenta soprattutto il materiale in ceramica protocorinzia e corinzia, vasi attici a figure nere
e figure rosse, e poi altri oggetti di produzione greco-orientale, in pasta silicea e in alabastro, coroplastica e metallo. L’inventario delle tombe e del loro corredo consente infine di risalire al paesaggio funerario caratteristico del territorio di questa importante colonia rodio-cretese, in epoca tardo-arcaica e proto-classica. Sergio Ribichini Claudia Lambrugo (a cura di)
UNA FAVOLA BREVE Archeologia e antropologia per la storia dell’infanzia All’insegna del Giglio, Sesto fiorentino, 266 pp. tavv. e figg. b/n e col
38,00 euro ISBN 978-88-7814-890-1 www.insegnadelgiglio.it
Mostre, progetti e pubblicazioni recenti, d’interesse storico e umanistico, hanno posto in primo piano il tema della salute dell’infanzia, lo sviluppo biologico, le strategie di inclusione ed esclusione dei bambini, e, soprattutto, la questione della mortalità dei lattanti, con indagini opportunamente condotte in modo interdisciplinare. Questo volume raccoglie una serie di contributi redatti con l’intento esplicito di contribuire alla formazione di un’attenta coscienza civica, rispetto a tematiche sociali delicate e ancora di grande urgenza, come la morte prematura, i feti abortiti e i nati morti. Al volume hanno contribuito piú di cinquanta specialisti di archeologia e antropologia, di storia del diritto e della medicina, ai quali vanno i nostri elogi per aver delineato congiuntamente un quadro critico dei dati disponibili, in un arco di testimonianze che parte dall’età del Ferro, attraversa l’antichità classica e arriva fino all’epoca degli Sforza, con riguardo a due specifiche aree geografiche: quella della Sicilia e Magna Grecia e quella della Lombardia. I casi di studio riguardano le modalità di sepoltura per i decessi dell’infanzia, le pratiche
dell’allattamento e dell’alimentazione, la salute del bambino e la
dignità del feto. «Una favola breve», sintetizza correttamente il titolo. «Breve come il respiro», si potrebbe aggiungere, a sottolineare il grande interesse di questi studi sui bambini mai nati o mai vissuti, evocando al confronto il rito del répit, il «ritorno al respiro» praticato nel Nord-Italia e oltralpe, soprattutto nel Cinquecento e Seicento, ma sopravvissuto fino al secolo scorso, che alleviava la disperazione dei genitori di bimbi morti senza battesimo, facendo «respirare» quei piccoli almeno qualche attimo, giusto il tempo per ricevere il sacramento e sfuggire al limbo e finanche all’inferno. S. R. Lorenzo Nigro
GERICO. LA RIVOLUZIONE DELLA PREISTORIA Il Vomere, Marsala, 191 pp., 109 ill. a colori 15,00 euro ISBN 978-8898154135
Lorenzo Nigro dirige la missione archeologica dell’Università degli Studi di Roma «Sapienza» a Gerico dal 2005. Le campagne di scavo hanno dato risultati d’interesse notevole e sono state illustrate puntualmente in riviste specializzate e in occasione d’incontri a carattere scientifico. Nel libro Gerico. La rivoluzione della preistoria, l’autore porta avanti un’operazione diversa: presenta i risultati principali delle ricerche, ma essi restano sullo sfondo. In primo piano sono le riflessioni che un archeologo, consapevole sino in fondo del proprio mestiere, porta avanti mentre scava; le relazioni e le tensioni che accompagnano una missione di scavo; le lunghe giornate di lavoro. Il dietro le quinte di uno scavo diventa interessante quanto lo scavo stesso: qualcosa di simile a quello che avviene in teatro mentre si sta allestendo uno spettacolo o preparando un concerto, o su un set cinematografico. Soltanto che, in questi ultimi casi, i racconti sono stati numerosi e alcuni particolarmente riusciti, mentre, nel caso di una campagna di scavo, la strada intrapresa da Nigro ha pochi precedenti. A me viene da pensare soltanto a Il Sentiero degli scarabei di Salvatore Maria Puglisi (Sellerio),
o a Viaggiare è il mio peccato di Agatha Christie (Mondadori), in cui la nota giallista racconta con ironia le vicende di scavo del marito, l’archeologo e orientalista Max Mallowan. Partiamo dal racconto di una giornata di lavoro: la sveglia è alle cinque, dalle sei alle nove e trenta si scava cercando di sfruttare le ore piú fresche. Poi si fa una colazione a base di yogurt, uova sode, mele e gatto (non vi preoccupate: la parola è soltanto l’arabizzazione del francese gateau, di fatto il nostro ciambellone). Si riprende alle dieci sino alle tredici e trenta, poi lo scavo s’interrompe.
Dopo un pranzo leggero e un’ora di riposo, intorno alle sedici s’inizia a lavare, fotografare, disegnare, schedare e classificare i reperti scoperti. Poi a turno s’incomincia a preparare la cena che si consuma alle venti; alle ventidue, in genere, esausti, si va a dormire. Gli alcolici – osserva Nigro – sono vietati in quanto dannosi alla salute e per rispetto della cultura locale. Abitudini locali che ritornano spesso: «la limonata inzeppata di menta triturata è uno di quei souvenir che non si dimenticano di Gerico, specialmente se è un giorno caldo e si sta scavando indefessamente. Ce la
offre Walid, con il suo cravattino texano»; come le riflessioni sul rapporto profondo tra storia e paesaggio naturale, stimolate magari dall’osservazione di una luna piena in una notte stellata. Particolarmente
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interessanti sono le pagine nelle quali l’autore confessa di provare spesso a immedesimarsi negli uomini e nelle donne che abitarono Gerico, cercando di immaginarne le aspirazioni, le realizzazioni, i rischi a cui andavano incontro, gli insuccessi, le conquiste, magari provvisorie: in poche parole, la fatica e la gioia del vivere. Un archeologo, in fondo, deve provare a ridare voce a chi l’ha perduta: è la sua missione piú autentica. E questo libro ben scritto ce lo ricorda. Giuseppe M. Della Fina Giovanni Di Pasquale
LE MACCHINE NEL MONDO ANTICO Dalle civiltà mesopotamiche a Roma imperiale Carocci Editore, Roma, 242 pp., ill. b/n 18,00 euro ISBN 978-88-430-9589-6 www.carocci.it
L’idea di guardare all’antichità come a un’epoca ricca di soluzioni tecnologiche spesso molto avanzate e in via di costante perfezionamento è relativamente recente, ma il ritardo è stato colmato in maniera significativa e la letteratura scientifica dedicata all’argomento si arricchisce di continuo. In questa scia si inserisce il volume di Giovanni Di Pasquale, che dopo un’ampia Introduzione – nella quale ribadisce 114 a r c h e o
suoi rioni e quartieri si riempirono, letteralmente, di luoghi di culto la cui memoria, è il caso di dirlo, fa capolino a ogni angolo di strada. S. M.
appunto la necessità di valutare adeguatamente anche i vili meccanici del passato – passa in rassegna le macchine ideate e sperimentate presso le maggiori civiltà del mondo antico. Stefano Mammini Enrico Giovannini
NEL NOME, LA STORIA: TOPONOMASTICA DI ROMA CRISTIANA La memoria della fede nelle vie della Città Eterna Editrice Apes, Roma, 268 pp., ill. b/n 28,00 euro ISBN 9788872331606
Replicando una formula già sperimentata con successo per la toponomastica della capitale dell’impero, Enrico Giovannini ci guida questa volta alla scoperta dei nomi della Roma cristiana. E dunque l’orizzonte si amplia considerevolmente, visto che molta parte della città si sviluppò in funzione della presenza della sede del papato e tutti i
DALL’ESTERO Tod A. Marder, Mark Wilson Jones (a cura di)
THE PANTHEON From Antiquity to the present Cambridge University Press, Cambridge, 472 pp., ill. b/n 24,99 GBP ISBN 978-0-521-00636-1 www.cambridge.org
È un volume denso, questo The Pantheon, ma non poteva essere altrimenti, se solo si pensa a quanto lunga e articolata è la storia del monumento. Una costruzione da secoli ammirata in quanto simbolo della grandezza di Roma e, al tempo stesso, in quanto prova dell’eccezionale valentía dei suoi ingegneri. La storia del tempio «di tutti gli dèi» comincia in epoca augustea – come ricorda l’iscrizione in cui tuttora si legge il nome Marco (e non Menenio!)
Agrippa, genero del primo imperatore –, ma quel che vediamo oggi è il frutto della ristrutturazione promossa da Adriano. Da allora, molti altri interventi si sono succeduti, il piú vistoso dei quali è certamente la trasformazione dell’edificio nella chiesa di S. Maria della Rotonda (o ad Martyres). Bastano insomma pochi cenni per dare un’idea di quanto lunga e complessa sia la vicenda di questo capolavoro architettonico e, di conseguenza, è vasta la platea degli specialisti a cui i curatori del volume si sono rivolti. I contributi tessono una trama fitta e dettagliata, nella quale viene dato spazio sia alle vicissitudini storiche, sia all’analisi delle caratteristiche strutturali. E, fra le molte notazioni possibili, desta impressione la lista di quanti, nel tempo, hanno ammirato, riprodotto, studiato e preso a modello il Pantheon, tanto da farne un autentico canone. S. M.