Archeo n. 424, Giugno 2020

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IN EDICOLA L’11 GIUGNO 2020

eo .it

2020 EUFRONIO PACIFISTA

ESCLUSIVA

ACHILLE E ODISSEO IL LIMES/2 SPECIALE TRIESTE ARCHEOLOGICA

Mens. Anno XXXV n. 424 giugno 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MISSIONE A HATRA

MISSIONE A HATRA

ACHILLE, ODISSEO E LA QUESTIONE OMERICA Una nuova, grande indagine dello scrittore Matteo Nucci

SPECIALE

TRIESTE CAPITALE DELL’ARCHEOLOGIA

LA DEMOCRAZIA NEL CUORE

IL VASAIO PACIFISTA LIMES

L’IMPERO SENZA FRONTIERA

www.archeo.it

AR T CH RI EO ES LO TE ww GI w. a rc CA h

ARCHEO 424 GIUGNO

€ 5,90



EDITORIALE

IL RITORNO DI SHAMASH

Una città-fortezza, non particolarmente vasta, né ricca. Costruita in una terra arida e brulla, infestata da sciami di mosche e investita da devastanti tempeste di sabbia inviate da Shamash, il dio del Sole, implacabile contro i nemici come la stessa calura che emana dal suo astro. Un’aura di sacralità e testimonianze di inquietanti prodigia accompagnano il nome di Hatra, le cui rovine si ergono, ancora oggi, meno di cento chilometri a sud di Mosul, in Iraq, in quella parte settentrionale della Mesopotamia denominata Giazira, «l’isola». Progettata intorno al suo santuario principale, dedicato all’assiro dio solare, la sede del piccolo principato indipendente resistette alla minaccia delle guerre romano-persiane, tenendo testa alle mire di Traiano, il quale, nel 117 d.C., cercò invano di conquistarla (l’imperatore morí nell’agosto dello stesso anno, piegato dalla malattia contratta in quelle terre insalubri). Decenni dopo, tra il 199 e il 200 d.C., fu la volta di Settimio Severo: venti giorni di incessante assedio non bastarono, però, a penetrare le difese della città. A narrare le sorti invincibili di Hatra fu lo storico Cassio Dione (155-253 d.C.), scomparso prima di poter assistere alla fine del principato, dovuta all’ascesa di Shapur I, il dinasta sasanide che conquista la città nel 244 d.C. Hatra viene abbandonata e la sua gloria finisce. Per secoli, nessuno metterà piede nelle sue rovine, nessun nuovo insediamento occuperà lo spazio dei santuari grecoromani e delle imponenti volte che si aprono sul vasto recinto sacro, tipiche dell’architettura persiana. Un sonno indisturbato di oltre 1700 anni consentirà agli archeologi (tedeschi, iracheni e italiani) di riscoprire, intatto, l’universo artistico e architettonico di questo piccolo ma straordinario regno al confine tra Oriente e mondo classico. Possiamo ipotizzare che gli Arabi musulmani – i nuovi padroni di quelle terre a partire dalla prima metà del VII secolo – abbiano riservato alle vestigia di Hatra lo stesso giudizio espresso nei confronti delle meraviglie architettoniche di Palmira, i cui templi e vie colonnate venivano attribuite «all’opera del profeta Salomone, figlio di Davide» (cosí al Yacubi, storico e geografo vissuto nel IX secolo). Con la celebre metropoli carovaniera – situata appena 400 chilometri piú a ovest – Hatra ha, inoltre, condiviso la cronaca nefasta delle distruzioni perpetrate dallo «Stato Islamico» nel 2015: sono ancora ben impresse nella nostra memoria le immagini delle statue prese a picconate nel Museo di Mosul e sulla facciata dello stesso santuario del dio solare. Una misteriosa mano protettiva, tuttavia, ha salvaguardato gli edifici stessi dalla distruzione (contrariamente a quanto è accaduto a Palmira), aprendo la strada a una loro «nuova vita». Ce ne parla la nostra inviata Stefania Berlioz, di ritorno da Hatra… Andreas M. Steiner Hatra. La facciata del «Grande Tempio» («Main Temple»), il piú imponente dei corpi di fabbrica del santuario hatreno, caratterizzato da una successione di iwan, sale rettangolari coperte a volta e con il lato breve frontale completamente aperto, di tradizione iranica.


SOMMARIO EDITORIALE

Il ritorno di Shamash

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

6

SCAVI Indagini preventive condotte a Valle Mura, nell’Aquilano, rivelano la lunga frequentazione di un’area scelta per le sue ricche risorse, prima fra tutte l’argilla 6 PASSEGGIATE NEL PArCo L’intrico di stanzette che si cela fra la via Sacra e il Palatino è ancora oggi un enigma. In attesa della cui soluzione, il monumento sarà restaurato e aperto al pubblico 8 IN DIRETTA DA VULCI La scoperta della Tomba del Peso di Piombo, nella Necropoli dell’Osteria, offre un contributo significativo alla ricostruzione del

sistema ponderale messo a punto dagli Etruschi 14

LA DEMOCRAZIA NEL CUORE Il vasaio pacifista

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di Louis Godart

PAROLA D’ARCHEOLOGO Uscire dall’emergenza sanitaria causata dal COVID-19 non deve far venire meno le esigenze della tutela, della ricerca e del restauro. Ecco le opinioni in proposito di Francesco di Gennaro, Giuliano Volpe e Paolo Pastorello 18

DA ATENE

Il restauro si prende la scena

26

di Valentina Di Napoli

28 REPORTAGE

Missione a Hatra

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di Stefania Berlioz

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32 In copertina un militare statunitense in perlustrazione a Hatra, nel luglio del 2008, nel corso di operazioni volte a proteggere il sito dalle incursioni di gruppi terroristici.

Presidente

Federico Curti Anno XXXVI, n. 424 - giugno 2020 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Comitato Scientifico Internazionale

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

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Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Stefania Berlioz è archeologa. Francesca Boldrighini è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Valentina Di Napoli è archeologa. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Giulia Giovanetti è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Louis Godart è stato professore di civiltà egee all’Università Federico II di Napoli. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Matteo Nucci è scrittore. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Maria Aurora Salto von Hase è studiosa di storia romana. Mara Sternini è professore associato di archeologia classica all’Università degli Studi di Siena.

Illustrazioni e immagini: U.S. Marine Corps: Lance Cpl. Albert F. Hunt: copertina – Cortesia Missione italo-irachena a Hatra: pp. 3, 32-35, 36 (basso), 37-49 – Cortesia SABAP Abruzzo:


STORIA

Attenti a quei due

52

di Matteo Nucci

52

88

STORIA

Il limes/2

Lungo il viale del tramonto

66

di Maria Aurora Salto von Hase

SPECIALE

Trieste in vetrina

88

di Giuseppe M. Della Fina

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Rubriche

Il figlio del serpente 110

SCAVARE IL MEDIOEVO

66

Istantanea di un massacro di Andrea Augenti

pp. 6-7 – Cortesia Parco archeologico del Colosseo: pp. 8-9 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 10-11 – Cortesia NIKU (Norsk institutt for kulturminneforskning): p. 12 – Cortesia Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 14-15 – Cortesia degli autori: p. 16 – INRAP: Denis Gliksman: pp. 16/17; Anne Fourès: p. 17 – Doc. red.: pp. 18-22, 28-29, 31, 53, 58, 66, 68-76, 77, 78-79, 80, 81, 82, 83, 84-87, 92-93, 96-99, 101, 102-103, 106/107, 107 (alto), 108-109, 111 – Soprintendenza Ellenica alle Antichità della Tessaglia: pp. 26, 27 – Mondadori Portfolio: Erich Lessing/Album: pp. 30, 62/63; AKG Images: pp. 52, 56/57, 60, 110; Album/Joseph Martin: pp. 54/55; Album/The Metropolitan Museum of New York: p. 57; Archivio dell’Arte Luciano Pedicini/Luciano Pedicini: pp. 58/59; Electa/Luigi Spina: p. 61; CM Dixon/Heritage Images: p. 64; Fine Art Images/Heritage Images: pp. 104/105 – The J. Paul Getty Museum, Los Angeles: pp. 64/65 – Shutterstock: pp. 88/89, 100/101, 107 (basso) – Marka: hwo/imageBROKER: p. 90 –Bridgeman Images: pp. 94-95 – Cippigraphix: cartine alle pp. 27, 36, 66/67, 77, 81, 82/83, 91. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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di Francesca Ceci

LIBRI

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Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano


n otiz iari o SCAVI Abruzzo

UNA VALLE E LA SUA (LUNGA) STORIA

I

ndagini di archeologia preventiva condotte a Valle Mura, nel territorio di Carsoli (L’Aquila), hanno permesso di scoprire testimonianze molto importanti ai fini della ricostruzione storica del paesaggio, indagate e documentate con uno scavo archeologico stratigrafico. «L’intero settore occidentale dell’area di Valle Mura – spiega Amalia Faustoferri, funzionario archeologo SABAP Abruzzo e responsabile scientifico dello scavo – è interessato da un sistema di drenaggio e bonifica antico, caratterizzato da un complesso reticolo di fosse lineari coperte con pezzame di arenaria e laterizi. Strettamente connessa alla bonifica è una struttura rinvenuta sul versante sud-occidentale della valle, nella parte che degrada verso il fiume. Tale struttura, orientata a nord/est e protetta a sud da una massicciata, è articolata in due ambienti conservati a livello di fondazione e caratterizzati da muri realizzati in blocchi di arenaria locale, parzialmente lavorati, legati con argilla. Tutti i dati archeologici, associati all’evidente disponibilità immediata di risorse naturali, fanno propendere per un impianto produttivo legato alla lavorazione dell’argilla. La struttura si data alla prima occupazione romana del territorio, nel IV-III secolo a.C., ed è presumibilmente connessa alla fondazione della colonia romana di Carsioli, ma non si può escludere che vada a occupare un’area dove già in precedenza sorgeva una struttura analoga.

6 archeo

Sullo stesso versante della valle, piú a est rispetto all’impianto produttivo, è stata poi messa in luce e scavata una necropoli databile tra la tarda età del Ferro e l’epoca arcaica. Del sepolcreto, che con ogni probabilità si è sviluppato su un sito protostorico al quale può essere ricondotta una struttura costituita da allineamenti di buche di palo e circondata da un piccolo fossato, sono state riportate alla luce 23 tombe singole, in fossa terragna con cassa lignea, il cui scavo complesso è stato effettuato

dall’antropologo. A livello topografico si individuano tre gruppi di sepolture, probabilmente riferibili a diversi nuclei familiari. Tombe contigue o adiacenti, appartenenti a individui di sesso distinto (maschio/femmina) fanno pensare a coppie. Il profilo demografico appare anomalo: al di là di una maggiore rappresentanza femminile, si segnala l’assenza totale di individui infantili o giovanili, che potrebbe essere imputabile a un utilizzo selettivo dell’area in funzione dell’età.

In basso: Valle Mura (Carsoli, L’Aquila). Una delle tombe scoperte nel corso delle indagini preventive, appartenente a una necropoli in uso tra l’età del Ferro e l’epoca arcaica.

Nella pagina accanto: ortofoto dei resti di un grande impianto produttivo legato alla lavorazione dell’argilla e riferibile alla presenza romana nell’area di Valle Mura. IV-III sec. a.C.


Le sepolture non presentano elementi di corredo personale a eccezione della tomba 17, che ha restituito una spada in ferro e tre fibule in bronzo. Si riferiscono invece alla struttura di epoca protostorica alcuni vasetti frammentari in ceramica d’impasto

ancora in situ e tracce di focolare». Le indagini hanno cosí consentito di cominciare a ritessere la lunga trama dei rapporti tra le comunità umane succedutesi a Valle Mura e l’ambiente naturale, al quale esse si sono adattate, ma che hanno anche contribuito a modificare.

Gli scavi, condotti con fondi del Comune dagli archeologi Luca Coppola e Luca Porzi e dall’antropologo Walter Pantano sotto la direzione scientifica della SABAP Abruzzo, sono stati eseguiti dalla Delta Lavori S.p.a. Giampiero Galasso

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PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Alessandro D’Alessio

CAMERETTE CON MISTERO IN UNA DELLE AREE PIÚ AMBITE DELL’ANTICA CITTÀ, TRA FORO E PALATINO, SORSE UN EDIFICIO DOTATO DI UN GRAN NUMERO DI PICCOLE STANZE. MA QUAL ERA LA LORO FUNZIONE?

A

gli inizi del Novecento, sulle pendici settentrionali del Palatino, all’incrocio tra la Sacra via e il clivo Palatino, Giacomo Boni scoprí i resti di un grande edificio, che sorgeva in una delle aree nevralgiche di Roma antica: articolato su due piani di circa 900 mq di estensione, era costruito in cementizio con cortine in opera reticolata, che ci permettono di datarlo al I secolo a.C. Oggi se ne conservano solo il piano interrato e pochi resti di quello terreno: distrutto nell’incendio del 64 d.C., il complesso fu infatti definitivamente obliterato dai magazzini costruiti in età flavia. E proprio il piano interrato, con la sua struttura architettonica, desta interesse e suscita i maggiori interrogativi: un reticolato di piccole stanze identiche tra loro (ognuna misura 1,5 x 2 m circa) collegate da corridoi che si intersecano ad angolo retto. Ne restano visibili poco piú di 30, ma in origine dovevano essere almeno 60. Le stanze sono

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pavimentate con scaglie di travertino ed erano chiuse da porte, di cui si conservano le soglie. Piccole ma ben attrezzate, dunque. C’è di piú: ognuna di esse era dotata di un tombino per lo scarico delle acque e di una panca in legno addossata alla parete, di cui sono visibili i sostegni in muratura. Era usata come letto: a renderlo piú confortevole era un rivestimento sulle pareti, non sappiamo di quale materiale, di cui in alcune stanze si conservano gli incassi. Né mancava una certa attenzione all’estetica: in una delle stanze si può ancora ammirare una pittura a fondo bianco con tirso e motivi floreali. Semplice, ma curata. Il piano interrato accoglieva anche un impianto termale. E se la collocazione interrata e le

dimensioni degli ambienti possono lasciare perplessi, dobbiamo ricordare che in epoca antica gli standard abitativi erano ben diversi dai nostri, e ambienti piccoli e sotterranei erano garanzia di isolamento termico. Ma qual era la loro funzione? Chi dormiva in queste stanzette negli ultimi anni della Repubblica? Gli archeologi se lo chiedono sin dalla loro scoperta.

LUOGHI AMBITI Già Boni aveva identificato il complesso portato alla luce con una casa tardo-repubblicana. Sappiamo infatti dalle fonti che il Palatino e le aree limitrofe erano tra i luoghi di residenza piú ambiti dall’aristocrazia, per la loro prossimità al Foro Romano, centro politico della città. E molti studi


sono stati fatti per localizzare le case dei diversi protagonisti della repubblica, criticate da Cicerone, che abitava anche lui sul Palatino, per la luxuria esibita. Dagli anni Ottanta del Novecento, le indagini archeologiche dirette da Andrea Carandini hanno arricchito la conoscenza di questo settore del colle, documentando la storia di un quartiere residenziale edificato già in età tardo-arcaica. Sulle pendici settentrionali del Palatino, infatti, alla fine del VI secolo a.C. quattro domus si articolavano con ambienti intorno a un atrium. La totale ricostruzione del quartiere fu promossa probabilmente dopo l’incendio del 210 a.C.: sopra le domus di età arcaica sorsero quattro nuovi edifici residenziali. Ed ecco che arriviamo all’edificio scoperto da Boni: poco prima della metà del I secolo a.C. fu infatti realizzato un nuovo grande complesso, che coprí le precedenti domus. È possibile riconoscervi una grande residenza privata, con un piano ipogeo che regolarizza la pendice del colle e serve da base per il piano nobile, dotato di atrio.

Il proprietario della casa è stato identificato con il pretore del 56 a.C. Marco Emilio Scauro, sulla base delle indicazioni di Asconio (Scaur. 23), che colloca la sua monumentale residenza sul Palatino appunto, all’incrocio tra la Sacra via e una strada laterale. Una conferma di questa ipotesi deriva da altre fonti (Asconio e Plinio il Vecchio): quattro colonne di marmo alte quasi 12 m, provenienti da un teatro temporaneo allestito da Scauro in occasione della sua edilità, ornavano l’atrio della sua casa. Seguendo le proporzioni di Vitruvio per gli atri delle case, Filippo Coarelli ha ricostruito, a partire dalle colonne, un atrio di 60 x 90 piedi (473 mq circa), che poteva accogliere piú di 2000 persone, con dimensioni quindi compatibili con l’edificio conservato.

GLI SPAZI DELLE DOMUS In età tardo-repubblicana, le domus necessitavano in effetti di grandi spazi per ospitare non solo la famiglia del dominus e i clienti, ma anche i liberti e i numerosi schiavi, onnipresenti nelle residenze. Le A sinistra: fotografia degli scavi condotti da Giacomo Boni agli inizi del Novecento. Nella pagina accanto: la pittura che orna una delle piccole stanze situate al piano interrato dell’edificio scoperto da Boni e variamente interpretato come domus di Marco Emilio Scauro o come locanda.

piccole stanze che occupano gran parte del piano ipogeo sono state infatti interpretate proprio come cellae per l’alloggio della servitú. Non deve stupire che, sebbene molto anguste, esse siano dotate di nicchie per lucerne e di pitture: sappiamo infatti dalle fonti che la servitú domestica riceveva dal dominus attenzioni particolari, come nel caso di Marco Antonio che aveva dotato le celle dei propri servi di coperte di porpora per i letti (Quintiliano 8, 4 (25). Asconio ricorda inoltre l’acquisto della casa di Scauro da parte del tribuno della plebe Publio Clodio Pulcro. Se è corretta l’identificazione della proprietà della domus, nelle piccole celle dell’edificio potrebbero aver risieduto anche i servi di Clodio. Le fonti ricordano infine nel 17 a.C. il trasporto delle colonne dell’atrio della casa di Scauro nel teatro di Marcello: un dato che sembra coincidere con la riduzione dell’atrio in età augustea, documentata dalle indagini. Per altri studiosi le stanze non sarebbero parte di una domus, ma di una grande locanda, dove i numerosi passanti potevano consumare un pasto o fermarsi per la notte. A sostegno di questa ipotesi potrebbero essere citati i reperti degli scavi: lucerne, ma anche molto vasellame da tavola di ceramica sigillata e numerosi gusci di molluschi e frutti di mare, tra i cibi piú amati dai Romani. Ciò spiegherebbe le piccole dimensioni delle stanze: lo spazio, non diversamente da quanto avviene oggi nelle aree piú richieste, era prezioso e doveva essere sfruttato al massimo. A fronte di tante ipotesi, è invece una certezza l’intenzione del Parco archeologico del Colosseo di restaurare e restituire presto al pubblico questo eccezionale complesso. Francesca Boldrighini, Giulia Giovanetti

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

PATHOS POMPEIANO L’«EFFETTO COLLATERALE» PIÚ SPETTACOLARE DELL’ERUZIONE DEL VESUVIO È STATO, FIN DALL’INIZIO, L’AVER «PLASTICAMENTE» FERMATO LA VITA DEGLI SVENTURATI ABITANTI DELLE CITTÀ POSTE AI SUOI PIEDI. UNA CARATTERISTICA ESALTATA DA UNA GENIALE INVENZIONE DI GIUSEPPE FIORELLI

«U

divi i gemiti delle donne, le grida dei fanciulli, il clamore degli uomini: gli uni cercavano a gran voce i genitori, altri i figli, altri i consorti, li riconoscevan dalle voci; chi commiserava la propria sorte, chi quella dei propri cari: ve n’erano che per timore della morte invocavano la morte; molti

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alzavano le braccia agli dei, altri piú numerosi dichiaravano che non vi erano piú dei e che quella era l’ultima notte del mondo». Plinio il Giovane, in una delle due famose lettere allo storico Tacito, descrive tutto il pathos della tragedia consumatasi nell’area vesuviana nel 79 d.C. Parole che trovano piena corrispondenza nelle

straordinarie testimonianze emerse dalle coltri vulcaniche di Pompei, grazie agli scavi archeologici.

UN’INTUIZIONE RIVOLUZIONARIA A Giuseppe Fiorelli, direttore degli scavi all’indomani dell’Unità d’Italia, spetta la piú importante «invenzione pompeiana», rappresentata dal far risorgere, attraverso calchi in gesso, le vittime dell’eruzione, con i loro volti, i loro corpi e i vestiti che indossavano in quel giorno fatale. Le impronte ottenute con il gesso entrarono immediatamente nell’immaginario di quanti si recavano a Pompei e furono riprodotte dai piú celebri fotografi della seconda metà dell’Ottocento, inseriti negli album che venivano acquistati dai visitatori come ricordo del loro viaggio in Italia. Le sensazioni, a volte morbose, suscitate dalle impronte pompeiane, accompagnarono la progressiva riscoperta della città e non ci fu rinvenimento che venisse ricordato nelle cronache senza essere arricchito da una emozionale ricostruzione degli ultimi attimi di vita e da tentativi di identificazione delle persone. Prima dell’invenzione dei calchi, il


A sinistra: il calco di un’impronta rinvenuta nel 1875 esposto in una teca del Museo Pompeiano a Porta Marina. Nella pagina accanto: Casa del Bracciale d’Oro. Le impronte scoperte nel giugno del 1974 di un uomo ed una donna con in braccio un bambino. ritrovamento che piú di ogni altro viene ricordato è la scoperta nel 1772, durante l’esplorazione del criptoportico della villa suburbana di Diomede, di 20 corpi sul piano di calpestio antico formati dal compattarsi della cenere.

CORPI IMPRIGIONATI NELLA CENERE Gli scopritori, pur non conoscendo in quel periodo il modo di ricavarne un calco, nel tentativo di salvare almeno una parte di una testimonianza cosí drammatica, tagliarono dal banco di cenere alcune parti dei corpi. Lo scopritore, Francesco La Vega, ricorda: «Ho pensato di far tagliare fino a 16 pezzi di quelli impronti di cadaveri, ove in uno fra gli altri, si distingue il petto di una donna ricoperto da una veste e in tutti vi sono degli avanzi di vestimenti (…) e tutte queste cose le ho mandate al Museo». Di questo gruppo di reperti non abbiamo altre notizie e probabilmente andarono perduti, con l’eccezione dell’impronta del seno di donna, che venne esposta prima nel gabinetto dei preziosi dell’Herculanense Museum di Portici e poi nel Museo Archeologico a Napoli, trasformandosi in una meta

imperdibile, per i visitatori, attirati dagli aspetti piú emozionanti rivelati dalle scoperte di Pompei. La direzione di Fiorelli segnò, quindi, una svolta nella storia dei rinvenimenti delle vittime dell’eruzione. La prima applicazione del metodo di colaggio del gesso nelle cavità lasciate dai corpi venne effettuata sul lato sinistro di via dell’Abbondanza: tra il 3 e il 7 febbraio del 1863 tornarono alla luce quattro corpi, identificati come un gruppo familiare in fuga dalla città, nello strato di cenere in corrispondenza del vicolo di Augusto, all’incrocio tra le Insulae 10-14, da allora denominato «vicolo degli Scheletri». Di queste vittime che tentarono di fuggire dalla città all’alba del 25 agosto, in un momento di calma apparente fra la prima e la seconda fase eruttiva, si riuscí a eseguire il calco e il rinvenimento suscitò un’incredibile sensazione, tanto da essere ampiamente ricordato nella letteratura pompeiana della seconda metà dell’Ottocento. Negli anni successivi si rinvennero numerose altre vittime di cui si realizzò subito il calco: fra queste, spicca una giovane dal fisico snello che, forse per agevolare la fuga,

aveva alzato la veste denudando la parte inferiore del corpo.

UNA GIOVANE DONNA... Dell’impronta, la piú ammirata all’epoca, tanto da essere paragonata addirittura alla statua della Venere Callipigia conservata al Museo di Napoli, abbiamo una descrizione del documentarista Fausto Niccolini, che testimonia l’interesse e l’impressione che suscitò il rinvenimento: «È una giovane donna caduta bocconi, col capo poggiato sul braccio dritto, intorno alla cui mano vedesi ancora un avanzo del panno, col quale la sventurata faceva scudo agli occhi contro la pioggia di cenere. Ella fu del novero di coloro, che l’attaccamento al tetto natio rendeva ostinati ed audaci; volle aspettare in casa, sperando che la pioggia di lapillo cessasse ad ogni istante. E chi potrebbe ridir l’angoscia mortale, lo strazio di quell’anima in quelle lunghe ore d’incerta aspettazione!».

PER SAPERNE DI PIÚ Ernesto De Carolis e Giovanni Patricelli, Impronte pompeiane, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2018

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n otiz iario

SCAVI Norvegia

L’ATTESA È FINITA!

L

a nave vichinga di Gjellestad sarà presto oggetto di un completo scavo archeologico. L’imbarcazione, un’imponente nave funeraria, è stata scoperta grazie al georadar nel 2018 nella contea norvegese di Østfold dagli archeologi del Niku, l’Istituto norvegese per la ricerca sui beni culturali (vedi «Archeo» n. 423, maggio 2020; anche on line su issuu.com). Il reperto giace a circa mezzo metro di profondità e presenta analogie con ritrovamenti simili, l’ultimo dei quali in ordine di tempo è avvenuto, nel 2019, sull’isola di Edøy, nella municipalità di Smøla. Le prime indagini al georadar hanno rivelato che l’imbarcazione di Gjellestad è lunga 20 m circa, mentre lo studio di campioni di legno prelevati dallo scafo hanno

permesso di datarla tra la fine del VII e l’inizio del IX secolo. I lavori, volti al recupero della struttura, iniziano in questi giorni e saranno una vera e propria corsa contro il tempo, per evitare che il prezioso reperto, sepolto presso una fossa di drenaggio, possa danneggiarsi irrimediabilmente: a lanciare l’allarme è stato Jan Bill, curatore del Museo delle Navi Vichinghe di Oslo, che a gennaio aveva rilevato la presenza di funghi e muffe causate da umidità e infiltrazioni d’aria. Gli ultimi scavi completi di navi funerarie vichinghe – quelle di Tune, Gokstad e soprattutto di Oseberg, quest’ultima una delle attrazioni del Museo di Oslo – risalgono rispettivamente al 1868, 1880 e 1904: questa campagna sarà dunque la prima dopo oltre un secolo a potersi avvalere delle piú

moderne tecnologie d’indagine. L’intervento sarà finanziato dal governo norvegese con 15,6 milioni di corone (1,4 milioni di euro circa) e sarà realizzato da un team guidato da Christian Løchsen Rødsrud, direttore del Museo di storia culturale dell’Università di Oslo. Elena Percivaldi In alto: Viksletta (contea di Østfold, Norvegia). Immagine di dettaglio al georadar della nave funeraria di Gjellestad, di cui ha inizio in questi giorni lo scavo A sinistra: un’altra immagine dell’intera area esplorata, acquisita tramite georadar, che ha rivelato molteplici presenze archeologiche, tra cui la nave funeraria di Gjellestad (in verde).

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CHI SARÀ IL PROSSIMO VINCITORE?

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ono state annunciate le 5 scoperte archeologiche che si contenderanno l’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad» 2020, il premio promosso dalla Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum e da «Archeo», e che sarà consegnato il 20 novembre in occasione della XXIII edizione della rassegna. La Borsa e «Archeo» hanno inteso dare il giusto tributo alle scoperte archeologiche attraverso un premio annuale assegnato in collaborazione con le testate internazionali, tradizionali media partner della Borsa: Antike Welt (Germania), Archéologia (Francia), as. Archäologie der Schweiz (Svizzera), Current Archaeology (Regno Unito), Dossiers d’Archéologie (Francia), da quest’anno anche con British Archaeology (Regno Unito), la testata del prestigioso Council for British Archaeology. L’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad» – giunto alla sesta edizione e intitolato all’archeologo di Palmira che ha pagato con la vita la difesa del patrimonio culturale – è l’unico riconoscimento a livello mondiale dedicato al mondo dell’archeologia e in particolare ai suoi protagonisti, gli archeologi, che con sacrificio, dedizione, competenza e ricerca scientifica affrontano quotidianamente il loro compito nella doppia veste di studiosi del passato e di professionisti a servizio del territorio. Il premio sarà assegnato alla scoperta archeologica prima classificata, secondo le segnalazioni ricevute da ciascuna testata. Inoltre, sarà attribuito uno «Special Award» alla scoperta, tra le cinque candidate, che avrà

ricevuto il maggior consenso dal grande pubblico attraverso la pagina Facebook della Borsa (www.facebook.com/ borsamediterraneaturismoarcheologico) nel periodo 1 giugno-30 settembre. Le cinque scoperte candidate alla vittoria della sesta edizione dell’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», sono: • Cambogia: la città perduta di Mahendraparvata, capitale dell’impero Khmer, nella foresta cambogiana, sulle colline di Phnom Kulen a nord-est di Angkor; • Iraq: nel Kurdistan, presso il sito di Faida, a 50 km da Mosul, dieci rilievi rupestri assiri, raffiguranti gli dèi dell’antica Mesopotamia; • Israele: a Motza a 5 km a nord-ovest di Gerusalemme, una metropoli neolitica di 9000 anni fa; • Italia: a Roma la Domus Aurea svela un nuovo tesoro, la Sala della Sfinge; • Italia: nell’antica città di Vulci, una statua etrusca, raffigurante un leone alato del VI secolo a.C. Il Direttore della Borsa Ugo Picarelli e il Direttore di «Archeo» Andreas M. Steiner hanno condiviso questo cammino, consapevoli che «le civiltà e le culture del passato e le loro relazioni con l’ambiente circostante assumono oggi sempre piú un’importanza legata alla riscoperta delle identità, in una società globale che disperde sempre piú i suoi valori». Il premio, dunque, si caratterizza per divulgare uno scambio di esperienze, rappresentato dalle scoperte internazionali, anche come buona prassi di dialogo interculturale e cooperazione tra i popoli. Info: www. borsaturismoarcheologico.it/premio-khaled-al-asaad

Jonathan Adams, responsabile del Black Sea Maritime Archaeology Project, riceve il premio Khaled al-Asaad 2019 per la scoperta nel Mar Nero del piú antico relitto intatto del mondo, alla presenza di Fayrouz, la figlia archeologa di Khaled al-Asaad. a r c h e o 13

i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

INCONTRI Paestum


IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi

UNA SCOPERTA... PESANTE UNA TOMBA DELLA NECROPOLI DELL’OSTERIA HA RESTITUITO UN CORREDO NON PARTICOLARMENTE RICCO, MA DI CUI FA PARTE UN PESO IN PIOMBO. UN RINVENIMENTO PICCOLO, MA IMPORTANTE, PERCHÉ ARRICCHISCE LE NOSTRE CONOSCENZE SUL SISTEMA PONDERALE DEGLI ETRUSCHI

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ecentemente scavata nella Necropoli dell’Osteria, sepolcreto posto a nord dell’area urbana di Vulci, la Tomba del Peso di Piombo presenta una camera di piccole dimensioni ed è localizzata trasversalmente rispetto all’imponente dromos dell’ipogeo n. 31 (ancora da esplorare). L’accesso alla sepoltura in oggetto, infatti, parte da est, con uno stretto corridoio che, attraverso tre differenti salti di quota, permette di raggiungere l’ingresso ricavato sul lato settentrionale del dromos della tomba precedente. Il parziale

L’interno della Tomba del Peso di Piombo con il corredo ancora in situ. Attribuito a un defunto di sesso maschile, il sepolcro, è databile alla seconda metà del VI sec. a.C.

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riutilizzo del contesto piú antico è dimostrato anche dalla quota del piano di accesso alla nuova deposizione, che intacca il livello di obliterazione del corridoio dell’ipogeo monumentale. L’accesso alla camera si è presentato ancora chiuso e parzialmente sigillato con blocchi squadrati e informi, giustapposti tra loro senza legante. Un apprestamento che non ha comunque impedito la lenta formazione, all’interno del vano, di uno spesso livello di infiltrazione, depositatosi fino a toccare il cielo

della camera. Dopo aver rimosso questo strato, sono apparsi gli scarsi resti dell’individuo inumato, deposto in posizione supina sul lato sud, vicino alla parete, e il corredo funerario di accompagno.

UN CORREDO MODESTO Quest’ultimo comprende tredici reperti: un’olla in impasto; un attingitoio in bucchero; una punta di lancia in ferro; un sauroter (il tallone della lancia, utilizzato per bilanciare il peso dell’arma, n.d.r.) in ferro; una lama di coltello in ferro; una oinochoe (brocca da


vino) in bronzo; una oinochoe in bucchero; un kyathos (tazza a un manico) in bucchero; un calice in bucchero; un kantharos (tazza a due manici) in bucchero; un calice (o kantharos) in bucchero; un peso in piombo; un elemento frammentario in bronzo (fibula?). Il livello del corredo sembra alquanto modesto, con pochi oggetti in metallo – tra i quali si distinguono l’oinochoe in lamina di bronzo e il piccolo e raro peso in piombo – e abbondante ceramica in bucchero e impasto. La presenza di una punta di lancia in ferro, da associare al sauroter rinvenuto sul lato opposto dell’ipogeo, permette di ipotizzare la pertinenza della sepoltura a un individuo di genere maschile deposto nel corso della seconda metà del VI secolo a.C. Ma l’interesse principale che gli elementi di corredo suscitano è sicuramente quello inerente alla presenza di un peso in piombo. Nel giro di pochi anni, e precisamente dal 2009, a Vulci, con quello in questione, sono stati rinvenuti ben 3 pesi di questo metallo. Il primo dalla Tomba 4/2009 della Necropoli di Mezzagnone (327,4 gr) e un altro dalla Tomba B/8 ancora nella Necropoli dell’Osteria (13,2 gr).

Pesi in piombo sono stati rinvenuti solo in altri quattro casi: uno a Populonia, due a Vetulonia e uno in una località incerta dell’Etruria Meridionale.

EQUIVALENZE PERFETTE Altri pesi in bronzo e in pietra sono stati invece ritrovati in varie località dell’Etruria (Cerveteri, Siena-Colle Val d’Elsa, Volterra, Vetulonia, PisaLe Melorie, Chiusi, Reggio Emilia, Mantova, Marzabotto, Gonfienti, Poggio La Croce), grazie ai quali alcuni autori si sono cimentati nel

Qui sopra: il peso in piombo che ha dato nome alla tomba scoperta nella Necropoli dell’Osteria. Con i suoi 57,7 gr, potrebbe essere un sottomultiplo della libbra leggera etrusca.

A destra: un’altra immagine della tomba in corso di scavo. In basso, a sinistra: il peso in piombo rinvenuto nella Tomba 4/2009 della Necropoli di Mezzagnone (327,4 gr).

tentativo di risalire alle unità ponderali utilizzate in epoca etrusca. Adriano Maggiani, per esempio, propone, tra gli altri, un peso minimo di riferimento pari a 5,731 gr e una libbra leggera di 286,625 gr, adottata almeno a partire dal VI secolo a.C., come ben dimostra il peso in bronzo di Cerveteri (114,65 gr) corrispondente esattamente a 1/4. A 1/10 (28,6625 gr) della libbra leggera equivalgono sia il peso di pietra di Marzabotto (V secolo a.C.) che quello in bronzo da Volterra (IV secolo a.C.), mentre due pesi in pietra trovati a Gonfienti (VI-V secolo a.C.), risultano assai

prossimi, rispettivamente, al doppio (574 gr) e al triplo (861 gr) della libbra leggera. Sebbene non sia stato ancora liberato delle incrostazioni, il nuovo esemplare da Vulci potrebbe forse essere attribuito sia per il peso (57,7 gr) che per la cronologia, proprio a un sottomultiplo della libbra leggera, rappresentandone all’incirca i 2/10. Probabilmente l’individuo sepolto avrà avuto un ruolo legato alla metallurgia monetale vulcente della metà del VI secolo a.C. anche se le dimensioni della tomba e l’insieme del corredo sembrano escluderne un ruolo di prestigio.


A TUTTO CAMPO Mara Sternini

LA VENERE DI JOUY IN QUESTO 2020, FESTEGGIA I SUOI NOVANT’ANNI L’ARTISTA D’ORIGINE RUMENA DANIEL SPOERRI. PROTAGONISTA, NELLA SUA LUNGA CARRIERA, ANCHE DI UN VERO E PROPRIO PROGETTO «ARCHEOLOGICO»...

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ra le ricorrenze del 2020 vanno certamente ricordati i 90 anni di Daniel Spoerri, artista di fama internazionale ed esponente di spicco del Nouveau Réalisme, una corrente il cui manifesto viene pubblicato nel 1960 dal fondatore Pierre Restany. Di origini rumene, poi naturalizzato svizzero, Spoerri vanta una biografia che esprime un particolare eclettismo artistico: all’inizio ballerino classico, poi coreografo, quindi regista teatrale e infine pittore e scultore. Nel 1968 apre a Düsseldorf il

ristorante Spoerri, nel quale cucina di persona, inaugurando dopo due anni, negli ambienti sopra il locale, la Eat Art Galerie, con cui avvia una linea di ricerca artistica che lo porta alla Eat Art e alla produzione dei tableaux-pièges, i «quadritrappola», composti dai resti dei pasti e dalle stoviglie sporche, incollati su tavole nella stessa disposizione creata involontariamente dai clienti del ristorante, tavole che poi vengono esposte in verticale. Ma che cosa lega questo artista all’archeologia?

L’occasione per l’incontro tra le discipline nasce nel 1983, quando Spoerri decide di allestire una performance intitolata Déjeuner sous l’herbe (Colazione sotto l’erba), citando ironicamente il famoso Déjeuner sur l’herbe (Colazione sull’erba) di Édouard Manet, conservato al Musée

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d’Orsay a Parigi. L’artista intende chiudere il suo periodo dei «quadritrappola» con un’ultima imponente performance; organizza quindi un banchetto nel parco del castello di Montcel a Jouy-en-Josas, nella periferia parigina, allora di proprietà di un amico collezionista.

UN INVITO ECCENTRICO Ai cento invitati, tutti artisti e amici di Spoerri, viene chiesto di partecipare portando con sé stoviglie prelevate dalle proprie case, ma anche altri oggetti personali. A un dato momento, il banchetto viene interrotto e le

tavole, con tutti gli avanzi di cibo e le stoviglie, vengono disposte sul fondo di una trincea lunga 40 m e quindi ricoperte di terra. Nelle intenzioni di Spoerri era già previsto il disseppellimento, da eseguire in un futuro remoto: l’occasione si presenta nel 2010, quando gli archeologi dell’INRAP

(Institut National de Recherches Archéologiques Préventives) organizzano lo scavo di una parte della trincea. Seguendo le procedure di un normale scavo stratigrafico, sotto gli occhi esterrefatti dell’artista, che si stupisce non poco nel vedere gli archeologi impegnati a «fare con serietà qualcosa di assurdo», vengono scavati 6 m della trincea; al termine, viene realizzato un calco della parte dissotterrata, per ricavarne copie in resina e in bronzo. Qualche anno piú tardi il castello di Montcel viene acquistato da una società immobiliare, che ha in programma ristrutturazioni destinate a intaccare la trincea di Spoerri. Nel 2016 si decide quindi, in collaborazione con la nuova proprietà, di scavarla integralmente e di estrarre dalla fossa circa 2 m della lunga tavolata. Il materiale recuperato ha permesso di verificare il processo di deterioramento dei diversi oggetti, rimasti sotto terra per piú di 27 anni, ossia lo spazio temporale di una generazione. È stato cosí possibile osservare che alla conservazione quasi perfetta delle stoviglie in plastica corrispondeva invece la disintegrazione quasi totale delle tavole in truciolato; purtroppo, dal momento che gli invitati erano stati preavvisati che tutti gli oggetti portati al banchetto sarebbero stati interrati, non si è ritrovato nulla di prezioso. Il pezzo piú famoso, certamente non per il suo valore materiale, è uno spazzolino

A sinistra: lo spazzolino da denti ribattezzato Venere di Jouy. Nella pagina accanto: Daniel Spoerri (a sinistra) con i partecipanti al banchetto-performance organizzato nel 1983. Sulle due pagine: un’immagine dello scavo dei resti del banchetto, condotto nel 2010. da denti, ribattezzato Venere di Jouy, per il profilo femminile del manico. Come tutti gli altri reperti, anche questo viene inventariato, classificato e datato tra la fine del terzo quarto e l’inizio del quarto quarto del XX secolo d.C. Ma che senso ha esporre uno spazzolino da denti con le setole consumate come un reperto archeologico? A rispondere è il pittore tedesco Kurt Schwitters (1887-1948), esponente del dadaismo, il quale affermava che se un artista usava i colori fabbricati dall’industria per dipingere le proprie opere, allo stesso modo aveva il diritto di utilizzare in un quadro gli oggetti che trovava, come biglietti usati del tram, pezzi di legno levigati dal mare, cartellini di vestiario, fil di ferro, raggi di bicicletta, bottoni, in una parola tutte le cose vecchie che di solito stanno in soffitta o che si trovano gettate nei cumuli di immondizia. In altri termini, la cultura materiale rappresenta il punto d’incontro tra l’archeologia e una certa parte dell’arte contemporanea: rovistando nella spazzatura, gli archeologi cercano di ricostruire la storia passata e ci insegnano da dove veniamo; questi artisti, invece, recuperando gli oggetti che abbiamo buttato via, ci invitano a riflettere su dove stiamo andando. (mara.sternini@unisi.it)

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

SALVARE, CONSERVARE, RESTAURARE: COME E PERCHÉ?

SCEGLIAMO ANCORA UNA VOLTA LA FORMULA DELL’INCHIESTA «CORALE», IN QUESTO CASO PER CERCARE DI CAPIRE CHE COSA SIGNIFICHI «SALVARE» L’ARCHEOLOGIA E QUALI SIANO LE PRIORITÀ DI QUESTO COMPITO OGGI, MENTRE IL PAESE CERCA MODI E FORME NUOVE PER RIPARTIRE DOPO LO STOP IMPOSTO DALL’EMERGENZA SANITARIA

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priamo la nostra rassegna con Francesco di Gennaro, archeologo da sempre impegnato sul campo, oltre che nella pubblica amministrazione, già Soprintendente del Museo Nazionale d’Arte Orientale e del Museo Pigorini a Roma, poi all’Archeologia della Calabria e dell’Abruzzo, infine Soprintendente Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Nord Sardegna. «Credo che in questo momento sia urgente, ai fini della tutela, o, piú esplicitamente, per non perdere in pochi giorni un’enorme massa di dati archeologici, mandare un messaggio ai responsabili del Ministero dei Beni Culturali. È possibile che l’imprenditoria e i rappresentanti politici, sostenendo l’importanza della ripresa dell’attività edilizia nella nazione, ne propongano (cogliendo con malafede lo spunto dalla crisi economica) un’impennata, riuscendo ad affrancarsi dall’onere dei controlli archeologici. L’unica soluzione a fronte di una malaugurata svolta in questa direzione è che il Ministero stesso

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appronti un pacchetto di nuove procedure per il sostegno all’occupazione nell’ambito dei beni culturali. E forse si dovrebbe giocare d’anticipo, perché balbettare a fronte di decisioni altrui vorrebbe dire perdere tutto». Qual è il rischio piú grande per i nostri beni archeologici, nell’immediato futuro? «Uno dei problemi piú gravi è la mancanza di archeologi sul territorio; oggi è piú difficile esplorare come facevamo dagli anni Sessanta agli Ottanta. Un altro rischio è, appunto, l’intento di scrollarsi finalmente di dosso le indagini preventive. E in proposito c’è un aspetto critico: attualmente i saggi sono obbligatori per le opere pubbliche, ma non per quelle private, che, complessivamente, sono preponderanti per quantità di suolo sottratto per sempre alle ricerche. Bisognerebbe istituire anche in Italia un fondo per finanziare saggi archeologici nei terreni privati in occasione di nuove opere, cosí da non gravare sui proprietari». Beni archeologici sconosciuti che emergono all’interno delle proprietà private potrebbero quindi andare persi per sempre? «Sí. Che non si prevengano e controllino i cantieri privati è grave per l’enorme corrispondente

consumo di suolo, ma anche perché chi edifica sul suo terreno non è tenuto a far entrare gli archeologi e potrebbe manomettere resti archeologici che danno fastidio». Quanta archeologia c’è ancora da scoprire in Italia? «Molta piú di quanto si creda. C’è l’idea diffusa che, dal Settecento in poi, sia stato scoperto quasi tutto. Non è cosí; c’è ancora tantissimo di non visto o sepolto. I musei archeologici non possono basarsi su “collezioni” chiuse e messe al sicuro; devono invece avere rifornimenti continui dal territorio ed essere luoghi di studio e di educazione». Ma quando si può parlare di «scoperta»: nel momento in cui si trova un oggetto o quando se ne interpreta la funzione? «Si definiscono banalmente scoperte archeologiche fatti molto diversi. Una cosa è il ritrovamento materiale, bruto, un’altra l’acquisizione di dati scientifici per la ricostruzione storicoantropologica. Quindi, in un certo senso, i materiali trovati da non addetti o con scavi clandestini non sono scoperte, perché non sono passati al vaglio scientifico dell’archeologo, oltre a essere spesso decontestualizzati. Ci sono, poi, scoperte su oggetti già disponibili, come un’iscrizione


Il Bronzo A di Riace. 450 a.C. circa. Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale.

non notata prima o il colore su una statua; ci sono scoperte fatte in biblioteca dall’archeologo, leggendo e comparando fonti in genere già note. La scoperta ha luogo quando i “reperti” vengono documentati e letti, quindi vidimati dagli archeologi come documenti di storia». E invece, come vengono visti dalla società contemporanea i beni archeologici? «Oggi prevale (di nuovo!) la tendenza a considerarli “beni”, a individuare “capolavori”, che servono per fare cassa: non viene compresa la loro profonda specificità rispetto ad architetture, documenti d’arte e paesaggi. Un’idea ben diversa dall’archeologia vera, che è ricostruzione storica e antropologica attraverso lo studio delle «fonti dirette». Si tratta di un ambito, come scuola e salute, in cui le spese non devono essere compensate da ricavi, perché serve per educare. In ambito archeologico valgono in modo particolare le parole di Giulio Carlo Argan: “I beni culturali non sono di nessuno, e non sono beni. Sono l’oggetto di una ricerca scientifica e la scienza è la struttura della cultura contemporanea”. Per questo, accanto ai messaggi storici e tecnici dei bronzi di Riace, per esempio, dobbiamo spiegare come gli antichi organizzavano il villaggio o realizzavano i vasi per talea, oppure come conservavano gli alimenti». Anche i reperti archeologici trafugati e poi recuperati sono completamente muti… «È vero. Si presentano al pubblico come scoperte archeologiche oggetti recuperati o acquistati dopo il trafugamento. Il cratere di Eufronio, sotto il profilo archeologico, vale meno di un kantharos di bucchero trovato dove non ce lo aspetteremo, o di una fibula maschile trovata in una

tomba di donna. Rimanendo incerti i dettagli del suo ritrovamento alle Greppe di Sant’Angelo a Cerveteri, il capolavoro è un documento di storia dell’arte antica come tanti». C’è poi un paradosso legislativo, da lei già sottolineato, che mette seriamente a rischio i ritrovamenti archeologici… «Alcune modifiche apportate a leggi di tutela che hanno gloriosamente sfidato il tempo sono peggiorative: l’art. 47 della Legge 1089 del 1939, che recitava “le cose ritrovate appartengono allo Stato”, nel Codice Urbani del 2004 è stato modificato in “le cose ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato (art. 91)”. Cosicché monumenti in alzato non ancora noti o censiti, che prima diventavano di proprietà pubblica non appena scoperti, nonché tutti i ritrovamenti di superficie (un coccio, una spada o una statua) diventano di proprietà dei privati detentori dei terreni... un bel regalo!». Quindi, oggi, se si rinvenisse in un campo un elmo di bronzo, per esempio, non sarebbe di proprietà dello Stato, ma del privato? «A rigore sí. E cosí, se a Sovana o a Norchia trovassi una tomba rupestre sconosciuta, oppure il muro di un antico tempio da sempre coperto da fitta vegetazione, non essendo nel sottosuolo, sarebbero del proprietario e non dello Stato. Bisogna correre ai ripari». Che cosa potrebbe – e dovrebbe – fare l’Amministrazione, per scongiurare tutti questi rischi? «Anzitutto ovviare drasticamente al vergognoso deficit del personale. Nelle Soprintendenze mancano geometri, assistenti tecnici, disegnatori, insomma tutto il personale tecnico e di supporto. I numerosi assunti con la Legge 285 del 1977 sono andati in pensione e non c’è stato ricambio.

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PAROLA D’ARCHEOLOGO È stata interrotta la continuità, con uno strappo in parte irrecuperabile. Solo se gli anziani lavorano accanto ai giovani possono tramandare la conoscenza del territorio e della storia sociale. Pesa inoltre sugli archeologi (che non sono ancora riusciti a farsi riconoscere come categoria professionale) la loro tendenziale scomparsa dalle posizioni dirigenziali delle Soprintendenze: l’ultimo dirigente archeologo nominato con un concorso, bandito oltre dieci anni fa, fui io. Da anni, a capo della Direzione Generale del Ministero dei Beni Culturali, che comprende – a mio avviso inopportunamente – anche l’Archeologia, non ci sono piú archeologi ma storici dell’arte o architetti». Sul perché «conservare» il nostro patrimonio culturale, alla luce delle nuove sfide che attendono il Paese, abbiamo intervistato Giuliano Volpe, professore di archeologia presso l’Università «Aldo Moro» di Bari e, da febbraio, Consigliere del Ministro dei Beni Culturali. «Vorrei dare innanzitutto una bella notizia: in questo mese di giugno è finalmente prevista la ratifica della Convenzione di Faro da parte del Parlamento. Oggi piú che mai, anche alla luce dell’emergenza Coronavirus, è attuale lo spirito di quella convenzione, perché affida il compito della tutela non solo a noi specialisti, ma anche alle “comunità di patrimonio”, cioè ai cittadini, coinvolgendoli direttamente nell’attività di valorizzazione e gestione dei beni culturali. Si cerca di passare da una tutela passiva a una attiva, dal basso. Ed è nostro

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compito allargare la platea dei cittadini attivi». Ma come si crea una tutela «attiva»? «Facendo sí che le stesse comunità riconoscano il patrimonio come cosa a cui dare valore. Non si può tutelare una cosa di cui non si ha consapevolezza. La comunità deve comprendere l’importanza dei beni culturali per la propria crescita, vederli come luogo che migliora le condizioni di vita e crea sviluppo, come è già successo nel rione Sanità di Napoli. Qui gli studi piú recenti hanno dimostrato che l’esperimento portato avanti nelle catacombe di S. Gennaro non solo ha dato lavoro a 70 persone: ha creato un’economia valutabile in 33 milioni di euro, dovuta all’indotto di ciò che il rione ha realizzato (una casa editrice, un Bed & Breakfast, attività teatrali, un’orchestra giovanile, una sala di registrazione, una scuola di pugilato). Attività che coinvolgono centinaia di piccoli artigiani, baristi, pizzaioli e piccoli imprenditori». Adesso, nel post emergenza Covid, come cambiano le carte in tavola? «Quel modello ha ancora piú valore. Dovendo ragionare in

termini di turismo diffuso e di prossimità, per moltiplicare le mete ed evitare assembramenti, abbiamo adesso una straordinaria opportunità per ripensare il turismo e il senso del paesaggio culturale in maniera piú lenta e attenta alle singole realtà del territorio. Per far questo, tuttavia, abbiamo bisogno che le varie energie presenti sul territorio possano operare. Questa è la grande scommessa che dovremo affrontare con la lezione del Coronavirus». Quali altre sfide attendono i nostri beni archeologici? «Nel periodo del lockdown, la comunicazione digitale e la multimedialità hanno dimostrato generosità e creatività, ma hanno messo in evidenza i ritardi del nostro Paese. Si investa, allora, nella produzione di contenuti digitali di maggiore qualità, nelle professionalità e competenze necessarie, studiando le diverse esigenze del pubblico. La bulimia del digitale degli ultimi mesi può portare una sovrapproduzione non sempre positiva: bisogna indirizzare meglio

Napoli. Il vestibolo superiore delle catacombe di S. Gennaro, decorato agli inizi del III sec. nel cosiddetto «stile pompeiano».


le tecnologie, per consentire una conoscenza piú approfondita del patrimonio, anche adesso che possiamo finalmente ritornare a frequentare quei luoghi». E quali rischi possono minacciare la tutela del patrimonio archeologico, in questo delicato momento di ripartenza del Paese? «I rischi sono diversi e mi preoccupano. Il timore è che la semplificazione e la giusta velocizzazione dei procedimenti portino a un abbassamento degli standard di tutela. Non si può adottare il “modello Genova” ovunque. Va bene se questo significa ridurre i carichi burocratici e usare le tecnologie, dimezzando i tempi, ma non eliminare le garanzie di tutela». Sull’onda della ripresa delle attività e dell’economia, c’è questo rischio, a suo avviso? «Sí, assolutamente. Ci sono settori della politica e dell’economia che spingeranno per eliminare ogni forma di controllo, di verifica e di garanzia di tutela. Ma sono convinto che si possano e si debbano garantire tempi rapidi e certi investendo nella pianificazione territoriale, urbanistica e nell’archeologia preventiva. Bisogna lavorare sempre piú sul piano della prevenzione per garantire certezza e rapidità di tempi. Guai che la risposta all’emergenza sia “eliminiamo l’archeologia preventiva e i rischi del potenziale archeologico”. C’è anche un altro problema, nel nostro Paese, relativo all’archeologia preventiva: le montagne di inedito di queste operazioni. Non sappiamo quasi nulla di ciò che viene scoperto. Si fanno attività sul campo e si produce una documentazione che rimane esclusivamente negli archivi delle Soprintendenze». Alcuni sostengono l’urgenza di estendere l’archeologia preventiva alle opere private.

Come, a suo avviso? «Un’idea che io rilancio su questo fronte è ampliare l’Art bonus a questo settore: in tal modo il privato che fa ricerche di archeologia preventiva può scaricare il 65 per cento di tasse. Anche quella di un fondo dedicato può essere una buona idea per dare lavoro a dei professionisti, migliorare la conoscenza ed evitare il blocco dei lavori, quando, peraltro, il danno è stato già fatto. Potrebbe essere un modo per salvaguardare il patrimonio e produrre posti di lavoro, come avviene in Francia, dove esiste un fondo nazionale garantito da una tassa di scopo, che finanzia l’archeologia preventiva e tutti gli scavi pubblici e privati». Sottoporrà il problema al Ministro dei Beni Culturali? «Certo, sapendo che è persona sensibile a certi temi. Io credo che nell’era “post Covid” non debba prevalere un eccesso di ritorno di funzioni allo Stato. Penso che lo Stato non debba fare tutto da solo, ma semplificare, sostenere, indirizzare, monitorare e valutare, ma sempre coinvolgendo le forze migliori presenti nel Paese, a partire dal mondo delle università. Mi auguro che si faccia un nuovo accordo con il Ministero dell’Università e della ricerca, sperimentando le cosiddette “unità integrate territoriali” per il patrimonio culturale: strutture miste fra università, centri di ricerca e ministero, che uniscano la formazione dei professionisti. Questo è lo Stato che mi piace e che mi auguro: quello che mette insieme le forze, sfrutta le competenze, sostiene e favorisce l’iniziativa dei singoli cittadini, delle associazioni di imprese, delle piccole cooperative, fondazioni e associazioni. Un intero universo che aspetta solo di essere coinvolto nell’attività di cura e di gestione del nostro patrimonio».

Dopo oltre due mesi in cui i cantieri sono rimasti fermi, l’11 maggio scorso sono ripartite le attività di restauro. Non senza la pressione degli specialisti impegnati sul campo, come Paolo Pastorello, Presidente dell’Associazione Restauratori Senza Frontiere, che ha denunciato un curioso paradosso, che gli chiediamo di spiegare. «I cantieri di restauro nel nostro Paese sarebbero rimasti fermi ancora piú a lungo se non avessimo denunciato l’inganno che ci affligge: i restauratori sono considerati talvolta artigiani (come tali sono iscritti alla Camera di Commercio), talvolta operatori nell’ambito dello spettacolo e intrattenimento. Per questo, nel momento in cui sono ripartite le attività produttive nel Paese, quelle di restauro hanno rischiato di rimanere ferme». Ma che cosa hanno a che fare lo spettacolo o l’intrattenimento con la professione (e con le esigenze) del restauro? «Niente. Eppure, al momento della ripresa delle attività, il mondo del restauro si è trovato nell’impossibilità di ripartire, poiché gli è stato assegnato un codice ATECO (numero che indica il campo di appartenenza di una ATtività ECOnomica) che non gli appartiene affatto, il 90.03.02, e che lo assimila al macro-gruppo R 90, ovvero alle attività artistiche, sportive, di intrattenimento, di divertimento e letterarie». In pratica, le ultime a ripartire dopo l’emergenza Coronavirus… «Esatto. Evidentemente, questo è il risultato della progressiva spettacolarizzazione delle attività nei cantieri di restauro, spesso

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L’anfiteatro della città romana di Luna (Luni), fondata nel 177 a.C. presentati come curiosa attrattiva. Nulla negando all’importanza delle attività ludiche, divertenti, di svago, il lavoro dei restauratori non è spettacolo. Si tratta di una attività super-specialistica: la conservazione dei beni culturali. Lavoriamo con criteri scientifici, per un interesse generale, non facciamo intrattenimento. Non produciamo beni, come gli artigiani, ma ci basiamo su analisi scientifiche al fine di conservare beni di valore storico artistico. Per questo elaboriamo progetti e procedimenti specifici in base al tipo di materiale e all’ambiente di conservazione. Il restauro è una disciplina legata alla scienza, alla diagnostica scientifica, fisica, chimica e biologica, alla storia: non c’è niente di artigianale, né di “divertente”, in senso stretto. E, se vogliamo, non è nemmeno una comune attività letteraria, perché la pubblicazione di un restauro, sebbene di grande interesse, non è un romanzo». E poi c’è un altro paradosso, che vi avvicina al mondo dell’edilizia… «Le imprese di restauro, nelle gare d’appalto, sono spesso invitate a operare nell’ambito di attività dell’edilizia, sebbene il restauro sia, come ho già detto, un’attività superspecialistica. Quando opera, un

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restauratore non costruisce, ma conserva l’esistente. Per esempio, nel restauro dell’anfiteatro di Luni o dell’Arena di Verona (ai quali ho lavorato), le parti deteriorate non sono state demolite, ma consolidate e rese piú stabili. L’impresa edile, invece, sostituisce il vecchio con il nuovo. È paradossale che, negli appalti, siamo spesso gestiti da imprese edili: siamo obbligati a partecipare in gara in associazione temporanea con imprese di costruzione, le quali, svolgendo il ruolo di capogruppo, gestiscono i flussi economici degli appalti. Accade molto spesso, inoltre, che vengano sbagliate le categorie delle lavorazioni e che, per esempio, 2700 mq di intonaci vadano erroneamente in gara per essere demoliti, anziché consolidati, e che la demolizione sia affidata, inspiegabilmente, a imprese di restauro conservativo». E questo è un danno soprattutto per il nostro patrimonio archeologico… «In Italia, la tutela del patrimonio è prescritta dall’articolo 9 della Costituzione. È strano che il nostro Paese, che ha sentito la necessità per primo al mondo, nel 1974, di dotarsi di un ministero dedicato ai – anzi “per” – i Beni Culturali, non si applichi nel creare un ambito

normativo specifico che protegga i beni e gli operatori del restauro. A livello normativo, nell’ambito dei tre campi “lavori, forniture e servizi”, le attività di restauro rientrano nei “lavori”: ma non sono, a parer mio, esattamente questo. Quando ho lavorato al restauro della Cappella della Sacra Sindone a Torino, a venti anni dall’incendio del 1997, sono state restaurate le superfici danneggiate dal fuoco: pulire e consolidare una pietra combusta è un lavoro di conservazione scientifico e altamente specializzato. Che si basa su indagini preliminari, con tempi e costi molto variabili, dipendenti dal materiale e dal suo stato di conservazione. Il restauro, inteso come conservazione, necessita di un ambito di intervento specifico, definito come “conservazione dei beni culturali”, in aggiunta alle categorie dei “lavori, forniture e servizi”. Inoltre, le regole del gioco non possono essere quelle del minor prezzo e della maggiore velocità di esecuzione, come accade per l’edilizia». Perché, anche per il restauro di un monumento antico vince l’impresa che costa meno e lavora piú velocemente? «Sí. Noi restauratori ci troviamo a partecipare a gare all’offerta economicamente piú vantaggiosa, cosa che è un’assurdità per la conservazione. Siamo obbligati a fare sconti al massimo ribasso, a ridurre i tempi – perché questo premia – e a produrre un progetto migliorativo: ma gratis, perché nessuno paga per la migliore progettazione. Questo non è soltanto sbagliato, è immorale. Lo Stato approfitta delle capacità delle imprese di restauro. Sulla pelle di chi? Dei beni culturali. E dei restauratori, che non sono né comici, né trapezisti, e, cosí facendo, potrebbero sparire nel giro di pochi anni, Covid a parte».


MOSTRE Italia

UN NUOVO INIZIO

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ei giorni in cui questo numero di «Archeo» è stato mandato in stampa, il governo italiano ha varato le misure che hanno consentito, fra l’altro, la riapertura di musei e aree archeologiche. Tuttavia, la situazione non poteva ancora dirsi normale ed è per questo che, ancora una volta, abbiamo preferito rinunciare alla pubblicazione del nostro consueto Calendario. Qui di seguito, riportiamo dunque un elenco, che speriamo possa presto arricchirsi, delle mostre di cui sono state confermate la riapertura, la proroga o l’inaugurazione. Come sempre, per ulteriori aggiornamenti, vi invitiamo a utilizzare anche il nostro sito web, che troverete totalmente rinnovato e arricchito (www.archeo.it) e gli altri canali social della rivista: Facebook @archeo. attualitadelpassato, Instagram @archeo_rivista, Twitter @_archeo

DOVE E QUANDO «Civis, Civitas, Civilitas. Roma antica modello di città» Roma, Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 6 settembre «Aspettando l’Imperatore Monumenti, Archeologia e Urbanistica nella Roma di Napoleone, 1809-1814» Roma, Museo Napoleonico prorogata fino al 25 ottobre «Colori degli Etruschi. Tesori di terracotta alla Centrale Montemartini» Roma, Centrale Montemartini fino al 1° novembre «Ulisse. L’arte il mito» Forlí, Musei San Domenico prorogata fino al 31 ottobre «Viaggio oltre le tenebre Tutankhamon Real Experience» Milano, Palazzo Reale fino al 30 agosto

«Thalassa, meraviglie sommerse dal Mediterraneo» Napoli, Museo Archeologico Nazionale prorogata fino al 21 giugno «Lascaux 3.0» Napoli, Museo Archeologico Nazionale prorogata fino al 2 luglio «L’anima delle cose Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium» Oderzo, Palazzo Foscolo-Museo Archeologico Eno Bellis prorogata fino al 9 agosto «L’Egitto di Belzoni Un gigante nella terra delle piramidi» Padova, Centro Culturale Altinate San Gaetano fino al 28 giugno

«Sotto il cielo di Nut. Egitto divino» Milano, Civico Museo Archeologico fino al 20 dicembre «Gli Etruschi e il MANN» Napoli, Museo Archeologico Nazionale dal 12 giugno

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ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

AI CONFINI DELL’IMPERO In questo numero e nel precedente, Maria Aurora Salto von Hase ha illustrato la storia e la funzione del limes dei Romani, ripercorrendone l’intera vicenda, 1 2 dal suo sorgere fino alla sua quasi totale scomparsa in parallelo con il disfacimento dell’impero romano. Ecco dunque la consueta scelta di pezzi filatelici, che, in questo caso, illustrano alcuni dei molti luoghi citati nei due articoli. Come spiega l’autrice, il limes era stato originariamente concepito come strumento di 4 controllo e di contenimento delle popolazioni confinanti e, quando occorreva, anche per la 3 conquista di terre ostili. Col tempo e con l’aumentare dei contatti, anche commerciali, con le popolazioni locali, si trasformò da accampamento leggero e molto mobile, fatto 5 di semplici tende, in presidio composto da 6 costruzioni di legno con palizzate (1, poste locali) e infine in muratura, fino ad arrivare a complessi imponenti, quale doveva essere il castrum della Saalburg, ricostruito alla fine del 1800 e riprodotto su un foglietto del 2007 (2), che evidenzia anche l’intero percorso del limes germanico-retico, il piú importante dell’intero sistema difensivo dei 7 8 confini dell’Europa centro-settentrionale. La dimostrazione è data dalle tante testimonianze archeologiche trovate lungo il suo tracciato di oltre 500 km (3); l’annullo del 2007 riporta le stazioni intermedie, molte delle quali hanno ricevuto ricordi filatelici: annullo di Lorch (4; torre di avvistamento), affrancatura meccanica di Aalen con l’importante 10 Museo a tema (5) e cartolina postale che mostra il 9 Praetorium della Saalburg raffigurato in stile bucolico (6). Ancora in Europa centrale vengono citate Treviri (7, la Porta Nigra) e Carnuntum in Austria (8); Bosra (9) posizionata sulla via Traiana Nova, lungo il limes Arabicus in Medio Oriente. Quando i territori erano protetti da barriere naturali, i Romani non costruirono alcun limes, ma disposero 11 solo guarnigioni e insediamenti. Cosí fu per il Nord Africa, dove, oltre la fascia costiera, c’era solo il 12 deserto, e quindi nessuna necessità di difesa, ma solo di protezione delle riserve d’acqua, e come IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di anche per la penisola Iberica, protetta dall’Oceano, Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi dove, lungo la via Augusta, sorsero le colonie di altro tema, ai seguenti indirizzi: Augusta Emerita (10, oggi Mérida), Saragozza (11), Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, Barcellona e molte altre ancora. Diversa fu la Via Tavanti, 8 C.P. 17037 situazione in Britannia, dove, per tenere a bada le 50134 Firenze Grottarossa popolazioni del Nord, vennero costruiti il Vallo di info@cift.it, 00189 Roma. oppure lcalenda@yahoo.it; www.cift.it Adriano (12) e poi quello di Antonino.

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I TO H A S C S S PA U R AL T E CI D

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca.

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TESTATINA BOX

Titolo box

GLI ETRUSCHI SI RACCONTANO

I Romani fecero ricorso all’acqua ad alta pressione per frantumare la roccia e rimuovere i sedimenti per la prima volta in Spagna e nel Galles, nelle miniere aurifere di Dolaucothi, definendo tale sistema, non senza ragione, ruina montium (vedi «Archeo» n. 294, agosto 2009). Essa costituisce ancora oggi una forma di estrazione mineraria, sebbene molti Stati l’abbiano vietata per i permanenti danni ambientali che provoca. Nella Gran Bretagna venne usata in età elisabettiana, nella seconda metà del Cinquecento, per le coltivazioni di piombo, stagno e rame. In età moderna l’energia idraulica venne utilizzata nella metà dell’Ottocento durante la corsa all’oro nelle coltivazioni minerarie in California, presso Nevada City. Verso la di giuseppe m. della fina metà degli anni Ottanta del XIX secolo, dopo soli 30 anni di impiego, si calcola che l’applicazione dello scavo a getto d’acqua abbia fruttato circa 311 850 kg d’oro, per un valore attuale intorno ai 7,5 miliardi di dollari. L’impiego di questa tecnica ha tuttavia devastato l’ambiente e l’agricoltura della California, con effetti ancora evidenti dopo oltre un secolo. milioni dimisterioso», tonnellate di sedimenti prodotti, che si grazie sono depositati a li Etruschi hanno a lungo goduto dell’aura diI«popolo anche se, soprattutto alle causa delle possibile escavazionidimostrare nel letto deicome fiumi, hanno modificato l’alveo scorrimento e acquisizioni degli ultimi decenni, è stato la maggior parte deglidienigmi laprobabilmente portata dai corsi d’acqua, provocando tuttora frequenti e gravi inondazioni. Queste fossero in realtà solo presunti e dettati dall’assenza di una documentazione letteraria ottocentesche hanno dato vita scrissero a un paesaggio visibile nel Parco storico paragonabile a quella dei Grecicoltivazioni e dei Romani. I quali, in compenso, molto a proposito della piú statale di Malakoff a Nevada County, non dissimile da quelloche prodotto dai importante e potente fra le genti dell’Italia preromana: ed Diggins, è proprio attingendo a quelle testimonianze Romani a LasdiMédulas, nella comunità autonoma di Castiglia e Leóninfatti (Spagna). Giuseppe M. Della Fina ha costruito la Monografia «Archeo» che qui presentiamo. L’idea è stata quella di ripercorrere le tappe salienti della storia etrusca in forma di racconto, attraverso le vicende personali di una quindicina di uomini e donne, celebri e non. Una carrellata di biografie accompagnata dalla descrizione dei luoghi che furono teatro dei fatti di volta in volta narrati e nei Titolo finto dida box DOVE E QUANDO quali possiamo ancora oggi ritrovarne le tracce. Mus inullac eaquam aspellandi dicto imus, con repel iur, tempedic Museo Xxxxx Xxxxxx GLI ARGOMENTI tempos andit ulpa est et versper Roma, Largo di Villa Peretti 1 estions erovid essitat ecearum • I PERSONAGGI Orario tutti i giorni, 9,00-19,45; volo dus etur? Quibus rehenti • Tanaquilla, Larth Cupures, Vel, Larth, Velia, Porsenna, Spurinna, chiuso lunedí, il 1° Velthur gennaio e il 25 ditius doloritamet alis ipsant Thefarie Velianas, Arnth, Lars Tolumnio, Arrunte, Aule, Vel Saties, Aule dicembre facero ipsumet ellest magniet ma Velthina, Un Sannita, Aulo Cecina, InfoUneetruscologo visite guidate tel. 06 exped qui. 39967700; • I TEMPI E I LUOGHI www.pierreci.it; • Tarquinia, Orvieto, Cerveteri, Accesa, Vetulonia, Murlo, Chiusi, Vulci, http://archeoroma.beniculturali.it/ Veio, Cortona, Perugia, Volterra

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CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli

IL RESTAURO SI PRENDE LA SCENA UN PROGRAMMA DI FINANZIAMENTO EUROPEO HA PREMIATO L’IMPEGNO DELLA GRECIA PER LA VALORIZZAZIONE DEL TEATRO GRANDE DI LARISSA. STRAPPATO AL DEGRADO E ALL’ABBANDONO, IL MONUMENTO STA RIACQUISTANDO LA MAGNIFICENZA ORIGINARIA ED È TORNATO A VIVERE

I

l patrimonio culturale può essere amato, studiato, valorizzato, talvolta strumentalizzato e, come purtroppo abbiamo visto troppe volte negli ultimi anni, perfino vituperato e distrutto. Ma può anche essere premiato, com’è accaduto, alla fine di aprile, a un monumento poco noto in Grecia e ancor meno al di fuori del Paese: il teatro grande di Larissa, in Tessaglia. Un teatro costruito nella prima metà del III secolo a.C. e in uso, tra varie vicissitudini, per oltre sei secoli, vale a dire fino alla fine del III o agli inizi del IV secolo d.C. Un vero e proprio gioiello, al quale è stato assegnato un prestigioso riconoscimento nell’ambito del

programma europeo FINCH (Financing impact on regional development of cultural heritage valorisation): un programma, insomma, che ha lo scopo di incentivare pratiche virtuose di valorizzazione del patrimonio culturale a livello regionale.

UNA BRUSCA INTERRUZIONE I lavori di scavo, restauro e valorizzazione del teatro grande di Larissa sono il risultato di molti anni di meticoloso impegno. Gli scavi iniziati nel 1985 per sottrarre il monumento all’urbanizzazione incontrollata che lo aveva soffocato furono infatti di

breve durata e dovettero essere interrotti a causa delle ingenti risorse economiche necessarie per l’esproprio dei terreni circostanti e per sostenere, oltre alle indagini sul campo, lo studio, il restauro e la messa in sicurezza del teatro. Risorse che non erano certo alla portata del modesto bilancio della Soprintendenza alle Antichità della Tessaglia. Un primo, decisivo, passo in avanti venne fatto nel 1999: il progetto fu inserito nel secondo pacchetto di finanziamenti europei e i lavori poterono procedere spediti per due anni. Nuove risorse affluirono nel 2002, quando la terza tranche di fondi europei permise agli enti coinvolti A sinistra: Larissa (Tessaglia). Un momento dei lavori di restauro condotti nel teatro grande. Nella pagina accanto, in alto e al centro: due immagini del teatro, cosí come si presenta oggi, dopo i lavori di scavo e restauro.

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(Soprintendenza alle Antichità della Tessaglia e Commissione per il Teatro di Larissa) di lavorare alacremente fino al 2009. Nel 2012, quando è stato concesso un altro finanziamento europeo, nel teatro ha potuto finalmente avere inizio un programma quadriennale di restauri che ha conferito al monumento una nuova immagine: tutto ciò sotto gli occhi degli abitanti di Larissa, che pian piano hanno adottato questo teatro e lo hanno accolto nella quotidianità della città. L’ultimo finanziamento europeo, arrivato l’anno scorso, sarà assorbito entro il 2023: si prospetta, dunque, un altro quadriennio di lavori e restauri, ma anche di valorizzazione di un monumento che, distrutto da un terremoto nel VII secolo d.C., è rimasto sepolto per 13 secoli, ma ha conservato, sotto una spessa coltre di depositi, gran parte delle strutture architettoniche e dell’apparato decorativo.

UN MODELLO DA REPLICARE Esempio di pratica virtuosa a livello regionale, il progetto attuato nel teatro grande di Larissa è frutto non Qui accanto: una foto degli scavi avviati nel 1985, ma subito sospesi per mancanza di fondi. All’epoca, come si vede, sul teatro incombevano deturpanti costruzioni moderne.

Larissa

Mare Egeo

GRECIA Atene

Mar Ionio

solo di un impiego avveduto di fondi europei (oltre 10 milioni di euro), ma anche, e soprattutto, di una sinergia preziosa, in cui la Soprintendenza ha potuto avvalersi della cooperazione di altri enti: il Comune di Larissa (che ha generosamente finanziato lo studio del monumento), la Provincia della Tessaglia, l’Azienda Comunale per l’Acqua Potabile, la Fondazione Kanellopoulos, la Fondazione JMKaplan e l’associazione «Diazoma», che hanno contribuito

per un totale di circa 2 milioni di euro. Il prestigioso riconoscimento ottenuto dal teatro di Larissa non solo rende giustizia all’importanza di questo monumento per il patrimonio culturale antico, ma dimostra anche ciò che si può ottenere grazie a una collaborazione effettiva: un risultato tangibile, per il quale sono state messe in campo diverse fonti di finanziamento, tra cui donazioni private e crowdfunding, un terreno, per la Grecia, ancora poco esplorato e oggetto di critiche da parte di alcuni. Il risultato, a quanto sembra, è degno di menzione: e allora, va forse presa seriamente in considerazione la possibilità di continuare pratiche simili, soprattutto per valorizzare il patrimonio archeologico, un ambito per il quale le risorse sono sempre, purtroppo, molto esigue.

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LA DEMOCRAZIA NEL CUORE Louis Godart

IL VASAIO PACIFISTA MAESTRO DELLA PITTURA VASCOLARE, EUFRONIO SCELSE UNO DEI SUOI MASSIMI CAPOLAVORI PER LANCIARE UN VIBRANTE MESSAGGIO CONTRO LA GUERRA

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ra i capolavori restituiti all’Italia e oggetto della mostra «Nostoi. Capolavori ritrovati» allestita nel 2007 nelle sale dell’Ala Sista del Quirinale, spiccavano due opere di straordinario valore che

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portano la firma di Eufronio. La prima è una kylix attica a figure rosse con scene della presa di Troia da parte dei Greci. Il vaso, che si trovava al J.Paul Getty Museum di Malibu, è stato restituito all’Italia

nel 1999 dopo che gli scavi in località Sant’Antonio ne hanno dimostrato, con il ritrovamento di altri due frammenti combacianti, la provenienza da Cerveteri. Databile al 500-490 a.C., la kylix è firmata da


Sulle due pagine: il magnifico cratere a calice attico a figure rosse plasmato da Eussiteo e dipinto da Eufronio. 510 a.C. Cerveteri, Museo Nazionale Archeologico Cerite. In questa pagina, giovani ateniesi indossano le armi prima della battaglia; nella pagina accanto, il trasporto del corpo di Sarpedonte, eroe che combatté a fianco dei Troiani e venne ucciso da Patroclo.

Eufronio come vasaio e attribuita a Onesimo come ceramografo. La seconda è lo straordinario cratere a calice attico a figure rosse con il trasporto del corpo di Sarpedonte. Firmato da Eussiteo come vasaio e da Eufronio come ceramografo, è databile intorno al 515 a.C. Conservato dal 1972 al Metropolitan Museum of Art di New York, il vaso proveniva dal saccheggio, avvenuto nel 1971, di una tomba etrusca nella zona di Cerveteri. Il museo l’aveva acquistato per un milione di dollari da un commerciante americano, Robert Hecht Jr., che aveva dichiarato di averlo ottenuto da un mercante libanese, Dikran Sarrafian. Le successive indagini hanno invece evidenziato che costui l’avrebbe acquistato nello stesso 1972 da Giacomo Medici, un mercante d’arte italiano, già condannato nel 2004 per aver venduto oggetti d’arte rubati.

In seguito a un accordo firmato nel 2006, la proprietà del reperto è stata restituita all’Italia, dove esso è definitivamente tornato nel 2008. Oltre alle firme degli autori, il vaso reca l’iscrizione «Leagros kalos», ovvero «Leagro il bello», che ha fornito un prezioso elemento per la datazione del reperto, poiché l’adolescenza di Leagro, un personaggio storico ateniese considerato come uno dei piú bei fanciulli greci del suo tempo, è da collocare nel decennio 520-510 a.C.

UNA FAMA INDISCUSSA Eufronio sta alla pittura greca della tarda età arcaica come Leonardo o Raffaello stanno a quella del Rinascimento. Nato forse ad Atene intorno al 540 a.C. e lí deceduto verso il 470, Eufronio appartiene alla prima generazione di pittori che decorarono i vasi nella tecnica a figure rosse, i cosiddetti «pionieri». In un’iscrizione proveniente

dall’Acropoli di Atene, su un monumento da lui dedicato, viene ricordato come «il vasaio». Nelle sue opere, perfette sul piano esecutivo e dalle forme eleganti, Eufronio predilige soggetti impegnativi, raggiungendo una monumentalità compositiva ineguagliata. Si conoscono circa cinquanta vasi dipinti o plasmati dall’artista, di cui una ventina firmati; famosi sono un cratere con Eracle e Anteo attualmente al Louvre, il cratere con Sarpedonte, restituito all’Italia, e una coppa con cavaliere oggi custodito presso le Antikensammlungen di Monaco di Baviera. La tecnica a figure rosse, di cui Eufronio è l’esponente forse piú illustre, comprende figure su sfondo dipinto con vernice nera, alle quali sono aggiunti particolari con vernice nera piú diluita. Lo stile naturalistico delle rappresentazioni, con scorci e spazio illusionistico, è

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una delle caratteristiche proprie dei ceramografi del gruppo dei «pionieri» dell’epoca tardo-arcaica. La scelta di unire scene storiche a vicende mitologiche sullo stesso vaso e con lo stesso stile, crea un legame tra l’attualità e il mito. Eufronio e tutti i grandi pittori greci dell’età tardo-arcaica conoscevano Omero e l’Iliade, e sapevano chi era Priamo, quali fossero le sue qualità e la sua dolcezza. Sulla kylix il pittore raffigura il vecchio sovrano rifugiato nel tempio di Zeus Herkeios (protettore della casa). Vedendo la sua Troia invasa dai soldati greci, Priamo aveva ritenuto che, riparando nel tempio di Zeus, protetto dalle leggi degli dèi e degli uomini, avrebbe avuto vita salva. Si era illuso. Neottolemo, il figlio di Achille, dopo aver ucciso il piccolo Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca, ha forzato le porte del tempio e usato il cadavere inerte del bambino come una clava per uccidere il vecchio davanti agli occhi inorriditi di sua figlia Polissena, che porta la mano

sinistra ai capelli. Un altro personaggio famoso della saga troiana, Cassandra, figlia di Priamo e di Ecuba e sacerdotessa di Apollo, si è rifugiata a sua volta in un luogo sacro. La vediamo nel fregio che si sviluppa intorno al tondo abbracciata al Palladio sacro ad Atena, mentre Aiace Oileo la trascina con un braccio e si appresta a usarle violenza.

Nella pagina accanto: l’interno di una kylix a figure rosse plasmata da Onesimo e dipinta da Eufronio, con l’immagine di un cavaliere, da Vulci. 500-490 a.C. Parigi, Museo del Louvre.

In basso: particolare di un cratere a calice attico a figure rosse dipinto da Eufronio nel quale compare la lotta fra Ercole e Anteo, da Cerveteri. 515-510 a.C. Parigi, Museo del Louvre.

UNA FERMA CONDANNA Eufronio, pittore greco, utilizza quella che era considerata la piú grande vittoria conseguita dai Greci, la presa di Troia, per sottolineare la barbarie della guerra e condannarla. La guerra non rispetta nulla, neanche le piú sacre leggi divine e umane, quelle che consentono a chi si è rifugiato in un santuario di avere salva la vita. Sul cratere restituito dal Metropolitan all’Italia compaiono due scene. La prima mostra alcuni giovani ateniesi raffigurati mentre indossano le armi prima della battaglia. I volti dei giovani sono

sereni. Chiaramente sono felici di scendere in campo e andare a combattere per la loro città, la polis. La seconda scena illustra un episodio della guerra di Troia, e precisamente la morte di Sarpedonte. Schierato a fianco dei Troiani, l’eroe comandava le truppe licie. Valoroso in battaglia, uccise il re di Rodi, Tlepolemo, partecipò allo scontro presso le navi, dove brillò per coraggio. Insieme agli altri comandanti troiani portò soccorso a Ettore ferito. Affrontò Patroclo, che indossava le armi di Achille, ma riuscí soltanto a uccidere l’unico cavallo mortale del Pelide, Pedaso, finendo egli stesso trafitto dalla lancia dell’eroe greco. Il dio Hermes, nella sua funzione di messaggero di Zeus e conduttore delle anime dei morti, guida le personificazioni del Sonno (Hypnos) e della Morte (Thanatos) che trasportano il corpo dell’eroe caduto nella sua patria, la Licia, per il funerale. Al termine del rito, dopo l’incinerazione del cadavere, Hermes potrà finalmente traghettare l’anima di Sarpedonte nell’Ade, il mondo terribile degli inferi, dove non c’è luce e dove anche il piú valoroso dei guerrieri che sembra regnare sulle anime dei morti, Achille, confessa che preferirebbe essere l’ultimo dei servi nella casa di suo padre piuttosto che il re delle anime morte. Eufronio sembra lanciare un messaggio assai esplicito: ai giovani, che si apprestano felici ad andare a combattere, ricorda che l’altro volto della guerra è la morte e la disperazione. Sarpedonte era un giovane forte e brillante come loro, ma scendendo in campo ha trovato soltanto la rovina. Dalla kylix che descrive gli orrori della guerra al cratere che sconsiglia di andare a combattere, il messaggio politico di Eufronio è evidente: la guerra va condannata in assoluto perché portatrice di sofferenze e di lutti.

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REPORTAGE • IRAQ

MISSIONE A HATRA

SONO PASSATI TRE ANNI DALLA CADUTA DEL CALIFFATO ISLAMICO IN IRAQ. TANTO CI È VOLUTO PERCHÉ UNA MISSIONE DI ARCHEOLOGI, RESTAURATORI E ARCHITETTI ITALO-IRACHENI POTESSE RAGGIUNGERE, UN CENTINAIO DI CHILOMETRI A SUD-OVEST DI MOSUL, HATRA, SITO ARCHEOLOGICO CHE L’UNESCO HA DICHIARATO PATRIMONIO DELL’UMANITÀ, VANDALIZZATO DAI MILITANTI JIHADISTI. ECCO UN PRIMO REPORTAGE, IN ESCLUSIVA PER «ARCHEO» di Stefania Berlioz

Hatra. La facciata del cosiddetto «Grande Tempio» («Main Temple»), il piú imponente dei corpi di fabbrica del santuario hatreno, caratterizzato da una successione di iwan, sale rettangolari coperte a volta e con il lato breve frontale completamente aperto, di tradizione iranica. 32 a r c h e o


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REPORTAGE • IRAQ

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an mano che ci si allontana da Mosul, base della nostra missione, il paesaggio si fa sempre piú arido e brullo. Siamo nel settore iracheno della Giazira («isola» in arabo), vasta distesa pianeggiante racchiusa dal corso del Tigri e dell’Eufrate e, a settentrione, dalle pendici del

Jebel Sinjar. Una regione semidesertica, a carattere stepposo, rimasta ai margini dei grandi fenomeni insediativi che hanno interessato, nel corso dei millenni, le valli fluviali che la delimitano. Percorriamo la strada costruita da Saddam Hussein per collegare Mosul alla capitale, Baghdad. C’è

Qui sotto: l’interno del Grande Iwan Nord. In basso, sulle due pagine: un tratto delle mura di Hatra, scandite da imponenti torri quadrangolari.

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piú vita su questa striscia di asfalto che non ai suoi lati: file di camion, convogli militari, auto civili, piccoli assembramenti umani che, in attesa del passaggio di un autobus, si scaldano dando fuoco a pneumatici abbandonati. A dividere le due carreggiate di percorrenza non è un guardrail, ma un accumulo quasi ininterrotto di terra e macerie, tra le quali spuntano ricoveri improvvisati. Vi fanno capolino bambini, anche molto piccoli, che offrono the ai viaggiatori, versandolo in minuscoli bicchieri di vetro. Tutto intorno è quiete. A dar vita al paesaggio sono villaggi sparsi, molti costruiti in terra cruda. Sembrano piccoli insediamenti fortificati, con quella linea continua di mura che li circonda e le case affacciate su cortili interni, all’orientale. Vi abitano raggruppamenti familiari piú o meno estesi, facenti capo a una qualche tribú araba. Rowaed, collega archeologo e anima della missione, di queste tribú conosce tutti i nomi, e la storia. Beduini nomadi, raggiunsero queste terre nella seconda metà dell’Ottocento, per poi sedentarizzarsi (o semi-sedentarizzarsi) progressivamente. Solo alcuni gruppi familiari hanno mantenuto le antiche tradizioni, e ancora oggi si spostano, greggi e tende al seguito, lungo i percorsi della transumanza.


Il paesaggio Il paesaggio stepposo della Giazira, nei dintorni di Hatra. Al centro, il corso dell’Uadi Tharthar con, in primo piano, i resti di un pilone dell’antico ponte che lo attraversava.

Il paesaggio odierno, caratterizzato dalla compresenza e interazione tra comunità sedentarie e comunità nomadi, non doveva essere molto dissimile da quello dei primi tre secoli della nostra era, periodo in cui Hatra – citta araba alla frontiera tra impero romano e partico – raggiunse il suo massimo sviluppo, conquistandosi un posto nella storia.

L’EQUILIBRIO SI SPEZZA Nel I secolo d.C. il corso dell’Eufrate fungeva da confine tra impero romano e regno dei Parti, retti dalla dinastia degli Arsacidi. Un confine sostanzialmente stabile, nonostante i continui attriti: entrambe le parti erano consapevoli che una politica di conquista territoriale a danno dell’avversario era praticamente impossibile. Questo equilibrio giunge a una rottura nel 114 d.C., con l’inizio delle campagne partiche di Traiano. Dopo la conquista di Ctesifonte, capitale partica sulla riva del Tigri (216 d.C.),Traiano «si spostò in

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REPORTAGE • IRAQ

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Arabia e iniziò le operazioni contro il popolo di Hatra, poiché anche loro si erano ribellati. Questa città non è né grande né prospera, e il paese circostante è per lo piú deserto e non ha né acqua né legname né foraggio» (Cass. Dio 68.31, 1). Hatra, piccolo regno indipendente retto da una dinastia locale di mry’ («signori»), e gravitante in orbita partica, resiste all’assedio di Traiano. L’impresa viene nuovamente tentata, nel 198 d.C., da Settimio Severo. Hatra mette in campo tutte le sue difese, compresa l’impetuosa cavalleria araba, e l’esercito romano, per la seconda volta, è costretto a ripiegare. Questa volta la città è descritta come un luogo che «godeva di grande fama, contenendo come fece un vasto numero di offerte al dio del sole, nonché enormi somme di denaro» (Cass. Dio 67.12, 2.). Nel periodo tra i due assedi – all’inizio e alla fine del II secolo d.C. – Hatra raggiunge l’apice della sua prosperità. I signori locali acquistano lo status di re (mlk’), e la città diviene capitale del regno degli Arabi, fungendo da intermediaria tra lo Stato arsacide e le tribú nomadi della regione.

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Interrompiamo la lettura di Cassio Dione, che ci ha guidato nel nostro cammino. Abbiamo raggiunto l’Uadi Thartar, che le piogge insistenti di gennaio e febbraio hanno gonfiato d’acqua. Scorgiamo un guado, e il pilone di un antico ponte, costruito

Ku wa i t

Golfo Persico/ Golfo Arabico

in blocchi squadrati di pietra. Siamo vicini alla nostra meta. Hatra si erge come un faro «nell’isola» della Giazira. Benché mutilate dal tempo, le rovine dei suoi edifici sacri si impongono all’orizzonte, quale invito ai pellegrini e monito


agli invasori. Il nome della città, attestato in numerose iscrizioni in aramaico (la lingua di ceppo semitico propria delle genti che popolavano e transitavano questa regione), significa recinzione, steccato. Uno «spazio interno» definito e ordinato rispetto all’indefinito e caotico «spazio esterno» del deserto. La natura di questo recinto, e il carattere stesso della città, è plasticamente reso nelle effigi monetali: la testa radiata di Shamash corredata dall’iscrizione htr’ d šmš, ovvero Hatra di Shamash, il «Recinto del Sole».

tegrazione politica, tra «il dentro e il fuori», tra popolo sedentario e nomadi arabi. La strada che percorriamo lambisce le mura della città, costruite su basamenti in pietra calcarea ed elevati in grigio mattone crudo. Una massiccia fortificazione circolare di 6 km circa, attraversata da quattro porte urbiche e scandita da oltre 120 torri e bastioni. Il nostro con-

voglio rallenta, ci si para innanzi – volto coperto e armi in braccio – una moltitudine di soldati. Sembra quasi materializzarsi l’esercito sasanide di Shapur che, dopo quattro anni di assedio, riuscí a conquistare Hatra (241 d.C.). I soldati che ci accolgono non sono invasori, ma difensori: appartengono alle milizie sciite al-Hashd ashSha’bi (Forze di Mobilitazione Po-

L’INCONTRO FRA DUE MONDI Sorta in un angolo di deserto in cui erano disponibili preziose risorse idriche, naturale punto di incontro per i nomadi che attraversavano la steppa della Giazira tra Eufrate e Tigri, Hatra accresce il suo ruolo di centro commerciale per gli scambi locali e regionali tra nomadi e sedentari attraverso il prestigio del proprio santuario. All’ombra di questo complesso sacro, popolato da divinità di cui ancora ci sfugge il profilo, si realizza l’incontro, e l’inIn alto: l’accampamento dei soldati delle milizie sciite di al-Hashd ashSha’bi all’interno del Grande Temenos di Hatra. A sinistra: Stefano Campana, condirettore della missione, insieme ai soldati. Nella pagina accanto: Matteo Sordini e Rowaed al-Lyla al lavoro con la stazione totale.

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polare), le stesse che il 26 aprile del 2017 hanno liberato Hatra dal giogo del califfato nero. L’area archeologica è presidiata, sia all’esterno che all’interno. È questa l’ultima roccaforte sicura prima del deserto che si apre verso sud e verso ovest, sino ai confini con la Siria, ancora infestato da cellule jihadiste dell’ISIS. Dopo i saluti di rito, le milizie sciite ci guidano dentro la città. Oltrepassiamo la porta orientale: innanzi ai nostri occhi si apre una sconfinata quanto confusa distesa di colline e avallamenti. Solo con una visione dall’alto, ovvero scorrendo le riprese effettuate con i droni, quest’alternanza di vuoti e di pieni acquista un significato: riconosciamo i muri perimetrali degli edifici, gli spazi aperti delle piazze, la linea tortuosa delle strade cittadine. Questa è l’Hatra intatta, addormentata da due millenni sotto il collasso delle sue architetture. Un universo archeologico di straordinaria importanza (solo in minima parte scavato), ma che la missione dell’IsMEO non ha nemmeno sfiorato.

Hatra. Ortofoto del febbraio 2020, nella quale risultano perfettamente visibili la linea delle fortificazioni circolari, il reticolo urbano e il grande santuario centrale.

NEL RECINTO DEL SOLE La nostra meta è il Recinto del Sole, al centro della città. Un enorme rettangolo cinto da mura e suddiviso internamente in due principali settori: a oriente una vastissima corte libera, destinata all’accoglienza e alla sosta dei pellegrini; a occidente l’area dei principali edifici sacri, caratterizzati dalla forma architettonica dell’iwan – sala rettangolare

STORIE DI SCAVO ED ESORCISMI VARI «L’aspetto delle rovine di Hatra è praticamente sconosciuto, sebbene siano le piú impressionanti del Vicino Oriente, accanto a quelle di Ba’albek, Palmyra e Persepoli. Lontane dagli itinerari battuti, sono quasi inaccessibili alle esplorazioni, anche a causa della gelosia dei beduini [la tribú araba degli Shammar, n.d.r.], che considerano il luogo di loro proprietà». Cosí si esprimeva, nel 1841, William Ainsworth, uno dei

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primi viaggiatori occidentali a descrivere le rovine di Hatra. Occorre attendere gli inizi del Novecento perché Walter Andrae, direttore della missione archeologica tedesca ad Ashur iniziasse le prime ricognizioni del sito. La documentazione grafica e fotografica prodotta è ancora oggi di fondamentale importanza, perché registra lo stato delle rovine prima che la grande stagione di restauro inaugurata nel 1989 da Saddam


In questa pagina: il santuario centrale di Hatra, delimitato da un muro di cinta rettangolare e suddiviso internamente in due settori. Quello orientale accoglieva probabilmente i pellegrini; quello occidentale include i templi principali:

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1. Tempio di Allat; 2. cosiddetto Tempio Ellenistico; 3. Tempio della Triade; 4. Grande Tempio, costituito dai Grandi Iwan (4a), gli Iwan Gemelli (4b) e la Cella del Sole (4c); 5. Tempio di Samya; 6. Tempio di Shahiru.

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Hussein ne alterasse la fisionomia. Scavi regolari, effettuati dal Direttorato Generale delle Antichità irachene (oggi State Board of Antiquities and Heritage), ebbero inizio negli anni Cinquanta del secolo scorso, e si protrassero per un quarantennio. Una testimonianza inattesa di questa stagione di scavi proviene dalle inquadrature iniziali dell’Esorcista, film diretto da William Friedkin nel 1973. Fra tempeste di sabbia e

demoni cornuti e itifallici (il Pazuzu della mitologia sumerico-babilonese), è immortalata una scena di scavo reale, quella del Tempio della Triade, uno degli edifici sacri del Grande Temenos. Un contributo importante alla conoscenza di Hatra è stato infine dato dalla missione italiana diretta da Roberta Venco Ricciardi (Università di Torino), attiva tra il 1986 e il 2002, ultima stagione di scavo prima della caduta del regime.

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coperta a volta e il lato breve frontale completamente aperto – di tradizione iranica. È questa l’Hatra monumentale, o meglio monumentalizzata dalle ambizioni di Saddam Hussein. Il nome del dittatore, in uno sforzo propagandistico mascherato da scrupolo scientifico, compare ancora, inciso a mano in eleganti caratteri arabi, su migliaia di pietre squadrate di arenaria giallastra, rimesse in opera dagli abili artigiani e muratori impiegati nella ricostruzione dell’antica città. Saddam Hussein e il suo gruppo di potere, infatti, avevano voluto fare di Hatra, nel cuore della Giazira, uno dei piú importanti poli di attrazione turistica della nazione irachena. Difficile, ora, immaginare come dovevano apparire le rovine della città fino alla metà del secolo scorso, quando il sito era ancora indisturbato. Le foto delle prime esplorazioni, condotte agli inizi del Novecento, mostrano le tende dei viaggiatori piantate sui crolli delle architetture, e all’ombra delle grandi volte delle sale templari ancora abbellite, nella disgregazione, dalla stupefacente epifania di re e divinità che si affacciavano – immagini di pietra ancora in situ – sui portali. Da settant’anni, tutto ha cominciato a cambiare a ritmi serrati – e non sempre per il meglio. (segue a p. 44)

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Il complesso dei Grandi Iwan e degli Iwan gemelli, i piú colpiti dagli atti di vandalismo dei miliziani dell’ISIS. Nell’area antistante sono stati rinvenuti numerosi frammenti della decorazione architettonica vandalizzata dai miliziani jihadisti.


In basso, sulle due pagine: prospetto dei Grandi Iwan e degli Iwan Gemelli.

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A sinistra: le semicolonne corinzie che inquadrano gli ingressi agli iwan, e, nella pagina accanto, uno dei capitelli che le coronano. In basso: le pareti dei templi e dei portici del santuario centrale di Hatra presi di mira e sfregiati, a colpi di piccone e kalashnikov, dai miliziani dello Stato Islamico.

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LA POETICA DELLE ROVINE Con il crollo del regno partico degli Arsacidi e l’ascesa di quello neopersiano dei Sasanidi (secondo venticinquennio del II secolo d.C.) nella Giazira araba si ribaltano i rapporti di potere: il nemico romano si fa amico, e Hatra giunge a ospitare, entro le sue mura, una guarnigione di legionari romani. Questa nuova alleanza non basta a salvare la città. Ben presto Roma si ritira di fronte alla potenza della nuova dinastia persiana, e Hatra viene lasciata al suo destino. Nel 241, al termine di un lungo assedio durato due o addirittura quattro anni, viene conquistata da Ardashir e da suo figlio Shapur. L’assedio, di cui sopravvivono ampie tracce archeologiche, non è menzionato nelle fonti romane, almeno in quelle sopravvissute. Nelle fonti

locali, confluite nella tradizione storiografica islamica, l’episodio viene invece descritto come un evento epocale, e ammantato di

leggenda. Lo storico Al-Tabari riporta la tradizione secondo cui la città sarebbe caduta per il tradimento di Nadira figlia dell’ultimo re hatreno, Sanatruq: fu lei a rivelare al principe sasanide Shapur, di cui si era innamorata, il modo di entrare in città senza dover forzare le mura. Hatra non venne rasa al suolo, ma abbandonata. Se Ammiano Marcellino ci offre un’immagine desolata delle sue rovine (vetus oppidum in media solitudine positum, olimque desertum, «antica città costruita in mezzo al deserto, e da lungo tempo abbandonata»), nella tradizione islamica Hatra diviene simbolo della transitorietà del potere terreno: «Dov’è Ciro? Ciro dei re, Anuširvan, / dov’è prima di lui Šapur? / E i nobili figli d’Edom, re / dei Romani? Di loro non resta memoria. / E il Signore di Hatra? La costruí ed ecco / Il Tigri vi scorreva accanto e il Khabur. / La eresse in marmo e stuccò con la calce, / ma ora sulla sua cima fanno nido gli uccelli».

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Negli scavi, e in seguito nelle ricostruzioni, furono impiegati centinaia di operai. Ai muri che tornavano in luce dopo due millenni di ombra e umidità, le maestranze e i capi-restauratori sovrapposero cortine di nuove pietre ben squadrate, riempiendone i cavi con colate di fango e malte gessose alter nate a file di pietrame a schegge. Rispettarono planimetrie e tecniche costruttive del passato, senza tuttavia considerare la diversa sensibilità alla pioggia e al gelo, quindi alle torride temperature estive e alle tempeste di sabbia della Giazira, dei materiali costruttivi vecchi e nuovi.

COME GIGANTI MALATI Le grandi volte degli iwan di Hatra risorsero in modo grandioso, e con esse l’elegante tempio periptero in stile classico che accoglie i visitatori all’ingresso del santuario centrale; ma si trattava di «giganti malati». Quando, il 6 agosto 1990, nel quarto giorno successivo all’invasione irachena del Kuwait voluta da Saddam, l’intera nazione cominciò a subire gli effetti di gravissime sanzioni economiche, le ricostruzioni cessarono bruscamente; la macchina protettiva dei beni culturali andò in affanno, e ben presto si arrestò. Oggi, passate tre decadi di conflitti,

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Tempio dedicato alla dea araba Allat (seconda metà del II sec.d.C.): rilievi della facciata, con la celebre scena di allattamento di un cucciolo di cammello.


abbandono e mancata manutenzione, i danni di tante ricostruzioni assolutamente scenografiche e forse non troppo lontane dal vero, ma tecnicamente improvvide, si vedono tutti. Le murature si sono impregnate delle piogge invernali, e grandi muri portanti si sono deformati. Al contatto tra i tratti murari originali e le pesanti ricostruzioni a essi sovrapposte l’umidità riporta in superficie i sali del terreno, che le tempeste di sabbia dell’estate hanno continuato ad abradere, come fossero carta vetrata. I bellissimi pavimenti in gesso ceruleo delle celle, lasciati all’aria aperta, si sono gonfiati e spezzati, sotto la spinta di erbacce e arbusti, mentre non pochi tra i fragili altorilievi delle facciate si stanno polverizzando come castelli di sabbia. Su queste scene sconfortanti, infine, per tre anni si è consumato il dramma dell’occupazione militare dell’ISIS, che ha usato il complesso archeologico come campo di addestramento e scena di propaganda anti-occidentale. La missione sostenuta dalla fondazione ALIPH ha

avuto come scopo principale una presa d’atto della situazione attuale (vedi l’intervista alle pp. 46-47). Camminando su letti di bossoli di ogni genere di proiettili, tra carcasse di veicoli militari distrutti, le tende e (purtroppo) le aree di scarico delle guarnigioni che oggi

Nel 1990, l’invasione del Kuwait causò la brusca interruzione delle attività di tutela dei beni culturali presidiano il sito, abbiamo registrato con i droni, al massimo dettaglio possibile, lo stato attuale del sito. I rilevi permettono di ricostruire con una precisione e un dettaglio – prima impossibile – la topografia di Hatra e la pianta, vista dall’alto,

dei suoi monumenti ricostruiti. Abbiamo visitato il complesso archeologico stanza per stanza e muro per muro, mettendo sulla carta tutti i danni visibili – sia quelli causati dal degrado atmosferico e dalla mancata manutenzione – per la quale le autorità irachene, sia chiaro, non hanno colpa alcuna –, sia quelli causati dal manipolo di terroristi insediatosi tra le rovine. I danni da essi causati sono gravi, ma forse non totalmente distruttivi come avrebbero potuto essere.

FRAMMENTI RICOMPOSTI I frontoni degli archi delle facciate dei Grandi Iwan, affollati di eleganti sculture, in parte ricostruite – busti umani, effigi animali, motivi vegetali – sono stati vandalizzati a colpi di mazza e con raffiche di proiettili; cosí come buona parte delle maschere antropomorfe e delle aquile, simbolo della regalità hatrena, che decoravano le pareti interne delle sale. Qualche scultura di grandi dimensioni è stata presa a fucilate o rovesciata a terra (segue a p. 48)

Il grande Temenos La facciata monumentale dei templi, con i due propilei di accesso e, al centro, il cosiddetto Tempio Ellenistico, visti dalla grande corte destinata all’accoglienza dei pellegrini.

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ALIPH: RAPIDA E FLESSIBILE, COME UNA STARTUP Incontro con Valéry Freland Un importante contributo al salvataggio del patrimonio culturale iracheno e, in questo caso, della città di Hatra è venuto di recente da ALIPH (International Alliance for the Protection of Heritage in Conflict Areas), fondazione di cui è

◆ Dottor Freland, ci parli di

ALIPH: come è nata e quali sono i suoi scopi? «ALIPH è stata fondata nel 2017, a Ginevra, allo scopo di rispondere alle massicce distruzioni, perpetrate in quest’ultimo decennio, del patrimonio culturale nelle zone teatro di conflitti, in particolare nel Medio Oriente e nel Sahel. L’obiettivo era duplice: raccogliere nuovi finanziamenti – pubblici e privati –, cosí da poter sostenere l’impegnativa opera di risanamento di questo patrimonio, divenuto l’obiettivo del terrorismo; e, al contempo, creare una struttura leggera e agile, in grado di utilizzare rapidamente sul campo queste nuove risorse economiche. Al momento della fondazione, si è scelto di dare vita a un’organizzazione che avesse le medesime caratteristiche istituzionali del Global Fund – il Fondo globale per la lotta all’AIDS, la tubercolosi e la malaria –, che si è rivelato efficace, vale a dire una fondazione di diritto svizzero avente lo statuto di organizzazione internazionale, ma, in piú, gestito come una startup, in modo da assicurare tempi di reazione rapidi e flessibilità. ALIPH oggi è il risultato di un partenariato fra pubblico e privato, sostenuto da otto Paesi – Francia ed EAU, innanzitutto, che sono membri fondatori, ma anche Arabia Saudita, Cina, Kuwait, Lussemburgo, Marocco e Svizzera

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attualmente direttore esecutivo Valéry Freland. Lo abbiamo incontrato per chiedergli di spiegare ai lettori di «Archeo» quali siano i progetti fin qui sviluppati dalla fondazione e quali i principali obiettivi futuri. – e da numerose fondazioni private. Naturalmente, per far crescere la durata della nostra azione, vogliamo allargare la cerchia dei donatori e, per esempio, abbiamo recentemente sottoscritto un accordo di partenariato con il Principato di Monaco».

◆ Quali sono i campi di intervento

della fondazione? «Sosteniamo progetti di protezione o di risanamento del patrimonio culturale – materiale e immateriale – nelle zone che sono tuttora o che sono state teatri di conflitti. Finanziamo inoltre interventi preventivi di protezione del patrimonio: ad Abidjan, per esempio, abbiamo finanziato la messa in sicurezza del Museo delle civiltà della Costa d’Avorio, alla vigilia di consultazioni elettorali molto importanti per quel Paese e che, considerando quanto accaduto in situazioni simili nel passato, avrebbero potuto dare luogo a disordini e saccheggi. Al tempo stesso sosteniamo interventi d’urgenza, come per esempio l’evacuazione dei manufatti depositati ai piedi del minareto di Djam, in Afghanistan, minacciati dalle inondazioni e dal terrorismo. Offriamo il nostro appoggio anche a progetti di restauro, sia nel caso di musei e delle loro collezioni – come a Mosul, in Iraq, o a Raqqa, nel NordEst della Siria –, sia a beneficio di siti archeologici e monumenti – come la Tomba di Askia, nel Mali – o, ancora,

di archivi di documenti scritti, fotografici o audiovisivi, com’è accaduto in Sudan. Quanto, infine, al patrimonio immateriale, ci siamo per esempio impegnati, in Afghanistan, per proteggere le tradizioni tessili o le tecniche di costruzione degli strumenti musicali. ALIPH sostiene attualmente poco meno di 50 progetti in 14 Paesi, distribuiti in quattro continenti, con un impegno complessivo del valore di 17 milioni di dollari. Nell’anno in corso la nostra azione sarà ancora piú ampia: stiamo al momento vagliando i circa 100 progetti presentati all’indomani del nostro terzo bando, e contiamo di poterne selezionare e sostenere una trentina».

◆ ALIPH ha operato anche in Italia?

E ci sono progetti italiani che state al momento finanziando? «ALIPH non dà direttamente corso ai progetti: al termine di una selezione aperta e indipendente – ci avvaliamo di un comitato scientifico e di esperti internazionali – la nostra organizzazione offre un parere tecnico e un sostegno economico. Di conseguenza, per adempiere alla nostra missione, siamo pronti a lavorare con ogni manifestazione di buona volontà, con tutti gli attori – istituzioni culturali o del patrimonio, università, associazioni, fondazioni, ecc. – internazionali o locali, che abbiano una comprovata esperienza nel campo del patrimonio, nelle aree di conflitto o reduci da crisi. In


questo quadro l’Italia rappresenta naturalmente un interlocutore privilegiato: dispone di competenze tecniche di altissimo livello – frutto della diversità delle sue istituzioni accademiche e delle sue tradizioni –, nonché di una capacità d’intervento molto concreta, sul campo, che è per noi essenziale. Di recente, mi ha per esempio molto colpito il coraggio degli archeologi dell’ISMEO che, insieme ai colleghi iracheni, hanno raggiunto Hatra, in una zona ancora molto esposta a rischi, per avviare un intervento di protezione dei monumenti e delle sculture antiche distrutte dagli uomini del Daesh, il sedicente Stato Islamico. Sono ammirato dallo spirito di questi studiosi, che ritengo affine a quello di ALIPH. E siamo perciò orgogliosi di fornire il nostro sostegno a questo lavoro. Finanziamo anche altri operatori italiani, in particolare l’associazione Amalia (Torino), che con notevole dinamismo si è impegnata al fianco delle comunità di Timbuctu nella conservazione, nel restauro e nell’inventariazione dei manoscritti; o anche il lavoro attualmente condotto ad Adulis, in Eritrea, dal PIAC (Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Roma) in collaborazione con il Ce.R.D.O. (Centro Ricerche sul Deserto Orientale, Varese). Spero che ALIPH possa rinsaldare questi rapporti con

gli operatori italiani e con l’Italia stessa: significherebbe condividere un segnale molto importante e una risorsa determinante per la causa della protezione del patrimonio».

◆ Quale può essere il ruolo di ALIPH

in questa fase di emergenza globale? «È importante innanzitutto ricordare che il fatto che si parli meno della distruzione del patrimonio culturale nelle zone di guerra non significa che la sfida è vinta. Resta da compiere un’opera di risanamento colossale – nella sola città vecchia di Mosul sono stati distrutti 5000 edifici e 600 siti monumentali – e le minacce non si sono affievolite, come lascia intendere la rinascita del terrorismo in alcuni Paesi. Ora piú che mai occorre quindi dare ulteriore vigore al progetto ALIPH, allo scopo di allargare il raggio d’azione della comunità internazionale in favore della protezione del patrimonio. In ALIPH siamo fortemente convinti del fatto che proteggere il patrimonio non contribuisce soltanto a preservare la memoria collettiva, ma aiuta a ricreare i legami sociali, a suscitare uno sviluppo duraturo, a riconciliare i popoli, a costruire la pace. È questa una delle ragioni per cui siamo molto attenti al coinvolgimento delle autorità, ma anche alla concretezza dei progetti.

Esiste peraltro uno stretto legame fra i mutamenti climatici, i fenomeni di instabilità locale e il degrado del patrimonio: una relazione che deve indurci a guardare con attenzione crescente ai Paesi piú colpiti dai conflitti e dai cambiamenti climatici. Infine, è stato importante che gli operatori impegnati nella protezione dei beni situati nelle zone di conflitto potessero essere sostenuti per superare l’attuale emergenza sanitaria. Quest’ultima ha già avuto un impatto economico e sociale molto importante sul nostro settore, per via della chiusura dei siti e dei musei, del blocco dei cantieri di restauro e della conseguente recrudescenza dei saccheggi. Per questo motivo, per fare fronte alla situazione, ALIPH ha subito istituito un fondo di 1 milione di dollari, rinnovabile, perché anche finanziamenti di modesta entità possono avere un impatto estremamente positivo sul campo. ALIPH non è nata per adagiarsi nella routine: dietro la sua sigla non ci sono parole, ma azioni concrete. Il nostro intento è quello di raccogliere velocemente e concretamente sfide di portata enorme, ragion per cui abbiamo bisogno della buona volontà di tutti». Veduta dei propilei e del cosiddetto Tempio Ellenistico.


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dopo essere stata infranta e staccata dalle facciate templari. È stato con emozione che, giorno dopo giorno, abbiamo trovato a terra, tra cespugli e cumuli di spazzatura, buona parte dei frammenti di queste opere: in parte, sarà possibile ricomporli e riportare le sculture almeno vicino alle originali condizioni di integrità. L’impressione è che questi danni siano stati il risultato di una singola operazione ben pianificata e organizzata per un preciso evento mediatico. È consolante, comunque che gran parte dei monumenti di Hatra, nella loro fragilità, come nell’ambiguità ormai inevitabile di molte ricostruzioni totalizzanti, sia rimasta quasi indisturbata

In alto: il Tempio della Triade. Qui sopra, a destra: un miliziano jihadista intento a distruggere una delle mensole antropomorfe che decoravano la facciata dei Grandi Iwan. A sinistra: una delle aquile, simbolo della regalità hatrena (parete interna del Grande Iwan Sud), sfregiata a colpi di fucile. 48 a r c h e o

dagli attacchi dei fondamentalisti religiosi. Se la comunità internazionale sarà stata capace di recepire il senso ultimo di queste tristi pagine di storia recente, forse potremo mettere mano a danni vecchi e nuovi, e ridare a Hatra il suo ruolo di straordinaria testimonianza storica: quello di un dialogo mai interrotto e assolutamente prezioso tra Oriente e Occidente. La missione a Hatra, promossa dall’ISMEO (Associazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente), è stata realizzata grazie al sostegno della fondazione svizzera ALIPH. A dirigerla sono stati Massimo Vidale (Università di Padova) e Stefano Campana (Università di Siena).


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In alto: un momento di pausa per un the con i colleghi iracheni. Nelle altre foto: i membri della missione: 1. Matteo Sordini; 2. Massimo Vidale; 3. l’autrice dell’articolo, mentre sigla i frammenti scultorei recuperati; 4. Mossab M. Jasim e Rouaid Al-Lyla ricompongono i frammenti della testa vandalizzata dai miliziani dello Stato Islamico; 5. Stefano Campana.

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In questa pagina: frammento di lastra marmorea sulla quale compare Ulisse, dalla necropoli del IV miglio della via Latina, presso la tomba Barberini. Fine del II-I sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps. Nella pagina accanto: particolare della fronte di un sarcofago di produzione ateniese raffigurante Achille, forse da Roma. 240 d.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.

Odisseo Nome probabilmente derivato da odyssomai, «odiare»: re di Itaca, figlio di LAERTE e ANTICLEA; marito di PENELOPE, da cui ha avuto un figlio: TELEMACO (il cui nome significa «colui che combatte lontano»: tele-machomai).

ATTENTI A QUEI DUE


Sincerità contro inganno, astuzia contro schiettezza: nel suo ultimo libro – appena pubblicato da Einaudi – Matteo Nucci si immerge nell’epos omerico per indagare le opposte umanità dei suoi principali protagonisti. Alternando lo sguardo tra Achille e Odisseo, lo scrittore riscopre per noi la piú straordinaria «messa in scena» di due opposte visioni del mondo, legate tuttavia da una convinzione comune: per essere eroi si deve vivere fino in fondo la propria condizione mortale... di Matteo Nucci

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oche esperienze estetiche sono semplici e immediate come l’immersione nei poemi omerici. Chi non ha mai letto un verso di queste due opere di straziante bellezza che sono all’origine della letteratura occidentale generalmente prova paura. Un rispetto reverenziale spinge chi non ne sappia nulla a guardare da lontano i due tomi. La lunghezza è un primo ostacolo che ai tempi della velocità-semplicitàbrevità di questo futurismo senza futuro pare già di per sé una ragione definitiva per allontanarsi. Se alla lunghezza si aggiungono il verso, le formule che ricorrono identiche per definire situazioni e gesti, nonché

Achille Nome probabilmente derivato da a-cheilos, «privo di labbra»: figlio di PELEO, re di Ftia, e TETI, ninfa del mare; compagno di DEIDAMIA, da cui ha avuto un figlio: NEOTTOLEMO (il cui nome significa «giovane guerriero»: neos-p[t]olemos); strenuo amico di PATROCLO.

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STORIA • ACHILLE E ODISSEO

l’irrompere di personaggi – umani e non umani – che si portano appresso una storia spesso ignota, la grande paura prende definitivamente forma. Meglio leggere altro, meglio qualcosa di piú vicino a noi. Eppure cosa c’è di piú vicino a noi rispetto a queste storie che superano ogni tempo e ogni spazio e ci raccontano dell’essere umano e di nient’altro che dell’essere umano? Chi trova la forza di sradicare le inevitabili paure e si getta nella lettura con quello stesso abbrivio che ci spinge a tuffarci in acqua quando temiamo il mare a inizio stagione, si accorgerà subito di quanto inutili fossero le resistenze che lo avevano trattenuto. Il mare in effetti diventa subito caldo da freddo che ci pareva. Il fondo è basso e sabbioso e possiamo rilassarci comodamente. Addirittura non è necessario nuotare. Siamo immersi e tutto intorno scorre. Bastano poche pagine per scoprirlo. Per accorgerci che non sono cosí lunghi, i poemi, in verità. E che anzi quando saremo lí lí per terminarne la lettura quel che ci spaventerà semmai sarà il vuoto a cui saremo consegnati dalla loro fine. Prima di ricominciare ovviamente. Nel frattempo, infatti, ci saremo talmente abituati allo stile di quei cantori che giravano l’Ellade trasmettendo storie, ripetendo epiteti, descrivendo minuziosamente oggetti e fatti, utilizzando formule geniali che tornano di continuo, ci saremo talmente abituati a quello stile unico che continueremo a sentirne il bisogno anche a lettura terminata. Ci accorgeremo che una certa forma di questi poemi ci si è ormai impressa nell’anima per sempre, come se il suo calco fosse stato presente in noi, come se non avessimo aspettato altro che quel ricordo ancestrale. E ci saremo a tal punto trasformati che l’unico mistero con cui non smetteremo mai di fare i conti sarà quello che ha perseguitato generazioni di anti54 a r c h e o

Omero divinizzato (noto anche come L’apoteosi di Omero), olio su tela di Jean-AugusteDominique Ingres. 1827. Parigi, Museo del Louvre.


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STORIA • ACHILLE E ODISSEO

chisti, ossia l’identità del poeta cie- Omero sia vissuto attorno all’VIII gli occhi della mente. Non è un co a cui la tradizione attribuisce la secolo a.C., nato forse a Chios, a caso che una delle storie piú belle paternità dei poemi. Colofone, o a Smirne, e abbia com- circa la morte di Omero ci porti di Niente da fare. Una risposta è im- posto Iliade e Odissea fu alimentata nuovo nella sua città natale, sulle possibile. La cosiddetta «questione da particolari presenti negli stessi rive del mare, dove il grande poeta omerica» è aperta da sempre e mai poemi e soprattutto da quel cantore sarebbe rimasto sconcertato da un piú si chiuderà perché è semplice- chiamato Demodoco che appare enigma che gli avevano proposto mente impossibile trovare prove nell’isola dei Feaci, quando Odisseo alcuni giovani tornati dalla pesca. che confermino una o un’altra fra è sulla via del ritorno a casa, e viene Incapace di risolverlo, come tutti i le innumerevoli ipotesi che sono invitato a intonare sulla cetra storie grandi sapienti offesi da una sconfitta dialettica, Omero si sastate lanciate nei secoli rebbe lasciato morire. dagli studiosi. ContinueMa può esistere una «Quello che abbiamo viranno a fronteggiarsi quei sto e preso lo abbiamo lacritici convinti che la «questione omerica»? sciato. Quello che non mano sia una sola e quelli certi che nessun OmeÈ fuor di dubbio che molti abbiamo visto né preso lo portiamo con noi», gli disro sia mai esistito e che furono i cantori all’epoca... sero i ragazzi alludendo ai gruppi di cantori si siano pidocchi da cui per ore trasmessi le storie componendole, intrecciandole e modi- di eroi partendo proprio dalla lite avevano tentato di liberarsi. ficandole nel tempo prima che una fra Achille e Odisseo. Geniale, ama- Citando questo enigma, un grande versione piú o meno canonica ve- bile e cieco, Demodoco avrebbe sapiente appassionato di Omero nanisse fissata dalla scrittura ai tempi fornito alcuni particolari determi- to a Efeso (attuale costa turca dalle di Pisistrato, dunque nel VI secolo nanti alla costruzione della leggen- parti di Izmir, Smirne) sul finire del a.C., quando il tiranno governò da. Innanzitutto quella cecità che VI secolo a.C., Eraclito, commentò: Atene per quasi trent’anni. per i Greci significava sapienza, o «Gli uomini s’ingannano rispetto L’idea che un cantore di nome meglio: abilità di usare altri occhi, alla conoscenza delle cose evidenti,

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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come Omero, che pure fu piú sapiente di tutti i Greci. Fu tratto in inganno, infatti, quando fanciulli che uccidevano pidocchi gli dissero…» Intendeva dire, l’Oscuro di Efeso, che a volte l’apparenza in cui ci perdiamo è addirittura piú semplice di quel che si è tentati di pensare e che basta guardare a ciò che abbiamo sotto gli occhi. Proprio come i pidocchi che il poeta nella sua sapienza non riuscí neppure a prendere in considerazione. In fondo è ciò che deve fare qualsiasi lettore di Omero, mettendo da parte le asperità della «questione omerica». Non c’è dubbio infatti

che molti furono i cantori all’opera sui poemi. E possiamo dare per assodato che la composizione e la trasmissione orali di quei canti attraversando i secoli mescolò elementi di diverse tradizioni e diverse epoche. Ma non possiamo evitare di immaginare che a un certo punto debba essere intervenuta una mano risolutrice, una mano capace di guardare all’opera nella sua interezza e nella sua complessità, per annodare tutte le fila delle numerose storie lasciando che si intrecciassero, divergendo e ricomponendosi. E non possiamo evitare di immaginare che una mano del genere debba

aver avuto a che fare con entrambi i poemi, tante sono le rispondenze incrociate, le connessioni e i rimandi linguistici e ideali. Forse quel grande artigiano che si dedicò a cucire, filtrare, smembrare e ricomporre si chiamava Omero. Certo, al grande cantore non sfuggí la principale delle mosse a cui era necessario immolarsi mettendo mano ai due poemi. Ossia quello specchio continuo fra i due eroi che supremamente si oppongono, quella specularità perfetta da inizio e fine di Iliade e Odissea, un artificio capace di mostrare un aspetto delle nostre vite che ai tempi era sconta-

A destra: stamnos (contenitore per il vino) attribuito al Pittore di Deepdene raffigurante la vestizione di un guerriero, probabilmente identificabile con Achille, al quale una donna (Teti?) porge le armi. 470-460 a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art. In basso: particolare del coperchio di un sarcofago decorato a rilievo dalla rappresentazione di Achille che trascina il corpo senza vita di Ettore intorno alla tomba di Patroclo, dalla necropoli di Pianabella. 160 d.C. Ostia, Museo Ostiense.

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STORIA • ACHILLE E ODISSEO Sulle due pagine: il centauro Chirone insegna al giovane Achille a suonare la lira, dall’Augusteum di Ercolano. Età claudia o flavia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. L’affresco intende alludere all’educazione dei giovani ercolanesi. A sinistra: l’interno di una kylix attica a figure rosse dipinta da Sosia raffigurante Achille che cura le ferite di Patroclo, da Vulci. 500 a.C. circa. Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung.

SOTTOMESSI A FORZE PIÚ GRANDI DI LORO Quando i protagonisti di Iliade e Odissea appaiono sulla scena, quel che proviamo immediatamente è un senso di frustrazione, la stessa frustrazione che provano i due eroi. Con la forza eterna della letteratura che spinge all’identificazione, a noi lettori, come agli ascoltatori di una volta, brucia il sangue nelle vene, sentiamo l’animo che gronda passioni e vorrebbe esplodere, liberarsi, liberare la furia che necessariamente al suo interno è trattenuta. Sia Achille che Odisseo

to e oggi si è perduto. La fragilità degli eroi. Perché non esiste uomo realizzato che non si sia misurato con le proprie debolezze. Al punto che si potrebbe stabilire una legge che agli appassionati di supereroi e agli illusi dell’invincibilità degli an58 a r c h e o

vengono presentati cosí, infatti. Quasi inermi, vinti, sottomessi a forze piú grandi di loro su cui non riescono a esercitare alcun potere, incapaci di realizzare i propri desideri. Straordinario poi che entrambe queste situazioni siano ambientate in un’atmosfera analoga, ossia sul mare, di fronte all’immensità e al mistero del mare, il mare nero come il vino, l’elemento fluido che è nella natura di Achille come in quella di Odisseo.

tichi personaggi mitici potrebbe risultare completamente indigesta. Solo chi conosce le proprie debolezze può dirsi uomo. Solo chi è davvero pronto alla sconfitta può ambire all’espressione completa della propria umanità: l’eroismo.


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TEMI E PROBLEMI • XXXX XXXXXX

UN BRINDISI AL VINCITORE

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n una celebre immagine dipinta da un ceramografo ateniese di nome Exekias attorno al 530 a.C., Achille e Aiace sono ritratti di profilo, seduti di fronte a un tavolo e concentrati sulla partita a cui si stanno sfidando. Dadi. Dadi rotolano sulla tavola. Numeri sono incisi sull’anfora ritrovata a Vulci, la magnifica città etrusca, e conservata nei Musei Vaticani. Numeri che, come in un fumetto dei nostri tempi, sembrano fluire dalla bocca o dal pensiero dei due ragazzi che giocano. Ma di che gioco si tratta? Dadi – dicono tutti. Ep-

pure le dita di Achille e Aiace sembrano piantate su pedine, non su dadi. Pedine che dunque sarebbero mosse seguendo il responso dei dadi. Non c’è nulla di cui sorprendersi. Si tratta probabilmente del gioco che inventò Palamede, l’astutissimo re di Eubea che svelò l’inganno di Odisseo quando si fingeva pazzo e che per questo fu poi intrappolato dalle astuzie odissiache e messo a morte. È un gioco eterno dalla Grecia all’Oriente. A tal punto capace di intrappolare la mente di chi lo pratica da invadere, nella sua versione piú semplice, anche

l’Occidente e il mondo anglosassone che lo ha ribattezzato con un nome illuminante. Il backgammon, infatti, non è altro che quella partita (game) in cui i giocatori lottano per tornare indietro (back), per tornare a casa, visto che, come sanno tutti coloro i quali abbiano una minima dimestichezza con le sue regole, scopo del gioco è riportare tutte le pedine nella propria casa e dunque metterle in salvo uscendo definitivamente dal campo di lotta. Userò questo nome, allora, benché sia l’ultimo nella storia, dopo gli italiani «tric trac» e «gioco rea-

In alto: particolare della decorazione di un’anfora attica a figure nere firmata da Exekias con Achille e Aiace che giocano a dadi, da Vulci. 540-530 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Etrusco. Nella pagina accanto: affresco raffigurante il sacrificio di Ifigenia, dalla Casa del Poeta Tragico a Pompei. 45-79 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In basso, al centro, è il gruppo di Ifigenia, trasportata a forza verso l’altare del sacrificio da Ulisse e Diomede (o da Ulisse ed Achille); sulla destra, il sacerdote Calcante, vestito di una lunga tunica rossa e con una sopravveste bianca avvolta in vita, mentre all’estrema sinistra il re Agamennone volge le spalle alla scena, sotto il peso della responsabilità di aver acconsentito al sacrificio della figlia. Nella parte superiore compaiono due busti femminili che emergono dalle nuvole: sono la dea Artemide e una Ninfa che conduce una cerva. 60 a r c h e o


le», fra i molti. Il nome meno regale e tuttavia piú conosciuto. La storia dei giochi che vennero immaginati sulla tavola a ventiquattro piramidi su cui si muovono quindici pedine nere e quindici bianche, d’altronde, si perde nei millenni, ben oltre Palamede, e arriva forse addirittura a seimila anni fa, visto che quasi certamente un

esempio di antico backgammon fu ritrovato dagli archeologi nella tomba di un re sumero a Ur, città mesopotamica oggi irachena. Ma poco importa la storia. Quel che importa è che da sempre il gioco è caratterizzato da una esatta ripartizione dei meriti: cinquanta per cento all’abilità, cinquanta per cento al caso. Non si tratta cioè di una sfida

come quella degli scacchi, per esempio, in cui l’abilità del giocatore è pervasiva. I dadi immettono nel gioco quella componente legata alla sorte che rende le partite a volte assurde, rocambolesche, sconcertanti e quasi sempre appassionanti. La sorte, infatti, apre la tavola a imprevedibilità e follia quasi divine. E tuttavia tutti sanno che un bravo a r c h e o 61


STORIA • ACHILLE E ODISSEO

EROI UNITI DA UN LEGAME PROFONDO E INSOSPETTABILE Fin dall’antichità Achille e Odisseo furono considerati modelli di opposta umanità. Chi oggi ancora tentenna di fronte a questa antica certezza dimentica un dato di fatto che è sotto gli occhi di tutti. I due grandi poemi omerici, gli unici poemi che ci siano stati conservati per intero fra i cosiddetti «poemi del Ciclo» (il ciclo dei canti sorti attorno alla guerra di Troia), ovvero i primi esemplari della letteratura occidentale, a giudizio di molti inarrivabili e inarrivati, sono

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dedicati ciascuno a uno dei due eroi. Certo, l’Odissea è molto piú severamente circoscritta al ritorno a casa di Odisseo e infatti prende il nome proprio da quelle vicende: Odysseia, ossia i fatti relativi a Odisseo. Ma nessuno si sognerebbe mai di mettere in discussione l’idea che protagonista assoluto, dall’inizio alla fine dell’Iliade, sia Achille – non soltanto nei momenti in cui si raccontano le sue gesta o i suoi silenzi, ma anche nei lunghi racconti in cui è completamente assente

dalla scena. Certo, è anche vero che nell’Iliade compare eccome Odisseo. E tuttavia è altrettanto vero che nella stessa Odissea compare Achille e, benché sempre in uno spazio assai piú limitato, i principali versi che lo raccontano nell’Ade sono talmente celebri e decisivi per la comprensione dell’uomo e del suo mondo che è come se costituissero una storia a sé stante. Vedremo del resto, piú tardi, come la presenza di Achille e Odisseo nei due poemi sia per molti versi


speculare tanto da poter sognare fra i due poemi un gioco di rimandi incrociati. Sogni di lettori avidi e folli, come siamo tutti noi di fronte a queste opere di mostruosa bellezza. E tuttavia non sono sogni quelli di chi indica, nei poemi, due modelli molto distanti. Al punto che uno dei primi critici letterari di tutti i tempi, il cosiddetto Anonimo del Sublime (I secolo d.C.), arrivò a sostenere che Omero avesse scritto l’Iliade durante la giovinezza e l’Odissea in quella maturità in cui s’intravede la Particolare della decorazione esterna di una kylix dipinta da Douris raffigurante gli eroi troiani che si contendono le armi di Achille. 490 a.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum, Antikensammlung.

senilità. Nella prima infatti egli «è come un uragano che soffia sulle battaglie» mentre nella seconda è come «il sole quando tramonta: è ancora ugualmente grande, ma meno ardente». L’Iliade insomma sarebbe stata composta da un Omero giovane e pieno di foga guerresca. L’Odissea da un Omero piú maturo, in cui non brucia piú il fuoco degli anni perduti. È un giudizio famoso e apprezzato e, per quanto inadeguato a raccontarci la natura del compositore, quasi definitivo. Non possiamo mettere in dubbio infatti che i protagonisti dei due poemi aprano due dimensioni spirituali contrapposte. Eppure è molto interessante che, nei poemi che abbiamo perduto, nei racconti mitici estranei a Iliade e Odissea, nonché in opere piú tarde, fossero fiorite, attorno a Odisseo e Achille, storie davvero singolari circa il tempo che precedette la partenza per Troia. Storie che ci mettono davanti agli occhi piuttosto una stupefacente somiglianza. Come se i due grandi eroi, prima di andare in guerra e mostrare a tutti la loro opposizione caratteriale, avessero qualcosa di profondo e insospettabile da condividere. Pare infatti che, quando il tradimento di Elena scatenò la guerra di Troia e Agamennone organizzò la grande spedizione mettendo assieme tutti i principali sovrani delle città dell’Ellade, pare che nessuno dei due, né Achille né tantomeno Odisseo, avesse alcuna voglia di partire. Entrambi, secondo le storie di cui ancora riusciamo a sapere qualcosa attraverso i miti perduti, cercarono scappatoie, astuzie, inganni pur di non lasciare la casa. Pur di non bruciare la breve esistenza terrena nella guerra che tutto spazza via. Pur di vivere la loro vita di affetti. Una vita semplice, intensa. E anonima.

giocatore può, sí, essere sconfitto da un principiante molto fortunato, ma che raramente questo accade, perché l’abilità è determinante nella strategia e nella preparazione, al punto che la sorte nulla può se l’abilità è nettamente superiore. L’esperienza e la competenza puntano infatti a assecondare i tiri della sorte e a prevederli addirittura, creando situazioni in cui anche i peggiori casi possano volgersi a vantaggio di chi conduce il gioco. In breve, quando la sproporzione nell’abilità dei giocatori è grande, difficilmente la sorte inciderà sul risultato. Quando invece i valori si equivalgono, la sorte sarà decisiva, ma lo sarà in maniera inversamente proporzionale alla propensione ad anticipare le contingenze tipica dei migliori maestri nel gioco. Nessuno, del resto, utilizza le medesime strategie. In apertura di partita alcune mosse sono quasi fisse. Lo stesso capita in chiusura di partita. Ma se dico «quasi» c’è una ragione. Anche nei frangenti in cui sembrerebbe impossibile esimersi dal seguire una regola, il grande giocatore sa sottrarsi e immaginare diversamente la sua strategia, tentando di prevedere e assecondare ciò che il caso sta per scaricare sul tavolo e sulle pedine che come inermi esseri umani in esso si muovono. Si tratta di situazioni dominate da una genialità capace di togliere il respiro. Certo non è facile spiegare tutto questo a chi con il backgammon non si sia mai confrontato, eppure il gioco è talmente vicino alle nostre vite che chiunque potrà tentare un’immedesimazione. Cosa facciamo infatti, nell’arco della nostra esistenza adulta, se non costruire qualcosa che può essere ogni volta spazzato via dal caso? Cosa facciamo se non immaginare come sottrarci al caso o assecondarlo, o prevederlo, o semplicemente ignorarlo? Le soluzioni che noi esseri umani diamo al nostro percorso vitale sono innumerevoli, ma tutte hanno a r c h e o 63


STORIA • ACHILLE E ODISSEO

a che fare – consapevolmente o meno – con ciò che progettiamo o non progettiamo e con ciò che può fare dei nostri progetti briciole in balia della tempesta. Per questo si dice spesso che la maniera di giocare a backgammon rispecchia il carattere di chi gioca. Per questo sarebbe straordinario sapere come giocava Achille. E come giocava Odisseo, ammesso che giocasse. Ma un’idea ce la possiamo fare, eccome. Sono convinto che Achille fosse un appassionato giocatore della cosiddetta «partita all’indietro», mentre Odisseo forse rifiutava di giocare, ma se giocava puntava a correre il piú in fretta possibile verso casa. Sono due stili di gioco opposti. Molto noti a chi è appassionato di backgammon. La partita all’indietro è in genere la conseguenza di qualche errore o sfortuna in partenza che costringe il giocatore a rimanere nel campo nemico molto piú a lungo di quanto sia necessario e preferibile. Il che tuttavia lo spinge a immaginare una strategia che può rivelarsi tragicamente letale per l’avversario e che sempre ha un

pregio: una specie di valore estetico strabiliante. Il giocatore infatti cerca di coprire quanto meglio può il proprio campo per impedire all’avversario di penetrarlo e al tempo stesso aspetta il momento giusto per colpire una sua pedina scoperta, costringendolo a rientrare dove non è piú possibile rientrare. Si tratta di un gioco che quando riesce ha bellezza incomparabile e che soprattutto si dilata nel tempo e mette a dura prova i nervi dei partecipanti. La partita veloce e aggressiva invece punta a risolversi in fretta, con l’annichilimento dell’avversario e la distruzione. Non c’è bellezza da contemplare. Nessuno splendore di armate ben collocate. Né tensione nell’attesa dell’istante in cui le sorti si capovolgeranno come può capitare con una partita all’indietro ben giocata e fortunata. Distruzione e vittoria al piú presto. Oppure sconfitta dilaniante. Achille partita lenta, bella, pericolosa. Odisseo partita veloce, distruttiva, sicura. Potreste pensare, a questo punto, che io abbia sbagliato per precipitazione nell’assegnare uno stile a Achille e un

L’educazione di Achille, pastello di Eugène Delacroix. 1862. Los Angeles, J. Paul Getty Museum.

A sinistra: tavola reale da gioco di Ur, composta da una scacchiera in legno con inserti in conchiglia, suddivisa in 20 caselle. 2600-2400 a.C. Londra, The British Museum.

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altro a Odisseo. Si tratterà di un refuso, forse? O di una distrazione? Niente di tutto questo. Io sono certo che Achille giocasse sulla tavola la partita che nessuno gli avrebbe attribuito sul campo di battaglia, e cosí Odisseo. Il primo attendista e quasi esteta. L’altro precipitoso e distruttore. Il motivo non sta nel paradosso. Il motivo sta nel modo in cui i due eroi vivevano le loro vite. Non solo la battaglia e la sfida della guerra, ma anche la vita intima e personale, il tempo libero e la riflessione sugli scopi ultimativi. Atteggiamenti determinanti per capire il carattere dei due eroi. Atteggiamenti che avevano a che fare con il tempo, con il

modo in cui noi esseri umani decidiamo di vivere il tempo che ci è concesso. Il piú grande enigma delle nostre brevi vite. Studioso del mondo greco antico, Matteo Nucci è autore di romanzi e saggi sull’antichità, in cui riflessioni filosofiche si intrecciano con lo spirito del «viaggiatore». Noto ai lettori di «Archeo» per i suoi reportage sulle tracce di Goethe in Italia e sui luoghi di Aristotele, è autore di Le lacrime degli eroi (2013), un’indagine sul pianto degli eroi omerici, e di L’abisso di Eros (2018), saggio sull’amore da Esiodo a Platone (vedi «Archeo» n. 405, novembre 2018, anche on line su issuu.com).

IN LIBRERIA Matteo Nucci, Achille e Odisseo. La ferocia e l’inganno, Einaudi, Torino, 224 pp., 16,00 euro www.einaudi.it a r c h e o 65


STORIA • IL LIMES/2

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Particolare del sarcofago colossale (detto Grande Ludovisi) con scene di battaglia tra Romani e barbari. Seconda metà del III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps. 66 a r c h e o

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ri delle truppe, che acclamano al trono i loro generali preferiti. All’interno le guerre civili, dall’esterno le invasioni dei Germani, Alamanni e Franchi nell’Europa centrale, e le ostilità con i Sasanidi in Oriente; in tutto l’impero si registrano la progressiva decadenza dell’agricoltura e una crisi economica di devastanti proporzioni, che deprezza le monete, esautora l’erario, genera inflazione e obbliga il

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l III secolo d.C. apre nell’articolato sistema dell’impero crepe profonde e irreparabili, tanto da essere divenuto eponimo di una vera e propria crisi (vedi anche il box a p. 75). Decade l’istituzione stessa dell’impero, agli inizi legittimata come autorità al di sopra dell’umano, fregiata di mitici mandati e di discendenze divine. Ormai, da oltre mezzo secolo, la designazione degli imperatori dipende solo dagli umo-

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ceto contadino, oppresso dalle tasse e dai debiti, ad avviarsi alla servitú della gleba: la potenza di Roma è al suo ineluttabile declino. L’avvento dei Sasanidi (226) nel regno arsacide dei Parti è gravido di conseguenze per Roma. Fin dall’inizio, i nuovi sovrani della Persia attuano una politica molto piú espansionista e ambiziosa della precedente. Data l’entità relativamente limitata del contingente militare romano, a r c h e o 67


STORIA • IL LIMES/2

per far fronte all’aggravata minaccia sono necessari spostamenti di truppe, che coinvolgono l’intero sistema difensivo e offensivo dell’impero. Quando le zone renane rimangono sguarnite di soldati, ne approfittano i Germani. La provincia meridionale (Superior) subisce una nuova incursione alamanna nel 254; nel 259 gli Alamanni passano le Alpi, raggiungono Ravenna e sciamano fin quasi sotto Roma. Nel 260 i territori a oriente del Reno sono ormai perduti. L’attuale regione dell’Assia non appartiene piú all’impero. Il governo di Roma si ritira sulle posizioni precedenti le acquisizioni di Antonino Pio e di Vespasiano. Da tempo si discute sulla necessità di relativizzare le date del 233 e del 260, che lo stor ico Theodor Mommsen portò alla ribalta sulla base delle testimonianze di Eusebio di Cesarea (260-340) e di san Giro-

Ville da signori Questa erma-ritratto apparteneva alla decorazione della piscina ornamentale di una villa di lusso a Welschbillig (nei pressi di Treviri e della Saalburg). III sec. d.C. Trier, Rheinisches Landesmuseum.

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lamo (350-420). Non è, a tutt’oggi, possibile chiarire se e in quali proporzioni il limes sia crollato tragicamente, investito dall’impeto degli invasori, o se piuttosto non sia lentamente caduto in disuso. Anche le testimonianze archeologiche, corroborate dalle ricerche parallele di altre discipline – storia antica, archeologia medievale, filologia, toponomastica, numismatica, paleobotanica – non sono in grado di fornire una risposta univoca.

I FRANCHI DILAGANO Malgrado la «cattiva stampa» delle fonti antiche, Gallieno promuove il primo tentativo, almeno temporaneamente riuscito, di reintegrazione, e di un rinnovato slancio offensivo. Ma intanto, nel 256 o 257, ecco i Franchi attraversare il Reno, spargere rovina e terrore nella Germania settentrionale e nelle Gallie pressoché indifese, e proseguire poi la loro migrazione fino a Tarragona. Scavi condotti a Krefeld-Gallep (località dell’odierno land Renania Settentrionale-Vestfalia, non lontano da Düsseldorf, n.d.r.) hanno riportato alla luce i resti di militari e civili uccisi nella circostanza. Seguono altre invasioni sul Reno, altre cam-

pagne di Gallieno: ci sono pervenute monete che celebrano la sua quinta vittoria contro i Germani. Gallieno intraprende anche opere di restauro del limes e riforme nell’organizzazone dell’esercito, che preludono a quelle di Diocleziano. Ma, nel 259, le truppe delle Gallie eleggono Postumo a capo di un loro impero distaccato da Roma, a cui si aggiungono le due province germaniche, la Spagna e la Britannia. Postumo risiede a Colonia: senato, pretoriani, monete riproducono il modello dell’Urbe e illustrano l’ambizione di realizzare una seconda Roma. Infine ad Aureliano (270275) riesce di compiere l’opera già intrapresa da Claudio II il Gotico, e di riannettere a Roma tutte le province occidentali ribelli. Il loro impero indipendente è durato 14 anni. Aureliano si mostra magnanimo: l’ultimo sovrano gallico – Tetrico – e suo figlio, che come i predecessori hanno difeso il Reno contro i Germani, ottengono per contropartita incarichi ufficiali a Roma. È l’epoca in cui le strade vengono protette da posti di blocco: i burgi, militari e civili. Gli abitati si cingono di mura; ma sempre piú spesso i cittadini sono costretti a fuggire,


Come una donna prostrata Questo rilievo (datato al III sec. d.C.) mostra una raffigurazione della Germania sconfitta, immaginata come una donna prigioniera e velata, in atteggiamento di profondo dolore. Nel III sec., però, le invasioni germaniche erano divenute sempre piú numerose e incalzanti. E ciò malgrado la riforma dell’esercito promossa da Diocleziano, che aveva aumentato il numero delle legioni e la loro mobilità, sebbene fosse notevolmente diminuito il numero degli arruolati.

seppellendo i loro tesori nella vana speranza di ritornare in circostanze migliori. Anche la rete stradale è in dissesto: la desolata situazione delle casse statali non consente piú le grandi opere di una volta; ma le truppe a cavallo, in proporzione sempre piú numerose, si possono

spostare anche al di fuori delle vie lastricate. Probo (276-282) si distingue nelle azioni millitari contro i Germani e anche nell’opera di ricostituzione del limes, soprattutto fra Reno e Danubio. Dal 275 al 281, si riversano fin nell’Italia centrale altre catastrofiche

incursioni di Alamanni, Franchi, Vandali e Burgundi. Il limes settentrionale, nel tratto corrispondente all’attuale Olanda, è travolto, e non verrà piú ricostruito. Sia le campagne che le città fortificate recano i segni della desolazione; anche se, per quanto riguarda le ville rustiche, i rilievi archeologici dimostrerebbero, anziché segni di distruzione intenzionale, l’abbandono volontario da parte degli occupanti in seguito alla crisi agraria, alla diminuzione della produttività, e alla contrazione dei mercati di scambio. Nel 284, la proclamazione a imperatore del dalmata Diocleziano (284-305) fa segnare una svolta: è il momento delle riforme radicali. La decisione piú gravida di significato e di futuro è certamente la divisione fra impero d’Oriente e impero d’Occidente: s’inaugurano due blocchi, eredi di due diverse tradizioni, per lunghi secoli destinate a confrontarsi, incontrarsi e contrapporsi. A est e a ovest le province vengono organizzate in piú di 100 entità amministrative, riunite a gruppi in 12 diocesi, che Costantino suddividerà, aumentandole a 318. La Germania Superior (la meridionale) viene separata dalla parte

A destra: i resti delle terme imperiali di Treviri (Renania Palatinato), divenuta capitale dell’impero d’Occidente con Costanzo Cloro nel 293 d.C. Nella pagina accanto, a destra: la basilica palatina nel palazzo imperiale di Treviri.

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Pattugliare i fiumi e controllare il territorio In questa pagina: materiali conservati nel Museo della Navigazione antica di Magonza. A destra, i resti di un’imbarcazione romana rinvenuti nelle acque del Reno; in basso, due modelli di navi romane del tipo usato sul Reno. Nella pagina accanto: in alto, ricostruzione a volo d’uccello della città romana di Augusta Raurica (Kaiseraugst), con, sulla destra, il castrum Rauracense; in basso, particolare del castrum, realizzato nel 351-352 d.C.

piú a sud, che costituisce ora la Sequania, e dal IV secolo si chiamerà Maxima Sequanorum. Il resto della provincia è ribattezzata Germania I; mentre la Germania Inferior (la settentrionale) diviene Germania II. Treviri, nell’attuale Renania-Palatinato, è la capitale della provincia Belgica I. Là risiede il prefetto gallico e tiene sotto di sé la Britannia, le Gallie, la regione di Vienna (diocesis septem provinciarum) e la Spagna, a cui appartengono anche territori dell’Africa settentrionale. Nel 293, con Costanzo Cloro, Treviri è la capitale dell’impero d’Occidente. Al principato di Diocleziano risale anche la riforma dell’esercito, da lui diviso in limitanei, stanziati stabilmente sui confini, e in comitatenses, truppe mobili disponibili in caso di guerra. Nel IV secolo i limitanei sono ormai soldati-contadini; il loro impiego risulta fruttuoso soprattutto nella Tripolitania. Ma, nel complesso, mentre i cavalieri – grazie all’agilità e alla celerità d’intervento 70 a r c h e o

– sono i piú ricercati e i meglio pagati, e ostentano il prestigio della loro posizione anche nel lusso delle armature, i limitanei appartengono al gradino piú basso della gerarchia.

LA RIDUZIONE DEI CONTINGENTI Le legioni, ch’erano 34 intorno al 231, vengono notevolmente aumentate da Diocleziano. Il numero supposto varia da 76 a 56; ma certamente è molto diminuito il contingente di uomini arruolato in ciascuna di esse (forse solo 1000), fatto che poteva risultare vantaggioso contro gli ammutinamenti e la nomina di usurpatori. La posizione dei legionari nell’ambito dell’armata si avvia a un deterioramento, che s’intensifica sotto Costantino: sembra che i legionari quasi non facciano parte dei comitatenses, arma riservata soprattutto ai cavalieri, ma che siano ora dislocati in distaccamenti stabili, a ridosso dei confini, a costituire i ripenses.

Una forma di salasso all’interno delle legioni è anche dovuto all’uso, sempre piú frequente dopo Traiano, di trarre, in caso di guerra, distaccamenti scelti da trasferire sul luogo delle operazioni. Sono le vexillationes, cosí dette perché ognuna di esse ha il suo vessillo. Il sistema è anche una conseguenza degli accampamenti fissi: i soldati con vincoli familiari nelle vicine canabae castrenses preferiscono rimanere sul posto; partono quelli liberi e piú dotati di spirito d’intraprendenza. E di solito non vengono mai piú rispediti indietro. Sotto Diocleziano e i suoi successori della tetrarchia vengono riparati e rafforzati tratti del limes fra l’alto Reno e il Danubio. Un’importante funzione di difesa e di offesa spetta alle flotte con i loro punti di supporto, poiché i pirati sassoni investono le coste settentrionali della Gallia e quelle della Britannia. Tocca anzi a Costanzo Cloro riacquistare a Roma la Britannia e la fascia continentale antistante, che si sono distaccate dall’impero, seguendo proprio il comandante che le ha difese dalle scorrerie sassoni (296). Ma in questo clima d’insicurezza e di decadenza, riesce a Costantino (306-337) di riunire ancora una volta sotto di sé tutti i territori d’Oriente e d’Occidente.


NUOVE STRATEGIE DI DIFESA I presidi legionari e ausiliari nelle province e il personale alle frontiere si diradano sempre piú, richiamati dalle lotte intestine o nelle regioni direttamente minacciate dal nemico; la necessità convince i privati cittadini a prendere su di sé la propria difesa, come dimostra un’iscrizione rinvenuta ad Altenstadt, nella Wetterau, che testimonia l’istituzione di un collegium juventutis, un gruppo operativo dei giovani del posto. Ormai le minacce d’invasione ai confini dell’impero, e in particolare sulle province renano-danubiane sono molto gravi. Di fronte ai Germani, che hanno iniziato a unirsi in alleanze di varie tribú, non sono certo i presídi sul limes, concepiti per effettuare opere di avvistamento e d’intercettamento di piccole bande, a porre un freno. Gli accampamenti sono sguarniti. Nel cambiamento della situazione politica e militare deve necessariamente mutare anche la strategia romana, che ha già abbandonato le conquiste, e diviene ormai strategia di difesa. Non è piú tempo di difese portate offensivamente oltre il confine; si ammette che il nemico possa oltrepassare la linea di frontiera, e ci si prepara a far fronte agli invasori entro il territorio stesso dell’impero. Giacché il limes non è una linea Maginot, sorgono ora fortini e accampamenti fortificati all’interno delle province: sono piú piccoli, rispetto ai precedenti, perché minore è il contingente militare ch’essi ospitano, ma sono muniti di tutte le difese adeguate alla nuova tattica: resistere, almeno fino all’arrivo di rinforzi, fino al

momento della battaglia in campo, che si combatterà ormai su suolo romano. Si proteggono gli incroci stradali, gli sbocchi fluviali, i magazzini di derrate; si cingono di mura e si forniscono d’infrastrutture difensive le città, e perfino le fattorie. Tipico dell’età tardo-antica è anche il sistema di segnalazione che si decide di istituire nell’entroterra, dopo che il limes con le sue vedette non è piú in funzione. Una drammatica acme viene raggiunta durante il regno di Valeriano, quando l’imperatore cade prigioniero nelle mani dei Sasanidi: un avvenimento inaudito per l’orgoglio romano.

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Sotto di lui nuove propaggini romane si attestano ancora una volta sulla destra del Reno. Nel 310 s’inizia la costruzione sul fiume di un ponte di ferro lungo piú di 400 m e della fortezza di Divizia, a pianta quadrata con torrioni rotondi, con mura possenti di 3 m di spessore, circondata da un fossato lungo 12 m e profondo 4: uno dei prototipi di fortezza del tardo-antico. Il nome di Divizia si conserva tuttora in quello moderno di Köln-Deutz.

UNA CORTE MINORE A Wiesbaden le terme sono di nuovo attive e frequentate dai legionari, come dimostrano i bolli sulle tegole e le monete recuperate. Treviri vive un periodo di grande sviluppo: tra gli altri edifici pubblici viene costruita la grande basilica, su cui oggi si erge il duomo. Allorché l’imperatore trasferisce la capitale dell’impero riunificato a BisanzioCostantinopoli (324), suo figlio Crispo mantiene a Treviri una corte,

sia pure minore, come Cesare designato. Continuano a essere coniate monete che esaltano le vittorie romane sui Germani: Gaudium Romanorum; Germania devicta (completamente sconfitta). Ma i tempi sono duri. Mentre Crispo viene fatto uccidere da suo padre, il cristiano Costantino, il rinnovato sistema tetrarchico di successione fallisce ancora, per la solita avidità di dominio delle parti, e Costante (337-350) non può giovarsi del possesso dell’impero occidentale. Si succedono e si accavallano reiterate invasioni germaniche, nuovi usurpatori, rivolte dell’esercito. L’imperatore d’Occidente viene ucciso da Magnenzio. È il 350, e le nuove ondate migratorie costringono Costanzo II (337-351), rimasto l’unico sovrano legittimo, a inviare sul Reno il cugino Giuliano, il futuro Apostata (361-363). Il giovane, appena ventiquattrenne, non si limita a trasferire la capitale dell’Occidente a Milano, ma combatte vitto-

L’entrata di Attila a Vienna (particolare), olio su tela di Albin Egger-Lienz. 1908. Innsbruck, Landesmuseum Ferdinandeum.

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LA FINE DI UNA PRESENZA SECOLARE Tra il 411 e il 413, sono crollate anche le ultime scarne difese del limes meridionale germanico. I burgi, che dalla fine del III secolo difendevano le vie fluviali, presto affiancati da fortini nell’entroterra, hanno costituito l’ultima fase del limes meridionale: il cosiddetto DonauIller-Rhein-Limes. Ora che l’infiltrazione germanica è totale, non hanno piú motivo di esistere: ormai le varie tribú si attestano sempre piú decisamente nelle province germaniche. L’impero è al suo disfacimento e cessa cosí, dopo 400 anni, la presenza militare di Roma sul Reno. I Franchi, che dal III secolo hanno invaso e bruciato a piú riprese tanti lembi della Germania settentrionale, vivono ormai pacificamente nelle regioni settentrionali del Reno: dopo l’uccisione di Ezio (451) si sono impadroniti a poco a poco del territorio, difendendolo da invasioni di terzi; e che il processo di stabilizzazione sia lungo è dimostrato dalla documentazione archeologica, che li attesta chiaramente solo a partire dal VI e dal VII secolo. La popolazione di ascendenza romana dell’Assia è stata ormai soppiantata dagli Alamanni: rimangono i resti del limes nel Taunus e nell’Odenwald. Nella zona di Worms si stabiliscono i Burgundi.


riosamente i Germani con le armi e con la diplomazia. Con Valentiniano (364-375), il limes sperimenta una nuova fase di rafforzamento. Segno concreto d’interesse per le regioni renane è la reintegrazione di Treviri come capitale. Ed ecco riemergere lungo il corso centrale del fiume le testimonianze archeologiche delle opere di difesa di questo periodo: a Boppert, Bingen, Magonza e Worms; a Bad Kreuznach, ad Alzey, ad Altrip. A Wiesbaden s’inizia la costruzione di una fortezza imponente, rimasta incompiuta, forse perché vantaggiosamente sostituita da un trattato con gli Alamanni. Si creano anche nuovi punti di supporto per le flotte sulla riva orientale del Reno: nel Museo della Navigazione Antica di Magonza si conservano tre imbarcazioni romane di pattuglia di quest’epoca, venute alla luce nel 1987. Si contano però ancora episodi drammatici: è del 368 la scorreria alamanna che

sorprende la popolazione di Magonza, ormai cristiana, in chiesa nel giorno di Pasqua, ne trafuga i beni, deporta i civili come schiavi. Dalla metà del IV secolo, nella fascia che va da Magonza a Basilea cessa ogni documentazione archeologica di presenze romane. Le città del Reno sono distrutte, come i fortini; le ville rustiche abbandonate. I villaggi castrensi, invece, attestano spesso una continuità fino al V secolo. Con la caduta di Colonia in mano ai Franchi anche la provincia settentrionale, Germania II, è perduta.

TERRE IN CAMBIO DI PACE Ma la germanizzazione dell’Europa centrale è un fenomeno talora pacifico. Roma ha potuto ancora effettuare spostamenti, se non coatti, almeno pilotati, di intere propaggini barbariche. Inoltre persegue volentieri la tattica di offrire terre ormai spopolate in cambio di pace, e ciò significa anche terra in cambio dell’assunzione in proprio, da

parte dei nuovi coloni, dell’onere della difesa da altri invasori. È l’ultima risorsa: combattere i barbari con altri barbari. È, in fondo, una forma deteriorata e indebolita dell’antica strategia clientelare: la supremazia militare romana ha perso il suo smalto e il valore di deterrente; e, d’altra parte, l’erario, ormai esangue, non consente piú di elargire gli incentivi d’una volta: la collaborazione dei barbari si può comprare ormai solo a tempo determinato. Del resto, i Germani non discendono piú solo per brevi incursioni in cerca di bottino, ma tendono ormai a stabilirsi definitivamente nei territori già appartenenti all’impero. È un fenomeno in corso fin dal 300. Infine, anche l’esercito romano è sempre piú fittamente costituito dall’elemento germanico, senza esclusione dei ranghi superiori. Nel 378, la vittoria di Graziano sugli Alamanni a Colmar conclude l’ultima campagna condotta da un

Nel tentativo di fronteggiare i nuovi scenari, Roma sceglie di combattere i barbari con altri barbari Una dama germanica A destra: il corredo funerario di una donna germanica appartenente a una delle tribú ormai stanziate all’interno dei confini dell’impero. 340-360. Stoccarda, Landesmuseum Württemberg. A sinistra: fibula in argento di produzione alamanna facente parte del tesoretto del Runde Berg, presso Bad Urach. Stoccarda, Landesmuseum Württemberg.

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imperatore romano nelle regioni alla destra del Reno. Ma è anche l’anno della cocente sconfitta di Valente in Oriente, ad Adrianopoli: con essa si chiude anche l’opera di Ammiano Marcellino, e nessuno scrittore c’informerà dettagliatamente per gli anni successivi. Resta la Notitia Dignitatum, un documento amministrativo interno, che elenca tutte le cariche, sia civili che militari, rappresentate in tutto il tardo impero, sia d’Oriente che d’Occidente; ma l’interpretazione non è scevra da incertezze, perché il testo, originariamente redatto intorno al 395, contiene aggiornamenti e rimaneggiamenti non sistematici, che giungono fino al 430 circa.

L’IMPERO SI FA IN DUE Graziano (375-383) riporta la capitale a Milano: segno tangibile del suo disinteresse per le regioni renane. Nel 395 l’elevazione al trono di Arcadio (395-408) in Oriente e quella di Onorio (395-423) in Occidente sanciscono la scissione totale e definitiva fra i due imperi. Il successivo spostamento della capitale occidentale da Milano a Ravenna rappresenta una ritirata da territori

A destra, sulle due pagine: uno scorcio del Foro della città romana di Ampurias (Spagna). Nella provincia iberica non vi erano un limes definito, né fortificazioni, perché i confini erano l’oceano a ovest e il Mare Cantabricum a nord. L’Africa era romana, e non vi era pericolo di invasioni né di scorrerie di pirati. In basso: l’arco di Bara a Tarragona (Spagna). I sec. d.C. Nella pagina accanto, in basso: resti di un santuario di Mitra presso il Vallo di Adriano, a Carrawburgh nel Northumberland. II sec. d.C.

assillati da problemi di sicurezza. È la conseguenza dell’invasione della Pianura Padana da parte dei Visigoti di Alarico (401); e se il comandante supremo dell’esercito, Stilicone, lo sconfigge due volte, ecco irrompere attraverso le Alpi i Goti di Radagaiso, che arrivano ad assediare Firenze, prima di essere anch’essi ricacciati da Stilicone. Mentre l’esercito mobile è in Italia, Vandali, Alani e Svevi oltrepassano il Reno all’altezza di Magonza (406). All’incirca intorno a questa data cessa anche nella documentazione archeologica ogni testimonianza meramente romana nella zona della 74 a r c h e o

Renania-Palatinato, mentre l’influsso della cultura romana rimarrà ben visibile anche nei reperti del V secolo. Nella zona della Mosella tradizioni romane e tradizioni germaniche sono documentate fianco a fianco fino al VI o al VII secolo. Intanto, alla notizia della morte di Stilicone, Alarico attraversa nuovamente le Alpi, senza incontrare ostacoli o resistenza, e giunge fino all’Urbe fatale (410). Dai millenari influssi della tradizione classica, coesi con la nuova religione cristiana, i barbari, o i popoli primigenii, trarranno le linfe vitali da cui nascerà tanta parte d’Europa.


A sinistra: il tempio di Augusto ad Ampurias (Spagna).

In alto: resti di un tempio di Mitra presso il Vallo di Adriano, a Carrawburgh nel Northumberland. II sec. d.C. Nella pagina accanto: carta della Britannia con i principali siti, il Vallo di Adriano (in rosso) e quello di Antonino (in nero); i quadratini di colore nero indicano i castra dislocati lungo le due linee difensive.

Per la sua importanza storica e archeologica, il limes germanico è stato, fin qui, il protagonista principale di questa trattazione. Tuttavia, per meglio inquadrarlo in una visione d’insieme, percorriamo ora in una breve carrellata i limites delle altre province dell’impero.

AI CONFINI DEL MONDO La penisola iberica stendeva i suoi confini occidentali sul bordo del grande, indeterminato Oceanus: là, alle Colonne d’Ercole (lo Stretto di Gibilterra), finiva il mondo conosciuto: piú oltre s’apriva l’ignoto, o (segue a p. 80) a r c h e o 75


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UN CASTELLO PER L’IMPERATORE

S

u tutto il territorio un tempo occupato dal limes germanico, nessun muro romano si erge piú sulla superficie del suolo. Tuttavia, gli scavi hanno riportato alla luce le fondamenta di numerosi castra, e tracce di terrapieni e fossati si possono talora scorgere nelle campagne non solo grazie alla fotografia aerea, ma anche a occhio nudo. Un caso unico, in questo panorama, è il complesso della Saalburg, sul Taunus (nell’odierno land dell’Assia, una ventina di chilometri a nord di Francoforte sul Meno, n.d.r.), sia per la successione cronologica dei suoi resti, sia per l’opera ricostruzione dell’accampamento piú grande e piú recente che ne faceva parte. Alla ricostruzione – fortemente voluta dal kaiser Guglielmo II di Prussia e condotta fra il 1897 e il 1907 – contribuirono i dati acquisiti grazie allo scavo del sito e le piú moderne metodologie e tecniche già allora disponibili, come, per esempio, la fotogrammetria. L’opera era inoltre finanziata da sponsor privati, fu promossa la vendita di cartoline e di souvenir prodotti «con il legno delle querce romane», mentre ristoranti e produttori di acqua minerale, sigari, cioccolata, sapone, acquistavano il marchio della Saalburg per diffondere i propri prodotti. Guglielmo II ambiva a stabilire un collegamento fra l’impero romano e la recente dignità imperiale della sua famiglia. Ne è prova l’iscrizione in lingua latina fatta apporre sul piedistallo della statua di Antonino Pio, opera dello scultore berlinese Johannes Götz, posta all’ingresso della Porta Pretoria: «All’imperatore dei Romani, dall’imperatore dei Germani». Al giorno d’oggi, i pareri sull’opportunità della ricostruzione sono contraddittori e non esenti da riserve. La Convenzione Europea per la Tutela del Patrimonio Archeologico del 1992 raccomanda l’anastilosi (cioè la ricomposizione in situ dei frammenti appartenenti allo stesso monumento), ma alle ricostruzioni di un presunto stato originario riconnette il pericolo non solo di distruggere stadi precedenti o successivi, ma anche di danneggiare il contesto. Indubbiamente, però, simili ricostruzioni possiedono un elevato valore didattico. L’impatto visivo, l’immersione del visitatore in un luogo antico ricreato nella sua realtà volumetrica provocano, infatti, una piú immediata comprensione del passato. La conservazione delle fondamenta degli accampamenti e le tracce lasciate sul terreno 76 a r c h e o

dai pali, dai valli e dai fossati del limes non competono certo in suggestività con le ricostruzioni. Alla Saalburg la documentazione e la ricostruzione si basarono sui piú approfonditi studi dell’epoca, ma non sfuggirono a suggestioni tipiche del tempo (i primi del Novecento), inesattezze e anacronismi. Per esempio, Guglielmo II, che seguiva da vicino i lavori, suggestionato dai castelli medievali, fece correggere, avvicinandoli, i merli, dopo ch’erano già stati realizzati alla giusta distanza. Gli accampamenti delle centurie L’accampamento ricostruito è il piú recente e il piú grande. Ma il passo montano della Saalburg presenta i resti di altre piazzeforti piú piccole e piú antiche. La prima di esse, denominata Schanze A, è delimitata da un perimetro ancora irregolare, pentagonale, con un lato piú corto degli altri e con gli angoli leggermente arrotondati. Al suo interno c’è spazio per 10 tende, ognuna da 8 posti, e per quella piú grande del centurione. Si tratterebbe quindi dell’accampamento di una centuria di 80 uomini. L’ingresso non è verso nord, dove corre la via del limes, ma verso sud. Ciò farebbe supporre che la centuria abbia occupato il passo prima che il limes esistesse, e cioè sotto Vespasiano. Ancora piú suggestiva è l’ipotesi che questo passo sul Taunus, strategicamente situato sulla via che lungo il Meno porta a est fino in Boemia, e a nord nell’attuale Assia meridionale, sia stato occupato già in età augustea, nel periodo di maggiore espansione romana sulla Germania Magna, tra la riva destra del Reno e l’Elba. Poco piú a sud, si conservano le tracce di un altro piccolo accampamento, la Schanze B. La sua datazione risalirebbe alle guerre di Domiziano contro i Catti (83-85 d.C.) o anche all’89, l’anno della ribellione di Saturnino contro Domiziano, e sarebbe documentata dal piú antico materiale rinvenuto alla Saalburg. Le due piccole guarnigioni furono poi rase al suolo per far posto a un’unità piú grande: è la terza fase dell’occupazione del passo. Quest’ultima è documentata anche da un terzo accampamento. Si tratta della guarnigione costruita per un’unità di numeri, cioè dai 100 ai 160 soldati. L’accampamento aveva torri angolari di 3 m di lato e una porta principale (Pretoria), fiancheggiata da torri. Sulla dislocazione degli spazi interni la documentazione è scarsa. Dalla presenza di fibbie del tipo britannico si suppone che si trattasse di un’unità di Britanni; mentre le


Saalburgkastell GERMANIA

Kleinkastell Heidenstock f op nk e g Bleibeskopf Sandplacken Kli Ringwälle Kleinkastell Altes Jagdhaus Großer Feldberg Feldbergkastell Kleiner Feldberg

Strade del limes Itinerari turistici Limes Montagne Torri di avvistamento Castello (castrum)

1 Km

A sinistra: cartina delle province danubiano-balcaniche con il percorso del limes e i siti archeologici; i quadratini di colore nero indicano i castra dislocati lungo il confine. Nella pagina accanto, in basso: disegno raffigurante un signifero, il portatore delle insegne delle coorti e centurie. In basso: il sistema dei fossati difensivi della Saalburg in un acquerello ricostruttivo di Peter Woltze. 1903.

Accampamento

monete restituite dagli scavi suggeriscono che il contesto sia databile all’epoca dell’imperatore Traiano. Dal 139 d.C. è documentata la quarta fase di occupazione della Saalburg. Si tratta di un accampamento costruito per un’unità mista di fanteria e di cavalleria, originaria della Rezia: la Cohors II Raetorum equitata, di 500 uomini. L’accampamento della coorte non è rivolto verso il limes, ma verso la strada che portava a Nida, l’attuale Francoforte-Heddenheim. Sotto Antonino Pio, o sotto Commodo, tutte le strutture in legno furono sostituite da costruzioni in pietra, ma senza

apportare mutamenti notevoli né al vallo, né all’organizzazione e alla pianta degli edifici interni. La ricostruzione si riferisce a questa fase: e poiché, malgrado l’uso delle piú moderne tecniche di scavo allora esistenti, non si era ancora in grado di riconoscere dal colore del terreno i segni lasciati dal legno, le parti riedificate riguardano i resti di originali in pietra. La ricostruzione offre l’impatto tridimensionale di un castrum romano dell’epoca. Dal I secolo d.C. fino ai rivolgimenti del III secolo gli accampamenti furono costruiti in tutto l’impero secondo uno schema


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Come una piccola città A sinistra: in alto, pianta della Schanze A, la piú antica delle piazzeforti della Saalburg, forse solo un accampamento innalzato per la notte, poi sostituito; in basso, la Schanze B, piú duratura, con un alloggiamento a forma di ferro di cavallo che poteva contenere 80 uomini. Qui sotto: pianta della fortificazione, che comprendeva il castello, dentro le mura, e il vicino vicus, con gli alloggi del personale civile e le botteghe. Nella pagina accanto, in alto: disegno ricostruttivo di un triclinio. Nella pagina accanto, in basso: un legionario romano.

prestabilito; i soldati trasferiti dall’uno all’altro si ritrovavano sotto la stessa disciplina, le stesse leggi e in strutture molto simili. Mura poco adatte a sostenere lunghi assedi L’accampamento in legno e pietra era circondato da due muri concentrici, distanti 2,30 m. Il graticcio del terrapieno e le parti in legno furono rifatte in pietra, e si aggiunse un secondo fossato a sezione triangolare. Le mura erano abbastanza larghe da consentire un camminamento di ronda e di difesa, ma non superavano la sicurezza di una caserma fortificata, e non erano adatte a resistere a lunghi assedi. All’interno, tutto il perimetro è percorso dalla via sagularis e da una fascia di terreno vuota, l’intervallum, che creava una distanza di sicurezza, entro cui eventuali tiri nemici potevano 78 a r c h e o

infiltrarsi senza conseguenze. L’area restante era divisa da tecnici specializzati, gromatici e mensori, secondo le regole del castrum. Caratteristica, e conservatasi nelle città nate da accampamenti romani, è la partizione in 4 quarti per mezzo di due strade perpendicolari, la via Principale, con andamento E/O, e la Decumana, con andamento N/S. Alle due estremità della via Principale si aprivano la Porta Principale Destra e la Porta Principale Sinistra. Ma la porta piú importante era la Pretoria, e la via Decumana, da questa porta fino al punto d’incontro con la perpendicolare Via Principale prendeva spesso il nome di Via Pretoria. Sul lato opposto a quello della Porta Pretoria, cioè sul retro, c’era la Porta Decumana. Altre strade parallele e perpendicolari suddividevano l’area. Si entra su un ponte attraverso la Porta Pretoria, a due fornici e fiancheggiata da torri quadrate a due piani,


e subito si incontra l’edificio piú importante del complesso: i principia, che ospitavano il quartier generale, il sacrario, l’erario. Il sacello per i vessilli e per il culto del principe Il fulcro ideale di ogni caserma era l’aedes, il sacello in cui si conservavano i vessilli, e dove, di fronte al busto dell’imperatore, se ne celebrava il culto. Generalmente, al di sotto dell’aedes, il luogo piú sicuro e difeso dell’accampamento, si apriva un seminterrato, nel quale si conservava la cassa, che poteva essere utilizzata anche dai soldati per depositare i propri risparmi. Sul lato destro della via Pretoria, accanto ai principia, si trovavano gli horrea, i magazzini, con il pavimento sopraelevato e feritoie nelle mura per l’aerazione dei cereali. Anche l’abitazione del comandante, il praetorium, si affacciava sulla via Pretoria. Sempre piú lontane dal centro (ch’era piú sicuro) e vicine all’intervallum, si susseguivano le costruzioni meno importanti. Le piú modeste erano gli alloggiamenti dei soldati: baracche di legno, che per ciò crearono problemi di ricostruzione, tanto che ne furono riproposte solo due, non senza errori. Cosí il complesso della Saalburg, non riedificato in tutte le sue parti, con pochi edifici distribuiti nello spazio e immersi nel verde, non rende l’impressione militaresca e severa che certamente lo caratterizzava. Ogni baracca alloggiava una centuria (10 gruppi di 8 uomini, contubernium). Gli 8 soldati della stessa camerata si dividevano due ambienti: il primo, piú piccolo, era adibito a custodia delle armi e a guardaroba; nel secondo, munito di un camino, dormivano tutti in uno spazio molto ristretto, vivevano e cucinavano: infatti il soldato romano, che oltre al soldo in moneta riceveva anche pagamenti in natura, cucinava da sé il proprio rancio, macinava la farina e si preparava il pane. Per sfamare decine di migliaia di persone che consumavano, ma non producevano beni alimentari, Roma promuoveva, perfezionava e sviluppava nelle terre occupate l’agricoltura e l’allevamento. I coloni romani, oltre a importare culture e in parte animali, disponevano di attrezzi di ferro piú evoluti per uno sfruttamento del suolo piú facile e piú efficiente. Anche nell’allevamento usavano metodi grazie ai quali riuscirono a migliorare le razze bovine. Nella Saalburg non è stato ricostruito il lazzaretto, ch’era dotazione imprescindibile di tutte le caserme. Roma aveva però tutto

l’interesse a curare la salute dei suoi soldati. Ogni guarnigione, anche piccola, disponeva almeno di un medico e di un piccolo ospedale. Rientravano nella dotazione di ogni guarnigione anche le officine, le fabricae, dove si eseguivano riparazioni e si curava la manutenzione di armi e di attrezzi. C’erano inoltre macine da mulino, una per ogni centuria, perché i soldati ricevevano le loro razioni di cereali non macinate. E non mancavano le terme Alla Saalburg si sono conservati i resti di quasi 100 pozzi di varie epoche, preziosi come contenitori degli oggetti piú svariati, che cosí sono pervenuti fino a noi. Altri accampamenti, piú grandi, avevano un proprio acquedotto; in tutti lo scolo delle acque piovane e quello delle acque impure era governato a regola d’arte, a garantire la salute dei soldati; non mancavano, naturalmente, le latrine. L’ultimo accampamento sulla Saalburg disponeva di terme piú grandi di quelle dei numeri, ch’erano all’interno dell’area. Queste si trovavano al di fuori, in posizione cosí bella che furono credute una villa edificata per accogliere l’imperatore Caracalla, in visita all’accampamento. Presso le terme, che sembra potessero essere utilizzate anche dagli abitanti del vicus, vi sono i resti di un’altra costruzione: ritenuta un mattatoio per la gran quantità di ossa animali che vi si rinvennero, era invece una locanda, destinata a ospitare ufficiali e autorità di passaggio, munita di stalle per cavalcature, pronte per il cambio dei viaggiatori e soprattutto per i corrieri postali. a r c h e o 79


STORIA • IL LIMES/2

FRAMMENTI DI VITA QUOTIDIANA «Claudia Severa saluta la sua Lepidina. Il terzo giorno prima delle Idi di settembre, sorella, per la celebrazione del mio compleanno ti invito volentieri a venire da noi; se verrai, renderai piú lieto il giorno con la tua venuta. Saluta il tuo Ceriale, anche il mio Elio e il mio figliolino ti salutano. Ti aspetterò, sorella; sta bene, anima mia, cosí come anche io possa star bene, carissima, e ti saluto». Questo breve biglietto d’invito, dal tono familiare e affettuoso, fa parte delle lettere trovate nel 1973 dall’archeologo inglese Robin Birley nel sito del forte romano di Vindolanda, sul Vallo di Adriano, presso l’odierna Chesterholm. Scavando nel deposito di una discarica di rifiuti, lo studioso si imbatté, con grande sorpresa, in una serie di piccoli e sottili frammenti di legno vergati a inchiostro con una scrittura corsiva: erano lettere appartenute agli abitanti del forte, e contenevano vari tipi di documenti. Oltre a missive personali, vi erano informazioni su conti, forniture di cibi, sui lavori delle officine artigianali, sulle costruzioni nel forte, sui movimenti di truppe, ecc. Da questa scoperta fortuita è emersa una massa di informazioni sulla vita quotidiana di un castrum del 90-100 d.C., situato nella

80 a r c h e o

Britannia del Nord. Gruppi di lettere sono risultate inviate a una stessa persona, come quelle di Flavio Ceriale, prefetto dell’VIII o IX coorte dei Batavi e marito di Sulpicia Lepidina (la «Lepidina» amica o sorella di Claudia Severa, moglie di Elio Brocco), a sua volta in possesso di un proprio archivio epistolare. Le due donne vivevano nello stesso forte o non lontane l’una dall’altra e si scambiavano inviti e informazioni sui rispettivi figli e mariti; d’altronde, nel pretorio del forte sono state trovate diverse piccole scarpe, che attestano la presenza di bambini. Almeno gli ufficiali superiori avevano il conforto della vicinanza della famiglia durante i lunghi anni passati nelle guarnigioni di frontiera. Anche le liste per le forniture di cibi sono interessanti, per conoscere le diete alimentari delle truppe: in un testo si citano lardo, orzo, birra, vino, aceto e la salsa di pesce tanto amata dai Romani (il garum); e ancora sale, spezie, grano e diversi tipi di carne, capriolo, maialino, prosciutto, carne di cervo. Non mancavano informazioni di carattere militare: «I Britanni non sono protetti da armatura (…) Ci sono moltissimi cavalieri. I cavalieri non usano spade, né i Britannucoli prendono posizioni fisse per lanciare i dardi».

il nulla. I Romani non si aspettavano invasioni, né scorrerie di pirati da quella parte; a nord c’era il mare aperto, il Mare Cantabricum (oggi Golfo di Biscaglia) a sud, oltre il braccio mediterraneo del Mare Nostrum, le popolazioni alleate e poi annesse all’impero della Mauritania. E, infatti, nelle province spagnole non c’è traccia di fortificazioni. C’era però il presidio delle legioni, che, secondo la testimonianza di Tacito, erano tre nel 2 d.C.

NELLA TERRA DEI CELTI In Inghilterra, la piú antica fascia fortificata sul suolo dei Celti risale alla prima fase dell’attività di consolidamento delle frontiere, cioè all’epoca di Adriano. Due volte, nel 54 e nel 53 a.C., i Britanni avevano visto sbarcare sui propri lidi Giulio Cesare con le sue truppe. Se il 54 aveva fatto registrare operazioni poco decisive, già l’anno dopo l’impresa veniva ripetuta, e se anche questa volta l’esito non fu travolgente, Cesare poté permettersi un propagandistico annuncio di vittoria in Senato: Roma era abbastanza lontana per una verifica. Ma fu l’imperatore Claudio che, dopo una vittoriosa campagna, poté annettere la Britannia come provincia all’impero. E, nel 122 d.C., Adriano ordinò la costruzione di un limes, nell’ambito di una decisa politica di demarcazione e di fortificazione dei confini. Il Vallum Hadriani decorreva dalla foce dell’Hyne sul Mare del Nord, all’altezza dell’odierna Newcastle (Pons Aelius), fino alla foce del Solvay, sul Mare d’Irlanda, snodando per 80 miglia romane un muro continuo, alto 6 m, orlato di guarnigioni (castella) e di torri, rinforzato all’esterno da un fossato munito di doppia palizzata, e protetto all’interno da altri castelli sparsi: in tutto 80 fortini, 17 castella auxiliaria e 60 torri. Sebbene molto valida, anche come base per il trasporto di trup-


Inveresk

Mare del Nord

Newstead

Castra Exploratorum Bowness Carlisle

H I V E RN I A

Maryport

Old Penrith

Papcastle

Mare d’Irlanda

Wallsend

Vindolanda Newcastle

Catterick Isurium

Ribchester

York Tadcaster

Brough

Il Vallo di Adriano invece, ulteriormente rinforzato sulla costa dal cosiddetto Litus Saxonicum sotto Costanzo I e Costantino e collegato a una buona rete stradale, tenne testa a pirati e a rivolte di contadini fino agli inizi del V secolo.

Manchester

LUNGO IL DANUBIO La Rezia fu occupata già nel 15 a.C. dai figli di Livia e nipoti adottivi di Brancaster Littlechester Wroxeter Augusto: Tiberio, il futuro imperaCaistor Wall Leicester St.Edmund tore, e Druso. La zona settentrionaWater Newton Droitwich le corrispondeva all’odierna BavieHigh Cross Godmanchester ra, la regione a sud era la terra degli Cambridge Towcester Carmarthen Elvezi (la Svizzera), e i territori a est Great Cheswterford Gloucester Alchester Neath erano parte dell’attuale Austria. Caerwent Colchester St.Albans Cirencester Claudio (41-54) fortificò la zona Mar Caerleon Chelmsford Dorchester Londra Bath lungo il Danubio con castra auxiliaRochester Celtico Silchester Richborough ria e stazioni di controllo, come Canterbury Venta Lentia (Linz) e Passau. Dover Lympne Exeter Dorchester A nord della Rezia, l’alto corso del Bitterne Chichester Pevensey Reno delimitava la parte occidenMaiden Castle tale di un saliente, chiuso a est BELGICA dall’alto corso del Danubio. L’alta La Manica valle fra i due fiumi divenne una specie di avamposto a difesa del confine romano, istituito da Vespa100 Km LUGDUNENSIS siano e probabilmente completato Severa a Sulpicia Lepidina. 90-100 d.C. nella sua organizzazione da AdriaIn alto: carta della Britannia con i no. Si trattava di terreni coltivati da circa. Londra, British Museum. principali siti, il Vallo di Adriano (in cittadini romani, che s’inserivano a In basso: antefissa trovata nell’Holt, rosso) e quello di Antonino (in nero); i cuneo direttamente a ridosso di Clwyd, proveniente dalla fabbrica quadratini neri indicano i castra territori poco sicuri. La denominadella XX legione, il cui emblema era dislocati lungo le due linee difensive. zione di Agri decumates si riferiva al un cinghiale. II-III sec. d.C. Londra, Nella pagina accanto: la tavoletta di poco piacevole dovere dei coloni di British Museum. Vindolanda con l’invito di Claudia pagare la decima; ciononostante, pe, di rinforzi e di materiali, l’opera essi assolsero felicemente al compifu presto sostituita dal piú setten- to di difesa della loro proprietà, trionale e piú breve Vallum Antonini, ch’era il loro interesse e anche che tagliava parallelamente al primo quello di Roma, almeno fino alle l’attuale Scozia meridionale (la Ca- massicce invasioni del III secolo ledonia), con fortini posti a inter- degli Alamanni e dei Franchi. Con valli di 3 km circa l’uno dall’altro, la costituzione degli Agri decumates, un muro continuo alto 3 m e un la linea del limes fu spostata in avanfossato largo 12 e profondo 3 m. Il ti, su di una parallela piú a nord, e, secondo vallo ebbe alterne fortune: dopo gli attacchi dei Marcomanni, fu sgomberato nel 163, riconquista- si completò a occidente la recinzioto nel 165 e abbandonato definiti- ne del limes, che misurava già 106 vamente nel 168; forse perché ta- km di palizzata, ma sostituendo i gliava i territori di popolazioni po- pali di legno con un muro. co disposte a subire gli influssi del- Forse sotto Traiano fu costruita la la romanizzazione o della diplo- via che da Mogontiacum (Magonza), mazia imperiale. la capitale della Germania MeridioBrough

Caernarvon

Chester

Lincoln

a r c h e o 81


Wels

Linz

Vienna Bratislava

Salisburgo

STORIA • IL LIMES/2

Brigetio

N O R I C U M

Lago Balaton

Aguntum Virunum

Gorsium

Turd

PANNONIA Celje

SUPERIOR

Pècs

Tibis

Neviodunum

D A L M A T I A

Mar Adriatico

D A

Ulpia Traiana Sarmizegetusa

Danubio

Sava

Alb

Mures

co

nale, portava ad Augusta Vindelicum (l’attuale Augusta in Baviera), capitale della Rezia. Su questo tratto di limes furono attivi i controlli delle persone e delle merci; ma esso non era stato creato per resistere a urti bellici violenti, come quelli degli Alamanni nel III secolo. Aureliano e Gallieno, doppiamente incalzati, sia all’esterno dai barbari e dai Persiani, sia all’interno dalle guerre civili, ritraggono le loro posizioni nella Rezia al di sotto del corso del Danubio: gli Agri decumates vengono sgomberati (260 d.C.). Tuttavia, tra la fine del III e gli inizi del IV secolo si fortificò la confluenza dell’Iller con il Danubio; e sia quest’ultimo tratto di limes che i castelli sull’alto Danubio restarono in funzione fino al V secolo. Dopo aver delimitato il confine settentrionale della Rezia, il Danubio segnava ancora il confine settentrionale europeo dell’impero romano, dalle Alpi Noriche fino al Mar Nero (il Ponto Eusino degli antichi). Esso incontrava successivamente sul suo corso: il Norico (la maggior parte dell’odierna Austria), la Pannonia (corrispondente alla Slovenia e a parte dell’Unghe-

Magdalensberg

Budapest

Drobeta Belgrado

MOESIA

Salona

Ratiaria

SUPERIOR Caricin Grad

So

I T A L I A

200 Km

ria), la Dalmazia (cioè la parte non costiera della Croazia e della Bosnia-Erzegovina) e la Mesia (che copriva in parte i territori delle attuali Serbia e Bulgaria). Augusto si gloria nelle Res gestae di aver fissato questi confini; Floro e Festo confermano le asserzioni im-

Scutari

Skopie

M ACE DO N IA

In alto: carta delle province danubiano-balcaniche con il percorso del limes e i siti archeologici; i quadratini di colore nero indicano i castra dislocati lungo il confine. In basso, a sinistra: torso di una statua colossale di Traiano dal trofeo di Traiano ad Adamclissi. I-III sec. d.C.

Alla metà del III secolo, l’area danubiana fu nuovamente invasa da Alamanni, Goti, Quadi e Sarmati

82 a r c h e o

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M O E S I A

I N F E R I O R

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T H R A C I A Istanbul

Nella pagina accanto, in basso, a destra: stele funeraria del legionario Ariston, con la raffigurazione della sua panoplia, da Istanbul. II sec. d.C. Istanbul, Museo Archeologico. In basso: modellino di un campo di ausiliari a Zwentendorf, Austria. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

periali, riferendo esplicitamente di praesidia e di un limes. La documentazione archeologica, invece, dimostra che, in età augustea, la difesa di questa, come di altre parti dell’impero, era demandata unicamente a legioni, di stanza in posizione piuttosto arretrata rispetto al confine e situate principalmente sulle vie che si diramavano verso di esso in senso obliquo e trasversale (era ancora il significato etimologico di limes).

NUOVE ANNESSIONI Già sotto Tiberio e sotto Claudio, accanto ai castra legionari, sulla linea del Danubio si moltiplicano guarnigioni e castella auxiliaria. Sono concentrati soprattutto a sud delle cosiddette Porte di Ferro, formate dai Carpazi meridionali con i massicci montuosi della Serbia orientale. Intanto, nel 46 d.C., viene annessa all’impero la Tracia (odierna Bulgaria). Anche questi nuovi territori vengono integrati nella fascia difensiva danubiana. L’attività di rafforzamento del limes s’incrementa con Vespasiano; alle reazioni bellicose dei popoli limitrofi, i Daci (85-88), i Marcomanni (89), i Quadi e i Sarmati (92), Domiziano risponde con

offensive militari, trattative diplomatiche e una sempre maggiore concentrazione di truppe nella zona. Il 106 segna un’altra annessione: Traiano conquista la Dacia, creando un saliente a nord del corso del Danubio. La fortificazione della regione viene ulteriormente rafforzata. Ormai le legioni dislocate in zona sono 4: oltre alla piú antica, quella di Carnuntum, ci sono quelle di Vindobona (Vienna), di Brigezio e di Aquincum (Budapest), mentre altre 2 vengono portate nella parte orientale della Mesia. Ma le strutture difensive non reggono all’assalto dei Marcomanni, nel 167 d.C. Lo stato di belligeranza dura fino al 180. Un nuovo periodo di tranquillità si ha solo con Marco Aurelio e Commodo: si compiono interventi di ripristino, di ristrutturazione e, nella Rezia, viene fondata la fortezza di Regina Castra (Ratisbona). La pausa di operosa tranquillità dura circa un secolo, al termine del quale contro il limes si abbattono le invasioni di Alamanni (233), Goti, Quadi, Sarmati (258-260). La tradizionale strategia romana, consistente nel combattere il nemico sul suo territorio, è ormai definiti-

a r c h e o 83


STORIA • IL LIMES/2 A sinistra: veduta aerea delle rovine della fortezza romana di Oescus, presso Ghighen, Bulgaria. I-III sec. d.C. In basso: punta di stendardo in bronzo con sacrificio a Giove Dolicheno e l’aquila romana. I-III sec. d.C. Budapest, Museo Nazionale.

vamente fallita. Aureliano, il costruttore delle grandiose mura che cingono l’Urbe, si vede costretto ad abbandonare la Dacia (271). Ma ascende al trono Diocleziano, che si fa promotore di riforme radicali. Egli ha un progetto anche per la difesa, e riordina le zone del limes, affidandole al presidio di milites limitanei, con funzioni di controllo, mentre i comitatenses sono i soldati organizzati in veri e propri eserciti di manovra. Dopo la fondazione di Costantinopoli (330 d.C.), Costantino promuove a difesa della nuova capitale la sicurezza del fronte danubiano lungo il territorio degli Sciti. Anche Valentiniano rafforza queste fasce difensive, con torri di controllo e di segnalazione in pietra. Ma dopo rinnovate invasioni e nuove ondate barbariche (Ostrogoti,Visigoti, Alani, Unni), l’impero deve scendere a patti. Nel 380 Teodosio si accorda con i barbari, ottenendo una pausa in Pannonia. Ma di breve durata. Il V secolo si apre con la penetrazione dei Vandali nella Rezia (401); pochi anni dopo (405) viene invaso il Norico. Le fortezze e le torri 84 a r c h e o

della Pannonia, ancora in funzione, sono ormai tenute da Germani; infine, nel 433 vengono cedute agli Unni con un regolare contratto le province della Pannonia I e della Valeria (i nomi sono frutto della frammentazione operata dalla riforma dioclezianea nella divisione delle province). Circa vent’anni piú tardi, gli Unni di Attila occupano il Norico (451).

LA «RIANIMAZIONE» DI GIUSTINIANO Il limes decade, ma non è ancora del tutto desueto: Giustiniano è l’ultimo imperatore che tenta di ridestarlo a nuova vita. Ma fra la fine del V secolo e l’inizio del VI, Avari e Slavi sottraggono per sempre all’impero i resti delle terre danubiane. Rimangono però le opere del limes: sia nel Norico che nella Tracia esse vengono utilizzate dai primi insediamenti civili altomedievali. Lungo il confine con la Scizia, invece, le antiche infrastrutture, inglobate in un nuovo sistema difensivo, continuano a essere usate fino al X secolo dall’impero bizantino. Nella sua estensione su quasi tutte le terre allora conosciute, l’impero ro-

mano conobbe ai suoi confini due grandi minacce endemiche, che ripetutamente esplosero in crisi acute: i Germani a nord, i Parti a est. E la minaccia orientale si fece molto piú grave quando, nel 226 d.C., gli Arsacidi della Partia furono scalzati dai Sasanidi, i fondatori della Persia. I primi possedimenti di Roma in Oriente si erano formati già in età repubblicana senza colpo ferire, al-


lorché, nel 13 a.C., Attalo III di Pergamo aveva lasciato il suo regno in eredità al popolo romano. Nel 75 a.C. vi si aggiunse l’eredità del regno di Bitinia da parte di Nicomede IV, anch’esso inglobato nella provincia dell’Asia, corrispondente a circa i due terzi centro-occidentali dell’odierna Turchia. Pompeo poi, negli anni intorno al 60 a.C., lega a Roma come provincia la Siria, alla quale aggiunge, a nord, con sbocco sul Mediterraneo, parte della Cilicia; mentre amplia la provincia dal risonante nome di Asia, annettendovi il Ponto, sul Ponto Eusino (il Mar Nero) a nord, e a ovest, sul Mediterraneo, la Fenicia e la Palestina. Grazie alla campagna di Traiano, non solo l’Arabia Nabatea (il Sinai e l’attuale Giordania), ma anche le terre della Mesopotamia e dell’Assiria sono annesse all’impero. Come rovescio della medaglia, i confini vengono cosí a trovarsi a diretto contatto con la ricorrente minaccia dei Parti. Spesso i resti del limes romano nelle regioni asiatiche sono riemersi solo grazie alla fotografia aerea, alle ricognizioni di superficie e, negli anni Settanta del Novecento, durante lavori di costruzione di dighe in Siria e in Turchia.Tratti del limes sul Tigri e sull’Eufrate oggi sono sommersi, ma hanno potuto essere rilevati e studiati. Sui resti del limes orientale rimangono comunque molti dubbi: sulla cronologia, sulla denominazione e talora perfino sull’attribuzione ai Romani. Il limes asiatico era costituito da castelli, torri, strade e reti stradali; non ci sono pervenuti valli, fossati o palizzate. Le coste del Mar Nero, della Bitinia e del Ponto, inglobati nella provincia dell’Asia, erano munite da castelli, costruiti da Vespasiano, da Traiano e da Diocleziano. Ma una parte importantissima della difesa sul Mar Nero, soprattutto contro la piaga della pirateria, era affidata alla flotta: la classis Pontica vi era stanzia-

Cammeo in sardonica raffigurante il combattimento a cavallo fra il re sasanide Sapore I e l’imperatore Valeriano, che viene catturato dal rivale. 260 d.C. Parigi, Cabinet des Médailles. La scena evoca la sconfitta patita dai Romani a Edessa.

ta già dal 64 d.C. I castelli piú importanti sulla costa erano quelli di Sebastopoli, di Phasis e di Pityus. Gli ultimi due hanno rivelato agli archeologi estese canabae legionis, i villaggi castrensi, dove artigiani, commercianti, familiari dei soldati, osti e veterani vivevano in contatto con gli accampamenti, attendendo alle loro attività.

UN ALLEATO PREZIOSO Le coste mediterranee della Turchia e della Siria non erano rafforzate da un limes. Cosí ne era priva anche la Cappadocia, antica terra degli Ittiti prima, parte del regno lidio e dell’impero persiano poi, divenuta provincia romana nel 17 d.C. La proteggeva dalla minaccia dei Parti l’Armenia, che fino alla sua annessione era stata uno Stato-cliente, o meglio, forse, l’unico Stato-cuscinetto nel sistema di alleanze dell’impero. Conquistata da Traiano, all’epoca di Diocleziano fu ridotta alla parte occidentale anteriore, che costituí l’Armenia Minore. Un sistema complesso di strade, castra legionis, castella e torri rafforzava invece la Palestina, la Siria e i tratti romani delle rive del Tigri e dell’Eu-

frate. Sul lato confinante con l’Arabia non romana, la Siria era munita di un limes che andava dal Mar Rosso (il Golfo Arabico) all’Armenia, da Bostra – la capitale della tarda provincia romana dell’Arabia Nabatea – fino ad Amida sul Tigri. Roma proteggeva cosí la popolazione all’interno, le coltivazioni e gli approvvigionamenti d’acqua dai predoni del deserto arabico. A nord-est, si snodava in Siria la strata Diocletiana, orlata di pietre miliari, che portava da Sura, sull’Eufrate, a Palmira, a Bostra, mentre un’imponente rete di 6 vie collegava i punti piú importanti, come Palmira, Antiochia e Hierapolis. In un passo molto citato (23, 5, 2), Ammiano Marcellino distingue fra un limes interno, identificato nella strata Diocletiana, costruito per i cittadini dell’impero perché ne potessero seguire a vista il decorso, e un limes esterno, destinato al controllo del territorio non romano. Nel V e nel VI secolo Bisanzio, con disimpegno analogo a quello assunto nella fascia sud-occidentale, affidò il controllo del limes esterno agli Arabi Gassanidi. Dopo l’annessione dell’Arabia Nabatea, fu costruita la a r c h e o 85


STORIA • IL LIMES/2

via Traiana nova. Le strade carovaniere furono rafforzate dai Severi e da Diocleziano. Ma nel IV secolo, grazie all’innovazione della sella, i nomadi saraceni divenivano sui loro cammelli ancora piú agili e pericolosi. Alla fine del V secolo Bisanzio, erede di Roma, trasmetteva agli sceicchi beduini, dietro pagamento, la difesa dai predoni. Le strutture del limes persero la loro funzione e vennero adattate a usi civili; e non furono in grado di frenare le invasioni dei Persiani (614) e degli Avari (634-640). La provincia della Mauritania è geograficamente la pr ima che stenda le sue coste sul Mediterraneo da ovest a est, anche se l’ultima cronologicamente acquisita da Roma. Non corrisponde affatto all’attuale Mauritania, ma pressappoco al Marocco e a un’ampia fascia costiera dell’odierna Algeria. Era divisa in Mauretania Tingitana e Mauretania Caesariense. Nessuna grande potenza attentava alle province africane, che confinavano con il deserto, anch’esso, allora, entità di proporzioni indetermi-

nate, confinante con la fine del mondo conosciuto. Il limes e i fossati esplicavano la loro funzione difendendo i rifornimenti d’acqua e le grandi strade commerciali e regolando le rotte pastorali della transumanza. Per proteggere le persone e le cose dalle incursioni dei predoni, guarnigioni e fortezze erano poste a ridosso dei centri abitati, talora isolate, come isolati erano gli insediamenti. Nel tardo impero si sviluppa anche qui l’uso delle cinte murarie cittadine.

UNA REGIONE SICURA Già Augusto fece insediare sulla costa tingitana colonie, fra cui quella di Tingi (l’odierna Tangeri, in Marocco). Il sistema difensivo del limes comprendeva strade, accampamenti, muri (clausurae), forti e fortini di diversa grandezza. Da Tingi si dipartivano due strade in direzione sud; due altre vie parallele, ma decorrenti in senso longitudinale, fanno pensare a un limes doppio. Un altro punto strategico importante era Volubilis, circondata da fortini e da insediamenti fortificati. Un fossato

Nella pagina accanto: i resti di uno dei campi militari romani usati nell’assedio della fortezza di Masada, nel 73 d.C. In questa pagina: i resti della fortezza romana presso il villaggio di El Heiz, nell’oasi di Bahariya, in Egitto.

86 a r c h e o

presso Sala, a sud, rinforzato in alcuni tratti da terrapieni, valli e palizzate, difendeva il territorio dalle scorrerie dei predoni. La Mauretania Tingitana era una delle regioni piú sicure dell’impero, e le sue strutture difensive rimasero pressappoco intatte fino all’età tardo-antica. La Mauretania Caesariense presentava un territorio geograficamente molto vario, che alternava i paesaggi montani alle coste, ai deserti. Roma decise la costruzione di strutture di controllo, basandosi sulle caratteristiche, oltre che politiche, geografiche e topografiche della regione, e lasciando vuota una fascia di 350 km circa, da Volubilis a Tafna. Limites, invece, rafforzarono la costa, disposti sull’entroterra a ovest e a est (I secolo d.C.). Con la Mauretania Caesariense confinava la Numidia, acquistata a Roma nel 46 a.C., e chiamata poi Africa Nova: è identificabile oggi nel territorio piú orientale della fascia costiera algerina. Seguiva geograficamente quella che, cronologicamente, era stata la prima provincia romana nel continente africano, co-


stituita dai territori di Cartagine. Istituita nel 146 a.C. col nome di Africa, fu provincia proconsolare (Africa Proconsularis) e fu detta poi Africa Vetus, per distinguerla dalla Numidia (Africa Nova). Il promontorio a occidente è pressappoco l’attuale Tunisia; il resto copre la parte costiera della Libia, con la Tripolitania e la Cirenaica.

UN DUPLICE SISTEMA DI DIFESA Il primo dei fossati in senso cronologico, la cosiddetta fossa regia, fu scavato sull’Africa Proconsolare a ridosso dei confini con la Numidia, non ancora romana, e prese il nome da quel regno. Seguí la costruzione di forti e di strade, come la via ex castris hibernis, aperta fra il 14 e il 15 a.C. I Flavi incrementarono la costruzione di strade e di fortezze, cosí che si sviluppò quasi un sistema di limes doppio; le fonti romane indicano separatamente fossa e limes. Sull’orlo del Sahara, al limite meridionale della Numidia, decorre il fossato piú imponente e piú famoso del continente. È il cosiddetto Fos-

LE ULTIME ORE DI MASADA Il sito di Masada si trova sul Mar Morto, nel deserto della Giudea. Vi si insediarono per primi gli Asmonei (II-I secolo a.C.). La costruzione della città vera e propria si deve a Erode I il Grande, in tre fasi distinte, ma conseguenti. La cittadella era costituita da palazzi minori, una piscina, un palazzo grandioso sull’acropoli progettato dallo stesso re, su tre terrazze naturali, con sale per banchetti, porticati, magazzini e dodici cisterne, in grado di contenere oltre 40 000 metri cubi d’acqua, alimentate dalle piene stagionali del vicino wadi. Una muraglia con torri, casematte e ambienti vari circondava il complesso, sulla sommità del massiccio roccioso. Una fortezza impenetrabile, che fu l’ultima roccaforte degli Ebrei nella guerra contro i Romani del 66-73 d.C., vinta da Tito e terminata con la diaspora ebraica. A Masada si rifugiarono

satum Africae, largo da 4 a 10 m, orlato da un vallo alto 1-1,5 m, in alcuni tratti rinforzato da un muro alto da 2 a 2,5 m. Il suo tracciato è protetto da torri, che lo fiancheggiano a distanza di 1 km circa l’una dall’altra. Fra il fossato e il parallelo alveo, quasi sempre asciutto, di un fiume, sono disseminati i castella. Il Fossatum Africae interessava una linea ideale di 750 km circa, una linea spesso interrotta, probabilmente per consentire il passaggio delle carovane. Il maggior promotore dell’opera fu Adriano, che l’iniziò partendo da Gemellae (intorno al 127 d.C.); sotto di lui fu sviluppata anche un’importante rete stradale. Fortezze piú recenti, del tipo con le torri aggettanti e le caserme direttamente impiantate sul muro degli accampamenti, senza intervallum, sono databili, proprio per que-

gli ultimi Ebrei, che si suicidarono in massa per non cadere in mano al nemico. La vicenda è narrata dallo storico ebreo Giuseppe Flavio nella sua Guerra giudaica.

ste caratteristiche architettoniche, all’epoca di Diocleziano e della tetrarchia. I limitanei di quest’epoca, tutti del luogo, furono soldaticontadini, che nel corso del IV secolo promossero l’agricoltura con un sistema di irrigazioni. Fino a pochi decenni fa non si conoscevano resti archeologici di limites in Egitto, anche se le fonti testimoniano la presenza di presidi militari. Recenti scavi hanno tuttavia dimostrato l’esistenza di strutture di tipo militare, soprattutto nella fascia orientale del Paese, fra il Nilo e il Mar Rosso. In questa zona sono affiorate postazioni fortificate a difesa dei rifornimenti d’acqua, e castella e fortini per proteggere le cave di marmo e la via usata da pellegrini e commercianti in cammino verso le città sacre. (2 – fine) a r c h e o 87


SPECIALE • TRIESTE

TRIESTE IN VETRINA di Giuseppe M. Della Fina

«I

l fascino di una collezione sta in quel tanto che rivela e in quel tanto che nasconde della spinta segreta che ha portato a crearla», cosí osservava Italo Calvino in una raccolta di suoi scritti giornalistici pubblicata con il titolo Collezione di sabbia. Una chiave interpretativa che si pre-


Trieste. La facciata del Palazzo del Municipio, realizzato tra il 1873 ed il 1875 su progetto dell’architetto Giuseppe Bruni. L’edificio prospetta su piazza dell’Unità d’Italia (già piazza San Pietro) ed è preceduto dalla Fontana dei Quattro Continenti, di cui nella foto si vede la parte sommitale.

sta bene per avvicinarsi ai Musei Civici di Trieste. Centrali, infatti, appaiono le motivazioni dei loro promotori, primo fra tutti Domenico Rossetti (1774-1842), procuratore civico e studioso di storia locale, al quale si può fare risalire l’idea di un museo archeologico. Il suo amore per le antichità passava attraverso l’ammirazione per la personalità di Johann Joachim Winckelmann, il quale, proprio, a Trieste, era stato ucciso nel 1768 sulla strada di ritorno a Roma, dopo un viaggio a Vienna, dov’era stato ricevuto dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria e dal principe Wenzel Anton von Kaunitz-Rietberg.

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SPECIALE • TRIESTE

Il fondatore dell’archeologia e della storia dell’arte antica si era fermato in una città che stava vivendo una fase di grande sviluppo, legata alla vivacità della cosmopolita borghesia cittadina e al conseguente incremento degli scambi commerciali che transitavano per il suo porto. In attesa di una nave che lo riportasse a Roma, Winckelmann aveva trovato alloggio, a partire dal 1° giugno 1768, presso la Locanda Grande in piazza San Pietro (oggi piazza dell’Unità d’Italia), l’albergo migliore della città che – da pochi anni – era stato ristrutturato. Qui aveva conosciuto un altro ospite, il cuoco Francesco Arcangeli, che, tempo prima, era stato allontanato da Vienna per furto. I due uomini condivisero l’attesa nei giorni precedenti alla partenza e – in uno di essi – il grande archeologo, che era in incognito, potrebbe avere rivelato di essere in possesso di quattro medaglie, due d’oro e due d’argento, che aveva riceSalvo diversa indicazione, le immagini di questo Speciale si riferiscono al Museo d’Antichità J.J. Winckelmann di Trieste.

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IN MEMORIA DEL «PADRE» DELL’ARCHEOLOGIA Il monumento a Johann Joachim Winckelmann fu voluto dal procuratore civico e storico Domenico Rossetti e venne realizzato dallo scultore Antonio Bosa, che insegnava presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Realizzata in stile neoclassico in marmo bianco di Carrara, la scultura raffigura un sarcofago, sul quale siede affranto il Genio del defunto, appoggiandosi a un medaglione con il ritratto del padre dell’archeologia e della storia dell’arte antica. Sul basamento è scolpita una scena allegorica dove un filosofo togato (lo stesso Winckelmann) illumina con una torcia le antichità (rappresentate da una piramide, una sfinge, un busto di Omero, un vaso e alcune medaglie) e le illustra alle personificazioni della Pittura, della Scultura, dell’Architettura, della Storia, della Critica, della Filosofia e dell’Archeologia, che, seduta, sta scrivendo. Sulla fronte del sarcofago corre l’iscrizione commemorativa in latino. Il monumento fu inaugurato nel marzo del 1833.

rubarle: la mattina dell’8 giugno, dopo avere raggiunto il porto ed essere rientrato in albergo, poco prima delle 10, s’introdusse nella stanza occupata da Winckelmann ipotizzando forse che fosse vuota. Invece non lo era e tra i due uomini ebbe luogo una colluttazione, conclusasi con alcune coltellate inferte all’archeologo: il trambusto fece intervenire il personale dell’albergo, che cercò di prestare soccorso al ferito. Arcangeli riuscí

vuto personalmente dall’imperatrice. Si trattava, per inciso, di due medaglie di argento coniate in occasione dell’incoronazione di Giuseppe II come imperatore e coreggente con la madre Maria Teresa (1765), mentre le due d’oro ricordavano rispettivamente il matrimonio dell’imperatrice con Francesco III (1736) e la figura del principe di Lichtenstein Joseph Wenzel I (1758). Ad Arcangeli potrebbe essere venuta l’idea di Nella pagina accanto: il monumento in onore di Johann Joachim Winckelmann, che non ne custodisce le spoglie, andate disperse. A destra: pianta del centro storico di Trieste con l’indicazione dei musei e dei monumenti citati nel testo.

Stazione Centrale Molo III Piazza Duca della Libertà

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Museo del Mare

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Museo d’Arte Orientale

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Largo della Barriera Vecchia Castello di San Giusto

Museo d’Antichità J.J. Winckelmann

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SPECIALE • TRIESTE

ad allontanarsi senza portare a termine il furto. Winckelmann fu ferito gravemente, al punto da spirare qualche ora dopo e il suo assassino venne arrestato nel giro di breve tempo. Rapido fu anche il processo che si concluse con la condanna a morte di Arcangeli, giustiziato, attraverso il supplizio della ruota, proprio in piazza San Pietro. Alcuni dubbi sulle motivazioni dell’omicidio sono sorti rileggendo le carte processuali ancora conservate. Di questa perplessità viene dato conto in un libro, Il delitto Winckelmann, di Paola Bonifacio (2014) e in un film-documentario, In morte di un archeologo, realizzato da Piero Pieri e dalla stessa Paola Bonifacio. Accanto alle motivazioni del tentato furto o di un acceso diverbio di carattere personale sorto fra i due, è stata avanzata l’ipotesi che l’assassinio sia stato legato a incarichi di carattere diplomatico e politico che Winckelmann avrebbe svolto a Vienna e i cui esiti avrebbe dovuto riferire a Roma.

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L’eco dell’omicidio fu notevole per la rilevanza del personaggio coinvolto e gettò un’ombra negativa sulla città di Trieste. Il rapido processo e la durissima condanna dovevano mostrare, da un lato, l’attenzione per la sicurezza dei visitatori e degli ospiti in città e, dall’altro, provare a recuperare sul piano dell’immagine.

UN MONUMENTO RIPARATORE Anni dopo, a Domenico Rossetti sembrò che il nome di Trieste fosse ancora offuscato da quella vicenda delittuosa e propose – come riparazione – di erigere un monumento a Winckelmann all’interno della cattedrale di S. Giusto. A tal fine, nel 1808, propose una sottoscr izione diffondendo un invito a stampa. Il progetto andò perfezionandosi e si pensò d’inserire il monumento in un edificio apposito da costruire a lato della cattedrale. Nell’ipotesi di Rossetti, all’interno della costruzione, si sarebbero dovute riunire

Nella pagina accanto: una delle sale dedicate all’antico Egitto, con, al centro, la cassa e il coperchio del sarcofago in granito di Assuan appartenuto a uno scriba reale di nome Suty-nakht, XIX dinastia (1292-1186 a.C.). In basso, sulle due pagine: il sarcofago di Pa-di-Amon, che fu sacerdote del dio Khonsu, produzione tebana. XXI dinastia (1070-945 a.C.).


le lapidi romane presenti in città creando cosí un collegamento ideale tra la storia di Trieste e il grande studioso. La sua attenzione si spostò successivamente su un’area ai piedi della cattedrale, dove si sarebbe potuto posizionare il monumento e realizzare contestualmente un orto lapidario rafforzando ancora di piú il legame tra la città e Winckelmann. Nel marzo del 1833 il monumento, realizzato dallo scultore neoclassico Antonio Bosa (dopo che il bozzetto era stato approvato da Antonio Canova), venne finalmente inaugurato (vedi box e foto a p. 91); dieci anni piú tardi, in occasione del settantacinquesimo anniversar io della morte cruenta dell’archeologo, venne aperto al pubblico l’Orto Lapidario, che, insieme ai reperti custoditi nella Biblioteca Civica, ospitata nel Palazzo Biserini, costituí il primo Museo d’Antichità. Il suo rapido arricchimento portò, nel 1873, all’istituzione di un Museo Civico d’Antichità (poi trasformatosi

(segue a p. 98) a r c h e o 93


SPECIALE • TRIESTE

in Civico Museo di Storia ed Arte); alcuni decenni dopo, nel 1913, il Comune di Trieste acquistò un edificio in via della Cattedrale, limitrofo all’Orto Lapidario, per dargli una sede degna. Da quelle collezioni iniziali sono progressivamente scaturiti, attraverso nuove acquisizioni, vari musei, che rientrano nella rete di quelli civici (i Musei del Risorgimento e di Storia Patria, l’Armeria del Castello di San Giusto, i Musei Sartorio e Morpurgo, il Museo di Arte Orientale e quello Teatrale). La gran parte delle collezioni archeologiche è rimasta, comunque, nella sede di via della Cattedrale, se si escludono le 130 opere spostate nel Bastione Lalio del vicino Castello di San Giusto, dove è stato realizzato il Lapidario Tergestino con le testimonianze lapidee che illustrano la fase romana della città.

UN CERCHIO CHE SI CHIUDE Il Civico Museo di Storia ed Arte ha nuovamente mutato nome nel giugno del 2018 ed è stato intitolato a J.J. Winckelmann. Un cerchio sembra cosí chiudersi, tornando alla volontà iniziale di Domenico Rossetti: creare un collegamento tra il passato riscoperto di Trieste e l’intellettuale che aveva saputo cogliere e indicare la vitalità del mondo classico. Per avvicinarsi alla raccolta, si può ancora utilmente consultare la guida Trieste. Civico Museo di Storia ed Arte di Marzia Vidulli Torlo, inserita in una collana dedicata ai musei e alle aree archeologiche del Friuli-Venezia Giulia. Il museo ospita una collezione con reperti dell’antico Egitto composta da un migliaio di pezzi donati da alcuni triestini che, nell’Ottocento, avevano lavorato in Egitto, o che avevano interessi economici in quel Paese: la rotta marittima Trieste-Alessandria era stata attivata nel 1837 ed è restata aperta a lungo. Triestini avevano fondato banche al Cairo e il barone Pasquale Revoltella (1795-1869) fu vicepresidente della società che realizzò il Canale di Suez, rappresentando gli interessi dell’Austria in quella impresa. Tra le antichità egizie, si possono segnalare tre mummie ben conservate, con i relativi sarco94 a r c h e o

Nella pagina accanto: pettorale in bronzo con borchie e catenelle. V sec. a.C.

Pendaglio in bronzo facente parte del tesoretto rinvenuto nel castelliere di San Canziano del Garda (Škocjan, in Slovenia). V sec. a.C.

fagi e altri due sarcofagi: uno di dimensioni notevoli, in granito di Assuan, appartenuto a uno scriba reale di nome Suty-nakht – noto come Sarcofago Panfili, dalla famiglia che lo donò – e l’altro di una donna vissuta durante la XXVI dinastia. Meritano inoltre una segnalazione quattro fogli di papiro figurati (XVIII dinastia), quattro splendidi canopi in alabastro (XXVI dinastia), tre stele, un pyramidion e una scultura di piccole dimensioni raffigurante un sovrano in atteggiamento di preghiera. Cinque vetrine hanno carattere tematico e sono dedicate alle divinità principali, agli animali sacri, alle divinità zoo- e antropomorfe, agli ushabti (statuine funerarie deposte nelle tombe per aiutare il defunto nell’aldilà) e agli amuleti. Il percorso si chiude con testimonianze di oggetti di epoche successive, sino a comprendere ceramiche del XIVXV secolo d.C. Notevole è la raccolta di reperti della preistoria e della protostoria, per la maggior parte provenienti dagli scavi condotti da Carlo Marchesetti (1850-1926) nelle grotte, nei castellieri e nelle necropoli del Carso triestino e istriano e nella zona dell’alto Isonzo. Coprono un arco cronologico molto ampio, a partire dal Paleolitico: per questa fase si possono segnalare i materiali recuperati nella Grotta Pocala di Aurisina, che ha restituito strumenti di pietra scheggiata e in osso e scheletri di orsi (Ursus Spelaeus). Per il Mesolitico, spiccano i reperti provenienti dalla grotta Azzurra di Samatorza.

STAMPI PER TATUAGGI Il Neolitico e l’Eneolitico sono testimoniati dagli utensili rinvenuti in numerose grotte, come quelle dell’Orso di Gabrovizza, della Tartaruga di Borgo Grotta Gigante, delle Gallerie di San Dorligo dellaValle, della Grotta del Mitreo di Duino. Dalla Grotta dell’Orso, per esempio, provengono ollette in ceramica, accette e macine in pietra levigata, punte di lancia in selce. Un interesse particolare per la fase neolitica rivestono alcuni oggetti in terracotta denominati «pintadere» e interpretati come stampi utilizzati per realizzare tatuaggi. Lungo il percorso espositivo di questa sezio-


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SPECIALE • TRIESTE In basso: ancora un rilievo del tempio funerario di Ramesse III a Medinet Habu che mostra un gruppo di nemici fatti prigionieri. Il livello di dettaglio di queste raffigurazioni è impressionante, e ci trasmette acconciature caratteristiche e armature degli invasori, come, in questo caso, il copricapo a penne dei Filistei.

ne s’incontrano poi i reperti scavati all’interno di castellieri, ovvero d’insediamenti fortificati realizzati in altura, rinvenuti a Moncas di Valle, Castelvenere, Pollanza, Monte Grisa, Montebello e Cattinara. Si tratta perlopiú di ceramiche con decorazioni a motivi geometrici, realizzati tramite solcature o a cordicella.

LA CULTURA DEI CASTELLIERI La testimonianza piú significativa della cultura dei castellieri è il ritrovamento avvenuto presso San Canziano del Carso (Škocjan, in Slovenia) dove, nella Grotta delle Mosche, sono stati scoperti centinaia di reperti in bronzo databili tra il X e l’VIII secolo a.C. (spade, elmi, cuspidi di lancia e giavellotti, asce, coltelli, vasellame, oggetti di ornamento personale, scarti di lavorazione come pani di rame e placche per i restauri). Si trattava probabilmente di oggetti gettati in una cavità carsica come offerte votive insieme ai resti ossei di numerosi animali sacrificati. Tra i reperti da necropoli, nell’età dei castellieri, si possono segnalare la spada con ma96 a r c h e o


nico pieno e resti del fodero piegata ritualmente e deposta accanto a un coltello con lama serpeggiante (VIII secolo a.C.) dalla necropoli di Brežec, sempre nella zona di San Canziano del Carso; o i numerosi vasi in ceramica e la situla in bronzo lavorata a sbalzo e decorata con spirali e cerchietti (VII secolo a.C.) rinvenuti presso Parenzo (Porec, in Croazia); o, ancora, gli oggetti provenienti dalla necropoli di Caporetto (Kobarid, in Slovenia), con piú di mille tombe e rimasta in uso sino all’età romana. S’incontrano poi alcuni corredi delle quasi 7000 tombe scavate da Marchesetti, insieme a Josef Szombathy, a partire dal 1880, a Santa Lucia di Tolmino (oggi in Slovenia) sull’alto Isonzo, e databili tra la fine dell’VIII e il IV secolo a.C. Essi suggeriscono che ci si trova di fronte a una società ormai chiaramente articolata in classi, con un’aristocrazia in contatto con il mondo veneto ed etrusco. La sezione delle collezioni classiche consente di conoscere altri collezionisti triestini, le cui raccolte sono confluite nel museo in tempi diversi: i fratelli Francesco e Ferdinando Ostrogovich, che avevano acquistato vasi

In alto: una delle vetrine che riuniscono vasellame di produzione cipriota. Nella pagina accanto: anfora del Pittore di Licurgo raffigurante la caccia al cinghiale calidonio e (sulla faccia opposta) una lotta contro le Amazzoni. 360-340 a.C.

scoperti in Puglia e fatto eseguire campagne di scavo; Carlo D’Ottavio Fontana, un mercante appassionato di antichità al punto da finanziare scavi in Puglia, Calabria e Sicilia arrivando a riunire una raccolta di 689 vasi, che andarono divisi tra i suoi due eredi; Giuseppe Sartorio, che incrementò la parte di collezione ereditata dal nonno materno, lo stesso D’Ottavio Fontana, con piú di un centinaio di pezzi. Si possono segnalare inizialmente i vasi di produzione corinzia: vasetti per profumi e unguenti (alabastra, aryballoi), brocche da vino (oinochoai) e pissidi decorati con vivacità tramite animali fantastici e reali e disegni floreali. Poi la ricca serie di vasi attici a figure nere e a figure rosse, anche di grandi dimensioni: vanno evidenziati, in particolare, un’hydria (vaso per acqua) a figure nere firmata dal vasaio Tychios (525-500 a.C.), un’anfora panatenaica della scuola del Pittore di Achille, uno stamnos (contenitore per il vino) con Eracle introdotto nell’Olimpo attribuito al Pittore di Berlino (470-460 a.C.) e un cratere con scena di banchetto da riferire al Pittore di Leningrado (475-450 a.C.). Numerosi sono anche i vasi di produzione magno-greca: vi spiccano una grande anfora del Pittore di Licurgo con la raffigurazione della lotta contro le Amazzoni e la caccia al cinghiale calidonio (360-340 a.C.); un cratere a campana e uno a colonnette attribuiti al Pittore di Digione con un corteo dionisiaco e scene di offerta; un cratere a mascheroni di grandi dimensioni; alcuni rhyta (vasi per bere, in origine ricavati da corna animali) conformati a testa di capra, o di grifo, o di mucca, o di cane; vasellame di fabbrica tarantina a vernice nera con sovradipinture in bianco, rosso e giallo.

L’«ACQUISTATORE» DI ANTICHITÀ In questo ambito uno spazio a sé occupano i reperti acquistati, a partire dal 1887 e per i sette anni successivi, dal direttore del museo, Alberto Puschi, presso il mercante d’arte Vito Panzera che sul biglietto da visita si definiva: «acquistatore di oggetti antichi». Puschi mirava a riunire antichità da utilizzare come oggetti di studio per artisti, artigiani e studenti. Nell’insieme, si tratta di piú di duemila reperti e fra essi spiccano un rhyton sbalzato in argento e conformato a testa di cerbiatto (400 a.C. circa) e terrecotte (antefisse, statuette a r c h e o 97


SPECIALE • CRISI EPOCALI

Lo spettacolare rhyton (vaso per libagioni rituali) in lamina d’argento sbalzata con rifiniture a cesello, niello e doratura, configurato a testa di giovane cerbiatto, da Taranto. Fine del V-inizi del IV sec. a.C. Sul collo corre un fregio, del quale è qui visibile il particolare raffigurante Borea che rapisce Orizia, figlia del re di Atene, Eretteo. 98 a r c h e o


fittili, are, ecc.), provenienti – secondo uno studio recente – dai depositi votivi tarantini di Fondo Giovinazzi e del Pizzone. La ceramica etrusca è testimoniata soprattutto da alcuni vasi in bucchero di forma diversa, da un’hydria con la raffigurazione di una lotta tra due guerrieri attribuita al Pittore di Micali, e un cratere del Gruppo Alcesti. La raccolta è arricchita dal deposito della collezione Camerini, con pezzi dall’Etruria meridionale. Il museo ospita anche una collezione di antichità di Cipro che coprono un arco cronologico compreso tra l’età del Bronzo e il periodo romano. Raccolti da collezionisti triestini e poi confluiti nel museo, i reperti sono purtroppo privi del contesto di provenienza come accade di frequente nel caso di oggetti acquistati sul mercato antiquario. Numerosi sono i vasi di genere e forma diversi e notevole è la serie degli idoli in terracotta e quella di sculture in pietra calcarea che suggeriscono la vivacità e i contatti con il mondo mediterraneo dell’artigianato cipriota.

In alto: rilievo funerario di produzione attica. A destra: ritratto dell’imperatore Caligola, da Nona (l’antica Aenona) in Dalmazia. 37-41 d.C.


SPECIALE • TRIESTE

Uno spazio significativo, al pianterreno del museo, viene dato alla fase romana presentando sia reperti recuperati a Trieste e nel territorio limitrofo, sia materiali giunti, attraverso il commercio antiquario, da aree diverse. Particolarmente significativo, nel 1870, fu l’acquisto della collezione riunita dal farmacista Vincenzo Zandonari e composta da ben 25 500 reperti, provenienti perlopiú dalla vicina Aquileia, che – in età romana – era il centro piú fiorente della zona. Cosí di rilievo che il poeta Ausonio, nel suo poemetto Ordo urbium nobilium, la inserí al nono posto tra le città piú importanti dell’intero impero romano. Tra i materiali romani un posto speciale spetta ai ritratti presentati sia all’interno del museo che nel Lapidario Tergestino, allestito nel Castello di San Giusto (vedi box a p. 102): meritano at-

tenzione, in particolare, un ritratto dell’imperatore Caligola rinvenuto a Nona (l’antica Aenona) in Dalmazia; una raffinata testa di bambina nella quale si era voluta riconoscere Claudia Ottavia, la futura moglie dell’imperatore Nerone tra il 53 e il 62 a.C.; un ritratto dello stesso Nerone rilavorato dopo la morte e trasformato in quello dell’imperatore Vespasiano. Un esempio ulteriore della volontà di cancellare il ricordo di Nerone è riscontrabile in un altro ritratto, trasformato in quello dell’imperatore Tito.

UFFICIALE E MECENATE In un busto caratterizzato dalla presenza di una corazza loricata e impreziosita da una testa di Gorgone si vuole riconoscere, invece, un personaggio importante nella storia di Tergeste (il

In questa pagina: i resti della basilica civile di Tergeste (la Trieste romana) rinvenuti sul colle di San Giusto; in secondo piano, la cattedrale cittadina.


A destra: l’Orto Lapidario, che, con i reperti della Biblioteca Civica di Palazzo Biserini, costituí il primo Museo d’Antichità. In basso: statua frammentaria di atleta, dalla villa di Barcola. Copia d’età neroniana di un originale in bronzo di Policleto. Trieste, Lapidario Tergestino.

nome di Trieste in epoca romana): Quinto Petronio Modesto, ufficiale nella guerra giudaica, e poi uomo di spicco nella comunità locale a favore della quale restaurò e abbellí il teatro. Il busto è stato ritrovato proprio nella zona del teatro e venne scolpito da un abile scultore forse attivo in una bottega della stessa Roma. Proviene invece da Taranto il pregevole ritratto in marmo di un bambino, nel quale si è voluto riconoscere Lucio Vero quando venne adottato, insieme a Marco Aurelio, da Antonino Pio.

UNA SOCIETÀ VIVACE Numerose sono anche le iscrizioni utili per provare a individuare i monumenti principali di Tergeste, la vita che vi si svolgeva e conoscere alcuni dei suoi personaggi piú famosi. Tra questi, si possono ricordare Publio Palpellio Clodio Quirinale e Gaio Calpetano Ranzio Quirinale, ai quali si devono interventi edilizi importanti in città. Oppure il giovane senatore Lucio Fabio Severo, che riuscí a ottenere una legge dall’imperatore Antonino Pio per consentire l’accesso di nuovi cittadini nella classe dirigente. Nel loro insieme, le iscrizioni restituiscono l’immagine di una società vivace, costituita da uomini e donne di origine locale, ma fortemente romanizzati, e aperta a genti di provenienza diversa, attratte dalle potenzialità di una città in espansione, o che scelsero di stanziarvisi dopo avervi soggiornato come soldati. Tra le statue si possono ricordare quelle scoperte nel teatro: raffigurano divinità maschili e femminili ispirate a modelli diffusi nel mondo romano e i cui originali dipendono dall’arte greca. Esse vennero realizzate probabilmente da scultori attivi ad Aquileia. Un apposito spazio è dedicato alla scultura funeraria in pietra e in marmo, nella cui produzione rientrano cippi, stele, urne e sarcofagi. Alcuni esemplari di quest’ultimi sono di fattura notevole e d’importazione: vennero realizzati infatti in botteghe attive in Grecia tra

la fine del II e il III secolo d.C.Tra i temi prediletti figurano scene di combattimenti (anche navali) e, soprattutto, l’Amazzonomachia.

I TRE VOLTI DI ERACLE La scultura in bronzo è testimoniata soprattutto da statuette raffiguranti le divinità principali: una ventina di bronzetti di Eracle vennero scoperti nel 1904 a Trieste, nel quartiere di Gretta. Essi erano stati tutti danneggiati intenzionalmente prima di essere accantonati in un probabile deposito votivo in onore della divinità. Databili tra il V-IV e il II-I secolo a.C., i bronzetti raffigurano Eracle secondo tre iconografie: in riposo, mentre combatte e nell’atto di libare. In bronzo erano realizzati anche oggetti di uso quotidiano: vasellame, fibule, fibbie, strumenti per la toletta, ecc. Tra le fibule si segnalano due esemplari, molto rari, provenienti dalla necropoli di Santa Lucia di Tolmino, in Slovenia, raffiguranti un guerriero su un carro tirato da tre cavalli (V secolo a.C.); e un’altra, piú recente, in argento, con arco a noduli e inserto in ambra dalla necropoli di Reka in a r c h e o 101


SPECIALE • CRISI EPOCALI

ISCRIZIONI PER LA STORIA All’interno del Castello di San Giusto, nel Bastione Lalio, ha sede il Lapidario Tergestino che ospita una serie di reperti che si trovavano esposti nell’Orto Lapidario sino al 2000. Essi provengono dagli edifici sacri, dalle porte, dal teatro e dalle necropoli di Tergeste, la Trieste romana. Nella prima sala sono posizionate le iscrizioni che ricordano la costruzione delle mura, erette per volontà di Ottaviano nel 33-32 a.C., e la base di un monumento equestre. Nell’ambiente successivo si segnalano le iscrizioni che ricordano gli interventi degli imperatori Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio a favore della città, e i reperti provenienti dalla basilica civile i cui resti sono visibili nel piazzale alla base del Castello. Nelle altre sale s’incontrano le opere provenienti dalle necropoli urbane, dai luoghi di culto e dal teatro, con la serie notevole di statue che lo abbellivano. Una sala apposita è dedicata ai mosaici recuperati in una lussuosa villa marittima scoperta in località Barcola (che dista poco piú di 3 km dal centro di Trieste) e databili tra la seconda metà del I secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C.

Slovenia (II-I secolo a.C.). Non mancano fibule di età tardo-antica con silhouette di animali: cervi, cavalli, colombe e pavoni. La ceramica è ampiamente rappresentata: nella raccolta triestina sono ben attestate la ceramica comune e la sigillata. Tra gli utensili, numerose sono le lucerne che coprono un arco cronologico molto vasto, segno della loro fortuna duratura. Esse vennero fabbricate in botteghe locali e di Aquileia, ma anche in centri decisamente piú lontani, come alcuni della Magna Grecia, della Grecia, dell’Asia Minore e dell’Egitto. Interessante è la sezione dedicata al vetro, che ebbe in Aquileia un importante centro di produzione: nelle botteghe di quella città, tra il I e il II secolo d.C., vennero realizzati le brocche, le bottiglie, le coppe, i bicchieri, i balsamari che oggi fanno bella mostra di sé nelle vetrine del museo. Vi sono, comunque, anche vetri realizzati nel Mediterraneo orientale, che ebbero una diffusione notevole so102 a r c h e o


prattutto dopo che erano entrate in crisi le Nella pagina officine presenti in Italia. accanto: statua di

DALLA VIA DELL’AMBRA Ben attestate sono le produzioni in ambra, il cui uso e la cui produzione sono assai piú antichi del periodo romano. In museo è conservato il cosiddetto tesoretto del castelliere di San Canziano del Garda (Škocjan, in Slovenia) rinvenuto casualmente nel 1908 e che comprendeva ben 490 vaghi di ambra di provenienza baltica. Deposto tra la seconda metà del V e la prima metà del IV secolo a.C., il tesoretto è stato interpretato come il ripostiglio di un artigiano-commerciante o della comunità del castelliere, o, ancora, come il corredo funerario di una donna dell’aristocrazia locale. Altre

Esculapio, dagli scavi del teatro di Tergeste. Inizi del II sec. d.C. Trieste, Lapidario Tergestino. In basso: la base del monumento equestre di Lucio Fabio Severo nel suo primo allestimento, in una foto della fine dell’Ottocento.

ambre esposte, ma di età romana, furono lavorate da maestranze attive ad Aquileia, città che si trovava al termine della via dell’ambra. Nella raccolta triestina sono presenti anche oggetti in osso e in avorio, tra i quali spicca un capolavoro assoluto: una tavoletta in avorio lavorata a rilievo e con tracce di policromia realizzata con ogni probabilità ad Alessandria di Egitto agli inizi del VI secolo d.C. Il campo figurato è delimitato da una cornice a racemi e foglie di vite, i cui grappoli sono raccolti da amorini-vendemmiatori, e lo spazio centrale è suddiviso su due registri: in alto sono due giovani tra amorini; in basso una donna che abbraccia un toro sormontato da un amorino, mentre un busto di Giove, inserito in un clipeo, sembra osservare la scena.

PRIMA DEI MUSEI Nel 1688 il Consiglio dei Patrizi triestini ordinò che alcune antichità portate alla luce fossero riunite in piazza San Pietro (oggi piazza dell’Unità d’Italia), la maggiore della città, e lí esposte. Si voleva

cosí rievocare il passato di Trieste e invitare a studiarlo. Il nucleo era modesto, ma comprendeva la base onoraria per la statua equestre del senatore Lucio Fabio Severo (oggi nel Lapidario Tergestino). Sulla

base corre una singolare iscrizione in lingua latina con la trascrizione del verbale della seduta della Curia durante la quale venne presa la decisione di fare erigere la statua e di collocarla nel Foro.

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SPECIALE • TRIESTE

LA COLLEZIONE DEL BARONE Il Museo Revoltella-Galleria d’Arte Moderna è il piú noto tra i musei triestini. Occupa il palazzo che Pasquale Revoltella fece costruire tra il 1853 e il 1859 su progetto dell’architetto berlinese Friedrich Hitzig in piazza Giuseppina (ora piazza Venezia). Alla sua inaugurazione intervenne anche l’arciduca Massimiliano d’Asburgo, futuro proprietario del Castello di Miramare. Personaggio fra i piú influenti della Trieste del suo tempo, Revoltella fu un imprenditore e un finanziere che s’impegnò molto nella costruzione del canale di Suez arrivando a divenire il vicepresidente della Compagnia che lo realizzò. Nel 1861 si recò personalmente in Egitto e del viaggio tenne un diario, scritto in lingua francese, che si conserva nella sua biblioteca tuttora ospitata nel palazzo. Dall’Egitto provengono anche alcuni reperti presenti nelle sue collezioni. Nel 1872, secondo la volontà testamentaria del barone, morto nel 1869, venne istituito il Museo Revoltella, con una importante raccolta d’arte dell’Ottocento, arricchita in seguito da altri importanti acquisti. Tra gli anni Sessanta e Novanta del Novecento il museo è stato oggetto di un profondo rinnovamento, con l’acquisizione di nuovi spazi e l’intervento dell’architetto Carlo Scarpa.

Di rilievo – sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo – è la serie di gemme incise o lavorate a cammeo presente in museo. Appartenevano in origine alle collezioni di Vincenzo Zandonati, di Giuseppe Sartorio, di Vittorio e Giuseppina Oblasser e provengono per la maggior parte da Aquileia e dal suo territorio. 104 a r c h e o

Ricca è la raccolta numismatica riunita dal primo direttore, Carlo Kunz, che era un numismatico, sulla cui scia operarono i successori, Alberto Puschi e Piero Sticotti, cosicché il monetiere conta oggi oltre 20 000 pezzi. Insieme al monetiere, vennero acquisite dal museo anche numerose medaglie, ora

Il caffè Florian nel Settecento, olio su tela Alessandro Milesi. 1909. Trieste, Museo Revoltella.


esposte nel Civico Museo di Storia Patria. Un approfondimento merita la figura di Kunz, che nasce come stampatore specializzato nell’illustrazione di raccolte numismatiche. La numismatica divenne progressivamente il suo interesse prevalente e arrivò ad aprire una bottega di antichità a Venezia. Piú

tardi, nel novembre del 1873, quando ormai aveva sessant’anni, divenne il primo direttore del museo triestino. Il museo si è arricchito di recente, dal 2002, di una collezione di antichità maya donata dalla famiglia dell’agronomo Cesare Fabietti. Nato a Trieste nel 1923, si era trasferito in El a r c h e o 105


SPECIALE • TRIESTE

ALLA SCOPERTA DELL’ORIENTE Nel settecentesco Palazzetto Leo, nei pressi della centrale piazza dell’Unità d’Italia, ha sede, dal 2001, il Civico Museo d’Arte Orientale, che accoglie opere perlopiú provenienti da Cina e Giappone e riunite da collezionisti triestini. Il primo piano è dedicato all’arte della Cina: vi sono esposte porcellane delle dinastie Song (960-1279 d.C.), Yuan (1279-1368), Ming (1368-1644) e Qing (1644-1911), e preziosi abiti in seta. Il secondo e il terzo piano espongono antichità giapponesi soprattutto delle epoche Edo o Tokugawa (1615-1868) e Meiji (1868-1912): sono presenti porcellane, armi (dal XV al XIX secolo) e due armature da samurai. Ricchissima è inoltre la serie delle stampe di artisti, quali Utamaro, Hokusai, Hiroshige e Kunisada.

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In questa pagina: stampa raffigurante una cortigiana che contempla un pruno, da una serie dell’artista giapponese Yashima Gakutei. 1824. Trieste, Museo d’Arte Orientale. Nella pagina accanto, in alto: statua in legno dorato raffigurante il Buddha. Produzione giapponese, forse della tarda epoca Edo (XVIII-XIX sec.). Trieste, Museo d’Arte Orientale. Nella pagina accanto, in basso: l’Orto Lapidario.


IL GIARDINO DEL CAPITANO Nel 1913 il Comune di Trieste, insieme all’edificio di via della Cattedrale, che oggi ospita il Civico Museo di Antichità J.J. Winckelmann, acquistò un’area verde nota come Giardino del Capitano, poiché era di pertinenza del personaggio che governava la città in nome dell’imperatore d’Austria e risiedeva nel vicino Castello di San Giusto. Nella zona sono state eseguite campagne di scavo che hanno portato alla luce un’imponente struttura muraria databile agli inizi del II secolo d.C. e interpretata come la sostruzione di una cinta muraria di difesa, o di un’opera di terrazzamento del pendio del colle di San Giusto, dove si trovava l’acropoli della città in età romana imperiale. L’area ospita attualmente il Lapidario post-antico con iscrizioni, stemmi, vere di pozzo, statue, colonne, capitelli appartenuti a edifici demoliti. Vi sono presenti anche iscrizioni sepolcrali cattoliche ed ebraiche, un cippo turco e una stele islamica.

Salvador per lavorare in una piantagione di cotone presso San Marcos sul fiume Lempa, nel distretto di Usulután. Qui deve avere raccolto i reperti che gli eredi hanno donato al museo: sono oggetti realizzati da una popolazione di agricoltori di cultura maya databili tra il 600 e il 1000 d.C. Si tratta d’interessanti figurine antropomorfe maschili e femminili in terracotta, ciotole e vasi. Le figurine umane (e alcuni piedi di vasi) erano usati come sonagli. Va infine segnalato che il museo propone un percorso didattico dedicato alla storia della scrittura nell’antichità. DOVE E QUANDO Museo d’Antichità «J.J. Winckelmann»-Orto lapidario Info www.museoantichitawinckelmann.it Civico Museo d’Arte Orientale Info https://museoarteorientaletrieste.it Museo Revoltella. Galleria d’Arte Moderna Info www.museorevoltella.it Lapidario Tergestino (Castello di San Giusto) Info https://castellodisangiustotrieste.it a r c h e o 107


SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

ISTANTANEA DI UN MASSACRO GLI SCAVI CONDOTTI A SANDBY BORG HANNO RIVELATO LE TRACCE DI UN BRUTALE EPISODIO CHE POSE FINE ALLA VITA DELLA FORTEZZA. UN ECCIDIO CHE, OGGI, POSSIAMO COLLOCARE NEL QUADRO DI TENSIONI E CONFLITTI INNESCATI DAL CROLLO DELL’IMPERO ROMANO

L’

archeologia dà il meglio di sé quando affronta i fenomeni di lunga durata. Una regola alla quale non sfugge l’archeologia medievale, quando viene per esempio chiamata a occuparsi del lento abbandono delle città, delle trasformazioni degli abitati rurali o della nascita e diffusione dei castelli… Tuttavia, ci sono casi in cui l’archeologia fornisce una sorta di istantanea del passato, catturando, proprio come una macchina fotografica (oggi sempre piú

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spesso rimpiazzata dallo smartphone) attimi precisi, situazioni puntuali e definite nel tempo. Frammenti del passato, insomma, rimasti quasi congelati nel sottosuolo per secoli in attesa di essere scoperti.

ANTICHE VIOLENZE Un fenomeno particolarmente evidente in situazioni generate da atti di violenza, come aveva potuto osservare il grande archeologo Mortimer Wheeler nei suoi scavi di

Maiden Castle, in Inghilterra, quando erano venute alla luce le tracce dell’assedio dei Romani contro gli abitanti della fortezza. E una situazione analoga è stata riscontrata negli scavi del monastero di S. Vincenzo al Volturno (Isernia), quando è stato rinvenuto un gran numero di punte di freccia, tutte rivolte verso gli edifici del complesso monastico: chiara testimonianza dell’attacco sferrato dai Saraceni nell’881, un episodio tragico di cui parlano


anche alcuni testi. Qualcosa di molto simile è venuto alla luce poco tempo fa nella Svezia meridionale, nell’isola di Öland. Qui, a pochi metri dalla linea di costa, si trova un «ringfort», cioè una fortezza di forma ellittica, tipica di queste regioni. Nel 2010, dopo alcune indagini geofisiche, l’Università di Stoccolma ha eseguito una prima ricognizione con il metal detector, che ha portato al recupero di svariati ripostigli con gioielli di ottima qualità: spille, collane, anelli e altro ancora. A quel punto sono iniziati gli scavi, che proseguono ancora oggi. Si è chiarita in breve tempo la struttura della fortezza, quasi interamente occupata da case piuttosto semplici a pianta rettangolare. Fin qui, Sandby Borg – perché questo è il nome del sito – ha rivelato caratteri simili a quelli di molte altre fortezze di quel tipo.

SENZA ALCUNA PIETÀ Ma presto sono iniziate le sorprese. Dentro le abitazioni sono venuti alla luce numerosi scheletri, tutti con tracce di ferite letali: perlopiú colpi di spada, spesso inferti dall’alto o alle spalle. I morti sono in tutto 26, principalmente maschi, di ogni età: da un bambino tra i 2 e i 5 anni ad alcuni adolescenti, fino ad adulti sui 45 anni e alcuni anziani. E, insieme a loro, furono uccisi persino alcuni cani! Le analisi al 14C di alcune ossa e di resti carbonizzati, e svariati reperti, tra cui i gioielli e una moneta d’oro dell’imperatore Valentiniano III (425-455), sembrano convergere verso una sola possibile datazione per questo tragico episodio, cioè gli ultimi decenni del V secolo. Va infine segnalato che, oltre ai reperti rinvenuti grazie all’uso del metal

In alto: alcuni degli scheletri rinvenuti nello scavo della fortezza di Sandby Borg (vedi foto alla pagina accanto). A destra: il solido d’oro di Valentiniano III che ha permesso di datare il massacro degli abitanti della fortezza al V sec. d.C. In basso: due fibule in argento rinvenute nel corso delle ricerche condotte dall’Università di Stoccolma. detector, lo scavo di alcune case ha portato alla luce altri gioielli. Cerchiamo allora di tirare le fila. La fortezza, le tracce d’incendio, i corpi di adulti e bambini trucidati… Tutto a Sandby Borg ci parla di un massacro. Inoltre, dopo quell’evento, la fortezza venne abbandonata e il fatto che i gioielli siano stati lasciati al loro posto indica chiaramente che non si trattò di un attacco sferrato per poi procedere al saccheggio. Molto piú probabilmente, siamo di fronte a un episodio di violenza tra popolazioni locali, per motivi che al momento ci sfuggono. Gli scavatori, tuttavia, hanno avanzato una interessante ipotesi. La Scandinavia non fu mai controllata direttamente dai Romani, ma molti indizi suggeriscono che perlomeno le zone meridionali di questo

sterminato territorio ricadessero sotto l’influenza dell’impero. Sono documentati commerci e relazioni di vario genere, e la moneta trovata nella fortezza è un ulteriore indizio in questo senso.

LOTTE INTESTINE È quindi possibile (vista la datazione dell’episodio) che il massacro di Sandby Borg sia legato alla caduta dell’impero e alla situazione di tensione che si generò di conseguenza in queste zone. Gruppi locali potrebbero essere entrati in conflitto, e la fortezza e i suoi abitanti ne avrebbero fatto le spese. Una pista sulla quale si continuerà a lavorare nelle prossime campagne di scavo. Molti anni fa il grande storico Arnaldo Momigliano aveva parlato di «caduta senza rumore dell’impero romano»… Se le cose andarono come si pensa, a Sandby Borg il rumore della caduta dovette invece avvertirsi con una forza straordinaria, letale.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

IL FIGLIO DEL SERPENTE FIN DAL SUO CONCEPIMENTO, LA FIGURA DI ALESSANDRO MAGNO È AVVOLTA DA UN’AURA DIVINA, INTESSUTA DI MISTERO

N

ella sua Vita di Alessandro, Plutarco narra i prodigi legati alla nascita del Macedone, eventi che davano risalto all’intervento divino nel concepimento straordinario, ascrivendolo direttamente a Zeus, a scapito del padre, Filippo II, e conferendo alla madre, Olimpiade, una dimensione mitica, come quella di eroine mortali quali Leda o Alcmena, madri, rispettivamente di divinità primarie, quali i Castori (e la sorella

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Elena) ed Eracle, amate da Zeus, che si era unito a loro sotto mentite spoglie. Plutarco riporta tutte le fasi che portarono alla nascita di Alessandro, dall’incontro dei suoi genitori e dei prodigi legati al suo concepimento, dove prevalgono l’intervento divino e l’atmosfera da mistero orgiastico: «Si dice che Filippo mentre da fanciullo veniva iniziato ai misteri nell’isola di Samotracia insieme con Olimpia, che era orfana dei genitori, se ne

innamorò e di lí a poco, ottenuto il consenso dal fratello di lei, Aribba, la sposò. (…) Una volta poi, mentre Olimpiade dormiva, fu anche visto un serpente disteso accanto al corpo, e dicono che soprattutto questo smorzò la passione e l’affetto di Filippo. Questo episodio attenuò le sue effusioni amorose verso la moglie sino a diradare i suoi incontri notturni con lei, vuoi perché temeva che la donna potesse fargli dei sortilegi, vuoi


A sinistra: mosaico con la nascita di Alessandro Magno, da HeliopolisBaalbek. IV sec. d.C. Libano, Museo Nazionale. Nella pagina accanto: Zeus, Olimpiade e Filippo II, affresco di Giulio Romano. 1527. Mantova, Palazzo Te, Camera di Amore e Psiche. perché, convinto che avesse rapporti con un essere superiore, voleva evitare di profanare la relazione che pensava avesse con uno di essi» (Alessandro, 2-3). Il racconto dello storico greco, che doveva basarsi su cronache e tradizioni fiorite già in antico, continua affermando che Filippo, dopo aver visto la moglie distesa accanto al serpente, inviò un suo messo a Delfi per interrogare il dio su come regolarsi dopo essere stato testimone dell’insolito amplesso. Apollo gli comandò di sacrificare a Zeus Ammone e di onorarlo in maniera particolare, ma il re avrebbe comunque perso l’occhio che aveva accostato alla fessura della stanza della moglie, vedendo il dio trasfigurato in rettile che giaceva con lei. Non disponiamo di immagini identificabili con certezza con Olimpiade – come statue o monete con il suo nome –, ma doveva essere una donna di bell’aspetto e dotata di fascino, grande ambizione e carisma non comune. Di lei rimangono soltanto trasposizioni ideali, sia antiche che moderne, tutte molto interessanti e di alto livello artistico, che danno conto dell’immaginario comune riguardo

il grande condottiero e il suo mondo nelle varie epoche nelle quali si volle raffigurarlo. Partendo dalla narrazione di Plutarco sul concepimento di Alessandro, la puntuale trasposizione figurativa dei rapporti torbidi della madre con i serpenti e dell’accecamento di Filippo II punito per avere profanato l’unione con Zeus si ritrova in un affresco di Giulio Romano in Palazzo Te, presso Mantova, nella Camera di Amore e Psiche.

FIGURAZIONI ARDITE Per Federico II Gonzaga – committente della magnifica residenza –, che voleva decorazioni adatte allo spirito del suo privato «luogo di delizia», d’amore e d’otium, da condividere con l’amante Isabella Boschetti e la sua cerchia piú intima, Giulio Romano creò figurazioni ardite e anche molto esplicite, come appunto per il dipinto dedicato agli amori di Zeus con la regina macedone. La composizione vede la bella e bionda Olimpiade nuda, che sta per accogliere bendisposta il dio con busto virile e gambe a coda di serpente, evidenziandone il desiderio impaziente di congiungersi con la donna.

Sovrasta i due amanti l’aquila, simbolo di Zeus, con il fulmine divino tra le zampe con il quale acceca un occhio di re Filippo, marito di Olimpiade, reo di aver spiato l’unione sovrumana. Alla nascita di Alessandro è invece dedicato un singolare pavimento a mosaico ritrovato in un’abitazione di proprietà del ricco Patrikios, a Soueidié, un quartiere residenziale presso Heliopolis-Baalbek in Libano e datato al IV secolo d.C. In un riquadro compaiono sette figure, alcune delle quali non ben conservate, con i loro nomi iscritti in greco: in primo piano, c’è il piccolo Alessandro, che, appena nato, viene lavato in un elegante bacino, affidato alle cure attente di una ninfa; dietro compare Olimpiade, che ha appena partorito e riposa su un letto, appoggiandosi al gomito. Accanto a lei sta un’ancella, come indica l’iscrizione Terapena (ancella in greco) in piedi; seguono altre due figure, purtroppo lacunose (un uomo e una donna), e quindi Filippo, seduto, riccamente vestito e con accanto quello che sembrerebbe un bastone. Il re guarda verso la moglie, e qui svolge il ruolo di padre putativo, dato che il figlio, come il piccolo Dioniso – nato dall’unione di Zeus con Semele, una mortale – alla sua nascita viene affidato alle ninfe. Si può pensare che i nomi che compaiono sui personaggi fossero quelli tradizionali presenti nei racconti mitistorici e nelle raffigurazioni pittoriche dedicate ad Alessandro a partire dal IV secolo a.C. Ed è facile avvicinare questo impianto iconografico, nato in un contesto a cavallo tra il mondo classico e l’affermarsi del cristianesimo, alle successive immagini di Natività, dove la Madonna è anch’essa sdraiata per riprendersi dal parto, vegliata da san Giuseppe che rivolge lo sguardo tranquillo alla moglie che ha dato alla luce il figliolo divino.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Daniele Manacorda

IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Edipuglia, Bari, 601 pp., ill. col. e b/n 50,00 euro ISBN 978-88-7228-909-9 www.edipuglia.it

Come scrivono i curatori (Nicoletta Balistreri, Giulia De Palma, Valeria Di Cola, Giulia Facchin, Mirco Modolo e Adelina Ramundo), questo volume è nato dal loro desiderio di rendere omaggio a Daniele Manacorda, che è stato loro professore, confezionando al tempo stesso una raccolta capace di svelare che cosa bolla nella «pentola dell’archeologia». E, per farlo, hanno scelto di riunire i contributi che Manacorda ha pubblicato sulle pagine della nostra rivista nell’arco di oltre trent’anni. Ne è scaturita un’opera vasta e ricca di stimoli, attraverso la quale si può leggere, in filigrana, il cammino compiuto dall’archeologia – italiana ma non solo – nel corso degli ultimi tre decenni, non tanto in termini di nuove acquisizioni e scoperte, quanto piuttosto sotto il profilo metodologico e teorico (o teoretico, come lo stesso Manacorda preferisce definire questo aspetto della disciplina). Per chi, come lo scrivente, da piú di vent’anni lavora ogni mese sulle fatidiche «quattro 112 a r c h e o

cartelle» che giungono puntuali in redazione, è difficile abbozzare una recensione di tipo tradizionale al volume, ma ci sono almeno un paio di aspetti essenziali che è importante sottolineare e che hanno sempre costituito il filo conduttore dei ragionamenti di volta in volta proposti. Il primo è senza dubbio la visione di un’archeologia mai isolata, ma sempre organicamente legata ad altre discipline, con le quali stabilire un confronto costante: una strada, quella della multidisciplinarietà, lontano dalla quale è difficile pensare di poter pervenire a una qualsiasi ricostruzione storica del contesto indagato sul campo. Mentre il secondo è il richiamo costante al valore sociale della pratica archeologica e alla necessità di vederla sempre come un’attività pienamente inserita nella realtà contemporanea: come tante volte Manacorda ha ribadito, la tentazione

di fare archeologia alla maniera degli antiquari e degli eruditi, oppure chiusi nella torre d’avorio del proprio specialismo, può fare piú danni di quelli causati dalla scarsa considerazione riservata dalla politica e dall’opinione pubblica all’antichità e al suo studio. Paradossalmente, si potrebbe insomma raccomandare la lettura del volume soprattutto ai meno avvezzi alla materia, perché si convincano che il mestiere dell’archeologo è una professione vera e propria e non il diletto di personaggi, spesso bizzarri, che si dedicano amorevolmente ad anticaglie prive di qualsiasi valore. Stefano Mammini Fabio Mangone, Valentina Russo, Gabriel Zuchtriegel (a cura di)

«L’EMBLEMA DELL’ETERNITÀ» Il Tempio di Nettuno a Paestum tra archeologia, architettura e restauro Edizioni ETS, Pisa, 210 pp., ill. col. e b/n 28,00 euro ISBN 978-884675463-9 www.edizioniets.com

Primo titolo della collana Argonautica, il volume dà conto dei contributi presentati in occasione del seminario svoltosi nel 2017 a Napoli, con l’intento di fare il punto sulle conoscenze, ma anche sulla ricezione del piú celebre dei templi pestani. Un monumento insigne e la cui storia, a dispetto di quanto si

potrebbe immaginare e nonostante i numerosi studi, è ancora oggi costellata da piú d’una zona d’ombra. Vari scritti si soffermano sulle caratteristiche stilistiche e architettoniche del tempio, sottolineando come alcune classificazioni si rivelino forse troppo sbrigative, per esempio facendone una sorta di manifesto della grecità. E a confermare la complessa vicenda della struttura concorrono anche gli interventi di carattere piú prettamente tecnico. In parallelo, risultano di grande interesse le riflessioni su come il tempio sia stato ammirato, giudicato e analizzato fra Sette e Ottocento, mettendo a disposizione del lettore anche una ricca documentazione dei primi disegni e rilievi che ne furono eseguiti, fra i quali meritano una menzione le tavole dell’architetto tedesco Karl Joseph Berckmüller, che visitò Paestum nel maggio del 1827. S. M.



presenta

Introduzione alla PITTURA MEDIEVALE A firmare il nuovo Dossier di «Medioevo» è Furio Cappelli, il quale, proprio nelle pagine iniziali, sottolinea come da sempre si tenda «ad associare l’idea della pittura medievale all’immagine sacra, sia nel mondo cristiano d’Occidente che in quello d’Oriente. Un collegamento suggerito dal fatto che, nonostante sia sempre rimasta viva una produzione destinata ad ambienti profani o comunque non attinenti al culto religioso o alla vita monastica, le sopravvivenze piú estese e significative dell’arte figurativa si collocano nelle chiese». Il fenomeno è innegabile, ma, pagina dopo pagina, si scopre quanto l’universo pittorico dell’età di Mezzo sia, in realtà, ben piú ampio e variegato. Un mondo che Cappelli svela ai lettori, forte della sua autorevolezza di storico dell’arte, che gli permette di offrire un quadro esauriente e ricco di notizie. Sfilano, nei vari capitoli, personalità delle quali non conosciamo – né mai conosceremo – il nome, ma anche personaggi che hanno tracciato le vie maestre della produzione artistica, da Duccio di Buoninsegna a Pietro Cavallini, da Cimabue a Giotto, fautore, quest’ultimo, di un’autentica rivoluzione stilistica. Il ricco apparato iconografico documenta tutte le piú significative realizzazioni succedutesi nell’arco del millennio medievale, concentrandosi soprattutto sui monumenti conservati in Italia, ma non solo. Si compone, cosí, una sorta di museo ideale, reso ancor piú ricco dalla presenza, oltre che di pitture su tavola e affreschi, del ricco repertorio di opere quali miniature, mosaici, teli ricamati o vetrate istoriate.

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