Archeo n. 422, Aprile 2020

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IL FUTURO DEL PASSATO

FAIDA

COLLEZIONE TORLONIA

10 RIFLESSIONI SUL FUTURO DEL PASSATO IN TEMPO DI CRISI

ALIMENTAZIONE

UN MONDO FATTO DI PASTA

LA PASTA

SCOPERTE

SARGON E L’IMPERO DELL’ACQUA

SPECIALE ROSELLE LE NUOVE SCOPERTE

ROSELLE

Nuove rivelazioni nella grande città etrusca e romana

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IN EDICOLA IL 9 APRILE 2020

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Mens. Anno XXXV n. 422 aprile 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 422 APRILE

LA STORIA MAESTRA DI VITA

€ 5,90



EDITORIALE

VOCI PIENE DI VITA

Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis, «La storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, messaggera dell’antichità» (Marco Tullio Cicerone, De Oratore II, 9). «Mai iniziare un articolo con una citazione!» è stata, per anni, la raccomandazione di Sabatino Moscati (1922-1997), fondatore della nostra rivista. E io, oggi, mi trovo a disattenderla per ben due volte, introducendo questo primo editoriale in tempo di crisi. Ma, ne sono convinto, è l’unico espediente a mia disposizione per schivare inutili, retoriche banalità: le cose urgenti da leggere e da ascoltare, lo so e lo sappiamo, sono altre in questo momento. Eppure, ognuno deve comunque esercitare il proprio mestiere, svolgere il proprio compito. Sentiamo, a riguardo, quel che ci hanno riferito, interpellati «a caldo» dalla nostra Flavia Marimpietri, dieci tra le collaboratrici e i collaboratori piú stretti (il numero, casuale, è dettato da ragioni di tempo) nella rubrica il cui titolo si ispira proprio all’enunciato del grande oratore di Arpino. Riflettiamo sulla loro esperienza di questi giorni: i Fori Imperiali vuoti, senza la presenza delle decine di migliaia di turisti che ne percorrono gli antichi selciati, sono «uno spettacolo impressionante e desolante»? Non me ne voglia il professor Zevi, uno dei massimi studiosi della storia di Roma antica, se garbatamente e solo per pochi secondi dissento dalla sua opinione: i monumenti del Foro, in questi giorni di forzata calma, risplendono piú che mai di quell’eterna lux veritatis. Piú che oggetti di osservazione, sembrano essere loro – una volta tanto in maggioranza – a guardarci dall’alto della loro, magnifica, vetustas... Il silenzio, in queste settimane, mesi, ci proteggerà. Accettiamolo per ascoltare meglio le grandi voci del passato. Sono cosí piene di vita! Andreas M. Steiner Roma. L’affaccio del Clivo Argentario sul Foro Romano e sul Palatino: un luogo normalmente affollato dai turisti e in questi giorni deserto per via dell’emergenza sanitaria innescata dal Coronavirus.


SOMMARIO EDITORIALE

Voci piene di vita

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di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

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SCAVI Scoperto a Ferrandina, nel Materano, un frantoio oleario con resti, eccezionalmente conservati, delle antiche spremiture 6 RESTITUZIONI I Carabinieri del Comando TPC sventano la dispersione di un tesoro monetale trovato a Carbognano (Viterbo)

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IN DIRETTA DA VULCI Il leone alato dalla necropoli dell’Osteria tiene a battesimo un nuovo appuntamento con le ultime novità dagli scavi nella città etrusco-romana 16

LA DEMOCRAZIA NEL CUORE

PAROLA D’ARCHEOLOGO Quale ruolo può avere l’archeologia al tempo dell’emergenza sanitaria causata dalla diffusione del Coronavirus? Ecco come hanno risposto, in un’«inchiesta» corale i nostri collaboratori 20

di Daniele Morandi Bonacossi

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DA ATENE

MOSTRE

Le prove regine

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Quella sentenza era giusta!

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di Louis Godart

SCOPERTE

La versione di Sargon 36

L’affaire Torlonia

di Valentina Di Napoli

di Mimmo Frassineti, con un’intervista a Carlo Gasparri

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In copertina particolare di una statua raffigurante Meleagro. Roma, Collezione Torlonia.

Presidente

Federico Curti Anno XXXVI, n. 422 - aprile 2020 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Comitato Scientifico Internazionale

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Italiano

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Benedetta Baleani è archeologa. Enrico Benelli è ricercatore presso l’Istituto di Studi sul Mediterraneo del CNR. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Stefano Camporeale è professore associato di archeologia classica all’Università di Siena. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Mariagrazia Celuzza è archeologa. Francesco Colotta è giornalista. Alessandro D’Alessio è funzionario archeologo presso il Parco archeologico del Colosseo. Valerj Del Segato è archeologa. Marta De Pari è archeologa. Valentina Di Napoli è archeologa. Mimmo Frassineti è scrittore e fotografo. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Louis Godart è stato professore di civiltà egee all’Università Federico II di Napoli. Alessandro Maria Jaia è professore associato di topografia antica presso «Sapienza» Università di Roma. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Paolo Liverani è professore ordinario di topografia antica all’Università di Firenze. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Mirko Marconcini è archeologo. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Chiara Mendolia è archeologa. Matteo Milletti è funzionario archeologo presso la SABAP per le province di Siena, Grosseto e Arezzo.


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ARCHEOTECNOLOGIA Un mondo fatto di pasta

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Nuove scoperte nella grande città etrusca e romana

Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Una distanza da colmare

di Daniele Manacorda

SPECIALE Roselle

di Flavio Russo

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testi di Stefano Camporeale, Mariagrazia Celuzza, Matteo Milletti, Luca Passalacqua, Andrea Zifferero; con contributi di Benedetta Baleani, Enrico Benelli, Valerj Del Segato, Marta De Pari, Paolo Liverani, Mirko Marconcini, Chiara Mendolia, Elisa Papi, Giulia Reconditi, Maria Teresa Sgromo, Maria Angela Turchetti e Chiara Valdambrini

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA I mille volti del Macedone

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di Francesca Ceci

LIBRI

Maria Cristina Molinari è responsabile del Medagliere Capitolino. Daniele Morandi Bonacossi è professore ordinario di archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente antico all’Università degli Studi di Udine. Elisa Papi è archeologa. Luca Passalacqua è coordinatore del Laboratorio di Archeologia Classica all’Università di Siena. Giulia Reconditi è archeologa. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Maria Teresa Sgromo è archeologa. Maria Angela Turchetti è archeologa, direttrice del Parco Archeologico di Roselle, Direzione Regionale Musei della Toscana. Chiara Valdambrini è direttrice scientifica del Museo Archeologico e d’Arte della Maremma di Grosseto. Andrea Zifferero è professore associato di etruscologia e antichità italiche e di musealizzazione e gestione del patrimonio archeologico all’Università di Siena. Illustrazioni e immagini: Ufficio stampa Electa: © FondazioneTorlonia: Lorenzo de Masi: copertina (e p. 53) e pp. 50/51, 55, 62/63, 64-71 – Andreas M. Steiner: p. 3 – Cortesia SABAP della Basilicata: p. 6 – Cortesia Comando Carabinieri TPC: p. 8 (alto) – Cortesia degli autori: pp. 8 (basso), 9, 10, 16 (alto), 17, 112-113; rielaborazione su base da © Google Earth: p. 83 – Shutterstock: pp. 12, 26/27, 60, 79 (basso), 110 (basso) – Doc. red.: p. 13, 16 (basso), 20-21, 23, 24-25, 76 (alto), 108 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 14-15 – Andrea Sgherri: disegno a p. 18 – Andrea Zifferero: p. 19 – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: Simona Murrone: p. 22 – Cortesia ESAG, École suisse d’archéologie en Grèce: pp. 32 (basso), 33; Y. Nakas: disegno ricostruttivo a p. 32 – Mondadori Portfolio: Erich Lessing/Album: p. 34; AKG Images: pp. 35, 54, 57, 58-59, 79 (alto), 109; Giorgio Lotti: pp. 52, 110 (alto); The Print Collector/Heritage Images: p. 56; Zuma Press: p. 78 – Cortesia Progetto Archeologico Regionale Terra di Ninive, Università degli Studi di Udine: pp. 36-47 – Archivi Alinari, Firenze: p. 61 – Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles: pp. 72/73 – Cortesia Institute of Geology and Geophysics, Chinese Academy of Sciences, Pechino: Houyuan Lu: p. 74 – Cortesia Flavio Russo: pp. 75, 76 (basso), 77 – Cortesia SABAP per le province di Siena, Grosseto e Arezzo: Paolo Nannini: pp. 80 (e p. 90, basso), 81, 82, 86-87, 88/89, 91 (alto), 92-93, 94/95, 100-101 – Cortesia Archivio Fotografico Fratelli Gori, Grosseto: p. 84 – Cortesia Archivio MAAM: Carlo Bonazza: pp. 88, 89 (alto), 90 (alto), 91 (basso), 102-103, 106/107 (alto e basso) – Mariagrazia Celuzza: pp. 95 (alto), 104-105 – LucaPassalacqua: pp. 96, 98/99 – Cippigraphix: cartine alle pp. 33, 82. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano


n otiz iari o SCAVI Basilicata

UN ANTICO FRANTOIO IN MAGNA GRECIA

A

Ferrandina (Matera), per ricostruire il quadro storicoarcheologico del ricco territorio di questo importante centro dell’area sub-costiera ionica, intensamente abitato dalla prima età del Ferro alla fine del periodo lucano (VIIIIII secolo a.C.), è nato alcuni anni fa il progetto «FArch-Ferrandina

l’area già indagata valutando, a undici anni dal primo scavo, lo stato di conservazione delle strutture, individuandone i limiti e pianificando future indagini. «I resti principali – spiega Maria Chiara Monaco, direttore archeologo del progetto e docente presso l’Università degli Studi della Basilicata – appartengono a una cella olearia realizzata con muri a secco. Da essa si dipartono alcune canalette che, seguendo il naturale pendio del terreno, confluiscono in vasche di pietra destinate a contenere l’olio. All’impianto appartenevano anche due lastre di spremitura scanalate (ora al Museo Archeologico di Metaponto) e un meccanismo di pressatura a intelaiatura lignea, di cui restano

Archeologica», frutto della collaborazione fra la cattedra di Archeologia Classica dell’Università della Basilicata, la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio e il Comune lucano. L’indagine si è concentrata 2 km a sud del moderno centro urbano, in località Sant’Antonio Abate, dove nel 2007, nel corso di indagini preliminari condotte dall’archeologa Erminia Lapadula per conto della Soprintendenza, erano già state individuate strutture riferibili a un impianto per la produzione dell’olio (IV-inizi del III secolo a.C.). Nel settembre 2018, le indagini sistematiche sono riprese a cura dell’UniBas-DiSU con una doppia finalità: scientifica e di valorizzazione del sito. Si è provveduto quindi a recuperare

In alto: Ferrandina, località Sant’Antonio Abate (Matera). I carporesti di Olea Europaea rinvenuti in uno spazio adibito alla lavorazione delle olive, in fase con una pavimentazione del IV sec. a.C. A destra: foto da drone dei resti dell’impianto per la lavorazione dell’olio, che a oggi è quasi un unicum per la Magna Grecia.

6 archeo

solo le impronte sul pavimento in terra battuta. Il torchio era probabilmente costituito da travi orizzontali con contrappesi mobili, al di sotto dei quali erano collocati i fiscoli con la polpa delle olive. Si è accertato il proseguimento delle strutture tutt’intorno all’area del vecchio saggio di scavo; la cella costituirebbe solo la porzione di un piú ampio complesso rurale, probabilmente composto da un’area residenziale e da una produttiva. Poiché i resti scoperti riguardano solo il settore deputato alla spremitura delle olive, in futuro andranno cercate le aree di pulitura, frangitura e stoccaggio delle stesse. Le indagini si sono poi concentrate a est e a sud della cella olearia, dove è stato messo in luce un ampio


spazio aperto, costituito da un piano di calpestio di argilla ben compattata destinato alla lavorazione delle olive. In fase con questa pavimentazione di IV secolo a.C. sono stati eccezionalmente

ritrovati carporesti di Olea Europaea in ottimo stato di conservazione. Le analisi paleobotaniche forniranno ulteriori informazioni per far luce sull’origine della Majatica, l’oliva tipica di Ferrandina. In tal senso,

questo frantoio lucano costituisce quasi un unicum per la Magna Grecia, dove risultano rarissimi i confronti con altre strutture olearie di età preromana». Giampiero Galasso

Errata corrige con riferimento alla Monografia di «Archeo» n. 34, Cartagine, regina del Mediterraneo, desideriamo precisare che la tavola pubblicata a p. 113, che mostra la sezione stratigrafica del tofet di Cartagine (e che qui riproduciamo), è stata tratta da: Le tophet de Salammbô à Carthage. Essai de reconstitution (Collection de l’Ecole française de Rome, 342) di Hélène Benichou-Safar. Con riferimento, invece, ad «Archeo» n. 420 (febbraio 2020), desideriamo precisare che: nell’articolo Un mare alle origini della civiltà (a p. 46, prima colonna in basso) l’imperatore romano recatosi a Troia, nel 124 d.C., per dare nuova sepoltura alle ossa di Aiace non era Giuliano, come erroneamente indicato, bensí Adriano; con riferimento invece all’articolo La guerra infinita, nell’opera di Eleanor Antin Il Giudizio di Paride (da Rubens), riprodotta alle pp. 88/89 e descritta a p. 92, Elena è la figura che siede, imbronciata, alle spalle di Achille e non quella centrale, che imbraccia il mitra. Del tutto ci scusiamo con gli interessati e con i lettori.

Stele

Fase D

Piano di campagna all’epoca degli scavi

300/275-146/125

Fase C

675-505/525

Fase A

505/525-300/275

Fase B

Cippi

800-675

archeo 7


n otiz iario

RESTITUZIONI Lazio

LA STORIA SCRITTA DA UN SEQUESTRO

U

n importante tesoro di monete (del tipo definito aes grave sub-librale) è stato recuperato dai Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale, presso Carbognano, in provincia di Viterbo. Un intervento di grande importanza, perché non soltanto è stata scongiurata l’ennesima dispersione di un bene archeologico, ma è stato aggiunto un nuovo, fondamentale tassello alla storia della Roma medio repubblicana. Un’epoca già mutilata dalla perdita del racconto dello storico Tito Livio per il periodo compreso tra gli anni Novanta del III secolo a.C. e lo scoppio della seconda guerra punica (219-201 a.C.). Roma cominciò a produrre la sua prima moneta nell’ultimo quarto del IV secolo a.C., quando, nel suo straordinario processo espansionistico, entrò in contatto con le comunità magno-greche che da secoli erano abituate al mezzo monetario. Le prime emissioni, infatti, coniate in bronzo e in argento sono state attribuite concordemente a una zecca localizzabile nell’Italia meridionale, forse nell’antica Napoli, probabilmente in seguito al trattato tra Roma e Neapolis del 326 a.C.

8 archeo

Tradizionalmente denominate «romano-campane», queste monete ebbero una circolazione e quindi una funzione per lungo tempo strettamente legata all’area meridionale, destinate probabilmente al pagamento di opere pubbliche: per esempio, per la costruzione di strade come la via Appia, collegamento fondamentale tra Roma e il porto di Brindisi, o per il pagamento di riscatti dei prigionieri caduti in mano nemica o di beni utilizzati dall’esercito nella penisola italica. Le romano-campane in argento e bronzo erano prodotte tramite l’incisione in negativo di due conii, uno per il dritto e uno per il rovescio della moneta che, applicati al martello e all’incudine, servivano a battere un tondello di peso prestabilito, secondo un sistema ponderale (peso) impiegato in Magna Grecia e

in Sicilia. A Roma e nei territori strettamente connessi (l’ager Romanus) dove ancora nel IV secolo erano in uso pezzi informi di metallo chiamati aes rude e dove il bronzo costituiva il mezzo di scambio, furono prodotte due nuove forme monetali, ovvero l’aes grave, privo di iscrizione, e le barre romane, dal peso definito di 1500 g, che recano raffigurazioni e, talvolta, una dicitura (ROMANOM, «dei Romani»). L’aes grave, una particolare moneta fusa non coniata, derivata dall’unione del concetto di moneta rotonda del mondo greco con le barre di bronzo che circolavano nel Centro Italia, cominciò a essere prodotto a Roma, secondo un sistema ponderale di tipo librale, ovvero del peso di 1 libbra, corrispondente a 327 g, in diversi tagli (nominali), a partire dall’asse, della sua metà (semisse), del suo terzo (triente), del suo quarto


(quadrante), del suo sesto (sestante) e del suo dodicesimo (oncia). L’aes grave pesante venne fabbricato in tre diverse emissioni successive, convenzionalmente chiamate dagli studiosi secondo la raffigurazione ritratta sull’asse, il taglio piú grande, ovvero quella di Giano/Mercurio, di Apollo/Apollo e di Dioscuro/Apollo. Queste produzioni cosí particolari, di difficile attribuzione cronologica, sono state datate per associazione con forme di ceramica a vernice nera con bolli a piccoli stampigli. In queste produzioni, talvolta, gli stampigli riproducono le tipologie monetali dell’aes grave pesante. Recentemente una coppetta è stata rinvenuta come contenitore di alcune monete in un deposito votivo templare a Torvajanica (località del litorale romano, nei pressi di Ostia, n.d.r.). La datazione delle ceramiche in questione suggerisce un arco cronologico tra il 280/270 e il 265/260 a.C., dunque in un periodo compreso tra le guerre pirriche e l’inizio della prima guerra punica. Questa cronologia è stata confermata anche da un altro tesoro, rinvenuto nel 1929 in un contesto templare presso Santa Marinella (località costiera situata 60 km circa a nord di Roma, n.d.r.), l’antica Castrum Novum, colonia marittima fondata dai Romani nel 264 a C. a difesa della costa. Assieme ad altre colonie marittime e a strutture templari fortificate dell’Etruria e dell’antico Latium vetus, poste lungo il litorale all’imbocco di sorgenti d’acqua dolce o di fiumi, tale presidio doveva servire a costituire un complesso integrato di roccaforti. Un apparato in grado di impedire l’accesso al territorio romano da parte di un nemico proveniente dal mare, testimoniando, in tal modo,

la consapevolezza dei Romani delle future conseguenze delle proprie azioni in politica estera, ben prima dello scoppio della guerra con Cartagine e di qualunque forma di belligeranza con la stessa. La funzione dell’aes grave pesante va collocata in questo contesto sia in relazione alle spese da sostenere per le colonie e le nuove strutture edilizie, sia all’uso di tali beni nelle dedicazioni sacrali di fondazione, come dimostrano i rinvenimenti del bronzo fuso lungo la costa etrusco-laziale. Il sistema librale dovette essere in uso per un lungo periodo di tempo, fino al termine della prima guerra punica, quando, quasi contemporaneamente alla definitiva vittoria navale presso le isole Egadi nel 241 a.C., ottenuta da Gaio Lutazio Catulo, venne distrutta anche Falerii veteres, l’odierna

Civita Castellana (Viterbo) dai consoli romani Aulo Manlio Torquato Attico e Quinto Lutazio Cercone, fratello di Gaio. Quest’ultima vittoria, che vide l’abbandono della città falisca e la fondazione di una nuova colonia di diritto latino, Falerii novi, permetteva a Roma di completare la conquista dell’area in questione, rendendo piú agevole il passaggio all’Umbria, territorio già da tempo sotto l’egemonia romana. In seguito, negli anni successivi al 240 a.C., il bronzo dovette subire una riduzione ponderale, chiamata convenzionalmente dagli studiosi «fase sub-librale», che, almeno inizialmente, sembra attestarsi su un asse del peso di 280-260 g. Tale riduzione venne compiuta per porre in relazione la moneta di bronzo con quella in argento, in modo da poter cambiare un

Nella pagina accanto, in alto: il tesoro monetale sequestrato dai Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale a Carbognano (Viterbo): è composto da 58 assi, 16 semissi e 1 triente sub-librale, per un peso complessivo di 51 libbre romane.

Nella pagina accanto, in basso: il dritto di un aes grave con la testa barbata del dio bifronte. In alto: una barra romana, forma monetale in bronzo da 1500 g, che in questo esemplare reca la dicitura ROMANOM, cioè «dei Romani».

archeo 9


n otiz iario

didramma in argento di 6,6 g, con tre assi fusi di circa 280 g ciascuno, costituendo, in tale modo, a tutti gli effetti, un sistema monetario complesso. Questa fase della monetazione romana è caratterizzata da sei emissioni diverse, comprendenti aes grave fuso, bronzo e argento coniato. La serie piú nota è l’ultima, contrassegnata dalla testa barbata di Giano e la prora al rovescio, tipi probabilmente in relazione con il tempio di Giano al Foro Olitorio costruito da G. Duilio dopo la vittoria navale di Milazzo nel 260 a.C. e dal quadrigato in argento recante il tipo del Giano etrusco senza barba (Culsans) e la quadriga al rovescio. Queste emissioni sono variamente datate o al 225 a.C. oppure nel 235 a.C., mettendole in relazione con le grandi celebrazioni che ebbero luogo per la chiusura delle porte del tempio di Giano/ Culsans nel Foro Romano dopo un lunghissimo periodo di guerra. In tale occasione venne anche portata a Roma, da Falerii veteres, una famosa statua di Giano con tre teste, collocandola in un’area non troppo distante dal Foro Olitorio. Le nuove produzioni sub-librali furono utilizzate particolarmente nell’area etrusca, in quella umbra e nel Latium vetus, dove era già in uso il bronzo fuso. In particolare molti dei numerosi tesori (almeno 12) qui rinvenuti dovevano avere un carattere votivo, poiché sono stati trovati presso le fondazioni dei templi, secondo un rituale che si può immaginare simile a quello descritto in epoca imperiale da Tacito, nel 70 d.C., per il restauro del tempio di Giove Capitolino: «Si buttarono qua e là nelle fondamenta monete di oro e di argento e pezzi di metallo grezzo, che nessuna fornace aveva mai

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domato, cosí, come viene estratto dalla natura, ché gli aruspici avevano avvertito di non profanare il tempio con pietre e oro che fossero stati destinati ad altro scopo». Ad ambito votivo si può riferire anche il tesoro sequestrato dai Carabinieri a Carbognano. Composto da 58 assi, 16 semissi e 1 triente sub-librale, per un peso di 51 libbre romane, il ripostiglio – di grandi dimensioni e probabilmente di carattere ufficiale – può forse essere messo in relazione con un tempio trovato nel 1656, secondo la descrizione dell’erudito romano Clemente Martinelli a Carbognano presso la chiesa di S. Donato, costruita con blocchi di tufo di recupero: «nella costa del piú praticato Monte, che da Carbognano conduce a Caprarola, e nel suo contorno si vedono vestigii di antichissimi edificij e tra l’altro nella possessione del Dottor Carlo Ulisse appariva un grosso muro, ch’essendo stato pulito nell’anno 1656 si misurò longo palmi ottanta e largo palmi quindici con platea grossa e massiccia». Ubicata lungo la strada che conduceva alla foresta cimina, all’epoca fondamentale fonte di rifornimento energetico, la struttura era parte di un santuario extraurbano legato alla nuova colonia che, prima del 241 a.C., era posta sotto la tutela della falisca Falerii veteres e che in seguito era strettamente controllata dai Romani mediante la nuova colonia di Falerii novi. Come nel caso del sacro bosco di Spoleto, collegato anch’esso a un santuario situato presso la località Labruna, la selva cimina doveva essere preservata dallo Stato romano tramite la sacralizzazione del luogo, mediante normative restrittive che ne impedivano la

Quadrigato in argento battuto dopo il 235 a.C., in occasione delle celebrazioni per la chiusura del tempio di Giano. Al dritto, il Giano etrusco (Culsans), senza barba; al rovescio, la quadriga. fruizione privata (nel caso di Spoleto vi era addirittura una legge – Lex luci spoletina –, incisa su cippi posti all’ingresso del bosco). In conclusione, il sequestro di Carbognano effettuato dai Carabinieri del Nucleo Tutela di Roma, a cui va il nostro piú sentito ringraziamento, ha consentito di riaccendere i riflettori sugli aspetti religiosi ed economici dell’area falisca al momento del suo passaggio sotto il controllo romano. Alessandro Maria Jaia e Maria Cristina Molinari



PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Alessandro D’Alessio

DALLA FEBBRE CI SALVI LA DEA! IL CULTO DI FEBRIS, PORTATRICE DI MORTE MA ANCHE GUARITRICE DALLA MALARIA E DA ALTRE EPIDEMIE, ERA MOLTO SENTITO DAI ROMANI. IL SUO TEMPIO, LA CUI ESATTA COLLOCAZIONE RIMANE IGNOTA, DOVEVA SORGERE SUL PALATINO O, FORSE, NEL LUOGO DI UNA CHIESA BAROCCA DEDICATA A UN’ALTRA, DIVINA PROTETTRICE DALLE MALATTIE...

I

l Parco archeologico del Colosseo al tempo del Coronavirus (COVID-19) continua a essere un granitico presidio culturale del Paese. Certo, le difficoltà ci investono, come e forse piú che altrove, e la chiusura al pubblico del Colosseo, del Foro Romano e Palatino e della Domus Aurea – in poche parole, del cuore

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di Roma – a partire dallo scorso 8 marzo, ha costituito un fatto del tutto inedito e al quale mai avremmo voluto assistere. Ma le regole minime di comportamento sociale richieste dai decreti governativi impongono a tutti un’assunzione di responsabilità cui non si può e non si deve assolutamente derogare.

È dunque fra noi, e nell’attenzione costante per il patrimonio straordinario e unico di beni archeologici e monumentali che possediamo e che siamo chiamati pro tempore a gestire e tutelare – e ora piú di prima a raccontare con la campagna di comunicazione social #iorestoacasa –, che troveremo il coraggio e la determinazione per


Le ultime parole dell’imperatore Marco Aurelio, olio su tela di Eugène Délacroix. 1844. Lione, Musée des Beaux-Arts. Il sovrano cadde vittima della peste (o del vaiolo) nel 180 d.C., mentre si trovava nel campo di Sirmio o Vindobona, impegnato nella guerra contro i Marcomanni. Nella pagina accanto: una veduta del Foro Romano, con, al centro, la chiesa di S. Francesca Romana.

andare avanti, nella certezza che un’epidemia, per quanto grave, è una variabile, come altre, della storia e dell’umano destino. Per esempio, la morte di peste o vaiolo di Marco Aurelio nel 180 d.C. e di centinaia di migliaia di persone a Roma e in tutto l’impero (la cosiddetta «peste antonina»), ebbe sí effetti devastanti, ma non distrusse la civiltà romana. Un tempo, proprio sul Palatino o nelle immediate vicinanze, era situato il piú importante e antico di tre templi di Febris eretti a Roma: «Onoravano la dea Febris perché non nuocesse in templi, uno dei quali si trova ancora oggi sul Palatino, un altro nella zona dei monumenti di Mario, e il terzo nella parte terminale del vicus Longus» (Val. Max. II, 5, 8). Dove sorgesse l’edificio resta ignoto: forse nei pressi o nell’area del piú tardo tempio di Venere e Roma, alle estreme pendici nord del Palatium, tanto piú se esso è in realtà identificabile con l’altro citato da Valerio Massimo nell’area dei monumenti mariani, dov’era infatti (ma sulla Velia) l’aedes Honoris et Virtutis innalzata da Mario alla fine del II secolo a.C. Nel Fanum (area all’aperto) di antichissima origine (Cic., nat. deor. III, 63; Sen., apocol. VI; Plin., nat.

hist. II, 16), dotato di un’ara (Cic., leg 2, 28) e poi monumentalizzato (aedes in Theod. Prisc., phys. 3, p. 250, neós in Aelian., var. hist. XII, 11, e ancora templum nel citato passo di Val. Max. e in Aug., civ. III, 25 e IV, 15), si praticava il culto, fortemente avvertito dai Romani come minaccioso e salvifico al tempo stesso.

I GIORNI DEL CULTO Chi era infatti Febris? Dea della Febbre (e, piú in generale, della malattia), apparentabile al dio etrusco Februs, il suo nome può essere inteso sia come «portatrice di morte», sia come «purificatrice/ guaritrice» dalla malaria e dalle altre epidemie diffuse a Roma e nell’Orbe romano. Venerata in particolar modo durante lo svolgimento dei Lupercalia, l’antichissima festività celebrata in onore di Fauno Lupercus nei giorni nefasti del mese di febbraio, dal 13 al 15, il suo culto (Februalia) toccava il culmine il 14 del mese, giorno che il cristianesimo consacrò poi a santa Febronia prima e quindi a san Valentino, patrono appunto della febris amoris. Del resto, proprio a Februs, e dunque a Febris, Numa Pompilio aveva intitolato il nome del mese nella sua riforma calendariale, periodo dell’anno

considerato, per le temperature decisamente basse, maggiormente a rischio di malanni, mentre già nella seconda metà di gennaio si tenevano le celebrazioni in onore di Giunone Purificata e Salvatrice (Iuno Februata et Sospita), nel corso delle quali le matrone romane percorrevano la città reggendo fiaccole accese in segno di purificazione (una processione in certo qual modo antesignana della Candelora, festa cattolica della Presentazione di Gesú al Tempio). Se dunque dell’aedes Febris nulla ci resta sul o presso il Palatino, l’eredità culturale della sua antica devozione è ancora grande e viva. Ma il Parco archeologico del Colosseo ospita, proprio nell’area dove poteva sorgere l’aedes Febris, anche un altro importante edificio di culto, questo sí tangibile e maestoso: la chiesa cattolica di S. Francesca Romana, la cui morte (nel 1440) e commemorazione liturgica cadono esattamente, in questa enigmatica convergenza di date e luoghi, il 9 di marzo. Francesca mise a rischio la sua stessa vita per soccorrere e curare i malati dalla peste che ammorbava Roma e che le aveva ucciso anche i figli Evangelista e Agnese, ed è considerata per tale ragione protettrice dalle pestilenze e carestie. Come a dire, che ci si creda o meno: anche in questo caso, lassú, come quaggiú, qualcuno ci ama e protegge! Alessandro D’Alessio (con Giulio Sinan)

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

DOLCE COME IL MIELE... QUANDO FU SCOPERTA, AGLI INIZI DEGLI ANNI TRENTA DEL SECOLO SCORSO, IN MOLTI PENSARONO CHE LA CASA AVESSE ACCOLTO UNA GIOVANE COPPIA, FRESCA DI MATRIMONIO. IL SUO RESTAURO È STATO APPENA COMPLETATO E UNA SCRITTA, INCISA SU UNA PARETE, SEMBRA CONFERMARNE LA VOCAZIONE... SENTIMENTALE

«A

mantes, ut apes, vitam mellitam exigunt» («Gli amanti, come le api, vogliono una vita dolce come il miele») è stato finemente inciso da un liberto greco o da un colto proprietario a margine di un quadretto con anatre affrescato sul fondo del peristilio della elegante Casa degli Amanti di Pompei, ubicata nel cuore della Regio I – accanto alla piú ampia Casa del Menandro – e della quale è stato appena ultimato il restauro. Un verso appassionato, che paragona gli amanti alle laboriose api, che trascorrono la maggior parte della

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loro esistenza nella dolcezza del loro prodotto, il miele.

UNA SOLUZIONE INEDITA Portata alla luce nel 1933 e chiusa per motivi di sicurezza dagli anni Ottanta, in seguito al sisma che colpí la Campania, la casa è tornata ai suoi splendori post-scavo: notevole è la sua singolarità architettonica, per la presenza, ben conservata, del secondo piano del peristilio (giardino colonnato) pressoché completo, accessibile attraverso una scala allestita nel portico settentrionale, di cui oggi resta soltanto la traccia sulla parete

di fondo. Questo secondo piano sembra essere stato aggiunto alla dimora nel I secolo d.C.; la sostanziale integrità delle strutture del livello superiore restituí, all’indomani della scoperta, la configurazione autentica di questo spazio, distinto da un’originale soluzione architettonica (peristilio a doppio ordine) che per ora rappresenta un unicum a Pompei. La dimora è di medie dimensioni: all’impianto primitivo, risalente ai primi decenni del I secolo a.C., appartengono, nella zona dell’atrio, la bella pittura «a pareti chiuse» in II Stile delle fauces


(ingresso) e la maggior parte dei pavimenti conservati. Altra particolarità dell’abitazione è l’assenza del tablino, eliminato per fare spazio al settore posteriore organizzato attorno al peristilio, come accade in altre case pompeiane costruite in epoca tardo-repubblicana – per esempio quelle di Ganimede, del Granduca Michele, della Venere in conchiglia, dei Vettii –, quando gli ambienti aperti sullo spazio porticato acquistano un crescente rilievo. Il resto degli affreschi presenti nell’atrio (medaglioni al centro di riquadri rossi alternati a vedute architettoniche su fondo nero, contornati da candelabri e spirali d’acanto), nel grande oecus con volta a botte affacciato sull’atrio (soffitto con scene mitologiche) e piú avanti nel peristilio e nei suoi cubicoli, è in generale di buona qualità e realizzato in IV Stile, durante il I secolo d.C.

Nella pagina accanto: il verso «Amantes, ut apes, vitam mellitam exigunt» graffito nel peristilio della Casa degli Amanti. In questa pagina: due immagini della dimora, il cui peristilio a doppio ordine (foto in basso) costituisce, a oggi, un unicum per Pompei.

COLONNE E TRANSENNE Il doppio loggiato che circonda il piccolo giardino, organizzato su alto podio, è composto in basso da colonne di colore bianco e nero, raccordate da transenne lignee, in alto da due lati colonnati, mentre gli altri due sono chiusi con finestre in quanto estensione degli ambienti

del piano inferiore. Sul peristilio si aprono varie stanze, fra cui quelle di fondo, che conservano graziosi soffitti e pavimenti, mentre un puteale e una tinozza per attingere acqua dalla cisterna erano sistemati proprio di fronte alla cucina, in un angolo del portico.

Agli scopritori la casa apparve «ancor fresca delle ultime rifiniture», aspetto che suggerí, all’allora direttore degli scavi Amedeo Maiuri, la possibilità che, al momento dell’eruzione, appartenesse a una coppia di giovani coniugi che intessevano qui i primi giorni della loro effimera felicità, come sembrerebbe rimarcare il mielato verso inciso sotto il portico. Alcuni oggetti della casa trovati negli scavi (un braciere, un bacile, una lucerna in bronzo e cerniere in osso) sono esposti in una vetrina collocata nell’atrio. L’esposizione rientra nel progetto di musealizzazione diffusa di Pompei, avviato in diversi edifici degli scavi, al fine di ricollocare e contestualizzare i reperti negli ambienti del loro ritrovamento. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: www.pompeiisites.org; pagina Fb Pompeii-Parco Archeologico.

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IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi

IL VOLO DEL LEONE INAUGURIAMO UN NUOVO SPAZIO, DEDICATO ALLE SCOPERTE E ALLE ACQUISIZIONI SCATURITE DALL’ESPLORAZIONE DELL’ANTICA VULCI. UNA DELLE PIÚ IMPORTANTI CITTÀ ETRUSCHE, DISTINTASI ANCHE PER LA PRODUZIONE DI SPETTACOLARI STATUE DI MOSTRI E ANIMALI FANTASTICI

A

ll’indomani della campagna di scavi del 2019 ancora non si placano gli echi di quella che, a tutti gli effetti, è stata una scoperta eccezionale: il ritrovamento di una statua raffigurante un leone alato. La splendida scultura etrusca è scolpita sapientemente nel nenfro, la grigia pietra vulcanica locale, ed è stata rinvenuta nella necropoli dell’Osteria, una vasta area cimiteriale situata a nord-ovest del pianoro urbano, nota per aver restituito numerose e importanti

Statua in nenfro raffigurante un centauro, da Vulci. VI sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

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testimonianze funerarie, come la Tomba della Sfinge (vedi box a p. 19) e quella delle Mani d’Argento (vedi «Archeo» n. 350, aprile 2014, anche on line su issuu.com). Il leone alato è una raffinata testimonianza di una tradizione propria della produzione artistica vulcente a partire dalla fine del VII secolo a.C. In questo periodo botteghe vulcenti scolpirono sfingi, leoni, pantere, arieti, centauri e mostri marini, vigili guardiani della quiete eterna dei morti.

INFLUENZE ORIENTALI Animali fantastici, membri di un repertorio iconografico riferibile al bestiario orientalizzante di chiara influenza corinzia. Ma già intorno al 520 a.C. la produzione di queste statue venne a cessare, forse nel tentativo di porre un limite alle ostentazioni di lusso ormai ritenute inopportune. In questo periodo, infatti, si sviluppa un sistema per il quale l’esibizione di rango viene confinata all’interno del sepolcro tramite la variegata ricchezza dei corredi d’accompagno. Si deve attendere la tarda età classica per ritrovare una ripresa

della vena scultorea tradizionale, quando l’aristocrazia terriera assume una posizione dominante a Vulci, ma non solo. La raffigurazione dei grandi felini attraversa la storia dell’uomo mantenendo intatta la sua simbologia di forza, potenza e regalità. Scomparsi in tempi antichissimi dalla fauna italiana, compaiono nel mondo antico e tra gli Etruschi, grazie alla circolazione di beni e di idee che caratterizza i primi secoli del I millennio a.C. Secondo la tradizione orientale, oltre a essere rappresentati in maniera naturalistica, i grandi felini possono assumere caratteri

IL MITO DELLA SFINGE

Edipo, re arguto

Scoperta nel 2011, la Tomba della Sfinge, un monumentale ipogeo funerario risalente alla fine VII secolo a.C., deve il suo nome alla scultura rinvenuta in giacitura secondaria durante lo scavo del vestibolo (vedi «Archeo» n. 325, marzo 2012; anche on line su issuu.com). La sfinge, il mostro mitologico che mescola sembianze umane (testa femminile) e animali (corpo di leone, coda di serpente e ali di


In alto e nella pagina accanto, in alto: la statua di leone alato rinvenuta a Vulci in una tomba della necropoli dell’Osteria. VI sec. a.C. In basso: la sfinge che ha dato nome a una tomba della necropoli dell’Osteria. 560-550 a.C.

fantastici, spesso alati, o con caratteri compositi, per esempio con testa umana. Ma, al di là del linguaggio figurativo usato, le sculture di pantere e leoni non sono semplici decorazioni, ma si inseriscono nella ritualità e nella mitografia del mondo antico, come nella tradizione dei leoni a guardia delle porte, le porte concrete

delle città e quelle spirituali del mondo dei morti. Gli scavi, condotti dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale insieme alla Fondazione Vulci e con la collaborazione del Comune di Montalto di Castro, continueranno per tutto il 2020.

rapace), apparteneva alla decorazione di un importante monumento funerario, ed è un’altra testimonianza della produzione scultorea vulcente, databile intorno alla metà del VI secolo a.C. La leggendaria creatura era una figura assai nota nel mondo antico: in Grecia rimanda al mito di Edipo, l’unico uomo che riuscí a risolvere l’indovinello

che essa poneva a tutti coloro che entravano a Tebe: «Quale essere con una sola voce ha talvolta due gambe, talvolta tre ed è tanto piú debole quante piú ne ha?». Chi non riusciva a risolvere l’enigma veniva strangolato e divorato sul posto. Solo Edipo rispose esattamente «È l’uomo». Avvilita per la sconfitta, la Sfinge si gettò giú dal monte e i Tebani grati ed esultanti acclamarono re Edipo.

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A TUTTO CAMPO Andrea Zifferero

IL LUNGO VIAGGIO DEL VINO E DELLA VITE TUTTO INIZIA DAL CONTENITORE: DOVE E QUANDO È STATO FABBRICATO? E SE VOLESSIMO CONOSCERE LA STORIA DEL SUO CONTENUTO? E SE QUEST’ULTIMO FOSSE NIENTEMENO CHE LA BEVANDA PREFERITA DAL DIVINO BACCO?

I

l lavoro archeologico sulla ceramica inizia di solito dai reperti provenienti dagli scavi, in massima parte costituiti– se la ricerca si svolge in un abitato – da ceramiche da mensa, da cucina e da trasporto e/o destinate a conservare gli alimenti. Grazie all’archeometria, si riesce a determinare, attraverso l’analisi chimica dei residui organici (soprattutto acido tartarico e acidi grassi), presenti nella superficie interna dei vasi o ancora mantenuti dai pavimenti di cucine o dispense che li hanno assorbiti, la presenza di vino e di olio, oppure di latte e derivati o di preparati come le salse di pesce. È questo l’anello finale di una lunga catena operativa, rappresentata da un contenitore (per esempio

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l’imbottigliamento del vino nelle anfore. La nostra ricerca inizia da qui: per non deteriorare i grappoli durante il trasporto, la vigna veniva collocata in prossimità dell’impianto di trasformazione dell’uva (oggi si chiamerebbe cantina), che consisteva, almeno in età romana, in vasche di spremitura, o altrimenti nei torchi accompagnati da giare in terracotta sotterrate fino al bordo, indispensabili per la fermentazione.

I PRIMI VIGNETI

In alto: anfore vinarie romane dal relitto di Capo Graziano, a Filicudi. Lipari (Messina), Museo Archeologico Regionale Eoliano. L’allestimento richiama la sistemazione del carico nella stiva di una nave oneraria. Nella pagina accanto: ricostruzione dell’arbustum etrusco, con le viti abbarbicate all’albero tutore, durante la potatura realizzata con una falce a immanicatura lunga. un’anfora da trasporto) che ha alle spalle una storia molto articolata: l’archeologo si chiederà perciò come, dove e quando sia stata fabbricata, dove e con cosa sia stata riempita, quanto abbia viaggiato per mare o per terra, dove sia pervenuta, come sia stata reimpiegata, quando, infine, sia divenuta un rifiuto. Se volessimo, tuttavia, appurare la storia dell’alimento contenuto al suo interno (per esempio il vino), come ci potremmo muovere? Anche gli alimenti hanno una propria catena operativa che, nella prassi archeologica, parte quasi sempre dal luogo di trasformazione del prodotto: nel caso dell’uva, le operazioni sono la spremitura dei grappoli, la fermentazione del mosto, l’invecchiamento all’interno di grandi contenitori e quindi

A partire dal I millennio a.C., è possibile accertare, sempre grazie allo scavo archeologico, la forma e l’organizzazione dei vigneti, dove le piante erano maritate agli alberi tutori, disposti singolarmente (cosiddetto arbustum), distribuiti lungo filari paralleli (piantata o alberata), con alberi tutori disposti in forma di quadrato, oppure ancora con le viti piantumate entro scassi a trincea paralleli, simili ai filari odierni, con i tralci sostenuti da pali lignei. Se ci chiedessimo ora quali varietà (i vitigni) della Vitis vinifera sativa fossero coltivate nella Penisola e nelle isole in età etrusca, greca (per le aree sottoposte a colonizzazione) e romana, cioè nelle fasi di massima produzione di vino della storia antica, dove cercheremmo le risposte? Qui la cosa si complica, perché l’archeometria non basta piú: dobbiamo ricorrere al supporto di altre discipline, come la botanica e la biologia molecolare. Queste scienze studiano la vita delle piante e le caratteristiche dell’ambiente che ne favorisce e diversifica lo sviluppo: negli ultimi vent’anni hanno conseguito grandi progressi nella definizione del profilo genetico (cioè il genoma) della vite, con le tecniche di riconoscimento delle varietà, basate su analisi biochimiche e molecolari. In altre parole, se prima la parentela tra i vitigni si stabiliva a occhio sulle

analogie nella forma di foglie e grappoli, oggi il prelievo del DNA dalle infiorescenze e/o dalle foglie consente di ricostruire in laboratorio un preciso albero genealogico del vitigno, confrontando il suo profilo genetico con quelli di altre varietà, ordinate all’interno di grandi banche dati del genoma viticolo. Poiché il genoma di una pianta mantiene nel tempo i segni delle ibridazioni dovute all’introgressione (cioè all’introduzione di geni da varietà diverse in seguito a incroci ricorrenti), la biologia ha aperto nuove strade per tracciare la storia della domesticazione della vite, costruita nel corso dei millenni dal contatto delle piante con le comunità umane. Se l’uomo ha estratto la vite dai boschi a partire almeno dal VI millennio a.C., selezionando le piante con acini piú grandi, zuccherini e abbondanti e favorendo gli incroci tra le piante migliori, l’archeologo diventa il solo in grado di fornire al botanico e al biologo i tasselli mancanti alla ricostruzione genetica della specie, cioè i passaggi storici e gli eventi legati alla sua domesticazione e ibridazione. Per tale obiettivo sono quindi importanti tutti i resti paleobotanici recuperabili dallo scavo, quali i semi contenuti negli acini (i vinaccioli), oppure parti dei tralci e/o del fusto della pianta, purché conservati in assenza di ossigeno e non carbonizzati: soltanto cosí è possibile ricostruire il profilo genetico del reperto (cosiddetto DNA antico), per confrontarlo con le banche dati del genoma viticolo. Si tratta tuttavia di eventi molto rari: i casi migliori sono i carichi di quei relitti che conservano i tralci ricavati dalla potatura delle piante, utili per foderare le stive e attutire gli urti alle anfore. Torneremo a parlarne nel prossimo numero. (andrea.zifferero@unisi.it)

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

LA STORIA È MAESTRA DI VITA, ORA COME NON MAI MUSEI VUOTI. PARCHI ARCHEOLOGICI CHIUSI. STRADE SILENZIOSE. LA BELLEZZA DEL NOSTRO PATRIMONIO SOSPESA, AL DI LÀ DEI VETRI DELLE NOSTRE FINESTRE. NOI A CASA, IN ATTESA DI USCIRE DALL’EMERGENZA CORONAVIRUS. IN UN MOMENTO COSÍ DELICATO PER IL PAESE, QUALE SENSO ASSUME LA RIFLESSIONE SUL PASSATO? LO ABBIAMO CHIESTO AD ALCUNI NOSTRI COLLABORATORI, STUDIOSI, ARCHEOLOGI ED ESPERTI SUL CAMPO. METTENDO INSIEME LE LORO VOCI IN UNA «INCHIESTA» CORALE

O

gni «crisi» – secondo il significato dell’etimologia greca krísis – è turbamento, ma anche cambiamento e scelta, ricorda Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco Archeologico di Paestum: «Grazie al lavoro degli ultimi anni, abbiamo creato una comunità che ci sta vicino anche a distanza, per esempio attraverso il nostro bollettino social #RaccontidiArcheologia. Credo sia il momento di riscoprire la cultura classica come un punto di

riferimento critico, che ci inviti a riflettere su valori ed equilibri tra individualismo e collettività. In questi giorni sto rileggendo Platone e quello che dice sul rapporto tra arte e verità. Ogni crisi nasconde anche una chance di ripensarci, di riflettere da dove veniamo e dove vogliamo andare». Secondo Massimo Vidale, docente di archeologia all’Università degli studi di Padova, l’auspicio è che questa emergenza sanitaria ci insegni a Paestum. Il Tempio di Nettuno (metà del V sec. a.C.) e, in secondo piano, il Tempio di Hera, noto anche come «Basilica» (560 a.C. circa).

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dare maggiore valore alla ricerca scientifica: «Quel che è successo ci obbliga ad avere una percezione piú minimalista della nostra vita e della realtà che ci circonda, dandole una dimensione diversa. Dobbiamo cogliere quest’opportunità per tornare a guardare con piú affetto e attenzione cose a cui di solito diamo solo un’occhiata di corsa. Pensiamo alle nostre librerie in casa: potrebbe essere un’occasione per ritrovare i piccoli “musei” che ognuno di noi ha tra le mura domestiche, aprendo un libro o, per esempio, leggendo una rivista come “Archeo”». Quindi, dagli accadimenti presenti, dovremmo imparare a considerare maggiormente il ruolo della scienza nella nostra società? «Sí. È la scienza a costituire la vera rottura con il passato. Nel mondo antico le malattie, le piaghe, le epidemie erano “frecce di Apollo”: la punizione della divinità per una colpa dell’uomo. Chi si ammalava o moriva aveva fatto qualcosa di sbagliato. Oggi la scienza fa la differenza: nella malattia non c’è una responsabilità morale, ma un rapporto di causa-effetto. La scienza rappresenta la rottura


netta con l’antico. Scienziati e medici oggi sono la cosa piú preziosa che abbiamo: i tagli ai fondi per la ricerca sono un danno. In questi decenni noi archeologi, che siamo orgogliosi di essere parte della comunità scientifica, condividendone metodi e tecnologie, siamo stati i primi a essere colpiti dai tagli nel settore culturale. Dall’attuale emergenza sanitaria stiamo imparando che non bisogna indebolire la scienza. L’epidemia è il momento cui si capisce che solo la scienza ci separa dal caos. Per questo la ricerca scientifica va preservata, in tutte le sue branche, compresa l’archeologia». Quanto sta accadendo mostra che la ricerca non è adeguatamente supportata in Italia, commenta Fausto Zevi, membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei e già professore di Archeologia e storia dell’arte greca e romana all’Università di Roma «Sapienza»: «Per la prima volta, in questi giorni, i politici si rimettono all’opinione degli specialisti e i tecnici sono protagonisti. Ma balza agli occhi come la ricerca scientifica da noi sia arretrata rispetto agli altri Paesi. La scienza non è sufficientemente supportata dagli organi centrali. L’emergenza ci ha colto impreparati: manca una mappa nazionale con la disponibilità dei posti e delle attrezzature sanitarie, secondo un piano organizzato. Servirebbe una sorta di Protezione Civile per la sanità, un organo centrale in grado di sapere quale è il quadro della situazione e coordinare gli interventi». Roma adesso è deserta, la grande bellezza dei monumenti e dei

Spello, Villa dei Mosaici. Un’immagine di repertorio dell’intervento di restauro, un’attività che, anche nell’emergenza, continua a essere assicurata.

In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca.

parchi archeologici silenziosa. Cosa sarà cambiato quando potremo riappropriarci di quel paesaggio che oggi ci è precluso? «In questo momento i Fori Imperiali vuoti, senza nessuno, sono uno spettacolo impressionante e desolante. Sicuramente eccezionale, dal punto di vista della contemplazione dei monumenti. Ma quando sarà passata l’emergenza e avremo nuovamente l’occasione di godere della bellezza del nostro patrimonio, spero lo faremo in modo diverso». Con quali occhi guarderemo il nostro patrimonio? «Spero con occhi diversi. Quando l’Italia ricomincerà ad aprire i luoghi della cultura, e forse questi non saranno ancora frequentati dai turisti stranieri, a causa della crisi internazionale, ci sarà l’occasione per rimettere al centro i nostri beni culturali come momento educativo e di crescita. Sarà una fase interessante dal punto di vista formativo: potremo avere la possibilità di vedere le nostre città cosí come sono adesso, ma anche sfruttare a fondo i nostri musei e i nostri siti culturali. Potremo adoperarli a fini educativi per farli meglio apprezzare dai cittadini, dal mondo delle Università e dalla didattica». Crede che l’assenza di turisti nei nostri siti archeologici, nell’immediato futuro, possa essere un’opportunità?

«Perché no? Potrà essere un’occasione per conoscere le nostre città come sono ora: agli Italiani sarà restituita la bellezza del paesaggio archeologico, se verrà istituito un rapporto fruttuoso con scuole, università e musei. La mancata frequentazione dei siti potrebbe diventare un momento positivo per studenti e cittadini. Un’occasione per rivedere con altri occhi le nostre città, i parchi archeologici che per settimane non abbiamo potuto vivere. Sarebbe bello riappropriarsi degli spazi urbani anche da un punto di vista culturale, non solo usarli come pista per far correre le automobili. Bisognerebbe, inoltre, rispettare maggiormente le competenze nell’organico di siti e musei: in troppi casi le istituzioni archeologiche vengono dirette da medievisti o storici dell’arte. Questo crea un danno al nostro patrimonio: è come mettere un medico di base a dirigere un ospedale infettivo». Che cosa verrà da questo momento di crisi? Un ritorno alla sostanza dell’archeologia, con piú tutela e meno business, si augura Stefano De Caro, già direttore generale dell’ICCROM ed ex direttore

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PAROLA D’ARCHEOLOGO

Il Foro Romano, uno dei poli del Parco archeologico del Colosseo. Sfruttando la chiusura imposta dai decreti governativi, l’area è oggetto di interventi di manutenzione straordinaria praticabili solo in assenza del pubblico. generale delle Antichità presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali: «Negli ultimi tempi, nei nostri parchi archeologici e musei, abbiamo inseguito soprattutto il mito dei grandi numeri, puntando molto sull’immagine e poco sulla sostanza. I musei vengono considerati tanto importanti quanti piú biglietti vendono. Adesso sono vuoti: ecco la legge del contrappasso. Se vengono considerati luoghi di aggregazione sociale, allora i musei devono spiegare il passato. Nei momenti critici si sente l’esigenza che anche le istituzioni culturali facciano la loro parte, tenendo compatta e coesa la società: potrebbero rivedere le strategie economiche e fare cose diverse, favorendo aggregazioni virtuali come già

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alcuni musei stanno proponendo. Con questa «chiamata alle armi» eccezionale potremmo riflettere sulla funzione di siti e musei, per capire se il ruolo che abbiamo dato loro è quello giusto». Secondo lei, che cosa va rivisto del sistema dei nostri luoghi della cultura? «Dal mio punto di vista sta scomparendo completamente l’archeologia della tutela. Si punta troppo sull’aspetto esteriore e poco su quello essenziale. Si pensa solo all’affluenza, mentre è passato del tutto inosservato l’appello lanciato di recente da 2-3mila archeologi. Questo momento di crisi dovrebbe aiutare a recuperare la sostanza. Il bellissimo sistema di regole sull’archeologia preventiva che abbiamo in Italia non viene implementato poiché manca il

personale. Il timore è che, in nome della necessità di ripartire e costruire, in futuro si avvii un altro saccheggio del paesaggio. Un domani esisteranno archeologi della tutela, oppure questi professionisti saranno impegnati a fare mostre di pura immagine?». Le crisi hanno anche la funzione di riportare ai fondamentali… «Esatto. Come a un certo punto diventa piú importante la vita, cosí anche l’archeologia e la storia ritrovano il loro posto nell’ordine delle cose. I beni culturali rappresentano la struttura identitaria del Paese, il perché ci diciamo Italiani o Europei. Musei e parchi archeologici dovrebbero puntare di piú alla sostanza. Non tutti i siti sono Pompei e hanno un valore economico: la maggior parte serve alla popolazione locale, come


una scuola o un ospedale. Un territorio non vive di mostre di Raffaello. Nei piccoli centri conta di piú ricostruire un museo civico, che fa la struttura della società. Passata l’emergenza, il territorio dovrà recuperare le strutture culturali». Dopo questa fase di «riposo» forzato del patrimonio archeologico, il rischio è di tornare allo sfruttamento del territorio osserva Adriano la Regina, Presidente dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte e, per oltre trent’anni, Soprintendente Archeologo di Roma: «Nei tempi moderni abbiamo costruito questa “divinità” dell’economia, il primato del benessere e della ricchezza: tutte cose che crollano di fonte all’emergenza. In questo momento, in una Roma desolata e vuota, le trasformazioni sul territorio si sono fermate e i monumenti respirano. Il mio timore è che, una volta usciti dalla crisi, prevalgano soluzioni affrettate. Come nel dopoguerra, in cui, pur di ricostruire, non si è badato al paesaggio e ai monumenti. Il patrimonio archeologico italiano ha subito piú danni nel dopoguerra che durante il conflitto. In questi anni, veniamo da un momento di grande disattenzione nei confronti della tutela del patrimonio culturale e artistico. Il sistema creato con le Soprintendenze dalla fine dell’Ottocento, che aveva dato i suoi risultati, sta scomparendo. Si sono allentati i freni: la tutela è stata depotenziata e sminuita. Se si proseguirà nell’interesse allo sfruttamento e al consumo dei nostri beni, con un uso senza limiti e finalizzato solo alla loro

produttività economica, allora sarà un problema. Le Soprintendenze hanno perso il loro carattere fondamentale di essere uno strumento di conoscenza. La tradizione colta e consapevole dell’Italia nella conservazione del patrimonio culturale, che faceva scuola in tutto il mondo, è stata cancellata in maniera brutale, a mio avviso. Oggi si pensa solo alla valorizzazione e produttività dei beni culturali, con una gestione barbarica e inconsapevole». Quali errori non dovremo commettere di nuovo, una volta usciti dalla crisi? «Non dobbiamo tornare alla devastazione edilizia del territorio e del paesaggio. Mentre con le leggi degli inizi del Novecento, poi del 1939, si era tentato di proteggere il patrimonio archeologico, dalla seconda metà degli anni Quaranta e Cinquanta è saltato tutto: si è iniziato a costruire ovunque in modo disordinato, con periferie urbane, devastazioni archeologiche, uso incontrollato dei suoli per interessi economici piú forti. I monumenti hanno sofferto meno ma il loro contesto è stato fortemente alterato. Speriamo di non commettere gli stessi errori del passato perseverando nella strada sbagliata del presente». Tra i Soprintendenti a lavoro in questa fase di emergenza c’è Vincenzo Tinè, Soprintendente Archeologo del Veneto: «A Verona, come a Vicenza, a Rovigo e altrove è tutto deserto. Noi siamo aperti, come le altre Soprintendenze archeologiche, e stiamo lavorando con contingenti ridotti al minimo a causa dell’emergenza… si presidia la trincea. In questo momento mi

trovo in ufficio dove abbiamo organizzato una sorta di presidio minimo. Le urgenze della tutela e della conservazione ci sono anche ai tempi del Coronavirus: i monumenti cadono lo stesso e bisogna curarli come sempre. Il mio pensiero in questo momento è piú in termini di reazione, come nelle migrazioni della preistoria. L’uomo di Neandertal è stato soppiantato dal Sapiens per problemi di anticorpi inesistenti, cosí come i neolitici sono spariti quando sono arrivati i mesolitici. I grandi movimenti di popoli che sono all’origine della cultura umana hanno comportato sempre epidemie e reazioni nel substrato indigeno. La lezione mal interpretata della storia è che i movimenti dei popoli hanno rappresentato un cataclisma per chi non aveva gli anticorpi… dobbiamo sviluppare gli anticorpi per andare avanti». Francesco Sirano, Direttore del Parco Archeologico di Ercolano, in queste settimane in cui il sito è chiuso, continua a coinvolgere la comunità della città moderna Ercolano – fisicamente sovrapposta a quella antica – attraverso la tecnologia digitale, con la campagna «Lapilli di Ercolano» e lo slogan «#iorestoacasa»: «Abbiamo scelto questo nome perché i lapilli distruggono ma danno anche fertilità e humus, come accade nella piana campana. Ora che siamo orfani di turisti (lo scorso anno ne abbiamo avuti piú di 550mila), stiamo sfruttando i social media per raggiungere il pubblico e portare il parco all’esterno: proponiamo filmati e schede in cui presentare luoghi,

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PAROLA D’ARCHEOLOGO scoperte e curiosità. Il primo video sull’antica spiaggia ha raggiunto piú di 25mila visualizzazioni. In questi giorni siamo tutti a casa e guardiamo il balcone accanto. Vogliamo farne un’occasione per coinvolgere il pubblico della città moderna e arricchire i contenuti del parco, anche condividendo ricordi e storie di famiglia (gli scavi archeologici sono dentro alla città da quattro secoli)». Perché Ercolano, come lei ha suggerito, è un esempio di resilienza? «È un esempio di resilienza perché questi luoghi, nella prospettiva di lungo periodo, hanno subito diverse catastrofi naturali o umane e si sono rialzate. Dopo l’eruzione del 79 d.C. Ercolano è tornata a vivere, poi c’è stata la riscoperta del sito archeologico. Nel Settecento l’area era detta “il miglio d’oro” e vi si concentrano le ville della nobiltà. Poi c’è stata la seconda guerra mondiale: con la miseria a Ercolano è nato il “mercato delle pezze”, dove son arrivati i blue jeans americani, che hanno fatto la fortuna della città come centro di smistamento. Pur nelle disgrazie (molte provocate da uomini) la città si è risollevata. Adesso Ercolano sta rinascendo attorno al turismo culturale e sta ritrovando un beneficio economico. Prima era una delle capitali della camorra, con 500 arresti negli ultimi 5 anni e 44 ergastoli comminati. Adesso gran parte del sistema è stato smantellato e sta nascendo un’economia in cui il turismo culturale è un aspetto promettente che non vogliamo perdere. Questa deve essere un’occasione di riflessione. Dalla crisi c’è sempre la rinascita». Anche il Parco archeologico del Colosseo – che abbraccia Foro Romano, Palatino e Anfiteatro Flavio – è in questi giorni deserto: «L’emergenza – spiega Alfonsina Russo, Direttore del Parco – ha

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bruscamente interrotto il trend di crescita che stavamo registrando (1,3% piú dello scorso anno). Ma dobbiamo cogliere l’occasione, pur nella drammaticità di quanto stiamo vivendo, per avviare un momento di riflessione e di ripensamento su quanto stiamo facendo nel parco, in vista della sua futura riapertura al pubblico. Le epidemie sono variabili della storia e del destino umano: all’epoca dell’impero romano c’è stata la cosiddetta “peste antonina” del 180 d.C., un’epidemia simile al vaiolo che fece molte vittime, e poi l’epidemia del 300 d.C. In questi tempi un’epidemia sembra inaspettata,

interventi che in presenza del pubblico non potremmo fare: per esempio, stiamo ridipingendo le balaustre di ferro del Colosseo, stiamo sistemando i percorsi del Foro Romano: lavori di manutenzione straordinaria e tutela del patrimonio che altrimenti non avremmo potuto fare in modo accurato. Stiamo anche curando il verde, potando alberi e ulivi (nel 2019 abbiamo prodotto olio e miele al Palatino)». Che cosa avete proposto al pubblico «a casa»? «Abbiamo aderito alla campagna #iorestoacasa trasferendo tutto quello che avevamo in programma sul sito web del Parco archeologico del Colosseo: cosí è possibile visitare virtualmente la collezione del Museo Palatino, la mostra “Raffaello e la Domus Aurea. L’invenzione delle grottesche”, ma

La sezione del sito web del Parco archeologico del Colosseo (https:// parcocolosseo.it/) che permette di esplorare le collezioni del Museo Palatino.

ma può costituire un momento di riflessione». Che cosa state facendo in questi giorni all’interno del Parco archeologico del Colosseo? «Stiamo curando i nostri siti cosí da renderli piú interessanti e piú belli per la riapertura, effettuando

anche siti solitamente chiusi al pubblico, come la casa di Scauro al Palatino, la Sala della Sfinge nella Domus Aurea, il cantiere di scavo e restauro della Domus Tiberiana, i Palazzi di Nerone sul Palatino e Colle Oppio. Siamo inoltre presenti sui social ogni giorno con rubriche


video dai temi diversi: le donne nell’antichità, il Grand Tour nel parco, il sito negli anni Quaranta e Cinquanta, una mostra su Cartagine, lo spazio “salus per artem” (rubrica dedicata al nostro pubblico piú fragile, come i malati di Parkinson o oncologici). Teniamo vive queste attività anche a parco chiuso. La bellezza fa bene alla vita quotidiana e il sito per i cittadini è un ristoro». Orietta Rossini, archeologa della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, punta l’attenzione sul valore della memoria: «Il Coronavirus, poiché colpisce soprattutto anziani, si presenta come

un nemico della memoria e del passato. Al premier britannico, che ha proposto di accettare il prezzo umano di questa moría, è stata contrapposta sui social l’immagine di Enea che fugge da Troia in fiamme con il figlio Ascanio, portando sulle spalle il padre Anchise. Perché, come è noto, senza memoria non si costruisce civiltà. Sospendendo per qualche mese il nostro tempo collettivo, la pandemia ci consente di voltarci indietro in solitudine: ci sottrae agli uffici, alle mostre, alle biblioteche e ci chiude con i libri della nostra raccolta domestica, dove s’impolvera la parola dei maestri. Sono loro che ci siamo portati sulle spalle in letture difficili, esaltanti, a volte incompiute». Che cosa ci raccontano, oggi, questi libri? «Che non siamo i primi e non

saremo gli ultimi a essere afflitti da pandemie, anche piú devastanti della presente. Nell’area che fu l’impero romano sopravvivono numerose epigrafi che riportano invocazioni ad Apollo, che con il suo arco infliggeva le pestilenze e, al tempo stesso, con i suoi oracoli ne suggeriva i rimedi. Da un amuleto ritrovato in uno scavo londinese e letto recentemente da Christopher P. Jones, sappiamo che il dio era arrivato a prescrivere di non baciarsi». In età romana, gli dèi invitavano a non baciarsi durante le pestilenze? «Siamo negli anni della peste antonina, databile dal 165 d.C.: quasi due millenni dopo si fatica ancora a interpretare questo illuminato responso. Ci dicono che la religione si impone largamente laddove non esistono altri rimedi. Un chirurgo egiziano, autore

Enea fugge da Troia in fiamme, olio su tela di Federico Barocci. 1598. Roma, Galleria Borghese. Come tramandato dalla leggenda, l’eroe porta in braccio il vecchio padre Anchise e accanto a lui è invece il piccolo Ascanio.

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PAROLA D’ARCHEOLOGO intorno al 1600 a.C. del cosiddetto “Papiro Smith”, trattava sul recto del rotolo le diagnosi delle malattie (classificate in “malattie che curerò”, “malattie contro cui combatterò” e “malattie per cui non c’è nulla da fare”) e sul verso, per queste ultime, prescriveva invocazioni, preghiere e formule magiche. Le pestilenze inducono sentimenti di impotenza e forme di terrore primitivo. Ci si affida agli dèi. Sarà per questo che, in un’era di crisi devozionale, il rosario televisivo di papa Francesco ha registrato un record di ascolti? Oltre 4 milioni di persone e uno share del 13,3 % su TV2000, l’emittente della CEI che fa una media giornaliera dello 0,8 %. Ma come faremo, pur desiderandolo, a dimenticare le parole di Francesco – “le misure drastiche non sempre sono buone” – rivolte ai parroci l’indomani del decreto che imponeva agli Italiani di restare a casa?» Che cosa dovrebbe insegnarci il passato? «Che la storia e l’evoluzione del genere umano sono strettamente connesse con la storia delle malattie infettive. Nella letteratura classica la prima descrizione di una “peste” (ma forse febbre tifoidea o ebola) è del greco Tucidide, che descrisse il tramonto economico e sociale di Atene a seguito della pestilenza che colpí la città, fino allora dominatrice del mondo greco, e portò via, tra gli altri, anche Pericle. Atene non riconquistò mai il suo primato. E ancora: la tremenda epidemia che colpí il regno di Giustiniano è da molti storici enumerata tra le concause che portarono alla fine di quella che chiamiamo “antichità”: a partire dalla metà del VI secolo, imperversando a ondate per altri due secoli, “la pandemia spazzò via le ultime basi dell’ordine antico” secondo Kyle Harper, autore del recente saggio Il Destino di Roma».

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Cambierà qualcosa dopo il COVID-19? «Se pensiamo alla nostra economia possiamo esserne certi. Se poi speriamo che l’uomo cambi, allora c’è Tucidide a ricordarci che dieci anni dopo la “peste di Atene”, i suoi cittadini erano già pronti a riprendere la guerra interrotta dal morbo (e finí in un disastro). Possiamo però sperare in Anchise e in Ascanio: il primo che torni a insegnarci, da maestro, a pensare in grande, l’altro che abbia il coraggio dei giovani per metterne in pratica gli insegnamenti. Tradotto in parole povere: i nostri monumenti, le grandi opere d’arte, sono sí un tesoro, ma solo se le consideriamo come fonte di ispirazione e di educazione profonda. Qualsiasi altro uso pensiamo di farne porta alla loro diminutio, dei monumenti, ma soprattutto alla nostra. Facendo tesoro interiore del passato potremo domani mettere in campo grandi progetti rimasti incompiuti: quelli, per esempio, di un Baccelli o di un Barracco per la creazione a Roma di un’area archeologica centrale unica al mondo. E concepirne di nuovi. Paradossalmente, solo liberandoci dall’idea di una valorizzazione da contabili potremmo sperare di dare un futuro al nostro Ascanio». Per Daniele Manacorda docente di metodologia della ricerca archeologica presso le Università di Siena e Roma Tre, studiare il passato significa dare senso e consapevolezza al nostro presente, tanto piú in questi giorni critici, per meglio orientare comportamenti e modi di essere: «La mia generazione ha avuto la fortuna di vivere i settant’anni

migliori che la storia abbia mai conosciuto, a mio avviso, e di non conoscere la guerra. Io mi sono sempre sentito testimone di questo tempo importante che la sorte mi ha dato da vivere. Cosa resta e cosa cambia? Perfezionare il rapporto con il passato è un privilegio ma anche un diritto, che adesso ci è sottratto. E proprio nel momento in cui un valore è precluso se ne capisce meglio il senso».


In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca.

Roma, Musei Capitolini, Palazzo Nuovo. Il Salone Centrale: è auspicio di tutti che i suoi illustri «ospiti» possano tornare a dare presto il benvenuto ai visitatori.

Che cosa ci dovrebbe suggerire questo momento di riflessione? «Io rimango convinto che il patrimonio culturale significa innanzitutto rapporto con il paesaggio, che restituisce la bellezza, ma anche il contesto e la funzione dei monumenti, dando senso ai luoghi della storia. Il patrimonio culturale è una componente primaria della condizione umana: è come l’aria,

l’acqua e il sole, un bene comune che siamo tutti chiamati a proteggere. Perché di quel patrimonio noi uomini siamo un piccolo pezzo. Norme e comportamenti attuali nei confronti del patrimonio sono indirizzati, invece, a salvare la materialità dell’oggetto, piuttosto che il valore sociale o il contesto che gli dà un senso. Mi piacerebbe che questa sensazione fosse piú presente nei

musei italiani, dove abbiamo ricoverato, come in uno zoo, reperti archeologici strappati dai loro contesti. Potremmo ripartire dall’allestimento dei nostri musei, ridando ai reperti lo spazio e il tempo. Dovremmo trovare nuove strade, anche attraverso la tecnologia: in questa stagione che ci ha colto impreparati, possiamo farlo anche da casa, instaurando un rapporto virtuale con il nostro patrimonio».

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

MAGICA POMPEI... La Casa di Leda e il cigno, a Pompei, prende nome dal delicato affresco scoperto alla fine del 2018 (1; vedi «Archeo» n. 406, dicembre 2018; anche on line su issuu.com). Il mito dell’amplesso tra Leda e Zeus, tramutatosi in cigno, è molto noto, anche se confuso. Tuttavia, nonostante le incertezze, ha ispirato non soltanto l’ignoto pittore di Pompei, ma artisti anche di ogni tempo e, di conseguenza, i moderni bozzettisti di francobolli. Ecco dunque una carrellata di pezzi che fanno rivivere l’episodio in tutta la sua bellezza e sensualità. Innanzitutto l’antichità. Mosaici greco-romani trovati nella zona di Paphos, a Cipro, hanno narrato la vicenda e sono riprodotti su due francobolli ciprioti: il primo del 1980 (2) e l’altro, su una cartolina maximum, del 1991 (3). Scendendo nel tempo, possiamo ricordare il disegno (perduto) di Leonardo da Vinci, del quale rimangono solo alcuni studi e alcune copie, due delle quali hanno ispirato i bozzettisti. La prima è 9 stata utilizzata due volte dalla Guinea Bissau, nel 2007 (4) e nel 2017. La seconda copia è stata utilizzata dal Gabon nel 2016 (5) e ancora dalla Guinea Bissau nel 2017 (6). A Raffaello è attribuito un disegno tratto dall’opera perduta di Leonardo, che il Paraguay ha usato nel 1983 (7) per celebrare i 500 anni della nascita dell’Urbinate, scelta seguita nello stesso anno dalle Isole Turks & Caicos (8). Subito dopo è la volta di Rubens, con una sua interpretazione originale, usata dalla Germania Orientale nel 1977 (9) e dalla Guinea Equatoriale nel 1978 (10), attribuendola però a Michelangelo! Nel XVIII secolo il pittore francese François Boucher raffigurò il mito di Leda in maniera quasi... pornografica, come si può vedere dal dipinto ripreso dal francobollo della Repubblica Centrafricana del 2011 (11). Anche Paul Cézanne, uno dei grandi impressionisti francesi, fu affascinato dalla leggenda e la raffigurò a modo suo nel 1882, come testimonia un francobollo della Guinea Bissau del 2015 (12). Infine, questa breve rassegna si chiude con un grande artista contemporaneo, Salvator Dalí, con la sua Leda atomica del 1949 (13).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

introduzione alla

pittura Romana di Giulia Salvo

I IN EDICOLA

l grande naturalista latino Plinio il Vecchio scrive nella Storia Naturale, l’opera che lo ha reso immortale, «ma in verità non c’è gloria se non per gli artisti che dipinsero quadri». Parole che, senza possibilità di equivoco, danno prova dell’importanza della pittura su tavola nel mondo antico e di come in essa si dovesse addirittura riconoscere la grande arte. Prende le mosse da questa affermazione il viaggio che Giulia Salvo, autrice della nuova Monografia di «Archeo», ci fa compiere attraverso una delle espressioni piú vivaci e significative della cultura di Roma. Di quell’arte si conserva un patrimonio considerevole, in larga parte composto dai magnifici affreschi di Pompei ed Ercolano, che, a oggi, sono la testimonianza piú nota della pittura romana. Composizioni che vedevano la luce grazie all’attività di un «esercito» di decoratori e artigiani e che raccontano storie di dèi e di eroi, amori leggendari, ma propongono anche paesaggi esotici, vivaci ritratti e giardini lussureggianti. Dipinti suggestivi, nei quali si mescolavano gli echi della tradizione mitologica, mode, nonché, spesso, il desiderio di autocelebrazione dei committenti.

GLI ARGOMENTI • INTRODUZIONE • L’arte di un impero

• I SISTEMI DECORATIVI • Questioni di stile

• L’AFFRESCO • Creatori di bellezza

• I SOGGETTI • Il mondo in una stanza

• GLI ANTECEDENTI • La lezione greca

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CORRISPONDENZA DA ATENE

LE PROVE REGINE

Valentina Di Napoli

LE PIÚ RECENTI INDAGINI NEL SITO EUBOICO DI AMARYNTHOS GETTANO NUOVA LUCE SULLA STORIA DEL SANTUARIO DEDICATO AD ARTEMIDE

A

lla fine del 2017, quando presentammo gli scavi condotti nel sito di Amarynthos da un’équipe della Scuola Svizzera di Archeologia in Grecia, in collaborazione con colleghi greci della Soprintendenza alle Antichità d’Eubea (vedi «Archeo» n. 394, dicembre 2017; anche on line su issuu.com), le ricerche erano già avviate verso prospettive molto promettenti. Oggi, due anni e mezzo dopo e all’indomani di due impegnative campagne di scavo, si può affermare che le indagini hanno fatto enormi progressi. Il gruppo di ricerca greco-svizzero sta riportando alla luce un importante santuario euboico, dedicato alla dea Artemide e tra i A sinistra: Amarynthos. Veduta aerea del santuario di Artemide al termine dell’ultima campagna di scavi.

In alto: ricostruzione grafica ipotetica del santuario, che forse ebbe anche il ruolo di luogo di culto pan-euboico.

maggiori, o forse addirittura il principale, di tutta l’isola.

l’attuale area di scavo a oltre 11 000 mq. Ciò ha permesso di indagare in estensione la zona e di precisare le caratteristiche di ben due porticati che bordavano il centro del santuario: l’uno, quello orientale, di ordine dorico, fu realizzato in epoca tardo-classica ed è costituito da un corpo centrale con due ali laterali;

INDAGINI ESTENSIVE Avviata su una superficie di poche decine di metri quadrati, l’esplorazione si è notevolmente ampliata grazie all’acquisizione di terreni confinanti, portando

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GRECIA

Mare Egeo

Amarynthos Atene

Mar Ionio

l’altro, il portico settentrionale, era a una sola navata e ha avuto perlomeno due fasi edilizie. Precedute da due campagne di prospezioni geofisiche mirate a individuare i limiti dello spazio sacro, le indagini hanno inoltre interessato il cuore del santuario, dove in anni recenti era stata costruita una villetta, demolita nell’inverno del 2018. Qui, la pazienza degli archeologi è stata premiata dal rinvenimento di una struttura delle dimensioni di 5 × 12 m

circa, posizionata sul lato orientale di un edificio di epoca classica: quello, cioè, che potrebbe essere il tempio principale del santuario. In tal caso, la struttura antistante sarebbe molto probabilmente da interpretarsi come l’altare monumentale del tempio di Artemide e non è un caso che, a pochi metri di distanza, sia stata rinvenuta una piccola faretra bronzea, evidentemente pertinente a una statuetta della dea. È poi di grande rilevanza la A destra: faretra in bronzo pertinente a una statuetta di Artemide, rinvenuta nel santuario, e, in basso, disegno che mostra l’uso della faretra stessa.

scoperta, durante le ultime due campagne, di resti relativi alle fasi geometriche del santuario (VIII secolo a.C.). Si tratta, in particolare, di alcuni edifici a pianta absidata, che permettono di colmare il vuoto finora riscontrato tra le fasi dell’età del Bronzo e quelle dell’epoca arcaica, dimostrando la diacronia di questo sito.

IL DECRETO RIVELATORE Una vera sorpresa è stata, infine, la scoperta, nell’estate scorsa, di una stele recante un decreto della città di Eretria, che ha confermato l’importanza di questo Artemision come spazio in cui erano rese pubbliche le decisioni politiche di maggior rilevanza. Datato attorno al 300 a.C., il decreto fu emanato dalle autorità piú alte di Eretria, i probouloi, per onorare cinque magistrati cittadini che dovevano formare un collegio. Al momento del rinvenimento, la stele non sembrava granché promettente: era mutila e coperta di concrezioni, essendo stata recuperata da un pozzo di età romana installatosi nel sito. Eppure, una volta pulito, il decreto ha fornito un’altra informazione preziosa: per la prima volta, infatti, in un’iscrizione trovata in scavo nel sito, la dea Artemide è associata al toponimo di Amarynthos, poiché vi si leggono le parole Artemidos en Amarynthoi (e cioè «di Artemide ad Amarynthos»). La fisionomia dell’Artemision di Amarynthos va dunque definendosi con sempre maggiore precisione, lasciando intravedere una storia secolare e rendendo sempre piú evidente l’importanza di questo santuario della sorella di Apollo, che, forse, ebbe anche la funzione di luogo sacro pan-euboico. Non resta che attendere, con impazienza, i risultati delle prossime campagne di scavo.

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LA DEMOCRAZIA NEL CUORE Louis Godart

QUELLA SENTENZA ERA GIUSTA! QUATTROMILA ANNI FA, UN TRIBUNALE SUMERICO FU CHIAMATO A GIUDICARE UN CASO DI ASSASSINIO, DEL QUALE ERANO ACCUSATI TRE UOMINI E, PER CONNIVENZA, LA MOGLIE DELLA VITTIMA. CHE PERÒ USCÍ ASSOLTA, APPLICANDO UN PRINCIPIO RIVELATOSI STRAORDINARIAMENTE ATTUALE...

L

a democrazia è fragile. Perennemente minacciata da chi vuole imporre con la forza il proprio volere, occorre sempre lottare per preservarla. Prima dell’avvento del concetto di «democrazia» nell’Atene della fine del VI secolo a.C. (riforma di Clistene del 508-507 a.C.), solo la legge poneva argini a difesa dei

cittadini. Dall’alba della storia gli uomini hanno sentito il bisogno di definire delle regole in grado d’impedire che le loro comunità fossero sottomesse all’arbitrio. Cosí è nata la Legge. La legge e la giustizia erano concetti fondamentali nell’antica civiltà sumerica. La vita sociale ed economica del Paese Nella pagina accanto: terracotta con una figura femminile ingioiellata, da Nippur. 2100-1750 a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art. A sinistra: tavoletta in lingua sumerica scritta in caratteri cuneiformi contenente un codice di leggi, da Nippur. 2112-2095 a.C. Istanbul, Museo di Antichità Orientali.

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mesopotamico era letteralmente impregnata dal concetto di giustizia. Tra la massa ingente di tavolette riportate alla luce, molte migliaia sono dedicate ad argomenti giuridici che vanno dai contratti agli atti notarili, ai testamenti, alle sentenze emesse dai tribunali. Nel mondo sumerico il giovane che imparava a scrivere, e quindi si apprestava a esercitare funzioni di rilievo nelle gerarchie sociali, consacrava una parte importante della propria attività allo studio delle leggi e si allenava regolarmente sia all’uso di una terminologia specialistica, sia alla trascrizione di codici di leggi e di sentenze che facevano giurisprudenza. Il testo completo di una di queste sentenze è descritto da Samuel Noah Kramer ne L’histoire commence à Sumer. La storia somiglia a un giallo. Siamo nel Paese sumerico intorno al 1850 a.C. Tre uomini – un barbiere, un giardiniere e un altro individuo di cui ignoriamo la professione – uccisero Lu-Inanna, un dignitario del Tempio. Per un motivo che non conosciamo, i tre informarono del delitto la moglie della vittima, Nin-dada, che, stranamente, non riportò il fatto alle autorità. Il braccio armato della giustizia, lo sappiamo ancora oggi, non rimane mai fermo. Il crimine fu denunciato al re Ur-Ninurta nella sua capitale di


Isin e il sovrano informò l’Assemblea dei cittadini che svolgeva le funzioni di tribunale nella città di Nippur. L’Assemblea fu convocata. Nove uomini si alzarono per chiedere la condanna degli accusati. Sostennero che, a loro parere, non soltanto i tre uomini resisi colpevoli dell’omicidio, ma anche la donna dovevano essere giustiziati. Ritenevano probabilmente che il silenzio della vedova dimostrasse la sua complicità con gli autori materiali del delitto. A quel punto, due uomini si alzarono in seno all’Assemblea insistendo sul fatto che la donna non poteva essere punita, poiché non aveva partecipato direttamente all’omicidio. I membri del tribunale sposarono l’opinione della difesa: dichiararono che la donna aveva buoni motivi per non denunciare il fatto, perché il marito si era reso colpevole di non provvedere al suo sostentamento. Perciò conclusero affermando nel verdetto che «la pena inflitta a coloro che avevano effettivamente ucciso doveva bastare». E solo i tre uomini furono condannati.

DUE COPIE DEL TESTO Il resoconto del processo fu scoperto su una tavoletta trovata durante una campagna di scavo organizzata dall’Oriental Institute dell’Università di Chicago e dall’University Museum di Filadelfia e pubblicata da Samuel Noah Kramer e Thorkild Jacobsen. Due copie dello stesso testo sono state riportate alla luce, il che significa che la sentenza di Nippur è stata diffusa tra i giudici e gli ambienti giuridici di Sumer e che oramai faceva giurisprudenza. Ecco dunque il testo della sentenza: «Nanna-sig, figlio di Lu-Sin, Ku-Enlil, figlio di Ku-Nanna, barbiere, e Enlil-ennam, schiavo di Adda-kalla, giardiniere, hanno assassinato Lu-Inanna, figlio di

Lugal-apindu, sacerdote. Dopo che Lu-Inanna, figlio di Lugal-apindu, fu ucciso, dissero a Nin-dada, figlia di Lu-Ninurta, moglie di Lu-Inanna, che suo marito Lu-Inanna era stato ucciso. Nin-dada, figlia di Lu-Ninurta, non aprí bocca, le sue labbra rimasero sigillate. L’affare fu portato davanti al re a Isin e Ur-Ninurta ordinò che la causa fosse esaminata dall’Assemblea a Nippur. Lí, Ur-gula, figlio di Lugal, Dudu, cacciatore di uccelli, Ali-ellati, l’affrancato, Buzu, figlio di Lu-Sin, Eluti, figlio di ...Ea, Shesh-kalla, portatore, Lugal-kan, giardiniere, Lugal-azida, figlio di Sin-andul, e Shesh-kalla, figlio di Shara, si alzarono davanti all’Assemblea e dissero: “Coloro che hanno ucciso un uomo non sono degni di vivere. Questi tre uomini e questa donna dovrebbero essere uccisi davanti alla casa di Lu-Inanna, figlio di Lugal-apindu, il sacerdote”. Allora Shu...-lilum, funzionario di Ninurta, e Ubar-Sin, giardiniere, si alzarono davanti all’Assemblea e dissero: “È vero che il marito di

Nin-dada, figlia di Lu-Ninurta, è stato assassinato. Ma cosa ha fatto la donna per meritare di essere uccisa?”. Allora i membri dell’Assemblea di Nippur si alzarono davanti a loro e dissero: “Una donna che il marito non sostentava, anche se ha conosciuto i nemici del marito e se, una volta quest’ultimo ucciso, è venuta a sapere del crimine, perché non avrebbe dovuto stare in silenzio? È lei ad aver ucciso il marito? Il castigo di coloro che hanno effettivamente commesso l’omicidio dovrebbe essere sufficiente”. Conformemente alla decisione dell’Assemblea di Nippur, Nanna-sig, figlio di Lu-Sin, Ku-Enlil, figlio di Ku-Nanna, barbiere, e Enlil-ennam, schiavo di Adda-kalla, furono i soli ad essere consegnati al boia per essere messi a morte. Questo è il processo esaminato e discusso dall’Assemblea di Nippur».

UN PARERE AUTOREVOLE Una volta edito il testo, Kramer e Jacobsen ritennero interessante paragonare il verdetto del processo sumerico con il giudizio che avrebbe emanato in un caso del genere un tribunale moderno di un Paese democratico. Mandarono quindi la traduzione del testo a Owen J. Roberts, allora decano della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università della Pennsylvania ed ex giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America tra il 1930 e il 1945, chiedendo il suo parere. La risposta fu molto interessante. In un caso del genere, scrisse, i giudici moderni avrebbero concordato con quelli del Paese sumerico e il verdetto sarebbe stato lo stesso. Ecco, testualmente, le sue parole: «Secondo la nostra legge, la donna dopo il fatto compiuto non sarebbe stata ritenuta colpevole di complicità».

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LA VERSIONE DI SARGON COME TRASFORMARE UNA TERRA MINACCIATA DA SICCITÀ E CARESTIA IN UNO DEI GRANAI PIÚ PRODUTTIVI DEL MONDO ANTICO? LO RIVELANO GLI STRAORDINARI RISULTATI DELLE RICERCHE DELLA MISSIONE ITALO-CURDA NELLA TERRA DEGLI ASSIRI. CE NE PARLA, IN ESCLUSIVA PER I NOSTRI LETTORI, IL DIRETTORE DEGLI SCAVI di Daniele Morandi Bonacossi 36 a r c h e o


Faida (Kurdistan iracheno). Il Rilievo 8, uno dei pannelli scolpiti che fiancheggiavano un canale facente parte del vasto sistema di irrigazione avviato da Sargon e ultimato da Sennacherib. A destra: l’autore dell’articolo, Daniele Morandi Bonacossi, a Mila Mergi, presso la stele rupestre del re Tiglath-Pileser III (745-727 a.C.).

L

a storia dell’antica Assiria fu accompagnata da un lungo processo di espansione territoriale sostenuto da un’ideologia di conquista universale che culminò, fra l’VIII e il VII secolo a.C., nella formazione di quello che divenne il piú vasto impero territoriale nella storia della Mesopotamia prima dell’emergere di quello persiano. L’élite reale assira raccontò la formazione dell’impero attraverso innumerevoli iscrizioni reali e bassorilievi posti nei palazzi dei sovrani e la sostenne attraverso la costru-

zione di una vasta rete d’infrastrutture imperiali, come estesi sistemi d’irrigazione regionali, strade, nuove capitali e grandi centri urbani fondati per amministrare le province dei territori sui quali aveva esteso il proprio controllo. Con la sola eccezione della città di Assur – sede del dio nazionale e capitale religiosa dell’Assiria –, le capitali dell’impero erano situate nella regione della Mesopotamia settentrionale, in cui le piogge – relativamente abbondanti – erano teoricamente sufficienti per portare a

maturazione i raccolti di cereali (orzo e grano) senza necessità d’irrigare i campi. Tuttavia, l’irregolarità delle precipitazioni e le frequenti siccità, che oggi in Siria e in Iraq si manifestano attraverso periodi secchi pluriennali – spesso della durata di quattro o cinque anni –, potevano determinare ripetuti episodi di crisi segnati dalla perdita dei raccolti e da carestie. In effetti, i testi cuneiformi assiri descrivono eventi ricorrenti di carenza di cibo che colpiscono diverse regioni dell’impero. In una lettea r c h e o 37


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ra inviata nel 657 a.C. al re Assurbanipal, l’astrologo e sacerdote Akkullanu menzionava un episodio di grave e apparentemente diffusa siccità che causò la perdita totale del raccolto: «Le piogge quest’anno sono diminuite e nessun raccolto è stato mietuto». Un simile quadro di crisi ambientale è indicato anche da recentissime analisi di speleotemi (stalattiti e stalagmiti) provenienti da una grotta del Kurdistan iracheno. Fra la metà del IX e la metà dell’VIII secolo a.C., le analisi isotopiche hanno rivelato una fase climatica molto favorevole in Assiria, caratterizzata da precipitazioni piovose particolarmente abbondanti (con aumento delle precipitazioni del 15-30% rispetto a oggi).Tale periodo umido, tuttavia, fu seguito da una fase di forte flessione delle piogge e aridità, iniziata nel tardo VIII secolo e culminata fra il VII e la metà del VI secolo a.C. Come nel caso di tutti gli imperi pre-moderni, la salute dell’economia dell’impero dipendeva fortemente dal successo dei raccolti di

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cereali e ripetute siccità potevano compromettere la stabilità e la crescita economica. Dalla fine dell’VIII secolo a.C., il nucleo centrale dell’impero assiro attorno alle sue ultime due capitali – Khorsabad/Dur-Sharrukin e Ninive, in Iraq settentrionale – aveva attraversato una fase di forte espansione demografica, determinata in gran parte dalle deportazioni di massa delle popolazioni conquistate durante le campagne militari condotte dai sovrani assiri nei territori dell’odierna Turchia sud-orientale, Siria, Palestina e Iran.

NUOVI PAESAGGI «IDRAULICI» L’azione combinata del sovrappopolamento del centro dell’impero e ripetute siccità che nel tardo VIII e nel VII secolo causarono perdite o riduzione dei raccolti, insieme all’aumento del prezzo dei cereali, documentato da testi amministrativi, furono certo forti elementi di debolezza e instabilità del sistema economico e politico assiro. Per contenere

il rischio causato da fattori ambientali, climatici e demografici, i sovrani assiri costruirono estese e articolate reti di canali d’irrigazione regionale, che trasformarono profondamente il paesaggio rurale del centro dell’Assiria, approvvigionando d’acqua le città e irrigandone le campagne, e garantendo cosí una base economica stabile in grado di sostenere lo sviluppo demografico ed economico dell’impero. La costruzione di sistemi idraulici su scala regionale rese possibile la creazione di una fitta rete di piccoli siti rurali sparsi nella campagna delle capitali e dei centri amministrativi provinciali, l’espansione dell’insediamento in aree rurali marginali e il miglioramento della produttività agricola complessiva dell’impero. La creazione di questi nuovi paesaggi idraulici fu celebrata dall’élite imperiale assira attraverso i simboli del potere regale – stele, rilievi rupestri e iscrizioni commemorative – distribuiti nel territorio, in luoghi a forte valenza simbolica, per esempio presso la presa d’acqua


In alto: la rete di canali d’irrigazione assira nell’entroterra di Khorsabad e Ninive, con indicazione delle quattro fasi costruttive del sistema idraulico costruito da Sennacherib. A sinistra: uno dei pannelli scolpiti di Maltai.

dei nuovi imponenti sistemi di canalizzazione delle acque, o in paesaggi di frontiera e altri siti significativi dal punto di vista simbolico, come montagne, sorgenti, fiumi.

IL SISTEMA DI KHORSABAD E NINIVE La rete di canali piú complessa e ramificata dell’impero fu costruita fra la fine dell’VIII e l’inizio del VII secolo dai sovrani assiri Sargon II (720-705 a.C.) e Sennacherib (704681 a.C.) nell’entroterra di Khorsabad e Ninive. Il nuovo sistema di canali regionali, che in passato era stato interamente attribuito all’iniziativa di Sennacherib, ma che le piú recenti ricerche condotte dal Progetto Archeologico Regionale Terra di Ninive dell’Università di Udine (PARTeN; vedi box a p. 41) suggeriscono sia stato iniziato da suo padre, Sargon, fu il piú ambizio-

so progetto di ingegneria idraulica intrapreso nella storia dell’Assiria: oltre 240 km di canali primari e secondari, corsi d’acqua stagionali canalizzati, argini, tunnel, i primi acquedotti in pietra della storia, sbarramenti e bacini regolatori e monumentali bassorilievi e iscrizioni reali commemorative che celebravano la costruzione di queste opere idrauliche. Sargon fondò una nuova capitale a Khorsabad, che chiamò Dur-Sharrukin, la «Fortezza di Sargon». A seguito della sua morte improvvisa, in una scaramuccia di frontiera in Turchia sud-orientale, e al mancato recupero del suo cadavere, a cui non poterono essere tributati onori funebri, suo figlio Sennacherib abbandonò la città fondata dal padre, che riteneva caduto in disgrazia presso gli dèi, e trasferí la capitale nella vicina Ninive – che già esisteva come a r c h e o 39


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gono fornite dalle iscrizioni reali di Sennacherib rinvenute a Ninive e sui monumenti situati lungo il percorso di uno dei canali, come l’acquedotto di Jerwan e il complesso rupestre di Khinis. Ulteriori importanti dati provengono da recenti studi basati sull’analisi delle immagini satellitari del sistema di canali assiri condotti da Jason Ur dell’Università di Harvard e dalle ricerche archeologiche attualmente in corso nei governatorati di Duhok e Ninive da parte di PARTeN. Sennacherib realizzò il sistema d’irrigazione in quattro fasi in soli 15 anni, dal 703 al 688 a.C. La prima tappa fu il canale Kisiri, che venne deviato dal fiume Khosr 16 km circa a monte di Ninive per mezzo della diga di Shallalat. La seconda fase del sistema di canali di Ninive è menzionata per la prima volta nel prisma ottagonale del 694 a.C., quando Sennacherib condusse una campagna di rilevamento sul Monte Musri, l’odierno Jebel Ba’shiqah, per cercare nuove sorgenti d’acqua. celebre centro di culto della dea In alto: Khinis. Il Ishtar –, trasformandola in una mecomplesso tropoli di 750 ettari di superficie, rupestre, con, al abitata da una estesa popolazione. Al centro, il «Grande fine di garantire una base economi- Rilievo» e alcune ca ampia e solida alla crescita di nicchie scolpite Ninive e del suo territorio, il sovrasulla parete no assiro costruí una rete di canali rocciosa che di irrigazione che portavano acqua domina la presa al suo palazzo e nei parchi reali, oldel canale. tre a irrigare i campi e i frutteti di A destra: una Ninive, rendendo possibile uno svidelle nicchie luppo urbano e rurale di dimensioscolpite con ni e densità fino a quel momento Sennacherib senza precedenti in Assiria. sotto ai simboli

LE ISCRIZIONI REALI Le informazioni sulla creazione di questo impressionante sistema idraulico regionale, alimentato dall’acqua dei fiumi e delle sorgenti del pedemonte della catena dello Zagros, 60 km circa a nord (nella moderna regione di Duhok, nel Nord del Kurdistan iracheno), ven40 a r c h e o

delle divinità assire. Sul fondo è incisa una delle tre copie dell’iscrizione di Bavian.


Qui già Sargon aveva deviato l’acqua di sorgenti carsiche in canali per approvvigionare d’acqua Khorsabad, ubicata ai piedi del Monte Musri. Sennacherib allargò le sorgenti carsiche, creando bacini idrici, e ridiresse l’acqua dai torrenti di montagna attraverso un canale o corsi d’acqua stagionali canalizzati (wadi) nel fiume Khosr.

IL FIUME DEVIATO La terza e quarta fase del sistema idraulico sono state studiate sul terreno da PARTeN e vengono descritte nell’iscrizione di Bavian incisa all’incirca nel 688 a.C. in tre nicchie scolpite sulla rupe che dominava il punto in cui, a Khinis, Sennacherib aveva fatto deviare le acque del fiume Gomel in un canale, che chiamò «Canale di Sennacherib». In passato, la fase 3 è stata ricostruita come un sistema di cinque canali connessi fra loro: i due canali di Maltai, il canale di Faida, i canali di Bandawai e Uskof e il canale di Tarbisu.

CHE COS’È IL PARTeN Nel 2012, grazie alla riapertura del Kurdistan iracheno alla ricerca archeologica, nella regione di Duhok l’Università di Udine ha iniziato il Progetto Archeologico Regionale Terra di Ninive (PARTeN), una ricognizione archeologica di superficie di un vasto territorio di 3000 kmq a cavallo fra i governatorati di Duhok e Ninive mirata a ricostruire la formazione e trasformazione del paesaggio culturale e naturale di quest’importantissima regione della Mesopotamia settentrionale dalla preistoria all’epoca islamica e a garantirne tutela e gestione con mezzi innovativi. Al centro del progetto è, in particolare, il I millennio a.C., epoca in cui la regione rappresentava il cuore dell’impero assiro. Pochissimo si sa, infatti, dell’entroterra di Ninive e dei

modelli d’insediamento e uso del territorio in questa regione cosí importante per il sostentamento della capitale imperiale. Nel corso di sette anni di lavoro sul campo (2012-2018), PARTeN ha identificato quasi 1100 siti archeologici, ricostruendo un paesaggio culturale densamente insediato fra il Paleolitico e l’età contemporanea. Ricerca, tutela, restauri, valorizzazione, formazione e cooperazione internazionale sono i cardini di PARTeN, sostenuto dal Governo regionale del Kurdistan-Iraq e, per l’Italia, da Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, Agenzia italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, Fondazione Friuli e ArcheoCrowd.

Il canale di Faida e i Rilievi 6 e 7 in una foto da drone.

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Le ricerche condotte da PARTeN, tuttavia, hanno dimostrato come i canali di Maltai e Faida, con i relativi rilievi commemorativi, accomunati dalla raffigurazione della medesima scena a carattere sacro e pertanto assai verosimilmente contemporanei, appartengano a sistemi di irrigazione locali, non collegati ai canali di Bandawai e Uskof costruiti da Sennacherib. Inoltre, una serie di considerazioni antiquarie, stilistiche ed epigrafiche suggerisce che i quattro rilievi rupestri di Maltai e i dieci rilievi finora portati alla luce a Faida e i relativi canali siano piú antichi dei rilievi e del canale di Khinis e vadano attribuiti al regno di Sargon piuttosto che a quello di Sennacherib. Pertanto, se l’ipotesi è corretta, Sennacherib avrebbe incorporato nel proprio sistema irriguo regionale una serie di canali d’irrigazione locali costruiti a Maltai e Faida da suo padre Sargon. È tuttavia possibile che già Sargon avesse iniziato lo scavo dei canali di Maltai e

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Faida in una prospettiva regionale e non locale, ma che la sua morte prematura, nel 705, avesse temporaneamente interrotto il suo progetto. In questo caso, suo figlio Sennacherib sarebbe stato il continuatore di un’opera d’ingegneria idraulica regionale già concepita dal suo predecessore e intesa a ridirigere e gestire le acque delle «Terre di Khorsabad e Ninive» per aumentare la produttività agricola della regione centrale dell’impero.

DAL MONTE ALLA PIANURA Infine, il sistema del canale di Khinis, costruito intorno al 690 a.C., fu la quarta e ultima fase del programma d’irrigazione di Sennacherib. L’acqua del fiume Gomel fu deviata in un affluente del Khosr per mezzo di un canale lungo 55 km che iniziava a Khinis, nel punto in cui il fiume usciva da una stretta gola di montagna per sfociare nella pianura nord-mesopotamica. L’acqua per il «Canale di Sennacherib» fu preleva-

ta dal Gomel a monte del sito di Khanusa (odierna Khinis), dove sono stati identificati i resti delle imponenti opere di presa, che l’iscrizione di Bavian chiama la «porta del canale». Sulla parete rocciosa della gola di Khinis, Sennacherib fece scolpire una serie di rilievi commemorativi della sua attività, che includono il «Grande Rilievo» e 12 nicchie raffiguranti il sovrano in atteggiamento di reverenza sotto ai simboli delle 12 divinità principali del pantheon assiro. Lungo il suo corso superiore, il canale di Sennacherib superava una serie di wadi profondamente incisi nel terreno. Per evitare che le violente piene stagionali degli wadi potessero distruggere tratti del canale, furono edificati almeno sei acquedotti in pietra sui quali il canale oltrepassava i letti delle fiumare. Il piú imponente di tutti era l’acquedotto a cinque arcate di Jerwan. Questa struttura imponente era lunga quasi 300 m, passava a un’altezza di 9 m sopra il letto dello wadi


ed era costruita con oltre 400 000 blocchi di calcare. Altri cinque acquedotti in pietra piú piccoli sono stati recentemente identificati da PARTeN lungo il canale di Khinis a monte di Jerwan. Questa inaspettata scoperta dimostra che la costruzione del famoso acquedotto di Jerwan, scavato da una missione dell’Oriental Institute di Chicago negli anni Trenta del secolo scorso, non rappresentò una misura eccezionale come in passato si era ritenuto e che gli ingegneri idraulici assiri erano soliti costruire acquedotti di pietra di varie dimensioni e complessità ovunque fosse necessario. Ciò avveniva quattro secoli prima della costruzione degli acquedotti romani, edificati a partire dalla fine del IV secolo a.C. prima in Italia e poi in tutto l’impero.

In alto: i comprensori agricoli a coltivazione intensiva basata sull’irrigazione nelle aree di Jerwan, Bandawai, Maltai, Faida e Ninive. Nella pagina accanto: veduta del

canale di Faida dal drone. Si notino le fabbriche che minacciano il sito. In basso: mappa del sito di Faida con il percorso del canale e l’ubicazione dei rilievi.

UNA STRAORDINARIA CRESCITA PRODUTTIVA La costruzione di questo straordinario sistema di irrigazione trasformò il vasto territorio dell’entroterra di Khorsabad e Ninive, tradizionalmente coltivato in regime seccagno (grazie alle precipitazioni piovose), in un paesaggio rurale ad alta produttività, basato sulla cerealicoltura irrigua, che sostenne il massiccio sviluppo urbano e demografico delle ultime capitali dell’impero. Una stima elaborata da PARTeN suggerisce che le superfici di terra irrigua coltivabile in maniera intensiva grazie alla costruzione della nuova rete di canali nella regione di Ninive ammontavano a circa 220 kmq. Questo dato, assieme all’identificazione nelle immagini satellitari e sul terreno di canali distributori, che irrigavano comprensori agricoli a coltivazione intensiva e alta produttività nelle aree di Jerwan, Bandawai, Maltai, Faida e Ninive, dimostra che il sistema idraulico assiro fu costruito non solo per approvvigionare di acqua la capitale, il palazzo di Sennacherib e i giardini reali, come ritenuto in passato, ma anche a r c h e o 43


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per irrigarne la campagna allo scopo di incrementare i raccolti e ridurre i rischi della cerealicoltura seccagna nella fascia pedemontana dell’Assiria settentrionale. In questo modo, grazie a interventi di ingegneria idraulica pianificati centralmente, questa fertile regione fu trasformata in uno dei granai piú produttivi e strategici dell’Assiria, dal momento che la vicinanza delle pianure irrigate dai sovrani assiri a Ninive consentiva di contenere i costi del trasporto via terra dei cereali alla capitale.

LA SCOPERTA Lo studio del sistema idraulico assiro nell’entroterra di Khorsabad e Ninive ha portato PARTeN a indagare il canale di Faida, ubicato una ventina di chilometri a sud di Duhok. Ciò ha consentito di effettuare una delle scoperte archeologiche piú straordinarie finora realizzate nella regione del Kurdistan iracheno. Lo scavo del canale, condotto nel settembre e ottobre del 2019 da una missione congiunta 44 a r c h e o

italo-curda dell’Università di Udine e della Direzione delle Antichità di Duhok diretta dallo scrivente e da Hasan Ahmed Qasim, ha infatti permesso per la prima volta di studiare, non solo mediante ricognizione, ma anche per mezzo di scavo archeologico, uno dei canali scavati probabilmente da Sargon e commemorati attraverso l’esecuzione di eccezionali pannelli scolpiti a bassorilievo nella roccia che costituiva la sua sponda. Alimentato da un sistema di risorgenti carsiche, il canale fu scavato nella roccia calcarea alla base della collina del Chiya-i Dekan nei pressi del villaggio di Faida; aveva una lunghezza di 6,5 km e una larghezza media di 4 m. Dal canale principale si diramavano canali secondari che consentivano di irrigare i campi circostanti e di aumentare la produzione agricola della campagna coltivata. Una serie di aperture lungo il canale con funzione di troppopieno impediva all’acqua di oltrepassare un limite predeterminato. Il sistema d’irrigazione era già noto

In alto: il Rilievo 9 parzialmente distrutto da un bulldozer nel 2017, durante le operazioni di arretramento del fronte roccioso della collina per ingrandire una stalla per bovini. Nella pagina accanto: particolare del dio Assur sul dragone e del sovrano del Rilievo 8.

dal 1972, quando l’archeologo inglese Julian Reade identificò come un canale quello che poteva apparire come un sentiero di collina e scoprí tre rilievi sul suo lato sinistro. I pannelli rettangolari scolpiti a bassorilievo nella roccia erano quasi interamente sepolti dai depositi di terreno e detriti colluviali erosi dal fianco della collina. Tuttavia, in quegli anni di aspro confronto fra i Peshmerga curdi e l’esercito del regime baathista, l’instabilità politica e militare che caratterizzava la regione non consentí di portare alla luce i rilievi. Nell’agosto del 2012, durante la ricognizione archeologica del canale assiro, PARTeN individuò la presenza di altri sei nuovi rilievi


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anch’essi sepolti dal riempimento A destra: le figure del canale, portando cosí a nove il del sovrano numero complessivo di pannelli assiro, della dea scolpiti noti. Dai detriti che colma- Ishtar sul leone e vano il canale emergeva solo la par- del dio Adad che te superiore dei rilievi, dei quali si stringe nella intravedeva la cornice superiore e, mano un fascio di in alcuni casi, la sommità delle tiare folgori emergono indossate dalle divinità. dallo scavo del

UN’AREA AD ALTO RISCHIO Nonostante la scoperta di questa eccezionale serie di rilievi rupestri assiri, a fronte della conquista della regione di Mosul da parte dell’ISIS e della proclamazione del Califfato islamico fra Iraq e Siria nel 2014, si è ritenuto opportuno non effettuare lo scavo del complesso di arte rupestre di Faida. Infatti, fino alla

riempimento del canale. In basso: la dea Ishtar sul leone del Rilievo 8. Nella pagina accanto: la dea Mullissu seduta in trono sul leone del Rilievo 8.

fine del 2016, quando lo pseudoStato creato dall’ISIS venne definitivamente sconfitto in Iraq, il canale e i rilievi erano ubicati solo 25 km a nord del fronte con i fondamentalisti islamici. Ciò ha consigliato di rimandare a un momento migliore lo scavo archeologico del sito, per non esporre i rilievi assiri al rischio di devastazione da parte dell’ISIS che, come noto, nel 2014 e 2015 distrusse o danneggiò numerosi monumenti nella regione di Mosul, fra cui proprio le capitali assire di Nimrud, Khorsabad e Ninive. La caduta del Califfato, tuttavia, non ha garantito la sicurezza del sito di Faida, che, in anni piú recenti, ha continuato a essere minacciato in maniera sempre piú grave dal vandalismo, dagli scavi clandestini e dal danneggiamento causato dall’espansione delle attività produttive del vicino villaggio. Per proteggere il sito da queste minacce, nel 2019 è iniziato il progetto italo-curdo di salvataggio del canale e dei rilievi assiri di Faida. Lo scavo ha consentito di portare alla luce dieci imponenti pannelli, di quasi 5 m di larghezza e 2 m di 46 a r c h e o


altezza, che, come i rilievi di Maltai, ritraggono il sovrano assiro rappresentato due volte, alle estremità di ogni pannello, al cospetto delle statue di sette divinità stanti su dei piedistalli posti sul dorso di animali. Gli animali che portano le statue delle divinità avanzano verso destra, nel senso della corrente dell’acqua che anticamente scorreva nel canale, che mantiene una pendenza costante dell’1% lungo tutto il suo corso.

LA SFILATA DEGLI DÈI Le figure divine rappresentano: il dio Assur, la principale divinità del pantheon assiro, su un dragone e un leone con corna; la sua paredra Mullissu, seduta su un elaborato trono sorretto da un leone; il dio della luna, Sin, anch’egli su un leone con corna; forse il dio della sapienza, Nabû, su un dragone; il dio del sole, Shamash, su un cavallo; il dio della tempesta, Adad, su un leone con corna e un toro; e infine Ishtar, la dea dell’amore e della guerra, su di un leone. Resta da chiarire il modello di distribuzione spaziale dei rilievi lungo la sponda del canale di Faida, dal momento che non è ancora stato scavato in maniera sistematica un segmento del canale sufficientemente lungo da poter essere considerato rappresentativo. Alcuni pannelli sono affiancati in coppie. Lo scavo dei nove rilievi la cui sommità risultava visibile in superficie ha consentito di rinvenire un decimo pannello non visibile perché interamente coperto dai detriti che colmavano il canale. Ciò indica che, assai verosimilmente, il corso del canale cela altri pannelli non ancora identificati. Il ritrovamento dei rilievi di Faida è sorprendente poiché, con la sola eccezione della stele rupestre di Mila Mergi di Tiglath-pileser III, rinvenuta negli anni Quaranta del secolo scorso nelle montagne a nord di Duhok, gli ultimi rilievi rupestri assiri scoperti in Iraq set-

tentrionale furono proprio quelli di Maltai e Khinis, individuati nel 1845 dal console francese a Mosul, Simon Rouet. I rilievi di Faida costituiscono dunque un gruppo di monumenti commemorativi di interesse assolutamente unico, attraverso i quali il sovrano, grazie al favore delle divinità rappresentate nei rilievi, attuò un programma scultoreo volto a celebrare la creazione di un sistema idraulico che donava fertilità e ricchezza al Paese. La prosecuzione degli scavi consentirà di portare alla luce un lungo

tratto di canale, di comprendere cosí la distribuzione dei monumenti celebrativi dell’opera del sovrano e, verosimilmente, di rinvenire altri pannelli scolpiti. È tuttavia urgente e cruciale garantire la protezione di questo eccezionale sito, il restauro dei rilievi e la valorizzazione dell’intero complesso di arte rupestre di Faida, mediante la creazione di un parco archeologico che consenta lo sviluppo di un turismo sostenibile locale e, auspicabilmente in un futuro non troppo lontano, anche internazionale. a r c h e o 47


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MOSTRE • ROMA

L’AFFAIRE

TORLONIA È STATA DEFINITA LA PIÚ IMPORTANTE COLLEZIONE PRIVATA DI SCULTURA ANTICA AL MONDO E, FINO A IERI, È RIMASTA NASCOSTA, INVISIBILE PERFINO AGLI STUDIOSI. OGGI, UNA MOSTRA CHE SI PREANNUNCIA EPOCALE, APRE UNO SPIRAGLIO SU UNA VICENDA CONTROVERSA E AVVENTUROSA: LA TRAVAGLIATA STORIA DEI MARMI TORLONIA, INFATTI, RISPECCHIA UN’ETÀ DI GRANDI PASSIONI ANTIQUARIE E SMISURATE AMBIZIONI DINASTICHE. MA ANCHE DI DRAMMATICHE E IRREVERSIBILI SPOLIAZIONI... di Mimmo Frassineti, con un’intervista a Carlo Gasparri

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La restauratrice Elena Cagnoni al lavoro su una tazza colossale in marmo, decorata da rilievi che raffigurano le fatiche di Ercole.

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l numero 5 di via Corsini, poco dopo l’angolo con via della Lungara, nel rione romano di Trastevere, si apre un cortile con muri rosa antico e una pavimentazione in pietre bianche e grigie. Era, fino a cinquant’anni fa, l’ingresso del Museo Torlonia: 620 fra statue, busti, bassorilievi e sarcofagi che lo storico dell’arte Federico Zeri (1921-1998) definí «La piú importante collezione privata di scultura antica esistente al mondo». Inaugurato nel 1876, fino ai primi del Novecento era stato visitabile su richiesta. Dopo di allora soltanto rarissimi studiosi avevano avuto il permesso di accedervi. Nel 1947, Ranuccio Bianchi Bandinelli, all’epoca direttore delle Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione, per dargli un’occhiata si travestí da netturbino, giocando d’astuzia col custode. E fu verosimilmente a seguito dell’incursione dell’illustre archeologo che l’anno dopo la collezione fu notificata dal ministro della Pubblica Istruzione, Guido Gonella: «La collezione di antichità classiche del principe Torlonia in via della Lungara in Roma e nel Palazzo Torlonia in via della Conciliazione riveste, come complesso, un eccezionale interesse artistico e storico e, come tale, è notificata a tutti gli effetti della legge 1 giugno 1939 n. 1089». Legge nella quale si specifica che le collezioni notificate non possono essere smembrate e sono soggette alla vigilanza del ministro che può procedere all’esproprio in vista della tutela del patrimonio nazionale. Nei primi anni Settanta, mentre nell’edificio si svolgevano ufficialmente lavori di manutenzione, il museo scomparve. Come fosse stato possibile lo racconta Antonio Cederna, sul Corriere della Sera del 24 febbraio 1977: «È successo quel che solo in Italia può accadere: che dopo esser stato per decenni chiuso al pubblico e dopo esser sfuggito a ogni controllo delle autorità, il

museo è stato trasformato in residenza di lusso, e le seicentoventi sculture che lo compongono, come vecchie suppellettili ingombranti, sono state accatastate alla meglio in alcuni locali residui». Col pretesto di una licenza per la riparazione del tetto, il principe Alessandro Torlonia, pronipote dell’omonimo fondatore del museo, ricavò dalle 77 sale 93 miniappartamenti, ammassando le sculture in alcuni magazzini al piano terra. Già nel dicembre 1969 Italia Nostra aveva segnalato gli abusi edilizi posti in atto dai Torlonia, ma solo nel dicembre 1976 la Sovrintendenza Archeologica denunciò alla Procura della Repubblica di Roma lo smantellamento del museo e la rimozione abusiva delle sculture. Il 26 gennaio 1977 il pretore Adalberto Albamonte sequestrò il palazzo e, il 16 febbraio, a seguito della denuncia della Sovrintendenza, anche la collezione, perché in violazione della legge 1089/1939. Ma l’anno dopo intervennero la prescrizione per il reato edilizio e l’amnistia per il reato contro il patrimonio storico artistico. Nella sentenza della Corte di Cassazione si dice tuttavia che quelle opere, trasferite in «locali angusti, insufficienti, pericolosi, stipate e addossate l’una all’altra sono destinate a sicura morte dal punto di vista culturale».

I DIRITTI DELLO STATO Nel 1982 una commissione di archeologi, nominata dal ministro per i beni culturali Vincenzo Scotti, valutò in decine di miliardi il prezzo da pagare per l’acquisizione della raccolta, mentre per Italia Nostra, in base a una proposta di legge di Antonio Cederna (vedi box a p. 52), lo Stato doveva entrarne in possesso senza sborsare una lira, in cambio delle penali dovute dal Torlonia a termini di legge. «Infatti – spiega Cederna (Repubblica, 18 agosto 1991) – la legge 1089 del 1939 dice che il trasgressore è tea r c h e o 51


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Una vita per la tutela Formatosi come archeologo, Antonio Cederna (1921-1996) fu, oltre che giornalista, tra i fondatori di Italia Nostra, associazione in seno alla quale rivestí le cariche di consigliere nazionale e presidente della sezione di Roma (quest’ultima dal 1980 fino alla scomparsa). Dal 1987 al 1992 fu deputato nelle file della Sinistra indipendente e piú volte consigliere comunale a Roma. Anche nel suo ultimo libro, Brandelli d’Italia (1991), affrontò i problemi ai quali aveva dedicato l’intera esistenza, cioè quelli della tutela e della salvaguardia del nostro patrimonio artistico e archeologico. Il nome di Cederna rimane legato soprattutto alle battaglie condotte in favore della creazione del parco archeologico dell’Appia antica.

nuto a corrispondere allo Stato una somma pari al valore della cosa perduta o alla diminuzione di valore della cosa stessa per effetto della trasgressione». Nel 1990 fu formulata, e subito 52 a r c h e o

accantonata, l’ipotesi di esporre le sculture nel Palazzo Giraud, di proprietà dei Torlonia in via della Conciliazione, che già ospitava numerose sculture portatevi dal palazzo di piazza Venezia prima della demolizione. Fallirono anche il progetto del Campidoglio per il trasferimento delle opere nell’ex Mattatoio al Testaccio e quello dei Torlonia per la realizzazione di un museo a Villa Albani – grandioso complesso di loro proprietà sulla via Salaria – unitamente a un parcheggio sotterraneo di 600 posti, che incontrò l’opposizione del sovrintendente capitolino Ruggero Martines. Nel febbraio del 2002 la proposta di legge di Cederna fu ripresa dall’onorevole Titti De Simone e firmata da quarantatré deputati di sinistra e ambientalisti: prevedeva l’acquisizione a titolo gratuito della collezione Torlonia al demanio dello Stato, ma non fu mai posta in votazione.

VOCI E IPOTESI Nell’agosto 2003 corse voce che la collezione Torlonia l’avrebbe comprata Silvio Berlusconi, all’epoca presidente del Consiglio, per donarla agli Italiani, e si parlò di trattative riservate tra Berlusconi e i Torlonia. Nel 2004 il Campidoglio – sindaco Walter Veltroni – individuò in un palazzo di proprietà comunale in via dei Cerchi la sede idonea ad accogliere le sculture, e promosse una trattativa tra i Torlonia e la Fondazione Roma, presieduta da Emmanuele F.M. Emanuele, per l’acquisto delle opere, che non andò a buon fine. Tramontò anche l’ipotesi di una sistemazione in Palazzo Rivaldi, un edificio rinascimentale che si affaccia su via dei Fori Imperiali, formulata dallo stesso Veltroni nel 2007. Una situazione di stallo che si protrae fino al 2015, quando un accordo tra la neocostituita Fondazione Torlonia e il Ministero dei Beni Culturali pone le basi per l’organiz-

zazione di una mostra di un importante gruppo di novantasei sculture, nella prospettiva di una sistemazione definitiva di tutta la collezione. La firma tra la Direzione Generale Archeologia, la Direzione Generale Belle Arti e Paesaggio, la Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma e la Fondazione Torlonia Onlus ha luogo il 15 marzo 2016, presso la sede del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Ha per fine: «La definizione delle attività e l’individuazione delle strutture destinate ad assicurare la fruizione pubblica della collezione Torlonia di sculture e monumenti di arte classica. Quale prima azione significativa, intesa a sancire la collaborazione fra parte pubblica e parte privata indirizzata ad accrescere la sensibilità culturale del pubblico e a incentivarne l’educazione al patrimonio storico e artistico, le Direzioni Archeologia e Belle arti, la Soprintendenza e la Fondazione Torlonia, parti contraenti del presente accordo, hanno individuato l’allestimento di una grande mostra, con la collaborazione del MiBACT, che dia conto sia della storia della Collezione, sia, in senso piú ampio, della storia del collezionismo inteso come riscoperta dell’antico, con un’esposizione incentrata sugli elementi piú significativi della Collezione stessa in rapporto ad altre testimonianze della statuaria antica, come da progetto del Prof. Settis. A tale prima azione positiva le parti contraenti hanno in animo di far seguire un programma organico di valorizzazione della Collezione, incentrato sulla esposizione ragionata di tutta o di nuclei tematici della stessa in una struttura espositiva da individuarsi cong iuntamente, nell’ambito di immobili di proprietà dello Stato o di altri enti territoriali, o di proprietà della Famiglia Torlonia o di terzi, da destinare stabilmente a tale scopo».


Particolare di una statua raffigurante Meleagro. Mitico figlio di Eneo, signore di Calidone, uccise un terribile cinghiale mandato da Artemide, offesa perchĂŠ il padre non aveva sacrificato in suo onore.

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IL SENSO DI GIOVANNI PER GLI AFFARI

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uando arrivò a Roma dall’Alvernia – una regione montuosa della Francia centro-meridionale – si chiamava Marin Tourlonias (1725-1785). Era figlio di contadini e aveva trovato lavoro come cameriere dell’abate Charles-Alexandre de Montgon (1690-1770), diplomatico preposto, durante il regno di Luigi XV, a delicati incarichi intrapresi, come racconta nelle sue Memorie, in Francia,

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Spagna e Inghilterra. Marin aveva la fiducia dell’abate, che lo condusse con sé a Roma durante una delle sue missioni. Qui entrò al servizio del cardinale Troiano Acquaviva d’Aragona (1696-1747), verosimilmente raccomandato dallo stesso Montgon, il quale partí per un’altra destinazione. Acquaviva – anch’egli diplomatico, ambasciatore di Spagna presso la Santa Sede, e dedicatario della Scienza Nuova di Giam-

battista Vico – designò Marin suo cameriere particolare e gli lasciò una rendita, in segno di riconoscenza per la sua devozione. Si può immaginare che l’intimità con personaggi cosí rilevanti sia stata, per il giovane, un’esperienza preziosa. Con il lascito del cardinale aprí, presso Trinità dei Monti, un negozio di stoffe, che importava dalla Francia. Nel 1753, a ventotto anni, sposò Mariangela Lenci, italianizzando il suo nome in Marino Torlonia. Al commercio dei tessuti aveva affiancato un’attività di prestiti, che crebbe fino a diventare una banca vera e propria, che chiamò Banca Marino Torlonia. Aveva sede, con l’emporio di stoffe e l’abitazione


della famiglia, a Palazzo Raggi, in via del Corso. Il 21 marzo 1785 Marino Torlonia morí da uomo ricco e rispettato, per essere sepolto nella chiesa di S. Luigi dei Francesi. Giovanni Raimondo Torlonia, (1754-1829) secondogenito di Marino e di Mariangela, ereditò dal padre, con la banca e il negozio, anche l’istinto per gli affari. Il negozio lo cede, per dedicarsi esclusivamente all’attività di banchiere. Ottenne remunerativi appalti pontifici e giunse a possedere, nel 1786, un capitale di 46 000 scudi. Aveva trentanove anni quando, nel 1793, sposò Anna Schultheiss, vedova del banchiere Giuseppe Chiaveri, anche lei versata negli affari. Nel frattempo, per il papa e per le grandi famiglie della nobiltà legata al sacro soglio erano tempi confusi e duri. La rivoluzione francese, l’occupazione napoleonica, le vicende della Roma repubblicana, i moti che agitavano il Paese portarono la nobiltà e il papato a una crisi profonda. Il 12 giugno 1796 i Francesi del generale Augereau invasero lo Stato Pontificio. L’anno dopo, con il trattato di Tolentino, Bologna, Ferrara e la Romagna furono annesse alla Repubblica Cisalpina. Le truppe napoleoniche occuparono Roma e la saccheggiarono, commettendo ogni sorta di violenze.

ANNI TURBOLENTI Nel febbraio 1798 i Francesi proclamarono la Repubblica Romana e imprigionarono Pio VI, che morí in Francia il 29 agosto 1799. Un mese dopo, l’esercito borbonico abbatté la Repubblica Romana e il generale napoletano Diego Naselli riconsegnò Roma al nuovo papa Pio VII. Proclamatosi re d’Italia il 17 marzo 1805, Napoleone annetté le legazioni di Bologna, Ferrara e della Romagna e le province di Urbino,

Macerata, Fermo e Spoleto. Il 2 febbraio 1809 i Francesi entrarono nuovamente a Roma, Napoleone decretò la fine del potere temporale e, il 6 luglio, arrestò Pio VII, che rimase deportato in Francia fino alla sconfitta di Bonaparte a Lipsia, il 24 gennaio 1814, quando i territori occupati dai Francesi vennero restituiti alla Santa Sede. Nella pagina accanto: Canova mostra a Giovanni e Anna Maria Torlonia il bozzetto per l’Ercole e Lica, olio su tela attribuito ad Antonio Canova. 1811. Roma, Museo di Roma, Palazzo Braschi. In basso: la Fanciulla da Vulci, busto femminile in marmo lunense.

Tra i mutamenti politici che fecero seguito a quegli eventi, Giovanni si mosse con disinvoltura, ponendo la sua banca al servizio dei papi come dei Francesi. Acquistò terreni, ville, palazzi della nobiltà in sofferenza. Offrí ai nobili prestiti garantiti dai loro possedimenti, con ovvie conseguenze quando non onorati. Nel 1797 comprò dal marchese Massimo, sulla via Appia, la tenuta di Romavecchia, che includeva la via Latina e la Villa dei Quintili. Da Pio VI, grato per una donazione che gli aveva consentito di far fronte all’esoso trattato di Tolentino, con cui Napoleone aveva imposto il versamento di una cifra enorme, ottenne il titolo di marchese di Romavecchia. Lo stesso anno acquistò dai Colonna una villa sulla via Nomentana, col progetto di trasformarla in una sfarzosa residenza fuori porta, affidandone la ristrutturazione a Giuseppe Valadier e Antonio Canova. Nel 1803 comprò dalla famiglia Odescalchi il feudo di Bracciano, con il relativo titolo di duca. Nel 1807 acquistò Palazzo Bolognetti in piazza Venezia, per farne il palazzo di famiglia. Prestò denaro al re di Sardegna Carlo Emanuele IV, a Carlo IV di Borbone, a Luciano e Girolamo Bonaparte, fratelli dell’imperatore, nonché alla madre dell’imperatore, Maria Letizia. Sotto Pio VII, divenne principe di Civitella Cesi e duca di Poli e Guadagnolo, acquistando i feudi omonimi dai Pallavicini e dai Cesarini Sforza. Le grandi casate romane vantavano origini antiche: il XV secolo per i Doria Pamphili, il XIII per i Borghese, l’XI per i Boncompagni Ludovisi, il IX per i Ruspoli, il VI per gli Orsini. I Colonna si reputavano addirittura discendenti dalla Gens Iulia, come dire da Enea e Giulio Cesare. Ma cinquant’anni bastarono ai a r c h e o 55


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Torlonia per trasformarsi da modesti bottegai in aristocratici dalle disponibilità quasi illimitate. Da princeps romanus, Giovanni si procurò i simboli del nuovo status acquistando i beni dei Borghese, dei Pamphili, dei Cenci, dei Massimo, dei Ludovisi. Per tutto il secolo il papato, a parte la ricostruzione della basilica di S. Paolo dopo l’incendio del 1823, non si impegnò in imprese significative. A Roma la committenza scarseggiava: le disponibilità economiche per promuovere grandi cicli decorativi, come era successo nel Cinquecento, nel Seicento e nel Settecento, non esistevano piú.

COLLEZIONISTA E MECENATE Ma i Torlonia fanno eccezione. Giovanni restaurò chiese, ristrutturò teatri, fondò e sostenne istituti di beneficenza, finanziò l’Accademia di San Luca. Acquistò Palazzo Giraud in piazza Scossacavalli (oggi via

della Conciliazione). E passarono nelle sue mani anche le grandi collezioni d’arte. Come quella di Bartolomeo Cavaceppi, all’epoca celebre scultore e restauratore, lasciata in eredità all’Accademia di San Luca affinché fosse utilizzata per l’istruzione degli allievi. L’Accademia la mise invece all’asta: mille tra sculture antiche, busti e rilievi – tra cui figuravano resti di grandi collezioni romane del Cinque e Seicento, come quelle del cardinale Rodolfo Pio da Carpi, dei Caetani, dei Cesarini – un centinaio di sculture moderne, una quantità di quadri, bozzetti, calchi, disegni, arredi. All’asta si presentò un unico compratore, Giovanni Torlonia, che si aggiudicò l’immenso patrimonio a un prezzo stracciato. La collezione Giustiniani, una raccolta di 269 sculture – tra le quali la celebre Hestia, unica replica di un perduto bronzo greco del V secolo a.C. e una serie di busti imperiali e di ritratti – messa insieme

nei primi decenni del Seicento dal marchese Vincenzo, venne ceduta nel 1809 a Giovanni Torlonia a garanzia di un prestito di 36 000 scudi. Molte di quelle opere erano state restaurate da scultori famosi, come Gian Lorenzo Bernini e Alessandro Algardi. Il prestito non fu onorato e la collezione rimase a Torlonia. Il quale, però, non si accontentò e intraprese campagne di scavo nelle sue proprietà: sull’Appia, tra rovine della villa dei Quintili e della villa di Massenzio, sulla via Latina, nella valle della Caffarella, al Quadraro, ad Anzio.

«IL BANCHIERE DI TUTTI GLI INGLESI» Nel palazzo di città a piazza Venezia, che ospitava al piano terreno anche la sede della banca, si davano a Roma le feste piú brillanti e sontuose. A descriverle, e a consegnarci un pungente ritratto del padrone di casa, è un cronista d’eccezione: Stendhal (1783-1842), che, nelle sue A sinistra: il Palazzo Giraud in piazza Scossacavalli (oggi via della Conciliazione), acquistato da Giovanni Torlonia e trasformato in una delle residenze di famiglia. Nella pagina accanto: incisione di Giovanni Battista Falda raffigurante il Teatro delle Acque di Villa Torlonia a Frascati (realizzato nel Seicento, quando la villa era proprietà dei Ludovisi).

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Promenades dans Rome (1829), illustra la città, nella quale ha soggiornato piú volte, in una sorta di guida destinata ai visitatori stranieri. Il 15 novembre 1827 Stendhal partecipa a un ricevimento a Palazzo Torlonia: «Di fronte (a palazzo Venezia, n.d.r.) c’è il palazzo di Torlonia, duca di Bracciano, dove stasera siamo andati a un ballo. Da condizioni molto umili Torlonia ha saputo elevarsi, con la sua abilità, fino a una condizione di grandissimo prestigio (…) Se notate in mezzo ai gruppi, formati dalle piú belle donne d’Inghilterra e di Roma, un vecchietto dallo sguardo mobilissimo, con un gilet bianco, un po’ lungo, è il padrone di casa (…) C’è una specie d’ingenuità nel suo sconfinato rispetto per il denaro (…) Torlonia è il banchiere di tutti gli Inglesi che vengono a Roma, e ricava immensi profitti cambiando in scudi romani le loro sterline. Ogni inverno circola qualche nuova storiella in cui figurano da una parte la tirchieria del banchiere, sempre freddo e tran-

quillo, e dall’altra la furiosa collera di qualche ricco inglese, che si lamenta del cambio. In compenso,Torlonia offre balli splendidi (…) Sui quattro lati del cortile del palazzo Torlonia è una stupenda galleria, che comunica con alcuni vasti saloni da ballo, decorati dai migliori pittori viventi, Palagi, Camuccini, Landi. Un salone è stato costruito apposta per potervi collocare il celebre gruppo del Canova, il colossale Ercole furente che lancia Lica in Mare, illuminato in modo pittoresco da fasci di luce, da punti diversi, indicati dallo stesso Canova».

LE PIÚ BELLE FESTE D’EUROPA «Le feste di Torlonia sono piú belle e meglio organizzate di quelle della maggior parte dei sovrani europei (…) Il duca racconta con quale furberia è riuscito ad ottenere dai commercianti di specchi di Parigi una riduzione del cinque per cento. Si vestí peggio del solito e prese un’aria miserabile. Si presentò ai commercianti di Parigi dicendo

che quel banchiere italiano, quel taccagno, il famoso Torlonia, aveva incaricato lui, povero vetraio di Roma, di comprare specchi a Londra o a Parigi. “E cosí – continua il milionario trionfante – riuscii a strappare una riduzione del cinque per cento sull’ultimo prezzo che avrei potuto ottenere presentandomi col mio vero nome”. Cosí dicendo i suoi occhi brillano di gioia (…) Piú tardi, verso l’una, il duca di Bracciano parlava dei suoi figli. “Quello lí – diceva (e indicava il primogenito, credo) – è uno stupido; gli piacciono i quadri, le arti, le statue: gli lascerò tre milioni di ducati. L’altro è tutto diverso; è un uomo, e conosce il valore del denaro; perciò gli lascerò la mia banca, che egli ingrandirà, e un giorno lo vedrete piú ricco di tutti i principi romani messi insieme; se poi arriverà ad avere la prudenza di suo padre, farà papa suo figlio”» (Stendhal, Passeggiate romane, traduzione di Massimo Colesanti, Garzanti 2004) Nel racconto di Stendhal il banchiere stava lodando le doti del quartogenito Alessandro che, nelle

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sue aspettative, avrebbe dovuto regalargli un nipote addirittura papa, ma questo non sarebbe accaduto. Giovanni morí il 25 febbraio 1829 e lascià ad Alessandro il titolo di principe, trentacinque milioni di scudi in contanti e la gran parte delle proprietà immobiliari e fondiarie. Alessandro rinnovò per intero la decorazione del palazzo a piazza Venezia, dove ne58 a r c h e o

gli affreschi di Francesco Coghetti e Francesco Podesti il protagonista non è piú Ercole, ma Alessandro Magno. Anche nel Casino nobile di Villa Torlonia la Sala ovale è dedicata al Macedone, il cui profilo ricorda quello del padrone di casa. Nel 1840 Alessandro sposa Teresa Colonna: lei aveva diciassette anni, lui quaranta. Mentre a Roma la committenza

artistica languiva, a Villa Torlonia, tra il 1835 e il 1845, Alessandro instaurò il piú grosso cantiere del secolo, comparabile, nella Roma dell’Ottocento, soltanto a quello per la ricostruzione della basilica di S. Paolo, distrutta da un incendio nel 1829. Affidò agli architetti Giuseppe Jappelli e Quintiliano Raimondi l’ampliamento dell’edificio centrale (quello che, cento anni dopo, sareb-


In alto: la Villa Albani, sulla via Salaria, in una incisione di Giovanni Battista Piranesi. 1769. A sinistra: Veduta di Villa Albani, a Roma, olio su tela di Philipp Hackert. 1799. Dessau, Anhaltische Gemäldegalerie.

be diventato la residenza del duce) e la costruzione di splendidi e stravaganti edifici nel parco.

UN’ECCENTRICITÀ ESTREMA A Iappelli commissionò la Capanna Svizzera – futura Casina delle Civette –, un’invenzione nordica, alpestre, con tetti spioventi e rocce dipinte nelle sale, e la Serra Moresca

– un padiglione illuminato da vetrate policrome legate da arabeschi in ferro, una fantasia esotica – ispirata all’Alhambra di Granada, dalla quale si accedeva a una torre di forma bizzarra, con una sala da pranzo dove il tavolo sprofondava nel pavimento per riemergerne imbandito, grazie a un dispositivo elicoidale, dalla cucina sita piú in basso. Un’eccentricità estrema, volta a stupire, nel quadro di mondanità che Alessandro aveva in animo. Anche il Teatro è un edificio assai originale, concepito soprattutto per ospitare grandiosi ricevimenti. Alessandro lo commissionò all’architetto Quintiliano Raimondi, per celebrare la sua unione con Teresa Colonna. La facciata a esedra si tramuta, sui due lati, in giardino d’inverno, ornato di statue della scuola di Thorvaldsen. Per raggiungere la platea si attraversavano sale fastosamente decorate: grottesche, girali d’acanto, trionfi di divinità femminili. Le pitture, in stile purista, un movimento artistico che si rifaceva a Raffaello, sono di Costantino Brumidi (1805-1880), artista poco noto in Italia ma cele-

bre negli Stati Uniti, dove emigrò nel 1852 per lavorare agli affreschi del Campidoglio di Washington, meritandosi l’appellativo di Michelangelo d’America. Il palcoscenico poteva trasformarsi in salone da ballo, unendo due appartamenti laterali, simmetrici, dove la decorazione sviluppa il tema del maschile e del femminile con le statue di coppie celebri, mitiche o reali: Dante e Beatrice, Petrarca e Laura, Ariosto e Alessandra,Tasso ed Eleonora, Diana ed Endimione, Giove e Semele, Ercole e Deianira, Venere e Marte. Il tema della celebrazione dell’unione amorosa ricorre ovunque, e vi alludono pure gli stemmi, affiancati a formarne uno solo, di Torlonia e Colonna. Fra le innumerevoli scene dipinte, le statue, i bassorilievi, i personaggi storici o mitologici effigiati e le simbologie riferibili agli ambiti piú diversi non ci sono richiami al cristianesimo. Si è ipotizzato che Alessandro fosse affiliato alla massoneria: ne sarebbe un indizio anche il fatto che Jappelli era un noto massone. Durante lavori di restauro è stato scoperto nel parco un vasto ama r c h e o 59


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biente ipogeo, del quale non vi è traccia negli archivi della famiglia, affrescato a simulare una tomba etrusca. Vi si accedeva tramite una botola, ed è plausibile che ospitasse riunioni segrete. Al gusto per il misterioso – ci sono anche un tunnel di un centinaio di metri che unisce il Casino Nobile al Villino dei Principi e alcune finte grotte – Alessandro affiancava progetti di spettacoli e ricevimenti nel Teatro e nella Serra Moresca. Grandiose feste nel parco, come quelle che il 4 giugno e il 26 luglio 1841, occasionate dall’erezione dei due obelischi dedicati da Alessandro alla memoria dei genitori, videro la presenza di Gregorio XVI e di tutta la nobiltà, ma anche del popolo, ammesso purché vestito con decenza, come racconta Claudio Rendina in Storie della città di Roma, e si conclusero in bevute colossali. Disegni di grande mondanità che presto andarono in fumo: gravi disturbi psichici colpirono Teresa, e Alessandro abbandonò propositi di feste e di spettacoli e sospese la costruzione del Teatro.

LA VILLA SULLA SALARIA Nel 1866 Alessandro acquistò per 700 000 scudi la villa sulla Salaria costruita nella seconda metà del XVIII secolo dal cardinale Alessandro Albani. La villa ospitava un’importante collezione di sculture, provenienti da scavi o acquistate da collezioni piú antiche, come quelle del cardinale Ferdinando de’ Medici, del cardinale Ippolito d’Este, della famiglia Farnese, di Cristina di Svezia. Pur depauperata da un sequestro operato nel 1798 dal governo francese (vedi l’intervista a Carlo Gasparri alle pp. 62-69), la collezione contava pur sempre opere di grande valore. Alessandro e Teresa ebbero solamente due figlie, Anna Maria (1855-1901) e Giovanna Giacinta Carolina (1856-1875). Poiché mancava l’agognato erede maschio, fu 60 a r c h e o

proposto a Giulio Borghese, uno dei dieci figli di Marcantonio Quinto Borghese e cadetto di ridotte speranze, di sposare Anna Maria e mutare il suo nome in Torlonia, con la dispensa di Pio IX. Il matrimonio si celebra nel 1872 e, per l’occasione, venne ultimato il Teatro. Nel 1875, per la bonifica della piana del Fucino (che divenne una sua proprietà) ad Alessandro fu conferito il titolo di principe del Fucino ma, in quello stesso anno, morirono la moglie Teresa e la figlia diciannovenne, Giovanna Giacinta Carolina. Quest’ultima era ricoverata, a causa di una malattia la cui natura non fu resa nota, nel Conservatorio Torlonia, un imponente istituto alle falde del Gianicolo (oggi trasformato in albergo), destinato all’accoglienza di fanciulle povere, lei che veniva dalla famiglia piú ricca di Roma. Il 1876 è l’anno dell’apertura del museo a via della Lungara. Ospitava

517 sculture, che raggiunsero il numero di 620 nel 1885, quando fu pubblicato il catalogo di Carlo Lodovico Visconti, nel quale sono tutte illustrate con fotografie. Le sale del nuovo museo accoglievano le sculture già appartenute alle grandi raccolte gentilizie romane: Giustiniani, Albani, Cesarini, Caetani, Ruspoli, Savelli, Barberini. Poi vi erano quelle che provenivano dagli scavi intrapresi nelle varie proprietà della famiglia, come la tenuta di Romavecchia, le Terme di Caracalla, le ville Imperiali di Anzio e di Tivoli e altre ancora.

In basso: il Casino nobile, l’edificio principale di Villa Torlonia, sulla via Nomentana, che Giovanni Torlonia acquistò nel 1797.

Nella pagina accanto: Breccia di Porta Pia (1870): accampamento militare all’interno dei giardini di Villa Torlonia.

FUOCO DI PAGLIA Alessandro morí nel 1880. Annamaria, carattere riservato e molto religiosa, ricoprí con carta da parati il bagno del Palazzo, affrescato con scene degli amori degli dèi, per trasformarlo in cappella. Giovanni (1873-1938), figlio di Giulio


e di Annamaria, aprí per la prima e unica volta il Teatro, nel 1906, a cinquecento invitati, per uno spettacolo, accompagnato da ricchi buffet. Ma questa rinnovata stagione mondana fu un fuoco di paglia: presto anche Giovanni, che intanto aveva avviato la costruzione della Casina delle Civette, si rivelò incline alla solitudine. Non si sposò e non ebbe figli, per isolarsi nella stravagante costruzione, ornata di meravigliose vetrate.

Dal 1925 la villa – salvo la Casina delle Civette – fu affittata a Mussolini per 1 lira l’anno. Anche il Teatro era nella disponibilità del duce, che lo utilizzava, come risulta da testimonianze del personale di allora, per la proiezione dei film di Walt Disney e di Charlot, dei quali era – segretamente – appassionato. Giunti a Roma il 4 giugno del 1944, gli Alleati insediarono a Villa Torlonia il loro Stato maggiore. Prima di andarsene, nel 1947, causaro-

no danni ingenti alle strutture e alle decorazioni di tutti gli edifici, in particolare del Palazzo e del Teatro. Anche un bosco di camelie fu distrutto per fare largo ai camion. Quando l’intero complesso fu acquisito dal Comune di Roma nel 1977 era in stato di pesante degrado, che si aggravò ulteriormente a causa del ritardo con cui fu istituito un servizio di vigilanza. Oggi, invece, è interamente restaurato e in gran parte visitabile. a r c h e o 61


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QUANTE SORPRESE SOTTO LA POLVERE... Intervista a Carlo Gasparri Accademico dei Lincei, professore emerito dell’Università di Napoli Federico II (già professore ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana), Carlo Gasparri è uno dei massimi

conoscitori della Collezione Torlonia. Lo abbiamo incontrato per avere da lui una testimonianza sulla storia di questo eccezionale patrimonio e sulle possibili modalità di una sua futura fruizione.

◆ Professor Gasparri, lei conosce

solo per la concentrazione di 620 sculture in tre stanze, ma anche perché leggevo nel catalogo di Carlo Ludovico Visconti – l’ultima edizione, quella del 1884-85 – di statue rinvenute a Villa Adriana, a Porto, sull’Appia, a Romavecchia, insomma provenienti per il novanta per cento da scavi della famiglia Torlonia, che mostravano restauri del Settecento, del Seicento, del Cinquecento, quindi qualcosa non tornava. In capo ai tre giorni, verificata la presenza delle 620 sculture soggette a vincolo, i magazzini furono sigillati».

la collezione Torlonia da lunga data, non è vero? «Dal 1976, anche per una circostanza singolare, quando il principe Alessandro fu incriminato per avere modificato abusivamente la struttura dell’edificio a via della Lungara, realizzando novantadue miniappartamenti e smantellando il museo, concentrando le opere in alcuni magazzini. Il museo fu posto sotto sequestro. Io fui chiamato da un magistrato per verificare il contenuto dei magazzini prima di sigillarli. Quindi ho passato tre giorni in mezzo a queste sculture, che nessuno aveva piú visto da settant’anni».

◆ Ma il museo era stato aperto

fino a quel momento... «No. Questo museo fu pensato per testimoniare l’attività di scavo della famiglia. E i primi cataloghi sono stati pubblicati anche in inglese e francese. Non un museo aperto tutti i giorni, ma visitabile su richiesta, fino ai primi anni del Novecento. Poi fu chiuso, in attesa che si definisse una vicenda ereditaria tra i vari rami della famiglia e, dall’inizio del XX secolo in poi, solo pochissimi archeologi tedeschi hanno ottenuto il permesso di studiare qualche ritratto. L’Istituto Germanico conserva fotografie risalenti agli anni Trenta che rappresentano pochi pezzi. Poi basta. Per me fu uno choc visivo e scientifico, non

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◆ Il catalogo di Carlo Ludovico

Visconti è poco attendibile? «È stato redatto alla fine dell’Ottocento e rispecchia le consapevolezze di allora. È un catalogo d’impostazione antiquaria, con la spiegazione dei miti. Recepisce alcune delle scoperte della ricerca scientifica, soprattutto tedesca, che già da tempo era impegnata a sistematizzare la scultura di epoca romana, incasellandola in quel discorso che noi oggi riteniamo ovvio, cioè di dipendenza dagli originali greci. Rispecchia anche una pratica di restauro volta a riportare le sculture all’aspetto originario, appreso dagli studi tedeschi, attingendo all’ampia disponibilità a Roma di frammenti di marmo, per fare le integrazioni. Quindi abbiamo sculture che sono puzzle, con un pezzo antico di partenza, l’aggiunta di frammenti antichi e poi di frammenti moderni. Ma tutto questo non doveva apparire,

Un gruppo di sculture della collezione Torlonia dopo il restauro. In primo piano, le statue di guerriero inginocchiato e di Afrodite, replica della Venere Medici.


celato da una patinatura uniforme. Mentre oggi, con i criteri di restauro attuali, se la pulitura dell’opera evidenzia delle integrazioni, attenuiamo le differenze ma senza nasconderle, affinché ci sia, a una certa distanza, la percezione complessiva dell’opera, ma avvicinandosi si vedano le aggiunte».

◆ Attraverso i marmi Torlonia, la

mostra (per la cui effettiva apertura, compromessa dall’avvento dell’epidemia da COVID-19, si prega di consultare il sito www.torloniamarbles.it, n.d.r.) racconta la storia del collezionismo. Quando e dove nasce il collezionismo?

«In un luogo come Roma fatalmente doveva accadere. La vita dei Romani non è mai stata disgiunta da un rapporto fisico con i resti del mondo antico. In una prima fase si recuperano per riutilizzarli: colonne e capitelli nelle chiese, sarcofagi nelle tombe. Già nel tardo impero si

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MOSTRE • ROMA

pratica il riuso. L’Arco di Costantino reimpiega pezzi piú antichi. In seguito questi pezzi diventano testimonianze dell’antichità della famiglia, del casato, quindi il palazzo aristocratico si riempie di sculture, anche fuori del portone. Poi il collezionismo diventa un sistema, con implicazioni commerciali. Con restauratori, esportatori…».

◆ Le cosiddette cave erano

autorizzate dal papa? Per scavare occorreva il permesso della Camera Apostolica? «Nella migliore delle ipotesi sí, se non erano scavi clandestini».

◆ Se autorizzati, qual era la

procedura? «C’era chi chiedeva il permesso per ricavare travertini, materiali da costruzione. Naturalmente nello scavo si trovavano anche teste, torsi, ecc., che dovevano essere dichiarati. Interveniva una commissione, che poteva decidere per l’acquisto o, se l’oggetto non era considerato rilevante, di lasciarlo al proprietario, che era libero di farne commercio. Oppure s’intraprendevano scavi proprio con la finalità di recuperare pezzi di pregio. Nel Settecento si erano costituite società a tale scopo. La Commissione Camerale o i commissari pontifici potevano intervenire, per acquistare i pezzi piú significativi».

◆ Avete definito la collezione

Torlonia una collezione di collezioni... «È un termine scelto per chiarire immediatamente il senso

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dell’esposizione. Con 620 sculture potevamo inventare tanti percorsi diversi. Però abbiamo pensato che in questa fase, poiché è la prima volta che 92 sculture escono dall’ombra, fosse preferibile un criterio storico, e quindi spiegare come il museo è nato, cioè acquisendo una serie di nuclei collezionistici precedenti: non il collezionista che compra il singolo pezzo, ma l’acquisto in blocco di collezioni intere. Non dimentichiamo Busto maschile in marmo greco identificato con un ritratto di Eutidemo di Magnesia, re della Battriana (224 circa-184 a.C.).

che la famiglia Torlonia possiede anche, a via della Conciliazione, un palazzo con altre 150 sculture, e che Villa Torlonia era piena di sculture, come poi Villa Albani».

◆ Giovanni e Alessandro sono due

personaggi molto diversi... «Giovanni è chiaramente il fondatore della fortuna della famiglia, prevale in lui l’interesse economico. Giovanni compra anche una sterminata quantità di quadri, che poi la famiglia, all’inizio del secolo, ha donato allo Stato italiano, e che costituiscono la base della Galleria Nazionale di Palazzo Barberini. Montagne di sculture, montagne di quadri, l’Ercole e Lica del Canova, la commissione di sculture moderne per il palazzo… tutto ciò nasce da un desiderio di affermazione sociale, di costruzione del prestigio della famiglia. Il palazzo di piazza Venezia è acquistato nel 1809, e nel 1815 doveva essere già allestito. Cosí come il gruppo di Ercole e Lica, tutta la decorazione di Palazzo Venezia, nella prima fase, è impostata sul personaggio di Ercole. Il figlio di Giovanni, Alessandro, che ha un’educazione internazionale, studia a Parigi e a Londra, parla le lingue, sceglie invece la figura di Alessandro Magno, immagino non soltanto per il nome. Nel 1840, quando sposa Teresa Colonna, cancella tutto, sia a Villa Torlonia, sia nel palazzo, e fa rifare tutto daccapo intorno alla figura di Alessandro: Alessandro conquistatore, certo, ma anche Alessandro propagatore della civiltà greca. Poi inserisce altri temi, per esempio le gallerie degli uomini illustri, un costume che risale al Cinquecento, si costruisce


un pantheon di immagini intellettuali. Al gusto classicistico, ormai abbastanza estenuato, della decorazione di alcuni ambienti, affianca sale gotiche, egiziane, medievali».

◆ Si è ipotizzato che fosse massone.

Un indizio sarebbe che non ci sono riferimenti alla religione cristiana nella decorazione del teatro di Villa Torlonia... «Però la famiglia Torlonia è sempre stata di una religiosità assoluta. Hanno restaurato chiese – S. Pantaleo, Ss. Apostoli – sostenuto conventi. Il legame con la Chiesa è stato strettissimo fino al principe Alessandro, scomparso nel 2017».

◆ Che cosa accade quando una

collezione diventa un museo? «Non è piú una raccolta privata, con lo scopo di esprimere la dimensione storica o economica della famiglia o costituire un oggetto di arredamento, ma uno strumento organizzato secondo dei criteri scientifici, capace di comunicare contenuti a un pubblico. Alessandro, di fronte alla quantità immensa di materiali che non ha piú la possibilità di utilizzare per l’arredamento delle residenze private, decide di creare un museo, ma in lui è palese l’intenzione didattica».

◆ Un museo, per

definizione, è destinato a durare. Alessandro lo apre nel 1876. L’anno prima erano morte la moglie Teresa e la figlia diciannovenne Giovanna Giacinta Carolina. Può esserci una relazione tra la scomparsa delle persone piú care e il dedicarsi a un progetto durevole? «Questo può essere senz’altro.

Certamente c’è un cambiamento di rotta nella sua vita. Si propone grandi progetti: il museo, il prosciugamento del Fucino, la conduzione moderna delle proprietà terriere, l’organizzazione del lavoro, la costruzione di case per i coloni. Sperimenta nuove idee, anche stravaganti, come quella di usare i dromedari per coltivare la campagna romana, forse a seguito di un viaggio, o di qualche lettura. La storia della

famiglia Torlonia è complessa. A un certo punto non hanno piú discendenti maschi. Principe diventa Giulio Borghese che, sposandosi con Anna Maria, l’altra figlia di Alessandro e di Teresa, prende il nome Torlonia. Giulio investe molto nella tenuta di Porto, nell’Isola Sacra. Costruisce case per i coloni, fa opere di bonifica».

Il Vecchio da Otricoli, busto composto da una testa in marmo lunense di epoca antica innestata su un busto moderno.

dispersione un patrimonio d’arte, diversamente da quanto era accaduto per altre grandi collezioni, quella di Pietro Campana, o quella requisita dal governo francese a Villa Albani, o quella che Camillo Borghese fu indotto o forse costretto a vendere a Napoleone... «Non dimentichiamo che Roma aveva già subito due ferite mortali con l’esportazione della collezione Farnese a Napoli e della collezione Medici a Firenze. Uscite legalmente, perché i Lorena e i Borbone avevano ottenuto dal papa i permessi per l’esportazione. Ancora prima, nel 1616, era stata portata via da Roma la Venere Medici, di notte, si disse per evitare sollevazioni del popolo romano. Il Museo Campana andò disperso per una disgraziata vicenda giudiziaria. Quanto a Camillo Borghese, non so se Napoleone effettivamente lo costrinse a vendere. Su Villa Albani il sequestro francese fu inizialmente pesantissimo. La smontarono da cima a fondo. Però

◆ I Torlonia salvano dalla

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MOSTRE • ROMA

la Francia non riuscí a portare via le 500 sculture. Ci fu un complicato balletto di casse, centinaia di casse con dentro le sculture Albani, tra Napoli e il Porto di Ripetta. Alla fine gli Albani riuscirono a riavere indietro una notevolissima parte di quanto era stato sottratto, siamo negli anni finali del Settecento, mentre solo 180 o 190 pezzi raggiungono effettivamente Parigi. E quando, nel 1815, si procedette alla restituzione ai Paesi europei delle opere d’arte requisite da Napoleone, Antonio Canova si recò a Parigi per trattare la restituzione delle sculture del Museo Capitolino, del Vaticano e anche della Collezione Albani. Purtroppo, però, partí senza avere l’elenco delle 190 sculture». ◆ Vi fu superficialità da parte di Canova? «Da parte degli Albani. Confrontando il catalogo del 1785

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con quello del 1803, bastava vedere cosa mancava. Canova ottenne la restituzione ufficiale di una settantina di sculture. Ma il principe Castelbarco, il quale aveva sposato Antonia Litta Albani che aveva portato in dote la villa, non era in grado di pagare il trasporto delle sculture da Parigi a Roma, e le mise in vendita all’asta. L’acquisto della villa sulla Nomentana è un ulteriore merito dei Torlonia, perché hanno impedito che l’ultima grande villa del Settecento a Roma fosse distrutta dalla speculazione edilizia. Abbiamo perso Villa Ludovisi, Villa Patrizi, Villa Massimo, Villa Giustiniani alla Porta del Popolo, Villa Altieri… Dopo il 1870 è successo il disastro. Abbiamo perso le aree verdi e tutto ciò che contenevano. Della Collezione Ludovisi lo Stato ha comprato il nucleo principale, tutto il resto è andato disperso, la collezione di Villa Patrizi è scomparsa».

◆ Dispersione che in Italia dura

ancora. Adesso per fortuna abbiamo i Carabinieri. All’epoca c’era anche una dispersione piú spicciola, con antiquari, spedizionieri, tombaroli... «Era una delle industrie su cui si basava la vita economica di Roma. Il turismo dell’epoca innescava gli scavi e l’esportazione, anche clandestina. Gli Inglesi volevano tornare a casa con qualche souvenir. Un mercato difficile da controllare».

◆ L o Stato italiano non è riuscito,

se non con ritardo, ad arginare questa fuoriuscita delle opere d’arte... «Il problema degli scavatori clandestini è un disastro, come si faccia a fermarli non lo so. Ci vorrebbe un esercito. E, quando un vaso è partito, il recupero è difficilissimo. È riuscito per casi clamorosi, come i vasi di Eufronio, ma non è una cosa


Nella pagina accanto: rilievo con scena di porto, dagli scavi nell’area del palazzo imperiale di Portus (Fiumicino, Roma). A destra: l’Hestia Giustiniani, unica replica di un perduto bronzo greco del V sec. a.C., entrata a far parte della collezione Torlonia nel 1816, dopo l’acquisto delle ultime sculture della Galleria del marchese Vincenzo Giustiniani.

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MOSTRE • ROMA

semplice. Per le sculture in marmo parecchio si è riuscito a fare, e molte sono tornate». ◆ Ci sarà un museo dedicato stabilmente ai marmi Torlonia? «Dobbiamo questa operazione a Gino Famiglietti, direttore generale di Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, che stabilí un contatto con la famiglia Torlonia, gettando le basi di un primo progetto di valorizzazione, allo scopo di far vedere a un pubblico ampio che esiste questo museo, una collezione di 620 sculture in attesa d’essere sistemata. Il passo successivo, che tutti auspichiamo, è che ci sia un accordo tra lo Stato e la Fondazione Torlonia per il restauro e l’esposizione

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completa. È un progetto che prevede costi molto elevati per il restauro delle sculture!».

◆ Che però dovrebbe essere a

carico dei Torlonia. Che in questo caso hanno avuto il supporto di Bulgari... «Penso che si potrebbero anche studiare forme di collaborazione con l’Istituto del Restauro, però trattandosi di un bene privato, il proprietario preferisce conservare la proprietà integra del bene».

◆ Quindi è giusto che spetti a lui restaurarle?

«Sí. I Torlonia stanno già portando avanti campagne di restauro molto importanti sulle sculture di Villa Albani, quindi hanno già su quel fronte un onere notevole. Poiché Villa Albani è visitabile e le


sculture stanno all’aperto, è chiaro che hanno la priorità rispetto a quelle in magazzino. Occorre anche trovare una sede che accolga le 620 sculture. Per questa mostra non si sono potute utilizzare le Scuderie del Quirinale, perché le sculture pesano troppo. Tra le ipotesi, ma occorrono delle verifiche, figura l’ex Istituto Archeologico Germanico sul Campidoglio, un edificio alle spalle di Villa Caffarelli. Dovrebbero essere trasferiti gli uffici del Comune, che è una prima difficoltà quasi insormontabile, e non so se sarebbe grande abbastanza. Come cornice architettonica sarebbe perfetto perché costruito negli stessi anni del museo».

◆ Ci sono pezzi unici in questa

collezione? «Sí, l’elenco è abbastanza lungo. Ci sono la Fanciulla Torlonia, che è un capolavoro, il Vecchio di Otricoli, lo straordinario Rilievo di Porto, l’Hestia Giustiniani, l’unica replica, integra, di un originale del 460 a.C. di cui ignoriamo l’autore, e non sappiamo neppure quale sia il soggetto, ma è una scultura bellissima, i due Sarcofagi Savelli, la Tazza Cesi, credo mai andata sottoterra ma immediatamente reimpiegata come fonte battesimale in una chiesa di Trastevere, S. Francesco a Ripa o S. Cecilia, non sappiamo. Ci sono un rilievo attico della fine del V secolo a.C., che è un unicum, e alcuni ritratti di altissimo livello. L’elenco è lungo e potrebbe ancora aumentare di molto se si procederà alla pulitura delle sculture. Abbiamo impostato questo lavoro davanti a opere coperte da uno spesso strato di polvere».

◆ Questa collezione, che esce

dall’ombra dopo piú di quarant’anni, è stata anche assente dai libri... «No, una decina di pezzi, fotografati

Nella pagina accanto: statue di Satiro e Ninfa, replica del gruppo dell’Invito alla danza. In alto: stage fotografico per la Baccante. Lo studio delle opere

in maniera adeguata nel corso del tempo, sono stati presenti nella letteratura scientifica. Per tutti gli altri 600 bisognava guardare le fotografiette del catalogo del 1885».

◆ La mostra ha portato a nuove

acquisizioni critiche? «Certamente. Abbiamo fatto scoperte veramente singolari. Per esempio, una statua di Ercole che pensavamo provenire dalla Collezione Giustiniani, o eravamo in dubbio se venisse da uno scavo dei Torlonia, quando l’abbiamo pulita non siamo piú stati in grado di dire che cosa fosse, poiché si è rivelata un assemblaggio di 120 frammenti diversi. In parte di sculture antiche, forse due diverse, in parte pezzi moderni. La mostreremo in uno stadio non finale di restauro, cioè con esposte tutte le fratture. Non sappiamo cosa sia o da dove

scelte per la mostra ha portato a nuove acquisizioni e rivelato importanti dettagli sui restauri e, soprattutto, sulle integrazioni fra pezzi antichi e moderni.

venga mentre, sulla base della foto pubblicata nel catalogo, è considerata una statua antica reale, collocata criticamente. E di queste scoperte ne abbiamo fatte diverse. Sulla pratica del restauro abbiamo imparato moltissimo. Per esempio, l’estesa pratica di false fratture, sulle integrazioni moderne. Vale a dire delle incisioni praticate per simulare le fratture».

◆ Ci sono opere greche? «Di età classica c’è solo il rilievo del V secolo a.C. che rappresenta una scena di porto, giunto a Roma in epoca imperiale, e che viene quasi certamente dalla villa di Erode Attico sull’Appia. Forse c’è qualche pezzo tardo-ellenistico, ma credo che, se riusciremo a pulire tutto, avremo nuove scoperte».

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MOSTRE • ROMA

UNA PARATA DI CAPOLAVORI Il percorso espositivo della mostra ai Musei Capitolini segue un criterio cronologico, ma procede a ritroso. Nelle sale di Palazzo Caffarelli, allestite dall’architetto inglese David Chipperfield, novantasei sculture della collezione Torlonia illustrano la storia del collezionismo a Roma dalla seconda metà dell’Ottocento – quando nacque il Museo Torlonia – al XV secolo, che vide le grandi famiglie romane cominciare a raccogliere statue e iscrizioni per ornare i palazzi di famiglia e testimoniare l’antichità della casata. Divisa in cinque sezioni, la mostra si apre con alcuni pezzi tra i piú noti – la Fanciulla di Vulci, l’Eutidemo di Bactriana, il Vecchio da Otricoli, e una serie di busti, maschili e femminili. Tra i primi, l’Antinoo coronato d’edera, gli imperatori Vespasiano, Tito, Antonino Pio, Commodo, Caracalla. Tra i secondi, imperatrici e nobildonne, come Livia, Agrippina Maggiore, Flavia Domitilla, Plotina, Giulia Domna. Nella II sezione i materiali dagli scavi effettuati nelle proprietà Torlonia nel XIX secolo: il rilievo con scena di porto (un originale greco), la statua in bronzo di

Germanico, la replica del Diadumenos di Policleto, il Dace prigioniero. Segue (Sezione III) una scelta dalle collezioni raccolte Cavaceppi e Albani – Ulisse sotto il montone, il cosiddetto Tolomeo, il sarcofago con il trionfo di Bacco, la colossale tazza con le fatiche di Ercole, il Nilo Barberini. La IV Sezione è interamente dedicata alla seicentesca raccolta Giustiniani: la sequenza dei busti dei dodici Cesari, da Scipione l’Africano a Costantino, il confronto tra repliche dello stesso originale, come del Satiro di Prassitele, e alcuni pezzi tra i piú celebrati, l’Hestia Giustiniani, il Caprone in riposo, il Guerriero inginocchiato. Nell’ultima sezione sono riunite le opere di cui è documentata la presenza in raccolte del Quattro e Cinquecento: la Tazza Cesi, il Crisippo Cesarini, il Nilo Cesarini, la Venere Medici. L’itinerario si conclude con l’accesso all’esedra del Marco Aurelio nei Musei Capitolini, che accoglie i bronzi provenienti dal palazzo del Laterano donati al Comune da Sisto IV nel 1471, la Lupa, lo Spinario, e i resti – la testa, la mano e il globo – della statua colossale di Costantino.

DOVE E QUANDO A destra: statua in marmo greco raffigurante un caprone in riposo. Nella pagina accanto: gruppo di sculture restaurate: in primo piano due statue di Iside in marmo bigio morato e, sullo sfondo, busti di imperatori e di un Satiro ebbro.

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«I Marmi Torlonia. Collezionare Capolavori» Roma, Musei Capitolini, Villa Caffarelli Note a causa dell’emergenza sanitaria per il Coronavirus (COVID-19) e dei conseguenti provvedimenti governativi, l’apertura della mostra, prevista per il 4 aprile, è stata posticipata a data da destinarsi; vi invitiamo dunque a seguire tutti gli aggiornamenti sul sito ufficiale, www.torloniamarbles.it, nonché sui canali social


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ARCHEOTECNOLOGIA • LA PASTA

UN MONDO FATTO DI PASTA GRANO E FRUMENTO VIDERO LA LUCE MILLENNI FA, SULLE COLLINE DELL’ANATOLIA, RICOPRENDO UN RUOLO FONDAMENTALE DURANTE QUEL PROCESSO DELL’EVOLUZIONE UMANA E SOCIALE NOTO COME «RIVOLUZIONE NEOLITICA». MA QUAL È LA DATA D’ESORDIO DELLA NOSTRA PIETANZA NAZIONALE? ED È POSSIBILE RISALIRE AL LUOGO DELLA SUA ORIGINE? di Flavio Russo

P

er noi Italiani, la parola «pasta», pur prestandosi nella nostra lingua a innumerevoli composti, ne possiede uno per antonomasia, designando la principale pietanza nazionale. Nella sua accezione comune, per «pasta» si intende infatti quella secca, perlopiú commercializzata nelle classiche confezioni da 500 gr. A voler accertare le origini del vocabolo, si deve innanzitutto individuarne l’etimologia, che viene solitamente ricondotta al latino tardo pasta, a sua volta derivato dal greco pàste, che designava una sorta di farinata. In ogni caso, nell’antichità, la pasta non corrispondeva a un alimento specifico, ma alla procedura adottata per prepararlo. Ma se pasta era un termine generico, non lo furono i maccheroni che con essa si confezionano, la cui denominazione, per restare alle etimologie greche, deriverebbe 72 a r c h e o

da makar, beato, riferito alle anime dei trapassati, in onore o in commemorazione dei quali si preparava un impasto di farina d’orzo e brodo – forse di età ellenistica – che dal banchetto funebre finí per trarre il nome. Ipotesi meno plausibili collocano l’etimologia di mac-


Statuetta in legno e gesso dipinti raffigurante una donna che macina cereali, dall’Egitto. Primo Periodo Intermedio-inizi del Medio Regno, 2134-1991 a.C. Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art.

cherone in epoca assai piú tarda, ravvisandola nel verbo volgare maccare, ammaccare, che lascia immaginare una pasta spianata, una sfoglia fatta in casa, del tipo usato per le lasagne, per le tagliatelle o soprattutto per le piatte focacce.

UN BENE DA CONSERVARE Nell’antichità, la conservazione del grano pose non poche difficoltà, vuoi per la spontanea germinazione che si manifestava dopo pochi mesi, vuoi per gli attacchi di roditori e parassiti. Ma poiché gli accumuli di frumento costituivano una basilare assicurazione sull’avvenire, si spesero le massime energie per escogitare sistemi di conservazione adeguati. E, nel tempo, da capaci orci di terracotta si passò a soluzioni assai sofisticate, che permisero lo stoccaggio del prezioso cereale non di rado per secoli. Nel suo trattato Sulla Perfetta Conservazione del Grano, pubblicato per la prima volta nel 1754, l’economista e letterato marchigiano Ferdinando Galiani (noto anche come l’abate Galiani; 1728-1787) ricordava

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ARCHEOTECNOLOGIA • LA PASTA

che: «Nella cittadella di Metz eravi nel 1708 un magazzino di grano ripostovi nel 1528, che con meraviglioso esempio di durata era ancora atto a far buon pane (…) sappiamo la cagione di cosí gran durata essere una durissima crosta dal tempo o dall’arte formatavi di sopra».

Una «spaghettata» di quattromila anni fa Queste immagini mostrano gli spaghetti di miglio rinvenuti nel sito di Lajia, scoperto su un terrazzo del Fiume Giallo, nella Cina nord-occidentale. Nei livelli riferibili alla fase di frequentazione neolitica (datata con il 14C a circa 4000 anni fa), coperti da uno strato di sedimenti alluvionali di 3 m, è stata rinvenuta una ciotola rovesciata, il cui contenuto era stato sigillato all’interno: dopo averla rivoltata è apparso un mucchietto di spaghetti, di colore giallo, lunghi circa 50 cm e aventi un diametro di 30 mm circa. Si tratta, a oggi, della piú antica testimonianza di produzione di pasta attestata in Cina e nell’intero continente asiatico.

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UNO STRATAGEMMA... MALEODORANTE! Nonostante l’indiscutibile validità, quel rimedio implicava tuttavia una perdita non irrilevante di grano, indispensabile alla formazione del cappellaccio, per cui fu salutata come straordinaria l’invenzione del naturalista inglese Stephen Hales (1677-1761) di immettere nei locali in cui si conservava il grano, tramite appositi ventilatori, acido solfidrico – riconoscibile per il caratteristico odore di uova marce –, capace di inibire il metabolismo aerobico e quindi di sopprimere qualsiasi forma di vita. La tecnica, che inevitabilmente lasciava nei chicchi un suo sgradevole ricordo, era concettualmente affine a quanto già era stato sperimentato, almeno da un paio di millenni, in Asia Minore, in Africa, in Spagna, nonché, infine, in Puglia, come cosí ebbe a ricordare Plinio il Vecchio: «Il modo piú vantaggioso di conservarli è porli in quelle fosse che chiamano “siros” [da cui silos] come in Cappadocia, in Tracia, in Spagna (…) [e] nell’Africa. Prima di tutto ci si occupa di scavarle in un terreno secco, poi di ricoprirne il fondo con uno strato di argilla; i frumenti peraltro vengono conservati ancora in spiga. Cosí se nessun soffio d’aria giunge fino al grano, è certo che non vi si genera niente di nocivo. Il tritico cosí riposto secondo Varrone dura 50 anni, il miglio 100» (Naturalis Historia, XVIII, 73, 306). Considerando che la diffusione del sistema delle fosse anaerobiche menzionate da Plinio si ritrova in ben tre continenti, è molto probabile, come da piú parti ipotizzato, che venisse già adottato anche in Italia, soprattutto in Puglia e in Si-


cilia, regioni a forte vocazione cerealicola. Nella prima, poi, grazie alla geologia del Tavoliere quelle fosse, da cui forse il toponimo di Foggia, divennero la soluzione per antonomasia della conservazione del grano e sono in molti casi tuttora in uso. Abbastanza semplice risulta la loro costruzione: una fossa tronco-conica con la base maggiore in basso, dal diametro di 4-6 m, posta a una profondità non eccedente gli 8 m, con una capacità complessiva di 150 metri cubi, alla quale si accede tramite una bocca circolare di appena 1 m di diametro. Meno semplice è il funzionamento: il frumento non la colma, lasciandovi perciò una bolla d’aria che, nei giorni successivi all’insilamento, per la traspirazione dei chicchi e il relativo consumo di ossigeno si trasforma in anidride carbonica, che ne diviene il letale custode, frustrando l’intrusione di ogni essere vivente. All’occorrenza, se ne può prelevare il grano solo grazie a meticolosi accorgimenti.

UNA FAMIGLIA ASSAI NUMEROSA Vi è una certa indeterminazione nell’impiego dei termini di grano, frumento, farina e semola, per citare quelli piú attinenti alla pasta e al pane. Dunque, dal punto di vista botanico il grano e il frumento sono entrambi il tritico, un cereale che iniziò la sua vicenda evolutiva sulle colline dell’Anatolia, intorno al 10 000 a.C., come pianta spontanea, Triticum baeoticum, con un unico chicco. Per selezione, da esso si ottenne il Triticum monococcum, una delle prime forme coltivate di grano a partire dal 7500 a.C., la cui spiga si andò progressivamente accrescendo per dimensione e numero di chicchi. Da quei giorni lontani, il frumento ricoprí un ruolo talmente basilare nell’evoluzione sociale umana, da far definire il suo esordio «rivoluzione neolitica», divenendo in breve la base della civiltà, anticipata

dal sedentarizzarsi dei gruppi di coltivatori e dall’ammasso dei loro raccolti, fattori alle spalle dell’incremento demografico e della diversificazione delle attività. Senza addentrarsi nella complessa suddivisione botanica del Triticum, basti ricordare che già in età classica le specie utilizzate furono distinte in base alla resistenza opposta dal chicco alla molitura, in due grosse branche: grano tenero e grano duro, rispettivamente Triticum vulgare e Triticum durum. Piante apparentemente simili ma appartenenti a due specie talmente diverse da contare la prima 42 cromosomi e la seconda 28, differenza che permane anche dal punto di vista nutrizionale confermandosi piú povero di proteine il grano tenero rispetto al grano duro. Dal primo si ottengono le farine di frumento (la numerazione 0, 1, 2 e 00 ne indica soltanto il grado di raffinazione), idonee sia alla panificazione che alla produzione dolciaria. Maggiore è la raffinazione, minore è la quantità di farina che

si ottiene: da 1 quintale di grano tenero si ricavano 100 kg di farina integrale, ma appena 50 di farina 00, la piú raffinata. Dal grano duro, invece, si traggono le semole che sono utilizzate per la produzione di paste alimentari secche o particolari tipi di pane come quello di Altamura e, piú in generale, alimenti a lunga conservazione.

LA PASTA IN ORIENTE Per approfondire la vicenda storica della pasta per antonomasia, è sensato supporre che, una volta ottenuta la farina triturando i chicchi di grano, impastarla con acqua e porla su pietre roventi richiese breve tempo, segnando l’esordio delle focacce e del pane azzimo. Il passaggio successivo fu porre l’impasto nell’acqua bollente (evento che viene fatto risalire alla fine del IV millennio a.C.), e fu allora che si ebbe l’esordio della pasta. Le tracce di quel remoto esordio si riscontrano nitide in Cina e, piú tarde e incerte, in Italia: la testimonianza piú antica, risalente al II mil-

Chicchi di grano tenero (Triticum aestivum), cereale che occupa il primo posto nella produzione frumentaria mondiale, adatto alle regioni temperate; ha granelli opachi, a struttura farinosa, ricchi di amido e adatti alla panificazione.

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ARCHEOTECNOLOGIA • LA PASTA

lennio a.C., sembra consistere in una pietanza costituita da spaghetti di miglio rinvenuti nel nord-ovest della Cina presso Lajia sotto 3 metri di sedimenti (vedi box e foto a p. 74). L’incredibile scoperta è avvenuta durante lo scavo di un villaggio neolitico nei pressi del Fiume Giallo, riportando alla luce, debitamente calcificato, un inconfondibile piatto di spaghetti. Che fossero veri spaghetti lo confermano la colorazione giallo paglierino, il diametro di 3 mm, la lunghezza di circa 50 cm e le spire della preparazione con cottura per bollitura.

LA PASTA IN OCCIDENTE La maggiore differenza rispetto agli spaghetti attuali consiste, come hanno rivelato le analisi, nel non essere di farina di grano ma di miglio. Da ulteriori dettagli si è potuto stabilire che quel tipo di pasta veniva consumata fresca, senza alcuna essiccazione preventiva, in ciò simile alla nostra fatta in casa. La scodella fu trovata rovesciata, segno che il pasto fu interrotto all’improvviso, forse per un violento sisma, finendo perciò sepolto. L’invenzione cinese degli spaghetti, tuttavia, viene considerata del tutto indipendente dalla successiva occidentale, poiché la coltivazione del frumento non era ancora praticata 76 a r c h e o

in quelle regioni. Si sarebbe trattato dunque di qualcosa apparentemente simile agli spaghetti, ma non equiparabile in assoluto a essi. Piú tarde ma piú circostanziate sono le tracce della pasta in Occidente. Sia In alto: Cerignola (Foggia). Immagine da satellite del Piano delle Fosse, dove si conservano oggi poco piú di 600 fosse da grano, una parte delle quali è tuttora funzionante. A destra e nella pagina accanto: spaccato assonometrico e sezione di una fossa da grano, con l’illustrazione dei vari elementi che la compongono e del loro funzionamento.

presso i Greci che presso i Romani, la produzione di pasta fresca trova persino menzioni poetiche, come nelle commedie di Aristofane o nelle satire di Orazio, che ci tramandano un impasto di acqua e farina, spianato a sfoglia, tagliato a strisce, farcito e poi cotto, piatto che si attribuí ai secondi fino al XIV secolo, col nome di lasana o lasanum. Il vocabolo, però, all’epoca designava un vaso, che poteva anche essere quello da notte, come si legge in un passo del Satyricon di Petronio: «Ab hoc ferculo Trimalchio ad lasanum surrexit» («Dopo questa portata Trimalchione si alzò per [andare] all’orinale»). Ma designava anche la pentola di terracotta nella quale l’anzidetto timballo veniva cotto e servito a tavola. Significativamente i Greci lo chiamarono laganon e i Romani laganum, vocabolo che designava la sfoglia sottile


UNA «CASSAFORTE» PIENA DI CHICCHI DORATI Anello a vari corsi di mattonacci – mattoni parzialmente cotti e perciò piú porosi di quelli normali – in grado di assorbire velocemente discrete quantità di acqua eventualmente penetrate dalla chiusura della bocca.

Intonaco a base di calce utilizzato da un certo momento in poi, sia per impedire le contaminazioni di terriccio nel grano conservato, sia per assorbire le infiltrazioni laterali di acqua e le minime risalite per capillarità.

Fascelli di paglia posti in opera sopra la camicia di intonaco, adottati come isolante termico e idrico, utili alla maggiore igiene della conservazione e alla totale eliminazione dell’umidità ambientale.

Il quantitativo di grano insilato riempiva solo poco piú della metà del volume della fossa, lasciando cosí una grossa bolla d’aria che, in pochi giorni, per la sua traspirazione si trasformava in anidride carbonica, precludendo la sopravvivenza a qualsiasi forma di vita, vegetale o animale che fosse.

Il terreno in cui erano scavate le fosse doveva risultare ai saggi preliminari ben asciutto e privo di infiltrazioni idriche, condizioni che in genere si ritrovavano nei conglomerati argillosi, frequenti sul Tavoliere, sufficientemente coerenti da non richiedere strutture di rinforzo. a r c h e o 77


ARCHEOTECNOLOGIA • LA PASTA

ottenuta impastando farina e acqua e ponendola a cuocere, che ritroviamo ancora oggi nelle ricette del Meridione col nome, poco mutato di lagane. Orazio le gradiva tanto da scrivere, nel 35 a.C.: «Inde domum me ad porri et ciceris refero laganique catinum» («Me ne torno a casa alla mia scodella di porri, ceci e lagane»; Satire I,VI, vv. 114-5). Le lagane: «erano le lasagne latine introdotte nelle Calabrie dai Greci e non è fuori di luogo che “laganaturo” (…) è il mattarello (…) Anche se, qualche secolo dopo, nel De re coquinaria di Apicio, le lagane sono ben altra cosa: le prime (quelle “oraziane”) del mangiar povero (cucinate con porri e ceci), mentre le seconde (quelle “apiciane”) indicavano una cucina ricca» (Antonino Cuomo, Pasta & dolci, tra storia e tradizione, Castellammare di Stabia 2001). Una derivazione piú precisa può ravvisarsi nelle lagane campane, che piú avanti vengono cosí descritte: «le lagane sono una pasta largamente presente in tutta la regione campana. Esse sono prodotte da un impasto di farina, acqua e sale ridotto a una sottile sfoglia dalla pressione esercitata sull’impasto del “laganaturo” (un legno cilindrico del diametro di 4/5 cm e lungo 50 cm) e poi tagliata a strisce della larghezza di circa 1 cm. Le lagane (…) sono paragonabili alle moderne pappardelle e si sposano magnificamente per la delizia del palato con una salsa di teneri ceci, fatta bollire lungamente con olio, aglio fresco e abbondante prezzemolo».

UN’AMPIA DIFFUSIONE Dal punto di vista geografico le lagane ebbero e conservano immutato un territorio di diffusione piú ampio, ritrovandosi anche in Basilicata, in Calabria e in Campania, sia pure con lievi differenze locali, avendo quale fattore comune la pasta fresca tagliata a strisce con larghezza oscillante fra 1 e 3 cm. Ri78 a r c h e o

In alto: produzione di spaghetti a base d’acqua salata, tipici del villaggio di Buyei, nella provincia del Guizhou (Cina sud-occidentale). Nella pagina accanto, in alto: stampa

ottocentesca raffigurante maccheroni stesi a essiccare al sole prima d’essere venduti nelle vie di Napoli. Nella pagina accanto, in basso: un piatto di pasta e fagioli.

cordate anche con il nome di laina, una pietanza per poveri, si guadagnarono rapidamente tanta dignità da entrare nel De re coquinaria di Marco Gavio Apicio, che visse all’età di Tiberio e la cui opera ci è stata tramandata da un rifacimento in latino volgare del IV secolo d.C. Cosí il brano: «Patina cotidiana: accipies frustra suminis cocta, pulpas piscium coctas, pulpas pulli coctas. Haec omnia concides diligenter. Accipies patellam aeneam, ova confringes in caccabum et dissolves. Adicies in mortarium piper, ligusticum, fricabis, suffundes liquamen, vinum, passum, oleum modice, reexinanies in caccabum, facies ut ferveat. Cum ferbuerit, et obligas. pulpas, quas subcultrasti, in ius mittis. Substerne diploides patinam aeneam, et trullam plenam pulpae, et disparges oleum. Laganum pones similiter. quotquot lagana posueris, tot trullas impensae adicies. unum laganum fistula percuties, in superficiem pones, a superficie versas in discum. piper

asperges et inferes» («Piatto quotidiano: prendi pezzi cotti di poppa di scrofa e carni cotte di pesci e di polli. Spezzetta bene ogni cosa. Prepara una padella di rame; prendi delle uova, schiacciale in una pentola e sbattile. Metti nel mortaio del pepe, del ligustico e lavorali; bagna con Salsa, col vino, col passito, con poco olio, getta nella pentola e metti a cuocere. Quando bollirà lega con l’amido. Getta nel sugo le carni tritate che hai preparato. Stendi una doppia sfoglia nella padella di rame e riempila di romaiolate di polpa. Cospargi d’olio. Fai strati di pasta. Quanti strati avrai, fai tanti strati di trito. Spiana col matterello una sfoglia e, tagliata con un piatto, gettala sulla superficie del pasticcio. Copri di pepe e porta in tavola. Piatto da usare come dolce: prendi pinoli e noci, puliscili e abbrustoliscili, mescolali con miele, pepe e Salsa, latte, uova e poco vino puro e olio»).


Stigmatizzato come goloso e ghiottone, Apicio descrive in tal modo un piatto formato da piú strati di pasta sfoglia ciascuno dei quali costituito da strisce larghe, farcendoli con legumi e formaggio. Con un tale identikit la derivazione è facile, tanto piú che di quel piatto era

ghiotto Cicerone, che mal messo a denti, lo apprezzava perché morbido: le indicazioni coincidono infatti con l’attuale lasagna! È interessante ricordare che uno dei piatti tipici campani particolarmente graditi sono le tagliatelle con i ceci ricordati come «ciceri e tria», una

pasta fresca di semola tagliata a strisce di un paio di centimetri e condita con ceci.Vi era un altro tipo di pasta fresca che cosí descrive sempre Apicio: «Tolle et dissectum, aut post lac mixtum aqua coque undis porrum solidatae dum non. Ac deinde in surculos volvuntur in sectione tabula adamantina coquo te oleo. Melle cospargila adde piper, et ministrare», che tradotto diviene: «Prendi della semola e, dopo averla impastata con acqua o con latte, falla cuocere in acqua bollente, finché non si sia solidificata. Stendila poi sul tagliere e tagliala in piccoli rombi, che farai friggere in olio di oliva. Cospargila poi di miele, aggiungi pepe e servi in tavola». Considerando che i moderni gnocchi alla romana possono avere la forma sia romboidale che a disco, la somiglianza con questi loro antenati è evidente, fatta salva l’aspersione col miele, che sembra ricordare piuttosto la ricetta degli strufoli. a r c h e o 79


SPECIALE • ROSELLE

ROSELLE

NUOVE SCOPERTE NELLA GRANDE CITTÀ ETRUSCA E ROMANA testi di Stefano Camporeale, Mariagrazia Celuzza, Matteo Milletti, Luca Passalacqua e Andrea Zifferero

Le sue vestigia si trovano poco piú di 5 chilometri a nord di Grosseto, calate in un contesto paesaggistico di grande suggestione. Del sito il grande archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli aveva scritto che era «l’unico luogo che può dirci cosa fosse una città etrusca». Ma il fascino di Rusellae è pari alla sua difficoltà di lettura: i suoi magnifici monumenti, estesi su 50 ettari e scavati a piú riprese nel corso del Novecento, parlano soprattutto della città romana, edificata su quella piú antica, una delle dodici della Lega etrusca. Oggi i nuovi scavi in corso – di cui diamo conto pub-

blicando in esclusiva in questo speciale i primi dati delle ricerche sulla Collina Nord – mirano a rendere piú agevole la circolazione dei visitatori all’interno della vasta area archeologica, grazie a importanti opere in corso di realizzazione: la costruzione di una foresteria per gli archeologi, la creazione di un percorso ciclabile per avvicinare Grosseto e il mare, l’istituzione di una navetta che aiuterà in modo significativo i contatti con gli snodi cruciali della città e con il suo importante Museo Archeologico. Un invito alla visita.

In alto: particolare dell’iscrizione di possesso incisa sul piede di un vaso in bucchero: mi arnthial raufnis («io sono (il vaso) di Arnth Raufni»), dalla Collina Nord di Roselle. Prima metà del V sec. a.C. Nella pagina accanto: veduta panoramica dell’area monumentale della città di Roselle: in primo piano, la piazza del Foro. 80 a r c h e o


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SPECIALE • ROSELLE

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uesta è la grande particolarità del luogo: essere l’area di una città etrusca menzionata dalle fonti letterarie antiche tra le città capitali, ed essere intatta. (…) Roselle è l’unico luogo che può dirci che cosa fosse una città etrusca». Cosí scriveva l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli nel 1959, esprimendo il proprio interesse per il sito. Dopo i primi scavi ottocenteschi condotti in prevalenza nelle necropoli, dal secondo dopoguerra il centro, posto a brevissima distanza da Grosseto, è divenuto oggetto di indagini sistematiche curate dall’allora Soprintendenza Archeologica della Toscana, che, nell’arco di trent’anni, hanno portato in luce tutti i monumenti oggi visitabili. Tuttavia, la superficie oggi esposta documenta, in massima parte, l’urbanistica e l’architettura di una città romana, cresciuta sulla stessa superficie dell’abitato etrusco (esteso su 50 ettari) e distribuito su due colliEmilia-Romagna ne, la Collina Nord e la Collina Sud, racchiuse Pist Pis Pi P i toia oi entro la cerchia delle Prato Prat mura poligonali. Firenz Fir enz nz ze Considerando che la Arez Are Ar A re rrez e ezzzo o costruzione della piazza del Foro di età roSien S iena mana ha sepolto la valle compresa tra le Roselle Umbria due Colline, già abitaGros ossseto et et ta nel periodo etrusco, si capisce come oggi Lazio sia complicato distinguere le fasi di crescita

Nella pagina accanto: ortofoto dell’Area Archeologica di Roselle, con gli interventi autorizzati dalla concessione di scavo 2019-2020. Vengono attualmente indagate: l’area 2. Quartiere romano, sulla Collina Nord, e l’area 5. Tempelterrasse, sulla Collina Sud. In basso: archeologi al lavoro sulla Collina Sud, nell’area della Tempelterrasse.

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e sviluppo del sito dalla sua nascita – alla fine dell’età del Bronzo – fino al suo abbandono, risalente al XII secolo. Una simile carenza di informazioni condiziona non soltanto il lavoro degli archeologi, ma anche e soprattutto la leggibilità del sito da parte dei visitatori, per i quali non è facile comprenderne la stratificazione e lo sviluppo monumentale.

INTENTI CONDIVISI Da qui la necessità di un diverso approccio alla ricerca e allo scavo di Roselle, che ha stimolato l’avvio di un nuovo Progetto, costruito su criteri di maggiore efficacia in materia di fruibilità dell’area archeologica. Nel 2018 perciò, nel clima di stretta collaborazione consolidato negli anni precedenti, si è giunti alla stesura di un protocollo quinquennale, con il fine di coordinare tutti gli interventi legati all’area archeologica. L’accordo vede infatti riunite le principali istituzioni di riferimento facenti capo a Roselle: l’Università di Siena, il Comune di Grosseto con il suo Museo Archeologico e d’Arte della Maremma (MAAM), la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Siena, Grosseto e Arezzo e infine la Direzione Regionale Musei della Toscana. Da questa unione di intenti è scaturito il programma delle indagini in corso, esito di una concessione di ricerca triennale (2018-2020), in capo al Comune di Grosseto, che ne ha affidato la direzione scientifica all’Università degli Studi di Siena.


Il Progetto ha comunque origine nel 2013, come sviluppo naturale e organico di una collaborazione sorta tra l’Università di Siena (Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali) e la Soprintendenza, con l’obiettivo di predisporre attività di tirocinio a Roselle, per formare studenti nel rilievo architettonico. Le attività svolte in quella prima fase (2013-2018) sono state caratterizzate da interventi di rilevamento digitale dell’area monumentale, di analisi strutturale di singoli edifici e di controllo della cinta muraria.

DALLA RICERCA SUL CAMPO ALLA DIVULGAZIONE A partire dal 2016, si è poi avviato uno stretto rapporto di collaborazione tra l’insegnamento e il Laboratorio di Etruscologia e Antichità Italiche con il MAAM e la Soprintendenza per l’organizzazione della sezione grossetana della mostra «Marsiliana d’Albegna: dagli Etruschi a Tommaso Corsini», prolungata a tutto il 2017 e quindi per lo studio, sempre attraverso tesi di laurea magistrale, di alcune collezioni archeologiche inedite o parzialmente edite, conservate nel MAAM. Con il procedere dei lavori, si è resa evidente l’esigenza di dare uno sbocco di maggiore organicità a tali iniziative. Si sono perciò intensificati i contatti fra i tre enti e, parallelamente, è stato creato un gruppo di ricerca formato da docenti e tecnici senesi, afferenti al Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali. Infine, nell’atto di richiesta di concessione, presentato dal Comune di Grosseto al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, sono stati individuati undici settori da approfondire nel sito (vedi box e foto qui accanto). Sono questi i settori della città etrusco-romana che richiedono gli interventi piú urgenti ed è facile prevedere che saranno necessari almeno 10 anni di ricerca per raccogliere frutti consistenti e duraturi. Nei primi due anni del Progetto Roselle, gli interventi si sono concentrati sui settori 2. Collina Nord, Quartiere Romano e 5. Collina Sud, Tempelterrasse, con la messa in luce di un grande isolato di età romana nel primo caso e, nel secondo, con l’individuazione dell’area dove insisteva il grande santuario di Artemide etrusca, la cui esistenza è testimoniata da ulteriori, importanti reperti.Al tempo stesso, si sta cercando di potenziare il ruolo

del MAAM, che conserva ed espone l’eccezionale patrimonio di reperti provenienti da Roselle e costituirà la sede naturale delle attività di comunicazione al grande pubblico dei risultati via via scaturiti dal Progetto, attraverso mostre tematiche. Mariagrazia Celuzza, Matteo Milletti e Andrea Zifferero I SETTORI DI INTERVENTO 1. Fontana Monumentale; 2. Collina Nord, Quartiere Romano; 3. Area del Foro, Tempio tardo-arcaico; 4. Area del Foro, cosiddetto Cardo; 5. Collina Sud, Tempelterrasse; 6-7. Collina Sud, Area del Podere Mazzi; 8. Collina Sud, Quartiere Artigianale; 9-10. Collina Sud, area della Torre Medievale; 11. Collina Sud, Porta Urbana 5.

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SPECIALE • ROSELLE

LE PRIME ESPLORAZIONI Le prime menzioni di interesse archeologico della città di Roselle risalgono alla seconda metà del Settecento: si deve infatti allo storico senese Giovanni Antonio Pecci la prima descrizione del sito, seguita da una pianta generale delle rovine della città antica, che include il rilievo dell’Anfiteatro, curata dal gesuita Leonardo Ximenes. Le ricerche vengono riprese alla metà dell’Ottocento da George Dennis, che visita e descrive i resti visibili, e, in seguito, da Alessandro François, che scava tombe pertinenti alle necropoli periurbane. Nel 1908, con la direzione del Soprintendente ai Musei e Scavi In alto: 1966. Il ritrovamento delle statue che ornavano l’Augusteo nel Foro: l’edificio ospitava il culto della figura dell’imperatore. A sinistra: la testa di Helios affiora dagli scavi nell’Augusteo. Nella pagina accanto: la prima planimetria di Roselle, realizzata da Leonardo Ximenes nel 1774: si osservano il circuito delle mura e l’Anfiteatro sulla Collina Nord; le cisterne romane e la Torre Medievale sulla Collina Sud.

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dell’Etruria Luigi Adriano Milani, vengono condotti ripetuti interventi di scavo sul contiguo Poggio di Moscona, ma ancora non a Roselle. Dieci anni piú tardi Ranuccio Bianchi Bandinelli e Antonio Minto promuovono la Commissione per Roselle, istituendo e prefigurando un nuovo e importante progetto di ricerca, che però non decollerà mai e verrà interrotto definitivamente dalla seconda guerra mondiale. Se si escludono gli scavi di emergenza sulle Terme negli anni Trenta e Quaranta, le indagini nella città hanno inizio con una concessione di scavo ottenuta dall’Istituto Archeologico Germanico di Roma: nel biennio 1957-1958 il direttore Rudolf Naumann e l’archeologo Friedrich

Hiller effettuano un rilievo planimetrico generale del sito, insieme ad alcuni saggi sulla Collina Sud e presso il settore nordorientale della cinta muraria. Nel 1959 iniziano le ricerche nell’area urbana da parte dell’allora Soprintendenza alle Antichità dell’Etruria, con l’avvio di campagne di scavo annuali e sistematiche: è questo un periodo di scoperte importanti, che si concentrano soprattutto nel Foro, sotto la direzione dei soprintendenti Giacomo Caputo prima e Guglielmo Maetzke poi. Alla gestione del soprintendente Francesco Nicosia (1980-1996) si devono invece l’esplorazione e l’incremento di conoscenze su vari edifici e complessi collocati sulle due

Colline, con il contributo e la collaborazione dell’Università di Firenze, che impianta un cantiere di scavo per la formazione degli studenti in archeologia, da cui verrà la scoperta della Casa dell’Impluvium. Fra il 1987 e il 1991 si svolgono invece le campagne di scavo sulle Terme e sulla Cattedrale condotte dal Comune di Grosseto attraverso il MAAM. Dal 2013, infine, con interventi di rilievo e documentazione digitale e con saggi di scavo concordati con la Soprintendenza, anche l’Università di Siena contribuisce alle indagini sul sito, con archeologi, laureati e studenti in archeologia, e in collaborazione con il Comune di Grosseto. Elisa Papi e Giulia Reconditi

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SPECIALE • ROSELLE

IL GRANDE TEMPIO DI ARTEMIDE

I

l piano di ricerca a Roselle ha individuato gli obiettivi principali, partendo dalla revisione delle modalità di approccio al sito e punta all’ampliamento dell’offerta di visita, consistente in nuovi monumenti, il cui scavo è appena iniziato.Tra questi, il recupero e l’esplorazione del grande terrazzamento posto sul lato meridionale della Collina Sud, noto come Tempelterrasse (ovvero «terrazza del tempio»), scavato dall’Istituto Archeologico Germanico di Roma nel biennio 1957-1958, sotto la direzione di Rudolf Naumann e Friedrich Hiller. L’intervento portò in luce un’imponente e articolata opera di terrazzamento con mura a secco, i cui riempimenti hanno restituito quantità consistenti di terrecotte architettoniche di età etrusca, che di solito rivestivano edifici pubblici come i

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templi, oltre ad abbondante ceramica fine, In alto: ripresa a anche di importazione. volo d’uccello

UN TERRAZZAMENTO PODEROSO Lo scavo, iniziato nel 2018 e tuttora in corso, ha in primo luogo chiarito le modalità di intervento dei due studiosi tedeschi, per valutare l’entità dei depositi rimasti in posto: sono cosí state individuate, mappate e riscavate le trincee e gli approfondimenti effettuati, che hanno risparmiato buona parte dei depositi di sommità, limitandosi a mettere in luce il grande terrazzamento, formato da un muro imponente a cui si appoggiano contrafforti a cella quadrangolare. La prosecuzione dello scavo del grande muro e dei contrafforti ne ha definito meglio le fasi costruttive, fissandole tra la fine del VI e la seconda metà

dello scavo 2019 alla Tempelterrasse: in primo piano, il grande muro di terrazzamento sostenuto dai contrafforti a camera quadrangolare; in alto le strutture di età etrusca e romana appena affioranti.


del V secolo a.C., mentre i materiali rinvenuti nell’unica cella non scavata dai Tedeschi, confermano oltre ogni dubbio la presenza di una struttura cultuale in questo settore della città, i cui rivestimenti in terracotta sono stati smontati (e quindi sepolti all’interno dei contrafforti), per essere piú volte rinnovati nel corso del tempo. La scoperta piú rilevante è un’iscrizione (risalente al pieno V secolo a.C.), graffita sotto il piede di una coppa prodotta ad Atene, con dedica ad Artames: questa (artamasal = di Artemide) fornisce una prova significativa circa l’esistenza di un tempio alla divinità (corrispondente alla Diana romana), nella sua versione etrusca Artames/Artumes, sulla Collina Sud: il culto era già stato indiziato dal ritrovamento casuale di un’iscrizione con la medesima modalità di offerta, graffita sotto il piede di una coppa attica a figure rosse, proveniente dal riempimento delle grandi e contigue cisterne romane (vedi anche «Archeo» nn. 417 e 418, novembre e dicembre 2019; anche on line su issuu.com). La terrazza superiore, i cui depositi risultano fortemente compromessi dai lavori agricoli, ha invece rivelato una sovrapposizione di piú edifici, che sembrano riconducibili ai periodi arcaico e tardo-arcaico (circa VIprima metà del V secolo a.C.) ed ellenistico (IV-inizio del III secolo a.C.), con evidenti In basso: il recupero di un frammento di ceramica attica a figure rosse, dallo scavo della Tempelterrasse.

ristrutturazioni di età romana, la cui esplorazione potrebbe essere decisiva per l’identificazione del tempio di Artemide. A oggi, si può affermare che la struttura del santuario, o ciò che resta di essa dopo i pesanti interventi di età romana – conseguenti alla conquista di Roselle all’inizio del III secolo a.C. –, si trovava senza dubbio in posizione elevata sulla Collina Sud, in un settore oggi compreso tra l’area del Podere Mazzi e il cosiddetto Quartiere Artigianale (rispettivamente, punti 6 e 7 e 8 della concessione di scavo; vedi box e foto a p. 83).

ARTIGIANI AL SERVIZIO DEL SANTUARIO? Le future campagne di scavo e prospezioni cercheranno di chiarire la natura delle strutture murarie identificate sulla sommità della Tempelterrasse e si può ragionevolmente credere che porteranno all’identificazione precisa del santuario dedicato ad Artemide. Ma perché è importante un santuario di Artemide a Roselle? Per due ragioni principali: la prima perché esso sembra il monumento del periodo etrusco intorno al quale ruotano tutte le testimonianze archeologiche sinora conosciute della Collina Sud. In altre parole, il cosiddetto Quartiere Artigianale, che ha restituito edifici etruschi e romani con fornaci per la ceramica, potrebbe essere il quartiere di servizio del santuario, che assolveva a tutte le necessità legate all’attività di un grande luogo di culto (produzione di votivi, alloggi per i fedeli e per gli addetti al culto, luoghi di sosta e luoghi per preparare e consumare pasti). La seconda è che la Artemide etrusca corrisponde alla Diana romana, divinità legata alle alture, ai boschi e alla caccia: un recente, eccezionale documento epigrafico romano, cioè il frammento marmoreo proveniente dallo Scoglietto ad Alberese e ascritto al I secolo d.C., ha restituito la menzione di una Diana Umbronensis, quindi della stessa divinità strettamente collegata al fiume Ombrone. Se pensiamo che Roselle insiste sulla valle dell’Ombrone e che questa, verosimilmente, rappresenta, tra il Mar Tirreno e il Monte Amiata, la frontiera del territorio rosellano nel periodo etrusco, si può pensare che ad Artemide/Diana fosse demandata la tutela dei confini della città. Ma questo sarà oggetto di ulteriori approfondimenti della ricerca. Matteo Milletti e Andrea Zifferero a r c h e o 87


SPECIALE • ROSELLE

LE NECROPOLI Le prime notizie sulle tombe rosellane risalgono alla metà dell’Ottocento, quando il diplomatico ed esploratore inglese George Dennis visita le rovine della città, raggiungendo, tra la folta vegetazione, una tomba a camera, l’unica che riesce a ispezionare. Sono rare le scoperte di nuovi nuclei di tombe nella seconda metà del secolo, connesse in prevalenza con le attività di ricerca condotte in Maremma dall’Accademia Toscana di Scienze e Lettere «La Colombaria». Per tutto il Novecento, a seguito dei ripetuti lavori di appoderamento nelle immediate vicinanze del sito, sono soprattutto gli scavi clandestini e le scoperte fortuite ad accrescere il numero dei sepolcri conosciuti; le indagini effettuate negli anni piú recenti sono interventi mirati di recupero, programmati dalla Soprintendenza

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su segnalazioni di tombe manomesse da attività illegali. Nonostante la carenza di indagini programmate e di studi sistematici sulle necropoli rosellane, è comunque possibile delinearne i caratteri principali, ricomponendo i dati finora acquisiti. Le fasi piú antiche, scarsamente rappresentate, risalgono all’età del Ferro e constano di rari rinvenimenti isolati di vasi biconici, peculiari del rituale incineratorio, collocati all’interno dell’area definita dalla cinta muraria arcaica. In seguito la città risulta circondata da un complesso sistema di tombe a tumulo e a camera articolato immediatamente all’esterno della cinta muraria, con raggruppamenti piú cospicui nei pressi delle principali porte di accesso, in connessione con i tracciati viari che partivano da Roselle. Questo

assetto sembra configurarsi a partire dalla metà del VII secolo a.C., in coincidenza con il periodo orientalizzante, con la presenza predominante di tombe a fossa semplice, localizzate perlopiú lungo il lato orientale delle mura, secondo una direttrice nord-sud. Il periodo arcaico vede un incremento del numero dei sepolcreti, che ora occupano l’intera fascia periurbana, contrassegnati da tombe a camera costruita di piccole dimensioni e talvolta sormontate da un tumulo di terra. Si tratta di strutture a pianta In alto, a destra: cippo in forma di casa, rinvenuto all’interno dell’area urbana ma proveniente probabilmente dalle necropoli. VI sec. a.C. Grosseto, MAAM. A sinistra: il corredo funerario dalla Tomba 2 nella necropoli periurbana del Serpaio. Età ellenistica. Grosseto, MAAM. A destra: panoramica di una tomba a tumulo con camera costruita, nella necropoli periurbana del Serpaio. VII-VI sec. a.C.


quadrangolare costituite dalla giustapposizione di blocchi e lastre di arenaria, con uno sviluppo gradiente verso l’alto, a formare una sorta di cupola aperta, poi sigillata con un’unica lastra. In molti casi le tombe a camera sono edificate durante il periodo arcaico, per poi essere riaperte e riutilizzate nel corso dell’età classica e di quella ellenistica, nonché durante la piena romanizzazione della città, dall’inizio del III secolo a.C. Valerj Del Segato e Mirko Marconcini

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SPECIALE • ROSELLE

SCRIVERE ETRUSCO A ROSELLE Roselle possiede un patrimonio di epigrafi modesto, nell’ordine di poche decine di testi, in contrasto con altre città etrusche che ne hanno restituiti centinaia, se non migliaia. La scarsa consistenza è dovuta al fatto che in questo centro,

ricercata nella scarsa conoscenza della scrittura: nelle tre città, sigle formate da una o due lettere su vasellame di uso comune ricorrono piú o meno con la stessa frequenza percepibile in tutto il mondo etrusco, rivelando un livello di A sinistra: iscrizione incisa sotto il piede di una coppa attica a figure rosse attribuita al Pittore di Marlay (440-430 a.C.), con dedica alla divinità etrusca Artames (artmsl), dalla Collina Sud.

A destra: particolare dell’iscrizione di possesso incisa sul piede di un vaso in bucchero: mi arnthial raufnis («io sono (il vaso) di Arnth Raufni»), dalla Collina Nord. Prima metà del V sec. a.C.

come nel suo territorio, non si sono sviluppate le produzioni piú caratteristiche dell’epigrafia etrusca, soprattutto di ambito funerario e sacro, che abbondano invece in altri comparti dell’Etruria. Tale mancanza non è esclusiva di Roselle, ma è condivisa, per esempio, con Vetulonia e Populonia, contraddistinte da una produzione epigrafica modesta e discontinua. La causa non va però

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confidenza con i segni dell’alfabeto simile a quello riscontrato altrove. Lo sviluppo di una produzione epigrafica formale, dunque, non è una conseguenza automatica della conoscenza della scrittura ma esprime un processo piú complesso, di elaborazione di codici di comunicazione sociale, che prevedono l’uso di testi scritti in determinati contesti: in area etrusca, soprattutto le tombe e i santuari. Da ciò deduciamo che Roselle, Vetulonia e Populonia (ma anche altre città, come Arezzo e Pisa), producono una cultura funeraria diversa, che faceva a meno dell’epigrafia su supporti durevoli: viene quindi a mancare quel fondamentale effetto di


modello tecnico ed estetico che le iscrizioni funerarie spesso avevano nei confronti di altre classi epigrafiche. Le iscrizioni rosellane, in prevalenza brevi graffiti su ceramica (di frequente disperatamente frammentari), hanno un contenuto informativo modesto e forniscono solo un paio di nomi di divinità e qualche decina di nomi personali che, per giunta, sono spesso incompleti: queste iscrizioni erano infatti destinate a una fruizione in ambiti ristretti, dove raramente si scriveva il nome completo di un individuo, dal momento che non esistevano difficoltà di identificazione. Come è comprensibile, quantità cosí ridotte hanno attirato di rado l’attenzione degli epigrafisti e quindi anche poche scoperte possono portare novità importanti e inattese. È il caso delle iscrizioni emerse dalle ricerche in corso, che hanno portato in luce un fenomeno senza paragoni, indicante un’attenzione all’arte della scrittura sinora insospettata. La scrittura etrusca aveva due sistemi di regole ortografiche

leggermente diversi fra di loro: ogni città ha effettuato la propria scelta nel momento stesso in cui In alto: foto e trascrizione della dedica ha iniziato a scrivere, senza mai alla divinità etrusca Artames modificarla. (artamasal), graffita con scrittura Con le nuove scoperte ora ad andamento sinistrorso sotto il piede sappiamo che a Roselle le cose di una coppa attica. V sec. a.C. sono andate diversamente: in un In basso: iscrizione parlante con primo momento (corrispondente al azione di dono (min[i] mulvanike venel VII-VI secolo a.C.), la città sceglie rapales laivena[---]), incisa sul bordo l’ortografia tipica dell’Etruria di un dolio in impasto rosso, dalla settentrionale (come le confinanti Casa con Recinto. Seconda metà Chiusi e Vetulonia); del VII sec. a.C. successivamente, dalla fine del VI secolo, cambia regole, adottando quelle dell’Etruria meridionale (come la confinante Vulci), per poi tornare alle norme settentrionali all’inizio del IV secolo a.C. Tali modifiche sono testimoniate in modo sistematico, e quindi non derivano dal capriccio momentaneo di qualche rosellano, o da uno scarso radicamento della pratica della scrittura; al contrario, sono l’effetto di scelte in qualche modo pubbliche, che rivelano come la scrittura dovesse essere percepita come un elemento fondante nella definizione della cultura urbana. Enrico Benelli

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SPECIALE • ROSELLE

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L’ANFITEATRO L’Anfiteatro di Roselle, fuori terra già dal Settecento, è stato completamente riportato in luce solo negli anni Sessanta del Novecento. Ascritto al I secolo d.C. circa, l’edificio sorge nel punto piú alto della città, sulla sommità della Collina Nord, sui resti della Casa Ellenistica. Costruita con murature in opera reticolata, la struttura è formata da un terrapieno artificiale a sostegno della cavea, a cui si accedeva tramite otto vomitoria, mentre l’arena di forma ovale è ricavata dal livellamento della roccia calcarea. L’ingresso dei combattenti e degli animali coinvolti nei giochi avveniva dai quattro corridoi lungo gli assi principali dell’edificio e attraverso i carceres,

Sulle due pagine: le strutture superstiti dell’Anfiteatro sulla Collina Nord. A destra: ripresa zenitale dell’edificio per giochi e spettacoli.

quattro piccoli ambienti di servizio posti ai lati dei corridoi maggiori. L’uso dell’edificio per i giochi termina forse con la fine del II secolo d.C., periodo che segna l’avvio di una fase di crisi per Roselle. L’Anfiteatro continua tuttavia a essere frequentato in altra forma, con la sua trasformazione in fortezza nel periodo post-classico, quando vengono aggiunte

ulteriori murature e chiuse le entrate principali. Le ultime fasi di frequentazione si hanno tra il Trecento e il Cinquecento, con attestazione infine di bivacchi temporanei nel Seicento. Oggi, grazie al suo elevato potenziale acustico, il monumento ha nuova vita durante l’estate come luogo di concerti e spettacoli teatrali. Maria Teresa Sgromo


SPECIALE • ROSELLE

LE TERME ADRIANEE Negli anni Trenta del Novecento il diboscamento di un’area pianeggiante alle pendici della Collina Nord mise in luce i resti di un grande edificio termale. Ulteriori ritrovamenti casuali portarono ai primi scavi nel 1942, di cui diede notizia Antonio Minto, e, nel 1970, a un restauro di quanto emerso. Si tratta perciò del piú antico scavo di cui possediamo una sia pur scarsa documentazione all’interno delle mura di Roselle. Tra il 1987 e il 1991 il MAAM ha scavato l’area interna ed esterna dell’edificio, e la pubblicazione dei risultati di quello scavo è tra le finalità del Progetto Roselle. L’edificio termale viene costruito intorno al 110-120 d.C. in opera mista di reticolato e laterizio, e completa la monumentalizzazione del centro cittadino. Si suppone che la costruzione delle Terme sia il frutto di una sovvenzione imperiale: la stessa manodopera impiegata proveniva almeno in parte da Roma, a giudicare dalla qualità della tecnica edilizia e dallo stile dei mosaici.

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L’ingresso principale immetteva nella palestra, pavimentata a mosaico bianco e colonnata: seguiva un ambiente, anch’esso porticato, con una grande piscina o

forse una conserva d’acqua, dal quale si accedeva in successione al frigidarium, al tepidarium, al laconicum, e infine al caldarium, nella tipica sequenza del bagno romano. Ambienti minori erano utilizzati come spogliatoi, come latrina e per attività legate al bagno, quali massaggi, unzioni e depilazioni. Tutti gli ambienti termali erano rivestiti con marmi di vari colori; i pavimenti erano in mosaico bianco e nero, con animali marini fantastici, vicini, per soggetti e stile, a quelli delle contemporanee terme di Ostia. Abbandonate nel IV secolo d.C., le Terme, ormai in rovina, sono riutilizzate per ospitare quella che fu la prima probabile Cattedrale della diocesi di Roselle: nell’area circostante la chiesa viene collocato il cimitero, in funzione almeno dal VI secolo. Con la traslazione della sede vescovile a Grosseto nel 1138, a giudicare dalle monete piú tarde ritrovate nello scavo, il cimitero cade in disuso. Mariagrazia Celuzza

In alto: una tomba a fossa medievale, ricavata nel pavimento delle Terme Adrianee. A sinistra, sulle due pagine: ripresa zenitale delle Terme Adrianee, edificate nel 110-120 d.C., a coronamento dell’intervento di monumentalizzazione del centro cittadino. In basso: planimetria ricostruttiva delle Terme Adrianee.

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Ambiente di servizio

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In grigio gli ambienti rioccupati dalla chiesa

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SPECIALE • ROSELLE

NUOVI SCAVI SULLA COLLINA NORD

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li scavi aperti sulla Collina Nord hanno riportato in luce un nuovo isolato con funzione residenziale, esteso su un’area di 1000 mq circa, a poca distanza dall’Anfiteatro. La scoperta rappresenta un ulteriore e importante tassello per la storia dell’edilizia residenziale della città etrusco-romana, che già comprende la Casa dell’Impluvium (VI secolo a.C.), la Casa Ellenistica (metà III–II secolo a.C.) e la Domus dei Mosaici (metà del I secolo a.C., con modifiche successive). La struttura restituisce informazioni sull’organizzazione urbanistica dell’area, sulla progettazione della rete viaria in relazione ai terrazzamenti della pendice del rilievo, sugli spazi dedicati agli edifici pubblici (Anfiteatro) e a quelli privati (abitazioni), soprattutto per la fase romana tardo-repubblicana e imperiale. Con il prosieguo delle ricerche, questi aspetti potranno essere apprezzati in una prospet-

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tiva di lungo periodo. In effetti, il nuovo edificio residenziale ha attraversato varie fasi costruttive, per ora databili soltanto in modo ampio e preliminare tra le età ellenistica, romana e tardo-antica. All’interno dei limiti temporali di tali grandi fasi, la costruzione sembra avere subito numerose trasformazioni e adattamenti, verosimilmente riconducibili a passaggi di proprietà o alla volontà dei diversi proprietari di modificare la planimetria della casa, in base alle esigenze del momento. Ciò si riflette nei cambiamenti della funzione degli ambienti e dei percorsi interni, che non sono ancora chiari per tutte le fasi individuate; anche i modi di costruire si sono modificati attraverso il tempo, con il risultato che l’area indagata è oggi un complicato mosaico di strutture realizzate con differenti tecniche edilizie e materiali (vedi box e foto a p. 99). Lo studio dei reperti rinvenuti nel 2018 e nel

Veduta aerea dell’area centrale di Roselle: in primo piano, gli edifici della piazza del Foro; sullo sfondo il Poggio di Moscona.


2019 è appena iniziato, ma appare evidente una fase di frequentazione etrusca: a partire dal periodo etrusco, infatti, sembra esistere un isolato di forma grosso modo rettangolare, orientato in senso nord-est/sud-ovest. La presenza di due cisterne a pozzo disposte lungo l’asse mediano dell’isolato potrebbe indicare, già per questa fase, una suddivisione dell’area in due distinte unità abitative, collocate nella metà sud-ovest e in quella nord-est.

NUOVI AMBIENTI RESIDENZIALI A partire dall’età ellenistica (IV-III secolo a.C.?), vengono costruiti nuovi ambienti a carattere residenziale. Uno dei pozzi-cisterna viene dismesso per creare un nuovo sistema di recupero e conservazione delle acque, testimoniato da una bassa vasca rettangolare, rivestita di cocciopesto, collegata a una canaletta: la vasca doveva trovarsi in un cortile, all’interno della porzione residenziale nordest dell’isolato. In questa fase le murature sono costruite con blocchi di pietra calcarea di forma appiattita, posti in opera a secco. Successivamente, nella fase tardo-repubblicana (II-I secolo a.C.?), vengono realizzate due nuove unità abitative, utilizzando l’opera cementizia, rasando e in parte sfruttando le strutture preesistenti. Nella zona a nordest, la precedente vasca viene sostituita con un impluvium pavimentato con mattoncini disposti a spina di pesce e contornato da quattro colonne in laterizi, collocato pertanto al centro di un atrio tetrastilo. La casa presenta altri elementi tipici della tradizionale domus romana, poiché sull’atrio si aprono due ambienti (cosiddette ali), uno dei quali è pavimentato in cocciopesto, nel quale sono inserite scaglie di calcare rosa. Il pavimento occupa, senza soluzione di continuità, anche lo spazio dell’atrio intorno all’impluvium, ma in questa zona è solo parzialmente conservato. L’edificio precedente viene parzialmente rasato e modificato, in modo da poterne riutilizzare alcune murature per edificare una domus ad atrio. La facciata del nuovo edificio doveva trovarsi in asse con l’impluvium, ma verso est tutta la struttura è stata asportata in seguito alle frequentazioni piú tarde e ai lavori agricoli di età moderna. L’allineamento dei muri si segue solo in alcune porzioni, grazie alla presenza dei tagli di fondazione che hanno inciso la roccia sotto-

stante. Dal lato opposto, invece, non è del tutto chiaro se la domus appena descritta fosse in collegamento con la porzione sud-ovest dell’isolato oppure, come appare piú probabile, se all’interno dell’isolato continuassero a convivere due diverse unità abitative. Ciascuna di esse presenta solo alcuni elementi della domus ad atrio e si può pertanto presumere che i proprietari appartenessero al ceto medio di Roselle: essi, dunque, cercarono di imitare le residenze degli esponenti piú in vista, come la Domus dei Mosaici, senza tuttavia possederne i mezzi finanziari o sentire la necessità di inserire tutti gli ambienti che componevano la domus aristocratica tradizionale. Nell’unità abitativa a nord-est abbiamo già notato la presenza dell’atrio e delle ali, ma sembra mancare il tablinum. A sud-ovest, invece, si riconoscono chiaramente il vestibolo e il corridoio di ingresso (fauces) della seconda casa che si affacciava su una strada ancora perfettamente leggibile nella sua larghezza e nel suo orientamento. Dal corridoio si accedeva a un grande spazio centrale, probabilmente un cortile a cielo aperto dotato di una vasca al centro, realizzata sopra il precedente pozzo-cisterna. La vasca non è conservata ma è ancora visibile la canaletta di scolo che fungeva da troppo-pieno e serviva a far defluire le acque verso la strada, passando sotto la soglia di ingresso. Sui lati del cortile si disponevano gli ambienti della casa, ma la loro conformazione originaria non è ricostruibile a causa delle importanti modifiche avvenute in seguito.

UN PICCOLO EDIFICIO TERMALE Nella prima età imperiale (forse tra il II e gli inizi del III secolo d.C.), l’abitazione affacciata sulla strada a ovest dell’isolato subisce una trasformazione e sul lato orientale dell’edificio viene inserito un piccolo edificio termale. La pianta del complesso è interamente leggibile ed è composta da vari ambienti disposti in linea: un frigidarium (la vasca per i bagni freddi non è stata individuata) dava accesso sia al praefurnium (seminterrato e raggiungibile tramite una piccola scala), sia al caldarium, riconoscibile per la presenza di un pavimento sospeso su colonnette di laterizi quadrati (bessali). Sul lato opposto del cortile, verso nord, si trovava una sala per banchetti (forse un triclinium), con ampia apertura verso il cortile e a r c h e o 97


SPECIALE • ROSELLE

UNA LUNGA FREQUENTAZIONE Collina Nord è il toponimo che identifica uno dei due poggi (l’altro è la Collina Sud), inclusi nella cinta muraria di Roselle. Quest’area, scavata in minima parte, conserva i resti di una lunga storia insediativa, fatta soprattutto da edifici domestici, se escludiamo l’Anfiteatro e gli edifici sul versante affacciato sul centro monumentale: tracce di capanne ascritte al VII secolo a.C. precedono la Casa dell’Impluvium (VI a.C.), un edificio con vari ambienti raccolti intorno a una corte centrale, che ospitava una vasca rettangolare per la raccolta delle acque piovane (l’impluvium), collegata a una cisterna alimentata da un pozzo. In questa casa si trovano, pertanto, in forma ancora incompleta alcuni degli elementi che caratterizzeranno la casa ad atrio di età romana. Di età successiva (metà del III-II secolo a.C.), è la Casa Ellenistica, situata nel settore meridionale della Collina Nord. In questo caso, ritroviamo una casa romana ad atrio completa di tutti gli ambienti principali: dall’atrio, situato al centro, si ha accesso al tablinum e alle alae; un particolare ambiente con una bassa vasca rettangolare era forse adibito a sala per banchetti. La casa viene distrutta da un incendio agli inizi del I secolo a.C.; all’inizio del secolo successivo, parzialmente sovrapposto ai resti della casa, verrà realizzato l’Anfiteatro. La Collina Nord manterrà a lungo, tuttavia, il carattere residenziale. Benedetta Baleani e Marta De Pari

pareti decorate ad affresco in stile lineare (età antonina-inizi dell’età severiana), cioè a fondo bianco con riquadri delimitati da semplici linee rosse o verdi e motivi decorativi centrali (questi ultimi non conservati). Accanto alla sala da banchetto è stata fatta una delle scoperte piú significative, da attribuire con probabilità già alla fase precedente: un ambiente delimitato da murature su tutti i lati, ma scavato all’interno incidendo la roccia per una profondità di 1,20 m circa. Si tratta, con tutta probabilità, di una cisterna per l’immagazzinamento dell’acqua, un ulteriore 98 a r c h e o

comfort che permetteva ai proprietari della casa di rendersi indipendenti dalle cisterne pubbliche, a oggi mai rinvenute sulla Collina Nord (a differenza della Collina Sud e dell’area del Foro dove si trovano cisterne monumentali). La cisterna si riempiva con un singolare sistema di captazione delle acque meteoriche attraverso un pozzetto, anch’esso scavato nella roccia, posto all’esterno dell’ambiente e comunicante con l’interno tramite un passaggio arcuato. Un ulteriore apprestamento idraulico è stato scavato all’esterno dell’ala dell’unità abitativa sull’altro lato dell’isolato. Si tratta di un’ampia canaletta rivestita con tegole, appoggiata a un bancone di muratura: potrebbe trattarsi di un lavatoio o abbeveratoio, tra l’altro collegato con l’interno della casa, per cui l’acqua poteva essere riutilizzata per la pulizia dei pavimenti tramite un passaggio nel muro perimetrale occidentale dell’ala. La scarsa disponibilità di risorse idriche, specie durante la stagione estiva, determinò con probabilità un giudizioso e oculato sfruttamento della risorsa idrica.

L’ABBANDONO La fase tardo-antica (circa III-V secolo d.C.) è la meno comprensibile: l’edificio, in effetti, continua a essere utilizzato e gli ambienti sono trasformati, con una destinazione spesso differente da quella originale. Buche e trincee di varia forma incidono i pavimenti e i muri precedenti, per cui è possibile che negli ambienti un tempo a uso residenziale si siano installate attività artigianali e produttive, la cui natura è ancora da chiarire. L’edificio viene quindi abbandonato e la vocazione residenziale dell’area muta in modo definitivo: sul luogo della casa si estende un’area cimiteriale con tombe a cista litica, probabilmente contemporanea a quella scavata nelle Terme Adrianee (vedi box alle pp. 94-95). Per realizzare le ciste sepolcrali si reimpiegano le pietre delle murature: in alcuni casi, le tombe si trovano parzialmente inserite nei muri degli edifici precedenti. Terminato questo utilizzo, verosimilmente dopo l’abbandono di Roselle, l’area sembra essere adibita a uso agricolo, come potrebbe testimoniare la presenza di un muretto a secco utile al contenimento delle terre. Stefano Camporeale e Luca Passalacqua

Ripresa zenitale dell’area di scavo sulla Collina Nord, evidenziata dal riquadro bianco, con rilievo planimetrico delle strutture individuate.


Il gruppo di ricerca del Progetto Roselle esprime la propria gratitudine alla direttrice, Maria Angela Turchetti, e al personale di custodia dell’Area Archeologica Nazionale di Roselle per aver facilitato in ogni modo le attività di cantiere. Pari gratitudine va alle Pro Loco di Roselle e di Batignano, per aver agevolato e supportato con grande impegno la permanenza degli archeologi in zona.

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SPECIALE • ROSELLE

I MONUMENTI DEL FORO Il Foro occupa la sella tra le due Colline e si affaccia sulla piana occupata nell’antichità dal Lago Prile: tra la conquista romana e l’età imperiale ha subito varie ristrutturazioni, con colmature che hanno rialzato il piano di calpestio, seppellendo le costruzioni precedenti. Nella prima età imperiale e soprattutto nel I secolo d.C., l’area acquisisce il carattere monumentale rivelato dagli scavi, con l’erezione di molti edifici pubblici e la definizione della piazza. Nell’assetto definitivo, il luogo appare come una piazza quadrangolare, pavimentata con lastre di

travertino: era circondata probabilmente da un portico su due lati, mentre il lato orientale è costeggiato dall’asse viario convenzionalmente chiamato Cardo. A sud, al di là di una fila di botteghe, sono collocati due edifici sacri, il Tempietto e l’Augusteo, sede del culto dell’imperatore: da questo proviene un importante ciclo statuario della metà circa del I secolo d.C., oggi esposto nel MAAM. A est sorge la Basilica, con ingresso sul Foro e annesso Tribunal, riservata soprattutto all’esercizio della giustizia; sul lato nord si affacciano invece quattro edifici di diversa cronologia e funzione, tra cui va ricordata la cosiddetta Aula dei Bassi, eretta nella prima metà del II secolo d.C. per un’importante famiglia rosellana. Nel settore centrale del Foro, al di sotto del pavimento in travertino sono stati lasciati in vista edifici del periodo etrusco tra i quali è la Casa con Recinto, risalente alla metà del VII secolo a.C. Nel settore nord della piazza si trovano i resti del podio di un tempio molto mal conservato, di fondazione etrusca, ma in uso anche in età romana e incluso nell’area del Foro. Chiara Mendolia

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Nella pagina accanto, in alto: ripresa panoramica del presunto Tempietto di Giove. Nella pagina accanto, in basso: veduta panoramica

dell’Aula dei Bassi. In questa pagina: ripresa panoramica di parte della piazza del Foro e planimetria dell’intera area.

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SPECIALE • ROSELLE Statua-ritratto di Giulia Livilla, rinvenuta nell’Augusteo. Metà del I sec. d.C. Grosseto, MAAM. Nella pagina accanto: statua-ritratto di Livia, moglie di Augusto, rappresentata come la dea Cerere, rinvenuta anch’essa nell’Augusteo. Metà del I sec. d.C. Grosseto, MAAM.

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L’ETÀ ROMANA: I PROBLEMI APERTI Roselle è un caso di grande interesse per lo studio dell’Etruria romana, in quanto i vasti scavi intrapresi negli anni Sessanta e Settanta del Novecento hanno messo in luce tutta l’area del Foro e gli immediati dintorni. In età augustea l’area pubblica della piazza viene ampliata e regolarizzata a spese degli spazi limitrofi, che ancora in epoca tardo-repubblicana erano occupati da abitazioni private. La sistemazione è completata in età flavia, quando la città raggiunge probabilmente il suo momento migliore, con l’ascesa di ben due rosellani della famiglia dei Vicirii alla carica di console nell’89 e nel 98 d.C. In questo periodo viene infatti lastricato il Foro, con una pavimentazione ora parzialmente conservata, a causa del reimpiego delle lastre, riutilizzate per le sepolture tarde presso la basilica cristiana. Per arrivare alla migliore comprensione degli edifici affacciati sul Foro è stato avviato uno studio per ricostruirne la volumetria e le fasi. La ricostruzione della Basilica Orientale, di età augustea, è stata la prima a essere completata, è in fase avanzata l’Augusteo sul lato sud, seguiranno l’adiacente Tempietto di Giove e, alle loro spalle, la Domus dei Mosaici. Le strutture sul lato nord della piazza hanno suscitato un vivace dibattito: il doppio portico che chiude a settentrione il Foro, fungendo anche da sostruzione della retrostante collina, mostra evidenti analogie strutturali con varie basiliche a due navate tardorepubblicane e della prima età imperiale. Dobbiamo quindi riconoscervi una delle piú antiche attestazioni del tipo architettonico al di fuori di Roma, all’incirca coeva alla basilica di Cosa. Ciò ha importanti ricadute storiche, in quanto, con altri indizi, potrebbe forse suggerire la deduzione di Roselle a colonia romana già nella seconda metà del II secolo a.C. Alle spalle della Basilica si aprono inoltre quattro ambienti disposti in serie, aggiunti in fasi successive, con lo scavo della collina retrostante. In quello centrale, sopraelevato con una rampa di gradini e pavimentato a mosaico, va verosimilmente riconosciuto il Tribunal, cioè lo spazio rialzato della Basilica dove i magistrati esercitavano la loro giurisdizione. I due ambienti minori di destra erano probabilmente sacelli onorari, mentre l’elegante aula in laterizio rivestita di marmo sulla sinistra, l’Aula di Bassus, ospitava un importante ciclo di statue-ritratto alloggiate nell’abside di fondo e nelle nicchie laterali. Su di esse si è esercitata la critica con pareri divergenti, pur essendo alcuni elementi ormai assodati: i saggi condotti dalla Soprintendenza

all’esterno dell’edificio in occasione dei restauri permettono di datare la struttura alla prima metà del II secolo d.C. A età traianea vanno ricondotti anche i ritratti meglio conservati: la comparazione con simili gruppi di famiglia del I e II secolo permette di riconoscervi gli onori tributati a una famiglia eminente della città, di cui purtroppo ignoriamo il nome gentilizio. Le sculture sono visibili oggi nel MAAM, ma alcune di esse sono riprodotte con calchi e riallestite sul posto. Il personaggio principale, di cui conosciamo solo il cognome Bassus, era circondato dalle statue del nonno omonimo, forse del padre Maximus, dei fratelli minori Valerianus e Priscilla e da una statua femminile, purtroppo anonima e mal conservata. Con il II secolo si chiude il periodo migliore della città, che conosce ancora una lunga vita, ma che certamente non raggiungerà piú lo stesso livello di floridezza economica. Paolo Liverani

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SPECIALE • ROSELLE

ROSELLE E IL MAAM: LE ATTIVITÀ E I PROGETTI Roselle: dallo scavo al Parco Nella seconda metà del Novecento, il sito di Roselle ha costituito uno dei principali cantieri di scavo della Soprintendenza, che vi ha intrapreso, in collaborazione con il Comune di Grosseto, poderosi interventi di restauro e musealizzazione, realizzati soprattutto tra il 1980 e il 1996. Tutto ciò ha consentito, con la recinzione completa dell’area urbana e la prosecuzione delle indagini presso la cinta muraria, in gran parte resa visitabile, l’apertura al pubblico. Oggi Roselle è un’Area Archeologica Nazionale afferente alla Direzione Regionale Musei della Toscana, organizzata in percorsi di visita anche notturni e oggetto di progetti di studio, ricerca e valorizzazione in collaborazione con Enti e Istituzioni pubbliche e private: il Comune di Grosseto, il MAAM, le Università di Siena e Firenze, la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Siena, Grosseto e Arezzo, le Pro Loco di Roselle e Batignano, le Associazioni Maremma Cultura Popolare e Polis, i locali Istituti scolastici e le Guide archeologiche e ambientali. Roselle a Grosseto: il MAAM Il Museo Archeologico e d’Arte della Maremma-Museo d’Arte Sacra della Diocesi di Grosseto ha sede dal 1975 nell’ex Tribunale del capoluogo maremmano, in Piazza Baccarini, all’interno del centro storico. Nato nel 1860 dalla volontà di Giovanni Chelli, un illuminato canonico senese, il MAAM festeggia dunque i 160 anni di attività. L’odierno allestimento, ultimo per

cronologia, è stato inaugurato il 21 marzo 1999 e si deve alla precedente direzione di Mariagrazia Celuzza che, insieme a un ampio gruppo di lavoro, si è occupata in prima persona delle fasi di progettazione e realizzazione. Da sempre punto di riferimento di un territorio, luogo narrante per eccellenza, è proprio con la veste attuale che l’intero percorso espositivo del piano terra dedica tutta la sua attenzione a Roselle. Era Roselle, del resto, anteriormente al 1138, ad avere il primato di città nell’attuale piana di Grosseto, prima di perdere la cattedra vescovile in favore dell’odierno capoluogo di provincia. L’intera sezione 2 del Museo, composta da 11 sale, permette un viaggio in successione cronologica dalla fondazione della città, abitata in forma stabile dal IX-VIII secolo a.C., fino al suo abbandono in età moderna. Qui sono esposti gran parte dei materiali recuperati negli scavi che la Soprintendenza ha condotto sul sito da piú di 50 anni. La valorizzazione integrata Il MAAM e la città etrusco-romana di Roselle, oggi sede di Parco Archeologico, sono legati da un fil rouge destinato a rafforzarsi e ispessirsi nel tempo: le due realtà sono profondamente compenetrate nel racconto di un territorio, di una identità, di una storia. È sicuramente fondamentale mantenere questo legame: un ottimo esempio di rapporti tra Istituzioni che puntano non solo alla propria valorizzazione, ma a quella di un territorio piú ampio. Al fine di mantenere e potenziare questo ciclo virtuoso, le due realtà

Eventi nell’Area Archeologica di Roselle: a sinistra, la mostra d’arte contemporanea «Forever never comes» (2018); a destra, visitatori della mostra «Ritratti di Maremma: dall’archeologia alla fotografia» (2015); nella pagina accanto, accompagnamento musicale in occasione della mostra «Ritratti di Maremma: dall’archeologia alla fotografia» (2015).

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propongono progetti e rassegne annuali congiunte. Oltre al Progetto Roselle, concessione di ricerca pluriennale del Comune di Grosseto, che vede coinvolti l’Università di Siena, il MAAM stesso e l’Area Archeologica di Roselle, vi sono la realizzazione di percorsi di approfondimento e formazione come Protagonisti di una Storia o di alternanza scuolalavoro. La Direzione Regionale Musei della ToscanaArea Archeologica di Roselle e il MAAM, inoltre, progettano e organizzano insieme iniziative per il grande pubblico, quali la Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico ArcheoFilmFestival, quest’anno alla sua seconda edizione e la mostra «Una Terra di mezzo. I Longobardi e la nascita della Toscana, dedicata alla Tuscia Langobardorum». Per la didattica

integrata, sono stati attivati percorsi destinati a bambini e ragazzi che vedono il Museo e l’Area Archeologica interagire strettamente attraverso un’offerta culturale denominata «Intrecci», estesa anche ad altri Istituti di cultura grossetani e favorita da un servizio bus Tiemme che facilita e migliora il collegamento tra i due luoghi, al pari della pista ciclabile realizzata dal Comune di Grosseto. Attivo è anche un servizio bus per persone con disabilità, messo a disposizione dal Comune di Grosseto, che potrà raggiungere l’ingresso del sito o anche il Foro di Roselle. Anche la guida kids Roselle&MAAM, di prossima pubblicazione, rientra appieno in questa sinergia. Maria Angela Turchetti e Chiara Valdambrini

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SPECIALE • ROSELLE

GROSSETO PER ROSELLE Gli scavi archeologici, la ricerca scientifica, la valorizzazione di tracce indelebili di un passato ricco di fascino sono alcuni degli elementi alla base di un ambizioso progetto che il Comune di Grosseto ha deciso di promuovere, commissionandolo all’Università di Siena, attraverso lo staff di ricerca guidato dal professor Andrea Zifferero. È una delle iniziative che il Comune di Grosseto ha adottato in questa legislatura per riqualificare e dare nuovo impulso all’attività archeologica, sfruttando le importanti potenzialità presenti in questo settore: gli scavi, il Parco di Roselle, il Museo Archeologico e d’Arte della Maremma sono luoghi di vanto, punti di forza per portare avanti una progettualità di ampio respiro. Per questo, l’Amministrazione Comunale, per quanto di sua competenza, ha cercato di incidere in questo ambito con varie azioni, a partire dall’operazione di potenziamento del trasporto pubblico in sinergia con l’azienda di trasporto pubblico locale. Contemporaneamente il Comune sta realizzando una nuova pista ciclabile di collegamento tra Roselle, Grosseto e il Parco della Maremma per un totale di 20 chilometri di tracciato pensato per le due ruote, e ha già adottato un protocollo d’intesa con altre realtà pubbliche e private del territorio per un biglietto unico di ingresso che prevede anche l’accesso al Parco archeologico. Nella non facile condizione di reperimento di risorse e di redistribuzione delle stesse, è necessario fare scelte e dare priorità. E questa Amministrazione Comunale ha puntato molto sulla Cultura. Il progetto triennale di scavi, inserito in un piú vasto

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La piazza del Foro, attraversata dall’asse stradale lastricato del cosiddetto Cardo. In basso: la Sala 11 del MAAM, con l’esposizione delle statue provenienti dall’Augusteo.

piano di collaborazione con il MAAM, con l’Università di Siena, la Soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio per le province di Siena, Grosseto e Arezzo e la Direzione Regionale Musei della Toscana, si pone due obiettivi, cioè la crescita culturale e lo sviluppo turistico: la crescita culturale indirizzata verso la ricerca e l’approfondimento scientifico, ma anche come una conoscenza piú diffusa a vantaggio del territorio; lo sviluppo turistico perché valorizzare la parte archeologica e l’attività a essa collegata significa potenziare un’offerta che richiami una numerosa platea di appassionati e di visitatori che scelgono Grosseto e la Maremma per le loro vacanze, di breve e lunga durata. Offrire loro prodotti di qualità, ma anche di facile fruibilità è un valore aggiunto rispetto al patrimonio paesaggistico esistente, per il quale siamo ancora meta privilegiata. Luca Agresti Vice Sindaco e Assessore alla Cultura del Comune di Grosseto

PER SAPERNE DI PIÚ Mariagrazia Celuzza, Museo Archeologico e d’Arte della Maremma. Museo di Arte Sacra della Diocesi di Grosseto, Edizioni Effigi, Arcidosso 2017 (II ed.); Paolo Liverani, Il Foro di Rusellae in età romana, «Atlante Tematico di Topografia Antica» 21, 2011; pp. 15-31 Francesco Nicosia, Gabriella Poggesi (a cura di), Roselle, Guida al parco archeologico, Nuova Immagine Editrice, Siena 2010 (II ed.)

DOVE E QUANDO Area Archeologica Nazionale di Roselle Roselle (Grosseto), via dei Ruderi s.n.c. Orario tutti i giorni, 10,15-18,45 Info tel. 0564 402403; e-mail: pm-tos.arearoselle@ beniculturali.it; seguici su Facebook Museo Archeologico e d’Arte della Maremma-Museo d’Arte Sacra della Diocesi di Grosseto (MAAM) Grosseto, Piazza Baccarini 3 Orario gli orari di apertura variano stagionalmente Info tel. 0564 488752-760; e-mail: maam@comune. grosseto.it, accoglienzamaam@gmail.com; https://maam.comune.grosseto.it/ seguici su: Facebook, Instagram, Twitter, Youtube a r c h e o 107


IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

UNA DISTANZA DA COLMARE COME AFFRONTARE IL DIVARIO CHE, NEL NOSTRO PAESE, SEMBRA TUTTORA SEPARARE IL PUBBLICO (COLTO) DA CHI OPERA, COME PROFESSIONISTA, NELLO STUDIO E PER LA SALVAGUARDIA DEL PATRIMONIO CULTURALE? UNA RICERCA INTITOLATA ALL’«ARCHEOLOGIA PUBBLICA» TRACCIA UNA RISPOSTA...

V

ent’anni fa, quando, con Riccardo Francovich, stilammo le voci di un Dizionario di archeologia (Laterza, 2000), a nessuno dei due venne in mente di inserirvi anche il lemma «Pubblica, archeologia»: termine che si è fatto invece ricorrente nel vocabolario degli archeologi, tanto da rischiare di apparire addirittura una moda. Al contrario, l’archeologia pubblica è una cosa molto seria, direi anzi decisiva, e non stupisce che ne sia stato stilato un manuale (Giuliano Volpe, Archeologia pubblica. Metodi, tecniche, esperienze, Carocci Editore, Roma 2020). Ecco qualche domanda: quale ruolo può svolgere l’archeologia per la società? Gli archeologi, che soffrono della separazione che a volte si manifesta fra mondo della ricerca, della tutela, delle professioni e dell’economia, sono consapevoli del ruolo che potrebbero svolgere? Sanno che spetta a loro il delicatissimo compito di mediatori tra il passato e l’oggi, che significa anche la capacità di porsi come mediatori sociali nei processi di partecipazione? C’è chi ritiene che in Italia la distanza tra archeologi e società sia andata crescendo.

isolarlo, allontanando dal sentimento comune il senso della sua conservazione. Se oggi, piú di ieri, misuriamo lo scollamento tra amministrazione e società, questo è anche il portato di un lungo pezzo di storia del nostro Paese, e di una concezione della tutela del patrimonio, ormai storicizzata, che, sin dai primi editti pontifici del XVII secolo, ha scritto e continua a scrivere buone norme, che mirano alla salvaguardia delle «cose». Queste inizialmente erano cose

«d’arte» e poi – è stato questo uno dei grandi meriti dell’Editto Pacca di duecento anni fa – anche «di storia», ma pur sempre riferite a oggetti, monumenti, materia. È questa la nostra tradizione, peraltro ricca di sprazzi di luce: una tradizione dichiaratamente patrimoniale. E quindi non dovremmo stupirci se in questa prospettiva le persone siano state tenute fuori dalla porta, a giocare il ruolo dei potenziali distruttori del patrimonio e del bello.

COSE «D’ARTE» E COSE «DI STORIA» Ci si chiede se la risposta amministrativa, con i suoi formidabili strumenti di tutela, salvi il patrimonio, ma non rischi di

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L’archeologo britannico sir Robert Eric Mortimer Wheeler (1890-1976).


Date queste premesse, storicamente comprensibili, il risultato si è tradotto in norme e comportamenti, che hanno spesso salvato la materialità del patrimonio, ma assai meno il suo senso sociale; hanno salvaguardato la fisicità degli oggetti, ma non dei contesti che davano loro un senso. Da vecchio archeologo ho sentito ripetere e ripetuto io stesso tante volte una celebre frase di uno dei maggiori archeologi del XX secolo, sir Mortimer Wheeler, il quale, a introduzione del suo Archaeology from the earth (siamo nel 1954), scriveva: «Se c’è un filo conduttore in queste pagine, è questo: l’insistenza che l’archeologo non scava cose, ma persone». Ma forse non sempre ci siamo soffermati su ciò che Wheeler scriveva subito dopo: «Ma se i coccetti con cui ha a che fare non diventano per lui cosa viva, se lui stesso non ne percepisce il senso e il sentimento comune, farebbe meglio ad esercitarsi in altre discipline…». Ho tradotto come sentimento comune, quel senso di contatto o relazione che l’inglese common touch sinteticamente esprime, perché la tensione verso le persone nella ricerca archeologica, e quindi storica, è la stessa sintetizzata nella parola d’ordine del National Trust inglese che dice «love people as much as you love places», ama le persone almeno quanto ami i luoghi. Un amore riflesso in quella funzione di «studio, educazione e diletto», che figura fra le motivazioni dettate dall’ICOM (International Council of Museums) per l’esistenza di qualsiasi museo, che è entrata nelle nostre norme solo cinque anni fa, grazie al cosiddetto «Decreto musei». La cultura italiana del patrimonio non ha ancora fatta sua questa assunzione, che è già entrata, invece, nell’impalcatura mentale ed organizzativa del FAI (Fondo Ambiente Italiano). Eppure, quella strada l’ha imboccata: una

Il cardinal Pacca, disegno JacquesLouis David. New York, The Metropolitan Museum of Art. A Bartolomeo Pacca si deve, nel 1820, l’emanazione di un editto sulla tutela del patrimonio artistico, che sottopose gli scavi di antichità a licenza e il commercio degli oggetti d’arte e il loro restauro ad autorizzazione.

strada di cui oggi percepiamo l’esistenza e sempre piú, spero, la necessità. Insomma, ad aver cambiato l’aspetto del problema e dato un senso nuovo alle nostre riflessioni è il vivere il conflitto che nasce dalla consapevolezza della necessità di un cambio di mentalità: un cambio che percepiamo indispensabile, ma che ci affatica, forse ci spaventa, e a volte, paradossalmente, ci fa chiudere ancor piú strettamente dentro le certezze caduche di un tempo.

AMMIRAZIONE A CORRENTE ALTERNATA Ammiriamo i clown che portano un po’ d’allegria nei reparti di oncologia pediatrica, i ragazzi che allestiscono mense per i diseredati, le comunità che si impegnano per combattere il degrado, ma di fronte al patrimonio culturale ci arrestiamo, come se fossimo davanti a qualcosa che non ci compete, che ci è precluso. Salvo consolarci con la retorica degli «angeli del fango» di fronte allo slancio dei giovani per il recupero dei libri di una biblioteca colpita da una alluvione. Attività ampiamente

diffuse nel campo sanitario, sociale, ambientale, sono considerate (chissà perché?) improponibili quando si parla di patrimonio culturale. Ecco dunque che l’archeologia pubblica intende approfondire il rapporto tra l’archeologia e il pubblico, o meglio i pubblici, e le relazioni tra archeologia e società contemporanea. Un rapporto che – a mio giudizio – investe direttamente la relazione tra erudizione e cultura. Che cos’è la cultura? Le risposte sono innumerevoli e talora contrastanti, ma, in fondo, io credo che la cultura sia, in termini stringatissimi, niente altro che la capacità di percepire se stessi, la propria vita, il proprio ambiente, le proprie relazioni con il mondo, sentendosene parte. È la capacità di valutare e dare un senso a quel che accade e che potrebbe accadere, ma anche a ciò che è accaduto (e qui si aprono le praterie dell’archeologia) per orientare i nostri comportamenti e quelli di chi potrebbe aver fiducia nel nostro eventuale esempio. La cultura è insomma capacità

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In alto: Firenze, 1966. Giovani italiani e stranieri mettono in salvo i volumi della Biblioteca Nazionale invasa da acqua e detriti a seguito dell’alluvione

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dell’Arno. Per loro fu coniato il termine di «angeli del fango». In basso: visitatori in una sala del British Museum, a Londra.

critica di pensiero e azione. Non c’è nessuna verità alla quale possa darci adito. Ma c’è la consapevolezza. Che è la chiave prima, se non unica, per decidere come stare nel mondo. E in fondo è la chiave della felicità: condizione alla quale aspira, come crede e come può, ogni essere umano. Diversa quindi per me dalla cultura, ma con essa legata nel bene e nel male, è l’erudizione. La conoscenza delle cose, o meglio: di cose. Di determinate cose, che deriva dall’accumulo di una quantità di informazioni, non casuali, non affastellate, ma fra loro interrelate e ricercate, tanto da fare un sistema. I sistemi che sono alla base di quelle che chiamiamo discipline, siano esse l’archeologia, la storia della letteratura, la fisiologia del corpo umano, la fisica delle particelle... E l’archeologia pubblica insomma – ecco una possibile definizione – è la veste culturale dell’archeologia.



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

I MILLE VOLTI DEL MACEDONE BEN CONSCIO DEL POTERE DELLE IMMAGINI, ALESSANDRO MAGNO DIFFUSE LA PROPRIA EFFIGIE IN OGNI ANGOLO DEL SUO IMPERO SCONFINATO. UN’ICONA DESTINATA A GODERE DI UNA FORTUNA STRAORDINARIA, ISPIRANDO PERFINO IL PADRE DELLA POP ART

«N

on è forse la vita solo una serie di immagini, che cambiano solo nel modo di ripetersi?»: questa affermazione di Andy Warhol (1928-1987), l’esponente piú celebre della Pop Art, potrebbe senza dubbio adattarsi, con le opportune varianti, alla numismatica antica. L’iconografia monetale, infatti, è segnata da una ricca gamma di tipi, che si combinano tra loro secondo variabili molteplici e ripetitive, e che, grazie alla loro presenza sul mezzo di scambio, conoscono una diffusione spaziale e sociale enorme. Nata nel Regno Unito e negli USA tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, la Pop Art si basava sulla ripetizione di figure e prodotti della società dell’epoca secondo stilemi popolari e riconoscibili dal grande pubblico su scala mondiale. Può considerarsi la forma artistica della società dei consumi, della globalizzazione e della riproducibilità del prodotto, intendendo con questo tutto ciò che fa parte dell’immaginario collettivo della cultura popolare. La definizione fu coniata dai critici e letterati Leslie Fiedler e Reyner Banham nel 1955, con riferimento all’universo dei mezzi di comunicazione di massa (fumetti, riviste, televisione, cinema e anche merci varie di largo consumo), e,

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negli anni Sessanta, Lawrence Alloway riferí il termine esclusivamente all’arte ispirata alla cultura di massa. Si pensi appunto alle serigrafie in cui Andy Warhol rielabora i ritratti di Marilyn Monroe, Elizabeth Taylor, Lenin, Mao, Elisabetta II, per tacere della celeberrima zuppa Campbell o della banana che ha reso inconfondibile The Velvet Undergound & Nico, primo album dell’omonimo gruppo musicale, pubblicato nel 1967, e del quale lo stesso Warhol fu produttore.

PROVE TECNICHE DI GLOBALIZZAZIONE

Tetradramma in argento di Lisimaco III. Macedonia, regno di Tracia, 297/6-282/1 a.C. circa. Al dritto, la testa di Alessandro Magno con diadema e corna di Ammonne; al rovescio, Atena Nikephoros (portatrice di vittoria) seduta e armata, con leggenda «del re Lisimaco».

È forse meno noto, invece, che, tra le icone postmoderne che ispirarono l’artista statunitense, rientra anche un personaggio che ben rappresenta un esempio di «globalizzatore» dell’evo antico e la cui opera politico-militare, veicolata dalle conquiste belliche, spazia dalla Macedonia al Gandhara, in India, favorendo la penetrazione della cultura figurativa ellenica sino all’Asia occidentale. Si tratta di Alessandro Magno, re di Macedonia, uno dei massimi protagonisti della storia universale, capace di dare vita a uno dei piú vasti regni della sua epoca, ponendo le premesse per la diffusione della cultura ellenistica in gran parte del mondo


conosciuto. Il suo volto ricorre su statue, affreschi, mosaici, gemme e monete, ripreso anche dai suoi successori e dai condottieri che, nel corso dei secoli, vollero ispirarsi alle sue sembianze. Nel 1982, Warhol, in occasione della mostra «The Search for Alexander» (New York, The Metropolitan Museum of Art, 27 ottobre 1982-3 gennaio 1983), realizzò la serie di stampe colorate serigrafate Alexander the Great, su invito del gallerista Alexander Iolas (1907-87), eclettico e importante personaggio del mondo artistico dell’epoca, amico e primo promotore del genio della Pop Art fin dal 1952.

POTERE, FAMA E PROPAGANDA Si tratta dell’unica opera di Warhol basata su una statua d’età classica, che ben si adatta al suo concetto artistico e visivo, fondato sulla consapevolezza dell’enorme potere del ritratto nell’affermazione della personalità, nel mondo antico cosí come in quello contemporaneo. E le monete, cosí come le statue, rappresentano egregiamente e per eccellenza il mezzo di comunicazione per veicolare e

In alto: moneta da 100 dracme della Grecia con il profilo di Alessandro Magno e la stella macedone. In basso: Alexander the Great, serigrafia di Andy Warhol. 1982. Collezione privata.

propagandare concetti, poteri e ideologie propri dell’autorità emittente, che può rivolgersi a un pubblico potenzialmente infinito. Come gli altri sovrani dell’epoca, anche Alessandro Magno conosceva bene il valore propagandistico della monetazione e il potere delle immagini, e fece battere, come già suo padre Filippo II insieme ad alcuni regnanti a lui legati e agli epigoni, magnifiche serie in argento e oro con il suo volto, spesso assimilato a divinità come Apollo, Eracle, Dioniso e Zeus Ammone. In questi esemplari il profilo di Alessandro, equiparato alle divinità a lui variamente collegate nell’ambito della costruzione di una sua ascendenza divina, propagarono il volto del sovrano eccezionale che, in meno di trent’anni, creò un impero vastissimo esteso in gran parte del mondo allora conosciuto. Il suo volto divenne quindi un’icona popolare usata dagli imperatori romani cosí come dai regnanti moderni, sino a ricomparire, negli anni Ottanta del secolo scorso, sulle monete da 100 dracme emesse dalla Grecia.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Francesca Longro Auricchio, Giovanni Indelli, Giuliana Leone, Gianluca Del Mastro

LA VILLA DEI PAPIRI Una residenza antica e la sua biblioteca Carocci Editore, Roma, 262 pp., ill. col. e b/n 28,00 euro ISBN 978-88-430-9894-1 www.carocci.it

Nell’aprile del 1750, quando la direzione degli scavi di Ercolano – avviati nel 1738 – era stata assunta dall’ingegnere militare svizzero Karl Jacob Weber, l’esplorazione di un pozzo situato presso la via Cecere rivela resti di costruzioni antiche, sepolte dallo strato di lava del 1631: è l’inizio di una delle piú grandi avventure archeologiche di sempre, perché quei ruderi appartengono alla grande residenza signorile che sarà poi nota come Villa dei Papiri. Una denominazione dettata dal successivo ritrovamento di una straordinaria quantità

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di pergamene che componevano la ricca biblioteca del proprietario della casa e che hanno restituito un prezioso patrimonio di opere greche e latine. L’intera vicenda, a dir poco avvincente, viene ora ripercorsa dal volume pubblicato da Carocci, i cui autori danno conto delle varie campagne di scavo e, soprattutto, delle acquisizioni che le esplorazioni hanno reso possibili, fra le quali spicca, oltre alla collezione dei papiri, una pregevolissima raccolta di opere d’arte, con sculture in marmo e bronzo di fattura finissima. Molto interessanti sono anche le pagine dedicate agli esperimenti compiuti, fin dal Settecento, per leggere i papiri, il piú riuscito dei quali si deve allo scolopio genovese Antonio Piaggio, che mise a punto una macchina con cui poté svolgere centinaia di esemplari, compensando tentativi non di rado fantasiosi, ma fallimentari, che causarono la distruzione di non pochi reperti. Dopo la rassegna dei testi custoditi nella biblioteca, c’è poi spazio per il dibattito sull’identità del proprietario della villa: a oggi, i nomi piú probabili restano quelli di Lucio Calpurnio Pisone Cesonino (morto intorno al 42 a.C.) e di suo figlio, Lucio Calpurnio Pisone Cesonino Pontefice (48 a.C.-32 d.C.). Un quadro dunque

esauriente, presentato con apprezzabile chiarezza e in uno stile che rende l’opera pienamente godibile anche per chi non sia un addetto ai lavori.

DALL’ESTERO Cécile Debray, Rémi Labrusse e Maria Stavrinaki (a cura di)

incontri fra passato e presente, ma va ben oltre, illustrando, innanzitutto, l’avvento del concetto stesso di «preistoria», messo a punto solo nella seconda metà dell’Ottocento. Si trattò di una svolta decisiva, perché l’epoca dei nostri piú antichi progenitori usciva

PRÉHISTOIRE Une énigme moderne Éditions du Centre Pompidou, Parigi, 304 pp., ill. col. 39,90 euro ISBN 978-2-84426-848-8 www.centrepompidou.fr

Pubblicato in occasione della mostra omonima, presentata al Centre Pompidou di Parigi nella scorsa estate, il volume affronta un tema di straordinario interesse: la percezione della preistoria da parte dell’uomo moderno e, di conseguenza, la sua rivisitazione in chiave artistica. A voler stilare un elenco di quanti, fra i maestri dell’arte moderna e contemporanea, hanno scelto come fonti di ispirazione i loro predecessori del Paleolitico o del Neolitico – nonché, con criterio analogo, le culture etnografiche –, non basterebbe questa pagina: si pensi, fra i tanti, a Pablo Picasso, che collezionò maschere africane, di cui rielaborò a piú riprese la lezione. Il volume, però, non offre un semplice atlante degli

finalmente dalle nebbie della leggenda e del mistero, per essere ricostruita in chiave positivistica, sgombrando – seppur lentamente – il campo da giganti, strumenti forgiati dai fulmini, animali dalle sembianze mostruose… La trattazione si articola quindi in brevi capitoli, ciascuno dei quali rilegge gli aspetti piú peculiari delle culture preistoriche attraverso l’opera degli artisti che con essi hanno scelto di confrontarsi, vuoi in termini concettuali, vuoi con creazioni che echeggiano, per esempio, le grandi pitture parietali o le Veneri paleolitiche. (a cura di Stefano Mammini)




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