Archeo n. 423, Maggio 2020

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ATENA PENSOSA

MISTERI DELTOFET

CRISI

IL COLLASSO DELLE CIVILTÀ

IL LIMES/1

Dalla fine dell’età del Bronzo alla caduta dell’Impero romano

VICHINGHI

LIMES

SPECIALE 1200 A.C.: CROLLARE PER CAMBIARE

AI CONFINI DEL MONDO

SCOPERTE

L’ULTIMA DIMORA DEI VICHINGHI

FENICI

MOLOCH E IL SACRIFICIO DEI FANCIULLI

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www.archeo.it

IN EDICOLA IL 10 MAGGIO 2020

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CO L’I M NC LE E F HI CI INI EST VI RO A LT N ww À? O w. a

2020

Mens. Anno XXXV n. 423 maggio 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 423 MAGGIO

SPECIALE

€ 5,90



EDITORIALE

I SEGNI DEL CAMBIAMENTO Le crisi sono una componente ineludibile della nostra esistenza. Oggi, questa consapevolezza è penetrata in profondità nei comportamenti che stiamo sperimentando e che forse (nessuno al momento lo sa) dovremo ripetere e amplificare nel prossimo futuro. Nei mesi passati abbiamo sottratto alla vita di ogni giorno gli autobus e i treni affollati, la didattica e l’apprendimento gomito a gomito nelle aule scolastiche, i musei, i concerti, gli impianti sportivi, le tradizionali code all’ufficio postale. Le automobili sono ferme per strada o chiuse nei garage, bloccate da un nemico molto piú autorevole e potente di qualsiasi aumento del costo della benzina. I mille canali del transito umano si sono arrestati. E ci stiamo preparando a ubbidire a nuove regole. Da «esperti del passato» ci siamo trovati tante volte a scavare strati nei quali, sotto depositi di detriti informi, emergono splendidi pavimenti a mosaici colorati, ancora capaci di emozionarci; oppure strati di fango reso nerastro da ceneri, carboni e ristagni d’acqua che hanno coperto, millenni fa, i resti di abitati preistorici un tempo fiorenti. Come archeologi, conosciamo bene i segni delle grandi crisi del passato. Oggi, però, viviamo l’esatto contrario: siamo molto ben informati su quanto sta succedendo, ma non siamo ancora in grado di decifrare i segni del cambiamento in corso. Azzardiamo qualche ipotesi: cosa rimarrà, al di là della memoria storica degli eventi e delle contorsioni della politica, di questo strano periodo? Sul piano tecnologico, «subiremo» un nuovo, rapido passo in avanti nella digitalizzazione, poiché dovremo sempre piú lavorare, insegnare e studiare in remoto. Vi saranno, poi, i morti che, in numero straordinario, abbiamo dovuto frettolosamente abbandonare: futuri studi potranno facilmente dimostrare come, in questi mesi, il virus abbia scardinato i normali rapporti tra la consolidata struttura demografica dei vivi (cioè la composizione della società in termini di classi di età e di sesso) e quella dei morti. Inoltre, vi sarà certamente una sensibile decrescita del carbonio disperso nell’atmosfera (causata dal limitato consumo di carburanti), i cui isotopi si stanno accumulando oggi negli organismi viventi, piante o animali che siano, in proporzioni minori del consueto. Il «calendario chimico» delle nostre ossa sta registrando il cambiamento in modo sensibile. Dopo l’accumulo anomalo degli isotopi del carbonio dovuto ai test nucleari della guerra fredda a partire dagli anni Cinquanta, oggi, per la seconda volta, le vicende umane intervengono a mutare rapidamente, e in profondità, il rapporto tra il pianeta e questo elemento chimico, cosí fondamentale per la vita che vi si è creata. Torniamo al passato, però, e alle pagine di questo numero, molte delle quali dedicate al tema richiamato in copertina. Non abbiamo gli strumenti, né, tantomeno, la pretesa per suggerire paralleli, soluzioni o consigli, in un frangente cosí critico per la nostra stessa esistenza. Abbiamo tuttavia cercato di analizzare accadimenti, cause ed effetti che, nella storia dell’umanità, sono stati forieri di trasformazioni epocali, a partire da quel vero e proprio cataclisma (militare, tecnologico, culturale) abbattutosi sulle civiltà mediterranee al volgere del XIII secolo a.C. (vedi lo Speciale alle pp. 90-105). Cambiamenti dai quali l’umanità non è piú potuta tornare indietro. Andreas M. Steiner e Massimo Vidale


SOMMARIO EDITORIALE

quantità nella costruzione delle case di Ercolano e Pompei 12

RELIGIONE

di Andreas M. Steiner e Massimo Vidale

PAROLA D’ARCHEOLOGO Catastrofi naturali, rivoluzioni tecnologiche e imprese militari hanno segnato la «fine» di molte civiltà del mondo antico, dalla scomparsa dell’Uomo di Neandertal alla «caduta» dell’impero romano 18

di Sergio Ribichini

I segni del cambiamento 3

Attualità NOTIZIARIO

SCOPERTE Da un riparo nella regione dell’Ardèche, in Francia, una nuova e clamorosa conferma della «modernità» dell’Uomo di Neandertal

6

LA DEMOCRAZIA NEL CUORE

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di Louis Godart

STORIA

Atena pensosa 6

Moloch e i misteri del tofet 38

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Il limes/1

Ai confini del mondo 56

PASSEGGIATE NEL PArCo Un percorso, fra Palatino e Colle Oppio, alla scoperta dei luoghi che avrebbero dovuto costituire il cuore della «nuova Roma» sognata da Nerone 8 A TUTTO CAMPO Recenti studi suggeriscono nuove ipotesi sulla provenienza del legno d’abete utilizzato in gran

di Maria Aurora Salto von Hase

56

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In copertina bronzetto nuragico raffigurante un guerriero con spada e scudo, da Monte Arcosu (Cagliari). Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

Presidente

Federico Curti Anno XXXVI, n. 423 - maggio 2020 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Comitato Scientifico Internazionale

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

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Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Alessandro D’Alessio è funzionario archeologo presso il Parco archeologico del Colosseo. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Louis Godart è stato professore di civiltà egee all’Università Federico II di Napoli. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Sergio Ribichini è stato dirigente di ricerca del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Federica Rinaldi è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Maria Aurora Salto von Hase è studiosa di storia romana. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Andrea Zifferero è professore associato di etruscologia e antichità italiche e di musealizzazione e gestione del patrimonio archeologico all’Università di Siena.

Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina (e pp. 92/93) e pp. 51, 56/57, 90/91, 104/105 – Mondadori Portfolio: p. 45; Werner Forman Archive/Heritage Images: p. 3 (e pp.


SCOPERTE

Navigatori per sempre

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di Elena Percivaldi

78

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Rubriche

SPECIALE

SCAVARE IL MEDIOEVO

Crollare per cambiare

Un monastero chiamato Desiderio 106 di Andrea Augenti

1200 a.C.

90

di Massimo Vidale

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA La guerra delle donne

106

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di Francesca Ceci

LIBRI

96/97); Album/Prisma: pp. 35, 92; AKG Images: pp. 36, 40, 42-43, 91; The Print Collector/ Heritage Images: p. 37; Index/HeritageImages: pp. 40/41; Erich Lessing/Album: pp. 46-47, 102/103; CM Dixon/Heritage Images: p. 98; Ann Ronan Picture Library/Heritage Images: p. 101 – Marie-Hélène Moncel: pp. 6/7, 7 (sinistra) – S. Deryck: p. 7 (destra) – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: pp. 8-9, 10, 11; Simona Murrone: pp. 10/11 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 12-13 – Cortesia Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 14-15 – Cortesia Attilio Scienza: p. 16 – Cortesia Gaetano Di Pasquale: p. 17 – Doc. red.: pp. 19-24, 27-30, 48/49, 52/53, 58-60, 62-65, 66, 67 (alto), 68-77, 82, 86-87, 88-89, 94-95, 110-111 – Cortesia Dennys Frenez: p. 25 – Bridgeman Images: pp. 38/39, 44, 93, 100/101 – Cortesia NIKU (Norsk institutt for kulturminneforskning): pp. 78-79, 80 (basso), 81, 83 – Cortesia Università di Verona/Progetto Leno-Monastero S. Benedetto: pp. 106-107; Dario Gallina: ricostruzioni 3D alle pp. 108-109 – Cippigraphix: cartine alle pp. 61, 67, 80. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano


n otiz iari o SCOPERTE Francia

INTRECCI RIVELATORI

L

a «riabilitazione» dell’Uomo di Neandertal può dirsi ormai definitiva: l’ultima, clamorosa conferma di quanto poco rozzo fosse questo nostro antico cugino viene dalla Francia, dall’Abri du Maras, un riparo situato nella regione dell’Ardèche, una delle culle della preistoria transalpina.

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Qui, dal 2006, è in corso lo scavo del deposito stratigrafico del giacimento e, già nel passato, erano state trovate tracce che, indirettamente, suggerivano la fabbricazione di corde o, quanto meno, la lavorazione di fibre. Ma le ricerche piú recenti hanno sgombrato il campo dalle

supposizioni e hanno restituito la prova concreta di quanto si era ipotizzato: esaminando al microscopio alcune schegge di lavorazione di strumenti in selce, sono infatti apparsi, inequivocabili, resti di corde. Gli esami hanno accertato che si tratta di funicelle ottenute grazie all’intreccio di tre


fili, ottenuti da fibre ricavate da cortecce d’albero. Al di là degli aspetti tecnologici, la scoperta è di notevole importanza, in quanto conferma le avanzate capacità intellettive dell’Uomo di Neandertal, del quale appare ormai inaccettabile sostenere l’inferiorità rispetto all’Uomo A sinistra: l’Abri du Maras, giacimento preistorico scoperto nella regione dell’Ardèche, in Francia. In questa pagina: a sinistra, immagine ottenuta al microscopio di un frammento di corda rinvenuto nell’Abri du Maras; a destra, l’immagine di una corda moderna, avente caratteristiche simili a quella relizzata dall’Uomo di Neandertal, oltre 40 000 anni fa.

antropologicamente moderno. I resti trovati nell’Abri du Maras, inoltre, provano come la fabbricazione di corde e intrecci – si può infatti ragionevolmente supporre che si realizzassero anche cestini o altri contenitori – fosse una pratica padroneggiata da tempo e suggeriscono anche che questi antichi artigiani, osservando l’ambiente nel quale vivevano, avessero imparato a scegliere le materie prime migliori, in funzione delle specie vegetali e della loro stagionalità.

Le analisi condotte sui frammenti rinvenuti nel giacimento hanno anche permesso di stabilirne la datazione, fissandola fra i 52 000 e i 41 000 anni da oggi, ma, come hanno ribadito gli autori della scoperta, è piú che probabile che la pratica di ricavare corde da fibre vegetali sia stata sperimentata ben prima: gli esemplari dell’Abri du Maras, infatti, non sono frutto di un tentativo, magari ancora incerto, ma appaiono come l’esito di una tecnica ben collaudata. Stefano Mammini

Avviso ai lettori anche questo numero di «Archeo» è stato realizzato in vigenza dei provvedimenti mirati a contenere la diffusione del COVID-19. Abbiamo perciò preferito rinunciare al consueto Calendario, in quanto non è al momento possibile definire le eventuali variazioni delle date di apertura e chiusura delle mostre in corso e in programma. Vi invitiamo anche a verificare ulteriori aggiornamenti attraverso il nostro sito web (www.archeo.it) e gli altri canali social della rivista: Facebook @archeo.attualitadelpassato, Instagram @archeo_rivista, Twitter @_archeo

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PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Alessandro D’Alessio

SOGNI DI GLORIA IL PARCO ARCHEOLOGICO DEL COLOSSEO CONSERVA TRACCE ANCORA TANGIBILI DELLA VISIONE ARCHITETTONICA E DELLA POLITICA URBANISTICA DI NERONE. IN UN’INTERVISTA DOPPIA, FEDERICA RINALDI E ALESSANDRO D’ALESSIO RIPERCORRONO LE FASI DELLA COSTRUZIONE DELLA «NUOVA ROMA» CHE L’IMPERATORE AVREBBE VOLUTO RIFONDARE

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l percorso che vi proponiamo si snoda in sei tappe, dal Palatino (Criptoportico neroniano, Domus Transitoria/«Bagni di Livia», coenatio rotunda), alla valle del Colosseo fino al Colle Oppio, toccando luoghi da poco riaperti al pubblico e resi ancora piú emozionanti con il supporto delle tecnologie.

1. IL CRIPTOPORTICO NERONIANO AD’A Quando gli imperatori trasferiscono la loro dimora sul Palatino e il colle stesso diventa il

In alto: Palatino. Il cosiddetto Criptoportico neroniano, con il videomapping sulle pareti. A destra: testa ritratto di Nerone. Roma, Museo Palatino.

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A destra: i resti dei cosiddetti Bagni di Livia. Si tratta, in realtà, di un ninfeo-triclinio, originariamente appartenente alla reggia di Nerone. In basso: particolare del disegno di un pavimento in opus sectile sotto la Casina Farnese. Palatium, spazi e ambienti riccamente decorati vengono tra loro collegati da corridoi e passaggi, spesso ipogei.Tra questi è ancora percorribile il lungo Criptoportico comunemente attribuito proprio a Nerone. Ma è corretta questa attribuzione cronologica? FR In realtà no. Il criptoportico, infatti, faceva già parte del complesso palaziale della Domus Tiberiana, il primo dei palazzi imperiali concepito in maniera organica e monumentale e ubicato nella porzione nord-occidentale del colle Palatino. Se non già Tiberio e Caligola, Claudio e specialmente Nerone trasformarono infatti i diversi nuclei delle domus tardorepubblicane e primo-imperiali qui esistenti in un palazzo architettonicamente unitario, inglobando all’interno i diversi settori. Il Criptoportico era quindi un passaggio sotterraneo, illuminato da finestre a bocca di lupo, che collegava questi diversi settori dal Clivo Palatino alle Case di Livia e di Augusto: Nerone non fece altro che ampliarlo (è stata calcolata una lunghezza di ben 130 m!) e decorarlo con pavimenti a mosaico bianco e nero e meravigliosi stucchi. Una parte di questi stucchi, con cassettoni, elementi vegetali ed eroti, non appena riapriremo al pubblico, sarà musealizzato all’interno del Museo Palatino e potrà tornare cosí a essere ammirato da tutti.

2. I «BAGNI DI LIVIA» FR A ogni modo, però, l’intervento sul Criptoportico non fu certo l’unica attività di Nerone sul

Palatino! Le fonti dicono che, prima di costruire la Domus Aurea, abbia realizzato una dimora che dal Palatino si estendeva fino all’Esquilino e che l’abbia chiamata «transitoria». Poi però, nel Settecento, l’intera zona venne identificata con i cosiddetti «Bagni di Livia», anche se, in questo caso, non si tratta né di «bagni», né tantomeno appartenenti alla moglie di Augusto… AD’A Sí è cosí. Svetonio (Nerone, 31, 1) afferma proprio che l’imperatore «in nessun’altra cosa fu altrettanto dannoso quanto nel costruire: fece una casa che andava dal Palatino fino all’Esquilino, che chiamò in un primo tempo “transitoria” e, dopo che fu distrutta da un incendio [evidentemente quello del 64 d.C.] e ricostruita, “aurea”». Si tratta dunque della prima reggia edificata da Nerone tra Palatino ed Esquilino, ma della quale ben poco conosciamo, se si escludono le strutture sottostanti la coenatio Iovis della successiva Domus Flavia: in realtà un monumentale ninfeo e tricilinio semi-ipogeo, che fu riportato alla luce nel 1721 e identificato erroneamente con bagni per l’originaria presenza degli

zampilli d’acqua posti alla base del ninfeo, interpretati allora come bidet e attribuititi altrettanto erroneamente a Livia in base al rinvenimento di una fistula (conduttura) in piombo con il nome Augustus e la figura di un’aquila.

3. SOTTO LA CASINA FARNESE AD’A Nerone tra l’altro è passato alla storia per la sperimentazione nelle pavimentazioni di marmo, uniche nei disegni ma anche nella scelta dei colori, che oggi etichettiamo proprio con il nome di «quadricromia neroniana». Oltre ai pavimenti della Domus Transitoria, già a un altissimo livello di innovazione, «sotto» la Casina Farnese è conservato un esemplare che può essere proprio considerato

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un «tipico» esempio di pavimentazione in marmo dell’epoca di Nerone. Ma quindi ci troviamo già in presenza della Domus Aurea, quella stessa che visiteremo poi sul Colle Oppio? FR Quel pavimento decorava in origine un’aula porticata di notevoli dimensioni. I preziosi marmi e l’impianto architettonico dell’ambiente – che studi recenti hanno cercato di ricollocare nel sistema palaziale del Palatino –, si posizionano tra la fontana ovale pertinente il grande triclinio del palazzo di Domiziano – da cui sono peraltro tagliati –, e gli spazi della Domus Transitoria che hai appena descritto: l’attribuzione a età neroniana – e ormai con giudizio unanime di tutti – alla fase della Domus Aurea, successiva all’incendio del 64 d.C., fa di questo pavimento in opus sectile l’esemplare piú complesso e nello stesso tempo il piú perfetto della tipologia restituitoci dall’antichità romana. All’interno di un modulo quadrato-reticolare, si riconosce un disegno con motivi geometrici ed elementi vegetali, resi con quattro specie marmoree, il porfido rosso egiziano, il porfido verde greco, il giallo antico e il pavonazzetto: grazie anche al restauro realizzato piú di un secolo fa da Giacomo Boni, è ancora percepibile la disinvoltura nell’uso dei disegni curvilinei dei motivi delineati con tagli accuratissimi e accostamenti millimetrici.

4. LA COENATIO ROTUNDA FR Continuando a parlare di Nerone, sono ancora le fonti a dirci che l’imperatore aveva un’idea piuttosto megalomane dell’urbanistica e dell’architettura tanto da aver voluto inserire nella sua visione di «palazzo» ispirato ai modelli orientali la realizzazione di una sala da pranzo rotonda e rotante. Leggenda o realtà?

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AD’A Fermo restando il richiamo ai complessi palaziali dei sovrani ellenistici (di Alessandria d’Egitto in primis), ma anche alle ville marittime della costa campana, è ancora Svetonio a riferire della presenza, all’interno della Domus Aurea, di coenationes (sale da pranzo) dotate di «soffitti coperti da lastre di avorio, mobili e forate in modo da permettere la caduta di fiori e profumi», e piú in particolare di una, la coenatio rotunda appunto, «che perpetuamente di giorno e di notte veniva girata secondo il movimento del mondo [alias cosmo]». A lungo identificata con la Sala Ottagona del padiglione di Colle Oppio, essa è stata piú di recente riconosciuta in un’alta e possente struttura in opera laterizia scoperta dagli archeologici dell’École Française de Rome presso il margine settentrionale dell’area di Vigna Barberini sul Palatino. Questa struttura, davvero impressionante, è costituita da un cilindro contenente una scala a chiocciola, collegato a un cerchio piú grande ed esterno tramite serie Vigna Barberini. Particolare della struttura che si è ipotizzato potesse essere la coenatio rotunda neroniana.

di archi disposti su piú ordini (8 per ciascuno), a sua volta circondato da un terzo cerchio ancora piú ampio. Il rinvenimento dei resti di un probabile meccanismo idraulico ha fatto inoltre ipotizzare agli scopritori che sia appunto questa la «sala rotante» descritta da Svetonio, ma dove a muoversi sarebbe stata non la volta, bensí un pavimento in legno. Una sorta di Fungo dell’EUR, insomma! Personalmente ritengo tuttavia improbabile questa identificazione della costruzione di Vigna Barberini, per la quale si possono avanzare anche altre e forse piú plausibili interpretazioni. Dove si trovasse la celebre coenatio resta dunque ancora ignoto, ma un’ipotesi, di nuovo personalmente, ritengo si possa avanzare…

5. LO STAGNUM NERONIS E IL COLOSSO AD’A In ogni caso, dalle propaggini settentrionali di Vigna Barberini, e precisamente da questo punto si può godere di una vista impareggiabile sulla Valle del Colosseo: ma se da questa cartolina cancellassimo l’Anfiteatro, troveremo al suo posto il Colosso e lo stagnum Neronis. Che cosa si può dire riguardo alle loro funzioni e significati nell’ambito dell’organizzazione della Domus


Aurea? E perché i Flavi eliminarono il lago per sostituirlo proprio con un anfiteatro, il Colosseo appunto? FR I due elementi si inseriscono nella ricerca di Nerone di emulare i modelli dei palazzi dei sovrani ellenistici: due passi per la divinizzazione del sovrano in vita e per la creazione di un microcosmo che doveva travalicare i confini del Palatino, facendo di Roma la sua casa. Al centro, lo stagno, il lago artificiale su cui l’imperatore progetta di far convergere i padiglioni del «palazzo», fulcro della nuova Roma di cui doveva essere ripensato tutto l’impianto urbanistico e architettonico. Ma questo modello di potere centrato su un solo uomo viene stravolto, di lí a pochissimo, dalla morte dello stesso Nerone e dall’avvento al potere della nuova dinastia dei Flavi: ciò che era di uno solo, viene restituito a tutti. Il Palazzo si ritira di nuovo sul Palatino; al posto dello stagno, a beneficio di tutta la città e poi di tutto l’impero, sorge il piú grande luogo per spettacoli che Roma abbia mai avuto: l’Anfiteatro Flavio.

La Valle del Colosseo vista dalla Vigna Barberini. Prima della costruzione dell’Anfiteatro Flavio, si deve immaginare questa zona occupata

dallo stagnum Neronis e dal Colosso, la statua colossale dell’imperatore. In basso: Domus Aurea. La volta della Sala di Achille a Sciro.

dal Palatino al Colle Oppio, non possiamo non ricordare la celebre frase pronunciata dall’imperatore all’indomani del completamento del cantiere della Domus Aurea, «Finalmente comincio ad abitare in una casa degna di un uomo»! Volendo dare un po’ di numeri, di quanti metri quadrati stiamo parlando? E di quanti padiglioni sparsi tra i colli di Roma?

estendeva complessivamente su una superficie di circa 80 ettari, non del tutto edificata ovviamente, ma che inglobava per intero il Palatino e la Velia, il Celio, la valle del (successivo) Colosseo e il Colle Oppio. Proprio qui si conservano i maggiori e piú spettacolari resti della reggia neroniana, il gigantesco padiglione estivo che tutti oggi identifichiamo con la Domus Aurea. Sepolto dalle gallerie di sostruzione delle Terme di Traiano, esso si sviluppa su una superficie di circa 16 000 mq (pari, piú o meno, a 3 campi di calcio) e comprende oltre 150 sale, alte piú di 10 m e ancora, diffusamente rivestite da meravigliosi affreschi in cosiddetto tardo III e IV Stile pompeiano, per un totale della decorazione pittorica e in stucco pari a circa 30 000 mq. Per dare un’idea generale dell’impatto della Domus Aurea nello scenario urbano di Roma, si immagini di trasferire idealmente Villa Adriana al centro della città!

AD’A È la domanda giusta per ribadire quanto hai appena detto: l’edificazione della Domus Aurea promossa da Nerone costituisce, di fatto, dopo quello di Caligola, il primo e unico tentativo, da parte di un sovrano romano, di travalicare i limiti del Palatino per portare la residenza imperiale e le sue architetture al di fuori di esso, dilagando in tutta l’area centrale della città e dando forma e consistenza a un microcosmo urbano pervasivo e inedito, pretesa Neropolis, che fa sí che Roma domus fiet. Qualche numero allora: la Domus si

6. LA DOMUS AUREA FR Ma non corriamo troppo veloci. E, tornando a Nerone e volendo concludere la nostra passeggiata

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

DA DOVE VENGONO QUEGLI ABETI? I ROMANI FECERO AMPIO RICORSO AL LEGNO PER LE LORO COSTRUZIONI E LE CITTÀ DELL’AREA VESUVIANA NON SFUGGONO ALLA REGOLA. SPICCA, IN PARTICOLARE, LA PREDILEZIONE PER I FUSTI DI UNA SPECIE BEN PRECISA, SULLA CUI PROVENIENZA SI CONFRONTANO IPOTESI DIVERSE

L

o studio dei legni in uso a Pompei ed Ercolano, a fini architettonici, ha rivelato una notevole presenza di abete bianco (Abies alba Mill.); è stato calcolato, infatti, che circa il 90% del legno strutturale dei due centri è rappresentato da questa specie. In effetti, i Romani apprezzavano molto l’abete bianco, ed è Vitruvio stesso, nel

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suo trattato sull’architettura, a spiegarcene le ragioni: è un legno leggero (350 kg al mc contro i 750 della quercia), con fusti regolari e che raggiunge grandi dimensioni (alcuni alberi fino a 30 m di lunghezza), consentendo cosí di coprire grandi campate. Ma da dove proviene tutta questa quantità di abete? Peter J. Kuniholm, dendro-

archeologo dell’Università di Tucson (Arizona), per primo trovò una forte correlazione tra le cronologie di abete bianco di Ercolano e quelle della quercia centroeuropea e formulò l’ipotesi di una provenienza alpina per il legname di abete. Tuttavia, successivi studi multidisciplinari non confermarono tale ipotesi. Attualmente, l’opinione piú diffusa


è che la grande quantità di abete bianco ritrovato nell’area vesuviana sia d’origine locale. Tale ipotesi è basata su due considerazioni principali: la prima ritiene che la quantità di legname è troppo consistente per essere stata importata (se cosí fosse, bisognerebbe pensare a un sistema logistico in grado di movimentare grandi quantità di legname in dimensioni d’uso, con travi e tavole lunghe decine di metri); la seconda considerazione vede l’abete bianco ancora presente in piccoli nuclei sull’Appennino centrale e probabilmente la specie era ancora piú diffusa in passato, forse ridotta proprio a causa del suo sfruttamento.

DALLA VALLE DEL RENO Un recente studio ha invece dimostrato la provenienza dall’alta valle del Reno, nel Nord-Est della Francia, di legname strutturale impiegato nel centro della Roma antica. Abbiamo chiesto all’autore Mauro Bernabei, responsabile del

A destra: giunto a farfalla per unire due tavole di legno d’abete. Nella pagina accanto: un bosco misto di abete bianco. In basso: una tavola di legno d’abete bianco proveniente dall’area vesuviana.

Laboratorio di dendrocronologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Istituto per la BioEconomia), un parere sulla questione. «Nella nostra esperienza – spiega – dobbiamo riconsiderare la questione, immaginando che l’ipotesi dell’origine alloctona dell’abete bianco non vada del tutto esclusa». Su quali elementi basa le sue affermazioni? «Innanzitutto – prosegue Bernabei – nei reperti di Pompei ed Ercolano vi sono spesso resti di legni di specie che non vivono, e non vivevano in passato, nell’area vesuviana, come per esempio il larice (Larix decidua Mill.), l’abete rosso (Picea abies Karst.) e il pino silvestre (Pinus sylvestris L.). A volte queste specie si trovano mescolate in strutture dov’è presente anche abete bianco. Ciò fa pensare all’importazione di interi lotti di legni dal Nord Italia. Infatti, larice e abete rosso sono tipicamente alpini e non vivono lungo l’Appennino in natura. Inoltre, pur ammettendo che in epoca romana le foreste appenniniche fossero piú ricche di abete, la quantità di legname utilizzata sembra ben al di sopra delle possibili forniture locali. I Romani disboscarono intensamente gli Appennini, ma

non è dimostrato che siano stati loro i responsabili della regressione della specie e non mi risultano fonti antiche che descrivano grandi estensioni di abete bianco sul crinale appenninico». E prosegue: «Gli impieghi del legno nell’antica Roma erano molteplici e riguardavano ogni aspetto della vita quotidiana, dalle costruzioni al riscaldamento delle terme, dalla cantieristica navale alla lavorazione dei metalli e molto altro ancora. A tal riguardo, è indicativa la distinzione tra legna da ardere (lignum) e legname da costruzione (materia); da materia deriva l’attuale denominazione spagnola di legno, madera, e il nostro termine “materiale”. In sostanza, per i Romani, il legno era “il materiale”. Questo dimostra la grande considerazione che questi avevano per il legno, che, quando era di buona qualità, come nel caso delle belle e regolari tavole di abete trovate nell’area pompeiana, poteva essere spedito dalle regioni piú remote dovunque la committenza lo richiedesse e certamente nell’opulenta area vesuviana non mancavano i mezzi per garantire tale domanda». Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; pagina Fb Pompeii-Parco Archeologico.

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IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi

MERAVIGLIE IN UN BATTITO D’ALI IL PARCO DI VULCI È UN SITO D’INTERESSE NATURALISTICO OLTRE CHE ARCHEOLOGICO. ECCO PERCHÉ AL SUO INTERNO È STATA CREATA LA «VALLE DELLE FARFALLE», UN’AREA CON AIUOLE COSTRUITE PER I COLORATI LEPIDOTTERI, DISLOCATE COME VERE E PROPRIE VETRINE ALL’APERTO

L

a rappresentazione della farfalla risulta storicamente legata a Psyché, cioè all’anima, almeno sin dal VI secolo a.C., come si evince da alcune decorazioni su ceramiche e gemme ritrovate in Grecia. Essa compare anche su uno scarabeo rinvenuto in Etruria risalente alla

Una Cleopatra (Gonepteryx cleopatra), specie scelta come simbolo del percorso attrezzato all’interno del Parco di Vulci. Nella pagina accanto: un esemplare di Macaone (Papilio machaon) e il pannello posto all’inizio del percorso.

fine del V secolo a.C., sul quale figura per la prima volta come una ragazza con ali di farfalla, seduta e pensierosa, con la testa poggiata sulla mano sinistra e con accanto un arco, chiara allusione a Eros. Con il termine Psyché, già nel IV secolo a.C., Aristotele indica

la farfalla o la falena nella sua Historia Animalium e altrettanto fa il suo allievo Teofrasto nell’Historia Plantarum. Anche l’arte e la poesia ellenistica guardarono all’associazione Psyché/farfalla come a un cuore straziato dai tormenti d’amore.


In Italia vivono circa trecento specie di farfalle diurne: riconoscerle tutte è impresa ardua, da riservare agli specialisti. Le farfalle sono anche i primi indicatori dello stato di salute degli ambienti e purtroppo ben 55 specie sono minacciate. A esse manca completamente qualsiasi tipo di difesa e la loro delicata bellezza è il simbolo della tranquillità. Ma esiste un gruppo di specie, particolarmente vistose e diffuse, che non può passare inosservato. Non conoscere il nome di questi piccoli gioielli della natura è in fondo un peccato. Alcune amano gli ambienti aperti e i prati: sono farfalle «solari» come sembrerebbero indicare anche i loro colori bianchi, gialli e arancioni. Altre preferiscono i boschi e le siepi: non a caso il loro colore è spesso bruno o castano, ravvivato da vivaci macchie. Tutte si possono vedere in Maremma dove, già a gennaio, quando il sole riscalda l’aria, le cedronelle aprono le ali e svolazzano in cerca dei cespugli di alaterno sulle cui foglie depongono le uova come fanno le simili ma piú termofile farfalle Cleopatra. Le specie che non mancano di catturare l’attenzione di qualsiasi osservatore sono poco piú di una

dozzina: Cavolaia (Pieris brassicae); Cedronella (Gonepteryx rhamni); Cleopatra (Gonepteryx cleopatra), che è la specie scelta come simbolo del percorso attrezzato all’interno del Parco; Macaone (Papilio machaon); Podalirio (Iphiclides podalirius); Colia (Colia croceus); Pieride del biancospino (Aporia crataegy); Aurora (Anthocharis cardamines); Argo (Polyommatus icarus); Vanessa Atalanta (Vanessa atalanta),Vanessa Antiopa (Nymphalis antiopa); Vanessa del cardo (Cytnhia cardui); Vanessa dell’ortica (Aglais urticae); Pafia (Argynnis paphia); Camilla (Ladoga camilla); Vanessa Pavone (Inachisio); Vanessa C Bianco (Polygonia c-album); Iride (Apatura ilia); Zerinzia (Zerynthia polyxena).

UN HABITAT ACCOGLIENTE Anche le farfalle piú comuni, come il macaone, il polidario e le vanesse, si vanno facendo rare nelle campagne italiane, tanto da giustificare alcuni interventi pratici per la loro conservazione. Da qui è nata l’idea di realizzare un habitat accogliente e specifico per loro, quale primo sentiero natura attrezzato all’interno del Parco. A questo saranno presto aggiunti

palchetti per la pratica del birdwatching e il labirinto degli insetti, mentre fa già bella mostra di sé il laghetto delle libellule. Pur essendo l’Italia il Paese del Mediterraneo che vanta la maggiore ricchezza di libellule, con 93 specie segnalate, sono anch’esse minacciate e a rischio di estinzione, a causa dell’inquinamento e della perdita di habitat. Il percorso che si snoda nella valle del Fosso della Città, subito fuori la Porta Nord della città etrusca consta di alcune aiuole costruite appositamente per i colorati lepidotteri. Esse sono dislocate come «vetrine all’aperto» dove è possibile osservare, a seconda delle stagioni, le specie sopradescritte; un vero e proprio giardino per le farfalle selvatiche delle nostre regioni, fonte di graditissime soddisfazioni fotografiche o semplicemente contemplative. Alla realizzazione del progetto hanno collaborato Giovanni Antonio Baragliu, Dirigente tecnico della Riserva Naturale «Selva del Lamone» e Giovanni Santurbano, Presidente della Cooperativa LeAli. Un ringraziamento particolare va a Francesco Petretti, Presidente del Bioparco di Roma, che è anche l’autore del logo del percorso.


A TUTTO CAMPO Andrea Zifferero

ANTICHE VITI DI MAREMMA LA RICERCA SULLA VITE È INIZIATA DALL’ULTIMO ANELLO DELLA CATENA OPERATIVA, CIOÈ DA UN’IPOTETICA ANFORA DA TRASPORTO. NE ABBIAMO RIPERCORSO LE TAPPE, FINO A PORCI LA DOMANDA: SE VIAGGIAVA IL VINO, NON POTEVANO VIAGGIARE ANCHE I VITIGNI?

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el numero scorso, ci siamo chiesti in che modo sia possibile confrontare il profilo genetico dei vitigni attuali con quello delle viti antiche (vedi «Archeo» n. 422, aprile 2020; anche on line su issuu.com). In realtà, una soluzione esiste e si nasconde nelle popolazioni di vite selvatica (Vitis vinifera sylvestris), oggi diffusa dalle coste mediterranee fino al Caucaso, con significative

espansioni verso il Mar Caspio. In natura, questa sottospecie cresce in pianura o in collina, in ambienti irrorati da acque: per sviluppare il tronco lianoso e le foglie, le piante hanno bisogno di luce e, di solito, vegetano ai margini dei boschi, prediligendo le ripe di fossi e canali; come tutte le Vitacee, si aggrappano al fusto di alberi tutori, fino a raggiungerne la chioma, elevandosi ad altezze consistenti A sinistra: una vite selvatica abbarbicata a ontano, con grappoli pendenti, piccoli e spargoli, censita a Dorgali (Nuoro). Nella pagina accanto: forme di sopravvivenza della viticoltura etrusca nel paesaggio italiano: la piantata aversana prima della potatura invernale, nella zona di Casal di Principe (Caserta).

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per fruttificare. La vite selvatica ha un ciclo vitale plurisecolare, capace di rigenerarsi con polloni che partono dalla base del fusto, in caso di abbattimento del tutore; il suo sistema riproduttivo è misto: i nuovi individui derivano dalla pianta madre per via generativa, attraverso i semi, oppure per via vegetativa, grazie alla capacità dei tralci di emettere radici e divenire autonomi.

AFFINITÀ SORPRENDENTI Ammettiamo di individuare una popolazione oggi fiorente ai margini dei boschi intorno a un sito etrusco, il cui scavo abbia restituito impianti di vinificazione e/o fornaci di anfore: studiando il suo genoma, scopriamo una marcata somiglianza con vari vitigni attuali, considerati autoctoni dell’area coloniale greca, estesa dall’Italia meridionale a parte della Sicilia. Se il luogo è stato occupato soltanto nel periodo etrusco, possiamo far risalire i fenomeni di ibridazione delle piante (avvenuti per esempio attraverso innesti con varietà magno-greche) all’arco cronologico del sito: in altri termini, quella popolazione di vite selvatica è il residuo ancora vivente di antichissimi vigneti che nel tempo hanno riacquisito lo stato selvatico,


mantenendo tuttavia nel proprio codice genetico l’impronta della condizione domestica, impressa dai viticoltori etruschi. Questo, in estrema sintesi, è stato il senso del Progetto ArcheoVino, condotto dall’Università di Siena e tuttora in corso a Scansano, nella Maremma grossetana in prossimità del fiume Albegna. Qui la ricerca archeologica e biomolecolare ha esplorato i boschi circostanti il sito etrusco di Ghiaccio Forte, occupato nell’età del Bronzo Finale e poi tra il VI e il IV secolo a.C.: il censimento delle piante ha messo in evidenza un’abbondante popolazione di vite selvatica, il cui genoma esprime antichi caratteri di domesticazione e rappresenta uno straordinario esempio di biodiversità conservata nel tempo.

UN’IBRIDAZIONE DI ANTICA DATA Il caso di Ghiaccio Forte è comunque particolare e si deve alle elevate condizioni di conservazione dell’ambiente e all’odierno, bassissimo, impatto antropico sulle campagne: i tratti genetici distintivi di tali viti manifestano, infatti, livelli apprezzabili di similarità con vitigni quali il Sangiovese, il Canaiolo Nero e il Ciliegiolo, tali da suggerire che l’ibridazione tra la vite selvatica e questi vitigni sia avvenuta già nel periodo etrusco. Il dato sorprendente è che il Sangiovese e il Ciliegiolo, ritenuti da sempre autoctoni della Toscana, siano in realtà l’esito di una circolazione varietale molto antica, che ha le radici nella viticoltura magno-greca, praticata nella Calabria tirrenica e ionica e lungo le coste della Sicilia orientale a partire almeno dalla colonizzazione dell’VIII secolo a.C., come dimostrano le affinità genetiche tra i due vitigni e numerosi vitigni calabresi e siciliani di origine antica, quali il Gaglioppo, il

Perricone, il Frappato e il Nerello Mascalese, per citare i parenti piú stretti del Sangiovese. Ma come e quando è avvenuto il trasferimento di vitigni a grande distanza dai luoghi di origine? Il contributo dell’archeologo è essenziale per ricondurre il fenomeno a una corretta prospettiva storica: la Valle dell’Albegna, con i suoi centri di Marsiliana, Doganella (probabilmente da identificare con Oinaréa, la città etrusca del vino ricordata dallo Pseudo-Aristotele) e il sito minore di Ghiaccio Forte, rappresenta il cuore della produzione vitivinicola della vicina Vulci, già intensamente frequentata dai Greci a partire dalla metà dell’VIII secolo a.C. La ricostruzione dell’intensa

produzione vinicola locale, attiva dall’inizio del VI al IV secolo a.C., si appoggia, inoltre, sulla presenza di varie fornaci per anfore da trasporto, identificate a piú riprese dalla ricerca di superficie. Il vino prodotto nei vigneti maremmani è stato consumato soprattutto negli insediamenti celtici e iberici del Golfo del Leone, ai cui scali giungeva in grandi quantità per via marittima, per essere poi redistribuito in modo capillare nel delta del Rodano e nel Levante spagnolo. Ci piace pensare che qualità e successo di questi vini etruschi dipendessero dal contributo dei vitigni magno-greci ibridati con le viti selvatiche di Ghiaccio Forte. (andrea.zifferero@unisi.it)

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

IL MONDO A UN BIVIO, MA NON È LA PRIMA VOLTA... La crisi non ha un volto solo, ma tante facce. Non una velocità, ma tanti tempi. Non una causa, ma molte e di natura diversa. Ci siamo interrogati su questa parola – «crisi» – declinandola in verticale, nel tempo, e in orizzontale, dall’Est all’Ovest del nostro globo, per cercare di capire che cosa abbia portato alla fine (se di «fine» si può parlare) di Etruschi, Egizi, Persiani, Greci, Minoici e Micenei, Romani e popoli antichi dalle Americhe fino alla Civiltà dell’Indo. Abbiamo indagato un arco cronologico che va dall’uomo di Neandertal, 50 000 anni fa, fino al nostro Rinascimento, rivolgendo la stessa domanda a un numero di archeologi e specialisti di materie molto diverse tra loro nel tempo e nello spazio – qui presentati volutamente in modo non cronologico – per arrivare a scattare un’«istantanea» della crisi delle civiltà che hanno segnato la storia dell’uomo, al momento delle attuali conoscenze di studio. Un’occasione unica, in un momento in cui la civiltà contemporanea si trova a un bivio «critico» La civiltà etrusca ha svolto un ruolo importante nella storia dell’Italia antica, attraversando di fatto quasi l’intero I millennio a.C. La sua «fine» politica non coincise con quella della sua cultura, come ci spiega Gisueppe M. Della Fina, Direttore scientifico della Fondazione per il Museo «Claudio Faina» di Orvieto e collaboratore storico di «Archeo». «Quando si parla di crisi o di fine di una civiltà, ci si deve chiedere preliminarmente quando è terminata l’indipendenza politica di un popolo e quando è finita la sua vitalità culturale dato che, nella

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storia, i due momenti non coincidono quasi mai. Vi sono casi in cui è finita prima l’indipendenza politica e poi la vitalità culturale. Altri casi, invece, in cui è subentrata prima una crisi culturale e solo successivamente una politica. Nel caso degli Etruschi i due momenti sono distanti cronologicamente in maniera significativa. Analizziamo la fine dell’indipendenza politica: nel 396 a.C. Roma conquistò Veio, la prima grande città-stato dell’Etruria a cadere in mano romana. Poi vi fu la guerra cosiddetta “romanotarquiniese” (358-351 a.C.) e, infine, le vicende decisive degli inizi del III secolo a.C. In particolare va ricordata la battaglia di Sentino, presso Sassoferrato, nelle Marche, nel 295 a.C., una delle piú cruente avvenute nella penisola italiana durante l’antichità: alcune fonti

parlano di 100mila morti, un numero enorme per le categorie moderne e ancor piú per il mondo antico, quando la demografia era decisamente piú ridotta. Altre fonti, probabilmente piú vicine al vero, parlano di 25mila morti. In quella battaglia gli Etruschi, alleati con i Celti, i Sanniti e gli Umbri, affrontarono Roma e vennero sconfitti. Nel 283 a.C. vi fu un nuovo scontro presso il Lago Vadimone, nei dintorni di Orte, nel Viterbese, e gli Etruschi con i loro alleati furono sconfitti di nuovo. Negli anni tra il 295 e il 280 a.C. gli Etruschi persero la loro indipendenza politica». La vitalità culturale, invece, non si spense? «No, durò molto piú a lungo. Una delle stagioni piú alte dell’arte etrusca è quella della produzione delle urne di Volterra, realizzate in


romana dell’Etruria, gli Etruschi rimasero fedeli a Roma. Per quale ragione? I Romani avevano saputo inserire le aristocrazie etrusche nelle dinamiche politiche, economiche e sociali del mondo romano, quindi queste pensarono che era meglio rimanere con Roma piuttosto che ribellarsi e passare ad Annibale. Vincente, nella politica romana, fu proprio la capacità d’integrare le classi dirigenti dei popoli conquistati, o, almeno, una parte di esse». Lastra con figure di guerrieri, dal tempio dell’Arce di Veio. Prima metà del VI sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. gran parte quando l’indipendenza politica era già perduta». Per quali ragioni gli Etruschi vennero sconfitti da Roma? «Le motivazioni possono essere diverse. Le principali a me sembrano due. La prima: gli Etruschi rimasero legati sino alla fine della loro storia alla forma politica e istituzionale della cittàstato, non comprendendo che nella “globalizzazione”, che preparò e caratterizzò l’ellenismo, si trattava di un assetto istituzionale divenuto troppo limitato. Gli Etruschi affrontarono le nuove sfide disuniti, sempre come singole città-stato. Non compresero che il mondo era mutato profondamente». Questo errore può essere d’insegnamento per i nostri tempi? «In un mondo decisamente piú globalizzato come quello contemporaneo, probabilmente la forma politica e istituzionale dello Stato-nazione non è piú sufficiente. Se l’Europa vorrà giocare un ruolo nei prossimi secoli potrà farlo solo unita: anche oggi le nazioni piú forti, Germania e Francia (come allora Tarquinia, Cerveteri, Vulci, Orvieto, ecc.), da sole non ce la potranno fare. La città-stato si dimostrò non piú adatta a fronteggiare le sfide, come adesso lo Stato-nazione potrebbe non essere piú idoneo per affrontare le

nuove sfide già presenti da qualche tempo e rese ancora piú complesse dalla pandemia». Il secondo fattore che contribuí alla caduta in mano romana delle città etrusche? «Un altro aspetto che svantaggiò il mondo etrusco fu l’articolazione sociale: l’Etruria fu retta da un’aristocrazia molto ristretta, quasi un’oligarchia, spesso con una grande visione, ma troppo isolata dal resto del popolo. Usando terminologie moderne, vi era una scissione troppo forte tra le classi dirigenti e il resto della popolazione, una divisione che creò non pochi problemi nell’affrontare la sfida imposta da Roma». Perché la cultura della civiltà etrusca non si spense, quando venne meno la sua unità politica? «Nell’arco dei secoli precedenti si era creata una rete di conoscenze tecniche e di valori estetici che riuscí a sopravvivere allo scossone politico. La cultura etrusca confluí poi in quella romana. La romanizzazione fu veloce anche sul piano politico e sociale: nel 130 a.C. a Roma è attestato un console di origine etrusca, da Perugia, Marco Perperna. Ancora prima, quando Annibale era disceso in Italia, nell’ambito della seconda guerra punica (218-201 a.C.), di fatto solo pochi decenni dopo la conquista

Quali fattori contribuirono al crollo delle grandi civiltà che scrissero la storia dell’antico Egeo? Lo abbiamo chiesto a uno dei piú illustri studiosi della materia, Louis Godart, già Consigliere per la Conservazione del Patrimonio Artistico dei Presidenti Ciampi e Napolitano, nonché Accademico dei Lincei. Professore, che cosa portò al tramonto delle civiltà palaziali fiorite a Creta e nella Grecia continentale tra il III e il II millennio a.C.? «Si deve distinguere tra civiltà minoica e civiltà micenea. Quella minoica, all’apice del suo potere, è caduta per mano dei Micenei del continente che, intorno al 1450 a.C., si sono impadroniti di Creta. Nel XVI secolo a.C., L’esplosione del vulcano di Thera-Santorini ha provocato uno tsunami di proporzioni gigantesche che invase il Mediterraneo orientale. Tracce dell’eruzione sono state rinvenute dall’Egitto alla costa siro-palestinese. I vulcanologi che hanno studiato il maremoto hanno ritenuto che fosse superiore a quello provocato dall’eruzione del Krakatoa nel 1883. Fu un evento

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PAROLA D’ARCHEOLOGO devastante, capace di sconvolgere gli equilibri del potere nell’Egeo tra XVI e XV secolo a.C. Il tramonto della civiltà minoica è dovuto quindi a quell’evento traumatizzante e alla distruzione della loro flotta, che, qualche decennio piú tardi, consentí ai

Micenei di scendere verso Creta e di impadronirsi del Palazzo di Cnosso sostituendo cosí il potere minoico con quello miceneo». In precedenza, c’erano stati contatti fra Minoici e Micenei? «I due popoli erano in contatto già da tempo. I Micenei erano stati i

Affresco detto dei «Giovani pescatori», da Akrotiri. Tarda Età del Bronzo I. Santorini, Museo di Thera Preistorica.

discepoli dei Minoici: da loro avevano imparato l’arte della scrittura e l’organizzazione dello Stato. Anche le grandi realizzazioni artistiche minoiche erano molto apprezzate dai Micenei e fonte d’ispirazione per l’arte micenea. Esisteva una collaborazione tra le due civiltà ben prima della distruzione della flotta minoica». E poi, cosa è successo? «Quando i Micenei hanno visto i loro maestri indeboliti dall’annientamento della flotta, sono scesi a Creta intorno al 1450 a.C., hanno conquistato il Palazzo di Cnosso e distrutto le altre regge minoiche di Festos, Mallia, Zakros e Kydonia. Per un certo periodo Cnosso rimase una grande capitale, poi, verso il 1370 a.C., altri Micenei provenienti dal continente la distrussero. Fu una sorta di guerra civile tra Greci». Che cosa portò, invece, alla fine della civiltà micenea? «La scomparsa della civiltà palaziale micenea avviene nel XIII secolo a.C., ma non fu repentina come la fine della civiltà palaziale minoica. Si verificò al termine di una serie di eventi che segnarono il XIII secolo a. C. Ormai, dopo aver riconsiderato la cronologia del XIII secolo a.C., credo, insieme a molti altri colleghi, che sia stata distrutta prima la reggia del vecchio Nestore, intorno al 1300-1290 a.C. Pilo non era difesa da possenti muraglie come i palazzi di Micene, Tirinto e Tebe. Penso che la scomparsa del palazzo di Pilo abbia spinto le autorità degli altri palazzi della Grecia continentale a proteggere le loro residenze con le mura ciclopiche che ammiriamo ancora oggi». Quale minaccia pesava sui palazzi micenei? Chi spinse Tirinto, Tebe e Micene a erigere quelle mura? «Le teorie sono infinite. Qualcuno aveva parlato dei Dori, altri di cambiamenti climatici, ma sono ipotesi ormai tramontate.


Altri dei “Popoli del mare” citati nell’iscrizione del tempio funerario di Ramesse III a Medinet Habu o nei documenti del Vicino Oriente. Tuttavia, questi popoli intervengono solo alla fine del XIII secolo a.C. e la crisi era già in atto da molti decenni. Io credo che si fosse esaurito il ruolo del sistema palaziale imperniato su un centro politico, economico e cultuale che era un punto di riferimento per un’intera regione. Il sistema palaziale scompare anche in Anatolia: Hattusa, la capitale degli Ittiti, fu colpita come i palazzi micenei alla fine del XIII secolo a.C. Evidentemente un tale sistema che portava allo sfruttamento delle masse, era arrivato al proprio tramonto e i palazzi furono presi di mira dalle popolazioni che costituivano la base della società micenea». Quindi la minaccia ai palazzi è arrivata dall’interno della stessa società micenea? «Una crisi cosí profonda si è ripetuta piú volte nella storia: ogni volta che un potere centrale forte e autoritario fu contestato dalla massa della popolazione, lentamente ma inesorabilmente entrò in crisi». Ma, insieme, ai palazzi, muore per sempre anche quella civiltà? «No, con la fine dei palazzi micenei non scompare la civiltà greca. Gli eredi dei Micenei erano Greci anche loro; la loro lingua era il greco come greca era la lingua micenea. Inoltre molti termini anche istituzionali usati dai Micenei sono stati trasmessi in eredità all’intera Ellade. Infine le tradizioni epiche che costellano tutta la storia della letteratura greca affondano le radici nell’età degli eroi, vale a dire nell’epoca micenea. Le crisi interne che hanno scandito la storia del XIII secolo a.C. hanno determinato la scomparsa del sistema palaziale, ma non della civiltà greca».

Con Davide Domenici, americanista e docente di antropologia presso l’Università di Bologna «Alma Mater Studiorum», abbiamo esaminato i fattori che, nel XVI secolo, hanno determinato il declino degli Aztechi, una delle maggiori civiltà indigene d’America. «Un fattore determinante è sicuramente la conquista spagnola, che prende avvio nell’area continentale delle Americhe – Mesoamerica – nel 1519, a opera di Hernán Cortés, che, nel giro di due anni, prende il controllo del cosiddetto impero azteco. Gli effetti della conquista furono devastanti sul mondo indigeno e sulle altre nazioni mesoamericane, che in un anno vennero sottomesse al dominio spagnolo. La capitale dell’impero azteco, Tenochtitlan (attuale Città del Messico), venne presa nel 1521, Cuzco (la capitale degli Inca, nell’odierno Perú, n.d.r.) nel 1533: in poco piú di dieci anni si impossessarono di gran parte continente americano. Le devastanti conseguenze misero fine all’indipendenza di un gran numero di civiltà indigene e dell’intero sistema dell’impero azteco. L’effetto fu, però, altrettanto devastante dal punto di vista religioso: la conquista fu accompagnata da una radicale estirpazione delle religioni indigene – definite “idolatrie” – attraverso l’attività

missionaria. La devastazione, quindi, fu anche culturale: il mondo indigeno vide crollare il suo sistema politico e quello religioso. Un’intera visione del mondo si scontrò con un evento improvviso e deflagrante. Tuttavia, ogni crisi, anche la piú devastante dal punto di vista demografico, va intesa come qualcosa che lascia spazio a forme di resistenza, resilienza, adattamento. Questo è estremamente importante per non dare un’idea sbagliata di ciò che è avvenuto. Dal punto di vista politico, gli Spagnoli arrivano in Mesoamerica in poche centinaia e, in pochi anni, diventano migliaia: è impensabile che possano aver controllato da soli milioni di indigeni e società raffinate. Fin dalle prime fasi della conquista, gli Spagnoli trovarono alleanze con gruppi locali. Non dobbiamo credere alla narrazione europea dei 500 Spagnoli che, in soli due anni, mettono fine a un impero di milioni di persone. Quando Cortés arriva a Tenochtitlan, aveva già almeno 8mila guerrieri indigeni». Quindi ci furono anche connivenze da parte degli indigeni? «Alcuni indigeni nemici dell’impero, in quella fase, hanno vinto. E anche dopo la conquista militare, gli Spagnoli, per governare, non poterono che fare affidamento sulle élite locali,

Maschera di guerriero, cultura azteca, da Teotihuacan. 300-550 d.C. Città del Messico, INAH-Museo Nacional de Antropología.

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PAROLA D’ARCHEOLOGO innescando una forma di “indirect rule”: governavano facendo sopravvivere gli indigeni dal punto di vista politico e amministrativo, lasciavano al loro posto re (quelli che non si erano ribellati) e titoli. Interi regni indigeni vennero lasciati in mano ai loro signori, in un tipico sistema coloniale che vive di élite e privilegi. A mettere fine all’esperimento di convivenza con i nativi è il collasso demografico. Nel corso del Cinquecento questo sistema funziona, ma indirettamente e progressivamente gli indigeni muoiono in numero stupefacente: a causa delle epidemie». Hanno fatto piú vittime tra gli Aztechi le epidemie o i conquistatori? «Noi non abbiamo idea di quante persone abitassero in America al momento del contatto con gli Spagnoli, poiché non abbiamo dati se non per il secolo successivo (XVII). Il dibattito su quanti siano stati i morti è ancora aperto. Una stima accettabile parla di un 70 per cento della popolazione. Se erano 100 milioni, nel giro di un secolo si ridussero a 30. Tra il 1500 e il 1600, ci fu un collasso demografico. Ma una visione deterministica favorevole all’aspetto epidemiologico – cioè gli Spagnoli non sapevano di portare vaiolo, tifo, morbillo e febbri varie – rischia di assolvere gli Europei. Noi sappiamo oggi che gli effetti delle epidemie sono profondamente diversi a seconda del contesto politico-economico». Ieri come oggi, con il morbillo oppure con il Coronavirus… «Esistono determinanti sociali della malattia, che fanno la differenza: povertà, promiscuità, violenza, impossibilità di curare i malati. Lo stesso vaiolo, diffusosi in Paraguay, tra i Gesuiti (che avevano condizioni di vita migliori) non ha fatto strage come tra gli indigeni. Nel caso delle isole

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caraibiche scoperte da Colombo, per esempio, gli indigeni si sono estinti ancor prima dell’epidemia di vaiolo a causa del lavoro coatto. Con diverse implicazioni questo vale anche per la contemporaneità: in Italia non si muore piú di Aids, in Africa si. È un problema non solo epidemiologico, ma anche politico, economico e sociale. Anche oggi il Covid-19 ha effetti diversi a seconda del contesto. Dire che gli Europei vinsero con “armi, acciaio e malattie”, come titola un best seller di Jared Diamond, per un antropologo è semplicemente una narrazione autoassolvente della modernità occidentale e del suo impeto coloniale, che attribuisce a fattori tecnologici e ambientali, in certa misura incontrollabili, l’esito di processi che in realtà sono storici e culturali». Nel caso degli Aztechi, hanno pesato maggiormente i fattori epidemiologici o quelli culturali? «A determinare la distruzione fu la congiunzione tra violenza strutturale indotta dalla conquista, meccanismi di sfruttamento economico e fattori epidemiologici. Anche insistere troppo sull’idea che queste crisi profonde abbiano cancellato intere popolazioni, ci porta erroneamente a pensare che questi popoli non esistano piú». Dunque gli Aztechi esistono ancora oggi? «Certo. Non si può negare che, oggi, in Messico milioni di persone parlano il nahuatl, la lingua degli Aztechi. Nel Sud del Messico e in Guatemala si parla ancora la lingua maya. L’idea che Maya e Aztechi siano tutti morti impedisce di rivendicare il portato – che ancora vive – di quella civiltà». Quali fattori contribuirono al tramonto dell’impero egizio? Si può parlare di crollo di civiltà quando il Paese, conquistato dagli

Assiri, scompare come grande nazione? Abbiamo rivolto queste domande a Christian Greco, archeologo e direttore del Museo Egizio di Torino. Quando inizia la «fine» dell’antico Egitto, professor Greco? «I conflitti fra i faraoni Shabaka, Shebitqo e Taharqa e i re assiri si collocano nella XXV dinastia (775653 a.C.). Ma la crisi del regno egizio trova le sue ragioni nei secoli precedenti. Nel I millennio a.C., durante la fase del Terzo Periodo Intermedio (1075-664 a.C.), vari fattori determinano la perdita dell’unità politica dell’Egitto. Con la fine del Nuovo Regno e dell’impero di Ramsse XI (1104-1075 a.C.) assistiamo al venir meno dell’unità politica del Paese. I grandi sacerdoti di Amon cominciano a governare a Tebe, inter-relazionandosi con un altro sovrano che assumerà invece il potere al Nord: Smendes. Un periodo che viene definito Wehem Mesut, ovvero un “nuovo inizio”, che determina la nascita della nuova dinastia. Possiamo dire che durante la XXI dinasta assistiamo allo spaccamento del regno in due parti, sebbene i rapporti fra Smendes e i grandi sacerdoti di Amon si intreccino, con matrimoni inter-dinastici che rafforzano le relazioni fra le due parti, in un rapporto dicotomico. La successiva dinastia è quella di Sheshonq, di origine libica, definito il grande comandante di Mashuash, che, dal Delta del Nilo, comincia a costruire una serie di potentati». Quindi l’Egitto iniziò a spaccarsi già dall’inizio del I millennio a.C., con la dominazione di sovrani originari di altri territori, come Libia, Nubia, Persia, e non solo... «La cosa interessante è che nella XXV dinasta saranno i sovrani


kushiti, provenienti dalla Nubia, a conquistare l’Egitto. La dinastia kushita, che parte dalla metà dell’VIII fino alla metà del VII secolo a.C. (748-656 a.C.), vede una successione di sovrani di origine nubiana, a partire da Piankhi. In questo periodo l’Egitto è riunificato sotto i sovrani nubiani, che hanno assunto la titolatura di sovrano del Basso e dell’Alto Egitto, i quali dovranno resistere ad attacchi che provengono dal Gran Re dell’impero assira Assurnasirpal, che cerca di espandersi a ovest, contrastando la politica dell’Egitto in Siria e Palestina. Durante il regno di Shabaka (713-698), ci sono vari tentativi per rompere l’impero egizio e penetrare al suo interno. E proprio gli Assiri aiutano Psammetico I, nel VII secolo a.C.: nel 664 a.C., con l’appoggio degli Assiri, il sovrano riesce a riportare il regno in mano egizia scacciando l’ultimo re kushita. Con la XVI dinastia (664-525 a.C.), quindi, l’Egitto vede la presenza di una serie di sovrani egizi». Subito dopo, però, arrivano i Persiani… «Nel 525 a.C. sale al potere Cambise, il quale fonda la XXVII dinastia, che regnerà fino ad Artaserse II (405-404 a.C.). Questo è il primo regno di dominazione persiana, che viene poi interrotto da una fase di regno autoctono. Dopo la fine di Nectanebo II (360342 a.C.) ci sarà un secondo periodo persiano, che culminerà con Dario III e la conquista dell’Egitto da parte di Alessandro Magno nel 332 a.C. La seconda dominazione persiana era stata molto pesante, negli anni precedenti: l’Egitto era stato ridotto a satrapia e costretto a pagare dazi importanti. Non stupisce, quindi, che Alessandro Magno, nel 332

Figurina in oro del dio Horo come falcone solare, dall’anticamera della tomba di Tutankhamon. 1328-1318 a.C. Cairo, Museo Egizio. a.C., sia stato visto e accolto come un liberatore rispetto alla seconda dominazione persiana». Con la conquista alessandrina, la civiltà egizia scomparve per sempre? O venne in qualche modo assorbita dall’ellenismo? «La storiografia negli ultimi decenni ha fatto molti progressi,

riconoscendo una reciproca ibridazione tra cultura egiziana e mondo ellenistico. Alessandro Magno si dichiara figlio di Amon e si fa rappresentare nel “Tempio della barca” a Luxor come un faraone. Come prima per Cambise, anche Alessandro e i suoi successori, i Tolomei, assumono le fattezze del faraone, poiché costui è l’intermediario della pax deorum e della giustizia: il faraone è veramente il figlio di Ra, riconosciuto dagli dèi e quindi dall’Egitto, e garantisce il mantenimento dell’equilibrio fra ordine e disordine. Come ci dice Platone, i Greci consideravano l’Egitto una civiltà molto antica, addirittura di 10mila anni, con una tradizione importante, che perdura nel tempo, in una reciproca ibridazione con le altre culture. Con l’avvento dei diadochi, l’Egitto tolemaico continua a prosperare: Alessandria diventa il fulcro del mondo ellenistico e l’Egitto un paese che porta avanti il meglio di due mondi». Come dobbiamo immaginare, quindi, la «fine» della civiltà egizia, un’ibridazione con altre culture? «Da storico, trovo molto interessante analizzare il I millennio a.C., con la fine del Nuovo Regno (1070 a.C.), la dominazione kushita, la presenza dei Libici, l’arrivo di ben due dominazioni persiane, infine i Macedoni prima e i Romani poi: si assiste a uno sviluppo e a una forte ibridazione della cultura egizia. E i cambiamenti in atto si colgono anche dai resti della cultura materiale». Quale lezione possiamo trarne per l’emergenza che il nostro Paese sta vivendo? «Speriamo che la nostra civiltà abbia la possibilità di riflettere sui necessari cambiamenti perseguendo la volontà di

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PAROLA D’ARCHEOLOGO costante miglioramento. Mi permetta di dire, sarebbe bello poter assistere a una Wehem Mesut, a una vera e propria rinascita». Altro tema ampiamente dibattuto, oggetto di continue ricerche scientifiche, è quello della scomparsa non di una civiltà, ma di un’intera «specie» umana: quella dell’Uomo di Neandertal. Per capire meglio questo passaggio cruciale della storia dell’uomo abbiamo intervistato Luca Bondioli, bioarcheologo e docente di paleontologia umana all’Università di Padova. Che cosa portò alla scomparsa dell’Uomo di Neandertal? «Tutto avviene in un periodo di tempo molto lungo, circa 10mila anni, tra 50 e 40mila anni fa. Qualcosa che vediamo benissimo in Europa e intravediamo (ma non benissimo) in Asia. Partiamo dai fatti. I Neandertal sono esistiti, ma oggi non ci sono piú. Possiamo dire che erano diversi da noi dal punto di vista morfologico: una forma di uomo oggi scomparsa. Gli studi genetici dicono, tuttavia, che una piccola parte del loro genoma è rimasta in tutta l’umanità vivente, insieme a frammenti di altre umanità. Dobbiamo immaginare che in questo periodo, quello delle ultime glaciazioni, prima della comparsa della nostra epoca, ci fosse un network di popolazioni che abitava il vecchio mondo. Un “web” di popolazioni estinte, unite da forse limitati ma continui interscambi di geni. Alcune popolazioni neandertaliane le conosciamo bene, come Homo sapiens. Altre le intuiamo, poiché non hanno un

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nome ma sono note dal DNA. Di altre ancora conosciamo solo il DNA, come i Denisoviani, ominidi i cui resti sono stati ritrovati in una grotta dei Monti Altaj, in Siberia». E che fine ha fatto l’Uomo di Neandertal? «Come dicevamo, oggi non c’è piú. In alcune zone è stato rimpiazzato dal sapiens, in altre si è unito, ha fatto famiglia con i nuovi venuti, come si evince dalle tracce di Neandertal presenti nel nostro DNA. Da questo complicato rapporto, durato 10mila anni, deriverà la popolazione che siamo noi oggi: una forte componente di sapiens africana, che è andata a soppiantare altre popolazioni. Quest’ultime, tuttavia, non si sono estinte ma, piuttosto, sono state assorbite da noi». Vuol dire che queste popolazioni scomparse (Neandertal compreso) si sono «diluite» nel nostro DNA? «Sí, in parte. Non moltissimo. Ci sono stati scambi anche culturali che oggi non vediamo, ma che sono esistiti. Cosí come i geni, si sono incontrate anche le culture. Sappiamo che i Neandertal erano super-specializzati nella sopravvivenza in ambienti difficili e avevano elaborato una tecnologia litica, che ci è pervenuta, ma ignoriamo il resto. Negli ultimi giorni, per esempio, sono usciti due articoli che testimoniano l’utilizzo di cordame e fibre da parte dell’Uomo di Neandertal: un frammento di filo su uno strumento litico e uno di fibre su di una collana di artigli d’aquila. Cosí abbiamo avuto la prova – che finora non avevamo – che 135mila anni fabbricavano corde». Quindi, come dobbiamo immaginare il passaggio dal Neandertal al sapiens? «La scomparsa dell’Uomo di Neandertal è una crisi, ma non improvvisa e drammatica. Io piuttosto che immaginare i Neandertal che combattono con i

nostri antenati provenienti dall’Africa per l’accesso alle risorse, vedo una popolazione molto specializzata che si è fusa con i nostri antenati». Quindi, dove è finito l’Uomo di Neandertal? «In parte è stato assorbito dal sapiens nell’arco di un lungo periodo, in parte si è estinto, poiché la sua consistenza demografica era inferiore ed era una specie meno adattabile. Piú andiamo avanti nel tempo e piú ci accorgiamo che i Neandertal non sono poi cosí differenti da noi. Nel 1997 un articolo stabilí che era un’altra specie di uomo rispetto a sapiens, ma la certificazione genetica diventa sempre piú labile. Ci siamo uniti e mescolati. Col progredire degli studi emergono sempre piú aspetti simili a noi. Abbiamo capito che i Neandertal avevano un pensiero simbolico, che parlavano, che avevano lo stesso numero di destri e mancini. Stiamo scoprendo una sempre maggiore uguaglianza, ma rimane il fatto che i Neandertal non ci sono piú».


Il sapiens è dunque una versione «migliore» dei Neandertal? «No, in natura non esiste un migliore o un peggiore. Esistono solo individui piú adattati e altri meno adattati a uno specifico ambiente. Se dovessimo decidere chi ha avuto il massimo successo tra gli esseri viventi al mondo, la risposta è: i batteri. Se infatti pesassimo tutti gli esseri viventi del pianeta, i batteri sarebbero il 90% del peso. Sono quelli che hanno piú individui e piú massa sulla terra» E i virus? «Molti meno, penso, ma parecchio efficaci, ahimè». Fra le grandi civiltà urbane e statali dell’età del Bronzo, la Civiltà dell’Indo (o di Harappa) è meno conosciuta di altre. Eppure fu la piú estesa – dal Pakistan all’India occidentale – e sviluppò una società articolata, cosmopolita e dinamica. A spiegarcelo è Dennys Frenez, archeologo specialista in protostoria dell’Asia, che si occupa attivamente della Civiltà dell’Indo, in collaborazione con l’Università di Bologna e l’Harappa Archaeological Research Project dell’Università del Wisconsin. Prima di parlare della sua crisi, ci aiuta a capire cosa fu la Civiltà dell’Indo? «Oggi possiamo seguire lo sviluppo locale della Civiltà dell’Indo fino alle sue radici neolitiche nell’VIII millennio a.C. Pur nell’impossibilità di leggerne la scrittura (o forse proprio per questo motivo), conosciamo molto bene l’avanzatissima ingegneria civile e l’organizzazione urbana delle sue metropoli e dei centri rurali minori. Le città dell’Indo potevano contare su soluzioni di ingegneria civile che

A destra: sigillo a stampo in steatite cotta con l’immagine di un mitologico animale unicorno sotto a una serie di segni dell’enigmatica scrittura della Civiltà dell’Indo, da MohenjoDaro. Nella pagina accanto, in basso: ricostruzione delle fattezze di un Uomo di Neandertal.

in Europa furono introdotte solo nella prima Roma imperiale, duemila anni piú tardi. Mohenjo-Daro (centro situato nell’odierno Pakistan, n.d.r.) possedeva oltre 700 pozzi per l’acqua, docce private e gabinetti pubblici. Gli artigiani dell’Indo estremizzarono la razionalizzazione delle catene produttive, con il reperimento delle materie prime ottimali fino a mille chilometri di distanza dal luogo della trasformazione finale. Quello della Civiltà dell’Indo era senza dubbio un mondo all’avanguardia in molti settori, sia da un punto di vista tecnologico che organizzativo. Sto studiando in prima persona la vasta rete di scambi attivata dai commercianti dell’Indo in tutte le regioni dell’Asia media, spesso basata sulla delocalizzazione di specifiche produzioni per adattarle ai diversi mercati locali. Lo studio del commercio a lungo raggio della Civiltà dell’Indo ci parla di un mondo estremamente cosmopolita». Ma come entrò in crisi un sistema socio-economico e politico cosí vasto e articolato?

«Su questo tema facciamo ancora un po’ fatica ad avere certezze. Prima occorre sgomberare il campo da tesi superate, come quella dell’invasione “ariana”, che purtroppo è peraltro una delle poche teorie sulla Civiltà dell’Indo note a livello mediatico. Non esiste a oggi alcuna prova archeologica dell’arrivo in massa nella Valle dell’Indo di popolazioni di etnia e cultura diverse. Sono stati necessari decenni di studio, ricerca e pubblicazioni per sradicare queste convinzioni dalla mente degli studiosi. Sono quindi molto grato ad “Archeo” per avermi dato la possibilità di fare un po’ di chiarezza sulle nostre attuali conoscenze sulla crisi della Civiltà dell’Indo». Che cosa dice l’archeologia, in merito? «Per la Civiltà dell’Indo non possiamo affidarci a fonti scritte, ma solo allo studio dei dati materiali. Nell’Indo, la maggior parte dei morti veniva probabilmente cremata e le poche tombe a inumazione che conosciamo (meno di trecento) avevano corredi poverissimi. Non

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PAROLA D’ARCHEOLOGO abbiamo evidenze iconografiche dell’esaltazione propagandistica del potere politico, militare o religioso. Abbiamo un solo edificio che si pensa possa avere avuto una funzione templare, dove l’oggetto di culto sarebbe stato un grande albero all’interno di un recinto sacro. L’uso della scrittura fu volutamente limitato alla sfera amministrativa». Eppure quello della Civiltà dell’Indo era un sistema vastissimo, con estesi scambi commerciali… «Per tenere coeso un sistema politico e socio-economico esteso quasi quanto l’Europa occidentale, dovette esistere un’élite in grado di inaugurare e mantenere attive per un migliaio di anni complesse reti di scambi a medio e lungo raggio, nonché di regolamentare la vita nei contesti urbani attraverso sistemi standardizzati di controllo del movimento di beni e persone fra i diversi comparti murati nelle singole città. A livello archeologico, queste élite e le loro attività si riflettono in quella che chiamiamo la “vernice harappana”, un insieme di oggetti che ci rappresentano uno strato superficiale omogeneo di prassi culturali, rituali e amministrative che teneva legate regioni distanti e con retaggi culturali anche piuttosto diversi». E poi cosa accadde? «All’inizio del II millennio a.C. questa sovrastruttura andò in crisi, portando alla disgregazione del sistema socioeconomico della Civiltà dell’Indo e al riemergere progressivo delle differenze regionali sulla “vernice harappana”, che venne riassorbita e scomparve in tempi brevissimi. Nel giro di un paio di generazioni, in tutto l’ecumene harappano, dopo il 1900 a.C., sparí la scrittura, scomparvero i sistemi di misura standardizzati e il sistema di simboli legati alle precedenti élite (come il famoso “unicorno”). Ma non ci fu una crisi demografica. Le grandi metropoli

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non si spopolarono, ma si riorganizzò l’occupazione di alcuni quartieri ed emersero nuovi poli regionali di potere, legati a situazioni locali. Ognuna di queste culture regionali sviluppò un proprio sistema di simboli, riflesso perlopiú in nuove ceramiche policrome e sigilli con motivi geometrici, ma emersero anche nuove credenze religiose e scambi a lungo raggio verso regioni specifiche, fra cui per la prima volta la piana del Gange». Quindi a partire dal 1900 a.C. si riscontrano trasformazioni importanti. Ma che cosa causò la crisi delle élite della Civiltà dell’Indo e del sistema socio-economico e rituale sui cui si reggevano? «Ancora non abbiamo una risposta esaustiva a questa domanda, ma siamo certi che si trattò di una concomitanza di fattori ecologici – piú ambientali che climatici – e culturali. Durante il III millennio a.C., il fiume Indo era affiancato a est da un fiume gemello, il cosiddetto Ghaggar-Hakra (o Saraswati, per i colleghi di fede Indú), che rendeva la Valle dell’Indo una vera e propria “mesopotamia”. All’inizio del II millennio a.C., probabilmente a causa di un sollevamento tettonico nella regione himalayana, gran parte delle acque che prima alimentavano il Ghaggar-Hakra iniziarono a riversarsi verso Ovest, nell’Indo, e verso Est, nello YamunaGange. Il disseccamento del Ghaggar-Hakra e una serie di distruttive piene alluvionali nell’Indo dovettero portare a una grave crisi del sistema agricolo latifondista che sosteneva economicamente le élite della Civiltà dell’Indo. E queste, verosimilmente, persero la loro posizione egemonica a favore di gruppi di potere alternativi. Inoltre, il sistema di controllo economico e i valori religiosi e spirituali su cui si era basato per quasi un millennio lo

sviluppo urbano nella Valle dell’Indo probabilmente non rispondevano piú in modo ottimale alle necessità delle masse, soprattutto in un momento di crisi. Le grandi metropoli dell’Indo rappresentavano infatti un ambiente ideale per la vita comunitaria, la produzione e lo scambio di beni e servizi, ma erano anche meccanismi molto complessi e fragili, dove l’incepparsi di un singolo ingranaggio (come l’approvvigionamento idrico e di beni alimentari) poteva avere conseguenze catastrofiche sull’intero sistema. La “crisi” della Civiltà dell’Indo non rappresentò quindi il collasso di un’intera cultura, né, tantomeno, fu dovuta all’invasione di popolazioni di cultura diversa, ma deve essere vista come la risposta dinamica a una forte crisi ecologica ed economica momentanea, che portò a un riassestamento su nuove basi dell’organizzazione urbana, del sistema produttivo e di scambio, e dei valori che lo sostenevano a livello rituale e ideologico». Che cosa determinò invece il tramonto del millenario regno persiano? Ne abbiamo parlato con Marco Di Branco, docente di storia religiosa dell’Islam presso l’Università «Sapienza» di Roma. Cosa accade alla Grande Persia a partire dalla dinastia sasanide? «Questa dinastia corrisponde all’ultima fase dell’impero persiano. I Sasanidi governarono per 400 anni, a partire dal III secolo d.C., cioè dalla rivolta che portò al potere una famiglia di sacerdoti mazdei, originaria del Sud dell’Iran. Questi abbattono l’impero partico e


si impadroniscono del potere nel segno di una sorta di nazionalismo iranico. Mentre i Parti erano un popolo grecizzato, con una cultura cosmopolita, in questa fase si vive un momento di risveglio in chiave nazionalista. Per esempio, si assiste al risveglio del culto mazdaico, a dispetto di quello greco. Anche la lingua si evolve: il greco, largamente utilizzato in ambito ufficiale in epoca partica, viene gradualmente abbandonato e sostituito dal mediopersiano. Sale al potere una monarchia

nazionalista, basata su un sistema feudale molto sviluppato attorno allo Shah-in-Shah, il “Re dei Re”, e ai suoi sottoposti, i Dihqan, grandi proprietari terrieri, che garantivano fedeltà al capo supremo in cambio di una larga autonomia di tipo economico-politico». Da un impero di stampo culturale greco-ellenistico si passa quindi un regno improntato sul nazionalismo di matrice iranica. Ma che cosa accade in seguito? «Nel periodo sasanide l’impero è strutturato in tre regioni

Rilievo raffigurante la dea Ishtar con le sembianze della regina Zenobia e Tiche come la sua ancella, da Palmira. Damasco, Museo Nazionale.

fondamentali: Iran, Iraq (dove si trova Ctesifonte, la capitale dell’impero, sul fiume Tigri) e l’Asia centrale. In queste zone, i signori godono di amplissima autonomia. L’imperatore governa tramite unità amministrative guidate dai Dihqan, che sono la versione sasanide dei “satrapi” achemenidi. Dunque, cosa accade? Il sovrano persiano Shahpur I prende il potere e porta avanti alcune campagne militari contro i Romani: distrugge Dura Europos, importante avamposto romano sull’Eufrate, sconfigge l’esercito romano nella battaglia di Edessa, nel 260 d.C., catturando l’imperatore Valeriano. Per cercare di frenare l’espansione dei Persiani, i Romani devono trovare nuovi alleati in Oriente e affidano a Palmira la “correctura totius orientis”, ovvero il governo della parte orientale dell’impero: Palmira diventa una sorta di Statocuscinetto alleato dei Romani. Quando poi la regina, Zenobia, si ribellerà a Roma, nel 273 d.C., Aureliano distruggerà Palmira». Quale situazione venne a determinarsi dopo gli scontri tra Persiani e Romani del III secolo? «Dopo i primi trionfi dei Persiani, la situazione si stabilizza, con la creazione del limes, e l’Eufrate diventa la frontiera tra impero persiano e romano. A Roma si verificherà la crisi del III secolo e, con la divisione in due parti dell’impero romano, sarà la pars Orientalis a interessarsi della questione persiana. Dopo la caduta dell’impero romano d’Occidente, nel 476 d.C., continuano le dispute tra Bizantini da una parte e Sasanidi dall’altra. All’epoca di Giustiniano (527-565 d.C.) si firma la cosiddetta “pace eterna” con i Persiani, per cui dal punto di vista militare c’è un periodo di stasi. Giustiniano costruisce campi militari a protezione del limes. La tregua, però, viene violata da parte

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PAROLA D’ARCHEOLOGO persiana: agli inizi del VII secolo d.C. i Persiani invadono i territori bizantini. Vengono invase Asia Minore, Siria, Egitto e Palestina, il re persiano Cosroe II saccheggia Gerusalemme, sottrae la reliquia della croce e la porta a Ctesifonte, nel 614 d.C. A Bisanzio prende il potere un nuovo imperatore, Eraclio, che promuove riforme militari e mette in atto una grande controffensiva contro i Persiani. In pochi anni, i Bizantini passano da aggrediti ad aggressori. Le truppe bizantine raggiungono l’Iraq e con la battaglia d Ninive (627) sconfiggono i Persiani, Eraclio riprende la croce e la riporta a Gerusalemme. A questo punto si crea un nuovo equilibrio fra Bisanzio e la Persia». E chi metterà fine all’impero sasanide non saranno i Bizantini, ma i musulmani, non è vero? «Proprio cosí. Nel 622 d.C. avviene un episodio decisivo della storia mondiale, la cosiddetta egira, la fuga di Maometto da Mecca a Medina, che porta alla creazione del primo Stato islamico della storia. Maometto, profeta dell’Islam, viene espulso dall’aristocrazia meccana e si rifugia a Medina, dove crea uno Stato fondato sulla religione monoteista islamica. Tutte le tribú d’Arabia si convertono all’Islam. Alla morte di Maometto, nel 632 d.C., inizia l’espansione islamica lungo le due direttrici, occidentale e orientale. A Oriente l’impero persiano era già indebolito dal conflitto con i Bizantini. Inoltre, molti Dihqan si ribellano e rivendicano la loro autonomia, distaccandosi dall’impero. Questo genererà una crisi interna, tra i signorotti locali e il re, e quindi la crisi del sistema feudale persiano. Tra il 636 e il 644 i musulmani si impadroniranno di tutto l’impero persiano (e, piú o meno nello stesso periodo, conquistarono anche Siria, Palestina, Egitto e Nord Africa)».

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Gli Arabi hanno quindi dato vita a un impero che andava dall’Iraq, all’Iran e a gran parte dell’Asia continentale? «Sí, e questo ha suscitato non poco stupore tra gli storici. Come è potuto accadere un simile “miracolo”? Certamente, non mancavano problematiche interne, per esempio religiose, sia nell’impero bizantino che in quello sasanide. C’erano conflitti tra potere centrale e locale, c’erano problemi – di cui purtroppo sappiamo poco – che portarono alla caduta dell’impero sasanide. Fatto sta che, due secoli dopo, tutta la Persia è diventata musulmana». Come si potrebbe allora spiegarlo? «Forse era andata in crisi l’organizzazione sociale. Sappiamo poco delle motivazioni del crollo, possiamo fare solo ipotesi, come il logoramento delle guerre con Bisanzio e la sconfitta da parte dei Bizantini. Un dato è certo: dopo due secoli sono tutti musulmani. La lingua è sempre il persiano, ma la scrittura utilizzata è l’alfabeto arabo. Gli abitanti della Persia si sono islamizzati. Le crisi non sempre sono opportunità: possono essere anche vere e proprie tragedie per chi le vive. In Iran per i due secoli che separano la conquista dalla islamizzazione non ci sono fonti: l’archeologia non dice nulla perché tutto è stato distrutto. Almeno cinque generazioni hanno vissuto in una situazione catastrofica a causa della conquista islamica della Persia. In una prospettiva incentrata sul futuro, una crisi può essere certamente foriera di elementi positivi, ma per la generazione che la vive è un momento tragico, colmo di angoscia e sofferenza. Dopo la conquista islamica, della Persia non sappiamo piú nulla per duecento anni. I Persiani scompaoino dalla storia, per poi riemergere in forma diversa».

Per affrontare il tema vastissimo e cruciale, per la nostra civiltà, delle ragioni che portarono alla crisi e alla caduta dell’impero romano, abbiamo parlato con la nostra collaboratrice Orietta Rossini, archeologa della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. «Di tutte le crisi storiche, di popoli e civiltà, quella dell’impero romano appare “la crisi” per eccellenza: quella che ha acquistato un valore paradigmatico, su cui si sono cimentate le migliori menti storiche e che non ha ancora avuto (ma l’avrà mai?) una soluzione definitiva. Nel tempo si è stretto intorno a questo tema un accerchiamento investigativo continuo e sempre piú serrato, in cui però risulta arduo scartare anche le ipotesi piú secondarie. La vastità del tema e i tanti approcci sperimentati suggeriscono di trattare questa grande crisi guardando alla storiografia, piuttosto che alla storia. Risulta piú utile pensare al succedersi delle varie interpretazioni, piuttosto che andare a cercare la causa prima di un fenomeno complesso quanto la società umana». Quale domanda mette piú in crisi gli storici, nell’affrontare la questione della «fine» dell’impero romano? «Ci si rende conto di dover mettere in discussione i termini stessi del problema, come ha fatto la storiografia alla fine del Novecento: c’è stata veramente una “caduta” dell’impero romano? Oppure si è trattato di una trasformazione lenta, progressiva e problematica quanto si voglia, ma non di una “caduta”, con il suo portato di “schianto”, improvvisa mancanza, fatto


epocale traumatico universalmente riconosciuto? La fine dell’impero di Roma non andrebbe cercata, piuttosto, nella nascita di un mondo nuovo? Queste sono le domande che si sono posti alcuni storici nell’ultimo Novecento, primo tra tutti Peter Brown, il quale invece di contemplare il tramonto di un impero centralizzato, ha preferito soffermarsi sulla nascita di una società multiculturale, nella quale emergono comunità differenziate da usi, costumi, religioni, credenze e persino lingue diverse (il siriano, il copto, l’armeno, l’ebraico e l’arabo), che si affacciano sulla vecchia scena del mondo romanoellenistico. Il 476 d.C., che vede la

deposizione dell’ultimo imperatore, Romolo Augustolo, da parte di Odoacre, è considerato l’anno della caduta dell’impero romano (in ogni caso d’Occidente, visto che quello d’Oriente vive ancora per secoli): ma è veramente un anno cosí decisivo? I nostri studiosi, sulla scia di Brown, anche in tempi recentissimi si sono chiesti se realmente qualche contemporaneo abbia assistito a quella deposizione attribuendole il valore epocale che oggi le attribuiamo». La questione crisi dell’impero romano è dunque ancora aperta… «Certamente. E c’è dell’altro. Proseguendo lungo la strada della storiografia, ci accorgiamo di un

fenomeno psicologico – o meglio culturale – assai singolare e forse inevitabile: il tema della crisi dell’impero romano ha funzionato per gli storici come una grande “macchia di Rorschacht”, dove ognuno ha finito per scoprire ciò che già si portava dentro. Detto altrimenti: ogni interpretazione della “caduta” porta con sé i segni del periodo in cui è stata formulata». Ognuno ha letto la crisi con gli occhi del proprio tempo, vuol dire? «Esatto. Gli esempi sono molteplici e illuminanti: nella seconda metà del Settecento Edward Gibbon, lettore degli illuministi e amico di Voltaire, indagava a buon diritto il

Romolo Augustolo viene detronizzato da Odoacre il 26 agosto 476 e porge le insegne al condottiero germanico, incisione di Hermann Knackfuss. 1880 circa. Berlino, Sammlung Archiv für Kunst und Geschichte.

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Il sarcofago romano detto «Grande Ludovisi» con scena di battaglia tra Romani e barbari. III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps. ruolo chiave rivestito dal cristianesimo nel “declino e caduta” dell’impero romano. Prima di lui, Montesquieu, tra i pensatori piú influenti del primo Settecento, interprete della visione mercantilistica dell’economia contemporanea, aveva imputato la caduta di Roma alla “mancanza di metallo nobile” che effettivamente si verificò nel tardo impero e alle conseguenti, perniciose, politiche esattoriali degli imperatori, a partire da Costantino. Sul finire dell’Ottocento, un grandissimo storico, sociologo, economista e filosofo tedesco, Max Weber, parlando della caduta di Roma riassume il sapere del suo secolo, che aveva indagato le problematiche dei mezzi di produzione e del lavoro operaio salariato: individua i fattori di crisi dell’impero romano nella crisi stessa della produzione agraria (il latifondo schiavistico) e nella risposta (sbagliata) data dal governo imperiale in termini di finanza e tassazione. A sua volta, il grande storico Michael Rostovcev, un russo emigrato negli Usa per sfuggire alla politica dei Soviet, nel 1926 pubblica The Social and economic history of the Roman Empire, leggendo la crisi dell’impero d’occidente come un conflitto tra masse contadine e

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borghesia urbana, sullo sfondo del conflitto tra Kulaki (contadini benestanti) e forze operaie urbane seguito alla rivoluzione d’ottobre. Questo excursus è narrato in maniera insuperabile da quello che forse è il maggiore dei nostri storici del Novecento, Santo Mazzarino, autore de La fine del mondo antico, opera insostituibile per chiunque ami la storia». Cosa dicono gli ultimi studi? «Anche in tempi piú recenti le cose non sono andate diversamente. Si è accennato a Peter Brown, le cui tesi “multiculturali” rispondono alla revisione del colonialismo europeo novecentesco. A questo storico irlandese ha risposto nel 2006 un altro oxoniense, Bryan Ward-Perkins, che, in The Fall of Rome and The End of a Civilization, ha ricondotto il problema sul suo binario piú evidente, perché piú eclatante: le invasioni barbariche. Uno degli ultimi prodotti di questa riflessione collettiva sulla caduta di Roma è il volume di Kyle Harper, edito a Princeton nel 2017 e tradotto da Einaudi nel 2019, che già nel titolo richiama le angosce attualissime del nostro tempo: Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero. E chi può negare che la peste che afflisse l’impero con micidiali ondate da Marco Aurelio in poi non

ebbe un forte peso nella crisi di un mondo e di una cultura? Per il resto la coraggiosa opera di sintesi di Harper, da diverse parti criticata ma molto interessante, non esita a esplorare il cambiamento climatico verificatosi intorno al Mediterraneo nella tarda antichità sulla base dello studio del DNA antico scavato in contesti archeologici. È evidente, mi sembra, una preoccupazione e un avvertimento sui rischi che ci attendono…». Concludendo, riflettere sulla crisi delle civiltà del passato, può aiutare a leggere con occhi diversi la crisi che stiamo vivendo nel presente a causa del Coronavirus? «Possiamo tentare quello che uno storico prudente non farebbe mai: attualizzare. Con l’impero romano cade un’unità sovranazionale, di cultura romano-ellenistica, che da Augusto in poi aveva avuto come ideale una pax mantenuta con la forza delle armi, ma anche con la forza persuasiva delle leggi e di una burocrazia efficiente. La sua caduta significò la disgregazione di questa unità sovranazionale. Ci ricorda nulla? Oggi siamo impegnati a chiederci quale sia la via migliore per uscire dalla crisi scatenata da Covid-19. Ci chiediamo cioè se occorra rafforzare la nostra unità sovranazionale, l’Unione Europea, o lasciarci trascinare dalle forze centrifughe e “sovraniste“ che la percorrono. E l’Unione Europea è qualcosa di infinitamente meno strutturato e piú fragile dell’impero creato da Roma. Dalla nostra volontà e da come verrà gestita la crisi, economica ma non solo, che ci attende, dipende la sua sopravvivenza. Corriamo sul filo del rasoio di una crisi economica che rischia di diventare anche sociale, politica e culturale. Se perdiamo l’equilibrio, non ci sarà altro da fare che prepararci a un ennesimo grande giro epocale».


Luciano Calenda

ARCHEOFILATELIA

I SIGNORI DEL NORD C’eravamo già occupati dei Vichinghi in questa rubrica, ben 11 anni fa (vedi «Archeo» n. 288, febbraio 2009); riprendiamo ora l’argomento per affrontare un singolo tema, quello delle imbarcazioni vichinghe usate come navi funerarie, delle quali si parla nell’articolo di Elena Percivaldi (vedi alle pp. 78-89). Le imbarcazioni vichinghe piú conosciute sono certamente i drakkar (1), quelle dalle dimensioni maggiori e dalla polena a forma di drago, ma c’è da dire che ne venivano costruite molte altre, che variavano in dimensioni e struttura (2), in funzione delle piú svariate attività, quali le esplorazioni, con il tipo long ship (3-4), il trasporto di merci e persone (5-6), le guerre (7), la pesca e, non ultima come importanza, appunto quella religiosa e funeraria. Lo spunto dell’articolo citato viene dalle piú recenti scoperte di una nave funerara sull’isola di Edøy, che dista meno di 15 miglia dalle coste della Norvegia, poco a sud di Trondheim. In una delle numerose insenature naturali, luoghi ottimali per gli insediamenti vichinghi (8), una felice intuizione degli archeologi, che avevano indagato il perimetro di due antiche chiese (9), ha portato alla scoperta di un tumulo sepolcrale con la presenza della chiglia di un’imbarcazione di circa 17 m (10), molto ben conservata. La scoperta è importante perché questo tipo di sepoltura, abbastanza raro, veniva riservato a personaggi di alto lignaggio, nobili e capi guerrieri (11), che venivano tumulati insieme alle oro armi e oggetti di valore per affrontare il viaggio nell’aldilà (12). Nell’articolo il discorso abbraccia anche un’altra tipologia di camere sepolcrali, poste al centro di tumuli con strutture di legno a pareti molto basse, e molto simili a quelle che sarebbero state le chiese di epoca successiva (13), e si chiude con il racconto del ritrovamento a Vinjeøra di due navi funerarie, una sovrapposta all’altra a distanza di 100 anni! Infine, ecco un bel francobollo di Svezia, emesso nel 1975 (14), raffigurante la Stele di Rök, sulla quale è incisa una delle piú antiche e famose iscrizioni runiche di epoca vichinga. IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it

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I TO H A S C S S PA U R AL T E CI D

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

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GLI ETRUSCHI SI RACCONTANO di

giuseppe m. della fina

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li Etruschi hanno a lungo goduto dell’aura di «popolo misterioso», anche se, soprattutto grazie alle acquisizioni degli ultimi decenni, è stato possibile dimostrare come la maggior parte degli enigmi fossero in realtà solo presunti e probabilmente dettati dall’assenza di una documentazione letteraria paragonabile a quella dei Greci e dei Romani. I quali, in compenso, scrissero molto a proposito della piú importante e potente fra le genti dell’Italia preromana: ed è proprio attingendo a quelle testimonianze che Giuseppe M. Della Fina ha costruito la Monografia di «Archeo» che qui presentiamo. L’idea è stata infatti quella di ripercorrere le tappe salienti della storia etrusca in forma di racconto, attraverso le vicende personali di una quindicina di uomini e donne, celebri e non. Una carrellata di biografie accompagnata dalla descrizione dei luoghi che furono teatro dei fatti di volta in volta narrati e nei quali possiamo ancora oggi ritrovarne le tracce.

GLI ARGOMENTI • I PERSONAGGI • Tanaquilla, Larth Cupures, Vel, Larth, Velia, Porsenna, Velthur Spurinna, Thefarie Velianas, Arnth, Lars Tolumnio, Arrunte, Aule, Vel Saties, Aule Velthina, Un Sannita, Aulo Cecina, Un etruscologo • I TEMPI E I LUOGHI • Tarquinia, Orvieto, Cerveteri, Accesa, Vetulonia, Murlo, Chiusi, Vulci, Veio, Cortona, Perugia, Volterra

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LA DEMOCRAZIA NEL CUORE Louis Godart

ATENA PENSOSA NELLA MERAVIGLIOSA STELE RIPRODOTTA QUI ACCANTO, LA DEA DELLA GUERRA APPARE IN UNA POSA DOCILE, TUTT’ALTRO CHE BELLICOSA. POTREMMO IMMAGINARE, TUTTAVIA, CHE L’ASPETTO RIFLESSIVO RACCHIUDA UN MESSAGGIO FORTE E NIENT’AFFATTO ARRENDEVOLE. UN MONITO BATTAGLIERO DA NON DIMENTICARE MAI...

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el 2014 la Grecia e l’Italia – Paesi che hanno trasmesso all’Europa e al mondo il messaggio delle civiltà classiche – hanno avuto l’onore di assumere la Presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Allora proposi ai Presidenti della Repubblica dei due Paesi, Giorgio Napolitano e Karolos Papoulias, di organizzare nel Palazzo del Quirinale una mostra dal titolo «Classicità ed Europa» (29 marzo-19 luglio 2014) per rendere conto del destino europeo della Grecia e dell’Italia. Tra le opere scelte per rappresentare la Grecia avevo ottenuto eccezionalmente il prestito di un capolavoro custodito nel Museo dell’Acropoli: l’Atena pensosa (della quale potete ammirare la riproduzione a tutta pagina, qui accanto). Chi ha studiato la scultura, databile al 460 a.C., ha sottolineato che la lastra di marmo non presenta alcuna traccia di supporto. Anzi, gli elementi d’appoggio sono leggermente laterali, probabilmente per facilitarne l’inserimento in un muro. La dea è raffigurata in posizione rilassata con una gamba reclinata e leggermente alzata, e la mano destra poggiata sull’anca. L’elmo corinzio è reclinato allo stesso modo e il corpo si appoggia alla lancia fissata con la punta per terra, alla base di una struttura simile a un piccolo muretto. Le pieghe del velo dorico sono rese in maniera

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assai elegante, cosí come i dettagli del braccio e della gamba. Impressionante è il profilo della dea, nella sua perfezione. Atena è pensierosa, attenta piuttosto che triste. Secondo alcune interpretazioni il muretto davanti alla dea potrebbe raffigurare il peribolo del santuario, oppure un contenitore per i tesori del tempio o ancora contenere una lista dei tributi. Indubbiamente, quello che l’artista evidenzia è il portamento rilassato della dea, l’armatura ridotta (l’assenza dell’Egida) e lo sguardo profondo rivolto verso il pilastrino di fronte a lei. Nel Museo dell’Acropoli questa meravigliosa miniatura della dea è collocata vicino alle sculture del Partenone.

UN MAESTRO ANONIMO Ritengo che contestualizzare questo straordinario capolavoro possa aiutare a definirne maggiormente la portata storica e politica e aiutarci a capire il significato del muretto davanti alla dea. L’anonimo autore della stele ha lavorato intorno al 460, trent’anni dopo Maratona (490) e venti dopo Salamina (480). All’alba del V secolo, le città di Atene ed Eretria appoggiarono le città greche della Ionia che si erano ribellate a Dario il Grande. L’imperatore non poteva sopportare un tale smacco e organizzò nel 490 una spedizione militare che sottomise le Cicladi,

distrusse Eretria e puntò su Atene. L’esercito persiano approdò alla piana di Maratona con l’intento di raggiungere Atene via terra e distruggerla. Tra l’agosto e il settembre 490, le forze ateniesi accorse a Maratona circondarono l’immensa armata persiana e la rigettarono a mare. Ricomposta la flotta, i Persiani circumnavigarono Capo Sunio, con l’intento di sbarcare al Pireo e marciare su Atene. Guidati da Milziade, gli Ateniesi ebbero di nuovo la meglio su Dario e le sue truppe e il Re dei Re, sommessamente, dovette battere in ritirata e rientrare in Asia Minore. Nel 490, nella prima guerra persiana, l’esercito ateniese riuscí a respingere le truppe dell’imperatore Dario, salvando in questo modo la giovane democrazia ateniese. Dieci anni dopo Maratona, nel 480, il figlio di Dario, Serse I, volle vendicarsi di Atene e dei Greci. Con ingenti forze terrestri e navali Serse traversò l’Ellesponto, marciò sulla Tessaglia ma fu fermato per sette giorni alle Termopili da Leonida re di Sparta e i suoi opliti. L’epitaffio sul monumento dedicato alla memoria di Leonida e dei trecento Spartani che morirono combattendo alle Termopili fa parte della nostra memoria collettiva: «Vai, dí agli Spartani, o viandante, che qui giacciamo obbedienti alle loro leggi». Mentre la flotta ateniese, dopo uno


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scontro con le navi persiane a Capo Artemisio, ripiegava verso Salamina, i Persiani sottomisero la Beozia e l’Attica e distrussero Atene vuotata dai suoi abitanti, incendiando anche l’Acropoli e i suoi templi. A Salamina, però, sotto gli occhi esterrefatti di Serse, Temistocle riuscí ad annientare la flotta asiatica. Sconvolto dalla distruzione delle sue navi e spaventato, l’imperatore scappò di nuovo, come dieci anni prima di lui aveva fatto Dario, verso l’Asia Minore, lasciando in Grecia alcune truppe terrestri agli ordini di Mardonio. L’anno successivo (479) un vasto schieramento oplitico greco distrusse definitivamente gli invasori a Platea.

COME UN MONITO Avevo scelto la stele dell’Atena pensosa rinvenuta sulla Rocca sacra dell’Acropoli come emblema della mostra, sia per la sua stupefacente bellezza, sia per la forza del messaggio che esprime. La dea è poggiata sulla sua lancia, consapevole di rappresentare il punto di approdo degli sforzi compiuti da chi ha fatto grande Atene. La sua serena e severa perfezione trasmette a chi la ammira un sentimento di pace ma lancia anche un monito. Perciò credo che la stele contenga i nomi dei caduti nelle guerre persiane. Atena sembra dire agli Ateniesi e a tutti i Greci: «Siate sempre pronti a difendere i valori di democrazia professi da chi ha combattuto a Maratona, alle Termopili, a Salamina e a Platea. La battaglia per le grandi conquiste del cuore e della mente è una battaglia eterna. Guai a non essere pronti a difendere quello in cui crediamo». L’Atena che poggia la fronte sulla lancia non è soltanto la dea dell’intelligenza, è anche quella pronta al combattimento. Le conquiste che l’Atene democratica ha conseguito

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Maratona. Corridori partecipanti a una corsa organizzata nel 1937 per rievocare l’impresa compiuta da un araldo ateniese, tradizionalmente denominato Filippide o Fidippide, che corse dal luogo della battaglia fino ad Atene per portare la notizia della vittoria contro i Persiani di Dario I nel 490 a.C. In secondo piano, si riconosce il Tumulo degli Ateniesi, innalzato in onore dei 192 caduti che la città dell’Attica lasciò sul campo, dopo la celebre battaglia. Nella pagina accanto: busto di guerriero, tradizionalmente identificato con Leonida, il re spartano passato alla storia per la strenua difesa delle Termopili, dall’acropoli di Sparta. 490 a.C. circa. Sparta, Museo. rischiano di non essere eterne. Perciò vanno difese e la lancia deve essere perennemente al servizio di una lucida intelligenza. Il messaggio espresso dall’Atena pensosa si rivolge oggi ai cittadini d’Europa. Le nubi che si addensano nei cieli del nostro continente sono fosche: in molti Paesi dell’Unione

formazioni politiche antieuropee, antisemite e xenofobe sono riuscite a sedurre una parte dell’elettorato e il timore di vedere il paesaggio politico europeo invaso da chi non crede nell’Europa e nei suoi valori è reale. Come accettare che ogni 11 novembre, nelle strade di Varsavia, orde minacciose di nazisti e fascisti

osino urlare i loro slogan antisemiti a poche decine di chilometri da Auschwitz e Birkenau? Ieri Atena rispondeva a chi dubitava dei valori della democrazia tenendo la lancia a portata di mano; oggi i cittadini europei hanno il dovere di riaffermare con forza gli ideali dei Padri fondatori.

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RELIGIONE • IL TOFET

MOLOCH E I

MISTERI DEL TOFET di Sergio Ribichini

Illustrazione nella quale si immagina un sacrificio compiuto da Fenici in onore del dio Moloch, litografia realizzata da Margaret Dovaston per la Hutchinson’s History of the Nations. 1915. Collezione privata. 38 a r c h e o


QUANTO SONO ATTENDIBILI I RESOCONTI DEGLI AUTORI CLASSICI SULLE CRUDELI PRATICHE SACRIFICALI IN USO PRESSO FENICI E CARTAGINESI? E COME INTERPRETARE I DATI ARCHEOLOGICI EMERSI DALLE INDAGINI DEGLI ANCORA ENIGMATICI «SANTUARI» DEI BAMBINI, SPARSI IN TUTTO IL MEDITERRANEO? UNO DEI PIÚ AUTOREVOLI STUDIOSI DELL’ARGOMENTO FA IL PUNTO SULLA QUESTIONE... a r c h e o 39


RELIGIONE • IL TOFET

E

state del 217 a.C.: presso Annibale, che in Toscana si prepara alla battaglia sul Trasimeno, giungono da Cartagine alcuni senatori, messaggeri di tristi decisioni. Era consuetudine della nazione fondata dalla tiria Didone implorare col sangue il favore divino e porre sugli altari infuocati – cosa orribile a dirsi – bambini ancora piccoli. Ogni anno, l’urna del sorteggio rinnovava penosi eventi e imitava i sacrifici offerti a Diana nelle terre di Toante, il mitico re dei Tauri. E ora Annone, da sempre nemico d’Annibale, reclama al de-

stino e alla sorte il figlio del condottiero, perché fosse sacrificato, secondo l’usanza. Ma prevale su tutti la paura di Annibale in armi: s’erge possente, dinnanzi agli occhi di ciascuno, la sua figura di padre, pronto a tornare furibondo a Cartagine.

In basso: uno scorcio del tofet di Salammbô (Cartagine), in uso dall’VIII sec. fino al 146 a.C. Consacrato a Baal Hammon e Tinnit, le divinità piú importanti della città, il tofet si

sviluppa in un’ampia area a sud dell’abitato. A destra: L’ultimo giorno di Sagunto, olio su tela di Francisco Domingo Marqués. 1869. Valencia, Diputación.

L’ESITAZIONE DEI SENATORI Intensifica i timori la sposa di Annibale, Imilce: con le gote ferite e la chioma lacera, la donna riempie la città di grida lugubri; e chiama il marito, affinché torni a impedire l’orrendo sacrificio; e poi s’offre

Gli episodi narrati dal poeta Silio Italico nei Punica si rivelano, in realtà, frutto di una narrazione costruita allo scopo di esaltare la gloria di Roma 40 a r c h e o

come vittima sostitutiva, per soddisfare i voti comuni. Tutto questo induce alla cautela i senatori inviati ad Annibale, che restano incerti fra il timore degli dèi e quello del condottiero; lasciano dunque a lui la difficile scelta, se ricusare la sorte per il figlio oppure obbedire agli obblighi del culto. E Annibale cosí replica, senza esitare: «Quale ricompensa degna di te dovrò mai trovare, Cartagine madre mia? Ecco, sarò in armi notte e giorno, e farò sí che da qui vengano ai tuoi santuari numerose vittime della stirpe di Quirino. Ma sia risparmiato il mio ragazzo,


l’erede delle mie imprese e della guerra. E voi, o dèi della patria, i cui templi sono onorati col sangue, voi che gioite di tributi che atterriscono le madri: volgete qui propizi i vostri sguardi! Altari e sacrifici piú grandi mi accingo ad allestire per voi. Tu, Magone fratello mio: prendi posizione sulla cima del monte che sta di fronte; e tu, Coaspe: avvicinati coi tuoi Garamanti alle colline di sinistra. Tu, Sicheo figlio di Asdrubale: avanzando al riparo conduci gli uomini verso le gole e le forre. Io perlustrerò rapido le rive del Trasimeno e cercherò le primizie della guerra destinate agli dèi. Non è una vittoria da poco quella che

il dio m’assicura con chiare promesse. Voi, messaggeri, assisterete al mio trionfo e riferirete in patria». Cosí parlò Annibale, secondo il poeta Silio Italico, che racconta l’episodio nei Punica, cioè nell’epopea da lui composta tra l’83 e il 103 d.C. per celebrare la gloria di Roma narrando la disfatta del condottiero nemico. Gli eventi della seconda guerra punica sono però trattati dallo scrittore latino con grande libertà, in un’esposizione volutamente romanzata, che non consente di utilizzarli come testimonianza precisa e affidabile su quanto narrato.

Nei versi 763-829 del IV libro, piú sopra compendiati, Silio piú precisamente fantastica su un figlio che sarebbe nato ad Annibale sotto le mura di Sagunto assediata, e che sarebbe stato inviato dal generale a Cartagine, con sua madre, prima della spedizione in Italia. Il poeta favoleggia altrettanto liberamente sul sacrilego generale che rifiuta d’offrire suo figlio per il prescritto sacrificio, assicurando in cambio altri eccidi nella battaglia imminente. Alla fervida immaginazione di Silio Italico si deve anche la scena di panico d’una madre, che

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RELIGIONE • IL TOFET

scongiura d’abbandonare il selvaggio rito di morte e pure si porge in sostituzione del figlio. Sacrificio «annuale», scrive l’autore, di fanciulli «tirati a sorte». Sono, questi, particolari inediti nella letteratura classica, greca e latina, che pure contiene varie notizie sull’abitudine cartaginese di sacrificare vittime umane e particolarmente fanciulli, secondo un costume ereditato dalla madrepatria fenicia, dalla quale proveniva, secondo il mito, la principessa Didone. Con riferimento alle guerre puniche, per esempio, aveva

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sostenuto questa pratica il poeta latino Quinto Ennio, nel II secolo a.C., scrivendo: «I Cartaginesi sono soliti sacrificare agli dèi i loro bambini» (Annali, fr. 221). E solo un paio d’anni prima di Silio Italico, lo aveva narrato anche Q. Curzio Rufo, raccontando in latino gli avvenimenti relativi all’assedio di Tiro, nel 332 a.C. Allora, secondo questo autore (IV 3,23), per fronteggiare l’assedio di Alessandro Magno «alcuni suggerirono di riprendere un sacrificio che io non so credere bene accetto agli dèi e che era stato abbandonato da secoli, ormai: l’immolazione a Saturno di un fanciullo di famiglia libera. Tale sacrilegio, piú che sacrificio, tramandato dai fondatori, si dice che sia stato praticato dai Cartaginesi fino alla distruzione della loro città; e se non si fossero opposti gli anziani per consiglio dei quali si faceva ogni cosa, una crudele superstizione avrebbe trionfato sui sentimenti di umanità».

vittima e il suo viso sembra tirato come quello di chi ride, finché, in un ultimo spasmo, il bimbo cade nel braciere. Perciò questo riso ghignante è detto sardonico, perché essi muoiono ridendo». A Roma, alla fine dell’età repubblicana, Clitarco era un autore di moda, seppur considerato un romanziere a cui dare scarso o pochissimo credito. Alla fine del I secolo d.C., Diodoro Siculo riprese comunque il tema del sacrificio nel fuoco e della statua bronzea, descrivendo l’assedio di Cartagine nel 310 a.C. da parte di Agatocle di Siracusa (vedi box alle pp. 46/47).

IL «RISO SARDONICO» Con probabile riferimento al medesimo assedio di Tiro da parte del Macedone, verso il 310 a.C. aveva dato notizia del costume fenicio anche il greco Clitarco, in un’opera della quale sono rimasti solo frammenti, citati da scrittori posteriori. In uno di questi frammenti, riferito da uno scolio alla Repubblica di Platone (§ 337 A) per spiegare l’espressione «riso sardonico», si legge che, secondo Clitarco, «i Fenici e soprattutto i Cartaginesi che venerano Cronos, al fine d’ottenere qualcosa d’assai rilevante, fanno voto di offrire in sacrificio al dio uno dei loro figli se ottengono quanto vogliono.V’è presso di loro una statua bronzea di Cronos, in piedi, che stende le mani, con le palme rivolte verso l’alto, sopra un braciere di bronzo, che brucia il fanciullo. Quando le fiamme avvolgono il corpo, s’irrigidiscono le membra della

FRA STORIA E MITO Per i Greci e per i Romani l’immolazione di vittime umane era un costume aborrito, rifiutato dagli dèi. Entrambi i popoli lo consideravano inattuale, cioè praticato dagli antenati con esiti nefasti e perciò abbandonato (sia pure con qualche eccezione); oppure lo ritenevano ancora attuale, ma solo presso genti che vivevano ai confini della (loro) civiltà.Vi sono dunque varie testimonianze sul sacrificio umano attuato in genere da tutti i «barbari», in affermazioni nelle quali il dato storico si mescola all’immaginazione mitica o alla finzione letteraria: come l’immolazione dei prigionieri peculiare tra i Galli, quella degli stranieri caratteristica dei Tauri della Scizia, e quella dei «bambini» tipica, appunto, dei Cartaginesi. Ben si comprende, pertanto, che il poeta Silio Italico abbia voluto esaltare la grandezza di Roma rispetto alla barbarie punica, colorendo d’accenti orridi la scena della richiesta ad Annibale di sacrificare il suo unico figlio. Ma è pure evidente che si tratta qui della rielaborazione lirica di un tema narrativo, cioè d’una narrazione «polemica», non «descrit-

A sinistra: statuina in terracotta della dea fenicia Tinnit, il cui segno compare sul basamento. III-II sec. a.C. Nella pagina accanto: statuine in

terracotta raffiguranti donne incinte, interpretate come immagini di una divinità associata alle nascite. VII-VI sec. a.C.


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RELIGIONE • IL TOFET

Il crudele Moloch, acquerello su carta di William Blake ispirato all’ode di John Milton On the Morning of Christ’s Nativity. 1809. Manchester, Whitworth Art Gallery. 44 a r c h e o


tiva». Sicché nessuno storico moderno dà oggi credito a tali notizie su quel fanciullo di pochi anni, altrimenti ignoto agli scrittori antichi, destinato al sacrificio tramite sorteggio; e tanto meno su quel secco rifiuto del generale o sulle grida scomposte della sposa e madre sgomenta, l’ispanica Imilce. Questi, comunque, sono i dati offerti dalla documentazione letteraria antica, che vengono ripetutamente e con altri utilizzati nella storiografia su Cartagine per sancire appunto che i Cartaginesi praticarono senz’altro l’immolazione di bambini e che lo fecero proseguendo un rito già in auge presso i Fenici della madrepatria, i quali, per contro, l’avrebbero ben presto abbandonato.

PASSARE PER IL FUOCO Dell’origine orientale di quel rito, secondo una certa storiografia moderna, darebbero prova anche i libri della Bibbia ebraica, che parlano a piú riprese del rito di «far passare per il fuoco» i propri figli, praticato da Israeliti «idolatri» alla fine del VII secolo a.C., in (onore di) Molek (Moloch in traduzione greca) e in un luogo detto tofet (o tapheth), giusto fuori Gerusalemme, nella valle di Ben Hinnom (cf. per esempio 2 Re 23,10; Geremia 7,31-32 e anche Levitico 18,21 e 20,2-4; Deuteronomio 12,31 e 18,10; Geremia 19,11-14 e 32,35; Isaia 30,33). Fino agli anni Venti del Novecento, questo era lo stato delle conoscenze, riassunto da grandi studiosi come Stéphane Gsell per ricostruire su base letteraria i sacrifici umani cartaginesi, celebrati pubblicamente nell’interesse di tutti. In quegli stessi anni, intanto, riaffioravano a Cartagine migliaia di stele e di urne del santuario dedicato «alla Signora Tinnit Volto-di-Baal e al Signore Baal Hammon», che continuarono a

tornare in luce anche negli scavi di altri centri punici del Mediterraneo centrale e piú precisamente, ma giusto per citare qualche sito, in Tunisia (a Sousse/Hadrumetum e altrove), in Algeria (a Constantine), in Sicilia (a Mozia), in Sardegna (a Sulcis, Tharros, Monte Sirai e precedentemente anche a Nora), rivelando un tipo di luogo sacro tanto ricorrente quanto peculiare nel mondo fenicio d’Occidente. Le urne, infatti, contenevano per la gran parte ossa di bambini, oppure di animali, perlopiú agnelli di pochi mesi; molte stele, inoltre, recavano iscrizioni dedicatorie, lasciate dai Stele funeraria in pietra raffigurante un personaggio che attraversa la porta di un tempio. VII sec. a.C. Mozia (Trapani), Museo Whitaker.

fedeli in memoria di un voto fatto perché gli dèi «hanno ascoltato (o: «ascoltino») la loro voce». Cosí, ben presto, questo tipo di santuario venne collegato ai dati letterari classici sul sacrificio di fanciulli e a quelli biblici sul rito di passaggio nel fuoco. Nel giro di qualche decennio, si adottò inoltre per questo tipo di area sacra, con le stele votive e le urne cinerarie, la definizione di tofet, derivata dalla Bibbia, che viene utilizzata ancora oggi tanto nella letteratura scientifica che in quella divulgativa.

I NOMI DEGLI DÈI Gli dèi i cui «tributi terrorizzano le madri», secondo l’espressione posta sulle labbra di Annibale da Silio Italico, sarebbero dunque individuabili con precisione, perché i loro nomi si leggono sulle stele dei tofet: si tratta di Baal Hammon (l’equivalente punico del greco Cronos e del latino Saturno) e della dea sua compagna,Tinnit (che però è del tutto assente da ogni notizia classica sul sacrificio dei fanciulli); e solo pochi studiosi, per decenni, mantennero il dubbio che l’archeologia avesse realmente rivelato l’area sacra destinata dai Cartaginesi al sacrificio sistematico di vittime infantili. Sulle stele di Cartagine e degli altri tofet, inoltre, gli epigrafisti cominciarono a leggere non solo il nome dei dedicanti e dei divini destinatari della pietra eretta a ricordo della cerimonia compiuta, ma anche il nome di un rito, verosimilmente un sacrificio, che ripeteva, nella grafia punica senza indicazione delle vocali, le consonanti del biblico molek, riferito al tofet: MLK, variamente e ulteriormente precisato. Su una stele arcaica di Cartagine (CIS I 5685) si legge per esempio: «Stele di un mlk bcl che ha dato Magone figlio di Annone a Baal a r c h e o 45


RELIGIONE • IL TOFET

PER PLACARE L’IRA DEL DIO Ecco come lo storico greco Diodoro Siculo (vissuto fra l’80 e il 20 a.C.) descrive i sacrifici compiuti da Cartaginesi al tempo dell’assedio della loro città da parte di Agatocle, tiranno di Siracusa: «Attribuendo agli dèi la catastrofe che li aveva colpiti, i Cartaginesi si diedero

Hammon». Cosí venne stabilita anche la fine del biblico Moloch: quel termine, sostenne con successo nel 1935 Otto Eißfeldt, non indica una divinità (un fantomatico e terribile dio Moloch), bensí un sacrificio, il molk. Anche la Bibbia, insomma, parlerebbe di un olocausto di fanciulli «nel (rito) molk» e non «in onore di Moloch». Una formula, in particolare, sembrò chiara e significativa: mlk’mr, che si trova trascritta in latino come molchomor, morc(h)omor e mochomor, su alcune stele dall’Algeria e bene s’interpreta come «(sacrificio) molk di un agnello», offerto da coppie di genitori a Saturno, in adempimento di un voto per la salute (compromessa) di un figlio. Nell’ipotesi avanzata, dunque, il tofet era il luogo in cui i Punici sacrificavano i loro figli nel fuoco, prima di seppellirne i resti e di erigere una stele a memoria del rito. Il ritrovamento di urne contenenti soltanto ossa di animali sembrò documentare anche l’abbandono, col tempo, del sacrificio umano e la sua sostituzione 46 a r c h e o

a suppliche di ogni genere. (…) Si rimproverarono anche d’essersi reso ostile il dio Cronos, perché avendo anticamente l’uso di sacrificargli i migliori dei loro figli, piú recentemente avevano destinato al sacrificio fanciulli comprati e nutriti a tale scopo. Furono fatte

indagini e si scoprí che alcuni di quelli sacrificati avevano sostituito le vere vittime. Riflettendo su questo fatto e vedendo il nemico accampato ormai davanti alle mura della città, furono tutti presi da un timore superstizioso, per aver abbandonato le onoranze

Parte superiore di una stele votiva in forma di segno di Tinnit con incisa l’immagine di una bottiglia, dal tofet di Cartagine. IV sec. a.C. Tunisi, Museo del Bardo.

con l’offerta di un agnello. Per alcuni studiosi, si trattava dell’olocausto sistematico del primogenito di ogni famiglia; per altri, d’una cerimonia che doveva assicurare la fecondità femminile o quella delle colture, il benessere della collettività o dei suoi capi. Qualcuno ha anche ipotizzato che i resti umani rinvenuti nei tofet fossero il risultato di un metodo di controllo delle nascite, giustificato da una forte pressione demografica; si tratterebbe insomma d’infanticidi, mascherati dalla ritualizzazione dell’atto per ridurre i costi psicologici dell’uccisione di un figlio. Nello sviluppo degli studi punici, tuttavia, la realtà dei tofet si è dimostrata assai piú complessa di quanto non dicano queste ricostruzioni omologanti. E sulla nostra rivista, nel corso degli anni, abbiamo dato conto dell’avanzare degli studi e delle interpretazioni.Vi sono, senza dubbio, elementi ricorrenti e caratterizzanti, e gli studi degli ultimi decenni lo hanno bene dimostrato. Si tratta sempre di santuari a cielo aperto, qualificati dalla presenza di deposizioni d’urne cinerarie e di pietre votive, in un complesso sacrale che


tradizionali alle divinità. Nello zelo di porre rimedio alla propria negligenza, essi procedettero a un sacrificio pubblico di duecento fanciulli, scelti tra le famiglie piú illustri. E altri ancora, per timore, s’offrirono volontariamente al sacrificio, in numero non

inferiore a trecento. V’era presso di loro una statua di bronzo raffigurante Cronos, con le mani tese, le palme in alto e inclinate verso terra cosí che il fanciullo postovi sopra cadeva giú, in una voragine di fuoco» (Bibliotheca historica, XX 14,1-7).

prevede anche spazi coperti, bacini, altari, cappelle. Si tratta inoltre di santuari cittadini, cioè sorti in funzione di una comunità urbana già ben organizzata, con una forte valenza identitaria. Altra caratteristica frequente è la delimitazione dell’area, racchiusa da muri o da particolari configurazioni del terreno e normalmente situata alla periferia dell’abitato; in mancanza di spazio per nuove deposizioni non si allargava la superficie del tofet, ma si gettava terreno di riporto sul livello precedente, predisponendo il suolo per le nuove deposizioni. Eppure, nonostante corsi e ricorsi negli studi sul tofet, si può parlare di questo come luogo dei sacrifici umani solo trascurando i molti elementi discordanti con tale definizione, testimoniati pure dalla documentazione. Sul piano archeologico, continua a emergere, per esempio, la necessità di prestare interesse alla sequenza e tipologia delle deposizioni, che attestano mutamenti delle funzioni dell’area sacra e dei riti ivi compiuti. Negli strati piú antichi, in particolare nel tofet di Cartagine studiato a fondo e pubblicato nel 2004 da Hélène Benichou Safar, si trovano urne ma non stele; ; e queste, in seguito, non sempre sono in connessione con le urne (dunque potrebbero indicare anche un rito indipendente dal-

la deposizione di resti incinerati). Le analisi del contenuto dei vasi cinerari, soprattutto, hanno mostrato che già in epoca antica, e contestualmente alla deposizione di urne con resti umani, si deponevano vasi con resti di animali o ancora urne con resti umani e animali, insieme. A Cartagine, per esempio, su 80 urne di epoca arcaica (VII-VI secolo a.C.), 50 contengono resti di bambini, 24 resti di animali, 6 incinerazioni miste; a Mozia, tra il VII e il VI secolo, la percentuale d’incinerazioni di animali è perfino prevalente Un’altra stele votiva dal tofet di rispetto alle deposizioni infan- Cartagine, con vari simboli, tra cui il tili. L’ipotesi che i Cartaginesi sole, la luna crescente e, sotto di essa, avessero col tempo sostituito il l’immagine di Tinnit. II-I sec. a.C. sacrificio di un bambino con Londra, British Museum. quello di un animale si è dunque rivelata errata, e oggi, per tanto differenti. Le urne con i vero, nessuno piú la sostiene. resti incinerati, inoltre, sono collocate sul terreno in modo analogo alle sepolture delle neMODALITÀ DIVERSE Vi sono poi urne con soli resti cropoli, dove mancano (signifiumani, di uno o piú individui; cativamente?) considerevoli tuoppure urne con soli resti di mulazioni infantili. Si osserva uno o piú animali, deposizioni pure la presenza di ceramica con resti umani e animali nella miniaturistica, maschere, stastessa urna, di uno o piú indi- tuette, amuleti: oggetti forse vidui; vi sono stele che accom- correlati alla sistemazione fupagnano urne, ma anche stele neraria dei campi d’urne e cosenza urna e urne senza stele. munque indicativi della frePare insomma evidente che vi quentazione dei tofet per offerte fosse una decina di modalità e rituali di vario tipo. diverse di deposizione, a cui Dagli scavi (in particolare a probabilmente corrispondeva- Mozia e a Tharros) sono emerno, anche nella stessa epoca, si anche resti di animali incomcomportamenti rituali altret- busti (bovini, equini, ecc.), con a r c h e o 47


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segni di macellazione: prova di banchetti sacrificali e di cerimonie diverse da quelle che si concludevano con la deposizione delle urne, testimoniate anche dalle scene cultuali raffigurate su tante stele. Ogni tofet, infine, sembra aver attraversato fasi diverse d’utilizzazione,

con periodi nei quali vi furono molte deposizioni, altri d’abbandono o d’uso limitato, e perfino persistenze di epoca tarda. Di fatto, come è stato ben dimostrato da una analisi di dettaglio sull’insieme della documentazione, edita nel 2014 da Bruno D’Andrea e poi da lui stesso

Sulci (Sant’Antioco, Sud Sardegna). Un settore del tofet, con le urne cinerarie destinate ai resti ossei di feti, neonati e bambini.

ripresa nel 2018, in uno studio di sintesi sulle diverse proposte interpretative, ciascun tofet ha caratteristiche proprie e ogni definizione «globale» della questione risulta fuorviante, se non riduttiva. Anche dall’epigrafia si evidenziano varietà e sviluppi, tanto cronologici


quanto areali: le formule piú antiche hanno al primo posto il nome dell’oggetto donato od offerto, seguito dal nome del dedicante, dal verbo e dalla intitolazione alla divinità; all’ultimo posto il motivo dell’offerta, cioè la constatazione o richiesta di grazia ricevuta. Nel

tempo, a Cartagine il nome del dio passa al primo posto (ma cosí già nel VI secolo anche a Mozia); segue il nome dell’oggetto dedicato e poi il nome dell’offerente. L’offerta non sempre è segnalata dal termine mlk e/o dalle sue ulteriori specificazioni; piú spesso vi sono formule che a

noi sembrano vaghe («dono/dedica di...») o s’indica la stele stessa come dono. Nel complesso, emergono elementi per sostenere che la deposizione d’ogni stele non fosse necessariamente connessa all’uccisione di un essere umano. Anche sui destinatari c’è da esprimere piú d’una ri-


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serva: Tinnit non sempre compare accanto a Baal Hammon, mentre a Cartagine, dal V secolo, prende il primo posto nelle dediche. Per entrambi, inoltre, la documentazione evidenzia aspetti di divinità benevole, protettrici della famiglia e della discendenza, difficili da conciliare con l’idea di divinità destinatarie di sacrifici d’infanti. Ci manca in proposito, e purtroppo, una «mitologia» che ne illustri le caratteristiche e ne racconti la personalità. Si è parimenti contestato il metodo di affiancare, alla documentazione classica e archeologica del mondo fenicio d’Occidente, i dati biblici sul tofet, in un presunto «cerchio ermeneutico» che rischia di essere, piuttosto, solo un circolo vizioso: con una simile procedura, ha osservato recentemente Claudio Balzaretti, ogni interpretazione si muove entro un quadro di riferimento costituito in partenza, comunque troppo lacunoso e tale da suscitare una selva di problemi connessi. I tofet del mondo punico non sono la «prova archeologica» di quel che si legge nella Bibbia e questa non prova l’interpretazione sacrificale dei riti praticati nei santuari punici. Di piú: sulla base dell’analisi filologica dei passi biblici relativi, Stefano Franchini ha dedotto che presso Gerusalemme si cremavano e seppellivano cadaveri speciali, sconciati,

mutilati, e, piú in generale, individui deceduti con il corpo imperfetto, per qualche infermità o malformazione, nonché i feti abortiti anzitempo e i bimbi nati morti. Anche l’accostamento dei dati letterari classici all’archeologia dei tofet non sembra pienamente giustificato. Le allusioni al sacrificio punico dei fanciulli sono piuttosto numerose, ma perlopiú reiterate. Nessun autore greco o latino parla di un’area consacrata a tale rito, né di un luogo destinato a raccogliere i resti delle vittime. Pochissime, inoltre, sono le fonti contemporanee al periodo di attività dei tofet punici, che erano sotto gli occhi di qualunque visitatore straniero.

DESCRIZIONI INATTENDIBILI E le «fonti» classiche parlano del sacrificio di vittime umane (adulti, prigionieri, fanciulli delle famiglie piú in vista) solitamente in situazioni eccezionali (guerre, carestie, pestilenze) e nell’interesse della collettività. La realtà delle urne e delle stele votive evoca invece una pratica religiosa che riguarda personalmente e ordinariamente una pluralità di dedicanti, d’ogni ceto sociale e per scopi individuali. Gli autori classici, insomma, testimoniano la presenza del sacrificio umano nella religione punica, ma offrono una

visione largamente diversa dalla tipologia dei riti celebrati nei tofet. In altri termini, le diverse tipologie di «fonti» non sono tra loro (pienamente) comparabili. Le analisi osteologiche hanno anche dimostrato che i bambini erano già morti al momento dell’esposizione al fuoco, e pertanto non cadevano tra le fiamme dalle braccia di una «statua bronzea». Quelle incinerate nei vasi, poi, sono per la stragrande maggioranza ossa di neonati, deceduti dopo la nascita o nei primi mesi di vita. Si è anche constatata la presenza di feti e di bambini nati morti. Ciò rende assolutamente improbabile che tutti i bambini nelle urne dei tofet siano individui uccisi. Su questo punto, negli ultimi decenni, il dibattito tra gli antropologi ha segnato posizioni fortemente contrastanti, in particolare sulla valutazione dell’età di morte degli individui incinerati. Ma da un lato e dall’altro si ammette comunque la presenza di feti e nati morti, in numero non indifferente; e questo esclude che i santuari con le stele e le urne fossero (soltanto) luoghi del sacrificio umano, giacché un feto abortito e un infante nato morto non possono essere stati l’oggetto vivente d’una cerimonia cruenta. Per l’insieme di queste considerazioni, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso si è fatta strada una

QUELLA BAMBINA «NATA DAL FUOCO» I sacrifici umani che avrebbero fatto parte delle tradizioni fenicie sono l’elemento portante di Cabiria, il colossal muto girato fra il 1913 e il 1914 da Giovanni Pastrone e la cui ideazione fu attribuita a Gabriele D’Annunzio, il quale, in realtà, si limitò a scrivere le didascalie e a inventare il nome di qualche personaggio (ottenendo comunque un compenso di ben 50 000 lireoro). La vicenda si dipana fra la seconda guerra punica e la caduta di Cartagine (quindi tra la fine del III e la prima metà del II secolo a.C.) e ha per protagonista la bambina «nata dal fuoco» sull’Etna, poi fanciulla al seguito della regina Sofonisba, per due volte salvata dallo schiavo

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Maciste, che la sottrae al Moloch africano. Per il costo (1 250 000 lire), la durata di lavorazione (6 mesi) e di proiezione (4 ore), le innovazioni tecniche (uso del carrello), la fastosità delle scenografie (il tempio del dio Baal), la varietà degli esterni (Alpi, Sicilia, Tunisia), la relativa naturalezza della recitazione, i contributi «artistici» (le didascalie di D’Annunzio, la «sinfonia del fuoco» di Ildebrando Pizzetti), Cabiria fu uno spettacolo sensazionale, a cavallo tra le fiabesche origini del cinema e il periodo delle grandi scoperte industriali ed ebbe un successo mondiale. (red.)


La ricostruzione del Moloch realizzata per il film Cabiria, diretto da Giovanni Pastrone. 1913. Torino, Museo Nazionale del Cinema.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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definizione piú articolata dei tofet punici, che ha riaperto il dibattito sulla validità dell’interpretazione sacrificale dei resti umani conservati nelle urne e sulla correttezza nell’uso del termine tofet (che resta enigmatico e comunque estraneo all’epigrafia punica). Un numero non indifferente di studiosi interpreta il tofet come un santuario polivalente, centrato sui pericoli della gravidanza e della prima infanzia: qui, verosimilmente, si seppellivano

i bambini che morivano in tenera età, perché debilitati o prematuri, che proprio per questo venivano sepolti in aree particolari e con riti specifici, «dedicati» o «consacrati» alle divinità preposte a vegliare su questa fase della vita: Baal Hammon, appunto, il dio ancestrale, e Tinnit «Volto-di-Baal», chiamata a intercedere presso di lui. Non è da escludere che in taluni casi potesse trattarsi di individui infermi o deformi, in certo senso «riconsegnati»

alle divinità nella speranza di avere figli sani o in vista dell’ottenimento di una prole senza difetti. Al centro dei riti compiuti nei tofet doveva esserci una particolare ideologia per i bambini incinerati e deposti in quelle urne e per le divinità destinatarie dei riti ricordati nelle iscrizioni; un’ideologia che suggeriva di realizzare un simile spazio consacrato (difficile da categorizzare, con la nostra distinzione tra «necropoli» e «santuario») e pa-

Il tofet di Mozia, il cui scavo ha restituito oltre mille deposizioni e circa duecento tra stele e cippi, distribuite su sette strati, nonché installazioni di culto, che permettono di ricostruire lo sviluppo storico-archeologico del sito durante tutta la storia dell’insediamento fenicio.


rimenti di conservare allo stesso modo i resti di animali sottoposti al medesimo rituale concernente gli infanti. Sul fatto che gli animali incinerati nelle urne siano da considerare come «vicari» degli esseri umani non sembra poi esservi dubbio; ma è discutibile dedurre che i bambini, per i quali quegli animali furono offerti, fossero prioritariamente destinati al sacrificio. Piú verosimile è l’ipotesi che si trattasse di neonati in pericolo di vita,

«salvati» dalla morte per un intervento divino, auspicato e favorito dall’immolazione di quegli ovini. Certo, i dati restano insufficienti per dirimere ogni problema, e molti studiosi, anche in tempi recenti, hanno rinnovato l’interpretazione sacrificale dei rinvenimenti dei tofet, arguendo da taluni elementi della documentazione, specialmente epigrafica, che al centro dell’offerta vi fosse, appunto, l’uccisione d’un bebè. Di fatto, ci si

trova ancora in una sorta di «limbo» delle interpretazioni, per riprendere una giusta espressione di Bruno D’Andrea, con le ipotesi che si confrontano e si affinano alla luce delle diverse e contrastanti obiezioni.

UNA QUESTIONE COMPLESSA Le indagini contemporanee tengono però conto delle diverse ipotesi; chi s’incarica d’avviare nuovi scavi nei tofet punici, a cominciare da quello di Cartagine, ha ormai piena consapevolezza della complessità della questione e della necessità di fare ricorso a ogni str umento offer to ogg i dall’analisi interdisciplinare. Sul piano teorico, si sviluppano gli studi sulle sepolture infantili in aree diverse dal tofet e sull’incidenza della mortalità infantile nel Mediterraneo antico, mentre si pongono a verifica sul campo anche concetti d’uso comune, come quelli di «sacrificio» e di «offerta» non meno che le definizioni di «santuario» e di «necropoli». Si valuta a fondo l’evidenza archeologica ed epigrafica d’usi rituali molteplici e differenziati, nel tempo e nello spazio. Si verifica, infine, l’ideologia del molk e del passaggio nel fuoco quale specifica consacrazione riservata a quanti non riuscivano a realizzarsi come individui, per cause di morte naturale, come vogliono molti studiosi, o per deliberata e sacrificale uccisione, come altri continuano a ritenere. Per gli uni e per gli altri specialisti, in ogni caso, il tofet, con le sue molteplici realizzazioni nello spazio e nel tempo, continua a rappresentare un luogo consacrato da una prassi rituale tanto specifica quanto assolutamente tipica della cultura cartaginese. E degli «dèi che terrorizzano le madri», evocati con enfasi dal poema di Silio Italico, negli studi condotti con criterio non v’è e non dev’esservi piú traccia. a r c h e o 53


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STORIA • IL LIMES/1

AI CONFINI DEL MONDO LÀ DOVE FINIVANO LE TERRE SULLE QUALI AVEVA ESTESO IL PROPRIO DOMINIO, ROMA TRACCIÒ UN CONFINE SEGNATO DA STRUTTURE DIFENSIVE, MA NON SOLO. DA UN LATO BARRIERA CONTRO IL NEMICO – COME LA MURAGLIA CINESE O LA MODERNA LINEA MAGINOT – DALL’ALTRO STRUMENTO DI PENETRAZIONE E DI CONQUISTA DI NUOVI TERRITORI, LE TRACCE DI QUESTA IMPONENTE OPERA MILITARE E POLITICA SONO ANCORA OGGI BEN RICONOSCIBILI. SOPRATTUTTO NELL’AREA CORRISPONDENTE ALLE PROVINCE GERMANICHE di Maria Aurora Salto von Hase

«È

questa la volontà degli dèi: la mia Roma sarà caput mundi. Pensino i Romani a coltivare e a padroneggiare le arti militari, perché cosí potranno tramandare ai posteri che nessuna potenza umana potrà mai resistere alla loro». Tito Livio, nel I libro delle Storie immagina che l’ombra di Romolo appaia a Giulio Proculo per pronunciare questa profezia. Era convinzione dello storico, infatti, che fosse ineluttabile «disegno del fato la prima origine della città», fondata da un discendente divino per «rozzi villani», per una «popolazione dalle origini umili e oscure», ma «destinata a divenire l’Urbe, un impero secondo solo a quello degli dèi». Si direbbe che una protezione divina abbia accompagnato la città di Romolo nel suo ininterrotto, prodigioso sviluppo. Già nel IV secolo a.C. Roma 56 a r c h e o

era stata cinta da un baluardo di mura, le cosiddette Mura Serviane. Ma la città non rimase entro la cerchia di questa cintura. La sua piú importante difesa consisteva in un complesso sistema di alleanze, nella fondazione di colonie ai margini del territorio cittadino, in cui i Romani erano pronti a respingere con le armi ogni eventuale aggressione; e in una espansione che garantiva con le vittorie militari la sicurezza di fronte alle ribellioni o ai pericoli esterni.

DISCIPLINA E ORGANIZZAZIONE Fino agli esordi dell’impero, la città non conobbe strutture stabili a difesa dei confini, e neppure presidi fissi a guardia delle frontiere, giacché fino alla riforma di Caio Mario non esisteva un esercito permanente e pro-

fessionale (vedi box a p. 60). Le guerre si portano offensivamente sul territorio nemico e sono guerre di conquista, o di consolidamento. Le truppe romane e quelle alleate, stanziate in varie province, si spostano in tempi adeguati per migliaia di chilometri in tutte le direzioni. I soldati romani, veri «muli mariani», benché tenuti al reperimento sul posto di materiali da costruzione, trasportano con i pesanti equipaggiamenti anche elementi prefabbricati per le palizzate. Alla fine di ogni marcia, la sera, costruiscono l’accampamento per la notte. La disciplina e l’organizzazione con cui venivano costruiti questi campi sono stupefacenti (vedi box a p. 64). Sono già i prodromi del limes in senso stretto e l’evoluzione procede di par i passo con l’ampliarsi dei domini. Alle


I resti del Milecastle 39, denominazione assegnata a uno dei forti costruiti lungo il Vallo di Adriano, situato nell’odierna contea del Northumberland. La linea fortificata correva in coincidenza del limes dell’impero in Britannia e venne fatta costruire da Adriano fra il 122 e il 127 per proteggere dagli attacchi dei Caledoni i territori conquistati. Si estendeva per 120 km, congiungendo la costa occidentale a quella orientale dell’isola.

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STORIA • IL LIMES/1

prime province – Sicilia, Sardegna e Corsica – si sono aggiunte: a ovest la Spagna e la Lusitania; a nord la Gallia Narbonense; a oriente l’Illiria, la Macedonia, l’Acaia, e la provincia d’Asia, con il Ponto e la Bitinia sulle coste del Mar Nero, la Cilicia e la Siria; a sud Creta e Cipro e la provincia d’Africa, che ingloba l’attuale Tunisia e parte dell’Algeria. All’epoca di Augusto il perimetro esterno dell’impero misura piú di 18 000 chilometri. Le 28 legioni di Augusto sono stanziate in comunicazione con i confini, nelle zone strategiche, sugli snodi stradali, a intervalli e in concentrazioni irregolari, a seconda del grado di affidabilità delle province. Ma si sviluppa anche un sistema di controllo stabile ai confini dell’impero. Nasce cosí il limes.

L’armatura del legionario era formata da armi di difesa e armi da offesa, tra cui il giavellotto (pilum).

UN’ORIGINE ARCAICA Le origini del termine sembrano risalire alla scienza degli aruspici: l’etimologia, infatti, è in relazione con le pratiche rituali. La parola indica le linee di separazione nelle interiora degli animali sacrificati, o il corso del Sole, della Luna e delle Stelle, o la Via Lattea, o la fascia del-

Lo scudo serviva a parare i colpi delle armi avversarie; al tipo convesso si sostituí quello rettangolare a sezione semicilindrica.

L’elmo in bronzo difendeva la testa dai colpi di spada o di mazza, e aveva ai lati le paragnatidi per coprire le guance.

La corazza era formata da lamine in ferro fissate insieme e parzialmente sovrapposte, allacciate al centro; grandi spallacci articolati proteggevano il collo.

L’ORGANIZZAZIONE DELLE TRUPPE Nell’alto impero, quando si formavano sui confini le strutture del limes, le legioni erano stanziate secondo criteri militari e strategici: piú d’una in una sola regione, se la situazione lo richiedeva, nessuna, dove consentito dalle circostanze. Augusto, che ad Azio aveva potuto disporre di ben 60 legioni, ne ebbe 28 nel tempo di pace inaugurato dal suo principato: fino alla sconfitta di Varo (9 d.C.), quando tre legioni furono trucidate nell’imboscata, e mai piú ricostituite. Il numero delle legioni non subí in seguito grandi variazioni: se nel 68-69 d.C. erano salite a 33, sotto Vespasiano erano

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ridotte a 29. Per il tardo impero manca una documentazione esauriente; comunque il numero delle legioni venne considerevolmente aumentato, ma diminuendo in ognuna in proporzione il numero dei soldati. Il contingente totale di uomini rimase press’a poco invariato: circa 400 000 su 80 o 100 milioni di abitanti. A ogni legione era allegata una piccola unità di cavalleria di 120 uomini, divisi in 4 turmae di 30 cavalieri ciascuna. Era un corpo speciale sin dalla sua

antica fondazione, quando era accessibile solo a chi fosse in grado di finanziarsi il costoso equipaggiamento e un cavallo. E il ceto dei cavalieri, ordo nobilissimus, ma di estrazione commerciale, veniva subito dopo quello dei senatori.


La città dei re Particolare del plastico ricostruttivo della Roma arcaica nel periodo regio, con i colli del Campidoglio, del Palatino e dell’Aventino. Roma, Museo della Civiltà Romana. La ricostruzione evidenzia la disomogeneità dell’assetto urbanistico: accanto a spazi scarsamente edificati, sorgono aree densamente affollate di edifici, disposti secondo una distribuzione irregolare e di genere disparato. Si riconoscono, fra gli altri, le Mura Serviane e il Tempio dedicato a Giove Ottimo Massimo, Giunone e Minerva sul Campidoglio.

lo Zodiaco. Significa poi una via impervia aperta fra boschi, paludi o montagne nemiche. Gli agrimensori l’intendono come linea di confine tra due fondi. Il termine indica

anche una via di penetrazione entro il territorio nemico, perpendicolare alla frontiera virtuale con il territorio romano: non esisteva ancora, infatti, una linea esatta di demarca-

In basso: un gruppo di ausiliari, cioè soldati permanenti di origine non cittadina, stanziati nelle province. Comprendevano unità di cavalleria e di fanteria. Un soldato delle truppe ausiliarie armato di bastone e di scudo rotondo, con umbone. Per i socii delle truppe ausiliarie, vigeva l’obbligo di armarsi a proprie spese. Tra le truppe ausiliarie vi erano gli arcieri, armati di arco e frecce, che portavano l’elmo, la cotta di maglia e la spada corta.

La lunga veste e le scarpe sono di origine orientale.

zione dei confini, né tantomeno una frontiera fortificata. Lo sviluppo delle infrastrutture ai confini inizia quando molti Stati clienti sono stati annessi all’impero, e Roma ha inglobato i loro territori. Ma ora tocca a Roma difendere i nuovi sudditi dalle aggressioni esterne, che sono effettivamente, fino alla crisi dell’impero, di lieve entità. A questo scopo, il limes è munito in tutto il suo percorso di torri di avvistamento e di controllo, e garantisce collegamenti immediati e a doppio senso, avvalendosi di sistemi di comunicazione in codice, auditivi e visivi (percussioni, sventolamento di drappi rossi, fumate diurne, segnali luminosi notturni). Gli accampamenti e le altre opere d’ingegneria del limes si appoggiano sempre sul percorso di una via, posta lungo il confine fra territorio romano e non romano, o perpendicolare al confine. Quello viario è il fulcro primario del sistema, e si integra poi in un articolato sistema stradale, che s’inoltra entro il territorio romano e garantisce in caso di necessità la celerità di spostamento delle truppe. La stessa presenza del limes è determinata da un insieme di riflessioni: militari, politiche, topografiche, ecoa r c h e o 59


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nomiche. Ogni suo tratto è passibile di rettifiche, secondo le varie circostanze politiche e militari e le decisioni del governo centrale. Si tiene conto sia della pericolosità delle popolazioni limitrofe che della natura del luogo. È assente dove non si temono incursioni dei vicini o dove poco o nulla ci sia da difendere: cosí avviene in certi tratti dei confini africani sul deserto, mentre un grande fossato ne protegge i preziosi approvvigionamenti d’acqua. Spesso è sostituito dalle difese naturali: fiumi, deserti, mari e formazioni montuose. I fiumi, in particolare, rivestono una funzione significativa nella strategia difensiva romana, e vengo-

UNA PROFESSIONE PER TUTTI Con la riforma attuata nel 105 a.C. da Caio Mario, la coscrizione volontaria diviene una prassi regolare e la professione delle armi si apre anche alla classe proletaria, che per sei secoli era stata esclusa dal servizio militare obbligatorio, giacché, sia per i cives Romani delle legioni che per i socii delle truppe ausiliarie, vigeva l’obbligo di armarsi a proprie spese. I milites diventano soldati, ai quali spetta, oltre al bottino, la remunerazione di un soldo militare. Roma intesse la sua rete diplomatica di alleanze e incrementa un sistema di Stati-clienti, legandoli a sé con privilegi e incentivi e con la tattica del divide et impera, usando la propria forza militare come deterrente, se possibile senza colpo ferire. Gli Stati-clienti sono tenuti a fornire un contingente militare: già Cesare può avvalersi nella Gallia di tre contingenti, poi divenuti canonici per tutta l’età imperiale: arcieri cretesi, frombolieri delle Baleari e unità di fanteria della Numidia.

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no presidiati da speciali pattuglie di perlustrazione: i ripenses. Alcune flotte sono sempre in allerta presso le piú importanti rive fluviali: sul Reno, sul Danubio, sull’Eufrate (vedi box a p. 62, in basso). Le strade, i soldati, le infrastrutture sono gli elementi costitutivi del limes: considerando le sue tre componenti basilari, è chiaro che i limites non sono linee unidimensionali di frontiera o di difesa fortificata, ma fasce di territorio piú o meno estese, e protese in profondità verso l’interno. Sono vivificate dall’attività del personale militare e continuamente collegate fra loro e con l’autorità di Roma.

STRUMENTO DI PACE Ma non possiamo tacere una funzione importantissima e di tutt’altro genere assolta dal limes, cioè quella di controllo dei territori, che non si esaurisce in mera misura difensiva, ma esula e travolge questa sfera nel suo contrario, facendosi strumento di pace e di sviluppo multinazionale. I controlli alla frontiera consentono il passaggio di persone e di merci tra le province e i territori non romani. A ridosso degli accampamenti, sorgono sulla via agglomerati misti di negozi, laboratori artigiani, taverne e abitazioni. Qui vivono e lavorano commercianti, artigiani (anche nella produzione di armi), osti, veterani, familiari dei soldati, e, all’occorrenza, anche prostitute. S’instaura cosí un regime continuo di scambio fra gli ausiliari, i provinciali, i peregrini (gli stranieri domiciliati nell’entroterra romano) e i barbari che vivono al di là dell’impero, ma che possono oltrepassare il limes con il permesso delle guardie di controllo. Si creano rapporti di traffico, s’incrementa l’economia della regione, s’intrecciano contatti interpersonali, si pon-

gono le basi per significative contaminazioni culturali. I vantaggi sono notevoli e reciproci, dall’una e dall’altra parte del limes. Le fonti antiche che offrono informazioni sul limes le dobbiamo, in primo luogo, a due storici di lingua greca: Polibio, amico degli Scipioni che descrive un accampamento tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C.; e l’ebreo Giuseppe Flavio, che


Vallo di Adriano

BRITANNIA GERMANIA INF.

Limes germanico-retico

BELGICA LUGDUNENSE NORICO GERMANIA SUP. DACIA REZIA PANNONIA 3 AQUITANIA 2 1 DALMAZIA MESIA NARBONENSE TRACIA PONTO GALATIA ITALIA CAPPADOCIA E BITINIA TARRACONENSE 8 MACEDONIA LUSITANIA ASIA EPIRO 9 CILICIA 6 SIRIA BETICA 7 CIPRO SICILIA 4 MAURITANIA 1 2 3 4 5 6

ALPI MARITTIME ALPI COZIE ALPI GRAIE CRETA GIUDEA (PALESTINA) LICIA E PANFILIA

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NUMIDIA

ARABIA 7 ACAIA 8 CORSICA 9 SARDEGNA

descrive nella Guerra Giudaica la disfatta della sua nazione, ma loda l’esperienza e la disciplina dei soldati romani. Alcuni passi degli Annali di Tacito e degli Stratagemata di Sesto Giulio Frontino (fine del I secolo d.C.) ci offrono informazioni, e poi vi sono le epigrafi, le monete, i rilievi militari (come le colonne Traiana e Aureliana) con paesaggi di frontiera e accampamenti in costruzione (vedi box a p. 62, in alto). Ma le maggiori testimonianze ci vengono dai resti archeologici.

LA FUNZIONE DELLE STRADE L’elemento viario, il primo cronologicamente e il piú persistente nell’accezione latina del termine limes, è anche quello che presso il pubblico viene meglio conosciuto e ammirato. Sul tracciato delle vie

AFRICA

EGITTO CIRENAICA

500 Km

In alto: cartina dell’impero romano con i confini del limes. Nella pagina accanto: ricostruzione di un centurione della prima età imperiale in uniforme da parata. 1930 circa. Roma, Museo della Civiltà Romana. Nell’esercito romano, i centurioni erano i quadri intermedi della gerarchia militare.

UN CONFINE MOBILE Pur evolvendosi nei secoli, i limites non furono mai paragonabili a una Muraglia Cinese. Affidato principalmente alle reti stradali, il limes non fu statico, ma mobile, con la mobilità dei soldati che lo costruirono, lo presidiarono e lo spostarono in posizioni di volta in volta piú idonee. Soprattutto, non nacque come compagine difensiva, come baluardo maggiore contro gli invasori, e non lo divenne mai interamente, neanche alla fine dell’impero. Il limes rappresentava una base operativa di sorveglianza dei territori al di là della frontiera ed era sede di un personale di guardia numericamente limitato, a cui erano demandate funzioni militari e civili: di segnalazione, di polizia e di dogana. I terrapieni, i fossati e le palizzate non avrebbero potuto reggere all’assedio di un grande esercito: erano opere concepite a difesa dalle piccole incursioni o per far guadagnare tempo ai rinforzi in casi piú gravi. Allorché le migrazioni barbariche si riversarono sull’impero, il limes venne o abbandonato o travolto.

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RACCONTI GUERRESCHI Le colonne Traiana e Aureliana furono erette per celebrare le imprese militari di Traiano e Marco Aurelio. La Colonna Traiana, innalzata a Roma nel Foro omonimo, ha un fusto di 29,78 m lungo il quale si snoda a spirale il rilievo con la rappresentazione delle guerre che Traiano combatté contro i Daci, nel 101-102 e nel 105 d.C., per contenere la loro minaccia incombente sulla Pannonia e sulla Mesia. Dopo la vittoria, Traiano istituí la nuova provincia della Dacia (odierna Romania). I rilievi illustrano tutte le fasi della campagna militare, quindi non solo le battaglie e gli assedi, ma anche la costruzione di accampamenti, di strade, il superamento di fiumi, specie il Danubio, mediante l’edificazione di ponti, i discorsi dell’imperatore, le macchine da guerra e le sortite della cavalleria, la sottomissione dei vinti. La Colonna di Marco Aurelio venne realizzata dopo la morte dell’imperatore (tra il 180 e il 196 d.C.) ed ebbe come modello quella di Traiano. Sul fregio a spirale sono raffigurati episodi delle guerre combattute da Marco Aurelio contro i Germani, i Quadi e i Marcomanni. Se le due colonne sono sostanzialmente simili come impostazione, i rilievi che le ricoprono hanno stili del tutto diversi: la Colonna Traiana presenta una visione ancora legata all’arte classica ed ellenistica, mentre quella Aureliana è piú espressionista e drammatica.

consolari romane corrono ancora tante moderne arterie della comunicazione. Ma altrettante e molto articolate reti stradali percorrevano tutte le province dell’impero, per garantire i collegamenti su tutti i continenti allora conosciuti. Per quanto fruttuosa sia stata la loro funzione in tempo di pace, nella promozione del benessere, dei commerci e di vasti processi di ac-

culturazione, è indubbio che la radice prima della loro costruzione sia da ricercarsi in esigenze essenzialmente militari. L’idea che l’esistenza stessa di Roma fosse affidata in primo luogo alle armi fu ampiamente condivisa dalla popolazione romana e romanizzata, almeno finché perdurò l’orgoglio di essere cittadini romani; quando questi due collanti, strettamente le-

Le forze di mare A partire dal III sec. d.C. anche le coste marine furono controllate, sui tratti strategicamente interessanti, da limites. La difesa dei mari era affidata alle flotte, dislocate, oltre che in Italia (a Ravenna e al Capo Miseno), in diverse regioni dell’impero: ecco, fra le altre, la classis Britannica, la Germanica, la Moesica, la Pannonica, l’Alexandrina, la Siriaca, la Pontica. Esse non rientravano nell’accezione di limes, ma erano certamente parte integrante e fondamentale nella strategia totale della difesa. L’esercito in marcia poteva percorrere su lunghe distanze fino a 22 km al giorno; per mare, se le condizioni atmosferiche lo consentivano, fino a 44 km.

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In alto: calco di un rilievo della Colonna Traiana che mostra i soldati intenti a costruire un muro difensivo. Bucarest, Museo Nazionale di Storia della Romania. In basso: una sala del Museo della Navigazione a Magonza. La flotta era una delle parti integranti della strategia della difesa.


Calco di un altro rilievo della Colonna Traiana in cui si vede una panoplia di armi dacie con scudi, elmi e asce da guerra. Bucarest, Museo Nazionale di Storia della Romania. a r c h e o 63


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gati fra loro, si esautorarono, cessò anche l’esistenza di Roma come grande potenza egemonica. Già a partire dalla guerra sociale tutti gli Italici poterono servire in armi nella dignità e nell’orgoglio della piena cittadinanza (88 a.C.). I legionari, tutti cittadini romani, erano il nerbo della potenza militare

romana, l’arma elitaria dell’esercito; almeno fino al 212 d.C., allorché l’ambíta cittadinanza fu concessa ai sudditi di tutte le province. Con l’avvento dell’impero e la crescente espansione territoriale, il cronico problema del reclutamento diveniva sempre piú stringente. Nel contempo, acquistavano un peso

NON SOLO SOLDATI Gli uomini coscritti o arruolati da Roma non erano solo soldati, ma anche operai e tecnici altamente specializzati. Sin dall’età repubblicana essi avevano l’obbligo di costruire strade, canali e ogni opera di difesa. Intorno all’accampamento mobile, anche se

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doveva servire solo per una notte, si scavava un fossato di difesa, si alzava un terrapieno e si ergeva una palizzata. Entro questo recinto si piantavano le tende. Fino al I secolo a.C. gli accampamenti erano generalmente del tipo mobile dei castra aestiva – le guerre, del resto, si combattevano

solo nella bella stagione – o, durante gli assedi, dei castra stativa. Ma iniziarono anche gli stanziamenti stabili di truppe, e l’impianto di campi permanenti, come quelli di Cesare, proconsole nelle Gallie. Le strutture erano in legno e gli alloggiamenti erano tende di pelle.

sempre maggiore i corpi forniti dai provinciali, e anche da popoli alleati o clienti: gli auxilia. Mentre i legionari, romani o italici, tutti cives Romani al momento dell’ingaggio, erano volontari, gli ausiliari, che erano peregrini (stranieri abitanti su territori soggetti a Roma o federati), potevano all’occorrenza essere obbligati ad arruolarsi. Era un contingente destinato col tempo a superare di molto il numero dei legionari, mentre l’elemento italico si rarefaceva, fino a scomparire quasi del tutto. Nell’esercito romano la maggior parte della cavalleria era formata dagli ausiliari, cioè da stranieri. Famosi, fra gli altri, erano i cavalieri africani della Mauritania, immortalati sui rilievi della Colonna Traiana. Quindi, almeno fino al III secolo, le truppe destinate al limes furono solo le ausiliarie, piú o meno numerose, a seconda della maggiore o minore sicurezza della zona; esse fornivano anche il personale di guardia per le torri di avvistamento. Finché nessun’armata bellicosa


premette sui confini, Roma seguí la strategia delle guerre preventive – come contro Cartagine – e della difesa offensiva, portando l’azione militare oltre i confini (ch’era, in fondo, anche il senso della celebre spedizione di Varo).

FRA ITALIA E GERMANIA Il III è un secolo di sussulti, di sconvolgimenti e di mutamenti. Con la Constitutio Antoniniana di Caracalla (212 d.C.) e la concessione a tutti i sudditi dell’impero dei diritti dei cives Romani, s’imposta una rivoluzione epocale, che coinvolge con effetti di enorme portata la sfera politica, culturale, sociale, e anche quella tributaria, forse l’unico obiettivo perseguito dall’imperatore. Ma, secondo una fondamentale legge del mercato, il possesso della cittadinanza romana, decaduto da privilegio elitario a bene comune, risulta in certo modo inflazionato. Per distinguersi, d’allora in poi valgono in tutte le province solo le diverse posizioni sociali. Dalla fine del IV secolo i

barbari stanziati all’interno dell’impero in disfacimento non ottennero la cittadinanza, ma, soprattutto, non ambivano affatto ad acquisirla. Il limes germanico ha rivestito un’importanza cruciale nell’equilibrio di forze dell’impero e nei processi di acculturazione di vasti strati della popolazione non romana, nonché per la ricchezza della documentazione archeologica e la continuità di rapporti che nella storia hanno collegato l’Italia con la Germania. Ma per meglio inquadrarlo in una visione d’insieme, percorriamo, in una breve carrellata i limites delle altre province dell’impero.

Vite al limite La linea di confine delle province romane non era costituita da una linea di frontiera fissa. Era, anzi, una zona in continuo movimento, a seconda delle necessità difensive delle varie regioni dell’impero. In alto: una torre di guardia del limes a Rheinbrohl, nella Renania Palatinato (Germania). In basso: disegno che ricostruisce una scena di vita quotidiana lungo il limes; all’esterno si estendono le foreste; accanto alla torre si apre la porta attraverso la quale avvenivano gli scambi tra soldati e popolazione del luogo.

A sinistra, sulle due pagine: disegno ricostruttivo di un tipico accampamento militare fortificato (castrum) romano. A pianta quadrata, aveva quattro porte al centro dei lati e torri lungo il perimetro. a r c h e o 65


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La Penisola Iberica stendeva i suoi confini occidentali sul bordo del grande, indeterminato Oceanus: là, alle Colonne d’Ercole (lo Stretto di Gibilterra), finiva il mondo conosciuto dagli antichi: piú oltre s’apriva l’ignoto o il nulla. È chiaro che i Romani non si aspettavano né invasioni, né scorrerie di pirati da quella parte; a nord c’era il mare aperto: il Mare Cantabricum; a sud, oltre il braccio mediterraneo del Mare Nostrum, le popolazioni alleate e poi annesse all’impero della Mauritania. E nelle province spagnole, infatti, non c’è traccia di fortificazioni. C’era però il presidio delle legioni, tre, nel 2 d.C., secondo la testimonianza di Tacito.

UN FALSO STORICO Con l’istituzione delle due province di Germania (Germania Inferior e Germania Superior), Domiziano compiva in parte un falso storico e un’iperbole propagandistica, perché, almeno per la parte meridionale, si trattava di territori abitati ancora da Galli, e quindi da Celti. Ma la conquista della Gallia stessa non sarebbe avvenuta, se la minaccia migratoria germanica (allora rappresentata dagli Svevi) non ne avesse offerto a Cesare l’occasione.

LA CITTADINANZA ROMANA: UN PRIVILEGIO AMBITO Dopo i lunghi anni di servizio (in teoria 25, ma Roma cercava di trattenere gli uomini anche piú a lungo), al momento del congedo, gli ausiliari, a differenza dei legionari, non ricevevano, con l’ultimo stipendio, una liquidazione. Ma, almeno dall’età di Claudio, fu riconosciuta loro la piena cittadinanza romana. Le unioni di fatto con le provinciali prive di cittadinanza o con le barbare venivano legalizzate, i figli divenivano anch’essi cittadini romani. Roma, anzi, li incoraggiava a farsi anch’essi soldati; piú tardi ve li costrinse. Cosí, milioni di provinciali entrarono a godere dei privilegi del cives Romanus optimo iure. Il diploma di congedo si stilava su lamine di bronzo:

Le doti strategiche e tattiche di Cesare poggiano sulla fedeltà delle truppe: le prime quattro legioni sono rimpolpate da altre sei. Combatte e intreccia alleanze, colpisce e blandisce: un intento propagandistico verso i Galli ispira le due spedizioni in Britannia, la costruzione di un ponte sul Reno, l’attraversamento del fiume e le azioni intimidatorie sulle tribú germaniche stanziate sulla riva destra (56 e 53 a.C.). Nel 51 la conquista della Gallia è compiuta: il Paese è in ginocchio, il Reno segna il confine tra le Gallie e i territori dei Germani; ma Cesare deve abbandonare la Gallia, richiamato dalle vicende romane.

Per garantire la protezione A sinistra: elmo con paraguance, da Ulpia Noviomagus (Nimega, Paesi Bassi). I sec. d.C. A destra: elmo trace in forma di maschera, in bronzo, da Catalka (Bulgaria). I sec. d.C.

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l’originale era affisso a Roma nel tempio di Minerva e una copia consegnata al veterano. In età repubblicana i reparti ausiliari erano alloggiati negli accampamenti legionari, ma in seguito ebbero i loro campi indipendenti, spesso a ridosso del limes. Dal II secolo d.C. nella zona di confine erano alloggiati anche i numeri, reparti di 100, 200 o fino a 500 uomini, dislocati soprattutto in zone poco battute e sconosciute al resto delle truppe, e di cui erano probabilmente nativi, con funzioni di avanscoperta: cosí nelle foreste del Taunus e dell’Odenwald. Solo nel III secolo abbiamo testimonianza che anche ai numeri veniva conferita la cittadinanza romana.

Non esistono documentazioni archeologiche degli accampamenti dell’epoca di Cesare in Germania. Il primo governatore delle Gallie è Marco Vipsanio Agrippa, l’amico di Ottaviano (39-38 a.C.), che crea una rete stradale, il perno di un sistema organizzato offensivo-di-


fensivo, amministrativo e civile. Per colmare il vuoto creatosi nella regione di Colonia, egli vi trasferisce la popolazione germanica degli Ubii, e attraversa il Reno per dimostrare la potenza di Roma.

mania è ormai quasi provincia. Tiberio festeggia a Roma il trionfo; ma poco dopo cade in disgrazia e viene relegato in esilio a Rodi, dal 6 a.C. al 2 d.C. A questo punto la Germania, se non è ancora una provincia fino

all’Elba, è ormai una terra abitata da popolazioni legate a Roma da vicendevoli patti, conscie della potenza militare dell’impero. Per decenni, i Germani non oltrepasseranno il limite segnato dal Reno. Ma non è la pace assoluta.

DAL TRIONFO ALL’ESILIO Augusto tiene alla sicurezza e allo Il Parco archeologico di Xanten, in Vestfalia (Germania, Renania settentrionale). sviluppo delle regioni transalpine, e vi si reca dopo la sconfitta subita dal legato Marco Lollio (16 a.C.). Druso e Tiberio battono i Rezii, garantendo cosí la sicurezza del Norico e della regione degli Elvezi, già romana (15 a.C.). Druso poi, vincitore dei Germani, sposta il limite dei territori fino al corso dell’Elba (15-19 a.C.), e crea 50 castella; ma muore per un incidente equestre. Accorre il fratello Tiberio, perfeziona la vittoria e trasferisce la popolazione dei Sugambri sulla sinistra del Reno: la GerCastelli/castra

Cartina del tracciato del limes Germanicus, il piú importante fra i limites imperiali, con i principali siti archeologici .

Colonia Claudia Ara Agrippinensium

G E R MA N I A I N FE R I O R

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STORIA • IL LIMES/1

QUEL PAESE CHE CONFINA CON L’OCEANO «Il Reno divide la Germania dalla Gallia, il Danubio la divide dalla Rezia e dalla Pannonia; un timore reciproco e vaste catene montuose separano i Germani dai Sarmati e dai Daci. A nord, con tutti i suoi territori, la Germania confina con l’Oceano, che abbraccia insenature amplissime e immensi spazi insulari (la Penisola Scandinava): regioni e popolazioni da poco scoperte durante recenti spedizioni militari». Cosí Tacito apre la sua Germania, e fra la citazione dei Galli e il tocco immaginoso dell’ignoto Oceano, sembra non

considerare, oltre alla Germania indipendente – la Germania Magna – le due province con questo nome che già da Domiziano appartenevano all’impero: la Germania Inferior a nord e la Germania Superior a sud. Tralascia poi, perché non abitato dai Germani, il triangolo degli Agri Decumates, fra l’alto Reno e l’alto Danubio, «occupati a suo tempo da Galli privi di mezzi, emigrati perché spinti dal bisogno: sono delimitati da una linea di confine rafforzata da presidi militari e considerati come un’enclave dell’impero».

Il fodero era decorato con rilievi e la cintura aveva una serie di placchette a rilievo.

La spada appartiene a un tipo in uso in età tiberiana (20-25 d.C.).

Il rilievo del fodero si può definire come un completo programma della ideologia imperiale: «Con gli dèi per l’imperatore e per Roma!». Due piccole appliques della cintura che reggeva il gladium.

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Replica della stele di Cn. Musius, T. filius, aquilifero della Legio XIIII Gemina: come si vede dal rilievo aveva cioè il compito di portare l’aquila, emblema della legione. I colori sono stati aggiunti sulla base dei resti cromatici rinvenuti sull’originale del reperto, rivenuto a Mogontiacum (Magonza) e databile all’età tiberiana (9-37 d.C.). Magonza, Landesmuseum. A sinistra: fodero di spada rinvenuto nel castrum dei legionari di Windisch-Vindonissa, in Svizzera.


Domizio Enobarbo, padre del futuro imperatore Nerone, attraversa a scopo dimostrativo, per la prima volta, l’Elba. S’incrementa frattanto la costruzione di infrastrutture militari; i castella sulla destra del Reno vengono spostati a ridosso della riva. Il 4 d.C. Tiberio riprende il comando, proprio quando Maroboduo, con i suoi Marcomanni – un esercito di 74 000 uomini –, minaccia la sicurezza di tutta la regione.Tiberio sta per sconfiggerlo in un’azione a tenaglia, muoven-

do 12 legioni da Magonza e da Carnuntum, presso Vienna. Ma la minaccia di una piú grave insurrezione in Pannonia lo costringe ad abbandonare il minore focolare di guerra per il piú virulento, portando con sé la maggior parte delle legioni, dopo una affrettata pace con Maroboduo e trattative diplomatiche, a cui il barbaro manterrà fede anche in situazioni critiche.

LA DISPERAZIONE DELL’IMPERATORE Allorché (6-7 d.C.) P. Quintilio Varo assume il governo civile e militare della regione, i territori germanici fra Reno ed Elba sono un’acquisizione solo da perfezionare.Tanto piú terribile arriva invece la sconfitta romana dell’esercito di Varo contro Arminio, nel 9 d.C. (vedi box a p. 70). Questa sconfitta era soprattutto un grave affronto per Roma, una pericolosa ferita d’immagine, che poteva risultare fatale nei rapporti di equilibrio fra Roma, le province, i popoli clienti e i potenziali nemici. Svetonio testimonia della velocità ed efficienza delle comunicazioni, cosí notevoli dati i mezzi allora diIn alto: due teschi maschili di una tomba di Kalkriese (Selva di Teutoburgo, Bassa Sassonia, I sec. d.C.), testimonianza della disfatta di Quintilio Varo, caduto nella trappola del germanico Arminio nel 9 d.C. A sinistra: veduta aerea che mostra assai bene il tracciato rettilineo del limes presso Haghof a ovest di Alfdorf.

sponibili: «Quando la notizia raggiunse la capitale, Augusto fece disporre picchetti armati per tutta la città, per prevenire eventuali disordini. Nelle province prorogò i mandati ai governatori, perché gli alleati fossero tenuti a freno da magistrati ricchi d’esperienza» (De vita Caesarum, Augustus, 22). E lo storico aggiunge una nota psicologicoaneddotica: «Il suo cruccio fu tale, che per mesi si lasciò crescere la barba e i capelli, e talvolta picchiava la testa contro le porte, urlando: “Quintilio Varo, rendimi le mie legioni!”. E ogni anno ricordò l’anniversario di quella sconfitta come giorno di dolore e di lutto». In effetti, la sconfitta di Varo avrebbe potuto avere conseguenze ben piú gravi. Infatti Arminio conquistò gli accampamenti sulla destra del Reno, tranne uno, ma non riuscí a creare un’alleanza fra i vari ceppi germanici. Non solo Maroboduo rimase fedele ai patti con Roma, ma lo zio di Arminio, e soprattutto il suocero, Segeste, gli furono contrari: il suo anelito verso un’unità della Germania fu interpretato come avidità di dominio personale; finché non cadde assassinato dai suoi nel 19 o nel 21 d.C. La disfatta di Varo segna nei rapporti fra Roma e la Germania una cesura cosí profonda, da determinare un deciso cambiamento di rotta nella politica dell’impero. Gli investimenti in uomini e in mezzi, necessari a un’annessione dei territori alla destra del Reno, apparvero sproporzionati rispetto agli utili. Roma abbandonò ogni ambizione di conquista della Germania Magna, fidando nella frammentarietà e conflittualità dei popoli germanici, molti dei quali ormai in rapporti quasi clientelari. Anche le offensive seguite al 9 d.C. costituivano un deterrente per risollevare il prestigio della potenza romana. Le legioni stanziate a sinistra del Reno aumentarono da 6 a 8, a scapito delle altre regioni dell’impero, ritenute piú tranquille. Nella Rezia non rimase nessuna legione fino a a r c h e o 69


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dell’imperatore lo incorona successore (14 d.C.). Germanico, nel 15, inizia una campagna e sul luogo della disfatta di Varo erige un altare e un tumulo sulle salme dei caduti. Le operazioni militari hanno esiti alterni, con perdite anche cospicue per i Romani. Germanico annuncia allo zio la vittoria per il prossimo anno, il terzo delle ostilità. Ma Tiberio richiama Germanico, che celebra a Roma il trionfo (17 d.C.) sui Germani, per morire in Siria due anni dopo. Roma mantiene il confine sul Reno, ma promuove una piú intensa attività diplomatica e la stipula di patti federali.

UN ERRORE FATALE P. Quintilio Varo, suocero di Agrippa, è un amministratore piú che un condottiero. Instaura un sistema di tassazioni, crea tribunali, incrementa la costruzione di accampamenti e di forti. Si fida di Arminio, il principe dei Cheruschi che, cittadino romano, cavaliere e prefetto, è reduce dalla campagna di Pannonia con Tiberio e Velleio Patercolo. Varo si lascia condurre a un’ipotetica spedizione contro tribú bellicose, senza sospettare l’imboscata, e porta con sé 3 legioni, 3 ali di cavalieri, 6 coorti ausiliarie e poi bestie, carri, vettovaglie: i Romani infatti non si fidano delle risorse di quelle terre nordiche e boscose. Il luogo dell’imboscata è stato identificato negli anni Ottanta del Novecento con una vallata 20 km a nord di Osnabrück, in Bassa Sassonia. Accerchiati da Arminio e alleati, i Romani abbandonano i rifornimenti e organizzano un accampamento per la notte. Ma l’insidia dei luoghi, la scioltezza degli avversari e la violenza di un uragano che rende inservibili archi, aste, scudi di cuoio, dopo 3/4 giorni di battaglia vanificano ogni resistenza. Varo e i suoi ufficiali si suicidano; 20 000 soldati cadono sul campo. Le legioni XVII, XVIII, XIX sono distrutte: nessun’altra ebbe poi la stessa numerazione.

Maschera di ferro ricoperta d’argento, già parte di un elmo cerimoniale romano, rinvenuta nel 1990 nella località di Oberesch, presso l’altura di Kalkriese, nella foresta di Teutoburgo (Germania settentrionale).

dopo le guerre contro i Marcomanni; ma i giovani validi del Paese furono arruolati in tale quantità da impedire la raccolta di uomini per un’eventuale rivolta. Le 8 legioni renane, divise in due blocchi di 4, diedero il nome alle zone d’occupazione a sinistra del fiume: Exercitus Inferior a nord, Exercitus Superior a sud. Sono i prodromi delle due future province. Nell’11 d.C.Tiberio, tornato vincitore dalla Pannonia, e il nipote Germanico intraprendono azioni offensive a oriente del Reno. Ma già l’anno dopo, la malattia di Augusto riporta Tiberio a Roma, e la morte

Un montone difficile da fermare Modellino di un ariete scorrevole: un’arma d’assedio costituita da una grossa trave che aveva all’estremità un blocco di bronzo, in genere a forma di testa di montone (da cui il nome). I tipi piú grandi erano sospesi all’interno di lunghi carri coperti (testuggini), aventi lo scopo di proteggere gli operatori. Spinto a mano da decine di uomini, era usato per demolire porte e aprire brecce nelle mura.

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PIAZZEFORTI INDIPENDENTI Fino alla disfatta di Varo, il Reno era controllato solo da posti di guardia; le legioni all’interno del territorio avevano funzioni non difensive, ma dimostrative e deterrenti, e solo in caso di necessità, decisamente offensive. In questo periodo inizia la costruzione, lungo il Reno, di castra ausiliari indipendenti. Nella prima fase essi hanno perimetri spesso poligonali, con diverse porte e un fossato doppio, un terrapieno rinforzato dai famosi pali (i pila muralia), che ogni soldato trasportava con sé durante le marce, o si procurava sul posto. Nel 43 d.C. Claudio dedica impegno e risorse alla campagna britannica, alle cui operazioni partecipa il futuro imperatore Vespasiano. Si potenzia il rafforzamento militare


INFRASTRUTTURE PER LA SUSSISTENZA Scavi condotti nel 1960 a Rödgen (Bad Nauheim) hanno rivelato gli imponenti magazzini che contenevano le enormi quantità di cereali necessarie alle truppe. Un altro magazzino di derrate è venuto alla luce a Hedemünden sulla Werrer (Gottinga); e un insediamento esteso a Waldgirmes sulla Lahn, presso Giessen, con vallo e fossato. I reperti dimostrano l’esistenza di un vivace mercato di scambio con le popolazioni del luogo. Gli insediamenti sulla Lahn e

sulla Werrer sono uno specchio eloquente della situazione: la regione è insicura e gli abitanti vanno difesi da incursioni, ma vigono rapporti commerciali e federati con le genti locali. Sono insediamenti civili muniti di strutture difensive, come nessun altro dell’epoca in queste regioni. Importante è anche la costruzione di accampamenti legionari arretrati lungo il corso del Reno: Novaesium (Neuss), del 16 a.C., a cui seguono Mogontiacum (Magonza), Vetera

(Xanten), e piú a nord Noviomagus (Nijmegen in Olanda); e forti minori come Bonna (Bonn), e un supporto per la flotta presso Utrecht.

lungo il Reno e, per la prima volta dopo la rovinosa sortita di Varo, anche sulla riva destra del fiume. Viene cosí rafforzata la guarnigione di Hofheim nel Taunus, fondata, con l’attuale Wiesbaden, in epoca augustea. Gli edifici degli accampamenti, prima in legno, ora sono realizzati in pietra; e cresce il numero dei castella ausiliari. Claudio sposò in seconde nozze Agrippina Minore, la figlia di Germanico, nata in un accampamento presso l’oppidum Ubiorum, fondato forse già nel 38-39 a.C. da Agrippa. Grazie a tanto matrimonio, l’oppidum assunse la dignità e le prerogative di colonia e si chiamò Colonia Claudia Ara Agrippinensium (l’attuale Colonia). L’imperatore non immaginava che la nuova sposa avrebbe provocato la sua morte, per favorire l’ascesa al trono del figlio Nerone.

legioni di Magonza acclamano imperatore un terzo contendente,Vitellio, che non esita a discendere in Italia con il grosso dei due eserciti renani, quasi 70 000 uomini, lasciando gli accampamenti pressoché sguarniti. La vittoria finale ba-

cia il quarto uomo,Vespasiano. Vespasiano promuove la demarcazione dei confini dell’impero e riordina l’assetto militare nelle regioni renane. I legionari dell’Exercitus Inferior, sostenitori di Vitellio e poi compromessi con l’Imperium Gallia-

In alto: un sentiero del limes in una foresta del monte Taunus, a nord della Saalburg. In basso: veduta aerea del parco

archeologico con il castrum orientale di Welzheim. L’insediamento si trova all’estremità di un tratto rettilineo di circa 80 km del limes germanico.

L’AVVENTO DEL QUARTO UOMO Il Norico e la Rezia, assoggettati nel 15 a.C., divengono province. Ma alla fine del regno di Nerone Roma è preda delle rivolte e delle guerre civili: Nerone è costretto al suicidio (68 d.C.); Galba, il successore designato, viene ucciso dai soldati (69); Ottone è eletto dai pretoriani, ma subito dopo le due a r c h e o 71


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rum, vengono trasferiti e sostituiti; lo stesso tocca agli ausiliari, che non vengono piú reclutati fra la popolazione del luogo. Le legioni stanziate sono quattro, gli auxilia sono stanziati in 27 castella, e il punto di raccolta del grosso della flotta renana è nell’attuale Köln-Alteburg.

RESTAURI E RICOSTRUZIONI Il limes settentrionale, danneggiato per la rivolta dei Batavi (vedi box in queste pagine), viene ristrutturato con criteri difensivi, mentre quello meridionale non subirà variazioni fino al III secolo d.C. Tutti gli accampamenti bruciati e danneggiati sono restaurati; quelli di Nijmegen e di Xanten vengono ricostruiti ex novo. In quelli di Bonn e di Neuss ora tutti gli elementi sono in pietra. Tra i molti nuovi castella degli ausiliari, la distanza non supera i 10 km. Nella zona meridionale sono stazionate 4 legioni: 2 a Mogontiacum (Magonza), una a Strasburgo, una a Vindonissa (Windisch). L’accampamento di Magonza viene circondato da un muro di pietra, mentre si costruisce

Ricostruzione della Porta Nord di Colonia Ulpia Traiana, nel Parco archeologico di Xanten, in Vestfalia. Inaugurato nel 1977, il parco sorge sui resti della città antica che, prima della sua pressoché totale distruzione nel 275 d.C. per mano dei Franchi, contava dai 10 ai 15 000 abitanti.

un grande acquedotto. I contingenti legionari vengono completati da un numero adeguato di ausiliari. Al Nord si è abbandonata la strategia offensiva dell’espansionismo e delle guerre preventive oltreconfine, ma il rafforzamento del limes renano meridionale risponde ancora a esigenze di sicurezza, basate sulle offensive militari e sull’incremento

territoriale. Il limes viene rettificato con un cuneo fra l’alto Reno e l’alto Danubio, delimitato a nord dai fertili territori non romani della Wetterau. Il tratto a oriente del Reno presso lo sbocco del Meno, dove si erano stanziate con l’assenso di Roma alcune tribú degli Svevi, viene ora inglobato nell’impero, e costellato di castella. La Wetterau viene

A sinistra: frammento di rilievo da Kastrich (Magonza) con la raffigurazione di una Vittoria Alata che sorregge una grande corona. Magonza, Landesmuseum. Sede di una costruzione romana ai tempi di Augusto, fortificata ulteriormente da Vespasiano, col nome latino di Mogontiacum (Magonza) divenne uno dei centri principali fra quelli situati ai confini dell’impero. Nella pagina accanto: stele del cavaliere romano Caio Romanio Capitone, da Mogontiacum (Magonza). I sec. d.C. Magonza, Landesmuseum.

I BATAVI IN RIVOLTA Nel teatro gallo-germanico scoppia una tremenda rivolta. Otto coorti ausiliarie fornite dai federati batavi, originari dell’Olanda, che accompagnavano Vitellio, tornate indietro anzitempo per scaramucce con i legionari, si erano date a scorrerie e saccheggi. Il nobile batavo Civile, un barbaro romanizzato, prefetto dell’Exercitus Inferior, riunisce i connazionali ribelli con il pretesto di appoggiare Vespasiano. I Batavi di

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pamento legionario di Argentoratus (Strasburgo) al Danubio attraverso la Foresta Nera, che accorciava la comunicazione con la Rezia; un’altra piú tarda da Magonza, capitale della Germania Superior, ad Augusta, capitale della Rezia, di cui si conservano molti tratti. L’ottima rete stradale collega i fortini l’uno all’altro, garantendo l’efficienza delle comunicazioni. I soldati costruiscono le strade, ma tocca agli abitanti di vici, municipia e civitates fornire i materiali necessari.

annessa: i castelli di Domiziano sono distribuiti lungo l’alto corso della Neckar e nell’entroterra, a ridosso dei preesistenti centri abitati (Ladenburg e Heidelberg). La fertilità dei territori annessi della Wetterau garantiva risorse autoctone produttive, tanto importanti nell’economia totale del sistema dell’impero. Roma, dopo la scon-

fitta di Varo, rinuncia alla conquista dei territori germanici fino all’Elba e abbandona interi territori, la configurazione boscosa e le condizioni climatiche dei quali erano sfavorevoli alla produttività agricola e non avrebbero giovato all’impero, a fronte dell’ingente impegno militare e logistico. Vengono costruite due strade: una dall’accam-

Civile assediano Magonza e due volte Vetera (Xanten), dove i legionari non hanno rifornimenti. Si aggregano anche tribú germaniche; gli insorti combattono e incendiano: la documentazione archeologica degli incendi è chiara in ogni accampamento a nord di Magonza e Wiesbaden. Giunge notizia che, per la guerra civile, il Campidoglio è in fiamme. È un segno del destino: anche i Galli Treviri e i Lingoni insorgono e

ALLA RICERCA DI UN DIFFICILE EQUILIBRIO In realtà il problema germanico non aveva soluzioni definitive. Non si trattava di trovare un modus vivendi con le tribú stanziate fra Reno ed Elba: al di là premevano altre popolazioni; e solo quando le ondate migratorie provenienti da nord-est si esaurirono e i nuovi occupanti divennero sedentari, vi furono le condizioni per un equilibrio definitivo dell’Europa centrale. Intanto, nell’85 d.C., Domiziano crea le due province germaniche: la Germania Inferior (a nord) con capitale Colonia, e la Germania Superior (a sud), con capitale Magonza. Gli agrimensori dividono a scacchiera i territori; i nuovi sudditi devono abbandonare i vecchi villaggi, per riorganizzarsi in nuovi centri, i vici; non si rispettano i vecchi poderi e si fondano le nuove villae rusticae. Sul limes renano si traccia una linea stradale lungo la frontiera, che faci-

proclamano un Imperium Galliarum. I legionari sopravvissuti devono giurare fedeltà al nuovo impero, per avere salva la vita: lo fanno, ma vengono trucidati (70 d.C.). Vespasiano interviene con 9 legioni: lo scontro decisivo si combatte presso Xanten. I Romani vincitori usano magnanimità con i vinti. I Batavi continueranno a fornire truppe, ma stanziati ben lontano dalle regioni native. I Treviri vengono ridimensionati.

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lita i collegamenti fra i castra auxiliaria e garantisce la sicurezza di fronte ad attacchi di piccola entità. È la prima fase del limes: protetto a intervalli dalle torri di controllo in legno. Ma nell’89 il governatore della Germania Superiore C. Antonio Saturnino istiga le due legioni di Magonza ad acclamarlo imperatore al posto di Domiziano; insorgono nuovamente anche i Catti, ma non intervengono, per le condizioni climatiche che impediscono l’attraversamento del Reno. Saturnino è sconfitto, e anche i Catti. Domiziano può celebrare un doppio trionfo. I soldati delle legioni ribelli vengono trasferiti. Magonza ospita una sola legione, anche nella Germania Inferiore le legioni sono ridotte a 3. Inizia per le due provin-

ce renane un lungo periodo di pace e di ricostruzione, dopo la nomina a governatore della Germania Superiore non di un condottiero, ma di un noto giurista, Prisco.

BENESSERE E INTEGRAZIONE Il successivo governatore del Sud renano è Traiano, che nominato imperatore (98 d.C.) si trattiene ancora sul Reno. Il limes viene rafforzato contro i barbari e le postazioni fisse lasciano l’entroterra provinciale, dove i sudditi godono del benessere portato dalla conquista e sono bene integrati, e si spostano verso i confini. Di piú: la romanizzazione delle due province renane ha raggiunto un tale livello, che le legioni della zona settentrionale

possono essere ulteriormente ridotte: ora sono solo due (104 d.C.); e, dal 101, due è anche il numero delle legioni stanziate nel sud. Fino alla metà del III secolo il Reno limita regioni pacificate e fiorenti. Anche le popolazioni fuori del limes, che mantengono con queste zone vivaci scambi commerciali, sperimentano un benessere e uno sviluppo mai raggiunti prima. Adriano e gli Antonini danno al limes nuove strutture: probabilmente ad Adriano (117-138) risale la costruzione delle palizzate in legno, che aumentano i controlli di polizia e di dogana. È la cosiddetta seconda fase del limes, che nella provincia del Sud collega i castella con una palizzata continua. Antonino Pio (138161) sostituisce le strutture lignee

A sinistra: Kastell Pfünz, Baviera. La Porta Nord del castrum (Porta Praetoria) ricostruita nella sua interezza, con le due torri laterali, nel 1986. Qui sotto: Kipferberg-Bömhing. Veduta aerea innevata con la chiesa di S. Giovanni Battista (XlI sec.) inglobata nel quadrato del castrum che emerge visibilmente. In basso: il castello fortificato di Pfünz (Baviera). Nella valle di Altmühl a ovest di Eichstätt, si trova il castrum Vetoniana, ricostruito nel 1884-1900.

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PIÚ TRIONFI CHE VITTORIE Nell’83 d.C., l’Exercitus Superior delle regioni renane meridionali dà inizio a una nuova campagna contro i Catti, che, impensieriti dall’annessione della Wetterau, guardano minacciosi, in armi, di là dal Reno. Domiziano si reca a Magonza e vi raccoglie un esercito imponente: 6 legioni (28/30 000 uomini), un contingente esagerato per i Catti, che non sono, come i Batavi, soldati addestrati da Romani, il miglior esercito del tempo. Sono, al contrario, maestri della guerriglia, abili a sfruttare la conoscenza dei luoghi e i boschi del territorio. Infatti la mossa dei Gli spallacci a lamelle sovrapposte coprivano e difendevano le braccia e il collo, ed erano decorati con placchette.

Romani di coinvolgere i Cheruschi si conclude con la loro disfatta. Domiziano non combatte alcuna battaglia campale; Frontino, negli Statagemata, narra che i Romani crearono sentieri (limites) entro le foreste, come guida nel fitto della vegetazione per stanare il nemico. Dopo il primo anno, Domiziano ritorna nell’Urbe, dove assume il titolo di Germanico. Nell’85 scoppia una rivolta nella Dacia (l’odierna Romania). Con i Catti si stringono accordi, la frontiera sul Reno perde gran parte della sua carica di rischio, mentre aumenta quello sul Danubio. Una moneta di Domiziano

dell’85 d.C. presenta sul retro un Germano sconfitto e la Germania piangente, con l’iscrizione: Germania capta. Crudamente ironico lo sferzante commento di Tacito: «Nessun popolo, né Sanniti, né Cartaginesi, né Parti ci ha mai dato piú amaramente da riflettere. È vero che già i Cimbri furono sconfitti da Mario [101 a.C., 210 anni prima della stesura della Germania!]: è un bel po’ di tempo che Roma vince la Germania! Anche recentemente i Germani sono stati ricacciati, e ancora una volta hanno fornito piú occasioni di trionfi, che di vittorie» (Germania, 38).

Sotto la corazza il legionario vestiva una camicia di pesante lana o di fustagno.

degli accampamenti ausiliari con quelle in pietra. Intorno al 150 anche le torri di guardia sono costruite in pietra, con distanze da 300 m a 1 km. È la terza fase del limes. Nel 159 d.C. nella Germania meridionale parte del limes viene spostato di 20 o 30 km piú a oriente: si mantengono le linee sul Taunus, sulla Wetterau e sul Meno, ma si abbandonano quelle sull’Odenwald e sulla Neckar, perché i territori al di là vengono inglobati. Dal castello di Miltenberg il nuovo limes si ricollega a quello della Rezia, prolungato a ovest. Sul Taunus sorgono molti nuovi fortini e 3 castelli per i numeri (le nuove piccole unità di esploratori e pionieri dell’esercito, documentate nel Nord solo sotto Caracalla). Il limes meridionale, cosí modificato (con il saliente fra Reno e Danubio), accorcia le distanze e consente una maggiore mobilità negli spostamenti delle truppe e una maggiore concentrazione di forze, anche se, fino alla metà del III secolo, non esiste il pericolo d’invasioni, né il solo limes fu mai destinato a bloccare simili emergenze: il controllo dei confini garantisce la sicurezza dei sudditi, ne promuove lo sviluppo civile ed eco-

Ricostruzione della corazza di un legionario romano, a lamelle sovrapposte e rinforzata da chiusure davanti e sul collo. Magonza, RömischGermanisches Museum.

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Il tesoro d’un generale Due elmi a maschera da parata, in bronzo dorato, facenti parte di un tesoretto rinvenuto nella casa di campagna di un generale romano di

nomico, agricolo e commerciale, e quindi il processo d’integrazione e di romanizzazione. Sotto Marco Aurelio (167-175 e 178-180), imperversano le guerre contro i Marcomanni, che passano le Alpi, e assediano Verona e Aquileia. Il limes della provincia meridionale viene danneggiato, ma presto riparato. In seguito all’invasione marcomanna, Marco Aurelio istituisce a Regina Castra, oggi Ratisbona (Regensburg), intorno al 179 d.C., il primo e unico accampamento legionario della Rezia. A Commodo (180-192) si devono ulteriori interventi: nella Germania meridionale i terrapieni e i fossati corrono paralleli fra la palizzata e le torri, o sostituiscono la palizzata. Nella Rezia, invece (Baviera, Svizzera e parte dell’Austria), si snoda lungo il confine un muro continuo. È la quarta fase nello sviluppo del limes. Nella pagina accanto: Roma. Un particolare della Colonna Antonina (o di Marco Aurelio), che celebra le guerre combattute contro i Quadi e i Marcomanni. Il sec. d.C.

stanza nei territori germanici. I sec. d.C. Straubing, Gäubodenmuseum. La presenza militare di Roma nelle province della Germania non ebbe sempre la medesima consistenza: in particolare, in età traianea, la stabilità politica permise di ridurre al minimo indispensabile il numero dei contingenti dislocati nella regione renana.

Ormai la maggior parte dei castelli ausiliari è in pietra. Settimio Severo (193-211) migliora le condizioni della vita militare: un suo editto permette ai soldati d’intercalare alle ore in servizio la convivenza con le donne; e aumenta le possibilità di carriera dei gradi inferiori dell’esercito, a cui consente, dopo il congedo, l’accesso ad alcune cariche civili. Le piú alte cariche, prima riservate al ceto senatorio, si aprono anche ai cavalieri. Ma sarà il figlio Caracalla (211-217) a determinare, con la Constitutio Antoniniana del 212, un mutamento epocale nella concessione della cittadinanza romana, che da allora in poi viene elargita a tutti i provinciali.

MURA DI PIETRA In questi anni per la prima volta si affacciano sui confini i Germani di ceppo alemanno. Contro di loro Caracalla prepara un gran dispiego di forze e nello stesso anno celebra il trionfo, fregiandosi del titolo di Germanicus Maximus. Un altro fenomeno si manifesta sotto di lui: quasi tutte le città di frontiera vengono fornite di cinte in pietra, tanto ampie da offrire rifugio, in caso di necessità, anche alla popolazione delle campagne. I cittadini ne sostengono le spese: ma s’intensifica la crisi economica, già minacciosa sotto Settimio Severo. Con l’ultimo degli Antonini, Severo Alessandro, gli Alemanni ricompaiono bellicosi. Il venticinquenne

sovrano è in guerra in Persia contro i Sasanidi: i territori renani, piú o meno sguarniti, mostrano ancora oggi i segni degli attacchi germanici (233). A queste notizie, le truppe dell’imperatore, provenienti dalle province germaniche, temono per le loro famiglie e i loro averi: si ammutinano e ad Antiochia costringono Severo Alessandro a tornare sul Reno. Roma è pronta a reagire, con unità provenienti non solo dal Reno, ma anche dalla Spagna, dal Danubio, dalla Pannonia, dall’Africa, dall’Oriente: ci sono anche i Parti, arruolati come ausiliari per la prima volta, con i cavalieri catafratti, cioè ricoperti di armature pesanti. Ma i Germani sfuggono le grandi battaglie in campo aperto; Severo Alessandro cerca allora la pace, offrendo agli avversari ingenti somme di denaro. La ribellione delle truppe, che si vedono sfuggire l’atteso bottino, è totale: a Magonza l’imperatore e la madre Mamea, già reggente per il figlio bambino, vengono trucidati; al trono imperiale viene acclamato Massimino il Trace. Il nuovo eletto conclude favorevolmente la guerra, ma per l’impero si preparano tempi difficili. (1 – continua) a r c h e o 77


SCOPERTE • VICHINGHI

NAVIGATORI PER SEMPRE PASSATI ALLA STORIA PER LE LORO ECCEZIONALI CAPACITÀ MARINARESCHE, I VICHINGHI SCELSERO LE NAVI ANCHE COME ULTIMA DIMORA. È QUANTO HANNO PROVATO LE NUMEROSE SCOPERTE COMPIUTE IN OLTRE UN SECOLO DI STUDI NELLA REGIONE SCANDINAVA. E CHE ORA SI ARRICCHISCONO DI MOLTE IMPORTANTI NOVITÀ

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di Elena Percivaldi

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e scoperte archeologiche piú significative avvengono spesso per caso: se ne è avuta l’ennesima conferma nello scorso autunno, quando un’équipe di archeologi del NIKU (l’Istituto Norvegese per la Ricerca dei Beni Culturali) ha terminato in anticipo alcune indagini intorno alla piú antica (XI secolo) delle due chiese che sorgono sull’isola di Edøy, che dista meno di 15 miglia dalle coste della Norvegia, poco a sud di Trondheim. Invece di rientrare a casa, Manuel Gabler e Dag-Øyvind Engtrø Solem hanno deciso di esplorare con il georadar il campo che si estende a poche decine di metri dall’edificio. E la loro è stata una decisione 78 a r c h e o

fortunata e felice: all’occhio esperto degli archeologi, lo strumento ha infatti rivelato le tracce di un tumulo sepolcrale, oggi scomparso, del diametro di 18 m circa e, proprio al centro, la presenza della chiglia di una nave lunga 13 m, con ancora i resti dei primi due strati di fasciame e assi su ambo i lati. Perdute del tutto erano invece la poppa e la prua, andate con ogni probabilità distrutte a causa delle intense attività agricole condotte nella zona, soprattutto nell’Ottocento. La scoperta potrebbe rivelarsi di notevole importanza, poiché l’isola di Edøy appartiene amministrativamente alla municipalità di Smøla, proprio come Kuløy, località in cui fu scoper-

Sulle due pagine: Edøy (Smøla, Norvegia). Immagini acquisite tramite georadar che mostrano la presenza di un grande tumulo (1), al centro del quale giacciono i resti di una nave funeraria (2); nella veduta d’insieme dell’area indagata (foto alla pagina accanto), oltre alla nave (1), sono evidenziate anche le due strutture identificate come Longhouse (2), cioè abitazioni di grandi dimensioni.

ta la stele in pietra (Kulisteinen, oggi conservata presso il Vitenskapsmuseet di Trondheim), datata all’XI secolo e scritta in alfabeto runico (Rundata N 449), che per la prima volta menziona il nome «Norvegia» (Nóregi) e allude alla cristianizzazione (kristindómr) allora da poco iniziata. Si tratta perciò di


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SCOPERTE • VICHINGHI

un sito significativo per la storia norvegese e quindi potenzialmente promettente quanto a possibili ritrovamenti.

SEPOLTURE ESCLUSIVE Nel Nord Europa, sepolture di questo genere sono attestate nel Periodo di Vendel (550-800 d.C.) o nella successiva epoca vichinga (800-1050) e si tratta di pratiche funebri abbastanza rare. La maggioranza dei defunti veniva solitamente cremata, mentre le tombe monumentali con corredo erano riservate a personaggi eminenti della società, perlopiú capi guerr ier i, i quali venivano deposti in una nave funeraria accompagnati da armi e oggetti perso-

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nali, a volte animali e persino schiavi. Tali imbarcazioni venivano infine interrate sotto imponenti tumuli, adempiendo a un rito arcaico e complesso che, secondo la mitologia norrena, favoriva il viaggio del defunto nell’aldilà.

INDAGINI NON INVASIVE Come ha sottolineato Knut Paasche, responsabile del Dipartimento di Archeologia Digitale del NIKU, le tombe a nave vichinghe finora ritrovate in Norvegia sono poco numerose e quasi tutte sono state scavate e indagate molto tempo fa, senza quindi potersi avvalere delle nuove tecnologie. Queste ultime invece permettono di conoscere in anticipo le caratteristiche salienti di ciò che si cela sotto terra: una circostanza impossibile in In alto: Edøy. Il veicolo provvisto di georadar nel corso delle prospezioni. A sinistra: Viksletta (contea di Østfold, Norvegia). L’immagine acquisita tramite georadar che ha rivelato la presenza di tumuli sepolcrali (1; evidenziati in rosso), una nave funeraria (2; in verde), ribattezzata «di Gjellestad», perché prossima al monumentale tumulo di Jell (3; in rosso) e cinque Longhouse (4; in giallo).

passato senza ricorrere a uno scavo completo e di carattere invasivo. Nel caso della nave funeraria di Edøy, il georadar ha mostrato che è senz’altro imponente: 16-17 m di lunghezza totale. L’auspicio degli archeologi è che, dopo mille anni, al suo interno si celi, ancora intatto, proprio il sepolcro di un personaggio illustre, del tipo di quelli che, come abbiamo detto, comprendevano le armi del defunto e un ricco corredo. La speranza è anche di poter continuare a indagare il sito, che ha rivelato la presenza di un insediamento in cui spiccano due case di ampie dimensioni (Longhouse), di cui si conservano soltanto le buche di palo. Il sito di Edøy si trova a circa 170 chilometri da Trondheim, dove, nel 2017, scavi condotti in occasione della risistemazione della piazza del mercato, in pieno centro storico, avevano individuato i resti di un’altra imbarcazione, questa volta di dimensioni limitate – solo 4 m di lunghezza – e orientata in direzione nord-sud. Il reperto si presentava, purtroppo, in pessimo stato di conservazione: lo scafo di legno era

completamente deteriorato e della struttura sopravvivevano solamente qualche chiodo e altri elementi metallici arrugginiti. All’interno, però, si trovavano ancora ossa e frammenti di oggetti personali – un cucchiaio e la chiave di uno scrigno – che hanno permesso di ipotizzarne la datazione tra il VII e il X secolo. Secondo gli archeologi del NIKU, l’imbarcazione di Trondheim, in origine probabilmente ricoperta da un tumulo, sarebbe del tipo detto «Åfjord», usato all’epoca lungo la costa norvegese e particolarmente adatto, grazie al fondo piatto e di scarso pescaggio, per navigare nelle acque basse della baia ma anche in grado, all’occorrenza, di risalire il fiume Nidelva.

UNA FORMULA DI SUCCESSO Quella di Edøy è soltanto una delle ultime imbarcazioni vichinghe localizzate negli ultimi anni. Nell’ottobre del 2018, un altro esemplare è stato scoperto a Viksletta, nella contea norvegese di Østfold, anche in questo caso da archeologi del NIKU, che si sono serviti della mea r c h e o 81


SCOPERTE • VICHINGHI

SUGGESTIONI NEL NOME DI ALLAH Nel 2017 ha destato scalpore la notizia del presunto rinvenimento di caratteri arabi ricamati su abiti vichinghi del X secolo. I frammenti di stoffa, trovati già un secolo fa durante gli scavi archeologici di alcune imbarcazioni funebri, vennero all’epoca classificati come appartenenti a «normali» abiti vichinghi, già peraltro attestati in vari altri contesti. Riesaminando i materiali in vista dell’allestimento di una mostra al Museo svedese di Enköping, Annika Larsson, ricercatrice dell’Università di Uppsala specializzata nello studio dei tessuti, ha però notato una serie di piccoli disegni geometrici ricamati che, a suo dire, sarebbero scritti in caratteri cufici, uno stile calligrafico della lingua araba. Tra le parole decifrate ci sarebbero i nomi di Ali, il quarto califfo dell’Islam, e di Allah. La scoperta, ha spiegato Larsson, è interessante, perché testimonierebbe l’esistenza di rapporti tra il mondo vichingo e quello islamico ben piú stretti di quanto finora ritenuto. Non è la prima volta che i contesti archeologici scandinavi restituiscono oggetti con iscrizioni arabe: in una tomba femminile scavata a Birka (sito sull’isola di Björkö, Svezia), per esempio, è emerso un anello d’argento con l’invocazione «per Allah». In quel caso – come in altri – si trattava con ogni

probabilità di oggetti preziosi frutto di saccheggi oppure di commerci, ben noti e attestati tra il Mediterraneo e la Scandinavia. Secondo l’archeologa di Uppsala, però, il caso dei tessuti sarebbe diverso: essi potrebbero infatti fornire la prova che i corredi funebri vichinghi fossero influenzati dall’Islam, e, in particolare, dall’idea di una vita eterna dopo la morte. La studiosa si spinge a ipotizzare che il cimitero possa addirittura contenere i resti di persone di religione musulmana. Naturalmente, piú d’uno studioso ha manifestato forti dubbi in proposito. Prima fra tutte Stephennie Mulder, docente di Arte e Architettura Islamica all’Università di Austin, in Texas, che ha confutato l’intera tesi, partendo da una constatazione inattaccabile: la calligrafia cufica – e in particolare il quadrato con il nome di Allah che la Larsson sostiene di aver trovato – è diventato di uso comune solo cinque secoli dopo la data a cui risalgono i tessuti vichinghi. Inoltre, sostiene la studiosa statunitense, la parola che si legge sarebbe «Illah» e non Allah, e non è nemmeno completa: secondo Mulder (seguita dal collega Paul Cobb, professore di storia islamica presso l’Università della Pennsylvania), quella di Larsson sarebbe dunque una supposizione e nulla piú. Il frammento di stoffa di epoca vichinga sul quale Annika Larsson ha notato piccoli disegni geometrici ricamati, interpretati come iscrizioni in caratteri cufici in cui si leggerebbero i nomi di Ali, quarto califfo dell’Islam, e di Allah.

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desima tecnologia, il georadar ad alta definizione progettato dal Ludwig Boltzmann Institute for Archaeological Prospection and Virtual Archaeology (LBI ArchPro). Ribattezzata «nave di Gjellestad», perché rinvenuta a poca distanza dal monumentale tumulo di Jell, si trovava poco sotto terra, a circa mezzo metro di profondità. La nave di Gjellestad rivela varie analogie con quella di Edøy, a cominciare dal fatto che l’imbarcazione, lunga 20 m, si trovava anch’essa al centro di un tumulo sepolcrale ormai perduto. In questo caso, però, gli archeologi sono stati piú fortunati. Tutt’intorno si celavano infatti altri undici tumuli funerari andati parimenti distrutti nell’Ottocento a causa dell’attività agricola (una spettacolare ricostruzione 3D della nave e del sito è disponibile all’indirizzo www.gjellestadstory.no); accanto alle tombe, varie buche di palo segna-

lavano la presenza di ben cinque Longhouse: un contesto nel suo insieme confrontabile con quello del sito funerario di Borre, nella contea di Vestfold, 100 km circa a sud di Oslo. Quest’ultimo presenta sette tumuli monumentali e varie Longhouse e ha recentemente restituito i probabili resti di un’ennesima nave interrata in un altro tumulo.

UN RAPPORTO DA STUDIARE Al momento, lo scavo vero e proprio di questi siti non è stato programmato e gli archeologi si stanno limitando a condurre indagini non invasive. Si spera, tuttavia, di poter approfondire ulteriormente la relazione esistente tra le necropoli e gli abitati. Un rapporto che doveva essere molto stretto, considerando che – secondo l’archeologo Lars Gustavsen – tumuli e sepolture di questa tipologia erano sempre concepi-

ti come emblemi di potere e ricchezza. Nel frattempo, alcuni campioni di legno prelevati dalla nave di Gjellestad e sottoposti a indagine dendrocronologica hanno comunque stabilito la datazione della sepoltura tra la fine del VII e l’inizio del IX secolo, confermandone l’appartenenza all’età vichinga. Sono stati invece scavati integralmente – anche se le analisi dei reperti e le indagini sul sito sono tuttora in corso – i preziosi ritrovamenti, anch’essi molto recenti, effettuati sempre in Norvegia, ma a Vinjeøra, nella municipalità di Heim, un sito già noto per la presenza di una fattoria con annesse sepolture a tumulo. Nel settembre 2019, durante i lavori per l’ampliamento dell’autostrada E39, sono riemersi i resti di una camera sepolcrale collocata esattamente al centro di un tumulo funerario isolato dal resto del pianoro tramite un fossato,

Viksletta. Un momento delle prospezioni effettuate con il georadar nell’area prossima al tumulo di Jell, riconoscibile in secondo piano. Nel riquadro è l’immagine che mostra la presenza della nave funeraria ribattezzata «di Gjellestad».

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SCOPERTE • VICHINGHI

morti; nel secondo, invece, si voleva che rimanesse al suo interno, forse perché continuasse a proteggere la propria famiglia e i suoi beni. Ma le sorprese a Vinjeøra non erano finite. Due mesi piú tardi, scavando un nuovo lotto interessato all’amcolmato ma ancora visibile. La pianta dell’edificio misura 5 x 3 m e all’epoca della costruzione, secondo gli archeologi del Vitenskapsmuseet di Trondheim, doveva essere in legno e presentare una struttura molto simile a quella delle Stavkirke, le tipiche, ma piú tarde, chiese realizzate interamente con assi verticali. La scoperta ha destato immediatamente grande interesse, da un lato per via della rarità di camere sepolcrali di questo tipo in Norvegia (finora ne sono note solo una quindicina), dall’altro perché permette di avanzare nuove interpretazioni a proposito della funzione di questi edifici. Secondo Raymond Sauvage, archeologo e direttore del progetto di scavo, l’idea finora prevalente era che fossero impiegati come obitori nei quali ricoverare i corpi durante i mesi piú rigidi, in attesa di poterne effettuare la sepoltura in terra non 84 a r c h e o

appena fosse sopraggiunto il disgelo. Il fatto che la struttura fosse stata inserita all’interno di un tumulo apre ora a nuove e interessanti prospettive interpretative.

L’ULTIMA DIMORA «La sua funzione – spiega Sauvage – era a quanto pare simile a quella delle già ben note navi funerarie. Resta da stabilire a questo punto perché e su quali basi si effettuasse la scelta dell’uno o dell’altro tipo di sepoltura: se infatti il significato della nave è chiaro, dato che rappresenta il vascello che trasporta il defunto nell’aldilà, si può pensare che queste “case della morte” siano invece da interpretare come la dimora, stabile e definitiva, che il trapassato avrebbe abitato per l’eternità». Nel primo caso, quindi, si allontanava lo spirito dalla comunità affinché prendesse il suo posto nel regno dei

A destra: ricostruzione digitale della sepoltura femminile scoperta a Vinjeøra, databile alla seconda metà del IX sec. La donna indossava una collana di perle e tre fibule e accanto a lei furono deposte anche due cesoie, una fusaiola e una testa di bovino (cortesia Arkikon).


A sinistra e nella pagina accanto: ricostruzioni digitali della struttura funeraria scoperta a Vinjeøra e che Raymond Sauvage ha ipotizzato potesse essere una «casa della morte», cioè la dimora, stabile e definitiva, che i trapassati avrebbero abitato per l’eternità (cortesia Arkikon).

pliamento dell’autostrada, gli archeologi del Vitenskapsmuseet si sono imbattuti in due navi funerarie con una eccezionale particolarità: appartenevano a due periodi diversi (fra le due deposizioni era trascorso un secolo) e, soprattutto, erano state

inserite l’una sopra l’altra. Lo stato di conservazione non era ottimale: gli scafi di legno erano quasi del tutto scomparsi, a eccezione di una piccola porzione di chiglia della nave piú superficiale, ma a delinearne chiaramente la forma erano gli elementi metallici che assemblavano le assi, rinvenuti al loro posto. E proprio quest’ultimo dettaglio ha permesso di stabilire che le imbarcazioni erano due e non una soltanto, com’era sembrato a prima vista.

SEPOLTURE IN SUCCESSIONE La nave piú vicina al piano di campagna, e quindi anche la piú recente, misurava circa 7-8 m e conteneva i resti di una donna – dello scheletro si conservava solo una porzione del cranio – deposta con una collana di perle e tre fibule – due di bronzo e una cruciforme –, oltre a due cesoie, una fusaiola e una testa di bovino. L’esame del corredo ha permesso di datare la sepoltura alla seconda metà del IX secolo. La deposizione, come anticipato, non fu

In alto: ricostruzione digitale della sepoltura maschile di Vinjeøra, che aveva preceduto quella femminile di circa cento anni, essendo databile all’VIII sec. L’uomo era accompagnato dalle sue armi: lancia, scudo e spada a un solo taglio (cortesia Arkikon). a r c h e o 85


SCOPERTE • VICHINGHI

ricavata ex novo, ma fu adagiata all’interno di un’imbarcazione funeraria preesistente, di dimensioni leggermente piú grandi (la chiglia doveva misurare intorno ai 9-10 m) e che a sua volta conteneva i resti di un uomo accompagnato dalle proprie armi: lancia, scudo e spada a un solo taglio. I reperti ne hanno con-

sentito la datazione all’VIII secolo, un secolo prima, come detto, rispetto alla deposizione piú recente. L’originalità del ritrovamento ha spinto i ricercatori a domandarsi quale fosse la relazione esistente tra i due individui sepolti e il motivo di una tale scelta. Secondo Sauvage, è assai probabile che appartenessero

entrambi alla medesima famiglia o stirpe e che fossero stati sepolti nello stesso luogo e con le identiche modalità allo scopo di ostentare e consolidare pubblicamente, in assenza di norme scritte, i diritti di proprietà che la stirpe deteneva sulla fattoria. Un’ipotesi che potrà essere avvalorata dallo studio dei reperti ossei, al

DONNE E GUERRIERE: NUOVE SCOPERTE (E REINTERPRETAZIONI) Viking Warrior Woman, un documentario prodotto dal National Geographic, ha recentemente annunciato una scoperta definita «sensazionale»: i resti di un guerriero vichingo ritrovati all’inizio del Novecento a Solør, in Norvegia, apparterrebbero in realtà a una donna. Le ossa, conservate nel Museo di Storia Culturale di Oslo insieme al corredo che li accompagnava, sono state riesaminate dalla paleoantropologa inglese Ella Al-Shamahi, che ha notato come il teschio presenti, proprio in mezzo alla fronte, le tracce di un colpo inferto presumibilmente da un’arma. Le successive analisi avrebbero dimostrato che non di un individuo di sesso maschile si trattava, bensí di una donna. Al momento del decesso, avvenuto non molto tempo dopo il ferimento con un colpo di spada o di ascia alla fronte, aveva circa 18 anni. Fu deposta con una ricca panoplia – uno scudo, una spada, un’ascia da battaglia, una lancia, alcune frecce – e accompagnata da un cavallo, sacrificato e deposto ai suoi piedi: una circostanza che ha tratto in inganno gli archeologi e gli studiosi in quanto questo tipo di corredi tradizionalmente è sempre stato assegnato a guerrieri di sesso maschile. Per Al-Shamahi, invece, non sussistono dubbi: la donna era una skjaldmær (donna armata di scudo), proprio come quelle citate nella Völsunga saga e nelle Gesta Danorum di Saxo Grammaticus. La prova provata, insomma, che l’esistenza di guerriere simili alle celebri Valchirie non era soltanto un mito, ma una straordinaria e affascinante realtà. A coronamento della sua ricerca raccolta nel documentario, la studiosa ha presentato per la prima volta, insieme ai colleghi dell’Università

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scozzese di Dundee, anche la ricostruzione facciale della guerriera di Solør: una ragazza dai lineamenti marcati, ma regolari, con la pelle chiara, gli occhi azzurri e una fluente capigliatura biondo-rossiccia. La donna di Solør non sarebbe l’unica guerriera archeologicamente documentata in ambito vichingo. Nel 2014 Anna Kjellström, bioarcheologa dell’Università di Stoccolma, ha riesaminato i resti di una celebre sepoltura, la tomba Bj 581 di Birka (un insediamento commerciale del VII-VIII secolo scavato nel 1878 sull’isola di Björkö, in Svezia), dimostrando quello che già alcuni studiosi, negli anni Settanta del secolo scorso, avevano intuito sulla base delle dimensioni del bacino e della mandibola: quel guerriero che giaceva seduto su un sedile al centro di una camera sepolcrale rivestita di legno, accompagnato dalle sue armi (una spada, un’ascia, una lancia, arco e frecce, un coltello da battaglia e due scudi) e dai resti di due cavalli, era in realtà una donna. La (all’epoca) clamorosa rivelazione provocò forti divisioni nella comunità scientifica. Qualcuno accettò i risultati, altri rimasero scettici: difficile ammettere che, in una società considerata maschilista e bellicosa come quella vichinga, anche le donne potessero effettivamente combattere e addirittura rivestire il ruolo di capi guerrieri. Era possibile, venne obiettato, che le ossa potessero essere state rimescolate nel tempo, che potessero appartenere a piú individui diversi, oppure che fossero state confuse con altre dopo il ritrovamento. Uno studio piú approfondito, condotto nel 2017 dall’équipe di Charlotte Hedenstierna-Jonson dell’Università di Uppsala, avvalendosi di analisi


momento ancora in corso. L’analisi degli isotopi permetterà inoltre di conoscere maggiori dettagli sulla provenienza geografica dei soggetti, sulla loro dieta alimentare e sulla vita che avevano condotto. Di certo, come prova la sua sepoltura, la donna doveva essere una figura di spicco all’interno della comu-

nità di Vinjeøra. Il ruolo eminente sembra confermato dalla fibula cruciforme deposta con lei nella tomba. Secondo la ricercatrice Aina Heen Pettersen, anch’essa in forze al Vitenskapsmuseet, la forma e la decorazione del reperto indicano che l’oggetto è di fabbricazione irlandese. Faceva parte di un’imbracatura e

In alto: disegno della tomba Bj 581, scoperta a Birka, sull’isola di Björkö, in Svezia, nel 1878. Nella pagina accanto: ricostruzione digitale del volto della donna di Solør, in Norvegia.

fu scorporato, secondo una prassi comune all’epoca, per essere riutilizzato come ornamento: lo dimostrano gli elementi di ancoraggio ancora presenti sul retro del manufatto. Pettersen ha anche suggerito un’ipotesi su come sia giunto in Norvegia dall’Irlanda: i Vichinghi si spostavano spesso, sia per effettuare

genetiche (per la precisione, estrazione di campioni di DNA da un dente e da un osso del braccio), avrebbe confermato che le ossa della tomba Bj 581 apparterrebbero tutte alla stessa persona, e di sesso femminile. Ma anche in questo caso non sono mancate le voci di dissenso: Judith Jesch, dell’Università di Nottingham, ha per esempio obiettato che anche qualora le ossa fossero effettivamente femminili, ciò non implica necessariamente che si tratti di una «guerriera», né che una tale situazione fosse comune e non piuttosto un’eccezione alla regola. Tuttavia, gli studiosi sono in maggioranza propensi ad accettare le conclusioni dello studio di Uppsala. Ma c’è di piú. Accanto alla salma della donna di Birka sono stati rinvenuti alcuni pezzi della hnefatafl, un gioco simile agli scacchi, utilizzato dalle élite guerriere anche per esercitarsi nella strategia militare. Il che ha indotto qualche studioso ad azzardare che non si tratti di una semplice guerriera, ma addirittura di un «capo». Ulteriori elementi di discussione provengono anche dal riesame di un’altra tomba femminile vichinga scavata negli anni Ottanta in un cimitero a Bogøvej, sull’isola di Langeland, in Danimarca e datata al X secolo grazie alla presenza di una moneta araba. Secondo Leszek Gardeła, ricercatore dell’Università di Bonn, l’ascia trovata nella tomba sarebbe di produzione baltica, il che ha suggerito l’ipotesi che anche la donna, morta all’età di circa 18 anni, fosse in realtà di origine slava (per la precisione, dell’odierno territorio polacco). «La presenza di guerrieri slavi in Danimarca – ha dichiarato Gardeła in una recente intervista – è sicuramente piú significativa di quanto finora non si pensasse. Nel Medioevo, del resto, l’isola di Lageland era un crogiolo di popoli: una mescolanza che non può e non deve stupire». Il ricercatore polacco sta mappando tutte le tombe femminili contenenti armi finora emerse in Scandinavia: allo stato attuale, sarebbero una trentina. I risultati di questo «censimento» saranno presto pubblicati.

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SCOPERTE • VICHINGHI

UNA CATASTROFE AMBIENTALE? Per oltre un secolo gli studiosi hanno ritenuto che la piú celebre iscrizione runica vichinga a oggi nota, incisa sulla stele di Rök (Östergötland, Svezia), databile agli inizi del IX secolo, riguardasse imprese militari leggendarie, tra cui quelle del re goto Teodorico, citato in alcuni versi. Un nuovo studio interdisciplinare avanza ora una diversa interpretazione del testo, da sempre controverso e oggetto di dibattito. Secondo un team di studiosi delle Università di Uppsala, Stoccolma e Göteborg, la stele esprimerebbe l’angoscia indotta dal possibile ripetersi di una catastrofe ambientale simile a quella verificatasi intorno al 536 d.C., quando il crollo delle temperature estive provocò la distruzione dei raccolti e conseguenti carestie e decessi di massa a causa della fame e dell’inedia. A giudizio degli studiosi, il testo conterrebbe nove indovinelli, cinque dei quali inerenti il Sole e i restanti Odino e i suoi guerrieri. Per Olof Sundqvist, professore di storia delle religioni all’Università di Stoccolma, il significato dell’iscrizione è chiaro:

raid e saccheggi, sia per commerciare a piccolo, medio e ampio raggio. Partecipare a queste spedizioni era cruciale per ottenere bottini e merci ma anche per elevare la propria condizione sociale. Gli oggetti recuperati in tali occasioni venivano di conseguenza ostentati come status symbol e servivano a distinguere chi aveva effettivamente partecipato a questi viaggi dal resto della popolazione, incidendo in maniera significativa sui rispettivi ruoli sociali. Il tumulo contenente le due navi di Vinjeøra era collocato nelle vicinanze di uno dei tumuli sepolcrali piú grandi finora rinvenuti nel sito e in posizione panoramica sul bordo del88 a r c h e o

«Le élite vichinghe si consideravano garanti dell’abbondanza dei raccolti attraverso il culto, che permetteva di salvaguardare il fragile equilibrio esistente fra la Luce e le Tenebre. E, in occasione del Ragnarök, avrebbero combattuto assieme a Odino la battaglia finale per la vittoria della Luce».

La nuova interpretazione del testo, pubblicata sul volume 9-10 della rivista Futhark. International Journal of Runic Studies (pp. 7-38), si basa su confronti con vari testi dell’epica norrena, soprattutto il poema Vafþrúðnismál. Parallelismi che nessuno, a quanto pare, finora aveva mai notato.


Sulle due pagine: Rök (provincia di Östergötland, Svezia). La stele su cui corre la piú celebre iscrizione runica vichinga, il cui testo, a differenza di quanto finora creduto, non riguarderebbe imprese militari leggendarie, ma esprimerebbe il timore di una catastrofe ambientale.

la scogliera, dominante il fiordo. Erano sicuramente visibili dal mare e segnavano in maniera caratteristica e inconfondibile l’orizzonte e il territorio circostante, a conferma del loro ruolo monumentale. Dalle prossime campagne di scavo si attendono nuove e interessanti scoperte. Si sono invece concluse nell’autunno del 2018 le indagini svolte dagli archeologi di Arkeologerna nei pressi del villaggio di Gamla Uppsala (Uppsala Vecchia), 4 km a nord dall’odierna Uppsala, in Svezia. Anche qui sono venute alla luce due imbarcazioni funebri, una delle quali ancora intatta e contenente i resti di un uomo, di un cavallo e di

un cane, oltre a armi e altri elementi di corredo. Databili fra il IX e l’XI secolo, le navi sono riemerse quasi per caso in occasione dei lavori di ammodernamento di una chiesa.

CON I COMPAGNI DI UNA VITA L’équipe guidata da Anton Seiler, dei NHM (Statens Historiska Museer), ha trovato dapprima un pozzo e una cantina edificate in epoca moderna; approfondendo lo scavo, sono stati individuati i resti delle due navi funerarie. Una di esse risultava irreparabilmente danneggiata dalle strutture che, nel XVI secolo, erano state costruite al di sopra. L’altra,

invece, giunta fortunatamente intatta, ha potuto rivelare il suo contenuto: lo scheletro di un individuo, probabilmente di sesso maschile, deposto a poppa insieme alle sue armi – una spada, una lancia, uno scudo e vari oggetti di uso personale, tra cui un pettine finemente decorato – e accompagnato, a prua, da quelli di un cavallo e di un cane, i suoi fedeli compagni di vita. I resti ossei sono al momento in corso di studio per stabilire definitivamente l’età, il sesso e le cause della morte. Al termine delle indagini i reperti saranno divisi fra il Museo di Gamla Uppsala e il Museo di Storia Svedese di Stoccolma. a r c h e o 89


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CROLLARE PER CAMBIARE

1200 a.C.: IL GRANDE COLLASSO di Massimo Vidale

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uò bastare un fiore esotico, carnoso e colorato a scatenare una epocale crisi economica e sociale? Il fenomeno della tulpenmanie (in olandese), tulipomania in italiano, o «bolla dei tulipani» lo dimostra. Il tulipano era diventato molto popolare in Europa nella seconda metà del XVI secolo, dopo esservi stato introdotto dalla Turchia (il fiore è ancora abbondante, allo stato selvatico, in vaste regioni dell’Asia Centrale). Tra il 1636 e il 1637, nei Paesi Bassi, tutti decisero che il fiore non solo era molto bello, ma aggiungeva ai giardini di casa la distinzione di uno status 90 a r c h e o


Medinet Habu (Egitto). Particolare di un rilievo del tempio funerario di Ramesse III (1185-1153 a.C.) che mostra una battaglia navale combattuta dal faraone contro invasori filistei.

economico e sociale superiore, da esibire malignamente al vicino di casa. Gli Olandesi fecero a gara nell’inseguire le varietà di tulipani piú esotiche, rare e colorate e, in breve, i prezzi raggiunsero cifre enormi (e, col senno di poi, del tutto illogiche). I bulbi sembravano a tutti una forma di solido investimento: come «tulipani potenziali» che sarebbero fioriti in seguito, essi rappresentavano una sorta di future. Per averli, infatti, molti pagarono anticipi consistenti, impegnandosi a versare il saldo alla consegna del bulbo fiorito, certi com’erano di ricavarne esorbitanti guadagni. Quando i prezzi a r c h e o 91


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dei bulbi, com’era inevitabile, crollarono rapidamente nella realtà del mercato, commercianti, aziende e famiglie che si erano in tal modo esposte si ritrovarono da un giorno all’altro sul lastrico. Fu il primo grande crac finanziario della storia recente, con vaste ripercussioni sulla società del tempo, al punto che lo Stato stesso dovette intervenire con provvedimenti legali per evitare le conseguenze piú catastrofiche. Tuttavia, passando davanti a una bella aiuola colorata, chiediamoci se davvero può l’innocuo tulipano essere considerato l’unico colpevole, o, per lo meno, il fattore scatenante (in inglese, prime mover) di tale crisi. A ben vedere, molti furono i fattori in gioco. In primo luogo, vi era stata una società dinamizzata dal suo «secolo d’oro», in cui il commercio, le scienze e le arti olandesi fiorivano a ritmo accelerato, grazie all’immigrazione degli Ebrei sefarditi e dei ceti tecnici protestanti, già scacciati dalle terre conquistate dalla Spagna cattolica. Intanto, il porto di Amsterdam stava diventando il piú importante del mondo. La tecnologia bancaria si ramificava, e con essa le opportunità speculative.

LA GRANDE CRISI La dilagante ricchezza portava inoltre con sé rampanti spiriti di emulazione e competizione, mentre il commercio internazionale e l’espansione coloniale garantivano – ma solo ai piú intraprendenti – scalate sociali tanto ripide che rapide. In breve, come scrisse nel XIX secolo Karl Marx, filosofo rivoluzionario tedesco destinato a godere di una certa notorietà, le radici del capitalismo avevano iniziato a covare in sé molteplici semi delle proprie future crisi. Al volgere del XIII secolo a.C., dal Mediterraneo centrale all’Anatolia, all’Egitto e alla regione costiera del Vicino Oriente serpeggiò una crisi piú grave, lunga e generalizzata, che alcuni chiamano il «Grande collasso dell’età del Bronzo». Essa portò a una serie di distruzioni 92 a r c h e o


A sinistra, sulle due pagine: bronzetti nuragici raffiguranti guerrieri. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Il primo (nella pagina accanto, in basso) fu trovato nel 1841 a Senorbí (Cagliari) e si caratterizza per l’elmo sormontato da altissime corna; gli altri provengono da Monte Arcosu (Cagliari). A destra: il «Dio del lingotto», statuetta in bronzo che ritrae un personaggio barbato, armato di giavellotto e scudo, che indossa un elmo cornuto; la figura si erge su un basamento a forma di lingotto del tipo detto «a pelle di bue», da Enkomi (Cipro). 1200 a.C. circa. Nicosia, Museo Archeologico.

rovinose, ad abbandoni di intere regioni, a radicali cambiamenti economici e a una rapidissima estinzione degli imperi e Stati della tarda età del Bronzo; ma anche alla rinascita di molti centri urbani, e all’affermazione di nuovi ceti politici. La fine di un’epoca, ma anche la fondazione, alla lunga, di un mondo nuovo. Anche in questo caso, sarebbe semplicistico imputare le cause della crisi a un unico fattore: e se fosse stato un fiore, sarebbe di colore nero-bluastro e fatto di ferro, dato che lo stesso periodo vedeva una graduale sostituzione della precedente tecnologia del rame e del bronzo con quella del nuovo metallo. Ma siccome di quanto avvenne, oltre

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un santuario di Enkomi, non lontano da Famagosta, sulla costa orientale di Cipro. Datata intorno al 1200 a.C., la statuetta votiva in bronzo (90% circa di rame, 9% di stagno e tracce di piombo) è alta 35 cm e pesa piú di 2 kg; mostra un personaggio barbato che agita un giavellotto verso il basso; con la sinistra impugna un piccolo scudo rotondo, mentre il capo è protetto da un elmo cornuto (vedi foto a p. 93, a destra). Si tratta di un kit guerresco riconoscibile, come vedremo, anche in altre raffigurazioni del tardo II millennio a.C. La figura si erge su uno straordinario basamento: un grande lingotto del tipo detto «a pelle di bue», vale a dire piatto, rettangolare e con i quattro angoli allungati, proprio come una pelle bovina seccata. Nella sua semplicità, l’immagine è quasi imponente: lo sguardo appare arrogante, quasi sfrontato, l’atteggiamento aggressivo, mentre la posa insiste sull’idea del possesso e del commercio del rame, il metallo di importanza strategica che, abbondando a Cipro, dava all’isola il suo stesso nome.

alle materiali testimonianze archeologiche, abbiamo diverse testimonianze scritte e figurative, ben sappiamo che le cose non furono affatto cosí semplici. Le possibili cause ci appaiono collegate e, come tante tessere di un domino, ricaddero le une sulle altre, tanto nel tempo, come nel vasto spazio dei panorami di potere dell’epoca. Risulta difficile, comunque, minimizzare l’importanza di questa grande onda di cambiamento: da qui, infatti, ebbero origine gli Stati oligarchici militaristi della prima età del Ferro, e con essi l’alfabeto e lo straordinario, anche se effimero, esperimento politico delle poleis greche; inoltre, la tradizione religiosa e l’identità ebraiche: in poche parole, le basi dell’intera civiltà dell’Occidente. Se dovessimo trovare un efficace simbolo, e bandolo, di questo groviglio di eventi, potremmo forse iniziare dal famoso «Dio del lingotto» trovato nello scavo archeologico di 94 a r c h e o

Sulle due pagine: immagini del recupero dei materiali imbarcati a bordo della nave di Uluburun, naufragata al largo delle coste di Kas (Turchia) intorno al 1350 a.C. In particolare, si riconoscono alcuni lingotti a pelle di bue. Il relitto fu scoperto nel 1982 da un subacqueo turco.

STILI DIVERSI E MESCOLATI FRA LORO A giudizio degli archeologi, la figura – variamente interpretata come immagine delle divinità mesopotamiche Nergal e Adad, o del cananeo Reshef – è uno straordinario ibrido tra modi stilistici differenti. La posizione di attacco, ben nota nell’iconografia ufficiale dell’Egitto faraonico, ricorda molte figurine metalliche della regione costiera del Levante; lo scudo è di tipo ittita, ma è anche simile a quello dei guerrieri rappresentati nei bronzetti nuragici sardi, come del resto sardo potrebbe essere l’elmo. Permane la forte impressione che il «Dio del lingotto» vesta le sembianze di uno degli Shardana che, secondo le fonti egizie, a partire dal XIII secolo, avevano agito da mercenari nella terra del Nilo. In quale contesto culturale fu modellata e fusa la statuetta? Fu ispirata da conquistatori egei, oppure da Achei, Greci, Fenici, Anatolici? Da migranti rifugiatisi nell’isola? Oppure da marinai, pirati, mercanti e mercenari stranieri di varie etnie e lingue, ribellatisi infine ai propri stessi vecchi partner e clienti? Di certo, il «Dio del lingotto», pur eretto sul simbolo stesso della ricchezza che circolava nei secoli precedenti (si pensi alle quattro tonnellate di lingotti dello stesso tipo trova-


te nella stiva del relitto di Ulu-Burun, in Turchia, databile al 1350 a.C. circa), appartiene al mondo nuovo sorto dopo il grande collasso. Nessuna immagine dello stesso tipo, infatti, è mai comparsa a Cipro o altrove in strati anteriori al 1200 a.C. E proprio qui, almeno nei maggiori centri abitati dell’isola, la vita civile sembra essere proseguita con una certa continuità, anche oltre la «linea rossa» della distruzione di massa di templi e palazzi. Una continuità simile è stata riconosciuta anche a Creta, come nelle principali città che continuarono a fiorire, nei secoli successivi, in terra fenicia.

UN INSIEME DI GENTI BELLICOSE L’altro capo della matassa ci porta facilmente in Egitto, e piú precisamente a una serie di iscrizioni propagandistiche delle corti faraoniche del tempo. Qui, nell’anno 1207 a.C., il faraone Merenptah (morto intorno al 1203 a.C.), figlio di Ramesse II, impegnato in una campagna contro i nemici storici dell’Occidente libico, si era trovato a combattere contro un insieme di genti bellicose, alleate dei capi libici. Tre erano tribú locali, rispettivamente i Libu, i Kehek, e i Mashuash. Altre cinque erano straniere, ed erano chiamate Eqwesh, Teresh, Lukka, Shardana, Shekelesh «Popoli del Nord che provengono da tutte le terre». Nelle iscrizioni di Merenptah, Shardana, Shekelesh ed Eqwesh sono definiti anche come «provenienti dai Paesi del mare». Questa chiosa forse può collegare le prime due genti alle isole maggiori del Mediterraneo, Sardegna e Sicilia, mentre con maggiore incertezza gli Eqwesh sono stati accostati agli Achei di Omero, gli Ahhiyawa dei testi scritti dei secoli precedenti, forse un principato miceneo stanziato a Mileto e nelle isole vicine; e i Teresh ai Tirreni o Etruschi. I Lukka potrebbero essere stati vicini prossimi degli Eqwesh, se è lecito identificarli con i Lici della costa sud-occidentale della penisola anatolica. Ma attenzione: queste identificazioni, per quanto suggestive, sono in gran parte delle congetture. Degli invasori, i testi di Merenptah ricordano il ruolo di arcieri; quanto ai Teresh-TirreniEtruschi, vale la pena ricordare il celebre mito greco dei secoli successivi in cui Dioniso, catturato proprio da pirati etruschi, li trasformò per vendetta in delfini, mentre l’albe(segue a p. 98) a r c h e o 95


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IL FARAONE VA ALLA GUERRA Un altro rilievo del tempio funerario di Ramesse III (1185-1153 a.C.) a Medinet Habu (Egitto), che mostra il faraone mentre combatte contro i Libici, uno dei nemici storici dell’Egitto, piú volte citati nelle liste delle genti di cui vari sovrani avevano dovuto fronteggiare gli attacchi.

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ro della nave si torceva in un prodigioso albe- posero le truppe di Ramesse III (1217-1155 ro di vite che gettava grappoli neri. Sebbene a.C. circa), forse l’ultimo dei grandi sovrani l’etnonimo non sia attestato in un periodo d’Egitto. Era l’ottavo anno di regno del faraone tanto antico, è possibile che tanto il nome (1177 a.C. circa). Ramesse dovette scontrarsi «Tirreni» dato dai Greci, quanto quello di con una nuova, eterogenea coalizione di genti Rasna che gli Etruschi davano a se stessi deri- diverse: vi figuravano, oltre a Shardana e Shekevino da un piú antico T’Rasna, termine del lesh, i Peleset, i Tjekker, e i Weshesh. quale non ci sono ancora tracce scritte. I Peleset sono quasi certamente i Filistei del Ma certo non stupirebbe l’idea che avventu- Vecchio Testamento. Nei Tjekker, qualche sturieri e mercenari delle coste tirreniche infe- dioso riconosce i Teucri dell’Iliade, cioè i Trostassero anche le acque dell’Egeo e del Medi- iani. Quanto ai Danuna, essi sono verosimilterraneo orientale verso la fine dell’età del mente i Danai, nome dato ai Greci nell’Iliade. Bronzo. Altri studiosi Ma il termine può anpreferiscono invece leche significare «gli OcI «Popoli del gare i Teresh al nome cidentali»: non va diittita di Taruisa, nel quainfatti, che mare» si rivolsero menticato, le forse si nasconde Danao, prima di trasfequello dell’antica Troia. minacciosi contro rirsi in territorio greco Queste masse di comad Argo, era stato il re di battenti furono sconfit- l’Egitto a piú riprese Libia, fratello gemello te dal faraone – a quandi Egitto, re dell’Egitto. to pare – nelle terre di Libia, lontano dalle Nelle iscrizioni incise nel suo tempio funerarive del Nilo, in un luogo chiamato Tehenu. rio a Medinet Habu, non lontano dalla Valle Come si vede, navighiamo in acque incerte. dei Re, Ramesse III ricorda il passaggio di Sappiamo però che questi «Popoli del mare», ondate di queste scomode genti attraverso le come oggi si usa chiamarli, in mancanza di terre dell’impero ittita (Khatti), dell’attuale nomi piú storicamente fondati, si ripresentaro- frontiera turco-siriana (Qode e Karkemish), no alle porte d’Egitto una seconda volta, Arzawa (probabilmente le terre dei Dardaneltrent’anni piú tardi. Allora, all’invasione si op(segue a p. 102)

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In basso: ancora un rilievo del tempio funerario di Ramesse III a Medinet Habu che mostra un gruppo di nemici fatti prigionieri. Il livello di dettaglio di queste raffigurazioni è impressionante, e ci trasmette acconciature caratteristiche e armature degli invasori, come, in questo caso, il copricapo a penne dei Filistei.


IL TAM TAM DEL COLLASSO Luogo

Data a.C.

Evento

Anatolia nord-occidentale

1250-1190 circa

«Guerra di Troia»: attacchi micenei lungo le coste dell’Asia Minore

Pianura Padana

1250-1150 a.C. circa

Collasso e abbandono del reticolo abitativo delle terramare

Cipro

1230 circa 1190 circa

Probabili invasioni-migrazioni da parte di popolazioni marinare

Territori settentrionali dell’Egitto

1207

Merenptah (morto nel 1203) respinge attacchi di tribú libiche alleati con «Popoli del mare»

Costa siro-palestinese

1207

Conquista e distruzione delle città di Askhelon e Gezer, e sconfitta di Israele da parte del faraone Merenptah

Altopiano anatolico centrale

Inizi del XII secolo

Capitolazione e saccheggio di Hattusa, capitale imperiale ittita, forse a opera delle popolazioni nord-orientali dei Kashka, forse aiutati dai Frigi

Grecia continentale e Peloponneso

Inizi del XII secolo

Distruzione, saccheggio e abbandono finale dei palazzi di Tebe, Micene, Tirinto e Pilo. Tracollo delle élite palaziali micenee. Inizio dell’«età oscura» seguente le invasioni doriche

Siria settentrionale, attuale Inizi del XII secolo frontiera con la Turchia

Eclissi e distruzione del regno dei Mitanni

Ugarit

La grande città regale viene attaccata da mare e rasa al suolo. La vita continua nell’abitato portuale di Ras Ibn Hani

1180-1177 circa

Nuove distruzioni nelle città di Gaza, Ashod, Ashkelon, Akko, Jaffa, Hazor, Debir, Bethel, Eglon e altre

Costa siro-palestinese Delta del Nilo, Libano

1180-1177 circa

Ramesse III affronta e sbaraglia (se dobbiamo credere alla sua propaganda) schiere di «Popoli del mare» nella Battaglia del Delta e, in terraferma, nella battaglia di Djahy (Libano?)

Creta

XII-XI secolo

Costruzione di oltre cento fortezze sugli altipiani, a distanza di sicurezza dalla costa a r c h e o 99


SPECIALE • CRISI EPOCALI

IL MOMENTO PIÚ OSCURO? «Fu un cataclisma di immense proporzioni: verso la fine del XIII secolo a.C. le grandi civiltà dell’Egeo e del Vicino Oriente crollarono (...) Le città andarono a fuoco, il commercio divenne quasi inesistente, e grandi masse umane migrarono da una regione all’altra. Il collasso

Sulle due pagine: restituzione grafica del rilievo di Medinet Habu raffigurante la battaglia combattuta dal faraone contro i «Popoli del mare»: le navi nemiche hanno caratteristiche – come la velatura – che le rendevano particolarmente adatte a veloci scorrerie e incursioni. Nella pagina accanto, nel riquadro: pittura murale raffigurante un’imbarcazione a vela quadra. Abido, tomba di Sennefer, sindaco di Tebe, Sovrintendente ai Giardini di Amon, tra i piú importanti e influenti funzionari della corte di Amenofi II, faraone della XVIII dinastia (1427-1401 a.C.) 100 a r c h e o

dell’età del Bronzo fu totale e subitaneo, e sboccò in una cosiddetta “Età Oscura” di crisi nella comunicazione scritta, nelle tecnologie e nel popolamento in gran parte del Mediterraneo orientale. Ma in fondo (...) il momento piú oscuro è quello che precede l’alba. Il vuoto di potere


e l’intensificarsi delle migrazioni ebbero certamente un ruolo importante nell’emergere degli Israeliti della Bibbia e dei Greci dell’età classica» (William H. Stiebing Jr., When Civilization Collapsed. Death of the Bronze Age, in Archaeology Odyssey 4/5, set/ott 2001).


SPECIALE • NOME

li presso Troia), e Alashiya (antico nome di Cipro). Ovunque, racconta il sovrano, esse avevano portato distruzioni e lutti; ma, giunti in Egitto, erano stati distrutti, in grandi scontri avvenuti nel delta e simultaneamente in terraferma: «I loro cuori e le loro anime si sono perduti per sempre (...) avevano una fiamma abbacinante davanti a loro, allo sbocco del fiume, e un’intera barriera di lance li circondava sulla riva. Furono trascinati sulla spiaggia, accerchiati e ridotti alla disperazione, uccisi e fatti a pezzi dalla testa ai piedi». Cosí, almeno, recita ancora, dalle pareti di Medinet Habu, la propaganda faraonica. In un altro testo, Ramesse si vanta di aver trasformato gli invasori «in coloro che non esistono»; di averli condotti in catene in Egitto 102 a r c h e o

come schiavi, re-insediandoli in campi fortificati, e, piuttosto pragmaticamente, di averli tassati in ogni modo possibile – oggi come allora, una delle maledizioni peggiori. Questi «Popoli del mare», vinti o vincitori che fossero, non hanno lasciato prove certe delle loro temutissime migrazioni: non avevano una particolare ceramica, né ci hanno trasmesso iscrizioni di alcun genere. Recenti campagne di scavo condotte a Pyla Kokkinokremos, un insediamento fortificato cipriota, avrebbero però portato alla scoperta di ceramiche nuragiche (appartenenti alle culture della fine dell’età del Bronzo della Sardegna), fornendo ulteriore credito alle teorie migratorie dalle grandi isole mediterranee;

Medinet Habu. Ancora un rilievo del tempio funerario di Ramesse III raffigurante due nemici, verosimilmente identificabili come Shardana per via dell’elmo cornuto.


mentre la cosiddetta barbarian ware («ceramica terpretato con gli occhi del tutto faziosi e barbarica»), dall’aspetto rozzo e essenziale, in «reazionari» delle corti faraoniche. Cyprian pratica indistinguibile dalle ceramiche delle Broodbank, nel suo libro Il Mediterraneo (Eietà del Bronzo diffuse lungo l’Adriatico dalla naudi, Torino 2015), racconta una storia del Pianura Padana all’Italia meridionale, sono tutto diversa. Fu una catastrofe o un «sortilestate trovate in diversi siti dell’Egeo, a Cipro gio del mare»? Senza negare le prove – accertate dall’archeologia – di violente distruzioni, e nella costa del Levante. Che l’epicentro della crisi, prima che questa eccidi, calo demografico e impoverimento travolgesse l’Est, fosse da ricercare al centro del del Mediterraneo orientale, l’autore ipotizza, Mediterrano, potrebbe essere suffragato dal innanzitutto, un forte calo dell’autorità cosiddetto «crollo delle terramare», verificato- dell’Egitto faraonico, già a partire dalla crisi si nella Pianura Padana, appunto, al volgere del innescata dalle scelte politiche e religiose di XIII secolo a.C. Contemporaneamente alle Amenofi IV-Akhenaton (1375-1333 a.C.). epocali cadute di Micene, Tirinto, Ugarit e A questa crisi di prestigio si accompagnò Hattusa, il denso reticolo dei villaggi delle poco dopo una realtà di fortissima mobilità, terramare si contrasse. Molti insediamenti in- non solo di bande armate, ma anche di intere tensificarono la costruzione degli argini in popolazioni, mentre nuove tecnologie militaterra, molti furono rapidamente abbandonati, ri e un inedito «kit da battaglia» leggero (con altri crebbero allargandosi in modo notevole, nuove, lunghe spade da taglio e piccoli scudi rotondi come quello del «Dio del lingotto») anche se solo temporaneamente. Collasso demografico, crisi climatica e am- sostituivano i tradizionali armamenti pesanti bientale, o tracollo favorito dal tramonto di degli eserciti imperiali. vecchie ideologie, superate dalla dinamicità di Nei secoli che seguirono il tramonto della un nuovo assetto geopolitico globale? Che XVIII dinastia egizia (1543-1292 a.C., la prima del Nuovo Regno e rapporto vi fu tra l’abquella, appunto di bandono di gran parte Il «crollo delle grandi sovrani come della valle del Po e gli Akhenaton sviluppi nel Mediterraterramare» sembra Hatshepsut, e Tutankhamon) le tecneo centrale? La discusniche di combattimensione è aperta. confermare che to dimenticarono gli I creatori dei rilievi ful’epicentro della scontri dei nobili sulle nerari di Ramesse III a due ruote. L’ihanno voluto sottolicrisi vada ricercato bighe dea di una cavalleria neare l’eterogeneità leggera, capace di coldegli invasori dell’Onel cuore del pire velocemente con vest e del Nord: le genMediterraneo l’arco e di ripiegare, si ti nemiche compaiono diffuse, seppure in main costumi diversi. Molti hanno eleganti copricapi piumati, niera graduale, sino a essere drammaticamenoppure elmetti cornuti, mentre altri indos- te pubblicizzata nel Vicino Oriente e in Anasano dei turbanti. Vi sono nemici a torso tolia da disastrose incursioni di cavalieri sciti nudo, oppure vestiti con gonnellini corti o, e cimmeri (X-VIII secolo a.C.). E, in termini ancora, con vesti piú lunghe; alcuni hanno di globalizzazione dell’Eurasia, è interessante barbe appuntite, altri il viso rasato. Ma com- pensare che, come proposto da qualche stubattono tutti disperatamente con lunghe, dioso, l’arco di tipo scitico provenne probasottili spade di bronzo, arco e frecce, e lance bilmente dalle popolazioni nomadiche dalla punta in bronzo acuminata. Scontri e dell’Asia Centrale interna, e dalle terre di uccisioni si susseguono tra figure che com- confine con il mondo cinese. battono a piedi, disperse tra i canneti del Verrebbe spontaneo pensare che un altro eledelta percorsi da barche affollate, o di fronte mento fondamentale, in questo complesso a grandi carri coperti, stracarichi di donne e scenario, sia stata l’introduzione di armi in ferro. Ancora nel XIV secolo, l’unico ferro bambini, trainati da buoi. Non sono pochi, oggi, gli studiosi secondo i lavorabile era quello fornito dai meteoriti, quali tutto questo è stato indebitamente in- che doveva essere lavorato in modo estenuana r c h e o 103


SPECIALE • CRISI EPOCALI

te, per abrasione, quasi fosse stato una pietra scintillante – basti pensare alla straordinaria bellezza e perfezione della daga in ferro che aveva accompagnato Tutankhamon (13411323 a.C. circa) nella sua dimora finale. Quando, tra il XIII e il XII secolo a.C., si intuí la possibilità di estrarlo dai minerali terrestri e di foggiarlo a caldo, tutto iniziò a cambiare. Il ferro, confrontato con rame e bronzo, è stato giustamente definito come un metallo «democratico»: di reperimento molto piú comune, e quindi potenzialmente molto meno costoso, almeno come materia prima, era a disposizione di società allargate, se queste si dotavano delle abilità artigianali necessarie. Il ferro, inoltre, non poteva essere accumulato, conservato e rifuso a piacere, il che determinava una netta frattura nei confronti delle tradizionali forme di circolazione, accumulazione e ostentazione della ricchezza care alle vecchie élite palatine.

E SE FOSSE COLPA DI UN PEZZO DI LEGNO? Tuttavia, il prime mover del collasso (o, se preferite, del cambiamento) non fu certamente un metallo (il ferro), né un animale (l’asino, il mulo o il cavallo). Vero è che queste novità, nella storia umana, furono tanto cruciali da aver ancora determinato, 3000 anni dopo, le scene del primo conflitto mondiale. Ma ferro e quadrupedi da soma o da cavalcare ebbero un serio impatto globale nel Vicino Oriente e nel Mediterraneo solo molto dopo il grande collasso del 1200 a.C. Non è invece escluso che alla base del crollo vi possa essere stato un semplice... montante ligneo. Le grandi vele rettangolari che Minoici e Egiziani avevano raffigurato con tanta precisione su affreschi e bassorilievi avevano un ampio boma inferiore. Nel XIII secolo a.C., il margine basso delle vele iniziò a essere legato e variamente annodato con robusto cordame, e l’innovazione, intorno al 1200 a.C., sembra essersi generalizzata. In tal modo, le vele cambiavano forma e angolazione a seconda delle necessità, risultando molto piú manovrabili ed efficienti. Nei rilievi di Ramesse III, alcune navi nemiche sembrano aver avuto una doppia polena simmetrica, a prua e a poppa, a forma di testa di uccello, un motivo che ricorre in non pochi manufatti di lusso comuni in Europa centrale e settentrionale nella tarda età del 104 a r c h e o

ATTUALITÀ DI UNA CRISI «L’economia della Grecia è piombata nel caos. Rivolte intestine stravolgono la Libia, la Siria, e l’Egitto, e a fomentare la rivolta ci sono mercenari e truppe straniere. Come Israele, anche la Turchia teme di venire coinvolta. I rifugiati si accalcano nella terra di Giordania. L’Iran è minaccioso e sempre piú agguerrito e l’Iraq si trova in uno stato di conflitto permanente. È il 2013 d.C.?

Un campo profughi a Duhok, nel Kurdistan iracheno. Accoglie in maggioranza Siriani che hanno abbandonato il proprio Paese per sfuggire alla guerra civile che lo dilania dal 2011.

Certo! Eppure la situazione era identica nel 1177 a.C., piú di 3000 anni fa, quando una dopo l’altra sono crollate le civiltà mediterranee e dell’età del Bronzo...» (Eric H. Cline). In effetti, il paragone è di stupefacente attualità, anche perché può essere sostenuto con argomenti di portata ancora maggiore. La congiuntura odierna, infatti, è una crisi di profonda frammentazione politica.


Trent’anni dopo il collasso dell’Unione Sovietica, il riemergere di aggressivi gruppi di potere fortemente localistici mette in discussione l’Unione Europea (pensiamo alla Brexit), le tradizionali alleanze tra l’Europa e gli Stati Uniti, nonché i trattati sul nucleare tanto faticosamente raggiunti tra USA e Iran. Proprio come i tre secoli che vanno dal 1500 al 1200 a.C. – un tempo di intensa e continua globalizzazione

politica e culturale – furono seguiti dall’affermazione, in territori limitati, di piccole nazioni, regni e interessi indipendenti, o aspiranti tali. Senza dimenticare che le forti spinte centrifughe, ora come 3200 anni fa, sono intensificate da fenomeni migratori di vasta portata, capaci di destabilizzare i fondamenti economici, ma anche la sicurezza militare e strategica, di intere popolazioni.

Bronzo. Si tratta di imbarcazioni meno ingombranti e piú leggere, sospinte da remi e vele accessorie, perfette, in caso di necessità, per veloci incursioni e scorrerie. I naviganti dell’epoca, con queste e altri tipi di imbarcazioni, iniziarono a percorrere con frequenza sempre maggiore il Mediterraneo in senso longitudinale, con le rotte che da Cipro si spingevano alle coste meridionali di Creta, quindi alla Sicilia. Di qui, potevano proseguire per Malta oppure alla volta della Sardegna, per poi procedere, ancora piú a ovest, in direzione delle coste iberiche.

PER ELUDERE I CONTROLLI Questa «rotta delle isole» (come venne chiamata in seguito) in realtà aggirava le coste. Evitava cosí le principali località marinare degli ultimi secoli del II millennio a.C., e, in primis, le autorità portuali legate alle monarchie, trasferendo in velocità e relativa sicurezza carichi di merci di pregio senza pagare tasse e balzelli; e trasferendo animali, armamenti, schiavi e magari personaggi «scomodi» senza dare troppo nell’occhio – insomma, piú contrabbandieri e mercanti che pirati e guerrieri. Essi trasportavano beni, informazioni, lingue e idee che ormai sfuggivano alla logica elitaria delle vecchie dinastie regali, che venivano prontamente assorbite da mercati e gruppi piú liberi, capaci di agire e progettare con maggiore inventività e indipendenza. Dovremmo quindi forse abbandonare la retorica della catastrofe, come suggerisce Broodbank, e con essa l’idea dei «Popoli del mare» come di identità etniche (peraltro forse inventate solo dagli studiosi moderni), protagonisti di spietati conflitti e massacri. Immaginiamoli invece come «popoli sul mare», se non come «nomadi del mare» – etichette diverse che insistono sull’adattabilità, l’intelligenza, lo spirito di avventura di genti emarginate dalle antiche realtà socio-economiche di Stati e imperi palatini, ma pronte a crearne di nuove, sul soffio possente dello spirito del tempo. L’ibrido «Dio del lingotto», con il suo sguardo insolente, è rimasto a ricordarci che vinsero quanti erano stati capaci di creare società flessibili, multietniche e intrise di nuovi valori; e persero, invece, quanti rimasero ostinatamente ancorati a modi di vita superati, affidando a scribi e scalpellini prezzolati e terrificati la narrazione del «Grande crollo della tarda età del Bronzo». a r c h e o 105


SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

UN MONASTERO A CHIAMATO DESIDERIO GLI SCAVI CONDOTTI A LENO, NEL BRESCIANO, HANNO PERMESSO DI RICOSTRUIRE LA STORIA DI UN IMPORTANTE COMPLESSO MONASTICO VOLUTO DAL RE LONGOBARDO. CHE QUI REPLICÒ CON SUCCESSO IL MODELLO GIÀ SPERIMENTATO NELLA STESSA BRESCIA, A S. SALVATORE

nno 757. I Longobardi sentono vicina la fine del proprio regno e la loro dominazione in Italia si avvia a diventare un ricordo. I papi stanno già prendendo accordi con i Franchi, gettando le basi per un’intesa che modificherà la geopolitica dell’intera Europa. In quello stesso 757 sale al trono un nobile, un membro dell’élite longobarda, Desiderio. Proviene forse da una potente famiglia bresciana – non ne abbiamo certezza –, ma, in ogni caso, dispone di ampie proprietà terriere proprio nella zona di Brescia, uno dei centri piú importanti del regno. Nel cuore della città lombarda, già nel 753, Desiderio aveva fondato una chiesa sfarzosa (anzi, rifondato, perché il tempio già esisteva): si tratta di S. Salvatore, una grande aula a tre navate, ciascuna delle quali termina con un’abside.

LA CHIESA NEL MUSEO La chiesa oggi si può visitare, poiché è egregiamente conservata nel bel Museo di S. Giulia e se ne possono ammirare le strutture e le A sinistra: Leno (Brescia). Un settore dello scavo del monastero di S. Benedetto con resti di una fornace per campane (XII sec.) scoperti nella cripta della chiesa. In basso: formella in terracotta che forse ritrae il re longobardo Desiderio.

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splendide decorazioni in marmo, stucco e le pitture. S. Salvatore non era però isolata, perché Desiderio le fece costruire accanto un vasto monastero femminile, articolato su ben tre chiostri.

Piú o meno nello stesso momento, e cioè poco dopo la sua ascesa al trono, il re diede vita a un’operazione analoga anche in campagna, in un’area a sud di Brescia: a Leno, dove si

estendevano alcune sue proprietà. Qui fondò un monastero – dedicato anch’esso a san Salvatore – e lo dotò di reliquie: frammenti dei corpi dei santi Marziale e Vitale, da Roma; e di san Benedetto, il Fotopiano dell’area indagata nella campagna di scavo del 2010. Le indagini hanno rivelato che l’area del monastero conobbe fasi di frequentazione già in epoca preistorica.

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Ungari). I testi documentano inoltre la nascita di un castello, il «Castellum Leni», perlomeno dal XII secolo.

UNO SCENARIO INASPETTATO

fondatore dell’abbazia di Montecassino. Il monastero di Leno divenne ben presto un punto di riferimento per il territorio bresciano, anche dopo la fine del regno longobardo per mano di In alto: ricostruzione digitale della prima e della seconda chiesa abbaziale. A destra e nella pagina accanto: sezione e veduta integrale della terza chiesa abbaziale.

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Carlo Magno (774). La sua è una storia lunga, nel corso della quale si contano varie ricostruzioni della chiesa e la probabile fortificazione del complesso (nel X secolo, al tempo delle incursioni degli

Il monastero attraversa cosí l’intero Medioevo, poi l’età moderna, ed esce di scena solo nel 1787, quando se ne demoliscono le strutture, e i ruderi vengono progressivamente inghiottiti dalla terra. Fino all’arrivo degli archeologi: nel 2001 iniziano le prime campagne di scavo, precedute da indagini geofisiche; le coordina Andrea Breda, funzionario della Soprintendenza Archeologica della Lombardia, presto affiancato da Fabio Saggioro, docente dell’Università di Verona. Le ricerche portano a risultati del tutto nuovi, inaspettati, rivelando che il luogo del monastero era stato frequentato già durante la preistoria, tra le età del Bronzo e del


Ferro. Seguí un lungo silenzio, fino al VII secolo, quando vengono costruiti alcuni edifici a pianta quadrangolare (probabilmente abitazioni). Gli scavi hanno poi confermato che la fondazione del complesso monastico risale alla metà dell’VIII secolo, periodo nel quale viene costruita la chiesa piú antica, finalmente ritrovata: un edificio a navata unica e un’abside (forse addirittura tre, non è ancora chiaro). Poi il monastero si espande rapidamente, con l’aggiunta di oratori, cappelle, e di un fossato. E nella prima metà dell’XI secolo la crescita è suggellata dalla ricostruzione della chiesa: il nuovo edificio viene aggiunto al precedente, in continuità, e ha un’abside contrapposta a quella piú antica. Di tutte queste fasi sono stati trovati anche numerosi frammenti di sculture, le iscrizioni tombali di alcuni abati, e una straordinaria formella in terracotta

con il ritratto di un personaggio, che, secondo lo storico Angelo Baronio (un altro dei protagonisti dell’operazione), potrebbe addirittura essere Desiderio stesso.

NON SOLO SCAVI Leno è stato però il fulcro di un progetto di un’archeologia medievale matura, consapevole di tutte le sue possibilità. E quindi, non solo scavi: attorno al sito sono state condotte ricognizioni che hanno chiarito i legami tra il monastero e il territorio circostante, e una parte delle ricerche ha riguardato anche i resti paleobotanici, per una corretta ricostruzione dell’ambiente. I risultati delle indagini sono contenuti in un volume di recente pubblicazione: un’edizione di scavo esemplare, che ribadisce come un’archeologia rigorosa e ben fatta possa fare luce su un periodo poco documentato, ma affascinante, quale è l’Alto Medioevo.

PER SAPERNE DI PIÚ Fabio Saggioro, Andrea Breda, Maria Bosco (a cura di), Il monastero di San Benedetto di Leno. Archeologia di un paesaggio in età medievale, Storie di Paesaggi Medievali, 2, All’Insegna del Giglio, Sesto Fiorentino, 432 pp., ill. b/n e col. ISBN 9788878148864 www.insegnadelgiglio.it


L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

LA GUERRA DELLE DONNE ALLA MORTE DI ALESSANDRO MAGNO, DUE DELLE DONNE PIÚ IMPORTANTI DELLA SUA FAMIGLIA SI AFFRONTARONO IN BATTAGLIA. E SENZA ESCLUSIONE DI COLPI

«D

uride di Samo dice che la prima guerra fra donne fu quella tra Olimpiade ed Euridice. In essa (Olimpiade) avanzò con una marcia simile a un corteo bacchico, con accompagnamento di tamburini, mentre Euridice marciò armata secondo l’uso macedone, avendo appreso l’arte della guerra dall’illirica Cinna», cosí si legge in un passo dello storico, letterato e politico di Samo nato verso il 340 a.C., riportato da Ateneo di Naucrati, che fu invece attivo fra il II e il III secolo d.C. Una guerra condotta da donne costituisce un evento certamente eccezionale, un fatto non previsto dall’ordine naturale delle cose e anzi considerato abnorme, stigmatizzato nell’immaginario greco attraverso il mito delle Amazzoni e del loro regno barbarico retto da una regina, sulle coste del Mar Nero. Attraverso la testimonianza di Duride – ma non solo –, la storiografia greca registra, come la prima battaglia guidata da donne avesse visto protagoniste

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Foto di scena del film Alexander (2004), diretto da Oiver Stone. Al centro, Colin Farrell, nei panni di Alessandro, e, dietro di lui, Angelina Jolie e Val Kilmer in quelli di Olimpiade e Filippo II.

due figure legate entrambe al mondo di Alessandro Magno: la madre Olimpiade e la nipote, la regina Euridice II di Macedonia. Olimpiade, il cui vero nome era Myrtale (375 circa-316 a.C.), fu la celebre moglie (la terza delle sette complessive) di Filippo II di


Macedonia. Nata da Neottolemo I d’Epiro, le cui origini dinastiche risalivano ad Achille, andò sedicenne sposa al re, che aveva conosciuto durante l’iniziazione ai Misteri di Samotracia, ai quali entrambi avevano preso parte (Plutarco, Vita di Alessandro, 2); nel 356 a.C. nacque il figlio Alessandro. Mutò allora anche il suo nome in quello di Olimpiade, per celebrare la vittoria riportata da Filippo alle Olimpiadi di quell’anno in occasione di una corsa di cavalli.

AMANTE DELLE SERPI Molto legata al culto dionisiaco nei suoi aspetti piú ferali, con annesso seguito di serpenti addomesticati che teneva con sé, baccante esaltata, alimentò la leggenda che Alessandro fosse nato da una sua unione con Zeus, trasformatosi appunto in serpente. Finito il matrimonio con Filippo II – sembra anche per una sorta di repulsione del re per la sua familiarità con le serpi –, Olimpiade esercitò sempre un deciso ascendente sulla formazione del figlio, che la tenne in grandissima considerazione. Ebbe poi forte ingerenza nell’assicurare il trono al figlio anche attraverso l’eliminazione di possibili rivali tra i figli di Filippo e intervenne nelle vicende legate alle conquiste di Alessandro e alla gestione del potere in generale. La seconda protagonista della guerra fra donne è Euridice II (350/40 circa-317 a.C.), nata da Aminta IV di Macedonia e da Cinna (o Cynane); quest’ultima era figlia di Filippo II e di Audata di Illiria (la prima moglie del re) ed era quindi sorellastra di Alessandro Magno. Cinna, che era una provetta combattente come da tradizione illirica, educò la figlia alle arti della guerra, della lotta e della caccia. Euridice II sposò un fratellastro di Alessandro, Filippo III Arrideo, figlio illegittimo di Filippo II e affetto da turbe mentali. Alla morte di

Alessandro, l’Arrideo fu proclamato re da una parte dell’esercito, scatenando una complessa battaglia tra le opposte fazioni dei diadochi per il titolo di re di Macedonia, alle quali prese parte attiva anche Olimpiade, che rivendicava il trono per il piccolo nipote Alessandro IV (323-310 a.C. circa), figlio postumo di Alessandro e di Rossane. Alla fine si arrivò a una battaglia per la conquista del regno tra Euridice II, che rappresentava l’imbelle marito, e Olimpiade, che voleva il trono per un bambino, ma sotto la propria gestione. Le fonti già ricordate attestano che Euridice si apprestò alla battaglia vestita da generale In alto: ritratto immaginario di Olimpiade, moglie di Filippo II, dal Promptuarii Iconum Insigniorum di Guillaume Rouillé. 1553. In basso: medaglione «padovano» di Valerio Belli. Metà del XVI sec. Al dritto, il busto di Olimpia basilissa (regina); al rovescio, scena di sacrificio in un tempietto.

macedone, mentre Olimpiade aveva schierato l’esercito come un corteo bacchico.

IMMAGINI IDEALIZZATE Ma, alla vista della madre di Alessandro, l’esercito di Euridice non avanzò e passò al nemico. Euridice con il marito fuggirono ad Anfipoli, dove furono catturati per mano degli uomini di Olimpiade. Filippo III fu ucciso ed Euridice II, rinchiusa in un sotterraneo, ricevette da parte della rivale una corda, una spada e una tazza di cicuta, scegliendo la prima (Diodoro, Bibliotheca, 19, 11), ed ebbe comunque l’onore di essere seppellita, insieme con il marito, nelle tombe reali di Verghina. Oggi si associa l’ignoto viso di Olimpiade a quello di Angelina Jolie, che la interpreta in Alexander (2004), di Oliver Stone; dal punto di vista monetale, non esistono attestazioni, ma alcuni «medaglioni» ne propongono l’immagine idealizzata. Ecco dunque la «Padovana» (termine che indica una medaglia coniata in età moderna a imitazione di un’antica) del vicentino Valerio Belli (1468-1546), celebre intagliatore di gemme e pietre dure, che realizzò una medaglia dedicata a Olimpia basilissa (regina), con al dritto un severo profilo di impronta quasi virile, e al rovescio una scena di sacrificio. Molto diversi, come si vedrà, sono i medaglioni antichi sui quali si vuole riconoscere la volitiva madre di Alessandro.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Laura Pagliantini

AITHALE. L’ISOLA D’ELBA Territorio, paesaggi, risorse Edipublia, Bari, 386 pp., ill. col. e b/n 70,00 euro ISBN 978-88-7228-875-7 www.edipuglia.it

Quella dell’Elba è una storia plurisecolare e che, per la sua parte antica, dev’essere ancora chiarita in piú di uno dei suoi aspetti. Ma si può dire che il lavoro finora svolto da Laura Pagliantini e ora edito in questo corposo volume abbia tracciato la strada da seguire. L’opera nasce dalla testi di dottorato dell’autrice e offre una trattazione sistematica e analitica dell’intera questione, in molti casi mettendo ordine in una congerie di dati finora accumulati a seguito di iniziative diverse, senz’altro lodevoli, ma quasi mai inserite in un piano di ricerca organico, quale è invece il Progetto «Aithale», in seno al quale il presente studio

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è stato sviluppato. Basti pensare alla creazione di un GIS a scala territoriale, mai prima d’ora elaborato, e che, vera e propria spina dorsale cartografica di questa ricerca, ha permesso di produrre una ricca serie di mappe tematiche, attraverso le quali si può costantemente cogliere il legame fra un determinato aspetto crono-culturale e la gestione del territorio applicata in quel contesto. E proprio dal territorio prende le mosse il volume, con un corposo capitolo dedicato alla geografia e all’ambiente dell’isola, che nei suoi 224 kmq presenta una straordinaria varietà geomorfologica, segnata, in particolare, dalle presenze che piú hanno inciso sulla sua economia antica: il granito e il ferro. Dal successivo capitolo sulla storia degli studi emerge il dato ricordato all’inizio, vale a dire la prolungata assenza di ricerche sistematiche, cosicché la pur ricca documentazione si deve generalmente alle meritorie inziative di singoli personaggi, fra i quali spicca Gino Brambilla, Ispettore Onorario della Soprintendenza Archeologica della Toscana, il quale, dal 1969 e per quasi cinquant’anni, si è impegnato in una costante attività di ricerca, ma soprattutto, di tutela e di controllo. La parola passa quindi alle fonti, sia

riportando le citazioni e le descrizioni tramandate da autori greci e latini, sia analizzando gli indizi suggeriti dalla toponomastica e dalla cartografia prodotta in epoche piú recenti. Dopo aver illustrato i criteri adottati nel corso della ricerca, Pagliantini passa alla sezione piú interessante e significativa, che, non a caso, è intitolata I paesaggi antichi: una scelta che evidenzia la volontà di offrire un quadro culturale complessivo delle diverse epoche analizzate, senza fermarsi all’elencazione di siti o all’elaborazione di tipologie dei materiali. L’orizzonte cronologico è molto ampio – dalla preistoria alla tarda antichità – ed è qui che maggiormente emergono i limiti imposti dalla disomogeneità della documentazione a oggi esistente. Difformità che, tuttavia, non impediscono la ricostruzione, esemplare, di strategie d’insediamento, scelte di gestione del territorio o sviluppo di attività produttive. Quadri che si susseguono ciascuno con le sue peculiarità e che, nel tempo, dimostrano come l’isola d’Elba, per citare l’autrice, sia stata segnata da «forti mutamenti», ma anche da «forti continuità». Seguono, nell’Appendice, la schedatura dei siti e una vastissima Bibliografia. Stefano Mammini

Carlo Ruta

LA LUNGA ETÀ DEL LEGNO I paradossi della materia «debole» e le rotte della civiltà Edizioni di storia e studi sociali, Ragusa, 140 pp., ill. b/n 15,00 euro ISBN 978-88-99168-44-5 www.edizionidistoria.it

Per via della sua deperibilità, il legno, in archeologia, è una presenza rara, limitata a contesti particolari, quali i siti subacquei o quelli in cui, come per esempio in Egitto, si creino ambienti anaerobici, cioè privi di ossigeno. Ciononostante, la sua diffusione, fin dalla preistoria, fu capillare e, soprattutto negli ultimi decenni, grazie all’evolversi delle tecnologie, il suo impiego, anche indirettamente, è stato ampiamente provato. Da questi presupposti prende le mosse Carlo Ruta, che invita il lettore a seguirlo in un percorso avvincente, che dalla preistoria si dipana fino all’età classica. E a


rendere la sua trattazione particolarmente godibile è la scelta di privilegiare gli aspetti, per cosí dire, ideologici della vicenda, applicando uno dei concetti aurei dell’archeologia, cioè la ricerca dell’identità di quali uomini vi siano dietro la realizzazione di un determinato manufatto. A ciò si aggiungono considerazioni, non meno stimolanti, sul rapporto fra ambiente e scelte tecnologiche, che, nel caso del legno, vedono per esempio imporsi come fattore cruciale l’acqua, intesa come elemento che, grazie al legno, poteva essere navigato. Come spiega Ruta, dunque, non vi fu, nella storia dell’uomo, un’età del legno, perché esso fu sempre presente, in ogni fase della nostra plurimillenaria permanenza sulla terra.

ha trovato larghissimo uso dalla preistoria fino a pochi decenni fa, quando ne vennero chiuse le ultime cave. Un rapporto plurisecolare, che questo volume ricostruisce e documenta puntualmente, dando vita a una sorta di atlante delle tracce che se ne possono individuare nel Finalese e, piú in generale, nell’intera Liguria. Nelle oltre 500 pagine del libro c’è spazio per tutti gli aspetti del fenomeno, con contributi che spaziano dalla geologia all’archeologia, dalla paleontologia all’archivistica. Ne scaturisce un quadro

Giovanni Murialdo, Roberto Cabella, Daniele Arobba (a cura di)

PIETRA DI FINALE Una risorsa naturale e storica del Ponente ligure Istituto Internazionale di Studi Liguri, Finale Ligure, 576 pp., ill. col. 50,00 euro ISBN 978-88-86796-67-5 www.iisl.it

di grande interesse, soprattutto per come i diversi autori fanno emergere la forza del legame che, nel tempo, ha unito le comunità umane a una delle risorse piú preziose del loro territorio.

La natura calcarea, il colore rosato e la fitta presenza di fossili sono le caratteristiche peculiari della Pietra di Finale, un materiale che

Patrizia Arena

GLADIATORI, CARRI E NAVI Gli spettacoli nell’antica Roma Carocci editore, Roma, 198 pp., ill. b/n

16,00 euro ISBN 978-88-430-9830-9 www.carocci.it

Chiave di lettura di questo saggio è quanto

ben oltre l’aneddotica e offre al lettore un’attenta analisi sociale di uno dei fenomeni che maggiormente caratterizzarono la storia di Roma e del suo impero. Marco Castracane

BOLSENA Storia di Bolsena e del Fanum Voltumnae Edizioni Espera, Monte Compatri (Roma), 130 pp., ill. col. e b/n 16,00 euro ISBN 978-88-99847-20-3 www.edizioniespera.com

scrive nell’Introduzione l’autrice stessa, quando ricorda come nell’antica Roma i giochi fossero «parte integrante di un complesso sistema di relazioni e di comunicazione tra l’imperatore e il popolo e come fossero al servizio della politica fin dall’età repubblicana». Nei successivi capitoli, dunque, oltre alla descrizione dei luoghi, delle pratiche agonistiche o della considerazione di cui godevano i beniamini del pubblico che affollava circhi e anfiteatri, è costante il riferimento alla regia politica degli eventi organizzati per intrattenere le masse. Basata sulla documentazione offerta da fonti letterarie, epigrafiche e archeologiche, la trattazione va dunque

Marco Castracane ripercorre la storia di Bolsena e del suo lago, nell’alto Lazio, soffermandosi, in particolare, sulle questioni legate alla sua antica denominazione e al rapporto con Volturno, dio delle trasformazioni. Una vicenda complessa, che ebbe certamente la sua influenza anche nei successivi eventi legati al culto dei santi martiri Giorgio e Cristina. In un interessante esempio di persistenza dell’antico. (a cura di Stefano Mammini)

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presenta

CASTELLI D’ITALIA

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I castelli sono una presenza costante nel paesaggio italiano, uno dei tratti distintivi dell’identità territoriale del nostro Paese. E il nuovo Speciale di «Medioevo» ne offre una conferma eloquente, presentando una selezionata rassegna di monumenti distribuiti in tutte le regioni della Penisola – dalla Valle d’Aosta alla Calabria –, cosí come in Sicilia e in Sardegna. Concepiti nell’età di Mezzo per fini di semplice difesa, i castelli assunsero in seguito forme aggraziate, acquisendo un fascino perlopiú estetico e trasformandosi in residenze signorili. Stilare un elenco ristretto di tali bellezze può rivelarsi una semplificazione arbitraria e quelle che abbiamo scelto sono senza dubbio un numero esiguo, se messo a confronto con le migliaia di capolavori che l’architettura militare italiana può vantare. È vero, dunque, che l’inevitabile, ridotto margine di scelta ha comportato esclusioni anche sofferte. Confidiamo, però, nel fatto che una sintesi può risultare piú appagante di un corposo compendio. Questo Speciale, dunque, non deve scontentare nessuno! E, anzi, vuole essere uno stimolo rivolto ai nostri lettori per scoprire quanto non appare in queste pagine e creare, cosí, un personale atlante dei «castelli nascosti»...




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